Tommaso d'Aquino: De ente et essentia
«Ci sono tante parti della filosofia
quante sono le sostanze;
di conseguenza è
necessario che, fra queste
parti della filosofia
ce ne sia una che è prima
ed una che è seconda.
Infatti l'essere è originariamente
distinto
in generi, e perciò anche
le scienze si distinguono
secondo le distinzioni
di questi generi.
Il filosofo è come il matematico:
infatti
anche la matematica ha
parti e, di queste,
l'una è prima e l'altra
è seconda, e le altre
seguono, in serie, una
dopo l'altra.»
(Aristotele - Metafisica - Libro IV)
«Tommaso si propone quindi di dire:
1) che cosa significhino questi due termini;
2) in che modo si dicano ente ed essenza
le diverse realtà; 3) che rapporto abbiano
con gli enti logici, in particolare coi tre
primi predicabili di cui parla Porfirio:
genere, specie, differenza specifica.»
(Sofia Vanni Rovighi - Tommaso d'Aquino)
Prima di tutto la sostanza, ed un po' di rispetto per la privacy dei
testi esoterici
Buona parte degli studiosi concordano nel
ritenere il De ente et essentia come il lavoro del primo della classe nello
studium di Alberto Magno a Colonia. Altri lo posticipano
agli anni dell'insegnamento parigino. In
ogni caso, va considerato come testo indirizzato
a chiarire alcuni punti di più difficile
comprensione nell'uso dei termini e dei concetti.
Didatticamente ragionando, tuttavia, il De ente et essentia è un'opera difficile. Non si è in grado
di comprenderlo senza conoscere il pensiero
di Aristotele e quello dei suoi interpreti
più famosi ai tempi di Tommaso. Non esprime
le posizioni di un aristotelico puro al cento
per cento, ma quello di una linea di riflessione
innescata da Aristotele, e filtrata dai suoi
esegeti arabi (Avicenna e Averroè soprattutto),
nonché giudaici come Mosè Maimonide. Non è improbabile che su essa abbia influito
anche il pensiero di John Blund, maestro
delle arti a Parigi e a Oxford, poi arcivescovo
di Canterbury, e inciso innumerevoli altri,
in primis il suo maestro Alberto Magno.
La prima precisazione che occorre è ricordare
che nella lingua greca impiegata da Aristotele
non si usavano due termini quali essenza e sostanza, ma uno solo: ousia, tradotto con sostanza. Aristotele non impiegò mai il termine "essenza";
si espresse in una formula - to ti en einai, in latino quod qui erat esse e in italiano ciò che era essere. La ripetizione del verbo essere potrebbe
significare che la sostanza è in primo luogo
il principio costitutivo di ogni oggetto
percepito come tale; e l'imperfetto potrebbe
indicare la persistenza e la stabilità della
sostanza, ossia la continuità dell'individuo
attraverso i mutamenti. In altre parole è
plausibie supporre che Aristotele abbia concepito
ciò che i latini ed anche Tommaso hanno chiamato
essenza come il primo predicato della sostanza, non
viceversa, e non come sinonimi. Ciò sarebbe
più coerente con l'idea aristotelica di trovare
sempre i principi di ogni scienza con statuti
relativamente autonomi e la convinzione della
possibilità-necessità di una filosofia prima,
che cioè venga prima di tutti gli altri saperi,
destinata ad occuparsi dell'essere in quanto
essere e quindi dell'ente inteso come qualcosa
di più determinato, ovvero un ente fisico
rispetto alla genericità dell'essere senza
determinazioni.
Da ciò è legittimo trarre sia un'ontologia
che una certa idea di metafisica. Ma su questa
via le opinioni si dividono, e non è raro
trovare studiosi che interpretano diversamente
le medesime spiegazioni di Aristotele. Comunque
sia, è innegabile che per lo stagirita gli
enti fisici si suddividono in due gruppi:
sostanze ed accidenti. Questi ultimi non
possono esistere di per sé. Sono tratti distintivi
di sostanze. Ma restano enti a pieno titolo?
Tommaso, come si vedrà, negò ad un accidente
come la cecità il carattere di ente. Sarebbe
stato molto più logico e sensato limitarsi
a negare la sua sostanzialità. Questo sembra
uno dei più classici esempi di caduta nella
trappola del linguaggio. Se la cecità non
fosse un ente, sarebbe solo una parola...
e si potrebbe andare avanti tutta la notte
a disputare come nel Convivio di Platone, sempre più ubriachi. Ci sarebbe
un passo delle Confutazioni sofistiche per rimettere a posto la questione nei suoi
termini esatti. In esso Aristotele spiega
come non farsi ingannare da chi parla solo
di "parole" e non di "cose".
Ma qui ci limitiamo allo spot: leggere le
Confutazioni sofistiche per non spegnere il cervello. D'altro canto,
sempre in Aristotele si incontra l'affermazione
che in Dio si trova «il pensiero di
pensiero», da cui si può trarre il
suggerimento.che gli esseri umani eccellenti
sono quelli capaci di formarsi una coscienza
fatta di parole e di cose. Non in mescolanza
mistica, ma in ordinamento razionale.
Il primo predicabile dell'essere
ente, allora,
sarebbe la sostanza, la
cui definizione,
tuttavia, in alcuni casi
è chiarissima, e
in altri un po' meno. Sul
pensiero di Aristotele,
insomma, sembrano spesso
incombere le conseguenze
negative della sua stessa affermazione: «essere
si dice in molti sensi.» Basta dare
un'occhiata al «pasticio-bisticcio»
combinato nel passaggio tratto dal XII libro
della Metafisica per rendersene conto. Che senso ha scrivere
"ogni sostanza si genera da un'altra
che porta lo stesso nome", se poi si
ammettono nel novero delle sostanze i prodotti
dell'arte? Comprese le ricette di cucina
della servetta tracia che si permise di ironizzare
su Talete caduto nel pozzo. Anche la sbrigativa
liquidazione della generazione casuale o
spontanea come "privazioni" della
causa estrinseca e dell'intrinseca desta
più d'una perplessità. Riserve che, in alcuni
casi si possono risolvere e in altri molto
meno. Ma ciò è facilmente spiegabile. Tutti i testi
di Aristotele conosciuti nella loro interezza
erano esoterici, ossia non destinati alla pubblicazione,
ed andrebbero considerati come memorie private,
un diario nel quale non tutti i nodi vennero
al pettine, ma molti sì e molti altri no.
Dunque, andrebbero intesi, il più delle volte,
come una raccolta nella quale i ragionamenti
paradossali avevano spesso pari dignità dei ragionamenti
endossali, nonostante la dichiarata preferenza per i
secondi. Se si intende l'endoxa come la raccolta delle opinioni più autorevoli
consolidata talvolta dal senso comune, e
paradosso come opinione raccolta ed accettata da una
minoranza di esperienze comunque degne di
attenzione, si ottiene un quadro più ragionevole
e meno apologetico, ossia ideologico, dell'autentica
vicenda umana ed intellettuale di Aristotele.
Il quale fece anche affermazioni paradossali, quale ad esempio l'impossibilità dell'infinito
in atto.
Sull'anima separata, un tema ancora da svolgere
Noi propendiamo a supporre
che il più delle
volte, quando Aristotele
pensava alla sostanza,
la intendesse in senso
fisico, ma muovesse
dal biologico. Ovviamente,
la nostra è poco
più di un'opinione forte
e testarda, maturata
considerando l'insieme
dei lavori di Aristotele
e la sua estrema attenzione
alle questioni
biologiche, nonché psicologiche:
l'anima
come psiche, se separata dal corpo e perché. Si rammenti
che le opere dedicate alla biologia occupano
un terzo dell'intero corpus aristotelico e che Aristotele morì prima
di poter scrivere di botanica e dell'anima
vegetativa. In ogni caso, circa la separabilità
dell'anima dal corpo, che Tommaso affermò
risolutamente, vien facile richiamare un
passo del primo libro del De anima. «Se vi è un'attività o una passione
che sia propria dell'anima, potrà l'anima
stessa essere separata. Se invece non ha
nessuna attività che le sia propria, non
sarà separabile.» In questi termini,
sembra il titolo di un tema da svolgere,
di una ricerca ancora da fare, non solo dagli
allievi, ma anche dai posteri. Tema che fu
svolto da Tommaso, seguendo in primo luogo
Avicenna, Averroè e quei filosofi come Al-Kindi
- remotissimo antenato del IX secolo - e
Mosè Maimonide. Il De ente et essentia arriva infatti a delle conclusioni che non
si trovano in Aristotele.
Tommaso oltre la disputa
sugli universali
In quest'opera giovanile, scritta sotto l'impulso
dell'entusiasmo per la scoperta di problemi
ritenuti decisivi e la convinzione di averli
perfettamente compresi, Tommaso si trovò
alle prese con questioni di non ordinaria
complessità, a partire dall'uso scorretto
del linguaggio, dall'esistenza di enti logici,
fino all'esistenza stessa (reale) di essenze
riportabili agli universali. L'universale
è ciò che accomuna un insieme di oggetti
sotto il profilo di determinate qualità,
ad esempio "tutti gli umani indipendentemente
dal colore della pelle e dalla forma del
naso" o "tutti i quadrati indipendentemente
dalle misure". La riflessione di Tommaso
si riagganciava su questo piano alla disputa
avviata nei secoli precedenti da Roscellino
e Guglielmo di Champeaux, in parte chiarita
da Pietro Abelardo, ma con esiti destinati
a riproporsi come argomenti del contendere
tra filosofi che colgono la realtà di un insieme e quelli che si rifiutano
di accoglierla. Per sostanza, sia i nominalisti
come Roscellino (ogni sostanza è faccenda
a sè) che gli universalisti come Guglielmo
di Champeaux (in ogni sostanza c'è una componente
universale) si erano in fondo tacitamente
accordati sulle regole del linguaggio ed
il significato esatto delle parole. Giocarono
allo stesso gioco. Con il De ente et essentia, Tommaso potè andar fiero per qualche tempo
di aver fatto ulteriore chiarezza sul significato
delle parole, convinto di aver estratto l'esplicito dall'implicito,
portandolo all'evidenza logica. In primo
luogo, quindi, Tommaso provò a spiegare la
differenza tra l'ente reale e quello dell'astrazione
mentale, ossia l'ente logico. Per iniziare,
ogni realtà va considerata innanzi tutto
come ente esistente reale nella sua materialità
e forma.
«Poiché è dalle cose composte - scrisse
Tommaso nel Proemio - che dobbiamo acquisire la conoscenza di
quelle semplici e da ciò che è derivato dobbiamo
giungere alla conoscenza di ciò che viene
prima, così che, cominciando da quel che
è più facile, più agevole, risulti il ragionamento,
si dovrà procedere dal significato di “ente”
per giungere a quello di “essenza”.»
(Proemio)
«Si deve dunque sapere - prosegue Tommaso
- che, come sostiene il Filosofo [Aristotele,
ndr] nel V libro della Metafisica, l’ente per sé si dice in due modi: nel
primo, è ciò che si divide in dieci generi;
nell’altro, ciò che sta a significare la
verità delle proposizioni. La differenza
di questi diversi significati consiste nel
fatto che nel secondo si può dire “ente”
tutto ciò su cui si può produrre una proposizione
affermativa, anche quando non attenga a nulla
di reale. In questo senso si chiamano enti
anche le privazioni e le negazioni: diciamo
infatti che l’affermazione è opposta alla
negazione, e che la cecità è nell’occhio.»
Il riferimento dei dieci generi è alle Categorie di Aristotele, ma in altri momenti della
opera omnia dello stagirita, esse si riducono
solo ad otto, spurgandosi dell'"avere"
e del "giacere", le ultime due.
(1)
Non si può chiamare ente
se non ciò che attiene
a qualcosa di reale, pertanto
sostiene Tommaso,
la cecità non è un ente. Il termine essenza non deriva dal secondo
significato di ente «in questo senso,
cose che non hanno un’essenza, come è evidente
nel caso delle privazioni; l’essenza si ricava
invece dal primo significato di ente. Per
questo il Commentatore [Averroè, n.d.r.],
a proposito del passo ora citato, afferma
che l’ente inteso nel primo modo è ciò che
denota la sostanza di una cosa.» Uscendo
barcollante dal Convivio, lo schiavo beota
Nestore cantava a squarciagola che la cecità
ha un passato, era ciò che era essere anche
ieri, l'altro ieri.
La cecità non è un ente?
Nella tavola delle categorie aristoteliche
la cecità si può far rientrare nella 6°,
il patire. Non è una sostanza, ma una sua
condizione particolare. Anzi, è sostanza
affetta da malformazione. Essa caratterizza
sostanze che patiscono una menomazione e
attribuisce alla stessa carattere accidentale,
ossia fortuito. A meno di un colossale equivoco
dei traduttori, "accidentale" significa
"fortuito". (2) Solo in una seconda
accezione significa ciò che non può esistere
senza una sostanza che riceva caratteri diversi
dalla norma di tutte le sostanze assimilabili
ad un certo gruppo, la specie. Per evitare
di dichiarare che Tommaso sfidò le scritture,
le quali sostengono che Dio stesso ha voluto
alcuni uomini "ciechi e sordi",
dovremmo ammettere che non si rese conto
del primo significato del termine "accidentale"
in Aristotele. Vedremo come se la caverà,
se riuscira a caversela, nel capitolo VI.
Ma qui occorre notare anche che l'affermazione
"la cecità non è un ente" può in
qualsiasi momento incontrare obiezioni. Non
è forse una componente necessaria del discorso
e delle proposizioni? E' solo una parola,
o una parola che pretende di significare
uno stato di cose? Se si incontrano individui
ciechi, a prescindere dalla causa della cecità,
vuol dire che la cecità esiste come "universale
minore", ossia un insieme di accidenti,
o meglio ancora, tratti in comune, e che, dal punto di vista grammaticale,
tanto è corretto dire "questo individuo
è cieco" quanto dire "questo individuo
è affetto da cecità". La quale non può
esistere indipendentemente dalla sostanza
di animali normalmente dotati di occhi che
vedono, ma perché negare la sua realtà in
intere specie di animali privi di vista?
Sofia Vanni Rovighi trovò questa spiegazione:
«L'ente logico è quello della copula:
si adopera infatti il verbo "essere"
anche per esprimere connessioni di concetti
che sono vere in quanto connettono quei concetti,
ma non esprimono l'esistenza dei concetti
che connettono. Se si dice che l'affermazione
è contraria alla negazione o che la cecità
è nell'occhio si parla con verità, ma l'è della copula non significa che l'affermazione
esista, né che esista la cecità. Esistono
uomini affermanti ed esistono cose intorno
alle quali si possono pronunciare affermazioni,
ma non esistono affermazioni. Esistono occhi
privi della loro funzione normale, ma non
esiste la cecità: la cecità è è il modo in
cui l'intelletto esprime il fatto che certi
occhi non vedano. Si affaccia in questa distinzione
fra l'ente reale e l'ente logico un pensiero
che tornerà spesso in questo opusculum e in altre opere di Tommaso, e che è opportuno
sottolineare: non tutto ciò che è oggetto
di pensiero esiste così come è pensato. Non
bisogna quindi ipostatizzare i nostri concetti
e credere che ad ogni nostro concetto corrisponda
una cosa; si affaccia, direi, la posizione
antirealistica di Tommaso, nel senso in cui
il termine "realismo" è preso quando
si parla del problema degli universali, nel
senso in cui realismo significa affermazione
che gli universali sono res.» (3)
Questa spiegazione sarebbe più persuasiva
se Tommaso avesse veramente evitato di "ipostatizzare",
il che non è vero, dato che ogni tentativo
di dare un preciso significato alle parole
è ipostatizzare di per sé, ossia tentare
di dare un significato stabile ai termini,
che è la ragione per cui si fanno vocabolari
e dizionari, e per cui esiste un'Accademia
della Crusca. Ente e essenza sono il risultato di due ipostatizzioni.
Tommaso, le incrociò, le sovrappose, le mise
dialetticamente a confronto, ma non si sottrasse
all'ineluttabile, ossia che il linguaggio
stesso, oltre la soglia del nominare un individuo,
il gatto che si chiama Silvestro, diventa
necessariamente un linguaggio che ricorre
ad ipostatizzazioni, tra le quali "il
gatto" è certamente più significativo
e pregnante dell'ipostatizzazione di "tutti
coloro che si chiamano Silvestro". Questa
sembra rasentare il superfluo, ma non è priva
di senso, consentendo la costruzione di un
elenco telefonico ordinato alfabeticamente
o una rubrica personale. Parlare di ente
e di essenza è un'operazione che non si può
effettuare senza ipostatizzare sia l'ente che l'essenza.
Dall'essenza alla quiddità (principio di
individuazione)
«E poiché, come si è detto - prosegue
Tommaso - l’ente inteso
in questo modo si
articola nei dieci generi,
l’essenza deve
significare qualcosa di
comune a tutte le
nature per le quali i diversi
enti si collocano
nei diversi generi e specie,
così come [per
esempio] l’umanità è l’essenza
dell’uomo,
e così via. Inoltre, poiché
quello per cui
una cosa è costituita nel
proprio genere
o nella propria specie
è ciò che viene significato
mediante la definizione
che indica quel che
la cosa è, ne consegue
che il termine “essenza”
viene mutato dai filosofi
in quello di “quiddità”.
E questo è quel che il
Filosofo spesso chiama
“ciò che era l’essere”,
cioè ciò per mezzo
del quale una cosa ha il
fatto di essere
quella cosa.»
In altre parole, Tommaso afferma che l'essenza
è sinonimo di quiddità, è dunque l'identità certificata, l'unicità
di ogni ente nella sua singolarità come unico
esemplare.
Essenza - prosegue Tommaso - viene anche
chiamata in alcuni casi "forma",
in altri "natura", intendendo per
questo il primo dei quattro significati attribuiti
da Boezio nel trattato Sulle due nature. Qui Tommaso cercò di chiarire che si può
raggruppare nell'insieme "natura"
«tutto ciò che comunque può essere
appreso dall’intelletto. Infatti una cosa
non è intelligibile se non mediante la sua
definizione. In tal senso anche il Filosofo
afferma, nel quinto libro della Metafisica,
che ogni sostanza è una natura.»
Nel V libro della Metafisica (D) vengono elencati sei significati di "natura",
tutti egualmente importanti, ma anche qui
occorre ricordare che il termine greco per
natura è "fisica", un concetto
molto ampio che abbraccia tutti gli enti,
animati e inanimati. Aristotele fa precedere
la ricognizione dei significati di "natura"
dall'esposizione dei significati di principio,
causa, elemento, assegnando a quest'ultimo
il significato di «componente primo
immanente di cui è costituita una cosa e
che è indivisibile in altre specie.»
E fa l'esempio dei suoni della voce e dell'acqua.
«E, similmente, anche coloro che parlano
degli elementi dei corpi, intendono per elementi
le parti ultime in cui i corpi si dividono:
parti che ulteriormente non sono più divisibili
in altre di specie differenti.» Una
notarella che trascura l'atomismo di Democrito?
Resta che tale considerazione porta ad istituire
un'analogia con gli elementi che costituiscono
i corpi geometrici, da cui la conclusione
che anche «il piccolo, il semplice
e l'indivisibile son detti elementi.»
L'indivisibile nella geometria è il punto
"senza dimensione" che Aristotele
conosceva dai pitagorici e dall'accademico
Eudosso e che tornerà pari pari nella fondazione
di Euclide.
Tale continuo parallelismo tra elementi di
natura ed elementi introdotti dall'astrazione
umana può disturbare nel senso che potrebbe
sembrare il tentativo di assemblare sul piano
della concettualità l'eterogeneo, ma se non fosse stato così, non si sarebbe
avanzato di un passo nel progresso della
conoscenza. L'abito dimostrativo dei matematici è più volte richiamato da
Aristotele come esempio di ogni indagine
con valore scientifico.
Solo dopo esser giunto
ad osservazioni rilevanti
sugli elementi, Aristotele
affrontò le possibili
ipostatizzazioni del concetto
di natura,
concludendo che la natura
è la sostanza delle
cose che hanno in sè medesime
il principio
del movimento. Nel II libro della Fisica il concetto è meglio sviluppato e rinvia
ad una distinzione ulteriore tra entità esistenti
in natura e manufatti umani. Molte cose «mostrano
di avere in sé il principio del movimento
e della quiete, alcune rispetto al luogo,
alcune rispetto all'accrescimento e alla
diminuzione, altre rispetto all'alterazione.
Invece il letto o il mantello o altra cosa
non hanno alcuna tendenza al cambiamento,
ma l'hanno solo in quanto, per accidente,
tali cose sono o di pietra o di legno o di
una mescolanza di ciò ecc.» (Fisica II libro, prime righe) In questo caso il
termine "accidente" potrebbe sembrare
più appropriato che altrove, in quanto un
letto potrebbe esser fatto di paglia, di
corde ecc. "Accidentale", in tal
caso, nel senso di materiale disponibile
alla finalità-funzione del giaciglio, ottenendo
così un letto di fortuna, o fortuito.
Giunti a questo punto, crediamo che il lettore
abbia compreso la differenza tra l'approccio
di Aristotele e quello di Tommaso, pur non
trascurando il fatto indiscutibile che anche
la proverbiale lucidità dello stagirita abbia
fatto cilecca in diverse occasioni. Sicché
si può tornare a Tommaso.
«Tuttavia il termine “natura” così
inteso sembra significare l’essenza della
cosa, in quanto è ordinata all’operazione
della cosa stessa, poiché nessuna cosa può
mancare della sua propria operazione. Il
termine “quiddità” è relativo a ciò che la
definizione significa. Invece “essenza” si
dice in quanto è in virtù di essa ed è in
essa che l’ente ha il suo essere.
Ma poiché l’ente è detto
in senso assoluto
e principalmente delle
sostanze e solo in
secondo luogo e indirettamente
negli accidenti,
ne deriva che l’essenza
si trova propriamente
e veramente nelle sostanze
e che negli accidenti
è in qualche modo e indirettamente.
Inoltre,
quanto alle sostanze, alcune
sono semplici
e alcune composte, e l’essenza
è in entrambi
i tipi, ma in quelle semplici è in modo più
vero e nobile, dal momento che anche il loro
essere è più nobile. Esse – o almeno la sostanza
prima semplice, che è Dio – sono infatti
causa di quelle composte. Ma poiché le essenze
delle sostanze semplici sono per noi più
nascoste, si deve iniziare dalle essenze
delle sostanze composte, affinché, iniziando
dalle cose più facili, il procedimento risulti
più agevole.»
Si assiste qui ad un salto logico, anzi due.
Nulla vieta di accettare la differenza tra
quiddità ed essenza predicata da Tommaso, ma l'ente ha il suo
essere nella quiddità, principio di individuazione, e l'essenza
rimane ancora un predicato di quel particolare
ente individuato, a volte come sostanza ed altre no. Il secondo salto logico corre
all'affermazione dell'esistenza
di sostanze
semplici, prive di materia.
Il contemporaneo
di Tommaso, il francescano
Bonaventura di
Bagnoregio, era di parere
opposto. Non ci
sono sostanze prive di
materia. Ergo, se
si vuole nominare qualcosa
di puramente spirituale,
si deve ricorrere ad un
altro termine. Obiezione
accolta? Obiezione respinta?
Il principio di individuazione,
ossia la
quiddità
La quiddità è ciò che consente di individuare una sostanza,
ad esempio un particolare
essere umano, ma
si può anche riferire a
concetti, nomi, aggettivi
e quindi accidenti. Nulla
vieta, infatti,
di considerare la cecità
come il risultato
di una individuazione.
«La teoria del principio di individuazione
- scrive Vanni Rovighi - ha una lunga storia
ed è, a sommesso avviso di chi scrive, un
residuo di platonismo, oserei dire uno pseudo
problema di origine platonica, anche in Aristotele,
e tanto più in Avicenna ed Averroè fortemente
influenzato dal neoplatonismo, poiché suppone
che la vera realtà sia quella dell'universale
e che ci si debba chiedere come mai l'universale
si particolarizza. Tommaso, di cui pure abbiamo
rilevato la tendenza anti-realistica, non
se ne sa sbarazzare, e risponde che principio
di individuazione è, non la materia in genere
(quod libet modo accepta), ma la materia signata, "et dico materiam signatam quae sub
determinatis dimensionibus consideratur."
/(Cap. 2 p. 11, 2-3) Alla difficoltà sopra
indicata Tommaso risponde quindi che nella
definizione di un universale - per esempio
dell'uomo in quanto tale - è compresa la
materia. ma non la materia signata; e nella definizione dell'uomo, infatti, non
sono comprese queste ossa e questa carne,
ma carne ed ossa in generale, che sono la
materia non signata dell'uomo.» Una marcia trionfale nei
confronti di un'ente ben individuato, ad
esempio Socrate, o lo stesso Tommaso, ma
del tutto incapace di risalire alla quiddità delle forme spirituali prive di corpo, perché
prive di materia signata.
Il capitolo IV
Il quarto capitolo dell'opuscolo è il luogo
in cui si consuma quello che molti ritengono
il successo ed altri il fallimento di Tommaso.
In che modo l'essenza si trova nelle sostanze
separate, ossia nell'anima, nelle intelligenze
e nella Causa Prima?
«La dimostrazione di questo è facilmente
ricavata dalla capacità intellettiva di cui
sono dotate. Vediamo infatti che le forme
non sono intelligibili in atto se non in
quanto sono separate dalla materia e dalle
sue condizioni, né sono rese intelligibili
in atto se non per la capacità della sostanza
intelligente, poiché sono ricevute in essa
e divengono in atto grazie ad essa. Ne deriva
che qualunque sostanza intelligente è assolutamente
immune dalla materia, cioè non deve includere
la materia come parte di sé e neppure deve
essere come una forma impressa nella materia,
come avviene per le forme materiali. né può
dirsi che solo la materia corporea, e non
qualsiasi materia, impedisca l’intelligibilità.
Se infatti ciò fosse solo a causa della materia
corporea – poiché la materia non è detta
corporea se non in quanto sottosta a una
forma corporea – allora dalla forma corporea
deriverebbe alla materia l’impedimento alla
intelligibilità; ma ciò non può essere, perché
la stessa forma corporea, come ogni altra
forma, è intelligibile in atto quando sia
astratta dalla materia.
Quindi nell’anima o nell’intelligenza [angelica]
in nessun modo vi è composizione di materia
e forma, come se l’essenza potesse essere
presa qui come nelle sostanze corporee. Invece
in esse vi è una composizione di forma e
di essere; per questo, nel commento alla
nona proposizione del libro Sulle cause, si afferma che l’intelligenza ha forma
ed essere: e per forma
s’intende qui la stessa
quiddità o natura semplice.
Ed è facile vedere
come ciò avvenga. Infatti
in tutte le cose
che si rapportano fra loro
in modo che l’una
è la causa dell’essere
dell’altra, quella
che ha la funzione di causa
può avere l’essere
senza l’altra, ma non viceversa.»
Pertanto, si può dire che Tommaso abbia visto
con chiarezza che la composizione (materiale
e formale) delle sostanze umane è d'impedimento
al dispiegamento dell'intelligenza, e che
solo astraendo dalle oscurità di pensiero
che sono tipiche di menti dominate dal principio
materiale - compreso quello signato - si possono concepire intelligenze pure, prive
di materia, ma non di essere. Rispetto alle
determinazioni dell'essere, concepito come
Causa Prima donante quote di essere ad altri
esseri, probabilmente, sarebbe stato di maggiore
esattezza attribuire ad esse la definizione
di enti e non di sostanze. Su quale forma possano avere enti privi di componente materiale,
cosa si può asserire senza ombra di dubbio?
Eluso questo problema,
Tommaso può continuare.
«Tale è appunto il rapporto tra la
materia e la forma, poiché è la forma a dare
l’essere alla materia, e pertanto è impossibile
che vi sia materia senza forma, mentre non
è impossibile che vi sia qualche forma senza
materia; la forma, infatti, in quanto forma
non dipende dalla materia.
Ma se si trovano forme che non possono esistere
se non nella materia, questo avviene perché
esse si trovano distanti dal primo principio,
che è atto primo e puro. Per tale motivo
le forme che sono vicinissime al primo principio
sono forme che sussistono per sé senza materia
(infatti, come si è detto, la forma non ha
bisogno della materia secondo il suo genere):
e tali forme sono le intelligenze angeliche;
e perciò non occorre che le essenze o quiddità
di queste ultime siano diverse dalla stessa
forma. In questo dunque l’essenza della sostanza
composta differisce da quella della sostanza
semplice, per il fatto che l’essenza della
sostanza composta non è la sola forma, ma
comprende sia la forma sia la materia, mentre
l’essenza della sostanza semplice è solo
la forma. Da ciò derivano altre due differenze.
La prima è che l’essenza della sostanza composta
può essere significata come un tutto o come
una parte: fatto questo che, come si è detto,
deriva dalla materia “segnata”. Per questo
l’essenza della cosa composta non si può
predicare in qualsiasi modo della stessa
cosa composta: non si può infatti dire che
l’uomo è la sua quiddità. Invece l’essenza
della cosa semplice, che è la sua stessa
forma, non può essere significata se non
come un tutto, poiché in questo caso non
vi è nulla oltre la forma, che quasi riceva
la forma stessa; e perciò, in qualunque modo
si consideri l’essenza della sostanza semplice,
di essa si può predicare. Per questo Avicenna
dice che “la quiddità della sostanza semplice
è lo stesso [ente] semplice”, perché non
vi è qualcos’altro che possa riceverla.
La seconda differenza è che le essenze delle
realtà composte, per il fatto di essere ricevute
nella materia “signata”, si moltiplicano
secondo i dividersi [della materia] per cui
accade che alcune siano identiche per specie
e diverse per numero. Ma siccome l’essenza
del semplice non è ricevuta nella materia,
tale moltiplicazione non può qui aver luogo;
perciò è necessario che in queste sostanze
non si diano più individui di una stessa
specie, ma che vi siano tante specie quanti
sono gli individui, come Avicenna esplicitamente
sostiene.»
Colpisce qui la "disinvoltura
"
con la quale si fa passare
l'affermazione
che "l'essenza del
semplice non è ricevuta
nella materia". Non
occorre iscriversi
al partito agostiniano
per riconoscere che,
anche immersa nella materia,
l'anima, cioè
la coscienza di un individuo,
può arrivare
a cogliere il significato
dell'espressione
"trovo Dio nella mia
dimensione interiore".
Per superare il rischio di un ritorno al
politeismo, ossia al riconoscere l'esistenza
di molteplici enti in atto (divinità) senza
nulla in potenza, Tommaso fu costretto a
riconoscere che esistono sostanze semplici
di secondo grado, che non sono atto puro
perché in esse convive la potenza. Vediamo.
«Di conseguenza, la sostanze di questo
tipo, sebbene siano pure forme senza materia,
tuttavia non godono di una perfetta semplicità,
né sono atti puri, ma sono in qualche modo
commiste alla potenza. Ciò appare chiaro
in questo modo. Tutto ciò che non appartiene
al concetto dell’essenza o della quiddità,
sopravviene in qualche maniera dall’esterno
ed entra incomposizione con l’essenza, poiché
nessuna essenza può essere intesa senza ciò
che è parte costitutiva di essa; tuttavia,
ogni essenza o quiddità può essere intesa
senza che si conosca qualcosa della sua realtà:
posso infatti intendere che cosa sono l’uomo
o la fenice, e tuttavia ignorare se esistano
o meno effettivamente in natura. Quindi è
chiaro che l’essere è diverso dall’essenza
o quiddità. A meno che non si dia qualcosa
la cui quiddità sia il suo stesso essere,
e una tale realtà non può che essere unica
e prima: poiché è impossibile che si dia
moltiplicazione di qualcosa, se non per l’aggiunta
di qualche differenza, così come la natura
del genere si moltiplica nelle specie; o
perché la forma è ricevuta in materie diverse
(così come la natura della specie si moltiplica
nei diversi individui); o perché un ente
è astratto [dal soggetto] e l’altro è ricevuto
in qualcosa (se vi fosse, per esempio, un
calore separato, esso sarebbe diverso dal
calore non separato, per la sua stessa natura
separata). Se invece si pone qualche realtà
che è soltanto essere, così che l’essere
stesso sia sussistente, a questo essere non
potrà aggiungersi una differenza, perché
già così non sarebbe più solo essere, ma
sarebbe un essere più una data forma; e tanto
meno esso potrà ricevere l’aggiunta della
materia, perché allora non sarebbe più essere
sussistente, ma materiale.»
Il ragionamento è sorprendente soprattutto
per «ogni essenza o quiddità può essere intesa
senza che si conosca qualcosa della sua realtà:
posso infatti intendere che cosa sono l’uomo
o la fenice, e tuttavia ignorare se esistano
o meno effettivamente in natura.» Ma guarda!
La conclusione del ragionamento di Tommaso,
che include l'affermazione che è impossibile
che «lo stesso essere sia prodotto dalla stessa
forma o quiddità della cosa», intesa come causa efficiente, è
quindi che esistono forme pure che sono una
composizione di atto e potenza. Infatti,
«E così nelle intelligenze si trovano potenza
e atto, ma non materia e forma, se non impropriamente.
Quindi anche il “patire”, il “ricevere”,
l’”essere soggetto” e tutte le espressioni
di questo tipo che sembrano convenire alle
cose a causa della materia, convengono in
modo equivoco alle sostanze intellettuali
e a quelle corporee, come dice il Commentatore
[Averroè, ndr] nel IIl libro Sull’anima.»
L'osservazione più conseguente
a tale affermazione
sarebbe che anche le intelligenze
separate
sono sottoposte al divenire, quantomeno dal momento iniziale della loro
creazione. Rimane in sospeso la questione
se ad un certo punto, smettano di essere
in potenza, o lo siano sempre.
Si può concepire il divenire indipendentemente da una materia? O come
avrebbe detto Aristotele, da un sostrato? Con Tommaso ed i suoi ispiratori filosofici
evidentemente sì, è un processo puramente
ideale. Ma ciò contrasta con quanto affermato
da Avicenna, ossia che è la materia ad offrire
il senso della possibilità, mentre è l'esistenza puramente spirituale ad imporre il senso della necessità. (Metafisica di Avicenna, II, 1, 3) Ciò è vero dal punto
di vista del "creatore" che dispone
liberamente di tutta la materia creata, ma
pone non pochi problemi dal punto di vista
di chi si sforza di trovare il bandolo della
matassa filosofica, dato che il maggior grado
di libertà spirituale si ottiene allontanandosi
dai vincoli materiali. Posta in questi termini,
per capire il punto di vista di Avicenna
sulla libertà di Dio e sulla sua assoluta capacità di dar vita al mondo, non bisogna
andar molto lontano. Si trova anche nelle
scritture ebraiche e non solo nel Corano.
Diversamente, nella dottrina platonica dell'Uno
e la diade, nella quale la diade è la materia
informe, si può trovare un principio di ribellione,
o comunque di resistenza; la diade non esegue
esattamente il dettato dell'artefice, e nemmeno
si sforza di riprodurlo con la maggiore esattezza
possibile rispetto al principio che rappresenta.
La diade, come evidenziato nel Timeo, può diventare opposizione preconcetta se
il ricettacolo non è puro, e quindi privo
di anima e d'intelligenza proprie. Sicché
anche la similitudine tra la dialettica della
creazione e quella della riproduzione sessuale,
perde la propria capacità di presa. Considerazione
perfettamente presente a Platone, che riconosceva
intelligenti anche le donne, ma forse dubitava
del fatto che nell'unione erotica di maschio
e femmina, la donna dovesse richiamare la
propria intelligenza, affidandosi unicamente
all'istinto, che è pur sempre componente
dell'anima.
In ogni caso, resta che Tommaso non lesse
il Timeo, dato che non circolava più da tempo nell'Occidente
latino, e che noi non sappiamo dire se lo
lesse Avicenna. Il cosiddetto "platonismo"
che si trova in molti filosofi arabi, in
Maimonide, e nello stesso Tommaso, è il risultato
di operazioni filosofiche di molto successive
a Platone, passando tra le mani di filosofi
come Plotino, lo PseudoDionigi, Boezio e
via dicendo. In Platone comunque sia, e lo
si sarà capito, compare l'ombra di un sospetto
micidiale per ogni fondamento teologico.
L'Uno potrebbe non essere onnipotente, non
di per sé, ma in ragione di una materia che
oppone resistenza.
Questione che non coinvolge il giovane Tommaso
più di tanto. il quale prosegue disinvoltamente.
«E poiché le intelligenze sono composte
di potenza e atto, non sarà difficile trovare
una molteplicità di intelligenze, cosa che
sarebbe impossibile, se in esse non vi fosse
alcuna potenza. Perciò il Commentatore dice
nel III libro Sull’anima che, se la natura
dell’intelletto possibile fosse ignota, non
potremmo trovare molteplicità nelle sostanze
separate. Dunque tra queste sostanze vi è
una distinzione reciproca secondo il grado
di potenza e atto, per cui l’intelligenza
superiore che è più vicina alla causa prima,
ha il grado maggiore di attualità, e così
via.
E ciò giunge a termine
nell’anima umana,
che occupa l’ultimo grado
tra le sostanze
intellettuali. Infatti
il suo intelletto
possibile si pone rispetto
alle forme intelligibili
allo stesso modo in cui
la materia prima,
che occupa l’ultimo grado
nell’essere sensibile,
si pone rispetto alle forme
sensibili, come
dice il Commentatore nel
III libro Sull’anima.
Per questo il Filosofo
la paragona a una
tavola su cui non è stato
scritto nulla.
E per il fatto che tra
le altre sostanze
intelligibili è quella
dotata di un maggior
grado di potenzialità,
essa è resa tanto
vicina alle realtà materiali
da portare queste
realtà a partecipare del
suo essere; così
che dall’unione di anima
e corpo risulti
un solo essere in un solo
composto, sebbene
questo essere, in quanto
è dell’anima, non
sia dipendente dal corpo.
E dopo questa forma
che è l’anima si trovano
altre forme che
hanno un grado ancora maggiore
di potenza
e sono più vicine alla
materia, appunto perché
il loro essere non può
darsi senza materia;
anche in esse si trovano
un ordine e un grado
fino alle prime forme degli
elementi, che
sono vicinissimi alla materia,
e per questo
non hanno alcuna operazione,
se non quelle
che derivano dalle qualità
attive e passive,
e dalle altre con cui la
materia si dispone
alla forma.»
Gli elementi considerati da Tommaso sono
quelli dell'ontologia tradizionale (fuoco,
terra, acqua e aria, e anche etere) o non
anche gli atomi di Democrito e Epicuro?
Le conclusioni: capitolo
VI
Si può saltare il quinto capitolo in quanto
è un riassunto delle considerazioni precedenti
ed andare alle conclusioni, ma preferiamo credere che il lettore scrupoloso
non lo farà.
Qui bisogna avere la pazienza di leggere
Tommaso frase per frase.
«Resta ora da vedere in che modo l’essenza
sia negli accidenti; infatti come sia in
tutte le sostanze è stato detto. Poiché,
come si è detto, l’essenza è significata
mediante la definizione, è necessario che
[gli accidenti] abbiano l’essenza allo stesso
modo in cui hanno una definizione. Essi hanno
tuttavia una definizione incompleta, poiché
non possono essere definiti se non ponendo
il soggetto nella loro definizione; e ciò
avviene perché essi non hanno un essere per
sé indipendente dal soggetto; piuttosto,
come l’essere sostanziale deriva dalla composizione
di materia e forma, così l’essere accidentale
deriva dalla composizione di accidente e
soggetto, cioè quando un accidente sopravviene
al soggetto. Di conseguenza, né la forma
sostanziale né la materia hanno un’essenza
completa, poiché anche nella definizione
della forma sostanziale si deve porre ciò
di cui essa è forma, e per questo la sua
definizione avviene mediante l’aggiunta di
qualcosa che è esterno al suo genere, e così
anche la definizione della forma accidentale;
per cui il fisico – che considera l’anima
solo in quanto è forma del corpo – pone anche
il corpo nella definizione dell’anima. Tuttavia
le forme sostanziali e quelle accidentali
differiscono solo per il fatto che, come
la forma sostanziale non ha per sé un essere
indipendente senza ciò cui inerisce, così
è anche per ciò cui inerisce, e cioè per
la materia; così dall’unione dell’una e dell’altra
deriva un ente che sussiste per sé: per questo,
dalla loro unione risulta un’essenza. Quindi
la forma, sebbene in sé considerata non abbia
il modo di essere completo dell’essenza,
tuttavia è parte dell’essenza completa. Ma
ciò cui sopravviene l’accidente è un ente
in sé completo, sussistente nel suo essere,
il quale è naturalmente anteriore all’accidente
che sopravviene. Di conseguenza l’accidente
che sopravviene, con il suo congiungersi
con ciò cui sopravviene, non produce l’essere
in cui la cosa sussiste e per il quale la
cosa è un ente per sé, ma produce un essere
– per così dire – secondario, senza il quale
la cosa può comunque essere pensata come
sussistente, così come “il primo” può essere
pensato senza “il secondo”. Quindi dall’unione
di accidente e soggetto deriva qualcosa che
non è uno per sé, ma che lo è solo accidentalmente.
E dalla loro unione non deriva un’essenza,
come dall’unione della forma con la materia;
per cui l’accidente non ha il modo di essere
dell’essenza completa né è parte di un’essenza
completa, ma, come è ente in senso relativo,
così ha un’essenza in senso relativo. E poiché
ciò che si dice in massimo grado e con assoluta
verità in qualsiasi genere è causa di tutto
ciò che deriva in quello stesso genere (come
il fuoco, che, quale massima manifestazione
del calore, è causa del calore nelle cose
calde, come è scritto nel II Libro della
Metafisica) è necessario che la sostanza,
che è principio nel genere dell’ente e ha
l’essenza nel modo più pieno e certo, sia
causa degli accidenti che partecipano del
modo di essere dell’ente in modo secondario
e relativo. Ciò tuttavia si verifica in modi
diversi. Poiché infatti le parti della sostanza
sono la materia e la forma, alcuni accidenti
derivano principalmente dalla forma, altri
dalla materia. Ma si trova qualche forma,
come l’anima intellettiva, il cui essere
non dipende dalla materia, mentre la materia
non può avere l’essere se non attraverso
la forma. Per cui negli accidenti che conseguono
a una forma alcuni non hanno rapporto con
la materia: per esempio l’intendere, che,
come afferma il Filosofo nel III libro Sull’anima, non dipende da un organo corporeo. Altri
accidenti, come il sentire, tra quelli che
dipendono da una forma, hanno invece rapporto
con la materia. Ma nessun accidente segue
la materia senza avere rapporto con la forma.
Tra gli accidenti che derivano dalla materia
si danno tuttavia delle differenze. Alcuni
accidenti derivano dalla materia secondo
l’ordine che ha verso una forma specifica,
come il sesso maschile e femminile negli
animali, la cui diversità si riduce alla
materia, come si dice nel X libro della Metafisica: per cui, quando viene meno la forma dell’animale,
gli accidenti di questo tipo non rimangono,
se non impropriamente. Altri derivano dalla
materia secondo l’ordine che ha rispetto
alla forma del genere, e perciò, venuta meno
la forma della specie, rimangono in essa,
così come il nero della pelle è nell’Etiope
effetto della mescolanza degli elementi,
e non dell’anima, e perciò rimane in esso
anche dopo la morte.» No comment?
La citazione del capitolo 9 del X libro della
Metafisica è fedele al testo, ma manca di una indispensabile
riflessione critica. Infatti, se è vero che
l'anima è la forma di un corpo, è contradditorio
affermare che la forma di un corpo maschile
e quella di un corpo femminile siano dovuti
ad accidenti di tipo materiale. Stiamo ragionando
in termini di dottrina cattolica, e non di
biochimica e genetica. La femminilità di
Maria, madre di Gesù, ad esempio, non può
essere imputata ad autonome accidentalità
materiali, senza uno sconvolgimento del catechismo..
La particolare fisionomia
che assumono rispettivamente
i corpi maschili e femminili
esprime una
differenza di forme e quindi
di anime, cioè
di psicologie differenti,
sempre che si accetti
il postulato "dell'anima
come forma
di un corpo". Questo
passaggio di Aristotele
è un bell'esempio di pensiero debole, nel senso che davvero non morde a sufficienza
nelle questioni da lui stesso poste, e quindi
non sa risolverle, se non ripiegando su una
spiegazione materialistica. Del che non possiamo
lamentarci, dato che è la base della scienza
moderna e contemporanea. Ma qui, la questione
va vista indipendentemente da ciò che sappiamo
oggi in base alla conoscenza dei cromosomi
x e y, gli acidi nucleici e via di seguito.
Nel corso delle sue indagini biologiche,
Aristotele non cambiò idea, come testimoniato
da De partibus animalium, e non ruscì ad andar oltre alle questioni
poste dal Timeo.
Su questo piano, conviene dare un'occhiata
a quanto scrisse Aristotele nell'XI libro
della Metafisica.
«L'essere inteso
nel senso di vero
e non nel senso di accidente
consiste in
una connessione del pensiero
ed è una affezione
di esso: per questo non
si ricercano i princìpi
dell'essere inteso in questo
senso, ma solo
dell'essere che è fuori
del pensiero e separato.
Invece, l'essere inteso
nell'altro senso,
ossia inteso nel senso
di accidente, non
è necessario, ma è indeterminato:
di questo
tipo di essere le cause
sono disordinate
e indefinite.
Il fine esiste nelle cose che si realizzano
per natura o ad opera del pensiero. Il caso
si ha quando qualcuna di queste cose avviene
accidentalmente. Infatti, come l'essere è
o essere per accidente o essere per sé, così
anche la causa. Il caso è una causa accidentale
nell'ambito di quelle cose che avvengono
in vista di un fine e per deliberazione.
Perciò il caso riguarda le medesime cose
che il pensiero ha ad oggetto; infatti la
deliberazione non ha luogo senza il pensiero.
Ma le cause da cui possono derivare gli eventi
casuali sono indeterminate, e per questa
ragione il caso sfugge al ragionamento umano
ed è causa accidentale, anzi, in senso assoluto
non è causa di nulla. Il caso è poi propizio
o avverso, secondo che comporti effetti propizi
o avversi.»
Si dovrebbe ammettere che la conoscenza diretta
di Aristotele da parte di Tommaso sia rimasta
ferma ai primi dieci libri della Metafisica letti all'università di Napoli, per giustificare
il mancato aggancio speculativo a queste
riflessioni. Fatto improbabile, tuttavia,
dato che a Parigi era da tempo disponibile,
come evidenziato da Etienne Gilson, una traduzione
latina effettuata direttamente dal greco,
di un testo giunto da Costantinopoli. (4)
Rimane che, quando leggiamo le ulteriori
conclusioni di Tommaso, dovremmo essere avvertiti
del fatto che accettò una spiegazione materialistica
di alcuni accidenti.
«E poiché ogni ente è individuato dalla materia,
e si colloca nel genere o nella specie per
la sua forma, gli accidenti che derivano dalla materia
sono accidenti dell’individuo, e in base
ad essi differiscono tra loro anche gli individui
della stessa specie; invece gli accidenti
che derivano dalla forma sono “proprietà”
o del genere o della specie, per cui si trovano
in tutti coloro che partecipano della natura
del genere o della specie, così come la capacità
di ridere deriva nell’uomo dalla forma, poiché il riso si produce da una qualche impressione
dell’anima umana.»
Non solo, in Tommaso si trova anche un principio
di "riduzionismo". «Poiché infatti l’unione di materia e forma
sostanziale produce qualcosa di unitario
per sé, e cioè una sola natura che, ottenuta
dalla loro unione, si colloca propriamente
nella categoria della sostanza, così i nomi
concreti che significano il composto si dicono
propriamente essere nel loro predicamento
come generi o specie, per esempio “uomo”
o “animale”. Ma la forma o la materia non
sono predicati allo stesso modo in quella
categoria, se non per riduzione, come si
dicono appartenere al genere i princìpi.»
Ancora: «Comunque, dall’unione di accidente e soggetto
non deriva qualcosa che sia uno per sé, e
dunque dalla loro unione non viene una qualche
natura cui si possa attribuire l’intenzione
di genere o specie. Per cui i nomi degli
accidenti, per esempio “bianco” o “musico”,
non sono predicati come generi o specie,
se non per riduzione, ma solo se considerati
in senso astratto, come la “bianchezza” e
la “musica”.»
Giunti a questo punto, si ritiene opportuno
lasciare che il lettore se la sbrogli da
sé. Insistere in ulteriori delucidazioni
corrisponderebbe solo al persistere ed all'ampliarsi
di ulteriori problematizzazioni. Le conclusioni
alle quali giunse Sofia Vanni Rovighi nell'interpretazione
del De ente et essentia non sono logicamente accettabili, ma vengono
generalmente accolte da
chi effettua uno
studio mnemonico e quindi
superficiale. «La differenza fra l'accidente e la
forma sostanziale è questa: esiste il composto
(il sinolo) di forma sostanziale e materia,
ma non possono esistere né forma né materia
per conto loro; mentre può esistere la sostanza
senza quell'accidente determinato (un corpo
può trascolorare e diventare da rosso bianco
pur rimanendo corpo, un uomo può variare
pensieri e affetti - che sono i suoi accidenti
- pur rimanendo uomo).» (5)
Anche rimanendo alle sole
citazioni di Tommaso
riportate qui, non c'è
ragion sufficiente
per trarre tali conclusioni.
Che pensieri
ed affetti, poi, siano
puramente accidentali,
è considerazione che urta
frontalmente con
la volontarietà dell'intelligenza
in atto,
per quanto le sia possibile.
Suggeriamo una via d'uscita diversa. Accanirsi
su questioni semantiche non porta a soluzioni definitive, ma solo a temporanee soluzioni definitorie. Il logos del linguaggio spinge a produrre neologismi
che vorrebbero significare una quiddità, e ciò non è prerogativa del filosofo, dato
che a volte è un particolare individuo volgare, in cerca di espressione, a produrlo: uno
dei logoi del filosofo è un tentativo, a volte disperato,
di darne ragione, mediante ipostatizzazioni del significantee e della res, ossia del significato. Sicché si dà una
dialettica, ma essa è inesauribile, tanti
quanti sono gli oggetti della contesa, individuati
tra significante e sgnificato, ovvero nella
distanza che separa l'uno dall'altro, ed entrambi
dalle cose. Infatti, il significato corrisponde
alla cosa in alcuni casi sì ed in altri no.
Quando si passa al significato dei concetti,
tutto sembra facile, e invece le difficoltà
aumentano. Basti pensare alla definizione
di tempo data da Agostino e quella spazio-tempo offerta da Einstein. Una delle questioni
eluse da Tommaso nel De ente et essentia è semplicemente formidabile, ma fu centrale
in Aristotele: l'infinito non è mai in atto.Va da sé che su simile questione sarebbe
più sensato tacere che fare affermazioni
a meno di non disporre dell'intelligenza
di Einstein, ma se si ragiona di Dio partendo
da Aristotele e dall'Atto Primo, qualche
pensierino non sarebbe stato fuori luogo.
Ad esempio: se l'infinito non è mai in atto,
altrimenti sarebbe il caos, anche in Dio
si dà una riserva di potenzialità.
Note
1) Giovanni Reale - Introduzione alla metafisica di Aristotele
in: Aristotele - Metafisica - Rusconi 1993
2) Reale, cit.
3) Sofia Vanni Rovighi - Tommaso d'Aquino - Laterza 1973
4) Etienne Gilson - La filosofia nel Medioevo - La Nuova Italia Editrice - prima edizione
1983
5) Sofia Vanni Rovighi,
cit.
6) Dietrich Lorenz - I fondamenti dell'ontologia tomista / Il trattato De ente et essentia - Edizioni Studio Domenicano 1992
Altro su Tommaso d'Aquino in questo sito
Tommaso d'Aquino: bozza d'una biografia non
autorizzata
moses - ottobre 2013
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Testo in italiano del De ente et essentia
Platone - Timeo. - libro XVIII
«Per il momento dunque s'hanno a riconoscere
tre generi: quello che si genera, quello
in cui si genera, e quello ad imitazione
del quale nasce ciò che si genera. E perciò
anche il ricettacolo conviene paragonarlo
alla madre; il modello al padre, e la natura
intermedia alla prole; e pensare che dovendo
l'impronta essere a vedersi varia d'ogni
varietà; quello, in cui si forma l'impronta,
in nessun altro modo potrebbe essere preparato
a riceverla, ove non fosse privo di tutte
quelle forme, quante è destinato a riceverne
donde che sia. Se, infatti, esso fosse simile
a qualcuna delle cose che vi entrano, quelle
di natura opposta e affatto diversa, qualora
vi capitassero, le riceverebbe e le riprodurrebbe
male, perché vi lascerebbe trasparire la
propria figura.»
Timeo - testo completo
Aristotele - Metafisica - testo completo
Aristotele - Metafisica - libro V
«Sostanza, in un senso, sono
detti
i corpi semplici; per esempio, fuoco,
terra,
acqua e tutti gli altri corpi come
questi;
e in generale tutti i corpi e le cose
composte
di essi, per esempio animali ed esseri
divini
e le parti di questi. Tutte queste
cose si
dicono sostanze, perché non vengono
predicate
di un sostrato, mentre di esse vien
predicato
tutto il resto.
In altro senso, sostanza si dice ciò
che
è immanente a queste cose che non si
predicano
di un sostrato ed è causa del loro
essere:
per esempio l'anima degli animali.
Inoltre, sostanze sono dette anche
quelle
parti che sono immanenti a queste cose,
che
delimitano queste stesse cose, che
esprimono
un alcunché e la cui eliminazione comporterebbe
l'eliminazione del tutto. Per esempio,
se
si eliminasse la superficie - secondo
alcuni
filosofi - si eliminerebbe il corpo,
e se
si eliminasse la linea, si eliminerebbe
la
superficie. E in generale questi filosofi
ritengono che il numero sia una realtà
di
questo tipo e che determini tutto,
perché
se si eliminasse il numero, non ci
sarebbe
più nulla.
Inoltre, si dice sostanza di ciascuna
cosa
anche il suo cos'era essere, la cui nozione è definizione della cosa.
Ne risulta che la sostanza si intende
secondo
due significati: a) ciò che è sostrato
ultimo,
il quale non viene più predicato di
altra
cosa, e b) ciò che essendo un alcunché
di
determinato, può anche essere separabile,
e tale è la struttura e la forma di
ciascuna
cosa.»
Aristotele - Metafisica - libro XII
«Inoltre dobbiamo dire che ogni sostanza
si genera da un'altra che porta lo stesso
nome. E questo vale sia per le sostanze naturali,
sia per le altre. Le sostanze, infatti, si
generano o per arte o per natura o casualmente
o spontaneamente. L'arte è principio di generazione
estrinseco alla cosa generata; la natura
è, invece, principio di generazione intrinseco
alla cosa generata (l'uomo infatti genera
l'uomo); le restanti cause della generazione
sono privazioni di queste due.»
Al-Kindi di Baghdad (IX secolo d. C.)
«L'anima è intelligente in potenza;
diviene intelligente in modo effettivo
per
l'azione del primo Intelletto, quando
volge
il suo sguardo verso di esso. Quando
una
forma intellegibile si unisce all'anima,
questa forma e l'intelligenza dell'anima
divengono una sola e medesima cosa,
che è
nello stesso tempo ciò che conosce
e ciò
che è conosciuto. Ma l'Intelletto che
è sempre
in atto, quello che attira l'anima
per farne
l'intelletto effettivo, da intelletto
potenziale
che era, non è identico a ciò che è
conosciuto.
Dal lato del primo intelletto, dunque,
l'intelletto
e l'intellegibile che l'anima conosce
non
sono la stessa cosa; dal lato dell'anima,
l'intelletto che conosce e l'intellegibile
che è conosciuto sono la medesima cosa.»
Avicenna - Metafisica, VIII, 6)
«Poiché è il principio di ogni esistenza,
l'Uno conosce da sé le cose di cui è principio;
sa di cui ciascuna è perfetta nella sua singolarità
(le cose celesti) e anche di quelle altre
che sono soggette alla generazione e alla
corruzione. Queste ultime le conosce sia
nella loro specie, sia nei loro individui,
ma quando conosce questi enti mutevoli, non
li conosce, essi e il loro mutamento, in
quanto mutevoli, non li conosce cioè con
una intelligenza individuale.»
Maimonide - La guida dei perplessi
«Sappi che l'uomo, prima di comprendere
intellettualmente una cosa, è intelligente
in potenza. Quando egli comprende intellettualmente
una cosa - per esempio, quando comprende
intellettualmente la forma di questo
legno
ostensibile, astrae la forma dalla
sua materia,
e concepisce la forma pura, poiché
questa
è l'azione dell'intelletto - allora
diventa
soggetto di intellezione in atto, e
l'intelletto
che arriva all'atto è la forma pura
del legno
che si trova nella sua mente, perché
l'intelletto
non è altro che il concetto fatto oggetto
di intellezione.»
Averroè
Dietrich Lorenz - Fondamenti dell'ontologia tomista
«Per il mondo latino medievale
Averroè
fu "il" commentatore, forse
il
più noto dei divulgatori del pensiero
di
Aristotele. Grande ammiratore di Aristotele,
volle ricondurre il peripatismo alla
sua
purezza; quindi in parecchi casi combattè
Avicenna da lui accusato di fare concessioni
ingiustificate ai teologi alla scuola
ash'arita corrompitori della sana filosofia.
La figura di un Averroè empio, spregiatore delle religioni rivelate, così
comune e sostenuta da alcuni nel Medioevo
latino, non corrisponde a realtà. Tale immagine è originata dagli equivoci
e dalle polemiche, a causa delle quali, nelle
iconografie, Averroè è rappresentato all'inferno
oppure vinto ed abbattuto da S. Tommaso.
Fa eccezione il quadro della Scuola di Atene
di Raffaello nelle stanze Vaticane»
(6)
Testo in italiano del De ente et essentia
Jacques Maritain - Sette lezioni sull'essere e sui primi principi
della ragione speculativa
«L'oggetto della metafisica (...) è
l'essere in quanto essere, ens in quantum ens, l'essere non investito o incorporato nella
quiddità sensibile, nell'essenza o
natura
delle cose sensibili, ma al contrario
abstractum,
l'essere liberato e isolato (per quel
tanto
che l'essere può fare astrazione dai
suoi
inferiori), è l'essere liberato e isolato
dalla quiddità sensibile, l'essere
visualizzato
come tale e liberato nei suoi puri
valori
intelligibili. Quindi, la metafisica,
al
grado più elevato della conoscenza
naturale,
e nel momento in cui la conoscenza
naturale
diviene pienamente sapienza, fa emergere
nei suoi valori puri, e svela ciò che
è avviluppato
e velato nella primissima conoscenza
intellettiva.
(...) Notiamo adesso che l'essere presenta
due aspetti: l'aspetto essenza, che
risponde
innanzitutto alla prima operazione
dello
spirito (la formazione dei concetti
è ordinata
prima di tutto a cogliere, sia pure
in molti
casi ciecamente, le essenze, che sono
attitudini
positive a esistere); e l'aspetto esistenza,
l'esse propriamente detto, che è il
termine
perfettivo delle cose, il loro atto,
la loro
'energia' per eccellenza, la suprema
attualità
di tutto ciò che è. E non bisogna credere
che questo secondo aspetto, sovrano
e perfettivo
dell'essere, sfugga all'intelligenza.
I platonici
tendono generalmente a limitare l'oggetto
dell'intelligenza umana alle essenze,
mentre
la direzione profonda della filosofia
di
san Tommaso porta l'intelligenza, la
filosofia,
e la metafisica, non solo alle essenze,
ma
anche all'esistenza, a questo termine
perfetto
e perfettivo, a questo estremo completamento
dell'essere.»
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