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John Stuart Mill

Utilitarismo a patto che...

Negli scritti raccolti sotto il titolo Utilitarismo, pubblicati originariamente nel 1863 sulla rivista Frazer's, troviamo una riproposta della dottrina utilitarista, seppure rivisitata e corretta molto profondamente rispetto all'originaria impostazione di Bentham.
Tale dottrina viene spesso riassunta con l'affermazione che è eticamente e moralmente corretta l'azione indirizzata a garantire la felicità per il maggior numero. Naturalmente non tutta la teoria si risolve in questo, ma questa è la formula, più che il principio, ed a questa formula che si riferisce anche il diritto riconosciuto per il quale ciascuno agisce correttamente se ricerca la sua felicità personale, cercando di ottenere il piacere e fuggendo il dolore e la sofferenza.
Stuart Mill corresse questa formula, aggiungendovi considerazioni morali, come dicendo: a patto che non si agisca in modo immorale, a patto che la virtù sia considerata come mezzo per la felicità e come desiderabile in sé stessa, ed ancora: a condizione che si riconosca una differenza tra piaceri bassi e piaceri elevati, che sono quelli che danno la felicità.
Come si vede subito, si trattò di importanti precisazioni a puntello di una dottrina filosofica che altrimenti sarebbe rimasta troppo vaga e generica, oltre che contestabile a partire da quel vizio di formulazione che ometteva il dovere, affermando solo il diritto.

Vi erano dottrine che negavano la felicità o la giudicavano impossibile. Si trattava, in sostanza, di chiarire entro quali condizioni avesse senso parlare di felicità ed anche di mostrare dove, come e quando si erano verificati esempi concreti di felicità individuale o collettiva.
Un problema poteva semmai consistere in questo: oltre alle ovvie difficoltà naturali, determinate dalla precarietà della vita umana, vi erano e vi sono indubbiamente altri ostacoli di natura sociale, culturale, economica che impediscono la felicità. Non disgiunti da questi, ma analizzabili in modo relativamente autonomo, vi erano da approfondire gli impedimenti caratteriali e di temperamento interni agli individui stessi. Inutile dire che spesso una mancata felicità non ha nulla a che vedere con la povertà, la mancanza di salute, il difetto fisico, ma è frutto di una mentalità sbagliata, di un difettoso ed unilaterale approccio alla vita, di non comprensione di come gira il mondo delle relazioni sociali e tra i sessi.
Qualora cercassimo anche questo, il testo milliano potrebbe risultare deludente. Certo non fu una guida alla felicità o un manuale di edonismo. Potremmo considerarlo, al massimo, l'espressione di un esistenzialismo semplificato e spurgato da considerazioni intellettualistiche e libresche, oppure contagiate dall'irrazionalismo di stampo kierkegaardiano, o dell'assoluta non-volontà di vivere propugnata da Schopenhauer, autori che Mill, peraltro, mostrò di ignorare, e che probabilmente conobbe solo attraverso i loro epigoni inglesi.
Mirassimo ad ottenere un qualche stimolo alla ricerca filosofica, gli spunti non mancherebbero, anche se questo lavoro non fu improntato ad una ricerca disinteressata ed aperta a qualsiasi risultato, ma decisamente orientato a difendere la dottrina utilitaristica dagli attacchi ed a renderla più accettabile. Tale impostazione pregiudicò la valutazione che Mill diede di Kant ed il lettore obiettivo potrebbe persino rimanere infastidito dalla saccenza con cui Mill liquidò la riflessione kantiana su giustizia e moralità, senza peraltro dimostrare di conoscerla approfonditamente.

Sotto questo aspetto potremmo dire che l'interesse maggiore di questi scritti riguarda l'indagine sulla connessione tra utilitarismo e giustizia che si trova esposta al V capitolo. Qui Mill cercò di dimostrare che il principio di giustizia morale, qualcosa di sostanziale, che è altra cosa da quello di giustizia giuridica, spesso puramente formale, non è un principio a sè stante, esistente di per sé nella natura umana, ma il derivato dell'approccio utilitaristico alla vita. Mill voleva dire che era la ricerca della felicità a portare ad imbattersi con il problema dell'ingiustizia, e quindi a formulare rivendicazioni in nome di più giustizia, e non la giustizia ad essere il fondamento della dottrina etica.
In questo senso le tesi milliane costituirono una sfida ai fondamenti della teoria morale kantiana, la quale era di tipo razionale e non empirico-induttiva.
Nella seconda parte della Fondazione della metafisica dei costumi Kant aveva scritto: «Non si potrebbe immaginare nulla di peggio per la moralità che la pretesa di ricavarla da esempi. Infatti ogni esempio del genere deve esso stesso esser precedentemente giudicato alla luce dei principi della moralità per stabilire se è degno di servire da esempio autentico, cioè da modello; in nessun caso può quindi fornire per primo il concetto di moralità. Perfino il santo del Vangelo dev'essere paragonato col nostro ideale di perfezione morale prima di essere riconosciuto come tale; infatti egli dice di se stesso: "Perchè mi dite buono, (me che voi vedete)? Nessuno è buono (il prototipo del bene) eccetto il solo Dio (che voi non vedete)." Ma da dove prendiamo il concetto di Dio come Sommo Bene? Unicamente dall'idea, che la ragione stabilisce a priori, della perfezione morale, connessa indissolubilmente con il concetto di volontà libera. In sede morale non c'è posto per l'imitazione, e gli esempi non servono che da incoraggiamento, cioè a togliere ogni dubbio sulla attendibilità di ciò che la legge comanda, a rendere intuibile ciò che la regola pratica esprime in modo più generale, ma non è ammissibile che sia posto in disparte il loro vero originale, che si trova nella ragione, e che ci si regoli su esempi.» (Fondazione della metafisica dei costumi - parte seconda - Passaggio dalla filosofia morale popolare alla metafisica dei costumi)
In pratica, disse Kant, per giudicare un comportamento come morale, la ragione deve aver postulato in precedenza cosa è morale, e deve aver quindi stabilito a priori la massima sulla quale regolare il giudizio.
A ciò si può obiettare che il ragionamento empirico, dopo esser giunto a comprendere che è meglio vietare alcuni comportamenti ai fini di una convivenza pacifica che garantisca benessere e felicità, scopre alla fine, con un insight, cioè una improvvisa illuminazione della ragione, che l'insieme dei divieti che ha prodotto, in realtà può essere riassunto in una formula, e questa formula è efficace in quanto da essa si possono facilmente dedurre giudizi. A Kant si potrebbe insomma obiettare che la ragione non lavora mai su nulla, ma a posteriori di esperienze significative. Essa le può superare, ma sarebbe assurdo affermare che le ignora.
Questa fu la posizione di Mill, e sotto questo profilo non mi pare sia confutabile.

La problematizzazione del concetto di giustizia morale introdotto da Mill, tuttavia, non solo dimostrò che la parola può assumere significati pericolosamente diversi e persino di tipo equivoco, ma anche che un certo numero di questioni di giustizia non si risolve trovando il principio o l'idea, principio od idea che semplicemente non esiste in natura, ma semplicemente trovando l'accordo su cosa conviene reciprocamente. Si darebbe allora ingiustizia nel vero senso della parola qualora l'accordo venisse violato unilateralmente da una parte, e non altrimenti rinegoziato sulla base della nuova situazione. A mio avviso questo non fu apporto di poco conto nella storia della filosofia, ma questo apporto rimase viziato dal mancato riconoscimento dei meriti di Kant, il quale aveva comunque espresso in termini davvero inoppugnabili quella che è una formula viva e non morta sia della giustizia che del giusto agire.

Se in Kant fu palese che si deve rinunciare ad un po' di felicità, e quindi ad ogni compromesso morale, per un dovere assoluto nei confronti della giustizia, in Mill tuttavia, non fu altrettanto palese che si deve rinunciare ad un po' di giustizia per un po' di felicità.
Non fu questo il senso del lavoro milliano e si sbaglierebbe a presentarlo così. Il vero scopo di Mill era quello di mostrare che la giustizia non è una mummia, un rigido cumulo di norme bacchettone, ma un principio vivo per i vivi, e che si incontrano problemi veri di giustizia solo se si vive. Che ci sia riuscito? Questo è il punto: le mie osservazioni critiche pro-Kant non sono contro Mill e nemmeno contro il metodo induttivo, che del resto preferisco apertamente a quello deduttivo quando mi avventuro in territori nei quali la matematica e l'esattezza scientifica possono ben poco. Il problema è che Mill non mi è parso convincente, e mi pare abbia del tutto sbagliato indirizzo criticando Kant come se fosse il maggiore interprete della giustizia rigida e mummificata.

Formalmente, avevamo, dunque, prima di Mill, una dottrina utilitaristica che si adattava sia agli egoisti che agli altruisti e certamente intepretava tanto la diffusa esigenza di giustificare e rimpolpare di contenuti l'edonismo borghese, quanto la causa di quelli che aspiravano ad una condizione di vita superiore, quanto, infine, la causa di coloro che altruisticamente fondavano la propria aspirazione alla felicità come svolgimento del compito di consentire all'insieme degli esseri umani un po' di felicità e di benessere. Dato questo contagio utilitaristico, avrebbero dovuto rimanere immuni al contagio stesso gli sfigati di tutte le classi sociali e quei temperamenti melanconici con i quali non funziona nemmeno la soluzione finale prospettata dal Qohelet biblico: visto che tutto è vanità, non resta che mettersi a tavola e gozzovigliare con gli amici.
In realtà Mill confesserà in una lettera che, a suo avviso, la dottrina utilitaristica era condivisa da un'infima minoranza nella stessa Inghilterra, e che lo sport preferito all'epoca era quella di presentarla sotto una visione deformante. Ma questo è in fondo il destino di tutte le dottrine, che ci possiamo fare? La correttezza appartiene, talvolta, agli storici della filosofia, ma non sembra una qualità diffusa tra i filosofi stessi intesi come partigiani di una dottrina. Del resto, lo stesso Mill venne meno alla regola del fair play rispetto a Kant.
La domanda ovvia che ci si potrebbe porre è che cosa sia diventato l'utilitarismo dopo i rimaneggiamenti di Mill.
La risposta è in parte semplice ed in parte complessa. In termini immediatamente comprensibili potremmo così prospettarla:

1) Una distinzione tra felicità e soddisfazione. Mill introdusse questa distinzione per dimostrare che l'utilitarismo riconosce che vi sono piaceri elevati e piaceri bassi, e questi procurano solo un godimento intenso ed immediato, ma poi sfumano, mentre quelli elevati (letture, arti ecc...) non solo perdurano, ma sono anche utili, cioè accrescono la cultura e la coscienza di un individuo e il livello civile di una società.
Questa distinzione è certamente importante perchè afferma una definizione di felicità trascurata da Bentham, attento solo, per così dire, agli aspetti quantitativi.

2) Una ulteriore distinzione tra desiderio e volontà. Mill presentò questa differenza nell'ambito di un ragionamento condotto sul tema delle intenzioni e dei progetti umani, asserendo, in risposta a possibili obiezioni: « L'obiezione che verrà fatta non è che il desiderio in ultima analisi possa avere la più remota possibilità di indirizzarsi ad altro che al piacere e all'eliminanzione della sofferenza, ma piuttosto che il volere non è la stessa cosa che il piacere; che una una persona di provata virtù, anzi una persona qualsiasi che proponga a se stessa progetti ben determinati, porta a termine questi suoi progetti senza pensare al piacere ottenuto al momento di concepirli o che si attende al momento quando saranno messi in atto. E persiste ad agire in conformità con essi anche qualora questo piacere sia grandemente diminuito, sia a causa di modificazioni nel suo carattere, sia per l'indebolirisi della sua sensibilità ricettiva, o anche qualora quel piacere sia più controbilanciato dalle sofferenze che la prosecuzione dei progetti potrebbero arrecargli. Tutto questo io lo ammetto pienamente, e l'ho dichiarato altrove tanto apertamente e tanto categoricamente quanto chiunque altro. La volontà, in quanto fenomeno attivo, è cosa diversa dal desiderio, che è uno stato di sensibilità passiva, e sebbene in origine germogli da esso, può in seguito prender radice e staccarsi dal tronco madre; a tal punto che nel caso di uno scopo abituale, invece di volere una cosa perchè la desideriamo, sovente la desideriamo solo perchè la vogliamo. Questo tuttavia non è che un esempio di quel comune fenomeno che è la forza dell'abitudine, e non è limitato al caso delle azioni virtuose.» (da Utilitarismo - cap IV - Su quale sia il genere di prova compatibile con l'utilità)
Ma dopo questa concessione, Mill fu piuttosto risoluto nel dimostrare che il desiderio determina la volontà e non c'è altro modo per ottenere volontà che risvegliare il desiderio, in particolare il desiderio di essere felici: « prendiamo ora in considerazione non più la persona che ha una salda volontà di agire rettamente, ma colui la cui volontà virtuosa è ancora debole, tale da poter soccombere alla tentazione e sulla quale non si può fare completo affidamento. Come la si potrà irrobustire? Come si potrà inculcare o risvegliare la volontà di essere virtuosi là dove essa esiste con una forza non sufficiente? Soltanto se si fa sì che la persona desideri la virtù - facendole apparire la virtù in una luce piacevole o l'assenza della virtù in una luce spiacevole.»

3) Mill accentuò il carattere morale dell'utilitarismo, come s'è visto, asserendo che la ricerca della felicità non esclude la virtù, ma anzi la incentiva. Pur escludendo che la ricerca della virtù sia qualcosa di diverso da un mezzo per raggiungere la felicità, e che quindi gli individui non desiderino altro che la felicità stessa, potremmo dire che Mill ammise la virtù come indispensabile ingrediente della felicità. Su questo piano il ragionamento di Mill non fu formalmente ineccepibile, anche perchè, subito dopo affermò che, secondo l'utilitarismo, la virtù è desiderabile in sè stessa, senza altro fine che la virtù stessa. Che è come ammettere che la virtù potrebbe non procurare la felicità. (Il lettore può farsene un'idea leggendo il capitolo IV di Utilitarismo e poi considerare quanti virtuosi sono stati torturati, incarcerati, messi a morte in ogni epoca)
Ovviamente, anche in questo caso sarebbero possibili obiezioni infinite, non ultima quella che la virtù, anche se non viene premiata, evita una bella serie di dolori e complicazioni di tipo interiore, il che è certamente una delle condizioni fondamentali per la felicità.

Si può, tuttavia, secondo Mill, essere soddisfatti e non- virtuosi, dunque solo soddisfatti, sazi, ma non felici.
E questo spiega moltissime cose, non ultimo il fatto che la maggioranza degli individui confonde la soddisfazione con la felicità, ed è questo che porta ad affermazioni ai limiti dell'assurdo quali quella che la felicità è impossibile dal lato dei poveri che non potranno mai permettersi quelle soddisfazioni, o che è facilissima dall'altro lato, al punto che basterebbe essere ricchi, buongustai, sessualmente dotati, intelligentissimi, bellissimi ecc... per essere anche felici.
Tutto starebbe , allora, a comprendere cosa sia la felicità, ed a dire ben chiaro che si tratta di felicità in senso terreno. Inutile dire che l'impresa era ed è comunque sovrumana perchè qualunque definizione si possa dare di essa, rischia di escludere comunque qualche ingrediente ritenuto essenziale da alcuni.
Non si può dire che essa consista nella rinuncia ad ogni soddisfazione, ad esempio. Si tratterebbe, semmai, di capire quali soddisfazioni procurano l'indispensabile alla felicità. Tra queste, indubbiamente, in un temperamento nobile, le soddisfazioni impersonali, le conquiste sociali o quelle della scienza, lo sviluppo dell'istruzione, i progressi della medicina hanno un valore maggiore che in un temperamento meno nobile, attento solo alle soddisfazioni intese come possesso e come consumo di beni. Mill parlò di amore per il denaro, per il potere e per la gloria come una sorta di alternativa all'amore per la virtù, ma tese a minimizzare questo possibile conflitto, quando invece esso è sempre stato all'origine di ogni ritiro dal mondo della gloria, del potere e del denaro perchè è sovente sembrato impossibile raggiungere l'uno e l'altra con mezzi onesti.
Vale la pena di riportare la citazione completa: « E di conseguenza la norma utilitarista, mentre tollera ed approva quegli altri desideri acquisiti [denaro, potere, gloria], fino al punto oltre il quale, invece di promuovere la felicità generale, le nuocerebbero, prescrive e richiede invece che si coltivi l'amore della virtù fino al punto di massima intensità, in quanto è determinante per la felicità generale più di qualsiasi altra cosa.» (da Utilitarismo - cap IV - Su quale sia il genere di prova compatibile con l'utilità)

4) Come Bentham, Mill riconobbe che la sanzione forniva la prova della correttezza o meno di un'azione. Ma in Bentham la sanzione esteriore aveva un ruolo pressochè esclusivo, e quindi era importante che la società fosse più giusta e le leggi, opportunamente riformate, fossero applicate, mentre per Mill la sanzione interiore, ovvero l'avere una coscienza in pace, aveva un'importanza maggiore e valeva comunque in qualsiasi circostanza.
Ma, sulla scorta di queste considerazioni, Mill tentò anche di dimostrare che la sanzione interiore non derivava dal carattere innato dell'umanità, o di almeno alcuni esemplari di uomini, in grado di stabilire a priori, cosa fosse buono o non buono, ma propendeva seccamente per dare tutta la responsabilità della moralità e del senso interiore di approvazione e disapprovazione all'educazione.
Questo atteggiamento fu sicuramento democratico, e di sinistra (anzi è proprio uno dei luoghi più comuni del pensiero di sinistra), ma si capisce perfettamente che non può essere anche del tutto accettabile, perchè si potrebbero fare milioni di esempi di individui bene educati e poi comunque caduti nell'immoralità, nel crimine o anche informe di lotta politica del tutto incompatibili con i principi della convivenza civile.
Indipendentemente dal grado di giustizia di una società, inoltre, per Mill era determinante la tirannia della maggioranza, cioè della mediocrità, ed era quindi abbastanza illusorio credere che la pubblica opinione sanzionasse positivamente comportamenti corretti e lungimiranti, o provocatori, o semplicemente ribelli all'ipocrisia.

5) In quest'ottica l'utilitarismo doveva per forza di cose condividere l'idea che la virtù fosse insegnabile, anche se questo costituiva un problema, e che fosse parte integrante dell'insegnamento anche l'educazione a godere la vita ed a raggiungere la felicità. A tal fine Mill non esitò ad arruolare Socrate tra le file degli utilitaristi, citando il dialogo platonico Protagora, e diede somma importanza ad una rivalutazione dell'epicureismo, integrato dallo stoicismo e da "alcuni elementi della morale cristiana."
Quest'idea fu presentata "di corsa", senza alcuno sforzo per mostrare i possibili nessi tra le varie scuole. Inoltre Mill ignorò o finse di ignorare che uno dei massimi precetti epicurei consisteva nel detto: "Vivi nascosto", che non pare del tutto coerente con il precetto di agire pubblicamente per la massima felicità possibile per il maggior numero, precetto che non può non sfociare in un impegno politico o sociale, no profit, tanto per capirci.

6) L'utilitarismo non esclude il sacrificio di sè per altruismo. Mill respinse risolutamente questa critica all'etica utilitarista, considerata come borghese, condotta sia da destra, cioè dai nostalgici come Coleridge e Carlyle dei bei tempi andati ed in generale dai romantici, ma anche da sinistra in nome del socialismo, il quale reclama non uno, ma due sacrifici di sè. Prima come propagandista predicatore che spende la propria vita ed i propri averi per la causa, e poi come individuo superiore che rinuncia ai propri meritati guadagni per affermare il principio dell'uguaglianza, o dell'appiattimento retributivo, che dir si voglia.

7) L'utilitarismo non è una dottrina senza Dio. Mill oppose a questa deformante critica degli antiutilitaristi romantici l'obiezione che Dio non poteva aver creato l'uomo per poi farlo vivere infelice. Chi dice questo, in sostanza, coltiva un assai miserabile concetto di Dio. Beh...questo è un pensiero indubbiamente nobile, ed è, a mio avviso, il punto più alto di tutta la riflessione milliana. Tant'è vero che è su questo pensiero che si svilupperanno gli scritti teologici di Mill su Dio e la religione, pubblicati postumi.
Ma in realtà le basi dell'utilitarismo furono schiettamente laiche, anche se in Stuart Mill non assunsero mai una colorazione antireligiosa, semmai antidogmatica. C'è chi ha visto in questa posizione di Mill un'influenza della stessa teologia inglese, protestante ed anglicana, del XVIII secolo. Posto che la dottrina puritana era agli antipodi di questa teologia ottimistica e tollerante, e quindi più vicina ai talebani, certamente, che ad Erasmo da Rotterdam, si può ammettere questa influenza teologica senza tuttavia esagerarla. Se proprio si volessero trovare dei padri a Stuart Mill, non fosse bastato quello carnale, sarebbe meglio cercarli tra Locke, Bacone ed i deisti.

8) Giustizia ed utilitarismo
Secondo i più feroci critici dell'utilitarismo il concetto di giustizia in senso morale e non legale sarebbe la pietra d'inciampo, lo scoglio contro il quale l'intera teoria utilitaristica avrebbe dovuto o dovrebbe naufragare. All'utilitarismo, secondo Mill, era necessario provare che non è la giustizia il principio universale, sul quale si regola tutto il resto, ma semmai è l'approccio utilitaristico stesso a fungere da criterio per la morale e per la giustizia. La tesi finale di Mill, come vedremo, è che l'Opportuno ed il Giusto sono da un lato cose diverse, ma dall'altro la stessa cosa, e che se un'azione è veramente giusta, dev'essere anche opportuna.
Mill spese molte pagine, nel capitolo V, per dimostrare questa derivazione del concetto di giustizia e moralità in polemica con Kant e con la scuola definita intuitivo-razionale, in pratica la scuola che faceva della giustizia il fondamento della morale e derivava ogni precetto morale dal postulato kantiano-cristiano di non considerarare mai l'essere umano solo come mezzo, ma sempre come fine.
Il problema è che pare dubbio che un approccio puramente utilitaristico possa condurre alla stessa affermazione kantiana, la quale rimane, e credo rimarrà per sempre, nei secoli dei secoli, la massima capace di descrivere la moralità ed il criterio di ogni giustizia.
La riflessione kantiana potrebbe essere il frutto di un ragionamento utilitarista se, e solo se, essa fosse stata prodotta da una considerazione di questo tipo: io sarò felice quando non vi saranno più uomini sulla terra che sfrutterano altri uomini considerandoli solo come bestie da soma, o come carne da macello per qualche guerra. Si tratta, come si vede, di un sentimento di pietà universale più che di un ragionamento, di una specie particolarissima di commozione che è poi alla base di ogni ragionamento corretto.
Forse siamo in molti ad averlo pensato, ma nessuno, poi si è sentito utilitarista o si è gettato sui libri di Bentham per divorarli. Tutti, piuttosto, abbiamo guardato a Kant come la vera luce dell'illuminismo, all'uomo che pur svolgendo complicati e testardi ragionamenti da filosofo, seppe sempre dire con semplicità ed umiltà le cose più belle e più vere sulla convivenza umana.
E' singolare che Mill non abbia sentito il bisogno di citare questa massima, di farne la bandiera stessa del suo utilitarismo a patto che. Invece si occupò della massima che discende da questa, ovvero quella che afferma: «Agisci in modo tale - scrisse Kant - che la regola secondo la quale agisci possa essere adottata come legge da tutti gli esseri razionali.» Il che significa: agisci in modo esemplare. Fai sì che il tuo esempio serva da lezione di equità, prudenza, coraggio a individui che si trovino in condizioni analoghe.
Mill si limitò, nel commentare questa frase, ad una critica negativa. Osservò che quando Kant "comincia a dedurre da questo precetto uno qualsiasi degli effettivi doveri morali, egli fallisce in maniera quasi grottesca nel tentativo di dimostrare che vi sarebbe una contraddizione, una impossibilità logica (senza parlare di una impossibilità fisica), se tutti gli esseri razionali volessero adottare le regole di condotta più scandalosamente immorali. Tutto quello che egli riesce a provare è che le conseguenze di una simile adozione universale sarebbero tali che nessuno vorrebbe scegliere di sottoporvisi." ( da Utilitarismo - cap. I- Osservazioni generali)
Per Mill, insomma, fu poco, quello che invece secondo me fu molto: l'affermazione ben ponderata che è impossibile che anche nelle situazioni più critiche e desolanti non si manifesti una inversione di tendenza.

Ma sarebbe erroneo dimenticare che in più punti il bersaglio di Mill pare piuttosto essere il concetto romantico della giustizia, spesso presentato come un sentimento ed un istinto innato, un istinto speciale ed una sorta di garanzia sulla bontà del prodotto uomo.
Non a caso Mill cominciò il capitolo con un riferimento preciso: « Uno degli ostacoli maggiori all'accettazione della dottrina secondo la quale l'Utilità e la Felicità sono il criterio del moralmente giusto e del non moralmente giusto, è nato, in ogni epoca del pensiero, dall'idea della giustizia. La potenza del sentimento e l'apparente chiarezza della percezione che questa parola richiama, con una rapidità ed una certezza che rassomigliano all'istinto, sono sembrate alla maggioranza dei pensatori indicative di una qualità che è inerente alle cose; è sembrato che mostrassero che il Giusto deve esistere in Natura come qualcosa di assoluto, distinto genericamente da tutte le varie forme dell'Opportuno, e contrapposto in teoria a quest'ultimo, sebbene sia in realtà, così come viene comunemente riconosciuto, sempre collegato a lungo andare con esso.
Nel caso di questo sentimento morale, così come per tutti gli altri, non vi è legame necessario tra la questione della sua origine e quella della sua forza vincolante. Il fatto che un sentimento sia ispirato in noi dalla Natura non legittima necessariamente tutte le sue sollecitazioni. Può darsi che il sentimento della giustizia sia un istinto speciale, ma che purtuttavia richieda di essere controllato da una ragione superiore. Se abbiamo degli istinti intellettuali che ci inducono a giudicare in un certo modo particolare, così come abbiamo istinti animali che ci spingono ad agire in un modo particolare, i primi non sono necessarimente più infallibili nella loro sfera di quanto non lo siano i secondi nella loro; e può succedere che giudizi erronei siano suggeriti dagli uni, così come azioni sbagliate lo sono da quegli altri.»
Da queste poche righe è evidente che Mill fu più preoccupato di distinguersi dai romantici che dai razionalisti. Inutile dire che si sarebbe distinto molto meglio se avesse criticato questa deriva irrazionale e mistica del romanticismo come mancata comprensione del principio che fonda la moralità kantiana, il quale non è per nulla infinito ed indicibile, ma è stato detto, pertanto risultò finito, dicibile ed incontrovertibile.
Ma, seguendo Mill nell'evoluzione del suo ragionamento, il primo approdo è che la giustizia viene ad essere un concetto del tutto relativo al punto di vista di che ne parla. Ciò, più che a Socrate, porterebbe dritto a Protagora, ed alla sua famosa affermazione che l'uomo (singolo) è la misura di tutte le cose. Più che un Mill socratico od epicureo, avremmo quindi, in prima battuta, un Mill sofista.
Può essere? In realtà no. Mill era davvero molto preoccupato dal problema della genesi e della fondazione del concetto di giustizia. Ne fanno fede diversi passaggi quale ad esempio il seguente: «Ai fini di questa ricerca, è importante dal punto di vista pratico esaminare se il sentimento stesso della giustizia o dell'ingiustizia sia un sentimento sui generis, così come lo sono le sensazioni del colore o del gusto, oppure sia un sentimento derivato che si forma mediante una combinazione di altri sentimenti. Ed è tanto più essenziale esaminare questo fatto, in quanto, sebbene si sia in generale disposti a concedere che oggettivamente le prescrizioni della Giustizia coincidono con una parte del settore dall'Opportuno Generale, tuttavia, dato che il sentimento mentale soggettivo della Giustizia è differente da quel sentimento che è connesso in generale con il semplice opportuno, e dato che le sue sollecitazioni, eccetto, che nei casi estremi di quest'ultimo, hanno un carattere molto più imperativo, è difficile vedere nella giustizia semplicemente un tipo particolare o un aspetto dell'utile generale, e si conclude pertanto che la superiorità della sua forza vincolante richieda che l'origine ne sia totalmente differente.»
In pratica occorreva far luce sul carattere distintivo della giustizia e dell'ingiustizia. Ma ammettere questo, significava ammettere che occorreva andare oltre il parere individuale e provare a determinare una nozione di giustizia che fosse condivisibile ed accettabile dalla maggioranza degli esseri razionali. Il metodo non poteva dunque essere quello di far prevalere una tesi in modo retorico, ma di raggiungere, se non la verità, qualcosa di più prossimo ad essa mediante il confronto di varie messe a fuoco.
Ecco che Mill ricorse, allora, ad una ricerca sdoppiata, o per meglio dire, duplice.
Da un lato postulò la ricerca nella direzione di provare che tutto ciò che viene classificato come giusto od ingiusto possieda sempre attributi comuni, anche uno solo, e che quindi il nostro giudizio si fondi su questa analisi che determina in modo empirico-statistico cosa ricorra sempre in un dato di giustizia o di ingiustizia. Come si vede siamo ad una riproposizione del metodo del System of Logic.
Dall'altro ammise anche di provare ad indagare quanto vi fosse di inesplicabile, e quindi di mistico, nel sentimento ( e non del concetto, ma per forza di cose, anche nel concetto) di giustizia.
Scrisse Mill: «Se troviamo che la prima ipotesi è quella giusta, nel risolvere questa questione, avremo risolto, con ciò stesso, anche il problema principale, mentre, se troviamo invece che la seconda ipotesi è corretta, dovremo allora cercare un altro tipo di indagine.»

Invitando il lettore interessato ai finissimi ragionamenti di Stuart Mill a leggersi il testo per conto suo, mi limito alla prima conclusione importante che incontriamo. « Per ricapitolare: l'idea della giustizia presuppone due cose, una regola di condotta ed un sentimento che sanzioni questa regola. Bisogna supporre che la prima cosa sia comune a tutto il genere umano e che la sua intenzione sia il bene di questo. La seconda cosa (il sentimento) è il desiderio che una punizione venga inflitta a coloro che contravvengono questa regola. Vi è implicita inoltre l'idea che sia vittima di quella trasgressione una determinata persona, i cui diritti (per servirsi dell'espressione appropriata a quella situazione) siano stati infranti da quella trasgressione.»
Ciò detto Mill esamina il concetto di diritto, cominciando col dire che: « Quando dichiariamo che qualcosa è il diritto di un certo individuo, intendiamo dire che costui ha ragione di aspettarsi che la società salvaguardi il suo possesso di quel diritto, sia con la forza della legge, che mediante quella dell'educazione e dell'opinione. Se ha delle ragioni sufficienti, per qualsivoglia rispetto, di aspettarsi che la società gliene garantisca il possesso, diciamo allora che ha diritto a ciò. Se desideriamo provare che una data cosa non gli appartiene di diritto, pensiamo che questo sia provato non appena venga ammesso che la società non dovrebbe prendere delle misure per assicurargliene il possesso e dovrebbe invece lasciarlo al caso o ai suoi propri sforzi. Così, si dice che una persona ha diritto a quello che guadagna in una situazione di concorrenza leale nella sua professione, dato che la società non dovrebbe permettere a nessun altro di ostacolarlo nel guadagnare in quel determinato modo tutto quello che riesce a guadagnare. Ma non ha diritto a trecento sterline l'anno, sebbene possa succedergli di guadagnarle in effetti, dato che non si può richiedere alla società che provveda a che egli guadagni quella somma. Invece, se egli possiede diecimila sterline in titoli del 3%, egli ha diritto a trecento sterline l'anno, dato che la società ha assunto l'obbligo di garantirgli un'entrata di tale entità.»

9) Diritto alla sicurezza. Ora Mill venne ad affermare il diritto alla sicurezza e la certezza del diritto come elementi fondamentali del concetto di giustizia sociale.
« Avere un diritto, dunque, così come l'intendo io, vuol dire avere qualche cosa il cui possesso da parte mia la società dovrebbe difendere. Se l'obiettore insiste a chiedere perchè dovrebbe farlo, non gli posso dare altra ragione se non l'utilità generale. Se questa espressione non sembra che trasmetta la sensazione esatta della forza dell'obbligazione o non sembra render ragione del vigore speciale di questa sensazione, questo è dovuto al fatto che entra nella composizione di questo sentimento non solo un elemento razionale , ma anche un elemento animale, la sete di vendetta; e questa sete deriva la sua intensità così come la giustificazione morale, dal tipo straordinariamente importante ed impressionante di utilità che è in gioco. L'interesse di cui si tratta è l'interesse per la sicurezza, che è il più vitale di tutti gli interessi, come ognuno può ben farne esperienza nei propri sentimenti. Quasi tutti gli altri benefici di questo mondo, se sono necessari ad una persona non lo sono ad un'altra, e molti di essi, se necessario, si può facilmente rinunciare, o li si può sostituire con qualcos'altro; ma della sicurezza, nessun essere umano può, nel modo più assoluto fare a meno; da questa dipendiamo per preservarci dal male e per dare il loro pieno valore a tutti i beni presi singolarmente o presi insieme, al di là del momento fuggitivo, giacchè nulla eccetto il piacere dell'istante potrebbe avere un valore qualsiasi per noi, se potessimo all'istante successivo venire spogliati di ogni cosa da chiunque si trovasse ad essere più forte di noi. Orbene questa, che è, subito dopo il nutrimento fisico, la più indispensabile fra tutte le cose necessarie, non può essere ottenuta a meno che non sia continuamente esercitato quel meccanismo che ce la assicura.»
In questo contesto Mill prende decisamente partito per lo stato minimo, la cui esistenza è giustificata dal bisogno di sicurezza e questo stesso bisogno trova origine nella constatazione che molti individui non sono corretti, ma rubano, vorrebbero uccidere, e se non vi fosse una forza dell'ordine, ci ridurrebbero volentieri in schiavitù. Ma all'origine di questo c'è solo la mancanza di educazione? Vedremo più avanti che Mill si astiene dal rispondere, ed a proposito della libertà del volere si mantiene su filo di ambiguità, più che di dubbio autentico.

10) Giustizia ed opportunità. Efficacia della pena. Gli ultimi paragrafi di questo ragionamento sulla giustizia sono i più stimolanti. Mill comincia con l'evidenziare che se la giustizia fosse veramente quel principio assoluto ed indiscutibile di cui parlano gli antiutilitaristi, "allora è difficile intendere perchè quell'oracolo interno sia così ambiguo e perchè cose tanto numerose appaiano ora giuste e ora non giuste, a seconda della luce in cui le si osserva."
Detto questo è evidente che manca in Mill una considerazione accessoria fondamentale: si possono dare diverse opinioni su cosa sia giusto in determinate circostanze, ma bisognerebbe distinguere tra queste stesse opinioni quelle disinteressate da quelle interessate. Che l'autore di un delitto abbia la sua personale opinione e sia contro la pena di morte è rilevante e degno di attenzione in quanto rispecchia il suo pensiero di uomo, ma non è rilevante che egli sia contro il suo ergastolo in quanto rispecchia il suo pensiero di colpevole.
Divagazione off topics? Non tanto. Mill fu molto bravo ad estrinsecare in astratto le molte opinioni sulla giustizia, ma lo fu molto meno nell'evidenziare che la battaglia delle opinioni, in moltissimi casi, è solo la prosecuzione della guerra di ognuno contro gli altri condotta con altri mezzi. E' questo il limite di tutte le democrazie, ed è singolare che si sia spesso trascurato che in democrazia il modo più efficace e coerente di ottenere consensi non sta nell'esprimere le proprie lungimiranti opinioni, ma quello di dare ascolto alla piazza, di sondari gli umori e poi farli propri, in una media che cerchi di non scontentare la maggioranza in alcuna delle questioni fondamentali.
La tirannia della mediocrità, denunciata da Mill in On Liberty, può diventare una tirannia degli ingiusti e dei peggiori, un trionfo degli istinti più bassi. Ciò non è un argomento contro la democrazia, che è madre delle ingiustizie nè più e nè meno che l'oligarchia o la dittatura, ma contro l'uso strumentale che alcuni ne fanno, e gli abusi che consente.

Le idee di Mill furono esemplarmente riassunte in questo passaggio che merita una citazione per intero: « Non soltanto i diversi popoli e i diversi individui hanno idee differenti sulla giustizia, ma addirittura nella mente della stessa identica persona la giustizia non è una regola, un principio od una massima, bensì molte di queste, e tali che non coincidono sempre nelle loro prescrizioni, e questa persona nello scegliere tra loro è guidata o da un criterio estraneo, o dalle sue predilizioni personali.
Per esempio, c'è chi afferma che è ingiusto punire qualcuno per dare un esempio agli altri: che una punizione è giusta solo quando si intende fare il bene di colui che la subisce. Altri affermano esattamente il contrario e sostengono che non è altro che dispotismo ed ingiustizia il voler punire per il loro bene persone che hanno l'età della ragione, poichè se la questione riguarda unicamente il bene di costoro, nessuno ha il diritto di esercitare un controllo sul loro modo di giudicare quel bene; mentre invece essi possono venire giustamente puniti per evitare un danno agli altri, poichè questo costituisce un legittimo impiego del diritto all'autodifesa. Owen poi afferma che il fatto stesso di punire è ingiusto; poichè il criminale non ha fatto da sé il proprio carattere; sono la sua educazione e le circostanze esistenti attorno a lui che lo hanno reso criminale, e di questo egli non è responsabile. Tutte queste opinioni sono estremamente plausibili; e fintanto che il problema in discussione è semplicemente quello della giustizia, senza scendere ai principi che giacciono alla base della giustizia e costituiscono la fonte della sua autorità, non riesco a vedere come si potrebbe confutare alcuno di questi ragionamenti. Poichè in verità ciascuna delle tre tesi è fondata su regole di giustizia che sono riconosciute come vere.»
Qui Mill dimostra, a mio avviso, tutta l'ignoranza della sua specie ( homo utilitarians) nei confronti del pensiero kantiano ( e cristiano). Se ammettiamo che non si può considerare l'uomo, qualsiasi uomo, solo come un mezzo, se ammettiamo che bisogna rispettare il prossimo come sé stessi, la tesi della punizione esemplare non solo è confutabile, ma non è ammissibile in una civiltà che si vanta di essere cristiana.
La giustizia non ammette che si compia un'ingiustizia condannando qualcuno ad una pena esemplare, nemmeno per salvarne molti altri. La giustizia richiede che si usi sempre una clemenza proporzionata alle circostanze ed ai modi della realizzazione del reato, fatte salve le misure di sicurezza alla quali ha diritto la comunità.
Anche l'affermazione che la tesi oweniana abbia un qualche fondamento è chiaramente confutabile. L'uomo che si indirizza al crimine può essere sprovvisto di senso morale allo stesso modo di quelli che non commettono i crimini, ma avrebbero tanto desiderio di farlo. Ma certo non ignora che la legge prevede la pena e dunque è perfettamente consapevole che ammazzando o rubando egli rischia di essere scoperto e condannato. Allora, visto che di questo è consapevole e responsabile, la teoria oweniana, che Mill condivise come al solito a metà, non è in alcun caso sostenibile perchè confonde il non avere una coscienza morale con il non avere una conoscenza rudimentale delle leggi, che invece tutti, anche i più rozzi e brutali tra i delinquenti, possiedono.

Scrive ancora Mill, toccando a mio avviso un punto molto basso della sua carriera di filosofo: « Per difendersi dalla terza delle tre tesi ci si è inventati la cosiddetta libertà del volere; immaginandosi che non si poteva giustificare la punizione di una persona la cui volontà fosse in condizioni detestabili, a meno di non supporre che fosse caduta in quello stato senza l'influenza di circostanze anteriori.»
Non credo che l'espressione "ci si è inventati la cosiddetta libertà del volere" sia accettabile. Fino alla comparsa della teoria della grazia di credere di San Paolo e del servo arbitrio di Agostino, si è sempre creduto che l'uomo, per quanto in balia dei capricci della sorte, degli dei o del caso, fosse libero di decidere e in grado di scegliere se commettere o meno dei reati. Esiste una libertà del volere contrapposta al servo arbitrio da quando Lutero estremizzò radicalmente il concetto della non libertà dell'uomo e della sua totale dipendenza da Dio.
Ma, indipendentemente dal fatto che si possa o meno accettare questa dottrina, rimane che essa potrebbe avere un valore solo relativamente al senso morale. A prescindere dal fatto che attribuire a Dio la volontà di volerci malvagi non mi pare conforme ad un'idea di Dio come Padre, l'unica possibile da Cristo in poi, resta che indiscutibilmente ci sono individui privi di senso morale, anche se non commettono reati abitualmente.
Non commettiamo il male o perchè abbiamo un senso morale, o perchè temiamo la giustizia umana; pertanto, proprio nel timore ed anche nella più rudimentale conoscenza delle leggi, siamo sempre liberi di decidere se commettere il male oppure no, consapevoli del rischio che potremmo correre. In qualsiasi società civile, anche quella peggio amministrata, anche quella finita in mano a qualche mafia, non ci si può permettere di agire in senso contrario alle leggi umane, a meno che non si disponga di qualche speciale protezione dell'autorità mafiosa.
Per questo la teoria del servo arbitrio potrebbe avere un senso solo relativamente a cosa fermenta nel cuore degli uomini, ma non ha alcun senso rispetto a quello che realmente fanno, e del quale sono, in generale, responsabili a tutti gli effetti. Sia un omicidio per legittima difesa che un omicidio per difendere qualcun altro da un aggressione in atto, azioni che si compiono sotto una stato di pressante necessità, sono in ogni caso azioni libere, azioni che è solo perchè siamo in grado di intendere, valutare e volere, siamo anche in grado di compiere.
Lasciamo fuori dal discorso solo gli psicotici, per i quali il senso della realtà se n'è andato del tutto.

11) Giustizia ed opportunità. Le conclusioni alle quali, comunque, pervenne Stuart Mill sono in parte accettabili nel senso che, anche dopo Kant, tanto i filosofi quanto l'umanità nel suo insieme sono in grado di comprendere che accanto ad una brevissima serie di massime capaci di riassumere cosa sia la giustizia in tutte le situazioni (Kant), si da anche la possibilità di assumere nuovi criteri di giustizia adatti al caso, alle circostanze storiche, economiche e politiche. Mill insistette, a ragione, sul fatto che la società dovrebbe ripagare il bene con il bene ed il male con il male, ma dimentica che limitandosi a questo, potrebbero formarsi fazioni in lotta che, adottando questo principio, non farebbero altro che prolungare all'infinito la spirale di una falsa giustizia vendicativa. Ciò è particolarmente evidente sul piano dei conflitti internazionali dove lo spirito di ritorsione adottato da Israele contro gli attentati terroristici, per quanto possa sembrare formalmente giusto (ma quante volte ha colpito innocenti?) è comunque palesemente inopportuno ed inefficace perchè non porta alla pace, non sblocca questa situazione assurda, ma produce solo ulteriore violenza.
L'idea che da questa guerra si possa uscire vincitori con la totale distruzione dell'altra parte è semplicemente assurda.
In altre parole: occorrerebbe allora che chi si presume più civile e superiore, lo dimostrasse anche, evitando per primo di ripagare il male con il male, ma ripagando una volta tanto il male con una proposta di accordo, ovvero facendo concessioni decisive alle parti più ragionevoli in lotta.
E' su questo piano che la lex talionis mostra la corda (anche perchè mai applicata perfettamente, ma sempre sistematicamente violata con violenze contro innocenti) ed è su questo piano che iniziative diplomatiche opportune, ed anche veramente giuste, nel senso di quell'agire esemplare invocato da Kant, potrebbero avere successo.

Ancora una volta, proprio nelle considerazioni finali, Mill, nel tentativo di mostrare quanto l'opportuno di agire altruisticamente possa a volte prevalere sulla giustizia, intesa invero come qualcosa di troppo rigido e statuario e non come una voce viva, saggia e illuminante, finì per cadere in una colossale contraddizione. Egli scrisse: «....sebbene possano darsi casi nei quali un altro dovere sociale è così importante da far tacere le prescrizioni di qualsiasi massima generale della giustizia. Così, per salvare una vita umana, potrà essere non solo permesso, ma doveroso rubare o prendere con la forza il cibo necessario o la medicina, oppure sequestrare l'unico medico qualificato e obbligarlo a compiere le sue funzioni. In tali casi, dato che non chiamiamo giustizia ciò che non è virtù, diciamo in generale non che la giustizia deve far posto a qualche altro principio morale, ma piuttosto che quello che è giusto nei casi normali non è giusto, in virtù di quest'altro principio morale, ma piuttosto che quello che è giusto nei casi normali non è giusto, in virtù di quest'altro principio morale, in quel particolare caso. Mediante questo comodo arrangiamento linguistico, viene mantenuto alla giustizia quel carattere di inoppugnabilità e ci viene risparmiata la necessità di dover dire che possono esistere ingiustizie lodevoli.»
Sarcasmo del tutto fuori luogo perchè è evidente che, se una delle prescrizioni della giustizia presentate da Kant è di agire in modo da essere di esempio, di essere legge per tutti gli esseri razionali, l'azione limite propugnata da Mill si può considerare giusta, oltre che opportuna, giusta ovviamente in rapporto al senso morale e non a criteri puramente estetici e formali di giustizia.
E poi, perchè sequestrare il medico, quanto basterebbe chiedergli di venire?

continua: Scritti sulla religione di Stuart Mill