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John Stuart Mill
Natura, Dio e religione
Sotto il titolo Essays on Religion vennero raccolti e pubblicati postumi, a
cura della figliastra Helen Taylor, tre saggi
intitolati rispettivamente Natura, Utilità della religione e Teismo. Si tratta di saggi di valore diseguale
e poichè il più importante, oltre che esteso,
mi sembra il terzo, ho ritenuto opportuno
trattarlo separatamente.
I primi due Essays erano stati composti in
un periodo compreso tra il 1850 ed il 1858;
Teismo nel periodo immediatamente precedente la
morte.
I probabili dubbi di Mill
Se i primi due saggi non vennero pubblicati
in precedenza fu perchè Mill nutrì nei loro
confronti qualche dubbio. Il problema è delicato
per diversi motivi. Il saggio sulla Natura, se da un lato veniva chiaramente a preludere
ai temi di On liberty, dall'altro esprimeva considerazioni talmente
negative sugli istinti e la naturalità dell'uomo,
che pareva entrare in contraddizione con
le stesse tesi sulla libertà, tra le quali
era chiaro che il libero sviluppo individuale
comporta necessariamente uno sviluppo degli
istinti migliori e peggiori. Molto saggiamente
Mill decise di puntare sulla libertà e tenere
in archivio le sue più che lecite riserve
sulla bontà naturale dell'uomo e sulla bontà della natura.
Una seconda causa dei dubbi di Mill può essere
individuata nel fatto che nel 1850 era stato
pubblicato il lavoro di Herbert Spencer intitolato
Social Statics: or, the Conditions Essential
to Human Happiness Specified, and the First
of Them Developed.
Questo scritto poneva all'ordine del giorno
questioni come l'evoluzione biologica e umana
non espressamente affrontate da Mill e che
comunque necessitavano di un ulteriore approfondimento:
le riflessioni milliane sulla natura umana,
in prima battuta, apparivano oltremodo statiche
rispetto alla dinamica evolutiva storico-biologica
propugnata da Spencer.
Nel secondo saggio, Utilità della religione, comparivano affermazioni piuttosto impegnative
sui possibili caratteri di Dio, in un quadro
che non ne negava l'esistenza, ma l'onnipotenza.
Ludovico Geymonat presentò questi scritti,
da lui stesso tradotti, nel '53 e pose l'attenzione
sul fatto che Mill, finissimo logico, aveva
denunciato l'impossibilità che Dio fosse
ad un tempo infinitamente buono ed infinitamente
potente. Fosse insieme l'uno e l'altro, il
mondo non esisterebbe così.
Parlando di potere limitato di Dio, un Dio giudicato pasticcione nel
momento creativo, indubbiamente buono, ma
impotente nei confronti del male, in effetti
a Mill non passò nemmeno per la testa di
considerare che Dio stesso potrebbe aver
deciso di non intervenire più nella vita
degli uomini, se non su espressa preghiera,
e comunque non in modo da limitare in modo
pesante la libertà, l'autonomia e il destino
degli altri esseri umani.
Secondo gli stessi testi della storia sacra,
Dio si limitò a qualche miracolo, inteso
come guarigione, ed ad una serie di insegnamenti
non sempre facilmente comprensibili perchè
fondati sul principio che chi non segue i
precetti divini, verrà reso cieco e sordo in misura crescente a qualsiasi stimolo
intellettuale. E sui figli ricadranno le colpe dei padri. Unica eccezione, voce fuori del coro, quella
del profeta Ezechiele.
Ora questo è indubbiamente lo scoglio contro
il quale confligge ogni razionalità quanto
affronta l'analisi delle origini del cristianesimo
sui testi sacri. In continuità con le profezie
di Isaia, Gesù parlò solo in parabole alle
grandi masse, perchè esse potevano ascoltare
e vedere senza realmente comprendere, totalmente
vittime delle colpe dei padri.
Il Dio buono che rende ciechi e sordi gli
uomini volontariamente non è accettabile dal filosofo e nemmeno
dal teologo più scaltrito; ci voleva e ci
vuole una spiegazione di questa volontà cattiva di Dio come base stessa di ogni ulteriore
ragionamento.
Altrimenti non rimarrebbe altra strada che
acconciarsi a credere, rinunciando a ragionare,
oppure ragionare, rinunciando a credere,
in una eterna lacerazione senza speranza.
Inutile sperare di trovare una risposta in
questi saggi di Mill. Essi rimangono al di
sotto del problema. In un primo tempo avevo
introdotto nel corpo stesso di questo scritto
una mia riflessione; ho ritenuto opportuna
riscriverla in modo più articolato rinviando
gli interessati a Una nuova teodicea? (dove ateismo e teismo possono convergere?)
Torniamo all'insufficiente comprensione di
Dio nel suo concetto teogico-filosofico più
elevato da parte di Stuart Mill.
Esistevano in proposito sia la Teodicea di Leibniz, una vera e propria difesa di
Dio di fronte ai tribunali umani che lo accusavano
di essere autore del male e della sofferenza,
e l'argomento kantiano, riportato nella Critica della Ragion pratica, secondo il quale se Dio fosse visibile,
se, per intenderci, sorgesse ogni giorno
come il sole, l'uomo non sarebbe affatto
libero e la sua stessa moralità, che è uno
dei fini della Creazione, perderebbe del
tutto valore perchè l'uomo agirebbe sotto
la costrizione del timore della punizione
e non per libera e ponderata scelta. In altre
parole: il dubbio sull'esistenza di Dio può
essere proficuo perchè è solo in questo dubbio
che l'uomo è libero di scegliere radicalmente
e persino in relativa autonomia, e quindi
risultare a tutto tondo come una prosecuzione di Dio con altri mezzi.
Il bello è che Mill, pur percorrendo una
strada del tutto diversa, a mio giudizio
erronea nelle premesse, arrivò pressapoco
alla stessa conclusione: la ragione umana
è il frutto di una conquista fatta giorno
per giorno. Sbaglia radicalmente chi afferma
che Dio vorrebbe da noi obbedienza, fede
ed istinto, non ragione, perchè questa, a
ragion veduta, è una posizione che conduce
al fanatismo religioso e non alla crescita
dell'uomo.
Purtuttavia, non si sfugge all'impressione
che Mill, negando l'onnipotenza divina, di
fatto venne a rilanciare il manicheismo,
cioè la dottrina che afferma che fin dal
principio vi è lotta tra Bene e Male, e che
queste forze hanno forza pressochè pari.
Geymonat scrisse che non è vero. "Nulla
infatti è più lontano dal Mill che la mentalità
metafisica del manicheismo, nulla gli ripugna
maggiormente che un qualsiasi tentativo di
divinizzazione del male. Non ha senso per
lui parlare di due principi assoluti dell'essere.
"
Infatti Mill parlò di due forze in campo,
inserite nel mondo. Ma non è per questo che
il discorso cambia: di fatto si veniva a
riconoscere che esiste un campo del Male
e che il suo potere d'attrazione è pari a
quello esercitato dal Bene. I mali non vengono
identificati, chiamati per nome e cognome,
un po' come se tutti i diavoli fossero satana
e come se il male fisico non avesse un suo
statuto del tutto autonomo dai satanassi
e fosse piuttosto riconducibile alle leggi
di natura.
Per Mill c'è il Male. Poco importerebbe poi,
che il significato di Male avesse, ovviamente,
in Mill, un significato del tutto diverso
da quello dei manichei. E' evidente che per
Mill il Male è il fideismo irrazionale e
fanatico, l'oscurantismo; il Bene è la Ragione,
la scienza, il progresso, il modo di vivere
civile, la Libertà.
Anche Mill, dunque tentò una teodicea, cioè una giustificazione di Dio. Ma è evidente
che egli ricorse all'unico argomento incompatibile
con il monoteismo, ovvero la non onnipotenza
di Dio e l'esistenza di esseri, signorie
e potenze di pari dignità.
Utilità della religione
Visto che abbiamo trattato subito del centro
del problema, tanto vale proseguire nell'analisi
completa del secondo saggio.
Mill partì dalla domanda, già esposta in
altra forma a Comte nelle sue lettere, circa
l'utilità di criticare la religione in nome
della verità, qualunque essa fosse, rischiando
così di contribuire ad una possibile infelicità
degli esseri umani che della stessa religione
avrebbero vitale bisogno.
La questione assume una forte tinta di dramma
individuale: « E' una situazione molto
penosa per uno spirito coscienzioso e colto,
l'essere attratto in direzioni contrarie
dai due più nobili oggetti di ricerca: la
verità ed il benessere generale. Un tale
conflitto deve inevitabilmente produrre una
crescente indifferenza verso l'uno o l'altro
di tale oggetti, e più probabilmente verso
entrambi. Molti di coloro che potrebbero
rendere servizi giganteschi tanto alla verità
che all'umanità si credono di poter servire
l'una senza danno per l'altra, sono o totalmente
paralizzati, o indotti a limitare i propri
sforzi a questioni di secondaria importanza
dal timore che che qualsiasi effettiva libertà
di pensiero, o qualsiasi considerevole rafforzamento
o ampliamento delle facoltà speculative dell'umanità
nel suo insieme, togliendo loro la fede,
potrebbe risultare il modo più sicuro per
rendere gli uomini viziosi e miserabili.
»
Deprecando lo spreco di energie assorbito
dal tentativo, giudicato ormai vano, di puntellare
le credenze religiose con argomenti di ogni
tipo, Mill risolse di affrontare la questione
così: « Non basta affermare che non
può esservi conflitto tra verità e utilità,
e che se la religione è falsa, dal suo rigetto
non può che venire un bene. Infatti, sebbene
la conoscenza di una qualsiasi verità positiva
costituisce un'utile acquisizione, non si
può affermare la stessa cosa, senza riserva,
della verità negativa. Allorquando l'unica
verità accertabile è che nulla può venire
conosciuto, non veniamo in possesso, mediante
tale conoscenza, di alcun fatto nuovo dal
quale farci guidare; e tutt'al più restiamo
soltanto scossi nella nostra fiducia in qualche
precedente segno indicatore che, sebbene
inesatto, poteva tuttavia essere rivolto
nella stessa direzione delle migliori indicazioni
in nostro possesso, e, se più visibile e
più facile a leggersi, poteva mantenerci
sulla retta via, quando non avessimo scorto
le altre.»
Messo in prosa corrente questa contorsione
del pensiero milliano vuol dire: se abbattiamo
l'idolo e la chiesa che lo contiene non abbiamo
più nulla che ci guidi. E' meglio o è peggio?
Ignorando Mill, che la falsità della religione
è determinata dalla credenza che Dio governi
il mondo umano, costituisca autorità ed altri
simili baggianate, è evidente l'imbarazzo
del filosofo. Ma se la questione fosse stata
posta in modo diverso, ovvero a partire dal
principio che Dio non governa il mondo umano
nemmeno nelle teocrazie, anzi men che mai
in quelle, una tale questione non aveva alcuna
ragione di esistere. Chi non sarebbe, allora,
pronto a combattere questa falsa credenza,
ovvero che un dio cattivo come nessun uomo
mai riuscì ad esserlo, governi il mondo e
produca lager nazisti, regimi teocratici,
ed incoraggi guerre sante, inquisizioni,
conversioni forzate con la spada alla gola
come ai tempi del magno Carlo, re dei Franchi?
Una simile impostazione del tutto sbagliata
perchè incapace di cogliere il problema vero,
cioè in cosa consista la falsità della religione,
non poteva che condurre ad una serie di affermazioni
sbagliate.
Infatti, scopo del saggio, secondo Mill,
era: «Ci proponiamo di cercare se la
fede in una religione, considerata come una
mera persuasione, prescindendo dalla questione
della sua verità, sia realmente indispensabile
al benessere temporale dell'umanità; se l'utilità
della fede sia intrinseca e universale oppure
locale o temporale, ed in un certo senso
accidentale; ed inoltre, se i benefici che
esso procura non possano venir ottenuti altrimenti,
senza le notevolissime intromissioni di male,
da cui, anche nelle forme migliori di fede,
quei benefici vengono sminuiti.»
Inutile dire che messa così la questione
non ha senso. Al contrario, smascherando
la menzogna religiosa, cioè l'assurda idea
che Dio governi la società civile sempre,
si salva Dio da giudizi stupidi, lo si rende
chiaro e comprensibile, e poi ognuno è libero
di crederci o non crederci, visto che, in
fondo, la differenza è minima: molto dipende
da noi. Noi diamo i nomi agli animali ed
alle cose. Noi scopriamo le leggi scientifiche
che governano la natura e la vita, noi scegliamo
tra la giustizia e l'ingiustizia.
Date queste premesse, temevo anche peggio,
ma in effetti Mill ebbe uno scatto ed abbiamo
una serie di riflessioni più ragionevoli
ed oltre modo interessanti.
Si pose essenzialmente due domande: che cosa fa la religione per la società?
Che cosa fa la religione per l'individuo?
Risposte:
Mill ammise che la religione insegna precetti
di giustizia e carità, ma contestò che questi
stessi precetti non fossero altrimenti insegnabili
da una morale che oggi potremmo definire
laica: "alla religione viene accreditata
tutta l'influenza nelle faccende umane che
appartiene invece a qualsiasi codice generalmente
accettato per la guida ed il governo della
vita umana."
« La religione sembra così potente
perchè questo immenso potere è al suo servizio.»
Ciò che appare inoppugnabile a Mill, è che l'autorità svolga un ruolo decisivo nella formazione
culturale degli uomini. Gli esseri umani
sono più propensi a credere a chi è unanimente
stimato che a chi è negletto. Per questo
la religione è autorevole; tuttavia gli effetti
positivi dell'educazione religiosa impartita
nei primi anni, non devono la loro efficacia
alla religione, ma al fatto di essere impartiti
nei primi anni. La preziosa indicazione agostiniana
per la quale essa incontrerebbe un qualcosa
di innato in noi stessi non è presa in considerazione.
Anzi, proseguì Mill, la forza della religione
sta proprio nel fatto che essa incontra il
consenso esterno e si avvale del senso comune e dell'opinione
pubblica per dare forza alle sue capacità
persuasive o dissuasive. L'approvazione o
la disapprovazione pubblica sono determinanti
per le nostre scelte ed i nostri comportamenti.
"Il timore della vergogna, il terrore
di avere una cattiva reputazione, o di essere
antipatico ed odiato, sono le forme semplici
e dirette della sua forza di dissuasione."
Le conseguenze negative derivanti dal biasimo
sociale comporterebbero, inoltre, l'esclusione
dalla società e dagli "innumerevoli
buoni uffici che gli esseri umani si rendono
l'un l'altro", culminando nella impossibilità
di avere successo nella vita.
Per questo ogni ambizione degna di questo
nome "è subordinata alla pubblica opinione,
salvo che in tempi di sfrenata violenza militare."
Ed è per questo che gli scopi dell'ambizione
sociale o personale si possono ottenere soltanto
grazie alla buona opinione su noi stessi
che sappiamo suscitare negli altri. Ma questa,
in fondo, non sarebbe altro che il regno
della menzogna e dell'ipocrisia, cosa che
Mill non dice espressamente, ma fa intendere.
Infatti - concluse Mill - « L'involontaria
influenza dell'autorità sulle menti comuni
è tale, che le persone debbono essere di
uno stampo fuori dell'ordinario per essere
all'altezza di sentirsi nel giusto quando
il mondo, vale a dire il loro mondo, le ritiene in in torto; nè esiste,
per la maggiore prte degli uomini, una dimostrazione
più efficace della loro virtù o del loro
talento, del fatto che la generalità delle
persone mostri di credere in esso.»
La conclusione di Mill sulla religione è
dunque inappellabile: « La religione
è stata potente non per sua intrinseca forza
( e potremmo noi dire verità), ma perchè essa ha avuto nelle sue mani
questo ulteriore e più efficace potere. »
Interrogandosi sul ruolo avuto dalla religione
nella formazione morale dei singoli, annotò
con acutezza:« Senza dubbio, la convinzione,
impostasi a poco a poco a tutti fuorchè ai
molto ignoranti, che le punizioni divine
non erano da attendersi con certezza in forma
temporale, ha molto contribuito alla caduta
delle vecchie religioni, e alla generale
adozione di una religione la quale, pur senza
escludere in modo assoluto interferenze della
Divina Provvidenza nella vita terrena per
punire i cattivi e premiare i buoni, trasferiva
il momento principale della retribuzione
divina in un mondo ultraterreno. Ma i compensi
ed i castighi rinviati a tanta distanza di
tempo, e non visti mai dall'occhio umano,
erano mal calcolati, anche se infiniti ed
eterni, per avere sulle menti ordinarie un
effetto molto potente contro le forti tentazioni.
La loro lontananza da sola diminuisce prodigiosamente
la loro efficacia, proprio su quegli spiriti
che più abbisognano del freno della punizione.
Una causa di indebolimento ancora maggiore
è costituita dall'incertezza che è loro propria:
infatti i premi ed i castighi assegnati dopo
la morte, vengono conferiti non in base a
particolari azioni, bensì in base all'esame
dell'intera vita della persona, e questa
sarà facilmente indotta a persuadersi di
avere commesso solo dei peccatucci, e che
alla fine la bilancia potrà ancora pendere
a suo favore. Tutte le religioni positive
contribuiscono a questo autoinganno. Le religioni
deteriori insegnano che la vendetta divina
può essere placata mediante offerte ed umiliazioni;
quelle migliori, per non condurre i peccatori
alla disperazione, insistono talmente sulla
misericordia divina, che quasi nessuno è
costretto a considerarsi irrevocabilmente
condannato. L'unico pregio di questi castighi,
la loro schiacciante potenza, che potrebbe
sembrare appositamente studiata per renderli
efficaci, risulta invece un motivo per cui
nessuno (salvo qualche ipocondriaco) può
effettivamente credere di essere seriamente
in pericolo di venire colpito. Anche il peggior
delinquente, qualunque sia il delitto che
ha avuto la facoltà di commettere, qualunque
sia il male che ha inflitto in questa esistenza,
stenta a credere di poter meritare un'eterna
tortura. Di conseguenza gli scrittori religiosi
e i predicatori non si stancano di lamentare
che i motivi religiosi hanno scarsissimo
effetto sulla vita e condotta degli uomini,
malgrado i terribili castighi che preannunciano.
»
Ma questo spauracchio dell'inferno non fu
per Mill che il lato "più volgare"
dell'utilità religiosa. Secondo l'opinione
dei teologi più aperti, " la parte migliore
dell'umanità ha assolutamente bisogno della
religione per il perfezionamento del proprio
carattere, anche se la correzione dei peggiori
potrebbe probabilmente compiersi senza il
suo aiuto."
La religione - proseguì Mill - ancora secondo
questi teologi, serve ad insegnare, se non
a imporre la morale sociale; "tutti
i maggiori filosofi, che non si sono ispirati
ad essa, si arrestarono nei loro voli più
sublimi, al di sotto della morale cristiana,
e quella stessa morale inferiore che essi
possono avere raggiunto ...non riuscirono
mai a farla accettare dalla massa comune
dei loro concittadini."
Qui Mill riconobbe che " vi è molto
di vero" nell'idea che afferma che gli
uomini accettarono le regole e le leggi solo
in quanto presentate come un volere della
divinità. " I popoli antichi hanno spesso,
se non sempre, ricevettero la loro morale,
le loro leggi, le loro credenze razionali,
e perfino le arti pratiche...come una rivelazione
avuta dalle potenze superiori, e nessuna
altra via li avrebbe facilmente indotti ad
accettarle."
Aggiunse: « Anche indipendentemente
dalle speranze e timori personali, l'involontaria
deferenza provata da quelle menti rozze verso
un potere superiore al loro e la tendenza
a supporre che gli esseri dotati di potere
soprannaturale fossero pure dotati di conoscenza
e saggezza sovrumana facevano sì che essi
desiderassero disinteressatamente conformare
la propria condotta secondo le supposte preferenze
di questi esseri potenti, e non adottassero
alcuna nuova pratica senza la loro autorizzazione
che poteva essere data spontaneamente, o
sollecitata ed ottenuta.
Ma proprio perchè gli uomini, quando erano
ancora selvaggi, non avrebbero accettato
delle verità morali o scientifiche se non
le avessero credute rivelazione sovrannaturale,
si deve forse dedurre che essi rinuncerebbero
ora piuttosto alle verità morali che alle
scientifiche solo perchè non credono che
esse abbiano un'origine più alta dei cuori
di uomini nobili e saggi? Non sono forse
le verità morali abbastanza forti nella loro
specifica evidenza, per lo meno tanto da
continuare a meritare che gli uomini abbiano
sempre fede in esse? Ammetto che alcuni dei
precetti di Cristo come vengono esposti nel
Vangelo - ben più elevati delle dottrine
di Paolo che costituiscono la base del Cristianesimo
ordinario - portino alcune specie di bontà
morali ad un livello ben più alto di quello
mai prima raggiunto, sebbene una parte dei
precetti ritenuti peculiari del Cristianesimo
si trovino nelle Meditazioni di Marco Aurelio,
che non abbiamo motivo di credere siano state
in alcun modo influenzate dal Cristianesimo.»
Ma, ancora secondo Mill, attribuendo al sovrannaturale
le massime della moralità, " si causa
un male effettivo." L'origine divina
della legge " le consacra nel loro complesso"
ed "impedisce" che le regole "vengano
discusse o criticate."
« Cosicchè, se fra le dottrine morali
accettate come facenti parte della religione,
ve ne sono di imperfette, o perchè erronee
fin da principio, o perchè non esattamente
limitate o controllate nella loro espressione,
oppure ancora perchè, pur essendo un tempo
ineccepibili, non si rivelano più adatte
ai mutamenti verificatesi nelle relazioni
umane (ed è mia ferma convinzione che nella
cosiddetta morale cristiana si trovino esempi
di tutti questi casi) tali dottrine imperfette
sono considerate altrettanto impegnative
per la coscienza quanto i precetti più nobili,
più duraturi e più universali di Cristo.
Ogniqualvolta la moralità è supposta essere
di origine sovrannaturale, essa diviene stereotipata,
proprio come la legge del Corano lo è per
i suoi seguaci.»
Un argomento tra i più interessanti è quello
che espone i motivi per i quali l'uomo cerca
il sovrannaturale: « E' inutile spingere
più oltre la storia naturale della religione,
non proponendoci qui di spiegare come essa
nasca negli spiriti più rozzi, bensì come
persista fra gli spiriti colti. Si troverà
- io ritengo - una spiegazione sufficiente
di quanto ora detto nella ristrettezza dei
limiti delle conoscenze certe dell'uomo,
cui si oppone la sua sete illimitata di conoscenza.
L'esistenza umana è circondata di misteri,
la regione assai limitata della nostra esperienza
non è che una piccola isola circondata da
un mare immenso, e questo spaventa i nostri
sentimenti e stimola la nostra immaginazione
a causa della della sua vastità ed oscurità.
Per rendere ancora più profondo il mistero,
il campo della esistenza terrena non risulta
soltanto un'isola sperduta in uno spazio
infinito, ma anche in un tempo infinito.
Il passato ed il futuro sono parimenti oscuri
per noi: non sappiamo nè l'origine di tutto
ciò che è, nè il suo destino finale. Se proviamo
un profondo interesse nel sapere che esistono
nello spazio miriadi di mondi ad una distanza
incommensurabile, e per le nostre facoltà
addirittura inconcepibile; se siamo ansiosi
di scoprire quel poco che possiamo intorno
a questi mondi, e se non potendo mai sapere
ciò che essi sono, siamo insaziabili nello
speculare su ciò che possono essere; non
costituisce forse per noi una questione del
più profondo interesse l'apprendere, od anche
il congetturare, donde provenga questo mondo
più vicino che noi abitiamo, quali cause
od agenti lo abbiano fatto come è, e da quali
poteri dipenda il suo futuro? Chi non desidererebbe
conoscere questa più ardentemente di qualsiasi
altra possibile conoscenza, finchè esiste
la minima speranza di raggiungerla? Che cosa
non si sarebbe pronti a dare, per una qualsiasi
notizia attendibile proveniente da quella
misteriosa regione, per un qualsiasi sguardo
anche furtivo, che ci ponga di scorgere una
minima luce attraverso le sue tenebre, e
specialmente, infine, per una qualsiasi teoria
credibile, che ci rappresenti il mondo governato
da un influsso benigno e non già da uno ostile?
Non essendo però in grado di penetrare in
tale regione fuorchè con l'immaginanzione,
assistita da analogie plausibili ma inconcludenti
derivate dall'azione e dall'intenzione dell'uomo,
l'immaginazione è libera di riempire il vuoto
con le chimere che più le convengono: elevate
e sublimi se l'immaginazione è nobile, basse
e meschine se invece è abbietta.»
Le ultime pagine di Mill conducono a considerazioni
piuttosto negative sulla vita eterna e la
salvezza dell'anima. Innanzi tutto egli considerò
che sono gli infelici e gli insoddisfatti
della vita ad aver bisogno della speranza
in un'esistenza ultraterrena. I "felici"
ne avrebbero molto meno bisogno.
Le religioni che incoraggiano questa speranza
non fanno altro che alimentare l'egoismo
di molti, i quali si comportano bene, secondo
Mill, solo perchè convinti del premio, di
evitare l'inferno ed andare in paradiso.
Ciò, secondo Mill, è di ostacolo ad una vera
presa di coscienza e quindi ad una maturazione
negli individui di un vero significato della
vita, la quale è un bene di per sè e non
una sorta di viaggio verso il paradiso o
l'inferno. L'individuo maturo dovrebbe dunque
trovare nella vita stessa ragioni a sufficienza
per saziarsi di ogni esperienza degna, ed,
in altre parole, raggiungere la felicità
terrena. Questa è la premessa indispensabile
per acconciarsi alla morte in una prospettiva
del tutto vetero-testamentaria: coricarsi coi propri avi sazi di vita e di
anni e riposare per l'eternità, allo stesso modo dei patriarchi, i quali
non avevano alcuna fede nell'esistenza dell'al
di là. A queste considerazioni si agganciano
valutazioni sulla superiorità della dottrina
buddhista la quale non considera affatto
come premio una possibile reincarnazione,
cioè una resurrezione della carne, ma semmai
solo un passo ulteriore per arrivare alla
definitiva ed agognata estinzione nel nulla.
In pratica Mill accusò così di infantilismo
la religione occidentale nel suo insieme,
islamismo compreso, ed, in conclusione, salvò
solo l'antica concezione greco-omerica dell'Ade
come regno delle ombre nel quale Achille,
per esempio, aveva confessato di preferire
d'essere vivo sulla terra, anche come l'ultimo
degli uomini, piuttosto che il primo nel
regno dei morti.
Data questa prospettiva è evidente che converrebbe
davvero tornare ad essere come bambini per entrare
nel regno dei cieli, piuttosto che finire maturi ma decrepiti
in un desiderio di totale annilichimento.
Non so se si tratti solo di gusti e preferenze
dettate dalla nostra condizione individuale,
ma uccidere la speranza di una vita migliore,
senza nulla togliere alla vita che stiamo
vivendo, mi pare francamente una sciocca
pretesa filosofica, tant'è vero che il buddhismo
fu in origine una filosofia e non una religione.
Il problema è che nè la filosofia, nè la
religione, nè la scienza, nè qualsivoglia
guru superilluminato, possono darci uno straccio
di prova dell'esistenza dell'al di là. Ed
anche quei libriccini che riportano le sconvolgenti
e fantasiose esperienze di individui entrati
in coma e poi risvegliati, non hanno altro
valore che quello di un sogno. La sopravvivenza
dell'anima, o se si vuole, dell'io, un io
senza memoria, senza sensi, senz'altra risorsa
che il proprio partecipare all'essenza divina
dell'intelletto attivo, è però una possibilità che non possiamo escludere. Ed io credo,
infine, sia tanto sciocco l'affermarla quanto
il negarla in assoluto.
Natura
Nel primo saggio Mill aveva introdotto alcune
considerazioni sull'uso improprio dei termini
natura e naturale ricorrenti in alcune correnti filosofiche,
a partire dallo stoicismo e dall'epicureismo
dell'antichità, cioè in dottrine sorte "in
un'epoca di debolezza del pensiero e dell'intelletto."
Mill si rammaricò del fatto che Platone non
avesse dedicato un dialogo al vero significato
di Natura, ricordando "che le epoche successive
devono tanta parte di quella qualunque chiarezza
intellettuale raggiunta" proprio ai
dialoghi platonici.
« Se l'idea denotata da questa parole
- scrisse Mill - fosse stata assoggettata
alla sua analisi rigorosa, e se i soliti
luoghi comuni nei quali essa compare fossero
stati sottoposti al controllo della sua potente
dialettica, i successori non si sarebbero
precipitati, come subito fecero, in un modo
di pensare e di ragionare la cui pietra angolare
era formata proprio dall'uso sbagliato di
essa; errore dal quale egli fu singolarmente
immune.»
Il metodo platonico - secondo Mill - era
consistito nel cercare l'universale nel particolare;
di qui la prima domanda "ovvia"
che ci si potrebbe fare: che cosa significa natura di un determinato
oggetto?
« Si intende ovviamente l'insieme o
l'aggregato dei suoi poteri o proprietà,
le maniere in cui agisce sulle altree cose
(contando tra queste i sensi dell'osservatore)
e le maniere nelle quali le altre cose agiscono
su di esso, cui bisogna aggiungere, nel caso
di un essere senziente, la sua propria capacità
di sentire o di essere cosciente. La Natura
di una cosa significa tutto ciò, significa
la sua intera capacità di produrre i fenomeni...»
Sicchè - per Mill - "come la natura
di una cosa qualsiasi è l'aggregato dei suoi
poteri o proprietà, così la Natura in astratto
è l'aggregato dei poteri e delle proprietà
di tutte le cose..."
« La parola Natura, in questa sua più
semplice accezione, è dunque un nome collettivo
per indicare tutti i fatti, effettivi o possibili,
oppure per esprimerci in forma più precisa,
è un nome per il modo, in parte a noi conosciuto
ed in parte no, con cui hanno luogo tutte
le cose.»
Si da però un altro significato, che viene
compreso quando Natura si contrappone ad
Arte, o tecnica. Per Mill l'arte sarebbe
altrettanto naturale quanto qualsiasi altro
fenomeno perchè essa non dispone di poteri
suoi propri. E' solo un uso dei poteri e
delle proprietà della Natura svolto dall'uomo.
"Una nave sta a galla per la stessa
legge del peso specifico e dell'equilibrio
che fanno galleggiare un albero sradicato
dal vento..." In sostanza - concluse
Mill - l'arte e la tecnica non sono che imitazioni
intelligenti della natura e delle sue leggi.
Su questo piano, pertanto, il detto naturam sequi, avrebbe più senso espresso come conosci la natura.
Ma - osservò Mill - il naturam sequi divenne anche principio della filosofia
morale, "per molte delle più ammirate
scuole di filosofia".
« Presso gli antichi, specialmente
nel periodo di decadenza del pensiero e dell'intelletto,
questo fu il banco di prova a cui si riportavano
tutte le dottrine etiche. Gli Stoici e gli
Epicurei, pur inconciliabili nel resto dei
rispettivi sistemi, erano concordi nel considerarsi
obbligati a dimostrare che le rispettive
massime di condotta rappresentavano i dettami
della natura.
Sotto la loro influenza i giuristi romani,
quando tentarono di elevare la giurisprudenza
a sistema, diedero inizio alla propria esposizione
con un certo Jus naturale, "quod natura omnia animalia docuit",
come Giustiniano dichiara nelle Istituzioni,
e poichè i moderni scrittori di sistematica
hanno generalmente preso a modello, non soltanto
il diritto, ma per la filosofia morale, i
giuristi romani, sono stati numerosissimi
i trattati sul cosiddetto Diritto naturale,
e i riferimento ad esso considerati come
regole supreme e modello hanno pervaso la
letteratura.»
Nei primi secoli del cristianesimo, tuttavia,
( e già con San Paolo, aggiungo io) Mill
notò che i filosofi cristiani considerarono
spesso l'uomo come malvagio di natura.
Solo in seguito "Le dottrine del Cristianesimo
si sono in tutte le epoche adattate largamente
alla filosofia in quel momento predominante,
e il Cristianesimo dei nostri giorni ha preso
una parte rilevante del proprio colore e
sapore dal deismo sentimentale."
Qui Mill cominciò a speculare su due modi
di dire peculiari come la natura ingiunge ed agire contro natura, cominciando con l'osservare che è pressochè
ineludibile l'associazione che viene fatta
tra la parola legge in senso etico e morale e la parola natura.
« Nulla è associato più comunemente
alla parola Natura che la parola Legge; e
quest'ultima ha due distinti significati;
nell'uno essa denota qualche porzione definitiva
di ciò che è, nell'altro di ciò che dovrebbe
essere. Quando parliamo della legge di gravità,
delle tre leggi del moto ecc... ecco le porzioni
del ciò che è. Quando parliamo invece della
legge penale, delle leggi civiche, della
legge dell'onore, della legge della verità,
della legge della giustizia; tutte queste
sono porzioni di ciò che dovrebbe essere,
o supposizioni, sentimenti, comandi di qualcuno
intorno a ciò che dovrebbe essere. »
Ancora: « Il richiedere alle persone
di conformarsi alle leggi della Natura, quando
è per loro fisicamente impossibile il fare
la minima cosa se non attraverso qualche
legge della Natura, risultà un'assurdità.
Ciò che occorre dir loro, invece, è quale
particolare legge della Natura essi dovranno
seguire in un determinato caso. Per esempio,
quando una persona sta attraversando un fiume
su di una passerella stretta senza parapetto,
farà bene a regolare i suoi movimenti secondo
le leggi dell'equilibrio e dei corpi in moto,
anzichè conformarsi soltanto alla legge di
gravità, e cadere nel fiume.
Eppure, per quanto sia ozioso esortare la
gente a fare ciò che non possono evitare,
e per quanto sia assurdo il prescrivere come
uomo di buona condotta ciò che che si accorda
altrettanto bene con la condotta cattiva:
si può nondimeno costruire una norma razionale
di condotta partendo dalla relazione che
la condotta dovrebbe avere con le leggi della
Natura nella più ampia accezione del termine.
L'uomo necessariamente obbedisce alle leggi
della Natura, o in altre parole, alla proprietà
delle cose, ma egli non si fa necessariamente
guidare da esse. »
Qui Mill trae una prima conclusione importante:
se gli uomini fossero capaci di prestare
attenzione alle proprietà degli enti fisici,
in quanto in grado, esse, di ostacolare o
favorire un certo scopo, "noi saremmo
giunti al primo principio di ogni azione
intelligente, o meglio, alla definizione
dell'azione intelligente stessa."
Ma la massima dell'obbedienza alla Natura
viene considerata non come indicazione "prudenziale",
ma come un comandamento etico, ed anzi "da
coloro che paralno di jus naturae, come legge
adatta a venir amministrata da tribunali
ed a venir resa esecutiva da sanzioni."
Commentò Mill: « Un'azione giusta deve
significare qualcosa di più e diverso che
non un'azione semplicemente intelligente:
oppure nessun precetto oltre quest'ultimo
può venire connesso con la parola Natura
nel suo significato più ampio e filosofico.»
A questo punto Mill cominciò ad esaminare
il significato di natura sotto l'aspetto
di quello che avviene senza intervento umano.
Si chiese: "E' forse, nella Natura così
intesa, lo svolgimento spontaneo delle cose
lasciate a sé stesse, la regola da seguire
per tentare di adattare le cose al nostro
uso?"
In questo senso la massima di seguire la
natura " è manifestatamente assurda
e autocontraddittoria."
« Infatti, mentre l'azione umana non
può fare a meno di conformarsi alla Natura
(nel pieno significato del termine), il vero
scopo e l'oggetto dell'azione, è proprio
di alterare e di migliorare la Natura (nel
secondo significato).
Se lo svolgimento naturale delle cose fosse
perfettamente giusto e soddisfacente, l'agire
in modo qualunque sarebbe un'intromissione
gratuita, che, non potendo rendere le cose
migliori, le dovrebbe rendere peggiori. Oppure,
una qualunque azione potrebbe essere giustificata
solo quando fosse in diretta obbedienza agli
istinti, poichè questi potrebbero forse venir
considerati parte dell'ordine spontaneo della
Natura; ma il fare una qualsiasi cosa con
uno scopo e una premeditazione sarebbe una
violazione di tale ordine perfetto. Se l'artificiale
non è migliore del naturale, quale scopo
hanno tutte le arti della vita? Lo scavare,
l'arare, il costruire, il vestirsi, sono
dirette trasgressioni dell'ingiunzione di
seguire la Natura.»
E' da notare che con questa affermazione
Mill, sembrò venire a contraddire quanto
aveva affermato, sia pure in altro senso,
nei Principi di Economia politica, ovvero che il modo di produzione era "naturale",
oltre che necessario, mentre era la distribuzione
della ricchezza ad essere soggetta ad istituzioni
umane.
Sia quel che sia, appare chiaro che il piglio
di questo scritto era di carattere schiettamente
positivista ed aveva anche come bersaglio
l'imprecisione e la vaghezza delle filosofie
etiche e morali facilone e deboli di intelletto, proprio quelle filosofie, come l'epicureismo
e lo stoicismo, che Mill aveva assunto come
modello per il suo Utilitarianism.
Se su questo piano delle analogie linguistiche
la contraddizione milliana è evidente, tuttavia,
forse non lo è sul piano semantico, perchè
una volta assunti nei loro possibili significati
tutte le possibilità che potrebbe indicare
la parola Natura, è evidente che essa è qualcosa
di così generale e generico, che in realtà
potremmo ben dire che anche la ragione e
l'intelletto umano sono qualcosa che esiste
in natura e non al di fuori di essa. Non
c'è un solo animale vivente, una sola specie
di patata o di verme, o di cardo o di virus,
che sia fuori della natura o contro natura.
E neanche gli esseri umani, con le loro caratteristiche
spirituali più evolute possono dirsi fuori,
o al di sopra della natura. Ciò che possono
fare è appunto pensarla, ragionare su di
essa, studiarla, possibilmente con la precisione
e la passione che caratterizza il naturalista,
come Darwin, ad esempio, o come Lamarck e
Spallanzani.
In quest'ottica è evidente che Mill fece
bene a presentare il conto a tutti quei filosofi
e pensatori all'ingrosso che o basavano tutto
il loro presunto insegnamento sul naturam sequi, o al contrario, lo fondavano sulla spiritualità
superiore opposta alla natura e negante il
carattere naturale dell'uomo, il suo essere
comunque un essere naturale e non un robocop
facitore di bene.
L'amica natura, la fedele compagna, la preziosa
consigliera, svela con Mill tutto il suo
vero carattere di perfida matrigna, di latente
pericolo, di insidia continua. "La natura
è assassina" - scrisse Mill - "
col più altezzoso disprezzo così della pietà
come della giustizia, colpendo con i suoi
strali tanto gli esseri migliori e più nobili
quanto i più meschini e peggiori; vengono
colpiti coloro che sono impegnati nelle imprese
più nobili e meritorie, spesso proprio come
diretta conseguenza delle azioni più nobili,
e si potrebbe quasi ritenere che fosse una
punizione."
E qui scattò un ragionamento davvero interessante:
« Supponiamo che, contrariamente alle
apparenze, questi orrori, quando sono perpetrati
dalla Natura, promuovono dei fini buoni,
tuttavia poichè nessuno crede che noi perseguiremmo
dei fini buoni se seguissimo dei tali esempi,
il corso della Natura non può essere per
noi un buon esempio da imitare. O è giusto
dire che dovremmo uccidere perchè la Natura
uccide, torturare perchè la Natura tortura,
rovinare o devastare perchè la Natura fa
altrettanto; oppure non dovremmo considerare
per nulla ciò che la Natura fa, ma ciò che
è bene fare. Se esiste una reductio ad absurdum, questa è certamente una. »
La legge di natura per Mill è molto simile
alla celebre minaccia lanciata da Cristo:
" A chi ha sarà dato, a chi non ha,
sarà tolto anche quello che ha". Facendo
ruotare, tuttavia, l'interpretazione della
stessa in una chiave del tutto nuova, Mill
ne ricavò un significato del tutto diverso,
e davvero vicino alla corretta interpretazione
cristiana: "il bene produce il bene,
il male il male". Chi non comprende
il bene, chi non ha in sé la cultura ed i
mezzi per comprendere il bene, perderà anche
quel poco giudizio e valore che ha.
In tale linea di ragionamento è notevole
questo attacco ai difensori dei cosiddetti
mali necessari, oltre ai quali potremmo anche leggere i
nomi di Leibniz e di Kant.
« Questa categoria molto lodata di
autori, che è costituita dagli scrittori
di teologia naturale, ha smarrito, oserei
dire, completamente la strada, e non ha colto
l'unica linea di argomenti che avrebbe reso
accettabili le sue speculazioni e chiunque
sia in grado di accorgersi se due proposizioni
si contraddicano lun l'altra. Essi hanno
consumato le risorse della sofistica al fine
di provare che tutte le sofferenze esistono
nel mondo per impedirne di maggiori - esiste
per esempio la miseria per il timore che
debba esservi miseria -la quale tesi, se
mai fosse stata ben sostenuta, potrebbe soltanto
riuscire a spiegare e giustificare le opere
di esseri limitati, costretti a faticare
in condizioni indipendenti dalla propria
volontà; ma non può applicarsi ad un Creatore
presunto onnipotente, il quale se si sottomette
ad una supposta necessità, è però egli stesso
che crea la necessità cui si sottomette.
Se il costruttore del mondo può tutto ciò che vuole, egli vuole la miseria
e non c'è modo di sfuggire a questa conclusione.
I più coerenti tra coloro che si sono ritenuti
qualificati a "difendere i modi di agire
di Dio verso gli uomini" si sforzarono
di evitare l'alternativa anzidetta indurendo
i loro cuori, e negando che la miseria sia
un male. La bontà di Dio, essi dicono, non
consiste nel volere la felicità delle proprie
creature, bensì la loro virtù; e l'universo,
se non è felice, è però giusto.»
E ancora: « L'unica teoria moralmente
ammissibile della Creazione è quella per
cui il Principio del Bene non può sottomettere
d'un tratto ed in modo completo i poteri
del male, sia fisici che morali, non può
collocare gli uomini in un mondo esente dalla
necessità di una lotta incessante contro
le potenze malefiche, o renderli vittoriosi
in tale battaglia, ma può e lo fa in realtà,
renderli capaci di condurre la lotta con
vigore e con successo progressivamente crescente.
Di tutte le spiegazioni religiose dell'ordine
della Natura, questa sola non è contraddittoria
né con sè stessa, né con i fatti di cui essa
sente di render conto.»
Qui pare evidente che il positivista ha smarrito
a sua volta la strada in quanto non vide
che la miseria è una conseguenza dell'ingiustizia
sociale e non ha nulla a che fare, con la
carestia, che è una calamità naturale dovuta
a fattori che comunque l'uomo ha imparato
ad individuare ed a controllare nel tempo.
La solfa è sempre la stessa: perchè imputare
a Dio tutte le disgrazie del mondo quando
esse hanno sempre un'origine molto più precisa
ed immediata? Perchè si risente troppo, sempre
e comunque della nefasta dottrina che non
si muove foglia che Dio non voglia.
Esiste una Provvidenza divina? La teologia
migliore, quella dei ragionatori e non dei
fideisti, senza concedere granchè alla mitologia
ed alle fantasie, ha evidenziato che essa
si nutre di speranza, di preghiera e di comportamenti
onesti. Anche nelle situazioni peggiori l'individuo
potrebbe cavarsela grazie ad una linea di
eventi fortunati ed alla simpatia che riesce
ad istillare non perchè ipocrita ed affettato,
ma perchè schietto. La Provvidenza è la conseguenza
più diretta del nostro essere ed agire nella
selva delle relazioni umane. La passione
che riusciamo a suscitare per la nostra causa
è una diretta conseguenza di ciò abbiamo
seminato in precedenza.
Ma dopo i lager nazisti affermare che chiunque
invoca il nome di Dio sarà salvato è certamente
una bestemmia contro l'umanità, prima ancora
che contro Dio, e credo lo fosse anche prima.
E' impensabile che non vi sia stato un solo
ebreo che non abbia invocato il nome di Dio
prima di entrare nei forni. Eppure è morto
ugualmente tra le più atroci torture. E'
impensabile che un solo bambino afghano o
palestinese non invochi il nome di Dio sotto
un bombardamento, eppure muore ugualmente.
La prima salvezza che vogliamo è questa vita
qui. E se ci viene tolta questa vita qui
e noi non gridiamo la nostra disperazione
e la nostra rabbia, è evidente che siamo
rimbambiti.
Lo scopo della vita non è la morte, e nemmeno
la morte eroica. Si è martiri non per vocazione
o per imperscrutabile decreto di Dio, ma
perchè esistono dei torturatori, dei crudeli
che godono ad infliggere sofferenze, dei
persecutori convinti che noi siamo male in
quanto razza, in quanto portatori di idee,
di comportamenti saggi, in quanto ci rifiutiamo
di portare bandiere e pennacchi o di prostrarci
davanti alla maestà di qualsiasi idolo. Esistono
martiri in quanto esistono dei teologi convinti
che la ragione sia nemica di Dio e della
fede , e semini malvagità.
Credo ci sia una bella differenza tra uno
spettacolo di pugilato, che a me fa abbastanza
schifo, peraltro, e lo spettacolo di un uomo
legato al palo, trafitto da frecce o destinato
al pasto dei leoni. L'elemento della sportività
salva, per così dire il pugilato, e chi lo
contempla per gustare l'abilità e la forza.
Il martirio, come la tortura sono tutt'altro,
sono godere della morte altrui, che è l'esatto
contrario del godere del piacere fisico e
mentale altrui. In ciò starebbe forse il
segreto non solo dell'altruismo generico,
ma dello stesso altruismo sociale e politico.
Nella tortura e nello spettacolo violento
l'essere umano vittima è ridotto a mezzo,
cessa di essere un fine.
L'uomo morale non può avere alcuna complicità
con questo genere di individui che gode del
male , nel quale rientra per certi aspetti
il pedofilo, oppure il tifoso ultra che incita
al fallo che spacca le ginocchia. Ma anche
l'illuso che si avvale di prostitute o l'illusa
che si avvale di gigolò non può sottrarsi
a questo autogiudizio, sebbene cerchi pervicacemente
di trovare rapporti umani laddove è assai
difficile trovarli, anche se, come dimostra
Cristo, è proprio tra le anime perse ed i
peccatori, che i giusti trovano udienza più
calorosa ed entusiasta. Ma l'essere giusto
e l'andare a puttane pare essere proprio
una contraddizione di termini: chi considera
l'altro solo come un mezzo per il proprio
piacere, cade in una ignobile condizione.
Mill condusse un severo esame della Provvidenza.
Egli affermò innanzitutto come "vi sia
un'assurdità radicale in tutti i tentativi
di scoprire, nei dettagli, quali siano i
disegni della Provvidenza e realizzarli.
Coloro che sulla base di indicazioni particolari
argomentano che la Provvidenza intende questo
o quello, o credono che il Creatore possa
fare tutto ciò che vuole, oppure credono
che non lo possa. Se si accetta la prima
ipotesi - e cioè che la Provvidenza ha per
suo intendimento tutto ciò che accade, e
il fatto che una cosa accada dimostra che
la Provvidenza l'aveva già tra i suoi fini.
Se è così, tutto ciò che un essere umano
può fare, è predestinato dalla Provvidenza
e costituisce l'adempimento dei suoi disegni.
Se ammettiamo invece, secondo la teoria più
religiosa, che la provvidenza non abbia per
intendimento tutto ciò che accade, ma soltanto
ciò che è bene, allora l'uomo ha davvero
in suo potere potere di aiutare, con azioni
volontarie, gli intendimenti della Provvidenza;
in tal caso però egli può apprendere questi
intendimenti solo considerando ciò che mira
a promuovere il bene generale, e non ciò
per cui l'uomo sente un'inclinazione naturale.
Dovendo infatti il potere divino, in base
a quanto detto, risultare limitato da ostacoli
imperscrutabili ma insormontabili, chi ci
assicura che l'uomo potrebbe esser stato
creato senza desideri che non saranno mai
soddisfatti, nè mai potranno esserlo? Può
darsi che le inclinazioni di cui l'uomo è
stato dotato, come qualunque altra delle
disposizioni che osserviamo nella Natura,
siano l'espressione non già del potere divino,
ma solo delle pastoie che impediscono la
sua libera azione, e che il trarre suggerimenti
da queste inclinazioni per la guida della
nostra condotta significhi credere nella
trappola tesa dal nemico.»
Qui Mill fu molto abile nel suggerire che
la teologia più religiosa è, in fondo quella
più vicina, all'idea di Dio come Sommo Bene,
e questo per il suo intrinseco manicheismo;
ma è certamente vero il contrario, non perchè
sia sempre vero che la coscienza viene dall'esterno,
ma perchè, in fondo, è vero che storicamente
i contributi che aiutarono i religiosi ad
emanciparsi dalla pochezza delle loro idee
su Dio, vennero soprattutto da eminenti filosofi
laici, od ai limiti dell'eresia come Tommaso
d'Aquino, o persino da filosofi islamici
come Avicenna od Averroè.
Un punto rilevante del saggio è l'esame degli
istinti naturali dell'uomo, che Mill svolge con acribia scrivendo:«
Per quanto riguarda la particolare ipotesi,
che tutti gli impulsi naturali, tutte le
inclinazioni abbastanza universali e abbastanza
spontanee da poter essere ritenuti istinti,
debbono esistere per un fine buono, e debbono
soltanto venir regolate ma non represse,
essa è ovviamente un'ipotesi vera per la
maggioranza degli impulsi, giacchè la specie
umana non avrebbe potuto continuare ad esistere
se la maggior parte delle sue inclinazioni
non fosse stata diretta verso un oggetto
od utile per la sua conservazione. Tuttavia
a meno che gli istinti possano essere ridotti
ad un numero effettivamente piccolo, si deve
concedere che noi abbiamo anche degli istinti
cattivi, rispetto ai quali dovrebbe costituire
uno scopo dell'educazione non semplicemente
il regolarli, bensì di estirparli, o meglio
(il che può esser fatto anche per istinto)
di farli morire di inedia. Coloro che sono
inclini a moltiplicare il numero degli istinti,
includono di solito fra essi quello che chiamano
istinto della distruzione: un istinto che
fa distruggere per amore della distruzione.
Non riesco a concepire alcuna ragione valida
per conservare quell'istinto, come neppure
quell'altra inclinazione che, se non è proprio
un istinto, gli è però molto simile: quello
che viene l'istinto del dominio: il piacere
cioè di esercitare il dispotismo, di mantenere
altri esseri in stato di soggezione rispetto
alla nostra volontà. L'uomo che ricava piacere
dal mero esercizio dell'autorità, prescindendo
dallo scopo per il quale essa va impiegata,
è l'ultima persona al mondo nelle cui mani
si affiderebbe volentieri tale autorità.
E ancora, esistono persone crudeli di carattere,
o come si dice, naturalmente crudeli: esse
provano un reale piacere nell'infliggere
o nel vedere inflitto un dolore. Questo genere
di crudeltà non significa semplice mancanza
di cuore, mancanza di pietà o rimorsi; essa
è una cosa positiva, una specie particolare
di eccitamento della voluttà.»
Su queste premesse, Mill, ancora una volta
attaccò i difensori del naturam sequi. « Se si vogliono scorgere dei caratteri
di uno speciale disegno della creazione,
una delle cose che più balzano evidenti come
parti di siffatto disegno, è che una larga
percentuale di tutti gli animali dovrebbero
trascorrere la propria esistenza nel tormentare
e divorare gli altri animali. Essi infatti
sono stati generosamente equipaggiati di
strumenti adatti a tale scopo; i loro istinti
più forti ve li conducono, e molti di essi
sembrano costruiti in modo da non essere
in grado di di sostentarsi con alcun altro
cibo. Se la decima parte degli sforzi spesi
per trovare degli adattamenti benevoli in
tutta la natura, fossero stati impiegati
nel raccogliere le prove per diffamare il
carattere del Creatore, quale vasta messe
di argomentazioni si sarebbe trovata nell'esistenza
di animali inferiori, divisi, salvo rarissime
eccezioni, in divoratori e divorati, preda
di migliaia di mali di fronte a cui vennero
negate loro le facoltà per proteggersi! Se
non siamo obbligati a credere che la creazione
sia opera di un demonio, è perchè non dobbiamo
di necessità supporre che essa sia l'opera
di un Essere di potenza infinita. »
gm - novembre 2001