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John Stuart Mill

L'economia politica di Stuart Mill

La sociologia di Mill non poteva che sfociare in una riflessione sui fondamenti della società umana, ovvero il lavoro, la produzione, la distribuzione dei beni e lo scambio. Questa era, in fondo, la vera scienza della società nella tradizione filosofica inglese.
Per questo è bene iniziare dalla definizione che Stuart Mill diede dell'economia politica, nell'ultimo dei cinque saggi apparsi nel 1844 con il titolo Saggi su alcune incerte questioni di economia politica.
L'economia politica, come disciplina particolare, non si occupa del "comportamento generale dell'uomo nella società", ma considera l'uomo solo come individuo che aspira a possedere ricchezze e che ha la capacità di vagliare quali mezzi adottare per raggiungere i suoi fini.
L'economista compie dunque un'astrazione: considera l'uomo solo come impegnato al conseguimento della ricchezza ed accantona ogni altra passione o movente umani.
Questo non implica che vi siano esperti di economia che considerino gli uomini unicamente come produttori e mercanti. Il restringimento tematico serve ad evidenziare il procedimento con cui la scienza deve operare; e gli studi di economia politica devono essere indirizzati a indagare quali sarebbero le azioni umane prodotte dal desiderio di arricchimento, se non fossero ostacolate e deviate da altri desideri, da altri problemi, o da altre circostanze.
Lo stesso Mill, tuttavia, non si attenne del tutto a questi principi di purezza della scienza, anche se, a mio avviso, fu molto più corretto di altri, distinguendo sempre analisi economica e preferenze politico-sociali, e quindi non piegando l'analisi economica a semplici interessi di classe o di bottega.
Come economista fu anche stimato, al punto che i suoi scritti divennero una sorta di manuale. Ma il suo prestigio fu presto oscurato dalla rivoluzione della scuola marginalista da un lato, e dal successo incontrato dalla scuola marxista dall'altro, specie dopo il 1870.
Pur seguendo Comte, fino ad un certo punto, sul terreno della sociologia, non si può dire che vi sia un perfetto incastro delle tesi milliane in economia con la sociologia, e con quella comtiana in particolare. La tesi, piuttosto diffusa, che l'economia politica di Mill non sia stata nientaltro che un complemento od una diramazione della sociologia comtiana è dunque erronea.
Sotto questo profilo, anzi, possiamo dire che Mill, come poi Marx, vide con una certa chiarezza che l'ossatura stessa della società è l'attività produttiva e che la società è sia possibile che necessaria in quanto gli uomini producono e scambiano i loro prodotti, e di questo stesso lavoro hanno necessità per soddisfare i loro bisogni fondamentali.

I Saggi su alcune incerte questioni di economia politica, opera del 1844, e i Principi di economia politica del 1848, riassumono, rivedono e sviluppano i risultati raggiunti da Smith, Malthus e Ricardo, ed insieme aggiornano le idee di Bentham e del padre, James Mill.
Condivido l'idea di Eric Roll secondo la quale Mill inscrisse gran parte delle proprie riflessioni in una condivisione delle posizioni di Malthus circa la necessità di contenere lo sviluppo demografico. Su questa base possiamo dire, tuttavia, che Mill non fu mai così convinto, come lo fu Malthus, che esso sarebbe venuto attraverso un ritegno morale e quindi una maturazione degli individui.
Tuttavia, Mill comprese che la povertà non si sarebbe potuta vincere senza una limitazione delle nascite da parte delle classi più povere. Certo, non disse mai che bisognava imporre il controllo demografico. Nonostante il pessimismo, per Mill non c'erano soluzioni forti, ma solo soluzioni date dalla crescita culturale.

Anche per Stuart Mill è del tutto naturale che l'uomo lavori sulla base di una motivazione egoistica al guadagno. Il processo di produzione, anche quando viene ad organizzarsi nella forma della manifattura, risponde ad una naturale tendenza dell'uomo all'attività, che non si limita alla produzione necessaria ed indispensabile, alla soddisfazione di bisogni primari, ma tende a espandersi. E nella forma moderna del capitalismo industriale questa tendenza viene riorganizzata, ma non viene snaturata.
Sotto un profilo generale, i problemi dell'ingiustizia sociale possono, secondo Stuart Mill, essere affrontati intervenendo semplicemente nel campo della distribuzione dei profitti, ovvero aumentando i salari e riducendo il guadagno degli imprenditori.
Questo perchè, secondo Mill, la distribuzione non segue leggi naturali, ma istituzioni, ovvero consuetudini, leggi, regolamenti e rapporti di forza che in esse si esprimono.
L'idea di tale distinzione non fu di Mill; egli la trasse da Nassau Senior, un economista estremamente interessante, anche se collocabile su una posizione politica più conservatrice.
Questa posizione non ebbe propriamente un seguito immediato, sia perchè nelle file del movimento operaio prevalse la corrente marxista, che criticò la divisione tra produzione e distribuzione come ingenua ed ideologica, e sia perchè gli studiosi di economia non erano ovviamente interessati a fomentare movimenti di contestazione alla distribuzione capitalistica dei profitti.
Ma sul piano della definizione di profitto e salari, come vedremo, lo stesso Mill, fu tanto brillante per un lato, quanto vago per un altro, e poi ondivago. La sua teorizzazione del wage-fund, ovvero dell'esistenza di un fondo-salari come parte del capitale fisso iniziale che il capitalista anticipa (e quindi non ricava dai profitti derivanti dalla vendita), poteva e può essere usata in senso sia reazionario, sia progressivo, sia per giungere a compromessi e contratti più equi. Quando Mill si rese conto che l'utilizzo prevalente era di stampo reazionario, giunse e a ritrattarla e la sua autocritica destò sensazione. Ma, col senno di poi, sono personalmente convinto che sia come astrazione teorica, sia come considerazione pratica preventiva all'inizio di ogni impresa artigianale o industriale, il wage-fund sia una categoria metodologica utile. Persino nell'economia familiare non si fanno preventivi senza una previsione pessimistica di spesa. Non si capisce perchè, allora, questo stesso procedimento non debba essere adottato in scala più grande.

Per capire l'importanza del pensiero di Mill nello sviluppo del pensiero economico, oltre che filosofico, occorre partire da una querelle apparentemente piuttosto sterile, ovvero, se Mill sia definibile come l'ultimo dei classici, o già come una transizione ai moderni, e quindi come un precursore.
La questione verte in particolare sul problema del valore. Per i classici, e ancor più per Ricardo che per lo stesso Adam Smith, il valore di scambio di una merce è determinato dal lavoro umano incorporato in essa. Ovviamente si tratta di un lavoro misurato socialmente e non soggettivamente, come nell'irresitibile sketch comico interpretato da Ugo Tognazzi alle prese con un tronco d'albero dal quale ricavava un solo stuzzicadenti, ma tecnicamente perfetto, al termine di un tempo biblico di lavoro.
I moderni sposteranno la loro attenzione sulla merce in quanto valore d'uso e diranno, in sostanza, che il prezzo di una merce è determinato, non dal lavoro incorporato, ma dalla sua utilità, o dalla sua scarsità, quindi dalla domanda.
Per la verità, con questa distinzione tra classici e moderni, si dimentica che sia Say che Senior avevano già criticato la teoria del valore di Ricardo, ritenuta parziale ed insufficiente.
La posizione più giusta, ovviamente, è quella che tiene conto di entrambi i fattori, non perchè lo dico io, ma perchè la realtà è che il prezzo finale di una merce, che viaggia dal produttore e termina sullo scaffale del distributore, è il frutto di una decisione, e quel che conta sono i criteri sui quali si è presa la decisione. Inutile dire che il produttore che dimentica il valore del suo lavoro, o dei suoi dipendenti, rischierà perdite se, per diversi motivi, fosse costretto a vendere sotto il livello della spesa per il lavoro, le materie prime, l'usura dei macchinari e così via.
In questo quadro, Mill fu, forse molto meno importante come classico di quel che si è spesso pensato, e probabilmente più importante come innovatore. Smith, ad esempio, aveva commesso un grossolano errore nella valutazione del lavoro improduttivo, relegando tutti i servizi in questa categoria. Per Smith era produttiva solo la creazione di beni. Non erano produttivi i sovrani, i principi, i militari, i servitori domestici, gli spazzini, gli attori, i ballerini, e così via. Eppure, lo stesso Smith, aveva corretto i fisiocratici, per i quali l'unico lavoro produttivo era quello agricolo.
Mill ebbe buon gioco nel correggere Smith, e nel mostrare che la produzione di un servizio è comunque un lavoro produttivo, o necessario alla produzione. E che, anche quando non è necessario alla produzione, costituisce comunque un arricchimento della vita. La musica non è solo un lusso che ci si può permettere, ma un fattore di qualità della vita stessa, che contribuisce alla felicità del maggior numero.
Questo semplice esempio mostra che il contributo di Mill alla valutazione del lavoro di qualsiasi genere è già moderno perchè sfonda i parametri oltre i quali i classici, deviati dalla classificazione di Smith, non erano riusciti ad andare.
Ma anche sul piano dell'analisi delle crisi di sovrapproduzione, come vedremo tra breve, Mill, confutando la legge di Say, finì con l'anticipare largamente un pezzo importante della teoria generale keynesiana, secondo la quale l'aumento di reddito non produce un aumento dei consumi.

I Principi del '48 furono concepiti con l'ambizione di aggiornare e rivedere l'insieme delle impostazioni date da Adam Smith alla luce dei problemi che nel frattempo si erano presentati. Molti studiosi, per lo più economisti, vedono tra gli Essays e i Principles una sorta di contraddizione nel pensiero di Mill, in quanto, mentre i primi sono scienza economica pura e semplice, i secondi contengono importanti considerazioni di filosofia sociale giudicati incompatibili con la scienza economica. Probabilmente qualche problema esiste, ed è dovuto al fatto che Mill variò, non tanto il contenuto dei suoi pensieri, sempre linearmente rigoroso, quanto quello del punto di vista. Un conto è trattare la questione sotto un profilo strettamente economico, di convenienza, di profitto, di legislazione sul commercio e così via; un conto è aprire la mente a considerazioni sulla giustizia del sistema, su ciò che significa il lavoro, su come una società può organizzarsi per tutelarsi dai rischi insiti nel liberismo selvaggio, oppure nel collettivismo forzato.

Saggi su alcune incerte questioni di economia politica
Negli Essays on Some Unsettled Questions Of Political Economy, diviso in cinque saggi, Mill analizzò una serie di questioni, tra le quali, una, posta da un economista, il colonnello Robert Torrens (The Budget: On Commercial and Colonial Policy, London 1844) assai attivo sul fronte dell'analisi dei più urgenti problemi della crescita industriale e del commercio.
A giudizio di Lionel Robbins ( Breve storia dell'economia - Ponte alle grazie - Milano, 2001) "Vale assolutamente la pena di leggerlo [Mill] ..."
Il testo completo, potenza di internet, è consultabile in formato pdf all'indirizzo: http://www.ecn.bris.ac.uk/het/index.htm

Il primo saggio, intitolato Sulle leggi di scambio tra le nazioni, analizzò il commercio internazionale sotto l'aspetto della convenienza di un sistema, anche unilaterale, di libero commercio.
Pur dichiarandosi contrario, in linea di principio, al protezionismo, e quindi ad un sistema di dazi e gabelle sull'importazione delle merci dall'estero, dovendo misurarsi con i problemi sollevati da Torrens circa i rischi, per l'Inghilterra, derivanti da una unilaterale apertura alle importazioni, Mill asserì che in determinate circostanze, era possibile applicare imposte sulle importazioni al fine di aumentare le entrate dello stato.
Rispetto alle impostazioni di Smith, del tutto contrario a qualsiasi limitazione delle importazioni, ci fu in Stuart Mill un cedimento di tipo pragmatico. Adam Smith aveva ritenuto assurdo incoraggiare una produzione interna di fronte alla possibilità di comprare la stessa merce, a minor prezzo, all'estero.

Il secondo saggio, Sull'influenza dei consumi sulla produzione, conteneva considerazioni ed approfondimenti molto importanti sul problema dell'equilibrio economico generale e sulle crisi di sovrabbondanza della produzione. Tra l'altro era stato scritto, o quanto meno abbozzato, già negli anni trenta, quindi con molto anticipo sulla data di pubblicazione.
Robbins commenta:« Qui egli supera la logica sterile della legge di Say e dimostra come un arresto della spesa possa produrre un'apparenza di sovrabbondanza generale. Riconosce che l'andamento dell'economia è esposto alle variazioni di prosperità e depressione, così che la questione generale ad acquistare e la generale riluttanza a comperare si succedono a brevi intervalli.» (Robbins - idem)
Per capire questo punto occorre sapere che dice la legge di Say: essa affermava che lo scambio era scambio di prodotti contro prodotti e che la produzione e l'offerta di più di una merce creava automaticamente una domanda addizionale delle altre merci con cui essa avrebbe dovuto scambiarsi. Di conseguenza, potevano darsi casi particolari di sovrapproduzione, temporaneamente in eccesso, ma non poteva esserci sovrapproduzione generale.
L'idea di Stuart Mill è che l'offerta è allo stesso tempo domanda e la domanda è paritempo un'offerta. Ciò ha che fare con il baratto primordiale, ma il commercio moderno non è altro che un modo più pratico di risolvere il baratto. Grazie al denaro, infatti, non c'è alcun bisogno di trovare chi, avendo quello che ci interessa, è parimenti interessato alla nostra merce. "Ora, dice Mill, quando due persone barattano, ognuna di esse è al tempo stesso venditore e compratore. Non si può vendere senza comprare." (Essays - p.69)

Ma con la mediazione monetaria le cose sono più complesse: «Se tuttavia, prendiamo in considerazione l'utilizzo di moneta, queste affermazioni cessano di essere totalmente vere [...] L'effetto dell'impiego della moneta [...] è che questa rende possibile dividere quest'unico atto di interscambio in due atti o operazioni separate [...] Sebbene colui che vende, realmente vende solo per acquistare, tuttavia non necessita di acquistare nello stesso momento in cui vende, e quindi non necessariamente si aggiunge all'immediata domanda di un bene quando si aggiunge all'offerta di un altro.[...] Ci potrebbe quindi essere [...] una generale inclinazione a vendere con il minor ritardo possibile, accompagnata da una altrettanto generale inclinazione a ritardare il più possibile tutti gli acquisti. » ( idem - p.69-70)
Nella spiegazione degli squilibri, per Mill si davano sempre due fasi: nella prima la gente preferisce le cose al denaro. Questo porta ad un incremento degli acquisti che, in sistema di convertibilità della moneta, determina una crisi finanziaria, la quale provoca l'imposizione di limitazioni sui tassi bancari. La seconda fase si esprime quindi come una domanda di denaro e non di cose, la quale si sviluppa come un sistema di risparmio forzato, e porta alla sovrabbondanza di cose, e non di denaro circolante.
Questa teoria della crisi ricorrente, od anche, se vogliamo, permanente, del modo di produzione capitalistico e della sua anarchia di fondo, muove, com'è logico, dalla considerazione che c'è una razionalità del consumatore. Questi preferisce non comprare quando manca di denaro, onde evitare di indebitarsi e pagare alti tassi di interesse. Tutte le considerazioni contrarie a questa spiegazione devono per forza di cose fare appello a fattori altrettanto reali quali l'irrazionalità del consumatore, oppure il suo reale bisogno.
Questo, in effetti, pare il punto debole della spiegazione che Mill diede dell'alternanza di crisi e sviluppo in regime di costante squilibrio. In Italia tale spiegazione si scontrerebbe con una realtà nella quale il boom economico negli anni '60 fu possibile solo grazie all'indebitamento ed agli acquisti " a rate", seguito da un periodo di inflazione galoppante e di voragini nella spesa pubblica.
Lo stato regalava assistenza, diseducando le masse a dare il giusto valore ai servizi sociali, ma i signori economisti dimenticano spesso e volentieri che senza questa distorsione non si sarebbero comprate le seicento e le televisioni a rate, e quindi non ci sarebbe stato boom.
Il punto forte di quella politica sostenuta e finanziata dai governi ( con soldi che non c'erano, quindi rubando al futuro) era la stabilità dei posti di lavoro (è molto difficile che si ricorra a prestiti e che questi vengano erogati se manca la garanzia di un posto di lavoro fisso), condizione che oggi sembra mancare e che viene a ridimensionare tutte le analisi dei profeti del nuovo boom, a meno di un troinfo dell'irrazionalità del consumatore.

Il terzo saggio è una speculazione Sulle parole produttivo ed improduttivo che generalmente viene snobbato, ma che in realtà assume una certa importanza nel quadro di una teoria politica dello stato moderno. Com'è noto, Adam Smith aveva classificato come improduttivi l'esercito, l'amministrazione dello stato, gli uffici pubblici, i lavori domestici ecc...ovvero una serie di servizi ritenuti essenziali ed indispensabili che non producevano ricchezza, ma la assorbivano.
Per capire di che si tratta occorre considerare che, durante il XVIII secolo lo sviluppo degli stati unitari non aveva seguito la medesima strada. Mentre nell'Europa continentale si era via via venuto affermando un modello burocratico centralizzato sempre più complesso, in Inghilterra era prevalso un modello statale più leggero e dunque più sopportabile dai contribuenti.
In esso il principio dell'autogoverno delle comunità, fondamentalmente integrato dalla figura istituzionale del giudice di pace, giocava un ruolo fondamentale. Pertanto il peso del lavoro cosiddetto improduttivo era minore in Inghilterra che altrove. Ma ciò non aveva garantito, di per sè, il formarsi di una coscienza sociale e politica della necessità dello stato, sia pure minimo. C'era ancora chi si lamentava delle tasse e dell'improduttività della loro spesa in generale, e non riguardo a particolari situazioni di spreco come oggi in Italia, dove manteniamo una classe di burocrati pubblici e manager privati di voracità senza pari.
Mill svolse un'acuta dissertazione sull'impiego dei termini, presentando ragionevoli considerazioni su lavori come quello del poliziotto o del magistrato, che non solo proteggono dalla distruzione la produzione e la proprietà ma, garantendo la sicurezza, concorrono indirettamente ad incentivare la stessa produzione.
Alla fine, Mill esemplifica un caso persino banale, quello del musicista. Il lavoro del musicista è di per sè improduttivo, ma non lo è certo quello del fabbricatore di strumenti musicali. Tuttavia il lavoro del musicista è parte integrante della ricchezza e del benessere di una nazione, come del resto, nelle famiglie benestanti, il possesso di un pianoforte, è segno del benessere di quella particolare famiglia. Che si lavori anche per comprare un pianoforte non pare discutibile.
« I seguenti - scrisse Stuart Mill - sono da considerare sempre produttivi: lavoro o spesa, il cui obiettivo diretto o fondato (erect) sia la creazione di materiali prodotti utili o piacevoli all'umanità.
Lavoro o spesa il cui obiettivo fondato sia sostenere l'uomo o altri esseri animati con facoltà e qualità utili o piacevoli all'umanità.
Lavoro o spesa, che non avendo per proprio oggetto diretto la creazione di materiali fisicamente o mentalmente, tuttavia tendono indirettamente a promuovere l'uno o l'altro di questi fini e sono impiegati o investiti solamente per quel proposito.» (Sulle parole produttivo ed improduttivo - da i : Saggi su alcune incerte questioni di economia politica)
Questo saggio di Mill mi pare importante perchè evidenzia quanto sia sbagliato considerare i lavori produttivi e quelli improduttivi alla luce di categorie rigide e poco lungimiranti. Sia i servizi essenziali (sicurezza e magistratura, salute, scuola e formazione) che i servizi culturali (biblioteche, teatri, cinema, editoria libraria e musicale ecc...), sia la ricerca scientifica, di per sè non sono denaro gettato al vento, anche se poi, ovviamente si tratta di distinguere tra ciò che concorre indirettamente allo sviluppo sociale e civile e ciò che soddisfa solo la libidine di qualche intellettuale. Ma si tratta di un tema talmente delicato, che pare assurdo cercare di fissare dei criteri. Personalmente sono dell'idea che i soldi pubblici non dovrebbero essere gettati in imprese che soddisfano il gusto della maggioranza e della mediocrità. Questo lo fanno già i privati. Il discorso sulla ricerca scientifica ci porterebbe troppo lontano, ma è evidente che il privato è interessato ad una ricerca immediatamente risolvibile in business, e quindi l'intervento pubblico è determinante per una ricerca disinteressata, a condizione che il pubblico sia autonomo e non "oliato" dal privato, come spesso accade.

Il quarto scritto è intitolato Sui profitti e sull'interesse. E' particolarmente importante anche perchè sugli stessi punti Mill tornò molti anni dopo, autocriticandosi ed autocorreggendosi. E secondo molti, non fece bene a correggersi.
Scrive Lionel Robbins: «Smith pensava che i profitti fossero determinati dalla domanda e dall'offerta e che, nel lungo periodo, per via di questo processo competitivo l'accumulazione di capitale portasse ad una caduta dei profitti. Ricardo lo mise in discussione. In definitiva la sua obiezione era: se c'è una espansione proporzionale di capitale e lavoro, perchè mai dovrebbe esserci una caduta del saggio di profitto, tenuto conto del fatto che la domanda per beni scarsi è pressochè insaziabile? Dev'essere qualcosa che ha a che fare con i rendimenti decrescenti, pensò Ricardo.» (Robbins - idem)
Ricardo affermò che i profitti erano un resto, ovvero quanto rimaneva dopo il pagamento dei salari sul guadagno realizzato dalla vendita. Questo però implicava che il profitto non veniva solo a dipendere dal salario, ma anche dal guadagno, perchè in una semplice operazione aritmetica di sottrazione il risultato varia non solo se cambia il sottraendo, ma anche se si cambia il minuendo.
E allora, anche il salario sarebbe dovuto dipendere da questa dinamica reale, mentre nella realtà esso si presentava quasi sempre come quota fissa.
Tutto ciò portò Mill a pensare come reale, quantomeno sul piano contabile, l'esistenza di un wage-fund, fondo-salari, da considerare come preventivo di spesa, ed anche uno dei pochi punti teoricamente fermi in una realtà molto dinamica ed incerta.
In breve: Mill estese a tutta la società il concetto che i salari complessivi vengono dal fondo di capitale esistente come somma di tutti i capitali particolari impiegati in imprese. Il salario individuale è il prodotto di una divisione tra il totale sociale del fondo salari e il totale della popolazione che aspira ad un'occupazione, o che è già occupata. Di qui l'asserzione che i salari sono pagati dal capitale (considerato come anticipatore di salari). Il capitale è rispetto ai salari, la loro limitazione, da un lato, la loro garanzia di esistenza dall'altro.
Maurice Dobb osserva in proposito che questa teoria: «...è assai vicina alla concezione, per molti implicita nell'economia classica, secondo cui l'industria (e quindi anche la popolazione) è limitata dal capitale; dall'altro lato, essa si riallaccia alla controversa tesi milliana secondo cui "la domanda di merci non è domanda di lavoro" (ossia: non è il reddito speso per il consumo, ma solo il reddito investito, come anticipo di salari al lavoro a creare occupazione).» (Storia del pensiero economico - Maurice Dobb - Editori Riuniti - Roma, 1973, pag 126)
Molti anni più tardi, anche dopo la reiterazione della teoria del fondo-salari nei Principi, Mill si renderà protagonista di una clamorosa e pubblica autocritica a seguito della pubblicazione del libro di W.T. Thornton Sul lavoro. Nella recensione al libro di Thornton del maggio 1869, pubblicata nella Fortnightly Review Mill scrisse: « Non esiste una legge di natura che impedisca ai salari di crescere fino al punto di assorbire non solo i fondi che egli [l'imprenditore] ha inteso destinare alla prosecuzione della sua attività, ma anche tutto ciò che egli riserva per le sue spese private al di là della semplice sussistenza. Il limite reale all'aumento dei salari è la considerazione pratica del fatto che quest'aumento può condurlo alla rovina; o costringerlo ad abbandonare la sua attività, non già il limite del fondo-salari.» Anche il testo di questo articolo è disponibile all'indirizzo: http://www.ecn.bris.ac.uk/het/index.htm

Vi sono due punti della teoria del wage-fund che meritano attenzione, non tanto per quello che egli scrisse nei lavori che abbiamo considerato, quanto per quello che Mill teorizzò in merito ad un possibile socialismo economico, dopo il 1869:
a) Mill non accettò che la quota salari fosse recintata da catene naturali e barriere impenetrabili. Vi era un margine per l'aumento dei salari senza che, si badi, il rapporto capitalistico di produzione risultasse alterato. Si potevano dare, semplicemente, salari più alti e profitti più bassi.
b) Il processo di formazione e sviluppo delle abilità lavorative, cioè l'istruzione dell'operaio, era a tutti gli effetti un lavoro produttivo e poteva quindi essere considerato un valore da incorporare nel salario, od anche una forma sociale di salario, da elargire con la gratuità del sistema scolastico.
E' da notare che lo stesso Marx, nel Capitale, riconobbe a Mill il merito di queste annotazioni. Lo criticò invece aspramente per l'adesione alle posizioni di Nassau. W. Senior, un economista che aveva affermato "solennemente" che la distinzione tra lavoro e capitale andava superata con quella tra lavoro ed astinenza!!! In verità l'adesione di Mill alle posizioni di Senior, erano molto meno entusiastiche di quanto suppose Marx. Mill si era infatti limitato a considerare che parte del capitale ha origine dal risparmio. I moderni hanno preferito sostituire il termine astinenza con quello di differimento (del piacere). Certo è che se si pretendesse di spiegare l'origine del capitale solo e soprattutto con il risparmio e il differimento, si cadrebbe nel ridicolo.
C'è però da considerare che il termine astinenza non era stato usato da Senior solo nel senso di risparmio. Per Senior l'astinenza era sinonimo di lavoro del capitalista, ovvero tempo dedicato all'impegno e non al divertimento.
Nei Principi Mill adotterà, senza innovazioni sostanziali, il punto di vista di Senior soprattutto in ordine al problema dei costi.
Secondo Eric Roll, tuttavia, l'analisi di Mill sui costi risultò incoerente: « A volte egli parla di lavoro e astinenza nei termini di una teoria soggettiva del costo reale; cioè li impiega per indicare l'effettiva quantità di sforzi e di astinenza materializzati nel prodotto. Ma più spesso egli definisce il costo in termini di remunerazione corrisposta ai lavoratori e a coloro che forniscono il capitale. Naturalmente ciò significa affrontare il problema dall'angolo visuale dell'imprenditore e Mill, nonostante tutte le sue esitazioni, sembra aver dato un grande impulso a questo metodo di analisi del costo. La sua confusione diviene particolarmente evidente allorchè include le differenze permanenti nei livelli dei salari e nei profitti come fattori che coincindono sul valore. Egli vide che questi si verificano realmente e che essi hanno qualche influenza sul prezzo di mercato. Ma non comprese che ciò contrastava con il concetto soggettivo di costo reale, poichè evidentemente queste differenze nella remunerazione non potevano avere alcuna connessione con la quantità relativa di sforzi e di astinenze che esse provocavano. » (da Eric Roll - Storia del pensiero economico - Boringhieri - Torino -1966)

Alla luce di quanto sappiamo oggi sul reale andamento delle faccende economiche, rimane un piccolo mistero da chiarire: perchè, quando i profitti vengono divisi in modo più equo, ed i salari si alzano, viene a generarsi inflazione, e quindi tendenza alla svalutazione della moneta, e quando i profitti rimangono in poche mani, si ha invece stabilità monetaria?
Ovviamente ci sono più risposte, e non è detto che ve ne sia una adatta a tutte le situazioni; attualmente una semplice variazione del costo del petrolio ha effetti drammatici sul costo dei trasporti e dell'energia in generale; tuttavia, come non possiamo escludere che dietro alla spinta inflazionistica vi sia un aumento dei prezzi determinato dal tentativo di una rivalsa e di un recupero delle somme perdute dai capitalisti, non possiamo nemmeno escludere il fatto che i lavoratori in possesso di più denaro, si gettino irrazionalmente sul mercato per acquistare qualunque cosa. Ciò dovrebbe generare benessere, ed invece genera inflazione.
Una cosa è certa: il peggior nemico dei poveri e dei salariati in generale è comunque l'inflazione stessa, cioà una situazione nella quale il valore dei soldi è sempre minore, giorno dopo giorno. Il vero interesse dei lavoratori coincide quindi con politiche economiche che tengano sempre sotto controllo la febbre inflazionistica. In pratica: le politiche keynesiane non tornano realmente a vantaggio dei lavoratori, perchè mirano a svalutare i salari reali, fermo restando che i lavoratori sono per principio fermamente contrari ad una riduzione del salario monetario (nominale), non considerando mai a sufficienza che la moneta come unità di misura non è ferma come il metro, o la bottiglia da un litro, ma fluttua, ed oggi vale più e domani può valere meno.

Per non lasciare il discorso incompleto, credo sia utile esaminare anche il percorso analitico che condusse Mill alla primitiva formulazione del wage-fund. Come già evidenziato, Ricardo sostenne che il profitto dipendeva dal salario, anzi, era il resto rimasto dopo il pagamento degli stessi. Secondo Mill "questa era la forma più perfetta in cui la legge dei profitti sia mai stata formulata" e la "base della vera teoria dei profitti."
Mill riconobbe che il principio enunciato da Ricardo (i profitti non possono aumentare, a meno che i salari non scendano), era corretto. Ma a condizione che per basso salario si intendesse non solo il salario prodotto con minore quantità di lavoro, ma anche il salario prodotto a minor costo, calcolato unitariamente con il lavoro ed il profitto passati.
In pratica Mill parlò del saggio del profitto, anzichè del profitto, introdusse cioè una variante temporale rispetto alla quale misurare il profitto stesso: non più un ciclo produttivo semplice basato su capitale fisso anticipato per materia prima e salari - produzione - vendita - profitto, ma una media del profitto calcolato su più periodi semplici, senza soluzione di continuità.
Scrive Maurice Dobb: «L'emendamento di Mill sottolinea, in modo sostanzialmente corretto, che, ove si introduca il capitale fisso, tale rapporto risulta inferiore, ceteribus paribus, quanto maggiore è la proporzione del capitale fisso rispetto al capitale circolante, e quanto e più lungo è il periodo di tempo in cui le spese di produzione, o il lavoro, devono essere anticipate: un punto questo, che Ricardo non menziona mai esplicitamente (anzi, sembra addirittura ignorarlo), probabilmente perchè non gli interessa troppo esaminare il profitto in relazione al capitale complessivo. Formalmente la correzione milliana può essere considerata analoga alla critica che Marx muove a Ricardo di aver ignorato il cosidetto "capitale costante", come fattore per la determinazione del saggio di profitto, e di avere identificato il profitto con il plusvalore. » (Storia del pensiero economico - Maurice Dobb - Editori Riuniti - Roma, 1973, pag 122)
In quest'ottica appare evidente che, per Mill, rimane determinante che nel ciclo economico capitalistico vi sia un capitale fisso iniziale includente il wage-fund. Il fondamento dell'impresa è il capitale fisso iniziale.

Del quinto saggio, intitolato Sulla definizione di economia politica; e sul metodo di investigazione suo proprio, abbiamo già parlato in apertura. Giulia Bruzzone ne ha recentemente prodotto una traduzione che è disponibile cliccando qui.
Del resto, a chi volesse approfondire, sarebbe utile dare un'occhiata anche a Say, il quale fu molto attento al problema metodologico e quindi fare un confronto tra il metodo di Mill e quello di Say.

I Principi di economia politica
I Principi di economia politica di Mill sono scaricabili in inglese al sito http://www.ecn.bris.ac.uk/het/index.htm .
Partiamo dal titolo completo: The Principles of Political Economy with some of their applications to social philosophy. E' evidente fin dall'inizio che l'intento dell'autore è di pervenire, infine, sulla base stessa dei principi di economia, ad alcune applicazioni non artificiose, in grado di migliorare le condizioni sociali. Ma visto che l'analisi dei principi è condotta seconda categorie economiche e non secondo utopie politiche, il ragionamento sulle applicazioni sociali non altera il momento dell'analisi. Non fu un caso, dunque che i Principi di Stuart Mill divennero per lungo tempo, in Inghilterra, una sorta di vangelo sia per i liberali radicali che per gli economisti puri. La sua validità fu contestata da Jevons, che si oppose a Mill anche sui problemi di logica e di filosofia della scienza, e nell'ultimo quarto di secolo i Principi di Mill furono oscurati dalle nuove teorie economiche.
Per un certo periodo fu poi rivolta a Mill la critica di una scarsa originalità. Ma se si pensa al solo fatto che seppe cogliere un grave errore nella teoria ricardiana della rendita, nella quale si sosteneva che essa non fa parte dei costi di produzione, si ricava un'idea del tutto diversa. In effetti ci si dovrebbe sempre chiedere da dove vengono i soldi quando c'è un profitto di qualsiasi tipo, ed è evidente che la rendita è sostenuta dalla produzione, e quindi è un costo di produzione, tanto quanto lo è oggi il costo della pubblicità, la quale vive di rendita...di posizione, anche se poi impiega il lavoro "creativo" di decine di fabbricatori di spot, designers e così via.

Il primo saggio si intitola Preliminary Remarks e non consiste di una prefazione, ma di un vero e proprio ragionamento storico sul senso e sul significato di ricchezza.
Mill comincia con una critica della teoria mercantilistica, la quale non fu solo un fatto storico, superata poi da teorie più moderne, ma era ai tempi di Mill, e forse lo è tuttora, il senso comune dell'economia politica, cioè la convinzione assoluta che la ricchezza sia costituita dall'oro, dall'argento e dal denaro. Scriveva infatti Stuart Mill: «It has so happened with doctrine that money is synonymous with wealth.»
Già Aristotele aveva provato a criticare il mercantilismo del suo tempo, da lui definito crematistica, riportando come esempio la leggenda di re Mida: avendo questi ottenuto il potere di trasformare tutto quello che toccava con le mani in oro, finì col morire di fame. Ma nonostante questo illustre precedente il mercantilismo prima ancora che una teoria economica fu sempre un credo diffuso al punto da sembrare naturale in qualsiasi società.
Cominciò ad affermarsi come teoria vera e propria agli inizi stessi del capitalismo mercantile, e uno dei suoi massimi teorici era stato Thomas Mun (1571-1641), personalità peraltro lucida ed aperta, perfettamente allineata alla logica dell'espansione commerciale.
Mill, pur conducendo un'analisi storica, non fece una vera e propria storia del mercantilismo, non citò nemmeno Mun o Aristotele; si limitò a criticarne l'idea ispiratrice, evidenziando cosa veniva postulato: il possesso di un bene particolare è un possesso limitato; il possesso del denaro, o dell'oro, è potere d'acquisto tendenzialmente illimitato.
Scriveva Mill: « The greatest part of the utility of wealth, beyond a very moderate quantity, is not the indulgences it procures, but the reserved power which its possessors holds in his hands of attaining purposes generally; and this power no other kind of wealth confers so immediately or so certainly as money.»
Nell'analisi di Mill, ciò non riguarda solo gli individui , ma anche i governi e le amministrazioni. Anche i governi vedono la ricchezza come denaro e guardano con favore alle esportazioni perchè esse riportano in patria oro e denaro. Lo sfavore con cui si guarda alle importazioni è dovuto al fatto che esse riducono le riserve di danaro e di oro depositato o circolante in patria.

Lungi dal prendere queste considerazioni come una critica di costume, dovremmo piuttosto prenderle come uno dei tanti fondamenti esplicativi, una vera e propria legge della fisiologia sociale, la quale sarà valida fin tanto che il senso comune della gente condividerà, spesso inconsapevolmente, i principi di fondo della teoria mercantilistica.
Su questo piano Mill non si cura tanto di scoprire il perchè la gente comune desidera avere oro o denaro, quanto di mostrare come accade. L'analisi di Mill è particolarmente penetrante rispetto al passaggio da un regime di vita pastorizio e nomade a forme stabili di agricoltura e di proprietà della terra. L'esame di questa fase procede dal cosiddetto modo asiatico, culminante con la creazione di monarchie ed eserciti, fino alla constatazione di un diverso sviluppo nel nord Europa prima della conquista romana.
Egli assegna importanza al fatto che in un primo tempo la terra sfruttata da colture agricole non offriva altro che prodotti sufficienti ai soli coltivatori, e che l'agricoltura richiedeva una percentuale di lavoro molto più alta di quella richiesta dalla pastorizia.
Tuttavia, col tempo, l'agricoltura venne ad offrire un'eccedenza di prodotto. Mill descrive come questo prodotto venisse immediatamente sequestrato dal sistema monarchico, o attraverso tasse imposte con la forza e miranti a mantenere una casta di guerrieri e burocrati, o attraverso la persuasione attuata dalle credenze religiose. In realtà tra agricoltori e guerrieri dominanti si era instaurato una sorta di baratto. La casta miltare difendeva i contadini dalla rapina dei briganti e soprattutto dalle invasioni dei popoli vicini. Potremmo arguire che anche tra agricoltori e sacerdoti ( e maghi) era stata stabilita una sorta di alleanza: grazie alla loro mediazione, le divinità concedevano protezione in cambio di piccoli sacrifici, che diventavano sempre più grandi non perchè gli dei si facessero più esosi, ma perchè aumentava l'avidità dei sacerdoti.
Nell'insieme il testo è stimolante perchè smaschera le vere ragioni della costituzione degli stati, dei sistemi militaristici e delle istituzioni religiose nell'antichità.

I Principi si compongono di cinque libri: Produzione, Distribuzione, Scambi (moneta), Influenza del progresso della società sulla produzione e distribuzione, Influenza del governo.
Nell'insieme risulta chiaro che l'opera fu organizzata sulla base di due principi comtiani, statica e dinamica, ovvero anatomia e fisiologia della produzione e del mercato, con la produzione in funzione del mercato.
Gli economisti puri, ed in genere, quelli di destra insieme ai marxisti, furono sempre molto critici nei confronti della distinzione milliana tra produzione e distribuzione, ma essa appare quantomeno plausibile. Se infatti la produzione, basata sulla divisione del lavoro, ha un che di oggettivo, nel senso che non si possono produrre cose in modo sostanzialmente diverso da come vengono prodotte, cioè o nei campi o in fabbrica, lavorando con macchine, e mirando a realizzare qualcosa di durevole, di utile e di vendibile, la distribuzione, come riconosce anche Lionel Robbins, potrebbe seguire diverse linee istituzionali.
Scrive Mill:« The laws and conditions of the production of wealth partake of the character of physical truths. There is nothing optional or arbitrary in them.» (Principles -Distribution - Chapter one)

« Persino quello che una persona ha prodotto con la sua fatica individuale - prosegue Mill - senza l'assistenza di alcuno, non può essere considerato suo senza il permesso della società.
Non solo la società glie lo potrebbe togliere, ma altri individui potrebbero e vorrebbero sottrarglielo, se solo la società rimanesse passiva; e se non ci fossero ulteriori interferenze, o non fossero impiegate e pagate persone con il proposito di impedire che egli venga disturbato nei suoi possedimenti, questo potrebbe succedere.
La distribuzione della ricchezza dipende quindi dalle leggi e dai costumi della società. Le cui regole sono determinate dalle opinioni e dai sentimenti della parte dominante , e sono molto diverse in molte epoche e paesi differenti; e potrebbero essere ancora più diverse se l'umanità lo volesse.
Le opinioni e i sentimenti dell'umanità, senza dubbio, non sono oggetto di scelta.
Essi sono la conseguenza delle leggi fondamentali della natura, combinate con lo stato della conoscenza esistente e dell'esperienza, e con le reali condizioni delle istituzioni sociali, la cultura e la morale.» (idem - chapter one)

«L'umanità è capace di una lontana coscienza collettiva (public spirit) - prosegue Mill - maggiore di quanto il tempo presente sia abituato a supporre possibile.
La storia testimonia con successo di come gli esseri umani possono essere trainati a sentire il pubblico interesse come il proprio.
E nessun terreno potrebbe essere più favorevole alla crescita di un simile sentimento che un'associazione comunista, di modo che tutta l'ambizione, le attività fisiche e e mentali, che sono ora esercitate nella ricerca di separati interessi egoistici, potrebbero richiedere un'altra sfera di sviluppo, e potrebbero naturalmente trovarlo nella ricerca di generali benefici per la comunità.
La stessa causa, così spesso attribuita alla spiegazione della devozione dei preti o dei monaci cattolici agli interessi del loro ordine religioso - che non ha altro interesse - vorrebbe, sotto il comunismo, incollare i cittadini alla comunità.» (idem - chapter one)

Mill prosegue, affermando che il comunismo non era realmente attuale nella coscienza della gente, ma ciò non escludeva che avrebbe potuto esserlo in futuro. In generale egli si dichiarò sempre contrario a soluzioni imposte con la forza e mise comunque il problema della libertà individuale al di sopra di ogni altro valore.
Mill era favorevole alla proprietà contadina e credeva che questa avesse in sè una sorta di magia in grado di trasformare la sabbia in terreno fertile. Ma questa visione era probabilmente più dettata da motivi romantici che da reali considerazioni sulla sostenibilità economica della piccola proprietà.
Per quanto riguarda l'organizzazione industriale, Mill nutrì una visione del futuro nella quale, gradualmente, l'impresa capitalistica si sarebbe trasformata in impresa cooperativa. Tutto il suo socialismo stava nella preferenza per un sistema di produzione fondato sulla collaborazione anzichè sulla costrizione e la gerarchia.

Lo stato stazionario dell'economia
Mill immaginò che presto o tardi l'incremento della ricchezza sarebbe cessato e che l'economia sarebbe entrata in una fase stazionaria, da non intendersi come ristagno, ma come equilibrio. Questo perchè i miglioramenti tecnici e scientifici, la legge dei compensi decrescenti, l'accumulazione del capitale e la concorrenza avrebbero determinato una compressione dei profitti. Una volta impedito uno sviluppo eccessivo della popolazione, si sarebbero anche determinate condizioni favorevoli al miglioramento delle condizioni dei lavoratori.
Mill guardò con un certo freddo compiacimento a tale condizione di felice equilibrio, senza considerare che lo sviluppo avrebbe presto posto nuovi ed ancora più grandi problemi. (Principles - pag. 746-751)

Ci furono dispute per le spoglie del pensiero economico-politico di Stuart Mill. I socialisti fabiani lo volevano socialista e i liberali individualisti lo volevano liberale. In realtà, se mi è consentito un giudizio personale, Mill non fu nè l'uno nè l'altro, o fu, anche, tutt'e due.
Il problema della libertà individuale rimase sempre prioritario, non svendibile in nessun caso per qualcosaltro. Fu contro il collettivismo massificato ed imposto, propugnato dai socialisti e dai comunisti utopistici del continente, ma confessò più volte di essere disgustato dall'individualismo esasperato. Conservò sempre una certa stima delle idee di Robert Owen, ma non ne fu mai veramente convinto, e presumo che fu molto meno attratto da quelle di Fourier. Non conobbe direttamente le teorie di Marx, o comunque le ignorò pubblicamente.
Fu cautamente favorevole alla proprietà statale di alcuni servizi pubblici, e discusse i termini giuridici della nazionalizzazione delle ferrovie, simpatizzando per questo provvedimento.
« In fatto di tassazione - scrive Lionel Robbins - lo si potrebbe considerare al tempo stesso un reazionario e per altri versi un radicale. Per quanto riguarda l'imposta sul reddito, era fermamente contrario alla tassazione progressiva, tranne che nella misura in cui la progressione è il risultato di un limite minimo di esenzione. Come sapete, il limite minimo di esenzione implica un certo grado di progressione, ma non è quello che consideriamo come imposizione fiscale progressiva, che Mill vedeva come penalizzante degli imprenditori rispetto a coloro che preferivano non dedicarsi all'attività imprenditoriale.
Per quanto riguarda le successioni ereditarie, era parecchio più radicale di quanto nessun governo fosse mai stato fino ad allora. Era a favore dell'imposizione di un limite assoluto di denaro che un uomo poteva ereditare: qualche centinaio di migliaia di sterline in tutto. » (L.Robbins - idem)

In Mill il pensiero morale invade la sfera economica e il pensiero economico e politico invade la sfera della morale. Tutto ciò, ovviamente, non può piacere nè agli economisti che han venduto l'anima al denaro, e nemmeno ai moralisti, che han venduto l'uomo ad impossibili principi di perfezione. E nemmeno ai marxisti più ortodossi, che hanno sempre visto come il fumo negli occhi la commistione tra morale ed economia politica, se l'oggetto di discussione è l'economia politica, ovvero la realtà dello scheletro che regge tutta la vita sociale.
Engels, nell'Antidühring, fu particolarmente mordace su questo punto, ma la sua riduzione di tutto l'uomo al suo interesse, in realtà finì con l'ignorare le sue stesse affermazioni di fondo: il comunismo cominciò a realizzarsi nella coscienza di alcuni imprenditori illuminati, come Robert Owen, del quale Engels canta le lodi. Certo non poteva nascere nelle masse operaie. Ed egli stesso fu un imprenditore. E' innegabile che il comunismo nacque come figlio della morale e della commistione realistica tra economia politica e morale.

Se è impossibile stabilire un rapporto diretto tra Mill ed il marxismo, che non è mai venuto alla luce ( e questo è per me un piccolo mistero), non è tuttavia impossibile confrontare le idee di Mill e quelle di Marx, tanto più che esse si svilupparono in un periodo storico comune ad entrambi. Marx, al contrario, si occupò in misura rilevante del pensiero di Stuart Mill e, prima ancora, considerò Gli elementi di economia politica di James Mill come un importante documento della storia dell'economia.
Credo sia utile ricapitolare brevemente il giudizio di Marx su Stuart Mill, sia perchè rende giustizia alla posizione di Mill, almeno in parte, sia perchè prova che Marx non era affatto quel settario che viene ora dipinto.

continua: la teoria economica di Stuart Mill ed il problema del socialismo