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John Stuart Mill
L'economia politica di Stuart Mill
La sociologia di Mill non poteva che sfociare
in una riflessione sui fondamenti della società
umana, ovvero il lavoro, la produzione, la
distribuzione dei beni e lo scambio. Questa
era, in fondo, la vera scienza della società
nella tradizione filosofica inglese.
Per questo è bene iniziare dalla definizione
che Stuart Mill diede dell'economia politica,
nell'ultimo dei cinque saggi apparsi nel
1844 con il titolo Saggi su alcune incerte questioni di economia
politica.
L'economia politica, come disciplina particolare,
non si occupa del "comportamento generale
dell'uomo nella società", ma considera
l'uomo solo come individuo che aspira a possedere
ricchezze e che ha la capacità di vagliare
quali mezzi adottare per raggiungere i suoi
fini.
L'economista compie dunque un'astrazione:
considera l'uomo solo come impegnato al conseguimento
della ricchezza ed accantona ogni altra passione
o movente umani.
Questo non implica che vi siano esperti di
economia che considerino gli uomini unicamente
come produttori e mercanti. Il restringimento
tematico serve ad evidenziare il procedimento
con cui la scienza deve operare; e gli studi
di economia politica devono essere indirizzati
a indagare quali sarebbero le azioni umane prodotte
dal desiderio di arricchimento, se non fossero ostacolate e deviate da
altri desideri, da altri problemi, o da altre
circostanze.
Lo stesso Mill, tuttavia, non si attenne
del tutto a questi principi di purezza della
scienza, anche se, a mio avviso, fu molto
più corretto di altri, distinguendo sempre
analisi economica e preferenze politico-sociali,
e quindi non piegando l'analisi economica
a semplici interessi di classe o di bottega.
Come economista fu anche stimato, al punto
che i suoi scritti divennero una sorta di
manuale. Ma il suo prestigio fu presto oscurato
dalla rivoluzione della scuola marginalista
da un lato, e dal successo incontrato dalla
scuola marxista dall'altro, specie dopo il
1870.
Pur seguendo Comte, fino ad un certo punto,
sul terreno della sociologia, non si può
dire che vi sia un perfetto incastro delle
tesi milliane in economia con la sociologia,
e con quella comtiana in particolare. La
tesi, piuttosto diffusa, che l'economia politica
di Mill non sia stata nientaltro che un complemento
od una diramazione della sociologia comtiana
è dunque erronea.
Sotto questo profilo, anzi, possiamo dire
che Mill, come poi Marx, vide con una certa chiarezza che l'ossatura
stessa della società è l'attività produttiva
e che la società è sia possibile che necessaria
in quanto gli uomini producono e scambiano
i loro prodotti, e di questo stesso lavoro
hanno necessità per soddisfare i loro bisogni
fondamentali.
I Saggi su alcune incerte questioni di economia
politica, opera del 1844, e i Principi di economia politica del 1848, riassumono, rivedono e sviluppano
i risultati raggiunti da Smith, Malthus e
Ricardo, ed insieme aggiornano le idee di
Bentham e del padre, James Mill.
Condivido l'idea di Eric Roll secondo la
quale Mill inscrisse gran parte delle proprie
riflessioni in una condivisione delle posizioni
di Malthus circa la necessità di contenere
lo sviluppo demografico. Su questa base possiamo
dire, tuttavia, che Mill non fu mai così
convinto, come lo fu Malthus, che esso sarebbe
venuto attraverso un ritegno morale e quindi
una maturazione degli individui.
Tuttavia, Mill comprese che la povertà non
si sarebbe potuta vincere senza una limitazione
delle nascite da parte delle classi più povere.
Certo, non disse mai che bisognava imporre
il controllo demografico. Nonostante il pessimismo,
per Mill non c'erano soluzioni forti, ma solo soluzioni date dalla crescita culturale.
Anche per Stuart Mill è del tutto naturale
che l'uomo lavori sulla base di una motivazione
egoistica al guadagno. Il processo di produzione,
anche quando viene ad organizzarsi nella
forma della manifattura, risponde ad una
naturale tendenza dell'uomo all'attività,
che non si limita alla produzione necessaria
ed indispensabile, alla soddisfazione di
bisogni primari, ma tende a espandersi. E
nella forma moderna del capitalismo industriale
questa tendenza viene riorganizzata, ma non
viene snaturata.
Sotto un profilo generale, i problemi dell'ingiustizia
sociale possono, secondo Stuart Mill, essere
affrontati intervenendo semplicemente nel
campo della distribuzione dei profitti, ovvero aumentando i salari e riducendo
il guadagno degli imprenditori.
Questo perchè, secondo Mill, la distribuzione
non segue leggi naturali, ma istituzioni,
ovvero consuetudini, leggi, regolamenti e
rapporti di forza che in esse si esprimono.
L'idea di tale distinzione non fu di Mill;
egli la trasse da Nassau Senior, un economista
estremamente interessante, anche se collocabile
su una posizione politica più conservatrice.
Questa posizione non ebbe propriamente un
seguito immediato, sia perchè nelle file del movimento operaio
prevalse la corrente marxista, che criticò
la divisione tra produzione e distribuzione
come ingenua ed ideologica, e sia perchè
gli studiosi di economia non erano ovviamente
interessati a fomentare movimenti di contestazione
alla distribuzione capitalistica dei profitti.
Ma sul piano della definizione di profitto
e salari, come vedremo, lo stesso Mill, fu
tanto brillante per un lato, quanto vago
per un altro, e poi ondivago. La sua teorizzazione
del wage-fund, ovvero dell'esistenza di un fondo-salari
come parte del capitale fisso iniziale che il capitalista anticipa (e
quindi non ricava dai profitti derivanti
dalla vendita), poteva e può essere usata
in senso sia reazionario, sia progressivo,
sia per giungere a compromessi e contratti
più equi. Quando Mill si rese conto che l'utilizzo
prevalente era di stampo reazionario, giunse
e a ritrattarla e la sua autocritica destò
sensazione. Ma, col senno di poi, sono personalmente
convinto che sia come astrazione teorica, sia come considerazione pratica preventiva
all'inizio di ogni impresa artigianale o
industriale, il wage-fund sia una categoria metodologica utile. Persino
nell'economia familiare non si fanno preventivi
senza una previsione pessimistica di spesa.
Non si capisce perchè, allora, questo stesso
procedimento non debba essere adottato in
scala più grande.
Per capire l'importanza del pensiero di Mill
nello sviluppo del pensiero economico, oltre
che filosofico, occorre partire da una querelle
apparentemente piuttosto sterile, ovvero,
se Mill sia definibile come l'ultimo dei classici, o già come una transizione ai moderni,
e quindi come un precursore.
La questione verte in particolare sul problema
del valore. Per i classici, e ancor più per Ricardo
che per lo stesso Adam Smith, il valore di
scambio di una merce è determinato dal lavoro
umano incorporato in essa. Ovviamente si
tratta di un lavoro misurato socialmente
e non soggettivamente, come nell'irresitibile
sketch comico interpretato da Ugo Tognazzi
alle prese con un tronco d'albero dal quale
ricavava un solo stuzzicadenti, ma tecnicamente
perfetto, al termine di un tempo biblico
di lavoro.
I moderni sposteranno la loro attenzione
sulla merce in quanto valore d'uso e diranno,
in sostanza, che il prezzo di una merce è
determinato, non dal lavoro incorporato,
ma dalla sua utilità, o dalla sua scarsità, quindi dalla domanda.
Per la verità, con questa distinzione tra
classici e moderni, si dimentica che sia
Say che Senior avevano già criticato la teoria
del valore di Ricardo, ritenuta parziale
ed insufficiente.
La posizione più giusta, ovviamente, è quella
che tiene conto di entrambi i fattori, non
perchè lo dico io, ma perchè la realtà è
che il prezzo finale di una merce, che viaggia
dal produttore e termina sullo scaffale del
distributore, è il frutto di una decisione, e quel che conta sono i criteri sui quali
si è presa la decisione. Inutile dire che
il produttore che dimentica il valore del
suo lavoro, o dei suoi dipendenti, rischierà
perdite se, per diversi motivi, fosse costretto
a vendere sotto il livello della spesa per
il lavoro, le materie prime, l'usura dei
macchinari e così via.
In questo quadro, Mill fu, forse molto meno
importante come classico di quel che si è
spesso pensato, e probabilmente più importante
come innovatore. Smith, ad esempio, aveva
commesso un grossolano errore nella valutazione
del lavoro improduttivo, relegando tutti i servizi in questa categoria. Per Smith era produttiva
solo la creazione di beni. Non erano produttivi
i sovrani, i principi, i militari, i servitori
domestici, gli spazzini, gli attori, i ballerini,
e così via. Eppure, lo stesso Smith, aveva
corretto i fisiocratici, per i quali l'unico
lavoro produttivo era quello agricolo.
Mill ebbe buon gioco nel correggere Smith,
e nel mostrare che la produzione di un servizio
è comunque un lavoro produttivo, o necessario alla produzione. E che, anche quando non è necessario alla
produzione, costituisce comunque un arricchimento
della vita. La musica non è solo un lusso
che ci si può permettere, ma un fattore di
qualità della vita stessa, che contribuisce
alla felicità del maggior numero.
Questo semplice esempio mostra che il contributo
di Mill alla valutazione del lavoro di qualsiasi
genere è già moderno perchè sfonda i parametri
oltre i quali i classici, deviati dalla classificazione
di Smith, non erano riusciti ad andare.
Ma anche sul piano dell'analisi delle crisi
di sovrapproduzione, come vedremo tra breve,
Mill, confutando la legge di Say, finì con
l'anticipare largamente un pezzo importante
della teoria generale keynesiana, secondo la quale l'aumento di
reddito non produce un aumento dei consumi.
I Principi del '48 furono concepiti con l'ambizione
di aggiornare e rivedere l'insieme delle
impostazioni date da Adam Smith alla luce
dei problemi che nel frattempo si erano presentati.
Molti studiosi, per lo più economisti, vedono
tra gli Essays e i Principles una sorta di contraddizione nel pensiero
di Mill, in quanto, mentre i primi sono scienza
economica pura e semplice, i secondi contengono
importanti considerazioni di filosofia sociale
giudicati incompatibili con la scienza economica.
Probabilmente qualche problema esiste, ed
è dovuto al fatto che Mill variò, non tanto
il contenuto dei suoi pensieri, sempre linearmente
rigoroso, quanto quello del punto di vista.
Un conto è trattare la questione sotto un
profilo strettamente economico, di convenienza,
di profitto, di legislazione sul commercio
e così via; un conto è aprire la mente a
considerazioni sulla giustizia del sistema,
su ciò che significa il lavoro, su come una
società può organizzarsi per tutelarsi dai
rischi insiti nel liberismo selvaggio, oppure
nel collettivismo forzato.
Saggi su alcune incerte questioni di economia
politica
Negli Essays on Some Unsettled Questions Of Political Economy, diviso in cinque saggi, Mill analizzò una
serie di questioni, tra le quali, una, posta
da un economista, il colonnello Robert Torrens
(The Budget: On Commercial and Colonial Policy, London 1844) assai attivo sul fronte dell'analisi
dei più urgenti problemi della crescita industriale
e del commercio.
A giudizio di Lionel Robbins ( Breve storia dell'economia - Ponte alle grazie - Milano, 2001) "Vale
assolutamente la pena di leggerlo [Mill]
..."
Il testo completo, potenza di internet, è
consultabile in formato pdf all'indirizzo:
http://www.ecn.bris.ac.uk/het/index.htm
Il primo saggio, intitolato Sulle leggi di scambio tra le nazioni, analizzò il commercio internazionale sotto
l'aspetto della convenienza di un sistema,
anche unilaterale, di libero commercio.
Pur dichiarandosi contrario, in linea di
principio, al protezionismo, e quindi ad
un sistema di dazi e gabelle sull'importazione
delle merci dall'estero, dovendo misurarsi
con i problemi sollevati da Torrens circa
i rischi, per l'Inghilterra, derivanti da
una unilaterale apertura alle importazioni,
Mill asserì che in determinate circostanze,
era possibile applicare imposte sulle importazioni
al fine di aumentare le entrate dello stato.
Rispetto alle impostazioni di Smith, del
tutto contrario a qualsiasi limitazione delle
importazioni, ci fu in Stuart Mill un cedimento
di tipo pragmatico. Adam Smith aveva ritenuto
assurdo incoraggiare una produzione interna
di fronte alla possibilità di comprare la
stessa merce, a minor prezzo, all'estero.
Il secondo saggio, Sull'influenza dei consumi sulla produzione, conteneva considerazioni ed approfondimenti
molto importanti sul problema dell'equilibrio economico generale e sulle crisi di sovrabbondanza della produzione.
Tra l'altro era stato scritto, o quanto meno
abbozzato, già negli anni trenta, quindi
con molto anticipo sulla data di pubblicazione.
Robbins commenta:« Qui egli supera
la logica sterile della legge di Say e dimostra
come un arresto della spesa possa produrre
un'apparenza di sovrabbondanza generale.
Riconosce che l'andamento dell'economia è
esposto alle variazioni di prosperità e depressione,
così che la questione generale ad acquistare
e la generale riluttanza a comperare si succedono
a brevi intervalli.» (Robbins - idem)
Per capire questo punto occorre sapere che
dice la legge di Say: essa affermava che
lo scambio era scambio di prodotti contro
prodotti e che la produzione e l'offerta
di più di una merce creava automaticamente
una domanda addizionale delle altre merci
con cui essa avrebbe dovuto scambiarsi. Di
conseguenza, potevano darsi casi particolari
di sovrapproduzione, temporaneamente in eccesso,
ma non poteva esserci sovrapproduzione generale.
L'idea di Stuart Mill è che l'offerta è allo
stesso tempo domanda e la domanda è paritempo
un'offerta. Ciò ha che fare con il baratto
primordiale, ma il commercio moderno non
è altro che un modo più pratico di risolvere
il baratto. Grazie al denaro, infatti, non
c'è alcun bisogno di trovare chi, avendo
quello che ci interessa, è parimenti interessato
alla nostra merce. "Ora, dice Mill,
quando due persone barattano, ognuna di esse
è al tempo stesso venditore e compratore.
Non si può vendere senza comprare."
(Essays - p.69)
Ma con la mediazione monetaria le cose sono
più complesse: «Se tuttavia, prendiamo
in considerazione l'utilizzo di moneta, queste
affermazioni cessano di essere totalmente
vere [...] L'effetto dell'impiego della moneta
[...] è che questa rende possibile dividere
quest'unico atto di interscambio in due atti
o operazioni separate [...] Sebbene colui
che vende, realmente vende solo per acquistare,
tuttavia non necessita di acquistare nello
stesso momento in cui vende, e quindi non
necessariamente si aggiunge all'immediata
domanda di un bene quando si aggiunge all'offerta
di un altro.[...] Ci potrebbe quindi essere
[...] una generale inclinazione a vendere
con il minor ritardo possibile, accompagnata
da una altrettanto generale inclinazione
a ritardare il più possibile tutti gli acquisti.
» ( idem - p.69-70)
Nella spiegazione degli squilibri, per Mill
si davano sempre due fasi: nella prima la
gente preferisce le cose al denaro. Questo
porta ad un incremento degli acquisti che,
in sistema di convertibilità della moneta,
determina una crisi finanziaria, la quale
provoca l'imposizione di limitazioni sui
tassi bancari. La seconda fase si esprime
quindi come una domanda di denaro e non di
cose, la quale si sviluppa come un sistema
di risparmio forzato, e porta alla sovrabbondanza
di cose, e non di denaro circolante.
Questa teoria della crisi ricorrente, od
anche, se vogliamo, permanente, del modo
di produzione capitalistico e della sua anarchia
di fondo, muove, com'è logico, dalla considerazione
che c'è una razionalità del consumatore. Questi preferisce non comprare
quando manca di denaro, onde evitare di indebitarsi
e pagare alti tassi di interesse. Tutte le
considerazioni contrarie a questa spiegazione
devono per forza di cose fare appello a fattori
altrettanto reali quali l'irrazionalità del consumatore, oppure il suo reale bisogno.
Questo, in effetti, pare il punto debole
della spiegazione che Mill diede dell'alternanza
di crisi e sviluppo in regime di costante
squilibrio. In Italia tale spiegazione si
scontrerebbe con una realtà nella quale il
boom economico negli anni '60 fu possibile
solo grazie all'indebitamento ed agli acquisti
" a rate", seguito da un periodo
di inflazione galoppante e di voragini nella
spesa pubblica.
Lo stato regalava assistenza, diseducando
le masse a dare il giusto valore ai servizi
sociali, ma i signori economisti dimenticano
spesso e volentieri che senza questa distorsione non si sarebbero comprate le seicento e
le televisioni a rate, e quindi non ci sarebbe
stato boom.
Il punto forte di quella politica sostenuta
e finanziata dai governi ( con soldi che
non c'erano, quindi rubando al futuro) era la stabilità dei posti di lavoro (è molto difficile che si ricorra a prestiti
e che questi vengano erogati se manca la
garanzia di un posto di lavoro fisso), condizione
che oggi sembra mancare e che viene a ridimensionare
tutte le analisi dei profeti del nuovo boom,
a meno di un troinfo dell'irrazionalità del
consumatore.
Il terzo saggio è una speculazione Sulle parole produttivo ed improduttivo che generalmente viene snobbato, ma che
in realtà assume una certa importanza nel
quadro di una teoria politica dello stato
moderno. Com'è noto, Adam Smith aveva classificato
come improduttivi l'esercito, l'amministrazione
dello stato, gli uffici pubblici, i lavori
domestici ecc...ovvero una serie di servizi
ritenuti essenziali ed indispensabili che
non producevano ricchezza, ma la assorbivano.
Per capire di che si tratta occorre considerare
che, durante il XVIII secolo lo sviluppo
degli stati unitari non aveva seguito la
medesima strada. Mentre nell'Europa continentale
si era via via venuto affermando un modello
burocratico centralizzato sempre più complesso,
in Inghilterra era prevalso un modello statale
più leggero e dunque più sopportabile dai contribuenti.
In esso il principio dell'autogoverno delle
comunità, fondamentalmente integrato dalla
figura istituzionale del giudice di pace, giocava un ruolo fondamentale. Pertanto
il peso del lavoro cosiddetto improduttivo era minore in Inghilterra che altrove. Ma
ciò non aveva garantito, di per sè, il formarsi
di una coscienza sociale e politica della
necessità dello stato, sia pure minimo. C'era ancora
chi si lamentava delle tasse e dell'improduttività
della loro spesa in generale, e non riguardo a particolari situazioni
di spreco come oggi in Italia, dove manteniamo
una classe di burocrati pubblici e manager
privati di voracità senza pari.
Mill svolse un'acuta dissertazione sull'impiego
dei termini, presentando ragionevoli considerazioni
su lavori come quello del poliziotto o del
magistrato, che non solo proteggono dalla
distruzione la produzione e la proprietà
ma, garantendo la sicurezza, concorrono indirettamente ad incentivare la stessa produzione.
Alla fine, Mill esemplifica un caso persino
banale, quello del musicista. Il lavoro del
musicista è di per sè improduttivo, ma non
lo è certo quello del fabbricatore di strumenti
musicali. Tuttavia il lavoro del musicista
è parte integrante della ricchezza e del
benessere di una nazione, come del resto,
nelle famiglie benestanti, il possesso di
un pianoforte, è segno del benessere di quella particolare famiglia. Che si lavori
anche per comprare un pianoforte non pare discutibile.
« I seguenti - scrisse Stuart Mill
- sono da considerare sempre produttivi:
lavoro o spesa, il cui obiettivo diretto
o fondato (erect) sia la creazione di materiali
prodotti utili o piacevoli all'umanità.
Lavoro o spesa il cui obiettivo fondato sia
sostenere l'uomo o altri esseri animati con
facoltà e qualità utili o piacevoli all'umanità.
Lavoro o spesa, che non avendo per proprio
oggetto diretto la creazione di materiali
fisicamente o mentalmente, tuttavia tendono
indirettamente a promuovere l'uno o l'altro
di questi fini e sono impiegati o investiti
solamente per quel proposito.» (Sulle parole produttivo ed improduttivo - da i : Saggi su alcune incerte questioni di economia
politica)
Questo saggio di Mill mi pare importante
perchè evidenzia quanto sia sbagliato considerare
i lavori produttivi e quelli improduttivi
alla luce di categorie rigide e poco lungimiranti.
Sia i servizi essenziali (sicurezza e magistratura,
salute, scuola e formazione) che i servizi
culturali (biblioteche, teatri, cinema, editoria
libraria e musicale ecc...), sia la ricerca
scientifica, di per sè non sono denaro gettato
al vento, anche se poi, ovviamente si tratta
di distinguere tra ciò che concorre indirettamente
allo sviluppo sociale e civile e ciò che
soddisfa solo la libidine di qualche intellettuale.
Ma si tratta di un tema talmente delicato,
che pare assurdo cercare di fissare dei criteri.
Personalmente sono dell'idea che i soldi
pubblici non dovrebbero essere gettati in
imprese che soddisfano il gusto della maggioranza
e della mediocrità. Questo lo fanno già i
privati. Il discorso sulla ricerca scientifica
ci porterebbe troppo lontano, ma è evidente
che il privato è interessato ad una ricerca
immediatamente risolvibile in business, e
quindi l'intervento pubblico è determinante
per una ricerca disinteressata, a condizione
che il pubblico sia autonomo e non "oliato"
dal privato, come spesso accade.
Il quarto scritto è intitolato Sui profitti e sull'interesse. E' particolarmente importante anche perchè
sugli stessi punti Mill tornò molti anni
dopo, autocriticandosi ed autocorreggendosi.
E secondo molti, non fece bene a correggersi.
Scrive Lionel Robbins: «Smith pensava
che i profitti fossero determinati dalla
domanda e dall'offerta e che, nel lungo periodo,
per via di questo processo competitivo l'accumulazione
di capitale portasse ad una caduta dei profitti.
Ricardo lo mise in discussione. In definitiva
la sua obiezione era: se c'è una espansione
proporzionale di capitale e lavoro, perchè
mai dovrebbe esserci una caduta del saggio
di profitto, tenuto conto del fatto che la
domanda per beni scarsi è pressochè insaziabile?
Dev'essere qualcosa che ha a che fare con
i rendimenti decrescenti, pensò Ricardo.»
(Robbins - idem)
Ricardo affermò che i profitti erano un resto, ovvero quanto rimaneva dopo il pagamento
dei salari sul guadagno realizzato dalla
vendita. Questo però implicava che il profitto
non veniva solo a dipendere dal salario,
ma anche dal guadagno, perchè in una semplice
operazione aritmetica di sottrazione il risultato
varia non solo se cambia il sottraendo, ma
anche se si cambia il minuendo.
E allora, anche il salario sarebbe dovuto
dipendere da questa dinamica reale, mentre
nella realtà esso si presentava quasi sempre
come quota fissa.
Tutto ciò portò Mill a pensare come reale,
quantomeno sul piano contabile, l'esistenza
di un wage-fund, fondo-salari, da considerare come preventivo
di spesa, ed anche uno dei pochi punti teoricamente
fermi in una realtà molto dinamica ed incerta.
In breve: Mill estese a tutta la società
il concetto che i salari complessivi vengono
dal fondo di capitale esistente come somma
di tutti i capitali particolari impiegati
in imprese. Il salario individuale è il prodotto
di una divisione tra il totale sociale del
fondo salari e il totale della popolazione
che aspira ad un'occupazione, o che è già
occupata. Di qui l'asserzione che i salari sono pagati dal capitale (considerato come anticipatore di salari).
Il capitale è rispetto ai salari, la loro
limitazione, da un lato, la loro garanzia di esistenza dall'altro.
Maurice Dobb osserva in proposito che questa
teoria: «...è assai vicina alla concezione,
per molti implicita nell'economia classica,
secondo cui l'industria (e quindi anche la
popolazione) è limitata dal capitale; dall'altro
lato, essa si riallaccia alla controversa
tesi milliana secondo cui "la domanda
di merci non è domanda di lavoro" (ossia:
non è il reddito speso per il consumo, ma
solo il reddito investito, come anticipo
di salari al lavoro a creare occupazione).»
(Storia del pensiero economico - Maurice Dobb - Editori Riuniti - Roma,
1973, pag 126)
Molti anni più tardi, anche dopo la reiterazione
della teoria del fondo-salari nei Principi, Mill si renderà protagonista di una clamorosa
e pubblica autocritica a seguito della pubblicazione
del libro di W.T. Thornton Sul lavoro. Nella recensione al libro di Thornton del
maggio 1869, pubblicata nella Fortnightly Review Mill scrisse: « Non esiste una legge
di natura che impedisca ai salari di crescere
fino al punto di assorbire non solo i fondi
che egli [l'imprenditore] ha inteso destinare
alla prosecuzione della sua attività, ma
anche tutto ciò che egli riserva per le sue
spese private al di là della semplice sussistenza.
Il limite reale all'aumento dei salari è
la considerazione pratica del fatto che quest'aumento
può condurlo alla rovina; o costringerlo
ad abbandonare la sua attività, non già il
limite del fondo-salari.» Anche il
testo di questo articolo è disponibile all'indirizzo:
http://www.ecn.bris.ac.uk/het/index.htm
Vi sono due punti della teoria del wage-fund
che meritano attenzione, non tanto per quello
che egli scrisse nei lavori che abbiamo considerato,
quanto per quello che Mill teorizzò in merito
ad un possibile socialismo economico, dopo
il 1869:
a) Mill non accettò che la quota salari fosse
recintata da catene naturali e barriere impenetrabili.
Vi era un margine per l'aumento dei salari
senza che, si badi, il rapporto capitalistico
di produzione risultasse alterato. Si potevano
dare, semplicemente, salari più alti e profitti
più bassi.
b) Il processo di formazione e sviluppo delle
abilità lavorative, cioè l'istruzione dell'operaio,
era a tutti gli effetti un lavoro produttivo e poteva quindi essere considerato un valore
da incorporare nel salario, od anche una
forma sociale di salario, da elargire con
la gratuità del sistema scolastico.
E' da notare che lo stesso Marx, nel Capitale, riconobbe a Mill il merito di queste annotazioni.
Lo criticò invece aspramente per l'adesione
alle posizioni di Nassau. W. Senior, un economista
che aveva affermato "solennemente"
che la distinzione tra lavoro e capitale
andava superata con quella tra lavoro ed
astinenza!!! In verità l'adesione di Mill alle posizioni
di Senior, erano molto meno entusiastiche
di quanto suppose Marx. Mill si era infatti
limitato a considerare che parte del capitale
ha origine dal risparmio. I moderni hanno
preferito sostituire il termine astinenza con quello di differimento (del piacere). Certo è che se si pretendesse
di spiegare l'origine del capitale solo e soprattutto con il risparmio e il differimento, si cadrebbe
nel ridicolo.
C'è però da considerare che il termine astinenza
non era stato usato da Senior solo nel senso
di risparmio. Per Senior l'astinenza era
sinonimo di lavoro del capitalista, ovvero tempo dedicato all'impegno e non al divertimento.
Nei Principi Mill adotterà, senza innovazioni sostanziali,
il punto di vista di Senior soprattutto in
ordine al problema dei costi.
Secondo Eric Roll, tuttavia, l'analisi di
Mill sui costi risultò incoerente: «
A volte egli parla di lavoro e astinenza
nei termini di una teoria soggettiva del
costo reale; cioè li impiega per indicare
l'effettiva quantità di sforzi e di astinenza
materializzati nel prodotto. Ma più spesso
egli definisce il costo in termini di remunerazione
corrisposta ai lavoratori e a coloro che
forniscono il capitale. Naturalmente ciò
significa affrontare il problema dall'angolo
visuale dell'imprenditore e Mill, nonostante
tutte le sue esitazioni, sembra aver dato
un grande impulso a questo metodo di analisi
del costo. La sua confusione diviene particolarmente
evidente allorchè include le differenze permanenti
nei livelli dei salari e nei profitti come
fattori che coincindono sul valore. Egli
vide che questi si verificano realmente e
che essi hanno qualche influenza sul prezzo
di mercato. Ma non comprese che ciò contrastava
con il concetto soggettivo di costo reale,
poichè evidentemente queste differenze nella
remunerazione non potevano avere alcuna connessione
con la quantità relativa di sforzi e di astinenze
che esse provocavano. » (da Eric Roll
- Storia del pensiero economico - Boringhieri - Torino -1966)
Alla luce di quanto sappiamo oggi sul reale
andamento delle faccende economiche, rimane
un piccolo mistero da chiarire: perchè, quando
i profitti vengono divisi in modo più equo,
ed i salari si alzano, viene a generarsi
inflazione, e quindi tendenza alla svalutazione
della moneta, e quando i profitti rimangono
in poche mani, si ha invece stabilità monetaria?
Ovviamente ci sono più risposte, e non è
detto che ve ne sia una adatta a tutte le
situazioni; attualmente una semplice variazione
del costo del petrolio ha effetti drammatici
sul costo dei trasporti e dell'energia in
generale; tuttavia, come non possiamo escludere
che dietro alla spinta inflazionistica vi
sia un aumento dei prezzi determinato dal
tentativo di una rivalsa e di un recupero
delle somme perdute dai capitalisti, non
possiamo nemmeno escludere il fatto che i
lavoratori in possesso di più denaro, si
gettino irrazionalmente sul mercato per acquistare
qualunque cosa. Ciò dovrebbe generare benessere,
ed invece genera inflazione.
Una cosa è certa: il peggior nemico dei poveri
e dei salariati in generale è comunque l'inflazione
stessa, cioà una situazione nella quale il
valore dei soldi è sempre minore, giorno
dopo giorno. Il vero interesse dei lavoratori
coincide quindi con politiche economiche
che tengano sempre sotto controllo la febbre
inflazionistica. In pratica: le politiche
keynesiane non tornano realmente a vantaggio
dei lavoratori, perchè mirano a svalutare
i salari reali, fermo restando che i lavoratori sono per
principio fermamente contrari ad una riduzione
del salario monetario (nominale), non considerando
mai a sufficienza che la moneta come unità
di misura non è ferma come il metro, o la
bottiglia da un litro, ma fluttua, ed oggi
vale più e domani può valere meno.
Per non lasciare il discorso incompleto,
credo sia utile esaminare anche il percorso
analitico che condusse Mill alla primitiva
formulazione del wage-fund. Come già evidenziato, Ricardo sostenne
che il profitto dipendeva dal salario, anzi,
era il resto rimasto dopo il pagamento degli
stessi. Secondo Mill "questa era la
forma più perfetta in cui la legge dei profitti
sia mai stata formulata" e la "base
della vera teoria dei profitti."
Mill riconobbe che il principio enunciato
da Ricardo (i profitti non possono aumentare,
a meno che i salari non scendano), era corretto.
Ma a condizione che per basso salario si
intendesse non solo il salario prodotto con
minore quantità di lavoro, ma anche il salario
prodotto a minor costo, calcolato unitariamente
con il lavoro ed il profitto passati.
In pratica Mill parlò del saggio del profitto, anzichè del profitto, introdusse
cioè una variante temporale rispetto alla
quale misurare il profitto stesso: non più
un ciclo produttivo semplice basato su capitale
fisso anticipato per materia prima e salari
- produzione - vendita - profitto, ma una
media del profitto calcolato su più periodi
semplici, senza soluzione di continuità.
Scrive Maurice Dobb: «L'emendamento
di Mill sottolinea, in modo sostanzialmente
corretto, che, ove si introduca il capitale
fisso, tale rapporto risulta inferiore, ceteribus paribus, quanto maggiore è la proporzione del capitale
fisso rispetto al capitale circolante, e
quanto e più lungo è il periodo di tempo
in cui le spese di produzione, o il lavoro,
devono essere anticipate: un punto questo,
che Ricardo non menziona mai esplicitamente
(anzi, sembra addirittura ignorarlo), probabilmente
perchè non gli interessa troppo esaminare
il profitto in relazione al capitale complessivo.
Formalmente la correzione milliana può essere
considerata analoga alla critica che Marx
muove a Ricardo di aver ignorato il cosidetto
"capitale costante", come fattore
per la determinazione del saggio di profitto,
e di avere identificato il profitto con il
plusvalore. » (Storia del pensiero economico - Maurice Dobb - Editori Riuniti - Roma,
1973, pag 122)
In quest'ottica appare evidente che, per
Mill, rimane determinante che nel ciclo economico
capitalistico vi sia un capitale fisso iniziale
includente il wage-fund. Il fondamento dell'impresa è il capitale
fisso iniziale.
Del quinto saggio, intitolato Sulla definizione di economia politica; e
sul metodo di investigazione suo proprio, abbiamo già parlato in apertura. Giulia
Bruzzone ne ha recentemente prodotto una
traduzione che è disponibile cliccando qui.
Del resto, a chi volesse approfondire, sarebbe
utile dare un'occhiata anche a Say, il quale
fu molto attento al problema metodologico
e quindi fare un confronto tra il metodo
di Mill e quello di Say.
I Principi di economia politica
I Principi di economia politica di Mill sono scaricabili in inglese al sito
http://www.ecn.bris.ac.uk/het/index.htm .
Partiamo dal titolo completo: The Principles of Political Economy with
some of their applications to social philosophy. E' evidente fin dall'inizio che l'intento
dell'autore è di pervenire, infine, sulla
base stessa dei principi di economia, ad
alcune applicazioni non artificiose, in grado
di migliorare le condizioni sociali. Ma visto
che l'analisi dei principi è condotta seconda
categorie economiche e non secondo utopie
politiche, il ragionamento sulle applicazioni
sociali non altera il momento dell'analisi.
Non fu un caso, dunque che i Principi di Stuart Mill divennero per lungo tempo,
in Inghilterra, una sorta di vangelo sia
per i liberali radicali che per gli economisti
puri. La sua validità fu contestata da Jevons,
che si oppose a Mill anche sui problemi di
logica e di filosofia della scienza, e nell'ultimo
quarto di secolo i Principi di Mill furono
oscurati dalle nuove teorie economiche.
Per un certo periodo fu poi rivolta a Mill
la critica di una scarsa originalità. Ma
se si pensa al solo fatto che seppe cogliere
un grave errore nella teoria ricardiana della
rendita, nella quale si sosteneva che essa
non fa parte dei costi di produzione, si
ricava un'idea del tutto diversa. In effetti
ci si dovrebbe sempre chiedere da dove vengono
i soldi quando c'è un profitto di qualsiasi
tipo, ed è evidente che la rendita è sostenuta
dalla produzione, e quindi è un costo di
produzione, tanto quanto lo è oggi il costo
della pubblicità, la quale vive di rendita...di
posizione, anche se poi impiega il lavoro
"creativo" di decine di fabbricatori
di spot, designers e così via.
Il primo saggio si intitola Preliminary Remarks e non consiste di una prefazione, ma di
un vero e proprio ragionamento storico sul
senso e sul significato di ricchezza.
Mill comincia con una critica della teoria
mercantilistica, la quale non fu solo un
fatto storico, superata poi da teorie più
moderne, ma era ai tempi di Mill, e forse
lo è tuttora, il senso comune dell'economia
politica, cioè la convinzione assoluta che
la ricchezza sia costituita dall'oro, dall'argento
e dal denaro. Scriveva infatti Stuart Mill:
«It has so happened with doctrine that
money is synonymous with wealth.»
Già Aristotele aveva provato a criticare
il mercantilismo del suo tempo, da lui definito crematistica, riportando come esempio la leggenda di
re Mida: avendo questi ottenuto il potere
di trasformare tutto quello che toccava con
le mani in oro, finì col morire di fame.
Ma nonostante questo illustre precedente
il mercantilismo prima ancora che una teoria
economica fu sempre un credo diffuso al punto
da sembrare naturale in qualsiasi società.
Cominciò ad affermarsi come teoria vera e
propria agli inizi stessi del capitalismo
mercantile, e uno dei suoi massimi teorici
era stato Thomas Mun (1571-1641), personalità
peraltro lucida ed aperta, perfettamente
allineata alla logica dell'espansione commerciale.
Mill, pur conducendo un'analisi storica,
non fece una vera e propria storia del mercantilismo,
non citò nemmeno Mun o Aristotele; si limitò
a criticarne l'idea ispiratrice, evidenziando
cosa veniva postulato: il possesso di un
bene particolare è un possesso limitato;
il possesso del denaro, o dell'oro, è potere d'acquisto tendenzialmente illimitato.
Scriveva Mill: « The greatest part
of the utility of wealth, beyond a very moderate
quantity, is not the indulgences it procures,
but the reserved power which its possessors
holds in his hands of attaining purposes
generally; and this power no other kind of
wealth confers so immediately or so certainly
as money.»
Nell'analisi di Mill, ciò non riguarda solo
gli individui , ma anche i governi e le amministrazioni.
Anche i governi vedono la ricchezza come
denaro e guardano con favore alle esportazioni
perchè esse riportano in patria oro e denaro.
Lo sfavore con cui si guarda alle importazioni
è dovuto al fatto che esse riducono le riserve
di danaro e di oro depositato o circolante
in patria.
Lungi dal prendere queste considerazioni
come una critica di costume, dovremmo piuttosto prenderle come uno dei
tanti fondamenti esplicativi, una vera e
propria legge della fisiologia sociale, la
quale sarà valida fin tanto che il senso
comune della gente condividerà, spesso inconsapevolmente,
i principi di fondo della teoria mercantilistica.
Su questo piano Mill non si cura tanto di
scoprire il perchè la gente comune desidera avere oro o denaro,
quanto di mostrare come accade. L'analisi di Mill è particolarmente
penetrante rispetto al passaggio da un regime
di vita pastorizio e nomade a forme stabili
di agricoltura e di proprietà della terra.
L'esame di questa fase procede dal cosiddetto
modo asiatico, culminante con la creazione
di monarchie ed eserciti, fino alla constatazione
di un diverso sviluppo nel nord Europa prima
della conquista romana.
Egli assegna importanza al fatto che in un
primo tempo la terra sfruttata da colture
agricole non offriva altro che prodotti sufficienti
ai soli coltivatori, e che l'agricoltura
richiedeva una percentuale di lavoro molto
più alta di quella richiesta dalla pastorizia.
Tuttavia, col tempo, l'agricoltura venne
ad offrire un'eccedenza di prodotto. Mill
descrive come questo prodotto venisse immediatamente
sequestrato dal sistema monarchico, o attraverso
tasse imposte con la forza e miranti a mantenere
una casta di guerrieri e burocrati, o attraverso
la persuasione attuata dalle credenze religiose.
In realtà tra agricoltori e guerrieri dominanti
si era instaurato una sorta di baratto. La
casta miltare difendeva i contadini dalla
rapina dei briganti e soprattutto dalle invasioni
dei popoli vicini. Potremmo arguire che anche
tra agricoltori e sacerdoti ( e maghi) era
stata stabilita una sorta di alleanza: grazie
alla loro mediazione, le divinità concedevano
protezione in cambio di piccoli sacrifici,
che diventavano sempre più grandi non perchè
gli dei si facessero più esosi, ma perchè
aumentava l'avidità dei sacerdoti.
Nell'insieme il testo è stimolante perchè
smaschera le vere ragioni della costituzione
degli stati, dei sistemi militaristici e
delle istituzioni religiose nell'antichità.
I Principi si compongono di cinque libri: Produzione, Distribuzione, Scambi (moneta), Influenza del progresso della società sulla
produzione e distribuzione, Influenza del governo.
Nell'insieme risulta chiaro che l'opera fu
organizzata sulla base di due principi comtiani,
statica e dinamica, ovvero anatomia e fisiologia della produzione
e del mercato, con la produzione in funzione
del mercato.
Gli economisti puri, ed in genere, quelli
di destra insieme ai marxisti, furono sempre molto critici nei confronti
della distinzione milliana tra produzione
e distribuzione, ma essa appare quantomeno
plausibile. Se infatti la produzione, basata
sulla divisione del lavoro, ha un che di
oggettivo, nel senso che non si possono produrre
cose in modo sostanzialmente diverso da come
vengono prodotte, cioè o nei campi o in fabbrica,
lavorando con macchine, e mirando a realizzare
qualcosa di durevole, di utile e di vendibile,
la distribuzione, come riconosce anche Lionel
Robbins, potrebbe seguire diverse linee istituzionali.
Scrive Mill:« The laws and conditions
of the production of wealth partake of the
character of physical truths. There is nothing
optional or arbitrary in them.» (Principles -Distribution - Chapter one)
« Persino quello che una persona ha
prodotto con la sua fatica individuale -
prosegue Mill - senza l'assistenza di alcuno,
non può essere considerato suo senza il permesso
della società.
Non solo la società glie lo potrebbe togliere,
ma altri individui potrebbero e vorrebbero
sottrarglielo, se solo la società rimanesse
passiva; e se non ci fossero ulteriori interferenze,
o non fossero impiegate e pagate persone
con il proposito di impedire che egli venga
disturbato nei suoi possedimenti, questo
potrebbe succedere.
La distribuzione della ricchezza dipende
quindi dalle leggi e dai costumi della società.
Le cui regole sono determinate dalle opinioni
e dai sentimenti della parte dominante ,
e sono molto diverse in molte epoche e paesi
differenti; e potrebbero essere ancora più
diverse se l'umanità lo volesse.
Le opinioni e i sentimenti dell'umanità,
senza dubbio, non sono oggetto di scelta.
Essi sono la conseguenza delle leggi fondamentali
della natura, combinate con lo stato della
conoscenza esistente e dell'esperienza, e
con le reali condizioni delle istituzioni
sociali, la cultura e la morale.» (idem
- chapter one)
«L'umanità è capace di una lontana
coscienza collettiva (public spirit) - prosegue Mill - maggiore di quanto il
tempo presente sia abituato a supporre possibile.
La storia testimonia con successo di come
gli esseri umani possono essere trainati
a sentire il pubblico interesse come il proprio.
E nessun terreno potrebbe essere più favorevole
alla crescita di un simile sentimento che
un'associazione comunista, di modo che tutta
l'ambizione, le attività fisiche e e mentali,
che sono ora esercitate nella ricerca di
separati interessi egoistici, potrebbero
richiedere un'altra sfera di sviluppo, e
potrebbero naturalmente trovarlo nella ricerca
di generali benefici per la comunità.
La stessa causa, così spesso attribuita alla
spiegazione della devozione dei preti o dei
monaci cattolici agli interessi del loro
ordine religioso - che non ha altro interesse
- vorrebbe, sotto il comunismo, incollare
i cittadini alla comunità.» (idem -
chapter one)
Mill prosegue, affermando che il comunismo
non era realmente attuale nella coscienza
della gente, ma ciò non escludeva che avrebbe
potuto esserlo in futuro. In generale egli
si dichiarò sempre contrario a soluzioni
imposte con la forza e mise comunque il problema
della libertà individuale al di sopra di
ogni altro valore.
Mill era favorevole alla proprietà contadina
e credeva che questa avesse in sè una sorta
di magia in grado di trasformare la sabbia
in terreno fertile. Ma questa visione era
probabilmente più dettata da motivi romantici
che da reali considerazioni sulla sostenibilità
economica della piccola proprietà.
Per quanto riguarda l'organizzazione industriale,
Mill nutrì una visione del futuro nella quale,
gradualmente, l'impresa capitalistica si
sarebbe trasformata in impresa cooperativa.
Tutto il suo socialismo stava nella preferenza
per un sistema di produzione fondato sulla
collaborazione anzichè sulla costrizione
e la gerarchia.
Lo stato stazionario dell'economia
Mill immaginò che presto o tardi l'incremento
della ricchezza sarebbe cessato e che l'economia
sarebbe entrata in una fase stazionaria,
da non intendersi come ristagno, ma come equilibrio. Questo perchè i miglioramenti tecnici e
scientifici, la legge dei compensi decrescenti,
l'accumulazione del capitale e la concorrenza
avrebbero determinato una compressione dei
profitti. Una volta impedito uno sviluppo
eccessivo della popolazione, si sarebbero
anche determinate condizioni favorevoli al
miglioramento delle condizioni dei lavoratori.
Mill guardò con un certo freddo compiacimento
a tale condizione di felice equilibrio, senza
considerare che lo sviluppo avrebbe presto
posto nuovi ed ancora più grandi problemi.
(Principles - pag. 746-751)
Ci furono dispute per le spoglie del pensiero
economico-politico di Stuart Mill. I socialisti
fabiani lo volevano socialista e i liberali
individualisti lo volevano liberale. In realtà,
se mi è consentito un giudizio personale,
Mill non fu nè l'uno nè l'altro, o fu, anche,
tutt'e due.
Il problema della libertà individuale rimase
sempre prioritario, non svendibile in nessun
caso per qualcosaltro. Fu contro il collettivismo
massificato ed imposto, propugnato dai socialisti
e dai comunisti utopistici del continente,
ma confessò più volte di essere disgustato
dall'individualismo esasperato. Conservò
sempre una certa stima delle idee di Robert
Owen, ma non ne fu mai veramente convinto,
e presumo che fu molto meno attratto da quelle
di Fourier. Non conobbe direttamente le teorie
di Marx, o comunque le ignorò pubblicamente.
Fu cautamente favorevole alla proprietà statale
di alcuni servizi pubblici, e discusse i
termini giuridici della nazionalizzazione
delle ferrovie, simpatizzando per questo
provvedimento.
« In fatto di tassazione - scrive Lionel
Robbins - lo si potrebbe considerare al tempo
stesso un reazionario e per altri versi un
radicale. Per quanto riguarda l'imposta sul
reddito, era fermamente contrario alla tassazione
progressiva, tranne che nella misura in cui
la progressione è il risultato di un limite
minimo di esenzione. Come sapete, il limite
minimo di esenzione implica un certo grado
di progressione, ma non è quello che consideriamo
come imposizione fiscale progressiva, che
Mill vedeva come penalizzante degli imprenditori
rispetto a coloro che preferivano non dedicarsi
all'attività imprenditoriale.
Per quanto riguarda le successioni ereditarie,
era parecchio più radicale di quanto nessun
governo fosse mai stato fino ad allora. Era
a favore dell'imposizione di un limite assoluto
di denaro che un uomo poteva ereditare: qualche
centinaio di migliaia di sterline in tutto.
» (L.Robbins - idem)
In Mill il pensiero morale invade la sfera
economica e il pensiero economico e politico
invade la sfera della morale. Tutto ciò,
ovviamente, non può piacere nè agli economisti
che han venduto l'anima al denaro, e nemmeno
ai moralisti, che han venduto l'uomo ad impossibili
principi di perfezione. E nemmeno ai marxisti
più ortodossi, che hanno sempre visto come
il fumo negli occhi la commistione tra morale
ed economia politica, se l'oggetto di discussione
è l'economia politica, ovvero la realtà dello
scheletro che regge tutta la vita sociale.
Engels, nell'Antidühring, fu particolarmente mordace su questo punto,
ma la sua riduzione di tutto l'uomo al suo
interesse, in realtà finì con l'ignorare
le sue stesse affermazioni di fondo: il comunismo
cominciò a realizzarsi nella coscienza di
alcuni imprenditori illuminati, come Robert
Owen, del quale Engels canta le lodi. Certo
non poteva nascere nelle masse operaie. Ed
egli stesso fu un imprenditore. E' innegabile
che il comunismo nacque come figlio della
morale e della commistione realistica tra economia politica e morale.
Se è impossibile stabilire un rapporto diretto
tra Mill ed il marxismo, che non è mai venuto
alla luce ( e questo è per me un piccolo
mistero), non è tuttavia impossibile confrontare
le idee di Mill e quelle di Marx, tanto più
che esse si svilupparono in un periodo storico
comune ad entrambi. Marx, al contrario, si
occupò in misura rilevante del pensiero di
Stuart Mill e, prima ancora, considerò Gli elementi di economia politica di James Mill come un importante documento della storia
dell'economia.
Credo sia utile ricapitolare brevemente il
giudizio di Marx su Stuart Mill, sia perchè
rende giustizia alla posizione di Mill, almeno
in parte, sia perchè prova che Marx non era
affatto quel settario che viene ora dipinto.
continua: la teoria economica di Stuart Mill ed il
problema del socialismo