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Le trasformazioni del sistema educativo cinese - parte I
di Guido Marenco

 


Ho ritenuto opportuno dedicare uno spazio alle trasformazioni dell'organizzazione scolastica della Cina contemporanea per l'evidente necessità di ragionare su dati di ampio respiro offerti da fonti attendibili e verificabili. Ignoro cosa possa attendersi il lettore. Se, come auspico, fosse alla ricerca di quello che altrove ho definito come presenza di costanti e susseguirsi di mutamenti nella storia di tutti i popoli (1), potrebbe trovare qui qualche indicazione di estremo interesse. Continuità e rottura nella storia della Cina si sono sempre dispiegate nel tempo storico su una medesima spirale. Quando la discontinuità rivoluzionaria è sembrata prevalere, subito si sono affacciati elementi di conservazione senza i quali l'intero edificio del senso e del pensiero, nonché dell'intera organizzazione sociale, avrebbe potuto degenerare in una situazione caotica ed ingovernabile. L'apertura alla scienza occidentale, ed alle sue discipline, non ha portato ad una resa incondizionata della millenaria saggezza alla frenesia degli occidentali. Ma, l'impegno per l'adeguamento, ovviamente, non è stato indolore. Ha lasciato ferite profonde, molte delle quali ancora aperte. Più che in altre epoche di sconvolgimenti, perché nel corso del Novecento si sono sommate tante e diverse rivoluzioni, da quelle industriali a quelle politiche, da quelle culturali a quelle migratorie e popolazionali. Basterebbe ricordare cosa abbia comportato per la società cinese quella che dalle nostre parti si è chiamata emancipazione femminile. Uno sconvogimento radicale che ha investito anche la sfera della legislazione e del diritto civile, in particolare quello di famiglia. Le donne, in generale ed in astratto, beneficiano attualmente di maggiori tutele e godono pressapoco dei medesimi diritti del sesso maschile. Ma, in astratto, ed in un contesto nel quale il diritto di sciopero non è riconosciuto esplicitamente, anche se sembra che venga moderatamente tollerato. Anche il concetto di "maggiore età" è singolarmente scandito in termini che paiono quantomeno stravaganti. Hanno diritto a sposarsi a ventidue anni i maschi e a venti le ragazze.
Le leggi attualmente in vigore scoraggiano il diritto biologico alla procreazione. Lo stato impone la regola del "figlio unico" per ogni unità familiare in ragione di una campagna contro la proliferazione incontrollata. Fare più di un figlio nella Cina contemporanea comporta il pagamento di pesanti sanzioni. Se sia giusto o sbagliato è una domanda ingenua. Avrebbe più senso chiedersi se sia o meno necessario e rispetto a quale esigenza. La scelta potrebbe perfino trovare spiegazione nella necessità inderogabile del sistema-Cina, ma come potremmo evitare di trattarlo come l'indebita ingerenza di una dittatura nella vita privata degli individui, considerati come sudditi, rotelle di ingranaggi, e non come esseri umani aventi diritto ad esistere e a riprodursi? D'altra parte, come si fa a non vedere che la politica del "figlio unico" risponde ad una fase di ampia espansione del consumismo, un periodo nel quale si afferma l'edonismo più sguaiato? Centinaia di milioni di cinesi, probabilmente, non patiscono la limitazione per l'evidente motivo che se ne impipano di metter su famiglia alla maniera tradizionale. Nemmeno percepiscono se si tratti o meno di una aperta violazione dei diritti umani, forse più grave della privazione del diritto alla libertà di espressione. D'altro canto, una minoranza non trascurabile patisce la limitazione a grande profondità. Milioni di cinesi continuano a trasgredire, a pagare multe per i figli in più. Lo stato li punisce per questi comportamenti ma, d'altro canto, sembra giocare una partita a tutto vantaggio dell'occidente e del sistema mondo. Il contenimento demografico cinese lavora anche a vantaggio del resto del pianeta. E' un'assurdità riconoscerlo ma, è su tali assurdità che i poteri veramente forti si spartiscono il controllo di tutto ciò che è controllabile. E poiché le tecnologie incrementano il raggio d'azione della controllabilità, siamo ormai ad un punto assai rischioso della vicenda umana. Rispetto a ciò non è che si possano progettare grandi cose, annunciare grandi strategie, mettere in movimento poderosi eserciti di liberazione. Come intravvidero, in modo tortuoso e non facilmente comunicabile, Adorno ed Horkheimer, il riscatto del futuro è affidato all'individuo più che ai processi sociali ed ai movimenti. Aggiungerei: ad individui con tratti spiccatamente umani, permeati dal senso di giustizia e di moralità. Avremmo bisogno di una nuova saggezza, più che di nuove "filosofie". Studiare la vicenda dei rivolgimenti scolastici cinesi, in quest'ottica, non è tempo perso: troppe costanti sono state liquidate in fretta e furia, dando luogo a stili di vita completamente sradicati dalle sorgenti della vita. Ma, ciò non è affatto un problema cinese, è questione globale.

Un interessante saggio di Laura De Giorgi, La modernizzazione del sistema educativo dalla fine dell'Ottocento ai giorni nostri (2) funge da base di partenza per questo viaggio nella storia senza eccessive possibilità di verifiche e controprove. Tentando di armonizzare passato, presente e futuro possibile, i dirigenti cinesi hanno tentato di trovare il modo più adatto di reagire agli immani problemi derivanti dal concomitante "disfacimento dell'impero" e dall'aggressione occidentale. Vedere il primo come effetto della seconda e la seconda come causa del primo non è il massimo dell'esattezza ma, costituisce una piccola verità. Il "disfacimento" era ineluttabile anche se l'aggressione non si fosse manifestata in forme così virulente e subdole. La spinta propulsiva si era, se non esaurita, incagliata nelle secche del non-progresso, del ristagno in acque paludose e prive di ricambio.
In genere gli storici concordano nel fissare nella "prima guerra dell'oppio", svoltasi tra il 1839 e il 1842, l'inizio del declino imperiale, la caduta di autostima degli intellettuali e delle élites, l'inizio di un confronto durissimo tra la realtà interna e l'aggressione esterna. L'oppio veniva prodotto in India. Nelle epoche precedenti era stato importato dai mercanti cinesi per un utilizzo esclusivo in campo medico. Ma, i mercanti occidentali pensarono bene di forzare il blocco delle importazioni, servendosi di ogni sorta di espediente. Nacquero le famigerate fumerie ed in breve esse si riempirono di qualificatissima clientela. Alcune statistiche attendibili parlano di un 10% della popolazione maschile dedito al vizio. Vien da pensare che anche questo è un modo per cominciare a vincere le guerre: fiaccare lo spirito di un popolo fino a privarlo del midollo spinale, inebetirlo. Equivale a ciò che potremmo chiamare un uso artificiale della "selezione naturale". Sbaglieremmo a ipotizzare che era parte di un torbido piano politico e non la semplice conseguenza dell'impulso occidentale ad espandere i mercati con ogni mezzo?
Fatto sta che gli intellettuali cinesi si trovarono sfidati sul terreno dell'aspetto istituzionale del pensiero confuciano: quello del waiwang, ovvero del governo degli individui più responsabili sulla società amministrata. Chi svolge tale funzione è chiamato alla responsabilità erga omnes assai più di chi sta al di sotto. Wei Yuan, secondo Anne Cheng (3), già nel 1827 aveva colto la necessità del mutamento. In un testo destinato ad avere grande influenza, scriveva: «A partire dal tempo più remoto prima delle Tre Dinastie, il Cielo non è mai stato lo stesso di quello d'oggi, la Terra mai la stessa di quella d'oggi, gli uomini mai gli stessi di quelli d'oggi, ed anche le cose non sono mai state quelle d'oggi. ... I letterati dei Song non avevano altro in bocca che le Tre Dinastie. Ora, è evidente che il sistema dei campi a scacchiera, la struttura feudale, le modalità di reclutamento delle Tre Dinastie non potrebbero essere riesumati. Tutto questo serve soltanto a portare gli spiriti pragmatici a criticare i metodi confuciani per la loro inefficacia. Un uomo dabbene che intraprenda il ristabilimento dell'ordine senza conformarsi allo spirito precedente alle Tre Dinastie si espone all'accusa di volgarità, ma se non si riconosce l'evoluzione delle condizioni successiva alle Tre Dinastie, ci si espone a cadere nell'inefficacia.»

«La centralità attribuita alla sfera educativa nel processo di modernizzazione - scrive De Giorgi - è dipesa anche dalla tradizione culturale. Nell'universo cinese le questioni relative al rapporto tra cultura e natura e alla formazione dell'individuo, al ruolo dell'educatore, al ruolo dell'educazione nello strutturare le gerarchie sociali e politiche, al legame fra conoscenza ed etica hanno attirato, fin dall'antichità, un profondo interesse sia sul piano più strettamente teorico e filosofico, sia su quello politico-istituzionale e sociale.» Il neo-confucianesimo sembra aver svolto un ruolo decisivo. Ma, non si possono dimenticare commistioni storicamente rilevanti quali il ruolo giocato prima dai gesuiti, poi anche dagli islamici in alcune aree, infine dai missionari protestanti. La presenza cristiana in Cina ha sicuramente giovato alla causa dell'emancipazione femminile in una società fondamentalmente patriarcale ai vertici e maschilista alla base. Inoltre, si deve cogliere che nell'impostazione "confuciana" l'aspetto tecnico-scientifico fu storicamente trascurato fin dall'inizio, ovvero fin da Confucio. Agire morale, corretta amministrazione, letteratura, musica, riti volti al consolidamento di una religione civile (nel senso di "legare" attorno a valori condivisi e cerimoniali): è cultura umanistica della più bella specie. Dov'è la scienza? Dov'è la tecnica? Dov'è il lavoro manuale? Dov'è lo studio per rendere più produttivo un terreno di coltura o un allevamento di polli e conigli? Dov'è la medicina? Per la verità, la medicina c'era, eccome se c'era ma, verso di essa, sia il confuciano che il taoista, imbalsamati nel loro sapere e nelle loro pratiche, sembravano provare una specie di amnesia. Sarebbe tuttavia un grave errore addebitare a Confucio, o al leggendario Lao Zi, sia il "confucianesimo" che il "taoismo" più deteriori. L'errore sta sempre nell'adagiarsi sugli allori finché non si va a sbattere il grugno contro una cannoniera inglese, o ancor prima, contro una calata di mongoli. O prima ancora contro la protesta di una comunità contadina gravata dalle esazioni.

Scrive De Giorgi: «L'educazione venne identificata come uno degli ambiti dove era più netta la contrapposizione fra il progresso occidentale e l'arretratezza cinese, e la creazione di scuole moderne venne proposta come uno strumento fondamentale per riaffermare quella educazione morale che il sistema degli esami aveva dimostrato di non poter garantire.» Il "sistema degli esami" è qualcosa che conosciamo bene anche in Italia, soprattutto dal dopoguerra in poi. Si chiamava concorso pubblico per un posto di lavoro, anche ai più bassi livelli della burocrazia statale. Non si va molto lontano dal vero se immaginiamo una concreta analogia con il mondo cinese di fine Ottocento. Risalendo indietro nel tempo, troviamo un'analogia ancora più significativa. «A metà del XIX secolo la maggior parte dei cinesi colti non aveva neppure nozione dell'esistenza di un emisfero meridionale, concetto che era stato introdotto da Matteo Ricci duecentocinquant'anni prima, per non dire delle leggi del moto newtoniano, delle scoperte di Faraday, del calcolo infinitesimale, o dell'esistenza di nuove discipline come la chimica.» (4) Si respira "aria di famiglia" , insomma, se pensiamo a tanti intellettuali italiani fino a Croce ed oltre. La differenza sta nel fatto che mentre da noi prevalse la polemica contro la corrente di pensiero filo-scientifica, "il positivismo", in Cina alcuni intellettuali si sforzarono di aprirsi alla scienza ed alla tecnica, invece che all'ideologia, o alla lotta contro "mulini a vento dell'ideologia". Non si trattava di difendere cattedre e magisteri, ma di cambiare i contenuti provenienti dalle cattedre. Istituirne di nuove. Ma, se chi deteneva il sapere, quindi il potere di capire e trasmettere insegnamenti, continuava ad identificarsi con la carriera politico-burocratica, o con la condizione di rendita derivante dalla qualifica di "letterato", ciò si mutava in un ostacolo. Per salvare la Cina dal naufragio occorreva alzare il livello di istruzione ed aprirlo a nuovi contenuti e, soprattutto a nuove pratiche e nuove professioni. Alcune stime - ma sono solo stime - segnalano che il 30-40% dei maschi sapeva leggere, scrivere e far di conto, a fronte di un numero di donne assai inferiore: tra il 2 e il 10%. Non si tratta solo di questo. Non è mai detto che chi ha fatto il contadino per tutta la vita, sappia veramente fare il contadino, ovvero sappia rendere più produttiva la terra e meno stressante il suo lavoro e quello dei suoi figli. Comunque sia, a partire dagli anni Novanta dell'Ottocento, per la parte più reattiva delle élites intellettuali, divenne prioritario impegnarsi per dar vita ad un moderno sistema scolastico universale. «In questa prospettiva - scrive De Giorgi - la diffusione a livello universale, comprese le donne, doveva rappresentare una premessa necessaria per trasformare i sudditi dell'impero autocratico in cittadini di uno stato moderno, legittimato dal riconoscimento e dalla partecipazione popolare.» Al risveglio concorsero diversi fattori. Idee e metodi provenienti dal Giappone, studiosi che si recavano a studiare in Giappone, giovani delle famiglie più ricche che riuscirono a raggiungere l'Europa e gli Stati Uniti per studiare e laurearsi. Già nel 1898, nel quadro delle "abortite riforme dei Cento Giorni" volute dall'imperatore Guanxu venne avviato un primo tentativo istituzionale che non solo apriva all'istruzione scientifica e tecnica ma introduceva perfino l'educazione fisica, a partire dalla considerazione che il popolo era debole e poco combattivo. Altro che arti marziali e kung fu!
«Nel 1901 un editto imperiale cancellò il "saggio ad otto gambe" tra le prove d'esame per includere, invece, la cosiddetta "scienza occidentale", e nel 1902 si decise la trasformazione delle tradizionali istituzioni educative in scuole moderne secondo una gerarchia basata sul livello amministrativo: le accademie nelle città più importatnti sarebbero dovute divenire università, mentre quelle nelle prefetture si sarebbero trasformate in scuole secondarie e infine quelle nei distretti e nei villaggi in scuole elementari.» Prima ancora che il piano prendesse reale consistenza, incominciarono a manifestarsi delle divergenze tra chi lo concepiva come lo strumento per ricostruire fiducia e consenso nei confronti dell'amministrazione e chi la concepiva come la leva per sollevare l'intera società cinese ad una nuova consapevolezza di se stessa. Era una sorta di predicazione illuminista alla maniera di Kant, volta a far uscire gli individui dallo stato di minorità. D'altra parte - segnala Anne Cheng - ci furono intellettuali che si misero a leggere Kant in tedesco!
«La politica dell'istruzione dei governi repubblicani - prosegue De Giorgi - d'altronde, fu essenzialmente improntata alla centralità dell'educazione per il rafforzamento dello stato. Fin dalla sua presa del potere, ad esempio, il governo dittatoriale di Yuan Shikai (1859-1916) mirò a rafforzare l'istruzione di base rivolgendo una particolare attenzione alla diffusione di scuole elementari per tutti i cittadini (guomin xuexiao) destinate all'insegnamento dei classici confuciani come fondamento morale e culturale dell'identità cinese, per quanto il ministero dell'Istruzione volesse invece puntare soprattutto sull'insegnamento linguistico e letterario di base.»

Come spesso è accaduto nella storia di molti popoli, non solo in quello cinese, alla lenta ed ostacolata azione governativa si affiancarono iniziative non istituzionali. Del ruolo delle missioni cristiane si è già detto. Ma in tempi piuttosto oscuri, quelli definiti dei "signori della guerra", nacque e si sviluppò un Movimento per una nuova educazione che - scrive De Giorgi - «si pose come obiettivo quello di rompere quel rapporto strumentale che si era posto in precedenza fra istruzione e rafforzamento nazionale.» Mirava, insomma, più alla crescita individuale che a risultati politici immediati. Il Movimento conobbe figure di spicco come Cai Yuanpei (1868-1940) e si ispirò soprattuto a modelli anglosassoni e nord-americani. Tra il 1919 e il 1921 John Dewey aveva visitato la Cina e tenuto numerose conferenze, su invito di diversi educatori che erano stati suoi allievi presso il Teacher's College alla Columbia University. Il fermento stava crescendo, originando dibattiti attorno a riviste come "Xin Jiaoyu" (La nuova educazione). Assunse importanza il rapporto tra istruzione e politica. «Se la modernizzazione della prima costituiva una premessa fondamentale per la seconda, esistevano nondimeno opinioni divergenti su quanto il mondo dell'istruzione dovesse essere indipendente e quindi anche distaccato dalla politica o quanto piuttosto dovesse attivamente coinvolto negli eventi. Il problema - scrive De Giorgi - si fece particolarmente acuto negli anni del movimento del 4 maggio 1919, quando si registrò in Cina una progressiva politicizzazione degli studenti, fenomeno su cui si consumò una frattura all'interno degli stessi intellettuali fautori della nuova educazione.»
Nel 1922 venne finalmente varato lo xin xuezhi, il nuovo sistema educativo articolato su sei anni di istruzione primaria, seguito da un ciclo di tre più tre di scuola secondaria. Nel secondo ciclo assumeva importanza la formazione professionale e l'avviamento al lavoro. L'insegnamento e la diffusione della lingua nazionale (guoyu), letteratura, storia, scienze naturali, matematica ed educazione fisica erano i perni su cui ruotavano le lezioni. Ma le differenze nei percorsi didattici tra ragazzi e fanciulle rimasero, soprattutto nella parte pratica, in vista di ruoli e funzioni sociali e produttive diverse. Era un sistema pubblico, finanziato dallo stato e posto sotto il controllo del ministero per l'istruzione. Come sempre succede, tuttavia, le risorse economiche erano insufficienti. Nonostante già alla metà degli anni '30 il governo avesse deciso di stanziare il 15% della spesa pubblica per la scuola, non si arrivò mai a superare il 4,5%. Nei primissimi tempi i libri di testo erano traduzioni di testi occidentali, la cui produzione venne affidata all'editoria privata. Nelle zone rurali la diffusione procedette a rilento e si sa quanto spazio la "campagna" cinese abbia sempre occupato in termini di percentuali demografiche. Si presume che almeno il 45% di ragazzi di età superiore ai sette anni nel terzo decennio abbia frequentato le prime classi della scuola elementare, tra le forti resistenze opposte dal sistema patriarcale che si vedeva sottrarre "braccia per l'agricoltura". Di fatto, gran parte dei bambini cinesi impararono solo a leggere ed a scrivere utilizzando i vecchi testi dell'epoca imperiale. Solo i grandi agglomerati urbani beneficiarono realmente della prima grande trasformazione del sistema educativo. L'intero peso dei costi scolastici venne riversato sulle comunità locali, che dovettero ricorrere alla tassazione, facendo infuriare i contadini. Non è un film già visto?

(continua)
1) per la verità è uno scritto ancora in gestazione, nel quale, in ogni caso, assegno una importanza prioritaria al "lavoro umano" che rende possibile la sussistenza della specie sulla Terra.
2) Laura De Giorgi - La modernizzazione del sistema educativo dalla fine dell'Ottocento ai giorni nostri in La Cina vol. III Verso la modernità - Einaudi 2011
3) In Anne Cheng - Storia del pensiero cinese - vol.II - Dall'introduzione del buddhismo alla formazione del pensiero moderno - Einaudi 2000
gm - dicembre 2011