Un po' di realismo
Spero si sia compreso che il periodo del
quale ci siamo occupati nel capitolo precedente
fu tumultuoso e terribilmente complesso.
Lo storico intenzionato a svolgere un "buon
lavoro" si trova davanti un oceano di
dettagli e nessuno di questi potrebbe definirsi
irrilevante. Ricondurli ad unico flusso senza
cadere nella tentazione di riscrivere "una
filosofia della storia" è davvero difficile.
Ad una prima lettura, tuttavia, viene in
evidenza che la vicenda cinese a cavallo
tra la metà dell'Ottocento e il 1949, l'anno
della nascita della Repubblica Popolare,
sia comprensibile anche alla luce delle categorie
occidentali della lotta politica, a partire
da Machiavelli. Ambizioni personali, una
complessa rete di intrighi, alleanze spesso
incomprensibili tra raffinati intellettuali
militanti e "Masanielli" di ogni
sorta, tra i quali si potrebbero annoverare
anche antagonisti di spicco come Sun Yat-Sen
e Yuan Shikai, portano, volenti o nolenti,
ad una conclusione perentoria. Fu un periodo
di "guerre civili" pressoché ininterrotto,
di grandi disordini sotto il cielo, di manovre
politiche spregiudicate e bagnate dal sangue
di centinaia di migliaia di individui. Le
istituzioni scolastiche cinesi del Novecento
nacquero e si svilupparono in questo clima
surriscaldato. Mentre il maestro elementare
del villaggio insegnava a cantare canzoncine
occidentali come "Fra Martino",
colonne di mezzi pesanti e soldataglie percorrevano
il paese. Con tutte le tristi conseguenze
che si possono immaginare: gli eserciti non
vivono d'aria. I soldati non si accontentano
di ammirare belle fanciulle, spesso le stuprano.
Mi sono sforzato di evidenziare questi aspetti,
evitando di romanzarli.
Dove si scopre una remota affinità tra il
non-agire dei maestri del dao e la mano invisibile
di Adam Smith
Nelle relazioni internazionali, dopo la prima
"guerra dell'oppio" tra il 1839
e il 1842, la Cina fu costretta a subire
"trattati ineguali" con le maggiori
potenze straniere interessate a commerciare
con il celeste impero. Esse si attribuirono
diritti speciali e privilegi economici. Bisogna
considerare che uno dei problemi maggiori
incontrati dagli occidentali, attratti dalle
dalla possibilità di grandi affari, era quello
di trovarsi alle prese con un "diritto"
civile e penale che non faceva sconti, prevedeva
la tortura e pene durissime per particolari
reati. "Se lo conosci, lo eviti",
direbbe il saggio. Ma, gli occidentali hanno
sempre preferito battere strade diverse,
ad esempio esportando le proprie regole ed
imponendole spesso con la forza. Richiamandosi,
ad esempio, alla pace di Westfalia per le
relazioni tra gli stati ed allo ius gentium per i diritti individuali. Pura ipocrisia
o ferma convinzione? La firma del "Protocollo
dei Boxer" nel 1901 segnò il punto più
basso in quella che si potrebbe definire
la degradazione della Cina ad una condizione
"semi-coloniale". Formalmente indipendente,
si trovava a subire una sospensione della
propria sovranità in punti nevralgici, quali
il controllo dei porti e il diritto di navigazione.
Nel Protocollo era prevista l'esclusività
del controllo straniero sui quartieri occupati
dalle legazioni occidentali, come a dire
che la legislazione e la sovranità cinesi
venivano vanificate ovunque sventolasse la
bandiera di una potenza occidentale. Nel
1866 anche il neonato Regno d'Italia inviò
un suo ambasciatore in Cina.
Come spesso è accaduto nella storia, solo
autentici patrioti - si passi l'eufemismo
- e le categorie più colpite nei loro millenari
privilegi reagirono con orgoglio. In realtà,
la nuova situazione diventava occasione per
un numero crescente di cinesi, specialmente
quelli appartenenti alla fascia della borghesia
mercantile, di migliorare considerevolmente
il proprio volume di affari. A costoro importava
assai poco delle sorti del celeste impero
e della dignità dei suoi dirigenti ed intellettuali.
Accadde, anche per questa via, che mentre
il resto del mondo "scopriva la Cina",
una parte non insignificante di cinesi "scopriva
il resto del mondo" e tutte le sue piacevolezze,
le sue insidie, la sua cultura e le sue ipocrisie.
Nei circoli intellettuali cominciarono a
circolare testi come La ricchezza delle Nazioni di Adam Smith e persino On Liberty di John Stuart Mill. Non si può escludere
che qualche fedele studioso del dao abbia cominciato a vedere nella "mano
invisibile" di Smith un controcanto
alla propria teoria del non-agire, ergo del
non-intervento statale. D'altra parte, è
questo uno dei punti chiave sui quali uno
studioso occidentale potrebbe insistere per
evidenziare la storica contrapposizione tra
"taoisti" e "confuciani".
I secondi non hanno mai rinunciato ad una
teoria del "buon governo" in vista
dell'armonizzazione umana. Con il risultato
finale, assai poco desiderabile, di una proliferazione
burocratica e l'instaurarsi di un regime
di "mandarini" autoreferenziale
ed assai poco produttivo. Quello che oggi
in Italia si chiama "il costo delle
caste". In Cina il costo della casta
è sempre stato elevato ed è spesso arrivato
a punti di rottura e di rivoluzione.
Paradossi del diritto trasformato: sono in
vigore leggi mai entrate in vigore, mentre
i giapponesi dettano legge in tedesco
Sicché, quando lo storico tenta di tematizzare
un argomento di estrema importanza come il
sistema educativo e le sue trasformazioni,
non può esimersi dal considerare la pluralità
di agenti che concorsero alle trasformazioni stesse.
Mutando le fonti del sapere e dell'insegnamento,
passando da Lao Dan e Confucio ad Adam Smith,
alcune costanti sembrerebbero scomparire quando, invece,
si oscurarorono solo temporaneamente.
Rimane di decisiva importanza osservare in
quali teste il sapere "scremato dall'intelligentsia"
venisse dispensato e riversato, e in quali
condizioni si trovassero docenti e discenti.
I giuristi cinesi, proprio di fronte alle
pressanti novità, per molti aspetti angosciose,
si misero al lavoro non solo per attrezzarsi
a resistere ma, anche per aggiornare leggi,
codici e procedure, renderle meno sclerotiche.
Cominciando dallo studio del diritto occidentale
e da dove era più agevole apprenderlo, ovvero
dagli accademici giapponesi, i quali avevano
pressapoco vissuto analoghi problemi in precedenza,
con il passaggio dal sistema feudale degli
shogun alla rinascita dell'impero Meiji. Era probabilmente la prima volta nella
storia che i cinesi andavano a scuola dai
giapponesi, e non viceversa. Ma, erano i
fatti a parlare. Con il ritorno del potere
imperiale e la trasformazione dei samurai in capitani d'industria, il Giappone aveva
voltato pagina cento anni rima della Cina.
Nel 1905 era riuscito a vincere la guerra
con la Russia.
L'impegno produsse un primo frutto significativo
con l'elaborazione di una riforma dei codici
in materia civile, penale e processuale che
seguiva una linea di doppio binario: da un
lato una codificazione ex-novo basata sul diritto europeo e statunitense,
dall'altro il tentativo di rimanere agganciati
al codice imperiale varato nel 1740 ed a
tutta la tradizione millenaria che vi stava
alle spalle. Non solo - si dice - per accontentare
i conservatori ma, per non perdere il filo
d'Arianna con le radici ultime e prime. Ancora
una volta fu un giapponese "occidentalizzato",
Matsuoka Yoshimasa, a scrivere la parte innovativa,
ricavandola dal modello del codice civile
tedesco, a sua volta ispirato al diritto
romano, e furono due cinesi, Zhu Xianwen
e Gao Zhonghe a scrivere la parte tradizionale
che, non a caso, riguardava le regole sulla
famiglia e le successioni. La bozza fu presentata
al trono il 26 ottobre 1911 e non entrò mai
in vigore perché si era nel vivo dell'insurrezione
che portò alla proclamazione delle Repubblica.
Così si capisce perché la pressione degli
eventi e delle circostanze finisce spesso
con l'avere ragione dei tentativi operati
dalla scrivania. Fatica sprecata?
Questa è davvero un'asserzione priva di senso.
La Cina è quel mirabolante paese nel quale
le leggi in vigore non sempre vengono applicate, e quelle mai promulgate
vengono a volte applicate. Scrive Federico Roberto Antonelli:
«Non mancò peraltro nelle aule dei
tribunali una certa confusione, al punto
che la Corte Suprema dovette intervenire
ben due volte nel corso del 1914 a ribadire
l'applicabilità delle vecchie norme [...]
confusione testimoniata anche dal fatto che
la stessa casa editrice Commercial Press,
nel corso di almeno sedici edizioni a partire
dal 1913 della autorevole pubblicazione i
Sei codici della Cina, riportava come codice civile in vigore
il progetto presentato al trono nel 1911
e mai adottato; e la stessa Corte Suprema
contribuiva a tale confusione facendo più
volte riferimento nelle sue sentenze a principi
giuridici contenuti nel progetto di codice
civile del 1911.» (1)
Non è per il gusto sadico di saltare di palo
in frasca ed evidenziare le assurdità che mi sono permesso una mezza libera uscita
dal tema ma, per rientravi da posizioni più
agevoli per gli osservatori realmente disincantati.
Quando si arriva al punto che una suprema
corte di giustizia "prende lucciole
per lanterne" al modo di quella cinese
del 1914, ciò vuol dire che, o è venuta meno
la lucidità, o se ne è imposta una nuova,
sfuggente ed inafferrabile agli appassionati
di logica. Se da un lato appare evidente
che una sentenza giuridica non può fondarsi
su leggi inesistenti ma, solo su quelle esistenti,
dall'altro non si sfugge all'impressione
che "l'arte di arrangiare i processi" non sia un'esclusiva italiana.
La lettera uccide lo spirito come asseriva
quel fuoriclasse di Paolo di Tarso. Il problema
è che quando un giudice sentenzia in base
allo spirito, o ai rapporti di forza, e non
in base alla lettera, la certezza del diritto
va a farsi friggere. I cittadini vengono
a trovarsi in situazioni kafkiane, insieme
ai giudici di primo grado che applicano scrupolosamente
la lettera.
Da ciò si comprende che insegnare "diritto"
in Cina, dopo il 1914, non era impresa di
poco conto. Ma anche impararlo richiedeva
intelligenze fuori del comune.
Questo per dire, in sostanza, che un sistema
educativo slegato dall'attualità e dalle
dinamiche sociali e politiche rischia sempre
di presentare delle falle colossali. Una
scuola separata dalla società e dalle sue vicende reali rischia
di render vero il proverbio "primo a
scuola ed ultimo nella vita". Ma, anche
la tesi opposta, quella che vede nelle intrusioni
della politica un inquinamento delle coscienze,
non è certamente campata per aria. Se sia
possibile "armonizzare" le due
posizioni non è questione risolvibile in
teoria una volta per tutte.
I nazionalisti al potere
Fino al 1927, l'anno in cui si insediò a
Nanchino un governo nazionalista, emanazione
di quello che si potrebbe definire un moderno partito di massa, il sistema d'istruzione cinese era stato
caratterizzato dalla diversificazione. Lo
xin xuezhi varato nel '22 rifletteva ancora un pluralismo
culturale reale e molte delle stratificazioni
determinatesi nel tempo e nello spazio geografico
e sociale. Con la presa del potere dei nazionalisti
si procedette ad un tentativo spinto di unificazione
e centralizzazione. Non solo venne accentuato
il carattere "statale" dell'educazione
ma, venne intensificato il controllo sulle
scuole straniere e private. Anche le missioni
cattoliche e protestanti finirono nel mirino.
Occorreva procedere ad un'educazione a forti
tinte ideologiche sulla linea dei "tra
principi del popolo" formulati da Sun
Yat-Sen, figura peraltro controversa e con
molte ombre, come si rammentava all'inizio.
Il livello universitario era al momento il
più internazionalizzato e pluralista. Il
ministero dell'Istruzione nazionalista impose
ai centri universitari collegati alle chiese
cristiane di cancellare i corsi obbligatori
di religione. L'università Qinghua, inizialmente
finanziata dagli americani, venne nazionalizzata.
«La scuola superiore e l'università
- scrive Laura De Giorgi (2) - ricevettero
un'attenzione particolare da parte del governo.
Nella visione di modernità che improntava
l'azione del partito nazionalista la priorità
venne attribuita all'industrializzazione
e alla modernizzazione del sistema produttivo.
Di conseguenza l'azione del ministero dell'Istruzione
tese, oltre che a rivitalizzare l'istruzione
magistrale per fornire sufficiente e adeguato
personale docente, anche a enfatizzare l'istruzione
professionale e tecnica a scapito dei percorsi
formativi tradizionalmente destinati all'università.
Fondi più consistenti vennero indirizzati
allo sviluppo di istituti superiori magistrali
e tecnici, i cui curricula e la cui gestione
vennero differenziati da quelli delle scuole
superiori ordinarie.» Lo sforzo principale
del Ministero dell'Istruzione fu compiuto
per distogliere gli studenti dalla tentazione
di seguire all'università percorsi umanistici
e indirizzarli a studi scientifici e tecnici.
Le risorse umane su cui contare cominciavano
ad essere di nazionalità cinese. Nel 1896
Tan Sidong aveva fondato una Società di matematici,
la Suanxuezhe, probabilmente la prima associazione scientifica
modellata su criteri occidentali. Ma già
nel '95 era sorta una società geografica,
Yudi xuehui, e il 1897 vide nascere la Nongxue hui, un'associazione per lo studio scientifico
dell'agricoltura. «In certi campi,
tuttavia, l'iniziativa cinese non ebbe successo:
l'Associazione cinese di fisica, ad esempio,
non fu fondata che più tardi - come scrive
Iwo Amelung (3) - nel 1932, sotto la spinta
del famoso fisico francese Langevin, che
nella sua qualità di ispettore appartenente
a un'équipe della Società della Nazioni,
aveva visitato la Cina nel corso dell'anno
precedente.»
E se manca la copula?
«E' luogo comune duro a morire - scrive
Amelung - quello secondo cui la lingua cinese
sarebbe priva di alcuni tratti essenziali
alla trasmissione di un sapere "esatto"
o "scientifico". Tale concezione
era assai diffusa nell'Ottocento, quando
il cinese era considerato una lingua "rozza",
e ancora nel 1889 il "North China Herald"
osservava: "ci sembra più facile per
un cieco dalla nascita imparare ad apprezzare
i colori che per un cinese che con conosca
altro che la propria lingua raggiungere l'eccellenza
nella scienza moderna". E persino nel
Novecento alcuni filosofi e sinologi convengono
che l'assenza di copula, insieme ad altri
supposti "difetti" della lingua
cinese, sarebbe responsabile di una pretesa
assenza in Cina di un pensiero "logico"
o "scientifico". Tale convincimento
si è dimostrato fallace alla luce delle traduzioni
degli scritti occidentali di logica condotte
fin dal tardo Ottocento, caratterizzate sì,
talora, da certe idiosincrasie, ma tuttavia
corrette e perfettamente comprensibili.»
In realtà, si trattava solo di problemi di
terminologia. Il primo dei quali era costituito
dalla mancanza di una parola che definisse
la "scienza", «per non parlare
di termini utili a indicare le singole discipline
scientifiche - aggiunge Amelung.» Termini
elementari come "rifrazione" e
"diffrazione", "elemento chimico",
o più complessi come "legge naturale",
non esistevano ancora in cinese. La storica
difficoltà venne superata con la più semplice
delle soluzioni: l'introduzione di neologismi,
i quali diventano necessari quando si tratta di definire "cose",
"procedure", "relazioni"
ed anche categorie dello spirito non ancora nominate. Non è qui il caso di imbarcarsi in disquisizioni
su scenari post- babelici e post-moderni.
Se tutti i concetti necessari a fare una
bomba atomica o costituire una società per
azioni sono stati assimilati, verificati,
falsificati, implementati e resi operativi
dai cinesi che hanno studiato, vuol dire
che anche la lingua cinese, opportunamente
riformata ed arricchita, è in grado di rendere
comprensibili i linguaggi della scienza.
(continua)
1) Federico Roberto Antonelli - Il processo di modernizzazione del diritto
cinese - in La Cina vol. III - Verso la modernità - Einaudi 2011
2) Laura De Giorgi - La modernizzazione del sistema educativo
dalla fine dell'Ottocento ai giorni nostri in La Cina vol. III - Verso la modernità - Einaudi 2011
3) Iwo Amelung - Lo sviluppo della scienza moderna - in La Cina vol. III - Verso la modernità - Einaudi 2011
In Anne Cheng - Storia del pensiero cinese - vol.II - Dall'introduzione del buddhismo alla formazione
del pensiero moderno - Einaudi 2000
gm - gennaio 2012
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