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Derek Parfit

L'etica di Derek Parfit / parte I
di Guido Marenco
Reasons and Persons. Dove son finiti gli individui?
Carl Gustav Jung scrisse da qualche parte - cito a memoria e quindi non ricordo dove - che è difficile, se non impossibile, che una mente ristretta possa comprendere un individuo di tipo superiore. Credo volesse dire che il malcapitato finirebbe col coglierne solo aspetti molto parziali, attaccarsi a piccolezze e dettagli insignificanti. Nelle mie riflessioni, questa considerazione è riecheggiata più come un ammonimento che come una verità assoluta. Un ammonimento da prendere tremendamente sul serio, tuttavia, perché anche nel mondo della cultura e dello studio si assiste all'increscioso spettacolo della critica all'ingrosso che muove da una piccolezza per amplificarla sempre più, fino a farne un assoluto. Iniziando a scrivere di Derek Parfit, non potevo non ricordarmi dell'avvertimento di Jung. Parfit tende a sfuggire a qualsiasi tentativo di inquadramento razionale. E' un "mistico senza Dio"; risente di quella attrazione per il vuoto che caratterizza le filosofie orientali dopo il Buddha. Credo sia stato influenzato da Osho, il più popolare tra i guru indiani e certamente il più letto in occidente. La filosofia di Parfit è un tentativo di tradurre il misticismo del vuoto e dell'amore incondizionato e spersonalizzato nel linguaggio dei filosofi analitici. Se ho trattato Parfit da pari a pari, senza la deferenza che si dovrebbe ai "mistici" di grande formato, è perché anche costoro, quando scendono in campo per stimolare una discussione pubblica su questioni pubbliche e non parlano di "ritiro dal mondo e di rinuncia all'appropriazione progressiva" ma, di distribuzione razionale e benefici sociali, devono accettare di sottoporsi alle medesime regole di noi comuni mortali. Non è mia intenzione negare che sarebbe meglio vivere in un mondo di altruisti, più equo e solidale. Questo è ovvio. Ma, nella realtà non è così, pertanto rispetto alle intenzioni di Parfit, che inizialmente erano quelle di depotenziare la persona, mi vedo costretto a difendere l'individuo nella sua integrità e nei suoi diritti fondamentali. Parlo di "individuo" e non di "persona" e di "identità personale", a differenza di Parfit. Nella letteratura filosofica (e teologica) la "persona" non è l'esatto sinonimo di "individuo umano"; assume significati diversi, a volte perfino incommensurabili. La teologia ed il sorgere del personalismo cattolico hanno contribuito ad aumentare la confusione, perché hanno identificato l'individuo con la "persona", rimuovendo del tutto la considerazioe basilare che le tre "persone" della trinità sono tre aspetti e tre funzioni dell'unico Dio, ovvero tre apparenze fenomenologiche di un'unica sostanza. Tre diverse parti recitate. ricorrendo a tre maschere e tre manifestazioni diverse. Sicché oggi potrebbe sembrare persino liberatorio scagliarsi contro la "persona".e il "personalismo". Purtroppo, si corre il rischio di attaccare anche l'individuo e la sua dignità.
Se insisto su questa differenza è perché la credo fondamentale. Non posso ragionare sul pensiero di Parfit senza fare riferimento al mio. In teoria, potrei concordare con Parfit sulla possibilità di depotenziare la persona . Il disaccordo, tuttavia, non tarderebbe a manifestarsi perché laddove Parfit lascia spazio unicamente a "stati mentali successivi", non necessariamente connessi da un filo logico, il sottoscritto crede fermamente nella continuità del filo, il quale, purtroppo, appare e scompare dall'orizzonte della lucida visione della coscienza come un fiume carsico. Quando un individuo muta improvvisamente il proprio modo di pensare e di agire, dovrebbe essere sempre in grado di dar conto del vecchio e farebbe bene a farlo. Per Parfit, ciò, al contrario, non ha molta importanza, anzi, ne ha davvero poca. Demolita la "persona" - che io chiamerei diversamente, definendola esagerata attribuzione di senso alla propria importanza personale - Parfit ci consegna alla confusione delle pulsioni e dei sentimenti incontrollati. Suggerisco una strada diversa, quella della riscoperta dell'individuo, la quale si accompagna alla riscoperta dell'altro, ed in senso esteso, degli altri. Per liberarsi realmente della "persona", occorre partire dal presupposto che la "persona" è una maschera, come nell'antico significato tragico e comico del termne. Ci sono "persone" e "personalità" con tratti marcati ed altre con tratti più sfuggenti e di difficile descrizione. Vuol dire, che l'individuo indossa più maschere, a seconda delle circostanze. La "persona" è la "maschera" con cui l'individuo si lega strettamente alla "funzione" che intende svolgere grazie alla maschera stessa. Quando qualcuno giunge ad identificarsi totalmente con le proprie maschere, vuol dire che la persona si è impadronita dell'individuo, il quale perde così una sua libertà fondamentale, quella di essere un essere umano integro e non una funzione, od una finzione estetica. Che è sicuramente meglio che sentirsi unicamente realizzati come persone. Chi non concederebbe la finzione estetica alla propria compagna od al proprio maritino? Mah?!
E' mia convinzione iniziale che Parfit queste distinzioni non le abbia fatte, e non ci abbia nemmeno provato. I suoi argomenti contro l'identità personale rischiano di diventare così grossolani tentativi di sgretolare l'individuo, l'essere umano, il fantasioso che può assumere molte maschere ma, che alla fine torna ad essere se stesso spogliandosi di tutte le pose statuarie ed equestri, comprese le etichette ed i ritocchi cosmetici. Vedremo se è così a partire da Reasons and Persons (tr. it. 1989, Ragioni e Persone - Il Saggiatore). E qui occorre un'ulteriore precisazione: se scrivo tutto questo non è per prendermi lo sfizio di demolire il demolitore della coscienza ma, semplicemente perché credo che il futuro appartenga a individui responsabili verso se stessi e verso gli altri e non a deresponsabilizzati parziali e totali. Vorrei che ci fossero più individui nei posti di massima responsabilità e meno mascherine; Carnevale dura un giorno solo, prima è quaresima o, se si preferisce, ramadan.

Felicità... ta ra tatatira taratatatà
La riflessione sull'etica condotta da Derek Parfit solleva questioni che vanno molto al di là della visione corrente e tradizionale dell'identità personale e la sua continuità nel tempo. Viene messa in causa l'esistenza degli individui nella loro irriducibile specificità e singolarità di agenti coscienti. Parfit si richiama al riduzionismo ed all'utilitarismo, subordinando la giustificazione del secondo a nuove argomentazioni trovate mediante il primo. L'intenzione di Parfit è palesemente quella di giustificare l'utilitarismo, non di superarlo con una teoria più completa ed universale.
Il riduzionismo, al contrario, viene utilizzato in modo assai diverso da come in genere si usa il riduzionismo fisico e biochimico in campo scientifico ed epistemologico. Parfit afferma infatti che corpo e cervello di un individuo non sono costituenti indispensabili a certificare l'esistenza di un soggetto attivo. A tale fine sono sufficienti gli stati mentali. Sorprende ma. non troppo, quindi, che Parfit riabiliti il dualismo platonico anima-corpo, cioè quanto di più radicalmente anti-riduzionista sia stato pensato, ad esempio, contro l'atomismo di Democrito nell'antichità e contro l'attuale fisicalismo-meccanicismo di Daniel C. Dennett e i suoi studi sulla coscienza e l'intelligenza artificiale.
Per Parfit, le persone esistono solo perché abbiamo assunto l'abitudine di "parlarne come se esistessero veramente". In realtà, secondo Parfit, potrebbe essere che quando vediamo un amico a distanza di tempo, incontriamo un altro stato mentale, una diversa identità, probabilmente provvisoria. Noi stessi non saremmo più quelli di una volta ma un nuovo stato mentale. Tuttavia, l'identità rimane analizzabile: per Parfit è ancora possibile un criterio d'identità informativo che non menzioni le persone e non rinvii ad un fatto ulteriore (further fact) quale l'ente separatamente esistente. E' possibile dare una completa descrizione del mondo che non faccia alcuna menzione dell'esistenza delle persone.
Senza persone, avremmo così una realtà priva di "soggetti di coscienza". Gli stati mentali non appartengono all'ente particolare, ma possono raggrupparsi in fasci (bundles) che accomunano più individui in un gioco di relazioni e scambi. La teoria dei fasci non esclude in modo assoluto l'esistenza delle persone ma, rifiuta di attribuire ad esse il carattere pre-analitico di persona: quello di essere un "soggetto" sempre capace di intendere, volere, agire in piena coscienza e lucidità. Parfit, allora, suggerisce di riconoscere l'esistenza delle persone in forma indebolita e ontologicamente secondaria. Una soluzione avversata da chi continua a credere nel'esistenza di se stesso come dato di cui esser certo, l'alfa e l'omega di tutti i ragionamenti. Il soggetto che si pensa come soggetto consapevole, troverà sempre di che obiettare senza necessariamente conoscere la storia della filosofia ed il ruolo che vi ha giocato l'utilitarismo. Ad esempio, come sostengono alcuni storici e filosofi, nella promozione e nella diffusione del Welfare, lo stato sociale che offre ai cittadini servizi essenziali nel campo dell'istruzione, dell'assistenza sanitaria, della previdenza, nonché sussidi di disoccupazione. E' un'affermazione che non tiene conto del contributo decisivo giocato da altre correnti di pensiero come il socialismo utopistico e quello marxista, soprattutto quello revisionista inaugurato da Bernstein. Tentare di ridurre lo stato sociale ad un orizzonte utilitaristico è tipico di una mentalità anglo-americana che rivendica un primato ed una originalità in campo filosofico discutibile sotto ogni punto di vista. La formula della "azione a vantaggio della felicità del maggior numero" ha sempre rischiato di ridurre il problema dell'uguaglianza sociale e dei diritti umani ad una questione di estensione del diritto al piacere, ed il piacere stesso ad elementi prossimi alla volgarità. Se si pensa che nell'antichità, come riporta Aristotele, c'era chi considerava "ogni piacere un male", si ha un'esatta misura di quanto sia difficoltosa l'impresa del filosofo occidentale intenzionato a sbrogliare la matassa davanti all'uditorio più ampio possibile. Filosofo che potrebbe imbattersi assai presto nell'affermazione dello stesso Aristotele nell'Etica Eudemia: gli agricoli vivono per il vino e per il coito. Nient'altro. L'osservazione dei fatti non è disgiunta dal giudizio su tale forma di vita. La si potrebbe far derivare da una scala di preferenze che riconosceva qualcosa di più importante del vino e del coito. Ma, anche da una scala di preferenze che si limitava a considerare l'assenza di altre preferenze e possibilità: ad esempio una vita di ricerche e contemplazioni. Nella storia della filosofia non sono mancati tentativi di dare una maggiore profondità a ragionamenti dedicati al vino e alle questioni d'amore e di libero amore - continuare a parlare di coito mi sembra maledettamente riduttivo - ma gli argomenti a favore della felicità son sempre parsi piuttosto unilaterali. In ogni caso, lo scopo dello stato sociale ha di mira obiettivi meno altisonanti della "felicità" e meno edonistici del "piacere". Nel suo insieme è stata una conquista sofferta e non una generosa concessione di altruisti ricchi sfondati, o di governanti particolarmente illuminati. Probabilmente, in Inghilterra esiste una memoria distorta del suo sorgere legata ai tempi di Speenhamland ed alla devastante decisione di sostenere il capitalismo straccione delle zone rurali mediante l'integrazione dei bassi salari con sussidi finanziati dalla fiscalità. (1) Fu una decisione dettata dal calcolo politico, ovvero dal timore di un contagio rivoluzionario proveniente dalla Francia. Sostituendo il bastone con la carota, i "lungimiranti" convenuti all'Osteria del Pellicano pensarono di allontanare lo spettro della rivoluzione, o meglio, il pericolo di sommosse, con una soluzione iniqua: far pagare ad altri una parte del salario che il singolo imprenditore avrebbe dovuto ai suoi lavoratori. Rimedio peggiore del male? Alla luce di una teoria del potere che abbia di mira il semplice mantenimento del potere stesso il più a lungo possibile, probabilmente no. Alla luce di una diversa teoria del potere, quella che dovrebbe avere di mira la crescita e la responsabilizzzazione dei singoli, consapevoli di quello che stanno facendo ed in quale situazione si trovino, assai più probabilmente sì. Le vaghe coordinate del pensiero utilitaristico non arrivano a cogliere questo livello del problema, che è poi il problema stesso di ogni democrazia diretta ed indiretta che sia. Chi partecipa alle assemblee deliberative è cosciente e preparato, od è uno dei tanti stati mentali successivi in circolazione, un tanto al chilo?

Operazione ideologica?
Difendere l'utilitarismo in blocco, senza uno sforzo critico ed una presa di distanza dallo slogan sulla felicità rischia di divemtare un'operazione puramente ideologica. Ciò non toglie che dall'ampia letteratura che lo riguarda sia possibile estrarre qualche riflessione di valore particolare e, a volte, generale. Non è in questione la sua verità o la sua falsità in senso assoluto ma, il modo in cui viene usata la letteratura od anche la singola citazione. Ad esempio, per fare discorsi demagogici a favore dell'economia di mercato, o persino contro di essa. Anche un monopolista potrebbe disinvoltamente richiamarsi all'utilitarismo per giustificare il monopolio: "sto lavorando per la felicità del maggior numero di consumatori, se ci fosse concorrenza, non raggiungerei i miei lodevoli scopi." Se il monopolio fosse detenuto dalla stato, la situazione non varierebbe in modo significativo.
A mio modo di vedere, cercare di difendere una dottrina è quasi sempre ideologico e nel caso dell'utilitarismo e della sua beata vaghezza, diventa un'operazione prossima alla futilità. E' ovvio che gli individui cerchino il piacere e cerchino di evitare i dolori fisici, i lavori pesanti, la miseria e le sofferenze psichiche. Probabilmente, è meno ovvio, anzi, per molti è decisamente contro intuitivo, capire che per conseguire un'autentica realizzazione individuale, è necessario soffrire e rinunciare. Nessun pasto è gratis, diceva Milton Friedman. E questa, bisogna riconoscerlo, è una grande verità, anche se viene da quello che considero un mio avversario. Il paese dei balocchi, insegnava Collodi nella fiaba di Pinocchio, trasforma gli individui eterodiretti dalle sirene del consumismo e della feticizzazione, in somarelli. Mi chiedessero se è più educativo Pinocchio o Parfit, non avrei dubbi.
Comunque sia, si può entrare nel merito del pensiero di Parfit animati da lodevole curiosità. Per certi aspetti, come si vedrà, ne vale la pena.

Attaccare per difendere
La difesa dell'utilitarismo attuata da Parfit è indiretta; avviene mediante l'attacco ai principi distributivi, ovvero a concetti di giustizia ed equità che ispirano teorie forti dell'uguaglianza umana riversabili nella prescrizione del socialismo o dello stato sociale moderato da regole severe e dal senso di responsabilità di ciascuno verso il bene comune. La critica di Parfit - come evidenzia Luca Ferrero (2) - opera una specie di somma algebrica di due tesi:
1) la portata (scope) del principio distributivo, ovvero la somma aritmetica dei beneficiati.
2) l'opposizione che suscita l'equa distribuzione in termini di peso (weight) tra quelli che patiscono l'obbligo della donazione. .
Se con portata si intende il numero degli enti coinvolti nella prescrizione distributiva, abbiamo che l'utilitarismo si può giustificare solo sulle considerazioni relative al peso, considerato troppo oneroso. La portata, infatti, alla luce, delle stesse premesse di Parfit, è incrementata dalla comparsa di nuovi destinatari, ovvero le stesse persone che non sono più le stesse, ma stati mentali successivi di se stesse, diventate altro da se. Questa proliferazione di alter ego, a rigor di logica aritmetica e algebrica non incrementa il numero di bocche da sfamare. :-) Ma potrebbe moltiplicare le esigenze. Ad esempio: un giovane disoccupato comincia a frequentare ambienti marginali, diventa tossicodipendente in virtù di un successivo stato mentale. Il Welfare deve aprire una seconda cartella che lo riguarda. Dopo un terribile incidente causato dal consumo smodato di alcool e droga, perde una gamba. Le sue esigenze crescono e il Welfare apre una terza cartella. Il nostro decide saggiamente di farsi riconoscere come invalido civile: siamo alla quarta cartella. Ovviamente, non sempre le cose vanno così e le esigenze si moltiplicano indipendentemente dalla successione di stati mentali di progressiva degenerazione ma, non è infrequente che si sviluppino in quella direzione in seguito ad una perdita di quello che si potrebbe chiamare "il timone della vita". La teoria di Parfit non provoca, di per sé, alcun effetto diretto su individui che trovano difficoltà ad assumere e mantenere l'autocontrollo ma, rischia di trasmettersi in chiave ultra-permissivistica ed ultra-umanitaria. E io pago - diceva Totò. Ovvero ad essere spremuti son sempre i soliti noti, quelli che in genere cercano di educare i figli e le figlie ad una vita onesta e responsabile.

La vera domanda, a questo punto, potrebbe essere: perché Parfit rifiuta di riconoscere la separatezza delle persone?
Perché intende respingere la tesi di John Rawls, la quale contesta all'utilitarismo di non tener conto della separatezza reale esistente nelle società. Infatti applica il principio di scelta che vale per un singolo individuo ad un insieme formato da tutte le persone. L'utilitarismo guarda all'insieme di tutti gli individui come si trattasse di un'unica superpersona. O, come dice Ian Carter: «L'utilitarista tratta la collettività come se fosse una persona sola, che cerca di massimizzare il suo benessere sacrificando la soddisfazione di alcuni suoi desideri a favore della maggiore soddisfazione di altri. Il problema è che questi desideri sono desideri di persone diverse.» (2) Ragione per cui, Rawls dichiara preferibile un aumento del reddito pro-capite rispetto all'estensione dell'utilità pubblica e privata al maggior numero. Ognuno spenderebbe i suoi guadagni in base alle proprie preferenze ma, non si sentirebbe travolto dallo spam di un'offerta invasiva e di bassa qualità. (3) Che, in realtà, tradotto in un linguaggio molto franco, significa che lo stato spende molto per recuperare ed assistere tossicodipendenti e rinuncia a spendere in direzioni più qualificate. E' dura da digerire per individui (persone?) che vengono da esperienze di sinistra - e contnuano a rimanere tali, come il sottoscritto - ma è giunto il momento di riflettere anche su questi punti. L'unico vero problema che pone la teoria di Rawls è che per realizzarsi richiederebbe una nuova versione di socialismo, il che potrebbe risolversi in una contraddizione rispetto alle sue stesse intenzioni di equa distribuzione delle risorse avendo a disposizione un mercato ricco di offerte. Finora non s'è ancora visto un socialismo senza pianificazione, la quale porta inevitabilmente a situazioni di penuria di beni differenziati. Cosa ce ne facciamo del denaro se non sappiamo come spenderlo perché c'è scarsità degli oggetti del desiderio e persino della necessità?

A chi verrà servito oggi il nostro corpo offerto in sacrificio? Il filo d'Arianna che guida all'uscita del Labirinto
Parfit, tuttavia, rifiuta l'interpretazione dell'utilitarismo data da Rawls, invertendo semplicemente la direzione del processo di annullamento dell'individualità. Dovrebbe accadere che gli individui non siano più fagocitati dal super-organismo ma si disintegrino nelle loro componenti. Verrebbe da chiedersi: che differenza fa per l'individuo? E' come scegliere se venire ingoiati da un grosso squalo in un sol boccone o fatti a fettine dai pirañas. La separatezza delle persone, fatta uscire dalla porta, rientra dalla finestra come un grosso gatto sonnacchioso ma, sempre in grado di svegliarsi e scattare agile. E' un fatto ineludibile. La nascita di gemelli siamesi è considerata una gravissima anomalia, una condizione insopportabile a cui tentare di porre rimedio. Gli istinti e le pulsioni che caratterizzano la condizione umana primaria sono egoistici. Quando si capisce che conviene entrare in un circuito di relazioni eque e solidali piuttosto che rimanere in quello basato sullo sfruttamento, si può ancora parlare di egoismo ragionevole. E' una conseguenza dell'egoismo intelligente ed opportunista. Essere altruisti è difficile e non è del tutto naturale e spontaneo, anche se molti studi psicologici sull'empatia sembrano mostrare che vi sono individui molto sensibili, o più sensibili della media statistica, alla sofferenza ed ai punti di vista altrui. Tuttavia, rimane possibile che il balzo ad una visione altruistica avvenga per un'intuizione intelligente dei principi del socialismo cooperativo. "Quello che converrebbe a tutti, conviene anche a me, qui ed ora, domani, ai miei discendenti". Specialmente se non sono ricco di famiglia o dotato di super-poteri.
Il filo d'Arianna che lega le fasi della vita di un individuo mediante uma memoria consapevole dei Minotauri che abbiamo dovuto uccidere, anche quando interrotta in più punti, è il migliore argomento contro le rotture inconsapevoli suggerite da Parfit. Il quale, d'altra parte, sembra dimenticare che uno dei possibili stati mentali derivante dalle discontinuità che predilige, consiste nella condizione mistica dell'incomunicabilità dei propri contenuti di coscienza. "Ho una coscienza di tutto che supera la mia capacità mentale di ordinare un pensiero coerente". E questo è strano, perché in definitiva, la teoria di Parfit avrebbe molte più chances di essere accolta da una comunità di "mistici" priva di "persone-maschere", o personalità con residui di egoismo.
Composto negli anni della Thatcher e dei furori reaganiani, Reasons and Persons cadeva in un periodo nel quale si sosteneva con disinvoltura che "non esiste la società, esistono solo individui". Era dunque, a pieno titolo, un lavoro che andava contro lo spirito dominante dei tempi. Probabilmente, fu per questo che godette qualche favore isolato insieme alle forti critiche dei liberisti.

Meglio l'imparzialità che l'annegamento dell'individuo?
Parfit - .come sottolinea Ferrero - prende molto sul serio l'apersonalità e rifiuta l'impersonalità. Il motivo è intuibile oltre ciò che suggerisce il bravo Ferrero: l'impersonalità non è sufficientemente mistica. L'imparziale non risponde alla suggestione di annullarsi completamente, disintegrandosi in diversi ed incomunicabili stati mentali. L'imparziale, per rimanere tale in piena lucidità, deve ancora ricorre a categorie consolidate del pensiero. Ad esempio quella della Objection to Balancing. Una teoria che afferma che non si possono infliggere costi ad una data persona in cambio dei benefici ottenuti da un'altra persona. Considerandola, ovviamente come un conto economicistico di dare ed avere, e che quindi ha poco a che vedere con le donazioni gratuite di sé in un'attività di volontariato, od assistendo un parente od un amico in difficoltà. O con la generosità dei genitori nei confronti dei figli. Con Parfit, ovviamente, queste distinzioni rischiano di affogare nel grande oceano del mistico ma, il punto è un altro: egli sembra credere realmente che solo la sua teoria della riduzione della persona ad entità ontologica secondaria possa avere ragione della resistenza a dare e prendere disinvoltamente. Purtroppo non siamo nella mensa di un monastero ma, in un ristorante dove si paga il conto.
Potrebbero convergere su Parfit tutti coloro che insegnano a ridurre l'importanza personale, considerandola come quella maschera indossata per nascondere la pochezza interiore. Od anche tutti coloro che quando smettono di indossare una divisa, cessano anche di sentirsi qualcuno. E' in chiave extra-utilitaristica, in sostanza, che il pensiero di Parfit potrebbe davvero tornare utile a molti individui che hanno investito troppo sulle apparenze della vita invece che su benesseri fondamentali. Purtroppo, nel percorso riduzionista tracciato da Parfit per annullare le separatezze più artificiose tra gli individui, il senso dell'operazione si perde. Già chiamarlo riduzionismo è un errore, dato che si rivolgerebbe ad individui che si sono autoridotti ad una funzione, o si sono fatti ridurre dalle pressioni sociali, perdendo importanti qualità umane. Volgerlo al servizio di una dottrina vaga come l'utilitarismo, porta solo a sospettare che Parfit non abbia visto di meglio. Ovvero, abbia saltato il fondamentale passaggio della visione imparziale. (5)

(continua)

1) Guido Marenco - La rivoluzione industriale - capitolo VII http://digilander.libero.it/moses/rivindu7.html
2) Luca Ferrero - La teoria dell'identità personale di Parfit e l'utilitarismo - Leo S. Olschki editore MCMXCIV (estratto da Annali del dipartimento di Filosofia - Università di Firenze IX 1993) Fino a poco fa era disponibile scannerizzato in formato Pdf.
3) AA.VV. (a cura di Ian Carter) - L'idea di uguaglianza - Feltrinelli 2001 / dall'introduzione di Carter.
4) esempio mio: si veda l'offerta televisiva in Italia e a cosa è stata ridotta con la concentrazione monopolistica delle testate. Anche questo è stato agire per la felicità del maggior numero
5) Si badi che anche il Buddha, pur privilegiando la liberazione dalla sofferenza e dal dolore in chiave pressoché assoluta - è il vivere in sé che procura dolore - si preoccupò di precisare che ci sono dolori aggiuntivi procurati dall'ingiusto agire umano. E prescrisse retto pensiero e retto comportamento, indispensabili alla liberazione. Sono concetti chiarissimi che non si trovano facilmente nel pensiero di Parfit, per non dire di quello di Osho.

gm - luglio 2012


Jeremy Bentham

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