capitolo 7: lavoro e lavoratori durante la rivoluzione
industriale
di Guido Marenco
L'artigiano diventa capitalista, il garzone
diventa operaio
«E' certo - scriveva Mantoux - che,
prima della grande industria, vi furono uomini
che svolsero il ruolo di manifatturieri,
ma essi non formarono una classe di capitalisti.
Nella lingua inglese non esisteva neppure
un termine per definirli. Il termine manifacturer significava indistintamente operaio e padrone
e più spesso il primo che il secondo. Un
eminente manifacturer di Manchester, verso il 1720, scendeva in
officina alle 6 del mattino, mangiava con
i suoi operai una zuppa d'avena e si metteva
al lavoro insieme a loro. Entrato negli affari
senza capitali, si guadagnava la vita giorno
per giorno e se, dopo anni di lavoro, aveva
risparmiato un po' di denaro, lo metteva
da parte, senza cambiare per questo le sue
abitudini. Non usciva mai dall'officina,
beveva vino una volta all'anno, per Natale.
Il suo passatempo preferito consisteva nel
riunirsi alla sera con qualche collega in
una taverna dove di solito beveva quattro
pences di birra e si fumava mezzo penny di
tabacco.» (Mantoux, cit.)
Padroni senza capitali, senza cultura e senza
ambizioni esistevano ovunque. Ed operai con
un po' di risparmi non erano forse rari come
si crede; divennero padroni d'una bottega,
a loro volta, forse sposando la figlia del
padrone, ma rimasero senza capitali perché
un risparmio non fa capitale se non hai talento
per la speculazione e molto vento in poppa.
Ma via via che le cose mutavano, la dimensione
artigianale che comportava la comunanza di
vita dipinta da Mantoux andò scemando.
Il figlio di quel padroncino di Manchester,
alla morte del padre, si trovò un bel conto
in banca. Avesse studiato o meno, poco importava.
Di rifare la vita del babbo non aveva alcuna
intenzione. Meglio guardare lavorare che incatramarsi mescolando sudore
e fuliggine. Meglio ancora nominare un capo-officina
od un capo-bottega, e poi andare a spassarsela,
o mettersi in affari, magari speculando sul
gruzzolo con investimenti sui mercantili
che correvano per gli oceani.
Certo: ad alcuni andò bene, a tutti gli altri
no. E la legge della jungla a fare la selezione,
non quella descritta da Kipling, ma quella
esposta da Machiavelli e poi da fior di economisti:
sopravvive il più forte, il più astuto, il
più spregiudicato, senza dimenticare la prudenza
e la fortuna.
Tra padroni ed operai viene così a realizzarsi
una distanza, la stessa che già esisteva tra aristocratici
e mercanti, tra mercanti ed artigiani di
bottega. Ma questa volta, il solco era destinato
a farsi ancora più profondo.
L'operaio moderno è responsabile di se stesso
La figura del lavoratore salariato è un classico
della modernità. Rispetto allo schiavo del
mondo antico, od al servo della gleba del
periodo feudale, sembra godere del vantaggio
inestimabile della libertà. Ma, a guardare
le cose da vicino, quella libertà sembrava
più che altro un peso aggiuntivo ai tanti
che già si dovevano portare.
Il classico commento alla schiavitù di Aristotele,
per il quale, in un certo senso, è comodo
essere dipendenti in tutto da un padrone
in quanto non tutti sanno condursi da soli,
e nemmeno vogliono provarci, ormai non vale
più. La nascita di un moderno mercato del
lavoro pone la povera gente in condizioni
del tutto nuove: devono essere responsabili
di sé stessi e della propria famiglia. Altrimenti
nessun altro ci pensa. Questo è l'operaio
vero, in carne ed ossa, una figura già emersa
prima dello sconvolgimento industriale, ma
che solo durante e dopo diviene figura sociale.
Questa storia, iniziata praticamente nel
medioevo, quando la gente si trasferisce
in città e comincia a lavorare in bottega,
trova il suo parziale compimento nella manifattura
descritta da Mantoux. Ma è solo quando il
padrone non si vede più, ed al suo posto
ci sta un sorvegliante, che la vicenda si
conclude. Il padrone non è più né un amico,
né un "padre", né un istruttore
in arti e mestieri. E' un'entità spesso invisibile
e sconosciuta cui non si sa mandare maledizioni
od ipocrite benedizioni. L'operaio è definitivamente
orfano e, soprattutto, si sente inesplicabile
vittima di una sfortuna cosmica.
Salario e profitto son due cose sempre più
diverse: l'uno basta solo a tirare a campà,
l'altro sembra crescere a dismisura.
Come ha recentemente osservato Zygmunt Bauman
in uno studio sulla fase attuale, ciò che
rende poveri non è solo l'esigenza primaria
insoddisfatta, la mancanza di pane, per capirci.
E' l'estendersi dei bisogni, è l'evolversi
dei costumi e la diffusione di un po' di
sapere "scientifico" sia pure volgarizzato.
E' lo sviluppo stesso.
Quando il padrone cessa di mangiare zuppa
d'avena seduto accanto a te, la cosa non
finisce lì. Ecco che nel quartiere appare
un medico coi capelli rossi ed un po' di
lentiggini, sedicente illuminista in odore
di deismo (o persino di ateismo). Predica
cose strane, è un pericoloso sobillatore,
dice che nella zuppa va aggiunto un pezzo
di carne, e che ai pargoli va data una porzione
di formaggio ed una coperta di lana per ciascuno.
Ovviamente, è rispetto alle nuove esigenze
che si può tranquillamente parlare di nuova
povertà, come del resto accade oggi su scala
ancora più grande. In Africa ci si sente
poveri non solo perché mancano il pane e
l'acqua, ma perché la medicina contro l'AIDS
costa troppo e lo stregone è una figura screditata
dalla scienza di uomo bianco. In Italia ci
si sente poveri perché non si ha la payTV
o l'ultimo ritrovato dei cellulari che fanno
fotografie, cuociono la pizza e grattano
la schiena.
Una sola parola: precarietà
In tale sommovimento, la precarietà era all'ordine
del giorno, e quanto più si sognava la stabilità,
la certezza di un reddito fisso, tanto più
essa cresceva. Abbiamo visto nei capitoli
precedenti l'ostilità con cui venivano accolte
le innovazioni tecnologiche. L'inventore
di macchine era considerato non un eroe,
ma un nemico. Ovunque si impiantasse un macchinario,
immediatamente si creava disoccupazione.
Solo l'aumento della produzione determinava
un assorbimento relativo dei disoccupati,
ma i mutamenti erano talmente rapidi che
spesso non si faceva in tempo ad entrare
in confidenza con una spinning-jenny che già ti ritrovavi sulla strada per via
della water-frame.
A questi aspetti generali, vanno aggiunti
gli elementi più raccapriccianti come l'impiego
massiccio dei bambini e delle donne, persino
dei vecchi, nella produzione, ovviamente
a salario ridotto. Dire che questo sfruttamento
sia tipico della rivoluzione industriale
sarebbe però impreciso. Lo sfruttamento sistematico del lavoro minorile risaliva a ben prima,
quantomeno al tempo della domiciliarizzazione
della produzione tessile nelle campagne.
L'infamia era dunque cominciata nelle case
stesse dei lavoratori, presi in una spirale
vorticosa. Ma se un padre, anche tra i peggiori,
poteva mantenere un simulacro di umanità,
e quindi contenere l'orario e l'intensità
del lavoro, non così procedettero i nuovi padroni.
Prima di entrare in questo dettaglio, occorre
però aver chiaro un concetto di carattere
generale, sul quale concordano tutti gli
storici: la rivoluzione industriale fu possibile
grazie ad un basso livello salariale medio e una grande offerta di lavoro. Furono questi
gli elementi che consentirono di contenere
i prezzi finali delle merci, rendendo queste
ultime vendibili sia sul mercato interno
che su quello internazionale. L'offerta di
merce a basso prezzo, in particolari i lavorati
di cotone, incentivò la domanda e l'acquisto.
Il problema, allora, è di capire cosa rese
possibile tale abbassamento, giacché aumento
della domanda interna e riduzione del livello
salariale paiono due fattori contraddittori,
se non incompatibili. La risposta, come spesso
accade, è più semplice di quanto la domanda
paia intricata. Ci fu, in un primo tempo,
un solo genere di salari realmente basso,
quello relativo al settore più meccanizzato,
quello che fece ricorso sistematico al lavoro
femminile, minorile e senile. Per il resto,
non vi fu che una riduzione indotta. I salari
medi dei lavoratori maschi adulti occupati
a tempo pieno non diminuirono che a seguito
dell'ulteriore meccanizzazione, e dopo notevoli
resistenze. Non sempre diminuirono nominalmente,
ma solo in rapporto all'aumento dei prezzi
agricoli e del costo delle abitazioni (che
rimase piuttosto stabile per curiose ragioni
tutte inglesi, come vedremo nel capitolo
sull'urbanizzazione). Comunque, non diminuirono
mai oltre una certa soglia, che cercheremo
di definire e chiarire, salvo che in un caso:
dopo Speenhamland. Se la parola vi intriga
saltate sotto. Ma rischiate di perdervi la
continuità del racconto.
Lavorate bambini!
Allora, come oggi del resto, il ricorso a
manodopera infantile, per rimanere nel linguaggio
degli economisti classici, abbatteva i costi
di produzione e quindi aumentava i margini
di profitto. La cosa più raccapricciante
era l'orario di lavoro, fluttuante dalle
12 alle 16 ore giornaliere. Uno dei ragionamenti
più diffusi era quello che se lavori non
hai tempo per spendere i soldi, e manco ti
accorgi di averne pochi. Un altro era quello
che i bambini, se stavano al lavoro, evitavano
le cattive compagnie, il vizio ed i pericoli
della strada. Poi imparavano il mestiere,
e questo era il loro "capitale".
La verità era che il lavoro di filatura era
facile da imparare e non richiedeva una potente
muscolatura. In alcune operazioni era persino
meglio impiegare costituzioni di piccola
taglia dotate di mani esili e leggere. Senza
contare che i bambini erano più docili degli
operai adulti, e si potevano punire a vergate
in caso di errore e trascuratezza.
Inoltre, potevano costare un terzo, o persino
un sesto della paga normale. Spesso erano
legati da un contratto di apprendistato che
li impegnava a restare in fabbrica per sette
anni, o persino al raggiungimento della maggiore
età.
In moltissimi casi i fanciulli erano trovatelli
ed orfani, e venivano dati alle imprese,
letteralmente venduti, dalle parrocchie della
chiesa anglicana che li aveva in carico come
assistiti. «Tra i proprietari di filande
e gli amministratori dell'imposta per i poveri
si svolgevano, così, regolari trattative,
vantaggiose per le due parti ma non per i
ragazzi, che venivano considerati come merce.
Cinquanta, ottanta, cento ragazzi venivano
ceduti in blocco e spediti come bestiame
alle fabbriche dove rimanevano per lunghi
anni. Alcune parrocchie, per ottenere maggior
profitto, avevano stabilito che l'acquirente
avrebbe dovuto prendere anche gli idioti
nella misura di uno su venti.» (Mantoux,
cit)
Naturalmente si lucrava moltissimo su tali
acquisti, perché i fanciulli lavoravano a
volte solo in cambio di vitto ed alloggio.
Ma anche i ragazzi più fortunati, quelli
che avevano almeno la madre certa, dopo un'iniziale
resistenza delle famiglie, seguirono spesso
la stessa sorte. Era lo stesso boom demografico
ad imporre la scelta. Troppe bocche da sfamare
non erano sopportabili nemmeno da parte dell'aristocrazia
operaia. Il settore tessile fu quello che
fece maggiore ricorso al lavoro minorile,
ma era facile trovare bambini anche in miniera.
Piccoli ed agili, risultavano particolarmente
adatti per trascinare ceste nei cunicoli
più stretti ed angusti.
«La disciplina era selvaggia, se si
può chiamare disciplina una brutalità senza
nome e, talvolta esercitata a piacere su
esseri indifesi. Il famoso racconto delle
sofferenze patite da un apprendista di fabbrica,
Robert Blincoe, fa tremare d'orrore. A Lowdham,
vicino a Nottingham, dove fu inviato, nel
1799, insieme a ottanta bambini dei due sessi,
ci si accontentava di usare la frusta; ma
la si usava dal mattino alla sera, non solo
per riprendere il minimo errore degli apprendisti,
ma anche per incitarli al lavoro e per tenerli
in piedi quando erano sopraffatti dalla fatica.
Nella fabbrica di Litton era tutta un'altra
cosa. Il padrone, un certo Elice Needham,
batteva i bambini con pugni, calci, scudisciate;
una delle sue gentilezze consisteva nello
stringere le orecchie tra le unghie fino
a trapassarle. I capireparto erano peggiori
di lui. Uno di essi, Robert Woodward, escogitava
ingegnose torture. Fu lui che pensò di appendere
Blincoe per i polsi sopra una macchina in
movimento il cui andirivieni l'obbligava
a tenere le gambe piegate, di farlo lavorare
quasi nudo in inverno con forti pesi sulle
spalle e di limargli i denti. Il disgraziato
aveva ricevuto tante percosse che la sua
testa era coperta di piaghe. Cominciarono
allora a curarlo strappandogli i capelli
con una calotta di pece.» (Mantoux,
cit.)
Andrew Ure, scrittore inglese nato nel 1778,
balzò agli onori dei salotti letterari con
la Filosofia delle manifatture, edita nel 1835. Scriveva il nostro:«Nel
mio recente giro, che durò parecchi mesi,
ho veduto migliaia di fanciulli, d'adulti,
e di vecchi d'ambo i sessi, la maggior parte
dei quali troppo deboli per guadagnarsi la
vita in ogni altro genere d'industria, che
si procuravano un vitto abbondante, vestito
ed alloggio, senza versare una sola goccia
di sudore, al medesimo tempo che erano difesi,
in estate dall'ardore del sole, in inverno
dalla gelata, in case meglio ventilate e
più salubri di quelle della capitale, ove
si assembrano le nostre Camere legislative
e la nostra aristocrazia. In questi vasti
opifici, la benefica potenza del vapore chiama
attorno a sé le migliaia dei suoi sudditi,
ed assegna a ciascuno il suo compito, sostituendo
ai loro penosi sforzi muscolari l'energia
del gigantesco suo braccio, e non domanda
da loro compenso altro che l'attenzione e
la destrezza opportune per correggere i lievi
errori che qualche volta trascorrono nel
suo lavoro.
La grande docilità di questa forma motrice
la rende adatta a porre in moto i piccoli
rocchetti del telaio da merletto, con una
precisione ed una celerità che le mani più
abili, dirette dall'occhio più fino, non
potrebbero mai produrre. » (Ure, cit.)
Vi venisse da pensare che questo Ure era
un imbecille, od un lacchè dei potenti, potreste
avere anche ragione. Ma prima considerate
questo: lo scritto è del 1835; a quell'epoca
le cose erano un po' migliorate.
Resistenza al macchinismo
Non sono leggende quelle relative all'ostilità
popolare ed operaia all'introduzione delle
macchine, e si capisce perché. Essa diede
vita a sommosse e tumulti, e delle disavventure
degli inventori abbiamo già parlato.
Mantoux ha cercato di giustificarla: «Quante
volte il loro atteggiamento è stato condannato
in nome del progresso e dell'economia politica!
Quante volte ha fatto gridare all'ignoranza
ed alle barbarie! Tuttavia si tratta di una
reazione più che naturale. Non possedendo
che la propria forza lavoro e la propria
abilità professionale , tutto ciò che tende
a sminuire il valore dell'una o dell'altra
priva l'operaio di una parte della sua proprietà.
Il grande vantaggio della macchina e la sua
ragion d'essere consiste nell'economia di
manodopera che essa consente. Ma l'operaio
considera a buon diritto che questa economia
viene realizzata a sue spese. La classica
risposta a questa obiezione popolare è che,
abbassando i prezzi, la macchina stimola
il consumo, l'aumento delle ordinazioni accellera
lo sviluppo dell'industria e, alla fine,
per la manodopera, ben lontana dall'essere
eliminata, ci sarà sempre più posto nelle
fabbriche ingrandite e moltiplicate. Ma questo
ragionamento, che una lunga esperienza ha
rivelato fondato, non fu compreso dagli operai
che per la prima volta si trovarono di fronte
alle macchine. [...] Le violenze commesse
contro gli inventori danneggiarono, in generale,
più il loro fisico che le loro idee. L'attrezzatura
meccanica rispondeva a un'esigenza economica
reale ed urgente e offriva ineguagliabili
possibilità di profitto ed anche di fortuna
a chi disponeva del capitale necessario per
avviare un'impresa. Affrontati invano gli
inventori, gli operai si trovarono di fronte
alla classe degli industriale che aveva interesse
a consolidare il macchinismo. La loro reazione
istintiva fu la medesima: marciare contro
le fabbriche e distruggere le macchine.»
(Mantoux, cit.)
L'episodio che diede il via ad una resistenza
su vasta scala fu la distruzione di una segheria
meccanica a Limehouse. Nel 1769 fu emanata
una legge per reprimere in modo esemplare
i disordini, ma ciò non impedì la loro ripetizione
con crescente frequenza. Nel 1799 nel Lancashire
scoppiò una rivolta di notevoli proporzioni
e vi furono scontri a fuoco tra operai e
gruppi di minatori da un lato e truppe di
stanza a Liverpool dall'altro. I rivoltosi
erano in numero di circa ottocento. Secondo
alcune testimonianze, i soldati aprirono
il fuoco su una folla disarmata. Fu solo
il secondo giorno che anche operai e minatori
cominciarono a sparare.
Alcuni rimasero senza vita sul campo. Moltissimi
se la diedero a gambe. Alcuni furono catturati,
processati con rito direttissimo e impiccati.
Alla fine vennero calcolate circa 10.000
sterline di danni, una cifra molto alta per
l'epoca. Se i forcaioli ed i fanatici dell'ordine
potevano cantare vittoria, la gente che ragionava
e l'opinione pubblica o simpatizzava apertamente
con i rivoltosi, o quantomeno mostrava di
avere più indulgenza. Tant'è vero che dopo
le sommosse vi fu qualcuno che prese l'iniziativa
di presentare una petizione al Parlamento
per ottenere la proibizione dei filatoi meccanici.
Ovviamente ci fu un dibattito e le conclusioni
non furono unanimi. Ma alla fine prevalse
il fronte dei sostenitori delle macchine.
E come spesso accade nella storia, ci fu
anche un repentino rovesciamento di posizione.
Gli operai del cotone furono tra i primi
a riconoscere la potenza e l'efficacia dell'innovazione,
ed ad accorgersi che l'aumento di produttività
comportava un'espansione del mercato e portava
nuovi posti di lavoro.
Nel settore della lana, al contrario, le
resistenze continuarono ed ancora nel 1802
ci furono disordini nello Yorkshire, in particolare
nelle contee di Witts e Somerset, per protestare
contro l'introduzione della garzatrice meccanica..
La vicenda proseguì con fasi alterne di scoppi
e di relativa calma fino all'esplosione della
rivolta dei luddisti nel 1811 e nel 1812.
Le considerazioni che andrebbero fatte sono
di vario tipo. Dopo il 1789, cioè dopo la
rivoluzione francese, l'Inghilterra conobbe
un impegno bellico senza precedenti e vi
fu una lunga fase di blocco continentale
delle merci. Si ebbero momenti di flessione
e caduta della produzione, di aumento dei
prezzi dei generi alimentari, mentre i salari
reali scendevano,o comunque non salivano
insieme ai prezzi. La parola giusta è crisi, una crisi di andamento ciclico, con alti
e bassi, difficile da interpretare anno per
anno. Ma a questa crisi di natura generale
si sommavano fattori e complicazioni di natura
particolare quale l'odio per la fabbrica
e la sua disciplina da parte di lavoratori
abituati diversamente (ad esempio in agricoltura),
la questione salariale, la difesa della professionalità
e dell'abilità dei lavoratori, messa seriamente
in questione dalle macchine.
Il lavoratore abituato a ritenersi padrone
del mestiere e quindi indispensabile, di
fronte all'innovazione si trova improvvisamente,
se non inutile, sostituibile da chiunque,
persino da un bambino. Il suo valore specifico
è svalutato, crolla. Come può pretendere
di essere ancora pagato alla vecchia maniera,
16- 20 scellini alla settimana, se il suo
lavoro può essere ora svolto da una donna
per cinque scellini alla settimana, o da
un bambino per 2 0 3 scellini, od anche solo
in cambio di vitto ed alloggio?
Non sono in gioco solo i livelli di occupazione:
la posta è molto più alta, evidentemente.
Contrariamente a quanto pensano i reazionari
più superficiali, un uomo non diventa mai,
o quasi mai, un bandito ed un ribelle a cuor
leggero. Se decide di protestare, se decide
di scioperare, se infine decide di armarsi
e combattere, è perché non può fare altrimenti,
è con l'acqua alla gola.
Non si tratta qui di giustificare, ma di capire, ad esempio perché i manufacturers del settore laniero, compresi molti imprenditori,
opposero una così ampia resistenza. Non tutti
i padroni avevano la capacità finanziaria
di innovare senza cadere in mano all'usura.
Se innovavano i concorrenti, sarebbero presto
falliti.
Un altro punto da considerare sulla questione
salari è quello dell'eccesso di offerta di
lavoro. Essa si articolava grosso modo in
tre branche: braccia provenienti dall'agricoltura
o forze di immigrazione, specie dall'Irlanda;
ritorno a casa dei militari impegnati nelle
campagne di guerra ed alla ricerca di una
sistemazione; ingresso massiccio delle donne
nel mercato del lavoro e ricorso sistematico
al lavoro minorile.
Come racconta Phyllis Deane: «Il numero
di tessitori, dapprima insufficiente, era
cresciuto oltre misura, e tra i nuovi arrivati
c'erano molti contadini abituati a vivere
con salari inferiori e disposti a sottomettersi
senza proteste alle condizioni dettate dai
fabbricanti. » (Deane, cit)
Il dibattito sui salari
Se esista o meno un metodo universale e scientifico
in grado di stabilire cos'è un salario giusto, non saprei. Nemmeno Marx, pure accusato
di essenzialismo metodologico, riuscì a venirne a capo. Ma poiché il suo
problema non era quello del giusto, ma quello del salario, l'impressione è che non si sia impegnato
a fondo nel cercare di delineare la questione.
Adam Smith, sulla scorta di quanto aveva
già affermato Cantillon, era andato molto
vicino alla definizione del problema quando
aveva scritto nella Ricchezza delle nazioni: «Un uomo deve sempre vivere del suo
lavoro, e il suo salario deve essere almeno
sufficiente a mantenerlo; direi che nella
maggior parte dei casi deve essere qualcosa
di più, altrimenti non potrebbe allevare
una famiglia e la razza di questi operai
non potrebbe continuare oltre la prima generazione.»
La misura minima del salario non veniva ricavata
quindi dal lavoro, ma dalla categoria del
reddito indispensabile al mantenimento di
sé ed alla riproduzione della specie. Solo
in un secondo tempo, come affermava Smith,
subentrano altre considerazioni inerenti
le caratteristiche del lavoro stesso.
Secondo Smith, comunque, esisteva anche una
tendenza generale all'equilibrio che era
meglio rispettare: se cresceva il reddito
complessivo, dovevano crescere anche i salari.
A determinare la misura di un salario concorrono
diverse concause: in primo luogo, proprio
come dice Smith, il salario dovrebbe conferire
a chi lo riceve la possibilità di sopravvivere
in modo più o meno dignitoso. Il che significa,
ancora come dice Smith, che un individuo
non impiegato stabilmente in un solo settore,
e per tutti i giorni della settimana, dovrebbe
comunque cumulare salari diversi pari ad
un salario medio. Altrimenti è giustificato
che in alcuni settori, e Smith cita il lavoro
del camallo nel porto, la paga oraria sia
molto più alta che altrove. Del resto, nella
fatica di un lavoro di facchinaggio si concentra
un dispendio energetico pari a quello di
molte ore seduto a cucire camicie.
In secondo luogo, il salario non dovrebbe
aumentare eccessivamente i costi di produzione
del proprietario dell'impresa. In terza battuta,
dovrebbe incentivare chi lavora a distinguersi
per impegno e serietà. Van bene salari uguali,
ma chi ottiene risultati migliori, dovrebbe
essere incentivato. Ma si tratta di parametri
teorici, esistenti sulla carta. Nella realtà,
tale tipo di incidenze non è mai puro, ma
deve spesso sottomersi ad altre condizioni
imposte dalla dinamica economica complessiva,
nonché dalla specifica situazione di un'azienda
e dal potere contrattuale che i lavoratori
stessi hanno saputo conquistarsi.
All'inizio della rivoluzione industriale
tale potere è minimo, pressoché inesistente.
Non esistono sindacati, non esiste ancora
la classica Union inglese. Esistono solo società di mutuo
soccorso di durata precaria e limitate ad
assicurare assistenza nei periodi di malattia,
nonchè a garantire un fondo comune di solidarietà
in caso di scioperi o serrate, ed aventuali
periodi di disoccupazione. Molte di queste
società sono segrete, o semiclandestine.
Al contrario, i padroni hanno le loro organizzazioni,
concorrono ad eleggere parlamentari, cominciano
ad avere intellettuali che fiancheggiano
e sostengono le loro istanze. In tale situazione
gli operai non possono fa altro che lanciare
appelli generali e rivolgersi ad avvocati
perché questi erano i soli in grado di metterli
per iscritto.
Se è vero che un salario è sempre troppo
basso per chi lo riceve ed è sempre troppo
alto per chi lo deve pagare, una volta ammesso
che esso non può scendere sotto il livello
minimo di sussistenza, sarebbe fondamentale
stabilire se, a volte, ed anche per lo più,
conviene pagare salari alti oppure bassi.
Non è questione di sensibiltà e atteggiamento
umanitario: è ancora un problema di strategia
e di tattica per il governo dell'ordine sociale.
E' in questa chiave che gli economisti classici
inglesi cominciarono ad affrontare il problema.
Non muovendo da che si può fare concretamente, caso per caso, ma ruotando intorno al problema in modo
astratto e teoretico. Ma poiché, com'è noto,
tra gli inglesi è sempre prevalso un atteggiamento
empirico, la questione veniva affrontata
partendo dall'esperienza.
Essi constatarono, in primo luogo, che i
salari inglesi erano mediatamente più bassi
che in America e mediamente più alti che
in Francia. Arthur Young calcolò che un salario
francese era circa il 76% di un salario inglese.
E, sebbene egli fosse stato in precedenza
un fervente sostenitore della necessità di
tenere bassi i salari per favorire le esportazioni,
dopo un viaggio in Francia, si convinse del
contrario. I vantaggi dei salario basso erano
più apparenti che reali, e scrisse: «...
nella generalità dei casi il lavoro è più
a buon mercato in termini reali proprio dove esso è nominalmente il più caro, è certo che la qualità del
lavoro, l'abilità e la destrezza con le quali
l'operaio svolge le sue mansioni dipendono
moltissimo, in media, dallo stato di agiatezza
nel quale vive. Se è ben nutrito e vestito,
ed il suo corpo è tenuto in stato di vigore
e di attività, eseguirà il suo lavoro incomparabilmente
meglio di un uomo la cui povertà gli permette
solo di nutrirsi scarsamente.»
E dopo poche righe, Young constata che le
merci inglesi sono incomparabilmente superiori
a quelle francesi, ed è per questo che vendono
di più.
Adam Smith, dal canto suo, aveva fatto considerazioni
certamente più profonde.
Nel paragrafo intitolato Diseguaglianze che dipendono dalla natura
degli impieghi stessi (Libro I, X Dei salari e dei profitti) scrive:«Le cinque principali circostanze
che, per quanto io sono stato in grado di
notare, compensano i modesti guadagni pecuniari
in alcuni impieghi e sono compensate da ingenti
guadagni in altri, sono: innanzi tutto la
gradevolezza o sgradevolezza degl impieghi
stessi; secondariamente, la facilità o la
difficoltà di imparare il mestiere e l'alto
o basso costo dell'apprendimento; in terzo
luogo, la stabilità o l'instabilità degli
impieghi, in quarto luogo il grado di fiducia
piccolo o grande che bisogna avere in chi
li esercita; e, infine, la probabilità o
l'improbabilità di riuscirvi.
Innanzi tutto, i salari del lavoro variano
a seconda che l'occupazione sia lieve o faticosa,
pulita o sporca, onorevole o disonorevole.
Perciò, quasi ovunque, in capo ad un anno,
un lavorante sarto guadagna meno di un lavorante
tessitore. il suo lavoro è più lieve. Un
lavorante tessitore guadagna meno di un lavorante
fabbro: il suo lavoro non sempre è più lieve,
ma è molto più pulito. Un sarto, benché si
tratti di un artigiano, raramente guadagna
in dodici ore quanto un minatore, che è solo
un manovale, guadagna in otto ore nelle miniere
di carbone.» (Smith, cit)
Tra i lavori che dovrebbero essere meglio
pagati, ed in realtà lo sono, annota Smith,
dovrebbero figurare quello del macellaio
e quello del boia: sono i più ripugnanti
e sgradevoli, ma hanno una rilevanza sociale
ineguagliabile.
Ma al di là di questo dibattito puramente
teorico, che comunque dimostra come i "filosofi"
non sempre si occupino solo della luna, ma
anche delle circostanze sociali ed economiche,
ed è questo che li rende sopportabili e persino
utili, è evidente che l'armamentario etico-sociologico di questi stessi filosofi, tra i quali Adam
Smith e David Hume sono certamente i più
rappresentativi dell'epoca e della cultura
britannica, vacilla di fronte alla realtà:
dove stava la simpatia naturale, la socievolezza
humeana tra gli esseri umani, che a loro
avviso era l'unica soluzione naturale al
problema sociale? E dove stava, sopratuttutto,
la mano invisibile individuata da Smith, quella magica manina che trasforma l'agire egoistico di ognuno
in un vantaggio per tutti?
La manina (visibile) di Speenhamland
Una manina, per la verità, apparve, ma a
chi crede all'esistenza del diavolo, potrebbe
sembrare piuttosto la manina di satanasso..
Nel maggio del 1795 i magistrati del Berkshire,
riuniti alla Taverna del Pellicano, votarono
un provvedimento che fece epoca, anche se
non era una novità assoluta. Ma qui bisogna
distinguere, perché un conto è sussidiare
i poveri, i vecchi ed i disoccupati temporanei,
un altro è sussidiare chi un lavoro ce l'ha.
L'istituzione delle workhouses all'inizio del Settecento, e la successiva
legge Gilbert (1782), avevano cercato di
sussidiare l'indigenza di chi non lavorava.
Diedero un riparo ai poveri ed allo stesso
tempo consentirono la loro registrazione
nei libri parrocchiali. In pratica spingevano
i poveri a lavorare. In conseguenza di quelle
misure, il vagabondaggio divenne un reato
punibile. E fu punito anche molto severamente.
C'era la libera circolazione delle merci,
ma la libertà di movimento degli uomini era
piuttosto limitata. Solo chi disponeva di
denaro poteva spostarsi senza incontrare
troppe difficoltà.
Il provvedimento votato a Speenhamland, al
contrario, era destinato ad integrare il
reddito di lavoratori occupati. Una cosa del tutto diversa.
Fu poi ratificato dal parlamento inglese
l'anno successivo. Esso autorizzava l'erogazione
di sussidi alle famiglie in tutte le parrocchie
e prevedeva interventi di assistenza pubblica
legati alla variazione del prezzo del pane.
I sussidi parrocchiali venivano così ad integrare
i salari in misura proporzionale alle bocche
da sfamare. Questo significava che, per i
magistrati del Berkshire, i salari stessi,
mediamente, non rispettavano più la misura
minima indicata da Cantillon e poi corretta
da Smith. Invece che intervenire per un aumento
dei salari, essi optarono per far ricadere
sull'intera comunità il costo sociale di
un capitalismo rurale straccione. Vi venisse
in mente che anche oggi, in Italia, c'è qualcuno
che vuole politiche di sussidio alle famiglie
pagate da tutta la comunità (ovvero solo
da chi paga le tasse), anzichè una correzione
verso l'alto delle paghe ed una giusta politica
di servizi pubblici a basso costo come la
scuola e la sanità, avete fatto un'associazione
abbastanza corretta: è quasi così.
Che il provvedimento Speenhamland rispondesse
ad un principio iniquo è indubitabile. Che
fosse indispensabile in quel particolare momento si può discutere. Non abbiamo i dati ed
i mezzi per giudicare. Si può solo supporre
che erano in molti a ritenere preferibile
pagare una sovrattassa in cambio della sicurezza
e della pace sociale, visto che il vento
della Rivoluzione Francese spirava fortissimo.
Ci fu anche qualche storico dell'economia
che lo giustificò, come Cannan. Ed il suo
ragionamento lo si ritrova esposto nel libro
di Polanyi. La contea del Berkshire era tra
le più sottosviluppate e tra le più martoriate
dal fenomeno delle recinzioni in agricoltura.
Gli espropri avevano fatto tabula rasa. La
spigolatura era diventata impossibile. I
salari agricoli erano troppo bassi. Quel
poco di industria che vivacchiava nella zona
era fragile. La maggioranza dei lavoratori
attivi erano quindi dei precari, occupati
saltuariamente, a singhiozzo.
Ma il provvedimento, sbagliato rispetto ai
principi, ebbe anche effetti nefasti, oltre
che un'efficacia relativa..
Come annota Phyllis Deane: «Il fatto
era che il lavoratore, diventando più legato
ai proventi derivanti da impieghi specifici
anzichè fare assegnamento sulle diverse possibili
fonti di reddito - proventi dall'industria
domestica, alimenti dalla coltivazione di
piccoli appezzamenti, e dal pascolo su terreni
d'uso comune ed anche salari da vari impieghi
occasionali - diventava assai più vulnerabile
nel caso di crisi di raccolto e di depressioni
dell'attività economica di quanto fosse stato
in passato.» (Deane, cit.)
Nel 1834 i parlamentari inglesi valuteranno
le decisioni prese a Speenhamland come un
premio al vizio e all'indolenza, alla "bastardaggine",
"un sistema universale di pauperismo".
Ma il problema vero di Speenhamland era innanzitutto
quello che il sistema non era nemmeno universale.
Non fu adottato in tutta l'Inghilterra. Nelle
zone più industrializzate vennero solo presi
provvedimenti di sussidio alla disoccupazione,
nemmeno dappertutto. Ciò provocò una sorta
di invasione delle contee nelle quali era
in vigore i sussidi, solo l'11% del totale,
da parte di tutti i lavativi delle isole
britanniche, insieme a tante famiglie numerose.
In reazione vennero resuscitate vecchie norme
cadute in disuso, come l'obbligo di trovare
un'occupazione entro 40 giorni, pena l'espulsione
dalla contea. Ma questa vecchia disposizione
fu resa parzialmente inoperante dal Poor Law Removal Act del 1795. Tale decreto proibiva l'espulsione dei
poveri fino a quando non fossero stati effettivamente
a carico della parrocchia, e imponeva comunque
che "le spese di rispedizione"
fossero a carico della parrocchia. Ma, anche
in queste condizioni, è evidente che l'arrivo
di nuove braccia disposte a lavorare contribuiva
a spingere il livello dei salari verso il
basso, esattamente il contrario di quello
che occorreva.
In ultima analisi, gli unici veri beneficiari
del provvedimento, apparentemente caritatevole
ed umanitario, furono gli imprenditori delle
contee legate al sistema. Potevano continuare
tranquillamente a pagare salari al di sotto
del minimo esistenziale e trarne un profitto
aggiuntivo e sleale. Pensare che parte di
quei magistrati che vollero i sussidi fosse
in stretta confidenza con parte di quegli
imprenditori, è un sospetto legittimo. Niente
di più.
Condizioni esistenzialidegenerate per chi non ha né chiesa né sindacato
La questione Speenhamland meriterebbe altre
considerazioni. Polanyi, ad esempio, vi dedica
ampia parte nel suo fondamentale La grande trasformazione (Karl Polanyi, cit.)
Qui ci limitiamo a poche osservazioni. Polanyi,
giustamente insiste sulla miopia di chi assimilò
e confuse il problema del pauperismo con
quello del salario. La lotta alla povertà
non è qualcosa che ha a che fare con la giustizia sociale, ma con la generosità e la solidarietà.
Se vi sono invalidi, vecchi, disoccupati
temporanei e se dichiariamo di vivere in
una società cristiana, come facevano gli
inglesi del tempo, il problema del pauperismo
va affrontato con interventi mirati quali
appunto erano state le poorhouses parrocchiali: offrivano alloggio, vitto,
e forse qualcosa in più.
Nel momento stesso in cui si vengono ad offrire
questo genere di aiutini a lavoratori attivi, la dignità e la libertà
dell'operaio, già provati dalla durezza disumana
del sistema di fabbrica, vengono ulteriormente
messi in questione. L'uomo è davvero ridotto
ad arnese per la riproduzione e l'allevamento
dello schiavo, che è solo un altro arnese.
Lo si aiuta solo per metterlo tacere, a provare
un rinnovato senso di dipendenza e riconoscenza.
E' il primo passo verso una concezione clientelare
della politica e del consenso, oltre che
delle gerarchie economiche. Lo stato assistenzialistico
e corrotto non nasce in Italia, per la particolare
perversione dei cattocomunisti, ma alla taverna
del Pellicano, in Inghilterra, nell'epoca
del liberalismo.
Speenhamland è una pagina nera nella storia
del capitalismo non solo perché ammette una
deviazione dalla strada maestra del libero
sviluppo senza interferenze dello stato nell'economia,
come sostengono con faciloneria i liberisti,
ma perché non interviene alla radice del
problema, che è la questione salariale ed
il valore del lavoro. Un problema che doveva
essere risolto dai capitalisti stessi, insieme
allo stato e alle amministrazioni locali.
Fu dunque una duplice sconfitta; sia i lavoratori
che i capitalisti ne uscirono con le ossa
rotte. Il primo effetto fu quello di una
ulteriore riduzione del livello medio salariale
a fronte di un reddito nazionale che continuava
a crescere.
Soprattutto tra i lavoratori il sistema Speenhamland
contribuì a diffondere la perversa idea che
la società sia un magma confuso in cui i
diritti vengono concessi da qualche mano buona e generosa, non per
il merito, non per il lavoro.
Quando una sfiducia in sé stessi di questo tipo prende piede
siamo vicini a qualche catastrofe etica,
prima ancora che politica.
Anche il lavoratore autosufficiente sotto
il profilo del reddito, del resto conosceva
in quel periodo una condizione esistenziale
quantomeno disperante. Alla fine della giornata
di lavoro non aveva che da trascinarsi a
casa stremato, dare un colpettino di sesso
alla moglie oppure, andare ad ubriacarsi
in qualche bettola con alcool scadente. Qualche
storico battezzò il momento come epoca del gin.
Quale fosse il senso della vita per costoro
è facile immaginarlo. O forse è inimmaginabile
se non si da una scorsa alla letteratura,
ai romanzi di Dickens, della Austen, di Thackeray,
di Victor Hugo, di Cronin.
Sesso, alcool, una pipatina di tabacco, un
piatto di patate ed avena. E domani è un
altro giorno, si vedrà. Nessuna istruzione,
nessun desiderio di sapere se oltre la collina
esiste un altro mondo. Ce la fanno quelli
che hanno il coraggio di osare, di imbarcarsi
per l'America o le colonie, oppure di imprendere
a loro volta. Al di fuori di questa soluzione
individuale, c'è solo la soluzione collettiva,
la società di mutuo soccorso, la solidarietà
sociale, la lotta e lo sciopero.
Come nasca una coscienza sociale e politica,
"filosofica" tra gli operai è affare
di un altro capitolo, e fu un capitolo indubbiamente
affascinante; l'affronteremo insieme alla
nascita di una teoria economica e sociale
borghese. Il che non è meno affascinante,
vista la tresca di posizioni che si aggrovigliano
e si intrecciano, da Defoe a Malthus, da
Townsend a Burke fino ad Hodgkins, che molti
considerano il precursore di Marx. Chi diventerà
socialista non studierà ad un'altra scuola,
semplicemente rovescerà alcune categorie
di pensiero, come i ricardiani con Ricardo,
avendo per mira non l'interesse del padrone,
spesso confuso con quello generale e superiore,
ma quello specifico dei lavoratori.
Ma qui guardiamo gli aspetti più mortificanti.
L'apprendista che esce dalla grinfie di aguzzini
come quelli descritti sopra, non è, salvo
miracoli, un uomo buono e "sociale".
E' uno straccio, pieno di risentimento e
prepotenza. Spesso non trova di meglio che
farsi aguzzino a sua volta, per avere poi
più sesso, più alcool, più carne da masticare
e più tabacco da fumare.
Al di fuori del circolo solidale, in parte
centrato sulle chiese riformate, in particolare
quella quacchera orientata da Bellers alla
fine del '600 alle problematiche sociali,
ed in parte sulle prime società operaie,
il lavoratore salariato è una persona sola,
individualista, a volte degenerato ed anche
brutale.
Uscito dalla manifattura, molto tardi la
sera, la sua meta è la staw house, dove un oste della malora lo aspetta a
braccia aperte, e dove già si sono radunati
tutti malandrini della zona per giocare ai
dadi ed alle carte: sono fortemente motivati
a vincergli la paga. Le ragazze dell'oste
hanno già preparato giacigli di paglia per
la notte. Chi non avrà la forza di tornare
a casa dopo la bevuta e la rissa, potrà coricarsi
lì, in un mucchio puzzolente. Inutile dire
che il sabato sera non c'era più nemmeno
un angolo libero.
Non è questione di giustificare l'individuo,
come spesso accade nella pessima sociologia
di sinistra, rinviando alle colpe della società.
Nemmeno si tratta di concedere qualcosa alla
ancor più pessima sociologia della destra,
la quale esclude a priori che la società
e l'autorità abbiano colpa alcuna. Il problema
è uno solo: chi nasce all'inferno, non ha
mai visto il paradiso e nemmeno il purgatorio.
Quindi fatica molto di più nel rendersi conto
che la vita può essere migliore, e che i
rapporti umani non necessariamente debbono
ridursi ad un problema di forza e di prepotenza
con i deboli, e di ossequio e prostrazione
con i potenti. Vivendo nella privazione costante,
non può non compiacersi di quel poco che
passa la vita materiale. Non ha nemmeno idea
del gusto dello champagne e delle ostriche,
per questo annega nel pessimo gin o nella
birra temperatura ambiente servita nelle
taverne.
(prossimamente su questo schermo: capitale,
banche, capitalisti)
bibliografia utilizzata:
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T.S. Ashton - La rivoluzione industriale 1760-1830 - Laterza - Bari, 1953
Rodolfo Morandi - Storia della grande industria in Italia - Einaudi, 1959
Stefano Jacini - I risultati dell'inchiesta agraria (1884) - Einaudi, 1976
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George Rudé - L'Europa del Settecento / Storia e cultura - Laterza, 1974
Alexander Koirè - Dal mondo del pressapoco all'universo della
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Adriano Prosperi e Paolo Viola - Storia moderna e contemporanea - vol. II - Dalla Rivoluzione inglese alla Rivoluzione
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Paolo Rossi/AA VV - Storia della scienza moderna e contemporanea - UTET 1988
Anonimo - Considerations upon East-India Trade, 1701- ristampato nel 1856 nell'antologia
A select Collection of Early English Tracts
on Commerce, pubblicata a cura di J.R. Mac Culloch)
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