Liezi è un libro sorprendente e sottile, anche se non possiede tutti i colpi del
K.O all'intellettualismo che circolano in
Zhuangzi.
Insieme a Laozi (Dao dejing), a Zhuangzi appunto, e al più tardo Wenzi, costituisce un gruppo di opere nelle quali
gli studiosi continuano a vedere sintetizzati
gli insegnamenti originari dei maestri del
dao, molti secoli prima che sorgesse il taoismo ufficiale e canonizzato, raccontato e spiegato,
tra gli altri, da Livia Kohn (1). E' ormai
opinione consolidata che nessuno di questi
scritti sia il frutto di un solo autore,
con la sola plausibile eccezione di Dao dejing attribuito a Laozi. Ma, anche sul più classico
e conosciuto dei lavori degli antichi maestri
di vita, quello che sembrerebbe recare un
più marcato stile personale, si sono sviluppati
studi di tipo archeologico. Scavando negli
antichi archivi, gli studiosi hanno via via
scoperto una sovrapposizione di strati. Come
gli archeologi, lavorando sulle rovine della
presunta Ilio, si trovarono a constatare
non una ma, diverse città succedutesi nel
tempo nel medesimo luogo, i ricercatori hanno
scoperto diverse redazioni ed edizioni. Maurizio
Scarpari e Attilio Andreoni hanno recentemente
proposto una "genesi" di Dao dejing di estremo interesse e di cui parlerò in
sede appropriata. (2)
Anche Liezi potrebbe avere una storia alle spalle, essere
il risultato del lavoro di una pluralità
di autori appartenente al medesimo circolo
e succedutisi nel tempo.
Il libro prese nome da Lie Yukou, figura
che sarebbe vissuta nel IV° secolo avanti
l'era cristiana. Zhuangzi cita un certo maestro Lie ma, a quanto sembra,
per dichiararlo di visioni ancora limitate.
Tuttavia, fu solo nell'anno 14 d.C, grazie
al lavoro del bibliografo Liu Xiang, che
l'opera venne menzionata per la prima volta.
Il più antico commentario conosciuto si deve
a Zhang Zhan, autore del IV° secolo della
nostra era. Il titolo Chongxu zhenjing (La scrittura reale del vuoto abissale) è posticcio. Va attribuita ad un editto
imperiale dell'VIII° secolo che collocò Liezi nel canone taoista. Nel 1007 l'opera troverà
la sfarzosa titolazione definitiva: La scrittura del vuoto abissale e della potenza
suprema. E' una formulazione pretenziosa che corrisponde
al reale contenuto del libro solo in piccola
parte, quella più "incredibile"(e
quindi "screditabile") agli occhi
di una mentalità scientifica che escluda
perentoriamente il "miracoloso"
dall'orizzonte della propria ricerca. Finendo
inevitabilmente col "rimuovere"
fenomeni che non trovano spiegazione nelle
leggi scientifiche più consolidate. Oggi,
proprio grazie, paradossalmente, all'estremo
scetticismo di alcuni scienziati riduzionisti, stiamo recuperando terreno. E' impossibile
trovare una realtà "ultima" che
stia alla base delle cose se non nell'infinitamente
grande e nell'infinitamente piccolo.
D'altra parte, come insegna la fonte più
antica del pensiero cinese, fu la modestia il carattere genuino degli antichi maestri
di vita. Ai quali erano estranei concetti
quali "illuminazione" e "rivelazione"
nel senso forte che hanno avuto in India
e nell'occidente cristiano, e anche in Cina
con l'arrivo del buddhismo. Zhuangzi ricorre al termine "illuminato"
ma, in modo minore. Una sorta di espediente
per allontanarsi da chi non vede le connessioni
più remote. Quella degli antichi maestri
era un'esperienza maturata nel corso della
vita, generalmente longeva, che sfociava
in una forma di saggezza che avrebbe voluto
essere "puro buon senso", prendendosi
a volte gioco dei pensatori di grande formato,
degli imperatori, degli eroi, delle supreme
bellezze e virtù, dei piaceri più raffinati,
dell'ostentazione dei gioielli e dei trofei
di caccia, degli scalpi e delle benemerenze.
Il loro motto avrebbe potuto essere: "prendila
bassa". Già in quei tempi contestava
un valore che oggidì sembra inquestionabile
come la "meritocrazia". Se ci sono
dei meriti - pensavano - verranno riconosciuti.
Ma, il merito s'accompagna inevitabilmente alla funzione svolta. Quella dei saggi maestri di vita
era, sotto un certo aspetto, una disfunzione. Cioé la funzione di rendere palese che la perfezione non si può trovare nell'organizzazione razionale
delle funzioni. O, se si preferisce, un costante
controcanto ai suadenti peana elevati alla
celebrità. Smontava invece di edificare.
L'ideologo potrebbe bollarlo come "sfascismo".
Un vero saggio, posto sia possibile venga
alla luce qualcuno in grado di spiegare in
cosa potrebbe consistere la qualità della
saggezza superiore, ne apprezza spirito e
lettera insieme. Lo "sfascismo"
di costoro era irridente, ed allo stesso
tempo garbato. Opponendosi alle funzioni umane artificiosamente costruite, arrivava
a contestare la validità delle conoscenze
settoriali applicate. Non solo, arrivava
a negare che la mente, una volta giunta a
formulare concetti, potesse poi arrivare
ad afferrarli o a ritrovarli pari pari nella
realtà della vita., e quindi a educare secondo
quei concetti. Il contrario di quello asserito
in occidente da Socrate e Platone, ed in
misura minore da Aristotele.
Lo Zhuangzi aveva già detto chiaro e tondo che il saggio
non svolge funzioni edificanti, o meglio, lavora a demolire la troppa importanza
che viene ad esse assegnata.
La critica sfiorava
anche la persona di Confucio,
chiamato a
rispondere di aver posto
troppo l'accento
sui doveri filiali come
funzione da perfezionare, sui doveri del ministro, e così via. In
questa luce, il saggio posteriore a Confucio,
e probabilmente anche quello contemporaneo
a Confucio, vedeva l'alto incarico funzionale come una iattura. Non in senso assoluto ma,
nelle particolari circostanze di una situazione
degenerata. E poiché nelle organizzazioni
troppe complesse e razionalizzate a tavolino
more geometrico, le situazioni tendono spesso a degenerare, il saggio era ed è spesso chiamato a smascherare i cialtroni, più
che a costruire e governare. In parole povere
ed attuali: chi aspira a rivestire somme
funzioni nel casino in cui siamo, va solo a cercarsi
delle grane più grandi di lui. Eppure, se
le circostanze lo reclamano, non si dovrebbe
sottrarre al compito. Ma, dovrebbe tentare
di svolgerlo in modo riservato e poco appariscente,
evitando la demagogia, i proclami e le pose
statuarie. Anche Laozi, per quanto si possa
venire a sapere di una figura così riservata,
fu costretto a ricoprire una funzione governativa, prima di ritirarsi a vita privata.
Di Liezi, al contrario, fin dalle prime righe abbiamo
un ritratto di massimo understatement. «Il Maestro Liezi viveva a Boutian,
la riserva di caccia dello stato di Zheng.
In quarant'anni non c'era persona che lo
avesse conosciuto per quello che era. Agli
occhi del principe, dei notabili, dei dignitari
egli altro non era che uno del popolo.»(3)
Un simile racconto non è un trascurabile
dettaglio biografico, non si può ridurre
ad aneddotto, perché è la più genuina costante della zhexue antica. Anche se molti nascono "vecchi"
- d'altra parte "zi" significa
"old boy", oltre che "saggio"
o "maestro" - sono gli anziani
che sanno mantenersi giovani nella mentalità,
che hanno vissuto in buon umore (Wenzi) tutta la loro vita ed in parte anche quella
degli altri, che possono insegnare qualcosa
sul senso del vivere. Ma, senza ridursi a
fare la parte del Grillo Parlante nel Pinocchio di Collodi. E' il giovane stolto che deve
chiedere al maestro, non il maestro a servire
l'allievo, assecondando la sua arroganza
o amplificando le sue presunte virtù. A guastare
un giovane promettente ci vuol poco. Basta
trattarlo coi guanti, elogiarlo pubblicamente
come un pozzo d'intelligenza e buone qualità.
Nove volte su dieci il giovane promettente
ci casca e crede di essere un fuoriclasse
solo perché sa ripetere qualche slogan o
compilare un messaggio pubblicitario. Il
compito del "vecchio giovane"è
di smontare la presunzione e di incoraggiare
la modestia. Questo è il primo punto da comprendere
e per "afferrarlo" bisogna "viverlo"
al proprio interno, "riviverlo"
mille volte in mille giorni diversi.
Nel pensiero di Liezi, tuttavia, non solo il concetto di funzione non viene accantonato ma, serve da grimaldello
per dar vita a nuove vie
della conoscenza.
Arriva a parlare, come
si vedrà, di funzioni del Cielo e della Terra, di funzione di ogni esistente in senso ontologico e biologico,
nonché vegetale e minerale. In Liezi cominciano a mostrarsi in modo più circostanziato
elementi di una cosmologia che un qualsiasi "mistico" occidentale
potrebbe tranquillamente riprendere come
capitolo I della propria opera e predicazione.
E' rispetto a tale sotterranea corrente di
brividi e solleticazioni della curiosità
per l'ignoto e il mistero che probabilmente
Liezi viene a presentarsi come la più "occidentale"
delle opere degli antichi
maestri. Spiegando
le vele oltre le barriere
poste dalla percezione
sensibile, infrange il
più sensato e prudente
degli atteggiamenti scettici.
Ed è questo
punto che la lama della
conoscenza che pretende
di portarsi oltre, si ritorce contro lo spavaldo metafisico
che la strine nel pugno. Elementi mitologici
prodotti dall'inconscio collettivo diventano
letteratura e superstizione. Le trasformazioni
biologiche, postulate con grande acutezza,
forse per la prima volta nella storia del
pensiero umano, precipitano in una ridicola
asserzione di "germinazioni spontanee",
di foglie che diventano insetti, di esseri
prodotti da semi diversi dai propri: «...
il leopardo genera il cavallo, il cavallo
genera l'uomo». Eppure, imputare mancanza
di scientificità alla figura storica di Lie
Yukou, quell'ometto vissuto nell'ombra, "sacco
chiuso e legato", senza lode né macchia,
per citare un passo strategico del "Classico
dei mutamenti", potrebbe essere ingeneroso
ed ingiusto. Nell'inconscio collettivo reso
meno inconscio e meno collettivo dal poeta
venerando, saggio e vetusto, affiora un'intuizione
semi-profetica della teoria dell'evoluzione,
fondata sulle trasformazioni incessanti del
mondo della vita. In Liezi, affiora più esplicitamente che in altri
testi il background sciamanico del pensiero cinese delle origini.
Se si ritiene sensata l'espressione,
è qualcosa
di extra-cinese, un'eredità proveniente dalle steppe della
Siberia e dell'Asia centrale, l'elemento
barbaro che si contrappone alla pur sobria
visione della civiltà espressa da Confucio.
Studiosi come Wang Shumin e Angus Graham
hanno mostrato che circa un quarto di Liezi era già presente in altre fonti, in particolare
in Zhuangzi,
Alfredo Cadonna nell'introduzione all'edizione
italiana Einaudi del 2008 sottolinea l'eterogeneità
dottrinale di Liezi, evidenziando che gli studiosi hanno parlato
di una combinazione di "fatalismo"
e "edonismo". Prospettiva confermata,
tra l'altro, da un settimo capitolo interamente
dedicato all'esposizione del quansheng (conservare integra la propria vita). A prescindere
dal fatto che "integrità" e "edonismo"
non sono la medesima cosa ed un filosofo
occidentale dovrebbe denunciare la mistificazione,
giova ricordare che nel libro dei mutamenti
è detto: "serenità verso ciò che disgrega
porta sciagura". Nei circoli intellettuali
queste cose si sapevano già.
Cadonna, in ogni caso, reagisce negativamente
alla superficialità di tali considerazioni:
«Senza negare l'utilità contingente
di tali categorie, ci si potrebbe chiedere
se non sia proprio l'ampiezza della prospettiva
metafisica taoista (limpidamente esposta
nel capitolo che apre il Liezi e capace di integrare prospettive dottrinali
meno universali) a spiegare il fatto che
tali capitoli non siano mai stati espunti
da nessuna delle edizioni conosciute, comprese
quelle tramandate nel Canone taoista. D'altra
parte, l'inclusione nello stesso Canone di
un testo non taoista come il Mozi va riportata a una forma di integrazione di natura diversa ma altrettanto essenziale:
l'assimilazione da parte del taoismo di personaggi
divenuti oggetto di culti popolari (assimilazione
per così dire "legittimante" che
può far storcere la bocca solo a chi coltivi
una visione della tradizione rituale taoista
che non colga l'unità essenziale dei suoi
aspetti interiori ed esteriori).» Non
mi sento di sottoscrivere interamente le
parole dello studioso, soprattutto perché
ricorre al termine ideologizzante di "taoista"
ed all'impiego altrettanto ideologizzante
di "rituale" ma, non posso che
concordare sul fatto che è frutto di miopia,
strabismo e presbitismo insistere sulle differenze
formali, anziché cercare il fondo comune.
Il Mozi, ad esempio, è un testo importantissimo
perché prende le distanze dal moralismo dei
confucisti, valutandolo come insufficiente
a rendere universale il criterio di giustizia ma, sarebbe impensabile
al di fuori di un contesto storico nel quale
Confucio serviva quasi solo più a legittimare
i "mandarini confucisti", comodamente
sdraiati sulle loro sontuose posizioni di
rendita economica ed intellettuale. Mozi
mosse da una reazione istintiva e viscerale,
potrei dire dalla nausea e dal mal di stomaco
causato dallo spettacolo del mandarinato
più corrotto. Qualcosa di simile a quello
che proverà Lutero a Roma di fronte allo
spettacolo della Curia cialtrona e del commercio
delle indulgenze. Quanto ci sia di Mozi nello stesso Liezi è questione attualmente irrisolvibile, dato
che non mi risulta esistano traduzioni italiane,
anche parziali, di mastro Mo. Quel poco che
si può sapere si trova nel lavoro di Anne
Cheng sul pensiero cinese (4), dove peraltro
manca un qualsiasi riferimento a Liezi. Come a dire che siamo ancora lontani in
Italia dall'avere un quadro completo della
storia del pensiero cinese, a meno che la
seconda parte del I° volume de La Cina a cura di Maurizio Scarpari, atteso per
il marzo 2012, non porti pregevoli novità.
Fatte le premesse necessarie per entrare
nella dimensione storica e mentale degli
antichi maestri di vita, nonché nel vivo
della loro esperienza quotidiana, diventano
doverose alcune precisazioni. In uno dei
più solidi pilastri dei loro insegnamenti
si dà per scontato, non tanto che gli uomini
fossero originariamente "buoni",
come nel pensiero di Mencio ma, che le pratiche
di vita comunitarie, nelle quali non venivano
esaltati "merito", "virtù"
e persino "giustizia", avessero
il grande pregio di lasciare che tutto fluisse
secondo natura e disposizioni naturali. Non
essendovi competizione ma, solo armoniosa
cooperazione tra simili diseguali, la vita
era più tranquilla e priva di preoccupazioni
insensate. Ognuno faceva il suo in base alle
proprie capacità innate. Alcune correnti
del pensiero successivo arrivarono perfino
a considerare desiderabile un ritorno all'età
della pietra. Ora, se accettiamo la spiegazione
di Darwin dell'evoluzione e delle origini
dell'umanità, e non vedo alcun sensato motivo,
attualmente, per rifiutarla, non possiamo
evitare un certo imbarazzo di fronte all'esaltazione
del non-agire come dimensione originaria
del fare e delle relazioni umane. A prescindere
dal fatto che per procurarsi del cibo, bisogna
agire, dato che non cade manna dal cielo
tutti i giorni, e che per resistere al freddo
bisogna procurarsi degli abiti, accendere
dei fuochi e costruirsi dei ripari, con Darwin
veniamo a sapere che dalla notte dei tempi,
maschi e femmine di homo sapiens sono stati (e sono) prevalentemente esibizionisti.
Il loro comportamento più naturale è pavoneggiarsi.
E se non sono attraenti per la loro "forma",
cercano altre vie per attrarre. Ad esempio,
assumendo pose intellettuali, lamentando
le più inaudite sofferenze o millantando
poteri straordinari. In Liezi c'è lo straordinario racconto di un saggio
che riesce a confondere il mago famoso procurandogli
diverse e contraddittorie visioni del proprio
qi, oggi si direbbe della propria situazione
energetica. Il mago ci casca ripetutamente,
ed alla fine alza bandiera bianca. Il mago
credeva di avere "afferrato" ed
"introiettato" un sapere supremo,
senza in realtà aver compreso un accidente.
Il vecchio saggio, ben sapendo della pochezza
del mago, si prestò ad essere osservato.
Porse ben più dell'altra guancia, offrì alla
contemplazione la propria situazione psichica
ed energetica. Ma spacciare il porgere l'altra
guancia come via naturale, è un insulto alla
natura umana ed a quel poco di scienza psicologica
che gli occidentali sono riusciti a combinare.
Questi comportamenti si imparano dai maestri
e dalla loro esperienza, non sono affatto
naturali. Sicché, diventa evidente che l'anti-intellettualismo
corrosivo e sfascista di Liezi e Zhuangzi, insieme ai più alti insegnamenti di Laozi, non può essere sorto che in figure intellettuali
altamente speculative. Furono il prodotto
di una altissima civiltà e una reazione alle
sue deformazioni ed agli sviamenti. Ma, per
recuperare la "via" perduta, il
ritorno alla mitica età della pietra e all'ignoranza
abissale non sembra davvero avere molto senso.
In fin dei conti, per conoscere il dao e le sue interpretazioni, bisogna informarsi
e conoscere, studiare e
meditare. Quando
un maestro mette per iscritto
i propri insegnamenti,
si rivolge a chi sa leggere,
non agli analfabeti.
Pur sapendo, ahi noi, che
solo bambini non
ancora condizionati e gli
analfabeti potrebbero
comprendere.
(continua)
1) Livia Kohn - Il daoismo - in in La Cina vol II - L'età imperiale dai Tre Regni ai Qing - Einaudi 2011
2) Laozi - Genesi del Dao dejing - a cura di Attilio Andreini. Saggio introduttivo
di Maurizio Scarpari - Einaudi 2004
3) LIezi - a cura di Alfredo Cadonna (con testo a
fronte) - Einaudi 2008
4) Anne Cheng - Storia del pensiero cinese - 2 voll - Einaudi 2000
gm - 10 gennaio 2012 |
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