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Anselmo d'Aosta: il Proslogion


.«In altro modo infatti si pensa una cosa quando si pensa la parola che la significa, e in altro modo quando si pensa ciò che è la cosa. Ora, nel primo caso si può pensare che Dio non esista, nel secondo no.» (Proslogion, 4)

«Considerando che lo scritto era costituito dalla concatenazione di molti argomenti, cominciai a chiedermi se non si potesse trovare un unico argomento che dimostrasse da solo, senza bisogno di nessun altro, che Dio esiste veramente che è il Sommo Bene, che non ha bisogno di nulla e di cui tutto il resto ha bisogno per essere e avere valore, e bastasse pure a dimostrare le altre verità che crediamo della sostanza divina.» (Proslogion, Proemio) (1) Son queste le motivazioni della seconda tappa percorsa da Anselmo. Il quale partì da una citazione biblica testuale, quella del Salmo XIII: "Lo stolto disse in cuor suo che Dio non esiste". Per Anselmo, fu decisivo mostrare che lo stolto sbagliò e continuava a sbagliare. Etienne Gilson, senza ripercorrere parola per parola il testo anselmiano, riuscì tuttavia a darne una spiegazione lucida ed efficace. «Ora quando diciamo davanti allo stolto: l'essere di cui non è possibile concepirne uno di maggiore, egli capisce ciò che noi diciamo, e ciò che egli capisce è nella sua intelligenza, anche se non ne percepisce l'esistenza. Infatti una cosa può esistere in una intelligenza senza che questa intelligenza sappia che la cosa esiste: quando un pittore si rappresenta l'opera che compirà, egli la possiede nella sua intelligenza, ma non ne conosce affatto l'esistenza, poiché egli non l'ha ancora compiuta; quando invece egli ha eseguito il quadro ha l'opera nella sua intelligenza e ne conosce l'esistenza poiché l'ha già realizzata. Si può quindi convincere lo stolto stesso che, almeno nel suo spirito, esiste un essere di cui è impossibile concepirne uno di maggiore, perché se egli intende enunciare questa formula, egli la comprende, e tutto ciò che si comprende esiste nell'intelligenza. Ora, ciò di cui non può esistere nulla di più grande non può esistere soltanto nell'intelligenza. Infatti l'esistere in realtà è essere ancor più grande che esistere nell'intelligenza soltanto. Se quindi ciò di cui è impossibile concepire qualcosa di maggiore esiste soltanto nell'intelligenza, si dice che ciò di cui è impossibile concepire qualcosa di maggiore è possibile concepire qualcosa di maggiore, il che è contraddittorio. L'essere di cui è impossibile concepire qualcosa di maggiore esiste, quindi, indubbiamente, e nell'intelligenza e nella realtà.» (2)
Gilson osserva che i fondamenti di questa argomentazione sono tre. Il primo è una nozione di Dio offerta dalla fede, il secondo è che esistere nel pensiero equivale ad esistere realmente, il terzo è che la nozione di Dio nel pensiero esige logicamente che si affermi che egli esiste nella realtà. Questa volta Anselmo fu costretto ad ammettere il presupposto di una nozione di Dio proposta dalla fede e non più supposta dalla ragione naturale. Si rivolge allo "stolto" muovendo da un argomento che questo potrebbe tranquillamente rifiutare, asserendo che non ha alcuna nozione di Dio e che per immaginare qualcosa di più grande di un palazzo esistente basterebbe aggiungere un piano. Il monaco Gaunilone, che Anselmo ben conosceva, gli fece notare che non basta immaginare le Isole dei beati, per dar loro vita. Si potrebbero dipingere, insomma, ma queste non le renderebbe esistenti in realtà e ne verrebbe fuori solo un quadro, od un affresco sulle parete..
Nella costruzione anselmiana del Proslogion emergono tuttavia problematiche più complicate e profonde. Le hanno opportunamente segnalate Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri e Massimo Parodi. Nel capitolo 14, Anselmo se ne esce con una domanda rivolta a se stesso per nulla retorica. «Hai trovato, anima mia, quello che cercavi? Cercavi Dio e hai trovato che Dio è la realtà suprema di cui nulla può essere pensato migliore; che è la stessa vita, luce, sapienza, bontà, eterna beatitudine e beata eternità; che è dovunque e sempre. Se infatti non hai trovato il tuo Dio, come potrebbe egli essere ciò che hai trovato e che hai conosciuto come una verità così certa e così vera certezza? E se lo hai trovato, come mai non senti ciò che hai trovato? Perché l'anima mia non ti sente, Signore Iddio, Se ti ha trovato?» (3) Potrebbe essere un'ammissione di sconfitta, più soggettiva che oggettiva, ovvero riferita all'anima di Anselmo che si trova inaridita da tanto ardito ragionare. Viene allora suggerito di credere che il soggetto conoscente giunto al limite di quello che non può essere un limite, cessi la propria attività e lasci a Dio l'iniziativa. «Si delinea, nel complesso itinerario anselmiano, anche il momento dell'aspirazione mistica, che non rappresenta una rinuncia alla ragione, ma anzi ne è il coronamento ultimo.» (4) Al passo successivo si incontra un'invocazione che riesce a dare ulteriore definizione di Dio. «Dunque, Signore, tu sei non solo colui di cui non può pensarsi il maggiore, ma sei anche qualcuno di più grande di tutto ciò che può essere pensato.» (Proslogion, 15) Viene affermata l'impossibilità di arrivare a pensare Dio senza trascendere. Per questo vien suggerito di considerare questo passaggio come un avvio della teologia negativa. Ma altri momenti di pensiero forte e debole - come si direbbe oggi - percorrono il Proslogion. Lo "stolto" che non riesce a capire la necessità dell'esistenza di Dio, in realtà si ferma alle "parole", rinuncia cioè alla comprensione concettuale, per limitarsi, non diversamente da Roscellino, al piano della cogitatio vocum. «In altro modo infatti si pensa una cosa quando si pensa la parola che la significa, e in altro modo quando si pensa ciò che è la cosa. Ora, nel primo caso si può pensare che Dio non esista, nel secondo no.» (Proslogion, 4)

Gaunilone, monaco dell'abbazia di Marmountier, replicò al Proslogion con argomenti non privi di mordente. L'opuscolo si intitolava Quid ad hoc respondeat quidam pro insipiente, ma è più conosciuto come Liber pro insipiente. La critica si diresse contro due punti fondamentali della prova di Anselmo. Il passaggio dall'udire all'avere nell'intelligenza non può avere origine dal semplice ascolto delle parole, ma può sorgere solo dall'intelletto stesso. D'altra parte, posto che venga udita la formula di Anselmo, il semplice ascolto non produce nell'intelletto un concetto corrispondente a quanto si è udito, ma può soltanto provocare una riflessione sulle parole, alle quali non si sa se corrisponda un vero significato. Inoltre, il passaggio dall'esistere nell'intelletto all'esistere nella realtà extra-mentale, non è garantito da alcunché. Si può solo dire che l'intelletto ha concepito un pensiero - oggi diremmo una fantasia - ma esso è destinato a rimanere tale senza una verifica empirica. Se ciò vale per le Isole dei beati, perché - chiese Gaunilone - Dio dovrebbe fare eccezione? La domanda non mancava di ironia diretta: Gaunilone conosceva quella storiella che Eadmero racconterà sulla beatitudine regnante nelle abbazie. Monaco anche lui, non ne era tanto convinto.
La reazione di Anselmo si concretò nel Responsio editoris e successivamente nel De veritate. Di mezzo c'erano tuttavia concezioni radicalmente diverse della realtà, dell'intelligenza e del linguaggio che portavano ad assumere posizioni inconciliabili. Gaunilone contrappose alla convinzione fondamentale di Anselmo, la corrispondenza tra anima umana e Trinità divina, strettamente legata alla forza significativa del linguaggio, una linea di ragionamento per la quale i concetti devono rappresentare le cose. La prima reazione di Anselmo fu polemica: «Anche se, infatti, uno sia così stolto da dire che non vi è un ente di cui non si possa pensare il maggiore, non sarà tuttavia così impudente da dire che non intende o non pensa a quello che dice.» (Responsio editoris, 9) L'errore di Gaunilone, secondo Anselmo, era che, a proposito dell'Isola dei beati, egli aveva confuso "l'essere isola" con il piano dell'essere assoluto. Due concetti diversi. L'empirismo di Gaunilone era la sua limitazione, non riusciva a salire all'assoluto. Ma sul secondo punto della critica alla ragion pura suscitata da Gaunilone, Anselmo non seppe andar oltre a quello che oggi si chiama ragionamento circolare, e che in fondo, è una vera tautologia. Ossia si basa su quanto pretende di dimostrare. E'' questione che tornerà all'ordine del giorno perfino nel Novecento. Due filosofi assai diversi come Heidegger e Wittgenstein, sentiranno il bisogno di scagliarsi contro "i limiti del linguaggio" che non riesce a dire ciò che si vorrebbe dire, e con ciò anche dimostrare. Il buon senso consiglierebbe di verificare se il problema non stia solo nella lingua e nel vocabolario utilizzabile, ma risponda a logiche più raffinate quali quelle della qualità del ricevente. Ciò che non sempre è accaduto. In ogni caso, dare del "testone" a Gaunilone non risolse il problema così come lo aveva posto Anselmo in un ambito già limitato come quello della comunità dei credenti collocati in una o più abbazie. Provare ad esportarlo nel pensiero contemporaneo laicizzato non sposta di molto le difficoltà. L'assoluto rimane un concetto difficile da digerire è non è affatto detto che ipotizzare un ente superiore a tutti gli altri porti realmente alla comprensione di ciò che voleva significare Anselmo. Il quale, prima di affrontare concretamente il mondo e la società reale in veste di arcivescovo di Canterbury, darà ancora prova delle sue convinzioni con il De veritate, testo non meno fondamentale, come si vedrà nel capitolo successivo.

All'incirca due secoli dopo, Tommaso d'Aquino criticherà la posizione di Anselmo, pur senza nominarlo direttamente, con argomenti non disgiungibili chirurgicamente dalle obiezioni sollevate da Gaunilone. La formulazione definitiva si trova nella Summa theologiae, e precisamente nella Quaestio II della prima parte. Altre considerazioni, non dissimili, si incontrano nella Summa contra gentiles ed in altri scritti. Dopo un'esposizone fedele del pensiero anselmiano, molto sintetica, Tommaso solleverà due obiezioni. Nella prima, che «forse, colui che sente il nome Dio non comprende che con esso si designa ciò di cui non si può pensare il maggiore; tanto è vero che alcuni hanno creduto che Dio sia corpo.» C'e poi la seconda obiezione, ancora più incisiva. «Anche se si ammette che ognuno comprende che, con il nome Dio si designa... ciò di cui non si può pensare il maggiore, nondimeno, da ciò non segue che ognuno comprenda che, ciò che viene designato con tale nome, esiste nella realtà, bensì [che esiste soltanto] nella rappresentazione dell'intelletto. Né si può affernare che esso esiste in realtà se non [si è ammesso] che esiste nella realtà ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore; ma ciò non viene ammesso da quanti sostengono che Dio non esiste.» (Summa theologiae, 1 2 , 1 ad 2) (5) Con tipico metodo aristotelico, Tommaso raccoglierà punti di vista non accoglibili universalmente, mostrando da quale tipo di contestazione potrebbero venir confutati. Ma, nell'ideale dialogo eterno tra i giganti sulle cui spalle (un po' vacillanti) si pretende ancora di poggiare, non v'è dubbio che Anselmo avrebbe potuto replicare asserendo che il punto di vista veramente accoglibile universalmente era il suo, poi aggiungendo Tommaso alla lista dei seminatori di dubbi che non portano a Dio.

(continua)

Note
1) Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri e Massimo Parodi - Storia della filosofia medioevale - Laterza 2002
2)
Etienne Gilson - La filosofia nel Medioevo - La Nuova Italia Editrice - prima edizione 1983
3) Fumagalli Beonio Brocchieri e Parodi, cit.
4) Fumagalli Beonio Brocchieri e Parodi, cit.
5) Questo passagggio trae spunto dal primo volume de Il Dio dei filosofi di Wilhelm Weischedel
- Il Melangolo 1988
, dove, peraltro, la connessione Gaunilone-Tommaso non è chiarita

moses - agosto 2013

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