Anselmo d'Aosta: De veritate
«Il De veritate di Sant'Anselmo conclude che c'è una sola
verità di ciò che è vero, e cioè Dio.»
(Etienne Gilson - La filosofia nel Medioevo)
Anselmo affrontò nel De veritate, un dialogo tra insegnante ed allievo, la
costruzione di una teoria della verità che potrebbe sorprendere i lettori abituati
a cavarsela con citazioni da Aristotele e
Tommaso d'Aquino, gli stoici e Tarski. Il
ragionamento sulla verità porta in ogni caso
a Dio e Dio è la sola verità. «Da quando
noi vediamo che Dio è la verità - esordisce
l'allievo - e che diciamo che la verità è
in molte altre cose, vorrei saper se, ovunque
è detto che la verità è detta essere, noi
dobbiamo riconoscere che Dio è quella verità.»
L'allievo ricorda che nel Monologion il maestro aveva scritto: «... non
c'è dubbio che le sostanze create sono in
modo diverso in se stesse e nella conoscenza
che ne abbiamo. In se stesse infatti sono
per il loro essere, nel nostro sapere invece
non c'è il loro essere, ma una loro similitudine
[...] e si è dimostrato che ogni sostanza
creata è in modo più vero nel verbo, ossia
nell'intelligenza del Creatore che in se
stessa, poiché è più vero l'essere del Creatore
che quello del creato.» (Mon, 34) Ciò
riporta al secondo tratto caratteristico
del pensiero di Anselmo: la fondamentale unità di ciò che è vero.
Sicché, si può dire che cercare la verità
non può significare fermarsi ai fatti, ma
percorrere l'itinerario dell'essere; dalle
cose create al creatore. Tuttavia, quando
un enunciato intende significare le cose
come stanno svolge pienamente il compito
a cui è destinato e per cui esiste, «A
quale scopo si formula una proposizione affermativa?
/ Per significare che è ciò che è./ Questo
dunque deve fare.» (De veritate, 2) In modo retto, ossia una recta significatio; ne verrebbe che la verità di una proposizionre
è la sua rectitudo. Purtroppo, non sempre la proposizione raggiunge
il proprio fine, e non sempre gli esseri
umani usano le parole per «significare»
veramente qualcosa. «Diverse sono dunque
la rettitudine e la verità di una proposizione,
quando essa significa ciò che deve, e quando
invece significa ciò che le si vuole far
significare.» (De veritate, 2) Questa scissione tra verità e corretteza logico-grammaticale è inevitabile quando si passa dal piano teoretico
a quello empirico, ma permane anche a livello
teoretico, anzi, si incunea in esso come
domanda permanente sull'intenzione di chi
afferma. Deve fare i conti con quanto di
convenzionale è entrato nel linguaggio e
nei modi dire, e ciò rinvia ad un preliminare
accordo tra parlanti e scriventi. Di qui
il rischio di un allontanamento, «a
prescindere», dalla effettiva corrispondenza
delle proposizioni allo stato di cose e delle
relazioni fra ogni cosa e il tutto. Il terreno
del linguaggio e dei modi di dire viene considerato
insidioso perché rinvia ad analisi infinite
- interminabili - che non riuscono mai a
cogliere intuitivamente il nocciolo ideale
dell'autentica questione della verità. La
perdita di rettitudine di un enunciato è
pari al guadagno illusorio di un'esatteza
formale priva di anima. Per questo pare azzeccata
l'analogia con il fuoco. «Come il fuoco, quando riscalda, compie la
propria verità, in quanto ha ricevuto questo
compito da colui che gli ha dato l'essere,
così la proposizione "è giorno"
compie la propria verità, quando significa
che è giorno, indipendentemente dal fatto
che sia o non sia giorno: questo infatti
le si vuol far significare.» (De veritate, 5) Sembrerebbe un attacco alla teoria stoica
della verità, nonché una critica al "materialismo"
implicito allo stoicismo. Che è come dire
che quando di sera leggiamo un romanzo in
cui sta scritta la frase "era un bel
mattino di primavera", non possiamo
pensare che sia falsa. Nella finzione del
pensiero, anche quello comunicato da A a
B mediante uno scritto, si devono accettare
come vere espressioni come queste. La verità
può dunque trascendere le circostanze materiali
di esistenza, i condizionamenti derivanti
dalle situazioni e le provocazioni dialettiche
più sfacciate dei retori e dei sofisti. L'imperativo
categorico di Anselmo fu facere veritatem. Questo significa pensare le cose alla luce
del Verbo divino ed umano,
ossia dell'intelligenza
della ragione delle cose
che è comune a Dio
e all'umanità. Allontanandosi
dal pensiero
dell'origine delle cose,
nelle quali non
può esistere nulla di falso
in sé, ma solo
il vizio e l'anomalia della
mancanza di bene,
gli uomini rischiano di
perdere il senso
della verità.
«Tutte le cose, in
ultima analisi,
in quanto sono, sono ciò
che devono essere
e dunque sono vere; esistono
in modo retto
conformemente all'intenzione
di chi conferisce
loro significato. Nulla
esiste di falso,
secondo l'ispirazione agostiniana
per cui
il male, mancanza di essere,
non ha realtà
in sè.» (1)
La teoria di Anselmo è
dunque alternativa
ad una teoria-prassi che
richiami in varia
misura l'esperienza concreta.
Fino a che
punto? Fino al punto del
negare il riconoscimento
di pensiero significativo a chiunque pretenda di appellarsi ai fatti,
o persino a qualcosa di statistico. «Per
Anselmo il vincolo che tiene unite logica,
conoscenza e metafisica è talmente forte
da consentirgli di giungere fino ad affermare
che la verità della proposizione, nel suo
essere esigenza di rettitudine e quasi dovere
morale, permane anche nel caso in cui la
proposizione nemmeno sia pronunciata. Il
fondamento metafisico ultimo è dunque realmente
la Verità che, per essere e per essere tale,
non ha alcun bisogno della comunicazione
umana; è quest'ultima invece a non avere
senso se a quella non fa riferimento.»
(2)
Il maestro chiede all'allievo: «Io
so che tu non dubiti che
nulla sarebbe se
Dio non ne fosse causa
o non lo permettesse.
Oserai dire che Dio abbia
causato o permesso
qualcosa di noin assennato
o di cattivo?»
Lo scolaro risponde: «Al
contrario,
io sostengo che tutte le
opere di Dio sono
sempre assennate e buone.»
Al che il
maestro: «Pensi che
qualcosa di causato
o permesso da così grande
bontà e saggezza
non dovrebbe essere conosciuto
necessario?»
Così l'allievo: «Quale
individuo intelligente
potrebbe osare pensarlo?»
Ma il maestro
incalza: «Tuttavia,
sia ciò che viene
causato da Dio, sia ciò
che viene permesso
da Dio è ugualmente necessario.»
Risponde
il discepolo: «Quello
che stai dicendo
è indubbiamente vero.»
Ciò che viene permesso da Dio, era questo il problema e lo sarebbe tuttora.
Vedremo come Anselmo risponderà al problema
della libertà dell'uomo.
(continua)
Note
1) Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri e
Massimo Parodi - Storia della filosofia medioevale - Laterza 2002
2) Fumagalli Beonio Brocchieri e Parodi, cit.
moses - agosto 2013
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