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Aristotele

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Aristotele: Primi analitici - parte I
di Guido Marenco

La strategia aristotelica della dimostrazione
Si tratta di chiarire la strategia generale dell'approccio aristotelico all'inferenza corretta, la quale costituisce il fondamento della teoria della dimostrazione che Aristotele tentò di realizzare. Ricorro ad una citazione: «Una teoria dell'inferenza ha come scopo primario quello di discriminare le deduzioni che sono formalmente corrette da quelle che non lo sono. Per questa ragione - scrive Mario Mignucci - uno dei primi concetti ad essere introdotto e definito in un trattato di logica è di solito quello di validità che consente di avere un punto di riferimento nel processo di discriminazione delle inferenze. Negli Analitici primi sembrerebbe dunque lecito aspettarsi una definizione generale di validità, accanto a quella di inferenza, di predicazione universale e di termine. Nulla di tutto questo. Aristotele non si preoccupa mai di definire in generale che cosa si debba intendere per validità logica, anche se egli usa di questo concetto soprattutto in ordine a stabilire quali combinazioni di premesse non diano luogo ad una conclusione sillogistica. La sua linea d'attacco è diversa. Egli identifica alcune inferenze come assolutamente sicure ed evidenti e mostra che tutte le altre sono riducibili a queste, nel senso che esse possono possono essere dedotte da quelle, talché se quelle sono corrette, queste non possono non esserlo.» (1)
Andando alle prime righe del lavoro, si trova che il suo carattere primario è quello di indagine sulla dimostrazione.
«In seguito, bisogna precisare che cosa sia la premessa, cosa sia il termine, cosa sia il sillogismo, quale sillogismo sia perfetto e quale imperfetto; l'essere contenuto o il non essere contenuto nella totalità di un qualcos'altro, e che cosa intendiamo per venir predicato di ogni oggetto, oppure di nessun oggetto.» (Primi analitici I, 1)
Le premesse sono distinte in sillogistiche, dimostrative e dialettiche. La distinzione tra le prime due potrebbe non sembrare chiarita a sufficienza, nel senso che un sillogismo viene sempre chiamato in causa in qualsivoglia tentativo di dimostrazione. Si tratta di aver chiaro che non tutti i sillogismi si possono dichiarare riusciti. Non tutti i sillogismi dimostrano realmente; al contrario la premessa dimostrativa riesce nel compito che le viene affidato. Il sillogismo viene prima della dimostrazione, godendo di un grado maggiore di universalità. Non tutti i sillogismi sono dimostrazioni, mentre la dimostrazione è un sillogismo particolare. La premessa sillogistica consiste nell'affermazione o nella negazione di «qualcosa rispetto a qualcosa», mentre la premessa dimostrativa viene assunta attraverso le ipotesi stabilite inizialmente e dà luogo ad una vera dimostrazione; la premessa dialettica va invece considerata sia rispetto a chi interroga, sia riguardo a chi sviluppa il sillogismo. Chi interroga presenta la domanda evidenziando la contraddizione come un'alternativa; chi risponde sviluppa un sillogismo, il quale è fondato sull'opinione più accettabile e completa, nel senso preciso di un riconoscimento universale, o quantomeno plurimo, saggiato sotto più punti di vista. Prosegue Aristotele: «Chiamo termine, d'altro canto, l'elemento cui si riduce la premessa, ossia tanto il predicato quanto ciò di cui si predica il predicato; è indifferente poi che che questi due elementi siano congiunti o disgiunti, per opera dell'essere o del non essere. Il sillogismo, inoltre, è un discorso in cui, posti taluni oggetti, alcunché di diverso dagli oggetti stabiliti risulta necessariamente, per il fatto che questi oggetti sussistono.» Aristotele specifica cosa intende dire con l'espressione «oggetti che sussistono». Da un lato, perché mediante questi oggetti «discende qualcosa»; dall'altro perché, di fronte alla sussistenza, «non occorre aggiungere alcun termine esterno per sviluppare la deduzione necessaria». Ossia, il materiale è sufficiente di per sé. Il sillogismo viene allora dichiarato "perfetto" quando non occorra aggiungere alcunché per la deduzione necessaria. Diversamente, il sillogismo imperfetto è quello che richiede elementi aggiuntivi.
«Infine, il dire che un termine è contenuto nella totalità di un altro termine equivale a dire che il secondo termine si predica di ogni oggetto indicato nel primo. Usiamo così l'espressione: "venire predicato di ogni oggetto" quando non sia possibile cogliere alcun oggetto - tra quelli che costituiscono il sostrato (2) - di cui non si dica l'altro termine.»
(Primi analitici I (A), 1)

Sicché si può comprendere meglio quanto affermato in precedenza: «Ogni premessa, orbene, esprime o l'appartenere, o l'appartenere necessario, o l'appartenere contingente; inoltre, fra le varie premesse - per ciascuna modalità - le une sono affermative e le altre negative; per altro verso, tra le premesse affermative e negative, alcune sono universali, altre particolari, altre ancora indefinite. Con discorso universale, intendo quello che esprime l'appartenenza ad ogni oggetto, o a nessun oggetto; con discorso particolare, intendo quello che esprime l'appartenenza a qualche oggetto, o la non appartenenza ad ogni oggetto...» Per 'indefinito' Aristotele intende l'enunciato «che esprime l'appartenenza o la non appartenenza, a prescindere dalla forma universale o dalla forma particolare, per esempio il discorso, secondo cui i contrari sono oggetto della medesima scienza, oppure il discorso secondo cui il piacere non è bene.»
E' legittimo ricorrere ad affermazioni negative, ad esempio asserendo che "nessun piacere è un bene" ma, in tal caso risulta necessaria la conversione dei termini, «se nessun piacere è un bene, nessun bene sarà del pari un piacere.» La conversione è necessaria per la premessa affermativa corrispondente ma, in forma particolare e non universale. L'esempio è il seguente: «se ogni piacere è un bene, risulta pure necessario che qualche bene sia piacere.» Se si ricorre alle premesse particolari, diventa necessaria la conversione dell'affermativa in forma particolare. Posto che qualche piacere è bene, qualche bene sarà pure piacere. Al contrario, la conversione non è necessaria per la negativa: se "uomo" non appartiene a qualche animale, non per questo "animale" non appartiene a qualche uomo. Il testo presenta qui una prima difficoltà che potrebbe essere considerata come un vero e proprio bug, prestandosi, inoltre, a venire equivocato. Bisognerebbe aggiungere che la conversione, non solo non è necessaria, ma da luogo ad un'assurdità. In effetti, "animale" o appartiene ad ogni "uomo", oppure non appartiene ad alcun "uomo". Tutto sta ad intendersi sulla classificazione di "uomo", se come appartenente all'insieme dei mammiferi, o se come una "specialità" irriducibile ad altro. Ovviamente, sarebbe altresì possibile abbracciare una visione "nominalistica", quantomeno rispetto ai singoli appartenenti al genere umano: ognuno fa storia a sé. Ma, questa sarebbe, appunto, un'altra storia rispetto ad Aristotele. La ribellione nominalistica alla logica degli universali e le sue ragioni diventeranno palesi nel Medioevo. Aristotele era convinto che dell'umanità si potesse ragionare anche in termini "universali", sia pure cum grano salis, ossia distinguendo il contingente dal permanente o ciò che è proprio di tutti da ciò che conviene solo ad individui particolari in situazioni mutevoli. E' una posizione scomodissima in quanto non accontenta alcun estremismo ed, allo stesso tempo, incoraggia la pigra mediocrità di coloro che pretendono di collocarsi con ostentata ragionevolezza tra opposti estremismi, senza considerare mai che qualche volta un ragionevole estremismo potrebbe rendersi necessario. Comunque sia, in Dell'espressione si può trovare un passo che esprime più compiutamente il pensiero di Aristotele: «Due predicati non formano inoltre un'unità, ogni volta che uno di essi è immanente all'altro. Perciò la nozione di 'bianco' non potrà venir ripetuta parecchie volte, né l'uomo potrà essere uomo animale, oppure uomo bipede. Alla nozione di 'uomo' sono infatti immanenti le nozioni le nozioni di 'bipede' ed 'animale'.» (Dell'espressione, 11, 21a) Ovviamente, nel mare delle scritture aristoteliche si possono trovare asserzioni, o domande retoriche, che contraddicono la visione ideale ed ottimistica dell'umanità; in Politica, III, 11, 1281b si legge: «[...] e in realtà, in che differiscono, per dir così, alcuni popoli dalle bestie?»

Considerazioni sulla logica e l'inconscio
Devo dire che quando lessi per la prima volta gli ultimi passaggi citati, rimasi sconcertato. Nulla da eccepire sul piano della conseguenza logica, un certo smarrimento rispetto all'applicazione di un simile programma alla sfera del bene e del piacere, dell'uomo e dell'animale. Credo possibile che molti lettori provino il medesimo imbarazzo e si sentano invogliati a cambiare canale. Sarebbe un errore. La logica assomiglia vagamente alla giustizia e non dovrebbe guardare in faccia a nessuno. Non si dovrebbe dichiarare impegnata a sostenere qualche simpatia o qualche preferenza. Una "logica dal volto umano" sembra impossibile, senza una continua messa in questione dialettica della verità delle premesse. Questo, anche se, poi, diventa possibile formulare principi etici e morali che siano assiomatici ed assiologici. Purtroppo, una volta esposti e trasmessi, rischiano di suscitare fanatismo per i principi e scarsissima considerazione per gli individui viventi. Questa è probabilmente la principale obiezione che gli avversari della logica e degli universalismi muovono nei loro confronti. Ciò detto, non si tratta, in generale, né di salire, né di scendere al piano della logica. Si tratta solo di considerarla come parte dell'Organon, lo strumento che abbiamo a disposizione per discernere e per capire in base a quali principi discendano le deduzioni che diventano operative nella vita quotidiana.
Anni fa scrissi un trattatello divulgativo ancora reperibile su questo sito, nel quale offrivo le seguenti considerazioni.
Lo usiamo anche se non sappiamo che si tratta di sillogismo.
Ogni nostra inconscia deduzione del tipo "se è un uomo, saprà cavarsela" è un sillogismo fondato sulla premessa "tutti i veri uomini sanno cavarsela".
E' evidente che il sillogismo si può spiegare, di fatto costituisce una forma di ragionamento corrente e molti lo usano e lo usavano già ai tempi di Aristotele, probabilmente senza nemmeno sapere che si tratta appunto di sillogismo.
Può essere discutibile che esso, di per sè, produca nuova conoscenza, tuttavia dimostra come e che, se poniamo A sia un y, A godrà di molte delle proprietà degli appartenenti al gruppo y.
(a ciò aggiungerei ora qualche precisazione)
La logica formale contemporanea afferma invece che godrà di tutte le proprietà appartenenti a y.
Ma questa formalizzazione è rigida e dunque cercando un eccesso di precisione, induce al contrario a sbagliare.
Infatti essa può essere applicata ad una classe di oggetti prodotti, poniamo tutti i cd contenenti windows 98.
Ma non può essere applicata ai componenti un battaglione di paracadutisti.
Infatti anche se tutti gli appartenenti al battaglione fossero "coraggiosi", sarebbe comunque probabile l'esistenza di una pecora nera, cioè almeno un individuo che, in un dato momento, si potrebbe comportare da vile o da temerario.
In altre parole: l'appartenenza formale ad una classe non ci autorizza affatto a dedurre certezze su un determinato individuo vivente rispetto a tutte le proprietà che abbiamo posto come caratteristiche della classe stessa.


Credo di poter sottoscrivere le parole del trattatello divulgativo (a prescindere dai concreti e sorprendenti sviluppi della logica formale negli ultimi tempi) ancor oggi, insistendo particolarmente sul lato oscuro del sillogismo, ovvero sul fatto che la quasi totalità degli individui opera inconsciamente mediante premesse e conclusioni, alla velocità del pensiero conscio ma, trascinandosi le pesantezze dell'inconscio. Il merito principale di Aristotele fu quello di portare alla luce questo meccanismo della psiche, il quale non sempre si comporta da meccanismo ma, consente, se non altro, di saltare a modalità di funzionamento superiori, od anche di scadere in inferiori. Studiare la logica non è tempo perso perché essa può aiutare, mettendosi a disposizione come il più umile degli strumenti, al fine di chiarire molti lati inconsci del pensare e dell'agire umano. L'origine stessa dei "giudizi sommari" e "preconcetti" diventa accessibile mediante l'analisi della qualità dei sillogismi impiegati come premesse dimostrative da parte dell'inconscio. Non è certo un mistero che razzismo, xenofobia e tentazioni eugenetiche di massa si fondino su sillogismi impropri e scorretti ma, bisognerebbe osservare anche che tante convinzioni ritenute positive, ad esempio la comune appartenenza ad una fede religiosa, ad un partito politico o ad una scuola filosofica, a volte diviene premessa per ragionamenti scorretti. L'etichetta non certifica il contenuto, l'abito non fa il monaco. Allo stesso modo si potrebbero affrontare tutte le questioni logiche relative alle funzioni che un individuo è chiamato a svolgere, sia dietro compenso, sia per necessità dovute all'organizzazione sociale. Non è detto che un buon cacciatore sia anche un buon uomo, come affermato in un celebre romanzo di Turgenev, e nemmeno che un buon uomo sia necessariamente un buon padre, o un buon imprenditore-affarista sia necessariamente un politico capace. L'insieme delle esperienze individuali e sociali vissute consapevolmente costituisce una sfida permanente alla logica formale, la quale, tuttavia, costituisce a sua volta una delle chiavi in grado di aprire le più riposte segrete dell'inconscio, dato che è solo mediante l'abbattimento delle rigidità formali in cui l'inconscio è costretto che si realizza un'autentica consapevolezza.
Detto tutto il male possibile della logica formale, si è in grado di affrontare l'analitica aristotelica in termini più universali e corretti, nonché pensare anche tutto il bene possibile della logica formale.

Estremi e medio, un saltino nel contingente prendendo spunto da una tecnica
Quando tre termini stanno tra di essi in rapporti tali che consentano al minore di appartenere al medio, e il medio sia contenuto, o non sia contenuto, nella totalità del primo sillogismo - che funge da premessa - è necessario che tra gli estremi sussista un sillogismo perfetto. Aristotele definisce "medio" il termine «che tanto è contenuto esso stesso in un altro termine, quanto contiene in sé un altro termine, e che si presenta come medio anche per la posizione» nell'ordine del discorso. Senza perdersi in esercizi estetici di rappresentazione grafica del tipo di quelli ideati da Eulero, è possibile arrivare a capire lo schema proposto semplicemente ricorrendo alla sua esposizione in un esemplare:
tutti i mammiferi sono generati da animali di sesso femminile
tutti i balenotteri sono mammiferi

ergo:
tutti balenotteri sono generati da individui di sesso femminile.

In questo esempio di inferenza sono presenti due premesse ed una conclusione. Le due premesse sono costituite da tre termini: mammifero, animale di sesso femminile, balenottero, disposti in modo tale che uno dei tre, "mammifero", compare solo nelle due premesse, non nella conclusione. Il termine "mammifero" vien detto "medio". Gli altri due termini vengon detti "estremi". L'estremo che funge da predicato nella conclusione (animali di sesso femminile) è detto estremo maggiore e quello che svolge la funzione del soggetto (tutti i balenotteri) è detto estremo minore. Tutto ciò sarebbe altrettanto chiaro anche adottando il tipico gergo aristotelico dell'appartenenza nel modo più fedele all'originale ed alle istruzioni ricevute, ovvero nella forma:
a tutti i mammiferi è appartenente il nascere da animali di sesso femminile
a tutti i balenotteri è appartenente di essere mammiferi
ergo:
a tutti i balenotteri è appartenente di nascere da animali di sesso femminile


Affermazioni che negano, la contesa sul filo dell'"essere" e dei suoi significati molteplici

Si è ricavato questo modello di scrittura seguendo passo a passo il pensiero di Aristotele, quando tenta di stabilire il principio logico per il quale se una proposizione è formulata con soggetto, copula e predicato preceduto da un "non", andrebbe considerata un'affermazione. Scrive Aristotele: «Il giudizio "poter accadere di non appartenere a nessun oggetto" o " di non appartenere a qualche oggetto" ha forma affermativa. In effetti, il verbo "può accadere" ha nel giudizio la stessa posizione del verbo "è"; orbene l"è", con qualsiasi predicato venga congiunto, come ulteriore predicazione, produce sempre ed in ogni modo un'affermazione. Così avviene, ad esempio, nell'espressione "è non bene", oppure "è non bianco", o in forma schematica "è non questo".» (Primi Analitici, I, 3) Allontanate le prime perplessità, appare evidente che la raccomandazione aristotelica è sia sostenibile sotto un dato profilo che insostenibile sotto diversi altri. Se si accetta, ad esempio che "non bene" sia sinonimo di "male" è del tutto sostenibile. Ricorrendo al principio del "terzo escluso", è impossibile che le cose stiano diversamente. (3)
Se si tenta di conferire un significato più sfumato - non è un bene, nemmeno un male - le cose si complicano terribilmente, ed il rischio che si corre è quello di far saltare l'intero marchingegno della dimostrazione basata sul principio di enunciati universali affermativi e negativi e sulla possibilità di una conversione. Ovviamente, si tratta di restare consapevoli che non c'è alcuna differenza semantica forte ed inequivocabile tra il dire "è non vero" e il dire "non è vero". Questa escalation di sottigliezze (Aristotele sembra quasi sempre saperne una in più del diavolo) si spiega e si giustifica solo alla luce dei problemi di agonismo epistemico in cui era invischiato Ipse dixit, in particolare con i residui della dottrina parmenidea, sapientemente o inconsapevolmente mescolati con dottrine di altra provenienza. In tale contesto, ribadire che non è vero che " il non essere non è in senso assoluto", sembrava avere importanza decisiva. Per avere un qualsiasi enunciato in forma negativa occorreva ed occorre la possibilità di asserire che "Alcibiade non è Socrate", o che "Alcibiade non è sobrio e lucido quando bussa alla porta del Convivio platonico". Tuttavia, il problema scoperchiato dall'indagine avviata da Primi analitici non investe Alcibiade in quanto individuo con caratteristiche proprie ed esclusive ma, tutto ciò che si potrebbe dire di Socrate, Alcibiade e tanti altri in quanto esemplari del tipo umano.
Con questo singolarissimo modo di usare la copula, Aristotele era probabilmente convinto di aggirare le difficoltà poste dall'eleatismo, o persino di demolirle, un termine impiegato spesso nel II libro dei Primi analitici, per non dire dei Topici, e che rende l'idea della violenza verbale necessaria a liberarsi dell'abbraccio asfissiante costituito dal mix micidiale di eleatismo e sofistica. Dichiarare che S (inteso come soggetto di una predicazione) è non P (inteso come predicato) diventa una sorta di liberazione. Affermare che S è non appartenente alla classe dei P, non equivale a negare l'esistenza di S ma, solo la sua appartenenza (contingente o permanente) alla classe dei P. La consistenza ontologica dei P rimane, tuttavia, parte integrante del problema "logico" e rinvia ad indagini di ordine superiore, ossia meta-logici. Se si dice che S è non appartenente ai P dei "buoni", ci si assume la responsabilità di dichiarare "S non buono". Non buono per che? O perché?

Sillogismi perfetti e imperfetti

Si danno diversi tipi di dimostrazioni sillogistiche che Aristotele individua come "figure" Ognuna di esse è inconfondibilmente distinta dalle altre in base alla relazione tra il "medio" e gli "estremi". Le figure sono tre. La prima raccoglie tutte le di premesse in cui il "medio" compare come soggetto dell'estremo maggiore e come predicato in quello minore. La seconda evidenzia i casi nei quali il "medio" compare sempre e solo come predicato degli estremi. Aristotele la spiega così: «Quando poi una medesima nozione appartiene da un lato ad ogni soggetto, tra quelli che possono venir indicati da un termine, e d'altro lato a nessun oggetto tra quelli che possono venir indicati da un altro termine, oppure quando essa appartiene in entrambi i casi ad ogni soggetto, in entrambi i casi a nessun soggetto, chiamo allora 'seconda' una siffatta figura, e do in essa il nome di medio al predicato di tutti e due gli altri termini, il nome di estremi ai termini di cui si dice il medio, il nome di estremo maggiore al termine situato in prossimità del medio, ed infine il nome di estremo minore al termine più distante dal medio. Il medio poi è situato al di fuori degli estremi, e per posizione è primo.» (Primi analitici, I, 5)
La terza figura descrive situazioni in cul il "medio" è sempre in funzione di predicato dei due estremi, con la differenza che, in tal caso, «il medio è situato al di fuori degli estremi e per posizione è ultimo.» (Primi analitici, I, 6) Come si vedrà, Aristotele ritenne di poter definire 'perfetta' solo la prima figura del sillogismo.
Le figure in sé non sono inferenze ma, solo una tecnica (4) atta a formalizzare le tre differenti procedure. In realtà, per ottenere un'inferenza corretta non è sufficiente che le proposizioni si trovino nelle situazioni pre-figurate. Per ritenere giustificata una conclusione occorre molto di più, ovvero che entrambe le premesse siano vere secondo il principio di corrispondenza tra pensiero e realtà, la quale non è a sua volta distinta tra realtà 'reale' e realtà 'percepita'. Principio che le filosofie moderne hanno contestato per vari motivi, alcuni dei quali molto seri quali l'inganno dei sensi, in particolare della vista. Il sole sembra ruotare intorno all terra e senza avere a disposizione un manuale di astronomia e la spiegazione della rivoluzione copernicana, tutti saremmo convinti che è così che stanno le cose e 'non può essere altrimenti'. Eppure il mettersi a cercare altre vie per compensare l'incertezza procurata dalle sole evidenze, non ha portato ai risultati sperati ma solo a modesti passetti in avanti, nonché qualche clamoroso passo indietro. Rispetto al nostro problema - comprendere la logica di Aristotele - tutto sta a capire che essa si fonda sull'evidenza. Maggiore è la banalità sorretta dall'evidenza e dalla verifica empirica - nel senso di più estesa ed universale - maggiore è la possibilità di inferenza corretta.
La proposizione geometrica che afferma che in ogni triangolo la somma degli angoli equivale a due retti, ovvero è di 180 gradi, è universale e inquestionabile e non è di carattere contingente: è e sarà sempre così. I triangoli delle geometrie non euclidee non sono triangoli disposti su un piano ma, un'altra cosa: triangoli disposti su superfici concave o convesse. Ormai il concetto di triangolo pitagorico disposto su un piano euclideo risulta una banalità ed è come tale che la trattiamo.
Del tutto diverso è il caso delle proposizioni che vertono su situazioni contingenti, ovvero sottoposte al divenire e ai mutamenti. In tal caso, anche un'affermazione del tipo " a tutti gli esseri umani appartiene di essere sprovvisti di coda" è ampiamente giustificata, sia guardando indietro nel tempo, sia guardando al presente. Ma, rispetto a situazioni realmente contingenti, la situazione è assai diversa. Aristotele la presentò così: «Nel caso poi delle premesse contingenti, dato che parecchi sono i significati di contingenza (noi parliamo infatti di contingenza sia per ciò che è necessario, sia per ciò che non è necessario, sia per ciò che è possibile), la conversione avverrà nel modo già detto.» «In effetti - riprende Aristotele - se può accadere che A appartenga ad ogni B, oppure a qualche B, potrà accadere che anche B appartenga a qualche A, dal momento che, se non potesse accadere a B di appartenere anche ad un solo A, neppure ad A potrebbe accadere di appartenere anche ad un solo B: in realtà questo è stato provato prima. Quanto invece alle premesse negative, le cose stanno diversamente. Tuttavia, ogni volta che si parla di contingenza a proposito di premesse, per il fatto che esse esprimono una necessità di non appartenere, oppure una non necessità di appartenere, la conversione avviene nel modo già detto; tale sarebbe il caso, ad esempio, se qualcuno dicesse che all'uomo può accadere di non essere cavallo, oppure che al bianco può accadere di non appartenere ad alcun vestito. Nel primo di questi esempi, difatti, è necessario che la determinazione non appartenga all'oggetto, mentre nel secondo non è necessario che la determinazione appartenga all'oggetto.» (Primi analitici I, 3)
Anche qui credo occorra un chiarimento. "Nessun bianco appartiene a questo gruppo di vestiti, a questa collezione di vestiti". "Questo vestito appartiene alla collezione". "Il bianco non appartiene a questo vestito" oppure: "questo vestito non appartiene alla classe dei vestiti bianchi." La situazione è contingente perché potrebbe variare... di punto in bianco:-) con l'acquisizione di una maglia del Real Madrid. Aristotele voleva dire che la determinazione di bianco in sé non appartiene alla determinazione di vestito in sé e che non è necessario connettere l'uno e l'altro se la situazione non lo richiede. Diversamente, nel rapporto uomo-cavallo è necessario che la determinazione di essere umano in sé non appartenga alla determinazione di cavallo in sé, e viceversa. Solo il salto ad una classe più inclusiva e più banale, ad esempio quella di mammifero impiegata poc'anzi, consente di reperire analogie tra essere umano in sé ed essere cavallo in sé.
Ovviamente, chi crede che appellarsi alla banalità sia da miserabili, eleverà costantemente tra sé e la logica una barriera artificiosa, come accadde ad Adorno nel contestare il principio antirelativistico enunciato da Leonard Feather in Dialettica negativa.

Sillogismi perfetti e imperfetti
Dato che il problema della validità della conseguenza logica poteva dirsi brillantemente superato mediante il ricorso alla banalità inoppugnabile, Aristotele si limitò ad evidenziare jl gruppo di sillogismi a suo modo di vedere coerenti e corretti. Li chiamò sillogismi perfetti. Tutti gli altri possibili sillogismi devono poter essere semplificati fino al punto della perfezione. Altrimenti sono bufale o paradossi opinabili. La caratteristica fondamentale del sillogismo perfetto è quella di appartenere alla prima figura. I logici successivi ad Aristotele li chiameranno "modi". Sono entrati nella tradizione quattro modi: Barbara, Celarent, Darii e Ferio. Espressioni, sia chiaro, che Aristotele non ha mai usato. A mio parere, inoltre, i criteri di distinzione, non rispecchiano esattamente il dettato aristotelico della copula usata in senso esclusivamente affermativo che si è appena tentato di evidenziare. Il problema, tuttavia, è che nemmeno lo stesso Aristotele, data l'accertata oscurità di alcuni passaggi, riuscì a mantenere la coerenza che cercava e comunque ad esplicarla inequivocabilmente, ribadendola testardamente quando necessario. I successori non si sono attenuti al dettato aristotelico ed hanno scritto i loro enunciati non nella forma "S (sostanza e/o soggetto) è non-appartenente a P (predicato)" ma nella forma "S non appartiene a P" o addirittura in quella "S non è appartenente", per non dire di quella più disinvolta di "S non è P". Sicché, apparentemente, ci dovremmo trovare in piena confusione. In realtà, il meccanismo della dimostrazione funziona, o non funziona, indipendentemente dalle forme dell'enunciato maggiore universale e dei due seguenti. Quando non funziona è perché le premesse sono insensate, del tipo "tutti gli animali volano", o "tutti gli uomini non mangiano carne di serpente". Ulteriore chiarezza viene dal fatto che Aristotele impiega quasi esclusivamente lettere schematiche del tipo A B C e raramente ricorre ad esempi con nomi e predicati concreti. limitandosi inoltre a richiamarli, senza entrare negli sviluppi. Mignucci (cit.) spiega: «Sull'introduzione di queste lettere da parte di Aristotele si è a lungo discusso perché alcuni autori le hanno interpretate come vere e proprie variabili in senso moderno ed altri invece come semplici abbreviazioni di costanti, analoghe a quelle che si usano in geometria per descrivere le figure. Probabilmente la verità sta metà strada. Sicuramente Aristotele non usa le lettere come variabili in senso moderno, giacché è fondamentale per una variabile, l'idea che su di essa si può quantificare ed Aristotele non quantifica mai sulle lettere. D'altra parte le lettere non sono soltanto abbreviazioni di costanti, alla stregua di "Fiore" per "Fiorenza". Le lettere in realtà hanno la funzione di quelle che modernamente potrebbero essere chiamate lettere schematiche, nel senso che fanno riferimento a termini ben precisi - e in questo senso si comportano come costanti - ma differiscono da queste perché suggeriscono l'idea che la scelta di un particolare termine, 'uomo' o 'cavallo' o 'mortale' è irrilevante al fine del discorso, in quanto esso funzionerebbe allo stesso modo anche se la scelta fosse diversa.»

Barbara è costituita da due premesse universali affermative ed una conclusione universale affermativa.
Celarent è articolato in una premessa maggiore negativa e in una premessa minore affermativa, cui segue una conclusione universale negativa.
Darii è costituito da premessa maggiore universale affermativa, da premessa minore e conclusioni particolari entrambe affermative.
Ferio è articolato in una premessa maggiore universale negativa, una premessa minore particolare affermativa ed una conclusione particolare negativa.

Un 'classico' di Barbara è considerato:
mortale appartiene a tutti gli esseri umani
essere umano appartiene a tutti gli ateniesi
mortale appartiene a tutti gli ateniesi

Ovviamente, ci si può sbizzarrire nel dare una forma grafica alla concatenazione, come fa l'edizione in inglese di wikipedia ma, sarebbe meglio seguire le convenzioni che io non ho seguito, ovvero sostituendo 1 premessa, 2 premessa |- conclusione con delle formule convenzionalmente riconosciute come appunto il segno '|-' , che significa conseguenza logica, ovvero conclusione.
Nel testo orginale di Aristotele (Primi analitici I, 4) è scritto: «In effetti, se A si predica di ogni B, e se B si predica di ogni C, è necessario che A venga predicato di ogni C. Già prima infatti si è detto in che modo intendiamo il venir predicato di ogni oggetto. Similmente poi, se A non si predica di nessun B, e se B si predica di ogni C, A non apparterrà a nessun C.» E' il caso di Celarent
Il 'classico' di Celarent si può giocare con l'esempio dato in precedenza sul rapporto di estraneità tra uomo in sé e cavallo in sé
cavallo non appartiene ad alcun essere umano
essere umano appartiene ad ogni ateniese
cavallo non appartiene ad alcun ateniese

Beh... questo è un vistoso esempio di come anche la logica possa giocare brutti scherzi. Vorrebbe inibire il possesso di cavalli a tutti gli ateniesi! :-) Tuttavia, se si applicasse coerentemente il dettato aristotelico, avremmo che
cavallo è non appartenente ad alcun essere umano.
Analogamente, anche la conclusione andrebbe riscritta:
cavallo è non appartenente ad alcun ateniese.

Per Darii si è pensato a questo:
animale appartiene ad ogni bipede
bipede appartiene a qualche vivente
animale appartiene a qualche vivente

Impiegando le lettere schematiche di Aristotele avremmo:
A (estremo minore) appartiene ad ogni B (medio)
B appartiene a qualche C (estremo maggiore)
A appartiene a qualche C


Ferio si può esemplificare con l'inferenza proposta da Mario Mignucci (cit.)
cammello non appartiene ad alcun uomo
uomo appartiene a qualche animale
cammello non appartiene a qualche animale.
Utilizzando le lettere schematiche di Aristotele in luogo dei nomi avremmo:
A non appartiene ad alcun B
B appartiene a qualche C
A non appartiene a qualche C

Il medio è rappresentato da "uomo" (B), l'estremo minore da"cammello" (A), l'estremo maggiore da "animale" (C). E' opportuno ridare la parola ad Aristotele: «.. se A non si predica di nessun B e se B si predica di ogni C, A non apparterrà a nessun C.» Cosa autorizza a fare questa eccezione ed a consentire che si possa parlare di "qualche" C, come già nel 'modo' precedente? Il suo carattere di "proposizione particolare". La proposizione particolare non quantifica ma - se fosse lecito ricorrere ad un termine così orribile - qualchifica, rimanendo opportunamente nel vago rispetto alla quantità di enti coinvolti. Il che non impedisce di 'stringere' nella morsa della presa logica tutti i casi possibili: «[...] supponendo indefinita la premessa B C, che sia affermativa: il sillogismo sarà difatti il medesimo, tanto se si assume una premessa indefinita, quanto se si assume una premessa particolare. Per contro, se la premessa universale, sia affermativa che negativa, comprende l'estremo minore, non si darà sillogismo, comunque risulti l'altra premessa, ossia indefinita o particolare, negativa o affermativa.»
Da cui si evince che se di A viene predicato C, non C, o qualche C e non-C, non si produce sillogismo. Ovvero, se si premette che:
cammello appartiene, non appartiene, appartiene a qualche animale, non appartiene a qualche animale, viene a verificarsi l'impossibilità di una seconda premessa a cui agganciare la conseguenza logica del tipo 'cammello non appartiene a qualche animale'. Nel caso più favorevole si tratterebbe di una tautologia. Negli altri si preciterebbe nell'assurdo.

«Tale è il caso, ad esempio, se A appartiene, o non appartiene, a qualche B, e B appartiene ad ogni C; una conclusione. in cui risulti l'appartenenza, può fondarsi sui termini 'bene - stato - saggezza', ed una conclusione, in cui risulti la non appartenenza può fondarsi sui termini 'bene - stato - ignoranza'. Per un altro verso, se B non appartiene a nessun C, e se A appartiene a qualche C, e se A appartiene a qualche B, o non appartiene a qualche B, o non appartiene ad ogni B, neppure così vi sarà sillogismo.»
Proviamo a fare un compitino a casa e vediamo come viene?
Sviluppare 'bene - stato - ignoranza' e 'bene - stato - saggezza'. Fatemi sapere.

(continua)


Note:
Tutte le citazioni di Primi analitici sono tratte dal 1 volume delle Opere complete di Aristotele edite da Laterza, contenenteCategorie, Dell'espressione, Analitici primi, Analitici secondi - Laterza 1991

1)
Mario Mignucci - Logica - in Aristotele - a cura di Enrico Berti - Laterza 1997

2) credo sia sensato chiedersi cosa intendesse Aristotele per "sostrato", nonché quale nozione ne avesse ai tempi dei Primi analitici e soprattutto perché un tizio con la sua forma mentis non abbia sentito il bisogno di chiarire il ricorso al vocabolo e per quale necessità. Giova ricordare che anche Primi analitici non era un testo destinato alla pubblicazione.e che probabilmente serviva come raccolta di appunti per le lezioni e come base per lavori successivi. . La più limpida definizione di 'sostrato' si trova probabilmente in Fisica, libro I, capitolo 7, quando Aristotele ragiona sul diventare musicista dell'individuo. Il sostrato è l'individuo e non l'a-musico. Il sostrato coincide con la 'sostanza' individuale nella sua unità indivisibile e non con il non-essere-ancora una particolare realizzazione e capacità. Analogamente, in Categorie, si trova: "Tra gli oggetti che sono, alcuni si dicono di un qualche sostrato, ma non sono in alcun sostrato, ad esempio, 'uomo' si dice di un sostrato, cioè di un certo uomo, ma non è in alcun sostrato; altri sono in un sostrato, ma non si dicono di alcun sostrato (precisamente, con 'oggetto che è in un sostrato' intendo ciò che sussiste, non come una parte,i n qualcosa, e che non può esistere separatamente dal qualcosa in cui è), ad esempio, una determinata scienza grammaticale è in un sostrato, ossia nell'anima, ma non si dice di alcun sostrato, ed un determinato bianco è in un sostrato, cioè nel corpo (ogni colore infatti è in un corpo), ma non si dice di alcun sostrato; altri ancora si dicono di un sostrato, e del pari sono in un sostrato, ad esempio, la scienza è in un sostrato, ossia nell'anima, ed inoltre si dice di un sostrato, come della grammatica; altri infine non sono in un sostrato né si dicono di un sostrato, ad esempio un determinato uomo ed un determinato cavallo, dato che nessuno degli oggetti di tale natura è in un sostrato, né si dice di un sostrato. D'altro canto, gli oggetti indivisibili e tutto ciò che è numericamente uno, in termini assoluti, non si dicono di alcun sostrato; nulla impedisce, però che alcuni di questi oggetti siano in un sostrato; una determinata scienza grammaticale, difatti, va annoverata tra gli oggetti che sono in un sostrato.»
In Metafisica, Libro H (ottavo) si trovano ulteriori esplicazioni speculative.
[1042a] «[...] E' sostanza è il sostrato, il quale, in un senso, significa la materia (dico materia ciò che non è un alcunché di determinato in atto, ma un alcunché di determinato solo in potenza), in un secondo senso significa l'essenza e la forma (la quale, essendo un alcunché di determinato, può essere separata con il pensiero), e, in un terzo senso, significa il composto di materia e di forma [...].»
[1042b] «[...] la sostanza nel significato di sostrato e di materia [le] viene concordemente ammessa da tutti, ed essa è la sostanza che esiste in potenza, rimane da dire che cosa sia la sostanza delle cose sensibili come atto.»
[1043a] «[...] Dalle cose dette risulta chiaro che cosa sia la sostanza sensibile e quale sia il suo modo di essere: essa è, per un verso, materia, per un altro, forma e atto, e, per un terzo, è l'insieme di materia e di forma.
Non bisogna ignorare che, talora, non è chiaro se il nome indichi la sostanza come composto, oppure l'atto e la forma. Per esempio, non è chiaro se “casa” indichi il composto di materia e forma, ossia un riparo fatto di mattoni e di pietre disposte in questo determinato modo, oppure se significhi l'atto e la forma, ossia un riparo [...].»
[1043b] «Ma questo, che per altro rispetto ha una notevole rilevanza, in relazione alla ricerca della sostanza sensibile non ne ha alcuna: infatti l'essenza appartiene alla forma e all'atto.»
Aristotele - Metafisica - Rusconi, Milano, 1994 (pagg. 371-377)

3) Il principio del terzo escluso, tertium non datur, è generalmente riportato a Secondi Analitici, I(A), 11-12. In realtà, lo si può trovare anche in Dell'espressione - capitolo 9 - dove si legge: «Rispetto agli oggetti che sono e a quelli che sono stati, è dunque necessario che tra l'affermazione e la negazione una risulti vera e l'altra invece falsa: si avrà sempre un giudizio vero contrapposto ad un giudizio falso, sia riguardo agli oggetti universali, presentati in forma universale, sia riguardo agli oggetti singolari, come già si è detto.» Sulle cose che avverranno, aspettiamo una verifica empirica.

4).
cioè una procedura tecnica nel primitivo senso greco del termine. Nel greco parlato e scritto ai tempi di Platone ed Aristotele non esisteva alcuna differenza tra "arte" e "tecnica". Si usava un solo vocabolo: técne, "arte" nel senso di "perizia", "saper fare", "saper operare" ed insieme "fedeltà ad un metodo ed a determinate istruzioni": come fare le ruote, come costruire una nave, come erigere colonne e capitelli e così via. In questo senso, técne inglobava sia il momento schiettamente tecnico della solidità e della funzionalità, sia quello estetico dell'inventiva di forme nuove di espressione, di design. La logica di Aristotele, cioé l'analitica, è una tecnica-arte tra le più povere ma, può essere spunto per una grande inventiva, purché mantenga il suo carattere funzionale di reggere il pensiero e l'azione. Una colonna può essere disegnata e poi realizzata in molteplici forme, ma non può perdere la sua funzione di reggere il tetto.

gm - agosto 2012




Organon

Organon (“Strumento”) è il tiolo della raccolta delle opere aristoteliche sulla dimostrazione e sulla correttezza del ragionamento; ne fanno parte: Categorie, nelle quali vengono analizzati i termini presi singolarmente ed i loro generi sommi; il De interpretatione che si occupa invece delle proposizioni dichiarative, ovvero delle frasi formate da soggetto, copula e predicato, che possono essere vere oppure false; gli Analitici primi, che descrivono e prescrivono la forma generale del “sillogismo” corretto, ossia dell'inferenza articolata in due premesse e una conclusione; gli Analitici secondi, che chiariscono cosa si debba intendere per “sillogismo scientifico” o “dimostrativo”, ossia quel tipo di sillogismi che non solo risultano logicamente corretti ma anche necessariamente veri, in quanto muovono da premesse certe ed evidenti; i Topici, in cui vengono analizzati i “sillogismi dialettici” o “probabili”, che si utilizzano solitamente nelle discussioni pubbliche in cui non è possibile raggiungere un grado di certezza assoluta, ma dove le premesse sono semplicemente opinioni largamente condivise dagli interlocutori; ed infine le Confutazioni sofistiche, una rassegna dei più diffusi ragionamenti “eristici”, “sofistici” o “fallaci”, ossia tutte quelle argomentazioni che, pur sembrando persuasive e convincenti agli occhi dei più ingenui, non sono in realtà né vere né corrette,