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Aristotele

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Aristotele: Primi analitici - Una introduzione tra le tante
di Guido Marenco

Il sarchiapone volante è di colore blu, ha cinque zampe ed una coda molto lunga. Dichiarato non commestibile dai greci, è invece considerato una leccornia dai barbari del settentrione che gli danno una caccia spietata. (da un'idea di Borges rimasta in potenza nella biblioteca che non c'è)
Per comprendere l'importanza ed il senso del fondamentale lavoro svolto da Aristotele con la scrittura di Primi analitici può tornar utile mettersi nei suoi panni per qualche istante. Il giovane ed ambizioso allievo di Eudosso, il più insigne studioso di geometria presente nell'Accademia platonica, si trova un giorno a meditare su come risolvere un problema apparentemente bislacco ed insensato. E' alle prese con due proposizioni derivanti dall'osservazione, accomunate da un unico termine e declinate come negazioni:
Non tutti gli uccelli sono in grado di volare.
Non tutti i volanti sono uccelli. Infatti volano anche i pipistrelli, gli insetti e i sarchiaponi.

Aristotele si chiede se sia possibile, a partire da queste negazioni, arrivare ad una proposizione sintetica affermativa, comprensibile e accettabile anche dall'ultimo babbeo, e da essa dedurre una conclusione dotata di verità e di senso. Alla maniera di Omero, decide di invocare la Musa per ricevere la giusta ispirazione. La risposta non si fa attendere troppo. Il pensiero sembra arrivargli dal cielo bello e pronto. "In primo luogo occorre stabilire cosa hanno in comune tutti gli animali volanti". Aristotele ricorda che fin da bambino aveva osservato che i volatili hanno in comune le ali, e che suo padre gli aveva parlato di mezzi adeguati allo scopo.
"D'accordo, ma se non si può dire che tutti gli animali dotati di ali volano, cosa è possibile dire senza far ridere i polli? Si può solo constatare che tutti gli animali che volano hanno le ali. E' necessario che sia così e non può essere altrimenti." Questa è la formula che l'inquieto giovane si ripete da qualche tempo, e che non esita ad esibire in ogni discussione con i compagni di scuola e i docenti dell'accademia. Ora, Aristotele crede di avere chiara la possibilità di scrivere le regole per realizzare dimostrazioni sensate e veritiere, pur riconoscendo che da un punto di vista scientifico sarebbe opportuno chiedersi perché, tra gli animali con le ali, alcuni volano ed altri no. "Ci penserò un'altra volta - si dice con un mezzo sorriso di compiacimento - adesso devo decidere. Occorre tagliare tutte le considerazioni ridondanti, le domande non pertinenti, assoggettarsi ad una disciplina che sarebbe lecito chiamare economia del pensiero. Una serie di enunciati, organizzata in modo simile a quello utilizzato dai geometri per le dimostrazioni è applicabile anche alla sfera del contingente, cioè del mondo dei mutamenti e degli spostamenti, del divenire, della nascita, della crescita, della corruzione e della morte. Tutto sta a trovare la giusta formulazione. Un sarchiapone cui manchi un'ala per accidente o per incidente, non è in grado di volare."
Aristotele procede per tentativi, finché non gli sembra di poter gridare una sorta di "evviva", lo stesso eureka che qualche tempo dopo avrebbe gridato Archimede per le strade di Siracusa, dopo aver scoperto cosa succede ad un corpo immerso in un liquido.
La soluzione sta nel trovare due affermazioni che svolgano la funzione di premesse cui segua necessariamente una conclusione. Le premesse potrebbero essere molte di più. Aristotele ne è consapevole ma, l'economia del pensiero ed il risparmio energetico lo guidano ad una formulazione stringata:
A tutti gli animali che volano appartiene di avere le ali
Al sarchiapone appartiene di volare
Al sarchiapone appartiene di avere le ali.

Costruita in questo modo, la deduzione ha senso e verità.
Una diversa articolazione degli enunciati sarebbe scorretta, ad esempio:
A tutti gli animali che volano appartiene di avere le ali
Al sarchiapone appartiene di avere le ali
Al sarchiapone appartiene di volare.

C'è qualcosa che non funziona in questa seconda formulazione, la quale fa sorridere tristemente il giovane studioso.
Sorridiamo anche noi? Non è obbligatorio. C'è un problema che è dato dal fatto che "avere le ali" non è ragion sufficiente - come avrebbe detto Leibniz, oltre duemila anni dopo Aristotele - ad inserire il sarchiapone nella classe degli animali volanti. O lo abbiamo visto volare, oppure dobbiamo credere a chi ci dice di averlo visto volare. Ciò che in questo caso decide la correttezza dell'inferenza è l'affermazione "al sarchiapone appartiene di volare". Da cui, dato che è scontato e universalmente riconosciuto che tutti gli animali volanti hanno le ali, si può dedurre che anche il sarchiapone deve avere le ali, ossia è necessario che sia così e non possa essere altrimenti, anche per chi non ha mai visto un sarchiapone.

Qualche tempo dopo...
Aristotele fu in grado di annotare: «[...] si deve evitare cioè di prendere in esame tutte le possibili determinazioni, e di scegliere le stesse nozioni per consolidare e per demolire una medesima formulazione, oppure per consolidare l'appartenenza di un termine ad ogni oggetto indicato da un altro termine o a qualcosa di tali oggetti, e per demolire questa formulazione, stabilendo l'appartenenza a nessuno, o la non appartenenza a qualcuno di questi oggetti. Bisogna piuttosto rivolgere lo sguardo a poche nozioni, ben definite, ed operare una scelta riguardo ad ogni oggetto reale, ad esempio riguardo al bene o alla scienza. Per altro, in ogni scienza sono i principi propri che costiuiscono il maggior numero. Per tale ragione tocca all'esperienza di fornire i principi riguardanti i vari oggetti. Con ciò intendo dire che, ad esempio, l'esperienza astronomica (una volta invero stabiliti esaurientemente i fenomeni, si scoprono su questa base le dimostrazioni astronomiche), e similmente stanno le cose rispetto a qualsivoglia arte o scienza. Di conseguenza, quando siano state stabilite le nozioni che appartengono ai vari oggetti, sarà ormai nostro compito di rivelare prontamente le dimostrazioni. In effetti, nel caso in cui nessuna delle determinazioni che appartengono veracemente agli oggetti sia stata tralasciata dall'indagine sperimentale, saremo allora in grado, riguardo a tutto ciò di cui può esservi per natura dimostrazione, di scoprire tale dimostrazione e di condurre la prova, e riguardo invece a ciò di cui non può esservi per natura dimostrazione, saremo in grado di rendere manifesta la cosa.
Possiamo dunque dire di aver determinato, secondo una prospettiva generale, in che modo si debbano scegliere le premesse;[ ...]» (Analitici primi, I, 30) (1)

Apodittica e anapodittica: questioni aperte
L'apodittica, ovvero la disciplina della dimostrazione teorizzata da Aristotele, viene generalmente distinta e separata dall'anapodittica, la quale non è propriamente una scienza ma, un sapere consapevole ed insieme una qualità individuale, un abito mentale presente negli individui non allevati come polli ma, stimolati ad impiegare l'intelligenza. La distinzione è stata seguita e magistralmente spiegata da Enrico Berti in Le ragioni di Aristotele. (2) E' un testo che dice assai poco dei Primi analitici, pur dicendo molto su tutto ciò che bisognerebbe sapere prima di affrontare qualsivoglia questione di logica. Aristotele era convinto che dei principi non si potesse dare dimostrazione. Se questi fossero dimostrabili, non sarebbero principi; il soggetto pensante finirebbe con l'esigere l'introduzione di altri principi a partire dai quali si dovrebbe ulteriormente dimostrare. «Pertanto - scrive Berti - si deve ammettere che, se la scienza esiste, cioè, se esistono delle dimostrazioni, deve esserci un sapere dei principi, il quale non è di tipo dimostrativo, ma è - come Aristotele dice esplicitamente - una scienza anapodittica, la quale è più propriamente "principio della scienza" ed ha per oggetto i principi indimostrabili, in particolare le definizioni.»
Non è in discussione la spiegazione offerta da Berti, la quale trova puntuali riscontri nei testi aristotelici. Tuttavia, deve esser chiaro che al principio di ogni particolare sillogismo (3) ci stanno spesso e volentieri espressioni dimostrate altrove, sicché non si deve cadere nell'errore di confondere il principio generale che soprassiede e regola il traffico sillogistico con tutte le premesse maggiori e minori utilizzate in ogni particolare dimostrazione. In altre parole: il principio dell'apodittica è meta-apodittico, ossia il principio della logica è esterno e al di là della logica stessa. Ciò è venuto in chiaro nel corso del Novecento, grazie alle traversie di Frege, Russell e Gödel ma, già in Aristotele si comincia ad intravvedere qualcosa di molto interessante che svilupperemo via via.
Qui si deve cominciare a capire che i procedimenti realizzati in Primi analitici non prendono direttamente ed esplicitamente in considerazione il valore di verità delle affermazioni e il significato dei concetti, per questo sono giustamente considerati l'origine della logica formale. In essi si cerca di determinare i più validi schemi d'inferenza, avendo di mira l'obiettivo di preservare la verità se questa, ovviamente, è già presente nelle premesse. Secondo Aristotele il marchingegno sillogistico consente di salvare la verità e dimostrarla alla sola condizione che si sia già nella verità. Non è poco. Se le premesse sono soltanto "probabili", anche la conclusione sarà solo probabile. Premesse non vere daranno luogo a conclusioni non vere. Tuttavia, non si può escludere a priori la possibilità di imbattersi in una conclusione che risulti congrua rispetto alle affermazioni non vere delle premesse, e ciò nonostante risulti vera in quanto corrispondente alla realtà. (4) Un esempio di una premessa non vera, di una seconda premessa vera a metà e una conclusione vera in quanto rispondente alla realtà potrebbe esser questo:
Tutti coloro che indossano una maglia biancoceleste sono campioni di ciclismo
Fausto Coppi indossava una maglia bianco celeste
Fausto Coppi fu un campione di ciclismo
S'è detta la seconda premessa vera a metà in quanto spesso Fausto Coppi indossava spesso la maglia rosa, la maglia gialla, la maglia tricolore e quella iridata. Quest'ultima, a rigor di logica, potrebbe essere assunta a contrassegno della vera eccellenza nel ciclismo. Tutavia, si potrebbe obiettare che la divisa ufficiale del campione era biancoceleste. Oppure che le affermazioni vere a metà non esistono. Ok. Però esistono, nel senso che si danno, espressioni incomplete. Nella stragrande maggioranza dei casi, rimanendo nella prospettiva e nelle regole dettate da Aristotele, l'incompletezza è di casa. Non si può fare granché per superarla quando si passa da insiemi considerati astrattamente, il gruppo A e il gruppo B, ad insiemi reali e concreti come i "greci" ed i "barbari", gli ateniesi alti un metro e mezzo e quelli con il naso aquilino, i "medici" e i "maestri di retorica". Le differenze individuali, che ognuno percepisce in maniera un po' diversa da ogni altro, costituiscono una riserva inesauribile di argomenti contro la teoria delle appartenenze ad un insieme, ed a più insiemi contemporaneamente. Su tali questioni il dibattito è sempre aperto, e non sarò certo io a chiuderlo definitivamente.

Il fatto che i procedimenti illustrati da Aristotele conducano necessariamente a una conclusione è stabilito per mezzo di considerazioni metateoretiche in cui il riferimento alla verità è sempre implicitamente o esplicitamente all'opera
Per questo si potrebbe dire che la logica aristotelica è una esplorazione degli aspetti generali del dominio disciplinare della corrispondenza tra verità dei fatti e verità delle espressioni mediante ragionamenti concatenati..
Per formulare sillogismi corretti occorre spremersi al massimo ed aprirsi ai suggerimenti della Musa invocata più volte. «Si ha una dimostrazione, quando il sillogismo è costituito e deriva da elementi veri e primi. […] Elementi veri e primi sono quelli che traggono la loro credibilità non da altri elementi, ma da se stessi: di fronte ai principi delle scienze, non bisogna infatti cercare ulteriormente il perché, ed occorre invece che ogni principio sia per se stesso degno di fede.» Così si pronunciava Aristotele in Topici (100a 26 – 100b 21) In ultima analisi, potrebbe sembrare che Aristotele abbia posto dei limiti alla conoscenza, fin da quando era in giovane età, se si crede che anche tutti i Topici, e non solo alcune parti, siano opera degli esordi.
Il fatto è, purtroppo, che scrivere "degni di fede" non è lo stesso che appellarsi all'evidenza. Questa non necessita di fede nel duplice senso di fedeltà ad un insegnamento e di fiducia incondizionata nelle capacità di chi insegna e trasmette saperi. Bisogna accettare che esistono saperi che nessun intuitivo è in grado di raggiungere da solo e senza una guida, o più di una, soprattutto considerando che vi sono saperi che non provengono dall'evidenza ma si trovano nei manuali di astronomia - come sottolineava la buonanima di Hermann Cohen. (5)

Antidogmatismo di moda e di facciata
Sovente capita di incontrare chi tende a discutere ed a respingere l'indimostrabilità dei principi, appellandosi all'antiautoritarismo e a esperienze individuali e collettive anti-dogmatiche alla lettera. Dichiarare dogmatico il pensiero di Aristotele diventò una moda, ben al di là delle contorte vicende della filosofia del Novecento, della "crisi della ragione" e della enfatizzata inesistenza-inconsistenza dei fondamenti. Sovente, ciò accadde ed accade dimenticando che il pensiero di Aristotele fu il prodotto di un inestinguibile tentativo di pervenire alla coscienza del sapere di ciò che si sa, che si deduce e si induce, per via non dogmatica. Ovvero facendo appello all'intelligenza ed alla ragione, nonché alle comuni evidenze possibili in ogni essere umano. Berti risulta magistrale anche per un altro motivo: mostra (senza dimostrarlo) come sia legittimo tradurre il termine nous, utilizzato da Aristotele, sia per riferirsi all'intelligenza che alla ragione, due facoltà che nel senso comune sono sovente confuse, e che diverse correnti di pensiero hanno invece teso a distinguere ed a separare, da quando i latini cominciarono a parlare di "intellectus" e "ratio", spesso concedendo all'intelligenza un potere intuitivo superiore. In questa sede, non è il caso di approfondire le osservazioni di Berti. E' sufficiente insistere sul punto che "intellectus et ratio" operano congiuntamente e non marciano divisi per colpire uniti. Quando questo accade può verificarsi qualche piccolo disastro, non solo intellettuale. Quel che conta è rammentare costantemente che tutto il sapere si basa su una conoscenza pre-esistente a cui rapportarsi criticamente; che nessun individuo umano, per quanto intelligente, può arrivare da solo a capire il mondo, la natura e la società, i rapporti umani e quindi nemmeno i diritti umani. Il metodo di Aristotele consisteva nell'assorbire la cultura ed i saperi pre-esistenti e vagliarli scrupolosamente. Tale è la premessa di tutte le premsse: il ricorso continuo ad intelligenza e ragione. Pertanto, se è vero che "il sonno della ragione genera mostri" è altrettanto vero che "il sonno dell'intelligenza genera ragioni mostruose". Per chi volesse approfondire, non posso che rinviare a fondamentali testi di Adorno, Horkheimer ed Habermas imperniati sulla denuncia dei devastanti effetti della rinuncia dell'intelligenza a far valere i suoi diritti nei confronti di una "ratio" diventata "mostruosa". Adorno, in particolare, con Dialettica negativa, diede una brillante dimostrazione dei diritti dell'intelligenza ma, rischiò di perdere ad ogni passo il lume della ragione. (6)

Il primo analista
Aristotele si può dunque considerare come il primo analista della struttura logica che regga qualsivoglia discorso volto ad argomentare mediante una dimostrazione. Le dimostrazioni portano ad una conclusione partendo da premesse. Aristotele si premura di precisare che «la premessa dimostrativa differisce da quella dialettica, in quanto è l'assunzione di una delle due parti della contraddizione (chi dimostra infatti non interroga, ma assume), mentre quella dialettica è la domanda che presenta la contraddizione come un'alternativa.» (Analitici primi I. 1) Tuttavia, dice ancora Aristotele, non vi è alcuna differenza per quanto riguarda la costruzione del sillogismo (Analitici primi I, 1). Sia «chi dimostra sia chi interroga deducono il sillogismo stabilendo che qualcosa appartiene a qualcosa oppure non appartiene a qualcosa.» La premessa sillogistica può dunque essere formulata o come affermazione o come negazione di qualcosa rispetto a qualcos'altro. Ed è questo il punto su cui si insisterà in modo particolare.
E' doveroso chiarire che Aristotele non utilizzò il termine "logica" ma, esclusivamente quello di "analitica". Ci si è chiesti se sia legittimo attribuire l'invenzione di una disciplina a chi ha ignorato la sua esistenza. E' una domanda insensata. "Logica" è un neologismo entrato nell'uso filosfico e scientifico dopo Aristotele, il quale si accontentò per tutto la sua vita di una definizione che riteneva esaustiva del procedimento mentale significato e descritto successivamente dal neologismo.

Dell'espressione come introduzione
L'introduzione indispensabile ai Primi analitici è sicuramente il trattato De interpretatione, che l'edizione Laterza delle opere aristoteliche - secondo il catalogo Bekker - presenta con il titolo in italiano Dell'espressione, la qual cosa rende meglio il senso del lavoro che è una sorta di scavo nella transizione dall'impressione psichica alla sua espressione verbale. In esso troviamo alcuni chiarimenti preliminari circa le nozioni ed i concetti che verranno impiegati negli Analitici primi.
Entrambe le opere sono raccolte nell'Organon, una collezione di cinque libri composti in periodi diversi della vita di Aristotele ma, generalmente riportabili ad un periodo tra la giovinezza e la maturità.

Altri hanno suggerito di cominciare i cinque libri che compongono l'Organon, in ordine inverso a quello di pubblicazione, mettendo cioè Topici (e Confutazioni sofistiche) all'inizio. Altri ancora hanno proposto di considerare lavoro di logica a pieno titolo anche le Categorie. Proposta contestata da chi crede sia esso un lavoro sui "contenuti" e non sulla "forma logica". Obiezione sensata se si crede il "dominio" della logica sia quello delle pure forme del rigore matematico. A mio avviso, occorrebbe una maggiore elasticità, dato che una logica priva di contenuti, non è altro da un pensiero simbolico privo di significato. Il numero "1" non ha altro significato che "uno". E' la fantasia umana che utilizza "1" come sinonimo di qualcuno, ad esempio il "miglior giocatore di basket". Ma, tra l'elasticità della mente e la spigolosa rigidità della logica formale non si è ancora arrivati a fissare un accordo certo e durevole. Si dovrebbe accennare qui alle nuove logiche paraconsistenti ed al fuzzy set ma, andremmo troppo lontano.
Sicché, con una battuta, si potrebbe dire che "a rigor di logica" è accettabile fissare l'attenzione solo su forme prive di contenuto ma, rigorosamente formalizzate come i numeri e le figure geometriche. Per ritrovarci, poi a fare i conti con il problema fondamentale di tutte le equazioni applicate, ad esempio, nel dominio della fisica: tutto ciò che sta a sinistra del segno di uguale (=) deve esattamente corrispondere a ciò che si trova a destra. Ovvero si è alle prese con velocità, distanza, tempo, vettori, quantità di energia e materia, che non è la stessa cosa di quantità senza "contenuto". Probabilmente, si dovrebbe arrivare a riconoscere, secondo un'analisi grammaticale e non logica, che "uno" è un aggettivo numerale cardinale applicato ad un "nome comune di cosa" e non un "nome comune di cosa". Pur, ricordando, ad esempio, che vi sono "cose" di difficile classificazione ontologica come ad esempio la cosiddetta "opinione pubblica", il "sentimento nazionale", la "speranza di vita", la "volatilità degli investimenti finanziari", l'"inflazione" ed il "PIL". Per non parlare dello "spread".
Accettando le restrizioni imposte dalla storigrafia della logica contemporanea, solo Analitici primi si può considerare un trattato di logica vero e proprio. E' del tutto legittimo partire da qui. Tuttavia, risulta altamente consigliabile una ricognizione preliminare nel corpo di Dell'espressione per avere sempre presente che un'analisi del ragionamento non muove mai assolutamente ed esclusivamente dal ragionamento puro, preso isolatamente, ma appunto da un discorso come 'espressione' di impressioni dell'anima, ossia di molte anime che scoprono di avere qualcosa in comune.

Affermazione, negazione, giudizio, discorso...Cosa hanno in comune le lingue evolute?
Aristotele comincia qui con lo spiegare "nome", "verbo", "affermazione", "negazione", "giudizio" e "discorso". Quando mi domandarono perché tra "affermazione" e "negazione" non c'era posto per "dubbio", risposi che il "dubbio" è una situazione psicologica che poteva essere espressa o con un'affermazione, "sono in dubbio", o con una negazione, "non ho dubbi". E in questo caso, infatti, non ho dubbi circa il fatto che la maggior parte delle espressioni dotate di senso non possa che negare od affermare qualcosa. La nostra situazione psicologica non dovrebbe interferire con l'analisi di proposizioni, che è un lavoro di tipo oggettivo.

Purtroppo una simile separazione tra la mente che studia un particolare oggetto e le sue relazioni con altri oggetti, e tutto il resto della mente, coi suoi ricordi, i suoi affanni, le sue idiosincrasie, e chissà cos'altro, non sempre è facilmente realizzabile. Ciò, di norma, intralcia il lavoro, ma non è detto che in qualche caso possa agevolarlo. Proprio un ricordo potrebbe condurre a scoprire relazioni tra pensieri mai considerate in precedenza. Ci sono giorni in cui la mente è sgombra ed aperta ad ogni soluzione, altri in cui si chiude e si sgomenta di fronte alla difficoltà più banale. Si badi, inoltre, che Aristotele comincia il De interpretatione con un'affermazione che proprio all'anima rimanda. Ovvero ad una situazione psicologica.
Sorprendente? Non tanto, se meditiamo su quanto detto finora e poi leggiamo: «I suoni della voce - scrive Aristotele - sono simboli delle affezioni che hanno luogo nell'anima, e le lettere scritte sono simboli dei suoni della voce. Allo stesso modo poi che le lettere non sono le medesime per tutti, così neppure i suoni sono i medesimi; tuttavia, suoni e lettere risultano segni, anzitutto, delle affezioni dell'anima, che sono le medesime per tutti e costituiscono le immagini di oggetti, già identici per tutti.»
Questo passo è importante perché innanzitutto riconosce le differenze linguistiche e poi perché afferma una proprietà comune, cioè un qualcosa che appartiene ad ogni essere umano. Ovvero, al di là delle differenze linguistiche c'è un tratto che accomuna tutti noi ed entra nelle espressioni umane indipendemente da dette differenze: ovvero l'impressione nella psiche di determinate esperienze.
Si dovrebbe ricordare in proposito che Democrito aveva affermato che il dolce ed il salato sono opinione in modo un po' troppo generico. Aristotele, al contrario, avrebbe potuto affermare molto, più esplicitamente di quanto abbia realmente fatto (in base ai testi che sono pervenuti), che noi cogliamo la differenza tra dolce e salato in ogni caso. Solo che ad essa reagiamo differentemente, secondo il gusto personale. L'altra considerazione utile che potrebbe venire è che tutte le lingue umane tendenzialmente esprimono "impressioni' dell'anima che sono comuni a tutti: "buono, "cattivo", "cibo", "fame", "donna","uomo", "bambini", "figli" ecc. Le impressioni danno luogo a verbalizzazioni che mirano al comune riconoscimento di qualcosa. E ciò, indubbiamente, rappresenta un che di capitale nella storia della nostra specie.

Sempre nel De interpretatione, Aristotele, precisa l'importanza del riconoscimento del "vero" e del "falso", anche se nella psiche «sussiste una nozione, che prescinde dal vero o dal falso, e talvolta invece sussiste qualcosa, cui spetta necessariamente o di essere vero o di essere falso, così avviene pure per quanto si trova nel suono della voce.»
Qui l'idea di Aristotele è che la nozione di "vero" e di falso" nasca dall'accostamento o dalla disgiunzione di termini significativi considerati isolatamente. I nomi che noi diamo alle cose quando queste «non siano congiunte a nulla né separate da nulla», come nel caso di 'uomo' e di 'bianco' non danno di per sé luogo al vero ed al falso. Si potrebbe osservare che, pur concedendo che 'buono' non esiste se non nelle nostre espressioni, ed è il risultato di un 'giudizio', non potremmo mai dire che 'uomo' non esiste, o esiste solo nelle nostre espressioni. Il problema del vero e del falso si pone quando 'uomo' e 'buono' vengono congiunti in una proposizione dotata di senso, ad esempio, "uomo è buono", oppure "uomo è non buono".
Comunque sia, per avere un'espressione dotata di senso, noi dobbiamo avere un nome, espresso dal suono della voce, «significativo per convenzione», ed in cui nessuna parte sia semanticamente rilevante se considerata separatamente. Quest'ultima considerazione potrebbe dar luogo a discussioni legittime, ad esempio sul fatto che esistono nomi composti come 'capofamiglia' che possono venire scomposti in modo che ciascuna parte abbia un significato indipendente. Non è il caso di occuparsene qui.
Orbene, per Aristotele, l'affermazione «è il primo discorso dichiarativo che sia unitario». In seguito avviene la negazione. Anche qui, non si tratta di indagare filosoficamente perché è sorta la 'negazione', Aristotele non lo fa. Ci basta capire che se uno mi chiede "Hai fame?", rispondo "no", se non ho fame. E così se uno mi chiede: "hai visto Michele?", rispondo "no" se non l'ho visto. Insomma, è probabile che la negazione sia sorta in seguito all'esigenza di rispondere ad una qualsiasi domanda, cioè ad una altrettanto importantissima caratterizzante del discorso umano, la capacità di esprimere anche frasi di senso compiuto in forma interrogativa. Senza dimenticare, ovviamente, che l'esigenza di dire "no" si può avvertire in reazione ad un comando, oppure ad una richiesta, per esempio la richiesta di un prestito o di una donazione.
«Ogni altro discorso - prosegue Aristotele - è invece unitario per collegamento. E' del resto necessario che ogni discorso dichiarativo derivi da un verbo o da una flessione del verbo; in realtà, anche il discorso definitorio dell'uomo, quando non sia stato aggiunto: 'è', o 'era', o 'sarà', o qualcosa di simile, non risulta ancora un discorso dichiarativo.»
L'espressione che definisce l'uomo 'animale terrestre bipede' va intesa come 'un'unità' e non come 'una molteplicità'. Il discorso dichiarativo è 'uno solo' «se rivela un'unità, oppure se risulta unitario per collegamento, mentre si hanno molti discorsi dichiarativi, quando questi rivelano, non già un'unità, bensì molti oggetti, oppure quando questi mancano di un collegamento.»

Una volta isolata la 'cellula' costitutiva di ogni nostro discorso, cioè un'espressione dotata di senso, siamo per così dire già molto avanti nel lavoro. Ma qui incontriamo la prima vera difficoltà del procedere, difficoltà che poi esplose come una bomba nelle mani dei filosofi medioevali: il problema degli universali, che Aristotele affronta in questo modo: «Poiché tra gli oggetti alcuni sono universali, altri invece singolari (chiamo 'universale ciò che per natura si predica di molti oggetti, e per contro 'singolare' ciò che non si predica di parecchi oggetti: uomo, ad esempio, fa parte degli oggetti universali, mentre Callia fa parte di quelli singolari), è così necessario dichiarare che qualcosa appartiene, o non appartiene, ora ad un oggetto universale, ora ad un oggetto singolare. Se qualcuno dichiarerà dunque che qualcosa appartiene, e dall'altro lato che non appartiene, ad un oggetto universale, presentato in forma universale, tali giudizi risulteranno contrari. Dico: dichiarare l'appartenenza e la non appartenenza all'oggetto universale presentato in forma universale, intendendo ad esempio "ogni uomo è bianco", "nessun uomo è bianco".»
Ora, la questione sembra qui posta, in maniera innocente. Non rinvia all'esistenza degli universali in senso ontologico forte, l'idea di uomo come eterna e immutabile nella concezione platonica e nella teoria delle idee. Sembra limitarsi alla considerazione che la somiglianza formale, estetica, somatica ed anatomica, persino fisiologica, comune a molti esemplari animali, porti a riconoscere la legittimità del concetto di 'uomo' e della sua definizione verbale: se vogliamo l'espressione 'animale bipede terrestre' non è priva di humour. Del resto, la sua definizione verbale, viene prima della grande discussione sorta attorno agli universali .nel Medioevo, e della piccola discussione svoltasi già nell'antichità. 'Uomo' in senso generico è sicuramente il risultato di un'operazione mentale che precede di gran lunga la nascita di una filosofia capace di indagare le origini di espressioni in grado di verbalizzare le emozioni della psiche.
Prima si comincia a declinare il nome di 'uomo' al plurale, in modo da render chiaro, ad esempio, che 'si stanno approssimando molti uomini' e non uno solo.
Poi si arriva a riconoscere che c'è un tipo di entità definibile come "uomini' che hanno molte caratteristiche simili.
E d'altra parte, se noi non ammettessimo la legittimità di un ricorso all'universale, o quantomeno, al plurale, come diavolo potremmo procedere logicamente mettendo in relazione un universale con un particolare per poi farlo reagire ed arrivare ad una conclusione?
Si potrebbe rispondere che lo facciamo 'per convenzione', che accettiamo una convenzione, d'accordo, è una terminologia che usa anche Aristotele. Ma, dovrebbe essere evidente che si danno diversi tipi di convenzione, diversi "gradi'; un conto è dire: "si avvicinano alcuni individui armati", un altro è dire: "vedo un gruppo di bambini e bambine festanti correre verso di noi."

Compiuto questo breve tour nel De interpretatione, mirante esclusivamente a mostrare da dove e da cosa prenda le mosse l'analitica aristotelica, siamo pronti ad entrare nel cuore di Analitici primi, non trascurando di dire che sullo stesso De interpretatione torneremo più volte sia in questo scritto che in un lavoro apposito.

Categorie del discorso
Un discorso dotato di senso, per Aristotele, può risultare universale, particolare o indefinito.
«Con discorso universale, intendo quello che esprime l'appartenenza ad ogni oggetto o a nessun oggetto; con discorso particolare, intendo quello che esprime l'appartenenza a qualche oggetto, o la non appartenenza a qualche oggetto, o la non appartenenza ad ogni oggetto; con discorso indefinito, intendo quello che esprime l'appartenenza o la non appartenenza, a prescindere dalla forma universale o dalla forma particolare, per esempio il discorso, secondo cui i contrari sono oggetto della medesima scienza, oppure il discorso, secondo cui il piacere non è un bene.»
Si noti innanzi tutto che Aristotele non entra nel merito della verità delle affermazioni in un discorso indefinito. In questa fase non è di alcuna utilità farsi sviare in qualche contestazione. "Nessun piacere è un bene" deve essere accolto e considerato unicamente come un enunciato dotato di senso. E nulla importa che sia 'vero' o 'falso'. Ogni enunciato può solo essere o affermativo o negativo. Si dovrebbero accantonare obiezioni del tipo "c'è un enunciato che dice 'non so cosa dire' ", perché anche questo enunciato sull'esistenza di un enuciato afferma qualcosa, descrive un possibile stato della psiche sconcertata da affermazioni inusuali o da eventi al di là di ogni possibile spiegazione.
Orbene, è evidente che il primo problema consiste nel capire quale differenza trascorra tra un enunciato e l'altro. Universale? Particolare? Indefinito? In forma negativa? In forma affermativa? Poi si tratta di capire in cosa consista esattamente il congegno sillogistico della dimostrazione. E se esso conduca ad un punto in cui anche la nostra psiche, finalmente, arriva a stabilire che 'questo enunciato è vero e quest'altro è falso'. Il che potrebbe risultare quantomeno problematico all'infuori del dominio proprio alla logica matematica. Perché? Perché in ogni altro campo, dovremmo avvertire l'esigenza di un riscontro empirico. Nel senso che va da Kant a Popper, ad esempio, ma che già Aristotele aveva in diversi modi intravisto e tentato di chiarire.
Abbiamo notato che sul primo problema, Aristotele è chiaro. "Appartenere" potrebbe voler dire, in termini più consueti alla nostra mentalità, "risultare pertinente". In termini logico-matematici, 'appartenere' ad un 'insieme' inconfondibile e logicamente fondato. Non si sfugge all'impressione psichica che la questione della 'pertinenza' sia davvero questione cruciale. La parola 'pertinenza', pronunciata spesso con superficiale noncuranza da tutti, rinvia, però, a qualche dubbio. Da un lato, infatti, anche l'ultimo cialtrone potrebbe addurre qualche motivo di contestazione su 'cosa è pertinente'. Non parlerebbe sempre e comunque a vanvera. Dall'altro, potremmo convenire sul punto che, purtroppo, la 'pertinenza' è una decisione di una intelligenza che non sia vanesia e di una ragione che non sia pigra: il nous, appunto. Il quale non è distribuito in parti uguali tra tutti gli esseri umani, sia in partenza che negli sviluppi. In alcuni casi, è possibile che individui potenzialmente più intelligenti e ragionevoli, si vedano retrocessi in una categoria inferiore perché le circostanze della vita non hanno loro consentito di sviluppare il potenziale, compreso il potenziale "logico".

(continua)
note:
1) Tutte le citazioni sono tratte dal 1 volume delle opere complete di Aristotele, intitolato Categorie, Dell'espressione, Analitici primi, Analitici secondi - Laterza 1991. Quelle tratte da Topici appartengono al 2 volume.
2) Enrico Berti - Le ragioni di Aristotele - Laterza 1989
3) conviene ricordare che "sillogismo" è un termine composto da syn (insieme) e logismòs (calcolo). Significa con qualche approssimazione "ragionamento concatenato" come suggerisce Wikipedia, o più precisamente: ragionamento concatenato secondo necessità.
4) Aristotele - Analitici primi, II, 2: «.Orbene, le ciricostanze possono essere tali, che le premesse onde discende il sillogismo siano entrambe vere; inoltre può avvenire che esse siano entrambe false; infine può darsi il caso che una premessa sia vera e l'altra sia falsa. Dal canto suo, la conclusione è necessariamente o vera, oppure falsa. Per un verso, da premesse vere non è possibile dedurre una conclusione falsa, e per un altro verso, è possibil dedurre una conclusione vera da premesse false. In quest'ultimo caso, tuttavia, non si dice perché la conclusione sia vera, ma semplicemente che è vera. In effetti, un sillogismo che parte da premesse false non può offrire il perché della conclusione....»
5) Hermann Cohen è gradito ospite di "Moses" alla pagina

6) T,W. Adorno - Dialettica negativa - Einaudi 1970 Alla pagina di "Moses" una "miniatura" interessante.
gm - luglio - agosto 2012



Organon

Organon (“Strumento”) è il tit0olo della raccolta delle opere aristoteliche sulla dimostrazione e sulla correttezza del ragionamento, ne fanno parte: Categorie, nelle quali vengono analizzati i termini presi singolarmente ed i loro generi sommi; il De interpretatione che si occupa invece delle proposizioni dichiarative, ovvero delle frasi formate da soggetto, copula e predicato, che possono essere vere oppure false; gli Analitici primi, che descrivono e prescrivono la forma generale del “sillogismo” corretto, ossia dell'inferenza articolata in due premesse e una conclusione; gli Analitici secondi, che chiariscono cosa si debba intendere per “sillogismo scientifico” o “dimostrativo”, ossia quel tipo di sillogismi che non solo risultano logicamente corretti ma anche necessariamente veri, in quanto muovono da premesse certe ed evidenti; i Topici, in cui vengono analizzati i “sillogismi dialettici” o “probabili”, che si utilizzano solitamente nelle discussioni pubbliche in cui non è possibile raggiungere un grado di certezza assoluta, ma dove le premesse sono semplicemente opinioni largamente condivise dagli interlocutori; ed infine le Confutazioni sofistiche, una rassegna dei più diffusi ragionamenti “eristici”, “sofistici” o “fallaci”, ossia tutte quelle argomentazioni che, pur sembrando persuasive e convincenti agli occhi dei più ingenui, non sono in realtà né vere né corrette,



E' il cervello più duraturo del sapere - di Marcello Zanatta



















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