Le battaglie del lago Vadimòne

                                              di Letizia Tessicini  (25/12/2004)

 

Cartina del 1600

di Letizia Tessicini  (25/12/2004)

Le battaglie del Lago Vadimone
 

Raccontare tutti gli antefatti che portarono alle sanguinose battaglie combattute in territorio ortano sarebbe qui lungo, né è questo il sito per una simile trattazione.

Basti dire che nel 310 a.C. gli Etruschi presero d’assedio Sutri, città Falisca alleata di Roma, provocando l’immediata reazione di Quinto Fabio Rulliano.

Ora la difficoltà nell’attaccare direttamente il territorio etrusco era essenzialmente di natura superstiziosa: si presentava nelle forme della paurosissima e impenetrabile Selva Cimino, sulla quale pendevano fosche leggende di spiriti e fantasmi, per cui chiunque volesse giungere in Etruria doveva, e preferiva, compiere un ampio giro attraverso il territorio umbro.

Ecco quindi che Quinto Fabio Rulliano, volendo portare efficace aiuto a Sutri, incaricò il fratello Fabio Ceso e un suo servo, conoscitori della lingua etrusca, di penetrare il territorio nemico e riferirne le usanze. Ritornati i due esploratori incolumi, Fabio Rulliano decise di attraversare la Selva con i suoi uomini, attaccando di sorpresa le milizie etrusche, avendo così facilmente ragione della contesa. Dopo questo vittorioso episodio, il generale decise di far guerra agli Etruschi spostando il campo di battaglia nelle pianure comprese tra il Cimino e il Tevere: cioè nella piana di Lucignano, territorio ortano.

Nel 309 a.C. una prima battaglia insanguina il nostro territorio. Narra Tito Livio: «…presso il lago Vadimone gli Etruschi, radunato un esercito in forza della legge sacrata, avendo ogni uomo scelto il suo compagno, combatterono con un complesso d’uomini e un coraggio quali mai altre volte s’erano visti in passato. La lotta fu condotta con sì gran furore, che da nessuna delle due parti si ricorse alle armi da getto: si iniziò la battaglia con le spade, e la zuffa, violentissima fin dal principio, s’accese sempre più durante lo svolgersi della lotta il cui esito fu per alquanto tempo incerto, cosicché si aveva l’impressione di combattere, non con gli Etruschi tante volte vinti, ma con qualche nuova gente. Da nessuna parte si manifesta il minimo segno di fuga: cadono gli antesignani, e, per evitare che le insegne restino prive dei loro difensori, quella che era la seconda schiera divenne a prima. Poi si fanno intervenire i rincalzi dell’ultima schiera: e si giunge a tale stremo di fatica e di pericolo, che i cavalieri romani, abbandonati i cavalli, si portano fino alle prime file della fanteria passando attraverso le armi e i cadaveri. Questa schiera spuntata come se fosse nuova ad uomini ormai stanchi, scompigliò i reparti degli Etruschi; assecondandone poi l’impeto, la restante massa dei combattenti, per quanto spossati essi fossero, sfondò finalmente lo schieramento dei nemici. Allora di cominciò ad avere ragione della loro tenacia e far ripiegare alcuni manipoli: e, appena questi porsero le spalle, anche tutti gli altri presero più decisamente la fuga. Quel giorno per la prima volta fu abbattuta la potenza degli Etruschi. Fiorente per antica prosperità; venne disfatto sul campo di battaglia quello che era il nerbo dell’esercito, con lo stesso impeto fu preso e saccheggiato l’accampamento» (Tito Livio, Storia di Roma, lib. IX c. 39).

Non pago di questa sua gloriosa vittoria, Fabio Rulliano volle inseguire i fuggitivi fino a perugina, che dopo un breve assedio si arrese. Venne imposta una tregua ad alcune città etrusche e Fabio, tornato a Roma, poté celebrare il trionfo ed essere confermato Console.

Conseguentemente a queste vicende Orte fu occupata dai Romani e divenne la nuova linea di demarcazione tra Roma e l’Etruria.

 

Ma gli Etruschi erano un popolo fiero, e non accettarono di buon grado la sconfitta. Malgrado tutte le loro velleità belliche dovettero però attendere il 284 a.C. per riprendere l’azione.

Alleati con i Galli Senoni riuscirono a sterminare un intero reparto dell’esercito romano, guidato da Cecilio Metello, presso Arezzo. Unitisi poi ai Boi, mossero contro Roma, giurando di non porre fine alla guerra se non quando fossero stati definitivamente vincitori: per questo uccisero gli ambasciatori inviati dai Consoli romani e persino una delegazione composta da Cecidio Petrolio, sette tribuni e 9000 cavalieri.

I Romani, offesi nel loro orgoglio, affidarono al Console Cornelio Dolabella il comando dell’esercito, il quale attaccò ferocemente i nemici, sconfiggendoli definitivamente, e ancora una volta, presso il Lago Vadimone.

Scrive Polibio nel libro I delle sue Storie (c. 20): «…I Boi allora, come videro che i Senoni erano stati cacciati dal loro territorio, temendo di dover subire, con il loro territorio la stessa sorte, partirono in massa per una spedizione contro i Romani, avendo chiamato in loro aiuto gli Etruschi. Presso il lago chiamato Vadimone le forze riunite si schierarono contro i Romani. Nella battaglia che ne seguì, la maggior parte degli Etruschi fu fatta a pezzi, pochissimi dei Boi riuscirono a scampare…».

Eutropio, invece, descrive il campo di battaglia dopo la disfatta: «…gli Etruschi furono completamente annientati e fu tale la strage che le acque del Tevere, assai prossime al lago Vadimone, tinte di sangue e rimboccanti di cadaveri si incaricarono di portare all’Urbe la notizia della Vittoria».

Dione Cassio offre una descrizione sul piano strategico dell’accaduto: «I Romani seguendo l’esempio di Q. Fabio Rulliano, discesi velocemente dal Cimino si spinsero nella pianura e venuti a contatto col nemico lo spinsero sulla Via Amerina fino al lago Vadimone, costringendolo ad accettare la battaglia in condizioni estremamente svantaggiose, avendo alle spalle il Tevere che loro sbarrava la strada, e di fronte le agguerrite legioni romane…; la battaglia cominciò al tragitto del Tevere (ponte sul fiume?)».