Raccontare tutti gli
antefatti che portarono alle sanguinose battaglie combattute in
territorio ortano sarebbe qui lungo, né è questo il sito per una
simile trattazione.
Basti dire che nel 310
a.C. gli Etruschi presero d’assedio Sutri, città Falisca alleata
di Roma, provocando l’immediata reazione di Quinto Fabio
Rulliano.
Ora la difficoltà
nell’attaccare direttamente il territorio etrusco era
essenzialmente di natura superstiziosa: si presentava nelle
forme della paurosissima e impenetrabile Selva Cimino, sulla
quale pendevano fosche leggende di spiriti e fantasmi, per cui
chiunque volesse giungere in Etruria doveva, e preferiva,
compiere un ampio giro attraverso il territorio umbro.
Ecco quindi che Quinto
Fabio Rulliano, volendo portare efficace aiuto a Sutri, incaricò
il fratello Fabio Ceso e un suo servo, conoscitori della lingua
etrusca, di penetrare il territorio nemico e riferirne le
usanze. Ritornati i due esploratori incolumi, Fabio Rulliano
decise di attraversare la Selva con i suoi uomini, attaccando di
sorpresa le milizie etrusche, avendo così facilmente ragione
della contesa. Dopo questo vittorioso episodio, il generale
decise di far guerra agli Etruschi spostando il campo di
battaglia nelle pianure comprese tra il Cimino e il Tevere: cioè
nella piana di Lucignano, territorio ortano.
Nel 309 a.C. una prima
battaglia insanguina il nostro territorio. Narra Tito Livio: «…presso
il lago Vadimone gli Etruschi, radunato un esercito in forza
della legge sacrata, avendo ogni uomo scelto il suo compagno,
combatterono con un complesso d’uomini e un coraggio quali mai
altre volte s’erano visti in passato. La lotta fu condotta con
sì gran furore, che da nessuna delle due parti si ricorse alle
armi da getto: si iniziò la battaglia con le spade, e la zuffa,
violentissima fin dal principio, s’accese sempre più durante lo
svolgersi della lotta il cui esito fu per alquanto tempo
incerto, cosicché si aveva l’impressione di combattere, non con
gli Etruschi tante volte vinti, ma con qualche nuova gente. Da
nessuna parte si manifesta il minimo segno di fuga: cadono gli
antesignani, e, per evitare che le insegne restino prive dei
loro difensori, quella che era la seconda schiera divenne a
prima. Poi si fanno intervenire i rincalzi dell’ultima schiera:
e si giunge a tale stremo di fatica e di pericolo, che i
cavalieri romani, abbandonati i cavalli, si portano fino alle
prime file della fanteria passando attraverso le armi e i
cadaveri. Questa schiera spuntata come se fosse nuova ad uomini
ormai stanchi, scompigliò i reparti degli Etruschi;
assecondandone poi l’impeto, la restante massa dei combattenti,
per quanto spossati essi fossero, sfondò finalmente lo
schieramento dei nemici. Allora di cominciò ad avere ragione
della loro tenacia e far ripiegare alcuni manipoli: e, appena
questi porsero le spalle, anche tutti gli altri presero più
decisamente la fuga. Quel giorno per la prima volta fu abbattuta
la potenza degli Etruschi. Fiorente per antica prosperità; venne
disfatto sul campo di battaglia quello che era il nerbo
dell’esercito, con lo stesso impeto fu preso e saccheggiato
l’accampamento» (Tito Livio, Storia di Roma, lib. IX
c. 39).
Non pago di questa sua
gloriosa vittoria, Fabio Rulliano volle inseguire i fuggitivi
fino a perugina, che dopo un breve assedio si arrese. Venne
imposta una tregua ad alcune città etrusche e Fabio, tornato a
Roma, poté celebrare il trionfo ed essere confermato Console.
Conseguentemente a queste
vicende Orte fu occupata dai Romani e divenne la nuova linea di
demarcazione tra Roma e l’Etruria.
Ma gli Etruschi erano un
popolo fiero, e non accettarono di buon grado la sconfitta.
Malgrado tutte le loro velleità belliche dovettero però
attendere il 284 a.C. per riprendere l’azione.
Alleati con i Galli Senoni
riuscirono a sterminare un intero reparto dell’esercito romano,
guidato da Cecilio Metello, presso Arezzo. Unitisi poi ai Boi,
mossero contro Roma, giurando di non porre fine alla guerra se
non quando fossero stati definitivamente vincitori: per questo
uccisero gli ambasciatori inviati dai Consoli romani e persino
una delegazione composta da Cecidio Petrolio, sette tribuni e
9000 cavalieri.
I Romani, offesi nel loro
orgoglio, affidarono al Console Cornelio Dolabella il comando
dell’esercito, il quale attaccò ferocemente i nemici,
sconfiggendoli definitivamente, e ancora una volta, presso il
Lago Vadimone.
Scrive Polibio nel libro I
delle sue Storie (c. 20): «…I Boi allora, come videro
che i Senoni erano stati cacciati dal loro territorio, temendo
di dover subire, con il loro territorio la stessa sorte,
partirono in massa per una spedizione contro i Romani, avendo
chiamato in loro aiuto gli Etruschi. Presso il lago chiamato
Vadimone le forze riunite si schierarono contro i Romani. Nella
battaglia che ne seguì, la maggior parte degli Etruschi fu fatta
a pezzi, pochissimi dei Boi riuscirono a scampare…».
Eutropio, invece, descrive
il campo di battaglia dopo la disfatta: «…gli Etruschi furono
completamente annientati e fu tale la strage che le acque del
Tevere, assai prossime al lago Vadimone, tinte di sangue e
rimboccanti di cadaveri si incaricarono di portare all’Urbe la
notizia della Vittoria».
Dione Cassio offre una
descrizione sul piano strategico dell’accaduto: «I Romani
seguendo l’esempio di Q. Fabio Rulliano, discesi velocemente dal
Cimino si spinsero nella pianura e venuti a contatto col nemico
lo spinsero sulla Via Amerina fino al lago Vadimone,
costringendolo ad accettare la battaglia in condizioni
estremamente svantaggiose, avendo alle spalle il Tevere che loro
sbarrava la strada, e di fronte le agguerrite legioni romane…;
la battaglia cominciò al tragitto del Tevere (ponte sul
fiume?)».