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Arcipelago Britannico:
mappa della nuova narrativa
di Schió, relatrice prof. Luciana Piré
genere: antologia
titolo: Best of Young British Novelists 2003
casa editrice: Granta, London 2003 (£ 9.99)
edizione italiana: New British Blend, Minimumfax, Roma 2003 (€ 14,00)
giudizio: @@@@@
1. Introduzione
Per disegnare una mappa, bisogna
anzitutto individuarne i confini, poi studiarne le caratteristiche morfologiche,
infine posizionarla su una scala più grande. Allo stesso modo, per tracciare la
mappa della nuova narrativa inglese, occorre innanzitutto individuarne i
protagonisti, poi studiare i contenuti delle loro opere, infine esaminarla nel
suo insieme.
Naturalmente per stabilire quali sono i protagonisti della narrativa britannica
contemporanea è necessaria un’analisi comparata delle opere letterarie
pubblicate in Gran Bretagna nell’ultimo periodo. Bisogna perciò reperire i testi
degli autori più significativi del panorama inglese e confrontarli l’un l’altro,
paragonandone contenuti e stile.
Fortunatamente in Inghilterra c’è già chi ha svolto quest’opera di selezione: è
Granta,
forse la più autorevole rivista letteraria del paese, che ha da poco pubblicato
una nuova raccolta di autori britannici emergenti, dando seguito a una sorta di
tradizione editoriale – nata nel
1983
e proseguita poi con l’edizione del
1993 – che ha già lanciato nel mercato della narrativa nomi come Martin Amis, Kazuo Ishiguro, Ian McEwan, Salman Rushdie, Hanif Kureishi o
Tibor
Fischer, scrittori cioè che sono poi esplosi in Gran Bretagna e nel resto del
mondo. Per l’edizione 2003 la rivista si è affidata ad una giuria composta da 5
probi viri
1 della critica letteraria che ha scelto venti autori britannici,
rigorosamente under 40, dopo aver valutato oltre centotrenta lavori di scrittori
inglesi. Best of Young
British Novelists 2003
è il risultato di quest’opera di selezione: un’antologia che raccoglie
“narrautori” diversi per origine, inclinazioni, temi, ambientazione, stile, ma
anche per notorietà e successo.
Il compito di questo lavoro sarà quello di tracciare il profilo della nuova
letteratura britannica e dei giovani autori che la rappresentano, analizzando i
contenuti e la forma delle short fictions e degli extracts dei romanzi
pubblicati sul
numero 81 di Granta, facendo affidamento anche sul prestigio e
sul credito di cui gode la rivista in Gran Bretagna.
2. Who's who
Caratteristica fondamentale del gruppo Granta 2003 è l’eterogeneità,
ed è lo stesso direttore della rivista, Ian Jack, a sottolinearlo nella sua
introduzione: «forty per cent are women; twenty per cent have a parent of
non-European ancestry: fifteen per cent are Scottish, 7.5 per cent Welsh (the
2.5 per cent is the Welsh half of Peter Ho Davies); five per cent Northern Irish».
Questa molteplicità di origini è indicativa di una situazione ormai radicata da
secoli nel Regno Unito e che – almeno in parte – è il risultato della politica
coloniale britannica nei paesi extraeuropei. Infatti, se fino agli inizi del XX
secolo veniva definita come letteratura inglese grosso modo la produzione
letteraria delle isole britanniche, non va dimenticato che già dall’Ottocento
nei territori dell’Impero coloniale nascevano diverse letterature in inglese,
che nella seconda metà del secolo scorso hanno conosciuto una sensibile crescita
soprattutto in termini di personalità e autonomia. Ormai nessuno considera più
una stranezza il fatto che buona parte degli autori inglesi attualmente più
celebrati sia originaria di zone assai lontane dalla Gran Bretagna.
Ad una tale varietà di origini e di esperienze fa da contraltare una
formazione culturale
pressoché unitaria, istituzionale quasi. Andando velocemente a scorrere la
biografia degli autori
(cfr. Appendice), infatti,
si ricava immediatamente il dato secondo il quale la maggioranza di loro, il
60%, ha avuto un’istruzione universitaria classica, laureandosi nelle università
di Oxford o Cambridge2. Evidentemente
l’educazione classica conta ancora qualcosa in Inghilterra, e scrivere è sì
un’arte ma il talento da solo non basta: bisogna saper maneggiare le tecniche e
le strutture narrative preesistenti per poter consapevolmente produrne di nuove. Multietnici e
open-minded, ma pur sempre inquadrati nel sistema educativo
britannico quindi, questi giovani autori sembrano costantemente alla ricerca di
una formula che sappia tradurre in una sintesi le tendenze tradizionaliste del
romanzo britannico e le aspettative del lettore contemporaneo.
L’edizione Granta 2003 vede anche una maggiore
presenza femminile
(8 su 20) rispetto alle due antologie precedenti3, «yet there are still more men
on this list than women»4. Nello specifico è curioso notare come, tra le
scrittrici del gruppo, solo Monica Ali sia all’esordio assoluto; tutte le altre,
in particolare Sarah Waters e
Zadie Smith (quest’ultima vero fenomeno editoriale
del 2000 con
White Teeth), cavalcano la testa delle classifiche editoriali
inglesi e internazionali già da qualche anno, facendo incetta anche di premi
letterari.
3. Temi
Catalogare le short fictions e gli excerpts
dell’antologia non è operazione agevole, poiché la complessità dei contenuti e
la trasversalità degli argomenti trattati rende arbitraria qualunque
suddivisione. Tuttavia, un percorso tematico è stato comunque approntato,
individuando quattro temi generali: la
vita familiare, l’etica, l’amore e il
viaggio.
a. La
vita familiare
È una delle tematiche più frequentate dai giovani autori di
questa antologia. Le angolazioni e le prospettive cambiano anche in base alle
esperienze personali dei singoli autori, ma a essere messa a fuoco è comunque
quella parte della società inglese che ancora crede nel contratto matrimoniale
come possibile rifugio nel quale rintanarsi.
Nel suo esordio narrativo Monica Ali racconta la vita che conduce una giovane moglie appena immigrata dal Bangladesh per accudire (cioè sposare) un buon partito del suo paese, già da tempo trapiantato a Londra. Dinner with Dr Azad, brano estratto dal romanzo Brick Lane (2003), è la storia di Nazneen, una ragazza mandata allo sbaraglio dalla propria famiglia con l’unico scopo di garantire una “posizione” a lei e togliere un “impiccio” ai genitori. Anche Monica Ali è nata in Bangladesh e cresciuta in Inghilterra, e seppure la stessa autrice si è affrettata a sottolineare che «my book does not trace my family history»5, non è difficile individuare, nella sua facilità di scrittura e nella padronanza che mostra dell’argomento, l’asiaticità delle sue radici sociali. Asiaticità che emerge, per esempio, nell’atteggiamento della sposa nei confronti del marito: sottomesso, servizievole, riverente. Con spirito vitale esplora la città come fosse un nuovo pianeta, salvo poi incupirsi al ritorno a casa. In realtà, Nazneen non ha pretese, è stata data in sposa e, come tale, recita il suo ruolo cercando di farsi piacere lo sposo che le hanno assegnato, anche se lui non è quello che si dice un bell’uomo…
After a minute or two in the dark, when her eyes had adjusted and the snoring began, Nazneen turned on her side and looked at her husband. She scrutinized his face, round as a ball, the blunt-cut thinning hair on top, and the dense eyebrows. His mouth was open and she began to regulate her breathing so that she inhaled as he did. When she got it wrong she could smell his breath. She looked at him for a long time. It was not handsome face. In the month before her marriage, when she looked at his face in the photograph, she thought it ugly. Now she saw that it was not handsome, but it was kind. His mouth, always on duty, always moving, was full-lipped and generous, without a hint of cruelty. His eyes, small and beleaguered beneath those thick brows, were anxious or far away, or both. Now that they were closed she could see the way the skin puckered up across the lids and drooped down to meet the creases at the corners. He shifted in his sleep and moved on to his stomach with his arms down by his side and his face squashed against the pillow. (da Dinner with Dr Azad, di Monica Ali, Granta 81, 2003)
Altro testo del filone familiare è After Caravaggio’s Sacrifice of Isaac, la novella di Rachel Cusk incentrata sul rapporto padre-figlio: un rapporto di ispirazione biblica pronto a spingersi fino ai limiti dell’estremo sacrificio. È la storia di Alan/Abramo che, per provare amore assoluto alla sua nuova compagna, è pronto a fare a meno di ciò che considera al di sopra di tutto, suo figlio Ian/Isacco. Un racconto cadenzato da un io narrante molto pacato e da un ritmo che fino alle ultime righe non lascia scorgere nulla che possa far percepire l’idea del sacrificio totale. Ma fortunatamente la rinuncia al bene per eccellenza viene ricompensata da Gerte, la donna amata, con la frase liberatoria finale: «You can go home to your son».
Gerte hadn’t yet seen anything in me that she wanted. I hadn’t yet roused in her the desire to win, to possess. When I asked to buy her a drink, the next week, she seemed surprised. I was like some mad compass, febrile, sensitive, vibrating to everything she did and said, while she seemed solid and fixed and decided. At the pub she asked me a lot of questions, in the way people do who are bored. I told her things; eventually I told her about Ian. I remember her face, as if something had suddenly caught her eye, something beautiful and rare, something valuable. You love him, she said. Yes, I said. More than your wife? she said. Yes, I said. More than anything. I thought it would be all right, saying that to her, but a feeling of pressure rose in my chest, like I used to get as a child when I’d done something I knew was wrong. (da After Caravaggio’s Sacrifice of Isaac, di Rachel Cusk, Granta 81, 2003)
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Con
The January Man,
David Mitchell affronta il
tema della vita familiare dal punto di vista del figlio, raccogliendo un po’
dell’eredità letteraria di McEwan6. Jason è la voce narrante che racconta la sua
giornata di gennaio nell’Inghilterra primi anni ’80 tutta giochi, guai combinati
e piccole avventure condotte con il timore onnipresente di essere sincero. Gli
altri non approverebbero o, nella migliore delle ipotesi, non capirebbero. È
dura la vita di un undicenne braccato da compagni più forti, da genitori
esigenti e da una sorella maggiore! David Mitchell si rivela un maestro della
caratterizzazione, fornendo un’immagine chiara e senza ombre del personaggio
principale e dell’ambiente circostante, oltre che un vero esperto del linguaggio
infantile: incisi a ripetizione si susseguono lungo il filo del “discorso” di
Jason, proprio come se parlasse, e non scrivesse.
A metà tra il romanzo di iniziazione americano e la commedia brillante, non ci
sarebbe da meravigliarsi se The January Man diventasse presto un soggetto per il
grande schermo, trasformando Jason nell’eroe eponimo della sua generazione, un
po’ come Holden7 negli anni ‘50…
Moron smells of gravy, wears too-short trousers and lives down Gilbert’s End in a cottage that smells of gravy too. Our house smells of alpine air-freshener. Moron’s real name is Stuart Moran, it rhymes with ‘warren’, and when we’re alone I just call him ‘Stuart’, but names aren’t simple. Hard kids get called by their first names, like Tom Branch is Tom. Boys one rank lower like Jack Biggs have friendly nicknames quite often, like Bigsy. Next down are kids like me who just get called by their surname. Julia calls me ‘Thing’ but your own sister doesn’t count, cause all older sisters are evil scum, they can’t help it. Below us are kids who’ve got piss-take nicknames like Moron. Nicholas Briar is ‘Knickerless Bra’. Being a boy is like being in the army. If you don’t use the right name and rank, you end up in a scrap. Girls use Christian names more, and they usually don’t fight cept for Dawn Madden who’s probably a boy gone wrong in some experiment. Sometimes I wish I was a girl too. If I ever said so, the Upton Punks’d kill me and spray BENDER on my gravestone. It’d be even worse than if anyone knew the poet Eliot Bolivar in the parish magazine is actually me. That was my biggest secret, until I crushed the Angel. If I had one wish, it’d be to wake up tomorrow really old—twenty—with all my problems behind me. Even being Julia’s better than being eleven. On her eighteenth birthday last summer she was allowed to go to Tanya’s nightclub in Worcester. Tanya’s has got the only kryptonite laser in Europe. Grown-ups can buy anything, go to Alton Towers whenever they want and don’t worry about ranks or bullying, but they’re still always complaining. (da The January Man, di David Mitchell, Granta 81, 2003)
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Di tutt’altro tono e stile è The Clangers di Susan Elderkin, racconto breve condotto per flashbacks della semplice storia d’amore tra Stan e Crystal Saint e del loro figlioletto Billy. Ambientata nel Kimberley, nell’outback australiano, frontiera della civiltà dove tutto sembra impregnato di selvaggio, la narrazione si snoda attraverso una voce esterna (il titolo dell’opera completa è The Voices) che descrive l’azione dei personaggi in scena, ma anche i loro pensieri e ricordi attraverso i quali viene ricostruita la storia. Il linguaggio del racconto “in diretta” è semplice, a tratti povero, di una povertà funzionale alla cronaca però. Diversamente, quando affonda nel passato si arricchisce, diventa più ricercato, più lento, come se si fosse liberato per un po’ della necessità di illustrare l’azione minuto per minuto. Così come la Nazneen di Monica Ali, anche Crystal si sforza di credere che suo marito, tutto sommato, sia una persona amabile…
—So he had this lopsided Elvis smile, you see—a flicker of borrowed sexiness stuck on him like a badge, she says out loud. But he had no idea that he had it. At the time I thought that was endearing, but now I’d prefer him to know what he has. The awareness would be more attractive. He isn’t very clued up, your dad. Probably niver heard of Graceland in his life, as a matter of fact.
She sits up straight, embarrassed to catch herself speaking to an empty room, and looks out the window again. The shiny red bonnet gapes open like a jaw. She can’t see him from here but he’ll no doubt have his head stuck inside it, the radio in there with him, his big, cavernous nostrils investigating all those dirty pipes. Stan Saint, the man that she’d married. (da The Clangers, di Susan Elderkin, Granta 81, 2003)
È invece una donna, Annie, l’io narrante del racconto breve di Ben Rice, Look at Me, I’m Beautiful. Nel countryside inglese una coppia è al punto di rottura: o qualcuno dei due cambia o non si va avanti insieme. Misurato e piacevolmente folle, il racconto mostra una vis comica immediata proponendo un linguaggio confidenziale e schietto (infatti il narratore è Annie, che sta raccontando al figlio) basato su semplici – ma pur sempre efficaci – giochi di parole («carp pond, or crap pond»), sui continui commentarii e sulla capacità di cogliere i dettagli più significativi. I personaggi, appartenenti al diffuso ceto medio produttivo britannico, sono caratterizzati in maniera vivida e sono rafforzati, nel loro profilo, dalla normalità delle loro relazioni e dei loro sentimenti.
Your father, being your father, said he thought about me for a minute and the blazing row of that morning and wondered for a second if he really ought to, but then told Mike that he didn’t see why he shouldn’t have just a quick one and besides he wanted to see the underwater sound system that Mike had installed in his pond so that he could play Beethoven to his fish. Yes, underwater Beethoven. That was what it had come to. Me escaping to poor Gwen’s and crying for hours on her shoulder, and your father going to Mike Westerly’s for a nightcap and play Beethoven to his fish! (da Look at Me, I’m Beautiful, di Ben Rice, Granta 81, 2003)
b. L’etica
L’impressione generale che si ricava dalla lettura dei brani della raccolta è
che siano extracts non dotati di forza rivoluzionaria. La realtà sociale non
soddisfa in pieno, i personaggi annaspano, ma in fondo va bene così. Il
malcontento aleggia in molti brani dell’antologia, ma non si avverte nessuna
forza pronta a scardinare lo status che ordina le relazioni interpersonali.
Paragonando i testi britannici a quelli della narrativa americana di The Burned
Children of America8, lo scrittore olandese Michel Faber in un articolo
pubblicato su The Guardian, sottolinea proprio questo aspetto: «Certainly, the
rage, fear, hurt and hilarity that suffuse are in short supply in the Granta
pieces. In almost all the British pieces, the characters function under a cloud
of repression, never quite voicing the desires or complaints they might wish to»9.
Sembra quasi che il male di vivere dei personaggi inglesi si esaurisca in mero
disappunto, al limite in sopportazione. Per superare l’impasse bisognerebbe
cambiare, certo, ma con calma, dall’interno, attraverso le vie lecite e previste
dal convivere civile. Nessuna voglia di ribaltamento anima il cuore dei
protagonisti, che preferiscono adattarsi alla condizione esterna piuttosto che
attivarsi per modificarla. È un minimalismo cinico che spinge i personaggi ad
agire solo per curare il proprio particulare. Non esporsi può portare a
risultati più confortanti. Scegliere un basso profilo è più redditizio già a
breve termine. E non fa niente se a rimetterci sono gli altri…
Terry Winters, protagonista del racconto di
David Peace,
Here We Go, è il
campione di questa strategia di vita. Difesa e contropiede. Ormai al culmine
della lunga battaglia sociale tra i sindacati dei minatori dello Yorkshire e il
governo di Margaret Tatcher, Terry, dirigente sindacalista, sceglie la via del
doppio gioco infischiandosene dell’etica professionale, dei diritti dei
lavoratori e dei loro sacrifici. Le tensioni sociali sono alle stelle, ma Terry
è abile a mascherare le sue reali intenzioni e a perseguire il proprio
interesse. Ambientato tra il marzo e l’aprile 1984, in questo brano l’azione si
svolge come fosse una sequenza di diapositive, intervallate da un silenzio
irreale. David Peace sceglie di non commentare direttamente. Lascia che a
commentare siano i fatti stessi. E, chiaramente, è proprio in questo passaggio
che dimostra la sua abilità di scrittura, scegliendo di esprimersi con frasi
brevi, da cronaca, che descrivono immagini secche e immediate. Il periodo è
composto di sole principali: le subordinate vengono scartate o, al più, disposte
ipotatticamente. Niente virgole, solo punti, e a raffica, anche due o tre per
rigo.
Favorita da una lingua brevisillabica come l’inglese, Peace dà vita ad una
scrittura minimalista, cruda e essenziale che trasmette una sensazione di
leggero fastidio al lettore: un lieve prurito che percorre tutta la narrazione.
Ma il messaggio, seppur cifrato secondo un ritmo da alfabeto Morse, è efficace e
arriva al destinatario. Senza fronzoli.
Monday March 5–Sunday March 11, 1984
Terry Winters sat at the kitchen table of his three-bedroom house in the suburbs of Sheffield, South Yorkshire. His three children were squabbling over their scrambled eggs. His wife was worrying about the washing and the weather. Terry ignored them. He took an index card from the right-hand pocket of his jacket. He read it. He closed his eyes. He repeated out loud what he had just read. He opened his eyes. He read the card again. He checked what he had said. He had been correct. He put the card into the left-hand pocket of his jacket. He took a second card from the right pocket. He read it. He closed his eyes. He repeated out loud what he had read. He opened his eyes. His children were taunting each other over their toast. His wife still worrying about the washing and the weather. They ignored him. He read the card again. He had been correct again. He put the card into the left pocket. He took another card from his right pocket. He read it. Terry closed his eyes. Terry Winters was learning his lines. (da Here We Go, di David Peace, Granta 81, 2003)
Dire però che quest’ultima generazione di autori britannici ha scelto in qualche
modo la linea del disimpegno civile non significa affermare che la passione e la
durezza abbiano di colpo abbandonato la letteratura inglese. Tra gli emergenti
della nidiata 2003 di Granta vi è forse almeno un autore che si appresta,
coraggiosamente, a seguire le orme dei vari John King10, Nick Hornby11 e Irvine
Welsh19 (che com’è noto sono tutt’altro che distaccati e passivi nelle loro
produzioni letterarie): è Adam Thirlwell, il più giovane del gruppo (è nato nel
1978), che affronta un tema duro come l’aborto nella short story
The Cyrillic
Alphabet.
Federico de Vargas è un vecchio regista argentino che ha sposato in terze nozze
Olga, una donna russa. Lei è incinta di lui, ma entrambi decidono che non
vogliono il bambino. Perché? Perché l’amore a volte si manifesta nei modi più
strani e inconsueti. Federico è troppo anziano per vestire il ruolo di padre, e
Olga è troppo giovane per crescere un figlio da sola se Federico dovesse
lasciarla presto. La crudezza di alcune sequenze narrative mette a disagio il
lettore: inclementi sono le descrizioni dei procedimenti di aborto e forte il
senso di distacco che si avverte tra protagonisti e azione della narrazione. La
sensazione è che entrambi vogliano quel bambino, ma che entrambi stiano facendo
un sacrificio per l’altro. Thirlwell vuole forse fare luce sul lato oscuro
dell’amore, quando esso è annullamento di sé ed eclissi nell’altro. L’amore come
superamento dell’egoismo.
Both Olga and Federico wanted this abortion. And they also wanted the child. They wanted it, silently. They had a joint desire for a Federico and Olga child. But Olga was not selfish. And Federico was not selfish.
Because they loved each other, neither Federico nor Olga had said that they wanted this child.
Olga snuggled her cheek on the seat belt, trying to fall asleep. (da The Cyrillic Alphabet, di Adam Thirlwell, Granta 81, 2003)
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Complessivamente c’è da notare come «only eight of the twenty – sottolinea
ancora Ian Jack – we finally chose set their books in modern—i.e. post-Thatcher—Britain,
and only five in modern England»; tutti gli altri preferiscono altri setting
narrativi, nel passato o all’estero: in India, in Polonia, in Italia, negli
States, in Spagna, in Australia o in Germania.
Cosa significa? Significa che quasi i due terzi degli autori antologizzati
ambientano le loro storie in una
realtà altra, rifugiandosi in argomenti diversi
dalla loro base di riferimento e evitando il confronto con la propria società. E
questo accade per vari fattori: da una parte perché il racconto fa spesso fatica
a tenere il passo con la realtà da cui proviene, dall’altra – ma in sostanza
parliamo dello stesso aspetto – perché il passato è più facile da esplorare: è
il luogo del certo e dell’incerto allo stesso tempo, un posto dal quale nessuno
può cacciarti, dove puoi utilizzare liberamente i documenti storici o lasciare
andare impunemente la fantasia.
Peter Ho Davies ambienta la sua
short story nel periodo di massima intensità
bellica della Seconda Guerra Mondiale.
Leading Men, brano estratto da
The Bad Shepherd (2003), è un testo che trae spunto da un fatto realmente accaduto: nel
1941 il vice Führer del Terzo Reich, Rudolf Hess, volò n Inghilterra. I motivi
del viaggio però non furono mai chiariti poiché il gerarca si dichiarò preda di
una strana amnesia. In questo vacuum storico Ho Davies inserisce la sua storia.
Hess, ormai prigioniero di guerra nelle mani dei servizi segreti britannici, non
sa rivelare notizie utili a sconfiggere il nazismo. L’ufficiale incaricato di
interrogarlo si chiama Rotheram ed è un giovane tedesco, arruolato per gli
inglesi, di lontana origine ebrea. Lacerato da conflitti interiori che non gli
danno pace, Rotheram cerca per tutto il racconto di scrollarsi di dosso il
peccato originale di essere ebreo e di farsi valere soltanto per ciò che è.
Attraverso un linguaggio descrittivo ricco e fortemente evocativo, Ho Davies
indaga delicatamente nell’animo dell’uomo toccando gli elementi più fragili
della personalità: la ricerca della propria identità e il superamento della
fatal flaw originale.
‘Major,’ Rotheram began, but when he looked at Redgrave’s hangdog face he stopped. He had been about to say that this was his interrogation, but it occurred to him suddenly that Mills was right. As far as he and the Major were concerned it was no interrogation at all. It wasn’t that they thought Rotheram couldn’t determine if Hess were mad or otherwise. They thought it was irrelevant. That unless Hess was raving, or foaming at the mouth, he’d be put on trial. They believed the decision had already been taken. That was why they couldn’t see any point in this. It was a sham in their eyes and worse, to continue it a cruelty.
They expect me to find him fit, Rotheram thought slowly, because they believe I’m a Jew.
He became aware that Redgrave and Mills were staring at him, waiting.
‘I suppose I am finished,‘ he muttered. (da Leading Men, di Peter Ho Davies, Granta 81, 2003)
Nell’antologia Granta si distingue per sperimentazione stilistica l’excerpt di Nicola Barker, The Balance, un brano postmoderno sull’attesa della morte. Cinque individui, profondamente diversi gli uni dagli altri, sono su un tetto e aspettano che si compia l’apocalisse. Eli, Bruno, Susannah, Danny e Sushi non hanno nulla in comune, solo l’approssimarsi della morte; e ciò li rende allo stesso tempo indipendenti e coesi. Il mondo sta esplodendo per colpa dell’Occidente («And do you remember the story I told you about how the West lived off the Third World, how they ate well so that the others could go hungry?») e loro sono alle prese con il “cosa fare” e “come”. Il linguaggio è marcatamente segmentato, con sequenze di una, due parole per rigo, ed anche frenato da spirali ipnotiche di incisi che non favoriscono l’osmosi del testo con il lettore, il quale trova difficile “dimenticarsi” dell’autore per lasciarsi avvolgere solo dalla narrazione.
Let historians note this for posterity:
In the beginning there were the fiver and the French one was not a good dresser
And the one from Basildon couldn’t speak German and thought a certain brand of aftershave was holy fucking water
Don’t forget the kid. Still shits on a pot. Expects us all to admire it, and fuck me if we don’t
–had and improbably long neck and short but rather wide–
thick
–almost frizzy hair, which made everything below seem marginally–
Unbalanced
Everything below…
Hey-ho…
But enough of all that…
–fragile and undernourished. (da The Balance, di Nicola Barker, Granta 81, 2003)
Unico brano espressamente dedicato all’alcolismo è Room 536, di A. L. Kennedy, tratto dal romanzo Paradise (2004). Ispirandosi all’iconografia cristiana, l’autrice «wanted to do something based on the stations of the cross»12, dove Room 536 è solo una delle tappe, la prima. Hannah è una donna che si risveglia in un ambiente che non riconosce, è cosciente ma imbambolata, con le percezioni sensoriali fortemente alterate e, tra flash di luce e buio, impiegherà tutto il brano per cominciare ad avere un’idea di dove si trova: in una specie di albergo per alcolisti. Room 536 è un monologo, almeno per lunghi tratti, dove dolce e amaro si mescolano alla voce narrante in un metaforico viaggio dentro e fuori di sé, sempre sull’orlo dell’autodistruzione. Il testo è sfocato, come la vista di Hannah, ma il linguaggio è brillante e adatto a gestire la sua coscienza, perennemente in bilico tra tristezza e euforia, tra speranza e disillusione. L’alcol, in Inghilterra, è una piaga sociale, anche se «it is more lively in narrative terms, because ‘with drunks there is repentance and sobering up – a bit more plot development’»13, come ama cinicamente ripetere Hilary Mantel14.
It isn’t fair. All I wanted to do was find 536 and take care of my head, but instead I’m trapped inside this 3D memento mori–staring at eternity while it howls graphically away, before and after (as if I were an extra in some truly sadistic, educational short) and all that I’m fond of as me is cupped up ion this single, staring instant–which isn’t enough. Look at me–this is the only point where I’m recognizable, where I make sense–beyond it, I’m nothing but distortion and then I completely disappear. What is this?–a Jesuit lift? I am not at an appropriate moment to be metaphysical. For Christ’s sake, I was only trying to cut the stairs. I didn’t ask to be forcibly reminded that I don’t want to die, not ever, no thank you very much. I am not well and terrified and I don’t have the room to either properly. (da Room 536, di A. L. Kennedy, Granta 81, 2003)
c. L’amore
«All stories are love stories.»
Come dire: scrivere una storia significa scrivere d’amore. Sono le parole
dell’incipit di Eureka Street (1996), uno dei libri più fortunati del nordirlandese
Robert McLiam Wilson. Per non smentirlo, si può dire che anche
The Dreamed, il suo brano pubblicato nella raccolta di Granta, sia una storia
d’amore. Tratta di un old man (resterà sempre innominato lungo tutta la
narrazione) dotato di uno straordinario potere magico: attraverso il sonno
riesce a riportare in vita militari morti nelle guerre precedenti. Come di
preciso? Non si sa. Lui si sveglia al mattino e se li trova lì nel letto a
dormire! Naturalmente ogni risveglio è traumatico: soldati di ogni età e di ogni
nazionalità che si svegliano, a distanza di tanti anni dalla fine della guerra,
in un letto, in Inghilterra. C’è da diventare pazzi! Il percorso narrativo è
appassionante e coinvolgente, a metà strada tra un romance e un novel. L’autore
forza la natura delle cose invertendone o alterandone i flussi originari: la
morte dà la vita, il sonno è produttivo, il tempo ritorna, la violenza scompare
(i soldati si svegliano tutti disarmati). Ben presto il prodigio si trasforma in
missione e all’uomo non resta che dedicarvi la vita. Il messaggio vagamente
biblico è: l’amore solidale, per il prossimo, è l’unica speranza per questa
umanità lacerata dai conflitti.
It became a habit. Certain immutable laws quickly became apparent. A new arrival could only appear once the previous returnee had left. The old man could never stay awake to witness the actual appearance or materialization (he tried in guilty way a couple of times and failed–such experiments could cost a life). There were never any women. Or children. Though some of the soldiers were so young as to be near children. (da The Dreamed, di Robert McLiam Wilson, Granta 81, 2003)
La guerra invece è solo un ricordo per i “ragazzi” che Andrew O’Hagan tratteggia in Gas, Boys, Gas, una short story dal romanzo Personality (2003). La voce narrante è Michael, un neolaureato scozzese che si trasferisce a Londra in cerca di lavoro; verrà assunto come aiuto redattore per la St Clare’s Review, improbabile rivista di un’associazione che si occupa di ciechi di guerra. Ma in realtà, più che il redattore, finirà per fare l’accompagnatore nelle gite dei veterani e l’arbitro nei «blind sports». Il racconto, dolcemente poetico, non ha un finale ad effetto, ma rappresenta bene la scrittura di O’Hagan, dove la sostanza è nascosta abilmente in mezzo ai silenzi. Fucilieri ciechi guidati sulle montagne da uno studente scozzese un po’ imbranato, goffo, anche nelle citazioni che sceglie di fare, ma indubbiamente sincero e generoso.
‘Michael,’ said Norman, ‘give us some of your words. This is a lovely day. We’ll just sit up here for a while. Read something.’
I stood up with my back to the Channel and looked at the old men sitting on the grass.
‘In King Lear,’ I said, ‘blind Gloucester is really at the end of his tether…’
‘Shakespeare,’ said Wobble.
‘Yes,’ I said, ‘and Gloucester’s son Edgar, who’s in disguise–his father doesn’t know who he is–takes him by the hand. His father is blind and he has lost interest in all hopes and the king has gone mad.’
I paused to think.
‘Go on,’ said Norman.
‘Why is the son in disguise?’ said Archie.
‘He’s in danger,’ I said, ‘and his mind isn’t right.’
‘Go on,’ said Norman.
‘Gloucester wants to end it all,’ I said, ‘so he persuades Edgar to lead him to a cliff so’s he can fall off and die. But Edgar loves his father and only pretends to do it. He keeps him on flat ground but tricks his father into thinking he is indeed on a high cliff and is about to fall. Gloucester can’t see the truth.’
The men were quiet. They said nothing for a minute and the sea at my back was calm and almost imaginary, but you could hear the waves coming to wash the chalk cliffs from under us. (da Gas, Boys, Gas, di Andrew O’Hagan, Granta 81, 2003)
Arjun Mitra è il nome del giovane hacker indiano protagonista di Lila.exe, brano estratto dal romanzo The Transmission (2004) dell’angloindiano Hari Kunzru. La storia narra la genesi di Lila.exe, un virus informatico partorito da Arjun, che in pochi minuti contagia il mondo intero percorrendone le arterie cablate. Lila Zohar, incantevole attrice indiana, è la musa che sveglia il protagonista dal torpore di un’adolescenza trascorsa davanti al computer e lo spinge ad aprire la porta della sua camera per cercare Amore. Il nucleo della storia è costituito proprio dal passaggio alla “vita tattile” del protagonista che apre gli occhi sul mondo al di là dello schermo. Le gesta informatiche di badmAsh, alias Arjun Mitra, sono il mezzo attraverso il quale Kunzru dice la sua sulla globalizzazione, sulle idiosincrasie del web e sulla società indiana. Il tono leggermente satirico del brano è messo in risalto da un linguaggio costruito attraverso una sintassi paratattica applicata a periodi piuttosto lunghi e a un registro tecnologico estremamente ricercato.
As somebody who interacted with people almost exclusively through his computer, he knew that he had limited his options, touchwise. In the absence of practical lab work, he concentrated on the theory. When he was not studying he was at the cinema and on the journeys from on to the other he ran simulations in the form of daydreams, preparing for the moment when he would take his place among the lovers, when he would dare to open the door that separated him from tactile life. Unconsciously he assembled a kind of composite, and ideal girl collaged together from bits of film stars and long-range glimpses of students at the nearby girls’ college. Hair and eyes. Floating chiffon. Laughter.
Lila Zohar. (da Lila.exe, di Hari Kunzru, Granta 81, 2003)
Annullamento, sacrificio, idealizzazione. Ma l’amore non è solo questo: è anche
erotismo, attrazione, passione. A ricordarlo sono due autori, Sarah Waters e Dan
Rhodes, che affrontano il tema dell’amore omosessuale. Lei e lei, lui e lui.
Sarah Waters, probabilmente la nuova icona omosessuale della letteratura
inglese, non è nuova a questo tema: già due dei suoi tre romanzi15 sono
incentrati, infatti, sulla storia d’amore tra figure femminili.
Helen and Julia
sono due giovani amanti che devono gestire il proprio rapporto “scandaloso“
evitando di incappare nel giudizio della gente. La difficoltà ulteriore, però, è
data dall’ambiente nel quale il romanzo ha luogo: siamo nella Londra degli anni
’40. In Europa c’è la guerra, ma la vita continua e le priorità sono ancora
quelle portate dall’istinto di conservazione: l’amore, la soddisfazione dei
desideri, l’appagamento delle proprie aspirazioni. Waters dedica una forte
attenzione al linguaggio, con l’obiettivo di renderlo il più attinente possibile
al setting storico del romanzo. Con una misurata dose di delicate metafore e
umorismo, e un vago ritmo da romanzo rosa, l’autrice sviluppa una ricca
caratterizzazione dei personaggi, intrecciando il rapporto interpersonale con
trame di sguardi, sorrisi e parole non dette. All’ombra degli alberi di un parco
cittadino, le due protagoniste si stanno godendo gli ultimi scampoli d’estate
rilassandosi con un bel pic-nic, poco lontano suona la banda e tutto sembra
fatto apposta per esaltare il loro idillio d’amore. Ma basta un tono innaturale
nel dialogo tra le due a rompere l’atmosfera: la gelosia era in agguato e non
aspettava altro per esplodere.
‘Helen,’ she said. Her tone was rushed and not quite natural. ‘Helen, I forgot to tell you. Ursula says she knows a man who might like to write a piece on me–something on the new book–for one of the literary magazines. I’ve fixed to have lunch with him, on Tuesday.’
‘Oh, yes?’ said Helen.
‘Yes’
‘One of literary magazines?’
‘Yes’
‘Marvellous… Where are you seeing him? Somewhere with Ursula?’
Whoosh! Went the trapdoor. ‘Yes,’ said Julia.
Helen laughed, and turned back. ‘Well,’ she said, ‘won’t that be nice for you.’
Julia looked away. ‘I thought you might be pleased,’ she said quietly, ‘that the man wants to write about me.’ (da Helen and Julia, di Sarah Waters, Granta 81, 2003)
Seppure l’argomento sia lo stesso, non si può dire che Dan Rhodes dimostri lo stesso tatto e la stessa sensibilità di Sarah Waters. At the Villa Cockroft, brano estratto dal romanzo Timoleon Vieta Come Home (2003), entra nell’argomento omosessuale in maniera brutale e inaspettata, sia per il lettore meno smaliziato che per il protagonista, il signor Cockroft. Lui, un direttore d’orchestra in pensione, e il suo cane, Timoleon Vieta, sono in una villa a godersi la placida atmosfera delle colline umbre. Apparentemente senza nessun motivo, un giovane uomo bosniaco si presenta ai due durante una calda serata di primavera. Ma in realtà il motivo c’è, ed emergerà solo al termine del racconto di sette giorni passati in villa, attraverso le rudi parole che il bosniaco pronuncerà al signor Cockroft. Una sorta di tragicommedia picaresca impostata con un ritmo piuttosto mellifluo, a tratti insinuante, che nel finale sboccia in tutta la sua oscena originalità.
It was with kissing ugly women in mind that the Bosnian went to pay his rent. He imagined it wouldn’t be much different.
‘We go inside now,’ he said to Cockroft, who was sitting outside and patting Timoleon Vieta on the head while half rereading A Spy By Any Other Name by Wadham Kenning. ‘Now.’ Cockroft followed him into the house. ‘It is Wednesday. It is seven o’clock. Give me your cock.’
Cockroft knew instinctively that he must not show how amazed he was. It was a line he had used time and time again. Come and visit me–all you’ll have to do is suck my dick at seven o’clock on a Wednesday evening and you can stay as long as you like. He had thought that everyone had known it was a joke, despite the well-practised poker face he always adopted while making the offer. But not the Bosnian. In Bosnia, it seemed, a deal was a deal and the Bosnian was ready to pay his rent. (da At the Villa Cockroft, di Dan Rhodes, Granta 81, 2003)
d. Il viaggio
Come si può desumere già dal titolo, anche
Philip Hensher,
dopo Waters e Ho Davies, ambienta il suo
In Time of War in un periodo
bellico. Anche qui non siamo al fronte, e la guerra giunge solo come una lontana
eco. Non viene esplicitato precisamente di quale guerra si tratti; la storia è
ambientata in India ai giorni nostri, e tanto basta. Protagonisti sono Fred, un
uomo alla ricerca di sé, e Carrie, una donna che frequenta per qualche giorno il
suo stesso albergo. Come in uno specchio, i due si riflettono l’uno nell’altra:
lui è un introverso insicuro, lei un’insicura estroversa; lui è un omosessuale
dichiarato («dizzy tart»), lei una timida corteggiatrice. L’unico punto che li
avvicina è il fatto di essere solitari, e probabilmente alla ricerca di
qualcosa/qualcuno. L’impressione è che Carrie sembra aver trovato in Fred una
risposta al suo peregrinare, e forse anche Fred, ma Carrie scappa via troppo
presto per permettergli di metabolizzare il concetto. I personaggi sono
tratteggiati lentamente, con qualche breve didascalia alternata alle parole del
dialogo. Hensher è bravo nel caratterizzarne la personalità attraverso il
linguaggio: Fred si esprime con periodi molto lunghi, dando la sensazione di
procedere a rilento; Carrie invece spara frasi a raffica, brevi e taglienti.
Altro punto in comune? Entrambi si definiscono turisti, non viaggiatori.
‘Someone you met?’ Fred said, when they had disappeared.
‘Oh, no,’ Carrie said. ‘I was just looking. They wouldn’t want to speak to us, anyway, I know the type. You know, they’ve come to see the real India, they’re not going to speak to someone just because they’ve got the same white face. And they’re not tourists, they’re travellers.’
‘I’m a tourist,’ Fred said. It seemed odd to him that nothing Indian seemed interest Carrie; only him and other tourists. ‘I go to beauty spots and send postcards home and I buy souvenirs. I’m too old to be a traveller. I thought you were a traveller though.’
‘Oh, no,’ Carrie said. ‘I’m too rich to be a traveller. You’d know I was a tourist if you’d seen my luggage.’ (da In Time of War, di Philip Hensher, Granta 81, 2003)
Non per turismo, ma per lavoro è il viaggio che Martin, il giovane protagonista di Field Study di Rachel Seiffert, compie nell’est europeo. Un ricercatore universitario, alle prese con uno studio sull’inquinamento di un fiume che scorre nei pressi di un impianto chimico, vede una giovane mamma col suo bambino fare il bagno nelle acque sospette del fiume stesso. È colpo di fulmine, ma solo per lui e la storia pian piano evapora concludendosi con la fine della trasferta scientifica di Martin. Il dialogo è scarno e il non-detto risulta veicolare più “notizie” delle parole pronunciate. I personaggi sono disegnati con un tratto leggero e semplice che ne evidenzia l’intensità delle emozioni, anche se il tema principale sembra essere la solitudine e la difficoltà di stabilire rapporti umani soddisfacenti. Highlight della storia è il goffo tentativo di Martin di baciare Ewa (la madre del bambino): lei lo rifiuta e lui ci resta male. Due vite si sono intrecciate per una settimana, poteva essere e non è stato, ora è tempo di riprendere il percorso interrotto e rientrare nel continuum storico personale.
Ewa smiles into the middle distance and Martin looks at her. Only half a meter between them, the corner of the table, knees almost touching underneath.
He leans towards her. But Ewa catches him.
–No.
One hand on each of his shoulders, she holds him at arm’s length. Martin blinks.
An empty wine glass rolls on the table. Ewa shakes her head.
–Sorry, no.
She smiles and then Martin sits back in his chair again, sunburn itching, sweat prickling in his scalp. (da Field Study, di Rachel Seiffert, Granta 81, 2003)
Decidono di partire per cambiare la loro vita i due improbabili protagonisti dell’esilarante The Costa Pool Bums dello scozzese Alan Warner. Aeroporto di Gatwick: due rappresentanti della working class britannica fanno conoscenza al bancone di un bar, bevendo della sana birra nazionale di ritorno da un viaggio all’estero. Bastano pochi minuti di conversazione per capire quanto siano stufi del cielo grigio e della recessione economica inglese e per decidere di dare una svolta alla loro vita tentando la sorte come idraulici per piscine in Spagna. Trascinato da uno humour a tratti grottesco e da un’ironia che fa a fettine l’intera società britannica di inizio millennio, The Costa Pool Bums rappresenta un perfetto esempio di dirty realism16, ovvero del nuovo realismo inglese. Ricco di dettagli e di riferimenti contemporanei (attitudini sociali, abbigliamento, consuetudini alcoliche), Alan Warner riesce in pochi paragrafi a fornire un quadro abbastanza chiaro della nuova classe media britannica sottolineandone gli aspetti caratteristici: la «barroom philosophy», il rapporto con gli altri paesi europei, l’importanza del salario nel posizionamento sociale, il mutamento delle relazioni interfamilari e l’insuccesso del libero mercato.
There was a month’s backdated wages in the bank, which Eisin and I hit down on the lower floor at Gatwick with a max daily withdrawal. There were several flights to Spain a couple of hours down the line. We toured around the ticket desks.
I had my passport and a bag of dirty T-shirts and I kept telling myself that I was returning to Spain without having left the airport in the company of a dubious plumber I’d only just met. I was paying for his seat too. When we pooled our cash we had close to one hundred and forty pounds. But I felt more proud of myself than I had in years. (da The Costa Pool Bums, di Alan Warner, Granta 81, 2003)
Martha Penk è una giovane donna inglese, di origini nigeriane, in fuga dal passato, in cerca di una nuova dimensione. A 22 anni sceglie il Massachussetts per ricominciare da zero, da sola. Ma il richiamo del cuore non tarda a farsi sentire: è troppo forte, le devasta l’anima e la mente. Non riesce a staccarsi, a dimenticare, a perdonare chi l’ha ferita così a fondo. Un biglietto, scritto dietro la foto di un uomo e di un bambino che sorridono, recita:
Martha, Martha, I love U
And I’m trying 2 tell U true
For this New Year 2002
I am going to be there for U
I know that U have many dreams
And life is not always how it seems
But I want U 2 put me 2 the test
And I will do all the rest
Together we will get so much higher
Through my love and our desire
Don’t give up on what we’ve got
Cos Ben and Jamal love U a lot!
(da Martha, Martha, di Zadie Smith, Granta 81, 2003)
Zadie Smith
è dotata di un’abilità eccezionale nel giustapporre le scene in sequenza come
immagini che scorrono su uno schermo. Gestendo sapientemente le battute, le
metafore e le trovate linguistiche di cui è capace, riesce a dare un equilibrio
originale anche ad un racconto come
Martha, Martha dove le culture e i
livelli tra le persone si mescolano e gli stati d’animo più diversi si
incrociano e si accavallano in pochi paragrafi. Disorientata dai dubbi, Martha
passa dall’entusiasmo alla depressione e dalla spavalderia all’insicurezza con
ritmi incredibili, ma pur sempre umani. Il suo imbarazzo fortunatamente non
traspare agli occhi degli altri grazie alla «secretive skin» di cui madre natura
l’ha dotata, che ne nasconde gli effetti epidermici.
L’ultimo “viaggio” della raccolta Granta è in realtà una ricerca dentro se
stessi, a caccia di una lepre.
The Hare è una preda. Anzi, è “la” preda
di Toby Litt.
Ma l’autore stesso è una lepre. E corre. All’inseguimento di una lepre, che però
non è una lepre: è «a real living literary animal-idea». Insomma, un brano
fortemente autoreferenziale, ricco di allusioni personali esplicite (alla
propria produzione letteraria, alla propria infanzia, ai propri gusti letterari)
scritto però alla maniera di un diario di viaggio nello spazio-tempo. È la
storia autobiografica di una ricerca, che si trasforma in caccia. Nel testo
ricorrono metamorfosi di ogni genere: l’obiettivo della quest cognitiva cambia,
l’autore cambia, l’ambiente cambia, in un tourbillon barocco che stimola il
lettore fino all’eccesso, fino a frastornarlo. Esempio di eccezione alla regola
del tradizionalismo formale, The Hare è un brano piuttosto esigente da
affrontare: per cogliere il senso e le sfumature bisogna sapersi trasformare un
po’ in cacciatore e affinare la vista. Almeno fino al dénouement finale.
All along I had been expecting this quest after an image or idea or ideal to end with a confrontation with myself–myself as a hare upon a steep Welsh hillside gazing towards myself as a boy, within a twenty years vacated farmyard. I did not foresee this journeying as a hare towards a hare’s longing; neither did I foresee companionship. (da The Hare, di Toby Litt, Granta 81, 2003)
L’impressione generale è che il
linguaggio della nuova letteratura inglese sia il
realismo: la descrizione
dell’esistente, la cronaca del quotidiano capace di suscitare una forte
impressione di realtà. Ma è un realismo minimalista, che punta alla
rappresentazione delle dinamiche dei rapporti interpersonali, quali che siano, e
non ad una raffigurazione della società contemporanea nel suo insieme.
Nessun autore moderno, infatti, sembra volersi assumere la responsabilità di
riprendere i percorsi narrativi dei grandi romanzieri britannici del passato e
rappresentare lo “state-of-England” oggi. È un limite forse ma, onestamente, non
è facile fare un rendiconto romanzato del contesto sociale britannico degli
ultimi anni: i fattori che compongono gli ingranaggi della società moderna sono
tanti e tali (immigrazione, disoccupazione, crisi economica, politica
internazionale) che risulta più produttivo rappresentarla poco per volta,
sezionando l’esistente in tante piccole parti per poi ricostruirlo in
altrettanti piccoli romanzi.
«Then again, when, since Dickens and Eliot died, have great state-of-England
novels been rolling from the press? Instead, we had state-of-sex-and-drugs
novels in which self-harming women were a common feature, state-of-marriage
novels, state-of-Yorkshire novels». Ian Jack comprende come il tempo di una
visione dall’alto, ampia e onnicomprensiva, sia finito. Gli autori di oggi
continueranno la strada aperta da predecessori come Amis17, Kureishi18 o Welsh19,
scrittori del malessere personale, delle periferie urbane, dell’identità da
ricostruire, dei demoni interiori. Niente
panoramica per questi “fotografi” britannici, essi preferiscono il macro al
grandangolo: meglio concentrarsi sui particolari che rischiare di perdere il
controllo dell’insieme.20
Ecco perché si rifugiano nel minimalismo della realtà quotidiana, puntando la
lente sulla ciclicità dei gesti giornalieri, le piccole grandi vittorie e
sconfitte che l’uomo e la donna comuni affrontano tutti i giorni.
Un’ultima annotazione: il
linguaggio di questi giovani scrittori, benché dotato
di una componente riflessiva e autoreferenziale, resta funzionale alla
narrazione, mimetico, e con una certa tendenza ad evitare complicazioni
stilistiche e letterarie.
4. Strutture narrative
In generale, l’elemento comune ai brani dell’antologia è la struttura narrativa.
Tranne forse Toby Litt e Nicola Barker, orientati più sul romance, quasi tutti
gli autori tornano ad esprimersi attraverso il
novel. Qualcuno – il critico
letterario Robert McCrum21 – fa notare come questa sia la forma preferita per «an
age without ideology and a self-obsessed society without strong beliefs».22 La
critica, quindi, riconosce che la forma-romanzo abbia ripreso vigore dopo
qualche anno di appannamento, ma che comunque – come si diceva in precedenza –
la fiction letteraria moderna si stia allontanando sempre più dalla funzione
sociale che aveva ricoperto un tempo in Gran Bretagna con Charles Dickens e
George Eliot. Ancora McCrum: «Where once the novel was a vehicle for expressing
complex ideas about the condition of society or the fate of the working-class,
the novel (now re-upholstered and resprayed), has become the natural vehicle for
youthful self-obsession, conveying both author and reader on a magical mystery
tour of the self in a time of narcissism».23 Gli autori di oggi – e i lettori con
loro – si ripiegano spesso su se stessi, incapaci di vedere oltre i propri
confini, innamorati del proprio io fino all’ossessione narcisistica. La
produzione letteraria sembra battere sempre gli stessi percorsi, utilizzare
sempre le stesse strutture, come se il racconto classico, il romanzo,
rappresentasse un luogo sicuro di espressione, sia di contenuto che di stile.
Nella raccolta Granta si constata un diffuso
tradizionalismo formale e tra gli
autori – sempre sottraendo alla somma Nicola Barker e Toby Litt – è latente una
certa riluttanza a tentare strade nuove: sono rarissimi i casi di testi
sperimentali sia per quel che attiene la lingua che la struttura narrativa.
5. Una nuova
identità
«All very fine and various [writers], and broadly reflecting the country or
countries that Britain has become».24
Ian Jack pone una questione di
identità. Le influenze e le contaminazioni che la
narrativa britannica ha subito nell’ultimo secolo l’hanno trasformata in
qualcosa di più complesso di una letteratura nazionale, i cui confini non sono
facilmente definibili a causa delle continue e ripetute “invasioni” letterarie
che ne hanno alterato la specificità.
Fino agli anni ’50 del Novecento era stata la dinamicità e l’originalità degli
autori irlandesi (Wilde, Shaw e Joyce in particolare) a influenzarne contenuti e
forme; poi – specialmente a partire dagli anni ’70 – sono state le letterature
in inglese, quelle provenienti dalle vecchie colonie, a indicare una nuova
frontiera. Autori come Patrick White (Australia), Wole Soyinka (Nigeria), Nadine
Gordimer e John M. Coetzee (Sud Africa), Derek Walcott (Saint Lucia) e V. S.
Naipaul (Trinidad)25,
infatti, sono stati protagonisti di una sorta di
colonialismo di ritorno, almeno in senso letterario, e hanno mescolato la loro
produzione narrativa a quella britannica generando una letteratura ibrida di cui
a lungo non si sono compresi i confini.26
Grazie all’immigrazione e alle contaminazioni culturali, l’Inghilterra, Londra
in particolare, è oggi un paese multietnico, dove si fondono credi, culture e
tradizioni diverse. E letterature, naturalmente. In Gran Bretagna è presente una
larga fascia di popolazione che, pur sentendosi totalmente inglese, sa di avere
una diversa eredità e una diversa origine. Questo vasto gruppo sociale è
rappresentato da almeno due generazioni di scrittori inglesi, anche loro figli
di immigrati: la generazione degli Ishiguro, Kureishi, Timothy Mo e Rushdie, e
quella attuale – che Granta ha fotografato – dei Kunzru, Ho Davies, Monica Ali,
Zadie Smith, Cusk e Seiffert. Le loro opere offrono prospettive nuove,
decentrate, e filtrate attraverso ottiche culturali ibride.
Ma se da una parte hanno favorito lo sgretolamento dell’identità letteraria
britannica, dall’altra contribuiscono adesso a edificarne una nuova. Il loro
impulso ha determinato un sensibile ampliamento degli orizzonti narrativi, un
arricchimento dei temi e l’introduzione di scenari prima sconosciuti alla
narrativa inglese. Tutto questo, innestato nel tronco della tradizione
britannica, ha prodotto una nuova identità letteraria, un po’ meno British
e più English.
La banda di Granta 2003
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Monica Ali è nata a Dacca, nell'attuale Bangladesh, nel 1967, e ha lasciato il suo paese durante la guerra civile per stabilirsi in Inghilterra. E’ cresciuta a Bolton ed ha studiato Scienze politiche, Filosofia ed Economia al Wadham College di Oxford. Brick Lane (in Italia Sette mari e tredici fiumi), il romanzo di esordio da cui è tratto Dinner with Dr Azad, è stato finalista al Booker Prize 2003. |
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Nicola Barker è nata nel 1966 nel Cambridgeshire, a nove anni è emigrata in Sudafrica ed è tornata in Inghilterra nel 1981. Si laureata con voti scarsi al King's College di Cambridge in Filosofia e Inglese. Ha lavorato per molti anni in un forno, poi in una libreria e ora fa l’infermiera al Queen Elizabeth’s Hospital. Ha pubblicato sette libri, il più recente dei quali è Behindlings (2002). |
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Rachel Cusk è nata in Canada nel 1967 da genitori inglesi, e ha vissuto negli States fino al 1974 quando la sua famiglia ritornò in Inghilterra. Ha studiato Inglese al New College di Oxford e ha effettuato lunghi viaggi in Spagna e America centrale. Ha pubblicato quattro romanzi: Saving Agnes, The Temporary, The Country Life e The Lucky Ones. |
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Susan Elderkin è nata nel 1968 a Crawley, nel Sussex. Ha studiato Inglese al Downing College di Cambridge e Scrittura creative all’Università di East Anglia. Il suo primo romanzo, ambientato in Arizona, Sunset over Chocolate Mountains, ha vinto il Betty Trask Award. The Clangers è tratto dal suo secondo romanzo, The Voices, pubblicato in Gran Bretagna nel 2003. |
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Philip Hensher è nato e vive a Londra. Ha studiato a Oxford e Cambridge, ottenendo un dottorato sulla pittura inglese del XVIII secolo. Ha pubblicato una raccolta di racconti (The Bedroom of the Mister's Wife) e quattro romanzi: Other Lulus, Kitchen Venom, Pleasured e The Mulberry Empire (2002, selezionato per il Booker Prize). |
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Peter Ho Davies è nato nel 1966 a Coventry da madre cinese e padre gallese. Ha studiato Fisica alla Manchester University e Inglese a Cambridge. Oggi insegna scrittura creativa all'Università del Michigan ed è autore di due raccolte di racconti: The Ugliest House in the World e Equal Love. "Protagonisti" è tratto dal romanzo The Bad Shepherd, in uscita in Gran Bretagna nel 2004. |
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A. L. Kennedy (Alison Louise) è nata a Dundee, in Scozia, nel 1965. Ha studiato Inglese e scrittura drammaturgia a Warwick. È autrice di quattro raccolte di racconti, tre romanzi e due libri di saggistica. Ha vinto numerosi premi letterari ed è già stata inclusa da Granta tra i migliori giovani scrittori inglesi nel 1993. |
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Hari Kunzru è nato nel 1969 da genitori indiani, è cresciuto nell'Essex e vive a Londra. Ha studiato Inglese a Oxford e conseguito un master in Filosofia e letteratura a Warwick. E’ un giornalista freelance e scrive per il Guardian, Wired, l'Economist e la London Review of Books. The Impressionist e Transmission sono i titoli dei romanzi che ha pubblicato finora. |
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Toby Litt è nato nel 1968 ed cresciuto ad Ampthill, nel Bedfordshire. Laureato in scrittura creativa al corso di Malcolm Bradbury all’università di East Anglia Ha scritto due libri di racconti, Adventures in Capitalism ed Exhibitionism, e tre romanzi, Beatniks, deadkidsongs e Corpsing. Il suo nuovo romanzo, Finding Myself, è uscito in Gran Bretagna nel giugno 2003. |
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David Mitchell è nato nel Lancashire nel 1969 e ha studiato letteratura all’università del Kent, a Canterbury. Ha vissuto in Giappone, fra il 1994 e il 2002. Il suo primo romanzo, Ghostwritten, ha vinto il Betty Trask Award; il secondo, number9dream è stato finalista al Booker Prize.
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Andrew O'Hagan è nato in Scozia nel 1968 e si è laureato a Glasgow. Nel 1995 ha esordito con il saggio-reportage The Missing; il successivo romanzo, Our Fathers, è stato candidato a numerosi premi. Gas, Boys, Gas è tratto dal suo nuovo romanzo, Personality. |
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David Peace è nato a Ossett, nello Yorkshire, nel 1967. Ha pubblicato una tetralogia di romanzi noir: 1974, 1977, 1980 e 1983. Here We Go è tratto dal suo prossimo romanzo, GB 84, che ruota attorno allo sciopero dei minatori del 1984-85, e uscirà in Gran Bretagna nel 2004. |
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Dan Rhodes è nato a Purley, a ovest di Londra, nel 1972 ed è cresciuto nel Devon e nel Kent. Ha studiato Scienze umanistiche all’università di Glamorgan, È autore di due raccolte di racconti, Anthropology e Don't Tell Me The Truth About Love; "At the Villa Cockroft" è un estratto dal suo primo romanzo, Timoleon Vieta Come Home. |
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Ben Rice è nato nel Devon nel 1972. Ha studiato nelle università di Newcastle e Oxford. Ha esordito con il romanzo breve Pobby anc Dingan, tradotto in molte lingue e vincitore del Somerset Maugham Award. Al momento Rice sta adattando due suoi racconti per il cinema. |
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Rachel Seiffert è nata a Oxford nel 1971, da padre tedesco e madre australiana, e oggi vive a Berlino dividendosi tra l'insegnamento e la scrittura. The Dark Room, il suo primo romanzo, è stato tra i finalisti dell'edizione 2001 del Booker Prize.
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Zadie Smith è nata nel nord ovest di Londra nel 1975 da padre inglese e madre giamaicana. Ha studiato al King’s College di Cambridge. Ha pubblicato due romanzi, White Teeth e The Autograph Man e ha vinto il Guardian First Book Award e il Whitbread First Novel Award. |
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Adam Thirlwell è nato nel 1978 ed è cresciuto nel nord di Londra. Lavora come editor per la rivista Areté e ha una borsa di studio all'All Souls College di Oxford. Il suo primo romanzo, Politics, è stato pubblicato nel 2003.
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Alan Warner è nato nelle Highlands scozzesi nel 1964 e vive da anni in Irlanda. Ha pubblicato quattro romanzi: Morvern Callar (1995, già trasformato in film), The Sopranos (il cui passaggio alla pellicola è stato già previsto), The Man Who Walks e These Demented Lands. |
Sarah Waters è nata a Neyland, in Galles, nel 1966. Ha studiato Inglese alle università del Kent, di Lancaster e di Londra. Ha pubblicato tre romanzi: Tipping the Velvet (1998), Affinity (2000), Fingersmith (2003) che è arrivato in finale sia all'Orange Prize sia al Booker Prize. |
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Robert McLiam Wilson è nato nel 1964 e vive a Belfast. È autore di tre romanzi, Ripley Bogle (Garzanti, 1996), Manfred's Pain (inedito in Italia) ed Eureka Street (Fazi, 1999), tradotti in quindici lingue. "I sognati" è un estratto del suo prossimo romanzo, The Extremists, in uscita nel 2004.
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Bibliografia:
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Bibliografia integrativa:
- AA.VV., Burned Children of America, Minimumfax, Roma 2003.
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- FISCHER, T., Il collezionista, Piccola Biblioteca Oscar Mondadori, Milano 1999.
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[1] Ian Jack, presidente della giuria e direttore di Granta; Robert McCrum, caporedattore letterario dell’Observer; Nicolas Clee, direttore di The Bookseller; Alex Clark, critico letterario del Sunday Times e della London Review of Books; Hilary Mantel, critico letterario della New York Review of Books e del New York Times.
[2] Diversamente dalla giuria Granta, la cui percentuale di giurati che ha studiato a “Oxbridge” è calata, tra il 1993 e il 2003, dal 75% al 40%.
[3] Nelle due raccolte precedenti le donne in antologia erano sempre state 6: Pat Barker, Ursula Bentley, Buchi Emecheta, Maggie Gee, Lisa de Terán e Rose Tremain nel 1983; Anne Billson, Esther Freud, A.L. Kennedy, Candia McWilliam, Helen Simpson e Jeanette Winterson nel 1993.
[4] Dall’articolo di Vanessa Thorpe, Women writers top class of 2003, pubblicato su The Observer, il 5 gennaio 2003.
[5] Dall’articolo, a firma dell’autrice stessa, Where I’m Coming From, pubblicato sul sito web http://www.powells.com/fromtheauthor/ali.html
[6] Cfr. Ian McEwan, First Love, Last Rites (1975), In Between the Sheets (1978), The Cement Garden (1978).
[7] Holden Caulfield, protagonista dell’opera di Salinger, J. D., The Catcher in the Rye, (1951).
[8] Aa.Vv., The Burned Children of America, Hamish Hamilton 2003.
[9] da A great divide?, The Guardian del 24 maggio 2003.
[10] John King (Londra, 1962) ha pubblicato The Football Factory (1996), Headhunters (1997), England Away (1998), Human Punk (2000) e White Trash (2001), The Prison House (2004).
[11] Nick Hornby (Redhill, Surrey, Inghilterra, 1957) è autore di Fever Pitch (1992), High Fidelity (1995), About a Boy (1998).
[12] A. L. Kennedy, A kind of self-martyrdom, pubblicato il 24 giugno 2004 sul sito internet http://www.thebookseller.com/.
[13] Frase attribuita a Hilary Mantel, riportata nell’articolo di Kate Kellaway, Twenty players tipped, pubblicato su The Observer del 17 novembre 2002.
[14] Ibidem, nota 1.
[15] Tipping the Velvet (1998), trasformato in drama serial per la BBC nel 2002, e Affinity (1999), che ha vinto il Somerset Maugham Award for Lesbian and Gay Fiction nel 2000.
[16] La definizione è di Geneviève Grace, skill trainer del British Council, che a proposito aggiunge: «Warner is one of a number of young British novelists who have reacted against what they think of as the ‘gentility’ of much mid-century British fiction, which tended to concentrate on the middle-classes, or those aspiring to join them. One of their key insights is that the middle-classes no longer exist, as the cocoon of lifetime employment has been stripped away by market forces».
[17] Cfr. Martin Amis, Money: A Suicide Note (1984), The London Fields (1989), The Information (1995).
[18] Cfr. Hanif Kureishi, The Buddha of Suburbia (1990), The Black Album (1995) e Intimacy (1998)
[19] Cfr. Irvine Welsh, Trainspotting (1993), The Acid House (1994), Ecstasy (1996), Filth (1998), You’ll Have Had Your Hole (1998) e Porno (2002).
[20] Cfr. Paola Splendore in Bertinetti, P. (a cura di), Storia della letteratura inglese. II. Dal Romanticismo all’età contemporanea. Le letterature in inglese, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 2000, p. 275: «Piuttosto che tentare l’impossibile interpretazione del mondo contemporaneo, i romanzieri si dedicano alla rappresentazione della confluenza tra realtà e finzione della società post-tecnologica, mettendo in scena l’assurdo del quotidiano e l’indeterminatezza della verità».
[21] Ibidem, nota 1.
[22] Dall’articolo Return of the undead, pubblicato su The Observer del 29 dicembre 2002.
[23] Ibidem, nota 21.
[24] Ian Jack, dall’introduzione a Best of Young British Novelists, Granta 81, 2003.
[25] N.B. gli autori citati sono stati tutti vincitori del Premio Nobel per la Letteratura.
[26] Cfr. Rushdie, S., 'Commonwealth Literature' Does Not Exist, in Imaginary Homelands, Granta, Londra 1981.