bryter layter
[1970]
time of no reply
[postumo]



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Conosco il tranello delle biografie, e conosco l’impostazione classica. Conosco quel sentore di mancanza che coglie l’ascoltatore nella fase finale dell’esaurimento scorte della materia discografica del proprio paladino; da qui l’utilità sociale dello storico del rock. Conosco i mille trucchi nascosti in ogni prospettiva interpretativa, i suoi silenziosi appigli a questa o quella teoria, pronti a germinare da personali ed irrelate cernite di materiale. Amo Nick Drake, e come Joe Boyd sono persuaso che la cosa di Nick Drake siano le sue canzoni. Oltre quelle, dati che un modello 740 direbbero con uguale fedeltà ci riportano al Nick fenomenologico, al Nick sezionabile, deducibile ed imponibile. Di questo compromesso fra il dato ozioso della cronologia e l’indicibile racchiuso dalle opere, vive l’angusto margine concesso al recensore postumo, il quale, in questa fattispecie, afferma sotto la sua propria responsabilità:

Nick Drake nasce a Rangoon, Burma, (dove il padre Rodney, ingegnere, vi svolgerà una biennale attività) il 19 Giugno 1948. Tornato in Inghilterra con la famiglia, si trasferisce nel tranquillo villaggio di Tanworth in Arden, nei pressi di Birmingham. La sua è una famiglia serena e unita, economicamente agiata della media borghesia inglese. Qui gli stimoli creativi non mancano al giovane Nick: la madre, Molly, è, di far suo, un’amatoriale compositrice di canzoni. Compie regolarmente gli studi, brillando in special modo nelle materie letterarie (vince la borsa di studio per il college a Cambridge) e nello sport (sarà capitano nella squadra di rugby del liceo). Dopo un approccio con il pianoforte (semi-disastroso nelle testimonianze), con il sax e con il clarinetto, opta decisamente per la chitarra, e vi si getta tanto a capofitto da sorprendere il proprio insegnante: in sei mesi questo, non solo non ebbe più nulla da insegnargli, ma dovette persino constatare il distacco inflittogli dall’allievo. La perizia strumentale raggiunta da Nick in questo periodo è testimoniata da pochi bootlegs postumi e dai due pezzi del 1967 poi compresi in Time of no reply, due gemme che affiorano dalla polvere e dai fruscii di bobine reel to reel rinvenute nella stanza di Tanworth; “Been smoking too long”, creazione di un (dotato) amico di Nick è un blues dimesso e autocommiserativo, “Strange meeting II” un’apparizione panico/amorosa che introduce la definitiva impostazione dello stile del chitarrista; il blues c’è, ma sbiadisce dalla pelle e si fa sangue.

Le influenze musicali di Nick rimarranno sempre le stesse, e risulteranno trasfigurate nella disinvolta e naturale sintesi della sua opera maggiore; il blues - in primis - il folk - essenzialmente nella forma esterna della strumentazione-, il pop e la classica. In Nick -artista totale- saranno una sola cosa, del tutto originale. Trasferitosi a Cambridge frequenta i corsi al college e conduce una vita divisa fra letteratura inglese e la chitarra; l’una fornirà cura formale, l’altra anima alle canzoni. Musicalmente Cambridge è restìa a lasciarsi infiammare dagli ardori pop della metropoli londinese, il clamore e lo stardom le sono indifferenti, e flitrano lentamente; sono piuttosto folk e musica tradizionale ad animare le sue quiete serate. Nick, sognatore e tendente all’introversione, si trova perfettamente a suo agio in questa realtà provinciale e suona la chitarra in privato, per i pochi amici del college, concedendosi persino una piccola apparizione pubblica in una saletta studentesca; il “May balls”. Sorte vuole che lì vi si trovi l’allora bassista dei Fairport Convention Ashley Hutchings, che notatolo, lo convince a spedire un nastro al produttore dei Fairport (oltre che dell’Incredible String Band e Richard Thompson) Joe Boyd. Il nastro innamora Boyd, che propizia la registrazione del primo capolavoro drakiano, Five leaves left, che esce nel Settembre 1969.

Nick ha ventun anni, che son pochi a dar ragione della bellezza di quei solchi, ma che rivelano forse, uniti all’ipersensibilità che li propiziarono, l’impreparazione di un ragazzo molto riservato ed i cui ritmi di vita sono tarati sull’esperienza della campagna, ad abbracciare la sfida (ed il cliché) del successo discografico su vasta scala. Il disco, bello quanto pochi, suscita l’apprezzamento (eterogeneo ma fondamentalmente unanime) della critica specializzata ma vende molto poco. Il 1969 è anno molto denso per la scena musicale anglo/americana, e ben si comprende come, pur tristemente, un capolavoro fra tanti possa mancare di colpire il suo bersaglio. Nick è un compositore di immenso talento, e nessuno della sua cerchia - da Boyd all’amico Robert Kirby - (chiamato da Nick per gli arrangiamenti al posto dell’arrangiatore scelto dalla Witchseason - la piccola etichetta di Boyd) s’esime dal rimarcarlo; è un ragazzo totalmente dedito alla sua arte, tanto certosino a sovrintendere al lavoro di composizione e di arrangiamento della sua musica, quanto trasandato (nonostante l’aria di aristocratica eleganza riconosciutagli da chiunque lo conoscesse) nella vita “concreta”. Persino la sua vita personale sembra non debba segnalare mai la presenza di di un amore inseguito, tanto da far parlare oggi in sede di interpretazione di una improbabile tendenza omosessuale repressa. Ma la sostanza è tutta racchiusa sotto forma di vaga aspettativa o di dolorosa mancanza, ed è unico appannaggio delle canzoni; vita e arte scisse dall’esperienza, eppure totalmente compenetrate, fino a smarrine i confini. Riluttante all’apparire pubblicamente, siano interviste o concerti, Nick s’appiglia unicamente alla fiducia in sé e a quella fornitagli dagli amici e, con quello che gli appare (seppure ingenerosamente) come un fallimento alle spalle, si accinge, lasciati gli studi a pochi mesi dal diploma e trasferitosi a Londra in un appartamento spoglio di Hampstead, a registrare un nuovo disco.

Il 1970 vede l’uscita di Bryter Layter, che, paradossalmente, appare come disco più disteso e “classico” rispetto all’esordio, ma senza mai cessare d’essere supportato da una qualità compositiva superlativa. Semmai, sono gli arrangiamenti a farsi più accattivanti e complessi, anche grazie a un cast di prim’ordine: oltre al geniale Kirby e Richard Thompson (già presente sul primo), John Cale, il brillante pianista jazz Paul Harris e gli ottimi Dave Peg e David Mattacks dei Fairport. Ma la storia si ripete e il disco non vende, nonostante l’opportuno apprezzamento degli addetti ai lavori. John Wood, ingegnere dei suoni dirà del disco di essere l’unico album “perfetto” della sua carriera. Non sarà l’unico a giudicare Bryter Layter un opera difficilmente eguagliabile. Su quella strada Nick aveva tirato fuori tutto. Le ambizioni (in buona parte frutto di una logica quanto ingenua autosuggestione) scomparvero dietro un fitto velo di sconsolatezza, il carattere di Nick si rinserrò dentro una monade senza porte né finestre socchiuse solo accidentalmente, e non trovò la forza necessaria per eludere il canonico trattamento psicofarmacologico. A ciò aggiungasi l’avvenuto trasferimento di Boyd in America, che contribuì ad acuire il senso di distanza di Nick dal sogno di poter vivere dei proventi propria attività di cantautore. Nick sentiva come essenziale la presenza dell’amico/produttore ben oltre le questioni puramente professionali.

Tornò a Tanworth dai genitori, saldo nella considerazione del proprio fallimento, e vi condusse una vita assente, distratta, al limite dell’auto-oblìo. Eppure qualcosa ancora cova dentro Nick, siano pure delle pure congetture sulla qualità artistica del disco; sente forse che un misterioso quid lo ha allontanato dall’espressione completa di sé, che qualcosa rimane da dire, che quel dolore lo avvicina vieppiù al proprio scheletro nudo, all’essenza della sua musica e della sua esistenza di uomo. Torna così a Londra ed in soli due giorni di sessioni registra le canzoni di Pink moon, album sorprendentemente lucido e scarno, che riesce perfettamente nell’intento di parlare di Nick meglio dei precedenti e di ogni possibile biografia. Nessun arrangiamento al di fuori del minimale pianoforte della title track, solo chitarra e voce, solo Nick di fronte a sé stesso. Il mondo e la fama (“che non può mai allignare sin quando il suo stelo non poggia per terra” risuonava presago già in Fruit tree, su “Five leaves left”) sono lontani all’orizzonte, fanno parte dell’ispirazione, della carne. L’insuccesso a cui è votato l’aspetto commerciabile dell’anima messa a nudo è l’osmosi stessa della sua arte.

Il deperimento psichico da cui esce solo per reggere il peso della sua rigorosa, quasi “automatica” professionalità in studio di registrazione amplificano quel senso che la psicologia spicciola da edicola definirebbe “di incomunicabilità” (please beware of them that stare - “Things behind the sun”), al limite di un’estraniazione singhiozzante fatta di intermittenze fra l’affermazione e la negazione della presenza (Know that I love you/Know I don’t care/Know that I see you/Know I’m not there è tutto quanto ci dice in “Know”, giacché occorre comunque dirlo). “Parasite” dipinge nitidamente l’immagine autoinflitta di Nick-parassita urbano che penzola dalla gonna (della madre, o della dea Fortuna, poco importa); Nick non ha mai cessato di considerare la sua affermazione musicale come secondo termine di un macabro aut-aut esistenziale. Percorre così l’ultimo tratto di strada e si scruta nel declino, si descrive nel tramonto. E sa che tutto starebbe a depositare la chitarra nello sgabuzzino, e cercare rifugio nella vita “di tutti i giorni”. Ci prova, dapprima cercando invano di arruolarsi nell’esercito, poi lavorando a Londra per una ditta di materiali elettronici. Ma sa che non v’è uscita, che la musica continuerà a chiamarlo; e lo farà attraverso l’interessamento di Wood e Boyd, che più di Nick sono inclini a giudicare un delitto l’abbandono delle scene. La registrazione di quattro sole canzoni divide Nick dalla morte; il cane dagli occhi neri è ancora dietro l’angolo, e ripete il suo nome. Il 24 Novembre 1974 Nick viene trovato esanime sul letto della casa di Tanworth; a fargli compagnia solo un disco dei concerti brandeburghesi di Bach sul piatto dello stereo, il “Mito di Sisifo” di Albert Camus (opera filosofica incentrata sul tema del suicidio) e una boccetta di Tryptizol semivuota, sul comodino.

Aveva 26 anni, o meglio, 40 canzoni.


mv


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