intro

bryter layter
[1970]
time of no reply
[postumo]


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Bryter layter

Brighter, più luminoso, negli intenti, nella percezione del tempo, commisurata sull'esteriorità d'un desiderio fisso sull'Albione tutto circoli e cerchie, charts e darts; la prima immagine fuori dalla stanza oscura, ben oltre le cinque cartine rimaste. Nick si affaccia al davanzale, intravede lo sforzo residuo: è una luce attingibile nella leggerezza (lighter) del medesimo proposito che appena un anno prima pressava folle alla soglia di appena tre ore, nella suadenza orchestrale di arrangiamenti che favoleggiano una metamorfosi che perderà l'attimo propizio, e si dissolverà nei vaghi antri dell'unico pianoforte sconsolato di Pink moon. Ma, prima di maledire l'oscurità s'accenda una luce, per quanto tenue, per quanto poco Nick Drake. E Bryter Layter, mi si perdoni l'acromatismo, è l'opera meno Nick Drake di Nick Drake. Il futuro travalica l'indicibile; lo dice sull'accordo di una forma esterna, la stessa che dovette costare a Nick lo smarrirsi in un folksy perfettamente compiuto, riconoscibile ma straziato ai confini. Per questo Bryter Layter rimane "il capolavoro"; non poter esserlo era dato più che sufficiente, e il muoversi fra i due estremi dell'alba e del tramonto non era il posto adatto. Il pomeriggio (che è allo stesso tempo primo pomeriggio e tardo pomeriggio) guarda al mattino, allo splendore di un nuovo giorno pavesato di aneliti troppo alti per contratto, e presagisce le ombre che la sera suppura in fallimenti. La parabola dell'astro Nick si compie perfettamente, non una parola in più, né una nota in meno. E più luminosa e più leggera sia la sua memoria; la cometa adesso è perfettamente adagiata sulla volta celeste, il movimento è già memoria, la fine è solo promessa.

Ma dirne musicalmente, questo preme. Il bisturi ritaglia una forma, non sincronica, non arpeggiata, fallace. I testi si sono "aperti", le note spalancate. E Nick dice defilato, con occhio pigro ad attendere le risposte. Non direbbe, persino, nei tre strumentali: "Introduction", breve sbadiglio di chitarra e molli archi, "Bryter layter" qui presente ad incarnare programmaticamente il mood dell'intero album (e le parole non indispensabili) e "Sunday", che bucolicamente introduce i rumori della sera incipiente, guidato da flauto mellifluo, digradante nell'abbandono della confessione. Tre pezzi incollati a tenere insieme, e dare coerenza di album al lavoro più eterogeneo, più "raccolta" della breve "carriera" del ragazzo "depresso" di Tanworth in Arden.
Inciampare nei luoghi comuni è il sacrificio di chiunque voglia stipare in poche righe l'innominabile che presiede a quei solchi, e allora: chiaro è che stiamo parlando di un disco "perfetto". Perfetto negli arrangiamenti, perfetto nella composizione, perfetto nelle intenzioni e negli effetti. Ma molto di questo disco è perfetto nonostante Nick Drake. Laddove l'orchestra rosicchia un po' di personalità alla composizione ("Hazey Jane I"), Nick mugugna qualcosa e cambia subito idea; laddove Richard Thompson gigioneggia pizzicando e scivolando sulla sua chitarra ("Hazey Jane II") Nick lo segue, e sembra spensierato; laddove c'è da compiangere la fragilità di chi può solo veder trasformato in oro ciò che tocca ("Poor boy") Nick riesce a uscir da sé e dare una bonaria consolazione alle sue dita ancora impegnate. Il meglio verrà, l'ombra dell'entropia rimandata alla prova finale.
E laddove poi un tale John Cale sovraincide, il marmo si piega docile all'eterno; "Fly" ancheggia gaudiosa fra le frasche di Hampstead, e ha l'imago della Grazia che invoca; "Northern sky" prevede la beatitudine di chiunque si trovi coinvolto nell'operazione creativa dell'esecuzione/ascolto; Nick canonizza il più lontano istante di insicurezza, si dichiara l'amore che rifiuterebbe da altri, se solo osassero farsi "altro". All'uomo chiede solo di potersi dimenticare, e poi ancora, farsi presenza, per poter di nuovo "illuminare il cielo del nord", il tramonto; ne indica la via, in attesa del rosa fluorescente della luna.
Le canzoni sembrano intagliate nel "sempre-già-stato"; ascoltando "One of these things first" (nel cui testo Nick ebbe a riconoscersi meglio che in altri) ci viene rammentata la condanna a quel principium individuationis che impedisce la distribuzione ubiquitaria della pena. Tutto fuorché la sensibilità imbarazzante che è privazione di tutto ciò che può essere celebrato nel canto. Sintomaticamente, ad abbracciare tali estensioni, qui e in "At the chime of a city clock", la musica si fa manierata, gli arrangiamenti s'infittiscono nel ludico giro ciclico della libertà e ci consegnano una nuova memoria classica.
Oltre, a meno di non cadere nelle consuete trappole sociologiche e psicanalitiche, non può essere detto. Come Wittgenstein: su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere. O ascoltare.