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  Un gruppo di sacerdoti, facente parte del vicariato  di Sandrigo (Vicenza),  si riunisce e riflette sulle vicende del mondo del lavoro. Il tema, ascritto all'approfondimento e dibattito fin dal mese di ottobre, s'è rivelato particolarmente importante viste le vicende di questi giorni. Riportiamo qui il testo su cui s' è sviluppato il dibattito. Le sottolineature nel testo sono a cura di uno dei partecipanti ma riflettono i punti su cui ci si è soffermati in modo particolare.

Riflessioni su questioni di attualità: politica e lavoro

In questi giorni il clima sociale e politico italiano si è fatto, a dir poco, rovente.
Molti sono i fattori che hanno contribuito ad aggrovigliare una situazione che, al momento, appare difficilmente districatile. Innanzitutto l'insistenza del governo a voler porre mano all'articolo 18 della Legge 300, più nota come «Statuto dei lavoratori» e la conseguente indisponibilità dei sindacati ad un confronto viziato già in partenza; la ripresa del terrorismo con l'uccisione del prof Marco Biagi; la grande manifestazione della CGIL a Roma senza la partecipazione degli altri sindacati confederali ed infine le parole in libertà di autorevoli componenti del governo che insinuavano una contiguità tra forze sindacali e terrorismo.
Tutte situazioni che hanno alimentato un duro scontro sociale, carico di interrogativi ed incognite, che sembra prefigurare la possibilità di fratture profonde e difficilmente ricomponibili.
Ci sembra però importante cercare di cogliere sia alcuni dei nodi presenti nelle discussioni in atto sia le opportunità che possono aprirsi per l'azione evangelizzatrice della Chiesa.

 


1. ALCUNI INTERROGATIVI


1.1 Centralità o marginalità del lavoro?
Si è molto discusso in questi anni sull'importanza del lavoro nella vita delle persone. I cambiamenti,  avvenuti nella maniera di lavorare e nei sistemi di produzione hanno fatto del lavoro una questione sempre più marginale nel dibattito sociale, ma anche nelle comunità cristiane l'interesse per questi argomenti, dopo gli anni di un intenso impegno, si è andato progressivamente affievolendo.
Le vicende di questi giorni ci ricordano invece che il lavoro è ancora una componente importante della vita delle persone e della società.
Non possiamo non ricordare le parole del papa che, alla luce degli avvenimenti di questi giorni. appaiono sempre più cariche di forza profetica:
«Se nel presente documento ritorniamo di nuovo su questo problema, - senza peraltro avere l'intenzione di toccare tutti gli argomenti che lo concernono - non è tanto per raccogliere e ripetere ciò che è già contenuto nell'insegnamento della Chiesa, ma piuttosto. per mettere in risalto - forse più di quanto sia stato compiuto finora - il fatto che il lavoro umano è una chiave, e probabilmente, la chiave essenziale, di tutta la questione sociale, se cerchiamo di vederla veramente dal punto di vista del bene dell'uomo» (Laborem exercens 3).
Se vogliamo comprendere quanto sta succedendo nella nostra società occorre ripartire da una approfondita riflessione sul lavoro e sulle questioni ad esso connesse.


1.2 Quale politica per quale società?
La seconda questione che emerge con forza è la particolare concezione della politica che si sta manifestando. Una concezione secondo la quale il confronto ed il dibattito è un inutile perditempo, le regole democratiche sono un rito vuoto ed inconcludente, che la maggioranza dei consensi elettorali è criterio sufficiente a giustificare ogni decisione. Sembra affermarsi un agire politico sempre più distaccato dalla ricerca del bene comune, per attestarsi nella ricerca dell'interesse di una parte, della propria parte. E mentre la ricerca del bene comune sa avvalersi del contributo di tutti, anche di coloro che non appartengono al proprio schieramento, la ricerca dell'interesse di una parte genera solo scontro e divisioni.

1.3 "Cosa è mai l'uomo?"
Emerge, infine, una particolare concezione di persona legata non tanto al riconoscimento della peculiarità e del valore della soggettività di ognuno, quanto all'esaltazione dell'individuo, e che vede nei legami di solidarietà un inutile fardello che rallenta la corsa allo sviluppo. In questo contesto l'altro è visto come un concorrente, il diverso come un pericolo, il disagio come un problema di ordine pubblico, le reti di solidarietà come inutile burocrazia, i poveri come oggetto di assistenza da delegare all'iniziativa privata.
Una concezione di uomo che misura il proprio benessere sulla quantità di beni da consumare ma che, facendo il deserto attorno a sé, genera solitudini sempre più grandi, foriere di nuove e più profonde povertà.


2 IL NOSTRO TEMPO, TEMPO DELLO SPIRITO: LE  OPPORTUNITÀ PER UNA AZIONE EVANGELIZZATRICE


Di fronte a questa situazione la comunità cristiana è silenziosa. Sembra non trovare le parole adatte a comunicare il prezioso patrimonio che porta con sé. Sembra quasi intimidita e paralizzata dalla paura di riprodurre in se stessa le tensioni che abitano il tessuto sociale.
Noi siamo, invece, convinti, che i momenti che stiamo attraversando sono anche una grande opportunità per il Vangelo e per la Chiesa.
Vogliamo al riguardo fare solo alcune sottolineature, lasciando alla ricerca di tutti il compito di arricchire la riflessione.


2.1 Un rinnovato dialogo con il mondo del lavoro
Questi avvenimenti possono essere l'occasione propizia per riannodare un dialogo con il mondo del lavoro che nel passato ha conosciuto momenti di grande intensità ma che sembra scemato in questi ultimi anni.
Essi ci offrono l'opportunità di ascoltare, di farci vicini alla vita e alle sue preoccupazioni, di dare la parola ai molti lavoratori che ancora frequentano le nostre comunità. Sono un'opportunità per tornare a riflettere sul valore e sul senso della fatica umana, e per offrire a tutti il «Vangelo del lavoro» di cui, come comunità credente, siamo i custodi.
Siamo sinceri. Il mondo del lavoro non ha bisogno della chiesa, ha imparato a fare da solo; non chiede niente ad essa, perché la sente insignificante per la propria esperienza. E' la chiesa che ha bisogno del mondo del lavoro, di farsi a lui vicina, per apprendere quanto lo abita nel profondo e cercarne le connivenze segrete con il Vangelo del Signore, e per imparare la parole nuove capaci di comunicare la lieta notizia del Regno.


2.2 Piccole comunità, germi di comunione
Il clima che stiamo vivendo offre, inoltre, alla comunità cristiana l'opportunità di riscoprire la sua vocazione più profonda: quella di essere «in Cristo come sacramento, cioè segno e strumento dell'intima comunione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano» (L.G. n. 1).
E' perciò urgente che le nostre comunità sappiano farsi promotrici di luoghi di incontro e di confronto nelle quali le diverse posizioni imparino ad ascoltarsi ed interrogarsi in vista della ricerca del bene comune, del quale nessuno ha l'esclusiva, e spingano a riconoscere sempre, nel volto dell'altro, il volto di un fratello e non di un nemico.
«Quand'è che termina la notte e comincia il giorno?», chiedeva con insistenza un rabbi al suo discepolo prediletto. E poiché questi non sapeva rispondere rimise al maestro la risposta.
«Quando un uomo comincia a scorgere sul volto dell'altro il volto di un fratello, è allora che termina la notte e comincia il giorno», rispose il maestro.
Le comunità cristiane possono fare molto in tal senso, almeno per affrettare l'alba, se non proprio per far sorgere il sole.

 

2.3 "Attraversare la città.

Le nostre comunità, infine, possono far molto per servire la città dell'uomo. Basta che abbiano il coraggio di attraversare la città, di stare in mezzo ad essa anche nei momenti più difficili, di abitare la città. Tutto questo significa il riprendere con coraggio la formazione di laici che sappiano amare la città e sappiano dire, attraverso l'impegno sociale e politico, una forma alta d'amore, forse la più esigente, come amava esprimersi il papa Paolo VI.

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Per un ulteriore approfondimento inseriamo l'intervento del card. Martini al Convegno per la XXI giornata della solidarietà


Il logo di questa XXI Giornata della Solidarietà, iscritto sul volantino che la presenta, è tratto da un Salmo, il 90: "Signore, rafforza per noi l'opera delle nostre mani". E' una preghiera, che nasce dalla percezione che il lavoro, nel quale, attraverso le mani dell'uomo, si esprime una caratteristica irrinunciabile della dignità umana, sta correndo dei rischi e ha bisogno di essere reso più forte. I rischi derivano in particolare da quelle trasformazioni del lavoro stesso che toccano la vita delle persone, delle famiglie e della società sotto il profilo della flessibilità.
Per questo sono molto grato a tutti gli illustri relatori, organizzatori e ai partecipanti a questa Giornata per avere approfondito questo aspetto del superamento della tradizionale organizzazione del lavoro. Tale superamento da una parte esige una migliore imprenditorialità, una intelligenza creativa, una corresponsabile partecipazione al lavoro e può quindi anche costituire un passo avanti verso un'attività più umana. Ma ci preoccupa l'emergere nel contempo di aspetti di precarietà, aspetti, mi sembra, finora poco avvertiti, che mettono in difficoltà milioni di persone, i loro ritmi, le loro aspirazioni e il loro futuro.
Anche se mi rendo conto che i cambiamenti, soprattutto quelli strutturali, non sono mai indolori, tuttavia, tramontato un modo di lavorare ed un certo criterio di stabilità sul lavoro, ora va cercata con urgenza, nei nuovi assetti e nei nuovi modi di lavorare, una nuova stabilità.
Chiamato in causa, spesso con sofferenza, a partecipare ai travagli del mondo del lavoro, mi trovo di fronte a fenomeni come la polverizzazione, le trasformazioni e ristrutturazioni delle aziende, le chiusure di grandi complessi con tutte le loro conseguenze, presentati come eventi ineludibili. Do atto di aver trovato alcuni dirigenti, sensibili alla riduzione del posto di lavoro, che si sono fatti carico di trovare soluzioni adatte e alternative ma, nel complesso, la flessibilità genera non poche situazioni di disoccupazione, inducendo, nel cuore delle persone, paura e delusione.


QUALE MODELLO DI SOCIETÀ VOGLIAMO PROPORRE
So di non poter intervenire con suggerimenti né a livello economico né a livello politico. Il mio intervento è di profilo etico. Mi stanno a cuore le vicenda delle persone e delle famiglie, la loro serenità ed il loro domani.
Infatti, se stiamo vivendo una trasformazione inedita che nasce dai nostri gesti, ipotesi, progetti, ci corre l'obbligo di accompagnarla, e di verificare le conseguenze che ne derivano, almeno per correggere gli aspetti debilitanti e deformanti che toccano la vita delle persone.
Vorrei ricordare che Gesù nei vangeli si è presentato anzitutto, coni suoi gesti di guarigione e di bontà, come il liberatore di coloro che vivevano in situazioni di precarietà, di emarginazione e di disprezzo. Anche la grande legge divina del sabato (penso in particolare a Mc 3,1-6, la guarigione operata nella sinagoga in giorno di sabato): viene da Gesù riletta così da aprirsi all'attenzione a chi ha bisogno, sottolineando la responsabilità di tutti per la dignità di ogni persona.
Anche noi ci troviamo di fronte a situazioni che mettono in forte difficoltà le condizioni dei lavoratori, soprattutto per quanto riguarda le tutele della stabilità. E' perciò urgente impostare in modo coerente e corretto il rapporto tra lavoro, progresso e persona.
Dice Giovanni Paolo II nella sua enciclica Centesimus Annus (n. 35): "Scopo dell'impresa... non è semplicemente la produzione del profitto, bensì l'esistenza stessa dell'impresa come comunità di uomini che, in diverso modo, perseguono il soddisfacimento dei loro fondamentali bisogni e costituiscono un particolare gruppo al servizio dell'intera società". Certamente, dice ancora il Papa: "la Chiesa riconosce la giusta funzione del profitto, come indicatore del buon andamento dell'azienda... Tuttavia è possibile che i conti economici siano in ordine ed insieme che gli uomini, che costituiscono il patrimonio più prezioso dell'azienda, siano umiliati e offesi nella loro dignità. Oltre ad essere moralmente inammissibile, ciò non può non avere in prospettiva riflessi negativi anche per l'efficienza economica dell'azienda".
Milano, che ha in sé grande capacità lavorativa e grandi risorse ha la potenzialità di un laboratorio di futuro anche per quanto riguarda la sfida della flessibilità.

Le scelte vanno compiute attraverso percorsi possibili. Sottolineo tre punti:

  • Una persona ha bisogno di riferimenti e di stabilità per costruire il proprio futuro.

  • La flessibilità può essere significativa in alcune situazioni, soprattutto quando è libera e concordata.

  • Temo che oggi tale flessibilità venga imposta come ricatto, pena l'espulsione che si traduce in precarietà.

- Il primo riguarda la necessità di riferimenti un po' stabili per costruirsi una vita degna. Se c'è un avanzamento nella modernità del lavoro, questo si misura nella tutela che la società riesce ad offrire ad ogni lavoratore, ivi compresi quelli che sono costretti a prendere il lavoro che capita. Penso ai giovani, alle donne, alle persone che non hanno in sé sufficienti risorse o capacità per "stare sul mercato"; penso agli extracomunitari. Penso in particolare ai riflessi che i nuovi modi di lavorare hanno sulla vita di famiglia. Mentre la Comunità Cristiana si preoccupa di esortare i giovani a costituire una famiglia, superando le comodità troppo facili della vita in casa dei genitori, incoraggia una forte azione educativa e sostiene la fedeltà alle scelte compiute, la trasmissione di questi e di altri valori richiede di per sé prospettive, anche lavorative, in qualche modo di lunga durata.


- Il secondo riguarda l'impegno a far emergere anche gli aspetti positivi della flessibilità. Essa infatti può stimolare la persona a scegliere, a misurarsi con le proprie possibilità. Può essere anche benefica se però i diversi profili di lavoro si sostengono con indicazioni competenti, corsi e sbocchi programmati, collaborazione di enti, istituzioni, sindacati e scuole adatte al reinserimento. La flessibilità può sviluppare così risorse ed allenare alla ricerca di una collocazione confacente alle proprie attese.


- Il terzo riguarda la cura di evitare gli aspetti negativi della flessibilità. Quelli cioè di una flessibilità senza regole, che genera precarietà sempre più diffuse, con la mancanza di strutture a sostegno di chi non è attrezzato intellettualmente.


La domanda che viene spontanea è allora: quale modello di società si vuole proporre?
Da tempo stiamo ragionando sulla globalizzazione. Ma se la conclusione a cui arriviamo si misura in precarietà, diffidenza e individualismo senza prospettive, allora la costruzione di questo nuovo modello di società ha in sé qualcosa di sbagliato. La nostra società invece ha bisogno di grande progettualità e di grandi interventi e so che nel nostro mondo molti sono attenti e capaci di affrontare nuove prospettive e nuovi schemi. Non bisogna mai cedere al pessimismo o alla rassegnazione. E' però necessario che si uniscano tutte le forze per trovare soluzioni all'altezza dei tempi.


ALCUNI APPELLI
Faccio appello a tutti e, in primo luogo, alla Comunità Cristiana perché accettiamo di misurarci con questi problemi, cercando soluzioni che possono competere con i disagi.
* Dobbiamo credere e spesso ricreare un tessuto di valori rivedendo i luoghi comuni e compiendo scelte radicate nella fede cristiana. La concretezza, infatti, si verifica nelle scelte che danno spessore alla vita e offrono speranza.
* Prezioso è  l' impegno nel mondo educativo. Incoraggiare alla scuola prima di tutto, e quindi alla formazione professionale, alle responsabilità del lavoro, al confronto, alla collaborazione, all'attenzione delle persone più deboli è un compito e un ruolo fondamentale che ci si deve assumere di fronte alle nuove generazioni.
* La ricerca e il gusto del conoscere, del capire, del cercare, del non stancarsi di fronte alla difficoltà attrezzano davanti alle insicurezza e fanno da traino anche per altri.
* Gli impegni sociali e politici sul territorio sono indispensabili anche se talora considerati sterili o insignificanti: solo così è possibile conoscere le situazioni di difficoltà e incoraggiare soluzioni che da soli non è pensabile trovare.
Agli imprenditori: chiediamo il coraggio di affrontare questo tempo, con l'intelligenza e la creatività di persone competenti. Voi sapete, quando volete, in collaborazione con altri, inventare soluzioni e prospettive stabili che diano dignità e fiducia alle persone.
Infatti, quando avete affrontato con responsabilità le difficoltà relative alla gestione dell'azienda, spesso vi siete sentiti capaci di rinnovarvi. Certamente non è possibile questo cambiamento senza la collaborazione e l'apporto responsabile dei lavoratori con cui, insieme, potrete costruire proposte e soluzioni nuove, soprattutto per le esigenze di qualità che il mercato continuamente richiede.. E il prodotto-qualità, se pure vi mette in concorrenza con i prodotti dei paesi in via di sviluppo, non li mortifica e non li esclude.
Alle cooperative, in particolare quelle sociali e ai loro soci rivolgo una particolare attenzione e ringraziamento poiché mostrano un grande impegno nella gestione e nella conduzione delle loro imprese con un lavoro spesso difficile. Vi invito ad essere continuamente attenti a non lasciarvi strumentalizzare o manipolare per una palese e neppure nascosta guerra tra poveri, che condurrebbe, pur con le migliori intenzioni, ad uno sfruttamento e alla degenerazione delle finalità della cooperazione stessa.

Alle istituzioni chiediamo un impegno particolare per il lavoro: nella flessibilità ormai dilagante, sia accompagnato da attenzioni alle tutele, alle previdenze, in particolare, di tutti i lavori atipici che si stanno moltiplicando, ad una legislazione che valorizzi la flessibilità quando è di reciproco aiuto tra imprenditore e lavoratore superando in tal modo la routine. Vanno previsti dispositivi di reinserimento, forte impegno per la formazione professionale strumenti di approfondimento che permettano itinerari con sbocchi aperti verso una maggiore progettualità. Non dimentichiamo che il livello di alfabetizzazione nel mondo italiano è molto basso rispetto alle richieste di specializzazione richiesta e circa la metà dei lavoratori non ha superato la licenza elementare o al massimo la terza  media. Servono regole e non liberismo selvaggio per trovare un equilibrio tra le diverse esigenze delle parti.
Ai lavoratori e lavoratrici chiediamo di essere attenti a questi cambiamenti e di partecipare ad un impegno comune senza demonizzare il futuro ma anche senza acquietarsi in una solitudine che rimanda ad individualismi ciechi sulle sofferenze di tutti. Mi rendo conto che state vivendo momenti difficili e oscuri. Ma la vostra storia vi ha insegnato che la partecipazione crea solidarietà forti. Esse fanno superare debolezze e fanno camminare voi e la società verso traguardi più alti.
Al mondo sindacale chiediamo di mantenere alto il proprio impegno. Come ha mantenuto fede, nei tempi passati, alla garanzia dei diritti della persona, pur nelle difficoltà, ritrovi forza e unità per cercare e sostenere forme di stabilità che non travolgano e non demoralizzino il mondo del lavoro. L'individualismo porta alla solitudine e porta alla debolezza di tutti anche se qualcuno pensa di potersi salvare. Il farsi carico dei problemi e della sofferenza dei lavoratori come delle realtà deboli e degli extracomunitari, è importante soprattutto in una società che si sfilaccia nella partecipazione sociale.


CONCLUSIONE
Ma, come dice Giovanni Paolo II nella sua enciclica Laborem Exercens (06) "Il primo fondamento del valore del lavoro è l'uomo stesso, il suo soggetto. A ciò si collega subito una conclusione molto importante di natura etica: per quanto sia una verità che l'uomo è destinato ed è chiamato al lavoro, però prima di tutto il lavoro è "per l'uomo" e non l'uomo "per il lavoro".
Al n.23, sempre nella Laborem Exercens aggiunge "Ancora una volta va ripetuto il fondamentale principio: la gerarchia dei valori, il senso profondo del lavoro stesso esigono che sia il capitale in funzione del lavoro, e non il lavoro in funzione del capitale".
Si sviluppa così una gerarchia di valori in cui il capitale è per il lavoro, e il lavoro è per la persona. Pur con tutte le difficoltà che il mondo del lavoro incontra, tali principi fondamentali obbligano tutti ad un impegno da cui nessuno è dispensato, imprenditore o lavoratore. Vanno ripensate le collaborazioni, vanno fatte con coraggio scelte di valori, vanno rispettati e sostenuti il desiderio e il bisogno di lavoro attrezzando ciascuno al meglio, secondo le proprie capacità. È il compito difficile ma importante proprio per i tempi di maggiore difficoltà.
È il significato della preghiera che vedo sul manifesto della Giornata della Solidarietà, tratta dal Salmo 90: "Signore, rafforza per noi l'opera delle nostre mani".


Auditorium S. Fedele, 9 febbraio 2002           inizio

   
  L’Onu: adulti colpevoli

 

  «Gli adulti hanno tradito tutti i bambini del mondo». È un vero e proprio atto d’accusa quello con cui il segretario generale dell’Onu, Kofi Annan, ha dato il via al forum mondiale sull’infanzia. Rivolgendosi alle centinaia di bambini, che per la prima volta partecipano a questa sessione speciale dell’assemblea generale delle Nazioni Unite, ha indicato innanzitutto i cinque diritti fondamentali che vanno loro riconosciuti. «Libertà dalla fame, dalla povertà e dalle malattie contagiose - ha tuonato -, nonché da abusi e sfruttamenti, e l’accesso all’istruzione». E poi, rivolto agli adulti, li ha richiamati alle loro responsabilità: «Sono diritti ovvi e tuttavia noi li abbiamo deprecabilmente trascurati. Ora dobbiamo annullare questa omissione». Parole dure, che hanno scosso profondamente i tremila delegati delle organizzazioni non governative e gli oltre sessanta esponenti politici, in rappresentanza di 180 Paesi, riuniti nel salone del Palazzo di Vetro di New York. Lo stupore, invece, ha segnato i volti dei 350 bambini ospiti e protagonisti del summit che con gli occhi sbarrati e le bocche spalancate non hanno perso una sillaba del discorso di Annan. A nome loro si sono fatti avanti i due delegati ufficiali, emozionati, un po’ spaesati, ma ben coscienti dell’importanza del loro ruolo. Poche, semplici frasi, di una chiarezza disarmante. «Siamo i bambini del mondo, ma anche della guerra. Siamo le vittime e gli orfani dell’Aids. Siamo i bambini le cui voci non vengono mai ascoltate», ha ripetuto Gabriela Azurduy Arrieta, 13 anni, boliviana, quasi nascosta dal podio, giusto alto come lei. Poi è tornata accanto agli altri, per ascoltare quello che tutti quegli adulti avranno da dire durante il summit che si concluderà sabato e al cui centro è stato posto un obiettivo preciso: rimediare a un’emergenza dalle proporzioni drammatiche. Perché dei 2 miliardi di minori nel mondo, 150 milioni non hanno abbastanza da mangiare. Perché 11 milioni di bambini muoiono prima dei cinque anni. Perché 120 milioni non possono andare a scuola e 300mila combattono nelle guerre degli adulti.
  L’Italia, in questa campagna, è in prima fila. «Vogliamo essere all’avanguardia nella lotta contro lo sfruttamento minorile per garantire ai giovani e all’infanzia un futuro giusto e decoroso», ha ribadito ieri il ministro del Welfare, Roberto Maroni, nel corso di una tavola rotonda sulle «azioni future per i prossimi dieci anni». In vista di questo obiettivo l’Italia pone la famiglia al centro di tutte le politiche sull’infanzia: «Diritto alla salute, all’istruzione, ad avere una tutela contro gli abusi significa per i bambini il diritto a una famiglia, il nucleo fondamentale della società - ha sottolineato Maroni - inteso come l’intende la Costituzione: famiglia naturale fondata sul matrimonio». Il dibattito su alcuni temi, comunque, si preannuncia arroventato: Stati Uniti, alleati in questo caso con cattolici e islamici, continuano a rinviare il varo del documento finale perché non condividono i riferimenti che riguardano l’educazione sessuale e il diritto alla contraccezione per gli adolescenti. Washington, d’altra parte, è spesso contro corrente: non ha mai ratificato, per esempio, la Convenzione del 1989 sui Diritti dell’Infanzia disconosciuta solo dalla Somalia.

I Numeri

 

2,1 miliardo di bimbi nel mondo (il 36% dell'umanità)

132 milioni le nascite mondiali annuali

1 su 4 vive in estrema povertà

1 su 12 muore prima dei 5 anni

63 anni è la durata media della vita

78 anni è la durata media nei paesi industrializzati

43 anni è il traguardo di sopravvivenza in Africa

 2 milioni di bambini uccisi negli ultimi 10 anni

4 milioni hanno subito mutilazioni

1 milione sono rimasti orfani

ogni tre secondi muore un bambino di povertà

90 mila saranno i bambini morti al termine dei tre giorni del convegno

 

  Nel 1990, il vertice dell’Onu sui minori si concluse con un impegno delle nazioni ricche a devolvere lo 0,7% del Prodotto interno lordo al miglioramento delle condizioni sanitarie e dell’istruzione nei Paesi in via di sviluppo. Nell’ultimo decennio tuttavia questa promessa si è progressivamente arenata. E anche le nazioni del Terzo Mondo, che avrebbero dovuto investire il 20% dei loro bilanci nazionali sul welfare, non hanno brillato: nel migliore dei casi non sono andate oltre il 12-14%. (da Avvenire 9 maggio 2002, altri articoli cfr. www.avvenire.it )
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 Sciopero senza terrore 

orna lo sciopero. Quello generale, "tosto". Ed anche unitario. Non se ne parlava da tempo immemorabile. Di scioperi è costellata la vita sociale. Ma in Italia per ritrovare tracce di sciopero generale bisogna andare indietro di almeno un decennio. Gli interpreti più diffidenti so-stengono che il centrosinistra aveva cloroformizzato il sindacato, con la concertazione, con le concessioni, con il richiamo... patriottico. Un'intera generazione di lavoratori non aveva mai partecipato a uno sciopero generale, per di più sotto l'attacco del terrorismo. Può essere quindi utile parlare di sciopero, al di là delle ragioni specifiche del conflitto sull'art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Qualche confusione c'è infatti a proposito dello sciopero, del suo uso ed abuso, dei suoi valori positivi e dei suoi caratteri negativi. Di qui l'esigenza di mettere a fuoco alcuni aspetti del problema, corrispondenti ad altrettanti pregiudizi o luoghi comuni, di antica data o indotti dalle polemiche più recenti.
Opinioni a confronto
Prima opinione: lo sciopero è un esercizio demagogico di cui si farebbe volentieri a meno, nell'interesse della produzione e della serenità generale.
Altra opinione: lo sciopero è un sacrificio che i lavoratori compiono astenendosi dal lavoro e quindi privandosi del salario, perciò non viene mai praticato a cuor leggero.
Seconda opinione: lo sciopero è accettabile quando ha carattere
economico, non quando diventa politico. Altra opinione: a chi spetta fissare il confine? In realtà uno sciopero propriamente contrattuale diventa automaticamente politico quando le parti, non mettendosi d'accordo direttamente, chiamano in causa il governo; o questo è costretto a intervenire per risolvere il conflitto. Si osserva: ma stavolta il governo è investito direttamente dalla protesta sindacale e
questo accentua
il carattere politico dello sciopero.
Si replica: il dato è innegabile, ma dipende in larga misura dal ruolo che il governo ha inte so svolgere. In effetti nella vicenda dell'art. 18 l'esecutivo, anziché fare il "terzo" tra padronato e lavoratori, ha sovrapposto la propria posizione a quella di una parte, in qualche modo funzionando da trincea di prima linea. Anche i più disponibili alla trattativa hanno dovuto abbandonare il tavolo per deficit di offerte plausibili. Nuovo argomento: il sindacato con lo sciopero generale punta
a rovesciare il governo. Replica storica: vi sono stati governi che si sono dimessi addirittura al momento della proclamazione di uno sciopero generale (Rumor 1970); e altri che hanno riaperto il dialogo e "mediato". E' anche accaduto, nell'Inghilterra della signora Tatcher, che lo sciopero generale ad oltranza dei minatori si sia concluso il rovesciamento del sindacato.
Osservazioni e spunti Osservazione: ma questo ricorso allo sciopero non è un ritorno a una modalità arcaica, ottocentesca, della lotta di classe? E non sbarra la strada ad una pratica
sindacale più disposta alla trattativa? Messa a punto: esatto, ma la disponibilità sindacale non può essere data per acquisita e va invece verificata sul "merito", come ha ripetuto fino all'estenuazione il segretario della Cisl, Pezzotta. Ulteriore spunto: lo sciopero funzionava nel sistema del lavoro di massa, non può funzionare in un contesto in cui i lavoratori "flessibili" sono la maggioranza. Chiosa: le conclusioni non si possono tirare prima dello svolgimento del tema. Stoccata finale: in ogni caso, data la materia in discussione, sono i lavoratori "garantiti", i padri, a scioperare contro i figli "non
garantiti". Ultima replica: i padri vorrebbero assicurare ai figli le stesse garanzie di cui essi stessi hanno goduto e godono. Come? Assicurare a chiunque svolga un lavoro, per quanto flessibile, un insieme di garanzie essenziali che ne salvaguardino la dignità e l'aspettativa di un ragionevole miglioramento di posizione sociale? Oppure rendere flessibile al massimo grado il sistema delle garanzie che circondano la prestazione delle persone che lavorano? Può darsi che alla fine le due piste si incrocino. Ma non è affatto certo. Certo è, invece, che ci vorranno pazienza e coraggio. (Domenico Rosati, in Italia Caritas, aprile 2002)
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Emergenza Palestina  
 


La drammatica situazione in cui versa la Terra Santa mi induce a rivolgere un nuovo pressante appello a tutta la Chiesa, affinché si intensifichino le preghiere per quelle popolazioni ora dilaniate da forme di violenza inaudita' .
Così il Santo Padre ha invitato a pregare per la Pace in Medio Oriente. Un invito ribadito sia dalla Conferenza episcopale italiana che dal patriarca di Gerusalemme Michel Sabbah, insieme alla ferma condanna di ogni violenza sui civili inermi e alla necessità di ridare voce al dialogo. Appelli prontamente raccolti dalla Caritas che nella Parola e nella preghiera trova sprone e alimento per proseguire nella ricerca di proposte responsabilizzanti e nuovi percorsi di educazione alla pace, alla nonviolenza, alla mondialità.
L'acuirsi della crisi e della guerra ha frenato i tentativi di sviluppo e ricostruzione, vanificando gli sforzi di dialogo e convivenza. Caritas Gerusalemme ha pertanto lanciato un nuovo appello d'urgenza alla rete internazionale per euro 813.000 (oltre un miliardo e mezzo di lire) per far fronte ai bisogni di migliaia di persone: medicine per gli ospedali, vestiti e coperte per coloro che hanno perso la casa, riparazione delle abitazioni danneggiate, generi alimentari per 1200 famiglie a Jenin, Ramallah e dintorni (Taeibe, Aboud), Zababde, Gaza, Naplouse, Toubas.
Nella regione di Ramallah è stato costituito un comitato di coordinamento di emergenza con il compito di valutare i bisogni e soccorrere la popolazione.
E' stata anche avviata un'articolata campagna di sensibilizzazione e, oltre a missioni sul posto, la rete internazionale, della Caritas ha inviato a Gerusalemme un referente per la comunicazione.
Per sostenere gli interventi in atto (causale: "Palestina")
si possono inviare offerte alla Caritas Italiana tramite:
• c/c postale n° 34 70 13.
• c/c bancario n°11113 - ABI 5018 -Cab 12100 - Banca Popolare Etica,
Piazzetta Forzatè, 2, Padova.

• c/c bancario n°100807
ABI 03069 - CAB 05032 Intesa Bci,
P.le Gregorio VII, Roma.

• Cartasì (Vira, Mastercard) telefonando allo 06 541921, in orario d'ufficio.
Ferruccio Ferrante (Caritas, maggio 2002)

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  Intervista sulla Globalízzazíone 

Globalizzazione, questa sconosciuta...
«La parola globalizzazione è caratterizzata nel dibattito pubblico con una valenza fortemente ideologica, caratterizzazione ideologica che già altre parole nel ventesimo secolo hanno avuto. E c'è in questo come in altri casi quel velo che non consente di vedere la realtà perché in realtà questa caratterizzazione dà già tutte le risposte. Quali risposte dà? La parola globalizzazione sembra già dire come andrà a finire la storia governata dal mercato globale. Questa è una lettura eccessiva e ideologica. Credo sia meglio per tutti, anche per gli attori sociali, guardare alla globalizzazione non tanto come a un destino predefinito ma piuttosto come a un processo. Ci siamo lasciati alle spalle gli assetti che si erano costituiti dopo la Seconda guerra mondiale e che avevano garantito una situazione di relativa stabilità. Esistevano e sono
esistite per cinquant'anni le società nazionali che facevano coincidere economia, politica e cultura. Quel che la globalizzazione genera è un insieme complesso di cui conosciamo poco, di processi in cui l'economia, la politica e la cultura tendono a non avere più un unico riferimento spaziale, istituzionale e dal punto di vista soggettivo tendono a non creare dei mondi vagamente ordinati dentro cui vivere».


È ragionevole sostenere che la globalizzazione renda più consistente il divario tra i Paesi del Nord del mondo e quelli più poveri del Sud?
«Se si pensa alla globalizzazione come a un'uscita invece che a un'autostrada significa capire che si rompono alcuni equilibri ma dire quali saranno i nuovi è tutto da discutere. È dentro questa discussione che si gioca il ruolo degli attori sociali, attori politici, dei grandi Stati, delle chiese, del sindacalismo, delle imprese.
Quello che lei dice, da quello che si sa, è vero. È ragionevole sostenere un aumento della disuguaglianza sia all'interno dei singoli Stati sia a livello globale. Lo scardinamento degli assetti del ventesimo secolo produce e ha prodotto una serie di disuguaglianze in termini di ridefinizione di potere tra economia e politica, di costruzione e ricostruzione delle identità, del rapporto tra economia e cultura. La globalizzazione, da questo punto di vista, è una grande sfida. Imparare a pensarla non come a un destino ma come a una situazione, un contesto in cui discutere di molte cose e sul quale porsi domande per la riflessione. Verrà ridefinito il ruolo degli Stati nazionali? Andremo incontro a un grande dominio mondiale di alcuni Stati nazionali o prenderanno piede forme nuove di neoregionalismo? Ci avvieremo inesorabilmente verso un sistema in cui l'unico strumento regolatore delle relazioni è il mercato globale? Gli esiti sono i più vari. Quel che sappiamo con certezza è da dove veniamo. Dobbiamo imparare a ragionare sul futuro come a campo aperto dove le categorie politiche, sociali e culturali tengono sempre di meno, un campo in cui è fondamentale la presenza e il ruolo degli attori sociali. Per questo non do una lettura liquidatoria del movimento antiglobalizzazione, pur negli estremismi e nelle degenerazioni provocate dal sistema mediatico, che è sicuramente un fattore che distorce. Il movimento anti globalizzazione è un pezzo importante, in questo nuovo campo di forze. Per fortuna c'è, perché la nostra storia è questa. Pensate solamente al ruolo giocato dal grande movimento operaio italiano. Il fatto di creare resistenze è un fattore di per sé non negativo. Stiamo entrando in questa fase. Dobbiamo capire quali sono gli attori, quali gli interessi, quali i valori
in campo. Una fase molto rischiosa perché possiamo avere davanti scenari molto tristi, di dominio molto forte di alcuni interessi culturali e politici o entrare in una fase di nuovi scontri, di nuove tensioni, nuovi conflitti, ma anche, dall'altra parte possiamo trovarci di fronte uno scenario molto interessante ed entusiasmante. Le società nazionali hanno avuto molti meriti ma anche grandi limiti. Da questo punto di vista pensare a una dimensione di globalità che implica libertà in termini di etica, di relazioni, di rapporti politici ed economici è una sfida interessante soprattutto per chi sarà capace di pensarla e in qualche maniera deciderla».


Chi rischia di più?
«Dentro questo processo estremamente articolato e intenso non morirà la politica come capacità di prendere decisioni. Chi corre il rischio più grande è la democrazia, perché non sappiamo dove collocarla se non all'interno degli Stati nazionali. L'indebolimento della forma dello Stato nazionale allora porterà con sé l'indebolimento della democrazia. Perché nasce in quel contesto, perché non sapremmo come e dove collocarla. Il rischio maggiore che la globalizzazione porta con sé è questo: la riduzione della capacità di governo. È un problema talmente grosso questo che spiega perché, magari in maniera strisciante, confusa, sono in tanti a nutrire dubbi sulla globalizzazione; significa perdere il controllo. I rischi, quando ci si affida a qualcosa di universale, quando ci si affida all'unico mercato, sono molto alti. La globalizzazione, come dicevo prima, è un processo in divenire nel quale è importante starci dentro con un ruolo critico, propositivo, evitando forme di ideologia». (Dalla rivista Valori, intervista a Mauro Magatti docente di sociologia del mutamento economico e del lavoro presso l'Università Cattolica di Milano)
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Discriminazioni

L'UNICEF denuncia una serie impressionante di violenze subite dalle donne in casa e fuori. " Si va dall'aborto selettivo per sesso, alla malnutrizione, alla mancanza di cure mediche e di istruzione, alla prostituzione  e alla riduzione in schiavitù.

 

Per ricevere consigli o aiutare le donne impiegate come schiave:

Centro prima accoglienza Regina Pacis,

tel 0832/88.10.94

Comitato contro la schiavitù moderna, tel. 02/58.10.05.02

250 milioni di bambini lavorano e sono sfruttati nelle industrie o sono impiegati in lavori pesanti. Fonte Unicef

 

   
 

Discriminazione contro le bambine:

 

  Non stiamo parlando di una "minoranza": in molte parti del mondo essere femmine significa, alla lettera, rischiare la vita. Fra Asia meridionale, Nord Africa, Medio Oriente e Cina sono 100 milioni le bambine che "mancano all'appello": in base all'andamento demografico normale, infatti, il numero delle persone di sesso femminile dovrebbe essere molto superiore a quello che si riscontra in realtà. Cosa succede, allora? sostanzialmente, nei primissimi anni di vita muoiono più femmine che maschi. E questo nonostante il tasso naturale di sopravvivenza sia a favore delle femmine, più robuste e resistenti alla nascita. Di fatto, la discriminazione di cui soffre la metà femminile dell'umanità si traduce, per le bambine, in meno cibo, meno cure mediche, talvolta addirittura eliminazione fisica. Qualche dato:
  • su un campione di 8.000 aborti effettuati a Bombay, in India, dopo un'amniocentesi, 7.999 riguardavano feti di sesso femminile;
  • un'indagine ufficiale condotta in Cina indica che il 12% di tutte le gravidanze di feti di sesso femminile terminano con un aborto;
  • in tutta l'Asia meridionale i bambini sono molto più numerosi delle bambine; si calcola che, in tre paesi dell'area, muoiano ogni anno un milione di bambine soltanto a causa del loro sesso;
  • in Pakistan uno studio del 1990 rileva che il 71% dei bambini sotto i due anni d'età ricoverati in ospedale sono maschi; le femmine, se si ammalano, ricevono meno cure; e il 61 % delle bambine è malnutrito, contro il 52% dei bambini;
  • ad Haiti, su 1000 bambini tra i 2 e i 5 anni muoiono 61 femmine e 48 maschi; in Costa Rica, 8 femmine e 5 maschi.

Ma questo è solo l'inizio. Per le bambine che sopravvivono inizia una vita di disuguaglianza. La discriminazione più evidente, che ha conseguenze anche sulle generazioni future, è quella relativa all'istruzione. Ma anche matrimoni e gravidanze precoci, insieme al maggior carico di lavoro, contribuiscono a distruggere le potenzialità di sviluppo di bambine e ragazze. Qualche dato:

  • nel 1990, il 40% delle giovani donne era analfabeta in Africa, Medio oriente e Asia meridionale;
  • i bambini iscritti a scuola sono ovunque più maschi che femmine; la differenza arriva al 29% in Asia meridionale;
  • in Bangladesh, il 71,8% delle ragazzine tra 15 e 19 anni sono già sposate; la mortalità da parto in questa fascia d'età è doppia rispetto alla media.

L'UNICEF interviene a tutela dei diritti delle bambine con vari programmi sanitari, alimentari e soprattutto educativi. Garantire alle ragazzine la scuola di base significa anche porre le basi per uno sviluppo diverso, dare loro gli strumenti per cambiare non solo la propria vita, ma anche quella delle generazioni future. Gli esempi positivi non mancano: dalle scuole rurali che, in Bangladesh, garantiscono l'istruzione a 100.000 bambini l'anno, 70% dei quali femmine, alle campagne capillari d'informazione alimentare e sanitaria in Medio oriente, Asia meridionale, Nord Africa e Caraibi, sino alla mobilitazione internazionale che ha già indotto 40 stati asiatici e africani a dare priorità alla tutela delle bambine nelle politiche scolastiche.

Fonte Unicef  http://www.unicef.it/

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Il prezzo di un bambino

  Fongkam Panya ha un viso largo e sorride, seduta accanto ai figli (due bellissime ragazzine e un maschio più piccolo) sulla soglia della sua casa fatta di legno e stuoie di canna. Siamo a Dok Kaam Tai, nell'interno della Thailandia; zona di contadini poveri, pochi campi e un po' di artigianato tradizionale come unica fonte di reddito.
"Quelli vengono ogni due-tre mesi - dice Fongkam con voce ferma e tranquilla, mentre il marito annuisce - con i loro fuoristrada e gli orologi d'oro al polso, sempre facce diverse, sempre lo stesso discorso. Mi chiedono se voglio vendergli le mie figlie, dicono che le porteranno in città a lavorare, che guadagneranno bene. Offrono molti soldi in anticipo, centinaia di migliaia di baht - e farebbero comodo, per aggiustare il tetto e fare qualche lavoro. Ma io gli ho sempre detto di no - quei soldi non ci cambierebbero la vita. Vedi i vicini, la casa qui di fronte? ne hanno vendute tre, di figlie, a 30.000 baht l'una. Ma loro continuano a essere poveri, i soldi sono finiti subito. E le ragazze, non si sono più viste. Una aveva 11 anni appena. Io lo so che lavoro vanno a fare in città, è disgustoso. No, non c'è prezzo per questo, preferisco avere tutta la famiglia qui con me, vedere le bambine crescere. Ho mandato la più grande a lavorare alla pompa di benzina qui vicino, guadagna solo 1.500 baht al mese, ma può continuare ad andare a scuola."
"Quelli" - i mezzani, i mercanti di carne umana - da anni battono le campagne thailandesi alla ricerca di bambine da avviare alla prostituzione nei locali a luci rosse di Bangkok, di Pattaya e delle altre località turistiche della Thailandia. Perché c'è un turismo speciale, che viene da queste parti a cercare proprio loro, le bambine e i bambini schiavi dei trafficanti del sesso. Sono 800.000, secondo alcune stime recenti, i minori vittime della prostituzione in Thailandia, e fra i loro clienti sono molti gli europei (anche italiani). E il prezzo che i bambini pagano è altissimo: devastati nel corpo e nell'anima dalle violenze subite, quasi mai riescono a tornare a casa. I centri di recupero creati dall'UNICEF e da vari organismi per salvare le piccole vittime della prostituzione devono accogliere un numero crescente di bambini, sottratti allo sfruttamento ma privi di alternative di vita.
Oltre al problema del recupero psicologico, e del reinserimento nella vita sociale, insegnando un lavoro a questi ragazzi e ragazze, facendoli tornare a scuola, l'UNICEF deve affrontare un'emergenza sanitaria gravissima, quella dell'AIDS. Nell'anno 2000 quattro thailandesi su cento saranno sieropositivi. E fra loro, moltissimi sono bambini, vittime dirette della prostituzione ma anche piccoli figli di giovanissime prostitute, condannati a una breve vita: da qui al 2000 si stima che saranno 40.000 l'anno i nuovi casi di infezione nei bambini, e che ogni anno moriranno di AIDS 20.000 bambini. Accogliere questi piccoli, dare loro un tetto, garantire serenità e affetto per la breve vita che li attende è un compito straziante ma fondamentale, per l'UNICEF e per i medici thailandesi che li assistono.
Il problema non riguarda solo la Thailandia: in India si stimano in mezzo milione le piccole prostitute, in Brasile, in Sri Lanka e in molti altri paesi la situazione è gravissima. Ogni anno, nel mondo, sono milioni i bambini costretti a prostituirsi o ad alimentare l'industria pornografica. Tra questi anche bambini e bambine di città come New York, Sidney, Parigi o Amsterdam. E questi abusi sono ''in allarmante e rapida progressione in tutto il mondo'', secondo il rapporto della Commissione ONU per i diritti umani sulla "vendita dei bambini, la prostituzione e la pornografia infantile". Il primo Congresso mondiale contro lo sfruttamento sessuale dei bambini, promosso dall'UNICEF con la partecipazione di organizzazioni di tutto il mondo a Stoccolma nel 1997, ha denunciato con violenza l'industria del sesso infantile, che coinvolge bambini di ogni età.
Per eliminare questa vergogna, l'UNICEF sottolinea la necessità di lottare contro quell'erosione dei valori che è tra le cause del crescente sfruttamento sessuale e commerciale dei bambini, ma anche e soprattutto di combattere la povertà e le discriminazioni che spesso sono alla radice del problema. Servono campagne d'informazione, serve un'azione di polizia e magistratura per punire duramente col carcere ogni abuso sui bambini, dovunque commesso, ma più di ogni altra cosa - ricorda l'UNICEF - serve un aiuto concreto alle famiglie più povere della Terra: perché nessuno sia più tentato di vendere i suoi figli, perché tutte le madri possano rispondere, come Fongkam Panya, un chiaro e secco "NO" a "quelli" che tentano di comprare la vita dei bambini. Fonte Unicef. http://www.unicef.it/

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  Sempre più poveri nel mondo
307 milioni i dannati della Terra. In Africa tragedia inarrestabile, migliora l'Asia
   
In Etiopia e Burundi si vive con 30 centesimi al giorno. Sono l'Etiopia e il Burundi i paesi più poveri al mondo, dove la 'ricchezza" pro capite è di 107 dollari l'anno. Ma è una media: e quindi c'è anche chi non guadagna neppure quelli. E nella classifica della miseria spiccano anche i dati della Repubblica Democratica del Congo (115 dollari), della Sierra Leone (142doliari) e del Malawi (171 dollari), Tra i poveri, il più ricco è Tuvalu, con 1.931 dollari: 5,3 al giorno.

ROMA - Di qui al 2015 altre 110 milioni di persone rischiano di precipitare nel girone dei dannati della Terra, quelli che vivono con meno di un dollaro al giorno. A pochi giorni dalla conclusione del vertice Fao, la Conferenza dell'Onu per il commercio e lo sviluppo (1'Unctad) rilancia l'allarme povertà. Oggi vivono con meno di un dollaro al giorno 307 milioni di persone, il doppio rispetto a 30 anni fa, ma - secondo 1'Unctad -se continueranno gli attuali andamenti economici fra 13 anni i più poveri tra i poveri
del mondo saranno 420 milioni. E questo nonostante l'uscita dalla fascia dell'estrema povertà di paesi come la Cina e l'India.
La situazione è migliorata nei paesi asiatici meno sviluppati, ma è peggiorata in quelli dell'Africa. Nel primo gruppo, infatti, le persone che vivono attualmente con meno di un dollaro sono il 23 per cento della popolazione, dato che sale al 64,9 per cento nel secondo gruppo. Non è che il resto della popolazione, comunque, stia molto meglio: nei Paesi asiatici meno sviluppati il 68 per cento della popolazione vive con meno di due dollari al giorno, quota che raggiunge 1'87,5 per cento nei paesi africani. Il confronto con i paesi più ricchi è inquietante: mentre gli americani spendono in media 58,2 dollari al giorno (il 10 per cento più povero della popolazione Usa ne spende comunque 10,5), gli africani arrivano a 0,52 centesimi: qui-ha recentemente ricordato l'economista Jeremy Rifkin - si muore di fame, là 300 mila americani muoiono prematuramente ogni anno per problemi di sovrappeso.
Che fare per ridurre la forbice tra estrema ricchezza ed estrema povertà, o - perlomeno - per scardinare l'assurdo equilibrio tra popolazione mondiale obesa e popolazione mondiale denutrita entrambe attestate al 18 per cento del totale? Nel suo rapporto sui 49 paesi meno sviluppati, diffuso ieri, l'Onu contesta l'attuale politica di globalizzazione perseguita dal Fondo monetario e dalla Banca Mondiale e sollecita maggiori aiuti internazionali e facilitazioni alle esportazioni nei paesi meno sviluppati, che determinerebbero un aumento delle entrate e dei consumi. La tesi dell'Onu è questa: la povertà in questi paesi si riduce più che proporzionalmente con l'aumento dei consumi privati. Se il consumo privato pro-capite raddoppiasse, passando da 400 a 800 dollari l'anno, ovvero da poco più di uno a poco più di due dollari al giorno, la proporzione della popolazione sotto la soglia di povertà estrema, si legge nel Rapporto, scenderebbe dal 65 per cento a meno del 20 per cento. Il problema, naturalmente, è come stimolare la crescita dei consumi. Il «volano» è dato dalle esportazioni.
Dal Rapporto dell'Onu emerge un dato particolarmente significativo: i paesi più poveri sono quelli che non riescono a diversificare le esportazioni. Ovvero, a grandi linee, più la specializzazione dell'export è elevata e più difficoltà incontra il paese esportatore. La percentuale dei poveri con meno di un dollaro è costantemente aumentata negli ultimi vent'anni nei paesi che esportano un solo tipo di materie prime, mentre è diminuita nei paesi che esportano più beni manifatturieri ed è bassa dove il punto di forza sono i servizi. L'Onu non nasconde, tuttavia, che la povertà è più diffusa e persistente nei paesi in cui c'è sperpero delle risorse e l 'instabilità politica sfocia sovente in conflitti armati che assorbono la ricchezza. Esemplare il caso dei paesi esportatori di minerali tra 1'81 e il '99 i dannati con meno di un dollaro al giorno sono aumentati dal 61 all'82 per cento. (Riccardo De Gennaro in Repubblica, mercoledì 19 giugno 2002)

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