Da LA REPUBBLICA del 22 novembre 2003
LA SCHEDA
Storia di un processo infinito fra udienze, leggi e girotondi
di Marco Bracconi
ROMA - E' la storia di un processo infinito. Richieste di
ricusazione, di remissione, di trasferimento ad altra sede, di applicazione di
leggi varate in tutta fretta al Parlamento. Perfino di certificati di malattia.
Con il palese obiettivo, da parte dei principali imputati (con Previti c'è anche
l'attuale premier Silvio Berlusconi, la cui posizione sarà "stralciata" solo nel
2003) di non essere giudicati a Milano e, in ogni caso, di rallentare i tempi.
Novembre 1999. La tormentata vita del dibattimento Sme inizia il
26 novembre 1999. Silvio Berlusconi è ancora il leader dell'opposizione. Il
giudice per le indagini preliminari Alessandro Rossato lo rinvia a giudizio
insieme a Cesare Previti e altre sei persone. L'accusa è corruzione in atti
giudiziari. Gli imputati sono accusati di aver corrotto alcuni dei magistrati
romani che nel 1985 avevano deciso di bloccare la vendita dell'industria
alimentare Sme al gruppo di Carlo De Benedetti, favorendo la cordata di
Berlusconi, Barilla e Ferrero. Il 9 marzo dello stesso anno inizia il processo
Novembre 2001. Subito schermaglie procedurali. Ma il botta e
risposta tra i giudici e Cesare Previti diventeranno una guerra all'arma bianca
due anni dopo. Il 25 novembre del 2001, il deputato di Forza Italia chiede - in
base alla nuova legge approvata dalla maggioranza di centrodestra - di annullare
tutte le prove contro di lui acquisite per rogatoria dalla procura di Milano.
Negli stessi giorni si alzano i toni dello scontro con Francesco Saverio
Borrelli. "Previti si difende come facevano gli imputati per terrorismo negli
anni '70", dice il magistrato. Pochi giorni dopo, si consuma lo scontro tra i
legali di Previti e il Tribunale, al quale gli avvocati chiedono continui rinvii
per "legittimo impedimento parlamentare". Così, tra sospensioni concesse e altre
rifiutate, si arriva al 27 dicembre 2001.
Dicembre 2001. Scoppia il "caso Brambilla". Il giudice a
latere nel processo Sme attende il trasferimento al tribunale di sorveglianza.
L'8 gennaio 2002, il ministro della Giustizia Roberto Castelli dice che "dovrà
prendere immediatamente possesso della nuova funzione". E la risposta al
chiarimento chiesto dal presidente della corte d'Appello di Milano sul previsto
cambio di mansione. Non a caso, il giorno precedente, Previti aveva presentato
una richiesta di ricusazione nei confronti di Brambilla, giudicato "radicalmente
incompatibile con la permanenza in quel collegio" in quanto già trasferito ad
altro incarico. "È la notte della democrazia", dice Gerardo D'Ambrosio.
Brambilla alla fine resterà nel collegio giudicante, ma la guerra
continuerà per mesi. L'11 gennaio 2002 Previti chiede - senza ottenerla - la sua
ricusazione, e 19 gennaio telefona in diretta alla trasmissione Sciuscià di
Michele Santoro e accusa i giudici del processo: "E' un dibattimento anomalo". A
tal punto - secondo il deputato forzista - che il Tribunale di Milano non
dovrebbe proprio giudicarlo.
Arriva dunque la richiesta di remissione.
800 pagine. Destinatario, la Cassazione. Gli avvocati di Previti e Berlusconi
vogliono che l'Alta Corte decida se è il caso di spostare dal capoluogo lombardo
(per "legittima suspicione") i processi del filone "toghe sporche". La richiesta
viene depositata il 26 febbraio 2002. La data è da cerchiare con il rosso,
perché saranno gli sviluppi di questa iniziativa a condurre alla tanto
contestata "legge Cirami".
Maggio 2002 .Il 31 maggio 2002 arriva
infatti il pronunciamento della Cassazione, che verifica il "vuoto legislativo",
giudica la questione "rilevante" e passa la palla alla Corte Costituzionale. I
processi vanno avanti, ma si aprono le maglie - dice subito il centrodestra -
per una legge sull'argomento.
Passano intanto i mesi, con Previti che
torna ad attaccare i giudici milanesi ("c'è un accordo contro di me tra pm e
Tribunale di Milano") e nuove procure che entrano in azione. L'8 giugno 2002 i
carabinieri, su ordine dei magistrati di Perugia, arrivano a Milano per
sequestrare la cassetta dell'intercettazione al bar Mandara del 2 marzo '96.
Prendono anche gli appunti scritti a mano dal poliziotto che ascoltò il
colloquio tra Renato Squillante, ex capo dei gip di Roma, e il pm amico
Francesco Misiani.
Nel capoluogo umbro, infatti, è in corso l'inchiesta
sull'eventuale manomissione di questi nastri, nata appunto dopo una denuncia di
Cesare Previti. E a Milano è un'altra occasione per una ulteriore richiesta di
sospensione, che verrà anch'essa respinta.
Così come un'altra, stavolta
clamorosa, richiesta dell'avvocato-deputato Previti al segretario di
Magistratura Democratica, Livio Pepino. Attraverso i suoi legali, il deputato
chiede "l'elenco contenente i nominativi dei magistrati iscritti alla corrente
associativa di Md". Ne nascono polemiche a non finire, e lo sdegnato rifiuto di
Pepino
Agosto 2002. La legge Cirami sul legittimo sospetto (vale
a dire la normativa che precisa e amplia le condizioni per le quali è doveroso
spostare un processo dalla sua sede naturale) viene approvata dal Senato il 1
agosto 2002. In aula l'opposizione grida allo scandalo. Fuori, i girotondini
"assediano" Palazzo Madama. Nanni Moretti e alcune migliaia di persone gridano
"vergogna"" e "no" alla legge "salva Previti". Ma il provvedimento, dopo altri
tre tormentati passaggi in aula, diventa legge il 5 novembre del 2002. Ciampi lo
firma due giorni dopo. Immediata la richiesta di remissione sulla base delle
nuove norme.
Gennaio 2003. Ma i processi - deciderà la Cassazione
il 28 gennaio 2003 - restano a Milano. E' una sonora sconfitta, per Cesare
Previti e Silvio Berlusconi. Che però non si arrendono. Nella Casa delle libertà
si comincia a pensare ad una legge ad hoc che sospenda i processi per le cariche
istituzionali (che sarà poi approvata). Ma è una soluzione solo per il premier.
Non per Previti. Del quale il presidente del Consiglio prende in prima persona
le difese. Il 18 aprile 2003 Berlusconi si presenta in aula al processo Sme e
sentenzia: "E' un "perseguitato".
Maggio 2003. Intanto le
posizioni dei due maggiori imputati si separano. Il 16 maggio 2003 la corte
decide che Berlusconi sarà processato a parte. "Non era possibile mantenere
l'unità del processo - è scritto nella motivazione - che non può continuare
nell'incertezza a causa degli impegni del premier". Per gli altri, invece, il
dibattimento va avanti. Il 23 maggio, dopo l'ennesima richiesta di ricusazione
(respinta), Ilda Boccasini inizia la requisitoria, che si conclude il 30 maggio
con la richiesta a 11 anni di reclusione. Nel frattempo, però,
l'avvocato-onorevole ha lanciato un altro pesante attacco ai magistrati
milanesi: "Hanno il solo intento di distrugggere un cittadino e la sua onorata
carriera". Berlusconi, che è in visita a San Pietroburgo, commenta la richiesta
di condanna: "Smodata e grottesca".
Del resto il presidente del
Consiglio è stato anch'egli impegnato in una aspra battaglia nel
processo-stralcio. Anche se ora il Lodo Schifani blocca il dibattimento che lo
riguarda. Nel giugno 2003, le dichiarazioni fatte in aula proprio dal Cavaliere
sono per Previti l'occasione per una nuova richiesta in grado - se accolta - di
allungare i tempi. I suoi legali chiedono infatti che vengano acquisite le
parole pronunciate dal premier. Ma la Corte respingerà anche questa pretesa.
Il resto, è storia recente. E si chiama fascicolo 9520. Un incartamento
della procura che la difesa vorrebbe - contro il parere dei pm - acquisire agli
atti. Su quelle carte si consuma uno scontro senza precedenti, nel quale entrano
anche gli ispettori del ministro Castelli e infine la procura di Brescia, che
avvia una indagine su Ilda Boccassini e Gherardo Colombo. E' l'ultima chance per
chiedere prima una nuova sospensione (non concessa), poi la remissione in base -
di nuovo - alla legge Cirami.
Novembre 2003. Il 13 novembre la
procura di Brescia chiede l'archiviazione per i due pm. E il 17 novembre la
Cassazione respinge l'istanza della difesa di "legittimo sospetto". Impossibile
a questo punto evitare la sentenza. A Cesare Previti non resta che prendere la
parola e pronunciare il suo ultimo attacco ai giudici: "Non mi difendo, ma
accuso". Poi, la sentenza.
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