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Fermo e Lucia
Tomo 4
CAPITOLO 5
Una sera, verso il mezzo d'Agosto, Don Rodrigo tornava alla sua casa in Milano,
dove era sempre rimasto dal giorno che vi era tornato dalla villa in forma di
fuggitivo. A quella villa non voleva ricomparire se non in aspetto di
vendicatore, e in modo da restituir con usura ai tangheri lo spavento, e
l'umiliazione che gli avevan fatto provare: ma i tempi non erano mai stati
propizj.
Quella elazione d'animi aveva durato qualche tempo; di poi la fame cresciuta
aveva prodotti gli sbandamenti, e il vagabondare di molti, e nei rimasti un
fermento di disperazione: erano cani tuttavia ringhiosi, e non ancora disposti
ad accosciarsi sotto la mano alzata del signore; poi eran passati i
lanzichenecchi, che avevano spogliato il castellotto; poi era venuta la peste;
non v'era insomma stata mai una tranquillità di cose in cui Don Rodrigo avesse
potuto farsi sentire. La sera di cui ora parliamo, tornava egli da uno
stravizzo, nel quale con alcuni suoi degni amici aveva egli cercato di
sommergere le malinconie e i terrori della peste. E siccome le idee di quella
entravano per tutti i sensi, si trovavano accumulate nella mente, si associavano
per forza ad ogni suo intendere, sicché non era possibile farne astrazione; in
quelle idee stesse s'erano essi sforzati di trovare qualche soggetto d'ilarità.
Avevano ricapitolate burlescamente le virtù di qualche loro amico defunto; e Don
Rodrigo in ispecie aveva molto divertita la brigata con l'orazione funebre del
conte Attilio.
Si raccontavano o anche s'inventavano prodezze d'ogni genere compiute col favore
della confusione, e dello spavento publico; si disegnavano nuove vittime; e la
vile e impunita sfrenatezza si vantava anticipatamente dei nuovi trionfi che
meditava. Tornando da tutta questa allegria, Don Rodrigo sentiva però una
gravezza di tutte le membra, una difficoltà crescente nel camminare, una ansietà
di respiro, una inquietudine, un grande abbattimento; ma cercava di attribuir
tutto questo al sonno. Sentiva un'arsura interna, una noja, un peso degli abiti,
ma cercava di attribuirlo alla stagione, ed al vino. Giunto a casa, chiamò il
fedel Griso, uno dei pochi famigliari che gli erano rimasti, e gli comandò che
gli facesse lume alla stanza dove sperava di finir tutto con un buon sonno. Il
Griso vide la faccia del suo signore stravolta, d'un rosso infiammato e
splendente, e gli occhi luccicanti; e si tenne lontano con una certa aria di
sospetto; perché ogni mascalzone aveva in quel tempo dovuto farsi l'occhio
medico.
«Ho bevuto, ho bevuto», disse Don Rodrigo, che non potè non avvedersi di quell'atto
e del pensiero nascosto; «siamo stati allegri: sto bene, benone, Griso: ho
sonno: oh che sonno! Levami un po' dinanzi quel lume che mi abbaglia. Diavolo,
che quel lume mi dia tanto fastidio! Debb'essere quella vernaccia certamente,
che te ne pare? eh Griso? Domani sarò vispo come un pesce». «Sicuro», disse il
Griso tenendosi sempre discosto: «ma si corichi presto, che il dormire gli farà
bene».
«Hai ragione; ma sto bene ve' Griso: levami quel lume dinanzi». Il Griso non se
lo fece ripetere, e partì col lume, al momento che Don Rodrigo si gettava sul
letto.
Quando vi fu, la coltre gli pareva un monte, e se la rigettò da dosso: sentiva
un sopore come invincibile, e quando stava per assonnare, si risentiva come se
un importuno venisse a scuoterlo per non lasciarlo dormire: il caldo cresceva,
cresceva la smania, e il terrore rispinto ritornava più forte: così passò
qualche ora. Finalmente, presso al mattino s'addormentò. E tosto gli parve di
trovarsi in quella chiesa dei capuccini di Pescarenico, dinanzi alla quale, se
vi ricorda, egli sogghignò in passando, nella sua gita al Conte del Sagrato. Gli
pareva d'essere innanzi innanzi nella chiesa, circondato e stretto da una gran
folla; non sapeva come gli fosse venuto il pensiero di portarsi in quel luogo, e
si rodeva contra se stesso. Guardava quei circostanti; erano sparuti e lividi,
con gli occhi spenti, incavati, colle labbra pendenti, come insensati; e gli
stavano addosso, e lo stringevano, quasi col loro peso, e sopra tutto gli pareva
che o con le gomita, o come che fosse lo premessero al lato sinistro al di sopra
del cuore, dove sentiva una puntura spiacevole, dolorosa. Voleva dire: «largo
canaglia», faceva atti di minaccia a coloro perché gli dessero passaggio ad
uscire; ma quegli né parevano muoversi, né mutare sembianza, né risentirsi in
alcun modo: stavano tuttavia come insensati. Alcuni su la faccia, su le spalle
che nude uscivano dalle vesti lacere, mostravano macchie, e buboni. Don Rodrigo
si ristringeva in sè, ritirava le mani, le membra, per non toccare quei corpi
pestilenti; ma ad ogni movimento incappava in qualche membro infetto. E non
vedendo la via d'uscire, strepitava, ansava, l'affanno l'avrebbe destato;
quand'ecco gli parve che tutti gli occhi si volgessero alla parte della chiesa
dov'era il pulpito: guatò anch'egli, e vide spuntare in su dal parapetto, un non
so che di liscio e lucido; poi alzarsi e comparir più distinto un cocuzzolo
calvo, poi due occhi, una faccia, una barba lunga e bianca, un frate ritto ed
alto: era Fra Cristoforo. Tanto più Don Rodrigo avrebbe voluto fuggire; ma la
folla degli incantati era fitta ed immobile. Gli parve allora che il frate
girando gli occhj su l'uditorio senza fermarli sopra di lui, sclamasse ad alta
voce: «Per li nostri peccati, la fame! Per li nostri peccati, la guerra! Per li
nostri peccati, la peste! La peste! Povera gente! ella vi rode tutti, dal primo
fino all'ultimo: tutti avete i segni della morte in volto: beati quelli fra voi
che sono preparati a riceverla. Ma...» e qui pareva a Don Rodrigo che il frate
ristesse, come sopraffatto da un pensiero repentino e profondo: ed egli stava
ansioso attendendo. Gli pareva che gli uditori non facessero pur vista di
scuotersi, e che il frate tutto ad un tratto, guardando a lui, e come
ravvisandolo, fermandolo col guardo e con la mano alzata, come un bracco sopra
una pernice, dicesse ad alta voce: «Tu sei quell'uomo! Or ci sei giunto;
ascolta. Quanto ti sarebbe costato il rinunziare a quel capriccio infame? Torna
indietro con la mente e dillo. Un picciolo pensiero di pietà; ma tu non hai
voluto. Tu hai messo da una parte su la bilancia l'angoscia, l'obbrobrio, il
crepacuore, il terrore, d'un'anima innocente; hai pesato; e hai detto - non è
niente: pesa più il mio capriccio -. Ora le bilance sono rivolte: l'angoscia si
versa sopra di te: prova se è niente». A queste parole Don Rodrigo, voleva
gridare, nascondersi, fuggire, e si destò spaventato. Stette un momento a
ravvisarsi; vide che era un sogno; ma aprendo gli occhi sentì ancor più vivo il
ribrezzo e il dolore della luce; forzandosi di guardare intorno, vide il letto,
le scranne, i travicelli della soffitta confondersi in forme strane; sentì nelle
orecchie un ronzio nojoso e violento, al cuore un battito accelerato, affannoso;
si sentì più spossato e più arso che alla sera antecedente, sentì più viva
quella puntura che aveva provata in sogno; esitò qualche tempo, senza osare di
vedere che fosse; finalmente sorse a sedere, scoperse tremando la parte
dogliosa, cercò di fissarvi lo sguardo, e a stento, ma con qual raccapriccio Dio
'l sa, scorse un sozzo gavocciolo, d'un livido pavonazzo; il segnale manifesto
del contagio.
L'uomo si vide perduto: il terrore della morte lo invase; ma con un senso ancor
più vivo, il terrore di cadere in balìa altrui, d'essere preso, maneggiato,
tratto intorno come un cencio, senza potersi far sentire, d'essere portato al
lazzeretto, gittato e confuso fra tanti oggetti d'orrore, oggetto d'orrore egli
stesso. Voleva deliberare sul modo di evitar questa sorte toccata a tanti altri;
ma sentiva le sue idee confondersi e intenebrarsi, divenir tanto più incerte
quanto più erano atterrite; sentiva avvicinarsi sempre più il momento, in cui
egli avrebbe avuto sol tanto di coscienza, quanto bastava a disperare: provò un
bisogno di soccorso istantaneo; afferrò un campanello che teneva presso al
letto, e lo scosse con violenza. Ed ecco comparire il Griso che stava all'erta.
Si fermò egli presso all'uscio, guatò attentamente il padrone, e il sospetto
divenne certezza.
«Griso», disse Don Rodrigo sollevandosi, «tu sei sempre stato il mio fido».
«Signor sì», rispose il Griso, col laconismo, e col tuono ambiguo del tristo che
dal preambolo s'accorge che l'uomo avvezzo a proteggerlo, gli vuol domandare
protezione, e fargli far qualche cosa per riconoscenza.
«Sto male, Griso».
«Me ne accorgo, Signore».
«Se guarisco, ti farò star meglio che tu non sia mai stato».
Il Griso non rispose nulla, ed aspettò che Don Rodrigo continuasse.
«Non voglio fidarmi d'altri che di te. Fammi una carità, Griso».
Erano forse anni che Don Rodrigo non aveva proferita questa parola.
«Vediamo», disse il Griso.
«Sai tu dove abita il Chiodo, chirurgo?»
«Lo so benissimo».
«È un galantuomo, che se è ben pagato, tien segreti gli ammalati. Vallo a
cercare; digli che lo pagherò bene, meglio di chi che sia, quanto vorrà, e
fammelo venir qui segretamente, che nessuno se ne avvegga».
«Ben pensato», disse il Griso: «vado e torno».
«Senti, Griso, dammi prima un bicchier d'acqua: mi sento arso che non ne posso
più».
«No, signore», disse il Griso: «niente senza il parere del medico; non c'è tempo
da perdere: stia quieto, aspetti un momento, son qui col Chiodo».
Così dicendo, tolse la chiave dalla toppa, uscì, chiuse Don Rodrigo in istanza e
se ne andò.
Don Rodrigo rimase in una agitata aspettazione, in una incertezza sospettosa, e
iraconda, col terrore crescente.
L'abbominevole Griso aveva già fatto nella notte i suoi conti pel caso che ora
si era avverato. Allontanò tosto di casa con un ordine finto del padrone,
l'altro servo; e corse al posto più vicino di monatti. Ivi, tratti in disparte
due che erano suoi conoscenti e insieme dei più scellerati, propose ad essi una
occasione di dividere spoglie opime. Quegli accettarono prima d'intendere le
condizioni: ma il Griso le espresse tosto; non si trattava d'altro che di venire
a prendere Don Rodrigo, e di portarlo al lazzeretto. Dieder tosto di mano ad una
bussola, delle quali era provvigione a quel posto, se la caricarono, e seguirono
il Griso.
Don Rodrigo stava con l'orecchio teso, spiando ogni romore per sentire se il
chirurgo giungeva; e questo sforzo d'attenzione sosteneva alquanto il vigore
delle sue membra, sospendeva il senso del male, e teneva in sesto la sua mente.
Tutto ad un tratto intese egli uno squillo acuto, continuo, che si avvicinava:
erano le campanelle che i monatti portavano legate ai piedi a foggia di sproni.
Un orrendo sospetto corse al suo pensiero; si levò egli a sedere in furia; e in
quel momento sentì la chiave girar nella toppa, e vide aprirsi, entrare i
monatti, col Griso.
«Ah traditore! via canaglia!» urlò Don Rodrigo; e tosto si gettò dall'altra
parte per afferrare le pistole che teneva appese a fianco del letto. Ma un
monatto gli fu sopra, lo fece raccosciare sul covile, gli tenne le mani, e gridò
con un orribile ghigno di collera:
«Ah! birbone! contra i ministri del tribunale!»
«Tienlo ben saldo», disse il compagno, «finché lo portiamo via: egli è
frenetico».
Lo sventurato Rodrigo lo divenne: si divincolava, mandava urli, lanciava
bestemmie contra i monatti, e più contra il Griso, ch'egli vedeva frugare
insieme con quel compagno nei cassettoni, spezzar le serrature dello scrigno,
cavarne il danaro, e far le parti; mentre colui che teneva il padrone dava
un'occhiata a questo per tenerlo bene, e una occhiata a quegli altri, dicendo:
«fate le cose da galantuomini, altrimenti...»
Il corpo e la mente di Don Rodrigo, già dissestati dal male, non ressero allo
sforzo, al dibattimento, e a tanta passione: il meschino cadde tutto ad un
tratto come sfinito e stupido; guardava però come un incantato; e di tratto in
tratto dava qualche scossa, o usciva in qualche imprecazione. Fatte le parti, i
monatti lo posero nella bussola, e lo portarono al lazzeretto.
Il Griso rimase a scegliere quel di più che poteva essere il caso suo; fece un
fardello, e sfrattò. Ma in quella furia del frugare, egli aveva presi presso al
letto i panni del padrone, e scossigli per vedere se vi fosse denaro; né in quel
momento aveva badato a quello che si facesse. Se ne accorse però il giorno dopo,
che preso dagli stessi accidenti che, con occhio così spietato, aveva mirati
nell'infelice suo padrone, cadde infermo in una osteria, dove era andato a
gozzovigliare; abbandonato da tutti, fu spogliato dai monatti anch'egli,
trattato come aveva trattato altrui, e strascinato sur un carro al lazzeretto,
dove finì.
Lasciando ora Don Rodrigo nel suo tristo ricovero, ci conviene andare in cerca
d'un personaggio separato da lui per condizione, per abitudini, e per
inclinazioni, e la storia del quale non sarebbe mai stata immischiata alla sua,
se egli non lo avesse voluto a forza.
Fermo, del quale intendiamo parlare, aveva campucchiato quell'anno della
carestia, parte col suo lavoro, parte coi soccorsi di quel suo buon parente;
alla fine per non essergli troppo a carico, intaccò i cento scudi di Lucia, ma
col proposito di restituire, se mai Lucia non fosse più quella per lui. Il
passaggio della soldatesca interruppe quelle scarse, e imbrogliate comunicazioni
di pensieri e di notizie che passavano tra lui ed Agnese. Dietro la soldatesca
venne la peste, ai primi avvisi della quale i magistrati di Bergamo interdissero
il commercio col territorio milanese finittimo, mandarono commissarj ad
invigilare al confine, fecero por guardie e cancelli. Pure, come era accaduto
nel milanese, la disobbedienza fu più attenta, più destra, più ingegnosa che la
vigilanza; gli abitanti del confine bergamasco non credevano né pur essi molto
alla peste, e trattavano di soppiatto coi loro vicini: e con molta fatica e con
molto pericolo ottennero di potere avere anch'essi la peste in casa. Entrata che
fu, invase poco a poco il contado, poi i sobborghi di Bergamo, poi la città. La
peste di Bergamo, e nei modi con cui si propagò, e in tutti i suoi accidenti,
presenta molti tratti di somiglianza notabile con quella del Milanese. Come in
questo paese, così nel bergamasco, dopo scoverta la peste si trovò ch'ella si
sarebbe dovuta prevedere per evidenti segni astrologici, e per inauditi
portenti; v'ebbe pure la incredulità di molti abitanti, e la negligenza delle
precauzioni, v'ebbero i dispareri fra i medici, l'inesecuzione degli ordini, e
il rilasciamento nei magistrati stessi, nato da una falsa fiducia che il male
fosse cessato. Quivi pure una processione contrastata con ragioni savie, e
voluta con fanatismo, diffuse rapidamente il contagio nella città; quivi pure
molte vite generosamente sagrificate in pro' del prossimo da cittadini, e
particolarmente da ecclesiastici; quivi pure licenza, e avanie degli infermieri
e becchini che ivi erano chiamati nettezzini come in Milano monatti; quivi pure
preservativi e rimedii strani o superstiziosi. Quivi pure come in Milano
subitanei spaventi per voci sparse di sorprese nemiche sognate dalla paura, o
inventate dalla malizia; e finalmente, per non dir tutto, quivi pure all'udire
che in Milano v'era gente che disseminava il contagio con unzioni, nacque un
terrore che il simile non avvenisse, anzi parve di vedere unti i catenacci e i
martelli delle porte, e le pile delle Chiese. Ma la cosa non andò oltre; e come
in questo particolare, così nel resto gli accidenti tristi che abbiam toccati
furono in Bergamo men gravi, meno portentosi: l'incredulità fu meno ostinata,
men clamorosa, la trascuranza men crassa, la superstizione meno feroce, la
violenza meno bestiale, e meno impunita. Di questa differenza v'era molte
cagioni, alcune presenti, altre antiche, quale nelle persone, e quale nelle
cose; la ricerca delle quali cagioni è fuori affatto del nostro argomento.
Quello che ora importa di sapere si è che Fermo contrasse la peste, e la superò
felicemente. Tornato alla vita, dopo d'averla disperata, dopo quell'abbandono e
quell'abbattimento, sentì egli rinascere più che mai fresche e rigogliose le
speranze, le cure e i desiderj della vita; cioè pensò più che mai a Lucia, alle
antiche affezioni, agli antichi disegni, alla incertezza in cui era da tanto
tempo dei pensieri di essa, e alla nuova terribile incertezza della salute,
della vita di lei in quel tempo dove il vivere e l'esser sano era come una
eccezione alla regola. Tutte queste passioni crescevano nell'animo di Fermo di
pari passo che il vigore nelle sue membra; e quando queste furono ben
riconfortate, egli con la risolutezza d'un giovane convalescente, disse in se
stesso: - andrò, e vedrò io come stanno le cose -. Il pericolo della cattura gli
dava poca molestia; da quello che si passava in Bergamo, egli vedeva che la
peste assorbiva o affogava tutte le sollecitudini, ch'ella era come un'obblivione
o un giubileo generale per tutte le cose passate; vedeva che i magistrati
avevano ben poca forza e poca voglia d'agire contra i delitti della giornata, e
tanto meno contra reati ormai rancidi; e sapeva per la voce pubblica che in
Milano il rilasciamento d'ogni disciplina buona e cattiva era ancor più grande.
Oltre di che, egli si proponeva di cangiar nome, di procedere con cautela, e di
scoprir paese, e prender voce nel suo paesetto natale, prima che avventurarsi in
Milano. Con questo disegno, egli lasciò in deposito presso un buon prete (quel
suo fidato parente era morto di peste) gran parte degli scudi che gli
rimanevano, ne prese pochetti con sè, si tolse un pajo di pani, un po' di
companatico e un fiaschetto di vino pel viaggio, e si mosse da Bergamo sul
finire di Luglio, pochi giorni da poi che Don Rodrigo era stato portato al
lazzeretto.
I pochi che erano guariti dalla peste, si trovavano in mezzo all'altra
popolazione, come una razza privilegiata. Una grandissima parte della gente
languiva inferma, moriva, e quegli che non avevano contratto il male ne vivevano
in un continuo terrore; come ogni oggetto poteva col tocco esser cagione di
morte, così di tutto si guardavano; i passi erano misurati e sospettosi, i
movimenti ritrosi, irresoluti, fretta ed esitazione in un tempo, un allarme
incessante, una disposizione a fuggire; e con tutto questo il pensiero sempre
vivo che forse tante precauzioni erano inutili, forse il male era già fatto. I
pochi risanati invece, non temendo più del contagio, camminavano ed operavano
senza tutte quelle precauzioni, e l'aspetto della incertezza altrui cresceva in
molte occasioni la fiducia e la scioltezza loro; erano come i cavalieri
dell'undecimo secolo coperti d'elmo, di visiera, di corazza, di cosciali, di
gambiere, con una buona lancia nella destra, un buon brocchiere alla sinistra,
una buona spada al fianco, una buona provvigione di giavellotti, sur un buon
palafreno agile all'inseguimento ed alla ritratta, in mezzo ad una marmaglia di
villani a piede, ignudi d'armatura, e poco coperti di vestimenti, che per offesa
e per difesa non avevano che due braccia e due gambe, e il resto delle membra
non atto ad altro che a toccar percosse. L'immunità dal pericolo ispira il
sentimento, e dà il contegno del coraggio; è la parte meno nobile, ma spesso una
gran parte di esso; e questa verità si è sapientemente trasfusa nella nostra
lingua, dove il vocabolo sicuro, che in origine vale fuor di pericolo, fu
traslato a significare anche ardito. Con questa baldezza temperata però dalle
inquietudini che noi sappiamo, e dalla pietà di tanti mali altrui, camminava
Fermo in un bel mattino d'estate, per coste amene donde ad ogni tratto si scopre
un nuovo prospetto, per verdi pianure, sotto un cielo ridente, tra il fresco e
spezzato luccicare della ruggiada, all'aria frizzante dell'alba, e al soave
calore del sole obbliquo, appena comparso sull'orizzonte. Ma dove appariva
l'uomo, dove si vedevano i segni della sua dimora, del suo passaggio, spariva
tutta la bellezza di quello spettacolo: erano villaggi deserti, animati soltanto
da gemiti, attraversati da qualche cadavere che era portato alla fossa, senza
accompagnamento, senza romore di canto funebre: qua e là uomini sparuti che
erravano, infermi che uscivano disperati dal coviglio, per morire all'aria
aperta, birboni, che agguatavano dove fosse da spogliare impunemente. Fermo
cercò di schivare tutte le parti abitate, venendo pei campi: sul mezzo giorno si
riposò in un bosco, vicino ad una sorgente, ivi si rifocillò col cibo che aveva
portato seco; lasciò passare le ore più infocate; riprese la sua strada;
cominciò a riveder luoghi noti, misti alle memorie della sua fanciullezza, e due
ore circa prima del tramonto scoperse il suo paesetto. Alla prima vista Fermo
ristette un momento, come sopraffatto dalle rimembranze, e dai pensieri
dell'avvenire, e ripreso fiato procedette, entrò nel paese. L'aspetto era come
quello di tutti gli altri che Fermo aveva dovuti vedere; ma la tristezza fu ben
più forte che egli non l'avesse ancor provata. Guardò se vedeva attorno qualche
suo conoscente, qualche persona viva: nessuno; le porte chiuse, o abbandonate;
avanzando, scorse un uomo seduto sul limitare, lo guardò, durò fatica a
riconoscerlo, travisato com'era dal male; ma non fu riconosciuto da esso che gli
piantò in faccia due occhj insensati, e non fece motto. Fermo lo chiamò per
nome, non ne ebbe risposta, e più che mai accorato si avviò alla sua casa. Ella
era, quale l'avevano lasciata i lanzichenecchi: senza imposte, diroccata qua e
là, qua e là affumicata, e dentro vuota ma non già pulita, che vi rimaneva ancor
lo strame che era stato letto ai soldati. Ne uscì Fermo in fretta inorridito,
ritraendo l'occhio dallo spettacolo, e la mente dai pensieri e dai ricordi che
quello spettacolo faceva nascere, e si incamminò alla casa d'Agnese, con l'ansia
di rivedere un volto amico, di udire da lei ciò che tanto gli stava a cuore, e
col battito di non ritrovarla, di non ritrovar pure chi gli sapesse dire s'ella
viveva.
Per giungervi, doveva Fermo passare su la piazzetta della chiesa, dov'era pure
la casa del curato. Quando fu in luogo donde la piazza si poteva vedere, guardò
egli alla casa del curato, e vide una finestra aperta, e nel vano di quella un
non so che di bianco-giallastro in campo nero, una figura immobile appoggiata ad
un lato della finestra.
Era Don Abbondio in persona, e ad una certa distanza poteva parere un vecchio
ritratto di qualche togato, scialbo per natura, per l'arte del pittore, e per
l'opera del tempo, appeso di traverso fuori al muro, per la buona intenzione di
ornare qualche solennità. Fermo che aveva sospettato chi doveva essere, arrivato
su la piazza lo riconobbe, e da prima, tornandogli a mente che egli era una
delle cagioni delle sue traversie, sentì rivivere un po' di stizza, e volle
passar di lungo. Ma tosto l'antico rispetto pel curato, quel desiderio di
sentire una voce umana e conosciuta così potente in quelle circostanze, la
speranza di risapere da lui qualche cosa che gl'importasse, vinsero nell'animo
di Fermo, che si arrestò, fece una riverenza, e dirizzando il volto alla
finestra, disse: «Oh signor curato, come sta ella in questi tempi?» Don Abbondio
aveva guatato costui che veniva, gli era sembrato di riconoscerlo: ma quando
sentì la voce che non gli lasciava più dubbio, «per amor del cielo!» disse, «voi
qui? Che venite a fare in queste parti? Dio vi guardi! Vi pare egli, con quella
poca bagattella di cattura...?»
«Oh via, signor curato», disse Fermo non senza dispetto: «mi vuol ella fare
anche la spia?»
«Parlo per vostro bene», disse Don Abbondio, «che nessuno ci sente. Chi volete
che ci senta? Non vedete che son tutti morti? Che venite a cercare fra queste
belle allegrie? Andate, tornate dove siete stato finora; non venite a porre in
imbroglio voi e me; perché quando si tratti di castigar voi, e di tormentare me
pover uomo vi sarà dei vivi ancora».
«Signor curato, mi saprebbe ella dar qualche nuova di Lucia?»
«Oh Dio benedetto! ancor di questi grilli avete in capo? Oh poveri noi! Che
serve che vengano i flagelli, se gli uomini non voglion far giudizio! E la
peste, figliuolo, la peste? Non sapete che c'è la peste?»
«Ella deve ricordarsi, signor curato», disse Fermo, con voce alquanto risentita,
«che Lucia ed io... non erano grilli...»
«Oh!» disse Don Abbondio, «figliuol caro, voi avete sempre avuto il timor di
Dio, spero che non sarete cangiato. Per questo vi parlo con libertà, da vero
padre, perché vi ho sempre voluto bene. So io quel che dico, questo non è paese
per voi: se vi dovesse accadere qualche disgrazia, (e già pur troppo non la
schivereste) che crepacuore per me! La cattura è terribile; v'è un fuoco contro
di voi! E poi la peste...»
«La peste l'ho avuta», disse Fermo: «son guarito, e non ho più paura».
«Vedete che avviso vi ha mandato il cielo; per farvi pensare al sodo... Anch'io
l'ho avuta, e son qui per miracolo».
«Ma di Lucia non mi sa ella dir nulla?»
«Figliuol caro, che volete ch'io vi dica? Non ne so nulla: è in Milano; cioè
v'era: di chi può dirsi ora, v'è? Sarà morta: muojono tutti».
«Ma noi siam pur vivi, e...»
«Per miracolo, figliuolo, per miracolo. E il frutto che ne dobbiam trarre, è di
cacciar tutte le bazzecole dalla testa. In Milano, figliuolo! chi vive in
Milano? questo è un purgatorio, ma quello è l'inferno. Non vi passasse mai pel
capo...»
«E Agnese, signor curato?»
«Agnese è qui: e per miracolo non ha contratta la peste finora; ma si guarda, si
guarda; ha giudizio, non vuol vedere nessuno; non le andate fra piedi, che le
fareste dispiacere».
«Sia lodato Dio; ma ella né mi vuole ajutare, né vuole che altri m'ajuti».
«Che dite figliuolo? io son tutto per voi, e parlo perché vi voglio bene; e
perciò vi torno a dire: non vi passasse mai pel capo... Dio guardi! In Milano!
Sapete come state! Una cattura di quella sorte! un impegno! e con tanti nemici
che avete! Dio liberi! e poi, so io quel che dico, potreste trovare... chi sa?
gente che vuol bene, ma... gente che si piglia impegni di proteggere, e poi...
Sostenere... cozzare... basta parlo con tutto il rispetto... ma Dio solo è da
per tutto... Si vuole, si comanda, si promette, si fa l'impegno... si scompiglia
la matassa, e si dà in mano al curato perché la riordini... e chi ne va col capo
rotto è il curato... Fate a modo mio, tornate dove siete stato finora». «Basta»,
disse Fermo: «non mi aspettava da lei più soccorso di quello che mi abbia avuto.
Io non intendo tutti questi suoi discorsi; ma poi che ella non ha altri consigli
da darmi, si contenti ch'io faccia a modo mio».
«No, Fermo, per amor del cielo, non mi fate un marrone: non mettete in imbroglio
me e voi. Abbiate compassione d'un pover uomo che ha bisogno di quiete; e
sarebbe giusto finalmente che la godesse. Quello che ho patito io, vedete, non
lo ha patito nessuno. Ne ho passate d'ogni sorte: spaventi, crepacuori, fatiche:
è venuta la carestia, e m'è toccato di veder persone morirmi di fame su gli
occhi. Ho dovuto fuggire di casa, e nessuno mi volle ajutare; ho trovato cuori
duri come selci; e i soldati m'hanno sperperato ogni cosa. E sono stato... e ho
dovuto... e basta... sono stato ricoverato da un degno signore... basta so io
quello che ho patito. E poi la peste! ho dovuto assistere agli appestati... e...
ne ho avute io delle cure, sa il cielo! ma l'ho presa anch'io, e son qui vittima
della mia carità: d'allora in poi non son più quello. Perpetua è morta, mi ha
abbandonato in questi guaj; e mi tocca servirmi da me povero vecchio e
malandato, come sono. Ecco che appena cominciava a star bene, e voi venite per
darmi nuovi travagli...»
«Signor curato», disse Fermo, «io le desidero ogni bene; e del travaglio ella ne
può bene aver dato a me, ma non io a lei, in fede mia. La spia ella non me la
vorrà fare; del resto io mi rimetto nelle mani di Dio. Attenda a guarir bene,
signor curato».
«Sentite, sentite», continuava Don Abbondio, ma Fermo aveva già fatta una
riverenza di risoluto congedo, e camminava verso la casetta di Lucia.
- Oh povero me! questo vi mancava! - continuò a borbottare fra sè Don Abbondio,
ritirandosi dalla finestra. - Povero me! Se costui va a Milano, se trova Lucia,
se tornano alle loro antiche pretese, ecco rinnovato l'imbroglio. Un cardinale
che dirà: «voglio che si faccia il matrimonio», un signore che dice: «non
voglio»: ed io tra l'incudine e il martello.
Basta... - disse poi soffiando dopo d'avere alquanto pensato -... muore tanta
gente... che dovessero rimanere al mondo tutti quelli che si divertono a mettere
le pulci nell'orecchio di me pover uomo!
Intanto Fermo arrivò alla casetta d'Agnese, la quale casetta, se il lettore se
ne ricorda, era fuori del villaggio, solitaria. Alla vista di quel luogo una
nuova tempesta sorse nel cuore di Fermo; diede egli un gran sospiro, e bussò.
«Chi è là?» gridò da dentro la voce d'Agnese: «state lontano; non bazzicate
intorno alla porta; verrò a parlarvi dalla finestra». «Sono io», rispose Fermo;
ma Agnese, non aspettando a basso la risposta aveva fatte in fretta le scale, e
apriva la finestra. «Son io; mi conoscete?» disse ancor Fermo, quando la vide.
«Oh Madonna santissima!» sclamò Agnese: «voi!» «Io», rispose Fermo; «sono il
benvenuto?»
«Oh figliuolo!» sclamò di nuovo Agnese, «quanto vi avrei desiderato se non
avessi avuto paura per voi! Ma ora che venite voi a fare?»
«A saper nuove di Lucia, e di voi», rispose Fermo. «A vedere se tutti si sono
scordati di me. Che n'è di Lucia?»
«Figliuolo, sono mesi che non ne ho notizia: prima di quel tempo ella stava bene
di salute; ma ora chi può sapere...?»
«Io andrò a vedere, io vi porterò nuova di vostra figlia», disse Fermo
risolutamente.
«Voi?» disse Agnese: «ma e... mi capite. Basta...»
«Volete aprirmi e parleremo più liberamente?»
«E la peste, figliuolo?»
«Grazie al cielo ella non ha ammazzato me, ed io ho ammazzato lei, e son sano e
salvo come mi vedete. Aprite con sicurezza».
«Scendo ad aprire», rispose Agnese; «oh con quanta consolazione v'avrei
riveduto. Ma ora, bisogna ch'io vi preghi di starmi lontano».
«Come vorrete», rispose Fermo.
«State ad aspettarmi nel mezzo della strada; quando aprirò, non vi affacciate
alla porta; lasciatemi rientrare, poi entrerete, e vi porrete in un angolo
lontano da me, e ci parleremo; le parole non hanno bisogno di toccarsi. Oh
quante cose ho da dirvi!»
«Ed io a voi», rispose Fermo.
Agnese calò in fretta le scale, giunta alla porta, avvisò ancora Fermo che
stesse discosto, aprì, rientrò fino in fondo alla stanza; Fermo entrò pure,
prese un trespolo, lo portò in un angolo, vi si pose a sedere, guardando
intorno, ricordandosi di tanti momenti passati in quel luogo, e sospirando;
Agnese andò a richiuder la porta, e venne a sedersi nell'angolo opposto. E
subito cominciò come una sfida d'inchieste.
«Come vi siete fidato di venir da queste parti?»
«Perché Lucia non mi ha mai risposto?»
«Come avete potuto fuggire?»
«E perché non venire dove io era in sicuro, piuttosto che mandarmi denari?»
«Chi v'ha strascinato in quei garbugli?»
«Quanto tempo Lucia è stata in quello spavento? e come è andata propriamente la
cosa?»
Fatte le prime interrogazioni più pressanti ognuno cominciò a rispondere
brevemente a quelle del compagno. Fermo finalmente pregò Agnese ch'ella
raccontasse per disteso tutta la sua storia, promettendo di soddisfarla egli poi
della propria. Così Fermo conobbe per la prima volta daddovero le triste vicende
di Lucia, e l'esito inaspettato. Tremò, fremè, impallidì cento volte a quel
racconto; ora diede dei pugni all'aria, ed ora giunse le mani in atto di
ringraziamento; maledisse la Signora, benedisse il Cardinale, diede maledizioni
e benedizioni al Conte del Sagrato, invocò ora la vendetta, ora il perdono del
cielo sopra Don Rodrigo. Ma un punto rimaneva tuttavia oscuro, né Agnese sapeva
dilucidarlo. Perché non è venuta con me? con me suo promesso? con me che doveva,
che poteva divenir suo marito? che ostacolo v'era più? non sarebbero mancati che
i denari; e il cielo gli aveva mandati. Agnese non seppe dire, se non ciò
ch'ella aveva pur pensato: che Lucia fosse rimasta tanto stordita e sgomentata
da quegli orribili accidenti, che non le rimanesse più forza da voler nulla, e
fosse disgustata d'ogni cosa.
«Oh! andrò io a saperlo da lei», disse Fermo, «voglio vederne l'acqua chiara.
Ella era mia; mi si era promessa; io non ho fatto niente per demeritarla; e se
non mi vuol più...» e qui avrebbe pianto se gli uomini non si vergognassero di
piangere, «se non mi vuol più; me lo ha a dire di sua propria bocca; e mi deve
dire il perché».
Agnese cercò di racconsolarlo, e lo chiese della sua storia, che Fermo le narrò
sinceramente. Questa storia fece molto piacere ad Agnese, e le rimise Fermo
nell'antico buon concetto. «Voleva ben dire io!» sclamava ella di tratto in
tratto. «Se sapeste come la raccontavano qui, in cento maniere l'una peggio
dell'altra. Ma voi non me l'avete mai fatta scrivere ben chiara».
«E voi, madonna», disse Fermo, «non mi avete mai data soddisfazione sopra quello
che io voleva sapere».
«Basta», disse Agnese, «lodato Dio che abbiam potuto parlarci una volta; valgon
più quattro parole sincere di due ignoranti che tutti gli scarabocchj di questi
sapienti. Ma voi come vi fidate di andare a Milano, dove vi hanno tanto cercato,
dove...?»
«Chi mi conoscerà?» rispose Fermo, «non m'hanno visto che un momento; e il
nome... ne piglierò un altro; non ci vuol gran lettera per questo; e poi chi
volete che pensi a me ora? Hanno da pensare alla peste. Sono tutti in
confusione. Muojono come le mosche, a quel che si dice... Ah! pur che viva
Lucia!»
«Dio lo voglia!» sclamò Agnese; «e lo vorrà, io spero. Quella poveretta
innocente ha tanto patito! Dio gli conterà tutto quel male, per salvarla ora.
Ah! Fermo, io ho buona speranza; andate pure; mi sento tutta riconfortata
dell'avervi veduto. Sento una voce che mi dice che i guaj sono alla fine; e che
passeremo ancora insieme dei buoni momenti».
Fermo chiese del Padre Cristoforo, e Agnese non le seppe dir altro se non
ch'egli era a Palermo che è un sito lontano, lontano, di là dal mare. Scontento,
e perché sperava da lui ajuto e consiglio, e perché desiderava di raccontare a
lui pure la storia genuina; e perché avrebbe riveduto volentieri quell'uomo pel
quale sentiva tanta venerazione e tanta riconoscenza. Disse però: «brav'uomo!
vero religioso! è meglio ch'egli sia fuori di questi guai e di questi pericoli».
Agnese offerse a Fermo l'ospitalità per quella notte, con molte prescrizioni
sanitarie però di lontananza, di cautela, di non toccar questo, di non
avvicinarsi a quell'altro luogo.
Fermo accettò l'ospitalità ben volentieri e promise tutti i riguardi che Agnese
desiderava. Era venuta l'ora della cena; e la massaja si diede ad ammanirla.
Pose al fuoco la pentola per cucinarvi la polenta: Fermo, da giovane ben
educato, voleva risparmiare la fatica alla donna, e fare egli il lavoro: ma
Agnese, levando la mano: «guardatevi bene dal toccar nulla», disse; «lasciate
fare a me». Fermo ubbidì; ed ella prese la farina, la gettò nell'acqua, la
rimenava, dicendo: «Eh! altre volte era Lucia! basta il cuor mi dice che la mia
poveretta verrà con me, e presto; e che staremo tutti in buona compagnia». Fermo
sospirava. Agnese versò la polenta, raccomandando sempre a Fermo di non si
muovere, di non toccare; poi andò a mugnere la vacca, tornò con una brocca di
latte, dicendo: «vedete: quella povera bestia da sei mesi è la mia unica
compagnia». Prese un bel pezzo di polenta, lo ripose sur un piattello, lo sporse
a Fermo, stando più lontana che poteva, e stringendosi con l'altra mano la gonna
d'intorno alla persona perché non istrisciasse agli abiti di Fermo; quindi allo
stesso modo gli sporse una scodella di latte. Nel tempo della cena si parlò dei
disegni di Fermo, Agnese gli diede istruzioni sul nome dei padroni di Lucia, gli
comunicò le notizie confuse ch'ella aveva sul luogo della loro dimora; e questi
discorsi gli tennero a veglia qualche ora dopo la cena. Finalmente Agnese indicò
all'ospite la stanza, dov'egli doveva coricarsi: era quella di Lucia: Fermo amò
meglio di andarsi a gettare sul picciolo fenile, adducendo motivi di precauzione
per la salute. Prima dell'alba erano entrambi in piedi. Agnese diede a Fermo due
pani, e due raviggiuoli, fattura delle sue mani, gli riempì di vino il
fiaschetto ch'egli aveva portato con sè, dicendo: «in questi tempi potreste
morir di fame, prima di trovare chi vi desse da mangiare». Il congedo fu quale
ognuno può immaginarselo, pieno di tenerezza, di accoramento, e di speranza.
Fermo partì, viaggiò tutto quel giorno, e avrebbe potuto la sera entrare in
Milano, ma pensò che avrebbe trovato più facilmente un ricovero al di fuori.
Ristette di fatti in una cascina deserta, a un miglio dalla città. Dormì su le
stoppie, e all'alba, levatosi, si avviò, e fece la sua seconda entrata in
Milano, che gli comparve in un aspetto più tristo e più strano d'assai che non
era stato la prima volta.