|
|||
Home | Galleria Manzoni | ||
Romanzo | |||
Immagini per Capitolo | |||
Manzoni il ruolo dell'eroe | Manzoni la donna e l'amore | Manzoni la poetica |
Fermo e Lucia
Tomo 3
Capitolo 1
Il Cardinale Federigo, secondo il suo costume in tutte le visite, stavasi in
quell'ora ritirato in una stanza, dove dopo aver recitate le ore mattutine,
impiegava quei momenti di ritaglio a studiare, aspettando che il popolo fosse
ragunato nella Chiesa, per uscir poi a celebrarvi gli uficj divini, e le altre
funzioni del suo ministero. Entrò con un passo concitato ed inquieto il
cappellano crocifero, e con una espressione di volto tra l'atterrito e il
misterioso, disse al Cardinale: «Una strana visita, Monsignore illustrissimo».
«Quale?» richiese il Cardinale con la sua solita placida compostezza. «Quel
famoso bandito, quell'uomo senza paura e che fa paura a tutti... il Conte del
Sagrato... è qui... qui fuori, e chiede con istanza d'essere ammesso».
«Egli!» rispose il Cardinale: «è il benvenuto, fatelo tosto entrare».
«Ma...» replicò il cappellano, «Vostra Signoria Illustrissima, lo debbe
conoscere per fama; è un uomo carico di scelleratezze...»
«E non è egli una buona ventura», disse il Cardinale, «che ad un tal uomo venga
voglia di presentarsi ad un vescovo?»
«È un uomo capace di qualunque cosa», replicò il cappellano.
«E anche di mutar vita», disse il Cardinale.
«Monsignore illustrissimo», insistette il cappellano «lo zelo fa dei nemici,
sono arrivate più volte fino al nostro orecchio le minacce di alcuni che si sono
vantati...»
«E che hanno fatto?» interruppe Federigo.
«Ma se costui, costui che tiene corrispondenza coi più determinati ribaldi,
costui che non si spaventa di nulla, venisse ora... fosse mandato, Dio sa da chi
per fare quello che gli altri...»
«Oh! che disciplina è questa», interruppe ancora sorridendo serenamente il
vecchio, «che un officiale raccomandi al suo generale di aver paura? Non sapete
voi che la paura, come le altre passioni, ad ogni volta che le si concede
qualche cosa, domanda qualche cosa di più? e che a questo modo, di cautela in
cautela, bisognerebbe ridursi a non far più nulla dei doveri d'un vescovo?»
«Ma questo è un caso straordinario», continuò il cappellano caparbio per
premura: «Vostra Signoria non può così esporre la sua vita. Costui è un
disperato, Monsignore illustrissimo; lo rimandi; troveremo qualche onesta
scusa...»
«Ch'io lo rimandi?» rispose con una certa maraviglia severa il Cardinale. «Per
farmene un rimprovero per tutta la vita, e renderne poi conto a Dio? Via via.
Già egli ha troppo aspettato. Fatelo entrar tosto, e lasciatemi solo con lui».
Il cappellano non ebbe più coraggio di replicare, e fatto un inchino partì per
obbedire, dicendo in cuor suo: - non c'è rimedio: tutti i santi sono ostinati -,
epiteto che nel senso in cui l'adoperiamo il più sovente significa uno che non
vuol fare a modo nostro.
Uscito nella stanza dov'era il Conte, qui pure solo in un canto, mentre tutti
gli altri presenti si stavano raggruppati in un altro, a guardarlo e a parlare
sommessamente, il cappellano gli si accostò, e gli disse che Monsignore lo
aspettava; facendo nello istesso tempo, in modo da non essere veduto dal Conte,
un cenno delle spalle e del volto agli altri, che voleva dire: - Quell'uomo
benedetto; accoglierebbe Satanasso in persona.
Il Conte allora prese tosto una cintura con la quale teneva appeso l'archibugio,
e facendolosi passare sul capo se lo tolse dalla spalla, si cavò dalla cintura
dei fianchi due pistole, si staccò uno spadone, e fatto un fascio di tutto, si
accostò ad uno dei preti che si trovavano nella stanza, gli consegnò quel fascio
dicendo: «sotto la vostra custodia». «Signor sì», disse il prete, e, non senza
impaccio, allargando ben bene le mani, e ponendo cura che nulla ne sfuggisse, lo
prese con delicatezza come avrebbe fatto d'un bambino da portarsi al Fonte.
Restava ancora un pugnale, di cui il manico d'avorio intarsiato d'oro sporgeva
tra il farsetto e la veste: e gli occhi erano rivolti sul Conte, per osservare
se egli compisse la buona opera di disarmarsi e desse anche questo al curato: ma
il Conte non n'ebbe pure l'immaginazione: togliersi il pugnale era un pensiero
troppo strano per lui: gli sarebbe sembrato di andar nudo.
Il cappellano aperse la portiera, ed introdusse il Conte; il Cardinale si alzò,
gli si fece incontro, lo accolse con un volto sereno, e accennò con gli occhi al
cappellano che partisse; ed egli partì. Il Conte s'inchinò bruscamente, e guardò
il Cardinale, abbassò gli occhi, tornò ad alzargli in quel venerabile aspetto.
Federigo era stato vezzoso fanciullo, giovane avvenente, bell'uomo; gli anni
avevano fatto sparire dal suo volto quel genere di bellezza che al suono di
questo nome si ricorda primo al pensiero; e già gran tempo prima ch'egli
toccasse la vecchiezza, le astinenze e lo studio, avevano tramutate ed offuscate
alquanto le forme di quel volto; ma le astinenze stesse e lo studio, l'abitudine
dei solenni e benevoli pensieri, il ritegno e la pace interna d'una lunga vita,
il sentimento continuo d'una speranza superiore a tutti i patimenti, avevano
sostituita nel volto di Federigo a quella antica bellezza, una per così dire
bellezza senile, la quale spiccava ancor più in quella semplicità sontuosa della
porpora che nuda di ornamenti ambiziosi tutto ravvolgeva il vecchio. Stava
questi aspettando che il Conte parlasse, onde pigliare dalle prime parole di lui
il tuono del discorso; giacché Federigo benché non sentisse quel genere di paura
che il suo buon cappellano aveva voluto ispirargli, pure sapeva molto bene che
bisbetico, ombroso e restio personaggio avesse dinanzi; e avendo presa di questa
venuta una speranza indeterminata di qualche bene, non avrebbe voluto dire né
far cosa che potesse guastare. Stava egli dunque tacito, ed invitava il Conte a
parlare con la serenità del volto, con un'aria di aspettazione amica, con quella
espressione di benevolenza che fa animo agli irresoluti, e sforza talvolta i
dispettosi a dire cose diverse da quelle che avevano pensate; ma il Conte stava
sopra di sè, perché era venuto ivi spinto piuttosto da una smania, da una
inquietudine curiosa, che dal sentimento distinto di cose ch'egli volesse dire
ed udire dal Cardinale. Dopo qualche momento però, ruppe egli il silenzio con
queste parole: «Monsignore illustrissimo... dico bene? In verità sono da tanto
tempo divezzato dai prelati che non so se io adoperi i titoli che si
convengono... che si usano».
«Voi non potete errate», rispose sorridendo gentilmente Federigo, «se mi
chiamate un uomo pronto a tutto fare, a tutto soffrire per esservi utile».
«Sì?» rispose il Conte, «davvero, Monsignore? Tale è il linguaggio comune... dei
preti principalmente, i quali dicono sempre che non vivono per altro che per
servire altrui. Ma per voi... tutti dicono che non è un semplice linguaggio di
cerimonia. Ebbene, se fossi venuto per accertarmene? per vedere se egli è vero
che voi siete così dolce, così paziente, così inalterabilmente umile? Se fossi
venuto, per soddisfare ad una mia curiosità?»
«No, no», replicò, sempre sorridendo ma con una seria espressione di affetto il
buon vescovo, «non è curiosità in voi di vedere quest'uomiciattolo che mi
procura la gioja inaspettata di vedervi: sento che una cagione più importante vi
conduce».
«Lo sentite, Monsignore? qual cagione di grazia? dicono tanti che voi sapete
discernere i pensieri degli uomini? discernetemi il mio, per... via mi fareste
piacere: mostratemi che vedete nel mio cuore più ch'io non vegga: parlate voi
per me, che forse, forse, potreste indovinare».
«E che?» disse il Cardinale come affettuosamente rimproverando: «Voi avete una
buona nuova da darmi, e me la fate tanto sospirare?»
«Una buona nuova! io! una buona nuova! ho l'inferno in cuore, e vi darò una
buona nuova! Ah! ah! voi non vedete qua dentro. Voi non sapete che io son venuto
qui strascinato senza sapere da chi, che aveva il bisogno di vedervi, che vorrei
parlarvi, e che in questo stesso momento io sento in me una rabbia, una vergogna
di essere dinanzi a voi... così, come una pinzochera... Oh ditemi un po'; quale
è questa buona nuova».
«Che Dio vi ha toccato il cuore, e vuol far di voi un altr'uomo»; rispose
tranquillamente il Cardinale.
«Dio? ci siamo», replicò il Conte. «Dio! quella parola che termina tutte le
quistioni. Dov'è questo Dio?»
«Voi me lo domandate», rispose Federigo, «voi? E chi l'ha più vicino di voi? Non
lo sentite in cuore, che vi tormenta, che vi opprime, che vi abbatte, che
v'inquieta, che non vi lascia stare; e vi dà nello stesso tempo una speranza
ch'Egli vi acquieterà, vi consolerà, solo che lo riconosciate, che lo
confessiate?»
«Certo! certo!» rispose dolorosamente il Conte, «ho qualche cosa che mi
tormenta, che mi divora! Ma Dio! Che volete che Dio faccia di me? Foss'anche
vero tutto quello che dicono, non ho altra consolazione che di pensare che
nemmeno il diavolo non mi vorrebbe».
Il Conte accompagnò queste parole con una faccia convulsa, e con gesti da
spiritato, ma Federigo con una calma solenne, che comandava il silenzio e
l'attenzione, replicò: «Che può far Dio di voi? Quello che d'altri non farebbe.
Ricevere da voi una gloria che altri non gli potrebbe dare. Fare di voi un gran
testimonio della sua forza... e della sua bontà. Poiché finalmente, che vi
accusino coloro ai quali siete oggetto di terrore, è cosa naturale; è il terrore
che parla, e si lamenta, è un giudizio facile, poiché è sopra altrui, fors'anche
in taluno sarà invidia; forse v'ha chi vi maledice, perché vorrebbe far terrore
anch'egli: ma quando voi accuserete voi stesso, quando il giudizio sarà una
confessione, allora Dio sarà glorificato. Questo può far Dio di voi; e
salvarvi».
«No: Dio non vuol salvarmi», replicò il Conte, con un dolore disperato.
«Non vuole?» disse il Cardinale. «Io che sono un uomo miserabile, mi struggo del
desiderio della vostra salute: voi non ne avete dubbio; sento per voi una carità
che mi divora; e Dio che me la ispira, quel Dio che ci ha redento, non sarà
grande abbastanza, per amarvi più ch'io non vi ami?»
La faccia del Conte fino allora stravolta dall'angoscia e dalla disperazione, si
ricompose, si atteggiò al dolore; e i suoi occhi che dall'infanzia non
conoscevan le lagrime, si gonfiarono, e il Conte pianse dirottamente.
«Dio grande e buono!» sclamò Federigo, alzando gli occhi e le mani al cielo:
«che ho mai fatto io servo inutile, pastore sonnolento, perché tu mi facessi
degno di assistere ad un sì giocondo prodigio?» Così dicendo, egli stese la mano
per prendere quella del Conte. «No», gridò questi, «no: lontano, lontano da me
voi: non lordate quella mano innocente e benefica. Non sapete quanto sangue è
stato lavato da quella che volete stringere?»
«Lasciate», disse Federigo, afferrandogli la mano con amorevole violenza,
«lasciate ch'io stringa con tenerezza - e con rispetto - questa mano che
riparerà tanti torti, che spargerà tante beneficenze, che solleverà tanti
poverelli, che si stenderà umile, disarmata, pacifica a tanti nemici».
«È troppo!» disse il Conte singhiozzando. «Lasciatemi, Monsignore... buon
Federigo: un popolo affollato vi aspetta... tanti innocenti, tante anime
buone... tanti venuti da lontano per vedervi, per udirvi; e voi vi trattenete...
con chi!»
«Lasciamo le novantanove pecorelle», rispose Federigo amorevolmente; «sono in
sicuro, sono sul monte: io voglio ora stare con quella che era smarrita. Quella
buona gente, sarà ora forse più contenta che se avesse tosto veduto il suo
vescovo. Chi sa che Dio il quale ha operato in voi il prodigio della
misericordia, non diffonda ora nei cuori loro una gioja di cui non conoscono
ancora la cagione? Son forse uniti a noi senza saperlo: forse lo Spirito pone
nei loro cuori un ardore indistinto di carità, una preghiera, ch'egli esaudisce
per voi, un rendimento di grazie, di cui voi siete l'oggetto non ancor
conosciuto».
Al fine di queste parole stese egli le braccia al collo del Conte, il quale dopo
aver tentato di sottrarsi, dopo aver resistito un momento, cedette come
strascinato da quell'impeto di carità, abbracciò egli pure il Cardinale, e
abbandonò il suo burbero volto su le spalle di lui. Le lagrime ardenti del
pentito cadevano sulla porpora immacolata di Federigo; e le mani incolpevoli di
questo cingevano quelle membra, premevano quelle vesti su cui da gran tempo non
avevano posato che le armi della violenza e del tradimento.
Sciolti da quell'abbraccio, il Cardinale disse con un affetto ansioso al Conte:
«parlate: parlate; apritemi il vostro cuore: ditemi i pensieri che più vi
tormentano; quello che hanno di più amaro si perderà passando su le vostre
labbra; il dolore che vi resterà sarà misto di giocondità, sarà una giocondità
esso medesimo: non vi lasceranno altra puntura che il desiderio di riparare al
già fatto. Dite: forse v'è qualche cosa a cui si può riparare ancora:...»
«Ah sì», interruppe il Conte; «v'è una cosa a cui si può riparare tosto: il
fatto è turpe, è atroce, ma non è compiuto. Lodato Dio, che non lo è. Per
farvelo conoscere è d'uopo ch'io appaja dinanzi a voi, per mia confessione,
quello ch'io sono: uno scellerato... e un vile birbone; ma non importa: quello
che importa, è di cessare una crudele iniquità». Federigo stava ansioso
attendendo, e il Conte narrò dell'infame contratto di Lucia, del rapimento,
dell'arrivo di essa al suo castello, delle sue suppliche, e dei primi pensieri
che a cagione di queste gli erano venuti. Il buon vescovo impallidì alla storia
dei patimenti e dei pericoli di quella poveretta; ma quando intese ch'ella si
trovava ancora al castello: «Ah!» disse «è salva, è intatta: togliamola tosto da
quell'angoscia: ah voi sapete ora che cosa sono le ore dell'angoscia!
abbreviamole a questa innocente. Voi me la date...?»
«Dio!» sclamò il Conte; «che uomo son io, se mi si richiede come un dono ciò
ch'io non ho in poter mio che per la più vile prepotenza! se mi si chiede per
misericordia di non essere più un infame!»
«Il male è fatto», rispose Federigo: «quello che è da farsi è il bene, e voi lo
potete; voi lo volete; Dio vi benedica. Dio vi ha benedetto. D'una iniquità, voi
potete ancor fare un atto di virtù, e di beneficenza. Sapete voi di che paese
sia questa poveretta?»
Il Conte glielo disse; Federigo allora scosse il suo campanello; alla chiamata
entrò con ansietà il cappellano, il quale in tutto quel tempo era stato come sui
triboli, e veduta la faccia tramutata, umile, commossa del Conte, e su quella
del Cardinale una commozione che pur traspariva da quella sua tranquilla
compostezza; restò colla bocca aperta, girando gli occhi dall'uno all'altro; ma
il Cardinale lo tolse tosto da quella contemplazione mezzo estatica e mezzo
stordita dicendogli: «Fra i parrochi qui radunati vi sarebbe mai quello di...?»
«V'è, Monsignore illustrissimo», rispose il cappellano.
«Lodato Dio!» disse il Cardinale: «chiamatelo, e con lui il curato di questa
chiesa».
Il cappellano uscì nell'altra stanza, dove i preti congregati aspettavano il suo
ritorno con la speranza di saper qualche cosa d'un colloquio che gli teneva
tutti sospesi. Tutti gli occhi furono rivolti sopra di lui: egli alzò le mani, e
movendole l'una contro l'altra con un gesto come involontario, tutto trafelato
come se avesse corso due miglia, disse: «Signori, signori: haec mutatio dexterae
Excelsi. Il signor curato della chiesa e il signor curato di... sono chiamati da
Monsignore».
Il curato di Chiuso era un uomo che avrebbe lasciato di sè una memoria illustre,
se la virtù sola bastasse a dare la gloria fra gli uomini. Egli era pio in tutti
i suoi pensieri, in tutte le sue parole, in tutte le sue opere: l'amore fervente
di Dio e degli uomini era il suo sentimento abituale: la sua cura continua di
fare il suo dovere, e la sua idea del dovere era: tutto il bene possibile:
credeva egli sempre adunque di rimanere indietro, ed era profondamente umile,
senza sapere di esserlo; come l'illibatezza, la carità operosa, lo zelo, la
sofferenza, erano virtù ch'egli possedeva in un grado raro, ma che egli si
studiava sempre di acquistare. Se ogni uomo fosse nella propria condizione quale
era egli nella sua, la bellezza del consorzio umano oltrepasserebbe le
immaginazioni degli utopisti più confidenti. I suoi parrocchiani, gli abitatori
del contorno lo ammiravano, lo celebravano; la sua morte fu per essi un
avvenimento solenne e doloroso; essi accorsero intorno al suo cadavere; pareva a
quei semplici che il mondo dovess'esser commosso, poiché un gran giusto ne era
partito. Ma dieci miglia lontano di là, il mondo non ne sapeva nulla, non lo sa,
non lo saprà mai: e in questo momento io sento un rammarico di non possedere
quella virtù che può tutto illustrare, di non poter dare uno splendore perpetuo
di fama a queste parole: Prete Serafino Morazzone Curato di Chiuso.
All'udirsi chiamare, egli si spiccò da un cantuccio dove stava pregando
tacitamente, e si mosse senz'altra premura che di obbedire, senz'altra curiosità
che di vedere se vi fosse per lui qualche opera utile e pia da intraprendere.
L'altro chiamato era quel nostro Don Abbondio, il quale per togliersi d'impiccio
era stato in gran parte cagione di tutto questo guazzabuglio: egli non poteva
sapere, né avrebbe mai pensato che questa chiamata avesse la menoma relazione
con quei tali promessi sposi, dei quali credeva di essere sbrigato per sempre.
Si avanzò anch'egli incerto e curioso, anche inquieto di dovere trovarsi con
quel famoso Conte: pure lo rassicurava la faccia ispirata del Cappellano, quelle
sue parole che annunziavano oscuramente cose grandi, e ciò che più stava a cuore
di Don Abbondio, cose quiete.
Ambedue i curati furono tosto introdotti nella stanza dove il Conte stava col
Cardinale. Don Abbondio s'inchinò umilmente ad entrambi, e guardava l'uno e
l'altro ma specialmente il Conte; e aspettava che si dicesse qualche cosa per
esser certo che non v'erano imbrogli. Il Cardinale, prese in disparte il curato
di Chiuso, e dettogli brevemente di che si trattava, gli espose la sua
intenzione di spedir tosto in lettiga una donna al castello a prender Lucia,
affinché questa alla prima nuova della liberazione si trovasse con una donna, il
che sarebbe stato per quella poveretta una consolazione e una sicurezza, non
meno che decenza per la cosa; e lo pregò di sceglier tosto fra le sue
parrocchiane la donna più atta a questo uficio per saviezza, e la più pronta per
carità ad assumerlo. «Ne corro in cerca, Monsignore illustrissimo, e Dio compirà
l'opera buona». Detto questo uscì; i radunati nell'altra stanza lo guardarono
curiosamente, ma nessuno lo fermò per interrogarlo, giacché si sapeva ch'egli
era così avaro delle parole inutili, come pronto a parlare senza rispetto quando
il dovere lo richiedesse.
Il Cardinale si volse allora a Don Abbondio, e con volto lieto gli disse: «Una
buona nuova per voi, Signor curato di... Una vostra pecorella che avrete pianta
come perduta, vive, è trovata; e voi avrete la consolazione di ricondurla al
vostro ovile, o per ora in quell'asilo di che Dio la provvederà».
«Monsignore illustrissimo, non so niente»; rispose Don Abbondio, il primo
pensiero del quale era sempre di scolparsi a buon conto, e di lavarsene le mani.
«Come!» disse Federigo, «non conoscete Lucia Mondella, vostra parrocchiana, che
era scomparsa...?»
«Monsignore sì», rispose tosto il curato, che non voleva passare per un pastore
spensierato.
«Or bene, rallegratevi», disse il cardinale, «che Dio ce la restituisce: e
questo signore» continuò (accennando il Conte) «è lo stromento di che Dio si
serve per questa opera buona. In altro momento voi mi informerete dei casi e
delle qualità di questa giovane».
- Ahi! ahi! - pensava fra sè Don Abbondio. - Bell'impiccio a contare la storia!
Questa donna è nata per la mia disperazione.
«Per ora», proseguì Federigo, «quello che preme è di riaverla e di riporla nelle
braccia di sua madre, e in casa sua, se potrà esservi sicura. Andrete voi dunque
con questo mio caro amico» (e così dicendo prese la mano del Conte il quale
lasciava dire e fare troppo contento che un tal uomo lo governasse e parlasse
per lui) «andrete al suo castello accompagnando una buona donna di questo paese
che ricondurrà quella giovane nella mia lettiga. Per far più presto, darò ordine
tosto che due delle mie mule sieno bardate per voi e per lui. Vedete», continuò
egli coll'accento di chi è compreso di ciò che dice, «vedete che in mezzo alle
tribolazioni, ai contrasti, agli affanni del nostro ministero, Dio ci prepara
talvolta consolazioni inaspettate, e servi inutili che noi siamo! pure ci
adopera in opere nelle quali il bene è visibile, ci vuole cooperatori della sua
provvidenza misericordiosa».
Le parole del Cardinale potevano esser belle, ma in questo caso erano veramente
perdute. Don Abbondio all'udire un tal ordine sentì tutt'altro che consolazione;
si trattava di ricondurre in trionfo, alla presenza dell'arcivescovo quella
Lucia nelle cui avventure egli si trovava intrigato un po' sporcamente, nella
cui storia era parte, e in un modo e per motivi di cui l'ultima persona a cui
avrebbe voluto render ragione era certamente quel Federigo Borromeo. Ma questo
non era ancora il peggio: si trattava di far viaggio con quel terribil Conte, di
entrare nel suo castello senza saper chiaramente a che fare: tutto ciò che il
curato aveva inteso raccontare in tanti anni della audacia, della crudeltà,
della bizzarria, della iracondia di costui si affacciava allora alla sua
immaginazione: e metteva in moto tutta quella sua naturale paura. Ma questa
timidezza stessa poi non gli permetteva di rifiutare, di fare ostacolo ad un
ordine così preciso dell'arcivescovo, in faccia a colui che ne sarebbe offeso.
Vedendo poi quello pigliare amorevolmente la mano del terribil Conte, Don
Abbondio stava guatando, come un ospite pauroso vede un padrone di casa
accarezzare sicuramente un suo cagnaccio tarchiato, ispido, arrovellato, e
famoso per morsi e spaventi dati a cento persone; sente il padrone dire che quel
cane è bonaccio di natura, la miglior bestia del mondo; guarda il padrone e non
osa contraddire per non offenderlo, e per non esser tenuto un dappoco; guarda il
cane e non gli si avvicina perché teme che al menomo atto quel bonaccio non
digrigni i denti e non si avventi alla mano che vorrebbe palparlo; non fa moto
per allontanarsi perché teme di porgli addosso la furia d'inseguire; e non
potendo fare altro, manda giù il cane, il padrone, e la sua sorte che l'ha
portato in quel gagno, in quella compagnia: tali erano i sensi e gli atti del
nostro povero Don Abbondio. Pure componendosi al meglio che potè, fece egli un
inchino al Cardinale per accennare che obbedirebbe, e un altro inchino al Conte
accompagnato con un sorriso che voleva dire: - sono nelle vostre mani: abbiate
misericordia: parcere subjectis -. Ma il Conte tutto assorto nei suoi pensieri,
sbalordito egli stesso di tanta mutazione, intento a raccogliersi, a
riconoscersi, per così dire, agitato dai rimorsi, dal pentimento, da una certa
gioja tumultuosa, corrispose appena macchinalmente con una piegatura di capo, e
con un aspetto sul quale si confondevano tutti questi sentimenti in una
espressione oscura e misteriosa, che lasciò Don Abbondio ancor più sopra
pensiero di prima.
Il Cardinale, si trasse in un angolo della stanza col Conte che teneva per mano,
e gli disse: «Vi par egli, amico, che la cosa vada bene così? Siete contento di
queste disposizioni?»
«E che?» rispose il Conte commosso e umiliato, «dopo aver tanto tempo fatto il
male a modo mio, dovrei ora dubitare di lasciarmi governare nel ripararlo? e da
Federigo Borromeo?»
«Da Dio tutti e due», rispose questi, «perché siamo due poveretti. Andate»,
continuò poi con tuono affettuoso e solenne; «andate, figliuol mio diletto a
toglier di pene una creatura innocente, a gustare i primi frutti della
misericordia; io v'aspetto, voi tornerete tosto non è vero? noi passeremo
insieme tutte le ore d'ozio che mi saranno concesse in questa giornata?»
«Se io tornerò?» rispose il Conte. «Ah! se voi mi rifiutaste, io mi rimarrei
ostinato alla vostra porta come il mendico. Ho bisogno di voi! Ho cose che non
posso più tener chiuse in cuore, e che non posso dire ad altri che a voi. Ho
bisogno di sentir quelle parole che voi solo potete dirmi».
Federigo in risposta gli strinse la mano, si avvicinò ad un tavolino, scosse
un'altra volta il campanello; e tosto entrò un ajutante di camera; cui egli
impose che facesse tosto apprestar la lettiga la quale stesse agli ordini del
curato di Chiuso, e facesse bardare due mule, che dovevano servire di
cavalcatura ai due presenti. Dato l'ordine, riprese la mano del Conte e s'avviò
verso la porta della stanza; ma veduto passando il nostro Don Abbondio che stava
tutto pensieroso e come ingrugnato, pensò il buon cardinale che quegli forse
avesse avuto per male di vedere quel facinoroso così accarezzato e distinto, e
sè negletto in un canto. Si fermò tosto, e rivolto al curato con un sorriso
amorevole, e quasi di scusa, e con quel tratto cortese tanto raro a quei tempi,
in cui i modi comuni erano trascuratezza superba, o cortigianeria iperbolica,
gli disse: «Figliuolo, voi siete sempre con me nella casa del nostro Padre
comune; ma questi, questi... perierat et inventus est». Don Abbondio rispose con
un sorriso forzato al quale voleva far dire: - certo è una gran consolazione -:
ma in cuor suo tra sè e sè, rispose con una frase proverbiale lombarda: - meglio
perderlo che trovarlo -.
Il Cardinale si avviò ancora verso la portiera; quando fu presso l'ajutante di
camera spalancò le imposte, e Federigo, traendo per mano il Conte che lo seguiva
con gli occhi bassi e con la fronte umiliata, uscì nell'altra stanza dove il
clero che lo accompagnava nella visita, e quello raccolto dalle parrocchie del
contorno, stava ragunato aspettando. Tutti gli sguardi furono levati in un punto
ai volti di quella coppia mirabile, sui quali era dipinta una commozione
diversa, ma egualmente profonda: una gioja, una tenerezza, una estasi tranquilla
sui tratti venerabili di Federigo, e su quelli del Conte i vestigi d'una grande
vittoria e d'un grande combattimento, il contrasto tra le feroci passioni che
partivano e le nuove virtù, un abbattimento che mostrava tuttavia il vigore di
quella selvaggia e risentita natura. A più d'uno dei riguardanti sovvenne allora
di quelle parole d'Isaia: Il lupo e l'agnello pascoleranno insieme; il leone
participerà alla profenda del bue. Il Cardinale s'arrestò un momento poco al di
là della soglia, abbracciò ancora il Conte, il quale non ebbe tempo di
ritirarsi, e gli disse: «v'aspetto»; salutò della mano Don Abbondio, e mostrò di
volersi avviare alla sacristia: parte del clero lo precedette, altri lo
circondarono, alcuni gli tennero dietro, e la comitiva partì, giunse alla
sacristia, dove il cardinale si vestì degli abiti solenni, ed uscì nella chiesa
affollata a celebrare gli uficj divini. Quando fu cantato il Vangelo, il
Cardinale parlò dall'altare al popolo, come era suo costume. In quel tempo in
cui la carestia era l'idea la più famigliare, e l'affare il più importante, si
diffuse egli con eloquenza cordiale a parlare di pazienza e di liberalità; a far
sentire ai poverelli il bene che potevano cavare dai patimenti irrimediabili,
agli agiati il bene che potevano farsi col rimediare a quei patimenti che
avessero potuto: e le parole dell'uomo di Dio, produssero ivi come da per tutto
il doppio effetto ch'egli cercava; perché quelle parole erano rese ancor più
potenti dal soccorso e dall'esempio. Le largizioni abituali di Federigo le quali
non avevano altro limite che il suo avere, gli avevano data una fama già antica
di carità singolare: ma le angustie di quel tempo avevano resa la sua carità
ancor più attiva, e più ingegnosa; e da per tutto si parlava del gran numero di
poveri da lui nudriti quotidianamente nella città, e dei mezzi da lui trovati
per soccorrerli, per non perderne uno se fosse stato possibile. Peregrinando poi
nella diocesi per visitarla, egli non avrebbe avuto il cuore di vedere delle
miserie senza sollevarle, di esortare altrui alla pazienza, alla carità, con le
mani chiuse: quindi i poverelli dei paesi dov'egli arrivava erano certi di
trovare un soccorso, di non patire per quel tempo che avrebbero avuto fra loro
il pastore. Nè questo solo esempio si contentava egli di dare: sobrio in ogni
tempo, in quelli della carestia egli si misurava ancor più scarsamente il cibo:
voleva detrarre a sè tutto ciò che poteva sollevare altrui; non gli pareva di
compatire davvero ai suoi poveri se non pativa con essi; voleva mostrare col
fatto che i disagi del vitto erano pur tollerabili, che si poteva anche in mezzo
a quelli benedire il Signore, che si poteva non solo sostenerli con
rassegnazione, ma eleggerli volonterosamente. I quali sensi sono espressi in
quelle sue belle parole: Sarebbe cosa molto disdicevole vedere grasso il pastore
e macilenti le pecore. Ma nel discorso, che Federigo tenne in quel giorno
uscivano di quando a quando come dall'abbondanza del suo cuore parole più
magnifiche, più tenere sulla misericordia, sulla conversione, sulla vita futura,
le quali erano intese da quelli che lo avevano veduto col Conte, e in parte
anche dal popolo, nel quale s'era sparsa confusamente la notizia della gran
mutazione: e quelli che erano soliti di udirlo ebbero a dire che in quel giorno
v'era nel suo dire qualche cosa d'ispirato e di celeste oltre l'ordinario.
Terminato il discorso, compiuto il Sagrificio, attese egli alle altre funzioni
del suo ministero per lunghissima ora, con quell'ardore suo solito, con quella
intensità volonterosa e continua, che non lasciava nemmeno da sospettare che vi
fosse nelle sue azioni uno sforzo da lodare, un tedio vinto, una tolleranza
virtuosa della fatica.
Intanto il Conte e il curato erano rimasti soli nella stanza: e la coppia era in
un altro senso non meno mirabile di quella di prima.
Don Abbondio nojato del presente e inquieto dell'avvenire, ruminava fra sè che
cosa potesse dire a colui, per assaggiarlo, per conoscere l'umore della bestia,
giacché di voglia o di forza, doveva trovarsi con quella, e accompagnarla nella
sua caverna: ma il pover uomo non sapeva raccappezzare un pensiero, una frase
che stesse bene. - Potrei, - andava masticando fra sè, - potrei dire: mi
rallegro... buono! se mi domanda di che, come posso rispondere? mi rallegro vuol
dire che finora non c'era da rallegrarsi, vuol dire che egli era un gran
birbone. Costui è un matto furioso. E se la piglia per traverso? È meglio
parlare di cose estranee. - E appena avuta questa ispirazione, Don Abbondio
stava per dire: la giornata è un po' rigida; ma non è da stupirsene; siamo tra
le montagne e ai ventidue di novembre. Ma si pentì tosto anche di questa
risoluzione: perché diceva egli fra sè: - non vedi come è accipigliato,
meditabondo, turbato? Se gli fo motto di simili corbellerie, mi può rispondere
in furia, e togliermi il coraggio di andare... andare! bisogna andare. Oh che
faccenda! oh che impiccio! Oh quando potrò contarla a Perpetua, e dire: è andata
bene!
Così si angariava il pover uomo, cercando nella sua mente qualche materia di
discorso, e rigettando questa perché troppo ardita, quella perché troppo
volgare; come un povero scrittore che abbia a fare con un pubblico difficile. Se
il Conte avesse potuto sospettare che la mente di Don Abbondio era ad una simile
tortura, gli avrebbe tosto cercate le parole più atte a dare sicurezza anche ai
pusillanimi; avrebbe fatto in modo d'infondere ogni coraggio a Don Abbondio:
poiché il timore ch'egli ispirava sarebbe stato per lui in quel momento un
rimprovero doloroso, un ricordo di tutto ciò che v'era stato in lui di feroce e
d'ingiusto, di ciò ch'egli allora detestava, e voleva riparare. Ma per disgrazia
di Don Abbondio, era il Conte talmente occupato dei suoi pensieri, talmente
distratto da tutto ciò che non era, egli, il cardinale, e Lucia, che non si
avvedeva per nulla della tempesta che bolliva nell'animo del suo compagno, e a
dir vero non si ricordava quasi ch'egli fosse presente.
Giunse alla fine l'ajutante di camera, a dire che tutto erA in pronto. Don
Abbondio guardò allora al Conte, il quale alla prima parola intesa s'avviò;
s'accorse allora di Don Abbondio, e lo riverì, come si fa a persona che
sopraggiunga; e quindi trovandosi già presso alla porta continuò il suo cammino
seguendo l'ajutante di camera. Don Abbondio che aspettava questo momento per
vedere se il Conte gli usasse un atto di cerimonia anzi di civiltà, e pigliarne
buon augurio, fu contristato della poca buona creanza del Conte; e gli tenne
dietro con l'animo sempre più sconsolato. Ma il Conte, come abbiam detto, era
troppo sopra pensiero per ricordarsi del cerimoniale.
Scesi nel cortiletto della casa parrocchiale, trovarono la lettiga, con entro la
donna istrutta dal buon curato; e presso alla lettiga le due mule tenute per la
briglia da due palafrenieri. Salirono entrambi in silenzio; i lettighieri
uscirono per porsi sulla via che conduceva al castello, e i due cavalieri su le
mule sempre guidate a mano dai due palafrenieri, la cui compagnia fu molto
gradita a Don Abbondio, seguirono posatamente la lettiga.