|
|||
Home | Galleria Manzoni | ||
Romanzo | |||
Immagini per Capitolo | |||
Manzoni il ruolo dell'eroe | Manzoni la donna e l'amore | Manzoni la poetica |
Fermo e Lucia
Tomo 2
CAPITOLO VIII
Il mattino vegnente, senza por tempo in mezzo, Don Rodrigo a cavallo, in abito
da caccia, col fedel Griso che camminava a fianco del palafreno, e con una
quadriglia di bravi, si mosse verso il castello del Conte, come altre volte
Giunone verso la caverna di Eolo; se non che la Dea pagava in Ninfe l'opera
buona del re dei venti, e Don Rodrigo sapeva bene che avrebbe dovuto recarla a
Doppie. La via era di cinque miglia all'incirca; e Don Rodrigo la faceva
lentamente, e per dare agio alla scorta pedestre di seguirlo; e perché il
cammino quasi tutto montuoso e disuguale e sassoso anche dov'era piano obbligava
il ronzino ad andare di passo, e a cercare il luogo dove posare la zampa con
sicurezza. I villani che si abbattevano su quella via, al vedere spuntare il
convoglio, si ritiravano dall'un canto verso il muro, per dare a Don Rodrigo il
comodo d'un libero passaggio; e quando erano giunti al medesimo punto della
strada, si ristringevano ancor più al muro, con aria quasi di chiedere scusa a
Don Rodrigo d'essersi trovati sul suo cammino. Don Rodrigo che già cominciava a
godere nella sua mente un'anticipazione della potenza che gli avrebbe data
l'alleanza che andava a contrarre, gli guarda con un volto fosco e sprezzante,
come se dicesse: - vi siete rallegrati troppo presto a mie spese; lo so; ma
vedrete chi sono -. Giunto dinanzi al convento che si trovava su la sua strada,
Don Rodrigo rallentò ancor più il passo, e si rivolse tutto a sinistra,
guardando fieramente se mai il Padre Cristoforo girasse fuori del nido: ma non
v'era nessuno: la porta della chiesa era aperta, e si sentivano i frati cantare
l'uficio in coro. In mezzo alla sua ira Don Rodrigo si risovvenne delle promesse
del Conte Attilio, e dei disegni che questi gli aveva comunicati sul modo di
liberarlo da quei frate: pensò che in quel momento forse la trappola era già
tesa; e passando dalla collera alla compiacenza, fece un sogghigno accompagnato
da un «ah! ah!» il cui senso non fu chiaramente compreso che dal fidato Griso;
il quale per mostrare la sua sagacità, e per far vedere ai compagni ch'egli era
molto internato nei segreti del padrone, si volse a questo pur sogghignando, e
facendo col volto un cenno che voleva dire: - a quest'ora il frate sarà servito
-.
Pochi passi dopo il convento giunse la brigata ad uno di quei tanti torrenti che
si gettano nel lago, dai monti che lo ricingono. Questo si chiamava e si chiama
tuttavia il Bione, nome che non si troverà in alcun dizionario geografico; e a
dir vero colui che lo porta non merita per nessun verso di esser memorato.
Scappa fuori da un monte che è quasi poggiato nel lago, e per un brevissimo e
larghissimo letto manda per lo più qualche filo d'acqua, e dopo le grandi
piogge, e allo scioglimento delle nevi, mena un largo fiume d'acqua che in un
momento si perde, e un flagello di ciottoloni, che rimangono. In quel momento
non vi scorrevano che due o tre rigagnoli sparsi in un deserto di sassi: noi
avremmo voluto che la nostra storia registrasse a questo passaggio qualche
incontro, qualche avvenimento inaspettato, per poterne illustrare quel torrente,
e togliere il suo nome dalla oscurità, ma la storia non ne registra: e noi
solleciti della verità più che d'ogni altra cosa non possiamo dire altro se non
che il cavallo di Don Rodrigo attraversò il letto in retta linea, tenuto pel
freno dal Griso il quale dovette porre i piedi nel guazzo, scontando così
com'era giusto un poco l'onore di star più vicino al signore; mentre gli altri
bravi passarono un po' più in giù sur un ponticello stretto a piedi asciutti.
Varcato il Bione, andarono per un miglio circa sulla via pubblica che conduce al
luogo dove allora era il confine dello stato veneto; e quindi presero un
viottolo ripido a sinistra che conduceva al castello del Conte. Appiedi della
ultima salita che dava al castello v'era una rozza e picciola taverna; e sulla
porta della taverna un impiccatello di forse dodici anni, il quale al veder
gente armata entrò tosto a darne avviso; ed ecco uscirne tre scheranacci
nerboruti ed arcigni i quali deposte sul tavolo le carte sudice e ravvolte come
tegole con le quali stavano giucando; stettero a guardare con sospetto chi
veniva. Don Rodrigo aveva già tirata la briglia del suo ronzino per rivolgerlo
sulla salita, quando uno dei tre, facendogli cenno di ristare gli chiese molto
famigliarmente: «dove si va signor mio, con questa bella compagnia?» In altro
luogo ed in altra occasione Don Rodrigo che aveva la superiorità del numero, e
che non era avvezzo a sentirsi così interrogare da paltonieri, avrebbe risposto
chi sa come; ma egli sapeva di essere negli stati del Conte, e s'avvedeva che
parlava con dipendenti da quello, onde fingendo di non trovare nulla di strano
in quel modo, rispose umanamente: «Vado ad inchinare il signor Conte».
«E chi è Vossignoria?» replicò l'altro con tuono più amichevole ma non meno
risoluto.
«Sono il signor Don Rodrigo...»
«Bene; ma sappia che su per quell'erta non camminano altri armati che quelli del
signor Conte; e s'ella vuole riverirlo, potrà venir solo a fare una passeggiata
con me».
Don Rodrigo intese che bisognava anche scendere da cavallo, e ricordandosi di
quel proverbio: si Romae fueris, romano vivito more, non si fece pregare, e
disse: «avrò molto piacere di far questi pochi passi a piede: e voi intanto»,
disse rivolto alla sua scorta, «starete qui aspettandomi a refiziarvi, e a
godere della compagnia di questa brava gente». Mentre quivi si parlamentava,
scendevano per l'erta a varie distanze uomini del Conte che dall'altura avevan
veduti armati a fermarsi; ma colui che s'era offerto di accompagnare Don
Rodrigo, accennò loro che erano amici, e quegli ritornarono. Don Rodrigo sceso,
e date le briglie in mano al Griso cominciò a salire con la sua guida; la quale
non volendo forse avere offeso un uomo che poteva esser più amico del Conte che
non si sapesse, fece una qualche scusa a Don Rodrigo di averlo fatto scendere.
«Se il Signor Conte», disse colui, «fosse stato avvertito della sua visita,
avrebbe dato ordine perch'ella fosse accolta con le debite cerimonie; perché
ella deve sapere quanto il mio padrone sia cortese coi gentiluomini che sanno il
vivere del mondo; ma Vossignoria non è aspettata, e noi abbiamo dovuto fare il
nostro dovere che è di non lasciar passare a cavallo che gli amici vecchi del
signor Conte».
«Certo, certo», rispose Don Rodrigo: «io sono buon servitore del signor Conte, e
non pretendo che egli abbia a far complimenti con me».
- Questi è un signore davvero, - pensava tra sè continuando la sua salita Don
Rodrigo. - Vedete un po', come sa farsi rispettare, ed esser padrone in casa
sua. S'io volessi fare una legge simile, non so se vi potrei riuscire: ma è poi
anche vero che fa una vita da romito. A voler godere un po' il mondo non bisogna
star tanto in sulle sue, né metter tanta carne a fuoco. - Così Don Rodrigo si
racconsolava della sua inferiorità; e nel resto del cammino andava rimasticando
i discorsi ch'egli aveva preparati pel Conte. Giunti al castello, la guida
v'entrò con Don Rodrigo, e lo fece aspettare in una sala, dove stavano sempre
servi armati, pronti agli ordini del Conte. Dopo pochi momenti, la guida tornò
invitando Don Rodrigo ad entrare dal padrone; e di sala in sala sempre
incontrando scherani, lo condusse a quella dove stava il Conte del Sagrato.
Don Rodrigo s'inchinò profondamente con quell'aria equivoca che può egualmente
parere bassezza o affettazione, e il Conte che in mezzo a tanti affari non aveva
potuto conservare le abitudini cerimoniose di quel tempo, gli corrispose con una
leggiera e rapida inclinazione del capo; e gli fece cenno di sedersi sur una
seggiola la quale era posta in luogo che dall'altra stanza si potesse scorgere
ogni moto di colui che vi era seduto. Dopo molte cerimonie, alle quali il Conte
badò poco, Don Rodrigo sedette; e il Conte pure a qualche distanza.
Era il Conte del Sagrato un uomo di cinquant'anni, alto, gagliardo, calvo, con
una faccia adusta e rugosa. Si sforzava fino ad un certo segno d'esser garbato,
ma da quegli sforzi stessi traspariva una rusticità feroce e indisciplinata.
«Dovrei scusarmi», cominciò Don Rodrigo, «di venir così a dare infado a
Vossignoria Illustrissima».
«Lasci queste cerimoniacce spagnuole, e mi dica in che posso servirla».
«Non so se il Signor Conte si ricordi della mia persona, ma io ho presente di
essere stato qualche volta fortunato...»
«Mi ricordo benissimo, e la prego di venire al fatto».
«A dir vero», riprese Don Rodrigo «io mi trovo impegnato in un affare d'onore,
in un puntiglio, e sapendo quanto valga un parere di un uomo tanto esperimentato
quanto illustre, come è il Signor Conte, mi sono fatto animo a venir a chiederle
consiglio, e per dir tutto anche a domandare il suo amparo».
«Al diavolo anche l'amparo», rispose con impazienza il Conte. «Tenga queste
parolacce per adoprarle in Milano con quegli spadaccini imbalsamati di zibetto,
e con quei parrucconi impostori che non sapendo essere padroni in casa loro, si
protestano servitore d'uno spagnuolo infingardo». E qui avvedendosi che Don
Rodrigo faceva un volto serio, tra l'offeso e lo spaventato, si raddolcì e
continuò: «intendiamoci fra noi da buoni patriotti, senza spagnolerie. Mi dica
schiettamente in che posso servirla».
Don Rodrigo si fece da capo e raccontò a suo modo tutta la storia, e finì col
dire che il suo onore era impegnato a fare stare quel villanzone e quel frate, e
ch'egli voleva aver nelle mani Lucia; che se il Signor Conte avesse voluto
assumere questo impegno, egli non dubitava più dell'evento. «Non intendo però»,
continuò titubando, «che oltre il disturbo, il Signor Conte debba assoggettarsi
a spese per favorirmi... è troppo giusto... e la prego di specificare...»
«Patti chiari», rispose senza titubare il Conte, e proseguì mormorando fra le
labbra a guisa di chi leva un conto a memoria: «Venti miglia... un borgo...
presso a Milano... un monastero... la Signora che spalleggia... due cappuccini
di mezzo... signor mio, questa donna vale dugento doppie».
A queste parole succedette un istante di silenzio, rimanendosi l'uno e l'altro a
parlare fra sè. Il Conte diceva nella sua mente: - l'avresti avuta per
centocinquanta se non parlavi d'infado e d'amparo -; e Don Rodrigo intanto
faceva egli pure mentalmente i suoi conti su le dugento doppie. - Diavolo!
questo capriccio mi vuol costare! Che Ebreo! Vediamo... le ho: ma ho promesso al
mercante... via lo farò tacere. Eh! ma con costui non si scherza: se prometto,
bisognerà pagare. E pagherò:... frate indiavolato, te le farò tornare in gola...
Lucia la voglio... Si è parlato troppo... non son chi sono... - Fatta così la
risoluzione, si rivolse al Conte e disse: «Dugento doppie, signor Conte,
l'accordo è fatto».
«Cinque e cinque, dieci», rispose il conte. E questa, se mai per caso la nostra
storia capitasse alle mani di un lettore ignaro del linguaggio milanese, è una
formola comune, che accennando il numero delle dita di due mani congiunte,
significa l'impalmarsi per conchiudere un accordo. E nell'atto di proferire la
formola, il Conte stese la mano, e Don Rodrigo la strinse.
«Le darò», disse Don Rodrigo, «uno dei miei uomini, che conosce benissimo la
persona, e starà agli ordini di Vossignoria...»
«Non fa bisogno», rispose il Conte del Sagrato: «mi basta il nome», e qui cavò
una vacchetta sulla quale sa il cielo che memorie erano registrate, e fattosi
dire un'altra volta il nome e il cognome della nostra poveretta, lo scrisse, e
notò pure il monastero.
«Ma non vorrei che nascessero abbagli».
«So quel che posso promettere», rispose il Conte, il quale coglieva ogni destro
di dare una idea inaspettata del suo potere e della certezza dei suoi mezzi.
«Certo», replicò Don Rodrigo, «pel Signor Conte non v'è cosa impossibile».
«Ad un mio avviso, ella mandi persone fidate con le dugento doppie, e la persona
sarà consegnata».
«Così farò; e mi raccomando... vede bene... non vorrei che... il Signor Conte
darà ordini precisi, e impiegherà persone di giudizio».
«Al corpo di mille diavoli! Ella non sa dunque come io son servito: tutti i miei
uomini sono ben persuasi che colui il quale in una simile circostanza pigliasse
la più picciola libertà, sarebbe punito con le mie mani».
«Non ne dubito», rispose Don Rodrigo.
«Segreto, e fedeltà ai patti!» disse il Conte.
«Son uomo d'onore», rispose Don Rodrigo, e si accomiatò. Uscì del castello,
scese alla taverna, trovò la sua scorta, pagò largamente lo scotto, e si avviò
verso casa.
Non aveva egli ancora oltrepassata la soglia del castello del Conte, che questi
aveva già dato principio all'impresa, prendendo la penna, e scrivendo una
lettera a quell'Egidio di Monza, che il lettore conosce, per invitarlo a venire
al Castello per un negozio di somma premura.
È d'uopo sapere che il Conte era uno di quei vecchi amici del padre di Egidio
coi quali questi aveva mantenuta corrispondenza; anzi era di tutti il più
intrinseco e il più riverito. Il giovane Egidio appena rimasto solo aveva
implorata l'assistenza del Conte per adempire la vendetta del padre, e il Conte
che nel giovanetto aveva già intravedute disposizioni non ordinarie, e che aveva
pensato di farne uno degli agenti che teneva in varie parti del paese, lo aveva
in quella occasione soccorso di denari e d'uomini, e sempre in seguito gli si
era mostrato pronto ad ajutarlo dove fosse stato di mestieri.
Si formò quindi fra loro l'intelligenza di darsi mano a vicenda in ogni
occorrenza; nel che Egidio faceva le sue parti con molto zelo, e con una certa
sommessione verso il Conte, per la sua età, per la sua fama, e per gli obblighi
che Egidio gli aveva, e perché in ogni frangente contava d'avere in lui un
difensore invincibile. Per ciò il Conte, quando Don Rodrigo gli parlò di Monza,
corse tosto col pensiero ad Egidio, e conoscendo per esperienza la devozione, e
risolutezza di lui, sapendo che la sua casa era contigua al monastero, fece
ragione che la impresa era come compiuta, e promise a Don Rodrigo con quella
asseveranza che abbiamo veduta, e che gli diede una maraviglia non affatto
sgombra di diffidenza.
Il messo partì; e il giorno susseguente Egidio si mosse di buon mattino, e verso
il mezzogiorno salì in trionfo fino al castello del Conte con due cavalieri, e
con quattro pedoni che l'accompagnavano, distinzione riserbata a quegli che
erano non solo amici, ma alleati e la gente dei quali era impiegata al bisogno,
ad eseguire i disegni del Conte. In fatti gli uomini di Egidio e quelli del
Conte s'erano trovati insieme in più d'una impresa, ed erano per lo più antiche
conoscenze, e avvezzi in ogni caso a far conto su uno scambievole ajuto. Quindi
a misura che Egidio avvicinandosi al castello, incontrava di quei bravi che vi
soggiornavano, questi dopo d'aver umilmente inchinato l'amico del padrone,
facevano festa pur camminando, al suo corteggio, ed era una ripetuta stretta di
mani, e un dare e rendere di saluti a cui si appiccavano i più bisbetici e
scomunicati nomi del mondo. «Benvenuto il Tanabuso!» «Bentrovato il Montanaruolo!»
«Oh addio, Strozzato!» «Buon giorno Biondino bello!» «Bravo, Nibbione, mi
consolo di vederti bene in gamba!» «Eh! Spettinato, grazie al cielo, in gamba,
sano e salvo agli statuti di Milano, fin che viene la mia ora!» «Bravo un'altra
volta! Ehi! e quel tale che ti faceva l'amore dietro tutte le siepi?» «Mandato a
dormire senza cena», rispose il Nibbione, stendendo il braccio sinistro e
appoggiando orizzontalmente la mano destra alla guancia. «Bene», rispose lo
Spettinato: «così va fatto: meglio pagare che riscuotere». «Così m'ha insegnato
mio padre», replicò il Nibbione. Con questi bei ragionamenti giunse la trista
brigata alla vista del castello; quivi si trovò il Conte che avendo veduto
salire l'amico gli si faceva incontro. Quando Egidio lo scorse, balzò da
cavallo, gittò la briglia a uno de' suoi uomini, e corse a lui: si
abbracciarono, entrarono insieme nel castello: gli scherani dell'uno e
dell'altro seguitarono riverentemente in silenzio, ed entrati pure in frotta,
andarono tutti insieme a gozzovigliare secondo gli ordini dati dal Conte.
Quando i due amici furono soli nella stanza appartata, dove il Conte trattava
gli affari più reconditi, scoperse ad Egidio il motivo della chiamata in questo
modo.
«Mio caro Egidio, e posso dir figlio. Ho un affare a Monza, pel quale m'è d'uopo
un amico fidato, e un uomo destro e valente; e ho posti gli occhi sopra di te».
«Vorrei vedere», rispose Egidio, «chi sarebbe in Monza colui che ardisse
vantarsi di esservi più amico di me».
«La mentita gliela darei io», replicò il Conte.
«Ora mettetemi alla prova».
«Ho bisogno di avere in mano una persona», disse il Conte.
«Viva, o morta?» domandò Egidio.
«Viva, viva», rispose il Conte, «è un affare allegro».
«Bene», disse Egidio, «purché non sia il Castellano né alcuno di sua famiglia,
né il feudatario, né il podestà, né un ufiziale spagnuolo...»
«Ih! ih!» disse il Conte, «che vorresti tu ch'io facessi di questa gente? Quando
io gli avessi tutti in questo castello, farei aprire tutte le porte per
lasciarli andare. Non sono buoni da nulla né vivi né morti».
«Che so io?» riprese Egidio: «Bene, purché non sia ancora, né l'arciprete, né
tampoco un prete, né un frate, né una monaca, perché non vorrei aver che fare
col Cardinale, che sarebbe uomo da mettere a soqquadro tutta Roma e tutta
Madrid, finché non ne avesse veduta l'acqua chiara: purché non sia nessuno di
questi, vi prometto, umanamente parlando, che siete servito».
«Ebbene», disse il Conte «quello ch'io vorrei che tu prendessi non è nessuno di
questi uccellacci che hai nominati: è il più picciolo reatino che tu possa
immaginare. Solamente, è rimpiattato in una certa fratta che ci vorrà destrezza
assai a cavarnelo».
«Vediamo», rispose confidentemente Egidio.
Il Conte cavò la sua vacchetta, e dopo aver rivolta qualche carta, lesse: Lucia
Mondella, e continuò: «è una contadina di questi contorni che si trova in Monza
nel monastero contiguo alla tua casa, sotto la protezione della Signora;
protezione molto fredda però; e raccomandata al guardiano dei cappuccini».
«Ne ho inteso parlare»; rispose Egidio, il quale ne sapeva sul conto di Lucia
molto più del Conte, ma non voleva mostrarsene più inteso, perché i suoi
rapporti con la Signora erano un segreto al quale non ammetteva nemmeno gli
amici più intrinseci.
«Prendi tu l'impegno?» domandò il Conte.
«Senza dubbio», rispose Egidio.
«E la Signora?»
«La Signora, come vi hanno detto benissimo non si piglia molto a cuore questa
donna; così almeno ho inteso dire da quelli di casa mia che bazzicano con
l'ortolano, o con qualche altro mascalzone del monastero. E poi, faremo la cosa
in modo che né la Signora né altri possa sospettare donde il colpo venga».
«Sai tu ch'ella si allontani dal monastero qualche volta? Hai mezzo per farla
uscire?»
«M'impegno di trovarlo. E non vi posso promettere né pel tal giorno, né per la
tale settimana; ma piglierò il tempo, e sarete servito; e non andrà molto».
«Bravo! e hai tu bisogno d'uomini in ajuto?»
«Ho bisogno certo d'uomini, non tanto per compire l'opera, come per distornare i
sospetti. Quando io vi darò avviso, voi mi manderete dei vostri uomini
forestieri, dei più destri e determinati; costoro si lasceranno vedere qualche
tempo prima; si parlerà in paese di loro: quando la donna sarà scomparsa...»
«Va bene, si dirà che è stata rapita da forastieri, sconosciuti, da Bergamaschi».
«Rapita, o fuggita con essi: quel che si vorrà: o anche l'uno e l'altro perché
ho veduto in più d'un caso che il raccontare una storia in diverse maniere serve
molto a confondere le teste, e a tener lontani i sospetti dalla verità del
fatto».
«Tu parli come un vecchio, e sai operare da giovane», rispose il Conte. «Io ti
manderò gli uomini che mi richiederai: e non avranno altro ordine che di
ubbidire ai tuoi».
Così fu conchiuso l'orribile accordo: Egidio annunziò al Conte che l'indomani
ripartirebbe di buon mattino, e che appena giunto a casa, avviserebbe ai mezzi
di condurre a buon fine l'impresa.
La sicurezza però di Egidio diede al Conte una maraviglia non molto dissimile da
quella che Don Rodrigo aveva presa della sua. Si aspettava bene il Conte che
Egidio avrebbe abbracciata l'impresa, e trovato il modo di compierla, ma ch'ella
dovesse parergli così agevole, non lo avrebbe immaginato. Si preparava anzi a
fargli animo, e a suggerirgli i mezzi per vincere gli ostacoli che Egidio gli
avrebbe opposti; e fra questi il primo gli pareva che dovesse essere la Signora:
ma il lettore sa che questo che al Conte sembrava ostacolo dovette tosto
affacciarsi alla mente di Egidio come un mezzo validissimo. Ed è questo uno dei
molti vantaggi dei lettori di storie: il sapere certe cose ignorate dai
personaggi più importanti di esse; il veder chiaro dove i più accorti ed oculati
personaggi camminano all'oscuro: vantaggio che dovrebbe ispirare ad ogni lettore
bennato molta riconoscenza a coloro che glielo procurano, che alla fin fine sono
gli scrittori di quelle storie.
Nel resto di quel giorno il Conte trattenne in festa l'amico, in quella festa
però che poteva essere in quel luogo e fra quei due. All'indomani, dopo molti
affettuosi congedi, Egidio partì, promettendo che ben presto manderebbe al Conte
buone novelle dell'affare; discese al lago, entrò nel battello del Conte,
traghettato all'altra riva dell'Adda coi suoi, si ripose a cavallo, e prese la
via di Monza.
In quel tempo di provocazioni, di vendette, di agguati, di tradimenti, l'uomo
che si allontanava quattro passi da casa sua, camminava sempre con sospetto a
guisa d'un esploratore in vicinanza del nemico; e più d'ogni altro i facinorosi
e soverchiatori di mestiere, quelli che avevano in ogni parte conti accesi di
offese o di minacce, com'era Egidio. Benché mandasse alcuni passi innanzi a
battergli la via uno de' suoi cavalieri, il quale spiava se ci fossero insidie,
o se giungessero nemici, pure andava egli stesso guardandosi a destra e a
sinistra, cercando di penetrare con lo sguardo ogni siepe, alzandosi di tempo in
tempo su le staffe per veder dietro i muri dei campi, piegandosi per vedere
dietro ogni cappelletta, volgendosi di tempo in tempo a vedere dietro le spalle,
e affisando da lontano chiunque veniva, perché poteva essere un nemico, o il
sicario nascosto di un nemico.
Alla metà circa della via, incontrò egli una caravana di carretti e di pedoni, e
li riconobbe da lontano per quelli che erano veramente cioè pescivendoli che
tornavano da Milano dopo avere smaltita la loro merce, e che camminavano di
conserva per assicurarsi dai masnadieri. Esaminando però attentamente ogni
persona della caravana, a misura che gli passava dinanzi, gli parve di
riconoscere una donna, che si stava accosciata sur un carretto, coperta il capo
d'un fazzoletto rannodato sotto il mento, la quale veggendo venire armati
guatava con una curiosità mezzo spaventata. Egidio la mirò più fisamente,
s'avvide che s'era apposto, che era dessa, e si rallegrò pensando che a Monza
troverebbe un impiccio di meno nell'esecuzione del suo mandato.
Era la nostra povera Agnese che avendo in vano aspettato le lettere o almeno
imbasciate promesse dal Padre Cristoforo, impaziente di venire in chiaro del
come andassero le cose, qual partito si dovesse finalmente pigliare; tornava al
paese, per saperne qualche cosa, per dare nello stesso tempo una occhiata alla
casa ed alle masserizie. Lucia alla quale i pericoli passati, la fuga, il
trovarsi come smarrita lungi dalla sua casa fra gente nuova, il timore continuo
di peggio avevan restituita quasi tutta la timidezza della infanzia, aveva più
volte afferrata la gonna della madre per non lasciarla partire, aveva pianto, e
pregato, ma, finalmente stanca essa pure della incertezza, e più ansiosa di
saper qualche cosa di quello che non ne confessasse, rassicurata dal trovarsi in
un asilo così guardato, e così santo, s'acquetò, e lasciò che la madre ne
andasse; e Agnese se n'era venuta, senza cruccio della figlia che le pareva
d'aver lasciata, come si dice, su l'altare. Noi torneremo indietro con la buona
donna verso le nostre montagne, lasciando andare lo sciagurato Egidio al suo
viaggio.
Quando Agnese si trovò al punto dove la strada che conduceva al suo tugurio si
divideva da quella che dovevan fare i pescivendoli per giungere a casa loro,
cioè quando ebbe passato il ponte dell'Adda, scese di carretto, e preso il suo
fardello cominciò a piedi le due miglia che le restavano di viaggio, camminando
non senza sospetto. Si confortava però pensando che Don Rodrigo non l'avrebbe
voluta far rapire, e che non sarebbe nemmeno stato tanto scellerato da farle far
male alcuno, senza suo profitto. Giunta vicino a casa, v'andò quanto più
celatamente potè per viottoli, e infatti non fu scorta da veruno; picchiò, le fu
aperto da quella sua cognata che stava a guardare la casa, trovò le cose in
ordine; chiese novelle del Padre Cristoforo alla cognata che non potè
rispondergli se non che da quel primo giorno non lo aveva più veduto comparire;
e dopo d'avere esitato qualche momento, si fece animo, e prese la via del
convento. Tutta ansiosa si fece alla porta, e tirò il campanello, al suono del
quale, ecco venire un occhio ad una picciola grata della porta a spiare chi sia
arrivato, si alza un saliscendo, si apre mezza la porta, e al luogo
dell'apertura un lungo, vecchio, e magro frate portinajo con la barba bianca sul
petto che dice:
«Chi cercate buona donna?»
«Il padre Cristoforo».
«Non c'è».
«Starà molto a tornare?»
«Mah!»
«Dov'è andato?»
«A Palermo».
«A...?»
«A Palermo», ripetè posatamente il frate portinajo.
«Dov'è questo luogo?» domandò di nuovo Agnese.
«Eh! hee!» rispose il portinajo, stendendo il braccio e la mano destra e
trinciando l'aria verticalmente per significare una lunga distanza.
«Oh diavolo!» sclamò Agnese.
«Ohibò, buona donna», disse pacatamente il frate: «che c'entra colui? non
chiamatelo qui fra di noi, che poniamo ogni cura per tenerlo lontano».
«Ha ragione, Padre, ma io sto fresca».
«Bisogna aver pazienza», rispose il frate ritirandosi per richiudere la porta.
«Ma», disse Agnese in fretta, ritenendolo, «che cosa è andato a fare in quel
paese?»
«A predicare», rispose il cappuccino.
«Ma perché è andato via così all'improvviso senza dirmi niente?»
«Gli è venuta l'obbedienza dal padre provinciale».
«E perché l'hanno mandato lui che aveva da far qui, e non un altro?»
«Se i superiori dovessero render ragione degli ordini che danno, non vi sarebbe
obbedienza».
«Va benissimo; ma questa è la mia ruina».
«Ci vuol pazienza, buona donna. Pensate al contento che proveranno quei di
Palermo a sentirlo predicare: perché, vedete il padre Cristoforo è cima di
predicatori; è un santo padre in pulpito».
«Oh il bel sollievo per me!»
«Vedete se v'è qualche altro nostro padre che possa tenervi luogo di lui,
rendervi qualche servizio, nominatelo, e lo andrò a chiamare».
«Oh Santa Maria!» rispose Agnese con quella riconoscenza mista di stizza che fa
nascere una offerta dove si trovi più di buona volontà che di convenienza: «chi
ho da far chiamare, se non conosco nessuno: quegli sapeva tutti i fatti miei, mi
dava tutti i pareri, aveva amore per noi poveretti».
«Dunque abbiate pazienza», rispose di nuovo il frate, disponendosi ancora a
partire.
«...Ma, ma...» domandò ancora Agnese, «quando sarà di ritorno?... così a un
dipresso?»
«Mah!» rispose il frate. «Quando avrà terminato il quaresimale, cioè a Pasqua,
aspetterà un'altra obbedienza per sapere se deve restar là dove è andato, o
tornar qui, o portarsi ad un altro luogo dove comanderanno i superiori: perché,
vedete, noi abbiamo conventi in tutte le quattro parti del mondo».
«Oh la bella storia!» sclamò Agnese.
«Questo è quello che vi posso dire», rispose il frate, chiudendo questa volta la
porta sul volto ad Agnese, la quale dopo esser rimasta ivi un qualche tempo come
smemorata, riprese tristamente la via della sua casa, pensando come potrebbe
riparare una tanta perdita e arzigogolando i motivi di una sì subitanea
disparizione, senza poter mai venire ad una congettura un po' soddisfacente.
Non così il lettore, il quale quando voglia continuare la sua lettura, troverà
qui tosto la spiegazione di tutto il mistero. Il Conte Attilio, tornato a
Milano, s'era tosto portato ad inchinare il conte suo Zio del consiglio segreto.
Era questi un vecchio ambizioso, geloso della parte di potere che gli era venuto
fatto di afferrare, e geloso non meno dell'onore della sua famiglia e di tutto
il parentado, al modo che s'intendeva l'onore a quei tempi.
Era egli per due sorelle, zio dei due cugini, e quindi chiese tosto ad Attilio
novelle dell'altro nipote Don Rodrigo.
«Che fa quello sventato? Ma non serve ch'io ne chiegga a te che sei uno sventato
come lui, e devi sempre trovarlo irreprensibile».
«Mi ha imposto di baciare umilmente la mano all'Eccellenza del signor zio, alla
quale è sempre devotissimo».
«Sì sì... mantiene bravi tuttavia?»
«Oh Signor zio, bravi... non si può veramente chiamarli bravi: tiene un
corteggio di servitori conveniente alla sua nascita, e al decoro della
parentela».
«Sì sì... ma Sua Eccellenza il signor Governatore non vuole i corteggi a questo
modo, e si lascia qualche volta intendere che toccherebbe ai Ministri, e ai loro
parenti dare l'esempio».
«Ma vede bene signor zio, il mondo diventa peggiore di giorno in giorno...»
«Oh questo sì; ma non tocca a te il dirlo».
«Ad ogni modo, il mondo è pieno di gente che non porta rispetto né alla nascita
né al nome, se uno non lo sa far rispettare».
«Anche questo è vero; ma quando si ha uno Zio nel consiglio segreto e
all'orecchio di Sua Eccellenza non si deve temere di soperchiatori».
«Certo, che con l'amparo del signor Zio noi potremmo aver soddisfazione di
qualunque offesa: ma intanto gl'impegni nascerebbero, e il Signor Zio che ha
tanta bontà di cuore, avrebbe disturbi ad ogni momento per causa nostra. Così i
temerarj si contengono col solo timore».
«Temerarj, temerari: io so molto bene che Don Rodrigo non è molestato da
nessuno, se non cerca egli di molestare altrui».
«Eh! signor Zio ella sa quanti si trovano che presumono di essere superiori ad
ogni autorità, e si fanno arditi contra chicchessia. C'è per esempio un frate
nel convento di Pescarenico, eh! signor Zio, non si può immaginare che superbia
abbia costui».
«Che c'entra questo frate con Rodrigo?»
«Ci vuole entrare per forza, signor Zio. Costui è pieno di premura,
probabilmente spirituale, per una foresotta di quei contorni, e la guarda con un
sospetto... guai se alcuno le si avvicina. Che cosa va a mettersi in capo questo
frate? Che Rodrigo gli voglia rapire l'affetto di questa sua colomba. E tutto
questo, perché forse Rodrigo l'avrà guardata qualche volta passando: ma come le
dico, la carità di questo frate è molto permalosa. Ora non può credere le cose
che ha dette costui di Rodrigo, i visacci che gli ha fatti, il tuono di minaccia
con cui lo guarda, come se fosse un ragazzo plebeo».
«E questo frate sa che Don Rodrigo è mio nipote?»
«E come lo sa! Si figuri, che non faccio per censurare mio cugino, ma è il suo
debole, lo dice ad ogni occasione, e lo compatisco; quando si ha un onore di
questa sorte, non si vorrebbe tenerlo celato».
«E non ci è nessuno che faccia ricordare a questo frate che Don Rodrigo è mio
nipote?»
«Eh pensi! tutte le persone di giudizio glielo fanno ricordare».
«E che dice egli?»
«Dice... dice che il cordone di San Francesco non ha paura nemmeno degli scettri
della terra».
«Come si chiama questo frate?»
«Fra Cristoforo da Cremona. Fa il Santo, ma è conosciuto per un uomo torbido; ha
sempre voluto cozzare con la gente bennata; in gioventù ha avuti incontri con
cavalieri; ha un bell'omicidio su la coscienza e si è fatto frate per salvare la
pelle: un cervello caldo».
Il Conte Zio prese la penna, e anche il nome di Fra Cristoforo fu registrato sur
una terribile vacchetta, con due righe di commento.
«Sicuramente», borbottava poi il Conte riponendo la sua vacchetta; «il cordone
di San Francesco! Lo so anch'io, ma t'insegnerò io, frate, che per adoperarlo a
proposito, non fa bisogno d'averlo ravvolto intorno alla pancia».
«Per uscirne con poco impegno, e con tutto il decoro della parentela», disse il
Conte Attilio, «il mio sottomesso parere sarebbe che V.E. con la sua consumata
politica trovasse il modo di fargli cambiar aria, e di sopire il negozio, senza
entrare in esami, in discorsi, in relazioni; perché io conosco questo frate, e
son certo che al caso non ci metterebbe su né sale né aceto a dare una mentita a
un cavaliere; è un uomo, Signor Zio, da dare uno schiaffo con forza, e da
riceverne uno con umiltà: questi cervelli alla lunga possono impacciare chi che
sia, e mettere in impegni...»
«Chi domanda pareri a Vossignoria?...» interruppe il Conte Zio annuvolando la
fronte. Il nipote che lo conosceva, perché avendo spesso bisogno di lui lo aveva
esaminato con l'occhio acuto dell'adulatore, aveva benissimo preveduto che quel
personaggio si sarebbe offeso della intenzione di consigliarlo; ma sapeva nello
stesso tempo che il consiglio gli sarebbe rimasto nella memoria, che sarebbe
stato seguito perché era conforme alle idee del personaggio; e quanto all'offesa
sapeva per esperienza che una umile parola di adulazione bastava a farla
dimenticare.
«Ah! ah!» sclamò egli, come ridendo della sua propria dappocaggine, «È vero, è
vero; sono pure uno sventato; ma: i paperi vogliono menare a ber l'oche». Il
Conte Zio fu contentissimo della riparazione; e disse: «Bene, bene, i pareri tu
gli hai da sentire: e l'ordine che io ti dò ora è di non far parola con alcuno
di questo impegno». Il nipote promise l'obbedienza, e si congedò certo e lieto
della riuscita.
Il Conte Zio rimasto solo, pensò tosto al modo di sciogliere il nodo prima che
si ravviluppasse a segno che fosse mestieri di tagliarlo. Il grande scopo di
questo signore era di ottenere un po' di potere, il più che fosse possibile: e
uno dei mezzi più validi per ottenerne era di far credere che ne avesse molto.
Egli conosceva per lunga esperienza l'efficacia di questo mezzo, e in certi
momenti in cui il prurito di far mostra della sua profondità nella politica,
superava nel suo animo la circospezione che gli consigliava a nasconderla (il
qual prurito quasi invincibile, per parentesi, è cagione a molti furbi di
scoprirsi da sè, e di rovinare così i loro affari; che è un peccato) in quei
momenti dico, egli era solito di fare intendere la sua teoria con una frase di
Virgilio che gli era rimasta in mente dalla scuola, e che egli interpretava a
suo modo: possunt quia posse videntur. - Chi aveva intese queste parole dalla
sua bocca poteva esser certo di essere ai primi posti della confidenza del
Consigliere segreto. Questa dottrina poi, come accade, era in lui divenuta
abito, e passione. In questo frangente si trattava di non permettere che un
cappuccino affrontasse e facesse stare un parente del Signor consigliere,
d'impedirlo senza tirarsi addosso i cappuccini, e di far credere a chi era
informato della inimicizia, e ai cappuccini stessi, che il frate era stato
vinto, e aveva dovuto ritirarsi. - Giovanastri senza giudizio, - pensava egli
fra sè - la darò io ad intendere a quel Rodrigo. - Ma intanto bisognava andare
al riparo, e tutto pesato il Conte Zio fece pregare con quei rispetti e con quei
pretesti di cerimonia che si usavano, il Padre Provinciale di passare alla sua
casa. Il Padre Provinciale non si fece aspettare.
Due potenze, due dignità, due vecchiezze, due esperienze consumate, si trovavano
a fronte. Il Padre provinciale che non sapeva che cosa il Consigliere segreto
volesse fare di lui né in nome di chi, per quali interessi avesse a parlargli,
stava in guardia; e il Consigliere si proponeva di farlo fare a modo suo, e di
farlo partire contento di aver servito un così potente signore.
Dopo le prime accoglienze che furono al solito sviscerate, e dignitosamente
umili, poi che il Cappuccino ebbe espressa magnificamente la sua stima pei
Consiglieri, e il Consigliere pei Cappuccini, il Conte entrò in materia,
cercando pure al solito di tasteggiare il suo interlocutore, e di procedere per
via d'interrogazioni che obbligassero ad una risposta, e di eludere nello stesso
tempo le interrogazioni dell'altro, il tutto con l'apparenza della più schietta
cordialità.
«Mi sono presa questa sicurtà d'incomodare Vostra Paternità reverendissima»,
diss'egli, «per un affare che deve conchiudersi a comune soddisfazione. E senza
più, le dirò sinceramente di che si tratta, senza raggiri, col cuore in mano,
come uso con tutti e specialmente con le persone che venero particolarmente.
Ecco il fatto. Nel loro convento di Pescarenico presso Lecco, v'è un certo padre
Cristoforo da Cremona?»
«Vostra Eccellenza è bene informata», rispose il Provinciale.
«Mi dica un po' schiettamente in amicizia, Padre Molto Reverendo, che
informazioni tiene di questo soggetto?» riprese il Consigliere segreto
aspettando la risposta. Ma il Padre Provinciale non era uso di rispondere alla
prima chiamata, e molto meno in un caso simile. S'accorse egli che il Conte
voleva cavare da lui tutte le notizie possibili prima di fargli conoscere il suo
disegno, e propose di condurre per quanto potesse il discorso nel modo opposto.
- Perché - pensava il Padre - chi sa per qual cagione questo signore vuol essere
informato del Padre Cristoforo. Potrebbe forse avergli posto addosso gli occhi
per servirsene in qualche maneggio, e allora non mi converrebbe screditarlo;
potrebbe volergliene per qualche puntiglio, e allora non mi converrebbe pigliar
le parti di fra Cristoforo prima di saper bene di che si tratta, e fino a che
punto lo potrò sostenere. In ogni caso prima di farmi cantare, dovrà cantare
egli più chiaro.
- Fatte rapidamente queste riflessioni, il Padre rispose: «Se V.E. vuol
compiacersi di dirmi più chiaramente perché le preme il Padre Cristoforo, spero
di poterle dare tutte le cognizioni che posso averne io medesimo».
- Sempre politico il Padre Provinciale, - disse in suo cuore, il Conte. - Eh già
gli sanno cavare dal mazzo. - E tosto rispose ad alta voce:
«Ecco il fatto, Padre molto reverendo. Questo padre Cristoforo non le ha dato
più volte da pensare per cavarlo da impegni in cui s'era posto per poca
prudenza, e per voglia di accattar brighe? Dica liberamente, non è un cervello
un po' caldo?»
- Ho inteso, - disse fra sè, il Padre - è un impegno: Benedetto Cristoforo! ma
bisognerà sostenerlo. - E rivolgendosi al Conte rispose, indirettamente al
solito:
«Liberamente, com'Ella desidera le dirò che il nostro Padre Cristoforo, l'ho
sempre conosciuto per buon religioso, esemplare, zelante, e nei suoi doveri di
cappuccino irreprensibile».
- Ah! Ah! - disse ancora fra sè il Conte - bisogna dunque tirarti con gli
argani! - E con le labbra disse al Padre: «Ella sa pure che siamo amici, e fra
noi non si deve parlare politicamente. Io sono informato molto bene che questo
religioso è un po' inquieto, ama di comprarsi le quistioni, e di cozzare con le
persone di qualità. Cose che non vanno bene, non vanno bene, Padre molto
reverendo: Ella conosce il mondo, e m'insegnerà che queste cose non vanno bene».
- È tutta mia colpa, - disse sempre in soliloquio il Padre; - doveva pensare che
quel benedetto Cristoforo con quel suo fuoco mi avrebbe strascinato in qualche
impiccio: lo sapeva che era un uomo da far girare di pulpito in pulpito, e da
non lasciar mai quieto per tre mesi in un convento vicino a case di signori. Ma
vediamo in che stato è la cosa, e come si può rimediare. - E per pigliar tempo,
rispose al Conte:
«Se Vostra Eccellenza è informata di qualche mancamento di questo padre, Le sarò
grato di farmene partecipe, acciò ch'io possa mettervi rimedio».
«Pensieri degni della sua prudenza, padre molto reverendo: principiis obsta.
Ecco il fatto, senza andirivieni. Questo religioso ha preso a cozzare con mio
nipote, e la cosa potrebbe farsi più seria. Senza parlare di me, che ho troppa
venerazione per Vostra paternità e per tutta la compagnia, per fare nulla senza
sua intelligenza in questo proposito; mio nipote ha molte aderenze. Quand'anche
io non me ne volessi impacciare, i parenti di padre e di madre... sono
persone... sono famiglie...»
«Cospicue» disse il padre.
«E accreditate», continuò il Conte: «e mio nipote ha il sangue caldo. Io le
parlo da buon amico. Mio nipote è giovane, e questo religioso, da quel che
sento» e qui cavò la sua vacchetta, l'aperse, vi diede un'occhiata per lasciar
supporre al padre che vi erano notate di gran cose, e continuò con un'aria
misteriosa: «questo religioso ha ancora tutte le inclinazioni della gioventù. I
giovani non hanno giudizio, e tocca a noi che abbiamo i nostri anni... pur
troppo eh?...»
«Eh! pur troppo», disse il padre.
Chi fosse stato presente a quel dialogo avrebbe potuto scorgere in quel momento
una mutazione curiosa nel volto dei due personaggi, che per la prima volta
prendeva l'espressione d'un sentimento sincero: qui non avea luogo la politica,
e il cuore parlava.
«Ella è così, padre», continuò il Conte. «Tocca dunque a noi il rappezzare gli
sdruciti che i giovani fanno».
«Tra me e lei (così disse il signor Conte) tra me e lei si potrà sopir
l'affare».
Queste parole furono molto gradite al Provinciale. È vero, ed ognuno lo sa, che
a quei tempi i membri d'una congregazione religiosa erano affatto indipendenti
da ogni podestà secolare, e non avevano quindi nulla a temere da essa. E quando
questa si trovava in collisione con alcuno di loro, e voleva prescrivere qualche
cosa, la più forte, la sola minaccia che usasse e che potesse usare si era che
avrebbe richiesto al papa che i renitenti, quelli che avessero contrafatto agli
ordini fossono mandati fuori dello stato come diffidenti di S.M.; il che si può
vedere nelle gride contra gli omicidi, banditi, i bravi, dove questa minaccia è
fatta ai regolari che gli ricoveravano, e ponendoli così in luogo d'asilo gli
involavano dalle mani della forza secolare. In un'epoca posteriore fu pensato al
modo di render più forte questa minaccia, e di estendere la pena; e questo
sforzo merita d'esser ricordato e come un attestato insigne della impotenza
della forza civile a raggiungere gli ecclesiastici, e come un esempio notabile
di stolta e feroce iniquità. L'onore di questo trovato appartiene al Signor Don
Luigi de Revavides, Marchese di Fromista e Caracena Conte di Pinto. Estese egli
questa minaccia d'esser trattati come diffidenti di S.M. anche ai parenti più
prossimi di quegli ecclesiastici, che avessero raccettati nei luoghi sacri ed
immuni certi banditi. 23 Agosto 1651, ed altre. Ma i modi di nuocere non erano
quegli soli che le grida prescrivevano, e la inimicizia di un uomo, e di una
famiglia potente era un semenzaio di pericoli, d'incertezze, e di disturbi. Il
Provinciale si trovò dunque d'accordo col Conte nel desiderio di sopir l'affare;
non si trattava più che del modo di farlo, con la convenienza delle due parti. E
siccome la cosa non aveva fatto grande scandalo, e si trattava più d'antivenire
che di riparare, così la cosa non era difficile. Dopo che i due sorboni ebbero
ancora molto interrogato, poco risposto, mercanteggiato, e giuocato di scherma,
il Padre Provinciale disse al Conte che per considerazione della persona di Lui,
per amor della pace egli trasmuterebbe il Padre Cristoforo di quel convento in
un altro lontano, con la condizione che nessuno si vantasse di questo come d'una
vittoria: e il Conte lo promise; l'affare fu conchiuso, e i due contraenti si
separarono contenti l'uno dell'altro, e ognun d'essi di se medesimo.
Gran cura ponevano quei vecchj pensatori in un negozio, di gran parole
spendevano, ci pensavano assai, andavano per le lunghe, v'impiegavano il tempo
conveniente; ma bisogna anche confessare che facevano poi cose grandi. In fatti
questo abboccamento produsse l'effetto di fare trottare il nostro povero Padre
Cristoforo da Pescarenico a Palermo, che è un bel passeggio.
Fu dunque spedita al Guardiano l'obbedienza da intimarsi al Padre Cristoforo, e
con l'obbedienza l'ordine di farlo tosto partire, la direzione della strada da
farsi per non toccare Milano, e l'avviso di dargli un compagno nella missione,
che nello stesso tempo osservasse tutte le sue azioni. Mentre il nostro povero
Frate pensava ai mezzi di soccorrere i suoi protetti, il guardiano lo chiamò a
sè, e con molta consolazione gl'intimò l'obbedienza, gli comandò di prendere il
suo bordone, gli presentò il compagno che era già avvertito, e gli disse «vade
in pace». Cristoforo non pensò nemmeno a domandare un rispitto che era certo di
non ottenere: pensò alla povera Lucia, e si accorava; ma tosto si accusò di aver
mancato di fiducia in Dio, e di essersi creduto necessario a qualche cosa; alzò
gli occhi e il cuore al cielo, si abbandonò alla provvidenza; salutò umilmente
il guardiano, prese la sua sporta, si cinse le reni con una correggia di pelle
come usavano i cappuccini viaggiatori, disse una parola cortese al padre
compagno, uscì del convento, e si pose su la via che gli era stata prescritta.