|
|||
Home | Galleria Manzoni | ||
Romanzo | |||
Immagini per Capitolo | |||
Manzoni il ruolo dell'eroe | Manzoni la donna e l'amore | Manzoni la poetica |
Fermo e Lucia
Tomo 1
Capitolo 3
IL
CAUSIDICO
I tre rimasti a consiglio erano agitati, turbati per la stessa causa ma in
diverso modo. Fermo si trovava nello stato di un uomo il quale ad un tratto
dalla prosperità e dalla gioja è balzato in una sventura della quale non
conosce che una parte; è ansioso di sapere il di più, vuole essere informato
di tutto, aspetta, sospira nuove rivelazioni, e non ne può aspettare che non
accrescano il suo rammarico, che non peggiorino la sua condizione. Al dolore, al
rancore, alla rabbia, si aggiungeva ora il martello della gelosia. Egli aveva
sempre avuta piena fede in Lucia, ma un mistero di questo genere, un silenzio in
questa materia lo tormentava, egli era come spaventato di conoscere che Lucia
aveva una cosa sul cuore, e ch'egli non ne aveva saputo nulla. Agnese, la madre
di Lucia era pure stupita, scandalizzata di essere all'oscuro d'una cosa simile:
ella che sapeva tante cose che non la toccavano per nulla, ignorare una cosa
tanto importante della sua Lucia! Agnese le avrebbe fatto un rabbuffo terribile,
se in questo caso il bisogno d'ascoltare non avesse vinto d'assai quello di
parlare. Lucia... ma dalle sue parole il lettore intenderà lo stato del suo
animo. «Parla! parla! Parlate, parlate!» gridavano in una volta la madre e
Fermo. Lucia atterrita, costernata, vergognosa, singhiozzando, arrossando, sclamò:
«Santissima Vergine! Chi avrebbe creduto che le cose sarebbero giunte a questo
segno! Quel senza timore di Dio di Don Rodrigo veniva spesso alla filanda a
vederci trarre la seta. Andava da un fornello all'altro facendo a questa e a
quella mille vezzi l'uno peggio dell'altro: a chi ne diceva una trista a chi una
peggio: e si pigliava tante libertà: chi fuggiva, chi gridava; e purtroppo
v'era chi lasciava fare! Se ci lamentavamo al padrone, egli diceva: "badate
a fare il fatto vostro, non gli date ansa, sono scherzi", e borbottava poi:
"gli è un cavaliere; gli è un uomo che può fare del male; è un uomo che
sa mostrare il viso". Quel tristo veniva talvolta con alcuni suoi amici,
gente come lui. Un giorno mi trovò mentre io usciva e mi volle tirar in
disparte, e si prese con me più libertà: io gli sfuggii, ed egli mi disse in
collera: "ci vedremo": i suoi amici ridevano di lui, ed egli era ancor
più arrabbiato. Allora io pensai di non andar più alla filanda, feci un po' di
baruffa colla Marcellina, per avere un pretesto, e vi ricorderete mamma ch'io vi
dissi che non ci andrei. Ma la filanda era sul finire per grazia di Dio, e per
quei pochi giorni io stetti sempre in mezzo alle altre di modo ch'egli non mi
potè cogliere. Ma la persecuzione non finì: colui, mi aspettava quando io
andava al mercato, e vi ricorderete mamma ch'io vi dissi che aveva paura d'andar
sola e non ci andai più: mi aspettava quand'io andava a lavare, ad ogni passo:
io non dissi nulla, forse ho fatto male. Ma pregai tanto Fermo che affrettasse
le nozze: pensava che quando sarei sua moglie colui non ardirebbe più
tormentarmi; ed ora...» Qui le parole della povera Lucia furono tronche da un
violento scoppio di pianto. «Birbone! assassino! dannato!» sclamava Fermo,
correndo su e giù per la stanza, e mettendo di tratto in tratto la mano sul
manico del suo coltello. «Ma perché non parlarne a tua madre?» disse Agnese:
«se io l'avessi saputo prima...» Lucia non rispose perché la risposta che si
sentiva in mente non era da dirsi a sua madre: tutto il vicinato ne sarebbe
stato informato. I singulti di Lucia la dispensavano dall'obbligo di parlare. «Non
ne hai tu fatto parola con nessuno?» ridimandò Agnese. «Sì mamma, l'ho detto
al Padre Galdino, in confessione». «Hai fatto bene; ma dovevi dirlo anche a
tua madre. E che ti ha detto il Padre Galdino?» «Mi ha detto che cercassi di
evitare colui; che non vedendomi non si curerebbe più di me; che affrettassi le
nozze; e che se durava la persecuzione egli ci penserebbe». «Oh che imbroglio!
che imbroglio!» riprese la madre. Fermo si arrestò tutt'ad un tratto; guardò
Lucia con un atto di tenerezza accorata e rabbiosa, e disse: «Questa è
l'ultima che fa quel birbante». «Ah no Fermo per amor del cielo!», gridò
Lucia, gettandogli quasi le braccia al collo: «No no per amor del cielo, Dio c'è
anche pei poveri! Come volete ch'egli ci ajuti se facciamo del male?» «No, no
per amor del cielo», ripeteva Agnese. «Fermo!» disse Lucia, «voi avete un
mestiere, ed io so lavorare, andiamo lontano tanto che costui non senta più
parlare di noi». «Ah! Lucia! e poi? non siamo ancora marito e moglie: il
curato vorrà farci la fede di stato libero? Non saremo pigliati come vagabondi?
dove andarci a porre?» Lucia ricadde nel pianto. «Sentite!» disse Agnese: «sentitemi
che son vecchia». Era questa una confessione che la buona Agnese faceva di
rado, in caso di somma necessità, e quando si trattava di dar fede alle sue
parole. «Io ho veduto un poco il mondo: non bisogna spaventarsi troppo: il
diavolo non è mai brutto come si dipinge; e a noi povera gente le cose pajono
talvolta imbrogliate imbrogliate perché non abbiamo la pratica per uscirne. Ma,
sapete, c'è della gente che si ride degli imbrogli. Fate a modo mio Fermo.
Pigliate quei quattro capponi, poveretti! che doveva sgozzare io questa mattina
pel banchetto: teneteli bene stretti, per le gambe, andate a Lecco: sapete dove
abita il dottor Pettola?» «Lo so benissimo». «Bene andate da lui,
presentategli i capponi: perché vedete quando si vede che uno può regalare gli
si dà retta. Contategli tutto il fatto, e domandategli parere. Eh ne ho visto
io della gente che non sapevano dove dar del capo, che andando a consultarsi con
lui non trovavano la strada, e dopo d'avergli parlato tornavano a casa vispi
come un timollo che saltellando nella barca per disperazione cade nell'acqua, e
si trova in casa sua. Fate così Fermo». Nelle situazioni molto imbrogliate il
parere che piace più è quello di pigliar tempo per avere un altro parere
definitivo: ogni consiglio definitivo e determinato presenta ostacoli, difficoltà,
nuovi imbrogli: ma questo di consigliarsi di nuovo e meglio è semplice, non
nuoce, e nello stesso tempo dà una lusinga indeterminata che per questo mezzo
si troverà una uscita.
Fermo adunque abbracciò molto volentieri il parere. Lucia vi aggiunse la sua
approvazione. Agnese superba di averlo dato pigliò i capponi, riunì le loro
otto gambe come se facesse un mazzo di fiori, le avvolse e le strinse con uno
spago, e consegnò la preda in mano a Fermo, che date e ricevute parole di
speranza uscì per una porticella dell'orto, onde non esser veduto dai ragazzi
che gli correrebbero dietro gridando: lo sposo, lo sposo. Così attraversando i
campi, o come dicono colà, i luoghi andò a prendere il viottolo che guida a
Lecco, fremendo, ripensando alla sua disgrazia, e ruminando il discorso da fare
al Dottor Pettola. Lascio poi pensare al lettore come dovessero stare in viaggio
quelle povere bestie così legate, e tenute per le zampe nella mano d'un uomo
agitato da tante passioni, e che di tempo in tempo stendendo con forza il
braccio in un momento d'ira o di risoluzione, o di disperazione, dava scosse
terribili a quei prigionieri e faceva balzare le loro quattro teste spenzolate
le quali si andavano beccando l'una l'altra, come succede troppo sovente fra
compagni di sventura. In poco d'ora Fermo giunse a Lecco, e s'avviò alla casa
del dottore. All'entrare si sentì sorpreso da quella timidità che i poverelli
illetterati provano in vicinanza d'un signore e d'un dottore, dimenticò tutti i
discorsi che aveva preparati, ma diede un'occhiata ai capponi, e si rincorò
pensando che non veniva colle mani vuote. Entrato in cucina chiese alla fantesca
del signor dottore: la fantesca vide le bestie, e come avvezza a simili doni vi
pose le mani sopra, mentre Fermo le andava ritirando, perché voleva che il
dottore vedesse e sapesse ch'egli portava qualche cosa. Il dottore giunse in
fatti mentre la fantesca diceva: «date qui, e passate nello studio». Fermo
fece un grande inchino al dottore, che lo accolse umanamente con un: «venite
figliuolo», e lo fece entrare con sè nello studio. Era questo una stanza con
un grande scaffale di libri vecchi e polverosi, un tavolo gremito di
allegazioni, di suppliche, di papiri, e intorno tre o quattro seggiole, e da un
lato un seggiolone a bracciuoli con un appoggio quadrato coperto di vacchetta
inchiodatavi con grosse borchie, alcune delle quali cadute da gran tempo
lasciavano in libertà gli angoli della copertura, che s'incartocciava qua e là.
Il dottore era in veste da camera, cioè coperto d'una lurida toga che gli aveva
servito molti anni addietro per perorare nei giorni di apparato, quando andava a
Milano per qualche gran causa. Chiuse la porta e rincorò Fermo con queste
parole: «Figliuolo, ditemi il vostro caso».
«Vorrei dirle una parola in confidenza», rispose Fermo. «Son qui per questo»,
rispose il dottore: «parlate»; e si pose a sedere sul seggiolone. Fermo stette
ritto dinnanzi al tavolo con le mani nel suo cappello.
«Vorrei sapere da lei che ha studiato...» «Già», interruppe il dottore, «già
voi altri siete tutti così; invece di contare il fatto spiccio a chi può
ajutarvi, cominciate a fare interrogazioni come se doveste esaminare il
causidico. Ma via, qualche minuto di più non fa niente: parlate a modo vostro».
«Ella ha da scusarmi signor dottore: noi altri poveri non abbiamo studio.
Vorrei dunque sapere se a minacciare un curato, perché non faccia un
matrimonio, c'è penale».
- Ho capito (disse fra sè il dottore, che in verità non aveva capito) ho
capito, - e pensò subito al modo di cavare partito da quello ch'egli aveva
immaginato. Si fece dunque serio, ma in guisa di chi teme per uno che vuol
soccorrere: strinse fortemente le labbra facendone uscire un suono inarticolato
che accennava il sentimento che espressero più chiaramente le sue prime parole:
«Caso serio, figliuolo, caso contemplato. Avete fatto bene a venire da me. Non
è mica vedete una di quelle cose che si decidono con leggi vecchie, scritte in
latino, nelle quali ci è sempre una decisione per una parte e per l'altra. È
un caso chiaro, deciso in una grida, confermata da una grida, tenete, dell'anno
scorso, dell'attuale signor governatore del ducato di Milano. Vedete, figliuolo»,
e qui si alzò, pose le mani su un fascio di gride, scartabellò un momento, e
subito ne prese una, e segnando col dito, «sapete leggere?», dimandò. «Qualche
cosa, signor dottore». «Orbene ecco il vostro caso».
«...quel prete non faccia quel che è obbligato per l'officio suo: ecco ci
siamo: non è questo il caso vostro». «Pare che abbiano fatta la grida per me».
«Vedete figliuolo? ora mò sentite la penale...
Mentre il dottore leggeva ad alta voce, pronunziando distintamente le parole che
risguardavano il caso, per incutere a Fermo quello spavento salutare di cui il
dottore aveva bisogno, Fermo compitando lentamente, seguiva coll'occhio la
lettura cercando di cavare il costrutto chiaro, e di vedere proprio quelle
benedette parole che gli parevano dover essere il suo ajuto. Il dottore alzò
gli occhi intanto, squadrò Fermo, e gli disse: «Ah! ah! figliuolo vi siete
fatto radere il ciuffo: avete avuto prudenza: ma volendo venire da me non faceva
bisogno: si vede che non mi conoscete: non sapete quello ch'io sia in caso di
fare: vi avrei cavato anche di questo». Per aver la ragione di questa uscita
del dottore, bisogna che l'ignaro apprenda e il dotto si ricordi che a quei
tempi coloro che facevano il mestiere di bravi, e che vivevano di soprusi fatti
spontaneamente o per mandato, usavano molti ingegni per travisarsi, e non esser
riconosciuti, e togliere così una prova materiale del delitto. L'uso più
comune era quello di portare un lungo ciuffo che ordinariamente lasciavano
cadere dietro la testa, e si gettavano poi sul volto come una visiera al momento
di affrontare qualcheduno, di far qualche impresa che era meglio di poter poi
negare. Per togliere questo abuso si erano fatte gride sopra gride, le quali
proibivano che si portassero capelli lunghi, sotto pena... e discendendo al
particolare ordinavano al barbiere come dovesse tosare uno, intimando a chi
lasciasse capelli più lunghi dell'ordinario la pena di 100 scudi, o tre tratti
di corda colla solita estensione di pena maggiore all'arbitrio di S.E. Quale
effetto producessero queste gride è manifesto dalle diverse date di quelle.
La grida si ristampava di tempo in tempo coll'avvertenza che ciò era necessario
perché fino allora non aveva giovato a nulla: e come nella medicina, si
cresceva la dose. Il ciuffo era dunque come un'insegna di bravo, e di
scapestrato. Da questa foggia è nato un termine metaforico tuttavia in uso nel
dialetto milanese: e non vi sarà forse alcuno, dei miei lettori milanesi che
non si ricordi di aver sentito, nella sua adolescenza, alcuno de' suoi parenti,
o il maestro del collegio, o il servo che lo conduceva a scuola, o la fante dare
di lui questo giudizio: gli è un ciuffo: gli è un ciuffetto. Prego il lettore
di perdonarmi questa digressione e come necessaria, e in grazia della condizione
che gli ho data, e ripiglio il dialogo.
«In verità, da povero figliuolo», rispose Fermo, «ch'io non ho mai portato
ciuffo in vita mia».
«Non facciamo niente» riprese il dottore, scotendo il capo, con un sorriso tra
maligno e impaziente: «se non avete fede in me, non facciamo niente. Chi dice
bugia al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al
giudice. Io non ho tempo da perdere. Se volete ch'io v'ajuti, voi dovete
contarmi tutto dall'a alla zeta, sinceramente, come al confessore. Dovete dirmi
chi vi ha dato il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; ed allora io
andrò da lui a fare un atto di dovere: non gli dirò mica, vedete, ch'io sappia
da voi che vi ha mandato egli: fidatevi: gli dirò che vengo ad implorare la sua
protezione per un povero giovane calunniato. E tutto si aggiusterà a vostra
soddisfazione: capite bene che salvando sè, salverà anche voi. Se poi la
scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro, ho cavato altri da peggio
imbrogli, e pur ché non abbiate offesa persona di riguardo, intendiamoci,
m'impegno a togliervi d'impiccio, con un po' di spesa. Basta che mi sappiate
dire chi è l'avversario, che forse forse troveremo modo di appiccicargli
qualche criminale, e forse forse lo metteremo in panni più stretti dei vostri,
e lo faremo venire a domandar grazia. Ma come vi ho detto, se non avete un uomo,
un uomo, il caso è serio, la grida canta chiaro, e se la cosa si deve decidere
fra la giustizia e voi così a quattr'occhi, state fresco. Io vi parlo chiaro:
le scappate bisogna pagarle: se volete dormir quietamente sopra questa faccenda;
denari, e sincerità, parlare col cuore in mano, e poi obbedire, fare quello che
vi sarà suggerito».
Mentre il dottore faceva questa cicalata, Fermo lo stava ascoltando
coll'attenzione d'un uomo che sognando, s'immagina di cercar qualche cosa, ed
ora gli pare d'averla trovata, di mettergli le mani sopra, e poi la vede
scomparire, e ne va di nuovo in cerca: tanto era lontano dal sospettare
l'equivoco preso dal dottore. Quando questi ebbe terminato, Fermo ebbe inteso: e
tra un poco di collera, però quella collera che un buon uomo di contado può
avere contra un signore che sa, e tra un certo orgoglio di farsi vedere libero
da quei timori che il dottore supponeva, rispose: «Oh signor dottore: la cosa
non è così: io non ho minacciato nessuno: io non faccio di queste azioni, e
domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che io non ho mai avuto che
fare con la giustizia.La bricconeria l'hanno fatta a me; e vengo da lei per
informarmi come io possa farmi dar ragione; e son ben contento d'aver veduta
quella grida». «Diavolo!» disse il dottore, «che confusione mi avete fatta?
tant'è siete tutti così, possibile che non sappiate farvi intendere?» «Ma
signor dottore, mi scusi io non le ho contata la cosa, ora le conterò. Deve
sapere ch'io doveva sposare oggi», e qui il povero Fermo si commosse, «doveva
sposare oggi Lucia Zarella, una giovane che non ha mai dato da dire a nessuno, e
avevamo fatto tutto da galantuomini, e il curato che doveva sposarci oggi non
volle perché... perché gli fu minacciata la vita. Quel prepotente di Don
Rodrigo...»
Il dottore si fece serio davvero, e dando sulla voce a Fermo: «Eh!» gridò, «che
mi venite a contare di queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri
che non sapete misurare le parole, e non venite a farli con un galantuomo che sa
che cosa vuol dire parlare. Andate, andate; non sapete quel che vi diciate: io
non m'impaccio con ragazzi, non voglio sentire discorsi in aria». «Lo giuro!»
«Andate vi dico, siete un ragazzo, pare che parliate ad un uomo che non abbia
mai sentito giurare. Andate, io non c'entro: imparate a parlare: non si viene
così a sorprendere un galantuomo». Con queste frasi spezzate, il dottore
spingeva verso la porta Fermo, il quale andava ripetendo: «ma senta, ma senta».
Il dottore aperta la porta chiamò Felicita, e le disse: «restituite subito a
quest'uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente».
Felicita dacché era ai servigi del dottore non aveva mai eseguito un ordine
simile; ma era dato con una tale risoluzione, ch'ella non esitò ad obbedire:
prese le quattro povere bestie, e le diede a Fermo, guardandolo con un'aria di
compassione spregiante che pareva volesse dire: costui deve stare in cattivi
panni, ne ha fatta una grossa. Fermo voleva far cerimonie, ma il dottore fu
inespugnabile; e Fermo attonito, e trasognato, e stizzito dovette ripigliarsi le
vittime rifiutate, e partirsi di là senza poter riposare il suo pensiero in
altra determinazione, che di tornarsene a casa sua, a riferire alle donne il
tristo risultato della sua consulta.
Lucia al suo partire era rimasta nel pianto a cangiare la sua veste nuziale
coll'umile abito quotidiano, a sentire le consolazioni e i pareri della madre, e
a rispondere singhiozzando alle minute interrogazioni ch'ella le andava facendo,
mischiandole di qualche rimprovero sul suo aver sempre taciuto. Fra questi
tristi discorsi la madre e la figlia si erano sedute insieme presso il suo
arcolajo a dipanar seta. Ma la povera sposa andava pensando a quello che si
potesse fare; il primo ripiego che viene in mente ai poverelli è quello di aver
parere ed ajuto, e Lucia si sovvenne del Padre Galdino. Andare al convento,
ch'era distante forse due miglia; ella non ardiva, in questo frangente, e aveva
ragione, pensava dunque di cercare qualche garzoncello disinvolto e fidato, per
cui potesse fare avvertire il buon Capuccino. Mentre ella stava per informare la
madre del suo disegno s'ode picchiare all'uscio, e nello stesso momento un
sommesso ma distinto «Deo gratias...» Lucia, immaginandosi chi poteva essere,
corse ad aprire; e allora, fatto un inchino, entrò infatti un laico cercatore
cappuccino colla sua bisaccia pendente alla spalla sinistra, e l'imboccatura di
essa attorcigliata e stretta nelle due mani sul petto. «Frà Canziano» dissero
le due donne. «Il Signore sia con voi», disse il frate: «vengo per la cerca
delle noci; e come il raccolto è stato buono voi ne darete a Dio la sua parte,
affinché ve ne dia un altro eguale o migliore l'anno venturo; se però i nostri
peccati non attireranno qualche castigo». «Lucia, vanne a pigliare le noci pei
padri» disse Agnese. Lucia si alzò, e si avviò all'altra stanza, ma prima di
entrarvi ristette dietro le spalle di frà Canziano che rimaneva ritto nella
medesima positura, e ponendosi l'indice sulla bocca diede alla madre una
occhiata che domandava il segreto con tenerezza, con supplicazione, con
fierezza, e anche con una certa autorità. Partita Lucia, frà Canziano disse ad
Agnese: «E questo matrimonio? si doveva pure fare oggi: ho veduto nel paese
come una confusione, come qualche cosa che indichi una novità; che c'è?»
«Il Signor curato è ammalato, e bisogna differire», rispose in fretta Agnese,
e per cangiare di discorso richiese come andasse la cerca.
«Poco bene, buona donna, poco bene. Vedete tutto quello che ho. Son tutte qui»,
e così dicendo si tolse la bisaccia dalle spalle e la fece saltare agli occhi
di Agnese; «son tutte qui, e per raccogliere questo ho mendicato in dieci case».
«Mah! l'anno è scarso, fra Canziano, e i poverelli mancano di pane, quando il
pane è caro tutto si misura più per sottile».
«Perché l'anno è scarso, buona donna? pei nostri peccati; e per far tornare
l'abbondanza che rimedio c'è? l'elemosina. Eh! quando io era cercatore in
Romagna, la limosina delle noci era tanto abbondante, che bisognò che un
benefattore ci facesse la carità d'un asino, perché il cercatore non poteva
durare. E si faceva tant'olio al convento che i poveri venivano a prendere ogni
volta che ne avevano bisogno. Ma in quel paese avevano più carità perché
avevano avuta una grande scuola. Sapete di quel miracolo?» «No in verità:
contate contate». «Oh! dovete dunque sapere che molti anni prima ch'io andassi
in quel convento v'era stato un padre che era un santo; il padre Agapito. Un
giorno d'inverno ch'egli passava per un viottolo in un campo d'un nostro
benefattore, uomo dabbene anch'egli, dunque il padre Agapito vide il benefattore
vicino ad un gran noce, e quattro contadini colle scuri al piede per gettarlo a
terra; e avevano già fatta una fossa intorno per iscoprire le radici. - Che
fate a quella povera pianta? disse il nostro religioso. - Eh padre sono anni che
non fa più frutto ed io penso di farne legna. - Non fate non fate, disse il
padre; sappiate che quest'anno la porterà più noci che foglie. - Il
benefattore che sapeva con chi parlava, ordinò subito ai lavoranti che
gettassero di nuovo la terra sulle radici, e chiamato di nuovo il padre che
continuava la sua strada, - Padre Agapito, gli disse, la metà del raccolto sarà
pel convento. - Si sparse la voce della profezia, e tutti correvano a guardare
il noce: infatti a primavera, fiori a furia, e poi noci noci a furia.
Ma, Dio non volle che il benefattore avesse la consolazione di abbachiare quelle
noci, e lo chiamò a sè prima del raccolto. La consolazione toccò al figliuolo,
ma fu corta perché era un poco di buono, come sentirete. Ora dunque, al
raccolto il cercatore andò per riscuotere la metà che era dovuta al convento;
e colui si fece nuovo affatto, ed ebbe la temerità di rispondere che non aveva
mai inteso dire che i frati sapessero far noci. Il cercatore fece la sua
denunzia al convento. Sapete ora che cosa avvenne? Un giorno dunque quello
scapestrato aveva invitato alcuni suoi amici dello stesso pelo, e così
gozzovigliando, egli raccontava la storia del noce, e rideva dei frati. Quei
giovinastri ebbero voglia di andare a vedere quello sterminato mucchio di noci,
ed egli li condusse al granajo. Ma, sentite mò ora; apre la porta, va verso il
cantuccio dove era il gran mucchio, e mentre dice: - guardate -, guarda egli
stesso e vede, che cosa? un bel mucchio di foglie secche di noce. Questo fu un
castigo, e benché il fatto sia di molti anni addietro, ad ogni raccolto di noci
se ne parla tuttavia in quel paese».
Qui ricomparve Lucia col grembiule tanto carico di noci che lo poteva reggere a
fatica, tenendo i due capi sospesi colle braccia tese e allungate. Mentre fra
Canziano si tolse la bisaccia dalle spalle, la pose in terra e aprì la bocca di
quella per introdurvi l'abbondante elemosina, la madre fece un volto attonito e
severo a Lucia, per la sua prodigalità; ma Lucia le diede un'occhiata che
voleva dire: mi giustificherò. Fra Canziano proruppe in elogj, in augurj, in
promesse, in ringraziamenti; e rimessa la bisaccia si avviò; ma Lucia,
fermatolo: «vorrei un servizio da voi», disse. «Vorrei che diceste al Padre
Galdino che ho bisogno di parlargli di somma premura, e che mi faccia la carità
di venire da noi poverette, subito subito, perché io non posso venire alla
Chiesa».
«Non volete altro? non passerà un'ora che lo dirò al Padre Galdino».
«Non mi fallate».
«State tranquilla»; e così detto partì un po' più curvo e più contento che
non quando era arrivato.
Il Padre Galdino era uomo di molta autorità fra i suoi, e in tutto il contorno;
eppure fra Canziano non fece nessuna osservazione a questa specie di ordine che
gli si mandava da una donnicciuola di venire da lei; la commissione non gli
parve strana niente più che se gli si fosse commesso di avvertire il Padre
Galdino che il Vicario di provvisione e i sessanta del consiglio generale della
Città di Milano lo richiedevano per mandarlo ambasciatore a Don Filippo Quarto
Re di Castiglia, di Leone etc. Non vi era nulla di troppo basso né di troppo
elevato per un Cappuccino: servire gl'infimi, ed esser servito dai potenti;
entrare nei palazzi e nei tugurii colla stessa aria mista di umiltà, e di
padronanza; essere nella stessa casa un soggetto di passatempo, e un personaggio
senza il quale non si decideva nulla, cercare la limosina da per tutto, e farla
a tutti quelli che la chiedevano al convento, a tutto era avvezzo un Cappuccino,
faceva tutto a un dipresso colla stessa naturalezza, e non si stupiva di nulla.
Uscendo dal suo convento per qualche affare, non era impossibile che prima di
tornarsene si abbattesse o in un principe che gli baciasse umilmente la punta
del cordone, o in una mano di ragazzacci che fingendo di essere alle mani fra di
loro gli bruttassero la barba di fango. La parola frate in quei tempi era
proferita colla più gran venerazione, e col più profondo disprezzo; era un
elogio e un'ingiuria: i cappuccini forse più di tutti gli altri riunivano
questi due estremi perché senza ricchezze, facendo più aperta professione di
umiliazioni, si esponevano più facilmente al vilipendio, e alla venerazione che
possono venire da questa condotta. La considerazione poi data generalmente al
loro ordine li poneva nel caso sovente di giovare e di nuocere ai privati, di
essere grandi ajuti e grandi ostacoli, e quindi anche la varietà del sentimento
che si aveva per essi, e delle opinioni sul conto loro. Varj pure e moltiformi
erano e dovevano essere i motivi che conducevano gli uomini ad arruolarsi in un
esercito così fatto. Uomini compresi della eccellenza di quello stato che
allora era esaltata universalmente, altri per acquistare una considerazione alla
quale non sarebbero mai giunti vivendo, come allora si diceva, nel secolo, altri
per fuggire una persecuzione, per cavarsi da un impiccio, altri dopo una grande
sventura, disgustati del mondo, talvolta principi o fastiditi, o atterriti del
loro potere; molti perché di quelli che entrano in una carriera per la sola
ragione che la vedono aperta; molti per un sentimento vero di amor di Dio e
degli uomini, per l'intenzione di essere virtuosi ed utili; e questa loro
intenzione (perché quando si è persuasi d'una verità bisogna dirla;
l'adulazione ad una opinione predominante ha tutti i caratteri indegni di quella
che si usa verso i potenti) questa loro intenzione non era una pia illusione,
l'errore d'un buon cuore e d'una mente leggiera, come potrebbe parere, e come
pare talvolta a chi non sa o non considera le circostanze e le idee di quei
tempi: era una intenzione ragionata, formata da una osservazione delle cose
reali; e in fatti con queste intenzioni molti abbracciando quello stato facevano
del bene tutta la loro vita; anzi molti che sarebbero stati uomini pericolosi,
che avrebbero accresciuti i mali della società, diventavano utili con
quell'abito indosso. Ho fatta tutta questa tiritèra perché nessuno trovi
inverisimile che fra Canziano, senza fare alcuna obbiezione, senza stupirsi, si
sia incaricato di dire, nullameno che al Padre Guardiano, che s'incomodasse a
portarsi da una donnicciuola che aveva bisogno di parlargli.
Partito Fra' Canziano: «tutte quelle noci!» gridò Agnese; «in questi anni di
miseria! e per noi che rimarrà? sei fuor di te per la disgrazia». «Mamma»,
rispose Lucia, «perdonatemi; ma voi vedete quanto importi di parlar subito al
Padre Galdino che ci può dar parere e soccorso. Se io avessi fatta una
elemosina come gli altri, Fra Canziano avrebbe dovuto girare Dio sa quanto,
prima di aver la bisaccia piena, e di tornare al convento; e colle ciarle che
avrebbe fatte e sentite, forse avrebbe dimenticata la mia commissione...»
«Via, hai pensato bene, e poi è tutta carità; purché faccia buon frutto».
Mentre le donne stavano in questi ragionamenti, Fermo, si avviava verso il
villaggio ripassando nella sua mente gli strani discorsi del dottore, passando
d'una passione nell'altra, proponendo ora un disegno or l'altro, e non potendo
riposarsi in alcuno. - Tutti così: siete fatti tutti così: andava dicendo fra
sè: oggi me lo sento dire per la seconda volta: siam fatti così: come siamo
dunque fatti noi poverelli? che cosa pretendo io da costoro? andava forse a
domandare la carità? Pretendo la giustizia, per bacco, (ommettendo molte altre
più che esclamazioni, perché Fermo non aveva mai tanto sagrato in tutta la sua
vita, come fece in quel giorno). Pretendo alla fine delle fini di sposare una
donna secondo la legge di Dio. Birbi tutti! tutti ad un modo! tutti d'accordo
per mandare gli stracci all'aria! Ma, se mi riducono alla disperazione... - Con
questi pensieri giunse alla casetta delle due donne ed entrando colla faccia
adirata, e vergognosa nello stesso tempo per la trista riuscita, gittò i
capponi sur un tavolo; e fu questa l'ultima trista vicenda delle povere bestie
per quel giorno.
«Bel parere che mi avete dato» diss'egli ad Agnese, «mi avete mandato da un
buon galantuomo, da uno che ajuta veramente i poverelli». E qui raccontò il
suo abboccamento col dottore. Agnese voleva replicare, e sostenere che il parere
era buono, e che se non aveva avuto buon effetto la colpa doveva essere di
Fermo, ma Lucia, interruppe, narrando a Fermo ch'ella sperava di aver trovato un
miglior consigliero. Il nome del Padre Galdino diede qualche speranza a Fermo;
ma Fermo accolse anche questa speranza, come accade a quelli che sono nella
sventura e nell'impaccio. «Ma, se il Padre», diceva, «non vi trova un
ripiego, lo troverò io in un modo o nell'altro». Le donne consigliarono la
pace e la pazienza, e la prudenza. «Domani», disse Lucia, «il Padre Galdino
verrà sicuramente, e vedrete che troverà qualche rimedio che noi poveretti non
sappiamo nemmeno immaginare».
«Lo spero», disse Fermo; «ma in ogni caso saprò farmi ragione, o farmela
fare. A questo mondo c'è giustizia finalmente».
«Addio Fermo», disse Lucia; «andate a casa, Dio ci ajuterà e non è lontano
il tempo che potremo star sempre insieme. Usate prudenza, non fatevi vedere, non
parlate». Agnese aggiunse altri consigli, e Fermo partì colle lagrime agli
occhi, e col cuore in tempesta, ripetendo di tempo in tempo queste portentose
parole: «A questo mondo v'è giustizia finalmente». Tanto è vero che un uomo
sopraffatto da grandi dolori non sa più quello che si dica.