|
|||
Home | Galleria Manzoni | ||
Romanzo | |||
Immagini per Capitolo | |||
Manzoni il ruolo dell'eroe | Manzoni la donna e l'amore | Manzoni la poetica |
Capitolo VII
Tra i molti scrittori
contemporanei all'avvenimento, scegliamo il solo che non sia oscuro, e che non
n'abbia parlato a seconda affatto della credenza comune, Giuseppe Ripamonti, già
tante volte citato. E ci par che possa essere un esempio curioso della tirannia
che un'opinion dominante esercita spesso sulla parola di quelli di cui non ha
potuto assoggettar la mente. Non solo non nega espressamente la reità di quegl'infelici
(nè, fino al Verri, ci fu chi lo facesse in uno scritto destinato al pubblico);
ma pare più d'una volta che la voglia espressamente affermare; giacchè, parlando
del primo interrogatorio del Piazza, chiama «malizia» la sua, e «avvedutezza»
quella de' giudici; dice che, «con le molte contradizioni, palesava il delitto,
nell'atto che voleva negarlo;» del Mora dice parimenti, che «fin che potè
reggere alla tortura, negava, al solito di tutti i rei, e che finalmente
raccontò la cosa com'era: exposuit omnia cum fide.» E nello stesso tempo,
cerca di fare intendere il contrario, accennando, timidamente e di fuga, qualche
dubbio sulle circostanze più importanti; dirigendo, con una parola, la
riflession del lettore al punto giusto; mettendo in bocca a qualche imputato
parole più atte a dimostrar la sua innocenza, di quelle che aveva sapute trovar
lui medesimo; mostrando finalmente qualche compassione che non si prova se non
per gl'innocenti. Parlando della caldaia trovata in casa del Mora, dice: «fece
principalmente grand'impressione una cosa forse innocente e accidentale, del
resto schifosa, e che poteva parer qualcosa di quello che si cercava.» Parlando
del primo confronto, dice che il Mora «invocava la giustizia di Dio contro una
frode, contro una maligna invenzione, contro un'insidia nella quale si poteva
far cadere qualunque innocente.» Lo chiama «sventurato padre di famiglia, che,
senza saperlo, portava su quell'infausto capo l'infamia e la rovina sua e de'
suoi.» Tutte le riflessioni che abbiamo esposte poco fa, e quelle di più che si
posson fare, sulla contradizion manifesta tra l'assoluzion del Padilla, e la
condanna degli altri, il Ripamonti le accenna con un vocabolo: «gli untori furon
puniti ciò non ostante: unctores puniti tamen.» Quanto non dice quell'avverbio,
o congiunzione che sia! E aggiunge: «la città sarebbe rimasta inorridita di
quella mostruosità di supplizi, se tutto non fosse parso meno del delitto.»
Ma il luogo dove fa intender più chiaramente il suo sentimento è dove protesta
di non volerlo dire. Dopo aver raccontato vari casi di persone cadute in
sospetto d'untori, senza che ne seguissero processi, «mi trovo,» dice, «a un
passo difficile e pericoloso, a dover dichiarare se, oltre quelli così a torto
presi per untori, io creda che ci siano stati untori davvero... Nè la difficoltà
nasce dall'incertezza della cosa, ma dal non essermi lasciata la libertà di far
quello che pur si pretende da ogni scrittore, cioè ch'esprima i suoi veri
sentimenti. Chè se io dicessi che non ci furono untori, che senza ragione si va
a immaginar malizia degli uomini in ciò che fu punizion di Dio, si griderebbe
subito che la storia è empia, che l'autore non rispetta un giudizio solenne.
Tanto l'opinion contraria è radicata nelle menti, e la plebe credula al solito,
e la nobiltà superba son pronti a difenderla come quello che possano aver di più
caro e di più sacro. Mettersi in guerra con tanti, sarebbe un'impresa dura e
inutile; e per ciò, senza negare, nè affermare, nè pender più da una parte che
dall'altra, mi ristringerò a riferir l'opinioni altrui » Chi domandasse se non
sarebbe stata cosa più ragionevole, come più facile, il non parlarne affatto,
sappia che il Ripamonti era istoriografo della città; cioè uno di quegli uomini,
ai quali, in qualche caso, può esser comandato e proibito di scriver la storia.
Un altro istoriografo, ma in un campo più vasto, Batista Nani, veneziano, che in
questo caso non poteva esser condotto da nessun riguardo a dire il falso, fu
condotto a crederlo dall'autorità d'un'iscrizione e d'un monumento. «Se ben
veramente,» dice, «l'immaginazione de' popoli, alterata dallo spavento, molte
cose si figurava, ad ogni modo il delitto fu scoperto e punito, stando ancora in
Milano l'iscrizione e le memorie degli edifici abbattuti, dove que' mostri si
congregavano.» Chi, non conoscendo altro di quello scrittore, prendesse questo
ragionamento per misura del suo giudizio, s'ingannerebbe di molto. In varie
ambascerie importanti, e in varie cariche domestiche, aveva avuto campo di
conoscer gli uomini e le cose; e dà prova nella sua storia d'esserci non
volgarmente riuscito. Ma i giudizi criminali, e la povera gente, quand'è poca,
non si riguardano come materia propriamente della storia; sicchè, non c'è da
meravigliarsi che, occorrendo al Nani di parlare incidentalmente di quel fatto,
non ci guardasse tanto per la minuta. Se alcuno gli avesse citata un'altra
colonna, e un'altra iscrizione di Milano, come prova d'una sconfitta ricevuta
da' veneziani (sconfitta tanto vera, quanto il delitto di que' mostri),
certo il Nani si sarebbe messo a ridere.
Fa più meraviglia e più dispiacere il trovar lo stesso argomento e gli stessi
improperi in uno scritto d'un uomo molto più celebre, e con gran ragione. Il
Muratori, nel «Trattato del governo della peste,» dopo aver accennato diverse
storie di quel genere, «ma nessun caso,» dice, «è più rinomato di quel di
Milano, ove nel contagio del 1630, furono prese parecchie persone, che
confessarono un sì enorme delitto, e furono aspramente giustiziate. Ne esiste
tuttavia (e l'ho veduta anch'io) la funesta memoria nella Colonna infame posta
ov'era la casa di quegli inumani carnefici. Il perchè grande attenzion ci vuole
affinchè non si rinnovassero più simili esecrande scene.» E quello che, non
toglie il dispiacere, ma lo muta, è il veder che la persuasione del Muratori non
era così risoluta come queste sue parole. Chè, venendo poi a discorrere (e si
vede che è ciò che gli preme davvero) de' mali orribili che posson nascere dal
figurarsi e dal credere tali cose senza fondamento, dice: «si giunge ad
imprigionar delle persone, e per forza di tormenti a cavar loro di bocca la
confession di delitti ch'eglino forse non avranno mai commesso, con far poi di
loro un miserabile scempio sopra i pubblici patiboli.» Non par egli che voglia
alludere ai nostri disgraziati? E quello che lo fa creder di più, è che attacca
subito con quelle parole che abbiam già citate nello scritto antecedente, e che,
per esser poche, trascriviam qui di nuovo: «Ho trovato gente savia in Milano che
aveva buone relazioni dai loro maggiori, e non era molto persuasa che fosse vero
il fatto di quegli unti velenosi, i quali si dissero sparsi per quella città, e
fecero tanto strepito nella peste del 1630 .» Non si può, dico, fare a meno di
non sospettare che il Muratori credesse piuttosto sciocche favole quelle che
chiama «esecrande scene,» e (ciò che è più grave) innocenti assassinati quelli
che chiama «inumani carnefici.» Sarebbe uno di que' casi tristi e non rari, in
cui uomini tutt'altro che inclinati a mentire, volendo levar la forza a qualche
errore pernicioso, e temendo di far peggio col combatterlo di fronte, hanno
creduto bene di dir prima la bugia, per poter poi insinuare la verità.
Dopo il Muratori, troviamo uno scrittore più rinomato di lui come storico, e
(ciò che in un fattto di questa sorte parrebbe dover rendere il suo giudizio più
degno d'osservazione di qualunque altro) storico giureconsulto, e, come dice di
sè medesimo, «più giureconsulto che politico,» Pietro Giannone. Noi però non
riferiremo questo giudizio, perchè è troppo poco che l'abbiam riferito: è quello
del Nani, che il lettore ha veduto poco fa, e che il Giannone ha copiato, parola
per parola, citando questa volta il suo autore a piè di pagina.
Dico: questa volta; perchè il copiarlo che ha fatto senza citarlo, è cosa degna
d'esser notata, se, come credo, non lo fu ancora. Il racconto, per esempio,
della sollevazione della Catalogna, e della rivoluzione del Portogallo, nel 1640
è, nella storia del Giannone, trascritto da quella del Nani, per più di sette
pagine in 4.°, con pochissime omissioni, o aggiunte, o variazioni, la più
considerabile delle quali è d'aver diviso in capitoli e in capoversi un testo
che nello scritto originale andava tutto di seguito . Ma chi mai s'immaginerebbe
che l'avvocato napoletano, dovendo raccontare altre sollevazioni, non di
Barcellona, nè di Lisbona, ma quella di Palermo, del 1647, e quella di Napoli,
contemporanea e più celebre, per la singolarità e per l'importanza degli
avvenimenti, e per Masaniello, non trovasse da far meglio, nè da far più che di
prendere, non i materiali, ma la cosa bell'e fatta, dall'opera del cavaliere e
procurator di san Marco? Chi l'anderebbe a pensare soprattutto dopo aver lette
le parole con le quali il Giannone entra in quel racconto? e son queste: «Gli
avvenimenti infelici di queste rivoluzioni sono stati descritti da più autori:
alcuni gli vollero far credere portentosi, e fuor del corso della natura: altri
con troppo sottili minuzie distraendo i leggitori, non ne fecero rettamente
concepire le vere cagioni, i disegni, il proseguimento, ed il fine: noi per ciò,
seguendo gli scrittori più serj e prudenti, gli ridurremo alla lor giusta e
natural positura.» Eppure ognuno può vedere, facendo il confronto, come, subito
dopo queste sue parole, il Giannone metta mano a quelle del Nani ,
frammischiandoci ogni tanto, e specialmente sul principio, qualcheduna delle
sue, facendo qua e là qualche cambiamento, alle volte per necessità, e nella
stessa maniera che uno, il qual compri biancheria usata, leva il segno
dell'antico padrone, e ci mette il suo. Così, dove il veneziano dice: «in quel
regno,» il napoletano sostituisce: «in questo regno;» dove il contemporaneo dice
che vi «restano le fazioni quasi che intiere,» il postero, che vi «restavano
ancora le reliquie dell'antiche fazioni.» È vero che, oltre queste piccole
aggiunte o variazioni, si trovano anche in quel lunghissimo squarcio, come pezzi
messi a rimendo, alcuni brani più estesi, che non son del Nani. Ma, cosa
veramente da non credersi, son presi da un altro quasi tutti, e quasi parola per
parola: è roba di Domenico Parrino , scrittore (alla rovescia di molt'altri)
oscuro, ma letto molto, e fors'anche più di quello che sperava lui medesimo, se,
in Italia e fuori, è letta quanto lodata la «Storia civile del regno di Napoli,»
che porta il nome di Pietro Giannone. Chè, senza allontanarci da que' due
periodi di storia de' quali s'è fatto qui menzione, se, dopo le sollevazioni
catalana e portoghese, il Giannone, trascrive dal Nani la caduta del favorito
Olivares, trascrive poi dal Parrino il richiamo del duca di Medina vicerè di
Napoli, che ne fu la conseguenza, e i ritrovati di questo per cedere il più
tardi che fosse possibile il posto al successore Enriquez de Cabrera. Dal
Parrino ugualmente, in gran parte, il governo di questo; e poi dall'uno e
dall'altro, a intarsiatura, il governo del duca d'Arcos, per tutto quel tempo
che precedette le sollevazioni di Palermo e di Napoli, e come abbiam detto, il
progresso e la fine di queste, sotto il governo di D. Giovanni d'Austria, e del
conte d'Oñatte. Poi dal Parrino solo, sempre a lunghi pezzi, o a pezzettini
frequenti, la spedizione di quel vicerè contro Piombino e Portolongone; poi il
tentativo del duca di Guisa contro Napoli; poi la peste del 1656. Poi dal Nani
la pace de' Pirenei, e dal Parrino una piccola appendice dove sono accennati gli
effetti di essa nel regno di Napoli .
Voltaire, parlando, nel «Secolo di Luigi XIV,» de' tribunali istituiti da quel
re, in Metz e in Brisac, dopo la pace di Nimega, per decidere delle sue proprie
pretensioni sopra territori di stati vicini, nomina in una nota, il Giannone con
gran lode, com'era da aspettarsi, ma per fargli una critica. Ecco la traduzione
di quella nota: «Giannone, così celebre per la sua utile storia di Napoli, dice
che questi tribunali erano stabiliti a Tournai. Sbaglia frequentemente negli
affari che non son del suo paese. Dice, per esempio, che, a Nimega, Luigi XIV
fece la pace con la Svezia; e in vece questa era sua alleata » Ma lasciando da
parte la lode, la critica, in questo caso, non è dovuta al Giannone, il quale,
come in tant'altri casi, non fece nemmen la fatica di sbagliare. È vero che nel
libro dell'uomo «così celebre,» si leggono queste parole: «Seguì poscia la pace
fra la Francia, la Svezia, l'Imperio e l'Imperadore;» (nelle quali, del
rimanente, non saprei se non ci sia ambiguità, piuttosto che errore); e quest'altre:
«Aprirono poscia,» i francesi, «due tribunali, l'uno a Tournay, e l'altro a
Metz; ed arrogandosi una giurisdizione non mai udita nel mondo sopra i principi
lor vicini, fecero non solamente aggiudicare alla Francia, con titolo di
dipendenze, tutto il paese che saltò loro in capriccio ne' confini della Fiandra
e dell'Imperio, ma se ne posero in via di fatto in possessione, costringendo gli
abitanti a riconoscere il re Cristianissimo per sovrano, prescrivendo termini,
ed esercitando tutti quegli atti di signoria che sono soliti i principi di
praticare co' sudditi.» Ma son parole di quel povero ignorato Parrino , e non
già stralciate da quel suo pezzo di storia, ma portate via insieme con esso: chè
spesso il Giannone, in vece di star lì a cogliere un frutto qua e uno là, leva
l'albero addirittura, e lo trapianta nel suo giardino. Tutta, si può dire, la
relazione della pace di Nimega è presa dal Parrino; come in gran parte, e con
molte omissioni, ma con poche aggiunte, il viceregno in Napoli del marchese de
los Veles, nel tempo del quale quella pace fu conclusa, e col quale il Parrino
chiude la sua opera, e il Giannone il penultimo libro della sua. E probabilmente
(stavo per dir di certo), chi si divertisse a farne il confronto intero, per
tutto il periodo antecedente della dominazione spagnola in Napoli, con la quale
comincia il lavoro del Parrino, troverebbe per tutto, quello che noi abbiam
trovato in varie parti, e, se non m'inganno, senza veder mai citato il nome di
quel tanto saccheggiato scrittore . Così dal Sarpi, senza citarlo punto, prende
il Giannone molti brani, e tutta l'orditura d'una sua digressione ; come mi fu
fatto osservare da una dotta e gentile persona. E chi sa quali altri furti non
osservati di costui potrebbe scoprire chi ne facesse ricerca; ma quel tanto che
abbiam veduto d'un tal prendere da altri scrittori, non dico la scelta e
l'ordine de' fatti, non dico i giudizi, l'osservazioni, lo spirito, ma le
pagine, i capitoli, i libri, è sicuramente, in un autor famoso e lodato, quel
che si dice un fenomeno. Sia stata, o sterilità, o pigrizia di mente, fu
certamente rara, come fu raro il coraggio; ma unica la felicità di restare,
anche con tutto ciò (fin che resta), un grand'uomo. E questa circostanza,
insieme con l'occasione che ce ne dava l'argomento, ci faccia perdonare dal
benigno lettore una digressione, lunga, per dir la verità, in una parte
accessoria d'un piccolo scritto.
Chi non conosce il frammento del Parini sulla colonna infame? Ma chi non si
maraviglierebbe di non vederne fatta menzione in questo luogo? Ecco dunque i
pochi versi di quel frammento, ne' quali il celebre poeta fa pur troppo eco alla
moltitudine e all'iscrizione:
Quando, tra vili case e in mezzo a poche |
Era questa veramente l'opinion del Parini? Non si sa; e l'averla espressa, così
affermativamente bensì, ma in versi, non ne sarebbe un argomento; perchè allora
era massima ricevuta che i poeti avessero il privilegio di profittar di tutte le
credenze, o vere, o false, le quali fossero atte a produrre un'impressione, o
forte, o piacevole. Il privilegio! Mantenere e riscaldar gli uomini nell'errore,
un privilegio! Ma a questo si rispondeva che un tal inconveniente non poteva
nascere, perchè i poeti, nessuno credeva che dicessero davvero. Non c'è da
replicare: solo può parere strano che i poeti fossero contenti del permesso e
del motivo.
Venne finalmente Pietro Verri, il primo, dopo cento quarantasett'anni, che vide
e disse chi erano stati i veri carnefici, il primo che richiese per
degl'innocenti così barbaramente trucidati, e così stolidamente aborriti, una
compassione, tanto più dovuta, quanto più tarda. Ma che? le sue «Osservazioni,»
scritte nel 1777, non furon pubblicate che nel 1804, con altre sue opere, edite
e inedite, nella raccolta degli «Scrittori classici italiani d'economia
politica.» E l'editore rende ragione di questo ritardo, nelle «Notizie» premesse
all'opere suddette. «Si credette,» dice, «che l'estimazione del senato potesse
restar macchiata dall'antica infamia.» Effetto comunissimo, a que' tempi, dello
spirito di corpo, per il quale, ognuno, piuttosto che concedere che i suoi
predecessori avessero fallato, faceva suoi anche gli spropositi che non aveva
fatti. Ora un tale spirito non troverebbe l'occasione d'estendersi tanto nel
passato, giacchè, in pochi, meno uno soprattutto, il quale, non essendo stato
istituito dagli uomini, non può essere nè abolito, nè surrogato. Oltre di ciò,
questo spirito è combattuto e indebolito più che mai dallo spirito
d'individualità: l'io si crede troppo ricco per accattar dal noi.
E in questa parte, è un rimedio; Dio ci liberi di dire: in tutto. A ogni modo,
Pietro Verri non era uomo da sacrificare a un riguardo di quella sorte la
manifestazione d'una verità resa importante dal credito in cui era l'errore, e
più ancora dal fine a cui intendeva di farla servire; ma c'era una circostanza
per cui il riguardo diveniva giusto. Il padre dell'illustre scrittore era
presidente del senato. Così è avvenuto più volte, che anche le buone ragioni
abbian dato aiuto alle cattive, e che, per la forza dell'une e dell'altre, una
verità, dopo aver tardato un bel pezzo a nascere, abbia dovuto rimanere per un
altro pezzo nascosta.