|
|||
Home | Galleria Manzoni | ||
Romanzo | |||
Immagini per Capitolo | |||
Manzoni il ruolo dell'eroe | Manzoni la donna e l'amore | Manzoni la poetica |
Capitolo III
E per venir finalmente all'applicazione, era
insegnamento comune, e quasi universale de' dottori, che la bugia dell'accusato
nel rispondere al giudice, fosse uno degl'indizi legittimi, come dicevano, alla
tortura. Ecco perchè l'esaminatore dell'infelice Piazza gli oppose, non esser
verisimile che lui non avesse sentito parlare di muri imbrattati in porta
Ticinese, e che non sapesse il nome de' deputato coi quali aveva avuto che fare.
Ma insegnavan forse che bastasse una bugia qualunque?
«La bugia, per fare indizio alla tortura, deve riguardar le qualità e le
circostanze sostanziali del delitto, cioè che appartengano ad esso, e dalle
quali esso si possa inferire; altrimenti no: alias secus.»
«La bugia non fa indizio alla tortura, se riguarda cosa che non aggraverebbero
il reo, quando le avesse confessate.»
E bastava, secondo loro, che il detto dell'accusato paresse al giudice bugia,
perchè questo potesse venire ai tormenti?
«La bugia per fare indizio alla tortura dev'esser provata concludentemente, o
dalla propria confession del reo, o da due testimoni... essendo dottrina comune
che due sian necessari a provar un indizio remoto, quale è la bugia .» Cito, e
citerò spesso il Farinacci, come uno de' più autorevoli allora, e come gran
raccoglitore dell'opinioni più ricevute. Alcuni però si contentavano d'un
testimonio solo, purchè fosse maggiore d'ogni eccezione. Ma che la bugia dovesse
risultar da prove legali, e non da semplice congettura del giudice, era dottrina
comune e non contradetta.
Tali condizioni eran dedotte da quel canone della legge romana, il quale
proibiva (che cosa s'è ridotti a proibire, quando se ne sono ammesse cert'altre!)
di cominciar dalla tortura. «E se concedessimo ai giudici,» dice l'autor
medesimo, «la facoltà di mettere alla tortura i rei senza indizi legittimi e
sufficienti, sarebbe come in lor potere il cominciar da essa... E per poter
chiamarsi tali, devon gl'indizi esser verisimili, probabili, non leggieri, nè di
semplice formalità, ma gravi, urgenti, certi, chiari, anzi più chiari del sole
di mezzogiorno, come si suol dire... Si tratta di dare a un uomo un tormento, e
un tormento che può decider della sua vita: agitur de hominis salute; e perciò
non ti maravigliare, o giudice rigoroso, se la scienza del diritto e i dottori
richiedono indizi così squisiti, e dicon la cosa con tanta forza, e la vanno
ripetendo .»
Non diremo certamente che tutto questo sia
ragionevole; giacchè non può esserlo ciò che implica contradizione. Erano sforzi
vani, per conciliar la certezza col dubbio, per evitare il pericolo di
tormentare innocenti, e d'estorcere false confessioni, volendo però la tortura
come un mezzo appunto di scoprire se uno fosse innocente o reo, e di fargli
confessare una data cosa. La conseguenza logica sarebbe stata di dichiarare
assurda e ingiusta la tortura, ma a questo ostava l'ossequiocieco all'antichità
e al diritto romano. Quel libriccino Dei delitti e delle pene, che promosse, non
solo l'abolizion della tortura, ma la riforma di tutta la legislazion criminale,
cominciò con le parole: «Alcuni avanzi di leggi d'un antico popolo
conquistatore,» E parve, com'era, ardire d'un grand'ingegno: un secolo prima
sarebbe parsa stravaganza. Nè c'è da maravigliarsene: non s'è egli visto un
ossequio dello stesso genere mantenersi più a lungo, anzi diventar più forte
nella politica, più tardi nella letteratura, più tardi ancora in qualche ramo
delle Belle Arti? Viene, nelle cose grandi, come nelle piccole, il momento in
cui ciò che, essendo accidentale e fittizio, vuol perpetuarsi come naturale e
necessario, è costretto a cedere all'esperienza, al ragionamento, alla sazietà,
alla moda, a qualcosa di meno, se è possibile, secondo la qualità e l'importanza
delle cose medesime; ma questo momento dev'esser preparato. Ed è già un merito
non piccolo degl'interpreti, se, come ci pare, furon essi che lo prepararono,
benchè lentamente, benchè senz'avvedersene; per la giurisprudenza.
Ma le regole che pure avevano stabilite, bastano in questo caso a convincere i
giudici, anche di positiva prevaricazione. Vollero appunto costoro cominciar
dalla tortura. Senza entrare in nulla che toccasse circostanze, nè sostanziali
nè accidentali, del presunto delitto, moltiplicarono interrogazioni
inconcludenti, per farne uscir de' pretesti di dire alla vittima destinata: non
è verisimile; e, dando insieme a inverisimiglianze asserite la forza di bugie
legalmente provate, intimar la tortura. È che non cercavano una verità, ma
volevano una confessione: non sapendo quanto vantaggio avrebbero avuto
nell'esame del fatto supposto, volevano venir presto al dolore, che dava loro un
vantaggio pronto e sicuro: avevan furia. Tutto Milano sapeva (è il vocabolo
usato in casi simili) che Guglielmo Piazza aveva unti i muri, gli usci, gli
anditi di via della Vetra; e loro che l'avevan nelle mani, non l'avrebbero fatto
confessar subito a lui!
Si dirà forse che, in faccia alla giurisprudenza, se non alla coscienza, tutto
era giustificato dalla massima detestabile, ma allora ricevuta, che nei delitti
più atroci fosse lecito oltrepassare il diritto?. Lasciamo da parte che
l'opinion più comune, anzi quasi universale, de' giureconsulti, era (e se al
ciel piace, doveva essere) che una tal massima non potesse applicarsi alla
procedura, ma soltanto alla pena; «giacchè,» per citarne uno, «benchè si tratti
d'un delitto enorme, non consta però che l'uomo l'abbia commesso; e fin che non
consti, è dovere che si serbino le solennità del diritto.» E solo per farne
memoria, e come uno di que' tratti notabili con cui l'eterna ragione si
manifesta in tutti i tempi, citeremo anche la sentenza d'un uomo che scrisse sul
principio del secolo decimoquinto, e fu, per lungo tempo dopo, chiamato il
Bartolo del diritto ecclesiastico, Nicolò Tedeschi, arcivescovo di Palermo, più
celebre, fin che fu celebre, sotto il nome d'Abate Palermitano: «Quanto il
delitto è più grave, » dice quest'uomo, «tanto più le presunzioni devono esser
forti; perchè dove il pericolo è maggiore, bisogna anche andar più cauti. » Ma
questo, dico, non fa al caso nostro (sempre riguardo alla sola giurisprudenza),
poichè il Claro attesta che nel foro di Milano prevaleva la consuetudine
contraria; cioè era, in que' casi, permesso al giudice d'oltrepassare il
diritto, anche nell'inquisizione . «Regola, » dice il Riminaldi, altro già
celebre giureconsulto, «da non riceversi negli altri paesi; » e il Farinacci
aggiunge: «ha ragione.» Ma vediamo come il Claro medesimo interpreti una tal
regola: «si viene alla tortura, quantunque gl'indizi non siano in tutto
sufficienti (in totum sufficientia), nè provati da testimoni maggiori d'ogni
eccezione, e spesse volte anche senza aver data al reo copia del processo
informativo.» E dove tratta in particolare degl'indizi legittimi alla tortura,
li dichiara espressamente necessari «non solo ne' delitti minori, ma anche ne'
maggiori e negli atrocissimi, anzi nel delitto stesso di lesa maestà » Si
contentava dunque d'indizi meno rigorosamente provati, ma li voleva provati in
qualche maniera; di testimoni meno autorevoli, ma voleva testimoni; d'indizi più
leggeri, ma voleva indizi reali, relativi al fatto; voleva insomma render più
facile al giudice la scoperta del delitto, non dargli la facoltà di tormentare,
sotto qualunque pretesto, chiunque gli venisse nelle mani. Son cose che una
teoria astratta non riceve, non inventa, non sogna neppure; bensì la passione le
fa.
Intimò dunque l'iniquo esaminatore al Piazza: che dica la verità per qual causa
nega di sapere che siano state onte le muraglie, et di sapere come si chiamino
li deputati, che altrimente, come cose inuerisimili, si metterà alla corda, per
auer la verità di queste inuerisimilitudini. - Se me la vogliono anche far
attaccar al collo lo faccino; che di queste cose che mi hanno interrogato non ne
so niente, rispose l'infelice, con quella specie di coraggio disperato, con cui
la ragione sfida alle volte la forza, come per farle sentire che, a qualunque
segno arrivi, non arriverà mai a diventar ragione.
E si veda a che miserabile astuzia dovettero ricorrer que' signori, per dare un
po' più di colore al pretesto. Andarono, come abbiam detto, a caccia d'una
seconda bugia, per poter parlarne con la formola del plurale; cercarono un altro
zero, per ingrossare un conto in cui non avevan potuto far entrar nessun numero.
È messo alla tortura; gli s'intima che si risolua di dire la verità, risponde
tra gli urli e i gemiti e l'invocazioni e le supplicazioni: l'ho detta, signore.
Insistono. Ah per amor di Dio! grida l'infelice: V. S. Mi facci lasciar giù, che
dirò quello che so; mi facci dare un po' d'acqua. È lasciato giù, messo a
sedere, interrogato di nuovo; risponde: io non so niente; V. S. Mi facci dare un
poco d'acqua.
Quanto è cieco il furore! Non veniva loro in mente che quello che volevan
cavargli di bocca per forza, avrebbe potuto addurlo lui come argomento
fortissimo della sua innocenza, se fosse stato la verità, come, con atroce
sicurezza, ripetevano. - Sì, signore, - avrebbe potuto rispondere: - avevo
sentito dire che s'eran trovati unti i muri di via Vetra; e stavo a baloccarmi
sulla porta di casa vostra, signor presidente della Sanità! - E l'argomento
sarebbe stato tanto più forte, in quanto, essendosi sparsa insieme la voce del
fatto, e la voce che il Piazza ne fosse l'autore, questo avrebbe, insieme con la
notizia, dovuto risapere il suo pericolo. Ma questa osservazion così ovvia, e
che il furore non lasciava venire in mente a coloro, non poteva nemmeno venire
in mente all'infelice, perchè non gli era stato detto di cosa fosse imputato.
Volevan prima domarlo co' tormenti; questi eran per loro gli argomenti
verosimili e probabili, richiesti dalla legge; volevan fargli sentire quale
terribile, quale immediata conseguenza veniva dal risponder loro di no; volevano
che si confessasse bugiardo una volta, per acquistare il diritto di non
credergli, quando avrebbe detto: sono innocente. Ma non ottennero l'iniquo
intento. Il Piazza, rimesso alla tortura, alzato da terra, intimatogli che
verrebbe alzato di più, eseguita la minaccia, e sempre incalzato a dir la
verità, rispose sempre: l'ho detta; prima urlando, poi a voce bassa; finchè i
giudici, vedendo che ormai non avrebbe più potuto rispondere in nessuna maniera,
lo fecero lasciar giù, e ricondurre in carcere.
Riferito l'esame in senato, il giorno 23, dal presidente della Sanità, che n'era
membro, e dal capitano di giustizia, che ci sedeva quando fosse chiamato, quel
tribunale supremo decretò che: «il Piazza, dopo essere stato raso, rivestito
cogli abiti della curia, e purgato, fosse sottoposto alla tortura grave, con la
legatura del canapo,» atrocissima aggiunta, per la quale, oltre le braccia, si
slogavano anche le mani; «a riprese e ad arbitrio de' due magistrati suddetti; e
ciò sopra alcune delle menzogne e inverisimiglianze risultanti dal processo.»
Il solo senato aveva, non dico l'autorità, ma il potere d'andare impunemente
tanto avanti per una tale strada. La legge romana sulla ripetizion de' tormenti,
era interpretata in due maniere; e la men probabile era la più umana. Molti
dolori (seguendo forse Odofredo , che è il solo citato da Cino di Pistoia, e il
più antico de' citati dagli altri) intesero che la tortura non si potesse
rinnovare se non quando fossero sopravvenuti nuovi indizi, più evidenti de'
primi, e, condizione che fu aggiunta poi, di diverso genere. Molt'altri,
seguendo Bartolo, intesero che si potesse, quando i primi indizi fossero
manifesti, evidentissimi, urgentissimi; e quando, condizione aggiunta poi anche
questa, la tortura fosse stata leggiera. Ora, nè l'una, nè l'altra
interpretazione faceva punto al caso. Nessun nuovo indizio era emerso; e i primi
erano che due donne avevan visto il Piazza toccar qualche muro; e, ciò ch'era
indizio insieme e corpo del delitto, i magistrati avevan visto alcuni segni di
materia ontuosa su que' muri abbruciacchiati e affumicati, e segnatamente in un
andito... dove il Piazza non era entrato. Di più quest'indizi, quanto manifesti,
evidenti e urgenti, ognun lo vede, non erano stati messi alla prova, discussi
col reo. Ma che dico? il decreto del senato non fa neppur menzione d'indizi
relativi al delitto, non applica neppur la legge a torto; fa come se non ci
fosse. Contro ogni legge, contro ogni autorità, come contro ogni ragione, ordina
che il Piazza sia torturato di nuovo, sopra alcune bugie e inverisimiglianze;
ordina cioè a' suoi delegati di rifare, e più spietatamente, ciò che avrebbe
dovuto punirli d'aver fatto. Perciocchè era (e poteva non essere?) dottrina
universale, canone della giurisprudenza, che il giudice inferiore, il quale
avesse messo un accusato alla tortura senza indizi legittimi, fosse punito dal
superiore.
Ma il senato di Milano era tribunal supremo; in questo mondo, s'intende. E il
senato di Milano, da cui il pubblico aspettava la sua vendetta, se non la
salute, non doveva essere men destro, men perseverante, men fortunato
scopritore, di Caterina rosa. Chè tutto si faceva con l'autorità di costei; quel
suo: all'hora mi viene in pensiero se a caso fosse un poco uno di quelli,
com'era stato il primo movente del processo, così n'era ancora il regolatore, e
il modello; se non che colei aveva cominciato col dubbio, i giudici con la
certezza. E non paia strano il veder uomini i quali non dovevan essere, anzi non
eran certamente di quelli che vogliono il male per il male, vederli, dico,
violare così apertamente e crudelmente ogni diritto; giacchè il credere
ingiustamente, è strada a ingiustamente operare, fin dove l'ingiusta persuasione
possa condurre; e se la coscienza esita, s'inquieta, avverte, le grida d'un
pubblico hanno la funesta forza ( in chi dimentica d'avere un altro giudice) di
soffogare i rimorsi; anche d'impedirli.
Il motivo di quelle odiose, se non crudeli prescrizioni, di tosare, rivestire,
purgare, lo diremo con le parole del Verri. «In quei tempi credevasi che o ne'
capelli e peli, ovvero nel vestito, o persino negli intestini trangugiandolo,
potesse avere un amuleto o patto col demonio, onde rasandolo, spogliandolo e
purgandolo ne venisse disarmato .» E questo era veramente de' tempi; la violenza
era un fatto (con diverse forme) di tutti i tempi, ma una dottrina di nessun
tempo.
Quel secondo esame non fu che una ugualmente assurda, e più atroce ripetizione
del primo, e con lo stesso effetto. L'infelice Piazza, interrogato prima, e
contradetto con cavilli, che si direbbero puerili, se a nulla d'un tal fatto
potesse convenire un tal vocabolo, e sempre su circostanze indifferenti al
supposto delitto, e senza mai accennarlo nemmeno, fu messo a quella più crudele
tortura che il senato aveva prescritta. N'ebbero parole di dolor disperato,
parole di dolor supplichevole, nessuna di quelle che desideravano, e per ottener
le quali avevano il coraggio di sentire, di far dire quell'altre. Ah Dio mio! ah
che assassinamento è questo! ah Signor fiscale... Fatemi almeno appiccar
presto... Fatemi tagliar via la mano... Ammazzatemi; lasciatemi almeno riposar
un poco. Ah! signor Presidente!... Per amor di Dio, fatemi dar da bere; ma
insieme: non so niente, la verità l'ho detta. Dopo molte e molte risposte tali,
a quella freddamente e freneticamente ripetuta istanza di dir la verità, gli
mancò la voce, ammutolì; per quattro volte non rispose; finalmente potè dire
ancora una volta, con voce fioca: non so niente; la verità l'ho già detta. Si
dovette finire, e ricondurlo di nuovo, non confesso, in carcere.
E non c'eran più nemmeno pretesti, nè motivo di ricominciare: quella che avevan
presa per una scorciatoia, gli aveva condotti fuor di strada. Se la tortura
avesse prodotto il suo effetto, estorta la confession della bugia, tenevan
l'uomo; e, cosa orribile! quanto più il soggetto della bugia era per sè
indifferente, e di nessuna importanza, tanto più essa sarebbe stata, nelle loro
mani, un argomento potente della reità del Piazza, mostrando che questo aveva
bisogno di stare alla larga dal fatto, di farsene ignaro in tutto, in somma di
mentire. Ma dopo una tortura illegale, dopo un'altra più illegale e più atroce o
grave, come dicevano, rimettere alla tortura un uomo, perchè negava d'aver
sentito parlare d'un fatto, e di sapere il nome de' deputati d'una parrocchia,
sarebbe stato eccedere i limiti dello straordinario. Eran dunque da capo, come
se non avessero fatto ancor nulla; bisognava venire, senza nessun vantaggio,
all'investigazion del supposto delitto, manifestare il reato al Piazza,
interrogarlo. E se l'uomo negava? se, come aveva dato prova di saper fare,
persisteva a negare anche ne' tormenti? I quali avrebbero dovuto essere
assolutamente gli ultimi, se i giudici non volevano appropriarsi una terribil
sentenza d'un loro collega, morto quasi da un secolo, ma la cui autorità era più
viva che mai, il Bossi citato sopra. «Più di tre volte,» dice, «non ho mai visto
ordinar la tortura, se non da de' giudici boia: nisi a carneficibus.» E parla
della tortura ordinata legalmente!
Ma la passione è pur troppo abile e coraggiosa a trovar nuove strade, per
iscansar quella del diritto, quand'è lunga e incerta. Avevan cominciato con la
tortura dello spasimo, ricominciarono con una tortura d'un altro genere.
D'ordine del senato (come si ricava da una lettera autentica del capitano di
giustizia al governatore Spinola, che allora si trovava all'assedio di Casale),
l'auditor fiscale della Sanità, in presenza d'un notaio, promise al Piazza
l'impunità, con la condizione (e questo si vede poi nel processo) che dicesse
interamente la verità. Così eran riusciti a parlargli dell'imputazione, senza
doverla discutere; a parlargliene, non per cavar dalle sue risposte i lumi
necessari all'investigazion della verità, non per sentir quello che ne dicesse
lui; ma per dargli uno stimolo potente a dir quello che volevan loro.
La lettera che abbiamo accennata, fu scritta il 28 di giugno, cioè quando il
processo aveva, con quell'espediente, fatto un gran passo. «Ho giudicato
conuenire,» comincia, «che V. E. sapesse quello che si è scoperto nel
particolare d'alcuni scellerati che, a' giorni passati, andauano ungendo i muri
et le porte di questa città.» E non sarà forse senza curiosità, nè senza
istruzione, il veder come cose tali sian raccontate da quelli che le fecero. «Hebbi,»,
dice dunque, «commissione dal Senato di formar processo, nel quale, per il detto
d'alcune donne, e d'un huomo degno di fede, restò aggrauato un Guglielmo Piazza,
huomo plebeio, ma ora Commissario della Sanità, ch'esso, il venerdì alli 21 su
l'aurora, hauesse unto i muri di una contrada posta in Porta Ticinese, chiamata
la Vetra de' cittadini.»
E l'uomo degno di fede, messo lì subito per corroborar l'autorità delle donne,
aveva detto d'aver rintoppato il Piazza, il quale io salutai, et lui mi rese il
saluto. Questo era aggravarlo! come se il delitto imputatogli fosse stato
d'essere entrato in via della Vetra. Non parla poi il capitano di giustizia
della visita fatta da lui per riconoscere il corpo del delitto; come non se ne
parla più nel processo.
«Fu dunque, » prosegue, «incontinente preso costui.» E non parla della visita
fattagli in casa, dove non si trovò nulla di sospetto.
«Et essendosi maggiormente nel suo esame aggrauato,» (s'è visto!) «fu messo a
una graue tortura, ma non confessò il delitto.»
Se qualcheduno avesse detto allo Spinola, che il Piazza non era stato
interrogato punto intorno al delitto, lo Spinola avrebbe risposto: - Sono
positivamente informato del contrario: il capitano di giustizia mi scrive, non
questa cosa appunto, ch'era inutile; ma un'altra che la sottintende, che la
suppone necessariamente; mi scrive che, messo ad una grave tortura, non lo
confessò. - Se l'altro avesse insistito, - come! - avrebbe potuto dire l'uomo
celebre e potente, - volete voi che il capitano di giustizia si faccia beffe di
me, a segno di raccontarmi come una notizia importante, che non è accaduto
quello che non poteva accadere? - Eppure era proprio così: cioè, non era che il
capitano di giustizia volesse farsi beffe del governatore; era che avevan fatta
una cosa da non potersi raccontare nella maniera appunto che l'avevan fatta;
era, ed è, che la falsa coscienza trova più facilmente pretesti per operare, che
formole per render conto di quello che ha fatto.
Ma sul punto dell'impunità, c'è in quella lettera un altro inganno che lo
Spinola avrebbe potuto, anzi dovuto conoscer da sè, almeno per una parte, se
avesse pensato ad altro che a prender Casale, che non prese. Prosegue essa così:
«finchè d'ordine del Senato (anco per esecutione della grida ultimamente fatta
in questo pubblicare da V. E.), promessa dal Presidente della Sanità a costui
l'impunità, confessò finalmente, etc.»
Nel capitolo XXXI dello scritto antecedente, s'è fatto menzione d'una grida, con
la quale il tribunale della Sanità prometteva premio e impunità a chi rivelasse
gli autori degl'imbrattamenti trovati sulle porte e sui muri delle case, la
mattina del 18 di maggio; e s'è anche accennata una lettera del tribunale
suddetto al governatore, su quel fatto. In essa, dopo aver protestato che quella
grida era stata pubblicata, con participatione del Sig. Gran Cancelliere, il
quale faceva le veci del governatore, pregavan questo di corroborarla con altra
sua, con promessa di maggior premio. E il governatore ne fece infatti promulgare
una, in data del 13 di giugno, con la quale promette a ciascuna persona che, nel
termine di giorni trenta, metterà in chiaro la persona o le persone che hanno
commesso, fauorito, aiutato cotal delitto, il premio, etc. et se quel tale sarà
dei complici, gli promette anco l'impunità della pena. Ed è per l'esecuzione di
questa grida, così espressamente circoscritta a un fatto del 18 di maggio, che
il capitano di giustizia dice essersi promessa l'impunità all'uomo accusato d'un
fatto del 21 di giugno, e lo dice a quel medesimo che l'aveva, se non altro
sottoscritta! Tanto pare che si fidassero dell'assedio di Casale! giacchè
sarebbe troppo strano il supporre che travedessero essi medesimi a quel segno.
Ma che bisogno avevano d'usare un tal raggiro con lo Spinola?
Il bisogno d'attaccarsi alla sua autorità, di travisare un atto irregolare e
abusivo, e secondo la giurisprudenza comune, e secondo la legislazion del paese.
Era, dico, dottrina comune che il giudice non potesse, di sua autorità propria,
concedere impunità a un accusato. E nelle costituzioni di Carlo V, dove sono
attribuiti al senato poteri ampissimi, s'eccettua però quello di «concedere
remissioni di delitti, grazie o salvocondotti; essendo cosa riservata al
principe » E il Bossi già citato, il quale, come senator di Milano in quel
tempo, fu uno de' compilatori di quelle costituzioni, dice espressamente:
«questa promessa d'impunità appartiene al principe solo »
Ma perchè mettersi nel caso d'usare un tal raggiro, quando potevan ricorrere a
tempo al governatore, il quale aveva sicuramente dal principe un tal potere, e
la facoltà di trasmetterlo? E non è una possibilità immaginata da noi: è quello
che fecero essi medesimi, all'occasione d'un altro infelice, involto più tardi
in quel crudele processo. L'atto è registrato nel processo medesimo, in questi
termini: Ambrosio Spinola, etc. In conformità del parere datoci dal Senato con
lettera dei cinque del corrente, concederete impunità, in virtù del presente, a
Stefano Baruello, condannato come dispensatore et fabricatore delli onti
pestiferi, sparsi per questa Città, ad estintione del Popolo, se dentro del
termine che li sarà statuito dal detto Senato, manifesterà li auttori et
complici di tale misfatto.
Al Piazza l'impunità non fu promessa con un atto formale e autentico; furon
parole dettegli dall'auditore della Sanità, fuor del processo. E questo
s'intende: un tal atto sarebbe stato una falsità troppo evidente, se s'attaccava
alla grida, un'usurpazion di potere, se non s'attaccava a nulla. Ma perchè,
aggiungo, levarsi in certo modo la possibilità di mettere in forma solenne un
atto di tanta importanza?
Questi perchè non possiam certo saperli positivamente; ma vedrem più tardi cosa
servisse ai giudici l'aver fatto così.
A ogni modo, l'irregolarità d'un tal procedere era tanto manifesta, che il
difensor del Padilla la notò liberamente. Benchè, come protesta con gran
ragione, non avesse bisogno d'uscir da ciò che riguardava direttamente il suo
cliente, per iscolparlo dalla pazza accusa; benchè, senza ragione, e con poca
coerenza, ammetta un delitto reale, e de' veri colpevoli, in quel mescuglio
d'immaginazioni e d'invenzioni; ciò non ostante, ad abbondanza, come si dice, e
per indebolir tutto ciò che potesse aver relazione con quell'accusa, fa varie
eccezioni alla parte del processo che riguarda gli altri. E a proposito
dell'impunità, senza impugnar l'autorità del senato in tal materia (chè alle
volte gli uomini si tengon più offesi a metter in dubbio il loro potere, che la
loro rettitudine), oppone che il Piazza «fu introdotto nanti detto signor
Auditore solamente, quale non haueua alcuna giurisditione... procedendo perciò
nullamente, e contro li termini di ragione.» E parlando della menzione che fu
fatta più tardi, e occasionalmente, di quell'impunità dice: «e pure, sino a quel
ponto, non appare nè si legge in processo, secondo li termini di ragione.»
In quel luogo delle difese c'è una parola buttata là, come incidentemente, ma
significantissima. Ripassando gli atti che precedettero l'impunità, l'avvocato
non fa alcuna eccezione espressa e diretta alla tortura data al Piazza, ma ne
parla così: «sotto pretesto d'inuerisimili, torturato.» Ed è, mi pare, una
circostanza degna d'osservazione che la cosa sia stata chiamata col suo nome
anche allora, anche davanti a quelli che n'eran gli autori, e da uno che non
pensava punto a difender la causa di chi n'era stato la vittima.
Bisogna dire che quella promessa d'impunità fosse poco conosciuta dal pubblico,
giacchè il Ripamonti, raccontando i fatti principali del processo, nella sua
storia della peste, non ne fa menzione, anzi l'esclude indirettamente. Questo
scrittore, incapace d'alterare apposta la verità, ma inescusabile di non aver
letto, nè le difese del Padilla, nè l'estratto del processo che le accompagna, e
d'aver creduto piuttosto alle ciarle del pubblico, o alle menzogne di qualche
interessato, racconta in vece che il Piazza, subito dopo la tortura, e mentre lo
slegavano per ricondurlo in carcere, uscì fuori con una rivelazione spontanea
che nessuno s'aspettava . La bugiarda rivelazione fu fatta bensì, ma il giorno
seguente, dopo l'abboccamento con l'auditore, e a gente che se l'aspettava
benissimo. Sicchè, se non fossero rimasti que' pochi documenti, se il senato
avesse avuto che fare soltanto col pubblico e con la storia, avrebbe ottenuto
l'intento d'abbuiar quel fatto così essenziale al processo, e che diede le mosse
a tutti gli altri che venner dopo.
Quello che passò in quell'abboccamento, nessuno lo sa, ognuno se l'immagina a un
di presso. «È assai verosimile, » dice il Verri, «che nel carcere istesso si sia
persuaso a quest'infelice, che persistendo egli nel negare, ogni giorno sarebbe
ricominciato lo spasimo, che il delitto si credeva certo, e altro spediente non
esservi per lui fuorchè l'accusarsi e nominare i complici, così avrebbe salvo la
vita, e si sarebbe sottratto alle torture pronte a rinnovarsi ogni giorno. Il
Piazza dunque chiese, ed ebbe l'impunità, a condizione però che esponesse
sinceramente il fatto.»
Non pare però punto probabile che il Piazza abbia chiesto lui l'impunità.
L'infelice, come vedremo nel seguito del processo, non andava avanti se non in
quanto era strascinato; ed è ben più credibile, che, per fargli fare quel primo,
così strano e orribile passo, per tirarlo a calunniar sè e gli altri, l'auditore
gliel'abbia offerta. E di più, i giudici, quando glie ne parlaron poi, non
avrebbero omessa una circostanza così importante, e che dava tanto maggior peso
alla confessione; nè l'avrebbe omessa il capitano di giustizia nella lettera
allo Spinola.
Ma chi può immaginarsi i combattimenti di quell'animo, a cui la memoria così
recente de' tormenti avrà fatto sentire a vicenda il terror di sentirli di
nuovo, e l'orrore di farli soffrire! a cui la speranza di fuggire una morte
spaventosa, non si presentava che accompagnata con lo spavento di cagionarla a
un altro innocente! giacchè non poteva credere che fossero per abbandonare una
preda, senza averne acquistata un'altra almeno, che volessero finire senza una
condanna. Cedette, abbracciò quella speranza, per quanto fosse orribile e
incerta; assunse l'impresa, per quanto fosse mostruosa e difficile; deliberò di
mettere una vittima in suo luogo. Ma come trovarla? a che filo attaccarsi? come
scegliere tra nessuno? Lui, era stato un fatto reale, che aveva servito
d'occasione e di pretesto per accusarlo. Era entrato in via della Vetra, era
andato rasente al muro, l'aveva toccato; una sciagurata aveva traveduto, ma
qualche cosa. Un fatto altrettanto innocente, e altrettanto indifferente fu, si
vede, quello che gli suggerì la persona e la favola.
Il barbiere Giangiacomo Mora componeva e spacciava un unguento contro la peste;
uno dei mille specifici che avevano e dovevano aver credito, mentre faceva tanta
strage un male di cui non si conosce il rimedio, e in un secolo in cui la
medicina aveva ancor così poco imparato a non affermare, e insegnato a non
credere. Pochi giorni prima d'esser arrestato il Piazza aveva chiesto di quell'unguento
al barbiere; questo aveva promesso di preparargliene; e avendolo poi incontrato
sul Carrobio, la mattina stessa del giorno che seguì l'arresto, gli aveva detto
che il vasetto era pronto, e venisse a prenderlo. Volevan dal Piazza una storia
d'unguento, di concerti, di via della Vetra: quelle circostanze così recenti gli
serviron di materia per comporne una: se si può chiamar comporne l'attaccare a
molte circostanze reali un'invenzione incompatibile con esse.
Il giorno seguente, 26 di giugno, il Piazza è condotto davanti agli esaminatori,
e l'auditore gl'intima: che dica conforme a quello che estraiudicialmente
confessò a me, alla presenza anco del Notaro Balbiano, se sa chi è il
fabricatore degli unguenti, con quali tante volte si sono trouate ontate le
porta et mura delle case et cadenazzi di questa città.
Ma il disgraziato, che, mentendo a suo dispetto, cercava di scostarsi il meno
possibile dalla verità, rispose soltanto: a me l'ha dato lui l'unguento, il
Barbiero. Son le parole tradotte letteralmente, ma messe così fuor di luogo dal
Ripamonti: dedit unguenta mihi tonsor.
Gli si dice che nomini il detto Barbiero; e il suo complice, il suo ministro in
un tale attentato, risponde: credo habbi nome Gio. Jacomo, la cui parentela (il
cognome) non so. Non sapeva di certo, che dove stesse di casa, anzi di bottega;
e, a un'altra interrogazione, lo disse.
Gli domandano se da detto Barbiero lui Constituto ne ha hauuto o poco o assai di
detto unguento. Risponde: me ne ha data tanta quantità come potrebbe capire
questo calamaro che è qua sopra la tauola. Se avesse ricevuto dal Mora il
vasetto del preservativo che gli aveva chiesto, avrebbe descritto quello; ma non
potendo cavar nulla dalla sua memoria, s'attacca a un oggetto presente, per
attaccarsi a qualcosa di reale. Gli domandano se detto Barbiero è amico di lui
Constituto. E qui, non accorgendosi come la verità che gli si presenta alla
memoria faccia ai cozzi con l'invenzione, risponde: è amico, signor sì, buon dì,
buon anno, è amico, signor sì; val a dire che lo conosceva appena di saluto.
Ma gli esaminatori, senza far nessuna osservazione, passarono a domandargli, con
qual occasione detto Barbiero gli ha dato detto onto. Ed ecco cosa rispose:
passai di là, et lui chiamandomi mi disse: vi ho puoi da dare un non so che; io
gli dissi che cosa era? et egli disse: è non so che onto; et io dissi: sì, sì,
verrò puoi a tuorlo; et così da lì a due o tre giorni, me lo diede puoi. Altera
le circostanze materiali del fatto, quanto è necessario per accomodarlo alla
favola; ma gli lascia il suo colore; e alcune delle parole che riferisce eran
probabilmente quelle ch'eran corse davvero tra loro. Parole dette in conseguenza
d'un concerto già preso, a proposito d'un preservativo, le dà per dette
all'intento di proporre di punto in bianco un avvelenamento, almen tanto pazzo
quanto atroce.
Con tutto ciò, gli esaminatori, vanno avanti con le domande, sul luogo, sul
giorno, sull'ora della proposta e della consegna; e, come contenti di quelle
risposte, ne chiedon dell'altre. Che cosa gli disse quando gli consegnò il detto
vasetto d'onto?
Mi disse: pigliate questo vasetto, et ongete le muraglie qui adietro, et poi
venete da me, che hauerete una mano de danari. «Nemmeno l'uscio suo proprio
aveva unto il barbiere!» postilla qui di nuovo il Verri. E non ci voleva, certo,
la sua perspicacia per fare un'osservazion simile; ci volle l'accecamento della
passione per non farla, o la malizia della passione per non farne conto, se ,
come è più naturale, si presentò anche alla mente degli esaminatori.
L'infelice inventava così a stento, e come per forza, e solo quando era
eccitato, e come punto dalle domande, che non si saprebbe indovinare se quella
promessa di danari sia stata immaginata da lui, per dar qualche ragione
dell'avere accettata una commissione di quella sorte, o se gli fosse stata
suggerita da un'interrogazion dell'auditore, in quel tenebroso abboccamento. Lo
stesso bisogna dire d'un'altra invenzione, con la quale, nell'esame, andò
incontro indirettamente a un'altra difficoltà, cioè come mai avesse potuto
maneggiar quell'unto così mortale, senza riceverne danno. Gli domandano se detto
Barbiero disse a lui Constituto per qual causa facesse ontare le dette porte et
muraglie. Risponde: lui non mi disse niente; m'imagino bene che detto onto fosse
velenato, et potesse nocere alli corpi humani, poichè la mattina seguente mi
diede un'aqua da beuere, dicendomi che mi sarei preseruato dal veleno di tal
onto.
A tutte queste risposte, e ad altre d'ugual valore, che sarebbe lungo e inutile
il riferire, gli esaminatori non trovaron nulla da opporre, o per parlar più
precisamente, non opposero nulla. D'una sola cosa credettero di dover chiedere
spiegazioni: per qual causa non l'ha potuto dire le altre volte.
Rispose: io non lo so, nè so a che attribuire la causa, se non a quella aqua che
mi diede da bere; perchè V. S. Vede bene che, per quanti tormenti ho hauuto, non
ho potuto dir niente.
Questa volta però, quegli uomini così facili a contentarsi, non son contenti, e
tornano a domandare: per qual causa non ha detto questa verità prima di adesso,
massime sendo stato tormentato nella maniera che fu tormentato, et sabbato et
hieri.
Questa verità!
Risponde: io non l'ho detta, perchè non ho potuto, et se io fossi stato cent'anni
sopra la corda, io non haueria mai potuto dire cosa alcuna, perchè non poteuo
parlare, poichè quando m'era dimandata qualche cosa di questo particolare, mi
fugiva dal cuore, et non poteuo rispondere. Sentito questo, chiuser l'esame, e
rimandaron lo sventurato in carcere.
Ma basta il chiamarlo sventurato?
A una tale interrogazione la coscienza si confonde, rifugge, vorrebbe
dichiararsi incompetente; par quasi un'arroganza spietata, un'ostentazion
farisaica, il giudicar chi operava in tali angosce, e tra tali insidie. Ma
costretta a rispondere, la coscienza deve dire: fu anche colpevole; i patimenti
e i terrori dell'innocente sono una gran cosa, hanno di gran virtù; ma non
quella di mutar la legge eterna, di far che la calunnia cessi d'esser colpa. E
la compassione stessa, che vorrebbe pure scusare il tormentato, si rivolta
subito anch'essa contro il calunniatore: ha sentito nominare un altro innocente,
prevede altri patimenti, altri terrori, forse altre simili colpe.
E gli uomini che crearon quell'angosce, che tesero quell'insidie, ci parrà
d'averli scusati con dire: si credeva all'unzioni, e c'era la tortura? Crediam
pure anche noi alla possibilità d'uccider gli uomini col veleno; e cosa si
direbbe d'un giudice che adducesse questo per argomento d'aver giustamente
condannato un uomo come avvelenatore? C'è pure ancora la pena di morte; e cosa
si risponderebbe a uno che pretendesse con questo di giustificar tutte le
sentenze di morte? No; non c'era la tortura per il caso di Guglielmo Piazza:
furono i giudici che la vollero, che, per così dire, l'inventarono in quel caso.
Se gli avesse ingannati, sarebbe stata loro colpa, perchè era opera loro; ma
abbiam visto che non gl'ingannò. Mettiam pure che siano stati ingannati dalle
parole del Piazza nell'ultimo esame, che abbian potuto credere un fatto,
esposto, spiegato, circostanziato in quella maniera. Da che eran mosse quelle
parole? come l'avevano avute? Con un mezzo, sull'illegittimità del quale non
dovevano ingannarsi, e non s'ingannarono infatti, poichè cercarono di
nasconderlo e di travisarlo.
Se, per impossibile, tutto quello che venne dopo fosse stato un concorso
accidentale di cose, le più atte a confermar l'inganno, la colpa rimarrebbe
ancora a coloro che gli avevano aperta la strada. Ma vedremo in vece che tutto
fu condotto da quella medesima loro volontà, la quale, per mantener l'inganno
fino alla fine, dovette ancora eluder le leggi, come resistere all'evidenza,
farsi gioco della probità, come indurirsi alla compassione.