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IL CONTE DI CARMAGNOLA

 

 

ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Sala del Senato, in Venezia.

Il Doge e Senatori seduti.

IL DOGE

   E giunto il fin de' lunghi dubbi, è giunto,

   Nobiluomini, il dì che statuito

   Fu a risolver da voi. Su questa lega,

   A cui Firenze con sì caldi preghi

   Incontro il Duca di Milan c'invita,

   Oggi il partito si porrà. Ma pria,

   Se alcuno è qui cui non sia noto ancora

   Che vile opra di tenebre e di sangue

   Sugli occhi nostri fu tentata, in questa

   Stessa Venezia, inviolato asilo

   Di giustizia e di pace, odami: al nostro

   Deliberar rileva assai che alcuno

   Qui non l'ignori. Un fuoruscito al Conte

   Di Carmagnola insidiò la vita;

   Fallito è il colpo, e l'assassino è in ceppi.

   Mandato egli era; e quei che a ciò mandollo

   Ei l'ha nomato, ed è... quel Duca istesso

   Di cui qui abbiam gli ambasciatori ancora

   A chieder pace, a cui più nulla preme

   Che la nostra amistà. Tale arra intanto

   Ei ci dà della sua. Taccio la vile

   Perfidia della trama, e l'onta aperta

   Che in un nostro soldato a noi vien fatta.

   Due sole cose avverto: egli odia dunque

   Veracemente il Conte; ella è fra loro

   Chiusa ogni via di pace; il sangue ha stretto

   Tra lor d'eterna inimicizia un patto.

   L'odia... e lo teme: ei sa che il può dal trono

   Quella mano sbalzar che in trono il pose;

   E disperando che più a lungo in questa

   Inonorata, improvida, tradita

   Pace restar noi consentiamo, ei sente

   Che sia per noi quest'uom; questo tra i primi

   Guerrier d'Italia il primo, e, ciò che meno

   Forse non è, delle sue forze istrutto

   Come dell'arti sue; questo che il lato

   Saprà tosto trovargli ove più certa

   E più mortal sia la ferita. Ei volle

   Spezzar quest'arme in nostra mano; e noi

   Adoperiamla, e tosto. Onde possiamo

   Un più fedele e saggio avviso in questo,

   Che dal Conte aspettarci? Io l'invitai;

   Piacevi udirlo?

   (segni di adesione)

   S'introduca i Conte.

SCENA SECONDA

Il Conte, e detti.

IL DOGE

   Conte di Carmagnola, oggi la prima

   Occasion s'affaccia in che di voi

   Si valga la Repubblica, e vi mostri

   In che conto vi tiene: in grave affare

   Grave consiglio ci abbisogna. Intanto

   Tutto per bocca mia questo Senato

   Si rallegra con voi da sì nefando

   Periglio uscito; e protestiam che a noi

   Fatta è l'offesa, e che sul vostro capo

   Or più che mai fia steso il nostro scudo

   Scudo di vigilanza e di vendetta.

IL CONTE

   Serenissimo Doge, ancor null'altro

   Io per questa ospital terra, che ardisco

   Nomar mia patria, potei far che voti.

   Oh! mi sia dato alfin questa mia vita

   Pur or sottratta al macchinar de' vili,

   Questa che nulla or fa che giorno a giorno

   Aggiungere in silenzio, e che guardarsi

   Tristamente, tirarla in luce ancora,

   E spenderla per voi, ma di tal modo

   Che dir si possa un dì, che in loco indegno

   Vostr' alta cortesia posta non era.

IL DOGE

   Certo gran cose, ove il bisogno il chieda,

   Ci promettiam da voi. Per or ci giovi

   Soltanto il vostro senno. In suo soccorso

   Contro il Visconte l'armi nostre implora

   Già da lungo Firenze. Il vostro avviso

   Nella bilancia che teniam librata

   Non farà piccol peso.

IL CONTE

   E senno e braccio

   E quanto io sono è cosa vostra: e certo

   Se mai fu caso in cui sperar m'attenti

   Che a voi pur giovi un mio consiglio, è questo.

   E lo darò: ma pria mi sia concesso

   Di me parlarvi in breve, e un core aprirvi,

   Un cor che agogna sol d'esser ben noto.

IL DOGE

   Dite: a questa adunanza indifferente

   Cosa che a cor vi stia giunger non puote.

IL CONTE

   Serenissimo Doge, Senatori;

   Io sono al punto in cui non posso a voi

   Esser grato e fedel, s'io non divengo

   Nemico all'uom che mio signor fu un tempo.

   S'io credessi che ad esso il più sottile

   Vincolo di dover mi leghi ancora,

   L'ombra onorata delle vostre insegne

   Fuggir vorrei, viver nell'ozio oscuro

   Vorrei, prima che romperlo, e me stesso

   Far vile agli occhi miei. Dubbio veruno

   Sul partito che presi in cor non sento,

   Perch'egli è giusto ed onorato: il solo

   Timor mi pesa del giudizio altrui.

   Oh! beato colui cui la fortuna

   Così distinte in suo cammin presenta

   Le vie del biasmo e dell'onor, ch'ei puote

   Correr certo del plauso, e non dar mai

   Passo ove trovi a malignar l'intento

   Sguardo del suo nemico. Un altro campo

   Correr degg'io, dove in periglio sono

   Di riportar, forza è pur dirlo, il brutto

   Nome d'ingrato, l'insoffribil nome

   Di traditor. So che de' grandi è l'uso

   Valersi d'opra ch'essi stiman rea

   E profondere a quel che l'ha compita

   Premi e disprezzo, il so; ma io non sono

   Nato a questo; e il maggior premio che bramo,

   Il solo, egli è la vostra stima, e quella

   D'ogni cortese; e, arditamente il dico,

   Sento di meritarla. Attesto il vostro

   Sapiente giudizio, o Senatori,

   Che d'ogni obbligo sciolto inverso il Duca

   Mi tengo, e il sono. Se volesse alcuno

   De' benefizi che tra noi son corsi

   Pareggiar le ragioni, è noto al mondo

   Qual rimarrebbe il debitor dei due.

   Ma di ciò nulla: io fui fedele al Duca

   Fin che fui seco, e nol lasciai che quando

   Ei mi v'astrinse. Ei mi balzò dal grado

   Col mio sangue acquistato: invan tentai

   Al mio signor lagnarmi. I miei nemici

   Fatto avean siepe intorno al trono: allora

   M'accorsi alfin che la mia vita anch'essa

   Stava in periglio: a ciò non gli diei tempo.

   Ché la mia vita io voglio dar, ma in campo,

   Per nobil causa, e con onor, non preso

   Nella rete de' vili. Io lo lasciai

   E a voi chiesi un asilo; e in questo ancora

   Ei mi tese un agguato. Ora a costui

   Più nulla io deggio; di nemico aperto

   Nemico aperto io sono. All'util vostro

   Io servirò, ma franco e in mio proposto

   Deliberato, come quei ch'è certo

   Che giusta cosa imprende.

IL DOGE

   E tal vi tiene

   Questo Senato: già tra il Duca e voi

   Ha giudicato irrevocabilmente

   Italia tutta. Egli la vostra fede

   Ha liberata, a voi l'ha resa intatta,

   Qual gliela deste il primo giorno. E nostra

   Or questa fede, e noi saprem tenerne

   Ben altro conto. Or d'essa un primo pegno

   Il vostro schietto consigliar ci sia.

IL CONTE

   Lieto son io che un tal consiglio io possa

   Darvi senza esitanza. Io tengo al tutto

   Necessaria la guerra, e della guerra,

   Se oltre il presente è mai concesso all'uomo

   Cosa certa veder, certo l'evento;

   Tanto più, quanto fien gl'indugi meno.

   A che partito è il Duca? A mezzo è vinta

   Da lui Firenze; ma ferito e stanco

   Il vincitor; vòti gli erari: oppressi

   Dal terror, dai tributi i cittadini

   Pregan dal ciel su l'armi loro istesse.

   Le sconfitte e le fughe. Io li conosco,

   E conoscer li deggio: a molti in mente

   Dura il pensier del glorioso, antico

   Viver civile; e subito uno sguardo

   Rivolgon di desio là dove appena

   D'un qualunque avvenir si mostri un raggio

   Frementi del presente e vergognosi.

   Ei conosce il periglio; indi l'udite

   Mansueto parlarvi; indi vi chiede

   Tempo soltanto da sbranar la preda

   Che già tiensi tra l'ugne, e divorarla.

   Fingiam che glielo diate: ecco mutata

   La faccia delle cose; egli soggioga

   Senza dubbio Firenze; ecco satolle

   Le costui schiere col tesor de' vinti,

   E più folte e anelanti a nove imprese.

   Qual prence allor dell'alleanza sua

   Far rifiuto oseria? Beato il primo

   Ch'ei chiamerebbe amico! Egli sicuro

   Consulterebbe e come e quando a voi

   Mover la guerra, a voi rimasti soli.

   L'ira, che addoppia l'ardimento al prode

   Che si sente percosso, ei non la trova

   Che ne' prosperi casi: impaziente

   D'ogni dimora ove il guadagno è certo

   Ma ne' perigli irresoluto: a' suoi

   Soldati ascoso, del pugnar non vuole

   Fuor che le prede. Ei nella rocca intanto

   O nelle ville rintanato attende

   A novellar di cacce e di banchetti,

   A interrogar tremando un indovino.

   Ora è il tempo di vincerlo: cogliete

   Questo momento: ardir prudenza or fia.

IL DOGE

   Conte, su questo fedel vostro avviso

   Tosto il Senato prenderà partito;

   Ma il segua, o no. v'è grato; e vede in esso,

   Non men che il senno, il vostro amor per noi.

   (parte il Conte)

SCENA TERZA

Il Doge e Senatori.

IL DOGE

   Dissimil certo da sì nobil voto

   Nessun s'aspetta il mio. Quando il consiglio

   Più generoso è il più sicuro, in forse

   Chi potria rimaner? Porgiam la mano

   Al fratello che implora: un sacro nodo

   Stringe i liberi Stati: hanno comuni

   Tra lor rischi e speranze; e treman tutti

   Dai fondamenti al rovinar d'un solo.

   Provocator dei deboli, nemico

   D'ognun che schiavo non gli sia, la pace

   Con tanta istanza a che ci chiede il Duca?

   Perché il momento della guerra ei vuole

   Sceglierlo, ei solo; e non è questo il suo.

   Il nostro egli è, se non ci falla il senno,

   Né l'animo. Ei ci vuole ad uno ad uno,

   Andiamgli incontro uniti. Ah! saria questa

   La prima volta che il Leon giacesse

   Al suon delle lusinghe addormentato.

   No; fia tentato invan. Pongo il partito

   Che si stringa la lega, e che la guerra

   Tosto al Duca s'intimi, e delle nostre

   Genti da terra abbia il comando il Conte.

MARINO

   Contro sì giusta e necessaria guerra

   Io non sorgo a parlar; questo sol chiedo,

   Che il buon successo ad accertar si pensi.

   La metà dell'impresa è nella scelta

   Del capitano. Io so che vanta il Conte

   Molti amici tra noi; ma d'una cosa

   Mi rendo certo, che nessun di questi

   L'ama più della patria; e per me, quando

   Di lei si tratti ogni rispetto è nulla.

   Io dico, e duolmi che di fronte io deggia

   Serenissimo Doge, oppormi a voi,

   Non è il duce costui quale il richiede

   La gravità, l'onor di questo Stato.

   Non cercherò perché lasciasse il Duca.

   Ei fu l'offeso; e sia pur ver: l'offesa

   E tal che accordo non può darsi, e questo

   Consento: io giuro nelle sue parole.

   Ma queste sue parole importa assai

   Considerarle, perché tutto in esse

   Ei s'è dipinto; e governar sì ombroso,

   Sì delicato e violento orgoglio,

   O Senatori; non mi par che sia

   Minor pensiero della guerra istessa.

   Finor fu nostra cura il mantenerci

   La riverenza de' soggetti, or altro

   Studio far si dovria, come costui

   Riverir degnamente. E quando egli abbia

   La man nell'elsa della nostra spada,

   Potrem noi dir d'aver creato un servo?

   Dovrà por cura di piacergli ognuno

   Di noi? Se nasce un disparer, fia degno

   Che nell'arti di guerra il voler nostro

   A quel d'un tanto condottier prevalga?

   S'egli erra, e nostra è dell'error la pena,

   Ché invincibil nol credo, io vi domando

   Se fia concesso il farne lagno; e dove

   Si riscotan per questo onte e dispregi,

   Che far? soffrirli? Non v'aggrada, io stimo,

   Questo partito; rísentirci? e dargli

   Occasion che, in mezzo all'opra, e nelle

   Più difficili strette ei ci abbandoni

   Sdegnato, e al primo altro signor che il voglia,

   Forse al nemico, offra il suo braccio, e sveli

   Quanto di noi pur sa, magnificando

   La nostra sconoscenza, e i suoi gran merti?

IL DOGE

   Il Conte un prence abbandonò; ma quale?

   Un che da lui tenea lo Stato, e a cui

   Quindi ei minor non potea mai stimarsi;

   Un da pochi aggirato, e questi vili;

   Timido e stolto, che non seppe almeno

   Il buon consiglio tor della paura,

   Nasconderla nel core, e starsi all'erta;

   Ma che il colpo accennò pria di scagliarlo:

   Tale è il signor che inimicossi il Conte.

   Ma, lode al ciel, nulla in Venezia io vedo

   Che gli somigli. Se destrier, correndo

   Scosse una volta un furibondo e stolto

   Fuor dell'arcione, e lo gettò nel fango;

   Non fia per questo che salirlo ancora

   Un cauto e franco cavalier non voglia.

MARINO

   Poiché sì certo è di quest'uomo il Doge,

   Più non m'oppongo; e questo a lui sol chiedo:

   Vuolsi egli far mallevador del Conte?

IL DOGE

   A sì preciso interrogar, preciso

   Risponderò: mallevador pel Conte,

   Né per altr'uom che sia, certo, io non entro;

   Dell'opre mie, de' miei consigli il sono:

   Quando sien fidi, ei basta. Ho io proposto

   Che guardia al Conte non si faccia, e a lui

   Si dia l'arbitrio dello Stato in mano?

   Ei diritto anderà: tale io diviso.

   Ma s'ei si volge al rio sentier, ci manca

   Occhio che tosto ce ne faccia accorti,

   E braccio che invisibile il raggiunga?

   Perché i princìpi di sì bella impresa

   Contristar con sospetti? E far disegni

   Di terrori e di pene, ove null'altro

   Che lodi e grazie può aver luogo? Io taccio

   Che all'util suo sola una via gli è schiusa

   Lo star con noi. Ma deggio dir qual cosa

   Dee sovra ogni altra far per lui fidanza?

   La gloria ond'egli è già coperto, e quella

   A cui pur anco aspira; il generoso,

   Il fiero animo suo. Che un giorno ei voglia

   Dall'altezza calar de' suoi pensieri,

   E riporsi tra i vili, esser non puote.

   Or, se prudenza il vuol, vegli pur l'occhio;

   Ma dorma il cor nella fiducia; e poi

   Che in così giusta e grave causa, un tanto

   Dono ci manda Iddio; con quella fronte

   E con quel cor che si riceve un dono,

   Sia da noi ricevuto.

MOLTI SENATORI

   Ai voti, ai voti!

IL DOGE

   Si raccolgano i voti; e ognun rammenti

   Quanto rilevi che di qui non esca

   Motto di tal deliberar, né cenno

   Che presumer lo faccia. In questo Stato

   Pochi il segreto hanno tradito, e nullo

   Fu tra quei pochi che impunito andasse.

SCENA QUARTA

Casa del Conte.

IL CONTE

   Profugo, o condottiero. O come il vecchio

   Guerrier nell'ozio i giorni trar, vivendo

   Della gloria passata, in atto sempre

   Di render grazie e di pregar, protetto

   Dal braccio altrui, che un dì potria stancarsi

   E abbandonarmi; o ritornar sul campo,

   Sentir la vita, salutar di nuovo

   La mia fortuna, delle trombe al suono

   Destarmi, comandar; questo è il momento

   Che ne decide. Eh! se Venezia in pace

   Riman, degg'io chiuso e celato ancora

   In questo asilo rimaner, siccome

   L'omicida nel tempio? E chi d'un regno

   Fece il destin, non potrà farsi il suo?

   Non troverò tra tanti prenci. in questa

   Divisa Italia, un sol che la corona,

   Onde il vil capo di Filippo splende,

   Ardisca invidiar? che si ricordi

   Ch'io l'acquistai, che dalle man di dieci

   Tiranni io la strappai, ch'io la riposi

   Su quella fronte, ed or null'altro agogno

   Che ritorla all'ingrato, e farne un dono

   A chi saprà del braccio mio valersi?

SCENA QUINTA

Marco e il Conte.

IL CONTE

   O dolce amico; ebben qual nova arrechi?

MARCO

   La guerra è risoluta, e tu sei duce.

IL CONTE

   Marco, ad impresa io non m'accinsi mai

   Con maggior cor che a questa: una gran fede

   Poneste in me: ne sarò degno, il giuro.

   Il giorno è questo che del viver mio

   Ferma il destin: poi che quest'alma terra

   M'ha nel suo glorioso antico grembo

   Accolto, e dato di suo figlio il nome,

   Esserlo io vo' per sempre; e questo brando

   Io consacro per sempre alla difesa

   E alla grandezza sua.

MARCO

   Dolce disegno! Non soffra il ciel che la fortuna il rompa... O tu medesmo.

IL CONTE

   Io? come?

MARCO

   Al par di tutti

   I generosi, che giovando altrui

   Nocquer sempre a sé stessi, e superate

   Tutte le vie delle più dure imprese,

   Caddero a un passo poi, che facilmente

   L'ultimo de' mortali avria varcato.

   Credi ad un uom che t'ama: i più de' nostri

   Ti sono amici! ma non tutti il sono.

   Di più non dico né mi lice; e forse

   Troppo già dissi. Ma la mia parola

   Nel fido orecchio dell'amico stia,

   Come nel tempio del mio cor, rinchiusa.

IL CONTE

   Forse io l'ignoro? E forse ad uno ad uno

   Non so quai siano i miei nemici?

MARCO

   E sai

   Chi te gli ha fatti? In pria l'esser tu tanto

   Maggior di loro, indi lo sprezzo aperto

   Che tu ne festi in ogni incontro. Alcuno

   Non ti nocque finor; ma chi non puote

   Nocer col tempo? Tu non pensi ad essi,

   Se non allor che in tuo cammin li trovi;

   Ma pensan essi a te, più che non credi.

   Spregia il grande, ed obblia; ma il vil si gode

   Nell'odio. Or tu non irritarlo: cerca

   Di spegnerlo; tu il puoi forse. Consiglio

   Di vili arti ch'io stesso a sdegno avrei,

   Io non ti do, né tal da me l'aspetti.

   Ma tra la noncuranza e la servile

   Cautela avvi una via; v'ha una prudenza

   Anche pei cor più nobili e più schivi,

   V'ha un'arte d'acquistar l'alme volgari,

   Senza discender fino ad esse: e questa

   Nel senno tuo, quando tu vuoi, la trovi.

IL CONTE

   Troppo è il tuo dir verace: il tuo consiglio

   Le mille volte a me medesmo io il diedi;

   E sempre all'uopo ei mi fuggì di mente;

   E sempre appresi a danno mio che dove

   Semina l'ira, il pentimento miete.

   Dura scola ed inutile! Alfin stanco

   Di far leggi a me stesso, e trasgredirle,

   Tra me fermai che, s'egli è mio destino

   Ch'io sia sempre in tai nodi avviluppato

   Che mestier faccia a distrigarli appunto

   Quella virtù che più mi manca, s'ella

   È pur virtù; se è mio destin che un giorno

   Io sia colto in tai nodi, e vi perisca

   Meglio è senza riguardi andargli incontro.

   Io ne appello a te stesso: i buoni mai

   Non fur senza nemici, e tu ne hai dunque.

   E giurerei che un sol non è tra loro

   Cui tu degni, non dico accarezzarlo,

   Ma non dargli a veder che lo dispregi.

   Rispondi.

MARCO

   È ver: se v'ha mortal di cui

   La sorte invidii, è sol colui che nacque

   In luoghi e in tempi ov'uom potesse aperto

   Mostrar l'animo in fronte, e a quelle prove

   Solo trovarsi ove più forza è d'uopo

   Che accorgimento: quindi, ove convenga

   Simular, non ti faccia maraviglia

   Che poco esperto io sia. Pensa per altro

   Quanto più m'è concesso impunemente

   Fallire in ciò che a te; che poche vie

   Al pugnal d'un nemico offre il mio petto;

   Che me contra i privati odii assecura

   La pubblica ragion, ch'io vesto il saio

   Stesso di quei che han la mia sorte in mano.

   Ma tu stranier, tu condottiero al soldo

   Di togati signor, tu cui lo Stato

   Dà tante spade per salvarlo, e niuna

   Per salvar te... fa che gli amici tuoi

   Odan sol le tue lodi, e non dar loro

   La trista cura di scolparti. Pensa

   Che felici non son, se tu nol sei.

   Che dirò più? Vuoi che una corda io tocchi,

   Che ancor più addentro nel tuo cor risoni?

   Pensa alla moglie tua, pensa alla figlia

   A cui tu se' sola speranza: il cielo

   Diè loro un'alma per sentir la gioia,

   Un'alma che sospira i dì sereni,

   Ma che nulla può far per conquistarli.

   Tu il puoi per esse e lo vorrai. Non dire

   Che il tuo destin ti porta; allor che il forte

   Ha detto: io voglio, ei sente esser più assai

   Signor di sé che non pensava in prima.

IL CONTE

   Tu hai ragione. Il ciel si prende al certo

   Qualche cura di me, poiché m'ha dato

   Un tale amico. Ascolta; il buon successo

   Potrà, spero, placar chi mi disama:

   Tutto in letizia finirà. Tu intanto

   Se cosa odi di me che ti dispiaccia,

   L'indole mia ne incolpa, un improvviso

   Impeto primo, ma non mai l'obblio

   Di tue parole.

MARCO

   Or la gioia è intera.

   Va, vinci e torna. Oh come atteso e caro

   Verà quei messo che la gloria tua

   Con la salute della patria annunzi!

   FINE DELL' ATTO PRIMO

ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Parte del campo ducale con tende.

Malatesti e Pergola.

PERGOLA

   Sì, condottier; come ordinaste, in pronto

   Son le mie bande. A voi commise il Duca

   L'arbitrio della guerra: io v'ho ubbidito,

   Ma con dolor; ve ne scongiuro ancora,

   Non diam battaglia.

MALATESTI

   Anzian d'anni e di fama,

   O Pergola, qui siete; io sento il peso

   Del vostro voto; ma cangiar non posso

   Il mio. Voi lo vedete; il Carmagnola

   Ci provoca ogni dì: quasi ad insulto

   Sugli occhi nostri alfin Maclodio ha stretto:

   E due partiti ci rimangon soli;

   O lui cacciarne, o abbandonar la terra,

   Che saria danno e scorno.

PERGOLA

   A pochi è dato,

   A pochi egregi il dubitar di novo,

   Quando han già detto: ell'è così. S'io parlo

   È che tale vi tengo. Italia forse

   Mai da' barbari in poi non vide a fronte

   Due sì possenti eserciti: ma il nostro

   L'ultimo sforzo è di Filippo. In ogni

   Fatto di guerra entra fortuna, e sempre

   Vuol la sua parte: chi nol sa? ma quando

   Ne va il tutto, o Signore, allor non vuolsi

   Dargliene più ch'ella non chiede; e questo

   Esercito con cui tutto possiamo

   Salvar, ma che perduto in una volta

   Mai più rifar non si potria, non dèssi

   Come un dado gittarlo ad occhi chiusi,

   Avventurarlo in un sì piccol campo,

   E in un campo mal noto, e quel che è peggio

   Noto al nemico. Ei qui ci trasse: un torto

   Argin divide le due schiere: a destra

   E a sinistra paludi, in esse sparsi

   I suoi drappelli; e noi fuori de' nostri

   Alloggiamenti non teniamo un palmo

   Pur di terren. Credete ad un che l'arti

   Conosce di costui, che ha combattuto

   Al fianco suo: qui c'è un'insidia. Forse

   La miglior via di guerreggiar quest'uomo

   Saria tenerlo a bada, aspettar tempo,

   Tanto che alcun dei duci ai quali è sopra

   Prendesse a noia il suo superbo impero:

   E il fascio ch'egli or nella mano ha stretto

   Si rallentasse alfin. Pur, se a giornata

   Venir si deve, non è questo il loco:

   Usciam di qui, scegliamo un campo noi,

   Tiriam quivi il nemico: ivi in un giorno,

   Senza svantaggio almanco, si decida.

MALATESTI

   Due grandi schiere a fronte stanno; e grande

   Fia la battaglia: d'una tale appunto

   Abbisogna Filippo. A questi estremi

   A poco a poco ei venne, e coi consigli

   Che or proponete: a trarnelo, fia d'uopo

   Appigliarci agli opposti. Il rischio vero

   Sta nell'indugio; e nel mutare il campo

   Rovina certa. Chi sapria dir quanto

   Di numero e di cor scemato ei fia

   Pria che si ponga altrove? Ora egli è quale

   Bramar lo puote un capitan; con esso

   Tutto lice tantar.

SCENA SECONDA

Sforza, Fortebraccio e detti.

MALATESTI

   Ditelo, o Sforza,

   E Fortebraccio; voi giungete in tempo:

   Ditelo voi, come trovaste il campo?

   Che possiamo sperarne?

SFORZA

   Ogni gran cosa.

   Quando gli ordini udir, quando lor parve

   Che una battaglia si prepari, io vidi

   Un feroce tripudio: alla chiamata

   Esultando venièno, e col sorriso

   Si fean cenno a vicenda. E quando io corsi

   Entro le file, ad ogni schiera un grido

   S'alzava; ognuno in me fissando il guardo

   Parea dicesse: o condottier, v'intendo.

FORTEBRACCIO

   E tai son tutti: allor ch'io venni a' miei,

   Tutti mi furo intorno. Un mi dicea:

   Quando udremo le trombe? Altri: noi siamo

   Stanchi d'esser beffati; e tutti ad una

   La battaglia chiedean, come già certi

   Dell'ottenerla, e dubbi sol del quando.

   Ebben, compagni, io rispondea, se il segno

   Presto s'udrà, mi date voi parola

   Di vincere con me? Gli elmi levati

   Sull'aste, un grido universal d'assenso

   Fu la risposta, ond'io gioisco ancora.

   E a tai soldati ci venia proposto

   D'intimar la ritratta? e che alle mani,

   Che già posate sulle spade aspettano

   L'ordin di sguainarle e di ferire,

   Si comandasse di levar le tende?

   Chi fronte avria di presentarsi ad essi

   Con tal ordine ormai?

PERGOLA

   Dal parlar vostro

   Un novo modo di milizia imparo;

   Che i soldati comandino, e che i duci

   Ubbidiscano.

FORTEBRACCIO

   O Pergola, i soldati

   A cui capo son io, fur da quel Braccio

   Disciplinati, che per tutto ancora

   Con maraviglia e con terror si noma;

   E non son usi a sostener gli scherni

   Dell'inimico.

PERGOLA

   Ed io conduco genti

   Da me, qual ch'io mi sia, disciplinate;

   E sono avvezze ad aspettar la voce

   Del condottiero, ed a fidarsi in lui.

MALATESTI

   Dimentichiamo or noi che numerati

   Sono i momenti, e non ne resta alcuno

   Per le gare private?

SCENA TERZA

Torello, e detti.

SFORZA

   Ebben, Torello

   Siete mutato di parer? Vedeste

   L'animo ardente de' soldati?

TORELLO

   Il vidi

   Udii le grida del furor, le grida

   Della fiducia e del coraggio; e il viso

   Rivolsi altrove, onde nessun dei prodi

   Vi leggesse il pensier che mal mio grado

   Vi si pingeva: era il pensier che false

   Son quelle gioie e brevi; era il pensiero

   Del valor che si perde. Io cavalcai

   Lungo tutta la fronte: io tesi il guardo,

   Quanto lunge potei; rividi quelle

   Macchie che sorgon qua e là dal suolo

   Uliginoso che la via fiancheggia:

   Là son gli agguati, il giurerei. Rividi

   Quel doppio cinto di muniti carri,

   Onde assiepato è del nemico il campo.

   Se l'urto primo ei sostener non puote,

   Ha una ritratta ove sfuggirlo e uscirne

   Preparato al secondo. Un novo è questo

   Trovato di costui, per torre ai suoi

   Il pensier primo che s'affaccia ai vinti

   Il pensier della fuga. Ad atterrarlo

   Due colpi è d'uopo: ei con un sol ne atterra.

   Perché, non giova chiuder gli occhi al vero,

   Non son più quelle guerre, in cui pe' figli

   E per le donne e per la patria terra

   E per le leggi che la fan sì cara

   Combatteva il soldato; in cui pensava

   Il capitano a statuirgli un posto,

   Egli a morirvi. A mercenarie genti

   Noi comandiamo, in cui più di leggieri

   Trovi il furor che la costanza: e' corrono

   Volonterosi alla vittoria incontro,

   Ma s'ella tarda, se son posti a lungo

   Tra la fuga e la morte, ah! dubbia è troppo

   La scelta di costoro. E questo evento

   Più che tutt'altro antiveder ci è forza.

   Vil tempo in cui tanto al comando cresce

   Difficoltà, quanto la gloria scema!

   Io lo ripeto, non è questo un campo

   Di battaglia per noi.

MALATESTI

   Dunque?

TORELLO

   Si muti.

   Non siam pari al nemico; andiamo in luogo

   Dove lo siam.

MALATESTI

   Cosí Maclodio a lui

   Lascerem quasi in dono? I valorosi,

   Che vi son chiusi, non potran tenersi

   Più che due giorni.

TORELLO

   Il so; ma non si tratta

   Né d'un presidio qui, né d'una terra;

   Trattasi dello Stato.

SFORZA

   E di che mai

   Se non di terre si compon lo Stato?

   E quelle che indugiando, ad una ad una

   Già lasciammo sfuggir, quante son elle?

   Casal, Bina, Quinzano e... se vi piace

   Noveratele voi, ché in tal pensiero

   Troppo caldo io mi sento. Il nobil manto,

   Che a noi fidato ha il Duca, a brano a brano

   Soffriam così che in nostra man si scemi,

   E che a lui messo omai da noi non giunga

   Che una ritratta non gli annunzi. Intanto

   Superbisce il nemico, e ai nostri indugi

   Sfacciato insulta.

TORELLO

   E questo è segno, o Sforza,

   Ch'ei brama una battaglia.

SFORZA

   Oh, che puot'egli

   Bramar di più, che innanzi a sé cacciarne

   Con la spada nel fodero?

PERGOLA

   Che puote

   Bramar di più? Dirovvel io: che noi

   Tutto arrischiam l'esercito in un campo

   Ov'egli ha preso ogni vantaggio. Or questo

   Poniamo in salvo; ché le terre è lieve

   Riprender con gli eserciti.

FORTEBRACCIO

   Con quali?

   Non, per mia fè, con quelli a cui s'insegna

   A diloggiar quando il nemico appare,

   A non mirarlo in faccia, a lasciar soli

   Nelle angosce i compagni; ma con genti

   Quali or le abbiam d'ira e di scorno accese,

   Impazienti di pugnar, con queste

   Si riparan le perdite, e si vince.

   Che dobbiamo aspettar? Brandi arrotati,

   Perché lasciarli irrugginir?

SFORZA

   Torello,

   Voi temete d'agguati? Anch'io dirovvi:

   Non son più quelle guerre, in cui minuti

   Drappelletti movean, con l'occhio teso

   Ogni macchia guatando, ogni rivolta.

   Un'oste intera sopra un'oste intera

   Oggi rovescerassi: un tanto stuolo

   Si vince sì, ma non s'accerchia; ei spazza

   Innanzi a sé gl'intoppi, e fin ch'è unito,

   Dovunque sia, sul suo terreno è sempre.

FORTEBRACCIO

   (a Pergola e Torello)

   Siete convinti?

TORELLO

   Sofferite . . .

MALATESTI

   Io il sono.

   Omai vano è più dir. Certo io mi tengo

   Che tutti andrete in operar d'accordo

   Più che non foste in divisar disgiunti.

   Poi che partito e l'altro ha il suo periglio,

   Scegliamo almen quel che più gloria ha seco.

   Noi darem la battaglia: alla frontiera

   Io mi pongo coi miei, Sforza vien dietro

   E chiude la vanguardia; il mezzo tenga

   Della battaglia Fortebraccio: e il nostro

   Ufizio sia con impeto serrarci

   Addosso al campo del nemico, aprirlo,

   E spingerci a Maclodio. Voi, Torello,

   E voi, Pergola, a cui sì dubbia sembra

   Questa giornata, io pongo in vostra mano

   L'assicurarla: voi, discosti alquanto,

   Il retroguardo avrete. O la fortuna,

   Pur come suol, seconda i valorosi,

   E rompiamo il nemico; e voi piombate

   Sopra i dispersi. Ma s'ei dura incontro

   L'impeto nostro, e ci vedete entrati

   Donde uscir soli non possiam; venite

   A noi, reggete i periglianti amici;

   Ché, per cosa che avvenga, io vi prometto

   Retrocedere a voi non ci vedrete.

FORTEBRACCIO

   Non ci vedrete, no.

SFORZA

   Siatene certi.

FORTEBRACCIO

   Sia lode del ciel, combatteremo alfine:

   Mai non accadde a capitan, ch'io sappia,

   Per fare il suo mestier contender tanto.

PERGOLA

   O Carmagnola, tu pensasti che oggi

   Il giovenil corruccio alla prudenza

   Prevarrebbe dei vecchi; e ti opponesti.

FORTEBRACCIO

   Sì, la prudenza è la virtù dei vecchi:

   Ella cresce con gli anni, e tanto cresce

   Che alfin diventa...

PERGOLA

   Ebben, dite.

FORTEBRACCIO

   Paura; Poi che volete ad ogni modo udirlo.

MALATESTI

   Fortebraccio!

PERGOLA

   L'hai detto. Ad un soldato

   Che già più volte avea pugnato e vinto

   Prima che tu vedessi una bandiera,

   Oggi tu il primo hai detto

MALATESTI

   Da quel lato,

   Presso Maclodio è posto il Carmagnola.

   Quegli fra noi che avere oggi pensasse

   Altro nemico che costui, sarebbe

   Un traditor: pensatamente il dico.

PERGOLA

   Ritratto il volto che dapprima io diedi;

   E il do per la battaglia: ella fia quale

   Predissi allor, ma non importa. Allora

   Potea schifarsi; or la domando io primo:

   Io son per la battaglia.

MALATESTI

   Accetto il voto

   Ma non l'augurio: lo distorni il cielo

   Sul capo del nemico.

PERGOLA

   O Fortebraccio,

   Tu m'hai offeso.

MALATESTI

   Or via

FORTEBRACCIO

   Se così credi,

   Sia pur così: perché a te spiaccia, o a quale

   Altro pur sia, non crederai ch'io voglia

   Una parola ritirar che uscita

   Dalle labbra mi sia.

MALATESTI

   (in atto di partire)

   Chi resta fido

   A Filippo, mi segua.

PERGOLA

   Io vi prometto

   Che oggi darem battaglia, e che di noi

   Non mancheravvi alcuno. O Fortebraccio,

   Non giunger onta ad onta, io ti ripeto

   Tu m'hai offeso. Ascolta, io t'offro il modo

   Che tu mi renda l'onor mio, serbando

   Intatto il tuo.

FORTEBRACCIO

   Che vuoi?

PERGOLA

   Dammi il tuo posto.

   Ovunque tu combatta, a tutti è noto

   Che tu volesti la battaglia, ed io,

   Io devo ad ogni modo essere in luogo

   Che l'amico e il nemico aperto veda

   Ch'io non ho... tu m'intendi.

FORTEBRACCIO

   Io son contento.

   Prendi quel posto; poi che il brami, è tuo.

   O forte, or m'odi: ora m'è dolce il dirti

   Ch'io non t'offesi, no: per la fortuna

   Del signor nostro tu soverchio temi:

   Questo dir volli. Ma il timor che nasce

   In cor di quel che ama la vita, e l'alma

   Più dell'onor, ma che nel cor del prode

   Muore al primo periglio ch'egli affronta,

   E mai più non risorge, o valoroso,

   Pensavi tu?

PERGOLA

   Nulla pensai: tu parli

   Da generoso qual tu sei.

   (a Malatesti)

   Signore,

   Voi consentite al cambio?

MALATESTI

   Io ci consento

   E son ben lieto di veder tant'ira

   Tutta cader sovra il nemico.

TORELLO

   (allo Sforza)

   Io stava

   Col Pergola da prima, ingiusto, io spero,

   Non vi parrà

SFORZA

   V'intendo; e con lui state

   Alla avanguardia: ultimi e primi, tutti

   Combatterem; poco m'importa il dove.

MALATESTI

   Non più ritardi. Iddio sarà coi prodi.

   (partono)

SCENA QUARTA

Campo veneziano. Tenda del Conte.

Il Conte, un Soldato.

SOLDATO

   Signor, l'oste nemica è in movimento:

   La vanguardia è sull'argine, e s'avanza.

IL CONTE

   I condottieri dove son?

SOLDATO

   Qui tutti

   Fuor della tenda i principali; e stanno

   Gli ordin vostri aspettando.

   Entrino tosto.

   (parte il soldato)

SCENA QUINTA

IL CONTE

   Eccolo il dì ch'io bramai tanto.-Il giorno

   Ch'ei non mi volle udir, che invan pregai,

   Che ogni adito era chiuso, e che deriso,

   Solo, io partiva, e non sapea per dove,

   Oggi con gioia io lo rammento alfine.

   Ti pentirai, dicea, mi rivedrai,

   Ma condottier de' tuoi nemici, ingrato!

   Io lo dicea, ma allor pareva un sogno,

   Un sogno della rabbia; ed ora è vero.

   Gli sono a fronte: ecco mi balza il core:

   Io sento il dì della battaglia... E s'io...

   No: la vittoria è mia.

SCENA SESTA

Il Conte, Gonzaga, Orsini, Tolentino,

altri condottieri.

IL CONTE

   Compagni, udiste

   La lieta nova: l'inimico ha fatto

   Ciò ch'io volea; così voi pur farete.

   E il sol che sorge, a ognun di noi, lo giuro,

   Il più bel dì di nostra vita apporta.

   Non è tra voi chi una battaglia aspetti

   Per farsi un nome, il so; ma questa sera

   L'avrem più glorioso; e la parola

   Che al nostro orecchio sonerà più grata,

   Omai fia quella di Maclodio. Orsini,

   Son pronti i tuoi?

ORSINI

   Sì.

IL CONTE

   Corri all'imboscate

   Sulla destra dell'argine; raggiungi

   Quei che vi stanno, e prendine il comando.

   E tu a sinistra, o Tolentino. E quindi

   Non vi movete, che non sia lo scontro

   Incominciato, quando ei fia, correte

   Alle spalle al nemico. Udite entrambi.

   Se dall'insidie egli s'avvede, e tenta

   Ritrarsi, appena avrà voltato il dorso,

   Siategli addosso uniti: io son con voi.

   Provochi, o fugga, oggi dev'esser vinto.

ORSINI

   E lo sarà.

   (parte)

TOLENTINO

   T'ubbidirem, vedrai.

   (parte)

IL CONTE

   (agli altri)

   Tu, Gonzaga, al mio fianco. I posti a voi

   Assegnerò sul campo. Andiam, compagni;

   Si resista al prim'urto: il resto è certo.

CORO

   S'ode a destra uno squillo di tromba;

   A sinistra risponde uno squillo:

   D'ambo i lati calpesto rimbomba

   Da cavalli e da fanti il terren.

   Quinci spunta per l'aria un vessillo;

   Quindi un altro s'avanza spiegato:

   Ecco appare un drappello schierato;

   Ecco un altro che incontro gli vien.

   Già di mezzo sparito è il terreno

   Già le spade rispingon le spade;

   L'un dell'altro le immerge nel seno;

   Gronda il sangue, raddoppia il ferir.

   -Chi son essi? Alle belle contrade

   Qual ne venne straniero a far guerra?

   Qual è quei che ha giurato la terra

   Dove nacque far salva, o morir?

   -D'una terra son tutti: un linguaggio

   Parlan tutti: fratelli li dice

   Lo straniero: il comune lignaggio

   A ognun d'essi dal volto traspar.

   Questa terra fu a tutti nudrice

   Questa terra di sangue ora intrisa,

   Che natura dall'altre ha divisa,

   E ricinta con l'alpe e col mar.

   -Ahi! Qual d'essi il sacrilego brando

   Trasse il primo il fratello a ferire?

   Oh terror! Del conflitto esecrando

   La cagione esecranda qual è?

   -Non la sanno: a dar morte, a morire

   Qui senz'ira ognun d'essi venuto;

   E venduto ad un duce venduto,

   Con lui pugna, e non chiede il perché.

   -Ahi sventura! Ma spose non hanno,

   Non han madri gli stolti guerrieri?

   Perché tutte i lor cari non vanno

   Dall'ignobile campo a strappar?

   E i vegliardi che ai casti pensieri

   Della tomba già schiudon la mente,

   Ché non tentan la turba furente

   Con prudenti parole placar?

   -Come assiso talvolta il villano

   Sulla porta del cheto abituro

   Segna il nembo che scende lontano

   Sopra i campi che arati ei non ha;

   Così udresti ciascun che sicuro

   Vede lungi le armate coorti,

   Raccontar le migliaia de' morti,

   E la pieta dell'arse città.

   Là, pendenti dal labbro materno

   Vedi i figli che imparano intenti

   A distinguer con nomi di scherno

   Quei che andranno ad uccidere un dì;

   Qui le donne alle veglie lucenti

   De' monili far pompa e de' cinti,

   Che alle donne diserte de' vinti

   Il marito o l'amante rapì.

   -Ahi sventura! sventura! sventura!

   Già la terra è coperta d'uccisi

   Tutta è sangue la vasta pianura;

   Cresce il grido, raddoppia il furor.

   Ma negli ordini manchi e divisi

   Mal si regge, già cede una schiera;

   Già nel volgo che vincer dispera,

   Della vita rinasce l'amor.

   Come il grano lanciato dal pieno

   Ventilabro nell'aria si spande

   Tale intorno per l'ampio terreno

   Si sparpagliano i vinti guerrier.

   Ma improvvise terribili bande

   Ai fuggenti s'affaccian sul calle;

   Ma si senton più presso alle spalle

   Anelare il temuto destrier.

   Cadon trepidi a piè de' nemici,

   Gettan l'arme, si danno prigioni:

   Il clamor delle turbe vittrici

   Copre i lai del tapino che mor.

   Un corriero è salito in arcioni;

   Prende un foglio, il ripone, s'avvia

   Sferza, sprona, divora la via;

   Ogni villa si desta al rumor.

   Perché tutti sul pesto cammino

   Dalle case, dai campi accorrete?

   Ognun chiede con ansia al vicino,

   Che gioconda novella recò?

   Donde ei venga, infelici, il sapete,

   E sperate che gioia favelli?

   I fratelli hanno ucciso i fratelli:

   Questa orrenda novella vi do.

   Odo intorno festevoli gridi;

   S'orna il tempio, e risona del canto,

   Già s'innalzan dai cori omicidi

   Grazie ed inni che abbomina il ciel.

   Giù dal cerchio dell'alpi frattanto

   Lo straniero gli sguardi rivolve;

   Vede i forti che mordon la polve,

   E li conta con gioia crudel.

   Affrettatevi, empite le schiere,

   Sospendete i trionfi ed i giochi

   Ritornate alle vostre bandiere:

   Lo straniero discende: egli è qui.

   Vincitor! Siete deboli e pochi?

   Ma per questo a sfidarvi ei discende;

   E voglioso a quei campi v'attende

   Dove il vostro fratello perì.

   Tu che angusta a' tuoi figli parevi,

   Tu che in pace nutrirli non sai,

   Fatal terra, gli estrani ricevi:

   Tal giudizio comincia per te.

   Un nemico che offeso non hai,

   A tue mense insultando s'asside;

   Degli stolti le spoglie divide

   Toglie il brando di mano a' tuoi re.

   Stolto anch'esso! Beata fu mai

   Gente alcuna per sangue ed oltraggio?

   Solo al vinto non toccano i guai;

   Torna in pianto dell'empio il gioir.

   Ben talor nel superbo viaggio

   Non l'abbatte l'eterna vendetta;

   Ma lo segna, ma veglia ed aspetta;

   Ma lo coglie all'estremo sospir.

   Tutti fatti a sembianza d'un Solo,

   Figli tutti d'un solo Riscatto

   In qual ora, in qual parte del suolo,

   Trascorriamo quest'aura vital,

   Siam fratelli; siam stretti ad un patto:

   Maledetto colui che l'infrange,

   Che s'innalza sul fiacco che piange,

   Che contrista uno spirto immortal!

   FINE DELL'ATTO SECONDO

ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Tenda del Conte.

Il Conte e il Primo Commissario.

IL CONTE

   Siete contenti?

PRIMO COMMISSARIO

   Udir l'alto trionfo

   Della patria; vederlo; essere i primi

   A salutarla vincitrice; a lei

   Darne l'annunzio; assistere alla fuga

   De' suoi nemici; e mentre al nostro orecchio

   Rimbomba il suon della minaccia ancora

   Veder la gloria sua fuor del periglio

   Uscir raggiante e più che mai serena,

   Come un sol dalle nubi; è gioia questa

   Forse, o signor, cui la parola arrivi?

   Voi la vedete: essa vi sia misura

   Della riconoscenza; e ben ci tarda

   Di rendervi tai grazie in altro nome

   Che non è il nostro, e del Senato a voi

   Riferir la letizia e il guiderdone.

   Ei sarà pari al merto.

IL CONTE

   Io già lo tengo.

   Venezia è salva; ho liberata in parte

   Una grande promessa; ho fatto alfine

   Risovvenir di me tal che m'avea

   Dimenticato; ho vinto.

PRIMO COMMISSARIO

   Ed or si vuole

   Assicurar della vittoria il frutto.

IL CONTE

   Questa è mia cura.

PRIMO COMMISSARIO

   Or che dal vostro brando

   Sgombra è la via, noi ci aspettiam che tutta

   Voi la farete, né starem fin tanto

   Che non si giunga del nemico al trono.

IL CONTE

   Quando fia tempo.

PRIMO COMMISSARIO

   E che? Voi non volete Inseguire i fuggenti?

IL CONTE

   Ora non voglio.

PRIMO COMMISSARIO

   Ma il Senato lo crede... E noi ben certi

   Che pari all'alta occasion, che pari

   Alla vittoria il vostro ardor saria

   Nel proseguirla, abbiamo a lui

IL CONTE

   Vi siete

   Troppo affrettati.

PRIMO COMMISSARIO

   E che dirà mai quando

   Udrà che ancor siam qui?

IL CONTE

   Dirà, che il meglio È di fidarsi a chi per lui già vinse.

PRIMO COMMISSARIO

   Ma... che pensate far?

IL CONTE

   Ve l'avrei detto

   Più volentier pochi momenti or sono;

   Pur convien ch'io vel dica. Io non mi voglio

   Allontanar di qui pria ch'espugnate

   Non sian le rocche che ci stan d'intorno.

   Voglio un solo nemico, e quello in faccia.

PRIMO COMMISSARIO

   Or dunque i nostri voti...

IL CONTE

   I vostri voti

   Più arditi son del brando mio, più rapidi

   De' miei cavalli; ... ed io ... la prima volta

   È che mi sento dir pur ch'io m'affretti.

PRIMO COMMISSARIO

   Ma pensate abbastanza?

IL CONTE

   E che! Sì nova

   Mi giunge una vittoria? E vi par egli

   Che questa gioia mi confonda il core

   Tanto che il primo mio pensier non sia

   Per ciò che resta a far?

SCENA SECONDA

Il Secondo Commissario, e detti.

SECONDO COMMISSARIO

   (al Conte)

   Signor, se tosto

   Non correte al riparo, una sfacciata

   Perfidia s'affatica a render vana

   Sì gran vittoria; e già l'ha fatto in parte.

IL CONTE

   Come?

SECONDO COMMISSARIO

   I prigioni escon del campo a torme;

   I condottieri ed i soldati a gara

   Li mandan sciolti, né tener li puote

   Fuor che un vostro comando.

IL CONTE

   Un mio comando?

SECONDO COMMISSARIO

   Esitereste a darlo?

IL CONTE

   È questo un uso

   Della guerra, il sapete. È così dolce

   Il perdonar quando si vince! e l'ira

   Presto si cambia in amistà ne' cori

   Che batton sotto il ferro. Ah! non vogliate

   Invidiar sì nobil premio a quelli

   Che hanno per voi posta la vita, ed oggi

   Son generosi, perché ier fur prodi.

SECONDO COMMISSARIO

   Sia generoso chi per sé combatte,

   Signor; ma questi, e ad onor l'hanno, io credo,

   Al nostro soldo han combattuto; e nostri

   Sono i prigoni.

IL CONTE

   E voi potete adunque

   Creder così: quei che gli han visti a fronte,

   Che assaggiaro i lor colpi, e che a fatica

   Su lor le mani insanguinate han poste,

   Nol crederan sì di leggieri.

PRIMO COMMISSARIO

   È questa

   Dunque una giostra di piacer? Non vince

   Per conservar, Venezia? E vana al tutto

   Fia la vittoria?

IL CONTE

   Io già l'udii, di novo

   La devo udir questa parola: amara,

   Importuna mi vien come l'insetto

   Che, scacciato una volta, anco a ronzarmi

   Torna sul volto... La vittoria è vana?

   Il suol d'estinti ricoperto, sparso

   E scoraggiato 'l resto... il più fiorente

   Esercito! col qual, se unito ancora

   E mio foss'egli, e mio daver, torrei

   A correr tutta Italia; ogni disegno

   Dell'inimico al vento; anche il pensiero

   Dell'offesa a lui tolto; a stento usciti

   Dalle mie mani, e di fuggir contenti

   Quattro tai duci, contro a' quai pur ieri

   Era vanto il resistere; svanito

   Mezzo il terror di que' gran nomi; ai nostri

   Raddoppiato l'ardir che agli altri è scemo;

   Tutta la scelta della guerra in noi;

   Nostre le terre ch'egli han sgombre... è nulla?

   Pensate voi che torneranno al Duca

   Que' prigioni? che l'amino? che a loro

   Caglia di lui più che di voi? ch'egli abbiano

   Combattuto per esso? Han combattuto

   Perché all'uomo che segue una bandiera,

   Grida una voce imperiosa in core:

   Combatti, e vinci. E' son perdenti; e' sono

   Tornati in libertà; si venderanno

   Oh! tale ora è il soldato... a chi primiero

   Li comprerà... Comprateli, e son vostri.

PRIMO COMMISSARIO

   Quando assoldammo chi dovea con essi

   Pugnar, comprarli noi credemmo allora.

SECONDO COMMISSARIO

   Signor, Venezia in voi si fida; in voi

   Vede essa un figlio; e quanto all'util suo,

   Alla sua gloria può condur, s'aspetta

   Che si faccia da voi.

IL CONTE

   Tutto ch'io posso.

SECONDO COMMISSARIO

   Ebben, che non potete in questo campo?

IL CONTE

   Quel che chiedete: un uso antico, un uso

   Caro ai soldati violar non posso.

SECONDO COMMISSARIO

   Voi cui nulla resiste, a cui sì pronto

   Tien dietro ogni voler, sì ch'uom non vede

   Se per amore o per timor si pieghi,

   Voi non potreste in questo campo, voi

   Fare una legge, e mantenerla?

IL CONTE

   Io dissi

   Ch'io non potea: meglio or dirò: nol voglio.

   Non più parole; con gli amici è questo

   Il mio costume antico, ai giusti preghi

   Soddisfar tosto e lietamente, e gli altri

   Apertamente rifiutar. Soldati!

SECONDO COMMISSARIO

   Ma... che disegno è il vostro?

IL CONTE

   Or lo vedrete.

   (a un Soldato che entra)

   Quanti prigion restano ancora?

   IL SOLDATO

   Io credo Quattrocento, signor.

IL CONTE

   Chiamali...chiama

   I più distinti... quei che incontri i primi:

   Vengan qui tosto.

   (parte il Soldato)

   Io 'l potrei certo... Ov'io

   Dessi un tal cenno, non s'udria nel campo

   Una repulsa; ma i miei figli, i miei

   Compagni del periglio e della gioia,

   Quei che fidano in me, che un capitano

   Credon seguir sempre a difender pronto

   L'onor della milizia ed il vantaggio,

   Io tradirli così! Farla più serva

   Più vil, più trista che non è!... Signori,

   Fidente io son, come i soldati il sono;

   Ma se cosa or da me chiedete a forza

   Che mi tolga l'amor de' miei compagni,

   Se mi volete separar da quelli,

   E a tal ridurmi ch'io non abbia appoggio

   Altro che il vostro, mio malgrado il dico,

   M'astringerete a dubitar

SECONDO COMMISSARIO

   Che dite!

SCENA TERZA

I prigionieri, tra i quali Pergola figlio, e detti.

IL CONTE

   (ai Prigionieri)

   O prodi indarno, o sventurati!... A voi

   Dunque fortuna è più crudel? voi soli

   Siete alla trista prigionia serbati?

UN PRIGIONIERE

   Tale, eccelso signor, non era il nostro

   Presentimento: allor che a voi dinanzi

   Fummo chiamati, udir ci parve il messo

   Di nostra libertà. Già tutti l'hanno

   Ricovrata color che agli altri duci,

   Minor di voi, caddero in mano; e noi

IL CONTE

   Voi, di chi siete prigionier?

IL PRIGIONIERE

   Noi fummo

   Gli ultimi a render l'armi. In fuga o preso

   Già tutto il resto, ancor per pochi istanti

   Fu sospesa per noi l'empia fortuna

   Della giornata; alfin voi feste il cenno

   D'accerchiarci, o signor: soli, non vinti,

   Ma reliquie de' vinti, al drappel vostro

IL CONTE

   Voi siete quelli? Io son contento, amici

   Di rivedervi; e posso ben far fede

   Che pugnaste da prodi: e se tradito

   Tanto valor non era, e pari a voi

   Sortito aveste un condottier, non era

   Piacevol tresca esservi a fronte.

IL PRIGIONIERE

   Ed ora

   Ci fia sventura il non aver ceduto

   Che a voi, signore? E quelli a cui toccato

   Men glorioso è il vincitor, l'avranno

   Trovato più cortese? Indarno ai vostri

   La libertà chiedemmo; alcun non osa

   Dispor di noi senza l'assenso vostro;

   Ma cel promiser tutti. Oh! se potete

   Mostrarvi al Conte, ci dicean; non egli

   Certo dei vinti aggraverà la sorte;

   Non fia certo per lui tolta un'antica

   Cortesia della guerra,... ei che sapria

   Esser piuttosto ad inventarla il primo.

IL CONTE

   (ai Commissari)

   Voi gli udite, o signori... Ebben, che dite?...

   Voi, che fareste?

   (ai Prigionieri)

   Tolga il ciel che alcuno

   Più altamente di me pensi ch'io stesso.

   Voi siete sciolti, amici. Addio: seguite

   La vostra sorte, e s'ella ancor vi porta

   Sotto una insegna che mi sia nemica

   Ebben, ci rivedremo.

   (segni di gioia tra i Prigionieri che partono;

   il Conte osserva il Pergola figlio, e lo ferma)

   O giovinetto,

   Tu del volgo non sei; l'abito, e il volto

   Ancor più chiaro il dice; e ti confondi

   Con gli altri, e taci?

PERGOLA FIGLIO

   O capitano, i vinti

   Non han nulla da dir.

IL CONTE

   La tua fortuna

   Porti così, che ben ti mostri degno

   D'una miglior. Quale è il tuo nome?

PERGOLA FIGLIO

   Un nome

   Cui crescer pregio assai difficil fia,

   Che un grande obbligo impone a chi lo porta:

   Pergola è il nome mio.

IL CONTE

   Che? Tu sei figlio

   Di quel valente?

PERGOLA FIGLIO

   Il son.

IL CONTE

   Vieni ed abbraccia

   L'antico amico di tuo padre. Io era

   Quale or tu sei, quando il conobbi in prima.

   Tu mi rammenti i lieti giorni, i giorni

   Delle speranze. E tu fa cor: fortuna

   Più giocondi princìpi a me concesse;

   Ma le promesse sue pei prodi;

   E o presto o tardi essa le adempie. Il padre

   Per me saluta, o giovinetto, e digli

   Ch'io non tel chiesi, ma che certo io sono

   Ch'ei non volea questa battaglia.

PERGOLA FIGLIO

   Ah! certo,

   Non la volea; ma fur parole al vento.

IL CONTE

   Non ti doler: del capitano è l'onta

   Della sconfítta; e sempre ben comincia

   Chi da forte combatte ove fu posto.

   Vien meco;

   (lo prende per mano)

   ai duci io vo' mostrarti, io voglio

   Renderti la tua spada.

   (ai Commissari)

   Addio, signori;

   Giammai pietoso coi nemici vostri

   Io non sarò, che dopo averli vinti.

   (partono il Conte e Pergola figlio)

SCENA QUARTA

I due Commissari.

SECONDO COMMISSARIO

   (dopo qualche silenzio)

   Direte ancor che a presagir perigli

   Troppo facil son io? che le parole

   De' suoi contrari, il mio sospetto antico

   L'odio forse, chi sa? mi fanno ingiusto

   Contro costui? ch'egli è sdegnoso, ardente,

   Ma leal? che da lui cercar non dèssi

   Ossequi, ma servigi, e quando in grave

   Caso il nostro volere a lui s'intimi,

   Il dubitar ch'egli resista è un sogno?

   Vi basta questo?

PRIMO COMMISSARIO

   C'è di più. Gli dissi

   Che a noi premea che s'inseguisse il vinto:

   Ei ricusò.

SECONDO COMMISSARIO

   Ma che rispose?

PRIMO COMMISSARIO

   Ei vuole

   Assicurarsi delle rocche... ei teme...

SECONDO COMMISSARIO

   Cauto ad un tratto è divenuto

   e dopo una vittoria.

PRIMO COMMISSARIO

   La parola a stento

   Gli uscia di bocca: ella parea risposta

   All'indiscreto che t'assedia, e vuole

   Il tuo segreto che per nulla il tocca.

SECONDO COMMISSARIO

   Ma l'ha poi detto il suo segreto? E questo

   Motivo ond'egli acconttentar vi volle,

   Vi parve il solo suo motivo, il vero?

PRIMO COMMISSARIO

   Nol so, non ci badai, tempo non ebbi

   Che di pensar ch'io mi trovava innanzi

   Un temerario, e ch'io sentia parole

   Inusitate ai pari nostri.

SECONDO COMMISSARIO

   E s'egli

   Al suo signore antico, al primo ond'ebbe

   Onor supremi, all'alta creatura

   Della sua spada, più terror che danno

   Volesse far? fargli pensar soltanto

   Quel ch'egli era per lui, quel che gli è contro?

   Tal nemico mostrarglisi, ch'ei brami

   D'averlo amico ancor? S'ei non potesse

   Tutto staccare il suo pensier da un trono

   Ch'egli alzò dalla polve; ov'ebbe il primo

   Grado dopo colui che v'è seduto?

   Se un duca ardente di conquiste, e inetto

   A sopportar d'una corazza il peso,

   Che d'una mano ha d'uopo e d'un coniglio,

   E al condottier lo chiede, e gli comanda

   Ciò ch'ei medesmo gl'inspirò, più grato

   Signor, più dolce al condottier paresse,

   Che molti, e vigilanti, e più bramosi

   Di conservar che d'acquistar, cui preme

   Sovr'ogni cosa il comandar davvero?

PRIMO COMMISSARIO

   Tutte io m'aspetto da costui.

SECONDO COMMISSARIO

   Teniamo

   Questo sospetto: il suo contegno, i nostri

   Accorgimenti il faran chiaro in breve,

   O ad altro almen ci guideranno. Ei trama

   Certo. Colui che trama, e del successo

   Si pasce già, come se il tenga, ardito

   Parla ancor che nol voglia; e quei che sprezza

   In faccia il suo signor, già in cor ne ha scelto

   Un altro, o pensa a diventarlo ei stesso.

   No: da Filippo ei non è sciolto in tutto.

   A quella stirpe onde la sposa egli ebbe

   Non è stranier: troppo gli è caro il nodo

   Che ad essa un dì lo strinse. In quella figlia,

   Che ha tanta parte in suo pensier, non scorre

   Col suo confuso de' Visconti il sangue?

PRIMO COMMISSARIO

   Come parlò! Come passò dall'ira

   Al non curar! Com che superba pace

   Disubbidì! Siam noi nel nostro campo?

   Di Venezia i mandati? Eran costoro

   Vinti e prigioni? E più sicuro il guardo

   Portavano di noi! Noi testimoni

   Del suo poter, del conto in cui ci tiene,

   De' nostri acquisti così sparsi al vento,

   Di tal gioia, di tai grazie, di tali

   Abbracciamenti! Oh! ciò durar non puote.

   Che avviso è il vostro?

SECONDO COMMISSARIO

   Haccene due? Soffrire,

   Dissimular, fargli querela ancora

   D'un offesa che mai creder non puote

   Dimenticata, e insiem la strada aprirgli

   Di ripararla a modo suo; gradire

   Che ch'ei ne faccia; chiedergli soltanto

   Ciò che siam certi d'ottenerne; opporci

   Sol quanto basti a far che vera appaia

   Condiscendenza il resto; a dichiararsi

   Non astringerlo mai; vegliare intanto;

   Scriverne ai Dieci, ed aspettar comandi.

   Viver così! Che si diria do noi?

   Dell'alto ufizio che ci fu commesso,

   A cui venimmo invidiati, e or tale

   Diviene?

SECONDO COMMISSARIO

   È sempre glorioso il posto

   Dove si serve la sua patria, e dove

   Si giunge ai fini suoi. Soldati e duci

   Tutti sono per lui, l'ammiran tutti,

   Nessun l'invidia, a sommo onor si tiene

   Bene ubbidirlo; e in questo sol c'è gara

   Che ad essergli secondo ognuno aspira.

   Voce sì cara e riverita in prima,

   Che forza avrebbe in lor poscia che udita

   L'hanno in un tanto dì, che forza avrebbe

   Se proferisse mai quella parola,

   Che in core han tutti, la rivolta? Guai!

   Che più? gli udimmo pur; come de' suoi,

   È nel pensiero de' nemici in cima.

PRIMO COMMISSARIO

   Ma siamo a tempo? Ei già sospetta.

SECONDO COMMISSARIO

   Il siamo.

   Essi armati, e sol essi, avvezzi tutti

   A prodigar la vita, a non temere

   Il periglio, ad amarlo, e delle imprese

   A non guardar che la speranza, alfine

   Più ch'uomini nel campo: ah! se fanciulli

   Non fosser poi nel resto, ed i sospetti

   Facili a palesar come a deporli;

   Se una parola di lusinga, un atto

   Di sommessa amistà non li volgesse

   A talento di quel che l'usa a tempo;

   A che saremmo? ubbidiria la spada?

   Saremmo ancora i signor noi?

PRIMO COMMISSARIO

   Sta bene.

   Riesca, o no, questo partito è il solo.

   FINE DELL' ATTO TERZO

ATTO QUARTO

SCENA PRIMA

Sala dei capi del Consiglio dei Dieci, in Venezia.

Marco Senatore, e Marino uno del Capi.

MARCO

   Eccomi al cenno degli eccelsi Capi Del Consiglio de' Dieci.

MARINO

   Io parlo in nome

   Di tutti lor. Vi si destina un grave

   Incerco, fuor di qui: se un argomento

   Di confidenza questo sia... la vostra

   Coscienza il diravvi.

MARCO

   Essa mi dice

   Che scarsa al merto ed all'ingegno mio

   Dee la patria concederla, ma intera

   Alla fede e al cor.

MARINO

   La patria! È un nome

   Dolce a chi l'ama oltre ogni cosa, e sente

   Di vivere per lei; ma proferirlo

   Senza trenar non dee chi resta amico

   De' suoi nemici.

MARCO

   Ed io...

MARINO

   Per chi parlaste

   Oggi in Senato? Per la patria? I vostri

   Sdegni. i vostri terrori eran per lei?

   Che vi rendea sì caldo? Il suo periglio

   O il periglio di chi? Chi difendeste

   Voi solo?

MARCO

   Io so davanti a chi mi trovo.

   Sta la mia vita in vostra man, ma il mio

   Voto non già: giudice ei non conosce

   Fuor che il mio cor; né d'altro esser può reo

   Che d'avergli mentito. A darne conto

   Pur disposto son io.

MARINO

   Tutto che puote

   Por la patria in periglio, essere inciampo

   All'alte mire sue, dargli sospetto,

   È in nostra man. Perché ci siate or voi,

   Se nol sapete, se mostrar vi giova

   Di non saperlo, uditelo. Per ora

   D'oggi si parli; non vogliam di tutta

   La vostra vita interrogar che un giorno.

MARCO

   E che? fors'altro mi si appon? Di nulla

   Temer poss'io; la mia condotta

MARINO

   E nota

   Più a noi che a voi. Dalla memoria vostra

   Forse assai cose ha cancellato il tempo:

   Il nostro libro non obblia.

MARCO

   Di tutto Ragion darò.

MARINO

   Voi la darete quando

   Vi fia chiesta. Non più: quando il Senato

   Diede il comando al Carmagnola, a molti

   Era sospetta la sua fede; ad altri

   Certa parea: potea parerlo allora.

   Ei discioglie i prigioni, insulta i nostri

   Mandati, i nostri pari; ha vinto, e perde

   In perfid'ozio la vittoria. Il velo

   Cade dal ciglio ai più. Nel suo soccorso

   Troppo fidando, il Trevisan s'innoltra

   Nel Po, le navi del nemico affronta;

   Sopraffatto dal numero, richiede

   Al capitan rinforzo, e non l'ottiene.

   Freme il Senato; poche voci appena

   S'alzano ancor per lui. Cremona è presa,

   Basta sol ch'ei v'accorra; ei non v'accorre.

   Giunge l'annunzio oggi al Senato: alfine

   Più non gli resta difensor che uno solo:

   Solo, ma caldo difensor. Per lui

   Innocente è costui, degno di lode

   Più che di scusa; e se ci fu sventura,

   Colpa è soltanto del destino... e nostra.

   Non è giustizia che il persegue: è solo

   Odio privato, è invidia, è basso orgoglio

   Che non perdona al sommo, a chi tacendo

   Grida co' fatti: io son maggior di voi.

   Certo inaudito è un tal linguaggio: i Padri

   Nel lor Senato oggi l'udiro; e muti

   Si volsero a guardar donde tal voce

   Venia, se uno straniero oggi, un nemico

   Premere un seggio nel Senato ardia.

   Chiarito è il Conte un traditor; si vuole

   Torgli ogni via di nocere. Ma l'arte

   Tanta e l'audacia è di costui, che reso

   Ei s'è tremendo a' suoi signori; è forte

   Di quella forza che gli abbiam fidata;

   Egli ha il cor de' soldati; e l'armi nostre,

   Quando voglia, son sue; contro di noi

   Volger le puote, e il vuol. Certo è follia

   Aspettar che lo tenti; ognun risolve

   Ch'ei si prevenga, e tosto. A forza aperta

   È impresa piena di perigli. E poi

   Starem per questo? E il suo maggior delitto

   Sarà cagion perché impunito ei vada?

   Sola una strada alla giustizia è schiusa,

   L'arte con cui l'ingannator s'inganna.

   Ei ci astrinse a tenerla; ebben, si tenga:

   Questo è il voto comun. Che fece allora

   L'amico di costui? Ve ne rammenta?

   Io vel dirò; ché men tranquillo al certo

   Era in quel punto il vostro cor, dell'occhio

   Che imperturbato vi seguia. Perdeste

   Ogni ritegno, oltrepassate il largo

   Confin che un resto di prudenza avea

   Prescritto al vostro ardor, dimenticaste

   Ciò che promesso v'eravate, intero

   Ai men veggenti vi svelaste, a quelli

   Cui parea novo ciò che a noi non l'era.

   Ognuno allor pensò che oggi in Senato

   C'era un uom di soverchio, e che bisogna

   Porre il segreto dello Stayo in salvo.

MARCO

   Signor, tutto a voi lice: innanzi a voi

   Quel che ora io sia, non so; però non posso

   Dimenticarmi che patrizio io sono,

   Né a voi tacer che un dubbio tal m'offende.

   Sono un di voi: la causa dello Stato

   È la mia causa; e il suo segreto importa

   A me non men che altrui.

MARINO

   Volete alfine

   Saper chi siete qui? Voi siete un uomo

   Di cui si teme, un che lo Stato guarda

   Come un inciampo alla sua via. Mostrate

   Che nol sarete; il darvene agio ancora

   È gran clemenza.

MARCO

   Io sono amico al Conte:

   Questa è l'accusa mia; nol nego, io il sono:

   E il ciel ringrazio che vigor mi ha dato

   Di confessarlo qui. Ma se nemico

   È della patria? Mi si provi, è il mio.

   Che gli si appone? I prigionier disciolti?

   Non li disciolse il vincitor soldato?

   Ma invan pregato il condottier non volle

   Frenar questa licenza. Il potea forse?

   Ma l'imitò. Non ve lo strinse in uso,

   Qual che'i sia, della guerra? ed al Senato

   Vera non parve questa scusa? e largo

   D'ogni onor poscia non gli fu? L'aiuto

   Al Trevisan negato? Era più grave

   Periglio di darlo; era l'impresa ordita

   Ignaro il Conte; ei non fu chiesto a tempo.

   E la sentenza che a sì turpe esiglio

   Il Trevisan dannò, tutta la colpa

   Non rovesciò sovra di lui? Cremona?

   Chi di Cremona medità l'acquisto?

   Chi l'ordin diè che si tentasse? Il Conte.

   Del popol tutto che a rumor si leva

   Non può scarso drappello l'inaspettato

   Impeto sostener; ritorna al campo,

   Non scemo pur d'un combattente. Al Duce

   Buon consiglio non parve incontro un novo

   Impensato nemico avventurarsi;

   E abbandonò l'impresa. Ella è, fra tante

   Sì ben compiute, una fallita impresa;

   Ma il tradimento ov'è ? Fiero, oltraggioso

   Da gran tempo, voi dite, è il suo linguaggio:

   Un troppo lungo tollerar macchiato

   Ha l'onor nostro. Ed un'insidia, il lava?

   E noi che un nodo, un dì sì caro, ormai

   Non può tener Venezia e il Carmagnola,

   Chi ci vieta disciorlo? Un'amistade

   Sì nobilmente stretta, or non potria

   Nobilmente finir? Come! anche in questo

   Un periglio si scorge! Il genio ardito

   Del condottier, la fama sua si teme,

   De' soldati l'amor! Se render piena

   Testimonianza al ver, colpa si stima;

   Se a tal trista temenza oppor non lice

   La lealtà del Conte; il senso almeno

   Del nostro onor la scacci. Abbiam di noi

   Un più degno concetto; e non si creda

   Che a tal Venezia giunta sia, che possa

   Porla in periglio un uom. Lasciam codeste

   Cure ai tiranni: ivi il valor si tema

   Ove lo scettro è in una mano, e basta

   A strapparlo un guerrier che dica: io sono

   Più degno di tenerlo; e a' suoi compagni

   Il persuada. Ei che tentar potria?

   Al Duca ritornar, dicesi, e seco

   Le schiere trar nel tradimento. Al Duca?

   All'uom che un'onta non perdona mai

   Né un gran servigio, ritornar colui

   Che gli compose e che gli scosse il trono?

   Chi non potè restargli amico in tempo

   Che pugnava per lui, ridivenirlo

   Dopo averlo sconfitto! Avvicinarsi

   A quella man che in questo asilo istesso

   Comprò un pugnal per trapassargli il petto!

   L'odio solo, o signor, creder lo puote.

   Ah! qual sia la cagion che innanzi a questo

   Temuto seggio fa trovarmi, un'alta

   Grazia mi fia, se fare intender posso

   Anco una volta il ver: qualche lusinga

   Io nutro ancor che non fia forse invano.

   Sì, l'odio cieco, l'odio sol potea

   Far che fosse in Senato un tal sospetto

   Proposto, inteso, tollerato. Ha molti

   Fra noi nemici il Conte: or non ricerco

   Perché lo siano: il son. Quando nascoste

   All'ombra della pubblica vendetta,

   Le nimistà private io disvelai;

   Quando chiedea che a provveder s'avesse

   L'util soltanto dello Stato, e il giusto,

   Allora ufizio io non facea d'amico,

   Ma di fedel patrizi. Io già non scuso

   Il mio parlar: quando proporre intesi

   Che sotto il vel di consultarlo ei sia

   Richiamato a Venezia, e gli si faccia

   Onor più dell'usato, e tutto questo

   Per tirarlo nel laccio... allor, nol nego...

MARINO

   Più non pensate che all'amico.

MARCO

   Allora,

   Dissimular nol vo', tutte sentii

   Le potenze dell'alma sollevarsi

   Contro un consiglio... ah fu seguìto!... Un solo

   Pensier non fu; fu della patria mia

   L'onor ch'io vedo vilipeso, il grido

   De' nemici e de' posteri; fu il primo

   Senso d'orror che un tradimento inspira

   All'uom che dee stornarlo, o starne a parte.

   E se pietà d'un prode a tanti affetti

   Pur si mischiò, dovea, poteva io forse

   Farla tacer? Son reo d'aver creduto

   Che util puote a Venezia esser soltanto

   Ciò che l'onora, e che si può salvarla

   Senza farsi

MARINO

   Non più: se tanto udii

   Fu perché ai Capi del Consiglio importa

   Di conoscerv appien. Piacque aspettarvi

   Ai secondi pensier; veder si volle

   Se un più maturo ponderar v'avea

   Tratto a più saggio e più civil consiglio.

   Or, poiché indarno si sperò, credete

   Voi che un decreto del Senato io voglia

   Difender ora innanzi a voi? Si tratta

   La vostra causa qui. Pensate a voi,

   Non alla patria: ad altre, e forti, e pure

   Mani è commessa la sua sorte; e nulla

   A cor le sta che il suo voler vi piaccia,

   Ma che s'adempia, e che non sia sofferto

   Pure il pensier di porvi impedimento.

   A questo vegliam noi. Quindi io non voglio

   Altro da voi che una risposta. Espresso

   Sovra quest'uomo è del Senato il voto

   Compir si dee; voi, che farete intanto?

MARCO

   Quale inchiesta, signor!

MARINO

   Voi siete a parte

   D'un gran disegno; e in vostro cor bramate

   Che a vòto ei vada: non è ver?

MARCO

   Che importa

   Ciò ch'io brami, allo Stato? A prova ormai

   Sa che dell'opre mie non è misura

   Il desiderio, ma il dover.

MARINO

   Qual pegno

   Abbiam da voi che lo farete? In nome

   Del Tribunale un ve ne chiedo: e questo,

   Se lo negate, un traditor vi tiene.

   Quel che si serba ai traditor, v'è noto.

MARCO

   Io... Che si vuol da me?

MARINO

   Riconoscete

   Che patria è questa a cui bastovvi il core

   Di preferire uno stranier. Sui figli

   A stento e tardi essa la mano aggrava;

   E a perderne soltanto ella consente

   Quei che salvar non puote. Ogni error vostro

   È pronta ad obbliar; v'apre ella stessa

   la strada al pentimento.

MARCO

   Al pentimento!

   Ebben, che strada?

MARINO

   Il Mussulman disegna

   D'assalir Tessalonica: voi siete

   Colà mandato. A quale ufizio, quivi

   Noto vi fia: pronta è la nave; ed oggi

   Voi partirete.

MARCO

   Ubbidirò.

MARINO

   Ma un'arra

   Si vuol di vostra fè: giurar dovete

   Per quanto è sacro, che in parole o in cenni

   Nulla per voi traspirerà di quanto

   Oggi s'è fisso. Il giuramento è questo:

   (gli presenta un foglio)

   Sottoscrivete.

MARCO

   (legge)

   E che, signor? Non basta?

MARINO

   E per ultimo, udite. Il messo è in via

   Che porta al Conte il suo richiamo. Ov'egli

   Pronto ubbidisca, ed in Venezia arrivi,

   Giustizia troverà... forse clemenza.

   Ma se ricusa, se sta in forse, e segno

   Dà di sospetto; un gran segreto udite,

   E tenetelo in voi; l'ordine è dato

   Che dalle nostre man vivo ei non esca.

   Il traditor che dargli un cenno ardisce,

   Quei l'uccide, e si perde. Io più non odo

   Nulla di voi: scrivete; ovvero

   (gli porge il foglio)

MARCO

   Io scrivo.

   (prende il foglio e lo sottoscrive)

MARINO

   Tutto è posto in obblio. La vostra fede

   Ha fatto il più; vinto ha il dover: l'impresa

   Compirsi or dee dalla prudenza; e questa

   Non può mancarvi, sol che in mente abbiate

   Che ormai due vite in vostra man don poste.

   (parte)

SCENA SECONDA

MARCO

   Dunque è deciso!... un vil son io!... fui posto

   Al cimento; e che feci? ... Io prima d'oggi

   Non conoscea me stesso!... Oh che segreto

   Oggi ho scoperto! Abbandonar nel laccio

   Un amico io potea! Vedergli al tergo

   L'assassino venir, veder lo stile

   Che su lui scende, e non gridar: ti guarda!

   Io lo potea; l'ho fatto... io più nol devo

   Salvar; chiamato ho testimonio il cielo

   D'un, infame viltà... la sua sentenza

   Ho sottoscritta   ho la mia parte anch'io

   Nel suo sangue! Oh che feci!... io mi lasciai

   Dunque atterrir?... La vita?... Ebben, talvolta

   Senza delitto non si può serbarla:

   Nol sapeva io? Perché promisi adunque?

   Per chi tremai? per me? per me? per questo

   Disonorato capo?... o per l'amico?

   La mia ripulsa accelerava il colpo,

   Non lo stornava. O Dio che tutto scerni

   Rivelami il mio cor; ch'io veda almeno

   In quale abisso son caduto, s'io

   Fui più stolto, o codardo, o sventurato.

   O Carmagnola, tu verrai!... sì certo

   Egli verrà... se anche di queste volpi

   Stesse in sospetto, ei penserà che Marco

   E senator, che anch'io l'invito; e lunge

   Ogni dubbiezza scaccerà; rimorso

   Avrà d'averla accolta... Io son che il perdo!

   Ma... di clemenza non parlò quel vile?

   Sì, la clemenza che il potente accorda

   All'uom che ha tratto nell'agguato, a quello

   Ch'egli medesmo accusa, e che egli preme

   Di trovar reo. Clemenza all'innocente!

   Oh! il vil son io che gli credetti, o volli

   Credergli; ei la nomò perché comprese

   Che bastante a corrompermi non era

   Il rio timor che a goccia a goccia ei fea

   Scender sull'alma mia: vide che d'uopo

   M'era un nobil preteto; e me lo diede.

   Gli astuti! i traditor! Come le parti

   Distribuite hanno tra lor costoro!

   Uno il sorriso, uno il pugnal, quest'altro

   Le minacce... e la mia?... voller che fosse

   Debolezza ed inganno... ed io l'ho presa!

   Io li spregiava; e son da men di loro!

   Ei non gli sono amici!... Io non doveva

   Essergli amico: io lo cercai; fui preso

   Dall'alta indole sua, dal suo gran nome,

   Perché dapprima non pensai che incarco

   È l'amistà d'un uom che agli altri è sopra?

   Perché allor correr solo io nol lasciai

   La sua splendida via, s'io non potea

   Seguire i passi suoi? La man gli stesi;

   Il cortese la strinse; ed or ch'ei dorme,

   E il nemico gli è sopra, io la ritiro:

   Ei si desta, e mi cerca; io son fuggito!

   Ei mi dispregia, e more! Io non sostengo

   Questo pensier. Che feci! Ebben, che feci?

   Nulla finora: ho sottoscritto un foglio

   E nulla più Se fu delitto il giuro,

   Non fia virtù l'infrangerlo? Non sono

   Che all'orlo ancor del precipizio; il vedo,

   E ritrarmi poss'io... Non posso un mezzo

   Trovar?... Ma s'io l'uccido? Oh! forse il disse

   Per atterrirmi... E se davvero il disse?

   Oh empi, in quale abbominevol rete

   Stretto m'avete! Un nobile consiglio

   Per me non c'è; qualunque io scelga, è colpa.

   Oh dubbio atroce!... Io li ringrazio; ei m'hanno

   Statuito un destino; ei m'hanno spinto

   Per una via; vi corro: almen mi giova

   Ch'io non la scelsi: io nulla scelgo; e tutto

   Ch'io faccio è forza e volontà d'altrui.

   Terra ov'io nacqui, addio per sempre: io spero

   Che ti morrò lontano, e pria che nulla

   Sappia di te: lo spero: in fra i perigli

   Certo per sua pietade il ciel m'invia

   Ma non morrò per te Che tu sii grande

   E gloriosa, che m'importa? Anch'io

   Due gran tesori avea, la mia virtude

   Ed un amico; e tu m'hai tolto entrambi.

   (parte)

SCENA TERZA

Tenda del Conte.

Il Conte e Gonzaga.

IL CONTE

   Ebben, che raccogliesti?

GONZAGA

   Io favellai,

   Come imponesti, ai Commissari, e chiaro

   Mostrai che tutte delle vinte navi

   Riman la colpa e la vergogna a lui

   Che non le seppe comandar; che infausta

   La giornata gli fu perché la imprese

   Senza di te; che tu da lui chiamato

   Tardi in soccorso, romper non dovevi

   I tuoi disegni per servir gli altrui

   Che l'armi lor, tanto in tua man felici,

   Sempre il sarian, se questa guerra fosse

   Commessa al senno ed al voler d'un solo.

IL CONTE

   Che dicon essi?

GONZAGA

   Si mostrar convinti

   Ai detti miei: dissero in pria, che nulla

   Dissimular volean; che amaro al certo

   De' perduti navigli era il pensiero

   E di Cremona la fallita impresa;

   Ma che son lieti di saper che il fallo

   Di te non fu; che di chiunque ei sia,

   Da te l'ammenda aspettano.

IL CONTE

   Tu il vedi,

   O mio Gonzaga; se dai fede al volgo,

   Sommo riguardo, arte profonda è d'uopo

   Con questi uomin di Stato. Io fui con essi

   Quel ch'esser soglio; rigettai l'ingiuste

   Pretese lor, scender li feci alquanto

   Dall'alto seggio ove si pon chi avvezzo

   Non è a vedersi altri che schiavi intorno;

   Io mostrai lor fino a che segno io voglio

   Che altri signor mi sia: d'allora in poi

   Mai non l'hanno passato; io li provai

   Saggi sempre e cortesi.

GONZAGA

   E non pertanto

   Dar consiglio ad alcuno io non vorrei

   Di tener questa via. Te da gran tempo

   La gloria segue e la fortuna; ad essi

   Util tu sei, tu necessario e caro,

   Terribil forse: e tu la prova hai vinta;

   Se pur può dirsi che sia vinta ancora.

IL CONTE

   Che dubbi hai tu?

GONZAGA

   TU, che certezza? Io vedo

   Dolci sembianti, e dolci detti ascolto:

   Segni d'amor; ma pur, l'odio che teme,

   Altri ne ha forse?

IL CONTE

   No; di questo io nulla

   Sono in pensier. Troppo a regnar son usi

   E san che all'uom da cui s'ottien il molto

   Chieder non dessi improntamente il meno.

   E poi, credi, io li guardai dappresso:

   Questa cupa arte lor, questi intricati

   Avvolgimenti di menzogna, questo

   Finger, tacer, antiveder, di cui

   Tanto li loda e li condanna il mondo,

   È meno assai di quel che al mondo appare.

GONZAGA

   Se pur non era di lor arte il colmo

   Il parer tali a te.

IL CONTE

   No: tu li vedi

   Con l'occhio altrui: quando col tuo li veda,

   Tu cangerai pensiero. Havvene assai

   Di schietti e buoni; havvene tal che un'lata

   Anima chiude, a cui pensier non osa

   Avvicinarsi che gentil non sia:

   Anima dolce e disdegnosa, in cui

   Legger non puoi, che tu non sia compreso

   D'amor, di riverenza, e di desio

   Di somigliarle. Non temer; non sono

   Di me scontenti; e quando il fosser mai,

   Io lo saprei ben tosto.

GONZAGA

   Il Ciel non voglia

   Che tu t'inganni.

IL CONTE

   Altro mi duol: son stanco

   Di questa guerra che condur non posso

   A modo mio. Quand'io non era ancora

   Più che un soldato di ventura, ascoso

   E perduto tra i mille, ed io sentia

   Che al loco mio non m'avea posto il cielo,

   E dell'oscurità l'aria affannosa

   Respirava fremendo ed il comando

   Sì bello mi parea,... chi m'avria detto

   Che l'otterrei, che a gloriosi duci,

   E a tanti e così prodi e così fidi

   Soldati io sarei capo; e che felice

   Io non sarei perciò!

   (entra un soldato)

   Che rechi?

SOLDATO

   Un foglio

   Di Venezia.

   (gli porge il foglio, e parte)

IL CONTE

   Vediam.

   (legge)

   Non tel diss'io?

   Mai non gli ebbi più amici: a loro il Duca

   Chiede la pace, e conferir con meco

   Braman di ciò. Vuoi tu seguirmi?

GONZAGA

   Io vengo.

IL CONTE

   Che dì tu di tal pace?

GONZAGA

   Ad un soldato

   Tu lo domandi?

IL CONTE

   È ver; ma questa è guerra?

   O mia consorte, o figlia mia, tra poco

   Io rivedrovvi, abbraccerò gli amici:

   Questo è contento al certo. Eppur del tutto

   Esser lieto non so: chi potria dirmi

   Se un sì bel campo io rivedrò più mai?

   FINE DELL' ATTO QUARTO

ATTO QUINTO

SCENA PRIMA

Notte. Sala del Consiglio dei Dieci illuminata.

Il Doge, i Dieci, e il Conte seduti.

IL DOGE

   (al Conte)

   A questi patti offre la pace il Duca

   Su ciò chiede il Consiglio il parer vostro.

IL CONTE

   Signori, un altro io ve ne diedi; e molto

   Promisi allor: vi piacque. Io attenni in parte

   Quel che promesso avea: ma lunge ancora

   Dalle parole è il fatto; ed or non voglio

   Farle obbliar però: sul labbro mio

   Imprevidente militar baldanza

   Non le mettea. Di novo avviso or chiesto,

   Altro non posso che ridirvi il primo.

   Se intera e calda e risoluta guerra

   Far disponete, ah! siete a tempo: è questa

   La miglior scelta ancora. Ei vi abbandona

   Bergamo e Brescia; e non son vostre? L'armi

   Le han fatte vostre: ei non può tanto offrirvi

   Quanto sperar di torgli v'è concesso.

   Ma, da un guerrier che vi giurò sua fede

   Voi non volete altro che il ver, se il modo

   Mutar di questa guerra a voi non piace,

   Accettate gli accordi.

IL DOGE

   Il parlar vostro

   Accenna assai, ma poco spiega: un chiaro

   Parer vi si domanda.

IL CONTE

   Uditel dunque.

   Scegliete un duce, e confidate in lui:

   Tutto ei possa tentar; nulla si tenti

   Senza di lui: largo poter gli date,

   Stretto conto ei ne renda. Io non ci chiedo

   Ch'io sia l'eletto: dico sol che molto

   Sperar non lice da chi tal non sia.

MARINO

   Non l'eravate voi quando i prigioni

   Sciolti voleste, e il furo? Eppur la guerra

   Più risoluta non si fea per questo

   Né certa più. Duce e signor nel campo,

   Forse concesso non l'avreste.

IL CONTE

   Avrei

   Fatto di più: sotto alle mie bandiere

   Venian quei prodi; e di Filippo il soglio

   Vòto or sarebbe, o sederiavi un altro.

IL DOGE

   Vasti disegni avete.

IL CONTE

   E l'adempirli

   Sta in voi: se ancor nol son, n'è cagion sola

   Che la man che il dovea sciolta non era.

MARINO

   A noi si disse altra cagion: che il Duca

   Vi commosse a pietà, che l'odio atroce

   Che già portaste al signor vostro antico,

   Sovra i presenti il rovesciaste intero.

IL CONTE

   Questo vi fu riferto? Ella è sventura

   Di chi regge gli Stati udir con pace

   L'impudente menzogna, i turpi sogni

   D'un vil di cui non degneria privato

   Le parole ascoltar.

MARINO

   Sventura è vostra

   Che a tal riferto il vostro oprar s'accordi,

   Che il rio linguaggio lo confermi, e il vinca.

IL CONTE

   Il vostro grado io riverisco in voi,

   E questi generosi in mezzo a cui

   V'ha posto il caso: e mi conforta almeno

   Che il non mertato onor di che lor piacque

   Cingere il loro capitan, lo stesso

   Udirvi io qui, mostra ch'essi han di lui

   Altro pensiero.

IL DOGE

   Uno è il pensier di tutti.

IL CONTE

   E qual?

IL DOGE

   L'udiste.

IL CONTE

   È del Consiglio il voto

   Quello che udii?

IL DOGE

   Sì: il crederete al Doge.

IL CONTE

   Questo dubbio di me?

IL DOGE

   Già da gran tempo

   Non è più dubbio.

IL CONTE

   E m'invitaste a questo?

   E taceste finor?

IL DOGE

   Sì, per punirvi

   Del tradimento, e non vi dar pretesti

   Per consumarlo.

IL CONTE

   Io traditor! Comincio

   A comprendervi alfin: pur troppo altrui

   Creder non volli. Io traditor! Ma questo

   Titolo infame infino a me non giunge:

   Ei non è mio; chi l'ha mertato il tenga.

   Ditemi stolto: il soffrirò, che il merto:

   Tale è il mio posto qui; ma con null'altro

   Lo cambierei, ch'egli è il più degno ancora.

   Io guardo, io torno col pensier sul tempo

   Che fui vostro soldato: ella è una via

   Sparsa di fior. Segnate il giorno in cui

   Vi parvi un traditor! Ditemi un giorno

   Che di grazie e di lodi e di promesse

   Colmo non sia! Che più? Qui siedo; e quando

   Io venni a questo che alto onor parea,

   Quando più forte nel mio cor parlava

   Fiducia, amor, riconoscenza, e zelo

   Fiducia no: pensa a fidarsi forse

   Quei che invitano tra gli amici arriva?

   Io veniva all'inganno! Ebben, ci caddi;

   Ella è così. Ma via; poiché gettato

   È il finto volto del sorriso ormai,

   Sia lode al ciel; siamo in un campo almeno

   Che anch'io conosco. A voi parlare or tocca;

   E difendermi a me: dite, quai sono

   I tradimenti miei?

IL DOGE

   Gli udrete or ora

   Dal Collegio segreto.

IL CONTE

   Io lo ricuso.

   Ciò che feci per voi, tutto lo feci

   Alla luce del sol; renderne conto

   Tra insidiose tenebre non voglio.

   Giudice del guerrier, solo è il guerriero.

   Voglio scolparmi a chi m'intenda; voglio

   Che il mondo ascolti le difese, e veda

IL DOGE

   Passato è il tempo di voler.

IL CONTE

   Qui dunque

   Ma si fa forza? Le mie guardie!

   (alzando la voce, si move per uscire)

IL DOGE

   Sono Lunge di qui. Soldati!

   (entrano genti armate)

   Eccovi ormai

   Le vostre guardie.

IL CONTE

   Io son tradito!

IL DOGE

   Un saggio

   Pensier fu dunque il rimandarle: a torto

   Non si pensò che, in suo tramar sorpreso,

   Farsi ribele un traditor potria.

IL CONTE

   Anche un ribelle, sì: come v'aggrada

   Ormai potete favellar.

IL DOGE

   Sia tratto

   Al Collegio segreto.

IL CONTE

   Un breve istante

   Udite in pria. Voi risolveste, il vedo,

   La morte mia; ma risolvete insieme

   La vostra infamia eterna. Oltre l'antico

   Confin l'insegna del Leon si spiega

   Su quelle torri, ove all'Europa è noto

   Ch'io la piantai. Qui tacerassi, è vero;

   Ma intorno a voi, dove non giunge il muto

   Terror del vostro impero, ivi librato,

   Ivi in note indelebili fia scritto

   Il benefizio e la mercè. Pensate

   Ai vostri annali, all'avvenir. Tra poco

   Il dì verrà che d'un guerriero ancora

   Uopo vi sia: chi vorrà farsi il vostro?

   Voi provocate la milizia. Or sono

   In vostra forza, è ver; ma vi sovvenga

   Ch'io non ci nacqui, che tra gente io nacqui

   Belligera, concorde: usa gran tempo

   A guardar come sua questa qualunque

   Gloria d'un suo concittadin, non fia

   Che straniera all'oltraggio ella si tenga.

   Qui c'è un inganno: a ciò vi trasse un qualche

   Vostro nemico e mio: voi non credete

   Ch'io vi tradissi. È tempo ancora.

IL DOGE

   È tardi.

   Quando il delitto meditaste, e baldo

   Affrontavate chi dovea punirlo,

   Tempo era allor d'antiveggenza.

IL CONTE

   Indegno!

   Tu mi rendi a me stesso. Tu credesti

   Ch'io chiedessi pietà, ch'io ti pregassi:

   Tu forse osasti di pensar che un prode

   Pe' giorni suoi tremava. Ah! tu vedrai

   Come si mor. Va; quando l'ultim'ora

   Ti coglierà sul vil letto, incontro

   Non le starai con quella fronte al certo,

   Che a questa infame, a cui mi traggi, io reco.

   (parte il Conte tra i soldati)

SCENA SECONDA

Casa del Conte.

Antonietta, e Matilde.

MATILDE

   Ecco l'aurora; e il padre ancor non giunge.

ANTONIETTA

   Ah! tu nol sai per prova: i lieti eventi

   Tardi, aspettati giungono, e non sempre.

   Presta soltanto è la sventura, o figlia:

   Intraveduta appena, ella c'è sopra.

   Ma la notte passò: l'ore penose

   Del desio più non son: tra pochi istanti

   Quella del gaudio sonerà. Non puote

   Ei più tardar; da questo indugio io prendo

   Un fausto augurio: il consultar sì a lungo

   Tratto non han, che per fermar la pace.

   Ei sarà nostro, e per gran tempo.

MATILDE

   O madre,

   Anch'io lo spero. Assai di notti in pianto,

   E di giorni in sospetto abbiam passati.

   E tempo ormai che, ad ogni istante, ad ogni

   Novella, ad ogni susurrar del volgo

   Più non si tremi, e all'alma combattuta

   Quell'orrendo pensier più non ritorni

   Forse colui che sospirate, or more.

ANTONIETTA

   Oh rio pensier! ma almen per ora è lunge.

   Figlia, ogni gioia col dolor si compra.

   Non ti sovvien quel dì che il tuo gran padre

   Tratto in trionfo, tra i più grandi accolto,

   Portò l'insegne de' nemici al tempio?

MATILDE

   Oh giorno!

ANTONIETTA

   Ognun parea minor di lui;

   L'aria sonava del suo nome; e noi

   Scevre dal volgo, in alto loco intanto

   Contemplavam quell'uno in cui rivolti

   Eran tutti gli sguardi: inebbriato

   Il cor tremava, e ripetea: siam sue.

MATILDE

   Felici istanti!

ANTONIETTA

   Che avevam noi fatto

   Per meritarli? A questa gioia il cielo

   Ci trascelse tra mille. Il ciel ti scelse,

   Il ciel ti scrisse un sì gran nome in fronte;

   Tal don ti fece, che a chiunque il rechi,

   N'andrà suoerbo. A quanta invidia è segno

   La nostra sorte! E noi dobbiam scontarla

   Con queste angosce.

MATILDE

   Ah! son finite... ascolta;

   Odo un batter di remi... ei cresce... ei cessa

   Si spalancan le porte   ah! certo ei giunge:

   O madre, io vedo un'armatura; è lui.

ANTONIETTA

   Chi mai saria s'egli non fosse? ... O sposo

   (va verso la scena)

SCENA TERZA

Gonzaga e detti.

ANTONIETTA

   Gonzaga!... ov'è il mio sposo? ov'è?... Ma voi

   Non rispondete? O cielo! il vostro aspetto

   Annunzia una sventura.

GONZAGA

   Ah che pur troppo

   Annunzia il vero!

MATILDE

   A chi sventura?

GONZAGA

   O donne!

   Perché un incarco sì crudel m'è imposto?

ANTONIETTA

   Ah! voi volete esser pietoso, e siete

   Crudel: tremar più non ci fate. In nome

   Di Dio, parlate; ov'è il mio sposo?

GONZAGA

   Il cielo

   Vi dia la forzad'ascoltarmi. Il Conte...

MATILDE

   Forse è tornato al campo?

GONZAGA

   Ah! più non torna... Egli è in disgrazia de' Signori... è preso.

ANTONIETTA

   Egli preso! perché?

GONZAGA

   Gli danno accusa

   Di tradimento.

ANTONIETTA

   Ei traditore?

MATILDE

   Oh padre!

ANTONIETTA

   Or via seguite: preparate al tutto

   Siam noi: che gli faran?

GONZAGA

   Dal labbro mio

   Voi non l'udrete.

ANTONIETTA

   Ahi l'hanno ucciso!

GONZAGA

   Ei vive;

   Ma la sentenza è proferita.

ANTONIETTA

   Ei vive?

   Non pianger, figlia, or che d'oprare è il tempo.

   Gonzaga, per pietà, non vi stancate

   Della nostra sventura; il ciel v'affida

   Due derelitte: ei v'era amico: andiamo,

   Siateci scorta ai giudici. Vien meco,

   Poverella innocente: oh! vieni: in terra

   C'è ancor pietà: son sposi e padri anch'essi.

   Mentre scrivean l'empia sentenza, in mente

   Non venne lor ch'egli era sposo e padre.

   Quando vedran di che dolor cagione

   È una parola di lor bocca uscita,

   Ne fremeranno anch'essi; ah! non potranno

   Non rivocarla: del dolor l'aspetto

   È terribile all'uom. Forse scusarsi

   Quel prode non degnò, rammentar loro

   Quanto per essi oprò; noi rammentarlo

   Sapremo. Ah! certo ei non pregò; ma noi,

   Noi pregheremo.

   (in atto di partire)

GONZAGA

   Oh ciel, perché non posso

   Lasciarvi almen questa speranza! A preghi

   Loco non c'é, qui i giudici son sordi

   Implacabili, ignoti: il fulmin piomba,

   La man che il vibra è nelle nubi ascosa.

   Solo un conforto v'è concesso, il tristo

   Conforto di vederlo, ed io vel reco.

   Ma il tempo incalza. Fate cor, tremenda

   È la prova; ma il Dio degl'infelici

   Sarà con voi.

MATILDE

   Non c'è speranza?

ANTONIETTA

   Oh figlia!

   (partono)

SCENA QUARTA

Prigione.

IL CONTE

   A quest'ora il sapranno. Oh perché almeno

   Lunge da lor non moio! Orrendo, è vero,

   Lor giungeria l'annunzio; ma varcata

   L'ora solenne del dolor saria,

   E adesso innanzi ella ci sta: bisogna

   Gustarla a sorsi, e insieme. O campi aperti!

   O sol diffuso! o strepito dell'armi!

   O gioia de' perigli! o trombe! o grida

   De' combattenti! o mio destrier! tra voi

   Era bello il morir. Ma... ripugnante

   Vo dunque incontro al mio destin, forzato,

   Siccome un reo, spargendo in sulla via

   Voti impotenti e misere querele?

   E Marco, anch'ei m'avria tradito! Oh vile

   Sospetto! oh dubbio! oh potess'io deporlo

   Pria di morir! Ma no: che val di novo

   Affacciarsi alla vita, e indietro ancora

   Volgere il guardo ove non lice il passo?

   E tu, Filippo, ne godrai! Che importa?

   Io le provai quest'empie gioie anch'io:

   Quel che vagliano or so. Ma rivederle!

   Ma i lor gemiti udir! l'ultimo addio

   Da quelle voci udir! tra quelle braccia

   Ritrovarmi.... e staccarmene per sempre!

   Eccole! O Dio, manda dal ciel sovr'esse

   Un guardo di pietà.

SCENA QUINTA

Antonietta, Matilde, Gonzaga, e il Conte.

ANTONIETTA

   Mio sposo!

MATILDE

   Oh padre!

ANTONIETTA

   Così ritorni a noi? Questo è il mometo

   Bramato tanto?

IL CONTE

   O misere, sa il cielo

   Che per voi sole ei m'è tremendo. Avvezzo

   Io son da lungo a contemplar la morte,

   E ad aspettarla. Ah! sol per voi bisogno

   Ho di coraggio; e voi, voi non vorrete

   Tormelo, è vero? Allor che Dio sui buoni

   Fa cader la sventura, ei dona ancora

   Il cor di sostenerla. Ah! pari il vostro

   Alla sventura or sia. Godiam di questo

   Abbracciamento: è un don del cielo anchesso.

   Figlia, tu piangi! e tu, consorte!... Ah! quando

   Ti feci mia sereni i giorni tuoi

   Scorreano in pace; io ti chiamai compagna

   Del mio tristo destin: questo pensiero

   M'avvelena il morir. Deh ch'io non veda

   Quanto per me sei sventurata!

ANTONIETTA

   O sposo

   De' miei bei dì, tu che li festi; il core

   Vedimi; io moio di dolor; ma pure

   Bramar non posso di non esser tua.

IL CONTE

   Sposa, il sapea quel che in te perdo; ed ora

   Non far che troppo il senta.

MATILDE

   Oh gli omicidi!

IL CONTE

   No, mia dolce Matilde; il tristo grido

   Della vendetta e del rancor non sorga

   Dall'innocente animo tuo, non turbi

   Quest'istanti: son sacri. Il torto è grande;

   Ma perdona, e vedrai che in mezzo ai mali

   Un'alta gioia anco riman. La morte!

   Il più crudel nemico altro non puote

   Che accelerarla. Oh! gli uomini non hanno

   Inventata la morte; ella saria

   Rabbiosa, insopportabile: dal cielo

   Essa ci viene; e l'accompagna il cielo

   Con tal conforto, che né dar né torre

   Gli uomini ponno. O sposa, o figlia, udite

   Le mie parole estreme: amare, il vedo,

   Vi piombano sul cor; ma un giorno avrete

   Qualche dolcezza a rammentarle insieme.

   Tu, sposa, vivi; il dolor vinci, e vivi;

   Questa infelice orba non sia del tutto.

   Fuggi da questa terra, e tosto ai tuoi

   La riconduci: ella è lor sangue; ad essi

   Fosti sì cara un dì! Consorte poi

   Del lor nemico, il fosti men; le crude

   Ire di Stato avversi fean gran tempo

   De' Carmagnola e de' Visconti il nome.

   Ma tu riedi infelice; il tristo oggetto

   Dell'odio è tolto: è un gran piacer la morte.

   E tu, tenero fior, tu che tra l'armi

   A rallegrare il mio pensier venivi,

   Tu chini il capo: oh! la tempesta rugge

   Sopra di te! tu tremi, ed al singulto

   Più non regge il tuo sen; sento sul petto

   Le tue infocate lagrime cadermi;

   E tengerle non posso: a me tu sembri

   Chieder pietà, Matilde: ah! nulla il padre

   Può far per te; ma pei diserti in cielo

   C'è un Padre, il sai. Confida in esso, e vivi

   A dì tranquilli se non lieti: Ei certo

   Te li prepara. Ah! perché mai versato

   Tutto il torrente dell'angoscia avria

   Sul tuo mattin, se non serbasse al resto

   Tutta la sua pietà? Vivi, e consola

   Questa dolente madre. Oh ch'ella un giorno

   A un degno sposo ti conduca in braccio!

   Gonzaga, io t'offro questa man che spesso

   Stringesti il dì della battaglia, e quando

   Dubbi eravam di rivederci a sera.

   Vuoi tu stringerla ancora, e la tua fede

   Darmi che scorta e difensor sarai

   Di queste donne fin che sian rendute

   Ai lor congiunti?

GONZAGA

   Io tel prometto.

IL CONTE

   Or sono

   Contento. E quindi, se tu riedi al campo,

   Saluta i miei fratelli, e dì lor ch'io

   Moio innocente: testimon tu fosti

   Dell'opre mie, de' miei pensieri, e il sai.

   Dì lor che il brando io non macchiai con l'onta

   D'un tradimento: io nol macchiai: son io

   Tradito. E quando squilleran le trombe,

   Quando l'insegne agiteransi al vento,

   Dona un pensiero al tuo compagno antico.

   E il dì che segue la battaglia, quando

   Sul campo della strage il sacerdote,

   Tra il suon lugubre, alzi le palme, offrendo

   Il sacrifizio per gli estinti al cielo,

   Ricordivi di me, che anch'io credea

   Morir sul campo.

ANTONIETTA

   Oh Dio, pietà di noi!

IL CONTE

   Sposa, Matilde, ormai vicina è l'ora;

   Convien lasciarci... addio.

MATILDE

   No, padre...

IL CONTE

   Ancora Una volta venite a questo seno; E per pietà partite.

ANTONIETTA

   Ah no! dovranno Staccarci a forza.

   (si sente uno strepito d'armati)

MATILDE

   Oh qual fragor!

ANTONIETTA

   Gran Dio!

   (s'apre la porta di mezzo, e s'affacciano genti armate; il capo

   di esse s'avanza verso il Conte; le due donne cadono svenute)

IL CONTE

   O Dio pietoso, tu le involi a questo

   Crudel momento; io ti ringrazio. Amico,

   Tu le soccorri, a questo infausto loco

   Le togli; e quando rivedran la luce

   Dì lor... che nulla da temer più resta.

  

FINE DELLA TRAGEDIA