|
|||
Home | Galleria Manzoni | ||
Romanzo | |||
Immagini per Capitolo | |||
Manzoni il ruolo dell'eroe | Manzoni la donna e l'amore | Manzoni la poetica |
IL CONTE DI CARMAGNOLA
NOTIZIE STORICHE
Francesco di Bartolomeo Bussone, contadino, nacque in
Carmagnola; donde prese il nome di guerra che gli è rimasto nella storia. Non si
sa certo in qual anno nascesse: il Tenivelli, che ne scrisse la vita nella
Biografia Piemontese, crede che sia stato verso il 1390. Mentre ancor giovinetto
pascolava delle pecore, l'aria fiera del suo volto fu osservata da un soldato di
ventura, che lo invitò a venir con lui alla guerra. Egli lo seguì volentieri, e
si mise con esso al soldo di Facino Cane, celebre condottiero.
Qui la storia del Carmagnola comincia ad esser legata con quella del suo tempo:
io non toccherò di questa se non i fatti principali, e particolarmente quelli
che sono accennati o rappresentati nella tragedia. Alcuni di essi sono
raccontati così diversamente dagli storici, che è impossibile formarsene e darne
una opinione, certa e unica: tra le relazioni spesso varie, e talvolta opposte,
ho scelto quelle che mi sono parse più inverosimili, o sulle quali gli scrittori
vanno più d'accordo.
Alla morte di Giovanni Maria Visconti duca di Milano (1412), il di lui fratello
Filippo Maria Conte di Pavia era rimasto erede, in titolo, del Ducato. Ma questo
Stato ingrandito dal loro padre Giovanni Galeazzo, s'era sfasciato nella
minorità di Giovanni, pessimamente tutelata, e nel suo debole e crudele governo.
Molte città s'erano ribellate, alcune erano tornate in potere de' loro antichi
signori, d'altre s'erano fatti padroni i condottieri stessi delle truppe ducali.
Facino Cane uno di questi, il quale di Tortona, Vercelli ed altre città s'era
formato un piccolo principato, morì a Pavia lo stesso giorno che Giovanni Maria
fu ucciso da' congiurati in Milano. Filippo sposò Beatrice Tenda vedova di
Facino, e con questo mezzo si trovò padrone delle città già possedute da lui, e
de' suoi militi.
Era tra essi il Carmagnola, e ci aveva già un comando. Questo esercito corse col
nuovo Duca sopra Milano, ne scacciò il figlio naturale di Barnabò Visconti,
Astorre, il quale se n'era impadronito, e lo sforzò a ritirarsi in Monza, dove
assediato, rimase ucciso. Il Carmagnola si segnalò tanto in questa impresa, che
fu nominato condottiero del Duca.
Tutti gli storici riguardano il Carmagnola come artefice della potenza di
Filippo. Fu il Carmagnola che gli riacquistò in poco tempo Piacenza, Brescia,
Bergamo, e altre città. Alcune ritornarono allo Stato per vendita o per semplice
cessione di quelli che le avevano occupate: il terrore che già ispirava il nome
del nuovo condottiero sarà probabilmente stato il motivo di queste transazioni.
Egli espugnò inoltre Genova, e la riunì agli stati del Duca. E questo, che nel
1412 era senza potere e come prigioniero in Pavia, possedeva nel 1424 venti
città "acquistate", per servirmi delle parole di Pietro Verri, "colle nozze
della infelice Duchessa, e colla fede e col valore del Conte Francesco". Venne
il Carmagnola creato dal Duca conte di Castelnovo; sposò Antonietta Visconti
parente di esso, non si sa in qual grado; e si fabbricò in Milano il palazzo
chiamato ancora del Broletto.
L'alta fama dell'esimio condottiero, l'entusiasmo de' soldati per lui, il suo
carattere fermo altiero, la grandezza forse de' suoi servizi, gli alienarono
l'animo del Duca. I nemici del Conte, tra i quali il Bigli, storico
contemporaneo, cita Zanino Riccio e Oldrado Lampugnano, formantarono i sospetti
e l'avversione del loro signore. Il Conte fu spedito governatore a Genova, e
levato così dalla direzione della milizia. Aveva conservato il comando di
trecento cavalli; il Duca gli chiese per lettere che lo rinunziasse. Il
Carmagnola rispose pregandolo che non volesse spogliare dell'armi un uomo
nutrito tra l'armi: e ben s'accorse, dice il Bigli, che questo era un consiglio
de' suoi nemici, i quali confidavano di poter tutto osare, quando lo avessero
ridotto a condizione privata. Non ottenendo risposta né alle lagnanze, né alla
domanda espressa d'essere licenziato dal servizio, il Conte si risolvette di
recarsi in persona a parlare col principe. Questo dimorava in Abbiategrasso.
Quando il Carmagnola si presentò per entrare nel castello, si sentì con sorpresa
dire che aspettasse. Fattosi annunziare al Duca, ebbe in risposta ch'era
impedito, e che parlasse con Riccio. Insistette, dicendo d'aver poche cose e da
comunicarsi al Duca stesso; e gli fu replicata la prima risposta. Allora rivolto
a Filippo, che lo guardava da una balestriera, gli rimproverò la sua
ingratitudine, e la sua perfidia, e giurò che presto si farebbe desiderare da
chi non voleva allora ascoltarlo: diede volta al cavallo, e partì coi pochi
compagni che aveva condotti con sé, inseguito invano da Oldrado, il quale, a dir
del Bigli, credette meglio di non arrivarlo.
Andò il Carmagnola in Piemonte, dove abbaccatosi con Amedeo duca di Savoia suo
natural principe, fece di tutto per inimicarlo a Filippo, poi attraversando la
Savoia, la Svizzera e il Tirolo, si portò a Treviso. Filippo confiscò i beni
assai ragguardevoli che il Carmagnola aveva nel Milanese.
Giunto il Carmagnola a Venezia il giorno 23 di febbraio del 1425, vi fu accolto
con distinzione, gli fu dato alloggio dal pubblico nel Patriarcato, e concessa
licenza di portar armi a lui e al suo seguito. Due giorni dopo, fu preso al
servizio della repubblica con 300 lance.
I Fiorentini, impegnati allora in una guerra infelice contro il Duca Filippo,
chiedevano l'alleanza dei Veneziani: il Duca instava presso di essi perché
volessero rimanere in pace con lui. In questo frattempo un Giovanni Liprando,
fuoruscito milanese, pattuì col Duca d'ammazzare il Carmagnola, purché gli fosse
concesso di ritornare a casa. La trama fu sventata, e levò ai Veneziani ogni
dubbio che il Conte fosse mai più per riconciliarsi col suo antico principe. Il
Bigli attribuisce in gran parte a questa scoperta la risoluzione dei Veneziani
per la guerra. Il doge propose in senato che si consultasse il Carmagnola:
questo consigliò la guerra: il doge opinò pure caldamente per essa: e fu
risoluta. La lega coi Fiorentini e con altri Stati d'Italia fu proclamata in
Venezia il giorno 27 gennaio del 1426. Il giorno 11 del mese seguente il
Carmagnola fu creato capitano generale delle genti di terra della repubblica; e
il 15 gli fu dato dal doge il bastone e lo stendardo di capitano, all'altare di
san Marco.
Trascorrerò più rapidamente che mi sarà possibile sugli avvenimenti di questa
guerra, la quale fu interrotta da due paci, fermandomi solo sui fatti che hanno
somministrato materiali alla tragedia.
"Ridussesi la guerra in Lombardia, dove fu governata dal Carmagnola
virtuosamente, ed in pochi mesi tolse molte terre al Duca insieme con la città
di Brescia; la quale espugnazione in quelli tempi, e secondo quelle guerre, fu
tenuta mirabile." Papa Martino V s'intromise; e sul finire dello stesso anno fu
conclusa la pace, nella quale Filippo cedette ai Veneziani Brescia col suo
territorio.
Nella seconda guerra (1427) il Carmagnola mise per la prima volta in uso un suo
ritrovato di fortificare il campo con un doppio recinto di carri, sopra ognuno
de' quali stavano tre balestrieri. Dopo molti piccoli fatti, e dopo la presa di
alcune terre, s'accampò sotto il castello di Maclodio, ch'era difeso da una
guarnigione duchesca.
Comandavano nel campo del Duca quattro insigni condottieri, Angelo della
Pergola, Guido Torello, Francesco Sforza, e Nicolò Piccinino. Essendo nata
discordia tra di loro, il giovine Filippo vi mandò con pieni poteri Carlo
Malatesti pesarese, di nobilissima famiglia; ma, dice il Bigli, alla nobiltà
mancava l'ingegno. Questo storico osserva che il supremo comando dato al
Malatesti non bastò a levar di mezzo la rivalità de' condottieri; mentre nel
campo veneto a nessuno repugnava d'ubbidire al Carmagnola, benché avesse sotto
di sé condottieri celebri, e principi, come Giovanfrancesco Gonzaga signore di
Mantova, Antonio Manfredi, di Faenza, e Giovanni Varano, di Camerino.
Il Carmagnola seppe conoscere il carattere del generale nemico, e cavarne
profitto. Attaccò Maclodio, in vicinanza del quale era il campo duchesco. I due
eserciti si trovarono divisi da un terreno paludoso, in mezzo al quale passava
una strada elevata a guisa d'argine: e tra le paludi s'alzavano qua e là delle
macchie poste su un terreno più sodo: il Conte mise in queste degli agguati, e
si diede a provocare il nemico. Nel campo duchesco i pareri erano vari: i
racconti degli storici lo sono poco meno. Ma l'opinione che pare più comune, è
che il Pergola e il Torello, sospettando d'agguati, opinassero di non dar
battaglia: che lo Sforza e il Piccinino la volessero a ogni costo. Carlo fu del
parere degli ultimi; la diede, e fu pienamente sconfitto. Appena il suo esercito
ebbe affrontato il nemico, fu assalito a destra e a sinistra dall'imboscate, e
gli furono fatti secondo alcuni, cinque secondo altri, otto mila prigionieri. Il
comandante fu preso anche lui; gli altri quattro, chi in una maniera, chi
nell'altra, si sottrassero.
Un figlio del Pergola si trovò tra i prigionieri.
La notte dopo la battaglia, i soldati vittoriosi lasciarono in libertà quasi
tutti i prigionieri. I commissari veneti, che seguivano l'esercito, ne fecero
delle lagnanze col Conte; il quale domandò a qualcheduno de' suoi cosa fosse
avvenuto de' prigionieri; ed essendogli risposto che tutti erano stati messi in
libertà, meno un quattrocento, ordinò che anche questi fossero rilasciati,
secondo l'uso.
Uno storico che non solo scriveva in que' tempi, ma aveva militato in quelle
guerre, Andrea Redusio, è il solo, per quanto io sappia, che abbia indicata la
vera ragione di quest'uso militare d'allora. Egli l'attribuisce al timore che i
soldati avevano di veder presto finite le guerre, e di sentirsi gridare dai
popoli: alla zappa i soldati.
I Signori veneti furono punti e insospettiti dal procedere del Conte; ma senza
giusta ragione. Infatti, prendendo al soldo un condottiero, dovevano aspettarsi
che farebbe la guerra secondo le leggi della guerra comunemente seguite; e non
potevano senza indiscrezione pretendere che prendesse il rischioso impegno
d'opporsi a un'usanza così utile e cara ai soldati, esponendosi a venire in odio
a tutta la milizia, e a privarsi di ogni appoggio. Avevano bensì ragione di
pretender da lui la fedeltà e lo zelo, ma non una devozione illimitata: questa
s'accorda solamente a una causa che si abbraccia per entusiasmo o per dovere.
Non trovo però che dopo le prime osservazioni de' commissari, la Signoria abbia
fatte col Carmagnola altre lagnanze su questo fato: non si parla anzi che
d'onori e di ricompense.
Nell'aprile del 1428 fu conclusa tra i Veneziani e il Duca un'altra di quelle
solite paci.
La guerra, risorta nel 1431, non ebbe per il Conte così prosperi cominciamenti
come le due passate. Il castellano che comandava in Soncino per il Duca, si
finse disposto a cedere per tradimento quel castello al Carmagnola. Questo ci
andò con una parte dell'esercito, e cadde in un agguato, dove lasciò
prigionieri, secondo il Bigli, secento cavalli e molti fanti, salvandosi lui a
stento.
Pochi giorni dopo, Nicola Trevisani, capitano dell'armata veneta sul Po, venne
alle prese coi galeoni del Duca. Il Piccinino e lo Sforza, facendo le viste di
voler attaccare il Carmagnola, lo rattennero dal venire in aiuto all'armata
veneta, e intanto imbarcarono gran parte delle loro genti di terra sulle navi
del Duca. Quando il Carmagnola s'avvide dell'inganno, e corse per sostenere i
suoi, la battaglia era vicino all'altra riva. L'armata veneta fu sconfitta, e il
capitano di essa fuggì in una barchetta.
Gli storici veneti accusano qui il Carmagnola di tradimento. Gli storici che non
hanno preso il tristo assunto di giustificare i suoi uccisori, non gli danno
altra taccia che d'essersi lasciato ingannare da uno stratagemma. Par certo che
la condotta del Trevisani fosse imprudente da principio, e irresoluta nella
battaglia. Fu bandito, e gli furono confiscati i beni; "e al capitano generale (Carmagnola),
per imputazione di non aver dato favore all'armata, con lettere del Senato fu
scritta una lieve riprensione".
Il giorno 18 d'ottobre, il Carmagnola diede ordine al Cavalcabò, uno de' suoi
condottieri, di sorprender Cremona. Questo riuscì ad occuparne una parte; ma
essendosi i cittadini levati a stormo, dovette abbandonare l'impresa, e
ritornare al campo.
Il Carmagnola non credette a proposito d'andar col grosso dell'esercito a
sostenere quest'impresa; e mi par cosa strana che ciò gli sia stato imputato a
tradimento dalla Signoria. La resistenza, probabilmente inaspettata, del popolo
spiega benissimo perché il generale non si sia ostinato a combattere una città
che sperava d'occupare tranquillamente per sorpresa: il tradimento non ispiega
nulla; giacché non si sa vedere perché il Carmagnola avrebbe ordinata la
spedizione, il cattivo esito della quale non fu d'alcun vantaggio per il nemico.
Ma la Signoria, risoluta, secondo l'espressione del Navagero, di liberarsi del
Carmagnola, cercò in qual maniera potesse averlo nelle mani disarmato; e non ne
trovò una più pronta né più sicura, che d'invitarlo a Venezia col pretesto di
consultarlo sulla pace. Ci andò senza sospetto, e in tutto il viaggio furono
fatti onori straordinari a lui, e al Gonzaga che l'accompagnava. Tutti gli
storici, anche veneziani, sono d'accordo in questo; pare anzi che raccontino con
un sentimento di compiacenza questo procedere, come un bel tratto di ciò che
altre volte si chiamava prudenza e virtù politica. Arrivato a Venezia, "gli
furono mandati incontro otto gentiluomini, avanti ch'egli smontasse a casa sua,
che l'accompagnarono a San Marco". Entrato che fu nel palazzo ducale, si
rimandarono le sue genti, dicendo loro che il Conte si fermerebbe a lungo col
doge. Fu arrestato nel palazzo, e condotto in prigione. Fu esaminato da una
Giunta, alla quale il Navagero dà un nome di Collegio secreto; e condannato a
morte, fu, il giorno di maggio del 1432, condotto con le sbarre alla bocca tra
le due colonne della Piazzetta, e decapitato. La moglie e una figlia del Conte
(o due figlie, secondo alcuni) si trovavano allora a Venezia.
Nulla d'autentico si ha sull'innocenza o sulla reità di questo grand'uomo. Era
da aspettarsi che gli storici veneziani, che volevano scrivere e viver
tranquilli, l'avrebbero trovato colpevole. Essi esprimono quest'opinione come
una cosa di fatto, e con quella negligenza che è naturale a chi parla in favore
della forza. Senza perdersi in congetture, asseriscono che il Carmagnola fu
convinto coi tormenti, coi testimoni e con le sue proprie lettere. Di questi tre
mezzi di prova il solo che si sappia di certo essere stato adoprato è l'infamissimo
primo, quello che non prova nulla.
Ma oltre la mancanza assoluta di testimonianze dirette storiche, che confermino
la reità del Carmagnola, molte riflessioni la fanno parere improbabile. Né i
Veneziani hanno rivelato mai quali fossero le condizioni del tradimento
pattuito; né da altra parte s'é saputo mai nulla d'un tale trattato. Quest'accusa
è isolata nella storia, e non si appoggia a nulla, se non a qualche svantaggio
di guerra, il quale anche si spiega senza ricorrere a questa supposizione: e
sarebbe una legge stravagante non meno che atroce quella che volesse imputato a
perfidia del generale ogni evento infelice. Si badi inoltre all'essere il Conte
andato a Venezia senza esitazione, senza riguardi e senza precauzioni: si badi
all'aver sempre la Signoria fatto un mistero di questo fatto, malgrado la taccia
d'ingratitudine e d'ingiustizia che gli si dava in Italia: si badi alla crudele
precauzione di mandare il Conte al supplizio con le sbarre alla bocca,
precauzione tanto più da notarsi, in quanto s'adoprava con uno che non era
veneziano, e non poteva aver partigiani nel popolo; si badi finalmente al
carattere noto del Carmagnola e del Duca di Milano, e si vedrà che l'uno e
l'altro ripugnano alla supposizione d'un trattato di questa sorte tra di loro.
Una riconciliazione segreta con un uomo che gli era stato orribilmente ingrato,
e che aveva tentato di farlo ammazzare; un patto di far la guerra da stracco,
anzi di lasciarsi battere, non s'accordano con l'animo impetuoso, attivo, avido
di gloria del Carmagnola. Il Duca non era perdonatore; e il Carmagnola che lo
conosceva meglio d'ogni altro, non avrebbe mai potuto credere a una
riconciliazione stabile e sicura con lui. Il disegno di ritornare con Filippo
offeso non poteva mai venire in mente a quell'uomo che aveva esperimentate le
retribuzioni di Filippo beneficato.
Ho cercato se negli storici contemporanei si trovasse qualche traccia
d'un'opinione pubblica, diversa da quella che la Signoria veneta ha voluto far
prevalere; ed ecco ciò che n'ho potuto raccogliere.
Un cronista di Bologna, dopo aver raccontata la fine del Carmagnola, soggiunge:
"Dissesi che questo hanno fatto perché egli non faceva lealmente per loro la
guerra contra il Duca di Milano, come egli doveva, e che s'intendeva col Duca.
Altri dicono che, come vedevano tutto lo Stato loro posto nelle mani del Conte,
capitano d'un tanto esercito, parendo loro di stare a gran pericolo, e non
sapendo con qual miglior modo potessero deporlo, han trovato cagione di
tradimento contra di lui. Iddio voglia che abbiano fatto saviamente; perché par
pure, che per questo la Signoria abbia molto diminuita la sua possanza, ed
esaltata quella del Duca di Milano."
E il Poggio: "Certuni dicono che non abbia meritata la morte con delitto di
sorte veruna; ma che ne fosse cagione la sua superbia, insultante verso i
cittadini veneti, e odiosa a tutti.
Il Corio poi, scrittore non contemporaneo, ma di poco posteriore, dice così:
"Gli tolsero il valsente di più di trecento migliaia di ducati, i quali furono
piuttosto cagione della sua morte che altro."
Senza dar molto peso a quest'ultima congettura, mi pare che le prime due, cioè
il timore e le vendette private dell'amor proprio, bastino, per que' tempi, a
dare di questo avvenimento una spiegazione probabile, e certo più probabile di
un tradimento contrario all'indole e all'interesse dell'uomo a cui fu imputato.
Tra quegli storici moderni, che non adottando ciecamente le tradizioni antiche,
le hanno esaminate con un libero giudizio, uno solo, ch'io sappia, si mostrò
persuaso affatto che il Carmagnola sia stato colpito da un giusta sentenza.
Questo è il Conte Verri; ma basta leggere il passo della sua Storia, che si
riferisce a questo avvenimento, per esser subito convinti che la sua opinione è
venuta dal non aver lui voluto informarsi esattamente de' fatti sui quali andava
stabilita. Ecco le sue parole: "O foss'egli allontanato, per una ripugnanza
dell'animo, dal portare così la distruzione ad un Principe, dal quale aveva un
tempo ottenuto gli onori, e sotto del quale aveva acquistata la celebrità;
ovvero foss'egli ancora nella fiducia, che umiliato il Duca venisse a fargli
proposizioni di accomodamento, e gli sacrificasse i meschini nemici, che avevano
ardito di nuocergli, cioè i vilissimi cortigiani suoi; o qualunque ne fosse il
motivo, il Conte Francesco Carmagnola, malgrado il dissenso dei Procuratori
veneti, e malgrado la decisa loro opposizione, volle rimandare disarmati bensì,
ma liberi al Duca tutti i generali ed i soldati numerosissimi, che aveva fatti
prigionieri nella vittoria del giorno 11 di ottobre 1427... Il seguito delle sue
imprese fece sempre più palese il suo animo, poiché trascurò tutte le occasioni,
e lentamente progredendo lasciò sempre tempo ai ducali di sostenersi. In somma
giunse a tale evidenza la cattiva fede del Conte Francesco Carmagnola, che
venne, dopo formale processo, decapitato in Venezia... come reo di alto
tradimento." Fa stupore il vedere addotto in prova della reità d'un uomo un
giudizio segreto di que' tempi, da uno storico che ne ha tanto conosciuta
l'iniquità, e che tanto si studia di farla conoscere a' suoi lettori. In quanto
al fatto de' prigionieri, ognuno vede gli errori della relazione che ho
trascritta. Il Conte di Carmagnola non rimandò liberi tutti i soldati, ma
quattrocento soli; non rimandò i generali, perché di questi non fu preso che il
Malatesti, e fu ritenuto; non è esatto il dire che i soldati fossero rimandati
al Duca: furono semplicemente messi in libertà. Non vedo poi perché si entri in
congetture per ispiegare la condotta del Carmagnola in questa occasione, quando
la storia ne dà per motivo un' usanza comune.
La sorte del Carmagnola fece un gran rumore in tutta l'Italia; e pare che in
particolare i Piemontesi la sentissero più acerbamente, e ne serbassero memoria,
come lo indica il seguente aneddoto raccontato dal Denina.
Il primo sospetto che i Veneziani ebbero del segreto della lega di Cambrai venne
dalle relazioni d'un loro agente in Milano, il quale era venuto a sapere "che un
Carlo Giuffredo Piemontese che si trovava fra i Segretarj di Stato del Governo
di Milano ai servigi del Re Luigi, andava fra i suoi famigliari dicendo essere
venuto il tempo in cui sarebbesi abbondantemente vendicata la morte del Conte
Francesco Carmagnola suo compatriotto."
Non ho citato questo tratto per applaudire a un sentimento di vendetta, e di
patriottismo municipale, ma come un indizio del caso che si faceva di questo
gran capitano in quella nobile e bellicosa parte d'Italia, che lo considerava
più specialmente come suo.
A quegli avvenimenti che si sono scelti per farne il materiale della presente
Tragedia, s'è conservato il loro ordine cronologico, e le loro circostanze
essenziali; se se ne eccettui l'aver supposto accaduto in Venezia l'attentato
contra la vita del Carmagnola, quando in vece accadde in Treviso.
PERSONAGGI STORICI
Il Conte di Carmagnola
Antonietta Visconti, sua moglie
Una loro figlia, a cui nella tragedia si è attribuito il nome di Matilde
Francesco Foscari, Doge di Venezia.
Condottieri al soldo dei Veneziani: Giovanni Francesco Gonzaga, Paolo Francesco
Orsini, Nicolò Da Tolentino.
Condottieri al soldo del Duca di Milano: Carlo Malatesti, Angelo Della Pergola,
Guido Torello, Nicolò Piccinino, a cui nella tragedia si è attribuito il cognome
di Fortebraccio, Francesco Sforza, Pergola figlio.
PERSONAGGI IDEALI
Marco, Senatore veneziano.
Marino, uno de' Capi del Consiglio dei Dieci.
Primo Commissario veneto nel campo.
Secondo Commissario.
Un soldato del Conte.
Un soldato prigioniero.
SENATORI, CONDOTTIERI, SOLDATI, PRIGIONIERI, GUARDIE