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PARTE SECONDA
L'assunto dell'epopea, secondo il concetto generalmente ricevuto d'un tal
componimento, è di rappresentare un grande e illustre avvenimento,
inventandone in gran parte le cagioni, i mezzi, gli ostacoli, i modi, le
circostanze; per produrre così un diletto d'una specie più viva, e
un'ammirazione d'un grado più elevato di quello che possa mai fare la
semplice e sincera narrazione storica dell'avvenimento medesimo.
Non esito a dire, che se una cosa simile venisse proposta ora com'ora, per
la prima volta, e a priori, senza che ce ne fosse alcun esempio di fatto, e
solamente come una cosa da potersi fare, la proposta parrebbe strana ai
dotti e agl'indotti ugualmente. Chi non avesse, d'un grande e illustre
avvenimento qualunque, una notizia circostanziata, e lo conoscesse solamente
per quella formola, più o meno astratta, che è, per dir così, il nome
proprio degli avvenimenti, non saprebbe intendere come uno potesse invitarlo
a occuparsi di quel l'avvenimento, se non appunto per fargliene conoscere le
cagioni, i mezzi, gli ostacoli, i modi, le circostanze, e per dar così a
quella poverissima e capacissima formola ciò che le manca nella sua mente.
Chi poi n'avesse una cognizione più estesa, più circostanziata, troverebbe
forse ancora più singolare, per dir poco, il disegno di rappresentarglielo
separato da una parte qualunque, non che da una gran parte di quelle
condizioni così naturalmente legate, compenetrate con esso, e unito in vece
con delle condizioni immaginarie. Disposto a ricevere tutto ciò che potesse
o estendere di più, o rettificare il suo concetto, sarebbe ugualmente pronto
a opporre a ogni cosa che venisse per alterarlo, quell'incredulus odi, con
cui la mente ributta, non solo la specie particolare di falso a cui applicò
Orazio tali parole9, ma il falso d'ogni genere e d'ogni grado, che si
presenti a richiedere un posto già occupato da un vero.
Si veda infatti come gli scrittori di storia, gente che conosce i suoi
interessi, e che, al pari di qualunque poeta epico, desidera di produrre e
diletto e ammirazione, cerchino, e i moderni particolarmente, di secondare
questa disposizione de' lettori. Si veda come si diano premura d'avvertirli
che le condizioni reali dell'avvenimento, - grande o piccolo (e tanto più,
se grande), o della serie d'avvenimenti che sono per descrivere, erano o
poco o male conosciute; che la c'è voluta tutta a nettare quella materia da
ciò che ci aveva appiccicato la mala fede degli uni, e l'immaginazione degli
altri, che, sulle cagioni e principali e secondarie, sui modi, sulle
circostanze, si troveranno ne' loro lavori delle notizie tanto nove e
inaspettate, quanto genuine, che in somma le loro ricerche e le loro
osservazioni gli hanno messi in caso di sostituire un concetto più ordinato,
più intero, più sincero di quello o di quegli avvenimenti, al concetto più o
meno alterato e confuso, che se ne poteva aver prima. E a lettori e
scrittori che hanno tra di loro un'intesa di questa sorte, e prodotta da
tali motivi, si verrebbe a proporre l'alterazione de' concetti de' grandi
avvenimenti, come scopo e soggetto d'una nova specie di lavori! Proposta
che, a svolgerla appena appena, verrebbe a dire, a un di presso, così:
Tra gli avvenimenti passati di cui rimane la memoria, ce ne sono alcuni che
si chiamano grandi e riguardo alle cagioni e riguardo agli effetti; cioè, da
una parte, per un concorso straordinario di voleri e d'azioni umane, che
cooperarono, anche col loro contrasto, a farli riuscire quali li conosciamo;
dall'altra, per una straordinaria mutazione che ne seguì nello stato d'una o
di più società. Ognuno di questi avvenimenti ebbe, oltre le sue cagioni
principali, una quantità di cagioni secondarie, e anche nate ne' diversi
momenti del suo progresso; ognuno ebbe i suoi ostacoli e i suoi aiuti, i
suoi ritardi e le sue spinte, i suoi accidenti e i suoi modi speciali e, per
dir così, individuali. E, certo, fa un'opera sensata e utile lo storico, a
raccoglier tutte quelle notizie, a depurarle, a serbare a ciascheduna cosa,
e a ciaschedun uomo il suo proprio modo, il suo proprio grado d'efficienza
sul tutto, a studiare e a mantenere l'ordine reale de' fatti, dimanieraché
il lettore, ammirando la grandezza e la novità del resultato, lo trovi
insieme naturalissimo, anzi relativamente necessario. Ma c'è qualcos'altro
da fare, e, in un certo senso, qualcosa di meglio: rappresentare quegli
avvenimenti quali avrebbero dovuto essere, per riuscir più dilettevoli e più
maravigliosi. E questa, o poeta, è la tua parte. A te dunque a fare una nova
scelta tra le parti dell'avvenimento, lasciando fuori quelle che non servono
al tuo intento speciale e più elevato, e trasformando come ti torna meglio
quelle che ti torna meglio di conservare; a te a trovare delle difficoltà
che, secondo te, avrebbero dovuto ritardare o sviare il corso
dell'avvenimento, e naturalmente a trovare anche gli sforzi coi quali si
sarebbero dovute superare; a te a immaginare accidenti, disegni, passioni e,
per far più presto, uomini che avrebbero dovuto averci una parte più o meno
importante; a te a disegnar la strada che le cose avrebbero dovuta prendere
per arrivare dove sono arrivate.
Ho detto che, se un progetto di questa sorte venisse in questi tempi
proposto a priori, parrebbe strano: non temerei di dir troppo aggiungendo
che non verrebbe neppure in mente a nessuno.
Anzi, se vogliamo guardare un po' più in là, o piuttosto rammentarci di cose
note, si troverà che ciò non accadde in nessun tempo. L'epopea letteraria
(della quale l'epopea storica non fu nemmeno la prima forma) non venne al
mondo, per dir così, a caso pensato; non fu la realizzazione d'un concetto
astratto e anteriore; fu l'imitazione d'un fatto molto, ma molto, diverso.
L'epopea primitiva e, dirò così, spontanea non fu altro che storia: dico
storia nell'opinione degli uomini ai quali era raccontata o cantata; che è
ciò che importa e che basta alla questione presente. Di quella allora
creduta storia rimasero due monumenti perpetuamente singolari, l'Iliade e
l'Odissea. E quando non poterono più essere accettati per vera e genuina
storia: ma nello stesso tempo, riuscivano sommamente dilettevoli, per altre
ragioni, e potevano quindi esser considerati anche da un lato puramente
estetico; nacque facilmente il pensiero di comporne altri sulla stessa idea,
e (perché anche l'imitazione non va per salti) sopra soggetti presi
ugualmente dalle tradizioni dell'età favolose. E questa fu la prima forma
dell'epopea letteraria; la quale differiva dalla prima in quanto al non
avere né l'effetto, né I ' intento d'ottener fede alle cose raccontate; e ne
serbava però quella condizione importante del raccontar cose, alle quali non
c'erano cose positive e verificabili da opporre. Non era più la storia, ma
non c'era una storia, con la quale avesse a litigare. Il verosimile,
cessando di parer vero, poteva manifestare e esercitar liberamente la sua
propria e magnifica virtù, poiché non veniva a incontrarsi in un medesimo
campo col vero, il quale, o volere o non volere, ha anch'esso una sua
ragione e una sua virtù propria e che opera indipendentemente da ogni
convenzione in contrario. Di questa forma c'è rimasto il monumento, senza
dubbio il più splendido, l'Eneide.
Che poi i poemi omerici fossero da principio accettati come storia,
s'argomenterebbe abbastanza, quando non ce ne fossero altri indizi, dal
sapere che allora non ce n'era altra, e dal riflettere che i popoli non
stanno senza storia. De' fatti umani, e principalissimamente di quelli de'
loro antenati, vogliono essi conoscere il vero, e ne vogliono conoscer
molto, ben lontani dall'immaginarsi che, in una tal materia, si possa cavare
un piacere d'altro genere dalla contemplazione del mero verosimile. Quindi
quell'ingrossarsi, e quel trasformarsi delle tradizioni, alle quali
l'invenzione sostituiva di mano in mano, e con la bona misura, i particolari
che non potevano più esser somministrati dalle rimembranze: invenzione,
facile, spontanea e, in parte, direi quasi involontaria ne' suoi autori, e
che, certo, non era presentata a delle menti desiderose di trovarla in
fallo. Del rimanente, che tale fosse e l'autorità e l'origine di que' poemi,
nessuno ne dubita, e non è certamente d'uomini tra i meno osservatori o tra
i meno eruditi quella congettura, che siano, non già lavori d'un uomo solo,
messi, per dir così, in brani da quelli che li cantavano, più o meno
fedelmente, al popolo, e rimessi poi insieme; ma una raccolta, una cucitura
del lavoro successivo di molti, intorno ai medesimi temi; e che il loro vero
autore sia stato l'Omero sperduto dentro la folla de' greci popoli, come
dice il Vico10, con quella sua originalità, non di rado ancor più dotta che
ardita. A ogni modo, quelle storie parlavano alla credulità, non al bon
gusto, che non era ancora nato. E si pensi un poco come sarebbero stati
accolti i rapsodi se avessero detto, e potuto dire: bona gente, i fatti che
siamo per cantarvi, avremmo potuto raccontarveli, per quello che se ne sa,
come sono avvenuti, ma per divertirvi meglio, crediamo bene di presentarveli
in una forma diversa, arbitraria, levando e aggiungendo, secondo l'arte.
Un esempio più specificato di questo amore rigoroso della verità in gente
ascoltatrice avidissima di favole, si può vedere ne' romanzi del medio evo,
cantati anch'essi da quella specie di novi rapsodi, chiamati trovatori,
giullari, menestrelli: romanzi da' quali provenne la nova epopea, che ne
prese il nome di romanzesca. Ecco a questo proposito alcune parole
dell'erudito La Curne S.te Palaye11:
«Pare che da principio la storia sola fosse l'oggetto di que' poemi, se così
si possono chiamare de' racconti composti in metro e in rima, per aiuto
della memoria...
«È certo che le cronache di san Dionigi erano in gran credito ne' secoli
XIII e XIV, e che gli storici non trovava no un mezzo migliore per acquistar
fede presso i lettori, che di farsi belli dell'autorità di quelle12.»
Tra i passi di que' poeti storici, allegati dal dotto accademico, ne citerò
uno d'un Filippo Mouskes13, che scriveva nel principio del secolo XIII.
Costui, dopo essersi accusato di non aver altre volte usata la dovuta
cautela nella scelta de' suoi autori, aggiunge:
... Quant un me conseilla
Que trop obscurement savoie
Les faiz que je ramentevoie,
Et que s'a Saint Denis allasse,
Le voir (il vero) des Gestes y trouvasse,
Non pas menconges ne frivoles;
Bientost après cestes paroles
M'en vins là, et tant esploitai,
Que veu ce que je convoitai,
Lors alai faus apercevant
Quanque j' avoie fait devant;
Si l'ardit (bruciai) con ni deust croire,
Et me pris à la vraie histoire,
Jouste la quele je mesis (messi in carta?)14.
E cosa trovavano poi in quelle famose cronache, dato che andassero davvero a
consultarle? Trovavano:
«Come cils Kalles (Carlomagno) la conquist toute (la Spagna) entièrement en
son tens, et la fist obaïr à ses commandemens;
«Come Fernagus un Jaianz du lignage Goulie estoit venu à la cité de Nadres
des contrées de Surie: si l'avoit envoié l'amiraus de Babilone contre
Kallemaine pour deffendre la terre d'Espaigne;
«Comment (e questo era uno de' fatti più ricantati) Rollans occist le Roi
Marsile, et puis comment il fendit le perron (il masso), quant il cuida
despiecer s'espée; et puis comment il sonna derechief l'olifant (il corno),
que Kalles oï de VIII miles loing15.»
All'osservazione del dotto La Curne, non sarà superfluo l'aggiungerne una
simile, ma fondata sopra ricerche molto più vaste, dell'illustre e pianto
mio amico Fauriel.
«Ogni autore d'un romanzo epico del ciclo carlovingico, non tralascia mai di
darsi per uno storico davvero. Principia sempre col protestare che non dirà
cosa che non sia certa e autentica; cita sempre mallevadori, autorità, alle
quali rimette coloro di cui ambisce il suffragio. Queste autorità sono
ordinariamente certe cronache preziose, conservate nel tale o nel tal altro
monastero, delle quali ha avuto la fortuna di potersi servire col mezzo di
qualche dotto monaco...
«I termini con cui qualificano le loro novelle sono anch'essi suggeriti da
quella pretensione d'averle cavate da documenti venerabili. Le chiamano
chansons de vieille histoire, de haute histoire, de bonne geste, de grande
baronie, e non è per vantar sé stessi, che usano simili espressioni: la
vanità letteraria non ha in loro forza veruna in paragone del desiderio
d'esser creduti, di passare per semplici traduttori, per semplici ripetitori
di leggende o di storie consacrate16.»
Quelle proteste equivalgono all'invocazione omerica della dea figlia della
memoria; e fanno vedere come, anche in un tempo di storia scritta, fosse il
desiderio di credere, quello che attirava ai racconti epici la parte più
indotta della popolazione, cioè la parte che somigliava di più alla
popolazione intera de' tempi d'Omero, o degli Omeri, che si voglia dire.
Ma per continuare questi brevi cenni sull'antichità classica (giacché, per
fortuna, l'argomento non c'impone di parlare de' fatti analoghi di altre
antichità: fatti notabilissimi, ma che non ebbero parte nella genesi
dell'epopea di cui trattiamo) è certo che anche in Roma l'epopea comparve in
apparenza e con autorità di storia. Che il racconto della fondazione di Roma
fosse in gran parte una fattura poetica, era cosa già riconosciuta al tempo
di T. Livio17; l'osservazione de' moderni estese questo giudizio, dove con
argomenti molto forti, dove con più o meno probabili, ad epoche più
avanzate. Ma la più antica forma nella quale que' racconti siano pervenuti
fino a noi, è la forma propria della storia, e pare verosimile che abbiano
cessato presto d'essere in arbitrio di poeti ciclici, se ci furono mai. Era
quello un serioso poema, come dice il Vico del Diritto romano antico18; e
non pare che il patriziato romano, custode, conservatore e consacratore
d'ogni cosa, avrebbe lasciata in balia de' divertitori e maestri della plebe
una storia nella quale erano piantati i fondamenti d'istituzioni fatte per
mantenere il suo dominio sulla plebe. Il soggetto di quell'epopea non era
un'accidentale e temporaria federazione di principi, per la distruzione
d'una Città, e per ritornar vincitori ne' loro rispettivi stati (poveri
stati!) a far baruffe tra di loro, dopo averne fatte di strane, anche nel
tempo e nel forte dell'impresa. Era la fondazione e il progresso della città
(e che città!) di que' patrizi medesimi. Importava poco, anche ai Greci, che
Minerva avesse detta una cosa più che un'altra a Pandaro, per indurlo a
ferir Menelao o Iride ad Achille, per mandarlo a salvar da' Troiani il corpo
di Patroclo; ma non sarebbe stata una cosa indifferente che la fantasia di
poeti popolari avesse potuto sbizzarrire sulle conferenze di Numa con
Egeria19; dalle quali era uscita l'istituzione de' sacerdozi e la norma de'
riti e, non che altro, la scienza, rimasta poi arcana per tanto tempo, de'
giorni fasti e nefasti20. La novella dell'augure Azzio Navio, che
opponendosi a Tarquinio Prisco il quale voleva istituire delle nove tribù
senza la prova dell'augurio, conferma la sua scienza con un prodigio,
bastava a stabilire e a perpetuare l'autorità degli augùri e degli auspìci,
senza i quali non si doveva prendere determinazione veruna", e i quali erano
attribuzione e proprietà de' patrizi". E sarebbe stata cosa, non solo
superflua, ma pericolosa, che dell'altre novelle su una tale materia fossero
inventate, a capriccio o maliziosamente, e cantate alla plebe, contro la
quale gli auspici erano così spesso adoprati, e della quale servirono a
frenar gi'impeti e a interrompere le deliberazioni, anche quando queste
erano diventate legali. C'era, tanto nell'epopea greca, quanto nella latina,
una donna, cagione, in quella, d'un grande avvenimento, in questa, d'una
gran mutazione. Ma d'Elena, moglie d'uno di que' tanti re, si potevano senza
inconveniente accrescere e variar le vicende, e quand'anche a Sparta fosse
convenuto di tramandarle in una forma unica e consacrata, qual mezzo avrebbe
avuto di far chetare il cicalìo poetico del rimanente della Grecia?
Lucrezia, matrona, moglie d'uno de' patrizi romani, tanti anch'essi, ma
formanti una perpetua unità dominatrice, era la vittima per cui rimaneva
santificato il passaggio dall'aristocrazia col re alla più pretta
aristocrazia coi consoli: e non era una memoria da abbandonarsi all'arbitrio
fecondo delle fantasie.
Quando poi, e fu molto tardi, quella storia poté ritornare in mano de'
poeti, ma di tutt'altri poeti, cioè de' poeti letterari, aveva già presa una
forma così stabile e distinta, che difficilmente sarebbe potuto venire in
mente a nessuno, di farne qualcosa di suo. Era ancora troppo autorevole
perché potesse parer conveniente di staccarne un pezzo qualunque, per
ingrossarlo con delle favole nove, e trovate tutte in una volta, e da un
uomo solo. Questo spiega, se non m'inganno, il perché Ennio, volendo pure
farla ridiventar poesia, non trovò da far altro che metterla in versi tutta
quanta. E avendo presa questa strada, non fa specie che tirasse avanti, e
continuasse quella storia fino quasi ai suoi tempi, come pare da' frammenti
che ci rimangono de' suoi annali. E basterebbe anzi questo solo titolo [Annales,
nda] per indicare che il soggetto dell'opera non era un'azione una e
compita, avente principio, mezzo e fine, che, come dice Aristotele, e come
la intendono tutti, è un costitutivo essenziale del poema epico21. Non può
quindi Ennio esser riguardato né come un continuatore dell'epopea omerica, e
neppure come il fondatore dell'epopea storica; la quale ha comune con quella
l'assunto di rappresentare un'azione una e compita, quantunque ne differisca
essenzialmente nel prendere il suo soggetto da una materia così diversa,
come è la storia dalla favola.
Che, prima d'arrivare a una così forte e così radicale alterazione, l'epopea
letteraria e artifiziale, nata (e come sarebbe potuta nascere altrimenti?)
dall'imitazione della primitiva e spontanea, cercasse di seguirla, e
tentasse d'emularla nel campo della favola; che percorresse uno stadio di
mezzo, dirò così, tra l'Iliade e la Farsalia, era una cosa molto naturale.
Ma perché un tal tentativo, con tutti gli svantaggi dell'imitare
artifizialmente ciò ch'era nato spontaneamente, ciò che ha avuta la sua
ragion d'essere da uno stato di cose e di menti che non era più, potesse
produrre un'opera originale in un'altra maniera, un'opera, non simile
certamente al suo archetipo, ma non inferiore a nulla, ci volle un soggetto
unico, come l'Eneide, e un uomo unico per trattarlo, come Virgilio.
In quel soggetto e mitologico e, nello stesso tempo, legato con la
fondazione di Roma, trovava il poeta e la feconda libertà della favola, e il
vivo interesse della storia. Da una parte, in quella vasta e leggiera nebbia
de' secoli eroici, poteva suscitare apparizioni fantastiche, speciosa
miracula, inventare a piacer suo, attaccando le sue invenzioni a invenzioni
anteriori, celebri quanto la storia, o più, e insieme estensibili di loro
natura. Le cognizioni storiche o credute storiche intorno a que' tempi,
erano scienza di pochi eruditi; e non voglio dire certamente che, nel secolo
d'Augusto, l'epopea potesse serbare tutto quel libero e sicuro andamento
della prima ma si pensi quanto deboli e larghe potevano esser per essa
quelle pastoie, in paragone di quelle in cui si trovò poi stretta l'epopea
storica. Non aveva Virgilio a ficcar gli dei, come fecero poi altri, che
credevano d'imitarlo in avvenimenti, il concetto de' quali era già nelle
menti compito e spiegato, senza che quegli dei c'entrassero come attori
personali e presenti. Li trovava nel soggetto medesimo: non era lui che, per
magnificare il suo eroe, lo facesse figliolo d'una dea; né che facesse per
la prima volta scender questa a soccorrerlo ferito in battaglia.
L'intervento dell'altre divinità in suo favore o contro di lui, era un
seguito d'una gara già avviata, d'impegni già presi. E dall'altra parte,
quel soggetto, che veniva così a essere quasi una continuazione dell'Iliade,
era, cioè poté diventare in mano di Virgilio, il più grandiosamente e
intimamente nazionale per il popolo nella cui lingua era scritto. Ché, al di
là di tutte quelle vicende poetiche, e come ultimo e vero scopo di quelle,
sta sempre Roma; Roma, il soggetto, direi quasi, ulteriore del poema. È per
essa, che l'Olimpo si commove, e il fato sta immobile. Qualunque soggetto
preso direttamente dalla storia di Roma, oltre al non poter mai diventare
tutto poetico (che doveva essere un gran motivo di repugnanza per Virgilio)
non sarebbe stato che un episodio di quell'immensa storia. Non poteva esser
altro che un'impresa cagionata da imprese antecedenti, e diventata cagione
d'altre imprese avvenire; una vittoria che preparava altre guerre; un
ingrandimento dell'impero, che gli accostava altri popoli da debellare.
Nell'Eneide, Roma è veduta da lontano, ma tutta; e lasciate fare al poeta a
attirar là il vostro sguardo ogni momento, e sempre a proposito, sempre
mirabilmente. Lasciate fare a lui a rappresentarvene anche direttamente la
storia futura; ora in qualche particolare, con de' cenni rapidi e maestri,
ora più distesamente, con l'artifizio di bellissime invenzioni poetiche,
come la predizione d'Anchise, o l'armi fabbricate da Vulcano. Invenzioni
nove o vecchie, poco importa, quando sono passate per le mani di Virgilio.
Poiché, quale virtù di stile poetico si può immaginare maggior della sua?
Dico quello stile che s'allontana in parte dall'uso comune d'una lingua, per
la ragione (bonissima, chi la faccia valer bene), che la poesia vuole
esprimere anche dell'idee che l'uso comune non ha bisogno d'esprimere, e che
non meritano meno per questo d'essere espresse, quando uno l'abbia trovate.
Ché, oltre le qualità più essenziali e più manifeste delle cose, e oltre le
loro relazioni più immediate e più frequenti, ci sono nelle cose, dico nelle
cose di cui tutti parlano, delle qualità e delle relazioni più recondite e
meno osservate o non osservate; e queste appunto vuole esprimere il poeta, e
per esprimerle, ha bisogno di nove locuzioni. Parla quasi un cert'altro
linguaggio22, perché ha cert'altre cose da dire. Ed è quando, portato dalla
concitazione dell'animo, o dall'intenta contemplazione delle cose, all'orlo,
dirò così, d'un concetto, per arrivare il quale il linguaggio comune non gli
somministra una formola, ne trova una con cui afferrarlo, e renderlo
presente, in una forma propria e distinta, alla sua mente (ché agli altri
può aver pensato prima, e pensarci dopo, ma non ci pensa, certo, in quel
momento). E questo non lo fa, o la fa ben di rado, e ancor più di rado
felicemente, con l'inventar vocaboli novi, come fanno, e devono fare, i
trovatori di verità scientifiche; ma con accozzi inusitati di vocaboli
usitati, appunto perché il proprio dell'arte sua è, non tanto d'insegnar
cose nove, quanto di rivelare aspetti novi di cose note; e il mezzo più
naturale a ciò è di mettere in relazioni nove i vocaboli significanti cose
note. Queste formole non passano, se non per qualche rara opportunità, nel
linguaggio comune, perché, come s'è detto dianzi, il linguaggio comune non
ha per lo più bisogno d'esprimere tali concetti; e la virtù propria della
parola poetica è d'offrire intuiti al pensiero, piuttosto che istrumenti al
discorso. Ma quando sono, come devono essere, concetti veri insieme e
pellegrini, riescono doppiamente gradevoli. E, non lascerò d'aggiungere,
estendono effettivamente la cognizione; per quanto ci siano di quelli che
credono filosofia il riguardare come oggetto esclusivo della cognizione,
alcune categorie di veri23.
Avere accennato ciò che la poesia vuole, è avere accennato ciò che Virgilio
fece, in un grado eccellente. Chi più di lui trovò in una contemplazione
animata e serena, nell'intuito ora rapido, ora paziente (appunto perché
vivo) delle cose da descriversi, nel sentimento effettivo degli affetti
ideati, il bisogno e il mezzo di nove e vere e pellegrine espressioni24? E
intendo un vero bisogno, giacché chi più alieno di lui dal posporre la
locuzione usitata, quando fosse bastante al suo concetto? Ma era frequente
il caso che non bastasse, e quindi così frequenti, ma non mai troppi, ne'
suoi versi, quegli accozzi di parole così inaspettati e non mai violenti;
direi la callida junctura d'Orazio25; ma, per quanto l'espressione sia
felice, l'arte di Virgilio par che richieda una qualificazione più gentile e
più elevata. E credo che non si possa trovare a ciò parole più adatte, di
quelle sue:
Nec sum animi dubius verbis ea vincere magnum
Quam sit, et angustis hunc addere rebus honorem,
quantunque non riguardino che l'applicazione di quell'arte a una specie
d'oggetti. E aggiunge:
Sed me Parnassi deserta per ardua dulcis
Raptat amor juvat ire jugis qua nulla priorum
Castaliam molli devertitur orbita clivo26.
Che vuol dire: ma io sento d'esser Virgilio. E stavo per dire che, con
quello stile, un poema sarebbe un oggetto perpetuo d'ammirazione, qualunque
ne fosse stato l'argomento, qualunque l'invenzione delle parti. Ma m'avvedo
a tempo, che la supposizione non sarebbe ragionevole. Quello stesso giudizio
squisito e sdegnoso, che guidava Virgilio nella scelta dell'espressioni, non
gli avrebbe permesso d'attaccarsi a un argomento che non avesse le migliori
condizioni, né a invenzioni che non avessero un pregio intrinseco; sia
quelle che si fossero presentate alla sua mente, sia le altrui, che trovasse
capaci e degne d'esser fatte sue.
Ma ecco che, subito dopo Virgilio, comparisce Lucano, che si può dire il
fondatore dell'epopea storica; giacché non si sa, credo, che alcuno prima di
lui prendesse per soggetto d'un lungo poema un avvenimento di tempi storici,
formato di molti e vari fatti, e avente quell'unità d'azione, che resulta
dall'esser questi e legati tra di loro, e conducenti alla conclusione di
quello. E non ho detto semplicemente: un avvenimento storico; ma di tempi
storici; perché lì è la differenza essenziale tra la Farsalia e l'epopee
anteriori. L'importanza della quale non fu, mi pare, abbastanza riconosciuta
dai critici; i quali notando in quel poema altre differenze reali, ma
secondarie, non s'avvidero ch'erano dipendenti da quella prima e capitale
innovazione. Perché la guerra di Troia può essere chiamata, più o meno, un
fatto storico, come le guerre civili di Roma; perché un Enea venuto in
Italia dopo quella guerra può essere, più o meno, chiamato un personaggio
storico come Cesare; poté anche parere che tra i soggetti dell'Iliade e
dell'Eneide, e il soggetto della Farsalia non ci fosse una differenza
sostanziale, e che le innovazioni di Lucano siano venute da un suo genio
particolare, da un capriccio. Ma chi appena ci badi, vedrà, se non
m'inganno, ch'erano conseguenze, non necessarie ma naturali dell'aver preso
il soggetto del poema da tempi storici, cioè da tempi, de' quali il lettore
aveva, o poteva acquistare quando volesse, un concetto indipendente e
diverso da quello che all'invenzione poetica fosse convenuto di formarci
sopra. Se ci fu capriccio, fu quello.
Di queste innovazioni accennerò le due che furono principalmente notate.
Una, l'avere il poeta seguita servilmente la storia, in vece di trasformarla
liberamente. Ma fu perché la storia era nel soggetto; e il poeta doveva
scegliere tra il seguirla, o il contradirla, affrontando così e urtando un
concetto già piantato nelle menti, e con bone radici27.
L'altra, l'avere esclusi gli dei dal poema. Ma fu perché non li trovava nel
soggetto. E si può egli dire che sia la stessa cosa il mettere in opera gli
elementi d'un soggetto, e l'introdurcene degli estranei?
I critici che biasimarono Lucano d'aver voluto re, per ciò che riguarda gli
avvenimenti, una storia in versi piuttosto che un poema (l'altre critiche a
cui andò e va soggetta la Farsalia, sono estranee al nostro argomento), non
esaminarono, da quello che mi pare, se, volendo pur comporre in quel tempo
un poema epico, c'era da far qualcosa di meglio. Introdurre le divinità
mitologiche in un soggetto di tempi storici, e, per poterlo fare con maggior
libertà, prendere il soggetto da tempi più remoti? O prendere il soggetto
dai tempi favolosi? L'una e l'altra cosa fu fatta con esito poco felice, e
non da uomini così sforniti di doti poetiche, che se ne possa dar loro la
colpa principale. E sarebbero, certo, più lodati, anzi credo, ammirati, se
l'opere di Virgilio fossero perite; perché ammaestrati da lui di ciò che
poteva la lingua latina, e imitandolo in quella lingua medesima, poterono,
in quanto allo stile, esser forse più continuamente e più arditamente poeti,
di quello che le lingue moderne permettano anche ai più felici ingegni.
Silio Italico fece, come Virgilio, intervenire gli dei nel suo poema. Ma il
soggetto era la seconda guerra cartaginese; e Annibale e Scipione non
avevano parenti nell'Olimpo, come Enea e Turno. Non erano eroi misti con gli
dei, ma generali e uomini di stato di due repubbliche. E si pensi che
effetto potesse fare, anche a lettori gentili, ma che avevano Livio e
Polibio, il dio Marte che, entrato in persona nella battaglia del Ticino,
copre col suo scudo il giovine Scipione; e gli parla dal suo cocchio in
aria; e Giunone che, per sottrarre Annibale vivo dal campo di Zama, gli
manda incontro una fantasima in figura di Scipione, la quale fuggendogli poi
davanti, lo tira fuori della battaglia". Perché Virgilio aveva potuto, con
convenienza poetica, far durare l'odio di quella dea contro i profughi da
Troia, contro Enea, cugino di Paride, credette Silio Italico di poter
resuscitare quell'odio contro i Romani del sesto secolo. E non badò che la
pace era fatta da un pezzo; non intese bene quel luogo dell'Eneide, dove
Giove le dice: Quae jam finis erit, conjux?... Desine jam tandem... Ulterius
tentare velo. E barattata qualche altra parola, Annuit his Juno, et mentem
laetata retorsit, Che voleva dire: la novella è finita; vengono tempi e
fatti, ne' quali gli dei non si potranno far entrare, che per forza.
Del resto, anche Silio Italico fu tacciato d'essere stato troppo ligio alla
storia. Quel solito giudizio, nato dal non riflettere che, quando si cambia
la materia, non è così facile conservar la forma; dal supporre che della
storia si possa far lo stesso che della favola.
La Tebaide di Stazio e l'Argonautica di Valerio Flacco erano soggetti presi,
come l'Eneide, da' secoli eroici; solo ci mancava quel magnifico e perpetuo
legame con l'origine, col progresso, con le tradizioni, coi destini d'una
società viva e vera, e d'una società come Roma. Che è poco? I racconti
fondati sulla mitologia, dopo esser piaciuti come cose credute vere,
poterono piacere come una forma speciale di verosimile; ma era un pezzo che
la cosa durava. E perché, per noi che abbiamo la sorte di non esser
politeisti, «quel maraviglioso (se pur merita tal nome) che portan seco i
Giovi e gli Apolli, e gli altri numi de' Gentili, è non solo lontano da ogni
verisimile, ma freddo ed insipido e di nessuna virtù», non bisogna credere
che per i politeisti dovesse essere una fonte inesausta di curiosità e di
piacere. E d'uno di loro quel lamento:
Expectes eadem a summo minimoque poeta28.
Dove potevano dunque i poeti latini trovare oramai degli argomenti per
l'epopea, quando la storia non poteva dirsela con la mitologia, e la
mitologia senza la storia non era più altro che una novella vecchia? La
pianta era morta, dopo aver portato il suo fiore immortale.
Venendo alla letteratura moderna, troviamo subito un altro poema immortale,
ma di tutt'altro genere, e per la materia e per la forma. Certo, non si può
dire lo stesso affatto del Furioso, il soggetto del quale è di questo mondo,
e di tempi storici. Ma, come ognuno sa, un concetto favoloso di que' tempi
era diffuso e accettato da un pezzo, e diventato materia usuale di poemi.
Quindi l'Ariosto non ebbe ad affrontar la storia: non faceva altro che
continuare una favola. La quale non poteva regnare ancora per molto tempo,
ma regnava ancora abbastanza per potere aver da lui il suo primo e ultimo
capolavoro29.
Il primo poema che comparve con intento e in forma d'epopea classica insieme
e storica, fu l'Italia Liberata del Trissino30.
E in verità, non si saprebbe intendere come mai un tal lavoro abbia potuto
acquistar fama presso i contemporanei, e conservarla presso i posteri, se
non si conoscesse la cagione speciale d'un tal fenomeno. Per quanto, al
tempo del Trissino, la poesia italiana avesse presa, e già percorsa a gran
passi una strada diversa da quella segnata dai classici dell'antichità greca
e latina, c'era, insieme con l'ammirazione per i gran poeti volgari, come li
chiamavano, una persuasione che la vera e unica perfezione dell'arte non si
trovasse se non nell'opere di quell'antichità. Pareva di vedere nella nova
poesia tanti vacui, quante erano le specie di composizioni poetiche, di cui
quell'antichità aveva tramandati degli esemplari. Lo studio crescente della
letteratura latina, gli avanzi sepolti che se ne andavano scoprendo di mano
in mano, la piena dell'opere greche, entrata dopo la presa di
Costantinopoli, avevano accresciuto a dismisura il desiderio di veder
riempiti que' vacui. Il Trissino venne avanti coraggiosamente, e ne riempì
due, e non de' più piccoli certamente. Diede alla letteratura moderna la
prima tragedia regolare: la Sofonisba, e il primo poema regolare: l'Italia
Liberata. E se l'Ariosto non gli rubava le mosse, le avrebbe data anche, coi
Simillimi, la prima commedia regolare in versi: tanto era lesto! Se, con
quella vena d'invenzione, di stile e di verso, avesse scritto un poema
cavalleresco, è da credere che non solo questo non avrebbe ottenuta la
celebrità popolare di cui godettero, per qualche tempo, l'Amadigi di
Bernardo Tasso, e il Giron Cortese di Luigi Alamanni, e qualche altro; ma
che si sarebbe perso, sul nascere, tra i meno osservati. Ma l'Italia
Liberata faceva le viste di soddisfare un desiderio, di compir quasi un
dovere della nova poesia; e ottenne perciò il titolo di poema epico: titolo
che gli è rimasto, senza che ne venga obbligo di lettura, a un di presso
come vari principi hanno conservati de' titoli di reami o persi o pretesi,
senza che ne venga obbligo d'ubbidienza. Quel poema, giacché non si saprebbe
che altro nome dargli, non fece fare all'epopea storica, riprincipiata con
lui dopo un così lungo intervallo, né un passo avanti, né un passo indietro:
e il solo fatto d'esser venuto il primo gli ha mantenuta e gli mantiene una
sterile celebrità. Non c'è quindi bisogno di parlarne più in particolare.
Nel piccol numero de' celebri poemi epici è rimasta ugualmente, ma per tutt'altro
titolo, e con tutt'altro onore, la Lusiade del Camoëns, venuta alla luce
circa mezzo secolo dopo. Questo poema è, per dir così, doppiamente storico,
perché, oltre il luogo che ci occupa la storia che è la materia prima del
soggetto, il poeta ne ha dato altrettanto o più alla storia d'altri tempi.
L'azione principale è la spedizione di Vasco de Gama; ma il soggetto, dirò
anche qui, ulteriore del poema è il Portogallo; come Roma lo era
dell'Eneide. Ma né la storia portoghese, né alcun'altra di popoli moderni, è
tale che un poeta possa, con de' cenni, richiamarla tutta al pensiero, o
trascorrerne le diverse parti, toccando sempre cose e grandi e note, come
fece Virgilio con la romana. E quindi, per essere, come lui, per quanto era
possibile, poeta continuamente e grandiosamente nazionale, non trovò il
Camoëns miglior mezzo, che di trasportare per disteso nel poema la storia
del suo paese: quella anteriore al momento dell'azione, in un racconto di
Vasco de Gama a un re affricano; la posteriore, in una predizione. Novo e
singolare ripiego della prepotente storia, per cacciarsi nell'epopea, anche
dove non era chiamata dall'azione principale. Però, che dico prepotente? che
dico cacciarsi? Non fa altro che ritornar sul suo.
Ma alla fine, mi sento dire, alla fine bisognerà pure che arriviate a un
altr'uomo e a un altro poema. Quest'epopea, che non è più l'epopea spontanea
d'Omero, e neppure la favolosa di Virgilio; quest'epopea storica, fondata
secondo voi, da Lucano, riformata da Silio Italico, e resuscitata dal
Trissino, quest'epopea, l'assunto della quale, sempre secondo voi, repugna
apertamente alla scienza e allo spirito del tempo presente, ha prodotta la
Gerusalemme Liberata, cioè un lavoro che è, da quasi tre secoli, ammirato e
gustato dai dotti e dalle persone colte non solo d'Italia, ma del mondo,
meno poche eccezioni, qualcheduna insigne bensì, come sarebbe il Galileo ma
sempre eccezione.
E così? Dicendo dianzi, che l'epopea cavalleresca era morta, abbiamo noi
negato che il Furioso le sopravviva? Il Tasso medesimo, prescrivendo che «il
soggetto del poema eroico si prenda da storia di secolo non molto remoto»31,
intese forse di levar dal numero de' poemi vivi l'Eneide, il soggetto della
quale è preso da tempi favolosi, cioè molto remoti anche per Virgilio? No,
davvero: non parlava di ciò che si fosse potuto fare in passato, ma di ciò
che si potesse far di novo. Così, dall'avere il pubblico europeo mantenuta
in grand'onore la Gerusalemme, non mi par che si possa concludere che abbia
voluto mantenere in attività l'epopea. Anzi mi par di vedere che, dopo la
Gerusalemme, abbia proibito severamente di far più poemi epici.
Mi si domanderà dove ho trovata questa proibizione.
Rispondo che ci sono due maniere di proibire: una diretta e una indiretta;
per esempio que' dazi enormi che fanno passar la voglia (a parte il
contrabbando) di comprar le merci sulle quali sono imposti. E qualcosa di
simile mi pare che avvenga nel caso di cui parliamo. S'è fatto del poema
epico un'opera sovrumana, una cosa che, a tutto rigore, assolutamente, non è
impossibile, ma che non bisogna mai aspettarsi di veder realizzata di novo.
Che molti e molti scrivessero componimenti poetici di qualunque altra
specie, nessuno se n'è mai maravigliato; che anche uno tenti di fare un
componimento d'una specie nova, e sia pure del genere narrativo, non pare
strano. Ma che uno si proponga di scrivere un poema epico, proprio un poema
epico, nella stretta significazione del termine, è una cosa che non si crede
subito. Pare quasi la promessa d'un miracolo, una mira spinta al di là del
possibile. Gli amici stessi del poeta se ne sgomentano, e quasi
l'abbracciano con le lacrime agli occhi, come se andasse alla scoperta di
terre incognite a traverso di mari indiavolati, a un'impresa più ardua e più
pericolosa di quelle che si propone di descrivere, che so io? a un
combattimento con degli esseri soprannaturali.
E, certo, i lavori poetici segnalati sono una cosa rara e difficile, come
tutti i lavori segnalati, ma se non s'intende (e, certo, non s'intende) che
la difficoltà nasca dalla lunghezza materiale del componimento, non vedo
bene il perché questo deva essere così unico per la difficoltà, anche tra i
segnalati. «Non c'è quasi una novelletta, in cui gli avvenimenti non siano
meglio distribuiti, preparati con più artifizio, congegnati con un'industria
mille volte maggiore, che ne' poemi d'Omero», disse il Voltaire. E
l'espressione può parere esagerata; ma credo che la sentenza parrà vera in
fondo, soprattutto se si applichi ai romanzi de' quali è venuta una così
gran piena dopo che furono scritte quelle parole, e specialmente a que'
pochi che sono rimasti celebri. Ora, quel congegno degli avvenimenti, quel
subordinarne molti al principale, legandoli insieme tra di loro, è appunto
ciò che nel poema epico si riguarda come la cosa più difficile e quasi
miracolosa. Il rimanente dipende da altre facoltà, le quali, a chi mancano,
bona notte; chi le ha avute in dono dal cielo, non si vede il perché non le
possa adoprar così felicemente nel poema epico come in altri componimenti.
Inclinerei dunque a credere che quest'opinione d'una difficoltà
specialissima della cosa nasca da un sentimento che si ha in confuso del
difetto intrinseco della cosa medesima. Si chiama il poema epico un problema
di soluzione inescogitabilmente difficile, perché si sente che è la
quadratura del circolo. Si dice: come farà la natura a produrre un uomo
capace di rappresentare epicamente un grand'avvenimento? Quello che si pensa
in nube è: come farà un uomo a rappresentar bene un grand'avvenimento,
travisandolo?
Il Voltaire citato dianzi farebbe rammentare, se ce ne fosse bisogno, al
lettore e a me una trasgressione fortunata di quel divieto, l'Enriade; la
quale e ottenne, al suo apparire, un applauso quasi universale, e conserva
ancora un'universale celebrità. Ma questo poema è appunto ciò che si
potrebbe desiderar di meglio per conoscere quanto la difficoltà fosse
cresciuta a quel tempo, e a quali espedienti abbia dovuto ricorrere il
poeta, per darsi a intendere di superarla. Apro dunque l'Enriade, e trovo,
prima dell'Enriade, un'Idea dell'Enriade, e una Storia compendiosa degli
avvenimenti sui quali è fondata la favola del poema; e dopo il poema, una
lunga filza di note storiche, e per di più un Saggio sulle guerre civili di
Francia. Il Tasso biasima in qualche poeta del suo tempo qualcosa di molto
meno, e per un'ottima ragione. «Perfettissima d'ogni parte è quella favola,»
dic'egli, parlando dell'Iliade, «e nel seno della sua testura porta intiera
e perfetta cognizione di sé stessa, né conviene accattare estrinseche cose,
che la sua intelligenza ci facilitino. Il qual difetto si può per avventura
riprendere in alcun moderno, ov'è necessario ricorrere a quella prosa, che
dinanzi per sua dichiarazione porta scritta; perocché questa tal chiarezza,
che si ha dagli argomenti, e da altri sì fatti aiuti non è né artificiosa,
né propria del poeta, ma estrinseca e mendicata.»
Egregiamente; ma il punto sta nel non aver bisogno di simili aiuti. Certo,
non aveva bisogno Omero d'accattare né schiarimenti né attestati dalla
storia, poiché la faceva lui. La Memoria era il suo mallevadore; e quella,
bastava invocarla sul principio e, per un di più, ogni tanto. Non n'aveva
neppure bisogno Virgilio, quantunque il caso fosse molto diverso. Le cose
che raccontava non gli potevano, è vero, esser credute; non faceva lui la
storia; ma non c'era, di quelle cose, una storia ch'egli potesse citare, né
che dovesse temere. E senza dubbio, anche al tempo del Tasso, c'era molto ma
molto meno bisogno di tali aiuti, di quello che ce ne fosse al tempo del
Voltaire. Il desiderio della verità positiva non poteva essere severo e
fastidioso co' Poeti, quando era di così facile contentatura con gli
storici, quando la poesia conservava ancora tanta parte di dominio nella
storia medesima. Infatti l'origini, in tanta parte poetiche, delle nazioni e
degli stati erano ancora raccontate con sicurezza, e accettate con docilità.
E anche per i fatti meno remoti, il trovarli verosimili bastava per lo più e
agli scrittori e ai lettori di storie, per non andar a cercare se fossero
poi anche sufficientemente attestati. E, malgrado alcune proteste già
antiche, non parevano fuor di luogo le parlate messe dagli storici in bocca
ai loro personaggi: ché, in quel momento, li facevano proprio diventare loro
personaggi alla maniera de' poeti.
Credo che tutto questo non abbia bisogno di prove; ma mi si permetta di
citarne un esempio notabile, d'un tempo alquanto anteriore, ma non tanto
che, per questa parte principalmente, si possa considerare come un tempo
diverso. Il Machiavelli, osservatore così vigilante e così profondo (quando
però non prende per regola suprema de' suoi giudizi e de' suoi consigli
l'utilità: regola iniqua e assurda, che è tutt'uno; e con la quale, per
conseguenza, non c'è ingegno che possa andar al fondo di nulla), il
Machiavelli, ne' suoi Discorsi sopra T. Livio, tra tante e così varie
osservazioni, non ne fa, se non m'inganno, una sola di critica storica.
Eppure, volendo dedurre i suoi ammaestramenti da' fatti, pare che la verità
de' fatti dovess'essere per lui una condizione preliminare, non solo
importante, ma indispensabile. Di più, prende per testo, ogni volta che gli
venga in taglio, de' luoghi delle parlate di Livio, né più né meno che i
luoghi dove Livio racconta. Anzi arriva a prenderne per testo uno dove lo
storico, più poeta che mai, descrive de' movimenti interni dell'animo. Nel
celebre capitolo sulle congiure, parlando de' «pericoli che si corrono in su
la esecuzione», dice: «E che gli uomini invasino e si confondino, non lo può
meglio dimostrare T. Livio quando descrive d'Alessameno Etolo (quando ei
volle ammazzare Nabide Spartano) che venuto il tempo della esecuzione,
scoperto ch'egli ebbe a' suoi quello che s'aveva a fare, dice T. Livio
queste parole: Collegit et ipse animum, confusum tantae cogitatione rei.»
Nessuno s'immagina sicuramente che noi vogliamo dire che il Machiavelli
prendesse per fatti positivi tutto ciò che trovava nel suo autore. E, del
resto, dicendo: non lo può meglio dimostrare T. Livio, usa il linguaggio che
avrebbe potuto usare ugualmente, se avesse citato un apologo; come, citando
le parlate, ora dice, per esempio: «Annio loro pretore disse queste parole»,
ovvero: «io voglio addurre le parole di Papirio Cursore»; ora: «il nostro
istorico gli mette in bocca queste parole», ovvero: «si può notare per le
parole che Livio gli fa dire». Ma è appunto questa indifferenza per la
realtà positiva de' fatti storici, questo correre con la mente a ciò che
possano aver di notabile come meramente verosimili, e fermarsi lì; è questo
che abbiamo voluto notare in un uomo tale, come un saggio insigne d'una
disposizione comune. Disposizione che, non essendo ragionevole, non poteva
esser perpetua, e che, al tempo del Voltaire, era tanto diminuita, da
costringerlo a mettere, per meno male, tutti que' puntelli storici al suo
edifizio poetico.
Volevo aggiungere che, a un certo tempo, il Tasso medesimo, diede segno, in
un'altra maniera, di sentire più di prima quelle incomode esigenze della
storia, poiché nella Conquistata ne fece entrare molto più di quella che ne
avesse messa nella Liberata. Ma, riflettendo che la proposizione parrebbe
scandalosa, e che mi si direbbe, non senza sdegno, che è un levare il
rispetto a un grand'uomo il prender sul serio una sua aberrazione; che è
quasi un farsi complice delle critiche sciocche e insolenti, alle quali
quell'uomo, tormentato, portato fuori di sé, sacrificò l'ispirazioni del suo
ingegno, lascio la mia osservazione nella penna, e seguo tacitamente a dire
tra me:
Non furono sicuramente le critiche altrui, che mossero il Tasso a dare un
maggior posto alla storia nel suo secondo poema; poiché la critica che gli
facevano su questo punto (spropositata davvero, ma qui non importa) era in
vece: «Che la Gerusalemme Liberata è mera istoria senza favola», e Bastiano
de' Rossi, suo principale avversario in quella guerra, degna purtroppo
dell'Italia di quel tempo, gli oppone che: «Il poeta non è poeta senza
l'invenzione; però scrivendo istoria, o sopra storia scritta da altri, perde
l'essere interamente». Dunque la cosa è nata da tutt'altra cagione. E posso
ingannarmi, ma deve esser nata da questo, che, avendo il Tasso presa quell'infelicissima
determinazione di rifare il suo poema; e dando una ripassata alle cronache
della crociata, per vedere a buon conto se qualcosa ci fosse da ritoccare
anche riguardo alla storia, la storia abbia prodotto il suo effetto
naturale, che è di parer più a proposito dell'invenzione, quando la materia
è sua, e non dell'invenzione. E non gli si poteva dire: vattene in pace, ché
la tua parte l'hai avuta; perché la parte che la storia deve avere in un
Poema, o piuttosto la parte che si possa dare all'invenzione in un
avvenimento storico, non era stata determinata al tempo del Tasso, come non
lo fu dopo. Ne' Discorsi dell'arte poetica, scritti un pezzo prima, il Tasso
aveva detto: «Lasci il nostro epico il fine e l'origine della impresa, e
alcune cose più illustri nella loro verità, o nulla o poco alterata, muti
poi, se così gli pare, i mezzi e le circostanze, confonda i tempi e gli
ordini dell'altre cose, e si dimostri in somma più artificioso poeta, che
verace storico.» E che più tardi gli sia parso che «alcuna parte dell'azione
più illustre era tralasciata nella prima» favola della Gerusalemme, formata
con una tal norma, non trovo che ci sia punto da maravigliarsene. Chi mai,
prendendo per misura d'un giudizio oggetti così indeterminati e nebbiosi,
come: alcune cose, e o poco o nulla, e motivi così arbitrari e arrendevoli,
come: se così gli pare, e l'esser più poeta che storico; chi mai, dico,
potrebbe esser sicuro di portar due volte lo stesso giudizio su una stessa
cosa? Perciò, quando il Tasso, diventato (per sua disgrazia) autore della
Conquistata, dice: «Io, in quel che appartiene alla mistione del vero col
falso, estimo che il vero debba aver la maggior parte, sì perché vero dee
esser il principio, il quale è il mezzo del tutto; sì per la verità del
fine, al quale tutte le cose sono dirizzate», non trovo certamente in queste
parole una norma più applicabile della prima, giacché il dire: la maggior
parte non dà un'idea più distinta che il dire: alcune cose; ma ci vedo
l'imbroglio dell'assunto, e non l'aberrazione d'un uomo.
Dunque si parlava dell'Enriade e della prosa che ci attaccò l'autore,
dimanieraché questa volta la storia, non solo occupò un maggior posto
nell'epopea, ma s'accampò anche di fuori. E cosa contiene questa prosa?
Relazioni di cose antecedenti o concomitanti, che non potevano entrar nel
poema, ma ch'erano necessarie per intenderlo bene; citazioni di storie, di
memorie, di lettere, per avvertire il lettore, che il tale e il tal altro
fatto cantato nel poema, è un fatto davvero, discussioni in forma, quando i
fatti sono controversi, vite compendiose di questo e di quel personaggio,
per dimostrare che ciò che gli si fa dire o fare nel poema, s'accorda col
suo carattere, e con le sue azioni reali; e cose simili.
Certo, quest'autore aveva qui, come quasi in tutti i suoi scritti e in verso
e in prosa, anche degli altri fini; o piuttosto quel suo perpetuo e
deplorabile fine di combattere il cristianesimo. E non è da dire come ci
lavorasse, in un argomento dove gli orrori commessi col pretesto del
cristianesimo gli davano un pretesto più specioso per accusarlo, e un mezzo
più facile (per disgrazia sua e altrui) di renderlo odioso. Ma,
indipendentemente da quest'uso speciale che il Voltaire poté fare di quegli
aiuti storici, fu egli un suo capriccio il ricorrere ad essi? Non fu altro
che la conseguenza dell'aver fatta entrare molta storia nel poema: come
questo era una conseguenza della mutata condizione de' tempi, del non poter
più i lettori veder nella storia un semplice mezzo per farne qualcos'altro.
Fu perché l'autore non trovava un miglior espediente (e n'avreste voi
trovato un altro da suggerirgli?) per far conoscere la verosimiglianza
speciale delle sue invenzioni col soggetto a cui le attaccava.
Certo, era più semplice, più facile e soprattutto più conveniente all'arte
quello che Orazio suggeriva al poeta del suo tempo (poeta epico o tragico,
qui non fa differenza): «Attienti alla fama»32. Ma glielo poteva suggerire
perché nello stesso tempo gli proponeva de' soggetti come Achille, Medea,
Ino, Issione, Io, Oreste: soggetti mitologici, che vuol dire e notissimi, e
intorno ai quali non c'era, al di là di quella notizia comune, né molto né
poco di positivo, di verificabile, da potersi conoscere. C'erano bensì
alcuni che ne sapevano di più; ma cos'era questo di più? Una maggior
quantità d'invenzioni arbitrarie, e, per una conseguenza naturalissima,
varie e discordi. L'erudizione, in quella materia, non era, né poteva essere
altro che un accumulamento di cose la più parte diverse e opposte. Mancava
la ragione dello scegliere tra tante attestazioni contradittorie, cioè la
prevalenza dell'autorità: non solo una prevalenza reale, ma una apparente a
segno di poter essere accettata generalmente dai dotti, e di poter
conseguentemente indurre nel pubblico l'opinione, che, oltre quello che ne
sapeva il pubblico, ci fosse qualcosa da saper veramente. Ciò che c'era di
più omogeneo e, dirò così, di più uno in quella materia, era appunto la
notizia comune, la fama; val a dire poco sopra ogni soggetto; e un poco
altrettanto capace d'aggiunte arbitrarie, quanto incapace di positive. E
quindi, per giudicare, e per giudicar francamente e speditamente della
verosimiglianza relativa delle nove invenzioni col soggetto, il lettore, o
lo spettatore, aveva già nella mente bell'e preparato l'altro termine del
confronto33. Quindi nulla di più adatto a quelle circostanze, del precetto,
o piuttosto, del suggerimento d'Orazio; giacché, in fatto d'arte, un
precetto non può esser altro che l'indicazione d'un mezzo. Ma avrebbe il
Voltaire potuto servirsi e contentarsi d'un tal mezzo? Cosa gli
somministrava la fama, per comporre un'Enriade che non paresse una novella
indegna del soggetto e del secolo? Senza dubbio, il pubblico sapeva qualcosa
d'Enrico IV, di Caterina de' Medici, della Lega, dell'assedio di Parigi; ma
sapeva che se ne poteva sapere molto di più; e a questo si rivolgeva, o
volere o non volere, la sua aspettativa, ogni volta che quel soggetto gli
fosse messo davanti, in qualunque forma. Chi avesse voluto tessere una tela
poetica di verosimili su quel solo e magro ordito della cognizione comune di
quel complesso d'avvenimenti, avrebbe delusa miserabilmente una tale
aspettativa. Sarebbe, parsa, e sarebbe stata (in questa parte, ben inteso)
una continuazione dell'epopea di Chapelain, del P. Lemoine, di Desmarets e
di Scudéri34. Ecco dunque il poeta ridotto a somministrar lui medesimo al
lettore la materia di confronto necessaria per giudicare della
verosimiglianza speciale delle sue invenzioni. E perché questo non si poteva
fare nel contesto stesso del poema, eccolo ridotto a uscirne fuori, per
asserir formalmente e provare e discutere, co mezzo di quella ch'egli chiamò
più d'una volta la vile prosa.
Prendo dall'Enriade l'occasione d'osservare un altro grand'impiccio
dell'epopea storica, voglio dire il maraviglioso soprannaturale.
Ci deve o non ci dev'essere questo maraviglioso in un poema epico? Questione
stata sciolta più volte, ma ne' due sensi opposti.
E non so se alcuno o de' poeti o de' critici che nella Poetica d'Aristotele
credevano doversi trovare, se non tutte, almeno le più importanti norme
dell'arte, abbia notato il silenzio assoluto del maestro su questo punto
così importante per loro. Silenzio che ad essi doveva parere strano, e che
parrà naturalissimo a chi pensi che, quando Aristotele scriveva, la
questione non era ancora nata, né forse si poteva prevedere. Aristotele
parla dell'epopea omerica, dell'epopea praticata e conosciuta al suo tempo,
di quella che prendeva i soggetti dai secoli eroici: soggetti nei quali il
maraviglioso era innato. Era quindi per Aristotele una cosa sottintesa. Fu
dall'aver l'epopea presi per soggetto avvenimenti di tempi storici, ch'ebbe
origine questa questione, la quale non pare che voglia aver fine. Da una
parte, si dice che, senza il maraviglioso, il poema non può essere che o una
storia versificata, o una storia alterata senza ragione, perché dov'è la
ragione di mutar le cause e le circostanze naturali e vere d'un avvenimento,
per metterne in vece dell'altre, ugualmente naturali, ma false? Si dice
dall'altra, che, in mezzo a fatti noti o conoscibili, de' falsi prodigi
paiono inevitabilmente eterogenei, come sono. Bone ragioni l'una e l'altra,
diremo anche qui; ma bone a impedire e non a aiutare; dimanieraché l'epopea
storica può dire al maraviglioso, come Marziale a quell'uomo d'umore
variabile: «Non posso vivere né con te, né senza di te». Dopo diciotto
secoli, si trova ancora ai bivio che incontrò ne' suoi primi passi: o
privarsi del maraviglioso, con Lucano; o riceverlo per forza, con Silio
Italico. Senonché (ed è una cosa che giova ripetere) chi era poeta poté,
seguendo o l'una o l'altra strada, dare delle prove accidentali del suo
valore. Così doveva essere del Voltaire; il quale nel suo poema introdusse
il maraviglioso, o piuttosto due specie di maraviglioso, il cristiano e
l'allegorico. Ma non credo d'esprimere una mia opinione particolare dicendo
che, quantunque abbelliti da immagini e vive e appropriate, e da sentenze e
gravi e pellegrine (quando sono giuste), e il tutto in versi quasi sempre
belli, e non di rado singolarmente belli, l'effetto che fanno, come parte
dell'azione, è languido e stentato, e quasi di gente estranea e
indifferente, che bisogna chiamar di novo ogni volta che si vuol farcela
entrare.
Il Voltaire che, come poeta, si servì del maraviglioso, opinò, come critico,
che si potesse farne di meno, e, da quel che mi pare, non senza contradirsi.
Cosa non punto strana, perché dove, in vece d'una massima certa, ci sono due
opinioni probabili, può facilmente accadere che all'uomo medesimo piaccia di
più ora l'una, ora l'altra. «Virgilio e Omero, dic'egli, fecero benissimo a
mettere in scena le divinità. Lucano fece ugualmente bene a farne di meno.
Giove, Giunone, Marte, Venere, erano ornamenti necessari all'azione d'Enea e
d'Agamennone. Poco si sapeva di quegli eroi favolosi... Ma Cesare, Pompeo,
Catone, Labieno, vivevano in tempi ben diversi da quelli d'Enea.»
E Enrico IV, Mayenne, Potier e Mornay?
«Le guerre civili di Roma», aggiunge, «erano una cosa troppo seria per tali
giochi d'immaginazione.»
E le guerre civili di Francia?
Si dirà egli, che queste parole, applicate dal Voltaire alle divinità
mitologiche, non possono convenire al soprannaturale cristiano? Rispondo che
al soprannaturale non rivelato, ma inventato da un poeta, convengono né più
né meno.
Più notabile, per un altro riguardo, è ciò che dice poco dopo:
«Quelli che prendono i cominciamenti d'un'arte per i princìpi dell'arte
medesima, sono persuasi che un poema non potrebbe stare senza divinità,
perché l'Iliade n'è piena. Ma queste divinità sono così poco essenziali al
poema, che il passo più bello che si trovi nella Farsalia, e forse in
qualunque poema, è il discorso col quale Catone, quello stoico odiatore
delle favole, rifiuta sdegnosamente di visitare il tempio di Giove Ammone.»
Ognuno vede qual sia la forza di questo ragionamento: si potevano dire delle
bellissime cose in disprezzo del politeismo, dunque il poema può stare senza
il maraviglioso. Ma ciò che volevamo notare particolarmente, è quel
riguardare l'epopea storica, non solo come una continuazione (era l'opinione
comune), ma come un progresso dell'epopea primitiva, essenzialmente mitica.
Come se quella che voleva esser la storia, e ch'era infatti presa per
storia, e quella che, senza ottenere né chieder fede, contraffà una storia,
fossero la stessa arte, perché la seconda ha imitate delle forme estrinseche
della prima. Sarebbe un'arte di novo genere quella che, cominciata senza
princìpi, li trovasse poi col cambiar l'intento e l'effetto, conservando
delle forme estrinseche. E non sempre ciò che vien dopo è progresso.
C'è un'altra specie d'epopee, nelle quali può parere a prima vista, che il
soprannaturale sia a suo luogo; cioè quelle i di cui soggetti sono presi
dalla Storia sacra. Ma basta questo per far riflettere che soggiacciono
anch'esse, quantunque in un'altra maniera, allo stesso inconveniente
dell'altre. Sono rifacimenti d'una storia; e storia nel senso più stretto, e
più sdegnoso. Non è il soprannaturale intruso nel soggetto; ma è
l'invenzione intrusa nel soprannaturale. Un, direi quasi, istinto rispettoso
e sommamente ragionevole ci avverte che, nelle manifestazioni straordinarie
della volontà e della potenza divina, la mente umana non arriva a trovare
una regola del verosimile, come la trova nel corso naturale delle cose, e
nelle determinazioni della volontà umana. Gli squarci mirabili che si
trovano nel Paradiso Perduto, e la virtù poetica che ci si fa sentire quasi
per tutto, non possono fare che non produca l'effetto d'un'interpolazione
perpetua. E anche la Messiade ha de' pregi non volgari, e singolarmente
quell'unione non infrequente del tenero e del sublime, che produce una
commozione indistinta, e tanto più gradevole. Ma è un soggetto, quanto
inesauribilmente fecondo d'applicazioni, altrettanto inaccessibile alle
aggiunte.
Termino qui questi cenni sull'epopea, per passare alla tragedia; intorno
alla quale avrò ancora meno a trattenermi. E s'intende che non si tratterà
se non della tragedia storica, e in quanto storica.
Gl'inconvenienti che nascono in essa da ciò, differiscono e nel modo e nel
grado, da quelli dell'epopea, per cagione d'una differenza essenziale nella
forma de' due componimenti. La tragedia non adopra, come l'epopea, un
istrumento medesimo e per la storia e per l'invenzione, quale è il racconto.
La parola della tragedia non ha altra materia, dirò così, immediata, che il
verosimile. I discorsi che lo Shakespeare, il Corneille, il Voltaire,
l'Alfieri, mettono in bocca a Cesare, è tutta fattura poetica, l'azioni che
Lucano racconta di Cesare, possono essere o inventate o positive. Quindi,
nel poema la parola può produrre, ora un effetto poetico, ora un effetto
storico; o, non riuscendo a produrre né l'uno né l'altro, rimanere ambigua.
Nella tragedia è sempre la poesia che parla; la storia se ne sta
materialmente di fuori. Ha una relazione col componimento, ma non ne è una
parte35.
La rappresentazione scenica poi accresce non poco l'efficacia della parola,
aggiungendoci l'uomo e l'azione. E qui fa al nostro proposito l'osservare
(cosa, del resto, degna d'osservazione anche per sé) come questi oggetti
presenti al senso, non solo non disturbino, con l'impressione della loro
realtà, l'effetto della verosimiglianza pura voluto dall'arte, ma lo
secondino e lo rinforzino. La ragione è che tali realtà non operano che come
meri istrumenti dell'azione verosimile, e come tali le prende lo spettatore.
Infatti, se un attore, nell'atto della rappresentazione, fa o dice qualche
cosa che si riferisca alla sua persona reale o alle circostanze di essa,
offende lo spettatore, trasportandolo alla considerazione di quella realtà.
E cosa vuol dire questo avvedersene ed esserne offesi, se non che prima se
ne faceva astrazione? E di qui viene che quanto più un attore par che faccia
naturalmente, e quanto più commove, tanto più concentra la mente dello
spettatore nel mero verosimile; quanto più gli rende presente l'uomo della
favola, l'uomo o colpito dalla sventura, o accecato dalla passione, o
minacciato da un pericolo ignoto a lui, tanto più gli sottrae, per dir così,
e gli fa scomparir davanti la sua propria e reale personalità. Ed è la
massima lode che si dia a un attore: era ciò che si voleva dire quando si
diceva, per esempio, che Garrick era Hamlet, che Lekain era Orosmane. Non è
la realtà presente, ma ordinata e subordinata al verosimile, quella che ne
possa disturbar l'effetto; è la realtà storica, indipendente dal verosimile,
e dalla quale il verosimile deve dipendere; la realtà storica, conosciuta o
anche semplicemente conoscibile, e assente bensì dal senso, ma compenetrata
col soggetto.
Il vantaggio essenziale della forma, quest'altro vantaggio secondario, ma
considerabile, e altri ancora più secondari, che non importa qui di
rammentare, fanno che la tragedia possa, meglio del poema epico, schermirsi
dalla storia.
Ma ho detto schermirsi, e aggiungo: cedendo sempre qualcosa, perché, anche
da fuori, la storia riesce a farsi sentire, e a far valere le sue
pretensioni. La relazione estrinseca, ma essenziale, che la tragedia storica
ha con essa; e l'obbligo che ne nasce di trovare de' verosimili che siano
tali relativamente al soggetto preso dalla storia, doveva produrre, e ha
prodotti nella tragedia i medesimi inconvenienti, che nell'epopea: meno
frequenti e meno sensibili, è vero; ma ugualmente crescenti con l'andar del
tempo. E a metterli in chiaro, nulla potrebbe servir meglio degli argomenti
ai quali è dovuto ricorrere un gran tragico, per veder di levarli.
«La questione» dice Pietro Corneille, «se sia lecito far de' cambiamenti ai
soggetti presi o dalla storia o dalla favola, pare decisa in termini
abbastanza formali` da Aristotele, quando dice che non si devono cambiare i
soggetti ricevuti, e che Clitennestra dev'essere uccisa da Oreste, e Erifile
da Alcmeone. Questa sentenza però può ammettere qualche distinzione e
qualche temperamento. È certo che le circostanze, o, se par meglio, i mezzi
d'arrivare ai fatto rimangono in nostro arbitrio: la storia spesso non ce li
dà, o ne dà così poco, che è necessario di supplir con dell'altro, per
render compito il poema, e si può anche presumere con qualche apparenza, che
la memoria dello spettatore, il quale abbia lette altra volta queste
circostanze, non l'avrà ritenute così fortemente, da farlo avvedere del
cambiamento, abbastanza per accusarci di menzogna, come farebbe senza
dubbio, se ci vedesse cambiare l'azione principale.»
Così, mentre la tragedia antica si fondava sulla cognizione che lo
spettatore doveva aver de' soggetti, la moderna è costretta a fare
assegnamento sulla dimenticanza.
Aiuto infelice; giacché non pare che deva esser bon segno in un'arte l'aver
paura della cognizione. E aiuto, non solo incerto, ma precario; giacché se
lo spettatore che aveva dimenticate le circostanze storiche del soggetto, e
poté quindi, alla prima recita, godersi senza disturbo l'invenzioni
poetiche; se, dico, uscendo dal teatro con un novo interessamento per quel
soggetto, va a rinfrescarsi la memoria nel libro dove aveva lette quelle
circostanze, non sarà più, alla seconda rappresentazione, lo smemorato che
conveniva al poeta. Aiuto, finalmente, ricorrendo al quale, il Corneille
contradice sé stesso; giacché, se le circostanze rimangono nell'arbitrio del
poeta, cos'importa che lo spettatore si rammenti o non si rammenti quelle
della storia? Ma che? il Corneille medesimo, nell'Esame che aggiunse a' suoi
componimenti, tocca più d'una volta l'alterazioni da lui fatte alla storia,
e, per giustificarle, o anche per accusarsene candidamente, le manifesta; e
leva così di sotto alla tragedia storica quella povera gruccia della
dimenticanza altrui, che le aveva data. Darne di tali a un'arte, è un
confessare che è diventata zoppa, e dargliele un Pietro Corneille, è un
terribile indizio che non ci sia più il verso di rimetterla su' suoi piedi.
Ma perché ebbe egli bisogno di cercar delle distinzioni in un precetto così
semplice, de' temperamenti per un precetto così discreto? Perché il precetto
riguardava una cosa, e il Corneille, seguendo una consuetudine già invalsa,
l'applicava anche a un'altra cosa, e diversissima. Aristotele parla delle
favole ricevute36, e di queste dice che non si devono alterare; il Corneille
paria di soggetti presi o dalla storia, o dalla favola, come se fosse tutt'uno.
Ora, applicato alle favole ricevute, il precetto non ha bisogno né di
temperamenti, né di distinzioni, poiché quelle non davano, né imponevano
altro al poeta, che appunto l'azione principale: Clitennestra uccisa da
Oreste, Erifile da Alcmeone. I mezzi e le circostanze rimanevano davvero
nell'arbitrio de' poeti. La storia in vece dà, insieme co' soggetti, anche
de' mezzi e delle circostanze, che possono non accomodarsi con l'intento
dell'arte. Quindi il bisogno di cambiarle, val a dire d'alterare i soggetti
coi quali sono, per dir così, immedesimate. Che se la storia non le dà, le
lascia desiderare; ma ciò non vuoi dire che un tal desiderio possa essere
appagato col mezzo dell'invenzione poetica.
«L'esempio della morte di Clitennestra», aggiunge il Corneille, «può servir
di prova alla mia proposizione. Sofocle e Euripide l'hanno trattata tutt'e
due, ma con un intreccio e con uno scioglimento differente; e questa
differenza fa che il dramma non è lo stesso, quantunque sia uno solo il
soggetto, del quale i due poeti hanno conservata l'azione principale.»
E per far questo, ebbero forse bisogno di temperare il precetto? Neppur per
idea: l'eseguirono a un puntino, facendo l'uno e l'altro morir Clitennestra
per mano d'Oreste; giacché il precetto non richiede nulla di più. O
piuttosto prevennero un precetto indicato alla pratica dalle convenienze
dell'arte, prima che Aristotele lo promulgasse. E questo potere ognuno
inventare, senza inconvenienti, un intreccio e uno scioglimento a modo suo,
veniva dal non avere ognuno contro di sé, se non altri intrecci, e altre
maniere di scioglimenti. Erano poeti contro poeti, verosimili contro
verosimili, non legati ad altro che a fatti e a caratteri, tanto più fecondi
per l'invenzione, quanto più digiuni di circostanze obbligate. L'inventarne
di nove non era una licenza che i poeti dovessero prendersi; era
l'operazione propria della poesia. E a un bisogno l'attesterebbe Aristotele
stesso, il quale aggiunge subito: «Tocca poi al poeta a inventare, e a far
buon uso delle (favole) ricevute». Dà come una conseguenza naturale del
precetto ciò che il Corneille chiede come un temperamento. E quel precetto
era in sostanza il medesimo che fu poi espresso da Orazio con le parole:
famam sequere37.
Del resto, né i temperamenti forzati del Corneille, né i suoi sempre
ammirabili capolavori poterono sottrarre la tragedia alle sue perpetue
variazioni, e costituirla, per ciò che riguarda le sue relazioni con la
storia, in una forma stabile e definitiva.
Per nostra fortuna, o paziente lettore, non c'è bisogno di ripassare tutte
quelle variazioni, nemmeno di corsa, come s'è fatto con l'epopea. Qui
basterà accennare il fatto attuale, e le sue cagioni prossime. Del tempo
intermedio non voglio rammentare altro che una variazione estrinseca, e che
non toccava l'essenza stessa della tragedia; ma molto significante. Poco
dopo la metà del secolo scorso, non so se un attore o un'attrice francese
introdusse una riforma generale nel vestiario, rendendolo conforme all'uso
del tempo in cui era finta l'azione. Prima dipendeva, in parte dalla moda
corrente, in parte dal capriccio dell'attore, in parte da consuetudini che
avevano quelle stesse origini; e ci poteva essere, per un di più, un qualche
segno caratteristico, desunto dalla storia. Il Voltaire, non mi rammento in
qual luogo, descrive l'attore che, nel secolo di Luigi XIV, rappresentava
Augusto nel Cinna, con una gran parrucca, e sopra di questa un gran cappello
a gran penne, e le penne lardellate di foglie d'alloro: il rimanente su quel
gusto. Ma cosa voleva dir questo? Che gli spettatori erano più disposti di
quello che furono poi, a veder nell'attore l'Augusto del poeta, l'Augusto
verosimile, senza darsi tanto pensiero dell'Augusto reale della storia.
L'introdursi questa fino nelle quinte a sindacare gli attori, ministri nati
della poesia, e costringerli a prender le sue divise, era un segno del
possesso ch'era andata sempre prendendo sulla tragedia, e un indizio del
maggior possesso, che ci voleva prendere.
Infatti, non tardò molto a principiare la rivoluzione drammatica, che
vediamo ora vittoriosa. Era allora sentimento quasi unanime de' dotti e
delle colte persone d'Europa, che la vera, la bona tragedia, quella che
potesse soddisfare il bon gusto, e essere ammessa dal bon senso, era la
tragedia nella quale fossero mantenute le così dette unità di tempo e di
luogo. Unità, si diceva, proclamate da Aristotele, osservate fedelmente
nelle tragedie greche, e soprattutto volute dalla ragione. Se poi Aristotele
avesse proposte davvero queste unità; se nelle tragedie greche fossero
davvero state osservate; se la ragione non avesse nulla a dire in contrario,
non si cercava quasi da nessuno; e a chi ne cercasse, si dava sulla voce38.
È inutile aggiungere che alla storia quelle regole non convenivano punto. E
i tentativi che aveva fatti fino allora, e che andava facendo, per prendere
un maggior posto nella tragedia, ottenevano bensì qualcosa: la tragedia, a
costo anche di storpiarsi, faceva il possibile, per contentar la storia, ma
salve le regole. Si parlava bensì d'un tal Shakespeare, che, o non
curandole, o non sapendo neppure che ci fossero, era riuscito a far qualcosa
da non esser buttato via. Ma se ne parlava come d'un genio selvaggio, d'un
capo strano, con de' lucidi intervalli stupendi: una specie di montagna
arida e scoscesa, dove un botanico, arrampicandosi per de' massi ignudi,
poteva trovare un qualche fiore non comune. E, del resto, le cose che si
citavano di quel grande e quasi unico poeta, erano cavate da que' suoi
drammi ne' quali la storia ha meno parte, o non ce n'ha nessuna. Ecco però,
che in Germania salta fuori un altro tale, chiamato Goethe, il quale,
entrando nella strada del dramma storico, segnata dal genio selvaggio e
entrandoci, come accade ai grandi ingegni, senza intenzione e senza paura
d'imitare, fa, da' suoi primi passi, prevalere presso la sua nazione la
ragione della storia a quella delle due unità. Ma nella Francia, superba, da
un pezzo, di poeti che avevano tenuta l'altra strada; nell'Italia, superba
d'uno recente era un'altra faccenda. Come! si diceva: le regole alle quali
si sono assoggettati un Corneille, un Racine, un Voltaire, un Alfieri, senza
parlare degli autori della Merope e dell'Aristodemo, parranno ora un freno
incomodo all'ingegno, un ostacolo alla perfezione! Il campo dov'essi hanno
fatte le loro gran prove, sarà diventato angusto! Proporre l'abolizione di
quelle regole pareva, non so se più una temerità da non tollerarsi, o una
sciocchezza da compatirsi. Ma che? la storia, per fare nella tragedia quella
grande irruzione che s'era fissata di fare, aveva proprio bisogno
d'abbattere quel baluardo e l'abbattè. In Francia, non ne parliamo, e anche
in Italia, da quello che sento, lo spettatore non ci patisce, e non si
chiama offeso se, nel corso d'una tragedia, vede alzarsi una scena e venir
giù un'altra, e se, in quelle tre o quattr'ore di seduta, il poeta pretende
di fargli passare davanti alla mente più di quel benedetto giro di sole,
nominato così innocentemente da Aristotele.
E si veda come una cosa tenuta indietro per forza, si ricatti, quando gli
riesce finalmente di venire avanti. Fino allora i soggetti che nella storia
fossero meno particolarizzati, erano parsi i più opportuni alla tragedia,
come quelli che lasciavano più campo all'invenzione. Se la storia tace,
diceva il poeta, tanto meglio: parlerò io. Ora in vece sono i poeti che,
quando i particolari mancano nelle storie propriamente dette, vanno a
cercarne in altri documenti, di qualunque genere, affine d'arricchire il
soggetto, anzi di formarlo. Ben contenti se riescono a dare del fatto
storico da essi rappresentato, un concetto più compito, più contenti ancora,
se riescono a darne un concetto novo, e diverso dall'opinione comune. È
appunto il contrario del famam sequere; ma come poteva essere altrimenti? È
una pretensione troppo contradittoria, il volere che la poesia, per essere
efficace, non stia indietro delle cognizioni del tempo, ne secondi, anzi ne
prevenga le tendenze ragionevoli, e che non se ne faccia carico, per rimaner
più libera.
Accennato il fatto, non mi resta che a fare alcune domande:
C'è egli qualcheduno il quale creda che la tragedia possa tornare a mettersi
negli antichi confini, e far di novo a confidenza con la storia, come ha
fatto per tanto tempo? O crede qualchedun altro, che, con l'allargare i
confini, si sia trovata finalmente la giusta misura della parte che la
storia deva avere nella tragedia, e la vera maniera di comporla con
l'invenzione? E se ciò non si crede, c'è qualche ragione di credere che
questa misura e questa maniera si possano trovare in avvenire?
Risponda e concluda il lettore.
Venendo finalmente al paragone tra l'assunto comune all'epopea e alla
tragedia, e l'assunto del romanzo storico, è facile vedere che la differenza
essenziale sta in questo, che il romanzo storico non prende il soggetto
principale dalla storia, per trasformarlo con un intento poetico, ma
l'inventa, come il componimento dal quale ha preso il nome, e del quale è
una nova forma. Voglio dire il romanzo nel quale si fingono azioni
contemporanee: opera affatto poetica, poiché, in essa, e fatti e discorsi
tutto è meramente verosimile. Poetica però, intendiamoci, di quella povera
poesia che può uscire dal verosimile di fatti e di costumi privati e
moderni, e collocarsi nella prosa. Con che non intendo certamente d'unirmi a
quelli che piangono, o che piangevano (giacché la dovrebb'esser finita)
quelle età così poetiche del gentilesimo, quelle belle illusioni perdute per
sempre. Ciò che ci fa differenti in questo dagli uomini di quelle età, è
l'aver noi una critica storica che, ne' fatti passati, cerca la verità di
fatto, e, ciò che importa troppo più, l'avere una religione che, essendo
verità, non può convenientemente adattarsi a variazioni arbitrarie, e ad
aggiunte fantastiche. È di questo che ci dovremo lamentare?
Ho detto: differenza essenziale; infatti, non è, come nell'epopea e nella
tragedia (il rispetto dovuto agli uomini celebri, che hanno dato del loro
alla cosa, non deve impedire di qualificar la cosa medesima), non è quella
finzione grossolana, che consiste nell'infarcir di favole un avvenimento
vero, e di più un avvenimento illustre, e perciò necessariamente importante.
Nel romanzo storico, il soggetto principale è tutto dell'autore, tutto
poetico, perché meramente verosimile. E l'intento e lo studio dell'autore è
di rendere, per quanto può, e il soggetto, e tutta l'azione, tanto
verosimile relativamente al tempo in cui è finta, che fosse potuta parer
tale agli uomini di quel tempo, se il romanzo fosse stato scritto per loro.
Ma (e qui è l'inconveniente comune al romanzo storico con tutte le specie di
poesia che inventano sopra un tempo passato) è scritto per degli altri.
Mettiamo pure, che all'autore sia riuscito di comporre un racconto che agli
uomini di quel tempo sarebbe parso verosimile. Un tale effetto sarebbe
allora venuto dai confronto spontaneo e immediato, tra il generale ideato
dall'autore, e il reale ch'essi conoscevano per esperienza; mentre, per
produrlo in uomini d'un altro tempo, l'autore è ridotto a cercar di supplire
all'esperienza con l'informazione, e di mettere, dirò così, in una sola
composizione, l'originale e il ritratto. Non c'è il contrasto diretto tra il
vero e il verosimile; e è senza dubbio un gran vantaggio; ma c'è ugualmente
o la confusione dell'uno con l'altro, o la distinzione tra di essi. Anzi
c'è, in proporzioni variabilissime, ma inevitabilmente, e confusione e
distinzione, come s'è dimostrato, forse più del bisogno, nella prima parte
di questo scritto.
Non c'è però da maravigliarsi che, durando la persuasione che la storia e
l'invenzione potessero star bene insieme, sia venuto a un uomo di bellissimo
ingegno il pensiero di comporli in una forma nova e più speciosa, e che dava
luogo a una molto maggiore abbondanza e varietà di materiali storici. E c'è
ancora meno da maravigliarsi che, messa in atto da quell'ingegno così
immaginoso, e così osservatore, così fecondo e così penetrante, la cosa
abbia prodotto nel pubblico di tutti i paesi colti quell'effetto
straordinario che ognuno sa.
Ma basterà quel vantaggio per assicurare al romanzo storico almeno una lunga
vita?
È una domanda poco allegra per chi gli vuoi bene. Nelle cose abusive, le
correzioni vivono alle volte meno dell'abuso; e non c'è per l'errore nessun
posto più incomodo, e dove possa meno fermarsi, che vicino alla verità. Non
si può dissimulare che ciò che acquistò nel primo momento più favore a un
tal componimento, fu appunto quell'apparenza di storia, cioè un'apparenza
che non può durar molto. Quante volte è stato detto, e anche scritto, che i
romanzi di Walter Scott erano più veri della storia! Ma sono di quelle
parole che scappano a un primo entusiasmo, e non si ripetono più dopo una
prima riflessione. Infatti, se per storia s'intendevano materialmente i
libri che ne portano il titolo, quel detto non concludeva nulla; se per
storia s'intendeva la cognizione possibile di fatti e di costumi, era
apertamente falso. Per convincersene subito, sarebbe bastato (ma non sono
cose a cui si pensi subito) domandare a se stessi, se il concetto de'
diversi romanzi di Walter Scott era più vero del concetto sul quale gli
aveva ideati. Era bensì un concetto più vasto, ma a condizione d'essere meno
storico. C'era aggiunto un altro vero, ma di diversa natura; e perciò
appunto il concetto complessivo non era più vero. Un gran poeta e un gran
storico possono trovarsi, senza far confusione, nell'uomo medesimo, ma non
nel medesimo componimento. Anzi, quelle due critiche opposte, che ci hanno
dato il filo per fare il processo al romanzo storico, erano già spuntate ne'
primi momenti, e in mezzo alla voga, come germi di malattie mortali avvenire
in un bambino di floridissimo aspetto. E la voga, si mantiene poi sempre
uguale? C'è la stessa voglia di far romanzi storici, e la stessa voglia di
leggere quelli che sono già fatti? Non so; ma non posso lasciar
d'immaginarmi che, se questo scritto fosse venuto fuori un trent'anni fa,
quando il mondo aspettava ansiosamente, e divorava avidamente i romanzi di
Walter Scott, sarebbe parso stravagante e temerario, anche riguardo al
romanzo storico; e che ora, se qualcheduno avrà la bontà d'occuparsene
abbastanza per dargli questi titoli, sarà per tutt'altro. E trent'anni
dovrebbero essere un niente per una forma dell'arte, che fosse destinata a
vivere.