PRIMA LETTERA AI CORINTI


Traduzione e commento esegetico e teologico

a cura di Giovanni Lonardi

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Preambolo

Per poter comprendere in tutta la sua profondità anche una sola lettera di Paolo è indispensabile conoscere chi è Paolo, poiché quando egli scrive trasfonde in quella lettera non solo il suo pensiero, ma tutto se stesso, così che non c'è distinzione tra il pensiero di Paolo e i suoi sentimenti, la sua emotività, la sua umoralità, la sua passionalità, la sua veemenza, che rasenta il fanatismo, cioè l'assolutizzazione della sua profonda passione per Cristo, che non conosce ostacoli e sfida ogni pericolo e ogni limite imposto dalla ragionevolezza umana. Le sue lettere, infatti, non sono dei freddi e razionali trattatelli di cristologia o di teologia, ma strumenti attraverso i quali Paolo si rende presente con tutto se stesso presso la comunità, a cui egli indirizza la sua lettera. Le sue lettere pulsano della vita stessa di Paolo, che definire un appassionato del Cristo risorto sarebbe alquanto riduttivo. Lo potremmo definire come un veemente e indomabile fanatico del Cristo risorto, per il quale sopporta ogni sofferenza e peripezia (Rm 8,35-39; 2Cor 11,23-27) e attraverso il quale egli vede e legge la realtà che lo circonda e la vita stessa in tutte le sue espressioni. Tutti i problemi che egli è chiamato ad affrontare all'interno delle comunità da lui fondate sono approcciati e risolti attraverso e nel Cristo risorto. E tutto ciò è possibile perché tra Paolo e Cristo vi è una sovrapposizione di persone, che arriva ad essere una identificazione. Significative e rivelatrici in tal senso sono le sue affermazioni con cui egli definisce se stesso: “Sono stato crocifisso con Cristo: ora non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,19b-20a); e, similmente, in modo più lapidario e incisivo: “Per me il vivere è Cristo” (Fil 1,21a). Qui c'è tutto Paolo.

Di seguito, pertanto, prima di introdurci alla lettura esegetica e al commento della Prima Lettera ai Corinti, cercherò di tratteggiare sinteticamente la figura di Paolo, la sua personalità, la sua esperienza con il Cristo risorto, la sua strategia missionaria, il suo pensiero, che sottende, qua e là, le sue lettere. Tutti elementi necessari per comprenderle.

Note generali su Paolo

Dopo Gesù, Paolo è l’apostolo che maggiormente ha influenzato il pensiero cristiano; per alcuni è considerato il “fondatore del cristianesimo”, nel senso che il cristianesimo con Paolo uscì dai ristretti confini di Gerusalemme e della Palestina, staccandosi nettamente dal giudaismo ed aprendosi, invece, all’intero mondo dei Gentili, che costituiranno per Paolo un privilegiato terreno di conquista e di lavoro (Gal 2,7-9; Rm 1,5; 15,15-19).

Questa, infatti, è la specifica vocazione di Paolo, che egli stesso evidenzia in Gal 2,7-8: “ma per questo, avendo visto che mi fu affidato il vangelo dell'incirconcisione come Pietro (quello) della circoncisione, colui, infatti, che aveva operato in Pietro per l'apostolato della circoncisione operò anche in me per le genti”. E sarà proprio su questo terreno dei Gentili che Paolo dovrà scontrarsi con i giudeocristiani, che sostenevano la necessità di sottomettersi alla Legge di Mosè, tramite la circoncisione, per accedere alla salvezza in Cristo.

Un duro scontro questo, che farà soffrire non poco Paolo e che porterà al primo concilio della storia, quello di Gerusalemme nel 49 d.C., ricordato in At.15,1-33 e in Gal.2,1-10.

Egli è l’unico apostolo di cui abbiamo molta documentazione ed è il più commentato e conosciuto autore del N.T. Di lui o della sua scuola di pensiero si hanno complessivamente tredici lettere e numerosi riferimenti autobiografici, nonché ben 20 capitoli, che Luca dedica a Paolo e alla sua attività negli Atti degli Apostoli (capp.8-28). Neppure Pietro e Giacomo, che erano ritenute le colonne della chiesa di Gerusalemme (Gal 2,9), ebbero tanta risonanza. Di loro o comunque a loro attribuite ci sono rimaste soltanto due lettere di Pietro e una di Giacomo per complessivi 274 versetti.

Notevole il peso di Paolo e della sua scuola di pensiero, basti pensare che su 7957 versetti, che compongono l'intero Nuovo Testamento canonico, ben 20331 sono di Paolo o di scuola paolina, cioè il 25,55% dell'intero canone neotestamentario; mentre dei 27 libri di cui è composto il N.T. 13, quindi quasi il 50%, sono lettere di Paolo o di scuola paolina. Ma ciò che più lo contraddistingue è la profondità, la potenza e l'originalità di pensiero della sua teologia e della sua cristologia; nonché, da un punto di vista storico, le notizie che, tramite le sue lettere, ci pervengono circa la struttura, la vita e i problemi delle prime comunità credenti, cioè della chiesa nascente. Così che potremmo affermare, senza ombra di dubbio, che senza la persona di Paolo e della sua opera letteraria oggi il cristianesimo non avrebbe raggiunto la profondità del suo pensiero teologico e cristologico e probabilmente sarebbe stato fagocitato dal giudaismo o, quanto meno, avrebbe perso molto della sua originalità.

Una teologia e una cristologia quelle di Paolo del tutto originali e inedite. Basti pensare che, allorché Paolo scrive le sue lettere, tutte tra il 50 e il 60 d.C., i vangeli non erano stati ancora scritti. Il primo, quello di Marco, verrà composto tra il 65 e il 69 d.C., e Paolo, per primo, introdurrà le espressioni “vangelo” e “evangelizzare”, che ritroviamo nelle sue lettere, il primo, per ben 60 volte e 21 volte il secondo. Ed è sempre lui, per primo, a definire la sua predicazione come “il mio vangelo” (Rm. 2,16; 2Tm 2,8). Egli poi introdurrà nuovi termini e nuovi verbi, quindi, un nuovo vocabolario e un nuovo linguaggio per esprimere la novità dell'evento Cristo morto-risorto in quanto tale e in rapporto ai credenti.

Tuttavia le novità che Paolo predica non sono frutto di fantasia, ma si radicano nella fede, che egli ha acquisito e maturato presso le comunità credenti, che ruotavano attorno alle aree di Gerusalemme, Damasco ed Antiochia, dove rimarrà per una decina d'anni dopo l'evento di Damasco (circa 35 d.C.), prima di intraprendere i suoi viaggi missionari (45-57 d.C.), e delle quali riporta sovente nelle sue lettere formule di fede, kerigmatiche, inni, testi liturgici che egli non si è inventato, ma che ha ricevuto come eredità di fede da queste comunità. Una fede, quindi, non improvvisata o inventata, ma che si radica in quella delle comunità credenti e, quindi, della Tradizione. Lo ricorderà due volte in 1Cor 11,23: “Io, infatti, ho ricevuto dal Signore2 quello che a mia volta vi ho trasmesso”; e similmente in 1Cor 15,3: “Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto”. Ma ciò che Paolo trasmette non è una ripetizione meccanica e pedissequa di formule dottrinali, ma il tutto passa attraverso il potente filtro del suo pensiero innovativo e della sua esperienza del Cristo risorto. Paolo, dunque, riflette su quanto ha ricevuto e lo elabora personalmente, adattandolo alle varie situazioni delle comunità, che gli si presentano di volta in volta.

Le sue lettere, pertanto, scritte tutte tra il 50 e il 60, si presentano come delle risposte scritte a degli interrogativi posti dalle varie comunità o a loro problematiche interne. Lettere, quindi, occasionali. Di conseguenza la sua teologia e cristologia non si presentano come dei trattati dottrinali stesi a tavolino, ma nascono da situazioni contingenti e in risposta ai problemi posti dalle singole comunità.

Il linguaggio dei suoi scritti, pertanto, è caratterizzato dall’immediatezza, dalla spontaneità, dalla vivacità di espressione, che talvolta si carica di sentimenti forti e di emozioni violente, fino a sfociare nell’insulto verso i suoi detrattori. Ma questo modo di procedere pone dei limiti: infatti, non sempre conosciamo le circostanze che hanno prodotto le risposte di Paolo; del resto non era necessario che le precisasse in quanto erano ben conosciute dalle comunità interessate.

La profondità, la ricchezza, la complessità del pensiero di Paolo e il suo lungo periodare non sempre giocano a favore della sua chiarezza e della sua immediata comprensione. Ne dà testimonianza in tal senso l’autore della seconda lettera di Pietro: “… come anche il nostro carissimo fratello Paolo vi ha scritto, secondo la sapienza che gli è stata data; così egli fa in tutte le lettere. In esse ci sono alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli instabili le travisano, al pari delle altre Scritture, per loro propria rovina” (2Pt. 3,15-16).

Tuttavia, questa lettera, di autore anonimo, databile tra il 120 e 135 d.C. circa, ci dà delle informazioni interessanti intorno agli scritti paolini e precisamente afferma che:

Ed è proprio per questa complessità di un pensiero innovativo, creativo e dirompente che Paolo trova lungo il suo cammino di evangelizzazione numerosi avversari e detrattori, che formano una sorta di fronte antipaolino, una specie di task-force di contro-evangelizzazione, formata prevalentemente da giudeocristiani giudaizzanti, cioè da cristiani provenienti dal giudaismo, ma che, non avendo ancora compreso la novità dell'evento Cristo, continuavano a praticare la Legge mosaica e a predicare la necessità della circoncisione per poter accedere alla salvezza, subordinando in tal modo la novità dell'evento Cristo a Mosè. Ne troviamo traccia in 2Cor11,13-15.22-23; 12,11; Gal 1,6-7; Fil 3,2.18; Rm 16,17-18; Col 2,8.

Questioni introduttive alla biografia paolina

A) Le fonti

Paolo, tra tutti i personaggi che si muovono nel N.T., è quello che storicamente ci offre una maggiore ricchezza di dati sia perché numerosi sono gli agganci storico-geografici che possiamo rilevare dai testi in nostro possesso, sia perché l’attività missionaria di Paolo fu piuttosto lunga e soprattutto straordinariamente densa (45-57 d.C.).

Due sono i pilastri fondamentali, che ci offrono il maggior numero di dati biografici di Paolo: da un lato, le sue Lettere, benché il quadro cronologico che ne risulta sia scarso e frammentario; dall'altro, gli Atti degli Apostoli, l'opera lucana che dedica ben 20 capitoli su 28, di cui e composta, alla figura di Paolo e alle sue imprese missionarie. Luca, tuttavia, per la sua opera usa fonti di seconda e terza mano, per cui non sempre i dati fornitici direttamente da Paolo coincidono esattamente da quelli offertici da Luca. In tal caso, la preferenza va sempre accordata alla testimonianza di Paolo. Vanno poi tenuti presenti gli intenti narrativi di Luca, che nel raccontare gli inizi della storia della chiesa, mostra maggiori interessi per gli aspetti teologici che biografici. In altri termini, Luca è si uno storico come egli reclama di essere nel suo prologo al vangelo (Lc 1,1-4), ma è uno storico interessato.

Tuttavia, da una prudente combinazione di questi Scritti, integrati da altre fonti storiche esterne, possiamo stilare, con discreta certezza, un quadro biografico abbastanza soddisfacente, in particolar modo per quello che va dall'evento di Damasco fino all'arrivo a Roma di Paolo come prigioniero. Rimangono fuori dal quadro biografico il periodo antecedente la sua conversione, al di là di qualche cenno, fornitoci in parte dagli Atti e in parte dallo stesso Paolo, e quello dei due anni successivi al suo arrivo a Roma, di cui si possono fare solo delle ipotesi.

B) I cardini della cronologia paolina

Benché la questione sulla cronologia sia un problema di difficile soluzione per la lacunosità delle fonti, tuttavia vi sono negli scritti di Paolo, in particolare nella Lettera ai Galati 1,11-2,14 e negli Atti degli Apostoli, dei punti di riferimento storici certi, ragionando sui quali si può ottenere, con discreta precisione una soddisfacente cronologia della vita di Paolo.

Primo testo

2Cor. 11,32-33: “A Damasco, il governatore del re Areta montava la guardia alla città dei Damasceni per catturarmi, ma da una finestra fui calato per il muro in una cesta e così fuggii dalle sue mani”.

Il re qui menzionato è Areta IV, monarca del regno dei Nabatei, che governò dal 9 al 39 d.C. e al quale Caligola (37-41 d.C.) affidò il controllo, almeno parziale, della città di Damasco, inglobata nella provincia romana di Siria, per il periodo 37-39 d.C. Pertanto questa fuga di Paolo, calato dalla finestra in una cesta per sfuggire al re Areta, avvenne in questo periodo, probabilmente nel 38 d.C., ossia dopo tre anni dalla conversione, avvenuta intorno al 35 d.C.

Secondo testo

Gal 1,13-2,14 in cui Paolo riporta le tappe fondamentali da prima della sua conversione fino all’anno 49 circa, anno in cui avvenne il primo concilio di Gerusalemme, il primo della storia della chiesa. Dopo la sua conversione, avvenuta nell'anno 35 d.C. e che egli legge alla maniera degli antichi profeti (Gal 1,15-16), mentre era diretto a Damasco, fu folgorato dall'incontro con il Cristo risorto. Rimane presso la comunità credente di Damasco per tre anni, durante i quali, compie, di sua iniziativa, un viaggio missionario in Arabia, facendo poi ritorno a Damasco (Gal 1,17).

Tre anni dopo (qui il dopo va sempre riferito al “dopo l'evento di Damasco”), quindi nel 38 d.C., fa la sua prima visita a Gerusalemme per conoscere i capi della chiesa madre, Pietro e Giacomo e vi rimane quindici giorni (Gal 1,18). Poi riprende la sua attività missionaria, sempre di sua iniziativa nelle regioni della Siria e della Cilicia (Gal 1,21)

Quattordici anni dopo l'evento di Damasco (35 d.C.), quindi nel 49 d.C., torna nuovamente a Gerusalemme, assieme a Barnaba e a Tito, per dirimere una questione di vitale importanza, a motivo della quale tutti i responsabili della chiesa di Gerusalemme, Pietro, Giacomo e Giovanni si ritrovarono assieme per prendere una decisione comune. La questione era se i pagani, convertiti alla fede in Cristo, dovessero essere circoncisi e, quindi, sottoposti alla Legge mosaica (Gal 2,1-10).

Terzo testo

At 18,1-2: “Dopo questi fatti Paolo lasciò Atene e si recò a Corinto. Qui trovò un Giudeo chiamato Aquila, oriundo del Ponto, arrivato poco prima dall'Italia con la moglie Priscilla, in seguito all'ordine di Claudio che allontanava da Roma tutti i Giudei. Paolo si recò da loro”.

Di questo decreto di Claudio (41-54) parla anche Svetonio nella sua opera “Vita dei Cesari” nella parte riferita a Claudio, il quale “Judeos assidue tumultuantes impulsore Chresto Roma expulit3.

La data di questo editto di espulsione è solitamente posta nel 49 d.C.

Quarto testo

At 18,12-17: “Mentre era proconsole dell’Acaia Gallione, i Giudei insorsero in massa contro Paolo…

Lucio Giunio Gallione, fratello di Seneca, era proconsole a Corinto tra il maggio del 51 e il maggio del 52. La data si ricava da un’iscrizione epigrafica trovata a Delfi nel 1905, che riporta il testo di una lettera di Claudio allo stesso Gallione. In questa lettera Claudio menziona di essere stato proclamato imperatore per la 26^ volta. Questa 26^ acclamazione ebbe luogo tra il gennaio e l’agosto del 52. Ora, poiché il proconsolato durava un anno a partire da aprile, il rescritto può essere giunto a Gallione o all’inizio o alla fine del suo proconsolato. Nel primo caso la data è 52-53 nel secondo caso, più probabile, tra il 51 e il 52. È, dunque, in questo periodo, probabilmente agli inizi del 52 che Paolo viene accusato davanti a Gallione.

L'episodio qui riportato concorda con il secondo viaggio missionario di Paolo (49-52 d.C.), che in quell'occasione visitò Filippi, Tessalonica, Atene e Corinto.

Deduzioni e tentativo di costruire una cronologia

Alla luce di questi quattro punti cronologici di riferimento e con l’aiuto di un certo ragionamento storico, si può tentare di stilare una cronologia paolina di massima. Ogni data qui proposta va, quindi, sempre accompagnata da un ”circa”:


Cenni biografici di Paolo

Sulla base della cronologia qui sopra ipotizzata e con l'aiuto delle due fonti a nostra disposizione, Lettere paoline e Atti degli Apostoli, cercherò di delineare alcuni cenni biografici di massima su Paolo.

Paolo nasce tra il 5 e 10 d.C. a Tarso, capoluogo della Cilicia, posta sul fiume Cidno, che collega il Mediterraneo con l’interno. Tarso è un importante centro commerciale e di cultura greca (At 22,39a).

Egli appartiene alla tribù di Beniamino, da cui uscì il primo re di Israele, Shaul, di cui assume il nome, grecizzato, poi, in Saulos e latinizzato in Paulus (At 13,9a).

Il triplice nome, ebraico, greco e romano stanno ad indicare le tre culture che si incrociano in Paolo, rendendolo un cosmopolita, e che si rifletteranno nelle sue lettere e nel suo annuncio.

La famiglia di Paolo proviene dalla diaspora e il padre, cittadino romano per acquisizione, trasmette al figlio la cittadinanza romana, di cui Paolo si avvarrà davanti al tribuno (At 22,24-28). Viene educato al rigore della Legge ebraica e, ancora adolescente, il padre lo invia a Gerusalemme per una più completa formazione nelle tradizioni dei padri. Suo maestro, qui, sarà, Gamaliele (At 22,3), discepolo di Hillel, capostipite della corrente giudaica più moderata e più aperta, che si contrapponeva a quella più rigorista e tradizionalista di Shammai.

È da pensare, pertanto, che Paolo abbia acquisito da Gamaliele un giudaismo più moderato ed aperto, benché, poi, il suo carattere impulsivo e passionale ne abbia accentuato ed esaltato i toni, divenendo un fariseo intransigente fino a spingersi a perseguitare attivamente i cristiani di Gerusalemme e a “votare la condanna a morte contro di loro”. Questo particolare (At 26,9-10) fa pensare che egli facesse parte del Sinedrio, che solo aveva il potere di deliberare le condanne a morte.

In questo contesto di fanatismo religioso, Paolo presenziò e condivise la lapidazione di Stefano avvenuta, probabilmente tra il 35 e il 36 (At 22,20).

Fu proprio in questo periodo che Paolo, diretto a Damasco per eseguire dei mandati di cattura contro i cristiani, viene folgorato dall’incontro con il Cristo risorto, che lo chiama a diventare “ministro e testimone delle cose che hai visto” (At 26,9-16). Un’esperienza questa che ha radicalmente sconvolto l’esistenza di Paolo e che Luca richiama nei suoi Atti per ben tre volte (At 9,1-30; 22,3-21; 26,9-20), benché Paolo non si riferisca spesso a questo episodio e quando lo fa (1Cor.15,5-8 e Gal. 1,12-17) è solo con una pallida allusione, quasi impercettibile.

Paolo visse questa esperienza del Cristo risorto come una chiamata (Gal 1,15-16), che produsse in lui un traumatico e radicale capovolgimento esistenziale, che lo portò ad una successiva maturazione della propria fede, inizialmente, all’interno della comunità credente di Damasco.

Infatti, Paolo inizierà il suo primo viaggio missionario nel 45. Fino ad allora egli rimane sostanzialmente in silenzio all’interno delle comunità di Damasco, Gerusalemme ed Antiochia, che diverrà poi, quest’ultima, la sua base logistica, da cui partirà per compiere i suoi viaggi missionari.

All’interno di queste comunità egli acquisirà gli elementi fondamentali della fede, che poi trasmetterà ai pagani. Egli stesso, infatti, in 1Cor 11,23 attesta: “Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso”, dove per “Signore” va inteso la comunità credente nel Signore e che si rifà alla tradizione fatta risalire al Signore stesso; e similmente in 1Cor 15,3 afferma che “Vi ho trasmesso, dunque, anzitutto quello che anch’io ho ricevuto”. Le sue stesse lettere, del resto, denunciano la sua dipendenza dalle comunità, che egli ha frequentato durante il decennio di silenzio, che ha preceduto i suoi tre viaggi missionari. In esse, infatti, vi sono riportate formule e professioni di fede, formule kerigmatiche, testi liturgici, inni e parenesi, che Paolo non si è inventato, ma che ha mutuato da queste comunità, dislocate nelle aree di Damasco, Gerusalemme ed Antiochia.

Dopo l’esperienza di Damasco Paolo si recherà subito in Arabia (Gal 1,17) e nella stessa Damasco annuncerà il Vangelo, ma sarà costretto a fuggire, calato in una cesta dalle mura della città (2Cor 11,32-33).

Trascorsi tre anni dalla sua conversione, siamo intorno all'anno 38 d.C., Paolo si reca a Gerusalemme, una prima volta, per un incontro con Pietro e Giacomo e qui vi rimane 15 giorni (Gal 1,18-19). E qui vi ritornerà, saltuariamente, a predicare il Vangelo, ma sarà costretto a fuggire perché gli ebrei lo vogliono uccidere (At 9,28-29). Dovrà fuggire, pertanto a Tarso, dove rimarrà in silenzio per alcuni anni (At 9,30).

Da qui sarà recuperato da Barnaba e condotto nella comunità di Antiochia, che diverrà la sua comunità di riferimento per tutta la sua attività missionaria e dove rimase un anno (At 11,25-26).

Dalla stessa comunità di Antiochia Paolo e Barnaba furono inviati in missione. (At 13,2-4). Siamo nel 45 d.C. Inizia così il primo viaggio missionario di Paolo che durerà fino al 48 d.C. (At 13,1-14,28). I punti toccati dai due furono: Cipro, Attalia, Perge, dove Marco, cugino di Barnaba, lascerà i due (At 13,13), Antiochia di Psidia, Iconio, Listra, Derbe, quindi il ritorno per le stesse località.

Al loro rientro Paolo e Barnaba trovano peggiorate le relazioni tra i giudeocristiani e gli etnococristiani al punto da creare una rilevante crisi all’interno della chiesa primitiva: Paolo e Barnaba non esigevano la sottomissione dei pagani convertiti alla circoncisione e, di conseguenza, alla Legge di Mosè; mentre i giudeocristiani, in particolare il gruppo che faceva a capo a Giacomo, richiedevano la circoncisione.

Il dissidio fu tale che si ritenne necessario un vertice a Gerusalemme tra i vari responsabili della chiesa madre. A tale incontro vennero inviati dalla comunità di Antiochia Paolo e Barnaba. Fu il primo concilio, che si tenne a Gerusalemme nel 49 (At 15,1-33; Gal 2,1-10) che chiarì, in linea di principio, la questione, ma non risolse di fatto il problema, sul quale Paolo tornerà nella sua lettera ai Galati.

Rientrati ad Antiochia, Paolo, ormai abbandonato anche da Barnaba (At 15,37-39), parte con Sila, suo nuovo compagno (At 15,40-41), per il suo secondo viaggio missionario, che durerà dal 49 al 52 (At 15,36-18,22) e risultò importante per la fondazione delle comunità cristiane in Grecia e nella Galazia.

Il percorso di questo viaggio portò Paolo lungo il cammino delle precedenti comunità (At 15,36), che aveva fondato nel primo viaggio (45-48 d.C.). A Listra si unì a lui anche Timoteo che, pur di avere con sé, accettò di farlo circoncidere (At 16,1-3).

Diretto a Troade, per un’improvvisa malattia, Paolo fu costretto a deviare sull’altipiano della Galazia, dove fondò le prime comunità cristiane (Gal 4,13). Proseguì, infine, per Troade da dove toccò Neapolis, Filippi, Tessalonica, Berea, Atene, Corinto, Efeso e ritorno a Cesarea e da qui a Gerusalemme, per relazionare del suo viaggio agli anziani della chiesa madre.

Il terzo viaggio, avvenuto tra il 53 e il 57 (At 18,23-21,15), fu prevalentemente di ricognizione tra le varie comunità fondate e per rinsaldare i rapporti tra loro. Le città presso cui si fermerà più a lungo saranno Efeso e Corinto. Durante questo viaggio Paolo raccoglierà presso tutte le comunità da lui fondate una colletta per i poveri della chiesa di Gerusalemme, alla quale egli attribuisce un valore importante, perché la sua accettazione da parte dei responsabili della chiesa madre di Gerusalemme significava che i cristiani provenienti dal paganesimo erano definitivamente accettati in seno ad essa.

Dopo questo terzo viaggio Paolo viene fatto prigioniero a Cesarea nel 60 e da qui trasferito a Roma, dove rimase per due anni in uno stato di semilibertà. Muore martire sotto Nerone intorno al 67.


Note su alcune particolarità di Paolo


L'evento di Damasco

Un’attenzione particolare va data all’evento di Damasco, meglio conosciuto come la “conversione di Paolo”, per l’importanza fondamentale che questo ha avuto nella sua vita, sulla quale ha inciso profondamente, trasformandola radicalmente e improvvisamente.

Due sono le fonti testimoniali: gli Atti e gli stessi scritti di Paolo.

Gli Atti degli Apostoli ci forniscono tre diverse narrazioni (9,1-30; 22,3-21; 26,9-20) alquanto particolareggiate, dove viene messa in evidenza l’iniziativa di Dio. Sono racconti non sempre tra loro concordanti e dal sapore popolare, costruiti da Luca sulla falsariga delle chiamate bibliche:

Nell’ambito di questa chiamata Luca introduce anche la figura di Anania, che fa da tramite tra Paolo e la comunità credente di Damasco e che, man mano che i racconti procedono, lentamente scema fino a scomparire completamente nel terzo racconto di At 26,9-20. Questi è definito come un discepolo della comunità di Damasco (At 9,10) e “un devoto osservante della legge e in buona reputazione presso tutti i Giudei là residenti” (At 22,12).

Quanto agli Scritti di Paolo, questi ricordano l'evento, ma sempre con toni molto sobri, talvolta solo allusivi, e in modo strettamente personale. Dell’evento Paolo non parla mai in modo narrativo, ma mettendo in rilievo gli aspetti di grazia, di dono e di chiamata, che lo ha costituito missionario e apostolo. Il testo più significativo è quello di Gal 1,11-17, in cui Paolo si pone sulla linea delle chiamate profetiche. Egli, infatti, parla di “rivelazione”, di “una sua elezione fin dal seno di sua madre”, di “una chiamata per grazia”, di “una compiacenza di Dio nel rivelargli suo Figlio”. E quando Paolo parla di “compiacenza” allude ad un preciso disegno di Dio. A tutto ciò Paolo lega la sua missione di apostolo dei pagani. Un pensiero e una convinzione questi, che Paolo lascia trasparire chiaramente in apertura della lettera ai Galati, come una sorta di sua carta d'identità, mettendo in rilievo come il suo essere apostolo gli viene direttamente da Cristo e da Dio, suo Padre: “Paolo apostolo non da uomini né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo ha risuscitato dai morti” (Gal 1,1).

Una maggiore precisazione sull’evento, Paolo la aggiunge in 1Cor 9,1 e 15,8-9, in cui parla rispettivamente di “aver veduto” e di “apparizione”.

Quanto alla sconvolgente rottura con il passato, che tale esperienza ha provocato in lui, ne fa accenno in Fil. 3,7-11, così che tutti i valori del suo passato, in cui ha creduto fermamente, gli sembrano ora spazzatura.

Come, dunque, interpretare l’evento di Damasco? Parlare di semplice conversione è del tutto inadeguato. Qui c’è un’evidente frattura esistenziale tra il prima e il dopo evento, che segnerà non solo la sua intera esistenza, ma tutta la sua teologia, il suo modo di pensare. Non si tratta, dunque, di una lenta e graduale maturazione interiore di certi valori, bensì di una radicale e improvvisa rottura con il suo passato e di un nuovo e improvviso riorientamento esistenziale e modo di pensare.

Paolo e la comunità cristiana primitiva

Dopo la sua esperienza di Damasco, Paolo ha avuto numerosi contatti con le comunità cristiane che sono nell’area di Gerusalemme, in cui riceve la sua formazione di giudeo ortodosso; di Damasco, dove dà una radicale e decisiva sterzata alla sua vita; di Antiochia, da dove prende forma e avvio il suo impegno missionario.

La dipendenza di Paolo da queste comunità si riscontra anche nelle sue lettere, dove riporta spesso formule di fede, kerigmatiche, inni, testi liturgici, che egli ha ricevuto come eredità di fede dalle comunità stesse (1Cor 11,23; 15,3). Così che si può ben dire che Paolo non fu il fondatore del cristianesimo, bensì il suo instancabile propagatore e il suo potente propulsore, ma sempre in una linea di continuità con la chiesa originale, da cui ha ricevuto la fede e in cui, per circa un decennio (35-45 d.C.), prima dei suoi viaggi missionari (45-62 d.C.), è stato formato.

Il metodo missionario di Paolo

Come sua strategia missionaria, Paolo sceglie sempre delle comunità che non hanno mai sentito parlare di Cristo. Lo attesterà apertamente in Rm 15,20: “Ma mi sono fatto un punto di onore di non annunziare il vangelo se non dove ancora non era giunto il nome di Cristo, per non costruire su un fondamento altrui”. Il motivo di tale scelta probabilmente è duplice: a) non perdere tempo ad annunciare Cristo là dove è già stato annunciato. Una scelta dettatagli dalla convinzione, molto diffusa nella chiesa del I sec., dell'imminenza della parusia e, pertanto, l'urgenza di diffondere quanto più possibile, prima del ritorno di Cristo, il suo annuncio; b) la novità del “suo vangelo”, inoltre, rischiava di contrastare con le visioni forse meno aperte di altri missionari fondatori, con il rischio di creare turbamento e confusione nelle comunità fondate da altri. Farà tuttavia un'eccezione per la comunità di Roma, che lui non ha fondato, ma alla quale, come vedremo, tiene particolarmente.

Nel suo annuncio Paolo è mosso sempre da una sua personale convinzione circa un piano di salvezza prestabilito da Dio, che vede annunciare la salvezza prima al Giudeo e poi al Greco: “Io infatti non mi vergogno del vangelo, poiché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco” (Rm 1,16), seguendo in tal modo la logica della storia della salvezza, secondo la quale Dio ha rivelato se stesso e conclusa la sua Alleanza prima con Israele, mostrando tutta la sua predilezione per questo popolo che si è scelto, costituendolo, dopo la sua liberazione dalla schiavitù egiziana, sua proprietà tra tutti i popoli, regno di sacerdoti e nazione santa (Es 19,4-6). Soltanto a seguito del rifiuto operato da Israele, l'annuncio della salvezza verrà esteso ai pagani, così che il rifiuto di Israele era diventato motivo di salvezza per gli altri (Rm 11,11-12). Una teologia questa che egli svilupperà meglio in Rm 9-11.

Per questo motivo Paolo, nell'annuncio del suo Vangelo, punta sempre sui grandi centri urbani, caratterizzati dalla presenza di ebrei e di sinagoghe, alle quali volge per prime il suo annuncio e, soltanto dopo il loro rifiuto, si rivolge al mondo dei pagani, seguendo così le logiche di ciò che egli riteneva fosse un piano di salvezza prestabilito da Dio.

Le comunità da lui fondate non sono, nel loro nucleo originale, numerose, ma si tratta di poche persone, qualche famiglia, che deve, quasi sempre, abbandonare precipitosamente per le ostilità degli ebrei lì presenti. In genere lascia sul posto o invia successivamente uno o più collaboratori perché completino l’opera da lui iniziata. Poi si incontrerà di tanto in tanto con i suoi collaboratori e, in base alle informazioni ricevute, scrive le lettere.

Paolo non è un pastore d'anime, ma un indomito annunciatore della parola. Rivelativa in tal senso è l'attestazione di 1Cor 1,14-17: “Ringrazio Dio di non aver battezzato nessuno di voi, se non Crispo e Gaio, perché nessuno possa dire che siete stati battezzati nel mio nome. Ho battezzato, è vero, anche la famiglia di Stefana, ma degli altri non so se abbia battezzato alcuno. Cristo infatti non mi ha mandato a battezzare, ma a predicare il vangelo; non però con un discorso sapiente, perché non venga resa vana la croce di Cristo”.

Queste comunità credenti che egli riesce a fondare con la sua predicazione non sono da lui ritenute sua proprietà o sua conquista. Non sono chiese fondate in opposizione ad altre chiese, ma desidera che queste siano legate con la chiesa madre di Gerusalemme, per la quale fa raccogliere una colletta, segno di comunione e di riconoscenza per la fede da essa donata.

La colletta per la chiesa madre di Gerusalemme

È necessario spendere una parola sulla colletta, un gesto di carità verso la chiesa madre di Gerusalemme, nei confronti della quale tutte le comunità credenti sono debitrici per la fede ricevuta. Ma, al di là dell'impegno che egli si è preso personalmente davanti ai responsabili della chiesa di Gerusalemme (Gal 2,10), per aiutare i poveri di questa chiesa, colpiti da una grave carestia (At 11,28-30), Paolo vede nella colletta uno strumento di solidarietà e di comunione di tutte le comunità credenti con la chiesa madre di Gerusalemme. La colletta, pertanto, diventa per Paolo uno strumento missionario ed ecclesiologico, per legare in un'unica comunione di carità in Cristo tutte le chiese, indipendentemente dalla loro formazione giudeocristiana o etnocristiana.

La sua importanza è rilevata dal fatto che il tema della colletta viene ripreso ripetutamente da Paolo in varie sue lettere: Rm 15,25-26; 1Cor 16,1-4; 2Cor 8-9; Gal. 2,10, qualificandola come "servizio", "comunione", "grazia", "atto di culto".

Ma perché Paolo mostra un così particolare interesse per la colletta? Quale significato le attribuisce? Essenzialmente un triplice significato:

  1. Essa è un gesto di carità;

  2. E', inoltre, un impegno che egli si era assunto di fronte ai responsabili della chiesa madre di Gerusalemme (Gal 2,10) in occasione del Concilio (49 d.C.);

  3. Ma soprattutto per Paolo assume, da un lato, un significato di comunione tra la Chiesa madre di Gerusalemme e le Chiese periferiche da lui fondate, costituite da etnicocristiani, cioè di cristiani provenienti dal paganesimo; dall'altro, ciò che per Paolo è più importante, diventa un riconoscimento ufficiale della Chiesa madre della missione di Paolo presso il mondo pagano.

La motivazione che sottende la colletta è triplice:

  1. Cristologica: Cristo si è fatto povero per arricchirci con la sua povertà (2Cor.8,9);

  2. Ecclesiologico-sociale: non si tratta di rendersi poveri per arricchire gli altri, ma un atto di uguaglianza ed equità (2Cor 8,13);

  3. Teologico-scritturistica: Dio ama chi dona con gioia: “ha largheggiato, ha dato ai poveri; la sua giustizia dura in eterno” (2Cor 9,7-9)

Paolo, tuttavia, teme che la colletta, cui lui attribuisce un grande valore e significato, possa anche non essere accolta (Rm 15,30-31). Dietro questo suo timore intuisce che qualcosa possa andare storto: egli non vede chiaro nel suo futuro, per la difficoltà dei rapporti con la Chiesa madre di Gerusalemme, ancora troppo giudeocristiana giudaizzante, cioè legata ancora alla Legge mosaica e alle sue prescrizioni.

Il pensiero di Paolo e il suo Vangelo

Paolo fu certamente un teologo originale, profondo, fuori dagli schemi, ma non fu un pensatore sistematico. Il suo pensiero è occasionale e frammentario, variamente sparso tra le sue lettere, e ciò non permette di organizzarlo compiutamente.

Il nucleo centrale del pensiero di Paolo è il Cristo risorto. E non poteva essere diversamente, considerata l'esperienza da cui egli proviene.

Attorno al Cristo risorto Paolo sviluppa tutta una serie di tematiche ad argomenti prevalentemente contrapposti, sulle quali fonda tutta la vita morale e cristiana: fede e legge, luce e tenebre, carne e spirito, uomo vecchio e uomo nuovo, giustificazione e peccato, vita e morte, risurrezione, battesimo, ecc. Alla base di queste contrapposizioni ci sta probabilmente l'antitesi cristologica e pasquale “morte-vita”, “crocifissione-risurrezione”. Tuttavia, pur nella sua originalità e profondità di pensiero, Paolo si pone sempre nell'ambito dottrinale della Tradizione, che è già proprio del cristianesimo primitivo e che lo stesso Paolo testimonia nelle sue lettere, che riportano inni cristologici e formule di fede, che egli trova già elaborati nelle comunità credenti, che ha frequentato per un decennio dopo l'evento di Damasco. Del resto egli stesso attesta come la sua predicazione sia una sorta di trasmissione di ciò che anch'egli ha ricevuto, ponendosi in tal modo sulla linea della Tradizione cristiana (1Cor 11,23; 15,3).

Il pensiero e il Vangelo di Paolo si potrebbero così sinteticamente riassumere:

Nel suo grande disegno salvifico, Dio offre la sua salvezza a tutti, ebrei e gentili, in Cristo e per Cristo morto e risorto. Si diventa partecipi della salvezza unendosi a Cristo mediante la fede e il battesimo, morendo con lui al peccato e partecipando, così, alla sua risurrezione. Tuttavia, la salvezza, già presente, non è ancora definitiva finché egli venga. Ma, nel frattempo, colui che vive in Cristo è già stato liberato dal potere del peccato e della Legge e diventa un uomo nuovo, una creatura nuova, per opera dello Spirito Santo. Di conseguenza la condotta del credente deve adeguarsi alla nuova realtà, che è stata posta in lui dal battesimo e per mezzo della fede”.

Le lettere

Il pensiero di Paolo è raccolto ed esposto nel Corpus paulinum, che comprende 14 lettere a cui, idealmente, ne va aggiunta anche qualcun’altra andata perduta e della cui esistenza siamo a conoscenza, perché citata dallo stesso Paolo nelle sue lettere.

Quelle in nostro possesso sono in tutto tredici, alle quali se ne è aggiunta una quattordicesima, la Lettera agli Ebrei, di autore ignoto. Di queste, sette sono attribuite a Paolo, mentre le rimanenti sei sono di scuola paolina.

L’insieme di queste 14 lettere forma il Corpus paulinum, suddiviso in tre aree: le grandi lettere, sono le sette attribuite a Paolo, alle quali alcuni esegeti aggiungono anche la seconda ai Tessalonicesi; le lettere ecclesiologiche ai Colossesi e agli Efesini; le lettere pastorali, 1-2 Timoteo e Tito.

Tutte le lettere attribuite a Paolo sono state scritte tra il 50 e il 60 d.C. e costituiscono la primissima letteratura cristiana e tra queste, prima in senso assoluto, è la Prima ai Tessalonicesi, composta a Corinto nel 50 d.C.

Esse sono state scritte tutte in modo occasionale, in risposta ai problemi sorti, di volta in volta, nelle comunità che Paolo stesso aveva fondato e sono una sorta di prolungamento del dialogo pastorale.

Il linguaggio, pertanto, è spontaneo, immediato, vivace, appassionato e passionale, spesso polemico, sicuramente molto sentito e, per questo, molto avvincente. Certamente il tono non è mai meditativo e i contenuti non sono esposti in modo sistematico, ma buttati giù di getto e risentono molto della occasionalità e della contingenza del momento.

Esse, come già si è sopra accennato, sono caratterizzate da molteplici antitesi, come ad es. Adamo-Cristo; carne-Spirito; fede-opere; sapienza-stoltezza; uomo vecchio-uomo nuovo. All’origine di tutte queste antitesi c’è l’antitesi per eccellenza, quella cristologica e pasquale, da cui tutte le altre derivano: morte-vita. Sono giochi di chiari-scuri finalizzati a mettere meglio in evidenza il tema trattato.

Tutte le lettere di Paolo sono scritte nel greco della koinè e si strutturano essenzialmente in quattro parti: 1) il prescritto, che riporta il mittente, il destinatario e il saluto; 2) rendimento di grazie 3) corpo della lettera 4) conclusione o postscritto, comprendente le ultime raccomandazioni e i saluti finali. Unica eccezione a questo schema viene fatta dalla Lettera ai Galati, nella quale viene saltato il secondo punto: il rendimento di grazie, sia per la foga con cui Paolo si accosta ai Galati in questa occasione, e sia perché, visto il tradimento perpetrato alle sue spalle da queste comunità da lui fondate e particolarmente amate, non c'era proprio niente da rendere grazie.

Corpus paulinum:

Scritti attribuiti a Paolo o Grandi Lettere

Scritti di scuola paolina

Lettere ecclesiologiche

Lettere pastorali

Scritti di autore ignoto


Le lettere, poste sotto il titolo “Scritti di scuola paolina”, sono considerate come scritti pseudepigrafici, redatti nel contesto della tradizione paolina allo scopo di garantire e consolidare il pensiero di Paolo anche dopo la sua morte.

La pseudepigrafia era un fenomeno molto diffuso nell’antichità e consisteva nel porre dei propri scritti sotto il nome di personaggi importanti per dare valore e credibilità alla propria opera, agganciandola alla tradizione, verso cui si nutriva particolare rispetto.

I parametri per valutare l’autenticità o meno di uno scritto sono, in genere, lo stile, il vocabolario e la coerenza teologica, nonché il contesto a cui fanno riferimento.

Sono Scritti questi tenuti in notevole considerazione presso le comunità cristiane e, trattando tutti gli aspetti e le tematiche della vita cristiana, sono stati sentiti come normativi per il vivere cristiano.

Essi hanno certamente dettato legge a tutta la teologia successiva. Una teologia quella paolina complessa e profonda e, proprio per questo, si poteva prestare ad interpretazioni diverse, talvolta anche contrapposte, come si rileva dalla già citata 2Pt 3,15-16.

Un’ultima questione, posta dal Deissmann5, è la distinzione tra LetteraedEpistola. Secondo il Deissmann la Lettera è uno scritto privato, occasionale, vivace, immediato e mirato, il cui contenuto è prevalentemente comprensibile solo al destinatario. Mentre l' Epistola è una sorta di composizione letteraria, elaborata a tavolino con una esposizione di tipo sistematico e ragionato, rivolta ad una grande cerchia di persone. Un esempio di queste sono le “Lettere a Lucilio” di Seneca.

Le lettere di Paolo si pongono in una via di mezzo: sono sicuramente delle Lettere, ma non vi è esclusa la forma epistolare. Si prenda, ad esempio, la Lettera ai Romani, dove agli aspetti personali, rivolti ai destinatari, come nella sezione parenetica (12,1-15,13), si accompagna la sezione dottrinale (1-8).


COMMENTO ALLA PRIMA LETTERA

AI CORINTI


PARTE INTRODUTTIVA



Panorama storico di Corinto

Corinto fu fondata dai Dori nel IX secolo a.C. e già nell'VIII sec. era un fiorente centro commerciale e industriale, alimentato e giustificato dalla presenza sul territorio di due porti, quello di Cencre e quello di Lecheo, che permettevano il controllo, rispettivamente, dell'Egeo e dello Ionio.

Nel 338 a.C. divenne, ad opera di Filippo II, padre di Alessandro Magno, il centro della Lega panellenica, affidandole in tal modo il ruolo di guida della Grecia. Successivamente, divenuta fulcro di resistenza contro Roma, fu distrutta. dal console romano Mummio nel 146 a.C e circa un secolo dopo, ricostruita da Giulio Cesare (44 a.C.), per darla ai suoi veterani, insieme ad una moltitudine di schiavi e liberti egiziani, siriani ed ebrei, divenendo poi, nel 27 a.C., capitale della provincia senatoria dell'Acaia e, al tempo di Paolo (50-55 d.C.), contava circa cinquecentomila abitanti.

Corinto, per quei tempi, era una sorta di metropoli e, come tale, presentava quelle caratteristiche che contraddistinguevano un po' tutte le città portuali: popolazione assai eterogenea, in cui coesistevano tutte le razze e le religioni; numerose attività industriali, commerciali e culturali, accompagnate da un evidente benessere nonché da una spiccata rilassatezza di costumi. Era, infatti, divenuto proverbiale il detto “Vivere alla maniera corinzia”, che significava vivere in modo corrotto e nell'impudicizia. Eloquente ed espressivo, in tal senso, era il verbo “korinqi£somai” (korintziásomai), che significava "darsi all'impudicizia" o “vivere in modo licenzioso”; mentre la "prostituta" era indicata con l'appellativo di "kornqhia kÒrh" (koríntzeia kóre), cioè “ragazza di Corinto”.

Numerose, poi, erano le scuole di filosofia e i predicatori itineranti, accanto ai quali si affiancavano centri di culto religioso. Tra questi esercitavano un indubbio fascino quelli orientali. Erano conosciuti i santuari di Iside, Serapide, Cibele e Afrodite, accanto a templi consacrati a Giove e a diverse altre divinità.

Caratteristica di Corinto, che ci permette anche di comprendere le divisioni all'interno della comunità (1Cor. 1,11-12), era la formazione di piccoli gruppi religiosi (qasoi, tzíasoi), che facevano a capo ad un “protettore”, che qualificava il gruppo.

Vi risiedeva, infine, anche una consistente comunità ebraica, testimoniata da un architrave in pietra con sopra l'iscrizione “Sinagoga degli Ebrei”

La popolazione, di circa cinquecentomila abitanti, eterogenea nelle razze, lo era anche negli strati sociali: oltre due terzi della popolazione era formata da schiavi e povera gente, che cercava di sopravvivere, mentre il rimanente terzo erano artigiani, commercianti, benestanti e ricchi.

Tale stratificazione della popolazione si rispecchiava anche nella comunità fondata da Paolo e si rifletteva inoltre nelle riunioni, in cui si celebrava la Cena del Signore, così che Paolo dovrà intervenire duramente per questo stato di cose, che creavano divisioni e contrapposizioni all'interno della comunità credente oltre che profanare la sacra mensa (1Cor 11,17-22).

Questo, dunque, il contesto sociale, culturale e religioso di Corinto, che si rifletteva anche all'interno della comunità credente. I numerosi quanto variegati temi trattati in questa Lettera danno testimonianza di una comunità vivace, pienamente inserita nel suo tempo, ma non ancora cristianamente matura, frammischiando un vivere licenzioso e paganeggiante con la nuova fede, che ancora non era stata ben compresa e approfondita, così da incidere nella quotidianità della vita.

L'evangelizzazione

Paolo fondò la comunità di Corinto al termine del suo secondo viaggio missionario, avvenuto tra il 49-52 d.C. (At. 18,1-17).

Dopo aver evangelizzato la Macedonia (Filippi, Tessalonica e Berea), Paolo si recò ad Atene e da lì raggiunse Corinto, dove incontrò Aquila e Priscilla, due coniugi espulsi da Roma con decreto imperiale di Claudio nel 49 d.C. Questi si riveleranno suoi ottimi collaboratori e, stabilitosi nella loro casa, lavorava con loro per mantenersi (At 18,3).

Qui, nel frattempo, Paolo si dedicava alla predicazione, che avveniva di sabato nella sinagoga. Ma giunti dalla Macedonia Timoteo e Sila, Paolo si dette interamente alla predicazione e i frutti non tardarono ad arrivare: molti corinzi, tra i quali Crispo, capo della sinagoga locale, si convertirono al cristianesimo.

Un colpo duro per la comunità ebraica di Corinto, così che i giudei, esasperati dall'efficace e concorrenziale azione missionaria e di proselitismo di Paolo, denunciarono Paolo presso il proconsole romano Gallione, che, però, non ne volle sapere delle loro questioni religiose (At 18,12-16). Questi era fratello di Lucio Anneo Seneca e la sua presenza a Corinto, negli anni 51 e 52 d.C., ci è testimoniata da una iscrizione ritrovata a Delfi.

Dopo questo episodio, Paolo rimase a Corinto ancora diverso tempo, poi si imbarcò per la Siria (At 18,18). Giunto ad Efeso, Paolo prese contatto, con successo, con la comunità ebraica (At 18,19-20) e, poi, proseguì per Gerusalemme e, infine, fece ritorno ad Antiochia.

Dopo la sua partenza da Corinto, Paolo intrattiene con la comunità un'intensa attività epistolare, segno della sua vivacità e della sua importanza. Una comunità che, insofferente, difficilmente si lasciava imbrigliare dalle regole imposte dalla nuova fede. Testimonianza del carattere indomito di questa comunità ci viene dalla Prima Lettera di Clemente Romano (95 d.C.), che in qualche modo riprende, circa quarant'anni dopo, le tematiche della paolina Prima Lettera ai Corinti, rielaborandole a modo proprio.

Proprio durante il suo soggiorno ad Efeso, Paolo è raggiunto “da quelli di Cloe”, una donna questa attiva nel commercio, mentre i “quelli di” erano probabilmente suoi dipendenti o suoi fedelissimi. Qui, dunque, viene informato “da quelli di Cloe” delle divisioni all'interno di Corinto (1Cor 1,11); mentre con una lettera, scritta probabilmente da alcuni responsabili della comunità, gli si chiedeva chiarimenti su alcune situazioni allarmanti venutesi a creare all'interno della comunità (1Cor 7,1). Un'altra delegazione, poi, formata da tre membri della comunità, Stefana, Fortunato e Acaico, lo raggiungerà, sempre ad Efeso, e sembra rallegrare l'animo di Paolo, probabilmente per le buone notizie che questi tre personaggi, gli avevano recato o forse perché i tre, che componevano questa delegazione, erano stimati collaboratori di Paolo, in cui Paolo ravvisava l'intera comunità di Corinto (1Cor 16,17-18). Stefana e la sua famiglia, infatti, furono battezzati da Paolo (1Cor 1,16).

Ed è qui, ad Efeso, dove rimase per tre anni (At 19,1.8.10; 20,31), che Paolo scriverà la sua prima lettera ai Corinzi (16,8). Siamo tra il 53 e il 54 d.C.

La Lettera

La lettera è composta di 16 capitoli e idealmente può essere suddivisa in cinque parti:

Prescritto e rendimento di grazie (1,1-9);

Benché i temi trattati siano numerosi e variamente sfaccettati, tuttavia Paolo stabilisce fra tutti un comune denominatore: Cristo. La risposta, quindi, ai problemi è cristocentrica, per cui:

Insomma ogni questione della comunità viene affrontata con l’unico parametro di confronto: Cristo. Si tratta, dunque, di una cristologia e d una teologia applicate alla vita pratica.

La lettera è un mirabile esempio di impatto tra la nuova cultura cristiana e quella pagana e tende ad educare i cristiani alla maturità cristiana. Quindi non regole da seguire, ma motivazioni per scelte diverse del proprio vivere.

Macro struttura della lettera

Prescritto (1,1-3) e rendimento di grazie (1,4-9)

Alcuni comportamenti negativi (1,10 – 6,20)

Direttive e consigli (7 – 14)

Questioni inerenti alla risurrezione (Cap.15)

Postscritto (Cap.16)

Quanto all'autenticità della Prima ai Corinti, questa non fu mai messa in dubbio sia nel passato che nei nostri tempi. Clemente Romano la cita più volte come scritto di Paolo (1 Clem. 37,5; 47,1-3; 49,3) e con lui anche gli altri padri della chiesa, senza esprimere alcun dubbio sulla sua autenticità. Questa prima Lettera, assieme alla Seconda Corinti, vengono riportate entrambe nel Canone muratoriano (circa 176 d.C.) come Lettere canoniche ed entrambe sono interamente contenute nel documento P46 (Chester Beatty, circa 200 d.C.).

Quante lettere ?

La tradizione canonica ci ha tramandato due lettere ai Corinti. Tuttavia da un’attenta lettura delle stesse nasce il sospetto che queste non siano le uniche.

Una prima lettera (Lettera A), anteriore alla prima Corinti, ci viene segnalata dallo stesso Paolo in 1Cor 5,9. Quella immediatamente seguente è la canonica “Prima Corinti” (Lettera B). Una terza lettera è quella citata in 2Cor 2,4 (Lettera C); si tratta di una lettera scritta in un grande momento di afflizione e tra molte lacrime, identificata in 2Cor 10-13. Infine, rimane l’ultima lettera, quella canonica: la 2Cor. 1-9 (Lettera D).

Quattro, pertanto, le lettere perdute, menzionate e pervenute:


PARTE ESEGETICO - TEOLOGICA




Il prescritto (1,1-3)

Testo a lettura facilitata

Mittente (v.1)

1- Paolo, chiamato apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio e Sostene, il fratello,

Destinatario (v.2)

2- alla chiesa di Dio che è in Corinto, a coloro che sono stata santificati in Cristo Gesù, chiamati santi con tutti quelli che invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo in ogni luogo, (Signore) loro e nostro,

Saluti (v.3)

3- grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro e (del) Signore Gesù Cristo.

Note generali

Anticamente, nel mondo greco-romano, le lettere erano composte di tre parti: il prescritto, che conteneva il nome del mittente e quello del destinatario, accompagnati dai saluti. Un esempio in tal senso lo abbiamo in At 23,26: “Claudio Lisia all'eccellentissimo governatore Felice, salute”. Raramente e quasi mai i mittenti erano più di uno, mentre sovente, ma non sempre6, Paolo7 accompagna al suo nome quello di altri suoi collaboratori o, in senso più generico, quello collettivo di “fratelli”8, dando in tal modo al suo scritto un senso di ecclesialità.

Ma se nell'antichità il prescritto si riduceva, come nell'esempio sopra riportato, all'essenzialità del nome del mittente e di quello del destinatario accompagnati da uno scarno saluto, qui in Paolo e in genere nelle lettere di scuola paolina, il mittente si arricchisce di titoli e di locuzioni, come questa 1Cor, la cui finalità è quella di mettere in evidenza non solo la nuova identità e la nuova natura spirituale dei credenti, che informa la loro stessa natura umana, rigenerata in virtù della fede e del battesimo, ma anche la profondità del senso del loro essere credenti; mentre, per quanto riguarda Paolo, viene sempre messa in luce la sua identità di apostolo nonché l'origine divina della sua apostolicità.

Dopo il prescritto seguiva il corpo della lettera, che si concludeva con un postscritto, che racchiudeva in genere le ultime raccomandazioni e i saluti finali.

Già, quindi, nel prescritto si poteva intuire in qualche modo il tono della lettera, fermentata sempre da una forte spiritualità.

Commento ai vv. 1,1-3

Il v.1 presenta i due mittenti o, forse, è meglio dire il mittente principale, Paolo, a cui viene associato il suo collaboratore Sostene. Paolo mette subito avanti la sua titolatura e, quindi, la sua autorità, che non proviene dagli uomini, ma direttamente da Dio. Quel “chiamato apostolo”, va sciolto in “che è stato chiamato ad essere apostolo” e chi lo ha chiamato è Dio stesso. Egli, infatti, è “apostolo”, cioè inviato, “per volontà di Dio”. La sua apostolicità, pertanto, rientra in un preciso piano divino (“per volontà”) e fa parte del più ampio progetto di salvezza, che il Padre ha concepito fin dall'eternità (Ef 1,4). In termini più espliciti lo metterà in evidenza in Gal 1,1: “Paolo apostolo non da uomini né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre, che lo ha risuscitato dai morti”, dove quel “risuscitato dai morti” dice la dipendenza di Cristo dal Padre, che ha operato su di lui e per suo mezzo, rimandando così la sua apostolicità al volere primo ed ultimo, che è quello del Padre. L'origine divina della sua apostolicità, pertanto, è fuori discussione, così come l'origine del suo Vangelo è parimenti divina: “Vi dichiaro dunque, fratelli, che il vangelo da me annunziato non è modellato sull'uomo; infatti io non l'ho ricevuto né l'ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo” (Gal 1,11-12).

Egli si presenta qui come “apostolo di Gesù Cristo”, un genitivo che dice non solo la sua appartenenza a Cristo, che in Gal 2,20a verrà meglio definita quale identità tra lui e Cristo: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”, ma anche la provenienza della sua apostolicità e l'autorità che l'accompagna, in quanto “apostolo di Cristo”, cioè inviato di Cristo, in cui quel “di Cristo” va letto anche come complemento d'agente “da Cristo”, indicando così l'origine della sua apostolicità. Di conseguenza egli è anche ministro di Cristo. Un tema quest'ultimo, quello della ministerialità, che affronterà più ampiamente in 2Cor. Ma nel contempo quel “di Gesù Cristo” dice come questo Cristo costituisca l'oggetto stesso della sua predicazione e della sua missione. Un Cristo che per lui sarà soltanto quello crocifisso (2,2).

Accanto al nome del primo mittente compare anche quello di “Sostene”, definito “fratello”, un appellativo con cui i credenti si chiamavano tra loro, riconoscendosi in tal modo generati tutti dallo Dio, per mezzo della Paola e della fede, e riconoscendo in Dio la loro unica e comune origine.

Quanto a “Sostene” non è ben chiaro chi sia. Certamente un credente e certamente uno stretto collaboratore di Paolo, in quanto Paolo lo chiama “fratello”. Questi doveva trovarsi ad Efeso assieme a Paolo, che lo coinvolge nella mittenza. Una persona, quindi, che godeva della stima di Paolo e che certamente sapeva sostenere i ritmi di vita e di pensiero di Paolo, la quale cosa non era di tutti. Paolo, infatti, era un personaggio molto esigente, animato da un fanatismo religioso (Gal 1,14), che lo spingeva sempre oltre in ogni situazione, rendendolo un personaggio dalla non facile convivenza e collaborazione.

Il nome “Sostene” compare in tutto il N.T. soltanto due volte: qui, in 1Cor 1,1 e in At 18,17, dove Sostene figura essere capo sinagoga a Corinto, convertito da Paolo e coinvolto in una sorta di linciaggio da parte degli Ebrei di Corinto, esasperati dalla predicazione di Paolo e dalle continue defezioni da parte dei propri correligionari, convertiti da Paolo. A seguito di questo episodio Paolo fuggirà ad Efeso (At 18,18-19), dove rimarrà per circa tre anni e da dove scriverà questa Prima Lettera ai Corinti. È probabile che Paolo, nel fuggire da Corinto, si sia portato con sé anche Sostene, sottraendolo così alle ire degli Ebrei e, forse, ravvisando in lui il suo stesso destino di sofferenza per Cristo (At 18,17; 2Cor 11,23-28).

Con il v.2 si passa dai mittenti ai destinatari, in cui si sottolineano tre aspetti: l'ecclesialità, la natura dei credenti e la comunione ecclesiale. La prima destinataria è la “Chiesa di Dio che è in Corinto”. Il riferimento è al nucleo istituzionale, la cui sacralità è evidenziata dalla sua appartenenza: “di Dio”. Non si tratta qui di chiesa in senso teologico o ecclesiologico, ma di istituzione che è localizzata geograficamente in Corinto.

Questa Chiesa è formata da membri “che sono stata santificati in Cristo Gesù”, cioè assimilati alla vita stessa di Dio, che è per sua natura il Santo per eccellenza e fonte di ogni santità. La santità è una prerogativa esclusiva di Dio, che si riflette su chi o su che cosa gli appartiene, divenendo per ciò stesso persona o cosa consacrata, cioè riservata a Dio stesso, separata pertanto da ciò che è profano e non gli appartiene (Lv 19,26). Sarà, infatti, Dio stesso che comanderà a Mosè di ordinare agli Israeliti di essere santi, poiché Egli è Santo: “Parla a tutta la comunità degli Israeliti e ordina loro: Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo” (Lv 19,2). Una santità che va perseguita e incarnata nella propria vita poiché Dio, ai piedi del Sinai, ha rivestito Israele di una nuova identità, trasformandolo da popolo di schivi a sua proprietà, popolo di sacerdoti e nazione santa (Es 19, 5-6).

Una “santificazione” che dice una trasformazione da uno stato di vita di non appartenenza a Dio ad uno stato di appartenenza a Dio e, quindi, di partecipazione alla sua stessa Vita, così com'era nei primordi dell'umanità, allorché Dio creò l'umo a sua immagine e a sua somiglianza, insufflando in lui il Suo Spirito di Vita e assimilandolo a Lui, divenendo così l'uomo un essere vivente, similmente al Vivente (Gen 1,26-27; 2,7). Una santificazione che è stata operata “in Cristo Gesù”, il luogo storico in cui opera il Padre, ma anche lo strumento con cui il Padre santifica chi crede nel Figlio, generandolo ad una nuova vita, infatti: “A quanti l'hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio, a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati” (Gv 1,12-13).

Questi, attesta Paolo, sono “chiamati santi”, chiamati non soltanto nel senso di “definiti santi” per loro natura, ma anche “chiamati per vocazione alla santità”9, cioè a conformarsi anche esistenzialmente alle realtà spirituali, di cui sono stati investiti e di cui sono permeati, la Vita stessa di Dio.

Questo nuovo stato di vita, che avvolge e compenetra i credenti di Corinto, non è una condizione esclusiva dei Corinti, ma comune a tutti quelli che “invocano”, cioè credono in Cristo Gesù e gli rendono culto, riconoscendolo loro Signore, titolo questo che viene attribuito al Risorto dalla Chiesa primitiva, riconoscendone la signoria universale. Significativa è la precisazione di questa “invocazione”, che avviene “in ogni luogo”, evidenziando come la chiamata alla santità e la santificazione siano realtà spirituali universali, rivolte cioè all'intera umanità e coinvolgenti ogni realtà e l'intera creazione (Rm 8,19-23).

Il v.3 chiude il prescritto con una formula di saluti, che ricorre identica in otto lettere paoline o di scuola paolina, la quale cosa dice come era ormai divenuta consuetudine caratterizzare gli scritti, incorniciandoli all'interno di formule di fede, quasi a sigillo di autenticità delle stesse lettere e a testimonianza della comune ed unica fede10: “grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro e (del) Signore Gesù Cristo”. L'espressione “Grazia a voi”, posta qui all'inizio della lettera, si ritrova sostanzialmente identica alla fine della lettera formando in tal modo una sorta di inclusione che abbraccia l'intera lettera, ponendola sotto l'egida di quella “grazia” che fluisce da Dio su tutti i credenti. “Grazia”, che significa la pienezza della Vita divina, di cui, in virtù della loro santità, beneficiano i credenti in Corinto e con loro tutti i credenti di ogni luogo. Una Grazia che ha il senso del dono, che si muove sull'onda della Misericordia divina. Con la “Grazia” si coniuga anche la “Pace”, che dice l'avvenuta riconciliazione tra Dio e l'uomo, che in questa pace ritrovata in Cristo, per Cristo e con Cristo, viene ricollocato in Dio, così com'era nei primordi dell'umanità.

Una grazia ed una pace che defluiscono da Dio al “voi” dei Corinti e di ogni credente. Un Dio che è definito come “Padre nostro e (del) Signore Gesù Cristo”. Un Padre, dunque, che tale è non solo per tutti i credenti, ma anche per il Signore Gesù Cristo. Un Padre, quindi, che ci accomuna tutti, riconoscendoci tutti figli nel Figlio, grazie al quale condividiamo lo stesso Dio e lo stesso Padre: “Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro” (Gv 20,17b).

Il rendimento di grazie (vv. 1,4-9)

Testo a lettura facilitata

Introduzione al tema (v.4)

4- Rendo grazie al mio Dio sempre per voi a motivo della grazia di Dio, che vi è stata data in Cristo Gesù,

In cosa consiste la “grazia di Dio” data ai Corinti (vv.5-7a)

5- poiché in tutto foste arricchiti in lui, in ogni parola e in ogni conoscenza,
6- allorché la testimonianza di Cristo è stata resa salda in voi,
7a- così che voi non foste privati in nessun dono,

Il rapporto che intercorre tra i credenti e il Signore in prospettiva escatologica (vv.7b-9)

7b- (voi) che aspettate la rivelazione del Signore nostro Gesù Cristo;
8- colui che anche vi renderà saldi fino (alla) fine, irreprensibili nel giorno del Signore nostro Gesù [Cristo].
9- Fedele (è) Dio, per mezzo del quale siete stati chiamati n(ella) comunione del Figlio suo Gesù Cristo, Signore nostro.

Note generali

Dopo il prescritto il mittente entrava subito nelle questioni, che formavano il motivo del suo scritto e che costituivano il corpo della lettera. Contrariamente a questo schema, le lettere di Paolo o di scuola paolina si attardano con un “rendimento di grazie”11, creando una sorta di cornice cultuale dove, in genere, viene celebrato il ringraziamento al Padre per aver concesso il dono della salvezza ai destinatari dello scritto, che vengono lodati o quanto meno ricordati per la loro fedeltà e il loro impegno nella fede.

Viene in tal modo creata una sorta di cornice sacrale entro cui si collocano le questioni, che formano il corpo della lettera.

All'intera lettera viene, pertanto, impresso un forte senso di spiritualità, che serviva ad introdurre i destinatari nel giusto contesto spirituale, entro il quale essi non solo dovevano comprendere lo scritto, ma altresì dovevano ricomprendersi come facenti parte ormai di una di nuova dimensione spirituale, nella quale sono entrati in virtù della fede e del battesimo, generando in tal modo nuovo tipo di mentalità, non più conformata alle logiche di questo mondo, ma alle esigenze di Dio, manifestatesi in Cristo Gesù, così che Cristo doveva diventare la loro nuova forma mentis, come Paolo stesso suggerirà in qualche modo con questa Lettera, dove Cristo diviene la comune risposta a tutte le loro problematiche. Tutto, quindi deve essere pensato ed operato avendo come unico parametro di raffronto Cristo stesso.

La struttura di questo “rendimento di grazie” è scandita in tre parti:

  1. Il motivo del rendimento di grazie: la grazia di Dio data ai Corinti in Cristo Gesù (v.4);

  2. In che cosa consista la “grazia di Dio”, che forma l'oggetto del rendimento di grazie (vv.5-7a);

  3. Il rapporto che intercorre tra i credenti e il Signore, colto in una prospettiva escatologica (vv.7b-9)

Commento ai vv. 1,4-9

Introduzione al tema (v.4)

La sezione dei ringraziamenti inizia con un verbo che caratterizza il culto cristiano “EÙcaristî” (Eucaristô, rendo grazie) e che dà l'intonazione all'intera lettera, che tra le non poche ombre di questa comunità, mette in evidenza anche la vivacità spirituale dei suoi membri, benché sia una vivacità ancora disordinata e difficile da imbrigliare, ma che ha bisogno di essere inquadrata, per evitarne la dispersione e farla crescere e consolidare in Cristo.

Un rendimento di grazie che Paolo rende al “mio Dio”. Un'espressione questa tutta di Paolo e che ritroviamo, oltre che qui, altre quattro volte12 e dice tutto l'intimo e profondo rapporto che lega Paolo a Dio, ma nel contempo lega quel Dio, che lo ha chiamato fin dal seno materno (Gal 1,15-16a), a Paolo. Tuttavia, in seconda lettura, l'espressione dice anche come questo “mio Dio” sia quello autentico, al quale Paolo richiama qui implicitamente i Corinti per la loro facile disinvoltura nell'indulgere ancora agli idoli, sedendosi alle mense nei templi pagani per mangiare la carne sacrificata agli dei, scandalizzando così gli altri credenti, deboli nella loro fede, dando l'idea che si potesse coniugare l'antico culto pagano con quello nuovo del Dio Vivente, vero ed unico.

Il motivo di questa “eucaristia” o “rendimento di grazie” è la “grazia di Dio, che vi è stata data in Cristo Gesù”. In senso generale questa “grazia di Dio” dice l'atteggiamento favorevole di Dio nei confronti dei Corinzi, che si fa dono salvifico per loro; mentre in senso più specifico e in che cosa essa consista Paolo lo dirà ai vv.5-7a. Una grazia, comunque, quale evento salvifico, che si attua in Cristo Gesù e in lui e per suo mezzo viene elargita a tutti gli uomini, che aderiscono a lui per mezzo della fede.

In cosa consiste la “grazia di Dio” data ai Corinti (vv.5-7a)

Con i vv.5-7a Paolo riprende l'espressione “grazia di Dio” e lo esplicita. Si tratta di un arricchimento spirituale avvenuto “in tutto” (™n pantˆ, en pantì), che dice la pienezza di questo arricchimento ricevuto e tale da doversi anche riflettere a livello esistenziale. Un arricchimento che è avvenuto attraverso la parola del Vangelo di Paolo, che li ha aperti alla conoscenza del vero Dio e li ha introdotti nel suo mistero del amore salvifico. Un arricchimento che si è attuato “allorché la testimonianza di Cristo è stata resa salda in voi”, cioè allorché la fede dei Corinti in Cristo, testimone del Padre, sua manifestazione e rivelazione, si è consolidata in loro e, quindi, non solo fu inizialmente accolta in loro, ma anche approfondita e lasciata tralucere nella loro vita quotidiana.

Il v.7a riprende in qualche modo quel “in tutto” (™n pantˆ, en pantì) e lo specifica attestando “così che voi non foste privati in nessun dono”, rilevando in tal modo la pienezza di questo arricchimento, generato in loro dalla Parola accolta e di cui Paolo darà testimonianza al cap.12, elencando i carismi di cui erano insigniti i Corinti, testimoniando in tal modo la vivacità spirituale di questa irrequieta comunità credente.

Il rapporto che intercorre tra i credenti e il Signore in prospettiva escatologica (vv.7b-9)

Il v.7b apre una nuova prospettiva e tratteggia lo stato di vita della comunità di Corinto, protesa nel suo vivere verso “la rivelazione del Signore nostro Gesù Cristo”, caratterizzandolo come un vivere escatologico, che crea una mentalità critica del credente nei confronti di queste realtà terrene, mettendone in rilievo la caducità, e lo spinge a superarle a favore di altre e nuove realtà spirituali, inaugurate dalla morte e risurrezione di Gesù e che spingerà Paolo a suggerire ai Corinti di vivere di questo mondo come non ne vivessero, dedicandosi totalmente al Signore (7,29-40). Il tema dell'escatologia, infatti, era molto sentito nella chiesa del I sec., tutta incentrata sull'avvento del Signore, che era ritenuto imminente. Soltanto nel corso del II sec. d.C. la chiesa primitiva riorienterà le sue attese dall'imminente ritorno del Signore nella speranza del suo ritorno. Un Signore, nel quale i Corinti hanno creduto e per questo egli li conserverà saldi nella loro fedeltà nel loro cammino incontro al Cristo che viene, così da conservarsi irreprensibili nel giorno della sua venuta. Un auspicio che Gv 17,11b trasformerà in una preghiera di Gesù al Padre: “Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi”. Una fedeltà che si esplicita nella chiamata che il Padre ha rivolto e rivolge continuamente ad ogni uomo attraverso la sua Parola, perché, credendo questi nel suo Figlio, si salvi, una salvezza che consiste nell'entrare nuovamente in comunione con Dio, così com'era nei primordi dell'umanità. Una fedeltà che si è fatta atto di amore verso l'uomo e a suo favore, come attesta Gv 3,16-17: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui”. Ma ancor prima Rm 5,8 ricorda che “Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi”. Ed è proprio in questo amore che Dio si manifesta fedele, nonostante l'infedeltà dell'uomo, perché egli, affermerà 2Tm2,13b: “non può rinnegare se stesso”.

Un tema, quello della fedeltà di Dio alle sue promesse, che percorrerà l'intero tempo veterotestamentario, per giungere nella sua pienezza in Cristo, che è il compimento ­di quelle promesse, di quella terra nuova e di quei cieli nuovi vaticinati e sognati da Isaia (Is 66,22) e contemplati da Giovanni nella sua Apocalisse (Ap 21,1)

Le divisioni all'interno della comunità di Corinto (1,10-4,21)

Preambolo introduttivo

La prima lettera ai Corinti potremmo considerarla come una sorta di miscellanea di questioni a cui Paolo dà risposte e direttive, cercando di inquadrare e in qualche modo imbrigliare una comunità effervescente e variamente composita. Tra le numerose questioni affrontate, quella che più sta a cuore a Paolo sono le divisioni che si sono create all'interno della comunità stessa. Una questione che sta all'origine di questa lettere e che certamente sta più a cuore a Paolo più di ogni altra questione, poiché le divisioni portano allo sgretolamento della comunità credente e quasi certamente alle deviazioni dottrinali. Non a caso Paolo pone la questione dell'unità della chiesa di Corinto come prima questione e non a caso le dedica ben quattro capitoli. Nessun'altra questione possiede questa ampiezza e profondità di attenzioni di questa.

Solo per una semplice questione didattica di un simile volume di trattazione e argomentazioni (ben 82 versetti distribuiti su quattro capitoli) seguirò la divisione dei capitoli. tuttavia qui di seguito presenterò la macrostruttura entro la quale Paolo ha distribuito il suo pensiero sulla questione delle divisioni e che il lettore dovrà tenere sempre presente man mano che i capitoli scorrono, ben sapendo che il cambio di capitolo non significa cambio di questione, ma proseguimento della stessa ed unica questione, che Paolo affronta con dovizia e profondità di pensiero e che si estende all'interno dell'ampia sezione 1,10-4,21.

Macrostruttura della sezione 1,10-4,21

  1. Introduzione al problema delle divisioni all'interno della comunità e prime risposte (vv.1,10-17);

  2. alla pretesa sapienza a cui si ispiravano le quattro fazioni tra loro contrapposte, Paolo oppone l'unica vera sapienza, quella della croce, a cui Paolo stesso si ispira, perché le logiche di Dio non sono quelle degli uomini. Dio, infatti, si serve per realizzare i suoi piani di ciò che è considerato debole tra gli uomini, perché meglio traspaia la sua potenza, così che l'affermarsi dell'operato di Dio, che agisce nella debolezza dei suoi servi, non venga attribuito alle capacità e alla bravura degli uomini (1,18-31);

  3. Paolo porta ad esempio se stesso, che ha annunciato il suo Vangelo non con toni retorici ed enfatici, ma con tremore e timore, annunciando Cristo crocifisso, perché i Corinti non fossero ammagliati dalla magnificenza retorica di Paolo, ma fondassero la loro fede sul contenuto annunciato a loro con povere parole (2,1-5). Ma di quale sapienza Paolo sta parlando? Si tratta della Sapienza stessa di Dio, che sgorga dalle profondità del suo Mistero, imperscrutabile sia agli uomini che agli angeli, ma che Dio ha rivelato per mezzo del suo Spirito agli uomini spirituali, cioè capaci di cogliere la rivelazione dello Spirito, perché disponibili a Dio, ma precluso agli uomini psichici o carnali, cioè incapaci di cogliere la rivelazione dello Spirito, perché racchiusi nella loro saccenza umana (2,6-16).

  4. Così parimenti i Corinti si sono dimostrati uomini carnali e come tali si sono comportati dividendosi tra loro in fazioni contrapposte, appellandosi alla sapienza di Paolo e di Apollo, senza capire che sia Paolo che Apollo sono soltanto strumenti nelle mani di Dio, ma chi opera veramente e fra crescere la comunità spiritualmente è Dio stesso. Nessuno, infatti, può porre se stesso a fondamento della fede dei Corinti. Unico fondamento è Dio, che si è manifestato nel suo Cristo e Signore. Tutti gli altri sono chiamati, quali servi di Dio, a edificare sopra il Fondamento il Tempio di Dio, che è la chiesa di Corinto, e il loro operato verrà giudicato nell'ultimo giorno. Così coloro che si ritengono sapienti tra gli uomini, si facciano stolti secondo Dio, perché la sapienza di questo mondo è stoltezza presso Dio (3,1-15).

  5. Così Paolo, Apollo e come loro tutti gli altri, devono essere considerati soltanto dei ministri, cioè servi di Cristo e amministratori dei misteri di Dio e in quanto tali sono soggetti al disprezzo degli uomini. Un ammonimento questo per quelli che si ritengono sapienti. E conclude, Paolo, facendo valere la sua autorità di apostolo nei confronti dei Corinti, che quand'anche questi avessero avuto molti pedagoghi o sedicenti sapienti, solo lui, Paolo, gli ha generati a Cristo per mezzo del suo Vangelo. Per questo li esorta ad imitarlo e di smetterla con queste divisioni perché sarebbe venuto da loro, ma in quale modo doveva venire: “Che cosa volete? Che venga da voi con la verga o con amore e spirito di dolcezza?” (4,1-21).

Da questa breve analisi macrostrutturale si evince che Paolo, dopo aver denunciato lo scandalo delle divisioni all'interno della comunità (1,11), incentra tutta la sua attenzione sulla contrapposizione tra la sapienza umana, causa delle divisioni nei Corinzi, e la sapienza divina, che ruota attorno alla croce di Cristo (1,18-4,21). Una contrapposizione analizzata su quattro livelli: a) in che cosa essa consista (1,18-31); b) come vissuta da Paolo (2,1-16), che alla fine della sezione si proporrà ai Corinti come esempio da imitare (4,16); c) come vissuta dai Corinti, uomini psichici o carnali e incapaci ancora d'intendere la voce dello Spirito (3,1-23); e, infine, d) come vissuta dagli apostoli, ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio, fatti oggetto di scherno e di persecuzione dagli uomini (4,1-21).

L'intera sezione è circoscritta all'interno di una inclusione, data dall'espressione “Parakalî de Øm©j” (Parakalô dè imas, Vi esorto), posta in 1,10 e 4,16, formando in tal modo un'unica unità letteraria tematica, posta sotto l'insegna dell'esortazione. Esortazione ad avere un'unità di pensiero e di linguaggio e ad essere in questo imitatori di Paolo, che ha abbracciato la sapienza e il linguaggio della croce, rifuggendo dalla sapienza umana e dalla retorica altisonante.

Le divisioni interne (1,10-17)

Testo a lettura facilitata

Introduzione alla questione (v.10)

10- Vi esorto, fratelli, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo, affinché tutti diciate la stessa cosa e affinché tra di voi non vi siano divisioni, ma siate ricomposti nello stesso pensiero e nello stesso parere.

Il caso (vv.11-12)

11- Mi è stato reso noto, infatti, su di voi, fratelli miei, da quelli di Cloe che ci sono contese tra di voi.
12- Ora dico questo poiché ciascuno di voi dice: <<Io sono di Paolo, io di Apollo, io di Cefa, io di Cristo>>.

Le prime considerazioni (vv.13-17)

13- Cristo è stato diviso? Forse che Polo è stato crocifisso per voi, o nel nome di Paolo siete stati battezzati?
14- Rendo grazie [a Dio] poiché non ho battezzato nessuno di voi se non Crispo e Gaio,
15- affinché nessuno dica che siete stati battezzati nel mio nome.
16- Battezzai anche la casa di Stefana; per il resto non so se ho battezzato qualcun altro.
17- Infatti, Cristo non mi mandò a battezzare, ma ad annunciare, non con sapienza di parola, affinché non fosse svuotata la croce del Cristo.

Commento ai vv. 1,10-17

Questa breve sezione, introduttiva all'intera questione, attorno alla quale ruotano ben quattro capitoli, è scandita in tre parti: a) un'esortazione all'unità (v.10); b) la denuncia del caso (vv.11-12); c) una prima risposta provocatoria (vv.13-17).

Introduzione alla questione (v.10)

Il v.10 si apre con “Parakalî de Øm©j” (Parakalô dè imas, Vi esorto), un verbo che se, da un lato, parla di esortazione, dall'altro, dice anche la qualità di questa esortazione, poiché il verbo significa anche “pregare, supplicare, scongiurare”. Si tratta, dunque, di un'esortazione che sconfina in una supplica, affinché siano scongiurate le contese e le divisioni tra i Corinti. Un'esortazione che viene fatta nel “nome” e, quindi, per conto e con l'autorità stessa “del Signore nostro Gesù Cristo”. Non è più Paolo che qui parla, ma lo stesso Signore, sotto la cui signoria si sono posti i Corinti, aderendo alla fede, che, come si vedrà più avanti, è ancora traballante e confusa.

L'esortazione viene fatta seguire da due particelle finali, una posta in positivo (†na, ína, affinché), l'altra in negativo (, , affinché non), rafforzativa della prima. Due finalità tra loro contrapposte, per mettere in rilievo, attraverso questo contrasto, il pensiero e gli intenti di Paolo sulla questione: si all'unità; no alle divisioni.

Significativa è la struttura del v.10b, scandita in tre parti, in cui la prima e la terza sollecitano all'unità (“diciate la stessa cosa”, “ricomposti nello stesso pensiero”), di mezzo, la posizione della parte più importante, verso la quale convergono le altre due parti, viene collocata la questione, ma al negativo, che va a rafforzare la prima e terza parte: “affinché tra di voi non vi siano divisioni”, quasi a scongiurare i contrasti interni alla comunità. L'intero v.10b sospinge la comunità a togliere le contese e le divisioni al suo interno, ricomponendosi in unità di pensiero e di intenti. Significativa è l'insistenza sull'unità nel dire la “stessa cosa”, nel ricomporsi tutti nello “stesso pensiero” e nello “stesso parere” e tutto ciò “affinché tra di voi non vi siano divisioni”. Un versetto, il 10b, molto potente, che funge da preambolo introduttivo alla questione, sulla quale già pesa il giudizio del v.10b.

Il caso (vv.11-12)

Segue ora la denuncia del problema, che affligge la comunità di Corinto. Paolo si trova ad Efeso e riceve delle notizie allarmanti “da quelli di Cloe”. Chi sia Cloe, di cui conosciamo soltanto il nome, non ci è dato di sapere. Certamente è di Corinto, probabilmente una nobildonna o un membro influente della comunità, la quale, resasi conto delle divisioni all'interno della comunità, che dovevano creare malumori e asti personali, invia a Paolo dei suoi fedelissimi, verosimilmente degli schiavi o, se si accetta l'ipotesi che fosse una commerciante, dei propri fidati dipendenti.

È interessante rilevare come questa Cloe, ma parimenti anche gli altri Corinti, che già avevano inviato ad Efeso oltre che una loro lettera su alcune questioni (7,1) anche una loro delegazione (16,17), come tutti fossero al corrente che Paolo fosse ad Efeso. La quale cosa lascia supporre come Paolo, attraverso un piccolo esercito di circa un centinaio di fidati collaboratori, come traspare dagli Atti degli Apostoli e dalle sue lettere13, tenesse costantemente dei contatti con tutte le comunità da lui fondate, tenendole informate sulle sue attività e sui suoi spostamenti, ma ricevendo, nel contempo da queste, loro notizie. Le lettere, in tal senso, sono una testimonianza di questo continuo flusso di reciproche notizie, che creavano una forte unità e comunione tra Paolo e le sue comunità. All'epoca, infatti, non c'erano di certo i mezzi di comunicazione che abbiamo noi oggi e quei pochi mezzi che c'erano erano molto rischiosi, precari e certamente faticosi, come lo erano i viaggi all'epoca. Un'idea nel merito ce la fornisce Paolo stesso in 2Cor 11,26: “Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli”.

Le notizie ricevute “da quelli di Cloe” erano allarmanti, da un lato, ma comprensibili e scontate dall'altro: “Ora dico questo poiché ciascuno di voi dice: <<Io sono di Paolo, io di Apollo, io di Cefa, io di Cristo>>” (v.12).

Corinto era una città portuale e contava circa cinquecentomila abitanti, una sorta di metropoli per quel tempo, importante centro commerciale e punto di arrivo di una variegata moltitudine di persone di ogni sorta di religione e di cultura, con particolare interesse per i culti misterici orientali, accompagnate da una pericolosa rilassatezza di costumi, come lascia intuire la Lettera. In questo contesto non mancavano i filosofi ambulanti, che, dietro pagamento, si impegnavano a moralizzare i costumi della società, creando attorno a loro cerchie di discepoli, che facevano riferimento al loro maestro, in cui si identificavano e del cui pensiero si fregiavano, contrapponendosi, non di rado, ad altri gruppi, da cui nascevano dispute e contrasti. Quindi quel “Io sono di Paolo, io di Apollo, io di Cefa, io di Cristo” va letto e compreso all'interno di questo contesto culturale. In buona sostanza i Corinti convertiti hanno continuato a riprodurre il loro schema culturale all'interno della comunità credente, rifacendosi al pensiero e all'insegnamento chi di Paolo, chi di Apollo, chi di Cefa e chi di Cristo.

Va subito detto che questi gruppi di certo non formavano dei partiti all'interno della comunità né tantomeno delle autonome comunità credenti, formatesi a seguito del distaccamento da quella di Corinto. Paolo, infatti, non scrive a questi singoli gruppi, ma alla comunità di Corinto, al cui interno esistevano questi gruppi, richiamandoli all'ordine. Si deve, quindi, pensare che questi gruppi si fossero formati seguendo delle correnti di pensiero esistenti all'interno della comunità e venutesi a creare a seguito della predicazione di alcuni personaggi di passaggio o presenti in quella comunità e alle quali avevano aderito alcuni Corinti, rispecchiandosi in qualche modo in esse. Quel “Io sono di...”, infatti, lascia intravvedere che dei Corinti si ritrovassero in quella determinata linea di pensiero.

Ma chi erano questi personaggi a cui si rifacevano i Corinti? Se Paolo non ha bisogno di presentazioni, avendo già ampiamente parlato di lui sopra, una parola va spesa, invece, per Apollo, un giudeo nativo di Alessandria, persona colta e abile nel parlare, molto addentro alle Scritture. Questi era a conoscenza dell'annuncio cristiano e insegnava correttamente ciò che si riferiva a Gesù. Tuttavia la sua conoscenza cristiana era ancora superficiale e limitata, in quanto che conosceva soltanto il battesimo di Giovanni e il suo insegnamento nelle sinagoghe dovette essere ripreso dai due coniugi Aquila e da Priscilla, che ne completarono la formazione (At 18.24-26). Questi erano due giudei e validi collaboratori di Paolo, giunti a Corinto dopo il decreto di espulsione di Claudio (54 d.C.), che cacciò da Roma i giudei per i continui tumulti che creavano, turbando la tranquillità sociale (At 18,2). A Corinto Apollo proseguì efficacemente l'opera di Paolo, tanto da formare attorno a sé un gruppo di discepoli, che si rifacevano al suo insegnamento; altri, invece, ritenevano come loro maestro e guida Paolo stesso; altri ancora Cefa e altri Cristo.

Più problematici risultano questi due ultimi nomi, a cui si rifacevano altri gruppi di Corinzi. Se Paolo ed Apollo erano stati a Corinto e lì avevano predicato e fatto i loro proseliti, Cefa e Cristo non risulta che siano stati a Corinto a predicare. Come, dunque, spiegare la presenza di questi due nomi, a cui si rifacevano alcuni gruppi di Corinti? Quanto a Cefa, nome aramaico di Pietro, uno dei capi, assieme a Giacomo e Giovanni, della Chiesa madre di Gerusalemme (Gal 2,9a), di chiare tendenze cristiane giudaizzanti (Gal 2,11-13; At 15,28-29), va detto che il suo nome e con questo il suo insegnamento fu probabilmente portato a Corinto da giudeocristiani giudaizzanti, cioè da quei cristiani provenienti dal giudaismo, ma che ancora seguivano l'insegnamento di Mosè e che riconoscevano Pietro come loro capo, forse per la sua particolare posizione nei confronti di Gesù, che successivamente i vangeli hanno evidenziato. Non di rado, infatti, Paolo avrà modo di lamentarsi di questi giudeocristiani giudaizzanti14, i quali, dopo che Paolo se ne era andato, entravano nella comunità appena fondata e operavano una sorta di contro evangelizzazione, affermando che la salvezza portata da Cristo poteva essere ottenuta soltanto se ci si faceva circoncidere, sottomettendosi alla Legge mosaica, annullando di fatto la novità dell'evento Gesù e la salvezza da lui portata ( At 15,1; Gal 5,2-4).

Tuttavia, non va esclusa l'ipotesi che Pietro sia effettivamente passato da Corinto, lasciandovi la sua predicazione. Infatti il nome “Cefa” nonché il personaggio sembrano essere conosciuti a Corinto. Paolo, qui in 1Cor 9,5, ne fa un blando, ma significativo cenno: “Non abbiamo forse diritto di condurre con noi una donna sorella, come anche gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa?”. Il fatto che il nome “Cefa” venga qui riportato senza alcun commento o precisazione, sta a significare che Pietro era in qualche modo ben conosciuto a Corinto.

Più problematico e praticamente insolubile è il gruppo che si rifaceva a Cristo: “Io sono di Cristo”. Come leggere e comprendere questa affermazione? L'espressione potrebbe essere un'aggiunta di Paolo, che nella sua elencazione di nomi bandiera ha contrapposto polemicamente la sua appartenenza esclusiva a Cristo, forse questa l'ipotesi più credibile: “Io di Cristo”. Una seconda ipotesi è che questo “Cristo” sia una deformazione del nome “Crispo”15, il capo sinagoga di Corinto, convertito da Paolo (At 18,8). La cosa, tuttavia, non sembra molto credibile, poiché il v.12 doveva terminare in realtà proprio con la parola “Cristo”, poiché questa funge da parola aggancio al v.13, che si apre con il nome “Cristo”, trascinando con sé l'intero v.12. Un'altra ipotesi è che l'espressione “Io di Cristo” fosse originariamente una glossa, cioè un'annotazione posta a margine dello scritto da qualche amanuense e nel corso del tempo incorporata nel testo della Lettera da un altro disattento amanuense. Ipotesi questa poco attendibile, poiché non vi sono tracce in tal senso nella tradizione manoscritta.

Di certo l'espressione “Io di Cristo”, colto come una sorta di porta bandiera per un gruppo di Corinti, qui stona, perché proprio in questa lettera Paolo dirà chiaramente in 3,23: “ma voi (siete) di Cristo e Cristo (è) di Dio”, confermando in tal modo la posizione del quarto “partito”, che si dichiarava di “essere di Cristo”. È difficile pensare che in una lettera che Paolo scrive per contestare e deprecare gli schieramenti e le divisioni, prenda posizione favorevole per una delle quattro, accentuando in tal modo la divisione, che voleva combattere. È da concludere, pertanto, a mio avviso, che quel “Io di Cristo” sia un aggiunta polemica di Paolo, che poi confermerà in 3,23 estendendola a tutti i Corinti, attestando che i Corinti non appartengono a nessuno se non a Cristo.

Le prime considerazioni (vv.13-17)

Alle divisioni Paolo contrappone subito, con tre domande retoriche, la cui risposta è implicitamente negativa, l'assurdità delle divisioni stesse. L'immediatezza della risposta, sottesa da una evidente polemica, serve a Paolo per richiamare alla realtà dell'unica fede nell'unico Cristo i Corinti ed arginare la loro deriva: “Cristo è stato diviso? Forse che Polo è stato crocifisso per voi, o nel nome di Paolo siete stati battezzati?”.

La prima battuta si chiede se Cristo è stato diviso. In altri termini se vi sono più Cristi o se Cristo è stato annunciato in modo equivoco ai Corinti così da poter discettare su di lui a piacimento; o se è lecito smembrare l'unico Cristo per dare adito alle fantasie filosofiche dei Corinti, sollecitati ed ammaliati dai vari predicatori di turno, quasi vi fossero più Cristi o ognuno possedesse una sua verità su Cristo da contrapporre agli altri gruppi. In realtà i Corinti sono rimasti vittime del loro stesso amore per la conoscenza e per la sapienza (v.22b), applicando questa loro sete di sapere a Cristo, quasi che Cristo sia una realtà opinabile, su cui si può dire tutto e il contrario di tutto. Cristo, in realtà, è un evento unico e irripetibile, racchiuso nel suo Mistero, che va creduto e accolto nella propria vita e non affrontato con le logiche della sapienza umana, che, dirà subito Paolo, di fronte al Mistero di Dio e del suo Cristo si mostra totalmente fallimentare e deviante. Il come, dunque affrontare la questione “Cristo” Paolo lo dirà nella sezione 1,18-31, che farà poi continuamente riecheggiare in vario modo nei capp.2-4 il tema della vera sapienza, condannando il modo umano di affrontare un simile Mistero, che si radica in Dio stesso.

Il secondo passaggio riporta i Corinti alle origini della loro fede e della loro salvezza, che si radica nella croce di Cristo: “Forse che Polo è stato crocifisso per voi”. Una frecciata lanciata da Paolo al gruppo che lo aveva elevato a propria bandiera. Paolo dirà di se stesso che lui è il padre spirituale dei Corinti, avendoli generati a Cristo con la predicazione del suo Vangelo (4,15b), ma la salvezza è opera della croce di Cristo. Un Cristo che Paolo conosce come il Crocifisso e a cui egli si sente assimilato (Gal 2,20).

Non è un caso, infatti, se questa pericope (vv.13-17) è racchiusa da un'inclusione data dalla parola “crocifisso” (v.13) e “croce”, mettendo l'intera pericope sotto l'egida della croce di Cristo, così come il tema del battesimo, che percorre l'intera pericope, in Paolo si richiama implicitamente alla morte di croce del Cristo stesso (Rm 6,3-4a). L'intera pericope, pertanto, va considerata come una sorta di preambolo introduttivo alla sezione 1,18-31, dove la croce di Cristo si pone come discriminante tra la sapienza umana, seguita dai Corinti, e quella divina, privilegiata da Paolo.

Ed è proprio sul tema del battesimo che Paolo continua la sua polemica contro la deviazione dei Corinti, in cui il suo nome è stato coinvolto e involontariamente causa di contese e contrasti all'interno della comunità: “o nel nome di Paolo siete stati battezzati?”. Essere “battezzati nel nome” significava essere incorporati nell'Essere nel cui nome si veniva battezzati e si faceva in qualche modo parte della sua vita e dei suoi destini. Di certo questo Essere non poteva essere Paolo, ma era il nome del “Cristo Gesù”, intendendo con tale nome il “Cristo crocifisso”. Paolo, infatti, in Rm 6,3-4a attesta: “O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte”. Il battesimo, per Paolo, quindi era un'assimilazione del battezzato alla morte di Cristo, che fu una morte di croce, in prospettiva della risurrezione. Paolo stesso del resto vede se stesso come un assimilato alla croce di Cristo, che per lui è soltanto il Cristo crocifisso, così che non è più lui che vive, ma Cristo, il crocifisso, vive in lui (Gal 2,20). Un tema, questo, che Paolo riprenderà ai capp.2 e 4.

Al fine di allontanare da sé il pericolo che qualcuno si rifacesse a lui come battezzatore e si sentisse a lui vincolato a svantaggio di Cristo, Paolo presenta la sua vera missione: “Cristo non mi mandò a battezzare, ma ad annunciare” (v.17a). Paolo mette qui in evidenza il senso del suo mandato. Che proviene direttamente da Cristo: quella di predicare, annunciare, diffondere tra le genti Cristo, per provocare la loro adesione esistenziale a lui. Il fatto che Paolo non ricomprenda nella sua missione il battesimo non significa che questo non sia necessario, ma questo è subordinato alla predicazione, poiché senza l'annuncio non può esservi la fede e senza la fede non si può accedere esistenzialmente a Cristo con il battesimo (Ef 1,13). Il battesimo è acquisizione definitiva del credente a Cristo, anche se tale acquisizione già avviene con la fede, che di per se stessa consente al credente di accedere alla salvezza (Gv 3,16).

Va tenuto presente, poi, che il senso dell'imminenza del ritorno di Cristo16 spingeva Paolo ad annunciare il più possibile Cristo tra le genti, un annuncio che non si fermava neppure quando egli era in catene17, perché tutti fossero in grado di accoglierlo alla sua venuta. Il battesimo, quindi, era per Paolo la seconda linea del fronte, del quale egli si sentiva la testa di ponte. E che così fosse egli enumera i pochi battesimi che ha somministrato. Tre i nomi riportati: Crispo, il capo sinagoga di Corinto (At 18,8); Gaio, fidato compagno di viaggi e di apostolato di Paolo, il cui nome compare quattro volte nel N.T.18; ed infine Stefana e la sua famiglia19, i primi convertiti dell'Acaia; fervente membro della comunità e dedito al servizio dei fratelli. Egli faceva parte della delegazione proveniente da Corinto, venuta ad Efeso a trovare Paolo, per riferirgli della situazione della comunità.

La pericope (vv.13-17) termina precisando le modalità con cui avviene la predicazione di Paolo: “non con sapienza di parola, affinché non sia svuotata la croce del Cristo” (v.17b). Un versetto questo che funge da introduzione tematica alla sezione 1,18-31 e che verrà ripreso ed approfondito con il cap.2, nonché fungerà da motivo conduttore anche per i capp.3-4. Vengono qui messi in contrapposizione tra loro le due modalità di approccio al Mistero di Dio e di Cristo, nonché viene preannunciata la logica dell'operare di Dio in mezzo agli uomini e che verrà attesta ai vv.27-29: “Dio ha scelto le cose stolte del mondo, per svergognare le cose forti, e Dio scelse le cose ignobili del mondo e le cose spregevoli, quelle che non sono, affinché siano rese vane le cose che sono, affinché ogni carne non si inorgoglisca davanti a Dio”.

La vera sapienza (1,18-31)


Testo a lettura facilitata

Enunciazione della tesi (v.18), prova scritturistica (v.19), conseguenza (v.20)

18- Infatti, la parola della croce è stoltezza per quelli che si perdono, ma per noi che ci salviamo è potenza di Dio.
19- È scritto, infatti: <<Distruggerò la sapienza dei sapienti e l'intelligenza degli intelligenti respingerò>>.
20- Dov' (è il) sapiente? Dove (lo) scriba? Dove (il) disputante di questo secolo? Non ha forse Dio reso stolta la sapienza del mondo?

L'applicazione dimostrativa della tesi (vv.21-25)

21- Poiché, infatti, il mondo, nella sapienza di Dio, non conobbe Dio per mezzo della (propria) sapienza, piacque a Dio, per mezzo della stoltezza della predicazione, salvare coloro che credono.
22- E poiché i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza,
23- noi, invece, predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per le genti,
24- ma per coloro che sono stati chiamati, e Giudei e Greci, (predichiamo) Cristo, potenza di Dio e e sapienza di Dio;
25- poiché la stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e la debolezza di Dio più forte degli uomini.

L'esemplificazione (v.26) in cui si rispecchia il modo di agire di Dio (vv.27-29)

26- Guardate, infatti, la vostra chiamata, fratelli, poiché non (ci sono) molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili;
27- ma Dio ha scelto le cose stolte del mondo, per svergognare le cose forti,
28- e Dio scelse le cose ignobili del mondo e le cose spregevoli, quelle che non sono, affinché siano rese vane le cose che sono,
29- affinché ogni carne non si inorgoglisca davanti a Dio.

I Corinti frutto di questo modo di agire di Dio operato in Cristo (vv.30-31)

30- Ma da lui voi siete in Cristo Gesù, il quale fu fatto sapienza per noi da Dio, giustizia e santificazione e redenzione.
31- affinché, come sta scritto: “colui che si gloria nel Signore si glori”.


Note generali

L'intera sezione si svolge con toni da retorica polemica, che punta a dimostrare la vacuità dell'intelligenza e della sapienza umane, del tutto inadeguate, allorché ci si accosti al Mistero di Dio e del suo progetto salvifico. Già Is 55,8-9 metteva in evidenza la distanza che intercorre tra il modo di ragionare di Dio e quello, molto più fragile e aleatorio, dell'uomo. Una fragilità che già Ezechiele rilevava, allorché Dio si rivolgeva a lui con l'appellativo “figlio dell'uomo”, evidenziando tutto lo scarto che intercorreva tra il profeta e Dio stesso, denunciando tutta la debolezza e la caducità dell'essere umano nei confronti di Dio.

La sezione si sviluppa partendo dall'enunciazione della tesi (v.18), supportata dalla prova scritturistica (v.19) e concludendo con l'attestazione di una totale sfiducia nell'intelligenza e nella sapienza umane nel saper raggiungere il Mistero di Dio e del suo Cristo (v.20).

La tesi, così sviluppata (vv.18-20), viene poi applicata, in senso generale (vv.21-25), sia ad Israele che al mondo pagano, che non hanno saputo leggere e comprendere l'evento Cristo, perché hanno affrontato il suo Mistero con logiche meramente umane, cercando, il primo, miracoli che provassero che Gesù fosse veramente il Cristo di Dio20; mentre il secondo si era arenato in una sapienza e in un sofismo senza fine, che gli ha impedito di riconoscere la vera identità e la vera natura del Cristo. Così che, dirà Gv 1,10-11: “Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe. Venne fra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto”. Quanto alla prima attestazione giovannea, questa verrà ripresa da Rm 1,20-22, emettendo una sentenza di condanna su di essa: “Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità; essi sono dunque inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti”. Quanto alla seconda attestazione giovannea, Paolo vi dedicherà ben tre capitoli della sua Lettera ai Romani (9-11), in cui esprimerà tutto il suo stupore e il suo profondo dolore alla ricerca dei motivi per cui la sua gente non ha saputo riconoscere ed accogliere il Messia tanto atteso, oscurata, paradossalmente, proprio da quelle Scritture, che lo annunciavano, ma che non ha saputo leggere e comprendere nel giusto modo, quello indicato dai Profeti, che hanno, invece, perseguitato e ucciso (Mt 23,34.37).

Dal quadro generale (vv.21-25), Paolo, poi, passa ad applicare la tesi iniziale (vv.18-20) allo specifico della comunità di Corinto (vv.26-29), invitando i Corinti a prendere coscienza della qualità dei membri stessi, che formano la loro comunità: gente quasi esclusivamente povera, non particolarmente dotata e per niente addentro al sapere umano. Sono proprio loro che hanno saputo comprendere ed accogliere la chiamata del Signore rivolta loro dalla parola del Vangelo. Sono loro la prova vivente della correttezza della tesi enunciata da Paolo ai vv.18-20 (vv.30-31),

La sezione, pertanto, può essere così suddivisa:

  1. Enunciazione della tesi (v.18), prova scritturistica (v.19), conseguenza (v.20);

  2. applicazione dimostrativa della tesi al mondo giudaico e pagano (vv.21-25);

  3. applicazione dimostrativa della tesi alla stessa comunità di Corinto (v.26), in cui si riflette il modo di agire di Dio (vv.27-29);

  4. attestazione finale: i Corinti stessi sono il frutto di questo modo di agire di Dio operato in Cristo (vv.30-31).

Commento ai vv.18-31

Enunciazione della tesi (v.18), prova scritturistica (v.19), conseguenza (v.20)

Il v.17 terminava con la parola aggancio “croce”, qui ripresa dal v.18, in apertura della sezione circoscritta dai vv.18-31, costituendo il tema che percorrerà la più ampia sezione tematica 1,18-4,21. La “croce” diviene qui per Paolo l'elemento discriminante tra fede e incredulità, ponendo un'ipoteca di salvezza su chi crede e di dannazione per chi non crede.

Un evento, quello della croce, che viene diversamente percepito da chi crede e da chi non crede. Essa, infatti, si presenta come il segno del fallimento di Dio e del suo Cristo per coloro che non credono (Mt 27,39-44), poiché, proprio per la loro mancanza di fede, non sanno andare oltre a ciò che fisicamente vedono e non sanno leggere nella sconfitta dell'uomo Gesù il segno della vittoria di Dio sulla decaduta carne adamitica, carne despiritualizzata, perché carne di peccato, che nella carne crocifissa di Gesù è stato distrutto, predisponendo l'antica creazione decaduta ad una nuova creazione, rigenerata e rinnovata nella risurrezione. Ne farà un cenno Paolo in Rm 6,5-6: “Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione. Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato”.

La croce, pertanto, ben lungi dall'essere l'emblema della sconfitta di Dio, è il segno e lo strumento della sua vittoria sulla forza del peccato21, che in e con essa è stato distrutto e sulle sue macerie rigenerato un mondo nuovo, vaticinato da Isaia (Is 66,22) e contemplato da Giovanni nell'Apocalisse (Ap 21,1). Ma serve una strumentazione idonea per poter percepire queste realtà spirituali innescate dal progetto salvifico del Padre, che ruota attorno alla croce (Ef 1,7): la fede, cioè la capacità di andare “oltre” quel muro di fisicità contro il quale s'infrange la sapienza umana, che vede, ma non comprende.

E a supporto di questa sua tesi Paolo cita Is 29,14b. Una citazione non casuale, non solo perché si adatta al merito, ma anche perché è stata tratta da un contesto storico sotteso da un comportamento dei Giudei, molto simile a quello cui Paolo sta facendo riferimento, a riprova che i tempi cambiano, ma l'uomo continua ad essere sempre tale e a ripetersi nel tempo, attestando così che non sempre Historia magistra vitae22. Sennacherib (704-681 a.C.) aveva promosso una campagna contro la coalizione di quegli stati che si erano sottratti al tributo dell'Assiria (701 a.C.), tra i quali anche Ezechia, re di Giuda (716-687 a.C.). Dio aveva promesso che avrebbe liberato Giuda dal re assiro, ma molti Israeliti preferirono fondare la loro fiducia negli aiuti umani piuttosto che in Jhwh (Is 28,15; 29,15; 30,1). Una scelta dettata dalla loro cecità spirituale, causata dall'abbandono del vero culto a Jhwh (Is 29,13). Dio salverà, infatti, Gerusalemme dall'assedio di Sennacherib, sbugiardando gli intrallazzatori giudei e ridicolizzando tutte le loro trame, dimostrando così quanto sia fragile e vacua, nei confronti di Dio, la strategia e l'astuzia generate dalla sapienza umana e confidare nell'uomo piuttosto che in Dio, così che Jhwh attesterà per mezzo del profeta: “Perciò, eccomi, continuerò a operare meraviglie e prodigi con questo popolo; perirà la sapienza dei suoi sapienti e si eclisserà l'intelligenza dei suoi intelligenti” (Is 29,14).

Forte di questa attestazione scritturistica, Paolo lancia, ora, la sua sfida alla sapienza umana, sorretta dalla fragilità del suo pensiero e dei suoi ragionamenti, che risentono della relatività storica dell'uomo, che è come l'erba che fiorisce al mattino e, falciata, dissecca alla sera (Sal 89,5-6): “Dov'(è il) sapiente? Dove (lo) scriba? Dove (il) disputante di questo secolo? Non ha forse Dio reso stolta la sapienza del mondo?” (v.20). Paolo chiama a raccolta, con tono polemico, il fior fiore dei rappresentanti del sapere umano di entrambi i campi avversi: il sapiente, rappresentante della filosofia greca; lo scriba giudaico, dottore ed esperto della Legge; il retore, sia greco che romano, abile polemista e manipolatore del sapere umano, e lancia loro il guanto di sfida, invitandoli ad un confronto in campo aperto con Dio, preannunciando la loro sconfitta: “Non ha forse Dio reso stolta la sapienza del mondo?”.

L'applicazione dimostrativa della tesi (vv.21-25)


Note generali

Il v.20 nel chiudere la parte introduttiva (vv.18-20) di questa sezione tematica (vv.18-31), traghetta il lettore, anticipandone in qualche modo il tema, alla successiva pericope (vv.21-25), dove viene dimostrata, secondo un prestabilito piano di Dio, la debolezza della conoscenza e della sapienza umane, applicate sia ai Giudei che ai Greci, cioè al mondo pagano in genere.

La pericope in esame è particolarmente curata e si sviluppa strutturalmente su parallelismi concentrici, per cui si avrà la seguente elaborazione:

A) Il piano preordinato di Dio punta ad offuscare e a confondere la sapienza umana attraverso la stoltezza della predicazione della croce, annientando in tal modo la sapienza umana, escludendola dalla salvezza, che viene invece offerta a coloro che credono (v.21);

B) Giudei e Greci, ognuno a proprio modo, cercano inutilmente risposte di fronte allo scandalo della croce (v.22);

C) l'attestazione centrale: “noi, invece, predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per le genti” (v.23);

B1) risposte che, invece, vengono date solo a chiunque si accosta alla Croce con la fede, che consente, al di là dei miracoli e dei ragionamenti umani, di raggiungere il Mistero di Dio, cioè il suo piano di salvezza criptato nella Croce, in cui si scopre la potenza e la sapienza di Dio, che operano sotto le mentite spoglie umane di una fallimentare croce (v.24);

A1) pertanto la stoltezza di Dio, si dimostra, in tal modo, più sapiente della sapienza umana e la debolezza di Dio più forte della potenza umana (v.25)

Le lettere A) e A1) si completano a vicenda, poiché A) enuncia come la croce sia un linguaggio impenetrabile per la sapienza umana, ma reso comprensibile per il credente. In tal modo, A1), la sapienza e la potenza umane vengono sconfitte proprio da ciò che esse ritengono stolto e fallimentare, poiché precludono loro ogni possibilità di accedere al Mistero, che si cela ed opera nella Croce.

Le lettere B) e B1), completandosi a vicenda, costituiscono un ulteriore passo in avanti, poiché l'enunciato di A) e A1) viene ora applicato a due particolari categorie di persone, che hanno parimenti, ognuno a modo proprio e secondo propri ragionamenti, rifiutato la Croce e il suo Crocifisso: i Giudei e i Greci, che comunque accederanno alla salvezza se, deposte la loro pretesa e la loro sapienza, abbracceranno la fede.

La lettera C) costituisce il punto centrale dell'intera pericope e, secondo le logiche della retorica ebraica, ne è il punto focale, quello più importante, attorno al quale girano e prendono senso gli altri punti, che verso questo convergono.


Commento ai vv. 21-25

Il v.21, introduttivo alla pericope in esame, riprende l'enunciato del v.18 e ne dà qui sia dimostrazione che spiegazione, e si apre con una doppia congiunzione: la prima “poiché”, causale; la seconda “infatti”, dichiarativa (™peid¾ g¦r, epeidè gàr, poiché infatti), finalizzate a dimostrare che esiste un piano salvifico divino preordinato a precludere alla sapienza umana l'accesso a tale piano, poiché questa si muove su logiche completamente diverse da quelle di Dio (Is 55,8-9), e questo perché i due attori della storia della salvezza, Dio e l'uomo, sono posti su due piani completamente diversi ed hanno intenti diversi, se non contrapposti. Tale disegno salvifico, infatti, è stato generato nel Mistero di Dio, al quale ha accesso soltanto lo Spirito, che ne conosce le profondità (2,10), ma esso è stato rivelato in Gesù, che si muoveva ed operava secondo quanto gli dettava lo Spirito23, così che da solo egli non poteva far nulla (Gv 5,19.30).

Un piano salvifico, che è stato rivelato, ma nel contempo criptato, attraverso un linguaggio incomprensibile alla sapienza umana, quello della croce, che nelle logiche umane è il segno inequivocabile del fallimento e della sconfitta di Dio. Ma un tale linguaggio, per contro, si rivela a coloro che vi si accostano per mezzo della fede, cioè per mezzo di quello strumento che apre all'intelligenza spirituale, che sa andare oltre alla barriera dell'apparenza, per accedere al Mistero di Dio, poiché si allinea alle sue logiche, alle sue prospettive, al suo modo di vedere le cose. E ciò è possibile solo se si aderisce esistenzialmente alla Parola, l'unica in grado di rivelarci, almeno in parte e per ciò che concerne l'uomo e la sua salvezza, il Mistero di Dio.

Se il v.21, riprendendo il v.18, costituisce l'introduzione tematica a questa pericope, il v.22, anche questo introdotto dalla congiunzione causale “poiché”, illustra le cause di questa debolezza di pensiero, divenendo in tal modo un'esemplificazione dell'enunciato del v.21.

Ricorrono qui due nomi simbolici: Giudei e Greci, che costituivano, secondo la visione giudaica delle cose, l'intero mondo abitato. I primi sono i discendenti dell'antico Israele, sul quale si era posata la scelta di Dio (Dt 7,7-8), costituendolo ai piedi del monte Sinai sua proprietà, regno di sacerdoti e nazione santa (Es 19, 5b-6). Questi furono gratificati con ogni dono spirituale finalizzato, da un lato, alla conoscenza del disegno salvifico di Dio; dall'altro, alla preparazione della venuta del suo Messia, così che, una volta giunto, venisse riconosciuto ed accolto, divenendo così Israele la guida spirituale dell'intera umanità. Rm 9,4-5a farà un'elencazione di questi doni spirituali preparatori alla venuta di Gesù, affinché lo si riconoscesse e lo si accogliesse quale Figlio di Dio, inviato dal Padre: “Essi sono Israeliti e possiedono l'adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne”. Ma concluderà amaramente Giovanni, in apertura del suo Vangelo: “Venne fra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto” (Gv 1,11); vangelo che concluderà la vita pubblica di Gesù altrettanto amaramente: “Sebbene avesse compiuto tanti segni davanti a loro, non credevano in lui” (Gv 12,37), creando in tal modo un'inclusione, che pone l'intera vita pubblica di Gesù, cioè l'intera sua manifestazione e rivelazione del Padre (Gv 1,14), sotto il segno dell'inintelligenza e del rifiuto, che creeranno in Paolo un grandissimo dolore, al quale dedicherà Rm 9-11, con cui cercherà di darsi una spiegazione di questo gran rifiuto: “Dico la verità in Cristo, non mentisco, e la mia coscienza me ne dà testimonianza nello Spirito Santo: ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua. Vorrei infatti essere io stesso anatema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne”.

Un rifiuto del Cristo di Dio dettato dal loro pervicace e invincibile legalismo e dalla loro incomprensione del senso di quanto era loro accaduto, cioè della loro storia, i cui interpreti, i Profeti, furono perseguitati e uccisi (Mt 23,29-32), così che a ognuno che cercasse di illuminare i Giudei, dando un nuovo senso e una nuova comprensione della Torah (Mt 5,21-45), questi chiedevano miracoli24, cioè prove del suo mandato divino per poter discettare sulla Torah, ingabbiata in una Tradizione interpretativa e dottrinale, che Gesù squalificherà, tacciandola di “precetti di uomo” (Mt 15,9: Mc 7,7), che hanno modificato il senso stesso della Torah sostituendosi ad essa (Mt 15,5-6; Mc 7,9-13).

Quanto alla seconda categoria di persone, i Greci, questi furono i padri del pensiero occidentale, che vede, percepisce, rileva, considera ed elabora, trasformando la percezione in conoscenza e la conoscenza in sapere. Aristotele (384-322 a.C.) individuava il motore della conoscenza e del filosofare nella “Meraviglia”, cioè lo stupore che l'uomo prova di fronte al creato: “Gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della Luna e quelli del Sole e degli astri, o i problemi riguardanti la generazione dell'intero universo. Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere; ed è per questo che anche colui che ama il mito è, in certo qual modo, filosofo: il mito, infatti, è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia” (Metafisica, I).

È interessante notare come Aristotele associ lo stupore e la meraviglia di fronte al creato con il mito, che trasfonde lo stupore e la meraviglia in racconti e i racconti in immagini e le immagini in divinità, assegnando ad ognuna una propria storia ed una propria funzione, finalizzata a soddisfare le esigenze e le necessità dell'uomo. Un processo questo che elaborerà similmente anche Paolo circa quattro secoli dopo in Rm 1,18-23, proprio rivolgendosi al mondo pagano: “In realtà l'ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell'ingiustizia, poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha loro manifestato. Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità; essi sono dunque inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell'incorruttibile Dio con l'immagine e la figura dell'uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili”.

Un sapere, quindi, deviato e deviante, che non ha saputo andare oltre a ciò che vedeva e toccava, perdendosi nei suoi ragionamenti, che non hanno saputo intuire e poi comprendere come le realtà contemplate, che tanto stupore e meraviglia creavano nell'uomo, altro non erano che un segno e un'ombra di altre realtà spirituali che in queste si riflettono, spingendolo ad andare oltre, cercando la Fonte prima ed ultima di tanto stupore in lui smosso e quindi intuire, almeno, che possano esistere realtà superiori, che trascendono i propri sensi; realtà per la cui percezione serve una diversa strumentazione. Quale questa sia lo dirà il corrispondente e complementare v.24: la fede, qui intesa come chiamata alla salvezza, che avviene attraverso il linguaggio criptato della croce, incomprensibile per la sapienza umana e contro il quale s'infrange, denunciando tutta la propria debolezza e inadeguatezza, generata dalla propria cecità spirituale.

Questo per dire come il Mistero di Dio e il suo progetto di salvezza, in esso generato, è una realtà irraggiungibile dal sapere umano, che va, invece, accolto nella fede, che consente una visione superiore delle cose, generata da un'intelligenza spirituale, che apre il credente ad una dimensione completamente diversa da quella in cui vive, introducendolo nella stessa realtà di Dio e che Dio si riserva di donare a chi aderisce alla sua proposta di salvezza, abbandonando le sue sicurezze umane, poiché Dio e la sua salvezza non sono oggetti di conquista umana, ma dono, che chiede un atteggiamento di umiltà e di apertura per poterlo ricevere, poiché Dio resiste ai superbi, ma fa grazia agli umili (Prv 3,34).

Ed ecco, quindi, il v. 23 che, posto centralmente nella pericope vv.21-25, si erge a sfida della sapienza umana: “noi, invece, predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per le genti”, dove quel “invece” dice tutta la contrapposizione tra la sapienza umana e quella divina, che parla con un linguaggio incomprensibile alle logiche umane, ma da cui si sprigiona tutta la potenza distruttrice e rigeneratrice di Dio, poiché se dalla croce è sgorgata la morte, questa in realtà, ben lungi dall'essere il segno del fallimento e della sconfitta di Dio, fu solo il preambolo di una vita nuova, che già il Gesù giovanneo, giunto ormai al termine della sua missione pubblica, aveva in qualche modo preannunciato: “In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24).

Una cristologia, ma forse qui è meglio parlare di una staurologia, cioè di una teologia della croce, quella paolina, che trova la sua testimonianza nella storia stessa della Chiesa, sgorgata dalla Croce di Cristo e affermatasi con potenza in seno all'umanità e alla sua storia. Una potenza fatta non di armi, ma di testimonianza, pregna del sangue dei testimoni, in cui non si è sprigionata la sconfitta di Dio, ma contrariamente alle logiche umane, la sua affermazione.

E Paolo questo lo aveva capito molto bene attestando in Gal 2,20: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”. E il Cristo che vive in Paolo è un Cristo crocifisso, che traspare dalla sua predicazione (v.23) e ancor prima dalla sua vita, così che egli affermerà con un paradosso che lo contraddistingue: “Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,10).

L'esemplificazione (v.26) in cui si rispecchia il modo di agire di Dio (vv.27-29)

Dopo l'enunciazione della tesi (v.18), accompagnata dalla prova scritturistica (v.19), e la sua applicazione dimostrativa sia al mondo giudaico che a quello pagano (vv.21-25), Paolo, ora, con la pericope vv.26-29 passa alla fase successiva, quella dell'esemplificazione riferita alla stessa comunità di Corinto (v.26), e prende spunto da questa per approfondire il modo, inconsueto e incomprensibile alle logiche umane, con cui Dio opera il suo progetto di salvezza in mezzo agli uomini (vv.27-29). Si tratta, in buona sostanza, di un momento di riflessione, che parte dalla constatazione della formazione della stessa chiesa di Corinto.

Il v.26, infatti, apre la pericope con un invito alla riflessione, a porre attenzione a quanto Dio stesso ha operato nella comunità di Corinto: “Blšpete g¦r” (Blépete gàr, Guardate, infatti), dove quel “infatti” (g£r), fatto seguire da un “Óti” (óti, poiché), assume il doppio senso di congiunzione dichiarativa e dimostrativa dell'operare concreto di Dio in mezzo a loro. Ciò che i Corinti devono constatare è che fra loro “non (ci sono) molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili”. “Sapienti, potenti e nobili” designavano una categoria di persone, che costituiva una piccola parte della struttura sociale di Corinto, come di molte altre città dell'antica Grecia e non solo. L'altra parte, la più consistente, era formata da schiavi, servi, operai, contadini, artigiani. Di conseguenza la conversione dei Corinti rispecchia all'incirca la struttura sociale di Corinto. Infatti, Paolo non nega che all'interno della comunità credente vi siano sapienti, potenti e nobili, ma questi sono in numero molto ridotto rispetto al resto della comunità, così come ridotto era il numero dei benestanti in Corinto. Ma i più erano povera gente, che cercava di campare alla meno peggio. Quindi niente di straordinario in quanto Paolo vuol far rilevare alla sua comunità credente di Corinto, perché la “chiamata alla fede” rispecchia in buona sostanza le proporzioni della società stessa.

Ma ciò che qui Paolo vuol mettere in rilievo è la metodologia operativa di Dio stesso e lo fa partendo dalla formazione della stessa chiesa di Corinto, che gli fornisce l'occasione per una sua riflessione, sulla quale richiama l'attenzione dei Corinti con quel iniziale “Blšpete g¦r” (Blépete gàr, Guardate, infatti).

I vv.27-29 costituiscono l'esposizione della metodologia operativa di Dio, che viene sviluppata da Paolo in tre passaggi, in cui ogni passaggio contiene una contrapposizione del tipo: “debole-forte”, “ignobile,spregevole-nobile,onorevole”, con cui vengono posti in contrasto tra loro i due modi di pensare e di operare del mondo e di Dio, irriducibili l'uno all'altro, per concludere come, proprio attraverso ciò che è stimato nulla dagli uomini, ma che contiene in realtà in se stesso la potenza stessa di Dio, Dio distruggerà con questo nulla potente, la potenza degli uomini, che si credono potenti e si ergono a sfida di Dio stesso.

Il v.29 costituisce il terzo passaggio, conclusivo dei primi due passaggi (vv.27-28), quello più importante, poiché spiega il motivo dell'operare di Dio in tale modo: “affinché ogni carne non si inorgoglisca davanti a Dio”. In altri termini, la chiamata alla salvezza è opera esclusiva di Dio e non conquista dell'uomo, poiché l'uomo non è in grado di operare la propria salvezza, che si pone su di un piano completamente diverso da quello in cui l'uomo vive, poiché egli è un essere decaduto, caratterizzato dalla sofferenza, dal dolore e dalla morte; mentre la salvezza è l'accesso a quel Paradiso Terrestre perduto, che non gli apparteneva, poiché altro non era che la Vita stessa di Dio, in cui l'uomo viveva e di cui partecipava nei suoi primordi, ma che dalla quale fu estromesso fin da allora..

Ed è proprio in questo suo usurante e logorante modo di vivere, che caratterizza la sua condizione esistenziale nonché dell'intera creazione, con lui decaduta, che l'uomo tocca i propri limiti e viene sconfitto proprio dalla sua congenita debolezza, che può generare soltanto debolezza e la cui potenza è minata dalla fragilità della sua stessa condizione umana decaduta.

I Corinti frutto di questo modo di agire di Dio operato in Cristo (vv.30-31)

Con i v.30-31, dopo aver enunciato il suo assunto iniziale (v.18), applicato dimostrativamente e con esemplificazioni sia al mondo giudeo-pagano (vv 21.25), che alla comunità credente di Corinto (vv.26-29), Paolo torna, ora, alle pretese dei Corinti, denunciate da “quelli di Cloe”: “Ora dico questo, poiché ciascuno di voi dice: <<Io sono di Paolo, io di Apollo, io di Cefa, io di Cristo>>” (vv.11-12), e conclude controbattendo: “Ma da lui voi siete in Cristo Gesù, il quale fu fatto sapienza per noi da Dio, giustizia e santificazione e redenzione”. Quindi la salvezza che i Corinti hanno ottenuto non proviene, né tanto meno dipende, dall'abilità oratoria dei diversi predicatori, di cui essi tanto si fregiano. Questi altro non sono che “Servi per mezzo dei quali (voi) avete creduto, e come a ciascuno il Signore ha dato” (3,5b). La salvezza, invece, essi l'hanno ricevuta “da lui”, cioè dal “Padre”, che li ha collocati in Cristo Gesù, il quale, a sua volta, è opera dello stesso Padre. Il verbo, infatti, qui è al passivo, “™gen»qh” (eghenétze, fu fatto) e Dio è complemento d'agente (¢pÕ qeoà, apò tzeû, da Dio). Cristo, quindi, opera del Padre, in cui i Corinti dimorano in virtù della loro fede, generata in essi dalla Parola del Vangelo, è stato fatto appositamente per i credenti (per noi) sapienza, giustizia, santificazione e redenzione, che dicono le forze trasformanti e rigeneranti, che operano in Cristo crocifisso, potenza e sapienza del Padre.

Gli appellativi attribuiti a Cristo non sono stati messi in ordine casuale, ma di logica salvifica. Dapprima, infatti, vi è la “Sapienza”, che ha in se stessa una funzione illuminante e rivelante. Si parla di quella “Sapienza” che “conosce le tue opere, che era presente quando creavi il mondo; essa conosce che cosa è gradito ai tuoi occhi e ciò che è conforme ai tuoi decreti” (Sap 9,9) e di essa era pregna la Parola del Vangelo, che ha rigenerato i Corinti alla Vita stessa di Dio (1Pt 1,23). Una Sapienza, si badi bene, che non è scienza, né ha a che vedere con il sapere umano, ma è, invece, per Paolo il Cristo crocifisso, “scandalo per i Giudei, stoltezza per le genti, ma per coloro che sono stati chiamati, e Giudei e Greci, (predichiamo) Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio” (vv.23-24). Una Sapienza contro la quale s'infrange quella umana (v.19).

Il secondo appellativo è “Giustizia”, che qui va intesa quale forza di giustificazione, cioè forza capace di mettere nuovamente l'uomo nella giusta posizione e nella giusta relazione con Dio, così com'era nei primordi dell'umanità, allorché “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gen 1,31a). Una “Giustizia”, che dice anche la fedeltà di Dio alle sue promesse, che ha realizzato pienamente nel suo Cristo, verso il quale esse tendevano.

Il terzo appellativo è “Santificazione”, cioè l'accorpamento e l'assimilazione dell'uomo a Dio, che è il Santo per eccellenza e fonte di ogni santità. Un accorpamento che è avvenuto per e in Cristo, rendendo l'uomo nuovamente partecipe alla Vita divina, riconoscendolo nuovamente quale figlio nel Figlio. Ed è questo il comandamento di santità che Dio ha dato all'uomo, quale suo impegno esistenziale e quale sua connaturata vocazione alla santità, di cui è rivestito in virtù della fede e del battesimo: “Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo” (Lv 19,2b).

Il quarto appellativo ed ultimo è “Redenzione”, che ha consentito, proprio attraverso la Croce e il Sangue su di essa sparso, di riscattare l'uomo dalla schiavitù del peccato (Ef 1,7), consentendo in tal modo, alla Sapienza, alla Giustizia e alla Santificazione di attuarsi e di operare efficacemente su di lui, reso, ora, grazie alla Redenzione, giustificabile e santificabile e capace di intendere nuovamente la voce di Dio, che nuovamente risuona nel suo Cristo, Parola eterna del Padre.

Ed è con questi quattro appellativi, che qualificano il Cristo crocifisso, che Paolo ha tratteggiato il progetto di salvezza, pensato ed operato dal Padre nel suo Cristo, dal quale e per il quale è giunta anche ai Corinti la salvezza. Se, quindi, i Corinti vogliono proprio vantarsi e gloriarsi, lo facciano gloriandosi e vantandosi nel Signore, perché lui e non Paolo o Apollo o Pietro o quant'altri sono stati crocifissi per loro (v.13). Quindi, conclude Paolo, citando e sintetizzando liberamente Ger 9,22-33: “colui che si gloria nel Signore si glori”. E non negli uomini, dunque. Tema quest'ultimo che Paolo riprenderà al cap.3, tacciando i Corinti di essere “ancora carnali. Poiché, infatti, tra voi vi è rivalità e contesa, non siete (forse) carnali e camminate secondo l'uomo?” (3,3).

Anche nell'agire di Paolo si rispecchia la logica dell'agire di Dio (2,1-5)

Testo

1- (A) E io, venuto da voi, fratelli, venni non con sublimità di parola o di sapienza, annunciandovi il mistero di Dio.

2- (B) Infatti scelsi di non sapere un qualcosa in mezzo a voi se non Gesù Cristo e questo crocifisso.

3- (C) E io fui presso di voi in debolezza e in paura e in molto tremore,

4- (B1) e la mia parola e la mia predicazione non (furono fatte) con persuasiv[i] [discorsi] di sapienza, ma con (la) dimostrazione d(ello) Spirito e d(ella sua) potenza,

5- (A1) affinché la vostra fede non fosse (fondata) s(ulla) sapienza (degli) uomini, ma s(ulla) potenza di Dio.


Note generali

Dopo l'attestazione teologica dei vv.1,18-20, da cui traspare la metodologia di Dio nel realizzare il suo progetto di salvezza, fondato sullo scandalo della croce, che va contro ogni logica dell'intelligenza e della sapienza umane, attestazione che si riscontra nel mondo giudeo-pagano (1,21-25) e che trova un esempio presso la stessa comunità di Corinto, formata quasi esclusivamente da povera gente (1,26-31), Paolo, ora, estende questa esemplificazione del modo di agire di Dio anche alla sua stessa missione, attuata presso i Corinti non con eloquenza o sfarzosità retorica o sorprendenti e persuasive argomentazioni umane, ma con timore e con povertà di linguaggio, che aveva come unico tema il Cristo crocifisso.

Ma Paolo rileva come questo suo modo di agire, che si allineava alle logiche dell'agire di Dio, non era fondato sui suoi limiti personali, ma fu una sua precisa scelta strategica di annuncio (2,2), per evitare che i Corinti aderissero alla sua predicazione per le sue abilità magniloquenti, piuttosto che al messaggio che queste veicolavano: Cristo crocifisso, da cui discende la salvezza per chiunque crede in lui, il Crocifisso.

La pericope 2,1-5 è particolarmente curata e si dispiega strutturalmente su parallelismi concentrici, per cui con A)-A1), corrispondenti rispettivamente ai vv.1.5, viene presentata la motivazione della scelta che Paolo ha fatto per la sua predicazione, scelta che verrà illustrata nei successivi vv.2-4: egli venne presso i Corinti non con sublimità di parola o di sapienza (v.1) affinché la loro fede non fosse fondata sulla sapienza umana (v.5).

Con B)-B1), corrispondenti rispettivamente ai vv.2.4, Paolo presenta la metodologia della sua predicazione, fondata sulla predicazione della croce (v.2) e con povere parole per lasciare spazio all'agire dello Spirito Santo (v.4).

Centralmente si pone la lettera C), corrispondente al v.3, che occupa la posizione considerata dalla retorica ebraica la più importante, verso la quale convergono e intorno alla quale girano gli altri versetti. Versetto questo che mette in rilievo tutta la debolezza e la fragilità di Paolo nello svolgere la sua missione di predicazione presso i Corinti: “E io fui presso di voi in debolezza e in paura e in molto tremore”. E proprio nella sua fragilità ha agito la potenza dello Spirito, di cui i Corinti sono il frutto.

Commento ai vv.1-5

Per poter comprendere il senso di questa pericope è necessario partire dal v.3, in cui Paolo attesta: “E io fui presso di voi in debolezza e in paura e in molto tremore”. Il motivo di questo stato psicologico, che rivela uno stato d'animo depresso e un senso d'inferiorità di Paolo nei confronti dei Corinti, va cercato nel suo recente fallimento avuto presso l'Areopago di Atene, dove, senza successo, aveva predicato il Cristo morto e risorto, riscuotendo presso gli Ateniesi solo compatimento e derisione, e tacciato di ciarlataneria dai filosofi epicurei, con i quali dibatteva sulla questione della risurrezione di Gesù (At 17,16-34). Dopo questo clamoroso insuccesso, Paolo lasciò, battuto, Atene e si diresse a Corinto (At 18,1). Si può, quindi, ben immaginare il senso di quel “io fui presso di voi in debolezza e in paura e in molto tremore”. Corinto, infatti, era una metropoli, dove fiorivano retori, filosofi, maestri di sapienza, abili imbonitori e un coacervo di culture e religioni si fondevano assieme, con un particolare interesse per quelle misteriche e orientali. E Paolo si trovava in mezzo a questo variegato mondo culturale e religioso con un recente e sonoro fallimento alle spalle e con un annuncio ridicolo quanto assurdo da fare ai Corinti: Cristo crocifisso. Quale, dunque, le probabilità di successo presso i Corinti?

Ma Paolo aveva una missione da compiere ed era cosciente dei propri limiti e degli ostacoli che gli si ponevano davanti e accettò la sfida. Egli, però, non si adeguò all'abilità dei retori e dei filosofi, non li volle sfidare sul loro campo e non affidò il suo annuncio alle sue abilità umane, ma scelse la strada più difficile: quella perdente, secondo le logiche umane, l'annuncio del Cristo crocifisso, un altro Perdente, fatto con povertà di linguaggio: “la mia parola e la mia predicazione non (furono fatte) con persuasiv[i] [discorsi] di sapienza”. E tutto ciò perché da questa sua debolezza trasparisse la potenza dello Spirito Santo, che lo deve aver sostenuto con qualche dimostrazione carismatica, la quale deve aver convinto i Corinti, che aderirono all'assurdità del suo annuncio. Un annuncio, quindi, supportato non da abilità umane, ma divine, che egli aveva già ricordato in qualche modo in 1Ts 1,5: “Il nostro vangelo, infatti, non si è diffuso fra voi soltanto per mezzo della parola, ma anche con potenza e con Spirito Santo e con profonda convinzione, e ben sapete come ci siamo comportati in mezzo a voi per il vostro bene”.

Ma il suo presentarsi ai Corinti “in debolezza e in paura e in molto tremore” e “non con sublimità di parola e di sapienza” e con “persuasivi discorsi di sapienza” non gli fu imposto dai suoi limiti personali, ma fu una sua scelta di campo: “Infatti scelsi di non sapere un qualcosa in mezzo a voi se non Gesù Cristo e questo crocifisso”. In altri termini, Paolo ha voluto lasciar parlare e operare in lui e per mezzo suo il “Mistero di Dio” (v.1), che racchiude in se stesso non solo il progetto salvifico fondato sulla Croce e la Risurrezione, ma anche la metodologia del suo manifestarsi, anche questa fondata su logiche umane perdenti, ma vincenti presso Dio, perché proprio dalla debolezza umana trasparisse la potenza del suo operare, sulla scia di quanto ricorda il Sal 8,3: “Con la bocca dei bimbi e dei lattanti affermi la tua potenza contro i tuoi avversari, per ridurre al silenzio nemici e ribelli”.

Questa è la logica dell'operare di Dio in mezzo agli uomini, una logica che si è mostrata vincente anche nella liberazione del suo popolo. Quale migliore occasione, quella di servirsi di Mosè, quand'era insignito del rango di principe presso la corte del Faraone, da lui benvoluto. Questo è il ragionamento umano, ma non quello di Dio, che aspettò che Mosè cadesse in disgrazia, fosse perseguitato, esiliato e caduto nell'oblio. Solo allora, allorché il suo strumento di liberazione era ridotto al nulla, solo allora Dio se ne servì per la liberazione del suo popolo “con mano potente e con braccio teso, spargendo terrore e operando segni e prodigi” (Dt 26,8).

Il motivo di questo strano modo di operare di Dio ha una sua logica, che Paolo attesta al v.5: “affinché la vostra fede non fosse (fondata) s(ulla) sapienza (degli) uomini, ma s(ulla) potenza di Dio”.

La salvezza, infatti, non è una meritata conquista dell'uomo, il coronamento della sua abilità e frutto della sua sapienza e intelligenza, ma un misericordioso dono di Dio, avvolto in una sapienza contro la quale s'infrange ogni logica, ogni intelligenza ed ogni sapienza umana.

Una pausa di riflessione sulla sapienza (vv.6-16)

Testo a lettura facilitata

Introduzione al tema: di quale sapienza si sta parlando? (v.6)

6- Ma parliamo (di) una sapienza tra (i) perfetti e non di una sapienza di questo secolo, né (dei) principi di questo secolo, resi vani;

La Sapienza di Dio avvolta nel mistero e sconosciuta agli uomini (vv.7-9)

7- ma parliamo (della) sapienza di Dio, che è stata avvolta nel mistero, che Dio prestabilì prima dei secoli per la nostra gloria,
8- che nessuno dei principi di questo secolo conobbe; se, infatti, (la) avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria.
9- Ma come è scritto: “Quelle cose che occhio non vide e orecchio non udì e non entrarono nel cuore dell'uomo, queste cose Dio preparò per coloro che lo amano”.

Lo Spirito sorgente rivelatrice della Sapienza divina (vv.10-11)

10- Ma Dio (le) rivelò a noi per mezzo dello Spirito; lo Spirito, infatti, scruta tutte le cose anche le profondità di Dio.
11- Chi, infatti, tra gli uomini conosce le cose (profonde) dell'uomo se non lo spirito dell'uomo, che (è) in lui? Così anche nessuno conobbe le cose (profonde) di Dio se non lo Spirito di Dio.

Lo Spirito, conoscitore del Mistero di Dio, lo rivela a chi lo possiede (v.12)

12- Ma noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito che (è) da Dio, affinché conosciamo quelle cose che ci sono state donate da Dio;

E si esprime con un linguaggio proprio dello Spirito, che solo gli spirituali comprendono (vv.13-16)

13- quelle cose di cui anche (noi) parliamo non con dotte parole (della) sapienza umana, ma con dotte (parole dello) Spirito, combinando assieme (le) cose spirituali con (parole) spirituali.
14- L'uomo psichico non accoglie le cose dello Spirito di Dio; la stoltezza, infatti, gli appartiene e non può capire, poiché si esaminano spiritualmente.
15- Lo spirituale, invece, esamina tutte le cose, ma egli non è esaminato da nessuno.
16- Chi, infatti, ha conosciuto (il) pensiero del Signore, così che lo ha istruito? Ma noi abbiamo il pensiero di Cristo.


Note generali

Dopo l'enunciato dei vv.1,18-20 con cui Paolo contrappone la sapienza di Dio, manifestatasi nella Croce, alla sapienza umana, che s'infrange di fronte all'incomprensibile Mistero della Croce; enunciato che trova la sua applicazione e la sua esemplificazione sia presso il mondo giudaico che quello pagano (vv.1,21-25); sia presso la stessa comunità dei Corinti (vv. 1,26-31), nonché nello stesso modo do operare di Paolo, in cui si riflette la logica dell'operare di Dio (vv.2,1-5), Paolo, ora, con la sezione 2,6-16 fa una pausa di riflessione, accentrando la sua attenzione sulla Sapienza di Dio, sulla sua natura, sulla sua sorgente rivelatrice, sulla natura dei suoi destinatari e del linguaggio che caratterizza tale rivelazione, comprensibile solo agli spirituali, ai quali non appartengono i Corinti, come verrà precisato in 3,1-5.

La sezione in esame (2,6-16) è delimitata da un'inclusione data dalla contrapposizione delle espressioni “sapienza tra i perfetti” e “sapienza di questo secolo” al v.2,6, che hanno la loro corrispondenza ai vv.2,14-15, in cui si contrappone l'“uomo psichico” a quello “spirituale”. Versetti, questi ultimi, che fungono, a loro volta, da introduzione tematica al cap.3, che si apre con la pericope vv.1-5, che ne riprende e ne sviluppa il tema, applicandolo ai Corinti, così che potremmo considerare questa sezione in esame (2,6-16) come preparatoria al cap.3.

La sua struttura si sviluppa secondo il seguente pensiero:

  1. Introduzione al tema: di quale sapienza si sta parlando? (2,6);

  2. questa è la Sapienza di Dio, avvolta nel suo Mistero, che la rende sconosciuta e imperscrutabile agli uomini (2,7-9);

  3. solo lo Spirito, che sonda le profondità del Mistero di Dio, la conosce e la rivela (2,10-11);

  4. solo a chi possiede lo Spirito e ne conosce il linguaggio si dischiude tale Mistero (2,12);

  5. poiché lo Spirito parla con un suo proprio linguaggio, che è spirituale e solo gli spirituali lo comprendono (2,13-16).


Commento ai vv. 2,6-16

Introduzione al tema: di quale sapienza si sta parlando? (v.6)

Nel v.5 compariva l'espressione “sapienza degli uomini”, che forma da aggancio a quella con cui si apre il v.6, “sapienza di Dio”, creando in tal modo una contrapposizione tra le due sapienze, che hanno due diverse e contrapposte origini: Dio e gli uomini. Viene in tal modo introdotto con il v.6 il tema su cui Paolo accentra l'attenzione dei Corinti: l'origine e la natura di questa sapienza e la natura dei suoi destinatari, che qui vengono chiamati i “perfetti”, il cui termine va compreso nel suo senso etimologico, quello di participio passato del verbo latino “perficere”, che significa “portare a compimento”. Paolo, quindi, precisa che la sapienza di cui si parla qui è quella compresa dai “perfetti”, cioè da quei credenti che sono giunti alla maturità della propria fede, che li ha aperti alle realtà superiori, quelle spirituali, e che sanno, quindi, andare oltre a quelle materiali. Credenti, questi, che verranno qualificati con l'appellativo di “spirituali” (v.15), che si contrapporranno agli “psichici” (v.14), definiti in 3,1 “carnali”.

Non a caso qui l'autore apre questa sezione (vv.6-16) citando la “sapienza dei perfetti”, che contiene implicitamente un rimprovero ai Corinti, che in realtà, a motivo delle loro divisioni interne, si comportano come uomini “carnali” o “psichici” (vv.14-15).

Una sapienza, quindi, che nulla ha a che vedere con quella di questo mondo, né con quella dei suoi rappresentanti più autorevoli, le cui pretese si infrangono contro le realtà spirituali. Questi si sono ritenuti sapienti, ma in realtà “hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti” (Rm 1,21b-22).

La Sapienza di Dio avvolta nel mistero e sconosciuta agli uomini (vv.7-9)

La la struttura di questa breve pericope è disposta a parallelismi concentrici, dove i vv.7.9 sono complementari tra loro, in quanto il v.9 spiega e prova scritturisticamente il senso del termine “mistero”, che compare al v.7; mentre il v.8, posto centralmente, mette in evidenza la completa cecità dell'uomo nei confronti di questo “mistero”, reso da Dio impenetrabile alla sapienza umana. Ed è ciò che l'autore vuol mettere in rilievo con questa pericope, da cui traspare tutta la fragilità della sapienza umana, a cui ancora appartengono i Corinti, nei confronti di quella divina, a cui appartengono Paolo e i “perfetti”.

Il senso del termine “sapienza” assume qui un significato diverso da quello con cui si intende, quale capacità di apprendere e conoscere e di elaborare il conosciuto, che, metabolizzato da un processo cognitivo, diviene esperienza di vita, diventandone parte integrante, trasformandosi in sapienza, che è il “sapere della vita”.

Qui si parla di una “sapienza” “che è stata avvolta nel mistero” e “che Dio prestabilì prima dei secoli”, la cui finalità è la “nostra gloria”. In altri termini questa “sapienza” è in realtà il frutto della “Sapienza di Dio”, che qui dice l'onniscienza di Dio e della sua capacità generativa, cioè capacità di attuare ciò che la sua Volontà determina per una precisa finalità. Questa “sapienza” altro non è che il progetto di salvezza generato da Dio nel suo Mistero, cioè in quell'area, intima e privata che appartiene esclusivamente a Dio e che gli è propria, ma che dice nel contempo l'irraggiungibilità e l'inconoscibilità di tale progetto salvifico da parte dell'uomo, poiché è avvolto, cioè nascosto, in Dio stesso.

Un progetto che sembra essere contestuale all'esistere di Dio stesso, poiché “prestabilito prima dei secoli” e, quindi, già esistente o, per meglio dire, coesistente a Dio stesso, poiché esso fa parte del suo progetto generativo più ampio, quello della creazione, di cui l'uomo, ultimo anello di questa creazione, fa parte. Un progetto salvifico che è finalizzato alla “nostra gloria”, cioè alla nostra assimilazione alla vita stessa di Dio, che fin da subito ha creato l'uomo a sua immagine e somiglianza (Gen 1,26-27), avvolgendolo e permeandolo nel suo Spirito di Vita (Gen 2,7), così che il sal 8,6, parlando della creazione dell'uomo, attesta “Eppure l'hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato”. L'uomo, uscito incandescente di Dio dalle sue mani, è stato rivestito di Dio stesso e a questo punta ora il suo progetto di salvezza: recuperare l'uomo alla dimensione divina da cui proviene e da cui, drammaticamente, è uscito.

Ef 1,4-5 riprenderà questo tema del Mistero di Dio nei confronti dell'uomo, attestando che “In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nell'amore”, dove quel “In lui” sta per “Cristo”, lo strumento di salvezza (Rm 3,25), che è stata realizzata “mediante il suo sangue” (Ef 1,7), cioè la croce.

Un simile Mistero, realizzatosi ancor prima dei secoli, quindi ancor prima di quello spazio storico proprio degli uomini e a loro riservato, attesta come esso sia irraggiungibile dall'uomo e dice tutto lo scarto che intercorre tra la Sapienza di Dio e quella dell'uomo. A prova di questo viene citato il fatto storico della crocifissione di Gesù, che solo il credente riesce a leggere e comprendere quale “Signore della gloria”, poiché solo la fede riesce a dare una visione ed una comprensione superiori delle cose e della vita, che vanno ben oltre a ciò che si vede e si tocca. A riprova di questa affermazione Paolo cita liberamente Is 64,3, che spiega in qualche modo il senso di questo Mistero, irraggiungibile dalla sola strumentazione sensoriale e dallo stesso cuore dell'uomo, cioè dall'uomo nella sua interezza, decretando in tal modo l'impenetrabilità di un Mistero che si pone al di là dell'uomo e dei suoi limitati mezzi di conoscenza.

Lo Spirito sorgente rivelatrice della Sapienza divina (vv.10-11)

Questa breve pericope è scandita in tre parti: a) da un'attestazione (v,10a); b) da una spiegazione che giustifica il v.10a (v.10b) e c) da una esemplificazione, che aiuta a comprendere in quale modo lo Spirito di Dio può conoscere le intimità di Dio stesso (v.11).

Il v.10 apre con un'attestazione, che si riaggancia alla citazione scritturistica del v.9: “Ma Dio (le) rivelò a noi per mezzo dello Spirito”. Sono le cose racchiuse nel Mistero di Dio, cose che costituiscono il suo progetto di salvezza dell'uomo e che sono irraggiungibili dall'uomo, poiché la sua strumentazione di conoscenza è molto limitata e del tutto insufficiente per poterlo raggiungere in qualche modo, di modo che serve una rivelazione, che nasce dall'iniziativa di Dio e che, in quanto rivelazione fatta all'uomo, lo coinvolge direttamente in questo Mistero di Dio, da cui e in cui è stato generato il progetto di salvezza.

L'agente rivelatore è lo “Spirito di Dio”, che difficilmente si può definire in che cosa esso consista, ma che potremmo pensare a Colui che costituisce Dio stesso. Esso è Vita, Potenza, Autocoscienza e Conoscenza di Dio e ne definisce la Natura. In quanto tale, questo Spirito permea in profondità non solo ogni cosa esistente o in divenire, ma Dio stesso, così che lo Spirito di Dio è naturalmente a conoscenza di Dio stesso, essendo Egli stesso Dio, e del suo Mistero, che dice le profonde intimità di Dio stesso, là dove Dio, in qualche modo, si autogenera continuamente e continuamente genera vita, diffondendola e mantenendola ovunque, così che tutto sussiste in Lui e per per mezzo di Lui (Gv 1,1-4; Col 1,16-17).

Ed è a tal punto che Paolo si rende conto delle difficoltà del suo linguaggio per i Corinti, che sa essere ancora “psichici e carnali”, non ancora giunti alla perfezione della loro maturità spirituale in Cristo, per cui Paolo sente qui la necessità di esemplificare le Verità misteriche che sta rivelando ai Corinti, portandoli su ciò che essi conoscono bene in loro stessi e lo sperimentano quotidianamente.

L'esempio gira sul parallelismo dello spirito dell'uomo e di quello di Dio. Lo spirito dell'uomo, che elabora il proprio pensiero e la propria conoscenza attraverso lo strumento della mente, che che si estende nella coscienza e autocoscienza dell'ego, non conosce soltanto le cose esterne a se stesso, ma anche quelle più intime e profonde dell'essere in cui è ospitato e vive, un essere che Paolo percepisce nella sua triplice distinzione unitaria di spirito, anima e corpo (1Ts 5,23). Similmente lo Spirito di Dio fa parte dell'Essere, ne determina la natura, la conoscenza, l'autocoscienza, la potenza generativa ed autogenerativa di Dio. Esso è Dinamica divina e in quanto tale entra nelle profondità più profonde ed intime di Dio stesso, di cui conosce i più intimi e reconditi pensieri, poiché egli opera e dimora nel Mistero di Dio stesso, di cui possiede la natura.

Lo Spirito, conoscitore del Mistero di Dio, lo rivela a chi lo possiede (v.12)

Il v.12, muovendosi sulla contrapposizione spirito del mondo e Spirito di Dio, trae le conclusioni logiche della pericope vv.10-11: se lo Spirito di Dio conosce il Mistero di Dio e ne sonda le profondità, poiché ne fa parte, anche chi possiede questo Spirito parteciperà delle sue conoscenze del Mistero, da cui sono state generate le cose che sono state donate loro e di cui, ora, fanno parte, in virtù della fede e del battesimo, fanno parte. È, quindi importante che i Corinti si aprano allo Spirito, che è stato dato loro per mezzo della fede e del battesimo, poiché essi, ora, non possiedono più lo spirito del mondo, ma quello di Dio.


E si esprime con un linguaggio proprio dello Spirito, che solo gli spirituali comprendono (vv.13-16)

Dalle premesse (vv.6-9) alla esemplificazione (vv.10-12) e dall'esemplificazione all'applicazione (vv.13-16), che si muove anche questa sulla contrapposizione tra sapienza umana, che si esprime con dotti discorsi, e la sapienza che proviene dallo Spirito, che si esprime con un linguaggio che gli è proprio, quello spirituale. La rivelazione, pertanto, del Mistero di Dio, che avviene attraverso lo Spirito, può avvenire soltanto attraverso un linguaggio idoneo ed omogeneo a ciò che deve essere rivelato, quello spirituale, che può essere compreso solo da chi lo conosce, cioè da colui che ha assimilato la propria vita allo Spirito e vive in conformità ai sui dettami, creando attorno a se stesso un contesto di spiritualità che gli consente di dialogare con lo Spirito e di comprenderne il linguaggio. Questi è lo spirituale, che si contrappone all'uomo psichico, cioè a colui che ragiona e comprende solo attraverso parametri che sono squisitamente umani, ignorando realtà superiori e trascendenti rispetto a quelle che egli percepisce con i suoi limitati strumenti conoscitivi umani, per cui questi si ritengono intelligenti e sapienti, ma in realtà sono ignoranti, perché non riescono ad andare al di là di ciò che vedono, toccano e sentono e, quindi, non comprendono neppure il senso delle realtà fisiche, né il senso del proprio vivere e dei propri destini.

Chi, invece, è spirituale non solo, in quanto uomo, sa conoscere e giudicare le realtà fisiche alla pari dello psichico, ma ne comprende anche il senso, essendo egli anche spirituale. L'uomo perfetto, quindi, è solo lo spirituale, che può essere compreso e giudicato solo da un suo pari. Non si tratta di discriminazione razziale, ma di capacità conoscitiva e di un nuovo modo di sapere, che nasce da una evoluzione spirituale e culturale che apre l'uomo ad orizzonti completamente nuovi ed inesplorati, poiché questi sono gli orizzonti di Dio, che ammalia il credente perfetto con il suo Mistero e lo chiama a condividerlo.

E in tal senso Paolo termina il cap.2 con una citazione di Is 40,13, che sembra una sfida che Dio rivolge all'uomo: “Chi, infatti, ha conosciuto (il) pensiero del Signore, così che lo ha istruito?”. La domanda è retorica e presuppone una risposta scontata: nessuno può può conoscere il pensiero di Dio, né tantomeno sindacarlo. Ebbene, conclude Paolo “Ma noi abbiamo il pensiero di Cristo”, dove quel “Ma” si oppone in qualche modo alla domanda retorica, che si attendeva una risposta negativa, ma che così non è più poiché il pensiero di Dio ora è uscito dal suo Mistero ed è da noi conosciuto nel suo Cristo, in cui si è manifestato e rivelato. Il pensiero del Cristo, infatti, altro non è che il pensiero dello stesso Padre, che in lui si è svelato agli uomini, per cui conoscere e possedere il pensiero di Cristo significa conoscere e possedere il pensiero dello stesso Padre: “Gli rispose Gesù: <<Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: Mostraci il Padre? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me; ma il Padre che è con me compie le sue opere” (Gv 14,9-10).

Cambiare il proprio modo di pensare (3,1-23)

Il cap. 2 terminava con la pericope 2,10-16, che metteva in rilievo come il progetto salvifico, generato da Dio e avvolto nel suo Mistero, inaccessibile agli uomini, fu rivelato dallo Spirito Santo, che conosce le profondità di questo Mistero, di cui soltanto gli uomini spirituali riescono ad intendere il linguaggio, contrariamente all'uomo psichico che non sa cogliere le cose di Dio, in quanto sono cose e realtà spirituali, a lui estranee e incomprensibili.

La pericope 2,10-16 è, pertanto, preparatoria al cap.3, dove Paolo rileva come proprio i Corinti con le loro divisioni e rivalità intracomunitarie si stanno comportando come uomini “psichici”, che vivono secondo le logiche umane e non più spirituali. Queste impediscono loro di comprendere le dinamiche con cui si sta svolgendo il piano salvifico di Dio e come i vari Paolo, i vari Apollo del momento altro non sono che dei servi di tale progetto, ciascuno con un suo proprio ruolo all'interno di questo disegno, la cui realizzazione è affidata soltanto a Dio e il cui fondamento poggia soltanto su di Lui.

Ognuno, quindi, ha un suo ruolo preciso, che non va contrapposto all'altro, ma è complementare all'altro. Ciascuno, quindi, deve operare in base a quanto gli è stato affidato e la sua opera sarà sottoposta a giudizio nel giorno del ritorno del Signore, che la renderà manifesta, valutandola nella sua qualità e consistenza.

Quest'opera punta a creare un nuovo Tempio del Signore, dove abita il suo Spirito e dove ha dimora Dio. Questo Tempio altro non è che la stessa comunità credente di Corinto, la cui unità e integrità va conservata scrupolosamente, poiché chi vi attenta, come stanno facendo i Corinti con le loro rivalità interne, verrà sottoposto a un giudizio di condanna da parte di Dio.

Da qui la necessità di rivedere il proprio comportamento e il proprio modo di pensare e di formare i propri rapporti intracomunitari, che devono puntare a consolidare il Tempio del Signore e non a distruggerlo.

La struttura del cap.3 si sviluppa in cinque passaggi, che qui di seguito propongo:

  1. Ripresa del tema delle divisioni, denunciate in 1,11-12, che denotano l'immaturità spirituale dei Corinti, che si relazionano tra loro con logiche umane e non più spirituali (3,1-5);

  2. precisazione dei ruoli dei collaboratori all'interno dell'opera salvifica di Dio, fondamento stesso della sua opera (3,6-10);

  3. le conseguenze che gravano sui collaboratori all'opera di Dio, che verranno giudicati in base al loro operato (3,11-15);

  4. l'opera di Dio sono gli stessi Corinti, che formano il nuovo Tempio di Dio, la chiesa, in cui trova dimora lo Spirito Santo (3,16-17);

  5. ammonimento ed esortazione ai collaboratori di Dio nella sua opera, affinché cambino modo di pensare, adottando quello di Dio (3,18-23).

Commento ai vv. 3,1-23

Le divisioni interne denotano l'immaturità spirituale dei Corinti (3,1-5)


Testo

1- Anch'io, fratelli, non potei parlarvi come a degli spirituali, ma come a dei carnali, come a dei bambini in Cristo.
2- Vi diedi da bere latte, non cibo; infatti non ancora potevate. Ma non ancora ora potete,
3- infatti, siete ancora carnali. Poiché, infatti, tra voi vi è rivalità e contesa, non siete (forse) carnali e camminate secondo l'uomo?
4- Quando qualcuno dice: “Io sono di Paolo”; un altro: “Io di Apollo”, non siete uomini?
5- Che cos'è pertanto Apollo? Ma che cos'è Paolo? Servi per mezzo dei quali (voi) avete creduto, e come a ciascuno il Signore ha dato.


Commento ai vv.1-5

Già in chiusura del cap.2, ai vv.14-15, parlando degli uomini psichici, incapaci di intendere la voce dello Spirito, contrapposti agli spirituali, che invece ne comprendevano il linguaggio e il pensiero, Paolo anticipava in qualche modo il tema affrontato da questa pericope, che ne costituisce lo sviluppo: l'immaturità spirituale dei Corinti.

Con il v.1 Paolo risale nei ricordi ai primi momenti in cui cominciò la sua opera di evangelizzazione presso i Corinti, usando un linguaggio semplice, molto più vicino al modo di pensare umano dei Corinti, che definisce come “bambini in Cristo”. L'immagine dei bambini richiama a Paolo le modalità con cui vengono nutriti i neonati, ai quali si somministra il latte, cioè un nutrimento liquido, che non richiede impegno per assumerlo, ben lungi dal cibo solido, che richiede tecniche di ingurgitazione molto più complesse. Immagine che verrà ripresa anche da Eb 5,12-14: “Infatti voi, che a motivo del tempo trascorso dovreste essere maestri, avete ancora bisogno che qualcuno vi insegni i primi elementi delle parole di Dio e siete diventati bisognosi di latte e non di cibo solido. Ora, chi si nutre ancora di latte non ha l’esperienza della dottrina della giustizia, perché è ancora un bambino. Il nutrimento solido è invece per gli adulti, per quelli che, mediante l’esperienza, hanno le facoltà esercitate a distinguere il bene dal male”.

Immagini queste che dicono tutta la fragilità spirituale dei credenti, che, nutriti della Parola di Dio, pur masticata dalla dottrina, non l'approfondiscono e non l'assimilano nella propria vita, divenendo incapaci di coglierne la ricchezza spirituale che la Parola, sacramento del Dio Vivente, porta in se stessa, per cui la loro vita spirituale rimane asfittica e la loro vita si muove sostanzialmente a livello umano, incapaci di cogliere lo Spirito che parla nella Parola. Ed è ciò che Paolo rimprovera ai Corinti, i quali, ancora agli inizi del loro cammino di fede non potevano comprendere e vivere appieno una Parola che stavano apprendendo; ma tuttora, lamenta Paolo, non possono ancora farlo, perché questa Parola, una volta abbracciata non è entrata a far parte della loro vita, anzi l'hanno manipolato al punto da farne un semplice oggetto del contendere, non avendone compreso il senso, annullandone in tal modo tutta la forza generativa e rigeneratrice, che essa porta in se stessa, in quanto Sacramento Vivente di Dio.

Con il v.3b Paolo, riprendendo l'espressione “siete ancora carnali” (v.3a) ne spiega il senso, richiamando le rivalità denunciate in 1,11-12, che rivelano una mentalità che è ancora umana e che non ha ancora saputo evolversi spiritualmente. Da qui l'appello che Paolo farà in Rm 12,2, circa la necessità di conformare la propria mentalità, il proprio spirito alle esigenze di Dio, che si rivela nella sua Parola: “Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto”. Ma ciò che consente al credente di trasformare la propria mente, così che questa sia in grado di cogliere la volontà di Dio nel proprio vivere quotidiano altri non è che la Parola di Dio, che i Corinti, poco evoluti spiritualmente, avevano trasformato in un oggetto del loro contendere intracomunitario, così che quella Parola che doveva fare di tutti “uno” in Cristo si è trasformata in motivo di divisioni e rivalità.

I vv.4-5 sono introduttivi alla pericope successiva, vv.6-10, in cui Paolo analizza i ruoli dei predicatori all'interno della comunità credente. Chi sono , infatti, Paolo e Apollo? Soltanto dei servi di quel progetto salvifico, generato fin dall'eternità e ancor prima della creazione, nascosto nel Mistero di Dio, rivelatosi in Cristo, la cui attuazione ha il suo fondamento in Cristo stesso, rivelazione del Padre, così che Paolo e Apollo e quant'altri che svolgono il loro ruolo di predicatori o di responsabili di comunità, altri non sono che collaboratori di Dio al progetto salvifico, suoi servi e strumenti della sua opera.

I singoli ruoli nell'opera di Dio (3,6-10)


Testo

Gli attori nell'opera di Dio (v.6)

6- Io piantai, Apollo abbeverò, ma Dio fece crescere;

Metafora dei singoli ruoli nell'opera di Dio (v.7)

7- così che non colui che pianta è qualcosa, né colui che abbevera, ma Dio, che fa crescere.

Ciascuno è responsabile del proprio ruolo su cui pesa il giudizio di Dio (v.8)

8- Colui che pianta e colui che abbevera sono una cosa, ma ciascuno prenderà la propria ricompensa, secondo la propria fatica;

La vera identità dei responsabili e dei Corinti all'interno del progetto salvifico (vv.9-10)

9- Infatti, (noi) siamo collaboratori di Dio, campo di Dio, edificio di Dio siete (voi).
10- Secondo la grazia di Dio, che mi fu data, come un sapiente architetto posi (il) fondamento, un altro vi edifica sopra. Ma ciascuno stia attento a come costruisce sopra.

Commento ai vv. 6-10

Con questa pericope Paolo cerca di fare un po' di chiarezza nelle menti dei Corinti, che continuano a muoversi all'interno della comunità con le logiche con cui si muovono i rapporti tra discepoli e maestri, dove il filosofo di turno, esponeva il proprio pensiero e indicava la via della verità, creando attorno a sé raggruppamenti di discepoli che lo seguivano e lo sostenevano, contrapponendosi ad altri gruppi e ad altre scuole di pensiero, capeggiate da altri filosofi. La quale cosa penalizzava enormemente la predicazione di Paolo e di altri predicatori, che in quella comunità si soffermavano, assimilando i predicatori del Vangelo di Cristo alle figure dei vari e numerosi filosofi che popolavano Corinto, costituendoli a fondamento della propria fede.

Paolo, quindi, fa ora un quadro completo della situazione, chiamando in campo tutti gli attori dell'opera salvifica di Dio in cui Dio, i Corinti e i diversi predicatori e responsabili di comunità sono coinvolti, precisando i ruoli di ciascuno, per evitare che i Corinti, abituati ai filosofi itineranti e alle loro predicazioni, non facciano di tutta l'erba un fascio, poiché la posta in gioco è molto alta: la stessa opera salvifica di Dio, in cui sono coinvolti, in primis, gli stessi Corinti. Un'opera che si attua attraverso delle persone, che non sono filosofi occasionali, ma collaboratori di Dio stesso.

Ecco, dunque, il quadro che Paolo presenta, richiamandosi alle immagini del campo e dell'agricoltore e dei suoi collaboratori: da un lato Dio, che è il fondamento stesso della sua opera ed è l'attore principale, quello che ha avuto l'iniziativa della salvezza rivolta ai Corinti, chiamati ad essa per mezzo della predicazione del Vangelo. È Lui la fonte di energia salvifica, che innerva e attiva e fa crescere la fede dei Corinti con la sua Parola; dall'altro i Corinti, assimilati ad un campo, dove Dio fa crescere quel seme della salvezza. Di mezzo ci stanno i vari Paolo ed Apollo, che, attraverso la predicazione del Vangelo e il loro impegno nella comunità di Corinto, hanno piantato e poi coltivato quel seme di Vita eterna, costituendo i Corinti, che hanno aderito alla predicazione del Vangelo, in una comunità di salvezza. Essi, dunque, sono solo servi e collaboratori di Dio in quest'opera di salvezza, che Dio stesso sta facendo crescere nelle menti e nei cuori dei Corinti stessi. Vero ed unico fulcro attorno al quale gira e si fonda la fede dei Corinti è soltanto Dio e non i vari Paolo ed Apollo del momento, i quali, comunque, hanno delle gravi responsabilità in quanto collaboratori dell'opera salvifica di Dio.

Il v.10b, infatti, nel chiudere la metafora del campo e degli agricoltori, mette in guardia i collaboratori stessi di Dio sul come essi agiscono in seno alla comunità dei Corinti, poiché essi sono chiamati a rispondere al Proprietario del campo sul come essi hanno operato per suo conto. Nessuno, quindi, può ergersi a maestro in mezzo ai Corinti e questi non devono vedere nei predicatori i loro maestri, poiché ammonisce il Gesù matteano, rivolto ai suoi discepoli “Non fatevi chiamare maestri, perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo” (Mt 23,10).

Un tema questo, introdotto dal v.10b, che verrà ripreso e sviluppato dalla successiva pericope, vv.11-15.

I collaboratori all'opera di Dio verranno giudicati in base al loro operato (vv.11-15)


Testo a lettura facilitata

Enunciazione del principio (v.11)

11- Infatti nessuno può porre un altro fondamento sopra quello che è stato posto, che è Gesù Cristo.

Le varie tipologie di predicazione (v.12)

12- Se qualcuno edifica sopra il fondamento (usando) oro, argento, pietre preziose, legni, fieno, paglia,

L'opera di ciascuno sarà sottoposta al giudizio divino (v,13)

13- l'opera di ciascuno diventerà manifesta, infatti il giorno (del Signore la) manifesterà, poiché nel fuoco si rivela; e di quale specie è l'opera di ciascuno il fuoco [lo] proverà.

Il premio e il castigo (vv.14-15)

14- Se l'opera di qualcuno rimarrà, quella che ha sopra edificato, prenderà una ricompensa;
15- se l'opera di qualcuno brucerà, (quello) sarà danneggiato, ma egli sarà salvo, ma così come attraverso il fuoco.

Commento ai vv. 11-15

La pericope in esame si apre con un enunciato dai toni categorici e dal sapore dottrinale: “Nessuno può porre un altro fondamento sopra quello che è stato posto, che è Gesù Cristo” (v.11). L'opera salvifica, del resto, è del Padre e nessuno può appropriarsene, poiché gli effetti salvifici dipendono solo da chi possiede ed è la Fonte della salvezza. Ogni altra titolarità salvifica è un abuso ed un inganno, che porta solo alla deviazione e alla morte, facendo fallire la vera opera di salvezza, che ha per fondamento non ideologie o filosofie, ma soltanto Cristo, rivelazione, manifestazione ed azione del Padre, la vera ed unica Fonte di salvezza, e fondamento della sua opera salvifica.

Se questo è vero, allora i collaboratori a tale opera devono costruire tutti sull'unico fondamento che è Cristo. Paolo, quale sapiente architetto, la cui sapienza gli proveniva da Dio stesso, ha posto il fondamento della comunità di Corinto e su questo fondamento gli altri che si sono susseguiti, come Apollo, devono continuare la costruzione sul fondamento posto, senza costruirne altri, che contrastino con il primo, poiché ogni collaboratore all'opera salvifica, iniziata da Paolo in Corinto, verrà giudicato in base a quanto ha saputo costruire: se usando oro, argento e pietre preziose, per indicare metaforicamente una collaborazione efficace e capace di sviluppare quanto è stato seminato e costruito, senza mai tradire il progetto iniziale, che ha le sue radici in Dio stesso; o se usando legni, fieno e paglia, che metaforicamente indicano una collaborazione scadente e spesso difforme dall'impianto originario (v.12).

Ma tutto ciò che viene costruito, ogni singola collaborazione verrà posta al vaglio del giudizio divino, colto quale fuoco bruciante, che mette a nudo la vera natura di ogni collaborazione, la cui validità verrà manifestata nel giorno del ritorno del Signore, ritorno che era sentito come imminente nella chiesa del I sec. Oro, argento e pietre preziose resisteranno a tale fuoco divino, che ha un suo anticipo e in qualche modo una sua prefigurazione nelle persecuzioni, che creano una discriminazione tra chi possiede una fede profonda, che ha saputo mettere in gioco la propria vita; e una fede superficiale o di convenienza, fede debole, che non resiste all'impeto del fuoco della persecuzione, come la fede costruita sul legno, sul fieno o sulla paglia, com'è la fede di chi ha abiurato (v.13).

Di conseguenza premio o castigo saranno la ricompensa per questi collaboratori fedeli o infedeli (vv.14-15).

Significativo in questa pericope, composta di cinque versetti (vv.11-15), è il v.13, posto centralmente, la posizione che è considerata la più importante dalla retorica ebraica, attorno al quale girano e convergono gli altri versetti, sui quali viene posta in qualche modo l'ipoteca del v.13, quello del giudizio divino. E questo per significare come su ogni collaboratore pesa, istante per istante, il giudizio divino. Questi, dunque, devono guardarsi bene dal costruire in modo difforme da quanto è stato inizialmente impiantato, così che l'opera di Dio cresca solida e conforme al progetto salvifico di Dio.

L'opera di Dio: la chiesa fondata in Corinto da Paolo (vv.16-17)

Testo

16- Non sapete che (voi) siete (il) tempio di Dio e lo Spirito di Dio abita in voi?
17- Se qualcuno distrugge (il) tempio di Dio, Dio distruggerà costui; infatti, santo è (il) tempio di Dio, che siete voi.

Commento ai vv.16-17

I vv.16-17 riconducono le metafore del campo, che viene seminato e coltivato (vv.6-10), e delle fondamenta su cui i collaboratori al progetto di Dio costruiscono (vv.11-15), alla realtà dei problemi che dilaniano la chiesa di Corinto, che qui Paolo definisce con un'altra metafora, quella del Tempio dove abita Dio e il suo Spirito. La comunità di Corinto, pertanto, è una realtà spirituale, un luogo storico-spirituale dove dimora Dio. Una realtà santa e per questo anche sacra, cioè riservata a Dio e di sua proprietà; una realtà che proprio per la sua natura è capace di santificare e di consacrare le vite dei credenti, che in essa vengono da Dio generati alla sua stessa vita divina.

Paolo insiste sulla natura sacra della chiesa di Corinto, definita per tre volte in due versetti, Tempio di Dio, immagine questa che ricorre in tutto il N.T. soltanto qui e in 2Cor 6,16, e che esprime una realtà spirituale, che non appartiene ai vari Paolo o Apollo o ad altri dopo di loro, ma a Dio stesso, così che chiunque ne tenta la distruzione con le divisioni, Dio lo distruggerà. Torna, quindi, il giudizio di condanna del v.13, che questa volta trova la sua pratica applicazione su coloro che si professano: “Io sono di Paolo, io di Apollo, io di Cefa, io di Cristo” (1,12), divisioni che, come vedremo, si ripercuoteranno anche nella celebrazione della cena del Signore (11,17-22).


Ammonimento ed esortazione ai collaboratori di Dio (vv.18-23)

Testo a lettura facilitata

Esortazione introduttiva (v.18)

18- Nessuno inganni se stesso: se qualcuno tra di voi sembra essere sapiente in questo secolo, diventi stolto, affinché diventi sapiente.

Motivazione e prova scritturistica (vv.19-20)

19- Infatti, la sapienza di questo mondo è stoltezza presso Dio. Sta scritto infatti: “Egli afferra i sapienti nella loro astuzia”. (Gb 5,13)
20- E di nuovo: “Il Signore conosce i pensieri dei sapienti, poiché sono vani”. (Sal 93,11)

Esortazione conclusiva e sua motivazione (vv.21-22)

21- Così nessuno si glori tra gli uomini (1,31); tutte le cose, infatti, sono vostre,
22- sia Paolo, sia Apollo, sia Cefa, sia il mondo, sia la vita, sia la morte, sia le cose presenti, sia quelle future; tutto (è) vostro,
23- ma voi (siete) di Cristo e Cristo (è) di Dio.


Commento ai vv.18-23

Con il v.18 Paolo si richiama a 1,18-25 e trae qui le sue conclusioni: “Nessuno inganni se stesso”. L'inganno di cui qui si parla è il credersi sapienti secondo i criteri umani, ma questo tipo di sapienza è incapace di cogliere le logiche di Dio, che nasconde il suo progetto di salvezza dietro l'incomprensibile legno della croce, “scandalo per i Giudei, stoltezza per le genti” (1,23b). Si rende quindi necessario farsi stolti secondo i criteri umani per poter accedere alla sapienza di Dio e comprenderne il progetto di salvezza insito nella Croce, “poiché la stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e la debolezza di Dio più forte degli uomini” (1,25).

Rendersi stolti secondo i criteri umani significa mettere da parte le proprie logiche umane e sposare le logiche di Dio, che urtano contro quelle umane perché gli autori di tali logiche si pongono su livelli o, forse è meglio dire, su dimensioni completamente diverse, perché molto diversa se non opposta è la loro natura. Già lo aveva ricordato Is 55,8-9: “Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie - oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri”. E per poter accedere alle logiche di Dio è necessario interrogarsi su determinati eventi, senza avere la pretesa di volerli comprendere e giudicare con le proprie logiche umane, per poi lasciare spazio alla fede, l'unico strumento in grado di poter accedere alle logiche di Dio. Fede che, si badi bene, non nasce dal nulla né è la conclusione di un bel ragionamento, ma dall'incontro accogliente con la Parola, poiché la fede è l'instaurarsi nell'uomo di una nuova sensibilità e di una nuova intelligenza spirituali, che consentono di accedere al Mistero di Dio.

Le attestazioni di 1,18-25 nonché di 3,18, attestazioni fondamentali per i Corinti, che devono cambiare radicalmente la propria mentalità umana, conformandosi a quella divina, vengono qui avvalorate da due citazioni scritturistiche, poste centralmente nella pericope in esame (3,18-23), rilevandone in tal modo l'importanza. Queste sono tratte, la prima da Gb 5,13 e la seconda dal Sal 93,11, che sottolineano la vacuità della sapienza umana, di cui Dio si fa beffe.

L'ultima parte della pericope, vv.21-23, si apre con un'esortazione che si richiama a 1,31, che concludeva il cap.1 ed era a sua volta un'altra citazione scritturistica, liberamente tratta da Ger 9,22-23, che va, quindi, a rafforzare quest'ultima esortazione, in quanto che anche questa si richiama in qualche modo alla Scrittura: “Così nessuno si glori tra gli uomini”. Quel “gloriarsi tra gli uomini” significa, come fanno i Corinti, vantarsi di appartenere al pensiero o alla scuola di Paolo piuttosto che quella di Apollo o di Pietro (1,12). In realtà nessuno appartiene a qualcuno, sia questi “Paolo, Apollo, Cefa, sia il mondo, sia la vita, sia la morte, sia le cose presenti, sia quelle future”; per contro sono i Corinti che possiedono tutto: “tutte le cose, infatti, sono vostre […] tutto è vostro”. Questa doppia sottolineatura di appartenenza e di possesso di tutto dice che tutto è finalizzato ai Corinti e alla loro salvezza e tutto opera per la loro salvezza.

Vi è quindi un rovesciamento di prospettiva: non i Corinti appartengono a qualcuno o a qualcosa, ma tutto è stato dato loro perché si salvino, poiché essi, in realtà, appartengono soltanto a Cristo e Cristo a Dio, cioè al Padre. Così che, risalendo la scala dell'appartenenza, i Corinti appartengono non a Paolo, ad Apollo, a Pietro o a Cristo, ma soltanto a Dio. Il v.3,23, pertanto, costituisce la risposta a 1,12, così che tra 1,12 e 3,23 si viene a formare una inclusione per complementarietà tematica, entro la quale Paolo sviluppa tutto un percorso che lentamente riconduce i Corinti alla loro vera origine e alla loro vera appartenenza. Non sono Paolo né Apollo, infatti, che sono stati crocifissi per i Corinti, ma Cristo (1,13). Ecco, perché, i Corinti gli appartengono ed ecco perché in queste loro divisioni mostrano tutta la loro insipienza, cioè l'incapacità di cogliere il senso dell'evento della Croce, poiché si muovono tra loro con logiche meramente umane.

La vera natura dell'apostolo (4,1-21)

A fronte delle pretese dei Corinti, quelle del nel sentirsi persone illuminate e sapienti secondo logiche e criteri umani, che li hanno portati a dividersi in gruppi contrapposti, eleggendo quali loro rappresentanti di riferimento Paolo, Apollo, Pietro e Cristo (1,12), creando divisioni e fazioni interne alla comunità stessa, Paolo in 3,5-10 aveva precisato come questi loro capigruppo altro non sono che “servi”, posti da Dio a servizio dei Corinti e non i loro padroni o maestri di sapienza. Di più, essi non solo sono servi della chiesa di Corinto, ma sono anche “collaboratori di Dio” (3,9a) a favore dei Corinti, definiti quali tempio di Dio (3,9b). La loro opera di edificazione di tale tempio sarà sottoposta soltanto al giudizio di Dio, che la vaglierà con il fuoco della persecuzione e della prova e la giudicherà nel giorno della sua venuta, rendendone manifesta la sua consistenza (3,13-15).

Questi concetti basilari vengono ora ripresi dal cap.4 ed approfonditi, così che gli apostoli, definiti prima “servi dei Corinti”, poi “collaboratori di Dio per l'edificazione del tempio, che è al chiesa di Corinto”, vengono, ora, descritti quali “ministri di Cristo” e “amministratori dei misteri di Dio” (4,1), tema quest'ultimo che formerà oggetto di approfondimento di 2Cor. Vi è, dunque, un crescendo di titoli che vanno a delineare sempre più la figura dell'apostolo, la cui missione è l'edificazione della chiesa di Corinto. “Tutto è vostro” (3,22b) concludeva il cap.3, nel senso che tutto è finalizzato al bene e alla salvezza dei Corinti, che sono soltanto di Cristo (3,23).

Quanto all'opera degli apostoli, che operano per il bene dei Corinti, in 3,13 si diceva che essa sarà sottoposta al giudizio del Signore nel giorno della sua venuta. Ora, qui, in 4,2-5, viene ripresa la questione, sottolineando che l'opera degli apostoli sarà sottoposta soltanto al giudizio di Dio, poiché essi sono suoi collaboratori e suoi ministri e amministratori. Nessun altro, pertanto, li può giudicare, nemmeno loro stessi possano valutare moralmente e spiritualmente la loro opera, ma solo il Padrone del progetto di salvezza, di cui essi sono semplici servi e collaboratori, potrà stimarla se conforme al suo progetto o meno. Da qui l'invito ad astenersi da ogni giudizio finché non sia venuto il Signore e tutto si sarà pienamente manifestato.

Ne nasce a tal punto un confronto ironico tra ciò che sono realmente gli apostoli (vv.9-13) e quello che, per contro, pensano, muovendosi con logiche meramente umane, i Corinti (vv.7-8), che hanno eletto a loro mentori i vari Paolo, i vari Apollo e i vari Pietro del momento.

Il confronto è duro quanto la conclusione di questo cap.4, che punta il dito contro questo modo di comportarsi e di affrontare il Mistero di Dio, precluso alla sapienza umana: “Che cosa volete? Che venga da voi con la verga o con amore e spirito di dolcezza?” (v.21).

La macrostruttura del cap.4 si snoda su tre parti, che qui di seguito propongo:

  1. Enunciazione del principio: nessuno può giudicare gli apostoli, neppure loro stessi, ma soltanto il Signore; astenersi, quindi, da ogni giudizio finché le cose non appariranno chiare alla venuta finale del Signore (4,1-5);

  2. Il principio enunciato in a) viene applicato in primis tra gli apostoli stessi, quali esempio per i Corinti. Seguono le motivazioni a supporto di tale principio (4,6-13);

  3. Quanto fin qui enunciato va ad ammonimento e a esortazione dei Corinti (4,14-21).

Commento ai vv. 4,1-21


Astenersi da ogni giudizio (vv.4,1-5)

Testo

1- Così l'uomo ci consideri come ministri di Cristo e amministratori d(ei) misteri di Dio.
2- Così poi si cerca tra i ministri affinché sia trovato chi (è) fedele.
3- A me, invece, non m'importa minimamente di essere giudicato da voi o dal giorno umano; ma neppure me stesso giudico.
4- Infatti di niente sono cosciente per me stesso, ma non per questo sono giustificato, ma colui che mi esamina è il Signore.
5- Così prima del tempo non giudicate una qualunque cosa, finché non sia venuto il Signore, che illuminerà sia le cose segrete delle tenebre sia manifesterà le decisioni dei cuori; e allora ciascuno avrà la sua lode da Dio.

Commento ai vv. 4,1-5

Paolo in 3,5a aveva posto la domanda: “Che cos'è pertanto Apollo? Ma che cos'è Paolo?” e in 3,5b.9a aveva risposto tracciando una prima identità dell'apostolo, quale servo nei confronti della comunità credente e nel contempo collaboratore di Dio nell'edificazione del suo Tempio vivente, che è la comunità stessa. Ora con 4.1 completa questa identità, attestando che l'apostolo è sia un “ministro di Cristo” che un “amministratore dei misteri di Dio”.

Il termine greco che qui Paolo usa per definire l'apostolo “ministro” è “Øphrštaj” (iperétas). Un termine che ricorre in tutto il N.T. soltanto 20 volte, di cui 15 nei vangeli, 4 negli Atti e soltanto una volta in Paolo. Il termine è usato sia dai vangeli che dagli Atti nel senso di guardia o di soldataglia, gente quindi che faceva il lavoro sporco per gli altri. Il termine greco, infatti, significa rematori, ciurma di una nave, marinai, operaio di infima categoria. Soltanto in Lc 1,2 e in At 26,16 e qui in 1Cor il termine viene usato rispettivamente nel senso di ministro della Parola, di ministro e testimone delle cose rivelate, e ministro di Cristo. E benché il termine greco posto in relazione alla “Parola” o alla “rivelazione” o a “Cristo” sembra essere riqualificato, chi lo usa, in realtà, intende sempre definire il ministro in relazione a Dio come un servo inutile (Lc 17,10) e di poco conto, di cui Dio si serve per realizzare il suo progetto di salvezza. Sempre, dunque in linea con le logiche di Dio che si serve delle cose di poco conto e disprezzate dagli uomini, perché proprio attraverso queste traspaia la sua onnipotenza e la sua sapienza. La posizione di questi ministri, annunciatori della Parola e per mezzo dei quali i Corinti hanno creduto è quella non del sapiente o del grande retore o dell'abile manipolatore delle menti e dei cuori, ma dell'umile servo, collaboratore di Dio e suo insignificante ministro.

L'apostolo, poi, è anche “amministratore dei misteri di Dio”, un titolo questo che potrebbe suonare contrastante con “Øphrštaj” (iperétas), cioè l'operaio di infima categoria. Tuttavia i due titoli che qui Paolo assegna all'apostolo vanno valutati in relazione a Dio, quanto al termine “Øphrštaj” (iperétas), per cui l'apostolo è niente rispetto a Dio; ma se posto in relazione ai Corinti, questi è “amministratore dei misteri di Dio”, dove per “misteri di Dio” Paolo intende, da un lato, le profondità di Dio, dove è nato il progetto salvifico di Dio stesso a favore degli uomini (2,10); dall'altro, le realtà spirituali che Dio ha donato agli uomini e agli stessi Corinti. Di tutte queste cose l'apostolo è amministratore, in quanto ministro di Cristo, operando in suo nome e per suo conto. E quanto l'apostolo sia fedele al suo mandato e alla sua missione, questo non è compito dei Corinti sindacare e valutare, poiché l'apostolo appartiene a Dio e non ai Corinti, sarà, dunque Dio a soppesare l'opera dell'apostolo, se questa è conforme o meno al suo progetto.

Eleggere, quindi, a propria guida i vari Paolo o i vari Apollo del momento, valutandoli l'uno meglio dell'altro e contrapponendoli l'uno all'altro, secondo le proprie logiche umane, mette i Corinti fuori dalle logiche di Dio, distorcendo il suo disegno di salvezza, che, invece, attraverso di loro viene rivelato e amministrato ai Corinti.

A tal punto Paolo crea una pausa di riflessione portando ad esempio se stesso. Egli, infatti, ha piena coscienza di chi egli è, come attesterà da lì a qualche hanno in Gal 1,1.10-1225: “apostolo non da parte di uomini, né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo ha risuscitato dai morti [...]. È,dunque, il favore degli uomini che intendo guadagnarmi, o non piuttosto quello di Dio? Oppure cerco di piacere agli uomini? Se ancora io piacessi agli uomini, non sarei più servitore di Cristo! Vi dichiaro dunque, fratelli, che il vangelo da me annunziato non è modellato sull'uomo; infatti io non l'ho ricevuto né l'ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo”. Paolo, dunque, è pienamente cosciente della sua totale appartenenza Cristo e in modo tale che egli si sente sottratto ad ogni giudizio, sia da parte dei Corinti sia da parte degli uomini che, ancor prima, anche di se stesso. Solo Dio può essere il suo giusto e imparziale giudice, l'Unico in grado di valutare attentamente il suo operato.

Da qui l'invito ai Corinti di accantonare le loro velleità umane nei confronti degli apostoli, che appartengono soltanto Dio, in quanto suoi collaboratori e amministratori dei suoi misteri, che si pongono a servizio dei Corinti, perché essi possano accedere alla loro salvezza. Meglio, dunque, attendere la venuta del Signore, sentita ormai come imminente, che porta con sé il giudizio da cui trasparirà la verità, che aveva invasato ogni credente e ogni apostolo. Illuminati, dunque, dalla sua luce, ognuno potrà vedere tale verità. Prima c'è solo faziosità. In altri termini, lasciate che sia Dio a giudicare, voi rendetevi solo disponibili a Lui che vi raggiunge per il tramite degli apostoli, suoi ministri e collaboratori.

Gli apostoli in un confronto ironico con i Corinti (4,6-13)

Testo a lettura facilitata

Anche gli apostoli, ad esempio per i Corinti, si sono assoggettati al principio del non giudicare (v.6)

6- Queste cose, fratelli, (le) ho applicate a me stesso e ad Apollo per voi, affinché in noi impariate il non (andare) oltre a quelle cose che sono scritte, affinché non vi riempiate di orgoglio l'uno per l'altro contro l'altro.

Un richiamo ironico a riflettere sulla propria condizione (vv.7-10)

7- Chi, infatti, ti ha scelto per decidere? Che cos'hai che non hai ricevuto? Se hai ricevuto, perché ti glori come colui che non ha ricevuto?
8- Già siete saziati, già siete diventati ricchi, senza di noi diventati re; in verità un (bel) guadagno se siete diventati re, così che anche noi regneremo (con) voi.
9- Penso, infatti, (che) Dio (noi) apostoli ci abbia designati ultimi come vicini alla morte, poiché diventammo spettacolo per il mondo e per gli angeli e per gli uomini.
10- Noi stolti a causa di Cristo, ma voi assennati in Cristo; noi deboli, ma voi forti; voi celebri, ma noi disprezzati.

La reale condizione degli apostoli (vv.11-13)

11- Fino ad ora precisamente e soffriamo la fame e abbiamo sete e siamo nudi e siamo schiaffeggiati e siamo erranti
12- e siamo spossati lavorando con le nostre mani; oltraggiati benediciamo, perseguitati sopportiamo,
13- scherniti rivolgiamo dolci parole; siamo diventati come spazzatura del mondo, immondizia di tutti fino ad ora.


Note generali

Dopo il duro richiamo a non voler giudicare, facendosi arbitri nello scegliersi i vari apostoli e predicatori, eleggendoli, a proprio piacimento, maestri e guide, emettendo giudizi di valutazione su ciascuno (4,1-5), Paolo applica a se stesso e ad Apollo questo principio, quello del non giudicare (v.6), cercando di vedere in ogni apostolo e predicatore non un capo scuola, ma un semplice ministro di Cristo, posto a servizio dei Corinti per la loro salvezza, che costa all'apostolo indicibili sofferenze (vv.11-13).

La pericope si muove tutta su di un serrato confronto tra la reale condizione degli apostoli (vv.9.11-13) e quella elitaria pretesa dai Corinti (vv.7-8.10), toccando punte di polemica e di ironia nei confronti di tali pretese, ai quali essa viene contrapposta.

La struttura della pericope, pertanto, si snoda in tre parti:

    1. Anche gli apostoli si sono assoggettati al principio del non giudicare, ad esempio per i Corinti (4,6);

    2. Un confronto ironico sulla condizione propria dei Corinti e quella degli apostoli (4,7-10);

    3. La reale condizione degli apostoli (4,11-13).


Commento ai vv. 4,6-13

Anche gli apostoli, ad esempio per i Corinti, si sono assoggettati al principio del non giudicare (v.6)

I richiami fin qui prodotti sia sul tema della sapienza umana contrapposta alla stoltezza di Dio, espressa nella Croce, più sapiente e più potente di quella umana; nonché il richiamo a non giudicare gli apostoli o i predicatori di turno, facendone dei propri portabandiera, contrapponendosi gli uni agli altri, creando vergognose divisioni intracomunitarie, denunciando in tal modo l'immaturità spirituale dei Corinti, tutto questo Paolo non solo lo pretende dalla sua comunità, ma lo applica a se stesso e ad Apollo, per essere in tal modo di esempio ai Corinti e, soprattutto per la loro edificazione spirituale. Questo dice in particolare quel “di'Øm©j” (di'imâs, per voi). Segue, quindi, un richiamo, che probabilmente è una libera citazione di un qualche proverbio, il cui senso è esortare alla moderazione e alla saggezza, quelle, diremmo noi, di non andare mai oltre le righe: “affinché in noi impariate il non (andare) oltre a quelle cose che sono scritte”, oltre le quali vi è soltanto la ricerca e l'affermazione di se stessi a danno degli altri, creando in tal modo contrapposizioni e divisioni. Una norma di saggezza e di moderazione, dunque, che lo stesso Orazio (65-8 a.C.) aveva già ricordato nelle sue Satire ben ancor prima di Paolo: “Est modus in rebus, sunt certi denique fines, quos ultra citraque nequit consistere rectum26 (Satire I, 1, vv. 106-107 )

Un richiamo ironico a riflettere sulla propria condizione (vv.7-10)

Dopo un accorato appello ad una saggia moderazione, evitando di andare oltre le righe, Paolo, ora, va a colpire nel cuore l'atteggiamento tracotante dei Corinti, che si sento già degli arrivati, già dei saggi, già si sentono di possedere i propri destini di sapienza e di salvezza, facendosene un vanto gli uni contro gli altri, mal sopportando i richiami alla moderazione di Paolo, facendosi grandi del loro sapere umano e facendo di Cristo e del suo Vangelo solo degli strumenti per la propria autoaffermazione, provocando in tal modo divisioni interne.

Il tono con cui inizia questa pericope è chiaramente polemico, ma nel contempo invita alla riflessione: “Chi, infatti, ti ha scelto per decidere?”. In altri termini, quale autorità hai per poter giudicare, esprimere tue valutazioni e operare tue scelte sugli altri e imponendole agli altri. Noi diremmo: chi sei tu o chi ti credi di essere. “Che cos'hai che non hai ricevuto?”, con cui Paolo spinge i Corinti a guardarsi dentro, considerando attentamente tutti i doni spirituali che essi hanno ricevuto con la fede, di cui essi si sono appropriati, trasformandola in un mero strumento ideologico. Ma la fede, nella sua espressione di verità rivelate, che consento ai Corinti l'accesso ai Misteri di Dio e la partecipazione alla sua stessa Vita, è un dono e non una loro conquista. Perché dunque se ne vantano come se la fede e i doni spirituali conseguenti fossero opera loro, frutto della loro sapienza e intelligenza?

Con il v.8 la polemica del v.7 si trasforma in una bruciante ironia: “Già siete saziati, già siete diventati ricchi, senza di noi diventati re; in verità un (bel) guadagno se siete diventati re, così che anche noi regneremo (con) voi”. Qui Paolo va a toccare il cuore del problema, che sottendeva le divisioni all'interno della comunità di Corinto: i Corinti mal sopportavano l'autorità di Paolo e dei suoi collaboratori e pretendevano di costruirsi una loro fede, una loro religione, una loro chiesa, fatta a propria dimensione. Al che Paolo controbatterà con il v.15, riaffermando la sua autorità apostolica sui Corinti: “Quand'anche aveste innumerevoli pedagoghi in Cristo, tuttavia non (avreste) molti padri; infatti, io vi ho generati in Cristo Gesù per mezzo del Vangelo”, rintuzzando con questo le tracotanti pretese dei Corinti, che già si sentivano degli arrivati e di possedere la chiave della sapienza per poter accedere alla salvezza a modo loro, anzi loro già si sentivano dei salvati: “Già siete saziati, già siete diventati ricchi, senza di noi diventati re”.

A questo atteggiamento arrogante e prevaricatore dei Corinti nei confronti di Paolo, questi presenta la vera identità degli apostoli, che è diametralmente opposta a quella pretesa dai Corinti: “Penso, infatti, (che) Dio (noi) apostoli ci abbia designati ultimi come vicini alla morte, poiché diventammo spettacolo per il mondo e per gli angeli e per gli uomini” (v.9). Un versetto questo che esprime tutto il sofferto sentire di Paolo nei confronti dei Corinti, che vogliono disfarsi di lui; versetto il cui senso verrà poi meglio specificato dalla pericope dei vv.11-13. L'immagine che qui Paolo evoca è quella del pubblico ludibrio a cui erano sottoposti i credenti nelle persecuzioni; un'immagine in cui si sente un'eco della tragica sorte dei condannati ad essere sbranati dalle belve negli anfiteatri o dei gladiatori costretti ad un combattimento all'ultimo sangue. Il tutto per lo spettacolo a beneficio di un pubblico assetato di sangue.

La dura polemica dei vv.7-8 ora si fa ora fine ironia con il v.10, che funge da preambolo introduttivo alla successiva pericope dei vv.11-13, contrapponendo le pretese arroganti e tracotanti dei Corinti all'umile atteggiamento di Paolo: “Noi stolti a causa di Cristo, ma voi assennati in Cristo; noi deboli, ma voi forti; voi celebri, ma noi disprezzati”. Bruciante è quel “Noi stolti a causa di Cristo, ma voi assennati in Cristo” con cui Paolo si riallaccia in qualche modo al tema della Croce, stoltezza di Dio, che egli, Paolo, ha abbracciato e che ben contrasta a quel Cristo in cui i Corinti a modo loro vogliono credere, trasformando il Cristo in un semplice oggetto di dibattito filosofico, un evento meramente intellettuale, svuotandolo di ogni contenuto salvifico, anzi divenuto motivo di divisione intracomunitaria.

La reale condizione degli apostoli (vv.11-13)

Preceduto dai vv.9-10, Paolo presenta qui il suo reale stato di vita, che sta bruciando per Cristo. Un passo questo che riprenderà anche in 2Cor 11,23-28, dove elencherà in modo più dettagliato, quasi puntiglioso, tutte le sofferenze patite per Cristo e che in Gal 2,20a sintetizzerà associando se stesso al Cristo crocifisso, divenendo un tutt'uno con lui: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”.

Vi è in questa pericope un crescendo continuo di sofferenze, da quelle fisiche come la fame, la sete, la nudità, le percosse e le continue fughe precipitose e rocambolesche dai suoi persecutori; alla necessità del doversi mantenere con il proprio lavoro, per non gravare sulle comunità che lo ospitavano, rinunciando al suo diritto di apostolo di farsi mantenere, tema quest'ultimo che affronterà al cap.9 di questa lettera. E a queste sofferenze patite per Cristo, Paolo risponderà benedicendo chi lo oltraggia, perché in tal modo lo rende simile a Cristo, sopportando pazientemente le persecuzioni, rispondendo con dolcezza agli scherni, fino ad accettare di essere di essere considerato e trattato come spazzatura e immondizia, ripercorrendo in tal modo lo stesso cammino di Cristo, così che egli esclamerà nella successiva lettera ai Filippesi: “Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno”, quel Cristo a cui egli si sente associato sulla medesima croce, ritenuta stoltezza per il mondo, ma sapienza di Dio per lui.

Ultime esortazioni, precisazioni ed ammonimenti (vv.14-21)

Testo a lettura facilitata

Finalità dello scritto, rivendicazioni ed esortazioni (vv.14-16)

14- Non per farvi vergognare vi scrivo queste cose, ma per ammonirvi come miei figli amati.
15- Infatti, quand'anche aveste innumerevoli pedagoghi in Cristo, tuttavia non (avreste) molti padri; infatti, io vi ho generati in Cristo Gesù per mezzo del Vangelo.
16- Vi esorto, pertanto, siate miei imitatori!

Paolo prepara la sua venuta inviando Timoteo (v.17)

17- Per questo vi ho mandato Timoteo, che è mio figlio diletto e fedele n(el) Signore; egli vi farà ricordare le mie vie, che (sono) in Cristo [Gesù], come insegno ovunque in ogni chiesa.

Paolo preannuncia con toni minacciosi la sua venuta presso i Corinti (vv.18-21)

18- Ma come non dovessi più venire da voi, alcuni si sono gonfiati di orgoglio;
19- invece verrò molto presto da voi, qualora il Signore (lo) voglia, e conoscerò non il discorso di quelli che si sono gonfiati d'orgoglio, ma la (loro) importanza;
20- infatti, il Regno di Dio non (sta) nella parola, ma nella potenza.
21- Che cosa volete? Che venga da voi con la verga o con amore e spirito di dolcezza?


Note generali

Paolo è giunto al termine di questo lungo intervento sul tema delle divisioni intracomunitarie, che ha occupato ben quattro capitoli ed ha costituito il motivo principale di questa lettera. Una questione questa che riecheggerà sullo sfondo anche in altri capitoli riguardanti il tema delle carni offerte agli idoli, sollecitando a non mangiarle per non creare divisioni (8,1-13); richiamando il comportamento nella cena del Signore, dove scandalosamente c'è chi si rimpinza e chi soffre la fame, creando disparità e divisioni (11,20-22); mentre proprio il contesto della cena del Signore dovrebbe essere posto a fondamento della comunione e dell'unità della comunità (10,16-17).

I toni di questa chiusura, benché il v.14 sembri una mano tesa di riconciliazione dopo gli sferzanti richiami di 4,1-13, rimangono sempre molto tesi e duri. Paolo, infatti, fa valere la sua autorità apostolica derivantegli non solo dalla sua persona, ma anche in quanto fondatore della comunità di Corinto: è lui il padre, gli altri sono dei meri pedagoghi (v.15). Il termine “pedagogo” qui, come vedremo subito, è spregiativo. È a lui, quindi, che i Corinti devono obbedienza e a lui spetta anche infliggere delle sanzioni se ne ricorre il caso (vv.18-21); non solo, ma la sua venuta presso la chiesa di Corinto suona come una minaccia, una sorta di resa di conti. I Corinti, pertanto, non s'illudano: sono stati avvertiti.

La pericope è scandita in tre parti:

  1. Finalità dello scritto, rivendicazioni ed esortazioni (vv.14-16):

  2. Paolo prepara la sua venuta inviando Timoteo (v.17);

  3. Paolo preannuncia con toni minacciosi la sua venuta presso i Corinti (vv.18-21).


Commento ai vv.14-16

Finalità dello scritto, rivendicazioni ed esortazioni (vv.14-16)

Dopo la polemica e l'ironia dei vv.7-13, ma non vanno dimenticati il non meno polemico 1,13 e i richiami sferzanti di 1,18-25; 2,14; 3,1-5.18-19, sufficienti per abbattere ogni presunzione e spingere i Corinti a ritornare in loro stessi e a vergognarsi del loro comportamento, che denuncia tutta la loro immaturità spirituale, Paolo qui, al v.14, sembra tendere loro una mano. Tuttavia il carattere più pacato del v.14 non va compreso come una sorta di pentimento per i toni duri usati contro i Corinti, ma nel contesto di un rapporto severo tra padre e figlio discolo, che il padre vuole raddrizzare, anche usando toni e maniere forti, ma certamente non vuole distruggerlo e tanto meno rinnegarlo. È il padre che ammonisce il figlio, perché non si perda e perché lui è un padre che non vuol perdere un figlio, che egli ama profondamente, perché frutto delle sue fatiche, ma soprattutto perché su di lui è stato versato il sangue di Cristo.

Per questo Paolo con il v.15 alza i toni e fa valere la sua autorità apostolica sui Corinti, derivantegli dal fatto che egli è il fondatore di questa comunità e a lui essa deve obbedienza e rispetto: “io vi ho generati in Cristo Gesù per mezzo del Vangelo”. Nessun altro, per quanto abile o più bravo di Paolo, può prenderne il posto, poiché il vero portatore della Parola generatrice della fede e della Tradizione è l'apostolo. Tutti gli altri sono soltanto dei “pedagoghi”. L'appellativo va compreso nel contesto storico e culturale dell'epoca. Il pedagogo, come dice il termine stesso, è un “governante di bambini”. La figura era quella propria di uno schiavo a cui venivano affidati i bambini, perché li governasse e li custodisse fisicamente e se ne ricorreva il caso infliggesse a loro anche delle pene corporali o dei castighi. Nulla egli aveva a che fare con la loro educazione, che invece era affidata a degli appositi educatori e maestri. Era, dunque, una sorta di guardiano di bambini. Un lavoro piuttosto pedestre. Il confronto, pertanto, tra Paolo, che ha generato i Corinti a Cristo per mezzo del Vangelo, e questi pedagoghi del momento, è del tutto perdente per questi ultimi e vincente per Paolo, che qui mette le carte in tavola, rendendo indiscutibile la sua autorità nei confronti di sedicenti sapienti, che creano confusione e divisioni.

Destituiti di autorità questi pedagoghi, che ai vv.18.19 Paolo chiama per due volte “gonfiati d'orgoglio”, noi diremmo “palloni gonfiati”; e affermata inequivocabilmente la sua autorità in mezzo ai Corinti, Paolo pone se stesso come “imitazione” per i Corinti (v.16) e in 11,1 ne spiega il motivo, poiché egli è, a sua volta, imitatore di Cristo. Non si tratta, dunque, di un semplice buon esempio che Paolo qui intende dare ai Corinti, ma una esortazione vincolante per loro: Paolo, “apostolo di Gesù Cristo” (1,1), su cui grava, cioè, l'autorità di Cristo stesso, nonché erede e latore della Tradizione cristiana, è il parametro di raffronto vincolante per i Corinti: “Vi esorto, pertanto, siate miei imitatori!”

Paolo prepara la sua venuta inviando Timoteo (v.17)

Il comando impartito ai Corinti, quello di essere suoi imitatori, sembra assumere qui, al v.17, un senso particolare, non tanto di buon esempio da imitare, ma di via da seguire. Paolo nel suo modo di vivere ha incarnato Cristo stesso, come ricorderà in Gal 2,20a, facendosi in tal modo il parametro di raffronto per tutte le chiese e per tutti i credenti, facendosi loro insegnamento vivente. Le sue vie, cioè i suoi insegnamenti, che Timoteo27 deve richiamare alla memoria dei Corinti, sono, infatti, in Cristo Gesù e sono unici per tutte le chiese. Un ulteriore richiamo all'unità e al superamento delle divisioni interne. Il riferimento, qui, sembra richiamarsi alla dottrina e agli insegnamenti comuni presso tutta la Chiesa. Da qui la presenza di Timoteo, che precede la venuta di Paolo presso i Corinti28, per prepararne il terreno, così che alla venuta di Paolo il terreno sia già dissodato e i Corinti più disponibili a ricevere Paolo e il suo rinnovato insegnamento. La necessità di mandare in avanscoperta Timoteo è probabilmente dovuto ai difficili rapporti che intercorrevano tra Paolo e i Corinti, insofferenti delle autorità esterne alla loro comunità, tanto che lo stesso Clemente I (88-97 d.C.), quarto papa, dovrà inviare loro una dura lettera (96 d.C.) di richiamo all'ordine e al rispetto delle regole intraecclesiali (Lett. Clem. ai Cor, capp.54-57).

Paolo preannuncia con toni minacciosi la sua venuta presso i Corinti (vv.18-21)

La lunga assenza di Paolo da Corinto e il fatto che Paolo mandi Timoteo in sua vece, molto stimato e stretto collaboratore di Paolo, ma probabilmente non molto apprezzato dai Corinti, tant'è che Timoteo deve essere accompagnato da Erasto, tesoriere della città, a suo supporto (At 19,22); nonché il fatto che la presenza fisica di Paolo e la sua eloquenza non erano molto apprezzate dai Corinti (1Cor 2,1-5; 2Cor 10,1-2.10), l'insieme di queste cose ha fatto sì che alcuni, che si ritenevano più sapienti e intelligenti di Paolo, volessero prenderne il posto e diventare i primi nella comunità di Corinto, le sue guide.

Paolo, tuttavia, non li teme e li apostrofa quali “gonfiati di orgoglio” e pronto ad affrontarli per esaminarne le opere e vedere le loro capacità e le loro virtù, raffrontate con le esigenze e le pretese del Regno di Dio. Paolo, dunque, minaccia questi tali di sottoporli al giudizio stesso di Dio, per vedere la loro consistenza spirituale. Similmente in 2Cor 10,9-10, la questione doveva essere la stessa, Paolo accennerà ad un tale che lo accusava di farsi forte attraverso le lettere, ma debole quanto a prestanza fisica ed eloquenza. A questo tale Paolo si dice pronto a sfidarlo, dimostrandogli così che le sue non sono solo parole: “Perché <<le lettere - si dice - sono dure e forti, ma la sua presenza fisica è debole e la parola dimessa>>. Questo tale rifletta però che quali noi siamo a parole per lettera, assenti, tali saremo anche con i fatti, di presenza”. Ed è, sostanzialmente la stessa minaccia con cui si concludono questi primi quattro capitoli: “Che cosa volete? Che venga da voi con la verga o con amore e spirito di dolcezza?” (v.21). Paolo, dunque, si dice disposto ad usare anche le maniere forti per ricondurre a saggezza i Corinti. Che dunque i Corinti non si illudano di avere davanti a loro un uomo debole e timoroso, incapace di affrontarli.

Alcune questioni urgenti a difesa della santità della chiesa in Corinto (5,1-6,20)

Note generali

Tra i primi quattro capitoli, riguardanti la questione delle divisioni interne, motivo fondamentale che ha spinto Paolo a scrivere questa lettera, e il blocco dei capp.7-15, riguardanti risposte a precise questioni che i Corinti dovevano aver posto a suo tempo a Paolo, si inserisce questa sezione a se stante, formata dai capp.5-6, dove Paolo affronta, da un lato, un caso di grave immoralità all'interno della comunità (5,1-13), a cui fa da contraltare una sorta di lectio magistralis riguardante il tema dell'immoralità (6,12-20); tra questi due testi si inserisce un'altra questione riguardante il caso di processi tra credenti, che per le loro questioni personali ricorrono presso i tribunali pagani. Problemi, questi, che Paolo deve aver sentito forse da Apollo, suo leale collaboratore, che nel frattempo, da Corinto, lo aveva raggiunto ad Efeso, probabilmente per evitare che la sua presenza a Corinto alimentasse le divisioni (1,12; 16,12); o verosimilmente dagli stessi collaboratori di Cloe, che, oltre riferirgli delle divisioni interne (1,11-12), a margine, lo avevano informato a voce anche di questi due casi. Da questi informatori di Paolo va tuttavia esclusa, a mio avviso, la delegazione formata da Stefana, Fortunato e Acaico poiché, a detta dello stesso Paolo, questi portarono solo buone notizie. Infatti Paolo gioisce per la loro presenza, che ha sollevato il suo spirito (16,17-18).

Si tratta, quindi, di un inciso, che potremmo definire volante, su questioni riferite a voce casualmente a Paolo, alle quali Paolo ha voluto, tuttavia, dedicare una particolare attenzione per difendere l'integrità della chiesa di Corinto da un modo di vivere che, al di là delle divisioni, poteva inficiarne la santità. I Corinti dovevano rendersi conto che essi, pur vivendo nel mondo, non ne facevano più parte né gli appartenevano più. Anzi, al contrario, dovevano allineare il loro modo di vivere e di pensare alla nuova realtà spirituale in cui essi erano coinvolti. Essi appartengono a Cristo e, di conseguenza, devono bandire dalla loro vita ogni immoralità e ed ogni sconvenienza nei rapporti con gli altri. Loro, i santi, ricorrevano ai tribunali dei pagani per avere giustizia? Non sia mai! Loro, purificati dall'immondezza del peccato e dell'immoralità dal sangue di Cristo, accettavano di buon grado modi di vivere immorali in mezzo a loro. Non si mai! Il tentativo di Paolo con questi tre interventi è quello di stroncare comportamenti inaccettabili, bandendoli definitivamente dalla chiesa di Corinto, riaffermandone la santità, sua e dei suoi membri.

Benché nei due capitoli siano trattate tre questioni apparentemente distinte e diverse tra loro, in realtà tutte sono in qualche modo interconnesse tra loro. Il caso di immoralità (5,1-13), infatti. affronta due questioni: quella dell'immoralità (v.1) e quella dell'istituzione di un'assemblea giudicante all'interno della comunità, atta a valutare e a correggere le distorsioni che si vengono a creare all'interno della comunità stessa (vv.4-5). Entrambi i temi hanno il loro sviluppo rispettivamente in 6,12-20, per quanto riguarda il caso di immoralità (v.1) e in 6,1-19 per quanto riguarda il tema del giudizio e del giudicare (vv.4-5). Non a caso, infatti, la questione del caso di immoralità termina con i vv.11-13, che aprono al tema del giudicare e del giudizio all'interno della comunità, che fungono in tal modo da introduzione alla questione dei processi tra i credenti (6.1-19).

Un grave caso di immoralità (5,1-13)

Testo a lettura facilitata

Introduzione alla questione (v.1)

1- Si sente (parlare) diffusamente tra di voi di fornicazione, una tale fornicazione quale neppure tra le genti (se ne sente parlare), così da possedere qualcuno la moglie del padre.

Duro richiamo ai Corinti, inerti di fronte ad una simile immoralità (v.2)

2- E voi (vi) siete gonfiati d'orgoglio, e non piuttosto (vi) doleste, affinché fosse tolto di mezzo a voi colui che ha fatto quest'opera!

Contrariamente ai Corinti, Paolo ha già emesso il suo giudizio di condanna (v.3)

3- Io, infatti, pur assente con il corpo, ma presente con lo spirito, ho già giudicato, come fossi presente, costui, che così ha compiuto questo;

Paolo ordina ai Corinti di emettere ufficialmente un verdetto di condanna (vv,4-5)

4- radunati voi e il mio spirito nel nome del Signore [nostro] Gesù, con il potere del Signore nostro Gesù,
5- sia consegnato costui a satana per la rovina della carne, affinché lo spirito sia salvato nel giorno del Signore.

Le motivazioni spirituali del giudizio di condanna (vv.6-8)

6- Non (è) buona cosa il vostro vanto, non sapete che un po' di lievito fa fermentare tutta quanta la pasta?
7- Togliete via il vecchio lievito, affinché siate pasta nuova, poiché siete azzimi. Infatti, Cristo, nostra pasqua, è stato immolato.
8- Così celebriamo la festa non in vecchio lievito né in lievito di malizia e di fornicazione, ma in azzimi di sincerità e di verità.

Le motivazioni normative del giudizio di condanna (vv.9-13)

9- Vi scrissi nella lettera di non mescolarvi insieme con i fornicatori,
10- non affatto con i fornicatori di questo mondo o con gli avari o con (i) ladri o (gli) idolatri, poiché allora dovreste uscire dal mondo.
11- Ora vi scrissi di non mescolarvi assieme, qualora qualcuno, che si chiama fratello, fosse un fornicatore o avaro o idolatra o oltraggioso o ubriaco o ladro, con questo non mangiare assieme.
12- Che cosa m'importa giudicare quelli di fuori? Non giudicate voi quelli di dentro?
13- Dio giudica quelli di fuori. Togliete via il perverso da voi stessi.

Commento ai vv. 5,1-13

Introduzione alla questione (v.1)

Che Paolo fosse alterato per le divisioni intracomunitarie lo lasciava intendere il modo con cui concludeva la sezione 1,11-4,21: “Che cosa volete? Che venga da voi con la verga o con amore e spirito di dolcezza?” (4,21), così che anche l'inizio di questa nuova sezione, 5,1-6,20 ne ha risentito. L'apertura è secca, senza alcun preambolo introduttivo e il tono è quello del duro rimprovero.

La questione che Paolo sta per affrontare nasce da “chiacchiere” che serpeggiano diffusamente all'interno della comunità credente e che probabilmente sono state riferite dalla “gente di Cloe” o dallo stesso Apollo. Si tratta, quindi, di un fatto noto a tutti e di cui tutti sono a conoscenza e su cui ognuno deve aver fatto i suoi commenti più o meno compiaciuti o irriverenti o ironici se non volgari, considerando quanto poi si dirà al v.2, ma senza che nessuno, neppure i responsabili della comunità, abbia sentito il dovere di intervenire in modo più incisivo e determinante, così da porre fine ad un fatto vergognoso, che Paolo definisce di “porne…a” (porneía), che letteralmente significa “fornicazione, prostituzione, lussuria”. Termine che ricorre nelle lettere paoline otto volte e il cui senso abbraccia quello più ampio di disordini in materia sessuale; disordini che erano alquanto diffusi nel mondo e nella cultura pagana, da cui provenivano i Corinti e in genere tutti i neoconvertiti, risentendone notevolmente anche dopo la conversione, considerati i ricorrenti richiami, più o meno diretti, sui comportamenti sessuali dei nuovi credenti, che dovevano lasciar alquanto a desiderare.

Il v.1 si sviluppa in un crescendo tematico continuo fino a giungere alla denuncia del fatto vergognoso: dapprima si parla vagamente di “fornicazione” chiacchierata all'interno della comunità (v.1a); poi si qualifica questa fornicazione come talmente vergognosa che neppure tra i pagani se ne sente parlare (v.1b), emettendo così implicitamente un giudizio di condanna inappellabile, poiché proprio questa fornicazione, che si esclude nel mondo pagano, non solo è presente all'interno della chiesa di Corinto, ma è anche accettata. I vv. 1a.b, pertanto, creano la cornice di condanna entro cui viene collocato il fatto incriminato: “così da possedere qualcuno la moglie del padre”.

La questione così posta, senza altri particolari, certamente noti ai Corinti e per questo Paolo non li richiama, non dice molto. Certamente non si tratta di incesto, altrimenti Paolo avrebbe parlato di “possedere sua madre” e non “la moglie di suo padre”. La quale cosa lascia pensare che questa “moglie del padre” fosse la matrigna del figlio, non la madre biologica. Tuttavia il fatto era grave in sé, poiché già Lv 18,8 condannava un simile comportamento: “Non scoprirai la nudità della tua matrigna; è la nudità di tuo padre”. Ed è proprio quest'ultima battuta che crea lo scandalo: la matrigna appartiene al padre, così che i due formano una carne sola (Gen 2,24), che solo la morte può dividere. Lo stesso diritto romano proibiva simili connubi.

La denuncia che qui Paolo fa non riguarda il fatto che i due abbiano avuto dei rapporti sessuali saltuari, ma che i due, figliastro e matrigna, convivevano more uxorio. L'espressione “guna‹k£ [...] œcein” (ghinaîca … échein), che significa “avere in moglie”29 lascia chiaramente intendere che non si trattava di un rapporto saltuario o passeggero, ma stabile, per quanto irregolare fosse. È da chiedersi in tutta questa vicenda dove fosse il marito e quale fosse la sua reazione. Forse la matrigna si era invaghita del figliastro così da abbandonare semplicemente il marito per suo figlio? O forse il marito era morto così che la matrigna pensò bene di continuare la convivenza con il figliastro? O forse, e questa è una mia mera ipotesi, Paolo si vergognava dire espressamente che “il figlio possedeva sua madre” e ci andava regolarmente a letto, per cui ha preferito la circonlocuzione “la moglie di suo padre”. Comunque sia, il caso era veramente grave, ma ciò che più sconcertava Paolo era l'assenza di reazione da parte dei Corinti, che, invece, se ne compiacevano in qualche modo. Da qui il duro richiamo del v.2.

Duro richiamo ai Corinti, inerti di fronte ad una simile immoralità (v.2)

Se il v.1 condannava un comportamento così gravemente lesivo della stessa dignità umana, violando ogni principio morale e naturale, con il v.2 Paolo deplora il comportamento dei Corinti, mettendo in rilievo la loro contraddizione: da un lato, si gonfiano di orgoglio per la loro sapienza, ritenendosi dei privilegiati quanto al sapere e alla conoscenza; dall'altro, non riescono a comprendere la gravità di quanto si sta verificando all'interno della loro comunità, accettando in modo acritico comportamenti scandalosamente vergognosi in mezzo alla comunità credente, anziché estirparli.

Ancora una volta Paolo definisce questi, che si credono dei sapienti e addentro alle segrete cose, come “pefusiwmšnoi” (pefisiménoi), cioè “gonfiati di orgoglio”. Un'espressione questa che in tutta la Bibbia ricorre sette volte di cui 6 soltanto qui in 1Cor30 e una sola volta in Col 2,18, dove si dirà significativamente e interpretando correttamente Paolo: “gonfio di vano orgoglio nella sua mente carnale”. Questa particolare insistenza sul “gonfiarsi di orgoglio” rileva come Paolo veda proprio in questa ricerca della conoscenza e della sapienza in senso umano, il male che sta alla radice non solo delle divisioni intracomunitarie, ma anche della cecità e insensibilità spirituali e di conseguenza morali dei Corinti, la quale cosa spiega perché i Corinti non si stupiscano di un simile vergognoso comportamento. Significativo in tal senso è 8,1b dove si attesta che “la conoscenza riempie di orgoglio, l'amore edifica”, concetto quest'ultimo che verrà ripreso in 13,4, dove afferma che la carità: “non si gonfia d'orgoglio”, poiché essa “non ama l'ostentazione”.

Contrariamente ai Corinti, Paolo ha già emesso il suo giudizio di condanna (v.3)

Nel mentre che i Corinti, resi ciechi e insensibili dalla loro presunta sapienza e dal ritenersi detentori della conoscenza, avevano del tutto ignorato un caso di una così grave e vergognosa immoralità, con la quale essi convivevano pacificamente, Paolo, che nel mentre scrive questa lettera si trovava ad Efeso, raggiunto qui dalla “gente di Cloe”, da Apollo e da una delegazione, formata da Stefana, Fortunato e Acaico, tutti provenienti da Corinto, sente il dovere, quale padre fondatore della comunità, che ha generato in Cristo, annunciando il vangelo (4,15), di intervenire, e interviene pesantemente, non come un padre che redarguisce il figlio discolo, ma con la sua autorità apostolica e di giudice, anzi egli interviene già con una sentenza, avendolo già giudicato.

La sua assenza fisica non gli impedisce di intervenire sulla questione, perché egli è presente spiritualmente in seno alla comunità, esattamente al contrario dei Corinti, i quali, pur presenti fisicamente all'interno della loro comunità ne sono totalmente assenti spiritualmente, al punto tale da non percepire la gravità morale, spirituale nonché umana della cosa. Sembra quasi risuonare qui, come un'eco, come un rimprovero il v.1,20: “Dov'(è il) sapiente? Dove (lo) scriba? Dove (il) disputante di questo secolo? Non ha forse Dio reso stolta la sapienza del mondo?”. I Corinti, infatti, con tutta la loro sapienza e conoscenza umane non sono riusciti a cogliere il male che viveva e prosperava in mezzo a loro, poiché avevano perso quella sensibilità spirituale che è a fondamento dell'intelligenza spirituale e delle cose dello spirito.

Paolo ordina ai Corinti di emettere ufficialmente un verdetto di condanna (vv,4-5)

Ed è a tal punto che Paolo interviene con la sua autorità apostolica ed impone ai responsabili della comunità di radunarsi in assemblea giudicante “voi e il mio spirito”. Sono questi i membri autorevoli della chiesa di Corinto, che si radunano “nel nome del Signore [nostro] Gesù, con il potere del Signore nostro Gesù”. Si tratta, dunque, di un'assemblea che è rivestita della stessa sacralità di Dio e ne esercita il potere. Il v.4 mette in evidenza tutta la solennità, l'autorevolezza nonché l'autorità di questa sacra assemblea giudicante, che deve operare in conformità allo spirito di Paolo.

Il giudizio era già stato formulato e il verdetto era già stato emesso da Paolo, ma era necessario che fosse la comunità ecclesiale di Corinto, unita spiritualmente a Paolo, a celebrare il processo e a formulare il giudizio di condanna contro chi si era macchiato di un simile fatto vergognoso, offendendo non solo se stesso, ma anche la comunità di Dio, di cui era membro.

Non c'è dibattimento, poiché la sentenza di condanna era già inscritta nel fatto stesso, che per sua natura violava ogni principio divino e naturale, di conseguenza essa è già immediatamente esecutiva: “sia consegnato costui a satana per la rovina della carne, affinché lo spirito sia salvato nel giorno del Signore”. L'espressione suona come una formula di condanna in uso presso le prime comunità credenti e che ritroviamo anche molto simile in 1Tm 1,20 ed equivaleva ad una sorta di scomunica dalla comunità dei santi, che privava lo scomunicato di tutti i benefici e protezioni spirituali, ma anche materiali (At 2,44-45; 4,32-35), di cui egli godeva precedentemente, venendo gettato in balia di satana, cioè di quel mondo pagano da cui proveniva, che era sotto il dominio di satana, e su cui Dio aveva già posto il suo giudizio di condanna (Rm 1,18). Una simile istituzione disciplinare vigeva anche presso la comunità di Qumran (1QS 8,17-9,2).

L'essere consegnato a satana per la rovina della carne significava che qualora lo scomunicato intendesse rientrare in comunità avrebbe dovuto essere sottoposto ad un percorso disciplinare che prevedeva delle punizioni corporali, come il digiuno o l'astensione dai rapporti sessuali anche leciti ed un percorso di riavvicinamento e reinserimento nella comunità, in funzione di un suo ravvedimento e una sua purificazione spirituali. La finalità è quella di salvaguardare l'integrità morale e spirituale della comunità, preservandone la santità, che è appartenenza a Dio e partecipazione della sua stessa Vita; ma nel contempo dare all'immorale la possibilità di un suo riscatto per la sua salvezza.

Le motivazioni spirituali del giudizio di condanna (vv.6-8)

I duri rimproveri formulati ai vv.1-3 e il drastico ordine di espellere dalla comunità credente l'immorale (vv.4-5) trovano ora nella pericope vv.6-8 la loro duplice motivazione: da un lato, la denuncia che un simile comportamento possa corrompere nel tempo l'intera comunità (v.6), divenendo un cattivo esempio, che è una forma di incentivazione alla rilassatezza dei costumi, che rendono a lungo andare insensibili al male; dall'altro, nel mettere in evidenza il nuovo stato di vita in cui vive la comunità credente, che va a qualunque costo preservato (vv.7-8).

Il v.6 è scandito in due parti: la prima (v.6a) si richiama al v.2, dove si rimprovera i Corinti, orgogliosi per la loro sapienza umana, che li rende, però, ciechi e insensibili spiritualmente e li spinge ad accettare simili comportamenti vergognosamente immorali, senza rendersi conto della loro gravità in rapporto anche al loro nuovo stato di vita; nella seconda parte (v.6b) vi è un forte richiamo alla pericolosità di un simile comportamento per la comunità stessa. Esso funge da introduzione tematica ai successivi vv.7-8: “non sapete che un po' di lievito fa fermentare tutta quanta la pasta?”.

Il termine lievito, quale metafora sia in senso positivo di alimento che fa crescere31, sia in senso negativo di alimento che corrompe32, ricorre 13 volte nel N.T., di cui cinque volte in Paolo e in questi in senso solo negativo: quattro volte compare tra i vv.6-8, qui in analisi, e una volta in Gal 5,9 con riferimento alla predicazione dei giudeocristiani giudaizzanti, che, con il loro vangelo, reinterpretato alla luce della Legge mosaica, avevano deviato i Galati da quello predicato da Paolo (Gal 1,6-7; 5,7-9), che lo aveva ricevuto per rivelazione dallo stesso Gesù Cristo (Gal 1,11-12)

I vv.7-8 si richiamano ad un duplice rituale ebraico33, che ha le sue radici in Es 12,1-20: il primo riguarda l'istituzione della pasqua, che ha a che vedere con l'immolazione di un agnello, legato strettamente alla liberazione degli ebrei dalla schiavitù egiziana (1,1-14); il secondo, quello dei pani azzimi, ha sempre a che vedere con la pasqua di liberazione (Es 12,17), ma riguarda il tempo in cui Israele, insediatosi stabilmente in Palestina, passò dalla condizione di nomade a quella di stanziale (Es 12,15-20). Epoca questa in cui si è incominciato anche a coltivare i campi e produrre frumento ed orzo e con questi il pane, per la cui lievitazione serviva, per l'appunto, il lievito. Per quanto riguarda questo secondo momento, che cadeva in concomitanza con la pasqua (Mt 26,17; Mc 14,1.12), tanto che il greco Luca lo confondeva con la Pasqua (Lc 22,1), Es 12,19-20 e Dt 16,3-4a.8 imponevano di mangiare pane azzimo, cioè privo di lievito, per sette giorni. Per questo il capofamiglia, ancor oggi, il giorno prima degli Azzimi passava in rassegna l'intera casa per verificare che non rimanesse neppure una briciola di pane fermentato con il vecchio lievito.

Richiamandosi a questo duplice rituale, quello dell'agnello immolato e quello del pane azzimo, che aveva a che fare con il lievito vecchio, il tutto strettamente legato alla liberazione di Israele dalla schiavitù egiziana, Paolo prende le due immagini e ne crea una metafora: il lievito vecchio raffigura la vita precedente alla conversione, impregnata di fornicazione e malizia; mentre il pane azzimo, privo del lievito della corruzione, raffigura la nuova condizione della vita del credente, fondata sulla sincerità e la verità, dove la sincerità dice la coerenza del proprio vivere alla Verità del Vangelo. A fondamento di tutto questo ci sta una realtà nuova: “Cristo, nostra pasqua, è stato immolato”, cioè Cristo, il nostro nuovo agnello pasquale (Gv 1,29.36), è già stato immolato, inaugurando in tal modo una nuova realtà da cui prende senso e significato l'essere pane azzimo, privo di ogni lievito di corruzione. Da qui l'invito perentorio di Paolo ai Corinti di togliere di mezzo il lievito vecchio, rappresentato dall'immorale che conviveva, more uxorio, con la propria matrigna, per rendere nuovamente la comunità credente di Corinto “azzima”, cioè santa, perché santificata dal sangue di Cristo (Ef 1,7), l'agnello immolato.

Le motivazioni normative del giudizio di condanna (vv.9-13)

Sei i vv.6-8 hanno fornito ai Corinti le motivazioni cristologiche ed ecclesiologiche del giudizio di condanna nei confronti dell'immorale, la pericope vv.9-13 fornisce le motivazioni normative, che stanno alla base del giudizio di condanna.

Paolo qui fa riferimento ad una lettera, che deve aver scritto prima di questa Prima ai Corinti, andata perduta, in cui doveva esortare i Corinti a non immischiarsi con i fornicatori e a non condividere niente con loro. Ora, questa norma, viene qui ripresa da Paolo, precisandone il senso: il non immischiarsi e il non condividere nulla con i fornicatori non si riferiva ai fornicatori, avari, ladri e idolatri, che appartengono a questo mondo, perché altrimenti i Corinti, per paradosso, sarebbero dovuti uscire da questo mondo. L'esortazione impartita a suo tempo si riferiva ai membri stessi della comunità, che, dimentichi del loro nuovo stato di vita, continuavano a perpetrare comportamenti in netto contrasto e in netta dissonanza con il loro nuovo stato di vita, corrompendo la santità della stessa chiesa di Corinto. Con questa gente, ordina Paolo, “non mangiare assieme”, cioè non condividete con loro la vostra vita e in particolare non condividete la sacralità e la santità della mensa del Signore, tema quest'ultimo su cui Paolo tornerà, dedicando la seconda parte del cap.11 (11,17-33). Di conseguenza, conclude perentorio Paolo: “Togliete via il perverso da voi stessi”, lasciando a Dio il compito di giudicare “quelli fuori”, cioè il mondo dei pagani, mentre ai Corinti spetta giudicare “quelli di dentro”, cioè i membri della loro stessa comunità, poiché solo i santi, dirà subito dopo con il cap.6, possono e sono in grado di giudicare gli altri santi. Come già si intuisce con questi ultimi due versetti, vv.12-13, Paolo introduce il tema della successiva sezione 6,1-11, in cui si tratta delle liti e dei processi tra i credenti.

Un'occasione per una duplice riflessione (6,1-20)

Il cap.5 era interamente incentrato sulla questione di un credente della comunità di Corinto che teneva un comportamento di vita immorale, convivendo, more uxorio, con la matrigna (5,1). Comportamento che era tollerato dalla comunità (5,2), così che Paolo, intervenendo duramente, da un lato, condannava l'immorale (5,3); dall'altro, ordinava alla comunità di Corinto di costituire un consiglio giudicante per condannare l'immorale ed espellerlo dalla comunità (5,4-5.13b).

Le questioni, quindi, che il cap.5 trattava erano 2: il comportamento gravemente immorale, con attinenza all'area sessuale, e l'istituzione di un consiglio interno alla comunità, atto a giudicare comportamenti deviati dei credenti.

Le due questioni, trattate nel cap.5, quasi per una sorta di associazione di idee, hanno costituito per Paolo l'occasione per intervenire su due problemi paralleli, presenti all'interno della comunità: il primo, le liti tra credenti, i quali, per ottenere soddisfazione, ricorrevano ai tribunali civili e penali esterni alla comunità credente, formati da pagani. Tema questo che apre il cap.6, di cui occupa la sezione 1-11, e trova il suo aggancio e, quindi, la sua occasione in 5,12-13, dove si parla di giudizio e del giudicare; il secondo, la “porne…a” (pornéia), cioè la fornicazione, sotto la cui egida va ricompreso il più generico e onnicomprensivo disordine morale in tema di comportamenti sessuali. Questione questa che occuperà la seconda sezione del cap. 6, vv.12-20.

Con il cap.6 ci si trova, pertanto, di fronte ad una sorta di ripresa e di sviluppo tematico parallelo del cap.5.

Liti e processi tra credenti (6,1-11)

Testo a lettura facilitata

Enunciazione del tema (v.1)

1- Qualcuno di voi, che ha una questione contro un altro, osa farsi giudicare dagli ingiusti e non dai santi?

Una prima considerazione: è vergognoso che i santi si facciano giudicare dai peccatori (vv.2-6)

2- O non sapete che i santi giudicheranno il mondo? E se per mezzo vostro il mondo verrà giudicato, siete (forse) indegni di giudizi insignificanti?
3- Non sapete che noi giudicheremo gli angeli? A maggior ragione le cose mondane.
4- Se, dunque, avete cose mondane da giudicare, convocate questi (ingiusti), che sono disprezzati nella chiesa?
5- Dico a voi, per (vostra) vergogna! Così non vi è nessun idoneo tra di voi, che possa giudicare tra fratello e fratello?
6- Ma un fratello va in giudizio con un fratello e questo davanti a non credenti?

Seconda considerazione: è vergognoso che ci siano liti tra i santi (vv.7-8)

7- Già è pienamente per voi una sconfitta che abbiate contese tra voi stessi. Perché invece non vi lasciate offendere? Perché invece non vi lasciate derubare?
8- Ma voi commettete ingiustizie e derubate, e questo (contro) ai fratelli.

Terza considerazione: voi siete i santi e non appartenete più al vecchio mondo (vv.9-11)

9- O non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio? Non lasciatevi trarre in inganno: né fornicatori, né idolatri, né adulteri, né effeminati, né ermafroditi,
10- né ladri, né avari, né ubriachi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il regno di Dio.
11- E queste cose eravate alcuni (di voi). Ma foste lavati, ma foste santificati, ma foste giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio.

Note generali

Similmente alla vita sociale della comunità ebraica, che girava attorno al Tempio e localmente alla sinagoga ed era regolamentata dalla Torah e dalla Tradizione, la cui applicazione e il cui rispetto erano affidati sia al Sinedrio, che tra le varie funzioni aveva anche quella del potere giudiziale, ad appositi tribunali locali, che dal Sinedrio dipendevano e ne erano una sorta di prolungamento34, anche le prime comunità credenti, che dal giudaismo provenivano, ne rispecchiavano in qualche modo la struttura e il modo di vivere, sia pur riparametrato sul pensiero di Gesù e non più su quello della Torah o della Tradizione ebraica, concepite come una sorta di propedeutica a Cristo stesso (Gal 3,24-25). Un modo di vivere che non era molto diverso da quello della stessa comunità di Qumran, che girava su regole interne, la cui amministrazione era affidata ad un apposito consiglio35.

Tracce di questa amministrazione giuridica primitiva interna alla comunità credente si trovano in Mt 18,15-17, che prevedeva tre passaggi, che risentono ancora sia della Torah che delle stesse regole di Qumran36: il richiamo fraterno individuale di chi ha sbagliato; l'ammonimento erogato davanti a dei testimoni e, infine, il deferimento davanti al consiglio degli anziani, che poteva anche decretare l'espulsione dalla comunità credente, equivalente alla nostra scomunica. Tutto, comunque si svolgeva all'interno della comunità e non vi erano tribunali civili e penali esterni ad essa, che regolamentassero i rapporti interni tra i singoli membri, per la loro palese incompetenza giuridica e giurisdizionale. Tutto si muoveva, sia per Israele, sia per la comunità di Qumran che per le prime comunità credenti sulle loro proprie teologie e Tradizioni, che nulla avevano a che vedere con le leggi imperiali, come avviene ancor oggi nella stessa Chiesa Cattolica con il suo Codice di Diritto Canonico, a cui è soggetto ogni credente.

Se questo vale da un punto di vista meramente giuridico, Paolo, qui, in 6,1-11, fornisce anche le motivazioni teologiche, per cui i contrasti interni alla comunità devono essere regolamentati all'interno della comunità stessa, escludendo ogni ricorso esterno.

La sezione 6,1-11 si sviluppa in quattro parti, composte dall'enunciazione tematica (v.1), seguita da tre successive considerazioni, la cui finalità è quella di far comprendere ai Corinti la loro particolare nuova posizione venutasi a creare con la loro adesione alla fede, generata in loro dall'ascolto accogliente dell'annuncio del Vangelo.

La prima considerazione rileva quanto sia disdicevole e vergognoso che i “Santi”, cioè i membri della comunità credente, ricorrano ai tribunali dei pagani e da questi si facciano giudicare (vv.2-6); la seconda considerazione verte sul quanto sia vergognoso che tra i credenti ci siano liti e contenziosi, che dividono i membri della comunità, ponendosi l'uno contro l'altro (vv.7-8); la terza considerazione punta a mettere in rilievo la nuova natura dei “Santi”, che appartengono ora ad una nuova umanità e nulla più hanno a che fare con il vecchio mondo da cui sono provenuti (vv.9-11).

Commento ai vv. 6,1-11

Enunciazione del tema (v.1)

Con il v.1 viene introdotta la questione senza tanti preamboli, agganciandosi tematicamente ai vv.5,12-13, quasi per una sorta di associazione di idee. Motivo dell'intervento è perché “Qualcuno di voi” (tij Ømîn, tis imôn). Non si tratta, quindi, di un diffuso modo di fare, che ha intaccato l'intera comunità credente di Corinto, ma soltanto un qualche caso isolato, così come caso isolato fu il comportamento dell'immorale, oggetto del cap.5. Benché siano casi singoli, tuttavia, Paolo intende intervenire subito per evitare che simili comportamenti possano intaccare l'intera comunità, come aveva già preavvertito in 5,6b: “non sapete che un po' di lievito fa fermentare tutta quanta la pasta?”.

A differenza di 1,11, dove la gente di Cloe aveva denunciato a Paolo le divisioni interne alla comunità; o di 5,1 dove si attesta che “si sente parlare diffusamente”; o si dirà in 7,1 “Circa quelle cose che avete scritto”, qui Paolo non fa alcun riferimento alla fonte della sua informazione e punta subito il dito contro “qualcuno”, lasciando intendere che “lui sa tutto ciò che avviene nella comunità” e, quindi, è bene rigare diritti. Una minaccia sottintesa, che già aveva, tuttavia, palesato in 4,18.19a,21. Chi siano i suoi informatori, in questo caso, la preferenza va data alla “gente di Cloe”, allo stesso Apollo, suo fedele collaboratore che lo aveva raggiunto ad Efeso, da dove Paolo scriverà questa lettera, o alla stessa delegazione di Corinto, formata da Stefana, Fortunato ed Acaico (16,17). Ma oltre a queste persone note, probabilmente anche altra gente, qui non nominata può aver raggiunto Paolo ad Efeso, dove egli vi ha dimorato per circa tre anni (At 19,1.8.10; 20,31).

Paolo, dunque, sa e, come similmente farà in 15,12, va subito al cuore della questione, che gira attorno a tre elementi, enunciati qui al v.1: a) vi sono delle liti tra membri della stessa comunità; b) questi ricorrono ai tribunali pagani anziché ad appositi consigli interni alla comunità; c) viene quindi evidenziato lo scandalo, che consiste nel fatto che dei “santi” ricorrano agli “ingiusti” per ottenere giustizia.

Il v.1 si apre con il verbo “Tolm´” (Tolmâ), che dice il livello dello “scandalosamente inaudito” della questione e impregna di sdegno l'intera sezione (vv.1-11). Il verbo infatti, significa “osare, ardire, aver il coraggio di”, evidenziando l'affronto nonché il pregiudizio che un simile comportamento arreca all'intera comunità dei “Santi” da parte di chi ricorre agli “ingiusti”. Qui sta lo scandalo inaudito e inaccettabile. I credenti sono stati santificati, cioè attratti nell'area stessa di Dio, che è il Santo per eccellenza e di cui condividono la Vita, e questo per mezzo del sangue redentore e purificatore di Cristo (v.11b) e questi, resi nuovamente incandescenti di Dio, senza alcuna coscienza del loro nuovo stato di vita, ricorrono agli “ingiusti”. Un termine quest'ultimo che dice la diversa e contrapposta posizione dei “Santi” e il cui senso, per contrasto, verrà meglio specificato ai vv.7b-10, che mettono in evidenza il degrado umano e morale di questi ingiusti, che convivono con l'immoralità proprio a motivo della loro iniquità. Non può esserci, dunque, il frammischiarsi dei Santi con gli iniqui; non vi può essere convivenza e connivenza tra le due posizioni spirituali ed esistenziali.

Su questi tre elementi girerà l'intera sezione 6,1-11.

Una prima considerazione: è vergognoso che i santi si facciano giudicare dai peccatori (vv.2-6)

Questa prima argomentazione, contro il comportamento di qualcuno che ricorre ai tribunali pagani anziché a quelli intracomunitari per risolvere le proprie controversie, è scandita in due parti: una premessa, che funge da motivazione (vv.2-3a) e una conclusione, che indica la via da percorrere (vv.3b-6).

La prima argomentazione è di ordine escatologico e riguarda i destini dei credenti- Essi sono stati definiti da Paolo “i santi”, cioè gente che è stata santificata da Dio (v.11b) per la loro adesione alla Parola del Vangelo, che hanno accolto nella loro vita, e, per questo, associata alla Vita e ai destini di Dio stesso. Per questo, essi, che hanno subito le angherie e le persecuzioni da parte del mondo a motivo della loro scelta37, ne diventeranno, assieme a Dio, anche i suoi giudici (Mt 19,28; Ap 3,21). Ma non solo, loro, i credenti, loro “i santi”, saranno chiamati a giudicare anche gli angeli, cioè quegli angeli che, in quanto decaduti per la loro ribellione a Dio (Gd 1,6; 2Pt 2,4; Ap 12,7b.9), sono stati associati ai destini del mondo, di cui loro, “i santi”, diventeranno giudici.

Fatte le premesse che illustrano la grandiosità dei destini dei credenti, che assieme a Dio siederanno a giudicare sia il mondo che gli angeli, Paolo trae ora una sua prima conclusione: se siete chiamati a giudicare cose sublimi a “maggior ragione le cose mondane” (v.3b), che sono cose di ben poco conto. Paolo, quindi, dichiara l'idoneità della comunità credente di Corinto a giudicare (v.3b).

Il secondo passaggio (v.4) è mettere in rilievo l'assurdità del loro comportamento: adire a quei tribunali, che sono presieduti da persone che sono “disprezzate” all'interno della chiesa”. Vi è in tutto questo un comportamento ostile alla chiesa stessa, di cui essi sono i membri santi, arrecando in tal modo un'offesa all'intera comunità credente.

Il terzo passaggio (v.5) è un invito categorico ai Corinti a cercare le proprie risorse all'interno della loro comunità, persone che siano sagge, che sappiano valutare, discernere e dirimere i contenziosi tra membri della comunità.

Il v.6 conclude questa prima considerazione (vv.2-6), mettendo in luce l'assurdità del loro comportamento: convocare in giudizio un proprio fratello, che per sua natura è un giusto e un santo, presso i non credenti, gli ingiusti e gli iniqui, disprezzati nella chiesa. Un versetto che crea attorno alla questione una cornice di scandalosità e di inconcepibilità, ma nel contempo prepara la seconda considerazione (vv.7-8) e ne costituisce una sorta di preambolo introduttivo.

Seconda considerazione: è vergognoso che ci siano liti tra i santi (vv.7-8)

Se la questione delle controversie tra membri della comunità credente fin qui è stata esaminata nella sua relazionalità tra i santi e gli iniqui (vv.1-8), ora la stessa questione viene colta da un'altra prospettiva, quella della relazionalità tra i membri all'interno della stessa comunità. Se già era scandaloso e inconcepibile che dei santi trascinassero altri santi davanti ai tribunali degli iniqui, destinati alla perdizione, ebbene questo scandalo trova ora tutta la sua gravità nel fatto che dei santi, che per loro natura partecipano alla Vita stessa di Dio, che è Vita essenzialmente di Amore, che è, a sua volta, perdono e misericordia, non sappiano relazionarsi tra loro sulla base di quell'Amore con cui sono stati amati e perdonati da Dio nel suo Cristo. Ebbene, questo è lo scandalo più grave ancora, perché va a ledere il principio di quella Santità divina di cui sono permeati. Meglio, dunque, sarebbe subire le angherie e tacere, piuttosto che violare e profanare quella stessa Santità di Dio, che vive in ciascun credente e di cui ogni credente è partecipe. Un concetto questo che qui Paolo in qualche modo anticipa e che verrà ripreso dal Gesù matteano: “Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l'altra; e a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due. Dà a chi ti domanda e a chi desidera da te un prestito non volgere le spalle. Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti” (Mt 5,38-45).

Ed è qui che Paolo punta il dito contro i Corinti, accusandoli di violare questo principio di Santità, di cui è permeata la comunità credente e ogni suo membro, profanandola, non solo ricorrendo per le loro liti presso i tribunali pagani, ma anche a motivo delle liti stesse, che portano allo scoperto il loro basso livello di coscienza di appartenenza alla nuova Vita, comportandosi come prima della loro conversione, con l'aggravante che questo loro comportamento ora è rivolto contro i loro fratelli in Cristo e, quindi, figli tutti dell'unico Padre, che in Cristo è stato donato a loro, come ad ogni credente (Gv 20,17): “Ma voi commettete ingiustizie e derubate, e questo (contro) ai fratelli” (v.8). Un versetto quest'ultimo che funge da preambolo e introduzione alla pericope successiva (vv.9-11), la terza considerazione.


Terza considerazione: voi siete i santi e non appartenete più al vecchio mondo (vv.9-11)

Questa terza ed ultima considerazione viene giocata su di un forte contrasto tra ciò che i Corinti erano prima del loro incontro con Cristo (vv.9b-11a) e ciò che essi sono ora (v.11b), dopo che lo hanno incontrato e accolto nella predicazione del Vangelo. Si tratta di un tentativo di Paolo di ricondurre i Corinti sul loro percorso di conversione e del loro passaggio tra ciò che erano prima e ciò che sono adesso, mettendo in rilievo ciò che ha prodotto questa loro trasformazione (v.11b). Prima erano fornicatori, idolatri, adulteri, effeminati, ermafroditi, ladri, avari, ubriachi, maldicenti. Un lungo elenco che descrive lo stato di degrado spirituale, morale ed umano in cui i Corinti, come del resto il mondo pagano, vivevano. Ora tutto questo non c'è più perché essi furono “lavati”, “santificati” e “giustificati” “nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio”. Espressione quest'ultima che richiama probabilmente la formula battesimale della chiesa nel suo nascere, allorché i credenti venivano battezzati “nel nome del Signore Gesù Cristo e nella potenza dello Spirito Santo”38.

Si noti il triplice passaggio che ha portato i Corinti allo stato di santità attuale, cioè di partecipazione alla Vita stessa di Dio. Dapprima c'è il “lavaggio” dalle sozzure che hanno inquinato e incrostato la vita pagana dei Corinti, dalla quale essi provengono. Il verbo qui è posto al passivo teologico, “¢peloÚsasqe” (apelúsaste, foste lavati), che lascia trasparire l'azione purificatrice di Dio sui Corinti. Un “lavaggio” che dice purificazione operata dal sangue di Cristo e dall'immersione nell'acqua battesimale. Un “lavaggio” che richiama da vicino la promessa divina in Ez 36,25-27: “Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi”. Non si tratta soltanto di una semplice purificazione, ma di una vera e propria trasformazione, che rende l'uomo idoneo a partecipare della Vita stessa di Dio, la quale cosa dice la sua “santificazione”. Anche qui il verbo è posto al passivo teologico “¹gi£sqhte” (eghiástete, foste santificati), mettendo in rilievo l'opera salvifica di Dio, che, dopo averlo purificato e santificato, lo ha anche giustificato, cioè reso giusto, cioè capace di vivere in conformità alla volontà stessa di Dio, così com'era nei primordi dell'umanità.

Tutto ciò viene operato dal Padre nel Figlio, Gesù Cristo, con la potenza dello Spirito Santo. Un movimento salvifico trinitario, in cui i Corinti sono ora profondamente coinvolti, ma che nel contempo stanno profanando e vanificando con il loro comportamento indicibile e inaudito.

Il processo salvifico operato da Dio sui Corinti, scandito da quei tre verbi posti al passivo, è sottolineato da tre particelle avversative “¢ll¦” (allà, ma), che precedono ogni azione salvifica di Dio, per evidenziare come il cammino salvifico in cui si muovono i Corinti è un cammino che va nella direzione esattamente all'opposto di quella su cui essi ora si stanno muovendo ed è ad essa contrapposta. Da qui il richiamo con cui si apre quest'ultima pericope: “O non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio?”. È questo il giudizio di condanna che pende sui Corinti.


Una riflessione argomentata sull'immoralità, alla quale i Corinti indulgono (6,12-20)

Testo a lettura facilitata

Enunciazione del principio di libertà (v.12)

12- Tutte le cose mi sono permesse, ma non tutte le cose giovano. Tutte le cose mi sono permesse, ma io non mi lascerò sottoporre dall'autorità di una qualche cosa.

Motivazione teologica su cui si regge il principio di libertà (vv.13-14)

13- I cibi (sono) per il ventre e il ventre per i cibi, ma Dio sopprimerà questo e quelli. Ora il corpo non è per la fornicazione, ma per il Signore, e il Signore per il corpo.
14- Dio e ha risuscitato il Signore e risusciterà (anche) noi per la sua potenza.

Approfondimento cristologico sulla motivazione (vv.15-17)

15- Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? Prese, pertanto, le membra di Cristo (ne) farò membra di prostituta? Non sia mai!
16- [O] non sapete che chi si unisce ad una prostituta è un (sol) corpo (con lei)? “Saranno, infatti – dice (la Scrittura)- una carne (sola)”.
17- Ma chi si unisce al Signore è un (solo) spirito (con lui).

Rifuggire la fornicazione e glorificare Dio nel proprio corpo: aspetti antropologici e pneumatologici (vv.18-20)

18- Fuggite la fornicazione. Qualsiasi peccato, che (l')uomo abbia commesso, è fuori dal corpo; ma colui che si prostituisce pecca contro il proprio corpo.
19- O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito santo (che è) in voi, che avete da Dio e che (voi) non siete di voi stessi?
20- Siete stati, infatti, comperati (a caro) prezzo. Glorificate, dunque, Dio nel vostro corpo.


Note generali

Il tema della “porne…a” (porneía) fornicazione), in cui Paolo ricomprende quello più ampio del disordine e dell'immoralità nei comportamenti sessuali, già era stato trattato nel cap.5, dove la questione riguardava una singola persona, che conviveva, more uxorio, con la matrigna (5,1). Certamente un caso scandaloso e inaccettabile e tale da rimuoverlo dalla comunità, ma, tuttavia, si trattava sempre di un caso isolato e circoscritto. Qui, in 6,12-20, la questione della “porne…a” (porneía) viene trattata in modo più sistematico e dottrinale e non riguarda più un qualche caso occasionale, ma l'intera comunità credente di Corinto, i cui membri provenivano tutti da una società pagana, dove il disordine morale in tema di comportamenti sessuali era molto diffuso e faceva in qualche modo parte della mentalità lassista del paganesimo e, benché credenti, benché avessero aderito alla parola del Vangelo e fossero stati battezzati, la loro natura umana e la loro cultura pagana non erano state cancellate, ma dovevano essere, invece, riorientate e riparametrate sulla nuova realtà spirituale, culturale e morale che era venuta a crearsi con la loro adesione a Cristo.

La questione per Paolo non era nuova e già l'aveva affrontata per la prima volta in 1Ts 4,1-8, andando diritto al cuore della questione, che qui viene ripresa e meglio argomentata: “Questa, infatti, è la volontà di Dio, la vostra santificazione, che (vi) teniate lontani dalla
fornicazione, (e) che ciascuno di voi sappia possedere il suo vaso39 in santità e (nell')onore, affinché non subisca (il) desiderio come anche le genti, che non conoscono Dio40” (1Ts 4,3-5).

La questione che qui si prospetta, tuttavia, è ben più ampia ancora, poiché non solo coinvolge l'intera comunità di Corinto, ma evidenzia anche come al suo interno vi fossero due contrapposte posizioni in materia di sessualità: la prima più lassista, oggetto di 6,12-20; la seconda più rigorista e spiritualista, che formerà oggetto di trattazione del cap.7. La prima, forse per una cattiva interpretazione del pensiero paolino, affermava che “Tutte le cose mi sono permesse”. Nessun limite morale, quindi, poiché il credente non è più sotto la Legge, ma sotto il dominio della grazia e della misericordia di Dio (Rm 6,14-15), così che non vi è più nessuna condanna per coloro che sono in Cristo Gesù (Rm 8,1).

Una posizione questa che Paolo contesterà in Rm 6,1-2: “Che diremo dunque? Continuiamo a restare nel peccato perché abbondi la grazia? E' assurdo! Noi che già siamo morti al peccato, come potremo ancora vivere nel peccato?”.

Ed è qui che Paolo deve argomentare in modo sistematico e dottrinale la questione entro cui va inquadrata la sessualità, che è una forza vitale e prorompente nell'uomo e che permea e informa ogni suo comportamento, il suo modo di relazionarsi con se stesso e gli altri e che, ancor prima, forma la sua identità e il suo modo di vedere e sentire le cose e persone.

Vi è, quindi, la necessità di prospettare una nuova visione della sessualità, inquadrata all'interno di un nuovo evento, Cristo, quale rivelazione del Padre, che ha segnato profondamente, anche ontologicamente, il modo di essere dell'uomo, che non viene più colto nell'ambito di una sessualità istintuale e genitale da soddisfare liberamente, fonte scatenante di ogni sregolata passione, che nel suo esprimersi disordinato porta alla distruzione dell'uomo stesso, ma di una realtà, che punta alla realizzazione piena dell'uomo, che vede nella sua sessualità e nella sua genitalità, delle forze che lo sorreggono vitalmente e lo portano alla piena affermazione di sé, che lo spinge dal sé verso l'altro da sé in una comunione di vita e di amore generante. Lì si riflette e si realizza pienamente l'immagine e somiglianza di Dio. Si tratta di capirne il senso, poiché soltanto così le si può anche usare adeguatamente.

Ed è per questo che Paolo argomenterà la questione inquadrandola sia teologicamente (vv.13-14), sia cristologicamente (vv.15-17) che antropologicamente e pneumatologicamente (vv.18-20).

Argomentazioni queste che faranno da supporto anche al cap.7, dove troveranno applicazione pratica. Un capitolo che si muoverà su di uno sfondo escatologico (7,29-31).


Commento ai vv. 6,12-20

Enunciazione del principio di libertà (v.12)

Il v.12 introduce la questione e dà l'intonazione all'intera sezione 6,12-7,36: al credente “Tutto è permesso”, poiché non vi è più la Legge che lo limiti, la cui funzione era quella di pedagogo, che doveva condurre l'uomo a Cristo, e una volta giunto, la Legge ha terminato la sua missione (Gal 3,24-25). Cristo, infatti, ci ha liberati perché restassimo liberi (Gal 5,1).

Se tutto ciò è vero, tuttavia, non è vero che la libertà dell'uomo sia assoluta, incondizionatamente libera e sfrenata, perché vi è un limite naturale, che è intrinseco all'uomo stesso, come a tutte le cose, ed è un limite che gli è imposto dalla sua stessa condizione umana e creaturale. Questo Paolo lo sa, per questo al principio del “Tutto mi è permesso” aggiunge anche due altri principi, che ridimensionano e condizionano un'affermazione che, presa a se stante, è assoluta e instrada l'uomo sulla via dell'autodistruzione. La prima limitazione viene dalla natura stessa delle cose: “non tutte le cose giovano”. Ogni cosa, infatti, possiede in se stessa una sorta di legge naturale, che ne determina la funzione, che ne giustifica l'esistenza, la conduce nella sua evoluzione e compimento e la relaziona nel giusto modo nei confronti dell'uomo e degli altri esseri viventi; la seconda limitazione proviene dall'interiorità stessa dell'uomo e ha a che vedere con la sua volontà, con la sua autocoscienza di essere umano, con il suo stesso livello di evoluzione umana e spirituale: “io non mi lascerò sottoporre dall'autorità di una qualche cosa”, decretando in ciò una sorta di antropocentrismo, dove l'uomo, nella sua coscienza di vertice del creato, sa porsi al suo centro e lo usa e lo condiziona a favore di se stesso, non dimenticando mai che lui ne fa parte e che il suo cattivo uso porta alla propria autodistruzione. Il “giardino”, infatti, gli è stato consegnato perché lo coltivi e lo custodisca (Gen 2,15). In altri termini il creato è stato dato all'uomo in comodato gratuito.

Su questi tre principi, il primo assoluto, gli altri due ridimensionanti, Paolo svilupperà la sua teologia, cristologia, pneumatologia e antropologia della sessualità, che occuperà la sezione 6,12-7,36

Motivazione teologica su cui si regge il principio di libertà (vv.13-14)

La prima motivazione si muove su di un'allegoria: i cibi sono per il ventre e il ventre per i cibi. Con questo Paolo evidenzia, da un lato, una profonda connessione tra ventre e cibi; dall'altro un ciclo vitale che è proprio del vivere biologico dell'uomo e che funzionerà, anzi, deve funzionare per il sostentamento della sua corporeità, finché “Dio sopprimerà questo e quelli”, cioè finché tutto questo ciclo biologico vitale non finirà con la morte dell'uomo. Ebbene, questa reciproca funzione cibi-ventre, ventre-cibi viene ora trasposta sul rapporto corpo-Signore e Signore-corpo, creando anche qui un inscindibile rapporto vitale tra i due. Il corpo, infatti, è dato all'uomo perché possa vivere in questa dimensione spazio-temporale, ma non va mai dimenticato, attesta Paolo. che questo appartiene al Signore, poiché su questo corpo, benché decaduto dalla sua originaria fattezza (Gen 1,26-27; 2,7), sono state impresse l'immagine e la somiglianza di Dio, una sorta di marchio originario di appartenenza, che deve ricordare all'uomo la sua origine e la sua destinazione. Lo rievoca il Sal 8, che, cantando la creazione, attesta dell'uomo la sua profonda somiglianza con Dio, che lo lega ontologicamente a Lui: “che cosa è l'uomo perché te ne ricordi e il figlio dell'uomo perché te ne curi? Eppure l'hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato: gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi” (Sal 8,5-7). Un uomo, dunque, di poco inferiore agli angeli, poiché gravato dalla sua corporeità, benché originariamente spiritualizzata (Gen 2,7), ma non puro spirito. Ma nonostante ciò gli fu elargita, alla pari degli angeli, la dignità divina: “di gloria e di onore lo hai coronato”, così da sottoporgli l'intera creazione, dono di Dio all'uomo, perché se ne serva e, ancor prima, quale suo collaboratore, la coltivasse e la custodisse (Gen 2,15).

Paolo cosciente di questo grandioso dono che è la corporeità dell'uomo, benché decaduta, e, assieme a questa, l'intera creazione, di cui fa parte ed è in stretta solidarietà, esorta il credente, quale suo vertice, a rendersi sacerdote di tale corporeità e ad offrirla, riconoscente, a Dio, da cui l'ha ricevuta, trasformando in tal modo la propria vita in una perenne liturgia di lode e ringraziamento: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale” (Rm 12,1).

Il corpo, pertanto, che porta in se stesso il marchio divino della sua originaria immagine e somiglianza di Dio, e consacrato dalla fede e dal battesimo, che lo ha cristificato e santificato, questo corpo, permeato di sacralità non appartiene più all'uomo, ma al Signore, così che l'uomo nella sua corporalità, che gli consente di vivere fin d'ora in questo contesto di sacralità e santità, è chiamato a vivere per il Signore, a cui appartiene.

Un corpo, attesta Paolo, che, unito profondamente alla morte di Cristo, è unito anche alla sua risurrezione (Rm 6,4-5; 1Cor 15,21-23). Un corpo, dunque, destinato alla glorificazione, così com'era ai primordi dell'umanità, allorché Dio insufflò nell'uomo il suo Spirito di Vita e questi divenne essere vivente (Gen 2,7).

In questo contesto di sacralità e santità, che si muove in una prospettiva escatologica, la propria corporeità nulla ha più a che vedere con la fornicazione ed ogni altro uso improprio e deformante, diversamente verrebbe profanata.

Approfondimento sulla motivazione cristologica (vv.15-17)

Dopo aver dimostrato come il corpo dell'uomo appartiene al Signore, cioè al Gesù glorificato per la potenza dello Spirito Santo (Rm 1,4); e come anche il nostro corpo, associato per fede e battesimo al Signore, avrà i medesimi destini, Paolo passa ora a considerare più da vicino questo tipo di rapporto, che intercorre tra il nostro corpo e il Signore.

Questo secondo passaggio si apre con un'attestazione che rileva come il nostro corpo non solo appartiene a Cristo, ma è parte integrante del suo stesso corpo. Un evento questo che si è verificato nel momento del battesimo, quale meta conclusiva di un cammino di fede (Ef 1,13), ma nel contempo momento di inizio di una nuova vita, poiché con esso siamo stati rivestiti di Cristo (Gal 3,27) come di un abito nuovo (Col 3,9-10a), così da essere un'unica realtà in e con Cristo, tale che farà esclamare Paolo: “Non c'è più Giudeo né Greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”. In altri termini ogni credente, in quanto tale, è stato cristificato e non fa parte del corpo di Cristo, ma è corpo di Cristo, tanto che Paolo in Gal 2,20a ne rimarcherà l'identificazione: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”, sottolineando quanto il Gesù giovanneo predirà circa la sua crocifissione e risurrezione: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32); una elevazione che nel linguaggio giovanneo assume il doppio senso di elevazione sulla croce ed elevazione dai morti, dove quel “attirerò” dice l'associazione del credente ai destini di Gesù, morto-risorto.

Dopo aver evidenziato la profonda unità, che è comunione tra il corpo di Cristo e quello del credente, tanto da divenirne quest'ultimo parte integrante, sottolineando una volta di più la sacralità e la santità della condizione esistenziale del credente, che lo coinvolge non solo ontologicamente, ma anche nella sua interezza spirituale, morale, psichica e corporale, Paolo, ora, contrappone in modo stridente tale condizione esistenziale con il comportamento sessualmente lassista tenuto dai Corinti, che non solo acconsentono ad un membro della loro comunità di convivere scandalosamente, more uxorio, con la matrigna, ma essi stessi indulgono alla prostituzione e ad una vita sessualmente disordinata.

“Non sia mai!”, conclude Paolo, che le membra di Cristo vengano date ad una prostituta e con questa si fondano e diventino un tutt'uno con lei, poiché questo significa prostituire Cristo stesso e farne un tutt'uno con la prostituta.

A sostegno della sua affermazione così perentoria e sconcertante, Paolo adduce ora la prova scritturistica, tratta da Gen 2,24: “Per questo l'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne”, che mette in evidenza come l'unirsi a Cristo e poi unirsi ad una prostituta non sono cose indifferenti, poiché tale unione comporta anche una comunione di corpi, che è fusione corporale non solo tra il credente e la prostituta, tale da fare un tutt'uno con lei, generando una nuova realtà non solo carnale, ma anche ontologica. Ma nel contempo il credente, in quanto tale, si è profondamente unito in comunione a Cristo, così da divenire una nuova creatura in lui e con lui (2Cor 5,17a), non solo, ma egli è anche corpo di Cristo, sue membra. Come, dunque, unire il corpo di Cristo ad una prostituta, dissacrandolo? Questo “Non sia mai!” esclama con un vigore tale da lasciar trasparire in quel “Non sia mai!” una sorta di anatema nei confronti di un simile comportamento così dissacrante e blasfemo.

Rifuggire la fornicazione e glorificare Dio nel proprio corpo: aspetti antropologici e pneumatologici (vv.18-20)

Quel perentorio e anatemico “Non sia mai!”, che rileva tutto lo stridore blasfemico presente nel credente che si unisce ad una prostituta, trova qui la sua conseguenza: “Fuggite la fornicazione!”. Il motivo di questo orrore sacrilego sta proprio nel fatto che il corpo di Cristo, a cui appartiene il credente che si prostituisce, viene associato e posto in profonda comunione non solo spirituale, ma anche ontologica con una prostituta. Già Paolo aveva adotto in tal senso la prova scritturistica di Gen 2,24, ma qui aggiunge un'ulteriore considerazione di natura antropologica: “Qualsiasi peccato, che (l')uomo abbia commesso, è fuori dal corpo; ma colui che si prostituisce pecca contro il proprio corpo”. In altri termini, qualsiasi peccato, che non implichi l'uso della propria sessualità, viene commesso con il proprio corpo, come il rubare, il mentire, l'uccidere, ma il proprio corpo diviene solo strumento di azione peccaminosa, ma nel caso dell'uso della propria sessualità, il corpo non è più uno strumento, ma è esso stesso agente ed oggetto di peccato, poiché la sessualità coinvolge l'uomo nella sua interezza non solo corporale, spirituale, ma anche ontologica. È l'uomo in quanto tale che viene coinvolto nella profondità del suo stesso essere. Ecco perché “i due divengono una sola carne”, perché la corporeità dell'uomo fa parte della sua stessa essenza ed ha a che fare, quindi, con l'ontologia. L'unione di due corpi non è solo un mero gesto fisico e biologico, ma in quella unione converge e si profonde l'essere stesso dell'uomo, che in quanto credente, è Cristo stesso (Gal 2,20a; 3,28).

La sacralità del corpo del credente, definito membra dello stesso corpo di Cristo, creando una sorta di identificazione tra il corpo di Cristo e quello del credente, consacrato dalla fede e dal battesimo, che non solo lo riveste di Cristo, cristificandolo, ma lo consacra anche con l'unzione stessa dello Spirito Santo, trasformandolo in una sorta di luogo della dimora stessa di Dio in mezzo agli uomini. In tal senso si pronuncerà il Gesù giovanneo rivolto ai suoi: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). Non si tratta di una semplice dimora, ma di un prendere possesso del credente stesso da parte di Dio, così com'era avvenuto ai piedi del Sinai per il popolo d'Israele, al qual Dio aveva assegnato una nuova identità definendolo regno di sacerdoti e nazione santa (Es 19,6a), luogo storico, dunque, della dimora di Dio in mezzo agli uomini.

Ma ancor prima di assegnare una nuova identità al suo popolo, Dio aveva consacrato il suo popolo riservandolo per se stesso, attestando di lui: “voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra!” (Es 19,5b). Da questo momento in poi, il popolo di Israele, così come ogni credente non appartiene più a se stesso, ma a Dio. Per questo Dio lo definirà popolo di sacerdoti, cioè popolo che funge da tramite tra Dio e gli uomini, sacramento di Dio stesso in mezzo agli uomini, attraverso il quale Dio intende raggiungere ogni uomo e per questo il popolo, come ogni credente, è definito “santo”, cioè partecipe della Vita stessa di Dio, di cui è segnato profondamente.

Ma se Israele era divenuto proprietà di Dio, perché Dio lo aveva riscattato dalla schiavitù egiziana dandogli non solo la libertà, ma anche una nuova identità, ponendolo al suo servizio a favore degli uomini, ben di più il credente è divenuto proprietà di Dio e chiamato al suo servizio in favore degli uomini, perché il credente è stato riscattato da Dio per mezzo del sangue del suo stesso Figlio, prefigurato in qualche modo in quel sangue dell'agnello, che tinse gli stipiti delle case di Israele, non solo salvaguardandolo dall'angelo distruttore, ma scegliendolo ed eleggendolo con quel sangue a suo popolo (Es 12,22-23). Di conseguenza: “Glorificate, dunque, Dio nel vostro corpo”. Paolo ha sottolineato come il copro del credente è tempio del Dio vivente, consacrato dallo Spirito, dimora di Dio in mezzo agli uomini. Ebbene in questa cornice sacrale, ora, Paolo sollecita a celebrare in questo tempio vivente una liturgia di lode e di ringraziamento, offrendo se stessi a Dio e con se stessi, per un principio di profonda solidarietà, l'intera creazione, facendo di ogni credente sacerdote offerente di se stesso e dell'intera creazione, di cui è il vertice: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale” (Rm 12,1).

Direttive e consigli su questioni interne alla comunità (capp. 7 – 14)

Note generali sulla sezione capp.7-14

Dopo aver stigmatizzato le divisioni interne alla comunità (1,11-4,21), probabilmente motivo di questa lettera, che Paolo scrive da Efeso tra il 53 e il 54 d.C.; dopo aver denunciato la scandalosa quanto vergognosa condotta immorale di un credente, che conviveva, more uxorio, con la propria matrigna, stato di cose tollerato pacificamente e in modo ammiccante dalla comunità (5,1-13); dopo aver lamentato le liti tra credenti, portate da qualcuno davanti ai tribunali civili e penali dei pagani (6,1-11) e dopo aver edotto i Corinti sull'incompatibilità del loro nuovo stato vita con la “porne…a” (porneía, fornicazione, immoralità nei comportamenti sessuali) (6,12-20), Paolo affronta ora, nell'ampia sezione dei capp.7,1-14,40, numerose questioni, che coinvolgono l'intera comunità credente e sulle quali la stessa aveva chiesto per iscritto delle direttive comportamentali (7,1.25; 8,1.4; 12,1). Si tratta, quindi, per Paolo di dare delle regole comuni a tutte le chiese (7,17), sulle quali la comunità deve allineare la propria vita, evitando in tal modo discussioni, litigi o, peggio ancora, divisioni, così che la vita interna intracomunitaria si svolga pacificamente e ordinatamente.

Le tematiche di questa ampia sezione sono sostanzialmente sei, che investono l'intera vita della comunità credente e in particolar modo le assemblee liturgiche:


    1. I rapporti tra uomini e donne, colti nella loro molteplicità di stati sociali, quali celibi, sposati, vedovi, fidanzati, matrimoni misti, condizioni di vita al momento della conversione (7,1-40);

    2. come comportarsi circa le carni offerte agli idoli: c'è chi è contrario e chi non si pone alcun problema (8,1-13). Su questo tema del mangiare o meno le carni offerte agli idoli, Paolo si soffermerà per due capitoli (9-10) per approfondire alcuni aspetti che riguardano: a) la rinuncia ai propri diritti e alle proprie convinzioni per il bene di chi è debole nella fede, portando ad esempio se stesso, che ha rinunciato al proprio diritto di farsi mantenere dalla comunità, a cui ha annunciato il vangelo, per evitare che il suo comportamento vada a discredito del vangelo annunciato (9,1-27); b) messa in guardia di coloro che mangiano, senza preoccuparsene, le carni offerte agli idoli, che sono demoni (10,20), poiché questo può aprire all'idolatria, da cui i Corinti provengono e vi possono ritornare. Infatti il mangiare le carne offerte agli idoli mette il credente che le mangia, che già è in comunione con Cristo, in comunione anche con questi demoni (10,1-33);

    3. comportamenti degli uomini e delle donne durante le assemblee liturgiche (11,2-16); la questione, di per se secondaria, poiché riguarda il coprirsi o meno il capo durante le assemblee, diviene motivo per Paolo di un duro richiamo per le divisioni interne che accadono durante la celebrazione liturgica della cena del Signore (vv.17-31);

    4. per quanto riguarda i doni dello Spirito, questi sono diversamente dati a ciascun credente, perché ciascuno, in base ai doni ricevuti, faccia crescere la comunità nello Spirito (12,1-34);

    5. la carità, regola fondamentale ed unica che deve guidare la comunità e su cui questa deve fondare (13,1-13);

    6. il dono delle lingue e della profezia: come regolarsi nelle assemblee liturgiche e la priorità della profezia sulle lingue (14,1-40).

Come si può notare si tratta di una raccolta di problematiche vissute dalla comunità di Corinto, ma che nel contempo aprono uno squarcio sulle realtà delle comunità credenti del I sec e dei loro problemi sia interni che nel loro relazionarsi con la società pagana in cui vivono.

I rapporti tra uomini e donne nei loro diversi stati e condizioni di vita (7,1-40)

Note generali al cap.7

Dopo aver affrontato con il cap.5 un caso di grave immoralità all'interno della comunità e dopo aver precisato in 6,12-20 il proprio pensiero circa la “porne…a” (porneía, fornicazione), affrontandola da una prospettiva teologica, cristologica, pneumatologica e antropologica, Paolo, ora, con il cap.7, dopo che si è fornito di adeguate motivazioni ed argomentazioni, affronta la questione dei rapporti tra uomini e donne nei loro diversi stati e condizioni di vita, sollecitato in questo da uno scritto, inviatogli dalla stessa comunità di Corinto (v.1a).

Il cap.7 è complesso per la molteplicità delle aree toccate, quanti sono gli stati di vita in cui i Corinti e le persone in genere possono trovarsi esistenzialmente, e dà l'idea di una miscellanea, di una raccolta variegata di casi e di situazioni, che si muovono sullo sfondo di un'imminenza escatologica (vv.29-31), entro la quale il tutto va ricomposto e ricompreso.

Le questioni trattate, sovente solo accennate, sono davvero numerose, sembra quasi che Paolo voglia abbracciare l'intera condizione umana di ogni credente, impartendogli delle nuove linee guida generali, sulle quali muoversi e orientare la propria vita:

  1. Si apre con una considerazione generica, che riconosce la necessità che ogni uomo abbia la sua donna e che questa abbia il suo uomo. Il motivo è molto semplice: evitare la frequentazione delle prostitute, di cui aveva già trattato in 6,12-20 (vv.1-2);

  2. si parla della necessità della convivenza e di regolari rapporti sessuali tra marito e moglie, per evitare che l'astenersi provochi il ricorso alla prostituzione o all'adulterio (vv.3-7).

  3. Si passa poi a considerare il caso dei celibi, delle nubili o dello stato di vedovanza (vv.8-9);

  4. Ci sofferma, poi, brevemente, quasi a completare la pericope vv.3-7, sulla questione della separazione dei coniugi, (vv.10-11).

  5. Viene trattata la questione dei matrimoni misti, in cui uno dei due coniugi è non credente e della lor eventuale separazione (vv.12-16).

  6. Un'esortazione a rimanere nello stato di vita in cui ci si trovava al momento della propria conversione (vv.17-24).

  7. Un consiglio ai fidanzati (vv.25-28).

  8. Una lunga riflessione a sfondo escatologico (vv.29-31) conclude il cap.7, nella quale Paolo ricomprende, motiva e completa i suoi suggerimenti e consigli con riguardo agli sposati e ai fidanzati (vv.32-35 e 36-40).

Una regola generale

Commento ai vv.1-2

Testo

1- Circa quelle cose che avete scritto, (è) buona cosa per l'uomo non toccare donna;
2- tuttavia a motivo delle fornicazioni, ciascuno abbia la sua donna, e ciascuna abbia il proprio uomo.


Se la questione delle divisioni interne alla comunità era stata denunciata, a voce, dalla “gente di Cloe” (v.1,11), così come probabilmente è avvenuto sia per il caso di immoralità (5,1-13) che per il ricorso ai tribunali pagani per liti tra credenti (6,1-11), qui, a partire dal cap.7 in poi Paolo risponde a delle precise domande postegli per iscritto dai Corinti. Lo scritto a cui Paolo fa riferimento è andato perduto e probabilmente questo dev'essergli stato recapitato o dalla stessa gente di Cloe o dal fedele collaboratore Apollo, che era visto dai Corinti come un capo della comunità (1,12), o più probabilmente, considerata la veste di ufficialità che rivestiva lo scritto, dalla delegazione formata da Stefana, Fortunato e Acaico (16,17).

La questione posta dallo scritto dei Corinti verteva sul tipo di rapporto che uomini e donne dovevano tenere tra loro, sullo sfondo della venuta del Signore, ritenuta imminente e che decretava la fine dei tempi (vv.29-31): “(è) buona cosa per l'uomo non toccare donna”. Un'attestazione questa che non è ben chiaro se sia la sintetica risposta di Paolo e sulla quale Paolo sembra essere allineato e concorde (vv.7.8.27b.32-35.38b.40) o se, invece, considerata la drastica perentorietà dell'enunciato, sia la posizione di una parte della chiesa di Corinto, quella più rigorosa e spiritualista, che controbatteva il “Tutte le cose mi sono permesse” (6,12), espressione questa che ricorrerà identica anche in 10,23, circa il mangiare la carne offerta agli idoli e che doveva essere stata il motto di quella parte della chiesa di Corinto più permissiva e progressista, ma, male interpretata e male applicata, creava problemi a chi era più debole nella fede o più ligio alle regole, generando tensioni e divisioni interne alla comunità.

Il principio enunciato al v.1b, “(è) buona cosa per l'uomo non toccare donna”, va compreso non in senso negativo, quasi che i rapporti uomo-donna fossero da considerarsi peccaminosi o forieri di sventure, ma all'interno del quadro escatologico enunciato ai vv.29-31, in cui si esorta a vivere di questo mondo come se ormai non esistesse più, evitando di attaccarsi ad esso, poiché ormai “il tempo si è fatto breve” (v.29a). In Rm 13,12a, qualche anno dopo, attesterà parimenti che “La notte è inoltrata e il giorno si avvicina”. L'imminenza del ritorno del Signore e con lui la fine della storia e del mondo era fortemente sentito nella chiesa del I secolo.

Se è bene, colto all'interno di una cornice escatologica, che l'uomo non tocchi donna, tuttavia, Paolo si rende conto della realtà delle cose e come non tutti siano stati illuminati come lui e abbiano la sua medesima vocazione (v.7) e comunque non tutti sono rigorosi spiritualisti. Del resto Dio creò l'uomo quale maschio e quale femmina, lasciando loro il comando di essere fecondi, di moltiplicarsi così da riempire la terra (Gen 1,27-28b). A fondamento di tale comando ci sta una forte spinta attrattiva dell'uno verso l'altra e viceversa e tale che, se non adeguatamente soddisfatta, porta alla sua deviazione e degenerazione e alla vanificazione del comando stesso, scindendo la sua finalità dal mero piacere che l'accompagna, spingendo in tal modo l'uomo verso la donna che gli si offre a buon mercato, banalizzando una potente spinta, la cui finalità è la preservazione della specie e la realizzazione piena dell'uomo, in quanto maschio o in quanto femmina, considerato che la sua sessualità lo qualifica e lo determina nel suo profondo essere uomo o donna. Per evitare, quindi, una simile banalizzazione distruttiva dell'uomo stesso, come può essere la fornicazione o l'uso improprio della sessualità, che porta al degrado dell'uomo, Paolo conclude che è bene che “ciascuno abbia la sua donna, e ciascuna abbia il proprio uomo”, riconoscendo implicitamente come l'uno è fatto per l'altra e viceversa e solo riunendosi l'uno nell'altra attuano quella ricomposizione primordiale che faceva dei due l'immagine e la somiglianza di Dio, che maschio e femmina li creò a sua immagine e a sua somiglianza, evidenziando in tal modo come in Dio vi siano i due principi della mascolinità e della femminilità così che Dio è, per sua natura, generatore di vita.

I rapporti tra coniugi (vv.3-7)

Testo a lettura facilitata

Doverosità dei rapporti intimi tra coniugi e sua motivazione (vv.3-4)

3- Il marito renda il (proprio) debito alla moglie; similmente anche la moglie al marito.
4- La donna non è padrona del proprio corpo, ma il marito; similmente anche il marito non è padrone del proprio corpo, ma la moglie.

L'astensione dai rapporti intimi va concordata e dev'essere di breve durata (v.5)

5- Non private(vi) l'uno dell'altra, se non in accordo per un determinato tempo, affinché abbiate tempo per la preghiera e di nuovo siate sul medesimo (intento), affinché satana non vi tenti a motivo della vostra incontinenza.

Riflessione conclusiva (vv.6-7)

6- Vi dico questo per indulgenza, non per comando.
7- Ma vorrei che tutti gli uomini fossero come me; ma ognuno ha un suo proprio dono da Dio, chi in un modo, chi in un altro.


Note generali

Per poter capire questa pericope (vv.3-7) è necessario rifarsi al v.2, il quale, per evitare la fornicazione, esortava ad avere ognuno una propria donna e viceversa. Quando parlava di “sua donna” e di “proprio uomo”, Paolo non intendeva certo un uomo o una donna qualsiasi su cui sfogare la propria istintualità, poiché si sarebbe ricaduti nella fornicazione, ma un uomo e una donna che si posseggano reciprocamente e diventino tra loro uno stabile punto di riferimento per le proprie esigenze sessuali e non solo per queste, dove quel “suo” e quel “proprio” sottolineano un inscindibile legame esistenziale tra i due tale da fare dei due una carne sola. Questo particolare va tenuto presente anche per la comprensione dei vv.10-11, dove si vieta la separazione e l'eventuale successivo risposalizio di entrambi o anche di uno solo dei due coniugi.

Dall'attestazione del v.2 consegue, quindi, l'obbligatorietà dei rapporti sessuali tra i coniugi, che sono l'espressione più evidente del profondo legame che li vincola esistenzialmente tra loro, rinforzando tale vincolo, e per questo non devono mai essere interrotti, se non saltuariamente, per breve tempo e motivatamente, in accordo tra i due.

Il motivo di questa concessione, cioè quella di sospendere momentaneamente e per breve tempo i rapporti sessuali, è quello dell'incontinenza, cioè l'incapacità di trattenersi dall'avere dei rapporti sessuali, su cui sembra, secondo Paolo, giocare satana (v.5). Un'annotazione questa che tradisce una certa ansia e preoccupazione da parte di Paolo e che va compresa nell'ambito del quadro storico-sociale dell'epoca, che lascia intravvedere come i Corinti e con loro l'intero mondo pagano, fossero travolti dall'immoralità nei comportamenti sessuali (5,1) e avessero una lascivia del vivere che non aveva freni (5,2) e che Paolo cerca di contenere all'interno del matrimonio, come unico contenitore per regolare tale incontinenza sessuale. Da qui la severità con cui è visto il matrimonio, quale legame indissolubile, sostenuto da una teologia, che attinge ai primordi della creazione e dell'umanità (6,16). La preoccupazione di Paolo, così come quella dei primi Padri della chiesa, per questo smodato uso della sessualità, che creava anche disordini sociali, viene confermata dalla riforma della famiglia promossa dall'imperatore Ottaviano Augusto (27 a.C.-14 d.C.), una famiglia distrutta da tradimenti, separazioni, divorzi, da figli vaganti e dalla denatalità, riaffermando il primato della famiglia e punendo l’adulterio e incentivando i matrimoni e la natalità, non tralasciando il culto degli Antichi, entro cui va compresa anche la riforma della famiglia, creando un solido legame con i Padri e la Tradizione.

Commento ai vv.3-7

Doverosità dei rapporti intimi tra coniugi e sua motivazione (vv.3-4)

In un'epoca di grandi disordini in materia di comportamenti sessuali, qual'era quella in cui vivevano le prime comunità credenti, Paolo cerca di ricondurre l'incontinenza all'interno del matrimonio, obbligando in un certo qual modo i coniugi a sfogare le loro pulsioni e le loro passionalità all'interno di un contenitore sociale normato, qual è il matrimonio. Si parla, infatti, del “reciproco debito” che i coniugi devono avere l'uno verso l'altro, entrambi posti parimenti sullo stesso piano dei diritti e dei doveri. Ma il “debito” non va inteso come una costrizione al rapporto sessuale, la quale cosa costituirebbe una sorta di abuso, di violenza o di prevaricazione sessuale, ma di un obbligo a mantenere vivo il matrimonio e la famiglia che ne consegue, nella coscienza che i rapporti sessuali costituiscono il luogo dove si rinsalda, non solo spiritualmente e psicologicamente, ma anche fisicamente il legame tra i due coniugi, che in tal modo, ma non solo, formano una sola carne, che assume poi il volto dei propri figli, in cui entrambi i coniugi si ritrovano e si riconoscono.

In questo contesto di “debito” nei confronti della reciproca donazione di se stesso all'altra e viceversa, va letto e compreso il v.4: “La donna non è padrona del proprio corpo, ma il marito; similmente anche il marito non è padrone del proprio corpo, ma la moglie”. Quando si parla di “padrone” si intende il possessore di un determinato bene, che gli appartiene in esclusiva e non glielo si può sottrarre impunemente. C'è, quindi, in questo rapporto padrone-bene un forte vincolo di possesso inalienabile. L'oggetto di tale possesso, o meglio di tale reciproco possesso, è il “corpo del coniuge”, la quale cosa pone la base alla fedeltà coniugale così che il marito o la moglie non possono darsi ad altri, poiché essi non si appartengono più, in quanto si sono donati reciprocamente, così che l'uno appartiene all'altra e viceversa. Il violare questo patto di fedeltà comporta una profonda rottura non solo a livello fisico, ma anche spirituale, morale e ontologico, poiché, non va mai dimenticato, i due non solo formano una carne sola, ma sono anche una carne sola. Rompere questo vaso significa non poterlo più riaggiustare e, qualora si potessero rimettere assieme i cocci con il collante della buona volontà e del perdono rimarrà sempre un vaso rabberciato.

L'astensione dai rapporti intimi va concordata e dev'essere di breve durata (v.5)

All'interno di questo contenitore legale, qual è il matrimonio, in cui i coniugi si posseggono reciprocamente in senso fisico per placare la propria incontinenza, Paolo crea anche degli spazi di continenza, cioè delle pause alla libera e reciproca soddisfazione sessuale. Il motivo di questa tregua sessuale è per dare la possibilità ai coniugi di ritrovarsi non solo fisicamente, ma anche spiritualmente, poiché l'uomo non vive di solo pane, ma anche della Parola di Dio (Mt 4,4), essendone immagine e somiglianza (Gen 1,27), cioè avendo impresso in se stesso l'impronta di Dio. Da qui la necessità di riscoprire in se stessi questa impronta divina, costruendo anche su questa il proprio rapporto coniugale, così che vi sia tra i due coniugi una convergenza non solo fisica, ma anche spirituale, la quale cosa rafforza e rinsalda meglio i rapporti tra i due, dando un nuovo senso e significato anche ai rapporti sessuali, elevando in tal modo la visione del loro matrimonio: da luogo di mero sfogo della propria incontinenza a luogo d'incontro con il Dio di Amore, di cui essi sono un riflesso e un sacramento, cioè un segno visibile.

Una tregua che tuttavia ha delle sue regole:

  1. dev'essere “in accordo”, cioè concordata, poiché mariti e mogli sono proprietari l'uno dell'altra e viceversa ed entrambi hanno un comune e reciproco debito coniugale e non possono più disporre liberamente di se stessi. Questo accordarsi sulla tregua sessuale dice implicitamente come il cammino matrimoniale dei due coniugi si sia evoluto spiritualmente ed abbiano anche compreso come i rapporti sessuali, benché importanti e vitali nel rapporto a due, non sono sufficienti per creare vincoli e legami profondi e permanenti, avendo scoperto, o quantomeno intuito, come vi sia un altro collante ancora più potente, quello affettivo e spirituale. Tregua sessuale, dunque, per dare spazio ad una elevazione anche spirituale. Ma questa va concordata;

  2. la tregua, poi, deve avere una determinata “durata di tempo”, che in genere è da ritenersi breve, per evitare che l'incontinenza prevalga sulla continenza, non dimenticando mai che se lo spirito è pronto, la carne è debole (Mt 26,41; Mc 14,38);

  3. la tregua, infine, deve “essere motivata”, cioè giustificata da interessi superiori, come nel caso che qui Paolo prospetta: “per la preghiera”, cioè uno spazio vitale che viene dedicato a Dio, per creare un forte legame con Lui e tale che questo si rifletta nel rapporto tra i due, dando loro una visione ben superiore di un matrimonio quale semplice contenitore legale per dare sfogo legalmente alla propria concupiscenza, poiché il matrimonio visto meramente in questa prospettiva non ha molte prospettive.

Riflessione conclusiva (vv.6-7)

I vv.6-7 concludono la pericope in esame con una riflessione che viene sviluppata al v.7 ed è conseguente al v.6: “Vi dico questo per indulgenza, non per comando”. Una frase tendenzialmente sibillina. A cosa si riferisce quel “toàto” (tûto, questo), di cui Paolo sta dicendo? All'intera pericope vv.1-7 o al solo v.5b: “di nuovo siate sul medesimo (intento), affinché satana non vi tenti a motivo della vostra incontinenza”? Benché qui le posizioni divergano, personalmente ritengo che il v.6 si riferisca esclusivamente al v.5b. Il pronome dimostrativo “toàto” (tûto, questo), infatti, indica in genere un qualcosa che si è appena detto e che si trova appena prima del pronome. L'espressione, poi, “Vi dico questo per indulgenza, non per comando”, dove il termine “indulgenza” ha il significato di “comprensione, di compatimento per le vostre esigenze sessuali”, per cui non appena avete terminato il periodo della vostra astinenza riprendete pure i vostri rapporti sessuali, rompendo in tal modo la tregua sessuale, alla quale Paolo sembra riferirsi con quel “Ma vorrei che tutti gli uomini fossero come me” (v.7a), cioè non fossero sposati e non avessero legami di sorta, né tantomeno esigenze di tipo sessuale, in quanto che Paolo si è dedicato totalmente al Signore, rinunciando per questo ad una donna, ad una propria famiglia e ad una propria discendenza, così molto importante per gli ebrei tanto da farne un comandamento (Gen 1,28), sublimando, invece, le sue esigenze sessuali in uno stretto rapporto spirituale con il Signore, con il quale desidera unirsi ardentemente (Fil 1,21-24M 3,8). Posizione questa che Paolo riprenderà e svilupperà con la pericope vv.32-35, inquadrata all'interno di una prospettiva escatologica (vv.29-31).

Significativa, poi, è la conclusione del v.6: vi dico questo per indulgenza, “non per comando”. In altri termini, dopo la tregua sessuale concordata tra i due coniugi, è buona cosa che questi tornino alla convivenza e ai rapporti sessuali. Ebbene, dice Paolo, quasi premunendosi ed aprendo una sorta di spiraglio, perché invece avvenga il contrario: l'esortazione a tornare insieme dopo la tregua sessuale non è un comando, cioè non è vincolante, ma solo una indulgente comprensione da parte mia nei vostri confronti; una sorta di compatimento per la situazione in cui vi trovate. Ma, del resto, concluderà Paolo al v.7, quasi a volersi consolare: non tutti sono come me, ma ognuno ha la sua vocazione.

Consigli ai celibi e alle vedove (vv.8-9)

Testo

8- Dico ai celibi e alle vedove, è buona cosa per loro che rimangano come (sono) anch'io;
9- ma se non sanno dominarsi, si sposino, poiché è meglio sposarsi che bruciare.

Commento ai vv.8-9

Le considerazioni del v.7, cioè l'auspicio che tutti siano non sposati come Paolo, per dedicarsi interamente al Signore, benché si sappia che ciò non è da tutti, trova ora qui ai vv.8-9 la sua pratica applicazione nel caso dei celibi o, nel senso più lato e onnicomprensivo, come suggerisce il termine “¢g£moij” (agámois), dei non sposati e delle vedove. Categorie di persone, comunque, che non sono sposate o lo sono state in passato e, quindi, nel presente liberi da vincoli coniugali. Essi, pertanto, non appartengono a nessuno (v.4) e sono quindi disponibili per il Signore. A questa categoria di persone Paolo pone come modello di vita se stesso, tutto dedito in modo appassionato al Signore, quale dono e offerta di se stesso a lui. Concetto questo che verrà in qualche modo ripreso in Rm 12,1-2 dove Paolo, sottolineando in qualche modo il comune sacerdozio, esorta ad offrire se stessi, i propri corpi, quale sacrificio vivente e gradito a Dio, rinnovandosi ogni giorno nella propria mente sempre alla ricerca della volontà di Dio e di ciò che è a Lui gradito. Concetto questo che verrà sviluppato qui in 7,32-35.

Tuttavia, al di là del proprio desiderio e della propria spiccata vocazione celibataria, che lo consacra totalmente al Signore, continuando a seguire la logica più realistica del buon senso, che già aveva dimostrato al v.2, Paolo suggerisce, quasi in una sorta di resa incondizionata alla naturale istintualità propria di ogni essere umano, posta a fondamento della conservazione della specie, di sposarsi in conformità al principio enunciato al v.1b: “ciascuno abbia la sua donna, e ciascuna abbia il proprio uomo”, perché “è meglio sposarsi che bruciare” di desiderio, che spingerebbe alla fornicazione (v.2a).

Un comandamento per gli sposati (vv.10-11)

Testo

10- A quelli che sono sposati ordino, non io ma il Signore, che la moglie non si separi dal marito,
11- ma anche qualora si separi, rimanga nubile o si riconcili con il marito - e il marito non ripudi la moglie.

Commento ai vv. 10-11

Quasi a completamento della pericope vv.2-7, dove si era affermato che “La donna non è padrona del proprio corpo, ma il marito; similmente anche il marito non è padrone del proprio corpo, ma la moglie” (v.4), riconoscendo la parità di diritti e di dignità tra i due coniugi, Paolo riprende qui in qualche modo quell'affermazione, che sembra porre a fondamento e a giustificazione del divieto di separazione tra i coniugi. L'indirizzo è indubbio e l'area è circoscritta: “A quelli che sono sposati”, perché sono questi che si posseggono reciprocamente e in modo tale da formare una sola carne, cioè una nuova realtà ontologicamente definita e. per sua natura, inscindibile, pena la distruzione di tale nuova realtà.

Il comando che Paolo dà agli sposati è perentorio e si rifà all'autorità stessa del Signore, quel Signore che Paolo non ha mai conosciuto, ma i cui comandamenti e la cui parola deve aver appreso presso le comunità credenti dove ha passato una decina di anni, dopo l'evento di damasco (35 d.C.) e prima di iniziare il suo primo viaggio missionario (45 d.C.). Paolo, quindi, riporta qui ciò che è già patrimonio della chiesa primitiva, che si rifà all'insegnamento di Gesù e che tale deve ritenersi, perché è un insegnamento che va contro corrente sia con riguardo alla cultura ebraica che alla stessa Legge mosaica, tanto che i discepoli esclameranno: “Se questa è la condizione dell'uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi” (Mt 19,10). Un insegnamento, quindi, innovativo anche per il mondo pagano, da cui i Corinti provenivano.

Proprio per il fatto che i coniugi formano tra loro una sola carne, cioè un'unica e nuova realtà, ontologicamente costituita non solo dalla reciproca volontà di accoglienza e convivenza, ma anche, questa, suggellata dal rapporto sessuale, che dice la compenetrazione dei due corpi quasi a farne uno soltanto, il cui volto tangibilmente significativo nonché sacramentale sono i figli. Proprio per tale fatto non è ammissibile la separazione, che qui va intesa come divorzio, cioè irreparabile rottura della nuova realtà coniugale e tale da rendere nuovamente liberi e indipendenti i coniugi.

Paolo, pur ammettendo in qualche modo la separazione di fatto, cioè la semplice non convivenza tra i due coniugi, tuttavia attesta che la donna deve rimanere o nubile o riconciliarsi con il marito. Il divieto di risposarsi nasce dal fatto che in realtà, anche se separata dal marito, la donna è e rimane comunque sposata al marito, poiché se l'unione tra i due, da un punto giuridico è frutto di un contratto normato dalla legge, dagli usi e costumi, e in quanto tale può essere rescisso, tale unione va ben oltre ai meri aspetti giuridici, poiché nel rapporto a due non vengono implicati soltanto dei diritti e dei doveri, ma altresì due persone, due storie, due volontà, due corpi, due esseri umani, che si fondono assieme in modo tale da costituire una nuova realtà spirituale ed ontologica, che assume una configurazione giuridica e sociale, ma che va compresa come una nuova entità a se stante e ontologicamente costituita e che permane al di là degli aspetti legali e giuridici. Proprio per questo, va da sé che quanto vale per la donna, vale parimenti per l'uomo, perché entrambi si posseggono reciprocamente (v.4), tant'è che il risposarsi dei due coniugi separati era considerato fin dai primi tempi della chiesa come un adulterio, per l'inscindibilità del rapporto tra i due, consacrato davanti a Dio41. Da qui il divieto per il marito, a cui era demandato giuridicamente il diritto di ripudio che invece era negato alla donna, anche se non in modo assoluto presso il mondo pagano o presso lo stesso mondo ebraico della diaspora42.

La questione dei matrimoni, in cui uno dei due coniugi è divenuto credente (vv.12-16)

Testo a lettura facilitata

Matrimoni pagani dove un coniuge diviene credente (vv.12-13)

12- Agli altri dico, io non il Signore, se un fratello ha una moglie non credente e essa acconsente di abitare con lui, non la ripudi;
13- e (la) moglie, se questa ha un marito non credente e questo acconsente di abitare con lei, non ripudi il marito.

La motivazione (v.14)

4- Infatti, il marito non credente viene santificato nella moglie e la moglie non credente viene santificata nel fratello; poiché allora i vostri figli sarebbero impuri, invece ora sono santi.

In caso di incompatibilità della convivenza, il matrimonio è da ritenersi sciolto (vv.15-16)

15- Ma se il non credente si separa, si separi; in tali circostanze il fratello o la sorella non sono vincolati. Dio vi ha chiamati (a vivere) in pace.
16- Infatti che cosa sai (tu), donna, se salverai il marito? O che cosa sai (tu), uomo, se salverai la moglie?

Note generali

La questione che qui si pone non riguarda i matrimoni misti, cioè tra un credente e una pagana e viceversa, poiché questo tipo di matrimoni sembrano essere proibiti da Paolo, là dove si concede alla vedova di risposarsi, ma questo deve avvenire “soltanto nel Signore”, cioè con un matrimonio tra credenti davanti al Signore (v.39). Il problema che qui viene affrontato riguarda quei matrimoni pagani dove uno dei due coniugi è diventato credente, mentre l'altro è rimasto non credente. Che fare in questo caso? E quanto ai figli, cosa fare? La soluzione che Paolo propone è duplice: umana (vv.12-13) e spirituale nel contempo (v,14). Quanto alla prima, il matrimonio non trova ostacoli se i due coniugi, nonostante le sostanziali differenze di credo, convivono pacificamente; quanto alla seconda, Paolo punta molto sulla grazia, cioè sull'opera di Dio che agisce nel credente, il quale con la sua vita santifica il legame di amore tra i due coniugi, così come il frutto di questo amore, i figli.

Tuttavia, qualora le diversità di fedi siano tali da creare delle tensioni o dei problemi di convivenza all'interno della coppia, poiché la fede incide profondamente nel modo di vedere le cose, di valutarle, nel modo di pensare, di educare i figli, e il non credente decide di separarsi dal credente, ebbene, dice Paolo, che si separi pure, ma, a diversità di un matrimonio tra credenti, questa tipologia di coniugi sono liberi dal vincolo matrimoniale e il credente può risposarsi.

Commento ai vv.12-16

Matrimoni pagani dove un coniuge diviene credente (vv.12-13)

Prosegue la lista delle raccomandazioni, che Paolo rilascia ai Corinti, secondo quanto questi avevano richiesto nel loro scritto (v.1a). Situazioni diverse e complesse che i Corinti si trovavano a dover affrontare a motivo della loro scelta di vita, compiuta in mezzo ad una società di pagani, da cui essi provenivano, portandosi con sé il loro bagaglio culturale, fatto di tradizioni, di educazione, di relazioni di parentela e di amicizie, nonché di matrimoni o di fidanzamenti. Come comportarsi, dunque? Si tratta, quindi, di una sorta di casistica che qui Paolo crea nel dare una risposta compatibile con la nuova vita in Cristo e con le esigenze della nuova fede.

Qui Paolo affronta un nuovo caso, quello di matrimoni celebrati secondo il rito pagano, tra due pagani, di cui uno successivamente è divenuto credente. Lo fa presentando il caso del credente, qui definito come “fratello”, secondo il linguaggio proprio dei primi cristiani, che si autodefinivano tra loro con i termini di “fratello” e “sorella”, lasciando intravvedere in questi la comune paternità divina nella comune ed unica fede, che li ha resi fratelli e sorelle in Cristo, di cui condividono anche la comune paternità divina (Gv 20,17b). Sarà soltanto ad Antiochia che i credenti, definiti solo “discepoli”, verranno chiamati per la prima volta “cristiani” (At 11,26b), termine questo che ricorre in tutto il N.T. soltanto tre volte43.

Si noti come qui Paolo, per affrontare un medesimo problema, spende due versetti sostanzialmente identici: uno dedicato al “fratello” che si trova sposato ad una non credente (v.12); e uno dedicato ad una moglie credente che si ritrova sposata con un non credente (v.13). Paolo non è uno che spende parole in più se queste non servono, né uno che si ripete inutilmente. Tuttavia i vv.12 e 13 sono la fotocopia l'uno dell'altro, cambiano solo gli attori, maschile l'uno, femminile l'altro, lasciando in tal modo intravvedere la parità di diritti e di dignità tra l'uomo e la donna e, forse, va aggiunto anche per una questione di chiarezza, che eviti fraintendimenti in questioni così delicate, considerata la pesante condizione di vita in cui si trovava la donna, tutta a favore dell'uomo.

Paolo esordisce precisando che quanto egli sta per dire, a differenza di quanto aveva appena detto al v.10, è soltanto un suo parere, un suo consiglio e non proviene dal Signore e, pertanto, sembrerebbe lasciar intendere che non è vincolante, ma certamente pesa come una direttiva che non va trascurata, considerata la fonte apostolica.

Il consiglio apostolico, pertanto, è che il marito, divenuto credente, non ripudi la moglie e viceversa, ma rimangano nello stato e nella condizione di vita in cui si trovano nel momento della chiamata (v.17), cioè sposati tra loro con rito pagano. Dio, infatti, chiama gli uomini a vivere tra loro in pace (v.15c), senza sconquassare la loro vita, che, comunque, con la chiamata cambia di senso e di orientamento.

La motivazione (v.14)

La motivazione di questa direttiva non è soltanto antropologica, cioè il continuare a vivere il proprio amore nell'armonia e negli equilibri creati nella vita di coppia, ma è soprattutto teologica: il credente, chiamato a condividere in Cristo la vita stessa di Dio, ne condivide anche la sua santità, che è prerogativa di Dio, ed è a Dio consacrato per la sua fede e il suo battesimo, con i quali è stato cristificato. In altri termini, il credente, per aver accolto esistenzialmente la Verità del Vangelo, è divenuto dimora di Dio (Gv 6,56; 14,17.23) e luogo dell'azione di Dio in mezzo agli uomini, poiché non è più lui che vive, ma Cristo vive ed opera in lui (Gal 2,20a), essendo egli divenuto, per la Parola accolta, proprietà di Dio e facendo parte di un regno di sacerdoti e di un popolo santo (Es 19,5-6).

In questo contesto di santità e di sacralità, dove vive ed opera Dio nel credente, tutto viene santificato e sacralizzato, anche quella nuova realtà antropologica ed ontologica che è venuta a costituirsi con il matrimonio e in cui anche il marito e i figli vivono.

In caso di incompatibilità della convivenza, il matrimonio è da ritenersi sciolto (vv.15-16)

Benché il credente, a motivo della sua fede, crei un contesto di santità e di sacralità attorno a sé, santificando e consacrando il suo matrimonio, tuttavia, perché tale contesto operi efficacemente anche sugli altri membri della famiglia, è necessario che questi siano disponibili ad accoglierlo o quanto meno non vi si oppongano e lo rispettino, diversamente diventa ineluttabile la rottura dei rapporti e la fine di questa nuova realtà, che è la famiglia. Una situazione questa che verrà in qualche modo attesta successivamente da Mt 10,35-36, a testimonianza della difficile situazione in cui venivano a trovarsi i credenti anche all'interno degli affetti familiari: “Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera: e i nemici dell'uomo saranno quelli della sua casa”. Affermazione questa che verrà ripresa da Lc 51-53: “Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione. D'ora innanzi in una casa di cinque persone si divideranno tre contro due e due contro tre; padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera".

In un simile contesto di conflittualità è facile pensare che il non credente, rifiutando la nuova situazione inattesa, possa anche respingerla e, di conseguenza, voglia separarsi. Si noti come Paolo lasci qui l'iniziativa della separazione al “non credente” e in qualche modo l'acconsenta, ma non così per il credente, poiché questi con la sua presenza ha santificato il suo matrimonio, validandolo in qualche modo davanti al Signore, che in lui è presente ed opera, ricadendo per ciò stesso nel divieto di separazione (v.10). In questo stato di cose il credente subisce l'azione del non credente, che fa fallire il progetto di salvezza, che Dio stava operando nel credente, così che questi può ritenersi libero da un vincolo matrimoniale sconsacrato, qual'era prima e quale è divenuto dopo, essendoci stato il rifiuto da parte di uno dei due coniugi di tale vincolo santificato.

Del resto, dice Paolo, quasi a consolazione del credente, “che cosa sai (tu), donna, se salverai il marito? O che cosa sai (tu), uomo, se salverai la moglie?”. Ebbene, sembra concludere, lascialo/a andare per la sua strada e tu continua su quella del Signore, poiché la sua opportunità l'ha avuta.

Un'esortazione a rimanere nello stato di vita in cui si è stati chiamati (vv.17-24)

Testo

Enunciazione del principio (v.17)

17- Se non (ricorre uno di questi casi), (ognuno) cammini così come il Signore ha attribuito a ciascuno, come il Signore ha chiamato ciascuno. E così dispongo in tutte le chiese.

Esemplificazione riguardante i giudeocristiani e gli etnocristiani (vv.18-19)

18- Chi è stato chiamato (da) circonciso, non (lo) nasconda; chi è chiamato con (il) prepuzio, non si circoncida.
19- Niente è la circoncisione e niente è il prepuzio, ma (ciò che conta è) l'osservanza dei comandamenti di Dio.

Esemplificazione riguardante la propria condizione di schiavo o di libero (vv.20-24)

20- Ciascuno (rimanga) nella vocazione in cui fu chiamato, in questa resti.
21- Sei stato chiamato da schiavo, non darti pensiero; ma anche se puoi diventare libero, piuttosto traine vantaggio.
22- Infatti, il servo che è stato chiamato nel Signore è liberto del Signore; similmente il libero che è stato chiamato (nel Signore) è servo del Signore.
23- (A caro) prezzo siete stati comperati; non diventate servi degli uomini.
24- Ciascuno in ciò che è stato chiamato, fratelli, in questo resti presso Dio.

Note generali

La pericope in esame (vv.17-24) è delimitata da una inclusione complessa, data dall'enunciazione del v.17, che trova il suo corrispondente tematico sia al v.20 che al v.24; mentre i vv.20.24 formano a loro volta, in senso più tecnico, una terza inclusione in quanto vi è una ripetizione non solo tematica, ma anche il ripetersi della stessa frase in entrambi i versetti. Vi è quindi una sorta di tripla inclusione: le prime due, vv.17.20; 17.24, più tematiche che per ripetizione di stessi termini, benché in tutti tre i versetti ricorra il verbo “chiamare” che crea un filo logico e tematico, che caratterizza la pericope; la terza è data dai vv.20.24, in cui i versetti si ripetono sostanzialmente identici.

Una pericope la cui finalità è quella di affrontare i diversi stati di vita da cui provenivano e in cui si trovavano i credenti al momento della loro conversione e che poi formavano le prime comunità, portando in queste tutto il loro carico di problemi culturali, educativi, religiosi e morali. Paolo qui ne affronterà due, quelli che andavano probabilmente per la maggiore e che investivano tutte o quasi tutte le comunità credenti dell'epoca, tant'è che egli affermerà che “così dispongo in tutte le chiese” (v.17b): la convivenza di giudeocristiani ed etnocristiani (vv.18-19) e quella tra schiavi e padroni o, in senso più generico, schiavi e liberi (vv.20-24). Un tema quest'ultimo che verrà ripreso in qualche modo anche in 11,20-22 al riguardo della Cena del Signore, dove c'era chi, benestante, mangiava e beveva, riempiendosi la pancia; mentre altri, meno abbienti e ghettizzati, pativano la fame.

Il primo caso (vv.18-19) riguarda i rapporti tra giudeocristiani ed etnocristiani, due categorie di persone che non sempre avevano una facile e pacifica convivenza a motivo prevalentemente dei giudeocristiani, quasi sempre giudaizzanti. Questi, pur abbracciando il messaggio del Vangelo, continuavano a vivere secondo la Legge mosaica, ritenendo che per accedere alla salvezza portata da Cristo si dovesse passare attraverso la Legge mosaica (At 15,1), il cui segno visibile era la circoncisione, che volevano imporre anche agli etnocristiani, cioè a quei cristiani che provenivano dal paganesimo, che certamente non avevano alcuna intenzione di sottoporsi alla Legge mosaica e tanto meno farsi circoncidere. Un problema questo che emergerà evidente nella Lettera ai Galati (Gal 5,2-4; 6,12-13.15) e che causerà il primo concilio della storia della chiesa, quello di Gerusalemme (49 d.C.), che Luca racconterà in At 15,1-33 e al quale fa anche un vago accenno Gal 2,1-10.

Il secondo stato di vita considerato (vv.20-24) era quello di coloro che provenivo dai bassi ceti sociali, in genere formati da servi e schiavi, che, convertitisi, si ritrovavano a vivere con altri convertiti provenienti, invece, da ceti sociali benestanti se non ricchi, a cui appartenevano le persone libere o i liberti. Una simile situazione viene testimoniata dallo stesso Paolo nella Lettera a Filemone, dove Onesimo, schiavo di Filemone, si era convertito così come era convertito il suo padrone, Filemone. Quale rapporto, quindi, viene a stabilirsi tra le due categorie così contrapposte e socialmente inconciliabili, ma tuttavia entrambe credenti nello stesso Cristo, unite dalla medesima fede e partecipanti alla medesima Cena del Signore, così che sottolineerà Paolo in Gal 3,28: “Non c'è più Giudeo né Greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”?

Paolo darà qui delle direttive generali, che sono più che altro indicazioni tematiche su cui riflettere, dando in tal modo spazio ai responsabili delle comunità di applicarle, adattandole alle loro esigenze.

Commento ai vv.17-24

Enunciazione del principio (v.17)

Il v.17 è di transizione, perché concludendo la pericope vv.12-16, agganciandosi a questa (v.17a), introduce quella successiva vv.18-24. Una pericope quest'ultima, la cui tematica era già stata affrontata in qualche modo in quella precedente (vv.12-16), dove Paolo esortava entrambi i coniugi, di cui uno dei due si era successivamente convertito, a continuare il loro matrimonio, rimanendo nello stato di vita in cui essi si trovavano al momento della conversione di uno dei due, a meno che il coniuge pagano non decidesse per la separazione, cambiando quindi il loro stato di vita in atto.

L'esortazione, pertanto, del v.17 non poteva che essere in linea con la pericope vv.12-16, che qui (vv.18-24) viene in qualche modo ripresa e meglio focalizzata nel tema che era rimasto in ombra: “(ognuno) cammini così come il Signore ha attribuito a ciascuno, come il Signore ha chiamato ciascuno”. In altri termini, ciascuno continui a vivere nel modo in cui è capace di vivere e nello stato e condizione di vita in cui si trovava al momento della “chiamata”, cioè della propria conversione. Questa, infatti, non incide sulla propria condizione o stato di vita di sposato, di circonciso o incirconciso, di ricco o povero, di schiavo o libero, del proprio essere uomo o donna, ma inciderà profondamente e radicalmente nel modo di vivere questa condizione e questo stato di vita, in cui ci si trovava al momento della propria conversione, poiché l'adesione esistenziale al Vangelo apre ad una nuova visione delle cose, della propria vita e delle proprie relazioni, del proprio modo di vedere e sentire le cose e di orientamento della propria vita.

Eccezione a questa regola di continuità di stato e condizione di vita è il caso riportato al v.15, richiamato in apertura del v.17. Una regola questa che Paolo dispone in modo univoco per tutte le chiese, rilevando in tal modo l'uniformità del suo insegnamento, che tende a plasmare nell'unità il modo di vedere e di sentire della Chiesa nascente.

Esemplificazione riguardante i giudeocristiani e gli etnocristiani (vv.18-19)

La prima esemplificazione riguarda lo stato di vita di quelli che componevano le comunità credenti, in genere miste, cioè con presenza di giudeocristiani e di etnocristiani. I primi, provenienti dal giudaismo, erano circoncisi, ma non i secondi, provenienti, invece, dal paganesimo, dove non era praticata la circoncisione rituale di appartenenza ad un popolo, assegnando alla circoncisione una valenza religiosa (Gen 17,10-11). Tuttavia, il cambiamento dello stato di vita, da giudeo a cristiano, poteva spingere alcuni a nascondere la propria circoncisione, per evitare di far conoscere la propria provenienza ed apparire in tutto pari agli etnocristiani, più disinvolti e di certo non seguaci della Legge mosaica e probabilmente in prevalenza in quella determinata comunità; oppure semplicemente per rompere nettamente con il giudaismo. Comportamenti simili si trovano testimoniati in 1Mac 1,15 e in Antichità Giudaiche XII, 241.

Per contro vi erano degli etnocristiani, che, invece, erano spinti a circoncidersi, probabilmente per ingraziarsi i folti gruppi, molto chiusi e talvolta prevalenti, di giudeocristiani giudaizzanti, che popolavano le prime comunità credenti; o forse erano dei “timorati di Dio”, cioè pagani che guardavano benevolmente e con ammirazione il giudaismo e si sentivano parte della comunità giudaica e, probabilmente, prendevano parte anche all vita religiosa. Testimonianze in tal senso sono fornite da At 19,2.22; 13,26; 16.14; 18,7.

Sia nell'uno che nell'altro caso i nuovi credenti davano importanza all'essere o, per contro, al non essere circoncisi, quasi che la circoncisione o la non circoncisione fossero una discriminante sociale e religiosa importante, ma certamente pericolosa all'interno delle neonate comunità credenti, poiché si rischiava di perpetrare in esse comportamenti vetusti e ormai obsoleti, creando scontri e fazioni all'interno delle comunità stesse, così che Paolo si vedrà costretto a scrivere un'infuocata lettera alle comunità della Galazia.

Che cos'è, dunque, la circoncisione o l'incirconcisione? Si risponderà qui con il v.19a: “Niente è la circoncisione e niente è il prepuzio”, poiché una nuova realtà si è imposta a seguito dell'evento Cristo, che ha creato una netta discriminante tra il prima e il dopo, così che Paolo scriverà qualche anno dopo in Gal 6,15 (56/57 d.C.): “Non è infatti la circoncisione che conta, né la non circoncisione, ma l'essere nuova creatura44; mentre l'anno successivo alla Lettera ai Galati, tra il 57 e il 58 d.C., arriverà ad assegnare alla circoncisione con Rm 2,25-29, sublimandola, una valenza nettamente spirituale, trasformandola da segno carnale in orientamento esistenziale verso Dio.

Una netta e spiccata evoluzione del v.19b, dove ancora si esorta l'osservanza dei comandamenti di Dio, probabilmente verso quei Corinti, etnocristiani, che, forse influenzati dal qualche gruppetto di giudaizzanti, intendevano farsi circoncidere. In altri termini, circoncisione e incirconcisione sono formalità, ormai superate, poiché la realtà è Cristo (Col 2,17b).

Esemplificazione riguardante la propria condizione di schiavo o di libero (vv.20-24)

La pericope vv.20-24 è circoscritta da un'inclusione data dalla stessa identica frase che si ripete ai vv.20.24 e che riecheggia in se stessa il tema annunciato al v.17. Il v.20, poi, è di transizione perché, da un lato, conclude la pericope vv.18-19 e, dall'altro, introduce il tema della seconda pericope vv.21-23, che a sua volta si chiude con il v.24, che riprende sostanzialmente identico il v.20 e conclude l'intera pericope vv.17-23, fungendone altresì da esortazione finale, quella del rimanere nello stato di vita in cui ci si trovava al momento della propria chiamata.

Il cristianesimo non vuole stravolgere l'organizzazione sociale, ma vuole riorientarla, attribuendole un nuovo senso esistenziale e riqualificando le relazioni umane. Per questo è necessario che ciascuno rimanga nello stato di vita in cui si trovava al momento della sua conversione e continui a svolgere il compito a cui era stato chiamato, rivivendolo e risignificandolo alla luce della nuova fede e di cui la pericope in esame è un esempio, spingendo il credente non solo a rimanere nella condizione di vita in cui si trova, ma a guardarla da una diversa prospettiva, che ha come parametro di raffronto e di riorientamento Cristo.

Questa seconda esemplificazione riguarda la struttura della società dell'epoca, composta in genere da una piccola minoranza di uomini liberi, ricchi e benestanti, e una stragrande maggioranza di schiavi e di servi. Struttura sociale che rispecchiava quella di Corinto, dove circa i due terzi, o forse più, erano schiavi. Struttura sociale che si rifletteva in qualche modo anche all'interno della stessa comunità credente (1,26.28). Non a caso Paolo apre questa seconda esemplificazione prendendo come primo esempio lo stato di vita di schiavo, poiché questo era il prevalente della società corintea e della sua chiesa.

L'esemplificazione del principio “rimani nello stato di vita in cui sei stato chiamato e in questo restaci” rasenta il paradosso, poiché qui, al v.21, Paolo non solo esorta lo schiavo a non darsi pensiero per la propria condizione di schiavitù, ma anche di restarci, cioè di continuare a rimanere in questa condizione di vita, anche se si dovesse prospettare la possibilità di diventare un uomo libero. Certo, come si è detto, è un paradosso, poiché ogni uomo aspira alla propria libertà, per la quale è pronto anche a morire, come ricorda Dante, presentando a Virgilio Catone Uticense, che preferì suicidarsi piuttosto che sottomettersi a Cesare: “Libertà va cercando ch'è si cara, come sa chi per lei vita rifiuta” (Purg. I,71-72).

Ma il paradosso serve a Paolo per far capire al credente che in nessun modo deve cambiare la sua condizione sociale, ma ricomprenderla nella luce di Cristo e trasformarla dal suo interno, divenendo così lievito santificante, che santifica l'intera pasta sociale.

Il v.22 fornisce la motivazione della paradossale esortazione paolina, che apre con un “g¦r” (gàr, infatti) dichiarativo, suggerendo una nuova prospettiva nel vedere le cose, che ha come parametro di raffronto Cristo e il suo relazionarsi a lui: il servo, infatti, è stato affrancato dalla sua condizione di schiavo del peccato, di cui la sua schiavitù è forma storica, ne è una conseguenza, avendo il peccato degradato ed alterato l'uomo e con lui il suo modo di relazionarsi agli altri. Lo schiavo, pertanto, riscattato dalla sua schiavitù spirituale da Cristo “a caro prezzo”, cioè con il suo sangue sparso sulla croce, è divenuto per ciò stesso “liberto di Cristo”. Così, parimenti, chi è socialmente un uomo libero è divenuto per la medesima motivazione, proprietà di Cristo e, quindi, suo schiavo. Entrambi, comunque, sia lo schiavo che il libero, sono chiamati a vivere liberamente in Cristo ponendosi al suo servizio.

Qualche anno più tardi Paolo esorterà i Galati a rimanere liberi in quella libertà che Cristo aveva loro dato; libertà dalla schiavitù imposta dalla Legge mosaica e dagli idoli, a cui erano ritornati: “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi” (Gal 5,1a); mentre in Rm 6,22a sottolineerà come questa libertà non è da spendere per se stessi ma per Cristo, divenendo in tal modo suoi servi: “Ora invece, liberati dal peccato e fatti servi di Dio”, quel Dio di cui Paolo si dichiara egli stesso servo (Rm 1,1a), facendosi in Lui servo di tutti per guadagnare tutti a Cristo (9,19).

Un consiglio ai fidanzati (vv.25-28)

Testo a lettura facilitata

Indirizzo dell'esortazione: ai fidanzati (v.25)

25- Quanto ai vergini non ho un comando del Signore, ma do un consiglio, come colui che ha ottenuto compassione dal Signore ed è degno di fede.

Il parere di Paolo: meglio restare vergini (v.26)

26- Penso, pertanto, che questo (sia) una buona cosa, a motivo della necessità presente, cominciare (col dire) che sia un bene per l'uomo l'essere così.

Tuttavia … (vv.27-28)

27- Sei vincolato ad una donna? Non cercare (lo) scioglimento; sei libero da una donna? Non cercare una donna.
28- Ma quand'anche prendessi moglie, non hai peccato; e qualora la vergine si sposasse, non ha peccato. Questi tali avranno sofferenza nella carne, ma io ve (la) risparmio.

Note generali

Sulla stessa linea enunciata al v.1b, per cui “(è) buona cosa per l'uomo non toccare donna”, così come il consiglio dato ai celibi e alle vedove di non sposarsi e di rimanere nel loro stato di vedovanza e celibatario (v.8), proponendo se stesso quale esempio di celibe, cioè di persona libera da vincoli umani per dedicarsi totalmente a Dio e alla sua opera di salvezza (vv.7a.8), pur riconoscendo che questa sua scelta è un dono di Dio, che non è dato a tutti (v.7b), anche in quest'ultimo caso, dedicato ai/alle “vergini” (vv.25-28), Paolo non fa eccezione e li incoraggia a rimanere nel loro stato di uomini o di donne che, pur in età di sposarsi, preferiscono rimanere liberi da vincoli matrimoniali (v.26).

Le motivazioni di questa scelta, verso la quale Paolo spinge tutti coloro che ancora sono liberi da vincoli umani, quali vedove/i, celibi, nubili, ragazzi e ragazze in età di matrimonio, verranno enunciate e dettagliatamente argomentate nell'ultima sezione di questo lungo capitolo, vv.29-40, fornendo in tal modo le giustificazioni a sostegno della scelta celibataria, colta su di uno sfondo escatologico, che vede l'imminente ritorno del Signore e con questo la fine dei tempi (vv.29-31).

Commento ai vv.25-28

La pericope vv.25-28 si apre con la formula “Perˆ de” (Perì de, Circa, quanto a) introducendo un nuovo argomento, che fa comunque parte di “quelle cose che avete scritto” (v.1a). La questione riguarda qui “tîn parqšnwn” (tôn partzénon), cioè ”le vergini”, ma anche “i vergini”, cioè ragazzi e ragazze giunti/e in età da ammogliarsi o da maritarsi. Il termine quindi va inteso sia al maschile che al femminile, come lasciano intendere i vv.27-28, rivolti sia agli uomini che alle donne. Il termine “parqšnoj” (partzénos), infatti, si trova anche riferito agli uomini. Un esempio in tal senso si ha in Ap 14,4, dove si parla di “parqšnoi” (partzénoi), cioè di “vergini”, che ancora non hanno conosciuto donne.

Anche qui, come al v.12a, Paolo precisa che le disposizioni che sta per dare non provengono da fonte autoritativa, come invece ha precisato al v.10, ma da lui stesso e, pertanto, vanno intese non come imposizioni, ma come consigli, indicazioni sul come comportarsi. Tuttavia, benché di natura non vincolanti, queste raccomandazioni vanno comunque prese seriamente, poiché suggerite non da un saggio qualsiasi, ma da una persona su cui si è posata l'attenzione del Signore e ha beneficiato della sua diretta chiamata per compiere una missione. Per questo le sue parole sono degne di fede e vanno soppesate attentamente. In lui, infatti, risuona in qualche modo la voce del Signore.

Il v.26 enuncia il consiglio che Paolo dà ai Corinti, che hanno figli o figlie in età di matrimonio e, quindi, entrambi “vergini”, il cui senso non va inteso come “donna fisicamente integra”, ma il termine, all'epoca in cui Paolo scrive, definisce uno stato sociale, che corrisponde al nostro, celibe o nubile, o ragazzi/e in età da matrimonio o anche fidanzati. A questa categoria di persone Paolo suggerisce di rimanere così come sono, cioè da sposare o da maritare: è bene, infatti, per “l'uomo l'essere così”, cioè libero da vincoli matrimoniali. Il termine “uomo”, qui, è reso in greco con “¢nqrèpJ” (antzrópo), che indica l'uomo in senso generale, nel senso anche di umanità e quindi ricomprendente sia maschi che femmine.

Il motivo di tale suggerimento, cioè il rimanere da sposare, senza vincoli matrimoniali, è “a causa delle necessità del presente”. A cosa si allude con l'espressione “necessità del presente”? Il termine “necessità” è reso in greco con “¢n£gkhn” (anánken), che dà il senso della costrizione, che provengono dall'essere sposati, in quanto che il matrimonio sancisce ed esprime un reciproco vincolo, che rende entrambi i coniugi interdipendenti tra loro, accomunati entrambi in un'unica sorte, nel bene come nel male, e questo per la vita, poiché per Paolo, anzi per il Signore, il matrimonio è indissolubile (v.10). L'espressione, comunque, verrà meglio specificata al v.28b: “Questi tali avranno sofferenza nella carne, ma io ve (la) risparmio”.

Espresso il suo parere circa la condizione dei/delle vergini, Paolo ora traccia alcune linee generali per “chi è vincolato ad una donna” o per “chi non lo è ancora”. Il vincolo in questo caso non è quello matrimoniale, ma il passo precedente, quello del fidanzamento, quindi una posizione socialmente ufficiale e che già creava in qualche modo un vincolo, benché non ancora definitivo, tra i partner. Nel mondo ebraico il fidanzamento rendeva ufficiale il rapporto tra i due e creava un vincolo tra loro, giuridicamente riconosciuto e tutelato. E così, similmente, lo era anche in Mesopotamia45.

I fidanzati, pertanto, che già sono legati ad una donna, non sono tenuti a separarsi e a sciogliere il loro fidanzamento, poiché l'esortazione di Paolo a rimanere vergini è soltanto un suo consiglio personale, sia pur autorevole, ma non vincolante. Ma chi ancora non si è fidanzato, questi è consigliato a non farlo, tuttavia se questi ultimi, in violazione del consiglio di Paolo, decidessero di sposarsi non commetterebbero alcun peccato e di certo non sarebbero da condannare.

Il consiglio che Paolo elargisce a questi giovani, desiderosi di sposarsi, è motivato solo dal fatto di risparmiare loro delle sofferenze (28b), che la vita matrimoniale porta naturalmente con sé; sofferenze che aveva in qualche modo già paventato al v.26.

Ma è veramente questa la posizione ufficiale di Paolo? Veramente questo il motivo che spinge Paolo a dissuadere i giovani a sposarsi, solo per evitare loro i fastidi della vita matrimoniale? Personalmente ritengo che qui Paolo abbia voluto un po' banalizzare la cosa, mettendo in luce gli aspetti negativi del matrimonio solo per scoraggiare i “vergini” a sposarsi, anche perché la vita, sia pure questa celibataria, porta sempre con sé il suo carico di fastidi, di problemi e di sofferenze e non è certo evitando il matrimonio che i guai della vita possano essere evitati e dei quali, quelli matrimoniali, fanno parte. Del resto è sempre Paolo che esorta a sposarsi piuttosto che prostituirsi o bruciare, così che è bene che ognuno abbia la sua donna e ogni donna il suo uomo (vv.2.9).

Quali sono dunque i veri motivi, al di là della banalità delle sofferenze che la vita di coppia porta naturalmente con sé, che spingono Paolo a dissuadere i giovani a sposarsi? Sarà la sezione vv.29-40 a scoprire le carte di Paolo e a mettere in luce i veri motivi, che lo spingono ad accordare la sua preferenza alla verginità.

Le motivazioni a favore della verginità: di ordine escatologico e teologico (vv.29-40)

Testo a lettura facilitata

La motivazione escatologica: la venuta del Signore è imminente (vv.29-31)

29- Ma questo (vi) dico, fratelli, il tempo si è fatto breve; d'ora in poi coloro che hanno mogli, siano come coloro che non (le) hanno
30- e quelli che piangono come quelli che non piangono e quelli che gioiscono come quelli che non gioiscono e quelli che comprano come quelli che non possiedono,
31- e quelli che usano il mondo come coloro che non (lo) usano; passa, infatti, la figura di questo mondo.

La motivazione teologica: liberi da tutto per dedicarsi totalmente al Signore (vv.32-35)

32- Voglio che voi siate senza preoccupazioni. Il non sposato si dà pensiero per le cose del Signore, come possa piacere al Signore;
33- Colui che, invece, è sposato si dà pensiero per le cose del mondo, come possa piacere alla moglie,
34- ed è diviso. (Così) anche la donna non sposata e la vergine si danno pensiero per le cose del Signore, per essere sante e nel corpo e nello spirito; quella sposata si dà pensiero per le cose del mondo, come possa piacere al marito.
35- Dico questo per vostro stesso vantaggio, non per porvi un laccio, ma per (ciò che è) conveniente (per voi) e vi tiene uniti al Signore senza distrazioni.

Ultimi consigli ai vergini e alle vedove (vv.36-40)

36- Ma se qualcuno ritiene di comportarsi in modo indecoroso nei confronti della sua vergine, qualora abbia superato l'età, e così deve essere, faccia ciò che vuole, non pecca, si sposino.
37- Chi, invece, sta saldo nel suo cuore, non avendo costrizione, ma ha autorità circa la sua volontà e questo ha deciso nel proprio cuore di custodire la sua vergine, farà bene.
38- Così anche chi sposa la sua vergine fa bene e colui che non si sposa, farà cosa migliore.
39- (La) moglie è vincolata per tutto (il) tempo (che) suo marito vive; ma qualora il marito si sia addormentato, (può) essere sposata (con) chi vuole, soltanto nel Signore.
40- Ma sarà più felice qualora rimanga così, secondo il mio consiglio; penso di avere anch'io lo Spirito di Dio.

Note generali

Dopo aver dispensato i suoi consigli e dato le sue direttive sulle relazione tra uomini e donne, secondo lo stato e le condizioni di vita in cui ciascuno viene a trovarsi, dando netta preferenza allo stato di vita da non sposati, ma riconoscendo tuttavia anche il matrimonio quale strada maestra per i più, al fine di evitare la concupiscenza e la prostituzione, qualora qualcuno non riesca a dominarsi, ben comprendendo che il celibato come il nubilato non sono accessibili a tutti, poiché Dio dà a ciascuno il proprio dono che più gli è confacente (v.7b), Paolo, ora, a conclusione di questa ampia sezione dedicata ai non sposati quanto agli sposati, svela le motivazioni che lo hanno spinto a preferire lo stato di vita del non sposato rispetto ad altri e lo fa ricorrendo a due argomentazioni di ordine escatologico (vv.29-31) e di ordine teologico (vv.32-35).

Il cap.7 si chiude riportando la situazione di tre casi: chi è fidanzato e non sa trattenersi nei confronti della propria fidanzata; chi, invece, è fidanzato, ma sa dominare i propri istinti, conservando l'integrità della sua fidanzata; ed, infine, il caso della vedova, ormai sciolta dal vincolo matrimoniale: questa può adire a nuove nozze. In tutti tre i casi, pur ammettendo il matrimonio, Paolo, tuttavia, dà la sua preferenza allo stato di celibato o nubilato o, comunque di non sposato (vv.36-40). Soluzioni che, comunque, aveva già proposto ai vv.8-9 e 25-28, che qui in qualche modo riassume e ripropone. Niente, quindi, di nuovo in quest'ultimo scorcio del cap.7.

Commento ai vv.29-40

La motivazione escatologica: la venuta del Signore è imminente (vv.29-31)

La prima motivazione che spinge Paolo a dare la preferenza alla verginità o, comunque, allo stato di non sposato è di ordine storico: “il tempo si è fatto breve”; altrove, in Rm 13,12a, affermerà che “La notte è inoltrata e il giorno si avvicina”. In altri termini il tempo dell'attesa del Signore sta per finire e la sua venuta è ormai alle porte. In 1Ts 4,1-2 vengono presentate le modalità della venuta del Signore: meno che ce se l'aspetti verrà, come un ladro nella notte. Gc 5,9b renderà più drammaticamente imminente tale venuta: “il giudice è all porte”.

Era questo il clima che si respirava nel I sec. d.C. Un'imminenza che era sentita come incombente, tant'è che gruppi di credenti della chiesa di Tessalonica avevano smesso ogni loro impegno sociale e personale, campando alla giornata e vagabondando senza più fare nulla, poiché la venuta del Signore avrebbe posto fine a tutto entro pochissimo tempo, per cui non valeva più la pena di impegnarsi nelle cose di questo mondo (2Ts 3,10-13), così che l'autore della lettera, probabilmente un responsabile di comunità, era dovuto intervenire duramente, rifacendosi all'autorità di Paolo: ”E infatti quando eravamo presso di voi, vi demmo questa regola: chi non vuol lavorare, neppure mangi” (2Ts 3,10), sollecitando, per contro, ad un impegno fattivo nel bene: “Voi, fratelli, non lasciatevi scoraggiare nel fare il bene” (2Ts 3,13).

Quanto qui Paolo dice ai vv.29-31 va collocato e compreso all'interno di tale contesto. Non si tratta, tuttavia, di un invito al disimpegno, ad estraniarsi dal mondo, ma a non vivere in questo mondo come se questo mondo fosse la propria dimora definitiva, legandosi alle cose della propria quotidianità, quasi fossero un assoluto, facendoci dimenticare il vero Assoluto, perché il tempo ormai s'è fatto breve, la notte dell'attesa è inoltrata e il giorno del Signore si avvicina, anzi, egli è alle porte. Quindi si viva si la propria vita in questo mondo, ma senza addormentarsi nelle cose, tenendo, invece, sempre la propria attenzione rivolta verso il Signore, che sta per venire.

Mirabile, in tal senso, è la parabola matteana delle dieci vergini (Mt 25,1-13), tutte in attesa della venuta dello sposo, ma soltanto cinque sagge presero con sé l'olio dell'attenzione per le cose del cielo, per alimentare la lampada della loro fede nell'attesa della venuta dello Sposo; contrariamente alle altre cinque vergini, che si addormentarono nel tram-tram della loro quotidianità, senza preoccuparsi di alimentare la lampada della loro fede, così che, all'improvviso. in piena notte, meno che se l'aspettavano, giunse lo sposo, accorgendosi solo allora di avere la lampada spenta, così che rimasero escluse dalle Nozze eterne, a cui tutte inizialmente erano state invitate, ma solo le prudenti, quelle attente, hanno potuto parteciparvi.

È questo che Paolo intende dire qui ai vv.29-31: usate, si, delle cose di questo mondo, ma attenzione non attaccatevi ad esse e tenete sempre il vostro sguardo rivolto al Signore, che sta per venire. La vita del credente, pertanto, è una vita vissuta escatologicamente in una forte tensione, generata da un già, ma non ancora; da un futuro che è già presente, ma non ancora pienamente compiuto, ma sta per compiersi. In tal senso il credente ha una doppia cittadinanza: terrena e celeste. Ed è in questo dualismo, non sempre facile da combinare, che è chiamato a vivere. Bene lo aveva capito l'ignoto autore della Lettera a Diogneto, descrivendo lo stato di vita dei credenti: “Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo” (Diogneto 5,8-9).

Il motivo ultimo di questa esortazione a vivere distaccati nel mondo dalle cose del mondo è che “passa, infatti, la figura di questo mondo”. Due i termini che rilevano in questa breve espressione: il verbo “passare” e “figura”, reso in greco con “scÁma” (schêma), che tra i vari significati, che meglio si adattano al contesto, emergono quelli di figura, aspetto esteriore, ombra, apparenza. Ecco, dunque che cos'è il mondo per Paolo: solo un'apparenza di stabile dimora, di grandezza e magnificenza (altri due significati del termine greco “scÁma”), ma in realtà è soltanto una fugace, ombra, che passa non appena scendono le tenebre e la luce scompare. Già lo aveva ben compreso il Salmista: “Tu fai ritornare l'uomo in polvere e dici: <<Ritornate, figli dell'uomo>>. Ai tuoi occhi, mille anni sono come il giorno di ieri che è passato, come un turno di veglia nella notte. Li annienti: li sommergi nel sonno; sono come l'erba che germoglia al mattino: al mattino fiorisce, germoglia, alla sera è falciata e dissecca” (Sal 89,3-6). E ancor prima lo aveva capito Qo 1,1: “Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità, tutto è vanità”. Di certo una visione pessimistica della vita e delle cose, ma per il credente un forte richiamo a guardare la sostanza delle cose stesse, la loro vera essenza che è la precarietà e la caducità, e comprendere il senso della sua vita e del suo peregrinare in questo mondo, la cui meta non è lo star bene e accumulare soldi e avere potere, ma la vita eterna, verso cui sta andando in questo suo viaggio, iniziato qui nel mondo, ma che sfocerà nell'eternità. Il come, dipende solo da lui, dal suo orientamento esistenziale; dai suoi interessi, che guidano, formano e sostanziano la sua vita.

La motivazione teologica: liberi da tutto per dedicarsi totalmente al Signore (vv.32-35)

Dopo aver esortato i credenti a tenere un atteggiamento distaccato nei confronti delle cose, usandole per quello che servono al proprio vivere e niente più, attribuendo loro, quindi, un'importanza relativa e tale da non deviare mai la propria vita, orientandola verso queste, Paolo, ora, con la pericope vv.32-35, entra nel vivo della questione ed esce allo scoperto, anticipando in qualche modo quello che il Gesù matteano attesterà: “Nessuno può servire a due padroni: o odierà l'uno e amerà l'altro, o preferirà l'uno e disprezzerà l'altro: non potete servire a Dio e a mammona” (Mt 6,24: par. Lc 16,13). Le realtà di questo mondo sono, dunque, antitetiche a Dio. Da qui la necessità di non porsi al loro servizio, ma servirsi di queste per quel tanto che basta, per evitare di rimanerne invischiati, tenendosi in tal modo liberi per il Signore, poiché è lui la meta finale ed unica per il credente, il cui raggiungimento o meno decreterà il suo successo o il suo fallimento esistenziale. E Paolo darà testimonianza del suo totale distacco dalle cose per dare spazio solo a Cristo: “Tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo” (Fil 3,8).

E la pericolosità delle cose, in mezzo alle quali si vive e in cui si rischia di rimanere impantanati, viene laconicamente riconosciuta anche dagli antichi: “Pecunia, si uti scis, ancilla est, si nescis, domina”, cioè se il denaro, con tutto ciò che esso rappresenta, lo sai usare, ti è servo, se non lo sai usare, ti diventa padrone, mettendo in guardia circa la sua pericolosità. Per questo Paolo aveva esortato di usare di questo mondo come se non lo si usasse (v.31a).

Ed ecco, dunque, l'esortazione: “Voglio che voi siate senza preoccupazioni”, cioè liberi da quelle occupazioni proprie della quotidianità della vita e del proprio vivere, che spesso ci riempiono talmente di cose e di problemi così che non c'è più spazio per il Signore. “Preoccuparsi”, infatti, significa “Pre occupare se stessi”, cioè occupare se stessi, la propria vita, il proprio animo e il proprio spirito prima che le cose accadano, proiettando se stessi in un futuro, fatto di calcoli, di ansie e di tanti insolvibili interrogativi e tali da togliere il respiro e con questo anche ogni spazio a Dio, lasciandolo di fatto fuori dalla propria vita. Ben lo aveva compreso il Gesù matteano, che esortava i suoi discepoli a non preoccuparsi delle cose della quotidianità, ma del Regno di Dio: “Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena” (Mt 6,31-34).

Quali che siano queste “preoccupazioni”, Paolo lo dice di seguito, coniugandole sia al maschile che al femminile, come fa in modo ricorrente in questo cap.7, riconoscendo in tal modo implicitamente pari diritti e pari dignità sia all'uomo che alla donna, poiché entrambi i generi sono stati cristificati e santificati in Cristo, facendo dei due una cosa sola in lui. (Gal 3,28). Si tratta delle preoccupazioni derivanti dallo stato del matrimonio e di cui Paolo aveva già in qualche modo accennato, parlando del rapporto tra fidanzati in prospettiva del matrimonio: “Questi tali avranno sofferenza nella carne, ma io ve (la) risparmio” (v.28b).

Certo che Paolo non è contrario al matrimonio, anche se non ne ha una visione molto sublime, considerandolo soltanto una sorta di panacea legale alla concupiscenza (v.9.36), giusto per evitare la fornicazione (v.2), consigliando sempre vivamente di non sposarsi. Rimedierà, comunque, l'autore della Lettera agli Efesini, che proporrà una nuova visione del matrimonio, dove i rapporti tra marito e moglie, posti su di un piano di parità di diritti e di dignità, sono riparametrati su quelli tra la Chiesa e Cristo (Ef 5,21-33).

Tuttavia, lo scarso entusiasmo che Paolo mostra per il matrimonio non va accreditato ad un suo presunto o ipotetico misoginismo, ma alla visione che egli ha di Cristo, che lo ha totalmente conquistato, non lasciando in lui nessun altro spazio che per Cristo, ritenendo tutto il resto “immondizia” (Fil 3,8). Paolo è, infatti, fondamentalmente un fanatico di Cristo, così come lo era, prima di incontrarlo sulla via di Damasco, della Torah e dell'insegnamento dei Padri (Gal 1,14), che lo aveva reso tristemente famoso presso i primi credenti, quale loro implacabile persecutore (Gal 1,13). E in quanto fanatico di Cristo, egli non conosce le mezze misure, ma solo le iperboli.

Questo, dunque, è il punto focale di Paolo: egli è totalmente di Cristo e altro non vede e null'altro comprende se non Cristo, tanto da identificare se stesso con Cristo: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20a), sostanziando la sua vita solo con Cristo al punto tale da considerare la morte un guadagno, perché lo congiungerà definitivamente e pienamente a Cristo: “Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno” (Fil 1,21).

Paolo è l'uomo dei paradossi, delle esagerazioni, pronto a tutto per Cristo, sottoponendo la sua fragile vita ad una serie di stenti e vessazioni incredibili, come egli stesso testimonia in 2Cor 11,23-28: “Sono ministri di Cristo? Sto per dire una pazzia, io lo sono più di loro: molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte. Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese”; sofferenze e tribolazioni che egli lascerà intendere, in modo più tenue, in Rm 8,35-39: “Chi ci separerà dunque dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno siamo trattati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore”.

Un Paolo, dunque, a tutto tondo, tutto dedito a Cristo, dove non c'è spazio per l'amore di una donna, né tempo di occuparsi di lei o dei suoi problemi o dei figli. Il tutto, poi, va collocato in un contesto escatologico (vv.29-31), che vede l'imminente e incombente ritorno del Signore, la cui venuta pone fine alle cose di questo mondo, matrimonio compreso. Da qui la sua accalorata esortazione a non sposarsi, per dedicarsi totalmente al Signore, che sta per venire, evitando ogni distrazione umana e contingente: “Dico questo per vostro stesso vantaggio, non per porvi un laccio, ma per (ciò che è) conveniente (per voi) e vi tiene più uniti al Signore senza distrazioni” (v.35).

Ultimi consigli ai vergini e ai non sposati (vv.36-40)

Testo a lettura facilitata

Il caso del fidanzato incontinente (v.36)

36- Ma se qualcuno ritiene di comportarsi in modo indecoroso nei confronti della sua vergine, qualora abbia superato l'età, e così deve essere, faccia ciò che vuole, non pecca, si sposino.

Il caso del fidanzato che sa controllarsi (v.37)

37- Chi, invece, sta saldo nel suo cuore, non avendo costrizione, ma ha autorità circa la sua volontà e questo ha deciso nel proprio cuore di custodire la sua vergine, farà bene.

Lo sposarsi è un bene (v.38)

38- Così anche chi sposa la sua vergine fa bene e colui che non si sposa, farà cosa migliore.

I coniugi sono vincolati tra loro fino alla morte di uno dei due (vv.39-40)

39- (La) moglie è vincolata per tutto (il) tempo (che) suo marito vive; ma qualora il marito si sia addormentato, (può) essere sposata (con) chi vuole, soltanto nel Signore.
40- Ma sarà più felice qualora rimanga così, secondo il mio consiglio; penso di avere anch'io lo Spirito di Dio.

Commento ai vv.36-40

Potremmo definire quest'ultimo scorcio del cap.7 con l'espressione “Déjà vu”. Si tratta, infatti, di una ripresa e di una rielaborazione dei vv.8-9.10 e 25-28, dove l'invito a sposarsi, se se ne sente la necessità, viene sempre controbilanciato da una persistente esortazione a non farlo, sia perché, ormai, la venuta del Signore è imminente e sia perché in tal modo, liberi dalle preoccupazione mondane, siano queste pur oneste, ci si può dedicare totalmente al Signore.

Il v.36, pur nel suo modo di esprimersi piuttosto contorto, sembra rivolgersi a quei fidanzati di lunga carriera, che non sapendosi trattenere nei confronti della propria fidanzata, le chiedono prestazioni sessuali. Questo modo di fare Paolo lo definisce “indecoroso, cioè irrispettoso, nei confronti della propria fidanzata”. Si tratta, quindi, di quei casi di fidanzamenti eterni, in cui le parti hanno deciso di sposarsi, ma mai si decidono di farlo. In questo senso, ritengo vada intesa l'espressione “qualora abbia superato l'età”, cioè il tempo stabilito per il fidanzamento, in genere di un anno circa; “e così dev'essere”, cioè entrambi sono ancora fermamente convinti di sposarsi e di costruire una vita insieme. In questo contesto, in cui ormai tutto è deciso e il matrimonio già consumato ante tempora, Paolo sollecita i due a concludere il loro rapporto da fidanzati, come deve essere: “si sposino”. Come si può ben vedere, “Nihil novi sub sole” e quello che valeva duemila anni fa, vale ancor oggi. A quanto pare l'uomo è sempre uguale a se stesso e valgono, pertanto, sempre le stesse regole.

Contrariamente al caso del fidanzato incontinente e irriguardoso nei confronti della sua fidanzata, Paolo indica, invece, nel fidanzato che sa rispettare la propria fidanzata, conservandola integra nella sua verginità, perché possiede il controllo della propria istintualità e il dominio della propria concupiscenza, come un esempio da imitare e lo loda: “farà bene”. Si faccia attenzione, però, che in quel “farà bene” è racchiusa tutta la speranza di Paolo che quei due giovani sappiano continuare nella loro castità, mantenendosi così integri per il Signore. Lo lascia capire chiaramente al successivo v.38 dove pur ammettendo il matrimonio per i fidanzati, tuttavia fa cadere la sua netta preferenza su quelli che, sapendosi controllare, vi rinunciano. Il motivo è triplice: a) si risparmiano le sofferenze derivanti dal matrimonio (v.28b); b) la prospettiva escatologica, che apre all'imminente parusia del Signore (vv.29-31); c) mantenersi liberi dalle cose del mondo per dedicarsi al Signore (vv.32-35).

Sempre nell'ambito della logica: ci si può sposare, ma meglio evitarlo, Paolo torna nuovamente ai vv.8-10, richiamando il principio dell'indissolubilità del matrimonio finché non sopraggiunga la morte di uno dei due coniugi, nel quale caso Paolo ammette, ma auspicando che ciò non avvenga, che il coniuge vedovo possa risposarsi, ma, ed ecco la novità, con un partner che sia “nel Signore”, cioè che sia anche questi un credente, evitando in tal modo tutte le problematiche, già considerate ai vv.12-16, che si possono generare in un matrimonio tra credenti e non credenti.

Le carni sacrificate agli idoli (8,1-11,1)

Note generali

Nell'ampia sezione 8,1-11-1, Paolo affronta un problema che doveva essere molto scottante, vista la consistente attenzione che gli dedica per ben 74 versetti, e che riprenderà qualche anno dopo nella Lettera ai Romani e al quale dedicherà i capp. 14,1-15,6, benché la questione, in quel caso, vertesse sui cibi puri e impuri e sull'osservanza di determinate festività ricorrenti nel calendario. Ma la sostanza del problema non cambiava. Anche là, a Roma, come qui a Corinto, vi erano due schieramenti contrapposti, che avevano diversi e antitetici atteggiamenti nei confronti dei cibi. Il problema riguardava il rapporto tra gli etnocristiani e i giudeocristiani giudaizzanti, ancora legati, questi ultimi, alle prescrizioni della Legge mosaica. La questione, benché fossero diversi gli attori, era sostanzialmente identica: si trattava sempre di cibo, che per taluni, i giudeocristiani, costituiva dei problemi di purità; mentre per altri, gli etnocristiani, non costituiva alcun problema. Anche là, in Rm 14,1-15,6, Paolo affronterà, sia pur con linguaggio diverso e più evoluto, (la Lettera ai Romani, infatti, è il vertice della maturità del pensiero paolino), il medesimo problema: il rispetto di chi, di fronte al cibo, mostra la debolezza della sua coscienza, causata da una modesta se non scarsa evoluzione spirituale.

Ecco alcuni passaggi significativi di Rm 14,1-15,6, che Paolo deve aver in qualche modo mutuato da questa 1Cor 8,1-11.1, di cui rispecchiano le logiche: “Accogliete tra voi chi è debole nella fede, senza discuterne le esitazioni. […] Ora se per il tuo cibo il tuo fratello resta turbato, tu non ti comporti più secondo carità. Guardati perciò dal rovinare con il tuo cibo uno per il quale Cristo è morto! Non divenga motivo di biasimo il bene di cui godete! […]. Noi che siamo i forti abbiamo il dovere di sopportare l'infermità dei deboli, senza compiacere noi stessi. Ciascuno di noi cerchi di compiacere il prossimo nel bene, per edificarlo” (Rm 14,1.15b-16.15,1-2).

La questione che viene qui affrontata, in 1Cor 14,1-11,1, riguarda il mangiare le carni offerte in sacrificio agli idoli da parte di chi è divenuto credente. Non tutta la carne sacrificata, infatti, serviva per il culto, per cui la rimanente veniva data alle macellerie (10,25), che la vendevano a buon prezzo o, in parte, veniva consumata presso le mense del tempio (v.8,10). La questione, dunque, che i Corinti dovevano aver posto a Paolo era all'incirca la seguente: “È lecito per un credente mangiare la carne offerta agli idoli, senza incorrere con questo nell'idolatria?”. Anche qui, come in Rm 14,1-15,6, gli schieramenti contrapposti erano due: c'era chi, forte di una coscienza ben formata e addentro alle questioni religiose, non si dava nessun pensiero per il mangiare queste carni, godendo, grazie alla sua maturità di credente, di una grande libertà interiore, nei confronti della quale, tuttavia, Paolo, nel cap.10, metterà in guardia, invitando tali credenti, sicuri di sé, a non accedere al banchetto dei pagani. Altri, invece, probabilmente ancora legati in qualche modo all'idolatria o sentendone ancora forte l'attrazione o avendone ancora vivo il ricordo (v.8,7), rifiutavano di accostarsi alle carni sacrificate agli idoli, ritenendosi coinvolti in tal modo in quell'idolatria, che di recente avevano abbandonato, e, quindi, il timore di ricadere in essa.

Paolo affronterà la questione in modo sistematico e molto esaustivo, attraverso tre passaggi ben articolati e argomentati, che occuperanno tre capitoli:

  1. Con il cap.8, nell'attestare che gli idoli sono un nulla e, di conseguenza, anche le carni a loro sacrificate non sono nulla e, quindi, mangiabili, esorta, tuttavia, quei credenti dalla coscienza ben formata per la loro conoscenza, di accostarsi alla questione non con chi è sapiente, ma con l'attenzione e la sensibilità dell'amore verso coloro che, invece, deboli nella loro coscienza, rimangono scandalizzati per il loro comportamento. Un'esortazione che in Rm 15,1 trasformerà in una sorta di regola vincolante: “Noi che siamo i forti abbiamo il dovere di sopportare l'infermità dei deboli, senza compiacere noi stessi”. In altri termini, i forti devono aver il coraggio di rinunciare anche alla propria libertà di coscienza e ai loro personali diritti a favore di chi, invece, diversamente da loro, è debole, scrupoloso, lasciandosi scandalizzare.

  2. Quanto alla questione della rinuncia ai propri diritti a favore di altri, Paolo dedica l'intero cap.9 a se stesso, portandosi quale esempio di dedizione a favore del Vangelo, rinunciando, quale apostolo, a farsi mantenere dalle comunità credenti, lavorando con le proprie mani; ad avere una donna che lo accudisse nelle sue necessità (vv.14-15). E tutto ciò perché non ne venisse un qualche detrimento al Vangelo da lui annunciato (v.23).

  3. Se da un lato, Paolo con il cap.8 dà ragione in buona sostanza a quelli che, senza scrupoli di coscienza, mangiano la carne offerta agli idoli, esortandoli, però, a comportarsi nei confronti dei deboli secondo la regola dell'amore, dall'altro, con il cap.10 li richiama, mettendoli in guardia, perché questa loro libertà, che li spinge ad accostarsi alla mensa degli idoli si scontra ed è incompatibile con il loro accostarsi alla Cena del Signore, dove mangiano il Corpo di Cristo entrando in comunione con lui e in lui con Dio, rilevando questa grave contraddizione: “Non potete bere (il) calice del Signore e (il) calice (dei) demoni; non potete prendere parte( alla) mensa (del) Signore e (alla) mensa (dei) demoni. O vogliamo provocare la gelosia del Signore? O siamo più forti di lui” (vv.21-22), giungendo alla saggia conclusione: “Tutte le cose sono lecite, ma non tutte giovano; tutte le cose sono lecite, ma non tutte edificano. Nessuno cerchi del suo proprio (interesse), ma quello dell'altro” (vv.23-24).

Per una mera questione didattica e di ordine espositivo, commenterò la sezione 8,1-11,1 per capitoli, tenendo, tuttavia, sempre presente il quadro generale dell'intera sezione.

Commento alla sezione 8,1-11,1

La propria libertà va sempre contemperata con l'amore verso chi è più debole (8,1-13)

Testo a lettura facilitata

Introduzione al tema: il giusto modo di conoscere (vv.1-3)

1- Quanto ai sacrifici agli idoli, sappiamo che tutti abbiamo (la) conoscenza. (Ma) la conoscenza riempie di orgoglio, l'amore edifica.
2- Se qualcuno pensa di sapere qualcosa, non ha ancora saputo come bisogna conoscere;
3- se qualcuno, invece, ama Dio, costui è conosciuto da Lui.

Non vi sono dei, ma un solo Dio (vv.4-6)

4- Quanto al mangiare, dunque, i sacrifici agli idoli, sappiamo che niente (è l')idolo nel mondo e che (non c'è) nessun dio se non Uno.
5- E infatti, anche se ci sono quelli che sono detti dei, sia in cielo sia sulla terra, come ci sono molti dei e molti signori,
6- ma per noi (vi è) un solo Dio, il Padre, da cui (sono) tutte le cose e noi (siamo) per lui, e un solo Signore Gesù Cristo, per mezzo del quale (esistono) tutte le cose e noi (esistiamo) per mezzo di lui.

Vi sono i deboli, che non vanno scandalizzati (vv.7-13)

7- Ma la conoscenza non è in tutti; alcuni per la consuetudine (che hanno avuto) fino ad ora dell'idolo mangiano come (se fossero) sacrifici offerti agli dei e la loro coscienza, essendo debole, si contamina.
8- Ma un cibo non ci avvicinerà a Dio; né qualora non (ne) mangiassimo, veniamo privati (di qualcosa), né qualora (ne) mangiassimo sovrabbondiamo.
9- Ma fate attenzione che questa vostra libertà non sia d'inciampo ai deboli.
10- Se, infatti, qualcuno vedesse te, che hai (la) conoscenza, sdraiato a mensa nel tempio degli idoli, la sua coscienza, che è debole, non sarà forse edificata per (il) mangiare le cose sacrificate agli dei?
11- Infatti, colui che è debole si perde a causa della tua conoscenza, il fratello per il quale Cristo è morto.
12- Così peccando verso i fratelli e colpendo la loro coscienza, che è debole, peccate contro Cristo.
13- Perciò, se il cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò più carne in eterno, affinché non scandalizzi il mio fratello.

Commento ai vv. 8,1-13

Introduzione al tema: il giusto modo di conoscere (vv.1-3)

Con quel “Perˆ de tîn” (Perì dè tôn ..., Quanto ai …) Paolo introduce una nuova questione, che i Corinti devono avergli posto per iscritto (7,1). Questione che Paolo suddivide in due parti, che tuttavia sono strettamente legate tra loro, come le due facce di una stessa identica moneta: “Quanto ai sacrifici agli idoli” (v.1a), che funge da tema generale; e “Quanto al mangiare i sacrifici agli idoli” (v.4a), che introduce la questione nello specifico. Una questione sulla quale, almeno in parte, i Corinti dovevano essere stati già edotti. Paolo, infatti, precisa: “sappiamo che tutti abbiamo (la) conoscenza” (v.1a). La conoscenza di cui qui si parla riguarda l'insegnamento che i Corinti devono aver ricevuto nella loro formazione catechetica, che li aveva introdotti nella nuova fede, riguardante la dottrina dell'unicità di Dio, Padre da cui tutte le cose create e come queste tutte esistono in Lui e grazie a Lui; così come unico è il suo Figlio, il Signore Gesù Cristo. Una dottrina, quindi, che, insistendo sul Dio vero ed unico, escludeva ogni altra divinità e, di conseguenza, ogni altro idolo. È questa la conoscenza che tutti hanno ricevuto all'inizio del loro cammino di fede e che verrà richiamata nella successiva pericope vv.4-6.

Tuttavia, precisa Paolo, la conoscenza in quanto tale, se non è accompagnata dall'amore, diventa un mero atto intellettuale, che, in quanto tale, tende a discriminare gli uomini tra sapienti e meno sapienti o ignoranti, riempiendo di orgoglio il sapiente ed umiliando l'ignorante. Un simile tipo di sapienza divide e non edifica la comunità, che deve essere fondata sull'amore reciproco, che ha la sua prima manifestazione nel rispetto dell'altro, evitandogli ogni offesa (13,4-7).

Pertanto, Paolo, nel sottolineare l'importanza della conoscenza, che va ad alimentare la vita spirituale e introduce sempre più il credente nella conoscenza di Dio, evidenzia come questa non è sufficiente per creare una comunità e formare dei veri credenti. È necessario che la conoscenza sia sempre accompagnata dall'amore, cioè una conoscenza che sia sempre attenta all'altro e che eviti di offenderlo e, tanto meno farlo sentire respinto e ghettizzato.

Il v.2 dà una staffilata a chi si ritiene sapiente e porta la propria sapienza a vanto di se stesso e a danno dell'altro. Chi si crede tale, attesta Paolo, “non ha ancora saputo come bisogna conoscere”. Come dire che un simile sapiente, nella sua sapienza, non ha capito niente e in particolare non ha saputo “come bisogna conoscere”. C'è dunque un modo di conoscere che è imperativo per chi si accosta alla conoscenza. Questa non deve mai essere un mero atto intellettuale, ma rispettosa degli altri e deve sapersi spendere per gli altri. Il Gesù matteano esorterà i suoi ad essere generosi nei confronti degli altri, poiché tutto ciò che essi hanno è stato loro dato gratuitamente dall'amore del Padre, e quindi: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,8b).

È questo il giusto approccio alla conoscenza: essa è un dono di Dio, frutto della sua rivelazione in e per mezzo di Cristo, e non una conquista personale del credente, che in quanto tale, è stato chiamato da Dio ad aderire al Vangelo del suo Cristo. In questo contesto il sapiente è, quindi, chiamato a spezzare con l'altro il pane della sua sapienza, che deve condividere nell'amore, donandola pazientemente secondo le capacità ricettive dell'altro. La sapienza non deve mai offendere, dividere, ma unire e edificare, poiché essa proviene da Dio, che è Amore. La sapienza, quindi, deve possedere in se stessa l'impronta divina, che è quella dell'Amore, qualificandosi come sapienza donativa, spesa per gli altri e non per se stessi a spese degli altri.

L'amore, dunque, deve essere il fondamento su cui si intrecciano tutte le relazioni con gli altri credenti, perché “se qualcuno ama Dio, costui è conosciuto da Lui”. In altri termini, se ci si muove all'interno dell'amore di Dio, lasciando che il suo amore viva ed operi in noi, evitando in tal modo di offendere l'altro con il proprio sapere, allora costui “è conosciuto” da Dio, cioè ne fa l'esperienza e Dio vive ed opera in lui, poiché Dio, per sua natura, è Amore. Diversamente “Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore” (1Gv 4,8). Ed allora anche il proprio sapere è vuoto e non gioverà a nulla, anzi tornerà a propria condanna. Lo ricorderà Paolo in 13,1, aprendo il suo inno all'Amore: “Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna”. Tutto, quindi, è vuoto e dannoso senza l'amore, che fa fermentare la vita e con essa ogni cosa.

Non vi sono dei, ma un solo Dio (vv.4-6)

Dopo aver evidenziato come la conoscenza, propria di ogni credente, deve essere sempre accompagnata dall'amore nei confronti degli altri fratelli più deboli nella fede (vv.1-3), Paolo torna qui a rinfrescare l'insegnamento catechetico originario per coloro che, deboli nella fede, si scandalizzavano nei confronti degli altri loro fratelli, che, più edotti nella fede, non solo mangiavano la carne offerta agli idoli (10,25.27), ma partecipavano liberamente anche ai banchetti pagani tenuti presso i templi degli idoli, dove si consumavano le carni a loro offerte (v.8,10). La questione qui verte, dunque, sul mangiare le carni offerte agli idoli: “Quanto al mangiare, dunque, i sacrifici agli idoli” (8,4a).

La pericope si apre con un'attestazione dottrinale, espressa da quel “sappiamo” che dice, da un lato, l'autorità apostolica di Paolo; dall'altro attesta l'unica fede, comune all'intera Chiesa: “[...] sappiamo che niente (è l')idolo nel mondo e che (non c'è) nessun dio se non Uno” (v.4b). Ciò che si sa è che non esistono altri dei se non Uno. L'attestazione del v.4, quindi, contrappone la pluralità delle divinità, invocate e adorate dal mondo pagano, e alle quali vengono offerte le carni, all'unicità dell'Unico e Vero Dio. Su questa contrapposizione si gioca tutta la dimostrazione di Paolo, che segue ai vv.5-6, in cui si ammette che possano esistere altre divinità, ma queste sono create dagli uomini (v.5). Tuttavia sotto le apparenze di queste divinità si nascondono, in realtà, i demoni, come si attesterà in 10,20. Ecco, in ultima analisi a chi si offrono i sacrifici e le carni sacrificate, che sono in tal modo consacrate non a delle divinità, che non esistono, ma ai demoni, che si contrappongono a Dio. Una contrapposizione che viene rilevata in apertura del v.6 con la particella avversativa “ma”. Ed è qui che Paolo contrappone alle divinità pagane (v.5) il fondamento della nuova fede (v.6).

Il v.6 riporta un'antica formula di fede, che ha le sue radici nell'apertura dello Shema Israel (Dt 6,4) e che nel contempo attinge da Gen 1,1-3, dove tutto si fa discendere da Dio, che opera attraverso la sua Parola: “In principio Dio […] e Dio disse”, ma il tutto viene rielaborato attraverso il filtro della nuova fede cristiana.

La formula è a due elementi, poiché vi compaiono contemporaneamente il nome di Dio, in quanto Padre; e del Signore, in cui si riconosce Gesù Cristo, in quanto Risorto, per cui grazie al suo nuovo stato di vita è riconosciuto nella sua signoria universale. Una formula che si snoda sostanzialmente identica per entrambi gli elementi, di cui si dice che da entrambi, parimenti, sono tutte le cose, così come tutti gli uomini esistono grazie a loro e in loro. Questa identità di azione dice l'identità dei due attori, distinti tra loro solo per funzione, ma non per sostanza: il primo, infatti, è il Padre; il secondo è colui che il credente riconosce come il Signore Gesù Cristo, che implicitamente è riconosciuto anche come Figlio, rispetto al Padre (Rm 1,4).

Tuttavia, va fatta attenzione, poiché qui il Padre, pur pari nella sostanza al Figlio, tuttavia viene percepito come l'origine originante di tutte le cose, che “da Lui” provengono: “™x oá t¦ p£nta” (ex û tà pánta, dal quale tutte le cose). È dunque dal Padre che trae origine il tutto, che, tuttavia, per attuare il suo progetto di creazione si serve della Parola, che diviene suo strumento di creazione e di redenzione: “Dio disse”, dove quel “disse” altri non è che la Parola del Padre e che qui Paolo rende con “di'oá t¦ p£nta” (di'û tà pánta, per mezzo del quale tutte le cose). Un concetto questo che meglio risalterà nel prologo giovanneo (Gv 1,1-3).

La formula di fede mette in rilievo la distinzione delle due Persone, distinte per funzione ed azione, ma non per sostanza, poiché entrambi agiscono l'uno quale riflesso dell'altro, così che il Gesù giovanneo, la Parola del Padre incarnata (Gv 1,1.14), attesterà di se stesso: “In verità, in verità vi dico, il Figlio da sé non può fare nulla se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa, anche il Figlio lo fa” (Gv 5,19) e similmente in 5,30. Ma nel contempo l'unicità sia del Padre che del Figlio, che formano tra loro “una sola cosa”46, viene in tal modo contrapposta alla molteplicità degli idoli, che sono detti dei dagli uomini, ma in realtà sono frutto della loro fantasia. La pericope vv.4-6, quindi, diviene risolutiva della questione posta dai Corinti, poiché l'unicità di Dio esclude qualsiasi altra divinità e, di conseguenza, le carni così dette “offerte agli idoli” non sono di fatto offerte a nessuno e, pertanto, si possono mangiare liberamente senza incorre in un atto di idolatria, poiché gli idoli non esistono se non nelle fantasie degli uomini.

Vi sono i deboli, che non vanno scandalizzati (vv.7-13)

Ma è qui che nasce il problema: se tra i membri della comunità ci sono persone spiritualmente evolute e addentro alla Parola di Dio, sulla quale poggia e dalla quale traggono la loro libertà, vi sono altresì persone, le quali, benché posseggano parimenti agli altri la conoscenza dell'unicità di Dio, che esclude l'esistenza di qualsiasi altro idolo, tuttavia, la loro consuetudine con l'idolatria fino alla loro conversione e la sua influenza su di loro sono ancora molto forti in loro e tale da superare la loro stessa conoscenza, che non è riuscita a formare queste coscienze, che sono pertanto deboli, cioè non adeguatamente formate o, per meglio dire, coscienze che, pur sapendo, non sono riuscite ad incarnare la loro conoscenza nella quotidianità del loro vivere, così che il loro conoscere diviene solo un inciampo, poiché il loro vivere non è riuscito a conformarsi al loro sapere. Persone, quindi, deboli nella loro coscienza, che si scandalizzano nel vedere altri loro fratelli comportarsi liberamente nei confronti delle carni offerte agli idoli, non solo, ma siedono pure nei templi a mangiare assieme ai pagani queste carni. Così che, taluni, sospinti dall'esempio di libertà dei “forti”, violando i divieti della loro debole coscienza, mangiano anch'essi le carni offerte agli idoli, perdendosi in tal modo. In Rm 14,14, sempre in tema di cibo, Paolo formulerà meglio tale principio: “Io so, e ne sono persuaso nel Signore Gesù, che nulla è immondo in se stesso; ma se uno ritiene qualcosa come immondo, per lui è immondo”.

Ed è a tal punto che Paolo, cercando di stemperare, da un lato, il dramma di queste coscienze deboli e, dall'altro, cercando di allentare la tensione tra “i forti e i deboli”, aggiunge al principio dottrinale dell'unicità di Dio e della vacuità degli idoli, anche un appunto sul cibo stesso, attestando che il cibo non è un elemento determinante nel proprio rapporto con Dio. Non è d certo questo che ci avvicina o ci allontana da Dio o migliora i nostri rapporti con Dio (v.8). Meglio lo dirà in Rm 14,17 in un contesto sostanzialmente identico a questo: “Il regno di Dio infatti non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo”. Un argomento questo che verrà ripreso similmente dal Gesù marciano in tema di purità dei cibi (7,1-23).

Chiarita anche la questione del cibo, Paolo riprende, ora, l'esortazione alla prudenza nei confronti dei “forti” per evitare di essere d'inciampo per i deboli (v.9). È il continuo ritornello che caratterizza l'intero cap.8: “si, ma”. Si alla conoscenza, ma questa deve essere accompagnata dall'amore (vv.1-3); si, c'è un solo ed unico Dio e gli dei sono un nulla, ma attenzione, tale sapere non è di tutti (vv.4-7); si va bene qualsiasi cibo, poiché questo è ininfluente nei rapporti con Dio, ma attenzione che questa libertà non sia d'inciampo e di perdizione per gli altri (vv.8-13).

Si rileva in questo cap.8 tutta la preoccupazione del pastore, che, da un lato, riconosce la libertà che alcuni dei Corinti si sono presi, grazie alla loro coscienza ben formata; ma dall'altro, teme che il loro comportamento disinvolto sia motivo di scandalo e di traviamento per quelli che non hanno ancora raggiunta la maturità cristiana e verso i quali Paolo accentra la sua attenzione, essendo questi i soggetti spiritualmente più fragili. Così che i vv.10-13, preceduti da una messa in guardia ai “forti” (v.9), assumono la forma di un duro richiamo verso questi, rendendoli responsabili della perdizione dei “deboli”, causata dal loro comportamento imprudente in fatto di carni offerte agli idoli. Il richiamo è motivato cristologicamente: Cristo è morto anche per loro e la loro perdizione sarà imputata ai “forti”, che con il loro comportamento l'hanno causata, peccando contro Cristo (vv.11-12).

Da qui la conclusione finale: “Perciò, se il cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò più carne in eterno, affinché non scandalizzi il mio fratello” (v.13). In altri termini, Paolo, invita i “forti” a rinunciare alla loro libertà di coscienza per non offendere “i deboli” e, in loro, Cristo stesso.

Una conclusione questa che si muove in parallelo a Rm 14,15-17.20-21: “Ora se per il tuo cibo il tuo fratello resta turbato, tu non ti comporti più secondo carità. Guardati perciò dal rovinare con il tuo cibo uno per il quale Cristo è morto! Non divenga motivo di biasimo il bene di cui godete! Il regno di Dio infatti non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo [,,,] Non distruggere l'opera di Dio per una questione di cibo! Tutto è mondo, d'accordo; ma è male per un uomo mangiare dando scandalo. Perciò è bene non mangiare carne, né bere vino, né altra cosa per la quale il tuo fratello possa scandalizzarsi”.

Anche qui la conclusione del cap.14 della Lettera ai Romani è sostanzialmente identica nelle sue logiche a 1Cor 8,13: l'esortazione a saper rinunciare ai propri diritti e alla propria libertà spirituale, per evitare che il proprio fratello, più debole nella fede, si scandalizzi e si perda. Poiché di questo dovrà rispondere il forte a Dio, che ha offeso nel più debole. Il Gesù matteano sottolineerà questa sorta di identità tra i “piccoli” e Cristo stesso, che in qualche modo è sacramentalizzato in questi: “[...]ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me” (Mt 25,40.45). Si noti come Gesù qui non dice “è come se l'aveste fatta a me”, ma “l'avete fatta a me”, creando una identificazione diretta tra lui e i “piccoli”, in cui egli si è sacramentalizzato. E per questo Paolo può dire: “colpendo la loro coscienza, che è debole, peccate contro Cristo” (v.12b).

Paolo, esempio di rinuncia ai propri diritti per il bene del Vangelo (9,1-27)

Testo a lettura facilitata

I diritti di Paolo in quanto apostolo (vv.1-6)

1- Non sono libero? Non sono apostolo? Non ho veduto Gesù il Signore nostro? Non siete voi la mia opera n(el) Signore?
2- Se per gli altri non sono apostolo, ma per voi certo (lo) sono; siete voi, infatti, il sigillo del mio apostolato n(el) Signore.
3- La mia difesa per quelli che mi interrogano è questa.
4- Non abbiamo forse diritto di mangiare e di bere (a vostre spese)?
5- Non abbiamo forse diritto di condurre con noi una donna sorella, come anche gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa?
6- O forse solo io e Barnaba non abbiamo il diritto di non lavorare?

La giustificazione di questi suoi diritti (vv.7-10)

7- Quando mai uno milita con propri soldi? Chi pianta una vigna e non mangia il suo frutto? O chi pascola un gregge e non mangia dal latte del gregge?
8- Dico forse queste cose secondo l'uomo o non dice queste cose anche la legge?
9- Infatti nella Legge di Mosè c'è scritto: “Non metterai la museruola al bue che trebbia”, forse che a Dio stanno a cuore i buoi?
10- Oppure (lo) dice proprio per noi? Per noi, infatti, fu scritto che colui che ara deve arare nella speranza e chi trebbia n(ella) speranza di avere (la sua) parte.

Rivendicazioni e rinuncia dei propri diritti per il Vangelo (11-15)

11- Se noi abbiamo seminato per voi cose spirituali, è gran cosa se noi raccoglieremo le vostre cose carnali?
12- Se altri hanno parte dei vostri averi, non ancor di più noi? Ma (noi) non abbiamo usato di questi (vostri) averi, ma tutto sopportiamo, affinché non diamo un qualche ostacolo al vangelo di Cristo.
13- Non sapete che quelli che operano le cose sacre, mangiano [quelle cose] (che provengono) dal sacro, quelli che attendono all'altare, quelli prendono parte dell'altare?
14- Così anche il Signore ha disposto, per quelli che annunciano il vangelo, che vivano del vangelo.
15- Ma io non ho usufruito di nessuna di queste cose. Non ho scritto queste cose, affinché così avvenga in me; piuttosto (è) bene per me che io muoia, nessuno svuoterà il mio vanto.

Il dovere di Paolo: evangelizzare (vv.16-18)

16- Se, infatti, evangelizzo, non è per me un vanto; infatti (è) una necessità (che) incombe su di me. Guai a me se non evangelizzassi!
17- Se, infatti, faccio questo spontaneamente, ho (diritto alla) ricompensa; ma se (lo faccio) non spontaneamente, (allora mi) si è affidato un incarico.
18- Qual è dunque la mia ricompensa? (Questa, che) annunciando il vangelo (lo) faccia gratuitamente per non avvalermi del mio diritto sul vangelo.

Paolo rinuncia alla propria libertà e ai propri diritti per guadagnare tutti a Cristo (vv,19-23)

19- Infatti, essendo libero da tutti, mi sono fatto servo a tutti, affinché guadagni la moltitudine;
20- e mi sono fatto per i Giudei come un Giudeo, affinché guadagni (i) Giudei; per (quelli che sono) sotto la Legge come (uno che è) sotto la Legge, pur non essendo (io) stesso sotto la Legge, affinché guadagni quelli che (sono) sotto la Legge;
21- per (quelli che) non sono sotto la Legge, come (uno che) non (è) sotto la Legge, pur non essendo (uno) senza la Legge di Dio, ma conforme alla Legge di Cristo, affinché guadagni (quelli che) non (sono) sotto la Legge;
22- mi sono fatto debole con i deboli, affinché guadagni i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, affinché (ne) salvi comunque alcuni.
23- Faccio tutte (queste) cose per il vangelo, affinché divenga compartecipe di questo.

Paolo, l'atleta di Dio, si assoggetta ad una dura disciplina per il Vangelo (vv.24-27)

24- Non sapete che quelli che corrono nello stadio, tutti corrono, ma uno (soltanto) prende il premio? Così (anche voi) correte, affinché (anche voi lo) prendiate.
25- Ma ogni contendente è continente su tutte le cose; quelli (lo fanno), dunque, per prendere una corona corruttibile, ma noi (una) incorruttibile.
26- Così, dunque, io corro non come (chi corre) in modo incerto, così faccio pugilato non come chi percuote l'aria;
27- ma maltratto il mio corpo e (lo) soggiogo, affinché, in qualche modo, dopo aver predicato agli altri, io stesso divenga riprovevole.

Note generali

Paolo lo aveva fatto intendere chiaramente in chiusura del cap.8: “Perciò, se il cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò più carne in eterno, affinché non scandalizzi il mio fratello” (v,13). Un richiamo che, qualche anno dopo (57-58 d.C.) diventerà ancor più pressante in Rm 14,15-16.20-21;15,1-2.

Con 8,13 Paolo chiama in causa se stesso, quale esempio di persona che ha saputo rinunciare ai propri diritti di apostolo, perché da questi non ne venisse un qualche detrimento al Vangelo, che egli stava annunciando alle genti.

Doveva essere soltanto una qualche sommaria esemplificazione e sarebbero bastati i primi sei versetti, posti tutti in forma di interrogativi retorici, la cui risposta era scontata, unitamente alla conclusione dei vv.15a.18b, per dimostrare la sua esemplare rinuncia ai suoi diritti di apostolo a favore del Vangelo. Ma Paolo si è lasciato prendere la mano e con veemenza approfondisce la sua posizione personale nel merito. Segno questo che la questione lo toccava da vicino e che probabilmente era stato accusato dai suoi avversari di approfittarne della sua posizione di apostolo per farsi mantenere dalle comunità; o per evitare di essere frainteso e confuso con quei maestri di sapienza e filosofi moralisti, che abbondavano all'epoca e che si facevano pagare e mantenere dai loro discepoli. Paolo, dunque, approfitta della questione per chiarirla una volta per tutte. Questione questa, cui aveva già accennato qui, in 4,12a, e, per la prima volta, in 1Ts 2,9,e che riecheggerà ancora in 2Ts 3,8-9; in Gal 6,6; 1Tm 5,17-18, mettendo in evidenza un tradizione che si era ormai consolidata nella chiesa primitiva e che aveva per fondamento un detto del Signore, qui alluso da Paolo (v.14) e riportato da Mt 10,9-10 e Lc 10,7.

Ma qui Paolo ne fa un vero e proprio trattato ben argomentato, a difesa dei diritti dell'apostolo, che gli spettano in virtù della sua stessa missione; diritti ai quali egli ha rinunciato a favore del Vangelo.

La struttura del cap.9 si snoda in sei parti, che qui propongo di seguito:

  1. I diritti di Paolo in quanto apostolo (vv.1-6);

  2. La giustificazione di questi suoi diritti (vv.7-10);

  3. Rivendicazioni e rinuncia dei propri diritti per il Vangelo (11-15);

  4. Il dovere di Paolo: evangelizzare (vv.16-18);

  5. Paolo rinuncia alla propria libertà e ai propri diritti per guadagnare tutti a Cristo (vv,19-23);

  6. Paolo, l'atleta di Dio, si assoggetta ad una dura disciplina per il Vangelo (vv.24-27).


Commento ai vv. 9,1-27

I diritti di Paolo in quanto apostolo (vv.1-6)

La pericope in esame è percorsa da sette interrogativi, che si muovono in modo incalzante con toni retorici, la cui finalità è smuovere le coscienze dei Corinti, costretti in tal modo, spalle al muro, a dare la loro risposta affermativa, coinvolgendoli direttamente e costringendoli a riconoscere in Paolo, loro malgrado, quei diritti che gli derivavano dal suo essere apostolo; diritti cui egli ha saputo rinunciare per la causa del Vangelo, divenendo in tal modo esempio per quei Corinti, i “forti”, che non avevano né scrupoli né remore nel comportarsi liberamente, a soddisfazione di loro stessi, ma a detrimento spirituale e morale nei confronti dei “deboli”. Si, sembra dire Paolo, i diritti sono un bene e sono per la persona, perché possa esprimersi al meglio di se stessa e possa crescere, ma questi non vanno mai spesi a detrimento degli altri, se da questi subiscono un danno o uno scandalo. Ed egli porta se stesso quale esmpio.

Il primo diritto, che Paolo vanta, è il suo essere un “uomo libero”, in quanto che egli godeva della cittadinanza romana, ereditata, per nascita, dal padre e che gli assegnava diritti e privilegi, a differenza degli altri cittadini dell'impero, assoggettati a Roma (At 22,25-29). Ma egli, ricorderà al successivo v.19, ha rinunciato, di fatto, al suo privilegio, facendosi servo di tutti per guadagnare tutti a Cristo. La motivazione, quindi, che lo ha spinto a tanto è cristologica, così come dovrebbe essere per quei Corinti che, ritenendosi “forti” ed evoluti nella loro coscienza, a motivo della loro conoscenza (8,1), danno scandalo a quei fratelli deboli nella fede, per i quali “Cristo è morto” (8,11b) e perché offendendo i “deboli”, peccano contro Cristo (8,12).

Questo, dunque, da un punto di vista umano è il primo titolo, cui Paolo ha rinunciato a favore degli altri, per guadagnarli a Cristo e che soltanto una volta farà valere nei confronti del tribuno romano, che lo stava per flagellare (At 22.,25-30).

Il secondo titolo ha attinenza con la sua missione ed è quello di “apostolo”. Benché nel tempo, a motivo della scomparsa del gruppo dei Dodici, il titolo di ”apostolo” fosse attribuito a qualsiasi inviato in missione o ai predicatori del Vangelo o ai fondatori di comunità o suoi responsabili, ai tempi di Paolo il titolo era ancora prevalentemente ristretto alla cerchia dei Dodici ed aveva il senso di “testimone diretto” di Gesù, della sua predicazione e della sua vita e che visse per un certo periodo a stretto contatto con lui, beneficiando, in particolar modo, della sua apparizione dopo la sua risurrezione, quasi a sigillo e conferma della sua apostolicità. Significativo, in tal senso, è il passo di At 1,21.22 in cui viene descritto il senso dell'apostolicità: “Bisogna dunque che tra coloro che ci furono compagni per tutto il tempo in cui il Signore Gesù ha vissuto in mezzo a noi, incominciando dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui è stato di tra noi assunto in cielo, uno divenga, insieme a noi, testimone della sua risurrezione”; e così similmente At 10,39-41: “E noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nella regione dei Giudei e in Gerusalemme. Essi lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che apparisse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti”. Testimoni prescelti, dunque, confermati dall'apparizione di Gesù, che li ha resi in quel momento apostoli: “E Gesù, avvicinatosi, disse loro: <<Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo>>”. Ecco chi è l'apostolo, colui che è stato insignito dal Risorto di un mandato e di un potere per poter compiere una missione o, per meglio dire, per continuare nel tempo, la missione stessa di Gesù. Un titolo, quindi, che è strettamente legato alla risurrezione, che li ha consacrati testimoni in mezzo alle genti.

Per questo Paolo, subito dopo il titolo di “apostolo”, fa valere il fatto che egli, come gli altri apostoli, ha visto il Risorto: “Non ho veduto Gesù il Signore nostro?” e, quindi, a pieno titolo può dirsi “apostolo”, come tutti gli altri. Ma egli lo è anche per un titolo speciale, poiché è stato chiamato direttamente dal Risorto, che gli ha affidato personalmente il suo Vangelo, come attesterà in Gal 1,11-12: “Vi dichiaro dunque, fratelli, che il vangelo da me annunziato non è modellato sull'uomo; infatti io non l'ho ricevuto né l'ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo”. La sua chiamata, infatti, rientrava nel disegno salvifico di Dio fin dall'eternità: “Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani, subito, senza consultare nessun uomo, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco” (Gal 1,15-17). Per questo, attesta che egli è: “apostolo non da parte di uomini, né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo ha risuscitato dai morti” (Gal 1,1). La sua apostolicità, quindi, è, in un certo qual senso, ben superiore a quella degli altri apostoli, perché discende direttamente da Dio stesso e non conferita da altri apostoli.

Un'apostolicità, che non solo ha i caratteri della divinità, ma anche della Tradizione, che considerava apostolo l'annunciatore del Vangelo e il fondatore di comunità credenti, per questo egli definisce la comunità credente di Corinto come il “il sigillo del mio apostolato n(el) Signore” (v.2b), benché per molti altri, suoi detrattori, probabilmente presenti anche nella stessa comunità di Corinto, non potesse esser considerato un apostolo sia perché il titolo non gli era stato conferito dal collegio apostolico e sia perché fu un feroce persecutore della Chiesa del Signore (Gal 1,13-14).

La difesa della sua apostolicità, a cui Paolo dedica i vv.1-2 e che ha, in apertura di questa lettera riaffermato con fermezza (1,1), è finalizzata a far valere i diritti che da questo suo titolo gli derivano e che elenca ai vv.4-6, diritti cui egli ha rinunciato a favore del Vangelo:

  1. farsi mantenere dalla comunità da lui fondata (v.4);

  2. farsi servire e assistere nelle proprie necessità da una “donna sorella”, cioè da una donna credente (v.5). L'espressione “¢delf¾n guna‹ka” (adelfèn ghinaîka, donna sorella) non va necessariamente intesa nel senso di “moglie credente”, per cui potrebbe sembrare che qui Paolo rivendichi per se stesso il diritto di avere una donna per se stesso come moglie e, quindi, il diritto, alla pari degli altri apostoli, di sposarsi. Tutto ciò, mi sembra una forzatura. Anche se il termine “guna‹ka” (ghinaîka) può significare anche “moglie”, esso va tuttavia colto e interpretato nel contesto in cui è collocato. Pertanto va qui inteso nel senso più generico di “donna”, il primo significato , del resto, che il vocabolario di greco offre e che corrisponde al latino “mulier”. Questa figura di donna che seguiva uno o più apostoli, mettendosi al loro servizio, assistendoli nelle loro necessità e sovvenzionandoli con i propri beni, compare anche in Lc 8,1-3, che attesta: “In seguito egli se ne andava per le città e i villaggi, predicando e annunziando la buona novella del regno di Dio. C'erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria di Màgdala, dalla quale erano usciti sette demoni, Giovanna, moglie di Cusa, amministratore di Erode, Susanna e molte altre, che li assistevano con i loro beni47”. Anche qui compare il termine “guna‹kšj tinej” (ghinaîkes tines, alcune donne) fatto seguire dall'espressione “kaˆ ›terai polla…” (kaì éterai pollaí, “e molte altre”, sottinteso “donne”), che in Luca, come del resto qui in 1Cor 9,5, non hanno il senso di “moglie”, considerato che alcune di queste donne erano sposate, ma di “donne” in senso generico. La funzione, invece, in entrambi, i casi è identica: “li assistevano con i loro beni”. Similmente così lascia intendere Mt 27,55b: “esse avevano seguito Gesù dalla Galilea per servirlo”;

  3. tralasciare il lavoro manuale per dedicarsi interamente all'annuncio del Vangelo (v.6). Questo è l'ultimo diritto che qui Paolo rivendica per se stesso, in quanto apostolo, e per il suo fedele collaboratore Barnaba, che lo introdusse tra i credenti e lo presentò agli apostoli in Gerusalemme, agli inizi della sua attività missionaria (At 9,26-27). Luca lo descrive come “uomo virtuoso, pieno di Spirito Santo e di fede” (At 11,24a).

Tutti i diritti qui rivendicati ai vv.4-6 erano assegnati agli apostoli, cioè a tutti coloro che si dedicavano interamente alla missione, per evitare che i loro impegni materiali, come appunto il dover lavorare con proprie mani per potersi sostenere, andasse a detrimento dell'annuncio del Vangelo, ritenuto nella chiesa primitiva di primaria e vitale importanza per la diffusione del cristianesimo. Un esempio in tal senso ci viene da At 6,2-4: “Allora i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: "Non è giusto che noi trascuriamo la parola di Dio per il servizio delle mense. Cercate dunque, fratelli, tra di voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di saggezza, ai quali affideremo quest'incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della parola".

Già, quindi, nei primissimi anni della chiesa si dava una notevole importanza all'annuncio del Vangelo, cercando di liberare i predicatori e i missionari da ogni incombenza materiale, delegata, invece, ad una nuova istituzione ecclesiastica: la diaconia, cioè il servizio istituzionalizzato all'interno della chiesa, la cui finalità era quella di occuparsi della gestione ordinaria delle esigenze riguardanti l'organizzazione ecclesiastica stessa, in fase di formazione.

La giustificazione di questi suoi diritti (vv.7-10)

A fronte di questi diritti da lui vantati in quanto apostolo, Paolo, ora, ne argomenta la giustificazione attraverso due passaggi (v.8), che fondano questi diritti sulle stesse logiche umane (v.7) nonché scritturistiche (v.9-10), che, a loro volta, preparano la conclusione finale, che poggia su di un detto di Gesù, che diventa, in quanto tale, normante (v.14).

Quanto alle logiche umane (v.7) Paolo porta tre esempi che riguardano tre aspetti prevalenti delle attività sociali dell'epoca: il soldato, il vignaiolo e il pastore. Il soldato, in quanto arruolato, è spesato in tutto dal suo reclutatore e certamente non è a suo carico l'addestramento, la divisa e l'armatura. Non a caso il termine stesso “soldato” significa “essere al soldo” di qualcuno. Similmente il vignaiolo e il pastore, immagini del mondo agricolo dell'epoca, vivono del frutto del loro lavoro e ne traggono il proprio sostentamento. E si potrebbe aggiungere anche il commerciante, l'artigiano, altre due componenti importanti dell'economia dell'epoca. Il comune denominatore che associa e sottende tutte queste figure è il loro beneficiare dei frutti del loro lavoro, lasciando intendere come anche l'apostolo e chi si spende interamente per il bene della comunità credente, ha diritto di trarre il proprio mantenimento dall'attività che svolge.

Le logiche umane, qui fondate sulla ragionevolezza e il buon senso, vengono ora rafforzate da Paolo ricorrendo all'autorità delle Scritture e nello specifico a Dt 25,4: Non metterai la museruola al bue, mentre sta trebbiando”. Lo stesso concetto verrà poi ripreso e ribadito in 1Tm 5,17-18.

Anticamente la trebbiatura, cioè il separare il chicco di grano o di altro cereale dalla spiga, era affidata ai buoi. Il contadino, dopo aver falciato le spighe, cariche del loro grano, le stendeva sull'aia e vi faceva passare sopra i buoi, che, calpestandole, ne facevano fuoriuscire i chicchi. Durante questo lavoro, il buon senso del contadino, racchiuso in Dt 25,4, esorta a non mettere la museruola al bue per non frustrarlo nella sua fatica, ma di lasciarlo libero di mangiare qualche spiga. Anche questo è un modo di rispettare l'animale, che collabora con l'uomo nella sua fatica. Paolo, al v.10, ne fa una sua personale esegesi, attestando che a Dio non interessavano un gran che i buoi, ma questa esortazione, messa lì in un contesto scritturistico che nulla aveva a che vedere con gli animali, viene compresa come riferita a se stesso e a tutti quelli che, come lui, operavano per il Vangelo.

Rivendicazioni e rinuncia dei propri diritti per il Vangelo (11-15)

Enunciati i diritti associati al titolo di apostolo (vv.1-6) e giustificati razionalmente e scritturisticamente (vv.7-10), ora Paolo ne trae le conclusioni (vv.11-15). Anche qui Paolo compie due passaggi nelle sue argomentazioni a favore del valersi dei beni di chi ha ricevuto dei benefici spirituali da parte degli apostoli: la prima di ordine umano (vv.11-12); la seconda di ordine scritturistico (vv.13-14). In entrambi i casi Paolo conclude le sue considerazioni attestando che egli non ha mai voluto avvalersi di tali diritti (vv.12b.15a).

La prima argomentazione (vv.11-12) è scandita in due parti: la prima riguarda se stesso (v.11) ed caratterizzata da un confronto tra i beni spirituali, che egli con la sua predicazione ha elargito ai Corinti e che considera di gran lunga superiori ai beni materiali in loro possesso, di cui egli potrebbe beneficiare, e che definisce “carnali”, cioè appartenenti all'area della corruttibilità e destinati a perire, quindi ben poca cosa. Uno scambio, dunque, del tutto vantaggioso per i Corinti: cedere qualche loro cosa di poco conto a fronte dell'acquisizione di beni, quelli spirituali, di gran lunga superiori a quelli carnali, poiché imperituri e associano i Corinti alla vita stessa di Dio, che ne fa parte con loro in Cristo.

La seconda parte riguarda “gli altri” (v.12a), che, invece, hanno parte dei beni dei Corinti e ne approfittano in virtù della loro posizione (v.12a). Chi sono questi “altri”? Paolo non lo dice e se non lo dice è perché era noto a tutti i Corinti e quindi doveva riguardare un fenomeno sociale ben conosciuto all'epoca, in una società, come quella di Corinto, dove vi erano numerose scuole di filosofia e in gran numero i predicatori itineranti e i filosofi moralizzatori, che si facevano pagare e mantenere dai loro numerosi discepoli. Accanto a questi si affiancavano centri di culto religioso, tra i quali esercitavano un indubbio fascino quelli orientali. Erano conosciuti i santuari di Iside, Serapide, Cibele e Afrodite, accanto a templi consacrati a Giove e a diverse altre divinità.

Come si può ben immaginare tutto questo apparato culturale e religioso, che prosperava a Corinto, non campava di aria, ma viveva dei beni dei discepoli e dei fedeli. Proprio per questo Paolo ha rinunciato ai suoi diritti di apostolo, che gli consentivano, alla pari di tutti gli altri filosofi e predicatori itineranti e degli addetti al culto dei templi, di beneficiare anche lui dei beni dei Corinti. Ma questo non avvenne (vv.12b.15a), per evitare di essere confuso con loro e che i Corinti considerassero la predicazione del suo Vangelo come una delle tante filosofie moralizzatrici, la quale cosa avrebbe screditato e reso vano il Vangelo di Cristo. Proprio per questo egli, rinunciando al suo diritto di farsi mantenere, ha preferito mantenersi con il proprio lavoro (4,12a; 1Ts 2,9; 2Ts 3,8; At 18,3), cosa di cui va fiero e si vanta (v.15c).

Questa prima parte si conclude fornendo la motivazione di questa scelta radicale di Paolo, quella di non beneficiare dell'assistenza materiale dei Corinti: “Ma (noi) non abbiamo usato di questi (vostri) averi, ma tutto sopportiamo, affinché non diamo un qualche ostacolo al vangelo di Cristo” (v.12b), dove quel “tutto sopportiamo” si richiama in qualche modo a 4,10-13, dove Paolo elenca tutte le rinunce e i sacrifici compiuti per causa del Vangelo e affinché a questo non ne venga un qualche detrimento.

Dalle rivendicazione fondate su argomentazioni umane (vv.11-12) si passa ora a quelle scritturistiche (v.13) e teologiche (v.14). Quanto alle prime (v.13), il richiamo è a Nm 18,20-21 e Dt 14,22-23 dove si attesta che la casa di Aronne, cioè sacerdoti e leviti, non avrà terreni e possedimenti in Israele, ma a loro sarà, invece, riservata la decima parte di tutti i beni che Dio ha assegnato ad Israele, poiché per essa il vero possedimento è il Signore stesso. Un'espressione, questa, per dire che sacerdoti e leviti sono consacrati al Signore e dediti soltanto al suo servizio e al suo culto.

Quanto alle seconde (v.14), Paolo si richiama ad un detto del Signore, che doveva essere diffuso tra le comunità credenti, tanto da creare una consuetudine presso le stesse e che, successivamente, Mt 10,9-10 e Lc 10,7 riporteranno nei loro racconti evangelici: “Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché l'operaio è degno della sua mercede. Non passate di casa” (Lc 10,7); e similmente Mt 10,9-10, rivolto ai missionari e predicatori del Vangelo: Non procuratevi oro, né argento, né moneta di rame nelle vostre cinture, né bisaccia da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone, perché l'operaio ha diritto al suo nutrimento. Disposizioni del Signore, dunque, alle quali lo stesso Paolo in Gal 6,6 si allineerà, esortando: Ma colui che viene istruito nella Parola condivida con colui che (lo) istruisce tutti i suoi beni. E parimenti in Rm 15,25-27, riguardo alla colletta, che egli sta facendo presso le sue comunità della Macedonia e dell'Acaia a favore della chiesa di Gerusalemme, che si trovava in difficoltà a causa della carestia e delle persecuzioni, sottolineerà il concetto di uno scambio di beni materiali-spirituali tra i pagani, che hanno ricevuto il dono della fede, e la chiesa di Gerusalemme, che gliel'ha donata: La Macedonia e l'Acaia infatti hanno voluto fare una colletta a favore dei poveri che sono nella comunità di Gerusalemme. L'hanno voluto perché sono ad essi debitori: infatti, avendo i pagani partecipato ai loro beni spirituali, sono in debito di rendere un servizio sacro nelle loro necessità materiali.

Dopo aver fin qui messo in evidenza i diritti legati alla funzione di apostolo e dopo averli giustificati e argomentati sia da un punto di vista umano che scritturistico, mettendo così in chiaro come egli potrebbe avvalersene senza che qualcuno gli possa recriminare la cosa, Paolo conclude la sua requisitoria con il v.15, che si apre con una particella avversativa “™gë de oÙ” (egò de u, ma io non), che, per quanto gli riguarda personalmente, rovescia completamente, mettendolo in netta contrapposizione a quanto fin qui sostenuto: “Ma io non ho usufruito di nessuna di queste cose”. Si rileva in questa espressione la sua determinazione contro questa usanza della chiesa, che, si badi bene, egli condivide pienamente (Gal 6,6; Rm 15,25-27; 1Tm 5,18), ma alla quale ha personalmente rinunciato, perché da questo suo diritto non sorgesse un qualche detrimento al Vangelo di Cristo. Un'espressione che dice tutta la sua determinazione, tutta la sua fierezza e tutto il suo orgoglio per questa scelta, che nessuno gli può levare. E per togliere ogni dubbio dice chiaramente che ciò che qui egli ha scritto non lo ha fatto per muovere a compassione, nella speranza di ricevere una qualche pressione, perché desista da questa sua rinuncia e finalmente goda anche lui di ciò che gli aspetta di diritto. No, questo mai, ribadisce con fierezza, piuttosto meglio morire. Un punto esclamativo che sottolinea la fermezza e la fierezza della scelta fatta, ma nel contempo una tacita lezione a quei Corinti che si ritengono “forti” e che, aggrappati ai loro diritti, intendono comportarsi liberamente secondo le loro libere ed evolute coscienze, disinteressandosi dei “deboli”.

Il dovere di Paolo: evangelizzare (vv.16-18)

Paolo si rende conto di aver esagerato con il v.15, esaltandosi per la scelta di lavorare gratuitamente per il Vangelo, sentendosi per questo un eroe, disposto a morire piuttosto che cedere su questo punto. Indubbiamente un versetto in cui Paolo si è lasciato prendere la mano dalla sua foga oratoria, per questo, ora, intende porvi rimedio, rimettendo le cose al loro posto, non volendo che i Corinti lo prendano per un esaltato. Questo potrebbe tornare a danno del suo Vangelo. Pertanto, ripartendo qui al v.16 dalla parola aggancio “vanto” (kaÚchma, kaúchema), che compare anche in chiusura del v.15 e attorno alla quale gira il versetto, ne precisa ora il senso: evangelizzare per Paolo non è un vanto, ma una necessità, sulla quale incombe una sorta di anatema: “Guai a me se non evangelizzassi!”.

Perché Paolo parla di “necessità” dell'annuncio? Il motivo lo dirà più avanti nella lettera ai Galati, dove egli attesta di aver ricevuto il Vangelo direttamente da Dio e non di averlo appreso dall'insegnamento degli uomini, per diffonderlo in mezzo ai pagani. Per questo egli, sulla scia degli antichi profeti, fu chiamato dal seno materno per compiere questa missione, per la quale gli fu conferito il titolo di apostolo direttamente da Dio e non dagli uomini (Gal 1,1.11-12.15-17). Egli, dunque, è l'uomo di Dio, l'inviato stesso di Dio, dal quale ha ricevuto un messaggio da diffondere al mondo pagano, il Vangelo: questa è la sua missione, che gli viene direttamente da Dio. Poste le cose in questi termini, per Paolo non vi è possibilità di scelta: egli deve annunciare il Vangelo alle genti. Per lui, dunque, è una necessità, disattendendo la quale riceverà come contropartita una condanna: ”Guai a me se non evangelizzassi!”. Non piacere, dunque, ma dovere!

Partendo da questo perentorio imperativo, Paolo attesta che non dipende dalla sua volontà accettare o meno l'incarico, poiché ciò che gli è pervenuto direttamente da Dio non era un'offerta di lavoro a cui poteva anche non aderire, nel quale caso, accettando avrebbe potuto pretendere una ricompensa per il servizio reso, di cui Dio, suo datore di lavoro, aveva bisogno, ma è stato un comando, un ordine proveniente direttamente dall'Alto, al quale non poteva contrapporsi o su cui tergiversare, ma era obbligato ad assoggettarsi a tale comando imperativo, altrimenti “Guai a me se non evangelizzassi!”. Di conseguenza, niente ricompensa. L'ordine si esegue e non si contratta, altrimenti scatta la pena. Pertanto la ricompensa legata al titolo di apostolo non gli è dovuta. La sua rinuncia, pertanto, non va vista come gesto eroico, ma come atto dovuto.

Dove sta, dunque, la sua ricompensa? Proprio in questo: lavorare gratuitamente per Dio ed esserne un suo stretto collaboratore, chiamato a servirlo. Per cui la rinuncia ai diritti legati al suo titolo di apostolo diventa non motivo di esaltazione, quasi fosse un eroe, non solo un atto dovuto, ma anche la sua vera ricompensa (v.18).

Paolo rinuncia alla propria libertà e ai propri diritti per guadagnare tutti a Cristo (vv,19-23)

La pericope in esame, vv.19-23, è circoscritta da una inclusione per complementarietà tematica, data dai vv.19.23, dove l'attestazione del v.19 viene completata dal v.23. All'interno di questa cornice Paolo porta la sua testimonianza di uomo libero da tutto e da tutti, ma che ha saputo rinunciare alla sua libertà a favore di tutti, facendosi servo di tutti, perché il Vangelo giungesse a tutti e da tutti fosse accolto (v.19). Tre i volti che Paolo ha assunto per raggiungere il cuore della gente: si è fatto giudeo con i Giudei, sottoponendosi ai rituali della Legge, benché non fosse più sotto la tutela della Legge mosaica (v.20); pagano con i pagani (v.21), debole con i deboli (v,22). In buona sostanza egli ha saputo rinunciare alla propria identità personale e ai propri diritti, rinnegando se stesso, pur di raggiungere tutti nello stato e nella condizioni in cui ognuno veniva a trovarsi per condurlo a Cristo, divenendo in tal modo un esempio per quei Corinti, che si ritenevano sapienti e spiritualmente evoluti e che, senza alcun riguardo per gli altri loro fratelli “deboli” nella fede, non si preoccupavano dello scandalo che infliggevano loro. Lo aveva già fatto intendere senza alcun equivoco in 8,13, che forma da preambolo al questo cap.9: “Perciò, se il cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò più carne in eterno, affinché non scandalizzi il mio fratello”.

Il v.19 si apre riprendendo l'espressione con cui si era aperto questo cap.9 e risponde a questo: “Non sono libero?” (v.1). La domanda era retorica e la risposta era giocoforza positiva: “Si, Paolo è un uomo libero”. Una risposta che ora trova qui la sua precisazione: la libertà massima con cui una persona può esprimersi non è il fare quello che più le aggrada alla faccia o a spese degli altri, ma il saper rinnegare se stessa e i propri diritti a beneficio degli altri. Per questo Paolo vede nel suo farsi servo di tutti, rinunciando a se stesso, l'espressione massima della sua libertà. Un paradosso attestare la propria libertà facendosi schiavo. Ma Paolo è un fanatico di Cristo e non conosce le mezze misure e il limite del buon senso secondo le logiche umane (Gal 1,14; Fil 3,3-6; At 22,3), così da diventare l'uomo dei paradossi, che vede la sua forza nella propria debolezza: “Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,10).

Con il v.19 Paolo ha attestato di essersi fatto servo “a tutti” (“p©sin ™mautÕn ™doÚlwsa”, pâsin emautòn edúlasa). Si noti come non dice “servo di tutti”, poiché in tal caso egli sarebbe appartenuto a tutti a detrimento della sua libertà; egli, invece, afferma di essersi fatto servo “a tutti”, cioè si è posto liberamente a servizio di tutti, perché tutti incontrassero in lui Cristo e il suo Vangelo. In realtà egli è “servo di Gesù Cristo” (Rm 1,1a; 2Tm 1,3; Tt 1,1), come si designavano, del resto, tutti gli apostoli o coloro che in qualche modo si ponevano a servizio della comunità e dei fratelli48, in conformità a Cristo, che pur essendo di natura divina non esitò a svuotare se stesso della sua gloria, che aveva presso il Padre (Gv 17,5), per assumere una natura di servo, facendosi obbediente fino alla morte di croce (Fil 2,6-8); un servizio che egli rendeva al Padre a beneficio dell'umanità e che Gv 13,4-5 racconterà a riguardo del suo Gesù che “si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell'acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l'asciugatoio di cui si era cinto”. Significativo questo racconto giovanneo, poiché posto a ridosso della passione e morte di Gesù, ne fornisce una chiave di lettura: esse furono un servizio di redenzione per gli uomini, che è consistito nel rinnegare se stesso a beneficio degli altri. E che cosa significhi per Paolo essere servo “a tutti” lo specificherà ora ai successivi vv.20-22.

Con il v.20a Paolo attesta di essersi “fatto per i Giudei come un Giudeo”. In realtà egli era giudeo e lo attesta egli stesso nel racconto degli At 22,3, rivolto alla folla che lo voleva linciare: “Io sono un Giudeo, nato a Tarso di Cilicia, ma cresciuto in questa città, formato alla scuola di Gamaliele nelle più rigide norme della legge paterna, pieno di zelo per Dio, come oggi siete tutti voi”. Un giudeo di razza, dunque. Qual è, pertanto, il senso di quel essersi fatto giudeo, se già lo era per nascita e formazione? Il motivo viene spiegato al v.20b, dove egli attesta “per (quelli che sono) sotto la Legge come (uno che è) sotto la Legge, pur non essendo (io) stesso sotto la Legge”. In altri termini, Paolo, dopo l'evento di Damasco (35 d.C.) ha abbracciato totalmente Cristo e il suo Vangelo, rinnegando di fatto la Legge mosaica (Gal 2,19) e la circoncisione, che ne sanciva l'appartenenza, anzi decretando la decadenza dalla grazia e da Cristo per coloro che si facevano circoncidere (Gal 5,3-4) e questo perché il tempo della Legge, considerata come un pedagogo che ci accompagnava a Cristo, è terminato con l'avvento di Cristo stesso (Gal 3,23-27), così che non vi è più nessuna condanna per coloro che sono in Cristo Gesù (Rm 7,4; 8,1). Ma nonostante ciò egli si sottomise in più occasioni alle pretese della Legge mosaica, ormai decaduta con l'avvento di Cristo, per non urtare la sensibilità dei Giudei (At 16,3; 18,18; 21,24-26), che ancora erano ad essa legati e questo sull'esempio di Cristo “nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli” (Gal 4b-5).

Se, da un lato, Paolo si assoggetta ancora alla Legge per non offendere la sensibilità dei Giudei e poter accedere ad un dialogo con loro, dall'altro, si apre totalmente al mondo pagano, di cui è apostolo per eccellenza (Gal 2,7; Rm 11,13), anzi proprio per questo, per evitarne il rifiuto, Paolo dichiara il superamento in Cristo della Legge mosaica, così che “Non c'è più Giudeo né Greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28), riprendendo duramente lo stesso Pietro, che, sedutosi a tavola con i pagani, rinunciando in tal modo a tutte le prescrizioni della Legge, giunti quelli fedeli a Giacomo, abbandonò il tavolo dei pagani e andò a sedersi tra i giudei (Gal 2,11-14).

Un superamento, quindi, di ogni barriera che divideva giudei e pagani, che si ritrovano tutti in Cristo a formare un unico e nuovo popolo, fondato non più su di una Legge che, imponendo prescrizioni e norme, divide, ma sulla fede che unisce tutti nell'unico Cristo, facendo dei due, giudei e pagani, un popolo solo (Ef 2,11-18).

Il terzo volto di Paolo è quello del farsi debole con i “deboli”, cioè con quei credenti che, a motivo della loro immaturità spirituale non sono riusciti ad evolvere spiritualmente, lasciando nei dubbi e negli scrupoli la loro fragile coscienza, che, mancando di discernimento, li turba e li scandalizza. In merito lo aveva già ricordato in conclusione del cap.8: “Se il cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò più carne in eterno, affinché non scandalizzi il mio fratello” (v.13). Un'attestazione che riprenderà con maggior vigore e in modo più argomentato con Rm 14,1-15,2 e che troverà qui, in 1Cor, la sua sintesi nell'inno alla Carità (13,1-1-13).

Ma tutto ciò che sottende questa drastica scelta di Paolo, quella di rinunciare ai propri diritti di apostolo e ad una propria identità, sacrificando la sua irruente e irrefrenabile personalità, è il Vangelo, affinché a questo non venga un qualche danno dal suo comportamento o dalle sue pur giuste pretese: “Faccio tutte (queste) cose per il vangelo, affinché divenga compartecipe di questo”, così che il Vangelo non solo diviene la sua ricompensa, ma egli stesso ne fa parte così che egli stesso si sente un tutt'uno con il Vangelo. Lo attesterà in Gal 2,20: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me”.

Paolo, l'atleta di Dio, si assoggetta ad una dura disciplina per il Vangelo (vv.24-27)

Dopo un lungo excursus, in cui Paolo si è presentato come uno che sa rinnegare se stesso a beneficio di altri, si rende conto che una simile performance spirituale non è da tutti e richiede un notevole allenamento spirituale, paragonabile agli allenamenti e alla preparazione fisica degli atleti, che conducono una dura vita di sacrifici, di fatiche, di impegno e di abnegazione per poter competere agonisticamente e ottenere la tanto agognata corona di alloro, che decreta la vittoria e la grandezza dell'atleta e con questa la pubblica ammirazione e il suo plauso.

Un esempio calzante e facilmente comprensibile a Corinto, sede dei giochi istmici, i più importanti dopo quelli Olimpici, inaugurati nel 582 a.C. in onore di Poseidone, il dio del mare, e di Palemone, un'altra divinità minore del mare, protettrice dei porti. Del resto non è la prima volta che Paolo usa simili esempi49, mutuati dal mondo sportivo e militare, lasciando intuire come la vita del credente è una lotta continua, che richiede allenamento e preparazione spirituali, in vista di un premio, che va ben oltre ad una semplice corona di alloro, inconsistente ed effimera, come, del resto, ogni cosa di questo mondo.

Che cosa significhi tutto questo per Paolo, lo suggerisce ai Corinti al v.25a: “Ma ogni contendente è continente su tutte le cose”. Ecco la parola chiave, che prepara in qualche modo il tema del cap.10, dove i “forti” sono chiamati a moderare la loro eccessiva libertà, che li espone ai demoni, rendendoli incompatibili a Cristo: “continenza”, cioè moderazione, morigeratezza, temperanza, sobrietà di vita. Tutte virtù che vedono Paolo concentrarsi sul senso della vita e della sua missione, arrivando anche ad una dura penitenza e ad una dura mortificazione del proprio corpo, per averne il pieno controllo ed evitare così, per debolezza, di cadere.

Il motivo di tutto questo impegno e di tutta questa sofferenza esistenziali lo aveva già attestato al v.23a: “Faccio tutte (queste) cose per il vangelo”. Ma in una visione più ampia e lungimirante, sullo sfondo di una escatologia che domina la vita d Paolo, attesterà in Rm 8,23: “Io ritengo, infatti, che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi”. Un futuro che dà senso e significato al presente orientandolo verso l'Eternità di Dio, che è la Vita stessa di Dio.

Un deciso e duro richiamo ai “forti” (10,1-33)

Testo a lettura facilitata

Immagini scritturistiche di una salvezza data a tutti con un richiamo finale, un ammonimento per i Corinti (vv.1-5)

1- Non voglio, infatti, che voi ignoriate, fratelli, che tutti i vostri padri furono sotto la nube e tutti attraversarono il mare
2- e tutti in Mosè furono battezzati nella nube e nel mare
3- e tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale
4- e tutti bevvero la stessa bevanda spirituale; bevevano, infatti, da una roccia spirituale che (li) accompagnava; la roccia era Cristo.
5- Ma Dio non si compiacque nella gran parte di loro, infatti, furono abbattuti nel deserto.

Altre immagini scritturistiche, poste a condanna dei Corinti (vv.6-11)

6- Ora queste cose divennero immagini di noi, affinché noi non fossimo desiderosi di cose cattive, come anche quelli (le) desiderarono;
7- né diventiate idolatri come alcuni di loro, come fu scritto: “Il popolo sedette per mangiare e bere e si alzarono per divertirsi”;
8- né fornichiamo, come alcuni di loro fornicarono e caddero in un giorno ventitremila;
9- né mettiamo alla prova Cristo, come alcuni di loro misero alla prova (Dio) e perirono per i serpenti;
10- né mormorate, come alcuni di loro mormorarono e perirono per lo sterminatore.
11- Tutte queste cose accaddero a quelli simbolicamente, ma fu scritto per nostro ammonimento, (per noi), per i quali è giunta la fine dei secoli.
12- Quindi, chi pensa di stare saldo, stia attento a non cadere.
13- Una prova non vi ha presi se non (è) umana; fedele è Dio, il quale non lascerà che siate provati al di sopra di ciò che potete, ma con la tentazione farà anche l'uscita, affinché possiate sostener(la).

L'esortazione (vv.12-)

14- Perciò, miei amati, fuggite dall'idolatria.
15- Parlo come a (persone) intelligenti; giudicate voi ciò che dico.
16- Il calice della benedizione, che benediciamo, non è comunione del sangue di Cristo? Il pane che spezziamo non è comunione del corpo di Cristo?
17- Poiché uno (è) il pane, (noi benché) molti siamo un corpo solo, tutti, infatti, prendiamo parte dell'unico pane.
18- Guardate l'Israele secondo la carne, quelli che mangiano le vittime non sono forse in comunione con l'altare?
19- Che cosa dico, dunque? Che il sacrificio agli idoli è qualcosa o che l'idolo è qualcosa?
20- Ma quelle cose che sono sacrificate, ai demoni e non a Dio sono sacrificate; ma non voglio che voi siate in comunione con i demoni.
21- Non potete bere (il) calice del Signore e (il) calice (dei) demoni; non potete prendere parte( alla) mensa (del) Signore e (alla) mensa (dei) demoni.
22- O vogliamo provocare la gelosia del Signore? O siamo più forti di lui.

Il richiamo alla temperanza per il rispetto degli altri (vv.23-33)

23- Tutte le cose sono lecite, ma non tutte giovano; tutte le cose sono lecite, ma non tutte edificano.
24- Nessuno cerchi del suo proprio (interesse), ma quello dell'altro.
25- Tutto ciò che è venduto al mercato mangiate(lo), non indagando in alcun modo a motivo della coscienza;
26- del Signore, infatti (è) la terra e la sua pienezza.
27- Se qualcuno dei non credenti vi invita e volete andare, tutto ciò che vi viene posto davanti mangiate(lo), non indagando in alcun modo a motivo della coscienza.
28- Ma qualora qualcuno vi dicesse: <<Questo è sacrificato agli dei>>, non mangiate per (rispetto di) quello che (ve lo) ha indicato e (per motivo di) coscienza;
29- coscienza, dico, non di (te) stesso, ma dell'altro. Perché la mia libertà è giudicata da un'altra coscienza?
30- Se io partecipo con (rendimento di) grazia, per che cosa sono ingiuriato per ciò di cui rendo grazie?
31- Pertanto, sia che mangiate, sia che beviate, sia che facciate una qualunque cosa, fate tutte le cose per (la) gloria di Dio,
32- Non siate motivo di scandalo e per (i) Giudei e per (i) Greci e per la chiesa di Dio,
33- come anch'io piaccio a tutti in tutte le cose, non cercando il mio utile, ma quello di molti, affinché siano salvi.


Note generali

Già Paolo aveva ammonito quei Corinti che, ritenendosi spiritualmente evoluti e addentro alla conoscenza, mangiavano liberamente le carni sacrificate agli idoli e si sedevano alle mense nei templi per consumarle, creando scandalo per quei fratelli spiritualmente deboli (8,1-13). In quell'occasione, pur riconoscendo l'inesistenza degli idoli e, quindi, anche le carni sacrificate ad essi non erano che semplici carni e niente di più, tuttavia li aveva ammoniti “che questa vostra libertà non sia d'inciampo ai deboli” (8,9), per i quali Cristo è morto, così che scandalizzandoli, peccavano contro Cristo (8,11b-12). Meglio, dunque, rinunciare alla propria libertà per non offendere Cristo in loro. Perciò, concludeva Paolo “se il cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò più carne in eterno, affinché non scandalizzi il mio fratello” (8,13).

Ora, Paolo, dopo essersi portato di esempio, come uno che ha saputo non solo rinunciare ai propri diritti di apostolo, ma anche rinnegare se stesso per il bene del Vangelo (9,1-27), richiama duramente quei Corinti che si sentivano liberi in coscienza di mangiare le carni offerte agli idoli, poiché proprio in questo loro disinvolto comportamento si nascondeva un pericolo per loro, che essi non avevano considerato, per cui li ammonisce: “Quindi, chi pensa di stare saldo, stia attento a non cadere” (v.12). Un'ammonizione che si fonda scritturisticamente, richiamando il comportamento degli antichi Padri nel deserto, che costituiscono un immagine e un avvertimento per loro, che si ritenevano i “forti”.

Benché questo cap.10 sembri scollegato dal precedente cap.9, tuttavia esso ne costituisce il suo naturale sviluppo, agganciandosi ad esso con una sorta di prova scritturistica. Paolo, infatti, terminava il cap.9 paventando di diventare egli stesso “riprovevole”, dopo aver predicato ai Corinti. Da qui la necessità di sottomettersi a dure penitenze per soggiogare il proprio corpo ed averne il pieno controllo (9,27). Il cap.10, infatti, si apre con un “g¦r” (gàr, infatti), il cui senso è causale e dichiarativo nel contempo e si riferisce al timore di Paolo, che qui, nella sezione 10,1-13, viene spiegato con un'immagine mutuata dal Libro dell'Esodo. Questa, in buona sostanza, fa capire che, benché tutti i Padri abbiano beneficiato del dono della liberazione e della promessa di una terra dove scorre latte e miele, tuttavia soltanto pochi la raggiunsero, mentre tutti gli altri perirono nel deserto, essendosi perduti in fornicazioni e idolatrie. Quindi, attenzione, sembra dire Paolo a se stesso e a quei Corinti, sicuri di loro stessi e della loro conoscenza, poiché il pericolo di perdersi è sempre dietro l'angolo. E il motivo di ciò verrà spiegato nella seconda sezione (vv.14-33) di questo cap.10, che si aprirà, non a caso, con un'appassionata esortazione: “Perciò, miei amati, fuggite dall'idolatria” (v.14), che formerà da titolo e da introduzione al tema della seconda sezione.

La struttura di quest'ultima parte (10,1-33) dell'ampia sezione dedicata al rapporto dei credenti con le carni sacrificate agli idoli (8,1-10,33) è scandita in quattro parti, strettamente legate tra loro da un filo logico, che accompagna il lettore nei vari passaggi:

  1. Quattro immagini scritturistiche di una salvezza data a tutti con un richiamo finale, un ammonimento per i Corinti (vv.1-5)

  2. Altre immagini scritturistiche, poste a condanna dei Corinti (vv.6-11);

  3. L'esortazione (vv.12-22);

  4. Il richiamo alla temperanza per il rispetto degli altri (vv.23-33);


Commento ai vv.1-33

Immagini scritturistiche di una salvezza data a tutti con un richiamo finale, un ammonimento per i Corinti (vv.1-5)

La pericope vv.1-5, che funge da preambolo introduttivo alla successiva pericope, vv.6-11, si aggancia con quel “infatti” al timore di Paolo di poter diventare riprovevole egli stesso, dopo aver richiamato all'ordine i Corinti (9,27), e ne dà spiegazione, ma in realtà pensando ai Corinti e non certo a se stesso, evocando le immagini di alcuni eventi, che coinvolsero nel deserto in pari modo gli antichi Padri, che tali sono non solo per i Giudei, per discendenza carnale, ma anche per gli stessi Corinti e per il resto degli etnocristiani, che sono, essi pure, discendenza di Abramo per fede (Gal 3,7; Rm 4,16). Il richiamo, pertanto, vale per tutti, giudeocristiani ed etnocristiani, tutti discendenti di Abramo o per via carnale o per fede.

Gli episodi qui richiamati sono quattro, che segnarono la vita di quel Israele che stava muovendo i suoi primi passi verso la sua libertà e verso la sua nuova identità, che gli verrà conferita ai piedi del monte Sinai (Es 19,5-6): la nube, che lo riparava dal sole, lo separava e lo difendeva dai suoi nemici e fungeva da guida attraverso il deserto (Es 13,21-22; 14,20.24); l'attraversamento del mar Rosso, che segnava il passaggio dalla schiavitù alla libertà (Es 14,21-22). Entrambi gli episodi furono compresi dalla chiesa primitiva, quali immagini e simboli del battesimo, che in essi erano in qualche modo prefigurati. Il v.2, infatti, ricorda proprio questa simbologia: “tutti in Mosè furono battezzati nella nube e nel mare”, dove quel “in Mosè” è prefigurato Cristo stesso, il nuovo legislatore, che Mt 5,1-2 vede assiso sul monte delle beatitudini ad impartire al nuovo Israele, i suoi discepoli, una nuova Legge; nonché la nuova guida del suo popolo verso la Terra Promessa dell'Eternità di Dio, attraverso il deserto di un mondo decaduto e lontano da Dio, racchiuso nel tempo, che lo tiene prigioniero, e che Gv 14,6 dichiarerà la Via obbligata per raggiungere il Padre.

Il terzo e quarto episodio, ricordati dai vv.3.4, sono rispettivamente la manna, colta quale cibo piovuto dal cielo, che nutre il popolo nel suo difficile peregrinare nel deserto (Es 16,4) e che in qualche modo venne poi richiamata dal racconto di Elia, desideroso di morire nel deserto, ma che, rinvigorito da un pane e da un'acqua miracolosi, anche questi piovuti dal cielo, riprese il suo cammino nel deserto sul monte Oreb, ripercorrendo il cammino dell'antico Israele (1Re19,4-8). Racconti che prefigurano un altro cibo spirituale, un altro pane venuto dal cielo, il corpo stesso di Cristo, pane di Vita eterna, come ricorderà Gv 6,31-35, richiamandosi esplicitamente all'episodio della manna; e l'acqua dalla roccia, che ha dissetato il popolo ormai allo stremo nel deserto (Es 17,1-6) e in cui Paolo vede prefigurato Cristo stesso, da cui sgorga l'acqua viva della rivelazione del Padre, che disseta chiunque la beva, come Gv 4,14 attesterà nello stupendo dialogo tra Gesù e la Samaritana (Gv 4,4-30).

Quattro episodi, che furono salvifici per l'intero Israele e in cui tutto Israele fu coinvolto e in essi fece l'esperienza della propria salvezza. Paolo ne dà qui l'esegesi, cioè la trasposizione al tempo presente del loro significato, che coinvolge ora, in prima persona, i Corinti, che alla pari di Israele furono tutti e parimenti coinvolti in quegli eventi salvifici, che prefiguravano Cristo e la sua salvezza, di cui tutti i Corinti hanno ora beneficiato, per aver accolto l'a Parola del Vangelo.

Molto insistente quel “tutti”, che si ripete quasi in modo ossessivo per quattro volte, quasi a dire che Dio non fa distinzione nel donare la sua salvezza, rivolta a “tutti” e da cui nessuno è escluso, ma è la risposta che l'uomo dà a questa sua offerta di salvezza, che lo discrimina nei confronti di Dio. Per questo Paolo, concludendo amaramente questa pericope, attesta che “Dio non si compiacque nella gran parte di loro, infatti, furono abbattuti nel deserto” (v.5). Ed è questa la sorte che spetterà a quei Corinti che si ritengono “forti” se continuano a percorrere in modo sconsiderato la strada della frequentazione delle carni offerte agli idoli e dei loro templi. In altri termini, questa loro ostentata sicurezza rischia di farli cadere nuovamente nell'idolatria e nella fornicazione (v.12). Un richiamo questo che costituirà il tema della seconda pericope (vv.6-11).

Altre immagini scritturistiche, poste a condanna dei Corinti (vv.6-11)

Con la pericope precedente (vv.1-5), richiamando quattro episodi significativi della vita nel deserto dell'Israele dei Padri, Paolo metteva in evidenza come la salvezza avesse investito l'intero Israele e come essa fosse parimenti e indistintamente offerta a tutti (vv.1-4), rilevando, tuttavia, come non tutti la conseguirono pienamente, a motivo del loro comportamento in netta dissonanza con la salvezza, di cui beneficiavano (v.5). Un versetto quest'ultimo che funge, come s'è detto, da introduzione a questa seconda pericope (vv.6-11) dove vengono denunciate le colpe degli antichi Padri, quali l'idolatria (v.7), la fornicazione (vv.8-9) e la mormorazione (v.10), creando nel contempo un parallelismo tra il comportamento di quelli, in netta dissonanza con la loro nuova identità, e quello di quei Corinti, che si ritenevano spiritualmente evoluti e inattaccabili: là, avevano sfidato Dio con l'idolatria, la fornicazione e la mormorazione e perirono tutti quanti; qui, i Corinti, invece, devono evitare con la loro disinvolta condotta il mangiare le carni offerte agli idoli, il frequentare i templi pagani e l'indulgere alla fornicazione, mettendo così alla prova Cristo come quelli misero alla prova Dio e perirono.

La pericope è circoscritta da una inclusione, data dal ripetersi dello stesso concetto ai vv.6.11, che rileva come le immagini, circoscritte dall'inclusione (vv.7-10), prefiguravano in qualche modo il comportamento dei Corinti e ne divennero simboli e ammonimenti nel contempo.

All'interno di questa cornice Paolo denuncia i tre comportamenti simboleggiati in quei racconti e nei quali si ritrovano ora pure i Corinti: il pericolo dell'idolatria, dove si allude all'episodio del vitello d'oro di Es 32,3-6 (v.7); la fornicazione, richiamata dall'episodio di Nm 25,1.9, dove gli Israeliti si prostituirono con le Moabiti, cadendo poi nell'idolatria (v.8), per questo ne perirono ventiquattromila e non ventitremila, come liberamente citato da Paolo o malamente trascritto da un amanuense, considerato che Paolo nelle sue citazioni usa la LXX, cioè quella con il testo greco; e, infine, la mormorazione (v.9), cioè la critica disfattista, frutto di un comportamento ribelle, che qui allude all'episodio di Nm 21,5-6, dove un gran numero di Israeliti perirono morsi dai serpenti. Tutte cose queste che allora misero alla prova Dio, come, ora, con i Corinti stanno mettendo alla prova Cristo. Per questo ogni violazione porta con sé un'unica conseguenza: la morte, che di certo non sarà fisica per i Corinti, come lo fu invece per i Padri, ma sicuramente spirituale, allontanandoli da Cristo e mettendoli in contrapposizione a Dio.


L'esortazione (vv.12-22)

Dalle immagini scritturistiche in cui Paolo vede prefigurato il comportamento dei Corinti e un loro duro ammonimento, si passa ora, con questa terza pericope del cap. 10 (vv.12-22), all'esortazione scandita in due momenti: il primo riguarda la vera e propria esortazione (vv.12-14), composta da una messa in guardia (v.12); da una considerazione, che rileva come le prove che Dio consente non sono mai superiori alle proprie forze e insieme alla prova Dio dà sempre la luce e la forza per superarla (v.13), quasi a dire: non date la colpa a Dio ed evitate inutili giustificazioni; ed infine da una conclusione, che costituisce la vera e propria esortazione e che funge in qualche modo da tema alla seconda parte (vv.15-22) di questa terza pericope: “Perciò, miei amati, fuggite dall'idolatria”, dove l'appellativo “miei amati” dice tutta la tenerezza di Paolo nei confronti dei Corinti, verso i quali si rivolge come una madre che li ha generati a Cristo (4,15). Ma l'esortazione, che mette in evidenza la questione principale e i timori di Paolo, è tutta racchiusa in quel “fuggite dall'idolatria”, cioè da tutto ciò che riguarda il mondo degli idoli e ha in qualche modo a che fare con questi, per evitare di rimanervi in qualche modo contaminati. Infatti, quel continuare a mangiare carni offerte agli idoli e il sedersi alle mense dei templi per consumarle assieme ai pagani, benché i Corinti sappiano che gli idoli sono niente (8,4), li esponeva comunque pericolosamente. Da qui il richiamo di star lontani da quegli ambienti e da quei contesti, che li possono far ricadere in quell'idolatria da cui provengono, dopo aver incontrato Cristo.

Il secondo momento (vv.15-22) di questa terza pericope (vv.12-22), tutta dedicata all'esortazione, consiste in una riflessione, strutturata su di un parallelismo tra la cena del Signore e le mense nei templi pagani, dove si consumavano le carni offerte agli idoli, ed è finalizzata a fondare teologicamente le motivazioni, che, poi, giustificheranno la conclusione finale (v.21-22).

Una riflessione che si sviluppa in quattro passaggi:

Già da questo semplice schema si arguisce la dinamica con cui si sviluppa il pensiero di Paolo. Partendo da un raffronto tra le varie mense, cristiana, giudaica e pagana, viene rilevato il comune denominatore che le lega tra loro, con identici effetti: chi mangia di quella mensa, si rende partecipe di quella mensa ed entra in comunione con ciò che in quella mensa viene celebrato e consumato: con il corpo e il sangue di Cristo, se si partecipa alla Cena del Signore; con Dio stesso se si partecipa ai sacrifici giudaici, che tra le diverse tipologie di sacrifici ne prevedeva degli specifici chiamati di “comunione” (Lv 3,1-17; 7,11-37); con gli idoli, che in realtà sono la maschera, dietro la quale si nascondono i demoni. Anche questa è una forma, benché non voluta, di idolatria. Pertanto mensa del Signore e mensa degli idoli sono tra loro decisamente incompatibili e il partecipare ad entrambe si incorre nel giudizio del Signore (vv.21-22).

Con il v.15 Paolo convoca i Corinti a giudizio, che essi stessi sono chiamati ad emettere, implicitamente, su loro stessi. Si tratta di un invito a riflettere su di una questione che Paolo sta per illustrare di seguito, ai vv.16-22, presentando, per gradi, il senso del partecipare alla mensa sia questa cristiana o giudaica o pagana: “giudicate voi ciò che dico” (v.15b), un giudizio che poi ricadrà su di loro, divenendo in tal modo giudici di loro stessi.

La prima riflessione cade sulla mensa cristiana per eccellenza, di cui meglio hanno esperienza e comprensione i Corinti: la Cena del Signore, che viene qui richiamata dal “calice della benedizione, che benediciamo”. Il riferimento è al seder50 ebraico, cioè al regolamento con cui si dettano le regole della celebrazione della pasqua ebraica, durante la quale si riempivano di vino quattro calici, ognuno con un suo particolare significato; il quinto era per Elia che doveva tornare. Questo, cui Paolo si riferisce, è il terzo calice, quello chiamato nel seder della “benedizione” (kos šel berâkâ), perché su questo calice veniva posta una preghiera di benedizione a Dio per tutti i benefici ricevuti, compreso quello della liberazione dalla schiavitù egiziana. Una benedizione, quindi, che si traduce in un ringraziamento benedicente. Non va scordato, infatti, che il termine “eucaristia” (eÙcarista, eucaristía), con cui si è successivamente designata la “Cena del Signore”, significa appunto: “riconoscenza, gratitudine, grazie” e se rivolta a Dio, “rendimento di grazie”, che implica in quel “rendimento” la celebrazione di un culto. Paolo precisa “che noi benediciamo”, che non dice soltanto “calice su cui viene recitata una preghiera di benedizione riconoscente”, ma “che noi, bevendolo, partecipiamo all'azione di grazie a Dio, compiutasi nel suo Cristo, per averci donato la salvezza e ogni bene spirituale nel suo Figlio”. Il bere quel calice lì, dunque, significa entrare in comunione con quanto esso esprime e farsi, quindi, parte celebrante, azione di grazie a Dio, unendosi al suo Cristo. Similmente, il pane, anche questo parte integrante del seder ebraico, che ricorda le sofferenze egiziane, ma che è anche promessa di libertà e di redenzione e riscatto da parte di Jhwh, come racconta la narrazione, che accompagna il rituale del pane che viene spezzato: “Ecco il pane della sofferenza, che i nostri padri mangiarono in terra d’Egitto; chiunque ha fame venga a mangiare; chiunque ha bisogno venga e faccia la pasqua. Questo anno, qui; l’anno prossimo in terra d’Israele. Questo anno qui come schiavi; l’anno prossimo in terra d’Israele come uomini liberi ”. Tutto ciò divenne un simbolismo di quella salvezza prefigurata dalla pasqua ebraica che ha trovato il suo compimento in Cristo, pane che si spezza per la redenzione e il riscatto dell'intera umanità.

Un evento che qui Paolo vede come fonte di unità e di comunione fraterna, perché tutti si cibano dello stesso ed unico pane, che, lasciandosi assimilare dai credenti, tutti li assimila a sé, facendo dei molto un unico corpo, così che in Gal 3,28 attesterà che “Non c'è più Giudeo né Greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”. Ma qui Paolo va ben oltre, perché non solo tutti si ritrovano nell'unico Cristo e a lui configurati in virtù della fede ed del battesimo, ma nell'unico pane sono cristificati, così che in Gal 2,20b esclamerà: “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20b).

Il secondo punto di riferimento è “l'Israele secondo la carne”, cioè quello veterotestamentario, che viveva il suo rapporto con Jhwh nella sua ritualità quotidiana, nel Tempio e nei sacrifici di animali o focacce o similari; esso viene così definito per distinguerlo dal nuovo Israele, che vede nel suo capostipite non più Giacobbe e i suoi dodici figli, ma Cristo e i Dodici apostoli, dai quali discende il nuovo Israele secondo lo Spirito. In Gal 6,16b verrà chiamato “l'Israele di Dio”.

Anche per l'antico Israele, che prefigurava e preannunciava in qualche modo il nuovo Israele, il mangiare le offerte dell'altare, che venivano in qualche modo condivise tra Dio, i sacerdoti e il popolo offerente, veniva a crearsi in esse, che formavano un unico banchetto, da consumarsi nello stesso giorno, un circuito comune di unità e comunione con Dio e in Lui con tutto l'Israele, quello delle promesse. Un concetto questo che Israele aveva in qualche modo mutuato dal culto e dai sacrifici pagani, così come la teologia dei sacrifici di Israele venne mutuata e perfezionata da quella cristiana. Ed è proprio questa comunanza dei tre culti, cristiano, giudaico e pagano che mette in evidenza ancor più per i Corinti la pericolosità di questo loro disinvolto comportamento nei confronti delle carni offerte agli idoli e del loro partecipare alle mense pagane dove si consumavano queste carni.

Chiarito, dunque, il concetto comune a tutte le religioni cristiana, giudaica e pagana, cioè che il mangiare dell'altare mette in comunione con la divinità, cui vengono offerti i sacrifici, entrando in tal modo in comunione non solo con questa, ma anche con tutti quelli che se ne cibano, Paolo, ora, con i vv.19-20 riprende in qualche modo 8,4 e meglio lo precisa, anzi in un certo qual senso lo rettifica, poiché se è vero, come là diceva, che l'idolo è niente e di conseguenza anche le carni ad esso offerte non acquisiscono nessuna valenza, tuttavia, va tenuto presente, afferma qui Paolo, che dietro il volto degli idoli, frutto della fantasia degli uomini, in realtà si nascondono i demoni. Di conseguenza l'offerta fatta agli idoli non è più così indifferente, come potrebbe apparire in 8,4, perché in realtà questa viene offerta ai demoni e cibarsene significa entrare in comunione con loro e consentire a questi di prendere possesso di coloro che se ne cibano. Ed è a tal punto che Paolo entra a gamba tesa in mezzo a quei Corinti che con disinvoltura frequentavano ancora i templi pagani, pur non rendendone più culto, e fa valere la sua autorità apostolica: “non voglio che voi siate in comunione con i demoni”. Che cosa significhi più precisamente questo, viene detto al v.21: “Non potete bere (il) calice del Signore e (il) calice (dei) demoni; non potete prendere parte( alla) mensa (del) Signore e (alla) mensa (dei) demoni”. Signore e demoni, dunque, due realtà tra loro non solo contrapposte, ma incompatibili l'una all'altra. Va dunque fatta una scelta, la cui radicalità meglio risuonerà nel Gesù sinottico: non si può servire Dio e mammona (Mt 6,24; Lc 16,13); così, similmente, chi non è con me è contro di me (Mt 12,30; Lc 11,23). I Corinti, dunque, devono decidere con chi stare per non provocare la gelosia di Dio. Un'espressione questa che nel linguaggio veterotestamentario dice l'ira di Dio nei confronti del suo popolo, che si dedica all'idolatria51.

Il richiamo alla temperanza per il rispetto degli altri (vv.23-33)


Note generali

Con questa ultima sezione del cap.10 (vv.23-33) Paolo riprende il tema del cap.8 e lo porta a conclusione. Là si affermava che il mangiare le carni offerte agli idoli non costituiva nessun problema di fede, poiché gli idoli non esistono, quindi quelle carni non sono offerte a nessuno e, pertanto, si possono mangiare liberamente (8,4), benché, poi, rettifichi il tiro, attestando che dietro quegli idoli ci sono i demoni (10,20) e quindi l'incompatibilità delle mense dei demoni con quella del Signore (10,21). Ma non tutti hanno raggiunto questo livello di coscienza e di maturità spirituale, così che si scandalizzano, rischiando di perdersi (8,7-11a). Di questo sono responsabili i “forti”, che dovranno rendere conto a Cristo (8,11b-12).

Similmente qui, Paolo riagganciandosi al cap.8, ma guardandolo questa volta dalla parte dei “forti”, sottolinea la loro responsabilità nei confronti dei “deboli”. Lo fa partendo dal loro motto, che doveva fungere anche da loro slogan, già comparso in 6,12: “Tutte le cose sono lecite”. Motto su cui Paolo si dichiara pienamente d'accordo, anzi sollecita i “forti” a comportarsi di conseguenza, ma mettendoli in guardia dal loro comportamento così libero e disinvolto, perché vi è anche, in mezzo a loro, chi ha una coscienza debole, di cui responsabili sono loro, i “forti”, così che la loro libertà deve essere non assoluta, ma rispettosa e, quindi, condizionata dal livello di coscienza e di evoluzione spirituale dei “deboli”. In Rm 15,1 esorterà: “Noi che siamo i forti abbiamo il dovere di sopportare l'infermità dei deboli, senza compiacere noi stessi”, di conseguenza “Accogliete tra voi chi è debole nella fede, senza discuterne le esitazioni” (Rm 14,1).

Questa ultima sezione del cap.10 è inclusa dai vv.24.33b, in cui si ritrova sostanzialmente la medesima espressione, la prima riferita ai Corinti: “Nessuno cerchi del suo proprio (interesse), ma quello dell'altro” (v.24); la seconda riferita a Paolo: “non cercando il mio utile, ma quello di molti, affinché siano salvi” (v.33b). Inclusione che dà il tono all'intera sezione, che vede preporre ai propri interessi e ai propri tornaconti quelli degli altri, facendo in tal modo prevalere l'amore, che si esprime nel rispetto degli altri, richiamandosi in qualche modo a 8,1b dove attestava come “la conoscenza riempie di orgoglio, l'amore edifica”.

La sezione in esame (vv.23-33) si sviluppa strutturalmente in 4 parti:

  1. L'attestazione di due principi, che in buona sostanza dicono come tutto è permesso nel rispetto di chi è debole e introducono in qualche modo il tema dei successivi vv.25-33 (vv.23-24);

  2. La conseguenza dei due principi viene illustrata da una duplice esemplificazione. Il primo principio (v.23) è esemplificato ai vv.25-27, che mettono in evidenza la libertà di coscienza, dei “forti”, di chi è spiritualmente evoluto, confermando in tal modo il motto “Tutte le cose sono lecite”;

  3. il secondo principio (v.24) viene esemplificato ai vv.28-29a, che vedono i “deboli” scandalizzati dal comportamento libertario dei “forti”, che devono sapersi contenere, per non turbare e arrecare danno alla coscienza meno evoluta dei deboli;

  4. Le risposte di Paolo alle possibili obiezioni dei “forti” circa il loro doversi limitare per compiacere delle coscienze deboli: a) mettere davanti a tutto la gloria di Dio (v.31); b) non arrecare scandalo a nessuno con il proprio comportamento (v.32); c) Paolo, esempio di abnegazione di se stesso a favore degli altri, sollecita i “forti” ad imitarlo (vv.33-11,1).

Commento ai vv.23-33

Con il v.23 Paolo riprende qui il motto dei “forti”, già citato in 6,12, e lo rimodella parzialmente adattandolo al tema di questa ultima sezione del cap.10, così che al “Tutte le cose sono lecite“ viene controbattuto, da un lato, che “non tutte giovano”, riproducendo sostanzialmente identico 6,12a e lasciando intuire come comportamenti cosi libertari, adottati dai “forti”, non sempre sono utili alla propria e all'altrui fede e, comunque, non sempre sono compatibili con il proprio essere credenti (vv.20-22); dall'altro, che “non tutte edificano”, lasciando trasparire la preoccupazione di Paolo, circa certi comportamenti disinvolti, che, non considerando l'impatto sugli altri, possano distruggere l'unità e la comunione della comunità credente, dove ognuno deve sentirsi responsabile dell'altro, modificando il proprio comportamento, così da non offendere o scandalizzare chi è più debole nella fede. Tutto, dunque, è lecito, ma tutto deve essere vissuto con intelligenza, sapendo discernere ciò che può giovare a se stessi e alla comunità e ciò che la edifica o la può anche distruggere. Tema quest'ultimo che ricomparirà in 11,17-31 circa le divisioni durante la Cena del Signore e formerà da sottofondo all'intero cap.12 dove si parlerà della molteplicità dei doni spirituali, che trovano la loro unica radice nello Spirito, che li dona perché la comunità cresca ben ordinata nel Signore (Ef 2,21-22) come un corpo armonico (cap.14). Ma tutto ciò ha il suo cuore pulsante nella carità, cui Paolo dedicherà lo stupendo inno di 13,1-13.

Se con il v.23 Paolo ha esortato i “forti” ad usare bene della propria libertà, affinché questa non torni a detrimento proprio e dei “deboli”, creando contrapposizioni e divisioni interne alla comunità, con il v.24 fornisce la chiave di comprensione per saperla spendere bene: “Nessuno cerchi del suo proprio (interesse), ma quello dell'altro”. In altri termini, saper anteporre ai propri interessi quelli degli altri. L'attenzione quindi del credente “forte” deve essere allocentrica e non egocentrica.

Enunciati i due principi (vv.23-24) Paolo passa ora alla loro esemplificazione, sottolineando, una volta di più, la correttezza della libertà interiore che i “forti” hanno acquisito, grazie alla loro evoluzione spirituale, dedicando ad essa la pericope vv.25-27, che gira attorno e trova anche la sua giustificazione nel v.26, che riporta il Sal 23,1 e attesta come tutto discende da Dio e appartiene a Lui, di conseguenza niente vi può essere del male nelle cose create e messe da Dio a disposizione dell'uomo: “del Signore, infatti (è) la terra e la sua pienezza”. Così che “Tutto è puro per i puri; ma per i contaminati e gli infedeli nulla è puro; sono contaminate la loro mente e la loro coscienza” dirà Tt 1,15, lasciando intendere che le cose assumono il colore che attribuisce loro l'animo dell'uomo, ma in loro stesse sono neutre, anzi buone, benché degradate dalla colpa originale, poiché esse comunque provengono da Dio e a Lui appartengono. Sarà proprio questo che attesterà anche il Gesù marciano, rivolto ai suoi, circa la questione sulla purità: “Quindi soggiunse: <<Ciò che esce dall'uomo, questo sì contamina l'uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi, adulteri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l'uomo>>” (Mc 7,20-23).

L'esemplificazione a favore della libertà interiore è scandita in due momenti, il primo riguarda i pubblici mercati, dove finivano le carni sacrificate agli idoli (v.25); il secondo concerne gli inviti privati, che i credenti potevano ricevere, all'interno della cerchia delle loro conoscenze, amicizie o rapporti parentali, da parte di pagani (v.27). In entrambi i casi ci si poteva trovare davanti a carni offerte agli idoli, come dunque comportarsi? La risposta è semplice: ignorate la questione e non fatevene uno scrupolo di coscienza, mangiate senza problemi quello che vi viene offerto sia al mercato che negli inviti privati. Pubblico e privato, dunque, i due estremi per inglobare qualsiasi altra situazione che si ponga al loro interno.

La seconda esemplificazione (vv.28-29a) si contrappone alla prima e la ridimensiona: “Ma qualora qualcuno vi dicesse”. Si tratta dell'ipotetica osservazione che proviene da un “debole” nella fede, che si pone uno scrupolo di coscienza. Per rispetto, dunque, di quella coscienza “non mangiate”. Le motivazioni di questa risoluta presa di posizione, anteporre il debole al forte, facendolo prevalere sulla propria coscienza libera ed evoluta, Paolo le aveva già esposte in 8,11-12: Cristo è morto per lui e lo scandalizzarlo è un atto contro Cristo stesso, per cui, conclude Paolo nel suo drastico fanatismo religioso, che lo spinge sempre oltre misura, quando è in gioco Cristo e il suo vangelo: “Se il cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò più carne in eterno, affinché non scandalizzi il mio fratello” (8,13).

A fronte di una simile perentoria presa di posizione, che sembra mortificare i “forti”, castigandoli e, in un certo qual modo, umiliandoli nella loro conoscenza, che li ha spiritualmente evoluti, mettendoli in una condizione di privilegio all'interno della comunità credente, formata prevalentemente da servi, schiavi ed operai, Paolo sembra, ora, esporre, ma molto più probabilmente ipotizzare delle domande, che provengono o potrebbero provenire dai “forti”, che sostanzialmente contestano il fatto che loro debbano sottostare a delle critiche che giungono da persone dalla coscienza scarsamente illuminata e culturalmente poveri se non ignoranti del tutto (v.29b), che impongono loro delle irragionevoli ed offensive limitazioni di coscienza (v.30).

A tal punto ci si aspetterebbe una risposta di Paolo per tacitare le pretese dei “forti”. Ma il versetto immediatamente successivo, v.31, si apre inaspettatamente con la congiunzione “oân” (ûn, pertanto, dunque, quindi), che ha un senso conclusivo, come, del resto lo è l'intero v.31, dai toni sentenziali e presuppone che prima ci sia stat una risposta di Paolo, che, invece non c'è, anche se si può in qualche modo arguire da quanto fin qui detto in termini di diritti personali, cui Paolo, quale esempio per i Corinti, ha saputo rinunciare per il bene del Vangelo (cap.9); o richiamandosi all'apertura della sezione 8,1-11,1, dove sottolineava l'importanza della carità, che deve prevalere sulla conoscenza, che va, invece, sempre accompagnata dalla carità (8,1-3).

È da ritenere, quindi, che il testo sia mancante, probabilmente a causa di un qualche amanuense che lo ha erroneamente tralasciato o, forse, a motivo della risposta data da Paolo, lo stesso abbia preferito tralasciarla, mettendo in evidenza il solo v.31, già di per se stesso molto significativo, poiché delinea un atteggiamento generale, che dovrebbe caratterizzare il modo di vivere di ogni credente.

Il v.31, dai toni sentenziali, costituisce una sorta di sintesi esortativa e conclusiva che sottoscrive, dandone solennità, quanto Paolo deve aver detto ai Corinti: “fate tutte le cose per la gloria di Dio”. Questo doveva essere il messaggio fondamentale, che sintetizza la risposta alle ipotetiche pretese dei Corinti (vv.29b-30). In altri termini, l'intero vivere quotidiano, dalle cose più semplici e ripetitive, come il mangiare e il bere, a quelle più impegnative, che la vita di ogni giorno chiede al credente e con lui ad ogni uomo, deve essere sempre un agire e un vivere rivolto a Dio, che sappia sempre rendergli gloria, cioè che sappia rendergli una degna testimonianza nella vita del credente, così che Giudei, Greci e la stessa Chiesa di Dio non abbiano a vergognarsene in lui. Paolo, quindi, rimanda la palla ai “forti”, responsabilizzandoli nel loro comportamento libertario, affinché non facciano vergognare Dio in mezzo alle genti.

Ed è a tal punto che Paolo, per l'ultima volta, richiamandosi implicitamente al cap.9, si pone per i Corinti quale esempio di chi ha saputo rinunciare ai propri diritti, anteponendo a questi le esigenze degli altri, per evitare di pregiudicare la loro salvezza. Da qui la sentenza finale: “Diventate miei imitatori come anch'io (lo sono) di Cristo” (11,1), così che imitare Paolo significa imitare Cristo. Ma il Cristo che Paolo imita e che vive ed opera in lui non è quello della risurrezione e della gloria, quello dell'affermazione di se stesso sugli altri, ma quello della croce e della morte, spesa a favore degli altri: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20a). Ed è proprio questo Cristo crocifisso che egli addita ai “forti” di Corinto e che additerà anche ai Filippesi, quello che ha saputo rinunciare alla propria gloria, svuotando ogni sua prerogativa divina, assumendo una natura di schiavo e diventando obbediente al Padre fino alla morte e alla morte di croce (Fil 2,5-8), rendendo in questo gloria al Padre, proprio nella croce, che dice abnegazione di se stesso a tutto vantaggio degli altri. Qui sta la glorificazione, che proviene dall'esempio di Cristo, che, rivolto al Padre nel momento della sua ora, non parla di sofferenza o di morte, ma di glorificazione: “Così parlò Gesù. Quindi, alzati gli occhi al cielo, disse: "Padre, è giunta l'ora, glorifica il Figlio tuo, perché il Figlio glorifichi te” (Gv 17,1). A questa gloria, che si fonda sull'abnegazione di se stessi fino all'estremo, allude Paolo quando esorta: “fate tutte le cose per (la) gloria di Dio”.

Come comportarsi nelle assemblee comunitarie (capp.11-14)

Note generali

Nell'ambito dell'ampia sezione delle direttive e dei consigli, formata dai capp. 7-14, Paolo, dopo aver trattato il rapporto tra uomini e donne (7,1-40) e delle carni sacrificate agli idoli (8,1-11,1), si sofferma, ora, per ben quattro capitoli (11-14), sul come comportarsi all'interno delle assemblee comunitarie, al fine di evitare contrasti e divisioni.

Quattro sono qui le questioni trattate:

  1. la velatura del capo della donna nelle assemblee (11,2-16), dove si cercherà di creare all'interno della comunità e nel suo esprimersi nell'assemblea un ordine gerarchico, per evitare turbamenti e divisioni: Dio, Cristo, uomo, donna, in cui ognuno, a discendere, è capo dell'altro, mentre il primo, Dio, è a capo di tutti e su tutti imprime la sua dignità, che deve avere come contropartita da parte di ciascun credente il rispetto verso l'altro;

  2. le divisioni e le contrapposizioni all'interno della Cena del Signore (11,17-34), che hanno alla base dei contrasti sociali e che in Cristo, che ci fa tutti uno in lui, attorno a quel Pane e a quel Vino, non ha più senso che esistano oltre che ad essere del tutto inappropriati, considerato il contesto sacro in cui si celebra la Memoria;

  3. l'unicità della Fonte dei molteplici doni dello Spirito (12,1-31) deve far comprendere che i doni ricevuti non sono spendibili per se stessi né tantomeno posti in concorrenza tra loro, rendendo i credenti invidiosi gli uni nei confronti degli altri, poiché essi sono azioni dello stesso ed unico Spirito, che opera in ciascun credente per la crescita e la maturità in Cristo dell'intera comunità credente. Collaborazione e comunione di intenti, quindi, e non rivalità;

  4. rapporto tra il dono delle lingue e quello della profezia (14,1-40) deve risolversi non in una concorrenza dell'una sull'altra, ma tenendo presente il bene della comunità. Bene dunque il dono delle lingue, purché ci sia chi le sappia interpretare, rendendo il loro messaggio divino accessibile all'intera comunità e la favorisca nella sua crescita, altrimenti diventa una personale esibizione del proprio rapporto con Dio, che non giova se non al singolo interessato. Bene, invece, e sempre, la profezia, che per sua natura è rivolta alla comunità e alla sua crescita spirituale;

  5. la carità, cui Paolo dedica l'intero cap.13, deve fungere da fondamento dell'intera comunità, sul quale intrecciare e costruire i rapporti tra i credenti e regolare le precedenze, le celebrazioni e i rapporti all'interno delle assemblee liturgiche, perché “tutte le cose avvengano in modo decoroso e con ordine” (14,40).

Ho preferito collocare il commento del cap.13 dopo il cap.14, poiché il cap.13, collocato tra i capp.12 e 14 costituisce, a mio parere, un'incomprensibile interpolazione, mentre se posto a conclusione dei due capp.12.14 acquista tutto il suo significato e il suo senso, non solo con riguardo ai due capitoli, ma anche con riguardo a quelli precedenti, riguardanti le carni immolate agli idoli, dove si sottolinea molto il saper rinunciare ai propri diritti, anteponendo ad essi le esigenze di chi è debole nella fede (capp.8,1-11,1), muovendosi, quindi, sul filo logico della carità, che è paziente, benevola, non si gonfia d'orgoglio e tutto sopporta (13,4.7d). L'inno alla carità, pertanto, costituisce la logica conclusione dei capp.8,1-14,40, ma senza escludere neppure i precedenti dove si parla di divisioni interne alla comunità (1,1-4,21) o delle liti tra credenti (6,1-20).

L'inno alla carità, infatti, posto dopo il cap.14 trova il suo giusto collocamento, poiché tale capitolo chiude l'ampia sezione sui rapporti intracomunitari, che devono avere in ogni circostanza come loro fondamento e radicamento la carità.

Ma il motivo dello spostamento del cap.13 dopo il cap.14 è anche di ordine letterario. Il cap.12, infatti, termina il tema della molteplicità dei carismi con il v.30b: “Tutti parlano lingue? Tutti (le) interpretano?”. Questa ultima espressione funge non solo da introduzione tematica al cap.14, che proprio di glossolalia, di sua interpretazione e di profezia parla, ma funge anche da aggancio al cap.14, che inizia con il v.2, riprendendo il tema della glossolalia: “Infatti, colui che parla con la lingua”, agganciandosi in tal modo a 12,30b.

Mentre il v.12,31, che si pone a conclusione del tema dei carismi, trattati nei capp.12.14, funge da introduzione all'inno alla carità e il v.14,1 da esortazione finale alla carità. Pertanto i vv. 12,31.14,1 vanno posticipati al cap.14, che va collocato, invece, immediatamente dopo al cap.12 e ne continua il tema, mentre i vv.12,31.14,1 possono considerarsi di transizione, perché chiudendo i capp.12.14 con l'esortazione a desiderare intensamente i doni spirituali, introducono il lettore al tema successivo, che è quello della carità, formandone in qualche modo il preambolo.

L'inno alla carità, poi, significativamente inizia proprio con il tema delle lingue (13,1) e della profezia (13,2), che hanno costituito il tema principale del cap.14.

Il motivo per cui l'inno alla carità (13,1-13) risulta interpolato tra i capp.12 e 14 può dipendere dal fatto che o l'amanuense ha invertito i fogli della lettera, ipotesi meno probabile, o Paolo, ipotesi sulla quale cade la mia preferenza, dopo aver trattato il tema dei carismi (12,1-31) e aver concluso con l'inno alla carità (13,1-14,1), ha voluto aggiungere un ulteriore approfondimento sul tema della glossolalia, della sua interpretazione e della profezia, temi questi che già erano comparsi nel cap.12, ma che, poi ha voluto riprendere per meglio focalizzarli, costituendo questi, probabilmente, dei problemi all'interno delle assemblee liturgiche, indicando con il cap.14 quale via maestra nell'uso dei carismi l'interesse della comunità.

L'intera sezione, come si può ben notare, pur nella molteplicità dei problemi trattati, è percorsa da un unico filo rosso, che funge da comune denominatore: evitare le divisioni interne, causate proprio da quegli strumenti spirituali che sono invece dati ai credenti dall'unico Spirito, per la crescita e il consolidamento in Cristo della comunità, ma che potrebbero paradossalmente distruggerla se non se ne comprende il significato e il senso e se non si sanno gestire nella carità, dove il bene dell'altro viene sempre prima del tuo.

Il velo sul capo nelle assemblee liturgiche (vv.2-16)

Testo a lettura facilitata

Preambolo all'introduzione: conservarsi nelle regole della Tradizione trasmessa (v.2)

2- Vi lodo perché vi ricordate di me in tutte le cose e, come vi ho trasmesso, conservate le tradizioni.

Introduzione al tema: l'ordine delle cose nelle assemblee (v.3)

3- Ma voglio che voi sappiate che Cristo è il capo di ogni uomo, ma l'uomo (lo è) della donna, ma capo di Cristo (è) Dio.

Comportamenti da evitare nelle assemblee e loro motivazioni (vv.4-6)

4- Ogni uomo che prega o profetizza portando in testa (un velo) disonora il suo capo.
5- Ogni donna che prega o profetizza con il capo scoperto offende il suo capo, perché (per questa) è una e medesima cosa che fosse rasata.
6- Se, infatti, una donna non non si vela, si tagli anche (i capelli); ma se (è) vergognoso per una donna il tagliarsi o radersi (i capelli), si veli.

Indiretti richiami scritturistici, preambolo ai successivi vv.10-12 (vv.7-9)

7- (L')uomo, infatti, non deve velarsi il capo, essendo immagine e gloria di Dio; la donna, invece, è gloria (dell')uomo.
8- Non è, infatti, (l')uomo da(lla) donna, ma (la) donna (dall')uomo;
9- e, infatti, non fu creato (l')uomo per (la) donna, ma (la) donna per l'uomo.

Ripresa e sviluppo dei vv.8-9 (vv.10-12)

10- Per questo la donna deve avere sul capo un (segno di) potere (dell'uomo) a motivo degli angeli.
11- Tuttavia, n(el) Signore né (vi è) donna senza uomo né uomo senza donna;
12- come, infatti, la donna è dall'uomo, così anche l'uomo (è) per mezzo della donna; ma tutte le cose (provengono) da Dio.

Conclusione con riflessione finale e attestazione della prassi ecclesiastica (vv.13-16)

13- Giudicate tra voi stessi: è decoroso che una donna non velata preghi Dio?
14- Non (è) la natura stessa che vi insegna che qualora (l')uomo si faccia crescere i capelli è un disonore per lui,
15- mentre per (la) donna qualora si faccia crescere i capelli è una gloria per lei? Poiché la chioma [le] è stata data in luogo del velo.
16- Ma se qualcuno sembra essere rissoso, noi non abbiamo tale consuetudine, né le chiese di Dio.


Note generali

La sezione in esame, vv.2-16, sembra trattare una questione di secondaria importanza, se non banale, nella vita delle comunità, ma la complessità con cui si articola questa sezione e la densità di argomentazione con cui qui si sviluppa il pensiero di Paolo danno l'idea che il problema della velatura del capo all'interno delle assemblee liturgiche non fosse una questione di poco conto.

Per poter comprendere l'attenzione che Paolo riserva a tale questione è necessario rifarsi al contesto storico-sociale del suo tempo.

All'epoca in cui Paolo scrive, la donna generalmente portava in pubblico il capo velato. Solo tre categorie di donne non seguivano questa prassi: le prostitute, le donne non ancora sposate e, in genere, in cerca di marito, e le donne socialmente elevate, quale sfoggio della loro levatura sociale, che appariva dall'elaborazione delle loro acconciature.

Il motivo per cui le donne sposate si coprivano il capo in pubblico, ma non quelle non sposate, risiede nei capelli stessi, che ornavano la testa delle donne. Va tenuto presente che i capelli, allora come adesso, hanno sempre avuto una forte valenza di sensualità e di attrazione fisica verso chi li esibisce e certamente una bella chioma al vento, come chi la possiede, non passano quasi mai inosservate. Non a caso la categoria di donne che non si velavano il capo erano proprio le prostitute e le donne da marito, ma non quelle sposate per evitare di esporsi, lasciando intendere la loro disponibilità, la quale cosa equivaleva di fatto ad una sorta di tradimento del coniuge, benché non consumato. Una donna sposata che si presentava in pubblico senza velo segnalava, quindi, la sua disponibilità ad altri uomini52.

Considerato, poi, il lassismo morale in tema di sessualità che vigeva a Corinto, città portuale e crocevia di culture, di religioni e di culti, tale che Paolo insiste sulla questione di evitare la fornicazione (5,1.8; 6,13.18; 7,2a), esortando che ogni uomo abbia la sua donna e ogni donna il suo uomo (7,2b) e considerata l'incontinenza dei Corinti (7,8-9), allora anche la questione dei capelli velati delle donne nelle assemblee liturgiche comincia ad avere il suo significato e il suo senso, evitando non solo distrazioni nell'ambito delle celebrazioni, ma anche che queste assemblee divenissero luoghi di esibizioni o, peggio, di deviazione e perdizione. Meglio, dunque, che tutti se ne stiano al loro posto come deve essere, secondo le regole e le tradizioni, di cui Paolo loda l'osservanza nei Corinti (v.2).

La sezione è circoscritta da una sorta di inclusione per complementarietà tematica, data dai vv.2.16, dove, al v.2, viene affermata la via della Tradizione trasmessa, entro cui si muovono lodevolmente i Corinti; mentre al v.16 viene respinta ogni possibile e prevedibile contestazione che si discosti da questa entro la quale viene collocato l'insegnamento sulla velatura del capo delle donne.

La struttura della sezione sulle velature è scandita in sei parti, che propongo qui di seguito:

  1. Preambolo all'introduzione: conservarsi nelle regole della Tradizione trasmessa (v.2);

  2. Introduzione al tema: enunciazione del principio dell'ordine delle cose nella vita intracomunitaria (v.3);

  3. Comportamenti da evitare nelle assemblee e loro motivazioni (vv.4-6);

  4. Indiretti richiami scritturistici, preambolo ai successivi vv.10-12 (vv.7-9);

  5. Ripresa e sviluppo dei vv.8-9 (vv.10-12);

  6. Conclusione con riflessione finale e attestazione della prassi ecclesiastica (vv.13-16).

Commento ai vv.2-16

Preambolo all'introduzione: conservarsi nelle regole della Tradizione trasmessa (v.2)

Il v.2 si apre con una lode ai Corinti, che se, da un lato, attesta la fedeltà della comunità agli insegnamenti di Paolo, che in quel “vi ricordate di me in tutte le cose” dice come la sua persona sia sentita presente in mezzo alla comunità e come questa sia determinante nelle scelte e nel modo di vivere dei Corinti, che, tuttavia, considerato il carattere perentorio del v.16, non sempre sembrano essere entusiasti delle sue prese di posizione, come probabilmente non lo è la questione sulla velatura del capo delle donne; dall'altro, con il richiamo alla fedeltà delle tradizioni trasmesse, che qui hanno da intendersi come insegnamento apostolico, quindi la posizione ufficiale della chiesa nascente, che trascende, pertanto, lo stesso Paolo, che lo fa risalire al Signore (23), egli sembra voler dire come quanto segue fa parte di questa Tradizione, che va seguita così come egli la trasmette, evitando malumori e contestazioni, poiché così è in tutte le chiese (v.16).

Il v.2, quindi, crea la cornice entro cui viene collocato l'insegnamento di Paolo che segue, non solo quello riguardante la velatura del capo (vv.2-16), bensì anche quello riguardante la Cena del Signore (vv.17-34), legati tra loro sia dalle due espressioni “Vi lodo perché” e il suo contrario “Non vi lodo, perché”, sia anche perché per entrambi gli insegnamenti, Paolo ricorre alla Tradizione che egli ha trasmesso e che sono quelli della posizione ufficiale della chiesa. I termini qui usati, infatti, sono quelli propri della Tradizione: “paršdwka” (parédoka, ho trasmesso), che si ritrovano parimenti ai vv.2.23.

Introduzione al tema: enunciazione del principio dell'ordine delle cose nella vita intracomunitaria (v.3)

Creata, dunque, la cornice entro cui colloca la questione della velatura e che dice come questa fa parte della Tradizione, che investe l'intera Chiesa, Paolo, ora, introduce il tema: “voglio che voi sappiate”. Non si tratta di una semplice curiosità dell'ultima ora, ma di un insegnamento la cui valenza è dottrinale, considerato il richiamo scritturistico, sia pur indiretto, dei vv.7-9 e la complessità dell'argomentazione, che punta a stabilire un ordine di cose all'interno della comunità ecclesiale: “Cristo è il capo di ogni uomo, ma l'uomo (lo è) della donna, ma capo di Cristo (è) Dio”. Quindi ogni comunità si regge sulla struttura antropo-teologica di “Dio, Cristo, uomo e donna”, dove ognuno ha un suo ruolo preciso: Dio, termine con cui nel linguaggio neotestamentario si indica il Padre, è principio e capo di tutto, da cui tutto inizia e da cui tutto discende (Gen 1,1); mentre Cristo è l'unto del Padre, che in lui opera e si manifesta e in lui attua il suo progetto di salvezza (Gv 5,19.30a; 14,9-11), che è iniziato con la creazione, operata dalla sua Parola (Gen 1,3; Gv 1,3), che è il suo Cristo, nella quale è stato collocato per primo l'uomo, fatto a sua immagine e somiglianza (Gen 1,26-27), e successivamente la donna, quale aiuto dell'uomo, che in essa si riconosce, si ritrova e in essa si completa (Gen 2,18.21-24).

Lo schema del v.3, pertanto, si richiama in qualche modo all'ordine primordiale discendente: Dio-Cristo, Parola eterna del Padre e sua azione creatrice,-uomo-donna. Schema che meglio verrà specificato nei vv.7-9. Ed è su questo schema che qui Paolo fonda i rapporti intracomunitari e le loro conseguenze. Uno schema che vede un parallelismo tra Dio e Cristo, uomo e donna, quasi che i rapporti relazionali tra il Padre e il Figlio abbiano a trovare un loro riflesso all'interno della comunità credente, rispecchiandosi in quelli tra uomo e donna. Similmente farà Ef 5,22-33, che crea un parallelismo tra Cristo e la Chiesa, e i mariti e le loro mogli, premettendo su tutto l'essere sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo (Ef 5,22).

Non c'è più, dunque, un rapporto di dominazione o di prevaricazione dell'uomo sulla donna, ma quello di una reciproca sottomissione servizievole dell'uno all'altra, sottesa dalla dinamica dell'amore e del reciproco rispetto, che dice una reciproca attenzione dell'uno verso l'altra, che punta alla reciproca affermazione l'uno dell'altra, trovando in questa la propria affermazione e la propria realizzazione. Lo spendersi, quindi, per l'altro non solo realizza l'altro, ma anche se stessi.

Benché Paolo continui a muoversi nelle logiche socioculturali del suo tempo, che non intende stravolgere, ne dà tuttavia una lettura e una comprensione completamente diverse, anzi opposte, poiché l'avvento di Cristo ha tolto ogni contrapposizione e ogni prevaricazione tra uomo e donna, restituendo a ciascuno la propria dignità nel proprio ruolo previsto dalla creazione e facendo dei due una cosa sola, così che non vi è più né uomo né donna, poiché tutti, in pari dignità, sono uno in Cristo, in una perfetta comunione, dove si rispecchia e si attua la perfetta comunione tra Cristo e il Padre, che fa dei Due una cosa sola (Gv 10,30; 17,22).

Quanto seguirà, pertanto, va compreso e letto entro lo schema dell'armonia della primordiale creazione, dove vi era una sequenza logica, che inglobava tutto in una perfetta comunione con Dio, così che “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gen 1,31a). Non, quindi, prevaricazione e contrapposizione, ma armonia nel rispetto dei propri ruoli, che la creazione ha assegnato al maschio e alla femmina e che qui Paolo rileverà ai vv.11-12. Due aspetti, quello della mascolinità e della femminilità, che si ritrovano in pari modo in Dio stesso e che Dio ha riprodotto nell'uomo (Gen 1,26-27) e che solo la rivolta originale dell'uomo contro Dio (Gen 3,5-6) ha diviso, contrapposto e prevaricato l'uno sull'altro (Gen 3,16). Ma un tempo non era così.

Comportamenti da evitare nelle assemblee e loro motivazioni e loro motivazioni (vv.4-6.7-9.10-12)

Dopo la premessa dei vv.2-3, Paolo entra ora nella questione della velatura del capo durante le assemblee liturgiche, dove si prega e si profetizza, giocando sul termine equivoco ed ambivalente nel contempo di “kefal¾” (kefalé, capo, testa), che ricorre nei soli vv.3-7 ben otto volte. Il termine significa “capo”, nel senso di testa o di parte che sta sopra, a cui Paolo attribuisce qui anche il senso di chi comanda e sta sopra. Quest'ultimo senso è ciò che Paolo intende nel v.3, dove egli crea una gerarchia di dipendenza, che rispecchia l'ordine naturale stabilito nella creazione; ma nei vv.4-6 il termine assume entrambi i significati, per cui l'uomo che si vela la testa nelle assemblee “disonora il suo capo”, dove il termine “capo” acquista il significato di “testa” e, quindi, egli disonora se stesso; ma nel contempo disonora il suo “capo”, che è Cristo e, in ultima analisi, Dio stesso, che è anche capo di Cristo. Il disonore che gli viene e che nel contempo opera contro Cristo e, in definitiva, contro Dio, è dovuto a motivo del suo stesso “essere”, che verrà evidenziato al successivo v.7a: “(L')uomo, infatti, non deve velarsi il capo, essendo immagine e gloria di Dio”. Il riferimento qui è a Gen 1,26-27 e al sal 8,5-6, dove il salmista s'interroga su chi è mai l'uomo, creato poco meno degli angeli e rivestito di gloria e di onore, cioè della stessa dignità di Dio, che è la sua Santità, e reso partecipe della sua Vita. L'uomo, quindi, quale riflesso di Dio stesso non deve coprirsi il capo, anzi è quasi da dire che Dio, creando l'uomo a sua immagine e somiglianza e dandogli ogni potere sulla creazione, ha in qualche modo, sia pur a livello creaturale, creato un altro se stesso, in cui Egli si rispecchia, vedendo in lui la perfezione di se stesso, così che l'agiografo esclamerà: “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gen 31,a).

Per contro, Paolo, al v.5, attesta che la donna, pur potendo parimenti all'uomo pregare e profetare nelle assemblee, perché davanti a Dio e in Cristo non vi è alcuna differenza tra uomo e donna, avendo entrambi pari dignità (v.11 e Gal 3,28), questa deve coprirsi il capo altrimenti “offende il suo capo”, cioè offende se stessa, in quanto privarsi del velo è come se si fosse rasata i capelli, privandosi quindi di una potente arma di seduzione e perdendo molto del suo fascino; ma nel contempo essa offende “il suo capo”, che è l'uomo (v.3), che qui va inteso non nel senso assoluto, ma come uomo-marito. Il termine greco qui usato, infatti, non è “¥nqtropoj” (ántzropos), che significa “uomo” in senso generico, ma “¢n¾r” (anér), che significa “uomo” in senso specifico e particolare ed è usato anche per indicare lo “sposo” e il “marito”, così come il termine “donna” in greco è reso con “gun»” (ghiné), che significa anche “moglie”. In tal senso la donna sposata non velata in pubblico equivaleva al rendersi disponibile agli altri uomini, commettendo, di fatto, una sorta di tradimento nei confronti di suo marito. In tal senso la “donna è gloria dell'uomo”, poiché riservandosi per il suo marito lo onora e ne riflette la sua appartenenza esclusiva (v.7b), così che la velatura del suo capo diviene un segno del potere dell'uomo su di lei (v.10), ma non nel senso di dominio o di dominazione, che umilia la donna, ma nel senso che gli appartiene; un'appartenenza che non dice “proprietà”, quasi che la donna sia un oggetto, che si può tenere come vendere o buttare, ma che in e con lei forma una comunione di vita, in cui il marito rispecchia se stesso e in essa si ritrova e si riconosce e in lei vede riflessa la sua gloria (Gen 2,23) o forse è meglio dire la sua glorificazione, poiché la donna con il suo comportamento e le sue attenzioni nei confronti del proprio marito, lo glorifica. Una donna, la cui perfezione idealizzata viene cantata come in una sorte di inno di lode alla donna perfetta da Prv 31,10-31.

Circa la donna, Paolo sembra avere posizioni contraddittorie: da un lato vede la donna come assoggettata all'uomo (vv.5-6.7b-9; 14,34-35); dall'altra vede la donna in pari dignità con l'uomo, (Gal 3,28; 1Cor 11,11-12); se poi con i vv.8-9 sembra giustificare scritturisticamente la sottomissione della donna all'uomo, vedendola come in sua funzione, richiamandosi implicitamente a Gen 2,18.21-25, tuttavia con i vv.11-12 sembra voler rettificare il tiro dei vv.8-9, mettendo l'uomo e la donna sullo stesso piano, poiché se è vero che la donna è stata tratta dall'uomo (Gen 2,21-22), altrettanto vero è che l'uomo è tratto, a sua volta, dalla donna, così che entrambi si compensano reciprocamente ed entrambi necessitano l'uno dell'altra, pena il loro fallimento, sanzionato con la morte stessa, che sopraggiunge per estinzione della specie.

In realtà, Paolo si muove su due piani diversi: quello veterotestamentario, che segue la cultura del suo tempo, che egli non intende cambiare o stravolgere, forse per il timore di creare una reazione uguale contraria; e quello nuovo, che si muove sull'onda dell'evento Cristo, che ha cambiato la lettura e la comprensione della storia e degli uomini, prospettando dei nuovi rapporti, basati non più sulla forza, la violenza, la sopraffazione e la prevaricazione, ma sull'amore che accoglie, ha cura e fa crescere; un amore che vede l'affermazione dell'uomo nel suo spendersi per l'affermazione dell'altro. Uno stravolgimento che cambia il senso della storia e dei rapporti umani, spingendoli fino ad amare i propri nemici (Rm 12,14). È significativo, infatti, come si apre il v.11: “Tuttavia, nel Signore”. È questa la nuova chiave di lettura dell'uomo, dei suoi rapporti e, in ultima analisi, della sua stessa storia: “nel Signore”, dove tutto viene ricompreso e reindirizzato, verso quel Dio, che è per sua natura Amore, da cui è stato generato l'uomo, che ha creato a sua immagine e somiglianza, facendolo, come Egli è, “maschio e femmina” (Gen 1,27), in cui non vi è alcuna contrapposizione, ma un'armonica composizione di due principi vitali in Uno, per questo Egli è Fonte primaria della vita, che continuamente genera la vita, così come lo sono l'uomo e la donna, che ricomponendosi in una sola carne, alla pari di Dio, generano la vita, poiché entrambi, come tutte le cose, da Lui provengono (v.12b) e ne sono l'impronta vivente.

Conclusione con riflessione finale e attestazione della prassi ecclesiastica (vv.13-16)

Dopo aver argomentato il tutto e il contrario di tutto, cioè come la donna sia sottomessa all'uomo, ma come nel contempo entrambi dipendano e necessitano l'uno dall'altra e siano, di conseguenza, di pari dignità, Paolo torna, con quest'ultima pericope conclusiva sulla questione della velatura del capo delle donne, alla realtà culturale del proprio tempo e alla necessità di evitare nelle sacre assemblee distrazioni pericolose, che rischiano di trasformarle, in luoghi di ritrovi tra uomini e donne, dove le une ammiccano, sfoggiando le loro acconciature, in particolar modo le donne benestanti, che ospitavano le prime comunità credenti, trasformando le loro case in luoghi di culto; mentre gli altri, distraendosi, se le contemplano, facendo sorgere in se stessi sentimenti o desideri non propri adeguati al culto che si celebra.

Ora, Paolo, attraverso due domande retoriche e provocatorie nel contempo, gioca un'ultima carta argomentativa, ricorrendo alla stessa natura, che fornisce agli uomini una capigliatura corta, essendo disdicevole per loro una lunga, che li rende effeminati, contro i quali 6,10 ha già emesso la sua sentenza di condanna; mentre alle donne, a mo' di velo che copre il loro capo, una capigliatura lunga e fluente. Quindi, sia l'ordine della creazione, sia le Scritture, sia le logiche delle cose, che la stessa natura umana spinge la donna, contrariamente all'uomo, a coprirsi il capo. Da qui la domanda retorica e provocatoria che apre quest'ultima pericope e le dà il tono: “Giudicate tra voi stessi: è decoroso che una donna non velata preghi Dio?”. Domanda, la cui argomentazione viene data ai successivi vv.14-15.

La sezione sulla velatura del capo delle donne, nonché quest'ultimo ragionamento sulla natura si chiudono in modo perentorio, che non ammette repliche o contestazioni e che lascia intendere come queste disposizioni abbiano un carattere vincolante, quasi dottrinale, presso tutte le chiese: “Ma se qualcuno sembra essere rissoso, noi non abbiamo tale consuetudine, né le chiese di Dio”. Una discussione possibile, quindi, che viene troncata ancor prima che questa possa sorgere, lasciando trasparire il senso impositivo e dogmatico di tale disposizione, rimarcato in apertura del v.17: “Ora, mentre (vi) comando questo”.

Comportamenti disdicevoli nel contesto della Cena del Signore (vv.17-34)

Testo a lettura facilitata

Preambolo (v.17), introduzione (v.18) e considerazione (v.19) (vv.17-19)

17- Ora, mentre (vi) comando questo, non (vi) lodo, poiché vi riunite non per il meglio, ma per il peggio.
18- Innanzitutto quando vi riunite in assemblea, infatti, sento che vi sono divisioni tra di voi e questa cosa in parte ci credo.
19- Bisogna, infatti, che tra di voi ci siano fazioni, affinché siano manifesti tra di voi i genuini.

Il problema (vv.20-22)

20- Quando, dunque, vi riunite nello stesso luogo non è un mangiare (la) cena del Signore;
21- ciascuno, infatti, nel mangiare, anticipa la propria cena, e (c'è) chi ha fame, chi si ubriaca.
22- Non avete forse le (vostre) case per mangiare e bere? O volete disprezzare la chiesa di Dio e oltraggiare coloro che non hanno (niente)? Che cosa dirvi? Vi loderò? In questo non vi lodo.

La Cena del Signore trasmessa e il suo significato (vv.23-26)

23- Io, infatti, ho ricevuto dal Signore, quello che anche (io) vi ho trasmesso, che il Signore Gesù nella notte in cui veniva tradito, prese del pane
24- e, dopo aver reso grazie, (lo) spezzò e disse: <<Questo è il mio corpo che è per voi; fate questo in mia memoria.
25- Allo stesso modo, (preso) anche il calice, dopo aver cenato, dicendo: <<Questo calice è la nuova alleanza n(el) mio sangue; fate questo, ogni volta che (ne) bevete, in mia memoria>>.
26- Ogni volta, infatti, che mangiate questo pane e beviate il calice, annunciate la morte del Signore finché non venga.

Esaminare il proprio atteggiamento nell'accostarsi alla Cena del Signore (vv.27-29)

27- Così che chi mangia il pane o beve il calice del Signore indegnamente sarà colpevole del corpo e del sangue del Signore.
28- (L')uomo esamini se stesso e così mangi dal pane e beva dal calice;
29- poiché, chi mangia e beve non distinguendo il corpo (del Signore), mangia e beve (la) condanna per se stesso.

Riflessione ed esortazione finali (vv.30-34)

30- Per questo tra di voi (ci sono) molti deboli e malati e molti dormono (il sonno della morte).
31- Se, però, esaminassimo (noi) stessi, non saremmo giudicati;
32- Ma giudicati dal Signore, siamo (da lui) corretti, affinché non siamo condannati con il mondo.
33- Così, che, fratelli miei, allorché (vi) radunate per mangiare, aspettatevi gli uni e gli altri.
34- Se qualcuno ha fame, mangi a casa, affinché non vi raduniate per la condanna. Darò disposizione per le altre cose quando verrò.


Note generali

Paolo scrisse questa prima lettera ai Corinti da Efeso, tra il 53 e il 54 d.C., quando non c'erano ancora né i Vangeli né gli Atti degli Apostoli, che si formeranno soltanto nella seconda metà del I secolo, tra il 69 e il 110 d.C. Pertanto, il testo dell'ultima Cena, che qui Paolo riporta e a cui molto probabilmente si rifarà Lc 22,19, l'unico dei sinottici che riporta l'espressione “in memoria di me”, è il più antico e, a testimonianza di Paolo, già faceva parte di una consolidata Tradizione, che egli aveva trasmesso ai Corinti. La quale cosa induce a pensare come l'istituzione dell'eucaristia, quale rito di culto, sia sorta immediatamente dopo la morte-risurrezione di Gesù, in un tempo in cui i primi discepoli dovevano ancora maturare una propria identità cristiana, poiché, da un lato, frequentavano ancora il tempio e, quindi, il culto giudaico; dall'altro, parallelamente, si riunivano in assemblee nelle proprie case per “spezzare il pane” (At 2,46), cioè per celebrare quel rito che Paolo chiama la Cena del Signore.

Ci si trova, quindi, di fronte ad un antico rito, che Paolo stesso aveva introdotto nella comunità di Corinto, avendola egli per primo evangelizzata e fondata, come attesta sia al v.23: “quello che anche (io) vi ho trasmesso”, sia al v.2, dove egli loda i Corinti per la loro obbedienza ai suoi insegnamenti secondo la Tradizione, che ha trasmesso loro. Un rito, tuttavia, che egli non si era inventato, ma che, a sua volta, “aveva ricevuto dal Signore” (v,23), cioè dalle comunità credenti di Damasco, di Gerusalemme e di Antiochia, dove rimase a maturare la propria fede nel decennio successivo all'evento di Damasco (35 d.C.). È qui che egli apprese i rudimenti della fede cristiana, imparò gli inni cristologici e le numerose formule di fede, che ritroviamo poi nelle sue lettere, e incominciò ad elaborare il suo pensiero teologico e cristologico, che formerà poi l'asse portante di tutte le sue lettere; ed è qui che apprese il rituale della Cena del Signore, il cui testo e il cui significato riporta ai vv.23-26. Significativo è quel “aver trasmesso ciò che egli ha ricevuto a sua volta”, creando in tal modo una sorta di catena di ricevimento e trasmissione, che risale direttamente al Signore, per cui Paolo può dire di aver “ricevuto dal Signore” (v.23a).

L'espressione “Cena del Signore” ricorre in tutto il N.T. soltanto una volta, qui in 11,20 e molto probabilmente, se non quasi certamente, fu la prima denominazione con cui ci si riferiva ed era conosciuto il rituale del fare memoria dell'ultima cena pasquale di Gesù con i suoi. L'espressione, infatti, si richiama espressamente al racconto dell'ultima cena di Gesù con i suoi e, quindi, risente della vicinanza dell'episodio, che viene sintetizzato nel titolo “Cena del Signore”. Successivamente, probabilmente già agli inizi della seconda metà del I secolo, mentre egli scrive questa lettera, l'espressione “Cena del Signore” veniva lentamente sostituita con l'altra espressione più ritualizzata e più popolare, che risente, da un alto, della lontananza temporale dell'episodio, dall'altro, del rito ormai consolidato nella Chiesa: “lo spezzare il pane”, la cui formulazione ritroviamo in formazione già qui, in 10,16b: “Il pane che spezziamo non è comunione del corpo di Cristo?”. Il riferimento, qui, è chiaramente rivolto al rito della frazione del pane. E sarà proprio questa ritualità dello spezzare il pane che prevarrà sul ricordo del racconto, ormai trasformato in rito, come si riscontra anche negli Atti, dove la Cena del Signore è ormai pacificamente conosciuta e indicata come “lo spezzare il pane” (At 2,46; 20,7.11; 27,35).

Un rituale questo che venne istituito già fin da subito dopo la morte-risurrezione di Gesù (circa 30 d.C.) e che veniva celebrato il primo giorno della settimana (At 20,7; 1Cor 16,2), quello in cui si scoperse la tomba vuota, il primo giorno dopo il sabato (Mt 28,1; Mc 16,2; Lc 24,1), cioè la domenica, il dies Domini, il giorno della risurrezione del Signore. Tutto, dunque, è legato al racconto, che viene trasformato in rito con cui si celebra il culto, dove si fa memoria dell'evento storico, che il rito attualizza con tutta la sua carica salvifica in mezzo ai credenti. È questo il senso con cui il Gesù matteano chiude il racconto di Matteo: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20b). Pane e Parola, come ricorda il racconto lucano dei due discepoli di Emmaus (Lc 24,16-34), saranno la nuova forma di presenza di Gesù in mezzo ai suoi, che lo riconoscono nello spezzare il pane e li accompagnerà lungo i secoli in mezzo agli uomini di ogni tempo e latitudine.

Come questo rituale della Cena del Signore si svolgesse presso le prime comunità credenti non ci è dato di sapere, ma certamente esso era legato ad un banchetto conviviale, come ricorda il nome stesso “Cena del Signore”, legato al banchetto pasquale, che veniva celebrato convivialmente; Paolo, poi, qui parla di un ritrovarsi in assemblea (v.18), dove, lamenta, c'è chi anticipa la cena (v.21), mentre al v.33 attesta: “allorché (vi) radunate per mangiare, aspettatevi gli uni e gli altri”. Gli stessi At 2,46 legano lo spezzare il pane ad un banchetto conviviale, che qui già assume i contorni di una celebrazione dal sapore liturgico: “spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio”. E la “casa”, non essendoci ancora luoghi pubblici di culto cristiano, fungeva da luogo sacro di celebrazione cultuale. Erano in genere le case dei benestanti, le uniche che potevano essere sufficientemente capienti per accogliere un numero consistente di persone. Un particolare, quest'ultimo, che non va trascurato, perché in queste case non si radunavano soltanto le persone ricche o benestanti, ma anche gente povera, come servi, e schiavi, artigiani e operai. Sarà proprio questa differenza di classi sociali che creerà, qui a Corinto, delle divisioni e delle incomprensioni nel contesto della Cena del Signore.

La struttura di questa seconda ed ultima sezione del cap.11 è suddivisa in cinque parti, che propongo qui di seguito:

  1. Preambolo (v.17), introduzione (v.18) e considerazione (v.19) (vv.17-19);

  2. Il problema (vv.20-22);

  3. Il senso della Cena del Signore trasmessa (vv.23-26);

  4. Esaminare il proprio atteggiamento nell'accostarsi alla Cena del Signore (vv.27-29);

  5. Riflessione ed esortazione finali (vv.30-34).


Commento ai vv.17-34

Preambolo (v.17), introduzione (v.18) e considerazione (v.19) (vv.17-19)

La pericope vv.17-22, benché scandita in due parti per una migliore comprensione della dinamica del pensiero di Paolo, costituisce in realtà un'unica unità letteraria, circoscritta dall'inclusione data dall'espressione “non vi lodo”, che si ripete ai v.17.22 e dà il tono di rimprovero all'intera pericope.

La prima parte di questa pericope, vv.17-19, funge da cornice introduttiva, in cui verrà collocato il problema che verrà denunciato nella seconda parte della pericope, vv.20-22.

Il v.17 si apre ricollegandosi in qualche modo a quanto detto nella precedente sezione circa la velatura del capo delle donne durante le assemblee liturgiche (vv.2-16), dando in tal modo una continuità al rimprovero per i comportamenti disdicevoli tenuti dai Corinti nelle loro celebrazioni: là era per una questione di velatura del capo, qui per una contrapposizione tra ricchi e poveri, che avveniva durante il convivio in cui si celebrava la Cena del Signore (vv.17-34): “Ora, mentre (vi) comando questo” (v.17a). L'espressione, pertanto, funge da ponte tra la prima e la seconda sezione. In entrambi i casi si tratta di comportamenti che qui Paolo sanziona e sui quali pone la sua autorità apostolica (“vi comando”), che vincola i Corinti all'obbedienza, per la quale sono stati lodati in apertura di questo cap.11, sia per la loro fedeltà alle disposizioni date che alla Tradizione ecclesiastica: “Vi lodo perché vi ricordate di me in tutte le cose e, come vi ho trasmesso, conservate le tradizioni” (v.2). Paolo, quindi, mette subito in chiaro che quanto ha detto e sta per dire ancora non è una semplice esortazione, ma fa parte del Magistero apostolico, che vale per tutte le chiese e su cui dev'essere esclusa ogni discussione (v.16): si obbedisce e basta!

Il motivo di questo secondo rimprovero riguarda sempre le assemblee liturgiche che si svolgono qui a Corinto e che per il comportamento tenuto sono da biasimarsi: “poiché vi riunite non per il meglio, ma per il peggio” (v.17b), come dire che nelle loro assemblee i Corinti danno a vedere il peggio di loro stessi. Il v.17, pertanto, funge da preambolo introduttivo, che prende alla larga il problema, ma che già in qualche modo lo lascia intuire. Paolo adotta spesso questa tecnica di approccio morbido ai problemi, probabilmente sia per evitare una reazione di rigetto o di polemica, la quale cosa rischierebbe di produrre delle divisioni o dei contrasti all'interno della comunità; sia per incentrare l'attenzione dei suoi interlocutori su ciò che sta per dire.

Il v.18 costituisce un ulteriore passo in avanti verso il problema, che denuncerà soltanto nella successiva pericope vv.20-22. Ciò che qui Paolo sta per dire non nasce da una questione segnalata attraverso uno scritto ufficiale dei Corinti, altrimenti la dicitura introduttiva sarebbe stato “Quanto a” (7,1.25; 8,1; 12,1), ma da un “sentito dire”. Qualcuno, quindi, a voce, probabilmente la stessa “gente di Cloe”, che ha segnalato le divisioni nella comunità, o da Apollo, fedele collaboratore di Paolo, che lo aveva raggiunto ad Efeso (16,12), o dalla stessa delegazione formata da Stefana, Fortunato ed Acaico (16,17). Ciò che Paolo “sente dire” riguarda delle divisioni, che hanno luogo durante le assemblee. Paolo si tiene sul generico e ancora non viene detto di che si tratta esattamente, ma qui sta preparando il contesto dove collocherà il problema e ne specifica la natura: si tratta ancora di divisioni. Questione quest'ultima su cui Paolo non ha problemi a crederci, sia perché i Corinti hanno già dato prova di queste divisioni, che sono state loro contestate in apertura di questa lettera (1,11-13); sia perché conosce la composizione della comunità di Corinto, formata per la maggior parte di schiavi, servi, operai, artigiani e pochi ricchi o benestanti.

Ai due preamboli (vv.17-18), che creano la cornice entro cui verrà inquadrata la questione della divisione nelle assemblee, Paolo aggiunge anche una sua personale considerazione, che costituisce lo sviluppo del v.18b, quasi a darsi ragione di quanto sta succedendo e vedendo in questo una sorta di prova destinata a portare alla luce i veri credenti (v.19), quelli spiritualmente vivi, perché attesterà al v.30, molti tra i Corinti sono deboli e ammalati, mentre molti altri sono spiritualmente morti. I vv.19 e 30, pertanto, trovano una loro complementarietà e creano lo sfondo sul quale si muoverà questa seconda sezione del cap.11.

Il problema (vv.20-22)

Dopo aver creato il preambolo introduttivo con la precedente pericope, vv.17-19, Paolo, ora, denuncia ai Corinti il problema sul quale esprime tutto il suo biasimo e i Corinti, ora, sanno già che il loro comportamento all'interno della celebrazione della Cena del Signore costituisce una divisione, che contrappone due categorie sociali, che, loro malgrado, convivono nella chiesa di Corinto, come del resto in tutte le altre chiese del tempo. Una contrapposizione di tipo sociale, che veniva messa ancor più in rilievo per l'esiguità delle chiese primitive, dove si contavano poche decine di credenti e forse anche meno.

Da come viene posta la questione, sembra che la celebrazione della Cena del Signore si collocasse all'interno di un banchetto conviviale, la cui finalità doveva essere quella di creare e alimentare la condivisione e la comunione fraterna; dove ognuno portava quello che la sua condizione economica gli consentiva, condividendolo con tutti gli altri partecipanti, superando in tal modo le divisioni e le contrapposizioni sociali. Probabilmente al termine del banchetto, dopo che si era creato un clima di fraternità conviviale, veniva celebrato il rito della Cena del Signore. Un convivio, quindi, che sfociava naturalmente nella celebrazione cultuale.

Ma è proprio qui che nasce il problema, alla creazione del quale concorrevano due fattori: la condizione sociale, per cui ognuno si aggrega con chi gli è simile per censo e posizione sociale, e che a sua volta crea un giro di conoscenze e di frequentazioni, tali da creare un circolo chiuso ed escludente. Di conseguenza i ricchi e i benestanti facevano gruppo a se stante e, non avendo particolari impegni lavorativi, si radunavano anzitempo nella casa, ora di uno ora dell'altro, così che, senza attendere gli altri, cioè quelli meno abbienti, che per motivi di lavoro giungevano al convivio tardi, o anche per evitare di socializzare con questi e condividere con loro i propri cibi prelibati, iniziavano a banchettare senza attenderli, sicché quando questi giungevano il pasto era già terminato e agli ultimi arrivati non restava che mangiare il po' di cibo che si erano portati da casa o gli avanzi dei benestanti, che avevano gozzovigliato alle loro spalle, fino anche ad ubriacarsi, trasformando un convivio sacro in un'abbuffata, che, alla fine, degenerava in una chiassata.

Sicché Paolo conclude in modo molto secco e categorico, se non adirato: “Non avete forse le (vostre) case per mangiare e bere? O volete disprezzare la chiesa di Dio e oltraggiare coloro che non hanno (niente)? Che cosa dirvi? Vi loderò? In questo non vi lodo”. Un comportamento, quindi, che non solo offende la chiesa di Dio, formata prevalentemente di poveri, ma in essi anche Dio stesso. Comportamenti questi che dissacravano non solo la sacralità del banchetto, vanificandone il senso e la finalità, ma anche la stessa Cena del Signore, il cui significato Paolo richiamerà, ora, nella seguente pericope vv.23-26, sentendo la necessità di ricatechizzare nel merito la comunità di Corinto, rifacendosi alla sacralità stessa della Tradizione, che aveva trasmesso l'evento della Cena del Signore, la quale, richiamandosi alla salvifica passione-morte di Gesù, ne faceva memoria, riattualizzandolo attraverso la parola e il rito in mezzo alla comunità di Corinto e, come questa, in ogni comunità credente e celebrante.

Il testo paolino, circoscritto dai vv.23-26, riveste una notevole importanza storica e testimoniale, poiché qui Paolo riporta non il suo pensiero o una sua personale rielaborazione di un rito, ma “trasmette” ciò che egli “ha ricevuto dal Signore”, rifacendosi in tal modo ad una catena di trasmissione apostolica che risale fino al Signore. La formulazione del testo è chiaramente liturgicizzata, e si sentono i ritmi del racconto di un evento che ha assunto ormai le vesti di una ritualità celebrativa, che ne fa memoria. La quale cosa significa che la prassi cultuale della Cena del Signore all'interno della chiesa primitiva era da tempo istituita, da almeno qualche decennio e questo ci riporta all'immediato tempo successivo alla morte di Gesù. Il rito, infatti, celebra la “morte del Signore”, caricata del suo significato e della sua azione salvifica e redentrice, che viene riattualizzata attraverso il rito e la parola.


Il senso della Cena del Signore trasmessa (vv.23-26)

Il racconto dell'ultima cena inizia con un “'Egë g¦r” (Egò gàr, Io, infatti), dove quel “Egë” è Paolo, che si pone, qui, di fronte ai Corinti, in prima persona e diviene testimone di un evento storico, la cui origine viene fatta risalire allo stesso “Signore”. Quel “g¦r”, che accompagna “Egë”, è, infatti, una congiunzione dichiarativa e attestativa, che inquadra il racconto di Paolo all'interno di una cornice di solennità e di veridicità. E ciò che Paolo sta per attestare è che egli ha “ricevuto dal Signore”. L'uso qui dell'aoristo (paršlabon, parélabon, ricevetti) parla di un preciso evento storico, un fatto puntuale nel tempo e, pertanto, di per se stesso irraggiungibile se non attraverso la testimonianza tramandata, che si fa Tradizione, la quale fotografa, rendendolo immutabile nel tempo, l'evento stesso attraverso un linguaggio che le è proprio: quello del racconto ritualizzato, affinché l'evento non solo possa essere ricordato così come avvenuto, ma nel suo essere tramandato non subisca improprie modificazioni. Questo dice l'importanza che la Chiesa primitiva aveva attribuito a tale evento, nonché la coscienza che essa aveva, fin da subito, della centralità di tale evento nella propria vita.

Paolo attesta che “ha ricevuto dal Signore”. L'espressione non va intesa nel senso di una qualche particolare visione o rivelazione che egli ha ricevuto dal Risorto, ma quel “dal Signore” allude ad una catena di trasmissione apostolica certa, che risale al Signore, il punto di origine originante di tale evento storico, che, in quel “fate questo in memoria di me”, si perpetua lungo i secoli nella vita della Chiesa e di ogni credente. Un evento storico, quindi, che si attualizza storicamente con tutta la sua carica salvifica in mezzo alla Chiesa di ogni tempo e luogo.

Questo evento, che Paolo ha ricevuto integro dalla Tradizione, che egli ha conosciuto e imparato nel decennio successivo alla sua conversione (36 d.C.), lo aveva già trasmesso, a sua volta, ai Corinti. L'uso, infatti, anche qui, dell'aoristo (paršdwka, parédoka, trasmisi), corrispondente al nostro passato remoto, attesta un insegnamento che già era stato impartito nel passato, probabilmente nel tempo della fondazione della chiesa di Corinto, la quale cosa fa pensare come la celebrazione della Cena del Signore facesse parte di questo primario insegnamento e costituisse all'interno della chiesa primitiva uno dei capisaldi del vivere credente.

Dopo questo breve, ma intenso preambolo (v.23a), Paolo passa al racconto dell'ultima cena, così come i Sinottici e in particolare Luca, molto più vicino a Paolo, ce lo hanno trasmesso. L'episodio viene collocato nella “notte in cui veniva consegnato”. Il contesto temporale è, dunque, “la notte”, che nelle visioni giovannea (Gv 13,27.30) e lucana (Lc 22,53b) è il tempo del potere delle tenebre, quello del tradimento e di satana, ma nel racconto della pasqua è il tempo della liberazione dalla schiavitù egiziana (Es 12,5-14.42-43), che prefigura la liberazione dalla schiavitù del peccato e il passaggio dalla morte alla vita. Significativo, poi, è qui il verbo greco “pared…deto” (paredídeto, veniva consegnato), posto all'imperfetto medio-passivo, che può significare sia “veniva consegnato” che “si consegnava”. Questa duplice valenza, semi passiva e riflessiva del verbo, sta ad indicare come l'essere consegnato era l'attuarsi di un proprio libero consegnarsi di Gesù, che si è lasciato consegnare in obbedienza al disegno salvifico del Padre (Fil 2,8) e quale suo dono di amore misericordioso all'umanità (Gv 3,16). Significativa in tal senso la risposta che il Gesù matteano dà a Pietro, intervenuto con la spada per impedire in qualche modo l'arresto di Gesù: “Pensi forse che io non possa pregare il Padre mio, che mi darebbe subito più di dodici legioni di angeli? Ma come allora si adempirebbero le Scritture, secondo le quali così deve avvenire?” (Mt 26,53-54). E così similmente dirà Gv 18,11: “Gesù allora disse a Pietro: <<Rimetti la tua spada nel fodero; non devo forse bere il calice che il Padre mi ha dato?>>”.

C'è, dunque un disegno da compiere, un progetto salvifico, che il Padre aveva pensato fin dall'eternità, ancor prima della creazione del mondo (Ef 1,4-7) e per questo questo Gesù è venuto: “Ora la mia anima è turbata. E che cosa dico? Padre salvami da quest'ora? Ma per questo venni, per quest'ora” (Gv 12,27), l'ora della glorificazione del Padre nel Figlio e del Figlio nel Padre (Gv 13,31-32). Un'ora, dunque, che costituisce il vertice di questo progetto salvifico, che passa attraverso la croce-risurrezione. Ed è proprio questo attuarsi, che qui viene raccontato e ritualizzato, perché questo disegno del Padre si compia pienamente, così come Egli lo ha pensato e ce lo ha donato, affinché il credente di ogni tempo ne partecipi, mangiando quel pane spezzato e bevendo quel vino versato, diventandone testimone con una vita che, a sua volta, si spezza per gli altri, divenendo per ciò stesso una vita salvifica.

I vv.24-25 si rifanno al rituale ebraico della celebrazione della pasqua, che funge da contesto all'ultima cena di Gesù. Ma qui Paolo, così come i Sinottici, mettono in rilievo il cambiamento del senso di quella pasqua ebraica e di quel pane spezzato, a cui Gesù associa il suo corpo spezzato sulla croce, dove quel “per voi” dice il senso finale di quel pane-corpo spezzati, che divengono dono di salvezza per il credente e dove quel “per voi” inserito in questo contesto di “ultima cena” diviene il vertice dell'intero progetto salvifico del Padre, pensato fin dall'eternità (Ef 1,4-7).

Similmente al pane-corpo spezzati sulla croce, anche il sangue, che da quel pane-corpo spezzati sgorga, assume una valenza salvifica, già in qualche modo preannunciata nelle Scritture, là, in quella notte di pasqua, dove gli ebrei segnarono gli stipiti delle loro abitazioni con il sangue dell'agnello (Es 12,7.13), figura di un altro agnello (Gv 1,29.36), che li ha preservati dalla morte dell'angelo sterminatore. Ma nel contempo, proprio attraverso quel sangue, Dio selezionò il suo popolo, con il quale, ai piedi del Sinai, fece la sua alleanza, che fu segnata dal sangue: “Allora Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: <<Ecco il sangue dell'alleanza, che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!>>” (Es 24,8). Un'alleanza che nelle parole di Ger 31,31-33 ne preannunciava un'altra, una nuova: “Ecco verranno giorni - dice il Signore - nei quali con la casa di Israele e con la casa di Giuda io concluderò una alleanza nuova. Non come l'alleanza che ho conclusa con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dal paese d'Egitto, una alleanza che essi hanno violato, benché io fossi loro Signore. Parola del Signore. Questa sarà l'alleanza che io concluderò con la casa di Israele dopo quei giorni, dice il Signore: Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo”.

Ed è questo sfondo scritturistico, che viene ripreso dalle parole di Gesù, che lasciano intendere come egli sia quella nuova alleanza nel sangue, prefigurata nelle Scritture: “Questo calice è la nuova alleanza n(el) mio sangue”. Una nuova alleanza, dunque, che si compie in modo unico, irripetibile e definitivo in Gesù, divenuto sacramento d'incontro tra Dio e l'uomo, e luogo di riconciliazione tra i due, dove le regole che normano tale alleanza è Gesù stesso, morto-risorto, divenuto Via, Verità e Vita, che conduce al Padre (Gv 14,6).

Un evento, dunque, unico e irripetibile, divenuto fonte di riscatto e di redenzione per l'intera umanità e che non poteva essere archiviato come un semplice ricordo di famiglia, che il tempo s'incaricava poi di relegare nell'oblio. Per questo, per ben due volte, Gesù, rivolto ai suoi, li esorta a fare questo “in memoria di me”. L'esortazione non è un semplice sollecito a non dimenticarsi di Gesù o di quello che egli sta facendo per loro, ma è molto, molto di più. Il fare memoria significa, attraverso le parole del racconto di cui si vuol fare memoria e la gestualità del rito, riattualizzare l'evento salvifico, che non significa un ripeterlo, ma un renderlo nuovamente presente con tutta la sua carica salvifica nell'oggi, quasi a creare una sorta di parentesi temporale, che sospende il passato attualizzando nel nostro oggi e nell'oggi di ogni tempo quel evento del passato, che si rende presente nel rito.

Se con i vv.23-25 Paolo ha ricordato ai Corinti il senso della Cena del Signore, ora con il v.26 ricorda il senso di questa Cena del Signore in rapporto alla loro vita: “Ogni volta, infatti, che mangiate questo pane e bevete il calice, annunciate la morte del Signore finché non venga”. Mangiare e bere significa introiettare, metabolizzare e fare proprio e, quindi, divenire quel pane-corpo spezzato e quel vino-sangue versato, diventando per ciò stesso testimoni di tale evento, che trasforma la vita del credente in una vita eucaristica, pane che si spezza per gli altri, che non dice soltanto “generosità”, ma l'attuarsi salvifico di quella morte-risurrezione nel vivere quotidiano del credente, che per ciò stesso diviene salvifico, poiché attua nella propria vita quel evento salvifico con cui è entrato in comunione, così che lo stesso Paolo esclamerà in Gal 2,20a: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”.

In questo contesto del mangiare e del bere il credente assimila in se stesso il Cristo crocifisso, così come il Cristo crocifisso assimila in se stesso il credente, sacramentandosi in esso, così che egli diviene testimone, chiamato ad annunciare con la propria vita “la morte del Signore”, che è morte al vecchio mondo, all'uomo vecchio, che è stato crocifisso con Cristo, ma che nel contempo diviene annuncio di risurrezione, che è vita nuova nel Risorto (Rm 6,2-8). Una vita, dunque, quella del credente, che è eucaristica e pasquale nel contempo, perché nel proprio vivere quotidiano egli è chiamato ad un continuo passaggio da morte a vita, dal vecchio modo di vivere ad un nuovo modo di vivere secondo la prospettiva e le logiche di Dio, trasformando in tal modo la propria vita in una perenne liturgia di lode e di ringraziamento al Padre, che nel Figlio ci ha fatti nuovamente suoi figli, così com'era nei primordi dell'umanità, allorché “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gen 1,31a). Una vita, quindi, che diviene celebrazione della morte e risurrezione del Signore, che avviene in una forte tensione escatologica: “finché non venga”, cioè finché l'intero progetto salvifico del Padre non si sarà compiuto definitivamente: ricondurre l'uomo e con lui l'intera creazione in seno a se stesso, così che “Quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia (nuovamente) tutto in tutti” (15,28). Sarà questo l'atto finale, che verrà sancito con la venuta escatologica del Signore, verso il quale il credente è in cammino, durante il quale la sua vita deve essere sempre illuminata e condizionata da questo Evento escatologico.

Esaminare il proprio atteggiamento nell'accostarsi alla Cena del Signore (vv.27-29)

In questo sacro contesto della Cena del Signore, la quale, al di là dello spazio e del tempo, viene attualizzata nell'oggi di ogni credente con la parola e il rito, è necessario che questi si interroghi sul suo rapporto esistenziale con tale Evento, che ha aspetti non solo personali, ma anche comunitari. Pertanto, questi deve esaminarsi non solo come egli si relazioni personalmente con se stesso, nel senso della sua rettitudine spirituale e morale, ma altresì come si posizioni nei confronti degli altri fratelli, con i quali è chiamato a condividere e diventare testimone di tale Evento, considerato che questo è celebrazione del pane-corpo che si spezza per tutti e del vino-sangue che è versato per tutti, punto, quindi, di convergenza e di comunione di tutti i fratelli, che di molti ne fa un solo corpo (10,16-17).

Fondamentale, dunque, è questo aspetto dell'esaminarsi, come suggerisce la struttura di questa pericope, che vede i vv.27.29 enunciare, da un lato, l'accusa di colpevolezza: “sarà colpevole del corpo e del sangue del Signore” (v.27); dall'altro, la sentenza di condanna: “mangia e beve (la) condanna per se stesso” (v.29). Centralmente, la posizione più importante secondo la logica della retorica ebraica, l'esortazione: “(L')uomo esamini se stesso e così mangi dal pane e beva dal calice” (v.28). Si noti come qui non si dice “mangi del pane e beva del calice”, ma mangi “dal” pane e “dal calice”, dove quel “dal” (™k, ek) dice l'unica fonte da cui tutti attingono quel comune pane e comune vino, da cui si origina l'unità e la comunione dell'intera comunità, che dai quali trae anche la propria identità.

Il v.27 si apre con una congiunzione consecutiva “Così che” (“Wste, Óste), che si aggancia alla pericope immediatamente precedente, vv.23-26, e ne tra le conclusioni dove rilevante e determinante è quel “indegnamente”, che rende colpevole il credente nei confronti “del corpo e del sangue del Signore”, dove la “colpa” consiste nell'aver assunto “indegnamente” il corpo e il sangue del Signore. Che cosa significhi quel “indegnamente”, che è tale da rendere colpevole e meritevole di condanna il credente, viene spiegato al v.29: si tratta del mangiare e del bere il corpo e il sangue del Signore “senza distinguere”, cioè senza riconoscerli come tali, senza rendersi conto di ciò che si mangia e si beve e quali siano le conseguenze di quel mangiare e di quel bere e che cosa implichi esistenzialmente questo per il credente, nei suoi rapporti con se stesso e con gli altri, vedendo nella Cena del Signore, inserita nel convivio di fraternità, soltanto un'occasione per ritrovarsi con gli amici e fare bisboccia. Ebbene, conclude Paolo, chi si comporta in tal modo “mangia e beve (la) condanna per se stesso”. In altri termini il corpo e il sangue del Signore non saranno per costui salvifici e sanificatori della sua fragilità, ma torneranno a sua condanna.

Significativo in tal senso è il racconto di Giovanni circa l'ultima cena di Gesù con i suoi, dove Gesù porse il pane intinto nel vino a Giuda (Gv 13,26b), che, mangiato quel boccone, satana entro in lui (Gv 13,27a), e subito uscì: ed era notte (Gv 13,30), dove quel “subito uscì” dice lo staccarsi di Giuda da Gesù e dai suoi, l'uscire dalla comunione di quella primitiva chiesa in nuce, che si stava lentamente consolidando attorno al corpo e al sangue di Gesù, così che per Giuda fu “notte”, che non specifica soltanto una frazione temporale di una giornata, ma nel doppio senso che talvolta assume il linguaggio giovanneo, dice come Giuda fu avvolto dalla notte del Male, che dimorava in lui; dice la sua nuova dimensione esistenziale: le tenebre, dove egli scomparirà (Gv 13,27a).

Creato, dunque, un pesante contesto di giudizio di condanna con i vv.27.29, Paolo, ora, con il v.28 esorta il credente ad esaminare attentamente se stesso prima di accostarsi al Corpo e al Sangue del Signore. Si noti come Paolo, parlando del credente, lo definisce qui “¥nqrwpoj” (ántzropos), che significa “uomo” in senso generico, senza una sua particolare connotazione personale e sociale; è quello che noi diremmo l'uomo della strada, ma che nel suo rapporto con Dio dice tutta la sua fragilità e la sua povertà, tutta la distanza che intercorre tra Dio e lui. Ed è a questo “uomo”, fragile e peccatore, che Paolo si rivolge, esortandolo a prendere coscienza della sua fragilità e della sua povertà esistenziali nonché spirituali e morali, valutando attentamente la sua posizione personale nei confronti di questo Pane e di questo Vino, per non incorre in una condanna, che è insita nello stesso Pane e nello stesso Vino, qualora non si renda conto di ciò a cui si accosta e a cui accede.

Riflessione ed esortazione finali (vv.30-34)

Paolo, dunque, è giunto a conclusione di questa densa e pesante riflessione-denuncia sul comportamento dei Corinti nei confronti della Cena del Signore, che essi dissacrano in modo blasfemo con il loro parteciparvi in modo gaudente e spensierato, umiliando i fratelli meno abbienti, così che anche la conclusione riflette questa pesantezza: “Per questo tra di voi (ci sono) molti deboli e malati e molti dormono (il sonno della morte)” (v.30). In un mondo, quello antico, dove si era propensi a leggere teologicamente la storia, stabilendo uno stretto nesso tra gli eventi della storia e gli interventi divini in essa53, Paolo vede qui, nel precario stato di salute dei Corinti, il segno della punizione divina per il loro sconsiderato comportamento profanatore. Così che per evitare il giudizio di condanna del Signore, la cui durezza è finalizzata a raddrizzare le storture dei Corinti, è bene che questi, prima di accostarsi alla Cena del Signore (v,31), si esaminino attentamente, per evitare, lasciandosi trasportare dalle logiche del mondo, non ne subiscano l'influenza, così che la venuta del Signore, nel giudicarli, non li associ a questo nel suo giudizio di condanna.

Quale sia il comportamento, su cui i Corinti sono chiamati a riflettere e che devono evitare, viene detto al v.33: “Così, che, fratelli miei, allorché (vi) radunate per mangiare, aspettatevi gli uni e gli altri”. In altri termini, questi convivi sacri, al cui interno si colloca la Cena del Signore, non devono trasformarsi in luoghi di gozzoviglie e bisbocce, consumate tra i ricchi e a danno dei poveri, ma luoghi di ritrovo fraterno e di comunione fraterna. Una cena, dunque, che deve preparare psicologicamente e spiritualmente a quell'altra Cena, quella del Signore, che si fa pane che si spezza per tutti e vino che viene versato per tutti e da cui tutti attingono formando un unico corpo nel Signore, un tema quest'ultimo che già aveva affrontato in 10,16-17 e sarà oggetto di ulteriore e più ampia riflessione nel successivo cap.12 (vv.12-31), dando a vedere la preoccupazione di Paolo per le divisioni nella comunità di Corinto.

Una diversa comprensione di questo convivio sacro, in quanto preparatore alla Cena del Signore, diventa sacrilego, tornando a condanna dei Corinti. Non si tratta, dunque, di un convivio dove soddisfare i propri appetiti, che, conclude Paolo, è meglio che vengano soddisfatti a casa vostra.

La pericope si chiude con Paolo che allude alle altre cose che i Corinti devono avergli scritto (7,1), le quali si riserva di trattarle successivamente, in presenza. In questa lettera si limita alle cose più urgenti ed essenziali.

I carismi, doni dello Spirito per la crescita della comunità in Cristo (capp.12.14)

Testo a lettura facilitata

Preambolo introduttivo (vv.1-3)

1- Quanto alle cose spirituali, fratelli, non voglio che voi siate nell'ignoranza.
2- Sapete che quando eravate genti vi lasciavate condurre verso idoli muti, come foste condotti.
3- Perciò vi dichiaro che nessuno, che parli n(ello) Spirito di Dio, dice: <<Gesù (è) anatema>>, e nessuno può dire: << Gesù (è) Signore>> se non (n)ello Spirito Santo.

La fonte dei doni spirituali (vv.4-6)

4- Vi sono diversità di carismi, ma uno è lo Spirito;
5- e vi sono diversità di ministeri, e lo stesso Signore;
6- e vi sono diversità di attività, ma lo stesso Dio, che opera tutte le cose in tutti.

La finalità di questi doni (v.7)

7- A ciascuno viene data la manifestazione dello Spirito per il vantaggio (di tutti).

Elencazione esemplificativa dei doni dello Spirito (vv.8-10)

8- (C'è) a chi, infatti, viene data per mezzo dello Spirito una parola di sapienza, ad un altro, invece, una parola di conoscenza secondo lo stesso Spirito,
9- ad un altro, invece, n(ello) stesso Spirito, (la) fede, ad un altro i carismi (delle) guarigioni n(ell')unico Spirito,
10- ad un altro, invece, attività di miracoli, ad un altro (la) profezia, ad un altro (le) distinzioni (degli) spiriti, ad un altro (diversi) generi di lingue, ad un altro l'interpretazione d(elle) lingue;

Ripresa dei vv.4-7: molteplici i doni, ma unica è la Fonte, preambolo alla sezione vv.12-31 (v,11)

11- tutte queste cose (le) opera l'unico e medesimo Spirito, suddividendo(le) in particolare a ciascuno come vuole.

Il motivo per cui si è un unico corpo: preambolo alla metafora del corpo (vv.12-13)

12- Come, infatti, il corpo è uno e ha molte membra, ma tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo (solo), così anche Cristo;
13- E, infatti, noi siamo stati battezzati in un unico Spirito per (formare) un unico corpo, sia Giudei, sia Greci, sia schiavi sia liberi, e tutti fummo abbeverati con un unico Spirito.

La metafora del corpo: molte le membra, ma unico il corpo (vv.14-2'0)

14- E, infatti, il corpo non è un solo membro, ma molte (membra).
15- Se, infatti, il piede dicesse: <<Poiché non sono una mano, non sono (parte) del corpo>>, non per questo non è (parte) del corpo;
16- e se qualora l'orecchio dicesse: <<Poiché non sono un occhio, non sono (parte) del corpo>>, non per questo non è (parte) del corpo.
17- Ma se tutto il corpo (fosse) occhio, dove (sarebbe) l'udito? Se (fosse) tutto udito, dove sarebbe l'olfatto?
18- Ora Dio ha posto le membra, ciascuna di esse nel corpo in modo unico, come ha voluto.
19- Ma se tutte (le membra) fossero un (solo) membro, dov'(è) il corpo?
20- Ora, invece, molte (sono le) membra, ma uno (è il) corpo.

Comunione e collaborazione tra le diverse membra dell'unico corpo (vv.21-26)

21- Non può l'occhio dire alla mano: <<Non ho bisogno di te>>; o, ancora, la testa (dire) ai piedi: <<Non ho bisogno di voi>>;
22- Ma molto di più le membra del corpo che sembrano essere più deboli, sono (quelle) necessarie,
23- e quelle (membra) che riteniamo siano le più disonorevoli del corpo, diamo a queste una considerazione più grande; e quelle nostre (membra), che sono indecorose, hanno un maggior decoro,
24- ma quelle nostre (membra) che hanno dignità, non (ne) hanno bisogno. Ma Dio congiunse il corpo a ciò che è privo (di decoro), dando una maggiore onorabilità,
25- affinché non ci fossero divisioni nel corpo, ma le membra avessero la stessa sollecitudine le une e le altre.
26- E se soffre un membro, soffrono anche tutte (le altre) membra; se un membro è onorato, gioiscono anche tutte (le altre) membra.

Applicazione della metafora alla comunità di Corinto (vv.27-31)

27- Ora, voi siete corpo di Cristo e (sue) membra per (la vostra) parte.
28- E Dio pose nella chiesa alcuni, in primo luogo (gli) apostoli, in secondo luogo (i) profeti, in terzo luogo i maestri, poi i miracoli; poi (i) doni (delle) guarigioni, (i) sostegni, (i) governi, (ogni) genere di lingue.
29- Sono forse tutti apostoli? Tutti profeti? Tutti maestri? Tutti (operano) miracoli?
30- Hanno tutti (i) doni (delle) guarigioni? Tutti parlano lingue? Tutti (le) interpretano?
31- Desiderate ardentemente i carismi più grandi. E di più vi mostro in modo sovrabbondante una via.


Note generali

Una comunità molto vivace e irrequieta quella di Corinto, segnata da forti contrasti sociali e liberi modi di pensare e di esprimerli, che caratterizzavano e condizionavano il suo modo di vivere, creando divisioni, contrapponendo tra loro gruppi di persone che si riconoscevano, alla maniera delle scuole di pensiero greche, negli esponenti di pensiero religioso, come Paolo, Apollo, Pietro e lo stesso Cristo; una chiesa dove i costumi sessuali erano piuttosto liberi e disinvolti e non mancavano quelli, che in nome di una propria libertà di vita e di una presunta maturità spirituale frequentavano ancora le mense dei templi pagani, consumando le carni offerte agli idoli; né le donne si facevano molti scrupoli di presenziare nelle assemblee liturgiche a capo scoperto per farsi ammirare; e non mancavano neppure le liti personali tra membri credenti, che finivano davanti ai tribunali pagani, mentre la celebrazione della Cena del Signore era l'occasione per ritrovarsi in modo goliardico tra amici dello stesso rango per fare solenni bisbocce. Ma era altresì una comunità che Paolo loda perché fedele ai suoi insegnamenti e alla Tradizione (11,2) e che lo stesso papa Clemente I (88-97 d.C.), nella sua lettera, elogia per le sue virtù e la sua fede e fedeltà, ma nel contempo rimprovera per le sue intemperanze.

Una comunità, quindi, con i suoi chiaroscuri, come altre comunità credenti dell'epoca. Tra questi chiari ed anche scuri vi erano i carismi, cioè doni dello Spirito, di cui molti Corinti si sentivano investiti, ma che non usavano nel migliore dei modi, divenendo questi carismi fonte di disturbo, di divisioni e contrasti all'interno della comunità credente, manifestandosi nelle assemblee in modo disordinato (14,26), così che Paolo interviene con i capp.12.14 per mettere ordine e far comprendere come questi doni dello Spirito sono dati a ciascuno a vantaggio di tutti (12,7) e come questi carismi hanno un'unica fonte: lo Spirito (12,4-6), che li dona a chi vuole e come vuole (12,11), per una crescita ordinata, umana e spirituale, della comunità in Cristo e che la loro finalità è creare unità, collaborazione e comunione all'interno della chiesa.

La dinamica, poi, di questi carismi e degli spirituali, che li posseggono, nel loro relazionarsi e manifestarsi all'interno della comunità, è messa in evidenza con la metafora del corpo e delle membra (12,12-26), dove le molte membra fanno parte dell'unico corpo e tutte sono interconnesse tra loro, soffrendo o gioendo tutte per le sofferenze o la salute delle singole membra e tutte le membra sono al servizio dell'unico corpo, che esse stesse formano ed alimentano in modo ordinato e coordinato in una perfetta comunione di intenti con l'unico corpo, in un rapporto armonico con le altre membra.

Quanto alla macrostruttura, il cap.12 si suddivide in due parti: la prima, vv.1-11, potremmo definirla come un piccolo trattato sui carismi, una sorta di sintetico vademecum del credente, perché sappia valutare e orientarsi all'interno delle manifestazioni dei dono spirituali.

Innanzitutto, attesta Paolo:

  1. un primo distinguo: guardare attentamente al contenuto di ciò che viene proclamato: nessuno, infatti, che sia investito dallo Spirito può offendere Gesù e neppure è in grado di parlare bene di lui, se non è mosso dallo Spirito (v.3), quindi, chi parla bene di Gesù è mosso dallo Spirito e da lui ispirato;

  2. la fonte di tutti i doni spirituali, poi, tra i quali Paolo ricomprende i diversi ministeri e le diverse attività intracomunitarie, che strutturano e animano la comunità, pur nella loro pluralità, è sempre unica: Dio, che opera in tutti e guida la sua chiesa attraverso i suoi ministri, che continuano l'opera di suo Figlio, e la vivifica e la sostiene attraverso le varie attività, che lo Spirito ispira ai vari membri della comunità per il bene della stessa (vv.4-6);

  3. tutti i doni dello Spirito, quindi, sono finalizzati per il bene di tutti e la crescita ordinata dell'intera comunità in Cristo (v.7);

  4. Quali siano questi doni, viene detto ai vv.8-10, in cui l'elencazione non è esaustiva, ma esemplificativa, probabilmente con richiamo a quelli che avvenivano all'interno della comunità stessa: la sapienza, la conoscenza, una fede profonda, la capacità di guarire, il compiere miracoli, il profetare, il saper discernere gli spiriti che muovono gli uomini, il saper parlare lingue misteriose e il saperle interpretare (vv.8-10);

  5. tutto questo fermento spirituale è opera, dunque, dell'unico Spirito, che distribuisce liberamente i suoi doni, attraverso i quali egli opera, a chi vuole, secondo le capacità di ciascuno e gli intenti dello stesso Spirito (v.11).

La seconda parte del cap.12, vv.12-31, è tutta dedicata ad una metafora, quella delle membra e del corpo, finalizzata a sottolineare come il corpo è formato da tutte le sue membra e come queste, soltanto nel loro armonico muoversi ed operare, costituiscono un corpo sano e vigoroso; e ognuna di queste membra deve avere la coscienza del proprio ruolo all'interno del corpo. Metafora, questa, che tende a sottolineare l'unità nella pluralità e la collaborazione e comunione tra tutti i membri che compongono il corpo-comunità, per il suo ordinato ed armonico vivere e crescere in Cristo.

Entrambe le parti, qui sopra descritte, si suddividono strutturalmente, a loro volta, in 9 parti, che qui di seguito propongo e che forma lo schema del mio commento:

Prima parte (vv.1-11)

  1. Preambolo introduttivo (vv.1-3);

  2. La Fonte dei doni spirituali (vv.4-6);

  3. La finalità di questi doni (v.7);

  4. Elencazione esemplificativa dei doni dello Spirito (vv.8-10);

  5. Ripresa dei vv.4-6: molteplici i doni, ma unica è la Fonte, preambolo alla sezione vv.12-31 (v,11);

Seconda parte (12-31)

  1. Il motivo per cui si è un unico corpo (vv.12-13);

  2. La metafora del corpo: molte le membra, ma unico il corpo (vv.14-2'0);

  3. Comunione e collaborazione tra le diverse membra dell'unico corpo (vv.21-26);

  4. Applicazione della metafora alla comunità di Corinto (vv.27-31).


Commento ai vv.1-31

Preambolo introduttivo (vv.1-3)

Il cap.12 si apre con l'espressione “Perˆ de tîn pneumatikîn” (Perì dè tôn pneumatikôn, quanto alle cose spirituali), dove quel “Perˆ de” (Perì dè, Quanto a) si richiama agli argomenti di cui i Corinti avevano scritto nella loro lettera inviata a Paolo (7,1), con la quale chiedevano delle delucidazioni in merito a delle questioni sorte all'interno della comunità. Tra queste doveva esserci anche quella riguardante a degli strani fenomeni che investivano alcune persone all'interno della comunità e da questi erano turbati e disorientati.

Non è chiaro a cosa si riferisca quel “tîn pneumatikîn” (tôn pneumatikôn), poiché il genere del termine greco è parimenti maschile, femminile e neutro. È intuibile, tuttavia, da quanto segue, che si tratti di doni spirituali (vv,4-10), a cui si associano anche i ministeri e attività varie (vv.5-6), quali azioni dello Spirito. Ma non è da escludersi che il termine riguardi anche le persone, membri della comunità credente di Corinto, alle quali ci si riferisce con il v.7.11b (“a ciascuno”) e ai successivi vv.8-10 con l'espressione più volte ripetuta “un altro”. In tal caso ci si troverebbe di fronte a degli “spirituali”, termine questo che, riferito alle persone, ricorre anche in 3,1. Si tratta, qui, di persone che sono state investite dallo Spirito di particolari carismi da spendersi in mezzo alla comunità credente e a suo favore, per una sua ordinata crescita spirituale in Cristo. Per questo ho tradotto: “quanto alle cose spirituali”, cioè a quegli eventi particolari, riconducibili allo Spirito e che avvenivano in mezzo alla comunità ad opera di persone carismatiche. Il sostantivo “cose”, infatti, anche se non molto elegante, abbraccia una quantità di eventi, situazioni e persone, che hanno a che fare con lo Spirito. Quel “tîn pneumatikîn” (tôn pneumatikôn), pertanto, doveva riferirsi a questa situazione, che si era verificata all'interno della comunità.

Situazione questa, sulla quale Paolo vuole fare chiarezza: “non voglio che voi siate nell'ignoranza”. Cosa intendeva Paolo con questa espressione? Che cosa i Corinti ignoravano? Il riferimento, probabilmente, riguardava questi eventi strani, che si manifestavano in alcuni fratelli o sorelle, e che dovevano creare turbamento non solo in seno alla comunità, ma anche in chi veniva investito da questi fenomeni. Da dove provenivano? Come gestirli? Come riconoscerne l'autenticità? E in particolar modo, come affrontare il fenomeno della glossolalia, cioè il manifestarsi di lingue sconosciute ed emissioni di suoni incomprensibili e impressionanti, che Rm 8,26 definisce come “gemiti indicibili”? Quale attendibilità, poi, dare a quei personaggi che si ponevano come autentici interpreti della volontà di Dio, pretendendo di conoscerla (dono della profezia)?

Vi doveva essere smarrimento all'interno della comunità di Corinto di fronte a questi eventi sconosciuti, almeno nelle forme con cui si manifestavano.

Paolo, quindi, cerca con questi capp.12.14 di fare chiarezza e di dare alla chiesa in Corinto una sorta di breve vademecum, una piccola guida sul come comportarsi di fronte a questi fenomeni, togliendola, quindi, dalla sua “ignoranza”.

Con i vv.2-3 Paolo accentra l'attenzione dei Corinti sul contenuto di queste manifestazioni spirituali e lo fa mettendo a confronto e in contrapposizione la loro esperienza passata (v.2) con quella presente (v.3). Perno attorno al quale gira il confronto e qualificano le due esperienze sono le due espressioni “idoli muti” e “parlare nello Spirito”. Il periodo del paganesimo, qui definito come il tempo in cui “eravate genti”, era caratterizzato da un rivolgersi a degli idoli “muti”, perché inesistenti (8,4) e, quindi, incapaci di trasmettere qualsiasi messaggio divino. Lo aveva già ricordato anche il sal 114,4-854, a cui Paolo, con quel “muti”, probabilmente pensava: “Gli idoli delle genti sono argento e oro, opera delle mani dell'uomo. Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono, hanno narici e non odorano. Hanno mani e non palpano, hanno piedi e non camminano; dalla gola non emettono suoni. Sia come loro chi li fabbrica e chiunque in essi confida”.

Queste “divinità”, dunque, altro non erano che statue di materiale inerte, sia pur prezioso, ma “muti”, cioè incapaci di entrare in relazione con gli uomini, che li hanno costruiti a loro immagine e somiglianza; incapaci di trasmettere loro messaggi di speranza e di vita e privi di ogni potere salvifico. E così, parimenti, anche gli uomini erano “muti” nei loro confronti, perché il loro rapporto con queste divinità, di fatto, era inesistente, frutto soltanto di loro fantasie.

Questa era, dunque, la condizione esistenziale dei Corinti prima di incontrare la Parola viva ed efficace (Eb 4,12a) del Vangelo e fare con questa l'esperienza dello Spirito, che viene evidenziata con il v.3, con cui si esorta i Corinti a valutare attentamente il contenuto di queste manifestazioni, che sono operate dallo Spirito, che qui è presentato nella sua forma attiva e capace di entrare in relazione alle persone, delle quali si serve per trasmettere i suoi messaggi divini, così da creare una relazione tra i credenti e Dio stesso, che nello Spirito e per suo mezzo forma la comunità credente, la fa crescere nella propria Vita e in essa dimora con la sua Parola, pregna di questo Spirito che alla comunità parla.

I segni distintivi della veridicità di queste manifestazioni spirituali è la conformità del loro contenuto alla dottrina e alla teologia, che si andavano lentamente formando nella chiesa primitiva e che qui vengono sinteticamente espresse con due formule diametralmente contrapposte: “Gesù (è) anatema” e “Gesù (è) Signore”, formula di fede quest'ultima molto intensa e la più breve dell'intero N.T., che Paolo richiamerà anche in Rm 10,9. In entrambi i casi si può riconoscere se lì vi è azione o meno dello Spirito, che non spingerà mai il credente a bestemmiare il nome di Gesù; né alcun credente può riconoscere la signoria del Risorto se non è lo Spirito che glielo rivela e lo spinge a testimoniarlo nel modo che gli viene suggerito in quel momento.

Uno Spirito, dunque, ben diverso dagli “idoli muti” che avevano conosciuto i Corinti, poiché questo Spirito non solo è capace di entrare in relazione con tutte le cose e tutte le persone e in particolar modo con i credenti, ma Egli è colui che muove tutte le cose, le anima e le orienta con la sua forza e la sua luce verso il Padre, di cui è Luce e Potenza, che investe credenti e non credenti, indicando nella persona di Gesù, il Risorto, la Via, la Verità e la Vita (Gv 14,6).

La Fonte dei doni spirituali (vv.4-6)

Dopo aver richiamato l'attenzione dei Corinti sul contenuto dei carismi e delle loro manifestazioni, per discernere ciò che è attendibile o meno, in quanto conforme o meno alla dottrina della chiesa nascente, Paolo, ora, mette a fuoco la loro Fonte, da dove provengono tali fenomeni.

In realtà, in questi tre brevi quanto densi versetti, non si considerano solo i carismi (v.4), riferibili soltanto a poche persone, ma a questi si associano anche i ministeri, che formano la struttura e l'impianto storico-spirituale di ogni comunità credente, consentendone un ordinato modo di vivere (v.5); a questi sono aggiunte anche le diverse attività, che animano la vita della comunità credente (v.6). Ne esce in tal modo un quadro completo di ciò che forma e costituisce la vita della Chiesa: i ministeri, le attività intracomunitarie comuni e, infine, quelle altre attività che potremmo definire “speciali”, i carismi, che sono di supporto vitale alla comunità stessa e senza le quali ne uscirebbe una comunità meramente umana, in quanto non guidata dal Soffio dello Spirito, che la sostiene e la conduce nel corso dei secoli verso la Verità tutta intera (Gv 16,13a).

Ministeri, attività e carismi, dunque, che danno, in particolar modo questi ultimi, alla comunità credente l'impronta stessa di Dio, configurandola a Lui, consentendone, in essa, la sua dimora, così che la Chiesa divenga il Dio in mezzo agli uomini, continuando in mezzo ad essi la sua opera salvifica. Vine sottolineato, poi, con il termine “diversità di”, più volte ripetuto, come questi doni siano molteplici e diversi gli uni dagli altri, mettendo in tal modo in evidenza l'abbondanza della Vita divina, che confluisce verso ogni singolo credente e nella Chiesa stessa.

Significativa poi è la citazione delle singole Fonti, definite per la loro funzione e poste in un ordine che rispecchia in qualche modo quello della creazione, dove compare per primo lo Spirito di Dio che aleggiava sulle acque (Gen 1,2c), fatto seguire, poi dalla Parola creatrice (Gen 1,3: “disse”), che produce ciò che essa dice, per giungere, infine, a Dio, cioè al Padre, che è Fonte prima e unica che opera per mezzo della Potenza vivificante del suo Spirito, dando consistenza al suo progetto di salvezza per mezzo di suo Figlio, sua Parola creatrice, perché tutto ritorni a Lui (15,28), Fonte del Primo Amore, così com'era nei primordi della creazione e dell'umanità, allorché “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gen 1,31a).

Significativo, poi, è l'accoppiamento delle Fonti alle loro specifiche funzioni. Lo Spirito è associato ai “carismi”, il cui compito è plasmare la comunità, rendendola conforme alla Volontà del Padre e di continuo rigenerandola spiritualmente, illuminandola e sostenendola nel suo cammino verso il Padre, la Verità prima ed ultima nonché definitiva, da cui tutto proviene e in cui tutto si ricompone. Il Signore, poi, è associato ai ministeri. Con il nome “Signore” si fa riferimento al Risorto, indicando in lui la signoria sovrana e universale su tutte le cose, che in lui sono ricostituite (Ef 1,10), ma il cui potere è quello di dare loro forma e consistenza (Gen1,3-31; Gv 1,3) e di aggregarle in lui, per ricondurle poi tutte al Padre (15,27a.28). Da qui i “ministeri”, la cui funzione è quella di dare struttura e forma storiche alla comunità credente, continuando in essa l'azione salvifica del Risorto, rendendosi, in tal modo, visibile e raggiungibile da tutti gli uomini di ogni luogo e di ogni tempo. Ed infine Dio, nome con cui nel N.T. viene indicato il Padre, che è il Principio e il Motore di ogni progetto di Vita, dal quale tutto discende e prende forma nel Figlio ed è plasmato conformemente alla sua Volontà per mezzo dello Spirito, che permea tutto della Vita stessa del Padre. Non a caso, infatti, la Bibbia inizia con l'espressione “In principio Dio creò il cielo e la terra” (Gen 1,1). “In principio Dio”, dunque, da cui cielo e terra, cioè tutto discende.

La finalità di questi doni (v.7)

Il v.7 funge da preambolo introduttivo alla successiva pericope, vv.8-10, e vengono specificati i destinatari di tali carismi, il motivo per cui vengono dati nonché la loro finalità: “A ciascuno viene data la manifestazione dello Spirito per il vantaggio (di tutti)”. “A ciascuno”, cioè ad ogni membro della comunità credente, ma anche ad ogni singola persona, credente o meno, viene dato un carisma, un particolare dono attraverso il quale opera lo Spirito di Dio. Quel “a ciascuno” dice l'attenzione dello Spirito per ogni essere vivente, la cui esistenza non è mai casuale e il cui senso, il senso del suo esserci, è racchiuso nel grande progetto della della salvezza e della creazione, del quale è il primo atto rivelativo. Viene dato indistintamente “a ciascuno”, il che equivale a dire “a tutti”.

Ciò che viene dato è la “manifestazione” di questo dono, come dire che ogni credente e ogni persona è chiamata a “manifestare”, cioè ad usare tale dono, di cui è assegnatario e depositario, mettendo a frutto le sue capacità e le sue peculiarità, poiché proprio attraverso queste Dio opera, plasmando attraverso questi doni spirituali la creazione e con essa l'intera umanità, così che ogni credente e ogni persona divengono collaboratori di Dio, secondo il progetto originario della creazione (Gen 2,15). Sono doni, infatti, che vengono elargiti per il bene di tutti. Solo il disordine seguito successivamente all'ordine primordiale, allorché l'uomo volle prendere il posto di Dio (Gen 3,4-6), ha fatto sì che tali doni per gli altri fossero spesi egoisticamente per se stessi e a spese degli altri, ritrovandosi tra le mani soltanto sofferenza e morte (Gen 3,16-24).

Ed è compito dello Spirito e della Parola rieducare l'uomo a collaborare con Dio, indicandogli la strada del ritorno (Gv 14,5-6).

Elencazione esemplificativa dei doni dello Spirito (vv.8-10)

I vv.8-10 elencano nove doni dello Spirito, che non sembrano elencati casualmente, ma sono tra loro aggregabili in tre gruppi, che si qualificano per il contenuto, le modalità di espressione dei carisma e la loro finalità. Il primo gruppo (v.8) è formato dal nucleo “sapienza e conoscenza” con cui si indica, da un lato, l'elaborazione del pensiero di Dio e del suo Mistero (teologia); dall'altro le modalità di accesso a tale pensiero, che viene spezzettato, perché l'intero popolo di Dio vi possa accedervi (catechesi). Si parla, infatti, di “parola” di sapienza e di conoscenza. Il termine “lÒgoj” (lógos), infatti, è stato qui tradotto con “parola”, ma ha parimenti significato di “discorso, ragionamento”, esprimendo in tal modo la dinamica della parola, che supporta e manifesta il pensiero.

Il secondo gruppo (vv.9-10a) è formato da tre carismi: la fede, le guarigioni e i miracoli, che indicano le azioni e le manifestazioni della fede stessa, alla quale essi sono legati e ne sono espressione.

Il terzo gruppo (vv.10b) è caratterizzato da quattro carismi che hanno in comune tra loro il manifestare attraverso la parola il pensiero e la volontà di Dio, quali la profezia, la distinzione degli spiriti, che formano da garanzia alla profezia, sottoposta a verifica per la sua attendibilità; la glossolalia con cui Dio parla individualmente, diversamente dalla profezia con la quale parla, invece, alla comunità credente, alla quale viene associato il carisma dell'interpretazione della glossolalia, per renderla così accessibile all'intera comunità.

Questo terzo gruppo sembra essere quello più diffuso presso la comunità di Corinto, considerato che Paolo proprio su questo si soffermerà, dedicandogli l'intero cap.14.

Sono carismi, come si può notare, la cui essenza e le cui finalità nulla hanno a che vedere con la dimensione di questo mondo, ma con il manifestare le realtà del mondo di Dio, di cui lo Spirito conosce le profondità (2,10.11b); realtà spirituali, dunque, che consentono all'uomo di accedervi e di farne esperienza tramite questi doni (2,9). La lista non è certo esaustiva, ma puramente indicativa e, probabilmente, riguarda le manifestazioni di quei fenomeni che avvenivano all'interno della comunità di Corinto e di cui i Corinti devono averne parlato nella lettera inviata a Paolo (7,1).

I primi due doni sono “una parola di sapienza” e “una parola di conoscenza”. Entrambi i doni sono accomunati e legati tra loro dal termine “parola”, che ha a che fare con la manifestazione e la rivelazione del pensiero e di ciò che è segretamente intimo e diversamente non raggiungibile. Si noti, poi, come il termine “parola” è riferito alla “sapienza” e alla “conoscenza” con un articolo indeterminativo (“una”) e una preposizione semplice (“di”) e, quindi, in modo indefinito. Si parla infatti di “una parola di”, che viene qualificata in tal modo nella sua sostanza e nella sua finalità dai termini attributivi “sapienza” e “conoscenza”, così che essa è parola carica di sapienza e di conoscenza e ne diviene espressione rivelativa; ma nel contempo dice anche come questa “parola”, collocata in modo così indefinito sulle labbra di una persona, che la possiede in quel momento, non le appartiene in modo definitivo, ma occasionale, così che lo Spirito, nel suo esprimersi e nel suo manifestarsi, è come “Il vento, che soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito” (Gv 3,8), affermando in tal modo la sua piena libertà di azione, che non è limitata dalla titolarità di qualcuno, poiché nessuno ha il monopolio dello Spirito. In tal senso At 10,45 ricorda l'episodio di pagani, che nel mentre stavano ascoltando la predicazione di Pietro, furono investiti, tra lo stupore dei giudeocristiani, dallo Spirito Santo, ancor prima di ricevere il battesimo: “E i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si meravigliavano che anche sopra i pagani si effondesse il dono dello Spirito Santo”. E similmente Is 44,28 e 45,1 ricordano come il pagano Ciro, re di Persia, viene definito da Dio come “il mio Pastore” e “il mio Eletto”, strumento di cui Dio si serve per riportare in patria gli esiliati della Giudea, indipendentemente dal fatti che fosse pagano, poiché Dio si serve di chiunque Egli ritenga opportuno servirsi per realizzare il suo disegno di salvezza. Dunque, ora l'uno, ora l'altro, poiché nessuno possiede Dio, ma è Dio che possiede tutto.

Si tratta, quindi, di doni non permanenti, ma occasionali, che si insinuano nella persona a seconda del momento e della situazione, che formano il contesto favorevole per lo Spirito di esprimersi e di operare in quel contesto in quel momento. Essi, per contro, sono contrapposti ai “ministeri” (v.5), che, invece, sono strettamente legati alla persona, che ne ha titolo, poiché questi hanno a che vedere con la struttura e la sopravvivenza della comunità credente.

In quanto riferiti all'uomo, la “parola di sapienza” può essere paragonata alla riflessione teologica, con la quale si accede al Mistero di Dio; mentre la “parola di conoscenza” ha in qualche modo a che vedere con la catechesi, che nutre il credente spezzando il pane della teologia.

Si tratta di una parola di “sapienza” e di “conoscenza”. Il rapporto tra i due termini è pari a quello che intercorre tra l'elaborazione di un progetto, in questo caso progetto di salvezza elaborato nel Mistero di Dio, non solo in senso generale, ma anche individuale (2,7; Rm 11,33-34), e la sua conoscenza, che ha a che vedere con la penetrazione di tale Mistero e la conseguente sua rivelazione. Sapienza e conoscenza, quindi, non sono due sinonimi, ma la prima, concepita nel Mistero di Dio, esprime il modo di pensare e di operare di Dio e trova il suo svelamento e il suo donarsi salvifico all'uomo nella conoscenza, che è lo strumento proprio dell'uomo per accedere alla sapienza. Significativo in tal senso è Ef 1,17 che attesta: “affinché il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza di lui”, dove la sapienza è strettamente correlata alla rivelazione, che si attua nella conoscenza.

Che cosa sia la “sapienza” per Paolo ci viene suggerito da Rm 11,33-34 e 1Cor 1,23-24; 2,6-13.

Quanto a Rm 11,33-34, si tratta di due versetti che si pongono a conclusione di un lungo ragionamento, che Paolo ha elaborato con grande sofferenza (Rm 9,2-3) nei precedenti capp.9,1-11,32, dove egli, alla fine, comprende il misterioso e imperscrutabile pensiero di Dio, che con la sua sapienza, cioè con la ricchezza e la profondità dell'elaborazione del suo pensiero, ha fatto sì che il rifiuto di Israele non fermasse il suo progetto di salvezza universale, ma che questo, proprio grazie a tale rifiuto, venisse stornato ed esteso all'intera umanità (Rm 11,11-12.15), bypassando in tal modo Israele, che doveva essere, originariamente, il depositario e il diffusore di tale progetto in mezzo agli uomini, ma affidato ora al Proprio Figlio incarnato-morto-risorto e alla sua Chiesa, il nuovo Israele. Da qui l'esclamazione liberatoria, che forma l'oggetto della dossologia conclusiva dei tre capp.9-11, un vero e proprio inno alla Sapienza di Dio: “O profondità (della) ricchezza e (della) sapienza e (della) scienza di Dio! Quanto imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie. Chi, infatti, ha conosciuto il pensiero del Signore? O chi è stato suo consigliere?”.

Diverso e complementare nel contempo è il concetto di “sapienza” per 1Cor 1,23-24; 2,6-13, che si distingue e si contrappone a quella umana, effimera e inficiata dalla precarietà dell'esistenza stessa dell'uomo, il cui spazio vitale il Salmista paragona a quello dell'erba del campo che “germoglia al mattino: al mattino fiorisce, germoglia, alla sera è falciata e dissecca” (Sal 89,5b-6). Per Paolo, invece, la Sapienza di Dio è il Cristo Crocifisso, scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani, perché essi, muovendosi su piani diversi e contrapposti a quelli di Dio, non hanno compreso come in quel Cristo crocifisso Dio ha racchiuso l'intera umanità (Rm 6,3-7; Gv 12,32) e con essa l'intera creazione, per un principio di solidarietà che lega i due in un unico e comune destino55, così che con la morte di Cristo Dio ha posto fine alla prima creazione, pregiudicata dal peccato (Gen 3,16-24), associandola a lui nella sua incarnazione e nella sua morte (Gv 12,32), e inaugurandone una nuova nel Risorto. Ad una simile Sapienza “che è stata avvolta nel mistero, che Dio prestabilì prima dei secoli per la nostra gloria” (2,7; Ef 4,1), hanno accesso soltanto i credenti, ai quali essa è rivelata per mezzo dello Spirito.

In buona sostanza per Paolo la Sapienza di Dio altro non è che l'elaborazione di un piano di salvezza, il cui fine è recuperare l'uomo e la creazione a Dio stesso, al quale essi appartengono, così com'era nei primordi dell'umanità, affinché Dio sia nuovamente tutto in tutti (15,28). E tutto ciò è avvenuto per il tramite del suo Figlio, il Cristo crocifisso, ancor prima della creazione del mondo (2,7; Ef 1,4-7).

Una Sapienza, quella divina, frutto del pensiero-azione di Dio, che viene offerta all'uomo tramite la conoscenza, che apre l'accesso al Mistero di Dio per mezzo dello Spirito, che conduce il credente alla Verità tutta intera (Gv 16,13).

Quanto al dono della fede (v.9a), questa ha da intendersi non come fede comune a tutti, poiché Dio non può darla ad uno e non all'altro, nel quale caso predeterminerebbe la salvezza o la dannazione delle persone. Questo tipo di fede comune, nata dall'ascolto accogliente della Parola, è offerta e proposta a tutti. Qui, invece, si parla di una fede straordinaria, capace di esprimersi in modo miracolistico e strepitoso, come quello del “trasportare le montagne”, ricordato, come paradosso, dallo stesso Paolo in 13,2.

Quanto ai “carismi delle guarigioni” (v.9b), questi non vanno intesi quali “potere di guarire le persone”. Il termine “carisma”, infatti, significa “dono divino, grazia” ed essendo posti al plurale, indica una molteplicità di grazie che vanno a beneficio dei malati; mentre il termine “guarigione” ha un senso passivo e non attivo, indicando l'effetto del “dono”. Si tratta, quindi, di persone in grado, per la loro fede profonda, di ottenere il “dono della guarigione” non tanto per se stesse, ma per gli altri. È significativo, infatti, come questo tipo di carismi vengano elencati subito dopo quello della fede, quasi a volerne stabilire un nesso diretto.

Quanto alle “attività di miracoli”, in quanto “attività”, queste comprendono diverse manifestazioni portentose e straordinarie come possono essere le pratiche esorcistiche o vere e proprie azioni taumaturgiche (Rm 15,18-19a; At 5,12; 19,11). Anche questa tipologia di carismi, legata in qualche modo a quella precedente, è come quella posta subito dopo il carisma della fede ed ha a che vedere con questa. Sono carismi, quindi, che hanno come fondamento una fede straordinaria.

Quanto al carisma della profezia, questa si configura come una parola ispirata il cui senso e la cui finalità verranno precisata in 14,3: “Ma colui che profetizza parla agli uomini (per l')edificazione e (l')esortazione e (l')incoraggiamento”. Il profeta era colui che, ispirato, parlava in nome e per conto di Dio, riprendendo, rimproverando, minacciando per raddrizzare le deviazioni di Israele e riaffermare la Volontà di Dio in mezzo al popolo. Un fenomeno quello del profetismo in Israele, manifestatosi prevalentemente tra l'VIII e il VI secolo a.C., e fungeva da sua coscienza collettiva contro i suoi sbandamenti verso l'idolatria.

Subito dopo il carisma della profezia Paolo fa seguire quello della “distinzione degli spiriti”. Questo accostamento lascia pensare come tale carisma sia di supporto alla profezia, in quanto che questo ha il compito di accertare l'attendibilità o meno della profezia, cercando i capire se la profezia, cioè se la parola ispirata, che viene rivolta alla comunità credente, sia autenticamente proveniente da Dio o da uno spirito malvagio.

Se la profezia è la chiara voce di Dio in mezzo al suo popolo, che si fa sentire attraverso persone ispirate, la glossolalia, cioè il parlare lingue sconosciute o misteriose, per contro, riguarda lo stretto rapporto tra Dio e il credente, quale singola persona a cui Dio si rivolge direttamente e in via esclusiva, per cui non giova in alcun modo alla comunità (14,27-28). Per questo Paolo associa subito dopo al dono della glossolalia quello dell'interpretazione delle lingue, perché anche questa strana manifestazione spirituale possa in qualche modo giovare all'intera comunità e non soltanto all'individuo.

Ripresa dei vv.4-7: molteplici i doni, ma unica è la Fonte, preambolo alla sezione vv.12-31 (v.11)

Il v.11 riprende sinteticamente il tema dei vv.4-7, formando con questi un'inclusione per identità tematica, che delimita l'intera pericope vv.4-11, la quale mette in rilievo la molteplicità di doni generati da un'unica fonte, lo Spirito, che li elargisce a ciascuno come vuole. Il versetto in questione, pertanto, chiude il tema trattato ai vv.4-10, ma nel contempo traghetta il lettore ai vv.12-13, che, a loro volta, formano da preambolo introduttivo alla della metafora delle molte membra nell'unico corpo (vv.14-26), che comunque il v.11 già in qualche modo preannuncia.

Il versetto, infatti, parla di un “unico Spirito” che distribuisce i suoi doni “a ciascuno”, dove quel “ciascuno” lascia intravedere una molteplicità di beneficiati, tanti quanti sono i molteplici doni elargiti, ma unico è lo Spirito che li distribuisce a chi vuole. Il tema della metafora, infatti, sarà la molteplicità nell'unità e l'unità nella molteplicità, vissuta nell'armonia e nella comunione fraterna. Pertanto, il v.11 oltre che formare inclusione, funge anche da versetto di transizione, poiché chiudendo la pericope precedente, traghetta il lettore verso il tema della metafora del corpo e delle sue membra, che forma uno sviluppo di approfondimento e di completamento della pericope vv.4-11.

Il motivo per cui si è un unico corpo: preambolo alla metafora del corpo (vv.12-13)

Se il v.11 chiudeva la pericope vv.4-10 riguardante i molteplici carismi elargiti dall'unico Spirito, sintetizzandone il tema, i vv.12-13, nel riprendere tematicamente il v.11, ne danno lo sviluppo tematico con la metafora delle molte membra in un solo corpo, che qui succintamente viene solo accennata, fungendo da tesi tematica, che la pericope successiva, vv.14-26 si incaricherà di dimostrare in due momenti: attraverso la constatazione sperimentale, che attesta come il corpo è formato da diverse membra tutte funzionali al buon funzionamento del corpo stesso, di cui esse fanno parte (vv.14-20); dimostrando la necessità di un'armonica collaborazione di tutte le membra tra di loro, ognuna per il proprio ruolo, poiché tutte sono strettamente in comunione tra di loro (vv.21-26).

I vv.12.13 si aprono entrambi con un “g¦r” (gàr. infatti), che imprime alla frase che introduce un senso dichiarativo ed esplicativo, il cui intento è quello di motivare, cristologicamente con il v.12 e pneumatologicamente con il v.13, la metafora che segue e il cui sviluppo occuperà la sezione circoscritta dai vv.14-26.

Tuttavia, se il primo “g¦r” (gàr. infatti) si aggancia al v.11 traducendolo in una prima sintetica metafora circa la molteplicità delle membra e dell'unico corpo, che ha per fondamento “Cristo”, il vero corpo, che è la Chiesa, formata da molti membri, ciascuno con propri carismi, ma tutti sono giustificati e prendono senso dal loro essere uniti al loro corpo, richiamando in qualche modo la parabola giovannea della Vite e i tralci (Gv 15,1-6), il secondo “g¦r” (gàr. infatti), quello del v.13, si aggancia al v.12 e ne dà, a sua volta, spiegazione. In altri termini, perché Cristo è l'unico corpo che si esprime ed opera attraverso le molteplici membra che lo compongono e in esse vive? E in quale modo vi opera? E perché queste membra trovano la loro unità e la loro comunione e, quindi, il loro senso in quel unico corpo che è il Cristo-Chiesa?

Ed ecco la risposta agli interrogativi qui posti: “noi siamo stati battezzati in un unico Spirito per (formare) un unico corpo, sia Giudei, sia Greci, sia schiavi sia liberi, e tutti fummo abbeverati con un unico Spirito”. Un versetto molto denso, dove il termine “unico” compare per tre volte e dove le disparità contrapposte come Giudei-Greci, schiavi-liberi scompaiono completamente per ricomporsi tutte nell'”unico corpo”, sottolineando la profonda unità che si fa comunione nell'unico Spirito, che ha plasmato nel battesimo ogni credente, configurandolo a Cristo, anzi cristificandolo, così che Paolo esclamerà in Gal 2,20a “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”.

Un versetto questo che si richiama in qualche modo a 10,2-4, che ricordava la comune esperienza di Israele nel deserto, che ha fatto di dodici tribù un unico popolo, qualificato e profondamente segnato da un'unica e comune esperienza: “tutti in Mosè furono battezzati nella nube e nel mare e tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale e tutti bevvero la stessa bevanda spirituale; bevevano, infatti, da una roccia spirituale che (li) accompagnava; la roccia era Cristo”. Un'unica esperienza che ha segnato profondamente l'antico Israele e gli ha assegnato una nuova identità, quale proprietà di Dio, nazione santa e regno di sacerdoti (Es 19,5-6) e che in qualche modo ha prefigurato e preannunciato la sorte di questo nuovo Israele, anche questo battezzato, cioè immerso nell'unica nube dello Spirito, da cui attinge l'acqua viva dell'unica Rivelazione, a cui viene configurato per mezzo della fede.

Un tema, quello del v.13, che troverà il suo richiamo e il suo sviluppo tematico, da lì a qualche anno anno, sia in Gal 3,27-28, che a questo versetto si ispira anche letterariamente, sia, in modo più elaborato, in Rm 6,3-8; 10,12.

La metafora del corpo: molte le membra, ma unico il corpo (vv.14-2'0)

Dopo l'enunciazione della tesi tematica del v.12, cristologicamente e pneumatologicamente fondata, il v.14, che forma inclusione a mo' di chiasmo con il v.20, delimitando la pericope vv.14-20, riprende il v.12 e introduce la dimostrazione della tesi colà formulata, accentrando la propria attenzione più che sull'unicità del corpo, che comunque si muove sullo sfondo ed è data per scontata, sulla molteplicità delle membra e sul loro ruolo specifico all'interno del corpo, di cui non solo fanno parte, ma altresì lo costituiscono.

La dimostrazione avviene per associazione di funzioni di movimento, come piede-mano (v.15), e percettive, orecchio-occhio (v.16), dove il piede e l'orecchio si ritengono ipoteticamente estranei al corpo perché non sono mano o occhio. Paolo sottolinea come indipendentemente da ciò che queste membra pretendono di essere o non essere, di fatto sono, comunque, quello che sono realmente, poiché esse sono tali perché esse stesse “sono corpo” e non sua parte estranea. Inscindibilità, quindi tra membra e tra queste e il corpo, pena la distruzione del corpo stesso, che è tale grazie proprio alle membra.

Se con questo primo passaggio Paolo ha dimostrato come le membra sono parte integrante del corpo e non un qualcosa di diverso o di estraneo ad esso o da esso indipendenti (vv.15-16), con il v.17, che funge a sua volta da tesi tematica, che viene dimostrata ai successivi vv.18-20, intende stigmatizzare le pretese delle singole membra, di voler essere corpo a scapito di altre membra, dimostrando, per paradosso, come l'armonia del corpo è data dall'armonica integrazione di tutte le membra tra loro e dal ruolo che ogni membro ricopre all'interno del corpo, ruolo, che non è mai fine a se stesso, ma sempre in funzione delle altre membra, che nel loro insieme formano il corpo. Cosa succederebbe, argomenta Paolo, “se tutto il corpo (fosse) occhio, dove (sarebbe) l'udito? Se (fosse) tutto udito, dove sarebbe l'olfatto?”. Viene con ciò dimostrata per via sperimentale la rilevanza che ogni singolo membro ha all'interno dell'unico corpo, di cui esso è parte integrante e costituente.

L'argomentazione del v.17 viene ora fondata teologicamente con il v.18: “Ora Dio ha posto le membra, ciascuna di esse nel corpo in modo unico, come ha voluto”. Non dipende, pertanto, dalle pretese delle singole membra essere quelle che sono, né tantomeno la loro funzionalità e il loro specifico ruolo all'interno della comunità, ma è Dio, che nel suo progetto di salvezza, in cui è prevista la crescita spirituale in modo armonico ed efficace della propria Chiesa, che stabilisce con doni specifici il ruolo di ogni singolo membro della sua Chiesa “in modo unico” ed esclusivo. Non dipende dagli uomini essere, pertanto, apostoli, profeti, evangelisti, maestri o operatori di miracoli o testimoni di una profonda fede invincibile e simili doni (vv.8-10), ma è Dio che li suscita in ciascuno secondo le proprie capacità in vista del bene comune della sua Chiesa (v.7). Il fondamento di ogni singolo carisma, di ogni singolo ministero e di ogni attività comunitaria è, pertanto, “lo stesso Dio, che opera tutte le cose in tutti” (v.6b).

Il v.19 riprende, rimarcandolo, il v.17, mentre il v.20 conclude la pericope riprendendo in modo chiasmico il v.14 e facendo con questo inclusione, evidenziando la necessità della molteplicità delle membra, poiché ogni singolo membro è investito di uno specifico carisma, che ognuno, secondo la propria capacità, possiede ed è chiamato a spendere per il bene dell'intera comunità credente, nella coscienza di essere uno strumento di Dio, chiamato a cooperare con Lui alla realizzazione del suo progetto di salvezza, che Egli attua non prescindendo dagli uomini, ma con la loro collaborazione in comunione con Lui.


Comunione e collaborazione tra le diverse membra dell'unico corpo (vv.21-26)

Dopo aver sottolineato l'importanza che tutte le membra hanno all'interno del corpo, che è Cristo, che vive e si esprime nella Chiesa, composta da molteplici membra, ognuna delle quali ha un suo ruolo preciso all'interno del corpo, che ciascuna di essa compone e ne è parte integrante e viva, Paolo con questa seconda parte della metafora (vv.21-26) sviluppa una riflessione sulle relazioni che le diverse membra, che compongono l'unico corpo Cristo-Chiesa, devono tenere nel reciproco rispetto della loro natura e del loro ruolo all'interno dell'unico corpo. È probabile che qui il pensiero di Paolo, nel sollecitare il rispetto, l'aiuto fraterno e la reciproca comprensione per le parti deboli della comunità, si richiami a quanto già aveva detto in 8,7-13 circa quei credenti, deboli nella fede quanto alle carni offerte agli idoli, sollecitando con questi, ma anche con tutti i membri del corpo Cristo-Chiesa, una reciproca collaborazione, che esprime e testimonia la comunione di tutte le membra, che sono radicate all'interno dell'unico corpo, quale fondamento e garanzia della comunione di tutti con tutti.

Anche in questa seconda parte della metafora Paolo ricorre alla motivazione teologica, che avvalora e fonda la sua esortazione: “Ma Dio congiunse il corpo a ciò che è privo (di decoro), dando una maggiore onorabilità, affinché non ci fossero divisioni nel corpo, ma le membra avessero la stessa sollecitudine le une e le altre” (vv.24b-25). In altri termini, Dio non esclude nessuno, poiché tutte le membra sono sue membra, indipendentemente dalla loro utilità e dalla loro natura, anzi sono proprio quelle membra più deboli e più esposte, quelle che meno si considerano e più ci si vergogna di loro, che godono della sua particolare attenzione.

È, dunque, questa attenzione di Dio verso le membra più fragili che lascia intendere come questa sia la sua volontà e come questa faccia parte del suo progetto di salvezza, perché proprio attraverso la debolezza di queste membra, disprezzate dalle logiche umane e da quelli che più si sentono privilegiati e forti, che Dio si manifesta ed opera. Lo ricorderà con un paradosso Paolo in 2Cor 12, 10: “Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte”.

Ed è questa volontà di Dio, una volontà inclusiva e non esclusiva; una volontà che accomuna e non divide, che deve formare da fondamento all'intera comunità, che, proprio per essere parte di un unico corpo, da cui trae la comune linfa vitale, ha come segno distintivo la comunione di vita, che si esprime nella collaborazione e nella reciproca attenzione e reciproco rispetto dell'uno verso l'altro, in particolar modo verso quelle membra più deboli e sofferenti, segnate per questo dalla paerticolare predilezione divina.

Applicazione della metafora alla comunità di Corinto (vv.27-31)

Le argomentazioni fin qui addotte, che fungono da momento di riflessione e parametro di raffronto per tutti, vengono ora applicate all'intera comunità: “Ora, voi siete corpo di Cristo e (sue) membra per (la vostra) parte” (v.27). La comunità di Corinto, e come questa tutte le altre comunità variamente sparse per l'impero, viene definita quale “corpo di Cristo” e nel contempo “sue membra”.

Quanto al “corpo di Cristo”, il titolo attesta, da un lato, una realtà trascendentale, qual è quella del Risorto, che nella comunità si incarna, continuando la sua missione in mezzo agli uomini; dall'altro, costituisce la garanzia dell'unità e della comunione di tutte le membra e di tutte le comunità credenti tra di loro, che da lui si diramano e in lui si riconoscono e si ritrovano, divenendo sacramento vivente del Risorto in mezzo agli uomini e insigniendoli di una nuova identità.

Ma tutti i credenti sono nel contempo anche “sue membra”, cioè strumenti di azione del Risorto, che operano sia in mezzo ai credenti che in mezzo agli uomini e che tali sono nella misura in cui rimangono radicati nel Risorto e ne diventano espressione. Una posizione questa che verrà richiamata anche dal Gesù giovanneo con la parabola della Vite e dei tralci (Gv 15,4-8).

Membra di Cristo, dunque, ma, aggiunge Paolo, “per la vostra parte” sia in riferimento alla chiesa di Corinto rispetto a tutte le altre chiese, che nel loro insieme sono membra e corpo di Cristo, sia in riferimento ai singoli membri della comunità di Corinto e di ogni altra singola comunità credente, ognuno dei quali è chiamato a svolgere quel compito che gli è stato affidato all'interno della comunità, di cui è membro, facente parte del Corpo di Cristo, senza voler prevaricare o sconfinare dal campo che gli è stato assegnato.

Questa sottolineatura con quanto segue ai successivi vv.28-30 lascia intravvedere come all'interno della comunità di Corinto ci fossero delle rivalità o delle invasioni di campo nelle funzioni assegnate a ciascuno, ritenendosi, forse, qualcuno migliore di altri o desideroso di prevalere sugli altri per raggiungere maggiore visibilità all'interno della comunità.

Ognuno, dunque, ha un suo preciso compito all'interno della comunità, che gli è stato assegnato, divenendo in tal modo strumento di Cristo, attraverso il quale Cristo opera e si rende nuovamente presente in mezzo agli uomini.

Segue un'elencazione di doni, che sono lo sviluppo specificativo dei tre raggruppamenti citati ai vv.4-6 e una ripresa dei successivi vv.8-10.

Significativo è l'ordine con cui vengono esposti tali doni. Dapprima vengono posti le “diversità di ministeri”, la cui importanza risiede nel fatto che questo costituiscono l'impianto storico-sociale e organizzativo della stessa comunità credente, nell'ordine: apostoli, profeti e maestri; seguono poi le diverse quanto variegate attività pneumatiche, che formano l'anima pulsante della comunità e sono finalizzate a farle crescere spiritualmente in Cristo.

L'elenco che qui viene fatto riguarda probabilmente le manifestazione spirituali che avvenivano all'interno della comunità di Corinto, non si tratta, quindi, di un'elencazione casuale o teorica. Significativo è quel ripetersi continuo “sono forse tutti … ?” e “hanno forse tutti … ?”, la quale cosa lascia intravvedere all'interno della comunità delle rivalità tra gli stessi carismatici, ma nel contempo gli interrogativi retorici sono un'implicita esortazione a tutti i carismatici a rimanere al loro posto nella coscienza di essere tutti, ognuno per la sua parte, a servizio della comunità, che è il corpo di quel Cristo di cui essi sono le membra, attraverso le quali il risorto opera nella comunità stessa e in mezzo agli uomini.

Significativo è come termina l'elencazione dei doni: “Tutti parlano lingue? Tutti (le) interpretano?”, perché sarà proprio su questi ultimi due doni, unitamente a quello della profezia, che formeranno il tema sui cui Paolo accentrerà la sua attenzione, dedicandogli l'intero cap.14, segno questo che sono proprio questi tre doni a costituire il problema principale della comunità di Corinto nelle sue assemblee liturgiche.


Lingue o profezia? I carismi privilegino sempre l'interesse della comunità (14,1-25.39-40)

Testo a lettura facilitata

Versetto di transizione e ri ripresa di 12,31 (v.1)

1- Perseguite la carità, ma sopratutto desiderate intensamente le cose spirituali, affinché profetiate.

Introduzione tematica (vv.2-5)

2- Infatti, colui che parla con la lingua, non parla agli uomini, ma a Dio; infatti nessuno ascolta, ma (per mezzo dello) spirito dice cose misteriose;
3- Ma colui che profetizza parla agli uomini (per l')edificazione e (l')esortazione e (l')incoraggiamento.
4- Colui che parla con la lingua edifica se stesso, ma colui che profetizza edifica (l')assemblea.
5- Voglio che tutti voi parliate le lingue, ma ancor di più che profetiate; colui che profetizza (è) più grande di colui che parla con le lingue, eccetto (il caso in cui le) interpreti, affinché l'assemblea riceva edificazione.

Esempi (vv.6-8) e loro applicazione (vv.9-12)

6- Ora, fratelli, qualora venissi da voi parlando con (le) lingue, che cosa vi gioverei qualora non vi parlassi o in rivelazione o in conoscenza o in profezia o in insegnamento?
7- Pure gli oggetti inanimati che danno un suono, sia il flauto sia la cetra, qualora non dessero una distinzione ai suoni, come si conoscerebbe ciò che suona il flauto o ciò che suona la cetra?
8- E, infatti, qualora la tromba desse un suono incerto, chi si appresterebbe alla battaglia?
9- Così anche voi, qualora non deste, per mezzo della lingua, un discorso chiaro, come sarebbe conosciuto ciò che si dice? Sarete, infatti, come chi parla al vento.
10- Vi sono nel mondo un siffatto genere di lingue e nessuna è senza un significato;
11- qualora non sapessi il significato della lingua, sarò un barbaro per chi (mi) parla e colui che (mi) parla (sarà) un barbaro per me.
12- Così anche voi, poiché siete bramosi delle cose spirituali, cercate di sovrabbondare, per l'edificazione dell'assemblea,

Un'esortazione e alcune considerazioni conseguenti (vv.13-17)

13- Pertanto, colui che parla con una lingua, preghi affinché (la) interpreti.
14- Qualora [infatti] prego in lingua, il mio spirito prega, ma la mia mente è senza frutto.
15- Che cos'è, dunque? Pregherò con lo spirito, ma pregherò anche con la mente; canterò con lo spirito, ma canterò anche con la mente.
16- Poiché, qualora (tu) benedici con lo spirito, colui che occupa il posto del semplice (fedele), come dirà l'Amen sul tuo rendimento di grazie? Poiché non sa che cosa dici;
17- Tu, infatti, fai un bel rendimento di grazie, ma l'altro non viene edificato.

Paolo esempio per i Corinti (vv,18-19)

18- Rendo grazie a Dio, parlo con le lingue più di tutti voi;
19- ma n(ell')assemblea voglio parlare con cinque parole con la mia mente, affinché istruisca anche (gli) altri, piuttosto che con diecimila parole in lingua.

Lingue e profezia: il diverso impatto che possono avere sui non credenti (vv.20-25)

20- Fratelli, non siate bambini nei giudizi, ma siate bambini quanto alla malizia, ma siate adulti nei giudizi.
21- Nella Legge sta scritto che “Parlerò a questo popolo con altre lingue e con labbra altrui, e neppure così mi ascolteranno”, dice (il) Signore.
22- Così che le lingue sono un segno non per quelli che credono, ma per quelli che non credono, ma la profezia (è) non per quelli che non credono, ma per quelli che credono.
23- Qualora, dunque, si fosse radunata l'intera assemblea nello stesso (luogo) e tutti parlassero con le lingue, entrassero dei profani o dei non credenti, non direbbero che siete pazzi?
24- Ma qualora tutti profetassero, venisse qualche non credente o profano, (costui) viene convinto del (suo) errore da tutti, interrogato da tutti,
25- le cose segrete del suo cuore diventano manifeste e così caduto s(ulla) faccia, adorerà Dio, proclamando che veramente Dio è tra di voi.
[…]
39- Pertanto, fratelli [miei], desiderate ardentemente il profetare e il parlare e non impedite il parlare in lingue;
40- ma tutte le cose avvengano in modo decoroso e con ordine.

Note generali

Il cap.12 si chiudeva con il v.31 con cui Paolo, da un lato, sollecitava i Corinti a desiderare i carismi più grandi (v.31a); dall'altro, indicava la via per accedere al “carisma” più grande di tutti (v.31b), che il cap.13 rivelerà essere quello della Carità, cantata in modo sublime. Senonché, terminato lo stupendo inno all'Amore, Paolo deve essersi reso conto, rileggendo i primi due versetti dell'inno, dove si parla di lingue (13,1) e di profezia (13,2), della necessità di accentrare l'attenzione su questi due particolari doni, che probabilmente andavano per la maggiore presso la comunità di Corinto, ma che nel contempo dovevano creare dei problemi al suo interno. Da qui la decisione di riaprire la questione sui carismi che già aveva trattato nel cap.12.

Il v.12,31, infatti, termina esortando i Corinti: “Desiderate ardentemente i carismi più grandi. E di più vi mostro in modo sovrabbondante una via”. La via maestra era quella dell'“¢g£ph” (agápe), cioè dell'amore fraterno, le cui caratteristiche vengono evidenziate nel cap.13, che termina senza alcun aggancio al cap.14, dando l'idea di aver chiuso con tale inno l'ampia sezione della vita comunitaria e dei suoi problemi trattati da 1,10 a 12,31. Invece, inaspettatamente, il cap.14 si apre riprendendo il tema della carità (14,1a) e richiamandosi a 12,31 (14,1b), riaprendo il tema dei carismi, ma questa volta limitatamente alla glossolalia e alla profezia, alle quali è dedicata la sezione 14,1-25.

Per questo motivo, bypassando il cap.13, con il quale inizialmente Paolo intendeva probabilmente chiudere l'ampia sezione sella vita comunitaria (1,10-12,31), esortando i Corinti a mettere a fondamento dei loro rapporti intracomunitari la carità, ho pensato di agganciare al cap.12 il cap.14, considerato anche che 12,31 e 14,1 si legano perfettamente tra loro, creando anche una sorta di continuità letteraria e tematica56.

Il cap.13, invece, lo commenterò dopo il cap.14, a conclusione dell'ampia sezione della vita intracomunitaria, rispettando in tal modo il probabile intento originario di Paolo.

L'intero cap.14 gira attorno a due carismi, di cui Paolo aveva già parlato al cap.12, ma senza approfondirne i termini e i problemi che questi causavano all'interno della comunità: la glossolalia e la profezia, sulla quale cade decisamente la sua preferenza. Il motivo è molto semplice e lo farà capire nei primi quattro versetti e, in modo più sintetico, al v.4: “Colui che parla con la lingua edifica se stesso, ma colui che profetizza edifica (l')assemblea”. La preoccupazione, quindi, di Paolo è che questi due carismi non dividano la comunità, ma, invece, la edifichino. E il carisma più idoneo a tale scopo è la profezia, che è rivolta a tutti, in quanto usa un linguaggio comprensibile a tutti, ma con ciò senza voler escludere la glossolalia (v.27), che viene ammessa nell'assemblea purché vi sia un interprete, che la traduca, rendendola accessibile all'intera assemblea, altrimenti, conclude Paolo: “si taccia in assemblea” (v.28). Per questo al termine del cap.14 detterà un ordine alle manifestazioni e agli interventi che si producono all'interno delle assemblee liturgiche, stabilendo delle priorità: “Pertanto, fratelli [miei], desiderate ardentemente il profetare e il parlare e non impedite il parlare in lingue; ma tutte le cose avvengano in modo decoroso e con ordine” (vv.39-40). Quindi, bene le lingue, ma raccomanda che accanto a chi le parla ci sia sempre un interprete (v.27), per cui quello che si dice in lingue sia noto alla comunità e torni a suo beneficio spirituale, altrimenti è meglio tacere (v.28). La comunità, dunque, deve essere posta sempre in primo piano e deve essere l'obiettivo finale di tutti i carismi, che son finalizzati ad una ordinata crescita spirituale in Cristo (v.26).

Quanto alla macrostruttura del cap.14, questa divide tematicamente il capitolo in due parti: la prima (vv.1-25.39-40) riguarda il tema della glossolalia posta in relazione alla profezia; la seconda parte (vv.26-38) riguarda alcune regole comportamentali da tenere durante le assemblee liturgiche.

Quanto alla prima parte, che qui ora analizziamo, riguarda i rapporti glossolalia e filosofia, e si suddivide, a sua volta, in sei parti, che di seguito proposte:

  1. Versetto di transizione e ripresa di 12,31 (v.1);

  2. Introduzione tematica (vv.2-5);

  3. Esempi (vv.6-8) e loro applicazione (vv.9-12);

  4. Un'esortazione e alcune considerazioni conseguenti (vv.13-17);

  5. Paolo esempio per i Corinti (vv,18-19);

  6. Lingue e profezia: il diverso impatto che possono avere sui non credenti (vv.20-25).


Commento ai vv.1-25

Versetto di transizione e ripresa di 12,31 (v.1)

Il v.1 si presenta in modo ambivalente, perché potrebbe essere considerato, da un lato, di aggancio e ripresa del v.12,31, riportando sostanzialmente sia lo stesso tema che le stesse espressioni, dando in tal modo un'idea di continuità letteraria e tematica, così che l'esortazione di 12,31 si ritrova sostanzialmente identica a quella di 14,1, benché i termini siano posti in modo chiasmico e speculare, secondo la formula “a.b-b.a”: “(a) Desiderate ardentemente i carismi più grandi. (b) E di più vi mostro in modo sovrabbondante una via. […] (b) Perseguite la carità, ma sopratutto (a) desiderate intensamente le cose spirituali, affinché profetiate” (12,31.14,1). In tal modo, secondo la mia interpretazione (cfr. pag.130 e 161), il cap.13, posto in mezzo, viene bypassato e si ritrova subito dopo il cap.14, acquisendo il senso di parametro di raffronto per la tribolata vita della comunità, afflitta da divisioni interne; dall'altro lato, il v.1 può essere considerato semplicemente di transizione, poiché chiudendo l'inno alla carità (13,1-13) con l'esortazione ai Corinti a “perseguire la carità” (v.1a), traghetta il lettore verso la nuova tematica, riprendendo 12,31a: “desiderate intensamente le cose spirituali” (v.1b).

Tuttavia il v.1 non è una semplice ripresa di 12,31, ma, concludendosi con l'espressione finale “affinché profetiate”, dà un nuovo senso a quel “perseguite” e a quel “desiderate”: il tutto è finalizzato a favorire la “profezia”, attorno alla quale gira l'intera argomentazione della sezione 14,1-25.39-40. Già, fin da subito, quindi, Paolo lascia intendere dove va a cadere la sua preferenza, lasciandone trasparire il tema. Il perché di tale interesse verrà subito motivato nei successivi vv.2-5, anche in relazione agli effetti, diametralmente opposti, che glossolalia e profezia possono produrre sui non credenti (vv.20-25).

Introduzione tematica (vv.2-5)

La pericope vv.2-5 mette a confronto i due carismi, che probabilmente andavano per la maggiore nella comunità di Corinto e, forse, vi era una certa qual concorrenza tra i diversi carismatici, che profetavano o parlavano in lingue. E chi parlava in lingue, essendo un carisma più vistoso rispetto a quello della profezia, era probabilmente anche il più ambito tra i Corinti, poiché metteva in mostra chi era investito da tale carisma, per quel alone di mistero che lo circondava e da cui veniva investito, distinguendolo nettamente da tutti gli altri nelle assemblee.

Ma Paolo, qui, rovescerà questa pretesa, mettendo in rilievo, invece, la grandezza della profezia rispetto a quello della glossolalia, anche se implicitamente riconosce che il dono delle lingue può risultare in qualche modo migliore della profezia, purché sia accompagnato dal dono dell'interpretazione: “Voglio che tutti voi parliate le lingue, ma ancor di più che profetiate; colui che profetizza (è) più grande di colui che parla con le lingue, eccetto (il caso in cui le) interpreti, affinché l'assemblea riceva edificazione” (v.5).

L'unico criterio che definisce, per così dire, la classifica dei due carismi, stabilendone la grandezza, è, quindi, che questi devono giovare unicamente alla comunità. Infatti, nella glossolalia, per la sua natura misteriosa, è lo Spirito che si esprime attraverso il carismatico e si rivolge a Dio, escludendo sia l'assemblea che lo stesso carismatico, che emette suoni incomprensibili anche a se stesso: “Qualora [infatti] prego in lingua, il mio spirito prega, ma la mia mente è senza frutto” (v.14). Da qui il sollecito a chiedere, oltre che il dono della glossolalia, anche quello dell'interpretazione: “Pertanto, colui che parla con una lingua, preghi affinché (la) interpreti” (v.13). Rm 8,26b, infatti, attesta del linguaggio incomprensibile dello Spirito che prega in noi il Padre: “lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili”. Altrove, in 2Cor 12,4, parlando di un suo rapimento estatico, Paolo attesterà di un uomo che “fu rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunziare”. Da queste due brevi citazioni si intuisce come il modo di esprimersi dello Spirito e del mondo spirituale sia completamente diverso da questo nostro umano, il cui linguaggio viene formulato, per astrazione, dall'esperienza della quotidianità e con riferimento a questa. Ma il mondo dello Spirito vive ed opera in una diversa dimensione, che nulla ha a che vedere con la nostra, per cui anche il suo linguaggio è completamente diverso dal nostro, risultandoci in tal modo incomprensibile e per ciò stesso incomunicabile.

Per questo Paolo conclude in modo sillogico con il v.4 il confronto tra la glossolalia, in cui si rileva , a motivo della sua misteriosità, l'inutilità per l'assemblea (v.2) e la profezia, che, invece, con un linguaggio chiaro e immediato punta all'edificazione, all'esortazione e all'incoraggiamento della comunità (v.3), tutto a suo vantaggio, così che : “Colui che parla con la lingua edifica se stesso, ma colui che profetizza edifica (l')assemblea” (v.4).

Quindi, si concluderà che va bene la glossolalia, che è in qualche modo superiore alla profezia, poiché lì c'è la voce diretta di Dio e racchiude in se stessa il suo stesso pensiero, ma similmente al profeta, serve l'interprete di tale voce, che funge da tramite tra Dio e gli uomini, altrimenti è una voce che cade nel vuoto (v.5).

Esempi (vv.6-8) e loro applicazione (vv.9-12) (vv.6-12)

Dopo l'enunciazione del principio che ogni manifestazione spirituale deve concorrere al bene della comunità, indicandone lo strumento principale nella profezia, che con un linguaggio chiaro e diretto funge da guida spirituale della comunità stessa, e ciò a detrimento della glossolalia a motivo del suo linguaggio incomprensibile (vv.2-5), Paolo, ora, passa con la pericope vv.6-12 ad una doppia esemplificazione del principio enunciato, che prende a riferimento i suoni degli strumenti. Questi, perché siano efficaci, si devono intendere chiaramente e non in modo confuso (vv.7-9); e le stesse lingue degli uomini, numerosissime, tutte con un loro preciso senso e significato, ma se non vi è l'interprete, che le mette in comunicazione tra loro, risultano suoni vacui e inutili (vv.10-12).

Con il v.6 Paolo riprende il tema, accentrando questa volta la sua attenzione non più sul confronto tra glossolalia e profezia, ma soltanto sulla prima. Questa particolare attenzione sulla glossolalia è probabilmente dovuto al fatto che all'interno della comunità di Corinto essa era tenuta in grande considerazione rispetto a tutti gli altri carismi, perché circondava di un alone di mistero e di sacralità chi ne veniva investito. Paolo non nega questa particolare condizione, ma la sua importanza va soppesata in rapporto ai benefici che può riceverne la comunità: “che cosa vi gioverei qualora non vi parlassi o in rivelazione o in conoscenza o in profezia o in insegnamento?”.

Si noti la successione e l'associazione dei termini che qui vengono esposti e che, a giochi finiti, vanno a cadere tutti a beneficio della profezia rispetto alla glossolalia. Quest'ultima, infatti, perché sia efficace per la comunità deve farsi “rivelazione”, che deve tradursi in “conoscenza”, che non è mai un'astrazione intellettuale, ma un'esperienza esistenziale del rivelato; solo così diviene “profezia”, la quale in buona sostanza riassume in se stessa sia l'elemento della “rivelazione”, che diviene “conoscenza” per il profeta, che la traduce, infine, in “insegnamento” spirituale per la comunità, stimolandola alla crescita spirituale.

Tutto, quindi, deve diventare “profezia”, cioè comunicazione del divino alla comunità credente con un linguaggio ad essa comprensibile, per una sua crescita spirituale. In quale modo la glossolalia possa diventare profezia viene detto ai vv.5b.13.27: per mezzo dell'interprete, altrimenti è meglio tacere (v.28).

La pericope vv.7-9 prende ad esempio “oggetti inanimati”, quali il flauto e la cetra, antichissimi strumenti musicali e che nel mondo greco erano prevalentemente usati per accompagnare il canto, la poesia e le rappresentazioni teatrali. Strumenti, quindi, atti a creare il contesto artistico ed avvalorarlo, caricandolo di emozioni. Ma se il loro suono fosse confuso o, peggio, stonato tutto verrebbe rovinato, irritando gli animi degli spettatori, rendendo difficile la rappresentazione degli artisti. Così parimenti il suono della tromba nelle battaglie doveva essere forte, deciso, inconfondibile e atto a spronare le schiere armate allo scontro frontale, eccitando i loro animi alla battaglia. Ma un suono flebile, confuso e incerto creerebbe solo sconcerto e confusione nei soldati, pregiudicando in qualche modo l'esito della battaglia stessa, venendo mancare lo slancio guerriero iniziale. Parimenti i suoni della lingua devono raggiungere gli animi degli ascoltatori, per toccare le loro profondità e spingerli alla riflessione e alla crescita spirituale, altrimenti, “Sarete, infatti, come chi parla al vento”. Questa è la glossolalia, priva del suo interprete, un incomprensibile quanto vacuo flatus vocis.

Parallelamente al primo esempio, che prende in considerazione il suono di “oggetti inanimati” e la sua influenza nell'animo degli ascoltatori, ora la pericope vv.10-12 prende in considerazione l'uomo colto nelle sue relazioni, che hanno come fondamento di comprensione e intesa la lingua, che caratterizza ogni uomo e la sua appartenenza ad uno specifico popolo e alla sua cultura e storia, di cui la lingua è portatrice ed espressione. Paolo constata come vi siano numerose lingue e ognuna ha un suo senso e un suo specifico significato e tale che chiunque non la comprenda viene considerato come “barbaro”. Un termine quest'ultimo che in greco significa “balbuziente”, descrivendo in tal modo lo straniero che parlava malamente il greco o non lo comprendeva, lingua questa di civiltà e di cultura, grazie alla quale si era diffusa la cultura greca, unificando i popoli di un intero impero, creato dalle conquiste di Alessandro Magno, dando origine a quel fenomeno culturale e di pensiero universali che va sotto il nome di ellenismo, ossia la lingua e la cultura greca che configurava l'impero alessandrino.

Una lingua, quella greca, quindi, che configurava e unificava i popoli plasmandoli culturalmente e nel loro modo di pensare e di vivere, facendo di quelle moltitudini un'unica entità, capace di intrarelazionarsi e di capirsi, favorendo la sua crescita. Su tale esempio la comunità credente di Corinto doveva aspirare a quei carismi che favorivano la sua edificazione.

Un'esortazione e alcune considerazioni conseguenti (vv.13-17)

Sulle riflessioni fin qui prodotte sia con l'enunciazione del principio argomentato con i vv.2-5 che con la sua esemplificazione dei vv.6-12, Paolo trae, ora, la conclusione con il v.13, che verrà argomentato con i successivi vv.14-17: “Pertanto, colui che parla con una lingua, preghi affinché (la) interpreti”. La grandezza del carisma della glossolalia, con la quale si esprime direttamente la Voce dello Spirito, è tale solo se i contenuti espressi in lingue sono di utilità prima per chi parla in lingue, così che sappia egli stesso che cosa dice, unendosi in tal modo alla Voce dello Spirito che parla in lui e per suo mezzo, e poi perché egli, dopo aver capito, sappia rendere partecipe l'assemblea, che, a sua volta, si unisce a lui e alla Voce dello Spirito in lui con il suo “Amen”. Un'espressione questa molto ricorrente nelle liturgie, che ha la sua radice ebraica in “'mn”, che significa “certamente, veramente, si è così”. Quindi pronunciare il proprio “Amen” significa aderire e sottoscrivere quanto è stato detto, rendendosi in tal modo partecipe e protagonista della preghiera stessa, unendosi ad essa, altrimenti, conclude Paolo, “Tu fai un bel rendimento di grazie, ma l'altro non viene edificato” (v.17). Viene nuovamente evidenziata, una volta di più e con insistenza la necessità che in ogni manifestazione carismatica sia coinvolta l'intera assemblea, perché la comunità sia edificata e cresca spiritualmente ben ordinata in Cristo, evitando ogni divisione e ogni contrasto e rivalità interna.

Paolo esempio per i Corinti (vv,18-19)

Già lo aveva fatto in modo molto diffuso con il cap.9, dove Paolo si portava ad esempio ai Corinti, come colui che ha saputo rinunciare ai propri diritti di apostolo e di uomo per il bene del Vangelo, sollecitando in tal modo i Corinti, quelli più spiritualmente evoluti, a rinunciare ai propri diritti e alla propria libertà spirituale nel mangiare le carni offerte agli idoli e nel frequentare le mense dei dei templi pagani, dove si consumavano queste carni, per non scandalizzare chi era più debole nella fede.

Lo fa anche ora, portandosi di esempio, a quei Corinti, che in qualche modo si vantavano del carisma della glossolalia, da cui venivano investiti, facendosi ammirare in assemblea. Come loro, anzi ben più di loro, anch'egli, Paolo, possiede il dono della glossolalia, ma, qualora debba rivolgersi all'assemblea preferisce parlare con parole umili e povere, per farsi meglio capire, piuttosto che con discorsi altisonanti, ripieni di Spirito, ma incomprensibili a delle menti deboli. E di questo egli ringrazia Dio.

Lingue e profezia: il diverso impatto che possono avere sui non credenti (vv.20-25.39-40)

La preferenza che Paolo accorda alla profezia per la sua chiarezza di linguaggio nel suo rivolgersi alla comunità credente vale altresì per i non credenti, così come la glossolalia, se non interpretata, diviene incomprensibile sia per i credenti che per i non credenti. Ma mentre per i credenti l'incomprensibilità delle lingue non torna a loro condanna, perché sanno che essa è di origine divina e in qualche modo la rispettano e la accolgono, pur non comprendendola, lo diviene, invece, per i non credenti, per la durezza del loro cuore, che resiste all'annuncio di Dio, che si attua ed opera nel Vangelo.

Contrariamente, se la lingua del Vangelo, incomprensibile per i non credenti, fosse rivelata dalla profezia, che sa parlare agli uomini con il loro linguaggio, illustrando loro il Mistero di Dio, questa toccherebbe i loro animi, predisponendoli alla conversione. Ancora una volta, quindi, Paolo sottolinea l'importanza della profezia sulla glossolalia, non solo per i credenti, ma altresì per i non credenti. La profezia, quindi, a differenza della glossolalia, diviene il linguaggio universale attraverso il quale Dio parla a tutti gli uomini, credenti e non credenti.

Questo sembrerebbe essere sostanzialmente il messaggio della pericope vv.20-25, alquanto contorta e tendenzialmente fumosa se non oscura.

La pericope in esame si apre con l'esortazione del v.20, che sollecita i Corinti a superare il loro infantilismo spirituale per accedere, finalmente, alla maturità credente. Ma se proprio vogliono restare “bambini”, sollecita paolo, che lo siano con riguardo alla malizia, quanto alla quale si sono dimostrati, invece, alquanto evoluti con divisioni, fornicazioni e scandali interni di ogni genere. Non è la prima volta che Paolo si lamenta in tal senso nei confronti dei Corinti. Già in 3,1-3 si rammaricava per la loro scadente evoluzione spirituale, ancora ferma all'abc della fede: “Anch'io, fratelli, non potei parlarvi come a degli spirituali, ma come a dei carnali, come a dei bambini in Cristo. Vi diedi da bere latte, non cibo; infatti non ancora potevate. Ma non ancora ora potete, infatti, siete ancora carnali. Poiché, infatti, tra voi vi è rivalità e contesa, non siete (forse) carnali e camminate secondo l'uomo?”

Questa resistenza all'evoluzione spirituale, che impedisce loro di entrare appieno in quel mondo nuovo dello Spirito, che avevano abbracciato con l'ascolto accogliente del Vangelo, da un lato, crea tra loro divisioni e contrapposizioni, dall'altro, li spinge a rincorrere i carismi che più gratificano la loro appariscenza in mezzo alla comunità, come la glossolalia, porta Paolo a riprenderli scritturisticamente, citando liberamente Is 28,11-12, che ammonisce Israele per la sua durezza di cuore, insensibile alla voce di Dio: “Parlerò a questo popolo con altre lingue e con labbra altrui, e neppure così mi ascolteranno”. Le “altre lingue” e le “altrui labbra”, alle quali qui il proto Isaia fa riferimento, sono quelle del re assiro Sennacherib (704-681 a.C.), che assedierà Gerusalemme, per la sua infedeltà, costringendo Ezechia, re di Giuda, a pagare un pesante tributo. Sennacherib, pertanto, diviene lo strumento di castigo di Dio sull'infedele Israele, che non ascolta la voce dei profeti.

Il richiamo scritturistico, tuttavia, non vale solo per i Corinti, ma anche per i pagani, che non comprendono la lingua del Vangelo e sono chiusi al suo annuncio, per cui la glossolalia, cioè la voce dello Spirito che parla agli uomini, diventa il segno dell'incomunicabilità colpevole degli uomini, che non si aprono all'annuncio del Vangelo, ma non lo è per i credenti, i quali, benché non comprendendo il contenuto del messaggio criptato da una lingua sconosciuta e impenetrabile, tuttavia, questi sanno che essa è di origine divina e, quindi, non la respingono. Proprio per questo, la profezia, che è la versione in chiaro della glossolalia, è rivolta ai credenti, disponibili ad accogliere la Parola dello Spirito, che parla loro tramite il profeta.

Data, dunque, questa premessa, Paolo, ora, trae la conclusione. Considerato che i “profani”, probabilmente da intendersi gli iniziati che devono ancora percorrere il cammino che li porterà al battesimo, e i “non credenti”, cioè i pagani, non essendo questi in grado di aprirsi ai Misteri della Parola, che si esprime per loro in modo incomprensibile con la glossolalia, considererebbero l'annuncio dei glossolali soltanto delle farneticazioni, respingendolo (v.23); ma se, per contro, sia i profani che i pagani e nel contempo anche i credenti venissero investiti tutti dal chiaro annuncio della profezia, che sa parlare e toccare il cuore di tutti gli uomini, i credenti, così illuminati dalla profezia, divengono un potente stimolo per la conversione dei pagani, investiti dall'annuncio profetico assieme a loro (vv.24-25).

La conclusione dell'intera sezione riguardante il confronto della glossolalia con la profezia viene posta ai vv.39-40, probabilmente un'aggiunta successiva, dopo che Paolo ha dettato alcune regole del buon comportamento dei partecipanti nelle assemblee liturgiche per il loro ordinato svolgersi. Ed è proprio questo “ordinato svolgersi”, che deve aver spinto Paolo a lasciare ai Corinti un suo ultimo sollecito circa il corretto uso della profezia e della glossolalia nelle assemblee. Benché egli prediliga la profezia rispetto alla glossolalia, tuttavia, si rende conto che quest'ultima, alla pari della profezia, è una manifestazione dello Spirito, che, proprio per questo, non può essere trascurata o, peggio, rifiutata. Pertanto, conclude, Paolo ben venga la profezia e parimenti la glossolalia, ma, attenzione, “tutte le cose avvengano in modo decoroso e con ordine” (v.40), dove quel “tutte le cose” non riguarda soltanto le regole assembleari dettate ai vv.26-38, ma altresì e in particolar modo la profezia e la glossolalia, che devono trovare pari spazio nell'assemblea, ma con una maggiore attenzione alla profezia, facendo in modo che il glossolalo sia sempre affiancato da un interprete, che può essere anch'egli stesso (v.13) oppure un altro carismatico, investito dal dono della comprensione della lingua (v.27), altrimenti è meglio per il glossolalo che taccia (v.28).

Alcune linee di buon comportamento nelle assemblee liturgiche (vv.26-38)

Testo a lettura facilitata

Introduzione: il contesto assembleare (v.26)

26- Che è dunque, fratelli? Quando vi radunate, ciascuno ha un salmo, ha un insegnamento, ha una rivelazione, ha una lingua, ha una interpretazione; tutte le cose siano per l'edificazione.

I glossolali (vv.27-28)

27- Quando qualcuno parla in lingua, siano due o al più tre, a turno, e uno interpreti;
28- ma qualora non ci fosse (l')interprete, si taccia in assemblea, (e colui che parla in lingua) parli a se stesso e a Dio.

I profeti (vv.29-33a)

29- (I) profeti parlino in due o tre e gli altri giudichino;
30- ma qualora ad un altro, che è seduto, viene data una rivelazione, il primo taccia.
31- Potete profetare tutti uno alla volta, affinché tutti imparino e tutti siano esortati.
32- (Le) ispirazioni dei profeti sono sottomesse ai profeti,
33a- poiché Dio non è (un Dio) di tumulto, ma di pace.

Le donne (vv.33b-35)

33b- Come in tutte le assemblee dei santi,
34- le donne nelle assemblee tacciano, poiché non è permesso a loro di parlare, ma siano sottomesse, come dice anche la Legge.
35- Ma se vogliono imparare qualcosa, interroghino in casa i loro mariti; poiché è una cosa sconveniente per una donna parlare in assemblea.

Un'ultima sferzata polemica alle pretese dei Corinti (vv.36-38)

36- Da voi è uscita la parola di Dio o è giunta a voi soli?
37- Se qualcuno ritiene di essere un profeta o uno spirituale, riconosca che le cose che scrivo è un comando del Signore;
38- se qualcuno (lo) ignora, sarà ignorato.


Note generali

Benché il cap.14 si interessi esclusivamente della glossolalia e della profezia nonché dei rapporti tra i due carismi, tuttavia si rende necessario per Paolo un intervento generale per regolamentare le modalità di partecipazione alle assemblee, che, a quanto si può in qualche modo intuire, erano piuttosto caotiche o, quanto meno, soffrivano di un certo disordine nella loro conduzione. Un duro richiamo già era stato fatto in 11,17-34 circa il modo di celebrare la Cena del Signore; nonché in 11.1-16 sul modo di abbigliarsi delle donne, che presenziavano senza il capo velato per mettersi in mostra e qui sembra, addirittura, trovarsi in presenza di una qualche rivalità tra carismatici nei loro interventi assembleari. Certamente, quella di Corinto, doveva essere una comunità molto vivace e ripiena di Spirito Santo, ma vi era anche al suo interno molto disordine (11,17-18).

I motivi per cui ci si riuniva in assemblea liturgica potevano essere molteplici, ma sostanzialmente due sembrano prevalere su tutti e di cui abbiamo testimonianza: la celebrazione settimanale della Cena del Signore, l'ascolto delle Scritture e della predicazione degli apostoli, nonché il pregare insieme. Ce ne dà attestazione in tal senso Col 3,16: “La parola di Cristo dimori tra voi abbondantemente; ammaestratevi e ammonitevi con ogni sapienza, cantando a Dio di cuore e con gratitudine salmi, inni e cantici spirituali”; cui fa in qualche modo da eco At 2,42: “Erano assidui nell'ascoltare l'insegnamento degli apostoli e nell'unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere”.

Erano, quindi, questi i contesti liturgici in cui si manifestavano prevalentemente i due carismi: sia quello della glossolalia che quello della profezia e qui Paolo ne fa un breve accenno esemplificativo: “Quando vi radunate, ciascuno ha un salmo, ha un insegnamento, ha una rivelazione, ha una lingua, ha una interpretazione”. Profezia e glossolalia, dunque, si frammischiavano tra loro, probabilmente sovrapponendosi in modo disordinato, così da creare confusione e tensioni interne all'assemblea, tanto che Paolo sottolinea al v.33a come “Dio non è (un Dio) di tumulto, ma di pace”. Da qui la necessità di mettere un po' d'ordine all'interno delle assemblee liturgiche, dettando delle linee di comportamento rispettose dell'assemblea e tenendo presente che tutto deve avvenire in favore della stessa, a sua edificazione. Niente, quindi, personalismi o rivalità o tentativi di prevaricazioni o di contrapposizioni e tantomeno divisioni, ma tutto per il bene della comunità.

Le regole riguardano fondamentalmente tre aree di intervento, che scandiscono la struttura della pericope in esame: dopo una breve introduzione che richiama il contesto assembleare (v.26), si passa alle aeree d'intervento: i glossolali (vv.27-28), i profeti (vv.29-33a) e, infine, le donne (vv.33b-35). Il tutto si chiude con una sferzata polemica contro le pretese dei Corinti (vv.36-38)

Commento ai vv.26-38

Dopo enunciazioni di principi, spiegazioni di senso, richiami, rimproveri e solleciti, Paolo è giunto alla fine del suo discorso sui carismi e sulle loro manifestazioni assembleari, per cui si rende necessaria una concreta conclusione per evitare rivalità e divisioni interne alla stessa assemblea: “Che è dunque, fratelli?”, in altri termini “Che bisogna fare, dunque?” Ecco pertanto il primo insegnamento, la prima regola da tenere presente in ogni manifestazione carismatica: “tutte le cose siano per l'edificazione” dell'assemblea. “Edificazione”, dunque, un termine che ricorre nel solo cap.14 ben sette volte sia sotto forma di sostantivo che di verbo, per indicare la particolare attenzione che la comunità credente, riunita in assemblea, deve avere, ma che tradisce nel contempo la preoccupazione di Paolo per l'unità della chiesa di Corinto, molto vivace nelle sue manifestazioni ed esuberante nel suo fervore mistico e spirituale, ma disordinato e tale da danneggiare la comunità stessa.

Va, dunque, tenuto presente il senso e la finalità dei carismi nel loro manifestarsi: l'edificazione della comunità in Cristo.

È interessante l'elencazione delle manifestazioni carismatiche, poiché lasciano intuire come queste si manifestavano e i loro contenuti. Si trattava di “un salmo” da intendersi probabilmente non soltanto in senso strettamente letterale, ma di una preghiera spontanea, che nasceva all'improvviso dal cuore o che, durante la settimana tornava ripetutamente nella propria mente; mentre l'insegnamento e la rivelazione hanno a che vedere con la profezia. Insegnamento forse su qualche passo scritturistico o su qualche evento accaduto nel corso della settimana e che ha colpito l'intera comunità o sul come comportarsi; mentre la rivelazione non va intesa probabilmente come un evento soprannaturale, ma semplicemente come una particolare comprensione di un qualche accadimento, che si traduceva, poi, in buona sostanza in insegnamento. Forse anche per questo “insegnamento e rivelazione” vengono qui accorpati assieme.

Altrettanto significativa è l'associazione tra “lingua e interpretazione”, un binomio questo che già era comparso in 12,10b, dove si fa l'elencazione dei doni dello Spirito (12,8-10): “ad un altro (diversi) generi di lingue, ad un altro l'interpretazione d(elle) lingue”; binomio al quale Paolo dedicherà poi la pericope 14,13-19, concludendo infine, qui, ai successivi vv.27-28.

Dall'elencazione qui esposta e da quanto si dice ai vv.29-30 si ha l'idea di esternazioni non programmate e concordate in precedenza per un'esposizione ordinata ed efficace, ma libere, spontanee e improvvise con le quali ognuno diceva la sua, quello che in quel momento il suo “cuore”, considerato la sede figurata della voce dello Spirito e della propria coscienza, gli suggeriva in quel momento. Posti gli interventi in questo contesto di improvvisazione e di spontaneità è facile comprendere come queste esternazioni potessero sovrapporsi e creare un contesto caotico e indisponente, che poteva infastidire e creare contrasti o, peggio, divisioni o risentimenti. Da qui l'esortazione “tutte le cose siano per l'edificazione” e, di conseguenza, tutto deve svolgersi in modo ordinato e rispettoso. Il "come” sarà oggetto di attenzione dei versetti successivi, che formano da linee di comportamento.

I glossolali (vv.27-28)

La prima attenzione viene rivolta ai “glossolali”, perché la glossolalia probabilmente era il carisma più ambito, per quel alone di mistero che investiva e circondava il carismatico, che in tal modo si metteva in mostra come un fenomeno particolare. Non doveva trattarsi, tuttavia, di un carisma che si manifestava in una situazione di trance o di estasi e quindi fuori dal controllo del glossolalo, poiché Paolo qui detta la regola della turnazione e del contenimento della manifestazione: “Quando qualcuno parla in lingua, siano due o al più tre, a turno” (v.27a).

Ma ciò che più preme a Paolo, nel rispetto della primaria regola che ogni carisma deve tornare a beneficio della comunità (v.26), è che questi strani fenomeni delle lingue, di cui non si capisce il senso, siano accompagnati da un interprete, così che l'intera assemblea sia coinvolta con il suo “Amen” (v.16), Altrimenti, mancando l'interprete: “si taccia in assemblea, (e colui che parla in lingua) parli a se stesso e a Dio” (v.28). Il motivo di questa drastica decisione presa con quel comando perentorio “si taccia in assemblea” è dovuto al fatto che la lingua manifestata era considerata un fatto personale tra il carismatico e Dio e non sempre lo stesso carismatico era cosciente di quello che egli pronunciava (vv.13-19). Così che serviva l'interprete o lo stesso carismatico doveva chiedere anche il dono dell'interpretazione (v.13).

I profeti (vv.29-33a)

La limitazione degli interventi riservati ai glossolali (v.27), due o tre nel corso dell'intera assemblea, vale parimenti anche per i profeti. La limitazione è per evitare gli intasamenti degli interventi o che qualcuno monopolizzi gli spazi dell'assemblea e consentire in tal modo a tutti di poter intervenire, così che “qualora ad un altro, che è seduto, viene data una rivelazione, il primo taccia. Potete profetare tutti uno alla volta, affinché tutti imparino e tutti siano esortati”. Ognuno è sospinto interiormente dalla voce dello Spirito, che a ciascuno suggerisce un frammento di Verità, così che nell'insieme degli interventi ne esca un quadro completo. Da qui la ricchezza spirituale della comunità credente. Ma il tutto deve svolgersi con ordine: “Potete profetare tutti uno alla volta” affinché “tutti imparino e tutti siano esortati” (v.31). La limitazione degli interventi, dunque, non è solo per dare ordine e spazio a tutti, ma anche perché gli interventi tornino per tutti a loro beneficio, evitando così un sovraccarico di rivelazioni, interpretazioni e manifestazioni, molte delle quali andrebbero perdute. Tutto è dono dello Spirito e tutto va preservato e trasmesso ordinatamente alla comunità credente, così che cresca ordinatamente in Cristo. Paolo, quindi, ha sempre a cuore l'edificazione dell'assemblea, per la quale questi doni vengono elargiti dall'unico e comune Spirito.

Tuttavia, anche chi profetizza esprime un pensiero che non è quello diretto che lo Spirito gli ha trasmesso, ma è dal profeta elaborato a modo suo, risentendo delle sue capacità, delle sue attitudini e della sua cultura. Il profeta, infatti, beneficia di un messaggio da trasmettere, ma non del dono dell'infallibilità e della perfezione. Per questo, sollecita Paolo, mentre costui parla “gli altri giudichino”. Chi sono questi altri? Probabilmente gli altri carismatici, lì presenti in assemblea, i quali, in quanto tali, sono dotati di una particolare sensibilità per le cose spirituali e per la Verità che viene trasmessa e rivelata dallo Spirito. Ma non è da escludersi l'intera assemblea, che già in qualche modo era stata edotta da Paolo sulla veridicità dei carismi in 12,3: “nessuno, che parli n(ello) Spirito di Dio, dice: <<Gesù (è) anatema>>, e nessuno può dire: << Gesù (è) Signore>> se non (n)ello Spirito Santo”.

In altri termini, non è tutto oro colato quello che trasuda dalla bocca del profeta e va posto al vaglio delle persone competenti e dell'intera assemblea, nella logica che più teste comprendo melio di una sola.

Tuttavia, conclude Paolo, non si contesti mai nulla al profeta, poiché “(Le) ispirazioni dei profeti sono sottomesse ai profeti”, poiché solo i profeti sanno esattamente cosa è stato loro rivelato e solo loro sanno che cosa hanno sentito dentro se stessi e che cosa li ha spunti a dire quelle cose lì piuttosto che altre. L'assemblea, pertanto, è sollecitata ad accogliere il messaggio, ma non in modo supino, ma con atteggiamento consapevole, così come si conviene a persone spiritualmente mature. Quindi, al bando le contestazioni o le critiche, poiché il Dio che ha beneficiato il profeta, come beneficia dei suoi messaggi alla comunità credente, “non è (un Dio) di tumulto, ma di pace”. Come dire che ogni valutazione fatta sul messaggio non deve mai trascendere e tradursi in occasione di contestazioni o prevaricazioni. Non è questo che Dio vuole dalla sua chiesa in Corinto.

Le donne nelle assemblee (vv.33b-35)

La pericope in esame potremmo definirla come una dura sentenza repressiva contro le donne, relegate al silenzio pubblico del tipo “statevene zitte e parlate solo a casa vostra”. Ma cosa intendeva dire realmente Paolo con questi due versetti e mezzo, così drastici sulle donne: “tacciano in assemblea”, “non è permesso loro di parlare”, “siano sottomesse”, parlino solo a casa loro. Non solo, ma addirittura invoca la Scrittura per tacitarle definitivamente: “come dice anche la Legge”.

Per poter capire un simile sferzante e draconiano intervento paolino sulle donne corinzie è necessario creare il contesto della comunità di Corinto, una comunità vivace e irrequieta e che mal sopportava le autorità esterne, compresa quella di Paolo, così che in 11,16 Paolo si vede costretto a ricorrere a tutta la sua autorità apostolica: “Ma se qualcuno sembra essere rissoso, noi non abbiamo tale consuetudine, né le chiese di Dio”. Ed è proprio con quest'ultima espressione che si apre questa breve pericope “misogina”: “Come in tutte le assemblee dei santi”. Paolo, quindi, si rifà alla consuetudine ricorrente all'interno delle comunità credenti, variamente sparse nell'Impero. Se Paolo usa questi toni duri, richiamandosi alla consuetudine della Chiesa è perché, probabilmente, all'interno della comunità credente di Corinto vi erano delle frange progressiste e libertarie, che andavano per conto proprio e volevano stabilire un loro ordine proprio. Da qui anche le divisioni lamentate da Paolo e motivo principale della presente lettera, dove ciascuno seguiva un suo proprio leader (1,11-12); da qui anche il fatto che le donne presenziavano in assemblea o in mezzo ad essa intervenivano senza velo. Paolo, quindi, in primis, si rifà alla Tradizione della Chiesa e ai suoi usi e costumi interni, cercando di dare anche un contenuto scritturistico alle sue pretese, che tuttavia non si capisce bene quale esso fosse. Forse alludeva a Gen 3,16b: “Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà" (11,10); o forse il fatto che la donna è stata tratta dall'uomo e non creata direttamente da Dio, come lo fu per Adamo (11,8; Gen 2,22); o forse anche per il fatto che il primo uomo impose il nome generico di “donna” (ebr. Isshah) alla donna, in quanto tratta dall'uomo (Gen 2,23). In ebraico uomo, infatti, si dice “ish” e la donna venne chiamata “isshah”, cioè, letteralmente. “uoma”, perché, commenta l'agiografo, dall'uomo era stata tratta (Gen 2,23b). Solo successivamente Adamo la chiamò “Eva” (Gen 3,20), quale segno di sua sottomissione ad Adamo (11,10), come attesta l'imposizione del nome.

Ma nei vv.34-35 si riflette anche la cultura propria di Paolo, in quanto giudeo e fariseo (Fil 3,5). Per il giudaismo, infatti, la donna non era tenuta a frequentare la sinagoga, né era tenuta a conoscere la Torah, poiché era sufficiente che vivesse all'ombra del proprio padre o del proprio marito, dai quali riceveva l'istruzione religiosa necessaria.

Tuttavia, Paolo non nega alle donne di presenziare in assemblea, né impedisce loro di intervenire in queste con preghiere proprie o con proprie profezie (11,5). Che cosa intendeva dire, allora, Paolo con quel “tacciano” e “se vogliono imparare qualcosa, interroghino in casa i loro mariti” e, infine, “è una cosa sconveniente per una donna parlare in assemblea”. Ma se per Paolo è sconveniente che una donna parli in assemblea, perché allora consente i loro interventi con preghiere o con profezie o, comunque, con interventi che abbiano a che vedere con lo svolgimento dell'assemblea? La soluzione della questione sta tutta nel verbo “lale‹n” (laleîn), che si ripete ai vv.34.35 e significa secondariamente “parlare”, ma il suo significato primario è “cianciare, ciarlare, chiacchierare”, in buona sostanza parlare con superficialità e dire cose di scarsa consistenza o in modo dispersivo. A cosa, dunque, alludeva Paolo quando diceva alle donne di tacere e che è sconveniente il parlare in assemblea? Al di là del significato del verbo “lale‹n” (laleîn), il contesto lascia intendere che è bene per le donne non fare interventi vacui o inutili o superficiali in assemblea o, peggio, chiacchierare mentre questa si svolge e che se il loro chiacchierare e i loro interventi mirano ad imparare, che le domande le facciano ai loro mariti a casa loro. Perché questo duro intervento, dunque? Il motivo sta nel fatto che probabilmente era invalso tra le donne di Corinto l'uso di mettersi in mostra non solo non portando il velo per farsi ammirare, ma anche intervenendo inutilmente con domande vacue e inconsistenti, la cui finalità non era quella di imparare, ma quello di mettersi in mostra e di attirare l'attenzione dell'assemblea su di sé. In altri termini, Paolo con questo suo intervento come quello sul velo intende richiamare le donne di Corinto alla modestia e non certo reprimerle in quanto donne, ma in quanto al loro intento, più o meno velato, di seduzione.

Non va mai dimenticato che tutto ciò avviene a Corinto, cioè in un contesto sociale molto difficile, dove vi era una grande mescolanza di culture, di religioni, di filosofie e di modi di vivere, che spingeva la gente a vivere in modo libertario senza molte regole di vita morale, tant'è che si era venuto a creare il detto il detto “Vivere alla maniera corinzia”, che significava vivere in modo corrotto e nell'impudicizia. Eloquente in tal senso era il verbo “korinqi£somai” (korintziásomai), che significava "darsi all'impudicizia" o “vivere in modo licenzioso”; mentre la "prostituta" era definita con l'appellativo di "kornqhia kÒrh" (koríntzeia kóre), cioè “ragazza di Corinto”57.

In questo contesto, dunque, vanno, a mio avviso, letti e compresi i vv. 33b-35.

Un'ultima sferzata polemica alle pretese dei Corinti (vv.36-38)

Paolo si rende conto di essere stato duro e drastico nel suo prendere posizione di fronte a certi modi di porsi delle donne nelle assemblee e prevenendo, quindi, eventuali contestazioni si appella alla sua autorità di apostolo, quale annunciatore della Parola che egli ha annunciato parimenti a tutti indistintamente, ai Corinti come a tutte le altre chiese. Una parola di Dio, quindi, uguale per tutti e che uniforma tutte le comunità credenti dando loro l'unico volto di Cristo. Proprio per questo egli ritiene che quanto detto ai Corinti sia “comando del Signore” e in tal senso richiama, quasi in tono di sfida, quei carismatici che si ritengono essere dei profeti o degli spirituali a sottoscrivere le sue parole, riconoscendole, pertanto, come espressa volontà di Dio.

Paolo, infatti, sa che ciò che ha detto riflette il pensiero o quanto meno lo stile del Vangelo, non di quel Vangelo che egli ha sentito da altri apostoli, ma del suo Vangelo, quello che gli è stato rivelato da Dio stesso, come ricorderà in Gal 1,11-12: “Vi dichiaro dunque, fratelli, che il vangelo da me annunziato non è modellato sull'uomo; infatti io non l'ho ricevuto né l'ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo”, mentre in Rm 12,3a mostra di avere coscienza del suo speciale apostolato, che egli ha ricevuto “non da parte di uomini, né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre, che lo ha risuscitato dai morti” (Gal 1,1): “Per la grazia che mi è stata concessa, io dico a ciascuno di voi”. Da qui nasce l'autorità apostolica di Paolo.

Per questo egli può anche concludere in modo sferzante, a mo' di anatema: “se qualcuno (lo) ignora, sarà ignorato”. In altri termini, chiunque dimentichi chi è veramente Paolo e la sua autorità di apostolo, disconoscendo quanto egli ha detto e, quindi, l'autorità delle sue parole, che egli ritiene “un comando del Signore”, Dio ignorerà lui, cioè non lo riconoscerà più come suo discepolo. Quasi una sorta di scomunica.

La carità, fondamento della comunità credente (13,1-13)

Testo a lettura facilitata

Tutto è niente senza la carità (vv.1-3)

1- Qualora parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono un bronzo che suona o un cembalo che strepita.
2- E qualora abbia (la) profezia e conoscessi tutti i misteri e ogni conoscenza e qualora avessi tutta la fede da trasportare (i) monti, ma non ho la carità, sono niente.
3- E qualora dessi in cibo tutti i miei beni e qualora dessi il mio corpo per gloriarmi, ma non ho la carità, niente mi giova.

I tratti caratteristici della carità (vv.4-7)

4- La carità è paziente, è benevole la carità, non è invidiosa [la carità], non ama l'ostentazione, non si gonfia d'orgoglio,
5- non si comporta spudoratamente, non cerca i propri (interessi), non si irrita, non tiene conto del male (ricevuto),
6- non gioisce per l'ingiustizia, ma si rallegra per la verità;
7- tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.

La carità nella sua prospettiva escatologica ed apocalittica (vv.8-13)

8- La carità non muore mai; sia (le) profezie, saranno annullate; sia (le) lingue, cesseranno; sia (la) conoscenza, sarà annullata.
9- Infatti conosciamo (solo) in parte e (solo) in parte profetiamo;
10- ma quando sarà giunto (ciò che è) perfetto, (ciò che è) imperfetto sarà annullato.
11- Quando ero bambino, parlavo come un bambino, pensavo come un bambino, ragionavo come un bambino; quando sono diventato un uomo, ho smesso le cose del bambino.
12- Ora, infatti, vediamo in modo enigmatico, (come) per mezzo di uno specchio, ma allora (vedremo) faccia a faccia; ora conosco (solo) in parte, ma allora conoscerò (in modo perfetto) come anche sono stato conosciuto.
13- Ora rimangono queste tre cose: fede, speranza, carità; ma la più grande di tutte è la carità.

Note generali

­Il cap.13, posto a seguito del cap.12, il capitolo che Paolo ha dedicato ai carismi, doveva essere nelle sue intenzioni quello che chiudeva non solo tale capitolo, ma altresì l'ampia sezione della vita comunitaria nella sua più ampia e variegata dinamica, non di rado tribolata e inquieta (1,10-12,31), sottolineando come questa doveva essere fondata sull'amore (13,4-7) e come ogni carisma, anche quello più ricercato, come quello della glossolalia e della profezia, sarebbe stato un nulla se non fosse stato radicato nella carità (13,1-3). Senonché, dopo il cap.13, Paolo deve aver ripensato alla questione dei carismi, con particolare riferimento a quelli della glossolalia e della profezia, richiamati in apertura del cap. 13 (vv.1-2), lasciando intravvedere inconsciamente il suo particolare interesse per questi due carismi, probabilmente i più problematici per la comunità di Corinto, così che volle tornarci sopra, originando in tal modo il cap.14, ad essi interamente dedicato, per meglio approfondire il rapporto tra i due carismi e dettando delle regole di comportamento in assemblea nell'uso di questi.

Per tale motivo ho preferito legare tra loro di seguito i capp.12.14, in cui il cap.14 è la ripresa e lo sviluppo del cap.12, facendo slittare dopo il cap.14 il cap.13, a chiusura della questione sui carismi e dell'intera sezione dei rapporti intracomunitari, rispettando in tal modo l'intenzione originaria di Paolo.

Fatta questa debita premessa, già comunque ampiamente e meglio trattata alle pagg.130 e 161 del presente studio, passiamo, ora, all'analisi di una delle più stupende pagine del N.T., forse la più nota, dove viene elogiata e celebrata con toni poetici all'interno di uno stile innico la “¢g£ph” (agápe), cioè l'amore donativo per eccellenza, che si richiama ed esprime quello proprio di Dio e che ben si distingue dall' “rwj” (éros), l'amore passionale, che implica la sensualità, il godimento e, quindi, il proprio appagamento personale, dove non c'è spazio per l'altro, se non come oggetto da usare; e si distingue anche dalla “fila” (filía), che fa riferimento al tenue sentimento dell'amicizia, dove vige la legge della reciproca stima, fiducia e rispetto, dove il donare è compensato e integrato dal ricevere, così che il rapporto, in questa dialettica circolare del dare-avere, cresce maturando nell'arricchimento delle persone.

Le modalità di approccio al tema non è di ordine disquisitivo o speculativo, ma concreto e pratico. Paolo, infatti, davanti a sé ha una comunità che deve essere raddrizzata ed ha bisogno che qualcuno le indichi concretamente la giusta via da percorrere e che le dica ciò che va bene e ciò che non va bene, senza tanti giri di parole. Soltanto nella seconda parte del cap.13,vv.8-13, prospetta la natura escatologica ed apocalittica dell'amore, che non avrà mai fine e che confluirà nell'eternità di Dio, da cui proviene ed è caratterizzato, trovando lì la sua pienezza e il suo completamento, poiché questo Amore altro non è che la Vita stessa di Dio, che trova il suo spazio storico nella Carità, intesa quale atteggiamento di apertura donativa e accogliente dell'altro, che si esplicita in atti concreti, che puntano all'affermazione dell'altro, in cui è sacramentato e si riconosce Dio stesso, così che l'amore per Dio passa necessariamente attraverso quello per il prossimo: “Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1Gv 4,20b); mentre il Gesù matteano attesta la propria sacramentalizzazione nell'altro: “ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me” (Mt 25,40.45). L'amore per Dio e l'amore per il prossimo sono due realtà inscindibili, che Gesù stesso coniuga assieme58.

L'Amore divino, qui colto nella sua concreta storicizzazione di Carità, viene celebrato da Paolo come l'elemento che dà valore a tutte le nostre azione, al nostro vivere ed operare, senza il quale tutto perde di senso (vv.1-3); viene altresì cantato ed elogiato nel suo esprimersi esistenziale, da cui traluce in qualche modo la sua origine divina (vv.4-7); ed è infine colto nella sua prospettiva escatologica ed apocalittica che ne rivelano la sua reale dimensione di Vita divina (vv.8-13), che è Vita essenzialmente di Amore, che si sacramenta nella Carità, che deve informare il vivere quotidiano di ogni credente.

Con quest'ultimo breve capoverso, qui sopra esposto, è stata delineata la struttura del cap.13, che sinteticamente è così scandita:

Commento ai vv.1-13

Tutto è niente senza la carità (vv.1-3)

In questa breve pericope per cinque volte si ripete la particella ipotetica “™¦n” (eàn, qualora), che introduce altrettanti eventi ipotetici, il cui intento è quello di creare dei contesti estremi, che vanno oltre il paradosso, sconfinando nel surreale. Situazioni e condizioni che mai si verificherebbero in un normale contesto esistenziale, neppure considerato nelle sue possibili eccezioni ed eccezionalità, che comunque verrebbero surclassate da queste ipotesi irreali, proprio perché irreali. Ma è proprio questo contesto irreale, con il quale viene posta a confronto la Carità, che vede il primo soccombere, perdere di ogni significato e privato di ogni valenza, qualora la Carità non lo sostanzi e non gli dia forma, indicando in tal modo la Carità come il senso più vero e profondo, che deve innervare l'intera vita del credente, plasmandola sullo stile della Vita stessa di Dio, che per sua natura è Amore (1Gv 4,8.16), e di cui il credente è ontologicamente pregno per sua natura, così che tutto ciò che egli compie è un trasfondere in ciò che compie la stessa energia salvifica che promana dalla Vita stessa di Dio, in lui presente (Rm 12,1); quella stessa Vita da cui è fuoriuscita la prima creazione, quale primo atto di Amore generativo di Dio, avvolta e permeata dalla stessa Luce divina primordiale (Gen 1,3), così che Dio vide che tutto ciò che aveva fatto era cosa molto buona (Gen 1,31), perché tutto in Lui si rispecchiava e tutto era incandescente di Lui.

Colta in tale contesto la Carità diviene, allora, lo strumento di cui Dio, che per sua natura è Amore, si serve per attrarre nuovamente a Sè tutte le cose, permeandole nuovamente di Se stesso. Forse non è un caso che proprio il cap.15, il capitolo della risurrezione, colta da Paolo come la nuova creazione, si chiuda con il v.28, che vede ricondurre in Dio tutte le cose, così che Dio sia nuovamente Tutto in tutti e in tutto, così com'era nei primordi.

La Carità, dunque, quale strumento di infusione dell'Amore di Dio nelle cose e nell'intera umanità, che passa attraverso gli uomini. Essa diviene, pertanto, il segno della potente presenza di Dio in mezzo ad essi, chiamati a lasciarsi penetrare e conformare da questo Amore, facendo delle proprie vite un sacramento di tale Amore, che in loro si manifesta come Carità.

Ed ecco la prima paradossale ipotesi: “Qualora parlassi le lingue degli uomini e degli angeli”. Paolo chiama qui subito in causa il primo carisma, quello forse più ambito presso la comunità di Corinto, in quanto avvolto da una sorta di alone di mistero: la glossolalia, colta qui nella sua totalità cosmica e universale, umana e sovrumana. L'espressione “uomini e angeli” equivale alla nostra “terra e cielo” per indicare il tutto. Si indicano, quindi, i due estremi per abbracciare la totalità delle lingue esistenti sia sulla terra che nel cielo, cioè ovunque.

Il fatto che Paolo citi “la lingua degli angeli” è probabile che vi sia in tal senso una credenza diffusa e che Paolo attinga in qualche modo da questa. Di “lingua degli angeli” parla infatti l'opera giudaica apocrifa, collocabile tra il I sec. a.C. e d.C., il “Testamento di Giobbe”, dove le figlie di Giobbe, dopo la guarigione del padre, lodano Dio con la lingua degli angeli. Tuttavia non è da escludersi che Paolo, nel citare la “lingua degli angeli”, alluda in qualche modo alla sua esperienza extracorporea e trascendente che ricorderà, suo malgrado (2Cor 12,1.5-6), in 2Cor 12,3-4: “E so che quest'uomo - se con il corpo o senza corpo non lo so, lo sa Dio - fu rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunziare”. “Parole indicibili”, che non si possono dire non perché segrete, ma perché non trovano riscontro con il linguaggio umano né possono essere ripetute neppure come suono, sempre che abbiano un suono, trovandosi in una dimensione completamente diversa dalla nostra.

Sempre che, poi, gli angeli abbiano una loro lingua. Il linguaggio, infatti, è uno strumento di comunicazione, che abbiamo costruito noi umani per esprime ed elaborare il nostro pensiero per poi trasmetterlo, altrimenti diverrebbe incomunicabile. Un linguaggio che, va detto, è molto grezzo e imperfetto, benché affascinante nella sua formazione e nella sua dinamica.

Gli angeli, infatti, si collocano in una dimensione completamente diversa dalla nostra e per la loro stessa natura hanno una tipologia di rapporti e modi di comunicazione tra loro completamente diversi dai nostri. Essi non hanno bisogno di una lingua, perché la loro comunicazione non avviene per mezzo di un linguaggio, così come lo intendiamo noi, ma, probabilmente, attraverso una sorta di osmosi spirituale, una sorta di “telepatia” e/o di “empatia” spirituale; la loro comunicazione e comprensione è immediata, istantanea in quanto che essi si riflettono e si ricompongono in Dio, che è in perenne comunione e comunicazione con i suoi angeli, in una sorta di ciclo vitale che tutto e tutti ingloba in Se stesso e tutto permea di Sè, in cui tutto palpita e vive.

Ebbene, conclude Paolo, la conoscenza di tutte le lingue degli uomini, che in 14,10 riconosce essere innumerevoli, nonché quella stessa degli angeli, avvolta nel Mistero di Dio, sarebbero suoni vacui e privi di significato, come uno strumento musicale in bronzo o un cembalo, i cui suoni acquistano senso soltanto se posti all'interno di un contesto musicale e/o artistico, come la proclamazione di un salmo, di una poesia o di una recita teatrale, per i quali sono stati costruiti, altrimenti sono strumenti che producono suoni, anche belli a sentirsi, ma fuori da un contesto artistico apposito si esaurirebbero nel loro stesso suono, venendo vanificati gli strumenti stessi che li emettono.

Questo contesto, in cui questi strumenti sono chiamati ad esprimersi e per i quali i loro suoni sono valorizzati appieno, è la “Carità”, che tiene conto degli altri, poiché essa, per sua natura, è totale apertura agli altri, totale donazione di sé agli altri nonché piena accoglienza in sé, essendo essa un riflesso dell'Amore di Dio, che si proietta negli uomini e in essi si sacramenta e chiede spazio in loro stessi. Anzi sono proprio questi “altri”, la comunità credente, in cui questi strumenti musicali vengono fatti risuonare, i veri destinatari di questi suoni, che strumenti di bronzo e cembali, cioè i carismatici, emettono perché tutti ne possano beneficiare. Gli strumenti, quindi, vanno fatti risuonare perché l'intera comunità ne possa beneficiare e il contesto più opportuno per farli risuonare è la Carità, che sa mettere gli altri prima di se stessi, atteggiamento quest'ultimo cui Paolo ha dedicato l'intero cap.9.

Parimenti vale il discorso per quanto riguarda la profezia (v.2), che è conoscenza che proviene da Dio per il suo popolo e la cui valenza Paolo rincara aggiungendo l'oggetto della conoscenza: “tutti i misteri” e “ogni conoscenza” e di cui Paolo già aveva parlato in 14,1-5 contrapponendola in modo vincente alla glossolalia. Una conoscenza, quindi, piena, totale, onnisciente, che sa penetrare perfino il Mistero di Dio e dei suoi progetti di salvezza e da cui nulla si sottrae; profezia e conoscenza alle quali Paolo aveva già accordato pienamente il suo favore rispetto alla glossolalia (14,1-5), in quanto che queste, con un linguaggio diretto e comprensibile sanno parlare alla comunità, favorendone la crescita spirituale. Diversamente dalla glossolalia, che invece parla a se stessa e la comunità non ne trae alcun vantaggio. Da qui il sollecito che vi sia, accanto al glossologo, un suo interprete, che sappia rendere partecipe la comunità, decriptando la lingua misteriosa. Altrimenti, conclude Paolo in 14,28: “si taccia in assemblea” e il glossolalo se la veda lui personalmente con Dio.

E così pure, similmente, per quanto riguarda la fede, la cui pienezza indefettibile viene espressa con quel “tutta la fede”, che, come già si è detto sopra, non riguarda la fede comune, che consente l'accesso alla salvezza, ma una fede straordinaria capace di “trasportare (i) monti”. Espressione questa che verrà ripresa dal Gesù sinottico (Mt 17,20; 21,21; Mc 11,23; Lc 17,6). Significativo questo, perché Paolo non si è inventata l'espressione, ma l'ha imparata dalle comunità credenti di Damasco, Gerusalemme ed Antiochia, che egli ha frequentato nel decennio prima della sua attività missionaria (36-45 d.C.). Rilevante, poi, perché significa che il Vangelo, poi raccontato dagli Evangelisti, era già presente presso le comunità credenti e già era stato in vario modo e in varie forme elaborato da queste per le proprie necessità, e altro non aspettava che qualcuno le raccogliesse e ne desse una forma letteraria, del tutto nuova e inedita, il vangelo, che, come dice il termine, consiste in un lieto annuncio rivolto all'intera umanità: Dio è tornato in mezzo agli uomini e nel suo Verbo ha indicato la strada del loro ritorno a Dio (Gv 3,16; 14,6), dal quale erano drammaticamente fuoriusciti (Gen 3,16-24).

Ebbene, conclude nuovamente Paolo, tutto questo, profezia, conoscenza onnisciente nonché una fede portentosa non sono assolutamente niente e non tornano in alcun modo a beneficio del carismatico che le possiede se queste non vengono spese nella Carità, cioè in un contesto di Amore divino che si trasmette agli uomini per mezzo del credente e nella coscienza che questi doni mirabolanti sono posti a servizio della comunità credente e che il carismatico è solo uno strumento inutile e povero, di cui Dio si serve a beneficio della comunità. Un atteggiamento che il Gesù lucano ricorderà ai suoi, investiti dai suoi poteri: “Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare” (Lc17,10). La Carità, quindi, che si manifesta nel gesto di chi si spende per il bene degli altri, mettendo gli altri prima di se stesso.

Se nei primi due versetti Paolo ha trattato di due carismi, di cui aveva già aveva accennato nel cap.12 e ne parlerà, poi, più diffusamente, mettendoli a confronto tra loro, nel successivo cap.14, quali la glossolalia e la profezia, due carismi antitetici tra loro, ora, al v.3, viene posto sotto analisi un ulteriore carisma, che è strettamente legato alla Carità e ne è viva espressione, ma che poteva essere inficiato dal proprio “Ego”, che da questo carisma era incline a cogliere un qualche vantaggio personale, così com'era per la glossolalia. Un carisma di cui si era già accennato in 12,28, là dove si parlava, elencando cariche e carismi, di “¢ntil»myeij” (antilémpseis), cioè di “sostegni” e, quindi di assistenza ai bisognosi.

La scelta di questo carisma da parte di Paolo non è stata casuale, come non lo fu per la glossolalia e la profezia, poiché all'interno della comunità credente vi era una particolare attenzione ai poveri e ai bisognosi in genere, che venivano soccorsi con i beni dei membri della comunità stessa. Un esempio in tal senso ci viene da At 4,32.34-35: “La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un'anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune. […] Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l'importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno”. Ma anche questa attenzione ai poveri, donando i propri beni doveva muoversi nell'ambito della Carità, cioè dell'Amore di Dio che si fa dono per gli altri in me, dove il mio “Io” è solo strumento di tale Amore. Nessuna altro fine deve perseguire l'alienazione dei propri beni per gli altri, tantomeno diventare l'occasione per mettersi in mostra ed esaltare se stessi. Comportamento questo che il Gesù matteano sanzionerà duramente: “Quando dunque fai l'elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade per essere lodati dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa” (Mt 6,2).

L'esempio ipotizzato al v.3 si muove su due livelli consecutivi, che vanno dal meno al più: “E qualora dessi in cibo tutti i miei beni e qualora dessi il mio corpo per gloriarmi”. A differenza dei due precedenti esempi ipotetici (vv.1-2), iperbolici e paradossali e per questo irreali, i due esempi qui riportati non hanno nulla di tutto ciò, ma sono tratti dalla realtà quotidiana, benché anche qui Paolo con quel “tutti” tenda a caricare queste due forme di donazione.

La prima riguarda l'alienazione totale dei propri beni per il sostentamento dei membri meno abbienti o per le necessità della comunità stessa: “E qualora dessi in cibo tutti i miei beni”, la quale cosa doveva essere abbastanza comune nelle dinamiche intracomunitarie, ma chi donava, in genere persone benestanti e socialmente altolocate, probabilmente lo faceva in modo vistoso per riceverne lodi ed approvazioni, rispetto e ammirazione da parte dei membri della comunità. La finalità di tali donazioni, pertanto, non era l'altro, se non indettamente, ma se stessi. La donazione, pertanto, diveniva una sorta di tributo pagato al proprio “Ego”.

La seconda forma di donazione non riguarda più i propri beni, ma addirittura il proprio corpo e quindi l'interezza di se stessi e quindi una donazione assoluta e che non ha paragoni: “qualora dessi il mio corpo per gloriarmi”. Il verbo greco, qui, è “kauc»swmai” (cauchesomai) che significa “per trarne delle lodi o per gloriarmi”. Altri testi minori riportano il verbo “kauq»somai” (kautzésomai), probabilmente una deformazione di “kauc»swmai” (cauchesomai), che significa “per essere bruciato”. Da ritenere più corretto il primo rispetto a quest'ultimo, poiché il primo rispecchia una realtà presente nelle prime comunità credenti. Non si tratta, comunque, in entrambi i casi di martirio o di ricerca volontaria del martirio come gesto estremo di testimonianza della propria fede, benché nella chiesa dei primi secoli non mancassero anche queste forme di fanatismo religioso, represse e condannate dai Padri della Chiesa.

Paolo qui fa riferimento ad una donazione estrema “dare il proprio corpo”. Di che cosa si trattasse ci viene suggerito dallo stesso papa Clemente I nella sua Lettera ai Corinti (96 d.C.): “Sappiamo che molti tra noi si offrirono alle catene per liberare gli altri; molti si offrirono alla schiavitù e con il prezzo ricavato davano da mangiare agli altri” (Clemente 1Cor 55,2). Quel “molti tra noi” evidenzia come questa pratica di offrirsi in schiavitù a favore degli altri non fosse un fatto eccezionale nella chiesa antica, probabilmente praticato dalle categorie più povere che altri beni non avevano se non il proprio corpo. Due erano i sistemi in uso: offrire se stessi come schiavi in sostituzione di un altro fratello; oppure vendersi come schiavo e il ricavato della vendita di se stesso andava a beneficio dei credenti mento abbienti.

Un'eco di questa pratica la troviamo in Mc 10,45: “Il Figlio dell'uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” e similmente in Gv 15,13: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”.

Un gesto, quindi, estremo e certamente efficace ai fini pratici, ma per niente meritorio e per niente apprezzato da Dio, perché la finalità non era il “fratello”, ma se stessi: “per gloriarmi”. Un grande sacrificio, dunque, che ha come obiettivo il proprio “Ego”. Non è, dunque, il gesto in se stesso che dà valore a se stesso, ma la finalità per cui lo si compie: l'affermazione, il riscatto e la salvezza dell'altro.

Ebbene, conclude, Paolo per la terza volta, in modo insistente, quasi ossessivo: “se non ho la carità, niente mi giova”, rimarcando, una volta di più, la centralità della Carità nella vita cristiana, l'unica in grado a dar valore e senso a ciò che il credente compie e vive nella sua quotidianità.

I tratti caratteristici della Carità (vv.4-7)

Circoscritta la Carità in contesti iperbolici e surreali, da cui si evidenzia come questi siano vani e vuoti se non sono sostanziati dalla Carità, mettendone in tal modo in rilievo l'importanza vitale nel vivere quotidiano del credente, Paolo passa, ora, a valutarne il modo di esprimersi e per farlo usa esclusivamente i verbi, perché il verbo, per sua natura, racconta l'azione, che si lega al dinamismo stesso della vita, contrariamente al sostantivo, che esprime un concetto, che è astrazione di esperienza di vita, sottolineando in tal modo come la Carità sia un elemento essenziale del vivere credente e come questa vada ricercata nel suo esprimersi quotidiano.

I verbi che informano l'agire della carità sono complessivamente quindici, tre di questi, i primi tre, riguardano il verbo “essere”, che ha a che vedere con l'ontologia della Carità, cioè con la sua stessa natura. Gli altri dodici sono verbi che dicono azione e per la loro formulazione sono legati all'esprimersi del vivere quotidiano dei Corinti. Otto, poi, sono posti in forma negativa, il cui senso è sanzionare indirettamente comportamenti che probabilmente serpeggiavano all'interno della comunità; mentre altri sette sono espressi in forma positiva, diventando implicitamente delle esortazioni rivolte ai Corinti, perché si conformino nel loro vivere ai parametri da tali verbi indicati.

Quanto alle prime due caratteristiche della “Carità”, che la definiscono nella sua essenza come “paziente” e come “benevolente o magnanime”, queste costituiscono i due pilastri qualificanti della Carità, la quale deve caratterizzare i rapporti del credente non solo con i propri fratelli, ma altresì con l'intera umanità, indipendentemente dalla sua appartenenza culturale e storica, poiché la “pazienza”, che sostiene e rafforza la “benevolenza” rendendola persistente e invincibile, rappresentano le prime due qualità di Dio nei suoi rapporti con l'umanità, così celebrate dal Salmista: “Signore, Dio nostro, tu li esaudivi, eri per loro un Dio paziente, pur castigando i loro peccati” (Sal 98,8) e similmente in 144,8: “Paziente e misericordioso è il Signore, lento all'ira e ricco di grazia”, che riecheggia anche in 85,5: “Ma tu, Signore, Dio di pietà, compassionevole, lento all'ira e pieno di amore, Dio fedele”.

Pazienza e magnanimità o benevolenza sono pertanto le due virtù in cui si incardina la Carità e la inverano nel suo esprimersi, senza le quali essa perde la sua identità. Di conseguenza tutto ciò che è estraneo a queste due virtù qualificanti la vera natura della Carità, non solo esclude la Carità, ma le è avverso come l'invidia, che arma l'invidioso contro il suo prossimo e con il quale è sempre in perenne rivalità, rendendo la presenza dell'altro insopportabile per il proprio “Ego”, che vede nell'altro non un'opportunità di crescita spirituale ed umana, ma un fastidioso rivale da abbattere; l'ostentazione di sé, figlia dell'orgoglio, che è sempre pronto ad offendere e ad annichilire l'altro, che gli può creare ombra; sempre alla ricerca dell'affermazione del proprio “Ego” e dei propri interessi a danno degli altri e senza alcun loro rispetto e la cui presenza viene vissuta come una costante e irritante minacciosa rivalità, che fa dell'altro un perenne nemico da abbattere, ancor più se da questo altro ne viene in qualche modo un possibile danno al proprio “Ego”, che cerca di ritorcergli contro con ogni mezzo, compresa la menzogna e la calunnia, godendo del suo fallimento.

Tutto ciò non ha nulla a che vedere con la Carità. Vi è in tutto ciò una distorta volontà di potenza spesa a danno dell'altro e tende a sopraffarlo, prevaricandolo in ogni modo pur di afferma il proprio “Ego”, che non ha spazi di accoglienza se non per se stesso. Un “Ego” che pone al centro di tutto se stesso e che non conosce cammini di incontro verso l'altro, vissuto come pericoloso rivale.

Una serie di verbi al negativo, dunque, che denunciano e stigmatizzano i comportamenti dei Corinti, che creano vergognose e autodistruttive divisioni intracomunitarie. Comportamenti incompatibili con la natura paziente e benigna della Carità, riflesso storico dell'Amore di Dio negli uomini, suo sacramento di Amore incarnato nei credenti.

Pazienza, che ha per figlie la fiducia e la speranza nell'altro, per il quale, in vista di un suo riscatto, tutto sopporta; mentre la magnanimità o benevolenza spinge il credente a coprire e a tacitare ogni screzio, ogni offesa, ogni “tutto” che possa inasprire i rapporti intracomunitari e con qualsiasi altra persona, credente o meno, mostrandosi così vero figlio di quell'unico Padre “che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti” (Mt 5,45), rallegrandosi, altresì, per la Verità, che dice lo splendore del Bene che illumina e distrugge la tenebra del Male. “Omnia vincit amor: et nos cedamus amori59 (Virgilio: X Bucolica, v.69).

La carità nella sua prospettiva escatologica ed apocalittica (vv.8-13)


Note generali

Lo scenario qui descritto in questa pericope vv.8-13 celebra l'intronizzazione della Carità o, per meglio dire, la sua apoteosi, che già in qualche modo si poteva intuire dalla pericope di apertura del cap.13 (vv.1-3), dove veniva presentata una Carità vincente sia sulla glossolalia, benché esaltata nella sua universalità cosmica, che abbracciava tutte le lingue, anche le più misteriose e impenetrabili, poste tra cielo e terra; sia nei confronti della stessa profezia, iperbolizzata nella sua capacità di conoscere ogni mistero fino a raggiungere quello supremo di Dio; nonché sulla sublimità possente di una fede capace di ogni portento. Ebbene, tutto questo sono inconsistenti fuochi d'artificio e nient'altro se non è sostanziato dalla Carità, l'unica in grado di dare senso a tutto, così che tutto è niente senza la Carità.

Già, poi, lo si era intuito dai vv.4-7, che esaltavano le caratteristiche più sublimi di questa Carità, impenetrabile da ogni sorta di Male, ma capace di ogni sorta di Bene.

Una Carità, dunque, indomabile, essenziale e vincente, sempre e ovunque. Il vero senso del vivere credente, senza la quale tutto diventa menzogna inaccettabile a Dio, che per sua natura è Amore, che si autogenera salvificamente nel credente, assumendo il volto della Carità. Non a caso il Gesù matteano incentrerà il giudizio universale proprio sull'amore verso il prossimo, in cui Dio è sacramentato (Mt 25,31-46).

Una pericope questa (vv.8-13) che celebra la Carità, che possiede gli stessi tratti di Dio, quelli di una imperitura Vita eterna, evidenziati già in apertura della pericope: “La carità non muore mai” e termina proclamandone la grandezza: “la più grande di tutte” le virtù possibili; più grande della stessa fede, che è la chiave che apre la porta della salvezza al credente; più grande della stessa speranza, che proietta già fin d'ora il credente nelle future e certe realtà di Dio e le rende in qualche modo già presenti, qui e ora.

Il motivo di questa grandezza, qui assolutizzata, è racchiuso nei vv.8-12, che mettono a confronto l'indistruttibile immortalità della Carità, che trascende ogni precarietà, con ciò che è, invece, racchiuso in questa dimensione spazio-temporale, destinato a perire e a scomparire con questa, compresi i carismi più portentosi, a cui i Corinti aspiravano, esaltandone, in tal modo, la superiorità.

La pericope ha il suo vertice nel v.11, che metaforizza il confronto tra la Carità e i carismi, rappresentando il tempo dei carismi come il tempo dell'infanzia del credente, quello terreno, chiamato in tale tempo ad unirsi, già fin d'ora, all'eternità di Dio, che è eternità di Amore e che, in qualche modo, viene qui anticipata, in una sorta di escatologia presenziale, dalla Carità, che diviene, dunque, il tempo della piena maturità umana e spirituale del credente, che prefigura e in qualche modo attualizza quello futuro.

La pericope è scandita in quattro parti:

  1. la prima parte, vv.8-10, fungono da attestazioni dottrinali, che mettono in rilievo da un lato, l'eternità della Carità, dall'altro, la precarietà di tutti i carismi e di tutti i beni, utili in questa dimensione spazio-temporale, ma destinati a scomparire con l'avvento del Signore, che porrà fine a tutte le cose, riconducendole in seno al Padre. Un'annotazione quest'ultima che anticipa in qualche modo la grandiosa visione escatologica di 15,23-28;

  2. l'attestazione della pericope vv.8-10 viene qui tradotta in metafora con il v.11, che scandisce il tempo del credente in due momenti: quello presente, caratterizzato da una visione e da una comprensione delle cose in modo imperfetto, come possono essere quelle di un bambino; e quello futuro, paragonato all'età adulta, l'età del compimento della maturità umana e della piena e perfetta comprensione delle cose, come sarà il tempo dell'eternità di Dio, a breve inaugurato dalla venuta del Signore e verso il quale ogni credente è incamminato. È questo il tempo della Carità;

  3. con il v.12 viene ripresa la metafora del v.11 e tradotta in linguaggio chiaro;

  4. il v.13 trae la conclusione generale e complessiva dell'intero cap.13 e con questo anche dei capp.1,10-14,40, ponendo in cima a tutto, quale vertice che corona il tutto e a tutto dà senso, la Carità. È qui che viene celebrata la sua apoteosi, ricongiungendo in se stessa il tempo dell'uomo all'eternità di Dio; è qui che la Carità, perdendo i veli della sua temporalità, apparirà nella sua vera Verità dell'Amore di Dio, sacramentato nel credente.


Commento ai vv. 8-13

La pericope vv.8-13 pone a confronto ciò che è eterno e, quindi, appartiene alla Vita stessa di Dio, riflettendone in se stesso i caratteri di immortalità, che lo sottrae alla caducità, con ciò che è contingente e per questo imperfetto e destinato a dissolversi, perché fa parte di questa dimensione spazio temporale, che è solo transitoria. Al primo mondo, quello di Dio, che per sua natura è Amore, appartiene la Carità, che è il volto storico dell'Amore di Dio, per questo essa “non muore mai”; al secondo mondo appartengono le profezie, le lingue, la conoscenza, ma altresì la stessa fede e la stessa speranza, tutte cose che accompagnano l'uomo nel fragile cammino della sua esistenza verso l'eternità di Dio, che già si rende in qualche modo presente nella Carità.

Proprio perché esse appartengono a questo secondo mondo, profondamente segnato dalla sua caducità e dalla sua fragilità e destinato a scomparire, anche il loro essere e il loro modo di esprimersi è imperfetto ed è contrassegnato dalla relatività, poiché entro la dimensione spazio-temporale nulla vi è di assoluto, ma tutto finisce.

La stessa fede, che accende e sostanzia la speranza, aprendo il credente al mondo di Dio, da cui proviene, è destinata a scomparire, allorché Dio lo si vedrà “faccia a faccia”, infatti, “quando sarà giunto (ciò che è) perfetto, (ciò che è) imperfetto sarà annullato”, nella logica del “ubi maior, minor cessat”, poiché il “minor” è onnicompreso nel “maior” e in esso si dissolve, il “minor”, infatti, è soltanto un frammento confuso del “maior”.

La distinzione di questi due mondi, profondamente contrassegnati dalla loro natura di eternità imperitura il primo, e di fragilità e caducità il secondo, viene ora con il v.11 metaforizzata nelle due età dell'uomo: quella dell'infanzia, il tempo umano dell'aprirsi al mondo e all'apprendimento, per questo è un tempo ancora molto imperfetto, perché è un tempo di crescita sia fisica che culturale e spirituale. Un tempo, tuttavia, importante, perché preparatorio all'età adulta, ma che è destinato, per sua natura, a cessare allorché sfocerà nell'età adulta, il tempo della piena maturità umana, il tempo della visione e comprensione completa delle cose, il tempo delle responsabilità.

Così che, continua Paolo, spiegando la metafora dei due tempi dell'uomo con il v.12, il tempo presente è il tempo della nostra infanzia, il tempo, quindi, in cui le cose ancora non le vediamo e non le comprendiamo nella loro interezza e nella loro perfezione, ma le vediamo e le comprendiamo come in uno specchio, lo specchio dei tempi di Paolo, che consisteva in una superficie lucida di metallo, che lasciava intravvedere l'immagine del proprio volto, ma non la rispecchiava perfettamente, deformandola. La conoscenza, dunque, di questa nostra dimensione spazio-temporale, la dimensione dell'infanzia dell'uomo, in cammino verso l'età adulta dell'eternità, è imperfetta. Di conseguenza, sembra implicitamente esortare Paolo, non attaccatevi a questo mondo, poiché è destinato a scomparire, ma vivetelo con lo sguardo rivolto in avanti, verso quell'altro mondo, quello dell'eternità di Dio, da dove siamo drammaticamente fuoriusciti e verso il quale siamo destinati a rientrare. Col 3,1 esorterà i credenti: “Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio”.

In questa prospettiva, conclude Paolo con il v.13, vanno colte anche la fede, la speranza e la carità, “ma la più grande di tutte è la carità”. La fede, infatti, apre a realtà sconosciute, al mondo di Dio, che non vediamo se non “per fede”, cioè fidandoci soltanto della sua Parola. Ed è questa visione per fede, che ci apre alla speranza, che è certezza di quelle realtà che la fede ci ha concesso di intravvedere. Ma entrambe, fede e speranza, una volta giunti nella realtà di Dio cesseranno, poiché, quelle realtà che abbiamo creduto e sperato le vedremo e le sperimenteremo direttamente, “faccia a faccia”, dice Paolo, richiamandosi con questa espressione alla forte esperienze di Dio da parte di Mosè e del popolo sul monte Sinai (Es 33,11; Dt 5,4). Ma ciò che rimane è la Carità, che deposti i veli della storia da cui ora è avvolta, lascerà intravvedere il suo vero e autentico volto, quello di Dio, che è Amore. Per questo la carità è la più grande, perché essa non verrà mai meno, anzi troverà la sua pienezza nell'eternità di Dio, che è eternità di Amore.

La risurrezione di Cristo (15,1-58)

Testo a lettura facilitata

Primo preambolo: il richiamo alla Tradizione trasmessa (vv.1-2)

1- Vi rendo noto, fratelli, il vangelo che vi ho annunciato e che avete ricevuto e in cui state saldi,
2- per mezzo del quale siete anche salvati, se (lo) ritenete con quella argomentazione (con cui) ve (lo) annunciai, fuorché non abbiate creduto senza proposito.

Secondo preambolo: il contenuto dottrinale trasmesso (3-5)

3- Vi ho trasmesso, infatti, tra le prime cose, ciò che anch'io ho ricevuto, che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture
4- e che fu sepolto e che è risuscitato (nel) terzo giorno, secondo le Scritture
5- e che fu visto (da) Pietro e poi (dai) Dodici;

Terzo preambolo: i testimoni oculari del Risorto (vv.6-11)

6- e in seguito fu visto (da) più di cinquecento fratelli in una sola volta, molti dei quali perdurano fino ad ora, ma alcuni si sono addormentati;
7- in seguito fu visto (da) Giacomo e poi (da) tutti gli apostoli;
8- ultimo di tutti, come ad un aborto, fu visto anche da me.
9- Io, infatti, sono il più piccolo degli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la chiesa di Dio;
10- per grazia di Dio sono ciò che sono, e la sua grazia, questa non fu vana per me, ma mi affaticai più abbondantemente di tutti loro, non io ma la grazia di Dio [che] (è) con me.
11- Pertanto, sia io sia quelli così predichiamo e così avete creduto.

La questione, motivo della presente trattazione sulla risurrezione (v.12)

12- Ora se si predica che Cristo è risorto dai morti, in che modo alcuni di voi dicono che non c'è risurrezione dei morti?

L'ipotesi negativa e le sue nefaste conseguenze: “Se i morti non risorgono (vv.13-19)

13- Ma se non c'è (la) risurrezione dei morti, neppure Cristo è risorto;
14- ma se Cristo non è risorto, allora (è) vana [anche] la nostra predicazione, vana anche la vostra fede;
15- e siamo anche trovati falsi testimoni di Dio, poiché abbiamo testimoniato contro Dio che (Egli) ha risuscitato Cristo, che non ha risuscitato, se veramente, poi, i morti non risorgono.
16- Infatti se i morti non risorgono, neppure Cristo è risuscitato;
17- ma se Cristo non è risorto, vana (è) la vostra fede, (e) voi siete ancora nei vostri peccati,
18- quindi, anche quelli che si sono addormentati in Cristo sono perduti.
19- Se noi abbiamo sperato in Cristo (soltanto) in questa vita, siamo i più miseri di tutti gli uomini.

La certezza della risurrezione in prospettiva escatologica: “Cristo è risorto dai morti” (vv.20-28)

20- Ma, ora, Cristo è risorto dai morti, primizia di quelli che si sono addormentati.
21- Poiché se per mezzo di un uomo (è venuta la) morte, anche per mezzo di un uomo (verrà la) risurrezione dei morti.
22- Infatti, come in Adamo tutti muoiono, così anche in Cristo tutti saranno vivificati.
23- Ciascuno, però, nel proprio ordine: (prima) Cristo (che è la) primizia, poi quelli (che sono) di Cristo alla sua venuta,
24- poi (sarà) la fine, quando (Cristo) consegnerà il regno a Dio e Padre, allorché avrà soppresso ogni principato e ogni autorità e potere.
25- Bisogna, infatti, che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi.
26- La morte, ultimo nemico, sarà soppresso.
27- Infatti, ha posto sotto i suoi piedi tutte le cose. Ma quando si dice che ha posto tutte le cose (sotto i suoi piedi), (è) chiaro che (è) fuori colui che gli ha sottomesso tutte le cose.
28- Ma quando gli ha sottomesso tutte le cose, allora anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a colui che gli ha sottomesso tutte le cose, affinché Dio sia tutto in tutti.

Considerazioni conclusive su cui riflettere, con esortazione finale (vv.29-34)

29- Poiché che cosa faranno quelli che si battezzano per i morti? Se (i) morti non risorgono affatto, per che cosa si battezzano per loro?
30- Perché anche noi ci esponiamo ai pericoli ogni ora?
31- Ogni giorno muoio, si per il vostro vanto, [fratelli], che ho in Cristo Gesù Signore nostro.
32- Se secondo l'uomo ho combattuto con le belve ad Efeso, che cosa mi giova? Se i morti non risorgono, mangiamo e beviamo, poiché domani moriamo.
33- Non lasciatevi ingannare: “rovinano i buoni costumi (le) cattive compagnie”.
34- Tornate in voi stessi come si conviene e non peccate! Infatti alcuni hanno ignoranza di Dio, lo dico a vostra vergogna.

In che cosa consiste la risurrezione (vv.35-50)

35- Ma qualcuno dirà: <<Come risorgono i morti? Con quale corpo ritornano?>>
36- Stolto, ciò che tu semini non prende vita qualora non muoia;
37- e ciò che semini non (è) il corpo che nascerà quel che semini, ma, ad esempio, un nudo chicco di grano o di qualcosa degli altri (generi);
38- ma Dio gli dà un corpo come volle, e a ciascuno dei semi un proprio corpo.
39- Non ogni carne (è) la stessa carne, ma un'altra (carne è quella degli) uomini, un'altra carne (quella degli) animali, un'altra carne (quella degli) uccelli, un'altra (quella dei) pesci.
40- (Vi sono) anche corpi celesti, e corpi terrestri; ma altro (è) lo splendore dei (corpi) celesti, altro quello dei (corpi) terrestri.
41- Altro (è) lo splendore (del) sole, altro (è) lo splendore (della) luna e altro (è) lo splendore (degli) astri; un astro, infatti, differisce in splendore (da un altro) astro.
42- Così anche la risurrezione dei morti. Si semina n(ella) corruzione, si risorge n(ella) incorruttibilità;
43- si semina n(ell')ignominia, si risorge nella gloria; si semina n(ella) debolezza, si risorge n(ella) potenza;
44- è seminato un corpo naturale, risorge un corpo spirituale. Se vi è un corpo naturale, vi è anche (un corpo) spirituale.
45- Così è anche scritto: “Il primo uomo Adamo divenne anima vivente, l'ultimo Adamo divenne spirito vivificante”.
46- Ma non (vi fu) per primo lo spirituale, ma il naturale, poi lo spirituale.
47- Il primo uomo terreno (fu tratto dalla) terra, il secondo uomo (è dal) cielo.
48- Quale (è l'uomo) terreno, tali (sono) anche gli (uomini) terreni; e quale l'(uomo) celeste, tali anche gli (uomini) celesti;
49- e come abbiamo portato l'immagine dell'(uomo) terreno, porteremo anche l'immagine dell'(uomo) celeste.
50- Dico questo, fratelli, poiché (la) carne e (il) sangue non possono ereditare il regno di Dio, né la corruzione erediterà l'incorruttibilità.

Il contesto escatologico in cui avverrà la risurrezione dei morti e dei vivi (vv.51-53)

51- Ecco, vi dico un mistero: non tutti ci addormenteremo, ma tutti saremo trasformati,
52- in un attimo, in un batter d'occhio, (al suono dell')ultima tromba; (essa), infatti, suonerà e i morti risorgeranno incorruttibili e noi saremo trasformati.
53- Bisogna, infatti, che questo (corpo) corrotto rivesta l'incorruttibilità e questo (corpo) mortale rivesta l'immortalità.

La risurrezione decreta la fine della condizione mortale dell'uomo (vv.54-58)

54- Ma quando questo (corpo) corrotto rivestirà l'incorruttibilità e questo (corpo) mortale rivestirà l'immortalità, allora si compirà la parola che è stata scritta: “La morte è stata inghiottita nella vittoria.
55- Dov'(è), o morte, (la) tua vittoria? Dov'(è), o morte, il tuo pungiglione?”
56- Il pungiglione della morte (è) il peccato, ma la forza del peccato (è) la Legge.
57- Grazie a Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo.
58- Pertanto, miei amati fratelli, siate saldi, immutabili, sovrabbondando sempre nell'opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana n(el) Signore.


Note generali

Non è certo la prima volta che Paolo parla della risurrezione nelle sue lettere, non preoccupandosi mai di dimostrarla, ma dandola come un dato di fatto pacificamente acquisito, sia perché egli ha ricevuto l'attestazione della risurrezione da parte delle comunità credenti, che ha frequentato nel decennio prima della sua attività apostolica (35-45 d.C.), quali Damasco, Gerusalemme ed Antiochia, che poi, quest'ultima, ha eletto come sua comunità di riferimento e base di lancio per i suoi viaggi missionari. Queste devono avergli trasmesso l'elenco dei testimoni del Risorto, quello che egli riporta qui ai vv.5-7; sia perché egli stesso, poi, attesta di essere stato, in prima persona, testimone diretto del Risorto, che gli è apparso, stando ai racconti degli Atti degli Apostoli, sulla via per Damasco (At 9,1-19; 22,4-21;26,9-18), decretando la sua conversione. Un incontro da cui ricevette l'investitura di apostolo direttamente dal Risorto (Gal 1,1), così come lo stesso Vangelo, che egli annunciava, gli fu rivelato e trasmesso dal Risorto (Gal 1,11-12).

Quindi per Paolo non c'era bisogno di dimostrare che Cristo era risorto, non ne sentiva la necessità, rimandando, tout court, alle testimonianze, quelle ufficiali ecclesiastiche (vv,5-7) e quella sua propria personale (v.8). Ma la sua grandezza fu quella di comprenderne il significato, la valenza e la centralità nel vivere credente, che dalla risurrezione è illuminato; la conditio sine qua non della propria fede, che proprio sulla risurrezione poggia la sua giustificazione, che lo apre alla speranza, che nel Risorto è certezza di Vita eterna.

Ma se i riferimenti di Paolo alla risurrezione nelle sue lettere sono occasionali e limitati a qualche versetto, benché molto illuminanti e profondi, qui nel cap.15 ne fa un vero e proprio trattato, alquanto corposo e consistente.

Il cap.15, infatti, è composto di 58 versetti, il capitolo più lungo in assoluto tra tutte le lettere del N.T., ed ha una macrostruttura molto complessa, alquanto articolata ed elaborata. E già questo dice il particolare interesse che riveste la risurrezione per Paolo, che pone al centro dell'esperienza cristiana e della stessa salvezza.

Un capitolo che parla della risurrezione sia di Cristo che dei credenti, interdipendenti tra loro (vv.13.19), e questo è un fatto nuovo, che Paolo presenta in modo sistematico e ben argomentato, benché la sua finalità, come s'è detto sopra, non sia quella di dimostrare la storicità della risurrezione di Gesù, dandola, invece, come un semplice dato di fatto scontato, tuttavia ne spiega la dinamica e il senso, aprendo degli squarci sulla sua comprensione e le sue implicanze individuali e cosmiche, prospettando con essa il sorgere di una nuova creazione, che a giochi finiti, si ricongiunge con la prima creazione, decaduta a causa della colpa primordiale, ricapitolando tutte le cose nel Risorto (Gv 12,32; Ef 1,10b) che, trasformandole in se stesso nella loro originale integrità proprio attraverso la risurrezione, le riconsegna al Padre, così che Dio sia nuovamente tutto in tutti (v.28) e tutto risplenda nuovamente della sua Luce divina, di quella Luce divina primordiale entro la quale era stata collocata sia la prima creazione che la stessa umanità (Gen 1,3), così che Dio possa nuovamente vedere come tutto ciò che aveva fatto sia, ancora una volta, cosa veramente buona (Gen 1,31), riflettendosi nuovamente in essa.

Una risurrezione, dunque, che consiste in una ricostituzione di tutte le cose nel Padre, così come la creazione e l'intera umanità lo furono nei primordi. Una ricostituzione operata sempre per mezzo del suo Verbo, ora incarnato-morto-risorto; quel Verbo che Giovanni contempla in apertura del suo vangelo nell'eternità di Dio (Gv 1,1), e per mezzo del quale il Padre ha compiuto la prima creazione (Gv 1,3) ed ora l'ha nuovamente ricostituita in se stesso, riconducendola a Sè.

All'interno di questa dinamica salvifica si inserisce il credente, che che viene aperto alla speranza, che è certezza della sua salvezza, cioè del suo ricongiungimento al Padre, nella misura in cui egli associa alla morte di Cristo il suo uomo vecchio, quello facente parte della vecchia creazione adamitica decaduta, per rivestirsi del Risorto, l'uomo nuovo pensato dal Padre a sua immagine e somiglianza, così da camminare in novità di vita con lui (Rm 6,3-6).

Lo schema generale del cap.15 è suddiviso in quattro parti:

La macrostruttura, alquanto complessa e articolata, del cap.15 è scandita in dieci parti, come di seguito proposte:

  1. Primo preambolo: il richiamo alla Tradizione trasmessa (vv.1-2);

  2. Secondo preambolo: il contenuto dottrinale trasmesso (3-5);

  3. Terzo preambolo: i testimoni oculari del Risorto (vv.6-11);

  4. La questione, motivo della presente trattazione sulla risurrezione (v.12);

  5. L'ipotesi negativa e le sue nefaste conseguenze: “Se i morti non risorgono” (vv.13-19);

  6. La certezza in prospettiva escatologica: “Cristo è risorto dai morti” (vv.20-28);

  7. Alcune considerazioni su cui riflettere con esortazione finale (vv.29-34);

  8. In che cosa consiste la risurrezione (vv.35-50);

  9. Il contesto escatologico in cui avverrà la risurrezione dei morti e dei vivi (vv.51-53);

  10. La risurrezione decreta la fine della condizione mortale dell'uomo (vv.54-58).


Dallo schema della macrostruttura, qui sopra riportato, si evince come Paolo non entra subito nel merito della questione, ma crea innanzitutto un ampio preambolo introduttivo, che ho scandito in tre parti per meglio evidenziarne la dinamica: dapprima vi è un richiamo alla Tradizione (vv.1-2); ne segue poi il contenuto specifico, quello riguardante il senso della passione, morte e risurrezione del Signore, avvalorata, quest'ultima, dalla testimonianza istituzionale di Pietro e dei Dodici (vv.3-5); ed infine l'apporto testimoniale di altri testimoni, che sono posti soltanto a supporto e completamento dei primi due (vv.6-11).

Tutto questo meccanismo serve a Paolo per formare una solida cornice dottrinale in cui porre, poi, la questione della risurrezione. Il motivo di questa precauzione è dovuta ad un duplice fatto: a) l'importanza assoluta e irrinunciabile della risurrezione, evento che non poteva in nessun modo essere posto in discussione; b) il fatto che all'interno della comunità di Corinto vi fosse chi, invece, ne intaccava la veridicità, non propriamente in modo diretto, ma indiretto, riferendosi alla risurrezione dei morti (v.12b), un dato dottrinale che non poteva, anche questo, essere posto in discussione, perché Paolo lega a questa quella propria di Cristo, creando tra le due tipologie di risurrezione una stretta interconnessione, così che non poteva esserci l'una senza l'altra (vv.13.16).

Soltanto con il v.12b si verrà a sapere il motivo di questo intervento di Paolo, riguardante il fatto che “alcuni di voi dicono che non c'è risurrezione dei morti”. È questo l'innesco di questa lunga trattazione sulla risurrezione, condotta in modo sistematico e ben argomentato e che Paolo, data l'importanza della questione, ha voluto blindare all'interno dell'indiscutibile Tradizione, sulla quale non si dubita, ma si crede, pena la scomunica dalla chiesa. Quindi, Paolo con i vv.1-11 si premunisce contro ogni possibile discussione e/o contestazione in merito alla risurrezione, che va creduta e non provata, poiché la risurrezione non è un evento storico, ma metastorico, cioè sottratto a qualsiasi indagine scientifica e sperimentale, benché il racconto giovanneo sul ritrovamento della tomba vuota (Gv 20,1-10) ne fornirà gli indizi storici60, cioè gli strascici storici che la risurrezione di Gesù si è lasciata dietro. Ma la sua risurrezione, in quanto tale, è inafferrabile.

Commento ai vv.1-58

Primo preambolo: il richiamo alla Tradizione trasmessa (vv.1-2)

Il v.1 si apre con il verbo “Gnwr…zw” (Ghnorízo), che dà il tono e il senso all'intero cap.15. Il verbo significa “rendere noto, dichiarare, spiegare” e in seconda battuta anche “scoprire, acquisire conoscenza, imparare” ed ha la sua radice in “gignèskw” (ghighnósko), che significa “conoscere, apprendere”. Non si tratta, quindi, di una nuova proclamazione del Vangelo, poiché questo era già stato annunciato. I verbi dell'annuncio e della sua accoglienza, infatti, sono tutti due posti all'aoristo, corrispondente al nostro passato remoto, che definisce un evento puntuale nel tempo: “eÙhggelis£mhn” (euenghelisámen, annunciai; “parel£beteparelábete, riceveste).

Già, dunque, l'annuncio era stato accolto dai Corinti, i quali vi rimanevano saldi, senza defezioni. Quel verbo “˜st»kate” (estékate, state saldi) dice tutta la salda fermezza della fede dei Corinti ed è posto al perfetto indicativo, che indica un'azione avvenuta nel passato, ma i cui effetti perdurano ancora nel presente, per indicare come l'esito di quell'annuncio accolto fosse ancora saldamente presente tra di loro. Un annuncio, quindi, che aveva prodotto l'effetto di una fede solida, che ancora a quel tempo perdurava integra e grazie alla quale essi erano anche salvati (sózesqe, siete salvati). Un verbo quest'ultimo che viene posto al presente indicativo, per indicare come la salvezza si attui nel momento in cui si è accolto esistenzialmente tale annuncio, qui e ora, benché non ancora in modo pieno e definitivo. Il verbo, poi, è posto al passivo teologico o divino, “siete salvati”, per indicare come questa salvezza viene in loro attuata da Dio stesso, grazie all'annuncio accolto del Vangelo.

Una salvezza, tuttavia, che non è certa, assoluta e definitiva, ma condizionata da due fattori: a) il permanere nella fede così come essa è stata annunciata, senza deformazioni o fuorvianti interpretazioni personali e b) sempre che l'adesione all'annuncio del Vangelo non sia stato meramente formale, senza, cioè, che esso abbia prodotto interiormente un vero cambiamento esistenziale.

Paolo sta qui mettendo i paletti e le condizioni entro i quali va posto questo approfondimento di fede, che sta per fare, e le condizioni perché la fede dei Corinti sia perfetta e ineccepibile.

Non ci si trova, dunque, di fronte ad una nuova proclamazione del Vangelo, ma ad un suo approfondimento, la cui finalità è rettificare alcune residue credenze, che erano rimaste ancora dentro ad alcuni Corinti (v.12b), la cui cultura di provenienza era pagana e vivevano in mezzo ad una società multiculturale pagana. Si tratta, pertanto, di riprendere il primo annuncio del Vangelo per approfondirne alcuni aspetti. Quali siano questi viene ora specificato ai vv.3-5.

Secondo preambolo: il contenuto dottrinale trasmesso (3-5)

Se i primi due versetti si richiamano al primo annuncio del Vangelo, che Paolo ha fatto ai Corinti, e alla loro accoglienza di tale annuncio, al quale ancor oggi sono rimasti fedeli, in questa pericope, vv.3-5, presenta il contenuto di tale annuncio, che costituisce non solo il nucleo fondamentale della fede, ma anche il tema su cui si incentrerà l'intero cap.15.

Ci troviamo di fronte ad un annuncio il cui schema risente di una ormai consolidata formulazione dottrinale, la quale risente, a sua volta, dei ritmi catechetici e liturgici e che interpreta il senso della passione, morte e risurrezione di Gesù come eventi “per i nostri peccati”, cioè causati dai nostri peccati, ma finalizzati anche a cancellare i nostri peccati, per ricostituire l'uomo nella sua santità e integrità originali.

Un'interpretazione che rimanda alle Scritture, segno che queste furono la guida per la comprensione di quei tragici eventi storici (Lc 24,44-46), che ebbero come testimoni privilegiati il primo nucleo ecclesiale ed ecclesiastico post-pasquale: “Pietro e poi i Dodici”, citati in ordine di importanza, la cui autorità era costituita e sancita, come una sorta di pubblica investitura, proprio dall'apparire del Risorto, che dava loro il mandato di pascere e insegnare, di annunciare e battezzare (Mt 28,18-20; Lc 24,47-48; Gv 21,15-17). In tal senso Paolo lo ricorda proprio in questa lettera, 1Cor 9,1, dove rivendica per se stesso il titolo di “apostolo” alla pari degli altri apostoli per aver visto egli, come gli altri apostoli, il Signore.

Quanto all'espressione “Pietro e poi i Dodici”, questa doveva far parte della formula di fede, in quanto sottoscrizione testimoniale di tali eventi storici, che possiedono in loro stessi una valenza salvifica unica, determinante e irripetibile, che non poteva essere lasciata soltanto ad una interpretazione scritturistica di eventi, ma doveva anche essere radicata nella storia per mezzo di una testimonianza autorevole e indiscutibile, in quanto eventi qui accaduti, su cui fondare e costruire la propria fede. Una fede, quindi, fondata non solo su interpretazioni e ragionamenti, ma su eventi storici e in essi radicata.

Il contenuto dottrinale di questa pericope fa parte della primissima Tradizione, sulla quale si fonda la stessa fede e la stessa Chiesa, e risente della dinamica propria della Tradizione ecclesiale: “Vi ho trasmesso [,,,] ciò che anch'io ho ricevuto”. Si trasmette, quindi, ciò che si riceve, creando in tal modo una rassicurante catena di trasmissione, che dà garanzia di integrità e di autorevolezza al contenuto appreso e trasmesso. Un contenuto che, grazie a questa catena di trasmissione, riporta e radica il credente e la sua fede a degli eventi storici, il cui senso viene garantito e sancito dalle Scritture, che lo radicano, a loro volta, al piano salvifico del Padre.

Paolo, pertanto, non si inventa nulla, ma si richiama egli stesso all'autorità ecclesiale ed ecclesiastica della Tradizione, entro la quale viene inquadrato il cap.15, che non cambia, ma arricchisce, approfondendolo, il contenuto della Tradizione.

L'importanza di ciò che viene trasmesso viene sottolineata anche dal fatto che ciò che si trasmette è “tra le prime cose”. Un annuncio e un insegnamento, quindi, di natura kerigmatica, cioè il primo annuncio fondato sui fatti, a cui si associava una prima, rudimentale quanto essenziale interpretazione (At 2,22-24.32-33): “per i nostri peccati”, “a Pietro e poi ai Dodici”. Un primo annuncio, quindi, che spiccava su tutto e posto a fondamento della fede.

Terzo preambolo: i testimoni oculari del Risorto (vv.6-11)

Dopo le due testimonianze istituzionali di “Pietro e poi dei Dodici” (v.5), che fanno parte della formula di fede dei vv.3b-4, ormai stereotipa, cioè entrata nella normale catena della Tradizione-Trasmissione, la pericope vv.6-11 riprende, ampliandolo, l'elenco delle testimonianze di chi ha visto il Risorto. Esse sono quattro: “cinquecento fratelli”, “Giacomo e poi tutti gli apostoli”, “Paolo”.

Il rapporto tra questo nuovo elenco di testimoni (vv.6-8) e quello precedente di “Pietro e poi i Dodici” (v.5) è, da un lato, accomunato dalla medesima visione del Risorto, che con quel “êfqh” (óftze, fu visto), che si ripete con insistenza quasi ossessiva per ben quattro volte in quattro versetti (vv.5-8), non dice soltanto una semplice visione o un semplice vedere, ma l'esperienza viva del Risorto, che Luca esprimerà meglio, a modo suo, in At 1,3 e 10,40-41; dall'altro, i due gruppi sono distinti tra loro dagli avverbi “eita” (eita, poi) ed “œpeita” (épeita, in seguito), molto simili tra loro, ma che qui assumono una diversa valenza di significato. “eita” (eita, poi), infatti, indica più che una successione di tempo, una successione di posizioni, come al v.5, dove “Pietro e poi i Dodici”, benché accomunati tra loro dalla medesima visione del Risorto, sono posti su di una diversa posizione istituzionale: Pietro è il capo e i Dodici sono il collegio apostolico. Simile è il caso del v.7, dove, parallelamente al v.5, viene presentato il gruppo “Giacomo e poi tutti gli apostoli” ben distinto da quello di “Pietro e i Dodici”, che è il nucleo storico-istituzionale-dottrinale, un gruppo quasi idealizzato, facente capo all'indiscusso fondamento storico-istituzionale, che dette seguito al pensiero e all'opera salvifica di Gesù-Risorto, testimoni storici di Gesù, dal quale hanno ricevuto insegnamento e mandato61, confermato, poi, dal Risorto (Mt 28,18-20).

La distinzione tra i due gruppi di testimoni, quelli del v.5 e quelli dei vv.6-8, è data dall'avverbio “œpeita” (épeita, in seguito), che qui assume la valenza non più di una successione di posizione, ma prevalentemente temporale e dice come questo secondo gruppo, avendo beneficiato della visione del Risorto dopo, cioè in un tempo successivo a quello di “Pietro e i Dodici” (v.5), acquista nella Chiesa una valenza istituzionale secondaria, ma non per questo meno importante, poiché è il gruppo non fondativo, ma conservativo, trasmissivo e continuativo dell'insegnamento di Gesù.

Sono tutte apparizioni, tranne quella del solo gruppo dei Dodici, di cui non si parla nei Vangeli, che probabilmente si sono preoccupati di fare una selezione tra le numerose apparizioni avvenute nel primo periodo post-pasquale, quelle che servivano al loro progetto-testimonianza, ma la cui memoria rimase all'interno delle prime comunità credenti, dalle quali Paolo attinge.

Il primo dei quattro altri testimoni del Risorto è il consistente gruppo di “cinquecento fratelli”. Un numero così tondo lascia pensare che voglia dire soltanto un gruppo molto numeroso, che si aggira intorno ai cinquecento fratelli. Chi siano questi “cinquecento fratelli” va capito bene. Innanzitutto hanno beneficiato della visione del “Risorto” e, quindi, devono essere posti temporalmente a ridosso degli eventi della morte e risurrezione di Gesù. Sono, poi, “fratelli”, cioè appartenenti alla stessa fede e, quindi, in qualche modo “discepoli” o, quanto meno, in senso lato, “seguaci” di Gesù e con lui dovevano avere almeno un qualche legame storico. Lc 10,1, infatti, ci attesta che “[...] il Signore designò altri settantadue discepoli e li inviò a due a due avanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi”. Quindi, i discepoli che seguivano Gesù da vicino così da poter godere della sua fiducia, non erano soltanto dodici, ma “altri settantadue”, dando così l'idea che i veri seguaci di Gesù, suoi veri discepoli, fossero molti di più sia di “dodici” che di “settantadue”, visto che Gesù “ne designò altri settantadue”, in aggiunta ai dodici, avendo così un'ampia possibilità di scelta tra i suoi discepoli e tale da poterne scegliere settantadue. La quale cosa significa che Gesù attorno a sé, tra i suoi veri seguaci, aveva una folta schiera di autentici discepoli, di cui fidarsi e su cui contare. Del resto, circa la quantità dei discepoli che seguivano Gesù, è lo stesso Gv 6,66 che ci attesta che “Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui”, dando l'idea che, invece, molti altri rimasero.

Va, poi, considerato il criterio con cui Gesù è apparso “non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti” (At 10,41). Certo non è da pensare che questi “cinquecento fratelli” avessero “mangiato e bevuto” con Gesù dopo la sua risurrezione, espressione questa che va intesa più che in senso reale, in senso metaforico, cioè si mantennero fedeli a Gesù e alla sua predicazione anche dopo la sua passione e morte. Posti, dunque, in questa cornice i “cinquecento fratelli” possono essere identificati con quelle “folle”, personaggi anonimi e onnipresenti nei racconti evangelici, che Gesù ammaestrava e che lo seguivano con una certa fedeltà ed entusiasmo.

Paolo completa il quadro dei “cinquecento” attestando che la maggior parte di questi “sono ancora in vita”, mentre “alcuni si sono addormentati” (“™koim»qhsan”, ekoimétzesan), eufemismo, quest'ultimo, per indicare la loro morte. Paolo lo usa soltanto in questa 1Cor sei volte e altre tre volte nella 1Ts (vv.13.14.15). Questa precisazione sul gruppo dei “cinquecento” ha una duplice finalità: a) consentire una possibile verifica da parte di quei Corinti dubbiosi, che negavano la risurrezione dei morti (v.12b) e, di conseguenza quella di Gesù (vv.13.16); anche se difficilmente un simile dato, buttato lì senza alcun altra indicazione, poteva essere in qualche modo utile alla verifica. Infatti, chi sono questi “cinquecento”? Dove si trovano? L'hanno visto tutti assieme e, in tal caso, in quale occasione; oppure privatamente? Sono questi veramente raggiungibili dai Corinti? Quanto, infine, questi sono attendibili? Quindi questa prima ipotesi va ridimensionata e va presa soltanto come un'attestazione generica, cioè c'è chi l'ha visto veramente e non sono pochi quelli che l'hanno visto e questi sono ancora in vita e, quindi, teoricamente raggiungibili e consultabili.

b) Il secondo motivo per cui Paolo fa questa precisazione, probabilmente sta nel voler accostare tra loro due espressioni che richiamano l'idea della “vita”, la prima, e l'idea della “morte”, la seconda: “molti sono in vita”, “alcuni si sono addormentati”, eufemismo, come s'è già detto, che sta per “sono morti”. Un accostamento probabilmente non casuale, ma intenzionale, il cui intento è quello di preparare il terreno al concetto di risurrezione, negato da alcuni increduli Corinti (v.12b). Infatti, che senso ha dire che ci sono “cinquecento fratelli” molti dei quali sono in vita, mentre “alcuni di questi si sono addormentati”, cioè morti, se non quello di voler accostare tra loro i concetti di “morte e vita”, “sonno-risveglio”?

Paolo, infatti, nel parlare della risurrezione, usa per ben 20 volte il verbo “gerw” (egheíro) in questa 1Cor, di cui, la quasi totalità, 19 volte, qui nel solo cap.15. Il verbo “gerw” (egheíro) significa, infatti, “svegliare, destare, risvegliare”; e se riflessivo: “destarsi, risvegliarsi, levarsi, alzarsi” e si contrappone all'addormentarsi o al dormire, qui, come s'è detto, usato eufemisticamente per indicare “quelli che sono morti” (“™koim»qhsan”, ekoimétzesan). Il verbo “addormentarsi” nel senso di “morire o essere morti” compare in 1Cor 6 volte, di cui 5 in questo cap.15 ed è sempre posto in contrapposizione ad “gerw” (egheíro), cioè al destarsi, allo svegliarsi, all'alzarsi.

Paolo, quindi, gioca su questi due verbi, “addormentarsi e svegliarsi”, quali metafora del “morire e risorgere”, creando lentamente, in tal modo, la cornice entro la quale porrà tutta la sua abile e profonda argomentazione sulla risurrezione di Cristo, che ha vinto, proprio con la sua risurrezione, che è Vita eterna, la morte.

Parallelamente, poi, a quello istituzionale-dottrinale di “Pietro e poi dei Dodici” (v.5), Paolo cita anche il secondo gruppo di testimoni qualificati, quello di “Giacomo e poi di tutti gli apostoli” (v.7), dove Giacomo è il fratello del Signore (Gal 1,19) e una delle tre colonne della Chiesa madre di Gerusalemme (Gal 2,9). Le altre due erano “Cefa e Giovanni”, benché tra i tre quello a prevalere sembra essere Giacomo. È lui, infatti, che sembra gestire direttamente la chiesa di Gerusalemme in assenza di Pietro (At 12,11-17) e a dare il giusto indirizzo al primo concilio della storia della chiesa, quello di Gerusalemme, nel 49 d.C., che verteva sulla questione della circoncisione o meno ai convertiti provenienti dal paganesimo (At 15,1-41). Pietro, poi, assieme ad altri giudei della chiesa di Gerusalemme, sembra, temere Giacomo e per questo verrà ripreso da Paolo (Gal 2,12-14).

Quanto, poi, a “tutti gli apostoli”, strettamente collegati a Giacomo, come i “Dodici” erano strettamente collegati a Pietro, non ci è dato di sapere con precisione, chi fossero. Certamente si distinguono dai “Dodici”, gruppo istituzionale. Probabilmente, considerata l'etimologia del termine, “inviato”, sono da considerarsi tutti quei ministeri legati in qualche modo ad un “invio”, ad un mandato, cui era legata una“missione”, come quella dei predicatori del Vangelo con potere fondativo di comunità e di cui diventavano anche responsabili e punti di riferimento, come lo era Paolo, benché, come lascerà intendere qui (vv.9-10) e dirà apertamente in Gal 1,1, il suo apostolato, cioè il suo mandato e la sua missione, provenisse direttamente da Cristo e da Dio Padre.

A chiudere l'elenco dei testimoni della risurrezione è Paolo, che si richiama al suo passato di persecutore della Chiesa di Dio e alla trasformazione che la grazia di Dio ha operato in lui, avendo trovato in lui, più che in qualsiasi altro apostolo, un terreno molto fertile: “più abbondantemente di tutti loro” (vv.8-10).

A differenza dei due gruppi precedenti, quelli dei vv.6 e 7, che si erano aperti con l'avverbio temporale “œpeita” (épeita, in seguito), dando alle apparizioni del Risorto una successione di tempo e, quindi, di importanza ai testimoni stessi; e a differenza dello stesso gruppo di “Pietro e dei Dodici”, il quale, in quanto fondativo della Chiesa di Dio, viene direttamente collegato all'apparizione del Risorto, qui Paolo si colloca a chiusura di tutte le apparizioni. Egli è l' “œscaton” (éscaton, ultimo), che in qualche modo si contrappone al primo gruppo di “Pietro e i Dodici” come a tutti gli altri testimoni privilegiati delle apparizioni del Risorto; e si definisce come un “aborto”, al quale non va assegnato necessariamente un senso esclusivamente dispregiativo, di reietto o spazzatura, ma può dire anche la fine del suo essere giudeo fanatico delle Tradizioni dei Padri (Gal 1,14) e persecutore della Chiesa di Dio (Gal 1,13); la fine, quindi, di un certo Paolo e della sua carriera religiosa e politica, poiché sarà proprio lui, Paolo, a ricordare come su di lui vi fosse già un privilegiato disegno divino di salvezza, ancor prima del suo concepimento, che ha fatto abortire quell'altro, in cui naturalmente Paolo si era trovato: “Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani” (Gal 1,15-16a).

Ed è su questa doppia onda, quella del prima e del dopo l'incontro con il Risorto, che si muoveranno i vv.9.10, che creano un forte contrasto tra ciò che Paolo fu e ciò che la grazia di Dio ha operato in lui così da trasformarlo e renderlo irriconoscibile.

Il senso di questo “œscaton” (éscaton, ultimo) è spiegato dal v.9 ed è motivato dal fatto che Paolo ha ferocemente perseguitato la Chiesa di Dio, perseguitando in essa lo stesso Risorto (At 9,4; 22,7; 26,14), ora nella sua nuova forma storica di “Chiesa” e di “credenti”, rendendosi in tal modo indegno di essere chiamato apostolo e, comunque, pur, essendolo, è tra tutti il più piccolo, cioè l'ultimo.

Questa sua insignificanza , tuttavia, viene a cessare, trasformandosi in un capolavoro della grazia di Dio, la cui dinamica è scandita dal v.10 in tre momenti: a) l'attestazione: “per grazia di Dio sono ciò che sono”, quindi, ciò che ora Paolo è è opera di Dio. Non c'è stata in lui una conversione, ma una trasformazione, un radicale cambiamento, che la potenza della grazia divina ha operato in lui; b) la constatazione: “la sua grazia, questa non fu vana per me”. La seconda parte del v.10 comincia con il mettere in rilievo la grazia, additando la vera causa della sua trasformazione, fatta seguire da un suo significativo commento, quasi a dire che la trasformazione di una persona nasce dall'incontro tra Dio e l'uomo, che si rende disponibile alla sua azione di salvezza. In merito, S. Agostino dirà: “Tutto procede da Dio; non però restando noi come sonnacchiosi, come restii ad ogni sforzo, quasi contro voglia. Senza la tua volontà, in te non ci sarà la giustizia di Dio” (Discorso 169: 11,60) e concluderà sentenziando: “Perciò chi ti ha formato senza di te, non ti renderà giusto senza di te” (Discorso 169: 11,61). c) la conclusione: “ma mi affaticai più abbondantemente di tutti loro, non io ma la grazia di Dio [che] (è) con me”. A conferma di quanto detto al v.10b Paolo apre un piccolissimo quanto sintetico scorcio sulla sua vita dopo l'incontro con il Risorto, lasciando intravvedere il grande fermento che aveva provocato in lui la grazia di Dio, spingendolo fin da subito, quasi in modo inopinato, a compiere la sua missione, andando a predicare in Arabia, senza consultare nessuno, senza accordarsi con la chiesa madre di Gerusalemme, che incontrò soltanto tre anni dopo l'esperienza del Risorto (Gal 1,15-19), rovesciando a favore della causa di Cristo quell'irruenza e quel fanatismo che lo aveva caratterizzato fino ad allora contro Cristo (Gal 1.13-14). E, ancora una volta, conclude Paolo, che tutto ciò fu opera della grazia di Dio: “non io ma la grazia di Dio [che] (è) con me”. Una grazia che ha operato su di un terreno non solo disponibile, ma molto fertile.

Il v.11 conclude con tono sentenziale l'ampia pericope vv.1-11, quasi sottoscrivendo e attestando in modo notarile quanto fin qui detto, dando un tono di universalità e di comunione ecclesiale: “Pertanto, sia io sia quelli così predichiamo e così avete creduto”. Il v.11, infatti riprende in qualche modo il depositum fidei attestato e trasmesso sia dalla Tradizione ai vv.1.3-5, nonché da tutti coloro che sono stati direttamente coinvolti nell'incontro con il Risorto (vv.6-8). È, dunque, l'intera Chiesa che crede quanto Paolo ha fin qui attestato e quanto sta per annunciare circa quella risurrezione, che alcuni Corinti hanno negato. In tal modo con la pericope vv.1-11 Paolo crea il contesto e la cornice necessaria dove egli sta per collocare le sue argomentazioni sulla risurrezione, che non solo lui crede, ma con lui l'intera Chiesa, di cui i Corinti sono parte integrante.

Problematiche intorno alla questione della risurrezione (vv.12-58)

Note generali

Paolo affronta, ora, la questione della risurrezione dei morti e lo fa con la sezione vv.12-34, che suddivide in tre parti, di cui la prima, di natura cristologica e teologica (vv.12-19), e la terza, di natura storica (vv.29-34), argomentano sugli effetti che si avrebbero nel caso in cui i morti non dovessero risorgere:

  1. neppure Cristo, in quanto veramente morto come tutti gli altri morti, sarebbe risorto; ma questo avrebbe avuto una devastante conseguenza, poiché la predicazione della sua risurrezione risulterebbe del tutto inconsistente oltre che menzognera e, pertanto, vana sarebbe la fede, che sulla risurrezione di Cristo si fonda e i nostri peccati non sarebbero perdonati;

  2. ma oltre a queste conseguenze cristologiche e teologiche ce ne sarebbero altre di ordine storico: inutile sarebbe il farsi battezzare per i morti; inutili i rischi che Paolo affronta quotidianamente per compiere la sua missione; inutile, pertanto, anche il vivere credente e, quindi, conclude Paolo, “mangiamo e beviamo, poiché domani moriamo” (v.32b).

La seconda parte (vv.20-28), invece, di natura cristologica e teologica, occupa la parte centrale e, quindi, la più importante secondo la logica della retorica ebraica, e attesta la risurrezione di Cristo e le sue conseguenze in ambito escatologico.

La sezione successiva (vv.35-58), invece, tratterà sulla questione del come avverrà la risurrezione e in che cosa essa consista. Tema questo che verrà introdotto dal v.35.

Commento ai vv.12-34

La questione, motivo della presente trattazione sulla risurrezione (v.12)

Dopo aver costituito una solida cornice dottrinale e testimoniale sulla risurrezione (vv.1-11), Paolo affronta, ora, la questione della “risurrezione dei morti” con il v.12, che è scandito in due parti, che generano tra loro un forte contrasto, che serve a Paolo per mettere in rilievo fin da subito l'incongruenza e l'assurdità della negazione della “risurrezione dei morti”, che viola il principio fondamentale della fede, minandone le basi. La prima parte si richiama alla precedente pericope e ne formula in qualche modo una sintesi: “Ora se si predica che Cristo è risorto dai morti” (v.12a), dove quel “si predica” si richiama, a sua volta, ai vv.1-2, riportando in tal modo i Corinti alla prima predicazione, da cui si era originata la loro fede; la seconda parte introduce, con tono polemico e di rimprovero, il tema, oggetto della trattazione del cap.15: “in che modo alcuni di voi dicono che non c'è risurrezione dei morti?” (v.12b).

Questa seconda parte, v.12b, riguarda una questione la quale, benché riferita soltanto ad “alcuni di voi”, in realtà investiva l'intera comunità e con essa l'intero mondo greco-ellenista dell'epoca. Per poter, quindi, comprendere la questione è bene rifarsi a tale contesto culturale, di cui i Corinti erano profondamente impregnati e, nonostante la scelta di fede, ne facevano ancora parte.

Nel suo “Fedone” Platone (427-347 a.C.) evidenziava come il corpo sia d'impedimento nell'avvicinarsi alla verità, una sorta di peso morto, corrotto e corruttore, che ci distoglie da tutto ciò che è sublime e spirituale; mentre vede nella morte l'evento che separa l'anima dal corpo, liberandola in piena purezza verso la verità prima ed ultima. Compito del filosofo e dell'uomo saggio, che vogliono raggiungere la verità è, pertanto, cercare di liberarsi sempre più dalle esigenze, dalle pretese e dalla schiavitù del corpo, percepito in termini negativi. Viene nel contempo affrontato anche il problema dell'anima, che secondo la maggior parte degli uomini, al momento della morte del corpo, si dissolve nel nulla: “gli uomini restano alquanto scettici, perché pensano che, una volta separatasi dal corpo, essa non abbia più esistenza alcuna, che anzi si dissolva e perisca nell'istante in cui l'uomo muore(Fed. XIV). Per contro, Platone sostiene che essa non solo era preesistente al corpo, ma proprio per questa sua preesistenza essa è anche immortale e al momento della morte, se non è stata corrotta dal corpo, ponendosi al suo servizio anziché dominarlo e, in qualche modo, respingerlo, essa se ne andrà “verso l'invisibile, verso il divino, l'immortale, l'intelligibile, dove, una volta giunta, sarà felice, libera dall'errore, dalla malvagità, dalla paura, dalle selvagge passioni, da tutti gli altri mali dell'uomo e dove potrà trascorrere tutto il tempo a vivere, come si dice a proposito degli iniziati, veramente in compagnia degli dei(Fed. XXIX).

Questo, dunque, in buona sostanza, il clima che dominava la cultura della società ellenistica: da un lato, il corpo, destinato a perire, è fonte di appesantimento spirituale e di corruzione tale da poter perdere l'uomo. Saggio, quindi, è colui che lo domina e lo rifugge; dall'altro, l'anima, che per i più è mortale e destinata a svanire con il corpo, mentre per altri essa continua a vivere nell'immortalità divina. Paolo, come del resto Luca con il cap. 24, deve dare una risposta a questo complesso quadro culturale, che esclude la risurrezione o, se la ammette, la vede soltanto come una mera sopravvivenza dell'anima; mentre per il giudaismo essa è considerata una sorta di riviviscenza, che consente all'uomo di ritornare a vivere sostanzialmente nel modo identico di prima. In questa prospettiva si colloca la diatriba tra Gesù e i Sadducei circa la risurrezione dei morti (Mt 22,23-33; Mc 12,18-27; Lc 20,27-38).

Nel mondo ellenistico manca, pertanto, il concetto di risurrezione, così che quando Paolo cercherà di parlarne si troverà di fronte alla dura e, nel contempo, buffa situazione dei filosofi epicurei e stoici, che non riescono a capire cosa Paolo stia dicendo, credendo che Gesù e risurrezione fossero due nuove divinità: “Anche certi filosofi epicurei e stoici discutevano con lui e alcuni dicevano: <<Che cosa vorrà mai insegnare questo ciarlatano?>>. E altri: <<Sembra essere un annunciatore di divinità straniere>>; poiché annunciava Gesù e la risurrezione(At 17,18). Ma allorché spiegò più chiaramente di cosa si trattasse, Paolo venne deriso e lasciato alle sue fantasticherie: “Quando sentirono parlare di risurrezione dei morti, alcuni lo deridevano, altri dissero: << Ti sentiremo su questo un'altra volta>>(At 17,32).

Una visione, dunque, decisamente negativa del corpo, di cui liberarsi, ma che la risurrezione intendeva riportare in vita, riaprendo un nuovo e interminabile ciclo di lotta contro questo corpo continuamente reviviscente. Nell'ambito di questo quadro è facilmente comprensibile la presa di posizione di “alcuni di voi” contro la risurrezione.

L'ipotesi negativa e le sue nefaste conseguenze: “Se i morti non risorgono (vv.13-19)

Dopo aver affermato sia da un punto di vista dottrinale che testimoniale la risurrezione di Cristo (vv.1-11), Paolo con questa pericope vv.13-19 apre in modo ipotetico (“se non c'è”, “se Cristo non è”, “se i morti non”) alle pretese di quei Corinti, che negano la risurrezione dei morti, prospettando loro le conseguenze di questa loro negazione. Le conseguenze vengono analizzate su due livelli, enunciati tematicamente al v.14: il primo riguardante la “nostra predicazione”; il secondo la “vostra fede”. Due temi strettamente interconnessi e interdipendenti tra loro, poiché dalla predicazione nasce la fede (Rm 10,17), per cui se la prima è menzognera, lo sarà anche la seconda e, in quanto tale, fondata sulla vacuità. Quindi le conseguenze ci sarebbero sia a livello istituzionale che ecclesiale.

Quanto al primo livello (vv.13-15), la predicazione, che annuncia “tra le prime cose” (v.3) che il Cristo è “morto e risorto”, si trasformerebbe in un annuncio menzognero, poiché, a detta dei negatori della risurrezione dei morti, questa non esiste. I predicatori, pertanto, si trasformerebbero in falsi testimoni della risurrezione e falsi testimoni anche tutti quegli altri istituzionali sopra citati (vv.5-8), compreso lui, Paolo. Questo è il primo effetto della negazione della risurrezione dei morti, che va ad inficiare l'istituzione della stessa Chiesa, fondata soltanto su di una menzogna.

Il secondo effetto della negazione della risurrezione dei morti (vv.16-19) andrebbe a colpire la stessa fede, generata da questa grande mistificazione, che la renderebbe, per ciò stesso, vacua e inconsistente e priva di ogni efficacia salvifica, perché incapace di metterci nel giusto rapporto con Dio, che non viene più messo in grado di riscattare i nostri peccati; gli stessi defunti, poi, morti sperando in Cristo, così ingannati, di fatto si sono perduti. Una simile fede, vuota e inconsistente, è anche incapace di generare una qualsiasi speranza, che sia in grado di superare questa contingenza storica, racchiusa nel peccato e nel degrado spirituale e morale, per cui il credere con una simile vacua fede significa anche decretare il nostro fallimento di credenti e, ancor prima, di uomini, che hanno speso la propria vita inutilmente, perdendosi in una illusione di salvezza e sperando nel nulla.

L'intera pericope è pesantemente farcita di negazioni riguardanti la risurrezione, date sia pur in via ipotetica, che si ripetono in modo ossessivo in tutta la pericope, quasi a voler sbattere in faccia ai Corinti negazionisti la loro stessa pretesa, facendo toccar loro con mano le conseguenze disastrose di questa loro assurdità. Diventa ad essere così una pericope molto pesante, triste e deprimente, che vede nella negazione della risurrezione dei morti il fallimento stesso della storia della salvezza e, in primis, della sconfitta di Dio, incapace di riscattare l'uomo dalla sua colpa originale, rigenerandolo nuovamente alla sua vita primordiale, da cui è tragicamente decaduto (Gen 3,16-24).

Va detto, tuttavia, che, probabilmente, i Corinti con la negazione della risurrezione dei morti non intendevano negare quella di Cristo e, probabilmente non le collegavano tra loro. La questione, infatti, nasce dalla “negazione della risurrezione dei morti” e non da quella di Cristo Ma Paolo intuisce, tuttavia, la gravità di una simile affermazione, insita nella cultura stessa del mondo greco-ellenista, che porta in se stessa un'implicita negazione della risurrezione di Cristo, poiché Cristo, alla pari di qualsiasi altro uomo, è realmente morto e, di conseguenza,”se i morti non risorgono, neppure Cristo è risuscitato” (v.16). Una semplice logica deduttiva, che, tuttavia, non lega necessariamente tra loro le due risurrezioni, ma le fa rientrare in un comune destino umano, quello di una morte che non prevede nessuna risurrezione, di conseguenza, e soltanto di conseguenza, anche quella dell'uomo Gesù, morto e sepolto come tutti.

Molto più interessante e determinante per la salvezza del credente è, invece, il rovesciamento della situazione con la successiva pericope vv.20-28.: Se, infatti la morte dell'uomo è priva di ogni prospettiva di speranza, perché priva di risurrezione, similmente lo è anche quella del Gesù morto e sepolto, come tutti, perché questa è la condizione normale di tutti gli uomini, compresa quella dell'uomo Gesù. Ma la risurrezione, che non fa parte né della storia, né del naturale destino degli uomini, viene ora, con la successiva pericope vv.20-28, affermata come azione potente di Dio, che l'ha operato nel suo Cristo, divenendo così il principio di una nuova creazione, di cui il credente fa parte per fede, accolta nella propria vita, divenendone la conditio sine qua non. L'origine della risurrezione, pertanto, non va ricercata nell'uomo, destinato soltanto alla morte, ma in Dio stesso, che lo apre alla propria Vita immortale, sottraendolo, proprio con la risurrezione, azione potente di Dio operata tramite la potenza del suo Spirito, al suo miserabile destino di essere decaduto, ricostituendolo nella sua integrità originale. E il motivo di questo interessamento di Dio per l'uomo risiede nel fatto che egli è stato creato a sua immagine e somiglianza e in qualche modo in lui c'è l'impronta di Dio stesso, un suo pur vago riflesso, il quale non poteva essere definitivamente distrutto dalla morte, che avrebbe in tal modo sancito la sua vittoria su Dio stesso. Un suo riflesso che Dio ha recuperato in se stesso per il tramite della risurrezione, che è la ricostituzione dell'uomo e del creato in quella Luce divina primordiale, in cui fu collocata la prima creazione.

Un rovesciamento di situazione, tuttavia, che non avviene per dimostrazione della risurrezione, storicamente irraggiungibile, ma per fede, fondata sulla testimonianza del Risorto. Per avere degli indizi storici sulla risurrezione si dovrà aspettare Giovanni e il suo cap.20,1-10, per intuire che essa è realmente avvenuta62. Paolo non ha bisogno di “provare”, poiché lui, il Risorto, lo ha visto e lo ha sperimentato nella propria vita.

La certezza della risurrezione in prospettiva escatologica: “Cristo è risorto dai morti” (vv.20-28)

Alla distruttiva tesi dei Corinti negazionisti circa la risurrezione dei morti, con le devastanti conseguenze per la Chiesa e per i credenti, illustrate nella precedente pericope, vv.13-19, Paolo contrappone, ora, la pericope, vv.20-28, che mette in rilievo non solo la necessità della risurrezione di Cristo, ma questa colta nel suo dinamismo escatologico, che già opera nel presente.

Anche qui, Paolo si muove per attestazioni dogmatiche, sottraendole, pertanto, ad ogni discussione e ad ogni ragionamento e, quindi, ad ogni dubbio, impegnando i credenti soltanto nella loro fede. Sono, del resto, delle realtà spirituali, che non si possono provare, non con i mezzi empirici con cui si è soliti misurare le realtà materiali e sensibili. Sono realtà, infatti, che ci superano, ma che possono essere comunque in qualche modo raggiunte attraverso l'intelligenza spirituale, capace di trascendere la dimensione spazio-temporale e proiettarsi intuitivamente in modo ragionevole, con il sussidio delle Scritture e della Rivelazione oltre l'empirico. Solo la fede funge da autentica prova, così come attesta Eb 11,1: “La fede è fondamento di quelle cose che si sperano e prova di quelle realtà che non si vedono63.

La fede, dunque, non i ragionamenti filosofici, è l'unica via percorribile, quando ci si deve confrontare con realtà spirituali, che ci superano. Una fede che non necessariamente è contraria alla ragione, ma, per contro, viene in supporto a questa, proponendosi come soluzione ragionevole per realtà altrimenti irraggiungibili. Il rifiutare il mondo dello spirito e le sue realtà spirituali, perché non dimostrabili secondo i criteri tecnico-scientifici, significa non aver compreso come le nostre strumentazioni sono funzionali soltanto alle realtà materiali e sensibili, ma del tutto inadeguate per approcciare quelle spirituali, che richiedono una diversa strumentazione e un diverso approccio. Verso tali realtà ci può accompagnare la ragione, che si ferma, tuttavia, alla loro soglia, poiché anche la ragione fa parte del mondo sensibile ed è legata alla sua esperienza e conoscenza, ma per andare oltre a tale soglia serve solo la fede, che non dice un semplice fidarsi, ma un credere in realtà, le quali, benché sensibilmente irraggiungibili, sono tuttavia ragionevolmente credibili. Serve, comunque, un salto di qualità, che ci consenta di andare oltre al nostro mondo sensibile.

La pericope è particolarmente elaborata ed è scandita nella sue argomentazioni in quattro parti:

  1. L'enunciato: il Risorto, principio di vita nuova (v.20);

  2. la motivazione (vv.21-22);

  3. enunciazione dell'ordine con cui si svolge la nuova creazione (vv.23-24);

  4. precisazioni sulla dinamica della nuova creazione e la sua finalità (vv.25-28).

Il v.20 si apre in modo significativo con l'espressione “Nunˆ dš” (Ninì dé, ma ora), dove, da un lato, il “” (ma) crea una netta contrapposizione non solo al v.13, ma altresì all'intera pericope precedente vv.12-19; dall'altro, l'avverbio di tempo “Ninì” (proprio ora, proprio adesso) è un rafforzativo di “Nîn” (Ora, adesso) e sottolinea come il Risorto è una realtà presente, radicata, hinc et nunc, in mezzo alla comunità credente e, nonostante la sua incredulità, anche in mezzo all'umanità, per la cui salvezza il Verbo eterno del Padre si è incarnato (Gv 1,4.9-10,12-13).

Il v.20 enuncia un'attestazione affermativa, che non è dimostrativa, ma dogmatica e si contrappone a quella, sia pur ipotetica, negazionista del v.13 con tutte le sue disastrose conseguenze: “Ma, ora, Cristo è risorto dai morti, primizia di quelli che si sono addormentati”. Il ragionamento qui prodotto è inverso a quello del v.13: là si ipotizzava la non-risurrezione dei morti e, quindi, di conseguenza, anche il morto Gesù non è soggetto alla risurrezione come tutti i morti; qui, per contro, si attesta che Gesù è risorto, quindi, di conseguenza, tutti i morti risorgono. Un Risorto che qui è definito “primizia”, che non dice soltanto un ordine di risurrezione, in quanto il Risorto è il primo morto a risorgere (v.23), ma quella “primizia” ha a che vedere anche con l'origine di ogni risurrezione ed essendone fonte e causa ne è anche garanzia.

Una primizia tra tutti “quelli che si sono addormentati” (kekoimhmšnwn, kekoimeménon). L'uso di questa metafora, come si è già detto sopra, che ricorre in tutte lettere neotestamentarie soltanto dieci volte e solo in quelle attribuite a Paolo, sette volte qui in 1Cor e tre volte in 1Ts, non è casuale, poiché con la metafora dell' “addormentarsi” Paolo probabilmente vuole che i Corinti comprendano, da un lato, che il “sonno” non è eterno; dall'altro, associno il suo contrario: il “risvegliarsi”, che in greco è reso con il verbo “gerw” (egheíro), un termine tecnico, che, assieme ad ¢nsthmi (anístemi, levarsi, alzarsi, sorgere), indica la risurrezione di Gesù. Quindi il Cristo “risvegliato” è fonte e causa di risveglio per coloro che si sono addormentati. È, pertanto, tutto un gioco che Paolo sta creando tra “risveglio” e “sonno” per affermare una realtà nuova, che difficilmente è diversamente raggiungibile se non attraverso metafore.

Se il v.20 formula un'attestazione dottrinale, i vv.21-22 ne forniscono la motivazione, fondata su di un parallelismo tra Adamo e Cristo, entrambi capostipiti: di nuova umanità e nuova creazione, il primo; di umanità e creazione rigenerate a Dio, il secondo. Parallelismo che Paolo riprenderà, da lì a qualche anno, anche in Rm 5,14: “la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato con una trasgressione simile a quella di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire”.

Sia Adamo che Cristo sono qui qualificati per la loro funzione: Adamo ha causato la decadenza e la morte non solo dell'umanità, bensì, per un principio di solidarietà e inscindibilità, anche dell'intera creazione (Gen 3,16-24; Rm 3,23)64; parimenti Cristo, per contro, è causa e generatore di vita. Due uomini contrapposti, posti all'origine dell'umanità e della creazione, nuova la prima e rigenerata la seconda, in cui tutti, inscindibilmente, si ritrovano coinvolti, loro malgrado: nella morte, prima; nella risurrezione-rigenerazione, poi (v.21). Una vita, che fu data originariamente incandescente di Dio (Gen 1,26-27.31), ma che, poi, decadde per un atto di ribellione a Dio (Gen 3,1-7), trasformandosi da vita divina in vita di morte (Gen 16-24), così che il vivere dell'uomo decaduto è in realtà un lento e graduale morire fin dal suo concepimento e dal suo nascere in questo mondo di morte, dove sofferenza, dolore e gioie effimere ne scandiscono lentamente il disfacimento (Sal 89,10).

Ma è a fronte di questo stato di decadimento e di morte, che ha rovinato l'opera di Dio (Gen 3,16-24), in cui Egli stesso ha posto il suo riflesso e in qualche modo Se stesso (Gen 1,26-31; Rm 1,20), che Dio ha deciso di recuperare a Sè l'intera sua opera, rigenerandola nuovamente per mezzo di suo Figlio, la sua Parola eterna, creatrice della prima creazione (Gen 1,1-31; Gv 1,3) e, ora, rigeneratrice di quella stessa creazione decaduta, assumendola in se stesso con la sua incarnazione, ponendovi fine con al sua morte e rigenerandola in se stesso con la sua risurrezione. E così rigenerata e ricondotta al suo splendore originale, riconsegnata al Padre (v.28), origine originante sia dell'originaria creazione sia della sua rigenerazione, che qui Paolo rende con l'espressione verbale “saranno vivificati”, cioè permeati nuovamente della stessa vita divina di cui originariamente l'antico “Adamo” beneficiava, dopo che l'Alito di Dio, il suo Spirito di Vita eterna, lo aveva reso “essere vivente”, cioè partecipe della stessa Vita di Dio (Gen 2,7). In tal senso il Sal 8,6 ricorderà questo evento primordiale: “Eppure l'hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato”, cioè coronato della stessa Vita e della stessa dignità di Dio. Ed è in tal senso, per contro, che Rm 3,23 attesterà: “tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio”.

Dopo la breve pausa riflessiva dei vv.21-22, che motivavano in qualche modo l'attestazione del v.20, Paolo riprende con i vv.23-24 le sue argomentazioni sulla risurrezione, spiegandone, ora, le finalità e il suo dinamismo escatologico. Con il v.23 riprende il v.21 stabilendo delle priorità: “(prima) Cristo (che è la) primizia, poi quelli (che sono) di Cristo alla sua venuta”, dove, come si è già detto sopra, quel “prima ” e quella “primizia” non vanno soltanto letti in termini di successione temporale o di importanza, ma soprattutto in ordine di potenza, di causa ed effetto, un effetto che apparirà evidente nel tempo della “venuta di Cristo”, che, non va mai dimenticato, nella chiesa del I sec. d.C. era sentita come imminente (7,29-31).

La successione di tempo ed eventi, invece, è data dagli avverbiœpeita” (épeita, in seguito) ed “eita” (eita, poi), dove, come si è già detto a pag.189, “œpeita” (épeita, in seguito) indica prevalentemente una successione temporale e compare qui al v.23 dove viene distinta la risurrezione di Cristo da quella dei suoi, ponendo tra le due risurrezioni uno spazio temporale dato, appunto, da quel “œpeita” (épeita, in seguito), che fissa il tempo della risurrezione dei credenti alla “venuta di Cristo”; mentre il “poi”, che compare in apertura del v.24, è reso in greco con “eita” (eita, poi), che dice più che una successione temporale, una successione di eventi, collegando in qualche modo la risurrezione di quelli che appartengono al Risorto alla fine di tutte le cose.

In quali termini il credente risorgerà alla venuta di Cristo e quale sarà il destino di coloro che si sono addormentati in Cristo prima della sua venuta, Paolo ne aveva già parlato qualche anno prima di questa lettera, in 1Ts 4,14-17, che riprenderà, sia pur in modo più sintetico, qui ai vv.51-52, evidenziando un importante concetto di risurrezione, quello di “trasformazione”: “Ecco, vi dico un mistero: non tutti ci addormenteremo, ma tutti saremo trasformati, in un attimo, in un batter d'occhio, (al suono dell')ultima tromba; (essa), infatti, suonerà e i morti risorgeranno incorruttibili e noi saremo trasformati”. Ma prima sarà Cristo, poi quelli che gli appartengono, in quanto che già in qualche modo hanno improntato la loro vita alla novità di Vita eterna annunciata dalla sua Parola, ed avendola metabolizzata nella propria vita, sono stati da questa rigenerati alla Vita stessa di Dio (1Pt 1,23).

Strettamente collegato all'evento della risurrezione di quelli che appartengono a Cristo, alla sua venuta, (v.23) è la “fine” (tšloj, télos) enunciata al v.24. La fine di cui si parla qui è quella del potere di satana, incarnato nel potere dell'uomo decaduto e che non appartiene a Cristo, avendolo rifiutato: “allorché avrà soppresso ogni principato e ogni autorità e potere”, dove quel “ogni” ripetuto lascia intendere che nulla di avverso a Dio sfuggirà alla distruzione, così che tutto venga riconsegnato “a Dio e Padre”, così com'era nei primordi dell'umanità.

L'espressione “a Dio e Padre” è molto significativa. Questa, infatti, può essere letta come un'endiade: “a Dio che è Padre”, precisando in tal modo il rapporto di figliolanza e di dipendenza che il Risorto e, con lui e in lui, quelli che gli appartengono, hanno con Dio Padre (Gv 1,12-13; 20,17b). Tuttavia la distinzione tra “Dio e Padre” può significare anche come “il tutto”, pensato e creato dal Padre, origine originante, per mezzo del Figlio e vivificato per mezzo dello Spirito, tornerà nuovamente sotto il potere divino, così come lo era originariamente, allorché tutto era ancora incandescente di Dio (Gen 1,31).

Se il v.24 enunciava la fine del regno umano, quale avverso a Dio, e la riconsegna “a Dio e Padre” della sua opera, originariamente deturpata dalla colpa primordiale, ma, ora, rigenerata dal e nel Morto-Risorto, la pericope seguente, vv.25-28, riprendendo il v.24, ne illustra la dinamica, riportando il tutto al progetto salvifico del Padre (Ef 1,4-10).

La pericope vv.25-28 si apre significativamente con il verbo impersonale “de‹” (deî, bisogna), che definisce uno stato di necessità, di dovere, di esigenza, che richiama e rimanda direttamente al disegno salvifico del Padre. Quanto, dunque, qui Paolo attesta in questa pericope ha a che vedere con tale progetto, che prevede che il suo Cristo “regni”. Che cosa significhi il verbo ”regnare” e qual'è la sua finalità viene fatto continuamente riecheggiare in tutta la pericope nel verbo “sottomettere”, che in vario modo si ripete per ben sette volte in quattro versetti e che scandisce la durata del regno e la sua finalità: “finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi”, un'espressione, quest'ultima, che dice la totale e definitiva sottomissione dei nemici di Dio, cioè figli di quella prima ribellione, che vide Adamo ed Eva in opposizione a Dio, volendosi sostituire a Lui (Gen 3,4-6) e che qui hanno rifiutato il Cristo e il suo Vangelo di Vita eterna, contrapponendosi a Dio. Di questi nemici Paolo farà una magistrale descrizione in Rm 1,28-32, che vale qui la pena riportare integralmente, poiché hanno tutti un comune denominatore, che li accomuna: l'insofferenza di Dio, che li porta alla ribellione contro di Lui, riducendoli, per contro, vittime e schiavi di loro stessi e della loro natura decaduta: “E poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balìa d'una intelligenza depravata, sicché commettono ciò che è indegno, colmi come sono di ogni sorta di ingiustizia, di malvagità, di cupidigia, di malizia; pieni d'invidia, di omicidio, di rivalità, di frodi, di malignità; diffamatori, maldicenti, nemici di Dio, oltraggiosi, superbi, fanfaroni, ingegnosi nel male, ribelli ai genitori, insensati, sleali, senza cuore, senza misericordia. E pur conoscendo il giudizio di Dio, che cioè gli autori di tali cose meritano la morte, non solo continuano a farle, ma anche approvano chi le fa”. Ci troviamo do fronte alla descrizione di una società del 57 d.C. ma che, nostro malgrado, possiede un'attualità impressionante.

La sottomissione definitiva dei nemici di Dio non esclude la morte, che in realtà non viene sottomessa, ma “soppressa”, cioè tolta definitivamente (v.26). Qui non si parla della morte fisica, così come la conosciamo noi, ma della condizione propria del vivere umano e di quella della stessa creazione, il tutto soggetto alla caducità, in quanto facente parte di questa dimensione spazio-temporale, che è la dimensione propria dell'uomo decaduto, privata dello Spirito di Dio, che è Spirito della stessa Vita divina in cui era stata collocata l'intera creazione nei suoi primordi (Gen 1,3), ivi compresa la creazione dell'uomo, fatto ad immagine e somiglianza di Dio (Gen 1,26-27), nel quale era stato inoculato l'Alito di Vita di Dio (Gen 2,7), divenendo esso stesso un essere vivente della stessa Vita divina, che perse nel suo atto di ribellione, ritrovandosi così nudo (Gen 3,7) e passando da carne spiritualizzata a carne despiritualizzata, da uno stato di Vita ad uno di morte, i cui effetti sono esemplificati in Gen 3,16-24: sofferenza, dolore, morte, così che il vivere dell'uomo divenne un lento vivere la propria morte, che si esprime nelle continue difficoltà e precarietà del proprio vivere, che si fanno sofferenza e dolore, per poi culminare nella definitiva morte fisica, scomparendo nel nulla. Una condizione di vita sulla quale il sal 89,10 amaramente riflette: “Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti, ma quasi tutti sono fatica, dolore; passano presto e noi ci dileguiamo”.

La morte, dunque, quale condizione dell'esistere dell'uomo decaduto, verrà soppressa e l'uomo ricostituito nella sua integrità originale di “essere vivente” e il cui scenario verrà descritto da Ap 21,1.3-5: “Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c'era più. […] Udii allora una voce potente che usciva dal trono: <<Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il Dio-con-loro. E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate>>. E Colui che sedeva sul trono disse: <<Ecco, io faccio nuove tutte le cose>>; e soggiunse: <<Scrivi, perché queste parole sono certe e veraci>>”. Una visione che si richiama in qualche modo a quella del Paradiso Terrestre, il cui simbolo, quello dell'Albero della Vita, verrà richiamato al successivo cap.22 (Ap 2,7; 22,2.14.19).

Nell'ambito di questo ampio progetto di sottomissione di tutte le cose, che Ef 1,10 attesta essere il disegno del Padre, quello di “ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra”, assumendole in se stesso (Gv 12,32) per poterle, poi, portare sulla croce dove verrà distrutto l'uomo vecchio (Rm 6,6), quello della ribellione a Dio, quell'uomo che voleva sostituirsi a Dio (Gen 3,3-6), per poi rigenerarlo nella sua risurrezione, facendone una nuova creatura in Cristo (2Cor 5,17; Gal 6,15), Paolo sente qui la necessità di fare una precisazione per evitare fraintendimenti ed equivoci e lo fa con il v.27, che funge da frase incidentale: il progetto di sottomissione ideato dal Padre ed attuato nel Figlio, il suo Cristo, per mezzo della potenza dello Spirito Santo, ragionevolmente non ricomprende colui che ha pensato il progetto di salvezza, poiché il Creatore è superiore alla sua creatura e non può sottomettersi a ciò che Egli ha pensato, ma sarà il Figlio ad attuare il suo disegno di sottomissione-ricapitolazione dell'intera creazione, la cui finalità è quella di ricondurre al Padre l'intera creazione proprio attraverso la sua sottomissione al Padre, cioè attraverso la sua accettazione-attuazione del disegno di salvezza, che prevedeva la sua incarnazione, passione, morte e risurrezione, poiché attraverso questa dinamica l'intera creazione e con essa l'intera umanità di ogni tempo veniva riscattata e rigenerata al Padre. Una sottomissione che viene celebrata dallo stesso Paolo nell'inno cristologico di Fil 2,6-11.

La finalità di questa sottomissione-ricapitolazione è quella di riconsegnare al Padre, nuovamente generata nello Spirito, la creazione e l'umanità primordiali, così che Dio sia nuovamente tutto in tutti, così com'era nei primordi, allorché tutto era incandescente di Dio e Dio si riconosceva in tutte le sue creature. Si chiude in tal modo il cerchio della storia della salvezza.

Considerazioni conclusive su cui riflettere, con esortazione finale (vv.29-34)

Dopo aver attestato la risurrezione di Cristo, colta nella sua prospettiva escatologica (vv.20-28), Paolo riprende con questa pericope, vv.29-34, che costituisce la terza parte di questa sezione (vv.12-34) e completamento della prima parte (vv.12-19), l'ipotesi della non risurrezione dei morti con la conseguente ed implicita negazione di quella di Cristo, anche lui morto, e gli effetti che ciò produrrebbe non solo sulla predicazione e sulla propria fede, rendendole vacue (vv.12-19), ma altresì su certi usi e costumi della stessa comunità di Corinto, nonché sulla stessa missione di Paolo, oggetti di riflessione di questa pericope.

Una prima attenzione viene posta su di un uso che doveva costituire una consuetudine presso la comunità di Corinto e che compare soltanto qui in tutta la letteratura neotestamentaria: il battesimo dei morti, dato per procura sui vivi (v.29). In altri termini, allorché un qualche credente non ancora battezzato, come poteva essere un catecumeno, moriva prima del battesimo, un altro credente vivo si faceva battezzare, in sua rappresentanza, per quello morto. Paolo non spiega in che cosa consista esattamente questa strana usanza, e questo dice come tale pratica fosse ben nota nella chiesa di Corinto; ma neppure la contesta, probabilmente perché gli serviva per dimostrare l'incongruenza dei Corinti, quella di non credere alla risurrezione dei morti e nel contempo farsi battezzare per loro conto65. A che serve tutto ciò, si interroga Paolo, se la loro unica prospettiva è la morte, privata di ogni speranza di vita nuova, che solo la risurrezione è in grado di garantire? La domanda è chiaramente retorica e contiene già in se stessa la risposta negativa, ma serve a Paolo per mettere in rilievo quanto sia contraddittorio un comportamento simile, che, invece, acquista tutto il suo senso se si ammette la risurrezione dei morti.

La riflessione di Paolo non si ferma sulla strana usanza della chiesa di Corinto, ma incalza ancor di più trasferendola, ora, sulla sua stessa missione (vv.30-32a): “Perché anche noi ci esponiamo ai pericoli ogni ora?” (v.30). Di quali pericoli qui Paolo stia parlando ce ne dà egli stesso un saggio in 2Cor 11,23-28: “Sono ministri di Cristo? Sto per dire una pazzia, io lo sono più di loro: molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte. Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese”; e un accenno più sintetico ed allusivo lo darà anche in Rm 8,35: “Chi ci separerà dunque dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?”.

Pericoli, che gli provengono proprio mentre sta scrivendo questa lettera da Efeso tra il 53 e i 54 d.C., un ambiente ostile, dove si trova da quasi tre anni: “Se secondo l'uomo ho combattuto con le belve ad Efeso, che cosa mi giova?”. In altri termini, se i pericoli che ho corso e sto correndo qui ad Efeso io li avessi affrontati secondo logiche umane, come per sfida o per aver maggior gloria di cui vantarmi, quale vantaggio ne avrei ricavato, allorché “ho combattuto con le belve ad Efeso”. Le “belve” che Paolo ha affrontato qui ad Efeso non erano certo quelle reali, cui venivano condannati talvolta i cristiani. Egli, infatti, quale “cittadino romano”, titolo che farà valere in At 22,25.27.29, non poteva essere condannato a simili supplizi. Il riferimento qui sembra essere ai cittadini di Efeso, con i quali ebbe modo di scontrarsi duramente al punto da temere per la sua vita. Lo lascia intuire in 16,9b dove parla di “molti avversari” e lo dirà più apertamente in 2Cor 1,8-9: “Non vogliamo infatti che ignoriate, fratelli, come la tribolazione che ci è capitata in Asia ci ha colpiti oltre misura, al di là delle nostre forze, sì da dubitare anche della vita. Abbiamo addirittura ricevuto su di noi la sentenza di morte per imparare a non riporre fiducia in noi stessi, ma nel Dio che risuscita i morti”. Quindi, quando Paolo parla di aver “combattuto con le belve ad Efeso” usa un linguaggio figurato, che ritroviamo anche in Sal 21,13-14.22; 73,19 e in Is 38,13b.

Pericoli, ai quali Paolo si sente esposto ogni giorno e per i quali la sua vita è continuamente messa in discussione a motivo della sua missione. Ma questi pericoli, ben lungi dal farlo desistere, li vive come un vanto, cioè come un'ulteriore forza per il suo essere in Cristo Gesù, il Signore, il Risorto e per lui operare, vivere e morire (Fil 1,21) e non avrà timore di testimoniarlo in 2Cor 12,9b: “Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo”; e similmente in 2Cor 11,30; “Se è necessario vantarsi, mi vanterò di quanto si riferisce alla mia debolezza”. Un vanto che si tradurrà in una sorta di esaltazione spirituale e mistica in Rm 8,37: “Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati”.

Ma se Cristo non fosse risorto, allora anche tutte queste sue sofferenze, che egli sopporta di buon grado per Cristo e che considera un nulla rispetto alla gloria che egli si aspetta (Rm 8,18), al punto tale da desiderare la morte per unirsi totalmente e definitivamente a lui (Fil 1,21), allora tutte queste queste sue sofferenze e tutte le sue attese e speranze non valgono nulla. Tanto vale abbracciare la soluzione proposta dalla filosofia epicurea, che coltivava l'edonismo del vivere, immergendosi nei piaceri della materialità della vita. E in tal senso cita Is 22,13b: “Si mangi e si beva, perché domani moriremo!”, un detto che, riportato dal proto Isaia (740-700 a.C.), dice come questo fosse già molto diffuso nell' VIII sec. a.C. e trova il suo parallelo in Qo 2,24; 5,17; 8,15; 9,7-9, da cui traspare tutta l'amarezza per una vita fugace e di breve durata e senza speranza, cui fa eco anche Sap 2,5-8.

È, pertanto, questa la triste conclusione della negazione della risurrezione dei morti: nessuna vita oltre quella terrena, nessun nuovo orizzonte oltre la materialità del vivere quotidiano, di cui ci conviene, invece, approfittare e trarne ogni godimento possibile nell'oggi, perché “del doman non v'è certezza”66. E giunta la morte, tutto si spegne e l'uomo e le sue speranze svaniscono nel nulla. Un destino, dunque, miserabile quello dell'uomo, come Paolo ha già avuto modo di evidenziare al v.19, dove considera come “Se noi abbiamo sperato in Cristo (soltanto) in questa vita, siamo i più miseri di tutti gli uomini”. E questo perché la fede in un Cristo non risorto lo priverebbe dei nuovi orizzonti di Vita eterna, che la risurrezione di Cristo, invece, ha inaugurato, spingendo il credente nel Risorto oltre la terrestrità, di cui è vittima, così che Col 3,1 non esiterà ad esortare la sua comunità: “Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio”. Attestazione su cui rifletterà l'autore della Lettera a Diogneto (II sec. d.C.) circa la natura dei credenti: “Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Dimorano sulla terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo” (Dgn 5, 8-9).

Da qui l'esortazione conclusiva dei vv.33-34, che non disdegnano di ricorre ad una noto ammonimento del commediografo greco Menandro (342-291 a.C.), probabilmente noto ai Corinti, gente colta e aperta al variegato mondo culturale, filosofico e religioso, caratteristico di una città portuale: “Le cattive compagnie rovinano i buoni costumi”. Sono quelle compagnie del mondo pagano da cui i credenti di Corinto provengono e in mezzo alle quali vivono ancora e dalle quali si lasciano influenzare, creando tutta una serie di problemi in netto conflitto con la nuova vita e che la presente lettera ha in parte rilevato, lasciando trasparire quale fosse il tenore di vita della comunità di Corinto. Da qui l'esortazione a “rientrare in se stessi”, cioè a ritornare e a riflettere sugli insegnamenti impartiti all'origine della propria fede e che ne costituiscono il fondamento, percorrendo nuovamente la via della saggezza e non quella del “peccato”, cioè di una vita in netta dissonanza con la propria fede, come la credenza della non risurrezione dei morti,che pregiudica l'intera vita credente, mettendo in discussione la stessa risurrezione di Cristo.

Un richiamo che riprende in qualche modo i vv.1-2, che, non a caso, aprono questo cap.15, ponendolo interamente sotto l'egida della Dottrina e della Tradizione, e che invitano i Corinti a riflettere su ciò che Paolo e con lui l'intera Tradizione della Chiesa hanno loro trasmesso sulla risurrezione di Cristo (vv.3-11). Un invito che è pressante, perché “Infatti alcuni hanno ignoranza di Dio”, cioè non hanno capito nulla della fede e della nuova vita che sono stati inoculati in loro dalla fede e dal battesimo e che li permeano nella totalità e nella profondità del loro essere e di questo i Corinti, che si ritengono saggi e arrivati, dovrebbero vergognarsi.

In che cosa consiste la risurrezione (vv.35-50)

Note generali

Dopo aver argomentato meticolosamente l'indiscutibile quanto necessaria esistenza della risurrezione dei morti, dalla quale consegue anche quella di Cristo, pure lui morto, ma la cui risurrezione è dottrinalmente attestata e accertata dalla Tradizione ecclesiale, radicata nella testimonianza del nucleo apostolico fondante la Chiesa nonché da moltissimi altri discepoli; una risurrezione che si proietta su di uno sfondo escatologico, inaugurando nuovi tempi e nuove realtà verso le quali il credente è incamminato, ma che già fin d'ora è chiamato a vivere, ora, Paolo, dopo questa pressante argomentazione a favore dell'esistenza della risurrezione, con il v.35 annuncia un nuovo tema, che apre una nuova sezione, delimitata dai vv.35-50, ed è scandita in cinque parti:

  1. Enunciazione del tema: modalità della risurrezione e nuova corporeità (v.35);

  2. la dinamica della risurrezione: passaggio da morte a vita, che implica la cessazione di uno stato di vita precedente e il passaggio-trasformazione ad un altro stadio esistenziale (v36-38);

  3. ripresa ed esemplificazione dei vv.36-38: un corpo rigenerato nello spirito (vv.39-41);

  4. le qualità del corpo rigenerato dello spirito (vv.42-44);

  5. la prova scritturistica di Gen 2,7 e le sue conseguenze (vv.45-50).


Commento ai vv.35-50

Enunciazione del tema (v.35)

Parallelamente al v.12, che annunciava il tema della sezione vv.13-34, il v.35 apre una nuova sezione, vv.35-50, presentando, a sua volta, il nuovo tema: “Ma qualcuno dirà: <<Come risorgono i morti? Con quale corpo ritornano?>>”, che segna il passaggio dall'attestazione della risurrezione (vv.1-34) alla sua dinamica e in che cosa essa consista (vv.36-50).

Tuttavia, diversamente dal v.12, dove Paolo muoveva polemicamente una sdegnosa accusa a quei Corinti che negavano la risurrezione dei morti, pregiudicando in tal modo anche quella di Cristo con tutto ciò che ne conseguiva, qui, invece, è Paolo stesso che si fa promotore di un nuovo tema sulla risurrezione, che va ad integrare e a completare il primo, quello dell'attestazione della risurrezione, ipotizzando delle possibili questioni sollecitate dagli stessi Corinti: “Ma qualcuno dirà ...”.

Due sono gli interrogativi e due i temi che scandiranno questa sezione, vv.35-50: il primo, “Come risorgono i morti?”, riguarda le modalità del passaggio da uno stato di vita ad un altro (vv.36-41); il secondo interrogativo, “Con quale corpo ritornano?”, riguarda la natura del nuovo corpo risorto, che troverà la sua risposta nei vv.42-50.

La dinamica della risurrezione: passaggio da morte a vita rigenerata nello Spirito (vv.36-41)

Il v.36 richiama da vicino il detto che il Gesù giovanneo riferiva agli effetti della sua morte e della sua risurrezione: “In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24). Perché, dunque, il chicco di grano porti frutto è necessario che questo muoia, cioè che cessi di essere quello che è: un chicco di grano nella sua forma e nella sua essenza, per poter accedere ad una nuova forma di vita, decisamente più ricca, più piena e perfetta, che già in qualche modo è racchiusa in lui, nel suo DNA di grano, in attesa che si verifichino le condizioni per poter attivare la nuova vita racchiusa in lui, sia pur in fieri. Là in Gv 12,24 il chicco di grano era Gesù stesso; qui, in Paolo, è lo stesso corpo dell'uomo, ma con lui ogni corpo, sia questo animato o inanimato, ogni essere vivente deve liberarsi dalla sua forma e dalla sua essenza, per poter accedere ad un'altra forma e ad un'altra essenza, sostanzialmente diversa, che più nulla ha a che vedere con quella precedente, benché la natura propria rimarrà immutata, nel senso che un essere umano rimarrà sempre tale. In tal senso bene recita la liturgia dei defunti quando parla della morte: “Vita mutatur, non tollitur”, cioè con la morte non viene tolta la vita, ma ne viene cambiata la forma e le modalità del suo essere ed esprimersi, così che la morte diviene la porta di accesso ad una nuova vita.

Un versetto, quindi, determinante, perché segna la discriminante tra il “non risorto” e, quindi, lo stato attuale della nostra condizione esistenziale, profondamente segnata dalla sofferenza, dal dolore e dalla morte, causato dalla colpa originale (Gen 3,16.24), e il “risorto”, dove la morte, in tutte le sue espressioni di fatica, sofferenza e dolore, è cessata, per dare accesso alla definitiva pienezza di vita (Ap 21,3b-5a).

Il passaggio da una condizione di vita degradata ad un altro stato di vita piena e, in quanto tale, perfetta, è segnato dalla morte, cioè dalla distruzione di ciò che è degradato per dare spazio ad una vita nuova. La morte, cioè la fine di una certa condizione esistenziale, è la conditio sine qua non per poter accedere alla novità di vita e fa parte di questo nostro stato di vita, che noi chiamiamo vivere, ma che in realtà, dal concepimento in poi, è un lento e graduale morire fino a raggiungere l'apice del morire con la morte fisica, che pone fine a questo nostro stato di vita degradata dal peccato.

Il motivo per cui si rende necessario porre fine a questo stato di vita, profondamente segnato dalla colpa originale, viene sinteticamente enunciato al v.50: “poiché (la) carne e (il) sangue non possono ereditare il regno di Dio, né la corruzione erediterà l'incorruttibilità” e così similmente in Rm 14,17: “Il regno di Dio infatti non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo”. Si tratta, dunque di due dimensioni completamente diverse, anzi, antitetiche, che lo stesso Gesù giovanneo metterà in evidenza nel dialogo con Nicodemo: “Quel che è nato dalla carne è carne e quel che è nato dallo Spirito è spirito”. Due realtà, dunque, che presuppongono anche due diverse origini: il nascere dalla carne e dal sangue, che allude alla nostra attuale condizione esistenziale, e il nascere da Dio per mezzo della potenza dello Spirito, che allude ad un nuovo stato di vita: “A quanti però l'hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati” (Gv 1,12-13).

Due mondi, quindi, che sono posti in due diverse e contrapposte dimensioni, così che il secondo mondo, quello dello Spirito, richiede la necessaria dismissione delle modalità del vivere e dell'essere proprie del mondo carnale, il nostro mondo, quello come già si è detto, degradato dal peccato, che ha tolto la dimensione dello spirito, che caratterizzava l'uomo prima della colpa, quale carne spiritualizzata (Gen 2,7), divenendo, successivamente, carne despiritualizzata (Gen 3,7) con tutte le conseguenze di sofferenza, dolore e morte, che ben conosciamo e sperimentiamo quotidianamente (Gen 3,16-24). Per questo fu cacciato dal Paradiso Terrestre, perché non poteva più rimanere nella dimensione in cui era stato originato, in quanto che era diventato carne despiritualizzata, del tutto incompatibile con tale dimensione.

La morte, pertanto, diviene la discriminante tra il prima e il dopo, la porta di passaggio obbligato, che pone fine ad uno stato di vita da moriente, consentendo, in tal modo, l'accesso ad un nuovo stato da vivente.

Se i vv.36-37 ponevano quale discriminante tra l'attuale stato di vita e quello futuro la morte, porta obbligata di passaggio verso una diversa dimensione e una nuova forma di vita, il v.38, che trova la sua esplicitazione nell'esemplificazione dei vv.39-41, enuncia un principio importante e fondamentale, che lega l'essere vivente e tutto ciò che esiste, animato e inanimato, alla natura propria di ogni esistente, che lo qualifica per ciò che egli è: essere umano, animale, vegetale e minerale o inerte, così come Dio ha stabilito all'origine della creazione del mondo, del quale vengono elencate le varie componenti in Gen 1,3-25, che qui in qualche modo vengono richiamate ai vv.39-41, che lo costituiscono e formano lo scenario dove verrà, da ultimo, collocato l'uomo (Gen 1,26-30), così che nella nuova dimensione e nella nuova condizione di vita e nella sua nuova forma non c'è da aspettarsi una realtà altra da questa che conosciamo, ma una realtà completamente e sostanzialmente diversa, poiché resa vivida, in quanto vivificata dallo Spirito. Sia Is 65,17; 66,22 che Ap 21,1 parlano, infatti, di “cieli nuovi e di terra nuova”, cioè di realtà che fanno parte della nostra vita e che ben ci sono note, ma queste sono “nuove”, dove per quel “nuove” deve intendersi “sostanzialmente diverse” e a noi sconosciute, in quanto che verranno trasformate dalla potenza dello Spirito e ricondotte al loro splendore originario, allorché Dio era tutto in tutti e tutto era ancora incandescente di Dio.

Del resto, Dio ha risuscitato il Gesù della storia non dandogli un altro corpo e buttando al macero quello che aveva prima, ma trasformandolo e vivificandolo con la potenza dello Spirito, così che egli non solo è la primizia di coloro che risorgeranno (v.20), bensì anche il prototipo di una nuova creazione o per meglio dire di una creazione rigenerata e rivivificata per mezzo dello Spirito e nello Spirito, così com'era nei primordi.

Difficile immaginare ciò che non conosciamo e non sappiamo, ma Ap 21,1-5, parlando per immagini, ce ne dà una sia pur pallida idea che, in qualche modo, ci lascia molto vagamente intuire ciò che sarà: “Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c'era più. Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente che usciva dal trono: Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il "Dio-con-loro. E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate>>. E Colui che sedeva sul trono disse: "Ecco, io faccio nuove tutte le cose"; e soggiunse: <<Scrivi, perché queste parole sono certe e veraci>>”.

Le qualità del corpo rigenerato dello spirito (vv.42-44)

Dopo aver evidenziato la necessità di dismettere, attraverso la morte, questa nostra corporeità decaduta, profondamente segnata dal peccato, per poter accedere alla nuova dimensione spirituale, ognuno (uomini, animali, vegetali e minerali in genere) con la propria realtà corporale, che gli è stata assegnata fin dalla propria entrata in questa dimensione spazio-temporale decaduta e corrotta, facendone così parte (vv.36-41), Paolo, ora, con i vv.42-44 traccia le qualità della nuova corporeità di cui ognuno si ritroverà rivestito, rispondendo in tal modo al secondo interrogativo del v.35: “Con quale corpo ritornano?”.

La breve pericope in esame, vv.42-44, inizia con “Così anche” (OÛtwj kaˆ, Útos kaì), riprendendo in tal modo le esemplificazioni riportate ai vv.38-41, con cui si attestava come ognuno risorgerà con la corporeità che gli è propria fin dal suo nascere, e portandola a compimento, precisando, ora, in quale modo quella propria corporeità degradata e corrotta dalla colpa originale, verrà rigenerata nella risurrezione e che cosa questa significhi e come essa operi sul proprio corpo.

I vv.42-44 giocano su due verbi tra loro contrapposti: “si semina”, cioè si entra a far parte di questa dimensione spazio-temporale degradata e corrotta, dalla quale si è condizionati; e “si risorge”, cioè si viene rigenerati a nuova vita.

La realtà degradata in cui si semina e di cui il seme fa parte, alludendo con quel “si semina” alla capacità generativa non solo dell'uomo, ma con lui di tutta la creazione, è definita da Paolo con quattro termini: corruzione, ignominia, debolezza, naturale. Si noti la loro successione e il logico sviluppo: si parte con la “corruzione”, che dice come questo seme generativo ha perso la sua integrità originaria ed è per ciò stesso decaduto e, quindi, destinato alla decomposizione, al disfacimento e alla contaminazione dell'intera realtà in cui introduce ogni essere generato; di conseguenza è un seme che apre all' “ignominia”, cioè alla bassezza, al disonore, all'empietà, alla meschinità e al degrado della crudeltà, della barbarie, dell'iniquità e della profanazione, mostrando in tutto ciò la sua “debolezza”, che si esprime nella sofferenza, nel dolore, nella fatica del vivere quotidiano ed infine viene sancita con la morte. E tutto questo è “naturale”, cioè fa parte della natura e dell'essenza stessa dell'uomo decaduto e con lui, per un principio di solidarietà67, dell'intera creazione.

A tutto questo disastro cosmico conseguente alla colpa originale, che ha spogliato l'uomo e l'intera creazione della loro originaria integrità strutturale e della loro stessa essenza garantita dallo Spirito, da cui furono permeati nei loro primordi (Gen 1,26-27; 2,7), in quanto collocati originariamente nella Luce divina (Gen 1,3), fa fronte il progetto salvifico di Dio, la cui finalità è ricondurre l'uomo e con lui l'intera creazione nel suo seno, da cui sono drammaticamente fuoriuscite: ricapitolare l'intera creazione decaduta e corrotta nell'incarnazione del proprio Figlio (Gv 12,32; Ef 1,10), distruggerla nella sua morte, per poi rigenerarla nella sua integrità originaria nella e con la sua risurrezione, così che la corruzione viene tolta con la reinezione dello Spirito (Gen 2,7); l'ignominia con la glorificazione, che rende l'uomo nuovamente immagine somiglianza di Dio (Gen 1,26-27); la debolezza con la potenza della Vita stessa di Dio, che è Vita eterna, di cui uomo e creazione vengono rivestiti, facendone nuove creature rigenerate nello Spirito, ricollocando nuovamente questa natura corrotta, ma rigenerata nello e dallo Spirito, nel mondo stesso di Dio e nuovamente incandescente della sua stessa vita, così com'era nei primordi.

Il v.44b chiude il ciclo delle contrapposizioni, contrapponendo la corporeità di una natura corrotta a quella di una natura rispiritualizzata, introducendo in tal modo il tema della successiva pericope, vv.45-50, che vede il confronto tra l'antico e il nuovo Adamo. Una contrapposizione che Paolo, dopo una sistematica e avvincente argomentazione, prova ora scritturisticamente.

La prova scritturistica di Gen 2,7b e le sue conseguenze (vv.45-50)

Le argomentazioni fin qui addotte da Paolo circa la risurrezione dei corpi (vv.36-44) riguardavano elaborazioni del suo pensiero, sue deduzioni o intuizioni, che si incentravano su due aspetti: a) la risurrezione riguarda questo nostro corpo e con questo anche la corporeità dell'intera creazione (Rm 8,19-23), così come li conosciamo e li sperimentiamo quotidianamente nel loro degrado e nella loro connaturata corruzione (vv-36-41). Pertanto, Dio non cestinerà, per così dire, queste nostre realtà corporee despiritualizzate e, quindi, degradate e corrotte, ma le recupererà. In quale modo? Ed ecco la seconda parte: b) queste realtà corporalmente degradate e intrinsecamente corrotte risorgeranno, cioè verranno rigenerate dallo Spirito, rispiritualizzate e ricostituite in Dio nella loro integrità originaria, così com'era nei primordi (vv.42-44).

Ora, Paolo con questa pericope vv.45-50 cerca di chiarire e di giustificare scritturisticamente la dinamica di questo processo di rispiritualizzazione ricorrendo a Gen 2,7b, che riporterà qui integralmente al v.45a, anche se con dei piccoli aggiustamenti per meglio adattarlo alle sue finalità, aggiungendo i termini “il primo” e “Adamo” al testo originario greco, nonché l'intera seconda parte del v.45 (v.45b), per poter espletare il confronto tra il primo e l'ultimo Adamo.: “Il primo uomo Adamo divenne anima vivente (v.45a), l'ultimo Adamo divenne spirito vivificante (v.45b)”.

Con questo semplice escamotage Paolo divide le realtà esistenti in due parti e in due momenti temporali successivi l'uno all'altro, ma nel contempo contrapposti e irriducibili l'uno all'altro, come meglio farà intendere il v.50, posto a conclusione di questa pericope. Tuttavia già si può ben comprendere fin da subito, dalla formulazione del v.45, le due contrapposizioni, dove compare per due volte lo stesso nome “Adamo”, inteso qui, in entrambi i casi, come capostipite, inizio dell'umanità (vv.47-49), ma le cui nature e le cui funzioni sono diametralmente opposte, qualificate sia dai due aggettivi che ne indicano la successione storica e lo sviluppo del piano di salvezza ideato dal Padre: “Il primo” e “l'ultimo”; sia dalla stessa natura dei due Adamo: “anima vivente” il primo; “spirito vivificate” l'ultimo.

Una nota va posta sui due termini “primo” e “ultimo”, che indicano i due estremi in cui è racchiusa l'intera storia della salvezza nonché la sua dinamica, qualificata dalla natura di questi due punti estremi. Significativo quel “ultimo” che dice il punto terminale e irripetibile in quanto “ultimo” e, pertanto, il definitivo punto di arrivo dell'intera storia della salvezza (Col 1,16b); il punto Omega, direbbe Theilard de Chardin, il punto in cui l'intera storia della salvezza confluisce e trova il suo pieno compimento. Ma tra questo “primo” e questo “ultimo” si innesca un dinamismo evolutivo, che muove l'intero piano di salvezza del Padre, scandito dalle due nature dei due uomini, che dicono il loro lento evolversi l'uno verso l'altro: il primo ha la natura di “anima vivente” ed è da questa qualificato; l'ultimo è definito dalla sua natura di “spirito vivificante”.

Per poter comprendere la differenza tra “anima” e “spirito” è necessario rifarsi all'antropologia antica, che comprendeva l'uomo come un insieme di “spirito, anima e corpo” (1Ts 5,23), dove spirito e corpo erano due realtà tra loro inconciliabili per la loro diversa e contrapposta natura: spirituale il primo, materiale il secondo. Il loro punto d'incontro, che consentiva loro una reciproca interazione e coesistenza e convivenza, dando origine in tal modo alla vivenza dell'uomo, era l'anima, così che questa diviene la sede vitale dell'uomo e ne esprimeva la vita stessa, così che alla morte dell'uomo si pensava che l'anima si dissolvesse, lasciando ai loro destini lo spirito e il corpo. Affermare, quindi, che il primo Adamo era “anima vivente” significava attestarne la natura mortale, che il suo stesso nome “Adamo”, cioè polvere di terra, ricordava, così che il suo vivere era effimero e condizionato dalla sua stessa condizione esistenziale.

Il testo, tuttavia, dice che “divenne” (Egšneto, eghéneto) “anima vivente”, la quale cosa lascia intendere, benché Paolo questo non lo dica perché non era nei suoi interessi il dirlo in questo contesto, che prima non lo fosse, poiché il “divenire” dice l'evolversi delle cose, il loro mutare, così che il primo Adamo da “immagine e somiglianza” di Dio (Gen 1,27), in cui si rifletteva la vita stessa di Dio, “divenne anima vivente”, cioè un semplice uomo mortale decaduto. E che Paolo intendesse proprio questo, cioè che “anima vivente” significhi nient'altro che l'uomo naturale, privato di Dio e racchiuso nella sua vita mortale, lo lascia intendere al successivo v.46 dove contrappone il “naturale” (tÕ yucikÒn, tò psichicón), che può significare anche di natura “animale”, allo spirituale (tÕ pneumatikÒn, tò pneumatikón); più chiaro risulta essere al v.47 dove si parla del primo uomo, come “terreno” in quanto tratto dalla terra, posta qui in contrapposizione al “cielo” da dove provenne l'altro Adamo, la cui natura è spirituale, come vedremo subito.

Parimenti al primo uomo Adamo, che “divenne” “anima vivente” (v.45a), anche l'ultimo Adamo “divenne” “spirito vivificante”. Qui il processo del “divenne” è inverso a quello del primo Adamo: dallo stato di carnalità a quello spirituale. Si parla, infatti, anche qui, al v.45b, di Adamo, cioè di uomo tratto dalla polvere, di essere carnale, ma questo ultimo Adamo proviene dal cielo (v.47b), alludendo in tal modo alla sua incarnazione (Gv 1,14; 3,13; Fil 2,6-7). Tuttavia, questo Adamo “divenne” anche lui non “anima vivente”, poiché la sua natura adamitica dice già che egli è “polvere di terra”, ma “divenne” “spirito vivificante”, dove quel “divenne” dice il processo di trasformazione che avvenne in quest'ultimo Adamo per mezzo della risurrezione, che ha rigenerato quest'ultimo Adamo, trasformandolo da carne despiritualizzata e, quindi, degradata e corrotta, in carne nuovamente spiritualizzata, così com'era nei primordi dell'umanità il primo Adamo, immagine di Dio e a Lui somigliante, attratto nella sua Vita da quel soffio vitale, che lo ha reso partecipe della stessa vita divina.

Tuttavia questo “ultimo Adamo” nel subire il processo di rigenerazione nello Spirito divenne anche “spirito vivificante”, cioè egli stesso, in quanto Adamo rigenerato nello Spirito per mezzo della risurrezione e in quanto primizia (vv.20.23), divenne principio rigenerante a sua volta e, quindi, capo di una nuova umanità. Lo ricorderà 1Pt 1,3b-4a; “nella sua grande misericordia egli ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, per una eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce”.

Enunciato al v.45 il principio dei due Adamo, Paolo, ora, ne trae le conseguenze con i vv.46-47, che poi i successivi vv.48-49 applicheranno ai Corinti, negatori della risurrezione dei morti.

Con il v.46 Paolo considera l'attuale stato di vita degli uomini, che vede come non definitivo, ma in evoluzione: dal naturale allo spirituale, inserendo il credente, e con lui l'intera creazione, all'interno di un dinamismo evolutivo e salvifico, che va dal meno al più, dall'imperfetto al perfetto, dal corrotto all'incorruttibile, dal degradato al glorificato (vv.42b-44a). E il motivo lo preciserà al successivo v.47: per la diversa natura e la diversa dimensione di provenienza dei dei due Adamo: il primo fu tratto dalla terra, il secondo dal cielo, verso il quale è attratto e destinato anche il primo Adamo, grazie al processo trasformante della risurrezione, che lo rispiritualizza, così come lo era stato nei primordi dell'umanità.

Lo schema costruito con i vv.46-47, derivati dal principio enunciato dal v.45, viene ora applicato con i vv.48-49 alla condizione attuale dei Corinti e, con questi, di tutti gli uomini, stabilendo in tal modo un principio di dipendenza-conseguenza, così che come avvenne per il primo Adamo decaduto e rigenerato dal secondo ed ultimo Adamo, spirito vivificato nella risurrezione e vivificante di tutti coloro che si uniscono a lui nella fede e nel battesimo (Rm 6,3-6), così anche tutti i credenti riproducono e riprodurranno in loro stessi tale schema evolutivo, che forma la dinamica propria della vita di ogni credente, che vive nell'oggi quella speranza viva verso la quale si muove ed è governata la sua vita.

Il v.50 conclude questa ampia riflessione sulla risurrezione, quale fondamento del vivere credente, per far comprendere a quei Corinti, che negavano la risurrezione dei morti e che nel contempo si ritenevano già risuscitati ed entrati nella nuova vita, così da poter comportarsi liberamente in quanto già esenti dal peccato e dalla peccaminosità, come in realtà il loro attuale stato di vita, associabile al primo Adamo, è ancora nell'ambito del “naturale”, del corrotto e della morte e che tutto ciò non appartiene ancora alla nuova dimensione spirituale, che è stata generata dalla risurrezione di Cristo. Questo stato di cose dovrà essere dismesso attraverso la morte, la porta per l'eternità e che rende nuovamente e definitivamente partecipi della Vita stessa di Dio, che per antonomasia è Vita eterna. La carne e il sangue, infatti, cioè questa realtà corrotta e degradata dal peccato, non fanno parte del regno di Dio, ma di quello degli uomini decaduti, poiché tra le due realtà e le due dimensioni vi è una netta separazione, considerato che “Quel che è nato dalla carne è carne e quel che è nato dallo Spirito è Spirito” (Gv 3,6).

Il contesto escatologico in cui avverrà la risurrezione dei morti e dei vivi (vv.51-53)

Si è giunti ormai al termine del cap.15, interamente dedicato alla risurrezione. Paolo ha affrontato lil problema in due passaggi: affrontando la questione della risurrezione dei morti, negata dai Corinti (v. 12); e affrontando quella della corporeità dei morti risorti (v.35). Ora egli completa il tema prendendo in considerazione l'altro versante: la risurrezione di quelli che sono ancora in vita e che non si sono ancora “addormentati”. Una sorta di atto dovuto, considerato che l'avvento del Signore e con questo la fine dei tempi erano sentiti come imminenti se non incombenti.

Una argomento, questo, che non è nuovo, poiché era già stata affrontata in 1Ts 4,14-17, ma che qui viene ripresa per precisare il concetto di risurrezione, che poteva essere frainteso parlando di “risurrezione dei morti”, quasi che la risurrezione fosse un semplice passaggio dalla morte alla vita, per cui da morti si torna a vivere nuovamente, come avvenne per Lazzaro (Gv 11,38-45) e come credevano i farisei: una semplice riviviscenza, una sorta di prolungamento premio di questa vita terrena. Ma la risurrezione, fa qui intendere Paolo, è molto di più: essa è trasformazione di questa nostra corporeità e ha a che fare con il mistero di Dio e va ben oltre, poiché la risurrezione decreterà anche la fine di questo stato di cose, di questa nostra corporeità, così come la conosciamo e la soffriamo.

Il nuovo tema esordisce ponendo in campo la rivelazione di un “mistero”, che nel linguaggio paolino dice tutto ciò che ha attinenza con il progetto salvifico del Padre, finalizzato a recuperare a sé l'umanità decaduta. Un progetto che nacque ancor prima della creazione del mondo (Ef 1,4) e che venne manifestato dal Figlio, rivelazione del Padre e Via del ritorno al Padre (Gv 14,6).

Una parte di tale mistero è quello non solo di “risvegliare” coloro che si sono addormentati in Cristo, ma anche di “trasformare” coloro che non si sono addormentati, ma sono ancora in vita alla venuta del Signore. La risurrezione, dunque, assume una duplice accezione: di “risveglio” per i morti; un risveglio che, tuttavia, implica il concetto di nuova creazione nello Spirito, come lascia intendere Rm 1,4; e di “trasformazione”, che comporta un passaggio da uno stato di vita carnale despiritualizzata ad uno stato di vita di carnalità rispiritualizzata e, quindi, sottratta alla corruzione con tutto ciò che la corruzione comporta e che in qualche modo Gen 3,16-24 ha lasciato intravvedere.

Il v.52 inscena l'evento della risurrezione, sia come “risveglio” che come “trasformazione”, in un contesto escatologico ed apocalittico, collocato, quindi, non solo negli ultimi tempi, ma anche nel manifestarsi del Signore. Un tempo caratterizzato dall'immaginario collettivo dell'epoca con il suono della tromba, che rappresenta la potente voce di Dio, che dà il segnale della fine dei tempi e l'inaugurazione di quelli nuovi. Tutto avviene in “un batter d'occhio”, che esprime sia la repentinità degli eventi, che irrompono, inattesi, nella storia degli uomini ponendovi fine; sia la potenza divina con cui tali eventi travolgono improvvisamente il rassicurante tram tram del quotidiano vivere dell'uomo (Mt 24,36-39). Tutto, quindi, verrà stravolto. Uno stravolgimento che dice un radicale cambiamento di quei parametri di vita fin qui conosciuti e sperimentati e che il v.53 definisce con due nuovi parametri diametralmente opposti a quelli che conosciamo e che hanno costituito il nostro modo di essere e di vivere: incorruttibilità, cioè la ricostituzione dell'uomo in uno stato di vita privo di sofferenza, dolore, morte (Ap 21,1.3-5); e immortalità ossia Vita eterna, che dice la nuova dimensione del risorto, che vive della stessa Vita di Dio, incorruttibile ed eterna, dove l'eternità non dice soltanto una dimensione priva di tempo, ma altresì pienezza di Vita eterna, che nella visione giovannea è la stessa Vita di Dio.

Significativo quel “Bisogna” (de‹, deî) con cui si apre il v.53 e da cui dipende interamente il suo contenuto. Esso rimanda al progetto salvifico di Dio, che prevede di rivestire la corruttibilità dell'umanità decaduta, e con questa di tutta la creazione, con l'incorruttibilità; e la mortalità con l'immortalità, ricostituendole così com'erano nei loro primordi, allorché erano ancora incandescenti di Dio e Dio si rifletteva in esse, decretando che tutto “era cosa molto buona,” (Gen 1,31), cioè conforme alla sua volontà e al suo progetto di amore e di vita.

La risurrezione decreta la fine della condizione mortale dell'uomo (vv.54-58)

Definito il destino dell'umanità redenta e rigenerata nello Spirito alla stessa Vita di Dio, con cui verrà rivestita ridivenendo in tal modo sua nuova creatura, rinnovata nello Spirito e per mezzo dello Spirito, in tale contesto di risurrezione, sia per i morti che per i vivi, Paolo vede il realizzarsi definitivo delle Scritture, e riprendendo con il v.54a il precedente v.53, dandolo per realizzato, riporta liberamente al v.54b la citazione di Is 25,8, il cui testo citato da Paolo è più vicino all'ebraico che alla greca Settanta, cui si riferisce di solito nelle sue citazioni68; e al v.55 Os 13,14, trasformando le due citazioni scritturistiche in una sorta di inno di vittoria, che la risurrezione ha riportato sulla morte, rivestendo l'uomo di incorruttibilità e di immortalità. Una vittoria che già era stata preannunciata al v.26, allorché “La morte, ultimo nemico, sarà soppressa”.

Un inno su cui Paolo sviluppa una sua breve riflessione con il v.56, che costituirà, qualche anno più tardi, tema di approfondimento con in Rm 7,7-11.

La prima conseguenza dell'incorruttibilità e dell'immortalità, con le quali l'intera umanità e con questa l'intera creazione saranno rivestite con la risurrezione o rigenerazione trasformante, è la fine di questo stato di cose che ben conosciamo e soffriamo nella quotidianità della nostra vita, che noi continuiamo a chiamare vita, ma che in realtà è un lento e graduale morire fin dal suo primo concepimento. Tutto ciò avrà fine con la risurrezione, che cambierà radicalmente lo stato e le condizioni di vita dell'umanità. Da qui l'attestazione scritturistica di Is 25,8 che Paolo applica a questo nuovo stato di cose, rigenerate nello Spirito, che decreta con questo la fine della morte, quale condizione del vivere umano: “La morte è stata inghiottita nella vittoria” dove per vittoria ha da intendersi gli effetti che la risurrezione ha prodotto sull'intera umanità e sull'intera creazione: l'incorruttibilità e l'immortalità.

Il v.55 personalizza la morte e la rende l'oggetto di sfida e di scherno di Paolo; quella morte che ha sempre condizionato l'esistenza umana e di tutte le cose è stata ridotta al nulla, anzi, è stata “soppressa” (v.26) dalla risurrezione, che ha ricostituito l'umanità e la creazione nel loro splendore originario, allorché Dio, riflettendosi in esse decretava che tutto era cosa molto buona (Gen 1,31).

Riprendendo, pertanto, le parole di Os 13,14, che Paolo vede qui realizzate, esclama con tono di sfida e di spavalda fierezza: “Dov'(è), o morte, (la) tua vittoria? Dov'(è), o morte, il tuo pungiglione?” Due domande retoriche, la cui risposta è intrinsecamente inclusa in esse: da un lato, la morte, quale condizione esistenziale dell'umanità e della creazione che la ospita, è stata cancellata dalla risurrezione, che ha ricostituito la condizione esistenziale dell'umanità e della creazione così com'era nei primordi, incandescente di Dio; dall'altro e conseguentemente, gli effetti della morte iniettati dal suo “pungiglione” nell'uomo come nella creazione, rendendoli decaduti, degradati e corrotti nel loro modo di essere e di esistere, esprimendosi nella sofferenza, nel dolore, nella fatica del vivere quotidiano, che lentamente ti consumano e ti sottraggono alla vera vita fino a spegnerti completamente.

Cosa sia questo pungiglione, strumento di morte e origine della stessa morte, Paolo lo precisa con il v.56, che è scandito in due parti: la prima (v.56a) attesta come questo pungiglione, che ha iniettato la morte nell'umanità come nella creazione è il “peccato”, cioè la colpa originale, che ha visto Adamo ed Eva coinvolti in un atto di ribellione a Dio, in un tentativo di colpo di stato nei confronti di Dio (Gen 3,4-6) finito male, in quanto si accorsero di essere nudi (Gen 3,7a), cioè spogliati di quell'alito di Vita divina che li aveva resi, come Dio, viventi (Gen 2,7) nonché sua immagine e a Lui somiglianti (Gen 1,26-27). La seconda parte (v.56b) rivela come questo peccato ha trovato la sua forza e la sua vitalità e la sua diffusione nella Legge, che nell'indicare all'uomo la retta via del ritorno a Dio, gli faceva prendere coscienza nel contempo del suo stato di degrado spirituale e morale, comandandogli di “fare” o “non fare”, mentre l'uomo si accorgeva che la sua natura era ribelle a questi ordini ed era naturalmente portato a trasgredirli, andando esistenzialmente alla deriva, poiché questi comandi dettati dalla Legge altro non sono che le regole fondamentali della Vita e del ritorno a Dio, la cui strada l'uomo aveva smarrito. Poiché questa è l'essenza stessa del peccato, che in greco è reso con il termine “¡mart…a” (amartía, errore, sbaglio) ed ha il suo corrispondente verbo in “¡mart£nw” (amartáno), che significa letteralmente “sbagliare strada, allontanarsi dalla verità, da ciò che è giusto, onesto, deviare, fallire”. Questo è, dunque, il peccato: non tanto una disobbedienza o una trasgressione di un qualche comandamento, bensì un orientamento esistenziale opposto e contrapposto a Dio e che impedisce all'uomo di riconciliarsi con Lui. Metafora di questo peccato è il racconto lucano del figliol prodigo (Lc 15,11-32), che ricevuti i suoi beni dal Padre, se ne andò a sperperarli lontano da Lui. Per contro, la conversione è il cammino di ritorno al Padre e di ricostituzione nel proprio stato originario di vita.

Una riflessione quella del v.56 che Paolo pone sul tema del peccato, qui esposto soltanto come enunciazione di un tema che egli riprenderà e svilupperà, da lì a qualche anno, in Rm 7,7-11: “Che diremo dunque? Che la legge è peccato? No certamente! Però io non ho conosciuto il peccato se non per la legge, né avrei conosciuto la concupiscenza, se la legge non avesse detto: Non desiderare. Prendendo pertanto occasione da questo comandamento, il peccato scatenò in me ogni sorta di desideri. Senza la legge infatti il peccato è morto e io un tempo vivevo senza la legge. Ma, sopraggiunto quel comandamento, il peccato ha preso vita e io sono morto; la legge, che doveva servire per la vita, è divenuta per me motivo di morte. Il peccato infatti, prendendo occasione dal comandamento, mi ha sedotto e per mezzo di esso mi ha dato la morte”.

E proprio come in Rm 7,25a con cui concluderà la sua riflessione sul rapporto Legge-peccato, con un rendimento di grazie a Dio, anche qui al v.57, quasi anticipando quel versetto conclusivo, Paolo conclude questo cap.15 sulla risurrezione, con un atto di ringraziamento, che nel contempo attesta la dinamica con cui il Padre ha ristabilito l'integrità originaria della creazione: “Grazie a Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo”, dove la “vittoria” dice la distruzione di uno stato di vita sotto il degrado e la corruzione del peccato e la ricostituzione dell'umanità e dell'intera creazione nel loro splendore originario. E tutto ciò “per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo”, l'Incarnato-Morto-Risorto, che tutto ha tratto a se nell'incarnazione, tutto ha portato sulla croce distruggendolo e tutto lo ha rigenerato a vita nuova nella sua risurrezione (Gv 12,32). Una vittoria che “ci è stata data” e che si configura, quindi, come un dono di amore del Padre verso questa umanità smarrita e persa nel peccato e nella morte e che Egli vuole ricondurre a Sè e ricostituire in Sè, com'era nel principio. In tal senso lo ricorderà anche Gv 3,16: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna”.

Paolo chiude questo ampio capitolo dedicato interamente alla risurrezione, riprendendo in qualche modo l'attestazione iniziale con cui lo apriva e con la quale riconosceva ai Corinti la loro fermezza nel credere al Vangelo per mezzo del quale erano anche salvi. Un'attestazione che qui al v.58 si trasforma in un'esortazione che viene scandita in tre momenti consecutivi, che seguono una loro logica di sviluppo e che forma, a sua volta, la dinamica del vivere credente: rimanere saldi nella fede, progredire in essa, rivolti sempre al Signore nella speranza, che è certezza, della sua ricompensa.

Ultime raccomandazioni e saluti finali (16,1-24)

Testo a lettura facilitata

Alcune disposizioni riguardo la colletta (vv.1-4)

1- Per quanto riguarda la colletta, quella per i santi, come ho ordinato alle chiese della Galazia, così fate anche voi.
2- Ogni primo giorno della settimana ciascuno di voi ponga, accumulando, presso se stesso ciò che riesce (a risparmiare), affinché le collette non avvengano allorché sia venuto.
3- Quando sarò presente, quelli che avete approvato, questi manderò, per mezzo di lettere, a portare la vostra benevolenza a Gerusalemme;
4- qualora valesse la pena che anch'io vada, andranno con me.

Progetto di Paolo di fermarsi per qualche tempo presso la comunità di Corinto (vv.5-9)

5- Verrò da voi quando avrò attraversato la Macedonia, poiché la Macedonia (la) attraverserò (soltanto),
6- ma rimarrò, forse, presso di voi o anche passerò l'inverno, affinché mi scortiate voi, dove vado.
7- Poiché, non voglio affatto vedervi di passaggio, spero, infatti, di rimanere presso di voi per un qualche tempo, qualora il Signore (lo) permetterà.
8- Rimarrò ad Efeso fino alla Pentecoste;
9- poiché mi si è aperta una porta grande e produttiva, e molti (sono) gli avversari.

Raccomandazioni sull'accoglienza di Timoteo, stretto collaboratore di Paolo (vv-10-11)

10- Qualora sia venuto Timoteo, fate attenzione, affinché sia presso di voi senza timore, poiché compie l'opera del Signore come anch'io;
11- qualcuno, pertanto, non lo disprezzi, ma congedatelo in pace, affinché venga da me, poiché lo aspetto con i fratelli.

Apollo, il leale collaboratore di Paolo (v.12)

12- Riguardo al fratello Apollo, l'ho esortato molto, affinché venisse presso di voi con i fratelli; (ma) non vi era assolutamente (la) volontà perché venisse ora, ma verrà quando avrà l'opportunità.

Esortazione a vigilare nella fede e vivere nell'amore (vv.13-14)

13- Vigilate, state (saldi) nella fede, mostratevi uomini, siate forti.
14- Tutte le vostre cose si compiano n(ell)'amore.

Esortazione all'obbedienza a Stefana, al servizio delle comunità credenti (vv.15-18)

15- Vi esorto, fratelli; sapete che la casa di Stefana sono (la) primizia dell'Acaia e misero se stessi al servizio dei santi,
16- (Vi esorto) affinché anche voi (vi) sottomettiate a costoro e ad ognuno che collabori e si affatichi (con loro).
17- Gioisco per la venuta di Stefana e Fortunato e Acaico, poiché questi colmarono la vostra assenza;
18- infatti sollevarono il mio spirito ed anche il vostro. Apprezzate pertanto costoro.

I saluti dalle chiese dell'Asia e dai collaboratori di Paolo (vv.19-21)

19- Vi salutano le chiese dell'Asia. Vi salutano molto n(el) Signore Aquila e Prisca con la chiesa (che si raduna) presso la loro casa.
20- Vi salutano i fratelli tutti. Salutate(vi) gli uni gli altri con il bacio santo.
21- Il saluto di Paolo (è) di mia mano.

Benedizioni e anatemi finali (vv.22-24)

22- Se qualcuno non ama il Signore, sia anatema. Marana tha.
23- La grazia del Signore Gesù (sia) con voi.
24- Il mio amore (sia) con tutti voi in Cristo Gesù.

Note generali

Il cap.16 chiude questa prima lettera alla chiesa di Corinto ed è una sorta di miscellanea di argomenti, fatti di ultime raccomandazioni ed esortazioni, nonché di saluti da indirizzare direttamente alla comunità o a persone o famiglie presenti nella comunità, con le quali Paolo intrattiene particolari rapporti di affetto o di collaborazione; saluti che vengo inviati, assieme a Paolo, anche da altri suoi collaboratori presenti in quella comunità, da cui sta scrivendo la lettera. Una testimonianza dei profondi legami di fede e di comunione, che univano tra loro i membri delle diverse comunità credenti, che si sentivano tutti vincolati nell'unica fede nell'unico Signore.

Una chiusura il cui schema caratterizza tutte le lettere di Paolo e risuona come una sorta di prolungamento del rapporto, che Paolo ha intrattenuto con la comunità con la lettera, quasi non se ne volesse più distaccare e da cui traspare tutta la sua ansia e la sua preoccupazione missionarie e materne verso quelle comunità, che egli stesso ha fondato e generato a Cristo e che sente come proprie figlie (4,15; Gal 4,19; Fm 1,10) e di cui si sente responsabile di fronte a Dio (2Cor 11,28).

Benché il cap.16 sia formato da soli 24 versetti, numerosi sono gli argomenti che qui vengono accennati, come si può ben evincere dalla sezione “Testo a lettura facilitata” e che qui enumero di seguito, per avere un quadro complessivo, che forma anche lo schema di questo cap.16:

  1. Alcune disposizioni riguardo la colletta (vv.1-4);

  2. Progetto di Paolo di fermarsi per qualche tempo presso la comunità di Corinto (vv.5-9);

  3. Raccomandazioni sull'accoglienza di Timoteo, stretto collaboratore di Paolo (vv-10-11);

  4. Apollo, il leale collaboratore di Paolo (v.12);

  5. Esortazione a vigilare nella fede e vivere nell'amore (vv.13-14);

  6. Esortazione all'obbedienza a Stefana, al servizio delle comunità credenti (vv.15-16);

  7. Gioia e consolazione per la delegazione proveniente dalla chiesa di Corinto (vv.17-18);

  8. I saluti dalle chiese dell'Asia e dai collaboratori di Paolo (vv.19-21);

  9. Benedizioni e anatemi finali (vv.22-24).


Commento ai vv.1-24

Alcune disposizioni riguardo la colletta69 (vv.1-4)

Per poter comprendere questa pericope è necessario fare un passo indietro. Al termine del concilio di Gerusalemme (49 d.C.), dove si dibatté la questione circa la circoncisione dei cristiani provenienti dal paganesimo (At 15,1-2), risoltasi per la non circoncisione (At 15,23-28), Paolo ricevette la richiesta da parte dei responsabili della Chiesa madre di Gerusalemme di un aiuto per i poveri della Chiesa stessa (Gal 2,10; At 11,29-30), afflitti da una grave carestia (At 11,28-30). Paolo se ne fece subito carico e, partito dopo pochi giorni per il suo secondo viaggio missionario tra il 49-52 d.C. (At 15,36), cominciò una grande campagna di raccolta fondi per i poveri della Chiesa di Gerusalemme presso tutte le chiese da lui fondate, compresa quella di Corinto, che si era offerta spontaneamente per la colletta, prendendone l'iniziativa, come ricorderà 2Cor 8,10. Dopo la prima entusiastica adesione, si trattava, ora, di definirne le modalità della raccolta e della consegna alla Chiesa madre di Gerusalemme. Ed è qui, in 16,1-4, che Paolo impartisce le sue istruzioni.

La pericope si apre, quindi, con l'espressione “Perˆ de” (Perì dè, Quanto a), che deve richiamarsi a un qualche scritto o a un qualche messaggio verbale fatto pervenire successivamente dai Corinti a Paolo, per il tramite di loro inviati, per avere delucidazioni circa la raccolta dei fondi e la loro consegna alla Chiesa madre di Gerusalemme. Si tratta, pertanto, delle modalità della raccolta della colletta destinata ai “santi”, un appellativo con cui venivano definiti i membri delle singole comunità credenti70, in quanto partecipi, per fede e battesimo, della Vita stessa di Dio, che è il Santo per antonomasia, e qui, nel merito, a quelli della Chiesa madre di Gerusalemme.

I vv.2-4 definiscono le procedure della raccolta della colletta e della sua consegna alla chiesa di Gerusalemme, che doveva avvenire per il tramite di alcuni membri della chiesa di Corinto, scelti appositamente dalla comunità, quali suoi rappresentanti, accompagnati da una lettera di Paolo o, se ne ricorresse la necessità, anche con la sua stessa presenza, perché doveva apparire chiaro l'impegno di Paolo verso la chiesa madre di Gerusalemme, la quale, se avesse accettato la colletta, avrebbe implicitamente riconosciuto le chiese etnocristiane fondate da Paolo e nel contempo la sua apostolicità, la sua predicazione e l'intera sua attività missionaria.

Tuttavia va detto anche che questa meticolosità nel descrivere le modalità della raccolta e della consegna, oltre che i personali interessi di Paolo, testimoniano altresì la sua particolare attenzione, che egli riserva a questa iniziativa caritativa, che vede quale segno di comunione tra le chiese giudeocristiane ed etnocristiane, superando in tal modo le divisioni prescritte dalla Legge mosaica, alla quale si sentivano ancora soggette le comunità credenti provenienti dal giudaismo.

Interessante la raccomandazione del v.2, di raccogliere la colletta non alla venuta di Paolo, ma ogni “primo giorno della settimana”, il giorno della domenica, in cui i cristiani si riunivano per la celebrazione della “Cena del Signore”. La raccolta di soldi, infatti, doveva essere un'azione di solidarietà dell'intera comunità e non un'iniziativa privata di singole persone e doveva compiersi all'interno di un contesto sacro, in cui ci si ricordava costantemente della Chiesa madre di Gerusalemme, quale atto di riconoscenza per il dono della fede da essa ricevuto e per evitare, quindi, una frettolosa donazione fatta una tantum, all'ultimo istante, alla venuta di Paolo, donazione che in questo caso sarebbe stata sicuramente più povera di quella raccolta, invece, ripetutamente nel tempo.

Significativo, infine, quel “fate come ho ordinato alle chiese della Galazia”, perché Paolo vuole che la colletta sia il frutto di un'azione comune ed uniforme tra tutte le chiese da lui fondate, quale segno di comunione ecclesiale tra loro e con loro con la chiesa madre di Gerusalemme. Ma dice anche come le comunità credenti, sia pur lontane geograficamente, fossero in costante contatto tra loro, cercando di muoversi in modo coordinato e in comunione tra loro, per un continuo aggiornamento delle loro vite e una comune ed uniforme soluzione dei problemi, che si ponevano loro quotidianamente,

Progetto di Paolo di fermarsi per qualche tempo presso la comunità di Corinto (vv.5-9)

Con i vv.5-9 Paolo cambia radicalmente argomento e dalla colletta passa al suo progetto di visita presso i Corinti, mettendoli al corrente delle sue intenzioni di viaggio: da Efeso, dove intende fermarsi ancora per qualche tempo oltre a quello preventivato, fino a Pentecoste, perché “mi si è aperta una porta grande e produttiva”, cioè ha trovato qui in Efeso, un'ottima quanto inattesa opportunità per la sua azione missionaria, che lascia ben sperare.

Quando Paolo scrive questa lettera doveva essere durante la Pasqua o il tempo pasquale, come lascia intravvedere ai vv.5,7-8, per cui il volersi fermare ancora qualche tempo, fino alla Pentecoste, significava voler soggiornare ancora ad Efeso per altri due mesi, prima di riprendere il viaggio verso la Macedonia, regione questa, che intende soltanto attraversare, ma questo certamente non gli impedirà di fermarsi per una breve visita presso le comunità di Filippi e di Tessalonica, comunità da lui fondate e verso le quali nutre un particolare affetto, per poi scendere giù a Corinto, dove intende, invece, soffermarsi più a lungo, passando probabilmente l'intero inverno, stagione questa in cui i viaggi, sia per mare che per terra, erano proibitivi e pressoché fermi.

Il soggiorno prolungato presso la comunità di Corinto aveva probabilmente una duplice finalità: da un lato, mettere ordine all'interno di questa vivace quanto irrequieta comunità, che in 4,21 ha già redarguito severamente: “Che cosa volete? Che venga da voi con la verga o con amore e spirito di dolcezza?”; dall'altro, chiedere un aiuto concreto per la prosecuzione del suo viaggio missionario, l'ultimo, verso Gerusalemme, dove, accompagnato da alcuni rappresentanti della comunità doveva consegnare la colletta alla Chiesa madre di Gerusalemme.

Quanto qui prospettato da Paolo ai vv.5-9, viene scritto tra il 53 e il 54 d.C., tempo di composizione di questa lettera, quando si trova ancora ad Efeso, dove rimane per circa tre anni (At 10,8.10; 20,31) e ciò avviene durante il suo terzo ed ultimo viaggio missionario, compiuto tra il 53 e il 57 d.C. Terzo viaggio che coincide non solo con le date della sua permanenza ad Efeso, ma anche con il percorso del viaggio stesso, qui segnalato ai vv.5.9: Efeso-Macedonia-Corinto. È l'unico dei tre viaggi missionari che corrisponde al percorso qui descritto.

Significativo è l'inciso di Paolo: “qualora il Signore (lo) permetterà”, che similmente ritroviamo anche in At 18,21 e che lascia intravvedere come Paolo, nella sua missione, si senta condotto dallo Spirito di Dio e tutto legge in termini teologici (At 16,6-8). Non è lui che opera e decide, ma Dio, così come il suo mandato non è da uomini, ma da Dio Padre e dal suo Figlio, il Signore Gesù Cristo (Gal 1,1) e parimenti il suo Vangelo gli fu rivelato da Gesù Cristo (Gal 1,11-12), giungendo ad esclamare “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20), creando una sorta di identificazione tra lui e Cristo.

Raccomandazioni sull'accoglienza di Timoteo, stretto collaboratore di Paolo (vv.10-11)

In 4,17 Paolo aveva annunciato ai Corinti di aver inviato loro Timoteo, giovane discepolo e suo stretto collaboratore71, che doveva avere, per il suo carattere mite e timido, considerate le raccomandazioni di questi due versetti, buone capacità di mediazione. Paolo se ne serve spesso per mandarlo in avanscoperta prima della sua venuta, perché gli prepari il terreno o per mediare nelle contese intracomunitarie o appianare dissidi interni alle comunità. Di certo, un personaggio che godeva della piena fiducia di Paolo e che considera suo figlio prediletto (4,17).

Qui al v.10, non sapendo se Timoteo, al sopraggiungere della presente lettera, sia già arrivato o meno, Paolo apre con un'espressione ipotetica per raccomandarlo ai Corinti: “Qualora sia venuto”. In tal caso, invita i Corinti a rispettarlo quale suo fedele collaboratore, benché di giovane età e certamente non di elevata cultura come quella dei Corinti. Non solo rispettarlo, ma agevolarlo nella sua missione, facendolo sentire bene accolto e a suo agio presso di loro, poiché egli, come Paolo, opera nel Signore e per il Signore. Dunque, conclude Paolo, “congedatelo in pace”, cioè non vi siano tra voi e Timoteo asperità nel vostro rapporto, lasciandovi così in malo modo, ma tutto si appiani nelle contese che avete tra di voi, oggetto per altro, di questa lettera. Egli, infatti, opera, come Paolo, quale apostolo del Signore. Ed è questo il titolo che i Corinti devono tenere presente e rispettare e per il quale sono chiamati a collaborare.

Apollo, il leale collaboratore di Paolo72 (v.12)

In 1,12 Paolo si era lamentato perché all'interno della comunità si erano formati dei gruppi, che si riconoscevano nei loro leaders e si contrapponevano tra loro. Tra questi leaders vi era anche Apollo, che, forse, accortosi di essere coinvolto in queste divisioni, deve aver lasciato Corinto per raggiungere Paolo ad Efeso e, comunque, sia, mentre Paolo sta scrivendo questa lettera da Efeso, Apollo era lì con lui.

Da ciò che si può evincere dal v.12 i Corinti invocavano il suo ritorno, probabilmente i suoi fedelissimi, che si riconoscevano in lui. Paolo, conoscendo molto bene il suo stimato collaboratore, doveva averlo esortato insistentemente perché tornasse a Corinto, ma Apollo, non volendo essere nuovamente invischiato in questioni di divisioni o di partiti, preferì per il momento soprassedere alla richiesta dei Corinti, rimandando il suo ritorno a “quando avrà l'opportunità”. Un modo elegante e diplomatico per defilarsi da una situazione imbarazzante e problematica, che lo avrebbe visto contrapposto con il suo gruppo di discepoli a Paolo e agli altri, causando divisioni e turbamenti all'interno della chiesa di Corinto. Meglio, quindi, per il momento, starne fuori.

Esortazione a vigilare nella fede e vivere nell'amore (vv.13-14)

Due brevi versetti e un concentrato di cinque esortazioni, che vanno a colpire le debolezze dei Corinti, già in precedenza stigmatizzate. La vigilanza, innanzitutto, cioè lo stare attenti affinché il proprio modo di comportarsi non vada a ledere la propria fede con divisioni interne alla comunità, preponendo la ricerca dell'affermazione di se stessi e i propri interessi a quelli della comunità e dei fratelli, con comportamenti che lasciano a desiderare, come l'accettare di buon grado gli incestuosi nella comunità, il libertinaggio sessuale, la prostituzione o il mangiare la carne offerta agli idoli, il frequentare ancora i templi pagani in nome di una presunta libertà spirituale e morale; comportamenti questi che offendono, turbandoli, i fratelli più deboli se non la propria dignità di credenti, comportandosi in modo irresponsabile, calpestando con leggerezza e noncuranza le esigenze della propria fede. Da qui l'esortazione a mostrarsi uomini, cioè persone adulte e mature nella fede. Richiamo questo che già era stato anticipato in 14,20: “Fratelli, non siate bambini nei giudizi, ma siate bambini quanto alla malizia, ma siate adulti nei giudizi”; e di conseguenza mostrarsi forti nelle proprie scelte e nel proprio modo di comportarsi in conformità all'insegnamento ricevuto e alla propria fede, senza lasciarsi sballottare come fuscelli al vento o vergognarsi del proprio essere credenti, sentendosi, invece, responsabili verso se stessi, verso gli altri e verso Dio del dono ricevuto: la fede.

Ma, ancora una volta, l'esortazione all'amore, che con l'inno alla carità è stato posto a fondamento dl proprio vivere credente, illustrandone le dinamiche e le esigenze, deve prevalere su tutto e in ogni scelta: “Tutte le vostre cose si compiano n(ell)'amore”. Esortazione questa che già era stata fatta in qualche modo in 14,1a: “Ricercate la carità”, il più grande di tutti i carismi (12,31; 13,13). Un amore dove ognuno deve ritenere l'altro più importante di se stesso, rinunciando anche ai propri diritti pur di dare spazio agli altri e rispettando i loro diritti, come Paolo ha fatto con i propri per il bene dei credenti (9,1-27).

Esortazione all'obbedienza a Stefana, al servizio delle comunità credenti (vv.15-18)

Stefana, un nome che ricorre per tre volte soltanto in questa lettera e in tre diverse occasioni, che testimoniano, da un lato, il generoso impegno di questo neo credente e della sua famiglia nella nuova fede, ponendosi a servizio dei fratelli e delle comunità; dall'altro, la particolare stima che Paolo riserva a questo personaggio, ricordandolo in tre momenti diversi: la sua conversione, ad opera probabilmente della chiesa di Tessalonica, lodata da Paolo non solo perché ha resistito alle persecuzioni (1Ts 2,14-16; 3,2-3), ma anche perché ha saputo diffondere, a sua imitazione, il Vangelo in Macedonia e nell'Acaia (1Ts 1,6-8), di cui Stefana e la sua famiglia furono la primizia e Paolo stesso, probabilmente riconoscendone la fede e la generosa disponibilità, sua e della sua famiglia, a collaborare per il Vangelo, ha voluto battezzare (1,16).

Un secondo momento, qui ai vv.15-16, dove viene elogiata la generosa disponibilità e collaborazione della famiglia di Stefana a favore delle comunità credenti dell'Acaia e, quindi, anche di quella stessa di Corinto, divenendo un punto di riferimento importante per il loro coordinamento e le loro attività. Paolo lo riconosce e lo include nel numero dei collaboratori del Vangelo e della fede, invitando i Corinti ad essere obbedienti nei confronti di coloro che si spendono per il Vangelo e per la fede.

Un terzo momento viene qui ricordato ai vv.17-18, dove Stefana, citato per primo e, quindi, probabilmente capo delegazione, cui facevano parte assieme a lui Fortunato e Acaico, di cui nulla sappiamo se non i nomi, viene inviato a Paolo dalla chiesa di Corinto. Non se ne conosce il motivo, ma considerata la positiva reazione di Paolo al loro incontro, probabilmente la loro missione era quella di rafforzare i vincoli di solidarietà tra Paolo e la comunità di Corinto. Un incontro che arreca, infatti, grande sollievo a Paolo, che vede in loro l'intera chiesa di Corinto che gli viene a far visita, rassicurando in tal modo sia Paolo che la stessa comunità sui loro rapporti non molto idilliaci. L'occasione è buona per sollecitare ancora una volta gli irrequieti Corinti ad apprezzare l'impegno di questi collaboratori del Vangelo (v.18b), stando loro sottomessi (v.16).

I saluti dalle chiese dell'Asia e dai collaboratori di Paolo (vv.19-21)

Con il cap.16 si è giunti al postscritto della lettera, fatto dalle ultime raccomandazioni ed esortazioni ed infine i saluti, che son sempre multipli e mai del solo Paolo, per sottolineare l'ecclesialità della stessa lettera e dei suoi contenuti, nonché la fratellanza delle diverse chiese e dei loro collaboratori tra loro. Qui un saluto dalle chiese dell'Asia, quella proconsolare, istituita quale provincia romana con un senatoconsulto nel 132 a.C. con capitale Efeso, da dove Paolo scrive questa lettera e da dove invia i saluti delle chiese asiatiche. A questi vengono associati quelli di due particolari figure, grandi e generosi collaboratori di Paolo, Aquila e Prisca o Priscilla, due coniugi giudeocristiani, originari del Ponto, che Paolo trovò a Corinto, dopo che Claudio nel 49 d.C. espulse i giudei da Roma. Il loro lavoro era quello di fabbricanti di tende, come quello di Paolo, che venne da loro ospitato per il suo periodo di soggiorno a Corinto (At 18,2-3). Ai loro saluti vengono aggiunti anche quelli della “chiesa (che si raduna) presso la loro casa”, testimonianza della vita delle prime comunità credenti del I sec., quando le chiese nascenti non avevano ancora luoghi pubblici di culto, per cui i credenti si radunavano nelle case private, in genere di persone ricche o benestanti, le uniche che potevano permettersi case capienti. E tali dovevano essere Aquila e Prisca, che per svolgere la loro attività artigianale dovevano avere ampi spazi nella loro casa.

Un saluto, infine, da parte dei “fratelli tutti”, con riferimento a quelli della chiesa di Efeso, considerato che gli altri fratelli, quelli delle chiese dell'Asia, già hanno dato il loro saluto (v.19). Ma. Al di là dell'aspetto contingente, rimane comunque significativo, poiché in quel “fratelli tutti” esprime l'intera chiesa e il sentimento di fratellanza nella comune fede e nell'unico Signore che la pervade tutta.

L'elenco dei saluti ecclesiali termina con l'esortazione a salutarsi reciprocamente con il “bacio santo”. Un'espressione quest'ultima che si ritrova quattro volte in altrettante lettere di Paolo (Rm 16,16; 1Cor 16,20; 2Cor 13,12; 1Ts 5,26) e una quinta volta in 1Pt 5,14 con la variante “bacio della carità”, che probabilmente meglio esprime la santità del bacio. Espressioni queste che si riferiscono all'uso liturgico all'interno delle comunità cristiane ed era espressione di comunione e di carità tra i suoi membri, che Paolo definisce “i santi”. E, quindi, quel “bacio santo” dice l'abbraccio tra i santi, che esprime la riconciliazione di tutti tra tutti e di tutti nell'unico Signore.

A sigillo dell'autenticità della lettera, si aggiunge anche Paolo, che firma la sua lettera con il suo saluto, scritto di “sua mano”. Espressione questa che ritroviamo anche in Gal 6,11; Fm 1,19; Col 4,18 e 2Ts 3,17.

Benedizioni e anatemi finali (vv.22-24)

Già l'espressione il “bacio santo” ci ha introdotti in qualche modo nelle liturgie cristiane del I sec. Questo clima liturgico continua ora con i vv.22-24, che suonano come formule benedizionali e anatematiche.

Il v.22 si rivolge a quei credenti nei quali non prevale l'amore per il Signore, ma si lasciano trascinare nel loro vivere da logiche umane, rinnegando in tal modo l'amore del Signore e per il Signore. L'annotazione “Se qualcuno non ama il Signore”, sia pur in modo larvato, ma facilmente intuibile, si riferisce ai rimproveri rivolti a quei Corinti, il cui cristianesimo lascia alquanto a desiderare e di cui è disseminata la lettera. Non ama il Signore chi fomenta le divisioni, chi indulge alla fornicazione o accetta comportamenti sessuali contrari alla natura come gli incesti, o scandalizza i propri fratelli più deboli nella fede con comportamenti troppo disinvolti in nome di una propria libertà interiore e spirituale o che ancora non hanno dato un taglio netto con gli usi e costumi propri del mondo pagano. Su questi irriducibili, che con il loro comportamento si oppongono al Signore, Paolo pone il suo anatema, la sua condanna, che suona quasi come una sorta di scomunica e su cui pesa, con quel “Marana tha”, “il Signore viene”, e che porta con sè il giudizio finale di condanna a cui saranno sottoposti alla venuta del Signore, che nella chiesa del I sec. era sentita come imminente se non incombente.

Per contro, il v.23 pone sull'intera comunità di Corinto la benedizione divina a cui si associa l'amore di Paolo, che porta i segni dello stesso amore di Cristo Gesù.



N O T E

1Da questi 2033 versetti che compongono gli scritti paolini sono stati scorporati i 303 versetti che compongono la Lettera agli Ebrei, la quale, benché inserita nel Corpus paulinum, tuttavia non è attribuile né a Paolo né alla sua scuola.

2Quando qui Paolo parla di “aver ricevuto dal Signore” non si riferisce a visioni particolari, ma ad una Tradizione che viene fatta risalire al Signore.

3Traduzione: L'imperatore Claudio “espulse da Roma i Giudei che creavano tumulti sotto la spinta di Cresto”. Il nome “Cresto” va compreso come una deformazione di “Cristo”, appellativo che era attribuito a Gesù, da cui ne seguì quello di “cristiani”, quali seguaci di Cristo. A Roma vi era la presenza di due folte comunità di Giudei e di cristiani, che, probabilmente per motivi di proselitismo, non di rado creavano problemi di ordine pubblico, così che l'imperatore Claudio pensò bene di espellere da Roma i Giudei, ma con loro anche i cristiani.

4Cfr. Eusebio di Cesarea, Storia Ecclesiastica, II,22,1-2: “1. Come successore di Felice, Nerone inviò Festo, davanti al quale Paolo fu processato e poi mandato prigioniero a Roma. Era con lui Aristarco, che l'apostolo, in un passo delle sue lettere chiama giustamente compagno di prigionia (Col 4,10a ndr). Anche Luca, che ha riportato per iscritto gli Atti degli apostoli, terminò a questo punto la sua narrazione, precisando che Paolo passò a Roma due interi anni in libertà e vi predicò senza ostacoli la parola di Dio. 2. Dopo aver sostenuto la propria difesa in giudizio, si dice che ripartì per il ministero della predicazione, ma ritornò una seconda volta a Roma sotto Nerone e vi subì il martirio. Durante la sua prigionia scrisse la seconda lettera a Timoteo, in cui accenna alla sua prima difesa ed alla fine imminente

5Gustav Adolf Deissmann (1866-1937) è uno storico e teologo tedesco, il cui nome è legato ad approfonditi studi di filologia dell'Antico e del Nuovo Testamento e sul cristianesimo primitivo.

6Cfr, Rm 1,1;

7Le lettere a cui mi riferisco qui sono le sette lettere ufficialmente attribuite a Paolo, cioè Romani, 1^ e 2^ Corinti; Galati; 1^ Tessalonicesi; Filippesi e Filemone, non a quelle della sua scuola.

8Cfr. Gal 1,1-2

9Cfr. 1Cor 1,26a; Rm 1,7a; Ef 4,1.4; 2Tm 1,9; Eb 3,1; 2Pt 1,10.

10Cfr. Rm 1,7; 1Cor 1,3; 2Cor 1,2; Ef 1,2; Fil 1,2; Col 1,2; 2Ts 1,2; Fm 1,3

11A questo schema, “prescritto e rendimento di grazie”, fa eccezione la Lettera ai Galati, che dopo il prescritto entra subito nel vivo della questione con uno sferzante Qaum£zw(Tzaumázo, mi meraviglio, stupisco), a motivo del voltafaccia dei Galati, che dopo aver accolto Paolo e il suo Vangelo, lo hanno abbandonato aderendo ad un cristianesimo giudaizzante e riprendendo culti pagani, da cui provenivano. Paolo, per questo, sentitosi tradito dai Galati, salta il rendimento di grazie, poiché non c'è niente da ringraziare, e con fare aggressivo entra subito nel merito della problema.

12Cfr. Rm 1,8; 1Cor 1,4; 2Cor 12,21; Fil 1,3; 4,19

13Sulla questione cfr. anche la voce “Collaboratori, Paolo e i suoi” in Dizionario di Paolo e delle sue Lettere, a cura di G.F. Havthorne, R.P. Martin, D.G. Reid; edizione italiana a cura di Romano Penna, edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 1999; seconda edizione 2000

14Cfr. Gal 1,6-7.9; 2Cor 11,4-5.13.22-23; 12,11; Fil 3,2. Sulla questione dei cristiani giudaizzanti cfr. anche la voce “Giudaizzanti in Dizionario di Paolo e delle sue Lettere, a cura di G.F. Havthorne, R.P. Martin, D.G. Reid; edizione italiana a cura di Romano Penna, edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 1999; seconda edizione 2000

15Sulla questione cfr. G. Barbaglio, Le lettere di Paolo, Edizioni Borla, Roma 1990; pag. 247, ultimo capoverso.

16Cfr. 1Cor 7,29-31; Rm 13,12

17Cfr. Fil 12-14; 2Tm 2,9; Fm 1,10

18Cfr. At19,29; 20,4; Rm 16,23 e 1Cor 1,14

19Cfr. 1Cor 1,16; 16,15.17

20Cfr. Mt 12,39; 16,4; Lc 11,29; Gv 2,18; 4,48; 6,30; 11,47; 12.37

21Quando qui si parla di “peccato”, con riferimento qui a quello originale, non va inteso in senso morale, ma nel senso di uno stato di vita e di una condizione esistenziale che si sono venuti a creare dopo la rivolta di Adamo ed Eva contro Dio (Gen 3,4-6). Questi vennero creati ad immagine e somiglianza di Dio (Gen 1,26-27) e furono fatti di poco inferiori agli angeli (Sal 8,6), allorché Dio insufflò nell'uomo il suo Alito di Vita (Gen 2,7), il suo stesso Spirito, trasformandolo in un essere vivente, cioè partecipe della stessa vita del Vivente, e la sua carne divenne carne spiritualizzata, così che, dopo la ribellione a Dio, l'uomo si accorse di essere “nudo” (Gen 3,7), cioè spogliato di quel Alito di Vita, che lo aveva trasformato in un essere vivente come Dio, divenendo soltanto carne despiritualizzata, soggetta non più alla Vita, ma alla sofferenza, al dolore e alla morte (Gen 3,16-24). Egli, infatti, dopo l'atto di ribellione, che lo aveva denudato dello Spirito di Dio, che lo aveva reso sua immagine e somiglianza, fu ricoperto da pelli di animali (Gen 3,21), che dicono il suo nuovo stato di vita, di essere decaduto da uno stato di vita divino ad uno di mera animalità o materialità. Gesù, morendo sulla croce, ha ucciso in se stesso l'antica carne adamitica decaduta, cioè despiritualizzata, che egli, nascendo, aveva assunto su di sé (Fil 2,6-8), e con essa, per un principio di solidarietà, che lega l'uomo alla creazione (Gen 6,7.11-13; Rm 8,19-23), anche questa, attirandole su di sé e accorpandole in se stesso sulla croce (Gv 12,32-33). Lì, sulla croce, pertanto, non è morto soltanto l'uomo Gesù, ma con lui anche l'antico Adamo e con questi l'intera prima creazione.

22La frase è stata tratta dall'opera di Cicerone “De oratore” ed estrapolata dalla frase che nel suo intero suona così: “Historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis”, che tradotta significa: “La storia, invero, (è) testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra della vita, messaggera dell'antichità”.

23Cfr. Mt 4,1; Mc 1,12; Lc 4,1; 11,20; Gv 1,33;

24Cfr. Mt 12,39; 16,4; Lc 11,29; Gv 2,18; 4,48; 6,30; 11,47; 12.37

25La 1Cor è stata scritta tra il 53 e il 54 d.C.; quella ai Galati tra il 56 e il 57 d.C.

26Traduzione: “Vi è una misura nelle cose; vi sono, quindi, determinati confini, al di là dei quali non può esservi il giusto”.

27Timoteo nacque da padre greco e madre giudea, che gli insegnò le Sacre Scritture (2Tm 1,5; 3,15a). Paolo lo prese con sé nei suoi viaggi missionari, durante i quali egli si convertì al cristianesimo. Paolo lo definirà in Rm 16,21 “mio collaboratore”, mentre in 1Cor 4,17 lo chiamerà “mio figlio diletto e fedele nel Signore” e così in 1Tm 1,2 “Timoteo, mio vero figlio nella fede” e in 2Tm 1,2 “al diletto figlio Timoteo” e similmente in 1Tm 1,18 “figlio mio Timoteo”, mentre altrove lo chiamerà “fratello” (2Cor 1,1; 1Ts 3,2). Da questi appellativi, di cui Timoteo è insignito da Paolo, si può pensare che tra i due corresse un particolare legame di affetto e di grande e reciproca stima (2Tm 1,4), cose queste che non erano semplici da ottenere da Paolo, molto esigente e duro con i suoi collaboratori.

28L'episodio è ricordato in At 19,22.

29Cfr. la voce “œcw” in L. Rocci, Vocabolario Greco-Italiano, ed. Società Editrice Dante Alighieri, Roma 1993.

301Cor 4,6.18.19; 5,2; 8,1; 13,4

31In senso positivo cfr. Mt 13,33; Lc 13,21

32In senso negativo cfr. Mt 16,6.11.12; Mc 8,15; Lc 12,1;

33I due rituali vennero nel tempo unificati. In tal senso cfr, Dt 16,1-8

34Cfr la voce “Sinedrio” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, 1997

35Cfr. A cura di L. Monaldi, I Manoscritti di Qumran, ed. UTET, Torino 1986. Prima edizione TEA febbraio 1994, Farigliano (Cuneo)- 1QS V,1-VII,25

36Mt 18,15 rimanda a Lv 19,17Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai d'un peccato per lui”; così similmente ricorda Sir 19,13-17: “Interroga l'amico: forse non ha fatto nulla, e se qualcosa ha fatto, perché non continui più. Interroga il prossimo: forse non ha detto nulla, e se qualcosa ha detto, perché non lo ripeta. Interroga l'amico, perché spesso si tratta di calunnia; non credere a ogni parola. C'è chi sdrucciola, ma non di proposito; e chi non ha peccato con la sua lingua? Interroga il tuo prossimo, prima di minacciarlo; fa intervenire la legge dell'Altissimo”. Mt 18,16, invece, si rifà espressamente a Dt 19,15: “Un solo testimonio non avrà valore contro alcuno, per qualsiasi colpa e per qualsiasi peccato; qualunque peccato questi abbia commesso, il fatto dovrà essere stabilito sulla parola di due o di tre testimoni”. - Nella regola di Qumran è prevista una procedura per tre gradi, che si riflette in Mt 18,15-17. Recita, infatti, la Regola della Comunità: “Si ammoniranno l'un l'altro con verità, umiltà e amore benevolo verso ognuno. Nessuno parli a suo fratello con ira, con brontolamenti, con il collo inflessibile o con cuore duro o con spirito malvagio. Non lo deve odiare nell'incirconcisione del suo cuore, bensì nello stesso giorno lo riprenda e così non addosserà su di sé una colpa per causa sua. Inoltre, nessuno introduca una causa contro il suo prossimo davanti a molti, se prima non vi è stata una riprensione davanti a testimoni” (1QS V,25-V,1). Così anche nell'altro testo di Qumran, il Documento di Damasco, nel commentare Lv 19,17 dispone: “A proposito di quanto ha detto: <<Non vendicarti e non serbare rancore verso i figli del tuo popolo>> , colui che è entrato nel Patto e adduce un'accusa contro il suo prossimo senza averlo (prima) rimproverato davanti a testimoni o la sostiene con collera ardente o la riferisce ai suoi anziani per attirare su di lui il disprezzo, costui è uno che si vendica e conserva rancore; […]. Se conserva il silenzio verso il suo prossimo, un giorno dopo l'altro, e parla contro di lui con collera ardente, è un'accusa di morte che adduce contro se stesso, non adempiendo gli ordinamenti di Dio, il quale gli disse: <<Riprenderai francamente il tuo prossimo e così non avrai a causa sua la responsabilità di un peccato” (CD IX, 2-8). I testi qui riportati, relativi a Qumran, sono stati tratti L. Moraldi, I manoscritti di Qumran, Editori Associati Spa, Milano – Prima edizione TEA febbraio 1994.

37 Cfr. Dn 7,21-22; Sap 3,5-8; Mt 24,9; Lc 21,12; Gv 15,21; Ap 7,14.

38Cfr. At 1,5; 2,38; 8,16; 10,48; 11,16; 19,5

39“Il suo vaso”, cioè il proprio corpo. L'immagine richiama quella di Khnum, il dio vasaio, della mitologia dell'antico Egitto, che ha modellato l'uomo sul suo tornio primordiale. Immagini queste che verranno riprese da Is 45,9; Ger 18,2-6; Lam 4,2; Sir 33,13. Immagini queste che verranno riprese anche da Rm 9,21, che le ha mutuate a sua volta da Sap 15,7.

40La traduzione è letterale ed è stata fatta da me nel rigoroso rispetto del testo greco. Le parole poste tra parentesi tonde non sono presenti nel testo greco, ma chiaramente sottintese,

41Cfr. Mt 5,32; 19,9; Mc 10,11-12; Lc 16,18

42Sulla questione cfr. R. De Vaux, Le istituzioni dell'Antico testamento, ed. Casa Editrice Marietti, Genova, III edizione 1977; ristampa 2002; pag44-45

43Cfr. At 11,26;26,28; 1Pt 4,16

44Cfr. anche Gal 5,6

45Sulla questione cfr. R. De Vaux, Le istituzioni dell'Antico Testamento, ed. Casa Editrice Marietti, Genova, Ristampa della III edizione 2002; pag.42

46Cfr. Gv 10,30; 14,9-10; 17,21.22b

47Sulla questione cfr il mio studio sul Vangelo secondo Luca, cap.8 pagg.5-7: https://digilander.libero.it/longi48/Il%20vangelo%20secondo%20Luca%20-%20Cap.%208.pdf

48Cfr. Col 4,12a; 2Tm 2,24; Gc 1,1; 2Pt; Gd 1,1

49Cfr. Gal 2,2; Fil 2,16; Rm 13,12; 2Cor 6,7b; 10,3; 1Tm 1,18; 6,12; 2Tm 4,7; Fm 1,2

50Il termine “seder” significa “ordine, sequenza” e descrive i vari passaggi in successione del cerimoniale della pasqua, che ogni capofamiglia doveva seguire per eseguire correttamente la sua celebrazione.

51Cfr. Es 20,5; 34,14; Dt 4,23-24; 5,9; 32,16.21; ecc.

52Cfr. la voce “Uomo e Donna, §2, Paolo e il capo velato delle donne” in Dizionario di Paolo e delle sue lettere a cura di G.F. Hawthorne, R.P. Martin, D.G. Reid, edizione italiana di R. Penna, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo, 1999.

53A titolo esemplificativo cfr. Gv 9,2, dove i discepoli, nel racconto del cieco nato, chiedono a Gesù: “Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?”.

54Cfr. anche il sal 134,15-18

55Per il principio di solidarietà cfr. Gen 6,7.11-13; Rm 8,19-23

56Sulla questione cfr. pag 130 del presente studio sulla Prima Lettera ai Corinti.

57Cfr. pag.15 del presente studio.

58Cfr. Mt 22,36-40; Mc 12,28-33; Lc 10,25-28.

59Traduzione personale: “L'amore vince ogni cosa: e noi cediamo all'amore”. Parole queste che Virgilio nella sua X Bucolica (v.69) mette sulle labbra di Cornelio Gallo, afflitto da pene d'amore, che lo spingono ad abbandonare la poesia elegiaca a favore di quella pastorale, quasi a trovare pace e consolazione al suo tormento nella natura, ma inutilmente, poiché nulla può vincere quell'amore che lo tormenta e al quale, alla fine, egli deve cedere. Benché il contesto sia qui profano, la locuzione in se stessa si presta bene a qualsiasi altro contesto, compreso quello Sacro, per la sublimità delle sue parole e del loro senso.

60Sulla questione cfr. il mio sintetico studio in: https://digilander.libero.it/longi48/Pasqua%202014.pdf e in modo più dettagliato e approfondito, in : https://digilander.libero.it/longi48/IL%20VANGELO%20SECONDO%20GIOVANNI%20-%20Cap.%2020.pdf

61Cfr. Mt 10,1.5; 20,17; Mc 3,14.16; 6,7.30; Lc 6,13; 9,1.10.

62Nel merito cfr. il mio studio pagg.5-10 in https://digilander.libero.it/longi48/IL%20VANGELO%20SECONDO%20GIOVANNI%20-%20Cap.%2020.pdf e in https://digilander.libero.it/longi48/Pasqua%202014.pdf

63La traduzione dal testo greco è mia personale ed è letterale.

64Cfr. circa il principio di solidarietà Gen 6,7.11-13.17; Rm 8,19-23

65Una traccia di questo battesimo per procura, sia pur pallida e quasi impercettibile, è rimasta, ancor oggi, anche nella dottrina della Chiesa che attesta il battesimo di sangue e di desiderio ai seguenti paragrafi del “Catechismo della Chiesa cattolica”: “1258 Da sempre la Chiesa è fermamente convinta che quanti subiscono la morte a motivo della fede, senza aver ricevuto il Battesimo, vengono battezzati mediante la loro stessa morte per Cristo e con lui. Questo Battesimo di sangue, come pure il desiderio del Battesimo, porta i frutti del Battesimo, anche senza essere sacramento. 1259 Per i catecumeni che muoiono prima del Battesimo, il loro desiderio esplicito di riceverlo, unito al pentimento dei propri peccati e alla carità, assicura loro la salvezza che non hanno potuto ricevere mediante il sacramento”.

66L'espressione è tratta dal noto versetto della “Canzona di Bacco”, composta da Lorenzo de' Medici, che così recita: “Quant'è bella giovinezza, che si fugge tuttavia! Chi vuol esser lieto, sia: del doman non v'è certezza”.

67Cfr. Gen 6,7.11-13; Rm 8,19-23

68Il testo ebraico così recita: “Egli ha inghiottito la morte nella vittoria”, che la Settanta ha reso con “Avendo vinto, la morte ha inghiottito”.

69Per una maggiore delucidazione sulla questione della colletta e sul significato e il senso che essa aveva per Paolo, si cfr. pag.11 del presente studio.

70Cfr. Rm 1,7; 1Cor 6,1.2; 2Cor 1,1; 8,4; 9,1.12; 13,12; Ef 1,1.15; 3,8; 5,3; 6,18; Fil 1,1; 4,21.22; Col 1,2.4.26; 3,12.

71Sulla figura di Timoteo cfr la nota n.27 pag.62

72Apollo, un giudeo nativo di Alessandria, persona colta e abile nel parlare, molto addentro alle Scritture. Questi era a conoscenza dell'annuncio cristiano e insegnava correttamente ciò che si riferiva a Gesù. Tuttavia la sua conoscenza cristiana era ancora superficiale e limitata, in quanto che conosceva soltanto il battesimo di Giovanni e il suo insegnamento nelle sinagoghe dovette essere ripreso dai due coniugi Aquila e da Priscilla, che ne completarono la formazione (At 18.24-26). Questi erano due giudei e validi collaboratori di Paolo, giunti a Corinto dopo il decreto di espulsione di Claudio (54 d.C.), che cacciò da Roma i giudei per i continui tumulti che creavano, turbando la tranquillità sociale (At 18,2). A Corinto Apollo proseguì efficacemente l'opera di Paolo, tanto da formare attorno a sé un gruppo di discepoli, che si rifacevano al suo insegnamento; altri, invece, ritenevano come loro maestro e guida Paolo stesso; altri ancora Cefa e altri Cristo.