L'epopea mercantile
nel "Decameron" di
V.
BRANCA
Il Branca vede muoversi nelle pagine del Decameron il vario e vivace mondo mercantile italiano, e fiorentino in specie, lanciato con spirito d'avventura all'azione e al guadagno. Ma al tempo del Boccaccio è già un mondo che volge al tramonto: proprio in questo momento l'autore del Decameron ne celebra lo spirito, incarnandolo in personaggi, situazioni, vicende di alcune esemplari novelle.
La rievocazione della civiltà italiana nell'autunno del Medioevo, che si è rivelata nel Decameron grandiosa e suggestiva, trova uno dei suoi centri più vivi e affascinanti nella serie di avventurosi e mossi affreschi in cui si riflette la ricchissima vita mercantile fra il Duecento e il Trecento. Per la prima volta nella letteratura europea riceve alta consacrazione questo movimento decisivo per la nostra storia, promosso e diretto da quei veri eroi dell'intraprendenza e della tenacia umana, da quel pugno di uomini lanciati alla conquista dell'Europa e dell'Oriente, che, dopo le incomprensioni e le deformazioni del Sombart, siamo venuti sempre meglio scoprendo nella loro statura di uomini d'eccezione.
Isolata ancora nell'opera di Dante in un cerchio di aristocratico disprezzo per « la gente nova e i subiti guadagni », ignorata come inferiore o estranea dalla raffinata esperienza del Petrarca, restata ai margini persino nelle opere storiche di un Compagni o nello stilizzato narrare del Novellino, questa società irrompe nella « commedia umana » del Decameron e la domina con la sua esuberante vitalità. Non ci riferiamo solo alla folla di temi, di ambienti, di personaggi, di usi, di riferimenti vari che colora più della metà delle novelle con le tinte vivaci e sanguigne proprie a questo mondo. È la centralità nello stesso disegno ideale dell'opera, nel suo significato esemplare in senso umano e artistico, a configurare la presenza di questo ceto nella fantasia narrativa del Boccaccio come caratteristica, e si vorrebbe dire insostituibile allo svolgersi del Decameron.
Perché il grandioso tema di questa « commedia umana del Medioevo », cioè la rappresentazione della misura che l'uomo dà delle sue doti e delle sue capacità al confronto delle grandi forze che sembrano dominare l'umanità (Fortuna, Amore, Ingegno), non poteva trovare in quella età esempi di più potente e prepotente eloquenza rappresentativa. Dopo le dorate sequenze dei cavalieri della spada, accarezzate ormai solo dalla memoria e da una sottile nostalgia, è proprio il mondo dei nostri mercanti che, fra il Duecento e il Trecento, offre i campioni più vivi e aggressivi nell'agone con quelle forze sovrumane. È in quel mondo che la «pianta uomo» cresceva ormai più vigoreggiante: fra quella
gente che correva il mondo sempre in lotta con gli agguati della Fortuna, sempre protesi a vincere col proprio ingegno le iniziative e le insidie dell'ingegno altrui, sempre pronti a provare la loro elegante sveltezza umana nelle piú diverse avventure d'amore.
Se la società italiana d'allora era tutta sonante di questa fortunosa e grandiosa impresa che aveva l'epicentro in Firenze e l'arma universale nel fiorino che aveva soppiantato i perperi bizantini e dinari arabi, era nel cuore stesso della sua famiglia, era nelle sue stesse prime esperienze che il Boccaccio aveva vissuto gli episodi più fulgidi ed appassionanti. Come mercanti in proprio e soprattutto come agenti e «fattori» di una delle più potenti «compagnie», quella dei Bardi - che costituivano, con gli alleati Peruzzi e Acciaiuoli, le «colonne della cristianità» (Villani) -, il padre e gli zii avevano per più di quarant'anni percorso le grandi vie del traffico europeo, tra Firenze, Napoli, Parigi, e le grandi fiere francesi: e il Boccaccio ancora nelle sue opere latine rievoca commosso i racconti che il padre gli aveva fatto di quelle sue esperienze avventurose spesso paurose. Ed egli stesso, divenuto fin da ragazzo buon «abbachista», aveva visto aprirsi la sua giovinezza a Na oli nell'ombra del banco dei Bardí, accanto al fondaco dei Frescobaldi, in quella zona di traffici che sarà ritrovata vivissima dalla sua memoria come sfondo allucinante al notturno picaresco di Andreuccio. In quegli anni consumati nello stare al banco, nel ricevere i clienti, nel maneggiare lo «scacchiere» e nel tenere i libri «della ragione», «dell'asse», «della cassa», «delle tratte», «delle compere e delle vendite», nel preparare «revisioni della ragione » che servissero per il «saldamento di ragione » , cioè il bilancio finale, ai «compagni» (e in tutti gli altri compiti propri a un «discepolo» quale egli era), il Boccaccio visse e scontò ora per ora la fatica e il rischio di quella esistenza di finezze, di audacie, di agguati. Da questa pratica mercantile singolarmente ravvicinata e scrutata giorno per giorno colla lente di chi cautamente numerava e pesava le monete e doveva chiudere in regola le varie partite, dai contatti sempre nuovi con gente dei più diversi paesi che conveniva nel fondaco non solo per trattare affari, ma per
attendere i corrieri e le notizie dalle varie «piazze» e confrontarle e commentarle, le luci scintillanti e gli echi favolosi dei racconti dei famigliari e degli amici erano nutriti e sostanziati di faticata e diretta esperienza: cioè di una salda verità che li rendeva umanamente e fantasticamente solidi e precisi.
Dalla estrema nettezza di contorni, dalla indefettibile chiarezza di riferimenti discese da quelle esperienze lunghe e sofferte, si leva il fascino delle novelle mercantili del Decameron e quella loro capacità di svilupparsi e vivere attorno alla rappresentazione di un ambiente, che alle volte viene in primo piano come il vero protagonista. Il. crescendo di fredda, calcolata empietà di Ciappelletto grandeggia su quel tessuto di spregiudicatezza e di spietatezza mercantile che regola, secondo usi e necessità ben storicamente documentate, l'agire di Musciatto Franzesi e dei fratelli usurai; la sventata dabbenaggine di Andreuccio, che dà l'avvio alla fantasmagorica sequenza di eventi sempre più romanzeschi, è fermata proprio in un gesto imprudente ma solito nel contrattare, in quella Piazza napoletana del Mercato, che era uno dei centri più animati e famosi per il commercio dei cavalli; il rapido alternarsi di fortune di Landolfo e di Martuccio balena più subitaneo e procelloso sullo sfondo dell'uso marinaresco delle « mude » (cioè dei convogli) e della facilità onde i mercanti più improvvisati e avventurieri si davano alla pirateria (come è documentato per i liparoti, quali Martuccio); la poesia del tema di amore e morte è ritrovata nelle figure di Simona e Salvestra in tutta la sua casta fragranza perché si leva da un umile mondo di lavoro e di affetti, ritratto e definito fantasticamente nella coerente precisione di gesti con cui sono fatti agire «maestri», «fattori», «discepoli» (che come il Boccaccio vanno all'estero «l'apparato officio ad operare».), «garzoni», «artieri», «filatrici» (Simona è la prima elegiaca filatrice delle nostre lettere!); lo scanzonato e furfantesco ritmo dell'intreccio di inganni fra Salabaetto e la bella siciliana si può sviluppare sicuro soltanto da una minuta conoscenza, anzi da un'esperienza diretta del meccanismo usato nei porti per i depositi, le garanzie, gli anticipi.
Sono tutti elementi che il Boccaccio fa confluire nel suo mobilissimo narrare come momenti essenziali e decisivi; che rendono questo mondo mercantesco vivo e presente come pochi altri, come non sarà mai più nella nostra narrativa, che dal Sercambi ai novellieri del Cinquecento lo ridurrà a uno dei tanti paradigmi letterari discesi dal folgorante esempio del Decameron.
Proprio al tramonto di questa società che nell'autunno del Medioevo aveva creato i presupposti del nuovo vivere civile e sociale, proprio quando all'avventuroso ed eroico slancio dei pionieri stava per sottentrare una più cauta e sistematica organizzazione, il Boccaccio crea la sua «commedia» multiforme e umanissima: con una sensibilità ai valori e ai limiti di quel grandioso movimento, desta e risentita, ma che non diminuisce l'ammirazione e il nostalgico vagheggiamento per l'energia vitale di quegli uomini d'eccezione. E di questi eroi di un'umanità fervida e sempre tesa -verso nuovi orizzonti, «tetragona ai colpi di ventura» e giovanilmente confidente nelle proprie forze e nel proprio destino, egli si fa nel suo capolavoro il rapsodo appassionato, l'ispirato trouvère. Nell'epopea dell'autunno del Medioevo in Italia non poteva essere
assente la grandiosa impresa dei piú arditi precursori della società moderna; non poteva mancare la chanson de geste dei paladini di
mercatura. |