GIUDIZI E
TESTIMONIANZE ATTRAVERSO I SECOLI
Il mito biografico dell'Alfieri, poeta per volontà e tenacia, rappresenta il tema dal quale muovono i primi critici alfierani per farne una ragione di elogio all'uomo, ma di grave riserva per l'opera, come fanno Madame de Stàel, Schlegel e, più tardi, Tommaseo e Gioberti. Nell'atmosfera risorgimentale ben si comprende l'ammirazione del Mazzini per la vigorosa personalità morale politica dell'Alfieri, ma anche qui non manca qualche riserva sul carattere aristocratico del disdegno alfieriano.
Pure con un rispetto profondo per il carattere dell'Alfieri io mi permetterò qualche osservazione sulle sue tragedie. Il loro scopo è così nobile, i sentimenti che l'autore esprime sono talmente in armonia con la sua condotta personale, che le sue tragedie debbono sempre essere lodate come azioni, quand'anche si possano criticare sotto qualche rapporto come opere letterarie. Ma mi sembra che alcune sue tragedie abbiano tanta monotonia nella forza quanto quelle di Metastasio nella dolcezza. Nelle tragedie dell'Alfieri c'è tale profusione di energia e di magnanimità, o tale eccesso di violenza e di delitto, che è impossibile riconoscervi il vero carattere degli uomini. Questi non sono mai cosí malvagi né cosí generosi, come egli li dipinge. La maggior parte delle scene mette in contrasto il vizio e la virtú; ma questi contrasti non sono rappresentati con la gradazione della realtà. Se nella realtà i tiranni dovessero tollerare quello che gli oppressi gridano loro in faccia nelle tragedie dell'Alfieri, si sarebbe quasi tentati di compiangerli.
MADAME DE STAEL
Lo stile aspro e spezzato dell'Alfieri è talmente povero d'espressioni figurative, che si direbbe essere i suoi personaggi interamente privi d'immaginazione. Egli voleva dare una nuova tempra alla sua lingua materna, e non fece che spogliarla della sua leggiadria, caricandola di rigidità e durezza. Non pure egli non ha il senso dell'armonia, ma egli manca d'orecchio a segno che ne lacera il timpano colle dissonanze più insopportabili. Certamente la tragedia, per mezzo de' nobili sentimenti ch'ella inspira, deve innalzare la nostr'anima di sopra alla potenza de' sensi, ma non bisogna ch'essa cerchi di spogliare la vita delle sue seduzioni anche più pericolose; e con mostrarci tutti i repentagli che minacciano la virtú, essa fa risaltare la maestà della virtú medesima. Quando leggiamo le tragedie d'Alfieri, ne pare d'essere trasportati in un mondo più tetro e d'un aspetto più dispiacevole. Una finzione in cui gli avvenimenti giornalieri appaiono eccessivamente tristi, ed in cui le insolite catastrofi hanno qualche cosa di terribile, somiglia ad un clima il quale unisse in sé le folte nebbie de' verni del nord colle fiammeggianti tempeste della zona torrida.
Avrebbe il torto chi s'immaginasse che Alfieri abbia dato segno di maggiore accortezza e profondità che Metastasio, nella imitazione de' caratteri; egli presenta la natura umana sotto un aspetto differente, ma del pari interamente uniforme. I suoi personaggi sembrano abbozzati sovra semplici astrazioni, ed egli getta duramente il bianco e il nero l'uno appresso dell'altro. I malvagi palesano, nelle sue tragedie, la loro scelleraggine a volto scoperto; né certamente noi potremmo riconoscerli a questo contrassegno nella vita comune: ma quello in cui l'Alfieri è veramente senza scusa, si è ch'egli non rende amabili i suoi personaggi virtuosi. Quando si vede ch'egli spoglia la sua finzione d'ogni seducente grazia e sino de' semplici ornamenti della favella, si crederebbe ch'ei lo faccia con una severità meditata, per andar più direttamente al suo scopo morale; ma senza dubbio la natura aveva negato i suoi doni più lusinghieri a questo caustico ingegno.
AUGUST WILHELM VON SCHLEGEL
Alfieri sorse, e rigenerò, tormentandola, la tragedia. Ma fu lampo che solca il buio, non luce d'aurora nascente promettitrice d'un dì sereno; e splendette più a mostrarci abbietti, che ad insegnarci la via d'esser grandi. Alfieri, nato di razza patrizia, e in paese non libero, dato per ventisette anni a' pedagoghí ed all'ozio che ne mortificassero l'ingegno, poi costretto a rinnegare ogni libera potenza dell'anima ne' studi grammaticali, filologici, elementari - Alfieri, diciamolo pure animosi, quando la verità scaturisce irrecusabile da ogni pagina delle sue memorie - tragico più per vigore ostinato di volontà, che in forza d'ispirazione spontanea, non potea darci intera la riforma che i tempi volevano. A chiunque vuol farsi riformatore è necessaria la conoscenza piena e profonda di quanti elementi, di quanti mezzi intellettuali, e di quante forze compongono la civiltà del suo secolo, e della sua patria. Alfieri, studiatore indefesso di libri e scrittori appartenenti ad un esclusivo sistema di letteratura e di civiltà, non ne indovinò che i bisogni, non guardò che alla superficie. Venuto a' tempi ne' quali gli elementi della civiltà italiana non aiutati dalle circostanze fermentavano tuttavia occultamente, irato alla inezia e alla snervatezza di letterati codardi, insulsi, venali; impaziente per natura, misantropo per orgoglio, passeggiò per l'Italia come per un cimitero, senza intendere la voce segreta che usciva da quel silenzio, senza sospettare l'esistenza d'un incivilimento, a cui non mancavano che vie di sviluppo, senza intravvedere i caratteri particolari della condizione morale dell'umanità nel suo secolo.
GIUSEPPE MAZZINI
L'Alfieri non seguí le regole aristoteliche del dramma, perché il suo ingegno fosse flessibile a segno di adottare il giogo di Aristotele; ma perché egli trovò quelle regole talmente in analogia coll'indole del suo talento, che non ebbe alcun motivo di discostarsene, e credette di ritrovare nella propria natura la testimonianza della naturalezza di quelle leggi. L'Alfieri però è ben lontano dall'essere un cieco seguace di Aristotele; e se gli tien dietro in tutto quello in cui Aristotele consuona all'ingegno dell'Alfieri, non prova questi alcun ribrezzo di ubbidire di preferenza a se medesimo che al retore greco quando l'uno è in collisione coll'altro. L'unità essenziale dell'azione osservata in tutto il suo rigore è il carattere della tragedia alfieriana. Quello che i Greci avevano fatto condotti dallo stato in cui si trovava l'arte drammatica appo di essi, stato di semplicità, di brevità, di rapidezza conforme allo stato in che erano que' tempi le società, i costumi e la religione, lo fece l'Alfieri indottovi dall'energia della sua volontà insofferente di ogni ritardo, di ogni digressione; talmenteché questa volontà indisciplinata, che disdegnava ogni freno esteriore, ne ebbe però uno grande in se medesimo, quello dell'impazienza e dell'impeto, che gl'impediva di vagare negli accessori e di incurvare tampoco la linea per giungere al punto prefisso. Gli altri tragici moderni amano più o meno le linee curve e serpeggianti per giungere allo scopo della drammatica tessitura; l'Alfieri è il solo che ami la linea retta. Questa sua caratteristica che produce tutte le bellezze delle tragedie alfieriane è altresí la causa principale dei difetti che loro si appongono. Alfieri ha dunque, senza forse saperlo, ubbidendo unicamente alla propria natura, ristaurata la greca tragedia; se non che la tragedia di Eschilo, di Sofocle, di Euripide è sí dal lato della poesia e dei sentimenti, che da quello dei fatti molto più poetici, meno secca e concisa dell'alfieriana. L'unità del tempo e del luogo non sono pure in Alfieri un effetto di pedantismo, né un'imitazione, ma il ritrovato di un ingegno, che nella sostanza delle cose, come in tutte le sue modificazioni agogna alla maggiore ristrettezza e brevità di unità. Se la legge delle unità non fosse stata nata e stabilita al tempo dell'Alfieri, questo scrittore l'avrebbe inventata. In lui si osserva un fenomeno particolare non osservato abbastanza da coloro che vollero filosoficamente discorrere sul talento poetico di quel grand'uomo. Se vi furono alcuni rari, come per esempio Rousseau, in cui un'ardentissima immaginazione e un ardentissimo cuore ispirarono l'intelletto e crearono l'ingegno, l'Alfieri spetta a un'altra tempra di uomini forse ancora più rara, poiché in lui la volontà stessa e il carattere formarono lo ingegno, e furono si forti da poter sopperire all'immaginazione e fare di un uomo, in cui questa facoltà non era sovrabbondante, un poeta, e un poeta grande nel genere suo. Coloro pertanto i quali ascrissero a colpa all'Alfieri il predominio che colla sua tenace volontà volle esercitare sul suo ingegno, quasi che il valore di questo menomato fosse da quella, non ne conobbero tutto il segreto; e non s'avvidero che Alfieri, con minor vigoria di volontà e meno tiranno verso se stesso, non
sarebbe riuscito il valoroso tragico dell'età sua, e tampoco il creatore di una tragedia nuova al tutto nella sua specie, e che fa epoca nella storia della drammatica letteratura.
VINCENZO GIOBERTI
L'Alfieri è più pagano dei pagani stessi. Eschilo più affettuoso, Euripide meno sentenzioso di lui. La Mirra, l'Oreste, a' Greci rappresentavan misfatti voluti dal fato in pena d'altri misfatti; ma nell'Alfieri la Mirra, l'Oreste non hanno ragione. Antigone, in Sofocle, si bella di verginità coraggiosa e d'alto martirio, nell'Alfieri ama per far dispetto al tiranno, ama per amore dell'odio. Nell'Agamennone, le due scene dove Egisto consiglia il misfatto son piene di artifizio: ma fredda la moglie, e Agamennone freddo. E quella Cassandra, piena di religione e di sventura, manca; ed in Elettra l'amore e il dolore son rabbia; e la politica guasta e fredda ogni cosa. Osò tentare il Medio evo, e ne trasse una, da lui stesso condannata, Rosmunda. Nel Saulle, la Bibbia lo ispirò, lo ispirarono i dolori e le noie della sua propria vita, Non molta poesia in David, e in Micol: molta nel re. L'Alfieri poteva indovinare tal uomo. E il Saul lo dimostra poeta. Ma l'ira, l'orgoglio, e l'incredulità lo spennarono.
Dalle cose dette parrà ch'io disprezzi l'Alfieri: e l'ammiro. Ammiro quella forte natura ch'esce non intatta, ma vincitrice, del lezzo de' vizi e de' pregiudicii patrizi; ammiro quella volontà pertinace che lo caccia nel forte delle difficoltà, con un furore talvolta non dissimile dalle quiete ispirazioni del bello; ammiro quel continuo intendere alle cose ch'egli stimava utili e grandi, e ad esse posporre non solo gli ornamenti, ma la essenza, talvolta, dell'arte. E sebbene le bellezze della natura corporea, e le gioie dell'universale amore, e l'infinito della fede, egli a sé contendesse, pur seppe dall'angusto campo in cui si rinchiuse trarre poesia quanta vale a mostrare straordinaria forza d'ingegno. E delle sue liriche, parecchie vivranno, perché in esse è l'affetto e il linguaggio poetico. E la Vita, e i pareri sulle tragedie.(opera d'alto senno); e il Saul, con molte scene di molte delle altre tragedie, e qualche scena delle commedie, e qualche satira e qualche epigramma, intessono al poeta una assai ricca corona. Oltre la fede e l'amore mancava all'uomo la scienza; e mancava a tutti i poeti del secolo andato, d'eleganza più o men periti, del resto ignoranti. All'Alfieri mancava inoltre l'esperienza degli uomini non mai da lui conosciuti, se non ne' libri, perché non mai degnati di studio: mancavagli la larga vena del dire; mancavangli i primi studii che indolciscono l'ingegno e la lingua. Però delle prose politiche e del Misogallo e dei poemetti e delle traduzioni la sua memoria va piuttosto grave che ornata; però nelle tragedie stesse il concetto, e quindi la declamazione, tengono spesso il campo; però quel nerbo pare sovente tensione e sforzo; e quella potenza che sempre ostenta se stessa, ben presto affatica. Le virtù cristiane avrebbero e dall'ostentazione e da altri difetti letterari guarito l'Alfieri; e più dai morali, che in lui molti erano; e dissimularli non giova. Disprezzo degli uomini; orgoglio verso i minori; volontà prepotente; insofferenza illiberale; gioia del dolore altrui; aridità; sdegni ingiusti, villani. Ma una scusa egli ha in pronto, e splendida: senti l'amicizia. E in tutte le parti non poteva essere cattivo, chi era in alcune poeta.
NICCOLÒ TOMMASEO |