Che è, poi, attorno a un tu che si aggroviglia
la poesia di Celan: un tu che è Altro, certo; ma questo Altro,
lungi dal poter essere Tutt’Altro, è Altro che
si traveste in figura di carne attraverso le immagini di donne
che, come “copie e duplicati”, incrociano nel suo tempo,
sempre allarmi e mai tracce di quell’Altro in
nome del quale, ma senza mandato, la sua poesia parla.
Paradossale impasto di neve e fuoco, i versi di
Celan solo per questo possono spronare la lingua a dire
l’inferno della solitudine fondamentale.La
solitudine, la finitezza invocata e mai afferrata fino
in fondo: quel pacificante senso di finitudine che solo,
limite all’infinito ripetersi della fuga iniziale, avrebbe
concesso la possibilità del silenzio, la possibilità di
meritarsi un discreto riparo per l’abbagliante chiarore
delle strisce di sole, dei serpenti di luce, che ovunque lo incatenavano
alla sua disumana necessità di trascendersi. “Atemkristall”, “cristallo
di respiro”, è solo uno dei tentativi di dar forma, di immaginarsi
questa finitudine attraverso la determinazione linguistica di
quel “tu” che, con il suo caotico moto trasfigurativo,
gli impediva perpetuamente l’accesso a quella
identità che pure era la sua unica possibilità
di nutrimento e, forse, il suo unico obiettivo.Non c’è alcuna
possibilità di riconoscere questo “tu” che è
evocato, “destinato” bisognerebbe dire( più che destinatario) nelle
poesie di questa raccolta: ce ne assicura la penultima poesia della raccolta,
laddove questo “tu” cui si rivolge il poeta risalta nella sua integrale
alterità: “Tu- tutta, tutta vera.Io- merafollia”. Non c’è
parola che dica allo stesso tempo l’essere e il nulla....la parola è
sempre parola che si volge all’essere, solo l’anti-parola potrebbe, in
qualche modo, azzardarsi a dire il “non-sia” in quanto tale....ma questa
anti-parola attende sempre, e continuerà sempre ad attendere, in
fondo al crepaccio degli eoni, nel
baratro dove si dipartono i destini dell’essere, cristallo
di respiro, puro soffio che solo può narrare, nella
sua estrema sinteticità, la dolorosa nostalgia
dellatestimonianza che più non si può revocare...Questo mio
tentativo di traduzione ha solo un obiettivo: quello
di lasciar parlare nella sua univoca trasparenza l’appello
di questo soffio. Nelle poesie di questa raccolta Celan
riesce a farlo intravedere, nella lotta estrema contro
l’evaporazione di quel cristallo di respiro a contatto
con il sole, lotta che ivi è condotta, ripetuta. Volevo
solo dire lo Stesso a quella figura di carne, cui quest’opera
da Caronte, e tutto un “sì” che la scorza dei no spesso traveste,
è sospirata.
TU PUOI, certo,
deliziarmi di neve:
ogni volta che spalla a spalla
col gelso percorrevo l’estate
il suo neonato fogliame
gridava.
CORROSO DAL SOGNO mancato,
il paese di pane, esplorato insonne, innalza
il monte di vita.
Con la sua mollica
tu impasti i nostri nomi un’altra volta,
i nomi, che io cerco, un
occhio come
il tuo per ogni dito,
tastando verso
un punto per il quale io
possa accostarmi a te, vegliando,
in bocca la lucente
candela di fame.
NEI SOLCHI
della moneta celeste
nella fessura della soglia tu pressi la parola,
da cui io mi dispiegai,
allorchè con pugni malfermi
smantellai, tegola dopo tegola,
sillaba dopo sillaba,
il tetto sopra di noi,
per amore del barlume
di rame della ciotola
da questua
lassù.
NEI FIUMI a nord del futuro
getto la rete, tu
esitante la aggravi
con ombre impresse
da pietre.
DINANZI AL TUO TARDO VOLTO,
solitario
camminando tra
notti, che anche me trasformarono,
qualcosa si frappose,
che già una volta ci fu accanto, in-
violato da pensieri.
ATTRAVERSO LE RAPIDE DELLA TRISTEZZA,
innanzi
al rilucente specchio di piaghe:
qui si conducono alla foce
i quaranta tronchi di vita, scorticati.
Tu sola, nuotando contro-
corrente, li conti, li tocchi
tutti.
LE CIFRE, in combutta
con la sventura e contro-
sventura delle apparenze.
Il cranio, ripiegatovi
sopra, alle cui
tempie insonni come
fuoco fatuo un martello
tutto questo al ritmo del mondo
canta.
SENTIERI NELLA PENURIA D’OMBRE
della tua mano.
Dal solco delle quattro dita
estraggo per me la
benedizione pietrificata.
CHIARO GRIGIORE di
uno scavato, abissale
sentire.
Erba sparto, fin qui, verso l’interno
sospinta dal vento soffia
motivi di sabbia oltre
il fumo di cantori intorno al pozzo.
Un orecchio, mozzato, origlia.
Un occhio, tagliato a strisce,
rende giustizia a tutto questo.
CON ALBERI CANTATI VERSO TERRA
navigano i relitti del cielo.
In questo canto di legno
con forza ti azzanni coi tuoi denti.
Sei lo scudo
a prova di canto.
MORSA DI TEMPIE,
cui il tuo zigomo occhieggia.
Il suo argenteo lucore là,
dove la morsa si chiuse:
tu e il resto del tuo sonno -
presto
avrete compleanno.
COL CHICCO DI GRANDINE, nella
pannocchia carbonizzata,
presso casa,
sottomesso alle tardive, severe
stelle di novembre:
intrecciati ai filamenti del cuore
i colloqui dei grilli - :
corda d’arco, da cui
scocchi la tua scrittura di freccia,
Sagittario.
STARE ALL’ERTA, all’ombra
della cicatrice celeste.
Uno stare-per-nessuno-e-nulla.
In missione segreta,
solo
per te.
Con tutto ciò che qui ha luogo,
pur senza
voce.
COME UN CORNO, il tuo sogno di guardiano.
Con la traccia di parola dodici
volte intagliata
nel suo corno,
a vite.
L’ultimo scossone, che esso reca.
Sospinto all’insù, a forza di pertica,
lungo l’angusto, verticale
strapiombo del giorno:
il traghetto che
trasborda letture
da piaghe.
COI PERSEGUITATI in tardiva,
ostentata,
scintillante
alleanza.
Lo scandaglio mattutino, ultradorato,
ti si attacca al calcagno, che
pure giura,
indaga,
annota
anch’esso.
SOLI A FILAMENTI
sullo squallore grigionero.
Un pensiero ad
altezza d’albero
si arroga il tono della luce: ci sono
ancora inni da levare al di là
degli uomini.
NELLA CARROZZA DEL SERPENTE, lungo
il corteo di bianchi cipressi,
al di là del fiume
ti trassero.
Ma in te, per
nascita,
gorgogliava l’altra fonte,
sul nero
getto di memoria
ti innalzasti alla luce.
LIVIDORE DI CORAZZA, itinerari di rughe,
punti di
interramento:
il tuo territorio.
Ad entrambi i poli
della rosa d’abisso, leggibile:
la tua parola proscritta.
Vera di nord.Limpida di sud.
DIGA DI PAROLE, vulcanica,
sopraffatta dal mare rombante.
Sopra
l’ondeggiante ciurmaglia
delle controcreature: essa
issava bandiera - copie e duplicati
incrociano, frivoli, nel tempo.
Finchè tu non scagli la
luna-parola, così che qui
si compia il prodigio del deflusso
e il cuori-
forme cratere
testimoni nudo per gli inizi,
le nascite
regali.
(IO TI CONOSCO, tu sei colei che sta ricurva,
io, il trapassato, ti sono soggetto.
Dove arde una parola, che testimoni per noi due?
Tu - tutta, tutta vera.Io - mera follia.)
STERILIZZATA CON CURA dal
vento radioattivo della tua lingua
la chiacchiera multicolore dei fatti
di vita - la mia, secolarizzata
poesia, il non-sia.
Tratto fuori dal
gorgo,
aperto
il sentiero attraverso le nevi
a forma umana,
le nevi di penitenti, fino
alle accoglienti
stanze dei ghiacciai e ai deschi.
In fondo
al crepaccio degli eoni,
presso
il ghiaccio dei favi
attende, un cristallo di respiro,
la tua irrevocabile
testimonianza.
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