Su scetticismo e disincanto
(un recente frammento)

Riguardo lo scetticismo, la tradizionale obiezione della filosofia è stata: lo scettico, per essere tale, non può che negare col suo stesso scetticismo, la verità che afferma.
Nulla è certo, dice lo scettico; o meglio, nulla è conoscibile come certo.
E dunque, che certezza può avere un simile principio? Donde trae, esso, la sua legittimità?
Evidentemente, il gesto dello scettico, più che negarsi fondatezza, rinnega la filosofia, in quanto tradizione della verità discorsiva.
Afferma lo scettico: la verità, in quanto discorsiva, non è più verità, è inevitabilmente altro da sé.
Non afferma, lo scettico, che la verità sia ineffabile, sia segreta; egli postula, piuttosto, una contraddizione fra verità e logos filosofico.
E postula questa contraddizione, non come una verità: ma nello stesso modo in cui il ladro di quella celebre lettera, occultò al meglio la stessa, rinunciando semplicemente di nasconderla.
Un errore palese: “non esiste nessuna certezza”. In questo caso è il discorso, la parola a farsi carico totalmente dell’errore…per lasciare intatta quella verità, che vi scorre al di sotto, rivelata da un simile errore, e per questo resa più che mai invisibile.

Mi trattenevo su questo,  perché non di scetticismo si tratta, ma di disincanto.
L’anno si presenta con l’annuncio di nuovi, e già antichi, incantesimi: la comunicazione globale e totale, il definitivo compimento dell’astrazione del lavoro e dell’astrazione del denaro stesso…Tutti i flussi assumono, insomma, una veste fantastica, incantevole, mirabile: e cioè, radicalmente, visibile.
E’ ancora possibile un disincanto veramente radicale, date queste condizioni?
Se disincanto fosse, esso dovrebbe comportare, come per il gesto scettico, una formulazione tale della posizione critica, per la quale la contraddizione sia posta dall’esterno, e dunque senza coinvolgere più il gesto che la pone.
Cosa accade quando invece si afferma, dall’interno, che a niente più si può prestare credito, che nulla può più essere scambiato per vero?

Sembrerebbe di avere a che fare col medesimo gesto dello scettico.” Niente è vero”…sembra la sostanza di entrambe le affermazioni.
Ma lo scettico…per arrivare a formulare quell’affermazione, sapendo di mentire…non aveva dovuto già porsi oltre, l’esigenza della verità? Il riconoscimento della contraddizione generata dall’affermazione linguistica dell’inconoscibilità del vero, è ciò che distingue il vero scettico dallo scettico in malafede…
Ma codesto uomo che si dice disincantato, sostenendo che nulla merita più credito assoluto, e che di fronte a tutto e tutti occorre dubitare…è ugualmente capace di dubitare di sé, è altrettanto autoironico dello scettico?

Il preteso disincantato afferma: sei credulone, illuso, tu che ancora credi alla possibilità che non tutte le aspettative, vadano deluse.
Ma è capace di affrontare, quest’entità liberata, l’incantesimo della propria fiducia assoluta in sé stessa, nella sua monolitica verità incarnata, di cui si dice portatore?
Chi predica ad altri il sospetto assoluto, ha solo due scelte: il silenzio(una predicazione muta), o la negazione ironica di sé. Dovrebbe mostrare, insomma, questo messia della disillusione, questo maestro di criticismo, questo illuminato dottore del sospetto…la dolcezza dell’illusione, la maestà del desiderio, del desiderio e del suo oggetto…
Farsi maestro dell’incanto, insomma. Tradirsi, in nome del principio(“logico” quanto mai, appunto), per cui se non c’è verità della cosa, ogni cosa può ugualmente incantarci. Fuori da ogni soggettivismo: tutto è stupendo, perché non è tutto (e, dialetticamente, tutto non è.)
L’imperfezione di ogni cosa, la mancanza come sacro destino della nostra finitudine…sarebbe insomma lo spumante, brindando con il quale il disincantato potrebbe, ogni volta, mostrare l’autenticità del suo gesto: né contro la verità, né per la verità, ma oltre la verità, anche oltre sé stesso.

E’ possibile, insomma, un disincanto più radicale di altri?
Sì, ma solo a un patto: quello di non vantare mai, nei fatti o nelle parole, la radicalità del proprio disincanto.
Solo un disincanto, radicalmente superficiale e radicalmente imperfetto, un disincanto tradito e quindi un incantesimo, può rimetterci nella condizione di essere veramente critici.
Critici rispetto a un tempo, che ci vuole subdolamente fraudolenti nei nostri stessi confronti, incantatori di noi stessi. E’ proprio confidando nel nostro disincanto, insomma, che ci vedremo, senza vederlo, privati, da questo tempo, del nostro potenziale più alto: quello di desiderare ciò che ci manca.

Cosa potremo mai desiderare più, infatti, laddove dovessimo illuderci, in base a questo fraudolento disincanto, che ogni desiderio nasconda una minaccia per la nostra integrità, laddove insomma dovessimo illuderci di dover difendere una integrità (disincantata, si predica), che il desiderio minaccerebbe?

Resta aperta l’altra strada: rompere con l’idea di una integrità, da difendere. E mettere continuamente alla prova il proprio disincanto, tradirlo: in altre parole, professarsi incantatore dei propri serpenti(dei propri circoli viziosi). E darsi così la possibilità, l’occasione, di spezzarli, o di vederli spezzare.


“Fosti saggia a destarmi. E tuttavia
tu non spezzi il mio sogno, lo prolunghi.”
(J.Donne)



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