Rin-tracciando Bernhard e Pavese


Un’indagine che punti a ricostruire la poetica di Cesare Pavese nella sua verità è destinata indubbiamente a giungere unicamente allo svuotamento di ogni potenzialità racchiusa nelle parole dell’autore, come avviene del resto molto facilmente nelle letture filologico-critiche della poesia in genere, laddove manca ogni sforzo di pensiero che accompagni creativamente la lettura e dialoghi con ciò che nel testo dell’autore considerato è in grado di parlarci. Noi non ci proponiamo di restituire la poesia di Pavese alle sue intenzioni originarie, ricostruendo i modi e i fini pseudo-autentici delle sue opere: tutto ciò non farebbe altro che coprire ulteriormente la parola dell’autore, che finora non siamo ancora in grado di ascoltare a fondo, perchè ancora non abbiamo pensato veramente a fondo la poeticità che noi stessi siamo come i capaci-di-progetto: Pavese è, come tutti i poeti capaci di reggere il peso della trascendenza del dato oggettivo,  una guida nel movimento del pro-getto come continua creazione del proprio luogo esistenziale nel mistero della pro-venienza.

La poesia di Pavese si muove nell’ambito della comunicazione dell’incomunicabilità, e ci conduce sulla via di una solitudine vissuta tragicamente e tuttavia affatto fallimentare.Ne “Il mestiere di vivere” Pavese annota: <<Tutto il problema della vita è questo: come rompere la propria solitudine, come comunicare con gli altri.>>: ciò, se la solitudine non è rinuncia e isolamento, ma pellegrinaggio dell’esserci in-Via-per-l’in-Canto, può voler dire: come infrangere la maschera della contrapposizione io-altri per lasciar parlare il linguaggio in quanto Dire originario, Saga Poetica Universale che ci co-appartiene.

La poetica di Pavese è generalmente rischiarata in due direzioni principali: A)Contrapposizione al soggettivismo ermetico in nome di un linguaggio ancorato alla quotidianità e alla prosaicità del dire più oggettivo; B)Espressione della dialettica fra mondo della città e della campagna ovvero tra alienazione e solitudine e mito quale insieme di valori perduti a cui ritornare nell’insufficienza del ricordo.Questa interpretazione è sicuramente corretta nell’ambito di quel peculiare approccio alla poesia che è la storia della letteratura: essa punta infatti a mettere a disposizione del lettore i dati letterari per una più comoda manipolazione del testo; essa mira a educare a una lettura corretta del testo; ad essa sfugge totalmente il colloquio pensante e poetante con i testi, il che vuol dire quel colloquio che unicamente è portarci nella vicinanza del testo per crearci-con-esso.Nella parola del poeta, infatti, se è poeta nel senso di colui che opera nella tensione dell’origine, ciò che si può rintracciare non è solo la biografia e i suoi interessi culturali, che in questa sede non ci riguardano affatto e che troppo spesso ci impediscono l’approccio autentico al testo, ma il suo esser-capace di testimoniare nel movimento dell’essere questo stesso movimento.
In questo senso ci chiediamo: è Pavese un poeta in cui parla il linguaggio nel senso suddetto?La poesia di Pavese è solo un’evasione estetica? O non vi è forse un’eccedenza rispetto al semplicemente-detto che richiede di essere portata al non-nascondimento, di essere tratta dall’oblio in cui il poeta stesso l’ha lasciata-essere?
A noi pare, seguendo le tracce di Heidegger nel saggio “Perchè i poeti?”, che poeta sia essenzialmente colui che lascia parlare nei propri versi l’emergenza del Proprio Tempo, l’eventualità dell’Essere, l’Ereignis, cioè colui rispetto al quale è possibile dire, come si legge in “In cammino verso il linguaggio”, che <<Tradurre nell’ascolto il linguaggio non significa tanto riportare esso, bensì riportare noi al luogo della sua essenza: con-venire nell’Evento(Ereignis)>>.

In una delle “Poesie del disamore” intitolata “L’amico che dorme” leggiamo:

Che diremo stanotte all’amico che dorme?
La parola più tenue ci sale alle labbra
dalla pena più atroce.Guarderemo l’amico,
le sue inutili labbra che non dicono nulla,
parleremo sommesso.
                              La notte avrà il volto
dell’antico dolore che riemerge ogni sera
impassibile e vivo.Il remoto silenzio
soffrirà come un’anima, muto, nel buio.
Parleremo alla notte che fiata sommessa.

Udiremo gli istanti stillare nel buio
al di là delle cose, nell’ansia dell’alba,
che verrà d’improvviso incidendo le cose
contro il morto silenzio.L’inutile luce
svelerà il volto assorto del giorno.Gli istanti
taceranno.E le cose parleranno sommesso.

Ascoltiamo la poesia di Pavese trovandoci già nella notte più fonda, nell’afasia di cui anche la sua poesia, solo apparentemente luminosa e chiara, ci ha lasciato.L’alba non è più la speranza, e nessuno ha più il coraggio di credervi, di aspettarla.Per noi l’alba è solo il frutto immaginario della nostra ansia, della rovinosa impazienza.Ma l’alba vuol essere attesa nella pena più atroce, per l’uomo che intanto vuol darne parola, cercarne le tracce nella notte.Per questo noi ci ridestiamo e il nostro silenzio sarà lo spazio entro cui lasceremo accadere le parole tenui e le cose, che oggi parlano piano, quasi inaudite.


Un altro scrittore ci accompagnerà nella analisi che condurremo, ed è uno scrittore austriaco piuttosto recente e ancora non notissimo, sicuramente meno noto di Pavese: per questo motivo ne daremo alcune indicazioni biografiche, per dirigerci poi verso l’opera che più ci riguarda, il romanzo “Verstörung”, “Perturbamento”.
Thomas Bernhard, scrittore austriaco nato nel 1931 e morto nel 1989, come poeta ha ripercorso le orme di G.Trakl, ma è stato essenzialmente scrittore di romanzi e drammaturgo, conducendo un percorso narrativo che dall’iniziale dialogo con la religione si è spinto verso descrizioni cupe e angoscianti, dove sono sempre più frequenti i riferimenti ai mali di anima e corpo e alle soluzioni di violenza e di rottura più estrema.Le sue opere pubblicate in Italia sono “Gelo”, ”Perturbamento”, “Il soccombente”, “L’imitatore di voci”, “Il nipote di Wittgenstein”, “A colpi d’ascia”, “Antichi maestri”, “Estinzione”, nonchè i cinque libri in cui è articolata la sua autobiografia.

Personalmente non sono molto interessato ai romanzi, in genere, per motivi che qui sarebbe troppo lungo enumerare.Tuttavia ritengo opportuno soffermarmi su “Perturbamento” perchè è un romanzo dotato di caratteri poetici come pochi altri, un romanzo cioè capace di rimetterci sulle nostre tracce,  in una certa misura disposto all’ascolto poetante.

Il romanzo è strutturalmente suddiviso in due parti: una introduzione piuttosto lunga e “Il principe”, il nucleo dell’opera, la parte più interessante per il nostro discorso. La trama del romanzo risulta assai semplice e lineare: un medico di campagna, dato il poco tempo per incontrare il figlio-studente di scienze naturali-lo conduce con sè nel consueto percorso di visite, tra emergenze quali l’uccisione della moglie di un oste, costretta a lavorare la notte fra uomini ubriachi e violenti, e malati cronici quali la signora Ebenhoh ormai morente, un industriale che da anni si era chiuso in casa per dedicarsi a un’opera oscura e infinita, i genitori di un maestro di scuola autore di quadri surrealisti morto a soli 26 anni e infine Krainer, un giovane musicista improvvisamente impazzito la cui descrizione in qualche modo ricorda quella dello scarafaggio della “Metamorfosi” kafkiana, che soffre di una strana malattia e tuttavia ancora comunica con il mondo attraverso strane scritte apposte sui quadri dei “grandi della musica. ”Il giro del dottore e del figlio si conclude ovviamente nella vasta tenuta del principe Saurau, Hochgobernitz, ove il principe, anzichè farsi visitare, intraprende un discorso praticamente ininterrotto, a tratti con un suo filo logico, quando descrive la difficile ricerca di un amministratore per la sua azienda forestale, a tratti tenuto insieme solo da associazioni di idee piuttosto complesse e indecifrabili, dove il tema principale risulta essere la solitudine dell’uomo e il rapporto con il figlio non ancora nichilista, con il mondo dei Moser, ovvero della mediocrità burocratica, con gli affetti più vicini, con la morte e infine con il suicidio. Il romanzo si conclude, per così dire, con una tremenda descrizione del destino di Hochgobernitz, destinato a essere distrutto dalla follia degenere del figlio del principe, che “si accosta sempre alla natura come se fosse letteratura”, ormai trovandosene del tutto al di fuori.

Anche la fantasmagoria di Bernhard, come già la poetica del Pavese, si muove, secondo la nostra ottica interpretativa, nell’ambito della comunicazione dell’incomunicabilità.Si tratta innanzitutto di una comununicazione che non asserisce, ma attesta uno smarrimento a cui non si cerca di porre riparo in alcun modo. La comunicazione filosofica non può mai rinunciare alla comunicazione conclusiva, e quindi non può mai svolgere fino in fondo la vicenda dell’incomunicabilità, poichè essa ha origine nella necessità di trarre dal nulla gli strumenti per un rischiaramento dell’essere, per la sensificazione dell’essente: essa afferma confinando; così facendo risulta inevitabilmente destinata al naufragio, che per il pensiero che abbandona la via della rap-presentazione significherà farsi canto, abbandonarsi nello spazio del poetico, in quanto unico dire che resta nell’abisso per testimoniare del suo stesso essere una lotta, una soglia, un principio.Anche quando Wittgenstein afferma “su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere.” non fa altro, a mio modo di vedere, che riportare alla luce questa funzione della filosofia come l’attività umana volta propriamente a determinare il campo di ciò che è indagabile in maniera assertoria - ovvero il campo della mineralizzazzione avvolgente - per separarlo da tutto ciò con cui il pensiero filosofico(e quindi scientifico) non ha nulla a che vedere, tradizionalmente: il dire dello smarrimento, la poesia come <<Saga del Mondo e della Terra, dell’ambito della loro lotta,(...), saga del non-esser-nascosto dell’ente.>>(Heidegger).

Dialogheremo quindi con poeti come Pavese e Bernhard per riportarci in quel movimento del linguaggio in cui l’oggettività è del tutto dismessa, in nome non dell’arbitrio ma dell’originarietà del dire: che è innanzitutto parola della solitudine in quanto esser-gettati-per, in cui questo “per” è l’elemento dinamico dell’esser-gettati: causa? Fine? Tempo continuato? Moto per luogo?
In tal senso è molto suggestivo quanto dice Eliot:

Nel mezzo, non solo nel mezzo del cammino,
ma per tutto il cammino, in una selva oscura, fra i rovi,
sull’orlo di un pantano, dove il piede non è sicuro,
e tra minacce di mostri, luci fantastiche,
col rischio dell’incantesimo.
Col rischio dell’incantesimo ci muoviamo nell’oscurità della selva, della campagna: ma già anche tra mostri e luci fantastiche, su strade dove il piede non poggia sicuro, nella città costruita secondo parametri per i quali non siamo che accidenti di un meccanismo che non sappiamo più controllare, ma solo rimirare come bambini lasciati per tutta la vita soli di fronte a un immenso televisore.Dice Bernhard: <<Uno che stando a Londra -Saurau qui si riferisce al figlio- veda continuamente Hochgobernitz diventa, credo, malato e pazzo esattamente come uno che stia a Hochgobernitz e veda continuamente Londra.(...)E’ pur vero che vivendo a Londra lo spirito non conosce confini.Eppure, anche vivendo a Hochgobernitz, lo spirito non conosce confini.>> E dice altresì Pavese, in “Gente che non capisce”: “Gella è stufa di andare e venire, e tornare la sera/ e non vivere nè tra le case nè in mezzo alle vigne./La città la vorrebbe su quelle colline,/luminosa, segreta, e non muoversi più./Così, è troppo diversa.”

E’ proprio lo stretto collegamento che entrambi gli autori che ci proponiamo di considerare qui istituiscono fra città e campagna, quali spazi entro cui si muove il personaggio solitario, ad aver colpito la nostra attenzione, spingendoci a ripensare a quel passo del saggio su “La questione della tecnica” in cui Heidegger mette in questione l’unità originaria di phùsis e tèchne in quanto modi di quel far-avvenire pro-ducente che è la poiesis, solo che si tenga presente che l’ente da cui procedono gli enti tecnici, cioè i manufatti, è esso stesso un ente “naturale”: ciò che collega la città alla campagna e in pari tempo ne mostra la misura della loro distinzione, che trova la sua fondatezza nella distinzione originaria che abbiamo appunto messo in luce. E’ appunto nell’ambito di quella differenza, in quell’apertura che provoca la modalità tecnica del dis-velamento, che quell’apertura si disvela come possibilità esistenziale della solitudine in quanto esser-sempre-in vista-di-sè che ha appunto, come ci proponiamo di mettere in luce proseguendo, un suo carattere radicale che la distingue da quella modalità esistentiva  che è lo “star-solo-deiettivo”.
 



[HOME PAGE] [FOTO] [TESTI] [TRADUZIONI] [TESI] [LINKS]


Tutti i contenuti di queste pagine, salvo dove espressamente indicato, sono coperti da diritto d'autore.La loro utilizzazione, pertanto, non può avvenire senza esplicita autorizzazione dell'autore.

Per informazioni, rivolgersi al webmaster, Paolo Graziani: grapa1@libero.it