Introduzione
P.Celan è il poeta, fra tutti, che maggiormente vive la poesia come proiezione di sè verso l’esterno, verso l’altro, verso Tutt’Altro. P.Celan, tuttavia, è anche il poeta più difficile da comprendere che l’occidente abbia incontrato. P.Celan non vuole essere compreso: egli vuole scuoterci, tirarci fuori da quella palude dell’io che è stata, ed è ancora, l’idea per la quale il rapporto con l’altro nasce dalla mortificazione della propria solitudine. P.Celan legge il rapporto con l’altro come vittorioso scoprimento della propria solitudine.
L’analisi della solitudine, che condurrò attraverso l’analisi delle poesie di Pavese e di "Perturbamento" di T.Bernhard, lascerà appunto trasparire nella sua inattualità una possibilità dell’esserci contemporaneo nel suo nascente stupore di sè: la possibilità di una solitudine vittoriosa.
L’approccio a questa possibilità esistenziale avviene tuttavia muovendo da due frammenti del poeta di Czernowitz, tratti rispettivamente dalle raccolte "Schneepart"e"Fadensonnen".Questi due versi pongono nella loro risoluta concisione il problema imponente del rapporto tra mondo, tempo e solitudine, intese come momenti originariamente connessi e indiscernibili nell’analisi dell’esperienza esistenziale dell’esserci - l’ente per cui, citando Heidegger,<<nel suo essere, ne va di questo essere stesso.>>
L’illeggibilità del mondo, a una prima lettura, sembra essere riconosciuta come la causa della chiusura dell’individuo nella propria solitudine.Celan delinea un mondo in cui l’individuo è la mente in cui il mondo entra per essere letto e afferrato nella comprensione più o meno superficiale mirante a trarre un senso da ciò che deve essere unito da una trama razionale - ovvero: mirante ad individuare e attuare le strutture necessarie a una comprensione chiara e lineare, cioè univoca, del reale inteso come aggregato ontico.Una percezione sembra però turbare la chiarezza e la semplicità della lettura: questo mondo appare doppio, illeggibile quindi perchè ambiguo, contraddittorio, irriducibile a legalità positiva e controllabile dall’incombenza umana.E’ l’età detta del "Tramonto dell’occidente", l’età in cui una morente figura di uomo deve fare posto a una nuova figura di uomo, il fanciullo Elis di Trakl, il "giovane dio" di Pavese.E’ l’età del superuomo inteso come l’uomo che questo-uomo-che-noi-siamo non può essere: quest’uomo deve far posto a qualcosa d’altro, un altro uomo, creatore di un altro mondo e di un altro modo di intendere la temporalità.
Dice Zarathustra :<<L’uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo,- un cavo al di sopra di un abisso.>>In questo senso egli può dire: <<Nell’uomo si può amare che egli sia una transizione e un tramonto.>>
Ma l’indebita trasposizione di ogni pensiero in filosofia della storia ha ridotto questo tramontare a un certo tramonto, favorita d’altra parte dall’imponente emergenza millenaristica che coinvolge l’intero campo della riflessione più o meno consapevole.Sembra essere assai diffusa e scontata una lettura della storia contemporanea come età della crisi dell’Occidente, e ci si volge all’Oriente come aggregato di culture esotiche e estemporanee che però proprio per la loro estemporaneità attraggono, perchè ignorano il problema della nostra crisi, concedendoci un altrove che non ci siamo affatto conquistati e che non ci appartiene.
Nietzsche interpretava l’uomo, ogni uomo, come colui che è capace di tramontare, cioè come originariamente connesso al divenire, in quanto apertura originaria ai venti, a tutti i venti; una lettura del tempo come scissione fra eternità e divenire, tuttavia, conduce alla necessità di una filosofia della storia che orienti l’insieme degli avvenimenti storici in un certo modo, e il tramontare è spiegato come tramonto, che prepara un altro uomo, di cui ci si pre-occupa poi di stabilire le ragioni di una priorità o di uno scadimento morale rispetto all’uomo contemporaneo.
Alcune filosofie della storia di questo tipo - peraltro le più consapevoli, a mio modo di vedere - traggono spunto nel loro impianto basilare da una lettura a mio parere falsificante di questo brano in cui Heidegger, azzardando una risposta alla domanda sui poeti nel tempo della povertà, afferma:
<<L’epoca a cui manca il fondamento pende nell’abisso.Posto che, in genere, a quest’epoca sia ancora riservata una svolta, questa potrà aver luogo solo se il mondo si capovolge da capo a fondo, cioè se si capovolge a partire dall’abisso.>>
Certamente si può dire che Heidegger, nelle opere successive a "Essere e tempo", sviluppa un interesse crescente per l’analisi critica della società contemporanea, e ad esempio la lettura neutrale della tecnica e della struttura etica dell’esserci(che ha condotto F.Savater a tradurre l’anti-umanismo di H. in pericolosa inettitudine etica del suo pensiero)si trasforma in progressiva decostruzione della minaccia rappresentata dall’im-posizione umana sulla natura scaturente dall’oblio del problema dell’essere, cioè del fondamento originario.Ciò però non deve condurci a smarrire il carattere essenziale dell’affermazione di Heidegger, ovvero il suo riguardarci in prima persona in quanto originariamente connessi agli altri secondo la modalità della Cura.Solo in quanto il nostro esserci è già un essere-nel-mondo e, in particolare, un con-essere, è possibile per Heidegger che la trasvalutazione dei nostri punti cardinali, il dis-orientamento di noi stessi sia già un tracciare la rotta per una nuova esperienza del mondo.Non è quindi l’epoca che svolta, ma l’essere-nel mondo che impara, al più, a smarrirsi, lasciandosi divenire con tutto il proprio mondo disposto intorno a sè e variamente dis-allontanato.
Non si tratta, quindi, di un tramonto, ma di un tramontare che appartiene già alle modalità originarie dell’essere-nel-mondo proprio dell’esserci, tramontare, declinare che è null’altro che fare posto per il divenire di sè stessi, abbandonando ogni resistenza e ogni risentimento per amare il giorno e la notte e la possibilità anche del tramonto come naufragio esistenziale.
Solo ora, dopo aver purificato la mente dalle falsificazioni ri-assicurative e de-responsabilizzanti dell’essere-critico esperito nelle poesie di Celan, possiamo approcciarle per compierne un’interpretazione più lucida e meno appannata dal pregiudizio sociologico per cui è questo un tempo in cui non possono più esserci valori....
Interpreteremo Celan e ogni altro autore secondo i nostri valori - non sapremmo fare altrimenti, d’altronde: ma così sia.
Innanzitutto occorre mettere in luce la stretta connessione, la specularità praticamente perfetta che c’è fra le due frasi.Questa specularità è ancora più evidente nella lingua originale:
"Unlesbarkeit dieser
"Entteufelter Nu.
Welt.Alles doppelt."
Alle winde."
Per Celan la leggibilità del mondo corrisponde alla sua interpretabilità, che è già uno stare al mondo così-e-così, un far venire alla luce e impostare il luogo del proprio rapporto col mondo.Questo rapportarsi al mondo è letto da Celan come apertura ai venti, a tutti i venti, ovvero come sacralità dell’istante s-diavolato, cioè sottratto alle forze pietrificanti ogni scissione, alle forze re-attive, alla rappresentazione del reale come insieme di soggetti e oggetti posti nell’imperfezione del divenire da un’Entità capace di una razionalità eterna.Le forze demoniache sono quindi quelle forze che otturano ogni passaggio alla corrente d’aria, trasformando l’ambiguità e la difficoltà di mettere a fuoco la realtà in contraddizione risolvibile solo in una contrapposizione o in una conciliazione sempre soltanto pensata.In un’altra poesia Celan dice: "l’istante, questo rospo/scardina il proprio mondo."L’istante è dunque un rospo saltellante e velenoso, capace con la sua inafferabilità di trascinarci dietro di sè a un nuovo arrischiamento di noi stessi?Siamo, per Celan, "Cercatori di sorgenti nel vento": baciare il rospo vorrà forse dire aprirsi ai venti, a tutti i venti, per lasciarsi trasportare nel movimento sorgivo dell’Origine?
Abbiamo compreso quindi che questo mondo è doppio agli occhi di chi rinuncia ad una visione chiara e lineare e si lascia trasportare nel moto della sorgente originaria, che è, curiosamente, un cercare che concede spazi, un muoversi-verso che è sempre un ritornare a sè stessi, se è vero che l’esserci più autentico si può leggere come ascolto del lento stillicidio dell’Essere, ascolto che è visitazione dei propri abissi, innanzitutto, di quelle cavità di noi stessi dove goccia dopo goccia si svolge la lenta erosione di ogni concezione/concrezione del mondo.Il movimento dei cercatori è un movimento ambiguo, straniante: esso trascina con sè tutto un mondo, ma si svolge attraverso la valorizzazione della propria esperienza esistenziale, nella esaltazione della propria solitudine.
Un filosofo fortemente influenzato come Heidegger dall’impostazione
fenomenologica di Husserl, e cioè M.Merleau-Ponty, nella lettera
a Sartre dell’8/7/53 in cui spiega le ragioni del suo dissenso con la filosofia
dell’impegno dell’autore di "Essere e nulla", afferma:<<Ho tentato
di dire che l’equivoco è la cattiva filosofia, mentre la buona filosofia
consiste in una sana ambiguità, poichè constata l’accordo
di principio e la discordanza di fatto del sè dagli altri e dal
vero.>>Significherà forse che leggere questo mondo, raccoglierne
le fila sia possibile solo attraverso un esser-strabici, un saper vedere
dentro e fuori, uno sfocamento del nostro visus che ci allontani dalla
lettura del mondo solo apparentemente plurilaterale, ma univoca nella sostanza,
prodotta dall’indagine scientifica tradizionale? A me pare che Celan ci
parli proprio di questo, mettendo in rilievo il deficit delle nostre capacità
conoscitive nell’approcciare un mondo che non ha affatto, come sosteneva
Hegel, bisogno di una filosofia che risolva le scissioni in un sapere assoluto,
ma che può e deve essere abitato solo attraverso la capacità
fluidificante di un essere-al-mondo che ne colga le contraddizioni come
il sintomo del suo continuo divenire, e che ami il suo s-fondamento come
lo spazio della sua verità esistenziale: l’essere una soglia, un
confronto, una lotta.Dice ancora Celan:
"Occhi di chi va straniato: in voiconfluiscono gli sguardi restanti.
Un unica
marea
monta.
Presto voi splendendo
annientate la roccia, su cui essi
scommisero, contro
se stessi."
Dobbiamo a questo punto mettere in luce ciò
che più ci riguarda in questo tentativo di delineare il problema
della solitudine: ciò che ci interessa in questa sede è delineare
la possibilità di una solitudine vittoriosa, come abbiamo detto
ininziando, una solitudine cioè che viva il suo dramma senza ideare
nel suo sommo delirio una delle tante ri-assicurazioni possibili, tra le
quali oggi la più feconda nell’età contemporanea pare essere
la concezione olistica e globalmente attualizzante, secondo la quale ogni
evento cosmico ci riguarda, ne siamo responsabili, e ogni nostro mutamento
incide sulla struttura di ciascun altro ente.In questa onticizzazione contemporanea
del concetto di essere-nel-mondo intravedo infatti il perpetuarsi di una
concezione assolutisticamente, anzi meglio cattolicamente orientata della
solitudine e della socialità.Il problema che intendo porre con questa
affermazione non è la polemica contro la religione, che finchè
può re-lega costituendo uno spazio di incontro e di orientamento
più o meno bene definito secondo le modalità che di volta
in volta le sono proprie, ma quello più radicale della concezione
cattolica che riprende a distendere il suo velo coprente sulla filosofia
travestendosi da laico olismo anche e sempre più sulla base della
nozione di essere-nel-mondo.Già Popper metteva in luce le potenzialità
conservatrici e anti-sociali delle concezioni olistiche(la quale non è
altro che la controfigura laica della concezione cattolica- ma in questa
sede ne trascuro l’analisi), affermando che essa rende la realtà
storico-sociale non solo inconoscibile, perchè il tutto nella sua
trascendenza sfugge sempre, ma anche immodificabile e irriformabile, perchè
per poter modificare o riformare una parte occorrerebbe modificare contemporaneamente
il tutto, il che è impossibile: ne risulta posta in evidenza la
radice di questa concezione che è la volontà di rendere permanente
un ordine dato e presupposto al di là e al di sopra di ogni singolarità
e di ogni solitudine, che viene considerata elemento accidentale e trascurabile
di fronte all’universale e alla sua stasi eterna, alla cui razionalità,
peraltro oggi riletta in chiave spiritualistico-alchemica, esso viene artificiosamente
guadagnato.Scrive C.Yannaras, nel libro "Heidegger e Dionigi Areopagita",
ricostruendo il percorso della metafisica occidentale verso una teologia
dell’assenza di Dio, che nel pensiero di Hegel:<<"Gott ist es, der
im Philosophen philosofiert", il che, in ultima analisi, significa che
la mente umana assurge alle dimensioni del divino.>>Ma se la mente umana
assurge alle dimensioni del divino, provocando la morte di Dio, il problema
che ci si deve porre, a mio parere, non è solo quello della desacralizzazione
del sacro, che viene appunto risolta a causa dell’inadeguatezza delle nostre
strutture logiche attraverso il ricorso a concezioni più o meno
olistiche, ma anche, o forse piuttosto, il problema della posizione del
singolo nel mondo, poichè questo tempo forse ha una sola possibilità
ancora fertile, aperta: la scoperta dell’insufficienza di sè, della
inettitudine delle strutture ri-assicurative, della non-necessità
del genere umano e infine di questo, che ne consegue: che orientate verso
l’origine, oggi, e quindi dis-velanti sono solo le mani di chi opera nella
propria solitudine e inattualità, di chi è capace di creare
sè stesso aspirando alla propria imperfezione e al proprio dolore,
e che vuole amare la sua finitezza.Tutto il resto, il rivoluzionario, il
conservatore, l’asceta, il missionario, il compassionevole, il profeta,
il mediatore del sacro, lo storico che vuole sempre sapere come andrà
finire, il filologo erudito che legge il nostro tempo attraverso altri
tempi, il critico della cultura, l’ardito superatore del nichilismo, l’odiatore
della morte, l’amante della vita: tutto ciò ha perso ogni capacità
creativa, e di creativo gli restano ormai solo le ingovernabili sinapsi
degli scienziati.Di fronte a questo tempo passato, l’assurdità della
vita trova una risposta capace di senso-di quel senso che è l’assurdità
e l’indecifrabilità stessa della vita- solo nella mente capace di
amare di questi esempi solo il loro essere passati, e di porsi rispetto
al proprio tempo come l’inattuale-il libero creatore di sè stesso.
Seguendo questa rotta che liberamente abbiamo sviluppato
dialogando con Celan lasceremo parlare, finalmente, Pavese e Bernhard,
come ci eravamo ripromessi.
(CONTINUA >>>)
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