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A. D. SERTILLANGES, O. P.

Membro dell’istituto di Francia

 

L'ORATORE CRISTIANO

TRATTATO DI PREDICAZIONE

PEEFAZIONE DEL kev.mo P. GILLET

MAEST&O OESBBALB DELL'O'BDINB Dia TB. BBliOIOATOSI

TRADUZIONE DAL FKANCESE

del P. G; S. NIVOLI, O. P.

 

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TORINO __ SOOIETÀEDITEIOE IK TÈ E NAZIONALE

Corso Regina Margherita, 176

Ìonno, via Garilaldi, 20. Wlano, piazza Duomo, 16. Genova, via Petrarca, 22-24 r. Parma^ via al Duomo, 14-22. Homa, via Due Macelli, 62-54 Catania,, vi» Vittorio Emannele, 145-149

L'Orateur Chrétien del Padre A. D. sebtillàkges, O. P. è edito da La Vie Spiritnelle « Les éditions du ceri », Juvisy.

Proprietà letteraria della traduzione riservata alla Società JSditrice Iiiternasionàle di Torino

Torino, 1932. — Tip. della Società Editrice Internazionale (M. E. 7119)

È un compito formidabile quello di essere il banditore della parola di Cristo: Hic venit in testimonmm, ut testimomum perhiberet de lumine. Benderò testimonianza alla luce! Non erat ille lux... Ma non siamo noi stessi la luce. Bisognerebbe che la contenessimo in noi. Ora, appena che l'apostolo del Verbo, il predicatore considera se stesso con sincerità, è colto dal timore e dall'ansia d'interporre, tra il raggio di luce divina e le anime che deve illuminare, lo schermo della propria debolezza, delle proprie impotenze, di tutte le oscurità delle quali l'uomo peccatore è impastato, o, quello che è •forse peggio, lo schermo delle proprie qualità apparenti, troppo umane, di un falso lustro che, come un fallace specchio, distoglie le anime dal vero sole.

Egli sa, anzi deve sapere, di non essere che un servo inutile, uno strumento, di cui Dio non ha bisogno per conquistare i suoi eletti. E tuttavia sa anche che egli è stato eletto per questa missione sublime di essere il cooperatore di Dio: infatti il disegno di Dio, che si riassume in Cristo e si compie con l'Incarnazione del Verbo, implica, ne' suoi prolungamenti, la salute dell'uomo per mezzo dell'uomo. La Chiesa è l'Incarnazione continuata; e la parola increata, umanizzata già nella divina Umanità di Gesù, deve a noi pervenire ancora portata su labbra umane. Ciò e nell'ordine naturale delle cose — nello stesso modo che la grazia, normalmente, è anch'essa trasfusa in noi per mezzo di segni e di parole formate e pronunziate da uomini, e da uomini come noi. È- uno scandalo per alcuni, che non hanno compreso il mistero — mistero di fede,

degli abbassamenti del Verbo: Verbum caro factum est, la Parola si fece carne. Ma per il missionario — l'inviatoincaricato di -portare questa parola a' suoi fratelli è un'angoscia:

perché egli sente di essere uno strumento responsabile, responsabile perché libero, non uno strumento inerte, ma un ministro. E

•dipende da lui il servirlo o il non servirlo, secondo che nelle sue

. mani egli si mostrerà docile o ribelle. Oh! Dio non ha bisogno che egli sia un grande oratore, che egli sappia soggiogare le folle: :

questo, lo seppero fare molti oratori, che non erano punto dei-'-' buoni pastori. E un Curato d'Ara, balbettando: « Figlioli miei, bisogna ben amare il buon Dio », apriva i cuori alla grazia divina ben più di molti celebri -predicatori. Ma ciò che Dio domanda da colui che egli ha scelto, è la sua buona volontà attiva. Bisogna sempre ritornare lì; la quantità dei doni importa poco: che cosa . hai, o uomo, che tu non abbi ricevuto? cinque talenti? due talenti? ._ ciò non dipende da noi. Già che conta è lo sforzo di mettere in valore, lo sforzo di umile collaborazione; ciò che importa è che, quando non hai ricevuto che un minimo, tu non lasci arrugginire questo modesto tesoro, ma lo faccia fruttificare. I risultati, intendiamo quelli che hanno valore, non necessariamente quelli che appariscono agli sguardi degli uomini, ma quelli che il Padre vede

. nel segreto, saranno in proporzione di questa docilità a fare corrispondere il lavoro e l'esercizio ai doni della grazia divina, in modo da non opporre mai il minimo ostacolo di una colpevole negligenza agl'impulsi infinitamente delicati dello Spirito.

Da ciò si vede quello che vi può essere di comune, e quello che vi è d'immensamente differente, tra la formazione dell'oratore profano e quella dell'oratore cristiano. Senza dubbio la parola

i pubblica ha le sue esigenze comuni; senza dubbio le regole generali della composizione, dell'elocuzione, dell'azione, valgono per la cattedra come per la tribuna o per il foro; ma il fine che si propone il predicatore è tutt'altro che quello dell'uomo politico o dell'avvocato. Infatti quello che per lui si tratta di far nascere nell'anima dell'uditore, non è la persuasione, ma la fede: fides ex auditu. E siccome il fine è soprannaturale, così la preparazione deve mettere in opera non solo le virtù acquisite, intellettuali o morali, ma tutto, l'organismo sovreminente delle virtù infuse e dei doni. Il Padre Sertillanges lo ha magnificamente enunziato nelle prime

righe di questo libro: «Inaugurare 'un corso di eloquenza, religiosa con un capitolo intitolato: La Parola di Dio, è affermare fin dalle prime mosse che non si tratta di nulla di umano in quanto al principale; che lo scopo è superiore ai messi e superiore alle 'mire ordinarie dei nostri discorsi d'uomini. Si tratta sul serio di una parola di Dio ».

Tuttavia quest'opera non è un semplice trattato spirituale, e neppure uno studio di principii che sdegni di scendere dalle altezze per guidare l'allievo per mano tra le mille difficoltà pratiche che egli incontra sopra i suoi 'passi. No, tutto viene a lui insegnato in particolare, cominciando dal meccanismo della buona respirazione e dal governo della voce, fino alla disciplina delle -forze intime, anzi fino alla elaborazione totale e all'ultimo atto del discorso vivo.. In questi capitoli così pieni di succo, così ricchi di vedute originali, di osservazioni penetranti che trattengono a lungo la riflessione, si rileva il erutto di studi assidui, di osservazioni attente e di una esperienza incomparabile.

Ma altri diranno i meriti tecnici di queste lezioni. In quanto a noi, siamo felici e orgogliosi di lodare prima di tutto lo spirito che le vivifica. Infatti è questa non solo l'opera di uno che sa parlare in pubblico, di un artista che conosce fin ne' suoi minimi particolari le ricchezze di questo maraviglioso strumento che è la voce umana, di un maestro di eloquenza a cui sono familiari tutte le condizioni del ben dire... S~o, l'autore di queste pagine . ha saputo mettere in pratica il consiglio fondamentale che egli da al suo discepolo in predicazione: «Tenersi perpetuamente davanti agli occhi questa nozione di un compito spirituale, sacro, per. opposizione a un compito d'uomo ».

Un grande scultore ci ha dato recentemente una statua di S. Domenico, intensamente espressiva di questa funzione sovrumana (1)-. Il Patriarca dei Predicatori tiene in mano il Vangelo secondo S. Matteo (quello che egli preferiva), che con un gesto di una semplicità e di una dignità ammirabile presenta aperto al mondo. Ma il suo sguardo, rivolto « verso l'intimo », non si abbassa punto alle cose della terra. Sembra che segua su un'altra sfera le verità che annunzio. Contemplata aliis tradere... È la regola

(i) hbnbi chablibb.

(Poro, che a rigore può tenere luogo di tutte le altre e che nessuna potrebbe sostituire. Si vede- che essa si applica a tutte le pagine di questo volume. Possa il lettore comprendere, nello stesso tempo che l'insegnamento, la lesione dell'esempio. GÌ auguriamo che questo libro vada nelle mani di tutti quelli che, per vocazione e per consacrazione, sono gli araldi della Buona 'Novella. Si rivolgano essi al popolo o ai grandi di questo mondo, ai civili o ai primitivi, essi vi troveranno il loro profitto, se sanno leggerlo come fu scritto: « Un corso di sacra eloquenza, si tratti del professore o dell'uditore, dev'essere da entrambi le parti un'opera di spirito di fede ».

New-York, .10 gennaio 1931.

M..S, gillet, O. P.

Maestro Cenerate dell'Ordine dei Frati Predicatori.

]STon dovrei essere predicatore, per osar parlare della predicazione. Io mi sento coperto di confusione, al momento di dire a confratelli: Parlate così. Mi viene voglia di gridar loro:

Perdonatemi! dimenticatemi! soprattutto, guardatevi dal fare come me; infatti soltanto adesso, che è troppo tardi, io so come bisognerebbe fare.

Ma se è troppo tardi per colui che così parla, per colui che ha dimenticato d'istruire se stesso prima d'istruire gli altri, che importa? È ancora tempo per voi, o giovani, e perciò questo lavoro può non essere vano.

Sotto un altro aspetto resto imbarazzato, quando penso a un'opera come questa. A che cosa risolvermi? Bidire quello che altri hanno detto e detto benissimo? ~Son è cosa fastidiosa? Oppure, dire per conto mio, brevemente, quello che credo di poter aggiungere di mia testa? Ma questo contributo eventuale è diffuso dovunque: come produrlo senza proporre e discutere di nuovo i problemi? A ogni modo l'opera così prodotta formerà un libro di più, e che non dispenserà affatto dagli altri. Se ciascuno avesse fatto altrettanto, non un volume occorrerebbe al principiante per istruirsi, ma una biblioteca; come ci si raccapezzerebbe?

Allora, una delle due. O non si apporta niente: in tal caso tanto vale tacere. O si spera di apportare qualche elemento utile, e ci si trova nel caso di dire a se stesso: Bicominciamo,

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Ma ognun cucina a modo suo; vi sono famiglie di spiriti, e ciascun autore si rivolge alla sua; offrendo a questa famiglia spirituale, d'accordo coi proprii antecessori, un sommario di ciò che essa vuoi sapere, si fa opera pratica. Più tardi, cambiati i punti di vista o i bisogni, un altro di nuovo ricomincerà.

Un ironista disse: « Non bisogna saccheggiare i proprii predecessori, bisogna assassinarli '>: lungi da me una tale tracotanza! Parecchi di quelli che parlarono della predicazione hanno l'immortalità assicurata, mentre noi passiamo. Ma le loro ricchezze ci appartengono; saccheggiarli, più che un diritto, è un dovere. Si troveranno qui le loro massime, e con esse dei precetti, annotazioni, suggerimenti, esempi tolti da altre discipline: prova che l'arte è una, e che nel tracciar regole in .una delle sue branche, siamo sostenuti da tutte, sollevandosi tosto/ un concerto di voci diverse e unanimi per dire: È cosi.

I/e Saulohow, 15 agosto 1930.

;LIBEO I.

i ,1'11,:'

LA PAROLA DI DIO IN SE STESSA

La sua grandezza. — La sua efficacia. Le sue fonti. — I suoi appoggi in noi.

CAPITOLO I.

TÉa Parola di Dio»

I. — Che cosa è la Parola di Dio.

Inaugurare un corso di eloquenza religiosa con un capitolo intitolato: La Parola di Dio, è un affermare fin dalle prime mosse che non si tratta di niente di umano in quanto al principale; che lo scopo è superiore ai mezzi e superiore alle mire ordinarie dei nostri discorsi d'uomini. Si tratta sul serio di una parola di Dio.

La Parola di Dio, nel senso più elevato, è il Verbo. In principio era il Verbo — cioè la Parola — e il Verbo era pr-esso Dio, e il Verbo era Dio.

In un senso derivato, si potrebbe invece estendere indefinitamente il significato di questo termine, e dire che ogni parola vera e salutare è una parola di Dio, secondo che essa esprime, per il giro delle cose create, il pensiero creatore. Ma tale senso è troppo generale e non si riferisce che indirettamente al nostro oggetto. La parola umana non è ridotta a esprimere le cose create nel loro rapporto di verità con l'intelletto, e neppure, per mezzo della loro natura profonda, a svelare il loro Autore:

questo Autore si è mostrato; ha parlato di se stesso e dell'opera • sua. Vi è una Eivelazione. Per conseguenza, chiunque esprime

—lale verità rivelate, le chiarisce, le difende, induce a crederle e concorre così a farle agire, costui dice eccellentemente e, questa volta, propriamente una parola di Dio.

La parola di Dio, per noi sacerdoti, è una parola rivelata, sia direttamente, sia in ragione di connessioni più o meno prossime e di natura diversa. Noi ripetiamo quello che abbiamo udito; non vi aggiungiamo se non quello che può servire a manifestarla maggiormente, a preservarla dalle opposizioni del mondo, a guadagnarle i cuori, a sottometterle la vita, individuale e collettiva.

Per questo è necessaria una missione. Il primo missionario della parola rivelata è Gesù Cristo. Vi furono prima i profeti;

ma i profeti non erano che un'anticipazione di Cristo; annun-ziavano Cristo e già comunicavano una parte del suo messaggio, come un ambasciatore fa presentire in preliminari le intenzioni e le decisioni ultime del suo sovrano.

La Eivelazione è una, ed è la rivelazione di Cristo. Ogni verità è in Cristo, come ogni grazia, qualunque ne sia la forma e qualunque ne sia il tempo; perché dalla sua pienezza noi abbiamo ricevuto tutto, grazia sopra grazia. Onde la parola di Dio nel senso proprio è anzitutto il Vangelo col suo annesso anteriore : l'Antico Testamento. Ma il Vangelo ha altresì — a parte l'ispirazione — il suo annesso posteriore, che è l'insegnamento della Chiesa in tutti i suoi gradi, compresa la parola cristiana.

Infatti, se Cristo è il missionario per eccellenza, l'Inviato, l'Unto, l'Angelo della Buona Novella, egli agisce a sua volta per comunicazione. Come mio Padre Jia mandato me, così io mando voi. Egli disse se stesso la Luce del mondo; ma disse anche: Vos estis lux mundi; voi, miei discepoli, siete nel mio nome e collettivamente la luce del mondo.

Dico collettivamente, perché questo potere di rappresentazione è conferito primitivamente al gruppo organizzato dei Dodici e alla loro successione autentica, vale a dire alla Chiesa insegnante, alla Chiesa che è unita a Cristo per lo Spirito divino. In tal modo che ciascun uomo portatore delle verità rivelate e dei loro annessi utili si potrà dire portatore della parola di Dio appunto come membro autorevole della Chiesa, come Deputato della Chiesa.

Questa delegazione del ministero che appartiene alla Chiesa e a Cristo è l'effetto proprio dell'ordinazione. L'ordinazione fa di noi dei subalterni in materia di parola come in tutto il resto.

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Subalterni sacri, in quanto preposti, tra gli altri compiti sacra- ' mentali, al sacramento della parola.

Infatti nel senso più generale di questo termine, la parola ; cristiana è un sacramento. Lo si dimentica troppo, e ciò non rialza il suo prestigio presso i fedeli. Essa è nell'ordine di quegli atti che si chiamano sacramentali, riti che esprimono a modo loro il carattere sacramentale della Chiesa. È una pia cerimonia, che ha per scopo, come tutto il resto delle azioni religiose, di farci accedere a Dio per mezzo di Gesù Cristo, e, a questo titolo, si riannette naturalmente al rito centrale, che è la Messa, al sacramento dei sacramenti, che è l'Eucaristia.

La parola santa è un servizio dell'altare. Anche qui si tratta di transustanziazione; si tratta di cambiare le anime e di fare degli uomini i « mèmbri di Cristo ». Per questo, si prepara nei due casi un cibo celeste. La parola è un pane, come l'Eucaristia. È un memoriale e un'applicazione della Passione, come la Messa. Onde S. Paolo, predicatore, si vanta di non sapere altro che Gesù, e Gesù crocifisso, cioè sacrificato sulla croce e sui nostri altari.

La parola santa ha per prototipo la spiegazione del Vangelo, o l'omelia, che si fa nel corso della messa; essa prolunga quella parte della Messa che si chiama Istruzione, e che comprende la Profezia, l'Epistola, il Vangelo.

Tutto questo si riconosce in certe pratiche che accompagnano la parola sacra: il testo della predica in mancanza della lettura integrale del Vangelo; — il segno della croce al principio e l'amen alla, fine, come dopo le orazioni; — il crocifisso del pulpito, del palco o del tavolino da cui si predica; — il cero che si accende in certe chiese (come a Parigi) durante la predica;

— la cotta, che è una veste di altare; — il momento stesso in cui sovente ai predica, non fosse altro che per fare un fervorino o un'omelia, vale a dire durante la Messa, come se la parola facesse parte integrante del rito, come se Gesù, prima di rinnovare la sua incarnazione sopra l'altare e nei cuori, attendesse che il suo ministro abbia preparato la sua venuta e disposto le anime.

Anche in altri momenti, e perfino fuori della chiesa, tutto questo resta sottinteso, qualunque sia il soggetto che si tratta, perché il sacerdote, uomo di Dio, fa sempre la propria parte. Quand'anche sembri che faccia della scienza, della filosofia, della storia, della sociologia, dal momento che parla come inviato, nel nome della Chiesa, egli non è meno l'uomo di Gesù

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Cristo, e di Gesù Cristo crocifisso, vale a dire salvatore. Egli ha una missione; è una voce (vose clamantis), e tutta la sua attività verbale è retta da queste parole della II Epistola ai Corinzi (V, 18): Egli ci affidò il ministero della riconciliazione... pose sulle nostre labbra la parola della riconciliazione. Noi facciamo dunque le veci di ambasciatori di Cristo, come se Dio stesso vi esortasse per messo nostro.

Ecco veramente la « Parola di Dio ». E per questa ragione il predicatore, come tale, partecipa a ciò che disse il Salvatore:

Chi ascolta voi, ascolta me; chi disprezzo voi,, dispreiza me. San Paolo ne fa l'applicazione formale concludendo: Colui che disprezzo {la parola dell'apostolo} non disprezzo un uomo, ma Dio stesso (I Ihess., IV, 8).

~Soi sostituiamo il Cristo predicatore, il Cristo del Discorso del Monte e delle parabole. Dio scelse, tra i tempi storici, l'ora del suo Inviato. « Colui che doveva venire » venne quando bisognava per il bene generale dell'opera. Ma quest'opera avrebbe potuto essere o più prossima o più remota. Se avesse coinciso con la nostra, è lui che parlerebbe e maraviglierebbe il mondo. Dio credette meglio di farlo venire più presto: allora siamo noi che umilmente lo sostituiamo, lo risuscitiamo, nel nostro cuore, prima per mezzo della fede e dell'amore, poi per mezzo della nostra parola. Noi siamo il Cristo prolungato, il Cristo dei nostri contemporanei, il Cristo risorto e che non muore più, in grazia della perpetuità della Chiesa e del ministero, come i profeti erano il Cristo anticipato. Per mezzo degli uni e per mezzo degli altri, Cristo si estende a tutte le età e si propone a tutti gli uomini. È come un'ondata di luce e di grazia che scorre per trascinarci tutti. Di modo che l'umile predicatore cattolico si deve sentire sospinto addietro dalla Chiesa universale, come un'onda da tutto il mare.

Ben inteso che qui si tratta, sempre, del predicatore come tale, cioè parlante nel nome del suo potere, nei limiti del suo potere e conforme al suo potere, cioè, anzitutto, conforme alla verità. L'uomo che non dice la verità non può dire una parola di Dio, egli è uscito dalla corrente che è tenuto a trasmettere. L'uomo che parla solo nel suo proprio nome, non parla neppure una parola di Dio, come il Lacordaire che legge il suo discorso accademico o il P. Scbeil che narra i suoi scavi di Suga. Si tratta del messaggio e del messaggero come portatore del messaggio; non si tratta dell'uomo, e meno ancora de' suoi errori o delle sue deviazioni.

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Tal è la parola di Dio.

Descrivendola così, potrebbe sembrare che, sotto pretesto d'introdiu'vici, noi usciamo dall'argomento che ei siamo proposto, e che versiamo nella pura mistica. Ma sarebbe un'illusione. Noi vogliamo dare le regole della parola santa: è possibile dar regole a ciò che non si definisce'? È possibile dar regole indipendenti dalla definizione? Tutto quello che dovremo dire dipende dalla natura del compito del quale vogliamo guidare l'esercizio, e se qualche cosa s'impone a noi, è appunto quello di tenerci perpetuamente sotto gli occhi questa definizione di un compito spirituale, sacro, per opposizione a un compito d'uomo.

Certamente vi sono regole di eloquenza in generale; ma ciò che è generale, sotto pretesto di servire a tutti, non serve infine a nessuno. Le generalità non sono utili se non quando sono applicate, e non si possono applicare se non in armonia con quello a cui si. applicano. I dati matematici applicati alla costruzione di un ponte devono tener conto della resistenza dei materiali, del loro peso, del coefficiente di dilatazione, della natura del terreno, ecc. Parimenti in fatto di eloquenza. L'eloquenza del foro, l'eloquenza parlamentare, l'eloquenza militare, l'eloquenza religiosa hanno leggi diverse. Ne hanno delle comuni, ma che si applicano differentemente, ed è la natura specifica di queste diverse discipline che determina quali regole devono essere mantenute, quali eliminate, e come tutte devono essere adoperate in vista di un fine speciale.

Ciò è vero in tutti i particolari. Noi dobbiamo sempre ri-.cordare ciò che siamo, lo scopo che ci proponiamo, il carattere della parola che annunziamo. Senza ciò nessuna regola adottata o applicata rivestirà essa stessa il suo carattere, ne darà a giudicare del suo valore, ne farà sentire il suo peso.

Supponiamo che si tratti di pronunzia. Ogni professore ti dirà di pronunziare distintamente, posatamente, correttamente, ecc.; ma le ragioni non sono da per tutto le stesse, e il peso del precetto se ne risente infinitamente. Che in un tribunale le ultime file della sala non intendano, a cagione di un difetto di pronunzia dell'oratore, è noioso; ma se presso la pila dell'acqua santa in chiesa, un'anima, spinta da una grazia, è venuta . a cercare una grazia supplementare, una grazia di conversione forse, e la tua cattiva pronunzia gliela rifiuta, vedi che differenza! Tanto più ciò avviene delle regole di un ordine più elevato, più spirituali.

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Tutto è sacro nella parola sacra, tutto ha una portata sacra, e bisogna che si sappia ; bisogna che a ciò si pensi incessantemente. È il sostegno del lavoro; è la sua ispirazione; è la sua salvaguardia, ed è la garanzia stessa della sua bellezza. Se lo dimentichi, potrai ottenere dei valori parziali, delle bellezze isolate; ma queste bellezze smarrite e come estranee non faranno sì che la parola di Dio ubbidisca alla sua estetica propria, e il bello integrale sarà dunque frustrato.

Giulio Lemaìtre enumerava un giorno gli errori di questa specie che egli aveva creduto di notare nei predicatori, e additava il tono del tribuno, il fare teatrale, la composizione da artista, lo stile da adunanza pubblica, ecc. E ancora non parlava che della forma. Che sarebbe di una parola senza fedeltà dottrinale, senza carità, senza umiltà, senza zelo, di una parola leggera, capricciosa, comica, o stizzosa! Tutto ciò è deforme;

e l'armonia, che esige un saggio adattamento, non è soddisfatta più che la stessa edificazione.

Ecco perché — mi si permetterà d'inserire qui questa osservazione che io sottopongo al lettore dopo averla rivolta a me stesso — un corso di sacra eloquenza dev'essere dalle due parti, si tratti del professore o dell'uditore, un'opera di spirito di fede.

II. — La dignità e l'efficacia della Parola di Dio.

Avendo definito la Parola di Dio, abbiamo indicato abbastanza la sua grandezza.

8. Caterina da Siena chiama il sacro ministero « l'amministrazione del Sole »; ed è così veramente. Se il ministero della verità per mezzo della scienza gode un tale prestigio, già è perché Dio è dietro alla scienza. Al di là di ogni verità espressa, si percepisce il mistero; al di là di una verità, la Verità.

La parola, qualunque ne sia l'oggetto, non deriva il suo lustro da un'altra causa. Vi è qui senza dubbio un fatto di sociabilità, l'interesse che noi prendiamo dell'uomo, l'incanto della comunione degli spiriti; ma la ragione fondamentale è più alta: si attende, e nei migliori casi si gusta come l'attrattiva di una rivelazione, di una comunicazione di un mondo superiore. Conversatio nostra in caelis est; la nostra conversazione, il nostro commercio è sempre in ciclo, quando

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il vero ci unisce alla Verità prima, al « Verbo che porta tutti gli spiriti ».

; A più forte ragione la parola cristiana è una dignità, poiché

: contiene i misteri propriamente detti, esprime la rivelazione

; nel senso proprio, apporta notizie dei cicli. Novissime, diebus istis, locutus est Deus; ai giorni nostri, di nuovo, Iddio parla per mezzo de' suoi figliuoli adottivi, com'egli parlò per mezzo del loro Primogenito divino. Eacconta i suoi segreti e li rac-

;; conta per noi.

Gli oratori più sublimi sono quei che furono in un certo momento l'organo di tutto un popolo, la voce stessa della patria, come Demostene che pronunzia le Filippiche, Cicerone

. nel momento delle Catilinarie, Mirabeau alla Costituente,

, O' Connel in Irlanda o Pitt in Inghilterra. Ora l'oratore cristiano, agli occhi dello spirito di fede, è ciò in ogni tempo, e in un modo molto più sublime; perché egli rappresenta la patria eterna, la Chiesa di tutti i mondi e il suo Capo divino.

Con ciò, egli riveste un'autorità che la sua meschina persona non può diminuire. Egli è un compito, una voce, e quindi, . con le restrizioni indicate, gode dell'autorità del Dio vero e veridico, del Dio insegnante, del Dio legislatore, del Dio che comanda. La corrente che passa attraverso a lui è a un tempo illuminatrice e motrice, alla sola condizione che la

[!. canalizzazione sia corretta. Nessun bisogno di genio; basta la fedeltà. È vero che la fedeltà suppone lo spiegamento del genio per chi ne ha, o del talento, o del sapere, o dello zelo. Ma

; tutto ciò, per quanto sia importante, non fa altro che allargare e moltipllcare il fatto iniziale, che è l'affidamento di un mandato divino a un piccolo uomo, l'esercizio di un'autorità . che domanda e ottiene il silenzio come un diritto del cielo,

f, che si esprime nel nome del cielo, che, nella proporzione che : l'uomo esercita veramente il suo compito, fa di lui un oracolo

.' e gli permette di rivendicare un impero sopra i cuori.

ISou vi è forse qualcosa di commovente nel fatto di un'assemblea che si volge a un uomo per ricevere da lui, nel nome del Signore, una parola di vita? E se si prende la cosa nell'altro senso, quale impressione, fa udire la propria voce che riempie una chiesa, che aleggia sopra le teste, entra nei cuori per portarvi i pensieri divini! Quelli che ciò non sentono sono assai incoscienti! Vi è di che coprire di confusione l'oratore e pervaderlo del sentimento della sua responsabilità davanti a una tale confidenza de' suoi fratelli e del suo Dio.

2 — stt.tìttt.t a wira T.'fwfifnua »»Snf^H

-18-

Ciò si verifica, dico io, chiunque sia l'uomo; ma si verifica pure qualunque sia l'assemblea davanti alla quale egli parla, per quanto sia superiore umanamente o tale pretenda di essere. Tutti sono uguali dinanzi a Dio: tutti sono uguali dinanzi alla parola di Dio. Ai piedi della cattedra, come alla sacra Mensa, i gradi si uguagliano, e quand'anche ciò fosse davanti a « un parterre di rè », come a Erfurt, si direbbe nondimeno: fratelli miei, o figliuoli miei, o cristiani, secondo l'età e le circostanze. 8. Giovanni Crisostomo non aveva soggezione davanti a Eu-dossia, ne S. Ambrogio davanti a Teodosio. Bossuet usava verso Luigi XIV forme delicate; ma diceva nondimeno terribili verità al rè sole; faceva anche di più Bourdaloue; essi si sentivano nel loro diritto, e questo diritto era riconosciuto.

Che se si parla del contenuto della parola cristiana, l'impressione di grandezza si conferma. La parola di Dio non significa solo la parola dalla parte di Dio; ma altresì intorno a Dio. Del resto, i due sensi si ricongiungono. Dio parla; ma Dio, finalmente, non può parlare che da Dio. Di che parlerà Egli? Una cosa sola conta per Lui, perché una sola cosa conta in realtà: Lui stesso, sia personalmente, sia nelle sue espansioni, sia nella sua storia, della quale Egli fa la nostra. Nell'intimo, Dio dice il suo Verbo; fuori, dice l'opera del suo amore.

È una strana e magnifica fortuna quella dell'oratore cristiano! Egli non ha da temere, come l'avvocato, di vedersi ridotto a contese di muro divisorio, o, come l'oratore parlamentare, a volgari interpellanze; lui non ha da dire che grandi cose. Omnia magna quae dicimus, dice S. Agostino (1). La « grande causa » e la « grande seduta » sono rare; per noi sono di ogni tempo. L'assemblea è la Messa, o una cerimonia liturgica che ne dipende: un dramma eterno. La causa è quella del cielo, quella delle anime, in quanto cittadine del cielo, e noi peroriamo questa causa.

Il più sublime dei discorsi profani patisce sempre dell'esiguità del suo soggetto; si tratta di poco, per un tempo, e dopo tutto non si ordisce che morte. Viceversa, il più semplice dei discorsi sacri grandeggia di tutta l'immensità, dell'universalità e dell'eternità del suo oggetto. Il cielo e la terra passeranno, ma l'oggetto di questa parola non passerà.

E a quali sentimenti si rivolge l'uomo di Dio? che cosa

(1) De doctrina christiana, IV, 35.

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cerca egli di muovere nei suoi uditori? Non è l'attrattiva di un interesse immediato; non una curiosità passeggera, o una simpatia umana per quanto nobile e larga essa sia; ma è quello che vi è di più profondo e permanente: il senso dell'infinito, l'istinto del bene senza limitazione d'influsso o di dominio. Si tratta della coscienza e della voce segreta che la ispira; si tratta delle aspirazioni incoercibili cui tutto ciò che è temporale non fa che trastullare, o prefigurare, o servire. La parola di Dio penetra in queste profondità, lì essa opera; infatti la parola di Dio è viva ed efficace, e più tagliente d'una spada a due tagli, e penetrante fino a dividere l'anima e lo spirito, e le giunture e le midolle, e scrutatrice dei sentimenti e dei pensieri dei cuori (Hebr., IV, 12).

E naturalmente, i beni che il predicatore si propone nel-l'aggredire così l'anima fino nelle sue profondità, nel fare appello a' suoi sentimenti più elevati e più segreti, sono i fini parimenti più alti e più decisivi. Si tratta della nostra salute. E, anche per Dio, non si tratta forse del suo tutto, se si considera non la sua vita in lui stesso, la quale non dipende da nulla, ma la vita movimentata e come rischiosa che Egli si è data nelle creature?

Si tratta di formare dei cristiani, dei santi se è possibile, degli eletti per l'avvenire, dei Cristi per partecipazione, dei Cristi che ricevono, come il predicatore è un Cristo che da. Si tratta di popolare il regno terrestre di Dio, e poi il Regno del cielo; si tratta di secondare lo sforzo redentore e di aiutarlo a buon fine. Dei adiutores, degli aiutanti di Dio, ecco quello che noi siamo, e in uno stesso spirito, e secondo le stesse viste. È troppo bello! Certuni dissero: È assurdamente bello; « la predicazione è un genere falso », che tratta solo di chimere. Ma per lo spirito di fede, non è forse vero che noi portiamo veramente una parola di vita, un segreto d'immortalità, un tesoro di gioia per ogni dolore del mondo, un rimedio per ogni malattia, un balsamo per ogni ferita, una calma per tutti i terrori, di che colmare tutti i desideri, purché solamente ci si ascolti e lo spirito che è in ogni uomo non sia impedito di dire allo Spirito che anima la nostra parola: Eccomi?

Faccia Dio che noi sappiamo rendere testimonianza, e la salute dei nostri contemporanei di buona volontà è venuta, come la salute di tutta la terra è venuta quando apparve il Cristo col suo messaggio. Faccia Dio che noi sappiamo prendere a corpo a corpo la tentazione del mondo, ed essa, per

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mezzo di Cristo, nostro mandante, è vinta. Non è forse sfolgorante il parlare che ci si pone sulle labbra, e, con l'appoggio in addietro di tutti i fatti che lo autorizzano, non ha forse di che infiammare come d'incantare? « Fratello, fratello, ecco la Via, la Verità e la Vita, ecco la salute; ecco l'indicazione; ecco la risposta. Non vi è più oscurità, ecco la luce;

non vi è più dubbio, ecco la certezza; non vi è più esitazione, ecco la strada; non vi è più sofferenza, vi è solo la prova; non vi è più lavoro faticoso, ma un glorioso servizio; non vi è più inganno, ma l'attesa; non vi è più monotonia affaticante per il cuore annoiato delle sue inezie, vi è la speranza; non vi è più separazione, ma un pio arrivederci. Fratello, fratello, non vi è più morte, ma la vita, la comune, l'immortale vita che il mio messaggio ti annunzia ». Quando sapremo noi proclamare tutto questo? Il Vangelo lo proclama; le Epistole lo proclamano. E noi?... Per lo meno non avremo noi il sentimento di questa grandezza?

È troppo bello, dicevo: ci si domanda se ciò può giungere a buon fine. Ebbene, ad onta della facilità che si avrebbe a fare qui del pessimismo, anzi dell'ironia, guardando in larghezza e dall'alto le cose, si è davvero costretti a dire: ciò riesce! È la predicazione evangelica che cambiò il mondo; ora quello che ha cambiato una volta, la predicazione evangelica non deve forse cambiarlo perpetuamente? Il mondo ha sempre bisogno di essere cambiato; perciò è cambiato incessantemente, poiché, quantunque sia per sé « posto nella malizia », nondimeno si fa di esso una santa società: la santa Chiesa.

È la predicazione che creò la Chiesa; è la predicazione che nella Chiesa compie o facilita tutto quello che vi si fa di grande, soprattutto le grandi anime. Senza la parola apostolica, non vi sarebbero santi, mentre ve ne sono e molti; la maggior parte son nascosti; ma il giudizio supremo li rivelerà, e quelli che sono sopra gli altari, attestano già sufficientemente l'efficacia del santo ministero, in cui la parola di Dio fa una parte capitale.

Vi sono uomini di Dio che hanno capovolto paesi interi. S. Vincenzo Perreri scosse l'Europa. S. Domenico aveva fatto anche più di lui. Son note le mara vigile compiute da un Francesco Saverio. Vi fu prima S. Paolo. Basta un piccolo missionario per cambiare una parrocchia, una città, a volte per molto tempo, e un buon parroco, con prediche modeste, conserva la sua popolazione come in un reticolato che gl'influssi perversi non arrivano facilmente a spezzare.

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Bisogna ben dire che la potenza della cattedra ai giorni nostri si sia grandemente affievolita. Molte ne sono le cause:

la fede è meno viva; l'indipendenza è più sospettosa; la vita si è più complicata, si è laicizzata; il tempio, dove in altri tempi si concentrava tutta la vita sociale, si trova in concorrenza con molti edifizi profani, e la liturgia con molti spettacoli; la voce del predicatore è coperta da molte voci. Non importa: l'ufficio da compiere è immenso, e si compie più che non si crede. Ciò dipende dagli uomini. « Un usignolo basta ad animare tutto un parco addormentato » (1). Oggi si crede meno all'istituzione ecclesiastica, ma si crede più all'uomo: spetterebbe all'uomo di far ritornare all'istituzione.

E poi, vi sono le anime individuali. « Più di un'anima registra in silenzio quello che la folla non intende» (2).

Quelle stesse che si credono recalcitranti e che lo proclamano rumorosamente sono più di una volta toccate nel punto sensibile e se ne ricorderanno: «Molti falsi sapienti, a sentirli, ridono ad alta voce, e pensano sommessamente » (3).

Nessuna parola umana ha tali effetti. Questi non si spiegano se non per il collegamento dei mezzi personali con una influenza più alta, per il fatto che il predicatore è accolto, come dice 8. Paolo, come un angelo di Dio, come un altro Cristo (Oalat., IV,.14), e quindi la sua parola, per il suo uditorio, non è la sua parola solamente, ma una parola per sé irresistibile, irrefragabile, decisiva, creatrice. È quello che dice ancora S. Paolo: Voi l'avete accettata (la divina parola) non come parola di uomini, ma, com'è veramente, parola di Dio, ed è essa ohe mostra la sua efficacia in voi che credete (I Thess., II, 13).

Ed è ben naturale che il predicatore cattolico, conscio di tanta grandezza nel compito che gli è assegnato e di tanta fecondità possibile, ne attenda qualche cosa per sé. È un immenso benefizio l'essere stato scelto; è non solo una gloria, ma una grazia; infatti Iddio, armandoci per gli altri, ci arma per noi stessi. Predicando, io predico a me stesso; preparandomi a istruire, io mi istruisco; servendo da rimorchiatore, io cammino. « Essendo il loro capo, bisogna che io li segua ». Il pastore segue la greggia. Però non sempre! Molte pecorelle ci darebbero

(1) giacomo dbs gaohoss, M. eie Buifon Sur su terrasses.

(2) viotos Hvoo, I/es Bai/mia et. lès Ombres.

(3) Ibid. '

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lezione. Ma infine vi è qui un vantaggio ammirabile. ISTormal-mente l'autosuggestione del bene è una specie di fatalità per l'apostolo; egli impressiona se stesso; è « ridotto », come un tale spiegava piacevolmente, a pensare quello che dice. È il suo benefizio. E non solo in un senso materiale, ma anche nello spirituale, si dice con verità: II fuoco guadagna consumando anzitutto la sua propria materia. .

Già Socrate, nel Gorgias, definiva la rettorica « l'arte di persuadere la giustizia non solo alla folla, ma a se stesso », e quando S. Paolo propone a Timoteo l'oggetto della sua predicazione, gli scrive: « Proponendo ai fratelli questi insegnamenti... tu salverai tè stesso e salverai quei che ti ascoltano (I Tim., IV, 6, 16). Finalmente si cita molto sovente la frase di Daniele (XII, 13) che, a benefizio del predicatore, esprime così magni-fiche speranze: Quelli che avranno insegnato la giustizia alla moltitudine brilleranno come le stelle, eternamente e sempre.

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capitolo II, jLe fonti della Parola di Dio.

I. — La Sacra Scrittm'a.

Se si vuoi lavorare in profondità, è importantissimo evitare la volgarità di una parola senza radici umane e soprannaturali, tenersi costantemente al contatto delle sorgenti. In ogni arte, il segreto della forza e della vera originalità è in questo ricorso permanente.

Beethoven inaugurò la sua terza maniera, la più profonda e la più personale, quando riprese la sua educazione musicale dalle fondamenta e si mise a studiare appassionatamente le composizioni gregoriane, il Palestrina, Bach, Haendel, mentre aveva già lavorato tanto e confessava tanti debiti. Tutti i maestri ne fecero altrettanto. Solo i fanfaroni e gli stolti si credono in grado di trarre tutto da se stessi. In questo caso, si trae da sé dell'ampollosità; anzi il poco che si da è il frutto di uno psittacismo incosciente. Ci si appaga dei luoghi comuni, credendo di averli inventati per averli acchiappati in aria senza rendersene conto. Non si è' qualcuno a questo prezzo. Una vocazione intellettuale e un compito apostolico, specialmente al nostro tempo, hanno altre esigenze.

La fonte per eccellenza della parola di Dio, è la S. Scrittura, e prima di tutto il Vangelo, poiché questo è l'oggetto essenziale e come il tutto della nostra predicazione. Oltre la Scrittura in se stessa, noi troviamo nella liturgia una ripresa e un uso della Scrittura che ce la rinnovano e l'arricchiscono al contatto dei misteri cristiani. Inoltre troviamo il commento, lo sviluppo ideologico, l'applicazione pratica della Scrittura e della liturgia nei Padri della Chiesa, suoi testimoni; — in tutti i grandi uomini che seguirono e che sono le nostre guide naturali formanti la tradizione che ci porta; — nella vita dei santi e nella storia della Chiesa, illustrazione dei pensieri e modello delle opere;

— nella natura, nell'arte, sua interprete; — finalmente nella

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nostra esperienza e generale e particolare, esperienza degli ambienti, degli uomini, dei fatti, e, finalmente, dell'uditorio al quale ci rivolgiamo.

Tutto ciò è, normalmente, presupposto alla nostra azione apostolica; sono i nostri appoggi al di fuori, in attesa di parlare dei nostri appoggi interni. È un argomento ampio, tanto che può apparire indefinito e quindi inaccessibile; ma ognuno ne prende quello che fa al caso suo e gli è dalla Provvidenza destinato. Esporre tutto il tesoro non è invitare chiunque a rapirlo tutto quanto.

***

La S. Scrittura, nostra prima fonte, è come il repertorio delle parole essenziali che noi abbiamo da pronunziare. Essa parla la nostra lingua, la lingua di Dio, la lingua della parola di Dio. Quello che noi potremo aggiungervi avrà il dovere di esserle omogeneo, come un buon pezzo di collegamento al pezzo principale; ciò dovrà formare uno stesso tutto, di uno stesso stile soprannaturale e d'una stessa tendenza, dello stesso tono divino.

Da ciò apparisce di quale importanza sia per noi l'averla familiare, quanto sia conveniente che i nostri discorsi vi si riferiscano, la citino, vi facciano continue allusioni, a condizione però che ciò resti naturale: ma perché ciò non sarebbe naturale, se l'Autore della Scrittura accompagna la Scrittura in noi e ci anima? Lo spirito di fede, pervadendoci intimamente dei misteri, può fare della Scrittura la nostra ricchezza propria, il linguaggio spontaneo del nostro pensiero religioso. Allora, come S. Bernardo, come S. Giovanni Crisostomo, come S. Agostino, noi avremmo un parlare smaltato di fiori biblici, impregnato del profumo biblico, senza che cessi di essere veramente nostro, e libero, e vivo, non avendo niente di quei musaici di testi come ne compongono certi oratori o certi autori, che sentono d'olio e un po' di rancido.

Precisando, ci si renderebbe conto di quello che ci offre d'incomparabile questa fonte, ed è 1° la materia principale del discorso, fatti o dottrina; 2° il suo vocabolario proprio; 3° la sua più ricca espressione figurata; 4° esempi di attuazione che costituiscono per noi il migliore dei modelli e il più efficace degli eccitamenti.

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È evidente che tutti i testi fondamentali in cui si esprime la nostra credenza, tutte le massime che reggono la vita, tutte le testimonianze dei sentimenti di Dio a nostro riguardo, tutti i suoi desideri e tutte le sue promesse si trovano nella Scrittura, come nella loro edizione originale, senza interposizione umana, col vigore, coll'energia e l'efficacia dello stato nascente. Anche se poi lo trovi dovunque, ciò non ti dispensa dal cercarlo alla sua stessa sorgente. Alla base del ghiacciaio, il torrente ha maggiore freschezza, la sua acqua è più pura. La dottrina che si vede nascere, che si riceve dalla bocca dei sacri personaggi, in circostanze che la illustrano e la commentano, prende una forza suggestiva che non avranno ripetizioni ulteriori. Queste formule fatidiche: Haec dicit Dominus, In ilio tempore dixit lesus, che sono il sottinteso di ogni predicazione, si guadagna a intenderle e a farle intendere, in vece di .sottintenderle; un effetto di seconda mano non vale l'effetto primitivo. Le parole della Scrittura sono delle autorità; quelle degli autori umani non sono che testimonianze. Quanto più ci si allontana dalle fonti, tanto più ci s'indebolisce; il senso profondo delle realtà si dissipa; la forza originale dei sentimenti si smussa. Il Panorama dei predicatori ha un bei darti tutti i testi, ma tè li da allo stato morto, come una preparazione anatomica: frequenta piuttosto la vita, quella miracolosa vita, che palpita nella Scrittura e può vivificare tutto al suo contatto.

Un predicatore che non si tiene continuamente al contatto della Bibbia, rassomiglia a un artista che trascura la natura, che lavora limitandosi all'imitazione dei musei, copiando fotografie, che dipinge e disegna di fantasia. Per l'essenziale del nostro apostolato, che ci viene dalla Eivelazione, quello che per noi corrisponde alla natura ispiratrice delle arti, è la parola rivelata, è la Bibbia. Lì è il « giardino chiuso », la « fonte suggellata » che si aprono alla meditazione e alla preghiera. 'Son fare delle Scritture il nostro libro abituale, non ruminare costantemente gli scritti profetici, i salmi, i libri sapienziali, i quattro Vangeli, gli Atti e le Epistole, è condannarsi a essere un predicatore debole — debole religiosamente, e anche letterariamente, come aggiungeremo ora. Nulla sostituisce questo;

nel bisogno — dico nel bisogno — ciò potrebbe sostituire ogni cosa.

Questo ben si vede nei maestri. Tutti i grandi oratori cristiani — e i più originali come gli altri — furon nutriti della Bibbia; i loro discorsi ne scaturiscono come il fusto dal ceppo; essi non

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ne sono mai lontani e a ogni istante vi si riferiscono, come il ramo, e sul ramo ciascuna gemma, domanda del succo. La gemma è originale, è di stagione; ma il ceppo è antico, è originale nel senso etimologico, come quello che da l'origine, il carattere autentico della vita, e per questo motivo esso deve sempre intervenire, sempre essere prossimo, quand'anche fosse lontano in apparenza, affinchè ci sia vita, e vita secondo la specie, che è per noi il soprannaturale rivelato, proprietà essenziale dei Libri santi.

Parlavo poc'anzi dei fatti, che, con la dottrina, formano la materia della predicazione apostolica. La religione non è fondata unicamente su idee, ma poggia su fatti. Gli apostoli sono dei testimoni. Per mezzo loro, siamo testimoni anche noi, è vero; perché vi è continuità da essi a noi, in grazia della Chiesa universale, in grazia dello Spirito, che è il grande « testimonio » e che rende testimonianza in noi per istituzione. Ma resta nondimeno che i fatti, oggetto della testimonianza, sono riferiti nelle Scritture, sono ivi inscritti dallo Spirito stesso che deve poi farne testimonianza e utilizzarli, e perciò è lì che bisogna cercarli.

La Chiesa, che ci presenta nella Scrittura il suo codice dottrinale e la sua carta pratica, vi ci annunzia inoltre una storia, la sua, che è quella di Dio ne' suoi rapporti con gli uomini. E sarebbe assai strano che anche l'uomo di Dio non avesse questa storia costantemente sotto il suo sguardo, pronto a spingersi in questa grande corrente di vita soprannaturale che attraversa il mondo, gli uomini che essa deve salvare.

La nostra religione ha delle radici giudaiche, e la storia d'Israele è ricca per noi di anticipazioni, di esempi, di prove di fatto, che permettono di nutrire i nostri discorsi di tutta una materia reale, preferibile a tante elucubrazioni.

~Soi sappiamo che tutta la storia giudaica è un simbolo;

ce lo dice S. Paolo: Omnia in figura contingebant illis. Ma queste parole si prendono spesso in un senso troppo ristretto: si pensa a tali simboli particolari, al capro emissario, all'agnello pasquale, ad Aman e Mardocheo, al serpente di bronzo, ecc. Ma c'è altro, ed è che tutta la parte storica dei sacri libri è una religione in , azione, un'occasione permanente di stabilire le nostre credenze, la nostra legge, la nostra concezione di tutta l'esistenza, individuale e collettiva. È un'impregnazione completa, mediante il pensiero religioso, dell'esperienza umana in tutta la sua ampiezza. Non reca maraviglia che, come hanno fatto i Padri

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e i migliori dei nostri oratori, se ne possano trarre dei suggerimenti, delle illustrazioni di una ricchezza e di una plasticità inesauribile. Bisogna saper farne tesoro; ma quando ciò si sa, se ne fa tutto quello che si vuole, perché l'essenziale vi è sempre presente e l'essenziale è appunto quello che è più atto a cambiare faccia. Il'essenza, incarnandosi, da luogo ali''individuo, che è la cosa originale per eccellenza.

Dopo ciò, vi è la storia evangelica, che non è più un'anticipazione, ma lo stesso nostro fondamento, in grazia dell'Incarnazione, e che non ci presenta più figure, ma le realtà di cui dobbiamo vivere.

La dottrina di Gesù non è tutto, e nemmeno la.,.sua legge;

è la sua persona, che ci avvince prima di tutto; è la sua vita e la sua morte, da cui la dottrina e la legge dipendono: Ego sum via, veritas et vita: Ego, io, è il principio di tutto. Onde i rapporti personali con Gesù sono per noi la sorgente essenziale di salute.

Ma non è forse un dire che i Vangeli e, di nuovo, tutta la Bibbia in quanto che essa è piena di Gesù annunziato o prolungato, dev'essere il vade mecum del predicatore? D o vrebb'essere quello del cristiano: sia almeno quello del suo dottore, che è incaricato di ricordare a tutti donde viene il cristiano, ciò .che egli è e verso che cosa egli cammina.

Durante la guerra, senza alcuna previa intesa, ci si mise da tutte le parti a rievocare tutta la storia della Francia. Clo-doveo ritornò il nostro contemporaneo, e S. Luigi, e Giovanna d'Arco, e i « grandi antenati ». Il pericolo ci ridestava al sentimento della nostra vita, e l'istinto ci avvertiva che la vita di un popolo è una, come l'anima sua, di modo che il ricorso alle origini e alle epoche centrali della sua storia è per questo popolo il più potente mezzo di vita ardente e di rigenerazione.

Anche noi, cristiani, sempre in guerra, sempre in crisi mortale, abbiamo come storia l'Incarnazione e tutte le fasi della sua applicazione alla vita universale; la nostra, anima comune è lo Spirito del Salvatore. Il rappresentante della vita cristiana presso il popolo non si può dispensare dall'essere incessantemente familiare con questi fatti, di averli costantemente in bocca, e per questo dall'essere un lettore insaziabile, un ruminante, oso dire, dei sacri testi.

Non occorre darsi pensiero delle ripetizioni» Gli uditori non si stancheranno mai. La persona di Gesù è vivamente

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interessante. E del resto, generalmente parlando, la potenza del fatto è così preponderante presso gli spiriti incarnati, gli esseri d'immaginazione e di sentimento ai quali si rivolge la parola, che ci si sarà sempre riconoscenti di sostituire le nostre storie divine a svolgimenti astratti.

Vedi quello che avviene il Venerdì santo. Alcuni, per evitare le ripetizioni, credono bene di presentare una tesi, in vece del racconto atteso della Passione. La disillusione dell'uditorio è certa. Tutti, anche i filosofi, se ve ne sono, vogliono Vedere svolgersi il dramma: la misteriosa cena, la discesa nel Getsemani, e Giuda, e Malco, e Caifa, e Filato, senza dimenticare la domestica e il gallo. Ci potrai innestare tutto quello che vuoi; ma prima il fatto.

Evidentemente, quel giorno è speciale, ma è un simbolo. Non solo per il Venerdì santo disse S. Paolo di non sapere che una cosa, Gesù, e Gesù crocifisso. Bisogna sempre ritornare lì, e per conseguenza pensarci sempre.

Sarebbe vano il dissimularsi che nel mondo l'impressione del Vangelo si dilegua; all'ignoranza dottrinale si aggiunge un'ignoranza o un oblio spaventoso dei fatti religiosi. A noi spetta di farli rivivere, e, a questo fine, di viverne.

Aggiungiamo quello che ogni lettore intelligente ha già capito da se stesso: a questo riguardo, i santi libri da sé soli non bastano; l'autorità che ce li commenta non la pretende parimenti a un compito esclusivo; abbiamo degli esegeti, i cui lavori offrono tesori di materia predicabile. Per portarne solo un esempio, apri il Vangelo di Nostro Signore Gesù Cristo del P. Lagrange, con la Sinopsi, e vi troverai quasi a ogni riga un suggerimento da trattare, o un embrione di svolgimento, o , d'indicazione di una prova, e il tutto da l'impressione di un'immensa ricchezza. Il gran lavoro di triturazione delle Scritture compiuto ai giorni nostri non può essere vano; il sacro testo ne è rischiarato; raccostato a una folla di nozioni e di fatti, diventa per noi più assimilabile, e per i nostri uditori che vi pensano per mezzo nostro, sarà più nutriente.

Dicevo che nella S. Scrittura, si trova, oltre la materia principale del discorso religioso, il suo vocabolario proprio. Con ciò intendo le espressioni talmente adeguate che non è possibile allontanarsene senza un'alterazione del carattere stesso dei pensieri e dei fatti religiosi; ma voglio anche dire una certa atmosfera verbale, un alito al quale il nostro lin-

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guaggio è invitato a rispondere per esprimere secondo il cielo i pensieri del cielo, per approssimare a Dio la parola di Dio.

Ciò non significa che non vi sia per noi alcuna libertà di' espressione; la spontaneità è indispensabile a ogni parola viva. Ma in ogni arte è richiesta l'unità di carattere. In pittura, il colore deve rispondere al disegno e tutt'e due al soggetto. Ora, perché le nostre espressioni religiose siano veramente consone ai temi che trattiamo, è necessario che il suono di voce dei profeti, il suono di voce degli apostoli, e più di tutto il suono di voce di Gesù Cristo echeggi incessantemente al nostro orecchio. Sono queste voci che espressero, per le prime, i pensieri e i sentimenti che dobbiamo trasmettere; noi dobbiamo far loro eco serbando la loro tonalità, e non compiacerci nella bizzarria di certi predicatori il cui stile laicizzante offende tutti e non solo le anime religiose, i quali sono soli a esserne fieri, abbastanza ingenui da non sentirne l'ironia, o, in ogni caso, l'ingiuria dei complimenti che loro se ne fanno.

Vi è un'eredità intellettuale; per l'assidua familiarità coi nostri antenati religiosi, noi ereditiamo della loro anima, pur conservando la nostra; una felice impregnazione biblica ci può comunicare nello stesso tempo, senza nuocere in alcun modo alla nostra originalità vera, l'unzione evangelica, l'energia e la forza di persuasione paolina e quella grandezza dello stile profetico la cui enfasi potrebbe essere un'insidia, ma che, regolata dal gusto, concorre alla nostra azione sollevando le anime al livello dei nostri oggetti divini.

Ho detto in terzo luogo che la Scrittura fornisce alla parola di Dio la sua espressione figurata più ricca. Se gli uomini di. Dio potessero ciò dimenticare, lo ricorderebbero loro gli scrittori profani, e segnatamente i poeti. Si è fatto un volume sulle pagine tolte da Victor Sugo alla Bibbia, e Alfredo de Vigny, Lamartine, e prima di loro Chateaubriand, Malherbe, Eonsard, ne eran nutriti. Si sa quello che ne trasse Bacine 'aeWAfhalie ed Ester (1).

Anche là dove questi autori non hanno attinto nulla di letterale, si sente che la Bibbia fu per essi una fonte d'ispirazione maravigliosa. Era la vita come in un secondo esemplare, già assimilata allo spirito e rivestita delle forme più potenti,

(1) I migliori scrittori e poe^i italiani non sono secondi ai francesi nel-l'ispirarsi alla S. Bibbia. N. d. T.

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più grandiose, più commoventi, più delicate e soprattutto più vere. Sì, questa verità dell'espressione e della pittura, questo realismo superiore è veramente il carattere più eccellente e più notevole della Bibbia nel suo insieme. La Bibbia si tiene vicinissima alla vita, perché si tiene vicinissima a Dio, e ne da sempre la formula più esatta, qualche volta in forme ma-gnifiche, come se si andasse a diporto tra le stelle, come se si passasse sotto tutti gli archi delle vie lattee; altre volte allo stato nudo, terribilmente nudo, e in quest'ultimo caso l'impressione non è meno viva.

Pascal si estasia davanti ai racconti della Passione così tragicamente semplici, così spogli, così estranei a ogni sensibilità apparente, a ogni collera e ogni invettiva riguardo ai carnefici. Pare che gli autori dicano: Ecco! noi non ci sviarne! non ci abbandoniamo a sentimenti profani! non turbiamo con grida tali avvenimenti! È Dio che agisce, ed egli agisce da Dio;

l'eternità pone gli avvenimenti senza mescolarsi nel loro tumulto: poniamoli con essa; dopo, noi entreremo nel tempo che se ne serve, e allora con S. Paolo, con S. Stefano e con tutti gli apostoli ardenti, esploderemo in commenti appassionati, in grida di ammirazione e di tenerezza. Qui, sotto l'immediato precipitare dei fatti sovrumani, non è punto il momento.

È questa una sublime lezione. Si possono trarre grandi effetti da questa semplicità provvisoria, e sempre ne deve restare qualcosa: il contatto del reale, che non bisogna soffocare sotto il commento. La Bibbia è il breviario del reale. Ed è questo realismo biblico che ci può meglio insegnare a dar corpo alla verità, ad animare tutto della sua vita propria, del suo calore nativo, a drammatizzare ciò che è drammatico, a eseguire prontamente tutti i movimenti dell'anima, passando dall'uno all'altro con quella prestezza, con quei vivi comportamenti dei quali lo stile profetico da l'esempio.

Vedi in Geremia, il più eloquente dei predicatori dell'antica . legge secondo S. Agostino, se non c'è tutto quello che occorre per riscaldarvi l'anima, comunicarle estensione, slancio, penetrazione, ardore, suggerirle quel realismo possente che trascina nel mondo divino tutta la creazione, quel colore che anima le linee del pensiero e le rende tutte vibranti, come le linee gotiche, e, ripeto, quella mobilità ammirabile che, simile a quella degli animali di Ezechiele, trasporta lo spirito ispirato, da un'estremità dell'orizzonte all'altra come un lampo.

8. Paolo, con meno enfasi oratoria, ha le stesse virtù for-

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matrici. Si riconoscono quelli che ne son nutriti. In quanto alla sostanza, essi hanno la midolla della dottrina e quella stretta intimità dei misteri di cui nessun autore, anche sacro, • da una tale impressione. Come forma, hanno i movimenti dell'anima più proprii dell'oratore cristiano.

~Son vi è dunque migliore scuola, e poiché non è neppure una scuola, ma un patrimonio di famiglia, che noi ci possiamo appropriare non solo senza vergogna, ma virtuosamente e con la convenienza superiore che ho detto, quanto saremmo stolti, e ingrati, e anche colpevoli se ce ne privassimo! Dobbiamo compenetrarcene, avere nello spirito un tesoro di espressioni bi-bliche, immagini bibliche, movimenti biblici, che poi avremo da adattare.

Ah! bisognerà adattarli; bisognerà assimilarseli liberamente, vitalmente e assimilarli all'argomento di cui si tratta. Guardati dal musaico, dalla figura di Arlecchino! Ma l'assimilazione si farà da se stessa, se abbiamo la vita in noi, e se con noi abbiamo lo Spirito che, dal canto suo, non si ripete, non imita servilmente, pronunzia sempre parole vive e vivificanti, tutte nuove della sua eternità, capace di anticipare l'avvenire nel momento in cui egli dice una parola attuale e in cui ricorda.

A Da ultimo, la Scrittura, oltre gli elementi dogmatici, storici e letterari che ci fornisce, ci offre esempi pratici senza pari.' Vi possiamo trovare modelli da imitare, e, ciò che è anche, più prezioso, riferendo visi, fare del sacro testo il nostro allenamento, un mezzo di esposizione dei nostri pensieri, come fecero i Padri nelle loro omelie e tanti altri dopo di essi.

Vi sono racconti, come quelli del Genesi, del libro di Euth, del libro di Tobia, di Oiuditta, di Ester, o quelli del Vangelo:

il cieco nato, il buon Samaritano, il pozzo di Giacobbe, la Maddalena, il figliuoi prodigo, il ricco malvagio, ecc. Si crede forse che la virtù di questi testi sia esaurita? Certo, a misura" che si ripetono, un po' più d'arte è necessaria per trame partito, almeno davanti ai delicati, ma la loro fecondità è eterna.

Vi sono pure i brani lirici. Il lirismo nell'eloquenza tiene un larghissimo posto, e a questo riguardo trovi i tuoi modelli nei salmi, nel cantico di Mosè (Deut., XXXIV), nel Cantico dei cantici, in Giobbe e nei profeti, principalmente in Isaia e in Geremia, e di preferenza, forse — non per un poeta, ma per un oratore — Geremia, perché, se lo stile è qui meno

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puro e il lirismo meno alato, in càmbio l'eloquenza è più continuata, e si rende più utile, perché è meno folgorante, meno vaticinante, meno trascendente di accento e di gesti.

Leggi i quindici primi capitoli di Geremia, segnatamente il secondo, e saprai che cosa è l'eloquenza religiosa. Vi aggiun— .gerei il capitolo XVI di Ezechiele, se non ci fosse oggi ragione di diffidare di una crudità così tragica. Nessuno ne può citare, i termini; ma come movimento, come lirismo realista e straziante, quale modello!

Nel Nuovo Testamento, il brano lirico per eccellenza e il. tema fondamentale della sacra eloquenza, è il Discorso del Monte. Questa è eloquenza reale, animata dalla poesia più vera, la più ancorata nel reale, pure oltrepassandolo. Il realismo e l'idealismo sono ivi equilibrati e resi, ciascuno, alla sua vera natura. Il realismo senza ideale è un realismo falso;

l'idealismo campato in aria è parimenti falso; ma nulla da Un'idea più perfetta di una realtà ideale e di una idealità reale che il Discorso del Monte, così del resto come tutti i discorsi del Signore. Il sentimento della vita è lì unito alle più sublimi ispirazioni. Il più semplice linguaggio serve di veicolo ai più profondi pensieri e a vedute le cui prospettive sono inesauribili. « II bei latino di Cicerone, dice Guglielmo Ferrerò, diventa una balbuzie infantile di fronte al prodigio di questa parola nuda, incurante di sé e piena di prospettive infinite » (1). '

Si capisce che Gesù Cristo sia naturalmente sublime, poiché tutta la sostanza del sublime è in Lui, e che egli sia semplice, perché la sua sublimità è la sua sostanza anche prima di quella de' suoi discorsi. Egli non ha bisogno di tormentarsi, di appassionarsi; non ha che da aprire il suo cuore. Ma anche noi non .avremmo che ad aprire il nostro cuore, se esso fosse pieno del suo. Per la carità che è l'anima della parola evangelica Gesù è in noi e noi siamo in Lui. Con ciò la sua eloquenza e le forme ..della sua eloquenza son nostre. La parola sacra è una. Unus Deus; unum baptisma.

Del resto, per aiutarci a questo accordo, noi abbiamo l'esempio degli apostoli; li contiene altresì il Nuovo Testamento, e quali modelli di sacra eloquenza, tutti, ma specialmente San Paolo! Leggi, tra gli altri passi, i capitoli X e XI della II ai Corinzi. Cito queste pagine perché le segnalò S. Agostino,

(1) gtolielmo eebbebo, Discmrs wwe sowde, pag. 46.

Ìfuìia, da una migliore nozione di ciò che è una eloquenza vera, munita di tutti i suoi espedienti: la dolcezza e la veemenza, la tenerezza e l'indignazione, l'ironia e la maestà, tutte le figure più ardite, tutti i movimenti del pensiero e dello stile. Ciò è incomparabile, e di una spontaneità, di una semplicità che ne formano appunto la grandezza. Questo certamente non sente di olio! Salvo che non sia quello dello Spirito Santo.

Io indico un tratto che non bisogna imitare, ed è il mettere in scena la propria persona, che è così patetico in S. Paolo, ma che non converrebbe ad altri. Le circostanze sono speciali. S. Paolo è presso i suoi Corinzi la sola incarnazione di ciò che egli annunzia; bisogna ben che egli acconsenta a mostrarsi, a definirsi, perfino a farsi brillare, perché Gesù Cristo brilli altrimenti che in lontananza e in astratto. Ma noi non siamo ridotti a tale estremo; la Chiesa è lì; i secoli cristiani sono lì;

tutta una vita si offre ai nostri uditori, e questa appunto bisogna mostrare. Invece di dire: « Siate miei imitatori com'io sono imitatore di Cristo », dobbiamo dire: Siate imitatori dei santi, com'essi furono imitatori di Cristo. A parte questi particolari che dipendono dal buon senso e dal buon gusto, San Paolo è un esempio oratorio unico, dopo Gesù stesso. È l'« Apostolo ». Del resto non escludiamo gli altri apostoli. S. Agostino diceva di tutti essi, collettivamente: « Nei luoghi dei loro discorsi in cui gli abili scoprono dell'arte, si tratta di tali cose, che le parole che le esprimono sembrano non già fornite da colui che parla, ma annesse alle cose stesse, come se la sapienza uscendo dalla sua dimora, il cuore del sapiente, si vedesse seguita, senza averla chiamata, dalla sua ancella inseparabile, l'eloquenza » (De Doctr. cfiristiana, I, IV). }

N'olia Bibbia adunque vi è da imitare come vi è da prendere,;

da citare, in ogni materia dogmatica o morale. E direi che l'imitazione, valendosi dei testi, può ricavare beneficio dalla loro potenza di eccitamento, in grazia del commento, della parafrasi, dell'omega propriamente detta o di tutto ciò che vi partecipa nel discorso. È questo un genere eminentemente plastico, flessibile in tutti i sensi, lasciandoti ogni libertà di movimento . pur collocandoti al contatto vivificante della Scrittura, appog- :

giato dalla sua autorità, fiorito delle sue immagmi, sollevato dalle sue sublimità, animato dalla sua piacevolezza, fortificato in quanto alla sostanza e in quanto alla forma. Talmente che, se tu sei forte, sei moltipllcato; se sei debole, sei sostenuto; se

8 — sbbiimatobs. L'oratore cristiano.

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sei ricco d'immaginazione e di sensibilità, le tue potenze sono fecondate, dirette; nel caso contrario sono surrogate. Si arricchisce la tua povertà; se non puoi contare su tè stesso, si sostituisce a tè; voglio dire che per mezzo tuo la Scrittura trova adito e compie la sua funzione presso i tuoi uditori, alla sola condizione che tu abbia saputo scegliere e adattare la tua scelta al tuo scopo apostolico. « Quanto più ti senti povero del tuo, dice S. Agostino, tanto più conviene renderti ricco di quello che ti si offre ». La stessa Scrittura lo fa! Essa si cita da un libro all'altro; si ripiega sopra di sé, come un'ondata che sta per ripartire. A più forte ragione il suo discepolo, quando l'occasione gli pare buona, è invitato a far portare la sua bar-chetta dall'onda di un gran testo, a seguirne all'uopo la corrente, salvo 'a dare i proprii colpi di remo, per arrivare là dove bisogna.

Eesta a dare alcune regole pratiche per un gaggio usò della Scrittura. E la prima è senza dubbio il rispetto, non occorre dirlo; ma un certo spirito « letterario » potrebbe farcelo dimenticare. Noi non cerchiamo nella Scrittura delle perle per ador-narci, voglio dire parole ad effetto, citazioni che piacciano, curiosità da inserire in un modo più o meno riguardoso; ma ricorriamo allo Spirito divino; quindi conviene farlo con spirito di fede, con un sentimento di gravita, in grazia del quale noi .faremo sentire il peso delle sacre parole, avendolo provato noi stessi.

Ciò non sarà una ragione per citare abitualmente in latino, deplorevole mania di alcuni, procedimento puramente artificiale, riguardo agli uditori che ignorano questa lingua e che perciò ha l'aria di volere scioccamente abbagliare. Ciò affatica presto ed è ingombrante. È meglio riservare il latino al testo iniziale, se si ammette, e in qualche circostanza particolare. Essendo il latino la lingua della Chiesa, un testo latino in capo al discorso, ti riallaccia a lei, da con ciò alla tua parola un'impressione di autorità e di mistero. Ma questa indicazione , non ha bisogno di essere ripetuta indefinitamente. Nel decorso, il latino potrà ricomparire in vista di uà effetto da produrre, di un aspetto di autenticità da procurare, oppure perché l'idea che si rievoca o la parola che si cita sono conosciute sotto questa forma — per lo meno dal clero. Ma moltipllcare tali intercalari che nessuno capisce, è un errore pratico. Dico altrettanto dei riferimenti « capitolo tale, versetto tale », che si pos-

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sono anche giustificare, ma il cui sfoggio è alquanto puerile. Un tempo si amavano queste cerimonie verbali, ma oggi danno ai nervi; gli uomini non sono più così sottomessi; gli uditorii non sono più così pazienti, così fermi; bisogna camminare, senza ammettere alcuna prunaia;

1/1 Seconda regola: la fedeltà. Non citare a un dipresso, quando si pretende di riferire il testo stesso. Tradurre esattamente, evitando controsensi che passavano in altri tempi, quando gli studi biblici erano meno divulgati, e che, oggi, urtano. Per esempio il famoso quoniam non cognovi litteratwam, onde si fece per molto tempo un elogio dell'ignoranza; il per stultitiam praedicationis, che presenta la predicazione stessa come una cosa di folle apparenza, mentre si tratta del suo oggetto essenziale: la croce; ecc. Il P. Bainvei, S. I., fece un'intera raccolta di questi svarioni (1). È tuo dovere di evitarli, in ogni occasione, per l'onore della parola di Dìo e specialmente — questa volta per sincerità — quando diamo al testo un valore di prova. Si sa che S. Girolamo accusava Origene di trasformare in dogmi della Chiesa, con questo procedimento, i frutti della sua immaginazione.

•••*. In terzo luogo: la sobrietà. Evita le filastrocche di testi posti lì per pura virtuosità, curiosità, o pietà male intesa. Sotto l'aspetto oratorio, ogni sovraccarico è un arresto di movimento, e riguardo al gusto, al buon senso, questi partiti presi di citazioni senza utilità non cessano di essere un po' ridicoli.

Inoltre la sobrietà vuole che non ci perdiamo in sottigliezze d'interpretazione. È un difetto nel quale i Padri qualche volta sono caduti. S. Agostino, S. Ambrogio e specialmente S. Gre-gorio non ne furono egenti. In ciò non dobbiamo imitarli. Il loro secolo lo tollerava; il nostro vi ripugna. Là dove il senso letterale è assai ignorato, è inutile sottilizzare; andiamo piuttosto al fondo delle cose.

Finalmente ci guidi l'utilità, non la curiosità storica, archeologica, letteraria. Vi è in ciò una tentazione; un sacerdote erudito, o un artista, attingendo ai libri santi, dimenticherebbe facilmente che egli è un apostolo, e che se è bene provocare l'interessamento a fine di sostenere l'attenzione, bisogna poi, e al più presto, valersi di quest'attenzione a benefizio delle anime.

(1) Les cMàrùsens des prédicateurs. Paria, Sethielleux.

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Per questo, bisogna ricorrere ai testi con l'ossessione inferiore del proprio soggetto e dell'effetto da produrre. Allora si resta sorpresi da ciò che sorge da tutte le parti. Il testo è un grano; l'attenzione ardente è come un sole che lo fa schiudere nel senso stesso in cui lo guarda; lo svolgimento si presenta di per gè, appropriato ai tuoi bisogni, perché ne è l'effetto.

S. Francesco di Sales suggerisce a questo proposito un procedimento molto fecondo. Analizza, dice egli, le metafore costantemente adoperate dalla Bibbia ; spesso vi scoprirai il germe di paragoni felici, utili al tuo argomento. E ne da questo esempio. Tu leggi nel salmo CXVIII: Via/m mandatorum tuorum cucurri cum dilatasti, cor meum. Qual è la corsa provocata da una dilatazione, da un gonfiamento come quello di cui parla il salmo? K"on è forse la corsa del battello sotto il vento, quando questo gli ha gonfiato la vela? Come dunque il soffio del vento spinge il battello verso il porto, così lo Spirito di Dio, stimolando i nostri cuori, li fa correre nelle vie della vita eterna. Ecco l'immagine. E se la scoperta ha avuto luogo per la familiarità stessa del soggetto, essa fa corpo con esso, e ne . è l'illustrazione opportuna.

In due parole, la Bibbia per il predicatore, purché sappia servirsene, è la fonte per eccellenza, in tutti i modi. « II parlare di un sacerdote, dice 8. Girolamo a :Nepoziano, il parlare di ^ un ministro della Chiesa dev'essere condito dal sale della Scrittura ». Ciò conviene all'uomo di Dio nei due sensi della parola:

secondo che egli viene da Dio verso il popolo, e secondo che ;

porta il popolo a Dio.

II. — La Liturgia;'-

Dopo la Scrittura, nostra fonte principale, dobbiamo menzionare la liturgia, che è come una seconda Scrittura, una Bibbia ecclesiastica, nata dall'altra in vista della preghiera e che ce ne offre a un tempo un compendio utilitario e un allargamento.

La liturgia, come riassunto della Bibbia, presenta un carattere d'arte che accosta la Bibbia al nostro oggetto e seconda così l'arte della parola. Arte letteraria, che sceglie quello che vi è di più bello nella Scrittura e vi aggiunge del suo; arte di preghiera, di _una psicologia mirabile e di cui la predicazione non può mancare di valersi per il suo lavoro proprio, stretta- :

mente appartenente alla preghiera, finalmente arte della formazione delle anime, che è proprio il nostro oggetto essenziale.

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Inoltre la liturgia allarga la Bibbia, in ciò che la vita attuale della Chiesa vi si registra dopo la storia d'Israele e la storia evangelica, e dirige tutta la corrente così formata verso la nostra propria vita, la più quotidiana, la più specializzata, mirando a' suoi varii stati, a' suoi momenti, a' suoi bisogni.

Dato quello che dicevamo della Bibbia a riguardo della predicazione, si vede quello che si può dire della liturgia. Rigorosamente parlando, essa potrebbe sostituire la Bibbia, se per folle ipotesi questa si perdesse. Ad ogni modo ci presenta lo stesso ordine di mezzi, anche meglio caratterizzati sotto certi riguardi. Essa fa sfilare davanti a noi e offre al nostro uso tutti i misteri della fede, tutti gli aspetti della vita cristiana, tutto il personale sacro, e prima di tutto il centro del nostro culto e la vita della nostra vita: il Signor nostro Gesù Cristo. È la teologia in azione, in dramma; è uno spettacolo insegnante, una legge soccorritrice, una parola d'ordine che trascina, col concorso reclamato e provocato di tutte le nostre facoltà spirituali e sensibili, di tutte le nostre potenze di vita.

Io vedo tré forme, complementari l'una dell'altra, sotto le quali la liturgia può esercitare a nostro riguardo il compito di sorgente: 1° come oggetto di spiegazione; 2° come tesoro a cui attingere felicemente; 3° come ispiratrice, in ragione del suo spirito.

A dispetto dell'incoscienza di certuni, la spiegazione della liturgia è una delle funzioni più feconde e più attraenti della parola. I fedeli vi si dilettano infinitamente, a condizione che vi siamo affezionati noi stessi, e ne traggono un serio profitto. La vita cristiana vi prende da se stessa una coscienza tutta rinnovata; prova la sua grandezza; gode della sua bellezza;

va di scoperta in scoperta, quando le si mostrano tutti i suoi collegamenti, naturali e soprannaturali, in grazia di quel realismo maraviglioso, tutto impregnato di idealità, che la, liturgia ci rivela incessantemente.

La liturgia ci manifesta un sistema di ampie relazioni tra tutti gli esseri, sotto gli auspizi di Dio; essa rende da per tutto conoscibili i nostri rapporti con Dio, e nell'insieme dei fatti che spiega, ci segna esattamente il nostro posto, piccolo e sublime. È un grandioso svolgimento, dove ci sentiamo a un tempo umili, in ragione del nostro punto di partenza, delle nostre proprie forze e dei nostri passi falsi, e grandi quanto vorremo in speranza,

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L'uomo che ti avverte di queste cose e che le rigenera a' tuoi occhi ti apparisce come un benefattore, e lo è. Gliene sei più riconoscente che non di liberarti dai pensieri puramente personali. Ti genti orgoglioso di essere insieme associato a così grandi cose, di partecipare a così grandi ricordi, di trovare a tua disposizione tali sorgenti di grazia, d'avere un tale assortimento di lodi e di ricorsi per i bisogni del tuo culto e delle tue implorazioni. Fa mara viglia che un grande artista abbia detto:

« Sublime è la Messa; Parsifal è una brutta copia » (1); e che altri abbiano detto altrettanto del segno di croce, delle benedizioni rituali, delle processioni, di tutto il dramma delle azioni sacramentali, le quali tutte, in un modo o in un altro, collocano la terra proprio sulla riva del ciclo, sotto l'azione del ciclo, e l'anima nel cielo in contatto intimo con l'invisibile'? Vi è lì un impulso che scuote la vita cristiana, strappandola a quell'automatismo nemico degli atti più santi.

A questa specie di resoconto si può annettere la spiegazione delle devozioni della Chiesa, anzitutto il Bosario, e quella delle pie pratiche: l'orazione, l'esame di coscienza, il regolamento di vita, la lettura spirituale, la visita al SS. Sacramento, il ritiro mensile, il sentimento della presenza di Dio, le orazioni giaculatorie, la preghiera in comune, ecc. Questi sono magnifici soggetti, quando si vedono in grande, in largo, cioè tali quali sono, e l'interesse psicologico che presentano non è solo di un ordine generale, ma mira personalmente all'uditore e lo avvince.

La liturgia,, oltre i commenti diretti che richiede, offre al predicatore un tesoro ricchissimo da cui può attingere occasionalmente, sia che l'occasione venga dalla liturgia corrente, come quando si predica sulla festa del giorno, sia che la si faccia nascere riallacciando alla liturgia i proprii pensieri.

Predicare sulla festa del giorno, seguire passo passo la liturgia nella propria predicazione non è sempre opportuno;

molti motivi legittimi ce ne possono distogliere, almeno quanto al fondo del discorso. Ma farne conto più o meno è sempre utile, e attenervisi, quando l'occasione lo permette o lo esige, comporta sempre una grazia. Si entra così maggiormente nella corrente cattolica; si partecipa più strettamente alla vita della Chiesa; si è in comunione spirituale con l'universo cristiano,

(1) rodin, Les Cathédrales.

in vece di stare dentro di sé. È vero che ciò ha sempre luogo, anche a nostro malgrado se mai, poiché la predicazione fa parte della liturgia, che per sé è universale. Ma se ciò diventa esplicito, per il fatto che la predicazione prende per tema la fase liturgica corrente, è un soprappiù e bisogna che ce lo assicuriamo appena che la circostanza lo consigli.

Fuori delle feste e del movimento liturgico della Chiesa, nel corso d'istruzioni sulle verità della fede, sulla morale o sui sacramenti, sarà sempre bene riferirsi alla liturgia, nella;

quale la dottrina si presenta in concreto, si trova provata dal fatto, nel nome dell'assioma Lex orandi, lese credendi, si arric- ' chisce dei simboli, e si organizza da se stessa attorno alla persona di Nostro Signore, che la liturgia non perde mai di vista.

Ciò si può fare sotto forme svariatissime; la misura dipende da mille circostanze. Quello che bisogna sapere è che vi è lì una miniera perpetuamente aperta, tanto accessibile alle persone semplici, in ragione del suo contenuto positivo, quanto alle menti più colte, a cagione della poesia che se ne sprigiona e della vicinanza dei più alti pensieri.

Quest'ultimo aspetto ci conduce al terzo uso della liturgia, come fonte ispiratrice. Essendo poesia, nello stesso tempo che preghiera, dottrina, stimolazione e divino contatto; essendo tutto questo nell'unità, la liturgia, unita alla Bibbia, non può forse alimentare il nostro entusiasmo, fornirci spirito lirico, fortificarci col suo naturalismo superiore e co'.suoi legami con ogni vita?

La liturgia lancia continuamente attraverso a tutta l'opera divina come grandi arpeggi, passando, in una medesima frase, dalla creazione materiale alla storia di Dio nell'uomo e al regno di Dio in ciclo. La natura, la vita, le stagioni, i travagli, la storia, i sentimenti dell'anima, i pensieri e le aspirazioni collettive, tutto vi si presenta; sono incursioni in tutti i sensi, e tutto concorre, naturalmente, allo scopo religioso. Entrare in questo movimento, è dare ali alla propria parola.

Spesso un inno, una prosa, una sequenza ti fornirà tutto il movimento di un discorso, a ogni modo una ispirazione par-ticolareggiata e uno stato di spirito che ti porta. Questo eleva il tono del discorso e lo infiora. Questi fiori non sono fiori arti-. ficiali; sono sbocciati nel giardino di Dio; spandono l'odore di Cristo; sono veramente nostri.^

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III. I Padri della Chiesa, i Teologi e i Maestri della sacra Eloquenza.

Accostando i Padri e i Maestri della parola cristiana, non abbandoneremo che per metà le fonti sacre. I primi soprattutto ne sono talmente impregnati che ci tengono al loro contatto e c'insegnano per giunta l'uso che bisogna fame. Uomini provvidenziali per la conservazione del deposito, tali sono ancora per il modo che c'insegnano di farne tesoro, e non si può ammirare abbastanza che Dio abbia così procurato alla sua Chiesa tutto quello che le era necessario, non per esonerare l'avvenire, ma per assicurare l'efficacia dell'opera sua adescando i suoi sforzi. Siamo stati favoriti in tutti i modi alle prime mosse;

non abbiamo che da fare la strada.

Ma chi ricorre come dovrebbe a questo aiuto? ~Soi preferiamo sprecare il tempo in letture d'occasione, pretese attualità alle quali sacrifichiamo spensieratamente l'eterno presente. Tuttavia non riconoscono forse tutti che il gruppo dei Padri della Chiesa, greci o latini, costituiscono una pleiade magnifica, in cui tutte le sfumature della parola umana, a servizio delle più alte concezioni dello spirito, emergono con un maschio splendore?

In S. Cipriano, S. Basilio, S. Giovanni Crisostomo, San Gregorio ISTazianzeno, Tertulliano, S. Girolamo, S. Ambrogio, e S. Agostino, e più tardi S. Bernardo, si ha tutta la gamma del pensiero e dello stile, del movimento oratorio e dello slancio apostolico, come mai non si potranno manifestare nelle età Cristiane.

Questi uomini non dissero tutto; risposero ai bisogni del • loro secolo e noi abbiamo da rispondere al nostro; ma ciò, non che distaccarci da essi, è invece una garanzia per quei che vivono nella loro familiarità. Non se ne può trarre utilità senza lavoro: tanto meglio! Essi parlarono un linguaggio diverso dal nostro, in circostanze diverse dalle nostre, a uditorii oggi lontani; le loro opere sono una cava; bisogna poi tagliare il marmo;

o piuttosto vi sono statue, ma che non possono figurare tali e quali nelle nostre costruzioni e che possono solamente insegnarci a farne altre; tanto meglio, mio Dio, tanto meglio! Che fortuna, che non si possano copiare, e che tuttavia sia possibile istruirsi, e istruirsi, sotto certi riguardi, più che in qualsiasi

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altro luogo! Infatti i Padri sono più vicini alla natura, e per conseguenza più vicini a noi, che, per esempio, gli oratori del secolo di Luigi XIV; essi ci opprimono meno, e, trovandosi nelle vicinanze immediate delle sorgenti, possono insegnarci, come dice Bossuet, «la divina arte di maneggiare le Scritture e di darsi dell'autorità facendo parlare Dio su tutti i soggetti mediante solide e serie applicazioni » (1).

Aggiungerò una considerazione forse un po' ironica e che si connette a un fatto or ora deplorato. Si conoscono poco i Padri della Chiesa: dunque là dove vi si prestano, si può prendere da essi con gran sicurezza; adattando il linguaggio, e anche senza questo, si avrà del nuovo a buon mercato. Ma tale non è il serio benefizio di questa familiarità; si tratta di attaccarci alle origini, di farci « un'anima da antenati », come fu detto a proposito della Leggenda dei Secoli; si tratta di collegarci a ciò che abbiamo di più alto, nei nostri oggetti di pensiero e in noi stessi, per mezzo degli uomini che lo rappresentano eccellentemente e provvidenzialmente.

Sarebbe già un aver profittato assai il sapere dilettarci a questo contatto. È un gran segno. Goethe diceva che un uomo veramente ricco d'ingegno cerca istintivamente di prendere la sua materia di pensiero o di azione cominciando dalle sorgenti, e dalla scuola dei più grandi. « II segno di una forte vocazione è appunto questo bisogno di familiarità coi nostri grandi predecessori » (2). Lavorando nella loro atmosfera si ha una migliore coscienza della natura e della dirczione del lavoro da compiere, si afferma il proprio pensiero e si assicura al lavoro un felice svolgimento. Lo spirito individuale è mol-tiplicato da queste risonanze lontane che a lui è lecito di associare alla propria voce; egli non è più solo; si sente appoggiato a una solidità secolare; l'anima antica e l'anima collettiva rispondono alla sua, e la portata delle sue più piccole espressioni, quando le crede giuste, gli pare garantita dall'eternità. ' Bossuet ci mette qui in guardia contro un'obiezione che la pigrizia ci potrebbe suggerire. Si crede che per spogliare la patrologia sotto l'aspetto di cui ci occupiamo, ci vorrebbe un immenso lavoro. Niente affatto. Seguendo le indicazioni dello stesso Bossuet, ci si avanzerebbe prestissimo; i lavori patristici sono lì per guidare, ed essi stessi aggiungono alle opere a cui

(1) bossvet, Notes sur le style et la lectwe.

(2) gobthts, Conversations wec Ecìfermann, 12 febbr, 1851.

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ci iniziano il loro supplemento di luce. Ci vorrà certamente della fedeltà; ma se taluno non è capace di fedeltà, non merita che ci inquietiamo della sua defezione; non è un intellettuale, e non si trova al suo posto tra gli oratori cristiani.

- cóltre questi predecessori specialmente provvidenziali, vi sono molte altre fonti da consultare, e non solo tra gli oratori, come indicheremo parlando della cultura. Bisogna anche dire che, generalmente parlando, gli oratori non sono le nostre fonti più feconde. Il lavoro è troppo circoscritto, ed è meno largamente suggestivo. Nella Somma di S. Tommaso, segnatamente nella II-II, in cui tutta la vita morale e religiosa vede precisarsi le sue condizioni e le sue forme, l'oratore troverà di che arricchirsi inesauribilmente, senza provare il minimo sforzo. A ogni passo si presentano a lui dei temi, delle divisioni perfette per lo svolgimento, dei testi per la loro illustrazione, e siccome nulla viene presentato in modo oratorio, così egli è libero.

Raccomanderò in modo specialissimo, tra i lavori teologici, che sono legione, il Catechismo del Concilio di Trento, la cui mirabile precisione è una guida, nel medesimo tempo che è una salvaguardia. Le connessioni profonde degli elementi dogmatici sono segnate li, come in S. Tommaso, nella maniera più evocatrice, per lo spirito attento. Se la dottrina che predichiamo si trova prima di tutto nella Scrittura e nei documenti della fede, segnatamente nei varii simboli, essa viene esposta per ordine ed elaborata razionalmente dai nostri teologi, in tal modo che il nostro insegnamento, il nostro sforzo di apologisti e di monitori delle menti ci stabilisce sotto la loro dipendenza.

< Gli oratori, dal canto loro, non sono più principalmente i nostri iniziatori dottrinali, ma i nostri modelli; nel modo con cui ciò si può insegnare, essi c'insegnano a fare un discorso;

ci fanno vedere come s'inventa, come si compone, come si fa lo svolgimento, come dobbiamo esprimerci. Se gli autori di un altro genere ci possono comunicare la loro sapienza, questi influiscono sopra di noi con la loro eloquenza.

Ed è naturale che sia così. S'impara la lingua nella compagnia delle persone colte, le buone maniere nel mondo; perché non s'imparerebbe l'eloquenza nel commercio dei grandi oratori? Ciò vai meglio dei precetti, diceva S. Agostino, infatti i

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precetti non servono che a mostrare la via, gli esempi vi ci trascinano. L'aquilotto impara a volare sulle ali di sua madre. Si eredita anche del volo. Salvo che l'eredità del volo non si trasmette come quella di un fondo di commercio; è un adattamento attivo, uno sforzo di vita; quello che noi prendiamo dev'essere nondimeno strappato alle nostre proprie viscere;

noi prendiamo l'arte di dare alla luce, ecco tutto. Ma dovremo ritornare su questo punto.

A chi bisogna rivolgersi? Quali maestri scegliere? — Anzitutto i più grandi. Quando si può andare alla fonte, non si va alla secchia. I maestri sicuri son quelli la cui gloria è consacrata e il cui prestigio stesso, indipendentemente dal valore intrinseco, sarà già per noi una forza. È bene mettersi al sicuro sotto un'aureola; è già una fiaccola, e la tua immaginazione vi s'infiamma. Di più, i grandi danno i grandi impulsi, e si ha bisogno di un grande impulso anche per fare una piccola strada. Se non si va fin dove vanno i grandi, almeno si andrà fino a capo di se stesso. Del resto non dimentichiamo che i grandi, per la semplicità gemale che è m essi il colmo dell'arte, sono generalmente i più accessibili, quelli in cui la lezione è più netta, più solidamente contrassegnata, dunque che colpisce di più.

Così non bisogna affidare il proprio spirito al compagno, • o al predicatore che si ha accanto. Che una buona indicazione ti venga da lui, positivamente o negativamente, sta bene; ma l'uomo ardente vuole andare subito ai grandi esseri, e la sua barca nuovissima vuole posarsi su una grande onda.

Poi non è bene moltiplicare i proprii modelli. Flaubert diceva che la biblioteca di uno scrittore deve contenere cinque o sei libri-sorgenti che bisogna leggere tutti i giorni. Ma non bisogna neppure essere esclusivi. Parecchi generi, si potrebbe dire, ma pochi uomini. Vi si guadagnerà a concentrarsi, pur facendo vibrare tutte le proprie corde. Questi uomini si scelgano piuttosto nella propria lingua perché la lezione sia più efficace. Suppongo che questa lingua sia sufficientemente ricca di grandi opere; ma tal è veramente il caso nostro. In Francia, con quattro o cinque genii, si può fare un grande mazzo di tutte le qualità oratorie essenziali. Prendi Bossuet, e ti offre la maestà e la forza; egli compie questo prodigio di unire la magnificenza alla -naturalezza, anzi a una nobile popolarità. Prendi Bourdaloue, è l'esattezza, la lucidità maravigliosa dell'esposizione e un eccitamento logico irresistibile: un torrente

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di luce. Con Massillon è la finezza dell'analisi e la ricchezza della sensibilità immaginativa, donde risulta una felice armonia verbale. Finalmente Lacordaire ha la sensibilità profonda, viscerale; è un torrente di fuoco, ed ha inoltre lo splendore, la fiamma di un'immaginazione ardente.

Sta lì veramente tutto il desiderabile per stimolare e dirigere un giovane ingegno, per fomentare e sostenere un entusiasmo. Questi genii si correggono l'uno coll'altro, e si completano. Difatti nessun uomo è completo. A Bourdaloue manca la qualità di poeta; egli non l'ha in nessun grado, e all'eloquenza occorre della poesia, perché le occorre dello splendore e dell'incanto. Bourdaloue è una grande ragione e un gran cuore; ma non sa piacere; brilla, e si direbbe che in lui il sentimento non è ancora se non pensiero scaldato all'incandescenza. A Massillon manca la perfezione del giudizio; egli si lascia trascinare;

passa i limiti e sottilizza. Al Lacordaire manca non la dottrina, come si è preteso, ma la profondità magistrale della dottrina, che la sua natura e la sua formazione non gli fornivano. In quanto a Bossuet, non gli manca pressoché nulla; ma forse un po' di quel latte della tenerezza umana del quale parlò così bene. Egli non ha raggiunto che la metà della divisa del Lacordaire: « Forte come il diamante, tenero come una madre ».

Date queste differenze, a ciascuno conviene ricorrere più o meno a questo o a quello secondo la sua propria sfumatura di spirito e secondo i suoi bisogni. Con ciò non voglio dire che occorra prendere come maestri principali quelli ai quali rassomigliamo di più. Ciò dipende dalle circostanze. Se io temo un eccesso, non inviterò un grand'uomo a spingermi con tutta la sua forza nel senso in cui rischio di cadere. Un logico un po' arido che si racchiudesse in Bourdaloue non farebbe altro che aggravare il suo vizio; vada piuttosto a cercare un po' di fiamma presso quei che ne hanno, un po' di sensibilità là dove essa rigurgita. Ma ciò non impedisca punto di vedere come la sua qualità propria è sfruttata da colui che ne rappresenta la forma geniale, e se non ne ha affatto, e ha bisogno di sviluppo in tutti i sensi, si rivolga qua e là simultaneamente, si abbandoni alla rosa dei venti; ne ho adesso denominati i petali,

N'on dimentichiamo di menzionare, tra i nostri modelli, gli oratori dell'antichità. Sono i nostri modelli, perché sono i modelli universali. Noi li raggiungiamo attraverso agli altri, quand'anche non lo volessimo; ma un contatto diretto è altri-

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menti fecondo. Nessun oratore ha diritto di ignorare Demo-stene, ne Cicerone nelle loro migliori orazioni. Se quest'ultimo è spesso fraseggiatore, è anche spesso di una eloquenza maravi-gliosa, e, per l'ampiezza, arriva a oltrepassare Demostene, che in complesso gli è di gran lunga superiore.

Qualsisiano i patroni oratorii ai quali ti sarai deciso di affidarti, devi imparare a servirtene. Non occorre dirlo. L'inesperienza è a volte assai disorientata in queste boscaglie luminose dove non si sa quale sentiero prendere per conto proprio, ne quale ramo cogliere.

Diciamo anzitutto che uno spirito di fede deve presiedere alla frequentazione dei maestri. Essi sono un soccorso di Dio, una grazia, accostarli come tali è porci in grado di valercene come conviene, di farli concorrere al nostro scopo soprannaturale, anche se questo scopo fosse loro estraneo, come quando si tratta di una Catilinaria. Pagani o cristiani, i grandi maestri sono per noi dei mezzi di Dio: riceviamoli da Dio; è lui che fece le mani feconde di maraviglie.

Per venire al come servirsene, bisogna prima distinguere due ipotesi. Che cosa cerchi nei tuoi autori? Pensieri, sentenze, paragoni, brani bell'e fatti, idee di piani, o qualsiasi cosa che ti possa servire? Oppure si tratta di formarti, o di cercare un'ispirazione che si svolgerà poi da sé, in un libero lavoro? È cosa diversissima.

Prendiamo il primo caso. Non bisogna arrossire di prendere dagli altri; lo fanno tutti; solamente lo fanno in un modo più o meno velato e più o meno fecondo. Le menti veramente originali sono rarissime e non lo sono mai del tutto. Popolarizzare la verità è qualche cosa, per l'apostolo, ma non è necessario che la inventi. S. Agostino giungeva fino a concedere che si può molto bene predicare quello che un altro ha composto, se quest'altro è più capace. La parola di Dio, diceva, è impersonale;

è il patrimonio di tutti. Questo non si può prendere del tutto alla lettera; bisogna pensare alla giustizia e non saccheggiare indiscretamente il prossimo; ma ciò non corre più per maestri antichi che non hanno interessi in causa. Lì basta salvare la saggezza, che anzitutto vuole che noi non prendiamo per pigrizia; e poi sconsiglia di prendere dei brani o delle formule troppo facili a identificare, celebri, e che inviterebbero gli umoristi a salutare, come si fa di vecchie conoscenze.

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Se si toglie da altri saggiamente, bisogna ancora far proprio il pezzo preso, incorporarlo al proprio pensiero, prima e dopo. Le opere della mente non si fanno per relazione. STon si è mai dispensati dallo sforzo. Anche nel prendere dagli altri, resta il posto, praticamente, a una grandissima originalità. In realtà, se si lavora sul serio, non si prendon note se non per creare, e vuoi dire che a la fine esse si eliminano, perché creare è fare dal nulla.

A tali condizioni, non aver paura di ricevere. Si riceve tutto da Dio; tuttavia la vita è opera nostra. Il nostro giudizio intellettuale, proprio come l'altro, cadrà sul modo come avremo ricevuto.

Kondimeno non è questo il principale servizio che dobbiamo chiedere ai nostri maestri. Essi si fanno volentieri nostri prestatori; ma sono prima di tutto i nostri allenatori, « i nostri monitori », diceva Malebranche, cioè, in vece di pensare per noi, devono aiutarci a pensare; in vece di fornirci informazioni di seconda mano, devono insegnarci a scoprirne; in vece di offrirsi come datori di testi, hanno da formarci per libere creazioni. « ;Nei libri altrui io cerco i miei pensieri », dice un contemporaneo.

Ecco i maestri, con le loro magnifiche colture: attraversiamo i loro dominii con la vanga sulle spalle, per andare a lavorare più lontano. Avremo veduto passando quello che essi hanno fatto, come vi si sono adoperati: lo spiegamento delle loro forze ci aiuterà a scoprire le nostre e a estenderle. ~Son cerchiamo di far come loro, se non in questo che essi hanno rivolto l'anima loro verso il vero e l'hanno servito con tutte le forze. È la loro grande lezione, e da essa dipendono le loro lezioni particolari. Nessun modello ha altro compito che d'invitarci a spiegare le nostre energie. Il tale ha fatto questo: e io che cosa posso fare? Ecco la questione. « Io, dice Maurizio Barrès, ho capito che quando ci si trova di fronte a una mente superiore, bisogna cercare il punto di contatto che si può prendere con lei» (1). Ciascun vivente vive del suo proprio sangue o del proprio succo; solo i mucchi di pietre crescono per semplici sovrapposizioni. Si eredita, è la legge, e noi lo abbiamo detto con insistenza; ma bisogna poi sfuggire all'eredità per una parte,

(1) maubizio babkss, Mes Mémoiree, «Bévile dea Deus Mondes», 1° ottobre,1929.

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a fine di arricchirla se si può e in ogni caso per viyere una vita propria. A parità di formazione, quanto più si deve all'eredità, tanto meno si vale.

Quando Eubens ritornò dall'Italia, abbagliato dalle sue visioni romane e veneziane, dipinse due capolavori: La Deposizione dalla Croce e la Elevazione della Croce della cattedrale di Anversa. E questo lavoro procedeva da quello. Tuttavia, scrive Eugenio Delacroix nel suo Journal (t. II, pag. 23), « non si può dire che imitasse ».

A volte tale è il caso. Vi sono delle intelligenze schiave, degli spiriti in prigione: costoro imitano o non fan nulla. Piuttosto che non far nulla imitino pure! noi lo abbiamo loro permesso largamente; ma colui che si sente una personalità deve-a se stesso e deve a Dio di produrla; è lei che Dio attende; piccola o grande, Dio la previde e ne compensa l'uso; con lei e con altre, egli organizza le sue squadre di apostoli e provvede al cammino della sua Chiesa. Senza questo, non saremmo condannati a girare sempre sul posto? E come si farebbe questo progresso? «La pittura va di età in età declinando e perdendosi, scrive Leonardo da Vinci, quando i pittori non hanno altro modello che la pittura precedente ». Il modello primo e comune è la natura per il pittore, è il vero vagheggiato in se stesso per lo scrittore e per l'oratore. È li che sempre bisogna ritornare.

Per conseguenza, pur avendo il culto della natura dei maestri, devi difenderti contro quelli di una certa specie. Tutti-' ti devono istruire; nessuno ti deve soggiogare. Se lavorassi seguendoli servilmente, prenderesti un genere artificiale, e gli stessi valori presi non varrebbero più, perché sarebbero valori morti. Il parlare è una vita e non può procedere che dalla vita.

Nessuna imitazione, nel senso materiale del termine! Se tu cerchi di prendere il fare di Bossuet, sei condannato a fare del falso Bossuet, dimenticando di fare del vero tè stesso. .Credi tu che Bossuet abbia cercato di fare del Bossuet? Per questo sarebbe occorso che egli si ripiegasse sopra di sé, che ; camminasse come a ritroso, e invece era tutto teso verso le cose. Egli estraeva la verità dalle cose. Questa estrazione dava , del Bossuet perché era Bossuet che l'operava; quando tu sarai tu, il risultato sarà differente; ma tale dev'essere, salvo i con-; corsi e i ravvicinamenti legittimi che abbiamo segnato. Da' | tuoi modelli prendi anzitutto i movimenti dell'anima, gli an-| damenti dei pensieri, gli slanci dell'immaginazione, la passione

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in una parola, i procedimenti etemi, non le particolarità di superficie, che non esprimono i genii nella loro genialità stessa e non ti fanno comunicare col loro vero lavoro.

boterò che vi è motivo di diffidare specialmente del gran discorso classico, che si rivolge a un tempo determinatissimo ' e a una classe sociale ridotta. È un'insidia. Il ridicolo, qui, spia l'imitatore. Le forme andate in disuso presto s'insinuano dietro le idee, anche quando si crede di svecchiarle in una certa misura. Ora non bisogna togliere dai maestri se non quello che hanno di non temporale. È per questo che essi sono maestri; altrimenti, presi in un periodo di tempo, in un gruppo, essi ne sono schiavi, e in un altro gruppo o in un altro periodo di tempo, non sono più adatti.

Tanto meno vorremo prendere dai nostri maestri i difetti che una saggia critica riconosce in essi, le loro esagerazioni, le loro mancanze di gusto, che a volte ci tentano. Non è facile resistere all'attraùnento dei grandi; un errore ammesso da loro, apparisce per tale fatto irreprensibile. Tuttavia c'è la verità. Piuttosto procuriamo di completare la lezione positiva che ci danno con la lezione negativa inclusa nei loro errori.

Vero è che a questo riguardo altri ci saranno più profittevoli. Non dobbiamo esitare a procurarci di quando in quando questa controprova, che è quasi indispensabile. La perfezione dei capolavori spesso cancella le tracce del lavoro; si vedono male le vie per le quali i maestri sono passati e quelle che hanno dovuto evitare per giungere a questo termine. Si direbbe che giunsero lì diritto diritto, ciò che è totalmente falso! Sarà quanto mai istruttivo il vedere del resto i possibili passi falsi;

per mezzo delle regole violate noi gustiamo meglio le regole seguite; per mezzo dei pericoli, la sicurezza. Tale è già il benefizio dei manoscritti corretti dagli stessi maestri, come degli schizzi nelle opere d'arte.

Questi tentativi di una mano che arriva alla certezza sono eminentemente istruttivi. Si vede lì sul vivo, e meglio di quello che si potrebbe per se stesso, quello che in un testo è da sfrondare, da prendere tale e quale o da trasformare. È una scuola mirabile. « L'artista spesso s'inganna nell'opera sua, scrive Léonard; se tu non lo scopri in tè, guarda l'opera degli altri, e trarrai profitto dai loro errori ». Forse si potrebbe prendere in questo senso un'espressione che egli usa altrove e che sembra assai orgogliosa: « Povero discepolo, che non supera il suo

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maestro! ». Si supera il maestro in qualche cosa, quando si evita un difetto in cui egli è caduto. Da ciò si vede che vi sono preziosi soggetti di studio là dove l'imitazione non conviene:

è una delle forme della regola evangelica: non lasciarci vincere dal male, ma volgere il male in bene.

Ancora due osservazioni di carattere pratico.

Dopo che si sono scelti i maestri, conviene scegliere ancora, nei maestri, quello che li rappresenta meglio a nostro riguardo, sotto il rapporto in cui li consideriamo come riostri maestri. E non è necessario che a noi si offrano in molti esemplari;

alcune opere bene studiate bastano. Quando si domandava a Henner perché viaggiasse così poco, rispondeva: « Io ho tutto al Louvre ». Allo stesso Louvre, Eugenio Muntz quasi fece scoprire a lui, pure così grande ammiratore di Baffaello, le qualità della Vergine di Francesco I, perché fino allora egli era assorbito nello studio della Bella Giardiniera, sua ammirazione principale. Si può trovare una tale visione un po' stretta, ma Henner era l'uomo della concentrazione a oltranza, quasi dell'idea fissa; ma abbiamo qui un'indicazione preziosa.

~Soi vi troviamo illustrata la nostra ultima osservazione:

bisogna ritornare alle proprie scelte. I maestri non sono delle relazioni di città di acque termali; uno spirito fervente ambisce la loro intimità, e l'assenza delle frequentazioni dissipa l'intimità. Del rimanente, quanto più si conosce, tanto meno le, frequentazioni hanno bisogno di essere prolungate: una pagina,, un discorso o una parte di discorso può bastare.

Goethe rileggeva tutti gli anni qualche pezzo di Molière, « nello stesso modo, diceva, che di quando in quando contemplo delle incisioni dei grandi maestri italiani ». E aggiungeva:

« Dei piccoli esseri come noi non sono capaci di conservare in sé la grandezza di simili opere; bisogna di quando in quando ritornare ad esse per rinfrescare le nostre impressioni » (1).

IV. — La Vita dei Santi.;

Per la Scrittura, per la liturgia, per i Padri della Chiesa,, noi siamo in contatto costante ed eminentemente formatore non solo con la dottrina e con l'eloquenza, ma anche con la

(1) Conversatioìts avéc Eckermaan, 8 nov. 1826.

1—Sxi.TlKLt.sam. .L'oratore cristiano. ; .,:, \

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santità, e quindi è solo accessoriamente necessario consacrare a quest'ultima una speciale menzione.

La vita dei santi è il Vangelo messo in pratica; è Gesù veduto in una serie di specchi vivi che non alterano punto il suo volto, e che tuttavia lo accostano alla nostra umanità. Inoltre essi adattano questo alto esempio ai nostri varii modi di sentire, alle nostre forme di vita, che essi riproducono tutte. È un gran ..vantaggio per la parola. L'uomo ha la curiosità dell'uomo, del (caso vivo e maraviglioso, dell'ideale vissuto sopra questa povera terra. Nessuno sfugge all'impressione, quando gli si mostra fatto e sublime quello che egli stesso non fa. Lo farà egli meglio d'ora innanzi? Per lo meno gli si avrà procurato una probabilità. Predicando i santi, si spera sempre di far santi tutti i proprii uditori; ma il semplice coraggio ha bisogno dell'eroismo per guida, come sono i genti che stimolano il pensiero corrente, in quei che gustano le loro lezioni.

Ai santi propriamente detti si aggiungono, per questo oggetto, tutte le grandi anime, perfino le altre in ciò che esse poterono avere di grande. La biografia edificante ci permette d'illustrare le nostre idee, di appoggiare le nostre esortazioni, come si da un allenatore al corridore che si lancia in una pista. Quello che i santi hanno fatto mostra possibile quello che noi invochiamo e ne provoca il desiderio. Tra il pensiero puro e il pensiero messo in esempio, dice 8. Francesco di Sales, corre la stessa differenza che tra la musica notata e la musica cantata. Facciamo cantare la dottrina o la legge di Dio; offriamola « eseguita », e non solamente scritta.

Aggiungo che la vita dei santi c'istruisce sulle loro massime, e queste sono delle perle. Quando i santi hanno scritto libri in cui queste massime si moltipllcano e si commentano, noi vi troviamo dei tesori che non si trovano affatto altrove, per quello che riguarda la vita dell'anima e l'intuizione viva del soprannaturale.

•'^-"-V. — La Storia della Chiesa.

I santi sono come i fiori della Chiesa; attorno ad essi vi è tutta una germinazione che o la Chiesa stessa, germinazione secolare, che forma tutta una storia incastrata nella storia umana, o, per dir meglio, identica alla storia umana, poiché;

il soprannaturale è il vero, e per conseguenza la storia del soprannaturale è la vera storia.'

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Anche qui vi è una sorgente per il predicatore. La storia serve a tutto, a corroborare le dottrine, a edificare o a terrificare le menti, a illustrare gli svolgimenti e con ciò a suscitare o a rinnovare l'interessamento. Si amano tanto le storie! le immaginazioni ne sono subito conquistate, e si può approfittare della propria conquista.

Si riconosce quando un predicatore sa la stòria, quando la sua mente non si confina nelle idee astratte o nel tempo presente. La sua parola ha maggiore ampiezza; le sue vedute sono più nuove, appunto perché conosce il passato; infatti il passato da risalto al presente coi confronti che provoca. Non giudicare che alla luce dell'assoluto è un giudicare con ristrettezza e senza esperienza.

Se si affronta la predicazione apologetica, tanto più la storia è indispensabile, anche se non si tratta di un'apologià storica; perché come metodo, se non come oggetto, la storia è oggi dovunque, e se l'avversario ricorre alle sue decisioni, noi siamo certo obbligati a seguirlo.

4-. VI. — La Natura e l'Arte.

Menzionerò ancora senza indugiarmi due fonti accessorie:

la natura e l'arte, sua interprete. Non si dice forse della natura che è un discorso di Dio? Come questo discorso non influirebbe sui nostri? La natura ci fornisce dei suggerimenti, degli esempi, dei confronti istruttivi, delle metafore. È un « vasto emporio d'immagini », dice Baudelaire. Per giunta stimola il nostro entusiasmo e ci pone in uno stato di sogno realista favorevolissimo al lavoro. Se Bossuet non avesse guardato quel sorgere di luna che descrisse così magnificamente nel Trattato della Concupiscensa, noi saremmo privi di una pagina maravigliosa e di una grandiosa lezione. « Io mi sono alzato durante la notte, come David, per vedere i vostri cicli, che sono l'opera delle vostre dita... ».

La natura ha questo di mirabile che essa riposa quanto eccita; aiuta a lavorare con gioia, con la mente fresca, al largo, e si fa così miglior lavoro; il discorso non è « affaticato », partecipa degli scambi naturali, delle comunicazioni spontanee, come quelle del nostro Maestro nella Gallica, sulla riva del Lago o sul Monte.

Come dicevo, la Bibbia è a questo riguardo un modello,

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e anche la liturgia, perfino alcuni Padri della Chiesa, come San i Gregorio Nazianzeno; attraverso a loro e ad altri ancora, si :,. comunica coi discorgi della creazione. Ma quello che ci viene', da seconda mano è sempre freddo; dobbiamo soprattutto, vedervi un esempio, e senza vietarci di prendere, all'occasione, i quello che si trova lì bell'elaborato, impariamo a valerci noi stessi della grande fonte ispiratrice. :

Per questo bisogna imparar a guardare, o, per dire meglio, ^, a contemplare, il che non è la stessa cosa. Quando si guarda un oggetto, ci si sente alla sua presenza, si fa un atto fisico o volgarmente intellettuale; quando, invece, lo si contempla, ci ' si sente infinitamente lontani, nel paese delle idee madri, direbbe Goethe. Una buona notizia ti giunge come da un lontano divino, e quando si è ricevuta una buona notizia, si lavora meglio.

Alla natura si aggiunge l'arte, che, in qualche modo, ce la .raddoppia; procede da essa e la riproduce; l'interpreta a suo modo e facilita così delle interpretazioni oratorie che mantengono con le sue dei rapporti di analogia. Anche noi abbiamo da dipingere dei luoghi, da collocare dei personaggi, da costituire delle assemblee; da costrurre, da scolpire, da poetare, da cantare. Tutte le arti entrano in quella della parola, special-, mente l'arte poetica, che ne comprende essa stessa parecchie altre, e prima di tutto l'arte musicale.

Se il lirismo della Scrittura e quello della liturgia sono i meglio appropriati ai nostri soggetti, il lirismo dei poeti profani, che spesso si ispirano ad essa, gli procura un'estensione e un arricchimento non trascurabile. Lì si trovano dei colori e delle forme, vi si trova specialmente un eccitamento immaginativo che è una buona parte della facoltà creatrice. Descartea ne' suoi famosi sogni del novembre del 1619, acquista la certezza che l'intuizione del poeta è di gran lunga superiore alla ragione del filosofo per fare schiudere in noi le ispirazioni della sapienza. Un'opera poetica è sempre di natura geniale, e non è forse questo di cui abbiamo bisogno? Una predica senza genio, voglio dire senza questa sorta d'ispirazione celeste emanata dalla contemplazione e dall'esperienza mistica, anche la più modesta, scende dal suo ordine e non è più quello che un'anima cristiana ne aspetta.

A questo stesso eccitamento felice collaborano una seduta musicale, una visita a un tempio d'arte, un. soggiorno solitario in una cattedrale, eco. «Facciamoci un ambiente che il sogno

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riempie », dice Victor Hugo. Novalis esigeva un accompagnamento musicale per la meditazione, per i trattenimenti elevati, per la lettura. Delacroix attribuiva al Dies irae udito dall'organo di S. Sulpizio la sua riuscita eccezionale dell'angelo che colpisce Eliodoro, nella Ghapélle des Anges, e ai canti del Mese di Maria la Maddalena svenuta della sua Deposizione dalla Croce a S. Dionigi del SS. Sacramento. Del resto è riconosciuto che le eccitazioni sonore, specialmente se sono ritmiche, sono le più dinamiche di tutte e che hanno una fortis-sima azione sulla nostra attività intellettuale.

BTon si tratta qui di porsi in uno stato di spirito artificiale e insincero; si tratta di stimolare la propria sincerità, spesso sonnolenta, di riallacciarla al sistema di ruote emotive che la trascineranno nel suo proprio senso e le permetteranno di manifestarsi agli altri con forza. Il nostro pieno rendimento non può essere assicurato se non per un insieme di condizioni intcriori che l'arte, la natura, la parola dei maestri e gli spettacoli di fede concorrono a fornire. Ascoltiamo col medesimo orecchio il rumore del vento o dell'onda, il canto dell'allodola, la voce di Bossuet o dell'organo, la sinfonia di Beethoven e quella, più alta, della santa liturgia: da tutta questa musica in cui si immergerà l'anima nostra nascerà il suo proprio canto.

Aggiungo questo consiglio pratico di non trascurare, quando se ne presenta l'occasione, la visita di un'officina, di un laboratorio, di una esposizione commerciale, industriale, coloniale, ecc. Avere un'idea delle tecniche d'ogni specie ti procurerà una quantità d'immagini di cui ti puoi servire in molte circostanze. È la « lezione delle cose » dei bambini proseguita nell'educazione di se stesso. Ciò si riconnette con l'arte; è l'arte nel senso antico della parola, e Eonsard, dichiarava di averne tratto gran vantaggio per la sua arte poetica.

, VII. — L'Esperienza e le sue fonti.

A) la meditazione.

L'Esperienza! ecco certamente una condizione indispensabile all'autorità e alla fecondità della nostra parola. « L'azione intelligente, scrive Aristotile, è quella che parte dall'intimo con la cognizione dell'ambiente dell'azione ». L'intimo, per noi, è il nostro spirito di fede, è la nostra scienza ed è il nostro zelo;

ma noi saremo ciò non ostante sprovvisti, se ciò è unito all'i-

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nesperienza. L'inesperienza fa sorridere, e colui che fa sorridere non conta più molto. Lo spirito di fede dovrebbe senza dubbio vedere nel predicatore Colui che solo conta; ma chi è in tal modo impregnato di fede? Nel fatto, si rifiutano le lezioni di uno scolaro della vita; un inesperto è buono a menare il turibolo. Ora tutti ci prendono volentieri per gente inesperta; si crede volentieri che l'uomo di Dio ignori facilmente le realtà di questo mondo, e molti se ne approfittano per dichiarare che i suoi giudizi, le sue esigenze in materie delicate e parti-colarmente onerose, non possono esser ricevuti. È più comodo. Si ostenta di attribuire al predicatore un po' giovane quello che in realtà viene da una sapienza secolare ed eterna, quella della Chiesa. Fariseismo! sia pure! è per lo meno incoscienza, ma noi abbiamo fornito il pretesto.

All'opposto, supponi che un uomo di Dio si presenti come una specie di veggente al quale nulla sfugge; che, senza ostentare lo studio dèi costumi, genere affettato e artificiale, parla come se leggesse nell'anima tua, come se vivesse nell'intimo di casa tua, de' tuoi ritrovi: quest'uomo prende tosto un'autorità, ti senti dominato, trapassato da banda a banda, incapace di resistere alla luce .così proiettata sul caso tuo, e pronto a subire l'influenza; rimani stupito e vinto.

Del resto nulla suscita un così potente interessamento. Si ama questa effrazione anonima, che t'invita a riconoscerti senza mirarti, e t'induce a condannarti senza che ti si accusi. Se. con questo si sente la tua carità, sei sicuro dei tuoi risultati;

la tua parola porta e trascina agli atti.

Vi è una condizione, ed è che, specialmente in certe materie, tu sappi serbare una estrema delicatezza. L'uomo di Dio non deve dare a pensare che egli sia familiare col mondo che descrive, che abbia del mondo egli stesso, che l'albero della scienza del bene e del male gli abbia dato de' suoi frutti. No; l'uomo di Dio passa nel mondo senza mescolarvisi, come un morto che passeggia tra i vivi allo stato di fantasma, la sua cognizione è una cognizione dall'alto, simile a quella degli angeli e dei santi del cielo; è una cognizione di giudice e non di partigiano, di medico, non di compagno d'infermeria o di ospedale.

Ma se vi sono riserve da fare in quanto al modo di servirsi dell'esperienza, non ve ne sono affatto sulla sua utilità, sulla sua necessità. L'apostolo non può prescindere da ciò che Do-stojewsky chiamava «il còrso vivente dell'esistenza». Noi

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dobbiamo conoscere l'uomo, conoscere gli ambienti in coi la nostra attività si deve esercitare, farci una giusta idea dei costumi pubblici, dei costumi speciali del nostro tempo, della nostra nazione, delle nostre famiglie, dei nostri gruppi corporativi e degli ambienti mondani o popolari. Dobbiamo sapere che cosa avviene dei nostri bambini, dei nostri giovani e delle nostre giovani, come si fa l'educazione nei varii livelli della scala sociale, quali tendenze appariscano, quali idee, quali pregiudizi, quali passioni, quali costumi, quali gusti e quali mode vi regnino, quali letture vi si facciano, quali spettacoli vi si frequentino, a quali abusi ci si lasci trascinare, con quali pretesti si coprano, quali relazioni si mantengano, eco. Tutto ciò è necessario alla giustezza dei nostri discorsi, alla loro portata pratica, al loro effetto sulle anime.

E non si creda che si tratti di registrare una volta per sempre una nozione di queste cose. Sarebbe troppo facile! In un mezzo volume, sarebbe fatto. Dostojewsky, parlando del corso vivente dell'esistenza, intendeva di rievocare la stessa realtà, impressa in noi per mezzo di immagini autentiche ricche di calda sostanza, aventi forma di vita, talmente che noi siamo precisamente difesi dall'astratto, dalle pure nozioni, che fanno il discorso debole.

Le idee generali hanno certamente del pregio; ma prima di tutto non sono oratorie da se sole, e, anche per il pensiero puro, non valgono se non a patto che vi si arrivi per molte vie, e riassumano una folla di esperienze speciali, d'impressioni, d'intuizioni sensibili. Ottenute senza difficoltà, esposte liberamente, non servono che a ingannarci, facendoci credere che restringiamo le cose, per averne un disegno senza ombre.

Una vera esperienza ci fa toccare il reale dietro la sua immagine; gli da tutte le sue dimensioni, e con ciò il suo rilievo;

sostituisce con esseri di carne e d'ossa i fantasmi, e con questo mezzo da vita al discorso, anima le parole, nutre le proposizioni, orienta i periodi e fa che tutti i movimenti del pensiero oratorio siano calcati sulle connessioni della realtà stessa-

Per parlare con forza, e perché il discorso abbia un sapore umano, come dice Marziale (hominem sapit pagina nostra), bisogna avere la vita in sé, la vita sufficientemente conquistata, assimilata, ridotta nella nostra propria sostanza, in tal modo che sia essa che si desta, in questa o in quella delle sue regioni — e del resto tutto il rimanente nella prospettiva — quando noi emettiamo un'idea generale, una di quelle idee che sono

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allora per noi dei frutti massicci, e che nell'uomo senza espe/ rienza non sono che bolle di sapone. ^

Dalla vita all'idea, come dalla terra al cielo; poi, viceverga, dal cielo alla terra e dall'idea ai fatti: tali sono le nostre vie.

Ho detto che l'esperienza, la conoscenza degli uomini e della vita è per la nostra parola una condizione di efficacia;

ed è così, perché, senza l'esperienza, non si può stabilire la comunicazione tra noi e i nostri uditori, e allora, come ottenere una riforma?

A questo riguardo, occorre evitare un'illusione abbastanza strana, ma frequente, a cagione di quell'ossessione dell'io, che sopprime così facilmente il di fuori. ISToi ci figuriamo di parlare per i nostri proprii orecchi, per il nostro proprio spirito, e che tutto vada bene se siamo soddisfatti noi, se abbiamo espresso bene quello che pensiamo, se l'abbiamo appoggiato con prove che ci convincono, se i sentieri che abbiamo additato sono stati da noi segnati con etichette lusinghiere per il nostro senso della vita e del suo ideale. Ora è possibile che tutto ciò sia estraneo ai nostri uditori, non dica nulla al loro pensiero e urti tutte loro tendenze. Come si fa a saperlo, se non li conosciamo?

Il discorso è una comunicazione; avendo espresso nel miglior modo possibile il mio pensiero, io non ho ancora fatto nulla, se questa espressione non è calcolata in modo da far germogliare lo stesso pensiero negli altri. Io non sollevo una costruzione, ma preparo un assalto. Si tratta di rovesciare nell'uditore la costruzione psicologica che nuoce, di sostituirvi una com-, binazione che salva. È chiaro che definendo a me stesso quest'arte, il pubblico deve entrare nella definizione.

Se non so quello che passi nella testa de' miei ascoltatori e più ancora nel loro cuore, dove sono i loro veri ostacoli, da quali motivi dipendano le loro volontà, io sono disarmato, rischio di parlare incessantemente accanto, e, pieno di contentezza di me stesso, di ritirarmi avendo forse fatto del male.

Gli antichi Dottori paragonavano gli apostoli inesperti agli atleti che battono l'aria in vece del nemico. Vi sono ancora di quelli che battono i loro amici, o se stessi. ]STel fedro, Plafone da a Pericle la palma dell'eloquenza — era prima di Demo-stene — perché oltre all'elevatezza della sua mente formata dal più alto studio, sapeva rendere le sue cognizioni efficaci per la sua profonda esperienza delle anime. In medicina, spiega Fiatone, l'applicazione dei rimedi suppone la conoscenza del

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corpo da guarire. Così il codice non serve niente all'avvocato,, se non ha studiato la causa, cioè le brighe del cliente, non le sue.

Perché il vero e il bene non sono in possesso dei nostri uditori? In quale proporzione mancano ad essi, sotto quale forma, per quali lati queste anime ne differiscono, ne sono inquiete, ferite? Quali sono i varchi dell'errore e del male in quelle società e in quelle coscienze? ecco che cosa bisogna sapere. E questo ha una vastissima estensione, e non si acquista nell'occasione di un discorso; è il frutto di una lenta formazione, il risultato di una vasta ricerca e l'effetto di una lunga abitudine di osservazione.

Di quali mezzi disponiamo per acquistare questa esperienza? Becherò stupore a più di un lettore, dicendo che il più efficace di tutti, e di gran lunga, benché non possa bastare, è l'orazione o la meditazione.

Ciò sembra un paradosso. Si tratta di conoscere una cosa esterna, e l'orazione ci concentra nell'interno: come ciò si può combinare? L'accordo si fa in questo che, per l'orazione, il di fuori viene nel di dentro, e viene nelle migliori condizioni per darci quello che ci è necessario. Si fa ancora in questo che il di fuori, in verità, è già dentro, poiché ci siamo noi, e l'orazione ci fa scoprire le cause dei nostri moti. Kon vi sono qui profondi misteri? tuttavia chi ci pensa come si dovrebbe?

Ho letto in qualche luogo questa bella osservazione: « 'Sok non potè mai vedere così bene il mondo come dall'area, benché essa fosse chiusa e fosse notte sopra la terra ». Nell'arca della meditazione, chiusa essa pure, e anche se lasciasse in una certa notte d'ignoranza le realtà della terra, non si ha forse giorno sopra la natura umana, sopra gli allettamenti del bene e del male, le loro vie, i loro progressi e i loro indietreggiamenti, le loro pause e le loro recidive, i loro contagi, le loro opposizioni contrastanti, i loro effetti? Dall'alto si vedono meglio gli abissi. Sollevandoci a Dio, prendiamo dell'opera di Dio una veduta simile alla sua, una veduta ampia, profonda, sciolta dalle nebbie della sensibilità immediata, libera da quelle trazioni deformatrici che esercitano sopra i nostri giudizi i movimenti passionali. « Ogni elevazione verso l'intimo, scrive Novalis, ogni sguardo gettato dentro è nello stesso tempo uno sguardo gettato verso il vero mondo estemo » (1).

(1) movaus, S.ragme.'nts. Stock, ed.

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Spesso noi manchiamo di vedere il vero mondo esteriore appunto perché vi ci troviamo mescolati, lo viviamo troppo perché ci sia possibile scorgerlo; esso fa parte di noi, come il nostro occhio, che noi non vediamo. La riflessione sapiente ci fa vedere il nostro occhio: così la riflessione meditativa ci fa vedere il mondo, e noi stessi in esso, con una veduta profetica.

Solo l'eternità conosce le cose del tempo; quanto più vi ci si immerge, tanto più lo sguardo si affina. Le cose inaudite che avvengono attorno a noi, che si agitano nei nostri cuori, cose che l'incoscienza ignora, un contemplativo le indovina quando non le vede; impara a vederle al minimo indizio; la vita generale gli appare in qualche fatto che egli sa penetrare e in qualche essere in cui le complessità dell'anima hanno tutte il loro riflesso.

È una grossa ingenuità il credere che il peso dell'esperienza sia in ragione diretta del campo dell'osservazione. Ciò del resto è vero a parità di cose; ma siccome spesso le due condizioni si combattono e bisogna scegliere, è incomparabilmente meglio lavorare in profondità. Una individualità, realmente penetrata, / tè ne dice di gran lunga più che una gran quantità; essa offre un saggio di tutto; procura lumi su tutto, come il punto istruisce sulla linea, la foglia isolata sull'albero, una scheggia di marmo sulla cava, un raggio furtivo sull'astro lontano. Ora quello che ci manca per appropriarci questa ricchezza, non sono tanto nuove esperienze quanto uno spirito di approfondimento.

'Soia. manchiamo di documenti umani! Ma non sappiamo leggerli; i grandi osservatori lo sanno, e i santi lo sanno anche meglio di tutti, perché essi esplorano con una piena coscienza di ciò che cercano; perché guardano con un occhio purificato, con un occhio semplice, con un occhio divinizzato dalla fede, e perché non guardano solo negli altri.

Qui sta il secondo segreto. Il mondo non ha bisogno di venire in noi, come noi non abbiamo bisogno di andare a lui, se esso vi è nella nostra propria persona. Conoscerei è trovarlo. Quando poi lo vedremo, sia rappresentato nei nostri ricordi, sia in se stesso, sarà una conferma, un arricchimento in estensione e in sfumature; non sarà più zma scoperta. L'essenziale sta lì, nel suo testo, del quale l'esterno per noi non è mai se non una languida traduzione. In fondo, il « mondo », sono i' nostri difetti: non vi è che da constatarli, e noi avremo molta esperienza. Sono altresì le nostre buone aspirazioni, i nostri

—fio-buoni voleri intermittenti, le nostre buone qualità, da cui le disposizioni del prossimo non differiscono punto.

« Quando si ha un po' l'abitudine di leggere nel proprio cuore, scrive Diderot, si conosce molto bene quello che avviene nel cuore altrui ». E non è forse un uomo politico, prima giornalista, che disse queste parole abbastanza strane, e, se sono vere, abbastanza dimostrative: « La miglior fonte d'informazione per un giornalista, è ancora lui stesso ». Ohe cosa non sarà dell'uomo religioso il quale, affinchè la cognizione convenga al suo oggetto, deve qui annetterle qualità che l'esterno non produce guari: la carità, l'umiltà, la prudenza!

A informarsi al di fuori, ci si rischia. Eppure sapere è necessario; ma, cercando informazioni presso Dio, in una pia orazione, si è più tranquilli; la scienza del cuore umano non minaccia di costarci troppo caro; anzi noi troviamo lì un rifugio, dopo i nostri giri esterni, e prima di tutto troviamo un rimedio preventivo contro facili contagi.

Sainte-Beuve, ne' suoi CaMers, paragona l'esperienza a un concime che aiuta a far germogliare biade e fiori. E aggiunge:

« La mia stalla è piena, ciò manda fuori una gran puzza ». L'orazione disinfetta l'esperienza, la purifica come un benefico sole. L'uomo che la pratica può andare dovunque senza perdita, perché egli possiede l'anima sua, come l'animale dal sangue caldo può circolare in tutti i climi senza cambiare temperatura, perché porta il suo clima in se stesso e lo ricrea a ogni istante.

Tal è, dicevo, il segreto dei santi. Perciò sono essi gli uomini sperimentati per eccellenza, per poco che mediante il ministero delle anime abbiano potuto veriflcare, allargare, applicare e vedere applicare a circostanze diverse quello che essi avevano acquistato nel segreto. I Padri del deserto conoscevano meglio il mondo che i mondani, i quali senza dubbio ce lo descriverebbero meglio superficialmente, ma in fondo lo « ingoiano » e per conseguenza lo ignorano. In Cassiano, in S. Gregorio, in San Tommaso, in S. Francesco di Sales o nel curato d'Ars, vi è più esperienza profonda che nel La Bochefoucauid o nel Montaigne, per quanto grandi conoscitori siano in fatto di umanità.

I santi hanno stupende visioni dell'uomo, delle visioni pro-fetiche, dicevo, e dove le hanno essi prese, se non, oltre al loro ministero e in correlazione col loro ministero, in un contatto ardente con Dio e con se stessi, in profonde orazioni? Essi si,

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sono informati ovunque, quando hanno potuto, e noi dobbiamo fare lo stesso; ma, ricordando ora le nostre fonti di esperienza, non dimentichiamo che lo spirito di orazione fa sì che tutte siano buone, sia come salvaguardia, sia come mezzo essenziale di farne un uso proficuo.

B) la letttjka.

Devo menzionare prima la lettura. Ne ho parlato altrove con molti particolari (1); qui ne dirò solo poche parole.

Io professo che bisogna leggere poco, relativamente; ma poco relativamente vuoi dire ancora molto, e ciò invita soprattutto a leggere bene, non da stordito, o da appassionato di sensazioni passeggere.

Nella lettura noi cerchiamo molte cose diverse, cerchiamo istruzione, stimoli, edificazione, distrazione; ma possiamo e dobbiamo trovarvi anche informazione, un senso esatto delle realtà e delle persone di ogni genere, individui o gruppi, che la nostra parola deve toccare. In grazia di questo spirito, se ce ne approfittiamo, i giornali, le riviste, i libri eterni o i libri di attualità possono fornirci l'esperienza del mondo. Essi la contengono; non si ha che da trovarla, ed è lì che un'anima meditativa, formata dall'orazione, fa vedere quello che la distingue da un'anima incerta. Tutto le giova, perché è aperta a ciò che è di peso e perché le sue tendenze la chiamano, perché il suo zelo apostolico va in cerca della sua materia, inquieta de' suoi ostacoli probabili, bramosa di conquistare i suoi mezzi.

O) le frequentazioni.

Citerò poi le frequentazioni. Non si ha da raccomandarle;

esse s'impongono; bisogna piuttosto imparare ad eliminare tutte quelle che sono oziose, a scegliere, e principalmente a farne buon uso. Dirò tuttavia agli accaniti lavoratori: pur rimanendo ciò che siete, lasciate un posto nella vostra vita all'imprevisto e ai passi che allargano. Non permettete che un piano di attività troppo astratto faccia di voi un meccanico rigido e non sappia valersi delle indicazioni della provvidenza quotidiana. I giovedì del pensiero non sono sempre meno fé-:' condì che le sue giornate laboriose. Io domando la parte del- ;

(1) La Vie iwtÈllectuelle, eh. VII. Édit. de La Siwvfl 4w •feunes.

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Filiazione attenta, dèi vagabondaggi studiosi, delle uscite che procurano in casa il raccoglimento profondo.

In quanto alla scelta, che di solito dipende così poco da noi, farò questa sola osservazione. Non cerchiamo unicamente le frequentazioni che ci piacciono, gli ambienti in cui si pensa come noi. È una tentazione; ma ne risulta una formazione troppo ristretta. Il terreno dell'avversario ha bisogno di essere conosciuto; anzi l'avversario può essere un. alleato in più modi;

c'istruisce, ci controlla, ci obbliga ad approfondirci. Una riunione contradittoria è a volte una forte e felice scossa per la nostra quiete intellettuale; ne siamo presi da vivo stupore. « Com'è possibile!... ». Oh! sì, è possibile, e bisogna saperlo. Se noi facciamo tesoro della lezione, il nostro apostolato diventerà più diretto, meglio adatto al reale stato di spirito della gente, che a volte è così lontana dal terreno ove si arrovella un predicatore novizio. Una volta acquistato ciò che si apprende nei libri, resta da spiare ciò che si agita nei cuori.

Dico spiare, e a bello studio uso questa parola segreta; si giunge a sapere quello che la gente pensa, non propriamente domandandoglielo; spesso non lo sanno essi stessi, e se le loro dichiarazioni sono istruttive, a volte è ben più per quello che esse rivelano d'insospettato che per quello che esse esprimono. Mi si ha un bei dire, gettando sulla tavola una moneta gialla:

Ecco una moneta d'oro, io odo il suono e scopro la frode. Istruirsi circa le anime è dunque osservare, non è interrogare, fare inchiesta. Questione di attitudine interiore piuttosto che di ricerca. Quello che ci abbisogna è da per tutto, ma a noi spetta di vedercelo. Ci vuole un'attenzione sveglia, un certo senso di ciò che si cela, di quella vita invisibile degli esseri, che spiega quello che vi si vede. Fu detto dei personaggi di Edgar Poe che essi sono « ipnotizzati da ciò che è profondo » (I): l'apostolo in cerca di esperienza deve partecipare di questo spirito.

E gli occorre anche uno spirito di silenzio. I ciarloni non s'istruiscono. Quello che tu avresti il prurito di dire, lo sai:

ascolta piuttosto quello che forse non sai, a cui non pensi:

chi dirà il partito che ne potrai trarre in tale occorrenza?

I romanzieri, i drammaturghi hanno così sempre lo spirito nell'atto d'ingoiare, e tutto loro giova. Un incidente senza' importanza per altri, prende per essi una portata immensa,

(1) camtllo mauciaib, tea Princes de l'Esprit. L'Ideologie d'Edg&r Poe.

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Come ima grande sala è riempita di luce da un piccolo vano. La gente comune, e nelle circostanze più ordinarie, sono quelli che li istruiscono meglio. Shakespeare si forma presso la portinaia più ancora che presso il gran signore. Come con molta finezza osserva Amici, « pochi individui meritano di essere ascoltati, tutti meritano di essere considerati».

Ciò non impedisce ai grandi scrittori di esplorare specialmente gli ambienti particolari che devono descrivere. Essi non vi mettono sforzo; lo sforzo restringe e paralizza; ma la loro curiosità è ardente, e costante è in essi la familiarità con lo scopo prefisso e cercato. Donde quella ricchezza di osservazione che da ai caratteri, ai dialoghi, alle situazioni che immaginano i grandi creatori quell'aria di verità e di vita che è il tutto della loro arte. Noi, che dobbiamo creare altresì a nostro modo, ricostituire il dramma della vita, scrivere la storia o il romanzo delle anime, non possiamo dispensarci da un simile sforzo.

' II mezzo per renderlo fecondo al massimo è di avere sempre in testa alcuni progetti, abbozzi, lavori in attesa, che da se stessi cercano il loro compimento; che senza sforzo cosciente, si assimilano il loro ambiente, indovinano nel fatto volgare e nella parola insignificante l'alimento d'un oscuro pensiero, il controllo di un presentimento o un elemento di felice espressione. Non si trova se non ciò che si cerca. Essere sempre disponibili, sempre in stato di ricettività, ecco il gran segreto.

Aggiungi certe disposizioni morali, che io qui non considero come obblighi di virtù, ma come mezzi dell'esperienza. Noi siamo molto più ricettivi quando abbiamo rimosso i partiti presi, le preoccupazioni dell'amor proprio, le tendenze esclusive, le sollecitudini di campana o di scuola, le passioni, di qualsiasi nome speciale si ammantino; perché ogni passione ci chiude alla verità e c'impedisce di vedere ciò che è davanti a noi.

Del resto l'aspetto di virtù non può parimenti essere! estraneo. L'apostolo è tutto di Dio. Se egli osserva il cammino del mondo, è per dirigerlo, e se nulla gli sfugge, lui stesso deve sfuggire a tutto, per restare fedele al suo compito.

Le imprudenze, i passi poco edificanti, le letture e relazioni pericolose non ci son necessario, checché ne pensino certuni, per i quali la fossa non è ben conosciuta se non vi si cade. Il mondo che abbiamo bisogno di conoscere si getta sopra di noi;

è inutile correre dietro ad esso e abbandonarci alle sue insidie.

-eS-Se mi si permette questo gioco di parole, non sono « le esperienze » che fanno l'esperienza, è la sagacia, è l'atteggiamento dominatore dello spirito, che, in vece di precipitarsi nella corrente, si tiene sul suo promontorio, in faccia al ciclo, attaccato alle cose eterne, al contatto degli oggetti di fede. In tali condizioni, neppure i mostri ci toccano; siamo noi, come Tobia, che li tiriamo sopra la riva.

< D} II, contatto DEGLI UOMINI DI ESPERIENZA.

All'esperienza che si acquista personalmente si può aggiungere quella che si guadagna al contatto degli uomini di esperienza. Non intendo con ciò i vecchi. Un proverbio rabbinico dice a buon diritto: « Vi sono dei vasi che sono pieni di vino vecchio, e vi sono vasi vecchi che non hanno nemmeno vino nuovo ». Ma in qualsiasi età, questi o quegli può esser per tè un libro vivente, una raccolta di osservazioni e di fatti, sopra il terreno che egli ha esplorato di più. Tu avrai comunicazione di questi beni se saprai interrogare, o solamente ascoltare, cosa così rara! Si parla, si attende il proprio turno di parlare; ma non si ascolta; non si riflette a quello che si ode, e ci sfuggono mille occasioni di guadagni.

Sono gli stessi, che si arricchiscono della ricchezza degli altri e che alla loro volta, in realtà, scopriranno la loro propria ricchezza. Questo sforzo è di gran lunga il principale;

perché l'esperienza che consiste specialmente in una formazione della mente, è a questo titolo essenzialmente personale; essa si ha da riprendere sempre a ogni generazione, l'intero ciclo ne dev'essere percorso; ma lo percorre più presto e con più fortuna, chi sa appoggiarsi sopra gli altri. Quello che tu non hai ancora veduto e che un altro ha veduto, costui non lo può vedere per tè e concederti la piena efficacia di questo sguardo; ma tè lo può indicare e aiutarti poi a comprenderlo, come un dotto suggerisce un'esperienza, come un artista desta l'attenzione di un discepolo sull'equilibrio delle masse e la dirczione dei movimenti in un ciclo, in una catena di montagne, in un pannificio. La vita è il documento originale; un uomo di esperienza non è che un documento di seconda mano e come un indice bibliografico; ma tutti e due servono, e si sa bene che lo storico non s'immerge nei documenti d'archivio senza cercar di sapere quello che i suoi predecessori vi hanno veduto.

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E) il MlI'tISTEBO STESSO.

Diciamo finalmente che è nello stesso ministero, nel lavoro in cui è già impegnata la nostra giovane esperienza che noi possiamo acquistarne una più grande. Fabricando ftt faber. Questo adagio, che si applica a tutte le condizioni della parola, si applicherà tanto più a queste che non si vedranno in noi di .quei predicatori incoscienti, che non si curano di conoscere le popolazioni, a cui predicano; parlano ad esse senza darsi pensiero dei loro bisogni e ripartono senza preoccuparsi dei frutti.

Così vi sono dei professori solenni che si recano nell'aula scolastica, sfoderano le loro note, declamano la loro orazione e se ne vanno senza occuparsi altrimenti dei loro allievi, del livello della loro mente, della loro comprensione, del loro progresso. Essi rassomigliano a quegli anfitrioni di cui parla Alfonso Karr, che danno pasti a venti franchi a testa (oggi sarebbero cento), ma non darebbero due soldi perché ti facciano buon prò.

Un vero apostolo è più compenetrato del suo compito. Prima di evangelizzare una popolazione, s'informa di essa, interroga i suoi pastori, chiede delle sue tendenze e de' suoi bisogni, si prende cura delle condizioni che egli può aver da considerare per agire sopra di essa con prudenza e opportunità, specialmente se si tratta di predicazione più direttamente pratica, come un corso di esercizi, una missione. Mirando allora ad effetti di emendamento e di incitamento impossibili a ottenersi senza una cognizione molto precisa dello scopo, sarebbe uno stordito chi trascurasse di documentarsi circa lo stato dei fatti.

Se invece si prende questa precauzione di saggezza, oltre l'esperienza immediata da cui trae benefizio il lavoro attuale, si acquista un elemento di formazione generale che, aggiunto ad altri, ci procurerà a poco a poco un'esperienza più larga.

Quando poi saremo all'opera, se sappiamo non confinarci in una cattedra come in una torre d'avorio, da cui non scendiamo se non per mangiare e chiacchierare, per far visite frivole o percorrere il paese da turisti; se noi attendiamo al confessionale e ci mettiamo a disposizione delle anime, potremo in poco tempo acquistare la più seria e la più profonda esperienza.

« Quello che io so delle anime, diceva il curato d'Ars, sono esse che sono venute ad insegnarmelo ». Il confessionale — dopo ^ l'orazione — se noi lo occupiamo da veri rappresentanti di Dio,

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ci rende specialisti del cuore umano, uomini che conoscono l'umanità dall'interno, che sanno le vie del bene e del male, del vero e del falso nelle povere coscienze, che vedono chiaro tutto il vuoto e la frivolezza delle convenzioni e delle piccole o delle grandi ipocrisie usate per fare sfoggio di ciò che non si è, per mascherare ciò che si è.

Il mondo reale non è punto quello che apparisce; si copre d'orpello e di maschere, un uomo di Dio sperimentato vede attraverso a questi artifizi, ristabilisce il reale, lo libera, come il chirurgo scopre il suo campo operatorio e si rende conto di ciò che è a fine di sapere ciò che fa.

Questo suppone sempre lo zelo. Colui che vede nel confessionale un soffocatelo in cui si entra all'ultimo momento, da cui si esce il più presto possibile, dove si ascolta distrattamente, senza darsi pensiero dei bisogni, dei pericoli, delle tentazioni, dei drammi segreti che nasconde ogni esistenza e che egli deve curare, costui non riceve più di quello che da; raccoglie la noia e non l'esperienza.

Devi almeno prestarti per davvero alle anime che si affidano così a tè, entrare nel loro caso, sentirle palpitare, se così posso dire, come un uccello nella mano. Allora, si prova al loro contatto il sentimento della vita reale, quella che si mena in fondo ai cuori, non sulla piazza pubblica o nei ritrovi della politica, nei convegni, nei caffè, nei salotti, nei circoli, oppure nelle famiglie disunite.

La vita reale si vive tra le anime e Dio, tra le anime e i comandamenti di Dio, tra le anime e gli oggetti delle passioni che allontanano da Dio, o dalle virtù che avvicinano a lui;

essa si vive nel segreto, prima di trarre seco gli atti visibili. Quando si ha questa esperienza si sa tutto, perché tutto si spiega, si lascia prevedere e può anche farsi emendare per mezzo di questa scienza delle più intime fibre. La parola ne vivrà, e vi attingerà, dopo l'attrattiva e la potenza della verità stessa, il principale della sua forza.

Riassumendo, l'uomo di Dio, con tutti i mezzi a sua disposizione, si deve sforzare di acquistare un'esperienza completa, un'esperienza particolare del suo caso e per il suo lavoro, ma specialmente quell'esperienza intima che non si acquista che al contatto delle anime e di Dio, delle anime e di se stesso. Per questa ragione mi preme di indicare una volta di più, come fonti principali dell'esperienza apostolica, l'orazione e il confessionale, e prima di tutto l'orazione.

5 — sbbiillanobb. L'oratore cristiano.

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CAPITOLO III.

Gli appoggi interiori della Parola di Dio.

I.—La buona vita.

Se la parola di Dio ha una natura che la raccomanda e la esalta ai nostri occhi, se ha delle fonti alle quali si deve ricorrere, ha pure e soprattutto delle condizioni inferiori, senza le quali nulla sì può attendere di fecondo, e di salutare per noi stessi. Io le riassumo così: la buona vita; il silenzio e la solitudine, la preghiera, unita — di nuovo — all'orazione e alla vita sacramentale.

La buona vita, si potrebbe dire che ciò va co' suoi piedi, ed è vero; ma la sua importanza è così estrema, che, a dispetto dell'umiliazione che si può raccogliere a parlarne, se ne ha il dovere.

Ciò va co' suoi piedi; infatti è un'esigenza evidente di una missione e di un'azione come quelle dell'uomo apostolico. « La sorgente dev'essere sempre più alta della fontana », si dice:

potrebbe forse essere al di sotto? Il predicatore è un inviato:

Dio non intende certo d'incaricarlo, senza che egli vi abbia alcuna parte, della dispensazione dei più grandi beni; ciò non rassomiglierebbe affatto a una sovrana bontà e a una provvidenza sempre armonica. Ma ancora molto meno Iddio deve voler incaricare di questa missione un nemico, un fellone. Lui nel quale la verità è vita, Lui la cui vita è la luce degli uomini, non consentirebbe a impegnare un uomo in quella via di falsità, di contradizione interna, che consiste nel dire e nel non fare, nel sermoneggiare agli altri riservando se stesso, nel rappresentare esternamente l'ideale e dentro avere il marcio.

Il mercante di perle che non ne possiede punto, il proverbiale calzolaio che porta le scarpe rotte, la candela che illumina gli altri e consuma se stessa, la campana che chiama gli altri alla chiesa ed essa non vi entra mai (S. Francesco di Sales), l'uomo che accende un fuoco e che non vi rischiara ne vi riscalda se stesso (Ennio), sono dei tristi simboli. Tutti pensano

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quello che 8. Pietro disse a Dante, che gli aveva allora definita la fede:

........ Assai bene è trascorsa

d'està moneta già la lega e il peso;

Ma dimmi se tu l'hai nella tua borsa (1).

Siamo noi i rappresentanti, e non solo le nostre parole. Il semplice fedele rappresenta poco più che se stesso, l'uomo di Dio rappresenta tutto il ciclo, del quale vuole divulgare il messaggio; egli è per istituzione un personaggio sovrumano; per quanto sia e si debba sentire umile, non può dimenticare questo compito, e se l'ha dimenticato, cada inginocchioni!

Cicerone definisce l'oratore vvr probus dioendi peritus: se un pagano esige la probità dall'oratore, perché l'oratore gli sembra consacrato alla giustizia, che cosa esigerebbe egli da colui che è consacrato alla virtù superiore del cristiano?

Nel salmo 49 c'è una apostrofe che fece un giorno scoppiare in singhiozzi il P. Bridaine, durante una ricreazione: Perché va' tu parlando de' miei precetti, e ti rechi alla bocca il mio patto, mentre hai in odio la corrosione e ti getti le mie parole dietro le spalle?

Questo è un caso estremo, e il buon P. Bridaine ne era assai lontano; ma l'esempio di Gesù Cristo ci fa vedere che la buona vita non è qui se non un minimo, e che, per l'apostolo, il caso normale è quello di una santa vita. La missione di Gesù Cristo ci fa vedere che la s'inaugura con azioni straordinarie, con un gran digiuno e con una intensa vita intcriore: è un insegnamento. Gesù non esige da tutti quello che fa Lui, nel grado in cui lo fa Lui; ma tutti sono obbligati a entrare nella sua carreggiata. Anche di essi si deve poter dire: Cepit -facere et decere. Prima fare, e poi insegnare, e se così non si è fatto, riformarsi prima e poi esortare: ecco l'ordine; perché il precetto, essendo una formula di azione, non tollera facilmente che esso si esprima senza sottomettervisi; allora esso si rivolterebbe contro il suo violatore, che si sente dire: Ex ore tuo tè indico, serve nequam.

Questa condizione a priori, tratta dall'ordine divino delle cose, si conferma, nell'ordine umano, con un'osservazione psicologica elementare. Quando non si è virtuosi, parlando della virtù, si è deboli; non si trova l'accento, o l'accento che si trova è falso; si parla da profani nel senso tecnico della pati) Paradiso. XXIV, 83.88.

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rola; non si ha la visione franca, il sentimento spontaneo e l'azione stringente. Allora tutto è ridotto, tutto si trova contaminato da artiflzio; si esercita un mestiere, ma quel bisogno interiore di fare scaturire la parola come una esuberanza, non si ha più. « Darai alla tua voce l'accento della potenza, dice S. Bernardo, se senti di esser persuaso tu stesso di ciò che vuoi persuadere agli altri » {In Cant., Serm. IX).

Inoltre la libertà apostolica di un uomo la cui vita non è retta si trova terribilmente intralciata. L'onore, in lui, è a disagio. Può ancora parlare sinceramente, ma quale paralisi alla lingua! Esprimendo quello che la sua vita contradice, le risuona all'orecchio il proverbio: « Medico, cura tè stesso ». Non sarebbe forse questo il segreto di certe lassezze verbali, di certe compiacenze per lo meno negative, riguardo a ciò che si dovrebbe smascherare? Si ha paura di darsi la zappa sui piedi, di opprimere se stesso. Ah! sia oppresso l'uomo! se Dio vi deve trovare gloria; anche con un ritorno tardivo, lo si può meritare; ma preserviamoci piuttosto da smatta sventura,, e l'orrore del male ce ne tenga lontani.

Ancora un'altra cosa ci può qui sminuire, ed è l'inesperienza delle vie di Dio in ciò che hanno alcun che di delicato e di difficile. La competenza in queste materie — voglio dire l'attitudine non solo a definire, ma anche a guidare, ad eccitare in modo esperto — è figlia dell'esperienza personale. È questa una questione d'arte, in qualche modo, e il consiglio d'arte che regge, che rischiara praticamente, non è dell'estetica da gabinetto, ma dell'artista. Colui che fa bene è a questo riguardo colui che sa; il reale lo avverte delle sue vie perché egli le frequenta; consiglia bene, perché ha ciò « nella mano », « nel sangue », vale a dire in una immaginazione e in una sensibilità disciplinata, prossime alle cose.

Questo c'induce ad asserire che la buona vita è soprattutto necessaria per assicurare gli effetti della parola cristiana. Il predicatore potente è quello che può dire, benché non lo dica:

Siate miei imitatori come io lo sono di Cristo {I Cor., IV, 16);

Quello che mi avete udito dire e avete visto in me stesso, praticatelo (Philipp., IV, 9).

Vi sono uomini che convertono presentandosi; la virtù e la pietà che loro si attribuisce li precedono e predicano prima di essi, per essi, in tal modo che la loro parola non è che un complemento, un esercizio più visibile e più completo della loro

potenza. La loro autorità è centuplicata dalla loro aureola. La loro qualità di uomini di Dio non è il fatto di una semplice missione, di una « denominazione estrinseca », come si dice in scolastica, ma è una cosa interna, cosa che esplode dall'interno all'esterno e che in ciascuno dei loro gesti, in ciascuna delle loro intonazioni o delle loro espressioni di volto, trasparisce.

Dio allora si rivela non solo in parole, non solo in una funzione, ma in un essere; lo sentiamo vivere, e gli inviti che ci fa, oppure i suoi rimproveri, ovvero le sue promesse, hanno quello che occorre per entrare nel cuore.

Aggiungi che la stessa esistenza di tali uomini è un argomento in favore di ciò che essi esigono da noi e che volentieri si dichiarerebbe impossibile. È possibile, poiché lo fanno essi. Sotto il loro sguardo, il male sente un'accusa muta, accusa indulgente però e che porta al pentimento.

I trionfi apostolici dei santi non hanno altra spiegazione. Essi non hanno detto niente che noi non diciamo press'a poco in modo identico in quanto alla sostanza; in quanto alla forma, a volte dicevano molto meglio; potè anche succedere che dicessero peggio; ma erano essi, erano dei nuovi Cristi, e per conseguenza una specie d'incarnazione della stessa verità eterna. Ora il mondo è malvagio, prima di tutto è debole; ma serba il sentimento del bene e l'attrattiva del sublime; in fondo non ama che i santi; si getta ai piedi di colui che esso non può sedurre; non si arrende che al suo padrone; imitarlo è incorrere il suo disprezzo, e se esso disprezza tè, non gli resta che a disprezzare i tuoi discorsi. ~Son è possibile vincere gli uomini che superando in sé l'uomo, per assicurare il regno dello Spirito.

?Ben sembra che ciò già confermato dalla stessa storia della religione nel mondo. È ammesso che la conversione dei popoli alla fede cristiana sia stata causata dalla predicazione apostolica, evidentemente, ma soprattutto dagli esempi apostolici e dalla vita dei primi cristiani. I nostri padri rendevano testimonianza, con la loro vita, di una vita nuova nel mondo. Era una corrente che attraversava i mari stagnanti e fetidi del mondo antico. Quelli "ìhe ne avevano abbastanza di quel fetore si abbandonavano alla iiuova corrente; ma non lo avrebbero fatto su un semplice invito verbale. Dei parlatori ne avevano le tasche piene! Ne avevano avuto dei magnifici, come Scorate,

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e che nulla avevano compicciato. La vita viene dalla vita; la stessa parola di Dio non è efficace se non perché essa è viva, E la vita che essa porta in sé si può certamente comunicare, se a lui piace, mediante strumenti morti; ma tale non è la provvidenza ordinaria. È già un miracolo abbastanza grande il convertire per mezzo nostro nelle migliori condizioni; noi non abbiamo da esigere da Dio dei miracoli supplementari,

L'uomo dietro il discorso, e Dio dietro l'uomo; la parola, interprete dell'anima, e l'anima organo di Dio: ecco l'ordine. Quando quest'ordine non è mantenuto, di solito avviene che la parola cristiana non ha più l'aspetto se non di una più o meno bella commedia, che si ammira forse, di cui si dirà bene, ma che non si prenderà per sé più di quello che abbia fatto l'oratore stesso. Questi ti ha fatto sapere dov'era la verità;

ma coi fatti ti fa anche sapere la poca considerazione che essa merita. Di queste due forme di espressione, si sceglierà la meno esigente; si crederà quello che fa l'uomo, per dispensarsi da quello che egli dice. Egli fa il suo gioco parlando; si entra nel gioco ascoltando; ma non è che un gioco per tutti, e si prende così l'abitudine di non vedere che un gioco nella parola divina. Non è forse la corruzione del pubblico, unita a quella di una vocazione sublime?

Quando noi parliamo di una buona vita, dobbiamo ancora -pensare a un'altra cosa. Certe considerazioni che precedono non hanno di mira, nel predicatore, se non l'esclusione del male reale e la presenza reale del bene; ma altre, come le ultime, escludono anche il male apparente; perché, riguardo al prossimo, il male reale e il male apparente coincidono, avendo gli stessi effetti; lo scandalo, cioè il pretesto per sfuggirci, sarà lo stesso, ed è quello che dobbiamo evitare. « Colui che da delle regole e dei precetti per ben vivere, dice Lattanzio, deve eliminare dalla sua persona tutto quello che può essere un pretesto per dispensarsene » (De div. Institut., 1. IV). È sempre;

un pretesto, anche nel caso di una reale inferiorità del predicatore, e tanto più nel caso di un'apparenza; ma noi dobbiamo tener lontano il pretesto. Lo scandalo dei deboli obbliga per motivo di carità, e a chi rifiutasse questa carità dell'edificazione, si potrebbe giustamente domandare: A che prò la carità della parola? ^,l

Bisogna confessare che non è facile dare soddisfazione in;;

questo. Il pubblico è difficile per noi quanto è facile per se"

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stesso; esso non ci lascia passare nulla. "Fariseismo1? Vi ha parte certamente; ma vi è anche il sentimento dell'ideale. Il pubblico ci colloca in alto, e appena che noi scendiamo, muta parere;

ingannato, si irrita; noi siamo gente che abbiamo tolto al pubblico un bello spettacolo, una forza di cui forse non si serviva, ma che teneva in riserva; l'ha con noi perché gliel'abbiamo rapita.

E non solo il pubblico è difficile, ma è sospettoso e facilmente ingiusto; ignora quella carità di cui S. Paolo disse: Essa non pensa male. Quand'uno è di passaggio, più facilmente può sfuggire alle lingue intemperanti; ma sotto altro aspetto è anche più esposto, perché il forestiero è più in evidenza, e tutto quello che fa lui ha peso. Nondimeno, tutto sommato, la sua condizione è migliore; vi è un partito preso favorevole, e del resto molte cose sfuggono. Là dove si risiede, là dove si circola e si lavora tutti i giorni, è un altro par di maniche. Un parroco, un curato, per quanto giano virtuosi, hanno molta difficoltà a preservare sempre la loro reputazione. Si legge nel Don CM-sciotte: «II prete che obbliga i suoi parrocchiani a dire bene di lui dev'essere maravigliosamente buono, specialmente nei villaggi ». Bisogna « obbligare » la gente; non lo fanno spontaneamente.

È manifesto che l'uomo di Dio è avvolto da un incanto soprannaturale, possibile, tutto sommato, a procurarsi. Sta a lui non dissiparlo. Perciò fugga non solo il male e le apparenze del male, ma le leggerezze, le vanità, le superfluità, che lo sminuiscono e vengono così in detrimento del suo ministero. S. Agostino non teme di dire: « Parla con sublimità colui, là vita del quale non può essere esposta a nessun disprezzo » (De Doctr. Ghristiana).

II. — II silenzio e la solitudine.

Indicherò solo per sommi capi, avendone già trattato più volte l'argomento, quello che un saggio predicatore deve al silenzio e alla solitudine (1). Non è possibile dispensarsi qui dal citare il celebre detto di S. Antonino: Silentium 'poter prae-dicatorum. Perché il silenzio è il padre dei predicatori? Perché solo il silenzio,, e la sua sorella, la solitudine, permettono il

(1) Vedi La Vie mtellecluelle, eh. Ili; La.Vie catholique, t. II, eh. 4.

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lavoro, nello stesso tempo che l'elevazione dell'anima, che, unita al lavoro, è la condizione del dono di sé.

Noi siamo degli esseri che si danno. Per dare, bisogna senza dubbio mescolarsi con la gente, prima, per acquistare esperienza, poi, per applicarla; ma tra le due cose, la nostra esperienza esteriore deve maturare, e abbiamo detto che ce n'è un'altra, che si acquista nel segreto, al contatto di se stesso, al contatto dei buoni libri, e specialmente al contatto di Dio, ed è la parte del silenzio e della solitudine.

Eipetiamolo senza stancarci, non è col mescolarsi col mondo -, che lo si conosce meglio. Il mondo splende nella sua verità solo per colui che lo abbandona, per colui che, avendo saputo distinguersi, separarsi, ha mantenuto il suo sguardo « fresco », come dicono gli artisti, e ben presenti le norme de' suoi giudizi. S"on si conosce bene, con una cognizione riflessa, se non quello. .che si mette per terzo con se stesso, quello che s'introduce nella propria conversazione con se stesso, e bisogna essere in ;

silenzio per parlarsi.

Del resto la cognizione degli ambienti e delle anime non è tutto. Lo spirito ha bisogno di approfondirsi; lo spirito deve concentrare le sue riflessioni e le sue forze; l'ape vuole fare il suo miele. Credi forse che la dissipazione abituale tè lo potrà permettere? Barrès scrive ne' suoi CaMe'rs intimi: « È il silenzio è l'oblio, che mi concentrano su me stesso e mi permettono di superarmi ». Si ha un bei riservare il tempo indispensabile al lavoro: questo tempo è anticipatamente sciupato da troppe lunghe chiacchiere. Quando la tua mente, per ore intere, ha seguito un torrente di vane conversazioni, non riconquista facilmente la terra ferma; benché sola, è ancora trascinata;

ed è forse trascinata tanto più, perché deve allora sostenere da se sola la parte di tutti i personaggi, formulare le domande e le risposte, e il suo silenzio apparente è più rumoroso, più nemico del lavoro che le conversazioni spente.

Che dico? Lo stesso lavoro apostolico, mal regolato, può rendere lo stesso servizio che le divagazioni. L'espressione di sé arriva presto a contrariare l'approfondimento di sé, se il ritorno alla meditazione non viene a vivificarla e a farne, all'opposto, una forza di approfondimento e un controllo. Una parte di solitudine e di silenzio è necessaria perché la parola divina abbia il suo peso.

La forza di penetrazione delle parole viene dalla loro ispirazione, cioè dalla presenza in esse di tutta l'anima, e, per

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mezzo dell'anima, degli stessi oggetti che si vogliono persuadere. Per acquistare e conservare questa ispirazione, il silenzio, l'isolamento, l'elevazione al di sopra dei sensi, una vita circospetta e semplice, l'applicazione e la pazienza solitària non sono forse condizioni richieste'? Chi può sapere quando passerà il soffio? Quando passerà, resterà da precisare, da coordinare e da regolare i suoi contributi. E nella calma, che una soluzione satura si depone in cristalli e si compone un'architettura. La natura non parla; ma opera, si esprime con creazioni. Così dell'artista, il quale crea anche lui. « II pittore, dice Leonardo, dev'essere solitario, considerare quello che vede e parlare con se stesso ». Aggiungi « con Dio », e tu hai la ricetta di un'ardente parola, di un'azione apostolica feconda.

Noi abbiamo ammesso una parte di frequentazione necessaria. Essa è difficilissima a dosarsi. Si procederà di buona fede. Ciò dipende da ciascuno, dal suo carattere e da' suoi doveri. Ma certamente è meglio meno che più. Non temiamo di diventare un po' selvaggi, dei buoni selvaggi, graziosi quando ci si accosta, ma che la gente non accosta facilmente, sapendoci difendere con benefizio di quelli stessi che allontaniamo.

In ogni caso, rimanga lo spirito di solitudine. In mezzo al mondo l'uomo di Dio deve ancora essere solo, simile al suo Maestro, nel quale abissi di silenzio coesistevano con le più vive parole. In questo senso Marco Aurelio disse (Pensieri, III, 17): « L'uomo libero può fare a meno della solitudine come del mondo ». Ma a quest'uomo spetta, pure prestandosi, di non pensare in fondo che a organizzare l'opera sua. Se non è in vista dell'opera sua che si è recato là dov'è, egli non è al suo posto, e appena che quest'opera glielo permetta, deve ritornare al suo miglior posto, quello del contemplatore, padre dell'oratore, nutrizio di tutte le sue facoltà, custode di tutte le sue forze.

III. — La preghiera. L'orazione. La Messa.

Per sorreggere la nostra parola nell'intimo nostro, ci occorre l'appoggio divino della preghiera. E nella preghiera, io comprendo l'orazione, non più come mezzo dell'esperienza, ma nella sua qualità propriamente mistica, e vi comprendo anche la santa Messa, preghiera per eccellenza, perché ci unisce in-

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timamente alla sola preghiera eccellente per se stessa e per dire così unica, la preghiera di Gesù Cristo.

Le ragioni di queste esigenze non sono misteriose; esse si prendono dal nostro oggetto, che è soprannaturale; dalla nostra missione, che richiede il contatto intimo con chi ci manda;

dallo spirito animatore della nostra parola, necessariamente attinto alle sorgenti spirituali che la preghiera mantiene.

L'oggetto del nostro apostolato è il rinnovamento delle anime, la loro conversione se ne hanno bisogno, in ogni caso il loro progresso: ora un tale risultato dipenderebbe forse dalla nostra parola abbandonata a sé sola? Esso non dipende nero» meno dalle anime di cui si tratta, fuori di un soccorso divino.

Il soprannaturale è una collaborazione, e in questa collaborazione è Dio che ha l'iniziativa. La grazia comincia, il libero arbitrio segue. In quanto alle contribuzioni e alle stimolazioni estranee, sono invero così estranee che non hanno neppure per punto di applicazione l'anima a cui ci rivolgiamo. Vi si pensa? Su che cosa operiamo noi, parlando? Sull'anima stessa? Niente affatto; noi operiamo sul corpo animato, mediante un fenomeno fisico che è la voce. L'azione si spande sull'adunanza come un'onda, e l'adunanza ne può ricevere la scossa emotiva senza che effetti inferiori veramente apostolici siano acquisiti:

è quello che ha fatto dire con giusta ragione che è più facile a un oratore convincere una folla che un individuo, salvo che la parola convincere, qui, dovrebb'essere sostituita con la parola commovere. Ì3 questo che noi cerchiamo? Noi vogliamo che l'anima cambii, in ciascuno dei nostri uditori, e noi siamo impotenti a raggiungerla. L'anima alla sua volta raggiunge se stessa, ma non è al livello del soprannaturale. Se dunque l'anima deve convertirsi, rinnovarsi, progredire, non basta che essa voglia, bisogna che lo domandi, bisogna che preghi;

e tanto più se vogliamo noi procurare questo risultato, non ci basta la nostra parola, salvochè Dio non la secondi.

Praedicatores suos Dominus sequitur, dice S. Gregorio. Il Signore, infatti, segue i suoi predicatori; ma opera secondo l'ordine della sua Provvidenza, che è un ordine di solidarietà fraterna, di carità. La parola apostolica è già una carità, ma parziale; perché sia completa, il predicatore deve fare tutto quello che è in suo potere. La sua eloquenza, se ne ha, non consiste che nel procurare ai pensieri e ai sentimenti che gli riempiono il cuore tutte le loro potenze di espansione. Ora la preghiera ne è una. Così la preghiera fa parte, in certo modo,

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della stessa eloquenza cristiana; passando per Dio, essa raggiunge l'uditore e completa lì, nell'intimo, lo sforzo del nostro verbo,

Quale oratore, disponendo di una tale forza, vorrebbe trascurarla? Un avvocato che, fuori della sua difesa, credesse possibile un intervento in favore del suo cliente, e vi si rifiutasse, non dimostrerebbe forse che la stessa sua difesa non è sincera? Così il predicatore senza preghiera prova che i suoi motivi di azione sono estranei a quello che egli dice, e non è apostolo sincero.

Onde S. Agostino vuole che prima di esercitare il ministero di predicatore, si adempia « quello del supplicante »; perché, dice egli, per ottenere i risultati che si attendono, si deve confidare in Dio più che nella propria eloquenza (De Doctr. Christ., I IV). Siate rivestiti di potenza dall'alto, ci dice il Vangelo (Lue,, XXIV, 49). •

II secondo motivo che esige la preghiera o il nostro carattere, d'inviati, di ambasciatori di Dio presso le anime. Un ambasciatore non parla di se stesso; prende gli ordini dal suo governo, si imbeve del suo spirito, si identifica quanto può con esso e. per questo si tiene nella sua atmosfera. È la preghiera che c'immerge nell'atmosfera di Dio, la preghiera sotto tutte le sue forme, e specialmente l'orazione. Da questa si prende consiglio, per saper che dire, e per orientare vergo i fini del Vangelo tutto l'insieme del proprio lavoro.

Infatti tutte le parti della predicazione troveranno nell'orazione e nella preghiera la loro ispirazione vivificante. Esse-influiranno sopra la scelta dei soggetti, invitando ad affrontare le questioni vitali, i temi meglio appropriati all'uditorio e a' suoi bisogni riconosciuti, in vece delle vanità alla moda o dei soggetti atti a far brillare l'oratore. Dirigeranno la composizione, per farvi passare l'essenziale della dottrina e condurla fino alla pratica con un movimento che trascina, anziché con aggiustamenti artificiali e puramente letterari. Animeranno lo stile e lo renderanno diretto, stringente, come una parola che vuole qualche cosa, che non scorre per scorrere come una fontana di giardino, ma circola, come le acque d'irrigazione, dovunque trovi un grano da fecondare, una radice da inamare, una terra da rinfrescare. Daranno finalmente all'azione stessa la sua forma apostolica, che regola il nostro contegno, la nostra voce, i nostri movimenti, i nostri gesti secondo ciò che con-

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viene a Tiri inviato di Dio, rendendoci penetranti perché noi saremo penetrati, e dando l'impressione dei misteri di Dio, perché l'anima nostra ne ha ricevuto comunicazione nel suo proprio mistero, nel corso dei colloquii intimi che la preghiera stabilisce.

Invece quelli che vivono solo alla superficie di se stessi, non possono fare altro che svolazzare alla superfìcie di tutto; l'esperienza non li istruisce spiritualmente; come ne farebbero approfittare gli altri? Pensando per se stesso, si pensa utilmente per tutti; trascurando se stesso, si darebbe inutilmente a tutti, poiché in questo commercio non si reca che un non-valore morale.

Che dico? è giocoforza che allora il lavoro, tecnicamente, si arrenda. Una curiosa esperienza di Bodin potrebbe convincercene. Egli prendeva un capitolo àéll'Imitasione; sostituiva da per tutto il nome di Gesù con la parola scultura, e constatava che tutto restava vero, che il testo conservava tutto il suo peso. Che cosa prova questo? Che le condizioni della produzione sono le stesse che quelle della santità, cioè l'umiltà, il distacco da sé, la sottomissione « totale e dolce » all'oggetto che uno ha dato a se stesso. E mi si vorrebbe dire dove il predicatore può trovare tutto questo, fuori della preghiera? Il migliore di noi non entra in azione se non lì, e il meno buono non trova che lì i suoi rimedi. Quando noi domandavamo la buona vita, la santa vita, noi ne sottintendevamo i mezzi.

l^on si lesini dunque troppo il tempo che richiedono queste comunicazioni tra l'apostolo e le sue sorgenti ispiratrici. Perdere la propria vita per salvare qualche ora sarebbe follia. Il tempo è così poca cosa, in rapporto a ciò che esso contiene o trascura! Un'anima vuota, in cento anni, non farà quello che fa in un minuto un'anima ricca. Arricchiamoci in Dio, poi ci prodigheremo, e non è il tempo, per quanto sia prezioso, che c'imporrà i maggiori limiti. Il tempo della preghiera e il tempo del lavoro sono come le due rotaie della ferrovia; esse devono restare parallele; non si migliorerebbe certo la propria strada non conservando che una sola rotaia, anche se fosse due volte più lunga.

Alla preghiera, orale e mentale, dobbiamo aggiungere la santa Messa, che ne è la forma più preziosa. La Messa contiene tutto quello che rievoca o può richiedere il ministero delle anime; tutto come personale: Dio, l'Uomo-Dio e l'uomo di Dio non formanti che un unico principio salvatore; tutto come

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forze, poiché la sorgente delle grazie è in quello che si compie all'altare in dipendenza dalla croce; tutto anche sotto l'aspetto dell'ispirazione apostolica, perché se noi possiamo avere un'impressione della sventura degli uomini, dei loro bisogni, delle loro possibilità, nonostante le loro debolezze, è senza dubbio quando teniamo nelle nostre mani Colui che morì per loro, che si offre di nuovo per loro, e ciò per mezzo nostro e col nostro concorso. Ben si sa quello che tutti i grandi apostoli hanno trovato lì, e che Vite, m'issa est, essi lo dicevano a se stessi, nel senso antico e mistico della parola: « Andate, è adesso la missione », è adesso che vi si manda, oramai con ogni potere.

Questo spirito di preghiera deve pervadere il predicatore in modo specialissimo il giorno in cui deve predicare. « Prima di cantare, il gallo batte le ali », dice un antico autore. Per eccitarsi, si deve agire al di dentro, destare spiritualmente l'anima, renderla infiammabile attivando la carità e anche le proprie facoltà naturali. Ex plenitudine contemplationis deri-vatur praedicatio, dice S. Tommaso (1). Ciò si verifica anzitutto della preparazione remota, ma si verifica anche della preparazione immediata. 8. Francesco di Sales consiglia di meditare per sé, al mattino di una predicazione, quello che si vuole predicare agli altri, indicando con ciò, come S. Tommaso, che la predicazione è una sovrabbondanza che trabocca, non una creazione fittizia, ad uso dei soli uditori. A proposito della preghiera sacramentale, egli scrive: « È cosa certa che rostro Signore essendo in noi realmente, ci da chiarezza, perché Egli è la luce. Così i discepoli di Emmaus, essendosi comunicati, ebbero aperti gli occhi » (Lettres). Questo bello spirito di fede conviene a noi tutti. Poiché la cattedra è un annesso dell'altare, accostiamola mediante l'altare. Poiché la parola cristiana è come un soffio di Dio, Vose clamantis, respiriamo Dio, per mezzo della preghiera e della contemplazione quotidiana. Lo Spirito santificatore si vale di ogni strumento, ma bisogna che lo strumento vi si disponga. Se dopo ciò lo strumento è debole, Dio soffierà più forte. SToi non siamo che la canna del pastore;

a Dio spetta di riempirci di musica.

(1) n - II, q.. 188, a. 6.

LIBEO II.

QUALITÀ NECESSARIE ALL'ORATORE CRISTIANO E IL MODO DI ACQUISTARLE

CAPITOLO I.

Il contegno corporale.

I. — La cura della persona.

Poiché il predicatore è un uomo di Dio, dedito tutto quanto al servizio di Dio e de' suoi fratelli, e poiché, consacrato come uomo, tale dev'essere secondo tutte le sue facoltà, noi dovremo tra le qualità necessario all'oratore cristiano, collocare nello stesso tempo qualità corporali, qualità intellettuali, qualità d'immaginazione e di sensibilità, virtù di carattere. Tutte concorrono al lavoro apostolico e possono sia servirlo per la loro rettitudine, sia ostacolarlo per le loro deviazioni o per la loro assenza.

Le qualità corporali in questione per noi sono principalmente relative all'organo vocale; onde toccheremo appena certe altre che, per quanto siano importanti in certi casi, non richiedono da noi alcuna spiegazione speciale.

Una decenza irreprensibile è manifestamente imposta al rappresentante di Cristo. ììTon è possibile immaginare Gesù con mani sudice, con barba, capelli, unghie in disordine. Ma neppure lo vedi farsi « una testa », mostrare una capigliatura artistica. Questa sorta d'arte è propriamente una laidezza,

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poiché offende il carattere proprio della persona. Non occorre, qui, insistere.

La foggia di vestire potrebbe apparire una questione del tutto superflua: l'abito ecclesiastico o religioso quasi non offre varianti, e se è netto, accuratamente e semplicemente assettato, pare che sia detto tutto. Tuttavia certuni trovano modo di complicare il caso, infliggendo alla nobile severità clericale i ricami, i merletti, i nastri, e allo stesso abito religioso delle <aanfrusaglie di gusto molto dubbio, come rosari d'avorio, crocifissi d'argento, cinture di cuoio verniciato o di coler canarino, cappucci pieghettati, ecc. Tutto ciò è manifestamente infantile;

ma la disgrazia è che vi perisce una parte di quel carattere ammonitore, che annette alle nostre sacre vesti un po' dell'eternità di cui siamo i mandatari, un po' di tutti gli oggetti che la parola proclama e che l'uomo di parola rappresenta anzitutto.

Uno sfoggio indiscreto di vesti speciali e di accessori onorifici è pure da evitare, per timore che l'attenzione attratta così sopra la persona noccia all'opera. Non si tratta di rigettare tutto e mostrare così affettazione in altro modo; ma il riserbo, che non ci sminuisce ed anzi accresce la nostra autorità apparente, onora Dio cancellando degnamente il suo interprete.

Se mi è permesso di rivolgermi un istante a' miei giovani fratelli, io dirò loro: Bingraziate Dio del mirabile indumento che volle dare, in voi, così all'oratore come al monaco. Godeste abito del Lacordaire e di S. Vincenzo Perreri è « essenzialmente oratorio », come diceva invidiandolo Gambetta. Esso è pratico al massimo grado: pieghevole, igienico, perché lascia tutta la libertà al collo, al torace e alle braccia. La sua ampiezza, fatta della semplicità del suo taglio e della sua opulenza orientale, accompagna stupendamente il gesto, lo amplifica con le grandi linee generate ad ogni movimento, lo sostiene col quadro di drappeggio chela cappa nera disegna di dietro; d'onde quell'aria di grande uccello che il monaco prende aprendo le braccia.

Il carattere morale di questo vestito non è inferiore alla sua qualità estetica o pratica: esso porta dei secoli nelle sue pieghe; ricorda l'apostolato di trenta generazioni; parla di S. Luigi, della Crociata e di Lepanto. È così estraneo ai nostri modi ristretti, che caccia assai lontano, nell'immaginazione, tutte le frivolezze consuete. Da se solo è una preparazione del discorso, e ben dappoco è colui che, per difetti che gli appartengono, può ridurre a nulla quel prestigio che non gli appartiene.

Per questo, basta solo abusarne. Un abito drammatico come questo è il più facile a render ridicolo o pedante chi lo porta. Gli effetti di drappeggio che esso permette, non appena sono voluti, diventano tanto deplorevoli quanto sono felici quando si producono da se stessi. Il commediante fa presto a prendere il posto del grande monaco, e disgraziatamente ciò fu veduto.

Fa d'uopo di entrare in particolari da mamma? Sono esitante. Ma dopo tutto la carità amichevole di un attempato permette molte cose. Quando si è dei poveri mortali, si tossisce, si soffia il naso, si sputa, ci si asciuga, si sternutisce: tutto ciò vuoi essere fatto con convenienza e con discrezione. Ora molti bravi figlioli del santuario, la cui prima educazione fu un po' trascurata, dimenticano di supplirvi per se stessi, ed è un gran danno. La tosse fragorosa, lo sternuto sonoro in cui a volte la pioggia accompagna il vento, lo sputare che si dimentica di essere muto e dissimulato, l'asciugarsi sgarbato, col fazzoletto spiegato, gesto che non ha nulla di furtivo, finalmente l'uso di un moccichino dubbio, mal piegato, issato ostensibilmente, adoperato in qualsiasi de' suoi punti e non importa come, con rumore e con una penosa insistenza: sono piccoli difetti, se si vuole, ma l'uomo di Dio vi perde della stima, ed è tanto di rapito alla sua parola.

Bisogna ancora menzionare certe abitudini viziose: gli hem! hem! la manìa di tossicchiare che va sempre aggravandosi a misura che la si irrita, il mordersi le labbra, il leccarsele che si aggrava anche per il disseccamento delle mucose, le smorfie, le contorsioni nervose, il battere le palpebre e il corrugare la fronte senza motivo. Tutto questo, a volte congenito, spesso acquisito, si correggerebbe generalmente con un po' di perseveranza; ma si preferisce fissarlo, sfigurare così più o meno la propria maschera espressiva nello stesso tempo che la parola. Qualche uditore ti scimmiotterà; si riderà alle tue spalle; e tu avrai da risalire inutilmente, con uno sforzo spirituale, una china sfavorevole.

II. — II portamento.

Il portamento del predicatore dev'essere a mezza distanza tra la negligenza e l'affettazione, tra la pesantezza e la petulanza. Ciò in ogni occasione, ma specialmente durante l'esercizio del proprio compito.

6 — SBBTiLliASaBS. Voratore cristiana. ,. :

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Sella sagrestìa, avviene che si chiacchieri e si perda così il tono e lo spirito del proprio lavoro; sarebbe meglio un raccoglimento non affaccendato, una semplicità silenziosa. Quando esci per salire in pulpito, subito ti osservano; le curiosità sono deste, le prime impressioni si formano: sarebbe una fortuna che fossero inclinate nel senso che la tua predica desidera. Un rinesso del tuo pensiero deve già illuminare la tua persona:

non certo artificiosamente, ma per quella composizione naturale dei lineamenti che opera la vita inferiore. Pensa a ciò che sei, a ciò che stai per fare, in nome di chi parli e per quali fini:

l'atteggiamento si prenderà da sé. Uomo di Dio, se pensi a far brillare Iddio e cancellare l'uomo, ciò ben si vedrà. Per mostrare quello che si deve essere, non si ha che da esserlo prima, poi compenetrarsene nel momento che tale si deve apparire.

Più precisamente ancora, accostandoti alla cattedra tienti nello spirito del tuo argomento: la sfumatura dell'atteggiamento allora sarà ottenuta; infatti quella del Mercoledì di Pasqua non è quella del Mercoledì delle Ceneri, e facendo il tuo segno di croce, devi già marcare il carattere e come dare il tono di tutto il tuo discorso.

Più tardi, a proposito dell'azione, avremo da ritornare sull'atteggiamento del predicatore; per intanto si sappia bene che bisogna vegliarvi su abitualmente, evitare la trascuraggine e la volgarità che abbassano. Fare assegnamento sulla circostanza è imprudente; allora non si incontrerà che l'artifizio e la pretensione.

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CAPITOLO II.

La buona respirazione.

I. — La respirazione abituale.

Una buona respirazione, che è una condizione concomitante della parola è altresì, per questa ragione, una condizione preliminare. La voce non fa altro che dispensare quello che la respirazione ha fornito. Come il canto non è che una respirazione armoniosa, così la parola è una respirazione espressiva. D'onde l'importanza di uno studio che si trascura quasi sempre e di cui noi dobbiamo occuparci.

Sono necessario alcune definizioni. Sotto l'aspetto delle vie di accesso di cui si serve, la respirazione si distingue in nasale, boccale, a un tempo nasale e boccale. Secondo il suo meccanismo, essa è clavicolare, costale, diaframmatica o completa. Un istante di riflessione basta a capire che cosa vi è sotto questi termini (1). Se si tratta della stessa provvista d'aria, si distingue l'aria •periadica, provvista media che va e viene nel corso di una respirazione di ritmo normale; l'aria supplementare, che fa il pieno assoluto; finalmente l'aria complementare, la cui espulsione fa il vuoto assoluto, ma che abitualmente serve di residuo alle altre due, dopo una tranquilla espirazione.

Ciò compreso, possiamo spiegarci e le nostre spiegazioni riguardano tré ordini di fatti che influiscono l'uno sull'altro:

1° la respirazione abituale; 2° gli esercizi respiratorii; 3° la respirazione nel corso della parola pubblica.

Una buona respirazione abituale è in dipendenza da molti fattori e procede dalla sanità generale, e specialmente dalla sanità polmonare; ma certe abitudini le sono più o meno favorevoli. Avviene che una cattiva positura comprime il diaframma, restringe le spalle, piega in due la trachea e impedisce sia gli

(1) La respirazione costale e la respirazione diaframmatica unite, prendono il nome di respirazione addominale, la sola possibile agli uccelli canori. Delle due la respirazione diaframmatica è specialmente naturale all'uomo, la respirazione costale alla donna.

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accessi dell'aria, sia i movimenti che la domandano. Uno che passa così lunghe ore davanti allo scrittoio, a volte rannic--chiato in una poltrona o su una sedia troppo bassa, non respira bene e si abitua a non respirare mai a fondo.

Anche lo stringimento e il sovraccarico delle vesti sono nemici del respiro. Eisulta da misurazioni che il medesimo uomo libero o infagottato in pesanti vesti da inverno aveva in quest'ultimo caso una respirazione diminuita di quasi un terzo. Vestimenti ben aggiustati non devono comprimere gli organi; nulla obbliga a stringerli al collo, alle spalle, alla vita, e grande ne è l'importanza.

Si deve ancora evitar di contrariare i gesti respiratorii con falsi movimenti, e prendere piuttosto l'abitudine di renderli ritmici in accordo col camminare, col saltare, con lo scalare, con l'inclinare e rialzare il corpo, ecc. Quest'abitudine si acquista presto con un po' di attenzione nei principii, ed è salu-tarissima. Un petto ben educato non procede a una respirazione curvandosi, a una espirazione raddrizzandosi; non si abbandona a un ritmo disordinato sotto pretesto che il terreno o l'azione le imprimono scosse; sopra una pendenza accidentata, nel correre e nel salire una scala a quattro gradini per volta, esso tende a respirare come il bambino che dorme. Inoltre bisogna soprattutto badare a una buona espirazione; perché il senso di riposo e una buona rigenerazione del sangue dipendono da un'espulsione regolare e completa dell'aria viziata.

La padronanza degli organi respiratorii è una legge dell'oratore come del cantore; l'uno e l'altro non l'ottengono se non a prezzo di un'attenzione costante, e non senza il soccorso degli esercizi.

II. — Gli esercizi respiratorii.

La necessità di questi esercizi deriva dal fatto che la respirazione abituale non è mai abbastanza completa, e tende ancora a ridursi in caso di negligenza. Avviene come degli esercizi muscolari: la vita ne impone una dose più o meno forte;

ma essi non sono ne abbastanza energici, ne soprattutto abbastanza completi da dispensarci dagli esercizi metodici, per ciò che riguarda specialmente un uomo sedentario.

Non senza ragione facciamo questo confronto: di fatto, gli esercizi muscolari e gli esercizi respiratorii devono essere associati. Grandi respirazioni isolate, a freddo, sono poco na-

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turali, e per conseguenza non sono senza inconvenienti, poiché rischiano di forzare gli organi. Bisogna legarli con esercizi generali, affinchè il bisogno adeschi e favorisca il buon andamento dell'operazione. Gli esercizi Muller sono per questo l'ideale. In assenza, per la propria dose quotidiana, si può approfittare di un cammino un po' accelerato, di una salita di collina, di una scala fatta rapidamente, ecc.

Queste respirazioni devono essere unicamente nasali, e nasali nei due tempi. L'espirazione boccale che certi raccomandano, offre pericoli, e non è punto calmante. Lo stesso accade nelle ascensioni, nelle corse, e allora soprattutto. È chiaro che necessità non ha regola; si raccomanderà con maggiore successo la respirazione nasale a colui che osserva un corridore trafelato che allo stesso corridore.

Queste respirazioni di esercizio devono essere complete, cominciando dal basso: dilatazione delle coste inferiori, poi delle coste superiori e delle clavlcole, stando il corpo ben diritto, con le mani sulle anche, la testa leggermente rialzata nell'inspirazione, le fosse nasali bene spalancate, il tutto senza violenza, con un senso di piacevole pienezza e di riposo perfetto. Alla fine dell'inspirazione, tutto il torace si deve sentire ingran-' dito (s'ingrandisce di fatto a capo di poche settimane), e alla fine dell'espirazione, tutto dev'essere rinchiuso a fondo nello stesso ordine, e sempre senza violenza, come una spugna che si vuota. Osservazione capitale: operare sempre in piena aria davanti a una finestra aperta. :

III. — La respirazione nel eorso della parola.

Abbiamo già detto che al principio del parlare, il corpo si deve sentire libero da ogni compressione, ritto senza rigidezza, il torace bene sporgente, come quando si rialza una tonaca sopra la cintura per sciogliere i proprii gesti. A ciò serve una grande respirazione iniziale, che disponga nello stesso tempo tutti gli organi della voce.

Vi sono di quelli che consigliano di fare « provvista » d'aria, e, per conseguenza, di trattenere questa provvista perché essa duri più a lungo. È un grave errore. La pretesa provvista è perfettamente inutile, quando non sia nociva. Quando un allievo di Paure respirava così prima di cominciare un brano, Paure

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gli appoggiava la mano "sulla spalla; se ciò egli dimenticava, l'allievo non mancava di lasciar andare alla prima parola la sua bella provvista per contentarsi dell'aria periadica. Voler trattenere l'aria supplementare per dispensarla lentamente, è imporsi una preoccupazione vana e una dannosa fatica; ciò forza i polmoni e il cuore, provoca enfisema, stasi vascolare e congestione. Di più la laringe, dovendo allora lottare da sfintere contro il soffio che vuole trattenere, vi si esaurisce.

In realtà si ha sempre aria abbastanza; la questione è di adoperarla bene, e la buona emissione dei suoni a ciò basta;

questa presiede all'economia mediante il saggio consumo. L'aria non si può perdere, quando non se ne lascia passare se non quella che si adopera per mezzo della parola; la cornamusa non ne perde affatto; essa è a questo riguardo un ammirabile modello. Per questo, è vero, bisogna parlare legato. Oltre ad altre ragioni più importanti, che verranno più avanti, il parlare legato è indispensabile a una buona emissione del fiato; perché evita di perdere del suono tra i momenti di vibrazione della glottide, come se ne presenta l'occasione specialmente tra le parole, ma anche — e ciò è capitale — a ogni pronunzia di consonante. La consonante obbliga a rilassare più o meno la tenuta glottica nel che consiste la vocale (1). Si producono allora dei « fori »; l'aria fugge, oppure è proiettata in piccoli razzi, se si tratta di quelle consonanti che si chiamano esplosive (b, d, g, k, t, p). Invece, parlando legato non si emette che l'aria utilmente vibrante; l'intercalazione della consonante si fa per una sostituzione immediata che non permette alcun vuoto; non vi sono altri arresti oltre quelli che servono a riprendere fiato, e quindi il fiato è sempre o acquistato o utilizzato, mai perduto.

Se non vi è mai motivo di trattenere il respiro, può esser necessario prolungarlo, per pronunziare una frase lunga o produrre qualche effetto che non tollera interruzione. I cantori ben conoscono questi casi. Allora essi appoggiano sul fiato e ne fanno un consumo più completo; fanno ricorso all'aria complementare, che di solito resta senza uso. Per evitare il bisogno d'inspirare, essi espirano, e ciascuno può osservare che il rimedio è buono. Vi si farebbe ricorso quando non si

(1) Secondo una, comunicazione del Sig. d'Araonval all'Accademia, delle,;

Scienze, le consonanti sono vocali la cui vibrazione è turbata. A cagione di;;

Questo turbamento il parlatore o il cantore perde del suono.

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avesse aria da respirare, semplicemente per calmare lo spasimo, come fanno quei che si tuffano in acqua. Del resto questo procedimento, necessario a conoscersi, deve rimanere eccezionale, perché esige la contrazione di tutti gli organi vocali e perciò rende l'emissione molto più onerosa.

Abitualmente bisogna respirare il più sovente possibile e valersi di tutte le pause che permette il senso delle frasi. Non essendo mai a capo di fiato, si sarà in migliore possesso di sé;

la voce guadagnerà in ampiezza e il pubblico in sicurezza. Secondo l'importanza delle pause indicate dalla punteggiatura oratoria, si farà un'aspirazione intera, una semi aspirazione, un quarto di aspirazione, eco., approfittando abilmente delle vocali aperte e come andando incontro al respiro, come fa l'uomo animato o in collera, « che la passione » non lascia respirare.

Qualche tratto di dizione viene offerto da testi in cui sono segnati i tempi di respirazione, totale o parziale. Sia pure! un esempio ben inteso può orientare il principiante; ma è evidente che siffatte annotazioni sono relativamente arbitrarie; dieci oratori di talento, pronunziando uno stesso periodo, respirano in momenti diversi, perché distribuiscono, diversamente i loro accenti e non hanno lo stesso respiro.

In quanto al modo di respirare nel corso dell'azione, suc-,: cede tutt'altro che durante gii esercizi. Allora non è più que-,' stione di aumentare la capacità toracica, di badare alla salute e di prendere abitudini; si è in ballo: si tratta di servirsi di , quello che si è acquistato. Si respira dunque il più naturalmente e il più abbondantemente possibile, dalle narici e dalla bocca, aprendo e dilatando tutte le cavità ricettive. Nessuna respirazione brusca, salvo che si tratti di un effetto. L'inspirazione si deve modellare per quanto è possibile sull'espirazione, che è necessariamente lenta. Il contrario è una specie di asma Volontario che potrebbe condurre all'altro. Si aspira più abbondantemente quando si deve pronunziare una parola o una frase che implica un riposo respiratorio, come se si sta per dire: « Ah! mio Dio! ». Allora la respirazione prende il valore di un gesto. Fuori del caso di questo genere, la stessa pressione del fiato dev'essere da un capo all'altro della frase o del membro di frase, affinchè la finale non cada. E la si deve cominciare fin dal principio dell'aspirazione, a fine di guadagnare

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forza, nello stesso tempo che si risparmia il flato, poiché, come suppongo, solo se n'è preso esattamente quanto abbisognava. L'ideale, ancora una volta, è la respirazione del sonno, così regolare, eppure così potente; non è possibile conformarvisi del tutto, ma non si deve allontanarsene che il meno possibile, come fa uno che parla dormendo (1).

Contrariamente ancora a quello che succede nel corso degli esercizi, la respirazione sul pulpito non deve sollevare il torace; essa si deve prendere unicamente alla base, in modo che solo il diaframma produrrà la chiamata. Si sa che la respirazione diaframmatica è la più abbondante. Il vantaggio di questa immobilità del torace è di concorrere alla calma generale necessaria alla parola, di evitare il trafelare progressivo, abituale a tanti predicatori, di lasciare bene a posto gli organi produttori della voce, in vece di agitarli e di turbare la loro funzione, perciò di congestionarli e di nuocere alla impostazione vocale.

Somma è l'importanza di una respirazione tranquilla nel corso della parola pubblica; essa risparmia le forze, aiuta da parte sua la presenza di spirito, la chiarezza dei pensieri, il perfetto possesso di sé. Una buona respirazione, è un cuore calmo e una buona circolazione cerebrale; perciò è la sicurezza di un buon funzionamento delle facoltà ausiliari, quelle che preparano il pensiero e sostengono l'energia. L'influsso sopra l'uditorio è per questo fatto aumentato; l'autorità della parola è maggiore.

Del resto la padronanza respiratoria deve persistere anche quando la parola vuole apparire tronca e ansante. Corre gran differenza tra l'ansamento volontario ed espressivo, e una perdita di controllo. Avviene come di una procella reale, paragonata a quella di un quadro, o a quella della Sinfonia Pastorale. Certamente nel caso nostro il reale e il voluto influiscono l'uno sull'altro; così dev'essere; ma ciò c'invita semplicemente a praticare questa doppia massima: sorvegliare l'emozione, perché non tronchi la respirazione; sorvegliare la respirazione, perché procuri la calma o regoli la commozione.

(1) Tuttavia bisogna osservare che l'espirazione del sonno è troppo brutale;

ciò dipende da un brusco allentamento muscolare ohe si opporrebbe all'emissione regolare della voce,

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CAPITOLO III.

La voce.

I. — La cura della voce.

Eccoci davanti alla questione principale, tra quelle che riguardano l'aspetto materiale della parola pubblica. La voce j| è l'oratore; Per l'anima che la pervade, essa è lo spinto; ma I1 Ìnie~stessa è anzitutto un flato. È un'opera d'arte; ma è anche uno strumento, la cui cognizione e modulazione importano assai all'opera.

È vero che lo strumento vocale è uno strumento d'una specie particolare; è uno strumento congiunto, e ciò corregge molte cose. Si vedono dei paesani dalla voce rauca e dura che modulano delicatamente, quando parlano al loro bambino. L'entusiasmo può dare vivezza a una voce sorda e la tenerezza ammollire una voce ruvida. Quello che fu detto dell'oratore si avvera in parte anche della voce: pectus est quod disertos < facit. Ma non è vero che in parte, e in cambio, se lo strumento è buono e bene accordato, e l'esecutore interno è al contatto della mente e dello Spirito Santo, che cosa non ne ricaveremo!

Ho detto buono e bene accordato. La prima condizione non { dipende da noi; chi la possiede ne dovrebbe ringraziare Dio;

i infatti è una grazia; è simpatia acquistata anticipatamente, e tutto un insieme di possibilità che non ci costano niente. Una voce solida e ampia permette già effetti che tutti gli altri doni oratorii non possono supplire. Che fare, senza di/ di essa, in un gran vaso? Lo scotimento di sensibilità che l'ora-j tore cerca vuole dei mezzi potenti, e il pensiero, il sentimento, • l'arte, non sempre possono a ciò bastare.

Tanto più che la qualità della voce, imparentata con quelle sensibilità che si tratta di muovere, è dotata di una virtù segreta. Non si dubita a qual segno il pubblico la subisce. Vi è in ciò un enetto organico, come si vede sperimentandolo sugli animali e sulle stess.e bestie feroci; ma l'organico non è forse alla base dello spirituale, e questo del soprannaturale?

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Una bella voce apre le menti e dispone favorevolmente le volontà, come tutto quello che fa piacere.

Ecco una ragione, se si possiede onesto dono, per non // guastarlo, per non rischiare di perderlo. Ed ecco a'""1|ues'Ry

riguardo alcune regole pratiche.

» Sul pulpito bisogna evitare le grida disordinate, restare | sempre padroni del proprio organo, all'opposto di certi predili catori che sembrano abbaiare o muggire. Oltre al deplorevole effetto che producono così, questi predicatori rilassano e scordano fatalmente una voce anche solida; se è debole, la rovinano.

In ogni tempo guardarsi dalle grida, dal frastuono violento | delle conversazioni, dal vociare all'aria aperta, specialmente { quando l'aria è fredda, o in mezzo al rumore, o in un'aria I viziata, o in un veicolo trabalzante.

I discorsi all'aria aperta quando il tempo è freddo e umido sono per le voci delicate una prova terribile; l'oratore deve dispensarsene quando è possibile, e nel caso contrario provocare .'subito dopo una reazione mediante una bevanda calda e un 'riposo silenzioso. Il silenzio completo, dopo ogni sforzo vocale, è una pratica ecceuenEe; rimette l'organo a posto, come l'immobilità assoluta, nell'ingessatura, aiuta la riduzione di una i frattura. Le persone che accaparrano un predicatore che scende j dal pulpito e l'obbligano a un nuovo sciupìo di forze, si devono $ tenere per fastidiose (1).

Bisogna anche evitare di prendere la parola troppo presto dopo i pasti. È meglio subito che un'ora più tardi; ma un ritardo di due ore è assai preferibile; i cantori dicono quattro.

Lo stringimento abituale del collo è fatale alla voce come .alla buona respirazione, perché congestiona. Il portare il fazzoletto e il cravattone è da riprovarsi, e occorre disfarsene progressivamente, se si ha una tale abitudine. Le bevande ? ghiacciate o troppo calde sono parimenti nocive, e 'altrettanto \ il tabacco o l'alcool in dosi esagerate.

Finalmente è importantissimo combattere l'ostruzione del naso, i cui effetti sono gravi non solò per la voce,' ma anche per l'udito, per il petto, per l'intelligenza e per la memoria. •<La ragione di ciò è la minaccia d'infezione catarrale, l'impedimento della circolazione in tutta la regione, compreso il cervello anteriore. Un naso ostruito obbliga alla respirazione

(I) Nei casi più serii, l'impacco umido, durante la notte che segue un grande sforzo vocale, può essere efficacissimo, purché sia ben fatto,

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boccalfì^,, perciò espone all'infreddatura e all'infezione della 'gola, dove s'introduce un'aria non filtrata, non riscaldata nel circuito delle narici. D'onde derivano predisposizioni alle angine, all'asma e a tutte le affezioni polmonari. Del resto un circolo vizioso non tarda a stabilirsi, per il fatto che le cavità nasali, non adoperate a cagione di ostruzione, tendono sempre più a ostruirsi per questa mancanza d'uso. Al principio, in »yece di abbandonarsi subito alla respirazione per la bocca, I conviene dunque usare pazienza, fare respirazioni lente di-Hatando le narici, affinchè a poco a poco l'aria scongestioni e si faccia da sé il passaggio.

Del resto, una volta eliminati i suoi nemici esterni, la voce trova nel buon uso le migliori condizioni della sua salute, della sua conservazione, del suo progresso. Un esercizio normale sviluppa tutti gli organi e tanto più li difende. Perciò buòni consigli di un competente e buoni esercizi di fonazione costituiscono una vera medicazione, oltre che permettono un'azione oratoria più perfetta e più efficace. È ciò che faceva dire a Cicerone che, di fatto, la voce e il discorso non hanno che un solo e identico interesse. , , a»—»» » ..«„

II. — Le qualità della voce.

A) L'IMPOSTAZIONE DELLA VOCE.

Le qualità native della voce non richiedono che vi ci fermiamo; esse sono quel che sono e noi non vi possiamo nulla;

ma ve ne sono di acquisite, ve ne sono di quelle che consistono nell'uso stesso che si fa del proprio organo, e queste sono importantissime a notarsi.

L'essenziale, e nessun cantore lo ignora, è di avere una voce bene impostata, bene appoggiata, e questa qualità esige per lo più un'educazione molto lunga. Certamente vi sono delle voci naturalmente bene impostate, ma sono rare. Alcune sono troppo spinte, cioè esagerano la pressione dell'aria espirata e premono così sul loro appoggio; la maggior parte sono campate in aria, senza appoggio sufficiente, senza disciplina, per una corretta formazione dei suoni. Conviene dunque insistere su ciò che s'intende per una voce bene a posto, non mediante descrizioni fisiologiche o anatomiche, ma praticamente sforzandoci, con l'uso d'immagini mentali appropriate, di suggerire gli atteggiamenti utili.

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L'impostazione della voce consiste anzitutto nel darle appoggio alla base, e cioè: 1° allargare la base del torace, al di sopra della vita ben disimpegnata; 2° immobilizzare bene la cassa toracica; 3° prendere il respiro in modo da abbassare la trachea, il tutto senza alcuno sforzo, ma all'opposto con un senso di riposo, come di un uomo che si adagia. La voce così stabilita richiama l'idea di una piramide; essa ottiene la stabilità, evita i tremuli, la fatica e, per il fatto che la trachea si abbassa, le cavità sottoglottiche sono rese più libere, e per conseguenza più sonore.

Poi, impostare la voce consiste, pur conservandole la sua base salda, nel darle appoggio alla sommità, come se si volesse (imbiettarla fra due estremi. Per questo bisogna che la colonna J d'aria vibrante venga a poggiare sulle mucose nasali, scivolando j di lì verso le labbra convenientemente avanzate e aperte, da .^buon portavoce. Aprire troppo è impedire alla voce d'improntarsi al passaggio e renderla esitante; chiudere troppo è impedirle di partire e di andare lontano. In tali condizioni, la voce prende la sua sonorità principale nelle adiacenze delle labbra, e non indietro. Si sente vibrare le proprie labbra e le proprie gote. È quello che gli attori chiamano « parlare nella maschera ».

Durante questo tempo, la glottide dev'essere molto libera, non subire alcuna contrazione, del pari che i polmoni o il diaframma. La lingua dev'essere bene spianata. Se si ha la tendenza a permetterle che si sollevi e a soffocare più o meno il suono, bisogna insegnarle a tenersi a posto. L'esercizio consiste nel vocalizzare su tutte le vocali, con la lingua spianata e immobile, e introdurre a poco a poco le consonanti, fino al ..parlar normale. Se tutto è veramente così, il suono emesso prende la sua migliore qualità e sua più grande ampiezza, per uno stesso volume d'aria e per una stessa pressione, specialmente se si tende ad avanzare più leggermente la mascella inferiore, come fanno istintivamente i corridori, specialmente alla fine della corsa. I corridori cercano così di respirare meglio;

ma il dicitore o il cantore vi guadagnano per giunta una miglior risonanza.

Questa impostatura della voce è per l'oratore una necessità primordiale; se non l'ha per natura, deve adoperarvisi perseverantemente, in ogni occasione, anche se non fa altro che parlare a bassa voce o mormorare. Molti, in questo ul-• fimo caso^ parlano dal naso o dal palato, senza che il padiglione

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delle labbra si schiuda, senza che il suono vi lavori, ed è una deplorevole abitudine. Che se non si può da solo ottenere il risultato desiderato, non si esiti a consultare un competente. .i II più qualificato in questa materia è il professore di canto, | perché essendo la impostazione della voce ancor più neces" i saria al cantore che all'oratore, egli vi bada di più, e inoltre perché gli esercizi di canto sono più favorevoli, anche in ciò che riguarda la parola; infatti le qualità o i difetti del suono diventano più percettibili, più facili a sorvegliare, nel corso di tenute vocali più estese e meno troncate da consonanti.

Se si riesce su questo punto capitale, tutto verrà in seguito:

le qualità estetiche della voce, la sua sonorità e la sua portata, il tutto, bene inteso, a parità di doni naturali. L'esercizio non crea, ma utilizza, e, in materia viva, utilizzare è altresì una specie di creazione.

B) le QUALITÀ ESTETICHE DELLA VOCE.

Le qualità estetiche della voce dipendono dal modo con cui si produce la vibrazione, poi dal modo con cui l'aria vibrante è ricevuta e utilizzata dai varii organi: pareti, cavità, labbra. Per questa ragione, direttamente o indirettamente, tutta la nostra persona vi collabora; onde la voce è essenzialmente personale.

Al centro vi è lo scotimento glottico (1), già caratteristico per ciascuno; ma quello è solo un punto di partenza: al di sopra, la gola, la bocca, le fosse nasali, la piega delle labbra;

al di sotto, il petto e più o meno tutto il corpo partecipano alla formazione, per conseguenza alla qualità del suono. La voce è come il getto sonoro delle nostre cavità pneumatiche e di tutto il nostro essere, e per questo essa ci fa così facilmente riconoscere. Ma si modifica molto secondo la forma dell'emissione, cioè secondo le varie appropriazioni della colonna d'aria alle cavità e ai varii risonatori per cui passa.

(1) Noi non diciamo la vibrazione delle corde vocali, visto che sembra risultare con evidenza dagli ultimi lavori, che la voce non proviene da tali vibrazioni, ma dalla risonanza dell'aria nelle cavità vicine. La soppressione delle « corde vocali », se le cavità con le loro pieghe rimangono intatte non impedisce punto l'emissione della voce. La laringe non è uno strumento ad ancia, come il clarinetto o l'oboe, ma piuttosto una specie di ocarina o di flauto a becco (Communi-cation di D'Arsonval all'Accademia delle Scienze, febbr. 1925). Una prova complementare è che la tessitura, o estensione della voce sulla scala musicale, non è proporzionale alla lunghezza delle « corde vocali ».

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Ora la buona emissione e le buone appropriazioni sono il fatto di una voce ben impostata.

Quali sono i difetti più ordinari delle voci? Vi sono delle voci rudi e delle voci molli, delle voci gravi e delle voci saltellanti, delle voci secche o troppo brevi e delle voci strascicanti, delle voci bianche, di una sonorità puerile, e delle voci cavernose, ecc. Ora tutte queste deformazioni si correggono da sé impostando bene la voce. Essendo allora generale e ben distribuita la risonanza, non vi è da temere alcun eccesso, in nessun senso;

nessun impedimento altera la formazione del suono. Nessuno stridore, nessun allentamento, parimenti nessun rilassamento, nessuna precipitazione, perché la giusta vibrazione esige da sé il tempo che le è necessario, e per la stessa ragione è escluso il tono strascicante. La voce non può saltellare, poiché ha un appoggio a' suoi due estremi, e non può neppure essere pesante, poiché, in qualche modo, va dovunque, come il nuotatore nell'acqua.

In quanto alla voce bianca e alla voce cavernosa, in che cosa consistono? La voce è bianca quando le manca il rinfor-zamento boccale, e la voce, in vece di acconciarsi e come improntarsi alle pareti della bocca, esce « stupidamente », senza contegno ne timbro, impiegando la bocca come tubo di condotta, non come tubo d'organo. E cioè la voce non è impostata.

La voce è cavernosa, invece, quando è come strangolata al livello della glottide, e non trova la sua risonanza ne al di sotto, per produrre la voce di petto, ne al di sopra o in avanti, per dare la voce di testa o la voce normale. Il timbro è aumentato, ma la forza utile è diminuita, e la voce diventa a un tempo cupa e pesante. La mancanza d'impostazione è dunque anche più evidente, e ristabilire questo sarebbe correggere tutto.

C) la SONORITÀ DELLA VOCE.

La sonorità .della,,.y,oce. importa due qualità complementari:

l'ampiezza e la foma. L'ampiezza si ottiene, a parità di pres-àsione, mediante la piena 'utilizzazione di tutte le cavità e pa-; | reti vibranti, che è quanto dire mediante una buona imposta-i tura. Di solito conviene sviluppare piuttosto l'ampiezza che la forza. Essa da più naturalezza, più libertà, più armonia;

permette più sfumature e quindi può da sola lasciare libero corso a tutti i movimenti del pensiero, dell'immaginazione e

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, del sentimento. Affatica meno, perché la tensione delle pareti a vibranti è allora normale, consistente in adattamento, non |in violenza, e lo sforzo vocale è ripartito sopra tutto l'apparato.

Volendo aggiungere all'ampiezza la 'forza, si dovrà non-, dimeno ripartire la tensione su tutti gli organi, in vece di far t "forza sulla glottide. In fatti facendo forza, tu operi uno stringimento che t'immobilizza nello stesso tempo che ti stimola. Allora fai come un macchinista che desse vapore stringendo i freni, come un cavaliere che nello stesso tempo usasse gli speroni e stringesse il morso, o per usare un paragone più calzante, come un violinista che preme sull'archetto, ma mettendo la sordina.

. Manifestamente, quando si vuole dar forza, bisogna au-,'j montare lo scotimento glottico mediante una maggiore pres-|sÌone di fiato; ma soprattutto bisogna procurare, non più con

un effetto pneumatico, ma con un effetto nervoso, un accon-f jciamento più vigoroso di tutte le pareti di rinforzo. Così l'or-if gano risuona più forte, e non raschia; si produce un'azione generale, non locale, e l'ampiezza del suono viene aumentata nello stesso tempo che la sua forza.

* In altre parole, per accrescere la risonanza della voce, /non bisogna premere su di essa, ma aprirla, includendovi una ( specie di volontà musicale, un ardore leggero. La sonorità non è funzione dello sforzo se non in una certa misura e abbastanza ristretta; essa dipende specialmente dalla convergenza di tutti i movimenti vibratorii, dalla comunicazione completa dello scotimento glottico a tutte le pareti suscettibili di vibrazione. La stessa glottide poi dev'essere libera, pieghevole a dispetto della sua animazione.

Per conseguenza, quando ti accorgi di non essere inteso, tla manovra che devi fare non è di forzare, ma di estendere,, " di amplificare, mediante una risonanza più larga e più completa. Parimenti, se si affaccia la fatica, bada di non ponzare 'eroicamente per vincere la debolezza che sale; all'opposto rallenta lo sforzo ripartendolo, a guisa di un portatore a cu^ il peso schiaccia la spalla e che si solleva appoggiandolo lungo il braccio o sui reni.

Un gioco da bambini c'insegna qui la tattica, ed è quello che consiste nel far cantare un bicchiere di cristallo sfregandone gli orli. Dopo un momento, se si opera bene, si ottiene . il suono massimo. Ma si ottiene forse quando si preme più forte? no; si ottiene quando si è potuto conciliare l'energia

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dello sfregamento con la libertà della vibrazione. Se tu non premi abbastanza, la vibrazione è debole; se premi troppo,;' si soffoca; ma constaterai facilmente che quest'ultimo impe-';

dimento è di gran lunga il più grave; la libertà importa più èhe la forza.

Che cosa fa dal canto suo il violinista? Per ampliare il suono, attacca la sua corda con energia; ma risparmiando l'oscillazione con una pressione leggera. Di più egli sa bene che il suono non è fornito principalmente dalla corda stessa, :

ma dall'animazione del ponticello della tavola armonica, e finalmente dell'aria, che è qui il vero mezzo vibrante. Si turi la cassa armonica, s'incolli il ponticello, e allora si avrà un ^ bei pizzicare la corda, ma non avrà più che un suono breve e ' soffocato. . ;

Slmilmente le «corde vocali», o meglio, le cavità glottiche ' non danno la voce da sole; dunque per avere l'ampiezza del suono non si ha da ricorrere ad esse sole, neppure ad esse '• principalmente, ma bensì all'insieme delle cavità pneumati-che, mediante un allargamento della zona vibratoria e un acconciamento di tutte le pareti. È ciò che si chiama voce libera, cioè prodotta senza costringimento, senza rinforzo specialmente localizzato, mediante un'animazione spontanea di tutto l'apparato vocale. È la sola buona, la sola armoniosa, perché viene emessa nella calma fisiologica; è la più personale, che per dire così interessa tutto in noi, ed è la sola che scuota utilmente l'ambiente aereo occupato dagli uditori.

Qui è riposto un nuovo segreto, che può salvare molte voci o dal loro eccesso o dalla loro impotenza congenita.

Che cosa è che deve vibrare alla fin dei fini? Sei tu, è lo strumento vocale: corde, cavità o pareti^ No; e la sala, e, per essa, avendola mossa e riempita di ondulazioni' lilT'Tua voce, le orecchie de' tuoi uditori. La questione dunque è d'impa- •l:

dronirti della sonorità, della,sala e di comunicarle quella scossa'* glotfica che già hai procurato di trasmettere alle tue pareti ;* e alle tue cavità inteme. La sala diventa così una nuova ca- ^i vità dove tu spingi l'ondulazione, amplificandola nella misura i necessaria all'avvolgimento di tutto il tuo uditorio. Tu getti i una rete sonora. Il pescatore degli uomini ha qui il suo còm-^pito fisico, a servizio dell'altro.

E come si farà questo nuovo adattamento, il solo decisivo? Come si sSEo'Tatti gli altri: mediante l'attenzione e l'istinto,—

—é?-

\ Sostituendo questa volta alla sensibilità interna, che sotto |_ questo rapporto non è più in questione, l'immaginazione dello spazio e il controllo dell'orecchio. Eichiamando la tua attenzione sulla sonorità della sala, spiando le sue vibrazioni nel momento in cui le stimoli, la sua risposta quando l'attacchi, trovi istintivamente l'adattamento inferiore che produrrà l'effetto desiderato, effetto già ottenuto parzialmente e del quale tu percepisci per assaggi le condizioni di accrescimento, il regime di spiegamento massimo.

4 Ti impadronirai della sonorità della sala come il violinista jdirige quella del suo strumento, e in un caso come nell'altro, •non si tratta di raschiare, ma di trovare il ritmo, dico il ritmo « che gonfia il suono, in vece del raggrinzamento che lo comprime. | Una volta che l'hai trovato, hai ogni licenza d'insistere, se 3 occorre, per rinforzarlo, ma senza sforzarlo con una pressione intempestiva. Devi sentire la sala a fiore di labbra, come quegli ovali allungati o quelle banderole degli antichi quadri, in ( ,-( cui stavano scritte le parole di un oratore. Cerca di riempire^ ?; • lo spazio in lunghezza, in larghezza e in altezza, come se tu li animassi una sfera, partendo dal centro. Inserisciti in essa~*f Sentila tutta quanta, in vece di aggrapparti alla tua glottide. a Avrai allora la sensazione che la tua voce ti diventa in qualche j modo estranea, che si forma laggiù abbasso, all'orecchio degli uditori; potrai giudicarla e metterla al punto voluto come un operatore di cinema mette al punto giusto la sua lanterna secondo l'immagine lontana sopra la tela; ne sarai padrone senza sforzo; ne sarai meno scosso tu stesso, e il pubblico ne sarà più commosso. : u

È lì il gran segreto: esteriorizzazione della voce; prole-jf zione della voce in piena atmosfera; dirczione della voce me- ' diante l'orecchio, ascoltandosi in lontananza, ascoltandosi parlando, in vece di sentirsi parlare (1).

D) la PORTATA DELLA VOCE.

Del rimanente, questo segreto dell'ampiezza,,..della .sonorità della voce,èanche il segreto".della sua 'portata. Queste

(1) Un esempio illustrativo è ancora quello del tiratore, òhe si vale di tré appoggi: la spalla, la mano sinistra, il bersaglio, e che dopo aver mirato, non pensa più che al bersaglio. Così il dicitore o il cantore appoggia il fiato alla base, alla maschera e alla mèta lontana, e una volta ottenuti i due primi appoggi, ^, dimentica se stesso nell'ultimo.

B 7 — 8BBTI11AN8B9. L'orditore cristwm,

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» due qualità differiscono. Una voce può essere larga e sonora ''i senza estendersi molto lontano. Si può a bello studio tenerla-a breve distanza, se l'uditorio è radunato molto vicino alla cattedra, e si può invece lanciarla « come un proiettile, di-ij ceva il P. Didon, o meglio come uno di quei razzi dei fuochi ; I artificiali che non devono scoppiare che in lontananza ».

Un buon oratore (come un buon cantore) deve saper par-*"'*„•• lare a 50 metri, a 100 metri o a 800 metri. In questi varii casi, • l'adattamento della voce è diverso. In che cosa consista la ^differenza, sarebbe difficile e delicato lo spiegarlo, ma è anche ^inutile. Il discobolo, nel momento di lanciare il disco alla di' stanza voluta, si da forse pensiero di ciò che avviene nel suo -braccio^ Parimenti il montanaro ignora quello che fa quando proietta la sua voce da un versante di una vallata all'altro. È l'istinto che agisce allora. Si guarda la mèta; .l'attenzione si trasporta ad essa, e dopo convenienti esercizi, in grazia dell'esperienza, si prende naturalmente la posizione degli organi che conviene. Questa posizione è essenzialmente quella che ^fu descritta sotto il nome di impostazione della voce; ma vi sono sfumature supplementari di adattamento, e si ottengono V'appoggiando la voce non più al di dentro, sulle pareti vibranti, >i ma sul punto stesso nel quale si vuole che sia diretta. Si stabilisce come un ponte sonoro, si lancia la voce come un arco.

A questo effetto, occorre ancora meno sforzo che per ottenere la sonorità e l'ampiezza; si tratta poco più che dell'atteggiamento boccale; si deve fare scivolare il più in avanti possibile, sopra le labbra a imbuto, la colonna d'aria debitamente timbrata dall'insieme delle cavità e modellata dall'articolazione.

È talmente vero che la portata della voce non esige sforzi ' violenti, che anzi gli effetti di dolcezza, i piano e i pianissimo sono chiamati ad approfittarne. È tutta la gamma dei suoni e delle intensità che si deve portare in lontananza e serbare la sua potenza (perché lo stesso pianissimo dev'essere potente). Evidentemente vi è la misura; troppo lontano non si può indirizzare che il forte, ciò che impone un'estetica particolare, semplificata e come per masse. Ma nelle condizioni ordinarie o anche un po' ingrate della parola, si deve potere trasmettere tutti i suoi effetti. Che la voce sia debole o forte, rapida o lenta, acuta o grave, essa deve far capo allo stesso punto, e tutta, intera; tutto dev'essere al medesimo piano, benché non dellot stesso valore ne dello stesso tono. . i

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^È fliu-esto un talento assai raro. Gli antichi lo insegnavano sotto il nome di vociferatio. Si sa che cosa noi abbiamo fatto di questo nome! È un bell'esempio di deformazione per incomprensione. Vociferatio significa così poco vociferazione, che si tratta appunto di non vociferare, eppure di portare la pro-|.;pria voce fino a uditori lontani. In mancanza di quest'arte, ! avviene che uno si fa udire nei forte e che la voce si perde nelle I sue note deboli. Bisogna allora o che l'uditore si rassegni a non intendere se non dei frammenti che egli connette come può, o che il suo orecchio faccia in senso inverso la via che la bocca non fa. In tale condizione, l'attenzione si stanca presto, e l'uditore, affaticato, ti pianta lì. Se pure è perseverante, egli ascolta come attraverso a una porta oscillante, ora aperta, ora chiusa: non c'è più unità della parola, non c'è più disegno melodico; il tuo modo di porgere è disarmonizzato; tutti i tuoi enetti se ne risentono. La scala dei valori, in vece di pervenire tutta intera a ciascuno, è divisa nell'uditorio come in pezzi disgiunti;

la voce erra nella sala, e l'influsso sul pubblico più non si ottiene. Per esercitarsi nella vociferatio, bisogna appunto usare poco f'fr'f suono, poc"o fiato; ma mirare in lontananza, in una gran sala j Ì J( o in un corridoio, un uditore ipotetico, curando a un tempo 'v'H la portata e l'articolazione. I risultati non si faranno aspettare.

, Da ciò si deve concludere che non è essenziale alla portata | /d'una voce che l'acustica sia buona. Se lo e, tanto meglio; è ^ ? una pena di meno: la stessa sala porterà la tua voce a destina- I zione. Ma se la sala non la porta, portala tu stesso. Le prime sillabe lanciate alla parete devono farti conoscere se la voce vi produce il suo effetto. Un buon oratore, appena ha aperto la bocca, giudica la sua sala e si mette all'unisono con essa. Se è una cassa armonica, come la sala del Conservatorio a Parigi, egli non ha che da modellare la sua voce in qualche modo sul posto, come si lascia cader un sassolino nell'acqua e '*• partiranno senz'altro le ondulazioni. Se la sala non rende, bisogna gettare il sassolino più lontano, come in un'acqua pesante o in olio denso, che ondula penosamente. Si arriverà ugual-j mente. Le buone sale portano tutte le voci; le buone voci (cioè | le voci bene impostate e ben modellate) portano in tutte le sale.

», Un'osservazione importante per un predicatore è questa. J iJlostri pulpiti .sono di solito addossati a una colonna, o sotto ùffàrcata, e non abbiamo davanti a noi che poco spa-

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5 zio; i nostri uditori formano una massa allungata in due parti, di modo che la mira di cui parlo sembra impossibile, salvo a voltarsi a destra e a sinistra, ciò che sarebbe disastroso. Ma l'inconveniente, che è reale, non è invincibile. Si può mirare senza vedere. Ciò si farebbe anche a occhi cimisi. È l'immaginazione che deve qui supplire al riguardo. Pensa a' tuoi uditori lontani; dopo avere osservato salendo in pulpito il loro gruppo, devi rappresentartelo alla sua distanza vera e adattare in conseguenza la voce. Ciò riesce benissimo.

Del resto bada che le piccole sale, m cui certamente parli più spesso che nelle grandi, non ti facciano perdere l'abitudine delle grandi. Quanto più piccola è una sala, tanto più è impor-" fante parlare con pochissima voce, senza appoggiare in alcun :

modo, «a voce libera»; senza questo s'impara a «serrare» e si guasta l'organo. È la tendenza dei professori, che appog-^ giano sulla voce come per far penetrare le idee a colpi di' strozza. Essi vi rischiano assai; possono avere presto una voce rauca, impedita da mucosità prodotte dall'ingorgo delle rè-;

gioni glottiche, in ogni caso troppo spinta, senza ampiezza e senza proiezione.

È una regola assoluta che non bisogna mai parlare forte

( | senza parlare largo e senza parlare lontano. E, come abbiamo"" ' i ; veduto, la reciproca non è vera: si può parlare lontano e largo f

\ ; senza parlare forte.

I Questa politica di economia e di giudizioso impiego è per

| la voce un mezzo di preservazione mirabile. All'uopo c'è un

', rimedio. Ci si libera molto bene dalla raucedine parlando o cantando, se ciò si fa con una voce bene impostata per lon-

[ tananza, e larga. Le affezioni delle vie respiratorie sono combattute da un impiego normale dell'organo e dal suo allenamento progressivo. La vita si difende sempre da sé, quando funziona secondo la sua propria legge; il suo cattivo funzionamento invece la mette in stato d'inferiorità, a riguardo di ciò che le può nuocere.

E) la D'UBATA E LA RESISTENZA DELLA VOCE.

Appena occorre aggiungere che la buona impostatura della voce è una condizione di durata e di resistenza, per il caso di lunghi discorsi o di serie oratorie. È la stessa voce che suona bene, che fa cantare la sala, che si regge, e che dura, oltre che può sostenere la varietà de' suoi effetti, in vece di fissarsi in

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f un atteggiamento di resistenza disperata, come di un lottatore che si appuntella a un pilastro. Questa voce, essendosi bene stabilita, prende un andamento infaticabile; può andare attraverso a tutto, andare sino alla fine. Il suo possessore l'ha adagiata sulle parti forti dell'organo vocale come il sacco sul dorso dell'alpinista. Chi è così fornito, può andare lontano.

C'è ancora, è vero, qualche condizione. Anzitutto devi .'collocare la voce, fin dal principio, nel suo registro naturale. : Se sei tenore, non prendere una voce di baritono o di basso, e viceversa. Avresti un bei prenderla benissimo, sotto l'aspetto della impostatura come l'abbiamo definita fin qui, ma non la potresti durare, perché dura solo quello che è naturale, quello che risponde alle nostre attitudini native, alla nostra costruzione.

I l'Tell'interno della tua tessitura, come dicono i musicisti (1), fyaoi produrre tutti i tuoi effetti; questi non dipendono che dalle relazioni introdotte; il valore assoluto del tono è indifferente, nel modo stesso che diremo: i gesti non devono oltrepassare una certa ampiezza, ciò che non impedirà alla loro gamma di essere indefinita, in espressioni e in figure. Pare che Cicerone si facesse dare il tono dal flauto: è vero che la declamazione latina, come la declamazione drammatica nel secolo XVII, era una specie di canto (2); ma se il nostro parlare attuale è meno musicale, ha nondimeno la sua tonalità, che s'impone.

D'altra parte nell'interno della stessa tessitura, vi è una dominante, cioè un punto massimo di facilità, in cui il movimento vocale risponde alla spontaneità più naturale. È ciò che chiamano note medie, e il parlare ordinariamente sulle note medie da alla voce il suo massimo di potenza, di naturalezza, di durata, di espressione e d'incanto.

Ciascuno può trovare le sue note medie prendendo il la ;con un diapason e, partendo dal la, emettendo molto posata-' mente il suono A a diverse altezze vicine, fino a che egli in-! contri il suono emesso colla maggiore facilità e sonorità per una stessa pressione di fiato. Dopo, a titolo di esercizio, si può modulare attorno a questa nota abbandonandola il meno

(1) La tessitura è l'insieme dei suoni che convengono nel miglior modo a una voce. Il registro è l'estensione della scala vocale propria di ciascun cantore secondo il diapason che è il suo (soprano, tenore, baritono, eco.) o ancora la scala dei suoni nei diversi modi di emissione della voce (voce di testa, voce di petto).

(2) La Champmeslé modulava cosi artisticamente che Luili notava, sembra, le sue inflessioni per riprodurle, amplificate, nella sua musica teatrale,

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possibile prima, poi con un po' più di allontanamento, fino a rispondere ai varii bisogni della dizione. Se si elaborano così gli allontanamenti nello stesso tempo che le note medie, si darà alla voce non solo più estensione, il che è già un gran vantaggio per la varietà e la ricerca dell'azione oratoria, ma anche più facilità e pieghevolezza nell'uso delle stesse note medie. Si sa che esercitarsi negli atteggiamenti difficili rende più facili e più armoniosi gli atteggiamenti facili, come la danza conferisce al portamento e lo sport alla marcia. Per questo, è in special modo efficace il canto, segnatamente gli (esercizi di ottave, di semitono in semitono, nei due sensi, avendo "Tgran cura di scivolare dal piano di ciascuna nota alla sua ot-Itava, senza portare la voce.

È sempre sulle note medie che bisogna fare i primi passi. Si da così a se stesso la nota. Se l'hai sbagliata, devi ritornarvi alla prima pausa importante, e poi conservarla, sorvegliando le fini di frase, che per inflessioni ascendenti o discendenti, sempre aggravate, ti conducono alla « soffitta » o alla « cantina ». Se l'inflessione è stata discendente, dovrai dunque at-jtaccare poi più alto, più basso nel senso contrario, salvo ohe', || naturalmente, il cambiamento di tono non sia voluto.

to Se trattasi di un esordio, è affatto naturale che esso serva a tastare il terreno sotto tutti gli aspetti, a stabilire la propria tonalità, ad ascoltare l'acustica del vaso, a prendere un at-| teggiamento favorevole, in modo da cominciare poi veramente con tutta sicurezza, per sé e per gli altri. Perché anche il pubblico ha bisogno di essere fissato; egli prende possesso della tua personalità vocale come dell'altra; sapendo con chi ha da fare, ti ascolterà meglio.

Finalmente nel corso della parola, un oratore deve dare Jalla sua voce, come al suo pensiero, come alla sua sensibilità, : come alla sua immaginazione, uno sviluppo progressivo. È una condizione di armonia, ma anche di durata. Partire a tutta vela è uno sbaglio, anche se si tratta di effetti ex abrupto. Sarebbe un grand'errore credere che il Quousque tandem Ca-tilina, sia stato pronunziato gridando a squarciagola. Comin-.^ ciando così, non sarebbe più possibile sostenersi, e meno an-^ ''cora crescere. Si cominci piuttosto con un tono moderatis-j/ slmo, e perfino — specialmente se si teme di essere a corto" più tardi — con un tono debole, come per esigere una maggiore attenzione. Ma allora si compensi con la nettezza dell'emissione e dell'articolazione quello che si rifiuta, alla forza,

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CAPITOLO IV.

L'emissione della voce.

A) le VOCALI.

L'articolazione.

Formata correttamente la voce, e perciò bene impostata, resta da emetterla, da distribuirla m sillabe, in parole, in frasi.

• La frase oratoria e il vocabolario saranno studiati più avanti •in quanto al senso; ma l'uso della voce da se solo impone già

- certe regole. Si tratta qui del modellato esteriore, non del contenuto spirituale, e questo impiego della voce, distinto dalla fonazione propriamente detta, che è la formazione del suono musicale, è quello che si chiama articolazione.

I Gli elementi dell'articolazione sono le vocali e le conso-Jianti, e bisogna anzitutto considerare la loro emission~e, prima .di venire alla stessa articolazione.

Una buona emissione delle vocali esige che, quando queste Ivocali cominciano una parola e specialmente una frase, siano jbene attaccate. L'attacco è il modo con cui il suono è affrontato, modo brusco, molle, o fermo, e il buono è manifestamente quest'ultimo. Un attacco troppo brusco è sgradevole, inestetico; un attacco molle non impone abbastanza il suono e nuoce alla chiarezza; esso è anche inestetico, come tutto ciò che manca di affermazione.

i II buon attacco si fa con un leggero colpo di glottide, an-[ zichè coll'espirazione semplice, che è troppo indecisa. Il colpo di glottide è prodotto da una leggera esplosione, poiché l'aria accumulata dietro alla glottide sfugge con una certa subitaneità, a guisa della « nota piccata ».

Bisogna guardarsi dall'esagerare quest'effetto, e per questo, è meglio non pensarci, dopo che con l'esercizio — supposto che si reputi necessario — si è acquistata la nettezza dell'attacco. L'esercizio consiste naturalmente nell'emettere le varie • vocali attaccandole con il colpo di glottide: a, a, a, a; e, è, e, e, eoe.

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Ma, del resto, non è questo il principale. Il principale è di dare a elastina vocale il valore proprio, voglio dire il suo corpo;

infatti è per il corpo di voce che le vocali si distinguono tra loro, poiché tutte possono essere emesse sulla medesima nota. Si sa fino a qual punto, si dimentichino, a questo riguardo, i cantori e principalmente le cantatrici. La maggior parte, oltre alle più svariate deformazioni, arrotondano tutte le vocali,

• per dar loro più sonorità, in tal modo che le parole del canto ; quasi non sono più comprese; si ammira forse la voce, ma non 'si sa che cosa essa dice.

Gli oratori hanno maggior rispetto per la lingua; ma quanto sono rari quelli che distinguono nettamente un e chiuso da un è aperto, un è aperto da un o chiuso, oppure che sanno dare il loro vero colore a un a, a un i, a un u, a un dittongo! ' N'on si potrebbe dire l'oscurità che una tale imprecisione getta i nel discorso, appena che la voce è un po' debole o aumenta '' la distanza. La giustezza del suono è la condizione della sua chiarezza; senza di essa tutto si confonde.

Aggiungi che la varietà dei suoni è una ricchezza della lingua, una condizione del suo carattere: si deve forse sfigurare il linguaggio che si usa?

Dunque l'oratore non trascuri di verificare su questo punto la sua dizione, e al bisogno la corregga. L'esercizio sarà di pronunziare di seguito, un certo numero di volte, tutta la serie delle vocali semplici: a, è, e, i, o, 6, u, e dei dittonghi. Poi si può inserire successivamente diverse consonanti negli intervalli: da, de, di ... ma, me, mi ... e finalmente pronunziare frasi in cui ti costringi a precisare con la massima esattezza il suono delle vocali, badando, questa volta, alla loro quantità, lunga o breve, nello stesso tempo che alla loro qualità, aperta

•o stretta.

B) le CONSONANTI.

Le, consonanti devono, essere scolpite nettamente col loro corpo di voce, con la loro vivezza propria; se sono szbilanti,sibi-lino; se sono esplosive, esplodano, ecc. Perché, se nelle sillabe, le vocali forniscono il colore del suono, le consonanti gli danno il rilievo, e da ciò risulta per la maggior parte la chiarezza della parola, È per mezzo delle consonanti che si articolano le parole, le quali senza di esse sarebbero prive di ossatura, di legamenti e di tendini. Si può aggiungere che la pronunzia

?

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I delle consonanti è ciò che da alla voce più personalità, più • originalità. La vocale impegna soprattutto la vibrazione dell'aria, la consonante quella degli organi.

j*a È dunque troppo necessario vegliare, e all'uopo esercitarsi, ( specialmente per chi non è dotato da parte dell'organo. L'articolazione sostituisce la voce. Accade che una forte voce, dominando un'articolazione debole, l'anneghi nel rumore e non arrivi che alla cacofonia, mentre una voce mediocre s'impone. Un vaso troppo sonoro viene corretto solo da questo;

e non è forse altresì necessario, come dicevamo, portare la voce in lontananza mediante una buona impostazione, senza dubbio, ma anche per mezzo dell'articolazione, nei casi in | cui il piano o il pianissimo è richiesto dall'espressione della |frase, dal suo carattere d'intimità o di segreto? In ogni occa-"^ sione, « l'articolazione è cortesia del dicitore » (1), perché essa; j lo fa capire senza pena, nello stesso modo che il disegno, agli occhi d'Ingres, è «la probità dell'arte»."

C} le SILLABE.

Per mezzo della consonante, dopo la vocale, noi abbiamo raggiunto in modo affatto naturale l'articolazione, che presiede t alla formazione e al collegamento delle sillabe. Bisogna arti-! colare bene; ma ciò non basta; bisogna anche articolare tutto;

non dire disertazione per dissertazione, disegno per disegno, ricchessa per ricchezza, esiandio per, eziandio; bisogna fare spiccare le doppie e dare a ciascuna consonante tutto il suo valore.

; Che se non bisogna omettere delle lettere, neppure se ne ^devono aggiungere, dire Bollogna per Bologna, Ho per io, vuomo per uomo, ecc.

, Le sillabe iniziali e finali sono spesso trascurate dagli oratori; si attacca male e si chiude la bocca o si lascia cadere il flato prima dell'ultima articolazione. Eppure questa ha lo stesso valore delle altre, e dev'essere sostenuta, portata agli orecchi degli uditori piuttosto con favore che con negligenza, come una conclusione.

Si badi di non masticale le parole, sotto pretesto di articolarle. È un grave errore. Ciò è brutto, penoso e inutile. La più vigorosa articolazione non esige affatto che si scostino e

(I) Coquelin ainé.

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si avvicinino i denti: la prova è che si può articolare a denti stretti, il suono ci perde, ma non la chiarezza. In pratica, durante l'emissione, i denti si devono tenere quasi immutabilmente circa a un dito di distanza; meno, soffoca il suono;

più, lo rende esitante.

Parimenti, le labbra non devono cercare di modellare la ; pronunzia solamente col loro movimento; esse non darebbero che smorfie. La pronunzia si ottiene con un adattamento ge-<nerale delle pareti boccali, non con le sole labbra. «Parlate ' con la bocca piuttosto che con le labbra », dice Quintiliano.

È da notare che la disposizione boccale che favorisce meglio l'articolazione è quella che favorisce anche la portata. Quando una sillaba è bene articolata, per ciò stesso si diffonde bene, e il minimo sforzo la rende pienamente sonora.

Additiamo ancora a questo riguardo la tendenza ad abban-\ donare l'articolazione nei momenti patetici, là dove appunto p offrirebbe maggiori vantaggi. Si torna al grido indistinto, in n cui il suono non è più neppure una nota, ancor meno una n sillaba, e ci si affatica senza profitto. L'articolazione è un elemento importante dell'espressione: è un errore privarsene nel momento in cui si vuole essere più espressivi.

All'opposto, nei momenti di intimità avviene che si bi- . I' sbiglia confusamente, e l'errore è pari. Abbiamo detto che lo" - stesso pianissimo deve diffondersi bene; ma se si diffonde '<8' bene come suono, si deve, diffondere bene anche come parola;' ~So, ciò non ne segue. Succede che il suono si diffonde bene, mentre l'articolazione cade per via. Dunque sia tutto proiet- ' tato alla stessa distanza, breve o lunga, in tal modo che l'ar— , ticolazione corrisponda in intensità all'estensione di portata che esige l'uditorio. . Da ciò si vede quale attenzione costante, benché subco- :

sciente, si esiga dall'oratore sotto questo semplice aspetto di 'una fonazione e di una articolazione corretta! Bisogna udire < j' la propria voce per guidarla; è un'abitudine da creare. Ma ^ gl'attenzione non è efficace nel discorso se non a patto che tuf/ ti sia per lungo tempo affaticato negli esercizi. Le qualità da ^/ ottenere sono la correttesaza, la nettezza, il vigore e, qualità m-~rf' prema, la facilità, la leggerezza di tocco; perché l'articolazione, ' ; nur mostrandosi perfetta, non deve apparire una fatica. E ':.t questo è laborioso soprattutto.

Menziono solo a memoria i difetti da vincere prima di tutto, se per disgrazia qualcuno ne è afflitto: il barbugliare, così-

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frequente, e che riesce presto a mettere m ridicolo chi ne è affetto; lo strillare volgare e penoso; il balbettare quasi inconciliabile con la parola pubblica, e quei difetti meno gravi, ma già così spiacevoli, che si chiamano bisciolare, cinciscMare, biascicare, ecc. Studiare ciascun di questi difetti e i loro rimedi sarebbe troppo lungo. Si consultino i lavori speciali. Kon aggiungo che un'osservazione, in vero, capitale: essa è relativa al parlare legato, di cui abbiamo già detto l'importanza a proposito del fiato. ..^ ,,„.•»"- •

: D) il DISCORSO LEGATO.

Esso consiste nel mantenere nella pronunzia una continuità che non sia interrotta se non pensatamente, per il senso, mai per piccole pause arbitrarie, ne per quelle fughe che sono solite a prodursi in occasione della pronunzia delle consonanti.

Quest'ultimo punto è il più delicato, e molti non sanno che cosa si voglia da loro quando si formula questa esigenza. Quando avranno progredito, allora soltanto si renderanno conto del male, e loro sarà detto come a Pascal: « Vedi che cosa ti è perdonato ».

Ciascuna vocale è una tenuta; ciascuna consonante è un movimento variato, un turbamento, in contraddizione con la tensione glottica che caratterizza la vocale. Dunque, perché la voce abbia della tenuta, bisogna prima impostare bene le vocali; ma bisogna poi difendere quanto è possibile la loro continuità contro l'interruzione delle consonanti, legarle tra loro nonostante le consonanti, attraverso alle consonanti, pur martellando o impastando vigorosamente ed esattissimamente le consonanti.

Si provi a pronunziare lentamente una parola qualunque, per esempio, la parola incoraggiamento, cercando di saldare strettissimamente tutte le vocali in una colatura continua, mentre le consonanti intercalano il loro suono proprio come furtivamente, senza interruzione:

in - o - a - ia - e - o o - r - gg - m - nt.

Se si procede bene, si sentirà nella stessa bocca, senza parlare dell'orecchio, la fluidità e la felice unità del suono. È quello che i cantori francesi chiamano cantare « l'archet a la corde », perché il violino offre il tipo più evidente dell'ese-

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cuzione legata (1). Essi ne conoscono insieme la difficoltà e il pregio. Faure giunge fino a dire che questa qualità ha formato una gran parte dell'arte dei cantori celebri, ed egli era

uno di essi.

Questo modo di cantare o di parlare cattiva, nel senso proprio della parola, l'attenzione dell'uditore e non gli permette di sfuggire. È come una catena che gli si getta al collo, in vece di pozzetti di metallo o di sughero! Così, del resto, egli è molto meglio inteso, perché l'atmosfera parimenti si trova captata, di onda in onda, e per essa l'orecchio.

L'esercizio da fare per ottenere questo dono prezioso è tutto indicato dalla definizione dell'atteggiamento. Si ha solo da variare e generalizzare il saggio ora suggerito. Ma l'esercizio è profittevole soprattutto cantando; perché la continuità del suono, essendo allora imposta per una parte, aiuta ad acquistare quello che manca.

(1) Anche nel pianoforte vi è il legato, opposto allo staccato.

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CAPITOLO V.

Le qualità intellettuali del predicatore.

I. — II buon senso.

Cicerone, parlando delle qualità intellettuali necessario all'oratore, così si esprime: « Dell'eloquenza come di ogni altra cosa, il fondamento è la sapienza ». Quel che egli chiama sapienza, è ciò che noi chiameremmo, in italiano, buon senso, o senso retto, rettitudine di spirito, che, manifestamente, è il fondamento primo in ogni materia.

Sapere dovunque riconoscere e isolare la verità elementare, allontanarla dalle complicazioni, dalle convenzioni, dalle falsificazioni, e disporsi così a vedere tutto al naturale, tutto come la natura, tutto come Dio, non sarebbe il'buon senso assoluto, e per questo solo fatto il genio e l'originalità stessa? Se Michele! potè definire il carattere di Giovanna d'Arco « il buon senso nell'esaltazione », non ci sarebbe che da attutire un poco l'ultima parola per fare di questa formula la definizione del buon oratore.

La parte di una tale qualità si delinea già nella scelta dei soggetti, per adattarli ai bisogni e al carattere proprio degli uditori; apparisce nella composizione, che dev'essere prima di tutto giudiziosa, presentare ragionevolmente cose ragionevoli, senza di che l'ingegnosità, il movimento, la stessa sublimità non gioverebbero a nulla. L'elocuzione ne dipende, per ottenere un discorso diretto, calcato sulle cose, conveniente alle persone e all'oratore. E la dizione ad esso si ispira per allontanare l'agitazione fittizia, la vanteria, in favore del serio e del naturale.

In una parola, è il buon senso che da al discorso, sotto tutti i rapporti, le sue salde fondamenta. Se esso presiede, non si può fallire del tutto; se manca, i più bei doni non possono far capo che all'impotenza. Potrai essere ammirato, anche se tu ti dimentichi a tal segno da « lapidare il buon senso con delle comete », come diceva Leone Bloy; ma nessuno ti seguirà. Non ci si abbandona che al vero. Ma davanti al vero, chi volesse pur rifiutarsi, per lo meno abbassa la testa.

—110-Che rimedio c'è per l'assenza di questo dono essenziale?^ Si può dire che non ce n'è, perché anzitutto una tale defi- ;

cienza di rado è riconosciuta, e del rimanente è così fondamentale che disarma. Tuttavia bisogna ricordare che in ciò che vi è di primitivo per lo meno, il buon senso è « la cosa meglio distribuita del mondo» (Descartes), poiché esso è «il fondo, l'essenza stessa dello spirito », come spiega Bergson. Si può dunque tentare di far rientrare in se stessa la gente, di farle riconoscere «il dono di Dio», se le persone hanno tanta umiltà da sentirsi sprovvisti.

Sorveglino se stessi; diffidino delle loro proprie concezioni, e ascoltino gli altri; confrontino i loro pensieri con quelli di menti che godono riputazione di sapienza; in occasione di una contradizione, si raccolgano, in vece di reagire subito. È questo un gran segreto! A respingere un rimprovero, non si guadagna nulla; a fare di un rimprovero ingiusto un oggetto di riflessione, si guadagna sempre, e se il rimprovero è fondato, -ci si corregge.

Il sentimento soprannaturale è qui il mezzo per eccellenza;

perché esso appunto ci distacca e ci rende suscettibili a riguardo del vero. È cosa assai rara che un santo manchi di buon senso. Può avere delle originalità, ma che nascondono un senso profondo delle cose, degli uomini e delle circostanze. Nessuno ha più spirito che lo Spirito Santo, e stando vicino a lui, si prende della rettitudine, spiritualis iudicat omnia.

È indicatissimo, se si diffida del proprio giudizio, il frequentare specialmente, fra i maestri, quelli che brillarono prima di tutto per il giudizio: come Bourdaloue, preferibilmente a coloro che, come Massillon o Fénelon, ebbero una tendenza all'esagerazione o al paradosso. Abbiamo già detto che ciascuno si deve scegliere i maestri considerando i suoi bisogni, si tratti di accrescere e di valersi delle proprie qualità o di sovvenire alle proprie deficienze.

II. — La cultura.

A) la CtTL'rUBA GENERALE.

Saremo obbligati a insistere maggiormente su ciò che riguarda la cultura, perché diverse considerazioni devono intervenire per giustificarla, caratterizzarla, segnarne le condizioni e le molteplici richieste.

— Ili —

La cultura è cosa diversa dall'acquisto; essa lo raggiunge;

ne dipende strettamente, ma non potrebbe confondervisi. Se un uomo colto è necessariamente un uomo istruito, non è per questo che egli viene così qualificato, ma bensì in ragione dello sviluppo comunicato alla sua mente dalla frequentazione delle idee e dei fatti, delle persone e delle cose, ed egli dimostra questo sviluppo con una certa prontezza a esplorare felicemente un dominio qualunque, a studiare una questione, a risolvere un problema, a esporre chiaramente un'idea, a convincere, a dilettare, ad affascinare un uditorio, e questo a ogni richiesta, intendo dopo una conveniente preparazione.

Questa qualità ne suppone molte altre, e ne è la risultante;

fecondata dal lavoro d'onde è nata, in grazia del quale si conserva, essa fa di tè un oratore sempre disponibile, sempre adatto, col verbo di verità sulla punta delle labbra, che offre un'anima di una sonorità ricca, perché essa ha spesso e in molti modi vibrato, per lei sola o per altri.

È questo il frutto dell'istruzione, che diversamente non sarebbe che legna e fogliame. L'essenziale è di farsi un'anima;

solo dopo la scienza giova. Avere molta scienza, è avere molte munizioni nella cartucciera; ma prima di tutto bisogna essere un buon tiratore.

Per questa ragione, la cultura è più difficile ad acquistare e più rara che l'istruzione libraria; è più facile che uno diventi un rotolo di pergamena che un uomo, e vi sono meno buoni atleti che pesi gravi. Se costa sempre l'imparare, costa anche più il drizzarsi, il conformarsi l'essere in vista di tutti gli usi del pensiero e dell'azione. Si amerebbe di riposare sui proprii doni, o affidarsi a facili ricette. Si apprezza assai il gratuito! ci si abbandona tanto volentieri alla Provvidenza! Ma S. Tom-maso c'insegna che il miglior dono della Provvidenza alle sue creature è la loro capacità di gratificare se stesse, di agire, e con ciò di causare la lor propria ricchezza. La nostra cultura è un dono che noi stessi, insieme con Dio, ci siamo fatto, e ci appartiene così doppiamente, pronta a servirci anche doppiamente, come tutto ciò che costa e tocca più da vicino la persona.

Questa cultura non è mai completa; deve sempre essere proseguita, poiché la nostra mente è dotata di una perpetua capacità di crescere, e ogni acquisto è per lei la sicurezza di nuove possibilità. La prospettiva davanti a noi è indefinita; un'anima ardente non si soddisfa mai. Si parte, ma non si arriva, e,

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per quanto lontano sia uno arrivato, vi è qualcosa di vergognoso a trascurare di progredire ancora. È quello che volevano far sentire a Gustavo Planche certi compagni di laboratorio quando gli dicevano, convinti che egli non si rinnovasse più: « Tu vivi della tua grascia ». La parola è un po' grossa, ma forse è meno dura di quella dei nemici di «ST.-J. Henner alla fine della sua carriera: « Egli non fa più che dei falsi Henner ».

Vi sono delle imprese il cui scopo è limitato; con poca o molta applicazione si ottiene quello che si cerca: qui, invece, non si può sperare che di avvicinarsi. Ma perché ciò dipende dalla grandezza dell'opera, non hai da temere inganno; basta proseguire, quando ti sei dato tutto quanto.

Del resto, solo nell'assoluto, in se stesso, il nostro compito apostolico prende questo carattere fuggente: in Dio, esso si precisa, e si precisa nella proporzione de' suoi doni e del nostro sforzo normale; fuori di lì, noi non abbiamo nulla da cercare. E in quanto al tempo, è quello che trascorre tra la nostra vocazione e l'ultimo sonno. Quello che la vocazione incomincia la morte compisce. Essere contento di meno, sarebbe consentire a non essere se stesso; perché anche la nostra durata fa parte di noi stessi, e il tempo non viene mai a noi senza avere qualcosa in mano.

Leonardo da Vinci nel suo Trattato della pittura, scrive:

« Quando l'opera soddisfa il giudizio, che triste segno per il giudizio! E quando l'opera supera il giudizio, è peggio, come avviene a quelli che si maravigliano di avere fatto così bene. Ma quando il giudizio sorpassa l'opera, ecco il segno perfetto ».

« Per ben imparare il proprio mestiere, dice dal canto suo Oamillo Saint-Saens, bisogna impararlo tutti i giorni, e non si sa mai abbastanza ». Si tratta qui di musica; ma, per noi, è ben altra musica! È spaventoso domandarci, pensando al nostro ufficio di sacri rappresentanti e di provveditori delle anime:

che cosa ho io tra le mani? quale formazione mi son data? Chi sono io, e con qual diritto alzerò la voce in mezzo alla mia generazione'? Per anni si è creduto che io accumulassi:

dov'è la mia raccolta? lavoratore, dov'è la tua messe? Mostra quello che è in tè, o sacerdote, prima di gonfiare la voce per insegnare a' tuoi fratelli quello che è in loro stessi e quello che è in Dio.

In questo, la nostra facilità di lavoro non serve di scusa;

o piuttosto è un nuovo obbligo. Quanto più si ha il lavoro fa-

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cile, tanto più si ha il dovere di renderlo accanito. Chi non impiega per Dio tutte le sue facilità ne abusa. Egli, con un minore sforzo pretende di avere il medesimo rendimento di un altro, ed è vero materialmente; ma moralmente, il suo rendimento non è il medesimo; perché il rendimento morale è relativo alle capacità, come l'interesse al capitale: è quello che la parabola dei talenti ci dichiara. Conoscere se stesso, e mettersi in pieno accordo con sé per giungere a capo di sé, tale è dunque il programma, o in altre parole, realizzare, per mezzo della cultura, un'espressione completa e, se così posso dire, magistrale di se stesso.

Questo non si può ottenere che per tappe e per assaggi, a prezzo di molti errori, e perfino di molti sbagli; ma anche gli errori e gli sbagli, riparati, sono biffe della strada. Picchiandosi sulle dita, l'apprendista fa « entrare il mestiere ». Spesso i lumi definitivi e gl'impulsi sovrani ti sono forniti verso gli ultimi giorni, facendo i tuoi ultimi passi. Allora bisogna affrettarsi. Ma tutta la vita si deve dirigere verso questa mèta e cercarvi la propria regola. Quanto più presto sarà raggiunta, tanto più presto sarà aumentato il rendimento di quella vita che da principio non ha che speranze, poi risultati da principianti, parziali, più tardi, e qualche volta tardissimo, la sua pienezza. Non cominciamo veramente ad agire se non dopo essere! conquistati, attrezzati, coltivati; da prima è il bambino che agisce in noi, non l'uomo.

Il predicatore che parla, come lo scrittore che pubblica, dovrebbero essere a ciò così pronti da non aver bisogno, in un dato caso, se non di manifestarsi tali quali sono. Il loro silenzio dovrebbe contenere più di quello che deve dare la loro parola; infatti Emerson ebbe ragione di dire: « Ogni uomo che vuoi fare bene una cosa, deve discendervi da più alto (1) ».

Ciò non dispenserebbe da un duro lavoro. Quando Benedetto Varchi diceva a Michelangelo: « Tu hai un cervello di Giove », il Buonarroti rispondeva: « Ci vuole il martello di Vulcano per farne uscire qualcosa ». Quel che è ben certo si è che se il cervello è vuoto, neppure il martello di Vulcano ne farà uscire qualcosa. Quando manca la cultura, non è possibile supplirvi con la preparazione immediata, con lo sforzo del momento; perché ogni soggetto che si vuole trattare, ogni idea che si vuole esprimere è solidale con una folla d'altre e

(1) Lw hommes représentatìfs, platoit.

8 — SBBllLLANaBS. L'watwe cristiano.

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•vi deve trovare la sua luce, il suo arricchimento, per lo meno la sua forma espressiva.

Una concezione viva e feconda è quella che connette ogni idea nuova, ogni impressione del momento col più gran numero possibile di pensieri e d'impressioni anteriori, in modo da provocare, ogni volta, una utilizzazione sintetica delle forze acquisite. Tal è « quella facoltà di pensare in grande » di cui parlava Buffon a proposito di Linné, e che, diceva, « moltiplica la scienza ».

Non si creda di essere così invitati a uscire dall'argomento, a procedere per digressioni perpetue, come certi « pozzi di scienza » di un giudizio limitato. No, evitando pienamente lo scoglio del sovrabbondante, del disparato, dell'approssimativo, si può dar prova di una grande cultura e trame un doppio vantaggio.

Anzitutto quello che si concepisce in modo nuovo non ti è come estraneo, a guisa di un contributo senza radici interne, senza connessione naturale; ciò subito prende posto in uri organismo spirituale e vi trova il suo vero significato, i suoi limiti e il suo pieno valore. È ciò che faceva dire a Goethe, nel suo viaggio in Italia: « Non voglio aver requie finché nulla sia più per me parola e tradizione, ma sì concezione vivente ».

In queste condizioni, un'idea è una vera luce e non un'arida proposizione di manuale o di indice delle materie; quando si esprime, se ne può mostrare lo splendore intimo e renderla rischiarante per altri, come il bravo pittore, in mezzo a una ricca gamma di valori, può sopra un punto far cantare il tono, in giusta continuità con tutto il resto.

Sarebbe il caso di dire con la Scrittura: « II fuoco si accende in proporzione della legna della foresta » (JSccli; XXVIII, 12), e viceversa, con l'arte poetica che denunzia il poeta senza cultura generale: « E il suo fuoco, sprovvisto di senso e di lettura, si spegno ad ogni passo per mancanza di alimento ».

Sainte-Beuve, ne' suoi CaMers, fa questo rimprovero a Thiers: « Egli ti parla alla sera di ciò che ha imparato al mattino; è uno di quelli che non possono conservare il loro vino in bottiglia, e ciò apparisce chiaro dal loro stile, che non ha ne capo ne coda ». Sainte-Beuve è una mala lingua; ma Thiers era, difatti, una lingua troppo facile.

Secondo vantaggio, che ci faceva prevedere il detto di Emerson: la mente così coltivata, benché applicata al proprio preciso lavoro, sarà sempre al di sopra delle strette esigenze

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dell'oggetto, sembrando sempre che le oltrepassi, lasciando tracce di nuove germogliazioni sulla linea seguita dallo sviluppo letterario, come su un ramo vivo. Se queste gemme non si schiudono, è perché un dato frutto è atteso alla cima del ramo e il succo deve correre; ma si sentono le riserve latenti; a ogni istante si indicano delle possibilità di fioritura;

la scelta delle parole, il procedere dei periodi, le parentesi rapide, gli stessi maneggi che si fanno per evitare le digressioni, tutto da l'impressione di una ricchezza non impiegata, ma disponibile, di direzioni che si potrebbero prendere in vista di nuove esplorazioni, e che non si sacrifica se non al metodo, ai principii di rettitudine che limitano esteriormente il pensiero, ma non lo possono impoverire.

La linea secca, in arte, è un segno di povertà estetica; le grandi epoche non la conobbero; essa non apparisce se non nei pasticci: tele di Overbeck scimmiottanti l'Angelico e Eaf-faello, la Maddalena imitante il Partenone, o S. Olotilde col suo falso gotico.

Nel discorso del vero oratore, si riscontrano la linea delicata e ondulosa dell'Angelico," i profili gonfiati di Chartres o di Beauvais. Ed è la cultura che da questa pienezza viva, questa ricchezza della linea ideologica che anuunzia dei so-prappiù spirituali in tutti i sensi.

Il discorso di un uomo superiore, qualsisia soggetto speciale egli affronti, da l'impressione di un paesaggio illimitato. Nessuna cosa è rinchiusa in se stessa: nulla vi rimane stringato, ma partecipa dell'atmosfera universale nella quale ogni idea s'immerge, dell'essere universale al quale ogni essere attinge sempre senza mai distaccarsene, e, inoltre, del mistero che avvolge tutto e magnifica tutto.

Finalmente, in questo caso, si diventa inesauribili, sempre in disponibilità di creazione inedita, sempre nuovi, in vece di ripetersi, come tanti vecchi autori, tanti vecchi predicatori, occupati, durante gli anni magri del loro declinare, a frugare nei loro cassetti o nel loro ingrato cervello.

Perché la cultura produca tutti i suoi frutti, è necessario che essa ubbidisca di buon'ora — non troppo presto però — alla legge della divisione del lavoro e si orienti verso la specialità, che è per noi la specialità oratoria. Infatti bisogna notare ;

bene che i risultati attesi, come osservò Marcelle Proust, dipendono qui meno dalla cultura in noi che da un certo talento

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di proiezione che la rende comunicativa. Trattai ne La Vie intellectuelle, questa questione delicata della specialità ne' suoi rapporti con-la cultura generale; io non insisto qui, ma bisogna ricordarsene.

Eugenio Delacroix fa giustamente osservare che «la dispersione delle facoltà e degli sforzi che non menano direttamente a una grande mèta è pressoché tanto funesta quanto la pigrizia » (1). Si pretende che Giulio Favre a questo riguardo fosse arrivato a un concentramento stupendo; quello che vedeva, udiva, leggeva o tentava, nel suo pensiero aveva rapporto alla sua arte di oratore, e ne traeva incessantemente perfezionamenti per il suo acquisto o per la sua tecnica. Ma siccome tutto è in tutto, come bisogna sempre ripeterlo, si vede l'ampiezza di una cultura anche specializzata, particolar-mente quando la specialità è per sé vastissima, come gli oggetti del discorso cristiano.

Trattando delle fonti della parola di Dio, noi abbiamo indicato i principali domimi in cui si colgono gli elementi di una cultura apostolica. Bisognerebbe aggiungervi quello che si dice ne La Vie intellectuelle riguardo alle letture, alla sciensa comparata, alle amplificazioni, al contatto con la vita, alle relazioni necessarie, eco. Tutto quel volumetto non è che un manuale di cultura. Io non voglio ricominciarlo; ma rimando ad esso con fiducia. Mi contenterò di qualche osservazione sopra la tecnica speciale dell'oratore: la lingua, la logica dimostrativa e la rettorica.

B} la lingua.

Un oratore cristiano deve sapere la sua lingua, quanto si può sapere una cosa che fugge in proporzione che la si insegue e che del resto è variabile. Assolutamente parlando, nessuno sa la sua lingua; ma si può ignorarla più o meno, e un apostolo a questo riguardo dev'essere all'altezza dei genii colti, dei genii distinti, intendo tra quelli che parlano o scrivono. Senza ciò, egli umilia la parola di Dio, e di più, si priva di un elemento essenziale di cultura generale, per conseguenza di un mezzo di espressione e di un mezzo di azione.

La lingua fa corpo col pensiero; ne è a un tempo un residuo e una speranza, come l'humus delle foreste. Colui che ignora

(1) OSuwes littéraires, pag. 123. Paris, Grès.

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il suo vocabolario e il modo delle articolazioni della frase, che parla a un dipresso, è sospetto di pensare anche a un dipresso e di soffrire di una gran povertà nelle sue concezioni acquisite.

Si pretende che fare delle collezioni di francobolli insegni molta storia: far collezioni di parole insegna molte idee; precisare il proprio vocabolario, è aguzzare il proprio pensiero;

rettificare i proprii periodi con le loro concordanze e con il loro esatto spiegamento, è rettificare i proprii concetti e portarli al loro punto di schiarimento, alla loro piena giustezzà. Chi non sa la propria lingua è un balbuziente; gli si desidera la parola.

Praticamente, dopo gli studi regolari, non si deve considerare che tutto sia finito; la lingua s'impara incessantemente, e con facilità si disimparerebbe. Si rilegga di quando in quando la grammatica, o si prendano le occasioni che si presentano di rinfrescarla. Queste occasioni non mancano; un uomo attento è in dubbio a ogni giro di frase: sincerarsene, in vece di passar oltre, è il mezzo di perfezionarsi ogni giorno.

Altrettanto dico del dizionario. Appena che si esita sul senso preciso di una parola, sulla sua proprietà in una data circostanza, sulle sue concordanze, si ricorra al Fanfani o a qualche altro oracolo. Così si guadagna molto; si acquista una quantità di nozioni che a poco a poco si organizzano; gli esempi dei grandi autori che si fanno passare sotto i nostri occhi, mantengono la nostra familiarità coi nostri maestri; si ha presto un arsenale a propria disposizione. Specialmente per l'improv-visatore è questa una necessità primordiale. .

C) la LOGICA DIMOSTRATIVA.

Ho parlato di logica dimostrativa: essa s'impara, o in collegio, o in seminario, o in noviziato, o in qualsisia istituto di educazione; ma allora i suoi rapporti col ragionamento oratorio non sono sottolineati in modo ben chiaro; bisognerà ritornarci su, riflettere sopra le regole a proposito delle loro applicazioni, insistere più specialmente ancora sui sofismi e le tendenze abituali dell'errore. Ciò permetterà di evitare per conto proprio i cattivi ragionamenti, ma anche di manifestarli negli avversar!, di additarli alle menti che ne sono ingannate e di dare così un'impressione di solidità, di probità logica in cui l'uditore troverà la sua sicurezza.

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Vi è anche lì, come nel caso della lingua, una ricchezza positiva da raccogliere. Non invano si circola nelle vie della verità; vi si trova la verità stessa; cercando di evitare insidie, si trovano tesori; esaminando lo stampo delle nostre concezioni, dov'osse segnano le loro impronte, si acquistano nuove possibilità di concepire; la mente si sviluppa, nello stesso tempo che si rettifica.

Si ignora forse che lo studio della liturgia, intrapreso con uno spirito di pietà, giova alla vita inferiore tanto quanto alle forme del culto'? Così è, se si può dire così, delle liturgie del pensiero, purché si affrontino con una intelligenza larga, già corredata di realtà e pronta ai suggerimenti nuovi. Come dunque, nel tempo dei santi esercizi religiosi o ecclesiastici, si consiglia ai sacerdoti di rivedere le cerimonie, le rubriche, perché — e per la stessa occasione forse — non si rivedrebbe la logica, la grammatica, e aggiungi, in terzo luogo, il compendio di rettorica sacra?

Z>) la BBTTOBICA SAOBA.

L'utilità di studiare le regole dell'arte oratoria fu contestata. Ciò fu, a volte, per una pietà malintesa, come se si facesse torto allo Spirito Santo procurandogli uno strumento perfetto quanto è possibile. Sarebbe un dimenticare l'autentica teoria dello strumento, tal quale ce la espone S. Tommaso a proposito dell'ispirazione biblica, teoria che esige precisamente una cultura completa, anziché escluderla.

Per lo stesso fatto che, nella parola di Dio, noi siamo strumenti dello spirito, dobbiamo essere eminentemente attivi e non passivi, eminentemente preparati e non negligenti; perché questo è tutto l'uomo, e l'uomo in atto di vita, « in atto secondo », come diciamo in scolastica, anzi, per quanto è possibile, in atto perfetto, appunto questo è in noi lo strumento dello Spirito, non un embrione inerte.

Dio si serve del nostro essere, delle nostre facoltà, della nostra cultura, del nostro sforzo attuale come di un tutto che è il suo strumento congiunto; egli anima in noi tutta l'anima e tutte le sue energie, che noi dobbiamo fornirgli completamente. Quando veniam meno senza volerlo, egli ci può supplire; ma essere deficienti volontariamente, sia per pigrizia o per presunzione, per una falsa confidenza in Dio che non consiste se non nel tentare Dio, ciò è un essere colpevoli. « Io, per

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me, dice il padre Granata, sono intimamente convinto che non vi è nulla di più indegno di quella temerità con la quale si entra in un ufficio così grande, così importante, così necessario nella Chiesa, e anche il più difficile di tutti, senza darsi pensiero d'istruirsi prima nelle regole e in un metodo sicuro per compierlo degnamente e con frutto » (1). S. Agostino, nel trattato De Doctrina Ghristiana, si era espresso con termini anche più energici.

Grazie a Dio, oggidì la moda non tende più a sostenere quest'impegno; il falso misticismo di cui parlavo poc'anzi ha più pochi partigiani; ma resta la negligenza, resta la pretesa orgogliosa di bastare coi proprii doni, senza lavorare, e senza riguardo per l'esperienza di quei che formularono delle regole dopo averle a lungo praticate. Un apostolo coscienzioso deve evitare questo peccato, perché è un peccato, e rendersi familiari le regole essenziali, non con un primo studio soltanto, ma con frequenti ricorsi ad esso.

Si sente dire: Le regole non servono a nulla; vengono da sé; non si lavora seguendo regole. È vero! ma è anche falso, perché vi è un equivoco. Le regole non sono fatte perché si lavori secondo esse, come se si avesse a sinistra il catalogo di ricette e a destra il foglio bianco. Le regole, così adoperate, non solo non servono a nulla, ma sono quanto mai nocive, paralizzano lo spirito, i cui movimenti hanno bisogno di spontaneità e di una fluidezza di oscillazioni nemica di ogni costringimento. Creare secondo regole, è condannarsi all'artificioso. Il meglio che si ha da fare, al principio dell'opera, è di volgere ad esse il dorso. Ma ciò non risolve affatto il problema.

Un giorno che un importuno offriva a Luigi David delle ricette di pittura, questi rispose: « Io ho conosciuto tutto questo quando non sapevo ancora nulla ». È un detto profondissimo;

bisogna solamente capirlo. Egli aveva « conosciuto tutto questo »: si era guardato bene dal trattarlo col disprezzo e di esseme ignaro; ma lo aveva oltrepassato. Come? È quello che molto chiaramente ci da a intendere Beethoven in un passo di una delle sue lettere a Wegeler che potrebbe far riflettere le teste vuote. « Per diventare un compositore, dice egli, bisogna già avere studiato l'armonia e il contrappunto per una durata dai sette agli undici anni, ed essersi così abituato a piegare

(1) Iivwi granata, Shetorica sacra, 1. I, o. II.

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la propria invenzione alle regole dell'arte, allorché si sveglie-ranno l'immaginazione e il sentimento ».

Medita bene queste parole; esse dicono tutto e fanno la parte delle cose. L'opera d'arte procede dall'immaginazione e dal sentimento, non procede dalle regole. Ma perché vi sia opera d'arte, bisogna che l'immaginazione e il sentimento abbiano al loro servizio un insieme di regole acquisite, di regole •immanenti, che non sono più affatto delle ricette, ma una piega dell'anima nostra, un modo di muoversi per lo spirito e, movendosi con un giusto movimento, di creare. È quello che gli scolastici chiamano 'habitus, cioè un'arte interna, che/ diventa tanto più perfetta, tanto più efficace quanto più è incosciente. Ma prima di diventare incosciente, bisogna che si formi. Oertuni sono a ciò più atti di altri, e di Mozart si potrebbe quasi dire che egli sapesse l'armonia nascendo; ma tuttavia l'imparò, senza ciò sarebbe stato di lui come di tanti bambini prodigiosi, che danno solo frutti secchi.

Si dice: quello che forma è la pratica, ed è una gran verità. L'arte immanente s'incorpora per la pratica, ma per la pra- • tica diretta, avvertita, protetta, stimolata, e appunto a ciò servono le regole.

TSoi distinguevamo sopra l'istruzione dalla cultura: questa distinzione vale qui, in materia di tecnica, come vale da per tutto. Una istruzione tecnica t'insegna le regole dell'arte oratoria; ma se tu ti fermi a questa istruzione, e se essa rimane un'istruzione, cioè un insieme di precetti acquisito alla tua memoria tanto quanto estraneo alla tua facoltà di produrre, questo non serve che a ingombrarti, a legarti. Invece, al contatto delle regole, tu hai fatto lavorare l'anima tua, controllato e stimolato i tuoi proprii pensieri, cercato le tue vie, le tue, ma col sentimento delle condizioni necessario del pensiero e della sua espressione, con l'occhio sui terreni pantanosi per evitarli; allora, a poco a poco, ti crei un'arte immanente, un'abitudine del ben pensare, del ben comporre, del ben dire, che diventano così incoscienti come l'arte del ragno o dell'ape, e al pari di queste bestiole, non hai quind'innanzi bisogno di regole, ma perché esse sono in tè.

Sarebbe bene che ciascuno, per suo proprio conto, si costituisse, pensando a' suoi bisogni personali, un brevissimo riassunto de' suoi studi e delle sue osservazioni in questa materia. Di quando in quando lo rileggesse, come si rileggono le proprie risoluzioni, così si metterebbe in guardia contro l'oblio,

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si aiuterebbe a progredire, romperebbe/ la prescrizione delle cattive abitudini, dei brutti vezzi, ai quali nessun oratore sfugge, e, su questo punto come su tutti gli altri, si metterebbe in grado di ubbidire a quella legge di crescenza senza termine che ci è imposta dal nostro ideale.

Insieme con tutto questo, e poiché abbiamo ammesso che la pratica •— supposto tutto il resto — è ancora la grande maestra, un ultimo avviso non sarà qui fuori di posto. ~Sov. temere di slanciarti di buon'ora, pur continuando ad arricchirti e perfezionare la tua cultura. Tempus breve est: non dobbiamo essere di quelli che « preparano incessantemente il nulla », come Amiel rimproverò a se stesso tutta la vita. « Più presto comincerai e più presto riuscirai », diceva S. Francesco di Sales a Mons. di Bourges, fratello della Sig.ra di Ohantal. E per vincere delle resistenze di umiltà mantenute dal ricordo di un predecessore eloquente, il santo aggiungeva: « A chi allegherà l'abilità di Monsignore tuo predecessore lascia dire:

egli una volta cominciò come tè ».

ISTon faciliti il tuo compito differendolo; differire senza motivo seriissimo, è un indebolirsi, e non si trova la propria misura senza rischiare la disfatta. Se fallisci, è chiaro che non puoi rallegrarti di aver fallito: ma devi rallegrarti di accorgertene; ciò è un segno del progresso dello spirito e una testimonianza della tua capacità di far meglio. Oorot era raggiante in tal caso; si fregava le mani, e pigliando una tela nuova, che egli batteva per farne cadere la polvere, diceva:

« Vedrete, sarà famosa questa! ». Lo disse fino a' suoi ultimi giorni.

Per diventare forti, bisogna sentire a lungo la propria impotenza; bisogna sentirla sempre, e sentire sempre anche, di tappa in tappa, la possibilità di vincerla; la vita dello spirito è una continua metamorfosi, una « creazione continua », secondo il celebre motto. La vera utilità di un'opera, rispetto al suo autore, è di servire di appoggio a un'altra. In proporzione che si progredirà, si raggiungerà più facilmente un medesimo grado di valore, e si avrà nello stesso tempo il lavoro più difficile, perché si avranno maggiori esigenze. Al termine della sua carriera, Beethoven scriveva intere pagine di musica di un solo getto; alla fine, riprendeva sette od otto volte, sul suo taccuino che non lo abbandonava mai, un tema di una sola riga, e diceva: « L'artista vede, purtroppo! che l'arte

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non ha limiti; sente oscuramente quanto è lontano dalla mèta, e mentre forse altri l'ammirano, egli deplora di non essere ancora arrivato là, dove un migliore genio non brilla per lui che come un sole lontano » {Lettera a Wegeler, nel 1812).

III. —• L'acquisto dottrinale " e oratorio. — Le note.

S. Agostino definisce il ministero della parola cristiana « una sapienza eloquente ». Sembra così ripetere Cicerone, che, come abbiamo veduto, invoca la sapienza a proposito del senso rotto. Ma S. Agostino non attribuisce alla parola un significato così ristretto. Egli designa con ciò tutto l'insieme delle cognizioni utili, che vuole veder raggruppate attorno alla dottrina sacra e solidamente legate tra loro.

Se il ministero della parola è in questo senso una sapienza eloquente, la prima cosa è di acquistare la sapienza. Anzitutto la sostanza. Ed è quello che con S. Agostino ci dicono tutti i maestri. Infunde ut effundas, scrive S. Bernardo. Non si comincia col versare. L'ordine non è: primieramente, voler parlare e imparare l'arte di parlare; poi cercare che cosa dire. Eppure tal è il caso di non pochi predicatori, i quali all'infuori degli studi già imposti non pensano alla dottrina che a proposito della loro predica, e perché hanno da fare una predica. L'ordine è di avere qualche cosa da esprimere, poi di cercare la maniera. Non si tratta, ben inteso, dell'ordine nel tempo, ma dell'ordine di preoccupazione e d'importanza. Prima la sostanza; la forma verrà dopo; prima la ricchezza, e poi l'elargizione.

Socrate rimproverava questo rovesciamento agli oratori del suo tempo, i quali, diceva egli, volevano imparare a persuadere prima di saper di che cosa conviene persuadere e se stessi e gli altri. Imparate prima l'uomo, diceva loro. Con ciò intendeva non uno studio astratto delle facoltà o l'osservazione dei costumi, ma un conoscimento profondo della legge di vita, solo degno oggetto della parola pubblica.

Per noi la legge di vita è la dottrina cristiana, e, accessoriamente, tutto ciò che appoggia la dottrina cristiana, la espande o si espande nella sua dipendenza. Noi sappiamo che ciò è vasto, che in un certo modo è tutto: tutto il sapere e tutta l'esperienza. Ma vi è un ordine; vi è pure il grado, e ciascuno

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ha il suo. A ogni modo, per ciascuno e secondo il grado di ciascuno, la dottrina è il primo necessario. Perché l'albero sia forte, gli occorrono radici solide, sprofondate in una terra ricca. La terra dell'eloquenza è l'anima arricchita di una dottrina completa, che dispone di ragioni e di fatti, che colloca nelle sue riserve, accanto a quello che Dio ha detto e che noi dobbiamo trasmettere, quello che i migliori hanno trovato sotto la sua ispirazione o in continuità col suo Verbo.

Ite et docete: ecco la formula prima della nostra missione:

toccare e trascinare viene solo dopo. « I popoli hanno bisogno di essere istruiti prima di essere mossi », dice S. Agostino {De Doetr. Christ.). E del resto per muoverli in modo durevole, non basta forse nutrire la fiamma del sentimento con la legna di una soda dottrina? La commozione passa presto se non è solidamente giustificata; non è che un « fuoco di paglia ».

Quelli che hanno l'anima vibrante, un'immaginazione viva e facilità, hanno tanto più bisogno di rinforzare i loro acquisti. Senza ciò saranno esposti ad essere vittime delle stesse loro energie; apparenze di felice successo faranno loro illusione, e i veri risultati mancheranno a loro più che ad altri, che sono per così dire condannati al serio per l'assenza di ciò che brilla e incatenati ad austere fatiche. « Eicòrdati, scrive Leonardo da Vinci, che per imparare; l'applicazione vale più che la prestezza». L'applicazione va più lontano, e scava più profondo. I frutti della prestezza sono presto contati.

Ho detto sopra che la preparazione immediata non potrebbe supplire la cultura: per le stesse ragioni, questo si verifica dell'acquisto dottrinale o pratico. Una scienza troppo fresca si riconosce subito, sia alla sua pesantezza, come il legno verde, sia alla sua leggerezza, come una paglia vuota, e molto spesso le due cose vanno insieme; si da poco, e quello che si da non è adatto; le menti ne sono ingombrate più che illuminate, perché non si va ai principii delle cose. Perché un discorso sia sostanzioso, deve procedere ex propriis, come ' diciamo in logica, e per questo è necessario conoscere gli annessi e connessi del soggetto, il che suppone una scienza abituale e non di circostanza.

Inoltre, il discorso che rimanendo sostanzioso vuole essere vivo e snello, deve mettere in opera l'oratore nella sua stessa personalità, nel suo essere acquisito e abituale, non nella sua scienza di ieri. Avere la propria scienza « sullo stomaco », come si dice, non si presta a modi molto vivi di pro-

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cedere. Una parola libera e forte vuole un'assimilazione completa, in tal modo che il nutrimento adoperato non sia più un nutrimento, ma l'uomo. In arte, e specialmente in arte oratoria, solo l'uomo conta.

Del rimanente, è sempre vero che il principiante non si deve lasciar arrestare da ciò che gli manca. Abbia solo il proposito di acquistarlo. A questo prezzo, il suo ritardo gli potrà anche essere giovevole, in questo senso che, non sapendo tutto quello che bisognerebbe sapere, ma abbandonandosi all'esperienza, imparerà a poco a poco a discernere le cognizioni veramente utili, a procurarsele con frutto, il che è una grande arte e dipende dalla pratica.

Che dire, ora, per caratterizzare quell'acquisto, il cui tenore deve manifestamente variare in mille modi? La risposta non può essere che generale. Un missionario di campagna non adopera gii stessi materiali che un conferenziere di Nostra Signora, e una mente astratta procederà diversamente da una letteraria, benché ciò si faccia su un fondo comune. Quale sia questo fondo necessario a tutti, e quali possano essere le indicazioni particolari fornite dalle persone e dalle circostanze, è tutto quello che noi possiamo dire.

Il fondo ce lo indicava ora S. Agostino, ed è la dottrina sacra, poiché tal è l'oggetto proprio del nostro insegnamento. Ciò comprende la teologia, la S. Scrittura, la liturgia, in ciò che esse hanno di essenziale, là dove più sopra abbiamo trovato le nostre « fonti ».

Quando dico teologia, vi comprendo la parte dogmatica, la parte morale e la parte mistica, dimenticata da molti, eppure indispensabile. Noi possiamo avere da guidare anime elette, e non abbiamo il diritto di dire: non è di mia competenza. Io sono debitore di tutti, dice l'Apostolo.

Quando dico Scrittura Santa, lo intendo parimenti di tutto l'insieme; ma un predicatore deve approfondire specialmente i Salmi, i principali profeti e i libri sapienziali per l'An-;tico Testamento, e, per il Nuovo, i Vangeli, gli Atti e le Epistole. Questo studio non finisce mai; bisogna riprenderlo continuamente, e ce n'è offerta l'occasione dalle nuove pubblicazioni, così ricche, grazie a Dio, in questi ultimi tempi.

Anche per la liturgia, io addito i lavori recenti, che sono,' per l'oratore cristiano una miniera sommamente ricca. La storia del culto trae seco una folla di pensieri e di fatti, di

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suggerimenti religiosi e d'immagini pittoresche di cui l'oratore si può valere vantaggiosamente. Abbiamo qui degli squarci incomparabili, a condizione di scavare un poco — cosa oggi molto facile — in vece di spigolare soltanto.

Come appoggio della teologia e anche per altre ragioni, noi sappiamo che un lavoro filosofico ci è necessario. È uno studio fatto a suo tempo; ma occorre mantenersi, completarsi, ciascuno secondo la sua misura. Idee nuove vengono alla luce, delle quali non si può essere ignari del tutto. Senza essere forse filosofi, dobbiamo poter parlare di filosofia con intelligenza, muniti di una formazione che non senta troppo di collegio, e per conseguenza spogliare qualche opera ben fatta, acconcia a istruirci. In quanto ai grandi testi'filosofici, specialmente quelli dei moralisti, non dobbiamo mancare di ren--derceli familiari: essi contengono per noi ricchezze inapprezzabili. Ohe cosa pensare di un oratore che non ha letto le Memorabili conversazioni di Sacrate, il fedone e il Banchetto di Plafone, certi capitoli della Morale a Nicomaco, come l'VIII, sopra l'amicizia, il Manuale di Epitteto, i Pensieri di Marco Aurelio, gli scritti morali di Seneca e di Cicerone, le Meditazioni di Descartes, la Conoscenza di Dio e di se stesso di Bos-suet, l'Esistenza di Dio di Fénelon, e Pascal, e La Bochefou-cauid, e Vauvenargues, e Newman!... Non aver letto, con la penna alla mano, queste opere ed altre ancora, per un oratore cristiano è davvero una stoltezza. Come dire che un meteoro-logo di professione non getta mai gli occhi sull'Annuario dell'Ufficio delle Longitudini. Il tempo che fa nell'universo morale sono quegli uomini che l'hanno detto, dopo le nostre Scritture e dopo i nostri santi.

I domini! da esplorare specialmente in filosofia sono senza dubbio quelli che toccano più da vicino le nostre materie proprie. Ho additato la morale; ma oggi bisogna aggiungervi la sociologia e la psicologia sociale. Queste scienze hanno progredito assai; sono all'ordine del giorno e se ne parla a nostro malgrado: ma bisogna anche parlarne con giustezza, e qualora se n'abbia la capacità, nulla impedisce che uno se ne faccia una specialità secondaria, rimanendo sempre la principale la sacra.

Abbiamo aggiunto la storia al catalogo delle nostre fonti:

dunque si impone il mantenimento del suo studio. Dopo una seria rivista complessiva, le opere di attualità aggiungeranno al loro interesse un benefizio considerevole e l'occasione di

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annotazioni preziose. Ciò non sarebbe meglio di tante letture sciocche in cui si sciupa il tempo, romanzi, attualità volgari, giornale assorbito fino agli annunzi?

Un po' di scienza, un po' d'arte e di storia dell'arte s'impongono altresì a tutti. Non si può più fare bella figura ignorando tante conquiste umane e tanti lavori la cui opinione vive attorno a noi. Senza contare che tutto questo confina su molti punti con quello che è il nostro oggetto proprio, come la moralità dell'arte, i rapporti della scienza e della fede, l'autorità della Bibbia, ecc., ecc. Finalmente insìsto ancora una volta sulla frequentazione dei poeti. Mi si darà: Ohe cosa si può ricavare, come vantaggi oratorii, dal loro commercio assiduo? Ad onta dei pregiudìzi, i poeti sono quelli che hanno più intuizioni realiste; sono quelli che vedono l'uomo e il mondo in concreto. Vero è che bisogna avere una calamità intcriore per captare ciò che essi offrono.

Mons. Isoard, nella sua memoria sugli studi clericali, che fece impressione nel 1871, insisteva a buon diritto sull'immensa informazione che s'impone oggi all'apostolo. Contentarsi di studi sommari, e abbandonarsi poi al proprio zelo, all'immaginazione, alla sensibilità, alla stessa intelligenza, è un esser vinti anticipatamente. Ci vuole una panoplia completa. Ne La Vie intellectuelle ho precisato i mezzi di acquistarla e proposto le leggi della lettura formatrice o informatrice. Mi permetto di rinviarvi il lettore. Qui noterò solo due punti importanti dei quali l'uno mi è suggerito da S. Agostino, l'altro dall'evidenza.

S. Agostino osserva che se tutte le dottrine utili devono gravitare per noi attorno alla dottrina sacra, la dottrina sacra alla sua volta gravita attorno ad alcuni punti centrali che è urgente riconoscere, a fine di dare a tutto quello che ne dipende il suo valore relativo e la sua forma. Tutto conta, ma ciascuna cosa al suo posto, e questa questione di posto è capitale, perché, dice S. Tommaso, l'ordine ha maggiore pregio, in ogni dominio, che uno qualsiasi de' suoi elementi.

Durante gli studi, spetta al professore di additare quei temi essenziali che sono nel paesaggio dottrinale i punti culminanti, ma un'impressione netta e valevole per la pratica non può risultare qui se non da uno sforzo personale, sforzo di concentramento, sforzo per dominare le materie e connetterle, coordinarle in larghi piani. È un lavoro eminentemente doposcolastico, opera di una mente che prende possesso

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di sé, che diventa la sua propria padrona e si organizza dentro, dopo aver ricevuto come dal di fuori. Molti non fanno questo lavoro e non sono per tutta la loro vita che vecchi studenti, ' che vivono sopra un bagaglio sempre più disperso, sbriciolato dal tempo, coperto dall'oblio come da uno strato di cenere. Costoro non sono degli intellettuali, e non saranno che apostoli disarmati, in un mondo ove abbonda la cultura.

S. Agostino aggiunge che un ultimo concentramento è necessario, e che la nostra mente, per essere nella verità essenziale, per avere così la sua vera forza di apostolato, deve collocarsi nel punto di vista che è quello dello stesso pensiero creatore, diciamo meglio, quello della Trinità: il punto di vista dell'amore. Intendi l'amore nel grande senso, l'amore che è la stessa respirazione dell'Essere, e per conseguenza coincide con la vita universale. Amore di Dio verso di noi, che è tutto il senso della creazione, poi della ricreazione per mezzo di Cristo, e che per conseguenza spiega o giudica la natura come la so-prannatura, la Chiesa e tutto il suo funzionamento, l'incivilimento e la storia. — Amore di noi verso Dio, che risponde all'iniziativa creatrice e riparatrice e che organizza in armonia con essa tutta la vita morale, familiare, sociale, terrestre, in vista della consumazione, in Dio, del doppio sforzo associato, sotto la forma della felicità.

Un apostolo cosciente del suo uffizio deve sempre avere presente questo punto di vista, che è la sua direttiva universale, egli deve ridurvi tutto nel suo pensiero, a fine di ridurvi tutto nelle sue esplicazioni e nella sua azione. È il delenda Car-thago, e non sarebbe tanto sciocco quel predicatore che, quando si smarrisse per istrada, come avviene anche ai migliori, si rifacesse gridando: Porro unum est necessarium!... Alla buon'ora! Ecco un luogo comune ben scelto. Aggrapparsi al ramo maestro quando si sta cadendo dall'albero, in verità non è da sciocco.

Nota che sta lì tutto lo spirito e tutto il piano della Somma teologica, e che presso,! filosofi mistici dell'antichità, i Plotini, i Porfirii, i Giamblici, il .Ritorno a Dio, correlativo delle JSma-nasioni, era il tutto della dottrina come delle aspirazioni superiori. Vero è che qui la meditazione fa più ancora che lo studio, e lo completa. È quello, come penso, che faceva dire a S. Toinmaso che egli aveva imparato più ai piedi del crocifisso che nei libri. Il crocifisso da il segno della creazione, con quello dell'eternità stessa: riassume l'uomo e Dio; Dio e l'uomo vi si ricongiungono.

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La mia seconda osservazione è questa. La dottrina dell'apostolo non è una dottrina lasciata a se stessa, che valga per se stessa; essa è orientata verso la comunicazione, verso l'uso. Ora quest'uso della dottrina ha le sue condizioni; ci vuole un adattamento, una triturazione speciale, un sistema .di collegamenti, perché il dottrinale, che è in gè cosa astratta,! diventi cosa predicabile, cioè dottrina impregnata di sensibi-:

lità e d'immaginazione, illustrata da simboli e da esempi, e:

accostata ai fatti.

Un'esposizione oratoria, fosse pure dottrinale, è altra cosa che un'esposizione semplicemente dottrinale. La logica oratoria che si vale delle passioni dell'anima e dei giochi dell'immaginazione, differisce dalla logica astratta o dialettica. E la ragione è che lo scopo dell'eloquenza non è d'indurre una persuasione tale e quale, per via di dimostrazione, ma una persuasione animata e attiva, feconda di opere, il che suppone che si mettano in funzione i motori immediati dell'azione: l'immaginazione e i sensi.

Qui sta tutto un lavoro nuovo, che gli studi quasi non prevedevano, il quale ad essi deve succedere, e che suppone un tutt'altro atteggiamento dell'anima. Questa è allora come tesa tra due domimi, attingendo da una parte al tesoro della dottrina, e dall'altra distribuendo, ma dopo avere, tra i due, rimpastato e riadattato quello che essa attinge. Quest'arte dell'adattamento non si acquisterà che a poco a poco, e con la pratica; è una ragione di più per dire che la nostra formazione abbraccia tutta la vita. Ma ciò che non si può compiere se non più tardi si deve cominciare appena che è possibile, già durante gli studi, e principalmente dopo.

Questo ci conduce a precisare, in vista dell'oggetto presente, ciò che è stato detto ne La Vie intellectuelle riguardo alle note e al modo di prenderle. Quanti ringraziamenti hanno provocato questi semplici e fraterni consigli! Essi sussistono;

ma l'arte oratoria ha le sue esigenze proprie, che bisogna rilevare. Quello che convien notare in vista del discorso, non sono dottrine allo stato astratto, o fatti bruti, o testimonianze qualsisiano, ma dottrine già. elaborate oratoriamente, predicabili, fatti significativi, che colpiscano l'immaginazione e la sensibilità, atti, a questo titolo, a entrare nella trama di un discorso.

Le note che avrai preso tu stesso con questo spirito saranno

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doppiamente preziose. Saranno tali come materiali pronti all'uso, ma anche come materiali specialmente utilizzabili da tè, poiché questi materiali sono di tua scelta, e sono perciò in armonia col tuo modo di pensare e di considerare il soggetto, con la tua forma d'immaginazione e di sensibilità, ciò che le rende atte ad entrare più che altre in una creazione che ti sarà personale. Le tue note sono già tu; eccellente punto di partenza, per un discorso veramente tuo.

Questa provvigione di note oratorie sarà ben costituita, se contiene anzitutto buone definizioni: definizioni tecniche e precise, che sono necessario come guide, e definizioni oratorie, limpide e brevi; — poi, indicazioni di soggetti che ti convengano in modo speciale, degli embrioni di piani, germi di idee da svolgere, con alcuni lineamenti indicatori, che ne fisseranno l'uso;

— fatti da sfruttare oratoriamente; — esempi in bene e in male, riguardanti la vita intellettuale, morale o sociale; — descrizioni sommarie ma precise e vive, stati di spirito di personaggi celebri, di scuole, di gruppi, di popoli, di famiglie religiose, di ambienti sociali; — testimonianze sacre e profane, testimonianze dei nostri maestri, dei nostri amici o dei nostri avversar!; — sentenze bibliche e patristiche; "— detti di grandi uomini e di santi; — espressioni scelte, trovate e gustate da tè, quindi utilizzabili da tè, oppure a tè suggerite da una lettura o da uno spettacolo; — tratti di costumanze atte a entrare in una descrizione morale, a sostenere un'idea e a mostrarla in opera; — comparazioni che rischiarano, metafore felici, epiteti che dipingono, eco., ecc. Tutto ciò con indicazione della fonte quando si tratta di citazioni, o in vista di potervisi riferire il giorno che si vorrà utilizzare la nota.

Ecco quello che io chiamerò il tuo materiale oratorio. E può crescere continuamente, ed è prezioso non unicamente il suo possesso, ma il suo acquisto. Questa preoccupazione permanente di arricchimento tiene desta la mente, la invita alle affinità formatrici, la allarga, la solleva, nello stesso tempo che si riempiono i quaderni o gli schedari. ;

'Son si trova se non quello che si cerca. La nostra vita quo-;.' tidiana, le nostre letture, le nostre conversazioni contengono:1 in quantità dei tesori che i più lasciano passare senza vederli,! perché la loro mente non è appostata davanti a una preda possibile; non ci pensano, e, anche quando lavorano, non sanno. mettere in serbo quello che, inutile forse al lavoro in corso, sarà prezioso per l'avvenire. È questa una grande storditaggine.

6 — 8BBiii'iiAira»g, L'watorf cristiano.

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Non è possibile rileggere indefinitamente gli stessi libri, ripassare per le medesime vie: bisognerebbe dunque che fin dal primo avvicinarsi tu avessi osservato e fissato, per quanto :

è possibile, tutto ciò che potrà servire. ^

Questo lavoro di acquisto permanente procura grandi gioie.;

Si ama di tesoreggiare: è la felicità dell'avaro; nella vita in- ;

tellettuale, interviene altresì una specie di avarizia. Bisogna sorvegliarla; la manìa di fare collezioni può volgersi all'as-, surdo; ma ben governato, questo sentimento è fecondissimo nello stesso tempo che felicissimo; lo spirito vi s'infiamma e mantiene quotidianamente il suo ardore. I momenti in cui non si potrebbe produrre preparano così senza fatica una futura produzione, se ne gode anticipatamente, e questa gioia trascina alla ripresa dello sforzo.

Quante volte siamo lanciati in un lavoro dal desiderio di esporre un'idea che ci ha colpiti, da un fatto impressionante,^;

a volte da una semplice parola! Una nota ben presa è un ri-^ morchie dell'intelligenza; noi la seguiamo; ma per questo bisogna prima precedere, cioè mettersi in stato di ricerca, essere:

il segugio che fiuta la pista, il mendico che spia il passante ricco e generoso, h

Noi dobbiamo dare, e siamo poveri. Bispetto a ciò che si aspetta da noi non siamo forse sempre infinitamente sprovvisti, e non abbiamo forse un obbligo di cercare avidamente e da ogni mano? « Dentro benedettini, fuori missionari », fu detto; acquistare la verità, poi, divulgarla; captare i buoni impulsi, poi farli agire: ecco tutto il nostro compito; ecco la sistole e la diastole di un cuore di apostolo. Se Demosten^ poteva dirsi vergognoso di udire, al mattino, dei fabbri o dèi tessitori che lo avevano preceduto al lavoro, che cosa dovreb-b 'essere di noi, quando si tratta di salvare i nostri fratelli e di beatificare noi per giunta?

[a IV. — La chiarezza.

Y. — La chiarezza. ^

impo è un uomo colto •

i suoi doni e i suoi |B

.avoro. Per questo sii ^

Un uomo di senno, che nello stesso tempo è un uomo colto e perito dell'arte sua, dovrà adoperare i suoi doni e i suoi strumenti in un modo che giovi al suo lavoro. Per questo gli saran necessarie certe qualità, e dovrà evitare certi errori, che occorre additare.

Una .qualità essenziale del discorso e del discorritore, senza la quale tutte le altre sarebbero rese più o meno vane, è la

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chiarezza. ITon serve a niente il parlare se non si è capiti. S. Paolo lo dice ai Corinzi (I Cor., XIV, 9): Se gli oggetti inanimati che rendono un suono, come il flauto o l'arpa, non rendono suoni distinti, come si riconoscerà ciò che è suonato sul flauto o sull'arpaf E se la tromba rende un suono confuso, chi si preparerà alla battaglia? Si tratta di una battaglia, e noi insegniamo un'arte in qualche modo militare, se il libro di Giobbe ha detto bene: Militia vita hominis super terram. Ora quando s'insegna un'arte, e specialmente questa, si usa diligenza per essere bene intesi.

S. Agostino aggiunge due osservazioni opportune. "Sou avviene del discorso, dice egli, come del libro, in cui un passo oscuro si può riprendere e meditare. Qui tutto passa e passa rapidamente; appena che la mente s'indugia o guarda indietro, si perde il filo, si esce dalla corrente: è dunque necessario che tutto sia facilmente intelligibile di prima giunta. E ciò tanto più, insiste il santo Dottore, in quanto che nella chiesa non ci s'interrompe, l'oratore deve quindi prevenire le interrogazioni possibili, e rispondere ad esse con la chiarezza.

I nostri uditorii sono composti in maggioranza di gente assai poco istruita di tutto e quasi totalmente ignorante delle cose religiose: non è questa l'occasione di sottilizzare. L'uomo di studio non si può fare un'idea del poco che ci vuole per essere incompresi al maggior numero delle menti. Si parla di « filosofia », e si dimentica che la filosofìa « non è assimilabile alle folle e si deve comunicare per contatto » (Amici). Si suppongono sempre troppe cose note, troppe cose facili. Quin-tiliano allora ci direbbe che « siamo noi che manchiamo di spirito, se ci vuoi tanto per intenderci ». Infatti i nostri discorsi non si devono forse calcolare secondo il grado di probabilità che hanno di essere intesi?

Del rimanente, un uditorio, collettivamente preso, non è mai così intelligente come i suoi mèmbri presi a parte; esso è meno attento; è incapace di uno sforzo prolungato; se vi consente, è a spese di un altro lavoro di anima che gioverebbe | • allo scopo dell'oratore, mentre che l'essere capito non è mai se non una condizione preliminare. ~Soi diremo che il triplice scopo dell'oratore è di convincere, piacere e commovere; egli deve dunque augurarsi che tutto lo sforzo del suo uditorio sia di compenetrarsi della verità, di gustarla e di decidersi a seguirla. Se egli lo affatica con dei rebus, quest'uditorio sarà presto stanco.

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« Ci si stanca di tutto, eccetto ohe di capire », dice Virgilio:

ci si stanca specialmente di non capire, quand'anche le cose fossero del massimo interesse, mentre idee in sé poco interessanti, ma che s'intendono bene, ci avvincono. La parola ha molta attrattiva. Se l'importante non è certo di brillare cercando di essere chiari, non è men vero che se si è chiari, si brilla. Perché il discorso più semplice, a parità di sostanza,-è di gran lunga il più difficile a farsi. Prova a riscrivere la parabola del figliuoi prodigo, la narrazione del cieco nato! Prendere per sé la pena e lasciare all'uditore il piacere, il profitto, è una buona regola di carità oratoria, ed è un buon calcolo.

È vero che non è sempre per evitare la pena che si è oscuri. Vi sono di quelli che così vogliono. Vi è una forza che attrae certi spiriti verso l'oscurità; vi si compiacciono come in una profondità illusoria; per essa si danno un'aria di profeta che, pensano essi, imporrà all'uditore. E di fatto vi son uditori che non credono ad elevatezza se non a patto che loro si sfugga. Ma non è a costoro che bisogna piacere, e a costoro stessi sarebbe meglio essere utili anziché lusingare la loro puerilità condividendola. 'Son è forse puerile contare sull'ammirazione dell'ignoranza, non avendo saputo illuminarla'?

Vi sono cose oscure e che sono profonde; ma non per questo sono esse tali; l'oscurità in esse è buona solo a nascondere le' deformità, come diceva Puvis de Chavannes. Le più profonde verità, maturate e chiarificate, prendono l'andatura dei proverbi; non si annegano affatto nelle ombre.

Bisogna nondimeno convenire che in certe materie, non basta essere chiari perché tutti ti seguano; ciascuno fa strada con tè secondo la misura della sua intelligenza; al di là, conoscendoti lo stesso, ti accompagnano con lo sguardo e ti serbano la loro fiducia, perché sentono che non vai di sbieco.

La chiarezza può venire dalla stessa ricchezza del pensiero, quando la mente si concentra sull'oggetto e l'avvolge in un'atmosfera rischiarante. Non è forse il caso di Bacine, i cui versi più pieni di luce sono anche i più misteriosi, secondo che osserva Ch. Péguy? Per questo bisogna essere interamente compenetrati del proprio soggetto e di tutte le sue dipendenze.,

Il primo nemico della chiarezza è il pensiero confuso, e l'oratore deve assicurarsi di ciò che vuole dire esattamente, prima di cercare l'espressione. « La chiarezza nasce dalla precisione come il frutto dal fiore », disse un sapiente, e aggiun-

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geva, ciò che è molto audace e tanto più sorprendente in materia scientifica: « Io vorrei che la palma, in ogni problema, fosse decretata a chi avesse fatto un'esposizione intesa da tutti gli uomini colti, attraente come un'opera letteraria ». "Sei fatto, l'esempio dei più grandi dimostra che questo ideale non è inaccessibile salvo che nelle matematiche. Nelle nostre materie religiose sarebbe generalmente raggiunto con facilità, se si fosse perfettamente esatti, se si sapesse mettere ciascuna cosa al suo posto, nella sua luce e nella sua giusta proporzione.

A questo riguardo, la precisione ha bisogno di essere completata da un certo spirito di larghezza; non che si tratti di svolgere a casaccio, il che imbroglia; ma si rischiara molto le menti mostrando, oltre alle cose stesse, i loro principii, i , loro nessi immediati e, come dicevo, la loro atmosfera. È quello che fa costantemente S. Tommaso, ed è quello che egli fece una volta in quella seduta profetica in cui, essendo studente, e rispondendo a obiezioni in un esercizio scolastico, prese figura di dottore più che di discepolo, perché risaliva alle sorgenti delle cose.

Ecco per le idee. In quanto all'espressione, la sua chiarezza dipende da varie condizioni, e prima di tutto dall'abilità con la quale si saprà sottolineare le parti più importanti del discorso, quelle che illuminano le altre, e ciò per mezzo di avvertenze, di richiami, di ripetizioni ingegnose, senza soverchia preoccupazione della forma.

Poi la chiarezza dell'espressione dipende dalla nettezza e dalla sobrietà dell'espressione. Il principio di economia, che è una delle leggi dello stile, s'impone per molte ragioni, ma anzitutto per questa. Nulla che distragga dal pensiero! Nulla che scintilli e che impedisca di vedere! Parole, torniture, andamento delle frasi, collegamento dei periodi, tutto deve ubbidire alle necessità dell'espressione, non a un'arte fittizia, a una falsa armonia che avvolga nella seta o nel cotone le articolazioni dell'idea e ne sfiguri le forme.

La chiarezza conferisce assai anche allo stile, dandogli un colore maschio, senza troppe mezze tinte e senza toni spezzati. I mezzi toni hanno il loro ufficio, là principalmente ove si ha bisogno di mistero, di intimità; ma se si mira prima alla chiarezza, come nell'esposizione, nel discorso dottrinale o pratico, si deve guarnire la tavolozza di toni maschi e distribuirli con armonia senza dubbio, ma con un'armonia salda,

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a guisa dei musaici antichi, delle buone immagmi di fipinal e delle buone decorazioni.

Col medesimo spirito, si rimoveranno le espressioni e i;

giri troppo raffinati, appartenenti a una cultura speciale.^ i S'. Agostino paragona queste belle espressioni, inaccessibili :, alla massa, a una chiave d'oro, ma che non apre. Si possono ^' loro assimilare le immagini troppo luccicanti, perciò confuse,^;

o troppo a lungo ritoccate e che si scostano dall'idea che vo-;;^ gliono illustrare. Un discorso non è una serie di enigmi, fa-y eesse pure ciascun enigma l'effetto di un lampo. I lampi ab-;^ bagliano, ma quello che fa vedere è la luce. '^'

Tutto questo è tanto più opportuno quanto più difficile è^ il soggetto trattato, sia in se stesso, sia per rapporto all'udì- ;^' torio, che si deve dunque conoscere a questo riguardo come :

a . tutti gli altri. ^/

Finalmente, siccome la chiarezza non dipende unicamente'^ da ciò che si fa vedere, ma anche dagli occhi, e siccome il ' lavoro degli occhi dipende dall'attenzione e dall'interessa- :

mento che gli oggetti provocano, è essenziale, nei passi difficili,^ sapere destare l'interesse, provocare l'applicazione, ottenere'.', dall'uditorio che si dia tutto quanto, come fa lo stesso oratore. ;

Bisogna ben che anche l'uditorio compia il suo dovere! Non";', gli si possono rendere facili le cose difficili, se non in una certa ^ misura, a volte molto ristretta. Si vorrebbe che si riabbassasi,, sero i soggetti? In certi soggetti, dice Paul Valéry, «quello'^, che non è vago è difficile; quello che non è difficile è nullo » (1). ^ Ci vuole la notte per mostrare gli astri. Ma mettendo ognuno^, del suo, si può sperare di vedere; infatti, se la teoria dei vecchia filosofi, secondo la quale gli occhi fornirebbero una luce pro-K€ pria che va incontro all'altra, è fisiologicamente falsa, è però;';' vera nello spirituale; l'intelligenza è attiva, e non esige sempre;.;:', che le si tolga il peso del pensiero « tessendo con un dito leg- ( -gero un luminoso travestimento della complessità delle cose » (2). ,Ì/ II programma dell'oratore è finalmente quello del Sacrate cn- ', stiano: o abbassare la verità fino a noi, o elevare noi stessi! fino ad essa. ^,

Una volta che si saranno adempite per quanto è possibile, ' nella preparazione, le condizioni di chiarezza richieste dal

(1) Iwtroduction a la Méthode, de Léoiwrd de Vinci.

(2) patti, valìby, Diseows de reception, a VAwdémw franfaise,

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discorso, converrà, nel corso del dire, sorvegliare quei che ascoltano. L'atteggiamento dell'uditorio rivela quasi sempre a un oratore sperimentato il grado della sua comprensione. Quando ti senti un po' infastidito del tuo uditorio; quando gli occhi diventano vaghi e distratti; quando piccoli movimenti impazienti corrono come onde ammonitrici, è il momento di appoggiare l'archetto sulla corda e di trame un suono più chiaro. Per questo la comunicazione dev'essere bene stabilita;

ma ciò non è forse il minimo dell'arte e dell'ufficio apostolico? N"oi non siamo dei fraseggiatori solitari, attorno ai quali si fosse per caso formato un gruppo, pigliando ciascuno quello che può dai nostri dotti discorsi; ma siamo degli inviati. Noi per i primi abbiamo udito qualche cosa e abbiamo incarico di spanderlo. L'opera nostra è liturgica: nascondere come in una nube la luce di vita, è come se si privasse qualcuno della presenza reale, come se gli si rifiutasse l'ostia santa.

V. — L'originalità vera.

]!Ton è possibile mettere in dubbio il pregio della chiarezza per un oratore; si potrebbe esitare quando si tratta di un altro carattere il cui nome stesso presenta qualche ambiguità inquietante: l'originalità. - i

È necessario cercare di essere originali? Certuni hanno preteso che è questa una necessità della creazione stessa, e, aggiungendo un errore morale a questo errore psicologico, hanno connesso audacemente l'originalità voluta e sistematica a quello che essi pretendono essere un necessario spirito d'orgoglio. È una doppia eresia; perché ne la creazione letteraria s'imparenta con l'orgoglio, ne la volontà di segnalarsi ne è una condizione necessaria, oppure favorevole.

È possibile che l'orgoglio favorisca la creazione stimolando l'attenzione e lo sforzo; ma questo è tutto accidentale ed estrinseco. Biguardo al lavoro stesso, l'orgoglio non è che una forza di deviazione, non una fonte di originalità vera. Segnalarsi? A che prò pensarci? è giocoforza che uno si distingua, se è distinto; perché non vi sono due esseri simili, due spiriti dello stesso colore e dello stesso ritmo; ma che si diriga lo sforzo nel senso di questa distinzione, ecco l'errore fatale. In tal modo uno è condotto alle singolarità, alle esagerazioni, alle sottigliezze, alle dottrine personali senza appoggio autentico,

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e alle forme artificiose prese sia dalle proprie divagazioni, sìa, dalle manìe dell'ultima moda, dell'ultima scuola, dell'ultimo battello.

Tutto ciò è nocivo in qualsisia lavoro; ma in materia apostolica, vi è di che avvilire la cattedra e rovinarne l'autorita;

perché non è più la parola di Dio.

Appunto, questa espressione: la parola di Dio, ci suggerisce il fondamento di verità a cui bisogna sempre ritornare e che decide qui di tutte le cose. ~Soi predichiamo la parola di Dio; la predichiamo noi, e vuoi dire che noi siamo causa strumentale, come dicevamo nel linguaggio della scuola. Dio soma nel suo flauto; la musica appartiene a Lui, noi ne forniamo solo il suono. E il suono è bensì un'originalità, ma è costitutiva, non voluta. Io ' sono ciò che sono; agisco come sono; ma quello che voglio è l'opera; qui è la manifestazione della verità e il servizio del bene. Questi oggetti mi governano, e io non penso che ad essi pensando secondo le forme della mia intelligenza e parlando secondo la mia voce.

La verità, il bene; l'accoglienza fatta alla verità, il viso offerto al bene; la soddisfazione delle anime per mezzo della • verità e del bene: ecco ciò che m'inquieta, e non la sorpresa, come una originalità voluta la potrebbe produrre. Sorprendere non è servire; celiare col vero non è aprirgli la strada. Se sono io in primo luogo, in vece degli oggetti sacri e dei fini necessari, io sono prevaricatore. È meglio una verità volgare che frizzanti errori. Meglio sentire con la Chiesa, nella grande corrente della sua tradizione e nel suo felice ambiente che in compagnia di un ciurmatore fallace. Ciò è meglio per la sicurezza, ma non meno per la bellezza dell'avventura: perché non è tutto salire in una barca nuova; la barca non è bella che sull'onda; quanto più la senti portata e. sollevata, tanto più essa trionfa, avendo per sé e veramente in suo favore tutti i movimenti del mare.

Alle volte, per attirare l'attenzione e far gustare la dottrina, si crede utile presentarla con quell'apparenza aggressiva che è nel tono dei contemporanei e che si crede dover piacer loro... Ma è un'illusione. Quegli stessi che sono più intossicati dalle droghe nuove gusterebbero con maggior rapimento l'acqua di una sorgente pura. Essi vengono da noi con la segreta speranza di essere così dissetati e purificati: non vogliamo rifiutar loro il rimedio, col pretesto di acconciarci alla loro malattia, •

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Riteniamo che ogni ricerca di originalità è nociva all'arte, e molto più all'arte dell'apostolo. A questo riguardo, le concessioni al nostro tempo non sono che una lusinga. L'uomo sincero parla per tutti i tempi, e se egli da luogo al suo, ciò fa nella catena dei tempi che l'eternità abbraccia. « Guarda nel tuo cuore e scrivi », disse Emerson; « colui che scrive per se stesso scrive per un pubblico eterno ». Bei pensieri che l'oratore cristiano ha ogni ragione di fare suoi (1).

Non è men vero che l'originalità ben intesa, non ricercata, è infinitamente preziosa per chi la possiede. Chi dice originalità dice singolarità nel senso etimologico (singularis, unico). Ora non vi sono che anime singolari, ma che pensano nell'universale, ed ecco, in due parole, tutta la questione. A questo doppio titolo il naturale per definizione è più audace di tutte le audacie; esso si mantiene sempre solo, purché sia il naturale di qualcuno. . : ,

Conscguentemente, per essere originali nel senso che conviene, è necessario approfondirsi, scoprire in certo modo se stesso mediante la riflessione e il lavoro. E siccome lo spirito non si nutre che di se stesso, siccome esso non vale se non attaccato alla verità ed esprimente — per sé e per gii altri — la verità, l'essere originale vuoi dire essere sé, dicendo quello che è di tutti e quello che conviene per tutti, ciò che non presenta aspetti diversi se non perché è ; eternamente adattabile e utile, trovando in ciascuno spirito e in ciascuna circostanza una nuova incarnazione, dunque forme nuove, ma nell'identità della sua sostanza.

La novità più autentica, è l'eterna novità del vero. L'originalità più autentica è la sincerità di un'anima che, essendo individuale, non può mai rendere il suono di un'altra e mancare, normalmente, di rendere il suo. Quando mi si accusa di essere volgare, se il rimprovero è fondato, è perché ho dimenticato di essere me stesso, o di applicare la verità eterna a casi sempre cambianti, ad usi che hanno sempre le loro esigenze proprie. Se ho fatto questo, ho mancato a me stesso, alle cose di cui parlo, e a Dio. Ma se ho fatto l'opposto e mi sono abbandonato alla falsa originalità, ho mancato molto di più. Ho voluto piantare un albero, e gli ho tagliato le radici; non ho più che una scopa lavorata. Un nuovo albero vuole le radici al pari di un altro, e le radici della vita religiosa cambiano

(I) embrsott, A.uCobwyra'phw.

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meno delle altre, perché alla permanenza della vita generale esse aggiungono l'eternità di Dio.

L'oggetto della mente è ciò che è, e ciò che è, umanamente, è l'universale manifestato nel particolare, è l'eterno veduto nel passeggero, la legge riconosciuta nella libertà, e la potenza cosmica nell'armonica resistenza delle cose. In tal modo che a noi piace quello che, strumento nuovo e unico di pensiero e di espressione, ci offre una veduta attuale e particolare dell'autentica verità etema. Quanto più lo senti disciplinato, tanto più sei felice di sentirlo ugualmente libero. È un uccello che canta la sua canzone, ma « su un albero genealogico » (Giovanni Cocteau), e ognuno trova il suo canto giusto e bello. Infatti che cosa vi è di più incantevole che ritrovare le idee di sempre, espresse come mai, i luoghi comuni rivestiti d'una bellezza tutta nuova, al posto di quelle pretese idee giovani, « le più senili » di tutte, diceva ISTietzsche, perché non hanno niente di eternità?

Il guaio è che ben di rado un uomo che parla è in contatto ardente con le cose che dice, con la gente e con se stesso. Egli si muove in qualcosa di artificioso; si fa un essere di convenzione, di circostanza, estraneo al vivente della vigilia e del domani; concepisce idee in rapporto con idee, non con le cose;

vi aggiunge espressioni che non vi si adattano punto, filastrocca di detti raccattati qua e là o immaginati a casaccio. Egli parla come esercita un mestiere manuale. Fabbrica un discorso perché bisogna farlo, ma senza meditazione vera e senza profonda sincerità con se stesso. Il discorso non ha anima:

non reca maraviglia che non abbia vita individuale e appa- :

risca qualsisia.

L'anima del nostro discorso è l'anima nostra propria, è ;

l'anima delle cose, ed è Dio padre dell'anima e padre del reale.;

Quest'anima molteplice manifestata è l'originale vero; tutto il resto è bizzarria, singolarità nel cattivo senso della parola, deviazione e, in quanto alle conseguenze, discredito, ra

VI. — La semplicità.

Tutti i maestri, in tutte arti, raccomandano la semplicità come una qualità essenziale, e i maestri della parola sacra vi insistono per ragioni che non riguardano solo l'oratore. Del resto, essi sono ben lontani dall'indurci in errore su quello che intendono, e nelle loro spiegazioni appariscono tré sorta di

—ISO-semplicità: la semplicità negligente, la semplicità bassa o triviale, e una semplicità che è un rispetto dell'arte, ma soprattutto un rispetto della parola apostolica, un rispetto delle anime e un rispetto di Dio.

La semplicità negligente è il fatto di quei predicatori che parlano senza preparazione sufficiente, senza sollecitudine, senza applicazione alla forma, senza curarsi di bellezza. Un tal lasciar correre, se non è scusato da un'altra specie di « semplicità », è a un tempo un errore e una colpa. Tutto dev'esser fatto bene. Per le anime e per Dio noi non possiamo applicarci meno di quello che fanno tante facondie studiate e tante, penne esperte. "Sei rito della parola, una forma perfetta è come l'apparato del culto; ma è pure e per la stessa ragione una condizione di efficacia. Le prediche di Ambrogio avrebbero forse convcrtito Agostino, se il giovane rotore, attratto solo dalla loro bellezza, non fosse stato così condotto alla dottrina? Avvenne come dei salmi, la cui musica portò nell'anima del catecumeno la luce spirituale e la potenza di rinnovamento.

Antonio Arnauid diceva che bisognerebbe all'uopo mettere il pensiero cristiano « in canzoni »: non si domanda tanto; ma le scorrettezze di una predica sciatta, l'improprietà abituale del linguaggio, i pleonasmi e le ripetizioni fastidiose, le tautologie, i riempitivi, la cacofonia, la monotoma delle pause troppo ripetute, il contorto o il tritato, tutte le inettezze che sono solite d'insinuarsi e tentano di farsi ammettere sotto il riparo della semplicità, diminuiscono il prestigio della parola sacra e l'abbassano.

L'orecchio umano ha bisogno di musica, e l'anima si compiace nel perfetto. Il verbo compito, il verbo vivo e principal-;

mente il verbo santo deve avere il suo splendore.

In secondo luogo, si ha da evitare la bassezza, la trivialità. Esse non mancano presso i predicatori di certe età, e in tutti i tempi si appoggiano su quel voto di semplicità che tutti approvano. Linguaggio grossolano e malsonante, immagini incongrue, storie più o meno fuori di posto, espressioni volgari, arguzie, villani scherzi, goffe invettive non hanno di semplice che il rilassamento intellettuale e morale di cui sono l'effetto. La nobile semplicità del Vangelo e la modesta maestà di rostro Signore se ne tengono lontano.

L'elevatezza, anche nella forma più familiare, è un attributo inseparabile della parola cristiana. Tutto quello che noi

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diciamo è grande: non spetta a noi di abbassarlo, quando la parola ha il potere « di far apparire grandi anche le cose piccole », secondo il detto d'Isocrate..

Quando la necessità del discorso esige revocazione di cose :

volgari, basse o triviali, noi abbiamo il mezzo di salvare l'espres- :k sione con giri appropriati, con circonlocuzioni, con termini (• che designano e non dipingono. Non conviene urtare parlando y di cose urtanti, ne abbassare gli spiriti parlando di cose basse. ',!

Eimosse queste false semplicità, ecco la vera. Come dicevo, ^ essa o un rispetto. La nostra parola viene da Dio: noi non la ^ dobbiamo ingombrare di ciò che sarebbe solo dell'uomo. Chi oc- ^ culta la parola di Dio con la sua è chiamato da S. Giovanni Crisostomo « un miserabile e un disgraziato traditore »; l'espres- >:, i sione è forte e suppone un abuso caratterizzato; ma, propor- ; •;" zonatamente, si applica a ogni parola che non è abbastanza ' i libera di se stessa, che vuoi brillare a parte e che per questo:;;

ricorre ad artifizi.

S. Grirolamo scriveva a Nepoziano: « Non essere un decla- l matore, ma un vero dottore dei misteri del tuo Dio ». È uno;^ scandalo, e dovrebb'essere una sorpresa intollerabile veder ?ff salire in pulpito un uomo di Dio, un serviente dell'altare, e^ •udirlo spacciare frasi sonore, ampollose, pretensiose e oscure.?? Allora uno è in diritto di domandarsi dov'è il Salvatore degli ^ uomini, di cui quest'uomo è reputato il rappresentante e cornea la copia, dov'è il nostro Dio, del quale egli è il portavoce? ?,

Da questa prima considerazione risulta che non è solamente per i semplici, che si richiede la semplicità, ma anche per noi;

perché si tratta non solo di essere capiti, ma si tratta che sia capito Iddio, che la sua parola resti quello che è e, come si esprime S. Prospero, non sia « snervata » dalle cure troppo;

industriose di un autore. <t

II caso degli umili tuttavia aggiunge una nuova obbliga-:;:

zione. « II Vangelo è annunziato ai piccoli »; essi vi hanno diritto; le loro anime pesano come le altre; sono altrettanto sublimi; il loro destino è lo stesso; pari sono i loro legami con Dio, con Cristo, con la Chiesa e con noi: nulla permette che il nostro atteggiamento disconosca questi legami. Se noi ci serviamo delle forme di pensiero e di linguaggio che non permettano alla dottrina di essere il nutrimento di tutti, priviamo queste anime e priviamo Colui che le ama, Colui che ci aveva indirizzati ad esse perché udissero la sua parola, che esse non udiranno.

— Itì- —

Diciamo finalmente quale sciocco calcolo fanno quei che si lasciano trascinare a quest'abuso da preoccupazioni « letterarie », per dar prova di talento, di eleganza, di erudiziene, di sottigliezza di mente, in una parola, per una questione d'arte. « II bello, dice Fénelon, non perderebbe niente del suo pregio quando fosse comune a tutto il genere umano; anzi ne sarebbe più stimabile. La rarità è un difetto e una povertà della natura. I raggi del sole non son meno un tesoro, benché rischiarino tutto l'universo » (1). -

Se ai maestri dell'arte, siano architetti, scultori, pittori, scrittori od oratori, tu chiedi qual è il loro gran segreto, ti parleranno evidentemente dell'ispirazione e del lavoro, senza cui non vi è niente; ma in quanto all'esecuzione, metteranno sempre in prima linea, la semplicità, i sacrifizi, l'abbandono di ogni partito preso, in favore della verità nuda: verità del pensiero che si calca sulle cose, e verità dell'espressione che si calca sul pensiero. Ogni ricerca fuori di questa, ogni pretesa di aggiungere alle cose col pensiero e al pensiero con l'espressione, ogni volontà di mostrarsi e di abbagliare, in vece di far apparire quello di cui si parla, è un'offesa all'arte come alla verità.

Non si devono discernere, in un'opera, le operazioni della mente. Se il nostro sforzo è riuscito, esso non si deve vedere, ne la mente vedere se stessa; l'oggetto dev'essere lì senza intermedio attenuante o deformatore.

Nell'inchiesta di Agathon alla vigilia della guerra, un giovane diceva: « Ogni preoccupazione letteraria sminuisce un maestro ai nostri occhi ». Si capisce che cosa ciò voglia dire. In questo senso appunto si è parlato dell'« opulenta economia dei maestri », e fu detto di Puvis de Chavannes: « Non è mai più commovente di quando fa voto di povertà » (2), in questo senso pure la mortificazione fu proclamata una legge dello stile come una legge della vita, e ad essa fu applicata la sentenza evangelica: Ghi vuole salvare la sua vita la perderà, e cM consente a perderla la salvia,.

Un'osservazione importante, che ci riduce all'opposizione tra la vera e la falsa semplicità, è che la semplicità vera risulta sempre da un lavoro di approfondimento, e, quanto alla

(1) Lettre a l'Académie franfaise.

(2) paul fiebbns, Débat du 14 dicembre 1924.

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forma, da un lavoro di epurazione laboriosa, a volte crudele, perché vi presiede la rinunzia. « Eubens non è semplice perché non è lavorato », scrive Delacroix nel suo Journal (II, 276). « Bisogna avere il coraggio di essere semplice », diceva Henner. « Aggiungi qualche volta e cancella sovente », non è un precetto piacevole, e non è facile eseguirlo, poiché lo stesso Boi-leau si vantava di aver insegnato a Bacine l'arte « di fare difficilmente dei versi facili ».

I primi getti ignorano sempre la semplicità, e, come sostanza o come forma, nulla è meno semplice che un'improvvisazione. In questo senso è stato detto: « Non vi è stile semplice, vi è solo uno stile semplificato », e lo stesso si verifica della composizione, dello svolgimento e di tutto il resto.

Finiamo di precisare il nostro pensiero distinguendo i diversi difetti che si oppongono alla semplicità oratoria, specialmente alla semplicità evangelica. E sono: l'ampollosità, che esagera e deforma, la sottigliezza che raffina, l'amore dei vani ornamenti, della falsa letteratura, di cui il caso massimo è quello che si chiama scrittura artistica.

Dell'ampollosità sappiamo quel che ne pensava Pascal. De Bonaid aggiunge che l'ampollosità, la declamazione « è propriamente l'eloquenza dell'errore ». Perché? perché l'errore ne ha bisogno per mascherarsi. La verità che porta il suo diritto in se stessa, non ha che da mostrarsi: perciò le è stato attribuito come simbolo la nudità pura, in vece di orpelli e :

di maschere. '

Domanda ai veterani della parola, ed essi ti diranno che \ i più grandi effetti, i più durevoli, quelli che sconvolgono le ;

vite in vece di occuparle un minuto, sono i più semplici, i più ' diretti, non gli squarci di bravura e i periodi magniloquenti. ;

I nostri uditori sono uomini, bisogna parlar loro da uomini, ;

e lo stile ampolloso non fa apparire che un attore; sono dei;

cristiani, e le nostre deformazioni verbali o immaginative li;

privano del loro contatto col vero del quale la loro anima ha ;

bisogno. Mancanza morale, mancanza di gusto. Quei che ere-' dono di trovare lì un segno d'ispirazione, s'ingannano due volte.

Tuttavia vi è qui ragione di dare la sua parte all'inesperienza. Un oratore novizio è trascinato a suo malgrado a gonfiare tutto, a circondare tutte le idee di frasi pompose; egli « esclama », a proposito delle cose affatto semplici e che ciascuno guarda tranquillamente. È questo un difetto da prin-

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cipiante; di solito esso è accompagnato da una grande insuffi-cienza di sostanza; si agita perché non sa troppo che cosa dire, in tal modo che tutto quel rumore sembra una fanfara che maschera la ritirata. Ma ciò che si perdona nel principiante, smetta al più presto l'uomo serio.

La sottigliezza? Essa imbroglia la dottrina sotto colore di precisarla; svia le menti per sentieri traversi, le getta nei gineprai, le affatica, senza metterle sulla buona strada. Al principio esse ignorano ciò che si vuole da loro; alla fine si chiedono dove sono, e si vedono nella difficoltà di concludere. Anzi, il predicatore si trova allora esposto a sollevare ogni sorta di difficoltà che turbano, a « scavare delle buche », come diceva il P. Lacordaire, e a non turarle affatto: d'onde stupore, cattiva curiosità, forse scandalo.

Panis frangendus, non curiose scindendus, dice S. Bona-ventura. Dividendo e suddividendo, argomentando, cavillando si può comparire dotti: ci basti però esserlo, e parlare da dotti senza dubbio, ma da dotti che vogliono convincere un ignorante e che, sforzandovisi, faranno certamente riflettere gli stessi dotti. L'uomo competente fa presto a vedere, sotto una semplicità voluta, la complessità segreta e, nella calma apparente del pensiero, i mille movimenti inferiori di cui questa calma è l'equilibrio esatto.

In quanto ai grandi cristiani, si sa che essi hanno in orrore tutto ciò che è curiosità dialettica. S. Alfonso de' Liguori racconta egli stesso di aver fatto discendere dal pulpito un predicatore che ci guazzava; S. Carlo Borromeo aveva fatto altrettanto. L'eloquenza da loro ragione, poiché la sua legge non è quella dei giochi d'acqua incrociati che decorano una vasca, ma quella del torrente, per lo meno quella del bei fiume che conduce al mare.

Eestano i vani ornamenti, ai quali i maestri hanno dato la caccia con una severità benefica. « II discorso che abbonda di fiori verbali è sterile di frutti», dice S. Ambrogio. «Ogni ornamento che non è se non ornamento è di troppo, aggiunge Fénelon; toglietelo, non manca nulla; solo la vanità ne soffre ». E un po' più avanti: « Tanti lampi mi abbagliano; io cerco una luce dolce, che sollevi i miei deboli occhi» (1). Si capisce ohe i

(1) Letfre a PAcadémie franfaise.

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lampi non abbagliano Fénelon se non per ironia. Un uomo di gusto ama la luce naturale delle cose; non si lascia imporre da una vana lustra. I discorsi « lastricati di diamanti » sono un errore estetico; « il mondo ne è stanco », osserva Bossuet (I):

essi sono a fortiori un errore cristiano. Non si tratta di far scintillare la parola di Dio, ma di farla splendere ed ardere;

una predica non è un vano crepitìo, ma sì la fiamma del focolare cristiano, luce e calore delle anime.

VII. — II senso e l'adattamento.

Un'altra necessità primordiale è l'adattamento della parola all'uditorio e a tutte le circostanze di tal natura da influire sul discorso. Molti oratori non hanno nessuna cura e forse non hanno che una vaga idea di questa condizione. Essi parlano in abstracto, come per sé, o se si vuole, per:

il soggetto che essi trattano; camminano; spiegano il soggetto: l'uditore ne prenda quello che può. È questa una strana' aberrazione. Se un oratore non parla che per se stesso, resti a casa sua. Sul pulpito, egli parla per qualcuno, e se parla di ? qualche cosa, se ha un soggetto da trattare, è solamente in' vista di un risultato che tocca l'uditorio stesso. Il soggetto;

è per la gente, non la gente per il soggetto; l'oratore è per la;

gente, non la gente per l'oratore.

Ah! è qui forse il segreto! Il predicatore egoista, vano,' ambizioso, spoglio di zelo apostolico, non ammetterebbe, ini fondo a se stesso, quest'ordine dei fini. In tal caso non basta ;

avvertirlo, bisognerebbe convertirlo. Ma io penso ora all'ine-ii sperienza, all'inavvertenza, e insisto sopra questo che un di-J scorso non è un monologo; è un dialogo profittevole; un mu-| sico direbbe: un concerto, in cui l'oratore è il solista, l'uditorio ' un'orchestra silenziosa solo in apparenza. Si tace mentre tu parli; ma le menti e i cuori ti danno la replica, e se il discorso riesce, essi devono fornire l'armonia della tua parola, dire sì alla verità e al bene, a misura che tu li fai cantare in se stessi esprimendoli.

Barrès diceva: « Per fare qualcosa di buono, bisogna trovare il mezzo di collegare quello di cui si parla alla propria vita»; qui si tratta di legarlo parimenti alla vita degli altri.

(1) Sermon. de vètwe pour une nwvelle wwwtie,

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Per tutto il tempo, nel corso dello svolgimento il più dogmatico, il più in sé, l'uditore dev'essere in causa e sentire che il discorso decide della sua sorte. Vi sono lì persone che respirano come respiri tu: tu devi essere animato dal loro soffio, mentre che a loro comunichi il tuo. Vocalmente, abbiamo detto che bisogna parlare nella sala; spiritualmente bisogna parlare nelle anime. Il tuo discorso deve subire lì una transustanziazione completa e diventare un avvenimento di quelle coscienze nelle quali tu lo riversi.

Uno che aveva in sommo grado questo senso della comunicazione oratoria, il Lacordaire, diceva: «II mistero della parola allo stato di eloquenza, è la sostituzione dell'anima che parla all'anima che ascolta, o per parlare con una giustezza che non lascia nulla a riprendere, è la fusione dell'anima che parla nell'anima che ascolta ». Una fusione; un pensiero in comune; « un'associazione d'ispirazioni divine », diceva ~So-valis (1); un appello, nello stesso tempo, a quella calma immortalità che è in fondo a noi tutti, per rialzarci dalle folli agitazioni della vita superficiale, della vita che ignora la vera vita, della quale il sacerdote, una volta di più, proclama il segreto: ecco il discorso cristiano. Non è quella una pia cicalata, ma il mistero della comunione dei santi messo in opera, e il discorso è mancato se, quando non sarai più lì, questo discorso, nella mente dell'uditore, non si prolunga in commenti e in meditazioni beneficile.

Vi è un'altra cosa. In questa massa di uditori muti, tu mi dici bene che non tutti sono in stato di passività benevola;

non tutti si aspettano la parola d'ordine; ci sono resistenze confessate o segrete; ci sono anzi delle ostilità, e allora, per costoro almeno, il discorso è una battaglia. Tu attacchi; prendi di mira il punto debole; tiri. E non devi tirare che palle esplo-sibili; la palla meglio lanciata, se attraversa innocentemente, non produce che ammirazione per il tiratore; la vittima sfuggirà, e bisogna che essa soccomba. Hai ragione.

Eiguardo ai migliori, però, il tuo compito è meno offensivo;

ma tu dirigi ancora un assedio, o uno sforzo d'impulso bellicoso. Hai da metterti alla testa di quelli che forse vogliono bensì avanzarsi, ma che non si decidono a entrare nella via, o che non la conoscono, o che dormono, e devi sforzare gli altri. Ciò non si fa eseguendo un'aria per le muse e per sé.

(1) nwàhs, F'ragntsivtS vaédifs. Stooh, ed. 10 — SBKULlAKUEa. Voratore cristiano.

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Si tratta di convertire la vita m verità: si cominci col con-vertire la verità in. vita. Cose! non parole, non formule sudate, ' e se qualcuno guarda fuori, o se guarda in sé, non abbia l'impressione di una disparità; possa egli afferrare la corrispondenza. ;

Bisognerà bene che ti si ascolti, se per l'uditore è evidente.;

che tu tratti i suoi proprii affari; bisognerà bene che tu lo attacchi ne' suoi pensieri, ne' suoi sentimenti, o che gli rechi soccorso. Egli dirà a se stesso: Si cammina nel mio giardino, attenzione! bisogna che io sorvegli; oppure: Ecco un lauto guadagno; mi si reca quello che cercavo, bisogna che presto' me ne impossessi. Ma se tu non fai altro che monologare, o dialogare con esseri fìttizi, l'uditore, non sentendosi in causa, ti sfuggirà; ti ascolterà con aria rassegnata, dopo di che ascolterà la continuazione dell'uffizio religioso del quale /tu non eri che un numero.

Ciò detto in generale, dobbiamo precisare le condizioni di questo adattamento. Adattarsi all'uditorio è rivolgersi a lui così com'è, tenendo conto delle sue disposizioni di ogni genere. Quali sono le sue cognizioni? Se lo sai, non rischiare di passargli sopra la testa, di sottintendere quello che ignora, di usare parole di cui non conosce il senso, di sconcertarlo introdù-cendolo subitamente in un mondo nuovo. Quali sono i suoi

. sentimenti? 'Sou ti esporrai a urtarli, a provocare i suoi in* dietreggiamenti; lo prenderai lì dov'è, per condurlo là ove

'dev'essere. Che cosa sai del suo livello morale? tienne conto, e' sarai in grado di misurare le tue richieste, di non doman-

; dargli, come ai bambini, se non quello che ti può fornire, pur facendo brillare l'ideale e aprendo, nei tuoi considerando, tutte le prospettive.

Devi anche tener conto dell'età, del sesso, delle condizioni sociali, di queste o di quelle particolarità di ambiente o di

.paese, affinchè i costumi oratorii — cosa così importante! — abbiano soddisfazione. « Lo stesso fischiare che placa il cavallo fa ruggire il leone », dice S. Gregorio; dimenticandolo, più di un predicatore si aliena una popolazione o un gruppo a scapito del bene.

Oom'è rara, in tutti i modi, quell'eloquenza che Sainte-Beuve, parlando di Berryer, chiama « un'eloquenza al suo posto! ». Bisogna dire che per noi la difficoltà è grande. Nessun uditorio è omogeneo sotto tutti gli aspetti che ho consi-

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derato: che cosa potrà allora diventare l'adattamento del discorso? Esso è malagevole; ma il senso dell'adattamento è più che necessario. ,

Ciò che prima si affaccia alla mente, è di badare alla media, cioè al maggior numero, e l'idea è giusta; ma non basta. Ciascuno ha il suo diritto, noi dobbiamo parlare per tutti. Ohe fare dunque? È una questione di tatto, di un caritatevole saper fare, di un talento diretto dal cuore. Un uomo intelligente che si vede dinanzi della gente di ogni specie non è per questo disorientato; se è zelante e delicato, saprà disporre i suoi svolgimenti in tal modo che ciascuno vi trovi il suo tornaconto, vi possa cogliere quello che gli occorre. Insisterà su ciò che interessa il maggior numero, ma scivolando verso i casi speciali, prevedendo tutte le ipotesi, facendo enumerazioni bene studiate, graduate, delicatamente colorite, che non lascino niente nell'ombra e permettano tutte le applicazioni. In tali condizioni, senza che nessuno sia offeso, ciascuno sarà raggiunto e nessuno potrà dire: Questo è per altri!

Il vero e il bene ci riguardano tutti; se li esponiamo largamente e, riguardo a questo o a quel soggetto, completamente, siamo sicuri di parlare per tutti; basta per questo usare un linguaggio comune e insinuare, come ho già detto, tutti i particolari necessari.

Possiamo così essere condotti a mirare a quegli stessi ai quali non miriamo, ai quali non vogliamo, per lo meno pretendiamo di non voler mirare per una ragione qualunque:

per rispetto, per motivi di carità, o per convinzione che realmente non ce ne sia alcun rappresentante nell'uditorio. Se tuttavia ne esistono, bisogna che essi abbiano la loro parola:

noi la diciamo, pur protestando di non dirla, perché sarebbe superfluo.

|% Gli oratori sono pieni di queste preterintenzioni abili, rapide, che formulano con precisione, a volte conficcando lo strale, ciò che essi pretendono di schivare, l'idea « inutile» a esprimere, il timore che è « ben lontano dal loro pensiero », l'accusa che essi « si guarderebbero » dal lanciare, o la supposizione che sono « lontani le mille miglia dal voler fare ». Bossuet era abilissimo in questi maneggi sapienti; alla corte, non era invano.

Per essere sicuri del buon adattamento del discorso all'uditorio, bisogna conoscere la gente, e appunto in questo troverà il suo impiego l'esperienza generale e particolare di cui ab-

' , — .148 —

'^ • biamo parlato sopra; ma bisogna anche osservarli questi viventi, nel loro atteggiamento attuale, e giudicare della propria parola intorno a' suoi effetti. Cicerone parla di un « odorato » speciale dell'oratore, di un fiuto che gli fa sentire quello che sentono, pensano, attendono, vogliono o respingono i suoi uditori, in tal modo che egli li raggiunge nell'intimo della loro vita psicologica e può modificare questa vita o conformarla secondo le proprie vedute. Lì sta una gran parte dell'arte;

l'avvocato, il deputato che ne è sprovvisto è esposto a tutte le sconfitte. Per noi la sconfitta è l'assenza del bene che eravamo incaricati di procurare, che Dio destinava a quelle persone e che attendeva la loro anima.

Certo, per adattarsi perfettamente, occorrerebbe leggere nei cuori, in tutti i cuori. Perciò non vi è che una parola assolutamente adatta, ed è la parola inferiore di Dio, quella che il suo Spirito fa risuonare nei cuori stessi. La parola meglio adatta dopo questa, è quella di Gesù Cristo, che raggiungeva i suoi uditori secondo i loro bisogni e la loro capacità ricettiva, prout 'poterant audire, dice S. Marco (IV, 33), e che nello stesso tempo esprimeva il fondo delle cose in un modo così adeguato all'umanità eterna, che essa aveva di mira, attraverso ai se-eoli, le anime di ogni specie e di ogni stato che volessero farvi ricorso. La convenienza del discorso non fu mai ubbidita come in questa divina parola. La sua opportunità è sovrana. E ciò deriva dalla perfetta cognizione che dirige l'Uomo-Dio, dalla perfetta carità che lo anima. Tutto dato agli uomini, egli li, sente come qualcosa di sé. Tutto dato all'opera sua, ne percepisce le condizioni con un istinto infallibile. Tutto dato al;

Padre suo, segue la provvidenza in tutti i suoi casi, riguardo a tutti gli esseri. La sua opportunità è tutt'insieme un'oppor-' tunità di visione, di generosità e di amore; è un'arte ed è un dono, un dono di se stesso. È il nostro modello. Tenendoci accanto a Lui, noi potremo effettuare qualcosa di questa azione sempre adatta, sempre opportuna, mezzo esteriore dell'unico Spirito divino.

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CAPITOLO VI.

L'immaginazione e la sensibilità. Qualità e ditetti.

I. — L'aridità.

Il giusto impiego dell'immaginazione, in fatto di sacra eloquenza, sta fra l'aridità; che impoverisce il discorso, e la divagazione, che lo evapora o lo sovraccarica.

Noi non siamo degli spiriti puri; pensiamo partendo dalle nostre immagini mentali e in unione con esse. L'idea non è afferrata se non attraverso alla sua eco sensibile, e noi non possiamo convincere senza 'far vedere, cioè senza figurare quello che diciamo e farne una verità vivente, che si manifesta in una specie di corpo, come l'anima ne' suoi organi. A colui che ascolta questi due versi di AtJialie: « Quegli che pone un freno al furore dei marosi, sa anche arrestare i complotti dei malvagi », quante immagini si affacciano! e sono esse che formano il potere del distico.

I filosofi, come tutti, sono tenuti a passare di li, visto che il linguaggio, espressione dell'anima, non è che una lunga metafora. S. Tommaso, ad onta del suo rigore, abbonda di espressioni poetiche, ed è inutile ricordare Pascal. Del rimanente, la predicazione non è una disciplina puramente didattica, ma un'arte. Ora, per l'artista, ogni oggetto si tuffa in un'atmosfera immaginativa generatrice di impressioni, e far condividere queste impressioni è lo stesso scopo dell'arte. Per noi il campo di azione è più esteso che per l'artista unicamente artista: da prima, noi mettiamo l'insegnamento stretto, da ultimo, l'eccitamento pratico; ma, nel mezzo, i fini coincidenti. Anche noi coltiviamo l'intuizione; alla visione inferiore delle cose però noi non vogliamo sostituire una semplice nozione, e in vista dello sforzo cosciente, cerchiamo di agire sull'incosciente, così potente in opere.

Il Vangelo ce ne da l'esempio. Il Figliuoi dell'Uomo parlò H 'da uomo, e, rivolgendosi a uomini, non rifiuta loro la carità

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dell'immagine, della parabola, della metafora illustrativa e motrice. La Buona rovella è illustrata, nel mentre che è espressa. E ben altrimenti ancora avveniva dei profeti. La tradizione antica voleva che la storia stessa, la filosofia, la scienza fossero trattate nel modo lirico. Le opere della scuola presocratica presso il popolo più logico del mondo, sono dei poemi. Plafone ne serba la traccia ne' suoi dialoghi. L'eloquenza antica ' era una specie di canto, e se la lingua greca o romana vi si prestavano più che la nostra, nessuna lingua sfugge alla necessità del ritmo, dell'armonia, al maneggio dell'immagine, allo sforzo verso la visione inferiore di ciò che viene espresso. In ciò, come diremo, sta una parte essenziale dello stile, dello stile oratorio più che dell'altro, fuori della pura poesia.

L'oratore deve avere una parte di poeta, come ha una parte di filosofo e di teologo; la sua parola vuole essere una musica, non uno sciatto e arido discorso, l^on ubbidire a questa legge del genere porterebbe geco due inconvenienti che si accompagnano. Anzitutto, abbasseremmo i nostri soggetti. Essi sono grandiosi, sono splendidi: rifiutare di farli brillare, non sarebbe forse essere infedeli ad essi? Essere aridi rievocando il dramma della vita e la sua posta eterna, riferendo la ;

storia di Dio e del suo Cristo, ergendo la croce sul mondo $ rigenerato e trascinato alla più fulgida conquista, sarebbe cosa iS davvero strana! Il labaro vuoi essere spiegato nel cielo; la ;% grande vita cristiana esige le forme e i colori della vita, affin- ;•:;

che sia giudicata con un giudizio animato, ci si entusiasmi e^ si cammini, si,

Esprimendo pallide ed esangui le nostre immense conce-g zioni, noi predichiamo contro di esse, dando a pensare chejw abbiano esse stesse siffatta natura anemica. Provati a dire . una cosa terribile o sublime con una voce atona, in termini ' sbiaditi, e nessuno ti crede. Allora apparisce il secondo incon-,;

veniente additato: la mancanza d'immaginazione, in un certo;

grado, compromette il risultato della parola, i

N'ell'uditore, in cui tutte le facoltà sono collegate, nessuna di esse sarà soddisfatta, se tutte non saranno soddisfatte: il convincimento non scatterà, la conversione non si produrrà se non a patto di aver conquistato l'uomo, oltre l'automa e il pensatore. Parimenti, in noi oratori, nessuna facoltà è messa in opera pienamente, se noi non facciamo intervenire le altre e non esprimiamo l'uomo.

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Pensa che in tutta codesta gente radunata, la ragione, su molti punti, è schiava di una immaginazione seduttrice; come la libererai tu, se non con l'aiuto di una immaginazione che rischiari? Vincere l'immaginazione con le sue proprie armi, sul suo proprio terreno: ecco il tuo lavoro; senza ciò, tu non sei in forza. La tua propria immaginazione, legata alla ragione umana e divina, dal canto suo, ha potere sopra un'immaginazione incatenata all'illusione e ai sensi; ma essa non deve punto abdicare.

Per conseguenza, la cultura dell'immaginazione s'impone all'oratore novizio. Io ne dissi le condizioni parlando delle nostre fonti; qui rammento solamente la frequentazione della natura, repertorio inesauribile d'immagini; la lettura dei poeti, che hanno letto la natura per noi con maggiore potenza; il commercio delle arti, come una bella « distrazione », che in vero non ci distrae dal lavoro se non per rinforzarlo nel suo centro stesso, e più ancora nella sua ispirazione e nel suo impiego.

Nel corso del lavoro, il segreto è di concepire, comporre, scrivere, parlar" in un'atmosfera immaginativa in rapporto col soggetto, coll'uditorio e con lo scopo. Tenta di avere vedute grandi. Eappresèntati quello di cui parli nel suo ambiente autentico, co' suoi caratteri reali, rivestito delle sue circostanze più impressionanti. L'efficacia di questo procedimento prosegue fino nei particolari. Vuoi tu trovare la parola giusta che ti sfugge, il verbo espressivo, l'epiteto che aggiunge al sostantivo un nuovo valore? Rievoca il caso; rappresentati l'azione che il verbo deve esprimere, i caratteri che l'epiteto deve dipingere, e la parola verrà. Questo è il mezzo di evitare la volgarità, la parola stereotipata, e specialmente, tra il nome e l'aggettivo, ciò che fu chiamato « matrimonio d'inclinazione ».

Occorrendo, all'ora del lavoro, provoca l'immaginazione con un bei testo, con uno spettacolo d'arte, con un'audizione in spirito. Poco basta ad allettare i nostri poteri inferiori, se la formazione ricevuta li rende disponibili. Un'incisione, un'aria che si ricorda, un'occhiata sulla campagna, un ciclo, un semplice fiore, ed ecco accesa la fiamma. Grandi immagini ci devono sempre scortare lungo il nostro cammino. TTna specie di spirito universale è la condizione di un lavoro fecondo, di un'opera vivente.

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II. — La divagazione.

Vi è l'eccesso. La parola divagazione lo esprime imperfettamente; ma si capisce abbastanza che cosa vuoi dire. La pazza della casa non ha nessun diritto sul nostro lavoro. Abbiamo parlato in favore dell'immaginazione legata alla ra-• gione, legata alla rivelazione: allora essa non è pazza; parte- 'i cipa della ragione umana e della ragione divina, che alla loroC volta vi si arricchiscono per noi. Ma l'immaginazione da sola;

è una pazza di fatto, perché non ha guida. ^

Chi dunque ci indicherà qui la misura? È il servizio del-] l'idea che la determina, poiché tal è il motivo dell'intervento. ;

Dico: servire, e non soffocare, e non ingombrare. Dico: servire^ l'idea, si tratti dell'idea speculativa, da credere, o dell'idea-, forza, da attuare. Nei due casi, l'idea è lo scopo; l'immagina-^ zione non è che il mezzo di convincere e di far mettere in pratica. ;:

Ne segue che fare una sorte a parte agli effetti d'immaginazione è un errore e, a dire il vero, una sciocchezza. Si abbia immaginazione quanto si può, purché essa faccia la parte sua. In questo compito, non se n'ha mai abbastanza; fuori di esso, se n'ha sempre troppo. Noi siamo incaricati di 'piantare e di coltivare, secondo le espressioni dell'Apostolo; la nostra parola vi si adopera e può riuscirvi; ma non si tratta di tracciare un giardino inglese, oppure un giardino alla francese, più gaggio, più disciplinato, ma ancora oggetto di piacere: noi coltiviamo un campo. La bellezza del nostro lavoro adunque dev'essere la bellezza del campo, sotto il cielo, con la prospettiva del mondo. Non temiamo che questo ci tolga qualcosa! TJn campo è più bello di un giardino, e di una bellezza più piena, quando è veduto con uno sguardo di uomo, pensando. ai più alti fini della vita. Ma è un campo; la sua bellezza è utilitaria.

Questa bellezza è parimenti sobria, evitando la tronfiezza che abbiamo condannato, vegliando a preservare la dottrina da ogni alterazione deformante. « Tutto ciò che è eccessivo è inetto », diceva Talleyrand; uscendo dal vero, non lo può servire, e in ciò sta la sua nullità. Credere d'ingrandire il soggetto gonfiandolo, è il fatto della inesperienza. Quello eh® ingrandisce un soggetto è la sua verità e la giusta proporzione dell'insieme. « È la precisione che apre l'immensità », scrive

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Emesto Hello; perché essa va al cuore delle cose, e il cuore di ciascuna cosa echeggia dovunque.

Lo stesso avviene se si considera il benefìzio dell'oratore;

non si diventa grandi col salire sui trampoli; si provoca piuttosto il sorriso. « Gli uomini più delicati, dice Stendhai, hanno questa disgrazia assai grande nel secolo XIX (nel XX ciò, impera addirittura): quando scorgono dell'esagerazione, il loro animo non è più disposto che a inventare dell'ironia » (1). Perché allora si ha un'impressione di puerilità. L'immaginazione in se stessa è puerile; è l'animalità; è l'infanzia, non appena che la ragione l'abbandona. Onde Amiel alla sua volta sentenzia: « La misura è l'indizio della maturità intcriore;

l'equilibrio è il segno della sapienza » (2).

Che lezione ci da su questo punto, come dovunque, il Sapiente per eccellenza! Egli, di un'immaginazione sovrana, non permette mai il minimo scarto a questa preziosa ancella. Tutto è presente alla sua parola; la natura e la vita l'avvolgono, eppure nel discorrere non si vede che l'anima e Dio, col dramma delle loro relazioni. Gesù si fa vedere il più grande degli artisti, oltre che un salvatore. E si capisce! Dopo tutto, l'arte non è che un sistema di mezzi in vista in un fine, e questo adattamento è qui perfetto. Gesù non richiama la natura se non per mostrarla sotto il ciclo, la vita se non per metterla in presenza dell'eternità, per spingerla verso l'eternità: per questo il suo parlare ha questa tonalità sempre giusta, nel grandioso e nell'eterno.

IH. — La freddezza.

Oltre l'immaginazione, la sensibilità è uno strumento prezioso dell'oratore, a condizione che sia bene imbrigliata e non faccia a modo suo. Siccome le nostre convinzioni per una parte dipendono dall'immaginazione e le prestano dei mezzi per espandersi; così le nostre risoluzioni dipendono dai nostri stati di sensibilità e se ne valgono per trasmettersi. Noi non siamo volontà pura più che pensiero puro; pensiero e volontà s'incarnano, prendono corpo. Non si può convincere senza far vedere, dicevamo, parimenti non si può far decidere senza

(1) stendhal, Promenades dans Bome.

(2) Journal intime, 25 ott. 1870.

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commovere. Le nostre risoluzioni emergono da un ambiente di emozioni come le nostre idee da un tesoro d'immagini. Nessuno faccia assegnamento sull'efficacia dell'idea nuda o del consiglio a freddo.

Presentare la verità e il bene come delle consegne, senza preparar loro la via nel cuore; parlare con chiarezza e forse con autorità, ma senza amore, senza tenerezza là dove ce ne sarebbe bisogno, senza vibrazione comunicativa, quale inferiorità apostolica! quale diminuzione in quanto ai risultati!

Sainte-Beuve scriveva ne' suoi Gahiers a proposito di G. Fey-deau: « Si potrà dire di lui quello che si vuole, ma egli ha quello con cui si torce il ferro; ha del fuoco ». Qualche volta noi abbiamo molto ferro da torcere, per piegare le anime alle nostre sante leggi: senza il fuoco della sensibilità, dove sarà la nostra potenza? E quanto più ancora saremo noi sprovvisti, se si «I tratta di consolare, di calmare, d'incoraggiare, di far rivivere? A Sono questi dei compiti divini; la religione in ciò è maestra; ;

ma ancora bisogna saper rappresentarla, essere atti ad appli- ff" care i suoi balsami, essere pronti a rallegrarsi con quei che, si ^' rallegrano, a piangere con quei che piangono, a confortare i i;

peccatori dopo averli salutarmente abbattuti, a non conten- ; \ tarsi di tuonare o di prescrivere, come se la legge rialzasse dif^ per sé. Per la legge si ha la cognizione del peccato {Kom., Ili, 20); ;;

ma è l'amore che rialza, l'amore, motore dell'apostolato ^^. che si trova in tutti i suoi effetti. '.;;

Ma dove sono gli apostoli che hanno « del fuoco » e che pos-^ sono ammollire anime dure o « torcere del ferro »? Dov'è ;

S. Paolo che dice: figliolini miei, per i quali io provo ancora i ',y dolori del parto, finché Cristo sia formato in voif {Gai., IV, 19),^, Dov'è S. Agostino che sdegnava gli applausi, ma si compia- ^ ceva di aver fatto versare lacrime, sapendo, diceva egli, che" da quel momento aveva causa vinta. Dov'è soprattutto No-':

stro Signore, focolare di divina tenerezza, che palesa la veemenza contenuta di tutti i sentimenti umani? In Gesù si rivela tutta la vita del cuore, nello stesso tempo che splende la ' verità e si afferma la forza d'anima. Egli venne a portare fuoco:' sulla terra: gli occorre agitare la fiaccola.

Tutti gli apostoli, dopo Gesù furono esseri sensibili, per altro secondo diverge forme, gli uni più atti a spaventare e a destare, altri a consolare, altri a insinuarsi per toccare le fibre segrete del cuore. In un modo o in un altro, sentivano e sapevano far sentire; era una parte capitale del loro ufficio.

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In quelli tra noi che non ne .sono capaci, ciò può dipendere dalla timidità o dall'inesperienza. In tal caso la cultura e l'allenamento della pratica sono il rimedio. A ciò aggiungi l'umiltà, che, rendendo la parola pienamente disinteressata, la libera dalle debolezze quanto dagli eccessi. Ma il male sarebbe maggiore, se ciò dipendesse dall'indifferenza del cuore. Una conversione sarebbe allora necessaria, e sarebbe un grave soggetto

di meditazione.

•i

IV. — La sensibilità temperata.

liTon dimentichiamo tuttavia di segnare i limiti della sensibilità, o piuttosto le sue leggi. 'Non si è mai troppo sensibili, finché è mantenuto l'equilibrio tra le facoltà; ma si può essere nel falso, fuori della regola razionale. Abbandonarsi alla sensibilità è sempre pericoloso; ed è già un male, poiché è un'abdicazione della facoltà principale, la ragione. Questa deve tenersi in qualche modo al di sopra di tutte le nostre facoltà emotive, con Dio, che, dal canto suo, non si commove. Qualcosa della serenità eterna, dicevamo, deve sempre dominare i movimenti umani.

Del rimanente, la sensibilità ha per ufficio di servire il discorso, e per questo si dovrà sempre temperare a vantaggio degli altri aspetti necessari della parola cristiana: l'autorità, la chiarezza, la fermezza, la semplicità, l'esattezza. La sensibilità riboccante si chiamerebbe meglio sentimentalità; se riesce a piacere, ammollisce però e snerva: fortunatamente i suoi effetti si logorano presto; ma allora essa non ha più riserve per spese utili.

V. — Le mescolanze impure.

Soprattutto, la sensibilità dev'essere pura, voglio dire sciolta da ogni sfoggio personale e da ogni lega sospetta. Cercar di attirare l'interessamento sopra la propria persona con mezzi di sentimento è a volte ridicolo. «Vedete com'io piango! ». Ma è anche pericoloso; molte cadute non hanno altra causa. I virtuosi della sensibilità devono guardarsi anche più che quelli dell'immaginazione, a più forte ragione che quelli della dialettica. Oltre al loro pericolo personale, non si espongano a fare di Dio, proclamando la sua bontà, un babbo ridicolo, ne soprattutto a blandire, con un linguaggio effeminato,

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quelle stesse cose che invitano i loro uditori ad eliminare. Il peccato non merita il tenero addio che facilmente equivarrebbe a un arnvederci; ciò che gli appartiene è la nostra gravita, quando non c'è luogo ad applicargli le nostre sevizie.

In qualunque maniera e se anche non vi fosse da temere tali effetti, la virtuosità è condannevole. Non si tratta del nostro tornaconto. Quello che è in questione, è la questione che noi trattiamo, sono le anime, ed è Iddio. Per la virtuosità si può piacere, a guisa degli adulatori, che si ascoltano, che in certo modo si amano, ma che non si stimano e non si seguono.

L'Apostolo ci dice: Abbiate in voi i sentimenti da cui era animato Cristo Gesù {Philipp., II, 6). Questi sentimenti sono suggeriti dalla meditazione, dalla Messa, d'accordo con tutto il movimento della nostra vita spirituale. Ma questo ricorso non esclude l'uso dei mezzi umani. Quelli che abbiamo indicato, parlando dell'immaginazione, estendono i loro effetti alla sensibilità, quando vi si adattano. La frequentazione dei santi e dei maestri in special modo dotati sotto il rapporto del cuore, il commercio dei poeti, quello dei grandi compositori, abili a fare scaturire il fuoco dello spirito degli uomini (Beethoven); ecco dei reali soccorsi. Del resto, parlando come noi in generale, non si sa su che cosa convenga insistere di più, sulla sensibilità stessa o su' suoi limiti. Si deve lasciare il giudizio e la pratica alla coscienza di ciascuno.

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CAPITOLO VII.

Il carattere del predicatore.

I. — La leggerezza e la gravita.

Il carattere, preso affatto m generale, abbraccerebbe le qualità dell'oratore delle quali abbiamo ora abbozzato lo studio, ma si sa che la parola importa d'ordinario un senso più speciale. Littré definisce il carattere per « l'insieme delle qualità che si riferiscono all'azione » e che, naturalmente, la dirigono, poi la caratterizzano. Le qualità non sono che strumenti.

Eiguardo al nostro oggetto, rileverò le disposizioni morali buone o cattive che possono influire sul valore e sull'efficacia del discorso, e sono, nell'ordine in cui le considero: la leggerezza e la gravita, V asprezza o eccessiva severità e una lassa compiacenza, lo spirito di benevolenza o di denigrazione, la Umidità e la presunzione, l'orgoglio e l'ambisione umana, il vero zelo e la confidenza fondata in Dio.

Si chiama leggero l'uomo che manca di prudenza è di serietà nella sua condotta e nelle sue parole; un oratore leggero è quello che manca di questo nel suo discorso. Ciò può avere molte conseguenze e riscontrarsi in molti dominii. La scelta dei soggetti già se ne risente; il modo di trattarli se ne risente più ancora, perché lascia maggiore indipendenza. La scelta dipende in parte da tradizioni e da obblighi che sono saggi, mentre tu non sei tale; ma lo svolgimento, le forme del linguaggio, le tendenze del discorso, l'atteggiamento di fronte all'uditorio sono liberi» e la leggerezza si fa lecito di alterare tutto.

N'olio svolgimento, si preferiranno le curiosità, i giochi di pensiero e le sottigliezze di analisi, ciò che Arnie! chiama « solfeggi su temi sacri », o ancora le descrizioni divertenti, senza importanza per i risultati, le critiche spiritose e i cavilli, in vece degli avvertimenti e delle esortazioni apostoliche. Quest'ultimo caso è frequente. Si motteggia sopra i costumi

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mondani come per dispensarsi dal riprenderli. Un uditore -— o un'uditrice, perché questi predicatori scherzosi sono per lo più preferiti dalle dame — si trova pago di esgersi così lasciato fustigare ed esce dalla chiesa col sorriso. Sarebbe meglio che, di fronte a se stesso, ci si sentisse sotto il giudizio della verità e del bene. Pare così è quello che il padre Long-haye chiama « accarezzare col pennello » i vizi, in vece di de-nunziarli. E ciò prova che tali predicatori hanno poca cura del loro ufficio. Certamente Geremia direbbe di essi come dei falsi profeti: Essi dicono le visioni del loro proprio cuore, e non quello che esce dalla bocca di Jave (Jer; XXXIII, 16).

come dei falsi ^

e, e non quello

la leggerezza F

Sotto l'aspetto delle forme del linguaggio, la leggerezza ispira arditezze che non convengono alla parola di Dio, espressioni audaci e profane, rigiri frivoli, immagini troppo espressive, che rischiano di suggerire alle immaginazioni e di proporre all'adesione di anime fragili i vizi che si incriminano;

finalmente quello stile di cui parlava Sully Prudhomme « che segna un'ultima compiacenza per la cosa che si rigetta » (1).

Vi sono casi e materie in cui basta dipingere bene il male per ispirarlo. Dipingere bene! ne' suoi veri termini è un dipingere male, se si riferisce all'estetica della cattedra. In ogni caso, tali rievocazioni sono di una leggerezza imperdonabile. Vi sono dei predicatori che amano questo pericolo, essi rasentano l'oggetto vietato che non dovrebbero designare che con un tatto sommo; non temono, per l'effetto dei loro discorsi, un leggero scandalo. Moralisti stupefacenti che rassomigliano al sughero che saltella sulla corrente, anziché alla roccia che lo ferma.

Notiamo inoltre gli scherzi fuori di posto, le celie triviali o impertinenti, le imitazioni di persone ridicole che rischiano, senza che egli ne dubiti, di rendere ridicolo anche il predicatore. Si ride: il carotaio trionfa; ma di che si ride? succede spesso che si rida a un tempo delle buffonerie stesse e di colui che è assurdo nel pronunziarle. Poiché ci si diverte, non si pensa in quell'istante a criticare; ma che cosa se ne penserà domani, lo sa l'interessato? La sua coscienza, anticipando il giudizio de' suoi uditori, ne lo istruisca.

Quando si diceva a Goethe che il pubblico guasta gli autori col piacere che si prende in cose frivole, Goethe rispondeva:

(1) Oonvtìrsation inèdite avee Fraitfois Coppée.

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« È possibile; ma se al pubblico si da qualche cosa di meglio, è ancora più contento » (1).

Non dico che non si possa sollevare un poco l'uditorio, soprattutto se è giovane, e segnatamente in un discorso familiare; sorridere e far sorridere, tenendosi nei giusti limiti, non solo è cosa innocente, ma è un bene. Un contemporaneo ha detto abbastanza profondamente che « un po' d'infantilità non guasta mai le cose divine ». Vi è una santa infanzia, una specie di nobile puerilità che si trova nei santi e che in essi — come nel buon soldato — confina con l'eroismo. Ma ciò si riconosce presto e non si confonde con la leggerezza essenziale, per dire così, la quale indica il nulla dell'anima, anziché esserne il fiore.

Il conte Mole diceva a Sainte-Beuve che i due più fini e più incantevoli sorrisi che avesse veduto erano quelli di Napoleone e di Chateaubriand. E Sainte-Beuve aggiunge: «Ma essi non sorridevano tutti i giorni » (2). Il sorriso delle persone gravi, il sorriso delle persone forti, se è il più bello, è anche il più misurato, il meno abbandonato al capriccio. « Io non amo le celie e i nomignoli, dice S. Francesco di Sales, non è questo il luogo ». Per nomignolo egli intendeva le espressioni scherzose, i frizzi; eppure egli non mancava di attrattiva.

Ho parlato delle tendenze di un discorso: io prendo ciò nel senso proprio, per designare lo scopo che si ha di mira o che, a ogni modo, ha per sé di mira la tua parola; infatti vi è una tendenza immanente al discorso, che deriva dal carattere che gli s'imprime, dal suo dinamismo, dalla sua ispirazione. Ora ciò che qui indica la leggerezza del predicatore è l'assenza di conclusione pratica. Con ciò io non intendo punto l'omissione di quella parte del discorso che si chiama conclusione: questo è affare di genere oratorio e non s'impone in alcun modo; una predica che conclude tutto il tempo non ha bisogno di concludere alla fine in un modo speciale. Ma la conclusione espressa o sottintesa, soggiacente o formale, è il principale del discorso cristiano.

Uscendo da una predica, si deve sapere che cosa pensare se si tratta di dottrina, che cosa fare se si tratta di pratica, e, ia generale, le due cose che sono solidali. Che ciascuno possa dire a se stesso: « S'une cepi, adesso incomincio, mi decido »,

(1) Conversation avec Eclcerma'nn.

(2) saimtb-beuve, Cahiers iìitimes.

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è o dev'essere il voto dell'oratore. Egli agisca dunque m conseguenza. L'uomo leggero non se ne da pensiero. Se egli domandasse a se stesso: Ohe cosa si deve concludere dalla mia predica, e da che cosa incominciare, non saprebbe che rispondere. Del resto se egli si chiedesse questo non sarebbe più un uomo leggero. L'uomo serio che se lo domanda, e che non vede chiaramente la risposta, deve dirsi che non ha terminato il suo lavoro. Deve anche aggiungere che non l'ha intrapreso bene, e che per conseguenza l'ha condotto male, infatti la luce di tutto, la regola suprema è appunto lo scopo.

Finalmente, nell'azione stessa, s'introduce la leggerezza. — In quanto alla voce, sotto forma di smancerie, d'imitazioni, di salterelli da merlo o da gazzera; — nel gesto, con movimenti troppo descrittivi, troppo familiari, o troppo agitati. S. Francesco di Sales additava così come difettosa « una certa azione spedita e leccata, che diverte l'occhio più che non batta al cuore ».

Importa che tutto batta al cuore, e per questo che tutto sia grave, nobile e grande, dico in proporzione col soggetto, col momento e colla circostanza. Ma qualsisia la circostanza e qualsisia il caso, colui che si tiene bene nel suo compito, unito allo Spirito Santo e in contatto delle anime figlie di Dio, elette ab aeterno, questi anche se occasionalmente celii, non sarà mai un odiatore; avrà la serietà del suo stato e del suo lavoro. La gravita è per il predicatore quello che la croce è per il santuario: essa lo indica, i fiori e la leggiadria ornamentale non possono venire se non dopo.

II. — L'asprezza e la compiacenza.

Intendo per asprezza quella rigidezza, quello spirito di aggressione che certi prendono per il massimo dello zelo, e che è una contraffazione dello zelo, perché in quanto alla sostanza, come in quanto alla forma non mostra i sentimenti del vero zelo come non ne prepara i risultati.

In quanto alla sostanza, questo falso ardore apostolico ha i più gravi effetti; esso trascina a forzare la nota, a presentare nel nome della fede, come precetto, quello che non è di precetto, a far paventare quello che non minaccia se non nella nostra immaginazione malevola, a ingrossare tutto e a falsare

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i rapporti tra la vita umana da una parte, e dall'altra il pensiero o la legge di Dio. Allora, una delle due: o l'uditore non è gonzo, e il predicatore perde di considerazione anche riguardo al vero, il troppo finisce nel troppo poco, oppure si entra nelle tue viste, e in tal caso è lo scoraggiamento nei deboli, in altri l'irritazione contro la verità, il disgusto del bene che si dichiara amaro e inaccessibile. Era questo il tuo scopo?

Hai voluto, dici a tè stesso, scuotere la negligenza; ma la negligenza del peccatore era meglio della sua disperazione, essa lasciava la speranza. Del resto nel nome di chi noi ci permetteremmo queste esagerazioni? ~Soi non abbiamo missione di aggravare le anime; bastano i pesi di Dio. Egli ha i mezzi di rendere leggeri i suoi pesi; il suo giogo è dolce, fu detto, perché la sua opera agisce sopra i cuori, e quando egli li aggrava insieme con la loro libera cooperazione sa offrir loro dei compensi adorabili. Ma noi non disponiamo di questi mezzi; non abbiamo qui ne potere ne autorità; non possiamo che urtare, opprimere ingiustamente e abbattere.

Entriamo piuttosto nello spirito della nostra legge, che è una legge di amore, una legge di generosità e non di esigenza, di dolcezza e non di minaccia. Si esige e si minaccia, nella nostra fede; ma ciò è cosi poco l'ispirazione primitiva, che le esigenze e le minacce sono ancora misericordie; non lo' faremo noi sentire?

Il nostro uditorio non dovrebbe mai avere l'impressione che noi gli vogliamo togliere qualche cosa, imporgli qualche cosa, ma bensì che vogliamo dargli, arricchirlo, sollevarlo, accrescerlo, spingerlo verso la felicità mediante il bene. La nostra ispirazione deve sempre salire e invitare a salire. I nostri rimproveri, in fondo, devono essere uno stimolo, un aiuto. Quando parliamo di cose penose, non dobbiamo dimenticare di sottolinearne la grandezza, l'utilità decisiva; quando biasimiamo l'errore o il male, dobbiamo fare in modo che le loro vittime abbiano tosto il sentimento di ciò che vi si sostituisce di felice, e inoltre il sentimento della soddisfazione sovreminente che si offre ai bagliori o agl'istinti che li traviavano. Tal è il metodo positivo, quello che trascina e che realizza il programma del Maestro: Ut vitam Jiabeawt et abundantius habeant.

Ad ogni minuto l'uditore deve poter dire a se stesso: Come mi si vuoi bene! com'è bello! com'è grande! Forse egli non avrà il coraggio dell'azione, e nemmeno il coraggio dell'adesione;

ma per lo meno avrà voglia, e un giorno, con l'aiuto della

11 — SBKiniAroBS. Voratore crhtiaM,

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grazia, forse farà quello che aveva desiderato di fare; se tu lò disgusti, non ne ricaverai più niente.

Il nostro Vangelo non è una camicia di forza, una gogna, ma sì un paio d'ali; non lo rendiamo grave; non mettiamo la nostra coscienza nell'opprimere la coscienza degli altri. Che vi siano così delle eccellenti persone « piene di tenerezze particolari e di idee generali feroci » (Bene Benjamin), è una stranezza troppo frequente nei nostri gruppi. Fortunatamente solo

10 spirito è qui in colpa. È una ragione di più per sentirci incoraggiati ad avvertire; non perderemo il nostro tempo.

Ciò che s'incontra molto più spesso, è una rigidezza. e un'asprezza non più quanto alla sostanza, ma quanto ai procedimenti e alla forma del linguaggio. Non pochi predicatori si credono tenuti a invettive contro gl'increduli e i peccatori, alle apostrofi offensive, ai rimproveri stizzosi, alle sfide orgogliose, all'ironia maligna. È forse questo un atteggiamento di apostolo? Il fariseo che si pavoneggia perché mangia alla tavola del padre di famiglia e perché Lazzaro muore di fame è un tristo modello. Io amo quel predicatore del secolo XVII (Francesco Bonal) il quale diceva: < Disprezzare e maledire gli uomini non è la stessa cosa che lodare e benedire Dio. Nostro Signore Gesù Cristo è pastore delle pecorelle e non governatore di leoni o di cani »,

Quei che si disprezzano non si arrendono mai; l'irritazione chiude loro il cuore e può giungere fino a stillarvi del veleno;

infatti, non ci inganniamo, la parola umana è un veleno atti-vissimo. Il segreto della conquista delle anime è quello di sti-"marle, perché ne diventino degne, di non far mostra di attribuir loro i mali che si combattono, ma di difendemele e mettersi con esse per detestarli; convinte, si faranno premura di purificarsi, a fine di potere, insieme con noi, disprezzare quello che le teneva schiave. Tal era il modo di procedere di S. Giovanni Crisostomo; onde il Sacrate cristiano di Balzac gli rivolge questa lode: « I suoi lamenti e le sue collere sono belle; biasimando i vizi, egli piace ai peccatori ».

Esaminando bene, l'uomo di Dio che cede a intemperanze di linguaggio si accorgerebbe forse che, in vece dello zelo, è uno spirito di dominazione che lo guida, uno spirito di parti-giano che si irrita delle resistenze. Facilmente, tra noi — e

11 mondo ce lo rimprovera — si insinua una specie di « sciovinismo » religioso così poco raccomandabile come l'altro. Siamo il gruppo eletto, la consorteria sacra, se è lecita l'espressione,

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un partito temporale, benché schierato sotto la croce. Allora ci lasciamo trascorrere a violenze contro gli stati di spirito o le azioni dei gruppi avversi. Diamo a credere a noi stessi di essere mossi dall'amore, che non vuole che ci si strappino le anime; ma al di sopra spunta una umanità indisciplinata che esige da altri la disciplina, un cuore mal domato che pretende di domare gli altri. -Fulminiamo, attacchiamo, sospettiamo, ci crediamo tutto lecito contro l'avversario, perché non dominiamo noi stessi.

E quel che è peggio, certuni ne menano vanto. « Ne ho dette loro!... ». Non vi è da gloriarsene! tanto più che di solito gli avversar! non sono lì; a ogni modo essi non hanno la parola;

si attacca senza rischi, e ciò non è proprio di un bei carattere. Il nostro umile Dio sopporta il peccatore; lo invita, non lo violenta; non spessa del tutto la canna fessa; non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva. Convertire con Dio:

ecco il nostro ideale. Salviamo la verità, ma salviamo anche le anime. Noi siamo debitori di tutti, e quando si è debitori non s'insulta. L'oblio di quello che noi annunziamo forma la sventura del mondo: sta proprio a noi di non vedere in questa sventura altro che un'occasione di oltraggio? Se crediamo veramente che l'errore, e l'allontanamento da Dio sono mortali, compiangiamo quelli che vi cadono, non li roviniamo. Quid fieni peccatores! gridava S. Domenico nella sua grotta di Se-govia, flagellandosi duramente per riscattare le loro anime. I poveri peccatori, non è forse la nostra costante espressione? Interprete di una legge di amore, colui che non ama taccia;

egli non ha più missione; non è più che il mercenario della parabola, senza rapporto col Buon Pastore.

Certo! nessuno confesserebbe un tale disaccordo, ed è ra-rissimo, indubbiamente; « sii mio fratello, o io ti uccido », non è questa una formula per predicatori; ma ci dimentichiamo;

la cattiva natura risale; abbiamo troppa fiducia in noi e non abbastanza nelle anime, troppa compiacenza per noi, non abbastanza compassione per le anime. « Tenero qui, severo là, mai nemico, dovunque madre », dice S. Agostino. Nessuno può cambiare le anime secondo i suoi desideri se non comincia ad amarle quali sono. ^

Oserò io proporre tré segreti che mi sembrano tali da guidare l'apostolo, in questa così importante materia?

1° Incerchiare il male, per meglio vincerlo, in una delì-

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cata lode del bene, e del bene ce n'è sempre. Se non ce ne fosse, resterebbe l'espediente di lodare anticipatamente, supponendolo desiderato, quello che si spera. Infatti bisogna sperare, per convincere e per trascinare. Il sauto spera sempre; se vedesse apparire ima umanità perfetta, non ne sarebbe sorpreso. Ciò non impedisce affatto di riprendere il male; anzi da delle facilità per parlarne liberamente, poiché il figliuolo adottivo di Dio a cui ci si rivolge non è più, per così dire, in causa.

2° Parlare dal pulpito come si parlerebbe in privato con uno che si desiderasse di convertire; e tal è il caso, ancora una volta. Ora, in privato, ci lasceremmo forse trascorrere a parole malevole, a sospetti ingiuriosi, a violenze? Si sa bene che cosa si direbbe, di quale tatto, di quale modesta carità si farebbe uso. E perché, sotto pretesto dell'anonimo, pubblicamente, si userebbe un'altra maniera?

3° E, salvo errore, è il colmo dell'arte per un amore convertitore, esprimersi in tal modo che l'insegnamento, l'esortazione, il rimprovero non apparisca al fedele se non come la

'voce della sua propria coscienza. Per questo bisogna che l'uomo ' si scancelli, o meglio che si unisca col suo uditore per ricevere con lui un avvertimento che viene — e non è la pura verità? — da una regione celeste. In vece di tu qui, tu là, diciamo: noi;

noi, peccatori, noi che dimentichiamo Dio, noi che offendiamo le sante leggi e disconosciamo la verità eterna. Siffatto lin-;

guaggio si accetta. E se minacciamo folgori celesti, collocando' noi stessi non sotto il parafulmine, come persone al sicuro, ma in pieno pericolo coi nostri fratelli, non ci faremo noi pure

.accettare? Territus terreo, diceva S. Agostino; ciò si tollera sempre. Se ci siamo noi, anche gli altri accetteranno di es- . serci; se no, corriamo il rischio di essere giudicati come il fa-

. riseo che non è simile agli altri uomini, e il fariseo non è mai un convertitore.

Il nostro Salvatore che aveva ogni autorità sopra le anime, non prese mai per esortarle un tono imperioso. Egli conservò sempre l'umiltà, anche nei più necessari rigori. Di fronte a' suoi nemici, la sua calma fu sempre il più efficace strumento delle sue vittorie. Aveva la risposta decisiva, ma senza fiele. Disarmava d'un colpo il mal volere, e tosto il buono si trovava invitato, salvo che fosse chiuso alla luce. Non oltrepassava mai la giusta misura determinata dai diritti della verità e dalle esigenze dell'opera sua. Immergeva lo strale come un bisturi,

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non come un pugnale, e nel momento delle sue più veementi contese, se così posso dire, non tralasciava di dardeggiare la sua luce e di chiamarvi tutti i cuori.

'Sella conciliazione che abbiamo da fare tra lo spirito di dolcezza evangelica e i rigori necessari, se vogliamo evitare a un tempo l'asprezza che ora condanniamo e la molle compiacenza che stiamo per opporvi, è Lui che ci fornisce la misura. Egli seppe unire insieme, tutte le volte che bisognava, la carità e le verità vendicatrici, il tenero trattamento e l'arditezza apostòlica che ridesta il negligente, il peccatore. Egli praticò questa doppia fedeltà: al vero e all'uomo, al bene e alla fragilità che non dev'essere troppo duramente trattata. Ebbe il coraggio di dire ciò che si deve, di esaltare ciò che si oltraggia, di rammentare ciò che si trascura, ed ebbe quest'altro coraggio di sopportare, di procurare i ritorni, di mostrare le uscite, anziché chiuderle con ira.

Adattare tutto alla debolezza senza sminuire 'niente fu il suo segreto. Condiscendenza senza concessioni, integrità senza aspra esigenza, pazienza nell'aspettare a dire ciò che non gioverebbe, ciò che potrebbe guastare: in due parole, atteggiamento della madre e del perfetto educatore, per conseguenza del predicatore, del quale sono questi i modelli.

Finito che abbiamo di presentare la dottrina e d'inculcare la legge, bisognerebbe che si potesse dire di noi come nella liturgia di datale: Apparuit benignitas et hzimanitas Salvatoris nostri Dei. Benignitas, humanitas esclude l'asprezza, la durezza, esclude anche il suo estremo opposto, che è una molle compiacenza, poiché si può essere inumani con dolcezza.

***

Sì, anche la compiacenza è colpevole e nuoce quanto l'asprezza eccessiva; il profeta mette sulla stessa bilancia quei che peccano così in sensi contrari, facendo morire anime che non muoiono, e facendo vivere anime che non. vivono (Ese-cMele, XIV, 19).

Il predicatore che si prende la libertà di concedere a' suoi uditori delle facilità di salute che il Vangelo rifiuta, di tacere o di attenuare i dogmi che incomodano, di mitigare la legge appena che è onerosa, di assolvere quello che Dio comanda e di dispensare quando Iddio obbliga, manca assai gravemente al suo dovere, E ciò avviene. Vi sono degli spiriti audaci, indipen-

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denti, « moderni », ghiotti di approvazioni sospette, mentre sembrano sprezzare il suffragio dei loro superiori. Costoro non sono i nostri modelli. L'apostolo vero cerca di facilitare la credenza e l'ubbidienza spiegandole bene, liberandole da ciò che è arbitrario, dall'eccesso, facendo riconoscere la loro perfetta ragionevolezza, dimostrando la loro necessità, rilevando il loro carattere benefico, e poi provocando la generosità e occorrendo lo spirito di eroismo. Ma a nessun costo conviene a lui di sbiecare e di allentare Iddio, se mi è lecita l'espressione.

Ciò del resto non mena lontano; o se si vuole, mena molto lontano, ma non nella dirczione che si pensa. Quanto più si da all'indulgenza tanto più essa ne vuole. Le mezze misure sono più incomode che la rettitudine, e non hanno gli stessi appoggi intcriori. Sapere bene che cosa si ha da fare e consentirvi da un coraggio ben diverso da quello di fare assegnamento sopra il minimo. La certezza e la generosità resistono alle tentazioni, l'ambiguità vi soccombe. Ad ogni modo è un cattivo calcolo imbottire cuscini per ogni gomito, e guanciali per ogni testa (EsecJi., XIII, 18).

La forma, l'atteggiamento generale del discorso hanno a questo riguardo un'importanza certo meno tragica, ma ancora molto grave; le compiacenze colpevoli possono facilmente in-sinuarvisi. E come? Per certi modi dolciastri, troppo poco energici, troppo poco apostolici di parlare del vero e del falso, del bene e del male. Senza ritornare alla rigidezza e alla durezza che abbiamo proscritte, noi, rimanendo sempre buoni, benevoli, moderati, prudenti, dobbiamo mostrarci fermi e forti, come esigono i diritti di Dio e il bene degli stessi nostri uditori.

I nostri uditori hanno diritto alla verità teorica e pratica, ai nostri rimproveri, ai nostri avvertimenti, alle nostre minacce caritatevoli, alla promulgazione insistente di quella legge che essi dimenticano, al risveglio periodico di una coscienza che volentieri si addormenta; sono il gregge di Cristo:

i pastori e i cani sono al loro servizio. In fondo, essi vi fanno assegnamento. È possibile che la tua compiacenza li trovi compiici; ciononostante essa li urta, li inganna; qualcosa in essi attendeva le tue arditezze apostoliche, e, occorrendo, i tuoi rigori; privati di questo soccorso dalla tua soverchia indulgenza, ti disprezzano e si sentono disprezzati essi stessi.

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III. — La benevolenza e lo spirito di denigrazione.

Le forme di carattere messe sotto questo titolo nuovo possono apparire imparentate alle precedenti a tal punto da confondervisi; ma in realtà si tratta di altra cosa; in vece dei sentimenti, propriamente parlando, è questione degli apprezzamenti, dei giudizi, del modo di presentare e di qualificare le idee degli altri, le loro tendenze o le loro pratiche, le loro persone o i loro gruppi.

Già sotto l'aspetto dei costumi oratorii, queste considerazioni vengono in causa. È una regola assoluta dell'arte di serbare, riguardo all'avversario, una moderazione per lo meno diplomatica, provvisoria, che indica il possesso di sé e da credito al discorso. Gli oratori dell'antichità a ciò vegliavano con cura, anche e soprattutto colla mira di schiacciare poi l'avversario. Per noi, questa preoccupazione non può evidentemente bastare; noi non vogliamo schiacciare nessuno; noi serviamo il nostro prossimo; serviamo Dio, e perciò il sacri-flzio di una virtù qualunque al successo dell'azione sarebbe un mezzo condannevole. Tuttavia, quanti predicatori, specialmente in materia apologetica, offendono, senza pensarci, la moralità più comune, agiscono come se credessero che il fine giustifica i mezzi, e che si ha sempre ragione contro coloro che offendono la ragione e la fede, e pensano che, trovandosi da questo lato della barricata, si possano lanciare dall'altra parte proiettili di qualsisia genere, espressioni di ogni colore, senza alcun riguardo per la giustizia, giacché essi la incarnano in sé per diritto di situazione!

È strano, ma è un fatto che la sicurezza, in cui ci troviamo in quanto all'essenziale delle nostre affermazioni, ci può mettere in pericolo intellettualmente e praticamente riguardo a tutto il resto. È possibile concludere il vero dal falso, invocare un pessimo ragionamento o un'ingiustissima allegazione in appoggio a una dottrina sublime. Non ce ne guardiamo sempre abbastanza; concludendo il credo, non abbiamo una sufficiente cura dei considerando, ne dell'equità riguardo alle dottrine avverse, agl'individui o ai gruppi dissidenti. Deplorevole atteggiamento, che offende la verità pretendendo di servirla, e che potrebbe allontanare da essa delle anime rette, se venis-

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sero ad accertare che noi abbiamo una fede nemica della buona fede, che il nostro zelo che si pretende consacrato al prossimo' non comincia punto col rispettarlo.

I nostri avversar!, qualora se ne trovino davanti a noi

— e sempre se ne trovano, almeno per procura — devono udirci parlare in tal modo che non possano legittimamente dirsi disconosciuti, lesi in quanto alle loro opinioni, feriti nelle loro persone. Non si può credere quanta vigilanza morale e spirito cristiano ci vuole per questo. È così facile trinciare, abbandonarsi a quel vandalismo incosciente che abbatte subito quello che incomoda, trascurare il vero in quello che noi chiamiamo errore, il bene in quello che chiamiamo male, dimenticando che secondo la fine osservazione di Fiatone, nel Fedro, « l'errore viene dalla rassomiglianza », e che si deve dunque trovare sempre qualcuno del nostro prossimo sotto certi rapporti, in colui che si è ingannato.

Un sacerdote tenta di comprendere le idee che egli non condivide, come perdona i peccati che non commette, e la ragione è la stessa: la carità, prima di tutto, inoltre l'esperienza, esperienza qui delle coscienze, là delle idee e delle intelligenze. Onde l'incomprensione e l'ostilità sono un cattivo segno; dimostrano per lo più la mediocrità, la strettezza, oppure l'ignoranza. Nemici intelligenti e rotti hanno modo di ravvicinarsi;

in una sfera elevata, si apprezza la giustizia e si stabilisce una comunione tra quei che l'amano. Ma è meno agevole salire che battersi nelle basse regioni, e per questo è più difficile comprendere che giudicare.

Saremo tanto più esposti sotto questo rapporto in quanto che, sotto colore di utile controversia, avremo ammesso un certo genere contenzioso molto meno efficace che non si supponga. Di questo riparleremo; ma se si fa della controversia,

— la quale a volte s'impone, poiché non si ha sempre l'iniziativa dell'azione ne per conseguenza la libertà del metodo — si deve farla onestamente perfino nei particolari, quanto ai mezzi della disputa come quanto al suo fine. Diminuire o mettere in ridicolo una obiezione seria non è proprio di una discussione leale, del pari che l'inghirlandarla, come altri fanno, non è proprio di una discussione prudente.

E nello stesso modo che a ciascuno s'impone la buona fede, così si raccomanda, per quanto è possibile, la fiducia nella buona fede degli altri. A questo riguardo, il nostro tempo

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offre un caso nuovo, e gli atteggiamenti antichi si hanno da rivedere largamente. I sarcasmi di un La Bruyère o di un Bossuet all'indirizzo degli sp.iriti -forti, dei libertini, sarebbero oggi fuori di posto. La situazione è tutt'altra. La tempesta intellettuale allora sollevata capovolse di poi tante cose! L'ambiente e le idee differiscono; i fatti sono veduti sotto un'altra luce, e gli uomini migliori sono esposti a ciò che un tempo non era che la sorte di anime in rivolta. Ciò in fatto di giustizia e in fatto di carità esige grandi riguardi. I nostri modelli sotto questo rapporto non sono nel secolo XVII, ma più vicino a noi, o molto più addietro, nei Padri della Chiesa, il cui ambiente, purtroppo! era molto più simile al nostro. Essi vivevano, dal canto loro, in una società pagana, e noi in una società paganizzata e, peggio di questo, votata di Dio. In tali condizioni, se noi parlassimo come qualche volta Bossuet — e con ragione senza dubbio — rischieremmo che si dicesse di noi quello che scriveva Sainte-Beuve a proposito di Eoyer-Oollard: « Egli aveva innalzato l'insolenzà fino alla maestà » (Cahiers).

Quello che dico delle opinioni si verifica non meno in materia pratica. Certe critiche così spinte che somigliano a tentativi di assassinio convengono forse all'apostolo del Dio d'amore? Goethe ci direbbe che non convengono a nessuno, se lo scopo della parola è l'utilità. « Quando non si parla delle cose e delle persone con una parzialità piena d'amore, spiega egli, quello che se ne dice non merita di essere detto » (1). A. de Pontmartin diceva di Agostino Cochin: « Egli era di quelli che mi fan venire la voglia di amare quello che amano essi e di credere quello che essi credono »: ecco l'utilità vera. Ma altri che combattono furiosamente nomi ed etichette non pensano che dietro vi sono degli esseri. Si presentano le esortazioni sulla punta della spada, e l'uditore, ferito in antecedenza, ti sfugge. Al vero apostolo invece spetta di dire tutto senza mai ferire.

N'oriamo qui che la pittura dei costumi, quando è voluta per se stessa, rischia sempre di scivolare negli attacchi malevoli o eccessivi; con ciò essa crea un pericolo analogo a quello delle controversie teoriche mal condotte. Si dipinge e si fa bene; la pittura però non è uno scopo, ma un mezzo, e che ha le sue regole morali del pari che le sue regole estetiche:

(1) Oonmrsatìons avec Ecicermann.

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in essa è d.' obbligo la stessa giustizia e la stessa carità che altrove. ~Soi giamo debitori di tutti, ancora una volta: paghia-mo; non insultiamo,

Al rispetto delle persone verranno a unirsi a più forte ragione la giustizia resa e l'ammirazione consentita alle grandi cose che ottengono il loro culto. Le grandezze di questo mondo, insufficienti senza la fede e senza l'amor divino, non meritano per questo di essere avvilite. Quando Brunetière denunziò fragorosamente la « bancarotta della scienza », nel senso che la prendeva lui aveva ragione; ma egli si fece torto agli occhi di molti per un tono aggressivo e per la mancanza delle distinzioni necessario. Parimenti l'arte, la letteratura, la bella antichità, la natura, l'amore, il progresso, tutto quello di cui troppo spesso si fa abuso contro Dio, non per questo è degno di maledizione o di disprezzo. I Padri della Chiesa non adottarono mai questa politica di denigrazione riguardo alle cose umane; anzi, partendo dalle cose umane debitamente apprezzate e lodate, tentavano di condurre gli ammiratori fino alle cose divine.

Se, col pretesto di vendicare Dio, noi combattiamo i beni che gli uomini gli oppongono o che pretendono di sostituirgli, non lo vendichiamo forse a carico di Lui stesso, Padre di queste cose? Ciò che essi svisano, rettifichiamolo; ciò che vorrebbero lasciare nella sua insufficienza, compiamolo; compire è già consacrare; rettificare è rendere alla sua verità un valore riconosciuto prezioso, ed è così una giustizia resa, non un biasimo. L'umano dev'essere oltrepassato, non dev'essere disonorato. Prendersela con esso, suscita a volte delle indignazioni e delle rivolte definitive. Avere contro di sé un ideale non è mai una forza.

Lo stesso dico del nostro tempo, che molti predicatori si credono tenuti a dichiarare il peggiore di tutti, dimenticando che in ogni tempo, senza eccezione, i loro pari hanno tenuto somiglianti discorsi. Un laudator temporis acti è sempre fastidioso; si dice che, se il suo tempo è cattivo, egli farebbe meglio a cercare di renderlo migliore; poi egli sarebbe più forte per rampognarlo, e, in vece di lagnarsene, ha motivo di lodarsi di un così onorevole compito. Il tempo in cui venne il Signore aveva gran bisogno di Lui: Egli lo servì, non gli lanciò l'anatema, :Noi, come Lui uomini dell'eternità, siamo gl'inviati di

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tutti i tempi e, nati in questo, abbiamo l'obbligo di amarlo, a fine di aiutarlo, perché non si fa del bene se non amando. Non siamo dunque di quegli uomini che denunziano incessantemente nel « secolo presente », nel « tempo che viviamo », una cosa mostruosa e terribile, come se tali giudizi non fossero sempre incompetenti e altamente arbitrari.

Bisogna essere assai audaci per pretendere di stabilire una scala definitiva dei valori tra i tempi cristiani. Ogni secolo ha il suo forte e il suo debole, e da questo discernimento può uscire una grande istruzione; ma totalizzare, specialmente per soperchiare il tempo in cui viviamo e di cui siamo incaricati non è forse un'eccessiva presunzione? Chi osserva da vicino si accorge che non è neppure un giudizio questo, ma una tendenza dello spirito, che in ogni tempo sarebbe stata la stessa. Le persone che sognano il secolo passato avrebbero sognato, nel secolo passato, il secolo XVII, nel secolo XVII il medio evo, nel medio evo le catacombe, nelle catacombe il paradiso terrestre. Tanto meglio acconciarsi a quello che è, come punto di partenza provvidenziale di quello che domani dev'essere.

Dopo tutto, il nostro tempo ne vale un altro. Il carattere radicale della negazione, il rifiuto pratico di Dio, così disgraziatamente divulgato, ne sono il lato inquietante; ma questi fatti non sono senza contrappesa, e pare che rechino seco essi stessi il loro rimedio. Il contrappeso è l'approfondimento e l'allargamento della fede in quelli che la conservano; la speranza di rimedio è la ricettività di anime nuove riguardo a quel Dio la cui assenza si fa crudelmente sentire. Noi siamo in un tempo di Avvento. Veni ad liberandum nos, Domine Deus virtutum! Ma invocando Iddio, non abbiamo noi il dovere di recargli la nostra collaborazione fiduciosa? Questo tempo è fatto per infiammare il coraggio; esso è giovane: siamo anche noi gio-! vani accostandolo. Il gemere è la consolazione dei falliti, dei cacchi disillusi, il cui atteggiamento è codardo quanto sterile.

Quello che favorisce lo spirito di denigramento riguardo al empo presente e che, all'opposto, ci crea un dovere nuovo di benevolenza, è che noi ci troviamo in un momento di contusione, di incrociamento delle correnti dottrinali e di riven-oicazioni a oltranza di tutti gli elementi sociali. Ciò permette certamente delle critiche moltipllcate; ma piuttosto non esige |orse da noi, apostoli, una vigilanza estrema, a fine di appar-

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tarci, se è possibile, da tutti questi gruppi di fratelli, senza offenderne alcuno, senza essere ingiusti verso alcuno? A noi è vietato di essere dei partigiani, di darci a una consorteria con la certezza di alienarci tutte le altre. Nelle controversie che dividono gli uomini, a noi conviene il giusto mezzo, supposto che non ce ne possiamo disinteressare, ciò che spesso è il meglio. « Tenersi in mezzo come l'albero del paradiso », secondo la bella espressione di un autore del secolo XIII, è un nobile ideale. Solo la strettezza di spirito, aggravata da una strettezza di cuore, può affondare un apostolo nei partiti, impedirgli di vedere quello che vi è di buono da per tutto e di rendergli omaggio.

Non si deve dire che occorra avere un'ingenuità ottimista e fare inchini da tutte le parti, come Pierrot: « Signori, .amico di tutti ». La puerilità non si addice al sacerdote. Nessuna cosa ci deve menomare. Evitando la stoltezza che crede alla cieca e che incensa beatamente, si può raggiungere la carità che crede tutto anch'essa, ma in un altro modo, vale a dire che è pronta a credere il vero, a lodare il bene dovunque si trovino, senza dimenticare la prudenza da cui nessuno è dispensato. La nobiltà d'anima unita alla perspicacia; la giovinezza d'anima unita all'esperienza: tale sarebbe la disposizione perfetta. L'apostolo ha il dovere di essere a un tempo vecchissimo presto e giovane tardissimo, giovane sempre, fino all'eterna giovinezza. L'eternità e la natura ci danno l'una il modello e l'altra il simbolo di uno spirito salvatore.

IV. — La timidità, l'autorità :: e la presunzione.

L'autorità della parola che noi collochiamo tra la timidità e la presunzione come tra due vizi, non è incompatibile con un certo timore. Cicerone diceva: Beato l'oratore che, nel momento di prendere la parola, non ha sentito rizzarsi i capelli sulla testa. Il chierico che ti accompagna sulla via del pulpito, al principio, non ti fa l'effetto di un carnefice? Avviene che questo sentimento si attenui o anche scomparisca;

avviene che persista tutta la vita, sminuendoti in un certo modo, stimolandoti in un altro, in ogni caso scomparendo, nell'uomo di esperienza — per lo meno in ciò che vi è di paralizzante — appena cominciato il segno di croce.

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L'autorità è la condizione di ogni parola che vuole esercitare un'impresa. Un uomo che forza a pensare; un uomo che pensa per tutti: ecco l'oratore. Ohe se la modestia o l'umiltà cristiana lo invitano a indietreggiare, il suo ufficio gli viene in aiuto. Quale potente eleganza già nell'uomo che è animato da un nobile sentimento del suo potere, della sua preparazione, del suo diritto all'udienza de' suoi simili; ma quale irresistibile forza, in colui che sente e fa sentire con una piena" evidenza la superiorità del vero e del bene del quale egli è il servitore!

~Soi non parliamo di noi stessi. L'oratore politico parla nel nome del paese, l'avvocato nel nome della giustizia, il capitano nel nome della vittoria, tutti nel nome di una verità e di un bene: ma noi, nel nome della verità divina, del bene eterno, e l'esser rappresentanti di queste grandezze cambia tutto. Ciò, anzi, ci da un'autorità che si deve dire unica e in certo modo esclusiva, poiché in ogni materia non si può vincere lo spirito dell'uomo se non nel nome dello spirito di Dio. Quegli che può invocare questo spirito in un modo speciale, per vocazione e per missione autentica, è colui che parla con autorità, come il suo Maestro, non come gli scribi e i farisei.

L'uomo della folla che ci ascolta, in fondo a se stesso, non cerca una spiegazione, una dimostrazione, un consiglio vago e staccato, ma aspetta un capo. Affermiamoci dunque come capi, come sacerdoti, e vuoi dire che dobbiamo badare a cancellare noi stessi affermando Iddio, « a nasconderei nella luce », secondo l'espressione di Dante, e di là a esercitare, da liberi schiavi, la benefica tirannia di Dio. Allora noi compiamo uno stretto dovere. Alla timidità non abbiamo più diritto, dopo che la nostra forza d'uomini, per quanto sia piccola, è stata presa come strumento della forza eterna. Permettere che si indebolisca H in noi l'autorità del nostro ufficio, non sarebbe una defezione, e sostituir-vi per rispetto umano le parole persuasive dell'umana sapienza, non sarebbe un sedurre?

Pascal chiama ciò un fare « da tiranno, non da rè ». Il rè governa nel nome del bene, il tiranno nel nome dell'uomo. Perciò Pascal condanna « l'eloquenza che persuade per via di dolcezza e non per via d'impero ». Guardiamoci bene dall'equivoco! Non si esclude la dolcezza; ma non è la dolcezza che s'incarica di persuadere le coscienze, è la verità di Dio, è Dio stesso. In questo senso, il persuadere « per via di dolcezza » è un inganno; « per via d'impero », è giustizia. L'abile e l'astuto, in fondo, non hanno di mira che se stessi.

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Da ciò concludiamo che l'oratore cristiano, benché si adoperi a provare, a dedurre, a giustificare, a motivare, a persuadere con tutti i mezzi dell'uomo, in fondo, rimane, e deve mostrarsi, a titolo principale, colui che afferma, e che non dipende, come tale, da nessun giudizio. L'affermazione apostolica esprime la fede e dev'essere potente come la fede. Un certo bisogno di dimostrare tutto molto presto, di difendere paurosamente tutto quello che si dice, come se si volesse farlo perdonare e si volesse coprire con lo scudo della ragione l'autorità di Dio stesso, ciò non è virilità soprannaturale, e l'onore di Dio ne scapita.

Noi non abbiamo da patrocinare le circostanze attenuanti in favore di quello che diciamo. Non abbiamo da chiedere grazia, come se il secolo sdegnoso fosse la grande persona e la Chiesa il bambino. Questo secolo è troppo da compiangere per le sue resistenze e per la sua notte perché sia caritatevole o ragionevole il menargli buono questo atteggiamento e l'uniformarvi il nostro. Gli faremo noi una gloria di quello che lo manda in perdizione? Amiamolo abbast&nza per non tremare davanti a lui, e per dirgli « in faccia », come S. Paolo, quello che è e quello che gli manca.

Il tono del Vangelo, a questo riguardo, è quello che ci conviene, a parte i diritti sovrani che solo Cristo esercita. Egli ha il dono primitivo dell'affermazione, e lo comunica a quelli che rende partecipi del suo Spirito di sapienza. Egli afferma come una sorgente che sgorga, e noi, come una fontana che emette quello che ha ricevuto. Quello che procede in Lui da un'intima evidenza può venire in noi da un'intima fede, e questa fede sarà per l'uditore una forza. Il profondo convincimento dell'apostolo è uno degli strumenti più potenti della conversione delle anime; esso stupisce l'incredulo; scuote, fin da principio, senza dubbio; specialmente se è il convincimento di un uomo che conta, di un uomo che riflette, di un uomo che si sente in grado di provare. La prova, allora, per dir così, non è richiesta; si prende l'uomo per una prova vivente.

Così avviene dell'audacia nell'esortazione e nella caritatevole invettiva; essa ridesta il peccatore dalla sua falsa sicurezza e lo invita ad aprirsi alle grazie vittoriose. Biprendili severamente, raccomanda S. Paolo a Tito (II, 13). Un'intrepida tenerezza è il preludio obbligato delle divine misericordie, e là dove la perdizione di tante anime è in causa, un vago richiamo dei doveri non basta, « ci vogliono dei bottoni di fuoco »,

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dice Giovanni d'Avila. Quando dicevamo con 8. Gregorìo:

« Dio segue i suoi predicatori », non potevamo forse aggiungere:

Egli prende la loro andatura? Debole della nostra debolezza o forte della nostra forza, sarebbe dunque l'alternativa a cui la sua provvidenza si sottomette! Questo ci deve decidere.

^ Del resto dobbiamo comprendere che l'autorità richiesta | dal predicatore non è un'autorità affettata, ostentata, che a sarebbe offensiva per il gusto e per le convenienze oratorie del pari che per l'umiltà, sulla quale poggia l'autorità dell'apostolo. Un buon oratore non mette in mostra il suo potere, che egli lo incorpori a quello che dice, come una proprietà delle cose stesse, è la convenienza; che la verità della sua causa risplenda allora in tutto il suo fulgore, è la bellezza. « Senza l'arditezza, e un'arditezza estrema, dice Eugenio Delacroix, non vi è bellezza » (1). Ciò è vero in tutte le arti; ma nell'oratore cristiano, l'arditezza sarà tanto più bella, e conveniente, ed efficace, in quanto che la si proverà come una spinta inferiore venuta dallo Spirito divino, senza che nessuna volontà orgogliosa s'interponga.

Bisogna però non falsare questa felice arditezza portandola fino alla presunzione.

In quanto al fondo delle cose, la presunzione si può mostrare talmente grave da cagionare la rovina del ministero, e preparare quella dell'uomo. Tal è il caso, se l'oratore insegna come nel suo proprio nome, secondo idee personali, senza riguardo allo spirito e alle direttive della Chiesa, ostentando per esempio la falsa modernità che abbiamo denunziato, o producendo tesi arbitrarie, pericolose, in fatto di dogma o di morale cristiana.

Così, sull'orgoglio e sull'umiltà, sulla malizia o l'innocenza della menzogna, sulle leggi del matrimonio, sul sesto comandamento, sul peccato veniale o mortale, sulla pretesa irresponsabilità dei pagani, ecc., ecc., corrono delle proposizioni più o menò condannabili a cui la nostra adesione non darà nessun peso, ma che ci toglieranno il nostro ingannando e traviando le anime.

Con minore gravita, un altro genere di presunzione può nuocere al ministero del sacerdote: io penso alla scelta dei soggetti, ai teatri sui quali ci produciamo, agli uditorii che ci scegliamo, agli avversar! che affrontiamo.

(1) Jourmd, t. II, pag. 15.

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Altiora tè ne quaesieris, ci dice la Scrittura (Eceli., Ili, 22). Cercare quello che è grande è in sé una bella ambizione, purché ciò non sia l'ambizione, cioè, purché si tratti dell'opera, non di se stesso. Ma, d'altra parte, un'opera e un compito non sono grandi se non sono esattamente misurati e proporzionati a chi se li assume. Io sono, io agisco, ne risultano degli effetti;

fra questi tré termini una naturale corrispondenza si stabilisce, e se l'azione pretende di valicare l'essere, il risultato, l'azione, tutto è turbato, nessuna cosa vale più per il bene.

Teniamoci dunque sapientemente in quello che sappiamo fare, in quello che possiamo far bene. Desideriamo tanto di èssere noi stessi! ebbene siamolo adattandoci alla Provvidenza, che ci fece tali e non altrimenti, che attende da noi queste cose e non quelle altre. Andare fino a capo di sé è l'ideale dell'azione; al di là, è la caduta; il « conosci tè stesso » è anche rivolto al predicatore.

In quanto alla forma, la presunzione sffa riconoscere dal tono pretenzionoso che proietta in avanti la persona,—da un'affettazione di magniloquenza fuori di posto, — da comparazioni saccenti, da celie pericolose di fronte alle difficoltà, alle obiezioni formidabili che si presentano; — dal modo di prendersi delle libertà, delle familiarità coi grandi soggetti, coi grandi pensieri e coi grandi esseri, o ancora da citazioni inette quanto gloriose, come se dicessi con Bossuet: « Io ho appreso da San Giovanni Crisostomo...»; « S. Paolo m'insegna...». Bossuet parlò anche coi «resti di una voce che cade e con un ardore che si spegne »: tè ne serviresti tu?

Tutto ciò è offensivo e diminuisce grandemente l'effetto della parola; in un principiante, ciò inquieta o invita a sorridere. I giovani non amano che si sorrida di essi; ebbene stiano sicuri che così avverrà se il loro discorso è senza umiltà e senza misura. Quello che piace in essi è la squisita spontaneità messaggera di speranza; la pretensione urta e disillude, essa fa sì che non si ammiri ne si speri più.

V.— L'orgoglio e l'ambizione umana.

La presunzione, l'ambizione, l'orgoglio, sono strettamente imparentati nelle loro cause e nei loro effetti; si distinguono in questo che la presunzione intraprende oltre a ciò che conviene, qualunque sia il motivo; l'orgoglio esalta la persona

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oltre il dovuto; l'ambizione anela con passione agli onori e all'impero. Possiamo trattare in comune di questi due ultimi difetti, perché le considerazioni da fare sono le stesse.

Un fatto psicologico abbastanza curioso è che l'Orgoglio» con la sua sorella, la vanità — specialmente questa, è vero —k sono solite di appiccicarsi principalmente all'uomo che parla. o che canta. Si direbbe che la persona si proietta nello stesso tempo che la voce e cerca di esplicarsi come le onde sonore, La parola mette anche facilmente sulla china dell'ambizione, perché essa è cosa sociale, cosa che mette in avanti, cosa so^ nora e che, se riesce, promette dei successi più sostanziali. Quanti sacerdoti si fanno della predicazione un mezzo di ascensione nella sacra gerarchla!

In ogni caso, orgoglio, vanità, ambizione sono i nemici della parola a tal punto da falsificarvi tutto e introdurvi i numerosi difetti fin qui menzionati e quelli che dovremo additare ancora.

Ciò comincia dalla scelta degli uditorii, come se non tutti fossero formati di figli di Dio, come se Gesù non avesse inteso di dare la sua sublimità a tutti i contatti, dando per contrassegno del suo Vangelo l'annunzio ai piccoli.

Si può andare per virtù ai grandi uditorii e agli uditorii scelti; basta che così decida l'ubbidienza o una prudente amministrazione di se stesso; ma preferire orgogliosamente questi uditorii, e soprattutto provare disgusto, avversione per gli uditorii modesti è un pessimo segno; ciò significa che si di' mentica il proprio ufficio d'inviato, che si parla per sé, che si tratta di godere di se stesso nella parola o di attirarsi lode e vantaggio.

Il disordine continua con la scelta dei soggetti di parata, non di utilità; di curiosità più che di dottrina o di pratica. Si posa da filosofo, da letterato, da sociologo, da csteta; si dimentica più o meno l'apostolo.

Impegnato il discorso, eccolo falsato, forse fino nel suo fondo, se si dimentica che l'orgoglio travia lo spirito quanto l'umiltà lo conserva. « Offrirsi alle ispirazioni mediante le H umiliazioni », è una formula di Pascal che Boutroux ripeteva spesso, convinto della profondità e della fecondità di questa morale. Per costruire, si mette prima il terreno a nudo e lo si scava; l'orgoglio, ingombro di se stesso, non sa fare piazza pulita, ne scavare.

;i 12 — SBKTllLAsaBS L'waiwe cristiano.

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Quanto alla forma del discorso, 'le sottigliezze che abbiamo condannate, i vani ornamenti, la tronfiezza, la mancanza di adattamento e di semplicità evangelica, quasi non hanno altra sorgente che questa; le altre, ad ogni modo, si inaridiscono per l'esperienza, questa invece gonfia sempre le sue acque. Così tutto si trova sviato, perché, circa lo scopo proposto, il sacerdote è sviato lui stesso. Uno strumento che ha esigenze proprie è forse molto maneggevole per chi lo adopera? Chi dice strumento, dice servizio; chi dice servizio, nello spirituale, dice umiltà cioè vera grandezza; infatti non è forse più grande essere strumento di Dio che agente principale di se stesso? Piegandosi sopra la sorgente pura del Vangelo, che cosa è. più bello, essere abbagliato dalle sue profondità, o fermarsi, come Karcisso, alla propria immagine?

L'orgoglio, l'intervento dell'io fa ostacolo a ogni vera eloquenza, compromettendo anticipatamente ciò che ne è la ragione di essere e la pietra di paragone: la causa che essa difende. « La causa! la causa! la causa! è tutto il Signor de Falloux », diceva Cousin del grande avvocato, stimando di rivolgergli così la suprema lode. Ma come meritare questo giudizio, se si pensa prima a sé?

Luigi Bonaparte, essendo ancora ad Ham e mandando a •uno de' suoi amici la sua Eastinction du paupérisme, accludeva questo biglietto: « Leggi questo lavoro sopra il pauperismo,, e dimmi se tu pensi che esso possa fare a ME del bene » (1). Il mezzo, dopo ciò, era di non diffidare del lavoro stesso! Si diffiderà di una dimostrazione scientifica, se si vede nell'autore la minima volontà d'imporsi, di mettere il proprio pensiero al sicuro, col rischio di esporre la verità alle offese. Quando /Laplace pubblicava la sua Mécanique celeste, Biot era ammesso a leggere le bozze e faceva le sue osservazioni. Ora le sue obiezioni si riferivano quasi sempre ai passi che cominciavano così: « È facile vedere... ». Segno impercettibile e che non rovina il capolavoro; ma che è molto istruttivo, per l'oratore come per l'uomo di scienza e per lo scrittore.

Giovanni d'Avila, parlando del predicatore che cerca di ' accaparrarsi le lodi a spese della divina parola, porta questo paragone impressionante: Avviene come di un ambasciatore incaricato di negoziare un matrimonio per il suo principe, e

(1) victob httbo, NapoUon le Petit. L'autore assicura di aver visto il biglietto.

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che lo concludesse per sé. È spaventoso pensare che la predicazione possa essere così un peccato, come la santa Mensa un sacrilegio! Fuori dei casi più gravi, non si tratta che di mescolanza, ma questa mescolanza è già assai disdicevole. E l'uditorio, lo si sappia bene, non è scemo; esso ha presto intuito l'orgoglioso e lo disistima, il vanitoso, e se ne burla. Io non ho mai dimenticato un predicatore di esercizi spirituali, che a noi, collegiali da dieci a sedici anni diceva: « Plafone, che io, dopo il mio uffizio, leggo tutti i giorni... ».

Ciò non sempre è così marchiano; ma il pubblico è sottile. Quando tu porti una fiaccola, egli capisce benissimo se tu hai voglia di far lume, o se fai il gesto della Libertà che rischiara il mondo, o quello di lady Macbeth che scende la gradinata, Bonnat, mostrando a Degas un Tiratore d'arco di uno dei suoi allievi, gli diceva: « Come mira bene, nevvero, Degas? ». — «Sì, esso mira a una medaglia ». Da che cosa lo riconosce va i...

In ciò che riguarda noi, i frutti si risentono di simili « mire ». Giudicata o no, la qualità della nostra azione è quello che determina la reazione dell'uditorio. Noi ci mettiamo in contatto con le altre menti e le trasciniamo appunto tenendoci vicino alle idee e lontano da noi stessi. Colui che predica per il « suo santo » non ha nessuna probabilità di convertire altri, tema piuttosto di perdere se stesso.

Certi direttori d'anime hanno detto che se un sacerdote si sente invaso dall'orgoglio o dall'ambizione per la sua parola, non deve predicare: aspetti di avere acquistato nel ritiro un cuore ancorato in Dio e più sicuro di sé. Bisogna confessare che questo consiglio è raramente praticabile. Tuttavia si comprende; perché, se è facile a un uomo sincero e laborioso rialzarsi da una sconfitta, un orgoglioso in vece non si rialzerebbe da un felice successo; il « riuscire », come egli lo intende, sarebbe un diventare per sempre un retore; sarebbe meglio il silenzio. Ma vi è un altro rimedio, ed è di correggersi.

I mezzi di difesa, per l'interno, sono l'unione con Dio, il sentimento della propria responsabilità riguardo alle anime, il ricordo delle proprie colpe e la confessione delle proprie insufficienze, che possono diminuire enormemente il frutto. Si pensi piuttosto a quello che si sottrae, anziché a quello che si apporta. Per l'esterno, si possono fissare le regole seguenti:

K^on vantarsi mai dei proprii successi; non scusarsi delle sconfìtte, ciò che è lo stesso e dimostra del resto una grande inet-

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tezza. Se tu ti lodi, gli altri ti biasimano a 1bnon diritto; se ttti, ti biasimi, gli altri si fanno premura di rincarare la dose sottò^ forma di consolazioni mortificanti. '

In pulpito, si prenderà per legge di non mettere mai avanti la propria persona; ciò non serve a nulla; anzi nuoce all'oratore;

e in quanto all'uditore, vi è un mezzo assai più sicuro di piacergli, ed è di parlargli di lui stesso. « Quei che godono tanto di parlare di sé, fu detto, dovrebbero ben pensare che si ha poco piacere a udirli ». Oltre a quell'istinto d'ordine tutto umano, il pubblico, ai piedi della cattedra, ha ragione di desiderare che gli si parli di lui. Non è forse a lui che siamo inviati? Egli ha il sentimento del suo diritto; che egli vi aggiunga, e tutto gara bene, quello del suo dovere, che è di ascoltare dentro, come noi, la verità eterna. « Ascoltami, cristiano, o piuttosto no, ascolta con me, ascoltiamo insieme, impariamo insieme » (1).

Del rimanente, guardiamoci, in simile materia, dal cadere negli scrupoli. L'orgoglio è insradicabile; tutto quello che si può fare è di ridurlo ai minimi termini. Se è vero, come diceva sorridendo S. Francesco di Sales, che vi è in noi dell'amor proprio un quarto d'ora dopo la morte, sarebbe vano aspettare, per operare, una vittoria completa. L'uomo in stato di combattimento è già moralmente vincitore. La sposa de' Cantici ha della polvere sui sandali, ma cammina; l'uomo d'orazione ha delle distrazioni assedianti, ma prega. S. Bernardo ci suggerisce la verità completa quando scrive: « Non voglio, Satana, ne salire in cattedra per tè, ne discenderne per cagion tua ».

VI. — II vero zelo e la fiducia fondata in Dio.

L'ultima qualità dell'oratore cristiano di cui abbiamo da parlare è quella che deve animare tutte le altre: lo zelo, e noi aggiungiamo allo zelo la condizione del suo slancio parlando della fiducia fondata in Dio.

Lo zelo è un ardore e come un'inquietudine che non ci lascia riposo, quando si tratta di Dio e della salvezza delle anime. È una gelosia di Dio e delle anime, e, per questo, è uno slancio di conquista, un entusiasmo di combattente, che fa della nostra parola un'opera guerresca. Bisogna che

(1) S. agostino, 8erm., OOLXI.

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Cristo vinca! bisogna che le anime lo seguano e che la sua salute le salvi.

Abbiamo qui due oggetti, solidali, ma subordinati l'uno all'altro, l'uno più grande dell'altro. La gloria di Dio è più preziosa della salute di qualsisia; onde, in certi casi, si deve rischiare lo stesso interesse delle anime per l'onore della verità, per il bene comune dell'opera divina; ma ciò stesso ci avverte che, generalmente parlando, i due oggetti si ricongiungono. Dio non ha altra gloria nella creazione che la salute de' suoi esseri, e per questo la carità nel suo doppio oggetto non è che un solo amore.

Così è, la carità è qui il principio; lo zelo non è che il suo fuoco. Si tratta di eseguire i piani di Dio, che sono piani di amore, che hanno per mezzo una legge di amore, per termine la consumazione dell'amore; si tratta di arrivare a questo termine insieme; lo zelo si slancia per aprire le vie.

Chi non ha la carità nel cuore può ben fare la smorfia dello zelo, anzi il suo gesto sincero, se ha il desiderio di ricuperare l'amicizia del suo Dio; ma il vero zelo è ancora assente da lui, e a dire il vero, non essendo amico di Dio, dovrebbe tacere, perché la sua parola non ha più oggetto.

Nell'amico di Dio invece, è normale che lo zelo sia allo stato di idea fissa, come l'effetto di una grande passione. Passione nel cuore, idea fissa nella mente: queste due cose sono in piena corrispondenza; è lo stato di tutti i grandi apostoli; una specie di entusiasmo abituale lo tradisce, e l'etimologia da la ragione di questo segno, poiché entusiasmo significa ispirazione di Dio.

Un tale sentimento ci strappa in modo affatto naturale a noi stessi e ci disinteressa di noi stessi; infatti l'amore si trasporta in ciò che esso ama e vi colloca l'interesse della sua vita. Lo zelo della tua casa mi divora, e le offese de' tuoi nemici sono cadute sopra di me, dice il Salmista (LXVIII, 12), Lo stesso zelo farà dire a S. Paolo: Noi desideravamo di darvi non solo il Vangelo di Dio, ma anche la nostra stessa vita (I Thess., II, 8). E a S. Agostino: «Ah! se voi non mi ascoltate e se io non tralascio di parlare, avrò, per conto mio, salvato l'anima mia; ma io non voglio essere salvo senza di voi » (Serm., XVII)..

Per conseguenza non dobbiamo punto risparmiarci. Noi siamo tutti di Dio; siamo tutti delle anime; esse hanno diritto al nostro tempo, al nostro lavoro, al nostro riposo, alla nostra salute, alla nostra vita; non si tratta che di amministrare

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prudentemente — per loro, non per noi — il bene di Dio e delle anime.

La condotta del predicatore, in queste condizioni, dipende dalle circostanze e dalla sua propria ispirazione, sotto il controllo dell'ubbidienza. Vi è la regola comune, e vi sono gl'im-, pulsi dello Spirito. Il P. Saudreau aveva fatto voto di non rifiutare mai una predica; ammalato in seguito a eccessive fatiche, rinnovò il suo voto, ciò che non gl'impedì di conoscere la vecchiaia. Il curato d'Ars, oltre alle sue immense occupazioni, predicava tutti i giorni. Così faceva S. Vincenzo Perreri; cosi fecero spessissimo i Padri della Chiesa. Oggi, salvo casi molto rari, non vi è che il giornale che predichi tutti i giorni, e non è per il meglio.

Un altro effetto dello zelo, è che l'apostolo vorrà arricchirsi e progredire, a fine di meglio effondere. Tutte le qualità interne o esterne che abbiam menzionato, accorreranno alla chiamata di questa; si vivrà nella preoccupazione di acquistarle, di perfezionarle, perché l'amore non aliena nessuna delle sue fortune. Al di sopra di tutto, l'apostolo si terrà in una elevazione di pensiero e di cuore, in un'impressione di Dio e delle anime, in un sentimento della vita soprannaturale e della sorte che essa prepara, in un'ambascia delle cadute e dei pericoli a cui le anime sono esposte, che compongono la calda atmosfera in cui lo zelo si deve muovere.

Kon è tutto. Lo zelo, effetto della carità e causa della parola, non da a quest'ultima unicamente la sua esistenza e il suo slancio esterno, ma la caratterizza nell'interno; ne è il genio proprio, e perciò, in fondo, lo zelo è il grande maestro di rettorica sacra.

Ernesto Hello definiva il genio « un desiderio in atto », e viceversa il desiderio « il genio in potenza ». A questo prezzo, ogni uomo di zelo, cioè ogni uomo che ama, è eloquente. ~8on è forse quello che disse il Lacordaire in mia celebre frase? Emerson aveva già detto: « L'uomo eloquente non è colui che è un parlatore di talento, ma colui che è intimamente ebbro di una certa credenza » (1). E Mozart: « S'è l'intelligenza elevata, ne l'immaginazione, ne tutt'e due insieme formano il genio. Amore! amore! amore! ecco l'anima del genio» (2).

(1) SociéU et Solitude, trad. Dugard, pag. 90.

(2) Scritto sull'albo di Gottfried Jaquin, 11 aprile 1787.

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Emerson cita questo proverbio dei cacciatori di fiere d'America: « La palla che raggiunge il bersaglio è quella che è stata temprata nel sangue del cacciatore ». Abbiamo qui un'idea di sacrificio, ma anche la rimembranza dell'ardore interiore, della dedizione a una causa fino al sangue, se occorre. È la passione. Se l'amore di Dio e delle anime non è in noi allo stato di passione, noi saremo necessariamente deboli; non avendo fiamma intcriore, non avremo espansione, e l'eloquenza è una espansione, un soffio.

Vi sono dei bravi predicatori che non sono certo riprensibili, i quali fanno correttamente il loro ufficio, danno una tal quale soddisfazione ai loro capi e ai loro uditori, lavorano e sono fedeli ai doveri del loro stato; ma nessuna fiamma sembra ardere in loro. Ah! essi non metteranno fuoco alla terra! Sono anime spente. Si direbbe che lo scopo da raggiungere, l'immenso bisogno delle anime, e la miseria del mondo in ogni tempo, tutto questo sfugga loro. Sarebbe vero che essi non vi pensano mai? Allora la virtù propria dell'oratore manca al loro ministero.

D'onde vengono, nelle Epistole di S. Paolo, quei getti che dilatano tutt'a un tratto e sorprendono l'anima, la afferrano, la soggiogano — eppure questa scrittura, per rapporto al verbo che s'immagina, non è che una lava raffreddata, — d'onde viene questo, se non da un'esclusiva passione per Cristo e per le anime in Cristo ? Le famose « figure rettoriche » che riempiono i trattati di eloquenza arrivano lì come d'incanto;

• per istinto, l'amore le suggerisce, perché « è l'amore che scopre i mezzi di soddisfare l'amore » (augusto comte).

L'amore, che è « forte come la morte », non potrebbe par-; lare fiaccamente di ciò che perde le anime, di ciò che le può : salvare, di ciò che le da a Dio o gliele strappa, di ciò che frustra la croce o la fa risplendere, gloriosa, sopra la terra nuova di una regione o di un cuore.

Certo, lo studio è sempre necessario; un uomo istruito ^ ne vale due; ma noi abbiamo sempre detto, anche glorifìcan-;,: dolo, che lo studio da solo non potrebbe bastare. Bisogna n— i; salire alla sorgente. Non è Quintiliano, ma la passione che in-t ventò i tropi; Quintiliano viene dopo, e, anche dopo, non è ^ che un importuno se egli non ritrova, per la passione, quello che la sua analisi ha tratto dalla passione primitiva. In arte bisogna sempre inventare, sempre reinventare, sul posto, oppure non si ha se non dell'inventato, del raffreddato, e non ne potrà scaturire la commozione.

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Si ms me fiere, flendum est primum ipsi Ubi; commosso, commovi; infiammato, infiammi; spaventato, spaventi; pieno di desideri, li comunichi. Ci vuole un certo dono; ma, se anche fossi mediocremente dotato, una santa passione fa passare nella tua voce, ne' tuoi atteggiamenti, ne' tuoi movimenti, in tutta la tua persona, come prima nella tua composizione e nel tuo stile, tutto quello che può soddisfare negli altri il bisogno del loro cuore. Non parlava di uomini di genio S. Filippo N'eri quando diceva: « Datemi dieci preti animati dal buono spirito, e io vi dò il mondo intero per convcrtito ». Mettiamo dodici, il numero degli apostoli. Ma allora dotali di quell'eloquenza vera, « che si burla dell'eloquenza », secondo il detto di Pascal. A ciò sostituisci, invece, il puro mestiere, O la voglia di brillare, l'amor proprio: tutto si raffredda, tutto gi agghiaccia, anche con un'apparenza di calore che allora non è che un calore fittizio. Un fuoco diaccio! ecco la strana impressione che ti da un calore rettorico senza amore.

Prendendo la questione dal lato dell'oggetto della parola, si potrebbe dire: l'eloquenza è una evocazione; si tratta di far vedere, di far vivere agli occhi le cose, e ciò è l'effetto di un ardore intcriore che suppone delle facoltà, ma anche, dietro dietro, il loro motore. Perché la verità trionfi, bisogna che la si rizzi davanti all'uditore come una realtà vivente, benché essa appartenga al mondo dell'astratto; costringente, quando il senso umano la trova fastidiosa; avente diritto, quando il diritto alla vita si annette a tutt'altri beni, e posseditrice della felicità, che per le nostre evidenze di uomini terreni abita in regioni più vicine. Come vi potrai riuscire, senza che prima sia tu stesso pervaso di questa verità e votato al suo regno?

L'eloquenza cristiana è un traboccamento, una invasione della verità che ha pervaso un cuore, e che questo cuore spinge in altri cuori con tutta la forza de' suoi palpiti. Se niente palpita, o se non vi è niente, che cosa potrà passare? non si vedrà circolare altro che parole. Tisicamente la parola è una respirazione articolata: abbi Dio dentro ed Egli sia come il tuo soffio, allora articolerai Dio.

« Nostro Signore, dice S. Francesco di Sales, non domanda a S. Pietro: Sei tu dotto o eloquente? per dirgli: Pasce oves vmeas; ma Amas me? Basta ben amare per ben dire » (1). Pati) st. :b'bakcois db salbs, Lettre 218.

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rola audace! parola che non è vera letterariamente, ma che è vera spiritualmente, e che il fatto verificherebbe, gè l'amore raggiungesse il sublime. Vero è che, in questo caso, l'amore vorrebbe procurarsi tutte le armi, comprese quelle che una sana letteratura ci fornisce.

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Poste tutte le condizioni, si ha il diritto di dire che i limiti dei nostri risultati sono quegli stessi del nostro zelo e della nostra carità apostolica, e per questo noi menzioniamo come ultima qualità spirituale dell'oratore cristiano la fiducia.

Non potremmo esprimerci così, parlando di un uditore in particolare; la libertà individuale ha il potere di resistere a ogni influenza, anche la più pressante: ma riguardo a un insieme di anime aventi la medesima vocazione soprannaturale e i medesimi soccorsi dall'alto, si può dire che solo la nostra debolezza forma la nostra impotenza; più forti, noi indurremmo i nostri cari avversar! non solo a cedere, ma a combattere la stessa battaglia, a diventare degli apostoli essi stessi. Non è forse tale per noi la mèta del supremo sforzo? Un'anima ha forse ricevuto sufficientemente della rugiada del cielo, se ella non diventa una fonte? Un cristiano perfetto è quello che ne suscita altri, come si chiama animale perfetto quello che può L generare. Nel soprannaturale, come dovunque, il bene si compie oltrepassando se stesso e riversandosi.

È questa una delle ragioni per le quali un predicatore non ha motivo di turbarsi, se non ha davanti a sé che un piccolissimo uditorio; l'amor proprio può esserne mortificato; ma non è che un nuovo motivo di sperare. Un'anima sola vai bene ogni nostra pena; « Dio pesca le anime con la lenza, si dice, e il diavolo con la rete ». Poche anime, in vece di una turba, ci danno occasione di rendere la nostra parola più intima, più insistente, in grazia di una specie di segreto, e, per mezzo di queste anime meglio compenetrate, noi possiamo raggiungerne altre. Gesù fece un sublime discorso alla sola Samaritana; ella partì e gli condusse una città dicendo: « Non sarebbe questi il Cristo ?». Se la gente, ritirandosi dai piedi del nostro pulpito, potesse dire: Non sarebbe questo il Cristo? non sarebbe questa la salute? non sarebbe questa la felicità? E perché no? La sorgente viva non cessa di sgorgare; attingendo nel nome di Cristo, noi possiamo dare l'acqua che zampilla fino alla vita eterna.

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La fiducia dunque è qui di diritto, e « i nostri dubbi sono dei traditori » (1). Occorrendo, non abbiamo paura di una certa follia generosa, che è uno stimolo dell'azione e fa dell'illusione stessa una forza. «Vi è forse un'ingenuità all'origine di ogni impresa », si dice (2). Giovanni d'Avila, nel momento di prendere la parola, si persuadeva che avrebbe potuto conver-tire tutto il suo uditorio; in fondo, egli non era gonzo; ma questa nobile immaginazione lo infiammava e rinnovava il suo zelo.

Come dicevamo fin dal principio, ciò suppone che le nostre speranze siano fondate in Dio. Le nostre speranze apostoliche sono fondate in Dio prima in questo senso che noi, per i nostri risultati, facciamo assegnamento su quello che Dio è riguardo alle anime, sul valore infinito di ciò che egli offre e che noi speriamo, sul fatto che le anime, senza saperlo, lo attendono e gli si precipiterebbero ardentemente incontro, se noi sapessimo mostrarlo, aprire gli occhi alla sua luce e spogliare dei loro prestigi gli idoli che gli si sostituiscono.

Di fronte ad anime di buona volontà, la fiducia, sotto questo rapporto, ha il suo fondamento vicinissimo: si ha fame, e noi rechiamo il cibo celeste; il banchetto sarà giocondo. Ma se la buona volontà manca, vi è sempre la necessità; in assenza della fame sentita vi è la fame essenziale, il bisogno: spetta a noi di far avere fame nell'altro senso della parola, di « fare avere voglia », come dice Pascal. ~Soi abbiamo tutto quello che per questo occorre, coi nostri tesori di suggerimenti e di promesse. La nostra speranza, allora, prende un doppio oggetto: noi speriamo che potremo fare sperare la verità, farla desiderare, e poi farla raggiungere.

Vi sono di quei che pretendono che in questo o in quell'ambiente, in questa o in quella parrocchia, « non vi sia nulla da fare »: costoro pensino dunque a un curato d'Ars, a un 8. Carlo Borromeo, a un 8. Francesco di 8ales, a un 8. Vincenzo de' Paoli, e vedranno se non vi è niente da fare! In vero, spesso noi spostiamo la questione; per non accusare noi, accusiamo le persone e le cose. È verissimo che vi sono delle situazioni difficili; ma alla fine dei fini, questa verità sussiste e deve farci riflettere: le nostre sconfitte collettive sono sempre, sempre delle insufficienze.

(1) shakbspeasb, Mesure pour muure, aote ler.

(2) bbketabd gbasskt, Kemarque sur l'action.

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Del rimanente, quando noi giamo lì con tutta la nostra preparazione e con tutto il nostro zelo, anche Dio è lì con la sua grazia. Senza di Lui, noi sappiamo di non potere far niente;

ma perché saremmo noi senza di Lui? Non abbiamo noi dei diritti? « L'obbligo di dare è un diritto di ricevere », dice in questo caso S. Agostino (Lettera 266). Dopo tutto, quando predichiamo, noi pensiamo quello che pensa Dio, vogliamo quello che vuole Dio, facciamo quello che fa la sua provvidenza, noi siamo la sua « voce » e il suo braccio: non ci deve egli il soccorso? Dio è qui la causa prima, e noi lo strumento: se

10 strumento non si sottrae e non spezza la disposizione prevista per la salute degli uomini, come dubitare della causa prima stessa? È anche vero a beneficio del predicatore l'adagio teologico: facienti quod in se est, Deus non denegai gratiam.

Sapendo questo e contandoci su, il predicatore si trova a un tempo moltipllcato in se stesso e aumentato di Dio. Se, grazie a Dio, egli già ha potuto fare delle conquiste, è un accrescimento di fiducia: quello che Dio ha fatto, Dio lo farà;

ancora; quello che egli stesso ha potuto con Dio, perché, di nuovo, non lo potrebbe? Se lo dica accostando il pubblico; segua

11 consiglio di S. Francesco di Sales e, guardando il suo mondo, pronunzi nel suo cuore, nel nome di Gesù Cristo del quale è il rappresentante: Veni ut isti vitam habeant, et abundantius habeawt » (1). Egli enunzierà così una speranza maravigliosa;

ma il ciclo e la terra gli assicurano che non oltrepasserà punto il suo diritto.

(1) sactt KiAirgois de sales, Letfre 218.

; IiIBEO in.

L'ESERCIZIO EFFETTIVO DELLA PAROLA DI DIO

• CAPITOLO!.

La scelta dei soggetti « dei generi.

Bisogna venire all'attuazione. L'oratore preparato, munito' di tutti i suoi mezzi, si mette al lavoro e comincia, se ne ha la libertà, col scegliere i suoi soggetti.

Non temiamo il luogo comune; non è vano dire a un uomo religioso: Scegli dei soggetti religiosi. La gente seria deplora che la cattedra sia invasa dai soggetti profani, da studi letterari, filosofici, politici, artistici, sociali, di cui certe parti, certamente, ci riguardano, ma che molto spesso si spingono oltre ai loro aspetti religiosi. Il pubblico vi si presta volentieri; esso si fa complice di una deviazione che trastulla la sensibilità o soddisfa la sua curiosità dimenticando di ridestare la sua coscienza;

ma ciò non ci assolve affatto. Una volta, la religione era la politica, la filosofìa e la scienza sociale del tempo: a noi non si addice di trasferire a queste discipline secolari la religione del tempo presente, che ha tanto bisogno di religione vera.

Non ci opponiamo che uno specialista imprenda a trattare qualcuno dei domimi umani e tenti di unirlo, com'è necessario, ai dominii della fede. Tutto ci riguarda, come spesso abbiamo detto. Ma c'è il modo. Bisogna anche misurare la propria competenza. Quei che si lanciano storditamente nelle conferenze sociologiche, scientifiche, storione, senza formazione

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appropriata, e Cercano per questo gli uditorii speciali senza avere una cultura speciale, si espongono alla derisione, oltre al male che fanno e al bene che dimenticano di fare. In tal caso, scrive Amiel, «i semplici avrebbero il diritto di dire, e lo dico io con loro: Essi tolsero il mio Signore, e non so dove

10 abbiano messo » (1).

Le menti veramente atte e preparate a questo genere di lavori sono rare, si ammirino e non si imitino troppo; essi stessi qualche volta provano rimorso di certe iniziative, di audacie troppo precoci o troppo poco meditate: non aggraviamo i loro rimorsi subendo il contagio dell'esempio. Salvo speciale indicazione o autorevoli consigli, il predicatore farà bene ad attenersi al Vangelo, bene inteso nel senso larghissimo della parola, il quale comprende tutto ciò che abbiamo menzionato parlando delle nostre fonti.

Soprattutto, il predicatore non si limiti a quel moralismo per altro distinto che forma il fondo della predicazione protestante. La pratica si appoggia naturalmente sul dogma, come

11 dogma si estende verso la pratica; la « fede », « il Vangelo » è appunto questo continuo scambio di lumi soprannaturali e di stimoli, di considerando e di precetti. E tutto questo così difficilmente trova ascolto, e noi, uomini di Dio, siamo, come Demostene, talmente davanti ai flutti rumorosi, che non ci conviene guari proferire noi stessi vani rumori.

È altresì opportuno ricordare una volta di più il detto di S. Paolo: Io non ìio creduto, in messo a voi, di sapere altro che Gesù, e Gesù crocifisso. Non già che ogni soggetto di predica debba riguardare direttamente la persona di Nostro Signore:

si può dare altrimenti soddisfazione alla pia ossessione dell'Apostolo. Ma il più frequentemente possibile, questa sacra persona intervenga, in se stessa, nelle sue parole, nella sua vita, e principalmente nella sua Passione. Un predicatore che non avesse altro che questo argomento, dice Mons. Isoard, che si facesse una felicità di approfondirlo, una scienza di ben presentarlo, e che lo portasse di città in città, di parrocchia in parrocchia, sarebbe sicuro di essere passato facendo del bene (2).

Le ragioni ci son note. Anzitutto l'esempio di Gesù stesso, che ha presentato la sua persona con pari arditezza e umiltà,

(1) amibl, Jowrnal intime, 27 maggio 1860.

(2) Mgr isoabd, De la Prédication. Paria, Joseph Aubanel, 1871.

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dandola per centro di tutto ciò che la sua missione comportava di benefizi per gli uomini. È Lui la religione vivente. Il Vangelo è Lui; la Chiesa è Lui; la liturgia, vita della Chiesa, si aggira attorno a Lui. La dottrina e la pratica non sono che il suo pensiero, i suoi ordini o i suoi consigli. La santa vita è la vita con Lui. I sacramenti sono una derivazione del suo essere e della sua azione, e ci uniscono a Lui. Dunque in Lui vive e si rivela tutto quello che noi dobbiamo insegnare o inculcare. Egli è il principio di spiegazione universale, il mezzo di raggiungere il fine, il nodo della storia. È la prova per eccellenza di tutto ciò che noi possiamo affermare, il motivo di tutto ciò che possiamo esigere, il mallevadore di tutto ciò che possiamo promettere. S. Tommaso lo chiama la legge di vita allo stato vivente, quasi quaedam lex animata, e con ciò Egli è -l'esemplare incantevole, l'attrazione, il fascino spirituale a cui non si resiste.

Ecco l'essere rappresentativo del cristianesimo. Ecco l'eroe che significa, come le produce, le vittorie dell'anima, il rè che incarna la patria eterna, l'amico che parla cuore a cuore, lo sposo dell'intimità celeste alla quale noi invitiamo le anime, il padre il quale raggruppa la famiglia dei figli spirituali dispersi, il fratello per il quale Dio è padre e che oe lo fa vedere. Il suo nome dunque risplenda e la sua persona sia sempre presente. 'Soia. si ha bisogno che di Lui, poiché è il nostro tutto:

non bisogna forse procurare d'incontrarlo?

TSe\ teatro, furono tratti molti effetti dai riconoscimenti di parenti da gran tempo separati e che tutt'a un tratto una peripezia rivela l'uno all'altro. A noi spetta di provocare la peripezia che porterà seco il riconoscimento dell'anima con Gesù Cristo. Egli è del nostro sangue e noi del suo; egli prese la nostra natura e ci comunica la sua: da questa doppia parentela deve nascere l'amore. Ohe il predicatore ci ravvicini e sappia mettere in rilievo i nostri lineamenti rispettivi: la vera umanità in noi, la divinità in Gesù, e tosto noi cadremo a'suoi piedi e nelle sue braccia.

Per le stesse ragioni attenuate, ma valevoli ancora, noi abbiamo consigliato di predicare spesso i santi. Occorre valersi a lor riguardo dell'interessamento dell'uomo per l'uomo, dell'attrattiva istintiva e della simpatia per un essere della nostra stirpe, che ha sofferto le nostre sofferenze, combattuto le nostre battaglie, e che ha vinto. Questo sentimento è molto facile a

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osservare. Vedi il movimento di attenzione e di viva curiosità che si produce in una sala, quando apparisce sul palco un uomo celebre del quale forse gli spettatori non si sono mai presa la briga di leggere le opere, e che sono così felici di vedere, così impazienti di udire. Il fatto sensibile, la persona, portano seco un'efficacia, e il soprannaturale ne approfitta. Anche lì, non è necessario dare tutto il discorso al personaggio vivo; ma all'occasione, è un guadagno.

Se trattasi di soggetti generali, a quanto dicevo del loro carattere spiccatamente religioso, aggiungo che, nella scelta, non ' bisogna temere i temi più tradizionali, i più semplici, perché sono a un tempo i più utili e, checché ne pensino taluni, i più ricchi,

Ci figuriamo volentieri che i soggetti « oratorii » siano dei soggetti straordinari, inediti, dal titolo rimbombante, e corriamo rischio, scegliendoli, di dimenticare il nostro dovere di catechisti e di apostoli, di dottori e di convertitori; ma inoltre diamo prova di puerilità e di stoltezza. I soggetti familiari di gran lunga i più fecondi, perché si riferiscono a tutta la vita; sono anche i più brillanti, quando una viva immaginazione e una sensibilità fine ne sanno estrarre quello che contengono. Per ;

questo basta considerarli dall'alto, come uno spirito sopran- ;

naturale vuole, e percepire i loro numerosi rapporti, ciò che è il trionfo dell'arte. Gli artisti non trovano il loro tornaconto nelle rarità, ma nella vita nel suo fondo e nelle sue condizioni permanenti. Le vere immagmi della vita sono sempre giovani, e più ancora quelle della vita soprannaturale, che attingono di più dall'eternità.

Dopo tutto, tenendoci nel nostro vero compito, non abbiamo mai davanti a noi se non dei grandi soggetti. Noi siamo sempre a tu per tu con Dio, a confronto col fine ultimo, con la natura e con l'umanità nei loro più alti aspetti; non basta forse siffatta grandezza, urge forse di cercarne un'altra? Un pubblico associato al dramma universale ed etemo non può essere deluso, se io gliene dò l'impressione viva. Che io sia 'l'uomo fra terra e ciclo, che io significhi la parentela della terra e del cielo, e si accetterà il mio messaggio.

Del rimanente non sono forse sempre nuove quelle cose, alle quali la gente non pensa punto? È il caso di noi tutti riguardo al soprannaturale, e quello che è nuovo già per la coscienza che lo approfondisce, diventa maggiormante nuovo per l'incoscienza. .

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Pra questi temi permanenti e affatto semplici che dovranno ricorrere incessantemente nelle nostre prediche, io vorrei citarne alcuni, non a titolo di soggetti propriamente detti — per questo bisognerebbe suddividerli, il che si potrebbe fare in molti modi — ma come motivi fondamentali, ispiratori dei soggetti stessi. Sarebbero per esempio: un giusto sentimento di Dio e di ciò che gli è dovuto, dei suoi benefizi, delle sue grandezze, sentimento quasi scomparso nella nostra società laicizzata e al quale molti soggetti tradizionali si riferiscono; — il vero senso della vita, così completamente smussato, per la ragione stessa, e anche nei cristiani praticanti; — il fine ultimo, i novissimi, la cui nozione a molti apparisce o puerile, se si tratta del cielo, o urtante, se è l'inferno che minaccia; — l'apprezzamento del bene e del male morale, della virtù e del peccato, della loro gravita tragica; — la carità nel grande senso della parola, così striminzito nel vocabolario corrente; — la vera natura della Chiesa, incarnazione continuata, grazia sociale, anima delle nazioni, in vece dell'organizzazione puramente amministrativa e utilitaria che tanti vogliono vederci; — la persona di Cristo, ancora una volta, col suo posto nella vita universale, nella vita individuale, nel tempo e nell'eternità; —• la concezione dell'ordine in ogni dominio, della gerarchla, dell'autorità, del bene comune, della subordinazione necessaria a un compito che ci oltrepassa e che pure è nostro, e ciò nella famiglia, nella professione, nella città, tra i popoli, in tutti noi insieme.

I soggetti che da ciò si traessero sarebbero i buoni; sarebbero inesauribili, e si stimerebbe quasi indifferente che si scelga l'uno o l'altro, quando si prenda questo, o quello nel suo centro, che coincide sempre col centro di tutti gli altri, e nel suo spirito che è soprattutto un solo e unico spirito.

Tutti i cibi sono buoni, purché facciano del sangue. Tutti. i soggetti diventano buoni, quando chi li tratta li vivifica con un'infusione energica dello spirito cristiano che regna in lui prima di tutto. Bisogna che lo spirito de' tuoi soggetti sia in tè. Il loro patetico ha più importanza che le'considerazioni parti- ;

colari che si espongono. Se non hai questo, i tuoi soggetti non tè lo daranno. «Il tuo soggetto sei tu stesso», scrive Eugenio Delacroix (1).

(1) È. deìaoboìx, QSuvfVS littéraires, t. I, pag. 68.

13 — SBliTlLLABeBS. L'oratore cristiano.

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Una considerazione utile è anche questa. Per quanto le circostanze lo permettono, è bene disporre i soggetti in serie, in vece di lasciarli allo stato isolato. È un elemento di successo. Lo sanno bene gli editori, i quali creano delle collezioni, ed anche gli appendicisti, abili a vincolarsi il lettore coli'attesa e col ricordo.

La dottrina cristiana è essenzialmente coerente; l'armonia intcriore e l'adattamento alla vita sono i suoi caratteri divini. La città di Dio non ha angoli isolati; essa è dovunque un solo palazzo di luce: facciamolo vedere, e in vece di pezzi disparati, che piovono lì senza che si sappia perché, offriamo se si può un catechismo vivente, un catechismo nel senso di Jouffroy, nel suo famoso ditirambo, intendo un soggetto un po' largo, bene studiato, che lascia nelle menti un'impressione netta, il sentimento di una crescenza spirituale, d'un arricchimento sopra un punto importante della vita.

Noto che a questo riguardo il discorso dogmatico e la tesi morale non sono i soli ad ammettere delle possibilità. Anche l'omelia si presta all'insieme; essa può raggnippare dei testi scelti, classificati secondo il loro carattere comune, e che si fanno concludere. Per esempio: i varii annunzi della Passione, le Parabole del Eegno di Dio, i perdoni o le amicizie di Gesù, le sante donne dell'Antico o del Nuovo Testamento, ecc., ecc. Ciò si presta a tutte le applicazioni, e avrebbe valore per se stesso, se anche non si facesse nessuna applicazione espressa.

Avverrà che una predicazione sopra uà soggetto un po' esteso sia intrapresa da un altro, a cui si succede nella cattedra come il lavoratore al lavoratore in uno stesso campo. È allora cosa delicata, e pia, e molto più utile, continuare se si può, il lavoro cominciato, salvo a orientarlo in un senso un po' nuovo, in vece di far datare il regno di se solo e di ricominciare come se non si fosse detto niente. Agire da fratello, entrare nel solco già aperto, oltre ai vantaggi pratici della continuità in favore dell'uditorio, è dare un'impressione viva della nostra qualità di rappresentanti, dell'unità della parola apostolica nell'unità della Chiesa, sotto l'unità di Dio.

Finalmente, in materia apologetica, non si potrebbe esagerare nel consigliare i soggetti di esposizione, piuttosto che di confutazione e di battaglia. Abbiamo detto questo in più occasioni; ma colgo ancora una volta quella che si presenta,

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perché io sento vivissimamente l'importanza capitale di questo metodo. È quello del Vangelo; è quello stesso della vita, in cui le forze in opera si propongono sempre uno scopo positivo, una costruzione, un acquisto, dove le lotte sono accidentali.

« Colui che vuole esercitare un'influenza utile, diceva Goethe a Eckermann, non deve mai sprezzare niente. Non s'inquieti di ciò che è assurdo, e tutta la sua attività sia consacrata a far nascere dei beni nuovi. Kon bisogna rovesciare, bisogna fabbricare ». Luigi Veuillot, in una formula degna delle riflessioni di ogni uomo apostolico, enunzia una verità anche più profonda, quando dice: « II grande servizio da rendere agl'increduli è quello di fare che i cristiani siano cristiani ». Occupandoci di cristianizzare il mondo, ci occupiamo efficacissimamente di ricondurre alla fede quelli la cui incredulità di solito non è che l'effetto della scristianizzazione dell'ambiente, All'opposto, affrontare come increduli quei cattolici più o meno disamorati, ma ancora vicini a noi, è rischiare, se non si convertono, di accentuare la scissura. Trattali da avversar!, ed essi tè lo crederanno; trattali da cristiani, e cristiani si riconosceranno forse ad onta dei loro oblii o dei loro disordini.

I migliori soggetti apologetici dunque sono quei che manifestano, in modo positivo, le fonti dell'istituzione cristiana, la sua contestura intima, il suo senso, la sua portata, d'onde risulta il sentimento del suo valore. Queste esposizioni, la cui ampiezza è indefinita, renderebbero ragione di tutto e farebbero tanta luce che non ci sarebbe più bisogno di battersi nell'ombra.

Tu esponi la dottrina di vita: ebbene di' cose conformi alla natura e alla vita, all'ideale sovreminente della natura, alle mire sempre più ambiziose della vita, come vi c'invita o piuttosto vi ci sforza un'esatta interpretazione del Vangelo, e queste cose tutti le riconosceranno, senza che la loro « dimostrazione » o la loro « difesa » ti sia necessaria.

Si perde tanto tempo a disputare e ad accapigliarsi con gl'increduli, quando si potrebbero illuminare maravigliosa-mente in compagnia dei loro fratelli credenti, e invitarli con potenza a unirsi al gregge, senza dir loro nulla in proposito. In vece di questo, a volte si urtano; altre volte si scandalizzano confermando le loro difficoltà con risposte insufficienti, mettendo « ponti troppo corti sulla fossa », come diceva Giacomo Bivio; e per lo più si lasciano allo stesso punto, come si sa bene che sempre avviene nelle dispute di conversazioni.

S. Francesco di Sales, assai esperto nella controversia quando voleva, solo di rado si appigliò ad essa, e confessa che non riuscì nel suo intento. Egli spiegava in modo da distruggere i dubbi, ma senza far mostra del suo intento, temendo di mettere l'avversario in stato di difesa e forse d'indurre in tentazione i credenti. È meglio, diceva, prevenire le obiezioni anziché annunziarle con pompa. In questa guerra in cui la collaborazione dei cuori è indispensabile, colui che vuoi riportare la vittoria a ogni costo è sempre vinto.

Giuseppe de Maistre disse: « La sola buona confutazione di un cattivo libro è un buon libro scritto sul medesimo argomento »: applica ciò alla predica, ed hai un'eccellente regola, che Spinoza conferma, quando dice: « II vero è la pietra di paragone di se stesso e del falso; est enim verum index sui et falsi ». Queste sono parole d'oro.

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CAPITOLO II.

Il triplice scopo dell'oratore cristiano.

I. — Insegnare.

-4.) INECESSITÀ DELL'INSEGNAMENTO.

Si suole assegnare all'oratore cristiano un triplice scopo. Perché triplice? Si potrebbe anche dir bene quadruplice, quin-tuplice, oppure unico. Pascal si burla di questo genere di divisioni, a confusione di quelli che ad esse attribuiscono un valore assoluto, in sé, come se dividessero effettivamente le cose. Ma tali distinzioni non restano meno utili come mezzo di classificazione, per l'ordine del discorso.

In ciò che riguarda l'eloquenza, tré divisioni sono specialmente celebri: quella di Aristotile, quella di S. Agostino, quella di Fénelon. Aristotile attribuisce all'oratore l'ufficio di lodare e di biasimare, di persuadere e di dissuadere, di accusare e di difendere: si vede che egli pensa principalmente all'eloquenza giudiziaria o politica. Parlando unicamente dell'eloquenza sacra, S. Agostino ricorda: insegnare, commovete e piacere; Fénelon: provare, commovere e dipingere.

In fondo, tutto questo si riduce alla stessa cosa e non rivela che il diverso funzionamento delle menti. Aristotile vuole che si lodi e si biasimi, ma quando si « prova » o si « insegna », si loda la verità e si biasima l'errore. Egli domanda che si persuada e si dissuada: si persuade o si dissuade provando e commovendo. Parla di accusare e di difendere; ma questo si fa ugualmente provando. S. Agostino aggiunge: piacere, ma è in vista del resto e vi si può includere. Fénelon aggiunge:

dipingere; ma è parimenti un mezzo e si riduce al fine espresso dalle altre sue due menzioni. Si potrebbe racchiudere tutto in persuadere, comprendendolo abbastanza largamente. Se piace, noi ci atterremo, per l'essenziale, alla divisione di S. Agostino: insegnare, commovere, piacere; aggiungendovi accessoriamente il « dipingere » di Fénelon, che ci darà occasione di alcune verità.

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Anzitutto insegnare. ~Se abbiamo la necessità primordiale. La luce incomincia tutto. Oggi, la sua diffusione è sempre più richiesta, quando, riguardo alla religione, non si conosce che le obiezioni e le bestemmie. Le persone più colte pensano delle enormità religiose, e alla maggior parte mancano i primi elementi.

I pastori hanno a questo riguardo una responsabilità speciale. Non bisogna che per colpa loro nessuno ignori le verità che salvano. Lì sta il punto della predicazione pastorale. I grandi misteri della fede e le loro conseguenze; le pratiche essenziali; i sacramenti e le disposizioni per riceverli con frutto;

i novissimi: a ciò sempre deve ritornare colui che ha cura d'anime. Il predicatore di passaggio ha un dovere meno stretto;

ma partecipa di quello del pastore, del quale egli si fa l'ausiliario, e che non ha potuto desiderare il suo concorso se non in vista di fini comuni.

.B) qualità D'UN BUON INSEGNAMENTO. - la PROVA ORATORIA.

Qui, non parliamo più di soggetti da scegliere, ma del modo di considerarli per trattarli, e dobbiamo distinguere tré uffizi dell'insegnamento: esporre, provare, e confutare, osservando che quest'ultimo compito entra in grandissima parte nel secondo, di cui esso è una forma negativa. Si confuta il falso in favore del vero.

In quanto all'esposizione, l'insegnamento esige principalmente la chiarezza, di cui abbiamo notato più sopra l'importanza. Ma perché questa prima qualità abbia tutti i suoi effetti, sono necessari alcuni altri. E prima di tutto che si insista sempre su ciò che è fondamentale, che lo si ricordi opportunamente, che, senza averne l'aria, si rimettano incessantemente sotto gli occhi quegli elementi che tutti credono di sapere e che invece ignorano.

Poi si badi a una brevità piena, evitando il sovraccarico dottrinale che affatica la mente e l'opprime, in vece di rischiararla. Una buona lampada a incandescenza, e non un materiale di officina elettrica; una sorgente al sole, piuttosto che un « pozzo di scienza », dove la mente anneghi nell'oscurità.

Si mettano in rilievo gli elementi principali, come si mostra un oggetto sotto tutte le sue facce. Per questo vi sono delle forme appropriate, come l'interrogazione, la ripetizione, di cui si tratterà a proposito dei tropi.

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Nell'esposizione si proceda in modo concreto e personale;

si dia all'uditore la sensazione che è questione di lui e non di una tesi, che si tratta de' suoi affari, del suo caso, della sua salute, della sua felicità. L'attacco dev'essere individuale e intimo; la verità deve entrare in ciascuna coscienza e invitarla a un'adesione fiduciosa, felice, inevitabile. Incontestabile e invincibile al giudizio di ciascuno e per ciascuno: ecco la qualità di un'esposizione dottrinale riuscita. All'uscire dalla predica, l'uditore ne dovrebb'essere occupato più di tè stesso;

il tuo lavoro non era forse destinato ad adescare il suo? il vero successo consisterebbe nel fare apparire derisorii, all'uscire di chiesa, i pregiudizi, le cure volgari, gli stessi dispiaceri che vi aveva recato. Il ciclo si è aperto, e ha dovuto ottenebrare la terra; l'ha però illuminata, e si possono prendere i buoni sentieri. Insegnare in modo da assediare è il fine stesso dell'eloquenza. A questo tendono tutti i suoi mezzi, e quando il suo oggetto è in se stesso di necessità assoluta, com'è il nostro, vi è sempre una possibilità di farlo apparire tale, cioè, come quello che riconduce nella mente dell'uditore ciascuna cosa al suo vero posto, di collocarla sotto il dominio delle cose eterne.

Per ottenere un tale risultato o almeno per accostarvisi in qualche misura, non basta esporre puramente e semplicemente; bisogna provare, salvo a includere la prova — come fu detto della confutazione — nella stessa esposizione. La miglior prova è un'esposizione ben condotta, perché la coerenza delle cose e la loro parentela con la nostra mente dispensano da altri criteri, ed è quello che una buona esposizione manifesta. Provare non è mai altro che mettere la verità in armonia con se stessa e con noi: se nell'esposizione risplende quest'armonia, la prova è fatta. Il miglior modo di risolvere un problema, non è forse d'impedirgli di presentarsi, di annullarlo anticipatamente con una chiarezza piena?

In generale si ragiona troppo; sarebbe meglio far vedere, dico far vedere le cose, e far vedere le loro connessioni pari-menti come cose, piuttosto che come conclusioni. Le menti più profonde e più ricche sono quelle che argomentano meno; esse persuadono con un semplice intuito del loro pensiero: è un'a'-zione di presenza. Le stelle, che sanno l'ora, non scampanano.

Tuttavia, poiché si portano delle prove, e là dove se ne devono portare, bisogna sceglierle, ordinarle,'distinguerle bene, presentarle bene.

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Scegliere bene le prove, per l'oratore, non è sempre fornire la prova essemiale nel senso metafisico del termine, ma la prova che è a un tempo la più solida e la più impressionante, Le ragioni sottili, specialmente riguardo a ciò che è chiaro per tutti, sono francamente da eliminare. Queste sono tentazioni del loico, che al discorso non procurano che borra. Nella parola ciò che è minuto sfugge e ciò che è astratto non fa effetto. Un'idea s'impone alla nostra adesione effettiva, non già per il suo rigore logico, ma per l'eco che ridesta in noi e per la corrispondenza alle intime esigenze della nostra mente, del nostro cuore, della nostra vita.

Tanto più si rigettano le prove discutibili, che darebbero alle menti pretesto di sfuggire. « Sono tutte lì le tue prove? », direbbe qualche uditore. Evitare altresì il sovraccarico, osservando tuttavia che vi è un'arte di moltipllcare le prove senza nessun ingombro, in grazia di una forma abbastanza viva da includere in un solo periodo una folla di argomenti convergenti, <• tanto la cosa abbonda di prove ». Ciò a volte produce grande effetto. All'opposto, attenersi a una sola prova, spesso è dare un'impressione di debolezza, come di una cosa troppo poco radicata nella vita. Quale albero ha una sola radice? Il radicamento tuttavia è una cosa semplicissima, e perciò bisogna serbare la semplicità.

Ordinare le prove è schierarle in modo da produrre il massimo di effetto, ed è questo un ordine psicologico, non astratto, che sembra governato dalle due considerazioni seguenti: la prima scossa determina spesso lo spirito; l'ultima sovente lo fissa. Pare dunque cosa saggia dare prima di tutto una ragione solida, che soddisfa la mente a titolo di fondamento; collocare dopo di essa, in bell'ordine di dipendenza, le ragioni secondarie, riservando per la fine quello che si credono di tale natura da generare il convincimento.

A quest'arte Berryer aggiungeva quella di raccogliere in un dato momento tutte le proprie forze, dopo averle spiegate a una a una; allora egli componeva una massa irresistibile, che schiacciava l'avversario. È questa un'arte di perorazione, ma che trova il suo impiego nella parte dimostrativa del discorso, qualunque sia il posto,

Rendere ben nette le prove e presentarle bene è rivestirle di forme accentuando il loro valore. Ciò dipende dai casi. La prova oratoria vuole di solito del calore e dell'abbondanza;

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ma a volte anche si guadagna ad abbandonare ogni figura per lasciar parlare la logica sola e far così risaltare la membratura di un argomento decisivo. Quest'aridità voluta è spesso abile; ciò vuoi dire: ecco qui! giudicate voi stessi;

io non getto polvere negli occhi, espongo le cose come sono.

Prodotto il tuo effetto, nulla impedisce di abbondare in un altro modo. E così bisogna fare; perché la prova oratoria, rivolgendosi a tutto l'uomo, deve valersi di tutte le facoltà dell'uomo, di colui che parla e di colui che ascolta; essa richiama alla mente tutta la vita, fa ricorso a tutta l'esperienza, anche all'esperienza incosciente, che sa mettere alla luce. Non dimentichiamo che, a differenza del professore, noi domandiamo ai nostri uditori tutt'altro che un'adesione platonica; noi vogliamo dei fatti, una conversione, cioè un cambiamento dell'orientazione vitale; ciò non si ottiene senza far ricorso a tutto quello che si tratta di spostare. L'oratore prende per compito di contrappesare da se solo tutte le forze di resistenza del suo uditorio; per questo deve ricorrere a forze dello stesso ordine, e la prova è uno dei casi essenziali di questo ricorso.

Aggiungo che l'oratore cristiano, presentando le sue prove, ha più che mai l'occasione di costituire se stesso come una prova viva, come una prova dell'efficacia delle sue prove, avendolo queste convinto prima, e avendolo convinto al punto di esigere da lui imperiosamente la convinzione degli altri. La vita genera la vita. L'uditorio non ci sfugge a meno che non pensiamo più, non amiamo più, non siamo più, noi per i primi, sotto l'impero del verbo.

II. — Commovere.

A) la NECESSITÀ DI O'OMMOVBBE I CTTOEI.

Insegnare così è già un eommovere largamente; lo sapeva S. Agostino, il quale dichiarava all'oratore il suo obbligo di farsi udire intelligewter et oheMenter, cioè farsi intendere e seguire. - '

La luce deve brillare nel cuore; nella mente non è che regola, nel cuore è forza. Secondo Fiatone, l'effetto proprio dell'eloquenza è di sottrarre l'uditore a se stesso e al suo precedente stato. Il dotto Passerini scrive dal canto sua: « Proprio della predicazione non è precisamente insegnare, ma persuadere la parola di Dio ». Il movimento oratorio che produce

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questo risultato, è dunque, secondo che aveva riconosciuto Quintiliano, la parte essenziale del discorso, quella che, mancando, lascia tutto il rimanente malfermo. Del resto, con ciò non s'intende punto di raccomandare dei « movimenti » strepitosi; il calore ha più di una forma; si tratta di raggiungere, nell'uditore, i focolar! dell'emozione efficace, i centri motori.

Ciò s'impone tanto più che, in molti casi, non c'è altro da fare; l'uditore è anticipatamente convinto; il suo male, estraneo all'intelletto, è tutto quanto in una volontà pigra o in un cuore sedotto da folli oggetti; bisogna guarirlo, bisogna liberarlo e trascinarlo; la predica, per questo uditore, sarà buona se l'uomo ne esce costernato del suo stato, portato a modificarlo, invitato e quasi forzato a questo cambiamento da grandi immagini motrici. È chiaro che è questo un risultato della commozione, non del solo convincimento.

B) le CONDIZIONI PEB, GOMMO VERE.

Sarebbe egli vero, come pretende Fénelon, che il segreto di commovere sia scomparso dalla cattedra, nel secolo XVI, lasciando da una parte umanisti senza dottrina e senza fede, e dall'altra scolastici, uomini di dottrina e di fede, ma senza calore e senza bellezza? Il giudizio così generalizzato è molto discutibile; ad ogni modo esso aveva cessato di esser vero al tempo di Pénelon; è ancora molto meno vero dopo il Lacordaire. Comunque, il precetto sottinteso non è meno sicuro; commovere è tanto imposto all'oratore quanto il guarire al medico; infatti le commozioni sono dei medicamenti, scrive ETovalis (1). Egli aggiunge: « Non bisogna giocare con esse »; ed ha ragione, e ciò indica al predicatore la necessità della misura. La commozione non ha pregio salvo che corrisponda a una convinzione riflessa, a uno stimolo della nostra volontà razionale. Ma l'insegnamento non cessa di brillare per passare dallo stato puramente cerebrale a uno stato più caloroso e più intimo.

I passi patetici, qualora se ne ammettano, devono essere brevi, perché la commozione si stanca presto. < Mula inaridisce più prontamente che le lacrime », dice Cicerone. Ma ciò che si dice qui della commozione non riguarda unicamente questo o quel passo; ma è nell'insieme del discorso che

(1) novams, Fragments inèdite. Stock, 1927.

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deve regnare una viva impressione del suo oggetto. Anche allora che si espone, che si discute, l'uditore dev'essere in stato di emotività, in questo senso che egli, essendo messo in causa, preso come oggetto di un dibattimento animato, sente che la sua sorte è in gioco, che è invitato a pararsi dai mali, a conquistare i beni, ciò che è la passione di ogni essere. Si può partire da lontano per arrivare lì e, in certi momenti, avere l'aria di parlare d'altro, di dogmatizzare, di descrivere; ma l'impressione del fine deve sempre regnare, annunziargi fin da principio e non dissiparsi in nessun momento.

Allora siamo ben sicuri di non parlare invano. « l'1'oi amiamo di essere messi sull'avviso », dice Montaigne: amiamo di essere salvati, anche se ci fosse in noi quel demonio d'incoscienza che desidera di essere perduto. L'oratore che fa appello alla coscienza e già le comunica qualche cosa dell'anima sua mediante un felice contatto, otterrà, in mancanza di altri effetti che non si possono sempre sperare, quel turbamento benefico, quel silenzio intcriore ricco di possibilità virtuose. Il modo con cui si dicono le cose fa vedere il modo con cui si sentono, ma decide anche del modo in cui si fanno sentire e con ciò penetrare nelle vite, con ciò fare opera divina.

La Signora di Montpensier diceva di S. Francesco di Sales, dopo che egli ebbe parlato alla corte: « Gli altri, colle loro prediche, sembrano volare per aria; ma Monsignor di Ginevra discende sopra la preda >>. 2'Ton solo egli discendeva sopra la preda, ma la portava via, per Io meno assai sovente, e ne' suoi successi apostolici il cuore aveva certamente più parte ancora che l'intelligenza; « dal cuore al cuore », dal cuore di Dio e dal cuore di Gesù Cristo al cuore di ciascun uditore, passando per il suo: tal era il segreto della sua parola.

Il piissimo Lodovico di Granata da per oggetti particolari alla commozione dell'oratore cattolico i risultati seguenti:

« Egli deve portare i suoi uditori all'amore di Dio, alla speranza nella sua misericordia, al timore de' suoi giudizi, all'odio del peccato, alla tristezza salutare, alla gioia spirituale, alla stima e all'ammirazione delle cose divine, al disprezzo di quelle del mondo, all'umiltà del cuore e alla sottomissione dello spirito ». Ecco dei preziosi obiettivi. Quelli che abbiam menzionato noi stessi in vista del tempo presente, quando parlavamo della scelta dei soggetti, possono esservi aggiunti; si sa che sono gli stessi bisogni, che determinano le materie da trattare e le forme come mezzi obbligati della parola.

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- III. — Piacere.

Eeca maraviglia il vedere S. Agostino e Fénelon, come del resto tutti i maestri, obbligare l'oratore cristiano a piacere, come se si trattasse di lui, oramai, e non più del suo compito. Ma tale non è il loro pensiero. Fénelon colloca Demostene « al disopra dell'ammirazione » perché seppe perdersi nel suo oggetto e dimenticarvi se stesso, e S. Agostino si spiega dicendo: Illum qui est delectatione affectus facile quo volueris duces; « condurrai facilmente dove vorrai colui che avrai ricolmato di gioia ». Condurre l'uditore dov'egli vuole non è lo scopo stesso dell'oratore? Lucano parla nello stesso senso quando dice: « Haec demum sapit dictio quae feriet, l'espressione che piace è quella che colpisce ».

Tuttavia, siccome per mezzo del piacere, sotto gli auspici del piacere, non si tratta in fondo che di provare efficacemente e di pesare sulle energie dell'anima, certi autori trascurano questo terzo scopo o anche lo eliminano, sia come parassita e come quello che si presta a equivoco se è ben compreso, sia come nemico se si comprende male. Il La Fontaine potrebbe offrire una formula accettabile a tutti quando dice — forse in un senso un po' differente dal nostro : « Vi è un'arte di piacere e di non pensarvi ».

Poiché il piacere non è uno scopo decisivo, si ottiene come senza pensarvi; si tende così verso l'oggetto del discorso e si attrae verso di esso l'attenzione dell'uditorio, anziché attirarla verso il discorso stesso o verso il suo autore.

Ora un tale obiettivo determina le regole. Bisogna piacere sforzandosi di manifestare lo splendore del vero e l'attrattiva del bene, spiegando le proprie forze personali nel modo più favorevole, lusingando nell'uditore ridestato a se stesso l'amore innato della verità per la quale è fatto e del bene che assicurerà la sua felicità.

La prima condizione è ovvia; tuttavia molti la dimenticano, a cagione di quella aridità logica o puritana di cui parlavamo sopra e che vuoi fare ingoiare il vero come una misura, e il bene come una medicina. Ma non è questo il mezzo di conquistare i cuori.

S. Francesco di Sales passava per un seduttore di anime;

ma per mezzo di lui era Dio che le seduceva. Dio è verità, bellezza, bontà, felicità, tutto insieme: la parola di Dio potrebbe

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dissociare questi termini? Per il fatto che noi siamo degli ante nunziatori e dei rapitori, siamo anche degli incantatori, ora incantatori di uccelli come S. Francesco di Assisi, ora incantatori di belve come Orfeo, e a volte incantatori di serpenti. Quella religione che noi presentiamo come una verità, come un obbligo e come un soccorso, presentiamola anche come una bellezza, come una seduzione superiore, come una gioia, ciò che essa è non meno essenzialmente, ciò che è anzi esclusivamente, considerata nel suo ultimo termine. Piacere così è il flore del nostro verbo, e che vale una pianta senza il suo fiore,. attraente promessa del frutto?

'Sello stesso predicatore vi è di che piacere; per lo meno si ha il diritto di sperarlo. Questo si deve spiegare, ma sempre secondo la stessa regola, in vista dello stesso scopo. ~Son s'invita il predicatore a fare mostra di un bei cuore, a fare il lusingatore volgare o sottile. Vi sono degli altri incanti. Ma non ce n'è uno maggiore di quello di un'ardente convinzione che, con una salda ragione che si esplica, dimostra una simpatia superiore che s'inchina per soccorrere, una carità che stringe. Tutto ciò è potente sopra i cuori, per poco che la forma non lo soffochi sotto la sua inettitudine. E bisogna lasciar vedere tutto questo, rimovendo la falsa timidità, il falso pudore e la pretesa umiltà che, per nascondersi, nasconde parimenti Iddio in essa. Un uomo, un uomo di Dio, un fratello, un salvatore è cosa bella, per conseguenza è cosa seducente, commovente, e incitatrice! Queste sono reti di Dio.

Finalmente, nell'uditore vi è una sorgente di piacere Che si deve adoperare secondo le nostre regole: è il piacere di prendere coscienza di sé, di misurare i proprii poteri, di gustare le proprie aspirazioni profonde e segrete, così spesso ricoperte dal nulla quotidiano. 8. Francesco convertiva dei briganti mostrando loro quello che vi era di prezioso nell'anima loro. Questo risveglio è una gran parte del nostro compito; ma bisogna farne una gioia, e ciò per mezzo della simpatia, dell'accortezza attenta e tutta fraterna, della premura cordiale mostrata a quelle anime che a volte ignorano e disconoscono se stesse con una folle ostinatezza. Convincere una coscienza della sua propria bellezza, della sua propria capacità virtuosa, della sua parentela col vero più elevato, della sua potenza di volo, se così posso dire, è rapirla, e rapendola, sollevandola

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dalla terra, non la condurrà là dove si ha missione di trascinarla? Piacere così è un non avere più nulla da ottenere, perché è il trionfo stesso della parola cristiana. -

IV. Scopo accessorio: dipingere.

Si potrebbe non parlare affatto dell'arte di dipingere, es-' gendo ammesso che non è propriamente parlando uno scopo del discorgo, ma uno de' suoi mezzi. Tuttavia, essendo questo mezzo usitatissimo, e del resto mezzo e fine non essendo qui come dovunque se non termini relativi, sarà utile dirne -s qualche cosa.

I nostri scopi principali sono: insegnare, commovere e piacere. Ora per insegnare, dicevamo, e tanto più per commovere, per piacere, non basta dire e provare, ma bisogna far vedere, dare corpo e movimento, forma e colore a tutto quello che si annunzia. Di modo che l'arte del veggente, del poeta, del pittore è qui necessaria. Molte delle nostre esposizioni formano dei quadri, come gii episodi della vita di Gesù e tante altre lezioni di cose. Quelle che non sono punto descrittive per se stesse, importano non meno delle scene svariate, delle vedute intime, dei paesaggi, dei quadri di genere, dei quadri di storia, dei ritratti, a volte delle nature morte, come quando si vuole precisare una situazione e vi possono concorrere i particolari delle cose. In ogni modo, i quadri psicologici, s'impongono frequentemente; essi abbondano nei maestri; il Piccolo Quaresimale di Massillon ne fornisce il tipo compito. Ecco tutto quello che Fénelon comprende in questa parola:

dipingere. ^

Vi si connette ancora un caso, ed è ciò che gli antichi chia-i mavano sermocinano, procedimento di un gran valore oratorio e che consiste nel dipingere le persone prestando loro parole appropriate, annunziatrici del loro carattere o della situazione che è loro fatta. Un esempio maraviglioso è quello del libro della Sapienza (V, 6) che descrive lo stato dei reprobi al ricordo dei giusti: Diranno gli uni agli altri, pieni di amarezza e gemendo nella contrazione del loro cuore: Ecco dunque Colui che era il bersaglio dei nostri scherni... Insensati!... abbiamo dunque errato!... Un altro esempio è quello dell'Ecclesiastico (V, 4) che fa dire al peccatore: Ho peccato e che cosa mi è accaduto di triste? A volte la sermocinatio non esprime punto quello

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che dice la persona, ma quello che dovrebbe dire, le domande che si dovrebbe fare, ecc.; le forme variano, ma l'effetto è sempre lo stesso.

Passo alle regole. Ce n'è una indispensabile, e sufficiente se è ben intesa, che è di subordinare la pittura allo scopo del discorso. Il dipingere non ha interesse se non per far vedere, e il far vedere non ha interesse se non per far intendere e per far operare. Ogni pittura fatta per se stessa, per l'arte, da dilettante, per soddisfare la curiosità del pubblico o per soddisfare se stesso, è un errore non solo apostolico, ma oratorio, perché arresta l'impeto. Tutto quello che arresta è biasimevole; tutto quello che allontana dallo scopo è, oratoriamente, inestetico,

Della pittura dei costumi in particolare, Longino diceva che, se vi si indugia, « segna un declinare della potenza patetica ». È quello che accadde a Massillon nel Piccolo Quaresimale, a differenza di ciò che fece nel famoso discorso sopra il Piccolo numero degli eletti. Patte le debite riserve sopra la dottrina, questo discorso è un modello di forza descrittiva applicata ai fini del discorso.

In conseguenza di questa legge generale, si faranno pitture brevi, le sole che per se stesse non trattengono. Esse non saranno per questo ne meno forti, ne meno efficaci; anzi tali saranno maggiormente. Il realismo ridotto in briciole in molti autori, fa torto alla realtà profonda, che una scelta felice manifesta. Molière è vero quando dipinge con qualche tocco Damis o Chrysale; Walter Scott non è sempre tale, scoprendo per minuto una folla di circostanze senza pregio.

Inoltre ogni tratto della pittura dev'essere scelto in vista di un rilievo dell'idea e dell'ossessione del termine. Si tratta di far parlare le cose, di far provare la tesi dalle cose; di trascinare al risultato voluto dalla direziono e dal movimento delle cose; solo per questo si producono queste cose; dunque solo a questo scopo si devono esse adoperare, grazie alla figura che loro si da, ai tocchi di matita o di pennello di cui sono formate. Fuori di lì, nulla ha valore; in quest'ambito tutto è buono, salvo i limiti del gusto e della convenienza oratoria o religiosa.

Dopo ubbidito a quest'ultima riserva, non si tema, nelle descrizioni e nelle pitture, il tratto forte, il tratto preciso, il

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tratto familiare. La Bibbia ne trae grandi effetti, come gli scrittori e gli artisti di genio, anche i più severi. « Io osservo a bruciapelo », diceva Moussorgsky, per spiegare la sua musica realista e tragica. Lessing pensava indubbiamente a questa prossimità del fatto e della mente nell'opera gemale, quando diceva, dubitando della personalità di Omero come autore àeO.'Iliade: « Io non conosco chi è tuo padre, ma so chi è tua madre, o natura! ».

CAPITOLO III.

I metodi dell'oratore cristiano.

I. — Parola imparata e parola improv-' visata. - Inconvenienti e vantaggi.

Sotto il titolo generale di questo capitolo, si potrebbero studiare molte questioni che io non voglio proporre, avendole-esaminate ne La Vie intellectuelle (1). Se ne presenteranno altre sotto titoli speciali, come quello che riguarda la memoria, l'uso o l'esclusione delle divisioni classiche, eco. Io mi limito qui alla questione celebre, fra i tecnici, dell'improvvisazione o del discorso imparato a memoria, e a ciò che vi si riferisce.

Questa questione, così com'è spesso proposta, in termini assoluti, come un'alternativa rigorosa e ignara della qualità delle persone, è un po' assurda. Pur mostrando talento, tuttavia non si evita affatto il ridicolo nelle contese degl'improvvisatori e dei recitatori convinti. ~Sou vi è così metodo in sé. In fatto di eloquenza, come in tutto quello che mette in opera la vita, l'uomo, il metodo è l'arte di utilizzare se stesso, dunque di trattarsi come si è. Tutto il resto è vano. Onde si potranno citare grandissimi oratori per tutti i metodi; ciascuno ha preso quello che gli conveniva e nessuno è stato tanto goffo da prendere quello degli altri.

Del resto, vi è la circostanza, il soggetto con le sue esigenze speciali, le disposizioni dell'oratore in un dato momento, in una data età, ecc. Il Lacordaire qualche volta lesse, per esempio, pronunziando l'elogio di Drouot. Fénelon, questo teorico dell'improvvisazione, scrisse nondimeno e imparò a memoria il suo discorso per la consacrazione dell'Elettore di Colonia. Massillon, che imparava tutto a memoria e diceva : « La mia miglior predica è quella che so meglio », all'occasione improvvisava, cosi come il Bourdaloue, e pàrimenti il Padre

(1) La Vie intellectuelle, vedi specialmente nei capitoli IV & VII quello che riguarda il metodo ,di lavoro, la lettura e le note.

li sbiitimatobs. L'oratore cristiano.

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Monsabré non si vietava d'improvvisare, benché dotato di una memoria maravigliosa e in grado, diceva, di recitare una delle sue conferenze cominciando dalla fine.

Diciamo che un oratore veramente formato dev'essere capace di applicare, occorrendo, tutti i metodi, e che abitualmente deve applicare quello che meglio risponde al suo carattere e alle sue forze. Vi son di quelli che non potranno mai improvvisare; ve ne sono altri che non potranno mai scrivere e imparare. Colui che ha memoria non è nella stessa condizione per scegliere come quegli che non ne ha. Ohi ha l'immaginazione lenta, che manca di presenza di spirito, che è timido ed è paralizzato dall'uditorio in vece di essere lanciato, non sceglierà come una mente desta e vivace; colui che comincia e colui che ha una grande esperienza acquisita si comporteranno altresì diversamente. Finalmente lo specialista delle questioni spinose non è invitato a usare lo stesso metodo che usa quegli che è abituato a prediche di esercizi o a fervorini.

La questione adunque, presa così in generale, è in gran parte teorica. Ma perché ciascuno possa precisare a suo modo, non è meno utile enumerare i vantaggi e gl'inconvenienti dei varii metodi; oltreché si potrà allora scegliere con cognizione di causa, si sarà in grado di evitare in gran parte gl'inconvenienti della propria scelta e di procurarsi in parte anche i vantaggi della soluzione che si abbandona.

II. — Regole per ciascun metodo.

Anzitutto, scrivere — e scrivere tutto — offre vantaggi così evidenti che solo un'imperdonabile storditezza li può disconoscere. Il P. Lacordaire è indubbiamente poco sospetto nella materia; ora un gruppo di giovani ecclesiastici, essendosi recato a Sorèze a domandare « un consiglio » all'illustre predicatore, questi rispose loro: « Voi mi domandate un consiglio, e io ve ne darò due. Il primo è di non permettervi mai di salire in pulpito senza avere scritto interamente la vostra predica, se potevate. Il secondo — nel caso che aveste mancato a questa regola — è di confessarvene ».

Quando si riflette alla difficoltà di pensare giusto, di mettere in ordine i proprii pensieri, di trovar loro un'espressione adeguata, senza parlare di tante altre qualità accessorie, si prova

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spavento all'idea di rimettersi, per questo, alla sorte' di una parola subitanea e senza possibilità di potersi riprendere. Le condizioni così dette naturali in cui nasce il nostro pensiero di primo acchito non sono in vero che un caso, e, dice Paolo Valéry, « quello che noi abbiamo dal caso, tiene sempre un poco di suo padre » (1). La natura vera è figlia della riflessione che raggiunge i rapporti autentici delle cose e i rapporti autentici di queste cose con le nostre concezioni e poi con la loro espressione. Ciò richiede del tempo e impone degli assaggi alle più vive intelligenze. Bisogna far molto lavoro per adoperarne pochissimo. La predica più limpida e più semplice agli occhi dell'uditore è quella che fu preparata con molti procedimenti intellettuali. È quello che Boileau chiamava « fare difficilmente dei versi facili ». Studiando i taccuini di schizzi di Beethoven, si scorge che le sue concezioni più giovanili, più spontanee in apparenza, sono quelle che gli costarono di più. Quando si esaminano con la lente le tavole incise di Eembrandt e le loro condizioni, si vede che egli passa per una serie inimmaginabile di saggi, di esitazioni, di pentimenti, per arrivare a fissare un gesto semplicissimo, come quello di Gesù nella Pièce ause ceni fiorins. Joubert diceva che se un lavoro sente d'olio, è perché non si è ancora vegliato abbastanza. Tutto questo significa la stessa cosa, cioè che il perfetto e il semplice non si ottiene che per eliminazione, che l'eliminazione suppone la scelta, e che solamente quando si è scelto tra le molteplici possibilità la cui impressione ti rimane, allora si può dare a ciò che resta, oltre al suo valore proprio, il valore stesso di ciò che si è eliminato.

Si pensi soltanto a queste condizioni, e si vorrà lavorare a testa riposata, in modo da prevedere tutto, regolare tutto, calcolare tutto, all'uopo riprendersi, evitare così gli errori, le sproporzioni, i giri e rigiri sullo stesso punto, le scorrettezze, le sorprese, segnatamente riguardo a certe parti tecniche obbligatorie nella maggioranza dei discorsi e che sono il tutto di alcuni, come i discorsi apologetici e le conferenze.

Sì; ma l'inconveniente del metodo è che vi perisce la spontaneità della parola; il discorso « sente d'olio » non per ragione d'imperfezione, come diceva Joubert, ma per ragione di vecchiezza relativamente al momento che si pronunzia. L'eloquenza che ricorda è incatenata; quella che inventa è libera.

(1) P. VAiter, Introdwtim a la méthode de Léonard de Vinci, in Varieté,

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Mallarmé diceva: « Ohe simbolo è quest'acqua nera (l'inchiostro) per fissare la luce del pensiero! ». L'improvvisatore, in vece di fare scaturire il suo pensiero dalla pagina bianca che egU annerisce, lo fa scaturire dagli occhi e dall'anima de' suoi uditori, ove si svolge per lui il dramma.

Fénelon rileva con gran forza questo vantaggio che rende, dice egli, il discorso più vivo, più naturale, più persuasivo. Gli errori che si temono, se restano nei limiti in cui li tiene una saggia preparazione, possono non essere che un minimo male;

minute scorrettezze accrescono l'impressione di natura; le ripetizioni, salvo che non si abbia il vizio di biasciare, aiutano' "la penetrazione dei pensieri, la forza degli affetti. Del resto/ la circostanza ridesta nello spirito delle forme che il lavoro di gabinetto non fornisce e che si adattano spontaneamente all'uditorio, perché è lui che le ispira. L'uditorio, abbiamo dettOy entra nella definizione dell'oratore; se è assente, falsa l'opera;

davanti al tavolino, l'oratore non ha tutti i suoi mezzi, non èy per dire così, lui stesso.

Ohe cosa si ha da concludere?

Nel nome delle nostre prime osservazioni, alle quali queste pretendono di sostituirsi, si potrebbe tornare contro l'improvvisazione e rifarsi al punto di partenza. Un improvvisatore che scende dal pulpito, se ha un po' di giudizio e di possesso di sé, non è mai lontano dal trovarsi accasciato. Si sottomette alla Provvidenza; ma umanamente è prossimo alla disperazione. Quante cose essenziali sono state dimenticate, quante sono:

state dette male! L'ossessione di un pensiero ne caccia un altroy un'impressione dominante getta nell'ombra tutto ciò che la dovrebbe equilibrare, completare, anzi correggere. Le espressioni incalzanti che erano state previste, i paragoni su cui;

'si faceva assegnamento non si sono presentati alla chiamata;

si sono dimenticate le perle nello scrigno; si sono invece presentati i falsi gioielli che un'emozione fittizia fa brillare. Hai. caricato l'arma, a meno che sii stato glaciale, ma hai sparato-male; hai più o meno smarrita la via, guastato il soggetto, resa inutile la preparazione, e tutto questo ti perseguita come un ronzio di rimprovero, finché tu parta. Poc'anzi, la tua testa era come una tribuna sonora; ora è un tribunale. E la sentenza è irrevocabile; infatti, ad onta del proverbio: verbo, volani, qui sono le parole che restano. « Eivedi l'opera tua venti volte. Qualche volta aggiungi e sovente cancella ». La gran debolezza dell'improvvisazione è che essa non eancella,

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Ohe sarà, se dall'improvvisazione seria di cui parliamo, noi passiamo a quella che dimentica le regole del genere, che trascura le severe prescrizioni che abbiamo ricordate, in una parola, all'improvvisazione abusiva, effetto della negligenza o dell'orgoglio!

Vi son di quelli che salgono in pulpito senza sapere che cosa diranno, e quando scendono, non sanno che cosa hanno detto. Sovente non hanno detto niente; si sono scaldati a freddo, come si dice tirare in bianco, e la preda galoppa. Hanno continuamente ripetuto le stesse cose, hanno abbondato in digressioni, hanno fatto udire delle chiacchiere senza sodezza, senza ordine... e senza fine: un mar di parole sopra un deserto d'idee. Gli improvvisatori di questo genere non sanno finire: il punto di caduta dipende dalla curva del proiettile, questa dalla puntatura, cioè qui dalla preparazione.

La punizione di questi parlatori sarebbe che si facesse ripeter loro, mediante un fonografo, i loro balbettamenti; essi ne potrebbero constatare il vuoto, i circuiti di parole a casaccio, le bugie e le spaventose scorrettezze. In vece di questo, essi sono contenti; la loro gonfiezza d'immaginazione li inganna;

credono di vogare, come il dirigibile, perché si gonfiano di vento.

Ma che mancanza di rispetto! che profanazione della parola di Dio! Quelli che agiscono così per un falso misticismo non potrebbero tentare di più Iddio, perché lo invitano a un miracolo;

sarebbe veramente un miracolo che essi non fossero deplorevolmente corti. E che disprezzo per l'uditorio! Un'adunanza è forse fatta per aspettare, spesso a lungo, a volte sino alla fine, e sempre a prezzo di fastidiosi riempitivi, le tue casuali ispirazioni? Un avvocato negligente è da Quintiliano trattato da perfido e da traditore, ed è così che certi parlatori trattano gl'interessi spirituali del prossimo. Difendono la causa senza inserto, senza consultazione preliminare; credono alla « potenza del delirio », all'« incoerenza creatrice », come dice ancora Paolo Valéry. J^on temono l'anatema del profeta: Maledetto sia colui che fa con negligenza l'opera del Signore? (Jerem., XLVIII, 10). Si fa sempre abbastanza male, là dove sarebbe richiesta la perfezione stessa. Conoscono cedesti saputelli che cosa sia un discorso, quale sia la sua difficoltà, della quale i maestri non parlano e che essi non intraprendono se non con una specie di spavento? Certi genii ne diventano malati, e certi ignorantacci vi corrono a precipizio, senza cura della loro

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dignità e di quella del loro ufficio, senza pensare al bene che Dio attende dal loro messaggio nel suo nome.

È soverchio parlare di una deviazione che si decorasse invano del nome di metodo. Supponiamo l'improvvisazione debitamente preparata: ebbene io dico che restano a suo carico serissimi inconvenienti. Fénelon la usava abbastanza brillantemente, e, al dire dei contemporanei, essa era lontana dal riuscirgli sempre; altri, meno dotati, dovranno ad essa non poche sconfìtte. E allora?...

Allora noi ripeteremo quello che dicevamo al principio di questa analisi. L'alternativa non è tanto netta; vi sono dei mezzi termini, e se, in una certa misura, bisogna scegliere, si può anche, in una certa misura, correggere gl'inconvenienti del metodo che si adotta, pur conservando i suoi vantaggi. Vediamo prima che cosa deve fare per questo colui che impara a memoria.

La prima necessità del suo caso, a quanto mi sembra, è d'imparare a scrivere come si parla. Lo stile parlato è speciale, : più tronco, meno arrotondilo, meno bilanciato, meno perio-dico, articolato al minimo e sempre con semplicità. Usa forme più dirette e più personali, più concrete quanto agli oggetti, più vive quanto all'andamento del discorso. Se vuoi richiamare al pensiero le sorprese della morte, puoi scrivere: Un uomo che segue tranquillamente il suo cammino può essere a un tratto atterrato da un'automobile che passa e morire senza essersi accorto di niente. Se esprimi la stessa idea sul pulpito, dirai:

Ecco un uomo sulla strada. Egli cammina pacificamente. Passa un'automobile, lo rovescia a terra, ed ecco che egli muore senza aver coscienza di nulla.

Come ottenere, con la penna alla mano, questa sorta di ostile orale », come si esprimeva il P. Jousse? Il segreto è di scrivere con l'orecchio, se si può dire cosi, ascoltando il proprio pensiero che echeggia nell'espressione, immaginando l'uditorio a/ttento, tutt'orecchi se tu sei stringente, distratto se tu sei fiacco, inquieto se tu vacilli, ostile in caso di caduta. Godeste uditorio che respira davanti a tè, che pensa con tè, impone a' tuoi discorsi una misura in accordo col ritmo respiratorio e col movimento dei pensieri comuni, nemici l'uno dei periodi troppo concatenati, l'altro delle forme lambiccate o astratte, tutt'e due delle tiritere. \

La logica propria del linguaggio parlato viene per istinto adottata da colui che compone con questo sistema, benché

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non sia che in immaginazione; egli in certo modo pensa co' sn-oi muscoli laringei e co' suoi organi uditivi, perché sono essi che forniscono all'idea una parte dei suoi fantasmi, e la memoria, poi, si appoggerà sopra di essi e sarà quindi una memoria viva, in vece di essere, secondo l'espressione di Montaigne, una « memoria di carta ».

L'ideale sarebbe di scrivere in mezzo a un turbinio d'immagini verbali che inquadrassero la vaga immagine visuale di una navata, di un uditorio, di una cattedra, di se stesso, sotto l'avvolgimento delle volte, sotto il più vasto avvolgimento del cielo. Supposta allora una preparazione completa, la predica si farebbe in qualche modo tutta da se sola; non si avrebbe il sentimento di esserne l'autore; la si udirebbe in vece di crearla, e avrebbe tutte le qualità della parola viva, conservando il vantaggio di calcolare tutto, di non dimenticare niente, di riprendersi.

Ci vuole naturalmente una certa predisposizione, che alcuni non hanno, avendo in vece la fobia della carta, il bisogno della presenza reale. Costoro ubbidiscano al loro istinto, mentre gli altri si applicheranno a svolgere il loro con l'uso, il che sarà loro tanto più facile in quanto che avranno da fare con un uditorio noto, con un vaso familiare. Ma vi è ancora altro.

Colui che impara a memoria deve sapere a memoria, portare il discorso « marcito nella memoria », come diceva il P. de Eavignan. È una condizione necessaria per restare naturale, libero, per ritrovare la commozione dello scritto aggiungendovi quella che ispira l'uditorio. Colui che corre dietro alle sue frasi, che ha paura di non afferrarle, che può vedersi sfuggire tutt'a un tratto anche il suo piano, trovandosi così fuori di strada, in pieno ginepraio, è interamente legato; è un recitatore esitante, non un uomo che paria.

Da ultimo, colui che impara a memoria deve potere, se vuole, distaccarsi dal suo testo, supplire tranquillamente alla sua memoria se essa viene a mancargli, conservare il benefizio della creazione sul posto in caso di buona ispirazione, essere in grado di adattarsi a circostanze impreviste, all'atteggiamento dell'uditorio, a un cambiamento di programma, agli obblighi che gl'impone una presenza ignorata prima, a un caso fortuito qualsisia. Per questo egli avrà cura di esercitarsi a improvvisare nelle occasioni che lo permettono, davanti a uditori familiari, trattando di cose facili, il cui contenuto è acquistato precedentemente e dove non si rischia nulla.

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Ecco ora quello che s'impone 3, chi non impara a memoria, se, come il primo, egli ha cura di correggere il gip metodo e di assicurargli i necessari compimenti.

Anzitutto, lo sappia bene, egli è tenuto a lavorare più di un altro, e non meno, come credono gl'incoscienti e gli sciocchi. Colui che usa meno tempo e fatica per comporre la sua predica perché la improvvisa, è uno stolto, oppure non è coscienzioso. Beethoven, il più potente improvvisatore che senza dubbio sia comparso, preparava le sue improvvisazioni su taccuini e le ruminava lungo le vie. Il Lacordaire v'impiegava due mesi; meditava, componeva, ricomponeva, con un accanimento pieno di una nobile inquietudine, le sue pretese improvvisazioni. Del resto, così fanno tutti, intendo quei che contano. Gambetta, propriamente, non scriveva, cioè la sua preparazione non aveva un carattere verbale; la maggior parte, in ciò che riguardava la forma, era lasciata all'ispirazione del momento; ma lavorava assai la sua materia; « le grandi articolazioni e le suddivisioni del discorso erano segnate in grassi e ostensibili caratteri su grandi fogli di carta bianca. A volte una formula, un'espressione che gli si era affacciata meditando era scritta come punto di riscontro per dare nuovo vigore al discorso (1) ». Si potrebbero portare molti altri esempi.

Nessun uomo serio si figura che la verità sia per scorrere dalle sue labbra, senz'altra cura, con tutta la sua efficacia e con tutta la sua grazia. La disciplina del pensiero è uno' sforzo doloroso. Se noi vogliamo precisare e aggiungere, metter in ordinebattaglia e in marcia animata le nozioni utili, una oscura tendenza alla dissipazione e a1 rischio ci obbliga a un forte dispendio di energia spirituale. Nell'improvvisazione si ha la fortuna che uno si merita. Non fissandocisi a una forma, bisogna prevederne venti, salvo a scegliere la ventunesima.

Per conseguenza, chi improvvisa si deve compenetrare a fondo del suo soggetto, meditare fortemente ciascuna delle sue parti, avere un piano sommamente chiaro e come obbligatorio, per essere sicuro di non deviare. A questo fine eviterà le somi-glianze ingannevoli tra due parti diverse e soprattutto curerà i suoi collegamenti, i suoi argomenti, le sue conclusioni. Con ciò si sforzerà di prevedere le espressioni forti, le immagini più vive, i paragoni, le apostrofi, salvo sempre ad abbandonarle per qualcosa di meglio, se il meglio si affaccia.

(1) Mémoires de M. Auguste. Qim'fSi, secretaire du grtind tribwn, Plori, ed,

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. In due parole, deve sapere perfettamente quello che vuoi dire e sommariamente come si deve dire; la membratura deve essere interamente assicurata; non si lascia alla circostanza se non i modi e i colori della vita.

In secondo luogo, è obbligato più che un altro ancora ad avere una preparazione remota molto spinta, molto completa, una forte istruzione, principii saldi, grandi cognizioni di fatto e un'esperienza ricca, a cui occorrendo potrà attingere. Egli pretende di essere pronto senza essersi preparato, almeno in una misura: non vi è mezzo di eliminare questo paradosso che spingere più in alto la preparazione; infatti la preparazione è sempre necessaria. Non vi è getto d'acqua senza serbatoio, e tra i due i livelli si corrispondono.

Sarebbe troppo facile ottenere senza pagare, e issofatto, idee giuste, felici collegamenti, forme pure, vive, esatte, e tutto ciò che altri acquistano a gran prezzo al loro tavolino. Ma no, ciò si paga, ciò si apprende.

Whistler, avendo un giorno fatto in quattro ore un mirabile ritratto, e vedendo degli amici maravigliati che ne chiedesse una somma abbastanza forte, disse loro bruscamente: « Sì, l'ho fatto in quattro ore; ma per imparare a farlo in quattro ore, io ho impiegato quarant'anni». Colui che si tratta da ispirato era pronto a parlare da uno o più lustri; egli legge nella sua memoria antica quello che si crede ch'egli crei. Lo crea infatti; ma è quanto dire che estrae dalla sua intelligenza quello . che vi aveva deposto allo stato di granelli e gradatamente maturato, senza saperlo, al sole della riflessione.

Da ciò segue che l'improvvisatore stesso deve scrivere molto, specialmente da principio. Scrivendo s'impara a parlare; parlando solamente, non s'imparerebbe che a barbugliare, a ripetere sempre le stesse cose, e si vedrebbe il proprio orizzonte restringersi sempre più, quand'esso si deve estendere. La rettitudine del pensiero e quella dell'espressione si acquistano con un lavoro preciso, accuratamente riveduto e insistente, che la parola non può fornire. Il possesso di un vocabolario svariato e di un tesoro di forme fissate .o plastiche esige lo stesso sforzo. E del rimanente, per il fondo stesso del discorso, intendo la dottrina, il controllo della scrittura è indispensabile. Nessuno pensa correttamente se non scrive. Il vago, che si crede infinito perché è mal definito, è sempre da temere; la frase scritta lo manifesta, si diventa così più accorto e più esigente per se stesso, mentre il puro improwisatore è lo zimbello di una vanteria

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che gli nasconde le sue insufficienze. Uno dei grandi segreti della forza intellettuale è il meditare e il praticare questa massima: La scrittura rende alla mente la forza che essa le prende.

Aggiungi che i pezzi scritti ti costituiscono un fondo che tu sarai ben felice di trovare più tardi, e fin da adesso nei giorni di penuria; essi fissano un livello per le evoluzioni della tua mente; il riferirviti di quando in quando è un riprendere forza.

Tali sono, se non m'inganno, le condizioni da adempiere, sia per improvvisare senza rischi seri, sia per apprendere e declamare senza paralisi della mente e pesantezza del verbo.

Queste condizioni sono esse di solito adempiute? Bisogna dire di no. Quei che imparano a memoria, frequentemente scrivono parlando, perché non hanno saputo parlare scrivendo;

la loro memoria non è abbastanza esercitata, o fu pigra, ed essi recitano stentatamente; codesta memoria che hanno caricata di tutto, non avendo essi saputo rendersi indipendenti da' suoi servizi, se viene a mancar loro, li lascia colare a picco e dibattersi penosamente per la gente e per se stessi. Spesso anche, non avendo bisogno di esser pronti ad ogni richiesta e non accettando di parlare che sopra un testo, meditano poco e si contentano di un'eloquenza di carta, talvolta saccheggiata qua e là, di modo che la loro predicazione è senza varietà e senza libertà di andamento, priva di ogni vita.

Se si tratta degl'improvvisatori, molti fra loro essendo diventati tali solamente per darsi delle facilità e perché avevano della facilità, abusano di quest'ultima. Anch'essi meditano meno, sebbene per un motivo contrario. Essi se la caveranno sempre! La circostanza, la piccola eccitazione dell'uditorio, è abbastanza per sferzare il loro estro. E a codesto uditorio sul quale contano non recano niente. La loro memoria trascurata non è stata surrogata dalla formazione della mente, e avviene che codesta mente gira a vuoto; gli argomenti non sono trattati; non si esercita influsso sulle anime.

Tutto ciò merita riflessione. Un istinto di pigrizia più diffuso che il vizio di questo nome c'inclina a scegliere, sotto colore di metodo, un qualsiasi « mezzo facile di andare in cielo », come se si ignorasse che in ogni materia il regno de' deli patisce violenza, e che solo i violenti, gli ardenti lo rapiscono. Il metodo, il più facile in apparenza, è quello del quale bisogna diffidare di più, e se non ne diffidi, se non fai quello che è necessario, esso diventa in realtà il più difficile. Avviso agl'improvvisatori.

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HI. — Conciliazione e dosatura.

Tra i due metodi così discussi, noi abbiamo lasciato il posto per un metodo misto, collocato ai confini dei primi, e che non vi è quasi più bisogno di definire, una volta che siamo orientati verso di esso dalle due parti. La cura di fuggire gl'inconvenienti degli estremi conduce affatto naturalmente al giusto mezzo, e credo bene che senza smentire nulla di ciò che è stato detto delle attitudini di ciascuno, del peso delle circostanze, si può raccomandare come il più generalmente applicabile e il più garantito contro le insidie di destra e di sinistra il metodo seguente.

Scrivere l'essenziale e impararlo perfettamente; ma — senza dispensarsi per questo da una meditazione profonda e da numerosi saggi interiori — abbandonare l'accessorio alla scelta e all'ispirazione del momento.

Che cosa s'intende qui per l'essenziale? Esso si deve intendere in tutti i sensi della parola, e in quanto a tutti gli elementi del discorso. Vi si comprenderanno dunque tutte le idee, almeno a titolo provvisorio, poiché è inteso che si vuole essere sicuri e tuttavia si deve restar liberi. Vi si includerà poi l'essenziale dell'espressione, vale a dire i passi, le transizioni, i movimenti, le figure principali, le parole di valore, non lasciando ingomma da trovare altro che il riempimento, che il predicatore è sicuro di eseguire correttamente, se egli è allenato allo stile dall'esercizio dello scrivere e dall'esperienza della parola.

Come si vede, questo metodo utilizza la preparazione in un modo più pieghevole in proporzione che ci si allontana dal fondo delle cose e ci si avvicina ai particolari. Vi è qui un largo spazio; questo metodo è legione; ma rimuove in ogni caso gl'inconvenienti temuti e conserva la maggior parte dei vantaggi. L'oratore non è libero in modo assoluto, ma i suoi legami sono allentati, ed è lui che ne ha stretto i nodi. Egli è un inventore che ricorda e un recitatore che inventa. La sua memoria è a un tempo sollevata e utilizzata, come pure la sua facoltà creatrice. In vero egli deve allenarsi a condurre di fronte, senza confusione e senza soggezione, il doppio lavoro di memoria e di creazione; ma questo si acquista prestissimo, e allora non si sta più in gogna, pur serbando saldi appoggi.

Per conseguenza, la parola potrà essere a un tempo studiata, soda, precisa, e naturale; costerà meno e varrà forse molto di

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più. Lo stato nascente delle cose ha sempre maggiore attrattiva e contiene maggiore incoraggiamento. L'uditorio, vedendoti libero eppure ricco, può esserne meglio soddisfatto; in vece di attingere a un serbatoio, esso beve a una sorgente.

A questo metodo ricorrono con tutta naturalezza i pastori, che devono al loro gregge un insegnamento preciso, continuato, lezioni di cose, lezioni brevi, e che, non facendo dell'eloquenza solenne, possono meno degli altri fare assegnamento su ciò che si chiama ispirazione.

"Seìlo stesso caso si trovano i predicatori di esercizi, invitati al discorso diretto e personale, senza magniloquenza, ma, in cambio, positivo e nutrito.

~!Son si può ripetere mai abbastanza che per i soggetti delicati, difficili a precisare e dove la precisione è di somma importanza, è prudente scrivere tutto e imparare tutto a memoria, perché allora le qualità di vita e di azione passano in seconda linea, e l'essenziale è di dire quello che bisogna, e di evitare quello che non occorre dire. Un discorso-manifesto, un discorso-programma, che si è sicuri di vedere spulciare fino nelle sue minute parole, potrebbe forse essere improvvisato?

IV. — Si può leggere sul pulpito?

Un'ultima questione in proposito è questa: Si possono portare foglietti in pulpito? Certi protestano rumorosamente e intendono il divieto perfino nella sala di conferenze. Io oso dir ad essi che la loro propaganda non è buona; che rischia di scoraggiare eccellenti predicatori, e che la fobia della carta non ha che vedere con lo zelo apostolico o semplicemente con lo spirito di verità. Se un uomo ha qualcosa da dire e non lo può dire se non con la garanzia di note scritte, gli si lascino le sue. note e si ascolti seriamente; egli ha probabilità di produrre più frutto dello smargiasso che misura le strade con le mani nelle tasche del suo abito attillato.

Conviene dimenticare qui le questioni di prestigio. Essere capaci di improvvisare a proprio vantaggio è una qualità preziosa; tuttavia è una qualità secondaria; prima di tutto conta quello che si dice e in quali termini si dice. Il pubblico non è tanto scemo da credere che si crei lì su due piedi quello che gli offre; che si crei o non si crei la forma, a lui che importa?

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II tutto è sapere se si è di fronte a qualcuno, e di qualcuno che parla.

Bisogna attenersi a quest'ultima considerazione per dare una soluzione al problema. La carta, l'assenza della carta, non è niente; ma la parola è una comunicazione; appena che la corrente è interrotta e si abolisce l'azione, la parola lascia luogo a una lettura che l'uditore potrebbe anche benissimo fare lui stesso. Leggere dal pulpito, propriamente parlando, è dunque assolutamente vietato; certo non fecero questo mai ne i Fénelon o i Lacordaire. Ma declamare con la carta in mano, perché no? È certo che per riuscirvi eccellentemente, conservare il contatto dell'uditore, mantenere libere le intonazioni, i giochi di fisonomia e anche i gesti, bisogna avere una grande esperienza della parola e per conseguenza essere capace di parlare senza ricorrere a questo amminicolo. Ma perché rifiutarsi un mezzo di economizzare le proprie forze e il proprio tempo, se non vi è danno?

Vi si rifletta, si provi e si consulti, supponendo che vi siano ragioni di pensare a questo metodo: ecco il nostro consiglio. Le soluzioni a priori non hanno alcun peso ; quelle che si danno sotto l'ispirazione incosciente delle proprie disposizioni non valgono se non per se stesso. Se il critico pensa a lui, vi pensi anche l'interessato e non creda a ogni parola.

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CAPITOLO IV.

L'elaborazione del discorso,

I. — L'invenzione.

A) L'ISPIRAZIONE INIZIALE.

« II corvo disse all'usignolo: Come fai? Ed egli: Apro il becco e faccio: tu, tu, tu ».

Temo che un medesimo sorriso accolga questi due versi e le spiegazioni che seguiranno. Sarebbe veramente troppo facile chieder ricette a chi sa, a chi può, e, seguendole fedelmente, pretendere di avere come lui il vento in poppa. Il vento non ubbidisce, al pari della gola del corvo, quando l'usignolo lo invita. Se tu sei condotto dallo Spirito, dice S. Paolo, non sei più sotto la legge: lo Spirito stesso è la tua legge, non sono più le regole degli uomini.

Questa legge dello Spirito è, certamente, imperiosa, precisa, ma non si può formulare, per la stessa sua precisione; essa si calca sulla vita, che è individuale e incomunicabile, su cia-scun caso e su ciascuna particolarità di questo caso, che non si rinnova mai. « L'unità di un quadro, scrive Novalis, la costruzione di un'opera pittorica (e lo, stesso evidentemente avviene di un discorso) poggiano su leggi tanto fisse quanto quelle dell'armonia musicale » (1). È perfettamente vero; ma d'altra parte Giordano Bruno scriveva: «Vi sono tante specie di vere regole quante sono le specie di veri poeti» (2), salvo che, parlando con precisione, i poeti non formano punto delle specie, e bisogna aggiungere i casi, che più ancora sono individuali e unici.

Per quanto so io, Hietzsche è colui che si espresse qui con la maggiore nettezza e forza. « L'artista, dice egli, sa quanto, nel momento dell'ispirazione, ubbidisce in modo severo e sottile a leggi molteplici che si rifiutano a ogni riduzione in

(1) movalis, Fragments inèdita. Paris, Stock. •

(2) giobdano bbuno, Degl'eroici furori, 1185.

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formule, appunto a cagione della loro precisione e della loro durezza. Accanto a queste leggi, le regole più fisse hanno qualche cosa di fluttuante, di molteplice, di equivoco. L'artista non fa-che danzare nelle catene » (1). Quest'ultima espressione è magnifica e molto istruttiva. Ma l'insieme del brano ci fa vedere quanto è necessario, se si vuole condurre il proprio spirito nell'opera creatrice, distinguere le leggi e le regole. Le leggi sono eterne, e non si violano mai impunemente; le regole hanno il loro valore, ma a volte rappresentano solo convenienze particolari, locali e temporali; il creatore non può farsi loro schiavo;

è lui il loro padrone, al contatto delle leggi e sotto il loro impero. Le seguirà frequentemente e sarebbe ridicolo sottrargliele orgogliosamente quanto preferirle alle leggi vere. Ubbidendo a queste ultime, s'incontrano spesso le altre che non furono concepite se non per questo; ma avviene altresì che, secondo la formula famosa, sia necessario « uscire dalla legalità per rientrare nel diritto ». « La regola d'oro è che non vi è regola d'oro », scrive Bernardo Shaw. A un musico senza genio che gli rimproverava un accordo « proibito », Beethoven rispose: « E io me lo permetto ». Di solito, osservando le regole accettate e classificate come tali, egli dava ai conoscitori e agli altri una pari soddisfazione. Ma resta il fatto che le leggi della creazione letteraria o artistica non si prestano a una formulazione decisiva. Ciascuno le deve trovare per suo conto. Eterne, non si precisano che in ciascun istante del tempo, in ciascuna parti-colarità dei fatti di creazione, in nessun modo a priori e una volta per tutte.

È forse una ragione per non dire nulla qui? ~So, certamente. ~Soi mancheremmo al nostro dovere; ma possiamo legiferare da lontano, soprattutto suggerire, proponendo nozioni che ciascuno avrà l'obbligo di adattare a suo uso, se vorrà ricordarsene. Quelli che non ne avessero bisogno troveranno forse un vantaggio a riconoscervisi; quelli che vi riconoscessero solo la loro insufficienza potranno imparare, se dico bene, a discernere le loro mancanze e ad acquistare.

L'oratore ha dunque il suo soggetto; ha il suo genere, il suo metodo, che ne comanderà più o meno l'elaborazione. Ma nulla è acquisito. Si tratta ora di sapere che cosa si dirà sopra il soggetto dato e come lo si dirà. Si tratta d'inventare; si tratti) fedbbioo nibtzsohb, Par delà le bien et k mal. Aphorisme 183.

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terà poi di comporre, finalmente di stendere, senza che del restò nessuna di queste operazioni si trovi maturata in se stessa. S'inventa componendo e stendendo; si compone e si stende già un poco inventando. Ma vi è nondimeno un ordine, e secondò quest'ordine, il compito preliminare, il meno prossimo al risultato e che, riguardo agli altri due, è come invenzione alto stato puro, ritiene questo nome: invenzione.

« Quando un'idea semplice prende corpo in una società, diceva Péguy, vi è una rivoluzione »: quando un'idea semplice prende vita nell'anima nostra e vi si organizza, vi è un'opera di pensiero, vi è un'opera d'arte. Ohe cosa è questa presa di vita, per la quale tutto comincia e senza la quale non vi è nulla? Non è così chiaro come sembra. L'invenzione è cosà misteriosissima, sulla quale gli psicologi moderni hanno lavorato molto, e non hanno finito.

È vero che le loro ricerche non hanno niente che possa appassionare certi predicatori. Per costoro, l'invenzione consiste nel saccheggiare un predecessore, come la composizione nel prendere un piano bell'e fatto, e la stesura nello svolgere questo piano con brani di testi. Io non condanno; ciascuno fa il bene nel modo che può; ma evidentemente è questo un procedimento di spirito servile, e la questione che noi ci proponiamo, se non lo riguarda punto, poiché esso prende il lavoro bell'e fatto, si riporta su colui che l'ha fatto, sulla mente creatrice.

Nell'invenzione si possono distinguere tré stadi. Vi è l'ispirazione iniziale, fondata sopra un'idea generale o sopra un sentimento dominante. Vi è la ricerca dei pensieri che saranno adibiti nel discorso, ciò che si può chiamare concessione, benché questo termine convenga anche ai due primi stadi uniti insieme. Vi è finalmente la scelta dei pensieri, in vista della loro introduzione nel quadro ideologico del discorso e nella corrente oratoria, e ciò si fa in concorso con la composizione, prova che non si tratta qui di parti staccate.

Che cosa è quell'ispirazione iniziale della quale parliamo anzitutto? Non se ne sa niente. Oe la rappresentiamo, per metafora, come una specie d'invasione dell'io quotidiano fatta da un io superiore che lo mette in moto. Plafone la chiama, in un senso affatto particolare, un delirio. «Vi sono due specie di delirio, dice Socrate nel .Fedone: uno causato dalla debolezza umana, l'altro da una trasposizione divina delle nostre abitu-

m —

clini normali ». Bisogna sognare l'opera prima di pensarla. Se la si pensa troppo presto o troppo esclusivamente, essa si raggrinza e s'inaridisce; se la si pensa debolmente, resta un inconsistente e inutile vapore. Si tratta dunque di una sintesi di sogno e di veglia; d'incoscienza e di coscienza, di stato di sogno e d'intrapresa, d'istinto e di ragione. L'ispirazione è come un sogno vegliato, un sogno lucido e rischiarante, un sogno vero. Ma badiamoci bene, poiché si tratta del vero, noi non parliamo di uno stato artificiale, simile a quelli provocati dall'etere o dal-l'hachisch, di una fuga dell'immaginazione lontano dalle realtà tangibili. Anzi questo ratto si deve produrre appunto al contatto delle realtà e dei loro più precisi caratteri. « Sono persuaso, scrive N'ovalis, che si perviene piuttosto a vere rivelazioni per la ragione fredda, tecnica, e per uno stato di mente pacifico, morale, anziché per l'immaginazione. Infatti questa sembra condurci solo nel mondo dei fantasmi, antipode del vero ciclo ». Del resto, Edgardo Poe, che s'intendeva in materia d'immaginazione, diceva, parlando di questa stessa facoltà: « L'uomo veramente immaginativo non è mai altro che un analista » (1). È nell'intimità delle cose, che si riesce a trovare; ma non è solo coll'occhio quotidiano, ci vuole pure una speciale disposizione, propriamente inesplicabile.

Ad ogni modo, si possono distinguere due aspetti, corrispondenti alla doppia natura di una creazione oratoria: è un'idea, una cognizione, ed è uno slancio; è una concezione generale del discorso, ed è un sentimento iniziale del suo cammino e de' suoi effetti. Ma il tutto è ancora nello stato di confusione embrionale; è una nebulosa: felice se potesse uscirne un mondo!

Quello che si ha davanti a sé cominciando è la faccia del possibile. E senza dubbio questo possibile consiste già in una commisurazione di pensieri, ma indistinti, « inarticolati » nel senso di Carìyle, per conseguenza incomunicabili, « una specie di mormorio inferiore, dice Claudel, sul quale si distaccano, più o meno espressi, certi tratti sparsi del poema (o del discorso) ancora sommerso » (2). Questi tratti sparsi, idee, immagini, forme o espressioni speciali, framménti di periodi, sono quello che Paolo Valéry chiama con una parola felice ruderi del 'futuro. È detto molto bene; perché il futuro è qui allo stato di continuità indivisa, di pura tensione, « d'intuizione pura »,

(1) edgabd pob, Doublé assassinai dalia lairm Mwgwe^ init,

(2) paul claudel, Lettre a Jacques Biviéfe, 25 wsWi 1919.

16 — sbrtiilanobs. l'oratore crtsiiano,

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direbbe Bergson, e ciò che se ne distacca già in proposito è propriamente un rudere. Ciò servirà o non servirà; ma è una testimonianza anticipata del fine proposto, fine attualmente inafferrabile, disegno segreto, disegno che non si disegna, presenza invisibile, come di un avvenimento che si presagisce, come di una parola che si cerca.

Dico inoltre che l'ispirazione iniziale, specialmente oratoria, è anche uno slancio, un sentimento del procedere del discorso, della sua portata spirituale, del suo influsso sopra le anime, del mistero che deve comunicare in quanto che è un mistero per noi,' un messaggio. A questo titolo, l'ispirazione non è più una commisurazione di pensieri indistinti, è un'onda d'impressioni, una specie di carica elettrica, che non è ancora ne luce ne rumore, ne lampo, ne tuono, ma che, animando l'oratore, gli suggerisce degli inizi di procedimenti spirituali, degli abbozzi di movimenti.

Si vede davanti a sé non so quale estensione oscura e già vi ci si slancia, senza discernere ancora alcuna via. La via sarà la fusione oratoria che la indicherà e la percorrerà; la composizione ne segnerà la direziono precisa e le tappe; l'elocuzione vi si avanzerà; frattanto si prova l'impulso segreto che permetterà di avanzarvisi con fortuna.

« ÌSoia. so che cosa sono per cantare, dice un poeta russo;

ma la mia canzone matura »; il discorso, similmente, stabilisce il suo ritmo, la sua progressione, il suo andamento conquistatore. L'ispirazione, se ti prende, traccia in tè, senza che tu ne possa cogliere la torma esatta, un rabesco di onda, un zigzag di lampo; o, per riprendere il paragone della nebulosa, una spira che mostra indecisi giramenti.

È strano, ma è così. Il mistero che allora si manifesta è quello del subcosciente, di quell'officina della natura in noi, dove si elaborano dei pensieri che non sono tali, dei voleri che non sono ancora voluti, dei sentimenti che non si sentono, del potenziale in una parola. È questo un fatto comune a ogni invenzione, estetica o pratica. Oratoriamente essere ispirati, è dunque come prendere volo in se stesso, doppio volo del pensiero e dell'emozione comunicativa, e quanto più questo slancio è potente — purché si sappia poi dirigerlo e farlo riuscire — tanto più il risultato sarà ricco.

Del resto questo risultato sarà di suscitare nell'uditore un simile stato d'anima, aggiungendovi senza dubbio dei pensieri chiari e delle risoluzioni effettive, ma sostenute da quella ixn-

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pressione di fondo, confusa ideologicamente, nettissima a suo modo, che ne formerà il principale valore.

È un fatto che certi discorsi che hanno commosso, continuano a fare del bene molto tempo dopo che se ne sono dimenticati i termini o anche il soggetto. Tal è il « dardo » che Pericle lasciava nell'anima degli Ateniesi. L'uomo che ricorda si trova allora allo stesso punto che l'uomo che ha parlato, nel momento in cui riceveva la prima ispirazione dell'opera sua.

Si può provocare l'ispirazione così intesa? Così bisognerebbe, poiché da essa dipende tutto l'esito, poiché la sua profondità, la sua forza di vita misura la convenienza e l'efficacia della composizione, dell'elocuzione, dell'azione. Così bisognerebbe; ma a titolo diretto, non si può fare gran che;

non si possono creare disposizioni delle quali s'ignora la natura. « Mente riesce se non quello che viene da sé », scrive Keyserling. « Non fare se non quello che si fa in tè », consigliava la signora Adam a Pierre Loti.

Tuttavia, a quello che non si può provocare direttamente, è possibile disporsi. Si può mettere la propria arpa eolia ai passaggi ordinarii del vento. Si può meditare, pregare, coltivare lo spirito di silenzio, conservare la solitudine interiore, mettere l'anima in desiderio e in attesa perché la visita del dio interiore sia possibile e perché, non essendo turbata la sua dimora, egli possa agire secondo la propria legge.

Si può anche bazzicare coi grandi pensieri, con le grandi opere, coi grandi esseri, coi grandi spettacoli. Tutto ciò, non solo., in realtà, ma forse più ancora in immaginazione, agisce sopra la nostra facoltà creatrice. « La grandezza, il bisogno di un ritmo ampio è pressoché la misura della potenza dell'ispirazione », scrive Nietzsche (1). Ciò opera automaticamente; opera anche da parte di Dio. Lo Spirito Santo e i suoi doni si aggiungono al genio naturale e a tutto quello che lo fomenta. Noi abbiamo suggerito queste cose parlando delle fonti e degli appoggi intcriori della parola di Dio.

In un tempo più lontano, ci si renderà l'ispirazione favorevole approfittandone con fedeltà quando si presenta. Vi è mutua reazione delle energie e dell'uso. A ciò serve il lavoro. Quand'esso è condotto appassionatamente, « come si gioca una carta sulla quale si è posta una somma considerevole »,

(1) fbhebioo nieizsohb, Scce Some.

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diceva Goethe, il lavoro feconda lo spirito, che allora concepisce dei progetti a misura che ne compie. La riflessione cosciente e l'istinto incosciente si mescolano con tutta naturalezza ' « come l'ordito e la trama». Goethe diceva a Humboldt di avere ^per questo paragone una predilezione, e di fatto esso calza bene. Finalmente la condizione previa a ogni ispirazione un po' ;

continuata è una soda e ricca cultura. Si darà a colui, che Jia. j Si attirano le idee- come si attirano le api, preparando loro un alveare. Fare della mente un alveare ben ordinato e già fornito' di miele sarà il mezzo di ottenere felici concezioni nuove. In, tutte le cose, come nella guerra secondo Napoleone, « l'ispirazione è la soluzione spontanea di un problema lungamente meditato ». E tal è indubbiamente il miglior senso di questa formula di Buffon tanto discussa: II genio è una lunga pazienza. :

È una lunga pazienza nell'esecuzione, dopo la concezione detta geniale; ma anche questa concezione non è scaturita, nella quasi universalità dei casi, se non a capo di una precedente e. più lunga pazienza. Non è forse ciò che faceva dire anche a, Baudelaire: «L'ispirazione è lavorare tutto il giorno? ».

B) la RICERCA DEI PENSIERI.

Eccoti col tuo soggetto vivo in tè, ma ancora nello stato di possibilità per lo meno in quanto al principale, nello stato di pensiero ancora indistinto, di movimento senza dirczione fissa. Si tratta di trovare la materia del discorso, in attesa della sua forma. Questa seconda fase è quello che io ho chiamato stadio della concessione, dopo l'ispirazione iniziale.

Qui le pratiche differiscono. Certi applicano tosto la lor riflessione a cercare un piano. Quando l'hanno trovato, ne riprendono ciascuna parte e riflettono di nuovo, aiutandosi ' con letture, a fine di riempirlo. È un buon metodo. Non vi è ragione per cui esso non riesca, soprattutto, penso io, per una. mente riflessiva. A ciascuno spetta di sapere se debba attener-visi dopo averlo sperimentato.

Ma ve n'è un altro che io personalmente preferisco di gran lunga, e fui maravigliato di aver saputo abbastanza tardi che era quello di Bourdaloue. Si sarebbe creduto volentieri il contrario. I suoi piani hanno tutta l'aria di essere a priori, sono^ così strettamente logici! Si crederebbe che egli li stabilisse con cura, e poi li riempisse. Ebbene, no! Egli lavorava prima a caso, faceva il giro del soggetto in tutti i sensi, come Bodin

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faceva il giro del suo modello, perché il suo busto o la sua statua fosse come « un manipolo di profili ». Bourdaloue, l'uomo dei grandi pensieri collegati e calzanti, scriveva i suoi pensieri senza ordine, almeno definitivo (infatti le idee d'ordine che si possono presentare si devono diligentemente raccogliere, come si vede in Pascal). Solo dopo questo, Bourdaloue cercava il suo piano. Di questa « pasta » (1), egli formava il suo pane, e ciò che restava nei suoi cassetti uscì in parte sotto forma di pensieri. Indicazione consolante pe' suoi imitatori, compenso eventuale dei sacrifizi numerosi che s'impongono nel momento della composizione, se si vuole evitare il sovraccarico.

Comporre così per isolotti che si ricongiungono col continente futuro, far precedere il lavoro di organizzazione da una libera ispirazione sporadica, o, se si vuole, trovare dei punti della propria curva, moltipllcarne il numero, e, nel momento voluto, tracciare d'un getto la curva è eliminare la fatica di una composizione obbligatoria e l'ansietà che provoca la pagina bianca, è assicurarsi del lavoro fresco.

Qualunque sia il metodo scelto, le condizioni della ricerca sono sempre le stesse; variano soltanto le sfumature di applicazione. Io supporrò per maggiore comodità che si sia scelto il secondo metodo. Allora due cose si hanno da fare. Primieramente, preparare il proprio lavoro con un ricorso — se occorre — al lavoro altrui, comunque alle fonti comuni: alla Scrittura, aiutandosi con la Concordanza; alla liturgia, indispensabile in certi casi, per esempio se trattasi di una festa speciale, e uti-lissima sempre; alla teologia, per precisare la propria dottrina e ottenere buone definizioni; alla filosofia, forse, o a qualche tecnica impegnata nella discussione, per esempio la scienza sociale; finalmente ai maestri che hanno trattato il soggetto o un soggetto analogo, se si sente il bisogno di questo conforto.

Dovendo trattare un determinato soggetto, una buona abitudine consiste nel cercare nella Concordanza le parole vicine o lontane che da vicino o da lontano vi si riferiscono; ben di rado avverrà che non si trovino così preziosi suggerimenti: testi da citare, allusioni, immagini, formule incalzanti, idee di svolgimenti, eco. In materia dogmatica, l'Index tertius di S. Tom-maso può rendere servizi analoghi. Oertuni consultano nello stesso modo i migliori dizionari, nei quali, fra i testi tolti dai

(1) L'espressione è di Renan, seguace fervente dello stesso metodo. Barrès, ohe lo praticava egli pure, chiamava il suo pacchetto di note: le mortatre.

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maestri della lingua, si possono raccogliere molti pensieri e, quel che è meglio ancora, molti eccitamenti a pensare.

Ho trattato ne La Vie intellectuelle di ciò che allora dev'es- :' sere l'atteggiamento del lettore, lo spirito che fa la parte di èalamita riguardo a ciò che gli può servire, lasciando cadere tutto il resto; questo, grazie all'ossessione del fine, all'accaparramento di tutta l'attenzione per via dell'ispirazione primitiva.

È chiaro che per profittare dei suggerimenti così incontrati, bisogna che l'oratore sappia creare egli stesso, come per valersi , delle figure vedute nelle nuvole, bisogna saper disegnare. Ma noi non insegniamo l'arte di saccheggiare gli altri senza servirsi della propria testa. All'opposto, è il momento di trar fuori le proprie note personali, se si hanno, come pure il risultato di più antiche letture. Poi, si rifletterà durante il tempo necessario, andando e venendo così come allo scrittoio, facendo lavorare la notte, come si è dovuto imparare a fare (1), spiando tutti i contributi di fortuna, come Delacroix che fissa con una pennellata il tono «magnifico» di un facchino dalla pelle rosso? rame, come Beethoven che nota la linea melodica di un corno'. di carrettiere, o il ritmo dei trabalzi sulle lastre di pietra (2). i Tutto capita a colui che cerca, e, viceversa, non si trova se non;;

si ha lo spirito del cercatore. Tutto può servire a tutto, quandoi' Si sorprende il nesso.

L'oggetto delle riflessioni, come quello delle letture, non si;' deve limitare al soggetto preso in se stesso, ma deve compren-^ dere la maniera di presentarlo, i mezzi da adoperare per ilhi-? minare più sicuramente il pubblico, per trascinarlo, per aiutarlo a fissare i risultati che si sperano. Si mette tutto per iscritto, senza spingersi al di là di ciò che si offre, guardandosi tuttavia dal perdere uno svolgimento se si presenta bell'e fatto. Questi svolgimenti sono i migliori, perché procedono . dalle leggi della mente, in vece di ubbidire a impulsi fittizi. • E se, in quell'occasione si affacciano idee per un discorso futuro, non si trascureranno; i grani si conservano, e il saggio economo fornisce così, prestissimo, i suoi granai.

L'atteggiamento della mente, riflettendo, come leggendo, — intendo sempre in vista della stesura finale di cui ci occupiamo — dev'essere un atteggiamento di chi spia, per conse-

(1) Cfr. La Vie intellectuelle, eh. IV, I e II.

(2) « Per lui, dice il suo amico Czemy, ogni rumore, ogni movimento diventava musica e ritmo »,

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guenza un atteggiamento passivo o soprattutto passivo, Come nell'orazione. Nell'orazione si ascolta Dio; qui, si ascolta ancora Dio, ma si ascoltano anche le cose che, nel suo nome, dicono il vero a chi sa udirlo, a chi non fa troppo strepito e falsi gesti dentro di sé, a chi dimentica se stesso, si lascia pervadere, permette all'emozione di trovare la sua propria forma, osserva il nascere spontaneo delle idee, perde il suo io nell'ambiente spirituale che esplora e diventa in qualche modo il suo proprio soggetto.

« Bisogna lasciarsi fare », dice alla sua volta Sainte-Beuve. Fuggire la premura, l'agitazione e specialmente l'orgoglio, non è certamente altro che una condizione negativa; ma la mente fa il resto; le sue forze incoscienti hanno maggior pregio che i nostri interventi. Quel che ha maggior valore nel discorso è ciò che non costa niente, che viene da sé, che s'impone o si an-nunzia nella gioia dello spirito.

Durante questa fase di ricerca, come più tardi componendo o scrivendo, è ancora più essenziale tenersi di fronte alle anime alle quali ci si rivolge. Un furiere, al mercato, pensa a cibare la sua compagnia, non a fare collezione di legumi o di frutta. Il gabinetto di lavoro è a un tempo l'amico e il nemico dell'oratore; gli da la solitudine, ma lo minaccia dell'isolamento, e l'eloquenza è un colloquio. Il cercatore s'immagini dunque il suo uditorio, gli parli interiormente, ascolti le sue risposte, senta in se stesso se esso capirà, se apprezzerà questa o quella cosa, se ne sarà commosso. Allontani ogni volgarità e faccia ricorso al mistero, fondo di ogni nobile predicazione. I nostri soggetti sono sempre misteriosi; toccano l'infinito, ed è questo che importa. Il cammino attraverso a un soggetto non è che l'occasione di raggiungere l'infinito, di fare una caduta in Dio. Se all'uscire della predica, il tuo uditore non pensasse più al tuo soggetto, ma riportasse una grande impressione religiosa, che trasfiguri i suoi « soggetti » proprii, che successo! Tu per il primo devi dunque cercare la tua materia predicabile in un profondo sentimento religioso.

C) la SCELTA DEI PENSIERI.

Inventati, accuratamente notati, i pensieri devono subire una scelta ed essere sottoposti a un ordine. Il metterli in ordine sarà propriamente la composizione e, indubbiamente, la scelta ne dipende; tuttavia la dipendenza è qui reciproca; infatti tu

puoi essere incitato ad adottare un certo piano dal desiderii d'introdurvi certe idee; tal è pure il caso generale nel metodo descritto or ora, ed è una necessità evidente quando si tratta delle idee costitutive del piano stesso. Vi è dunque motivo di parlare della scelta delle idee, fatta astrazione dal metterle in or- ';' dine senza dimenticare per questo che le due cose sono connesse.;

Poiché la composizione non è che il mettere in opera l'ispirazione, il principale è di scegliere, tra le idee che essa sugge-, \. risce, quelle che rappresentano meglio questa ispirazione iniziale, che saranno dunque capaci di suscitarla alla loro volta negli uditori. Questi frammenti si subordineranno tutti gli altri che saranno per essi, sia una preparazione, sia un arricchimento, sia un ampliamento. In modo generale, bisogna scegliere, tra le idee che ti si affacciano o che incontri, non quelle che hanno un maggior valore assoluto o il maggiore interesse, o che sono più piacevoli, curiose, originali, eco., ma quelle che servono al fine voluto e cercato. Se un'idea non serve a ciò che ti proponi, il suo interesse è vano; anzi, quanto più essa è interessante, tanto.;

più nuoce, perché accaparra l'attenzione e turba così il cammino. Leconte de Lisle diceva a Barrès che un poema non deves ? esprimere niente che non sia utile al suo tema, e deve poter ter-';

minare con < come si voleva dimostrare ». Tanto più un discorso, y

Vale a dire che il sacrifizio s'impone alla bella prima, cornea s'imporrà per tutto il corso del lavoro. Ben fissato e ben pre— sente il proprio partito, si raccoglie tutto ciò che vi conferisce, ^ si rigetta spieiatamente tutto il resto. Così si ha già il vantaggio;;;

di non sovraccaricare il discorso, e si ha pure il vantaggio di , lasciarlo a se stesso, alla sua unità piena e non straripante, ;. alla sua logica. ;;

Ma bisogna aggiungere che il sovraccarico è da temere anche, ' riguardo alle idee utili, o che si pretendono tali. « Ohi non sa ' limitarsi non ha mai saputo scrivere ». Quanto più vi sono idee'i:

di sovraccarico, tanto meno ve ne sono per l'uditore, perché si sopprimono le une colle altre; soffocano esse, e si soffoca ad ;;

assorbirle: del resto, non si assorbiscono punto, o, comunque, < non si assimilano affatto, poiché nello stato in cui sei obbligato ;

a lasciarle non sono punto assimilabili. Troppe idee vuoi dire .;

troppo poco svolgimento, mancanza di rilievo, assenza di ? quelle preparazioni che aprono le anime. Del rimanente, ciò ^ non è oratorio, non è bello; è una sfilata di scheletri. Oppure ' allora non si finisce mai, ed è gran danno. « Le prediche brevi

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sono molto bene accolte, dice S. Tommaso d'Aquino; se sono buone, si ha più piacere a sentirle; se sono cattive, pesano poco » (1). Ciascuno spirito ha la sua capacità; ciascuno viene con la sua coppa; una volta piena la coppa, ciò che ribocca è più che inutile, può far rigettare il tutto.

Ahimè! ti puoi tenere per soddisfatto se ciascun uditore porta via un'idea, un impulso, una risoluzione, una sola! E, senza dubbio, perché una cosa sia ritenuta col suo pieno valore, è necessario darne più di una; ma guardati dall'impinzare, tienti in un'ampiezza modesta, che invita all'attenzione e non sconcerta punto. Dare una veduta impressionante delle cose è meglio che ingombrarle di considerazioni, e ciò vuole una certa brevità, in cui la moltiplicità ricca è solo evocata, come in quei quadri di Eembrandt che danno un'impressione di colorito intenso e sono quasi monocromi, come in quelle prospettive di Buysdael dove una città figura in pochi tratti.

Il discorso si deve poter abbracciare con una sola veduta, come un quadro. Non è esso un quadro successivo? Eugenio Delacroix, pittore e scrittore, vide molto bene questa corrispondenza. Egli racconta nel suo giornale (2) che un visitatore gli faceva complimenti de' suoi quadri dicendo: « Vi si vede tutto a un tempo ». « Questa espressione mi ha colpito », scrive egli, e lui stesso l'applica alla produzione letteraria: « Qual è

10 scopo più desiderabile in letteratura? È quello di produrre alla fine della propria opera quell'unità d'impressione che da

11 quadro tutt'a un tempo » (3). Ma come ottenere questa unità, se tu non la riduci a ciò che la rende manifesta? Eicchezza, semplicità, unità: ecco quel ohe dev'essere la preoccupazione nella ricerca.

Per conseguenza, non devi prevedere troppe divisioni, e meno ancora suddivisioni che sparpagliano la luce. Il Oorreggio, il Eembrandt procedono per grandi sprazzi di luce e per grandi piani di ombre, ed è una parte della loro forza. Ora bisogna pensarci alla bella prima; perché, se il sovraccarico è alla base, è senza rimedio. È il caso dei molto giovani predicatori, come dei molto giovani artisti. Un novizio oratore infarcirà un solo punto di discorso delle idee di un intero discorso, se non di una quaresima. È questo un semplice segno d'inesperienza;

(1) In Epist. ad Sebraeos, cap. XIII, leot. Ili, ad finem. •'

(2) eugenio delaoboix, (Euvres littéraires, t. II, pag. 804,

(3) Ihid., t. I, pag. 74. •!:•'

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più tardi, sarebbe un segno d'impotenza. Si moltipllcano le idee quando non se ne sa sfruttare nessuna.

Ciò del resto si deve intendere più o meno strettamente secondo il carattere dei discorsi. Puoi proporti di presentare un insieme completo, di esaurire la tua materia, in qualche modo, a fine di mostrare tutte le articolazioni e tutti gli aspetti di un dato soggetto. Ma allora, la legge del sacrifizio si riporta sui particolari, e inoltre si deve sapere che un tale discorso può essere interessante, istruttivo e insomma opportuno, ma non potrebbe essere eloquente, se non a lampi. ~Son se n'ha il tempo. Un movimento oratorio vuole una preparazione e una continuazione; è un'onda, e non si scherza con le leggi di equilibrio e di espansione del flutto.

Soprattutto, nessuna concessione al partito che tu non adotti. Scegliere è escludere. Sopra ciò bisogna essere intransigente;

a questo prezzo è la nettezza del lavoro e per conseguenza il suo effetto. La larghezza non ne soffrirà punto; infatti essa si riconosce non in estensione, ma in altezza e in profondità; non dipende affatto dal numero degli oggetti, bensì dai loro rapporti, cioè dalla loro unità. Io amo un discorso in cui si è saputo fare entrare il cielo e la terra; ma, dirò, non amo che quello, perché solo esso risponde a quello che è ciascuno dei nostri temi: in un unico Poter, non si trovano forse il cielo e la terra? Ma non è una ragione per fare un corso di astronomia e di geografia fisica. L'ampiezza di concezione si oppone precisamente a tali particolari, nonché richiederli. E del resto, conviene avvertire il giovane predicatore che la ricerca dell'ampiezza è, al principio, una tentazione pericolosa. Essa è una ricompensa. Mancando ancora di acquisito e di esperienza nel maneggio delle idee, volendo allargare i proprii orizzonti, egli rischia di cadere nell'ampollosità. Lavori piuttosto in profondità, e a poco a poco, conoscendo più cose per l'intimo e acquistando così il senso della loro connessione intima, sarà condotto senza perdita a un progressivo allargamento.

• II. — La composizione.

Ai qualità DI UNA BUONA COMPOSIZIONE.

Al soffio dell'ispirazione, le idee germogliarono, pullularono o si unirono insieme, pronte a entrare in varie combinazioni. Adesso bisogna organizzarle. Occorre passare dalla percezione

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ancora oscura del soggetto alla sua percezione chiara (Leibniz). Si esce dal sentimento della propria opera per entrare nella propria espressione, o, secondo il nostro paragone di poc'anzi, si vuole della nebulosa fare un mondo. ]S"on sarai dunque più passivo; non ti terrai più immobile sotto il tocco del dio; sei tu stesso il dio, demiurgo. In vece della colomba all'orecchio, hai in mano il vivagno; il genio cede il posto al talento, « ed è più difficile », diceva Heredia. È più difficile, cioè costa di più, senza avere per questa ragione maggiore pregio. Ad ogni modo ciò è indispensabile. Avere un'idea non è niente, se non la si attua, se non la si fa passare per tutti gli stati successivi che faranno capo alla sua fissazione nella mente dell'uditore, nell'anima sua. Ora lo sforzo di mettere le proprie idee in ordine, per comporre, è eminentemente atto a fare penetrare nella coscienza degli uditori quello che si è concepito, a farlo ad essi concepire alla loro volta.

Si può aggiungere che questa cura della composizione, meno familiare a certe razze, è particolarmente richiesta dallo spirito francese, per ragione della sua formazione greco latina. « Comporre è ubbidire all'ordine latino », diceva Puvis de Ohavannes. E si può anche dire che è questa una preoccupazione attuale, se questo voto di uno dei nostri architetti è fondato: « Uno spirito nuovo deve animare tutte le forme dell'attività umana:

spirito di costruzione, di sintesi, d'ordine e di volontà » (1).

È dunque il momento di riflettere, di applicare intensamente lo spirito in vece di lasciarlo andare nelle vie di fortuna. Si deve fare opera di saggezza, poiché l'ordine è l'opera del sapiente, come dice Aristotile. « Comincia come un vecchio e finisci come un giovane », diceva Gros a' suoi allievi. L'esecuzione vuole della foga; l'invenzione vuole del sogno; la composizione esige una circospezione sagace, poiché all'azione della idea sopra l'artista succede l'azione dell'artista sopra l'idea, la padronanza. Dio voglia, che l'artefice possa non rovinare, toccandolo, quello che felicemente ha concepito o piamente raccolto nel suo periodo di libera ricerca! È il pericolo di un lavoro a freddo. Avviene che uno si faccia della sua bella visione iniziale « un chiaro di luna impagliato », come lepidamente disse un tale.

Ma pure non è a freddo che si deve fare la composizione. Si è in una fase di calcolo, ma di calcolo appassionato. Questo

(1) le oobbusito, Vera uw. ^irchitectwe,

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lo metto qui o lo metto altrove? Ciò significa: traccio una buona via alla mia ispirazione o ne traccio una cattiva? Eaggiungerò il mio uditore o non lo raggiungerò? Ecco tutto il dramma della parola. Dobbiamo persuaderci bene che tutto, nella fabbricazione del discorso, è d'importanza capitale gotto varii rapporti, e che mai fu meglio avverato l'assioma scolastico: bonum ex integra causa, malum ex guocumque defectu.

Dunque ardore creatore anche nella composizione, ad onta del procedimento calcolatore; testa fredda e cuore caldo; un po' di sonnambulismo felice dell'ispirazione, con la circospczione dell'uomo che veglia; un po' della matematica e della vita, perché l'unione organica delle parti, condizione della vita

- oratoria, ne è altresì un caso; uno scheletro è una carne rigida.

Di che si tratta? Di articolare la nostra idea iniziale, diciamo, di procurarle quello che Grazio chiama series, iunetu-

•raque (1). Non si tratta dunque che di essa; solamente in essa e non altrove si dovranno cercare le articolazioni desiderate, il concatenamento (series} e la solida commettitura (iunetura). È quanto dire che la composizione deve partire dall'intimo, Avendo penetrato a fondo il tuo pensiero, il tuo soggetto tal quale l'avevi concepito, avendone fatto il giro, essendo passato . da per tutto, non avendo chiuso gli occhi su nulla, avendo conquistato la comprensione completa del tuo tema, tu devi essere in grado di comporre; l'ordine ubbidirà alla mente che lo chiama, che ne ha bisogno per far vedere e sentire quello che essa ha sentito e veduto.

Noi arriviamo dunque a questo che la composizione è lo sbocciare naturale dell'idea prima, arricchita di ciò che le ha fornito di essenziale il lavoro di ricerca da lei stessa ispirato. • L'obiettivo è di procurare all'idea fondamentale la sua struttura, la sua, e non un'altra. È quello che in senso negativo si chiama restare nel proprio soggetto; è quello che Olaudel chiar ma « abitare il proprio soggetto », ma alla guisa di un architetto proprietario, che costruisce, come il chelonio, il proprio domicilio.

È questa una legge di verità. Nello stesso modo che vi è verità della concezione se essa si modella sulle cose: così vi sarà verità della composizione se essa si modella sulla concezione. La struttura di un discorso è della stessa lega che tutte le formazioni naturali: molecole, cristalli, piante, animali,

(1) obazto, Arte poetica,

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paesaggi, o universo. Se vi è maggior larghezza, è perché lo spirito è più ricco della materia; ma la composizione .è nondimeno un'ubbidienza a leggi organiche; essa procede per intus-suscezione, come la natura vivente, non come si fa un albero di Natale.

La facoltà da spiegare qui non è dunque principalmente l'immaginazione, la sensibilità, benché sian necessario, ma è il giudizio concentrato, è il buon senso. Ogni combinazione, estetica o pratica, deve rispondere ad evidenze, procedere a passi semplici, ubbidire al principio di adattamento e al principio di economia, effettuare e procurare sino alla fine una unità perfetta. È quello che fece dire che la più bella riuscita architettonica dell'uomo è la bica di grano.

B) L'ORDINE STATICO.

L'unità: ecco dunque la qualità essenziale di un piano sotto l'aspetto statico. Ben pochi discorsi lo offrono nella sua perfezione; a volte essa manca nei maestri. « Comporre è associare con potenza », scrive Eugenio Delacroix (1). Un gran discorso è come una cattedrale, uno piccolo, come una Santa Cappella; l'ideale, qui e là è quello di essere una cosa tutta di un pezzo, per quanto sia complesso, e perciò un gioiello d'arte quanto di umanità, perciò un degno altare del Verbo.

La maggior parte delle opere d'arte, in ogni genere, hanno più centri di gravita; ora non ce ne vuole che uno, attorno al quale si equilibra tutta l'opera. È l'insegnamento di Socrate nel Fedro, in cui si vede l'arte della composizione riassunta in questa doppia cura: concentrare tutti gli elementi del lavoro in un unico punto di vista, che l'ispirazione iniziale ha fornito, e svolgere l'unica concezione secondo le sue articolazioni naturali.

Questa parola articolazione, così cara a Cariyle, richiama alla mente l'idea di un organismo vivente, e Scorate si guarda bene dal trascurare un paragone così illustrativo. « Penso, dice egli, che tu mi concederai almeno che ogni discorso deve essere costituito come un essere vivente, con un corpo che gli sia proprio (cioè che proceda dall'anima sua propria, dalla sua idea vitale), in tal modo che non sia ne senza testa ne senza piedi, ma che possieda un mezzo e delle estremità in rapporto con tutte le altre parti e redatte per l'insieme »>.

(1) etjobsto dblaoboes, (Eitvres IWraires, t. I, pag. 68.

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Per l'insieme, dice il saggio platonico; e vuoi dire che quello che è così in causa, è appunto l'unità dell'opera, è l'anima sua, è il suo flusso (su quest'ultimo punto ritorneremo) e, in vista dell'unità spirituale, è l'unità organica. « Tutte le parti del corpo sono legate, scrive Cuvier, ^volerne separare una dalla massa è riportarla nell'ordine delle sostanze morte »: così il membro di un discorso che non fa corpo col suo insieme. A questo prezzo è l'unità d'impressione, per conseguenza la forza, per conseguenza ancora la bellezza, perché « l'unità è la forma del bello », dice S. Agostino (1). Belle cose disperge non sono che una giustapposizione di bei pezzi anatomici; si richiede un vivente. Comporre è generare.

Per conseguenza, bisogna comporre non con piccoli tocchi successivi e disgiunti, ma per via di masse, vegliando bene all'equilibrio delle parti, a ciò che i Greci chiamavano simmetria, parola che oggi produce equivoco, ma che nel loro pensiero significava euritmia, disposizione armonica, esatto equilibrio dei mèmbri nel discorso vivo. È quello che Barrès chiamava « prendere il soggetto in pieno ». E perciò non si tratta di un equilibrio materiale, misurato al vivagno o alla bilancia. Vi sono degli equivalenti di peso, di volume e di estensione; è il gusto che li scopre. In pittura, la terra e il ciclo di un paesaggio si devono equilibrare; tuttavia, qualche ciclo di Buysdael mangia tutto il quadro — in apparenza. Guarda bene: la campagna è con esso in esattissimo equilibrio; solamente è in iscorcio, ed è una bellezza di più. Parimenti una parte del discorso può essere molto più ampia di un'altra, perché svolge quello che vi è ragione di svolgere e l'altra concentra ciò che vi è ragione di concentrare, per esempio uno scorcio dottrinale. È questione di giustezza, che si misura dal servizio dei fini.

Per questo il lavoratore che compone deve tenere fermamente sotto gli occhi quell'insieme al quale si subordina ogni cosa. La veduta dell'insieme aiuterà a determinare l'esatta relazione delle parti. Questa regola è dei pittori: « pensare al brano che non si dipinge », varrà grandemente per l'elocuzione;

ma vale assai più per la composizione. « Secondo il mio modo di comporre, scrive Beethoven, anche per la musica strumentale, io ho sempre l'insieme davanti agli occhi »: ond'egli, con Bach, Haendel, Mozart, è uno dei quattro più grandi maestri in architettura sonora. Egli dice: anche per la musica strumen-

(1) S. agostino, Spist., 18.

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tale, perché le parole del canto sembrano imporgli anche maggiormente questa vista dell'insieme, e appunto questo ci riguarda.

Ma se l'insieme è la preoccupazione costante, alle parti principali tuttavia, in questo insieme, si deve riservare la più particolare attenzione. Ingres loda Eaffaello perché, per stabilire un quadro di cento figure, egli non si occupava che di quattro o cinque, lasciando che le altre si disponessero poi sotto la loro dipendenza. Oorot vedeva sempre i suoi insieme come si vede un paesaggio di notte, d'onde emergono solo alcune forme. Onde si racconta nei laboratorii che quando andava al mattino per tempissimo a dipingere nella campagna, era solito di dire:

« Non si vede niente, ma vi è tutto », e un po' più tardi: « Si vede tutto: andiamocene ».

Questa politica dei dominanti ha una grande importanza in composizione. I pezzi maestri devono risaltare da per tutto, e non bisogna aver paura di rivolgerli in più sensi, perché si vedano sotto tutti gli aspetti e si giudichi della loro forza. Se è vero, come spiega Fénelon, che « il discorso è la proposizione sviluppata e la proposizione il discorso abbreviato » (1), è altresì vero che ciascuna sezione particolare, nel discorso, è o dev'essere un'idea principale sviluppata, e quest'idea tutta la sezione abbreviata.

Questo conclude subito per l'eliminazione di ogni superfluità; l'insieme vi sarebbe annegato; le materie non assimilate all'idea la insaccano e la paralizzano, come la grassa nei muscoli e in vicinanza alle articolazioni. Tessuti ricchi, ma ben netti, e giunture secche, ecco la legge di un corpo a un tempo elegante e robusto. Si abbia dunque il coraggio di sacrificare le idee avventizie, i tentennamenti, le preparazioni, o si mettano in riserva. ,

Spesso, l'unità organica si otterrà mediante una buona e completa definizione, su cui tutta la continuazione si appoggerà e prenderà la sua consistenza. Costruire organicamente è risolvere un'equazione. Perché l'equazione del discorso sia giusta, perché sia evidente e risolva il caso proposto, bisogna prima che questo caso sia ben posto, e a ciò serve una defini-

(1) fanblon, Lettre a l'Académie.

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zione precisa. Onde, parlando di cultura, io ho consigliato ai giovani di costituirsi tra le altre note un buon arsenale di definizioni.

In quest'occasione aggiungerò che i principii sui quali ci si appoggia, siano definizioni o altro, devono essere collocati nel piano in vicinanza delle loro conseguenze, e non nell'altra estremità del discorso. Si vedono dei giovani predicatori occupare la loro prima parte nello stabilire premesse, la seconda' nel trarre conclusioni: è un grosso errore. I principii isolati e messi in mucchio s'incomodano e si fanno ombra a vicenda, m vece di illuminare le loro rispettive conseguenze, e queste, all'altro capo, rimangono nell'oscurità. Oppure, al momento di concludere, occorre ripetersi, ed è una rifrittura.

Finalmente, una conseguenza dello spirito organico nella composizione, è quella di ricercare, oltre ai punti dominanti, i contrasti. Ciò non si oppone affatto. Ogni cosa ha il suo contrario che serve a chiarirla, anziché oscurarla. Contrariorum eadem est sdentici, dicono gli scolastici. Le idee in contrasto si fanno valere l'una coll'altra, si fortificano coi loro cozzi, e stimolano la mente dell'uditore allo spettacolo dei loro conflitti. Una delle bellezze dell'architettura gotica non è forse il contrafforte dell'arco di ogiva, la lotta dei pilastri di rinforzò e dei culmini? bell'organismo umano vi sono pure dei muscoli estensori e dei muscoli flessori, una sistole e una diastole, un'inspirazione e un'espirazione, eco. «Il maraviglioso, diceva Bour-delle a' suoi allievi, è uno squilibrio equilibrato, per mezzo di due ritmi contrari ». « In ogni oggetto, dice alla sua volta Eugenio Delacroix, la prima cosa da afferrare e fissare, mediante il disegno, è il contrasto delle linee principali; prima di posare, il lapis sulla carta, esserne molto colpiti» (1). Non è forse quello che significava il P. Lacordaire dicendo che una predica consiste nello scavare una buca e nel chiuderla: immagine del movimento contrastante, del quale egli fece un così grand'uso?

C) L'ORDINE DINAMICO.

Ecco che come a mio mal grado ho usato la parola movimento, quando si trattava ancora di un ordine statico. Perché l'ordine statico, nel discorso, non è in vero che un'astrazione. Il

(1) E. dblaoboix, (È'uvres Uttéraww, t. I, pag. 69.

.— 241 — •

discorso deve camminare; il discorso deve correre alla mèta. Ma anche il movimento è un ordine. 'Non si vede ciò nell'universo, dove l'ordine è il risultato dei cambi, senza i quali non ci sarebbero che elementi dispersi? Lo stesso avviene nel vivente e per lo stesso motivo. I cambi organici sono il principio della nostra unità, sotto il governo dell'idea-anima. E la stessa cosa si riscontra, benché vi si veda meno, nell'arte architettonica e in tutte le altre. L'unità della colonna è fatta della base che porta, del fusto che le trasmette il carico verticale, del capitello che riceve questo carico e si stromba per mostrarlo. Qui la bellezza non sarà che una buona ripartizione degli effetti della pesantezza, la bruttezza una sproporzione di potenza, In statuaria e in tutte le arti plastiche, si sa che il movimento ha anche maggiore importanza della forma. Un atteggiamento non è bello se non esprime un movimento compito o da compire, un'imminenza o una facilità di gesto alla quale l'immaginazione dello spettatore presta il suo atto. Agli occhi ,di Eodin, l'arte dell'antichità e l'arte di Michelangelo non differiscono se non per la natura del movimento: movimento soprattutto armonico negli antichi, nei fiorentini invece soprattutto contrastato.

Non occorre dire che la mugica vive di movimenti, che la sua unità è una sintesi di momenti e un'organizzazione nel tempo di fasi tutte transitorie. Essa appunto rassomiglia di più al discorso, e specialmente la sinfonia beethoviana, di un dinamismo così potente, ha il carattere di un vero discorso musicale. Non è forse per questo che, nella famosa Neumème, venne alla fine ad aggiungervisi con tutta naturalezza la parola?

Diciamo dunque che il piano del discorso cristiano dev'essere dinamico per il fatto che vuole essere unitario, per il fatto che si presenta come composisione. La composizione in questione qui è una composizione di forze, una composizione di gesti in tutti i sensi della parola, una composizione di movimenti ideologici, immaginativi, sensitivi, verbali, vocali, mimici. È un avviamento di un principio a una conclusione, di uno stato a uno stato, e il pioniere traccia la strada.

Non basta classificare idee, bisogna farle convergere, maneggiarle come un esercito, in vista dell'attacco vittorioso. Una specie di slancio eroico da al discorso più unità e più peso che una logica immobile. L'omogeneità, qualità così preziosa per l'armonia spirituale ed estetica, è qui il risultato di un cammino in avanti comandato da una mèta. È lo scopo

16 — sebtimangbs. Voratore cristiano. ; ,.

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che sempre si libra in alto, come un labaro; tu ti dirigi verso di esso ed esso ti accompagna, e determina la direzione e l'andamento. Per questa combinazione dello statico e del dinamico si verifica, per il discorgo rapido e come torrenziale, la celebre definizione di Pascal: « I fiumi sono vie che camminano e che conducono dove si vuole andare ».

Perché si adempia questa condizione, è evidentemente essenziale fissarsi uno scopo ben marcato, prendere un partito, e per quanto è possibile un gran partito, che, data una volta la scossa, non ti permetta nessun ritorno indietro. Tu non lo dichiarerai sempre; un certo mistero sulle tue intenzioni può aver pregio come eccitante dell'attenzione e della collabora- ' zione dell'uditorio. Si ama una mèta a un tempo ignota e presentita, che lascia da indovinare, e dove l'anima si scontra con un delizioso fatto di previsione confermata e di sorpresa. Ma quello che tu non sveli dev'essere per tè smagliante; perderlo di vista o distogliertene, sia pure poco, è un torto irremissibile. Tutto ciò che lasci fuori non sarà che materia morta, ingombro, ostacolo. In fatto d'arte, come nella vita, il grande ^ difetto è quello di non sapere scegliere la propria strada e;

seguirla. « II più grande errore è errare », dice Carlo Péguy. '

Osserviamo tuttavia che se tale è la legge d'un vero discorgo, • d'un discorso propriamente detto, avviene diversamente di una meditazione orale, come se ne fanno per esempio al mattino o alla sera di un giorno di ritiro. Qui non si tratta più di esaurire oratoriamente delle idee, si propongono; è l'uditore che ha l'obbligo di servirsene. Inoltre vi sono dei generi intermedi.

Ma ritorno al discorso propriamente detto, il cui dinamismo impone condizioni che ancora si devono ricordare. Anzitutto, la corrente dev'essere tanto più marcata e tanto più rapida quanto più vasto è il tuo piano. 'Son vi è altro mezzo per evitare quell'impressione di indice delle materie che è una piaga del discorso. Un politico, avendo molti da tenere d'accordo, li lancia in un'avventura, senza ciò essi si battono. Tu, avendo molti elementi da maneggiare, spingili arditamente al termine, e neppure uno straripi o s'impasto!. La rapidità ti è una garanzia di unità estetica, là dove facilmente regnerebbe la dispersione.

Dopo ciò, per applicarlo su questo terreno nuovo, ricorda quello che abbiamo detto della necessità dei contrasti. Allora, —• almeno così si poteva credere — si trattava di un contrasto

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di linee; ma ti occorrono anche dei contrasti di movimenti, delle rapidità e delle lentezze calcolate, delle pause che siano come silenzi di azione. Per la parola articolata come per la sinfonia, è noto il pregio del silenzio. Vi sono parimenti dei tentennamenti abili, come di un uomo che cerca la sua via e tutt'a tratto vi si slancia. Dopo un ragionamento serrato e come ansimante, tu avrai un allentamento; dopo un gran « movimento », un va e vieni familiare. Non sarà un fallire la mèta, ma un raccogliere le tue forze per raggiungerla. Avrai degli alti e bassi, movimenti nella terza dimensione, che ti faranno passare dal « sublime » a un tono quotidiano. Tenterai delle diversioni per operare un brusco ritorno. Ideila tua avventura della scalata e della marcia in piano, vi saranno delle rampi-cate alla corda e delle cadute agili nelle quali l'uomo che cercò il pericolo eroico non si farà male. Avrai anche, come in musica, dei « movimenti contrari », dai quali trarrai grandi effetti. È vero che, per tè, i movimenti contrari non potranno essere simultanei. Vi è nondimeno una simultaneità in largo senso. Un intero sviluppo si può costrurre su un principio di va e vieni in sensi contrari e dare un risultato impressionantissimo. La sorte del peccatore e del giusto, in questo mondo e nell'altro, vi si presterebbe benissimo. Le cadute apparenti della virtù sfortunata, che in vero sono ascensioni e che, dopo un cataclisma apparente, si cambiano in apoteosi; il rovescio esatto. per il peccatore nelle false prosperità: c'è lì veramente del movimento contrario; è la stessa cosa a doppia fase.

Sembra che a questo riguardo si possa paragonare il discorso a un torrente con deivrisucchi, con bollimenti attorno all'ostacolo, o meglio a una fiamma la cui direziono è fissa, ma le cui -lingue frastagliate vibrano e oscillano, si ripiegano frequentemente sopra se stesse, poi si raddrizzano e si slanciano. Questi giochi che incantavano S. Francesco, questa fierezza e questa nobiltà di frate Fuoco sono un bei simbolo. Il discorso cristiano è un fuoco: gli si dia l'aire; non si renda come un pezzo di legno arrossato di qua e di là, ma che non scoppietta.

D) L'ORDINE DELLA CAEITÀ.

Qualcuno si potrebbe domandare, sia innocentemente, sia mettendoci un po' di malevolenza, se tutto quello che diciamo della composizione statica, dinamica, ecc., ecc. sia davvero molto apostolico? JÈ3 arte, sì; ma è conforme allo Spirito di Dio,

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.allo Spirito che spira dove vuole, allo Spirito che è la nostra legge inferiore e vuoi essere anche quella dei nostri uditori? Vi è qui qualche cosa da esaminare e qualche cosa da ritenere.

Pascal distingue due ordini del discorso. Vi è, dice, l'ordine dello spirito e vi è l'ordine del cuore, l'ordine dell'amore, l'ordine della carità. Col suo realismo sempre così incalzante, egli

•scrive: « Non si prova che dobbiamo essere amati esponendo con ordine le cause dell'amore, ciò sarebbe ridicolo ». Perché ridicolo? Perché questo modo di procedere imperturbabile è la prova che non sei commosso, che ignori dunque l'amore pur richiedendo l'amore. Contrasto comico. Eidicolo.

Ma non facciamo noi la stessa cosa, esponendo molto sag-giamente, con ordine, i motivi di amare Dio, di fuggire il peccato o di fermare il peccatore sulla china dell'abisso, di cercare i beni prodigiosi, incommensurabili e interminabili che ci attendono lassù? — Sì, un poco, purtroppo! Per questo Nostro Signore non procedette in tal modo, ne S. Paolo, come spiega Pascal nel celebre passo: « Gesù Cristo, S. Paolo hanno l'ordine della carità, non dello spirito, perché volevano scaldare, non istruire ». Attenzione! volevano istruire, non con un'istruzione che terminasse in se stessa; essi miravano all'amore e alle opere. E noi?... . •'. '

E noi, bisogna che ci umiliamo, e non adottiamo un metodo senza umiltà. Se fossimo Nostro Signore o S. Paolo, o anche s.olo S. Agostino, S. Vincenzo Ferreri o il curato d'Ars, potremmo non preoccuparci delle leggi della composizione, perché uno Spirito superiore comporrebbe in noi. Diremmo come S. Vincenzo Ferreri dopo una doppia esperienza, l'una man-;.,

•eata perché si era preparato troppo, l'altra riuscita perché si;. era abbandonato al Verbo: « Non mi stupisco, ieri predicò Vin-'-eenzo, oggi predica Gesù Cristo». Ma noi non siamo dei santi;

non disponiamo dei mezzi dei .santi: vorremmo privarci anche .dei nostri?

Avviene come della carità e delle convenienze sociali. Queste >non sarebbero necessario, se regnasse una piena carità; le inventerebbe ciascuno per conto suo, e in vece di convenienze imparate, si avrebbe la vita. Così di S. Paolo diceva S. Agostino

•che, senza curarsene e senza sospettarne il nome, egli aveva inventato i tropi. Ma, non avendo noi questa carità perfetta, serbiamo ciò che la sostituisce e la serve, adoperandoci, e sem-,pre più, d'impregnarne ogni cosa.

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Ora questa impregnazione non sarà senza conseguenze. Mettendo la carità nel discorso — non solo nel suo scopo — vi s'introduce necessariamente, in qualche misura, l'ordine della carità. In che consiste quest'ordine? Consiste nella stessa cosa essenziale in cui consiste l'ordine dello spirito, cioè disporre le idee in vista dello scopo proposto e cercato; ma è lo scopo che cambia, o piuttosto che prende un impero più tirannico e più immediato, poiché esso è sempre lo stesso, salvo deviazione. Che cosa si farà per conseguenza? Secondo Pascal, l'ordine allora adottato « consiste principalmente nella digressione su ciascun punto che ha rapporto al fine, per metterlo sempre in mostra ». Egli dice principalmente, perché l'ordine dell'amore tocca ogni circostanza che interessa l'amore; ma la circostanza fine essendo la principale, è per rapporto ad essa che si caratterizza soprattutto l'ordine extra-logico così imposto.

In S. Paolo, il fatto è sorprendente. Pin dall'indirizzo delle sue lettere, la sua idea dominante è talmente tirannica, e così incalzante l'ardore apostolico che lo trascina, che lo vedi accumulare quelle « digressioni » tendenziose delle quali ci parla Pascal. Letterariamente, il principio dell'Epistola ai Eomani, con la sua lunga serie di genitivi, confinerebbe col ridicolo. Ma si tratta per davvero di letteratura! Il pensiero apostolico è lì così intenso che esplode e la granata scoppia tra le mani. D'onde, a volte, quel travaglio per ritrovare-questo pensiero ne' suoi detriti! Ma in cambio che calore, e quali enetti di vita!

ISeì corso dell'esposizione, la logica sarà urtata ad ogni passo; logica verbale e logica concettuale dovranno lasciare il posto a una logica segreta che è quella stessa del cuore, logica che si sa comunicativa e che non desidera altro.

L'apostolo non è un logico: la logica è solo la sua ancella;

non è un tecnico del discorso: la tecnica gli ubbidisce; quando occorre, la piega; parla « a tempo e a contrattempo », getta attraverso a tutto la parola salvatrice, il dolendo, Garfhago, che l'opprime. Eitomerà alla logica costruttiva nel momento in cui essa potrà servire: in 8. Paolo vi sono altresì dei capitoli composti con un'arte dialettica severa; ma se essa arresta il suo cammino egli dice alla logica: fuori di qui.

Ma per l'onesto predicatore che non è S. Paolo, il quale, non avendo lo stesso slancio dello spirito, deve rispettare i sentieri consueti della parola umana, vi è tuttavia qualche cosa da ritenere di quest'ordine ehe sorpassa l'ordine, di quest'ordine

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che prende figura di disordine nella schiera dei mezzi, per meglio salvare l'ordine dei fini. « L'utilità dei figli di Dio è la leeffe suprema della cattedra », scrive Bossuet. « Eischiare di dispiacere alla posterità », o più modestamente ai dilettanti dell'uditorio, non è una disgrazia che per il vanitoso; l'inquietudine dell'apostolo è per altra cosa, e del rimanente il buon giudice sarà qui dalla parte dell'apostolo, come ben ci fa vedere Pascal. La ragione è che il soggetto, le esigenze logiche del soggetto non hanno peso decisivo in fatto di eloquenza, se non d'accordo con l'obiettivo che provoca e giustifica la parola.

Che cosa vogliamo noi in fatto di sacra eloquenza? Introdurre Gesù Cristo nei cuori: bisogna dunque parlarne incessantemente. Vi sono dei mezzi per venire a Lui, ve ne sono per ritornarci quando lo si perde: noi avremo alla portata di mano di quelle sacre panacee che sono la preghiera, i sacramenti, la meditazione delle cose eterne. Ciò ha ben il valore d'un ultimo ripulimento della composizione. Ci si metterà del tatto; se ne cercherà la felice occasione; ma, occorrendo, la si farà anche nascere: non lo fa anche la passione temporale?

A questo riguardo, il P. Surin da una regola piissima e giustissima (1). Egli vuole che nell'orazione che, secondo lui, deve sempre precedere la predicazione, se ti si affaccia un pensiero atto a commovere l'uditore, non devi esitare ad adottarlo, fosse pure fuori del piano già organizzato e della sua realizzazione naturale. Lo stesso Spirito che ti ha ispirato questo pensiero ti aiuterà a valertene senza urtare contro nessuna suscettibilità legittima. L'arte è figlia di Dio come l'amore: saprà essa schierarsi col suo fratello.

Ciò si verifica delle ispirazioni dello stesso genere che si presenteranno nel corso della predica. Se esse ti sono imposte dallo zelo, non urteranno; sapranno procurarsi il loro posto;

sapranno anzi conciliarsi l'uditore, se lo stesso Spirito lo anima, e se non l'anima, si giudicherà ancora naturale che egli animi tè; il gusto, come il buon volere, ti sarà un complico.

Aggiungo solo questo. L'ordine della carità, appunto perché si prende dai più alti fini, non deve in nessun conto servire di pretesto alla nostra pigrizia. Il nostro sforzo si deve dare fino all'esaurimento; dopo, solo dopo, lo Spirito che non è legato a nulla prende il diritto di sostituire la sua <' follìa » alla nostra sapienza.

(1) Svsxa, CcctiSchiame spirituel, III e P., eh. 1.

247

III. — Le varie parti del discorso.

A) L'ESOBDIO.

Gli antichi trattati di rettorica insistevano molto su ciò che chiamiamo qui le varie parti del discorso; dividevano, suddividevano, qualche volta non senza sottigliezza, ma conforme a usi assai rispettabili. Oggi, per noi, si può domandare se tutto ciò ha la minima importanza. Onde non mi ci indugerò punto. Io penso alla natura delle cose, che è eterna, e poiché la natura mostra dovunque principio, mezzo e fine, essa c'invita a considerare nel discorso il suo esordio, la sua massa principale o corpo del discorso, e la sua perorazione, che richiedono brevi osservazioni.

Il principio, in ogni cosa, ha molta importanza. « II co-minciamento è più che la metà di tutto », scrive Aristotile. Il P. Lacordaire diceva che alla seconda frase, era sicuro di possedere il suo uditorio, e Faure: « Appena che tu apri la bocca, devi sapere con chi hai da fare ».

La prima impressione dell'uditorio rischia di essere definitiva: bisogna che sia buona. E quando sarà buona? Quando l'oratore e il soggetto si mostreranno l'uno e l'altro a loro vantaggio. Si tratta di stabilire una comunicazione, di cattivare l'attenzione, di compire al più presto questa cosa prodigiosa che una folla di gente venuta da ogni parte, sconosciuta a tè e sconosciuti gli uni agli altri, animata da pensieri e da sentimenti divergenti, formino un'anima comune, entrino nella stessa corrente, si portino verso una mèta comune. Lo scopo raggiunto sarà il risultato del discorso se esso riesce; adesso tu imbarchi la tua gente e mostri loro il pelago; mostri tè stesso ; come pilota, ed è un rischio che corri salvo che il prestigio acquistato o qualche diversione potente non ti soccorra.

Parliamo prima di tè. Di tutte le qualità intellettuali e ; morali che abbiamo richiesto dal predicatore, nessuna dev'essere offuscata a questo primo contatto, e tutte devono essere presagite. L'esordio sarà dunque improntato di modestia e di autorità, di spirito soprannaturale, di carità, e vorrei aggiungere di distinzione e d'incanto, se il solo pensarvi non fosse subito un farlo fuggire. Nessuna ostentazione della persona; ci vogliono cose, oggetti di pensiero semplicemente proposti, un bèl-

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l'orizzonte che si guarda e s'invita l'uditorio a venirlo a vedere, tutto ciò allo stato ancora avvolto e seducente come la speranza.

Sotto l'aspetto intellettuale, devi dar prova soprattutto di giudizio per dare confidenza, e perciò non devi cominciare col proporre paradossi. Perfino le arditezze legittime devono esser riservate; non ci avresti diritto e non le potresti imporre se non ;

dopo aver dato pegni di saggezza. Per cominciare, non proporre nulla di dubbio; per quanto è possibile di' cose evidenti, sulle ••' quali ti sentiranno appoggiato nel corso dei più vivi procedimenti.

In quanto al soggetto, e a dispetto della semplicità sempre necessaria, l'esordio sarà felice se da l'idea di una cosa grande, importante, nuova sotto qualche aspetto, e che tocchi l'uditore, sia che si tratti della sua persona, o almeno delle sue opinioni favorite o de' suoi affetti. I nostri soggetti sono tutti grandi;

il loro vantaggio è incessantemente nuovo; un carattere personale vi si riconosce sempre; spetta a noi di fare che se ne convenga e che senza falso artifizio, risplenda, fin dalla sua prima esposizione, la qualità drammatica del tema.

Ascolta questo esordio di Bossuet per un discorso sulla Pentecoste: Questa gioia pubblica e universale, che si espande per tutta la terra in questa augusta solennità, avverte i cristiani di rammentare che appunto in questo giorno nacque la Chiesa, e che noi siamo nati con essa per la grasia del nuovo patto... Ci siamo! la sinfonia è cominciata, e che semplicità grandiosa! L'universo e i secoli sono lì! La Chiesa intera è lì, e, senza essere invitato clamorosamente, l'uditóre fa parte della festa.

In quanto alla sua estensione e in quanto al tono che adotta, l'esordio dev'essere sobrio, a dispetto delle varie esigenze che esso può comportare. Si deve andare diritto al fatto. Se tu stanchi anticipatamente l'attenzione, non ne resterà più per il tema. JSTon preliminari oziosi; non anticipazioni, non digressioni tolte dalle tue note preparatorie. È questa una tentazione a cui soccombe più di un predicatore, e la perorazione la riproduce. Si arriva così a fare una predica prima della predica, una predica dopo la predica, e l'uditore ne soffoca. Ma domani, non lo prenderai più.

Lo so, nel secolo decimosettimo, si poteva così preludere a piacimento, trattare un soggetto preliminare in attesa dell'altro: oggi questo non si tollera più; i nostri uditori hanno premura: in chiesa non ci si insedia più, ti si presta un'attenzione breve: approfittane e non la stancare anticipatamente.

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Lo stesso dicasi del tono. L'uditore non ti apporta se non •una certa dose di sentimento disponibile, non si deve esaurirlo prematuramente; bisogna altresì permettergli di svegliarsi, non precipitare affatto, ma scaldare il ferro a poco a poco, per modellarlo nella forma che gli si destina. Un tono oratorio affatto naturale alla fine può essere ridicolo al principio. Non ci vuole ancora eloquenza, ma una semplicità elevata, una nobile gravita, nessuna agitazione, nessuna passione scatenata, tutt'al più un fuoco contenuto, che attende il soffio dello Spirito per dardeggiare le sue fiamme.

Del resto si lascerà con premura da parte questa regola se la circostanza lo richiede. Il giorno dopo le inondazioni della Loira, l'incendio del Bazar de. la charité, il bombardamento della cattedrale di Beims, chi avrebbe compreso un predicatore altrimenti che fremente o tragico? Ma allora è l'uditorio che comunica il fuoco; è l'avvenimento che grida e non permette il sussurramento di un calmo principio. Dal momento che il tema del discorso è appassionante e conosciuto prima, conosciuto, dico, come tale, e anche riconosciuto, un esordio animato è indispensabile. Bimane tuttavia da risparmiare le proprie forze e mantenere le proporzioni. Salvo che — perché ogni regola è relativa — il tuo esordio non sia in realtà il principale. Ciò può accadere. Tu hai una serie di prediche paciflche, un giorno scoppia un avvenimento straordinario; tutti attendono che la cattedra esprima l'emozione comune: devi scatenarti;

tanto peggio per il resto del discorso se il principio lo schiaccia.

La regola essenziale di un esordio, comunemente, è la chiarezza della proposizione che esso enunzia. « Di che si tratta? » come diceva Foch. L'uditorio sappia, o senta dove s'intende di-condurlo, e la prospettiva sia abbastanza attraente perché vi'. si avanzi. D'onde la necessità di un esordio ad rem, e non ad. omnia. D'onde questo consiglio, di non scriverlo se non dopo tutto il resto, o per lo meno dopo tutto il resto fissato molto chiaramente nel tuo pensiero. Così voleva Cicerone, e la più piccola) riflessione giustifica le sue parole.

B] le DIVISIONI DEL DISCORSO.

Può sembrare strano parlare delle divisioni del discorso dopo avere trattato ampiamente della sua composizione. Ma lo stupore non potrebbe derivare che da un equivoco. Vi è"

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divisione e divisione, come più sopra dicevamo che vi sono leggi e regole. Di quest'ultima distinzione appunto noi troviamo qui un caso particolare. Quel che avevamo detto della composizione scioglie il caso delle divisioni che ubbidiscono alle leggi;

ma ciò non scioglie la questione delle regole, tali quali regnano in virtù di tradizioni discutibili.

Per conseguenza, discutiamo, e domandiamoci che cosa valgano le divisioni classiche in tré punti, in due, raramente in quattro, e se è necessario a una buona composizione che un predicatore possa dire: « la mia prima parte, la mia seconda parte ».

Notiamo anzitutto che i nostri primi modelli, i Padri della Chiesa, non conobbero le divisioni così comprese. Esse sono di origine scolastica, e non è una raccomandazione assoluta, perché, se la scolastica ha del buono, anche per l'arte oratoria, vi è pericolo di confusione dei generi e di usurpazione dell'astratto. Per questa ragione Fénelon si sollevava contro le divisioni classiche nello stesso momento che esse riportavano i loro più bei trionfi. Per certo, quest'ultima particolarità non favorisce la sua tesi; perché essa dimostra che nella forma incriminata si possono foggiare immortali capolavori. Ma quel che è certo si è che questa forma non ha niente di necessario. Essa ha i suoi vantaggi; ha i suoi inconvenienti; si può confrontare, 'e forse... non concludere, o concludere per un discernimento permanente, ciò che credo sia la verità.

Quintiliano paragona l'utilità delle divisioni a quella delle pietre miliari, che incoraggiano il camminatore assicurandolo del cammino percorso e impegnandolo a proseguire. Esse rinnovano l'attenzione; ci si rimette (dopo aver tossito e fatto un po' di moto, ciò che è un ottimo segno). Favoriscono la memoria, nell'oratore e nell'uditore. Ci si può vedere un principio di nettezza, di chiarezza, di solidità costruttiva molto visibile, Si suppone che esse siano ben fondate; ma solo così si confronta.

Quali sono in cambio gl'inconvenienti? Si corre rischio di tagliare con barriere artificiali, volute, imposte anticipatamente, l'ordine naturale del discorso. Noi abbiamo paragonato il discorso a un edifizio: ogni edifizio è forse formato di tré ale, di due, o di quattro? Meglio ancora, il discorso deve rassomigliare al vivente: le divisioni organiche del vivente sono esse cosi a priori? Non dipendono dalla specie?

Se si pensa all'aspetto dinamico del piano, ci domanderemo se di un torrente o di un fiume non si stia per fare un canale

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a salti. Sarebbe spesso una perdita. Troppa industria, là dove

10 slancio della natura ravvicinerebbe lo scopo e renderebbe più efficaci i procedimenti. Nei due casi, si tratti di ordine statico o d'ordine dinamico, pare ci sia pericolo per l'unità vivente del discorso.

Non già, notiamolo bene, che non si possa far rientrare due o tré parti in una unità vera e vivente. Se non si potesse, sarebbe la condanna assoluta del sistema, poiché nessuna pretesa regola può contravvenire a una legge. Invece si può; i grandi così fecero magnificamente, e quando così non si fa punto, si sostituisce l'abuso delle regole classiche al loro vero uso. Ma è un fatto che questa unità a tappe corre rischio, in certe occasioni, di non essere che un'unità relativa. Si faranno allora tré discorsi che si collegano, come si farebbe un triduo su un dato tema. Sarebbe davvero tutto un discorso?

Si dice: ciò aiuta la memoria. Ma il miglior soccorso della memoria è un ordine vero, un ordine necessario, come nota- • vamo più sopra e dovremo ritornarci su. L'ordine delle dipendenze reali trascina la mente e svolge la catena dei ricordi. All'opposto, avviene che, con le divisioni obbligate, la memoria, più logica che l'oratore, ti faccia saltare dalla prima parte alla metà della seconda, oppure della terza, perché tale avrebbe dovuto essere l'ordine vero.

Quale conclusione? — Ciascuno scelga. — Ma il meglio? —

11 meglio, come spesso, consiste nel distinguere. E notiamo che per distinguere e per deciderci pensatamente, noi siamo liberi. Fu un tempo in cui l'assenza di divisioni — come l'assenza del testo — avrebbe urtato, ad ogni modo stupito e mal disposto forse l'uditorio. Non siamo più a quel tempo. I costringimenti arbitrar! sono, purtroppo! partiti con la disciplina. Alle antiche divisioni sapienti, a volte un po' pedantesche, si preferisce anzi volentieri un'organizzazione del discorso tutta interna, senza distinzioni visibili, con un centro di attrazione che non si annunzia. In una parola, si è introdotta una gran libertà, e, senza alcuna affettazione, puoi valerti di questa libertà per cercare il meglio.

Ho detto che il meglio è distinguere, considerando per questo le circostanze, il soggetto, la lunghezza del discorso, e anche l'oratore. Non senza ragione scrisse Paolo Valéry: « Due pericoli non cessano di minacciare il mondo: l'ordine e il disordine », Ciò si verifica non solo in politica e in sociologia, ma anche in arte.

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Vi sono dei casi in cui ima divisione nel modo classico è evidentemente contro indicata, come quando si tratta di un'allocuzione, di un'omelia, di un'esortazione, di un'esposizione avente un ordine proprio, impossibile a escludersi. Ve ne sono altri in cui la divisione potrebbe intervenire, ma dove l'ordine naturale dei pensieri non la rende necessaria: allora, essa non fa che ingombrare e nuocere all'unità di composizione e di movimento, come dicevamo. Finalmente vi sono dei casi in cui le divisioni s'impongono, cioè quando lo stesso oggetto del discorso è nettamente molteplice, pur serbando, poiché è un oggetto, la sua unità fondamentale. Predicando sulla carità tu sei davvero obbligato a distinguere l'amore di Dio e del prossimo; sulla speranza, l'attesa del bene divino e la fiducia nel soccorso divino, eco. Numerosi sono i casi di quest'ultima categoria, e anche della prima; nessuna discussione si può sollevare al loro riguardo, e l'esempio dei più grandi oratori conferma le nostre parole. La questione si riduce semplicemente ai casi misti, in cui la divisione classica è più o meno favorevole o nociva, ingombrante o comoda. Allora non vi è nessuna regola imposta all'oratore contemporaneo; scelga egli intelligentemente, senza feticismo conservatore o stupida bravura.

Quando il discorso è lungo ed esige riposo, questo solo può fare scegliere la divisione classica, se il soggetto vi si presta;

ma questa scelta però non s'impone in alcun modo. Altro è una pausa, e altro una compartizione. Un discorso tutto d'un pezzo, sotto l'aspetto della sua composizione, si presta molto bene a pause, purché queste siano preparate. Alla fine di un grande svolgimento, di un gran movimento, tutti domandano di prender respiro, e tu stesso, per reazione, senti che bisogna segnare un tempo. Ma ciò non è un taglio, come nel torrente un breve spazio in cui l'acqua par dormire. Si potrebbe dire:

Non è necessario avere un piano, nel senso classico della parola;

ma è essenziale avere un ordine, cioè, prendendo il proprio uditore là dov'è, condurlo dove si vuole per una certa via che si giudica la migliore.

Se si ammettono le divisioni, resta da farle bene. Esse devono essere semplici, facili a ritenere, poiché sono dei segni indicatori, ed esporrebbero al rovescio se dessero un'impressione di ricerca e di sottigliezza. Devono esser presentate in modo da favorire il soggetto e come persuaderlo anticipatamente con la loro evidenza provvisoria; lo svolgimento non farà altro

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che rinforzare l'effetto di queste chiare proposizioni In altre parole, esse saranno formulate in termini netti, limpidi, e senza svolgimento prematuro, ciò che è uno scoglio degl'improvvi-

satori.

Devono essere poco numerose, tré al massimo, e piuttosto due che tré, per i tempi nostri frettolosi. Ma soprattutto devono ubbidire alle leggi generali della composizione, dalle quali nulla dispensa, leggi di logica organica, e leggi dinamiche d'azione.

La logica della composizione vuole che le parti dividano veramente l'idea del discorso e l'esauriscano col loro insieme. Queste parti saranno dunque indipendenti l'una dall'altra per quanto con dipendenza dall'insieme. ~Son accavallamenti, non embricatura. Cosa rara! Sotto pretesto dell'unità di tutto, si imbroglia, si mescola, dimenticando che per due rami, l'essere essi dipendenti nell'albero a mezzo del tronco, è essere indipendenti scambievolmente, senza nessun punto di coincidenza fuori della biforcatura. Emetti, giovane chierico, a questa condizione quasi ovunque sconosciuta e fondamentale.

La dinamica della composizione vuole poi che le parti siano coordinate tra loro in modo da fare avanzare il soggetto, e discendere come per una pendenza dai principii alle conclusioni, dagli aspetti generali alle applicazioni particolari, salvo che qualche ragione non imponga un ordine inverso, ma dinamico sempre e che offra un accrescimento. Se dici per esempio che il peccato offende Iddio, l'uomo e Vuniverso, va bene, perché Iddio è il principio di ciò che riguarda l'uomo e l'uomo di ciò che, a nostro riguardo, concerne l'universo. Ma rovescia l'ordine, metti l'uomo in capo, oppure l'universo, tu puoi fare ancora un buon piano parziale, sotto un certo aspetto, ma come dottrina d'insieme, questo non va più, perché i tuoi principii si presentano troppo tardi, e sei obbligato ad antiei» pare, poi a retrocedere per concludere. In qualunque senso ,si diriga il discorgo, sia pure dal basso all'alto (perché ogni paragone zoppica), il discorso è un fiume, e, come il fiume, deve seguire la sua china, e ingrossare per il contributo degli affluenti.

Se si rigettano le divisioni classiche, ho detto che l'oratore a più forte ragione è tenuto alle leggi naturali della composizione; infatti solamente nel loro nome si possono mettere da parte queste regole. L'essenziale è qui di ben sapere quello che si vuoi fare, lo scopo prefisso, e cercarne i mezzi. Ho già detto come. Ma, nel momento di comporre, non si insiste mai troppo

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sulla necessità di una meditazione intensa, che ti riveli l'interdipendenza dei pensieri, delle prove, e perfino delle emozioni,!: • in modo da trovarne i collegamenti naturali, le transizioni,' "':, come diceva Boileau, termine mal compreso dal Padre Gratry, . nelle Sources. Quest'arte di cui il legislatore del Parnaso faceva una gran parte dell'arte di scrivere, non è in vero che la stessa ;

arte di pensare e di esprimere utilmente ciò che si pensa. Per ' la fedeltà all'idea, si arriva ai nessi che collegano le idee tra ' loro, come seguendo il ramo si trova l'attacco delle ramicelle.

C) la PEEOEAZIONE.

Un discorso che finisce importa sempre, sotto una forma o;1.;

un'altra, una perorazione. Non è naturale finire ex atrupto, ^ lasciando la parola che posa in falso sul vuoto. Quando succede ;, a un predicatore di fermarsi così, anche solo apparentemente, : • tutti gli uditori si guardano. Ne conosco uno che passò per / malato, e fu seguito, con ansietà, in sagrestia.

Nel corso di una sinfonia i silenzi espressivi si preparano;

si prepara anche il silenzio finale. Vi sono parimenti dei silenzi nella parola. Bisogna chiudere il ciclo, suscitare la meditazione ;;

dell'uditore e, perché le impressioni successive si conservino, ;

fissare i ricordi. ^

Molto spesso, la perorazione è il momento decisivo del discorso, che ne raccoglie tutte le forze, quelle che si erano 't spiegate anteriormente e quelle che si tenevano in riserva. ' Allora si riassume oratoriamente, non necessariamente con un richiamo esplicito di idee, ma con un concentramento dei risultati acquisiti, di qualsisia natura, e vi si aggiunge un supremo impulso verso il fine proposto. Qui più nulla che s'indugi, più nulla di languido o di puramente esplicativo. Alla mèta! Alla vittoria!

Per altro, non voglio dire che ogni perorazione debba consistere in un fuoco continuo di artiglieria oratoria, ne siamo ben lungi! Se l'insieme fu ben condotto, non si ha bisogno di questo tam tam, perché gli effetti si sono ripartiti e non hanno più da precipitarsi sul terminare. Tuttavia, una specie di raccoglimento, di concentramento non può mancare di prodursi o per lo meno di indicarsi, in procinto di concludere.

La riapparizione sintetica di ciò che è stato allineato nel discorso produce sempre un grande effetto, se si sa organizzarlo in falange rapida, trame partito vivamente e conquistare così

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con alta lotta il risultato desiderato. Il risultato, cioè la cosa da fare, o da pensare, o da sentire, o da amare, in conseguenza delle considerazioni emesse. È lì quello che deve restare nella mente dell'uditore: quale atteggiamento di mente e di cuore dev'egli prendere? quale vita nuova adottare? Tal è la domanda finale, e ciò dev'essere chiaro, e rimanere.

A tale effetto, la perorazione dev'essere d'un solo getto, rapida, più dinamica ancora che l'insieme. È la cascata al termine del torrente. Le riprese e i complementi di dottrina son dunque vietati. Secondo il punto di vista dell'ardore, là dove l'ardore è di moda — e di moda in certo modo è sempre — il Padre Granata paragona la perorazione alla miccia, che interviene quando il cannone è stato progressivamente caricato di polvere. Ed è quanto dire che la perorazione deve concentrare le impressioni del discorso stesso. Ma così ancora dev'essa fare dei sentimenti del predicatore: bontà, zelo, carità, in cui si riconoscono l'amore e la chiamata di Dio, del quale il sacerdote tiene il posto.

Anche se hai dovuto riprendere un po' il tuo uditorio, devi sempre mitigarti alla fine, concludere tutto nell'amore e nella speranza. Già Maurizio Barrès, parlando di letteratura, diceva:

«Un'opera d'arte deve finire nella calma, nella serenità» (1). Tanto più una parola sacra, che anche veemente, anche piena di necessari rimproveri, è un'opera, di misericordia. Lasciamo i nostri uditori presso Gesù Cristo, presso Colui che è dolce e umile di cuore, e che non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva.

In quanto all'allusione alla vita eterna, che è di tradizione, conservala esplicitamente, se così giudichi bene; ma allora un po' d'arte la metta in rilievo; con ciò non intendo il ricorso a quelle false abilità, agghindate, che preparano una fine puerile. Lo scopo è di fare sì che un richiamo pio, certamente utile, non apparisca un rito obbligato e insignificante, una pura clausola di stile.

Questa commemorazione, ben condotta e bene espressa, è quasi sempre ammessa. È una visione salutare della beatitudine finale, che comanda tutto, che è il motivo supremo di tutto. E se è vero che ciò va inteso, è anche vero che « ciò va meglio ancora dicendolo ». È un'attrattiva per le anime di fede, ed è per tutte un motivo esplicito di darsi ai doveri della vita

(1) jisb&mb et jean thabaud, Mes aiinèes chess Barrès.

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cristiana, della quale certi predicatori, ad esempio di S. Paolo, trovano mezzo d'insinuare lì un compendio in poche parole. 'Son c'è nulla che, in queste pratiche tradizionali, s'imponga assolutamente, ne soprattutto universalmente; ma esse si riterranno con frutto nelle prediche di esercizi o di missione.

Ad ogni modo, la perorazione deve trattenere e stabilire in buona condizione la mente dell'uditore; deve fissare il chiodo, e fissarlo abbastanza solidamente perché esso non cada troppo presto.

IV.— Lo svolgimento oratorio.

A) svariate FORME E TENDENZE DELLO SVOLGIMENTO.

Dopo la composizione .viene lo svolgimento, che sta di mezzo tra l'assettamento delle idee principali, che è la composizione propriamente detta, e Velocusione, che si potrebbe chiamare una composizione verbale, e che corrisponde .allo stile delle opere scritte.

Esistono dei pregiudizi contro lo svolgimento oratorio, che si riguarda volentieri come una ciancia, una « spuma senza consistenza », un « sistema a ripetizione », eco. Sì, è tutto questo ; quando se ne abusa; ma è forse dall'abuso che si giudica della cosa stessa?

Essenzialmente, lo svolgimento, secondo Aristotile, consiste nell'estrarre dalle idee tutti gli elementi di convincimento, vale a dire tutta la luce, tutto il calore, tutta la forza di attrai-mento che vi si trovano contenuti. Certamente ciò non è vano^ Non si tratta di estendere, ma di rendere esplicito, di esplicare nel senso etimologico del termine; Giovanni Girandoux propose dispiegare, per evitare l'equivoco. E non si tratta qui di stem-, perare, come in un liquido estraneo, un pensiero o un sentimento: si vuole associargliene altri che ne dipendono. Il buono svolgimento è altresì un concentramento. -

In una parola, svolgere è procurare alle idee il loro sviluppo naturale. Il pensiero non è che un grano; la pianta vuoi crescere, e vuoi fiorire, O se si vuole un confronto del dominio dell'arte, svolgere è trovare le armoniche d'un suono principale, le idee secondarie consonanti nelle quali si espande naturalmente l'idea fondamentale. Sono esse delle sottoidee, se si vuole;

ma che non sono per questo meno importanti, e possono es-serlo maggiormente.

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Svolgendo, si accosta un'idea a ciò che vi si riferisce, a ciò che vi si oppone, e se ne segnano così i contorni. La si approfondisce e la si rivolta per farla meglio conoscere. La si distingue in tutte le sue parti. Si riconnette il proprio oggetto a tutte le circostanze che conferiscono al risultato voluto. A ciò servono i luoghi comuni, di cui si parlerà tra. poco. E far subire alle idee questi trattamenti diversi è farle vivere, è togliere al piano il suo aspetto di scheletro.

Le migliori idee, esposte con troppa concisione, senza questo spiegamento, non possono agire sopra un uditore; sono forse delle verghe d'oro, ma che non hanno corso; bisogna coniarle, e anche, pensando ai piccoli, non dimenticare la moneta spie-, óiola.

Getta a un uditorio questa frase nuda: « La buona coscienza • è la legge suprema dell'universo », la credi tu capace di scoprirgli da sola le immensità che contiene? Digli ancora: «La preghiera è una ruota del mondo, anche se dovessi aggiungere:

« per se stessa e per Dio », di qual uso ciò sarebbe per l'uditore, comune, anzi per colui che è colto, ma non frequenta questi domini! ? Ora, con lo svolgimento tu potrai trarre di li delle magnificenze. Chi non sa svolgere non sa far niente in materia di discorso o di stile. Esser rotti a questo lavoro che consiste nel far germogliare un'idea come un albero e nell'espanderla nel ciclo, o, viceversa, nel ridurla nel suo grano per un intimo ripiegamento, è la condizione della parola pubblica e dell'arte dello scrittore.

Quello che dico così dello svolgimento, in quanto alla sua ragione d'essere, prova già che ce ne sono di più specie, se si può applicare questa parola a concetti eminentemente plastici, in cui solo le dominanti si possono distinguere.

Vi è lo sviluppo in superficie, per annessione di quello che può chiarire l'idea e completarla; e vi è lo sviluppo in profondità, che scava, che penetra, che cerca di penetrare meglio l'intimo di una questione, di una definizione, di un fatto, di un elemento oratorio qualunque. Quest'ultimo caso si verifica in grado massimo quando parliamo dei nostri misteri; se ne fa il giro; si guardano in diversi modi; ci si sposta per trovare un migliore punto di vista; si procede a saggi d'interpretazione, di spiegazione, o di glorificazione, e tutto questo porta la sua luce.

Talvolta lo svolgimento consiste nel ridurre una moltipli-cità all'unità, mediante la ricerca delle dipendenze e delle ras-

^ 17 — SBRTTI'LAN'GES. L'oratore cristiano^

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somiglianze tra gli oggetti d'indole disparata, e che finiscono col formare un tutto del quale la loro varietà formerà la ricchezza.

Sotto un altro aspetto, si può distinguere lo svolgimento destinato a ingrandire l'oggetto e lo svolgimento destinato a diminuirlo. Gesù disse: Gli abitanti di Sfinivo fecero penitenssa alla 'predicazione di Giona, e qui vi è più che Giona. La regina di Saba venne dai confini della terra per udire la'sapienza di Sa-lomone, e qui vi è più che Salomone. Modo d'ingrandire l'azione di Cristo per introdurre il suo regno. All'opposto l'avvocato di un disertore dirà: Se egli avesse tradito... se fosse fuggito in piena battaglia... se anche avesse abbandonato un settore tranquillo, ma importante ed esposto, io lo abbandonerei alla vostra giustizia. Ma no...

Questi ravvicinamenti sono frequentissimi ed efficacissimi quando si tratta dei vizi e delle virtù, del loro confronto, della loro dosatura. Avviene pure che si usi la finta e si affetti di attenuare certi casi di una evidente importanza per meglio portarne altri al massimo grado, per comparazione: « Aver tradito non sarebbe niente, se fosse stato per passione, per orgoglio, per ira, per vendetta. Ma egli ha tradito per arricchirsi! ».

E avviene ancora che lo svolgimento consista nel paragonare una cosa a se stessa, non trovando niente che le si possa confrontare, talmente la si vede unica, in bene o in male. Esempio famoso di Cicerone: « Tu uccidesti la madre. Che dirò di più?,.. Tu uccidesti tua madre ». Di un martire si dirà anche bene:

« Egli diede la sua vita per il suo Dio. Ohe dirò di più?... Diede la sua vita ». In questa materia sono gli esempi che istruiscono;

bisogna cercarli là dove sono, nel loro quadro; qui si può dare solo degli avvisi.

Lo svolgimento comprende quello che si chiama prepara-isioni, anticipazioni e precauzioni oratorie, per le quali si conduce dolcemente l'uditore a ciò che gli si vuoi fare intendere o ammettere, si prevengono le sue obiezioni, ci si scusa di eia che lo potrebbe offendere in quello che si sta per dire, si confessa, per spiegarlo o palliarlo, ciò che egli potrebbe esser tentato di opporti, o si riprende se stesso per precisare o amplificare ciò che fu precedentemente enunciato, si avanzano esempi, fatti, idee capaci di rischiarare, di fortificare e di rendere credibili altri fatti, altre idee di cui si teme la sorpresa, ecc., eco. Anche qui ci vorrebbero degli esempi; ma una volta destata l'attenzione, essi splendono dovunque.

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B) le LEGGI DELLO SVOLGIMENTO.

La legge essenziale è che lo svolgimento proceda dall'intimo, come la vita. Kon già che non si possa partire dall'esterno, come nelle anticipazioni e nelle preparazioni; ma allora è nondimeno l'intimo che governa; si svolge in vista di esso, sotto il suo influsso. E se dall'intimo ti estendi all'esterno, è pur sempre a cagione dell'intimo. Insemina la crescenza del discorso, nello svolgimento come nella composizione stessa, si fa per intussu-scezione. « La rosa non si fa operando sul boccio », scrive un sapiente; ma si deve passare per le radici e nutrire il succo.

Allora il discorso da un'impressione di movimento unitario, di movimento naturale. Il discorso cammina e cresce camminando, cresci! eundo, perché tu presenti vedute successive, sempre più dilatate, di una cosa che si apre, come le piante che si sviluppano sul parafuoco. « Io penso tutta un'opera a un tempo, spiega Paolo Olaudel, e mai si svolge una parte senza che essa senta sopra di sé il consentimento o il disagio delle altre parti » (1).

Il tutto è primo, anche allo stato di germe; lo svolgimento non fa altro che mostrarlo in atto di vita.

Svolgendo così dall'intimo, non puoi venir meno a questa legge comune allo svolgimento e alla prova, di procedere ex propriis et immediatis. Ex propriis, vale a dire che ogni svolgimento si deve fare a mezzo di elementi che si riferiscono strettamente ai soggetto. J3x immediatis, perché questi elementi proprii del soggetto vi si devono riferire senza alcun intermedio estraneo. Si sa che i giovani predicatori violano con disinvoltura questa regola, svolgendo per esempio un caso particolarissimo di virtù o di vizio con una narrazione del peccato originale e della redenzione. Tutto risale lì, certamente, ma per intermedi, e se è sempre opportuno farvi allusione, riferirvisi da lontano, come all'ultima e comune radice delle cose, non è però questo che deve occupare lo svolgimento, ma bensì i motivi proprii e i caratteri proprii, Me et nmc, ciò che tu studi.

Altra legge meno essenziale, ma ancora importantissima, è di non annegare l'idea ne' suoi svolgimenti, e perciò badare

(1) patii claudbl, Lettre a Jacques Sivière, 25 aoùt 1919.

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a queste due condizioni correlative: mettere alla base degli svolgimenti idee semplici e nette; non aggiungervi svolgimenti, troppo densi. Se l'idea è limpida, facile a intendere e a ritenere,? può arricchirsi di svolgimenti senza confonderai; il sole non si perde facilmente nelle nuvole che lo accompagnano. Ma se queste nuvole si moltipllcano e si addensano, soprattutto se , l'astro è tutt'altro che un sole, si rischia la notte.

I maestri, in tutte le arti, badano molto a questo pericolo. ,. Secondo i pittori, le linee fondamentali d'un quadro o d'una figura devono essere semplici e il loro accompagnamento a un' tempo ricchi e discreti, Nella musica di Beethoven, la melodia • e l'armonia poggiano su rapporti elementari; la gamma diatonica e l'accordo perfetto ne formano la principale sostanza, ed egli spiega a Schindler che il discorso musicale per lui con- { siste in una perpetua stretta del motivo principale o in una corsa '• per raggiungerlo. Così in tutte le materie il genio creatore si spiega con la maggiore libertà, sicurezza e ampiezza.

Lo svolgimento ha per scopo di evitare l'aridità del linguaggio, la sua magrezza, la sua sterilità; esagerato, corre il rischio della profusione snervata, della tronfiezza e del vuoto, anche nell'abbondanza. I puri dialettici e le persone poco abituate alla parola sono esposti al primo difetto; non sanno fecondare • un'idea, renderla viva e generatrice di vita. Ma viceversa i chiacchieroni e gli spiriti imbrogliati sovrabbondano. La coppa sia piena e non trabocchi.

Una qualità dello svolgimento che non è una legge, ma che, nello stile oratorio specialmente, è di un alto valore, è un'arte di passare da un elemento dello svolgimento a un altro con una " certa subitaneità, come per balzi, valicando le idee intermedie ;

senza obbligare la mente a fastidiosi avanzamenti. Non occorre dir tutto, vi sono cose evidenti ed evitabili, alle quali supplisce la mente. Un alpinista che salta di roccia in roccia ha più eleganza e fa più cammino che il pedone che segue per minuto? tutti i declivi. ^

È cosa delicata; devi calcolare bene il tuo slancio; è essenziale che la mente dell'uditore non si perda; ma lasciare ad essa la cura dei passaggi facili e mostrarle l'idea ne' suoi di-;

versi stadi, come per subitanee apparizioni, è uno stimolo della sua attività ricettiva, ed è una gran bellezza. I profeti e in modo particolarissimo Isaia, sono a questo riguardo sublimi modelli.

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Finalmente vi è una qualità dello svolgimento che chiamerò una qualità morale e apostolica, in connessione con quello che, con Pascal, abbiamo chiamato ordine della carità. Lo svolgimento dev'essere tendenzioso, vale a dire concepito tutto intero, e nei particolari, in funzione dello scopo finale che è la salute degli uditori.

Non parlo dello scopo proprio del discorso: questo regola tutto, fu detto, ed è una legge del genere. Quello che vi aggiungo riguardante lo scopo supremo non è una legge del genere, ma è una legge dell'ufficio, una legge dell'uomo di Dio, il cui scopo finalmente non è di fare un buon discorso, ma di salvare.

Quando si vuole salvare, si colgono tutte le occasioni, si fa uso di tutti i mezzi. L'uomo apostolico, esponendo un'idea, in vece di considerarla unicamente in se stessa, ciò che basterebbe a uno svolgimento eccellente come tale, pensa invece che essa è fatta per la salute del suo prossimo, per il risveglio degli addormentati spirituali, per la salute dei peccatori e il progresso dei giusti; egli la svolge in conseguenza, introducendo nel suo svolgimento senza neppure addarsene, per la sola ossessione dell'amore, delle conclusioni pratiche, dei suggerimenti, degli stimoli, delle allusioni, dei colpi di ogni genere che non permettono di dimenticare lo scopo effettivo del discorso, il cambiamento di vita che se ne attende e senza di che, per quanto bene sia costruito, esso è inutile.

Qualche cosa di simile dicevamo più sopra; ma allora si trattava degli elementi dello svolgimento; questa volta si tratta della sua forma, o almeno della sua tessitura, prossima alla torma. Non è ancora l'elocuzione, lo stile, ma ciò lo tocca, e del resto vi si ritroverà. Infatti l'oratore cristiano deve pensare al suo compito essenziale per tutto il tempo e non solamente nel momento delle conclusioni. Alla fine è troppo tardi;

si è perduta una folla di occasioni che non ritorneranno più. Bisogna che il fuoco si mantenga durante la cottura. Bisogna che le conclusioni siano prevedute e amate già al momento in cui si giustificano, anzi appena si annunziano.

Se un'idea apre delle felici prospettive verso grandi oggetti del pensiero e della pratica cristiana, dirigi lì gli sguardi. L'uditore abbia costantemente sotto gli occhi i nostri grandi oggetti cristiani, e i suoi doveri, e i suoi difetti, e i suoi peri-eoli, le sue malattie morali coi loro rimedi.

Noi non siamo parlatori, ma medici. Non si esige l'orse che il mèdico, per essere contenti de' suoi servizio abbia l'os-

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Bessione della guarigione, piuttosto che scienza? Se egli sdottoreggia, anche sul caso preciso, con una specie d'indifferenza per il malato, la famiglia non l'ascolta, anzi da segni d'impa-, zienza.

Non si tratta affatto di indugiarsi, di lanciarsi nelle digressioni; parlo dell'orientamento del pensiero che da sé troverà le sue forme. Ciò è efficacissimo. Gli uditori si scaldano così a poco a poco. Alla fine, non si ha che da rinforzare e da rendere decisiva la commozione ottenuta. Ma riservarsi per quel momento è un prepararsi la propria impotenza. .

Riassumendo, il buono svolgimento è quello che fa ben vedere, che ragiona bene su ciò che si vede, nella dipendenza dai principii veri, dai principii proprii e immediati delle cose, e che con ciò scalda l'anima e la trascina verso quello che si desidera per lei: il suo bene e la sua salute.

C} I 1TJOGBÌ COMUNI.

Uno dei mezzi dello svolgimento oratorio, e anche dell'elocuzione, come dianzi della composizione— infatti, come ho detto, tra le nostre varie considerazioni non vi sono compartimenti stagni — è quello che chiamano luoghi comuni, cioè le •nozioni generali, gli aspetti principali delle; cose che l'oratore può invocare e di cui si può servire nei casi così svariati che foratore incontra.

'Son si propongono questi quadri astratti per invitare a rendere meccanico il discorso; sarebbe assurdo attaccarvisi come a punti fissi. È un mezzo mnemotecnico, niente di più. Puoi servirtene come ti servi della serie alfabetica per trovare un nome. A ogni modo, il percorrerli di quando in quando è un ricordo utile, uno stimolo per lo spirito d'invenzione, come;

dicevamo in generale della rettorica,

Vi sono dei luoghi comuni affatto generali, e ve ne sono dei7 più particolari. ' ' .-

In generale, puoi considerare in ogni cosa il genere e la specie, ;. le cause e gli effetti, le parti e gli attributi permanenti o occa— atonali, i rapporti e le somigliante, le opposizioni e i contrari. \:

In particolare, oltre a ciò che precede e che si applica sempre, terrai conto delle circostanze, e questo è importantissimo. Secondo Longino, la scelta delle circostanze da far intervenire in uno svolgimento, il loro raggruppamento e il loro sfrutta-

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mento in vista dell'effetto desiderato, è uno dei grandi segreti dell'eloquenza. La condizione è che esse siano tratte dal reale, dalla vita, dalle viscere del soggetto, e' non siano di quelle circostanze vaghe che si sanno a memoria, o che si possono invocare per ogni fine.

Le circostanze principali da considerare sono le circostanze di persona, di fatto, di luogo, di tempo, di motivo, di maniera, di mezzo, ecc. E ciascuno di questi termini si presta naturalmente a suddivisione, specialmente la persona. Si rileverà per esempio il nome, la nascita, la parentela, le eredità, Yedwasione, la 'fortuna, la condizione, le abitudini, i talenti, le inclinazioni, le affezioni. In occasione di un panegirico o di un atto di accusa, si sente quanto giovi tutto questo. E in ogni caso si può aggiungere la considerazione degli esempi e delle testimonianze.

Supponiamo che tu voglia stabilire una serie di prediche sulla preghiera. Eadunerai prontamente tutta la tua materia ricordando che la preghiera appartiene alla virtù della religione {genere); che è un'elevazione dell'anima a Dio (specie); che, soprannaturalmente, è un effetto della grazia e, umanamente, un effetto dei nostri desideri, dei nostri bisogni, dei nostri pericoli, delle nostre miserie costanti e della nostra confidenza nelle divine promesse (cause); che ha per effetti un accrescimento di grazia e di gloria, la riparazione delle nostre colpe, il compimento dei nostri desideri conformi alla Provvidenza (effetti); che è mentale o vocale, privata o pubblica, libera o liturgica (parti); che i suoi attributi naturali sono lo spirito di fede, la fiducia, l'attenzione della mente, l'applicazione del cuore (attributi permanenti}; che essa, in questo o in quello, si può aiutare con mezzi particolari e rivestire varie forme (attributi occasionali); che è imparentata con la santa vita, col desiderio delle cose celesti e col disprezzo delle cose transitorie, con l'amore divino e con l'amore del prossimo, e che ha pure dei legami stretti con la lettura divota, con la meditazione e con l'orazione che ne sono anzi una forma (rapporti);

che si oppone all'oblio di Dio e delle cose di Dio, alla tiepidezza, all'indifferenza (opposizione). Questo in generale.

Se si tratta della preghiera per rapporto a uno stato particolare, a una persona qualificata, come un sacerdote, un religioso o un santo personaggio del passato, terrai conto delle particolarità della persona e delle forme della preghiera in ciò che la riguarda, il tutto sostenuto da esempi e da autorità tratte dalla Scrittura, dalla liturgia, dalle massime dei santi, ecc,

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Si può notare che una delle più alte risorse dell'eloquenza è nel collegamento armonico del particolare ali'universale, che si fanno venire incontro l'uno all'altro per concorrere allo scopo. Così procede Bossuet nelle Orazioni funebri, piene di così grandi pensieri nello stesso tempo che di precisioni biografiche e psicologiche personali de' suoi eroi. Così puoi dipingere un paesaggio, una situazione, un gruppo, un periodo di tempo con tratti ora particolari, ora generali che si sostengono e ampliano la pittura pure precisandola.

Evidentemente, il buon uso dei luoghi comuni, sia esso sistematico o istintivo, suppone una conoscenza perfetta del proprio soggetto, senza di che i quadri saranno vuoti o pieni di spropositi.

Aggiungiamo questa osservazione completiva, che, siccome la parola cristiana ha sempre per scopo di portare l'uditore al bene e di trarlo dal male, è utile avere sotto gli occhi i luoghi comuni che si riferiscono all'uno e all'altro. Il bene è desiderabile in se stesso, utile, o dilettevole. Al primo titolo, esso è o Semplicemente appetibile, o lodevole, o glorioso; al secondo:

'utile propriamente parlando, o necessario, o indispensabile; al terzo: gradevole, seducente, lusinghiero, facile, eco. ,

All'opposto, il male sarà semplicemente cattivo, o vergognoso, :

o infame; sarà dannoso, pernicioso, vano, puerile...; si dichiarerà, triste, affliggente, opprimente, difficile, odioso... E sotto l'aspetto ' della durata si distingueranno ancora i beni e i mali durevoli o passeggeri, sicuri o fugaci, eco.

Tutto questo è manifestamente in tutte le menti; non sono " misteri; ma non sempre vi si pensa, e un richiamo di tempo in tempo è un reale soccorso.

D) I TROPI E LE FIGURE ORATORIE.

Dico altrettanto per quello che riguarda i tropi e le figure oratorie, che servono allo svolgimento e serviranno più ancora all'elocuzione. È bene rivederne di quando in quando le forme;

il loro uso spontaneo ci guadagna, per la vista delle ricchezze i di cui si dispone e che la mente potrebbe trascurare per accan- :

tonarsi in un campo ridotto. ';

In rettorica, si chiamano figure certe forme di linguaggio che all'espressione del pensiero danno più forza, colore, splendore o grazia, e che con ciò contribuiscono al suo effetto ac-', centuando il suo carattere. Dunque, propriamente parlando,

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non sono degli ornamenti; usarli così sarebbe un viziare lo stile: sono forme dell'idea oratoria, poiché questa è viva, concreta, e mira a qualcosa di vivo, di concreto ne' suoi risultati.

Vi sono figure di pensiero e figure di parole, che, prese così in generale, si definiscono da se stesse, e tra le figure di parole, si chiamano tropi, in particolare, certe figure che consistono nell'estendere il significato di una parola, nell'applicarlo ad altro. I celebri versi del Già: «Quell'oscura chiarezza che cade dalle stelle, finalmente con la marea ci fece vedere trenta vele », è un tropo, e più precisamente una sineddoche, che prende la parte per il tutto.

La prova che le figure non sono artifizi arbitrari è che la gente del popolo ne fa uso più che i letterati, specialmente quei che frequentano più da vicino la natura, come i paesani e gli uomini del mare. Del resto, come diceva Malherbe, le lingue, che si formano nelle pubbliche piazze, son fatte di figure, e tanto più quanto sono più primitive. Il filosofo se lo spiega riflettendo che il pensiero nasce in seno ai fantasmi e vi si appoggia incessantemente; che per conseguenza l'uso delle immagini e delle loro combinazioni o figure è un effetto della stessa costituzione della mente.

Per la stessa ragione si ha il diritto di dire, contrariamente a un pregiudizio corrente, che una metafora può essere un argomento, non per se stessa, ma per la rievocazione di una causa;

che può offrire una generalizzazione illustrativa, aprire la via a una soluzione. Vi è la verità anche nell'immagine della verità. ITon dimentichiamo che per Aristotile, abbastanza buon conoscitore in fatto di dimostrazione, la rettorica e la poetica stessa fanno parte della logica, e Claudio Bernard, mente poderosa, diceva: «Io son persuaso che verrà un giorno in cui il fisiologo, lo psicologo e il poeta parleranno il medesimo .linguaggio » (1). Abbiamo qui degl'insegnamenti.

Ma se le figure ci son naturali, non è una ragione per non sorvegliarne l'uso, anzi; infatti questa costituzione della nostra mente che vi c'invita è un segno della nostra inferiorità nell'ordine degli spiriti. Uno spirito puro non usa immagmi; egli ha l'intuizione pura degli oggetti e delle verità, senz'alcun bisogno di « figurarsele ». Se abbiamo bisogno noi; ma è in servizio delti) clatob bbbmabd, Iwtrwiviction a l'étwde de. te medicine espérimentale.

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l'idea, e per conseguenza sotto la legge dell'idea, avendo veramente bisogno di non annegare l'idea in ciò che la deve far vivere, di non permetterle di alterarsi, di deviare per impulso nella direziono dell'immaginazione e dei sensi.

Quando la figura si sostituisce al pensiero, l'uditore se n'accorge presto; sedotto forse per un istante, si irrita con tè di aver pensato a illuderlo, a prenderlo nell'agguato delle parole. Montesquieu diceva dell'Accademia: « Questo corpo ha quaranta teste, tutte piene di figure, di metafore, di antitesi... ». Era un'ironica lezione.

Del resto questa lezione si deve applicare secondo le occasioni. Un uditorio di professori o di tecnici richiede poche figure;

un uditorio popolare ne vuole di più. Un soggetto dottrinale ne domanda meno; un soggetto di sentimento o un soggetto descrittivo, di più.

In ogni ipotesi, essendo le figure fatte per l'idea, si devono preparare e sfruttare in rapporto con l'idea, in conformità con il carattere generale del discorso, dal che si regola tutto. E la figura in se stessa, costituendo un'idea immaginativa, se si può dire cosi, deve serbare la sua coerenza, non andare di forma in forma e non offrire forme eterogenee all'oggetto. 'Selì 'antichità, si rise di Plafone stesso perché, nelle Leggi, aveva detto: « Non bisogna permettere alla ricchezza di prendere piede nella repubblica ». Ai giorni nostri, il tipo di questo difetto è «il carro della repubblica che naviga sopra un vulcano ».

Si può dare come una buona regola — per altro non senza eccezione — che le figure sono felici quando uno se le può rappresentare, « realizzare ». E se esse devono continuare, non bisogna che la continuazione sia spinta troppo avanti; si giungerebbe all'affettazione; ma allora il rimedio è di arrestare la facondia, non di rimanere nell'incoerenza.

Ciò detto in generale, non si ha guari da insistere sulle figure di parole, che si affacciano spontaneamente all'uomo colto, nutrito di letture, di arte e di osservazioni sagaci. Le figure di pensiero sono meno immediate, per lo meno alcune ,tra esse, per questo non ne daremo maggiori esempi. Si possono menzionare;

La definizione oratoria, distinta, per il suo carattere, dalla definizione logica, ma che può — anche in vista dell'effetto oratorio — confondervisi, come quando si vuole far mostra

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del rigore. Può essere breve o sviluppata, ricca di pensiero o di parole, conglobando allora una quantità di figure secondarie, di pensiero o di parole.

La divisione oratoria, che consiste nel distinguere e nell'or-ganizzare oratoriamente delle serie di cose, di idee o di fatti, oppure nel proporre delle alternative, in vista di una scelta, o per giustificare la propria scelta.

La domanda oratoria, alla quale risponde lo stesso oratore, o fa rispondere un personaggio del discorso, o invita i fatti a rispondere.

La distribusione, che fa oratoriamente la parte delle persone e delle cose per trame un effetto: II capo di ogni uomo è Cristo;

il capo della donna è l'uomo, e il capo di Cristo è Dio. Per questo... (I Cor., XI, 3).

Il ragionamento figurato, che istituisce una specie di discussione in cui la verità trionfa (per le tue cure).

La ricapitolazione; che accumula oratoriamente i risultati degli svolgimenti o delle prove, a fine di concludere. È specialmente, come abbiamo detto, l'arte di concludere delle perorazioni.

'L'interrogazione, che in certo modo provoca la verità per obbligarla ad apparire, la persona per obbligarla a dichiararsi, l'uditore per forzare il suo parere e fargli credere che si crede per lui o con lui quello che si pronunzia: forma molto viva e molto oratoria.

L'omissione, che affetta di passare sotto silenzio una cosa, un fatto pretendendo bensì di produrlo o di affermarlo cosi con tanto maggior peso « Non vi dirò affatto... eppure!... ».

L'attenuazione, parente dell'omissione, che si applica a diminuire nelle parole quello che le convenienze oratorie o l'abilità sconsigliano di esprimere nella sua forza, ma in modo da conservare la forza: « Volevate darmi una leggera lezione;

era per me un bene; ma l'abisso in cui sono... ».

L'interruzione, che taglia corto, per qualificare, col silenzio stesso, ciò che s'intende di non esprimere. « II peccatore è davanti a Dio; l'anima sua gli apparisce; egli legge in sé la sua sentenza... Chiedetegli, adesso negli abissi dove languisce...».

La sospensione, altro modo di far parlare il silenzio. Si tiene a bada l'uditore, in attesa d'una rivelazione o di una soluzione, e la si propone alla fine, sia un effetto sorprendente, sia un ridicolo aborto. «Lo spavento gli chiuse gli occhi; gli parve...;

credette di udire.., Alla fine, non potendone più, schiuse un

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tantino le palpebre come sopra un mondo di nemici. — Egli era solo » (Edgar Poe).

li'esitazione, parente ancora dell'attenuazione, che affetta l'imbarazzo di fronte a una cosa da dire, di un partito da prendere, di una preferenza da dare. Questo felice tentennare fa lavorare la mente e la prepara alla soluzione che si tiene in serbo.

L'enfasi, che fa uso di ridondanza; d'insistenza per rialzare un soggetto o per abbassarlo, per destare la mente a suo riguardo e avviarsi a concludere.

La concessione, che ammette, ma per riprendere sia la stessa cosa sotto un'altra luce, sia un'altra cosa che non si potrà rifiutare a chi fu buon principe. Il discorso di Antonio, sull'uccisione di Cesare, è tutto di questa specie.

L'ironia oratoria, che presenta uno svolgimento in apparenza ostile alle conclusioni desiderate, ma che le favorisce per il ridicolo a cui va incontro quello che vi si oppone. Così nel discorso di Demostene per la corona, il racconto delle origini di Eschine.

'L'esempio, la comparazione, il 'parallelo, l'antitesi, figure importantissime nel discorso, per cui si accostano o si oppongono elementi capaci di chiarirsi scambievolmente per somiglianzà o contrasto.

La sinonimia, che insiste per mezzo della riunione di forme somiglianti e di parole dalle sfumature complementari: « Demostene è abile, incalzante, veemente; segue il suo avversario su tutti i terreni e lo combatte passo passo.

La ripetizione, capitale in eloquenza, che .conficca il pensiero col ritorno della sua espressione, che immerge il dardo a più riprese, sia in punti vicini, per allargare la ferita, sia, esattamente nello stesso punto per approfondirla.

La gradarione, che forma un piano inclinato, per salire o discendere in vista del movimento del pensiero e dell'ampliamento del tema.

Tra le figure di parole, menzioniamo quella che consiste nel parlare di più cose nel singolare, nel plurale di una sola, per concentrare o amplificare l'impressione, accrescerla in entrambi i casi. « Colui... al quale solo appartiene la gloria, la maestà e l'indipendenza...» (bosstjet). — «Guarda quei ladri», parlando di uno solo.

Menzioniamo ancora, la consonanza, frequentemente usata per rinforzare l'idea con l'insistenza di un medesimo suono che

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colpisce più volte l'orecchio: « Aristocrazia, democrazia, tutte queste crazie si equivalgono » (G. Clemenceau). Si può anzi cercare lì una specie di argomento, come quando, volendo rilevare l'infinita varietà degli errori umani, si allineano tutte quelle parole in ismo, alle quali si annette una specie di ridicolo, per • la sola grazia del suono. Alla lunga, ciò può creare un'ossessione che spetta all'oratore di rendersi favorevole, o una poesia che il pensiero dirige a' suoi fini, come si vede nel latino dell'Jmì-taisione.

Tutte queste figure e altre simili si possono mettere al servizio d'uà pensiero, d'una commozione o d'un volere. Ma ce ne sono che si potrebbero chiamare specialmente emotive, e che :

per questa ragione hanno una grande importanza oratoria. Sono principalmente: l'esclamazione sola o in serie e come in cascata: «O rabbia, o disperazione, o vecchiaia nemica...». "L'apostrofe, che provoca ed eccita la vita del discorso; l'iperbole;

— l'interrogazione insistente e incalzante, la spada nelle reni; —-la supplicazione, appello rivolto all'uditorio in vista del suo bene; lo scongiuro, che all'appello aggiunge un ricorso superiore:

« Vi scongiuro per il Dio vivo... »; l'augurio, sia esclamativo;

«Dio voglia!...», sia semplice: «Vorrei con tutto il cuore...»;

V imprecazione, spesso unita all'apostrofe: « Guai a voi, scribi e .• farisei!... »; l'ammirazione o lo stupore oratorii, vale a dire appassionati, di fronte a certi casi, certi spettacoli: « Capite?... ». « Che vedo?... », ecc., ecc.

Una fonte preziosa di svolgimento figurato è nell'analisi etimologica o logica delle parole correnti, dei termini popolari o biblici, così pieni d'immagini e di filosofia umana. L'uso li ha triti e ritriti; bisogna risalire alla loro origine, spesso geniale. L'analisi del verbo allo stato nascente ne rinnova la vitalità, gli restituisce il suo ambiente naturale e tutti i suoi annessi. È una gran risorsa. In questo senso, nell'ordine di esposizione o di espressione, il peso delle cose dipende dal peso delle parole come, in sé, il peso delle parole dipende da quello delle cose.

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CAPITOLO V.

L'elocuzione o lo stile oratorio.

E — II ricorso alle ionti della sacra eloquenza.

Sotto certi riguardi, si potrebbe dire che tutto quello che precede, per quanto sia importante, anzi per quanto sia essenziale e in prima linea sotto varii aspetti, non è tuttavia che una preparazione. La concezione è una speranza; la composizione è un progetto; lo svolgimento precisa il progetto;, ma l'elocuzione eseguisce. Dopo ciò — o nello stesso tempo per una parte^ se s'improvvisa — l'azione darà il lavoro compiuto.

Se si paragona lo sforzo a una navigazione, e cosi è veramente un poco — a cagione degli scogli, a cagione dei naufragi — si:

dirà: i piani di viaggi son pronti e le mercanzie sono pronte,. facciamo vela. Si tratta di dare al pensiero il suo slancio definitivo, di procurargli tutto il suo spiegamento. Che se per caso esso non lo meritasse, non ci sarebbe che da fermarsi lì; infatti « non conviene onorare della parola un pensiero imperfetto » (1);

ma se lo merita, una forma adeguata gli è ancora indispensabile: « Potete dire mirabilia, scrive S. Francesco di Sales, ma. se non lo dite bene, non è niente; dite poco e ditelo bene, ed è molto ». Ma pure, che difficoltà! Molti hanno delle idee, e vi trovano un ordine; ma esprimersi, condurre in piena luce e con-tutta la propria forza di comunicazione quello che si è concepito, è cosa ingrata!

Questa difficoltà dell'attuazione è comune, per una parte, all'oratore e allo scrittore; ma per una parte altresì è speciale;. la parola non è lo stile, e se essa non esige maggior talento, esige più dono, benché si formi anche col lavoro (fiunt oratores). , Qui non solo bisogna esprimere, ma anche spingere l'espressione negli altri, fare che essa penetri e trascini l'adesione con la sua propria potenza. Lo scrittore aspetta che si vada a lui;

(1) shakeseeabb, Troilws et Crwsido, act. ler.

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l'oratore va e forza per così dire la porta delle anime. Una volta fissata e precisata l'idea, il primo ha compiuto il suo ufficio;

al secondo invece incombe inoltre il risultato. E i mezzi per questo son tutt'altri. Ci vuole più umanità, più calore vitale, più nerbo, più sangue. E così intendo dell'elocuzione in se stessa, indipendentemente dalla pronunzia oratoria che la mette in opera. Anche con pensieri forti e ben collegati, è possibile non ottenere che una stesura debole, se l'andamento dell'elocuzione non ha abbastanza fuoco. Perciò, anche con la penna alla mano, l'elocuzione appartiene in proprio all'oratore, come dimostra questa parola: eloquenza.

Ecco dunque che l'oratore, giunto così al momento di compire l'opera si vede invitato a valersi di tutti i suoi espedienti. E più che mai il momento di far ricorso a tutto quello che abbiamo chiamato gli appoggi inferiori della parola di Dio: la preghiera, la meditazione, la lettura degli autori favoriti, le impressioni d'arte, l'aiuto della natura, aggiungi l'eccitamento del lavoro, in grazia del quale lo strumento intellettuale si scalda e supera in qualche modo i suoi poteri.

Se questo felice avviamento non riuscisse, sarebbe meglio soprassedere — supponendo che sia possibile — anziché fare del lavoro affaticato, e che affatica.- Un autore propone qui un buon suggerimento. Ti senti impotente a cavare qualcosa da tè stesso? Supponi di esser tutto a un tratto collocato a faccia a faccia coll'uditorio, nell'obbligo irremissibile di parlare: è un incubo, e può destare la tua vena.

Ma il mezzo più generalmente efficace è ancora quello di guardare, leggere, ascoltare o cantare qualche cosa bellissima;

il coraggio ti rientrerà per i sensi; il contagio del bello ti stimola. « Io non mi sento mai tanto eccitato a darmi attorno e a lavorare, diceva Nicola Poussin, come quando ho veduto qualche bell'oggetto ».

Longino consigliava, prima di scrivere, di chiedersi: Come Omero o qualche altro grand'uomo avrebbe detto questo? È una variante. È certo che noi allora eleviamo la nostra mente al livello dell'idea che ci facciamo di quegli uomini, e la loro presenza alla nostra immaginazione ci serve come di fiaccola.

Un consiglio pratico relativo al lavoro una volta intrapreso, è quello di non deciderne troppo presto definitiva la forma. Quello che sarebbe terminato potrebbe non servire, e sarebbe lavoro perduto; ciononostante saresti tentato di conservarlo,

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e il dannò sarebbe anche più grande. Ma soprattutto, procedendo così, per brani compiuti isolatamente, l'uno dopo l'altro, rischieresti di non ottenere il giusto equilibrio dell'insieme e la sua unità di tono.

Delacroix dipingeva sempre tutto il suo quadro a un tempo, prima in abbozzo, poi in un certo grado di avanzamento, dopo da più vicino al compimento, finalmente nella forma terminata e completa. Accanto a lui, altri artisti, allievi di David, disegnavano in grosso il loro insieme, poi terminavano parte per parte. Ma, diceva Delacroix, questo non da un'opera, ma un musaico di brani (1).

Non apparisce che la natura eseguisca i suoi piani in altro modo che per via d'insieme. Il grano gonfia tutto intero, si schiude; dovunque si manifestano dei lineamenti prima che si compia qualche cosa.

Non intendo di dire che se un brano ti si affaccia tutto d'un pezzo, non lo debba scrivere; nessun dono gratuito si deve respingere; ma sappi che è cosa provvisoria, che il piano meglio fissato si modifica in corso di esecuzione per la scoperta di nuovi e più felici rapporti, e che da ultimo; per l'omogeneità dell'insieme, una colatura estetica vuoi la rifusione almeno parziale dei pezzi che vi s'impiegano.

In favore di questa omogeneità, e per aiutare ancora l'avviamento del lavoro, consiglierò questo. Hai già un brano di cui tu sia contento, che ti- sia riuscito bene e ti apparisca nella nota della tua ispirazione iniziale? Prendilo come punto di partenza, e obbliga la sua tonalità a espandersi in avanti e indietro. È un prezioso segreto. Una volta che sei nel tono, questo cammina; il piano si anima; le redazioni troppo sciatte si rinvigoriscono, e il punto culminante della tua melodia ne determinerà tutto il livello.

Finalmente, stendendo il tuo lavoro, non dimenticare di collocarti in quello stato di spirito insieme complesso e uno, che a un tempo regola con saggia economia i fondamenti geometrici del piano, il suo dinamismo, il fondo dell'idea che tu stendi nell'istante, lo sbocciare del suo svolgimento, finalmente la sua forma estetica. Così il pittore pensa nello stesso tempo alla sua composizione generale, al disegno del suo pezzo, al colore, al valore, al tocco. Nel momento in cui ci troviamo, si raccoglie il frutto di tutte le preparazioni; ma a condizione

(1) E. dblaobòix, Jmwnal, II, pag. 479.

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che siano tutte presenti, che si rivivano tutte a un tempo per portarle a buon termine, nel momento che stanno per scomparire definitivamente. Poiché nulla ne dovrà sussistere. tTon più impalcature, non più pezzi provvisori, non più macchinario stridente; ma la vita. Se non che la vita è uno slancio unitario, e a questo slancio tutto deve concorrere.

II. — Le qualità dello stile oratorio.

A) la VERITÀ DELLA PAROLA.

Quali sono ora le qualità che deve rivestire la parola per rispondere al suo fine e avere efficacia? Sono, credo, le seguenti.

Prima di tutto la parola dev'essere vera. Con ciò non intendo più la verità dottrinale o pratica, qui fuori di questione, ma la verità della parola come parola, cioè come espressione del pensiero, come manifestazione dei sentimenti, come atto di vita oratoria, per opposizione a uno stile artificiale e convenuto, formato di clichés o di cianciafruscole, senza adesione profonda con l'oggetto che si tratta di produrre.

Ohimè! non è vero chi vuole. I « pedanti » dei quali parlava S. Francesco di Sales quando raccomandava a Monsignore di Grenoble di fuggire i loro quamquam, non sono soli a ignorare questa qualità madre. Vi sono i timidi, le menti poco attive, gl'inesperti, che prendono lo « stile della predicazione » come prenderanno sul pulpito il « tono della predicazione », quel suono artificiale e monotono fuori di ogni relazione con la parola viva, che ignora l'uditorio, che pare s'indirizzi alle volte, che si serve di un vocabolario in disuso, che paria di frecce al tempo delle torpedini e dei gas lacrimogeni, rimette in uso delle locuzioni logore fino alla trama, ornamenti come quelli delle dame del tempo di Enrico II.

Sinatto stile è deplorevole, perché è vano; un uditore non ci potrebbe trovare vita assimilabile e non ci s'interessa. Quanto egli, davanti a un uomo che appassionatamente vuole dirgli qualcosa, desidera di sapere che cosa e gli presta tutta l'attenzione dell'anima sua, altrettanto « lascia cadere » una pura cerimonia verbale.

Che cosa è una parola che non sgorga da un pensiero e un pensiero che non sgorga dalle cose? La verità del pensiero è un'uguaglianza tra le cose e l'intelletto; la verità della parola è un'uguaglianza tra il verbo e il concetto. Concepire le cose

18 — SEBillliAlTOBS. Voratore cristiano, ;

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l'eloquenza iviiy^».., di affermarsi a parte, in vece

e di cancellare se stessa.

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' T - t^''Q. intellettuale si

i d'-'^i-i.v,.»-,-

di affermarsi a parte, m vece ux ^,.-

e di cancellare se stessa.

È questa una forma della volontà 'propria, s per lo stile

come per l'anima ciò non è una virtù La forza intellettuale si dimostra nell'esprimere semplicemente le più grandi cose, come la santità nell'essere eroico semplicemente, come la forza atletica nel sollevare facilmente i più gravi pesi.

— 274 -——

• lo stile. Ed è spe-

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B) LA PABOlA DIRETT^

Una forma di questa verità della parola, „ „ „ disporr diretto, ad Uminem, per opposizione a una^scritZa t)s un libro, fosse pur vera e semplice a modo CpJcS^^^^ è una comunicazione, la parola vera dev'^, e la parola dialogo, un'azione drammatica tia l'udito^ ^^b KL?1 che lo eccita. Benché sul pulpito tu sia solo ^. .eT0?0 nel tuo teso; le menti ti rispondono de^0^ p^0^ parleresti invano, e spetta a tè di mantenere u dialogo di non lasciarlo languire. A ciò servono l'interro^ l'apostrofe, gì inviti all'adesione il noz e il ^, che sono come una moneta di scambio A questo fine conferisce anch, ^ ^fituzione di persona, che surroga per mezzo dell'udito^ ^so un soggetto teorico o un soggetto assente^ „ Egli e ^ ^ ^ ^

crederesti morto ». Certi tropi indicati nel^colo dello svolgimento possono a ciò servire. Qualunque già il mezzo, lo scopo e di creare un passaggio, di stabilire ^ ^ ^^ ^ ^

della forma umana, che effettua il contatto g ]. scambio tra

1 •J'J.. 1) l'.l- 1, -« " v -*-•-• iSv-'CItlllU-'l.U ijj-<a

la vita ulteriore e l'ambiente che la deve w^

C) LA paeou viva.

\ Una forma viva darà alla parola vera , ^ ^ ^^

una maggiore forza di penetrazione. Es^ importa assai al l'effetto del discorso. Per Newman, un disco^ ^ , effettuazione appassionata »: ci vuole aidore, anc}^ „ quest'ardore si dovesse dissimulare, per dare anche più al^nto alla propria fiamma segreta. Fu detto di Shakespeare ^ tava l'espres. sione « fino al punto di esplosa », quasi ^ , ^, ^ori sacri lo sorpassano ancora, compreso ^ ^ ^esso.. Le parabole, ad onta della loro semplicità ^ematica, dimostrano un senso drammatico potente; t^ i particolari vi hanno risalto e impongono con forza il tei^ morale

Perché Claudio Bernard ti tiene conio ^ auando ti spiega le leggi dell'induzione^ Egu non vi ^ eerto, nessun artifìzio, è la stessa semplicità e non usa ^ ^ola ridondante.Ma si sente un vivo che paria a ^ e per il quale il soggetto vive; la scienza s incarna nell'w^' ^ehe nelle cose più positive o nelle più astratte, a può se^e ^ punta di una fiamma. Di una pietra, il calore fa un astio

— 276 —•

Ce n^ •un gran bisogno in ciò che ci riguarda. Noi siamo incaricati di fare che il lontano apparisca presente, il misterioso diventi evidente, l'oscuro chiaro, il complicato semplice, il dimenticato reso del tutto nuovo: non è soverchio valersi di tutti gli espedienti di una parola viva. A proposito del discorso cristiano Novalis scrive: « In un vero discorso, si fanno tutte le parti, si passa per tutti i caratteri, per tutti gli stati, a fine di contemplare il soggetto da tutti i lati a un tempo, di sorprendere l'uditore e di persuaderlo... Ora l'oratore interroga, ora risponde; dialogizza, poi racconta; pare che dimentichi il suo soggetto per ritornarvi bruscamente; pare convinto e ritorna accortamente a tergo per aggredire il suo convincimento;

parla a tutti, anche agli oggetti inanimati. In una parola, un discorso è un dramma monologato» (1).

In quanto ai particolari, si eviterà il discorso troppo sminuzzato, troppo leccato, troppo levigato, che rassomiglia a una fotografia ritoccata, dove gli accenti della vita scompariscono. È meglio una grinza o anche una verruca piuttosto che una superficie di un pane di sapone, dove nulla vibra. Non si patrocina la scorrettezza; ma essa è preferibile al nulla armonioso, e tra i due, vi è il tratto netto, un po' tagliente, che segna i rilievi del pensiero e fa sentire la forza. Non rigidità geometrica, di cui non vi è esempio presso i viventi; ma una linea franca e dei volumi ben rilevati, le cui relazioni s'impongano.

Per conseguenza, usare di preferenza le parti del discorso più vigorose: il sostantivo e il verbo. Non temere di ripetere la parola, quando si ripete l'idea, in vece di ricorrere agl'insipidi sinonimi. Evitare gli epiteti molteplici e sdolcinati; adottare solo quelli che dipingono e che aggiungono all'idea, che aiutano il cammino del discorso, eliminando quelli che raffinano e s'indugiano. L'uso abile del presente da più vivacità alla parola, e anche la soppressione dei legamenti verbali non indispensabili (segreto di Montesquieu e di Longino). Soprattutto i legamenti logici, gli infatti, i dunque, i perché, i vale a dire, si devono eliminare per quanto è possibile, specialmente nei momenti di passione. Fa' piuttosto della saldatura autogena, per fusione di concetti senza interposizione di corpo estraneo.

I cambiamenti di soggetto menzionati a proposito del discorso diretto, trovano qui un'applicazione più generale;

essi sono efficacissimi, specialmente se è Dio stesso che ne ap-

(1) novaus, Fragmenis inèdita. Stock, ed.

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profitta e pare così sorgere tutt'a un tratto: « Noi siamo soli in questo mondo e il mistero delle cose ci opprime; ma voi, o Signore, ce lo avete detto... ». Queste brusche svolte danno molta spigliatezza alla parola, e combattono il sonno, speciale nemico dell'oratore sacro.

-D) la DIVISA DELLO STILE ORATORIO. il LIRISMO.

Quando patrociniamo la semplicità, per la verità dello stile oratorio, non dimentichiamo che gli è anche indispensabile un'alta divisa. I nostri temi sono sublimi: la loro espressione vuoi dignità, un'aria di nobiltà, anzi una certa solennità, digradata secondo i casi e le persone. Vi è una « naturalezza » di cui dobbiamo diffidare, ed è la naturalezza volgare, bassa, che sente di bottega o del fraseggiare di adunanze pubbliche. Noi parliamo un linguaggio sacro; la predica è un'estensione della Messa; è una liturgia; e non ne segue che debba essere un canto; ma poiché in certo modo è una parola profetica, non le disdice punto una certa esaltazione lirica, purché sia temperata dal senso delle realtà e delle anime.

Del resto, le realtà, le anime e il lirismo hanno ogni ragione di accordarsi. Il lirismo è il reale stesso, grazie all'identità dell'essere e del bello. Un vero pensatore, attento all'essenza profonda delle cose, è sempre poeta; un vero poeta è sempre pensatore. Il pensatore e il poeta ammirano, e il lirismo, osserva Paolo Valéry, non è che « lo svolgimento di una esclamazione ». Vi concorrono tutte le arti, ciascuna secondo i suoi mezzi, e siccome il mezzo è qui secondario, siccome tuttavia ciascun mezzo specifico esprime il fondo in un modo che non appartiene se non ad esso, si deve intendere che vi è in ciascun'arte come un'esigenza delle altre arti. Ogni arte costruisce, scolpisce, dipinge, poetizza; in ogni arte, vi è della musica e del canto. L'eloquenza, nonché fare eccezione, abbraccia tutto il fascio. Una certa commozione poetica e lirica, una certa musicalità in essa è sempre richiesta; essa crea un ambiente nobile attorno ai nostri pensieri, loda i nostri oggetti divini e concorre alla persuasione mediante il fascino, mediante il felice incantesimo delle anime.

Intendiamoci bene, non si tratta di fare smancerie. Il gusto, il giusto apprezzamento di tutti gli elementi della parola e dei generi diversi in cui essa si può esercitare dovranno determinare la misura. Al massimo, la poesia ottenuta sarebbe una

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trasposizione in prosa di ciò che trovano sul loro terreno i Verlaine, i Péguy, i Claudel, i Francis James, cioè una poesia che oltrepassa la vita senza dimenticare di radicarvisi nel più profondo, che trae di lì i suoi migliori effetti, che raggiunge una sublime familiarità, affatto realista, a dispetto della sua elevatezza. Ma d'altronde, perché cercare così lontano, dal momento che ne abbiamo il modello nel Vangelo, dove tra i discorsi più semplici comincia la sacra sinfonia di cui la parola apostolica fa parte?

E) il RITMO.

Trattandosi in particolare del ritmo, importa prima di tutto rimuovere ciò che si potrebbe chiamare un'armonia prestabilita, intendo quelle frasi bilanciate che tanti predicatori prediligono e che provocano il sonno, come del resto ne procedono. Quando l'anima dorme, culla così se stessa; ma non ne segue che una metrica della prosa oratoria si debba evitare, tutto all'opposto. Ciò che corregge un ritmo falso non è l'assenza di ritmo, ma un ritmo vero, procedente dallo stesso pensiero e dalle sue risonanze inferiori.

Una frase oratoria, un periodo, è l'estensione d'un soffio ed è lo spiegamento di un pensiero; entrambi ubbidiscono alla legge del ritmo.

Si vede che non si tratta d'imporre il ritmo dopo il fatto, per un artifizio di scrittura o di parola; ma bisogna attenersi bene all'origine, alla congiunzione dell'anima e del corpo, dell'intelligenza e del soffio. Esso tocca il pensiero come la sua espressione e lo trascina esso pure in una misteriosa cadenza.

. STon si è forse parlato degli « adagio sublimi » di Bossuet e dei « prestissimo » di Voltaire? ~Sou si trattava unicamente delle loro frasi. In essi, l'idea, l'immagine e l'armonia non formano che una sola cosa. È 1' « intreccio (torsade) divino » di Hugo.

" Quando la musica è unicamente e principalmente nella frase, lo stile s'imbastardisce e diventa artificiale. Come avviene a Chateaubriand, a Pierre Loti, quando scrivono frasi «incanta-trici» come richiami d'uccellatore e che sentono della loro insidia.

A titolo negativo, si può intervenire in favore dell'armonia mediante l'eliminazione delle durezze, delle consonanze penose, dell'iato, eco. Ma in senso positivo, la musica di una buona prosa deve risultare dallo stesso suo movimento, vale a dire

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dalla vita dello spirito e da' suoi atteggiamenti felici, mentre esso si sforza per il conseguimento del suo oggetto, e lo allaccia, e lo stringe, con tutte le spire di una fiamma movente, che arde e non fa smancerie.

Ne seguirà che il ritmo sarà differente secondo l'anima di ciascuno, che si dovrà badar bene di non copiare il ritmo d'uà altro. Imitare il canto di Bossuet, di Massillon o di Lacordaire sarà cosa più sciocca che plagiare i loro pensieri, di gran lunga meno individuali. Ma il ritmo varierà anche secondo i soggetti e secondo i passi. Non si parlerà di « Colui che regna nei cicli e dal quale dipendono tutti gl'imperi » sul ritmo di Ferretto e della sua lattiera. Se lunghi, i periodi sono più maestosi, e se eccedono, illanguidiscono e appesantiscono; se corti, sono più agili, ma possono cadere nello sbocconcellamento e in una leggerezza di andamento poco conveniente allo stile religioso. Ciascuno badi a scoprire l'anima sua e l'anima di ciò che egli esprime.

Una parola ardente è naturalmente più ritmata; all'altro estremo è una parola abbandonata e come indifferente, a guisa di una respirazione calma. Tra i due, nel corso di una discussione o d'una spiegazione ideologica, il ritmo cede alle esigenze razionali che accaparrano l'attenzione. Ma è solo una questione di grado.

Nell'estrema passione, poiché è ammesso un certo disordine, che è nella natura, il ritmo ne subirà l'effetto. Esso sarà allora' spezzato, in qualche modo caotico. Non bisogna dimenticare che il discorso appassionato già non è che una convenzione superiore, un effetto dell'arte: la passione estrema non discorre. Sarebbe dunque un errore esagerare la convenzione con UB vibrare fittizio.

Besta a sapere che cosa si ha da pensare dei versi che s'introducono nella frase oratoria così come nell'altra. Vi sarebbe evidentemente puerilità a cercarli; ma accoglierli è almeno lecito?

La legge è di non conservare del verso se non quello che ne comporta la prosa, la bella prosa, che è una mescolanza di costringimento realista e di slancio ispirato. Nietzsche osserva bellamente che l'incanto della prosa consiste nello sfuggire continuamente alla poesia, pur correndole dietro. Dionigi di Ali-carnasso, dal canto suo, dice che la prosa ben misurata è una specie di canto insensibile {cantus obscurior). I versi, se ce ne

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sono, non devono sentirsi, non devono imporsi come tali, non distaccarsi dalla corrente. Si deve forzarli a sciogliersi, in certo modo, nella libera fusione del discorso, in modo che questo non ubbidisca se non ai movimenti spontanei e agili dell'anima senza artifizio interposto.

Ma quanto al resto, poiché l'anima stessa è poetica, e poiché, nell'unità umana, il ritmo della materia armonica ha il suo diritto, vi sarà sempre, in ogni prosa ben misurata, una quantità di versi discernibili all'analisi, versi di tutti i metri, compresi i solenni alessandrini, se si tratta di una prosa nobile, e dovunque di quei facili versi ottonari, che fanno miglior vista.

La ragione è perché gli elementi musicali della parola forniscono sempre un coefficiente che moltiplica tutto il resto, e perché l'elocuzione, anziché essere esclusivamente l'espressione del pensiero, è essenzialmente e al medesimo titolo una testimonianza dell'immaginazione e della sensibilità che la pervadono, della passione che essa suscita, dello scotimento nervoso e muscolare che trasmette, del soffio che la regola, in una parola, dell'essere molteplice e uno, spirito e materia, che l'ha concepita.

1') le SENTENZE E LE CITAZIONI.

A questa questione del ritmo e della poesia dello stile oratorio, si connette quella delle sentenze, delle frasi da medaglia, e indirettamente quella delle citazioni.

;N'on bisogna abusare delle sentenze: ciò nuocerebbe alla naturalezza, che è una legge infrangibile. Ma è naturalissimo, quando ti sei spiegato, il chiudere le tue spiegazioni in una formula decisiva, impressionante, ben abitabile nella memoria, assai stimolante per la riflessione. Citata a proposito, una sentenza è come una goccia di liquore concentrato che si diffonde nell'acqua pura; la pienezza di senso che essa racchiude trabocca e corrobora il tutto. « È vero! », dirà a se stesso, l'uditore.

***

"La forma ellittica della sentenza le permette di fare angolo;

entra e resta. Se credesi a Vauvenargues, si potrebbe dire che essa fa prova per se stessa, rappresentando nel massimo grado « quello splendore di espressione che porta con sé la prova dei grandi pensieri ».

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Spesso le sentenze che s'insinuano nel discorso sono citazioni. Ciò si capisce; perché, prendendo un pensiero altrui, si ama che sia il più ricco possibile, e inferiore a un piccolo volume. I bravi ladri non portano via i mobili ingombranti o il carbone dalla cantina.

Fare delle citazioni è un'arte particolarissima. Quest'arte è perfetta quando coincide con l'arte di pensare e di esprimersi per proprio conto. La citazione deve incastonarsi nel testo in modo da fare corpo, e non presentarsi se non come una sola fusione di pensiero, retta dalla stessa estetica. Bisogna dunque che la citazione sia richiesta e come inevitabile; non dev'essere poi continuata, salvochè non abbia per incarico di concludere tutto.

Perciò un oratore non fa buone citazioni se non nel caso che egli ne possa fare a meno, voglio dire nel caso che egli sia allo stesso livello, capace di fornire lui stesso un'espressione adeguata, se non altrettanto brillante. Se la citazione ti supera troppo, ti servirà male; in confronto del tuo testo, formerà una macchia, una macchia di luce, e tutto ne impallidirà. Invece bisogna che tutto s'illumini. Per questo scegli bene, senza troppa ambizione, e poi, soprattutto, tenta di rinvigorire fino a quel tono, prima e dopo, la tua propria luce; traccia la tua curva di pensiero in modo che essa passi per questo punto non per soprassalto, ma in dolce pendìo, con un procedere armonico.

Allora la citazione non solo ti avrà servito, ma ti avrà anche innalzato, e le parole d'un altro che riferisci saranno di un altro per così dire, poiché non han fatto che esprimere l'anima tua.

O) la PROPRIETÀ DELLO STILE.

Un'altra qualità essenziale dell'elocuzione è la proprietà, cioè un adattamento esatto dello stile oratorio alla natura e alle convenienze del discorso.

Vi è una proprietà grammaticale, di cui non parliamo qui, e che consiste nell'uso di una lingua corretta e precisa; ma vi è anche una proprietà oratoria, ohe adatta la parola non più soltanto al pensiero in quanto al suo senso ideologico, ma in quanto al suo carattere estetico e morale, in quanto alla sua tonalità, alternativamente nobile, familiare, modesta, sublime, triste, gioconda, timida, entusiasta, tenera, ferma, qualche volta dura, ecc.

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Parlando della composizione, ricordavamo che lo spirito di una pianta o d'un animale ha un'architettura che gli è propria; esso ha pure dei tessuti, una contestura superficiale, un colore che corrispondono alla sua specie: così vi sono parole e forme per tutti i movimenti dell'anima, 'per tutte le occasioni della vita, per tutte le circostanze di persone, per tutti i caratteri delle cose. Vi sono frasi di maestà, di duolo, d'umiltà, d'eleganza; vi è uno stile marmoreo, uno stile d'acciaio, di bronzo, di ferro, di granito, o di carne. Un'esatta appropriazione è una forza e un mezzo di svolgimento del discorso, come della sua verità piena.

La verità delle cose si deve riflettere non solo nella logica delle nostre parole, vale a dire in proposizioni vere, ma anche nella forma estetica dello stile, nella tonalità del discorso. Se tu parli di cose dolorose con parole scherzevoli o volgari, puoi esser vero quanto alle proposizioni che emetti; ma non sei vero esteticamente, moralmente, e la definizione della verità: adae-quatio rei et iwtellectus, non ha soddisfazione completa.

Sainte-Beuve diceva: « Ho sempre pensato che bisogna prendere nello scrittoio di ciascun autore l'inchiostro con cui si vuoi dipingerlo ». Ciò si verifica anche delle cose, dei soggetti, dei temi, e Sainte-Beuve lo indicava aggiungendo: «Io ho osservato i costumi del mio soggetto » (1). Amiel dal canto suo scrive: « II solo stile che mi piace, è lo stile della cosa » (2). Ogni cosa ha il suo stile, come una colonna, come una cattedrale, come un paesaggio, come un sembiante espressivo.

Ho detto espressivo, perché vi sono dei sembianti che non dicono gran cosa, come vi sono dei paesaggi senza molto carattere e dei monumenti senza stile ben definito, e vi sono pari-menti dei soggetti poco interessanti, poco caratterizzati esteticamente; ma non sono certo i nostri! Tutti i nostri soggetti hanno un grande carattere. Se non che hanno, ciascuno, un carattere proprio, ed è a questo carattere che bisogna imparentare l'elocuzione.

Ciò dovrebbe essere acquisito fin dal principio; infatti abbiamo detto che la prima cosa da concepire, quando si medita un discorso, è l'impressione generale del soggetto, l'effetto che è destinato a produrre, la sua tonalità morale. Ma acquistata questa prima concezione, non bisogna abbandonarla

(1) SAiMTB-BEtrvE, Oahiers.

(2) amiisl, Jownal, 21 avril 1879.

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nell'esecuzione. Bisogna serbare la tonalità per tutto il decorso. L'unità tonale, questa legge della musica classica, fu potuta abbandonare senza troppo danno da certi contemporanei; ma essi hanno dovuto trovarle un equivalente, ^ulla può fare a meno di unità; sarebbe quanto fare a meno di essere.

Del resto non si tratta di uniformità; la stessa unità tonale, in musica, non si oppone alla varietà, ma la regola; la contiene;

dunque la suppone. 'Seììo stesso modo il discorso è uno, ma non uniforme. La monotonia è uno dei grandi scogli dello stile oratorio, e la proprietà di cui parliamo ne è appunto il rimedio. Come saresti monotono, se segui tutti i movimenti del pensiero 6 del sentimento, e tutte le differenze delle cose? La varietà è allora acquistata; la verità la porta seco.

La varietà cercata artificialmente non sarebbe che una maschera; vi si vedrebbe una monotonia che si traveste, e la collezione dei falsi sembianti sarebbe sempre ben lontana da proporzione con l'inesauribile varietà della natura.

Dal momento che il tuo discorso non vacilla, tu dici sempre cose nuove, cose diverse, e se le dici con proprietà, con verità, tu sei necessariamente vario.

Tu sei inoltre originale; infatti, come non vi sono due corpi identici, così non vi possono essere due vestimenti pari, se'. sono tagliati come una tonaéa di S'esso. Proprietà ed esclusività sono quasi esattamente sinonime; nel discorso si rispondono, per quanto comune sia il pensiero in se stesso. « Ridire le cose già dette, scrive Eemy de Gourmont, e fare che si creda di udirle per la prima volta, è tutta l'arte di scrivere, come tutta l'arte di vivere è di rivivere, come tutta l'arte di amare è di amare ancora» (1).

E} la mistjba.

1'Tello stesso tempo, bisogna essere misurato. La misura è una nuwa qualità dell'elocuzione, benché noi l'abbiamo già richiesta dalla composizione e dallo svolgimento, benché essa debba far ritorno per l'azione. « Bisogna mettere del giudizio ' da per tutto », diceva Poussin.

Un uomo di zelo come S. Francesco di Sales avrebbe potuto, sembra, trascorrere a qualche intemperanza verbale; ebbene égli diceva: « Bisogna che le nostre parole siano infiammate

(1) bemy db gotomont, Esthétìqm de la langw franfaiSe.

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non per grida e azioni smisurate, ma per l'affetto inferiore;

bisogna che esse escano dal cuore più che dalla bocca. Si ha un bei dire, ma il cuore parla al cuore, e la lingua non parla che agli orecchi » (1).

Noi troviamo qui ciò che ci s'insegna in teologia. La carità non ha misura; ma tutte le virtù che essa c'ispira ne hanno una; tutte hanno il loro « giusto mezzo ». Slmilmente, non vi è misura nello zelo col quale parliamo; ma nell'elocuzione, è un altro paio di maniche. In vece di far risplendere tutto, bisogna lasciare delle ombre; in vece di dar rilievo a tutto, bisogna procacciare delle superficie piane. Senza ciò, si avrebbe presto il sopraccarico, e sotto pretesto di mettere tutto in valore, si rigetterebbe tutto a terra.

Del resto la misura dello stile oratorio si deve ottenere non tanto smorzando i suoi effetti (ciò che a volte può esser necessario) quanto equilibrandoli, in modo da conservare sempre un andamento vivo, franco, il cui effetto ultimo è una sintesi prodotta nell'anima dell'uditore. Ti sei abbandonato alla foga un momento: ti ripigli ed entri in un movimento lento, troppo lento e soporifero, se fosse solo, ma che, giustapposto, riposa e forma equilibrio.

Beethoven si vale costantemente di questo espediente. ~Son sonnecchia mai; è sempre tutto ardore; ma ora il suo ardore si adopera a correre eroiche avventure, e tutto a un tratto eccolo accovacciato; che s'inebria d'immobilità e di silenzio, come nell'andante deli'Appassionata, il suo capolavoro pianistico. Siffatti movimenti d'anima sono di grande effetto;

offrono la varietà della vita, e nulla prendono in prestito dalla morte, come un'attenuazione pura e semplice, come un ammortimento, parola fatale che fa prevedere la sonnolenza e la noia.

I) la SOBRIETÀ.

La misura, la sobrietà possono sembrare la stessa cosa; ma io non voglio dire la stessa cosa. Per misura, intendevo l'esatta ponderazione degli effetti; per sobrietà, intendo il ridurre alla loro giusta quantità gli elementi destinati a produrre questi effetti e in generale a esprimersi.

La sobrietà è un gran vigore dello stile oratorio, una condizione di energia, di mordente, di forza. Abbiamo imparato a

(1) st ebamqois db sales, Lettre a Mgr de Orenoble,

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sgombrare la composizione, non ammettendovi se non quello che sostiene, quello che prova, quello che attrae: in materia di elocuzione, è necessaria la stessa economia. Quando si studia il soggetto, si procede per minuto, non sapendo ancora dove sì troverà l'essenziale, temendo di fallire « il nocciolo », ma se si tratta di esprimere, uno spirito di sintesi deve riassorbire i particolari (insetti parassiti), come diceva Voltaire. ;

Goethe racconta che Schiller ridusse a sette strofe un brano che ne aveva prima ventidue, e senza che vi perdesse nulla, anzi! Boileau, nella sua dissertazione su Gioconda, osserva che « tutto l'artifizio della narrazione consiste nel non notare se non le circostanze assolutamente necessarie ». Ciò si capisce;

perché così si provoca il concentramento dello spirito sopra l'oggetto, per conseguenza l'interessamento. Se si cerca un effetto di potenza, si otterrà più sicuramente con lo scorcio, con l'uso di termini a un tempo misurati e comprensivi, simili agli alimenti che nutrono con un piccolo volume e che non caricano. E l'impressione della stessa ricchezza non è il risultato di un accumulamento di elementi, dovesse pur essere giustificata — apparentemente — da comprensione, da combinazioni per far entrare molti elementi in una breve frase;

ma procede piuttosto da giudiziose eliminazioni, da un gioco serrato, che va diritto all'essenza delle cose.

Vedi gli scorci di Pascal! « Increduli, i più creduli ». « Nessuno è felice come un vero cristiano, ne ragionevole, ne virtuoso, ne amabile ». «Non è strano che una cosa si conservi piegandosi, e ciò non è propriamente un mantenersi. Ma che questa religione si sia sempre mantenuta, e inflessibile, è cosa divina ». « Corre molta differenza tra un libro che fa un individuo e che egli getta nel popolo, e un libro il quale forma esso stesso un popolo ». « Noi godiamo di riposarci nella compagnia dei nostri simili. Miserabili come noi, impotenti come noi, essi non ci aiuteranno; morremo da soli. Bisognerebbe dunque fare come se fossimo soli. E allora fabbricheremmo case superbe?...». Tutto questo è parola animata, e «Iella più viva. Ora il mezzo per riuscirvi non è altro che il sacrifizio. Il risultato è di far pensare indefinitamente, come davanti alla espressione più ricca.

Alla scuola di Leconte de Lisle, Sully Prudhomme diceva ; di avere imparato «che la ricchezza e la sobrietà sono date 'tutt'e due a un tempo dalla sola giustezza »; non si potrebbe dire meglio.

Del resto i mezzi della sobrietà non devono essere sistema» tici; bisogna distinguere il caso. Qualche volta il caso cercato vuole del sovraccarico apparente, della macchia verbale, ovvero della ripetizione, come in quest'esempio: « Tra noi e l'inferno o il ciclo, sta solo tra due la vita, che è la cosa più fragile del mondo ». Pascal vuole che la mente si porti su questo fragile tra due: egli lo ripete. Ma per lo più, la forza è nell'eliminazione. « Aggiungi qualche volta e cancella spesso ».

Per conseguenza, evitar quell'accumulare di sinonimi, in cui lo spirito manifesta la sua incapacità di scegliere e di andare diritto alla parola propria. — Evitare gl'incidenti e le parentesi, quando non sono che fughe laterali, effetto e causa di distrazione, di dispersione. — Evitare la moltiplicazione delle immagini, dei paragoni, dei qualificativi, che non aggiungessero niente e producessero uno svolazzare nocivo. Il pensiero allora si perde in una specie di barbaglio. E sarebbe cosa assai vana il credere di dare così prova d'una forte immaginazione. « Poche persone, dice Paolo Valéry, percepiscono nettamente quanta immaginazione ci voglia per privarsi d'immagini ». Sì! perché allora bisogna incontrare il reale, più nascosto che il suo velo brillante.

Finalmente evitare i termini pomposi e saccenti, i termini tecnici, dei quali i più grandi dotti, come Pascal, Cuvier, Claudio Bernard o J.-H. Fabre si sono liberati il più possibile, anziché farne sfoggio, come usano gl'ignoranti o i mezzo abili.

Tutto questo parrebbe semplice, e la difficoltà è estrema. Ci vuole un lavoro accanito, un coraggio di ferro, e un'annega-zione che tocca da vicino una virtù morale. Lo scrittore probo castiga il suo stile come l'asceta la sua carne; rinunzia allo svolgimento snervato come si rinunzia ai beni di questo mondo in favore dei beni eterni.

Insemina, un'elocuzione piena, solida, casta, espansiva e contenuta: ecco il nostro voto.

J) il MOVIMENTO ORATORIO. la VEEMENZA, E L'ENTUSIASMO ESAGERATO.

Il dinamismo della composizione ci è sembrato un carattere essenziale di un'opera oratoria; l'esecuzione introduce questo carattere sotto il nome di movimento, ciò che, nel plurale, designa certi periodi particolarmente attivi, e nel singolare, un andamento generale che deve sempre avere qualcosa della valanga o della corrente d'acqua.

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La regola, in tutti i casi, è che il movimento parta dal fondo e sia come lo scorrere naturale dell'idea, o il suo esplodere, secondo l'occorrenza. Ogni movimento artificiale, voluto, è una mancanza contro l'arte, una fatica per l'uditorio, un impedimento dell'effetto. Dal momento che il discorso cammina sulle tracce del pensiero e del sentimento, essi stessi sottomessi alle cose, un declivio o una subitanea depressione trascinano o precipitano la parola; un ripiano la ritarda; un rialzo del suolo la trattiene.

Se il soggetto è tutto unito, come una semplice spiegazione, lascialo in ciò che è; contentati, in fatto di movimento, degli effetti provocati dai piccoli accidenti della strada. Se entri in discussione, il movimento diventa come la « danza » del boxeur attorno all'avversario, o come la corsa del bell'atleta, o come lo sforzo ora bilanciato ora agitato del lottatore. Ma sempre, e qualsisiano le sue variazioni, a volte estreme, il discorso deve rimanere di una sola colatura, come esige l'unità della concezione primitiva e della composizione che se n'è tratta.

In qualsisia momento si produca un movimento oratorio, questo movimento dev'essere preparato con tutto quello che lo precede, e utilizzato con tutto quello che lo segue, di modo che in verità da un capo all'altro non vi sia che un solo movimento, come nel flusso dell'onda.

Se sei riuscito a provocare una commozione, a far brillare una chiarezza, non tagliare corto: è il momento di prolungarne l'effetto, fosse pure per un contrasto. Un altro effetto che succedesse senza legame col primo non farebbe che di-;

struggerlo, in attesa di essere distrutto esso pure. Vi sono delle transizioni tra i movimenti del pensiero, come tra i pensieri nel loro tenore ideologico. La differenza è che non si possono determinare astrattamente, perché dipendono dalla vita delle idee in seno all'oratore più che dalle idee stesse; è l'istinto oratorio che le trova, aiutato dal giudizio, e questo giudizio si forma al contatto dei maestri, al contatto più fecondo ancora dei soggetti intimamente vissuti, al contatto delle anime.

Quando il movimento oratorio arriva al massimo, si parla di veemenza. Ed è una qualità, a condizione che sia giustificata dall'oggetto e conservi la giusta misura. La veemenza senza motivo è ridicola; è glaciale, per reazione dello spirito offeso. Il fuoco oratorio deve manifestare, se posso dire così, la temperatura naturale del soggetto, non solo lo scaldamento dell'oratore.

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Se la veemenza si giustifica, bisogna ancora che essa non oltrepassi i limiti della sua giustificazione, sia come grado, sia come durata. Nessun soggetto si presta a una veemenza continua. « Pegaso cammina più spesso che non galoppi », diceva Flaubert. Anche nel caso in cui l'insieme è veemente per definizione, qualche riposo deve servire di preparazione alle riprese; vi saranno pure dei retro cedimenti apparenti, come l'onda sulle spiagge, e il discorso non sarà che più forte.

La continuità stanca; per fatica, si ricade dal punto in cui l'oratore ti aveva portato. E poi la natura protesta; il tuono non romba sempre; vi è la « calma terribile » della tempesta. Nel corso dello svolgimento più vivo, sei pure obbligato a inserire dei brani descrittivi, delle definizioni, delle osservazioni psicologiche, ecc.: le farai tu galoppare e ne falserai così il carattere?

Là dove la veemenza è al suo posto e non eccede punto, ha degli effetti che sembrano opposti alla logica della parola, alla sua misura esatta, alla sua perfezione. La passione ha le sue proprie misure; il tutto sta che essa le serbi e non rompa mai il compromesso tra le regole correnti della parola e la sua sregolatezza. Abbiamo spesso citato S. Paolo come il più ammirabile spregiatore delle logiche astratte, degli ordini convenuti e degli assetti verbali; ciò non gl'impedisce di essere uno stretto logico e di valersene. La passione è logica quanto la ragione, in una certa maniera; anzi in una certa maniera è più logica, essendo più strettamente legata che la maggior parte dei concetti al determinismo della natura. Del resto il discorso appassionato di S. Paolo deriva dalla soprannatura, da un'ebbrezza divina che non permette all'autore un andamento regolare. Egli balza d'impazienza sublime; non lascia alla parola il tempo di formarsi, ma afferra l'espressione per mezzo della parola saliente come si salta su un albero per il ramo che pende, in vece di passare per il tronco e per la biforcatura.

Ciò crea uno stile speciale di cui non bisogna abusare, ma che, a tempo e luogo, può riuscire a tutti. Per esempio si lanceranno degli appellativi disposti in gradazione prima di dire a chi o a che cosa si riferiscono, dei verbi prima che si conosca l'oggetto dell'azione. « Parlate, cantate, gridate, urlate, ruggite, io non me curo ». « O insensato, perverso incomprensibile, odioso e sciagurato nello stesso tempo, il peccatore! ». Frasi di questo genere, a freddo, sarebbero ridicole; nella foga, fanno bene, e lo stesso avviene di tutte le arditezze, anzi di tutto ciò

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che chiamano « felici negligenze ». Una volontà di arditezza o di negligenza è sempre una colpa; ma nello stesso tempo non vi è feconda saggezza se non quella che imbriglia una foga legittima, come la sobrietà preziosa è quella che disciplina un'opulenza di spirito.

K} I TBE GRADI DI STILE OBATOHIO SECONDO S. agostino.

Possiamo ora apprezzare la divisione classica di S. Agostino rispetto allo stile oratorio. Il Dottore distingue ciò che egli chiama stile comune, stile moderato, e stile sublime. Questi tré gradi sono tolti da Cicerone, che fa menzione dell'elocutio parva, modica e magna, che da modo di esprimersi submisse, temperate, granditer. Ma questo è preso soprattutto dalla natura delle cose. Gli estremi e il mezzo si trovano da per tutto.

Certi oggetti della nostra parola sono ordinar!, correnti, tolti dalla trama ordinaria della vita; altri sono di un ordine più elevato, ma ancora medio; altri finalmente sono « sublimi », presentando, cioè, i più alti aspetti della vita, i più importanti, i più decisivi rispetto a ciò che cerchiamo col meglio di noi stessi. La parola si deve piegare a queste differenze, se vuole ^raggiungere quello che Quintiliano chiama apte loqui. È questa una delle forme dell''adattamento di cui abbiamo fatto l'elogio.

E ciò dimostra, nello stesso tempo, che la distribuzione de^ tré modi non dev'essere arbitraria. Si tratta di pensare giusto, di prendere un giusto sentimento delle cose, e di pesarne poi esattamente l'espressione. Siccome tuttavia la natura delle cose oratorie è in parte opera nostra, giacché noi scegliamo, se pure non creiamo, le cose di cui vogliamo parlare e l'ordine in cui le presenteremo, vi è ragione di consigliare qui la varietà, in modo da evitare la fatica dell'uditorio, pure valendoci de' suoi mezzi di attenzione e di ardore. ~Son sempre sopra la nuda terra; non sempre sopra le alture; meno spesso ancora, forse, tra l'uno e l'altro, atteso quello che abbiamo detto dell'equilibrio per via dei contrari.

Dello stile semplice o wmv,W, non vi è nulla da dire di speciale. JSiulla parimenti dello stile medio o temperato, che partecipa dei due estremi e si caratterizza per mezzo di essi. Ma è utile notare che cosa s'intenda per lo stile sublime, o grande,

19 — SERTilLAsaBS. L'oratore cristiano. ,

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a fine di evitare false nozioni e di tutelare la verità della parola, nostra regola suprema.

Longino che fece un trattato del sublime, e Boileau, che lo tradusse e lo commentò, sono d'accordo con tutti circa la sua definizione. Si tratta di una forma di espressione abbastanza viva e abbastanza concentrata da mettere la verità in tutta la sua luce, e darle una specie di evidenza splendida che trasporta a suo malgrado lo spirito dell'uditore. Questo spirito è gettato in una specie di contemplazione che gl'impone autorevolmente l'ammirazione e l'entusiasmo, prepara la sua eventuale adesione, provoca in lui una generosa stima di ciò che esso ha di meglio e lo aiuta a ritrovare, se li dimenticasse, i suoi titoli di nobiltà.

Il discorso ordinario può persuadere; ma ci vuole il tacito consenso dell'uditore, la sua libera riflessione: il sublime invece lo trasporta.

Il sublime non esige espressioni straordinarie, rare o magniloquenti; anzi le esclude, se esse si allontanano dal vero. Le « sottili malizie » che Sainte-Beuve diceva di scoprire in Victor Hugo non han nulla di sublime, salvo la loro pretensione. All'opposto, il « Caino che non dorme » della Legende des Siècies, è affatto semplice. Legouvé osserva che Corneille non ha neppure messo il punto di esclamazione.

La condizione del sublime, presso l'oratore, è l'intensità della sua meditazione, il calore della sua immaginazione e del suo cuore. Ecco tutta la ricetta. Non vi è bisogno neppure di grandi facoltà. Il curato d'Ars non era un genio, e disse parole sublimi. « II soffrire passa, l'aver sofferto non passerà ». « Se si sapesse che cosa è la Messa, si morrebbe ». Queste son grandi visioni, e il visionario non è a Pathmos.

Se sei dotato dall'alto, tanto più farai tali trovate; ma non è necessario. Quello che non è in noi è nel nostro oggetto: non si ha che da coglierlo. Noi maneggiamo dei lampi, dei tuoni e delle lance di arcangeli: se tratto tratto non siamo sublimi, siamo ben dappoco. Diciamo meglio, non siamo dei veri apostoli, dei veri uomini di Dio. Ma tali saremo anche meno se mirassimo al sublime per artifizio, senza profondità di convincimento e di studio. Allora non si vedrebbe in noi che quei « commedianti delle grandi cose » di cui parlava Nietzsche.

Aggiungiamo che il sublime, per produrre il suo effetto, ha bisogno di una preparazione e di una continuazione, come dicevamo più sopra dei movimenti. Il caso è a volte identico; per

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, ^ lo meno è simile. Per avere il sentimento di una vétta, bisogna esservi salito e ridiscenderne. La nota folgorante del sublime deve rischiarare tutto, in avanti e indietro, cioè giustificare e consacrare quel che precede, come trascinare verso quel che segue. Sono sempre le medesime idee che ritornano; ma perché le leggi generali si ritrovano da per tutto.

j&) ilLAVORO DELLO STILE E LA SUA PERFEZIONE.

Se, per finire, parliamo del lavoro dello stile e della sua perfezione, noi corriamo rischio di essere interrotti dall'im-^ provvisatore. Ma oltreché anche l'improvvisatore ha uno stile e lo deve « lavorare » in una. certa maniera, noi abbiamo osservato che l'improvvisazione, se dev'essere seria, s'impara, e s'impara scrivendo. Vi è qui pertanto materia di riflessione per tutti. La buona elocuzione, scritta o verbale, esige che tu sia rotto al maneggio del vocabolario, delle torniture, del collocamento , delle frasi, delle successioni dei periodi, e ciò suppone il « lavoro », nel senso speciale che lo pigliamo qui. Il pittore non disegna forse tutta la vita, come il musico fa delle gamme, come il cantore vocalizza? Ogni tecnica approfondita vuole un'ostinatezza che mai non si smentisca, che sempre ricominci ad acquistare quel che ieri si credeva di avere acquistato. « Ci vuole una volontà sovrumana per scrivere, gemeva Flaubert, è io non sono che un uomo ».

Si può notare che questo acquisto sarebbe grandemente facilitato, se nelle nostre conversazioni mirassimo di più alla correttezza e all'eleganza semplice del linguaggio. Succede invece il contrario; meno obbligati dal mondo, noi ci rilassiamo, e il nostro carattere religioso non giunge sempre a convincerci che, per questo, carattere, noi siamo imparentati in tutti i modi .col mondo superiore.

Comunque, se il nostro zelo del perfetto non si decide che sul lavoro, almeno allora abituiamoci alla severità. Ci si abitua così presto alla facilità! E ciò diventa irrimediabile, come l'abito di certi vizi. Il giudizio stesso vi perisce; si pensa che « va bene », quando ci sarebbe una lunga tappa da varcare per giungere alla mèta della propria strada. «Molti scrivono dei libri, dice Massimo Gorki; ma assai pochi ne hanno vergogna dopo ». Nondimeno, questa sacra vergogna è un gran segno di vocazione letteraria e lo stimolo del progresso.

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Per incoraggiare se stesso nello sforzo, Goethe, quando poteva, era solito di sospendere la sua seduta di lavoro in un punto interessante, quando era bene avviato, e non in uno dei nodi che alla nostra impazienza pare che mai non si debbano sciogliere. Non si usa mai troppa astuzia con la pigrizia essenziale che ci tiene. Tuttavia il termine del nostro sforzo non è forse stato fissato da noi stessi? Quella forma perfetta che noi abbiamo intraveduto nel momento dell'ispirazione primitiva, è quello che ci ha messi all'opera; essa esisteva antecedentemente nella nostra intuizione: sia essa sprigionata; sia eliminato, « castigando », tutto quello che non è lei; senza di che è a noi stessi che abbiamo rinunziato. Vi è un voto di perfezione in tutte le cose, dice S. Tommaso d'Aquino: se l'arte risponde alla natura, deve tendere anch'essa al perfetto. Perciò amo quel detto di un giovane scrittore al quale, dopo un lavoro prodotto tutto di un getto, si domandava: « Adesso che cosa farai? » e rispondeva: « Cominciare ».

Si comincia veramente quando si è finito, e quando si è finito di cominciare, si ricomincia. Bisogna riprendervisi molte volte, con intervalli. « Sette anni tra le due riprese », diceva un autore, credo, con un po' d'ironia. Certuni ricopiano senza stancarsi ciò che hanno scritto, a fine di meglio giudicare tutto al passaggio. De Bonaid ricopiò quattordici volte, si dice, la sua risposta alla signora di Stael. Se ciò si porta via del tempo, che importa? È tempo bene impiegato quello che ci avvia al perfetto. Lavorando, non si pensi a finire. La fine è tutto il tempo. Quello che non è concepito ed eseguito fuori della durata è opera effimera.

In ciò che riguarda l'eloquenza, bisogna però distinguere tra discorsi che si pubblicano e discorsi destinati unicamente ad essere pronunziati. Nei due casi il lavoro non è lo stesso. Per la pronunzia, ti applicherai a conservare quei caratteri dello stile parlato che abbiamo detto necessari alla vita oratoria e che, oggi, sono tanto ricercati nel teatro. Per la pubblicazione, ti accosterai maggiormente allo stile scritto, e la correttezza, la squisita precisione del linguaggio riprenderanno un valore che la semplice audizione non esige.

Nei due casi, bisogna sostare al debito punto e non confondere la cura della perfezione con la ricerca eccessivamente minuziosa dei perfezionamenti. Avviene che « il perfezionare si oppone al fare con perfezione» (1). Poiché il giudizio che corti) P. vaiébt, Discwtt» de reception a VAcadémie franfaife.

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regge è instabile come quello che crea, avviene che si vada a tentoni e che si giri in cerchio; in questo caso, è la sorte che decide del progresso o del regresso della forma. Giorgio Des-vallières scrive: « Io voglio fermarmi prima del momento in cui il sapere, cessando di essere un mezzo a servizio del sentimento, comincia a contare per se stesso ». Questa risoluzione, valevole per il pittore, è assai più valevole per l'oratore cristiano, per l'apostolo. È veramente allora che la forma, la frase è ridotta d'ufficio al compito di strumento.

Si lavori senza interruzione finché l'opera non si trova al punto, alla tua propria misura, se non alla sua. L'andare oltre sarebbe un togliere al discorso la sua felice freschezza; si avrebbe del lavoro « faticato », nel senso dei pittori, senz'aver più nulla di quello stato nascente che è l'incanto degli abbozzi, che pa-rimenti non è estraneo a una esecuzione perfetta. La tua ambizione, se pure ne hai una, è non solo quella di non esser ripreso per un difetto, ma se ti è possibile, quella di ottenere qualcosa di grande.

Finalmente, qualsisia la dose dei ritocchi, è importantissimo operarli a suo tempo, non troppo presto, in modo da non ostacolare e paralizzare il lavoro creatore. La stesura letteraria, qualunque ne sia l'oggetto, importa una collaborazione dell'incosciente; e noi abbiamo riconosciuto nell'ispirazione, che è richiesta sino alla fine del lavoro, una parte di sonnambulismo: giova rispettare questo stato e, prima di criticare se stesso nei particolari, giova darsi arditamente, a benefìzio dell'insieme.

Ho detto arditamente, non in fretta. Una premura febbrile non conduce che a un lavoro fatto alla peggio. « Affrettati lentamente ». « Scrivendo affrettatamente, osserva mirabilmente Quintiliano, non s'impara mai a scrivere bene; ma scrivendo bene, s'impara a scrivere in fretta ».

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CAPITOLO VI.

La memoria.

;, I. — Come sviluppare la memoria.

Già abbiamo parlato della memoria a proposito dei metodi dell'oratore, ma dobbiamo ritornarvi su un poco, senza per altro insistere, avendo detto l'essenziale, che è lo stesso per tutti i lavori della mente, ne La Vie intellectuelle (1).

:N"on tutti godono di una felice memoria; bisogna accontentarsi di quella che si ha, e quanto meno essa serve di per sé, tanto più è necessario imparare a servirsene. Si potrebbe credere che se si improvvisa, la memoria diventi più o meno inutile; la verità è che la sua necessità è solo meno evidente e meno immediata. Quando s'impara a memoria, bisogna sapere perfettamente bene; ma s'impari o no, si scriva o no, bisogna sempre ritenere molte cose, e ritenerle perfettamente, specie se si è adottato il metodo misto sopra esposto. L'improvvisazione è sempre relativa.

Di più, e questo è molto più importante, se non si scrive, è tanto più necessario costituirsi un repertorio intcriore d'idee, d'immagini, di fatti, di definizioni, di citazioni da servirsene in ogni circostanza. Quanto più s'improvvisa, tanto più si ha bisogno di disponibilità abbondanti. L'operaio che va in città senza ben sapere che cosa. gli sarà domandato, porta seco tutti i suoi attrezzi.

Bisogna dunque sviluppare la propria memoria, e ciò non a modo dei pappagalli, ma con intelligenza, cioè ottenendo di ricordare mediante la riflessione.

Il carattere essenziale di ima memoria utile, è quello di essere organizzata, cioè contenere elementi connessi tra loro per una logica interna, come schede ben classificate. Se tutto è alla rinfusa, non vi si raccapezzerà più che in un cassetto

(1) Ch. VII, B.

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senza ordine. E il mezzo mnemotecnico per eccellenza, m ciò che riguarda almeno il principale, è dunque l'abitudine del lavoro approfondito, attento ai rapporti delle cose.

II. — Come valersi della memoria.

Supposto che la memoria sia sviluppata, o prendendola com'è, vi è ragione di domandarsi come meglio servirsene in ogni circostanza. Vi sono metodi che si possono chiamare materiali, perché consistono nell'associare il ricordo di varie parti o elementi del discorso a oggetti sensibili, a volte assurdamente scelti, come le proprie dita, le colonne della chiesa, le finestre o i mobili. Si invita così la mente ad allontanarsi dal pensiero nel momento in cui esso si concentra.

Certi si rappresentano il loro manoscritto e, in certo modo, vi leggono quello che essi declamano. A un visuale, questo può servire, e in questo caso un manoscritto accidentato sarà meglio che una bella copia, specialmente a macchina. Ma ciò parimenti non è guari intelligente, e il miglior ricorso della memoria, in materia intellettuale, non è forse l'intelligenza'?

Dicevo or ora che la nostra memoria abituale dev'essere organizzata; lo stesso è della memoria attuale. Per ritenere, bisogna guidarsi sulla logica delle cose, sulle associazioni riflesse, in tal modo che la mente sia, per così dire, forzata a ricordare per il bisogno che ne ha. L'idea di un antecedente autentico richiama di per sé quella del conseguente, e così di tutti i rapporti.

Il vantaggio di questo metodo non è unicamente nella facilità che offre per ricordare; esso elimina il rischio, nel caso in cui uno non si sovvenga. Tu dimentichi questo o quello, ebbene ti manca quel tanto; ma se i tuoi ricordi sono organizzati, non si tratta che di un vuoto da colmare, e troverai al di là la tua continuazione. ~Sel caso contrario, un vuoto qualunque può gettarti nello scompiglio, e tu resti breve.

Inoltre, anche quando tu ti sovvieni, la tua memoria, se si appoggia su un piano, ti permette di intercalare idee nuove, di sostituire quelle che, davanti al pubblico, ti sembrano meno buone, e ciò senza sconcertare tutto nei tuoi ricordi, come avviene quando s'impara materialmente. Allora si è schiavi; non si può lasciare la ringhiera senza fare un capitombolo. "

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Impara dunque a memoria non attaccandoti alle parole e alla loro successione, alle frasi e ai loro legami accidentali, alle pagine e al loro aspetto grafologico, al ritmo e alla figura dei periodi, ecc., ma tenendo saldo il tuo piano. Questo piano sia sempre presente alla mente, vagamente percepito nel suo insieme e nell'atto di rischiararsi parte per parte in proporzione che si avanza. Se il pensiero è sempre avanti, formando come una passerella tra ciò che si è detto e ciò che deve logicamente seguire, l'espressione è libera, tra l'uno e l'altro, di modificarsi, di valersi di una buona ispirazione, senza che la sicurezza della parola ne sia compromessa. Il discorso adunque sarà sgorgante, anche detto a memoria, nella misura in cui la memoria sarà stata legata allo spirito creatore.

La dizione ne sentirà gli effetti; la recita è assai più monotona, quando la memoria è puramente verbale. Ciò che si recita si canta; ciò che si crea o ricrea, si parla.

Cerca il piano necessario, dicevamo; trovatelo, avrai anche la memoria necessaria; queste cose son fatte per andare insieme, come la rotaia e la ruota, come il canale e l'acqua che vi s'immette. Tu imparerai la predica come è stata fatta: per mezzo della sostanza, e la reciterai nello stesso modo. Vedrai il tuo grano rifiorire sotto i tuoi occhi. Ciò non si dimentica.

III. — Alcuni consigli pratici.

Ecco, a titolo di complemento, qualche utile indicazione circa la memoria:

1. Se tu impari una predica poco prima di pronunziarla, non ti permettere di declamarla, sia ad alta, sia a bassa voce, soprattutto, forse, a bassa voce; ciò affiochisce la voce, congestiona la laringe e ti fa salire in pulpito stanchissimo. Si faccia tutto in immaginazione, anche il suono, le cui immagini — specialmente se si tratta di un auditivo — aiutano la memoria, come la rima e il ritmo dei versi.

2. Approfitta, per fissare la memoria, del lavoro incosciente della notte. Impara alla sera, rivedi quando ti desti. Ciò vale per il pensiero e vale anche per la memoria. Si fa una filtrazione; le coordinazioni si stabiliscono da sé, e si resta sorpresi della facilità con la quale si circola in ciò che sembrava una folta boscaglia.

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3. Negli ultimi istanti, prima di salire in pulpito, ripassa il discorso non più in particolare, ma a larghe occhiate, come il corridore guarda la pista prima di slanciarvisi, per non sbagliare i suoi giri. Tal momento è favorevolissimo a un'ultima fissazione, perché tu sei allo stato vibrante, con lo spirito desto dal pericolo. È un pericolo la parola! Il suo avvicinarsi ti stringe, quand'anche avessi apparentemente una calma perfetta. Allora tutte le tue facoltà sono sul ponte, la memoria come le altre; è il momento di chiedere a quest'ultima lo sforzo decisivo.

Ma ancora una volta non ti perdere nei particolari, non entrare nel fitto della boscaglia; ciò che ti occorre adesso è una veduta complessiva, dove non figurano che le grandi direzioni e le masse. Se il tuo piano è ben costrutto, ciò si fa in pochi secondi, e allora ti senti sicuro di tè.

4. Finalmente se ciononostante, recitando, la tua memoria esita, non esitare tu, evitando così di turbare tè stesso e inquietare per tè il tuo uditorio; riempi come puoi il vuoto che si produce, pur guardando davanti a tè inferiormente, pe'' ritrovare la strada. Eckermann racconta che Goethe, pronunziando un discorso notevolissimo, perdette a un tratto il filo delle idee. Per più di dieci minuti (tempo incredibilmente lungo per una tale pausa) guardò pacificamente i suoi uditori inchiodati sul posto dalla sua forte personalità, e riprese poi come se nulla fosse. Non tutti godono di una tale potenza di rimettersi in carreggiata; ma la calma è per tutti il mezzo di salvezza; il turbamento compie la rovina.

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CAPITOLO VII.

L'azione.

I. -—- Importanza somma dell'azione.

L'azione è chiamata dagli antichi un discorso del corpo:

sermo corporis. Infatti è un mettere in opera, mediante la persona fìsica, il verbo inferiore destinato alla comunicazione. ~Soi abbiamo concepito un discorso, l'abbiamo composto, l'abbiamo elaborato nel segreto: ora bisogna applicarlo alla sua materia viva, procurargli il suo effetto, e, per questo, non solamente dirlo, ma riviverlo pienamente quanto potremo, per far partecipare il pubblico alle impressioni, agl'impulsi che il tema oratorio ci suggerisce.

L'azione è il discorso vivo, del quale il manoscritto non è che l'abbozzo preparatorio, simile a quello di cui si serve Dio, nella Bibbia, per creare il primo uomo. L'azione creatrice, propriamente parlando non è l'impasto dell'argilla, ma l'infusione del soffio di vita: così l'attività oratoria propriamente detta, non è la fabbricazione del discorso, ma l'azione che lo fa vivere.

Da ciò deriva quell'importanza capitale dell'azione che proclamano tutti i maestri. Il Granata colloca l'azione immediatamente dopo lo spirito apostolico, prima di tutti gli altri doni — tuttavia numerosi — che egli esige dall'oratore cristiano. I teorici dell'antichità non finivano di esaltarne i pregi. « Senza di essa, dice Quintiliano, il più grande oratore è nulla, e con essa l'oratore mediocre si solleva al di sopra dei più abili ». Sotto una forma paradossale destinata a notare meglio il suo convincimento, Demostene diceva: La parte principale dell'eloquenza è l'azione. — E la seconda? — È l'azione. — E la terza? — L'azione.

Infatti, osserva il Granata, l'azione ha più importanza dell'elocuzione, come l'elocuzione ne ha più che la stessa sostanza, non solo sotto un rapporto accidentale, ma in modo assoluto. Perché, dice egli, la sostanza non è che una materia; l'elocu-

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zione le da la sua forma prima, e l'azione la forma ultima che ne assicura l'efletto. Ciò che l'elocuzione è alla sostanza, l'azione è al tutto; essa da una vita effettiva al tutto, e il valore integrale del discorso vi si concentra.

Non bisogna lagnarsi troppo di questa dipendenza del discorso pensato e del discorso scritto per rapporto al discorso in atto di vita nell'azione oratoria. Un pensatore professionale o uno scrittore puro, adottando questa forma, ne potrebbero gemere, se sono mal dotati per mettere in opera le loro scritture. Ma il loro caso non è frequente. Del resto essi non hanno che da pubblicare le loro opere. Di solito, il discorso non è apprezzato o nemmeno sopportato, in quanto genere, se non a cagione della dizione, a motivo di quella simpatia che proviamo per un uomo vivo davanti a noi e che ci parla. È questo uno dei casi più frequenti della sociabilità, ed è per questa ragione che sono più delicati quei popoli che sono più socievoli.

I discorsi stampati che conservino dei lettori sono rari;

all'opposto, bisogna essere assai sprovvisti per non farsi udire con qualche frutto. Il pubblico giudica, ma ascolta. Per lo meno il giudizio di un discorso in quanto alla sua sostanza, e in quanto alla sua forma, è alla portata di ben poche persone;

il giudizio è opera di spirito, e la massa è al livello dei sensi.

L'azione parla ai sensi, da ciò deriva la sua efficacia universale. In grazia dell'azione, l'idea è come portata dal corpo, proiettata in avanti con la voce, resa ritmica dalla respirazione, disegnata come il gesto, commentata dall'espressione e dall'atteggiamento, resa concreta e viva come l'oratore e l'uditore stesso. Vi è lì tutt'insieme un caso di umanità integrale e un caso di vita comune. Il fluido che passa dallo spirito dell'oratore nella sua sensibilità si comunica per l'arte alle sensibilità ambienti e risale agli spiriti per stabilire tra loro una sinergia spirituale.

Noi siamo una sola cosa dentro e tra noi più che non pensiamo. Un'impressione sopra un punto della nostra unità inferiore si comunica a tutti gli altri, e così è parimenti dell'unità collettiva. I pensieri di Gesù Cristo, usciti dal tuo spirito, brillano ne' tuoi occhi, animano i tuoi gesti, e subito irradiano; il cuore di Gesù Cristo batte nel tuo cuore, e batterà in quei petti, ai quali forse era in odio o estraneo.

Cosa più misteriosa, la dizione, una volta pervasa di pensiero, può acquistare un'importanza tale, che il pensiero si trova in

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certo modo assorbito; l'uditorio, momentaneamente, non ha per così dire più bisogno di badare a ciò che dici; non vi si ferma punto; in realtà, egli non è sotto questo influsso, ma sotto l'incanto della tua persona totale e di quello che essa è riuscita a riflettere, è gotto l'incanto della tua vita intcriore che si traduce e che traduce in sé un. tema commovente.

Si vede la somma importanza di quest'ultimo soggetto:

l'azione oratoria. Onde noi ci accingeremo anzitutto a segnare le leggi generali dell'azione in ciò che riguarda la parola cristiana, poi quello che esigono di essenziale i suoi varii elementi.

II. —- Le leggi generali dell'azione.

A) la NATURALEZZA E LE SUE CONDIZIONI COMPLESSE.

Una legge dell'azione, che in qualche modo le comprende

tutte, è che essa dev'esser naturale.

Il naturale, qui, non si oppone al soprannaturale, ma lo congloba; infatti sarebbe assai poco naturale che l'uomo di Dio si racchiudesse nella pura natura, come l'oratore profano. Ciò non risponderebbe alla natura delle cose, la quale vuole che ciascuno sia quello che egli è, tratti i suoi soggetti tali quali sono e si rivolga a' suoi uditori secondo il rapporto che essi hanno con lui. Se è in causa il soprannaturale, questo diventa la cosa naturale, ed essere soprannaturale in fondo sarà, nel nome della natura stessa, la legge dell'oratore.

Perché l'azione sia naturale in questo senso, bisogna Che essa, come tutto il resto, parta interamente dall'intimo, dall'anima, e, per mezzo dell'anima, dall'oggetto religioso destinato a essere comunicato dall'apostolo. Ciò non è niente di nuovo;

ma come evitare di ripetere quello che, reggendo tutto l'insieme, fa necessariamente ritomo a ogni tappa?

Nulla, lo ammettiamo, è più raro di questa naturalezza cristiana. Se noi vogliamo osservarci, tutti o quasi tutti dovremo riconoscere che sul pulpito non siamo noi stessi. ]SToi siamo sinceri, ma di una sincerità remota, che non raggiunge la nostra' parola, che non la penetra. ÌSoi giochiamo una parte; siamo sdoppiati, alienati da noi stessi e dai nostri grandi oggetti, che

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regnano sopra una parte addormentata dell'anima nostra. Noi cantiamo l'aria imparata, ma non partiamo.

Colui che parla veramente, naturalmente, evita la maggior parte dei difetti dell'azione oratoria, specialmente i più gravi, che sono la falsa solennità, la falsa commozione, la falsa autorità, la monotonia soporifera o le grida, l'agitazione senza scopo, le cantilene e i brutti vezzi (tics), prova evidente di un automatismo estraneo alla persona.

Ciò avviene perché l'anima tua non è lì per rischiarare tutto, dirigere tutto, precisare tutto e distribuire tutto, perché determinismi parassiti si stabiliscono e s'impadroniscono della tua parola. È un mulino che gira nell'assenza del mugnaio. Vada per il mulino; ma guidare la parola è cosa più delicata che macinare il grano; vi ci vuole tutta l'anima, tutta l'anima in atto di vita.

E del rimanente quest'anima, che è lì pienamente presente, dev'essere formata tecnicamente; perché la natura abbandonata a se stessa non è mai naturale; le condizioni del far bene sono troppo complesse; la natura ha bisogno di cercarsi e di trovarsi mediante uno sforzo di riflessione e di esperienza. Vi sono delle eccezioni, come abbiamo detto in particolare per il maneggio della voce; ma sono rare; di solito, un'azione oratoria compita è il frutto di un lungo lavoro.

Andremo dunque a chiedere delle lezioni al professionista, all'attore, che per mestiere studia da vicino tutto quel che riguarda le condizioni tecniche della parola? Non sarò io a consigliarlo. So che si può ricavare grande vantaggio da avvisi autorevoli e sagaci. In senso negativo, mettendo in rilievo i tuoi difetti, additandoti i rimedi suggeriti dall'esperienza, è possibile trasformare assai felicemente la tua azione. Guardati dunque dal disprezzare un tale aiuto; anzi ricercalo, per tè e per quelli dei quali hai cura. Ma lezioni propriamente dette impartite al sacerdote dall'uomo di teatro mi sembrano un grave pericolo. Non essendo il medesimo lo scopo prefisso, e, soprattutto, essendo essenzialmente diverso lo spirito del lavoro, è fatale che un equivoco permanente s'introduca qui tra il maestro e l'allievo; la migliore volontà non vi farà niente;

coi principii generali della tecnica, valevoli in ogni ipotesi, s'insinueranno nel giovane clero dei procedimenti di tecnica teatrale assolutamente fuori di posto in chiesa, anzi uno spirito, un fare, una non so quale aria veramente disastrosa. È di gran

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lunga meglio serbare i proprii difetti che perderli a questo prezzo, e vedersi privi di doti positive anziché diventare un istrione religioso, se mi è lecita l'espressione, o anche rassomigliarvi fosse pure da molto lontano.

Appena che la predicazione apparisce come una riuscita d'arte, essa è falsata nella sua stessa essenza, tanto più se quest'arte si prende in prestito dalla « vanità ». Se ad ogni oratore serio è raccomandato di « sopprimere la marionetta », come si dice, che sarà dell'inviato di Cristo? Goethe era su ciò d'accordo quando stabiliva tra Faust e Wagner questo dialogo;

« Io ho spesso udito che un commediante potrebbe risalire a un predicatore. — Si, quando il predicatore è un cornine-. diante ».

L'arte oratoria cristiana non dev'essere intenzionale nel suo esercizio; quello che si è acquistato per studio, per consiglio o per esperienza si deve incorporare allo sforzo apostolico in tal modo, che questo non se ne distingua più, che non vi si pensi più, ed è questa un'impresa ardua, se tu ti riferisci a lezioni di commediante, cercando di riprodurre delle intonazioni, dei giochi di fisonornia, degli atteggiamenti, dei gesti. Avrai l'aria di sorvegliare i tuoi effetti, di mendicare l'approvazione degli sguardi, delle orecchie, e che cosa vi sarebbe di più detestabile, gotto il saio o sotto la cotta?

Come dunque ti dovrai formare? Con la lettura di autori competenti, con la riflessione personale, con l'osservazione di quei che fanno bene e anche di quei che fanno male, con l'esercizio, con i consigli limitati, specialmente negativi, e con il controllo amichevole del quale ho detto poc'anzi il benefìzio. Hai potuto trovare più sopra alcune utili indicazioni; e siamo per aggiungerne altre. Frattanto; notiamo che a questa preparazione remota dell'azione è necessario aggiungere una garanzia immediata per mezzo di una preparazione completissima, tenendo presenti alla mente i tuoi ostacoli abituali, i tuoi difetti naturali, per adoperarti a difendertene, e finalmente mantenendo un possesso di tè stesso che ti permetta di essere naturale nel pieno senso della parola.

Vi sono degli oratori che per essere in possesso di se stessi hanno bisogno di eccitamento; altri hanno bisogno di calma. Berryer passeggiava a grandi passi; « egli allena i suoi discorsi, prima di pronunziarli », diceva Sainte-Beuve. Io conosco di quelli che con questo procedimento si esaurirebbero anticipa-

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tamente. Il Padre Monsabré diceva il rosario, poi diceva delle facezie da ridere. Certo il primo mezzo è meglio del secondo;

ma si sa da S. Filippo Neri che l'uno non esclude l'altro. Quel buon santo non si preparava forse alla Messa giocando con uccelli, facendosi dire o dicendo egli stesso delle ridicolaggini a volte abbastanza bizzarre? Si trattava per lui di evitare l'estasi; per il Padre Monsabré, di derivare una tensione nervosa; è cosa affatto semplice.

Ma non si può dire altrettanto degli eccitanti artificiali:

vino, alcool, caffè, ecc. Non si può proscrivere a taluni, che ne usano moderatamente, questi mezzi di vincere l'inerzia organica e la sonnolenza; ma si deve avvertire del pericolo. La misura si oltrepassa presto, e un eccitamento fittizio non è una garanzia di vero successo. Si tratta di essere tè stesso: ti potrebbe succedere così di uscire di tè per qualche insidiosa porta. Gli eccitanti spirituali, ricordati a proposito dell'ispirazione e dell'elocuzione, saranno di miglior uso. Spetta a ciascuno di conoscere se stesso e di sapere che cosa gli occorra per essere in buona forma nel momento dell'azione.

B) la COMTTNICAZIONE CON L'UDITORIO.

La naturalezza dell'azione vuole adunque che l'azione venga dall'anima e ciò per intermedi ben procurati. Ma se tu fai appello all'anima tua, lo fai qui colla mira di comunicarla. La parola è una comunicazione; essa non sarà dunque naturale, come parola, se non a patto che vi sia comunicazione, che tu sia a contatto con l'uditorio. Come abbiamo detto più volte, l'oratore e l'uditorio non devono formare che una sola cosa, affinchè l'anima del primo si espanda, insieme con Dio che essa contiene. Vi sono oratori che non sanno stabilire questo contatto, attaccare il filo. Si direbbe che hanno paura del loro mondo. Fanno piccoli tentativi e subito indietreggiano, come il gatto che avanza lo zampino e lo ritira. Una tale timidità si deve vincere ad ogni costo. Oltre che essa paralizza interamente, molti difetti dell'azione: il tono cantante, i gesti falsi, ecc., spesso non dipendono che da essa. Si parla davanti all'uditorio e non a se stesso; la mente è in una specie di nebbia, e il senso del reale ti sfugge.

Per aiutare la comunicazione, lo sguardo preceda l'anima. Se trovi qualche buon viso espressivo, puoi servirtene come

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indice per guidarti o come appoggio per sostenerti. Del resto bada a non fissare lo sguardo su nessuno; un'individualità qui non è che un simbolo, un centro d'onde l'attenzione deve irradiare in tutto l'uditorio; infatti, oltre che questo vi ha di-ritto, una massa ha più fluido che un unico viso e irradia verso ' l'oratore con maggior potere.

C) l'azione VIVA. '

Se l'anima tua è all'opera e si comunica; se essa è ciò che deve essere e se tal è attualmente, in grazia di una buona preparazione, potrai avere un'azione viva, penetrante, potente, e per conseguenza efficace. Ecco il segreto. A proposito di Demostene, Giorgio Clemenceau scrive: « Per muovere tante vite indifferenti o ribelli, ci vuole, nella parola, un'effusione delle profondità. L'uomo se si da, lo prendi; se si slancia,

10 segui».

Non bisogna per altro confondere un'azione viva con una azione trepidante, precipitata, nervosa. La vita ha più di una forma; appena che tu ubbidisci alle sue esigenze precise, sei nella misura, dalla quale un'agitazione febbrile ti allontana. L'anima sia sottomessa a quello che essa dice; la dizione sia sottomessa all'anima, e tutto andrà bene.

Se insieme con questo, dal canto nostro, siffatta « effusione delle profondità » portasse con sé Gesù Cristo, perché noi l'abbiamo preso per ospite, avremmo là potenza soprannaturale assicurata, e la naturalezza della parola, nel senso che conviene a noi, sarebbe perfetta.

Per questo i santi ci consigliano di rettificare la. nostra intenzione prima di aprire la bocca, e di richiamarci al pensiero

11 nostro ufficio divino, nel momento di compirlo. Il cantore prende una positura adatta: anche noi, spiritualmente, dobbiamo prendere la nostra posizione. Intermediari tra Dio e le anime, noi dobbiamo stabilirci in questo doppio contatto, e se ci mettessimo davanti agli occhi Gesù Cristo che predica sul monte, prestandogli quella parola ideale che ci potrebbero suggerire da lontano questi o quei predicatori preferiti, forse avremmo la felice sorte di ingrandire e di vivificare quello che abbiamo da noi stessi. Insomma l'ideale dell'azione oratoria cristiana è Caterina da Siena che, parlando a Eaimondo da Capua, prende il -volto di Gesù Cristo.

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-D) il CAEATTEEE PERSONALE DELL'AZIONE E IL SUO ADATTAMENTO AD OGNI CIRCOSTANZA.

Una conseguenza ancora di questa naturalezza dell'azione, che è la sua legge fondamentale, è il suo carattere personale. Kon occorre dirlo, la natura non è cosa astratta, ma individuale;

non è però inutile farlo osservare, perché lo zelo del ben fare

. porta certuni ad adottare dei metodi che non quadrano col loro temperamento, ed è un gran torto.

I temperamenti oratorii sono molto varii. Il Padre Lacor-daire aveva un'eloquenza amplissima, molto esteriore; S. Tom-

, maso, secondo Giovanni Blasio, giudice di USTapoli, che l'aveva udito un'intera quaresima, predicava cogli occhi quasi chiusi, in un atteggiamento di contemplazione, con la fronte sollevata verso il cielo, e STewman, la cui parola produceva un effetto così grande, si accostava in ciò assai più a S. Tommaso che ai

, al P. Laeordaire.

••: Ma la comunicazione? si dirà. Essa si può fare così. Vi sono degli equivalenti, come dicevamo, e il momento in cui una

'sinfonia impressiona di più non è sempre quello in cui gli strumenti fanno maggiore strepito. Un oratore non si deve violen-.tare; deve solo mettercisi, e per questo deve giudicare bene delle sue forze. < Un uomo si fa conoscere dal suo modo di parlare come una moneta dal suono che da », scrive Quintiliano:

non è utile operare una sostituzione di monete; del resto non ci si riuscirebbe punto, e non si avrebbe come risultato ohe una moneta falsa. Una moneta d'argento non è una moneta falsa per il fatto che non è d'oro; ma una moneta d'argento, dorata, diventa una moneta falsa, e tutti sarebbero gabbati.

Quel che ci dovrebbe incoraggiare a rimanere noi stessi è che ogni carattere oratorio, anche il più modesto, è suscettibile del bello e tanto più dell'utile. In ogni anima che si da risiede un'incomparabile grandezza, e quando, dandosi, essa da Iddio, che importa la forma del dono per ciò che riguarda una fallace estetica?

Non scimmiottare dunque l'azione degli altri, come neppure il loro stile o il loro genere, siccome dicevamo a proposito dell'uso che dobbiamo fare dei maestri. Un modello è sempre prezioso, ma col beneficio di un adattamento, di una trasposizione. Allora, tolto di mezzo un altro, noi gli succediamo;

quello che viene da altri è nostro.

20 — SaBiniABatis. Vmatwe cristicmi. ,: '

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E) la PUREZZA DEIiL'AZIO:NÈ. le SINGOLARITÀ VIZIOSE. I LORO RIMEDI.

Quando si parla di purezza dell'azione, si può intenderla in due sensi diversi e vi si potrebbero far entrare molte cose;

qui s'intende come l'assenza di elementi parassiti, di brutti vezzi risultanti sia da difetti naturali, sia da quelle false pieghe :' che si contraggono spontaneamente e che, se non ci si bada, ' vanno sempre aggravandosi. Vi sono dei vecchi predicatori dei quali si ride, come dei vecchi istrioni che si scimmiottano, come degli stilisti che si imitano. Dovrebbe essere impossibile imitare un bravo scrittore o scimmiottare un buon oratore. Ogni imitazione divertente poggia sopra singolarità viziose. ':

Per correggersi, una particolare attenzione al caso è senza dubbio raccomandabile; talvolta è indispensabile; ma per lo più si rimedierebbe a ogni cosa nello stesso tempo, se si badasse a ciascun effetto in modo da dargli quel che conviene alla sua natura propria. In nessuna parte la naturalezza lascia più luogo ai tics, ossia alle abitudini viziose; il movimento ben determinato rimuove l'automatismo. Traendo tutto dal fondo di sé e dalla natura delle cose, attualmente, e fino agli ultimi particolari, non si è più esposti ad andare di sbieco, come invitano quei meccanismi che un caso ha creati e che l'abitudine fissa.

Io invoco qui il caso; ma bisogna ben dire che a volte è lo stesso ardore, la fretta di ben fare che provoca i brutti vezzi. Si vuole insistere, appuntellare, e questo potrebbe essere bene;

ma perché l'impeto è disordinato, troppo generale e senza riguardo a ciascuno dei casi che ne dovrebbero avere il benefìzio, il puntellamento è basato sul falso e il mal vezzo si radica, • poi si aggrava.

Osservati diligentemente, perché anche il miglior oratore può essere da ciò sminuito fino a precipitare nel ridicolo. Osservati e fatti avvertire, se un confratello benevolo e attento si compiace di renderti questo servigio. Noi siamo così poco amici gli uni degli altri che ciò non è tanto facile a trovarsi;

ma se è cosa rara, io credo che la ragione principale sia perché l'interessato non ci tiene. Si dubita di avere dei difetti, ma si preferirebbe di non averne; allora non si vuoi vederli, e, nascondendoli a se stesso, si pensa che gli altri non li vedranno. Ma li vedono; sovente se ne prendono gioco, e la nostra azione ci perde assai della sua potenza.

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Una volta avvertito, esercita la vigilanza di cui parlavo. Al principio del discorso, mettiti in guardia; anche parlando, conserva quell'attenzione subcosciente del cavaliere che, pur sognando o conversando, maneggia le redini. A capo di un breve tempo, se non è che una falsa piega, il mal vezzo deve scomparire.

F) la VARIETÀ E LA MONOTONIA.

Un'altra conseguenza della naturalezza dell'azione è che sarà svariata e non monotona. L'azione si deve modellare sull'elocuzione, come questa sul pensiero e il pensiero sul soggetto ne' suoi diversi aspetti, nelle sue varie fasi. I tré stili di S. Agostino devono qui intervenire con sfumature tanto più numerose quanto più da vicino si seguirà la natura.

Le idee portano seco delle immagini mentali corrispondenti, e queste immagmi sono generatrici di movimenti corporali appropriati: inflessioni di voce, atteggiamenti, espressioni, gesti. Lo stesso avviene dei sentimenti, che il sermo corporis deve tradurre. Il corpo tratta il soggetto come lo spirito, in armonia con lo spirito: lo tratti dunque in tutte le sue parti, procurando tutte le sue sfumature. Troppi predicatori vanno da un capo all'altro col medesimo tono, facendo uso degli stessi effetti, come se dicessero sempre la stessa cosa. Vuoisi credere che il soggetto è trattato e che la loro idea è svolta, ma al vederli non lo si direbbe.

(?) L'OMOGENEITÀ NELLA VARIETÀ.

Tuttavia, siccome il discorso è uno, le varie forme per le quali passa sotto l'aspetto dell'azione devono essere legate, formare una trama continua, nonostante la varietà del disegno. Una sinfonia ha il suo adagio, il suo presto, il suo scherzo o il suo andante; essa è nondimeno una sola armonia, purché sia ben fatta.

Si passerà dunque da una fase all'altra per tutte le transizioni della natura, senza scossa, salvo che essa sia giustificata. Si può cercare un effetto subitaneo, e se vi è motivo di segnare un contrasto, è il contrasto della dizione che sarà allora la verità. Ma è questa una transizione come un'altra. Ciò che bisogna evitare a ogni costo è la dislocazione dell'azione, la sua disarmonia, che disorienta l'uditore e fa che egli ti abbandoni, non sapendo più dove ti trovi ne dove vuoi andare,

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L'uditore dev'essere incatenato senza scappatoia possibile;

non bisogna permettergli modo di fuggire, e a ciò serve, oltre un buon piano e una elocuzione incalzante, un'azione continua e avvolgente, come una gran rete.

E) L'AZIONE SVARIATA E L'AZIONE LARGA.

Un'osservazione però si deve qui introdurre. Quando si parla in un piccolo ambiente, davanti a un piccolo uditorio, la dizione e l'azione corporale possono avere molte sfumature, essere molto più svariate, delicate, pieghevoli e sottili; ogni parola può prendere un'inflessione, e ciascun movimento dell'anima tradursi con un atteggiamento, un'espressione di volto, un gesto. È la vita veduta da vicino, nella sua intimità. All'opposto, in un gran vaso, tanto più all'aria aperta, tu sei obbligato ad adottare un'azione molto più larga, più sobria, che procede per grandi masse, come quelle decorazioni che si dipingono colla granata.

È questa un'estetica speciale, essa pure governata dalla natura; perché l'oratore che forza la voce, non può più variarla nello stesso modo e l'uditore all'aria libera o sperduto in una massa non presta più la stessa attenzione. Si è più lontani gli uni dagli altri; ci si sente più estranei: l'ottica è dunque differente, e l'azione se ne deve risentire. L'ingrandimento degli effetti, che è allora imposto, porta seco la loro semplificazione. In pittura questo si chiama stilizzare, trattare « come decorazione », trattare « per mezzo delle masse ». Ma il risultato dev'essere lo stesso. Tu diminuisci il numero de' tuoi effetti, ma li rinforzi: ciò si deve compensare esattamente, se fai un buon calcolo. È questione di gusto e di esperienza.

J) la PBOGEESSIONE DELL'AZIONE.

La varietà di cui parlo, dovendo modellarsi sul dinamismo del discorso, dev'essere progressiva; è una varietà attraente, che l'oratore deve calcolare in modo da produrre, nel momento voluto, il suo massimo di effetto. Ciò non è sempre alla fine; ma non ne è mai lontano, perché bisogna per questo che tutte le tue milizie abbiano contribuito, compreso il grosso delle tue riserve.

Un discorso ben costrutto ha sempre il suo punto culminante, che è il centro di unione de' suoi effetti, delle sue prove, de'

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suoi stimoli, delle sue commozioni, secondo il genere dell'opera. L'azione deve per la sua parte soddisfare a questa condizione. In vece di partire a tutta vela, senza nulla prevedere, devi risparmiarti e graduare i tuoi mezzi d'azione, tenendo conto non solo delle esigenze del soggetto, ma anche delle tue forze. Un Caruso o un Tamagno, dopo aver cantato, avevano sempre delle risorse supplementari. Ma non tutti hanno la loro gola.

Il Padre Lacordaire rimproverava al Padre Minjard — del quale egli si diceva solo il precursore — di abbandonarsi così fin da principio, mettendosi nell'impossibilità di crescere quanto sarebbe occorso per mantenere le proporzioni della sua arringa. Il Padre Lacordaire invece cominciava con gran semplicità, quasi ingombrato dalle sue ali, come l'aquila che cammina, e poi, a poco a poco, veniva il gran volo.

\ J) la misura.

Finalmente, in ogni cosa, presieda la misura. « Comportati in tutto con moderazione, dice Hamlet ai commedianti che egli invita; anche in mezzo al torrente, alla tempesta e, se posso dire così, in mezzo all'uragano, al turbine della tua passione, tu devi guardare e osservare una misura che temperi la procella.

È questa un'esigenza di ragione. Ciò che è sbrigliato non è mai ragionevole e quindi non può, nel vero senso, essere forte. Ciò non è proprio dell'arte, e non è un mezzo di conquista. Potresti lasciarviti andare col pretesto di naturalezza, dicendo:

Io sento così. Ma noi sappiamo che non tutto quello che si sente esprime la veridica natura, neppure quella dell'uomo che sente.

III. — Regole particolari dell'azione. L'atteggiamento.

Sul pulpito, il contegno è il collaboratore della voce e concorre con essa a caratterizzare la parola. Esso non avrà dunque nulla di ardito, di provocante, di orgoglioso, di falsamente solenne, ma avrà dignità con una sfumatura di autorità semplice presa dall'ufficio, non dalla persona. Se quest'ultima. distinzione è provata, si farà sentire.

Sguardo diretto, senza rigidezza, senza nessuna tendenza a fissare le persone, ma neppure a fuggirle e come a smarrirsi nell'architettura. Uno sguardo posato con affabilità e confi-

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(lenza invita l'uditore; se si fa circolare un poco, da a ciascuno l'impressione che s parli per lui, non per il solo banco riservato ai dignitari. 'Sei corso della predicazione, non potrai facilmente girarti a destra e a sinistra, non saresti più udito da per tutto:

è dunque abbastaiza opportuno prendere contatto prima e fra due parti del ciscorso. Ma del resto, senza nessun partito preso, se tu, dal cinto tuo, hai il sentimento di tutto il tuo uditorio, tutto il tio uditorio se ne accorgerà, per poco che tu abbia agevolezza d esperienza.

A volte, per atirare l'attenzione, si è ricorso a piccole ricette puerili e cociche: ritardi abili, tosse diplomatica, maniche che si rialzalo ostensibilmente... Che bisogno abbiamo di queste scimmiagini noi, che disponiamo del segno della croce! Ma vi sono delle ricette buone e da farne uso, perche dipendono dalla nsfcura delle cose: tenere il corpo diritto, evitando la tentaziciB di coricarsi sul pulpito; — collocarsi di faccia con una leggira obliquità, che si ottiene facilmente avanzando un poco il piede destro. L'utilità di questo atteggiamento è di sciogliee il braccio normalmente incaricato della gesticolazione prmipale. Ohe se più tardi, il braccio sinistro è sostituito al desto per i gesti, si cambierà spontaneamente l'appoggio del cor|0, e sarà un riposo. L'importante è di prendere una buon, positura, per avere la sicurezza dell'andamento e la libertà lei movimenti; per questo il peso del corpo deve gravitare sul l'iede che è indietro.

Inoltre evitare ti avere la vita, il collo o i piedi stretti, per timore di congestiae alla gola o al cervello; — non tendere il collo, parlando, (»me per cercare l'uditorio, gesto frequente, molto brutto, e cb smorza la voce; — liberare la vita, per respirare liberamene, in modo da allargare la cassa toracica; — finalmente, occonedo, in un grande ambiente, e se a. tua richiesta tè ne vien ca.to l'avviso, mirare a qualche distributore di suono, come unacolonna, una parete favorevole, ed evitare in cambio quei buitii acustici, quegli anditi che assorbiscono il suono e lo dissipano.

Per il fatto che n pulpito ti nasconde fino alla cintola e che, per appoggiarti, ti; disponi di una soccorrevole sponda, non credere di potere impunemente trascurare l'atteggiamento generale. Anzitutto3 una cattiva abitudine, per il caso in cui dovrai parlare senz paravento e senza appoggio. Poi, questo si vede, per i suoi detti sopra il movimento del busto e sopra

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la gesticolazione. Quando Leonardo da Vinci studia i personaggi della Cena, in cui solo la parte superiore dei corpi sarà veduta o comunque sarà oggetto di attenzione, egli ne disegna nondimeno con gran cura le sue figure intere, ben conoscendo la solidarietà del visibile e dell'invisibile, in materia di vita.

Avviene che il predicatore si metta a sedere. Ciò non conviene se non per i trattenimenti familiari, perché cambia del tutto il carattere della parola. Non essendo più nell'atteggiamento dell'azione, allora non ti potresti permettere una mossa un po' veemente. Quando la regina Luisa di Prùssia, a Tilsitt, supplica pateticamente Napoleone, questi, per difendersi, la invita a sedere, e si spiega dicendo: « Nulla interrompe così bene una scena tragica. Quando si sta a sedere, il tragico diventa comico ».

Stando seduti, è essenziale avere il corpo ben diritto, per non scomparire del tutto e serbare qualche libertà di gesto. Se sei in coro, in una sala, e tutto visibile, terrai il corpo diritto, sempre, le ginocchia leggermente divaricate, i piedi a terra, a breve distanza, l'uno un po' più avanti dell'altro (normalmente il destro), la mano che non serve posata un po' più alto del ginocchio.

I grandi attori consigliano ai loro allievi di visitare spesso i musei di scuitzira, specialmente gli antichi, a fine di impregnarsi l'immaginazione dei loro atteggiamenti. Un simile consiglio si darà al predicatore. È tuttavia un fatto che le nostre immagini mentali ci governano, e non immagazzinarne mai altre che quelle della strada, quelle di gruppi volgari e di personaggi poco estetici, è un prepararsi male, sembra, a un ufficio che esige la nobiltà di portamento e, nella più gran semplicità e umiltà del resto, una figurazione di^Cristo.

IV. — La fisonomia.

L'atteggiamento è una condizione della parola e in una certa maniera ne fa già parte, per quel tanto di espressione che esso racchiude. A questo titolo, esso però cede alla fisonomia, i cui mezzi di espressione sono ben più ricchi.

Il volto « parla » da solo: recherebbe maraviglia che la sua azione non sostenesse e non rinforzasse il linguaggio articolato, l'espressione verbale. Il filosofo Labriola pretendeva di avere un criterio infallibile per giudicare di un oratore; in

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vece di ascoltare le parole, fissava la sua attenzione sopra l'uomo sopra l'espressione del sembiante dell'uomo, e la serietà più o meno profonda che vi scopriva era per lui una garanzia della serietà del pensiero, del valore del verbo. « In facie legitur homo ».

ISTe dovremo concludere che l'oratore cristiano si abbia da comporre il volto come compone il discorgo, farsi un'espressione come l'attore si fa una testa? Dio ce ne guardi! Il ridicolo sarebbe vicinissimo, e il falso sarebbe già acquisito, al rovescio di quella verità dell'azione che avevamo preso per regola.

Ciò non è a priori,. Si potrebbe benissimo concepire una composizione del viso legittima quanto la composizione letteraria; il mimo vi si prova; a volte ci riesce genialmente; ma le cose son tali, che a ogni svolta l'artifizio rischia di palesarsi, e, rischiando perpetuamente, si palesa. I giochi di fisonomia hanno troppa complessità, sono inafferrabili a forza di essere sottili; voler organizzarli dall'esterno, per decreto e per tattica, non conduce che a deplorevoli effetti.

Il lavoro non è dunque di notare, secondo le arti grafiche e i dati della fisiognomonia, il modo come i lineamenti si dispongano in ciascuna specie di emozione dell'anima. Così si acquista del sapere e si soddisfa un'intelligente curiosità; ma si guadagna poco per la pratica; avviene anzi che ci si perda, se non si usa cautela. Tuttavia, nell'uomo prudente, è possibile che i suggerimenti venuti da questa parte, come dicevamo a proposito dell'atteggiamento, non siano interamente vani. Tutto serve quando si tratta di piegare « l'automa » alle funzioni del pensiero.

Ma, a questo riguardo, corre una gran differenza tra l'oratore e l'attore, specialmente se trattasi dell'oratore cristiano. L'attore immagma i suoi personaggi e li rappresenta; l'oratore è il suo stesso personaggio e l'oratore cristiano in certo modo lo è doppiamente, perché da una parte egli dice il suo proprio pensiero, manifesta i suoi proprii sentimenti, e di più rivela Qualcuno che è se stesso più di lui stesso. Perciò conviene che la modellatura espressiva dei lineamenti non prenda nulla da un'azione esteriore; tutto deve sorgere dall'intimo. Se una luce brilla nel cuore, la faccia scintilla; se un sentimento ti stringe, una contrazione armoniosa, impossibile a imitare, ma che imita, a suo modo, la causa che la produce, ne rende testimonianza.

Dagnan-Bouveret, avendo veduto da vicino Sua Santità Pio XI, diceva: Egli ha « degli occhi formati dal di dentro »,

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E voleva significare un'espressione permanente; ma ciò si verifica tanto più in uno dei casi numerosi che hanno creato questo stato, che ne è la traccia.

Non fu detto di Stefano Mallarmé, rievocando le famose conversazioni in cui, nell'intimità, comunicava tutti i suoi sogni: « Egli pareva aureolato di un pensiero infinito >>? Che ideale, per un uomo di Dio!...

Ma che cosa ci vuole per questo? Che il pensiero infinito abiti in noi; che sia attivo in noi nel momento della parola;

che abbiamo per natura o abbiamo acquistato, un poco per riflessione e per osservazione, molto per uso, una plasticità sufficiente dei lineamenti; finalmente — e qui l'avvertimento è di prima urgenza — che l'espressione non sia combattuta, annullata, girata a rovescio da abitudini viziose e da smorfie.

ISTove oratori su dieci, almeno, fanno smorfie parlando. Ora gli occhi si stringono o si allargano; ora la fronte si corruga;

le sopracciglia si aggrottano; le labbra si contraggono; certi movimenti spasmodici percorrono la faccia come crespe che s'incrociano su un'acqua agitata. Tutto questo deturpa l'uomo, rende l'espressione volgare e penosa nel momento che il suo concorso sarebbe più necessario per rinforzare quello che si dice bene, quello che forse si prova meglio àncora.

E per lo più, cosa strana, ci si sfigura cosi per voler fare troppo bene; ci si sforza, là dove bisognerebbe abbandonarsi con una felice confidenza; volendo pronunziare bene, si cinci-schia; volendo forzare l'attenzione, si sforzano tutti i muscoli facciali, come per spingere la ruota e far disincagliare le anime. Il lavorio della memoria accentua frequentemente questo disordine; certe abitudini di ufficio o di conversazione che sarebbe stato meglio non contrarre e che si dovrebbero smettere, agiscono la parte loro. Tutto ciò sminuisce grandemente la parola.

La faccia dev'essere sempre spianata; in tal modo essa è sempre in disponibilità per espressioni diverse, appropriate al pensiero e non arbitrarie. Parlando della pronunzia, abbiamo detto che questa non guadagna nulla dai grandi gesti boccali che pretendono di favorirla, anzi ne è alterata; una bocca che si contorce sfigura il suono come la faccia; se cincischia, la pronunzia, non che essere più netta, è frastagliata e resa sorda;

tutto è perdita; solo la deformità ci guadagna.

È importante badare a questo male quasi universale. Che sia universale o quasi, è una circostanza attenuante, se si vuole, ma non è un rimedio; non è neppure una scusa; ciascuno è re-

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sponsabile per proprio conto, e Pascal direbbe di quelli che Si credono così prosciolti: « Essi si nascondono nella folla e chiamano il numero in loro soccorso ».

V. — La pronunzia oratoria.

Eccoci incontestabilmente alla parte essenziale dell'azione oratoria, poiché si tratta propriamente della parola. Il pubblico è estremamente sensibile al modo con cui si pronunzia il discorso, ed è naturalissimo. È dunque importante che egli abbia soddisfazione fin dalle prime mosse, e perciò noi consigliamo al giovane oratore, prima di ogni altra regola, di vegliare molto sulle sue prime parole. Bisogna che esse siano accaparranti, e prima di tutto siano intese, come dicevamo a proposito della voce, come abbiamo rilevato sotto un altro aspetto parlando dell'esordio.

Le prime battute dei pezzi musicali sono sempre studia-tissime, e l'uomo che tiene la bacchetta ha come prima cura quella dell'attacco; egli impone così l'attenzione e segna il carattere del tema. Per l'oratore, è il momento di ricordarsi di tutto quello che fu detto delle condizioni materiali della parola:

buona respirazione, impostazione di voce, attacco sulla dominante, misura del suono, portata della voce alla distanza conveniente, giustezza delle vocali, buona articolazione delle consonanti, sostegno della voce sulle desinenze, ecc. Per essere regolate, talune di queste condizioni esigono che ci rendiamo ben conto della natura dell'ambiente e della distribuzione dell'uditorio: vi si darà dunque un'occhiata subito, come al golf si giudica del terreno prima di battere il pallone.

Ecco ora la regola generale, che non è nuova, ma che s'impone a titoli speciali alla pronunzia oratoria: la verità, cioè, qui, l'adattamento della parola alla cosa che essa pronunzia, per opposizione a una dizione artificiale tolta da non so quale canto inferiore, da abitudini, o da assurdi pregiudizi.

Il Padre Monsabré amava di raccontare che dopo la sua prima predica di seminario, il professore che faceva la critica gli disse: « Bene! ma voi non avrete mai il tono della predicazione ». Ohe cosa è il tono della predicazione? Se si intendesse dell'unzione sacerdotale, di una certa dignità propria della parola di Dio, benone; ma non era quello che si voleva dire;

si pensava a un certo rumore sordo e continuo che distribuisce

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i suoni su un profilo di montagne russe, a una cantilena che spinge la sua curva monotona attraverso a tutto, trascurando le particolarità di senso, le sfumature di carattere e di valore.

Il tono della predicazione non significa: « Io dico questo », ma « Io predico ». Che è quanto dire: « Io canto », senza guardare sulla partitura, « Io danzo », senza curarmi della musica. La voce non è forse l'eco del verbo inferiore, e non è forse questo che deve regolarne il modo di porgere e la forma?

E ancora, se la cantilena fosse bella! Accadrebbe di essa ^ come di quella musica che trascura le parole, ma per sostituir ? loro l'effetto di un'altra arte. Qui non si ode che una nenia

•;' in cui bisogna dissotterrare il senso sepolto. Non si darebbe così a sospettare che il pensiero stesso, nella creazione del discorso, non sia stato molto attivo, che la sincerità attuale di questo pensiero non sia molto profonda? Si fa il proprio

,: dovere; si eseguisce piamente, ma come il bambino recita la ; sua lezione colla testa china, canticchiando anch'egli, mentre poco prima si vedeva esercitarsi, pieno di naturalezza e di vigore, in una partita a barra.

''; È strano vedere così dei buoni ecclesiastici modulare per—

• lettamente un annunzio, dare un avviso alle loro pecorelle, / prima della predica, con un'arte piena di finezza e di calore, . e, non appena hanno fatto il segno della croce, eccoli tutti

• contegnosi; il loro modo di porgere è manierato; non vi è più ; nessun rapporto intimo tra le modulazioni della voce e quelle dell'idea, che, spesso eccellente, non potrà non eccitare il sonno.

Bisogna proprio dire che questa stranezza sia nella natura, dal momento che è così frequente. È nella natura, ma non nella buona natura. Si appiglia a un falso sentimento dell'arte, quello di cui si da prova quando, con un tono ampolloso, si cantano a se stesso dei versi amati o una melodia che appassiona. Chi sa? non ci sarebbe anche lì una persuasione inconfessata, un sentimento segreto che la parola pubblica, anche sacra, è qualcosa di estraneo alla vita reale, una rappresentazione verbale, una musica, della quale non è più questione una volta ridiscesi dall'alto? Sarebbe allora necessario ritemprarsi nel sentimento della propria sublime vocazione e della tragica necessità del proprio dovere. Ma, di solito, non si tratta di questo; solo l'inesperienza, l'insufficienza della riflessione si , trovano in causa. Pensaci dunque; di' a tè stesso e cerca di capire che il tono di voce impiegato per pronunziare una parola

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è come un epiteto che le si accoppia, che questo epiteto deve convenirle in virtù di una proprietà tanto necessaria quanto quella dello stile, e le conviene non solo secondo il dizionario o la grammatica, ma secondo il tuo proprio pensiero, secondo la sua sfumatura, secondo il peso relativo nella frase e nell'insieme del discorso.

Ciò inteso, certi predicatori si fanno premura di reagire e si gettano nell'altro estremo, intendo nella naturalezza volgare, nel tono della conversazione corrente sostituito al « tono della predicazione ». Anche questo è falso. Il far naturale della cattedra e la sua verità prendono la loro base nella conversazione, ma stilizzandola, portandola al livello dell'arte. Il grande attore Samson diceva di Bachel che « la sua originalità consisteva nell'essere a un tempo naturale e grandiosa »: ecco quello che può istruire un predicatore, incaricato d'interpretare un grandioso vero, e non più delle favole.

Si conserverà nondimeno uno stretto contatto con la natura comune. E ancora, non basterà adottare in questo pensiero un tono detto naturale, ma che si applicherebbe senza discernimento a ogni cosa. Qualunque sia il tono adottato, il non uscirne non può essere naturale. La natura è svariata; si varii con essa. In un dato caso, l'enfasi si può trovare molto più naturale che un tono cavalieresco. Si rende vera la propria dizione adattandola esattamente a un movimento del pensiero che non ha mai due fasi simili.

Si eviti finalmente una diversità senza motivo, una diversità voluta e creata artificialmente, o ancora diversità ciclica, la mi gamma, varia in se stessa, fa continuamente ritorno. Tutto ciò è peggio della monotonia, o è ancora monotonia. Se sei monotono, si dorme; se vario capricciosamente, eccedi;

riducendo la pretesa varietà nelle medesime vie, solo in apparenza sei uscito dal manierato, e l'attenzione dell'uditore avrà tanta difficoltà a mantenersi quanto il tema a imporsi.

Aggiungo che un tono vario nel vero senso del termine, per un adattamento continuo alla parola, affatica molto meno il predicatore, gli procura molte occasioni di sollievo e riserva le sue energie per utili effetti. .

Ciò posto in generale, dobbiamo precisare un poco le condizioni di questa verità della pronunzia oratoria. Anzitutto è la giustezza del fraseggiare, che in qualche modo disegna il discorso mediante la voce, la giustezza delle modulazioni, che

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gli danno il suo colore, e giustezza àeìl'aocentuaswne, che ne 'fornisce il valore e come il chiaroscuro.

Tutto ciò non si può definire con parole; ci vorrebbero esempi accompagnati da critiche. Se tu sei dotato, troverai con la riflessione quello che conviene. Saprai procurare la disposizione delle tue parole nella trama sonora, la pausa de' tuoi periodi e il posto dei loro elementi, in vista di quella unità varia, esattamente appropriata, che noi abbiamo richiesto già da colui che compone e da colui che formula. Passerai senza urto dalle inflessioni quasi insensibili ai grandi sbalzi di tonalità che esigono i « movimenti ». Tutti i gradi della scala cromatica sono a disposizione dell'oratore; a lui spetta di regolare la musica, e questa non sarà la stessa in una semplice spiegazione, in un recitativo oratorio, e in uno squarcio di passione.

~Son farai abuso delle sfumature, le quali, troppo moltipllcate, dividono la dizione in particelle. Un tocco largo non è solamente raccomandato ai pittori; tutte le arti vogliono ampiezza e per conseguenza sacrifizi di particolari. Del resto vi è qualcosa di pretensioso nel raffinamento in materia di sfumature; l'oratore ci perde in autorità. La riserva s'imporrà tanto più in quanto il movimento del pensiero richiederà un porgere più rapido, poiché ciò che ritarda e divide deve allora essere in special modo evitato. Lo stesso sarà se il discorso è pronunziato a gran voce, davanti a un vasto uditorio, il. che, come abbiamo detto, impone dei piani assai più larghi.

A proposito dell'accentuazione, si potrà altresì equilibra.re, l'una coll'altra, la considerazione della sua importanza e quella de' suoi abusi possibili. I termini essenziali devono 'essere accentuati, del pari che gli accidenti caratteristici, le sospensioni di senso destinate a produrre un enetto, ecc. L'impiego della parola di valore servirà a notare un effetto pittoresco, a operare una rettificazione, a segnare una sorpresa, a far spiccare un termine atteso, a insistere su una ripetizione, a rilevare un'opposizione, e di più, a volte, a determinare il senso.

La parola di valore si distacca per mezzo di una leggera pausa prima della parola, di un appoggio della voce sulla parola o su una sillaba della parola, o ancora di una modulazione. Ma si eviti di dare uno speciale colorito a ogni espressione che vi si presti, di presentare come una bella trovata una cosa semplice e di affaticare così 'l'attenzione con costanti appelli. Quanto la parola di valore è preziosa, altrettanto il sistema della parola di valore è assurdo.

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Dovrai stabilire la tua dizione su un ritmo conveniente al tuo proprio temperamento, senza lentezza calcolata come senza fretta forzata per rapporto al tuo proprio modo di sentire. Sarebbe un errore il credere che si pronunzierà meglio pronunziando più lentamente: si urta meno prendendo il proprio passo. Ed è un altro errore il pensare che andando in fretta/ si dia un'impressione di vita. La pronunzia ottima esige, a parità di condizione, un tranquillo adattamento alla persona. Un oratore che va in fretta sembra molto più lungo di un altro;

colui che s'indugia snerva. Seguendo il movimento naturale del suo pensiero, della sua immaginazione e sensibilità, egli da un'impressione di sicurezza ed è, lui stesso, più sicuro della propria idea, più padrone dell'espressione che le da.

Del resto, sotto il nome di ritmo, non s'intende solo rapidità o lentezza. Si tratta anche di cadenza. Occhio alle cadenze artificiali, ai determinismi stabilitisi a poco a poco, alle singolarità viziose! Ho udito un oratore molto ragguardevole che cominciava una seconda parte: « Dicevo — al principio — di questo discorso... », e così continuava a sbalzi. Ecco quanto basta a sminuire un uomo, e, in breve tèmpo, a scoraggiare l'attenzione. , :

Una buona dizione, se è attenta al ritmo, alle modulazioni e ai collegamenti, non è meno preoccupata dei silenzi. Oltre, che ne dipende il ritmo e prima di tutto il senso, in ragione della/ punteggiatura, il silenzio è per l'oratore un prezioso espediente. È una « conferma della parola », dice Cicerone, in ciò che permettendo di seguire nell'uditore l'effetto del discorso, esso lo provoca con una specie d'invito e di attesa.

Il suo uso richiede il perfetto possesso di sé. L'uomo debole o intimidito corre a precipizio e non si ferma se non quando è sfiatato; colui che ha la memoria tesa, per timore di un incidente, infilza i suoi periodi, in vece di distribuirli con arte. TSon c'è più autorità in tali condizioni, l'uditore assiste a una sfilata; non prova nessun attacco.

I silenzi sono in particolar modo al loro posto prima di un inizio solenne, prima di un racconto importante, prima di una precisione delicata, e similmente dopo l'espressione di un grande pensiero, dopo l'evocazione di una visione, dopo una dichiarazione di tal natura da stordire, da far riflettere. Avendo posta una forte somma, si aspetta che si giochi la partita e che l'anima dell'uditore si decida. Ecco uno dei segreti dell'eloquenza, a

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Condizione che ogni artifizio sia rimosso e che non si abbia l'aria di servirsi di un segreto.

È chiaro che la dizione si compone come il piano, come gli svolgimenti, come l'elocuzione. È pure chiaro che essa devesi appropriare al genere del discorso. Una meditazione sulla morte non ha il ritmo, il movimento, le modulazioni di un'ar-; ringa per la crociata.

Dopo l'esecuzione di Mors et vita al Trocadero, Gounod diceva di Paure: « Egli cantò in lettere maiuscole ». Era una perfezione; ma sarebbe una perfezione cantare o pronunziare in lettere maiuscole una confidenza o un mistico segreto?

Internamente, la dizione deve avere i suoi piani, le sue dominanti, i suoi valori graduati, le sue luci e le sue ombre, senza di che puoi sconvolgere il lavoro meglio costruito, semplicemente perché non hai mantenuto nella pronunzia le relazioni che ne facevano la coesione armonica.

Per questo, parlando, come scrivendo, conserverai la tua veduta sull'insieme. Il cavaliere, a qualunque andatura proceda, guarda la strada. Nei momenti di passione oratoria e di entusiasmo, soprattutto, si corre un pericolo di abbagliamento, di anestesia dello spirito, da cui il tenore del discorso e la sua unità potrebbero aver da soffrire.

VI. — II gesto.

Un ultimo elemento concorre all'efficacia della parola, la rinforza, la compie nel suo intimo significato perché esso, d'accordo con la fìsonomia, rivela lo stato inferiore di colui che parla, ed è il gesto. Non c'era qui bisogno di dimostrazione;

ma se si fosse creduta necessaria, 1' « arte muta » ce l'avrebbe portata. Prima del cinema non si sapeva tutta la potenza del gesto; il valore espressivo di questo parlare figurato era nondimeno inscritto nella natura delle cose.

Una mimica segreta è unita alla parola fin dal momento della sua nascita in noi; anzi la precede, perché fa corpo col pensiero, sotto la forma di ciò che chiamano immagini motrici, cioè non solo dei simboli di azione, ma già delle azioni, degli impulsi misurati, ritmi la cui trasmissione ingrandita esprimerà , schematicamente l'atteggiamento dell'anima, aiuterà a seguire i suoi concetti, a vederli, nello stesso tempo che la parola ce li fa udire.

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Anche la parola è una mimica; se ha per carattere di agitare l'aria e di muovere un senso diverso, non per questo essa cambia natura. Si giudica lo spirito pensando a' suoi gesti; siano essi boccali, fìsonomici o manuali, la differenza è certamente grande;

ma l'unità rimane, e appartiene al vero oratore di non spezzarla.

I sordomuti non educati gesticolano, e arrivano a intendersi tra loro senza nessuna convenzione: quando poi acquistano un linguaggio convenzionale, sarebbe ammissibile che il primo, mantenuto, non lo rinforzasse? Si sa che presso certi popoli lo stesso linguaggio convenzionale comporta essenzialmente, oltre alla sua parte articolata, una parte fcitta: il senso di una parola o il suo valore cambiano secondo il gesto delle mani o la posizione delle labbra. Onde i Boschimani e gli Eschimesi, ed altri, volendo parlarsi di notte, accendono fuochi per vedersi.

Per noi, benché l'articolazione basti a segnare l'essenziale del pensiero, la mimica tuttavia conserva un grandissimo valore. Parlare nella notte sminuirebbe assai l'oratore. Si capisce molto meglio quando si vede; si assiste alla nascita del pensiero, ci si rende conto delle sue sfumature, delle sue ripercussioni, delle sue forze attive. A tal segno che a volte l'espressione diventa inutile; per lo meno, l'espressione orale, diventa allora essa stessa l'aiutante, e aggiunge un commento; le proporzioni si cambiano, e, siccome il gesto precede, nel momento in cui interviene la parola, l'effetto che essa cerca è già prodotto. Supponi che ti si faccia, una domanda delicata e che tu voglia mostrare la risposta piena d'insidie o di mistero, non sarai forse giunto più presto a sbrigartene, non con vane parole, ma con un atteggiamento sospensivo che ti mette in guardia tutte le tue membra, tutti i tuoi lineamenti? La minima esclamazione che sembra partirsi dallo stesso gesto sarà allora tutto il complemento desiderato.

Aggiungi che la mimica è essenzialmente contagiosa, -e perciò utile alla comunicazione degli stati dell'anima come alla loro espressione. Ogni gesto, specialmente se ha un carattere ritmico, tende a ripetersi nello spettatore e produce in lui una dinamogenia eccitatrice di sentimenti e d'idee in armonia con l'impulso originale. Non si potrebbe trascurare una tale forza.

Bisogna a volte notare che la mimica oratoria prende varie forme e non lascia sempre lo stesso posto al gesto propriamente detto. Certi oratori che fanno pochissimi gesti, non per questo sono inferiori agli altri; sarebbero inferiori soltanto se i gesti

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normali dai quali si dispensano non trovassero il loro equivalente. Siccome è nelle immagini inferiori che la mimica prende la sua origine, ci sarà, secondo la natura e la dosatura di questi fantasmi — che variano, per una stessa idea e uno stesso sentimento, con la psicologia di ciascuno — ci sarà, dico, un predominio dei gesti nell'uno, e nell'altro dell'espressione facciale, dell'atteggiamento, del ritmo espressivo della parola stessa, di quella « danza boccale » di cui parla uno dei nostri fonetici. Ciascuno si deve misurare da se stesso, e non dagli altri. Si faccia solo attenzione a non finire nel vuoto, col pretesto di far ricorso a facoltà di sostituzione. L'assenza di gesti spesso non dipende che dalla timidità, dall'inesperienza, da una mancanza di allenamento alla quale converrebbe metter rimedio. In qualche giovane oratore, il gesto ha il suo incitamento nell'intimo, lo indovini dalle piccole scosse, ma esso non esce.

Le qualità del gesto si deducono dal suo compito, o per dir meglio, dalla sua natura. Poiché è un accompagnamento dell'idea e deriva da' suoi fantasmi, il gesto deve far corpo con l'idea e non modellarsi che su. di essa. Tu fai gesti perché hai prima pensato in gesti. È anzi dire troppo, che li fai; se sono buoni, si fanno in tè; il loro schiudersi è spontaneo come il lampo de' tuoi occhi, come il piegarsi delle tue labbra, e indicano meno la tua volontà che non l'aiutino.

Ecco dunque esclusa quella gesticolazione senza scopo che fa di certi oratori delle vere marionette. Si sa che la predicazione ammette dei gesti: se ne fanno, ed essi rassomigliano a quelle modulazioni convenute, automatiche o periodiche chiamate « il tono della predicazione ». « Bisogna che tu agiti le braccia perché sei animato, dice Fénelon; ma, per apparire animato, non bisognerebbe che agitassi le braccia ». Un gesto non è buono se non a patto che esso sia obbligato, nel senso che, in musica, si dice flauto obbligato, violino obbligato, vale a dire che fa parte della stessa idea musicale. Se un gesto ti è necessario per esprimere quello che pensi, come lo pensi, o quello che provi, nella forma e nel grado che lo provi, fa il gesto; se no, resta tranquillo. L'immobilità vale più di un gesto vago, di un gesto esagerato, di un gesto ingombrante, di un gesto falso. In quanto all'agitazione perpetua, fosse pure ben calcolata nei particolari, è ancora un cattivo calcolo, perché affatica, e fa torto all'animazione là dove l'animazione è richiesta. Quando non si discerne, si manca dai due lati.

21 — SBKllLLANaBS. Votatore aistiaiw.

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Dal fatto che il gesto nasce o deve nascere col pensiero, se pure non prima di esso, e dal fatto che può in certi casi diventare il principale, segue manifestamente che esso deve apparire prima della voce, che non si può formare così presto. L'intervallo sarà tanto maggiore in quanto la voce subirà o si crederà che subisca maggiori ostacoli, come nel caso di una grande impressione. Se ti si dice una cosa enorme, istintivamente alzi il braccio al cielo, e solo un istante appresso, come per l'effetto di un allentamento, scoppia un « oh! no ».

Essendo il gesto un complemento del pensiero, un perfezionamento della sua espressione fondato sulla sua ricchezza intcriore, deve cadere specialmente sulle parole di valore, sui mèmbri principali di frase; i riempitivi non ne hanno bisogno. In queste parole: « Voi, che piangete, venite a questo Dio, perché egli piange », il gesto delle braccia aperte, supponendo che ciò si trovi utile, è richiesto dalla parola venite, che esso deve dunque leggermente precedere.

Per la stessa ragione, essendo il gesto oratorio un complemento della parola e l'espressione non dell'idea stessa, ma dell'ambiente fantasmatico in cui nasce, è un errore cercare di disegnare esattamente il pensiero col gesto; esso non ne ha bisogno, a ciò provvedono le parole. Perciò i sordomuti dei quali dicevo sopra che sanno comunicare prima d'imparare la parola, non fanno più, dopo, gli stessi gesti; ma ne fanno altri. Ciò che le parole non dicono punto, cioè gli stati intcriori imparentati con l'idea, gl'impulsi spontanei d'onde essa procede oppure che essa provoca, è quello che il gesto e tutta la persona devono manifestare.

Disegnando col gesto, si arriva presto al ridicolo o alla sconvenienza. Disegnerai tu « chi mangia la mia carne e beve il mio sangue...? ». O dirai: « Venite, benedetti del Padre mio », facendo un gesto col dito? Si può erigere a regola che quanto più grande è l'oggetto, tanto più il gesto deve restare generale e poco preciso. Perciò, facendo parlare Dio, serberai un'immobilità quasi completa; un atteggiamento ben scelto è allora tutto quello che conviene; perché non « si vedono » dei gesti di Dio;

non si pensa a Dio che in uno stupore senza immagini. Se tu citi per esempio: « Quand'anche una madre dimenticasse il figliuolo che ha messo al mondo, tuttavia io non dimenticherei voi », dicendo io, non vorrai portare la mano al petto, come ho veduto fare a un principiante.

Aggiungo che la qualità della persona che parla entra qui

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ugualmente in causa. Il gesto del sacerdote è sacerdotale, non teatrale, o da tribuno, o da monellaccio. Un certo fare pittoresco diverte la ragazzaglia dell'uditorio; ma non è una raccomandazione. Guardati in particolar modo dal mettere le mani sulle anche, o nella cintola, dietro il dorso. Non parlo delle tasche! Non far rumore battendo le mani, urtando la cattedra, o battendo il piede.

Tieni conto delle osservazioni che precedono, e tré qualità del gesto già ti son note: la naturalezza, l'espressione, la convenienza. Aggiungi, se puoi, la bellezza. Non sotto forma di quella falsa eleganza, esclusa di diritto dalla verità, dalla spontaneità che abbiamo richiesto, ma in grazia di un'armonia che si risolve in verità essa pure, in facilità di movimento, in giustezza, in adattamento.

Del resto la principale bellezza del gesto oratorio non è la sua bellezza grafica o plastica, ma la sua bellezza spirituale, la bellezza espressiva. Il gesto poco aggraziato di un paesano che tende le braccia al suo bambino può essere ammirabile, e là dove Eaffaello fa dell'armonia all'italiana, Eembrandt ne trova un'altra, Velasquez una terza, e che non sono punto inferiori.

A questo riguardo tuttavia, vi sono alcune indicazioni utili a fornire. In un quadro, la concordanza delle linee dev'essere curata: così nell'insieme di una gesticolazione, si devono evitare gli urti, i passaggi angolosi, gli arresti troppo bruschi, i quali attestano che il movimento inferiore non è ubbidito. La natura, dentro di noi, ha i suoi ritmi e le sue trasmissioni di correnti; se ciò si traducesse al di fuori, sarebbe la perfezione stessa; avverrebbe come delle onde, ove leggi di equilibrio assicurano, anche nella violenza, una larga continuità.

Per questo, farai bene a pensare che se il braccio muove, è per spostare la mano, vero organo dell'azione, e che per gè non è che una leva. Il movimento dovrà dunque partire dalla spalla e valersi della pieghevolezza del braccio per procurare alla mano la sua posizione più espressiva. Siccome la rotazione ha il suo perno molto lontano, non nel polso, non nel gomito, che non devono servire se non alla trasmissione, il movimento è più armonioso, come all'estremità di una canna agitata si disegnano più belle curve.

L'armonia vuole ancora che al gesto di un braccio non contraddica quello dell'altro, o la positura della testa, o lo sguardo, o l'atteggiamento generale del corpo. Ciò non significa"

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che la direziono del movimento sarà sempre la stessa; vi sonò armonie per somiglianzà e armonie per contrasto. Per figurare la profondità di un abisso, le braccia che si sollevano, mentre lo sguardo si immerge, saranno più eloquenti che abbassate esse pure; perché dando un punto di partenza più elevato alla misura discendente, esse aumentano il balzo e rinforzano l'impressione che si cerca. Così avviene in molti casi; ma. resta la legge generale; si tratta di una corrispondenza di elementi, senza distorsione ne disordine.

Nota che tra questi elementi da far concorrere, si schiera anche la voce. Grandi esclamazioni o un sussurrare non domandano gli stessi gesti; una voce stentorea e una voce debole avranno un accompagnamento manuale differente. Paure diceva: « Non bisogna promettere coi gesti più di quello che la voce può mantenere » (1).

Gli esperti aggiungono a queste condizioni generali alcune annotazioni più particolari, che ne sono la conseguenza. Evitare, gesticolando con la mano, la contrazione delle dita, che ti da l'aspetto di avaro o d'infermo. Evitare le alzate di spalle senza significato e anche quelle che hanno un significato, perché è quasi sempre cosa volgare. — Interdirsi i balzi e gli abbassamenti subitanei, come di un diavolo in scatola. Pare che Bee-' thoven avesse questo difetto, come direttore d'orchestra; ma brillava altrimenti. — Non avanzare le due braccia ex aequo^ specialmente in croce, e non intralciare il corpo gesticolando a ritroso, prova che non si è usato il braccio che bisogna. — Guardarsi dal tendere il braccio in avanti o di fianco con esagerazione, ciò che rompe l'equilibrio dell'atteggiamento, ecc.

Quintiliano vuole che il gesto non oltrepassi mai la testa;

in ciò nessuno lo segue; ma un gesto partente, dalla testa sembra doversi escludere, come quello che da un'impressione di smarrimento. Parimenti il gesto non deve nascondere la figura, anche se si fa il gesto di nascondersi la figura, il che è tutt'altro che nasconderla realmente. L'arte non è la realtà; è un simbolismo. L'oratore del quale non si vede più la figura non la' nasconde oratoriamente, poiché non esiste più.

Finalmente in caso di dubbio circa l'opportunità di un gesto. o di un insieme di gesti, dovrai persuaderti che, qui, il meno è assai preferibile all'eccesso. Troppi gesti distolgono l'atten-

(1) J.-B. faubb, Une awnée d'études, init.

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zione dalla parola, come troppe immagmi la distolgono dall'idea e troppe idee particolari la distolgono dal tema essenziale. I gesti che si evitano per una saggia riserva giovano a quelli che si fanno. Gli attori hanno notato da un pezzo che tra quelli che fanno meno gesti vi sono pure quelli che li fanno giusti.

Quanto più il discorso è solenne, o quanto più lo squarcio in corso è di stile elevato, tanto meno bisogna gestire, ed è lo stesso se si vuole dimostrare dignità, perché in tutte queste occasioni il minimo indizio di agitazione non può far altro che nuocere. L'immobilità, in certi casi, è ancora il più bei gesto, come il silenzio la più alta parola.

Aggiungi che un oratore poco agguerrito, che si sente la mano pesante e che paralizzato più o meno dalla timidità, dalla disadattaggine naturale al principiante, farà bene a moderarsi molto, ad allenarsi a poco a poco, a colpo sicuro, non ammettendo da prima che l'evidente e l'indispensabile.

~Soi potremmo, dopo questo, compilare un catalogo dei gesti oratorii per generi, specie e varietà; ciò potrebb'essere interessante; ma sotto l'aspetto pratico, dopo aver detto che vi sono gesti indicativi, esplicativi, descrittivi, affettivi e misti, gesti di esposizione e di dimostrazione, gesti di affermazione e di negazione, gesti di configurazione, di espansione, di scoperta prossima o remota, di appello, di accoglimento e di repulsione, ecc., ecc., non avresti progredito molto. Vi sono delle evidenze; ma espresse teoricamente si prestano sempre a una folla di eccezioni. I casi sono troppo varii, le sfumature troppo sfuggevoli. Il gesto, nato dalle immagini mentali soggiacenti al pensiero, cioè preconcettuali o estraconcettuali, partecipa della loro indeterminatezza; anch'esso, come l'individuo, è « ineffabile ». Non vi sono gesti sinonimi, fu detto, e ciò significa che non c'è misura comune tra un'idea o un sentimento definiti e il gesto incaricato di esprimerli, poiché appunto il gesto deve esprimere quello che hanno di indefinibile, intendo lo stato dell'anima, l'impulso interno, il quid proprium che varia da un individuo all'altro e non si ripete mai.

Onde si possono trovare vanissimo e anche pericolose lezioni di gesti fondate su « principii » e su classificazioni pretese metodiche. Tuttavia se ne sono date; furono anzi pubblicate incisioni in appoggio, e vi è una cosa assai notevole, cioè, che tutti questi gesti offerti in esempio sono falsi. Si difendono

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davanti alla ragione astratta; rappresentano forse una formula esatta in sé considerata; ma oltre che. non possono convenire ne a ogni persona ne a ogni caso individuale, hanno un effetto deplorevole, perché vi si sente l'attore, e ciò nel declamare Bossuet, Lacordaire. È spaventoso.

Oh! quanto preferisco il povero vicario di campagna impacciato dalle sue mani, ma il cuore del quat& agisce e da una impressione di commovente semplicità, più convincente che un « gesto di espansione! ».

Nessuna ignoranza o imperizia è paragonabile in nocumento al porgere teatrale del sacerdote, oppure alla sua « arte » non appena si scorge.

Si dica pure che tutti i gesti così voluti e organizzati teoricamente sono cattivi, per quanto siano bene studiati, abili, eleganti e giusti, perché non son naturali. Specialmente sul pulpito, ciò che sente di ricercatezza è assolutamente da rigettare. Dico ricercatezza, non esercizio. Puoi, anzi devi esercitarti nel gestire, come ti eserciti nel pronunziare, nel comporre o nello' scrivere. L'intervento della ragione è dovunque necessario, ma esercizi, e, se è possibile, esercizi sorvegliati, criticati da qualche competente, sono tutt'altro che uno studio aprioristico e un addestramento sapiente.

Provando; cercando di esprimerti tu stesso sotto questo rapporto cóme sotto tutti gli altri; controllandoti e facendoti controllare; correggendo i falsi movimenti con la tua riflessione o con quella del giudice; sforzandoti soprattutto, di scoprire il gesto alla sorgente, in quegli stimoli che si subiscono inconsciamente, ma la cui coscienza si desta nell'individuo attento, arriverai a risultati senza scapito, senza timore di deviazioni. Poi non ci sarà che da fissare i tuoi acquisti mediante l'allenamento dell'abitudine. E non si tratterà di un dato gesto determinato che tu cercheresti di tenere a memoria; sarebbe la stessa aberrazione che farebbe ritorno; quello che acquisterai, è l'abitudine delle disposizioni intime che creano il gesto, e inoltre l'ubbidienza pronta e facile degli organi di esecuzione.

A questo titolo di esercizio, e senza pregiudizio di lezioni speciali che vi si potranno consacrare, è utilissimo gestire un poco imparando il discorso; così ti dirozzi le membra, ti alleni, trovi qualche movimento che si fissa nella memoria col resto e che, senza che tu ci pensi — perché bisognerà che oramai tu non ci pensi — si presenteranno al momento opportuno.

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Tuttavia non devi agitarti così all'ultima ora; come abbiamo detto, ravvicinarsi della battaglia richiede che si raccolga la propria anima e le proprie forze.

Ultima osservazione. Sappiamo che l'abitudine ha un doppio effetto: crea tesori di acquisti e stabilisce brutti vezzi. ~Soi abbiamo previsto il guaio di questa meccanizzazione dicendo che quello che si deve acquistare, non sono dei gesti abituali, ma l'abitudine di creare dei gesti, di crearli sempre adatti, per conseguenza sempre nuovi, poiché nessuno di essi comporta dei sinonimi. Bisogna vegliare con gran cura; le false pieghe si prendono prestissimo, e, una volta prese, restano, salvo che ci si esamini frequentemente e ci si faccia rivedere da altri. Il vizio è il controsenso, ed è prontamente il ridicolo, quasi tanto nemico della parola quanto il far teatrale e la falsa arte.

328

L'EPILOGO DEL DISCORSO^

Eccoti alla fine de' tuoi sforzi e invitato a guardare indietro, non per maledire una sconfitta, o applaudirti di un felice successo, ma per trarre dall'uno o dall'altro un utile insegnamento.

Mentre si parla si ha la mente stranamente desta; di fronte al pubblico si giudica come per gli occhi del pubblico stesso;

s'indovina così quello ch'egli pensa o che deve pensare, e se, discendendo dal pulpito, si sa raccogliere le vaghe o chiarissime impressioni provate, si è in condizione di fa rè un progresso, ciò che è il voto perpetuo dell'uomo intelligente, tanto più dell'apostolo.

Paolo Valéry scrive: « Una cosa riuscita è una trasformazione d'una cosa mancata. Dunque una cosa mancata non è mancata se non per abbandono » (1). Hai tu fallito il tuo discorso? ~So, spero, per chi lo considera alla leggera; ma rispetto a un alto ideale, un discorso è sempre fallito. Si sperava sempre di far meglio; a ogni modo, si spera per domani: allora non abbandonare la tua opera imperfetta. Se sei improvvisatore, il tuo discorso non ti servirà tale e qziale un'altra volta; ma il suo piano ti servirà: rivedi codesto piano; hai dovuto provarlo parlando, e vedere il suo forte e il suo debole. Il forte è quello che metteva in piena luce il pensiero iniziale e facilitava a tè stesso la sua manifestazione; il debole è quello che t'ingombrava, quello che ti gettava nel ginepraio o nella nebbia secondo che si trattava di pratica o di pensiero. Per conseguenza, rimetti sul telaio codesta trama, mentre la tua impressione è ancora viva. Domani può essere svanito tutto; il giudice sarà lontano; tu ti ritroverai di fronte a tè stesso e, forse, ripreso dalle false evidenze che avevano cagionato l'errore.

Se il discorso è scritto, devi perfezionarlo, forse rifarlo, e dici bene che non devi aspettare più tardi, perché, una volta che tutto sia raffreddato, non lo potrai fare con efficacia e con la minima spesa. Adesso non è niente; hai tutto presente, e le

(1) P. valébt, Notes swr la poesie: « Nouvellae littéraires » du 28 septein-bre 1929.

—. 329 —

tue facoltà messe in moto funzionano con un pieno rendimento;

, -approfittane. Quanto tempo e fatica si risparmia, facendo lavorare quei felici momenti che la pigrizia trascura!

Hai probabilmente avuto la sorte propizia; il controllo del fatto si è volto in favore di un dato svolgimento, di un dato periodo manifestamente gustato e che ha fatto presa? Ebbene ; sii tanto saggio da sfruttare codesto successo, sia per perfezionare l'opera tua facendo traboccare sopra l'insieme una riuscita parziale, sia per incominciare un'altra opera. Un buono squarcio può creare un discorso; un buon discorso ne può creare quattro.

Se hai imparato a memoria, abbi cura di osservare come si è comportata la tua memoria. Se in un dato punto ha piegato, se si è smarrita, si può scommettere che una mancanza di composizione è stata la sua insidia. Difetto di nesso logico, : cattiva distribuzione delle materie, ripetizione fuori di posto, sovraccarico: ecco indubbiamente quello che scopriresti.

E poi, se hai un amico, un uomo di senno che abbia da tè ricevuto il diritto di parlarti liberamente, senza adulazione ma con amore, se lo hai condotto a udirti, affrettati a trarre da lui le sue impressioni fresche fresche; rifai con lui il discorso, di fronte all'uditorio presente in voialtri due; perché anche lui, il tuo alter ego, ha sentito ciò che si pensava, ciò che si era in diritto di pensare, e ne ha goduto o sofferto in silenzio. Parli lui, adesso. Ma, soprattutto, non ti scoraggisca! 2'Ton fare così tu stesso per altri. « Le pendole, dice bellamente un tale, si fermano da sole, se nessuno vi guarda l'ora »; ma si fermano molto più se una mano brutale si getta sul quadrante.

Il Padre Ollivier, citando, credo, un antico predicatore:

diceva: Quando sono contento scendendo dal pulpito, recito un Misererò, e quando sono malcontento, un Tè Deum. Ecco una bella lezione di umiltà e di fede nella Provvidenza; ma è anche un'indicazione tecnica. L'uomo contento dev'essere ben sicuro di dimenticare o di trascurare qualche cosa: si faccia avvertire in proposito e si corregga. Ecco il suo Misererò. L'uomo malcontento, se sa il perché, è anticipatamente raddrizzato, e se non lo sa, consulti: dopo ciò si potrà giustificare il Tè Deum.

L'esperienza si deve pagare. 'Son puoi formulare a tè stesso dei precetti se non dopo averli vissuti. Ma i precetti si vivono in due modi: per la loro felice applicazione e per l'effetto calamitoso della loro assenza. Non è vero che « quello che vi è di meglio nella vittoria è il togliere al vincitore il timore della

—330—

sconfitta» (I): essa produce migliori frutti, e del rimanente una sconfitta momentanea e parziale non è tanto formidabile. Ohi sa che per via dello scacco non s'imparino meglio i segreti di vincere! Il successo, soprattutto se è facile, istruisce poco e non invita all'esaurimento delle forze; non commove che la superfìcie dell'anima. Della sconfitta, si soffre, e nessuna esperienza va più lontano di quella del dolore.

Bisogna forse aggiungere che, avendo posto alla base della nostra orazione un'altra orazione, un ricorso a Colui che ci invia, e la Messa del mattino, e l'invocazione dell'ultimo istante, il Domine, labia mea aperies, conviene ora voltarsi indietro e dire Deo gratias, o Farce, Domine, o certamente tutti due, ma gettando verso l'avvenire, a ogni modo, uno sguardo di speranza?

Ogni esperienza è fruttuosa a suo modo; se è felice, porta più lontano; se è penosa, fa « entrare il mestiere », abbatte la superbia, impone il sentimento degli ostacoli, e se, pesando questi due benefizi, è difficile dire quale sia il migliore, dipende da noi, insieme con Dio, il renderli ugualmente profittevoli. Così s'impone, sempre, un'azione di grazie confidente. Eiu-scendo, io salgo; inciampando, rimbalzo: che importa la forma di movimento e la sua traiettoria, se mi trovo più in alto?

(1) FRéofoio nibtzscw. £e gai samirs aphor. 163.

INDICE DELLE' MATERIE

Prefazione .................. Pag. 6

Introduzione ............... . . » 9

LIBRO I.

la parola DI dio IN SB STESSA.

capitolo I. — La parola di Dio . . . .. . . . .Pag. 11

I. Che cosa è la Parola; di Dio .. . ... . ,..;)> 11

II. La dignità e l'efficacia della parola' di Dio • • ^ -r ^ » 16 capitolo II. — Le fonti della Parola di Dio .. . ,;^'.-.:• » 23

I. La Sacra Scrittura . . . . .,..,. ,; ... » 23

II, La Liturgia . . . . . . , ., ... . ».,,..,'» 36

HI. I Padri della Chiesa, i Teologi e i Maestri della aa-,

era Eloquenza . . . ..,.;„.,., .. ., . .,...)> 40

IV. La Vita dei Santi . . . lll%•:/,^^^.,;,;,i,.•.l:i. ^..:.:1-, » -49 :V. La Storia della Chiega . ••.;.::'.1•^...^.-/.1^,•;-1.,/.,1.•^. . » 50 •VI. La Natura e l'Arte . . . !., •'.•-•;';^^^,;1.,-- • i> 51 VII. L'Esperienza e le sue fonti ,,^;.^,;7.; /•^^•;-;•; ' • » ^

A) La Meditazione . .. ,:•;yly :"•:.''••,/. i,1."^.1-;'1--.' '• '• o 53

B) La Lettura . . ...... :^;•"'',1•;^......;:::1;;;?''.,,;;,. -. » •• 60

(7) Le Frequentazioni . . ..\,,;,.':,,^ :..;,;.:;< ^:. ... »-. 60

D) II Contatto degli uomini di esperienza ,^ . .. . » 63

.E) II Ministero stesso .. ... .... ;.; . . . » 64

capitolo III. — Gli appoggi inferiori della PwylictidiDio. » 66

I. La buona vita . . . ..... . ,. . . . » 66

II. Il silenzio e la solitudine . . .. . ,. . . . » .71 JII. La preghiera. L'orazione. La Messa . ... . . » 73

332

LIBRO II.

qualità NECESSASIE ALL'ORATORE CRISTIANO E IL MODO DI ACQUISTARLE.

capitolo I. Il contegno corporale . ....:; . . . Pag. 79

.1. La cura della persona . . .'...;. :,.,..;•». 79 II. II portamento .... ..,,/..';.;.;?. .\ .;.-» 81

capitolo II. La buona respirasione '. ..1 '.' .,^.' ''..^-'.•..••t:,^,:,.'» 83

I. La respirazione abituale . .:;."'. '.?\''^.^:'-;'-»''v'» §3

II. G-li esercizi respiratorii. . .,..•. ...'.,.;'•.;,.» 84

III. La respirazione nel corso della parola. ,t ,. . . » §5 capitolo III. — La voce . . . ;y,, . .?•.;:.<' .^.^A.?'.''» @9 .1. La cura della voce . . . .^,,\,. ,:-:,,'^i^.'.!'..:•,^\i•'f.'/» §9 II. Le qualità della voce . . .•^.,;.^;;;^v.;';;..;'.~, .,' -..^.i» {?! A.) L'impostazione della voce , ^ \;.^;;'";;;,.:^ •.:.'. » 91 B) Le qualità estetiche della voce ^.,, »....:.' . ;.., . » 93 G) La sonorità della voce . . . ;»• '. '",:,<."^».;' '. . » 94 D) La portata della voce. . . . .',;..' i.,,;;. . » 97 E) La durata e la resistenza della voce . '.- ..y >•• . » '100 capitolo IV. — L'emissione della voce . ;. ^. '..,.;'',,,.. » - 103 L'articolazione . .. . .^ . ? .•'^ '., .^H^-'.;.'. .. » 103

A) Le vocali . . . / .l-l•;;'"'";.^';.•i;/fc'^/^'.^-;.'',.,,^:,:..'-^1. s> 103

B) Le consonanti . . .-'-^a. l^.tl:;l^'\' ,..::i.i\:•!•.^: ,;'•-•.;'. » 104 C') LesiUabe .^ '. . l..l-•-;l'^l•..^^.^.•!ly.^l;.^•l^::;^,..^l..l>•.106 Z)) II discorso legato .',/ '.r^1,'^,,^,,;..''1'.^-,^1.',!, ;11.<^1'.'';,11;.\•:|,:„'•',. » 107 capitolo V. — Le qualità ^té^ièftSwtK^^.'ytyegte^t^^ .;';.. » 109 - I. Il buon senso . . ',1\'•,111. .••.'.': .^.<.:li:..\^"..:'•^..-;;•.i•^.:l . » .109

II. La cultura ;. '. .;'.: '.i1-'',,,^;.;..^''..^,;'!:'^?.;"',.,',. » ,110 A} La cultura generale ,' .. /.: ••. •';;-. • ^-^"/^•''.•: . » 110

1 1 i?) La lingua . . . . '.' ''.l•..y:^l^:U.I<;-l.l,"l:.'•^ ;',.-' '''•'^'^ • » 116 O) La logica dimostrativa ....•:'^."!'./:.'^y:;•i.\'^ . » 117 Z>) La rettorica sacra . . :'. .:.;^^.,;^.:.^;;-\;;,;';^, . » 118

III. L'acquisto dottrinaleeora.torffr^^Èìetii'óte.:."1.^"..:^'.;.. » 122

IV. La chiarezza .... •."•:..-. ^.^.^•.:'-^.'^^^ • .. » 130

V. L'originalità vera .,. ,.'•'.;'^^» '» •;.. ^.;'''',a^^:. » 135 VL La semplicità : . . ^^ ,,-.^.:.r;^,;.^l.,Alt^..!:^^ » 138. VII. Ilsenso e l'adattamentó/f'.'.-^;.'.;,:^:^.';,.;^-,;.-. .» 144

capitolo VI. — L'immaginasioM •'e ^» ;aeA%^<à. •g'à^^à è

, dt/É«t . . .: :' ;'-'. ••11.'•.;'^'^\.^^^;<.::<1:^%.'\..3^•'. »" 149. :• I. L'aridità . . ;.1 ! .^.^•.-ll^v.'^^''^^^.ll^l^^ '149'

II.- La divagazione ...-•;.;^; \"-."111.;•.:'.•"':"•.':'1\,. '1;;1 "y^', •,,'•. ' ». 152

III. La freddezza . -.. 1-1•.•:'?. •':'':'. ^.^ '.•;;'. ^iv^".. •\,;:%:t/^. . » 153.

IV. La sensibilità temperata- .^^^'.^•'"ì^ ':^ .-•'È^.i!'';-.' . » 155

V. Le mescolanze impure .;;'',^;'^:.". ••'.'':.t ".:;,.. » 155

— 333 —

capitolo VII. — II carattere del predicatore . . . ;•-. Pag. 157

I. La leggerezza e la gravita. ...... . . . » 157

II. L'asprezza e la compiacenza. . . . ; . . ,: . » 160

III. La benevolenza e lo spirito di denigrazione . ;. . » 167

IV. La timidità, l'autorità e la presunzione . . ,;..;.;»c 172

V. L'orgoglio e l'ambizione umana . . . . ,,;;)..•» 176

VI. Il vero zelo e la fiducia fondata in Dio. . . , i . » 180

LIBRO III.

L'ESERCIZIO EFFETTIVO DELIA pabola PI dio.

capitolo I. — La scelta dei soggetti e dei generi .... Pag. 189

capitolo II. — II triplice scopo dell'oratore cristiana . . » 197 I. Insegnare . . . . .. • . . . . . . , . . »- 197

.A) Necessità dell'insegnamento . . . . . . . s » 197

B) Qualità di un buon insegnamento. La prova oratoria » 198 ^II. Commovere . . . . . . . . . « ... . . » 201

' A) La necessità di commovere i cuori . ;.,.....• .^ » 201

B) Le condizioni per commovere . .v ::.•«.!,..,. < ;• » 202

III. Piacere ......... .^%:,, ..''.: ..:.^»- 204

IV. Scopo accessorio: dipingere. . .,.:.,.. . .,, o 206 capitolo III. — I metodi dell'oratore cristia»^. .. . , » 209

I. Parola imparata e parola improvvisata.. — Inoonve-

nienti e vantaggi . ... . ..,..,;.'. , : »' » 209

II. Regole per ciascun metodo . . .;.,.,.....' » 210

HI. Conciliazione e dosatura . . . ,•,.,.;....'.•» 218

IV. Si può leggere sul pulpito . ~. . .'.,i' .,.,';.» .220 capitolo IV. — Il'elaborwione del discorso ., '. . .. :." » 222

.1. L'invenzione. . . . .,. . . ,. .'^i ' ? ..^.^ . » 222

'/.;, A) L'ispirazione iniziale . ,,,-, ••:,, :<','a..,..,,;..-'/ ,'» 222 ^ B) La ricerca dei pensieri . '.. .. ..'^••^..t^ ./:.;;,.',....;;» 228

y.' O) La scelta dei pensieri . ,;.^.^^.;•'',i;'..'^ ^.-'i,.:.', .'T ..''.»• 231 :,1I. La composizione . . './L,'-1•^.'•;^*^...,', . '..^.,.;. » 234 : ' A) Qualità d'una buona composizioiittì'. . ^, ,,;'; e'.S,» 234 -B) L'ordine statico ', . . . ^v.^.^. ','-; .,^:. >;,:^ » 237 O) L'ordine dinamico . . :...,,'<,. ^. ^ .;^. . ..^;:; » 240

D) L'ordine della carità . ; ,;^ ..'^t :. -..: .;. \. ; . ^:</^» 243

III.. Le varie parti del discorso ,:;.' • .'!^",'T.*'^; ..^ •'.:»• 247 A} L'esordio . .... .• .^;•.l-;:^.:^.;l;;v,].'^ì''.ll,^;^:'•,:l»•'247

I?) Le divisioni del discorso .^•^..•..'.^^^^^r^^^-^ » 249 C) La perorazione .... .'" . ^ :« :. .'.«.^i.;,'.;,» 254

IV. Lo svolgimento oratorio ....... . ;, '{{ »^. ' 256

A) Svariate forme e tendenze deHo svolgimento < :• 256

B) Le leggi dello svolgimento . . . . . . .' . . 259

(7) I luoghi comuni . . . ... . . . .,; ^••;„,;; 262

Z>) I tropi e le figure oratorie . . . . . . .e; . .^ , 264

— 334 -

capitolo V. — L'elocuzione o lo stile oratorio .... Pay. 270

I. Il ricorso alle fonti della sacra eloquenza. . . , . » 270

II. Le qualità dello stile oratorio '. . . . i i, . .» 273

A) La verità della parola . . . . . . ','i. . . » 273

B) La parola diretta . . . . . . . . '.i-i;. . . » 276

, O) La parola viva ........ :...;; ., . . » 275

—D) La divisa dello stile oratorio. Il lirismo ;.'t.;,. . » 277

:•:. E) II ritmo .... ......,...,,%..',;,;:^ . » 278

f) Le sentenze e le citazioni .. , . ; .,/:,...>. » 280

''^ ,G) La proprietà dello stile .'. i'. :..•/'.;...;.,;'. .':^. » 281

^ B) La misura . . . .'11;.. ^'':^^'.'.;1.^ 1:,;.'?.,^.^^;".-11 . » 283

V' I) La sobrietà .... . . . '. ' . . - . . . . . » 284

J) II movimento oratorio. La veemenza e l'entusiasmo

esagerato . . . . . ,. . .. '. . . . . » 286,

-S") I tré gradi di stile oratorio secondo S. Agostino . . » 289

. li) II lavoro dello stile e la sua perfezione. . . . . » 291

capitolo VI. — -La memoria . . . . .'. . . . . . » 294

I. Come sviluppare la memoria. -.'.,'.... . . » 294

II. Come valersi della memoria . .;: .^;'; • .; . . . » 295

III. Alcuni consigli pratici . . .\ .; i;. '.' : ..... » 296

capitolo VII. — L'agione . . . .;.,??./"."'.' .y^ . » 298

I. Importanza somma dell'azione! '.:^'. . .''.'•-7,.. . » 298

II. Le leggi generali dell'azione . . , . . . •. .. , » 300

A) La naturalezza e le sue condizioni complesse . . . » 300.

B) La comunicazione con l'uditòrio • .'•' ....... 303

G) L'azione viva .............. 304

D) II carattere personale dell'azione e il suo adattamento ad ogni circostanza . . . . . . . . » 305

E) La purezza dell'azione. Le singolarità viziose. I loro

rimedi . . . . . . ... . . . . . , » 306

F} La varietà e la monotoma . . . . '; .. ...» 307

G) L'omogeneità nella varietà . . . :v . ...» 307

B) L'azione svariata e l'azione larga . . . . . . » 308

I) La progressione dell'azione .......... 308

i7) La misura ............ . . » 309

III. Eegole particolari dell'azione. L'atteggiamento . . » 309

IV. Lafisonomia ............... 311

«* V. La pronunzia oratoria. . . . . . . . . . . » 314

VI. Il gesto ^ . . - . . . . . . . ...... 319

L'Epilogo del discorso. .... .'. ...... 328

Nulla osta.

Torino, 13 luglio 1932.

P. eegina:ldo giuliani, O. P. P. cesiao pbba, O. P.

Imprimi potest. Torino, 13 luglio 1932.'

P. F. igmazio cane, O. P. ProOTwctaié.

Nulla osta.

Torino, 17 £«gKo 1932.

P. ceslao pesa, O. P. Eev. del.

Imprimatur. Taurini, die 21 'lulii 1932.

Can. FBANCisoirs paueabi Prov. Gen.

INDICE DELLE' MATEBIE

Prefazione .................. Pag. 6

Introduzione ............... . . » 9

LIBRO I.

la parola DI dio IN SB STESSA.

capitolo I. — La parola di Dio . . . .. . . . .Pag. 11

I. Che cosa è la Parola; di Dio .. . ... . ,..;)> 11

II. La dignità e l'efficacia della parola' di Dio • • ^ -r ^ » 16 capitolo II. — Le fonti della Parola di Dio .. . ,;^'.-.:• » 23

I. La Sacra Scrittura . . . . .,..,. ,; ... » 23

II, La Liturgia . . . . . . , ., ... . ».,,..,'» 36

HI. I Padri della Chiesa, i Teologi e i Maestri della aa-,

era Eloquenza . . . ..,.;„.,., .. ., . .,...)> 40

IV. La Vita dei Santi . . . lll%•:/,^^^.,;,;,i,.•.l:i. ^..:.:1-, » -49 :V. La Storia della Chiega . ••.;.::'.1•^...^.-/.1^,•;-1.,/.,1.•^. . » 50 •VI. La Natura e l'Arte . . . !., •'.•-•;';^^^,;1.,-- • i> 51 VII. L'Esperienza e le sue fonti ,,^;.^,;7.; /•^^•;-;•; ' • » ^

A) La Meditazione . .. ,:•;yly :"•:.''••,/. i,1."^.1-;'1--.' '• '• o 53

B) La Lettura . . ...... :^;•"'',1•;^......;:::1;;;?''.,,;;,. -. » •• 60

(7) Le Frequentazioni . . ..\,,;,.':,,^ :..;,;.:;< ^:. ... »-. 60

D) II Contatto degli uomini di esperienza ,^ . .. . » 63

.E) II Ministero stesso .. ... .... ;.; . . . » 64

capitolo III. — Gli appoggi inferiori della PwylictidiDio. » 66

I. La buona vita . . . ..... . ,. . . . » 66

II. Il silenzio e la solitudine . . .. . ,. . . . » .71 JII. La preghiera. L'orazione. La Messa . ... . . » 73

332

LIBRO II.

qualità NECESSASIE ALL'ORATORE CRISTIANO E IL MODO DI ACQUISTARLE.

capitolo I. Il contegno corporale . ....:; . . . Pag. 79

.1. La cura della persona . . .'...;. :,.,..;•». 79 II. II portamento .... ..,,/..';.;.;?. .\ .;.-» 81

capitolo II. La buona respirasione '. ..1 '.' .,^.' ''..^-'.•..••t:,^,:,.'» 83

I. La respirazione abituale . .:;."'. '.?\''^.^:'-;'-»''v'» §3

II. G-li esercizi respiratorii. . .,..•. ...'.,.;'•.;,.» 84

III. La respirazione nel corso della parola. ,t ,. . . » §5 capitolo III. — La voce . . . ;y,, . .?•.;:.<' .^.^A.?'.''» @9 .1. La cura della voce . . . .^,,\,. ,:-:,,'^i^.'.!'..:•,^\i•'f.'/» §9 II. Le qualità della voce . . .•^.,;.^;;;^v.;';;..;'.~, .,' -..^.i» {?! A.) L'impostazione della voce , ^ \;.^;;'";;;,.:^ •.:.'. » 91 B) Le qualità estetiche della voce ^.,, »....:.' . ;.., . » 93 G) La sonorità della voce . . . ;»• '. '",:,<."^».;' '. . » 94 D) La portata della voce. . . . .',;..' i.,,;;. . » 97 E) La durata e la resistenza della voce . '.- ..y >•• . » '100 capitolo IV. — L'emissione della voce . ;. ^. '..,.;'',,,.. » - 103 L'articolazione . .. . .^ . ? .•'^ '., .^H^-'.;.'. .. » 103

A) Le vocali . . . / .l-l•;;'"'";.^';.•i;/fc'^/^'.^-;.'',.,,^:,:..'-^1. s> 103

B) Le consonanti . . .-'-^a. l^.tl:;l^'\' ,..::i.i\:•!•.^: ,;'•-•.;'. » 104 C') LesiUabe .^ '. . l..l-•-;l'^l•..^^.^.•!ly.^l;.^•l^::;^,..^l..l>•.106 Z)) II discorso legato .',/ '.r^1,'^,,^,,;..''1'.^-,^1.',!, ;11.<^1'.'';,11;.\•:|,:„'•',. » 107 capitolo V. — Le qualità ^té^ièftSwtK^^.'ytyegte^t^^ .;';.. » 109 - I. Il buon senso . . ',1\'•,111. .••.'.': .^.<.:li:..\^"..:'•^..-;;•.i•^.:l . » .109

II. La cultura ;. '. .;'.: '.i1-'',,,^;.;..^''..^,;'!:'^?.;"',.,',. » ,110 A} La cultura generale ,' .. /.: ••. •';;-. • ^-^"/^•''.•: . » 110

1 1 i?) La lingua . . . . '.' ''.l•..y:^l^:U.I<;-l.l,"l:.'•^ ;',.-' '''•'^'^ • » 116 O) La logica dimostrativa ....•:'^."!'./:.'^y:;•i.\'^ . » 117 Z>) La rettorica sacra . . :'. .:.;^^.,;^.:.^;;-\;;,;';^, . » 118

III. L'acquisto dottrinaleeora.torffr^^Èìetii'óte.:."1.^"..:^'.;.. » 122

IV. La chiarezza .... •."•:..-. ^.^.^•.:'-^.'^^^ • .. » 130

V. L'originalità vera .,. ,.'•'.;'^^» '» •;.. ^.;'''',a^^:. » 135 VL La semplicità : . . ^^ ,,-.^.:.r;^,;.^l.,Alt^..!:^^ » 138. VII. Ilsenso e l'adattamentó/f'.'.-^;.'.;,:^:^.';,.;^-,;.-. .» 144

capitolo VI. — L'immaginasioM •'e ^» ;aeA%^<à. •g'à^^à è

, dt/É«t . . .: :' ;'-'. ••11.'•.;'^'^\.^^^;<.::<1:^%.'\..3^•'. »" 149. :• I. L'aridità . . ;.1 ! .^.^•.-ll^v.'^^''^^^.ll^l^^ '149'

II.- La divagazione ...-•;.;^; \"-."111.;•.:'.•"':"•.':'1\,. '1;;1 "y^', •,,'•. ' ». 152

III. La freddezza . -.. 1-1•.•:'?. •':'':'. ^.^ '.•;;'. ^iv^".. •\,;:%:t/^. . » 153.

IV. La sensibilità temperata- .^^^'.^•'"ì^ ':^ .-•'È^.i!'';-.' . » 155

V. Le mescolanze impure .;;'',^;'^:.". ••'.'':.t ".:;,.. » 155

— 333 —

capitolo VII. — II carattere del predicatore . . . ;•-. Pag. 157

I. La leggerezza e la gravita. ...... . . . » 157

II. L'asprezza e la compiacenza. . . . ; . . ,: . » 160

III. La benevolenza e lo spirito di denigrazione . ;. . » 167

IV. La timidità, l'autorità e la presunzione . . ,;..;.;»c 172

V. L'orgoglio e l'ambizione umana . . . . ,,;;)..•» 176

VI. Il vero zelo e la fiducia fondata in Dio. . . , i . » 180

LIBRO III.

L'ESERCIZIO EFFETTIVO DELIA pabola PI dio.

capitolo I. — La scelta dei soggetti e dei generi .... Pag. 189

capitolo II. — II triplice scopo dell'oratore cristiana . . » 197 I. Insegnare . . . . .. • . . . . . . , . . »- 197

.A) Necessità dell'insegnamento . . . . . . . s » 197

B) Qualità di un buon insegnamento. La prova oratoria » 198 ^II. Commovere . . . . . . . . . « ... . . » 201

' A) La necessità di commovere i cuori . ;.,.....• .^ » 201

B) Le condizioni per commovere . .v ::.•«.!,..,. < ;• » 202

III. Piacere ......... .^%:,, ..''.: ..:.^»- 204

IV. Scopo accessorio: dipingere. . .,.:.,.. . .,, o 206 capitolo III. — I metodi dell'oratore cristia»^. .. . , » 209

I. Parola imparata e parola improvvisata.. — Inoonve-

nienti e vantaggi . ... . ..,..,;.'. , : »' » 209

II. Regole per ciascun metodo . . .;.,.,.....' » 210

HI. Conciliazione e dosatura . . . ,•,.,.;....'.•» 218

IV. Si può leggere sul pulpito . ~. . .'.,i' .,.,';.» .220 capitolo IV. — Il'elaborwione del discorso ., '. . .. :." » 222

.1. L'invenzione. . . . .,. . . ,. .'^i ' ? ..^.^ . » 222

'/.;, A) L'ispirazione iniziale . ,,,-, ••:,, :<','a..,..,,;..-'/ ,'» 222 ^ B) La ricerca dei pensieri . '.. .. ..'^••^..t^ ./:.;;,.',....;;» 228

y.' O) La scelta dei pensieri . ,;.^.^^.;•'',i;'..'^ ^.-'i,.:.', .'T ..''.»• 231 :,1I. La composizione . . './L,'-1•^.'•;^*^...,', . '..^.,.;. » 234 : ' A) Qualità d'una buona composizioiittì'. . ^, ,,;'; e'.S,» 234 -B) L'ordine statico ', . . . ^v.^.^. ','-; .,^:. >;,:^ » 237 O) L'ordine dinamico . . :...,,'<,. ^. ^ .;^. . ..^;:; » 240

D) L'ordine della carità . ; ,;^ ..'^t :. -..: .;. \. ; . ^:</^» 243

III.. Le varie parti del discorso ,:;.' • .'!^",'T.*'^; ..^ •'.:»• 247 A} L'esordio . .... .• .^;•.l-;:^.:^.;l;;v,].'^ì''.ll,^;^:'•,:l»•'247

I?) Le divisioni del discorso .^•^..•..'.^^^^^r^^^-^ » 249 C) La perorazione .... .'" . ^ :« :. .'.«.^i.;,'.;,» 254

IV. Lo svolgimento oratorio ....... . ;, '{{ »^. ' 256

A) Svariate forme e tendenze deHo svolgimento < :• 256

B) Le leggi dello svolgimento . . . . . . .' . . 259

(7) I luoghi comuni . . . ... . . . .,; ^••;„,;; 262

Z>) I tropi e le figure oratorie . . . . . . .e; . .^ , 264

— 334 -

capitolo V. — L'elocuzione o lo stile oratorio .... Pay. 270

I. Il ricorso alle fonti della sacra eloquenza. . . , . » 270

II. Le qualità dello stile oratorio '. . . . i i, . .» 273

A) La verità della parola . . . . . . ','i. . . » 273

B) La parola diretta . . . . . . . . '.i-i;. . . » 276

, O) La parola viva ........ :...;; ., . . » 275

—D) La divisa dello stile oratorio. Il lirismo ;.'t.;,. . » 277

:•:. E) II ritmo .... ......,...,,%..',;,;:^ . » 278

f) Le sentenze e le citazioni .. , . ; .,/:,...>. » 280

''^ ,G) La proprietà dello stile .'. i'. :..•/'.;...;.,;'. .':^. » 281

^ B) La misura . . . .'11;.. ^'':^^'.'.;1.^ 1:,;.'?.,^.^^;".-11 . » 283

V' I) La sobrietà .... . . . '. ' . . - . . . . . » 284

J) II movimento oratorio. La veemenza e l'entusiasmo

esagerato . . . . . ,. . .. '. . . . . » 286,

-S") I tré gradi di stile oratorio secondo S. Agostino . . » 289

. li) II lavoro dello stile e la sua perfezione. . . . . » 291

capitolo VI. — -La memoria . . . . .'. . . . . . » 294

I. Come sviluppare la memoria. -.'.,'.... . . » 294

II. Come valersi della memoria . .;: .^;'; • .; . . . » 295

III. Alcuni consigli pratici . . .\ .; i;. '.' : ..... » 296

capitolo VII. — L'agione . . . .;.,??./"."'.' .y^ . » 298

I. Importanza somma dell'azione! '.:^'. . .''.'•-7,.. . » 298

II. Le leggi generali dell'azione . . , . . . •. .. , » 300

A) La naturalezza e le sue condizioni complesse . . . » 300.

B) La comunicazione con l'uditòrio • .'•' ....... 303

G) L'azione viva .............. 304

D) II carattere personale dell'azione e il suo adattamento ad ogni circostanza . . . . . . . . » 305

E) La purezza dell'azione. Le singolarità viziose. I loro

rimedi . . . . . . ... . . . . . , » 306

F} La varietà e la monotoma . . . . '; .. ...» 307

G) L'omogeneità nella varietà . . . :v . ...» 307

B) L'azione svariata e l'azione larga . . . . . . » 308

I) La progressione dell'azione .......... 308

i7) La misura ............ . . » 309

III. Eegole particolari dell'azione. L'atteggiamento . . » 309

IV. Lafisonomia ............... 311

«* V. La pronunzia oratoria. . . . . . . . . . . » 314

VI. Il gesto ^ . . - . . . . . . . ...... 319

L'Epilogo del discorso. .... .'. ...... 328

Nulla osta.

Torino, 13 luglio 1932.

P. eegina:ldo giuliani, O. P. P. cesiao pbba, O. P.

Imprimi potest. Torino, 13 luglio 1932.'

P. F. igmazio cane, O. P. ProOTwctaié.

Nulla osta.

Torino, 17 £«gKo 1932.

P. ceslao pesa, O. P. Eev. del.

Imprimatur. Taurini, die 21 'lulii 1932.

Can. FBANCisoirs paueabi Prov. Gen.

 

 

 

 

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