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TORINO __ SOOIETÀEDITEIOE IK TÈ E NAZIONALE
Corso Regina Margherita, 176
Ìonno, via Garilaldi, 20. Wlano, piazza
Duomo, 16. Genova, via Petrarca, 22-24 r. Parma^ via al
Duomo, 14-22. Homa, via Due Macelli, 62-54 Catania,, vi»
Vittorio Emannele, 145-149
L'Orateur Chrétien del
Padre A. D. sebtillàkges, O. P. è edito da La
Vie Spiritnelle « Les éditions du ceri », Juvisy.
Proprietà letteraria della traduzione riservata alla
Società JSditrice Iiiternasionàle di Torino
Torino, 1932. — Tip. della Società Editrice
Internazionale (M. E. 7119)
È un compito formidabile quello di essere il banditore
della parola di Cristo: Hic venit
in testimonmm, ut testimomum perhiberet de lumine. Benderò
testimonianza alla luce! Non erat ille lux... Ma non siamo noi
stessi la luce. Bisognerebbe che la contenessimo in noi. Ora, appena che
l'apostolo del Verbo, il predicatore considera se stesso con sincerità,
è colto dal timore e dall'ansia d'interporre, tra il raggio di luce
divina e le anime che deve illuminare, lo schermo della propria
debolezza, delle proprie impotenze, di tutte le oscurità delle quali
l'uomo peccatore è impastato, o, quello che è •forse peggio, lo
schermo delle proprie qualità apparenti, troppo umane, di un falso
lustro che, come un fallace specchio, distoglie le anime dal vero sole.
Egli sa, anzi deve sapere, di non essere che un servo
inutile, uno strumento, di cui Dio non ha bisogno per conquistare i suoi
eletti. E tuttavia sa anche che egli è stato eletto per questa missione
sublime di essere il cooperatore di Dio: infatti il disegno di Dio, che
si riassume in Cristo e si compie con l'Incarnazione del Verbo, implica,
ne' suoi prolungamenti, la salute dell'uomo per mezzo dell'uomo. La
Chiesa è l'Incarnazione continuata; e la parola increata, umanizzata
già nella divina Umanità di Gesù, deve a noi pervenire ancora portata
su labbra umane. Ciò e nell'ordine naturale delle cose — nello stesso
modo che la grazia, normalmente, è anch'essa trasfusa in noi per mezzo
di segni e di parole formate e pronunziate da uomini, e da uomini come
noi. È- uno scandalo per alcuni, che non hanno compreso il mistero —
mistero di fede,
—degli abbassamenti del Verbo: Verbum caro
factum est, la Parola si fece carne. Ma per il missionario —
l'inviato — incaricato di -portare questa parola a' suoi
fratelli è un'angoscia:
perché egli sente di essere uno strumento responsabile,
responsabile perché libero, non uno strumento inerte, ma un
ministro. E
•dipende da lui il servirlo o il non servirlo, secondo
che nelle sue
. mani egli si mostrerà docile o ribelle. Oh! Dio non
ha bisogno che egli sia un grande oratore, che egli sappia soggiogare le
folle: :
questo, lo seppero fare molti oratori, che non erano
punto dei-'-' buoni pastori. E un Curato d'Ara, balbettando: « Figlioli
miei, bisogna ben amare il buon Dio », apriva i cuori alla
grazia divina ben più di molti celebri -predicatori. Ma ciò che Dio
domanda da colui che egli ha scelto, è la sua buona volontà attiva.
Bisogna sempre ritornare lì; la quantità dei doni importa poco: che
cosa . hai, o uomo, che tu non abbi ricevuto? cinque talenti? due
talenti? ._ ciò non dipende da noi. Già che conta è lo sforzo di
mettere in valore, lo sforzo di umile collaborazione; ciò che importa
è che, quando non hai ricevuto che un minimo, tu non lasci arrugginire
questo modesto tesoro, ma lo faccia fruttificare. I risultati,
intendiamo quelli che hanno valore, non necessariamente quelli che
appariscono agli sguardi degli uomini, ma quelli che il Padre vede
. nel segreto, saranno in proporzione di questa
docilità a fare corrispondere il lavoro e l'esercizio ai doni della
grazia divina, in modo da non opporre mai il minimo ostacolo di una
colpevole negligenza agl'impulsi infinitamente delicati dello Spirito.
Da ciò si vede quello che vi può essere di comune,
e quello che vi è d'immensamente differente, tra la formazione
dell'oratore profano e quella dell'oratore cristiano. Senza dubbio la
parola
i pubblica ha le sue esigenze comuni; senza dubbio le
regole generali della composizione, dell'elocuzione, dell'azione,
valgono per la cattedra come per la tribuna o per il foro; ma il fine
che si propone il predicatore è tutt'altro che quello dell'uomo
politico o dell'avvocato. Infatti quello che per lui si tratta di far
nascere nell'anima dell'uditore, non è la persuasione, ma la fede:
fides ex auditu. E siccome il fine è soprannaturale, così la
preparazione deve mettere in opera non solo le virtù acquisite,
intellettuali o morali, ma tutto, l'organismo sovreminente delle virtù
infuse e dei doni. Il Padre Sertillanges lo ha magnificamente enunziato
nelle prime
righe di questo libro: «Inaugurare 'un corso di
eloquenza, religiosa con un capitolo intitolato: La Parola di Dio, è
affermare fin dalle prime mosse che non si tratta di nulla di umano in
quanto al principale; che lo scopo è superiore ai messi e superiore
alle 'mire ordinarie dei nostri discorsi d'uomini. Si tratta sul serio
di una parola di Dio ».
Tuttavia quest'opera non è un semplice trattato
spirituale, e neppure uno studio di principii che sdegni di scendere
dalle altezze per guidare l'allievo per mano tra le mille difficoltà
pratiche che egli incontra sopra i suoi 'passi. No, tutto viene a lui
insegnato in particolare, cominciando dal meccanismo della buona
respirazione e dal governo della voce, fino alla disciplina delle -forze
intime, anzi fino alla elaborazione totale e all'ultimo atto del
discorso vivo.. In questi capitoli così pieni di succo, così ricchi di
vedute originali, di osservazioni penetranti che trattengono a lungo la
riflessione, si rileva il erutto di studi assidui, di osservazioni
attente e di una esperienza incomparabile.
Ma altri diranno i meriti tecnici di queste lezioni. In
quanto a noi, siamo felici e orgogliosi di lodare prima di tutto lo
spirito che le vivifica. Infatti è questa non solo l'opera di uno che
sa parlare in pubblico, di un artista che conosce fin ne' suoi minimi
particolari le ricchezze di questo maraviglioso strumento che è la voce
umana, di un maestro di eloquenza a cui sono familiari tutte le
condizioni del ben dire... S~o, l'autore di queste pagine . ha saputo
mettere in pratica il consiglio fondamentale che egli da al suo
discepolo in predicazione: «Tenersi perpetuamente davanti agli occhi
questa nozione di un compito spirituale, sacro, per. opposizione a un
compito d'uomo ».
Un grande scultore ci ha dato recentemente una statua di
S. Domenico, intensamente espressiva di questa funzione sovrumana
(1)-. Il Patriarca dei Predicatori tiene in mano il Vangelo secondo
S. Matteo (quello che egli preferiva), che con un gesto di una
semplicità e di una dignità ammirabile presenta aperto al mondo. Ma il
suo sguardo, rivolto « verso l'intimo », non si abbassa
punto alle cose della terra. Sembra che segua su un'altra sfera le
verità che annunzio. Contemplata aliis tradere... È la regola
(i) hbnbi chablibb.
(Poro, che a
rigore può tenere luogo di tutte le altre e che nessuna potrebbe
sostituire. Si vede- che essa si applica a tutte le pagine di questo
volume. Possa il lettore comprendere, nello stesso tempo che
l'insegnamento, la lesione dell'esempio. GÌ auguriamo che questo libro
vada nelle mani di tutti quelli che, per vocazione e per consacrazione,
sono gli araldi della Buona 'Novella. Si rivolgano essi al popolo o ai
grandi di questo mondo, ai civili o ai primitivi, essi vi troveranno il
loro profitto, se sanno leggerlo come fu scritto: « Un corso di
sacra eloquenza, si tratti del professore o dell'uditore, dev'essere da
entrambi le parti un'opera di spirito di fede ».
New-York, .10 gennaio 1931.
M..S, gillet, O. P.
Maestro Cenerate dell'Ordine dei Frati Predicatori.
]STon dovrei essere predicatore, per osar parlare della
predicazione. Io mi sento coperto di confusione, al momento di dire a
confratelli: Parlate così. Mi viene voglia di gridar loro:
Perdonatemi! dimenticatemi! soprattutto, guardatevi dal
fare come me; infatti soltanto adesso, che è troppo tardi, io so come
bisognerebbe fare.
Ma se è troppo tardi per colui che così parla, per
colui che ha dimenticato d'istruire se stesso prima d'istruire gli
altri, che importa? È ancora tempo per voi, o giovani, e perciò questo
lavoro può non essere vano.
Sotto un altro aspetto resto imbarazzato, quando penso a
un'opera come questa. A che cosa risolvermi? Bidire quello che altri
hanno detto e detto benissimo? ~Son è cosa fastidiosa? Oppure,
dire per conto mio, brevemente, quello che credo di poter
aggiungere di mia testa? Ma questo contributo eventuale è diffuso
dovunque: come produrlo senza proporre e discutere di nuovo i problemi?
A ogni modo l'opera così prodotta formerà un libro di più, e che non
dispenserà affatto dagli altri. Se ciascuno avesse fatto altrettanto,
non un volume occorrerebbe al principiante per istruirsi, ma una
biblioteca; come ci si raccapezzerebbe?
Allora, una delle due. O non si apporta niente: in tal
caso tanto vale tacere. O si spera di apportare qualche elemento utile,
e ci si trova nel caso di dire a se stesso: Bicominciamo,
— 10 —
Ma ognun cucina a modo suo; vi sono famiglie di spiriti,
e ciascun autore si rivolge alla sua; offrendo a questa famiglia
spirituale, d'accordo coi proprii antecessori, un sommario di ciò che
essa vuoi sapere, si fa opera pratica. Più tardi, cambiati i punti di
vista o i bisogni, un altro di nuovo ricomincerà.
Un ironista disse: « Non bisogna saccheggiare i proprii
predecessori, bisogna assassinarli '>: lungi da me una tale
tracotanza! Parecchi di quelli che parlarono della predicazione hanno
l'immortalità assicurata, mentre noi passiamo. Ma le loro ricchezze ci
appartengono; saccheggiarli, più che un diritto, è un dovere. Si
troveranno qui le loro massime, e con esse dei precetti, annotazioni,
suggerimenti, esempi tolti da altre discipline: prova che l'arte è una,
e che nel tracciar regole in .una delle sue branche, siamo sostenuti da
tutte, sollevandosi tosto/ un concerto di voci diverse e unanimi
per dire: È cosi.
I/e Saulohow, 15 agosto 1930.
;LIBEO I.
i ,1'11,:'
LA PAROLA DI DIO IN SE STESSA
La sua grandezza. — La sua efficacia. Le sue fonti.
— I suoi appoggi in noi.
CAPITOLO I.
TÉa Parola di Dio»
I. — Che cosa è la Parola di Dio.
Inaugurare un corso di eloquenza religiosa con un
capitolo intitolato: La Parola di Dio, è un affermare fin dalle
prime mosse che non si tratta di niente di umano in quanto al
principale; che lo scopo è superiore ai mezzi e superiore alle mire
ordinarie dei nostri discorsi d'uomini. Si tratta sul serio di una
parola di Dio.
La Parola di Dio, nel senso più elevato, è il Verbo. In
principio era il Verbo — cioè la Parola — e il Verbo era
pr-esso Dio, e il Verbo era Dio.
In un senso derivato, si potrebbe invece estendere
indefinitamente il significato di questo termine, e dire che ogni parola
vera e salutare è una parola di Dio, secondo che essa esprime, per il
giro delle cose create, il pensiero creatore. Ma tale senso è troppo
generale e non si riferisce che indirettamente al nostro oggetto. La
parola umana non è ridotta a esprimere le cose create nel loro rapporto
di verità con l'intelletto, e neppure, per mezzo della loro natura
profonda, a svelare il loro Autore:
questo Autore si è mostrato; ha parlato di se stesso e
dell'opera • sua. Vi è una Eivelazione. Per conseguenza,
chiunque esprime
—lale verità rivelate, le chiarisce, le difende,
induce a crederle e concorre così a farle agire, costui dice
eccellentemente e, questa volta, propriamente una parola di Dio.
La parola di Dio, per noi sacerdoti, è una parola
rivelata, sia direttamente, sia in ragione di connessioni più o meno
prossime e di natura diversa. Noi ripetiamo quello che abbiamo udito;
non vi aggiungiamo se non quello che può servire a manifestarla
maggiormente, a preservarla dalle opposizioni del mondo, a guadagnarle i
cuori, a sottometterle la vita, individuale e collettiva.
Per questo è necessaria una missione. Il primo
missionario della parola rivelata è Gesù Cristo. Vi furono prima i
profeti;
ma i profeti non erano che un'anticipazione di Cristo;
annun-ziavano Cristo e già comunicavano una parte del suo messaggio,
come un ambasciatore fa presentire in preliminari le intenzioni e le
decisioni ultime del suo sovrano.
La Eivelazione è una, ed è la rivelazione di Cristo.
Ogni verità è in Cristo, come ogni grazia, qualunque ne sia la forma e
qualunque ne sia il tempo; perché dalla sua pienezza noi abbiamo
ricevuto tutto, grazia sopra grazia. Onde la parola di Dio nel senso
proprio è anzitutto il Vangelo col suo annesso anteriore : l'Antico
Testamento. Ma il Vangelo ha altresì — a parte l'ispirazione — il
suo annesso posteriore, che è l'insegnamento della Chiesa in tutti i
suoi gradi, compresa la parola cristiana.
Infatti, se Cristo è il missionario per eccellenza,
l'Inviato, l'Unto, l'Angelo della Buona Novella, egli agisce a sua volta
per comunicazione. Come mio Padre Jia mandato me, così io mando voi.
Egli disse se stesso la Luce del mondo; ma disse anche: Vos estis lux
mundi; voi, miei discepoli, siete nel mio nome e collettivamente la
luce del mondo.
Dico collettivamente, perché questo potere di
rappresentazione è conferito primitivamente al gruppo organizzato dei
Dodici e alla loro successione autentica, vale a dire alla Chiesa
insegnante, alla Chiesa che è unita a Cristo per lo Spirito divino. In
tal modo che ciascun uomo portatore delle verità rivelate e dei loro
annessi utili si potrà dire portatore della parola di Dio appunto come
membro autorevole della Chiesa, come Deputato della Chiesa.
Questa delegazione del ministero che appartiene alla
Chiesa e a Cristo è l'effetto proprio dell'ordinazione. L'ordinazione
fa di noi dei subalterni in materia di parola come in tutto il resto.
— 13 —
Subalterni sacri, in quanto preposti, tra gli altri
compiti sacra- ' mentali, al sacramento della parola.
Infatti nel senso più generale di questo termine, la
parola ; cristiana è un sacramento. Lo si dimentica troppo, e ciò non
rialza il suo prestigio presso i fedeli. Essa è nell'ordine di quegli
atti che si chiamano sacramentali, riti che esprimono a modo loro
il carattere sacramentale della Chiesa. È una pia cerimonia, che ha per
scopo, come tutto il resto delle azioni religiose, di farci
accedere a Dio per mezzo di Gesù Cristo, e, a questo titolo, si
riannette naturalmente al rito centrale, che è la Messa, al sacramento
dei sacramenti, che è l'Eucaristia.
La parola santa è un servizio dell'altare. Anche qui si
tratta di transustanziazione; si tratta di cambiare le anime e di fare
degli uomini i « mèmbri di Cristo ». Per questo, si prepara nei due
casi un cibo celeste. La parola è un pane, come l'Eucaristia. È un
memoriale e un'applicazione della Passione, come la Messa. Onde S.
Paolo, predicatore, si vanta di non sapere altro che Gesù, e
Gesù crocifisso, cioè sacrificato sulla croce e sui nostri altari.
La parola santa ha per prototipo la spiegazione del
Vangelo, o l'omelia, che si fa nel corso della messa; essa prolunga
quella parte della Messa che si chiama Istruzione, e che
comprende la Profezia, l'Epistola, il Vangelo.
Tutto questo si riconosce in certe pratiche che
accompagnano la parola sacra: il testo della predica in mancanza della
lettura integrale del Vangelo; — il segno della croce al principio e l'amen
alla, fine, come dopo le orazioni; — il crocifisso del
pulpito, del palco o del tavolino da cui si predica; — il cero che si
accende in certe chiese (come a Parigi) durante la predica;
— la cotta, che è una veste di altare; — il momento
stesso in cui sovente ai predica, non fosse altro che per fare un
fervorino o un'omelia, vale a dire durante la Messa, come se la parola
facesse parte integrante del rito, come se Gesù, prima di rinnovare la
sua incarnazione sopra l'altare e nei cuori, attendesse che il suo
ministro abbia preparato la sua venuta e disposto le anime.
Anche in altri momenti, e perfino fuori della chiesa,
tutto questo resta sottinteso, qualunque sia il soggetto che si tratta,
perché il sacerdote, uomo di Dio, fa sempre la propria parte.
Quand'anche sembri che faccia della scienza, della filosofia, della
storia, della sociologia, dal momento che parla come inviato, nel nome
della Chiesa, egli non è meno l'uomo di Gesù
_ 14 —
Cristo, e di Gesù Cristo crocifisso, vale a dire
salvatore. Egli ha una missione; è una voce (vose clamantis), e
tutta la sua attività verbale è retta da queste parole della II
Epistola ai Corinzi (V, 18): Egli ci affidò il ministero della
riconciliazione... pose sulle nostre labbra la parola della
riconciliazione. Noi facciamo dunque le veci di ambasciatori di Cristo,
come se Dio stesso vi esortasse per messo nostro.
Ecco veramente la « Parola di Dio ». E per questa
ragione il predicatore, come tale, partecipa a ciò che disse il
Salvatore:
Chi ascolta voi, ascolta me; chi disprezzo voi,,
dispreiza me. San Paolo ne fa
l'applicazione formale concludendo: Colui che disprezzo {la parola
dell'apostolo} non disprezzo un uomo, ma Dio stesso (I Ihess., IV,
8).
~Soi sostituiamo il Cristo
predicatore, il Cristo del Discorso del Monte e delle parabole. Dio
scelse, tra i tempi storici, l'ora del suo Inviato. « Colui che doveva
venire » venne quando bisognava per il bene generale dell'opera. Ma
quest'opera avrebbe potuto essere o più prossima o più remota. Se
avesse coinciso con la nostra, è lui che parlerebbe e maraviglierebbe
il mondo. Dio credette meglio di farlo venire più presto: allora siamo
noi che umilmente lo sostituiamo, lo risuscitiamo, nel nostro cuore,
prima per mezzo della fede e dell'amore, poi per mezzo della nostra
parola. Noi siamo il Cristo prolungato, il Cristo dei nostri
contemporanei, il Cristo risorto e che non muore più, in grazia
della perpetuità della Chiesa e del ministero, come i profeti erano il
Cristo anticipato. Per mezzo degli uni e per mezzo degli altri, Cristo
si estende a tutte le età e si propone a tutti gli uomini. È come
un'ondata di luce e di grazia che scorre per trascinarci tutti. Di modo
che l'umile predicatore cattolico si deve sentire sospinto addietro
dalla Chiesa universale, come un'onda da tutto il mare.
Ben inteso che qui si tratta, sempre, del predicatore
come tale, cioè parlante nel nome del suo potere, nei limiti del suo
potere e conforme al suo potere, cioè, anzitutto, conforme alla
verità. L'uomo che non dice la verità non può dire una parola di Dio,
egli è uscito dalla corrente che è tenuto a trasmettere. L'uomo che
parla solo nel suo proprio nome, non parla neppure una parola di Dio,
come il Lacordaire che legge il suo discorso accademico o il P. Scbeil
che narra i suoi scavi di Suga. Si tratta del messaggio e del messaggero
come portatore del messaggio; non si tratta dell'uomo, e meno ancora de'
suoi errori o delle sue deviazioni.
— 15 —
Tal è la parola di Dio.
Descrivendola così, potrebbe sembrare che, sotto
pretesto d'introdiu'vici, noi usciamo dall'argomento che ei siamo
proposto, e che versiamo nella pura mistica. Ma sarebbe un'illusione.
Noi vogliamo dare le regole della parola santa: è possibile dar regole
a ciò che non si definisce'? È possibile dar regole indipendenti dalla
definizione? Tutto quello che dovremo dire dipende dalla natura del
compito del quale vogliamo guidare l'esercizio, e se qualche cosa
s'impone a noi, è appunto quello di tenerci perpetuamente sotto gli
occhi questa definizione di un compito spirituale, sacro, per
opposizione a un compito d'uomo.
Certamente vi sono regole di eloquenza in generale; ma
ciò che è generale, sotto pretesto di servire a tutti, non serve
infine a nessuno. Le generalità non sono utili se non quando sono
applicate, e non si possono applicare se non in armonia con quello a cui
si. applicano. I dati matematici applicati alla costruzione di un ponte
devono tener conto della resistenza dei materiali, del loro peso, del
coefficiente di dilatazione, della natura del terreno, ecc. Parimenti in
fatto di eloquenza. L'eloquenza del foro, l'eloquenza parlamentare,
l'eloquenza militare, l'eloquenza religiosa hanno leggi diverse. Ne
hanno delle comuni, ma che si applicano differentemente, ed è la natura
specifica di queste diverse discipline che determina quali regole devono
essere mantenute, quali eliminate, e come tutte devono essere adoperate
in vista di un fine speciale.
Ciò è vero in tutti i particolari. Noi dobbiamo sempre
ri-.cordare ciò che siamo, lo scopo che ci proponiamo, il carattere
della parola che annunziamo. Senza ciò nessuna regola adottata o
applicata rivestirà essa stessa il suo carattere, ne darà a giudicare
del suo valore, ne farà sentire il suo peso.
Supponiamo che si tratti di pronunzia. Ogni professore
ti dirà di pronunziare distintamente, posatamente, correttamente, ecc.;
ma le ragioni non sono da per tutto le stesse, e il peso del precetto se
ne risente infinitamente. Che in un tribunale le ultime file della sala
non intendano, a cagione di un difetto di pronunzia dell'oratore, è
noioso; ma se presso la pila dell'acqua santa in chiesa, un'anima,
spinta da una grazia, è venuta . a cercare una grazia supplementare,
una grazia di conversione forse, e la tua cattiva pronunzia gliela
rifiuta, vedi che differenza! Tanto più ciò avviene delle regole di un
ordine più elevato, più spirituali.
— 16 —
Tutto è sacro nella parola sacra, tutto ha una portata
sacra, e bisogna che si sappia ; bisogna che a ciò si pensi
incessantemente. È il sostegno del lavoro; è la sua ispirazione; è la
sua salvaguardia, ed è la garanzia stessa della sua bellezza. Se lo
dimentichi, potrai ottenere dei valori parziali, delle bellezze isolate;
ma queste bellezze smarrite e come estranee non faranno sì che la
parola di Dio ubbidisca alla sua estetica propria, e il bello integrale
sarà dunque frustrato.
Giulio Lemaìtre enumerava un giorno gli errori di
questa specie che egli aveva creduto di notare nei predicatori, e
additava il tono del tribuno, il fare teatrale, la composizione da
artista, lo stile da adunanza pubblica, ecc. E ancora non parlava che
della forma. Che sarebbe di una parola senza fedeltà dottrinale, senza
carità, senza umiltà, senza zelo, di una parola leggera, capricciosa,
comica, o stizzosa! Tutto ciò è deforme;
e l'armonia, che esige un saggio adattamento, non è
soddisfatta più che la stessa edificazione.
Ecco perché — mi si permetterà d'inserire qui questa
osservazione che io sottopongo al lettore dopo averla rivolta a me
stesso — un corso di sacra eloquenza dev'essere dalle due parti, si
tratti del professore o dell'uditore, un'opera di spirito di fede.
II. — La dignità e l'efficacia della Parola di Dio.
Avendo definito la Parola di Dio, abbiamo indicato
abbastanza la sua grandezza.
8. Caterina da Siena chiama il sacro ministero «
l'amministrazione del Sole »; ed è così veramente. Se il ministero
della verità per mezzo della scienza gode un tale prestigio, già è
perché Dio è dietro alla scienza. Al di là di ogni verità espressa,
si percepisce il mistero; al di là di una verità, la Verità.
La parola, qualunque ne sia l'oggetto, non deriva il suo
lustro da un'altra causa. Vi è qui senza dubbio un fatto di
sociabilità, l'interesse che noi prendiamo dell'uomo, l'incanto della
comunione degli spiriti; ma la ragione fondamentale è più alta: si
attende, e nei migliori casi si gusta come l'attrattiva di una
rivelazione, di una comunicazione di un mondo superiore. Conversatio
nostra in caelis est; la nostra conversazione, il nostro commercio
è sempre in ciclo, quando
— 17 —
il vero ci unisce alla Verità prima, al « Verbo che
porta tutti gli spiriti ».
; A più forte ragione la parola cristiana è una
dignità, poiché
: contiene i misteri propriamente detti, esprime la
rivelazione
; nel senso proprio, apporta notizie dei cicli. Novissime,
diebus istis, locutus est Deus; ai giorni nostri, di nuovo, Iddio
parla per mezzo de' suoi figliuoli adottivi, com'egli parlò per mezzo
del loro Primogenito divino. Eacconta i suoi segreti e li rac-
; ; conta per noi.
Gli oratori più sublimi sono quei che furono in un
certo momento l'organo di tutto un popolo, la voce stessa della patria,
come Demostene che pronunzia le Filippiche, Cicerone
. nel momento delle Catilinarie, Mirabeau alla
Costituente,
, O' Connel in Irlanda o Pitt in Inghilterra. Ora
l'oratore cristiano, agli occhi dello spirito di fede, è ciò in ogni
tempo, e in un modo molto più sublime; perché egli rappresenta la
patria eterna, la Chiesa di tutti i mondi e il suo Capo divino.
Con ciò, egli riveste un'autorità che la sua meschina
persona non può diminuire. Egli è un compito, una voce, e quindi, .
con le restrizioni indicate, gode dell'autorità del Dio vero e
veridico, del Dio insegnante, del Dio legislatore, del Dio che comanda.
La corrente che passa attraverso a lui è a un tempo illuminatrice e
motrice, alla sola condizione che la
[!. canalizzazione sia corretta. Nessun
bisogno di genio; basta la fedeltà. È vero che la fedeltà suppone lo
spiegamento del genio per chi ne ha, o del talento, o del sapere, o
dello zelo. Ma
; tutto ciò, per quanto sia importante, non fa altro
che allargare e moltipllcare il fatto iniziale, che è l'affidamento di
un mandato divino a un piccolo uomo, l'esercizio di un'autorità . che
domanda e ottiene il silenzio come un diritto del cielo,
f, che si esprime nel nome del cielo, che, nella
proporzione che : l'uomo esercita veramente il suo compito, fa di lui un
oracolo
.' e gli permette di rivendicare un impero sopra i
cuori.
ISou vi è forse qualcosa di commovente nel fatto di
un'assemblea che si volge a un uomo per ricevere da lui, nel nome del
Signore, una parola di vita? E se si prende la cosa nell'altro senso,
quale impressione, fa udire la propria voce che riempie una chiesa, che
aleggia sopra le teste, entra nei cuori per portarvi i pensieri divini!
Quelli che ciò non sentono sono assai incoscienti! Vi è di che coprire
di confusione l'oratore e pervaderlo del sentimento della sua
responsabilità davanti a una tale confidenza de' suoi fratelli e del
suo Dio.
2 — stt.tìttt.t a wira T.'fwfifnua »»Snf^H
-18-
Ciò si verifica, dico io, chiunque sia l'uomo; ma si
verifica pure qualunque sia l'assemblea davanti alla quale egli parla,
per quanto sia superiore umanamente o tale pretenda di essere. Tutti
sono uguali dinanzi a Dio: tutti sono uguali dinanzi alla parola di Dio.
Ai piedi della cattedra, come alla sacra Mensa, i gradi si uguagliano, e
quand'anche ciò fosse davanti a « un parterre di rè », come a Erfurt,
si direbbe nondimeno: fratelli miei, o figliuoli miei, o cristiani,
secondo l'età e le circostanze. 8. Giovanni Crisostomo non aveva
soggezione davanti a Eu-dossia, ne S. Ambrogio davanti a Teodosio.
Bossuet usava verso Luigi XIV forme delicate; ma diceva nondimeno
terribili verità al rè sole; faceva anche di più Bourdaloue; essi si
sentivano nel loro diritto, e questo diritto era riconosciuto.
Che se si parla del contenuto della parola cristiana,
l'impressione di grandezza si conferma. La parola di Dio non significa
solo la parola dalla parte di Dio; ma altresì intorno a Dio. Del resto,
i due sensi si ricongiungono. Dio parla; ma Dio, finalmente, non può
parlare che da Dio. Di che parlerà Egli? Una cosa sola conta per Lui,
perché una sola cosa conta in realtà: Lui stesso, sia personalmente,
sia nelle sue espansioni, sia nella sua storia, della quale Egli fa la
nostra. Nell'intimo, Dio dice il suo Verbo; fuori, dice l'opera del suo
amore.
È una strana e magnifica fortuna quella dell'oratore
cristiano! Egli non ha da temere, come l'avvocato, di vedersi ridotto a
contese di muro divisorio, o, come l'oratore parlamentare, a volgari
interpellanze; lui non ha da dire che grandi cose. Omnia magna quae
dicimus, dice S. Agostino (1). La « grande causa » e la « grande
seduta » sono rare; per noi sono di ogni tempo. L'assemblea è la
Messa, o una cerimonia liturgica che ne dipende: un dramma eterno. La
causa è quella del cielo, quella delle anime, in quanto cittadine del
cielo, e noi peroriamo questa causa.
Il più sublime dei discorsi profani patisce sempre
dell'esiguità del suo soggetto; si tratta di poco, per un tempo, e dopo
tutto non si ordisce che morte. Viceversa, il più semplice dei discorsi
sacri grandeggia di tutta l'immensità, dell'universalità e
dell'eternità del suo oggetto. Il cielo e la terra passeranno, ma
l'oggetto di questa parola non passerà.
E a quali sentimenti si rivolge l'uomo di Dio? che cosa
(1) De doctrina christiana, IV, 35.
— 19 —
cerca egli di muovere nei suoi uditori? Non è
l'attrattiva di un interesse immediato; non una curiosità passeggera, o
una simpatia umana per quanto nobile e larga essa sia; ma è quello che
vi è di più profondo e permanente: il senso dell'infinito, l'istinto
del bene senza limitazione d'influsso o di dominio. Si tratta della
coscienza e della voce segreta che la ispira; si tratta delle
aspirazioni incoercibili cui tutto ciò che è temporale non fa che
trastullare, o prefigurare, o servire. La parola di Dio penetra in
queste profondità, lì essa opera; infatti la parola di Dio è viva
ed efficace, e più tagliente d'una spada a due tagli, e penetrante fino
a dividere l'anima e lo spirito, e le giunture e le midolle, e
scrutatrice dei sentimenti e dei pensieri dei cuori (Hebr., IV, 12).
E naturalmente, i beni che il predicatore si propone
nel-l'aggredire così l'anima fino nelle sue profondità, nel fare
appello a' suoi sentimenti più elevati e più segreti, sono i fini
parimenti più alti e più decisivi. Si tratta della nostra salute. E,
anche per Dio, non si tratta forse del suo tutto, se si considera non la
sua vita in lui stesso, la quale non dipende da nulla, ma la vita
movimentata e come rischiosa che Egli si è data nelle creature?
Si tratta di formare dei cristiani, dei santi se è
possibile, degli eletti per l'avvenire, dei Cristi per partecipazione,
dei Cristi che ricevono, come il predicatore è un Cristo che da. Si
tratta di popolare il regno terrestre di Dio, e poi il Regno del cielo;
si tratta di secondare lo sforzo redentore e di aiutarlo a buon fine. Dei
adiutores, degli aiutanti di Dio, ecco quello che noi siamo, e in
uno stesso spirito, e secondo le stesse viste. È troppo bello! Certuni
dissero: È assurdamente bello; « la predicazione è un genere falso
», che tratta solo di chimere. Ma per lo spirito di fede, non è forse
vero che noi portiamo veramente una parola di vita, un segreto
d'immortalità, un tesoro di gioia per ogni dolore del mondo, un rimedio
per ogni malattia, un balsamo per ogni ferita, una calma per tutti i
terrori, di che colmare tutti i desideri, purché solamente ci si
ascolti e lo spirito che è in ogni uomo non sia impedito di dire allo
Spirito che anima la nostra parola: Eccomi?
Faccia Dio che noi sappiamo rendere testimonianza, e la
salute dei nostri contemporanei di buona volontà è venuta, come la
salute di tutta la terra è venuta quando apparve il Cristo col suo
messaggio. Faccia Dio che noi sappiamo prendere a corpo a corpo la
tentazione del mondo, ed essa, per
— 20 —
mezzo di Cristo, nostro mandante, è vinta. Non è forse
sfolgorante il parlare che ci si pone sulle labbra, e, con l'appoggio in
addietro di tutti i fatti che lo autorizzano, non ha forse di che
infiammare come d'incantare? « Fratello, fratello, ecco la Via, la
Verità e la Vita, ecco la salute; ecco l'indicazione; ecco la risposta.
Non vi è più oscurità, ecco la luce;
non vi è più dubbio, ecco la certezza; non vi è più
esitazione, ecco la strada; non vi è più sofferenza, vi è solo la
prova; non vi è più lavoro faticoso, ma un glorioso servizio; non vi
è più inganno, ma l'attesa; non vi è più monotonia affaticante per
il cuore annoiato delle sue inezie, vi è la speranza; non vi è più
separazione, ma un pio arrivederci. Fratello, fratello, non vi è più
morte, ma la vita, la comune, l'immortale vita che il mio messaggio ti
annunzia ». Quando sapremo noi proclamare tutto questo? Il Vangelo lo
proclama; le Epistole lo proclamano. E noi?... Per lo meno non
avremo noi il sentimento di questa grandezza?
È troppo bello, dicevo: ci si domanda se ciò può
giungere a buon fine. Ebbene, ad onta della facilità che si avrebbe a
fare qui del pessimismo, anzi dell'ironia, guardando in larghezza e
dall'alto le cose, si è davvero costretti a dire: ciò riesce! È la
predicazione evangelica che cambiò il mondo; ora quello che ha cambiato
una volta, la predicazione evangelica non deve forse cambiarlo
perpetuamente? Il mondo ha sempre bisogno di essere cambiato; perciò è
cambiato incessantemente, poiché, quantunque sia per sé « posto nella
malizia », nondimeno si fa di esso una santa società: la santa Chiesa.
È la predicazione che creò la Chiesa; è la
predicazione che nella Chiesa compie o facilita tutto quello che vi si
fa di grande, soprattutto le grandi anime. Senza la parola apostolica,
non vi sarebbero santi, mentre ve ne sono e molti; la maggior parte son
nascosti; ma il giudizio supremo li rivelerà, e quelli che sono sopra
gli altari, attestano già sufficientemente l'efficacia del santo
ministero, in cui la parola di Dio fa una parte capitale.
Vi sono uomini di Dio che hanno capovolto paesi interi.
S. Vincenzo Perreri scosse l'Europa. S. Domenico aveva fatto anche più
di lui. Son note le mara vigile compiute da un Francesco Saverio. Vi fu
prima S. Paolo. Basta un piccolo missionario per cambiare una
parrocchia, una città, a volte per molto tempo, e un buon parroco, con
prediche modeste, conserva la sua popolazione come in un reticolato che
gl'influssi perversi non arrivano facilmente a spezzare.
• • — 21 —
Bisogna ben dire che la potenza della cattedra ai giorni
nostri si sia grandemente affievolita. Molte ne sono le cause:
la fede è meno viva; l'indipendenza è più sospettosa;
la vita si è più complicata, si è laicizzata; il tempio, dove in
altri tempi si concentrava tutta la vita sociale, si trova in
concorrenza con molti edifizi profani, e la liturgia con molti
spettacoli; la voce del predicatore è coperta da molte voci. Non
importa: l'ufficio da compiere è immenso, e si compie più che non si
crede. Ciò dipende dagli uomini. « Un usignolo basta ad animare tutto
un parco addormentato » (1). Oggi si crede meno all'istituzione
ecclesiastica, ma si crede più all'uomo: spetterebbe all'uomo di far
ritornare all'istituzione.
E poi, vi sono le anime individuali. « Più di un'anima
registra in silenzio quello che la folla non intende» (2).
Quelle stesse che si credono recalcitranti e che lo
proclamano rumorosamente sono più di una volta toccate nel punto
sensibile e se ne ricorderanno: «Molti falsi sapienti, a sentirli,
ridono ad alta voce, e pensano sommessamente » (3).
Nessuna parola umana ha tali effetti. Questi non si
spiegano se non per il collegamento dei mezzi personali con una
influenza più alta, per il fatto che il predicatore è accolto, come
dice 8. Paolo, come un angelo di Dio, come un altro Cristo (Oalat.,
IV,.14), e quindi la sua parola, per il suo uditorio, non è la sua
parola solamente, ma una parola per sé irresistibile, irrefragabile,
decisiva, creatrice. È quello che dice ancora S. Paolo: Voi l'avete
accettata (la divina parola) non come parola di uomini, ma,
com'è veramente, parola di Dio, ed è essa ohe mostra la sua efficacia
in voi che credete (I Thess., II, 13).
Ed è ben naturale che il predicatore cattolico, conscio
di tanta grandezza nel compito che gli è assegnato e di tanta
fecondità possibile, ne attenda qualche cosa per sé. È un immenso
benefizio l'essere stato scelto; è non solo una gloria, ma una grazia;
infatti Iddio, armandoci per gli altri, ci arma per noi stessi.
Predicando, io predico a me stesso; preparandomi a istruire, io mi
istruisco; servendo da rimorchiatore, io cammino. « Essendo il loro
capo, bisogna che io li segua ». Il pastore segue la greggia. Però non
sempre! Molte pecorelle ci darebbero
(1) giacomo dbs gaohoss, M. eie Buifon Sur su
terrasses.
(2) viotos Hvoo, I/es Bai/mia et. lès Ombres.
(3) Ibid. '
. — 22 —
lezione. Ma infine vi è qui un vantaggio ammirabile.
ISTormal-mente l'autosuggestione del bene è una specie di fatalità per
l'apostolo; egli impressiona se stesso; è « ridotto », come un tale
spiegava piacevolmente, a pensare quello che dice. È il suo benefizio.
E non solo in un senso materiale, ma anche nello spirituale, si dice con
verità: II fuoco guadagna consumando anzitutto la sua propria materia.
.
Già Socrate, nel Gorgias, definiva la rettorica
« l'arte di persuadere la giustizia non solo alla folla, ma a se
stesso », e quando S. Paolo propone a Timoteo l'oggetto della sua
predicazione, gli scrive: « Proponendo ai fratelli questi
insegnamenti... tu salverai tè stesso e salverai quei che ti ascoltano
(I Tim., IV, 6, 16). Finalmente si cita molto sovente la
frase di Daniele (XII, 13) che, a benefizio del predicatore, esprime
così magni-fiche speranze: Quelli che avranno insegnato la giustizia
alla moltitudine brilleranno come le stelle, eternamente e sempre.
23
capitolo II, jLe fonti della Parola di Dio.
I. — La Sacra Scrittm'a.
Se si vuoi lavorare in profondità, è importantissimo
evitare la volgarità di una parola senza radici umane e soprannaturali,
tenersi costantemente al contatto delle sorgenti. In ogni arte, il
segreto della forza e della vera originalità è in questo ricorso
permanente.
Beethoven inaugurò la sua terza maniera, la più
profonda e la più personale, quando riprese la sua educazione musicale
dalle fondamenta e si mise a studiare appassionatamente le composizioni
gregoriane, il Palestrina, Bach, Haendel, mentre aveva già lavorato
tanto e confessava tanti debiti. Tutti i maestri ne fecero altrettanto.
Solo i fanfaroni e gli stolti si credono in grado di trarre tutto da se
stessi. In questo caso, si trae da sé dell'ampollosità; anzi il poco
che si da è il frutto di uno psittacismo incosciente. Ci si appaga dei
luoghi comuni, credendo di averli inventati per averli acchiappati in
aria senza rendersene conto. Non si è' qualcuno a questo prezzo. Una
vocazione intellettuale e un compito apostolico, specialmente al nostro
tempo, hanno altre esigenze.
La fonte per eccellenza della parola di Dio, è la S.
Scrittura, e prima di tutto il Vangelo, poiché questo è l'oggetto
essenziale e come il tutto della nostra predicazione. Oltre la Scrittura
in se stessa, noi troviamo nella liturgia una ripresa e un uso della
Scrittura che ce la rinnovano e l'arricchiscono al contatto dei misteri
cristiani. Inoltre troviamo il commento, lo sviluppo ideologico,
l'applicazione pratica della Scrittura e della liturgia nei Padri della
Chiesa, suoi testimoni; — in tutti i grandi uomini che seguirono e che
sono le nostre guide naturali formanti la tradizione che ci porta; —
nella vita dei santi e nella storia della Chiesa, illustrazione dei
pensieri e modello delle opere;
— nella natura, nell'arte, sua interprete; —
finalmente nella
— 24 —
nostra esperienza e generale e particolare, esperienza
degli ambienti, degli uomini, dei fatti, e, finalmente, dell'uditorio al
quale ci rivolgiamo.
Tutto ciò è, normalmente, presupposto alla nostra
azione apostolica; sono i nostri appoggi al di fuori, in attesa di
parlare dei nostri appoggi interni. È un argomento ampio, tanto che
può apparire indefinito e quindi inaccessibile; ma ognuno ne prende
quello che fa al caso suo e gli è dalla Provvidenza destinato. Esporre
tutto il tesoro non è invitare chiunque a rapirlo tutto quanto.
***
La S. Scrittura, nostra prima fonte, è come il
repertorio delle parole essenziali che noi abbiamo da pronunziare. Essa
parla la nostra lingua, la lingua di Dio, la lingua della parola di
Dio. Quello che noi potremo aggiungervi avrà il dovere di esserle
omogeneo, come un buon pezzo di collegamento al pezzo principale; ciò
dovrà formare uno stesso tutto, di uno stesso stile soprannaturale e
d'una stessa tendenza, dello stesso tono divino.
Da ciò apparisce di quale importanza sia per noi
l'averla familiare, quanto sia conveniente che i nostri discorsi vi si
riferiscano, la citino, vi facciano continue allusioni, a condizione
però che ciò resti naturale: ma perché ciò non sarebbe naturale, se
l'Autore della Scrittura accompagna la Scrittura in noi e ci anima? Lo
spirito di fede, pervadendoci intimamente dei misteri, può fare della
Scrittura la nostra ricchezza propria, il linguaggio spontaneo del
nostro pensiero religioso. Allora, come S. Bernardo, come S. Giovanni
Crisostomo, come S. Agostino, noi avremmo un parlare smaltato di fiori
biblici, impregnato del profumo biblico, senza che cessi di essere
veramente nostro, e libero, e vivo, non avendo niente di quei musaici di
testi come ne compongono certi oratori o certi autori, che sentono
d'olio e un po' di rancido.
Precisando, ci si renderebbe conto di quello che ci
offre d'incomparabile questa fonte, ed è 1° la materia principale del
discorso, fatti o dottrina; 2° il suo vocabolario proprio; 3° la sua
più ricca espressione figurata; 4° esempi di attuazione che
costituiscono per noi il migliore dei modelli e il più efficace degli
eccitamenti.
_ 2S —•
È evidente che tutti i testi fondamentali in cui si
esprime la nostra credenza, tutte le massime che reggono la vita, tutte
le testimonianze dei sentimenti di Dio a nostro riguardo, tutti i suoi
desideri e tutte le sue promesse si trovano nella Scrittura, come nella
loro edizione originale, senza interposizione umana, col vigore, coll'energia
e l'efficacia dello stato nascente. Anche se poi lo trovi dovunque, ciò
non ti dispensa dal cercarlo alla sua stessa sorgente. Alla base del
ghiacciaio, il torrente ha maggiore freschezza, la sua acqua è più
pura. La dottrina che si vede nascere, che si riceve dalla bocca dei
sacri personaggi, in circostanze che la illustrano e la commentano,
prende una forza suggestiva che non avranno ripetizioni ulteriori.
Queste formule fatidiche: Haec dicit Dominus, In ilio tempore dixit
lesus, che sono il sottinteso di ogni predicazione, si guadagna a
intenderle e a farle intendere, in vece di .sottintenderle; un effetto
di seconda mano non vale l'effetto primitivo. Le parole della Scrittura
sono delle autorità; quelle degli autori umani non sono che
testimonianze. Quanto più ci si allontana dalle fonti, tanto più ci
s'indebolisce; il senso profondo delle realtà si dissipa; la forza
originale dei sentimenti si smussa. Il Panorama dei predicatori
ha un bei darti tutti i testi, ma tè li da allo stato morto, come una
preparazione anatomica: frequenta piuttosto la vita, quella miracolosa
vita, che palpita nella Scrittura e può vivificare tutto al suo
contatto.
Un predicatore che non si tiene continuamente al
contatto della Bibbia, rassomiglia a un artista che trascura la natura,
che lavora limitandosi all'imitazione dei musei, copiando fotografie,
che dipinge e disegna di fantasia. Per l'essenziale del nostro
apostolato, che ci viene dalla Eivelazione, quello che per noi
corrisponde alla natura ispiratrice delle arti, è la parola rivelata,
è la Bibbia. Lì è il « giardino chiuso », la « fonte suggellata »
che si aprono alla meditazione e alla preghiera. 'Son fare delle
Scritture il nostro libro abituale, non ruminare costantemente gli
scritti profetici, i salmi, i libri sapienziali, i quattro Vangeli, gli
Atti e le Epistole, è condannarsi a essere un predicatore debole —
debole religiosamente, e anche letterariamente, come aggiungeremo ora.
Nulla sostituisce questo;
nel bisogno — dico nel bisogno — ciò potrebbe
sostituire ogni cosa.
Questo ben si vede nei maestri. Tutti i grandi oratori
cristiani — e i più originali come gli altri — furon nutriti della
Bibbia; i loro discorsi ne scaturiscono come il fusto dal ceppo; essi
non
— 26 —
ne sono mai lontani e a ogni istante vi si riferiscono,
come il ramo, e sul ramo ciascuna gemma, domanda del succo. La
gemma è originale, è di stagione; ma il ceppo è antico, è originale
nel senso etimologico, come quello che da l'origine, il carattere
autentico della vita, e per questo motivo esso deve sempre intervenire,
sempre essere prossimo, quand'anche fosse lontano in apparenza,
affinchè ci sia vita, e vita secondo la specie, che è per noi il
soprannaturale rivelato, proprietà essenziale dei Libri santi.
Parlavo poc'anzi dei fatti, che, con la dottrina,
formano la materia della predicazione apostolica. La religione non è
fondata unicamente su idee, ma poggia su fatti. Gli apostoli sono dei
testimoni. Per mezzo loro, siamo testimoni anche noi, è vero; perché
vi è continuità da essi a noi, in grazia della Chiesa universale, in
grazia dello Spirito, che è il grande « testimonio » e che rende
testimonianza in noi per istituzione. Ma resta nondimeno che i fatti,
oggetto della testimonianza, sono riferiti nelle Scritture, sono ivi
inscritti dallo Spirito stesso che deve poi farne testimonianza e
utilizzarli, e perciò è lì che bisogna cercarli.
La Chiesa, che ci presenta nella Scrittura il suo codice
dottrinale e la sua carta pratica, vi ci annunzia inoltre una storia, la
sua, che è quella di Dio ne' suoi rapporti con gli uomini. E sarebbe
assai strano che anche l'uomo di Dio non avesse questa storia
costantemente sotto il suo sguardo, pronto a spingersi in questa grande
corrente di vita soprannaturale che attraversa il mondo, gli uomini che
essa deve salvare.
La nostra religione ha delle radici giudaiche, e la
storia d'Israele è ricca per noi di anticipazioni, di esempi, di prove
di fatto, che permettono di nutrire i nostri discorsi di tutta una
materia reale, preferibile a tante elucubrazioni.
~Soi sappiamo che tutta la storia giudaica è un
simbolo;
ce lo dice S. Paolo: Omnia in figura contingebant
illis. Ma queste parole si prendono spesso in un senso troppo
ristretto: si pensa a tali simboli particolari, al capro emissario,
all'agnello pasquale, ad Aman e Mardocheo, al serpente di bronzo, ecc.
Ma c'è altro, ed è che tutta la parte storica dei sacri libri è una
religione in , azione, un'occasione permanente di stabilire le nostre
credenze, la nostra legge, la nostra concezione di tutta l'esistenza,
individuale e collettiva. È un'impregnazione completa, mediante il
pensiero religioso, dell'esperienza umana in tutta la sua ampiezza. Non
reca maraviglia che, come hanno fatto i Padri
, — 27 —
e i migliori dei nostri oratori, se ne possano trarre
dei suggerimenti, delle illustrazioni di una ricchezza e di una
plasticità inesauribile. Bisogna saper farne tesoro; ma quando ciò si
sa, se ne fa tutto quello che si vuole, perché l'essenziale vi è
sempre presente e l'essenziale è appunto quello che è più atto a
cambiare faccia. Il'essenza, incarnandosi, da luogo ali''individuo,
che è la cosa originale per eccellenza.
Dopo ciò, vi è la storia evangelica, che non è più
un'anticipazione, ma lo stesso nostro fondamento, in grazia
dell'Incarnazione, e che non ci presenta più figure, ma le realtà di
cui dobbiamo vivere.
La dottrina di Gesù non è tutto, e nemmeno la.,.sua
legge;
è la sua persona, che ci avvince prima di tutto; è la
sua vita e la sua morte, da cui la dottrina e la legge dipendono: Ego
sum via, veritas et vita: Ego, io, è il principio di tutto. Onde i
rapporti personali con Gesù sono per noi la sorgente essenziale di
salute.
Ma non è forse un dire che i Vangeli e, di nuovo, tutta
la Bibbia in quanto che essa è piena di Gesù annunziato o prolungato,
dev'essere il vade mecum del predicatore? D o vrebb'essere quello
del cristiano: sia almeno quello del suo dottore, che è incaricato di
ricordare a tutti donde viene il cristiano, ciò .che egli è e verso
che cosa egli cammina.
Durante la guerra, senza alcuna previa intesa, ci si
mise da tutte le parti a rievocare tutta la storia della Francia.
Clo-doveo ritornò il nostro contemporaneo, e S. Luigi, e Giovanna
d'Arco, e i « grandi antenati ». Il pericolo ci ridestava al
sentimento della nostra vita, e l'istinto ci avvertiva che la vita di un
popolo è una, come l'anima sua, di modo che il ricorso alle origini e
alle epoche centrali della sua storia è per questo popolo il più
potente mezzo di vita ardente e di rigenerazione.
Anche noi, cristiani, sempre in guerra, sempre in crisi
mortale, abbiamo come storia l'Incarnazione e tutte le fasi della sua
applicazione alla vita universale; la nostra, anima comune è lo Spirito
del Salvatore. Il rappresentante della vita cristiana presso il popolo
non si può dispensare dall'essere incessantemente familiare con questi
fatti, di averli costantemente in bocca, e per questo dall'essere un
lettore insaziabile, un ruminante, oso dire, dei sacri testi.
Non occorre darsi pensiero delle ripetizioni» Gli
uditori non si stancheranno mai. La persona di Gesù è vivamente
— 28 —-
interessante. E del resto, generalmente parlando,
la potenza del fatto è così preponderante presso gli spiriti
incarnati, gli esseri d'immaginazione e di sentimento ai quali si
rivolge la parola, che ci si sarà sempre riconoscenti di sostituire le
nostre storie divine a svolgimenti astratti.
Vedi quello che avviene il Venerdì santo. Alcuni, per
evitare le ripetizioni, credono bene di presentare una tesi, in vece del
racconto atteso della Passione. La disillusione dell'uditorio è certa.
Tutti, anche i filosofi, se ve ne sono, vogliono Vedere svolgersi il
dramma: la misteriosa cena, la discesa nel Getsemani, e Giuda, e Malco,
e Caifa, e Filato, senza dimenticare la domestica e il gallo. Ci potrai
innestare tutto quello che vuoi; ma prima il fatto.
Evidentemente, quel giorno è speciale, ma è un
simbolo. Non solo per il Venerdì santo disse S. Paolo di non sapere che
una cosa, Gesù, e Gesù crocifisso. Bisogna sempre ritornare lì, e per
conseguenza pensarci sempre.
Sarebbe vano il dissimularsi che nel mondo l'impressione
del Vangelo si dilegua; all'ignoranza dottrinale si aggiunge
un'ignoranza o un oblio spaventoso dei fatti religiosi. A noi spetta di
farli rivivere, e, a questo fine, di viverne.
Aggiungiamo quello che ogni lettore intelligente ha già
capito da se stesso: a questo riguardo, i santi libri da sé soli non
bastano; l'autorità che ce li commenta non la pretende parimenti a un
compito esclusivo; abbiamo degli esegeti, i cui lavori offrono tesori di
materia predicabile. Per portarne solo un esempio, apri il Vangelo di
Nostro Signore Gesù Cristo del P. Lagrange, con la Sinopsi, e vi
troverai quasi a ogni riga un suggerimento da trattare, o un embrione di
svolgimento, o , d'indicazione di una prova, e il tutto da l'impressione
di un'immensa ricchezza. Il gran lavoro di triturazione delle Scritture
compiuto ai giorni nostri non può essere vano; il sacro testo ne è
rischiarato; raccostato a una folla di nozioni e di fatti, diventa per
noi più assimilabile, e per i nostri uditori che vi pensano per mezzo
nostro, sarà più nutriente.
Dicevo che nella S. Scrittura, si trova, oltre la
materia principale del discorso religioso, il suo vocabolario proprio.
Con ciò intendo le espressioni talmente adeguate che non è possibile
allontanarsene senza un'alterazione del carattere stesso dei pensieri e
dei fatti religiosi; ma voglio anche dire una certa atmosfera verbale,
un alito al quale il nostro lin-
— 29 —
guaggio è invitato a rispondere per esprimere secondo
il cielo i pensieri del cielo, per approssimare a Dio la parola di Dio.
Ciò non significa che non vi sia per noi alcuna
libertà di' espressione; la spontaneità è indispensabile a ogni
parola viva. Ma in ogni arte è richiesta l'unità di carattere. In
pittura, il colore deve rispondere al disegno e tutt'e due al soggetto.
Ora, perché le nostre espressioni religiose siano veramente consone ai
temi che trattiamo, è necessario che il suono di voce dei profeti, il
suono di voce degli apostoli, e più di tutto il suono di voce di Gesù
Cristo echeggi incessantemente al nostro orecchio. Sono queste voci che
espressero, per le prime, i pensieri e i sentimenti che dobbiamo
trasmettere; noi dobbiamo far loro eco serbando la loro tonalità, e non
compiacerci nella bizzarria di certi predicatori il cui stile
laicizzante offende tutti e non solo le anime religiose, i quali sono
soli a esserne fieri, abbastanza ingenui da non sentirne l'ironia, o, in
ogni caso, l'ingiuria dei complimenti che loro se ne fanno.
Vi è un'eredità intellettuale; per l'assidua
familiarità coi nostri antenati religiosi, noi ereditiamo della loro
anima, pur conservando la nostra; una felice impregnazione biblica ci
può comunicare nello stesso tempo, senza nuocere in alcun modo alla
nostra originalità vera, l'unzione evangelica, l'energia e la forza di
persuasione paolina e quella grandezza dello stile profetico la cui
enfasi potrebbe essere un'insidia, ma che, regolata dal gusto, concorre
alla nostra azione sollevando le anime al livello dei nostri oggetti
divini.
Ho detto in terzo luogo che la Scrittura fornisce alla
parola di Dio la sua espressione figurata più ricca. Se gli uomini di.
Dio potessero ciò dimenticare, lo ricorderebbero loro gli scrittori
profani, e segnatamente i poeti. Si è fatto un volume sulle pagine
tolte da Victor Sugo alla Bibbia, e Alfredo de Vigny, Lamartine, e prima
di loro Chateaubriand, Malherbe, Eonsard, ne eran nutriti. Si sa quello
che ne trasse Bacine 'aeWAfhalie ed Ester (1).
Anche là dove questi autori non hanno attinto nulla di
letterale, si sente che la Bibbia fu per essi una fonte d'ispirazione
maravigliosa. Era la vita come in un secondo esemplare, già assimilata
allo spirito e rivestita delle forme più potenti,
(1) I migliori scrittori e poe^i italiani non sono
secondi ai francesi nel-l'ispirarsi alla S. Bibbia. N. d. T.
— 30 —
più grandiose, più commoventi, più delicate e
soprattutto più vere. Sì, questa verità dell'espressione e della
pittura, questo realismo superiore è veramente il carattere più
eccellente e più notevole della Bibbia nel suo insieme. La Bibbia si
tiene vicinissima alla vita, perché si tiene vicinissima a Dio, e ne da
sempre la formula più esatta, qualche volta in forme ma-gnifiche, come
se si andasse a diporto tra le stelle, come se si passasse sotto tutti
gli archi delle vie lattee; altre volte allo stato nudo, terribilmente
nudo, e in quest'ultimo caso l'impressione non è meno viva.
Pascal si estasia davanti ai racconti della Passione
così tragicamente semplici, così spogli, così estranei a ogni
sensibilità apparente, a ogni collera e ogni invettiva riguardo ai
carnefici. Pare che gli autori dicano: Ecco! noi non ci sviarne! non ci
abbandoniamo a sentimenti profani! non turbiamo con grida tali
avvenimenti! È Dio che agisce, ed egli agisce da Dio;
l'eternità pone gli avvenimenti senza mescolarsi nel
loro tumulto: poniamoli con essa; dopo, noi entreremo nel tempo che se
ne serve, e allora con S. Paolo, con S. Stefano e con tutti gli apostoli
ardenti, esploderemo in commenti appassionati, in grida di ammirazione e
di tenerezza. Qui, sotto l'immediato precipitare dei fatti sovrumani,
non è punto il momento.
È questa una sublime lezione. Si possono trarre grandi
effetti da questa semplicità provvisoria, e sempre ne deve restare
qualcosa: il contatto del reale, che non bisogna soffocare sotto il
commento. La Bibbia è il breviario del reale. Ed è questo realismo
biblico che ci può meglio insegnare a dar corpo alla verità, ad
animare tutto della sua vita propria, del suo calore nativo, a
drammatizzare ciò che è drammatico, a eseguire prontamente tutti i
movimenti dell'anima, passando dall'uno all'altro con quella prestezza,
con quei vivi comportamenti dei quali lo stile profetico da l'esempio.
Vedi in Geremia, il più eloquente dei predicatori
dell'antica . legge secondo S. Agostino, se non c'è tutto quello che
occorre per riscaldarvi l'anima, comunicarle estensione, slancio,
penetrazione, ardore, suggerirle quel realismo possente che trascina nel
mondo divino tutta la creazione, quel colore che anima le linee del
pensiero e le rende tutte vibranti, come le linee gotiche, e, ripeto,
quella mobilità ammirabile che, simile a quella degli animali di
Ezechiele, trasporta lo spirito ispirato, da un'estremità
dell'orizzonte all'altra come un lampo.
8. Paolo, con meno enfasi oratoria, ha le stesse virtù
for-
— 31 —
matrici. Si riconoscono quelli che ne son nutriti. In
quanto alla sostanza, essi hanno la midolla della dottrina e quella
stretta intimità dei misteri di cui nessun autore, anche sacro, • da
una tale impressione. Come forma, hanno i movimenti dell'anima più
proprii dell'oratore cristiano.
~Son vi è dunque migliore scuola, e poiché non è
neppure una scuola, ma un patrimonio di famiglia, che noi ci possiamo
appropriare non solo senza vergogna, ma virtuosamente e con la
convenienza superiore che ho detto, quanto saremmo stolti, e ingrati, e
anche colpevoli se ce ne privassimo! Dobbiamo compenetrarcene, avere
nello spirito un tesoro di espressioni bi-bliche, immagini bibliche,
movimenti biblici, che poi avremo da adattare.
Ah! bisognerà adattarli; bisognerà assimilarseli
liberamente, vitalmente e assimilarli all'argomento di cui si tratta.
Guardati dal musaico, dalla figura di Arlecchino! Ma l'assimilazione si
farà da se stessa, se abbiamo la vita in noi, e se con noi abbiamo lo
Spirito che, dal canto suo, non si ripete, non imita servilmente,
pronunzia sempre parole vive e vivificanti, tutte nuove della sua
eternità, capace di anticipare l'avvenire nel momento in cui egli dice
una parola attuale e in cui ricorda.
A Da ultimo, la Scrittura, oltre gli elementi dogmatici,
storici e letterari che ci fornisce, ci offre esempi pratici senza
pari.' Vi possiamo trovare modelli da imitare, e, ciò che è anche,
più prezioso, riferendo visi, fare del sacro testo il nostro
allenamento, un mezzo di esposizione dei nostri pensieri, come fecero i
Padri nelle loro omelie e tanti altri dopo di essi.
Vi sono racconti, come quelli del Genesi, del libro
di Euth, del libro di Tobia, di Oiuditta, di Ester,
o quelli del Vangelo:
il cieco nato, il buon Samaritano, il pozzo di Giacobbe,
la Maddalena, il figliuoi prodigo, il ricco malvagio, ecc. Si crede
forse che la virtù di questi testi sia esaurita? Certo, a misura"
che si ripetono, un po' più d'arte è necessaria per trame partito,
almeno davanti ai delicati, ma la loro fecondità è eterna.
Vi sono pure i brani lirici. Il lirismo nell'eloquenza
tiene un larghissimo posto, e a questo riguardo trovi i tuoi modelli nei
salmi, nel cantico di Mosè (Deut., XXXIV), nel Cantico dei
cantici, in Giobbe e nei profeti, principalmente in Isaia e in
Geremia, e di preferenza, forse — non per un poeta, ma per un oratore
— Geremia, perché, se lo stile è qui meno
— 32 —
puro e il lirismo meno alato, in càmbio l'eloquenza è
più continuata, e si rende più utile, perché è meno folgorante, meno
vaticinante, meno trascendente di accento e di gesti.
Leggi i quindici primi capitoli di Geremia, segnatamente
il secondo, e saprai che cosa è l'eloquenza religiosa. Vi aggiun— .gerei
il capitolo XVI di Ezechiele, se non ci fosse oggi ragione di diffidare
di una crudità così tragica. Nessuno ne può citare, i termini; ma
come movimento, come lirismo realista e straziante, quale modello!
Nel Nuovo Testamento, il brano lirico per eccellenza e
il. tema fondamentale della sacra eloquenza, è il Discorso del Monte.
Questa è eloquenza reale, animata dalla poesia più vera, la più
ancorata nel reale, pure oltrepassandolo. Il realismo e l'idealismo sono
ivi equilibrati e resi, ciascuno, alla sua vera natura. Il realismo
senza ideale è un realismo falso;
l'idealismo campato in aria è parimenti falso; ma nulla
da Un'idea più perfetta di una realtà ideale e di una idealità reale
che il Discorso del Monte, così del resto come tutti i discorsi del
Signore. Il sentimento della vita è lì unito alle più sublimi
ispirazioni. Il più semplice linguaggio serve di veicolo ai più
profondi pensieri e a vedute le cui prospettive sono inesauribili. « II
bei latino di Cicerone, dice Guglielmo Ferrerò, diventa una balbuzie
infantile di fronte al prodigio di questa parola nuda, incurante di sé
e piena di prospettive infinite » (1). '
Si capisce che Gesù Cristo sia naturalmente sublime,
poiché tutta la sostanza del sublime è in Lui, e che egli sia
semplice, perché la sua sublimità è la sua sostanza anche prima di
quella de' suoi discorsi. Egli non ha bisogno di tormentarsi, di
appassionarsi; non ha che da aprire il suo cuore. Ma anche noi non
.avremmo che ad aprire il nostro cuore, se esso fosse pieno del suo. Per
la carità che è l'anima della parola evangelica Gesù è in noi e noi
siamo in Lui. Con ciò la sua eloquenza e le forme ..della sua eloquenza
son nostre. La parola sacra è una. Unus Deus; unum baptisma.
Del resto, per aiutarci a questo accordo, noi abbiamo
l'esempio degli apostoli; li contiene altresì il Nuovo Testamento, e
quali modelli di sacra eloquenza, tutti, ma specialmente San Paolo!
Leggi, tra gli altri passi, i capitoli X e XI della II ai Corinzi.
Cito queste pagine perché le segnalò S. Agostino,
(1) gtolielmo eebbebo, Discmrs wwe sowde, pag.
46.
Ìfuìia, da una migliore
nozione di ciò che è una eloquenza vera, munita di tutti i suoi
espedienti: la dolcezza e la veemenza, la tenerezza e l'indignazione,
l'ironia e la maestà, tutte le figure più ardite, tutti i movimenti
del pensiero e dello stile. Ciò è incomparabile, e di una
spontaneità, di una semplicità che ne formano appunto la grandezza.
Questo certamente non sente di olio! Salvo che non sia quello dello
Spirito Santo.
Io indico un tratto che non bisogna imitare, ed è il
mettere in scena la propria persona, che è così patetico in S. Paolo,
ma che non converrebbe ad altri. Le circostanze sono speciali. S. Paolo
è presso i suoi Corinzi la sola incarnazione di ciò che egli annunzia;
bisogna ben che egli acconsenta a mostrarsi, a definirsi, perfino a
farsi brillare, perché Gesù Cristo brilli altrimenti che in lontananza
e in astratto. Ma noi non siamo ridotti a tale estremo; la Chiesa è
lì; i secoli cristiani sono lì;
tutta una vita si offre ai nostri uditori, e questa
appunto bisogna mostrare. Invece di dire: « Siate miei imitatori com'io
sono imitatore di Cristo », dobbiamo dire: Siate imitatori dei santi,
com'essi furono imitatori di Cristo. A parte questi particolari che
dipendono dal buon senso e dal buon gusto, San Paolo è un esempio
oratorio unico, dopo Gesù stesso. È l'« Apostolo ». Del resto non
escludiamo gli altri apostoli. S. Agostino diceva di tutti essi,
collettivamente: « Nei luoghi dei loro discorsi in cui gli abili
scoprono dell'arte, si tratta di tali cose, che le parole che le
esprimono sembrano non già fornite da colui che parla, ma annesse alle
cose stesse, come se la sapienza uscendo dalla sua dimora, il cuore del
sapiente, si vedesse seguita, senza averla chiamata, dalla sua ancella
inseparabile, l'eloquenza » (De Doctr. cfiristiana, I, IV). }
N'olia Bibbia adunque vi è da imitare come vi è da
prendere,;
da citare, in ogni materia dogmatica o morale. E direi
che l'imitazione, valendosi dei testi, può ricavare beneficio dalla
loro potenza di eccitamento, in grazia del commento, della parafrasi,
dell'omega propriamente detta o di tutto ciò che vi partecipa nel
discorso. È questo un genere eminentemente plastico, flessibile in
tutti i sensi, lasciandoti ogni libertà di movimento . pur collocandoti
al contatto vivificante della Scrittura, appog- :
giato dalla sua autorità, fiorito delle sue immagmi,
sollevato dalle sue sublimità, animato dalla sua piacevolezza,
fortificato in quanto alla sostanza e in quanto alla forma. Talmente
che, se tu sei forte, sei moltipllcato; se sei debole, sei sostenuto; se
8 — sbbiimatobs. L'oratore cristiano.
— 34 —
sei ricco d'immaginazione e di sensibilità, le tue
potenze sono fecondate, dirette; nel caso contrario sono surrogate. Si
arricchisce la tua povertà; se non puoi contare su tè stesso, si
sostituisce a tè; voglio dire che per mezzo tuo la Scrittura trova
adito e compie la sua funzione presso i tuoi uditori, alla sola
condizione che tu abbia saputo scegliere e adattare la tua scelta al tuo
scopo apostolico. « Quanto più ti senti povero del tuo, dice S.
Agostino, tanto più conviene renderti ricco di quello che ti si offre
». La stessa Scrittura lo fa! Essa si cita da un libro all'altro; si
ripiega sopra di sé, come un'ondata che sta per ripartire. A più forte
ragione il suo discepolo, quando l'occasione gli pare buona, è invitato
a far portare la sua bar-chetta dall'onda di un gran testo, a seguirne
all'uopo la corrente, salvo 'a dare i proprii colpi di remo, per
arrivare là dove bisogna.
Eesta a dare alcune regole pratiche per un gaggio usò
della Scrittura. E la prima è senza dubbio il rispetto, non occorre
dirlo; ma un certo spirito « letterario » potrebbe farcelo
dimenticare. Noi non cerchiamo nella Scrittura delle perle per
ador-narci, voglio dire parole ad effetto, citazioni che piacciano,
curiosità da inserire in un modo più o meno riguardoso; ma ricorriamo
allo Spirito divino; quindi conviene farlo con spirito di fede, con un
sentimento di gravita, in grazia del quale noi .faremo sentire il peso
delle sacre parole, avendolo provato noi stessi.
Ciò non sarà una ragione per citare abitualmente in
latino, deplorevole mania di alcuni, procedimento puramente artificiale,
riguardo agli uditori che ignorano questa lingua e che perciò ha l'aria
di volere scioccamente abbagliare. Ciò affatica presto ed è
ingombrante. È meglio riservare il latino al testo iniziale, se si
ammette, e in qualche circostanza particolare. Essendo il latino la
lingua della Chiesa, un testo latino in capo al discorso, ti riallaccia
a lei, da con ciò alla tua parola un'impressione di autorità e di
mistero. Ma questa indicazione , non ha bisogno di essere ripetuta
indefinitamente. Nel decorso, il latino potrà ricomparire in vista di
uà effetto da produrre, di un aspetto di autenticità da procurare,
oppure perché l'idea che si rievoca o la parola che si cita sono
conosciute sotto questa forma — per lo meno dal clero. Ma moltipllcare
tali intercalari che nessuno capisce, è un errore pratico. Dico
altrettanto dei riferimenti « capitolo tale, versetto tale », che si
pos-
— 35 —
sono anche giustificare, ma il cui sfoggio è alquanto
puerile. Un tempo si amavano queste cerimonie verbali, ma oggi danno ai
nervi; gli uomini non sono più così sottomessi; gli uditorii non sono
più così pazienti, così fermi; bisogna camminare, senza ammettere
alcuna prunaia;
1/1 Seconda regola: la fedeltà. Non citare a un
dipresso, quando si pretende di riferire il testo stesso. Tradurre
esattamente, evitando controsensi che passavano in altri tempi, quando
gli studi biblici erano meno divulgati, e che, oggi, urtano. Per esempio
il famoso quoniam non cognovi litteratwam, onde si fece per molto
tempo un elogio dell'ignoranza; il per stultitiam praedicationis,
che presenta la predicazione stessa come una cosa di folle apparenza,
mentre si tratta del suo oggetto essenziale: la croce; ecc. Il P.
Bainvei, S. I., fece un'intera raccolta di questi svarioni (1). È tuo
dovere di evitarli, in ogni occasione, per l'onore della parola di Dìo
e specialmente — questa volta per sincerità — quando diamo al testo
un valore di prova. Si sa che S. Girolamo accusava Origene di
trasformare in dogmi della Chiesa, con questo procedimento, i frutti
della sua immaginazione.
•••*. In terzo luogo: la sobrietà. Evita le
filastrocche di testi posti lì per pura virtuosità, curiosità, o
pietà male intesa. Sotto l'aspetto oratorio, ogni sovraccarico è un
arresto di movimento, e riguardo al gusto, al buon senso, questi partiti
presi di citazioni senza utilità non cessano di essere un po' ridicoli.
Inoltre la sobrietà vuole che non ci perdiamo in
sottigliezze d'interpretazione. È un difetto nel quale i Padri qualche
volta sono caduti. S. Agostino, S. Ambrogio e specialmente S. Gre-gorio
non ne furono egenti. In ciò non dobbiamo imitarli. Il loro
secolo lo tollerava; il nostro vi ripugna. Là dove il senso letterale
è assai ignorato, è inutile sottilizzare; andiamo piuttosto al fondo
delle cose.
Finalmente ci guidi l'utilità, non la curiosità
storica, archeologica, letteraria. Vi è in ciò una tentazione; un
sacerdote erudito, o un artista, attingendo ai libri santi,
dimenticherebbe facilmente che egli è un apostolo, e che se è bene
provocare l'interessamento a fine di sostenere l'attenzione, bisogna
poi, e al più presto, valersi di quest'attenzione a benefizio delle
anime.
(1) Les cMàrùsens des prédicateurs. Paria,
Sethielleux.
— 36 —
Per questo, bisogna ricorrere ai testi con l'ossessione
inferiore del proprio soggetto e dell'effetto da produrre. Allora si
resta sorpresi da ciò che sorge da tutte le parti. Il testo è un
grano; l'attenzione ardente è come un sole che lo fa schiudere nel
senso stesso in cui lo guarda; lo svolgimento si presenta di per gè,
appropriato ai tuoi bisogni, perché ne è l'effetto.
S. Francesco di Sales suggerisce a questo proposito un
procedimento molto fecondo. Analizza, dice egli, le metafore
costantemente adoperate dalla Bibbia ; spesso vi scoprirai il germe di
paragoni felici, utili al tuo argomento. E ne da questo esempio. Tu
leggi nel salmo CXVIII: Via/m mandatorum tuorum cucurri cum
dilatasti, cor meum. Qual è la corsa provocata da una dilatazione,
da un gonfiamento come quello di cui parla il salmo? K"on è forse
la corsa del battello sotto il vento, quando questo gli ha gonfiato la
vela? Come dunque il soffio del vento spinge il battello verso il porto,
così lo Spirito di Dio, stimolando i nostri cuori, li fa correre nelle
vie della vita eterna. Ecco l'immagine. E se la scoperta ha avuto luogo
per la familiarità stessa del soggetto, essa fa corpo con esso, e ne .
è l'illustrazione opportuna.
In due parole, la Bibbia per il predicatore, purché
sappia servirsene, è la fonte per eccellenza, in tutti i modi. « II
parlare di un sacerdote, dice 8. Girolamo a :Nepoziano, il parlare di ^
un ministro della Chiesa dev'essere condito dal sale della Scrittura ».
Ciò conviene all'uomo di Dio nei due sensi della parola:
secondo che egli viene da Dio verso il popolo, e secondo
che ;
porta il popolo a Dio.
II. — La Liturgia;'-
Dopo la Scrittura, nostra fonte principale, dobbiamo
menzionare la liturgia, che è come una seconda Scrittura, una Bibbia
ecclesiastica, nata dall'altra in vista della preghiera e che ce ne
offre a un tempo un compendio utilitario e un allargamento.
La liturgia, come riassunto della Bibbia, presenta un
carattere d'arte che accosta la Bibbia al nostro oggetto e seconda così
l'arte della parola. Arte letteraria, che sceglie quello che vi è di
più bello nella Scrittura e vi aggiunge del suo; arte di preghiera, di
_una psicologia mirabile e di cui la predicazione non può mancare di
valersi per il suo lavoro proprio, stretta- :
mente appartenente alla preghiera, finalmente arte della
formazione delle anime, che è proprio il nostro oggetto essenziale.
— 37 —
Inoltre la liturgia allarga la Bibbia, in ciò che la
vita attuale della Chiesa vi si registra dopo la storia d'Israele e la
storia evangelica, e dirige tutta la corrente così formata verso la
nostra propria vita, la più quotidiana, la più specializzata, mirando
a' suoi varii stati, a' suoi momenti, a' suoi bisogni.
Dato quello che dicevamo della Bibbia a riguardo della
predicazione, si vede quello che si può dire della liturgia.
Rigorosamente parlando, essa potrebbe sostituire la Bibbia, se per folle
ipotesi questa si perdesse. Ad ogni modo ci presenta lo stesso ordine di
mezzi, anche meglio caratterizzati sotto certi riguardi. Essa fa sfilare
davanti a noi e offre al nostro uso tutti i misteri della fede, tutti
gli aspetti della vita cristiana, tutto il personale sacro, e prima di
tutto il centro del nostro culto e la vita della nostra vita: il Signor
nostro Gesù Cristo. È la teologia in azione, in dramma; è uno
spettacolo insegnante, una legge soccorritrice, una parola d'ordine che
trascina, col concorso reclamato e provocato di tutte le nostre facoltà
spirituali e sensibili, di tutte le nostre potenze di vita.
Io vedo tré forme, complementari l'una dell'altra,
sotto le quali la liturgia può esercitare a nostro riguardo il compito
di sorgente: 1° come oggetto di spiegazione; 2° come tesoro a cui
attingere felicemente; 3° come ispiratrice, in ragione del suo spirito.
A dispetto dell'incoscienza di certuni, la spiegazione
della liturgia è una delle funzioni più feconde e più attraenti della
parola. I fedeli vi si dilettano infinitamente, a condizione che vi
siamo affezionati noi stessi, e ne traggono un serio profitto. La vita
cristiana vi prende da se stessa una coscienza tutta rinnovata; prova la
sua grandezza; gode della sua bellezza;
va di scoperta in scoperta, quando le si mostrano tutti
i suoi collegamenti, naturali e soprannaturali, in grazia di quel
realismo maraviglioso, tutto impregnato di idealità, che la, liturgia
ci rivela incessantemente.
La liturgia ci manifesta un sistema di ampie relazioni
tra tutti gli esseri, sotto gli auspizi di Dio; essa rende da per tutto
conoscibili i nostri rapporti con Dio, e nell'insieme dei fatti che
spiega, ci segna esattamente il nostro posto, piccolo e sublime. È un
grandioso svolgimento, dove ci sentiamo a un tempo umili, in ragione del
nostro punto di partenza, delle nostre proprie forze e dei nostri passi
falsi, e grandi quanto vorremo in speranza,
— 38 —
L'uomo che ti avverte di queste cose e che le rigenera
a' tuoi occhi ti apparisce come un benefattore, e lo è. Gliene sei più
riconoscente che non di liberarti dai pensieri puramente personali. Ti
genti orgoglioso di essere insieme associato a così grandi cose, di
partecipare a così grandi ricordi, di trovare a tua disposizione tali
sorgenti di grazia, d'avere un tale assortimento di lodi e di ricorsi
per i bisogni del tuo culto e delle tue implorazioni. Fa mara viglia che
un grande artista abbia detto:
« Sublime è la Messa; Parsifal è una brutta
copia » (1); e che altri abbiano detto altrettanto del segno di croce,
delle benedizioni rituali, delle processioni, di tutto il dramma delle
azioni sacramentali, le quali tutte, in un modo o in un altro, collocano
la terra proprio sulla riva del ciclo, sotto l'azione del ciclo, e
l'anima nel cielo in contatto intimo con l'invisibile'? Vi è lì un
impulso che scuote la vita cristiana, strappandola a quell'automatismo
nemico degli atti più santi.
A questa specie di resoconto si può annettere la
spiegazione delle devozioni della Chiesa, anzitutto il Bosario, e quella
delle pie pratiche: l'orazione, l'esame di coscienza, il regolamento di
vita, la lettura spirituale, la visita al SS. Sacramento, il ritiro
mensile, il sentimento della presenza di Dio, le orazioni giaculatorie,
la preghiera in comune, ecc. Questi sono magnifici soggetti, quando si
vedono in grande, in largo, cioè tali quali sono, e l'interesse
psicologico che presentano non è solo di un ordine generale, ma mira
personalmente all'uditore e lo avvince.
La liturgia,, oltre i commenti diretti che richiede,
offre al predicatore un tesoro ricchissimo da cui può attingere
occasionalmente, sia che l'occasione venga dalla liturgia corrente, come
quando si predica sulla festa del giorno, sia che la si faccia
nascere riallacciando alla liturgia i proprii pensieri.
Predicare sulla festa del giorno, seguire passo passo la
liturgia nella propria predicazione non è sempre opportuno;
molti motivi legittimi ce ne possono distogliere, almeno
quanto al fondo del discorso. Ma farne conto più o meno è sempre
utile, e attenervisi, quando l'occasione lo permette o lo esige,
comporta sempre una grazia. Si entra così maggiormente nella corrente
cattolica; si partecipa più strettamente alla vita della Chiesa; si è
in comunione spirituale con l'universo cristiano,
(1) rodin, Les Cathédrales.
in vece di stare dentro di sé. È vero che ciò ha
sempre luogo, anche a nostro malgrado se mai, poiché la predicazione fa
parte della liturgia, che per sé è universale. Ma se ciò diventa
esplicito, per il fatto che la predicazione prende per tema la fase
liturgica corrente, è un soprappiù e bisogna che ce lo assicuriamo
appena che la circostanza lo consigli.
Fuori delle feste e del movimento liturgico della
Chiesa, nel corso d'istruzioni sulle verità della fede, sulla morale o
sui sacramenti, sarà sempre bene riferirsi alla liturgia, nella;
quale la dottrina si presenta in concreto, si trova
provata dal fatto, nel nome dell'assioma Lex orandi, lese credendi,
si arric- ' chisce dei simboli, e si organizza da se stessa attorno alla
persona di Nostro Signore, che la liturgia non perde mai di vista.
Ciò si può fare sotto forme svariatissime; la misura
dipende da mille circostanze. Quello che bisogna sapere è che vi è lì
una miniera perpetuamente aperta, tanto accessibile alle persone
semplici, in ragione del suo contenuto positivo, quanto alle menti più
colte, a cagione della poesia che se ne sprigiona e della vicinanza dei
più alti pensieri.
Quest'ultimo aspetto ci conduce al terzo uso
della liturgia, come fonte ispiratrice. Essendo poesia, nello stesso
tempo che preghiera, dottrina, stimolazione e divino contatto; essendo
tutto questo nell'unità, la liturgia, unita alla Bibbia, non può forse
alimentare il nostro entusiasmo, fornirci spirito lirico, fortificarci
col suo naturalismo superiore e co'.suoi legami con ogni vita?
La liturgia lancia continuamente attraverso a tutta
l'opera divina come grandi arpeggi, passando, in una medesima frase,
dalla creazione materiale alla storia di Dio nell'uomo e al regno di Dio
in ciclo. La natura, la vita, le stagioni, i travagli, la storia,
i sentimenti dell'anima, i pensieri e le aspirazioni collettive, tutto
vi si presenta; sono incursioni in tutti i sensi, e tutto concorre,
naturalmente, allo scopo religioso. Entrare in questo movimento, è dare
ali alla propria parola.
Spesso un inno, una prosa, una sequenza ti fornirà
tutto il movimento di un discorso, a ogni modo una ispirazione
par-ticolareggiata e uno stato di spirito che ti porta. Questo eleva il
tono del discorso e lo infiora. Questi fiori non sono fiori arti-.
ficiali; sono sbocciati nel giardino di Dio; spandono l'odore di Cristo;
sono veramente nostri.^
40
III. — I Padri della
Chiesa, i Teologi e i Maestri della sacra Eloquenza.
Accostando i Padri e i Maestri della parola cristiana,
non abbandoneremo che per metà le fonti sacre. I primi soprattutto ne
sono talmente impregnati che ci tengono al loro contatto e c'insegnano
per giunta l'uso che bisogna fame. Uomini provvidenziali per la
conservazione del deposito, tali sono ancora per il modo che c'insegnano
di farne tesoro, e non si può ammirare abbastanza che Dio abbia così
procurato alla sua Chiesa tutto quello che le era necessario, non per
esonerare l'avvenire, ma per assicurare l'efficacia dell'opera sua
adescando i suoi sforzi. Siamo stati favoriti in tutti i modi alle prime
mosse;
non abbiamo che da fare la strada.
Ma chi ricorre come dovrebbe a questo aiuto? ~Soi
preferiamo sprecare il tempo in letture d'occasione, pretese attualità
alle quali sacrifichiamo spensieratamente l'eterno presente. Tuttavia
non riconoscono forse tutti che il gruppo dei Padri della Chiesa, greci
o latini, costituiscono una pleiade magnifica, in cui tutte le sfumature
della parola umana, a servizio delle più alte concezioni dello spirito,
emergono con un maschio splendore?
In S. Cipriano, S. Basilio, S. Giovanni Crisostomo, San
Gregorio ISTazianzeno, Tertulliano, S. Girolamo, S. Ambrogio, e S.
Agostino, e più tardi S. Bernardo, si ha tutta la gamma del pensiero e
dello stile, del movimento oratorio e dello slancio apostolico, come mai
non si potranno manifestare nelle età Cristiane.
Questi uomini non dissero tutto; risposero ai bisogni
del • loro secolo e noi abbiamo da rispondere al nostro; ma ciò, non
che distaccarci da essi, è invece una garanzia per quei che vivono
nella loro familiarità. Non se ne può trarre utilità senza lavoro:
tanto meglio! Essi parlarono un linguaggio diverso dal nostro, in
circostanze diverse dalle nostre, a uditorii oggi lontani; le loro opere
sono una cava; bisogna poi tagliare il marmo;
o piuttosto vi sono statue, ma che non possono
figurare tali e quali nelle nostre costruzioni e che possono solamente
insegnarci a farne altre; tanto meglio, mio Dio, tanto meglio! Che
fortuna, che non si possano copiare, e che tuttavia sia possibile
istruirsi, e istruirsi, sotto certi riguardi, più che in qualsiasi
— 41 —
altro luogo! Infatti i Padri sono più vicini alla
natura, e per conseguenza più vicini a noi, che, per esempio, gli
oratori del secolo di Luigi XIV; essi ci opprimono meno, e, trovandosi
nelle vicinanze immediate delle sorgenti, possono insegnarci, come dice
Bossuet, «la divina arte di maneggiare le Scritture e di darsi
dell'autorità facendo parlare Dio su tutti i soggetti mediante solide e
serie applicazioni » (1).
Aggiungerò una considerazione forse un po' ironica e
che si connette a un fatto or ora deplorato. Si conoscono poco i Padri
della Chiesa: dunque là dove vi si prestano, si può prendere da essi
con gran sicurezza; adattando il linguaggio, e anche senza questo, si
avrà del nuovo a buon mercato. Ma tale non è il serio benefizio di
questa familiarità; si tratta di attaccarci alle origini, di farci «
un'anima da antenati », come fu detto a proposito della Leggenda dei
Secoli; si tratta di collegarci a ciò che abbiamo di più alto, nei
nostri oggetti di pensiero e in noi stessi, per mezzo degli uomini che
lo rappresentano eccellentemente e provvidenzialmente.
Sarebbe già un aver profittato assai il sapere
dilettarci a questo contatto. È un gran segno. Goethe diceva che un
uomo veramente ricco d'ingegno cerca istintivamente di prendere la sua
materia di pensiero o di azione cominciando dalle sorgenti, e dalla
scuola dei più grandi. « II segno di una forte vocazione è appunto
questo bisogno di familiarità coi nostri grandi predecessori » (2).
Lavorando nella loro atmosfera si ha una migliore coscienza della natura
e della dirczione del lavoro da compiere, si afferma il proprio pensiero
e si assicura al lavoro un felice svolgimento. Lo spirito individuale è
mol-tiplicato da queste risonanze lontane che a lui è lecito di
associare alla propria voce; egli non è più solo; si sente appoggiato
a una solidità secolare; l'anima antica e l'anima collettiva rispondono
alla sua, e la portata delle sue più piccole espressioni, quando le
crede giuste, gli pare garantita dall'eternità. ' Bossuet ci mette qui
in guardia contro un'obiezione che la pigrizia ci potrebbe suggerire. Si
crede che per spogliare la patrologia sotto l'aspetto di cui ci
occupiamo, ci vorrebbe un immenso lavoro. Niente affatto. Seguendo le
indicazioni dello stesso Bossuet, ci si avanzerebbe prestissimo; i
lavori patristici sono lì per guidare, ed essi stessi aggiungono alle
opere a cui
(1) bossvet, Notes sur le style et la lectwe.
(2) gobthts, Conversations wec Ecìfermann, 12
febbr, 1851.
— 42 — /
ci iniziano il loro supplemento di luce. Ci vorrà
certamente della fedeltà; ma se taluno non è capace di fedeltà, non
merita che ci inquietiamo della sua defezione; non è un intellettuale,
e non si trova al suo posto tra gli oratori cristiani.
- cóltre questi predecessori specialmente
provvidenziali, vi sono molte altre fonti da consultare, e non solo tra
gli oratori, come indicheremo parlando della cultura. Bisogna anche dire
che, generalmente parlando, gli oratori non sono le nostre fonti più
feconde. Il lavoro è troppo circoscritto, ed è meno largamente
suggestivo. Nella Somma di S. Tommaso, segnatamente nella II-II,
in cui tutta la vita morale e religiosa vede precisarsi le sue
condizioni e le sue forme, l'oratore troverà di che arricchirsi
inesauribilmente, senza provare il minimo sforzo. A ogni passo si
presentano a lui dei temi, delle divisioni perfette per lo svolgimento,
dei testi per la loro illustrazione, e siccome nulla viene presentato in
modo oratorio, così egli è libero.
Raccomanderò in modo specialissimo, tra i lavori
teologici, che sono legione, il Catechismo del Concilio di Trento,
la cui mirabile precisione è una guida, nel medesimo tempo che è una
salvaguardia. Le connessioni profonde degli elementi dogmatici sono
segnate li, come in S. Tommaso, nella maniera più evocatrice, per lo
spirito attento. Se la dottrina che predichiamo si trova prima di tutto
nella Scrittura e nei documenti della fede, segnatamente nei varii simboli,
essa viene esposta per ordine ed elaborata razionalmente dai nostri
teologi, in tal modo che il nostro insegnamento, il nostro sforzo di
apologisti e di monitori delle menti ci stabilisce sotto la loro
dipendenza.
< Gli oratori, dal canto loro, non sono più
principalmente i nostri iniziatori dottrinali, ma i nostri modelli; nel
modo con cui ciò si può insegnare, essi c'insegnano a fare un
discorso;
ci fanno vedere come s'inventa, come si compone, come si
fa lo svolgimento, come dobbiamo esprimerci. Se gli autori di un altro
genere ci possono comunicare la loro sapienza, questi influiscono sopra
di noi con la loro eloquenza.
Ed è naturale che sia così. S'impara la lingua nella
compagnia delle persone colte, le buone maniere nel mondo; perché non
s'imparerebbe l'eloquenza nel commercio dei grandi oratori? Ciò vai
meglio dei precetti, diceva S. Agostino, infatti i
— 43 —
precetti non servono che a mostrare la via, gli esempi
vi ci trascinano. L'aquilotto impara a volare sulle ali di sua
madre. Si eredita anche del volo. Salvo che l'eredità del volo non si
trasmette come quella di un fondo di commercio; è un adattamento
attivo, uno sforzo di vita; quello che noi prendiamo dev'essere
nondimeno strappato alle nostre proprie viscere;
noi prendiamo l'arte di dare alla luce, ecco tutto. Ma
dovremo ritornare su questo punto.
A chi bisogna rivolgersi? Quali maestri scegliere? —
Anzitutto i più grandi. Quando si può andare alla fonte, non si va
alla secchia. I maestri sicuri son quelli la cui gloria è consacrata e
il cui prestigio stesso, indipendentemente dal valore intrinseco, sarà
già per noi una forza. È bene mettersi al sicuro sotto un'aureola; è
già una fiaccola, e la tua immaginazione vi s'infiamma. Di più, i
grandi danno i grandi impulsi, e si ha bisogno di un grande impulso
anche per fare una piccola strada. Se non si va fin dove vanno i grandi,
almeno si andrà fino a capo di se stesso. Del resto non dimentichiamo
che i grandi, per la semplicità gemale che è m essi il colmo
dell'arte, sono generalmente i più accessibili, quelli in cui la
lezione è più netta, più solidamente contrassegnata, dunque che
colpisce di più.
Così non bisogna affidare il proprio spirito al
compagno, • o al predicatore che si ha accanto. Che una buona
indicazione ti venga da lui, positivamente o negativamente, sta bene; ma
l'uomo ardente vuole andare subito ai grandi esseri, e la sua barca
nuovissima vuole posarsi su una grande onda.
Poi non è bene moltiplicare i proprii modelli. Flaubert
diceva che la biblioteca di uno scrittore deve contenere cinque o sei
libri-sorgenti che bisogna leggere tutti i giorni. Ma non bisogna
neppure essere esclusivi. Parecchi generi, si potrebbe dire, ma pochi
uomini. Vi si guadagnerà a concentrarsi, pur facendo vibrare tutte le
proprie corde. Questi uomini si scelgano piuttosto nella propria lingua
perché la lezione sia più efficace. Suppongo che questa lingua sia
sufficientemente ricca di grandi opere; ma tal è veramente il caso
nostro. In Francia, con quattro o cinque genii, si può fare un grande
mazzo di tutte le qualità oratorie essenziali. Prendi Bossuet, e ti
offre la maestà e la forza; egli compie questo prodigio di unire la
magnificenza alla -naturalezza, anzi a una nobile popolarità. Prendi
Bourdaloue, è l'esattezza, la lucidità maravigliosa dell'esposizione e
un eccitamento logico irresistibile: un torrente
— 44 —
di luce. Con Massillon è la finezza dell'analisi e la
ricchezza della sensibilità immaginativa, donde risulta una felice
armonia verbale. Finalmente Lacordaire ha la sensibilità profonda,
viscerale; è un torrente di fuoco, ed ha inoltre lo splendore, la
fiamma di un'immaginazione ardente.
Sta lì veramente tutto il desiderabile per stimolare e
dirigere un giovane ingegno, per fomentare e sostenere un entusiasmo.
Questi genii si correggono l'uno coll'altro, e si completano. Difatti
nessun uomo è completo. A Bourdaloue manca la qualità di poeta; egli
non l'ha in nessun grado, e all'eloquenza occorre della poesia, perché
le occorre dello splendore e dell'incanto. Bourdaloue è una grande
ragione e un gran cuore; ma non sa piacere; brilla, e si direbbe che in
lui il sentimento non è ancora se non pensiero scaldato
all'incandescenza. A Massillon manca la perfezione del giudizio; egli si
lascia trascinare;
passa i limiti e sottilizza. Al Lacordaire manca non la
dottrina, come si è preteso, ma la profondità magistrale della
dottrina, che la sua natura e la sua formazione non gli fornivano. In
quanto a Bossuet, non gli manca pressoché nulla; ma forse un po' di
quel latte della tenerezza umana del quale parlò così bene. Egli non
ha raggiunto che la metà della divisa del Lacordaire: « Forte come il
diamante, tenero come una madre ».
Date queste differenze, a ciascuno conviene ricorrere
più o meno a questo o a quello secondo la sua propria sfumatura di
spirito e secondo i suoi bisogni. Con ciò non voglio dire che occorra
prendere come maestri principali quelli ai quali rassomigliamo di più.
Ciò dipende dalle circostanze. Se io temo un eccesso, non inviterò un
grand'uomo a spingermi con tutta la sua forza nel senso in cui rischio
di cadere. Un logico un po' arido che si racchiudesse in Bourdaloue non
farebbe altro che aggravare il suo vizio; vada piuttosto a cercare un
po' di fiamma presso quei che ne hanno, un po' di sensibilità là dove
essa rigurgita. Ma ciò non impedisca punto di vedere come la sua
qualità propria è sfruttata da colui che ne rappresenta la forma
geniale, e se non ne ha affatto, e ha bisogno di sviluppo in tutti i
sensi, si rivolga qua e là simultaneamente, si abbandoni alla rosa dei
venti; ne ho adesso denominati i petali,
N'on dimentichiamo di menzionare, tra i nostri modelli,
gli oratori dell'antichità. Sono i nostri modelli, perché sono i
modelli universali. Noi li raggiungiamo attraverso agli altri,
quand'anche non lo volessimo; ma un contatto diretto è altri-
— 45 —
menti fecondo. Nessun oratore ha diritto di ignorare
Demo-stene, ne Cicerone nelle loro migliori orazioni. Se quest'ultimo è
spesso fraseggiatore, è anche spesso di una eloquenza maravi-gliosa, e,
per l'ampiezza, arriva a oltrepassare Demostene, che in complesso gli è
di gran lunga superiore.
Qualsisiano i patroni oratorii ai quali ti sarai deciso
di affidarti, devi imparare a servirtene. Non occorre dirlo.
L'inesperienza è a volte assai disorientata in queste boscaglie
luminose dove non si sa quale sentiero prendere per conto proprio, ne
quale ramo cogliere.
Diciamo anzitutto che uno spirito di fede deve
presiedere alla frequentazione dei maestri. Essi sono un soccorso di
Dio, una grazia, accostarli come tali è porci in grado di valercene
come conviene, di farli concorrere al nostro scopo soprannaturale, anche
se questo scopo fosse loro estraneo, come quando si tratta di una
Catilinaria. Pagani o cristiani, i grandi maestri sono per noi dei mezzi
di Dio: riceviamoli da Dio; è lui che fece le mani feconde di
maraviglie.
Per venire al come servirsene, bisogna prima distinguere
due ipotesi. Che cosa cerchi nei tuoi autori? Pensieri, sentenze,
paragoni, brani bell'e fatti, idee di piani, o qualsiasi cosa che ti
possa servire? Oppure si tratta di formarti, o di cercare un'ispirazione
che si svolgerà poi da sé, in un libero lavoro? È cosa diversissima.
Prendiamo il primo caso. Non bisogna arrossire di
prendere dagli altri; lo fanno tutti; solamente lo fanno in un modo più
o meno velato e più o meno fecondo. Le menti veramente originali sono
rarissime e non lo sono mai del tutto. Popolarizzare la verità è
qualche cosa, per l'apostolo, ma non è necessario che la inventi. S.
Agostino giungeva fino a concedere che si può molto bene predicare
quello che un altro ha composto, se quest'altro è più capace. La
parola di Dio, diceva, è impersonale;
è il patrimonio di tutti. Questo non si può prendere
del tutto alla lettera; bisogna pensare alla giustizia e non
saccheggiare indiscretamente il prossimo; ma ciò non corre più per
maestri antichi che non hanno interessi in causa. Lì basta salvare la
saggezza, che anzitutto vuole che noi non prendiamo per pigrizia; e poi
sconsiglia di prendere dei brani o delle formule troppo facili a
identificare, celebri, e che inviterebbero gli umoristi a salutare, come
si fa di vecchie conoscenze.
— 46 —
Se si toglie da altri saggiamente, bisogna ancora far
proprio il pezzo preso, incorporarlo al proprio pensiero, prima e dopo.
Le opere della mente non si fanno per relazione. STon si è mai
dispensati dallo sforzo. Anche nel prendere dagli altri, resta il posto,
praticamente, a una grandissima originalità. In realtà, se si lavora
sul serio, non si prendon note se non per creare, e vuoi dire che a la
fine esse si eliminano, perché creare è fare dal nulla.
A tali condizioni, non aver paura di ricevere. Si riceve
tutto da Dio; tuttavia la vita è opera nostra. Il nostro giudizio
intellettuale, proprio come l'altro, cadrà sul modo come avremo
ricevuto.
Kondimeno non è questo il principale servizio che
dobbiamo chiedere ai nostri maestri. Essi si fanno volentieri nostri
prestatori; ma sono prima di tutto i nostri allenatori, « i nostri
monitori », diceva Malebranche, cioè, in vece di pensare per noi,
devono aiutarci a pensare; in vece di fornirci informazioni di seconda
mano, devono insegnarci a scoprirne; in vece di offrirsi come datori di
testi, hanno da formarci per libere creazioni. « ;Nei libri altrui io
cerco i miei pensieri », dice un contemporaneo.
Ecco i maestri, con le loro magnifiche colture:
attraversiamo i loro dominii con la vanga sulle spalle, per andare a
lavorare più lontano. Avremo veduto passando quello che essi hanno
fatto, come vi si sono adoperati: lo spiegamento delle loro forze ci
aiuterà a scoprire le nostre e a estenderle. ~Son cerchiamo di
far come loro, se non in questo che essi hanno rivolto l'anima loro
verso il vero e l'hanno servito con tutte le forze. È la loro grande
lezione, e da essa dipendono le loro lezioni particolari. Nessun modello
ha altro compito che d'invitarci a spiegare le nostre energie. Il tale
ha fatto questo: e io che cosa posso fare? Ecco la questione. « Io,
dice Maurizio Barrès, ho capito che quando ci si trova di fronte a una
mente superiore, bisogna cercare il punto di contatto che si può
prendere con lei» (1). Ciascun vivente vive del suo proprio sangue o
del proprio succo; solo i mucchi di pietre crescono per semplici
sovrapposizioni. Si eredita, è la legge, e noi lo abbiamo detto con
insistenza; ma bisogna poi sfuggire all'eredità per una parte,
(1) maubizio babkss, Mes Mémoiree, «Bévile dea
Deus Mondes», 1° ottobre,1929.
• — 47 —
a fine di arricchirla se si può e in ogni caso per
viyere una vita propria. A parità di formazione, quanto più si deve
all'eredità, tanto meno si vale.
Quando Eubens ritornò dall'Italia, abbagliato dalle sue
visioni romane e veneziane, dipinse due capolavori: La Deposizione
dalla Croce e la Elevazione della Croce della cattedrale di
Anversa. E questo lavoro procedeva da quello. Tuttavia, scrive Eugenio
Delacroix nel suo Journal (t. II, pag. 23), « non si può dire
che imitasse ».
A volte tale è il caso. Vi sono delle intelligenze
schiave, degli spiriti in prigione: costoro imitano o non fan nulla.
Piuttosto che non far nulla imitino pure! noi lo abbiamo loro permesso
largamente; ma colui che si sente una personalità deve-a se stesso e
deve a Dio di produrla; è lei che Dio attende; piccola o grande, Dio la
previde e ne compensa l'uso; con lei e con altre, egli organizza le sue
squadre di apostoli e provvede al cammino della sua Chiesa. Senza
questo, non saremmo condannati a girare sempre sul posto? E come si
farebbe questo progresso? «La pittura va di età in età declinando e
perdendosi, scrive Leonardo da Vinci, quando i pittori non hanno altro
modello che la pittura precedente ». Il modello primo e comune è la
natura per il pittore, è il vero vagheggiato in se stesso per lo
scrittore e per l'oratore. È li che sempre bisogna ritornare.
Per conseguenza, pur avendo il culto della natura dei
maestri, devi difenderti contro quelli di una certa specie. Tutti-' ti
devono istruire; nessuno ti deve soggiogare. Se lavorassi seguendoli
servilmente, prenderesti un genere artificiale, e gli stessi valori
presi non varrebbero più, perché sarebbero valori morti. Il parlare è
una vita e non può procedere che dalla vita.
Nessuna imitazione, nel senso materiale del termine! Se
tu cerchi di prendere il fare di Bossuet, sei condannato a fare del
falso Bossuet, dimenticando di fare del vero tè stesso. .Credi tu che
Bossuet abbia cercato di fare del Bossuet? Per questo sarebbe occorso
che egli si ripiegasse sopra di sé, che ; camminasse come a ritroso, e
invece era tutto teso verso le cose. Egli estraeva la verità dalle
cose. Questa estrazione dava , del Bossuet perché era Bossuet che
l'operava; quando tu sarai tu, il risultato sarà differente; ma tale
dev'essere, salvo i con-; corsi e i ravvicinamenti legittimi che abbiamo
segnato. Da' | tuoi modelli prendi anzitutto i movimenti dell'anima, gli
an-| damenti dei pensieri, gli slanci dell'immaginazione, la passione
— 48 — -
in una parola, i procedimenti etemi, non le
particolarità di superficie, che non esprimono i genii nella loro
genialità stessa e non ti fanno comunicare col loro vero lavoro.
boterò che vi è motivo di diffidare specialmente del
gran discorso classico, che si rivolge a un tempo determinatissimo ' e a
una classe sociale ridotta. È un'insidia. Il ridicolo, qui, spia
l'imitatore. Le forme andate in disuso presto s'insinuano dietro le
idee, anche quando si crede di svecchiarle in una certa misura. Ora non
bisogna togliere dai maestri se non quello che hanno di non temporale.
È per questo che essi sono maestri; altrimenti, presi in un periodo di
tempo, in un gruppo, essi ne sono schiavi, e in un altro gruppo o in un
altro periodo di tempo, non sono più adatti.
Tanto meno vorremo prendere dai nostri maestri i difetti
che una saggia critica riconosce in essi, le loro esagerazioni, le
loro mancanze di gusto, che a volte ci tentano. Non è facile resistere
all'attraùnento dei grandi; un errore ammesso da loro, apparisce per
tale fatto irreprensibile. Tuttavia c'è la verità. Piuttosto
procuriamo di completare la lezione positiva che ci danno con la
lezione negativa inclusa nei loro errori.
Vero è che a questo riguardo altri ci saranno più
profittevoli. Non dobbiamo esitare a procurarci di quando in quando
questa controprova, che è quasi indispensabile. La perfezione dei
capolavori spesso cancella le tracce del lavoro; si vedono male le vie
per le quali i maestri sono passati e quelle che hanno dovuto evitare
per giungere a questo termine. Si direbbe che giunsero lì diritto
diritto, ciò che è totalmente falso! Sarà quanto mai istruttivo il
vedere del resto i possibili passi falsi;
per mezzo delle regole violate noi gustiamo meglio le
regole seguite; per mezzo dei pericoli, la sicurezza. Tale è già il
benefizio dei manoscritti corretti dagli stessi maestri, come degli
schizzi nelle opere d'arte.
Questi tentativi di una mano che arriva alla certezza
sono eminentemente istruttivi. Si vede lì sul vivo, e meglio di quello
che si potrebbe per se stesso, quello che in un testo è da sfrondare,
da prendere tale e quale o da trasformare. È una scuola mirabile. «
L'artista spesso s'inganna nell'opera sua, scrive Léonard; se tu non lo
scopri in tè, guarda l'opera degli altri, e trarrai profitto dai loro
errori ». Forse si potrebbe prendere in questo senso un'espressione che
egli usa altrove e che sembra assai orgogliosa: « Povero discepolo, che
non supera il suo
— 49 —
maestro! ». Si supera il maestro in qualche cosa,
quando si evita un difetto in cui egli è caduto. Da ciò si vede che vi
sono preziosi soggetti di studio là dove l'imitazione non conviene:
è una delle forme della regola evangelica: non
lasciarci vincere dal male, ma volgere il male in bene.
Ancora due osservazioni di carattere pratico.
Dopo che si sono scelti i maestri, conviene scegliere
ancora, nei maestri, quello che li rappresenta meglio a nostro riguardo,
sotto il rapporto in cui li consideriamo come riostri maestri. E non è
necessario che a noi si offrano in molti esemplari;
alcune opere bene studiate bastano. Quando si domandava
a Henner perché viaggiasse così poco, rispondeva: « Io ho tutto al
Louvre ». Allo stesso Louvre, Eugenio Muntz quasi fece scoprire a lui,
pure così grande ammiratore di Baffaello, le qualità della Vergine
di Francesco I, perché fino allora egli era assorbito nello
studio della Bella Giardiniera, sua ammirazione principale. Si
può trovare una tale visione un po' stretta, ma Henner era l'uomo della
concentrazione a oltranza, quasi dell'idea fissa; ma abbiamo qui
un'indicazione preziosa.
~Soi vi troviamo illustrata la nostra ultima
osservazione:
bisogna ritornare alle proprie scelte. I maestri non
sono delle relazioni di città di acque termali; uno spirito fervente
ambisce la loro intimità, e l'assenza delle frequentazioni dissipa
l'intimità. Del rimanente, quanto più si conosce, tanto meno le,
frequentazioni hanno bisogno di essere prolungate: una pagina,, un
discorso o una parte di discorso può bastare.
Goethe rileggeva tutti gli anni qualche pezzo di
Molière, « nello stesso modo, diceva, che di quando in quando
contemplo delle incisioni dei grandi maestri italiani ». E aggiungeva:
« Dei piccoli esseri come noi non sono capaci di
conservare in sé la grandezza di simili opere; bisogna di quando in
quando ritornare ad esse per rinfrescare le nostre impressioni » (1).
IV. — La Vita dei Santi.;
Per la Scrittura, per la liturgia, per i Padri della
Chiesa,, noi siamo in contatto costante ed eminentemente formatore non
solo con la dottrina e con l'eloquenza, ma anche con la
(1) Conversatioìts avéc Eckermaan, 8 nov. 1826.
1—Sxi.TlKLt.sam. .L'oratore cristiano. ;
.,:, \
—60^-'
santità, e quindi è solo accessoriamente necessario
consacrare a quest'ultima una speciale menzione.
La vita dei santi è il Vangelo messo in pratica; è
Gesù veduto in una serie di specchi vivi che non alterano punto il suo
volto, e che tuttavia lo accostano alla nostra umanità. Inoltre essi
adattano questo alto esempio ai nostri varii modi di sentire, alle
nostre forme di vita, che essi riproducono tutte. È un gran ..vantaggio
per la parola. L'uomo ha la curiosità dell'uomo, del (caso vivo e
maraviglioso, dell'ideale vissuto sopra questa povera terra. Nessuno
sfugge all'impressione, quando gli si mostra fatto e sublime quello che
egli stesso non fa. Lo farà egli meglio d'ora innanzi? Per lo meno gli
si avrà procurato una probabilità. Predicando i santi, si spera sempre
di far santi tutti i proprii uditori; ma il semplice coraggio ha bisogno
dell'eroismo per guida, come sono i genti che stimolano il pensiero
corrente, in quei che gustano le loro lezioni.
Ai santi propriamente detti si aggiungono, per questo
oggetto, tutte le grandi anime, perfino le altre in ciò che esse
poterono avere di grande. La biografia edificante ci permette
d'illustrare le nostre idee, di appoggiare le nostre esortazioni, come
si da un allenatore al corridore che si lancia in una pista. Quello che
i santi hanno fatto mostra possibile quello che noi invochiamo e ne
provoca il desiderio. Tra il pensiero puro e il pensiero messo in
esempio, dice 8. Francesco di Sales, corre la stessa differenza che tra
la musica notata e la musica cantata. Facciamo cantare la dottrina o la
legge di Dio; offriamola « eseguita », e non solamente scritta.
Aggiungo che la vita dei santi c'istruisce sulle loro
massime, e queste sono delle perle. Quando i santi hanno scritto libri in
cui queste massime si moltipllcano e si commentano, noi vi
troviamo dei tesori che non si trovano affatto altrove, per quello che
riguarda la vita dell'anima e l'intuizione viva del soprannaturale.
•'^-"-V. — La Storia della Chiesa.
I santi sono come i fiori della Chiesa; attorno ad essi
vi è tutta una germinazione che o la Chiesa stessa, germinazione
secolare, che forma tutta una storia incastrata nella storia umana, o,
per dir meglio, identica alla storia umana, poiché;
il soprannaturale è il vero, e per conseguenza la
storia del soprannaturale è la vera storia.'
— 51 —
Anche qui vi è una sorgente per il predicatore. La
storia serve a tutto, a corroborare le dottrine, a edificare o a
terrificare le menti, a illustrare gli svolgimenti e con ciò a
suscitare o a rinnovare l'interessamento. Si amano tanto le storie! le
immaginazioni ne sono subito conquistate, e si può approfittare della
propria conquista.
Si riconosce quando un predicatore sa la stòria, quando
la sua mente non si confina nelle idee astratte o nel tempo presente. La
sua parola ha maggiore ampiezza; le sue vedute sono più nuove, appunto
perché conosce il passato; infatti il passato da risalto al presente
coi confronti che provoca. Non giudicare che alla luce dell'assoluto è
un giudicare con ristrettezza e senza esperienza.
Se si affronta la predicazione apologetica, tanto più
la storia è indispensabile, anche se non si tratta di un'apologià
storica; perché come metodo, se non come oggetto, la storia è oggi
dovunque, e se l'avversario ricorre alle sue decisioni, noi siamo certo
obbligati a seguirlo.
4-. VI. — La Natura e l'Arte.
Menzionerò ancora senza indugiarmi due fonti
accessorie:
la natura e l'arte, sua interprete. Non si dice forse
della natura che è un discorso di Dio? Come questo discorso non
influirebbe sui nostri? La natura ci fornisce dei suggerimenti, degli
esempi, dei confronti istruttivi, delle metafore. È un « vasto emporio
d'immagini », dice Baudelaire. Per giunta stimola il nostro entusiasmo
e ci pone in uno stato di sogno realista favorevolissimo al lavoro. Se
Bossuet non avesse guardato quel sorgere di luna che descrisse così
magnificamente nel Trattato della Concupiscensa, noi saremmo
privi di una pagina maravigliosa e di una grandiosa lezione. « Io mi
sono alzato durante la notte, come David, per vedere i vostri cicli, che
sono l'opera delle vostre dita... ».
La natura ha questo di mirabile che essa riposa quanto
eccita; aiuta a lavorare con gioia, con la mente fresca, al largo, e si
fa così miglior lavoro; il discorso non è « affaticato », partecipa
degli scambi naturali, delle comunicazioni spontanee, come quelle del
nostro Maestro nella Gallica, sulla riva del Lago o sul Monte.
Come dicevo, la Bibbia è a questo riguardo un modello,
— 62 —
e anche la liturgia, perfino alcuni Padri della Chiesa,
come San i Gregorio Nazianzeno; attraverso a loro e ad altri ancora, si
:,. comunica coi discorgi della creazione. Ma quello che ci viene', da
seconda mano è sempre freddo; dobbiamo soprattutto, vedervi un esempio,
e senza vietarci di prendere, all'occasione, i quello che si trova lì
bell'elaborato, impariamo a valerci noi stessi della grande fonte
ispiratrice. :
Per questo bisogna imparar a guardare, o, per dire
meglio, ^, a contemplare, il che non è la stessa cosa. Quando si guarda
un oggetto, ci si sente alla sua presenza, si fa un atto fisico o
volgarmente intellettuale; quando, invece, lo si contempla, ci ' si
sente infinitamente lontani, nel paese delle idee madri, direbbe Goethe.
Una buona notizia ti giunge come da un lontano divino, e quando si è
ricevuta una buona notizia, si lavora meglio.
Alla natura si aggiunge l'arte, che, in qualche modo, ce
la .raddoppia; procede da essa e la riproduce; l'interpreta a suo modo e
facilita così delle interpretazioni oratorie che mantengono con le sue
dei rapporti di analogia. Anche noi abbiamo da dipingere dei luoghi, da
collocare dei personaggi, da costituire delle assemblee; da costrurre,
da scolpire, da poetare, da cantare. Tutte le arti entrano in quella
della parola, special-, mente l'arte poetica, che ne comprende essa
stessa parecchie altre, e prima di tutto l'arte musicale.
Se il lirismo della Scrittura e quello della liturgia
sono i meglio appropriati ai nostri soggetti, il lirismo dei poeti
profani, che spesso si ispirano ad essa, gli procura un'estensione e un
arricchimento non trascurabile. Lì si trovano dei colori e delle forme,
vi si trova specialmente un eccitamento immaginativo che è una buona
parte della facoltà creatrice. Descartea ne' suoi famosi sogni del
novembre del 1619, acquista la certezza che l'intuizione del poeta è di
gran lunga superiore alla ragione del filosofo per fare schiudere in noi
le ispirazioni della sapienza. Un'opera poetica è sempre di natura
geniale, e non è forse questo di cui abbiamo bisogno? Una predica senza
genio, voglio dire senza questa sorta d'ispirazione celeste emanata
dalla contemplazione e dall'esperienza mistica, anche la più modesta,
scende dal suo ordine e non è più quello che un'anima cristiana ne
aspetta.
A questo stesso eccitamento felice collaborano una
seduta musicale, una visita a un tempio d'arte, un. soggiorno solitario
in una cattedrale, eco. «Facciamoci un ambiente che il sogno
— 63 —
riempie », dice Victor Hugo. Novalis esigeva un
accompagnamento musicale per la meditazione, per i trattenimenti
elevati, per la lettura. Delacroix attribuiva al Dies irae udito
dall'organo di S. Sulpizio la sua riuscita eccezionale dell'angelo che
colpisce Eliodoro, nella Ghapélle des Anges, e ai canti del Mese
di Maria la Maddalena svenuta della sua Deposizione dalla Croce a
S. Dionigi del SS. Sacramento. Del resto è riconosciuto che le
eccitazioni sonore, specialmente se sono ritmiche, sono le più
dinamiche di tutte e che hanno una fortis-sima azione sulla nostra
attività intellettuale.
BTon si tratta qui di porsi in uno stato di spirito
artificiale e insincero; si tratta di stimolare la propria sincerità,
spesso sonnolenta, di riallacciarla al sistema di ruote emotive che la
trascineranno nel suo proprio senso e le permetteranno di manifestarsi
agli altri con forza. Il nostro pieno rendimento non può essere
assicurato se non per un insieme di condizioni intcriori che l'arte, la
natura, la parola dei maestri e gli spettacoli di fede concorrono a
fornire. Ascoltiamo col medesimo orecchio il rumore del vento o
dell'onda, il canto dell'allodola, la voce di Bossuet o dell'organo, la
sinfonia di Beethoven e quella, più alta, della santa liturgia: da
tutta questa musica in cui si immergerà l'anima nostra nascerà il suo
proprio canto.
Aggiungo questo consiglio pratico di non trascurare,
quando se ne presenta l'occasione, la visita di un'officina, di un
laboratorio, di una esposizione commerciale, industriale, coloniale,
ecc. Avere un'idea delle tecniche d'ogni specie ti procurerà una
quantità d'immagini di cui ti puoi servire in molte circostanze. È la
« lezione delle cose » dei bambini proseguita nell'educazione di se
stesso. Ciò si riconnette con l'arte; è l'arte nel senso antico della
parola, e Eonsard, dichiarava di averne tratto gran vantaggio per la sua
arte poetica.
, VII. — L'Esperienza e le sue fonti.
A) la meditazione.
L'Esperienza! ecco certamente una condizione
indispensabile all'autorità e alla fecondità della nostra parola. «
L'azione intelligente, scrive Aristotile, è quella che parte
dall'intimo con la cognizione dell'ambiente dell'azione ». L'intimo,
per noi, è il nostro spirito di fede, è la nostra scienza ed è il
nostro zelo;
ma noi saremo ciò non ostante sprovvisti, se ciò è
unito all'i-
— S4 —
nesperienza. L'inesperienza fa sorridere, e colui che fa
sorridere non conta più molto. Lo spirito di fede dovrebbe senza dubbio
vedere nel predicatore Colui che solo conta; ma chi è in tal modo
impregnato di fede? Nel fatto, si rifiutano le lezioni di uno scolaro
della vita; un inesperto è buono a menare il turibolo. Ora tutti ci
prendono volentieri per gente inesperta; si crede volentieri che l'uomo
di Dio ignori facilmente le realtà di questo mondo, e molti se ne
approfittano per dichiarare che i suoi giudizi, le sue esigenze in
materie delicate e parti-colarmente onerose, non possono esser ricevuti.
È più comodo. Si ostenta di attribuire al predicatore un po' giovane
quello che in realtà viene da una sapienza secolare ed eterna, quella
della Chiesa. Fariseismo! sia pure! è per lo meno incoscienza, ma noi
abbiamo fornito il pretesto.
All'opposto, supponi che un uomo di Dio si presenti come
una specie di veggente al quale nulla sfugge; che, senza ostentare lo
studio dèi costumi, genere affettato e artificiale, parla come se
leggesse nell'anima tua, come se vivesse nell'intimo di casa tua, de'
tuoi ritrovi: quest'uomo prende tosto un'autorità, ti senti dominato,
trapassato da banda a banda, incapace di resistere alla luce .così
proiettata sul caso tuo, e pronto a subire l'influenza; rimani stupito e
vinto.
Del resto nulla suscita un così potente interessamento.
Si ama questa effrazione anonima, che t'invita a riconoscerti senza
mirarti, e t'induce a condannarti senza che ti si accusi. Se. con questo
si sente la tua carità, sei sicuro dei tuoi risultati;
la tua parola porta e trascina agli atti.
Vi è una condizione, ed è che, specialmente in certe
materie, tu sappi serbare una estrema delicatezza. L'uomo di Dio non
deve dare a pensare che egli sia familiare col mondo che descrive, che
abbia del mondo egli stesso, che l'albero della scienza del bene e del
male gli abbia dato de' suoi frutti. No; l'uomo di Dio passa nel mondo
senza mescolarvisi, come un morto che passeggia tra i vivi allo stato di
fantasma, la sua cognizione è una cognizione dall'alto, simile a quella
degli angeli e dei santi del cielo; è una cognizione di giudice e non
di partigiano, di medico, non di compagno d'infermeria o di ospedale.
Ma se vi sono riserve da fare in quanto al modo di
servirsi dell'esperienza, non ve ne sono affatto sulla sua utilità,
sulla sua necessità. L'apostolo non può prescindere da ciò che
Do-stojewsky chiamava «il còrso vivente dell'esistenza». Noi
— 65 —
dobbiamo conoscere l'uomo, conoscere gli ambienti in coi
la nostra attività si deve esercitare, farci una giusta idea dei
costumi pubblici, dei costumi speciali del nostro tempo, della nostra
nazione, delle nostre famiglie, dei nostri gruppi corporativi e degli
ambienti mondani o popolari. Dobbiamo sapere che cosa avviene dei nostri
bambini, dei nostri giovani e delle nostre giovani, come si fa
l'educazione nei varii livelli della scala sociale, quali tendenze
appariscano, quali idee, quali pregiudizi, quali passioni, quali
costumi, quali gusti e quali mode vi regnino, quali letture vi si
facciano, quali spettacoli vi si frequentino, a quali abusi ci si lasci
trascinare, con quali pretesti si coprano, quali relazioni si
mantengano, eco. Tutto ciò è necessario alla giustezza dei nostri
discorsi, alla loro portata pratica, al loro effetto sulle anime.
E non si creda che si tratti di registrare una volta per
sempre una nozione di queste cose. Sarebbe troppo facile! In un
mezzo volume, sarebbe fatto. Dostojewsky, parlando del corso vivente
dell'esistenza, intendeva di rievocare la stessa realtà, impressa in
noi per mezzo di immagini autentiche ricche di calda sostanza, aventi
forma di vita, talmente che noi siamo precisamente difesi dall'astratto,
dalle pure nozioni, che fanno il discorso debole.
Le idee generali hanno certamente del pregio; ma prima
di tutto non sono oratorie da se sole, e, anche per il pensiero puro,
non valgono se non a patto che vi si arrivi per molte vie, e riassumano
una folla di esperienze speciali, d'impressioni, d'intuizioni sensibili.
Ottenute senza difficoltà, esposte liberamente, non servono che a
ingannarci, facendoci credere che restringiamo le cose, per averne un
disegno senza ombre.
Una vera esperienza ci fa toccare il reale dietro la sua
immagine; gli da tutte le sue dimensioni, e con ciò il suo rilievo;
sostituisce con esseri di carne e d'ossa i fantasmi, e
con questo mezzo da vita al discorso, anima le parole, nutre le
proposizioni, orienta i periodi e fa che tutti i movimenti del pensiero
oratorio siano calcati sulle connessioni della realtà stessa-
Per parlare con forza, e perché il discorso abbia un
sapore umano, come dice Marziale (hominem sapit pagina nostra), bisogna
avere la vita in sé, la vita sufficientemente conquistata, assimilata,
ridotta nella nostra propria sostanza, in tal modo che sia essa che si
desta, in questa o in quella delle sue regioni — e del resto tutto il
rimanente nella prospettiva — quando noi emettiamo un'idea generale,
una di quelle idee che sono
— 56 — i
allora per noi dei frutti massicci, e che nell'uomo
senza espe/ rienza non sono che bolle di sapone. ^
Dalla vita all'idea, come dalla terra al cielo; poi,
viceverga, dal cielo alla terra e dall'idea ai fatti: tali sono le
nostre vie.
Ho detto che l'esperienza, la conoscenza degli uomini e
della vita è per la nostra parola una condizione di efficacia;
ed è così, perché, senza l'esperienza, non si può
stabilire la comunicazione tra noi e i nostri uditori, e allora, come
ottenere una riforma?
A questo riguardo, occorre evitare un'illusione
abbastanza strana, ma frequente, a cagione di quell'ossessione dell'io,
che sopprime così facilmente il di fuori. ISToi ci figuriamo di parlare
per i nostri proprii orecchi, per il nostro proprio spirito, e che tutto
vada bene se siamo soddisfatti noi, se abbiamo espresso bene quello che
pensiamo, se l'abbiamo appoggiato con prove che ci convincono, se i
sentieri che abbiamo additato sono stati da noi segnati con etichette
lusinghiere per il nostro senso della vita e del suo ideale. Ora è
possibile che tutto ciò sia estraneo ai nostri uditori, non dica nulla
al loro pensiero e urti tutte loro tendenze. Come si fa a saperlo, se
non li conosciamo?
Il discorso è una comunicazione; avendo espresso nel
miglior modo possibile il mio pensiero, io non ho ancora fatto nulla, se
questa espressione non è calcolata in modo da far germogliare lo stesso
pensiero negli altri. Io non sollevo una costruzione, ma preparo un
assalto. Si tratta di rovesciare nell'uditore la costruzione psicologica
che nuoce, di sostituirvi una com-, binazione che salva. È chiaro che
definendo a me stesso quest'arte, il pubblico deve entrare nella
definizione.
Se non so quello che passi nella testa de' miei
ascoltatori e più ancora nel loro cuore, dove sono i loro veri
ostacoli, da quali motivi dipendano le loro volontà, io sono disarmato,
rischio di parlare incessantemente accanto, e, pieno di contentezza di
me stesso, di ritirarmi avendo forse fatto del male.
Gli antichi Dottori paragonavano gli apostoli inesperti
agli atleti che battono l'aria in vece del nemico. Vi sono ancora di
quelli che battono i loro amici, o se stessi. ]STel fedro,
Plafone da a Pericle la palma dell'eloquenza — era prima di Demo-stene
— perché oltre all'elevatezza della sua mente formata dal più alto
studio, sapeva rendere le sue cognizioni efficaci per la sua profonda
esperienza delle anime. In medicina, spiega Fiatone, l'applicazione dei
rimedi suppone la conoscenza del
— 57 —
corpo da guarire. Così il codice non serve niente
all'avvocato,, se non ha studiato la causa, cioè le brighe del cliente,
non le sue.
Perché il vero e il bene non sono in possesso dei
nostri uditori? In quale proporzione mancano ad essi, sotto quale forma,
per quali lati queste anime ne differiscono, ne sono inquiete, ferite?
Quali sono i varchi dell'errore e del male in quelle società e in
quelle coscienze? ecco che cosa bisogna sapere. E questo ha una
vastissima estensione, e non si acquista nell'occasione di un discorso;
è il frutto di una lenta formazione, il risultato di una vasta ricerca
e l'effetto di una lunga abitudine di osservazione.
Di quali mezzi disponiamo per acquistare questa
esperienza? Becherò stupore a più di un lettore, dicendo che il più
efficace di tutti, e di gran lunga, benché non possa bastare, è
l'orazione o la meditazione.
Ciò sembra un paradosso. Si tratta di conoscere una
cosa esterna, e l'orazione ci concentra nell'interno: come ciò si può
combinare? L'accordo si fa in questo che, per l'orazione, il di fuori
viene nel di dentro, e viene nelle migliori condizioni per darci quello
che ci è necessario. Si fa ancora in questo che il di fuori, in
verità, è già dentro, poiché ci siamo noi, e l'orazione ci fa
scoprire le cause dei nostri moti. Kon vi sono qui profondi misteri?
tuttavia chi ci pensa come si dovrebbe?
Ho letto in qualche luogo questa bella osservazione: « 'Sok
non potè mai vedere così bene il mondo come dall'area, benché
essa fosse chiusa e fosse notte sopra la terra ». Nell'arca della
meditazione, chiusa essa pure, e anche se lasciasse in una certa notte
d'ignoranza le realtà della terra, non si ha forse giorno sopra la
natura umana, sopra gli allettamenti del bene e del male, le loro vie, i
loro progressi e i loro indietreggiamenti, le loro pause e le loro
recidive, i loro contagi, le loro opposizioni contrastanti, i loro
effetti? Dall'alto si vedono meglio gli abissi. Sollevandoci a Dio,
prendiamo dell'opera di Dio una veduta simile alla sua, una veduta
ampia, profonda, sciolta dalle nebbie della sensibilità immediata,
libera da quelle trazioni deformatrici che esercitano sopra i nostri
giudizi i movimenti passionali. « Ogni elevazione verso l'intimo,
scrive Novalis, ogni sguardo gettato dentro è nello stesso tempo uno
sguardo gettato verso il vero mondo estemo » (1).
(1) movaus, S.ragme.'nts. Stock, ed.
— 58 —
Spesso noi manchiamo di vedere il vero mondo esteriore
appunto perché vi ci troviamo mescolati, lo viviamo troppo perché ci
sia possibile scorgerlo; esso fa parte di noi, come il nostro occhio,
che noi non vediamo. La riflessione sapiente ci fa vedere il nostro
occhio: così la riflessione meditativa ci fa vedere il mondo, e noi
stessi in esso, con una veduta profetica.
Solo l'eternità conosce le cose del tempo; quanto più
vi ci si immerge, tanto più lo sguardo si affina. Le cose inaudite che
avvengono attorno a noi, che si agitano nei nostri cuori, cose che
l'incoscienza ignora, un contemplativo le indovina quando non le vede;
impara a vederle al minimo indizio; la vita generale gli appare in
qualche fatto che egli sa penetrare e in qualche essere in cui le
complessità dell'anima hanno tutte il loro riflesso.
È una grossa ingenuità il credere che il peso
dell'esperienza sia in ragione diretta del campo dell'osservazione. Ciò
del resto è vero a parità di cose; ma siccome spesso le due condizioni
si combattono e bisogna scegliere, è incomparabilmente meglio lavorare
in profondità. Una individualità, realmente penetrata, / tè ne dice
di gran lunga più che una gran quantità; essa offre un saggio di
tutto; procura lumi su tutto, come il punto istruisce sulla linea, la
foglia isolata sull'albero, una scheggia di marmo sulla cava, un raggio
furtivo sull'astro lontano. Ora quello che ci manca per appropriarci
questa ricchezza, non sono tanto nuove esperienze quanto uno spirito di
approfondimento.
'Soia. manchiamo di documenti umani! Ma non sappiamo
leggerli; i grandi osservatori lo sanno, e i santi lo sanno anche meglio
di tutti, perché essi esplorano con una piena coscienza di ciò che
cercano; perché guardano con un occhio purificato, con un occhio
semplice, con un occhio divinizzato dalla fede, e perché non guardano
solo negli altri.
Qui sta il secondo segreto. Il mondo non ha bisogno di
venire in noi, come noi non abbiamo bisogno di andare a lui, se esso vi
è nella nostra propria persona. Conoscerei è trovarlo. Quando poi lo
vedremo, sia rappresentato nei nostri ricordi, sia in se stesso, sarà
una conferma, un arricchimento in estensione e in sfumature; non sarà
più zma scoperta. L'essenziale sta lì, nel suo testo, del quale
l'esterno per noi non è mai se non una languida traduzione. In fondo,
il « mondo », sono i' nostri difetti: non vi è che da
constatarli, e noi avremo molta esperienza. Sono altresì le nostre
buone aspirazioni, i nostri
—fio-buoni voleri intermittenti, le nostre buone
qualità, da cui le disposizioni del prossimo non differiscono punto.
« Quando si ha un po' l'abitudine di leggere nel
proprio cuore, scrive Diderot, si conosce molto bene quello che avviene
nel cuore altrui ». E non è forse un uomo politico, prima giornalista,
che disse queste parole abbastanza strane, e, se sono vere, abbastanza
dimostrative: « La miglior fonte d'informazione per un giornalista, è
ancora lui stesso ». Ohe cosa non sarà dell'uomo religioso il quale,
affinchè la cognizione convenga al suo oggetto, deve qui annetterle
qualità che l'esterno non produce guari: la carità, l'umiltà, la
prudenza!
A informarsi al di fuori, ci si rischia. Eppure sapere
è necessario; ma, cercando informazioni presso Dio, in una pia
orazione, si è più tranquilli; la scienza del cuore umano non minaccia
di costarci troppo caro; anzi noi troviamo lì un rifugio, dopo i nostri
giri esterni, e prima di tutto troviamo un rimedio preventivo contro
facili contagi.
Sainte-Beuve, ne' suoi CaMers, paragona
l'esperienza a un concime che aiuta a far germogliare biade e fiori. E
aggiunge:
« La mia stalla è piena, ciò manda fuori una gran
puzza ». L'orazione disinfetta l'esperienza, la purifica come un
benefico sole. L'uomo che la pratica può andare dovunque senza perdita,
perché egli possiede l'anima sua, come l'animale dal sangue
caldo può circolare in tutti i climi senza cambiare temperatura,
perché porta il suo clima in se stesso e lo ricrea a ogni istante.
Tal è, dicevo, il segreto dei santi. Perciò sono essi
gli uomini sperimentati per eccellenza, per poco che mediante il
ministero delle anime abbiano potuto veriflcare, allargare, applicare e
vedere applicare a circostanze diverse quello che essi avevano
acquistato nel segreto. I Padri del deserto conoscevano meglio il mondo
che i mondani, i quali senza dubbio ce lo descriverebbero meglio
superficialmente, ma in fondo lo « ingoiano » e per conseguenza lo
ignorano. In Cassiano, in S. Gregorio, in San Tommaso, in S. Francesco
di Sales o nel curato d'Ars, vi è più esperienza profonda che nel La
Bochefoucauid o nel Montaigne, per quanto grandi conoscitori siano in
fatto di umanità.
I santi hanno stupende visioni dell'uomo, delle visioni
pro-fetiche, dicevo, e dove le hanno essi prese, se non, oltre al loro
ministero e in correlazione col loro ministero, in un contatto ardente
con Dio e con se stessi, in profonde orazioni? Essi si,
— 60. —
sono informati ovunque, quando hanno potuto, e noi
dobbiamo fare lo stesso; ma, ricordando ora le nostre fonti di
esperienza, non dimentichiamo che lo spirito di orazione fa sì che
tutte siano buone, sia come salvaguardia, sia come mezzo essenziale di
farne un uso proficuo.
B) la
letttjka.
Devo menzionare prima la lettura. Ne ho parlato altrove
con molti particolari (1); qui ne dirò solo poche parole.
Io professo che bisogna leggere poco, relativamente; ma
poco relativamente vuoi dire ancora molto, e ciò invita soprattutto a
leggere bene, non da stordito, o da appassionato di sensazioni
passeggere.
Nella lettura noi cerchiamo molte cose diverse,
cerchiamo istruzione, stimoli, edificazione, distrazione; ma possiamo e
dobbiamo trovarvi anche informazione, un senso esatto delle realtà e
delle persone di ogni genere, individui o gruppi, che la nostra parola
deve toccare. In grazia di questo spirito, se ce ne approfittiamo, i
giornali, le riviste, i libri eterni o i libri di attualità possono
fornirci l'esperienza del mondo. Essi la contengono; non si ha che da
trovarla, ed è lì che un'anima meditativa, formata dall'orazione, fa
vedere quello che la distingue da un'anima incerta. Tutto le giova,
perché è aperta a ciò che è di peso e perché le sue tendenze la
chiamano, perché il suo zelo apostolico va in cerca della sua materia,
inquieta de' suoi ostacoli probabili, bramosa di conquistare i suoi
mezzi.
O) le
frequentazioni.
Citerò poi le frequentazioni. Non si ha da
raccomandarle;
esse s'impongono; bisogna piuttosto imparare ad
eliminare tutte quelle che sono oziose, a scegliere, e principalmente a
farne buon uso. Dirò tuttavia agli accaniti lavoratori: pur rimanendo
ciò che siete, lasciate un posto nella vostra vita all'imprevisto e ai
passi che allargano. Non permettete che un piano di attività troppo
astratto faccia di voi un meccanico rigido e non sappia valersi delle
indicazioni della provvidenza quotidiana. I giovedì del pensiero non
sono sempre meno fé-:' condì che le sue giornate laboriose. Io
domando la parte del- ;
(1) La Vie iwtÈllectuelle, eh. VII. Édit. de La
Siwvfl 4w •feunes.
— 61 —
Filiazione attenta, dèi vagabondaggi studiosi,
delle uscite che procurano in casa il raccoglimento profondo.
In quanto alla scelta, che di solito dipende così poco
da noi, farò questa sola osservazione. Non cerchiamo unicamente le
frequentazioni che ci piacciono, gli ambienti in cui si pensa come noi.
È una tentazione; ma ne risulta una formazione troppo ristretta. Il
terreno dell'avversario ha bisogno di essere conosciuto; anzi
l'avversario può essere un. alleato in più modi;
c'istruisce, ci controlla, ci obbliga ad approfondirci.
Una riunione contradittoria è a volte una forte e felice scossa per la
nostra quiete intellettuale; ne siamo presi da vivo stupore. « Com'è
possibile!... ». Oh! sì, è possibile, e bisogna saperlo. Se noi
facciamo tesoro della lezione, il nostro apostolato diventerà più
diretto, meglio adatto al reale stato di spirito della gente, che a
volte è così lontana dal terreno ove si arrovella un predicatore
novizio. Una volta acquistato ciò che si apprende nei libri, resta da
spiare ciò che si agita nei cuori.
Dico spiare, e a bello studio uso questa parola segreta;
si giunge a sapere quello che la gente pensa, non propriamente
domandandoglielo; spesso non lo sanno essi stessi, e se le loro
dichiarazioni sono istruttive, a volte è ben più per quello che esse
rivelano d'insospettato che per quello che esse esprimono. Mi si ha un
bei dire, gettando sulla tavola una moneta gialla:
Ecco una moneta d'oro, io odo il suono e scopro la
frode. Istruirsi circa le anime è dunque osservare, non è interrogare,
fare inchiesta. Questione di attitudine interiore piuttosto che di
ricerca. Quello che ci abbisogna è da per tutto, ma a noi spetta di
vedercelo. Ci vuole un'attenzione sveglia, un certo senso di ciò che si
cela, di quella vita invisibile degli esseri, che spiega quello che vi
si vede. Fu detto dei personaggi di Edgar Poe che essi sono «
ipnotizzati da ciò che è profondo » (I): l'apostolo in cerca di
esperienza deve partecipare di questo spirito.
E gli occorre anche uno spirito di silenzio. I ciarloni
non s'istruiscono. Quello che tu avresti il prurito di dire, lo sai:
ascolta piuttosto quello che forse non sai, a cui non
pensi:
chi dirà il partito che ne potrai trarre in tale
occorrenza?
I romanzieri, i drammaturghi hanno così sempre lo
spirito nell'atto d'ingoiare, e tutto loro giova. Un incidente senza'
importanza per altri, prende per essi una portata immensa,
(1) camtllo mauciaib, tea Princes de l'Esprit.
L'Ideologie d'Edg&r Poe.
— 62 —
Come ima grande sala è riempita di luce da un piccolo
vano. La gente comune, e nelle circostanze più ordinarie, sono quelli
che li istruiscono meglio. Shakespeare si forma presso la portinaia più
ancora che presso il gran signore. Come con molta finezza osserva Amici,
« pochi individui meritano di essere ascoltati, tutti meritano di
essere considerati».
Ciò non impedisce ai grandi scrittori di esplorare
specialmente gli ambienti particolari che devono descrivere. Essi non vi
mettono sforzo; lo sforzo restringe e paralizza; ma la loro curiosità
è ardente, e costante è in essi la familiarità con lo scopo prefisso
e cercato. Donde quella ricchezza di osservazione che da ai caratteri,
ai dialoghi, alle situazioni che immaginano i grandi creatori quell'aria
di verità e di vita che è il tutto della loro arte. Noi, che dobbiamo
creare altresì a nostro modo, ricostituire il dramma della vita,
scrivere la storia o il romanzo delle anime, non possiamo dispensarci da
un simile sforzo.
' II mezzo per renderlo fecondo al massimo è di avere
sempre in testa alcuni progetti, abbozzi, lavori in attesa, che da se
stessi cercano il loro compimento; che senza sforzo cosciente, si
assimilano il loro ambiente, indovinano nel fatto volgare e nella parola
insignificante l'alimento d'un oscuro pensiero, il controllo di un
presentimento o un elemento di felice espressione. Non si trova se non
ciò che si cerca. Essere sempre disponibili, sempre in stato di
ricettività, ecco il gran segreto.
Aggiungi certe disposizioni morali, che io qui non
considero come obblighi di virtù, ma come mezzi dell'esperienza. Noi
siamo molto più ricettivi quando abbiamo rimosso i partiti presi, le
preoccupazioni dell'amor proprio, le tendenze esclusive, le
sollecitudini di campana o di scuola, le passioni, di qualsiasi nome
speciale si ammantino; perché ogni passione ci chiude alla verità e
c'impedisce di vedere ciò che è davanti a noi.
Del resto l'aspetto di virtù non può parimenti essere!
estraneo. L'apostolo è tutto di Dio. Se egli osserva il cammino del
mondo, è per dirigerlo, e se nulla gli sfugge, lui stesso deve sfuggire
a tutto, per restare fedele al suo compito.
Le imprudenze, i passi poco edificanti, le letture e
relazioni pericolose non ci son necessario, checché ne pensino certuni,
per i quali la fossa non è ben conosciuta se non vi si cade. Il mondo
che abbiamo bisogno di conoscere si getta sopra di noi;
è inutile correre dietro ad esso e abbandonarci alle
sue insidie.
-eS-Se mi si permette questo gioco di parole, non sono
« le esperienze » che fanno l'esperienza, è la sagacia, è
l'atteggiamento dominatore dello spirito, che, in vece di precipitarsi
nella corrente, si tiene sul suo promontorio, in faccia al ciclo,
attaccato alle cose eterne, al contatto degli oggetti di fede. In tali
condizioni, neppure i mostri ci toccano; siamo noi, come Tobia, che li
tiriamo sopra la riva.
< D} II, contatto DEGLI UOMINI DI ESPERIENZA.
All'esperienza che si acquista personalmente si può
aggiungere quella che si guadagna al contatto degli uomini di
esperienza. Non intendo con ciò i vecchi. Un proverbio rabbinico dice a
buon diritto: « Vi sono dei vasi che sono pieni di vino vecchio, e vi
sono vasi vecchi che non hanno nemmeno vino nuovo ». Ma in qualsiasi
età, questi o quegli può esser per tè un libro vivente, una raccolta
di osservazioni e di fatti, sopra il terreno che egli ha esplorato di
più. Tu avrai comunicazione di questi beni se saprai interrogare, o
solamente ascoltare, cosa così rara! Si parla, si attende il proprio
turno di parlare; ma non si ascolta; non si riflette a quello che si
ode, e ci sfuggono mille occasioni di guadagni.
Sono gli stessi, che si arricchiscono della ricchezza
degli altri e che alla loro volta, in realtà, scopriranno la loro
propria ricchezza. Questo sforzo è di gran lunga il principale;
perché l'esperienza che consiste specialmente in una
formazione della mente, è a questo titolo essenzialmente personale;
essa si ha da riprendere sempre a ogni generazione, l'intero ciclo ne
dev'essere percorso; ma lo percorre più presto e con più fortuna, chi
sa appoggiarsi sopra gli altri. Quello che tu non hai ancora veduto e
che un altro ha veduto, costui non lo può vedere per tè e concederti
la piena efficacia di questo sguardo; ma tè lo può indicare e aiutarti
poi a comprenderlo, come un dotto suggerisce un'esperienza, come un
artista desta l'attenzione di un discepolo sull'equilibrio delle masse e
la dirczione dei movimenti in un ciclo, in una catena di montagne, in un
pannificio. La vita è il documento originale; un uomo di esperienza non
è che un documento di seconda mano e come un indice bibliografico; ma
tutti e due servono, e si sa bene che lo storico non s'immerge nei
documenti d'archivio senza cercar di sapere quello che i suoi
predecessori vi hanno veduto.
64
E) il MlI'tISTEBO STESSO.
Diciamo finalmente che è nello stesso ministero, nel
lavoro in cui è già impegnata la nostra giovane esperienza che noi
possiamo acquistarne una più grande. Fabricando ftt faber. Questo
adagio, che si applica a tutte le condizioni della parola, si
applicherà tanto più a queste che non si vedranno in noi di .quei
predicatori incoscienti, che non si curano di conoscere le popolazioni,
a cui predicano; parlano ad esse senza darsi pensiero dei loro bisogni e
ripartono senza preoccuparsi dei frutti.
Così vi sono dei professori solenni che si recano
nell'aula scolastica, sfoderano le loro note, declamano la loro orazione
e se ne vanno senza occuparsi altrimenti dei loro allievi, del livello
della loro mente, della loro comprensione, del loro progresso. Essi
rassomigliano a quegli anfitrioni di cui parla Alfonso Karr, che danno
pasti a venti franchi a testa (oggi sarebbero cento), ma non darebbero
due soldi perché ti facciano buon prò.
Un vero apostolo è più compenetrato del suo compito.
Prima di evangelizzare una popolazione, s'informa di essa, interroga i
suoi pastori, chiede delle sue tendenze e de' suoi bisogni, si prende
cura delle condizioni che egli può aver da considerare per agire sopra
di essa con prudenza e opportunità, specialmente se si tratta di
predicazione più direttamente pratica, come un corso di esercizi, una
missione. Mirando allora ad effetti di emendamento e di incitamento
impossibili a ottenersi senza una cognizione molto precisa dello scopo,
sarebbe uno stordito chi trascurasse di documentarsi circa lo stato dei
fatti.
Se invece si prende questa precauzione di saggezza,
oltre l'esperienza immediata da cui trae benefizio il lavoro attuale, si
acquista un elemento di formazione generale che, aggiunto ad altri, ci
procurerà a poco a poco un'esperienza più larga.
Quando poi saremo all'opera, se sappiamo non confinarci
in una cattedra come in una torre d'avorio, da cui non scendiamo se non
per mangiare e chiacchierare, per far visite frivole o percorrere il
paese da turisti; se noi attendiamo al confessionale e ci mettiamo a
disposizione delle anime, potremo in poco tempo acquistare la più seria
e la più profonda esperienza.
« Quello che io so delle anime, diceva il curato d'Ars,
sono esse che sono venute ad insegnarmelo ». Il confessionale — dopo
^ l'orazione — se noi lo occupiamo da veri rappresentanti di Dio,
— 68 —
ci rende specialisti del cuore umano, uomini che
conoscono l'umanità dall'interno, che sanno le vie del bene e del male,
del vero e del falso nelle povere coscienze, che vedono chiaro tutto il
vuoto e la frivolezza delle convenzioni e delle piccole o delle grandi
ipocrisie usate per fare sfoggio di ciò che non si è, per mascherare
ciò che si è.
Il mondo reale non è punto quello che apparisce; si
copre d'orpello e di maschere, un uomo di Dio sperimentato vede
attraverso a questi artifizi, ristabilisce il reale, lo libera, come il
chirurgo scopre il suo campo operatorio e si rende conto di ciò che è
a fine di sapere ciò che fa.
Questo suppone sempre lo zelo. Colui che vede nel
confessionale un soffocatelo in cui si entra all'ultimo momento, da cui
si esce il più presto possibile, dove si ascolta distrattamente, senza
darsi pensiero dei bisogni, dei pericoli, delle tentazioni, dei drammi
segreti che nasconde ogni esistenza e che egli deve curare, costui non
riceve più di quello che da; raccoglie la noia e non l'esperienza.
Devi almeno prestarti per davvero alle anime che si
affidano così a tè, entrare nel loro caso, sentirle palpitare, se
così posso dire, come un uccello nella mano. Allora, si prova al loro
contatto il sentimento della vita reale, quella che si mena in fondo ai
cuori, non sulla piazza pubblica o nei ritrovi della politica, nei
convegni, nei caffè, nei salotti, nei circoli, oppure nelle famiglie
disunite.
La vita reale si vive tra le anime e Dio, tra le anime e
i comandamenti di Dio, tra le anime e gli oggetti delle passioni che
allontanano da Dio, o dalle virtù che avvicinano a lui;
essa si vive nel segreto, prima di trarre seco gli atti
visibili. Quando si ha questa esperienza si sa tutto, perché tutto si
spiega, si lascia prevedere e può anche farsi emendare per mezzo di
questa scienza delle più intime fibre. La parola ne vivrà, e vi
attingerà, dopo l'attrattiva e la potenza della verità stessa, il
principale della sua forza.
Riassumendo, l'uomo di Dio, con tutti i mezzi a sua
disposizione, si deve sforzare di acquistare un'esperienza completa,
un'esperienza particolare del suo caso e per il suo lavoro, ma
specialmente quell'esperienza intima che non si acquista che al contatto
delle anime e di Dio, delle anime e di se stesso. Per questa ragione mi
preme di indicare una volta di più, come fonti principali
dell'esperienza apostolica, l'orazione e il confessionale, e prima di
tutto l'orazione.
5 — sbbiillanobb. L'oratore cristiano.
66
CAPITOLO III.
Gli appoggi interiori della Parola di Dio.
I.— La buona vita.
Se la parola di Dio ha una natura che la raccomanda e la
esalta ai nostri occhi, se ha delle fonti alle quali si deve ricorrere,
ha pure e soprattutto delle condizioni inferiori, senza le quali nulla
sì può attendere di fecondo, e di salutare per noi stessi. Io le
riassumo così: la buona vita; il silenzio e la solitudine, la
preghiera, unita — di nuovo — all'orazione e alla vita sacramentale.
La buona vita, si potrebbe dire che ciò va co' suoi
piedi, ed è vero; ma la sua importanza è così estrema, che, a
dispetto dell'umiliazione che si può raccogliere a parlarne, se ne ha
il dovere.
Ciò va co' suoi piedi; infatti è un'esigenza evidente
di una missione e di un'azione come quelle dell'uomo apostolico. « La
sorgente dev'essere sempre più alta della fontana », si dice:
potrebbe forse essere al di sotto? Il predicatore è un
inviato:
Dio non intende certo d'incaricarlo, senza che egli vi
abbia alcuna parte, della dispensazione dei più grandi beni; ciò non
rassomiglierebbe affatto a una sovrana bontà e a una provvidenza sempre
armonica. Ma ancora molto meno Iddio deve voler incaricare di questa
missione un nemico, un fellone. Lui nel quale la verità è vita, Lui la
cui vita è la luce degli uomini, non consentirebbe a impegnare
un uomo in quella via di falsità, di contradizione interna, che
consiste nel dire e nel non fare, nel sermoneggiare agli altri
riservando se stesso, nel rappresentare esternamente l'ideale e dentro
avere il marcio.
Il mercante di perle che non ne possiede punto, il
proverbiale calzolaio che porta le scarpe rotte, la candela che illumina
gli altri e consuma se stessa, la campana che chiama gli altri alla
chiesa ed essa non vi entra mai (S. Francesco di Sales), l'uomo che
accende un fuoco e che non vi rischiara ne vi riscalda se stesso
(Ennio), sono dei tristi simboli. Tutti pensano
— 67 —
quello che 8. Pietro disse a Dante, che gli aveva allora
definita la fede:
........ Assai bene è trascorsa
d'està moneta già la lega e il peso;
Ma dimmi se tu l'hai nella tua borsa (1).
Siamo noi i rappresentanti, e non solo le nostre parole.
Il semplice fedele rappresenta poco più che se stesso, l'uomo di Dio
rappresenta tutto il ciclo, del quale vuole divulgare il messaggio; egli
è per istituzione un personaggio sovrumano; per quanto sia e si debba
sentire umile, non può dimenticare questo compito, e se l'ha
dimenticato, cada inginocchioni!
Cicerone definisce l'oratore vvr probus dioendi
peritus: se un pagano esige la probità dall'oratore, perché
l'oratore gli sembra consacrato alla giustizia, che cosa esigerebbe egli
da colui che è consacrato alla virtù superiore del cristiano?
Nel salmo 49 c'è una apostrofe che fece un giorno
scoppiare in singhiozzi il P. Bridaine, durante una ricreazione: Perché
va' tu parlando de' miei precetti, e ti rechi alla bocca il mio patto,
mentre hai in odio la corrosione e ti getti le mie parole dietro le
spalle?
Questo è un caso estremo, e il buon P. Bridaine
ne era assai lontano; ma l'esempio di Gesù Cristo ci fa vedere che la
buona vita non è qui se non un minimo, e che, per l'apostolo, il caso
normale è quello di una santa vita. La missione di Gesù Cristo ci fa
vedere che la s'inaugura con azioni straordinarie, con un gran digiuno e
con una intensa vita intcriore: è un insegnamento. Gesù non esige da
tutti quello che fa Lui, nel grado in cui lo fa Lui; ma tutti sono
obbligati a entrare nella sua carreggiata. Anche di essi si deve poter
dire: Cepit -facere et decere. Prima fare, e poi insegnare, e se
così non si è fatto, riformarsi prima e poi esortare: ecco l'ordine;
perché il precetto, essendo una formula di azione, non tollera
facilmente che esso si esprima senza sottomettervisi; allora esso si
rivolterebbe contro il suo violatore, che si sente dire: Ex ore tuo
tè indico, serve nequam.
Questa condizione a priori, tratta dall'ordine
divino delle cose, si conferma, nell'ordine umano, con un'osservazione
psicologica elementare. Quando non si è virtuosi, parlando della
virtù, si è deboli; non si trova l'accento, o l'accento che si trova
è falso; si parla da profani nel senso tecnico della pati) Paradiso.
XXIV, 83.88.
— 68 —
rola; non si ha la visione franca, il sentimento
spontaneo e l'azione stringente. Allora tutto è ridotto, tutto si trova
contaminato da artiflzio; si esercita un mestiere, ma quel bisogno
interiore di fare scaturire la parola come una esuberanza, non si ha
più. « Darai alla tua voce l'accento della potenza, dice S. Bernardo,
se senti di esser persuaso tu stesso di ciò che vuoi persuadere agli
altri » {In Cant., Serm. IX).
Inoltre la libertà apostolica di un uomo la cui vita
non è retta si trova terribilmente intralciata. L'onore, in lui, è a
disagio. Può ancora parlare sinceramente, ma quale paralisi alla
lingua! Esprimendo quello che la sua vita contradice, le risuona
all'orecchio il proverbio: « Medico, cura tè stesso ». Non sarebbe
forse questo il segreto di certe lassezze verbali, di certe compiacenze
per lo meno negative, riguardo a ciò che si dovrebbe smascherare? Si ha
paura di darsi la zappa sui piedi, di opprimere se stesso. Ah! sia
oppresso l'uomo! se Dio vi deve trovare gloria; anche con un ritorno
tardivo, lo si può meritare; ma preserviamoci piuttosto da smatta
sventura,, e l'orrore del male ce ne tenga lontani.
Ancora un'altra cosa ci può qui sminuire, ed è
l'inesperienza delle vie di Dio in ciò che hanno alcun che di delicato
e di difficile. La competenza in queste materie — voglio dire
l'attitudine non solo a definire, ma anche a guidare, ad eccitare in
modo esperto — è figlia dell'esperienza personale. È questa una
questione d'arte, in qualche modo, e il consiglio d'arte che regge, che
rischiara praticamente, non è dell'estetica da gabinetto, ma
dell'artista. Colui che fa bene è a questo riguardo colui che sa; il
reale lo avverte delle sue vie perché egli le frequenta; consiglia
bene, perché ha ciò « nella mano », « nel sangue », vale a dire in
una immaginazione e in una sensibilità disciplinata, prossime alle
cose.
Questo c'induce ad asserire che la buona vita è
soprattutto necessaria per assicurare gli effetti della parola
cristiana. Il predicatore potente è quello che può dire, benché non
lo dica:
Siate miei imitatori come io lo sono di Cristo {I Cor.,
IV, 16);
Quello che mi avete udito dire e avete visto in me
stesso, praticatelo (Philipp., IV, 9).
Vi sono uomini che convertono presentandosi; la virtù e
la pietà che loro si attribuisce li precedono e predicano prima di
essi, per essi, in tal modo che la loro parola non è che un
complemento, un esercizio più visibile e più completo della loro
potenza. La loro autorità è centuplicata dalla loro
aureola. La loro qualità di uomini di Dio non è il fatto di una
semplice missione, di una « denominazione estrinseca », come si dice
in scolastica, ma è una cosa interna, cosa che esplode dall'interno
all'esterno e che in ciascuno dei loro gesti, in ciascuna delle loro
intonazioni o delle loro espressioni di volto, trasparisce.
Dio allora si rivela non solo in parole, non solo in una
funzione, ma in un essere; lo sentiamo vivere, e gli inviti che ci fa,
oppure i suoi rimproveri, ovvero le sue promesse, hanno quello che
occorre per entrare nel cuore.
Aggiungi che la stessa esistenza di tali uomini è un
argomento in favore di ciò che essi esigono da noi e che volentieri si
dichiarerebbe impossibile. È possibile, poiché lo fanno essi. Sotto il
loro sguardo, il male sente un'accusa muta, accusa indulgente però e
che porta al pentimento.
I trionfi apostolici dei santi non hanno altra
spiegazione. Essi non hanno detto niente che noi non diciamo press'a
poco in modo identico in quanto alla sostanza; in quanto alla forma, a
volte dicevano molto meglio; potè anche succedere che dicessero peggio;
ma erano essi, erano dei nuovi Cristi, e per conseguenza una specie
d'incarnazione della stessa verità eterna. Ora il mondo è malvagio,
prima di tutto è debole; ma serba il sentimento del bene e l'attrattiva
del sublime; in fondo non ama che i santi; si getta ai piedi di colui
che esso non può sedurre; non si arrende che al suo padrone; imitarlo
è incorrere il suo disprezzo, e se esso disprezza tè, non gli resta
che a disprezzare i tuoi discorsi. ~Son è possibile vincere gli
uomini che superando in sé l'uomo, per assicurare il regno dello
Spirito.
?Ben sembra che ciò già confermato dalla stessa storia
della religione nel mondo. È ammesso che la conversione dei popoli alla
fede cristiana sia stata causata dalla predicazione apostolica,
evidentemente, ma soprattutto dagli esempi apostolici e dalla vita dei
primi cristiani. I nostri padri rendevano testimonianza, con la loro
vita, di una vita nuova nel mondo. Era una corrente che attraversava i
mari stagnanti e fetidi del mondo antico. Quelli "ìhe ne avevano
abbastanza di quel fetore si abbandonavano alla iiuova corrente; ma non
lo avrebbero fatto su un semplice invito verbale. Dei parlatori ne
avevano le tasche piene! Ne avevano avuto dei magnifici, come Scorate,
— 70 —
e che nulla avevano compicciato. La vita viene dalla
vita; la stessa parola di Dio non è efficace se non perché essa è
viva, E la vita che essa porta in sé si può certamente comunicare, se
a lui piace, mediante strumenti morti; ma tale non è la provvidenza
ordinaria. È già un miracolo abbastanza grande il convertire per mezzo
nostro nelle migliori condizioni; noi non abbiamo da esigere da Dio dei
miracoli supplementari,
L'uomo dietro il discorso, e Dio dietro l'uomo; la
parola, interprete dell'anima, e l'anima organo di Dio: ecco l'ordine.
Quando quest'ordine non è mantenuto, di solito avviene che la parola
cristiana non ha più l'aspetto se non di una più o meno bella
commedia, che si ammira forse, di cui si dirà bene, ma che non si
prenderà per sé più di quello che abbia fatto l'oratore stesso.
Questi ti ha fatto sapere dov'era la verità;
ma coi fatti ti fa anche sapere la poca considerazione
che essa merita. Di queste due forme di espressione, si sceglierà la
meno esigente; si crederà quello che fa l'uomo, per dispensarsi da
quello che egli dice. Egli fa il suo gioco parlando; si entra nel gioco
ascoltando; ma non è che un gioco per tutti, e si prende così
l'abitudine di non vedere che un gioco nella parola divina. Non è forse
la corruzione del pubblico, unita a quella di una vocazione sublime?
Quando noi parliamo di una buona vita, dobbiamo ancora
-pensare a un'altra cosa. Certe considerazioni che precedono non hanno
di mira, nel predicatore, se non l'esclusione del male reale e la
presenza reale del bene; ma altre, come le ultime, escludono anche il
male apparente; perché, riguardo al prossimo, il male reale e il male
apparente coincidono, avendo gli stessi effetti; lo scandalo, cioè il
pretesto per sfuggirci, sarà lo stesso, ed è quello che dobbiamo
evitare. « Colui che da delle regole e dei precetti per ben vivere,
dice Lattanzio, deve eliminare dalla sua persona tutto quello che può
essere un pretesto per dispensarsene » (De div. Institut., 1.
IV). È sempre;
un pretesto, anche nel caso di una reale inferiorità
del predicatore, e tanto più nel caso di un'apparenza; ma noi dobbiamo
tener lontano il pretesto. Lo scandalo dei deboli obbliga per motivo di
carità, e a chi rifiutasse questa carità dell'edificazione, si
potrebbe giustamente domandare: A che prò la carità della parola? ^,l
Bisogna confessare che non è facile dare soddisfazione
in;;
questo. Il pubblico è difficile per noi quanto
è facile per se"
— 71 —
stesso; esso non ci lascia passare nulla.
"Fariseismo1? Vi ha parte certamente; ma vi è anche il
sentimento dell'ideale. Il pubblico ci colloca in alto, e appena che noi
scendiamo, muta parere;
ingannato, si irrita; noi siamo gente che abbiamo tolto
al pubblico un bello spettacolo, una forza di cui forse non si serviva,
ma che teneva in riserva; l'ha con noi perché gliel'abbiamo rapita.
E non solo il pubblico è difficile, ma è sospettoso e
facilmente ingiusto; ignora quella carità di cui S. Paolo disse: Essa
non pensa male. Quand'uno è di passaggio, più facilmente può
sfuggire alle lingue intemperanti; ma sotto altro aspetto è anche più
esposto, perché il forestiero è più in evidenza, e tutto quello che
fa lui ha peso. Nondimeno, tutto sommato, la sua condizione è migliore;
vi è un partito preso favorevole, e del resto molte cose sfuggono. Là
dove si risiede, là dove si circola e si lavora tutti i giorni, è un
altro par di maniche. Un parroco, un curato, per quanto giano virtuosi,
hanno molta difficoltà a preservare sempre la loro reputazione. Si
legge nel Don CM-sciotte: «II prete che obbliga i suoi
parrocchiani a dire bene di lui dev'essere maravigliosamente buono,
specialmente nei villaggi ». Bisogna « obbligare » la gente; non lo
fanno spontaneamente.
È manifesto che l'uomo di Dio è avvolto da un incanto
soprannaturale, possibile, tutto sommato, a procurarsi. Sta a lui non
dissiparlo. Perciò fugga non solo il male e le apparenze del male, ma
le leggerezze, le vanità, le superfluità, che lo sminuiscono e vengono
così in detrimento del suo ministero. S. Agostino non teme di dire: «
Parla con sublimità colui, là vita del quale non può essere esposta a
nessun disprezzo » (De Doctr. Ghristiana).
II. — II silenzio e la solitudine.
Indicherò solo per sommi capi, avendone già trattato
più volte l'argomento, quello che un saggio predicatore deve al
silenzio e alla solitudine (1). Non è possibile dispensarsi qui dal
citare il celebre detto di S. Antonino: Silentium 'poter
prae-dicatorum. Perché il silenzio è il padre dei predicatori?
Perché solo il silenzio,, e la sua sorella, la solitudine, permettono
il
(1) Vedi La Vie mtellecluelle, eh. Ili; La.Vie
catholique, t. II, eh. 4.
— 72 —
lavoro, nello stesso tempo che l'elevazione dell'anima,
che, unita al lavoro, è la condizione del dono di sé.
Noi siamo degli esseri che si danno. Per dare, bisogna
senza dubbio mescolarsi con la gente, prima, per acquistare esperienza,
poi, per applicarla; ma tra le due cose, la nostra esperienza esteriore
deve maturare, e abbiamo detto che ce n'è un'altra, che si acquista nel
segreto, al contatto di se stesso, al contatto dei buoni libri, e
specialmente al contatto di Dio, ed è la parte del silenzio e della
solitudine.
Eipetiamolo senza stancarci, non è col mescolarsi col
mondo -, che lo si conosce meglio. Il mondo splende nella sua verità
solo per colui che lo abbandona, per colui che, avendo saputo
distinguersi, separarsi, ha mantenuto il suo sguardo « fresco », come
dicono gli artisti, e ben presenti le norme de' suoi giudizi. S"on
si conosce bene, con una cognizione riflessa, se non quello. .che si
mette per terzo con se stesso, quello che s'introduce nella propria
conversazione con se stesso, e bisogna essere in ;
silenzio per parlarsi.
Del resto la cognizione degli ambienti e delle anime non
è tutto. Lo spirito ha bisogno di approfondirsi; lo spirito deve
concentrare le sue riflessioni e le sue forze; l'ape vuole fare il suo
miele. Credi forse che la dissipazione abituale tè lo potrà
permettere? Barrès scrive ne' suoi CaMe'rs intimi: « È il
silenzio è l'oblio, che mi concentrano su me stesso e mi permettono di
superarmi ». Si ha un bei riservare il tempo indispensabile al lavoro:
questo tempo è anticipatamente sciupato da troppe lunghe chiacchiere.
Quando la tua mente, per ore intere, ha seguito un torrente di vane
conversazioni, non riconquista facilmente la terra ferma; benché sola,
è ancora trascinata;
ed è forse trascinata tanto più, perché deve allora
sostenere da se sola la parte di tutti i personaggi, formulare le
domande e le risposte, e il suo silenzio apparente è più rumoroso,
più nemico del lavoro che le conversazioni spente.
Che dico? Lo stesso lavoro apostolico, mal regolato,
può rendere lo stesso servizio che le divagazioni. L'espressione di sé
arriva presto a contrariare l'approfondimento di sé, se il ritorno
alla meditazione non viene a vivificarla e a farne, all'opposto, una
forza di approfondimento e un controllo. Una parte di solitudine e di
silenzio è necessaria perché la parola divina abbia il suo peso.
La forza di penetrazione delle parole viene dalla loro
ispirazione, cioè dalla presenza in esse di tutta l'anima, e, per
— 73 —
mezzo dell'anima, degli stessi oggetti che si vogliono
persuadere. Per acquistare e conservare questa ispirazione, il silenzio,
l'isolamento, l'elevazione al di sopra dei sensi, una vita circospetta e
semplice, l'applicazione e la pazienza solitària non sono forse
condizioni richieste'? Chi può sapere quando passerà il soffio? Quando
passerà, resterà da precisare, da coordinare e da regolare i suoi
contributi. E nella calma, che una soluzione satura si depone in
cristalli e si compone un'architettura. La natura non parla; ma opera,
si esprime con creazioni. Così dell'artista, il quale crea anche lui.
« II pittore, dice Leonardo, dev'essere solitario, considerare quello
che vede e parlare con se stesso ». Aggiungi « con Dio », e tu hai la
ricetta di un'ardente parola, di un'azione apostolica feconda.
Noi abbiamo ammesso una parte di frequentazione
necessaria. Essa è difficilissima a dosarsi. Si procederà di buona
fede. Ciò dipende da ciascuno, dal suo carattere e da' suoi doveri. Ma
certamente è meglio meno che più. Non temiamo di diventare un po'
selvaggi, dei buoni selvaggi, graziosi quando ci si accosta, ma che la
gente non accosta facilmente, sapendoci difendere con benefizio di
quelli stessi che allontaniamo.
In ogni caso, rimanga lo spirito di solitudine. In mezzo
al mondo l'uomo di Dio deve ancora essere solo, simile al suo Maestro,
nel quale abissi di silenzio coesistevano con le più vive parole. In
questo senso Marco Aurelio disse (Pensieri, III, 17): « L'uomo
libero può fare a meno della solitudine come del mondo ». Ma a
quest'uomo spetta, pure prestandosi, di non pensare in fondo che a
organizzare l'opera sua. Se non è in vista dell'opera sua che si è
recato là dov'è, egli non è al suo posto, e appena che quest'opera
glielo permetta, deve ritornare al suo miglior posto, quello del
contemplatore, padre dell'oratore, nutrizio di tutte le sue facoltà,
custode di tutte le sue forze.
III. — La preghiera. L'orazione. La Messa.
Per sorreggere la nostra parola nell'intimo nostro, ci
occorre l'appoggio divino della preghiera. E nella preghiera, io
comprendo l'orazione, non più come mezzo dell'esperienza, ma nella sua
qualità propriamente mistica, e vi comprendo anche la santa Messa,
preghiera per eccellenza, perché ci unisce in-
— 74 —
timamente alla sola preghiera eccellente per se stessa e
per dire così unica, la preghiera di Gesù Cristo.
Le ragioni di queste esigenze non sono misteriose; esse
si prendono dal nostro oggetto, che è soprannaturale; dalla nostra
missione, che richiede il contatto intimo con chi ci manda;
dallo spirito animatore della nostra parola,
necessariamente attinto alle sorgenti spirituali che la preghiera
mantiene.
L'oggetto del nostro apostolato è il rinnovamento delle
anime, la loro conversione se ne hanno bisogno, in ogni caso il loro
progresso: ora un tale risultato dipenderebbe forse dalla nostra parola
abbandonata a sé sola? Esso non dipende nero» meno dalle anime di cui
si tratta, fuori di un soccorso divino.
Il soprannaturale è una collaborazione, e in questa
collaborazione è Dio che ha l'iniziativa. La grazia comincia, il libero
arbitrio segue. In quanto alle contribuzioni e alle stimolazioni
estranee, sono invero così estranee che non hanno neppure per punto di
applicazione l'anima a cui ci rivolgiamo. Vi si pensa? Su che cosa
operiamo noi, parlando? Sull'anima stessa? Niente affatto; noi operiamo
sul corpo animato, mediante un fenomeno fisico che è la voce. L'azione
si spande sull'adunanza come un'onda, e l'adunanza ne può ricevere la
scossa emotiva senza che effetti inferiori veramente apostolici siano
acquisiti:
è quello che ha fatto dire con giusta ragione che è
più facile a un oratore convincere una folla che un individuo, salvo
che la parola convincere, qui, dovrebb'essere sostituita con la
parola commovere. Ì3 questo che noi cerchiamo? Noi vogliamo che
l'anima cambii, in ciascuno dei nostri uditori, e noi siamo impotenti a
raggiungerla. L'anima alla sua volta raggiunge se stessa, ma non è al
livello del soprannaturale. Se dunque l'anima deve convertirsi,
rinnovarsi, progredire, non basta che essa voglia, bisogna che lo
domandi, bisogna che preghi;
e tanto più se vogliamo noi procurare questo risultato,
non ci basta la nostra parola, salvochè Dio non la secondi.
Praedicatores suos Dominus sequitur, dice S.
Gregorio. Il Signore, infatti, segue i suoi predicatori; ma opera
secondo l'ordine della sua Provvidenza, che è un ordine di solidarietà
fraterna, di carità. La parola apostolica è già una carità, ma
parziale; perché sia completa, il predicatore deve fare tutto quello
che è in suo potere. La sua eloquenza, se ne ha, non consiste che nel
procurare ai pensieri e ai sentimenti che gli riempiono il cuore tutte
le loro potenze di espansione. Ora la preghiera ne è una. Così la
preghiera fa parte, in certo modo,
-—'78—.
della stessa eloquenza cristiana; passando per Dio, essa
raggiunge l'uditore e completa lì, nell'intimo, lo sforzo del nostro
verbo,
Quale oratore, disponendo di una tale forza, vorrebbe
trascurarla? Un avvocato che, fuori della sua difesa, credesse possibile
un intervento in favore del suo cliente, e vi si rifiutasse, non
dimostrerebbe forse che la stessa sua difesa non è sincera? Così il
predicatore senza preghiera prova che i suoi motivi di azione sono
estranei a quello che egli dice, e non è apostolo sincero.
Onde S. Agostino vuole che prima di esercitare il
ministero di predicatore, si adempia « quello del supplicante »;
perché, dice egli, per ottenere i risultati che si attendono, si deve
confidare in Dio più che nella propria eloquenza (De Doctr. Christ.,
I IV). Siate rivestiti di potenza dall'alto, ci dice il
Vangelo (Lue,, XXIV, 49). •
II secondo motivo che esige la preghiera o il nostro
carattere, d'inviati, di ambasciatori di Dio presso le anime. Un
ambasciatore non parla di se stesso; prende gli ordini dal suo governo,
si imbeve del suo spirito, si identifica quanto può con esso e. per
questo si tiene nella sua atmosfera. È la preghiera che c'immerge
nell'atmosfera di Dio, la preghiera sotto tutte le sue forme, e
specialmente l'orazione. Da questa si prende consiglio, per saper che
dire, e per orientare vergo i fini del Vangelo tutto l'insieme del
proprio lavoro.
Infatti tutte le parti della predicazione troveranno
nell'orazione e nella preghiera la loro ispirazione vivificante.
Esse-influiranno sopra la scelta dei soggetti, invitando ad affrontare
le questioni vitali, i temi meglio appropriati all'uditorio e a' suoi
bisogni riconosciuti, in vece delle vanità alla moda o dei soggetti
atti a far brillare l'oratore. Dirigeranno la composizione, per farvi
passare l'essenziale della dottrina e condurla fino alla pratica con un
movimento che trascina, anziché con aggiustamenti artificiali e
puramente letterari. Animeranno lo stile e lo renderanno diretto,
stringente, come una parola che vuole qualche cosa, che non scorre per
scorrere come una fontana di giardino, ma circola, come le acque
d'irrigazione, dovunque trovi un grano da fecondare, una radice da
inamare, una terra da rinfrescare. Daranno finalmente all'azione stessa
la sua forma apostolica, che regola il nostro contegno, la nostra voce,
i nostri movimenti, i nostri gesti secondo ciò che con-
— 76 —
viene a Tiri inviato di Dio, rendendoci
penetranti perché noi saremo penetrati, e dando l'impressione dei
misteri di Dio, perché l'anima nostra ne ha ricevuto comunicazione nel
suo proprio mistero, nel corso dei colloquii intimi che la preghiera
stabilisce.
Invece quelli che vivono solo alla superficie di se
stessi, non possono fare altro che svolazzare alla superfìcie di tutto;
l'esperienza non li istruisce spiritualmente; come ne farebbero
approfittare gli altri? Pensando per se stesso, si pensa utilmente per
tutti; trascurando se stesso, si darebbe inutilmente a tutti, poiché in
questo commercio non si reca che un non-valore morale.
Che dico? è giocoforza che allora il lavoro,
tecnicamente, si arrenda. Una curiosa esperienza di Bodin potrebbe
convincercene. Egli prendeva un capitolo àéll'Imitasione;
sostituiva da per tutto il nome di Gesù con la parola scultura,
e constatava che tutto restava vero, che il testo conservava tutto il
suo peso. Che cosa prova questo? Che le condizioni della produzione sono
le stesse che quelle della santità, cioè l'umiltà, il distacco da
sé, la sottomissione « totale e dolce » all'oggetto che uno ha dato a
se stesso. E mi si vorrebbe dire dove il predicatore può trovare tutto
questo, fuori della preghiera? Il migliore di noi non entra in azione se
non lì, e il meno buono non trova che lì i suoi rimedi. Quando noi
domandavamo la buona vita, la santa vita, noi ne sottintendevamo i
mezzi.
l^on si lesini dunque troppo il tempo che richiedono
queste comunicazioni tra l'apostolo e le sue sorgenti ispiratrici.
Perdere la propria vita per salvare qualche ora sarebbe follia. Il tempo
è così poca cosa, in rapporto a ciò che esso contiene o trascura!
Un'anima vuota, in cento anni, non farà quello che fa in un minuto
un'anima ricca. Arricchiamoci in Dio, poi ci prodigheremo, e non è il
tempo, per quanto sia prezioso, che c'imporrà i maggiori limiti. Il
tempo della preghiera e il tempo del lavoro sono come le due rotaie
della ferrovia; esse devono restare parallele; non si migliorerebbe
certo la propria strada non conservando che una sola rotaia, anche se
fosse due volte più lunga.
Alla preghiera, orale e mentale, dobbiamo aggiungere la
santa Messa, che ne è la forma più preziosa. La Messa contiene tutto
quello che rievoca o può richiedere il ministero delle anime; tutto
come personale: Dio, l'Uomo-Dio e l'uomo di Dio non formanti che un
unico principio salvatore; tutto come
— 77 —
forze, poiché la sorgente delle grazie è in quello che
si compie all'altare in dipendenza dalla croce; tutto anche sotto
l'aspetto dell'ispirazione apostolica, perché se noi possiamo avere
un'impressione della sventura degli uomini, dei loro bisogni, delle loro
possibilità, nonostante le loro debolezze, è senza dubbio quando
teniamo nelle nostre mani Colui che morì per loro, che si offre di
nuovo per loro, e ciò per mezzo nostro e col nostro concorso. Ben si sa
quello che tutti i grandi apostoli hanno trovato lì, e che Vite,
m'issa est, essi lo dicevano a se stessi, nel senso antico e mistico
della parola: « Andate, è adesso la missione », è adesso che vi si
manda, oramai con ogni potere.
Questo spirito di preghiera deve pervadere il
predicatore in modo specialissimo il giorno in cui deve predicare. «
Prima di cantare, il gallo batte le ali », dice un antico autore. Per
eccitarsi, si deve agire al di dentro, destare spiritualmente l'anima,
renderla infiammabile attivando la carità e anche le proprie facoltà
naturali. Ex plenitudine contemplationis deri-vatur praedicatio,
dice S. Tommaso (1). Ciò si verifica anzitutto della preparazione
remota, ma si verifica anche della preparazione immediata. 8. Francesco
di Sales consiglia di meditare per sé, al mattino di una predicazione,
quello che si vuole predicare agli altri, indicando con ciò, come S.
Tommaso, che la predicazione è una sovrabbondanza che trabocca, non una
creazione fittizia, ad uso dei soli uditori. A proposito della preghiera
sacramentale, egli scrive: « È cosa certa che rostro Signore essendo
in noi realmente, ci da chiarezza, perché Egli è la luce. Così i
discepoli di Emmaus, essendosi comunicati, ebbero aperti gli occhi » (Lettres).
Questo bello spirito di fede conviene a noi tutti. Poiché la cattedra
è un annesso dell'altare, accostiamola mediante l'altare. Poiché la
parola cristiana è come un soffio di Dio, Vose clamantis,
respiriamo Dio, per mezzo della preghiera e della contemplazione
quotidiana. Lo Spirito santificatore si vale di ogni strumento, ma
bisogna che lo strumento vi si disponga. Se dopo ciò lo strumento è
debole, Dio soffierà più forte. SToi non siamo che la canna del
pastore;
a Dio spetta di riempirci di musica.
(1) n - II, q.. 188, a. 6.
LIBEO II.
QUALITÀ NECESSARIE ALL'ORATORE CRISTIANO E IL MODO DI
ACQUISTARLE
CAPITOLO I.
Il contegno corporale.
I. — La cura della persona.
Poiché il predicatore è un uomo di Dio, dedito
tutto quanto al servizio di Dio e de' suoi fratelli, e poiché,
consacrato come uomo, tale dev'essere secondo tutte le sue
facoltà, noi dovremo tra le qualità necessario all'oratore cristiano,
collocare nello stesso tempo qualità corporali, qualità intellettuali,
qualità d'immaginazione e di sensibilità, virtù di carattere. Tutte
concorrono al lavoro apostolico e possono sia servirlo per la loro
rettitudine, sia ostacolarlo per le loro deviazioni o per la loro
assenza.
Le qualità corporali in questione per noi sono
principalmente relative all'organo vocale; onde toccheremo appena certe
altre che, per quanto siano importanti in certi casi, non richiedono da
noi alcuna spiegazione speciale.
Una decenza irreprensibile è manifestamente imposta al
rappresentante di Cristo. ììTon è possibile immaginare Gesù con mani
sudice, con barba, capelli, unghie in disordine. Ma neppure lo vedi
farsi « una testa », mostrare una capigliatura artistica.
Questa sorta d'arte è propriamente una laidezza,
— 80 —
poiché offende il carattere proprio della persona. Non
occorre, qui, insistere.
La foggia di vestire potrebbe apparire una questione del
tutto superflua: l'abito ecclesiastico o religioso quasi non offre
varianti, e se è netto, accuratamente e semplicemente assettato, pare
che sia detto tutto. Tuttavia certuni trovano modo di complicare il
caso, infliggendo alla nobile severità clericale i ricami, i merletti,
i nastri, e allo stesso abito religioso delle <aanfrusaglie di gusto
molto dubbio, come rosari d'avorio, crocifissi d'argento, cinture di
cuoio verniciato o di coler canarino, cappucci pieghettati, ecc. Tutto
ciò è manifestamente infantile;
ma la disgrazia è che vi perisce una parte di quel
carattere ammonitore, che annette alle nostre sacre vesti un po'
dell'eternità di cui siamo i mandatari, un po' di tutti gli oggetti che
la parola proclama e che l'uomo di parola rappresenta anzitutto.
Uno sfoggio indiscreto di vesti speciali e di accessori
onorifici è pure da evitare, per timore che l'attenzione attratta così
sopra la persona noccia all'opera. Non si tratta di rigettare tutto e
mostrare così affettazione in altro modo; ma il riserbo, che non ci
sminuisce ed anzi accresce la nostra autorità apparente, onora Dio
cancellando degnamente il suo interprete.
Se mi è permesso di rivolgermi un istante a' miei
giovani fratelli, io dirò loro: Bingraziate Dio del mirabile indumento
che volle dare, in voi, così all'oratore come al monaco. Godeste abito
del Lacordaire e di S. Vincenzo Perreri è « essenzialmente oratorio
», come diceva invidiandolo Gambetta. Esso è pratico al massimo grado:
pieghevole, igienico, perché lascia tutta la libertà al collo, al
torace e alle braccia. La sua ampiezza, fatta della semplicità del suo
taglio e della sua opulenza orientale, accompagna stupendamente il
gesto, lo amplifica con le grandi linee generate ad ogni movimento, lo
sostiene col quadro di drappeggio chela cappa nera disegna di dietro;
d'onde quell'aria di grande uccello che il monaco prende aprendo le
braccia.
Il carattere morale di questo vestito non è inferiore
alla sua qualità estetica o pratica: esso porta dei secoli nelle sue
pieghe; ricorda l'apostolato di trenta generazioni; parla di S. Luigi,
della Crociata e di Lepanto. È così estraneo ai nostri modi ristretti,
che caccia assai lontano, nell'immaginazione, tutte le frivolezze
consuete. Da se solo è una preparazione del discorso, e ben dappoco è
colui che, per difetti che gli appartengono, può ridurre a nulla quel
prestigio che non gli appartiene.
Per questo, basta solo abusarne. Un abito drammatico
come questo è il più facile a render ridicolo o pedante chi lo porta.
Gli effetti di drappeggio che esso permette, non appena sono voluti,
diventano tanto deplorevoli quanto sono felici quando si producono da se
stessi. Il commediante fa presto a prendere il posto del grande monaco,
e disgraziatamente ciò fu veduto.
Fa d'uopo di entrare in particolari da mamma? Sono
esitante. Ma dopo tutto la carità amichevole di un attempato permette
molte cose. Quando si è dei poveri mortali, si tossisce, si soffia il
naso, si sputa, ci si asciuga, si sternutisce: tutto ciò vuoi essere
fatto con convenienza e con discrezione. Ora molti bravi figlioli del
santuario, la cui prima educazione fu un po' trascurata, dimenticano di
supplirvi per se stessi, ed è un gran danno. La tosse fragorosa, lo
sternuto sonoro in cui a volte la pioggia accompagna il vento, lo
sputare che si dimentica di essere muto e dissimulato, l'asciugarsi
sgarbato, col fazzoletto spiegato, gesto che non ha nulla di furtivo,
finalmente l'uso di un moccichino dubbio, mal piegato, issato
ostensibilmente, adoperato in qualsiasi de' suoi punti e non importa
come, con rumore e con una penosa insistenza: sono piccoli difetti, se
si vuole, ma l'uomo di Dio vi perde della stima, ed è tanto di rapito
alla sua parola.
Bisogna ancora menzionare certe abitudini viziose: gli hem!
hem! la manìa di tossicchiare che va sempre aggravandosi a misura
che la si irrita, il mordersi le labbra, il leccarsele che si aggrava
anche per il disseccamento delle mucose, le smorfie, le contorsioni
nervose, il battere le palpebre e il corrugare la fronte senza motivo.
Tutto questo, a volte congenito, spesso acquisito, si correggerebbe
generalmente con un po' di perseveranza; ma si preferisce fissarlo,
sfigurare così più o meno la propria maschera espressiva nello stesso
tempo che la parola. Qualche uditore ti scimmiotterà; si riderà alle
tue spalle; e tu avrai da risalire inutilmente, con uno sforzo
spirituale, una china sfavorevole.
II. — II portamento.
Il portamento del predicatore dev'essere a mezza
distanza tra la negligenza e l'affettazione, tra la pesantezza e la
petulanza. Ciò in ogni occasione, ma specialmente durante l'esercizio
del proprio compito.
6 — SBBTiLliASaBS. Voratore cristiana. ,. :
—82 —
Sella sagrestìa, avviene che si chiacchieri e si perda
così il tono e lo spirito del proprio lavoro; sarebbe meglio un
raccoglimento non affaccendato, una semplicità silenziosa. Quando esci
per salire in pulpito, subito ti osservano; le curiosità sono deste, le
prime impressioni si formano: sarebbe una fortuna che fossero inclinate
nel senso che la tua predica desidera. Un rinesso del tuo pensiero deve
già illuminare la tua persona:
non certo artificiosamente, ma per quella composizione
naturale dei lineamenti che opera la vita inferiore. Pensa a ciò che
sei, a ciò che stai per fare, in nome di chi parli e per quali fini:
l'atteggiamento si prenderà da sé. Uomo di Dio, se
pensi a far brillare Iddio e cancellare l'uomo, ciò ben si vedrà. Per
mostrare quello che si deve essere, non si ha che da esserlo prima, poi
compenetrarsene nel momento che tale si deve apparire.
Più precisamente ancora, accostandoti alla cattedra
tienti nello spirito del tuo argomento: la sfumatura dell'atteggiamento
allora sarà ottenuta; infatti quella del Mercoledì di Pasqua non è
quella del Mercoledì delle Ceneri, e facendo il tuo segno di croce,
devi già marcare il carattere e come dare il tono di tutto il tuo
discorso.
Più tardi, a proposito dell'azione, avremo da ritornare
sull'atteggiamento del predicatore; per intanto si sappia bene che
bisogna vegliarvi su abitualmente, evitare la trascuraggine e la
volgarità che abbassano. Fare assegnamento sulla circostanza è
imprudente; allora non si incontrerà che l'artifizio e la pretensione.
83
CAPITOLO II.
La buona respirazione.
I. — La respirazione abituale.
Una buona respirazione, che è una condizione
concomitante della parola è altresì, per questa ragione, una
condizione preliminare. La voce non fa altro che dispensare quello che
la respirazione ha fornito. Come il canto non è che una respirazione
armoniosa, così la parola è una respirazione espressiva. D'onde
l'importanza di uno studio che si trascura quasi sempre e di cui noi
dobbiamo occuparci.
Sono necessario alcune definizioni. Sotto l'aspetto
delle vie di accesso di cui si serve, la respirazione si distingue in nasale,
boccale, a un tempo nasale e boccale. Secondo il suo meccanismo,
essa è clavicolare, costale, diaframmatica o completa. Un
istante di riflessione basta a capire che cosa vi è sotto questi
termini (1). Se si tratta della stessa provvista d'aria, si distingue l'aria
•periadica, provvista media che va e viene nel corso di una
respirazione di ritmo normale; l'aria supplementare, che fa il
pieno assoluto; finalmente l'aria complementare, la cui
espulsione fa il vuoto assoluto, ma che abitualmente serve di residuo
alle altre due, dopo una tranquilla espirazione.
Ciò compreso, possiamo spiegarci e le nostre
spiegazioni riguardano tré ordini di fatti che influiscono l'uno
sull'altro:
1° la respirazione abituale; 2° gli esercizi
respiratorii; 3° la respirazione nel corso della parola pubblica.
Una buona respirazione abituale è in dipendenza da
molti fattori e procede dalla sanità generale, e specialmente dalla
sanità polmonare; ma certe abitudini le sono più o meno favorevoli.
Avviene che una cattiva positura comprime il diaframma, restringe le
spalle, piega in due la trachea e impedisce sia gli
(1) La respirazione costale e la respirazione
diaframmatica unite, prendono il nome di respirazione addominale,
la sola possibile agli uccelli canori. Delle due la respirazione
diaframmatica è specialmente naturale all'uomo, la respirazione costale
alla donna.
— 84 —
accessi dell'aria, sia i movimenti che la domandano. Uno
che passa così lunghe ore davanti allo scrittoio, a volte
rannic--chiato in una poltrona o su una sedia troppo bassa, non respira
bene e si abitua a non respirare mai a fondo.
Anche lo stringimento e il sovraccarico delle vesti sono
nemici del respiro. Eisulta da misurazioni che il medesimo uomo libero o
infagottato in pesanti vesti da inverno aveva in quest'ultimo caso una
respirazione diminuita di quasi un terzo. Vestimenti ben aggiustati non
devono comprimere gli organi; nulla obbliga a stringerli al collo, alle
spalle, alla vita, e grande ne è l'importanza.
Si deve ancora evitar di contrariare i gesti
respiratorii con falsi movimenti, e prendere piuttosto l'abitudine di
renderli ritmici in accordo col camminare, col saltare, con lo scalare,
con l'inclinare e rialzare il corpo, ecc. Quest'abitudine si acquista
presto con un po' di attenzione nei principii, ed è salu-tarissima. Un
petto ben educato non procede a una respirazione curvandosi, a una
espirazione raddrizzandosi; non si abbandona a un ritmo disordinato
sotto pretesto che il terreno o l'azione le imprimono scosse; sopra una
pendenza accidentata, nel correre e nel salire una scala a quattro
gradini per volta, esso tende a respirare come il bambino che dorme.
Inoltre bisogna soprattutto badare a una buona espirazione; perché il
senso di riposo e una buona rigenerazione del sangue dipendono da
un'espulsione regolare e completa dell'aria viziata.
La padronanza degli organi respiratorii è una legge
dell'oratore come del cantore; l'uno e l'altro non l'ottengono se non a
prezzo di un'attenzione costante, e non senza il soccorso degli
esercizi.
II. — Gli esercizi respiratorii.
La necessità di questi esercizi deriva dal fatto che la
respirazione abituale non è mai abbastanza completa, e tende ancora a
ridursi in caso di negligenza. Avviene come degli esercizi muscolari: la
vita ne impone una dose più o meno forte;
ma essi non sono ne abbastanza energici, ne soprattutto
abbastanza completi da dispensarci dagli esercizi metodici, per ciò che
riguarda specialmente un uomo sedentario.
Non senza ragione facciamo questo confronto: di fatto,
gli esercizi muscolari e gli esercizi respiratorii devono essere
associati. Grandi respirazioni isolate, a freddo, sono poco na-
— 85 —
turali, e per conseguenza non sono senza inconvenienti,
poiché rischiano di forzare gli organi. Bisogna legarli con esercizi
generali, affinchè il bisogno adeschi e favorisca il buon andamento
dell'operazione. Gli esercizi Muller sono per questo l'ideale. In
assenza, per la propria dose quotidiana, si può approfittare di un
cammino un po' accelerato, di una salita di collina, di una scala fatta
rapidamente, ecc.
Queste respirazioni devono essere unicamente nasali, e
nasali nei due tempi. L'espirazione boccale che certi
raccomandano, offre pericoli, e non è punto calmante. Lo stesso accade
nelle ascensioni, nelle corse, e allora soprattutto. È chiaro che
necessità non ha regola; si raccomanderà con maggiore successo la
respirazione nasale a colui che osserva un corridore trafelato che allo
stesso corridore.
Queste respirazioni di esercizio devono essere complete,
cominciando dal basso: dilatazione delle coste inferiori, poi delle
coste superiori e delle clavlcole, stando il corpo ben diritto, con le
mani sulle anche, la testa leggermente rialzata nell'inspirazione, le
fosse nasali bene spalancate, il tutto senza violenza, con un senso di
piacevole pienezza e di riposo perfetto. Alla fine dell'inspirazione,
tutto il torace si deve sentire ingran-' dito (s'ingrandisce di fatto a
capo di poche settimane), e alla fine dell'espirazione, tutto dev'essere
rinchiuso a fondo nello stesso ordine, e sempre senza violenza, come una
spugna che si vuota. Osservazione capitale: operare sempre in piena aria
davanti a una finestra aperta. :
III. — La respirazione nel eorso della parola.
Abbiamo già detto che al principio del parlare, il
corpo si deve sentire libero da ogni compressione, ritto senza
rigidezza, il torace bene sporgente, come quando si rialza una tonaca
sopra la cintura per sciogliere i proprii gesti. A ciò serve una grande
respirazione iniziale, che disponga nello stesso tempo tutti gli organi
della voce.
Vi sono di quelli che consigliano di fare « provvista
» d'aria, e, per conseguenza, di trattenere questa provvista perché
essa duri più a lungo. È un grave errore. La pretesa provvista è
perfettamente inutile, quando non sia nociva. Quando un allievo di Paure
respirava così prima di cominciare un brano, Paure
— 86 —
gli appoggiava la mano
"sulla spalla; se ciò egli dimenticava, l'allievo non
mancava di lasciar andare alla prima parola la sua bella provvista per
contentarsi dell'aria periadica. Voler trattenere l'aria supplementare
per dispensarla lentamente, è imporsi una preoccupazione vana e una
dannosa fatica; ciò forza i polmoni e il cuore, provoca enfisema, stasi
vascolare e congestione. Di più la laringe, dovendo allora lottare da
sfintere contro il soffio che vuole trattenere, vi si esaurisce.
In realtà si ha sempre aria abbastanza; la questione è
di adoperarla bene, e la buona emissione dei suoni a ciò basta;
questa presiede all'economia mediante il saggio consumo.
L'aria non si può perdere, quando non se ne lascia passare se non
quella che si adopera per mezzo della parola; la cornamusa non ne perde
affatto; essa è a questo riguardo un ammirabile modello. Per questo, è
vero, bisogna parlare legato. Oltre ad altre ragioni più
importanti, che verranno più avanti, il parlare legato è
indispensabile a una buona emissione del fiato; perché evita di perdere
del suono tra i momenti di vibrazione della glottide, come se ne
presenta l'occasione specialmente tra le parole, ma anche — e ciò è
capitale — a ogni pronunzia di consonante. La consonante obbliga a
rilassare più o meno la tenuta glottica nel che consiste la vocale (1).
Si producono allora dei « fori »; l'aria fugge, oppure è proiettata
in piccoli razzi, se si tratta di quelle consonanti che si chiamano esplosive
(b, d, g, k, t, p). Invece, parlando legato non si emette che l'aria
utilmente vibrante; l'intercalazione della consonante si fa per una
sostituzione immediata che non permette alcun vuoto; non vi sono altri
arresti oltre quelli che servono a riprendere fiato, e quindi il fiato
è sempre o acquistato o utilizzato, mai perduto.
Se non vi è mai motivo di trattenere il respiro, può
esser necessario prolungarlo, per pronunziare una frase lunga o produrre
qualche effetto che non tollera interruzione. I cantori ben conoscono
questi casi. Allora essi appoggiano sul fiato e ne fanno un consumo più
completo; fanno ricorso all'aria complementare, che di solito
resta senza uso. Per evitare il bisogno d'inspirare, essi espirano, e
ciascuno può osservare che il rimedio è buono. Vi si farebbe ricorso
quando non si
(1) Secondo una, comunicazione del Sig. d'Araonval
all'Accademia, delle,;
Scienze, le consonanti sono vocali la cui
vibrazione è turbata. A cagione di;;
Questo turbamento il parlatore o il cantore perde del
suono.
—87 —
avesse aria da respirare, semplicemente per calmare lo
spasimo, come fanno quei che si tuffano in acqua. Del resto questo
procedimento, necessario a conoscersi, deve rimanere eccezionale,
perché esige la contrazione di tutti gli organi vocali e perciò rende
l'emissione molto più onerosa.
Abitualmente bisogna respirare il più sovente possibile
e valersi di tutte le pause che permette il senso delle frasi. Non
essendo mai a capo di fiato, si sarà in migliore possesso di sé;
la voce guadagnerà in ampiezza e il pubblico in
sicurezza. Secondo l'importanza delle pause indicate dalla punteggiatura
oratoria, si farà un'aspirazione intera, una semi aspirazione, un
quarto di aspirazione, eco., approfittando abilmente delle vocali aperte
e come andando incontro al respiro, come fa l'uomo animato o in collera,
« che la passione » non lascia respirare.
Qualche tratto di dizione viene offerto da testi in cui
sono segnati i tempi di respirazione, totale o parziale. Sia pure! un
esempio ben inteso può orientare il principiante; ma è evidente che
siffatte annotazioni sono relativamente arbitrarie; dieci oratori di
talento, pronunziando uno stesso periodo, respirano in momenti diversi,
perché distribuiscono, diversamente i loro accenti e non hanno lo
stesso respiro.
In quanto al modo di respirare nel corso dell'azione,
suc-,: cede tutt'altro che durante gii esercizi. Allora non è più
que-,' stione di aumentare la capacità toracica, di badare alla salute
e di prendere abitudini; si è in ballo: si tratta di servirsi di ,
quello che si è acquistato. Si respira dunque il più naturalmente e il
più abbondantemente possibile, dalle narici e dalla bocca, aprendo e
dilatando tutte le cavità ricettive. Nessuna respirazione brusca, salvo
che si tratti di un effetto. L'inspirazione si deve modellare per quanto
è possibile sull'espirazione, che è necessariamente lenta. Il
contrario è una specie di asma Volontario che potrebbe condurre
all'altro. Si aspira più abbondantemente quando si deve pronunziare una
parola o una frase che implica un riposo respiratorio, come se si sta
per dire: « Ah! mio Dio! ». Allora la respirazione prende il valore di
un gesto. Fuori del caso di questo genere, la stessa pressione del fiato
dev'essere da un capo all'altro della frase o del membro di frase,
affinchè la finale non cada. E la si deve cominciare fin dal
principio dell'aspirazione, a fine di guadagnare
— 88 —
forza, nello stesso tempo che si risparmia il flato,
poiché, come suppongo, solo se n'è preso esattamente quanto
abbisognava. L'ideale, ancora una volta, è la respirazione del sonno,
così regolare, eppure così potente; non è possibile conformarvisi del
tutto, ma non si deve allontanarsene che il meno possibile, come fa uno
che parla dormendo (1).
Contrariamente ancora a quello che succede nel corso
degli esercizi, la respirazione sul pulpito non deve sollevare il
torace; essa si deve prendere unicamente alla base, in modo che solo il
diaframma produrrà la chiamata. Si sa che la respirazione diaframmatica
è la più abbondante. Il vantaggio di questa immobilità del torace è
di concorrere alla calma generale necessaria alla parola, di evitare il
trafelare progressivo, abituale a tanti predicatori, di lasciare bene a
posto gli organi produttori della voce, in vece di agitarli e di turbare
la loro funzione, perciò di congestionarli e di nuocere alla impostazione
vocale.
Somma è l'importanza di una respirazione tranquilla nel
corso della parola pubblica; essa risparmia le forze, aiuta da parte sua
la presenza di spirito, la chiarezza dei pensieri, il perfetto possesso
di sé. Una buona respirazione, è un cuore calmo e una buona
circolazione cerebrale; perciò è la sicurezza di un buon funzionamento
delle facoltà ausiliari, quelle che preparano il pensiero e sostengono
l'energia. L'influsso sopra l'uditorio è per questo fatto aumentato;
l'autorità della parola è maggiore.
Del resto la padronanza respiratoria deve persistere
anche quando la parola vuole apparire tronca e ansante. Corre gran
differenza tra l'ansamento volontario ed espressivo, e una perdita di
controllo. Avviene come di una procella reale, paragonata a quella di un
quadro, o a quella della Sinfonia Pastorale. Certamente nel caso
nostro il reale e il voluto influiscono l'uno sull'altro; così
dev'essere; ma ciò c'invita semplicemente a praticare questa doppia
massima: sorvegliare l'emozione, perché non tronchi la respirazione;
sorvegliare la respirazione, perché procuri la calma o regoli la
commozione.
(1) Tuttavia bisogna osservare che l'espirazione del
sonno è troppo brutale;
ciò dipende da un brusco allentamento muscolare ohe
si opporrebbe all'emissione regolare della voce,
89
CAPITOLO III.
La voce.
I. — La cura della voce.
Eccoci davanti alla questione principale, tra quelle che
riguardano l'aspetto materiale della parola pubblica. La voce j| è
l'oratore; Per l'anima che la pervade, essa è lo spinto; ma I1
Ìnie~stessa è anzitutto un flato. È un'opera d'arte; ma è anche uno
strumento, la cui cognizione e modulazione importano assai all'opera.
È vero che lo strumento vocale è uno strumento d'una
specie particolare; è uno strumento congiunto, e ciò corregge molte
cose. Si vedono dei paesani dalla voce rauca e dura che modulano
delicatamente, quando parlano al loro bambino. L'entusiasmo può dare
vivezza a una voce sorda e la tenerezza ammollire una voce ruvida.
Quello che fu detto dell'oratore si avvera in parte anche della voce: pectus
est quod disertos < facit. Ma non è vero che in parte, e in
cambio, se lo strumento è buono e bene accordato, e l'esecutore interno
è al contatto della mente e dello Spirito Santo, che cosa non ne
ricaveremo!
Ho detto buono e bene accordato. La prima
condizione non { dipende da noi; chi la possiede ne dovrebbe ringraziare
Dio;
i infatti è una grazia; è simpatia acquistata
anticipatamente, e tutto un insieme di possibilità che non ci costano
niente. Una voce solida e ampia permette già effetti che tutti gli
altri doni oratorii non possono supplire. Che fare, senza di/ di essa,
in un gran vaso? Lo scotimento di sensibilità che l'ora-j tore cerca
vuole dei mezzi potenti, e il pensiero, il sentimento, • l'arte, non
sempre possono a ciò bastare.
Tanto più che la qualità della voce, imparentata con
quelle sensibilità che si tratta di muovere, è dotata di una virtù
segreta. Non si dubita a qual segno il pubblico la subisce. Vi è in
ciò un enetto organico, come si vede sperimentandolo sugli animali e
sulle stess.e bestie feroci; ma l'organico non è forse alla base dello
spirituale, e questo del soprannaturale?
— 90 — »
Una bella voce apre le menti e dispone favorevolmente le
volontà, come tutto quello che fa piacere.
Ecco una ragione, se si possiede onesto dono, per non //
guastarlo, per non rischiare di perderlo. Ed ecco a'""1|ues'Ry
riguardo alcune regole pratiche.
» Sul pulpito bisogna evitare le grida disordinate,
restare | sempre padroni del proprio organo, all'opposto di certi
predili catori che sembrano abbaiare o muggire. Oltre al deplorevole
effetto che producono così, questi predicatori rilassano e scordano
fatalmente una voce anche solida; se è debole, la rovinano.
In ogni tempo guardarsi dalle grida, dal frastuono
violento | delle conversazioni, dal vociare all'aria aperta,
specialmente { quando l'aria è fredda, o in mezzo al rumore, o
in un'aria I viziata, o in un veicolo trabalzante.
I discorsi all'aria aperta quando il tempo è freddo e
umido sono per le voci delicate una prova terribile; l'oratore deve
dispensarsene quando è possibile, e nel caso contrario provocare
.'subito dopo una reazione mediante una bevanda calda e un 'riposo
silenzioso. Il silenzio completo, dopo ogni sforzo vocale, è una
pratica ecceuenEe; rimette l'organo a posto, come l'immobilità
assoluta, nell'ingessatura, aiuta la riduzione di una i frattura. Le
persone che accaparrano un predicatore che scende j dal pulpito e
l'obbligano a un nuovo sciupìo di forze, si devono $ tenere per
fastidiose (1).
Bisogna anche evitare di prendere la parola troppo
presto dopo i pasti. È meglio subito che un'ora più tardi; ma un
ritardo di due ore è assai preferibile; i cantori dicono quattro.
Lo stringimento abituale del collo è fatale alla voce
come .alla buona respirazione, perché congestiona. Il portare il
fazzoletto e il cravattone è da riprovarsi, e occorre disfarsene
progressivamente, se si ha una tale abitudine. Le bevande ? ghiacciate o
troppo calde sono parimenti nocive, e 'altrettanto \ il tabacco o
l'alcool in dosi esagerate.
Finalmente è importantissimo combattere l'ostruzione
del naso, i cui effetti sono gravi non solò per la voce,' ma anche per
l'udito, per il petto, per l'intelligenza e per la memoria. •<La
ragione di ciò è la minaccia d'infezione catarrale, l'impedimento
della circolazione in tutta la regione, compreso il cervello
anteriore. Un naso ostruito obbliga alla respirazione
(I) Nei casi più serii, l'impacco umido, durante la
notte che segue un grande sforzo vocale, può essere efficacissimo,
purché sia ben fatto,
— 91 —
boccalfì^,, perciò espone all'infreddatura e
all'infezione della 'gola, dove s'introduce un'aria non filtrata, non
riscaldata nel circuito delle narici. D'onde derivano predisposizioni
alle angine, all'asma e a tutte le affezioni polmonari. Del resto un
circolo vizioso non tarda a stabilirsi, per il fatto che le cavità
nasali, non adoperate a cagione di ostruzione, tendono sempre più a
ostruirsi per questa mancanza d'uso. Al principio, in »yece di
abbandonarsi subito alla respirazione per la bocca, I conviene dunque
usare pazienza, fare respirazioni lente di-Hatando le narici, affinchè
a poco a poco l'aria scongestioni e si faccia da sé il passaggio.
Del resto, una volta eliminati i suoi nemici esterni, la
voce trova nel buon uso le migliori condizioni della sua salute, della
sua conservazione, del suo progresso. Un esercizio normale sviluppa
tutti gli organi e tanto più li difende. Perciò buòni consigli di un
competente e buoni esercizi di fonazione costituiscono una vera
medicazione, oltre che permettono un'azione oratoria più perfetta e
più efficace. È ciò che faceva dire a Cicerone che, di fatto, la voce
e il discorso non hanno che un solo e identico interesse. , , a»—»»
» ..«„
II. — Le qualità della voce.
A) L'IMPOSTAZIONE DELLA VOCE.
Le qualità native della voce non richiedono che vi ci
fermiamo; esse sono quel che sono e noi non vi possiamo nulla;
ma ve ne sono di acquisite, ve ne sono di quelle che
consistono nell'uso stesso che si fa del proprio organo, e queste sono
importantissime a notarsi.
L'essenziale, e nessun cantore lo ignora, è di avere
una voce bene impostata, bene appoggiata, e questa
qualità esige per lo più un'educazione molto lunga. Certamente vi sono
delle voci naturalmente bene impostate, ma sono rare. Alcune sono troppo
spinte, cioè esagerano la pressione dell'aria espirata e premono
così sul loro appoggio; la maggior parte sono campate in aria,
senza appoggio sufficiente, senza disciplina, per una corretta
formazione dei suoni. Conviene dunque insistere su ciò che s'intende
per una voce bene a posto, non mediante descrizioni fisiologiche o
anatomiche, ma praticamente sforzandoci, con l'uso d'immagini mentali
appropriate, di suggerire gli atteggiamenti utili.
— 92 —
L'impostazione della voce consiste anzitutto nel darle
appoggio alla base, e cioè: 1° allargare la base del torace, al di
sopra della vita ben disimpegnata; 2° immobilizzare bene la cassa
toracica; 3° prendere il respiro in modo da abbassare la trachea, il
tutto senza alcuno sforzo, ma all'opposto con un senso di riposo,
come di un uomo che si adagia. La voce così stabilita richiama l'idea
di una piramide; essa ottiene la stabilità, evita i tremuli, la fatica
e, per il fatto che la trachea si abbassa, le cavità sottoglottiche
sono rese più libere, e per conseguenza più sonore.
Poi, impostare la voce consiste, pur conservandole la
sua base salda, nel darle appoggio alla sommità, come se si volesse
(imbiettarla fra due estremi. Per questo bisogna che la colonna J d'aria
vibrante venga a poggiare sulle mucose nasali, scivolando j di lì verso
le labbra convenientemente avanzate e aperte, da .^buon portavoce.
Aprire troppo è impedire alla voce d'improntarsi al passaggio e
renderla esitante; chiudere troppo è impedirle di partire e di andare
lontano. In tali condizioni, la voce prende la sua sonorità principale
nelle adiacenze delle labbra, e non indietro. Si sente vibrare le
proprie labbra e le proprie gote. È quello che gli attori chiamano «
parlare nella maschera ».
Durante questo tempo, la glottide dev'essere molto
libera, non subire alcuna contrazione, del pari che i polmoni o il
diaframma. La lingua dev'essere bene spianata. Se si ha la tendenza a
permetterle che si sollevi e a soffocare più o meno il suono, bisogna
insegnarle a tenersi a posto. L'esercizio consiste nel vocalizzare su
tutte le vocali, con la lingua spianata e immobile, e introdurre a poco
a poco le consonanti, fino al ..parlar normale. Se tutto è veramente
così, il suono emesso prende la sua migliore qualità e sua più grande
ampiezza, per uno stesso volume d'aria e per una stessa pressione,
specialmente se si tende ad avanzare più leggermente la mascella
inferiore, come fanno istintivamente i corridori, specialmente alla fine
della corsa. I corridori cercano così di respirare meglio;
ma il dicitore o il cantore vi guadagnano per giunta una
miglior risonanza.
Questa impostatura della voce è per l'oratore una
necessità primordiale; se non l'ha per natura, deve adoperarvisi
perseverantemente, in ogni occasione, anche se non fa altro che parlare
a bassa voce o mormorare. Molti, in questo ul-• fimo caso^ parlano dal
naso o dal palato, senza che il padiglione
— 931—
delle labbra si schiuda, senza che il suono vi lavori,
ed è una deplorevole abitudine. Che se non si può da solo ottenere il
risultato desiderato, non si esiti a consultare un competente. .i II
più qualificato in questa materia è il professore di canto, | perché
essendo la impostazione della voce ancor più neces" i saria al
cantore che all'oratore, egli vi bada di più, e inoltre perché gli
esercizi di canto sono più favorevoli, anche in ciò che riguarda la
parola; infatti le qualità o i difetti del suono diventano più
percettibili, più facili a sorvegliare, nel corso di tenute vocali più
estese e meno troncate da consonanti.
Se si riesce su questo punto capitale, tutto verrà in
seguito:
le qualità estetiche della voce, la sua sonorità
e la sua portata, il tutto, bene inteso, a parità di doni
naturali. L'esercizio non crea, ma utilizza, e, in materia viva,
utilizzare è altresì una specie di creazione.
B) le
QUALITÀ ESTETICHE DELLA VOCE.
Le qualità estetiche della voce dipendono dal modo con
cui si produce la vibrazione, poi dal modo con cui l'aria vibrante è
ricevuta e utilizzata dai varii organi: pareti, cavità, labbra. Per
questa ragione, direttamente o indirettamente, tutta la nostra persona
vi collabora; onde la voce è essenzialmente personale.
Al centro vi è lo scotimento glottico (1), già
caratteristico per ciascuno; ma quello è solo un punto di partenza: al
di sopra, la gola, la bocca, le fosse nasali, la piega delle labbra;
al di sotto, il petto e più o meno tutto il corpo
partecipano alla formazione, per conseguenza alla qualità del suono. La
voce è come il getto sonoro delle nostre cavità pneumatiche e di tutto
il nostro essere, e per questo essa ci fa così facilmente riconoscere.
Ma si modifica molto secondo la forma dell'emissione, cioè secondo le
varie appropriazioni della colonna d'aria alle cavità e ai varii
risonatori per cui passa.
(1) Noi non diciamo la vibrazione delle corde vocali,
visto che sembra risultare con evidenza dagli ultimi lavori, che la voce
non proviene da tali vibrazioni, ma dalla risonanza dell'aria nelle
cavità vicine. La soppressione delle « corde vocali », se le cavità
con le loro pieghe rimangono intatte non impedisce punto l'emissione
della voce. La laringe non è uno strumento ad ancia, come il clarinetto
o l'oboe, ma piuttosto una specie di ocarina o di flauto a becco (Communi-cation
di D'Arsonval all'Accademia delle Scienze, febbr. 1925). Una prova
complementare è che la tessitura, o estensione della voce sulla
scala musicale, non è proporzionale alla lunghezza delle « corde
vocali ».
— 94 —
Ora la buona emissione e le buone appropriazioni sono il
fatto di una voce ben impostata.
Quali sono i difetti più ordinari delle voci? Vi sono
delle voci rudi e delle voci molli, delle voci gravi
e delle voci saltellanti, delle voci secche o troppo brevi
e delle voci strascicanti, delle voci bianche, di una
sonorità puerile, e delle voci cavernose, ecc. Ora tutte queste
deformazioni si correggono da sé impostando bene la voce. Essendo
allora generale e ben distribuita la risonanza, non vi è da temere
alcun eccesso, in nessun senso;
nessun impedimento altera la formazione del suono.
Nessuno stridore, nessun allentamento, parimenti nessun rilassamento,
nessuna precipitazione, perché la giusta vibrazione esige da sé il
tempo che le è necessario, e per la stessa ragione è escluso il tono
strascicante. La voce non può saltellare, poiché ha un appoggio a'
suoi due estremi, e non può neppure essere pesante, poiché, in qualche
modo, va dovunque, come il nuotatore nell'acqua.
In quanto alla voce bianca e alla voce cavernosa,
in che cosa consistono? La voce è bianca quando le manca il
rinfor-zamento boccale, e la voce, in vece di acconciarsi e come
improntarsi alle pareti della bocca, esce « stupidamente », senza
contegno ne timbro, impiegando la bocca come tubo di condotta, non come
tubo d'organo. E cioè la voce non è impostata.
La voce è cavernosa, invece, quando è come strangolata
al livello della glottide, e non trova la sua risonanza ne al di sotto,
per produrre la voce di petto, ne al di sopra o in avanti, per
dare la voce di testa o la voce normale. Il timbro è aumentato, ma la
forza utile è diminuita, e la voce diventa a un tempo cupa e pesante.
La mancanza d'impostazione è dunque anche più evidente, e ristabilire
questo sarebbe correggere tutto.
C) la SONORITÀ
DELLA VOCE.
La sonorità .della,,.y,oce. importa due qualità
complementari:
l'ampiezza e la foma. L'ampiezza si ottiene,
a parità di pres-àsione, mediante la piena 'utilizzazione di tutte le
cavità e pa-; | reti vibranti, che è quanto dire mediante una buona
imposta-i tura. Di solito conviene sviluppare piuttosto l'ampiezza che
la forza. Essa da più naturalezza, più libertà, più armonia;
permette più sfumature e quindi può da sola lasciare
libero corso a tutti i movimenti del pensiero, dell'immaginazione e
— 95 —
, del sentimento. Affatica meno, perché la tensione
delle pareti a vibranti è allora normale, consistente in adattamento,
non |in violenza, e lo sforzo vocale è ripartito sopra tutto
l'apparato.
Volendo aggiungere all'ampiezza la 'forza, si
dovrà non-, dimeno ripartire la tensione su tutti gli organi, in vece
di far t "forza sulla glottide. In fatti facendo forza, tu operi
uno stringimento che t'immobilizza nello stesso tempo che ti stimola.
Allora fai come un macchinista che desse vapore stringendo i freni, come
un cavaliere che nello stesso tempo usasse gli speroni e stringesse il
morso, o per usare un paragone più calzante, come un violinista che
preme sull'archetto, ma mettendo la sordina.
. Manifestamente, quando si vuole dar forza, bisogna
au-,'j montare lo scotimento glottico mediante una maggiore pres-|sÌone
di fiato; ma soprattutto bisogna procurare, non più con
un effetto pneumatico, ma con un effetto nervoso, un
accon-f jciamento più vigoroso di tutte le pareti di rinforzo.
Così l'or-if gano risuona più forte, e non raschia; si produce
un'azione generale, non locale, e l'ampiezza del suono viene aumentata
nello stesso tempo che la sua forza.
* In altre parole, per accrescere la risonanza della
voce, /non bisogna premere su di essa, ma aprirla, includendovi una (
specie di volontà musicale, un ardore leggero. La sonorità non è
funzione dello sforzo se non in una certa misura e abbastanza ristretta;
essa dipende specialmente dalla convergenza di tutti i movimenti
vibratorii, dalla comunicazione completa dello scotimento glottico a
tutte le pareti suscettibili di vibrazione. La stessa glottide poi
dev'essere libera, pieghevole a dispetto della sua animazione.
Per conseguenza, quando ti accorgi di non essere inteso,
tla manovra che devi fare non è di forzare, ma di estendere,, " di
amplificare, mediante una risonanza più larga e più completa.
Parimenti, se si affaccia la fatica, bada di non ponzare 'eroicamente
per vincere la debolezza che sale; all'opposto rallenta lo sforzo
ripartendolo, a guisa di un portatore a cu^ il peso schiaccia la spalla
e che si solleva appoggiandolo lungo il braccio o sui reni.
Un gioco da bambini c'insegna qui la tattica, ed è
quello che consiste nel far cantare un bicchiere di cristallo
sfregandone gli orli. Dopo un momento, se si opera bene, si ottiene . il
suono massimo. Ma si ottiene forse quando si preme più forte? no; si
ottiene quando si è potuto conciliare l'energia
«- 96 —
dello sfregamento con la libertà della vibrazione. Se
tu non premi abbastanza, la vibrazione è debole; se premi troppo,;' si
soffoca; ma constaterai facilmente che quest'ultimo impe-';
dimento è di gran lunga il più grave; la libertà
importa più èhe la forza.
Che cosa fa dal canto suo il violinista? Per ampliare il
suono, attacca la sua corda con energia; ma risparmiando l'oscillazione
con una pressione leggera. Di più egli sa bene che il suono non è
fornito principalmente dalla corda stessa, :
ma dall'animazione del ponticello della tavola armonica,
e finalmente dell'aria, che è qui il vero mezzo vibrante. Si turi la
cassa armonica, s'incolli il ponticello, e allora si avrà un ^ bei
pizzicare la corda, ma non avrà più che un suono breve e ' soffocato.
. ;
Slmilmente le «corde vocali», o meglio, le cavità
glottiche ' non danno la voce da sole; dunque per avere l'ampiezza del
suono non si ha da ricorrere ad esse sole, neppure ad esse '•
principalmente, ma bensì all'insieme delle cavità pneumati-che,
mediante un allargamento della zona vibratoria e un acconciamento di
tutte le pareti. È ciò che si chiama voce libera, cioè
prodotta senza costringimento, senza rinforzo specialmente localizzato,
mediante un'animazione spontanea di tutto l'apparato vocale. È la sola
buona, la sola armoniosa, perché viene emessa nella calma fisiologica;
è la più personale, che per dire così interessa tutto in noi, ed è
la sola che scuota utilmente l'ambiente aereo occupato dagli uditori.
Qui è riposto un nuovo segreto, che può salvare molte
voci o dal loro eccesso o dalla loro impotenza congenita.
Che cosa è che deve vibrare alla fin dei fini? Sei tu,
è lo strumento vocale: corde, cavità o pareti^ No; e la sala, e, per
essa, avendola mossa e riempita di ondulazioni' lilT'Tua voce, le
orecchie de' tuoi uditori. La questione dunque è d'impa- •l:
dronirti della sonorità, della,sala e di comunicarle
quella scossa'* glotfica che già hai procurato di trasmettere alle tue
pareti ;* e alle tue cavità inteme. La sala diventa così una nuova ca-
^i vità dove tu spingi l'ondulazione, amplificandola nella misura i
necessaria all'avvolgimento di tutto il tuo uditorio. Tu getti i una
rete sonora. Il pescatore degli uomini ha qui il suo còm-^pito fisico,
a servizio dell'altro.
E come si farà questo nuovo adattamento, il solo
decisivo? Come si sSEo'Tatti gli altri: mediante l'attenzione e
l'istinto,—
—é?-
\ Sostituendo questa volta
alla sensibilità interna, che sotto |_ questo rapporto non è più in
questione, l'immaginazione dello spazio e il controllo dell'orecchio.
Eichiamando la tua attenzione sulla sonorità della sala, spiando le sue
vibrazioni nel momento in cui le stimoli, la sua risposta quando
l'attacchi, trovi istintivamente l'adattamento inferiore che produrrà
l'effetto desiderato, effetto già ottenuto parzialmente e del quale tu
percepisci per assaggi le condizioni di accrescimento, il regime
di spiegamento massimo.
4 Ti impadronirai della sonorità della sala come il
violinista jdirige quella del suo strumento, e in un caso come
nell'altro, •non si tratta di raschiare, ma di trovare il ritmo,
dico il ritmo « che gonfia il suono, in vece del raggrinzamento che lo
comprime. | Una volta che l'hai trovato, hai ogni licenza d'insistere,
se 3 occorre, per rinforzarlo, ma senza sforzarlo con una pressione
intempestiva. Devi sentire la sala a fiore di labbra, come quegli ovali
allungati o quelle banderole degli antichi quadri, in ( ,-( cui stavano
scritte le parole di un oratore. Cerca di riempire^ ?; • lo spazio in
lunghezza, in larghezza e in altezza, come se tu li animassi una sfera,
partendo dal centro. Inserisciti in essa~*f Sentila tutta quanta, in
vece di aggrapparti alla tua glottide. a Avrai allora la sensazione che
la tua voce ti diventa in qualche j modo estranea, che si forma laggiù
abbasso, all'orecchio degli uditori; potrai giudicarla e metterla al
punto voluto come un operatore di cinema mette al punto giusto la sua
lanterna secondo l'immagine lontana sopra la tela; ne sarai padrone
senza sforzo; ne sarai meno scosso tu stesso, e il pubblico ne sarà
più commosso. : u
È lì il gran segreto: esteriorizzazione della voce;
prole-jf zione della voce in piena atmosfera; dirczione della voce me- '
diante l'orecchio, ascoltandosi in lontananza, ascoltandosi parlando, in
vece di sentirsi parlare (1).
D) la
PORTATA DELLA VOCE.
Del rimanente, questo segreto dell'ampiezza,,..della
.sonorità della voce,èanche il segreto".della sua 'portata.
Queste
(1) Un esempio illustrativo è ancora quello del
tiratore, òhe si vale di tré appoggi: la spalla, la mano sinistra, il
bersaglio, e che dopo aver mirato, non pensa più che al bersaglio.
Così il dicitore o il cantore appoggia il fiato alla base, alla
maschera e alla mèta lontana, e una volta ottenuti i due primi appoggi,
^, dimentica se stesso nell'ultimo.
B 7 — 8BBTI11AN8B9. L'orditore
cristwm,
— 98 — .
» due qualità differiscono. Una voce può essere larga
e sonora ''i senza estendersi molto lontano. Si può a bello studio
tenerla-a breve distanza, se l'uditorio è radunato molto vicino alla
cattedra, e si può invece lanciarla « come un proiettile, di-ij ceva
il P. Didon, o meglio come uno di quei razzi dei fuochi ; I
artificiali che non devono scoppiare che in lontananza ».
Un buon oratore (come un buon cantore) deve saper
par-*"'*„•• lare a 50 metri, a 100 metri o a 800 metri. In
questi varii casi, • l'adattamento della voce è diverso. In che cosa
consista la ^differenza, sarebbe difficile e delicato lo spiegarlo, ma
è anche ^inutile. Il discobolo, nel momento di lanciare il disco alla
di' stanza voluta, si da forse pensiero di ciò che avviene nel suo
-braccio^ Parimenti il montanaro ignora quello che fa quando proietta la
sua voce da un versante di una vallata all'altro. È l'istinto che
agisce allora. Si guarda la mèta; .l'attenzione si trasporta ad essa, e
dopo convenienti esercizi, in grazia dell'esperienza, si prende
naturalmente la posizione degli organi che conviene. Questa posizione è
essenzialmente quella che ^fu descritta sotto il nome di impostazione
della voce; ma vi sono sfumature supplementari di adattamento, e si
ottengono V'appoggiando la voce non più al di dentro, sulle pareti
vibranti, >i ma sul punto stesso nel quale si vuole che
sia diretta. Si stabilisce come un ponte sonoro, si lancia la voce come
un arco.
A questo effetto, occorre ancora meno sforzo che per
ottenere la sonorità e l'ampiezza; si tratta poco più che
dell'atteggiamento boccale; si deve fare scivolare il più in avanti
possibile, sopra le labbra a imbuto, la colonna d'aria debitamente
timbrata dall'insieme delle cavità e modellata dall'articolazione.
È talmente vero che la portata della voce non esige
sforzi ' violenti, che anzi gli effetti di dolcezza, i piano e i pianissimo
sono chiamati ad approfittarne. È tutta la gamma dei suoni e delle
intensità che si deve portare in lontananza e serbare la sua potenza
(perché lo stesso pianissimo dev'essere potente). Evidentemente vi è
la misura; troppo lontano non si può indirizzare che il forte,
ciò che impone un'estetica particolare, semplificata e come per masse.
Ma nelle condizioni ordinarie o anche un po' ingrate della parola, si
deve potere trasmettere tutti i suoi effetti. Che la voce sia debole o
forte, rapida o lenta, acuta o grave, essa deve far capo allo stesso
punto, e tutta, intera; tutto dev'essere al medesimo piano, benché non
dellot stesso valore ne dello stesso tono. . i
— 99 —•
^È fliu-esto un talento assai raro. Gli antichi lo
insegnavano sotto il nome di vociferatio. Si sa che cosa noi
abbiamo fatto di questo nome! È un bell'esempio di deformazione per
incomprensione. Vociferatio significa così poco vociferazione,
che si tratta appunto di non vociferare, eppure di portare la
pro-|.;pria voce fino a uditori lontani. In mancanza di quest'arte, !
avviene che uno si fa udire nei forte e che la voce si perde
nelle I sue note deboli. Bisogna allora o che l'uditore si rassegni a
non intendere se non dei frammenti che egli connette come può, o che il
suo orecchio faccia in senso inverso la via che la bocca non fa. In tale
condizione, l'attenzione si stanca presto, e l'uditore, affaticato, ti
pianta lì. Se pure è perseverante, egli ascolta come attraverso a una
porta oscillante, ora aperta, ora chiusa: non c'è più unità della
parola, non c'è più disegno melodico; il tuo modo di porgere è
disarmonizzato; tutti i tuoi enetti se ne risentono. La scala dei
valori, in vece di pervenire tutta intera a ciascuno, è divisa
nell'uditorio come in pezzi disgiunti;
la voce erra nella sala, e l'influsso sul pubblico più
non si ottiene. Per esercitarsi nella vociferatio, bisogna
appunto usare poco f'fr'f suono, poc"o fiato; ma mirare in
lontananza, in una gran sala j Ì J( o in un corridoio, un uditore
ipotetico, curando a un tempo 'v'H la portata e l'articolazione. I
risultati non si faranno aspettare.
, Da ciò si deve concludere che non è essenziale alla
portata | /d'una voce che l'acustica sia buona. Se lo e, tanto meglio;
è ^ ? una pena di meno: la stessa sala porterà la tua voce a destina-
I zione. Ma se la sala non la porta, portala tu stesso. Le prime sillabe
lanciate alla parete devono farti conoscere se la voce vi produce il suo
effetto. Un buon oratore, appena ha aperto la bocca, giudica la sua sala
e si mette all'unisono con essa. Se è una cassa armonica, come la sala
del Conservatorio a Parigi, egli non ha che da modellare la sua voce in
qualche modo sul posto, come si lascia cader un sassolino nell'acqua e
'*• partiranno senz'altro le ondulazioni. Se la sala non rende,
bisogna gettare il sassolino più lontano, come in un'acqua pesante o in
olio denso, che ondula penosamente. Si arriverà ugual-j mente. Le buone
sale portano tutte le voci; le buone voci (cioè | le voci bene
impostate e ben modellate) portano in tutte le sale.
», Un'osservazione importante per un predicatore è
questa. J iJlostri pulpiti .sono di solito addossati a una colonna, o
sotto ùffàrcata, e non abbiamo davanti a noi che poco spa-
— 100 —
5 zio; i nostri uditori formano una massa allungata in
due parti, di modo che la mira di cui parlo sembra impossibile, salvo a
voltarsi a destra e a sinistra, ciò che sarebbe disastroso. Ma
l'inconveniente, che è reale, non è invincibile. Si può mirare senza
vedere. Ciò si farebbe anche a occhi cimisi. È l'immaginazione che
deve qui supplire al riguardo. Pensa a' tuoi uditori lontani; dopo avere
osservato salendo in pulpito il loro gruppo, devi rappresentartelo alla
sua distanza vera e adattare in conseguenza la voce. Ciò riesce
benissimo.
Del resto bada che le piccole sale, m cui certamente
parli più spesso che nelle grandi, non ti facciano perdere l'abitudine
delle grandi. Quanto più piccola è una sala, tanto più è
impor-" fante parlare con pochissima voce, senza appoggiare in
alcun :
modo, «a voce libera»; senza questo s'impara a
«serrare» e si guasta l'organo. È la tendenza dei professori, che
appog-^ giano sulla voce come per far penetrare le idee a colpi di'
strozza. Essi vi rischiano assai; possono avere presto una voce rauca,
impedita da mucosità prodotte dall'ingorgo delle rè-;
gioni glottiche, in ogni caso troppo spinta, senza
ampiezza e senza proiezione.
È una regola assoluta che non bisogna mai parlare forte
( | senza parlare largo e senza parlare lontano. E, come
abbiamo"" ' i ; veduto, la reciproca non è vera: si può
parlare lontano e largo f
\ ; senza parlare forte.
I Questa politica di economia e di giudizioso impiego è
per
| la voce un mezzo di preservazione mirabile. All'uopo
c'è un
', rimedio. Ci si libera molto bene dalla raucedine
parlando o cantando, se ciò si fa con una voce bene impostata per lon-
[ tananza, e larga. Le affezioni delle vie
respiratorie sono combattute da un impiego normale dell'organo e dal suo
allenamento progressivo. La vita si difende sempre da sé, quando
funziona secondo la sua propria legge; il suo cattivo funzionamento
invece la mette in stato d'inferiorità, a riguardo di ciò che le può
nuocere.
E) la D'UBATA E
LA RESISTENZA DELLA VOCE.
Appena occorre aggiungere che la buona impostatura della
voce è una condizione di durata e di resistenza, per il caso di lunghi
discorsi o di serie oratorie. È la stessa voce che suona bene, che fa
cantare la sala, che si regge, e che dura, oltre che può sostenere la
varietà de' suoi effetti, in vece di fissarsi in
— 101 —
f un atteggiamento di resistenza disperata, come di un
lottatore che si appuntella a un pilastro. Questa voce, essendosi bene
stabilita, prende un andamento infaticabile; può andare attraverso a
tutto, andare sino alla fine. Il suo possessore l'ha adagiata sulle
parti forti dell'organo vocale come il sacco sul dorso dell'alpinista.
Chi è così fornito, può andare lontano.
C'è ancora, è vero, qualche condizione. Anzitutto devi
.'collocare la voce, fin dal principio, nel suo registro naturale. : Se
sei tenore, non prendere una voce di baritono o di basso, e viceversa.
Avresti un bei prenderla benissimo, sotto l'aspetto della impostatura
come l'abbiamo definita fin qui, ma non la potresti durare, perché dura
solo quello che è naturale, quello che risponde alle nostre attitudini
native, alla nostra costruzione.
I l'Tell'interno della tua tessitura, come dicono
i musicisti (1), fyaoi produrre tutti i tuoi effetti; questi non
dipendono che dalle relazioni introdotte; il valore assoluto del tono è
indifferente, nel modo stesso che diremo: i gesti non devono
oltrepassare una certa ampiezza, ciò che non impedirà alla loro gamma
di essere indefinita, in espressioni e in figure. Pare che Cicerone si
facesse dare il tono dal flauto: è vero che la declamazione latina,
come la declamazione drammatica nel secolo XVII, era una specie di canto
(2); ma se il nostro parlare attuale è meno musicale, ha nondimeno la
sua tonalità, che s'impone.
D'altra parte nell'interno della stessa tessitura, vi è
una dominante, cioè un punto massimo di facilità, in cui il movimento
vocale risponde alla spontaneità più naturale. È ciò che chiamano
note medie, e il parlare ordinariamente sulle note medie da alla voce il
suo massimo di potenza, di naturalezza, di durata, di espressione e
d'incanto.
Ciascuno può trovare le sue note medie prendendo il la
;con un diapason e, partendo dal la, emettendo molto posata-'
mente il suono A a diverse altezze vicine, fino a che egli in-!
contri il suono emesso colla maggiore facilità e sonorità per una
stessa pressione di fiato. Dopo, a titolo di esercizio, si può modulare
attorno a questa nota abbandonandola il meno
(1) La tessitura è l'insieme dei suoni che
convengono nel miglior modo a una voce. Il registro è
l'estensione della scala vocale propria di ciascun cantore secondo il
diapason che è il suo (soprano, tenore, baritono, eco.) o ancora la
scala dei suoni nei diversi modi di emissione della voce (voce di testa,
voce di petto).
(2) La Champmeslé modulava cosi artisticamente che
Luili notava, sembra, le sue inflessioni per riprodurle, amplificate,
nella sua musica teatrale,
— 103 —
possibile prima, poi con un po' più di allontanamento,
fino a rispondere ai varii bisogni della dizione. Se si elaborano così
gli allontanamenti nello stesso tempo che le note medie, si darà alla
voce non solo più estensione, il che è già un gran vantaggio per la
varietà e la ricerca dell'azione oratoria, ma anche più facilità e
pieghevolezza nell'uso delle stesse note medie. Si sa che esercitarsi
negli atteggiamenti difficili rende più facili e più armoniosi gli
atteggiamenti facili, come la danza conferisce al portamento e lo sport
alla marcia. Per questo, è in special modo efficace il canto,
segnatamente gli (esercizi di ottave, di semitono in semitono, nei due
sensi, avendo "Tgran cura di scivolare dal piano di ciascuna nota
alla sua ot-Itava, senza portare la voce.
È sempre sulle note medie che bisogna fare i primi
passi. Si da così a se stesso la nota. Se l'hai sbagliata, devi
ritornarvi alla prima pausa importante, e poi conservarla, sorvegliando
le fini di frase, che per inflessioni ascendenti o discendenti, sempre
aggravate, ti conducono alla « soffitta » o alla « cantina ». Se
l'inflessione è stata discendente, dovrai dunque at-jtaccare poi più
alto, più basso nel senso contrario, salvo ohe', ||
naturalmente, il cambiamento di tono non sia voluto.
to Se trattasi di un esordio, è affatto naturale che
esso serva a tastare il terreno sotto tutti gli aspetti, a stabilire la
propria tonalità, ad ascoltare l'acustica del vaso, a prendere un at-|
teggiamento favorevole, in modo da cominciare poi veramente con tutta
sicurezza, per sé e per gli altri. Perché anche il pubblico ha bisogno
di essere fissato; egli prende possesso della tua personalità vocale
come dell'altra; sapendo con chi ha da fare, ti ascolterà
meglio.
Finalmente nel corso della parola, un oratore deve dare
Jalla sua voce, come al suo pensiero, come alla sua sensibilità, : come
alla sua immaginazione, uno sviluppo progressivo. È una condizione di
armonia, ma anche di durata. Partire a tutta vela è uno sbaglio, anche
se si tratta di effetti ex abrupto. Sarebbe un grand'errore
credere che il Quousque tandem Ca-tilina, sia stato pronunziato
gridando a squarciagola. Comin-.^ ciando così, non sarebbe più
possibile sostenersi, e meno an-^ ''cora crescere. Si cominci piuttosto
con un tono moderatis-j/ slmo, e perfino — specialmente se si teme di
essere a corto" più tardi — con un tono debole, come per esigere
una maggiore attenzione. Ma allora si compensi con la nettezza
dell'emissione e dell'articolazione quello che si rifiuta, alla forza,
103
CAPITOLO IV.
L'emissione della voce.
A) le VOCALI.
L'articolazione.
Formata correttamente la voce, e perciò bene impostata,
resta da emetterla, da distribuirla m sillabe, in parole, in frasi.
• La frase oratoria e il vocabolario saranno studiati
più avanti •in quanto al senso; ma l'uso della voce da se solo impone
già
- certe regole. Si tratta qui del modellato esteriore,
non del contenuto spirituale, e questo impiego della voce, distinto
dalla fonazione propriamente detta, che è la formazione del
suono musicale, è quello che si chiama articolazione.
I Gli elementi dell'articolazione sono le vocali e le
conso-Jianti, e bisogna anzitutto considerare la loro emission~e, prima
.di venire alla stessa articolazione.
Una buona emissione delle vocali esige che, quando
queste Ivocali cominciano una parola e specialmente una frase, siano
jbene attaccate. L'attacco è il modo con cui il suono è affrontato,
modo brusco, molle, o fermo, e il buono è manifestamente quest'ultimo.
Un attacco troppo brusco è sgradevole, inestetico; un attacco molle non
impone abbastanza il suono e nuoce alla chiarezza; esso è anche
inestetico, come tutto ciò che manca di affermazione.
i II buon attacco si fa con un leggero colpo di
glottide, an-[ zichè coll'espirazione semplice, che è troppo indecisa.
Il colpo di glottide è prodotto da una leggera esplosione, poiché
l'aria accumulata dietro alla glottide sfugge con una certa
subitaneità, a guisa della « nota piccata ».
Bisogna guardarsi dall'esagerare quest'effetto, e per
questo, è meglio non pensarci, dopo che con l'esercizio — supposto
che si reputi necessario — si è acquistata la nettezza dell'attacco.
L'esercizio consiste naturalmente nell'emettere le varie • vocali
attaccandole con il colpo di glottide: a, a, a, a; e, è, e, e,
eoe.
— 104 —
Ma, del resto, non è questo il principale. Il
principale è di dare a elastina vocale il valore proprio, voglio dire
il suo corpo;
infatti è per il corpo di voce che le vocali si
distinguono tra loro, poiché tutte possono essere emesse sulla medesima
nota. Si sa fino a qual punto, si dimentichino, a questo riguardo, i
cantori e principalmente le cantatrici. La maggior parte, oltre alle
più svariate deformazioni, arrotondano tutte le vocali,
• per dar loro più sonorità, in tal modo che le
parole del canto ; quasi non sono più comprese; si ammira forse la
voce, ma non 'si sa che cosa essa dice.
Gli oratori hanno maggior rispetto per la lingua; ma
quanto sono rari quelli che distinguono nettamente un e chiuso da un è
aperto, un è aperto da un o chiuso, oppure che sanno dare il loro vero
colore a un a, a un i, a un u, a un dittongo! '
N'on si potrebbe dire l'oscurità che una tale imprecisione getta i nel
discorso, appena che la voce è un po' debole o aumenta '' la distanza.
La giustezza del suono è la condizione della sua chiarezza; senza di
essa tutto si confonde.
Aggiungi che la varietà dei suoni è una ricchezza
della lingua, una condizione del suo carattere: si deve forse sfigurare
il linguaggio che si usa?
Dunque l'oratore non trascuri di verificare su questo
punto la sua dizione, e al bisogno la corregga. L'esercizio sarà di
pronunziare di seguito, un certo numero di volte, tutta la serie delle
vocali semplici: a, è, e, i, o, 6, u, e dei dittonghi. Poi si
può inserire successivamente diverse consonanti negli intervalli: da,
de, di ... ma, me, mi ... e finalmente pronunziare frasi in cui ti
costringi a precisare con la massima esattezza il suono delle vocali,
badando, questa volta, alla loro quantità, lunga o breve, nello stesso
tempo che alla loro qualità, aperta
•o stretta.
B) le
CONSONANTI.
Le, consonanti devono, essere scolpite nettamente col
loro corpo di voce, con la loro vivezza propria; se sono szbilanti,sibi-lino;
se sono esplosive, esplodano, ecc. Perché, se nelle sillabe, le vocali
forniscono il colore del suono, le consonanti gli danno il rilievo, e da
ciò risulta per la maggior parte la chiarezza della parola, È per
mezzo delle consonanti che si articolano le parole, le quali senza di
esse sarebbero prive di ossatura, di legamenti e di tendini. Si può
aggiungere che la pronunzia
?
— 105
— •
I delle consonanti è ciò che da alla voce più
personalità, più • originalità. La vocale impegna soprattutto la
vibrazione dell'aria, la consonante quella degli organi.
j*a È dunque troppo necessario vegliare, e all'uopo
esercitarsi, ( specialmente per chi non è dotato da parte dell'organo.
L'articolazione sostituisce la voce. Accade che una forte voce,
dominando un'articolazione debole, l'anneghi nel rumore e non arrivi che
alla cacofonia, mentre una voce mediocre s'impone. Un vaso troppo sonoro
viene corretto solo da questo;
e non è forse altresì necessario, come dicevamo,
portare la voce in lontananza mediante una buona impostazione,
senza dubbio, ma anche per mezzo dell'articolazione, nei casi in | cui
il piano o il pianissimo è richiesto dall'espressione
della |frase, dal suo carattere d'intimità o di segreto? In ogni
occa-"^ sione, « l'articolazione è cortesia del dicitore » (1),
perché essa; j lo fa capire senza pena, nello stesso modo che il
disegno, agli occhi d'Ingres, è «la probità dell'arte»."
C} le SILLABE.
Per mezzo della consonante, dopo la vocale, noi abbiamo
raggiunto in modo affatto naturale l'articolazione, che presiede t alla
formazione e al collegamento delle sillabe. Bisogna arti-!
colare bene; ma ciò non basta; bisogna anche articolare tutto;
non dire disertazione per dissertazione, disegno
per disegno, ricchessa per ricchezza, esiandio per,
eziandio; bisogna fare spiccare le doppie e dare a ciascuna consonante
tutto il suo valore.
; Che se non bisogna omettere delle lettere,
neppure se ne ^devono aggiungere, dire Bollogna per Bologna, Ho
per io, vuomo per uomo, ecc.
, Le sillabe iniziali e finali sono spesso trascurate
dagli oratori; si attacca male e si chiude la bocca o si lascia cadere
il flato prima dell'ultima articolazione. Eppure questa ha lo stesso
valore delle altre, e dev'essere sostenuta, portata agli orecchi degli
uditori piuttosto con favore che con negligenza, come una conclusione.
Si badi di non masticale le parole, sotto pretesto di
articolarle. È un grave errore. Ciò è brutto, penoso e inutile. La
più vigorosa articolazione non esige affatto che si scostino e
(I) Coquelin ainé.
— 106 —
si avvicinino i denti: la prova è che si può
articolare a denti stretti, il suono ci perde, ma non la chiarezza. In
pratica, durante l'emissione, i denti si devono tenere quasi
immutabilmente circa a un dito di distanza; meno, soffoca il suono;
più, lo rende esitante.
Parimenti, le labbra non devono cercare di modellare la ;
pronunzia solamente col loro movimento; esse non darebbero che smorfie.
La pronunzia si ottiene con un adattamento ge-<nerale delle pareti
boccali, non con le sole labbra. «Parlate ' con la bocca piuttosto che
con le labbra », dice Quintiliano.
È da notare che la disposizione boccale che favorisce
meglio l'articolazione è quella che favorisce anche la portata. Quando
una sillaba è bene articolata, per ciò stesso si diffonde bene, e il
minimo sforzo la rende pienamente sonora.
Additiamo ancora a questo riguardo la tendenza ad abban-\
donare l'articolazione nei momenti patetici, là dove appunto p
offrirebbe maggiori vantaggi. Si torna al grido indistinto, in n cui
il suono non è più neppure una nota, ancor meno una n sillaba, e ci si
affatica senza profitto. L'articolazione è un elemento importante
dell'espressione: è un errore privarsene nel momento in cui si vuole
essere più espressivi.
All'opposto, nei momenti di intimità avviene che si bi-
. I' sbiglia confusamente, e l'errore è pari. Abbiamo detto che
lo" - stesso pianissimo deve diffondersi bene; ma se si
diffonde '<8' bene come suono, si deve, diffondere bene
anche come parola;' ~So, ciò non ne segue. Succede che il suono
si diffonde bene, mentre l'articolazione cade per via. Dunque sia tutto
proiet- ' tato alla stessa distanza, breve o lunga, in tal modo che l'ar—
, ticolazione corrisponda in intensità all'estensione di portata che
esige l'uditorio. . Da ciò si vede quale attenzione costante, benché
subco- :
sciente, si esiga dall'oratore sotto questo semplice
aspetto di 'una fonazione e di una articolazione corretta! Bisogna udire
< j' la propria voce per guidarla; è un'abitudine da creare. Ma ^
gl'attenzione non è efficace nel discorso se non a patto che tuf/ ti
sia per lungo tempo affaticato negli esercizi. Le qualità da ^/
ottenere sono la correttesaza, la nettezza, il vigore
e, qualità m-~rf' prema, la facilità, la leggerezza di
tocco; perché l'articolazione, ' ; nur mostrandosi perfetta, non deve
apparire una fatica. E ':.t questo è laborioso soprattutto.
Menziono solo a memoria i difetti da vincere prima di
tutto, se per disgrazia qualcuno ne è afflitto: il barbugliare,
così-
— 107 —
frequente, e che riesce presto a mettere m ridicolo chi
ne è affetto; lo strillare volgare e penoso; il balbettare
quasi inconciliabile con la parola pubblica, e quei difetti meno gravi,
ma già così spiacevoli, che si chiamano bisciolare, cinciscMare,
biascicare, ecc. Studiare ciascun di questi difetti e i loro rimedi
sarebbe troppo lungo. Si consultino i lavori speciali. Kon aggiungo che
un'osservazione, in vero, capitale: essa è relativa al parlare legato,
di cui abbiamo già detto l'importanza a proposito del fiato. ..^
,,„.•»"- •
: D) il
DISCORSO LEGATO.
Esso consiste nel mantenere nella pronunzia una
continuità che non sia interrotta se non pensatamente, per il senso,
mai per piccole pause arbitrarie, ne per quelle fughe che sono solite a
prodursi in occasione della pronunzia delle consonanti.
Quest'ultimo punto è il più delicato, e molti non
sanno che cosa si voglia da loro quando si formula questa esigenza.
Quando avranno progredito, allora soltanto si renderanno conto del male,
e loro sarà detto come a Pascal: « Vedi che cosa ti è perdonato ».
Ciascuna vocale è una tenuta; ciascuna
consonante è un movimento variato, un turbamento, in contraddizione con
la tensione glottica che caratterizza la vocale. Dunque, perché la voce
abbia della tenuta, bisogna prima impostare bene le vocali; ma bisogna
poi difendere quanto è possibile la loro continuità contro
l'interruzione delle consonanti, legarle tra loro nonostante le
consonanti, attraverso alle consonanti, pur martellando o impastando
vigorosamente ed esattissimamente le consonanti.
Si provi a pronunziare lentamente una parola qualunque,
per esempio, la parola incoraggiamento, cercando di saldare
strettissimamente tutte le vocali in una colatura continua, mentre le
consonanti intercalano il loro suono proprio come furtivamente, senza
interruzione:
in - o - a - ia - e - o o - r - gg - m - nt.
Se si procede bene, si sentirà nella stessa bocca,
senza parlare dell'orecchio, la fluidità e la felice unità del suono.
È quello che i cantori francesi chiamano cantare « l'archet a la corde
», perché il violino offre il tipo più evidente dell'ese-
— 108 —
cuzione legata (1). Essi ne conoscono insieme la
difficoltà e il pregio. Faure giunge fino a dire che questa qualità ha
formato una gran parte dell'arte dei cantori celebri, ed egli era
uno di essi.
Questo modo di cantare o di parlare cattiva, nel senso
proprio della parola, l'attenzione dell'uditore e non gli permette di
sfuggire. È come una catena che gli si getta al collo, in vece di
pozzetti di metallo o di sughero! Così, del resto, egli è molto meglio
inteso, perché l'atmosfera parimenti si trova captata, di onda in onda,
e per essa l'orecchio.
L'esercizio da fare per ottenere questo dono prezioso è
tutto indicato dalla definizione dell'atteggiamento. Si ha solo da
variare e generalizzare il saggio ora suggerito. Ma l'esercizio è
profittevole soprattutto cantando; perché la continuità del suono,
essendo allora imposta per una parte, aiuta ad acquistare quello
che manca.
(1) Anche nel pianoforte vi è il legato, opposto
allo staccato.
109
CAPITOLO V.
Le qualità intellettuali del predicatore.
I. — II buon senso.
Cicerone, parlando delle qualità intellettuali
necessario all'oratore, così si esprime: « Dell'eloquenza come di ogni
altra cosa, il fondamento è la sapienza ». Quel che egli chiama
sapienza, è ciò che noi chiameremmo, in italiano, buon senso, o senso
retto, rettitudine di spirito, che, manifestamente, è il fondamento
primo in ogni materia.
Sapere dovunque riconoscere e isolare la verità
elementare, allontanarla dalle complicazioni, dalle convenzioni, dalle
falsificazioni, e disporsi così a vedere tutto al naturale, tutto come
la natura, tutto come Dio, non sarebbe il'buon senso assoluto, e per
questo solo fatto il genio e l'originalità stessa? Se Michele! potè
definire il carattere di Giovanna d'Arco « il buon senso
nell'esaltazione », non ci sarebbe che da attutire un poco l'ultima
parola per fare di questa formula la definizione del buon oratore.
La parte di una tale qualità si delinea già nella
scelta dei soggetti, per adattarli ai bisogni e al carattere proprio
degli uditori; apparisce nella composizione, che dev'essere prima di
tutto giudiziosa, presentare ragionevolmente cose ragionevoli, senza di
che l'ingegnosità, il movimento, la stessa sublimità non gioverebbero
a nulla. L'elocuzione ne dipende, per ottenere un discorso diretto,
calcato sulle cose, conveniente alle persone e all'oratore. E la dizione
ad esso si ispira per allontanare l'agitazione fittizia, la vanteria, in
favore del serio e del naturale.
In una parola, è il buon senso che da al discorso,
sotto tutti i rapporti, le sue salde fondamenta. Se esso presiede, non
si può fallire del tutto; se manca, i più bei doni non possono far
capo che all'impotenza. Potrai essere ammirato, anche se tu ti
dimentichi a tal segno da « lapidare il buon senso con delle comete »,
come diceva Leone Bloy; ma nessuno ti seguirà. Non ci si abbandona che
al vero. Ma davanti al vero, chi volesse pur rifiutarsi, per lo meno
abbassa la testa.
—110-Che rimedio c'è per l'assenza di questo dono
essenziale?^ Si può dire che non ce n'è, perché anzitutto una tale
defi- ;
cienza di rado è riconosciuta, e del rimanente è così
fondamentale che disarma. Tuttavia bisogna ricordare che in ciò che vi
è di primitivo per lo meno, il buon senso è « la cosa meglio
distribuita del mondo» (Descartes), poiché esso è «il fondo,
l'essenza stessa dello spirito », come spiega Bergson. Si può dunque
tentare di far rientrare in se stessa la gente, di farle riconoscere
«il dono di Dio», se le persone hanno tanta umiltà da sentirsi
sprovvisti.
Sorveglino se stessi; diffidino delle loro proprie
concezioni, e ascoltino gli altri; confrontino i loro pensieri con
quelli di menti che godono riputazione di sapienza; in occasione di una
contradizione, si raccolgano, in vece di reagire subito. È questo un
gran segreto! A respingere un rimprovero, non si guadagna nulla; a fare
di un rimprovero ingiusto un oggetto di riflessione, si guadagna sempre,
e se il rimprovero è fondato, -ci si corregge.
Il sentimento soprannaturale è qui il mezzo per
eccellenza;
perché esso appunto ci distacca e ci rende suscettibili
a riguardo del vero. È cosa assai rara che un santo manchi di buon
senso. Può avere delle originalità, ma che nascondono un senso
profondo delle cose, degli uomini e delle circostanze. Nessuno ha più
spirito che lo Spirito Santo, e stando vicino a lui, si prende della
rettitudine, spiritualis iudicat omnia.
È indicatissimo, se si diffida del proprio giudizio, il
frequentare specialmente, fra i maestri, quelli che brillarono prima di
tutto per il giudizio: come Bourdaloue, preferibilmente a coloro che,
come Massillon o Fénelon, ebbero una tendenza all'esagerazione o al
paradosso. Abbiamo già detto che ciascuno si deve scegliere i maestri
considerando i suoi bisogni, si tratti di accrescere e di valersi delle
proprie qualità o di sovvenire alle proprie deficienze.
II. — La cultura.
A) la CtTL'rUBA GENERALE.
Saremo obbligati a insistere maggiormente su ciò che
riguarda la cultura, perché diverse considerazioni devono intervenire
per giustificarla, caratterizzarla, segnarne le condizioni e le
molteplici richieste.
— Ili —
La cultura è cosa diversa dall'acquisto; essa lo
raggiunge;
ne dipende strettamente, ma non potrebbe confondervisi.
Se un uomo colto è necessariamente un uomo istruito, non è per questo
che egli viene così qualificato, ma bensì in ragione dello sviluppo
comunicato alla sua mente dalla frequentazione delle idee e dei fatti,
delle persone e delle cose, ed egli dimostra questo sviluppo con una
certa prontezza a esplorare felicemente un dominio qualunque, a studiare
una questione, a risolvere un problema, a esporre chiaramente un'idea, a
convincere, a dilettare, ad affascinare un uditorio, e questo a ogni
richiesta, intendo dopo una conveniente preparazione.
Questa qualità ne suppone molte altre, e ne è la
risultante;
fecondata dal lavoro d'onde è nata, in grazia del quale
si conserva, essa fa di tè un oratore sempre disponibile, sempre
adatto, col verbo di verità sulla punta delle labbra, che offre
un'anima di una sonorità ricca, perché essa ha spesso e in molti modi
vibrato, per lei sola o per altri.
È questo il frutto dell'istruzione, che
diversamente non sarebbe che legna e fogliame. L'essenziale è di farsi
un'anima;
solo dopo la scienza giova. Avere molta scienza, è
avere molte munizioni nella cartucciera; ma prima di tutto bisogna
essere un buon tiratore.
Per questa ragione, la cultura è più difficile ad
acquistare e più rara che l'istruzione libraria; è più facile che uno
diventi un rotolo di pergamena che un uomo, e vi sono meno buoni atleti
che pesi gravi. Se costa sempre l'imparare, costa anche più il
drizzarsi, il conformarsi l'essere in vista di tutti gli usi del
pensiero e dell'azione. Si amerebbe di riposare sui proprii doni, o
affidarsi a facili ricette. Si apprezza assai il gratuito! ci si
abbandona tanto volentieri alla Provvidenza! Ma S. Tom-maso c'insegna
che il miglior dono della Provvidenza alle sue creature è la loro
capacità di gratificare se stesse, di agire, e con ciò di causare la
lor propria ricchezza. La nostra cultura è un dono che noi stessi,
insieme con Dio, ci siamo fatto, e ci appartiene così doppiamente,
pronta a servirci anche doppiamente, come tutto ciò che costa e tocca
più da vicino la persona.
Questa cultura non è mai completa; deve sempre essere
proseguita, poiché la nostra mente è dotata di una perpetua capacità
di crescere, e ogni acquisto è per lei la sicurezza di nuove
possibilità. La prospettiva davanti a noi è indefinita; un'anima
ardente non si soddisfa mai. Si parte, ma non si arriva, e,
— 112 —
per quanto lontano sia uno arrivato, vi è qualcosa di
vergognoso a trascurare di progredire ancora. È quello che volevano far
sentire a Gustavo Planche certi compagni di laboratorio quando gli
dicevano, convinti che egli non si rinnovasse più: « Tu vivi della tua
grascia ». La parola è un po' grossa, ma forse è meno dura di quella
dei nemici di «ST.-J. Henner alla fine della sua carriera: « Egli non
fa più che dei falsi Henner ».
Vi sono delle imprese il cui scopo è limitato; con poca
o molta applicazione si ottiene quello che si cerca: qui, invece, non si
può sperare che di avvicinarsi. Ma perché ciò dipende dalla grandezza
dell'opera, non hai da temere inganno; basta proseguire, quando ti sei
dato tutto quanto.
Del resto, solo nell'assoluto, in se stesso, il nostro
compito apostolico prende questo carattere fuggente: in Dio, esso si
precisa, e si precisa nella proporzione de' suoi doni e del nostro
sforzo normale; fuori di lì, noi non abbiamo nulla da cercare. E in
quanto al tempo, è quello che trascorre tra la nostra vocazione e
l'ultimo sonno. Quello che la vocazione incomincia la morte compisce.
Essere contento di meno, sarebbe consentire a non essere se stesso;
perché anche la nostra durata fa parte di noi stessi, e il tempo non
viene mai a noi senza avere qualcosa in mano.
Leonardo da Vinci nel suo Trattato della pittura,
scrive:
« Quando l'opera soddisfa il giudizio, che triste segno
per il giudizio! E quando l'opera supera il giudizio, è peggio, come
avviene a quelli che si maravigliano di avere fatto così bene. Ma
quando il giudizio sorpassa l'opera, ecco il segno perfetto ».
« Per ben imparare il proprio mestiere, dice dal canto
suo Oamillo Saint-Saens, bisogna impararlo tutti i giorni, e non si sa
mai abbastanza ». Si tratta qui di musica; ma, per noi, è ben altra
musica! È spaventoso domandarci, pensando al nostro ufficio di sacri
rappresentanti e di provveditori delle anime:
che cosa ho io tra le mani? quale formazione mi son
data? Chi sono io, e con qual diritto alzerò la voce in mezzo alla mia
generazione'? Per anni si è creduto che io accumulassi:
dov'è la mia raccolta? lavoratore, dov'è la tua messe?
Mostra quello che è in tè, o sacerdote, prima di gonfiare la voce per
insegnare a' tuoi fratelli quello che è in loro stessi e quello che è
in Dio.
In questo, la nostra facilità di lavoro non serve di
scusa;
o piuttosto è un nuovo obbligo. Quanto più si ha il
lavoro fa-
— 113 —
cile, tanto più si ha il dovere di renderlo accanito.
Chi non impiega per Dio tutte le sue facilità ne abusa. Egli, con un
minore sforzo pretende di avere il medesimo rendimento di un altro, ed
è vero materialmente; ma moralmente, il suo rendimento non è il
medesimo; perché il rendimento morale è relativo alle capacità, come
l'interesse al capitale: è quello che la parabola dei talenti ci
dichiara. Conoscere se stesso, e mettersi in pieno accordo con sé per
giungere a capo di sé, tale è dunque il programma, o in altre parole,
realizzare, per mezzo della cultura, un'espressione completa e, se così
posso dire, magistrale di se stesso.
Questo non si può ottenere che per tappe e per assaggi,
a prezzo di molti errori, e perfino di molti sbagli; ma anche gli errori
e gli sbagli, riparati, sono biffe della strada. Picchiandosi sulle
dita, l'apprendista fa « entrare il mestiere ». Spesso i lumi
definitivi e gl'impulsi sovrani ti sono forniti verso gli ultimi giorni,
facendo i tuoi ultimi passi. Allora bisogna affrettarsi. Ma tutta la
vita si deve dirigere verso questa mèta e cercarvi la propria regola.
Quanto più presto sarà raggiunta, tanto più presto sarà aumentato il
rendimento di quella vita che da principio non ha che speranze, poi
risultati da principianti, parziali, più tardi, e qualche volta
tardissimo, la sua pienezza. Non cominciamo veramente ad agire se non
dopo essere! conquistati, attrezzati, coltivati; da prima è il bambino
che agisce in noi, non l'uomo.
Il predicatore che parla, come lo scrittore che
pubblica, dovrebbero essere a ciò così pronti da non aver bisogno, in
un dato caso, se non di manifestarsi tali quali sono. Il loro silenzio
dovrebbe contenere più di quello che deve dare la loro parola; infatti
Emerson ebbe ragione di dire: « Ogni uomo che vuoi fare bene una cosa,
deve discendervi da più alto (1) ».
Ciò non dispenserebbe da un duro lavoro. Quando
Benedetto Varchi diceva a Michelangelo: « Tu hai un cervello di Giove
», il Buonarroti rispondeva: « Ci vuole il martello di Vulcano per
farne uscire qualcosa ». Quel che è ben certo si è che se il cervello
è vuoto, neppure il martello di Vulcano ne farà uscire qualcosa.
Quando manca la cultura, non è possibile supplirvi con la preparazione
immediata, con lo sforzo del momento; perché ogni soggetto che si vuole
trattare, ogni idea che si vuole esprimere è solidale con una folla
d'altre e
(1) Lw hommes représentatìfs, platoit.
8 — SBBllLLANaBS. L'watwe cristiano.
— 114 —
•vi deve trovare la sua luce, il suo arricchimento,
per lo meno la sua forma espressiva.
Una concezione viva e feconda è quella che connette
ogni idea nuova, ogni impressione del momento col più gran numero
possibile di pensieri e d'impressioni anteriori, in modo da provocare,
ogni volta, una utilizzazione sintetica delle forze acquisite. Tal è «
quella facoltà di pensare in grande » di cui parlava Buffon a
proposito di Linné, e che, diceva, « moltiplica la scienza ».
Non si creda di essere così invitati a uscire
dall'argomento, a procedere per digressioni perpetue, come certi «
pozzi di scienza » di un giudizio limitato. No, evitando pienamente lo
scoglio del sovrabbondante, del disparato, dell'approssimativo, si può
dar prova di una grande cultura e trame un doppio vantaggio.
Anzitutto quello che si concepisce in modo nuovo non ti
è come estraneo, a guisa di un contributo senza radici interne, senza
connessione naturale; ciò subito prende posto in uri organismo
spirituale e vi trova il suo vero significato, i suoi limiti e il suo
pieno valore. È ciò che faceva dire a Goethe, nel suo viaggio in
Italia: « Non voglio aver requie finché nulla sia più per me parola e
tradizione, ma sì concezione vivente ».
In queste condizioni, un'idea è una vera luce e non
un'arida proposizione di manuale o di indice delle materie; quando si
esprime, se ne può mostrare lo splendore intimo e renderla rischiarante
per altri, come il bravo pittore, in mezzo a una ricca gamma di valori,
può sopra un punto far cantare il tono, in giusta continuità con tutto
il resto.
Sarebbe il caso di dire con la Scrittura: « II fuoco si
accende in proporzione della legna della foresta » (JSccli;
XXVIII, 12), e viceversa, con l'arte poetica che denunzia il poeta senza
cultura generale: « E il suo fuoco, sprovvisto di senso e di lettura,
si spegno ad ogni passo per mancanza di alimento ».
Sainte-Beuve, ne' suoi CaMers, fa questo
rimprovero a Thiers: « Egli ti parla alla sera di ciò che ha imparato
al mattino; è uno di quelli che non possono conservare il loro vino in
bottiglia, e ciò apparisce chiaro dal loro stile, che non ha ne capo ne
coda ». Sainte-Beuve è una mala lingua; ma Thiers era, difatti, una
lingua troppo facile.
Secondo vantaggio, che ci faceva prevedere il detto di
Emerson: la mente così coltivata, benché applicata al proprio preciso
lavoro, sarà sempre al di sopra delle strette esigenze
— 115 —
dell'oggetto, sembrando sempre che le oltrepassi,
lasciando tracce di nuove germogliazioni sulla linea seguita dallo
sviluppo letterario, come su un ramo vivo. Se queste gemme non si
schiudono, è perché un dato frutto è atteso alla cima del ramo e il
succo deve correre; ma si sentono le riserve latenti; a ogni istante si
indicano delle possibilità di fioritura;
la scelta delle parole, il procedere dei periodi, le
parentesi rapide, gli stessi maneggi che si fanno per evitare le
digressioni, tutto da l'impressione di una ricchezza non impiegata, ma
disponibile, di direzioni che si potrebbero prendere in vista di nuove
esplorazioni, e che non si sacrifica se non al metodo, ai principii di
rettitudine che limitano esteriormente il pensiero, ma non lo possono
impoverire.
La linea secca, in arte, è un segno di povertà
estetica; le grandi epoche non la conobbero; essa non apparisce se non
nei pasticci: tele di Overbeck scimmiottanti l'Angelico e Eaf-faello, la
Maddalena imitante il Partenone, o S. Olotilde col suo falso gotico.
Nel discorso del vero oratore, si riscontrano la linea
delicata e ondulosa dell'Angelico," i profili gonfiati di Chartres
o di Beauvais. Ed è la cultura che da questa pienezza viva, questa
ricchezza della linea ideologica che anuunzia dei so-prappiù spirituali
in tutti i sensi.
Il discorso di un uomo superiore, qualsisia soggetto
speciale egli affronti, da l'impressione di un paesaggio illimitato.
Nessuna cosa è rinchiusa in se stessa: nulla vi rimane stringato, ma
partecipa dell'atmosfera universale nella quale ogni idea s'immerge,
dell'essere universale al quale ogni essere attinge sempre senza mai
distaccarsene, e, inoltre, del mistero che avvolge tutto e magnifica
tutto.
Finalmente, in questo caso, si diventa inesauribili,
sempre in disponibilità di creazione inedita, sempre nuovi, in vece di
ripetersi, come tanti vecchi autori, tanti vecchi predicatori, occupati,
durante gli anni magri del loro declinare, a frugare nei loro cassetti o
nel loro ingrato cervello.
Perché la cultura produca tutti i suoi frutti, è
necessario che essa ubbidisca di buon'ora — non troppo presto però
— alla legge della divisione del lavoro e si orienti verso la
specialità, che è per noi la specialità oratoria. Infatti bisogna
notare ;
bene che i risultati attesi, come osservò Marcelle
Proust, dipendono qui meno dalla cultura in noi che da un certo talento
— 116 —
di proiezione che la rende comunicativa. Trattai ne La
Vie intellectuelle, questa questione delicata della specialità ne'
suoi rapporti con-la cultura generale; io non insisto qui, ma bisogna
ricordarsene.
Eugenio Delacroix fa giustamente osservare che «la
dispersione delle facoltà e degli sforzi che non menano direttamente a
una grande mèta è pressoché tanto funesta quanto la pigrizia » (1).
Si pretende che Giulio Favre a questo riguardo fosse arrivato a un
concentramento stupendo; quello che vedeva, udiva, leggeva o tentava,
nel suo pensiero aveva rapporto alla sua arte di oratore, e ne traeva
incessantemente perfezionamenti per il suo acquisto o per la sua
tecnica. Ma siccome tutto è in tutto, come bisogna sempre ripeterlo, si
vede l'ampiezza di una cultura anche specializzata, particolar-mente
quando la specialità è per sé vastissima, come gli oggetti del
discorso cristiano.
Trattando delle fonti della parola di Dio, noi abbiamo
indicato i principali domimi in cui si colgono gli elementi di una
cultura apostolica. Bisognerebbe aggiungervi quello che si dice ne La
Vie intellectuelle riguardo alle letture, alla sciensa
comparata, alle amplificazioni, al contatto con la vita, alle
relazioni necessarie, eco. Tutto quel volumetto non è che un manuale di
cultura. Io non voglio ricominciarlo; ma rimando ad esso con fiducia. Mi
contenterò di qualche osservazione sopra la tecnica speciale
dell'oratore: la lingua, la logica dimostrativa e la rettorica.
B} la lingua.
Un oratore cristiano deve sapere la sua lingua, quanto
si può sapere una cosa che fugge in proporzione che la si insegue e che
del resto è variabile. Assolutamente parlando, nessuno sa la sua
lingua; ma si può ignorarla più o meno, e un apostolo a questo
riguardo dev'essere all'altezza dei genii colti, dei genii distinti,
intendo tra quelli che parlano o scrivono. Senza ciò, egli umilia la
parola di Dio, e di più, si priva di un elemento essenziale di cultura
generale, per conseguenza di un mezzo di espressione e di un mezzo di
azione.
La lingua fa corpo col pensiero; ne è a un tempo un
residuo e una speranza, come l'humus delle foreste. Colui che
ignora
(1) OSuwes littéraires, pag. 123. Paris,
Grès.
— 117 —
il suo vocabolario e il modo delle articolazioni della
frase, che parla a un dipresso, è sospetto di pensare anche a un
dipresso e di soffrire di una gran povertà nelle sue concezioni
acquisite.
Si pretende che fare delle collezioni di francobolli
insegni molta storia: far collezioni di parole insegna molte idee;
precisare il proprio vocabolario, è aguzzare il proprio pensiero;
rettificare i proprii periodi con le loro concordanze e
con il loro esatto spiegamento, è rettificare i proprii concetti
e portarli al loro punto di schiarimento, alla loro piena giustezzà.
Chi non sa la propria lingua è un balbuziente; gli si desidera la
parola.
Praticamente, dopo gli studi regolari, non si deve
considerare che tutto sia finito; la lingua s'impara incessantemente, e
con facilità si disimparerebbe. Si rilegga di quando in quando la
grammatica, o si prendano le occasioni che si presentano di
rinfrescarla. Queste occasioni non mancano; un uomo attento è in dubbio
a ogni giro di frase: sincerarsene, in vece di passar oltre, è il mezzo
di perfezionarsi ogni giorno.
Altrettanto dico del dizionario. Appena che si esita sul
senso preciso di una parola, sulla sua proprietà in una data
circostanza, sulle sue concordanze, si ricorra al Fanfani o a qualche
altro oracolo. Così si guadagna molto; si acquista una quantità di
nozioni che a poco a poco si organizzano; gli esempi dei grandi autori
che si fanno passare sotto i nostri occhi, mantengono la nostra
familiarità coi nostri maestri; si ha presto un arsenale a propria
disposizione. Specialmente per l'improv-visatore è questa una
necessità primordiale. .
C) la
LOGICA DIMOSTRATIVA.
Ho parlato di logica dimostrativa: essa s'impara, o in
collegio, o in seminario, o in noviziato, o in qualsisia istituto di
educazione; ma allora i suoi rapporti col ragionamento oratorio non sono
sottolineati in modo ben chiaro; bisognerà ritornarci su, riflettere
sopra le regole a proposito delle loro applicazioni, insistere più
specialmente ancora sui sofismi e le tendenze abituali dell'errore. Ciò
permetterà di evitare per conto proprio i cattivi ragionamenti, ma
anche di manifestarli negli avversar!, di additarli alle menti che ne
sono ingannate e di dare così un'impressione di solidità, di probità
logica in cui l'uditore troverà la sua sicurezza.
_ 118 —
Vi è anche lì, come nel caso della lingua, una
ricchezza positiva da raccogliere. Non invano si circola nelle vie della
verità; vi si trova la verità stessa; cercando di evitare insidie, si
trovano tesori; esaminando lo stampo delle nostre concezioni, dov'osse
segnano le loro impronte, si acquistano nuove possibilità di concepire;
la mente si sviluppa, nello stesso tempo che si rettifica.
Si ignora forse che lo studio della liturgia, intrapreso
con uno spirito di pietà, giova alla vita inferiore tanto quanto alle
forme del culto'? Così è, se si può dire così, delle liturgie del
pensiero, purché si affrontino con una intelligenza larga, già
corredata di realtà e pronta ai suggerimenti nuovi. Come dunque, nel
tempo dei santi esercizi religiosi o ecclesiastici, si consiglia ai
sacerdoti di rivedere le cerimonie, le rubriche, perché — e per la
stessa occasione forse — non si rivedrebbe la logica, la grammatica, e
aggiungi, in terzo luogo, il compendio di rettorica sacra?
Z>) la BBTTOBICA SAOBA.
L'utilità di studiare le regole dell'arte
oratoria fu contestata. Ciò fu, a volte, per una pietà malintesa, come
se si facesse torto allo Spirito Santo procurandogli uno strumento
perfetto quanto è possibile. Sarebbe un dimenticare l'autentica teoria
dello strumento, tal quale ce la espone S. Tommaso a proposito
dell'ispirazione biblica, teoria che esige precisamente una cultura
completa, anziché escluderla.
Per lo stesso fatto che, nella parola di Dio, noi siamo
strumenti dello spirito, dobbiamo essere eminentemente attivi e non
passivi, eminentemente preparati e non negligenti; perché questo è
tutto l'uomo, e l'uomo in atto di vita, « in atto secondo », come
diciamo in scolastica, anzi, per quanto è possibile, in atto perfetto,
appunto questo è in noi lo strumento dello Spirito, non un embrione
inerte.
Dio si serve del nostro essere, delle nostre facoltà,
della nostra cultura, del nostro sforzo attuale come di un tutto che è
il suo strumento congiunto; egli anima in noi tutta l'anima e tutte le
sue energie, che noi dobbiamo fornirgli completamente. Quando veniam
meno senza volerlo, egli ci può supplire; ma essere deficienti
volontariamente, sia per pigrizia o per presunzione, per una falsa
confidenza in Dio che non consiste se non nel tentare Dio, ciò
è un essere colpevoli. « Io, per
— 119 —
me, dice il padre Granata, sono intimamente convinto che
non vi è nulla di più indegno di quella temerità con la quale si
entra in un ufficio così grande, così importante, così necessario
nella Chiesa, e anche il più difficile di tutti, senza darsi pensiero
d'istruirsi prima nelle regole e in un metodo sicuro per compierlo
degnamente e con frutto » (1). S. Agostino, nel trattato De Doctrina
Ghristiana, si era espresso con termini anche più energici.
Grazie a Dio, oggidì la moda non tende più a sostenere
quest'impegno; il falso misticismo di cui parlavo poc'anzi ha più pochi
partigiani; ma resta la negligenza, resta la pretesa orgogliosa di
bastare coi proprii doni, senza lavorare, e senza riguardo per
l'esperienza di quei che formularono delle regole dopo averle a lungo
praticate. Un apostolo coscienzioso deve evitare questo peccato, perché
è un peccato, e rendersi familiari le regole essenziali, non con un
primo studio soltanto, ma con frequenti ricorsi ad esso.
Si sente dire: Le regole non servono a nulla; vengono da
sé; non si lavora seguendo regole. È vero! ma è anche falso, perché
vi è un equivoco. Le regole non sono fatte perché si lavori secondo
esse, come se si avesse a sinistra il catalogo di ricette e a destra il
foglio bianco. Le regole, così adoperate, non solo non servono a nulla,
ma sono quanto mai nocive, paralizzano lo spirito, i cui movimenti hanno
bisogno di spontaneità e di una fluidezza di oscillazioni nemica di
ogni costringimento. Creare secondo regole, è condannarsi
all'artificioso. Il meglio che si ha da fare, al principio dell'opera,
è di volgere ad esse il dorso. Ma ciò non risolve affatto il problema.
Un giorno che un importuno offriva a Luigi David delle
ricette di pittura, questi rispose: « Io ho conosciuto tutto questo
quando non sapevo ancora nulla ». È un detto profondissimo;
bisogna solamente capirlo. Egli aveva « conosciuto
tutto questo »: si era guardato bene dal trattarlo col disprezzo e di
esseme ignaro; ma lo aveva oltrepassato. Come? È quello che molto
chiaramente ci da a intendere Beethoven in un passo di una delle sue
lettere a Wegeler che potrebbe far riflettere le teste vuote. « Per
diventare un compositore, dice egli, bisogna già avere studiato
l'armonia e il contrappunto per una durata dai sette agli undici anni,
ed essersi così abituato a piegare
(1) Iivwi granata, Shetorica sacra, 1. I,
o. II.
— 120 —
la propria invenzione alle regole dell'arte, allorché
si sveglie-ranno l'immaginazione e il sentimento ».
Medita bene queste parole; esse dicono tutto e fanno la
parte delle cose. L'opera d'arte procede dall'immaginazione e dal
sentimento, non procede dalle regole. Ma perché vi sia opera d'arte,
bisogna che l'immaginazione e il sentimento abbiano al loro servizio un
insieme di regole acquisite, di regole •immanenti, che
non sono più affatto delle ricette, ma una piega dell'anima nostra, un
modo di muoversi per lo spirito e, movendosi con un giusto movimento, di
creare. È quello che gli scolastici chiamano 'habitus, cioè
un'arte interna, che/ diventa tanto più perfetta, tanto più efficace
quanto più è incosciente. Ma prima di diventare incosciente, bisogna
che si formi. Oertuni sono a ciò più atti di altri, e di Mozart si
potrebbe quasi dire che egli sapesse l'armonia nascendo; ma tuttavia
l'imparò, senza ciò sarebbe stato di lui come di tanti bambini
prodigiosi, che danno solo frutti secchi.
Si dice: quello che forma è la pratica, ed è una gran
verità. L'arte immanente s'incorpora per la pratica, ma per la pra- •
tica diretta, avvertita, protetta, stimolata, e appunto a ciò servono
le regole.
TSoi distinguevamo sopra l'istruzione dalla cultura:
questa distinzione vale qui, in materia di tecnica, come vale da per
tutto. Una istruzione tecnica t'insegna le regole
dell'arte oratoria; ma se tu ti fermi a questa istruzione, e se essa
rimane un'istruzione, cioè un insieme di precetti acquisito alla tua
memoria tanto quanto estraneo alla tua facoltà di produrre, questo non
serve che a ingombrarti, a legarti. Invece, al contatto delle regole, tu
hai fatto lavorare l'anima tua, controllato e stimolato i tuoi proprii
pensieri, cercato le tue vie, le tue, ma col sentimento delle condizioni
necessario del pensiero e della sua espressione, con l'occhio sui
terreni pantanosi per evitarli; allora, a poco a poco, ti crei un'arte
immanente, un'abitudine del ben pensare, del ben comporre, del ben dire,
che diventano così incoscienti come l'arte del ragno o dell'ape, e al
pari di queste bestiole, non hai quind'innanzi bisogno di regole, ma
perché esse sono in tè.
Sarebbe bene che ciascuno, per suo proprio conto, si
costituisse, pensando a' suoi bisogni personali, un brevissimo riassunto
de' suoi studi e delle sue osservazioni in questa materia. Di quando in
quando lo rileggesse, come si rileggono le proprie risoluzioni, così si
metterebbe in guardia contro l'oblio,
— 121 —
si aiuterebbe a progredire, romperebbe/ la
prescrizione delle cattive abitudini, dei brutti vezzi, ai quali nessun
oratore sfugge, e, su questo punto come su tutti gli altri, si
metterebbe in grado di ubbidire a quella legge di crescenza senza
termine che ci è imposta dal nostro ideale.
Insieme con tutto questo, e poiché abbiamo ammesso che
la pratica •— supposto tutto il resto — è ancora la grande
maestra, un ultimo avviso non sarà qui fuori di posto. ~Sov. temere
di slanciarti di buon'ora, pur continuando ad arricchirti e perfezionare
la tua cultura. Tempus breve est: non dobbiamo essere di quelli
che « preparano incessantemente il nulla », come Amiel rimproverò a
se stesso tutta la vita. « Più presto comincerai e più presto
riuscirai », diceva S. Francesco di Sales a Mons. di Bourges, fratello
della Sig.ra di Ohantal. E per vincere delle resistenze di umiltà
mantenute dal ricordo di un predecessore eloquente, il santo aggiungeva:
« A chi allegherà l'abilità di Monsignore tuo predecessore lascia
dire:
egli una volta cominciò come tè ».
ISTon faciliti il tuo compito differendolo; differire
senza motivo seriissimo, è un indebolirsi, e non si trova la propria
misura senza rischiare la disfatta. Se fallisci, è chiaro che non puoi
rallegrarti di aver fallito: ma devi rallegrarti di accorgertene;
ciò è un segno del progresso dello spirito e una testimonianza della
tua capacità di far meglio. Oorot era raggiante in tal caso; si fregava
le mani, e pigliando una tela nuova, che egli batteva per farne cadere
la polvere, diceva:
« Vedrete, sarà famosa questa! ». Lo disse fino a'
suoi ultimi giorni.
Per diventare forti, bisogna sentire a lungo la propria
impotenza; bisogna sentirla sempre, e sentire sempre anche, di tappa in
tappa, la possibilità di vincerla; la vita dello spirito è una
continua metamorfosi, una « creazione continua », secondo il celebre
motto. La vera utilità di un'opera, rispetto al suo autore, è di
servire di appoggio a un'altra. In proporzione che si progredirà, si
raggiungerà più facilmente un medesimo grado di valore, e si avrà
nello stesso tempo il lavoro più difficile, perché si avranno maggiori
esigenze. Al termine della sua carriera, Beethoven scriveva intere
pagine di musica di un solo getto; alla fine, riprendeva sette od otto
volte, sul suo taccuino che non lo abbandonava mai, un tema di una sola
riga, e diceva: « L'artista vede, purtroppo! che l'arte
— 122 —
non ha limiti; sente oscuramente quanto è lontano dalla
mèta, e mentre forse altri l'ammirano, egli deplora di non essere
ancora arrivato là, dove un migliore genio non brilla per lui che come
un sole lontano » {Lettera a Wegeler, nel 1812).
III. —• L'acquisto dottrinale " e oratorio. —
Le note.
S. Agostino definisce il ministero della parola
cristiana « una sapienza eloquente ». Sembra così ripetere Cicerone,
che, come abbiamo veduto, invoca la sapienza a proposito del
senso rotto. Ma S. Agostino non attribuisce alla parola un significato
così ristretto. Egli designa con ciò tutto l'insieme delle cognizioni
utili, che vuole veder raggruppate attorno alla dottrina sacra e
solidamente legate tra loro.
Se il ministero della parola è in questo senso una
sapienza eloquente, la prima cosa è di acquistare la sapienza.
Anzitutto la sostanza. Ed è quello che con S. Agostino ci dicono tutti
i maestri. Infunde ut effundas, scrive S. Bernardo. Non si
comincia col versare. L'ordine non è: primieramente, voler parlare e
imparare l'arte di parlare; poi cercare che cosa dire. Eppure tal è il
caso di non pochi predicatori, i quali all'infuori degli studi già
imposti non pensano alla dottrina che a proposito della loro predica, e
perché hanno da fare una predica. L'ordine è di avere qualche cosa da
esprimere, poi di cercare la maniera. Non si tratta, ben inteso,
dell'ordine nel tempo, ma dell'ordine di preoccupazione e d'importanza.
Prima la sostanza; la forma verrà dopo; prima la ricchezza, e
poi l'elargizione.
Socrate rimproverava questo rovesciamento agli oratori
del suo tempo, i quali, diceva egli, volevano imparare a persuadere
prima di saper di che cosa conviene persuadere e se stessi e gli altri.
Imparate prima l'uomo, diceva loro. Con ciò intendeva non uno studio
astratto delle facoltà o l'osservazione dei costumi, ma un
conoscimento profondo della legge di vita, solo degno oggetto della
parola pubblica.
Per noi la legge di vita è la dottrina cristiana, e,
accessoriamente, tutto ciò che appoggia la dottrina cristiana, la
espande o si espande nella sua dipendenza. Noi sappiamo che ciò è
vasto, che in un certo modo è tutto: tutto il sapere e tutta
l'esperienza. Ma vi è un ordine; vi è pure il grado, e ciascuno
—123—
ha il suo. A ogni modo, per ciascuno e secondo il grado
di ciascuno, la dottrina è il primo necessario. Perché l'albero sia
forte, gli occorrono radici solide, sprofondate in una terra ricca. La
terra dell'eloquenza è l'anima arricchita di una dottrina completa, che
dispone di ragioni e di fatti, che colloca nelle sue riserve, accanto a
quello che Dio ha detto e che noi dobbiamo trasmettere, quello che i
migliori hanno trovato sotto la sua ispirazione o in continuità col suo
Verbo.
Ite et docete: ecco la formula prima della nostra
missione:
toccare e trascinare viene solo dopo. « I popoli hanno
bisogno di essere istruiti prima di essere mossi », dice S. Agostino {De
Doetr. Christ.). E del resto per muoverli in modo durevole, non
basta forse nutrire la fiamma del sentimento con la legna di una soda
dottrina? La commozione passa presto se non è solidamente giustificata;
non è che un « fuoco di paglia ».
Quelli che hanno l'anima vibrante, un'immaginazione viva
e facilità, hanno tanto più bisogno di rinforzare i loro acquisti.
Senza ciò saranno esposti ad essere vittime delle stesse loro energie;
apparenze di felice successo faranno loro illusione, e i veri risultati
mancheranno a loro più che ad altri, che sono per così dire condannati
al serio per l'assenza di ciò che brilla e incatenati ad austere
fatiche. « Eicòrdati, scrive Leonardo da Vinci, che per imparare;
l'applicazione vale più che la prestezza». L'applicazione va più
lontano, e scava più profondo. I frutti della prestezza sono presto
contati.
Ho detto sopra che la preparazione immediata non
potrebbe supplire la cultura: per le stesse ragioni, questo si verifica
dell'acquisto dottrinale o pratico. Una scienza troppo fresca si
riconosce subito, sia alla sua pesantezza, come il legno verde, sia alla
sua leggerezza, come una paglia vuota, e molto spesso le due cose vanno
insieme; si da poco, e quello che si da non è adatto; le menti ne sono
ingombrate più che illuminate, perché non si va ai principii delle
cose. Perché un discorso sia sostanzioso, deve procedere ex
propriis, come ' diciamo in logica, e per questo è necessario
conoscere gli annessi e connessi del soggetto, il che suppone una
scienza abituale e non di circostanza.
Inoltre, il discorso che rimanendo sostanzioso vuole
essere vivo e snello, deve mettere in opera l'oratore nella sua stessa
personalità, nel suo essere acquisito e abituale, non nella sua scienza
di ieri. Avere la propria scienza « sullo stomaco », come si dice, non
si presta a modi molto vivi di pro-
— 124 —
cedere. Una parola libera e forte vuole un'assimilazione
completa, in tal modo che il nutrimento adoperato non sia più un
nutrimento, ma l'uomo. In arte, e specialmente in arte oratoria, solo
l'uomo conta.
Del rimanente, è sempre vero che il principiante non si
deve lasciar arrestare da ciò che gli manca. Abbia solo il proposito di
acquistarlo. A questo prezzo, il suo ritardo gli potrà anche essere
giovevole, in questo senso che, non sapendo tutto quello che
bisognerebbe sapere, ma abbandonandosi all'esperienza, imparerà a poco
a poco a discernere le cognizioni veramente utili, a procurarsele con
frutto, il che è una grande arte e dipende dalla pratica.
Che dire, ora, per caratterizzare quell'acquisto, il cui
tenore deve manifestamente variare in mille modi? La risposta non può
essere che generale. Un missionario di campagna non adopera gii stessi
materiali che un conferenziere di Nostra Signora, e una mente astratta
procederà diversamente da una letteraria, benché ciò si faccia su un
fondo comune. Quale sia questo fondo necessario a tutti, e quali possano
essere le indicazioni particolari fornite dalle persone e dalle
circostanze, è tutto quello che noi possiamo dire.
Il fondo ce lo indicava ora S. Agostino, ed è la
dottrina sacra, poiché tal è l'oggetto proprio del nostro
insegnamento. Ciò comprende la teologia, la S. Scrittura, la liturgia,
in ciò che esse hanno di essenziale, là dove più sopra abbiamo
trovato le nostre « fonti ».
Quando dico teologia, vi comprendo la parte dogmatica,
la parte morale e la parte mistica, dimenticata da molti, eppure
indispensabile. Noi possiamo avere da guidare anime elette, e non
abbiamo il diritto di dire: non è di mia competenza. Io sono
debitore di tutti, dice l'Apostolo.
Quando dico Scrittura Santa, lo intendo parimenti di
tutto l'insieme; ma un predicatore deve approfondire specialmente i Salmi,
i principali profeti e i libri sapienziali per l'An-;tico
Testamento, e, per il Nuovo, i Vangeli, gli Atti e le Epistole.
Questo studio non finisce mai; bisogna riprenderlo continuamente, e ce
n'è offerta l'occasione dalle nuove pubblicazioni, così ricche, grazie
a Dio, in questi ultimi tempi.
Anche per la liturgia, io addito i lavori recenti, che
sono,' per l'oratore cristiano una miniera sommamente ricca. La storia
del culto trae seco una folla di pensieri e di fatti, di
—'126 -. - . .
suggerimenti religiosi e d'immagini pittoresche di cui
l'oratore si può valere vantaggiosamente. Abbiamo qui degli squarci
incomparabili, a condizione di scavare un poco — cosa oggi molto
facile — in vece di spigolare soltanto.
Come appoggio della teologia e anche per altre ragioni,
noi sappiamo che un lavoro filosofico ci è necessario. È uno studio
fatto a suo tempo; ma occorre mantenersi, completarsi, ciascuno secondo
la sua misura. Idee nuove vengono alla luce, delle quali non si può
essere ignari del tutto. Senza essere forse filosofi, dobbiamo poter
parlare di filosofia con intelligenza, muniti di una formazione che non
senta troppo di collegio, e per conseguenza spogliare qualche opera ben
fatta, acconcia a istruirci. In quanto ai grandi testi'filosofici,
specialmente quelli dei moralisti, non dobbiamo mancare di ren--derceli
familiari: essi contengono per noi ricchezze inapprezzabili. Ohe cosa
pensare di un oratore che non ha letto le Memorabili conversazioni di
Sacrate, il fedone e il Banchetto di Plafone, certi
capitoli della Morale a Nicomaco, come l'VIII, sopra l'amicizia,
il Manuale di Epitteto, i Pensieri di Marco Aurelio, gli
scritti morali di Seneca e di Cicerone, le Meditazioni di
Descartes, la Conoscenza di Dio e di se stesso di Bos-suet, l'Esistenza
di Dio di Fénelon, e Pascal, e La Bochefou-cauid, e Vauvenargues, e
Newman!... Non aver letto, con la penna alla mano, queste opere ed altre
ancora, per un oratore cristiano è davvero una stoltezza. Come dire che
un meteoro-logo di professione non getta mai gli occhi sull'Annuario
dell'Ufficio delle Longitudini. Il tempo che fa nell'universo morale
sono quegli uomini che l'hanno detto, dopo le nostre Scritture e dopo i
nostri santi.
I domini! da esplorare specialmente in filosofia sono
senza dubbio quelli che toccano più da vicino le nostre materie
proprie. Ho additato la morale; ma oggi bisogna aggiungervi la
sociologia e la psicologia sociale. Queste scienze hanno progredito
assai; sono all'ordine del giorno e se ne parla a nostro malgrado: ma
bisogna anche parlarne con giustezza, e qualora se n'abbia la capacità,
nulla impedisce che uno se ne faccia una specialità secondaria,
rimanendo sempre la principale la sacra.
Abbiamo aggiunto la storia al catalogo delle nostre
fonti:
dunque si impone il mantenimento del suo studio. Dopo
una seria rivista complessiva, le opere di attualità aggiungeranno al
loro interesse un benefizio considerevole e l'occasione di
— 126 —
annotazioni preziose. Ciò non sarebbe meglio di
tante letture sciocche in cui si sciupa il tempo, romanzi, attualità
volgari, giornale assorbito fino agli annunzi?
Un po' di scienza, un po' d'arte e di storia dell'arte
s'impongono altresì a tutti. Non si può più fare bella figura
ignorando tante conquiste umane e tanti lavori la cui opinione vive
attorno a noi. Senza contare che tutto questo confina su molti punti con
quello che è il nostro oggetto proprio, come la moralità dell'arte, i
rapporti della scienza e della fede, l'autorità della Bibbia, ecc.,
ecc. Finalmente insìsto ancora una volta sulla frequentazione dei
poeti. Mi si darà: Ohe cosa si può ricavare, come vantaggi oratorii,
dal loro commercio assiduo? Ad onta dei pregiudìzi, i poeti sono quelli
che hanno più intuizioni realiste; sono quelli che vedono l'uomo e il
mondo in concreto. Vero è che bisogna avere una calamità intcriore per
captare ciò che essi offrono.
Mons. Isoard, nella sua memoria sugli studi clericali,
che fece impressione nel 1871, insisteva a buon diritto sull'immensa
informazione che s'impone oggi all'apostolo. Contentarsi di studi
sommari, e abbandonarsi poi al proprio zelo, all'immaginazione, alla
sensibilità, alla stessa intelligenza, è un esser vinti
anticipatamente. Ci vuole una panoplia completa. Ne La Vie
intellectuelle ho precisato i mezzi di acquistarla e proposto le
leggi della lettura formatrice o informatrice. Mi permetto di
rinviarvi il lettore. Qui noterò solo due punti importanti dei quali
l'uno mi è suggerito da S. Agostino, l'altro dall'evidenza.
S. Agostino osserva che se tutte le dottrine utili
devono gravitare per noi attorno alla dottrina sacra, la dottrina sacra
alla sua volta gravita attorno ad alcuni punti centrali che è urgente
riconoscere, a fine di dare a tutto quello che ne dipende il suo valore
relativo e la sua forma. Tutto conta, ma ciascuna cosa al suo posto, e
questa questione di posto è capitale, perché, dice S. Tommaso,
l'ordine ha maggiore pregio, in ogni dominio, che uno qualsiasi de' suoi
elementi.
Durante gli studi, spetta al professore di additare quei
temi essenziali che sono nel paesaggio dottrinale i punti culminanti, ma
un'impressione netta e valevole per la pratica non può risultare qui se
non da uno sforzo personale, sforzo di concentramento, sforzo per
dominare le materie e connetterle, coordinarle in larghi piani. È un
lavoro eminentemente doposcolastico, opera di una mente che prende
possesso
— 127 —
di sé, che diventa la sua propria padrona e si
organizza dentro, dopo aver ricevuto come dal di fuori. Molti non fanno
questo lavoro e non sono per tutta la loro vita che vecchi studenti, '
che vivono sopra un bagaglio sempre più disperso, sbriciolato dal
tempo, coperto dall'oblio come da uno strato di cenere. Costoro non sono
degli intellettuali, e non saranno che apostoli disarmati, in un mondo
ove abbonda la cultura.
S. Agostino aggiunge che un ultimo concentramento è
necessario, e che la nostra mente, per essere nella verità essenziale,
per avere così la sua vera forza di apostolato, deve collocarsi nel
punto di vista che è quello dello stesso pensiero creatore, diciamo
meglio, quello della Trinità: il punto di vista dell'amore. Intendi
l'amore nel grande senso, l'amore che è la stessa respirazione
dell'Essere, e per conseguenza coincide con la vita universale. Amore di
Dio verso di noi, che è tutto il senso della creazione, poi della
ricreazione per mezzo di Cristo, e che per conseguenza spiega o giudica
la natura come la so-prannatura, la Chiesa e tutto il suo funzionamento,
l'incivilimento e la storia. — Amore di noi verso Dio, che risponde
all'iniziativa creatrice e riparatrice e che organizza in armonia con
essa tutta la vita morale, familiare, sociale, terrestre, in vista della
consumazione, in Dio, del doppio sforzo associato, sotto la forma della
felicità.
Un apostolo cosciente del suo uffizio deve sempre avere
presente questo punto di vista, che è la sua direttiva universale, egli
deve ridurvi tutto nel suo pensiero, a fine di ridurvi tutto nelle sue
esplicazioni e nella sua azione. È il delenda Car-thago, e non
sarebbe tanto sciocco quel predicatore che, quando si smarrisse per
istrada, come avviene anche ai migliori, si rifacesse gridando: Porro
unum est necessarium!... Alla buon'ora! Ecco un luogo comune ben
scelto. Aggrapparsi al ramo maestro quando si sta cadendo dall'albero,
in verità non è da sciocco.
Nota che sta lì tutto lo spirito e tutto il piano della
Somma teologica, e che presso,! filosofi mistici dell'antichità,
i Plotini, i Porfirii, i Giamblici, il .Ritorno a Dio,
correlativo delle JSma-nasioni, era il tutto della dottrina come
delle aspirazioni superiori. Vero è che qui la meditazione fa più
ancora che lo studio, e lo completa. È quello, come penso, che faceva
dire a S. Toinmaso che egli aveva imparato più ai piedi del crocifisso
che nei libri. Il crocifisso da il segno della creazione, con quello
dell'eternità stessa: riassume l'uomo e Dio; Dio e l'uomo vi si
ricongiungono.
—128—
La mia seconda osservazione è questa. La dottrina
dell'apostolo non è una dottrina lasciata a se stessa, che valga per se
stessa; essa è orientata verso la comunicazione, verso l'uso. Ora
quest'uso della dottrina ha le sue condizioni; ci vuole un adattamento,
una triturazione speciale, un sistema .di collegamenti, perché il
dottrinale, che è in gè cosa astratta,! diventi cosa predicabile,
cioè dottrina impregnata di sensibi-:
lità e d'immaginazione, illustrata da simboli e da
esempi, e:
accostata ai fatti.
Un'esposizione oratoria, fosse pure dottrinale, è altra
cosa che un'esposizione semplicemente dottrinale. La logica oratoria che
si vale delle passioni dell'anima e dei giochi dell'immaginazione,
differisce dalla logica astratta o dialettica. E la ragione è che lo
scopo dell'eloquenza non è d'indurre una persuasione tale e quale, per
via di dimostrazione, ma una persuasione animata e attiva, feconda di
opere, il che suppone che si mettano in funzione i motori immediati
dell'azione: l'immaginazione e i sensi.
Qui sta tutto un lavoro nuovo, che gli studi quasi non
prevedevano, il quale ad essi deve succedere, e che suppone un
tutt'altro atteggiamento dell'anima. Questa è allora come tesa tra due
domimi, attingendo da una parte al tesoro della dottrina, e dall'altra
distribuendo, ma dopo avere, tra i due, rimpastato e riadattato quello
che essa attinge. Quest'arte dell'adattamento non si acquisterà che a
poco a poco, e con la pratica; è una ragione di più per dire che la
nostra formazione abbraccia tutta la vita. Ma ciò che non si può
compiere se non più tardi si deve cominciare appena che è possibile,
già durante gli studi, e principalmente dopo.
Questo ci conduce a precisare, in vista dell'oggetto
presente, ciò che è stato detto ne La Vie intellectuelle
riguardo alle note e al modo di prenderle. Quanti ringraziamenti hanno
provocato questi semplici e fraterni consigli! Essi sussistono;
ma l'arte oratoria ha le sue esigenze proprie, che
bisogna rilevare. Quello che convien notare in vista del discorso, non
sono dottrine allo stato astratto, o fatti bruti, o testimonianze
qualsisiano, ma dottrine già. elaborate oratoriamente, predicabili,
fatti significativi, che colpiscano l'immaginazione e la
sensibilità, atti, a questo titolo, a entrare nella trama di un
discorso.
Le note che avrai preso tu stesso con questo spirito
saranno
— 129 —
doppiamente preziose. Saranno tali come materiali pronti
all'uso, ma anche come materiali specialmente utilizzabili da tè,
poiché questi materiali sono di tua scelta, e sono perciò in armonia
col tuo modo di pensare e di considerare il soggetto, con la tua forma
d'immaginazione e di sensibilità, ciò che le rende atte ad entrare
più che altre in una creazione che ti sarà personale. Le tue
note sono già tu; eccellente punto di partenza, per un discorso
veramente tuo.
Questa provvigione di note oratorie sarà ben
costituita, se contiene anzitutto buone definizioni: definizioni
tecniche e precise, che sono necessario come guide, e definizioni
oratorie, limpide e brevi; — poi, indicazioni di soggetti che ti
convengano in modo speciale, degli embrioni di piani, germi di idee da
svolgere, con alcuni lineamenti indicatori, che ne fisseranno l'uso;
— fatti da sfruttare oratoriamente; — esempi in bene
e in male, riguardanti la vita intellettuale, morale o sociale; —
descrizioni sommarie ma precise e vive, stati di spirito di personaggi
celebri, di scuole, di gruppi, di popoli, di famiglie religiose, di
ambienti sociali; — testimonianze sacre e profane, testimonianze dei
nostri maestri, dei nostri amici o dei nostri avversar!; — sentenze
bibliche e patristiche; "— detti di grandi uomini e di santi; —
espressioni scelte, trovate e gustate da tè, quindi utilizzabili da
tè, oppure a tè suggerite da una lettura o da uno spettacolo; —
tratti di costumanze atte a entrare in una descrizione morale, a
sostenere un'idea e a mostrarla in opera; — comparazioni che
rischiarano, metafore felici, epiteti che dipingono, eco., ecc. Tutto
ciò con indicazione della fonte quando si tratta di citazioni, o in
vista di potervisi riferire il giorno che si vorrà utilizzare la nota.
Ecco quello che io chiamerò il tuo materiale oratorio.
E può crescere continuamente, ed è prezioso non unicamente il suo
possesso, ma il suo acquisto. Questa preoccupazione permanente di
arricchimento tiene desta la mente, la invita alle affinità formatrici,
la allarga, la solleva, nello stesso tempo che si riempiono i quaderni o
gli schedari. ;
'Son si trova se non quello che si cerca. La nostra
vita quo-;.' tidiana, le nostre letture, le nostre conversazioni
contengono:1 in quantità dei tesori che i più lasciano
passare senza vederli,! perché la loro mente non è appostata davanti a
una preda possibile; non ci pensano, e, anche quando lavorano, non
sanno. mettere in serbo quello che, inutile forse al lavoro in corso,
sarà prezioso per l'avvenire. È questa una grande storditaggine.
6 — 8BBiii'iiAira»g, L'watorf
cristiano.
— 130 —•
Non è possibile rileggere indefinitamente gli stessi
libri, ripassare per le medesime vie: bisognerebbe dunque che fin dal
primo avvicinarsi tu avessi osservato e fissato, per quanto :
è possibile, tutto ciò che potrà servire. ^
Questo lavoro di acquisto permanente procura grandi
gioie.;
Si ama di tesoreggiare: è la felicità dell'avaro;
nella vita in- ;
tellettuale, interviene altresì una specie di avarizia.
Bisogna sorvegliarla; la manìa di fare collezioni può volgersi
all'as-, surdo; ma ben governato, questo sentimento è fecondissimo
nello stesso tempo che felicissimo; lo spirito vi s'infiamma e mantiene
quotidianamente il suo ardore. I momenti in cui non si potrebbe produrre
preparano così senza fatica una futura produzione, se ne gode
anticipatamente, e questa gioia trascina alla ripresa dello sforzo.
Quante volte siamo lanciati in un lavoro dal desiderio
di esporre un'idea che ci ha colpiti, da un fatto impressionante,^;
a volte da una semplice parola! Una nota ben presa è un
ri-^ morchie dell'intelligenza; noi la seguiamo; ma per questo bisogna
prima precedere, cioè mettersi in stato di ricerca, essere:
il segugio che fiuta la pista, il mendico che spia il
passante ricco e generoso, h
Noi dobbiamo dare, e siamo poveri. Bispetto a ciò che
si aspetta da noi non siamo forse sempre infinitamente sprovvisti, e non
abbiamo forse un obbligo di cercare avidamente e da ogni mano? « Dentro
benedettini, fuori missionari », fu detto; acquistare la verità, poi,
divulgarla; captare i buoni impulsi, poi farli agire: ecco tutto il
nostro compito; ecco la sistole e la diastole di un cuore di apostolo.
Se Demosten^ poteva dirsi vergognoso di udire, al mattino, dei fabbri o
dèi tessitori che lo avevano preceduto al lavoro, che cosa dovreb-b
'essere di noi, quando si tratta di salvare i nostri fratelli e di
beatificare noi per giunta?
[a IV. — La chiarezza.
Y. — La chiarezza. ^
impo è un uomo colto •
i suoi doni e i suoi |B
.avoro. Per questo sii ^
Un uomo di senno, che nello stesso tempo è un uomo
colto e perito dell'arte sua, dovrà adoperare i suoi doni e i suoi
strumenti in un modo che giovi al suo lavoro. Per questo gli saran
necessarie certe qualità, e dovrà evitare certi errori, che occorre
additare.
Una .qualità essenziale del discorso e del
discorritore, senza la quale tutte le altre sarebbero rese più o meno
vane, è la
— 131 —
chiarezza. ITon serve a niente il parlare se non si è
capiti. S. Paolo lo dice ai Corinzi (I Cor., XIV, 9): Se gli
oggetti inanimati che rendono un suono, come il flauto o l'arpa, non
rendono suoni distinti, come si riconoscerà ciò che è suonato sul
flauto o sull'arpaf E se la tromba rende un suono confuso, chi si
preparerà alla battaglia? Si tratta di una battaglia, e noi
insegniamo un'arte in qualche modo militare, se il libro di Giobbe ha
detto bene: Militia vita hominis super terram. Ora quando
s'insegna un'arte, e specialmente questa, si usa diligenza per essere
bene intesi.
S. Agostino aggiunge due osservazioni opportune. "Sou
avviene del discorso, dice egli, come del libro, in cui un passo
oscuro si può riprendere e meditare. Qui tutto passa e passa
rapidamente; appena che la mente s'indugia o guarda indietro, si perde
il filo, si esce dalla corrente: è dunque necessario che tutto sia
facilmente intelligibile di prima giunta. E ciò tanto più, insiste il
santo Dottore, in quanto che nella chiesa non ci s'interrompe, l'oratore
deve quindi prevenire le interrogazioni possibili, e rispondere ad esse
con la chiarezza.
I nostri uditorii sono composti in maggioranza di gente
assai poco istruita di tutto e quasi totalmente ignorante delle cose
religiose: non è questa l'occasione di sottilizzare. L'uomo di studio
non si può fare un'idea del poco che ci vuole per essere incompresi al
maggior numero delle menti. Si parla di « filosofia », e si dimentica
che la filosofìa « non è assimilabile alle folle e si deve comunicare
per contatto » (Amici). Si suppongono sempre troppe cose note, troppe
cose facili. Quin-tiliano allora ci direbbe che « siamo noi che
manchiamo di spirito, se ci vuoi tanto per intenderci ». Infatti i
nostri discorsi non si devono forse calcolare secondo il grado di
probabilità che hanno di essere intesi?
Del rimanente, un uditorio, collettivamente preso, non
è mai così intelligente come i suoi mèmbri presi a parte; esso è
meno attento; è incapace di uno sforzo prolungato; se vi consente, è a
spese di un altro lavoro di anima che gioverebbe | • allo scopo
dell'oratore, mentre che l'essere capito non è mai se non una
condizione preliminare. ~Soi diremo che il triplice scopo
dell'oratore è di convincere, piacere e commovere; egli deve dunque
augurarsi che tutto lo sforzo del suo uditorio sia di compenetrarsi
della verità, di gustarla e di decidersi a seguirla. Se egli lo
affatica con dei rebus, quest'uditorio sarà presto stanco.
—— 132 —
« Ci si stanca di tutto, eccetto ohe di capire », dice
Virgilio:
ci si stanca specialmente di non capire, quand'anche le
cose fossero del massimo interesse, mentre idee in sé poco
interessanti, ma che s'intendono bene, ci avvincono. La parola ha
molta attrattiva. Se l'importante non è certo di brillare cercando di
essere chiari, non è men vero che se si è chiari, si brilla. Perché
il discorso più semplice, a parità di sostanza,-è di gran lunga il
più difficile a farsi. Prova a riscrivere la parabola del figliuoi
prodigo, la narrazione del cieco nato! Prendere per sé la
pena e lasciare all'uditore il piacere, il profitto, è una buona regola
di carità oratoria, ed è un buon calcolo.
È vero che non è sempre per evitare la pena che si è
oscuri. Vi sono di quelli che così vogliono. Vi è una forza che attrae
certi spiriti verso l'oscurità; vi si compiacciono come in una
profondità illusoria; per essa si danno un'aria di profeta che, pensano
essi, imporrà all'uditore. E di fatto vi son uditori che non credono ad
elevatezza se non a patto che loro si sfugga. Ma non è a costoro che
bisogna piacere, e a costoro stessi sarebbe meglio essere utili anziché
lusingare la loro puerilità condividendola. 'Son è forse
puerile contare sull'ammirazione dell'ignoranza, non avendo saputo
illuminarla'?
Vi sono cose oscure e che sono profonde; ma non per
questo sono esse tali; l'oscurità in esse è buona solo a nascondere
le' deformità, come diceva Puvis de Chavannes. Le più profonde
verità, maturate e chiarificate, prendono l'andatura dei proverbi; non
si annegano affatto nelle ombre.
Bisogna nondimeno convenire che in certe materie, non
basta essere chiari perché tutti ti seguano; ciascuno fa strada con tè
secondo la misura della sua intelligenza; al di là, conoscendoti lo
stesso, ti accompagnano con lo sguardo e ti serbano la loro fiducia,
perché sentono che non vai di sbieco.
La chiarezza può venire dalla stessa ricchezza del
pensiero, quando la mente si concentra sull'oggetto e l'avvolge in
un'atmosfera rischiarante. Non è forse il caso di Bacine, i cui versi
più pieni di luce sono anche i più misteriosi, secondo che osserva Ch.
Péguy? Per questo bisogna essere interamente compenetrati del proprio
soggetto e di tutte le sue dipendenze.,
Il primo nemico della chiarezza è il pensiero confuso,
e l'oratore deve assicurarsi di ciò che vuole dire esattamente, prima
di cercare l'espressione. « La chiarezza nasce dalla precisione come il
frutto dal fiore », disse un sapiente, e aggiun-
— 133 —
geva, ciò che è molto audace e tanto più sorprendente
in materia scientifica: « Io vorrei che la palma, in ogni problema,
fosse decretata a chi avesse fatto un'esposizione intesa da tutti gli
uomini colti, attraente come un'opera letteraria ». "Sei fatto,
l'esempio dei più grandi dimostra che questo ideale non è
inaccessibile salvo che nelle matematiche. Nelle nostre materie
religiose sarebbe generalmente raggiunto con facilità, se si fosse
perfettamente esatti, se si sapesse mettere ciascuna cosa al suo posto,
nella sua luce e nella sua giusta proporzione.
A questo riguardo, la precisione ha bisogno di essere
completata da un certo spirito di larghezza; non che si tratti di
svolgere a casaccio, il che imbroglia; ma si rischiara molto le menti
mostrando, oltre alle cose stesse, i loro principii, i , loro nessi
immediati e, come dicevo, la loro atmosfera. È quello che fa
costantemente S. Tommaso, ed è quello che egli fece una volta in quella
seduta profetica in cui, essendo studente, e rispondendo a obiezioni in
un esercizio scolastico, prese figura di dottore più che di discepolo,
perché risaliva alle sorgenti delle cose.
Ecco per le idee. In quanto all'espressione, la sua
chiarezza dipende da varie condizioni, e prima di tutto dall'abilità
con la quale si saprà sottolineare le parti più importanti del
discorso, quelle che illuminano le altre, e ciò per mezzo di
avvertenze, di richiami, di ripetizioni ingegnose, senza soverchia
preoccupazione della forma.
Poi la chiarezza dell'espressione dipende dalla nettezza
e dalla sobrietà dell'espressione. Il principio di economia, che è una
delle leggi dello stile, s'impone per molte ragioni, ma anzitutto per
questa. Nulla che distragga dal pensiero! Nulla che scintilli e che
impedisca di vedere! Parole, torniture, andamento delle frasi,
collegamento dei periodi, tutto deve ubbidire alle necessità
dell'espressione, non a un'arte fittizia, a una falsa armonia che
avvolga nella seta o nel cotone le articolazioni dell'idea e ne sfiguri
le forme.
La chiarezza conferisce assai anche allo stile, dandogli
un colore maschio, senza troppe mezze tinte e senza toni spezzati. I
mezzi toni hanno il loro ufficio, là principalmente ove si ha bisogno
di mistero, di intimità; ma se si mira prima alla chiarezza, come
nell'esposizione, nel discorso dottrinale o pratico, si deve guarnire la
tavolozza di toni maschi e distribuirli con armonia senza dubbio, ma con
un'armonia salda,
— 134 —
a guisa dei musaici antichi, delle buone immagmi di
fipinal e delle buone decorazioni.
Col medesimo spirito, si rimoveranno le espressioni e i;
giri troppo raffinati, appartenenti a una cultura
speciale.^ i S'. Agostino paragona queste belle espressioni,
inaccessibili :, alla massa, a una chiave d'oro, ma che non apre. Si
possono ^' loro assimilare le immagini troppo luccicanti, perciò
confuse,^;
o troppo a lungo ritoccate e che si scostano dall'idea
che vo-;;^ gliono illustrare. Un discorso non è una serie di enigmi,
fa-y eesse pure ciascun enigma l'effetto di un lampo. I lampi ab-;^
bagliano, ma quello che fa vedere è la luce. '^'
Tutto questo è tanto più opportuno quanto più
difficile è^ il soggetto trattato, sia in se stesso, sia per rapporto
all'udì- ;^' torio, che si deve dunque conoscere a questo riguardo come
:
a . tutti gli altri. ^/
Finalmente, siccome la chiarezza non dipende
unicamente'^ da ciò che si fa vedere, ma anche dagli occhi, e siccome
il ' lavoro degli occhi dipende dall'attenzione e dall'interessa- :
mento che gli oggetti provocano, è essenziale, nei
passi difficili,^ sapere destare l'interesse, provocare l'applicazione,
ottenere'.', dall'uditorio che si dia tutto quanto, come fa lo stesso
oratore. ;
Bisogna ben che anche l'uditorio compia il suo dovere!
Non";', gli si possono rendere facili le cose difficili, se non in
una certa ^ misura, a volte molto ristretta. Si vorrebbe che si
riabbassasi,, sero i soggetti? In certi soggetti, dice Paul Valéry,
«quello'^, che non è vago è difficile; quello che non è difficile è
nullo » (1). ^ Ci vuole la notte per mostrare gli astri. Ma mettendo
ognuno^, del suo, si può sperare di vedere; infatti, se la teoria dei
vecchia filosofi, secondo la quale gli occhi fornirebbero una luce pro-K€
pria che va incontro all'altra, è fisiologicamente falsa, è però;';'
vera nello spirituale; l'intelligenza è attiva, e non esige
sempre;.;:', che le si tolga il peso del pensiero « tessendo con
un dito leg- ( -gero un luminoso travestimento della complessità delle
cose » (2). ,Ì/ II programma dell'oratore è finalmente quello del Sacrate
cn- ', stiano: o abbassare la verità fino a noi, o elevare noi
stessi! fino ad essa. ^,
Una volta che si saranno adempite per quanto è
possibile, ' nella preparazione, le condizioni di chiarezza richieste
dal
(1) Iwtroduction a la Méthode, de Léoiwrd de Vinci.
(2) patti, valìby, Diseows de reception, a VAwdémw
franfaise,
— 135 —
discorso, converrà, nel corso del dire, sorvegliare
quei che ascoltano. L'atteggiamento dell'uditorio rivela quasi sempre a
un oratore sperimentato il grado della sua comprensione. Quando ti senti
un po' infastidito del tuo uditorio; quando gli occhi diventano vaghi e
distratti; quando piccoli movimenti impazienti corrono come onde
ammonitrici, è il momento di appoggiare l'archetto sulla corda e di
trame un suono più chiaro. Per questo la comunicazione dev'essere bene
stabilita;
ma ciò non è forse il minimo dell'arte e dell'ufficio
apostolico? N"oi non siamo dei fraseggiatori solitari, attorno ai
quali si fosse per caso formato un gruppo, pigliando ciascuno quello che
può dai nostri dotti discorsi; ma siamo degli inviati. Noi per i
primi abbiamo udito qualche cosa e abbiamo incarico di spanderlo.
L'opera nostra è liturgica: nascondere come in una nube la luce
di vita, è come se si privasse qualcuno della presenza reale, come se
gli si rifiutasse l'ostia santa.
V. — L'originalità vera.
]!Ton è possibile mettere in dubbio il pregio della
chiarezza per un oratore; si potrebbe esitare quando si tratta di un
altro carattere il cui nome stesso presenta qualche ambiguità
inquietante: l'originalità. - i
È necessario cercare di essere originali? Certuni hanno
preteso che è questa una necessità della creazione stessa, e,
aggiungendo un errore morale a questo errore psicologico, hanno connesso
audacemente l'originalità voluta e sistematica a quello che essi
pretendono essere un necessario spirito d'orgoglio. È una doppia
eresia; perché ne la creazione letteraria s'imparenta con l'orgoglio,
ne la volontà di segnalarsi ne è una condizione necessaria, oppure
favorevole.
È possibile che l'orgoglio favorisca la creazione
stimolando l'attenzione e lo sforzo; ma questo è tutto accidentale ed
estrinseco. Biguardo al lavoro stesso, l'orgoglio non è che una forza
di deviazione, non una fonte di originalità vera. Segnalarsi? A che
prò pensarci? è giocoforza che uno si distingua, se è distinto;
perché non vi sono due esseri simili, due spiriti dello stesso colore e
dello stesso ritmo; ma che si diriga lo sforzo nel senso di questa
distinzione, ecco l'errore fatale. In tal modo uno è condotto alle
singolarità, alle esagerazioni, alle sottigliezze, alle dottrine
personali senza appoggio autentico,
— 136 —
e alle forme artificiose prese sia dalle proprie
divagazioni, sìa, dalle manìe dell'ultima moda, dell'ultima
scuola, dell'ultimo battello.
Tutto ciò è nocivo in qualsisia lavoro; ma in materia
apostolica, vi è di che avvilire la cattedra e rovinarne l'autorita;
perché non è più la parola di Dio.
Appunto, questa espressione: la parola di Dio, ci
suggerisce il fondamento di verità a cui bisogna sempre ritornare e che
decide qui di tutte le cose. ~Soi predichiamo la parola di Dio;
la predichiamo noi, e vuoi dire che noi siamo causa strumentale,
come dicevamo nel linguaggio della scuola. Dio soma nel suo flauto; la
musica appartiene a Lui, noi ne forniamo solo il suono. E il suono è
bensì un'originalità, ma è costitutiva, non voluta. Io ' sono ciò
che sono; agisco come sono; ma quello che voglio è l'opera; qui è la
manifestazione della verità e il servizio del bene. Questi oggetti mi
governano, e io non penso che ad essi pensando secondo le forme della
mia intelligenza e parlando secondo la mia voce.
La verità, il bene; l'accoglienza fatta alla verità,
il viso offerto al bene; la soddisfazione delle anime per mezzo della
• verità e del bene: ecco ciò che m'inquieta, e non la sorpresa,
come una originalità voluta la potrebbe produrre. Sorprendere non è
servire; celiare col vero non è aprirgli la strada. Se sono io in primo
luogo, in vece degli oggetti sacri e dei fini necessari, io sono
prevaricatore. È meglio una verità volgare che frizzanti errori.
Meglio sentire con la Chiesa, nella grande corrente della sua tradizione
e nel suo felice ambiente che in compagnia di un ciurmatore fallace.
Ciò è meglio per la sicurezza, ma non meno per la bellezza
dell'avventura: perché non è tutto salire in una barca nuova; la barca
non è bella che sull'onda; quanto più la senti portata e. sollevata,
tanto più essa trionfa, avendo per sé e veramente in suo favore tutti
i movimenti del mare.
Alle volte, per attirare l'attenzione e far gustare la
dottrina, si crede utile presentarla con quell'apparenza aggressiva che
è nel tono dei contemporanei e che si crede dover piacer loro... Ma è
un'illusione. Quegli stessi che sono più intossicati dalle droghe nuove
gusterebbero con maggior rapimento l'acqua di una sorgente pura. Essi
vengono da noi con la segreta speranza di essere così dissetati e
purificati: non vogliamo rifiutar loro il rimedio, col pretesto di
acconciarci alla loro malattia, •
— 137 —
Riteniamo che ogni ricerca di originalità è
nociva all'arte, e molto più all'arte dell'apostolo. A questo riguardo,
le concessioni al nostro tempo non sono che una lusinga. L'uomo sincero
parla per tutti i tempi, e se egli da luogo al suo, ciò fa nella catena
dei tempi che l'eternità abbraccia. « Guarda nel tuo cuore e scrivi
», disse Emerson; « colui che scrive per se stesso scrive per un
pubblico eterno ». Bei pensieri che l'oratore cristiano ha ogni ragione
di fare suoi (1).
Non è men vero che l'originalità ben intesa, non
ricercata, è infinitamente preziosa per chi la possiede. Chi dice
originalità dice singolarità nel senso etimologico (singularis,
unico). Ora non vi sono che anime singolari, ma che pensano
nell'universale, ed ecco, in due parole, tutta la questione. A questo
doppio titolo il naturale per definizione è più audace di tutte le
audacie; esso si mantiene sempre solo, purché sia il naturale di
qualcuno. . : ,
Conscguentemente, per essere originali nel senso che
conviene, è necessario approfondirsi, scoprire in certo modo se stesso
mediante la riflessione e il lavoro. E siccome lo spirito non si nutre
che di se stesso, siccome esso non vale se non attaccato alla verità ed
esprimente — per sé e per gii altri — la verità, l'essere
originale vuoi dire essere sé, dicendo quello che è di tutti e quello
che conviene per tutti, ciò che non presenta aspetti diversi se non
perché è ; eternamente adattabile e utile, trovando in ciascuno
spirito e in ciascuna circostanza una nuova incarnazione, dunque forme
nuove, ma nell'identità della sua sostanza.
La novità più autentica, è l'eterna novità del vero.
L'originalità più autentica è la sincerità di un'anima che, essendo
individuale, non può mai rendere il suono di un'altra e mancare,
normalmente, di rendere il suo. Quando mi si accusa di essere volgare,
se il rimprovero è fondato, è perché ho dimenticato di essere me
stesso, o di applicare la verità eterna a casi sempre cambianti, ad usi
che hanno sempre le loro esigenze proprie. Se ho fatto questo, ho
mancato a me stesso, alle cose di cui parlo, e a Dio. Ma se ho fatto
l'opposto e mi sono abbandonato alla falsa originalità, ho mancato
molto di più. Ho voluto piantare un albero, e gli ho tagliato le
radici; non ho più che una scopa lavorata. Un nuovo albero vuole le
radici al pari di un altro, e le radici della vita religiosa cambiano
(I) embrsott, A.uCobwyra'phw.
— 138 —
meno delle altre, perché alla permanenza della vita
generale esse aggiungono l'eternità di Dio.
L'oggetto della mente è ciò che è, e ciò che
è, umanamente, è l'universale manifestato nel particolare, è l'eterno
veduto nel passeggero, la legge riconosciuta nella libertà, e la
potenza cosmica nell'armonica resistenza delle cose. In tal modo che a
noi piace quello che, strumento nuovo e unico di pensiero e di
espressione, ci offre una veduta attuale e particolare dell'autentica
verità etema. Quanto più lo senti disciplinato, tanto più sei felice
di sentirlo ugualmente libero. È un uccello che canta la sua canzone,
ma « su un albero genealogico » (Giovanni Cocteau), e ognuno trova il
suo canto giusto e bello. Infatti che cosa vi è di più incantevole che
ritrovare le idee di sempre, espresse come mai, i luoghi comuni
rivestiti d'una bellezza tutta nuova, al posto di quelle pretese idee
giovani, « le più senili » di tutte, diceva ISTietzsche, perché non
hanno niente di eternità?
Il guaio è che ben di rado un uomo che parla è in
contatto ardente con le cose che dice, con la gente e con se stesso.
Egli si muove in qualcosa di artificioso; si fa un essere di
convenzione, di circostanza, estraneo al vivente della vigilia e del
domani; concepisce idee in rapporto con idee, non con le cose;
vi aggiunge espressioni che non vi si adattano punto,
filastrocca di detti raccattati qua e là o immaginati a casaccio. Egli
parla come esercita un mestiere manuale. Fabbrica un discorso perché
bisogna farlo, ma senza meditazione vera e senza profonda sincerità con
se stesso. Il discorso non ha anima:
non reca maraviglia che non abbia vita individuale e
appa- :
risca qualsisia.
L'anima del nostro discorso è l'anima nostra propria,
è ;
l'anima delle cose, ed è Dio padre dell'anima e padre
del reale.;
Quest'anima molteplice manifestata è l'originale vero;
tutto il resto è bizzarria, singolarità nel cattivo senso della
parola, deviazione e, in quanto alle conseguenze, discredito, ra
VI. — La semplicità.
Tutti i maestri, in tutte arti, raccomandano la
semplicità come una qualità essenziale, e i maestri della parola sacra
vi insistono per ragioni che non riguardano solo l'oratore. Del resto,
essi sono ben lontani dall'indurci in errore su quello che intendono, e
nelle loro spiegazioni appariscono tré sorta di
—ISO-semplicità: la semplicità negligente, la
semplicità bassa o triviale, e una semplicità che è un rispetto
dell'arte, ma soprattutto un rispetto della parola apostolica, un
rispetto delle anime e un rispetto di Dio.
La semplicità negligente è il fatto di quei
predicatori che parlano senza preparazione sufficiente, senza
sollecitudine, senza applicazione alla forma, senza curarsi di bellezza.
Un tal lasciar correre, se non è scusato da un'altra specie di «
semplicità », è a un tempo un errore e una colpa. Tutto dev'esser
fatto bene. Per le anime e per Dio noi non possiamo applicarci meno di
quello che fanno tante facondie studiate e tante, penne esperte. "Sei
rito della parola, una forma perfetta è come l'apparato del culto; ma
è pure e per la stessa ragione una condizione di efficacia. Le prediche
di Ambrogio avrebbero forse convcrtito Agostino, se il giovane rotore,
attratto solo dalla loro bellezza, non fosse stato così condotto alla
dottrina? Avvenne come dei salmi, la cui musica portò nell'anima del
catecumeno la luce spirituale e la potenza di rinnovamento.
Antonio Arnauid diceva che bisognerebbe all'uopo mettere
il pensiero cristiano « in canzoni »: non si domanda tanto; ma le
scorrettezze di una predica sciatta, l'improprietà abituale del
linguaggio, i pleonasmi e le ripetizioni fastidiose, le tautologie, i
riempitivi, la cacofonia, la monotoma delle pause troppo ripetute, il
contorto o il tritato, tutte le inettezze che sono solite d'insinuarsi e
tentano di farsi ammettere sotto il riparo della semplicità,
diminuiscono il prestigio della parola sacra e l'abbassano.
L'orecchio umano ha bisogno di musica, e l'anima si
compiace nel perfetto. Il verbo compito, il verbo vivo e principal-;
mente il verbo santo deve avere il suo splendore.
In secondo luogo, si ha da evitare la bassezza, la
trivialità. Esse non mancano presso i predicatori di certe età, e in
tutti i tempi si appoggiano su quel voto di semplicità che tutti
approvano. Linguaggio grossolano e malsonante, immagini incongrue,
storie più o meno fuori di posto, espressioni volgari, arguzie, villani
scherzi, goffe invettive non hanno di semplice che il rilassamento
intellettuale e morale di cui sono l'effetto. La nobile semplicità del
Vangelo e la modesta maestà di rostro Signore se ne tengono lontano.
L'elevatezza, anche nella forma più familiare, è un
attributo inseparabile della parola cristiana. Tutto quello che noi
—I40—
diciamo è grande: non spetta a noi di abbassarlo,
quando la parola ha il potere « di far apparire grandi anche le cose
piccole », secondo il detto d'Isocrate..
Quando la necessità del discorso esige revocazione di
cose :
volgari, basse o triviali, noi abbiamo il mezzo di
salvare l'espres- :k sione con giri appropriati, con circonlocuzioni,
con termini (• che designano e non dipingono. Non conviene urtare
parlando y di cose urtanti, ne abbassare gli spiriti parlando di cose
basse. ',!
Eimosse queste false semplicità, ecco la vera. Come
dicevo, ^ essa o un rispetto. La nostra parola viene da Dio: noi non la
^ dobbiamo ingombrare di ciò che sarebbe solo dell'uomo. Chi oc- ^
culta la parola di Dio con la sua è chiamato da S. Giovanni Crisostomo
« un miserabile e un disgraziato traditore »; l'espres- >:, i sione
è forte e suppone un abuso caratterizzato; ma, propor- ; •;"
zonatamente, si applica a ogni parola che non è abbastanza ' i libera
di se stessa, che vuoi brillare a parte e che per questo:;;
ricorre ad artifizi.
S. Grirolamo scriveva a Nepoziano: « Non essere un
decla- l matore, ma un vero dottore dei misteri del tuo Dio
». È uno;^ scandalo, e dovrebb'essere una sorpresa intollerabile veder
?ff salire in pulpito un uomo di Dio, un serviente dell'altare, e^ •udirlo
spacciare frasi sonore, ampollose, pretensiose e oscure.?? Allora uno è
in diritto di domandarsi dov'è il Salvatore degli ^ uomini, di cui
quest'uomo è reputato il rappresentante e cornea la copia, dov'è il
nostro Dio, del quale egli è il portavoce? ?,
Da questa prima considerazione risulta che non è
solamente per i semplici, che si richiede la semplicità, ma anche per
noi;
perché si tratta non solo di essere capiti, ma si
tratta che sia capito Iddio, che la sua parola resti quello che è e,
come si esprime S. Prospero, non sia « snervata » dalle cure troppo;
industriose di un autore. <t
II caso degli umili tuttavia aggiunge una nuova
obbliga-:;:
zione. « II Vangelo è annunziato ai piccoli »; essi
vi hanno diritto; le loro anime pesano come le altre; sono altrettanto
sublimi; il loro destino è lo stesso; pari sono i loro legami con Dio,
con Cristo, con la Chiesa e con noi: nulla permette che il nostro
atteggiamento disconosca questi legami. Se noi ci serviamo delle forme
di pensiero e di linguaggio che non permettano alla dottrina di essere
il nutrimento di tutti, priviamo queste anime e priviamo Colui che le
ama, Colui che ci aveva indirizzati ad esse perché udissero la sua
parola, che esse non udiranno.
— Itì- —
Diciamo finalmente quale sciocco calcolo fanno quei che
si lasciano trascinare a quest'abuso da preoccupazioni « letterarie »,
per dar prova di talento, di eleganza, di erudiziene, di sottigliezza di
mente, in una parola, per una questione d'arte. « II bello, dice
Fénelon, non perderebbe niente del suo pregio quando fosse comune a
tutto il genere umano; anzi ne sarebbe più stimabile. La rarità è un
difetto e una povertà della natura. I raggi del sole non son meno un
tesoro, benché rischiarino tutto l'universo » (1). -
Se ai maestri dell'arte, siano architetti, scultori,
pittori, scrittori od oratori, tu chiedi qual è il loro gran segreto,
ti parleranno evidentemente dell'ispirazione e del lavoro, senza cui non
vi è niente; ma in quanto all'esecuzione, metteranno sempre in prima
linea, la semplicità, i sacrifizi, l'abbandono di ogni partito preso,
in favore della verità nuda: verità del pensiero che si calca sulle
cose, e verità dell'espressione che si calca sul pensiero. Ogni ricerca
fuori di questa, ogni pretesa di aggiungere alle cose col pensiero e al
pensiero con l'espressione, ogni volontà di mostrarsi e di abbagliare,
in vece di far apparire quello di cui si parla, è un'offesa all'arte
come alla verità.
Non si devono discernere, in un'opera, le operazioni
della mente. Se il nostro sforzo è riuscito, esso non si deve vedere,
ne la mente vedere se stessa; l'oggetto dev'essere lì senza intermedio
attenuante o deformatore.
Nell'inchiesta di Agathon alla vigilia della guerra, un
giovane diceva: « Ogni preoccupazione letteraria sminuisce un maestro
ai nostri occhi ». Si capisce che cosa ciò voglia dire. In questo
senso appunto si è parlato dell'« opulenta economia dei maestri », e
fu detto di Puvis de Chavannes: « Non è mai più commovente di quando
fa voto di povertà » (2), in questo senso pure la mortificazione fu
proclamata una legge dello stile come una legge della vita, e ad essa fu
applicata la sentenza evangelica: Ghi vuole salvare la sua vita la
perderà, e cM consente a perderla la salvia,.
Un'osservazione importante, che ci riduce
all'opposizione tra la vera e la falsa semplicità, è che la
semplicità vera risulta sempre da un lavoro di approfondimento, e,
quanto alla
(1) Lettre a l'Académie franfaise.
(2) paul fiebbns, Débat du 14 dicembre 1924.
— 142 —
forma, da un lavoro di epurazione laboriosa, a volte
crudele, perché vi presiede la rinunzia. « Eubens non è semplice
perché non è lavorato », scrive Delacroix nel suo Journal (II,
276). « Bisogna avere il coraggio di essere semplice », diceva Henner.
« Aggiungi qualche volta e cancella sovente », non è un
precetto piacevole, e non è facile eseguirlo, poiché lo stesso
Boi-leau si vantava di aver insegnato a Bacine l'arte « di fare
difficilmente dei versi facili ».
I primi getti ignorano sempre la semplicità, e, come
sostanza o come forma, nulla è meno semplice che un'improvvisazione. In
questo senso è stato detto: « Non vi è stile semplice, vi è solo uno
stile semplificato », e lo stesso si verifica della composizione, dello
svolgimento e di tutto il resto.
Finiamo di precisare il nostro pensiero distinguendo i
diversi difetti che si oppongono alla semplicità oratoria, specialmente
alla semplicità evangelica. E sono: l'ampollosità, che esagera
e deforma, la sottigliezza che raffina, l'amore dei vani
ornamenti, della falsa letteratura, di cui il caso massimo è
quello che si chiama scrittura artistica.
Dell'ampollosità sappiamo quel che ne pensava Pascal.
De Bonaid aggiunge che l'ampollosità, la declamazione « è
propriamente l'eloquenza dell'errore ». Perché? perché l'errore ne ha
bisogno per mascherarsi. La verità che porta il suo diritto in se
stessa, non ha che da mostrarsi: perciò le è stato attribuito come
simbolo la nudità pura, in vece di orpelli e :
di maschere. '
Domanda ai veterani della parola, ed essi ti diranno che
\ i più grandi effetti, i più durevoli, quelli che sconvolgono
le ;
vite in vece di occuparle un minuto, sono i più
semplici, i più ' diretti, non gli squarci di bravura e i periodi
magniloquenti. ;
I nostri uditori sono uomini, bisogna parlar loro da
uomini, ;
e lo stile ampolloso non fa apparire che un attore; sono
dei;
cristiani, e le nostre deformazioni verbali o
immaginative li;
privano del loro contatto col vero del quale la loro
anima ha ;
bisogno. Mancanza morale, mancanza di gusto. Quei che
ere-' dono di trovare lì un segno d'ispirazione, s'ingannano due volte.
Tuttavia vi è qui ragione di dare la sua parte
all'inesperienza. Un oratore novizio è trascinato a suo malgrado a
gonfiare tutto, a circondare tutte le idee di frasi pompose; egli «
esclama », a proposito delle cose affatto semplici e che ciascuno
guarda tranquillamente. È questo un difetto da prin-
— 143 —•
cipiante; di solito esso è accompagnato da una grande
insuffi-cienza di sostanza; si agita perché non sa troppo che cosa
dire, in tal modo che tutto quel rumore sembra una fanfara che maschera
la ritirata. Ma ciò che si perdona nel principiante, smetta al più
presto l'uomo serio.
La sottigliezza? Essa imbroglia la dottrina sotto colore
di precisarla; svia le menti per sentieri traversi, le getta nei
gineprai, le affatica, senza metterle sulla buona strada. Al principio
esse ignorano ciò che si vuole da loro; alla fine si chiedono dove
sono, e si vedono nella difficoltà di concludere. Anzi, il predicatore
si trova allora esposto a sollevare ogni sorta di difficoltà che
turbano, a « scavare delle buche », come diceva il P. Lacordaire, e a
non turarle affatto: d'onde stupore, cattiva curiosità, forse scandalo.
Panis frangendus, non curiose scindendus, dice S.
Bona-ventura. Dividendo e suddividendo, argomentando, cavillando si può
comparire dotti: ci basti però esserlo, e parlare da dotti senza
dubbio, ma da dotti che vogliono convincere un ignorante e che,
sforzandovisi, faranno certamente riflettere gli stessi dotti. L'uomo
competente fa presto a vedere, sotto una semplicità voluta, la
complessità segreta e, nella calma apparente del pensiero, i mille
movimenti inferiori di cui questa calma è l'equilibrio esatto.
In quanto ai grandi cristiani, si sa che essi hanno in
orrore tutto ciò che è curiosità dialettica. S. Alfonso de' Liguori
racconta egli stesso di aver fatto discendere dal pulpito un predicatore
che ci guazzava; S. Carlo Borromeo aveva fatto altrettanto. L'eloquenza
da loro ragione, poiché la sua legge non è quella dei giochi d'acqua
incrociati che decorano una vasca, ma quella del torrente, per lo meno
quella del bei fiume che conduce al mare.
Eestano i vani ornamenti, ai quali i maestri hanno dato
la caccia con una severità benefica. « II discorso che abbonda di
fiori verbali è sterile di frutti», dice S. Ambrogio. «Ogni ornamento
che non è se non ornamento è di troppo, aggiunge Fénelon; toglietelo,
non manca nulla; solo la vanità ne soffre ». E un po' più avanti: «
Tanti lampi mi abbagliano; io cerco una luce dolce, che sollevi i miei
deboli occhi» (1). Si capisce ohe i
(1) Letfre a PAcadémie franfaise.
— 144 —
lampi non abbagliano Fénelon se non per ironia. Un uomo
di gusto ama la luce naturale delle cose; non si lascia imporre da una
vana lustra. I discorsi « lastricati di diamanti » sono un errore
estetico; « il mondo ne è stanco », osserva Bossuet (I):
essi sono a fortiori un errore cristiano. Non si
tratta di far scintillare la parola di Dio, ma di farla splendere ed
ardere;
una predica non è un vano crepitìo, ma sì la fiamma
del focolare cristiano, luce e calore delle anime.
VII. — II senso e l'adattamento.
Un'altra necessità primordiale è l'adattamento della
parola all'uditorio e a tutte le circostanze di tal natura da influire
sul discorso. Molti oratori non hanno nessuna cura e forse non hanno che
una vaga idea di questa condizione. Essi parlano in abstracto,
come per sé, o se si vuole, per:
il soggetto che essi trattano; camminano; spiegano il
soggetto: l'uditore ne prenda quello che può. È questa una strana'
aberrazione. Se un oratore non parla che per se stesso, resti a casa
sua. Sul pulpito, egli parla per qualcuno, e se parla di ? qualche cosa,
se ha un soggetto da trattare, è solamente in' vista di un risultato
che tocca l'uditorio stesso. Il soggetto;
è per la gente, non la gente per il soggetto; l'oratore
è per la;
gente, non la gente per l'oratore.
Ah! è qui forse il segreto! Il predicatore egoista,
vano,' ambizioso, spoglio di zelo apostolico, non ammetterebbe, ini
fondo a se stesso, quest'ordine dei fini. In tal caso non basta ;
avvertirlo, bisognerebbe convertirlo. Ma io penso ora
all'ine-ii sperienza, all'inavvertenza, e insisto sopra questo che un
di-J scorso non è un monologo; è un dialogo profittevole; un mu-| sico
direbbe: un concerto, in cui l'oratore è il solista, l'uditorio '
un'orchestra silenziosa solo in apparenza. Si tace mentre tu parli; ma
le menti e i cuori ti danno la replica, e se il discorso riesce, essi
devono fornire l'armonia della tua parola, dire sì alla verità e al
bene, a misura che tu li fai cantare in se stessi esprimendoli.
Barrès diceva: « Per fare qualcosa di buono, bisogna
trovare il mezzo di collegare quello di cui si parla alla propria
vita»; qui si tratta di legarlo parimenti alla vita degli altri.
(1) Sermon. de vètwe pour une nwvelle wwwtie,
— 146 —
Per tutto il tempo, nel corso dello svolgimento il più
dogmatico, il più in sé, l'uditore dev'essere in causa e
sentire che il discorso decide della sua sorte. Vi sono lì persone che
respirano come respiri tu: tu devi essere animato dal loro soffio,
mentre che a loro comunichi il tuo. Vocalmente, abbiamo detto che
bisogna parlare nella sala; spiritualmente bisogna parlare nelle
anime. Il tuo discorso deve subire lì una transustanziazione completa e
diventare un avvenimento di quelle coscienze nelle quali tu lo riversi.
Uno che aveva in sommo grado questo senso della
comunicazione oratoria, il Lacordaire, diceva: «II mistero della parola
allo stato di eloquenza, è la sostituzione dell'anima che parla
all'anima che ascolta, o per parlare con una giustezza che non lascia
nulla a riprendere, è la fusione dell'anima che parla nell'anima che
ascolta ». Una fusione; un pensiero in comune; « un'associazione
d'ispirazioni divine », diceva ~So-valis (1); un appello, nello
stesso tempo, a quella calma immortalità che è in fondo a noi tutti,
per rialzarci dalle folli agitazioni della vita superficiale, della vita
che ignora la vera vita, della quale il sacerdote, una volta di più,
proclama il segreto: ecco il discorso cristiano. Non è quella una pia
cicalata, ma il mistero della comunione dei santi messo in opera, e il
discorso è mancato se, quando non sarai più lì, questo discorso,
nella mente dell'uditore, non si prolunga in commenti e in meditazioni
beneficile.
Vi è un'altra cosa. In questa massa di uditori muti, tu
mi dici bene che non tutti sono in stato di passività benevola;
non tutti si aspettano la parola d'ordine; ci sono
resistenze confessate o segrete; ci sono anzi delle ostilità, e allora,
per costoro almeno, il discorso è una battaglia. Tu attacchi; prendi di
mira il punto debole; tiri. E non devi tirare che palle esplo-sibili; la
palla meglio lanciata, se attraversa innocentemente, non produce che
ammirazione per il tiratore; la vittima sfuggirà, e bisogna che essa
soccomba. Hai ragione.
Eiguardo ai migliori, però, il tuo compito è meno
offensivo;
ma tu dirigi ancora un assedio, o uno sforzo d'impulso
bellicoso. Hai da metterti alla testa di quelli che forse vogliono
bensì avanzarsi, ma che non si decidono a entrare nella via, o che non
la conoscono, o che dormono, e devi sforzare gli altri. Ciò non si fa
eseguendo un'aria per le muse e per sé.
(1) nwàhs, F'ragntsivtS vaédifs. Stooh, ed. 10
— SBKULlAKUEa. Voratore cristiano.
— 146 —
Si tratta di convertire la vita m verità: si cominci
col con-vertire la verità in. vita. Cose! non parole, non formule
sudate, ' e se qualcuno guarda fuori, o se guarda in sé, non abbia
l'impressione di una disparità; possa egli afferrare la corrispondenza.
;
Bisognerà bene che ti si ascolti, se per l'uditore è
evidente.;
che tu tratti i suoi proprii affari; bisognerà bene che
tu lo attacchi ne' suoi pensieri, ne' suoi sentimenti, o che gli rechi
soccorso. Egli dirà a se stesso: Si cammina nel mio giardino,
attenzione! bisogna che io sorvegli; oppure: Ecco un lauto guadagno; mi
si reca quello che cercavo, bisogna che presto' me ne impossessi. Ma se
tu non fai altro che monologare, o dialogare con esseri fìttizi,
l'uditore, non sentendosi in causa, ti sfuggirà; ti ascolterà con aria
rassegnata, dopo di che ascolterà la continuazione dell'uffizio
religioso del quale /tu non eri che un numero.
Ciò detto in generale, dobbiamo precisare le condizioni
di questo adattamento. Adattarsi all'uditorio è rivolgersi a lui così
com'è, tenendo conto delle sue disposizioni di ogni genere. Quali sono
le sue cognizioni? Se lo sai, non rischiare di passargli sopra la testa,
di sottintendere quello che ignora, di usare parole di cui non conosce
il senso, di sconcertarlo introdù-cendolo subitamente in un mondo
nuovo. Quali sono i suoi
. sentimenti? 'Sou ti esporrai a urtarli, a
provocare i suoi in* dietreggiamenti; lo prenderai lì dov'è, per
condurlo là ove
'dev'essere. Che cosa sai del suo livello morale? tienne
conto, e' sarai in grado di misurare le tue richieste, di non doman-
; dargli, come ai bambini, se non quello che ti può
fornire, pur facendo brillare l'ideale e aprendo, nei tuoi considerando,
tutte le prospettive.
Devi anche tener conto dell'età, del sesso, delle
condizioni sociali, di queste o di quelle particolarità di ambiente
o di
.paese, affinchè i costumi oratorii — cosa
così importante! — abbiano soddisfazione. « Lo stesso fischiare che
placa il cavallo fa ruggire il leone », dice S. Gregorio;
dimenticandolo, più di un predicatore si aliena una popolazione
o un gruppo a scapito del bene.
Oom'è rara, in tutti i modi, quell'eloquenza che
Sainte-Beuve, parlando di Berryer, chiama « un'eloquenza al suo posto!
». Bisogna dire che per noi la difficoltà è grande. Nessun uditorio
è omogeneo sotto tutti gli aspetti che ho consi-
— 147 —
derato: che cosa potrà allora diventare l'adattamento
del discorso? Esso è malagevole; ma il senso dell'adattamento è
più che necessario. ,
Ciò che prima si affaccia alla mente, è di badare alla
media, cioè al maggior numero, e l'idea è giusta; ma non basta.
Ciascuno ha il suo diritto, noi dobbiamo parlare per tutti. Ohe fare
dunque? È una questione di tatto, di un caritatevole saper fare, di un
talento diretto dal cuore. Un uomo intelligente che si vede dinanzi
della gente di ogni specie non è per questo disorientato; se è zelante
e delicato, saprà disporre i suoi svolgimenti in tal modo che ciascuno
vi trovi il suo tornaconto, vi possa cogliere quello che gli occorre.
Insisterà su ciò che interessa il maggior numero, ma scivolando verso
i casi speciali, prevedendo tutte le ipotesi, facendo enumerazioni bene
studiate, graduate, delicatamente colorite, che non lascino niente
nell'ombra e permettano tutte le applicazioni. In tali condizioni, senza
che nessuno sia offeso, ciascuno sarà raggiunto e nessuno potrà dire:
Questo è per altri!
Il vero e il bene ci riguardano tutti; se li esponiamo
largamente e, riguardo a questo o a quel soggetto, completamente, siamo
sicuri di parlare per tutti; basta per questo usare un linguaggio comune
e insinuare, come ho già detto, tutti i particolari necessari.
Possiamo così essere condotti a mirare a quegli stessi
ai quali non miriamo, ai quali non vogliamo, per lo meno pretendiamo di
non voler mirare per una ragione qualunque:
per rispetto, per motivi di carità, o per convinzione
che realmente non ce ne sia alcun rappresentante nell'uditorio. Se
tuttavia ne esistono, bisogna che essi abbiano la loro parola:
noi la diciamo, pur protestando di non dirla, perché
sarebbe superfluo.
|% Gli oratori sono pieni di queste preterintenzioni
abili, rapide, che formulano con precisione, a volte conficcando lo
strale, ciò che essi pretendono di schivare, l'idea « inutile» a
esprimere, il timore che è « ben lontano dal loro pensiero »,
l'accusa che essi « si guarderebbero » dal lanciare, o la supposizione
che sono « lontani le mille miglia dal voler fare ». Bossuet era
abilissimo in questi maneggi sapienti; alla corte, non era invano.
Per essere sicuri del buon adattamento del discorso
all'uditorio, bisogna conoscere la gente, e appunto in questo troverà
il suo impiego l'esperienza generale e particolare di cui ab-
' , — .148 —
'^ • biamo parlato sopra; ma bisogna anche osservarli
questi viventi, nel loro atteggiamento attuale, e giudicare della
propria parola intorno a' suoi effetti. Cicerone parla di un « odorato
» speciale dell'oratore, di un fiuto che gli fa sentire quello che
sentono, pensano, attendono, vogliono o respingono i suoi uditori, in
tal modo che egli li raggiunge nell'intimo della loro vita psicologica e
può modificare questa vita o conformarla secondo le proprie vedute. Lì
sta una gran parte dell'arte;
l'avvocato, il deputato che ne è sprovvisto è esposto
a tutte le sconfitte. Per noi la sconfitta è l'assenza del bene che
eravamo incaricati di procurare, che Dio destinava a quelle persone e
che attendeva la loro anima.
Certo, per adattarsi perfettamente, occorrerebbe leggere
nei cuori, in tutti i cuori. Perciò non vi è che una parola
assolutamente adatta, ed è la parola inferiore di Dio, quella che il
suo Spirito fa risuonare nei cuori stessi. La parola meglio adatta dopo
questa, è quella di Gesù Cristo, che raggiungeva i suoi uditori
secondo i loro bisogni e la loro capacità ricettiva, prout 'poterant
audire, dice S. Marco (IV, 33), e che nello stesso tempo esprimeva
il fondo delle cose in un modo così adeguato all'umanità eterna, che
essa aveva di mira, attraverso ai se-eoli, le anime di ogni specie e di
ogni stato che volessero farvi ricorso. La convenienza del discorso non
fu mai ubbidita come in questa divina parola. La sua opportunità è
sovrana. E ciò deriva dalla perfetta cognizione che dirige l'Uomo-Dio,
dalla perfetta carità che lo anima. Tutto dato agli uomini, egli li,
sente come qualcosa di sé. Tutto dato all'opera sua, ne percepisce le
condizioni con un istinto infallibile. Tutto dato al;
Padre suo, segue la provvidenza in tutti i suoi casi,
riguardo a tutti gli esseri. La sua opportunità è tutt'insieme
un'oppor-' tunità di visione, di generosità e di amore; è un'arte ed
è un dono, un dono di se stesso. È il nostro modello. Tenendoci
accanto a Lui, noi potremo effettuare qualcosa di questa azione sempre
adatta, sempre opportuna, mezzo esteriore dell'unico Spirito divino.
149
CAPITOLO VI.
L'immaginazione e la sensibilità. Qualità e ditetti.
I. — L'aridità.
Il giusto impiego dell'immaginazione, in fatto di sacra
eloquenza, sta fra l'aridità; che impoverisce il discorso, e la
divagazione, che lo evapora o lo sovraccarica.
Noi non siamo degli spiriti puri; pensiamo partendo
dalle nostre immagini mentali e in unione con esse. L'idea non è
afferrata se non attraverso alla sua eco sensibile, e noi non possiamo
convincere senza 'far vedere, cioè senza figurare quello che
diciamo e farne una verità vivente, che si manifesta in una specie di
corpo, come l'anima ne' suoi organi. A colui che ascolta questi due
versi di AtJialie: « Quegli che pone un freno al furore dei
marosi, sa anche arrestare i complotti dei malvagi », quante immagini
si affacciano! e sono esse che formano il potere del distico.
I filosofi, come tutti, sono tenuti a passare di li,
visto che il linguaggio, espressione dell'anima, non è che una lunga
metafora. S. Tommaso, ad onta del suo rigore, abbonda di espressioni
poetiche, ed è inutile ricordare Pascal. Del rimanente, la predicazione
non è una disciplina puramente didattica, ma un'arte. Ora, per
l'artista, ogni oggetto si tuffa in un'atmosfera immaginativa
generatrice di impressioni, e far condividere queste impressioni è lo
stesso scopo dell'arte. Per noi il campo di azione è più esteso che
per l'artista unicamente artista: da prima, noi mettiamo l'insegnamento
stretto, da ultimo, l'eccitamento pratico; ma, nel mezzo, i fini
coincidenti. Anche noi coltiviamo l'intuizione; alla visione inferiore
delle cose però noi non vogliamo sostituire una semplice nozione, e in
vista dello sforzo cosciente, cerchiamo di agire sull'incosciente, così
potente in opere.
Il Vangelo ce ne da l'esempio. Il Figliuoi dell'Uomo
parlò H 'da uomo, e, rivolgendosi a uomini, non rifiuta loro la carità
— 1BO —
dell'immagine, della parabola, della metafora
illustrativa e motrice. La Buona rovella è illustrata, nel mentre che
è espressa. E ben altrimenti ancora avveniva dei profeti. La tradizione
antica voleva che la storia stessa, la filosofia, la scienza fossero
trattate nel modo lirico. Le opere della scuola presocratica presso il
popolo più logico del mondo, sono dei poemi. Plafone ne serba la
traccia ne' suoi dialoghi. L'eloquenza antica ' era una specie di canto,
e se la lingua greca o romana vi si prestavano più che la nostra,
nessuna lingua sfugge alla necessità del ritmo, dell'armonia, al
maneggio dell'immagine, allo sforzo verso la visione inferiore di ciò
che viene espresso. In ciò, come diremo, sta una parte essenziale dello
stile, dello stile oratorio più che dell'altro, fuori della pura
poesia.
L'oratore deve avere una parte di poeta, come ha una
parte di filosofo e di teologo; la sua parola vuole essere una musica,
non uno sciatto e arido discorso, l^on ubbidire a questa legge del
genere porterebbe geco due inconvenienti che si accompagnano. Anzitutto,
abbasseremmo i nostri soggetti. Essi sono grandiosi, sono splendidi:
rifiutare di farli brillare, non sarebbe forse essere infedeli ad essi?
Essere aridi rievocando il dramma della vita e la sua posta eterna,
riferendo la ;
storia di Dio e del suo Cristo, ergendo la croce sul
mondo $ rigenerato e trascinato alla più fulgida conquista, sarebbe
cosa iS davvero strana! Il labaro vuoi essere spiegato nel cielo; la ;%
grande vita cristiana esige le forme e i colori della vita, affin- ;•:;
che sia giudicata con un giudizio animato, ci si
entusiasmi e^ si cammini, si,
Esprimendo pallide ed esangui le nostre immense conce-g
zioni, noi predichiamo contro di esse, dando a pensare chejw abbiano
esse stesse siffatta natura anemica. Provati a dire . una cosa terribile
o sublime con una voce atona, in termini ' sbiaditi, e nessuno ti crede.
Allora apparisce il secondo incon-,;
veniente additato: la mancanza d'immaginazione, in un
certo;
grado, compromette il risultato della parola, i
N'ell'uditore, in cui tutte le facoltà sono collegate,
nessuna di esse sarà soddisfatta, se tutte non saranno soddisfatte: il
convincimento non scatterà, la conversione non si produrrà se non a
patto di aver conquistato l'uomo, oltre l'automa e il pensatore.
Parimenti, in noi oratori, nessuna facoltà è messa in opera
pienamente, se noi non facciamo intervenire le altre e non esprimiamo
l'uomo.
, — 181 —
Pensa che in tutta codesta gente radunata, la ragione,
su molti punti, è schiava di una immaginazione seduttrice; come la
libererai tu, se non con l'aiuto di una immaginazione che rischiari?
Vincere l'immaginazione con le sue proprie armi, sul suo proprio
terreno: ecco il tuo lavoro; senza ciò, tu non sei in forza. La tua
propria immaginazione, legata alla ragione umana e divina, dal canto
suo, ha potere sopra un'immaginazione incatenata all'illusione e ai
sensi; ma essa non deve punto abdicare.
Per conseguenza, la cultura dell'immaginazione s'impone
all'oratore novizio. Io ne dissi le condizioni parlando delle nostre fonti;
qui rammento solamente la frequentazione della natura, repertorio
inesauribile d'immagini; la lettura dei poeti, che hanno letto la natura
per noi con maggiore potenza; il commercio delle arti, come una bella «
distrazione », che in vero non ci distrae dal lavoro se non per
rinforzarlo nel suo centro stesso, e più ancora nella sua ispirazione e
nel suo impiego.
Nel corso del lavoro, il segreto è di concepire,
comporre, scrivere, parlar" in un'atmosfera immaginativa in
rapporto col soggetto, coll'uditorio e con lo scopo. Tenta di avere
vedute grandi. Eappresèntati quello di cui parli nel suo ambiente
autentico, co' suoi caratteri reali, rivestito delle sue circostanze
più impressionanti. L'efficacia di questo procedimento prosegue fino
nei particolari. Vuoi tu trovare la parola giusta che ti sfugge, il
verbo espressivo, l'epiteto che aggiunge al sostantivo un nuovo valore?
Rievoca il caso; rappresentati l'azione che il verbo deve esprimere, i
caratteri che l'epiteto deve dipingere, e la parola verrà. Questo è il
mezzo di evitare la volgarità, la parola stereotipata, e specialmente,
tra il nome e l'aggettivo, ciò che fu chiamato « matrimonio
d'inclinazione ».
Occorrendo, all'ora del lavoro, provoca l'immaginazione
con un bei testo, con uno spettacolo d'arte, con un'audizione in
spirito. Poco basta ad allettare i nostri poteri inferiori, se la
formazione ricevuta li rende disponibili. Un'incisione, un'aria che si
ricorda, un'occhiata sulla campagna, un ciclo, un semplice fiore, ed
ecco accesa la fiamma. Grandi immagini ci devono sempre scortare lungo
il nostro cammino. TTna specie di spirito universale è la condizione di
un lavoro fecondo, di un'opera vivente.
182
II. — La divagazione.
Vi è l'eccesso. La parola divagazione lo esprime
imperfettamente; ma si capisce abbastanza che cosa vuoi dire. La pazza
della casa non ha nessun diritto sul nostro lavoro. Abbiamo parlato
in favore dell'immaginazione legata alla ra-• gione, legata alla
rivelazione: allora essa non è pazza; parte- 'i cipa della
ragione umana e della ragione divina, che alla loroC volta vi si
arricchiscono per noi. Ma l'immaginazione da sola;
è una pazza di fatto, perché non ha guida. ^
Chi dunque ci indicherà qui la misura? È il servizio
del-] l'idea che la determina, poiché tal è il motivo dell'intervento.
;
Dico: servire, e non soffocare, e non ingombrare. Dico:
servire^ l'idea, si tratti dell'idea speculativa, da credere, o
dell'idea-, forza, da attuare. Nei due casi, l'idea è lo scopo;
l'immagina-^ zione non è che il mezzo di convincere e di far mettere in
pratica. ;:
Ne segue che fare una sorte a parte agli effetti
d'immaginazione è un errore e, a dire il vero, una sciocchezza. Si
abbia immaginazione quanto si può, purché essa faccia la parte sua. In
questo compito, non se n'ha mai abbastanza; fuori di esso, se n'ha
sempre troppo. Noi siamo incaricati di 'piantare e di coltivare,
secondo le espressioni dell'Apostolo; la nostra parola vi si adopera e
può riuscirvi; ma non si tratta di tracciare un giardino inglese,
oppure un giardino alla francese, più gaggio, più disciplinato, ma
ancora oggetto di piacere: noi coltiviamo un campo. La bellezza del
nostro lavoro adunque dev'essere la bellezza del campo, sotto il cielo,
con la prospettiva del mondo. Non temiamo che questo ci tolga qualcosa!
TJn campo è più bello di un giardino, e di una bellezza più piena,
quando è veduto con uno sguardo di uomo, pensando. ai più alti fini
della vita. Ma è un campo; la sua bellezza è utilitaria.
Questa bellezza è parimenti sobria, evitando la
tronfiezza che abbiamo condannato, vegliando a preservare la dottrina da
ogni alterazione deformante. « Tutto ciò che è eccessivo è inetto
», diceva Talleyrand; uscendo dal vero, non lo può servire, e in ciò
sta la sua nullità. Credere d'ingrandire il soggetto gonfiandolo, è il
fatto della inesperienza. Quello eh® ingrandisce un soggetto è la sua
verità e la giusta proporzione dell'insieme. « È la precisione che
apre l'immensità », scrive
— 153 —
Emesto Hello; perché essa va al cuore delle cose, e il
cuore di ciascuna cosa echeggia dovunque.
Lo stesso avviene se si considera il benefìzio
dell'oratore;
non si diventa grandi col salire sui trampoli; si
provoca piuttosto il sorriso. « Gli uomini più delicati, dice
Stendhai, hanno questa disgrazia assai grande nel secolo XIX (nel
XX ciò, impera addirittura): quando scorgono dell'esagerazione, il loro
animo non è più disposto che a inventare dell'ironia » (1). Perché
allora si ha un'impressione di puerilità. L'immaginazione in se stessa
è puerile; è l'animalità; è l'infanzia, non appena che la ragione
l'abbandona. Onde Amiel alla sua volta sentenzia: « La misura è
l'indizio della maturità intcriore;
l'equilibrio è il segno della sapienza » (2).
Che lezione ci da su questo punto, come dovunque, il
Sapiente per eccellenza! Egli, di un'immaginazione sovrana, non permette
mai il minimo scarto a questa preziosa ancella. Tutto è presente alla
sua parola; la natura e la vita l'avvolgono, eppure nel discorrere non
si vede che l'anima e Dio, col dramma delle loro relazioni. Gesù si fa
vedere il più grande degli artisti, oltre che un salvatore. E si
capisce! Dopo tutto, l'arte non è che un sistema di mezzi in vista in
un fine, e questo adattamento è qui perfetto. Gesù non richiama la
natura se non per mostrarla sotto il ciclo, la vita se non per metterla
in presenza dell'eternità, per spingerla verso l'eternità: per questo
il suo parlare ha questa tonalità sempre giusta, nel grandioso e
nell'eterno.
IH. — La freddezza.
Oltre l'immaginazione, la sensibilità è uno strumento
prezioso dell'oratore, a condizione che sia bene imbrigliata e non
faccia a modo suo. Siccome le nostre convinzioni per una parte dipendono
dall'immaginazione e le prestano dei mezzi per espandersi; così le
nostre risoluzioni dipendono dai nostri stati di sensibilità e se ne
valgono per trasmettersi. Noi non siamo volontà pura più che pensiero
puro; pensiero e volontà s'incarnano, prendono corpo. Non si può
convincere senza far vedere, dicevamo, parimenti non si può far
decidere senza
(1) stendhal, Promenades dans Bome.
(2) Journal intime, 25 ott. 1870.
— 164 —
commovere. Le nostre risoluzioni emergono da un ambiente
di emozioni come le nostre idee da un tesoro d'immagini. Nessuno faccia
assegnamento sull'efficacia dell'idea nuda o del consiglio a freddo.
Presentare la verità e il bene come delle consegne,
senza preparar loro la via nel cuore; parlare con chiarezza e forse con
autorità, ma senza amore, senza tenerezza là dove ce ne sarebbe
bisogno, senza vibrazione comunicativa, quale inferiorità apostolica!
quale diminuzione in quanto ai risultati!
Sainte-Beuve scriveva ne' suoi Gahiers a
proposito di G. Fey-deau: « Si potrà dire di lui quello che si vuole,
ma egli ha quello con cui si torce il ferro; ha del fuoco ». Qualche
volta noi abbiamo molto ferro da torcere, per piegare le anime alle
nostre sante leggi: senza il fuoco della sensibilità, dove sarà la
nostra potenza? E quanto più ancora saremo noi sprovvisti, se si «I
tratta di consolare, di calmare, d'incoraggiare, di far rivivere? A Sono
questi dei compiti divini; la religione in ciò è maestra; ;
ma ancora bisogna saper rappresentarla, essere atti ad
appli- ff" care i suoi balsami, essere pronti a rallegrarsi con
quei che, si ^' rallegrano, a piangere con quei che piangono, a
confortare i i;
peccatori dopo averli salutarmente abbattuti, a non
conten- ; \ tarsi di tuonare o di prescrivere, come se la legge
rialzasse dif^ per sé. Per la legge si ha la cognizione del peccato
{Kom., Ili, 20); ;;
ma è l'amore che rialza, l'amore, motore
dell'apostolato ^^. che si trova in tutti i suoi effetti. '.;;
Ma dove sono gli apostoli che hanno « del fuoco
» e che pos-^ sono ammollire anime dure o « torcere del ferro »?
Dov'è ;
S. Paolo che dice: figliolini miei, per i quali io
provo ancora i ',y dolori del parto, finché Cristo sia formato in voif
{Gai., IV, 19),^, Dov'è S. Agostino che sdegnava gli applausi, ma
si compia- ^ ceva di aver fatto versare lacrime, sapendo, diceva egli,
che" da quel momento aveva causa vinta. Dov'è soprattutto No-':
stro Signore, focolare di divina tenerezza, che palesa
la veemenza contenuta di tutti i sentimenti umani? In Gesù si rivela
tutta la vita del cuore, nello stesso tempo che splende la ' verità e
si afferma la forza d'anima. Egli venne a portare fuoco:' sulla
terra: gli occorre agitare la fiaccola.
Tutti gli apostoli, dopo Gesù furono esseri sensibili,
per altro secondo diverge forme, gli uni più atti a spaventare e a
destare, altri a consolare, altri a insinuarsi per toccare le fibre
segrete del cuore. In un modo o in un altro, sentivano e sapevano far
sentire; era una parte capitale del loro ufficio.
— 168 —
In quelli tra noi che non ne .sono capaci, ciò può
dipendere dalla timidità o dall'inesperienza. In tal caso la cultura e
l'allenamento della pratica sono il rimedio. A ciò aggiungi l'umiltà,
che, rendendo la parola pienamente disinteressata, la libera dalle
debolezze quanto dagli eccessi. Ma il male sarebbe maggiore, se ciò
dipendesse dall'indifferenza del cuore. Una conversione sarebbe allora
necessaria, e sarebbe un grave soggetto
di meditazione.
•i
IV. — La sensibilità temperata.
liTon dimentichiamo tuttavia di segnare i limiti della
sensibilità, o piuttosto le sue leggi. 'Non si è mai troppo
sensibili, finché è mantenuto l'equilibrio tra le facoltà; ma si può
essere nel falso, fuori della regola razionale. Abbandonarsi alla
sensibilità è sempre pericoloso; ed è già un male, poiché è
un'abdicazione della facoltà principale, la ragione. Questa deve
tenersi in qualche modo al di sopra di tutte le nostre facoltà emotive,
con Dio, che, dal canto suo, non si commove. Qualcosa della serenità
eterna, dicevamo, deve sempre dominare i movimenti umani.
Del rimanente, la sensibilità ha per ufficio di servire
il discorso, e per questo si dovrà sempre temperare a vantaggio degli
altri aspetti necessari della parola cristiana: l'autorità, la
chiarezza, la fermezza, la semplicità, l'esattezza. La sensibilità
riboccante si chiamerebbe meglio sentimentalità; se riesce a piacere,
ammollisce però e snerva: fortunatamente i suoi effetti si logorano
presto; ma allora essa non ha più riserve per spese utili.
V. — Le mescolanze impure.
Soprattutto, la sensibilità dev'essere pura, voglio
dire sciolta da ogni sfoggio personale e da ogni lega sospetta. Cercar
di attirare l'interessamento sopra la propria persona con mezzi di
sentimento è a volte ridicolo. «Vedete com'io piango! ». Ma è anche
pericoloso; molte cadute non hanno altra causa. I virtuosi della
sensibilità devono guardarsi anche più che quelli dell'immaginazione,
a più forte ragione che quelli della dialettica. Oltre al loro pericolo
personale, non si espongano a fare di Dio, proclamando la sua bontà, un
babbo ridicolo, ne soprattutto a blandire, con un linguaggio effeminato,
— 156 —
quelle stesse cose che invitano i loro uditori ad
eliminare. Il peccato non merita il tenero addio che facilmente
equivarrebbe a un arnvederci; ciò che gli appartiene è la nostra
gravita, quando non c'è luogo ad applicargli le nostre sevizie.
In qualunque maniera e se anche non vi fosse da temere
tali effetti, la virtuosità è condannevole. Non si tratta del nostro
tornaconto. Quello che è in questione, è la questione che noi
trattiamo, sono le anime, ed è Iddio. Per la virtuosità si può
piacere, a guisa degli adulatori, che si ascoltano, che in certo modo si
amano, ma che non si stimano e non si seguono.
L'Apostolo ci dice: Abbiate in voi i sentimenti da
cui era animato Cristo Gesù {Philipp., II, 6). Questi sentimenti
sono suggeriti dalla meditazione, dalla Messa, d'accordo con tutto il
movimento della nostra vita spirituale. Ma questo ricorso non esclude
l'uso dei mezzi umani. Quelli che abbiamo indicato, parlando
dell'immaginazione, estendono i loro effetti alla sensibilità, quando
vi si adattano. La frequentazione dei santi e dei maestri in special
modo dotati sotto il rapporto del cuore, il commercio dei poeti, quello
dei grandi compositori, abili a fare scaturire il fuoco dello spirito
degli uomini (Beethoven); ecco dei reali soccorsi. Del resto, parlando
come noi in generale, non si sa su che cosa convenga insistere di più,
sulla sensibilità stessa o su' suoi limiti. Si deve lasciare il
giudizio e la pratica alla coscienza di ciascuno.
167
CAPITOLO VII.
Il carattere del predicatore.
I. — La leggerezza e la gravita.
Il carattere, preso affatto m generale, abbraccerebbe le
qualità dell'oratore delle quali abbiamo ora abbozzato lo studio, ma si
sa che la parola importa d'ordinario un senso più speciale. Littré
definisce il carattere per « l'insieme delle qualità che si
riferiscono all'azione » e che, naturalmente, la dirigono, poi la caratterizzano.
Le qualità non sono che strumenti.
Eiguardo al nostro oggetto, rileverò le disposizioni
morali buone o cattive che possono influire sul valore e sull'efficacia
del discorso, e sono, nell'ordine in cui le considero: la leggerezza
e la gravita, V asprezza o eccessiva severità e una lassa compiacenza,
lo spirito di benevolenza o di denigrazione, la Umidità
e la presunzione, l'orgoglio e l'ambisione umana, il vero zelo
e la confidenza fondata in Dio.
Si chiama leggero l'uomo che manca di prudenza è di
serietà nella sua condotta e nelle sue parole; un oratore leggero è
quello che manca di questo nel suo discorso. Ciò può avere molte
conseguenze e riscontrarsi in molti dominii. La scelta dei soggetti già
se ne risente; il modo di trattarli se ne risente più ancora, perché
lascia maggiore indipendenza. La scelta dipende in parte da tradizioni e
da obblighi che sono saggi, mentre tu non sei tale; ma lo svolgimento,
le forme del linguaggio, le tendenze del discorso, l'atteggiamento di
fronte all'uditorio sono liberi» e la leggerezza si fa lecito di
alterare tutto.
N'olio svolgimento, si preferiranno le curiosità, i
giochi di pensiero e le sottigliezze di analisi, ciò che Arnie! chiama
« solfeggi su temi sacri », o ancora le descrizioni divertenti, senza
importanza per i risultati, le critiche spiritose e i cavilli, in vece
degli avvertimenti e delle esortazioni apostoliche. Quest'ultimo caso è
frequente. Si motteggia sopra i costumi
— 1&8 —
mondani come per dispensarsi dal riprenderli. Un uditore
-— o un'uditrice, perché questi predicatori scherzosi sono per lo
più preferiti dalle dame — si trova pago di esgersi così lasciato
fustigare ed esce dalla chiesa col sorriso. Sarebbe meglio che, di
fronte a se stesso, ci si sentisse sotto il giudizio della verità e del
bene. Pare così è quello che il padre Long-haye chiama « accarezzare
col pennello » i vizi, in vece di de-nunziarli. E ciò prova che tali
predicatori hanno poca cura del loro ufficio. Certamente Geremia direbbe
di essi come dei falsi profeti: Essi dicono le visioni del loro
proprio cuore, e non quello che esce dalla bocca di Jave (Jer;
XXXIII, 16).
come dei falsi ^
e, e non quello •
la leggerezza F
Sotto l'aspetto delle forme del linguaggio, la
leggerezza ispira arditezze che non convengono alla parola di Dio,
espressioni audaci e profane, rigiri frivoli, immagini troppo
espressive, che rischiano di suggerire alle immaginazioni e di proporre
all'adesione di anime fragili i vizi che si incriminano;
finalmente quello stile di cui parlava Sully Prudhomme
« che segna un'ultima compiacenza per la cosa che si rigetta » (1).
Vi sono casi e materie in cui basta dipingere bene il
male per ispirarlo. Dipingere bene! ne' suoi veri termini è un
dipingere male, se si riferisce all'estetica della cattedra. In ogni
caso, tali rievocazioni sono di una leggerezza imperdonabile. Vi sono
dei predicatori che amano questo pericolo, essi rasentano l'oggetto
vietato che non dovrebbero designare che con un tatto sommo; non temono,
per l'effetto dei loro discorsi, un leggero scandalo. Moralisti
stupefacenti che rassomigliano al sughero che saltella sulla corrente,
anziché alla roccia che lo ferma.
Notiamo inoltre gli scherzi fuori di posto, le celie
triviali o impertinenti, le imitazioni di persone ridicole che
rischiano, senza che egli ne dubiti, di rendere ridicolo anche il
predicatore. Si ride: il carotaio trionfa; ma di che si ride? succede
spesso che si rida a un tempo delle buffonerie stesse e di colui che è
assurdo nel pronunziarle. Poiché ci si diverte, non si pensa in
quell'istante a criticare; ma che cosa se ne penserà domani, lo sa
l'interessato? La sua coscienza, anticipando il giudizio de' suoi
uditori, ne lo istruisca.
Quando si diceva a Goethe che il pubblico guasta gli
autori col piacere che si prende in cose frivole, Goethe rispondeva:
(1) Oonvtìrsation inèdite avee Fraitfois Coppée.
— 189—
« È possibile; ma se al pubblico si da qualche cosa di
meglio, è ancora più contento » (1).
Non dico che non si possa sollevare un poco l'uditorio,
soprattutto se è giovane, e segnatamente in un discorso familiare;
sorridere e far sorridere, tenendosi nei giusti limiti, non solo è cosa
innocente, ma è un bene. Un contemporaneo ha detto abbastanza
profondamente che « un po' d'infantilità non guasta mai le cose divine
». Vi è una santa infanzia, una specie di nobile puerilità che si
trova nei santi e che in essi — come nel buon soldato — confina con
l'eroismo. Ma ciò si riconosce presto e non si confonde con la
leggerezza essenziale, per dire così, la quale indica il nulla
dell'anima, anziché esserne il fiore.
Il conte Mole diceva a Sainte-Beuve che i due più fini
e più incantevoli sorrisi che avesse veduto erano quelli di Napoleone e
di Chateaubriand. E Sainte-Beuve aggiunge: «Ma essi non sorridevano
tutti i giorni » (2). Il sorriso delle persone gravi, il sorriso delle
persone forti, se è il più bello, è anche il più misurato, il meno
abbandonato al capriccio. « Io non amo le celie e i nomignoli, dice S.
Francesco di Sales, non è questo il luogo ». Per nomignolo egli
intendeva le espressioni scherzose, i frizzi; eppure egli non mancava di
attrattiva.
Ho parlato delle tendenze di un discorso: io prendo ciò
nel senso proprio, per designare lo scopo che si ha di mira o che, a
ogni modo, ha per sé di mira la tua parola; infatti vi è una tendenza
immanente al discorso, che deriva dal carattere che gli s'imprime, dal
suo dinamismo, dalla sua ispirazione. Ora ciò che qui indica la
leggerezza del predicatore è l'assenza di conclusione pratica. Con ciò
io non intendo punto l'omissione di quella parte del discorso che
si chiama conclusione: questo è affare di genere oratorio e non
s'impone in alcun modo; una predica che conclude tutto il tempo non ha
bisogno di concludere alla fine in un modo speciale. Ma la conclusione
espressa o sottintesa, soggiacente o formale, è il principale del
discorso cristiano.
Uscendo da una predica, si deve sapere che cosa pensare
se si tratta di dottrina, che cosa fare se si tratta di pratica, e, ia
generale, le due cose che sono solidali. Che ciascuno possa dire a se
stesso: « S'une cepi, adesso incomincio, mi decido »,
(1) Conversation avec Eclcerma'nn.
(2) saimtb-beuve, Cahiers iìitimes.
— 160 — '
è o dev'essere il voto dell'oratore. Egli agisca dunque
m conseguenza. L'uomo leggero non se ne da pensiero. Se egli domandasse
a se stesso: Ohe cosa si deve concludere dalla mia predica, e da che
cosa incominciare, non saprebbe che rispondere. Del resto se egli si
chiedesse questo non sarebbe più un uomo leggero. L'uomo serio che se
lo domanda, e che non vede chiaramente la risposta, deve dirsi che non
ha terminato il suo lavoro. Deve anche aggiungere che non l'ha
intrapreso bene, e che per conseguenza l'ha condotto male, infatti la
luce di tutto, la regola suprema è appunto lo scopo.
Finalmente, nell'azione stessa, s'introduce la
leggerezza. — In quanto alla voce, sotto forma di smancerie,
d'imitazioni, di salterelli da merlo o da gazzera; — nel gesto, con
movimenti troppo descrittivi, troppo familiari, o troppo agitati. S.
Francesco di Sales additava così come difettosa « una certa azione
spedita e leccata, che diverte l'occhio più che non batta al cuore ».
Importa che tutto batta al cuore, e per questo che tutto
sia grave, nobile e grande, dico in proporzione col soggetto, col
momento e colla circostanza. Ma qualsisia la circostanza e qualsisia il
caso, colui che si tiene bene nel suo compito, unito allo Spirito Santo
e in contatto delle anime figlie di Dio, elette ab aeterno,
questi anche se occasionalmente celii, non sarà mai un odiatore; avrà
la serietà del suo stato e del suo lavoro. La gravita è per il
predicatore quello che la croce è per il santuario: essa lo indica, i
fiori e la leggiadria ornamentale non possono venire se non dopo.
II. — L'asprezza e la compiacenza.
Intendo per asprezza quella rigidezza, quello spirito di
aggressione che certi prendono per il massimo dello zelo, e che è una
contraffazione dello zelo, perché in quanto alla sostanza, come in
quanto alla forma non mostra i sentimenti del vero zelo come non ne
prepara i risultati.
In quanto alla sostanza, questo falso ardore apostolico
ha i più gravi effetti; esso trascina a forzare la nota, a presentare
nel nome della fede, come precetto, quello che non è di precetto, a far
paventare quello che non minaccia se non nella nostra immaginazione
malevola, a ingrossare tutto e a falsare
— 161—"
i rapporti tra la vita umana da una parte, e dall'altra
il pensiero o la legge di Dio. Allora, una delle due: o l'uditore non è
gonzo, e il predicatore perde di considerazione anche riguardo al vero,
il troppo finisce nel troppo poco, oppure si entra nelle tue viste, e in
tal caso è lo scoraggiamento nei deboli, in altri l'irritazione contro
la verità, il disgusto del bene che si dichiara amaro e inaccessibile.
Era questo il tuo scopo?
Hai voluto, dici a tè stesso, scuotere la negligenza;
ma la negligenza del peccatore era meglio della sua disperazione, essa
lasciava la speranza. Del resto nel nome di chi noi ci permetteremmo
queste esagerazioni? ~Soi non abbiamo missione di aggravare le
anime; bastano i pesi di Dio. Egli ha i mezzi di rendere leggeri i suoi
pesi; il suo giogo è dolce, fu detto, perché la sua opera agisce sopra
i cuori, e quando egli li aggrava insieme con la loro libera
cooperazione sa offrir loro dei compensi adorabili. Ma noi non
disponiamo di questi mezzi; non abbiamo qui ne potere ne autorità; non
possiamo che urtare, opprimere ingiustamente e abbattere.
Entriamo piuttosto nello spirito della nostra legge, che
è una legge di amore, una legge di generosità e non di esigenza, di
dolcezza e non di minaccia. Si esige e si minaccia, nella nostra fede;
ma ciò è cosi poco l'ispirazione primitiva, che le esigenze e le
minacce sono ancora misericordie; non lo' faremo noi sentire?
Il nostro uditorio non dovrebbe mai avere l'impressione
che noi gli vogliamo togliere qualche cosa, imporgli qualche cosa, ma
bensì che vogliamo dargli, arricchirlo, sollevarlo, accrescerlo,
spingerlo verso la felicità mediante il bene. La nostra ispirazione
deve sempre salire e invitare a salire. I nostri rimproveri, in fondo,
devono essere uno stimolo, un aiuto. Quando parliamo di cose penose, non
dobbiamo dimenticare di sottolinearne la grandezza, l'utilità decisiva;
quando biasimiamo l'errore o il male, dobbiamo fare in modo che le loro
vittime abbiano tosto il sentimento di ciò che vi si sostituisce di
felice, e inoltre il sentimento della soddisfazione sovreminente che si
offre ai bagliori o agl'istinti che li traviavano. Tal è il metodo
positivo, quello che trascina e che realizza il programma del Maestro: Ut
vitam Jiabeawt et abundantius habeant.
Ad ogni minuto l'uditore deve poter dire a se stesso:
Come mi si vuoi bene! com'è bello! com'è grande! Forse egli non avrà
il coraggio dell'azione, e nemmeno il coraggio dell'adesione;
ma per lo meno avrà voglia, e un giorno, con l'aiuto
della
11 — SBKiniAroBS. Voratore crhtiaM,
— 162 —
grazia, forse farà quello che aveva desiderato di fare;
se tu lò disgusti, non ne ricaverai più niente.
Il nostro Vangelo non è una camicia di forza, una
gogna, ma sì un paio d'ali; non lo rendiamo grave; non mettiamo la
nostra coscienza nell'opprimere la coscienza degli altri. Che vi siano
così delle eccellenti persone « piene di tenerezze particolari e di
idee generali feroci » (Bene Benjamin), è una stranezza troppo
frequente nei nostri gruppi. Fortunatamente solo
10 spirito è qui in colpa. È una ragione di più per
sentirci incoraggiati ad avvertire; non perderemo il nostro tempo.
Ciò che s'incontra molto più spesso, è una rigidezza.
e un'asprezza non più quanto alla sostanza, ma quanto ai procedimenti e
alla forma del linguaggio. Non pochi predicatori si credono tenuti a
invettive contro gl'increduli e i peccatori, alle apostrofi offensive,
ai rimproveri stizzosi, alle sfide orgogliose, all'ironia maligna. È
forse questo un atteggiamento di apostolo? Il fariseo che si pavoneggia
perché mangia alla tavola del padre di famiglia e perché Lazzaro muore
di fame è un tristo modello. Io amo quel predicatore del secolo XVII
(Francesco Bonal) il quale diceva: < Disprezzare e maledire gli
uomini non è la stessa cosa che lodare e benedire Dio. Nostro Signore
Gesù Cristo è pastore delle pecorelle e non governatore di leoni o di
cani »,
Quei che si disprezzano non si arrendono mai;
l'irritazione chiude loro il cuore e può giungere fino a stillarvi del
veleno;
infatti, non ci inganniamo, la parola umana è un veleno
atti-vissimo. Il segreto della conquista delle anime è quello di
sti-"marle, perché ne diventino degne, di non far mostra di
attribuir loro i mali che si combattono, ma di difendemele e mettersi
con esse per detestarli; convinte, si faranno premura di purificarsi, a
fine di potere, insieme con noi, disprezzare quello che le teneva
schiave. Tal era il modo di procedere di S. Giovanni Crisostomo; onde il
Sacrate cristiano di Balzac gli rivolge questa lode: « I suoi
lamenti e le sue collere sono belle; biasimando i vizi, egli piace ai
peccatori ».
Esaminando bene, l'uomo di Dio che cede a intemperanze
di linguaggio si accorgerebbe forse che, in vece dello zelo, è uno
spirito di dominazione che lo guida, uno spirito di parti-giano che si
irrita delle resistenze. Facilmente, tra noi — e
11 mondo ce lo rimprovera — si insinua una specie di
« sciovinismo » religioso così poco raccomandabile come l'altro.
Siamo il gruppo eletto, la consorteria sacra, se è lecita
l'espressione,
— 163 —
un partito temporale, benché schierato sotto la croce.
Allora ci lasciamo trascorrere a violenze contro gli stati di spirito o
le azioni dei gruppi avversi. Diamo a credere a noi stessi di essere
mossi dall'amore, che non vuole che ci si strappino le anime; ma al di
sopra spunta una umanità indisciplinata che esige da altri la
disciplina, un cuore mal domato che pretende di domare gli altri.
-Fulminiamo, attacchiamo, sospettiamo, ci crediamo tutto lecito contro
l'avversario, perché non dominiamo noi stessi.
E quel che è peggio, certuni ne menano vanto. « Ne ho
dette loro!... ». Non vi è da gloriarsene! tanto più che di solito
gli avversar! non sono lì; a ogni modo essi non hanno la parola;
si attacca senza rischi, e ciò non è proprio di un bei
carattere. Il nostro umile Dio sopporta il peccatore; lo invita, non lo
violenta; non spessa del tutto la canna fessa; non vuole la morte del
peccatore, ma che si converta e viva. Convertire con Dio:
ecco il nostro ideale. Salviamo la verità, ma salviamo
anche le anime. Noi siamo debitori di tutti, e quando si è
debitori non s'insulta. L'oblio di quello che noi annunziamo forma la
sventura del mondo: sta proprio a noi di non vedere in questa sventura
altro che un'occasione di oltraggio? Se crediamo veramente che l'errore,
e l'allontanamento da Dio sono mortali, compiangiamo quelli che vi
cadono, non li roviniamo. Quid fieni peccatores! gridava S.
Domenico nella sua grotta di Se-govia, flagellandosi duramente per
riscattare le loro anime. I poveri peccatori, non è forse la
nostra costante espressione? Interprete di una legge di amore, colui che
non ama taccia;
egli non ha più missione; non è più che il mercenario
della parabola, senza rapporto col Buon Pastore.
Certo! nessuno confesserebbe un tale disaccordo, ed è
ra-rissimo, indubbiamente; « sii mio fratello, o io ti uccido », non
è questa una formula per predicatori; ma ci dimentichiamo;
la cattiva natura risale; abbiamo troppa fiducia in noi
e non abbastanza nelle anime, troppa compiacenza per noi, non abbastanza
compassione per le anime. « Tenero qui, severo là, mai nemico,
dovunque madre », dice S. Agostino. Nessuno può cambiare le anime
secondo i suoi desideri se non comincia ad amarle quali sono. ^
Oserò io proporre tré segreti che mi sembrano tali da
guidare l'apostolo, in questa così importante materia?
1° Incerchiare il male, per meglio vincerlo, in una
delì-
— 164 —
cata lode del bene, e del bene ce n'è sempre. Se non ce
ne fosse, resterebbe l'espediente di lodare anticipatamente,
supponendolo desiderato, quello che si spera. Infatti bisogna sperare,
per convincere e per trascinare. Il sauto spera sempre; se vedesse
apparire ima umanità perfetta, non ne sarebbe sorpreso. Ciò non
impedisce affatto di riprendere il male; anzi da delle facilità per
parlarne liberamente, poiché il figliuolo adottivo di Dio a cui ci si
rivolge non è più, per così dire, in causa.
2° Parlare dal pulpito come si parlerebbe in
privato con uno che si desiderasse di convertire; e tal è il caso,
ancora una volta. Ora, in privato, ci lasceremmo forse trascorrere a
parole malevole, a sospetti ingiuriosi, a violenze? Si sa bene che cosa
si direbbe, di quale tatto, di quale modesta carità si farebbe uso. E
perché, sotto pretesto dell'anonimo, pubblicamente, si userebbe
un'altra maniera?
3° E, salvo errore, è il colmo dell'arte per un amore
convertitore, esprimersi in tal modo che l'insegnamento, l'esortazione,
il rimprovero non apparisca al fedele se non come la
'voce della sua propria coscienza. Per questo bisogna
che l'uomo ' si scancelli, o meglio che si unisca col suo uditore per
ricevere con lui un avvertimento che viene — e non è la pura verità?
— da una regione celeste. In vece di tu qui, tu là,
diciamo: noi;
noi, peccatori, noi che dimentichiamo Dio, noi che
offendiamo le sante leggi e disconosciamo la verità eterna. Siffatto
lin-;
guaggio si accetta. E se minacciamo folgori celesti,
collocando' noi stessi non sotto il parafulmine, come persone al sicuro,
ma in pieno pericolo coi nostri fratelli, non ci faremo noi pure
.accettare? Territus terreo, diceva S. Agostino;
ciò si tollera sempre. Se ci siamo noi, anche gli altri accetteranno di
es- . serci; se no, corriamo il rischio di essere giudicati come il fa-
. riseo che non è simile agli altri uomini, e il
fariseo non è mai un convertitore.
Il nostro Salvatore che aveva ogni autorità sopra le
anime, non prese mai per esortarle un tono imperioso. Egli conservò
sempre l'umiltà, anche nei più necessari rigori. Di fronte a' suoi
nemici, la sua calma fu sempre il più efficace strumento delle sue
vittorie. Aveva la risposta decisiva, ma senza fiele. Disarmava d'un
colpo il mal volere, e tosto il buono si trovava invitato, salvo che
fosse chiuso alla luce. Non oltrepassava mai la giusta misura
determinata dai diritti della verità e dalle esigenze dell'opera sua.
Immergeva lo strale come un bisturi,
— 165 —,
non come un pugnale, e nel momento delle sue più
veementi contese, se così posso dire, non tralasciava di dardeggiare la
sua luce e di chiamarvi tutti i cuori.
'Sella conciliazione che abbiamo da fare tra lo
spirito di dolcezza evangelica e i rigori necessari, se vogliamo evitare
a un tempo l'asprezza che ora condanniamo e la molle compiacenza che
stiamo per opporvi, è Lui che ci fornisce la misura. Egli seppe unire
insieme, tutte le volte che bisognava, la carità e le verità
vendicatrici, il tenero trattamento e l'arditezza apostòlica che
ridesta il negligente, il peccatore. Egli praticò questa doppia
fedeltà: al vero e all'uomo, al bene e alla fragilità che non
dev'essere troppo duramente trattata. Ebbe il coraggio di dire ciò che
si deve, di esaltare ciò che si oltraggia, di rammentare ciò che si
trascura, ed ebbe quest'altro coraggio di sopportare, di procurare i
ritorni, di mostrare le uscite, anziché chiuderle con ira.
Adattare tutto alla debolezza senza sminuire 'niente fu
il suo segreto. Condiscendenza senza concessioni, integrità senza aspra
esigenza, pazienza nell'aspettare a dire ciò che non gioverebbe, ciò
che potrebbe guastare: in due parole, atteggiamento della madre e del
perfetto educatore, per conseguenza del predicatore, del quale sono
questi i modelli.
Finito che abbiamo di presentare la dottrina e
d'inculcare la legge, bisognerebbe che si potesse dire di noi come nella
liturgia di datale: Apparuit benignitas et hzimanitas Salvatoris
nostri Dei. Benignitas, humanitas esclude l'asprezza, la durezza,
esclude anche il suo estremo opposto, che è una molle compiacenza,
poiché si può essere inumani con dolcezza.
***
Sì, anche la compiacenza è colpevole e nuoce quanto
l'asprezza eccessiva; il profeta mette sulla stessa bilancia quei che
peccano così in sensi contrari, facendo morire anime che non
muoiono, e facendo vivere anime che non. vivono (Ese-cMele, XIV,
19).
Il predicatore che si prende la libertà di concedere a'
suoi uditori delle facilità di salute che il Vangelo rifiuta, di tacere
o di attenuare i dogmi che incomodano, di mitigare la legge appena che
è onerosa, di assolvere quello che Dio comanda e di dispensare quando
Iddio obbliga, manca assai gravemente al suo dovere, E ciò avviene. Vi
sono degli spiriti audaci, indipen-
— 166 —
denti, « moderni », ghiotti di approvazioni
sospette, mentre sembrano sprezzare il suffragio dei loro superiori.
Costoro non sono i nostri modelli. L'apostolo vero cerca di facilitare
la credenza e l'ubbidienza spiegandole bene, liberandole da ciò che è
arbitrario, dall'eccesso, facendo riconoscere la loro perfetta
ragionevolezza, dimostrando la loro necessità, rilevando il loro
carattere benefico, e poi provocando la generosità e occorrendo lo
spirito di eroismo. Ma a nessun costo conviene a lui di sbiecare e di
allentare Iddio, se mi è lecita l'espressione.
Ciò del resto non mena lontano; o se si vuole, mena
molto lontano, ma non nella dirczione che si pensa. Quanto più si da
all'indulgenza tanto più essa ne vuole. Le mezze misure sono più
incomode che la rettitudine, e non hanno gli stessi appoggi intcriori.
Sapere bene che cosa si ha da fare e consentirvi da un coraggio ben
diverso da quello di fare assegnamento sopra il minimo. La certezza e la
generosità resistono alle tentazioni, l'ambiguità vi soccombe. Ad ogni
modo è un cattivo calcolo imbottire cuscini per ogni gomito, e
guanciali per ogni testa (EsecJi., XIII, 18).
La forma, l'atteggiamento generale del discorso hanno a
questo riguardo un'importanza certo meno tragica, ma ancora molto grave;
le compiacenze colpevoli possono facilmente in-sinuarvisi. E come? Per
certi modi dolciastri, troppo poco energici, troppo poco apostolici di
parlare del vero e del falso, del bene e del male. Senza ritornare alla
rigidezza e alla durezza che abbiamo proscritte, noi, rimanendo sempre
buoni, benevoli, moderati, prudenti, dobbiamo mostrarci fermi e forti,
come esigono i diritti di Dio e il bene degli stessi nostri uditori.
I nostri uditori hanno diritto alla verità teorica e
pratica, ai nostri rimproveri, ai nostri avvertimenti, alle nostre
minacce caritatevoli, alla promulgazione insistente di quella legge che
essi dimenticano, al risveglio periodico di una coscienza che volentieri
si addormenta; sono il gregge di Cristo:
i pastori e i cani sono al loro servizio. In fondo, essi
vi fanno assegnamento. È possibile che la tua compiacenza li trovi
compiici; ciononostante essa li urta, li inganna; qualcosa in essi
attendeva le tue arditezze apostoliche, e, occorrendo, i tuoi rigori;
privati di questo soccorso dalla tua soverchia indulgenza, ti
disprezzano e si sentono disprezzati essi stessi.
167
III. — La benevolenza e lo spirito di denigrazione.
Le forme di carattere messe sotto questo titolo nuovo
possono apparire imparentate alle precedenti a tal punto da
confondervisi; ma in realtà si tratta di altra cosa; in vece dei
sentimenti, propriamente parlando, è questione degli apprezzamenti, dei
giudizi, del modo di presentare e di qualificare le idee degli altri, le
loro tendenze o le loro pratiche, le loro persone o i loro gruppi.
Già sotto l'aspetto dei costumi oratorii, queste
considerazioni vengono in causa. È una regola assoluta dell'arte di
serbare, riguardo all'avversario, una moderazione per lo meno
diplomatica, provvisoria, che indica il possesso di sé e da credito al
discorso. Gli oratori dell'antichità a ciò vegliavano con cura, anche
e soprattutto colla mira di schiacciare poi l'avversario. Per noi,
questa preoccupazione non può evidentemente bastare; noi non vogliamo
schiacciare nessuno; noi serviamo il nostro prossimo; serviamo Dio, e
perciò il sacri-flzio di una virtù qualunque al successo dell'azione
sarebbe un mezzo condannevole. Tuttavia, quanti predicatori,
specialmente in materia apologetica, offendono, senza pensarci, la
moralità più comune, agiscono come se credessero che il fine
giustifica i mezzi, e che si ha sempre ragione contro coloro che
offendono la ragione e la fede, e pensano che, trovandosi da questo lato
della barricata, si possano lanciare dall'altra parte proiettili di
qualsisia genere, espressioni di ogni colore, senza alcun riguardo per
la giustizia, giacché essi la incarnano in sé per diritto di
situazione!
È strano, ma è un fatto che la sicurezza, in cui ci
troviamo in quanto all'essenziale delle nostre affermazioni, ci
può mettere in pericolo intellettualmente e praticamente riguardo a
tutto il resto. È possibile concludere il vero dal falso, invocare un
pessimo ragionamento o un'ingiustissima allegazione in appoggio a una
dottrina sublime. Non ce ne guardiamo sempre abbastanza; concludendo il credo,
non abbiamo una sufficiente cura dei considerando, ne dell'equità
riguardo alle dottrine avverse, agl'individui o ai gruppi dissidenti.
Deplorevole atteggiamento, che offende la verità pretendendo di
servirla, e che potrebbe allontanare da essa delle anime rette, se
venis-
— 168 •—
sero ad accertare che noi abbiamo una fede nemica della
buona fede, che il nostro zelo che si pretende consacrato al prossimo'
non comincia punto col rispettarlo.
I nostri avversar!, qualora se ne trovino davanti a noi
— e sempre se ne trovano, almeno per procura —
devono udirci parlare in tal modo che non possano legittimamente dirsi
disconosciuti, lesi in quanto alle loro opinioni, feriti nelle loro
persone. Non si può credere quanta vigilanza morale e spirito cristiano
ci vuole per questo. È così facile trinciare, abbandonarsi a quel
vandalismo incosciente che abbatte subito quello che incomoda,
trascurare il vero in quello che noi chiamiamo errore, il bene in quello
che chiamiamo male, dimenticando che secondo la fine osservazione di
Fiatone, nel Fedro, « l'errore viene dalla rassomiglianza », e
che si deve dunque trovare sempre qualcuno del nostro prossimo sotto
certi rapporti, in colui che si è ingannato.
Un sacerdote tenta di comprendere le idee che egli non
condivide, come perdona i peccati che non commette, e la ragione è la
stessa: la carità, prima di tutto, inoltre l'esperienza, esperienza qui
delle coscienze, là delle idee e delle intelligenze. Onde
l'incomprensione e l'ostilità sono un cattivo segno; dimostrano per lo
più la mediocrità, la strettezza, oppure l'ignoranza. Nemici
intelligenti e rotti hanno modo di ravvicinarsi;
in una sfera elevata, si apprezza la giustizia e si
stabilisce una comunione tra quei che l'amano. Ma è meno agevole salire
che battersi nelle basse regioni, e per questo è più difficile
comprendere che giudicare.
Saremo tanto più esposti sotto questo rapporto in
quanto che, sotto colore di utile controversia, avremo ammesso un certo
genere contenzioso molto meno efficace che non si supponga. Di questo
riparleremo; ma se si fa della controversia,
— la quale a volte s'impone, poiché non si ha sempre
l'iniziativa dell'azione ne per conseguenza la libertà del metodo —
si deve farla onestamente perfino nei particolari, quanto ai mezzi della
disputa come quanto al suo fine. Diminuire o mettere in ridicolo una
obiezione seria non è proprio di una discussione leale, del pari che
l'inghirlandarla, come altri fanno, non è proprio di una discussione
prudente.
E nello stesso modo che a ciascuno s'impone la buona
fede, così si raccomanda, per quanto è possibile, la fiducia nella
buona fede degli altri. A questo riguardo, il nostro tempo
. — 169 •—
offre un caso nuovo, e gli atteggiamenti antichi si
hanno da rivedere largamente. I sarcasmi di un La Bruyère o di un
Bossuet all'indirizzo degli sp.iriti -forti, dei libertini,
sarebbero oggi fuori di posto. La situazione è tutt'altra. La tempesta
intellettuale allora sollevata capovolse di poi tante cose! L'ambiente e
le idee differiscono; i fatti sono veduti sotto un'altra luce, e gli
uomini migliori sono esposti a ciò che un tempo non era che la sorte di
anime in rivolta. Ciò in fatto di giustizia e in fatto di carità esige
grandi riguardi. I nostri modelli sotto questo rapporto non sono nel
secolo XVII, ma più vicino a noi, o molto più addietro, nei Padri
della Chiesa, il cui ambiente, purtroppo! era molto più simile al
nostro. Essi vivevano, dal canto loro, in una società pagana, e noi in
una società paganizzata e, peggio di questo, votata di Dio. In tali
condizioni, se noi parlassimo come qualche volta Bossuet — e con
ragione senza dubbio — rischieremmo che si dicesse di noi quello che
scriveva Sainte-Beuve a proposito di Eoyer-Oollard: « Egli aveva
innalzato l'insolenzà fino alla maestà » (Cahiers).
Quello che dico delle opinioni si verifica non meno in
materia pratica. Certe critiche così spinte che somigliano a tentativi
di assassinio convengono forse all'apostolo del Dio d'amore? Goethe ci
direbbe che non convengono a nessuno, se lo scopo della parola è
l'utilità. « Quando non si parla delle cose e delle persone con una
parzialità piena d'amore, spiega egli, quello che se ne dice non merita
di essere detto » (1). A. de Pontmartin diceva di Agostino Cochin: «
Egli era di quelli che mi fan venire la voglia di amare quello che amano
essi e di credere quello che essi credono »: ecco l'utilità vera. Ma
altri che combattono furiosamente nomi ed etichette non pensano che
dietro vi sono degli esseri. Si presentano le esortazioni sulla punta
della spada, e l'uditore, ferito in antecedenza, ti sfugge. Al vero
apostolo invece spetta di dire tutto senza mai ferire.
N'oriamo qui che la pittura dei costumi, quando è
voluta per se stessa, rischia sempre di scivolare negli attacchi
malevoli o eccessivi; con ciò essa crea un pericolo analogo a quello
delle controversie teoriche mal condotte. Si dipinge e si fa bene; la
pittura però non è uno scopo, ma un mezzo, e che ha le sue regole
morali del pari che le sue regole estetiche:
(1) Oonmrsatìons avec Ecicermann.
— 170 —
in essa è d.' obbligo la stessa giustizia e la stessa
carità che altrove. ~Soi giamo debitori di tutti, ancora
una volta: paghia-mo; non insultiamo,
Al rispetto delle persone verranno a unirsi a più forte
ragione la giustizia resa e l'ammirazione consentita alle grandi cose
che ottengono il loro culto. Le grandezze di questo mondo, insufficienti
senza la fede e senza l'amor divino, non meritano per questo di essere
avvilite. Quando Brunetière denunziò fragorosamente la « bancarotta
della scienza », nel senso che la prendeva lui aveva ragione; ma egli
si fece torto agli occhi di molti per un tono aggressivo e per la
mancanza delle distinzioni necessario. Parimenti l'arte, la letteratura,
la bella antichità, la natura, l'amore, il progresso, tutto quello di
cui troppo spesso si fa abuso contro Dio, non per questo è degno di
maledizione o di disprezzo. I Padri della Chiesa non adottarono mai
questa politica di denigrazione riguardo alle cose umane; anzi, partendo
dalle cose umane debitamente apprezzate e lodate, tentavano di condurre
gli ammiratori fino alle cose divine.
Se, col pretesto di vendicare Dio, noi combattiamo i
beni che gli uomini gli oppongono o che pretendono di sostituirgli, non
lo vendichiamo forse a carico di Lui stesso, Padre di queste cose? Ciò
che essi svisano, rettifichiamolo; ciò che vorrebbero lasciare nella
sua insufficienza, compiamolo; compire è già consacrare; rettificare
è rendere alla sua verità un valore riconosciuto prezioso, ed è così
una giustizia resa, non un biasimo. L'umano dev'essere oltrepassato, non
dev'essere disonorato. Prendersela con esso, suscita a volte delle
indignazioni e delle rivolte definitive. Avere contro di sé un ideale
non è mai una forza.
Lo stesso dico del nostro tempo, che molti predicatori
si credono tenuti a dichiarare il peggiore di tutti, dimenticando che in
ogni tempo, senza eccezione, i loro pari hanno tenuto somiglianti
discorsi. Un laudator temporis acti è sempre fastidioso; si dice
che, se il suo tempo è cattivo, egli farebbe meglio a cercare di
renderlo migliore; poi egli sarebbe più forte per rampognarlo, e, in
vece di lagnarsene, ha motivo di lodarsi di un così onorevole compito.
Il tempo in cui venne il Signore aveva gran bisogno di Lui: Egli lo
servì, non gli lanciò l'anatema, :Noi, come Lui uomini dell'eternità,
siamo gl'inviati di
— 171 —
tutti i tempi e, nati in questo, abbiamo l'obbligo di
amarlo, a fine di aiutarlo, perché non si fa del bene se non amando.
Non siamo dunque di quegli uomini che denunziano incessantemente nel «
secolo presente », nel « tempo che viviamo », una cosa mostruosa e
terribile, come se tali giudizi non fossero sempre incompetenti e
altamente arbitrari.
Bisogna essere assai audaci per pretendere di stabilire
una scala definitiva dei valori tra i tempi cristiani. Ogni secolo ha il
suo forte e il suo debole, e da questo discernimento può uscire una
grande istruzione; ma totalizzare, specialmente per soperchiare il tempo
in cui viviamo e di cui siamo incaricati non è forse un'eccessiva
presunzione? Chi osserva da vicino si accorge che non è neppure un
giudizio questo, ma una tendenza dello spirito, che in ogni tempo
sarebbe stata la stessa. Le persone che sognano il secolo passato
avrebbero sognato, nel secolo passato, il secolo XVII, nel secolo XVII
il medio evo, nel medio evo le catacombe, nelle catacombe il paradiso
terrestre. Tanto meglio acconciarsi a quello che è, come punto di
partenza provvidenziale di quello che domani dev'essere.
Dopo tutto, il nostro tempo ne vale un altro. Il
carattere radicale della negazione, il rifiuto pratico di Dio, così
disgraziatamente divulgato, ne sono il lato inquietante; ma questi fatti
non sono senza contrappesa, e pare che rechino seco essi stessi il loro
rimedio. Il contrappeso è l'approfondimento e l'allargamento della fede
in quelli che la conservano; la speranza di rimedio è la ricettività
di anime nuove riguardo a quel Dio la cui assenza si fa crudelmente
sentire. Noi siamo in un tempo di Avvento. Veni ad liberandum nos,
Domine Deus virtutum! Ma invocando Iddio, non abbiamo noi il
dovere di recargli la nostra collaborazione fiduciosa? Questo tempo è
fatto per infiammare il coraggio; esso è giovane: siamo anche noi gio-!
vani accostandolo. Il gemere è la consolazione dei falliti, dei cacchi
disillusi, il cui atteggiamento è codardo quanto sterile.
Quello che favorisce lo spirito di denigramento riguardo
al empo presente e che, all'opposto, ci crea un dovere nuovo di
benevolenza, è che noi ci troviamo in un momento di contusione, di
incrociamento delle correnti dottrinali e di riven-oicazioni a oltranza
di tutti gli elementi sociali. Ciò permette certamente delle critiche
moltipllcate; ma piuttosto non esige |orse da noi, apostoli, una
vigilanza estrema, a fine di appar-
— 172 —
tarci, se è possibile, da tutti questi gruppi di
fratelli, senza offenderne alcuno, senza essere ingiusti verso alcuno? A
noi è vietato di essere dei partigiani, di darci a una consorteria con
la certezza di alienarci tutte le altre. Nelle controversie che dividono
gli uomini, a noi conviene il giusto mezzo, supposto che non ce ne
possiamo disinteressare, ciò che spesso è il meglio. « Tenersi in
mezzo come l'albero del paradiso », secondo la bella espressione di un
autore del secolo XIII, è un nobile ideale. Solo la strettezza di
spirito, aggravata da una strettezza di cuore, può affondare un
apostolo nei partiti, impedirgli di vedere quello che vi è di buono da
per tutto e di rendergli omaggio.
Non si deve dire che occorra avere un'ingenuità
ottimista e fare inchini da tutte le parti, come Pierrot: « Signori,
.amico di tutti ». La puerilità non si addice al sacerdote. Nessuna
cosa ci deve menomare. Evitando la stoltezza che crede alla cieca e che
incensa beatamente, si può raggiungere la carità che crede tutto
anch'essa, ma in un altro modo, vale a dire che è pronta a credere il
vero, a lodare il bene dovunque si trovino, senza dimenticare la
prudenza da cui nessuno è dispensato. La nobiltà d'anima unita alla
perspicacia; la giovinezza d'anima unita all'esperienza: tale sarebbe la
disposizione perfetta. L'apostolo ha il dovere di essere a un tempo
vecchissimo presto e giovane tardissimo, giovane sempre, fino all'eterna
giovinezza. L'eternità e la natura ci danno l'una il modello e l'altra
il simbolo di uno spirito salvatore.
IV. — La timidità, l'autorità :: e la
presunzione.
L'autorità della parola che noi collochiamo tra la
timidità e la presunzione come tra due vizi, non è incompatibile con
un certo timore. Cicerone diceva: Beato l'oratore che, nel momento di
prendere la parola, non ha sentito rizzarsi i capelli sulla testa. Il
chierico che ti accompagna sulla via del pulpito, al principio, non ti
fa l'effetto di un carnefice? Avviene che questo sentimento si attenui o
anche scomparisca;
avviene che persista tutta la vita, sminuendoti in un
certo modo, stimolandoti in un altro, in ogni caso scomparendo,
nell'uomo di esperienza — per lo meno in ciò che vi è di
paralizzante — appena cominciato il segno di croce.
— 173 —
L'autorità è la condizione di ogni parola che vuole
esercitare un'impresa. Un uomo che forza a pensare; un uomo che pensa
per tutti: ecco l'oratore. Ohe se la modestia o l'umiltà cristiana lo
invitano a indietreggiare, il suo ufficio gli viene in aiuto. Quale
potente eleganza già nell'uomo che è animato da un nobile sentimento
del suo potere, della sua preparazione, del suo diritto all'udienza de'
suoi simili; ma quale irresistibile forza, in colui che sente e fa
sentire con una piena" evidenza la superiorità del vero e del bene
del quale egli è il servitore!
~Soi non parliamo di noi stessi. L'oratore politico
parla nel nome del paese, l'avvocato nel nome della giustizia, il
capitano nel nome della vittoria, tutti nel nome di una verità e di un
bene: ma noi, nel nome della verità divina, del bene eterno, e l'esser
rappresentanti di queste grandezze cambia tutto. Ciò, anzi, ci da
un'autorità che si deve dire unica e in certo modo esclusiva, poiché
in ogni materia non si può vincere lo spirito dell'uomo se non nel nome
dello spirito di Dio. Quegli che può invocare questo spirito in un modo
speciale, per vocazione e per missione autentica, è colui che parla con
autorità, come il suo Maestro, non come gli scribi e i farisei.
L'uomo della folla che ci ascolta, in fondo a se stesso,
non cerca una spiegazione, una dimostrazione, un consiglio vago e
staccato, ma aspetta un capo. Affermiamoci dunque come capi, come
sacerdoti, e vuoi dire che dobbiamo badare a cancellare noi stessi
affermando Iddio, « a nasconderei nella luce », secondo l'espressione
di Dante, e di là a esercitare, da liberi schiavi, la benefica tirannia
di Dio. Allora noi compiamo uno stretto dovere. Alla timidità non
abbiamo più diritto, dopo che la nostra forza d'uomini, per quanto sia
piccola, è stata presa come strumento della forza eterna. Permettere
che si indebolisca H in noi l'autorità del nostro ufficio, non sarebbe
una defezione, e sostituir-vi per rispetto umano le parole persuasive
dell'umana sapienza, non sarebbe un sedurre?
Pascal chiama ciò un fare « da tiranno, non da rè ».
Il rè governa nel nome del bene, il tiranno nel nome dell'uomo. Perciò
Pascal condanna « l'eloquenza che persuade per via di dolcezza e non
per via d'impero ». Guardiamoci bene dall'equivoco! Non si esclude la
dolcezza; ma non è la dolcezza che s'incarica di persuadere le
coscienze, è la verità di Dio, è Dio stesso. In questo senso, il
persuadere « per via di dolcezza » è un inganno; « per via d'impero
», è giustizia. L'abile e l'astuto, in fondo, non hanno di mira che se
stessi.
— 174 —
Da ciò concludiamo che l'oratore cristiano, benché si
adoperi a provare, a dedurre, a giustificare, a motivare, a persuadere
con tutti i mezzi dell'uomo, in fondo, rimane, e deve mostrarsi, a
titolo principale, colui che afferma, e che non dipende, come tale, da
nessun giudizio. L'affermazione apostolica esprime la fede e dev'essere
potente come la fede. Un certo bisogno di dimostrare tutto molto presto,
di difendere paurosamente tutto quello che si dice, come se si volesse
farlo perdonare e si volesse coprire con lo scudo della ragione
l'autorità di Dio stesso, ciò non è virilità soprannaturale, e
l'onore di Dio ne scapita.
Noi non abbiamo da patrocinare le circostanze attenuanti
in favore di quello che diciamo. Non abbiamo da chiedere grazia, come se
il secolo sdegnoso fosse la grande persona e la Chiesa il bambino.
Questo secolo è troppo da compiangere per le sue resistenze e per la
sua notte perché sia caritatevole o ragionevole il menargli buono
questo atteggiamento e l'uniformarvi il nostro. Gli faremo noi una
gloria di quello che lo manda in perdizione? Amiamolo abbast&nza per
non tremare davanti a lui, e per dirgli « in faccia », come S. Paolo,
quello che è e quello che gli manca.
Il tono del Vangelo, a questo riguardo, è quello che ci
conviene, a parte i diritti sovrani che solo Cristo esercita. Egli ha il
dono primitivo dell'affermazione, e lo comunica a quelli che rende
partecipi del suo Spirito di sapienza. Egli afferma come una sorgente
che sgorga, e noi, come una fontana che emette quello che ha ricevuto.
Quello che procede in Lui da un'intima evidenza può venire in noi da
un'intima fede, e questa fede sarà per l'uditore una forza. Il profondo
convincimento dell'apostolo è uno degli strumenti più potenti della
conversione delle anime; esso stupisce l'incredulo; scuote, fin da
principio, senza dubbio; specialmente se è il convincimento di un uomo
che conta, di un uomo che riflette, di un uomo che si sente in grado di
provare. La prova, allora, per dir così, non è richiesta; si prende
l'uomo per una prova vivente.
Così avviene dell'audacia nell'esortazione e nella
caritatevole invettiva; essa ridesta il peccatore dalla sua falsa
sicurezza e lo invita ad aprirsi alle grazie vittoriose. Biprendili
severamente, raccomanda S. Paolo a Tito (II, 13). Un'intrepida
tenerezza è il preludio obbligato delle divine misericordie, e là dove
la perdizione di tante anime è in causa, un vago richiamo dei doveri
non basta, « ci vogliono dei bottoni di fuoco »,
— m — . '
dice Giovanni d'Avila. Quando dicevamo con 8. Gregorìo:
« Dio segue i suoi predicatori », non potevamo forse
aggiungere:
Egli prende la loro andatura? Debole della nostra
debolezza o forte della nostra forza, sarebbe dunque l'alternativa a cui
la sua provvidenza si sottomette! Questo ci deve decidere.
^ Del resto dobbiamo comprendere che l'autorità
richiesta | dal predicatore non è un'autorità affettata, ostentata,
che a sarebbe offensiva per il gusto e per le convenienze oratorie del
pari che per l'umiltà, sulla quale poggia l'autorità dell'apostolo. Un
buon oratore non mette in mostra il suo potere, che egli lo incorpori a
quello che dice, come una proprietà delle cose stesse, è la
convenienza; che la verità della sua causa risplenda allora in
tutto il suo fulgore, è la bellezza. « Senza l'arditezza, e
un'arditezza estrema, dice Eugenio Delacroix, non vi è bellezza » (1).
Ciò è vero in tutte le arti; ma nell'oratore cristiano, l'arditezza
sarà tanto più bella, e conveniente, ed efficace, in quanto che la si
proverà come una spinta inferiore venuta dallo Spirito divino, senza
che nessuna volontà orgogliosa s'interponga.
Bisogna però non falsare questa felice arditezza
portandola fino alla presunzione.
In quanto al fondo delle cose, la presunzione si può
mostrare talmente grave da cagionare la rovina del ministero, e
preparare quella dell'uomo. Tal è il caso, se l'oratore insegna come
nel suo proprio nome, secondo idee personali, senza riguardo allo
spirito e alle direttive della Chiesa, ostentando per esempio la falsa
modernità che abbiamo denunziato, o producendo tesi arbitrarie,
pericolose, in fatto di dogma o di morale cristiana.
Così, sull'orgoglio e sull'umiltà, sulla malizia o
l'innocenza della menzogna, sulle leggi del matrimonio, sul sesto
comandamento, sul peccato veniale o mortale, sulla pretesa
irresponsabilità dei pagani, ecc., ecc., corrono delle proposizioni
più o menò condannabili a cui la nostra adesione non darà nessun
peso, ma che ci toglieranno il nostro ingannando e traviando le anime.
Con minore gravita, un altro genere di presunzione può
nuocere al ministero del sacerdote: io penso alla scelta dei soggetti,
ai teatri sui quali ci produciamo, agli uditorii che ci scegliamo, agli
avversar! che affrontiamo.
(1) Jourmd, t. II, pag. 15.
— 176 —
Altiora tè ne quaesieris, ci dice la Scrittura (Eceli.,
Ili, 22). Cercare quello che è grande è in sé una bella
ambizione, purché ciò non sia l'ambizione, cioè, purché si tratti
dell'opera, non di se stesso. Ma, d'altra parte, un'opera e un compito
non sono grandi se non sono esattamente misurati e proporzionati a chi
se li assume. Io sono, io agisco, ne risultano degli effetti;
fra questi tré termini una naturale corrispondenza si
stabilisce, e se l'azione pretende di valicare l'essere, il risultato,
l'azione, tutto è turbato, nessuna cosa vale più per il bene.
Teniamoci dunque sapientemente in quello che sappiamo
fare, in quello che possiamo far bene. Desideriamo tanto di èssere noi
stessi! ebbene siamolo adattandoci alla Provvidenza, che ci fece tali e
non altrimenti, che attende da noi queste cose e non quelle altre.
Andare fino a capo di sé è l'ideale dell'azione; al di là, è la
caduta; il « conosci tè stesso » è anche rivolto al predicatore.
In quanto alla forma, la presunzione sffa riconoscere
dal tono pretenzionoso che proietta in avanti la persona,—da
un'affettazione di magniloquenza fuori di posto, — da comparazioni
saccenti, da celie pericolose di fronte alle difficoltà, alle obiezioni
formidabili che si presentano; — dal modo di prendersi delle libertà,
delle familiarità coi grandi soggetti, coi grandi pensieri e coi grandi
esseri, o ancora da citazioni inette quanto gloriose, come se dicessi
con Bossuet: « Io ho appreso da San Giovanni Crisostomo...»; « S.
Paolo m'insegna...». Bossuet parlò anche coi «resti di una voce che
cade e con un ardore che si spegne »: tè ne serviresti tu?
Tutto ciò è offensivo e diminuisce grandemente
l'effetto della parola; in un principiante, ciò inquieta o invita a
sorridere. I giovani non amano che si sorrida di essi; ebbene stiano
sicuri che così avverrà se il loro discorso è senza umiltà e senza
misura. Quello che piace in essi è la squisita spontaneità messaggera
di speranza; la pretensione urta e disillude, essa fa sì che non si
ammiri ne si speri più.
V.— L'orgoglio e l'ambizione umana.
La presunzione, l'ambizione, l'orgoglio, sono
strettamente imparentati nelle loro cause e nei loro effetti; si
distinguono in questo che la presunzione intraprende oltre a ciò che
conviene, qualunque sia il motivo; l'orgoglio esalta la persona
— m -^
oltre il dovuto; l'ambizione anela con passione agli
onori e all'impero. Possiamo trattare in comune di questi due ultimi
difetti, perché le considerazioni da fare sono le stesse.
Un fatto psicologico abbastanza curioso è che
l'Orgoglio» con la sua sorella, la vanità — specialmente questa, è
vero —k sono solite di appiccicarsi principalmente all'uomo
che parla. o che canta. Si direbbe che la persona si proietta nello
stesso tempo che la voce e cerca di esplicarsi come le onde sonore, La
parola mette anche facilmente sulla china dell'ambizione, perché essa
è cosa sociale, cosa che mette in avanti, cosa so^ nora e che, se
riesce, promette dei successi più sostanziali. Quanti sacerdoti si
fanno della predicazione un mezzo di ascensione nella sacra gerarchla!
In ogni caso, orgoglio, vanità, ambizione sono i nemici
della parola a tal punto da falsificarvi tutto e introdurvi i numerosi
difetti fin qui menzionati e quelli che dovremo additare ancora.
Ciò comincia dalla scelta degli uditorii, come se non
tutti fossero formati di figli di Dio, come se Gesù non avesse inteso
di dare la sua sublimità a tutti i contatti, dando per contrassegno del
suo Vangelo l'annunzio ai piccoli.
Si può andare per virtù ai grandi uditorii e agli
uditorii scelti; basta che così decida l'ubbidienza o una prudente
amministrazione di se stesso; ma preferire orgogliosamente questi
uditorii, e soprattutto provare disgusto, avversione per gli uditorii
modesti è un pessimo segno; ciò significa che si di' mentica il
proprio ufficio d'inviato, che si parla per sé, che si tratta di godere
di se stesso nella parola o di attirarsi lode e vantaggio.
Il disordine continua con la scelta dei soggetti di
parata, non di utilità; di curiosità più che di dottrina o di
pratica. Si posa da filosofo, da letterato, da sociologo, da csteta; si
dimentica più o meno l'apostolo.
Impegnato il discorso, eccolo falsato, forse fino nel
suo fondo, se si dimentica che l'orgoglio travia lo spirito quanto
l'umiltà lo conserva. « Offrirsi alle ispirazioni mediante le H
umiliazioni », è una formula di Pascal che Boutroux ripeteva spesso,
convinto della profondità e della fecondità di questa morale. Per
costruire, si mette prima il terreno a nudo e lo si scava; l'orgoglio,
ingombro di se stesso, non sa fare piazza pulita, ne scavare.
;i 12 — SBKTllLAsaBS L'waiwe
cristiano.
— 178 —
Quanto alla forma del discorso, 'le sottigliezze che
abbiamo condannate, i vani ornamenti, la tronfiezza, la mancanza di
adattamento e di semplicità evangelica, quasi non hanno altra sorgente
che questa; le altre, ad ogni modo, si inaridiscono per l'esperienza,
questa invece gonfia sempre le sue acque. Così tutto si trova sviato,
perché, circa lo scopo proposto, il sacerdote è sviato lui stesso. Uno
strumento che ha esigenze proprie è forse molto maneggevole per chi lo
adopera? Chi dice strumento, dice servizio; chi dice servizio, nello
spirituale, dice umiltà cioè vera grandezza; infatti non è forse più
grande essere strumento di Dio che agente principale di se stesso?
Piegandosi sopra la sorgente pura del Vangelo, che cosa è. più bello,
essere abbagliato dalle sue profondità, o fermarsi, come Karcisso, alla
propria immagine?
L'orgoglio, l'intervento dell'io fa ostacolo a ogni vera
eloquenza, compromettendo anticipatamente ciò che ne è la ragione di
essere e la pietra di paragone: la causa che essa difende. « La causa!
la causa! la causa! è tutto il Signor de Falloux », diceva Cousin del
grande avvocato, stimando di rivolgergli così la suprema lode. Ma come
meritare questo giudizio, se si pensa prima a sé?
Luigi Bonaparte, essendo ancora ad Ham e mandando a •uno
de' suoi amici la sua Eastinction du paupérisme, accludeva
questo biglietto: « Leggi questo lavoro sopra il pauperismo,, e dimmi
se tu pensi che esso possa fare a ME del bene » (1). Il mezzo, dopo
ciò, era di non diffidare del lavoro stesso! Si diffiderà di una
dimostrazione scientifica, se si vede nell'autore la minima volontà
d'imporsi, di mettere il proprio pensiero al sicuro, col rischio di
esporre la verità alle offese. Quando /Laplace pubblicava la sua Mécanique
celeste, Biot era ammesso a leggere le bozze e faceva le sue
osservazioni. Ora le sue obiezioni si riferivano quasi sempre ai passi
che cominciavano così: « È facile vedere... ». Segno impercettibile
e che non rovina il capolavoro; ma che è molto istruttivo, per
l'oratore come per l'uomo di scienza e per lo scrittore.
Giovanni d'Avila, parlando del predicatore che cerca di
' accaparrarsi le lodi a spese della divina parola, porta questo
paragone impressionante: Avviene come di un ambasciatore incaricato di
negoziare un matrimonio per il suo principe, e
(1) victob httbo, NapoUon le Petit. L'autore
assicura di aver visto il biglietto.
— 179 —
che lo concludesse per sé. È spaventoso pensare che la
predicazione possa essere così un peccato, come la santa Mensa un
sacrilegio! Fuori dei casi più gravi, non si tratta che di mescolanza,
ma questa mescolanza è già assai disdicevole. E l'uditorio, lo si
sappia bene, non è scemo; esso ha presto intuito l'orgoglioso e lo
disistima, il vanitoso, e se ne burla. Io non ho mai dimenticato un
predicatore di esercizi spirituali, che a noi, collegiali da dieci a
sedici anni diceva: « Plafone, che io, dopo il mio uffizio, leggo tutti
i giorni... ».
Ciò non sempre è così marchiano; ma il pubblico è
sottile. Quando tu porti una fiaccola, egli capisce benissimo se tu hai
voglia di far lume, o se fai il gesto della Libertà che rischiara il
mondo, o quello di lady Macbeth che scende la gradinata, Bonnat,
mostrando a Degas un Tiratore d'arco di uno dei suoi allievi, gli
diceva: « Come mira bene, nevvero, Degas? ». — «Sì, esso mira a
una medaglia ». Da che cosa lo riconosce va i...
In ciò che riguarda noi, i frutti si risentono di
simili « mire ». Giudicata o no, la qualità della nostra azione è
quello che determina la reazione dell'uditorio. Noi ci mettiamo in
contatto con le altre menti e le trasciniamo appunto tenendoci vicino
alle idee e lontano da noi stessi. Colui che predica per il « suo santo
» non ha nessuna probabilità di convertire altri, tema piuttosto di
perdere se stesso.
Certi direttori d'anime hanno detto che se un sacerdote
si sente invaso dall'orgoglio o dall'ambizione per la sua parola, non
deve predicare: aspetti di avere acquistato nel ritiro un cuore ancorato
in Dio e più sicuro di sé. Bisogna confessare che questo consiglio è
raramente praticabile. Tuttavia si comprende; perché, se è facile a un
uomo sincero e laborioso rialzarsi da una sconfitta, un orgoglioso in
vece non si rialzerebbe da un felice successo; il « riuscire », come
egli lo intende, sarebbe un diventare per sempre un retore; sarebbe
meglio il silenzio. Ma vi è un altro rimedio, ed è di correggersi.
I mezzi di difesa, per l'interno, sono l'unione con Dio,
il sentimento della propria responsabilità riguardo alle anime, il
ricordo delle proprie colpe e la confessione delle proprie
insufficienze, che possono diminuire enormemente il frutto. Si pensi
piuttosto a quello che si sottrae, anziché a quello che si apporta. Per
l'esterno, si possono fissare le regole seguenti:
K^on vantarsi mai dei proprii successi; non scusarsi
delle sconfìtte, ciò che è lo stesso e dimostra del resto una grande
inet-
— 180 —
tezza. Se tu ti lodi, gli altri ti biasimano a 1bnon
diritto; se ttti, ti biasimi, gli altri si fanno premura di rincarare la
dose sottò^ forma di consolazioni mortificanti. '
In pulpito, si prenderà per legge di non mettere mai
avanti la propria persona; ciò non serve a nulla; anzi nuoce
all'oratore;
e in quanto all'uditore, vi è un mezzo assai più
sicuro di piacergli, ed è di parlargli di lui stesso. « Quei che
godono tanto di parlare di sé, fu detto, dovrebbero ben pensare che si
ha poco piacere a udirli ». Oltre a quell'istinto d'ordine tutto umano,
il pubblico, ai piedi della cattedra, ha ragione di desiderare che gli
si parli di lui. Non è forse a lui che siamo inviati? Egli ha il
sentimento del suo diritto; che egli vi aggiunga, e tutto gara bene,
quello del suo dovere, che è di ascoltare dentro, come noi, la verità
eterna. « Ascoltami, cristiano, o piuttosto no, ascolta con me,
ascoltiamo insieme, impariamo insieme » (1).
Del rimanente, guardiamoci, in simile materia, dal
cadere negli scrupoli. L'orgoglio è insradicabile; tutto quello che si
può fare è di ridurlo ai minimi termini. Se è vero, come diceva
sorridendo S. Francesco di Sales, che vi è in noi dell'amor proprio un
quarto d'ora dopo la morte, sarebbe vano aspettare, per operare, una
vittoria completa. L'uomo in stato di combattimento è già moralmente
vincitore. La sposa de' Cantici ha della polvere sui sandali, ma
cammina; l'uomo d'orazione ha delle distrazioni assedianti, ma prega. S.
Bernardo ci suggerisce la verità completa quando scrive: « Non voglio,
Satana, ne salire in cattedra per tè, ne discenderne per cagion tua ».
VI. — II vero zelo e la fiducia fondata in Dio.
L'ultima qualità dell'oratore cristiano di cui abbiamo
da parlare è quella che deve animare tutte le altre: lo zelo, e noi
aggiungiamo allo zelo la condizione del suo slancio parlando della
fiducia fondata in Dio.
Lo zelo è un ardore e come un'inquietudine che non
ci lascia riposo, quando si tratta di Dio e della salvezza delle
anime. È una gelosia di Dio e delle anime, e, per questo, è uno
slancio di conquista, un entusiasmo di combattente, che fa della nostra
parola un'opera guerresca. Bisogna che
(1) S. agostino, 8erm., OOLXI.
— 181 —
Cristo vinca! bisogna che le anime lo seguano e che la
sua salute le salvi.
Abbiamo qui due oggetti, solidali, ma subordinati l'uno
all'altro, l'uno più grande dell'altro. La gloria di Dio è più
preziosa della salute di qualsisia; onde, in certi casi, si deve
rischiare lo stesso interesse delle anime per l'onore della verità, per
il bene comune dell'opera divina; ma ciò stesso ci avverte che,
generalmente parlando, i due oggetti si ricongiungono. Dio non ha altra
gloria nella creazione che la salute de' suoi esseri, e per questo la
carità nel suo doppio oggetto non è che un solo amore.
Così è, la carità è qui il principio; lo zelo non è
che il suo fuoco. Si tratta di eseguire i piani di Dio, che sono piani
di amore, che hanno per mezzo una legge di amore, per termine la
consumazione dell'amore; si tratta di arrivare a questo termine insieme;
lo zelo si slancia per aprire le vie.
Chi non ha la carità nel cuore può ben fare la smorfia
dello zelo, anzi il suo gesto sincero, se ha il desiderio di ricuperare
l'amicizia del suo Dio; ma il vero zelo è ancora assente da lui, e a
dire il vero, non essendo amico di Dio, dovrebbe tacere, perché la sua
parola non ha più oggetto.
Nell'amico di Dio invece, è normale che lo zelo sia
allo stato di idea fissa, come l'effetto di una grande passione.
Passione nel cuore, idea fissa nella mente: queste due cose sono in
piena corrispondenza; è lo stato di tutti i grandi apostoli; una specie
di entusiasmo abituale lo tradisce, e l'etimologia da la ragione di
questo segno, poiché entusiasmo significa ispirazione di Dio.
Un tale sentimento ci strappa in modo affatto naturale a
noi stessi e ci disinteressa di noi stessi; infatti l'amore si trasporta
in ciò che esso ama e vi colloca l'interesse della sua vita. Lo zelo
della tua casa mi divora, e le offese de' tuoi nemici sono cadute sopra
di me, dice il Salmista (LXVIII, 12), Lo stesso zelo farà dire a S.
Paolo: Noi desideravamo di darvi non solo il Vangelo di Dio, ma anche
la nostra stessa vita (I Thess., II, 8). E a S. Agostino: «Ah! se
voi non mi ascoltate e se io non tralascio di parlare, avrò, per conto
mio, salvato l'anima mia; ma io non voglio essere salvo senza di voi » (Serm.,
XVII)..
Per conseguenza non dobbiamo punto risparmiarci. Noi
siamo tutti di Dio; siamo tutti delle anime; esse hanno diritto al
nostro tempo, al nostro lavoro, al nostro riposo, alla nostra salute,
alla nostra vita; non si tratta che di amministrare
— 182 —
prudentemente — per loro, non per noi — il bene di
Dio e delle anime.
La condotta del predicatore, in queste condizioni,
dipende dalle circostanze e dalla sua propria ispirazione, sotto il
controllo dell'ubbidienza. Vi è la regola comune, e vi sono gl'im-,
pulsi dello Spirito. Il P. Saudreau aveva fatto voto di non rifiutare
mai una predica; ammalato in seguito a eccessive fatiche, rinnovò il
suo voto, ciò che non gl'impedì di conoscere la vecchiaia. Il curato
d'Ars, oltre alle sue immense occupazioni, predicava tutti i giorni.
Così faceva S. Vincenzo Perreri; cosi fecero spessissimo i Padri della
Chiesa. Oggi, salvo casi molto rari, non vi è che il giornale che
predichi tutti i giorni, e non è per il meglio.
Un altro effetto dello zelo, è che l'apostolo vorrà
arricchirsi e progredire, a fine di meglio effondere. Tutte le qualità
interne o esterne che abbiam menzionato, accorreranno alla chiamata di
questa; si vivrà nella preoccupazione di acquistarle, di perfezionarle,
perché l'amore non aliena nessuna delle sue fortune. Al di sopra di
tutto, l'apostolo si terrà in una elevazione di pensiero e di cuore, in
un'impressione di Dio e delle anime, in un sentimento della vita
soprannaturale e della sorte che essa prepara, in un'ambascia delle
cadute e dei pericoli a cui le anime sono esposte, che compongono la
calda atmosfera in cui lo zelo si deve muovere.
Kon è tutto. Lo zelo, effetto della carità e causa
della parola, non da a quest'ultima unicamente la sua esistenza e il suo
slancio esterno, ma la caratterizza nell'interno; ne è il genio
proprio, e perciò, in fondo, lo zelo è il grande maestro di
rettorica sacra.
Ernesto Hello definiva il genio « un desiderio in atto
», e viceversa il desiderio « il genio in potenza ». A questo prezzo,
ogni uomo di zelo, cioè ogni uomo che ama, è eloquente. ~8on è
forse quello che disse il Lacordaire in mia celebre frase? Emerson aveva
già detto: « L'uomo eloquente non è colui che è un parlatore di
talento, ma colui che è intimamente ebbro di una certa credenza » (1).
E Mozart: « S'è l'intelligenza elevata, ne l'immaginazione, ne tutt'e
due insieme formano il genio. Amore! amore! amore! ecco l'anima del
genio» (2).
(1) SociéU et Solitude, trad. Dugard, pag. 90.
(2) Scritto sull'albo di Gottfried Jaquin, 11
aprile 1787.
— 183 —
Emerson cita questo proverbio dei cacciatori di fiere
d'America: « La palla che raggiunge il bersaglio è quella che è stata
temprata nel sangue del cacciatore ». Abbiamo qui un'idea di
sacrificio, ma anche la rimembranza dell'ardore interiore, della
dedizione a una causa fino al sangue, se occorre. È la passione. Se
l'amore di Dio e delle anime non è in noi allo stato di passione, noi
saremo necessariamente deboli; non avendo fiamma intcriore, non avremo
espansione, e l'eloquenza è una espansione, un soffio.
Vi sono dei bravi predicatori che non sono certo
riprensibili, i quali fanno correttamente il loro ufficio, danno una tal
quale soddisfazione ai loro capi e ai loro uditori, lavorano e sono
fedeli ai doveri del loro stato; ma nessuna fiamma sembra ardere in
loro. Ah! essi non metteranno fuoco alla terra! Sono anime spente. Si
direbbe che lo scopo da raggiungere, l'immenso bisogno delle anime, e la
miseria del mondo in ogni tempo, tutto questo sfugga loro. Sarebbe vero
che essi non vi pensano mai? Allora la virtù propria dell'oratore manca
al loro ministero.
D'onde vengono, nelle Epistole di S. Paolo, quei
getti che dilatano tutt'a un tratto e sorprendono l'anima, la afferrano,
la soggiogano — eppure questa scrittura, per rapporto al verbo che
s'immagina, non è che una lava raffreddata, — d'onde viene questo, se
non da un'esclusiva passione per Cristo e per le anime in Cristo ? Le
famose « figure rettoriche » che riempiono i trattati di eloquenza
arrivano lì come d'incanto;
• per istinto, l'amore le suggerisce, perché « è
l'amore che scopre i mezzi di soddisfare l'amore » (augusto comte).
L'amore, che è « forte come la morte », non potrebbe
par-; lare fiaccamente di ciò che perde le anime, di ciò che le può :
salvare, di ciò che le da a Dio o gliele strappa, di ciò che frustra
la croce o la fa risplendere, gloriosa, sopra la terra nuova di una
regione o di un cuore.
Certo, lo studio è sempre necessario; un uomo istruito
^ ne vale due; ma noi abbiamo sempre detto, anche glorifìcan-;,: dolo,
che lo studio da solo non potrebbe bastare. Bisogna n— i; salire alla
sorgente. Non è Quintiliano, ma la passione che in-t ventò i
tropi; Quintiliano viene dopo, e, anche dopo, non è ^ che un importuno
se egli non ritrova, per la passione, quello che la sua analisi ha
tratto dalla passione primitiva. In arte bisogna sempre inventare,
sempre reinventare, sul posto, oppure non si ha se non dell'inventato,
del raffreddato, e non ne potrà scaturire la commozione.
—.. 184 -—
Si ms me fiere, flendum est primum ipsi Ubi;
commosso, commovi; infiammato, infiammi; spaventato, spaventi; pieno di
desideri, li comunichi. Ci vuole un certo dono; ma, se anche fossi
mediocremente dotato, una santa passione fa passare nella tua voce, ne'
tuoi atteggiamenti, ne' tuoi movimenti, in tutta la tua persona, come
prima nella tua composizione e nel tuo stile, tutto quello che può
soddisfare negli altri il bisogno del loro cuore. Non parlava di uomini
di genio S. Filippo N'eri quando diceva: « Datemi dieci preti animati
dal buono spirito, e io vi dò il mondo intero per convcrtito ».
Mettiamo dodici, il numero degli apostoli. Ma allora dotali di
quell'eloquenza vera, « che si burla dell'eloquenza », secondo il
detto di Pascal. A ciò sostituisci, invece, il puro mestiere, O la
voglia di brillare, l'amor proprio: tutto si raffredda, tutto gi
agghiaccia, anche con un'apparenza di calore che allora non è che un
calore fittizio. Un fuoco diaccio! ecco la strana impressione che ti da
un calore rettorico senza amore.
Prendendo la questione dal lato dell'oggetto della
parola, si potrebbe dire: l'eloquenza è una evocazione; si tratta di
far vedere, di far vivere agli occhi le cose, e ciò è l'effetto di un
ardore intcriore che suppone delle facoltà, ma anche, dietro dietro, il
loro motore. Perché la verità trionfi, bisogna che la si rizzi davanti
all'uditore come una realtà vivente, benché essa appartenga al mondo
dell'astratto; costringente, quando il senso umano la trova fastidiosa;
avente diritto, quando il diritto alla vita si annette a
tutt'altri beni, e posseditrice della felicità, che per le nostre
evidenze di uomini terreni abita in regioni più vicine. Come vi potrai
riuscire, senza che prima sia tu stesso pervaso di questa verità e
votato al suo regno?
L'eloquenza cristiana è un traboccamento, una invasione
della verità che ha pervaso un cuore, e che questo cuore spinge in
altri cuori con tutta la forza de' suoi palpiti. Se niente palpita, o se
non vi è niente, che cosa potrà passare? non si vedrà circolare altro
che parole. Tisicamente la parola è una respirazione articolata: abbi
Dio dentro ed Egli sia come il tuo soffio, allora articolerai Dio.
« Nostro Signore, dice S. Francesco di Sales, non
domanda a S. Pietro: Sei tu dotto o eloquente? per dirgli: Pasce oves
vmeas; ma Amas me? Basta ben amare per ben dire » (1). Pati)
st. :b'bakcois db salbs, Lettre 218.
— 188 —
rola audace! parola che non è vera letterariamente, ma
che è vera spiritualmente, e che il fatto verificherebbe, gè
l'amore raggiungesse il sublime. Vero è che, in questo caso, l'amore
vorrebbe procurarsi tutte le armi, comprese quelle che una sana
letteratura ci fornisce.
•\'1;; . i:•.[i•••
***
Poste tutte le condizioni, si ha il diritto di dire che
i limiti dei nostri risultati sono quegli stessi del nostro zelo e della
nostra carità apostolica, e per questo noi menzioniamo come ultima
qualità spirituale dell'oratore cristiano la fiducia.
Non potremmo esprimerci così, parlando di un uditore in
particolare; la libertà individuale ha il potere di resistere a ogni
influenza, anche la più pressante: ma riguardo a un insieme di anime
aventi la medesima vocazione soprannaturale e i medesimi soccorsi
dall'alto, si può dire che solo la nostra debolezza forma la nostra
impotenza; più forti, noi indurremmo i nostri cari avversar! non solo a
cedere, ma a combattere la stessa battaglia, a diventare degli apostoli
essi stessi. Non è forse tale per noi la mèta del supremo sforzo?
Un'anima ha forse ricevuto sufficientemente della rugiada del cielo, se
ella non diventa una fonte? Un cristiano perfetto è quello che ne
suscita altri, come si chiama animale perfetto quello che può L
generare. Nel soprannaturale, come dovunque, il bene si compie
oltrepassando se stesso e riversandosi.
È questa una delle ragioni per le quali un predicatore
non ha motivo di turbarsi, se non ha davanti a sé che un piccolissimo
uditorio; l'amor proprio può esserne mortificato; ma non è che un
nuovo motivo di sperare. Un'anima sola vai bene ogni nostra pena; « Dio
pesca le anime con la lenza, si dice, e il diavolo con la rete ». Poche
anime, in vece di una turba, ci danno occasione di rendere la nostra
parola più intima, più insistente, in grazia di una specie di segreto,
e, per mezzo di queste anime meglio compenetrate, noi possiamo
raggiungerne altre. Gesù fece un sublime discorso alla sola Samaritana;
ella partì e gli condusse una città dicendo: « Non sarebbe questi il
Cristo ?». Se la gente, ritirandosi dai piedi del nostro pulpito,
potesse dire: Non sarebbe questo il Cristo? non sarebbe questa la
salute? non sarebbe questa la felicità? E perché no? La sorgente viva
non cessa di sgorgare; attingendo nel nome di Cristo, noi possiamo dare
l'acqua che zampilla fino alla vita eterna.
;,—,186 —
•k
La fiducia dunque è qui di diritto, e « i nostri dubbi
sono dei traditori » (1). Occorrendo, non abbiamo paura di una certa
follia generosa, che è uno stimolo dell'azione e fa dell'illusione
stessa una forza. «Vi è forse un'ingenuità all'origine di ogni
impresa », si dice (2). Giovanni d'Avila, nel momento di prendere la
parola, si persuadeva che avrebbe potuto conver-tire tutto il suo
uditorio; in fondo, egli non era gonzo; ma questa nobile immaginazione
lo infiammava e rinnovava il suo zelo.
Come dicevamo fin dal principio, ciò suppone che le
nostre speranze siano fondate in Dio. Le nostre speranze apostoliche
sono fondate in Dio prima in questo senso che noi, per i nostri
risultati, facciamo assegnamento su quello che Dio è riguardo alle
anime, sul valore infinito di ciò che egli offre e che noi speriamo,
sul fatto che le anime, senza saperlo, lo attendono e gli si
precipiterebbero ardentemente incontro, se noi sapessimo mostrarlo,
aprire gli occhi alla sua luce e spogliare dei loro prestigi gli idoli
che gli si sostituiscono.
Di fronte ad anime di buona volontà, la fiducia, sotto
questo rapporto, ha il suo fondamento vicinissimo: si ha fame, e noi
rechiamo il cibo celeste; il banchetto sarà giocondo. Ma se la buona
volontà manca, vi è sempre la necessità; in assenza della fame
sentita vi è la fame essenziale, il bisogno: spetta a noi di far avere
fame nell'altro senso della parola, di « fare avere voglia », come
dice Pascal. ~Soi abbiamo tutto quello che per questo occorre,
coi nostri tesori di suggerimenti e di promesse. La nostra speranza,
allora, prende un doppio oggetto: noi speriamo che potremo fare sperare
la verità, farla desiderare, e poi farla raggiungere.
Vi sono di quei che pretendono che in questo o in
quell'ambiente, in questa o in quella parrocchia, « non vi sia nulla da
fare »: costoro pensino dunque a un curato d'Ars, a un 8. Carlo
Borromeo, a un 8. Francesco di 8ales, a un 8. Vincenzo de' Paoli, e
vedranno se non vi è niente da fare! In vero, spesso noi spostiamo la
questione; per non accusare noi, accusiamo le persone e le cose. È
verissimo che vi sono delle situazioni difficili; ma alla fine dei fini,
questa verità sussiste e deve farci riflettere: le nostre sconfitte
collettive sono sempre, sempre delle insufficienze.
(1) shakbspeasb, Mesure pour muure, aote ler.
(2) bbketabd gbasskt, Kemarque sur l'action.
, , — 187 —
Del rimanente, quando noi giamo lì con tutta la nostra
preparazione e con tutto il nostro zelo, anche Dio è lì con la sua
grazia. Senza di Lui, noi sappiamo di non potere far niente;
ma perché saremmo noi senza di Lui? Non abbiamo noi dei
diritti? « L'obbligo di dare è un diritto di ricevere », dice in
questo caso S. Agostino (Lettera 266). Dopo tutto, quando predichiamo,
noi pensiamo quello che pensa Dio, vogliamo quello che vuole Dio,
facciamo quello che fa la sua provvidenza, noi siamo la sua « voce » e
il suo braccio: non ci deve egli il soccorso? Dio è qui la causa prima,
e noi lo strumento: se
10 strumento non si sottrae e non spezza la disposizione
prevista per la salute degli uomini, come dubitare della causa prima
stessa? È anche vero a beneficio del predicatore l'adagio teologico: facienti
quod in se est, Deus non denegai gratiam.
Sapendo questo e contandoci su, il predicatore si trova
a un tempo moltipllcato in se stesso e aumentato di Dio. Se, grazie a
Dio, egli già ha potuto fare delle conquiste, è un accrescimento di
fiducia: quello che Dio ha fatto, Dio lo farà;
ancora; quello che egli stesso ha potuto con Dio,
perché, di nuovo, non lo potrebbe? Se lo dica accostando il pubblico;
segua
11 consiglio di S. Francesco di Sales e, guardando il
suo mondo, pronunzi nel suo cuore, nel nome di Gesù Cristo del quale è
il rappresentante: Veni ut isti vitam habeant, et abundantius habeawt
» (1). Egli enunzierà così una speranza maravigliosa;
ma il ciclo e la terra gli assicurano che non
oltrepasserà punto il suo diritto.
(1) sactt KiAirgois de sales, Letfre 218.
; IiIBEO in.
L'ESERCIZIO EFFETTIVO DELLA PAROLA DI DIO
• CAPITOLO!.
La scelta dei soggetti « dei generi.
Bisogna venire all'attuazione. L'oratore preparato,
munito' di tutti i suoi mezzi, si mette al lavoro e comincia, se ne
ha la libertà, col scegliere i suoi soggetti.
Non temiamo il luogo comune; non è vano dire a un uomo
religioso: Scegli dei soggetti religiosi. La gente seria deplora che la
cattedra sia invasa dai soggetti profani, da studi letterari,
filosofici, politici, artistici, sociali, di cui certe parti,
certamente, ci riguardano, ma che molto spesso si spingono oltre ai loro
aspetti religiosi. Il pubblico vi si presta volentieri; esso si fa
complice di una deviazione che trastulla la sensibilità o soddisfa la
sua curiosità dimenticando di ridestare la sua coscienza;
ma ciò non ci assolve affatto. Una volta, la religione
era la politica, la filosofìa e la scienza sociale del tempo: a noi non
si addice di trasferire a queste discipline secolari la religione del
tempo presente, che ha tanto bisogno di religione vera.
Non ci opponiamo che uno specialista imprenda a trattare
qualcuno dei domimi umani e tenti di unirlo, com'è necessario, ai
dominii della fede. Tutto ci riguarda, come spesso abbiamo detto. Ma
c'è il modo. Bisogna anche misurare la propria competenza. Quei che si
lanciano storditamente nelle conferenze sociologiche, scientifiche,
storione, senza formazione
— 190 —
appropriata, e Cercano per questo gli uditorii speciali
senza avere una cultura speciale, si espongono alla derisione, oltre al
male che fanno e al bene che dimenticano di fare. In tal caso, scrive
Amiel, «i semplici avrebbero il diritto di dire, e lo dico io con loro:
Essi tolsero il mio Signore, e non so dove
10 abbiano messo » (1).
Le menti veramente atte e preparate a questo genere di
lavori sono rare, si ammirino e non si imitino troppo; essi stessi
qualche volta provano rimorso di certe iniziative, di audacie troppo
precoci o troppo poco meditate: non aggraviamo i loro rimorsi subendo il
contagio dell'esempio. Salvo speciale indicazione o autorevoli consigli,
il predicatore farà bene ad attenersi al Vangelo, bene inteso nel senso
larghissimo della parola, il quale comprende tutto ciò che abbiamo
menzionato parlando delle nostre fonti.
Soprattutto, il predicatore non si limiti a quel
moralismo per altro distinto che forma il fondo della predicazione
protestante. La pratica si appoggia naturalmente sul dogma, come
11 dogma si estende verso la pratica; la « fede », «
il Vangelo » è appunto questo continuo scambio di lumi soprannaturali
e di stimoli, di considerando e di precetti. E tutto questo così
difficilmente trova ascolto, e noi, uomini di Dio, siamo, come
Demostene, talmente davanti ai flutti rumorosi, che non ci conviene
guari proferire noi stessi vani rumori.
È altresì opportuno ricordare una volta di più il
detto di S. Paolo: Io non ìio creduto, in messo a voi, di sapere
altro che Gesù, e Gesù crocifisso. Non già che ogni soggetto di
predica debba riguardare direttamente la persona di Nostro Signore:
si può dare altrimenti soddisfazione alla pia
ossessione dell'Apostolo. Ma il più frequentemente possibile, questa
sacra persona intervenga, in se stessa, nelle sue parole, nella sua
vita, e principalmente nella sua Passione. Un predicatore che non avesse
altro che questo argomento, dice Mons. Isoard, che si facesse una
felicità di approfondirlo, una scienza di ben presentarlo, e che lo
portasse di città in città, di parrocchia in parrocchia, sarebbe
sicuro di essere passato facendo del bene (2).
Le ragioni ci son note. Anzitutto l'esempio di Gesù
stesso, che ha presentato la sua persona con pari arditezza e umiltà,
(1) amibl, Jowrnal intime, 27 maggio 1860.
(2) Mgr isoabd, De la Prédication. Paria, Joseph
Aubanel, 1871.
.- 191 -
dandola per centro di tutto ciò che la sua missione
comportava di benefizi per gli uomini. È Lui la religione vivente. Il
Vangelo è Lui; la Chiesa è Lui; la liturgia, vita della Chiesa, si
aggira attorno a Lui. La dottrina e la pratica non sono che il suo
pensiero, i suoi ordini o i suoi consigli. La santa vita è la vita con
Lui. I sacramenti sono una derivazione del suo essere e della sua
azione, e ci uniscono a Lui. Dunque in Lui vive e si rivela tutto quello
che noi dobbiamo insegnare o inculcare. Egli è il principio di
spiegazione universale, il mezzo di raggiungere il fine, il nodo della
storia. È la prova per eccellenza di tutto ciò che noi possiamo
affermare, il motivo di tutto ciò che possiamo esigere, il mallevadore
di tutto ciò che possiamo promettere. S. Tommaso lo chiama la legge di
vita allo stato vivente, quasi quaedam lex animata, e con ciò
Egli è -l'esemplare incantevole, l'attrazione, il fascino spirituale a
cui non si resiste.
Ecco l'essere rappresentativo del cristianesimo. Ecco
l'eroe che significa, come le produce, le vittorie dell'anima, il rè
che incarna la patria eterna, l'amico che parla cuore a cuore, lo sposo
dell'intimità celeste alla quale noi invitiamo le anime, il padre il
quale raggruppa la famiglia dei figli spirituali dispersi, il fratello
per il quale Dio è padre e che oe lo fa vedere. Il suo nome dunque
risplenda e la sua persona sia sempre presente. 'Soia. si ha
bisogno che di Lui, poiché è il nostro tutto:
non bisogna forse procurare d'incontrarlo?
TSe\ teatro, furono tratti molti effetti dai riconoscimenti
di parenti da gran tempo separati e che tutt'a un tratto una peripezia
rivela l'uno all'altro. A noi spetta di provocare la peripezia che
porterà seco il riconoscimento dell'anima con Gesù Cristo. Egli è del
nostro sangue e noi del suo; egli prese la nostra natura e ci comunica
la sua: da questa doppia parentela deve nascere l'amore. Ohe il
predicatore ci ravvicini e sappia mettere in rilievo i nostri lineamenti
rispettivi: la vera umanità in noi, la divinità in Gesù, e tosto noi
cadremo a'suoi piedi e nelle sue braccia.
Per le stesse ragioni attenuate, ma valevoli ancora, noi
abbiamo consigliato di predicare spesso i santi. Occorre valersi a lor
riguardo dell'interessamento dell'uomo per l'uomo, dell'attrattiva
istintiva e della simpatia per un essere della nostra stirpe, che ha
sofferto le nostre sofferenze, combattuto le nostre battaglie, e che ha
vinto. Questo sentimento è molto facile a
— 192 -.
osservare. Vedi il movimento di attenzione e di viva
curiosità che si produce in una sala, quando apparisce sul palco un
uomo celebre del quale forse gli spettatori non si sono mai presa la
briga di leggere le opere, e che sono così felici di vedere, così
impazienti di udire. Il fatto sensibile, la persona, portano seco
un'efficacia, e il soprannaturale ne approfitta. Anche lì, non è
necessario dare tutto il discorso al personaggio vivo; ma all'occasione,
è un guadagno.
Se trattasi di soggetti generali, a quanto dicevo del
loro carattere spiccatamente religioso, aggiungo che, nella scelta, non
' bisogna temere i temi più tradizionali, i più semplici, perché sono
a un tempo i più utili e, checché ne pensino taluni, i più ricchi,
Ci figuriamo volentieri che i soggetti « oratorii »
siano dei soggetti straordinari, inediti, dal titolo rimbombante, e
corriamo rischio, scegliendoli, di dimenticare il nostro dovere di
catechisti e di apostoli, di dottori e di convertitori; ma inoltre diamo
prova di puerilità e di stoltezza. I soggetti familiari di gran lunga i
più fecondi, perché si riferiscono a tutta la vita; sono anche i più
brillanti, quando una viva immaginazione e una sensibilità fine ne
sanno estrarre quello che contengono. Per ;
questo basta considerarli dall'alto, come uno spirito
sopran- ;
naturale vuole, e percepire i loro numerosi rapporti,
ciò che è il trionfo dell'arte. Gli artisti non trovano il loro
tornaconto nelle rarità, ma nella vita nel suo fondo e nelle sue
condizioni permanenti. Le vere immagmi della vita sono sempre giovani, e
più ancora quelle della vita soprannaturale, che attingono di più
dall'eternità.
Dopo tutto, tenendoci nel nostro vero compito, non
abbiamo mai davanti a noi se non dei grandi soggetti. Noi siamo sempre a
tu per tu con Dio, a confronto col fine ultimo, con la natura e con
l'umanità nei loro più alti aspetti; non basta forse siffatta
grandezza, urge forse di cercarne un'altra? Un pubblico associato al
dramma universale ed etemo non può essere deluso, se io gliene dò
l'impressione viva. Che io sia 'l'uomo fra terra e ciclo, che io
significhi la parentela della terra e del cielo, e si accetterà il mio
messaggio.
Del rimanente non sono forse sempre nuove quelle cose,
alle quali la gente non pensa punto? È il caso di noi tutti riguardo al
soprannaturale, e quello che è nuovo già per la coscienza che lo
approfondisce, diventa maggiormante nuovo per l'incoscienza. .
— 193-.
Pra questi temi permanenti e affatto semplici che
dovranno ricorrere incessantemente nelle nostre prediche, io vorrei
citarne alcuni, non a titolo di soggetti propriamente detti —
per questo bisognerebbe suddividerli, il che si potrebbe fare in molti
modi — ma come motivi fondamentali, ispiratori dei soggetti stessi.
Sarebbero per esempio: un giusto sentimento di Dio e di ciò che
gli è dovuto, dei suoi benefizi, delle sue grandezze, sentimento quasi
scomparso nella nostra società laicizzata e al quale molti soggetti
tradizionali si riferiscono; — il vero senso della vita, così
completamente smussato, per la ragione stessa, e anche nei cristiani
praticanti; — il fine ultimo, i novissimi, la cui nozione a molti
apparisce o puerile, se si tratta del cielo, o urtante, se è l'inferno
che minaccia; — l'apprezzamento del bene e del male morale, della
virtù e del peccato, della loro gravita tragica; — la carità nel
grande senso della parola, così striminzito nel vocabolario corrente;
— la vera natura della Chiesa, incarnazione continuata, grazia
sociale, anima delle nazioni, in vece dell'organizzazione puramente
amministrativa e utilitaria che tanti vogliono vederci; — la persona
di Cristo, ancora una volta, col suo posto nella vita universale, nella
vita individuale, nel tempo e nell'eternità; —• la concezione
dell'ordine in ogni dominio, della gerarchla, dell'autorità, del bene
comune, della subordinazione necessaria a un compito che ci oltrepassa e
che pure è nostro, e ciò nella famiglia, nella professione, nella
città, tra i popoli, in tutti noi insieme.
I soggetti che da ciò si traessero sarebbero i buoni;
sarebbero inesauribili, e si stimerebbe quasi indifferente che si scelga
l'uno o l'altro, quando si prenda questo, o quello nel suo centro, che
coincide sempre col centro di tutti gli altri, e nel suo spirito che è
soprattutto un solo e unico spirito.
Tutti i cibi sono buoni, purché facciano del sangue.
Tutti. i soggetti diventano buoni, quando chi li tratta li vivifica con
un'infusione energica dello spirito cristiano che regna in lui prima di
tutto. Bisogna che lo spirito de' tuoi soggetti sia in tè. Il loro
patetico ha più importanza che le'considerazioni parti- ;
colari che si espongono. Se non hai questo, i tuoi
soggetti non tè lo daranno. «Il tuo soggetto sei tu stesso», scrive
Eugenio Delacroix (1).
(1) È. deìaoboìx, QSuvfVS littéraires, t.
I, pag. 68.
13 — SBliTlLLABeBS. L'oratore
cristiano.
— 194 —
Una considerazione utile è anche questa. Per quanto le
circostanze lo permettono, è bene disporre i soggetti in serie, in vece
di lasciarli allo stato isolato. È un elemento di successo. Lo sanno
bene gli editori, i quali creano delle collezioni, ed anche gli
appendicisti, abili a vincolarsi il lettore coli'attesa e col ricordo.
La dottrina cristiana è essenzialmente coerente;
l'armonia intcriore e l'adattamento alla vita sono i suoi caratteri
divini. La città di Dio non ha angoli isolati; essa è dovunque un solo
palazzo di luce: facciamolo vedere, e in vece di pezzi disparati, che
piovono lì senza che si sappia perché, offriamo se si può un
catechismo vivente, un catechismo nel senso di Jouffroy, nel suo famoso
ditirambo, intendo un soggetto un po' largo, bene studiato, che lascia
nelle menti un'impressione netta, il sentimento di una crescenza
spirituale, d'un arricchimento sopra un punto importante della vita.
Noto che a questo riguardo il discorso dogmatico e la
tesi morale non sono i soli ad ammettere delle possibilità. Anche
l'omelia si presta all'insieme; essa può raggnippare dei testi scelti,
classificati secondo il loro carattere comune, e che si fanno
concludere. Per esempio: i varii annunzi della Passione, le Parabole del
Eegno di Dio, i perdoni o le amicizie di Gesù, le sante donne
dell'Antico o del Nuovo Testamento, ecc., ecc. Ciò si presta a tutte le
applicazioni, e avrebbe valore per se stesso, se anche non si facesse
nessuna applicazione espressa.
Avverrà che una predicazione sopra uà soggetto un po'
esteso sia intrapresa da un altro, a cui si succede nella cattedra come
il lavoratore al lavoratore in uno stesso campo. È allora cosa
delicata, e pia, e molto più utile, continuare se si può, il lavoro
cominciato, salvo a orientarlo in un senso un po' nuovo, in vece di far
datare il regno di se solo e di ricominciare come se non si fosse detto
niente. Agire da fratello, entrare nel solco già aperto, oltre ai
vantaggi pratici della continuità in favore dell'uditorio, è dare
un'impressione viva della nostra qualità di rappresentanti, dell'unità
della parola apostolica nell'unità della Chiesa, sotto l'unità di Dio.
Finalmente, in materia apologetica, non si potrebbe
esagerare nel consigliare i soggetti di esposizione, piuttosto che di
confutazione e di battaglia. Abbiamo detto questo in più occasioni; ma
colgo ancora una volta quella che si presenta,
— 195 —
perché io sento vivissimamente l'importanza capitale di
questo metodo. È quello del Vangelo; è quello stesso della vita, in
cui le forze in opera si propongono sempre uno scopo positivo, una
costruzione, un acquisto, dove le lotte sono accidentali.
« Colui che vuole esercitare un'influenza utile, diceva
Goethe a Eckermann, non deve mai sprezzare niente. Non s'inquieti di
ciò che è assurdo, e tutta la sua attività sia consacrata a far
nascere dei beni nuovi. Kon bisogna rovesciare, bisogna fabbricare ».
Luigi Veuillot, in una formula degna delle riflessioni di ogni uomo
apostolico, enunzia una verità anche più profonda, quando dice: « II
grande servizio da rendere agl'increduli è quello di fare che i
cristiani siano cristiani ». Occupandoci di cristianizzare il mondo, ci
occupiamo efficacissimamente di ricondurre alla fede quelli la cui
incredulità di solito non è che l'effetto della scristianizzazione
dell'ambiente, All'opposto, affrontare come increduli quei cattolici
più o meno disamorati, ma ancora vicini a noi, è rischiare, se non si
convertono, di accentuare la scissura. Trattali da avversar!, ed essi
tè lo crederanno; trattali da cristiani, e cristiani si riconosceranno
forse ad onta dei loro oblii o dei loro disordini.
I migliori soggetti apologetici dunque sono quei che
manifestano, in modo positivo, le fonti dell'istituzione cristiana, la
sua contestura intima, il suo senso, la sua portata, d'onde risulta il
sentimento del suo valore. Queste esposizioni, la cui ampiezza è
indefinita, renderebbero ragione di tutto e farebbero tanta luce che non
ci sarebbe più bisogno di battersi nell'ombra.
Tu esponi la dottrina di vita: ebbene di' cose conformi
alla natura e alla vita, all'ideale sovreminente della natura, alle mire
sempre più ambiziose della vita, come vi c'invita o piuttosto vi ci
sforza un'esatta interpretazione del Vangelo, e queste cose tutti le
riconosceranno, senza che la loro « dimostrazione » o la loro «
difesa » ti sia necessaria.
Si perde tanto tempo a disputare e ad accapigliarsi con
gl'increduli, quando si potrebbero illuminare maravigliosa-mente in
compagnia dei loro fratelli credenti, e invitarli con potenza a unirsi
al gregge, senza dir loro nulla in proposito. In vece di questo, a volte
si urtano; altre volte si scandalizzano confermando le loro difficoltà
con risposte insufficienti, mettendo « ponti troppo corti sulla fossa
», come diceva Giacomo Bivio; e per lo più si lasciano allo stesso
punto, come si sa bene che sempre avviene nelle dispute di
conversazioni.
S. Francesco di Sales, assai esperto nella controversia
quando voleva, solo di rado si appigliò ad essa, e confessa che non
riuscì nel suo intento. Egli spiegava in modo da distruggere i dubbi,
ma senza far mostra del suo intento, temendo di mettere l'avversario in
stato di difesa e forse d'indurre in tentazione i credenti. È meglio,
diceva, prevenire le obiezioni anziché annunziarle con pompa. In questa
guerra in cui la collaborazione dei cuori è indispensabile, colui che
vuoi riportare la vittoria a ogni costo è sempre vinto.
Giuseppe de Maistre disse: « La sola buona confutazione
di un cattivo libro è un buon libro scritto sul medesimo argomento »:
applica ciò alla predica, ed hai un'eccellente regola, che Spinoza
conferma, quando dice: « II vero è la pietra di paragone di se stesso
e del falso; est enim verum index sui et falsi ». Queste sono
parole d'oro.
197
CAPITOLO II.
Il triplice scopo dell'oratore cristiano.
I. — Insegnare.
-4.) INECESSITÀ
DELL'INSEGNAMENTO.
Si suole assegnare all'oratore cristiano un triplice
scopo. Perché triplice? Si potrebbe anche dir bene quadruplice,
quin-tuplice, oppure unico. Pascal si burla di questo genere di
divisioni, a confusione di quelli che ad esse attribuiscono un valore
assoluto, in sé, come se dividessero effettivamente le cose. Ma tali
distinzioni non restano meno utili come mezzo di classificazione, per
l'ordine del discorso.
In ciò che riguarda l'eloquenza, tré divisioni sono
specialmente celebri: quella di Aristotile, quella di S. Agostino,
quella di Fénelon. Aristotile attribuisce all'oratore l'ufficio di
lodare e di biasimare, di persuadere e di dissuadere, di accusare e di
difendere: si vede che egli pensa principalmente all'eloquenza
giudiziaria o politica. Parlando unicamente dell'eloquenza sacra, S.
Agostino ricorda: insegnare, commovete e piacere;
Fénelon: provare, commovere e dipingere.
In fondo, tutto questo si riduce alla stessa cosa e non
rivela che il diverso funzionamento delle menti. Aristotile vuole che si
lodi e si biasimi, ma quando si « prova » o si « insegna », si loda
la verità e si biasima l'errore. Egli domanda che si persuada e si
dissuada: si persuade o si dissuade provando e commovendo. Parla di
accusare e di difendere; ma questo si fa ugualmente provando. S.
Agostino aggiunge: piacere, ma è in vista del resto e vi si può
includere. Fénelon aggiunge:
dipingere; ma è parimenti un mezzo e si riduce al
fine espresso dalle altre sue due menzioni. Si potrebbe racchiudere
tutto in persuadere, comprendendolo abbastanza largamente. Se
piace, noi ci atterremo, per l'essenziale, alla divisione di S.
Agostino: insegnare, commovere, piacere; aggiungendovi
accessoriamente il « dipingere » di Fénelon, che ci darà occasione
di alcune verità.
— 198 —
Anzitutto insegnare. ~Se abbiamo la necessità
primordiale. La luce incomincia tutto. Oggi, la sua diffusione è sempre
più richiesta, quando, riguardo alla religione, non si conosce che le
obiezioni e le bestemmie. Le persone più colte pensano delle enormità
religiose, e alla maggior parte mancano i primi elementi.
I pastori hanno a questo riguardo una responsabilità
speciale. Non bisogna che per colpa loro nessuno ignori le verità che
salvano. Lì sta il punto della predicazione pastorale. I grandi misteri
della fede e le loro conseguenze; le pratiche essenziali; i sacramenti e
le disposizioni per riceverli con frutto;
i novissimi: a ciò sempre deve ritornare colui che ha
cura d'anime. Il predicatore di passaggio ha un dovere meno stretto;
ma partecipa di quello del pastore, del quale egli si fa
l'ausiliario, e che non ha potuto desiderare il suo concorso se non in
vista di fini comuni.
.B) qualità D'UN BUON INSEGNAMENTO. - la PROVA
ORATORIA.
Qui, non parliamo più di soggetti da scegliere, ma del
modo di considerarli per trattarli, e dobbiamo distinguere tré uffizi
dell'insegnamento: esporre, provare, e confutare, osservando che
quest'ultimo compito entra in grandissima parte nel secondo, di cui esso
è una forma negativa. Si confuta il falso in favore del vero.
In quanto all'esposizione, l'insegnamento esige
principalmente la chiarezza, di cui abbiamo notato più sopra
l'importanza. Ma perché questa prima qualità abbia tutti i suoi
effetti, sono necessari alcuni altri. E prima di tutto che si insista
sempre su ciò che è fondamentale, che lo si ricordi opportunamente,
che, senza averne l'aria, si rimettano incessantemente sotto gli occhi
quegli elementi che tutti credono di sapere e che invece
ignorano.
Poi si badi a una brevità piena, evitando il
sovraccarico dottrinale che affatica la mente e l'opprime, in vece di
rischiararla. Una buona lampada a incandescenza, e non un materiale di
officina elettrica; una sorgente al sole, piuttosto che un « pozzo di
scienza », dove la mente anneghi nell'oscurità.
Si mettano in rilievo gli elementi principali, come si
mostra un oggetto sotto tutte le sue facce. Per questo vi sono delle
forme appropriate, come l'interrogazione, la ripetizione, di cui si
tratterà a proposito dei tropi.
— 199 —
Nell'esposizione si proceda in modo concreto e
personale;
si dia all'uditore la sensazione che è questione di lui
e non di una tesi, che si tratta de' suoi affari, del suo caso, della
sua salute, della sua felicità. L'attacco dev'essere individuale e
intimo; la verità deve entrare in ciascuna coscienza e invitarla a
un'adesione fiduciosa, felice, inevitabile. Incontestabile e invincibile
al giudizio di ciascuno e per ciascuno: ecco la qualità di
un'esposizione dottrinale riuscita. All'uscire dalla predica, l'uditore
ne dovrebb'essere occupato più di tè stesso;
il tuo lavoro non era forse destinato ad adescare il
suo? il vero successo consisterebbe nel fare apparire derisorii,
all'uscire di chiesa, i pregiudizi, le cure volgari, gli stessi
dispiaceri che vi aveva recato. Il ciclo si è aperto, e ha dovuto
ottenebrare la terra; l'ha però illuminata, e si possono prendere i
buoni sentieri. Insegnare in modo da assediare è il fine stesso
dell'eloquenza. A questo tendono tutti i suoi mezzi, e quando il suo
oggetto è in se stesso di necessità assoluta, com'è il nostro, vi è
sempre una possibilità di farlo apparire tale, cioè, come quello che
riconduce nella mente dell'uditore ciascuna cosa al suo vero posto, di
collocarla sotto il dominio delle cose eterne.
Per ottenere un tale risultato o almeno per accostarvisi
in qualche misura, non basta esporre puramente e semplicemente; bisogna
provare, salvo a includere la prova — come fu detto della confutazione
— nella stessa esposizione. La miglior prova è un'esposizione ben
condotta, perché la coerenza delle cose e la loro parentela con la
nostra mente dispensano da altri criteri, ed è quello che una buona
esposizione manifesta. Provare non è mai altro che mettere la verità
in armonia con se stessa e con noi: se nell'esposizione risplende
quest'armonia, la prova è fatta. Il miglior modo di risolvere un
problema, non è forse d'impedirgli di presentarsi, di annullarlo
anticipatamente con una chiarezza piena?
In generale si ragiona troppo; sarebbe meglio far
vedere, dico far vedere le cose, e far vedere le loro connessioni
pari-menti come cose, piuttosto che come conclusioni. Le menti più
profonde e più ricche sono quelle che argomentano meno; esse persuadono
con un semplice intuito del loro pensiero: è un'a'-zione di presenza.
Le stelle, che sanno l'ora, non scampanano.
Tuttavia, poiché si portano delle prove, e là dove se
ne devono portare, bisogna sceglierle, ordinarle,'distinguerle bene,
presentarle bene.
~ 200 —
Scegliere bene le prove, per l'oratore, non è sempre
fornire la prova essemiale nel senso metafisico del termine, ma
la prova che è a un tempo la più solida e la più impressionante, Le
ragioni sottili, specialmente riguardo a ciò che è chiaro per tutti,
sono francamente da eliminare. Queste sono tentazioni del loico, che al
discorso non procurano che borra. Nella parola ciò che è minuto sfugge
e ciò che è astratto non fa effetto. Un'idea s'impone alla nostra
adesione effettiva, non già per il suo rigore logico, ma per l'eco che
ridesta in noi e per la corrispondenza alle intime esigenze della nostra
mente, del nostro cuore, della nostra vita.
Tanto più si rigettano le prove discutibili, che
darebbero alle menti pretesto di sfuggire. « Sono tutte lì le tue
prove? », direbbe qualche uditore. Evitare altresì il sovraccarico,
osservando tuttavia che vi è un'arte di moltipllcare le prove senza
nessun ingombro, in grazia di una forma abbastanza viva da includere in
un solo periodo una folla di argomenti convergenti, <• tanto la
cosa abbonda di prove ». Ciò a volte produce grande effetto.
All'opposto, attenersi a una sola prova, spesso è dare un'impressione
di debolezza, come di una cosa troppo poco radicata nella vita. Quale
albero ha una sola radice? Il radicamento tuttavia è una cosa
semplicissima, e perciò bisogna serbare la semplicità.
Ordinare le prove è schierarle in modo da produrre il
massimo di effetto, ed è questo un ordine psicologico, non astratto,
che sembra governato dalle due considerazioni seguenti: la prima scossa
determina spesso lo spirito; l'ultima sovente lo fissa. Pare dunque cosa
saggia dare prima di tutto una ragione solida, che soddisfa la mente a
titolo di fondamento; collocare dopo di essa, in bell'ordine di
dipendenza, le ragioni secondarie, riservando per la fine quello che si
credono di tale natura da generare il convincimento.
A quest'arte Berryer aggiungeva quella di raccogliere in
un dato momento tutte le proprie forze, dopo averle spiegate a una a
una; allora egli componeva una massa irresistibile, che schiacciava
l'avversario. È questa un'arte di perorazione, ma che trova il suo
impiego nella parte dimostrativa del discorso, qualunque sia il posto,
Rendere ben nette le prove e presentarle bene è
rivestirle di forme accentuando il loro valore. Ciò dipende dai
casi. La prova oratoria vuole di solito del calore e dell'abbondanza;
„- 201 ,—
ma a volte anche si guadagna ad abbandonare ogni figura
per lasciar parlare la logica sola e far così risaltare la membratura
di un argomento decisivo. Quest'aridità voluta è spesso abile; ciò
vuoi dire: ecco qui! giudicate voi stessi;
io non getto polvere negli occhi, espongo le cose come
sono.
Prodotto il tuo effetto, nulla impedisce di abbondare in
un altro modo. E così bisogna fare; perché la prova oratoria,
rivolgendosi a tutto l'uomo, deve valersi di tutte le facoltà
dell'uomo, di colui che parla e di colui che ascolta; essa richiama alla
mente tutta la vita, fa ricorso a tutta l'esperienza, anche
all'esperienza incosciente, che sa mettere alla luce. Non dimentichiamo
che, a differenza del professore, noi domandiamo ai nostri uditori
tutt'altro che un'adesione platonica; noi vogliamo dei fatti, una conversione,
cioè un cambiamento dell'orientazione vitale; ciò non si ottiene senza
far ricorso a tutto quello che si tratta di spostare. L'oratore prende
per compito di contrappesare da se solo tutte le forze di resistenza del
suo uditorio; per questo deve ricorrere a forze dello stesso ordine, e
la prova è uno dei casi essenziali di questo ricorso.
Aggiungo che l'oratore cristiano, presentando le sue
prove, ha più che mai l'occasione di costituire se stesso come una
prova viva, come una prova dell'efficacia delle sue prove, avendolo
queste convinto prima, e avendolo convinto al punto di esigere da lui
imperiosamente la convinzione degli altri. La vita genera la vita.
L'uditorio non ci sfugge a meno che non pensiamo più, non amiamo più,
non siamo più, noi per i primi, sotto l'impero del verbo.
II. — Commovere.
A) la
NECESSITÀ DI O'OMMOVBBE I CTTOEI.
Insegnare così è già un eommovere largamente; lo
sapeva S. Agostino, il quale dichiarava all'oratore il suo obbligo di
farsi udire intelligewter et oheMenter, cioè farsi intendere e seguire.
- '
La luce deve brillare nel cuore; nella mente non è che
regola, nel cuore è forza. Secondo Fiatone, l'effetto proprio
dell'eloquenza è di sottrarre l'uditore a se stesso e al suo precedente
stato. Il dotto Passerini scrive dal canto sua: « Proprio della
predicazione non è precisamente insegnare, ma persuadere
la parola di Dio ». Il movimento oratorio che produce
— 202 —
questo risultato, è dunque, secondo che aveva
riconosciuto Quintiliano, la parte essenziale del discorso, quella che,
mancando, lascia tutto il rimanente malfermo. Del resto, con ciò non
s'intende punto di raccomandare dei « movimenti » strepitosi; il
calore ha più di una forma; si tratta di raggiungere, nell'uditore, i
focolar! dell'emozione efficace, i centri motori.
Ciò s'impone tanto più che, in molti casi, non c'è
altro da fare; l'uditore è anticipatamente convinto; il suo male,
estraneo all'intelletto, è tutto quanto in una volontà pigra o in un
cuore sedotto da folli oggetti; bisogna guarirlo, bisogna liberarlo e
trascinarlo; la predica, per questo uditore, sarà buona se l'uomo ne
esce costernato del suo stato, portato a modificarlo, invitato e quasi
forzato a questo cambiamento da grandi immagini motrici. È chiaro che
è questo un risultato della commozione, non del solo convincimento.
B) le CONDIZIONI
PEB, GOMMO VERE.
Sarebbe egli vero, come pretende Fénelon, che il
segreto di commovere sia scomparso dalla cattedra, nel secolo XVI,
lasciando da una parte umanisti senza dottrina e senza fede, e
dall'altra scolastici, uomini di dottrina e di fede, ma senza calore e
senza bellezza? Il giudizio così generalizzato è molto discutibile; ad
ogni modo esso aveva cessato di esser vero al tempo di Pénelon; è
ancora molto meno vero dopo il Lacordaire. Comunque, il precetto
sottinteso non è meno sicuro; commovere è tanto imposto all'oratore
quanto il guarire al medico; infatti le commozioni sono dei medicamenti,
scrive ETovalis (1). Egli aggiunge: « Non bisogna giocare con esse »;
ed ha ragione, e ciò indica al predicatore la necessità della misura.
La commozione non ha pregio salvo che corrisponda a una convinzione
riflessa, a uno stimolo della nostra volontà razionale. Ma
l'insegnamento non cessa di brillare per passare dallo stato puramente
cerebrale a uno stato più caloroso e più intimo.
I passi patetici, qualora se ne ammettano, devono essere
brevi, perché la commozione si stanca presto. < Mula inaridisce più
prontamente che le lacrime », dice Cicerone. Ma ciò che si dice qui
della commozione non riguarda unicamente questo o quel passo; ma è
nell'insieme del discorso che
(1) novams, Fragments inèdite. Stock, 1927.
- — 203 —
deve regnare una viva impressione del suo
oggetto. Anche allora che si espone, che si discute, l'uditore
dev'essere in stato di emotività, in questo senso che egli, essendo
messo in causa, preso come oggetto di un dibattimento animato, sente che
la sua sorte è in gioco, che è invitato a pararsi dai mali, a
conquistare i beni, ciò che è la passione di ogni essere. Si può
partire da lontano per arrivare lì e, in certi momenti, avere l'aria di
parlare d'altro, di dogmatizzare, di descrivere; ma l'impressione del
fine deve sempre regnare, annunziargi fin da principio e non dissiparsi
in nessun momento.
Allora siamo ben sicuri di non parlare invano. « l'1'oi
amiamo di essere messi sull'avviso », dice Montaigne: amiamo di essere
salvati, anche se ci fosse in noi quel demonio d'incoscienza che
desidera di essere perduto. L'oratore che fa appello alla coscienza e
già le comunica qualche cosa dell'anima sua mediante un felice
contatto, otterrà, in mancanza di altri effetti che non si possono
sempre sperare, quel turbamento benefico, quel silenzio intcriore ricco
di possibilità virtuose. Il modo con cui si dicono le cose fa vedere il
modo con cui si sentono, ma decide anche del modo in cui si fanno
sentire e con ciò penetrare nelle vite, con ciò fare opera divina.
La Signora di Montpensier diceva di S. Francesco di
Sales, dopo che egli ebbe parlato alla corte: « Gli altri, colle loro
prediche, sembrano volare per aria; ma Monsignor di Ginevra discende
sopra la preda >>. 2'Ton solo egli discendeva sopra la preda, ma
la portava via, per Io meno assai sovente, e ne' suoi successi
apostolici il cuore aveva certamente più parte ancora che
l'intelligenza; « dal cuore al cuore », dal cuore di Dio e dal cuore
di Gesù Cristo al cuore di ciascun uditore, passando per il suo: tal
era il segreto della sua parola.
Il piissimo Lodovico di Granata da per oggetti
particolari alla commozione dell'oratore cattolico i risultati seguenti:
« Egli deve portare i suoi uditori all'amore di Dio,
alla speranza nella sua misericordia, al timore de' suoi giudizi,
all'odio del peccato, alla tristezza salutare, alla gioia spirituale,
alla stima e all'ammirazione delle cose divine, al disprezzo di quelle
del mondo, all'umiltà del cuore e alla sottomissione dello spirito ».
Ecco dei preziosi obiettivi. Quelli che abbiam menzionato noi stessi in
vista del tempo presente, quando parlavamo della scelta dei soggetti,
possono esservi aggiunti; si sa che sono gli stessi bisogni, che
determinano le materie da trattare e le forme come mezzi obbligati della
parola.
804
- III. — Piacere.
Eeca maraviglia il vedere S. Agostino e Fénelon, come
del resto tutti i maestri, obbligare l'oratore cristiano a piacere, come
se si trattasse di lui, oramai, e non più del suo compito. Ma tale non
è il loro pensiero. Fénelon colloca Demostene « al disopra
dell'ammirazione » perché seppe perdersi nel suo oggetto e
dimenticarvi se stesso, e S. Agostino si spiega dicendo: Illum qui
est delectatione affectus facile quo volueris duces; « condurrai
facilmente dove vorrai colui che avrai ricolmato di gioia ». Condurre
l'uditore dov'egli vuole non è lo scopo stesso dell'oratore? Lucano
parla nello stesso senso quando dice: « Haec demum sapit dictio quae
feriet, l'espressione che piace è quella che colpisce ».
Tuttavia, siccome per mezzo del piacere, sotto gli
auspici del piacere, non si tratta in fondo che di provare efficacemente
e di pesare sulle energie dell'anima, certi autori trascurano questo
terzo scopo o anche lo eliminano, sia come parassita e come quello che
si presta a equivoco se è ben compreso, sia come nemico se si comprende
male. Il La Fontaine potrebbe offrire una formula accettabile a tutti
quando dice — forse in un senso un po' differente dal nostro : « Vi
è un'arte di piacere e di non pensarvi ».
Poiché il piacere non è uno scopo decisivo, si ottiene
come senza pensarvi; si tende così verso l'oggetto del discorso e si
attrae verso di esso l'attenzione dell'uditorio, anziché attirarla
verso il discorso stesso o verso il suo autore.
Ora un tale obiettivo determina le regole. Bisogna
piacere sforzandosi di manifestare lo splendore del vero e l'attrattiva
del bene, spiegando le proprie forze personali nel modo più favorevole,
lusingando nell'uditore ridestato a se stesso l'amore innato della
verità per la quale è fatto e del bene che assicurerà la sua
felicità.
La prima condizione è ovvia; tuttavia molti la
dimenticano, a cagione di quella aridità logica o puritana di cui
parlavamo sopra e che vuoi fare ingoiare il vero come una misura, e il
bene come una medicina. Ma non è questo il mezzo di conquistare i
cuori.
S. Francesco di Sales passava per un seduttore di anime;
ma per mezzo di lui era Dio che le seduceva. Dio è
verità, bellezza, bontà, felicità, tutto insieme: la parola di Dio
potrebbe
— 205 —
dissociare questi termini? Per il fatto che noi siamo
degli ante nunziatori e dei rapitori, siamo anche degli incantatori, ora
incantatori di uccelli come S. Francesco di Assisi, ora incantatori di
belve come Orfeo, e a volte incantatori di serpenti. Quella religione
che noi presentiamo come una verità, come un obbligo e come un
soccorso, presentiamola anche come una bellezza, come una seduzione
superiore, come una gioia, ciò che essa è non meno essenzialmente,
ciò che è anzi esclusivamente, considerata nel suo ultimo termine.
Piacere così è il flore del nostro verbo, e che vale una pianta senza
il suo fiore,. attraente promessa del frutto?
'Sello stesso predicatore vi è di che piacere; per
lo meno si ha il diritto di sperarlo. Questo si deve spiegare, ma sempre
secondo la stessa regola, in vista dello stesso scopo. ~Son
s'invita il predicatore a fare mostra di un bei cuore, a fare il
lusingatore volgare o sottile. Vi sono degli altri incanti. Ma non ce
n'è uno maggiore di quello di un'ardente convinzione che, con una salda
ragione che si esplica, dimostra una simpatia superiore che s'inchina
per soccorrere, una carità che stringe. Tutto ciò è potente sopra i
cuori, per poco che la forma non lo soffochi sotto la sua inettitudine.
E bisogna lasciar vedere tutto questo, rimovendo la falsa timidità, il
falso pudore e la pretesa umiltà che, per nascondersi, nasconde
parimenti Iddio in essa. Un uomo, un uomo di Dio, un fratello, un
salvatore è cosa bella, per conseguenza è cosa seducente, commovente,
e incitatrice! Queste sono reti di Dio.
Finalmente, nell'uditore vi è una sorgente di piacere
Che si deve adoperare secondo le nostre regole: è il piacere di
prendere coscienza di sé, di misurare i proprii poteri, di gustare le
proprie aspirazioni profonde e segrete, così spesso ricoperte dal nulla
quotidiano. 8. Francesco convertiva dei briganti mostrando loro quello
che vi era di prezioso nell'anima loro. Questo risveglio è una gran
parte del nostro compito; ma bisogna farne una gioia, e ciò per mezzo
della simpatia, dell'accortezza attenta e tutta fraterna, della premura
cordiale mostrata a quelle anime che a volte ignorano e disconoscono se
stesse con una folle ostinatezza. Convincere una coscienza della sua
propria bellezza, della sua propria capacità virtuosa, della sua
parentela col vero più elevato, della sua potenza di volo, se così
posso dire, è rapirla, e rapendola, sollevandola
— 206 —
dalla terra, non la condurrà là dove si ha missione di
trascinarla? Piacere così è un non avere più nulla da ottenere,
perché è il trionfo stesso della parola cristiana. -
IV. — Scopo accessorio: dipingere.
Si potrebbe non parlare affatto dell'arte di dipingere,
es-' gendo ammesso che non è propriamente parlando uno scopo del
discorgo, ma uno de' suoi mezzi. Tuttavia, essendo questo mezzo
usitatissimo, e del resto mezzo e fine non essendo qui come dovunque se
non termini relativi, sarà utile dirne -s qualche cosa.
I nostri scopi principali sono: insegnare, commovere e
piacere. Ora per insegnare, dicevamo, e tanto più per commovere, per
piacere, non basta dire e provare, ma bisogna far vedere, dare
corpo e movimento, forma e colore a tutto quello che si annunzia. Di
modo che l'arte del veggente, del poeta, del pittore è qui necessaria.
Molte delle nostre esposizioni formano dei quadri, come gii episodi
della vita di Gesù e tante altre lezioni di cose. Quelle che non sono
punto descrittive per se stesse, importano non meno delle scene
svariate, delle vedute intime, dei paesaggi, dei quadri di genere, dei
quadri di storia, dei ritratti, a volte delle nature morte, come quando
si vuole precisare una situazione e vi possono concorrere i particolari
delle cose. In ogni modo, i quadri psicologici, s'impongono
frequentemente; essi abbondano nei maestri; il Piccolo Quaresimale
di Massillon ne fornisce il tipo compito. Ecco tutto quello che Fénelon
comprende in questa parola:
dipingere. ^
Vi si connette ancora un caso, ed è ciò che gli
antichi chia-i mavano sermocinano, procedimento di un gran valore
oratorio e che consiste nel dipingere le persone prestando loro parole
appropriate, annunziatrici del loro carattere o della situazione che è
loro fatta. Un esempio maraviglioso è quello del libro della Sapienza
(V, 6) che descrive lo stato dei reprobi al ricordo dei giusti: Diranno
gli uni agli altri, pieni di amarezza e gemendo nella contrazione
del loro cuore: Ecco dunque Colui che era il bersaglio dei nostri
scherni... Insensati!... abbiamo dunque errato!... Un altro esempio
è quello dell'Ecclesiastico (V, 4) che fa dire al peccatore: Ho
peccato e che cosa mi è accaduto di triste? A volte la sermocinatio
non esprime punto quello
— 207 —
che dice la persona, ma quello che dovrebbe dire, le
domande che si dovrebbe fare, ecc.; le forme variano, ma l'effetto è
sempre lo stesso.
Passo alle regole. Ce n'è una indispensabile, e
sufficiente se è ben intesa, che è di subordinare la pittura allo
scopo del discorso. Il dipingere non ha interesse se non per far
vedere, e il far vedere non ha interesse se non per far intendere e
per far operare. Ogni pittura fatta per se stessa, per l'arte, da
dilettante, per soddisfare la curiosità del pubblico o per soddisfare
se stesso, è un errore non solo apostolico, ma oratorio, perché
arresta l'impeto. Tutto quello che arresta è biasimevole; tutto quello
che allontana dallo scopo è, oratoriamente, inestetico,
Della pittura dei costumi in particolare, Longino diceva
che, se vi si indugia, « segna un declinare della potenza patetica ».
È quello che accadde a Massillon nel Piccolo Quaresimale, a
differenza di ciò che fece nel famoso discorso sopra il Piccolo
numero degli eletti. Patte le debite riserve sopra la dottrina,
questo discorso è un modello di forza descrittiva applicata ai fini del
discorso.
In conseguenza di questa legge generale, si faranno
pitture brevi, le sole che per se stesse non trattengono. Esse non
saranno per questo ne meno forti, ne meno efficaci; anzi tali saranno
maggiormente. Il realismo ridotto in briciole in molti autori, fa torto
alla realtà profonda, che una scelta felice manifesta. Molière è vero
quando dipinge con qualche tocco Damis o Chrysale; Walter Scott non è
sempre tale, scoprendo per minuto una folla di circostanze senza pregio.
Inoltre ogni tratto della pittura dev'essere scelto in
vista di un rilievo dell'idea e dell'ossessione del termine. Si tratta
di far parlare le cose, di far provare la tesi dalle cose; di trascinare
al risultato voluto dalla direziono e dal movimento delle cose; solo per
questo si producono queste cose; dunque solo a questo scopo si devono
esse adoperare, grazie alla figura che loro si da, ai tocchi di matita o
di pennello di cui sono formate. Fuori di lì, nulla ha valore; in
quest'ambito tutto è buono, salvo i limiti del gusto e della
convenienza oratoria o religiosa.
Dopo ubbidito a quest'ultima riserva, non si tema, nelle
descrizioni e nelle pitture, il tratto forte, il tratto preciso, il
— 208 —'
tratto familiare. La Bibbia ne trae grandi effetti, come
gli scrittori e gli artisti di genio, anche i più severi. « Io osservo
a bruciapelo », diceva Moussorgsky, per spiegare la sua musica realista
e tragica. Lessing pensava indubbiamente a questa prossimità del fatto
e della mente nell'opera gemale, quando diceva, dubitando della
personalità di Omero come autore àeO.'Iliade: « Io non conosco
chi è tuo padre, ma so chi è tua madre, o natura! ».
CAPITOLO III.
I metodi dell'oratore cristiano.
I. — Parola imparata e parola improv-' visata. -
Inconvenienti e vantaggi.
Sotto il titolo generale di questo capitolo, si
potrebbero studiare molte questioni che io non voglio proporre,
avendole-esaminate ne La Vie intellectuelle (1). Se ne
presenteranno altre sotto titoli speciali, come quello che riguarda la
memoria, l'uso o l'esclusione delle divisioni classiche, eco. Io mi
limito qui alla questione celebre, fra i tecnici, dell'improvvisazione o
del discorso imparato a memoria, e a ciò che vi si riferisce.
Questa questione, così com'è spesso proposta, in
termini assoluti, come un'alternativa rigorosa e ignara della qualità
delle persone, è un po' assurda. Pur mostrando talento, tuttavia non si
evita affatto il ridicolo nelle contese degl'improvvisatori e dei
recitatori convinti. ~Sou vi è così metodo in sé. In
fatto di eloquenza, come in tutto quello che mette in opera la vita,
l'uomo, il metodo è l'arte di utilizzare se stesso, dunque di trattarsi
come si è. Tutto il resto è vano. Onde si potranno citare grandissimi
oratori per tutti i metodi; ciascuno ha preso quello che gli conveniva e
nessuno è stato tanto goffo da prendere quello degli altri.
Del resto, vi è la circostanza, il soggetto con le sue
esigenze speciali, le disposizioni dell'oratore in un dato momento, in
una data età, ecc. Il Lacordaire qualche volta lesse, per esempio,
pronunziando l'elogio di Drouot. Fénelon, questo teorico
dell'improvvisazione, scrisse nondimeno e imparò a memoria il suo
discorso per la consacrazione dell'Elettore di Colonia. Massillon, che
imparava tutto a memoria e diceva : « La mia miglior predica è quella
che so meglio », all'occasione improvvisava, cosi come il Bourdaloue, e
pàrimenti il Padre
(1) La Vie intellectuelle, vedi specialmente nei
capitoli IV & VII quello che riguarda il metodo ,di lavoro,
la lettura e le note.
li — sbiitimatobs. L'oratore
cristiano.
— 210 —
Monsabré non si vietava d'improvvisare, benché dotato
di una memoria maravigliosa e in grado, diceva, di recitare una delle
sue conferenze cominciando dalla fine.
Diciamo che un oratore veramente formato dev'essere
capace di applicare, occorrendo, tutti i metodi, e che abitualmente deve
applicare quello che meglio risponde al suo carattere e alle sue forze.
Vi son di quelli che non potranno mai improvvisare; ve ne sono altri che
non potranno mai scrivere e imparare. Colui che ha memoria non è nella
stessa condizione per scegliere come quegli che non ne ha. Ohi ha
l'immaginazione lenta, che manca di presenza di spirito, che è timido
ed è paralizzato dall'uditorio in vece di essere lanciato, non
sceglierà come una mente desta e vivace; colui che comincia e colui che
ha una grande esperienza acquisita si comporteranno altresì
diversamente. Finalmente lo specialista delle questioni spinose non è
invitato a usare lo stesso metodo che usa quegli che è abituato a
prediche di esercizi o a fervorini.
La questione adunque, presa così in generale, è in
gran parte teorica. Ma perché ciascuno possa precisare a suo modo, non
è meno utile enumerare i vantaggi e gl'inconvenienti dei varii metodi;
oltreché si potrà allora scegliere con cognizione di causa, si sarà
in grado di evitare in gran parte gl'inconvenienti della propria scelta
e di procurarsi in parte anche i vantaggi della soluzione che si
abbandona.
II. — Regole per ciascun metodo.
Anzitutto, scrivere — e scrivere tutto — offre
vantaggi così evidenti che solo un'imperdonabile storditezza li può
disconoscere. Il P. Lacordaire è indubbiamente poco sospetto nella
materia; ora un gruppo di giovani ecclesiastici, essendosi recato a
Sorèze a domandare « un consiglio » all'illustre predicatore, questi
rispose loro: « Voi mi domandate un consiglio, e io ve ne darò due. Il
primo è di non permettervi mai di salire in pulpito senza avere scritto
interamente la vostra predica, se potevate. Il secondo — nel caso che
aveste mancato a questa regola — è di confessarvene ».
Quando si riflette alla difficoltà di pensare giusto,
di mettere in ordine i proprii pensieri, di trovar loro un'espressione
adeguata, senza parlare di tante altre qualità accessorie, si prova
— 211 —
spavento all'idea di rimettersi, per questo, alla sorte'
di una parola subitanea e senza possibilità di potersi riprendere. Le
condizioni così dette naturali in cui nasce il nostro pensiero
di primo acchito non sono in vero che un caso, e, dice Paolo Valéry, «
quello che noi abbiamo dal caso, tiene sempre un poco di suo padre »
(1). La natura vera è figlia della riflessione che raggiunge i rapporti
autentici delle cose e i rapporti autentici di queste cose con le nostre
concezioni e poi con la loro espressione. Ciò richiede del tempo e
impone degli assaggi alle più vive intelligenze. Bisogna far molto
lavoro per adoperarne pochissimo. La predica più limpida e più
semplice agli occhi dell'uditore è quella che fu preparata con molti
procedimenti intellettuali. È quello che Boileau chiamava « fare
difficilmente dei versi facili ». Studiando i taccuini di schizzi di
Beethoven, si scorge che le sue concezioni più giovanili, più
spontanee in apparenza, sono quelle che gli costarono di più. Quando si
esaminano con la lente le tavole incise di Eembrandt e le loro
condizioni, si vede che egli passa per una serie inimmaginabile di
saggi, di esitazioni, di pentimenti, per arrivare a fissare un gesto
semplicissimo, come quello di Gesù nella Pièce ause ceni fiorins.
Joubert diceva che se un lavoro sente d'olio, è perché non si è
ancora vegliato abbastanza. Tutto questo significa la stessa cosa, cioè
che il perfetto e il semplice non si ottiene che per eliminazione, che
l'eliminazione suppone la scelta, e che solamente quando si è scelto
tra le molteplici possibilità la cui impressione ti rimane, allora si
può dare a ciò che resta, oltre al suo valore proprio, il valore
stesso di ciò che si è eliminato.
Si pensi soltanto a queste condizioni, e si
vorrà lavorare a testa riposata, in modo da prevedere tutto, regolare
tutto, calcolare tutto, all'uopo riprendersi, evitare così gli errori,
le sproporzioni, i giri e rigiri sullo stesso punto, le scorrettezze, le
sorprese, segnatamente riguardo a certe parti tecniche obbligatorie
nella maggioranza dei discorsi e che sono il tutto di alcuni, come i
discorsi apologetici e le conferenze.
Sì; ma l'inconveniente del metodo è che vi perisce la
spontaneità della parola; il discorso « sente d'olio » non per
ragione d'imperfezione, come diceva Joubert, ma per ragione di
vecchiezza relativamente al momento che si pronunzia. L'eloquenza che
ricorda è incatenata; quella che inventa è libera.
(1) P. VAiter, Introdwtim a la méthode de Léonard
de Vinci, in Varieté,
— 212 —
Mallarmé diceva: « Ohe simbolo è quest'acqua nera
(l'inchiostro) per fissare la luce del pensiero! ». L'improvvisatore,
in vece di fare scaturire il suo pensiero dalla pagina bianca che egU
annerisce, lo fa scaturire dagli occhi e dall'anima de' suoi uditori,
ove si svolge per lui il dramma.
Fénelon rileva con gran forza questo vantaggio che
rende, dice egli, il discorso più vivo, più naturale, più persuasivo.
Gli errori che si temono, se restano nei limiti in cui li tiene una
saggia preparazione, possono non essere che un minimo male;
minute scorrettezze accrescono l'impressione di natura;
le ripetizioni, salvo che non si abbia il vizio di biasciare, aiutano'
"la penetrazione dei pensieri, la forza degli affetti. Del resto/
la circostanza ridesta nello spirito delle forme che il lavoro di
gabinetto non fornisce e che si adattano spontaneamente all'uditorio,
perché è lui che le ispira. L'uditorio, abbiamo dettOy entra nella
definizione dell'oratore; se è assente, falsa l'opera;
davanti al tavolino, l'oratore non ha tutti i suoi
mezzi, non èy per dire così, lui stesso.
Ohe cosa si ha da concludere?
Nel nome delle nostre prime osservazioni, alle quali
queste pretendono di sostituirsi, si potrebbe tornare contro
l'improvvisazione e rifarsi al punto di partenza. Un improvvisatore che
scende dal pulpito, se ha un po' di giudizio e di possesso di sé, non
è mai lontano dal trovarsi accasciato. Si sottomette alla Provvidenza;
ma umanamente è prossimo alla disperazione. Quante cose essenziali sono
state dimenticate, quante sono:
state dette male! L'ossessione di un pensiero ne caccia
un altroy un'impressione dominante getta nell'ombra tutto ciò che la
dovrebbe equilibrare, completare, anzi correggere. Le espressioni
incalzanti che erano state previste, i paragoni su cui;
'si faceva assegnamento non si sono presentati alla
chiamata;
si sono dimenticate le perle nello scrigno; si sono
invece presentati i falsi gioielli che un'emozione fittizia fa brillare.
Hai. caricato l'arma, a meno che sii stato glaciale, ma hai
sparato-male; hai più o meno smarrita la via, guastato il soggetto,
resa inutile la preparazione, e tutto questo ti perseguita come un
ronzio di rimprovero, finché tu parta. Poc'anzi, la tua testa era come
una tribuna sonora; ora è un tribunale. E la sentenza è irrevocabile;
infatti, ad onta del proverbio: verbo, volani, qui sono le parole
che restano. « Eivedi l'opera tua venti volte. Qualche volta aggiungi e
sovente cancella ». La gran debolezza dell'improvvisazione è che essa
non eancella,
— 213 —
Ohe sarà, se dall'improvvisazione seria di cui
parliamo, noi passiamo a quella che dimentica le regole del genere, che
trascura le severe prescrizioni che abbiamo ricordate, in una parola,
all'improvvisazione abusiva, effetto della negligenza o dell'orgoglio!
Vi son di quelli che salgono in pulpito senza sapere che
cosa diranno, e quando scendono, non sanno che cosa hanno detto. Sovente
non hanno detto niente; si sono scaldati a freddo, come si dice tirare
in bianco, e la preda galoppa. Hanno continuamente ripetuto le stesse
cose, hanno abbondato in digressioni, hanno fatto udire delle
chiacchiere senza sodezza, senza ordine... e senza fine: un mar di
parole sopra un deserto d'idee. Gli improvvisatori di questo genere non
sanno finire: il punto di caduta dipende dalla curva del proiettile,
questa dalla puntatura, cioè qui dalla preparazione.
La punizione di questi parlatori sarebbe che si facesse
ripeter loro, mediante un fonografo, i loro balbettamenti; essi ne
potrebbero constatare il vuoto, i circuiti di parole a casaccio, le
bugie e le spaventose scorrettezze. In vece di questo, essi sono
contenti; la loro gonfiezza d'immaginazione li inganna;
credono di vogare, come il dirigibile, perché si
gonfiano di vento.
Ma che mancanza di rispetto! che profanazione della
parola di Dio! Quelli che agiscono così per un falso misticismo non
potrebbero tentare di più Iddio, perché lo invitano a un
miracolo;
sarebbe veramente un miracolo che essi non fossero
deplorevolmente corti. E che disprezzo per l'uditorio! Un'adunanza è
forse fatta per aspettare, spesso a lungo, a volte sino alla fine, e
sempre a prezzo di fastidiosi riempitivi, le tue casuali ispirazioni? Un
avvocato negligente è da Quintiliano trattato da perfido e da
traditore, ed è così che certi parlatori trattano gl'interessi
spirituali del prossimo. Difendono la causa senza inserto, senza
consultazione preliminare; credono alla « potenza del delirio »,
all'« incoerenza creatrice », come dice ancora Paolo Valéry. J^on
temono l'anatema del profeta: Maledetto sia colui che fa con
negligenza l'opera del Signore? (Jerem., XLVIII, 10). Si fa sempre
abbastanza male, là dove sarebbe richiesta la perfezione stessa.
Conoscono cedesti saputelli che cosa sia un discorso, quale sia la sua
difficoltà, della quale i maestri non parlano e che essi non
intraprendono se non con una specie di spavento? Certi genii ne
diventano malati, e certi ignorantacci vi corrono a precipizio, senza
cura della loro
—214—
dignità e di quella del loro ufficio, senza pensare al
bene che Dio attende dal loro messaggio nel suo nome.
È soverchio parlare di una deviazione che si decorasse
invano del nome di metodo. Supponiamo l'improvvisazione debitamente
preparata: ebbene io dico che restano a suo carico serissimi
inconvenienti. Fénelon la usava abbastanza brillantemente, e, al dire
dei contemporanei, essa era lontana dal riuscirgli sempre; altri, meno
dotati, dovranno ad essa non poche sconfìtte. E allora?...
Allora noi ripeteremo quello che dicevamo al principio
di questa analisi. L'alternativa non è tanto netta; vi sono dei mezzi
termini, e se, in una certa misura, bisogna scegliere, si può anche, in
una certa misura, correggere gl'inconvenienti del metodo che si adotta,
pur conservando i suoi vantaggi. Vediamo prima che cosa deve fare per
questo colui che impara a memoria.
La prima necessità del suo caso, a quanto mi sembra, è
d'imparare a scrivere come si parla. Lo stile parlato è speciale, :
più tronco, meno arrotondilo, meno bilanciato, meno perio-dico,
articolato al minimo e sempre con semplicità. Usa forme più dirette e
più personali, più concrete quanto agli oggetti, più vive quanto
all'andamento del discorso. Se vuoi richiamare al pensiero le sorprese
della morte, puoi scrivere: Un uomo che segue tranquillamente il
suo cammino può essere a un tratto atterrato da un'automobile che passa
e morire senza essersi accorto di niente. Se esprimi la stessa idea sul
pulpito, dirai:
Ecco un uomo sulla strada. Egli cammina pacificamente.
Passa un'automobile, lo rovescia a terra, ed ecco che egli muore senza
aver coscienza di nulla.
Come ottenere, con la penna alla mano, questa sorta di
ostile orale », come si esprimeva il P. Jousse? Il segreto è di
scrivere con l'orecchio, se si può dire cosi, ascoltando il proprio
pensiero che echeggia nell'espressione, immaginando l'uditorio a/ttento,
tutt'orecchi se tu sei stringente, distratto se tu sei fiacco, inquieto
se tu vacilli, ostile in caso di caduta. Godeste uditorio che respira
davanti a tè, che pensa con tè, impone a' tuoi discorsi una misura in
accordo col ritmo respiratorio e col movimento dei pensieri comuni,
nemici l'uno dei periodi troppo concatenati, l'altro delle forme
lambiccate o astratte, tutt'e due delle tiritere. \
La logica propria del linguaggio parlato viene per
istinto adottata da colui che compone con questo sistema, benché
— 215 —
non sia che in immaginazione; egli in certo modo pensa
co' sn-oi muscoli laringei e co' suoi organi uditivi, perché sono essi
che forniscono all'idea una parte dei suoi fantasmi, e la memoria, poi,
si appoggerà sopra di essi e sarà quindi una memoria viva, in vece di
essere, secondo l'espressione di Montaigne, una « memoria di carta ».
L'ideale sarebbe di scrivere in mezzo a un turbinio
d'immagini verbali che inquadrassero la vaga immagine visuale di una
navata, di un uditorio, di una cattedra, di se stesso, sotto
l'avvolgimento delle volte, sotto il più vasto avvolgimento del cielo.
Supposta allora una preparazione completa, la predica si farebbe in
qualche modo tutta da se sola; non si avrebbe il sentimento di esserne
l'autore; la si udirebbe in vece di crearla, e avrebbe tutte le qualità
della parola viva, conservando il vantaggio di calcolare tutto, di non
dimenticare niente, di riprendersi.
Ci vuole naturalmente una certa predisposizione, che
alcuni non hanno, avendo in vece la fobia della carta, il bisogno della
presenza reale. Costoro ubbidiscano al loro istinto, mentre gli altri si
applicheranno a svolgere il loro con l'uso, il che sarà loro tanto più
facile in quanto che avranno da fare con un uditorio noto, con un vaso
familiare. Ma vi è ancora altro.
Colui che impara a memoria deve sapere a memoria,
portare il discorso « marcito nella memoria », come diceva il P. de
Eavignan. È una condizione necessaria per restare naturale, libero, per
ritrovare la commozione dello scritto aggiungendovi quella che ispira
l'uditorio. Colui che corre dietro alle sue frasi, che ha paura di non
afferrarle, che può vedersi sfuggire tutt'a un tratto anche il suo
piano, trovandosi così fuori di strada, in pieno ginepraio, è
interamente legato; è un recitatore esitante, non un uomo che paria.
Da ultimo, colui che impara a memoria deve potere, se
vuole, distaccarsi dal suo testo, supplire tranquillamente alla sua
memoria se essa viene a mancargli, conservare il benefizio della
creazione sul posto in caso di buona ispirazione, essere in grado di
adattarsi a circostanze impreviste, all'atteggiamento dell'uditorio, a
un cambiamento di programma, agli obblighi che gl'impone una presenza
ignorata prima, a un caso fortuito qualsisia. Per questo egli avrà cura
di esercitarsi a improvvisare nelle occasioni che lo permettono, davanti
a uditori familiari, trattando di cose facili, il cui contenuto è
acquistato precedentemente e dove non si rischia nulla.
— 216 —•
Ecco ora quello che s'impone 3, chi non impara a
memoria, se, come il primo, egli ha cura di correggere il gip metodo e
di assicurargli i necessari compimenti.
Anzitutto, lo sappia bene, egli è tenuto a lavorare
più di un altro, e non meno, come credono gl'incoscienti e gli
sciocchi. Colui che usa meno tempo e fatica per comporre la sua predica
perché la improvvisa, è uno stolto, oppure non è coscienzioso.
Beethoven, il più potente improvvisatore che senza dubbio sia comparso,
preparava le sue improvvisazioni su taccuini e le ruminava lungo le vie.
Il Lacordaire v'impiegava due mesi; meditava, componeva, ricomponeva,
con un accanimento pieno di una nobile inquietudine, le sue pretese
improvvisazioni. Del resto, così fanno tutti, intendo quei che contano.
Gambetta, propriamente, non scriveva, cioè la sua preparazione non
aveva un carattere verbale; la maggior parte, in ciò che riguardava la
forma, era lasciata all'ispirazione del momento; ma lavorava assai la
sua materia; « le grandi articolazioni e le suddivisioni del discorso
erano segnate in grassi e ostensibili caratteri su grandi fogli di carta
bianca. A volte una formula, un'espressione che gli si era affacciata
meditando era scritta come punto di riscontro per dare nuovo vigore al
discorso (1) ». Si potrebbero portare molti altri esempi.
Nessun uomo serio si figura che la verità sia per
scorrere dalle sue labbra, senz'altra cura, con tutta la sua efficacia e
con tutta la sua grazia. La disciplina del pensiero è uno' sforzo
doloroso. Se noi vogliamo precisare e aggiungere, metter in ordine
dì battaglia e in marcia animata le nozioni utili, una oscura
tendenza alla dissipazione e a1 rischio ci obbliga a un forte dispendio
di energia spirituale. Nell'improvvisazione si ha la fortuna che uno si
merita. Non fissandocisi a una forma, bisogna prevederne venti, salvo a
scegliere la ventunesima.
Per conseguenza, chi improvvisa si deve compenetrare a
fondo del suo soggetto, meditare fortemente ciascuna delle sue parti,
avere un piano sommamente chiaro e come obbligatorio, per essere sicuro
di non deviare. A questo fine eviterà le somi-glianze ingannevoli tra
due parti diverse e soprattutto curerà i suoi collegamenti, i suoi
argomenti, le sue conclusioni. Con ciò si sforzerà di prevedere le
espressioni forti, le immagini più vive, i paragoni, le apostrofi,
salvo sempre ad abbandonarle per qualcosa di meglio, se il meglio si
affaccia.
(1) Mémoires de M. Auguste. Qim'fSi, secretaire
du grtind tribwn, Plori, ed,
— 217 — .
. In due parole, deve sapere
perfettamente quello che vuoi dire e sommariamente come si deve dire; la
membratura deve essere interamente assicurata; non si lascia alla
circostanza se non i modi e i colori della vita.
In secondo luogo, è obbligato più che un altro ancora
ad avere una preparazione remota molto spinta, molto completa, una forte
istruzione, principii saldi, grandi cognizioni di fatto e un'esperienza
ricca, a cui occorrendo potrà attingere. Egli pretende di essere pronto
senza essersi preparato, almeno in una misura: non vi è mezzo di
eliminare questo paradosso che spingere più in alto la preparazione;
infatti la preparazione è sempre necessaria. Non vi è getto d'acqua
senza serbatoio, e tra i due i livelli si corrispondono.
Sarebbe troppo facile ottenere senza pagare, e
issofatto, idee giuste, felici collegamenti, forme pure, vive, esatte, e
tutto ciò che altri acquistano a gran prezzo al loro tavolino. Ma no,
ciò si paga, ciò si apprende.
Whistler, avendo un giorno fatto in quattro ore un
mirabile ritratto, e vedendo degli amici maravigliati che ne chiedesse
una somma abbastanza forte, disse loro bruscamente: « Sì, l'ho fatto
in quattro ore; ma per imparare a farlo in quattro ore, io ho impiegato
quarant'anni». Colui che si tratta da ispirato era pronto a parlare da
uno o più lustri; egli legge nella sua memoria antica quello che si
crede ch'egli crei. Lo crea infatti; ma è quanto dire che estrae dalla
sua intelligenza quello . che vi aveva deposto allo stato di granelli e
gradatamente maturato, senza saperlo, al sole della riflessione.
Da ciò segue che l'improvvisatore stesso deve scrivere
molto, specialmente da principio. Scrivendo s'impara a parlare; parlando
solamente, non s'imparerebbe che a barbugliare, a ripetere sempre le
stesse cose, e si vedrebbe il proprio orizzonte restringersi sempre
più, quand'esso si deve estendere. La rettitudine del pensiero e quella
dell'espressione si acquistano con un lavoro preciso, accuratamente
riveduto e insistente, che la parola non può fornire. Il possesso di un
vocabolario svariato e di un tesoro di forme fissate .o plastiche esige
lo stesso sforzo. E del rimanente, per il fondo stesso del discorso,
intendo la dottrina, il controllo della scrittura è indispensabile.
Nessuno pensa correttamente se non scrive. Il vago, che si crede
infinito perché è mal definito, è sempre da temere; la frase scritta
lo manifesta, si diventa così più accorto e più esigente per se
stesso, mentre il puro improwisatore è lo zimbello di una vanteria
— 218 —
che gli nasconde le sue insufficienze. Uno dei grandi
segreti della forza intellettuale è il meditare e il praticare questa
massima: La scrittura rende alla mente la forza che essa le prende.
Aggiungi che i pezzi scritti ti costituiscono un fondo
che tu sarai ben felice di trovare più tardi, e fin da adesso nei
giorni di penuria; essi fissano un livello per le evoluzioni della tua
mente; il riferirviti di quando in quando è un riprendere forza.
Tali sono, se non m'inganno, le condizioni da adempiere,
sia per improvvisare senza rischi seri, sia per apprendere e declamare
senza paralisi della mente e pesantezza del verbo.
Queste condizioni sono esse di solito adempiute? Bisogna
dire di no. Quei che imparano a memoria, frequentemente scrivono
parlando, perché non hanno saputo parlare scrivendo;
la loro memoria non è abbastanza esercitata, o fu
pigra, ed essi recitano stentatamente; codesta memoria che hanno
caricata di tutto, non avendo essi saputo rendersi indipendenti da' suoi
servizi, se viene a mancar loro, li lascia colare a picco e dibattersi
penosamente per la gente e per se stessi. Spesso anche, non avendo
bisogno di esser pronti ad ogni richiesta e non accettando di parlare
che sopra un testo, meditano poco e si contentano di un'eloquenza di
carta, talvolta saccheggiata qua e là, di modo che la loro predicazione
è senza varietà e senza libertà di andamento, priva di ogni vita.
Se si tratta degl'improvvisatori, molti fra loro essendo
diventati tali solamente per darsi delle facilità e perché avevano
della facilità, abusano di quest'ultima. Anch'essi meditano meno,
sebbene per un motivo contrario. Essi se la caveranno sempre! La
circostanza, la piccola eccitazione dell'uditorio, è abbastanza per
sferzare il loro estro. E a codesto uditorio sul quale contano non
recano niente. La loro memoria trascurata non è stata surrogata dalla
formazione della mente, e avviene che codesta mente gira a vuoto; gli
argomenti non sono trattati; non si esercita influsso sulle anime.
Tutto ciò merita riflessione. Un istinto di pigrizia
più diffuso che il vizio di questo nome c'inclina a scegliere, sotto
colore di metodo, un qualsiasi « mezzo facile di andare in cielo »,
come se si ignorasse che in ogni materia il regno de' deli patisce
violenza, e che solo i violenti, gli ardenti lo rapiscono.
Il metodo, il più facile in apparenza, è quello del quale bisogna
diffidare di più, e se non ne diffidi, se non fai quello che è
necessario, esso diventa in realtà il più difficile. Avviso
agl'improvvisatori.
219
HI. — Conciliazione e dosatura.
Tra i due metodi così discussi, noi abbiamo lasciato il
posto per un metodo misto, collocato ai confini dei primi, e che non vi
è quasi più bisogno di definire, una volta che siamo orientati verso
di esso dalle due parti. La cura di fuggire gl'inconvenienti degli
estremi conduce affatto naturalmente al giusto mezzo, e credo bene che
senza smentire nulla di ciò che è stato detto delle attitudini di
ciascuno, del peso delle circostanze, si può raccomandare come il più
generalmente applicabile e il più garantito contro le insidie di destra
e di sinistra il metodo seguente.
Scrivere l'essenziale e impararlo perfettamente; ma —
senza dispensarsi per questo da una meditazione profonda e da numerosi
saggi interiori — abbandonare l'accessorio alla scelta e
all'ispirazione del momento.
Che cosa s'intende qui per l'essenziale? Esso si deve
intendere in tutti i sensi della parola, e in quanto a tutti gli
elementi del discorso. Vi si comprenderanno dunque tutte le idee,
almeno a titolo provvisorio, poiché è inteso che si vuole essere
sicuri e tuttavia si deve restar liberi. Vi si includerà poi
l'essenziale dell'espressione, vale a dire i passi, le transizioni, i
movimenti, le figure principali, le parole di valore, non lasciando
ingomma da trovare altro che il riempimento, che il predicatore è
sicuro di eseguire correttamente, se egli è allenato allo stile
dall'esercizio dello scrivere e dall'esperienza della parola.
Come si vede, questo metodo utilizza la preparazione in
un modo più pieghevole in proporzione che ci si allontana dal fondo
delle cose e ci si avvicina ai particolari. Vi è qui un largo spazio;
questo metodo è legione; ma rimuove in ogni caso gl'inconvenienti
temuti e conserva la maggior parte dei vantaggi. L'oratore non è libero
in modo assoluto, ma i suoi legami sono allentati, ed è lui che ne ha
stretto i nodi. Egli è un inventore che ricorda e un recitatore che
inventa. La sua memoria è a un tempo sollevata e utilizzata, come pure
la sua facoltà creatrice. In vero egli deve allenarsi a condurre di
fronte, senza confusione e senza soggezione, il doppio lavoro di memoria
e di creazione; ma questo si acquista prestissimo, e allora non si sta
più in gogna, pur serbando saldi appoggi.
Per conseguenza, la parola potrà essere a un tempo
studiata, soda, precisa, e naturale; costerà meno e varrà forse molto
di
— 220 —
più. Lo stato nascente delle cose ha sempre maggiore
attrattiva e contiene maggiore incoraggiamento. L'uditorio, vedendoti
libero eppure ricco, può esserne meglio soddisfatto; in vece di
attingere a un serbatoio, esso beve a una sorgente.
A questo metodo ricorrono con tutta naturalezza i
pastori, che devono al loro gregge un insegnamento preciso, continuato,
lezioni di cose, lezioni brevi, e che, non facendo dell'eloquenza
solenne, possono meno degli altri fare assegnamento su ciò che si
chiama ispirazione.
"Seìlo stesso caso si trovano i predicatori di
esercizi, invitati al discorso diretto e personale, senza magniloquenza,
ma, in cambio, positivo e nutrito.
~!Son si può ripetere mai abbastanza che per i
soggetti delicati, difficili a precisare e dove la precisione è di
somma importanza, è prudente scrivere tutto e imparare tutto a memoria,
perché allora le qualità di vita e di azione passano in seconda linea,
e l'essenziale è di dire quello che bisogna, e di evitare quello che
non occorre dire. Un discorso-manifesto, un discorso-programma, che si
è sicuri di vedere spulciare fino nelle sue minute parole, potrebbe
forse essere improvvisato?
IV. — Si può leggere sul pulpito?
Un'ultima questione in proposito è questa: Si possono
portare foglietti in pulpito? Certi protestano rumorosamente e intendono
il divieto perfino nella sala di conferenze. Io oso dir ad essi che la
loro propaganda non è buona; che rischia di scoraggiare eccellenti
predicatori, e che la fobia della carta non ha che vedere con lo zelo
apostolico o semplicemente con lo spirito di verità. Se un uomo ha
qualcosa da dire e non lo può dire se non con la garanzia di note
scritte, gli si lascino le sue. note e si ascolti seriamente; egli ha
probabilità di produrre più frutto dello smargiasso che misura le
strade con le mani nelle tasche del suo abito attillato.
Conviene dimenticare qui le questioni di prestigio.
Essere capaci di improvvisare a proprio vantaggio è una qualità
preziosa; tuttavia è una qualità secondaria; prima di tutto conta
quello che si dice e in quali termini si dice. Il pubblico non è tanto
scemo da credere che si crei lì su due piedi quello che gli SÌ
offre; che si crei o non si crei la forma, a lui che importa?
— 221 —
II tutto è sapere se si è di fronte a qualcuno, e di
qualcuno che parla.
Bisogna attenersi a quest'ultima considerazione per dare
una soluzione al problema. La carta, l'assenza della carta, non è
niente; ma la parola è una comunicazione; appena che la corrente è
interrotta e si abolisce l'azione, la parola lascia luogo a una lettura
che l'uditore potrebbe anche benissimo fare lui stesso. Leggere dal
pulpito, propriamente parlando, è dunque assolutamente vietato; certo
non fecero questo mai ne i Fénelon o i Lacordaire. Ma declamare con la
carta in mano, perché no? È certo che per riuscirvi eccellentemente,
conservare il contatto dell'uditore, mantenere libere le intonazioni, i
giochi di fisonomia e anche i gesti, bisogna avere una grande esperienza
della parola e per conseguenza essere capace di parlare senza ricorrere
a questo amminicolo. Ma perché rifiutarsi un mezzo di economizzare le
proprie forze e il proprio tempo, se non vi è danno?
Vi si rifletta, si provi e si consulti, supponendo che
vi siano ragioni di pensare a questo metodo: ecco il nostro consiglio.
Le soluzioni a priori non hanno alcun peso ; quelle che si danno
sotto l'ispirazione incosciente delle proprie disposizioni non valgono
se non per se stesso. Se il critico pensa a lui, vi pensi anche
l'interessato e non creda a ogni parola.
222
CAPITOLO IV.
L'elaborazione del discorso,
I. — L'invenzione.
A) L'ISPIRAZIONE INIZIALE.
« II corvo disse all'usignolo: Come fai? Ed egli: Apro
il becco e faccio: tu, tu, tu ».
Temo che un medesimo sorriso accolga questi due versi e
le spiegazioni che seguiranno. Sarebbe veramente troppo facile chieder
ricette a chi sa, a chi può, e, seguendole fedelmente, pretendere di
avere come lui il vento in poppa. Il vento non ubbidisce, al pari della
gola del corvo, quando l'usignolo lo invita. Se tu sei condotto dallo
Spirito, dice S. Paolo, non sei più sotto la legge: lo
Spirito stesso è la tua legge, non sono più le regole degli uomini.
Questa legge dello Spirito è, certamente, imperiosa,
precisa, ma non si può formulare, per la stessa sua precisione; essa si
calca sulla vita, che è individuale e incomunicabile, su cia-scun caso
e su ciascuna particolarità di questo caso, che non si rinnova mai. «
L'unità di un quadro, scrive Novalis, la costruzione di un'opera
pittorica (e lo, stesso evidentemente avviene di un discorso) poggiano
su leggi tanto fisse quanto quelle dell'armonia musicale » (1). È
perfettamente vero; ma d'altra parte Giordano Bruno scriveva: «Vi sono
tante specie di vere regole quante sono le specie di veri poeti» (2),
salvo che, parlando con precisione, i poeti non formano punto delle specie,
e bisogna aggiungere i casi, che più ancora sono individuali
e unici.
Per quanto so io, Hietzsche è colui che si espresse qui
con la maggiore nettezza e forza. « L'artista, dice egli, sa quanto,
nel momento dell'ispirazione, ubbidisce in modo severo e sottile a leggi
molteplici che si rifiutano a ogni riduzione in
(1) movalis, Fragments inèdita. Paris,
Stock. •
(2) giobdano bbuno, Degl'eroici furori, 1185.
— 223 —
formule, appunto a cagione della loro precisione e della
loro durezza. Accanto a queste leggi, le regole più fisse hanno qualche
cosa di fluttuante, di molteplice, di equivoco. L'artista non fa-che
danzare nelle catene » (1). Quest'ultima espressione è magnifica e
molto istruttiva. Ma l'insieme del brano ci fa vedere quanto è
necessario, se si vuole condurre il proprio spirito nell'opera
creatrice, distinguere le leggi e le regole. Le leggi sono
eterne, e non si violano mai impunemente; le regole hanno il loro
valore, ma a volte rappresentano solo convenienze particolari, locali e
temporali; il creatore non può farsi loro schiavo;
è lui il loro padrone, al contatto delle leggi e sotto
il loro impero. Le seguirà frequentemente e sarebbe ridicolo
sottrargliele orgogliosamente quanto preferirle alle leggi vere.
Ubbidendo a queste ultime, s'incontrano spesso le altre che non furono
concepite se non per questo; ma avviene altresì che, secondo la formula
famosa, sia necessario « uscire dalla legalità per rientrare nel
diritto ». « La regola d'oro è che non vi è regola d'oro », scrive
Bernardo Shaw. A un musico senza genio che gli rimproverava un accordo
« proibito », Beethoven rispose: « E io me lo permetto ». Di solito,
osservando le regole accettate e classificate come tali, egli dava ai
conoscitori e agli altri una pari soddisfazione. Ma resta il fatto che
le leggi della creazione letteraria o artistica non si prestano a una
formulazione decisiva. Ciascuno le deve trovare per suo conto. Eterne,
non si precisano che in ciascun istante del tempo, in ciascuna
parti-colarità dei fatti di creazione, in nessun modo a priori e
una volta per tutte.
È forse una ragione per non dire nulla qui? ~So,
certamente. ~Soi mancheremmo al nostro dovere; ma possiamo
legiferare da lontano, soprattutto suggerire, proponendo nozioni che
ciascuno avrà l'obbligo di adattare a suo uso, se vorrà ricordarsene.
Quelli che non ne avessero bisogno troveranno forse un vantaggio a
riconoscervisi; quelli che vi riconoscessero solo la loro insufficienza
potranno imparare, se dico bene, a discernere le loro mancanze e ad
acquistare.
L'oratore ha dunque il suo soggetto; ha il suo genere,
il suo metodo, che ne comanderà più o meno l'elaborazione. Ma nulla è
acquisito. Si tratta ora di sapere che cosa si dirà sopra il soggetto
dato e come lo si dirà. Si tratta d'inventare; si tratti)
fedbbioo nibtzsohb, Par delà le bien et k mal. Aphorisme
183.
— 2-24 —
terà poi di comporre, finalmente di stendere,
senza che del restò nessuna di queste operazioni si trovi maturata in
se stessa. S'inventa componendo e stendendo; si compone e si stende già
un poco inventando. Ma vi è nondimeno un ordine, e secondò
quest'ordine, il compito preliminare, il meno prossimo al risultato e
che, riguardo agli altri due, è come invenzione alto stato puro,
ritiene questo nome: invenzione.
« Quando un'idea semplice prende corpo in una società,
diceva Péguy, vi è una rivoluzione »: quando un'idea semplice prende
vita nell'anima nostra e vi si organizza, vi è un'opera di pensiero, vi
è un'opera d'arte. Ohe cosa è questa presa di vita, per la
quale tutto comincia e senza la quale non vi è nulla? Non è così
chiaro come sembra. L'invenzione è cosà misteriosissima, sulla quale
gli psicologi moderni hanno lavorato molto, e non hanno finito.
È vero che le loro ricerche non hanno niente che possa
appassionare certi predicatori. Per costoro, l'invenzione consiste nel
saccheggiare un predecessore, come la composizione nel prendere un piano
bell'e fatto, e la stesura nello svolgere questo piano con brani di
testi. Io non condanno; ciascuno fa il bene nel modo che può; ma
evidentemente è questo un procedimento di spirito servile, e la
questione che noi ci proponiamo, se non lo riguarda punto, poiché esso
prende il lavoro bell'e fatto, si riporta su colui che l'ha fatto, sulla
mente creatrice.
Nell'invenzione si possono distinguere tré stadi. Vi è
l'ispirazione iniziale, fondata sopra un'idea generale o sopra un
sentimento dominante. Vi è la ricerca dei pensieri che saranno adibiti
nel discorso, ciò che si può chiamare concessione, benché
questo termine convenga anche ai due primi stadi uniti insieme. Vi è
finalmente la scelta dei pensieri, in vista della loro
introduzione nel quadro ideologico del discorso e nella corrente
oratoria, e ciò si fa in concorso con la composizione, prova che non si
tratta qui di parti staccate.
Che cosa è quell'ispirazione iniziale della
quale parliamo anzitutto? Non se ne sa niente. Oe la rappresentiamo, per
metafora, come una specie d'invasione dell'io quotidiano fatta da un io
superiore che lo mette in moto. Plafone la chiama, in un senso affatto
particolare, un delirio. «Vi sono due specie di delirio, dice
Socrate nel .Fedone: uno causato dalla debolezza umana, l'altro
da una trasposizione divina delle nostre abitu-
— m —
clini normali ». Bisogna sognare l'opera prima di
pensarla. Se la si pensa troppo presto o troppo esclusivamente, essa si
raggrinza e s'inaridisce; se la si pensa debolmente, resta un
inconsistente e inutile vapore. Si tratta dunque di una sintesi di sogno
e di veglia; d'incoscienza e di coscienza, di stato di sogno e
d'intrapresa, d'istinto e di ragione. L'ispirazione è come un sogno
vegliato, un sogno lucido e rischiarante, un sogno vero. Ma badiamoci
bene, poiché si tratta del vero, noi non parliamo di uno stato
artificiale, simile a quelli provocati dall'etere o dal-l'hachisch, di
una fuga dell'immaginazione lontano dalle realtà tangibili. Anzi questo
ratto si deve produrre appunto al contatto delle realtà e dei
loro più precisi caratteri. « Sono persuaso, scrive N'ovalis, che si
perviene piuttosto a vere rivelazioni per la ragione fredda, tecnica, e
per uno stato di mente pacifico, morale, anziché per l'immaginazione.
Infatti questa sembra condurci solo nel mondo dei fantasmi, antipode del
vero ciclo ». Del resto, Edgardo Poe, che s'intendeva in materia
d'immaginazione, diceva, parlando di questa stessa facoltà: « L'uomo
veramente immaginativo non è mai altro che un analista » (1). È
nell'intimità delle cose, che si riesce a trovare; ma non è solo
coll'occhio quotidiano, ci vuole pure una speciale disposizione,
propriamente inesplicabile.
Ad ogni modo, si possono distinguere due aspetti,
corrispondenti alla doppia natura di una creazione oratoria: è un'idea,
una cognizione, ed è uno slancio; è una concezione generale del
discorso, ed è un sentimento iniziale del suo cammino e de' suoi
effetti. Ma il tutto è ancora nello stato di confusione embrionale; è
una nebulosa: felice se potesse uscirne un mondo!
Quello che si ha davanti a sé cominciando è la faccia
del possibile. E senza dubbio questo possibile consiste già in una
commisurazione di pensieri, ma indistinti, « inarticolati » nel senso
di Carìyle, per conseguenza incomunicabili, « una specie di mormorio
inferiore, dice Claudel, sul quale si distaccano, più o meno espressi,
certi tratti sparsi del poema (o del discorso) ancora sommerso » (2).
Questi tratti sparsi, idee, immagini, forme o espressioni
speciali, framménti di periodi, sono quello che Paolo Valéry chiama
con una parola felice ruderi del 'futuro. È detto molto bene;
perché il futuro è qui allo stato di continuità indivisa, di pura
tensione, « d'intuizione pura »,
(1) edgabd pob, Doublé assassinai dalia lairm
Mwgwe^ init,
(2) paul claudel, Lettre a Jacques Biviéfe, 25 wsWi
1919.
16 — sbrtiilanobs. l'oratore crtsiiano,
— 226 —
direbbe Bergson, e ciò che se ne distacca già in
proposito è propriamente un rudere. Ciò servirà o non servirà; ma è
una testimonianza anticipata del fine proposto, fine attualmente
inafferrabile, disegno segreto, disegno che non si disegna, presenza
invisibile, come di un avvenimento che si presagisce, come di una parola
che si cerca.
Dico inoltre che l'ispirazione iniziale, specialmente
oratoria, è anche uno slancio, un sentimento del procedere del
discorso, della sua portata spirituale, del suo influsso sopra le anime,
del mistero che deve comunicare in quanto che è un mistero per noi,'
un messaggio. A questo titolo, l'ispirazione non è più una
commisurazione di pensieri indistinti, è un'onda d'impressioni, una
specie di carica elettrica, che non è ancora ne luce ne rumore, ne
lampo, ne tuono, ma che, animando l'oratore, gli suggerisce degli inizi
di procedimenti spirituali, degli abbozzi di movimenti.
Si vede davanti a sé non so quale estensione oscura e
già vi ci si slancia, senza discernere ancora alcuna via. La via sarà
la fusione oratoria che la indicherà e la percorrerà; la composizione
ne segnerà la direziono precisa e le tappe; l'elocuzione vi si
avanzerà; frattanto si prova l'impulso segreto che permetterà di
avanzarvisi con fortuna.
« ÌSoia. so che cosa sono per cantare, dice un
poeta russo;
ma la mia canzone matura »; il discorso, similmente,
stabilisce il suo ritmo, la sua progressione, il suo andamento
conquistatore. L'ispirazione, se ti prende, traccia in tè, senza che tu
ne possa cogliere la torma esatta, un rabesco di onda, un zigzag di
lampo; o, per riprendere il paragone della nebulosa, una spira che
mostra indecisi giramenti.
È strano, ma è così. Il mistero che allora si
manifesta è quello del subcosciente, di quell'officina della natura in
noi, dove si elaborano dei pensieri che non sono tali, dei voleri che
non sono ancora voluti, dei sentimenti che non si sentono, del
potenziale in una parola. È questo un fatto comune a ogni invenzione,
estetica o pratica. Oratoriamente essere ispirati, è dunque come
prendere volo in se stesso, doppio volo del pensiero e dell'emozione
comunicativa, e quanto più questo slancio è potente — purché si
sappia poi dirigerlo e farlo riuscire — tanto più il risultato sarà
ricco.
Del resto questo risultato sarà di suscitare
nell'uditore un simile stato d'anima, aggiungendovi senza dubbio dei
pensieri chiari e delle risoluzioni effettive, ma sostenute da quella
ixn-
— 227 —
pressione di fondo, confusa ideologicamente, nettissima
a suo modo, che ne formerà il principale valore.
È un fatto che certi discorsi che hanno commosso,
continuano a fare del bene molto tempo dopo che se ne sono dimenticati i
termini o anche il soggetto. Tal è il « dardo » che Pericle lasciava
nell'anima degli Ateniesi. L'uomo che ricorda si trova allora allo
stesso punto che l'uomo che ha parlato, nel momento in cui riceveva la
prima ispirazione dell'opera sua.
Si può provocare l'ispirazione così intesa? Così
bisognerebbe, poiché da essa dipende tutto l'esito, poiché la sua
profondità, la sua forza di vita misura la convenienza e l'efficacia
della composizione, dell'elocuzione, dell'azione. Così bisognerebbe; ma
a titolo diretto, non si può fare gran che;
non si possono creare disposizioni delle quali s'ignora
la natura. « Mente riesce se non quello che viene da sé », scrive
Keyserling. « Non fare se non quello che si fa in tè », consigliava
la signora Adam a Pierre Loti.
Tuttavia, a quello che non si può provocare
direttamente, è possibile disporsi. Si può mettere la propria arpa
eolia ai passaggi ordinarii del vento. Si può meditare, pregare,
coltivare lo spirito di silenzio, conservare la solitudine interiore,
mettere l'anima in desiderio e in attesa perché la visita del dio
interiore sia possibile e perché, non essendo turbata la sua dimora,
egli possa agire secondo la propria legge.
Si può anche bazzicare coi grandi pensieri, con le
grandi opere, coi grandi esseri, coi grandi spettacoli. Tutto ciò, non
solo., in realtà, ma forse più ancora in immaginazione, agisce sopra
la nostra facoltà creatrice. « La grandezza, il bisogno di un ritmo
ampio è pressoché la misura della potenza dell'ispirazione », scrive
Nietzsche (1). Ciò opera automaticamente; opera anche da parte di Dio.
Lo Spirito Santo e i suoi doni si aggiungono al genio naturale e a tutto
quello che lo fomenta. Noi abbiamo suggerito queste cose parlando delle fonti
e degli appoggi intcriori della parola di Dio.
In un tempo più lontano, ci si renderà l'ispirazione
favorevole approfittandone con fedeltà quando si presenta. Vi è mutua
reazione delle energie e dell'uso. A ciò serve il lavoro. Quand'esso è
condotto appassionatamente, « come si gioca una carta sulla quale si è
posta una somma considerevole »,
(1) fbhebioo nieizsohb, Scce Some.
— 228 —
diceva Goethe, il lavoro feconda lo spirito, che allora
concepisce dei progetti a misura che ne compie. La riflessione cosciente
e l'istinto incosciente si mescolano con tutta naturalezza ' « come
l'ordito e la trama». Goethe diceva a Humboldt di avere ^per questo
paragone una predilezione, e di fatto esso calza bene. Finalmente la
condizione previa a ogni ispirazione un po' ;
continuata è una soda e ricca cultura. Si darà a
colui, che Jia. j Si attirano le idee- come si attirano le api,
preparando loro un alveare. Fare della mente un alveare ben ordinato e
già fornito' di miele sarà il mezzo di ottenere felici concezioni
nuove. In, tutte le cose, come nella guerra secondo Napoleone, «
l'ispirazione è la soluzione spontanea di un problema lungamente
meditato ». E tal è indubbiamente il miglior senso di questa formula
di Buffon tanto discussa: II genio è una lunga pazienza. :
È una lunga pazienza nell'esecuzione, dopo la
concezione detta geniale; ma anche questa concezione non è scaturita,
nella quasi universalità dei casi, se non a capo di una precedente e.
più lunga pazienza. Non è forse ciò che faceva dire anche a,
Baudelaire: «L'ispirazione è lavorare tutto il giorno? ».
B) la RICERCA DEI
PENSIERI.
Eccoti col tuo soggetto vivo in tè, ma ancora nello
stato di possibilità per lo meno in quanto al principale, nello stato
di pensiero ancora indistinto, di movimento senza dirczione fissa. Si
tratta di trovare la materia del discorso, in attesa della sua forma.
Questa seconda fase è quello che io ho chiamato stadio della concessione,
dopo l'ispirazione iniziale.
Qui le pratiche differiscono. Certi applicano tosto la
lor riflessione a cercare un piano. Quando l'hanno trovato, ne
riprendono ciascuna parte e riflettono di nuovo, aiutandosi ' con
letture, a fine di riempirlo. È un buon metodo. Non vi è ragione per
cui esso non riesca, soprattutto, penso io, per una. mente riflessiva. A
ciascuno spetta di sapere se debba attener-visi dopo averlo
sperimentato.
Ma ve n'è un altro che io personalmente preferisco di
gran lunga, e fui maravigliato di aver saputo abbastanza tardi che era
quello di Bourdaloue. Si sarebbe creduto volentieri il contrario. I suoi
piani hanno tutta l'aria di essere a priori, sono^ così
strettamente logici! Si crederebbe che egli li stabilisse con cura, e
poi li riempisse. Ebbene, no! Egli lavorava prima a caso, faceva il
giro del soggetto in tutti i sensi, come Bodin
—229—
faceva il giro del suo modello, perché il suo busto o
la sua statua fosse come « un manipolo di profili ». Bourdaloue,
l'uomo dei grandi pensieri collegati e calzanti, scriveva i suoi
pensieri senza ordine, almeno definitivo (infatti le idee d'ordine che
si possono presentare si devono diligentemente raccogliere, come si vede
in Pascal). Solo dopo questo, Bourdaloue cercava il suo piano. Di questa
« pasta » (1), egli formava il suo pane, e ciò che restava nei suoi
cassetti uscì in parte sotto forma di pensieri. Indicazione
consolante pe' suoi imitatori, compenso eventuale dei sacrifizi numerosi
che s'impongono nel momento della composizione, se si vuole evitare il
sovraccarico.
Comporre così per isolotti che si ricongiungono col
continente futuro, far precedere il lavoro di organizzazione da una
libera ispirazione sporadica, o, se si vuole, trovare dei punti della
propria curva, moltipllcarne il numero, e, nel momento voluto, tracciare
d'un getto la curva è eliminare la fatica di una composizione
obbligatoria e l'ansietà che provoca la pagina bianca, è assicurarsi
del lavoro fresco.
Qualunque sia il metodo scelto, le condizioni della
ricerca sono sempre le stesse; variano soltanto le sfumature di
applicazione. Io supporrò per maggiore comodità che si sia scelto il
secondo metodo. Allora due cose si hanno da fare. Primieramente,
preparare il proprio lavoro con un ricorso — se occorre — al lavoro
altrui, comunque alle fonti comuni: alla Scrittura, aiutandosi con la Concordanza;
alla liturgia, indispensabile in certi casi, per esempio se trattasi di
una festa speciale, e uti-lissima sempre; alla teologia, per precisare
la propria dottrina e ottenere buone definizioni; alla filosofia, forse,
o a qualche tecnica impegnata nella discussione, per esempio la scienza
sociale; finalmente ai maestri che hanno trattato il soggetto o un
soggetto analogo, se si sente il bisogno di questo conforto.
Dovendo trattare un determinato soggetto, una buona
abitudine consiste nel cercare nella Concordanza le parole vicine
o lontane che da vicino o da lontano vi si riferiscono; ben di rado
avverrà che non si trovino così preziosi suggerimenti: testi da
citare, allusioni, immagini, formule incalzanti, idee di svolgimenti,
eco. In materia dogmatica, l'Index tertius di S. Tom-maso può
rendere servizi analoghi. Oertuni consultano nello stesso modo i
migliori dizionari, nei quali, fra i testi tolti dai
(1) L'espressione è di Renan, seguace fervente dello
stesso metodo. Barrès, ohe lo praticava egli pure, chiamava il suo
pacchetto di note: le mortatre.
— 230 —
maestri della lingua, si possono raccogliere molti
pensieri e, quel che è meglio ancora, molti eccitamenti a pensare.
Ho trattato ne La Vie intellectuelle di ciò che
allora dev'es- :' sere l'atteggiamento del lettore, lo spirito che fa la
parte di èalamita riguardo a ciò che gli può servire, lasciando
cadere tutto il resto; questo, grazie all'ossessione del fine,
all'accaparramento di tutta l'attenzione per via dell'ispirazione
primitiva.
È chiaro che per profittare dei suggerimenti così
incontrati, bisogna che l'oratore sappia creare egli stesso, come per
valersi , delle figure vedute nelle nuvole, bisogna saper disegnare. Ma
noi non insegniamo l'arte di saccheggiare gli altri senza servirsi della
propria testa. All'opposto, è il momento di trar fuori le proprie note
personali, se si hanno, come pure il risultato di più antiche letture.
Poi, si rifletterà durante il tempo necessario, andando e venendo così
come allo scrittoio, facendo lavorare la notte, come si è dovuto
imparare a fare (1), spiando tutti i contributi di fortuna, come
Delacroix che fissa con una pennellata il tono «magnifico» di un
facchino dalla pelle rosso? rame, come Beethoven che nota la linea
melodica di un corno'. di carrettiere, o il ritmo dei trabalzi sulle
lastre di pietra (2). i Tutto capita a colui che cerca, e, viceversa,
non si trova se non;;
si ha lo spirito del cercatore. Tutto può servire a
tutto, quandoi' Si sorprende il nesso.
L'oggetto delle riflessioni, come quello delle letture,
non si;' deve limitare al soggetto preso in se stesso, ma deve compren-^
dere la maniera di presentarlo, i mezzi da adoperare per ilhi-? minare
più sicuramente il pubblico, per trascinarlo, per aiutarlo a fissare i
risultati che si sperano. Si mette tutto per iscritto, senza spingersi
al di là di ciò che si offre, guardandosi tuttavia dal perdere uno
svolgimento se si presenta bell'e fatto. Questi svolgimenti sono i
migliori, perché procedono . dalle leggi della mente, in vece di
ubbidire a impulsi fittizi. • E se, in quell'occasione si affacciano
idee per un discorso futuro, non si trascureranno; i grani si
conservano, e il saggio economo fornisce così, prestissimo, i suoi
granai.
L'atteggiamento della mente, riflettendo, come leggendo,
— intendo sempre in vista della stesura finale di cui ci occupiamo —
dev'essere un atteggiamento di chi spia, per conse-
(1) Cfr. La Vie
intellectuelle, eh. IV, I e II.
(2) « Per lui, dice il suo amico Czemy, ogni rumore,
ogni movimento diventava musica e ritmo »,
, — 331 —
\
guenza un atteggiamento passivo o soprattutto passivo,
Come nell'orazione. Nell'orazione si ascolta Dio; qui, si ascolta ancora
Dio, ma si ascoltano anche le cose che, nel suo nome, dicono il vero a
chi sa udirlo, a chi non fa troppo strepito e falsi gesti dentro di sé,
a chi dimentica se stesso, si lascia pervadere, permette all'emozione di
trovare la sua propria forma, osserva il nascere spontaneo delle idee,
perde il suo io nell'ambiente spirituale che esplora e diventa in
qualche modo il suo proprio soggetto.
« Bisogna lasciarsi fare », dice alla sua volta
Sainte-Beuve. Fuggire la premura, l'agitazione e specialmente
l'orgoglio, non è certamente altro che una condizione negativa; ma la
mente fa il resto; le sue forze incoscienti hanno maggior pregio che i
nostri interventi. Quel che ha maggior valore nel discorso è ciò che
non costa niente, che viene da sé, che s'impone o si an-nunzia nella
gioia dello spirito.
Durante questa fase di ricerca, come più tardi
componendo o scrivendo, è ancora più essenziale tenersi di fronte alle
anime alle quali ci si rivolge. Un furiere, al mercato, pensa a cibare
la sua compagnia, non a fare collezione di legumi o di frutta. Il
gabinetto di lavoro è a un tempo l'amico e il nemico dell'oratore; gli
da la solitudine, ma lo minaccia dell'isolamento, e l'eloquenza è un
colloquio. Il cercatore s'immagini dunque il suo uditorio, gli parli
interiormente, ascolti le sue risposte, senta in se stesso se esso
capirà, se apprezzerà questa o quella cosa, se ne sarà commosso.
Allontani ogni volgarità e faccia ricorso al mistero, fondo di ogni
nobile predicazione. I nostri soggetti sono sempre misteriosi; toccano
l'infinito, ed è questo che importa. Il cammino attraverso a un
soggetto non è che l'occasione di raggiungere l'infinito, di fare una
caduta in Dio. Se all'uscire della predica, il tuo uditore non pensasse
più al tuo soggetto, ma riportasse una grande impressione religiosa,
che trasfiguri i suoi « soggetti » proprii, che successo! Tu per il
primo devi dunque cercare la tua materia predicabile in un profondo
sentimento religioso.
C) la
SCELTA DEI PENSIERI.
Inventati, accuratamente notati, i pensieri devono
subire una scelta ed essere sottoposti a un ordine. Il metterli in
ordine sarà propriamente la composizione e, indubbiamente, la scelta ne
dipende; tuttavia la dipendenza è qui reciproca; infatti tu
puoi essere incitato ad adottare un certo piano dal
desiderii d'introdurvi certe idee; tal è pure il caso generale nel
metodo descritto or ora, ed è una necessità evidente quando si tratta
delle idee costitutive del piano stesso. Vi è dunque motivo di parlare
della scelta delle idee, fatta astrazione dal metterle in or- ';'
dine senza dimenticare per questo che le due cose sono connesse.;
Poiché la composizione non è che il mettere in opera
l'ispirazione, il principale è di scegliere, tra le idee che essa
sugge-, \. risce, quelle che rappresentano meglio questa ispirazione
iniziale, che saranno dunque capaci di suscitarla alla loro volta negli
uditori. Questi frammenti si subordineranno tutti gli altri che saranno
per essi, sia una preparazione, sia un arricchimento, sia un
ampliamento. In modo generale, bisogna scegliere, tra le idee che ti si
affacciano o che incontri, non quelle che hanno un maggior valore
assoluto o il maggiore interesse, o che sono più piacevoli, curiose,
originali, eco., ma quelle che servono al fine voluto e cercato. Se
un'idea non serve a ciò che ti proponi, il suo interesse è vano; anzi,
quanto più essa è interessante, tanto.;
più nuoce, perché accaparra l'attenzione e turba così
il cammino. Leconte de Lisle diceva a Barrès che un poema non deves ?
esprimere niente che non sia utile al suo tema, e deve poter ter-';
minare con < come si voleva dimostrare ». Tanto più
un discorso, y
Vale a dire che il sacrifizio s'impone alla bella prima,
cornea s'imporrà per tutto il corso del lavoro. Ben fissato e ben pre—
sente il proprio partito, si raccoglie tutto ciò che vi conferisce, ^ si
rigetta spieiatamente tutto il resto. Così si ha già il vantaggio;;;
di non sovraccaricare il discorso, e si ha pure il
vantaggio di , lasciarlo a se stesso, alla sua unità piena e non
straripante, ;. alla sua logica. ;;
Ma bisogna aggiungere che il sovraccarico è da temere
anche, ' riguardo alle idee utili, o che si pretendono tali. « Ohi non
sa ' limitarsi non ha mai saputo scrivere ». Quanto più vi sono
idee'i:
di sovraccarico, tanto meno ve ne sono per l'uditore,
perché si sopprimono le une colle altre; soffocano esse, e si soffoca
ad ;;
assorbirle: del resto, non si assorbiscono punto, o,
comunque, < non si assimilano affatto, poiché nello stato in cui sei
obbligato ;
a lasciarle non sono punto assimilabili. Troppe idee
vuoi dire .;
troppo poco svolgimento, mancanza di rilievo, assenza di
? quelle preparazioni che aprono le anime. Del rimanente, ciò ^ non è
oratorio, non è bello; è una sfilata di scheletri. Oppure ' allora non
si finisce mai, ed è gran danno. « Le prediche brevi
— 233 —
sono molto bene accolte, dice S. Tommaso d'Aquino; se
sono buone, si ha più piacere a sentirle; se sono cattive, pesano poco
» (1). Ciascuno spirito ha la sua capacità; ciascuno viene con la sua
coppa; una volta piena la coppa, ciò che ribocca è più che inutile,
può far rigettare il tutto.
Ahimè! ti puoi tenere per soddisfatto se ciascun
uditore porta via un'idea, un impulso, una risoluzione, una sola! E,
senza dubbio, perché una cosa sia ritenuta col suo pieno valore, è
necessario darne più di una; ma guardati dall'impinzare, tienti in
un'ampiezza modesta, che invita all'attenzione e non sconcerta punto.
Dare una veduta impressionante delle cose è meglio che ingombrarle di
considerazioni, e ciò vuole una certa brevità, in cui la moltiplicità
ricca è solo evocata, come in quei quadri di Eembrandt che danno
un'impressione di colorito intenso e sono quasi monocromi, come in
quelle prospettive di Buysdael dove una città figura in pochi tratti.
Il discorso si deve poter abbracciare con una sola
veduta, come un quadro. Non è esso un quadro successivo? Eugenio
Delacroix, pittore e scrittore, vide molto bene questa corrispondenza.
Egli racconta nel suo giornale (2) che un visitatore gli faceva
complimenti de' suoi quadri dicendo: « Vi si vede tutto a un tempo ».
« Questa espressione mi ha colpito », scrive egli, e lui stesso
l'applica alla produzione letteraria: « Qual è
10 scopo più desiderabile in letteratura? È quello di
produrre alla fine della propria opera quell'unità d'impressione che da
11 quadro tutt'a un tempo » (3). Ma come ottenere
questa unità, se tu non la riduci a ciò che la rende manifesta?
Eicchezza, semplicità, unità: ecco quel ohe dev'essere la
preoccupazione nella ricerca.
Per conseguenza, non devi prevedere troppe divisioni, e
meno ancora suddivisioni che sparpagliano la luce. Il Oorreggio, il
Eembrandt procedono per grandi sprazzi di luce e per grandi piani di
ombre, ed è una parte della loro forza. Ora bisogna pensarci alla bella
prima; perché, se il sovraccarico è alla base, è senza rimedio. È il
caso dei molto giovani predicatori, come dei molto giovani artisti. Un
novizio oratore infarcirà un solo punto di discorso delle idee di un
intero discorso, se non di una quaresima. È questo un semplice segno
d'inesperienza;
(1) In Epist. ad Sebraeos, cap. XIII, leot.
Ili, ad finem. •'
(2) eugenio delaoboix, (Euvres littéraires, t.
II, pag. 804,
(3) Ihid., t. I, pag. 74. •!:•'
— 234 —
più tardi, sarebbe un segno
d'impotenza. Si moltipllcano le idee quando non se ne sa sfruttare
nessuna.
Ciò del resto si deve intendere più o meno
strettamente secondo il carattere dei discorsi. Puoi proporti di
presentare un insieme completo, di esaurire la tua materia, in qualche
modo, a fine di mostrare tutte le articolazioni e tutti gli aspetti di
un dato soggetto. Ma allora, la legge del sacrifizio si riporta sui
particolari, e inoltre si deve sapere che un tale discorso può essere
interessante, istruttivo e insomma opportuno, ma non potrebbe essere
eloquente, se non a lampi. ~Son se n'ha il tempo. Un movimento
oratorio vuole una preparazione e una continuazione; è un'onda, e non
si scherza con le leggi di equilibrio e di espansione del flutto.
Soprattutto, nessuna concessione al partito che tu non
adotti. Scegliere è escludere. Sopra ciò bisogna essere intransigente;
a questo prezzo è la nettezza del lavoro e per
conseguenza il suo effetto. La larghezza non ne soffrirà punto; infatti
essa si riconosce non in estensione, ma in altezza e in profondità; non
dipende affatto dal numero degli oggetti, bensì dai loro rapporti,
cioè dalla loro unità. Io amo un discorso in cui si è saputo fare
entrare il cielo e la terra; ma, dirò, non amo che quello, perché solo
esso risponde a quello che è ciascuno dei nostri temi: in un unico Poter,
non si trovano forse il cielo e la terra? Ma non è una ragione per fare
un corso di astronomia e di geografia fisica. L'ampiezza di concezione
si oppone precisamente a tali particolari, nonché richiederli. E del
resto, conviene avvertire il giovane predicatore che la ricerca
dell'ampiezza è, al principio, una tentazione pericolosa. Essa è una
ricompensa. Mancando ancora di acquisito e di esperienza nel maneggio
delle idee, volendo allargare i proprii orizzonti, egli rischia di
cadere nell'ampollosità. Lavori piuttosto in profondità, e a poco a
poco, conoscendo più cose per l'intimo e acquistando così il senso
della loro connessione intima, sarà condotto senza perdita a un
progressivo allargamento.
• II. — La composizione.
Ai qualità DI UNA BUONA COMPOSIZIONE.
Al soffio dell'ispirazione, le idee germogliarono,
pullularono o si unirono insieme, pronte a entrare in varie
combinazioni. Adesso bisogna organizzarle. Occorre passare dalla
percezione
— 235 —
ancora oscura del soggetto alla sua percezione chiara
(Leibniz). Si esce dal sentimento della propria opera per entrare
nella propria espressione, o, secondo il nostro paragone di
poc'anzi, si vuole della nebulosa fare un mondo. ]S"on sarai dunque
più passivo; non ti terrai più immobile sotto il tocco del dio; sei tu
stesso il dio, demiurgo. In vece della colomba all'orecchio, hai in mano
il vivagno; il genio cede il posto al talento, « ed è più
difficile », diceva Heredia. È più difficile, cioè costa di più,
senza avere per questa ragione maggiore pregio. Ad ogni modo ciò è
indispensabile. Avere un'idea non è niente, se non la si attua, se non
la si fa passare per tutti gli stati successivi che faranno capo alla
sua fissazione nella mente dell'uditore, nell'anima sua. Ora lo sforzo
di mettere le proprie idee in ordine, per comporre, è eminentemente
atto a fare penetrare nella coscienza degli uditori quello che si è
concepito, a farlo ad essi concepire alla loro volta.
Si può aggiungere che questa cura della composizione,
meno familiare a certe razze, è particolarmente richiesta dallo spirito
francese, per ragione della sua formazione greco latina. « Comporre è
ubbidire all'ordine latino », diceva Puvis de Ohavannes. E si può
anche dire che è questa una preoccupazione attuale, se questo voto di
uno dei nostri architetti è fondato: « Uno spirito nuovo deve animare
tutte le forme dell'attività umana:
spirito di costruzione, di sintesi, d'ordine e di
volontà » (1).
È dunque il momento di riflettere, di applicare
intensamente lo spirito in vece di lasciarlo andare nelle vie di
fortuna. Si deve fare opera di saggezza, poiché l'ordine è l'opera del
sapiente, come dice Aristotile. « Comincia come un vecchio e finisci
come un giovane », diceva Gros a' suoi allievi. L'esecuzione vuole
della foga; l'invenzione vuole del sogno; la composizione esige una
circospezione sagace, poiché all'azione della idea sopra l'artista
succede l'azione dell'artista sopra l'idea, la padronanza. Dio voglia,
che l'artefice possa non rovinare, toccandolo, quello che felicemente ha
concepito o piamente raccolto nel suo periodo di libera ricerca! È il
pericolo di un lavoro a freddo. Avviene che uno si faccia della sua
bella visione iniziale « un chiaro di luna impagliato », come
lepidamente disse un tale.
Ma pure non è a freddo che si deve fare la
composizione. Si è in una fase di calcolo, ma di calcolo appassionato.
Questo
(1) le oobbusito, Vera uw. ^irchitectwe,
~ 236 -—
lo metto qui o lo metto
altrove? Ciò significa: traccio una buona via alla mia ispirazione o ne
traccio una cattiva? Eaggiungerò il mio uditore o non lo raggiungerò?
Ecco tutto il dramma della parola. Dobbiamo persuaderci bene che tutto,
nella fabbricazione del discorso, è d'importanza capitale gotto varii
rapporti, e che mai fu meglio avverato l'assioma scolastico: bonum ex
integra causa, malum ex guocumque defectu.
Dunque ardore creatore anche nella composizione, ad onta
del procedimento calcolatore; testa fredda e cuore caldo; un po' di
sonnambulismo felice dell'ispirazione, con la circospczione dell'uomo
che veglia; un po' della matematica e della vita, perché l'unione
organica delle parti, condizione della vita
- oratoria, ne è altresì un caso; uno scheletro è una
carne rigida.
Di che si tratta? Di articolare la nostra idea iniziale,
diciamo, di procurarle quello che Grazio chiama series, iunetu-
•raque (1). Non si tratta dunque che di essa;
solamente in essa e non altrove si dovranno cercare le articolazioni
desiderate, il concatenamento (series} e la solida commettitura (iunetura).
È quanto dire che la composizione deve partire dall'intimo, Avendo
penetrato a fondo il tuo pensiero, il tuo soggetto tal quale l'avevi
concepito, avendone fatto il giro, essendo passato . da per tutto, non
avendo chiuso gli occhi su nulla, avendo conquistato la comprensione
completa del tuo tema, tu devi essere in grado di comporre; l'ordine
ubbidirà alla mente che lo chiama, che ne ha bisogno per far vedere e
sentire quello che essa ha sentito e veduto.
Noi arriviamo dunque a questo che la composizione è lo
sbocciare naturale dell'idea prima, arricchita di ciò che le ha fornito
di essenziale il lavoro di ricerca da lei stessa ispirato. •
L'obiettivo è di procurare all'idea fondamentale la sua struttura, la
sua, e non un'altra. È quello che in senso negativo si chiama restare
nel proprio soggetto; è quello che Olaudel chiar ma « abitare il
proprio soggetto », ma alla guisa di un architetto proprietario, che
costruisce, come il chelonio, il proprio domicilio.
È questa una legge di verità. Nello stesso modo che vi
è verità della concezione se essa si modella sulle cose: così vi sarà
verità della composizione se essa si modella sulla concezione. La
struttura di un discorso è della stessa lega che tutte le formazioni
naturali: molecole, cristalli, piante, animali,
(1) obazto, Arte poetica,
—•237 —
paesaggi, o universo. Se vi è maggior larghezza, è
perché lo spirito è più ricco della materia; ma la composizione .è
nondimeno un'ubbidienza a leggi organiche; essa procede per
intus-suscezione, come la natura vivente, non come si fa un albero di
Natale.
La facoltà da spiegare qui non è dunque principalmente
l'immaginazione, la sensibilità, benché sian necessario, ma è il
giudizio concentrato, è il buon senso. Ogni combinazione, estetica o
pratica, deve rispondere ad evidenze, procedere a passi semplici,
ubbidire al principio di adattamento e al principio di economia,
effettuare e procurare sino alla fine una unità perfetta. È quello che
fece dire che la più bella riuscita architettonica dell'uomo è la bica
di grano.
B) L'ORDINE
STATICO.
L'unità: ecco dunque la qualità essenziale di un piano
sotto l'aspetto statico. Ben pochi discorsi lo offrono nella sua
perfezione; a volte essa manca nei maestri. « Comporre è associare con
potenza », scrive Eugenio Delacroix (1). Un gran discorso è come una
cattedrale, uno piccolo, come una Santa Cappella; l'ideale, qui e là è
quello di essere una cosa tutta di un pezzo, per quanto sia complesso, e
perciò un gioiello d'arte quanto di umanità, perciò un degno altare
del Verbo.
La maggior parte delle opere d'arte, in ogni genere,
hanno più centri di gravita; ora non ce ne vuole che uno, attorno al
quale si equilibra tutta l'opera. È l'insegnamento di Socrate nel Fedro,
in cui si vede l'arte della composizione riassunta in questa doppia
cura: concentrare tutti gli elementi del lavoro in un unico punto di
vista, che l'ispirazione iniziale ha fornito, e svolgere l'unica
concezione secondo le sue articolazioni naturali.
Questa parola articolazione, così cara a
Cariyle, richiama alla mente l'idea di un organismo vivente, e Scorate
si guarda bene dal trascurare un paragone così illustrativo. « Penso,
dice egli, che tu mi concederai almeno che ogni discorso deve essere
costituito come un essere vivente, con un corpo che gli sia proprio
(cioè che proceda dall'anima sua propria, dalla sua idea vitale), in
tal modo che non sia ne senza testa ne senza piedi, ma che possieda un
mezzo e delle estremità in rapporto con tutte le altre parti e redatte
per l'insieme »>.
(1) etjobsto dblaoboes, (Eitvres IWraires, t.
I, pag. 68.
— 238..—
Per l'insieme, dice il saggio
platonico; e vuoi dire che quello che è così in causa, è appunto
l'unità dell'opera, è l'anima sua, è il suo flusso (su quest'ultimo
punto ritorneremo) e, in vista dell'unità spirituale, è l'unità
organica. « Tutte le parti del corpo sono legate, scrive Cuvier,
^volerne separare una dalla massa è riportarla nell'ordine delle
sostanze morte »: così il membro di un discorso che non fa corpo col
suo insieme. A questo prezzo è l'unità d'impressione, per conseguenza
la forza, per conseguenza ancora la bellezza, perché « l'unità è la
forma del bello », dice S. Agostino (1). Belle cose disperge non sono
che una giustapposizione di bei pezzi anatomici; si richiede un vivente.
Comporre è generare.
Per conseguenza, bisogna comporre non con piccoli tocchi
successivi e disgiunti, ma per via di masse, vegliando bene
all'equilibrio delle parti, a ciò che i Greci chiamavano simmetria,
parola che oggi produce equivoco, ma che nel loro pensiero significava
euritmia, disposizione armonica, esatto equilibrio dei mèmbri nel
discorso vivo. È quello che Barrès chiamava « prendere il soggetto in
pieno ». E perciò non si tratta di un equilibrio materiale, misurato
al vivagno o alla bilancia. Vi sono degli equivalenti di peso, di volume
e di estensione; è il gusto che li scopre. In pittura, la terra e il
ciclo di un paesaggio si devono equilibrare; tuttavia, qualche ciclo di
Buysdael mangia tutto il quadro — in apparenza. Guarda bene: la
campagna è con esso in esattissimo equilibrio; solamente è in
iscorcio, ed è una bellezza di più. Parimenti una parte del discorso
può essere molto più ampia di un'altra, perché svolge quello che vi
è ragione di svolgere e l'altra concentra ciò che vi è ragione di
concentrare, per esempio uno scorcio dottrinale. È questione di
giustezza, che si misura dal servizio dei fini.
Per questo il lavoratore che compone deve tenere
fermamente sotto gli occhi quell'insieme al quale si subordina ogni
cosa. La veduta dell'insieme aiuterà a determinare l'esatta relazione
delle parti. Questa regola è dei pittori: « pensare al brano che non
si dipinge », varrà grandemente per l'elocuzione;
ma vale assai più per la composizione. « Secondo il
mio modo di comporre, scrive Beethoven, anche per la musica strumentale,
io ho sempre l'insieme davanti agli occhi »: ond'egli, con Bach,
Haendel, Mozart, è uno dei quattro più grandi maestri in architettura
sonora. Egli dice: anche per la musica strumen-
(1) S. agostino, Spist., 18.
— 239 --
tale, perché le parole del
canto sembrano imporgli anche maggiormente questa vista dell'insieme, e
appunto questo ci riguarda.
Ma se l'insieme è la preoccupazione costante, alle
parti principali tuttavia, in questo insieme, si deve riservare la più
particolare attenzione. Ingres loda Eaffaello perché, per stabilire un
quadro di cento figure, egli non si occupava che di quattro o cinque,
lasciando che le altre si disponessero poi sotto la loro dipendenza.
Oorot vedeva sempre i suoi insieme come si vede un paesaggio di notte,
d'onde emergono solo alcune forme. Onde si racconta nei laboratorii che
quando andava al mattino per tempissimo a dipingere nella campagna, era
solito di dire:
« Non si vede niente, ma vi è tutto », e un po' più
tardi: « Si vede tutto: andiamocene ».
Questa politica dei dominanti ha una grande importanza
in composizione. I pezzi maestri devono risaltare da per tutto, e non
bisogna aver paura di rivolgerli in più sensi, perché si vedano sotto
tutti gli aspetti e si giudichi della loro forza. Se è vero, come
spiega Fénelon, che « il discorso è la proposizione sviluppata e la
proposizione il discorso abbreviato » (1), è altresì vero che
ciascuna sezione particolare, nel discorso, è o dev'essere un'idea
principale sviluppata, e quest'idea tutta la sezione abbreviata.
Questo conclude subito per l'eliminazione di ogni
superfluità; l'insieme vi sarebbe annegato; le materie non assimilate
all'idea la insaccano e la paralizzano, come la grassa nei muscoli e in
vicinanza alle articolazioni. Tessuti ricchi, ma ben netti, e giunture
secche, ecco la legge di un corpo a un tempo elegante e robusto. Si
abbia dunque il coraggio di sacrificare le idee avventizie, i
tentennamenti, le preparazioni, o si mettano in riserva. ,
Spesso, l'unità organica si otterrà mediante una buona
e completa definizione, su cui tutta la continuazione si appoggerà e
prenderà la sua consistenza. Costruire organicamente è risolvere
un'equazione. Perché l'equazione del discorso sia giusta, perché sia
evidente e risolva il caso proposto, bisogna prima che questo caso sia
ben posto, e a ciò serve una defini-
(1) fanblon, Lettre a l'Académie.
— 240 —
zione precisa. Onde, parlando di cultura, io ho
consigliato ai giovani di costituirsi tra le altre note un buon arsenale
di definizioni.
In quest'occasione aggiungerò che i principii sui quali
ci si appoggia, siano definizioni o altro, devono essere collocati nel
piano in vicinanza delle loro conseguenze, e non nell'altra estremità
del discorso. Si vedono dei giovani predicatori occupare la loro prima
parte nello stabilire premesse, la seconda' nel trarre conclusioni: è
un grosso errore. I principii isolati e messi in mucchio s'incomodano e
si fanno ombra a vicenda, m vece di illuminare le loro rispettive
conseguenze, e queste, all'altro capo, rimangono nell'oscurità. Oppure,
al momento di concludere, occorre ripetersi, ed è una rifrittura.
Finalmente, una conseguenza dello spirito organico nella
composizione, è quella di ricercare, oltre ai punti dominanti, i
contrasti. Ciò non si oppone affatto. Ogni cosa ha il suo contrario che
serve a chiarirla, anziché oscurarla. Contrariorum eadem est
sdentici, dicono gli scolastici. Le idee in contrasto si fanno
valere l'una coll'altra, si fortificano coi loro cozzi, e stimolano la
mente dell'uditore allo spettacolo dei loro conflitti. Una delle
bellezze dell'architettura gotica non è forse il contrafforte dell'arco
di ogiva, la lotta dei pilastri di rinforzò e dei culmini?
bell'organismo umano vi sono pure dei muscoli estensori e dei muscoli
flessori, una sistole e una diastole, un'inspirazione e un'espirazione,
eco. «Il maraviglioso, diceva Bour-delle a' suoi allievi, è uno
squilibrio equilibrato, per mezzo di due ritmi contrari ». « In ogni
oggetto, dice alla sua volta Eugenio Delacroix, la prima cosa da
afferrare e fissare, mediante il disegno, è il contrasto delle linee
principali; prima di posare, il lapis sulla carta, esserne molto
colpiti» (1). Non è forse quello che significava il P. Lacordaire
dicendo che una predica consiste nello scavare una buca e nel chiuderla:
immagine del movimento contrastante, del quale egli fece un così
grand'uso?
C) L'ORDINE DINAMICO.
Ecco che come a mio mal grado ho usato la parola movimento,
quando si trattava ancora di un ordine statico. Perché l'ordine
statico, nel discorso, non è in vero che un'astrazione. Il
(1) E. dblaoboix, (È'uvres Uttéraww, t. I,
pag. 69.
.— 241 — •
discorso deve camminare; il discorso deve correre alla
mèta. Ma anche il movimento è un ordine. 'Non si vede ciò
nell'universo, dove l'ordine è il risultato dei cambi, senza i quali
non ci sarebbero che elementi dispersi? Lo stesso avviene nel vivente e
per lo stesso motivo. I cambi organici sono il principio della nostra
unità, sotto il governo dell'idea-anima. E la stessa cosa si riscontra,
benché vi si veda meno, nell'arte architettonica e in tutte le altre.
L'unità della colonna è fatta della base che porta, del fusto che le
trasmette il carico verticale, del capitello che riceve questo carico e
si stromba per mostrarlo. Qui la bellezza non sarà che una buona
ripartizione degli effetti della pesantezza, la bruttezza una
sproporzione di potenza, In statuaria e in tutte le arti plastiche, si
sa che il movimento ha anche maggiore importanza della forma. Un
atteggiamento non è bello se non esprime un movimento compito o da
compire, un'imminenza o una facilità di gesto alla quale
l'immaginazione dello spettatore presta il suo atto. Agli occhi ,di
Eodin, l'arte dell'antichità e l'arte di Michelangelo non differiscono
se non per la natura del movimento: movimento soprattutto armonico negli
antichi, nei fiorentini invece soprattutto contrastato.
Non occorre dire che la mugica vive di movimenti, che la
sua unità è una sintesi di momenti e un'organizzazione nel
tempo di fasi tutte transitorie. Essa appunto rassomiglia di più al
discorso, e specialmente la sinfonia beethoviana, di un dinamismo così
potente, ha il carattere di un vero discorso musicale. Non è forse per
questo che, nella famosa Neumème, venne alla fine ad
aggiungervisi con tutta naturalezza la parola?
Diciamo dunque che il piano del discorso cristiano
dev'essere dinamico per il fatto che vuole essere unitario, per il fatto
che si presenta come composisione. La composizione in questione
qui è una composizione di forze, una composizione di gesti in
tutti i sensi della parola, una composizione di movimenti ideologici,
immaginativi, sensitivi, verbali, vocali, mimici. È un avviamento di un
principio a una conclusione, di uno stato a uno stato, e il pioniere
traccia la strada.
Non basta classificare idee, bisogna farle convergere,
maneggiarle come un esercito, in vista dell'attacco vittorioso. Una
specie di slancio eroico da al discorso più unità e più peso che una
logica immobile. L'omogeneità, qualità così preziosa per l'armonia
spirituale ed estetica, è qui il risultato di un cammino in avanti
comandato da una mèta. È lo scopo
16 — sebtimangbs. Voratore cristiano. ; ,.
— 242 —•
che sempre si libra in alto, come un labaro; tu ti
dirigi verso di esso ed esso ti accompagna, e determina la direzione e
l'andamento. Per questa combinazione dello statico e del dinamico si
verifica, per il discorgo rapido e come torrenziale, la celebre
definizione di Pascal: « I fiumi sono vie che camminano e che conducono
dove si vuole andare ».
Perché si adempia questa condizione, è evidentemente
essenziale fissarsi uno scopo ben marcato, prendere un partito, e per
quanto è possibile un gran partito, che, data una volta la scossa, non
ti permetta nessun ritorno indietro. Tu non lo dichiarerai sempre; un
certo mistero sulle tue intenzioni può aver pregio come eccitante
dell'attenzione e della collabora- ' zione dell'uditorio. Si ama una
mèta a un tempo ignota e presentita, che lascia da indovinare, e dove
l'anima si scontra con un delizioso fatto di previsione confermata e di
sorpresa. Ma quello che tu non sveli dev'essere per tè smagliante;
perderlo di vista o distogliertene, sia pure poco, è un torto
irremissibile. Tutto ciò che lasci fuori non sarà che materia morta,
ingombro, ostacolo. In fatto d'arte, come nella vita, il grande ^
difetto è quello di non sapere scegliere la propria strada e;
seguirla. « II più grande errore è errare », dice
Carlo Péguy. '
Osserviamo tuttavia che se tale è la legge d'un vero
discorgo, • d'un discorso propriamente detto, avviene diversamente di
una meditazione orale, come se ne fanno per esempio al mattino o alla
sera di un giorno di ritiro. Qui non si tratta più di esaurire
oratoriamente delle idee, si propongono; è l'uditore che ha l'obbligo
di servirsene. Inoltre vi sono dei generi intermedi.
Ma ritorno al discorso propriamente detto, il cui
dinamismo impone condizioni che ancora si devono ricordare. Anzitutto,
la corrente dev'essere tanto più marcata e tanto più rapida quanto
più vasto è il tuo piano. 'Son vi è altro mezzo per evitare
quell'impressione di indice delle materie che è una piaga del discorso.
Un politico, avendo molti da tenere d'accordo, li lancia in
un'avventura, senza ciò essi si battono. Tu, avendo molti elementi da
maneggiare, spingili arditamente al termine, e neppure uno straripi o
s'impasto!. La rapidità ti è una garanzia di unità estetica, là dove
facilmente regnerebbe la dispersione.
Dopo ciò, per applicarlo su questo terreno nuovo,
ricorda quello che abbiamo detto della necessità dei contrasti. Allora,
—• almeno così si poteva credere — si trattava di un contrasto
— 243 —
di linee; ma ti occorrono anche dei contrasti di
movimenti, delle rapidità e delle lentezze calcolate, delle pause che
siano come silenzi di azione. Per la parola articolata come per la
sinfonia, è noto il pregio del silenzio. Vi sono parimenti dei
tentennamenti abili, come di un uomo che cerca la sua via e tutt'a
tratto vi si slancia. Dopo un ragionamento serrato e come ansimante, tu
avrai un allentamento; dopo un gran « movimento », un va e vieni
familiare. Non sarà un fallire la mèta, ma un raccogliere le tue forze
per raggiungerla. Avrai degli alti e bassi, movimenti nella terza
dimensione, che ti faranno passare dal « sublime » a un tono
quotidiano. Tenterai delle diversioni per operare un brusco ritorno.
Ideila tua avventura della scalata e della marcia in piano, vi saranno
delle rampi-cate alla corda e delle cadute agili nelle quali l'uomo che
cercò il pericolo eroico non si farà male. Avrai anche, come in
musica, dei « movimenti contrari », dai quali trarrai grandi effetti.
È vero che, per tè, i movimenti contrari non potranno essere
simultanei. Vi è nondimeno una simultaneità in largo senso. Un intero
sviluppo si può costrurre su un principio di va e vieni in sensi
contrari e dare un risultato impressionantissimo. La sorte del peccatore
e del giusto, in questo mondo e nell'altro, vi si presterebbe benissimo.
Le cadute apparenti della virtù sfortunata, che in vero sono ascensioni
e che, dopo un cataclisma apparente, si cambiano in apoteosi; il
rovescio esatto. per il peccatore nelle false prosperità: c'è lì
veramente del movimento contrario; è la stessa cosa a doppia fase.
Sembra che a questo riguardo si possa paragonare il
discorso a un torrente con deivrisucchi, con bollimenti attorno
all'ostacolo, o meglio a una fiamma la cui direziono è fissa, ma le cui
-lingue frastagliate vibrano e oscillano, si ripiegano frequentemente
sopra se stesse, poi si raddrizzano e si slanciano. Questi giochi che
incantavano S. Francesco, questa fierezza e questa nobiltà di frate
Fuoco sono un bei simbolo. Il discorso cristiano è un fuoco: gli si dia
l'aire; non si renda come un pezzo di legno arrossato di qua e di là,
ma che non scoppietta.
D) L'ORDINE DELLA
CAEITÀ.
Qualcuno si potrebbe domandare, sia innocentemente, sia
mettendoci un po' di malevolenza, se tutto quello che diciamo della
composizione statica, dinamica, ecc., ecc. sia davvero molto apostolico?
JÈ3 arte, sì; ma è conforme allo Spirito di Dio,
— 244 —
.allo Spirito che spira dove vuole, allo Spirito
che è la nostra legge inferiore e vuoi essere anche quella dei nostri
uditori? Vi è qui qualche cosa da esaminare e qualche cosa da ritenere.
Pascal distingue due ordini del discorso. Vi è, dice,
l'ordine dello spirito e vi è l'ordine del cuore, l'ordine dell'amore,
l'ordine della carità. Col suo realismo sempre così incalzante, egli
•scrive: « Non si prova che dobbiamo essere amati
esponendo con ordine le cause dell'amore, ciò sarebbe ridicolo ».
Perché ridicolo? Perché questo modo di procedere imperturbabile è la
prova che non sei commosso, che ignori dunque l'amore pur richiedendo
l'amore. Contrasto comico. Eidicolo.
Ma non facciamo noi la stessa cosa, esponendo molto
sag-giamente, con ordine, i motivi di amare Dio, di fuggire il peccato o
di fermare il peccatore sulla china dell'abisso, di cercare i beni
prodigiosi, incommensurabili e interminabili che ci attendono lassù?
— Sì, un poco, purtroppo! Per questo Nostro Signore non procedette in
tal modo, ne S. Paolo, come spiega Pascal nel celebre passo: « Gesù
Cristo, S. Paolo hanno l'ordine della carità, non dello spirito,
perché volevano scaldare, non istruire ». Attenzione! volevano
istruire, non con un'istruzione che terminasse in se stessa; essi
miravano all'amore e alle opere. E noi?... . •'. '
E noi, bisogna che ci umiliamo, e non adottiamo un
metodo senza umiltà. Se fossimo Nostro Signore o S. Paolo, o anche
s.olo S. Agostino, S. Vincenzo Ferreri o il curato d'Ars, potremmo non
preoccuparci delle leggi della composizione, perché uno Spirito
superiore comporrebbe in noi. Diremmo come S. Vincenzo Ferreri dopo una
doppia esperienza, l'una man-;.,
•eata perché si era preparato troppo, l'altra
riuscita perché si;. era abbandonato al Verbo: « Non mi stupisco, ieri
predicò Vin-'-eenzo, oggi predica Gesù Cristo». Ma noi non siamo dei
santi;
non disponiamo dei mezzi dei .santi: vorremmo privarci
anche .dei nostri?
Avviene come della carità e delle convenienze sociali.
Queste >non sarebbero necessario, se regnasse una piena carità; le
inventerebbe ciascuno per conto suo, e in vece di convenienze imparate,
si avrebbe la vita. Così di S. Paolo diceva S. Agostino
•che, senza curarsene e senza sospettarne il nome,
egli aveva inventato i tropi. Ma, non avendo noi questa carità
perfetta, serbiamo ciò che la sostituisce e la serve, adoperandoci, e
sem-,pre più, d'impregnarne ogni cosa.
—2Ì5'—
Ora questa impregnazione non sarà senza conseguenze.
Mettendo la carità nel discorso — non solo nel suo scopo — vi
s'introduce necessariamente, in qualche misura, l'ordine della carità.
In che consiste quest'ordine? Consiste nella stessa cosa essenziale in
cui consiste l'ordine dello spirito, cioè disporre le idee in vista
dello scopo proposto e cercato; ma è lo scopo che cambia, o piuttosto
che prende un impero più tirannico e più immediato, poiché esso è
sempre lo stesso, salvo deviazione. Che cosa si farà per conseguenza?
Secondo Pascal, l'ordine allora adottato « consiste principalmente
nella digressione su ciascun punto che ha rapporto al fine, per metterlo
sempre in mostra ». Egli dice principalmente, perché l'ordine
dell'amore tocca ogni circostanza che interessa l'amore; ma la
circostanza fine essendo la principale, è per rapporto ad essa
che si caratterizza soprattutto l'ordine extra-logico così imposto.
In S. Paolo, il fatto è sorprendente. Pin
dall'indirizzo delle sue lettere, la sua idea dominante è talmente
tirannica, e così incalzante l'ardore apostolico che lo trascina, che
lo vedi accumulare quelle « digressioni » tendenziose delle quali ci
parla Pascal. Letterariamente, il principio dell'Epistola ai Eomani, con
la sua lunga serie di genitivi, confinerebbe col ridicolo. Ma si tratta
per davvero di letteratura! Il pensiero apostolico è lì così intenso
che esplode e la granata scoppia tra le mani. D'onde, a volte, quel
travaglio per ritrovare-questo pensiero ne' suoi detriti! Ma in cambio
che calore, e quali enetti di vita!
ISeì corso dell'esposizione, la logica sarà urtata
ad ogni passo; logica verbale e logica concettuale dovranno lasciare il
posto a una logica segreta che è quella stessa del cuore, logica che si
sa comunicativa e che non desidera altro.
L'apostolo non è un logico: la logica è solo la sua
ancella;
non è un tecnico del discorso: la tecnica gli
ubbidisce; quando occorre, la piega; parla « a tempo e a contrattempo
», getta attraverso a tutto la parola salvatrice, il dolendo,
Garfhago, che l'opprime. Eitomerà alla logica costruttiva nel
momento in cui essa potrà servire: in 8. Paolo vi sono altresì dei
capitoli composti con un'arte dialettica severa; ma se essa arresta il
suo cammino egli dice alla logica: fuori di qui.
Ma per l'onesto predicatore che non è S. Paolo, il
quale, non avendo lo stesso slancio dello spirito, deve rispettare i
sentieri consueti della parola umana, vi è tuttavia qualche cosa da
ritenere di quest'ordine ehe sorpassa l'ordine, di quest'ordine
— 246 —
che prende figura di disordine nella schiera dei mezzi,
per meglio salvare l'ordine dei fini. « L'utilità dei figli di Dio è
la leeffe suprema della cattedra », scrive Bossuet. « Eischiare di
dispiacere alla posterità », o più modestamente ai dilettanti
dell'uditorio, non è una disgrazia che per il vanitoso; l'inquietudine
dell'apostolo è per altra cosa, e del rimanente il buon giudice sarà
qui dalla parte dell'apostolo, come ben ci fa vedere Pascal. La ragione
è che il soggetto, le esigenze logiche del soggetto non hanno peso
decisivo in fatto di eloquenza, se non d'accordo con l'obiettivo che
provoca e giustifica la parola.
Che cosa vogliamo noi in fatto di sacra eloquenza?
Introdurre Gesù Cristo nei cuori: bisogna dunque parlarne
incessantemente. Vi sono dei mezzi per venire a Lui, ve ne sono per
ritornarci quando lo si perde: noi avremo alla portata di mano di quelle
sacre panacee che sono la preghiera, i sacramenti, la meditazione delle
cose eterne. Ciò ha ben il valore d'un ultimo ripulimento della
composizione. Ci si metterà del tatto; se ne cercherà la felice
occasione; ma, occorrendo, la si farà anche nascere: non lo fa anche la
passione temporale?
A questo riguardo, il P. Surin da una regola piissima e
giustissima (1). Egli vuole che nell'orazione che, secondo lui, deve
sempre precedere la predicazione, se ti si affaccia un pensiero atto a
commovere l'uditore, non devi esitare ad adottarlo, fosse pure fuori del
piano già organizzato e della sua realizzazione naturale. Lo stesso
Spirito che ti ha ispirato questo pensiero ti aiuterà a valertene senza
urtare contro nessuna suscettibilità legittima. L'arte è figlia di Dio
come l'amore: saprà essa schierarsi col suo fratello.
Ciò si verifica delle ispirazioni dello stesso genere
che si presenteranno nel corso della predica. Se esse ti sono imposte
dallo zelo, non urteranno; sapranno procurarsi il loro posto;
sapranno anzi conciliarsi l'uditore, se lo stesso
Spirito lo anima, e se non l'anima, si giudicherà ancora naturale che
egli animi tè; il gusto, come il buon volere, ti sarà un complico.
Aggiungo solo questo. L'ordine della carità, appunto
perché si prende dai più alti fini, non deve in nessun conto servire
di pretesto alla nostra pigrizia. Il nostro sforzo si deve dare fino
all'esaurimento; dopo, solo dopo, lo Spirito che non è legato a nulla
prende il diritto di sostituire la sua <' follìa » alla nostra
sapienza.
(1) Svsxa, CcctiSchiame spirituel, III e P.,
eh. 1.
247
III. — Le varie parti del discorso.
A) L'ESOBDIO.
Gli antichi trattati di rettorica insistevano molto su
ciò che chiamiamo qui le varie parti del discorso; dividevano,
suddividevano, qualche volta non senza sottigliezza, ma conforme a usi
assai rispettabili. Oggi, per noi, si può domandare se tutto ciò ha la
minima importanza. Onde non mi ci indugerò punto. Io penso alla natura
delle cose, che è eterna, e poiché la natura mostra dovunque
principio, mezzo e fine, essa c'invita a considerare nel discorso il suo
esordio, la sua massa principale o corpo del discorso, e
la sua perorazione, che richiedono brevi osservazioni.
Il principio, in ogni cosa, ha molta importanza. « II
co-minciamento è più che la metà di tutto », scrive Aristotile. Il
P. Lacordaire diceva che alla seconda frase, era sicuro di possedere il
suo uditorio, e Faure: « Appena che tu apri la bocca, devi sapere con
chi hai da fare ».
La prima impressione dell'uditorio rischia di essere
definitiva: bisogna che sia buona. E quando sarà buona? Quando
l'oratore e il soggetto si mostreranno l'uno e l'altro a loro vantaggio.
Si tratta di stabilire una comunicazione, di cattivare l'attenzione, di
compire al più presto questa cosa prodigiosa che una folla di gente
venuta da ogni parte, sconosciuta a tè e sconosciuti gli uni agli
altri, animata da pensieri e da sentimenti divergenti, formino un'anima
comune, entrino nella stessa corrente, si portino verso una mèta
comune. Lo scopo raggiunto sarà il risultato del discorso se esso
riesce; adesso tu imbarchi la tua gente e mostri loro il pelago; mostri
tè stesso ; come pilota, ed è un rischio che corri salvo che il
prestigio acquistato o qualche diversione potente non ti soccorra.
Parliamo prima di tè. Di tutte le qualità
intellettuali e ; morali che abbiamo richiesto dal predicatore, nessuna
dev'essere offuscata a questo primo contatto, e tutte devono essere
presagite. L'esordio sarà dunque improntato di modestia e di autorità,
di spirito soprannaturale, di carità, e vorrei aggiungere di
distinzione e d'incanto, se il solo pensarvi non fosse subito un farlo
fuggire. Nessuna ostentazione della persona; ci vogliono cose, oggetti
di pensiero semplicemente proposti, un bèl-
— 248 —
l'orizzonte che si guarda e s'invita l'uditorio a
venirlo a vedere, tutto ciò allo stato ancora avvolto e seducente come
la speranza.
Sotto l'aspetto intellettuale, devi dar prova
soprattutto di giudizio per dare confidenza, e perciò non devi
cominciare col proporre paradossi. Perfino le arditezze legittime devono
esser riservate; non ci avresti diritto e non le potresti imporre se non
;
dopo aver dato pegni di saggezza. Per cominciare, non
proporre nulla di dubbio; per quanto è possibile di' cose evidenti,
sulle ••' quali ti sentiranno appoggiato nel corso dei più vivi
procedimenti.
In quanto al soggetto, e a dispetto della semplicità
sempre necessaria, l'esordio sarà felice se da l'idea di una cosa
grande, importante, nuova sotto qualche aspetto, e che tocchi l'uditore,
sia che si tratti della sua persona, o almeno delle sue opinioni
favorite o de' suoi affetti. I nostri soggetti sono tutti grandi;
il loro vantaggio è incessantemente nuovo; un carattere
personale vi si riconosce sempre; spetta a noi di fare che se ne
convenga e che senza falso artifizio, risplenda, fin dalla sua prima
esposizione, la qualità drammatica del tema.
Ascolta questo esordio di Bossuet per un discorso sulla
Pentecoste: Questa gioia pubblica e universale, che si espande per
tutta la terra in questa augusta solennità, avverte i cristiani di
rammentare che appunto in questo giorno nacque la Chiesa, e che noi
siamo nati con essa per la grasia del nuovo patto... Ci siamo! la
sinfonia è cominciata, e che semplicità grandiosa! L'universo e i
secoli sono lì! La Chiesa intera è lì, e, senza essere invitato
clamorosamente, l'uditóre fa parte della festa.
In quanto alla sua estensione e in quanto al tono che
adotta, l'esordio dev'essere sobrio, a dispetto delle varie esigenze che
esso può comportare. Si deve andare diritto al fatto. Se tu stanchi
anticipatamente l'attenzione, non ne resterà più per il tema. JSTon
preliminari oziosi; non anticipazioni, non digressioni tolte dalle tue
note preparatorie. È questa una tentazione a cui soccombe più di un
predicatore, e la perorazione la riproduce. Si arriva così a fare una
predica prima della predica, una predica dopo la predica, e l'uditore ne
soffoca. Ma domani, non lo prenderai più.
Lo so, nel secolo decimosettimo, si poteva così
preludere a piacimento, trattare un soggetto preliminare in attesa
dell'altro: oggi questo non si tollera più; i nostri uditori hanno
premura: in chiesa non ci si insedia più, ti si presta un'attenzione
breve: approfittane e non la stancare anticipatamente.
_ 2^9 —
Lo stesso dicasi del tono. L'uditore non ti apporta se
non •una certa dose di sentimento disponibile, non si deve esaurirlo
prematuramente; bisogna altresì permettergli di svegliarsi, non
precipitare affatto, ma scaldare il ferro a poco a poco, per modellarlo
nella forma che gli si destina. Un tono oratorio affatto naturale alla
fine può essere ridicolo al principio. Non ci vuole ancora eloquenza,
ma una semplicità elevata, una nobile gravita, nessuna agitazione,
nessuna passione scatenata, tutt'al più un fuoco contenuto, che attende
il soffio dello Spirito per dardeggiare le sue fiamme.
Del resto si lascerà con premura da parte questa regola
se la circostanza lo richiede. Il giorno dopo le inondazioni della
Loira, l'incendio del Bazar de. la charité, il bombardamento
della cattedrale di Beims, chi avrebbe compreso un predicatore
altrimenti che fremente o tragico? Ma allora è l'uditorio che comunica
il fuoco; è l'avvenimento che grida e non permette il sussurramento di
un calmo principio. Dal momento che il tema del discorso è
appassionante e conosciuto prima, conosciuto, dico, come tale, e anche riconosciuto,
un esordio animato è indispensabile. Bimane tuttavia da risparmiare le
proprie forze e mantenere le proporzioni. Salvo che — perché ogni
regola è relativa — il tuo esordio non sia in realtà il principale.
Ciò può accadere. Tu hai una serie di prediche paciflche, un giorno
scoppia un avvenimento straordinario; tutti attendono che la cattedra
esprima l'emozione comune: devi scatenarti;
tanto peggio per il resto del discorso se il principio
lo schiaccia.
La regola essenziale di un esordio, comunemente, è la
chiarezza della proposizione che esso enunzia. « Di che si tratta? »
come diceva Foch. L'uditorio sappia, o senta dove s'intende di-condurlo,
e la prospettiva sia abbastanza attraente perché vi'. si avanzi. D'onde
la necessità di un esordio ad rem, e non ad. omnia.
D'onde questo consiglio, di non scriverlo se non dopo tutto il resto, o
per lo meno dopo tutto il resto fissato molto chiaramente nel tuo
pensiero. Così voleva Cicerone, e la più piccola) riflessione
giustifica le sue parole.
B] le DIVISIONI
DEL DISCORSO.
Può sembrare strano parlare delle divisioni del
discorso dopo avere trattato ampiamente della sua composizione. Ma lo
stupore non potrebbe derivare che da un equivoco. Vi è"
— 250 —
divisione e divisione, come più sopra dicevamo che vi
sono leggi e regole. Di quest'ultima distinzione appunto noi troviamo
qui un caso particolare. Quel che avevamo detto della composizione
scioglie il caso delle divisioni che ubbidiscono alle leggi;
ma ciò non scioglie la questione delle regole, tali
quali regnano in virtù di tradizioni discutibili.
Per conseguenza, discutiamo, e domandiamoci che cosa
valgano le divisioni classiche in tré punti, in due, raramente in quattro,
e se è necessario a una buona composizione che un predicatore possa
dire: « la mia prima parte, la mia seconda parte ».
Notiamo anzitutto che i nostri primi modelli, i Padri
della Chiesa, non conobbero le divisioni così comprese. Esse sono di
origine scolastica, e non è una raccomandazione assoluta, perché, se
la scolastica ha del buono, anche per l'arte oratoria, vi è pericolo di
confusione dei generi e di usurpazione dell'astratto. Per questa ragione
Fénelon si sollevava contro le divisioni classiche nello stesso momento
che esse riportavano i loro più bei trionfi. Per certo, quest'ultima
particolarità non favorisce la sua tesi; perché essa dimostra che
nella forma incriminata si possono foggiare immortali capolavori. Ma
quel che è certo si è che questa forma non ha niente di necessario.
Essa ha i suoi vantaggi; ha i suoi inconvenienti; si può confrontare,
'e forse... non concludere, o concludere per un discernimento
permanente, ciò che credo sia la verità.
Quintiliano paragona l'utilità delle divisioni a quella
delle pietre miliari, che incoraggiano il camminatore assicurandolo del
cammino percorso e impegnandolo a proseguire. Esse rinnovano
l'attenzione; ci si rimette (dopo aver tossito e fatto un po' di moto,
ciò che è un ottimo segno). Favoriscono la memoria, nell'oratore e
nell'uditore. Ci si può vedere un principio di nettezza, di chiarezza,
di solidità costruttiva molto visibile, Si suppone che esse siano ben
fondate; ma solo così si confronta.
Quali sono in cambio gl'inconvenienti? Si corre rischio
di tagliare con barriere artificiali, volute, imposte anticipatamente,
l'ordine naturale del discorso. Noi abbiamo paragonato il discorso a un
edifizio: ogni edifizio è forse formato di tré ale, di due, o di
quattro? Meglio ancora, il discorso deve rassomigliare al vivente: le
divisioni organiche del vivente sono esse cosi a priori? Non
dipendono dalla specie?
Se si pensa all'aspetto dinamico del piano, ci
domanderemo se di un torrente o di un fiume non si stia per fare un
canale
— 251 —
a salti. Sarebbe spesso una perdita. Troppa industria,
là dove
10 slancio della natura ravvicinerebbe lo scopo e
renderebbe più efficaci i procedimenti. Nei due casi, si tratti di
ordine statico o d'ordine dinamico, pare ci sia pericolo per l'unità
vivente del discorso.
Non già, notiamolo bene, che non si possa far rientrare
due o tré parti in una unità vera e vivente. Se non si potesse,
sarebbe la condanna assoluta del sistema, poiché nessuna pretesa regola
può contravvenire a una legge. Invece si può; i grandi così
fecero magnificamente, e quando così non si fa punto, si sostituisce
l'abuso delle regole classiche al loro vero uso. Ma è un fatto che
questa unità a tappe corre rischio, in certe occasioni, di non essere
che un'unità relativa. Si faranno allora tré discorsi che si
collegano, come si farebbe un triduo su un dato tema. Sarebbe
davvero tutto un discorso?
Si dice: ciò aiuta la memoria. Ma il miglior soccorso
della memoria è un ordine vero, un ordine necessario, come nota- •
vamo più sopra e dovremo ritornarci su. L'ordine delle dipendenze reali
trascina la mente e svolge la catena dei ricordi. All'opposto, avviene
che, con le divisioni obbligate, la memoria, più logica che
l'oratore, ti faccia saltare dalla prima parte alla metà della seconda,
oppure della terza, perché tale avrebbe dovuto essere l'ordine vero.
Quale conclusione? — Ciascuno scelga. — Ma il
meglio? —
11 meglio, come spesso, consiste nel distinguere. E
notiamo che per distinguere e per deciderci pensatamente, noi siamo
liberi. Fu un tempo in cui l'assenza di divisioni — come l'assenza del
testo — avrebbe urtato, ad ogni modo stupito e mal disposto forse
l'uditorio. Non siamo più a quel tempo. I costringimenti arbitrar!
sono, purtroppo! partiti con la disciplina. Alle antiche divisioni
sapienti, a volte un po' pedantesche, si preferisce anzi volentieri
un'organizzazione del discorso tutta interna, senza distinzioni
visibili, con un centro di attrazione che non si annunzia. In una
parola, si è introdotta una gran libertà, e, senza alcuna
affettazione, puoi valerti di questa libertà per cercare il meglio.
Ho detto che il meglio è distinguere, considerando per
questo le circostanze, il soggetto, la lunghezza del discorso, e anche
l'oratore. Non senza ragione scrisse Paolo Valéry: « Due pericoli non
cessano di minacciare il mondo: l'ordine e il disordine », Ciò si
verifica non solo in politica e in sociologia, ma anche in arte.
— 2B2 —
Vi sono dei casi in cui ima divisione nel modo
classico è evidentemente contro indicata, come quando si tratta di
un'allocuzione, di un'omelia, di un'esortazione, di un'esposizione
avente un ordine proprio, impossibile a escludersi. Ve ne sono altri in
cui la divisione potrebbe intervenire, ma dove l'ordine naturale
dei pensieri non la rende necessaria: allora, essa non fa che ingombrare
e nuocere all'unità di composizione e di movimento, come dicevamo.
Finalmente vi sono dei casi in cui le divisioni s'impongono, cioè
quando lo stesso oggetto del discorso è nettamente molteplice, pur
serbando, poiché è un oggetto, la sua unità fondamentale.
Predicando sulla carità tu sei davvero obbligato a distinguere l'amore
di Dio e del prossimo; sulla speranza, l'attesa del bene divino e la
fiducia nel soccorso divino, eco. Numerosi sono i casi di quest'ultima
categoria, e anche della prima; nessuna discussione si può sollevare al
loro riguardo, e l'esempio dei più grandi oratori conferma le nostre
parole. La questione si riduce semplicemente ai casi misti, in cui la
divisione classica è più o meno favorevole o nociva, ingombrante o
comoda. Allora non vi è nessuna regola imposta all'oratore
contemporaneo; scelga egli intelligentemente, senza feticismo
conservatore o stupida bravura.
Quando il discorso è lungo ed esige riposo, questo solo
può fare scegliere la divisione classica, se il soggetto vi si presta;
ma questa scelta però non s'impone in alcun modo. Altro
è una pausa, e altro una compartizione. Un discorso tutto d'un pezzo,
sotto l'aspetto della sua composizione, si presta molto bene a pause,
purché queste siano preparate. Alla fine di un grande svolgimento, di
un gran movimento, tutti domandano di prender respiro, e tu stesso, per
reazione, senti che bisogna segnare un tempo. Ma ciò non è un taglio,
come nel torrente un breve spazio in cui l'acqua par dormire. Si
potrebbe dire:
Non è necessario avere un piano, nel senso
classico della parola;
ma è essenziale avere un ordine, cioè,
prendendo il proprio uditore là dov'è, condurlo dove si vuole per una
certa via che si giudica la migliore.
Se si ammettono le divisioni, resta da farle bene. Esse
devono essere semplici, facili a ritenere, poiché sono dei segni
indicatori, ed esporrebbero al rovescio se dessero un'impressione di
ricerca e di sottigliezza. Devono esser presentate in modo da favorire
il soggetto e come persuaderlo anticipatamente con la loro evidenza
provvisoria; lo svolgimento non farà altro
— 253 —
che rinforzare l'effetto di queste chiare proposizioni
In altre parole, esse saranno formulate in termini netti, limpidi, e
senza svolgimento prematuro, ciò che è uno scoglio degl'improvvi-
satori.
Devono essere poco numerose, tré al massimo, e
piuttosto due che tré, per i tempi nostri frettolosi. Ma soprattutto
devono ubbidire alle leggi generali della composizione, dalle quali
nulla dispensa, leggi di logica organica, e leggi dinamiche d'azione.
La logica della composizione vuole che le parti
dividano veramente l'idea del discorso e l'esauriscano col loro insieme.
Queste parti saranno dunque indipendenti l'una dall'altra per quanto con
dipendenza dall'insieme. ~Son accavallamenti, non embricatura.
Cosa rara! Sotto pretesto dell'unità di tutto, si imbroglia, si
mescola, dimenticando che per due rami, l'essere essi dipendenti
nell'albero a mezzo del tronco, è essere indipendenti scambievolmente,
senza nessun punto di coincidenza fuori della biforcatura.
Emetti, giovane chierico, a questa condizione quasi ovunque sconosciuta
e fondamentale.
La dinamica della composizione vuole poi che le parti
siano coordinate tra loro in modo da fare avanzare il soggetto, e
discendere come per una pendenza dai principii alle conclusioni, dagli
aspetti generali alle applicazioni particolari, salvo che qualche
ragione non imponga un ordine inverso, ma dinamico sempre e che offra un
accrescimento. Se dici per esempio che il peccato offende Iddio,
l'uomo e Vuniverso, va bene, perché Iddio è il principio di
ciò che riguarda l'uomo e l'uomo di ciò che, a nostro riguardo,
concerne l'universo. Ma rovescia l'ordine, metti l'uomo in capo, oppure
l'universo, tu puoi fare ancora un buon piano parziale, sotto un certo
aspetto, ma come dottrina d'insieme, questo non va più, perché i tuoi
principii si presentano troppo tardi, e sei obbligato ad antiei» pare,
poi a retrocedere per concludere. In qualunque senso ,si diriga il
discorgo, sia pure dal basso all'alto (perché ogni paragone zoppica),
il discorso è un fiume, e, come il fiume, deve seguire la sua china, e
ingrossare per il contributo degli affluenti.
Se si rigettano le divisioni classiche, ho detto che
l'oratore a più forte ragione è tenuto alle leggi naturali della
composizione; infatti solamente nel loro nome si possono mettere da
parte queste regole. L'essenziale è qui di ben sapere quello che si
vuoi fare, lo scopo prefisso, e cercarne i mezzi. Ho già detto come.
Ma, nel momento di comporre, non si insiste mai troppo
— 254 —
sulla necessità di una meditazione intensa, che ti
riveli l'interdipendenza dei pensieri, delle prove, e perfino delle
emozioni,!: • in modo da trovarne i collegamenti naturali, le transizioni,'
"':, come diceva Boileau, termine mal compreso dal Padre
Gratry, . nelle Sources. Quest'arte di cui il legislatore del
Parnaso faceva una gran parte dell'arte di scrivere, non è in vero che
la stessa ;
arte di pensare e di esprimere utilmente ciò che si
pensa. Per ' la fedeltà all'idea, si arriva ai nessi che collegano le
idee tra ' loro, come seguendo il ramo si trova l'attacco delle
ramicelle.
C) la
PEEOEAZIONE.
Un discorso che finisce importa sempre, sotto una forma
o;1.;
un'altra, una perorazione. Non è naturale finire ex
atrupto, ^ lasciando la parola che posa in falso sul vuoto. Quando
succede ;, a un predicatore di fermarsi così, anche solo
apparentemente, : • tutti gli uditori si guardano. Ne conosco uno che
passò per / malato, e fu seguito, con ansietà, in sagrestia.
Nel corso di una sinfonia i silenzi espressivi si
preparano;
si prepara anche il silenzio finale. Vi sono parimenti
dei silenzi nella parola. Bisogna chiudere il ciclo, suscitare la
meditazione ;;
dell'uditore e, perché le impressioni successive si
conservino, ;
fissare i ricordi. ^
Molto spesso, la perorazione è il momento decisivo del
discorso, che ne raccoglie tutte le forze, quelle che si erano 't spiegate
anteriormente e quelle che si tenevano in riserva. ' Allora si riassume
oratoriamente, non necessariamente con un richiamo esplicito di idee, ma
con un concentramento dei risultati acquisiti, di qualsisia natura, e vi
si aggiunge un supremo impulso verso il fine proposto. Qui più nulla
che s'indugi, più nulla di languido o di puramente esplicativo. Alla
mèta! Alla vittoria!
Per altro, non voglio dire che ogni perorazione debba
consistere in un fuoco continuo di artiglieria oratoria, ne siamo ben
lungi! Se l'insieme fu ben condotto, non si ha bisogno di questo tam
tam, perché gli effetti si sono ripartiti e non hanno più da
precipitarsi sul terminare. Tuttavia, una specie di raccoglimento, di
concentramento non può mancare di prodursi o per lo meno di indicarsi,
in procinto di concludere.
La riapparizione sintetica di ciò che è stato
allineato nel discorso produce sempre un grande effetto, se si sa
organizzarlo in falange rapida, trame partito vivamente e conquistare
così
— 265 —
con alta lotta il risultato desiderato. Il risultato,
cioè la cosa da fare, o da pensare, o da sentire, o da amare, in
conseguenza delle considerazioni emesse. È lì quello che deve restare
nella mente dell'uditore: quale atteggiamento di mente e di cuore
dev'egli prendere? quale vita nuova adottare? Tal è la domanda finale,
e ciò dev'essere chiaro, e rimanere.
A tale effetto, la perorazione dev'essere d'un solo
getto, rapida, più dinamica ancora che l'insieme. È la cascata al
termine del torrente. Le riprese e i complementi di dottrina son dunque
vietati. Secondo il punto di vista dell'ardore, là dove l'ardore è di
moda — e di moda in certo modo è sempre — il Padre Granata paragona
la perorazione alla miccia, che interviene quando il cannone è stato
progressivamente caricato di polvere. Ed è quanto dire che la
perorazione deve concentrare le impressioni del discorso stesso. Ma
così ancora dev'essa fare dei sentimenti del predicatore: bontà, zelo,
carità, in cui si riconoscono l'amore e la chiamata di Dio, del quale
il sacerdote tiene il posto.
Anche se hai dovuto riprendere un po' il tuo uditorio,
devi sempre mitigarti alla fine, concludere tutto nell'amore e nella
speranza. Già Maurizio Barrès, parlando di letteratura, diceva:
«Un'opera d'arte deve finire nella calma, nella
serenità» (1). Tanto più una parola sacra, che anche veemente, anche
piena di necessari rimproveri, è un'opera, di misericordia.
Lasciamo i nostri uditori presso Gesù Cristo, presso Colui che è dolce
e umile di cuore, e che non vuole la morte del peccatore, ma che
si converta e viva.
In quanto all'allusione alla vita eterna, che è di
tradizione, conservala esplicitamente, se così giudichi bene; ma allora
un po' d'arte la metta in rilievo; con ciò non intendo il ricorso a
quelle false abilità, agghindate, che preparano una fine puerile. Lo
scopo è di fare sì che un richiamo pio, certamente utile, non
apparisca un rito obbligato e insignificante, una pura clausola di
stile.
Questa commemorazione, ben condotta e bene espressa, è
quasi sempre ammessa. È una visione salutare della beatitudine finale,
che comanda tutto, che è il motivo supremo di tutto. E se è vero che
ciò va inteso, è anche vero che « ciò va meglio ancora dicendolo ».
È un'attrattiva per le anime di fede, ed è per tutte un motivo
esplicito di darsi ai doveri della vita
(1) jisb&mb et jean thabaud, Mes aiinèes chess
Barrès.
— 266 —
cristiana, della quale certi predicatori, ad esempio di
S. Paolo, trovano mezzo d'insinuare lì un compendio in poche parole. 'Son
c'è nulla che, in queste pratiche tradizionali, s'imponga
assolutamente, ne soprattutto universalmente; ma esse si riterranno con
frutto nelle prediche di esercizi o di missione.
Ad ogni modo, la perorazione deve trattenere e stabilire
in buona condizione la mente dell'uditore; deve fissare il chiodo, e
fissarlo abbastanza solidamente perché esso non cada troppo presto.
IV.— Lo svolgimento oratorio.
A) svariate FORME
E TENDENZE DELLO SVOLGIMENTO.
Dopo la composizione .viene lo svolgimento, che sta di
mezzo tra l'assettamento delle idee principali, che è la composizione
propriamente detta, e Velocusione, che si potrebbe chiamare una
composizione verbale, e che corrisponde .allo stile delle opere scritte.
Esistono dei pregiudizi contro lo svolgimento oratorio,
che si riguarda volentieri come una ciancia, una « spuma senza
consistenza », un « sistema a ripetizione », eco. Sì, è tutto
questo ; quando se ne abusa; ma è forse dall'abuso che si giudica della
cosa stessa?
Essenzialmente, lo svolgimento, secondo Aristotile,
consiste nell'estrarre dalle idee tutti gli elementi di convincimento,
vale a dire tutta la luce, tutto il calore, tutta la forza di
attrai-mento che vi si trovano contenuti. Certamente ciò non è vano^
Non si tratta di estendere, ma di rendere esplicito, di esplicare nel
senso etimologico del termine; Giovanni Girandoux propose dispiegare,
per evitare l'equivoco. E non si tratta qui di stem-, perare, come in un
liquido estraneo, un pensiero o un sentimento: si vuole associargliene
altri che ne dipendono. Il buono svolgimento è altresì un
concentramento. -
In una parola, svolgere è procurare alle idee il loro
sviluppo naturale. Il pensiero non è che un grano; la pianta vuoi
crescere, e vuoi fiorire, O se si vuole un confronto del dominio
dell'arte, svolgere è trovare le armoniche d'un suono principale, le
idee secondarie consonanti nelle quali si espande naturalmente l'idea
fondamentale. Sono esse delle sottoidee, se si vuole;
ma che non sono per questo meno importanti, e possono
es-serlo maggiormente.
— 26f —
Svolgendo, si accosta un'idea a ciò che vi si
riferisce, a ciò che vi si oppone, e se ne segnano così i contorni. La
si approfondisce e la si rivolta per farla meglio conoscere. La si
distingue in tutte le sue parti. Si riconnette il proprio oggetto a
tutte le circostanze che conferiscono al risultato voluto. A ciò
servono i luoghi comuni, di cui si parlerà tra. poco. E far
subire alle idee questi trattamenti diversi è farle vivere, è togliere
al piano il suo aspetto di scheletro.
Le migliori idee, esposte con troppa concisione, senza
questo spiegamento, non possono agire sopra un uditore; sono forse delle
verghe d'oro, ma che non hanno corso; bisogna coniarle, e anche,
pensando ai piccoli, non dimenticare la moneta spie-, óiola.
Getta a un uditorio questa frase nuda: « La buona
coscienza • è la legge suprema dell'universo », la credi tu capace
di scoprirgli da sola le immensità che contiene? Digli ancora: «La
preghiera è una ruota del mondo, anche se dovessi aggiungere:
« per se stessa e per Dio », di qual uso ciò sarebbe
per l'uditore, comune, anzi per colui che è colto, ma non frequenta
questi domini! ? Ora, con lo svolgimento tu potrai trarre di li delle
magnificenze. Chi non sa svolgere non sa far niente in materia di
discorso o di stile. Esser rotti a questo lavoro che consiste nel far
germogliare un'idea come un albero e nell'espanderla nel ciclo, o,
viceversa, nel ridurla nel suo grano per un intimo ripiegamento, è
la condizione della parola pubblica e dell'arte dello scrittore.
Quello che dico così dello svolgimento, in quanto alla
sua ragione d'essere, prova già che ce ne sono di più specie, se si
può applicare questa parola a concetti eminentemente plastici, in cui
solo le dominanti si possono distinguere.
Vi è lo sviluppo in superficie, per annessione di
quello che può chiarire l'idea e completarla; e vi è lo sviluppo in
profondità, che scava, che penetra, che cerca di penetrare meglio
l'intimo di una questione, di una definizione, di un fatto, di un
elemento oratorio qualunque. Quest'ultimo caso si verifica in grado
massimo quando parliamo dei nostri misteri; se ne fa il giro; si
guardano in diversi modi; ci si sposta per trovare un migliore punto di
vista; si procede a saggi d'interpretazione, di spiegazione, o di
glorificazione, e tutto questo porta la sua luce.
Talvolta lo svolgimento consiste nel ridurre una
moltipli-cità all'unità, mediante la ricerca delle dipendenze e delle
ras-
^ 17 — SBRTTI'LAN'GES. L'oratore
cristiano^
— 258 — •
somiglianze tra gli oggetti d'indole disparata, e che
finiscono col formare un tutto del quale la loro varietà formerà la
ricchezza.
Sotto un altro aspetto, si può distinguere lo
svolgimento destinato a ingrandire l'oggetto e lo svolgimento destinato
a diminuirlo. Gesù disse: Gli abitanti di Sfinivo fecero penitenssa
alla 'predicazione di Giona, e qui vi è più che Giona. La regina di
Saba venne dai confini della terra per udire la'sapienza di Sa-lomone, e
qui vi è più che Salomone. Modo d'ingrandire l'azione di Cristo
per introdurre il suo regno. All'opposto l'avvocato di un disertore
dirà: Se egli avesse tradito... se fosse fuggito in piena battaglia...
se anche avesse abbandonato un settore tranquillo, ma importante ed
esposto, io lo abbandonerei alla vostra giustizia. Ma no...
Questi ravvicinamenti sono frequentissimi ed
efficacissimi quando si tratta dei vizi e delle virtù, del loro
confronto, della loro dosatura. Avviene pure che si usi la finta e si
affetti di attenuare certi casi di una evidente importanza per meglio
portarne altri al massimo grado, per comparazione: « Aver tradito non
sarebbe niente, se fosse stato per passione, per orgoglio, per ira, per
vendetta. Ma egli ha tradito per arricchirsi! ».
E avviene ancora che lo svolgimento consista nel
paragonare una cosa a se stessa, non trovando niente che le si possa
confrontare, talmente la si vede unica, in bene o in male. Esempio
famoso di Cicerone: « Tu uccidesti la madre. Che dirò di più?,.. Tu
uccidesti tua madre ». Di un martire si dirà anche bene:
« Egli diede la sua vita per il suo Dio. Ohe dirò di
più?... Diede la sua vita ». In questa materia sono gli esempi che
istruiscono;
bisogna cercarli là dove sono, nel loro quadro; qui si
può dare solo degli avvisi.
Lo svolgimento comprende quello che si chiama prepara-isioni,
anticipazioni e precauzioni oratorie, per le quali si conduce
dolcemente l'uditore a ciò che gli si vuoi fare intendere o ammettere,
si prevengono le sue obiezioni, ci si scusa di eia che lo potrebbe
offendere in quello che si sta per dire, si confessa, per spiegarlo o
palliarlo, ciò che egli potrebbe esser tentato di opporti, o si
riprende se stesso per precisare o amplificare ciò che fu
precedentemente enunciato, si avanzano esempi, fatti, idee capaci di
rischiarare, di fortificare e di rendere credibili altri fatti,
altre idee di cui si teme la sorpresa, ecc., eco. Anche qui ci
vorrebbero degli esempi; ma una volta destata l'attenzione, essi
splendono dovunque.
269
B) le LEGGI DELLO
SVOLGIMENTO.
La legge essenziale è che lo svolgimento proceda
dall'intimo, come la vita. Kon già che non si possa partire
dall'esterno, come nelle anticipazioni e nelle preparazioni; ma allora
è nondimeno l'intimo che governa; si svolge in vista di esso, sotto il
suo influsso. E se dall'intimo ti estendi all'esterno, è pur sempre a
cagione dell'intimo. Insemina la crescenza del discorso, nello
svolgimento come nella composizione stessa, si fa per intussu-scezione.
« La rosa non si fa operando sul boccio », scrive un sapiente; ma si
deve passare per le radici e nutrire il succo.
Allora il discorso da un'impressione di movimento
unitario, di movimento naturale. Il discorso cammina e cresce
camminando, cresci! eundo, perché tu presenti vedute successive,
sempre più dilatate, di una cosa che si apre, come le piante che si
sviluppano sul parafuoco. « Io penso tutta un'opera a un tempo, spiega
Paolo Olaudel, e mai si svolge una parte senza che essa senta sopra di
sé il consentimento o il disagio delle altre parti » (1).
Il tutto è primo, anche allo stato di germe; lo
svolgimento non fa altro che mostrarlo in atto di vita.
Svolgendo così dall'intimo, non puoi venir meno a
questa legge comune allo svolgimento e alla prova, di procedere ex
propriis et immediatis. Ex propriis, vale a dire che ogni
svolgimento si deve fare a mezzo di elementi che si riferiscono
strettamente ai soggetto. J3x immediatis, perché questi elementi
proprii del soggetto vi si devono riferire senza alcun intermedio
estraneo. Si sa che i giovani predicatori violano con disinvoltura
questa regola, svolgendo per esempio un caso particolarissimo di virtù
o di vizio con una narrazione del peccato originale e della redenzione.
Tutto risale lì, certamente, ma per intermedi, e se è sempre opportuno
farvi allusione, riferirvisi da lontano, come all'ultima e comune radice
delle cose, non è però questo che deve occupare lo svolgimento, ma
bensì i motivi proprii e i caratteri proprii, Me et nmc, ciò
che tu studi.
Altra legge meno essenziale, ma ancora importantissima,
è di non annegare l'idea ne' suoi svolgimenti, e perciò badare
(1) patii claudbl, Lettre a Jacques Sivière, 25
aoùt 1919.
— 260 —
a queste due condizioni correlative: mettere alla base
degli svolgimenti idee semplici e nette; non aggiungervi svolgimenti,
troppo densi. Se l'idea è limpida, facile a intendere e a ritenere,?
può arricchirsi di svolgimenti senza confonderai; il sole non si
perde facilmente nelle nuvole che lo accompagnano. Ma se queste nuvole
si moltipllcano e si addensano, soprattutto se , l'astro è tutt'altro
che un sole, si rischia la notte.
I maestri, in tutte le arti, badano molto a questo
pericolo. ,. Secondo i pittori, le linee fondamentali d'un quadro o
d'una figura devono essere semplici e il loro accompagnamento a un'
tempo ricchi e discreti, Nella musica di Beethoven, la melodia • e
l'armonia poggiano su rapporti elementari; la gamma diatonica e
l'accordo perfetto ne formano la principale sostanza, ed egli spiega a
Schindler che il discorso musicale per lui con- { siste in una perpetua
stretta del motivo principale o in una corsa '• per raggiungerlo.
Così in tutte le materie il genio creatore si spiega con la maggiore
libertà, sicurezza e ampiezza.
Lo svolgimento ha per scopo di evitare l'aridità del
linguaggio, la sua magrezza, la sua sterilità; esagerato, corre il
rischio della profusione snervata, della tronfiezza e del vuoto, anche
nell'abbondanza. I puri dialettici e le persone poco abituate alla
parola sono esposti al primo difetto; non sanno fecondare • un'idea,
renderla viva e generatrice di vita. Ma viceversa i chiacchieroni e gli
spiriti imbrogliati sovrabbondano. La coppa sia piena e non trabocchi.
Una qualità dello svolgimento che non è una legge, ma
che, nello stile oratorio specialmente, è di un alto valore, è un'arte
di passare da un elemento dello svolgimento a un altro con una "
certa subitaneità, come per balzi, valicando le idee intermedie ;
senza obbligare la mente a fastidiosi avanzamenti. Non
occorre dir tutto, vi sono cose evidenti ed evitabili, alle quali
supplisce la mente. Un alpinista che salta di roccia in roccia ha più
eleganza e fa più cammino che il pedone che segue per minuto? tutti i
declivi. ^
È cosa delicata; devi calcolare bene il tuo slancio; è
essenziale che la mente dell'uditore non si perda; ma lasciare ad essa
la cura dei passaggi facili e mostrarle l'idea ne' suoi di-;
versi stadi, come per subitanee apparizioni, è uno
stimolo della sua attività ricettiva, ed è una gran bellezza. I
profeti e in modo particolarissimo Isaia, sono a questo riguardo sublimi
modelli.
— 261 —
Finalmente vi è una qualità dello svolgimento che
chiamerò una qualità morale e apostolica, in connessione con quello
che, con Pascal, abbiamo chiamato ordine della carità. Lo svolgimento
dev'essere tendenzioso, vale a dire concepito tutto intero, e nei
particolari, in funzione dello scopo finale che è la salute degli
uditori.
Non parlo dello scopo proprio del discorso: questo
regola tutto, fu detto, ed è una legge del genere. Quello che vi
aggiungo riguardante lo scopo supremo non è una legge del genere, ma è
una legge dell'ufficio, una legge dell'uomo di Dio, il cui scopo
finalmente non è di fare un buon discorso, ma di salvare.
Quando si vuole salvare, si colgono tutte le occasioni,
si fa uso di tutti i mezzi. L'uomo apostolico, esponendo un'idea, in
vece di considerarla unicamente in se stessa, ciò che basterebbe a uno
svolgimento eccellente come tale, pensa invece che essa è fatta per la
salute del suo prossimo, per il risveglio degli addormentati spirituali,
per la salute dei peccatori e il progresso dei giusti; egli la svolge in
conseguenza, introducendo nel suo svolgimento senza neppure addarsene,
per la sola ossessione dell'amore, delle conclusioni pratiche, dei
suggerimenti, degli stimoli, delle allusioni, dei colpi di ogni genere
che non permettono di dimenticare lo scopo effettivo del discorso, il
cambiamento di vita che se ne attende e senza di che, per quanto bene
sia costruito, esso è inutile.
Qualche cosa di simile dicevamo più sopra; ma allora si
trattava degli elementi dello svolgimento; questa volta si tratta della
sua forma, o almeno della sua tessitura, prossima alla torma. Non è
ancora l'elocuzione, lo stile, ma ciò lo tocca, e del resto vi si
ritroverà. Infatti l'oratore cristiano deve pensare al suo compito
essenziale per tutto il tempo e non solamente nel momento delle
conclusioni. Alla fine è troppo tardi;
si è perduta una folla di occasioni che non
ritorneranno più. Bisogna che il fuoco si mantenga durante la cottura.
Bisogna che le conclusioni siano prevedute e amate già al momento in
cui si giustificano, anzi appena si annunziano.
Se un'idea apre delle felici prospettive verso grandi
oggetti del pensiero e della pratica cristiana, dirigi lì gli sguardi.
L'uditore abbia costantemente sotto gli occhi i nostri grandi oggetti
cristiani, e i suoi doveri, e i suoi difetti, e i suoi peri-eoli, le sue
malattie morali coi loro rimedi.
Noi non siamo parlatori, ma medici. Non si esige l'orse
che il mèdico, per essere contenti de' suoi servizio abbia l'os-
— 262 —
Bessione della guarigione, piuttosto che scienza? Se
egli sdottoreggia, anche sul caso preciso, con una specie
d'indifferenza per il malato, la famiglia non l'ascolta, anzi da segni
d'impa-, zienza.
Non si tratta affatto di indugiarsi, di lanciarsi nelle
digressioni; parlo dell'orientamento del pensiero che da sé troverà le
sue forme. Ciò è efficacissimo. Gli uditori si scaldano così a poco a
poco. Alla fine, non si ha che da rinforzare e da rendere decisiva la
commozione ottenuta. Ma riservarsi per quel momento è un prepararsi la
propria impotenza. .
Riassumendo, il buono svolgimento è quello che fa ben
vedere, che ragiona bene su ciò che si vede, nella dipendenza dai
principii veri, dai principii proprii e immediati delle cose, e
che con ciò scalda l'anima e la trascina verso quello che si desidera
per lei: il suo bene e la sua salute.
C} I 1TJOGBÌ
COMUNI.
Uno dei mezzi dello svolgimento oratorio, e anche
dell'elocuzione, come dianzi della composizione— infatti, come ho
detto, tra le nostre varie considerazioni non vi sono compartimenti
stagni — è quello che chiamano luoghi comuni, cioè le •nozioni
generali, gli aspetti principali delle; cose che l'oratore può invocare
e di cui si può servire nei casi così svariati che foratore incontra.
'Son si propongono questi quadri astratti per
invitare a rendere meccanico il discorso; sarebbe assurdo attaccarvisi
come a punti fissi. È un mezzo mnemotecnico, niente di più. Puoi
servirtene come ti servi della serie alfabetica per trovare un nome. A
ogni modo, il percorrerli di quando in quando è un ricordo utile, uno
stimolo per lo spirito d'invenzione, come;
dicevamo in generale della rettorica,
Vi sono dei luoghi comuni affatto generali, e ve ne sono
dei7 più particolari. ' ' .-
In generale, puoi considerare in ogni cosa il genere
e la specie, ;. le cause e gli effetti, le parti
e gli attributi permanenti o occa— atonali, i rapporti e
le somigliante, le opposizioni e i contrari. \:
In particolare, oltre a ciò che precede e che si
applica sempre, terrai conto delle circostanze, e questo è
importantissimo. Secondo Longino, la scelta delle circostanze da far
intervenire in uno svolgimento, il loro raggruppamento e il loro
sfrutta-
— 263 —
mento in vista dell'effetto desiderato, è uno dei
grandi segreti dell'eloquenza. La condizione è che esse siano tratte
dal reale, dalla vita, dalle viscere del soggetto, e' non siano di
quelle circostanze vaghe che si sanno a memoria, o che si possono
invocare per ogni fine.
Le circostanze principali da considerare sono le
circostanze di persona, di fatto, di luogo, di tempo,
di motivo, di maniera, di mezzo, ecc. E ciascuno di
questi termini si presta naturalmente a suddivisione, specialmente la
persona. Si rileverà per esempio il nome, la nascita, la parentela,
le eredità, Yedwasione, la 'fortuna, la condizione,
le abitudini, i talenti, le inclinazioni, le affezioni.
In occasione di un panegirico o di un atto di accusa, si sente quanto
giovi tutto questo. E in ogni caso si può aggiungere la considerazione
degli esempi e delle testimonianze.
Supponiamo che tu voglia stabilire una serie di prediche
sulla preghiera. Eadunerai prontamente tutta la tua materia ricordando
che la preghiera appartiene alla virtù della religione {genere);
che è un'elevazione dell'anima a Dio (specie); che,
soprannaturalmente, è un effetto della grazia e, umanamente, un effetto
dei nostri desideri, dei nostri bisogni, dei nostri pericoli, delle
nostre miserie costanti e della nostra confidenza nelle divine promesse (cause);
che ha per effetti un accrescimento di grazia e di gloria, la
riparazione delle nostre colpe, il compimento dei nostri desideri
conformi alla Provvidenza (effetti); che è mentale o vocale,
privata o pubblica, libera o liturgica (parti); che i suoi
attributi naturali sono lo spirito di fede, la fiducia, l'attenzione
della mente, l'applicazione del cuore (attributi permanenti}; che
essa, in questo o in quello, si può aiutare con mezzi particolari e
rivestire varie forme (attributi occasionali); che è imparentata
con la santa vita, col desiderio delle cose celesti e col disprezzo
delle cose transitorie, con l'amore divino e con l'amore del prossimo, e
che ha pure dei legami stretti con la lettura divota, con la meditazione
e con l'orazione che ne sono anzi una forma (rapporti);
che si oppone all'oblio di Dio e delle cose di Dio, alla
tiepidezza, all'indifferenza (opposizione). Questo in generale.
Se si tratta della preghiera per rapporto a uno stato
particolare, a una persona qualificata, come un sacerdote, un religioso
o un santo personaggio del passato, terrai conto delle particolarità
della persona e delle forme della preghiera in ciò che la riguarda, il
tutto sostenuto da esempi e da autorità tratte dalla
Scrittura, dalla liturgia, dalle massime dei santi, ecc,
— 264 —
Si può notare che una delle più alte risorse
dell'eloquenza è nel collegamento armonico del particolare ali'universale,
che si fanno venire incontro l'uno all'altro per concorrere allo scopo.
Così procede Bossuet nelle Orazioni funebri, piene di così grandi
pensieri nello stesso tempo che di precisioni biografiche e psicologiche
personali de' suoi eroi. Così puoi dipingere un paesaggio, una
situazione, un gruppo, un periodo di tempo con tratti ora particolari,
ora generali che si sostengono e ampliano la pittura pure precisandola.
Evidentemente, il buon uso dei luoghi comuni, sia esso
sistematico o istintivo, suppone una conoscenza perfetta del proprio
soggetto, senza di che i quadri saranno vuoti o pieni di spropositi.
Aggiungiamo questa osservazione completiva, che, siccome
la parola cristiana ha sempre per scopo di portare l'uditore al bene e
di trarlo dal male, è utile avere sotto gli occhi i luoghi comuni che
si riferiscono all'uno e all'altro. Il bene è desiderabile in se
stesso, utile, o dilettevole. Al primo titolo, esso è o
Semplicemente appetibile, o lodevole, o glorioso; al secondo:
'utile propriamente parlando, o necessario, o
indispensabile; al terzo: gradevole, seducente, lusinghiero,
facile, eco. ,
All'opposto, il male sarà semplicemente cattivo, o
vergognoso, :
o infame; sarà dannoso, pernicioso, vano,
puerile...; si dichiarerà, triste, affliggente, opprimente,
difficile, odioso... E sotto l'aspetto ' della durata si
distingueranno ancora i beni e i mali durevoli o passeggeri, sicuri o
fugaci, eco. •
Tutto questo è manifestamente in tutte le menti; non
sono " misteri; ma non sempre vi si pensa, e un richiamo di
tempo in tempo è un reale soccorso.
D) I TROPI E
LE FIGURE ORATORIE.
Dico altrettanto per quello che riguarda i tropi e le
figure oratorie, che servono allo svolgimento e serviranno più ancora
all'elocuzione. È bene rivederne di quando in quando le forme;
il loro uso spontaneo ci guadagna, per la vista delle
ricchezze i di cui si dispone e che la mente potrebbe trascurare per
accan- :
tonarsi in un campo ridotto. ';
In rettorica, si chiamano figure certe forme di
linguaggio • che all'espressione del pensiero danno più forza,
colore, splendore o grazia, e che con ciò contribuiscono al suo effetto
ac-', centuando il suo carattere. Dunque, propriamente parlando,
— 265 —
non sono degli ornamenti; usarli così sarebbe un
viziare lo stile: sono forme dell'idea oratoria, poiché questa
è viva, concreta, e mira a qualcosa di vivo, di concreto ne' suoi
risultati.
Vi sono figure di pensiero e figure di parole, che,
prese così in generale, si definiscono da se stesse, e tra le figure di
parole, si chiamano tropi, in particolare, certe figure che consistono
nell'estendere il significato di una parola, nell'applicarlo ad altro. I
celebri versi del Già: «Quell'oscura chiarezza che cade dalle
stelle, finalmente con la marea ci fece vedere trenta vele », è un
tropo, e più precisamente una sineddoche, che prende la parte per il
tutto.
La prova che le figure non sono artifizi arbitrari è
che la gente del popolo ne fa uso più che i letterati, specialmente
quei che frequentano più da vicino la natura, come i paesani e gli
uomini del mare. Del resto, come diceva Malherbe, le lingue, che si
formano nelle pubbliche piazze, son fatte di figure, e tanto più quanto
sono più primitive. Il filosofo se lo spiega riflettendo che il
pensiero nasce in seno ai fantasmi e vi si appoggia incessantemente; che
per conseguenza l'uso delle immagini e delle loro combinazioni o figure
è un effetto della stessa costituzione della mente.
Per la stessa ragione si ha il diritto di dire,
contrariamente a un pregiudizio corrente, che una metafora può essere
un argomento, non per se stessa, ma per la rievocazione di una causa;
che può offrire una generalizzazione illustrativa,
aprire la via a una soluzione. Vi è la verità anche nell'immagine
della verità. ITon dimentichiamo che per Aristotile, abbastanza buon
conoscitore in fatto di dimostrazione, la rettorica e la poetica stessa
fanno parte della logica, e Claudio Bernard, mente poderosa, diceva:
«Io son persuaso che verrà un giorno in cui il fisiologo, lo psicologo
e il poeta parleranno il medesimo .linguaggio » (1). Abbiamo qui
degl'insegnamenti.
Ma se le figure ci son naturali, non è una ragione per
non sorvegliarne l'uso, anzi; infatti questa costituzione della nostra
mente che vi c'invita è un segno della nostra inferiorità nell'ordine
degli spiriti. Uno spirito puro non usa immagmi; egli ha l'intuizione
pura degli oggetti e delle verità, senz'alcun bisogno di « figurarsele
». Se abbiamo bisogno noi; ma è in servizio delti) clatob bbbmabd, Iwtrwiviction
a l'étwde de. te medicine espérimentale.
— 266 —
l'idea, e per conseguenza sotto la legge dell'idea,
avendo veramente bisogno di non annegare l'idea in ciò che la deve far
vivere, di non permetterle di alterarsi, di deviare per impulso nella
direziono dell'immaginazione e dei sensi.
Quando la figura si sostituisce al pensiero, l'uditore
se n'accorge presto; sedotto forse per un istante, si irrita con tè di
aver pensato a illuderlo, a prenderlo nell'agguato delle parole.
Montesquieu diceva dell'Accademia: « Questo corpo ha quaranta teste,
tutte piene di figure, di metafore, di antitesi... ». Era un'ironica
lezione.
Del resto questa lezione si deve applicare secondo le
occasioni. Un uditorio di professori o di tecnici richiede poche figure;
un uditorio popolare ne vuole di più. Un soggetto
dottrinale ne domanda meno; un soggetto di sentimento o un soggetto
descrittivo, di più.
In ogni ipotesi, essendo le figure fatte per l'idea, si
devono preparare e sfruttare in rapporto con l'idea, in conformità con
il carattere generale del discorso, dal che si regola tutto. E la figura
in se stessa, costituendo un'idea immaginativa, se si può dire cosi,
deve serbare la sua coerenza, non andare di forma in forma e non offrire
forme eterogenee all'oggetto. 'Selì 'antichità, si rise di
Plafone stesso perché, nelle Leggi, aveva detto: « Non bisogna
permettere alla ricchezza di prendere piede nella repubblica ». Ai
giorni nostri, il tipo di questo difetto è «il carro della repubblica
che naviga sopra un vulcano ».
Si può dare come una buona regola — per altro non
senza eccezione — che le figure sono felici quando uno se le può
rappresentare, « realizzare ». E se esse devono continuare, non
bisogna che la continuazione sia spinta troppo avanti; si giungerebbe
all'affettazione; ma allora il rimedio è di arrestare la facondia, non
di rimanere nell'incoerenza.
Ciò detto in generale, non si ha guari da insistere
sulle figure di parole, che si affacciano spontaneamente all'uomo colto,
nutrito di letture, di arte e di osservazioni sagaci. Le figure di
pensiero sono meno immediate, per lo meno alcune ,tra esse, per questo
non ne daremo maggiori esempi. Si possono menzionare;
La definizione oratoria, distinta, per il suo
carattere, dalla definizione logica, ma che può — anche in vista
dell'effetto oratorio — confondervisi, come quando si vuole far mostra
— 267 —
del rigore. Può essere breve o sviluppata, ricca di
pensiero o di parole, conglobando allora una quantità di figure
secondarie, di pensiero o di parole.
La divisione oratoria, che consiste nel
distinguere e nell'or-ganizzare oratoriamente delle serie di cose, di
idee o di fatti, oppure nel proporre delle alternative, in vista di una
scelta, o per giustificare la propria scelta.
La domanda oratoria, alla quale risponde lo
stesso oratore, o fa rispondere un personaggio del discorso, o invita i
fatti a rispondere.
La distribusione, che fa oratoriamente la parte
delle persone e delle cose per trame un effetto: II capo di ogni uomo
è Cristo;
il capo della donna è l'uomo, e il capo di Cristo è
Dio. Per questo... (I Cor., XI, 3).
Il ragionamento figurato, che istituisce una
specie di discussione in cui la verità trionfa (per le tue cure).
La ricapitolazione; che accumula oratoriamente i
risultati degli svolgimenti o delle prove, a fine di concludere. È
specialmente, come abbiamo detto, l'arte di concludere delle
perorazioni.
'L'interrogazione, che in certo modo provoca la
verità per obbligarla ad apparire, la persona per obbligarla a
dichiararsi, l'uditore per forzare il suo parere e fargli credere che si
crede per lui o con lui quello che si pronunzia: forma molto viva e
molto oratoria.
L'omissione, che affetta di passare sotto silenzio
una cosa, un fatto pretendendo bensì di produrlo o di affermarlo cosi
con tanto maggior peso « Non vi dirò affatto... eppure!... ».
L'attenuazione, parente dell'omissione, che si
applica a diminuire nelle parole quello che le convenienze oratorie o
l'abilità sconsigliano di esprimere nella sua forza, ma in modo da
conservare la forza: « Volevate darmi una leggera lezione;
era per me un bene; ma l'abisso in cui sono... ».
L'interruzione, che taglia corto, per qualificare,
col silenzio stesso, ciò che s'intende di non esprimere. « II
peccatore è davanti a Dio; l'anima sua gli apparisce; egli legge in sé
la sua sentenza... Chiedetegli, adesso negli abissi dove languisce...».
La sospensione, altro modo di far parlare il
silenzio. Si tiene a bada l'uditore, in attesa d'una rivelazione o di
una soluzione, e la si propone alla fine, sia un effetto sorprendente,
sia un ridicolo aborto. «Lo spavento gli chiuse gli occhi; gli
parve...;
credette di udire.., Alla fine, non potendone più,
schiuse un
— 268 —
tantino le palpebre come sopra un mondo di nemici. —
Egli era solo » (Edgar Poe).
li'esitazione, parente ancora dell'attenuazione, che
affetta l'imbarazzo di fronte a una cosa da dire, di un partito da
prendere, di una preferenza da dare. Questo felice tentennare fa
lavorare la mente e la prepara alla soluzione che si tiene in serbo.
L'enfasi, che fa uso di ridondanza; d'insistenza per
rialzare un soggetto o per abbassarlo, per destare la mente a suo
riguardo e avviarsi a concludere.
La concessione, che ammette, ma per riprendere
sia la stessa cosa sotto un'altra luce, sia un'altra cosa che non si
potrà rifiutare a chi fu buon principe. Il discorso di Antonio,
sull'uccisione di Cesare, è tutto di questa specie.
L'ironia oratoria, che presenta uno svolgimento in
apparenza ostile alle conclusioni desiderate, ma che le favorisce per il
ridicolo a cui va incontro quello che vi si oppone. Così nel discorso
di Demostene per la corona, il racconto delle origini di Eschine.
'L'esempio, la comparazione, il 'parallelo,
l'antitesi, figure importantissime nel discorso, per cui si
accostano o si oppongono elementi capaci di chiarirsi scambievolmente
per somiglianzà o contrasto.
La sinonimia, che insiste per mezzo della
riunione di forme somiglianti e di parole dalle sfumature complementari:
« Demostene è abile, incalzante, veemente; segue il suo avversario su
tutti i terreni e lo combatte passo passo.
La ripetizione, capitale in eloquenza, che
.conficca il pensiero col ritorno della sua espressione, che immerge il
dardo a più riprese, sia in punti vicini, per allargare la ferita, sia,
esattamente nello stesso punto per approfondirla.
La gradarione, che forma un piano inclinato, per
salire o discendere in vista del movimento del pensiero e
dell'ampliamento del tema.
Tra le figure di parole, menzioniamo quella che consiste
nel parlare di più cose nel singolare, nel plurale di una sola, per
concentrare o amplificare l'impressione, accrescerla in entrambi i casi.
« Colui... al quale solo appartiene la gloria, la maestà e
l'indipendenza...» (bosstjet). — «Guarda quei ladri», parlando di
uno solo.
Menzioniamo ancora, la consonanza, frequentemente
usata per rinforzare l'idea con l'insistenza di un medesimo suono che
— 269 —
colpisce più volte l'orecchio: « Aristocrazia,
democrazia, tutte queste crazie si equivalgono » (G.
Clemenceau). Si può anzi cercare lì una specie di argomento, come
quando, volendo rilevare l'infinita varietà degli errori umani, si
allineano tutte quelle parole in ismo, alle quali si annette una
specie di ridicolo, per • la sola grazia del suono. Alla lunga, ciò
può creare un'ossessione che spetta all'oratore di rendersi favorevole,
o una poesia che il pensiero dirige a' suoi fini, come si vede nel
latino dell'Jmì-taisione.
Tutte queste figure e altre simili si possono mettere al
servizio d'uà pensiero, d'una commozione o d'un volere. Ma ce ne sono
che si potrebbero chiamare specialmente emotive, e che :
per questa ragione hanno una grande importanza oratoria.
Sono principalmente: l'esclamazione sola o in serie e come in cascata:
«O rabbia, o disperazione, o vecchiaia nemica...». "L'apostrofe,
che provoca ed eccita la vita del discorso; l'iperbole;
— l'interrogazione insistente e incalzante, la
spada nelle reni; —-la supplicazione, appello rivolto
all'uditorio in vista del suo bene; lo scongiuro, che all'appello
aggiunge un ricorso superiore:
« Vi scongiuro per il Dio vivo... »; l'augurio,
sia esclamativo;
«Dio voglia!...», sia semplice: «Vorrei con tutto il
cuore...»;
V imprecazione, spesso unita all'apostrofe: « Guai
a voi, scribi e .• farisei!... »; l'ammirazione o lo stupore
oratorii, vale a dire appassionati, di fronte a certi casi, certi
spettacoli: « Capite?... ». « Che vedo?... », ecc., ecc.
Una fonte preziosa di svolgimento figurato è
nell'analisi etimologica o logica delle parole correnti, dei termini
popolari o biblici, così pieni d'immagini e di filosofia umana. L'uso
li ha triti e ritriti; bisogna risalire alla loro origine, spesso
geniale. L'analisi del verbo allo stato nascente ne rinnova la
vitalità, gli restituisce il suo ambiente naturale e tutti i suoi
annessi. È una gran risorsa. In questo senso, nell'ordine di
esposizione o di espressione, il peso delle cose dipende dal peso delle
parole come, in sé, il peso delle parole dipende da quello delle cose.
270
CAPITOLO V.
L'elocuzione o lo stile oratorio.
E — II ricorso alle ionti della sacra eloquenza.
Sotto certi riguardi, si potrebbe dire che tutto quello
che precede, per quanto sia importante, anzi per quanto sia essenziale e
in prima linea sotto varii aspetti, non è tuttavia che una
preparazione. La concezione è una speranza; la composizione è un
progetto; lo svolgimento precisa il progetto;, ma l'elocuzione
eseguisce. Dopo ciò — o nello stesso tempo per una parte^ se
s'improvvisa — l'azione darà il lavoro compiuto.
Se si paragona lo sforzo a una navigazione, e cosi è
veramente un poco — a cagione degli scogli, a cagione dei naufragi —
si:
dirà: i piani di viaggi son pronti e le mercanzie sono
pronte,. facciamo vela. Si tratta di dare al pensiero il suo slancio
definitivo, di procurargli tutto il suo spiegamento. Che se per caso
esso non lo meritasse, non ci sarebbe che da fermarsi lì; infatti «
non conviene onorare della parola un pensiero imperfetto » (1);
ma se lo merita, una forma adeguata gli è ancora
indispensabile: « Potete dire mirabilia, scrive S. Francesco di
Sales, ma. se non lo dite bene, non è niente; dite poco e ditelo bene,
ed è molto ». Ma pure, che difficoltà! Molti hanno delle idee, e vi
trovano un ordine; ma esprimersi, condurre in piena luce e con-tutta la
propria forza di comunicazione quello che si è concepito, è cosa
ingrata!
Questa difficoltà dell'attuazione è comune, per una
parte, all'oratore e allo scrittore; ma per una parte altresì è
speciale;. la parola non è lo stile, e se essa non esige maggior
talento, esige più dono, benché si formi anche col lavoro (fiunt
oratores). , Qui non solo bisogna esprimere, ma anche spingere
l'espressione negli altri, fare che essa penetri e trascini l'adesione
con la sua propria potenza. Lo scrittore aspetta che si vada a lui;
(1) shakeseeabb, Troilws
et Crwsido, act. ler.
— 271:—
l'oratore va e forza per così dire la porta delle
anime. Una volta fissata e precisata l'idea, il primo ha compiuto il suo
ufficio;
al secondo invece incombe inoltre il risultato. E i
mezzi per questo son tutt'altri. Ci vuole più umanità, più calore
vitale, più nerbo, più sangue. E così intendo dell'elocuzione in se
stessa, indipendentemente dalla pronunzia oratoria che la mette in
opera. Anche con pensieri forti e ben collegati, è possibile non
ottenere che una stesura debole, se l'andamento dell'elocuzione non ha
abbastanza fuoco. Perciò, anche con la penna alla mano, l'elocuzione
appartiene in proprio all'oratore, come dimostra questa parola:
eloquenza.
Ecco dunque che l'oratore, giunto così al momento di
compire l'opera si vede invitato a valersi di tutti i suoi espedienti. E
più che mai il momento di far ricorso a tutto quello che abbiamo
chiamato gli appoggi inferiori della parola di Dio: la preghiera,
la meditazione, la lettura degli autori favoriti, le impressioni d'arte,
l'aiuto della natura, aggiungi l'eccitamento del lavoro, in grazia del
quale lo strumento intellettuale si scalda e supera in qualche modo i
suoi poteri.
Se questo felice avviamento non riuscisse, sarebbe
meglio soprassedere — supponendo che sia possibile — anziché fare
del lavoro affaticato, e che affatica.- Un autore propone qui un
buon suggerimento. Ti senti impotente a cavare qualcosa da tè stesso?
Supponi di esser tutto a un tratto collocato a faccia a faccia
coll'uditorio, nell'obbligo irremissibile di parlare: è un incubo, e
può destare la tua vena.
Ma il mezzo più generalmente efficace è ancora quello
di guardare, leggere, ascoltare o cantare qualche cosa bellissima;
il coraggio ti rientrerà per i sensi; il contagio del
bello ti stimola. « Io non mi sento mai tanto eccitato a darmi attorno
e a lavorare, diceva Nicola Poussin, come quando ho veduto qualche
bell'oggetto ».
Longino consigliava, prima di scrivere, di chiedersi:
Come Omero o qualche altro grand'uomo avrebbe detto questo? È una
variante. È certo che noi allora eleviamo la nostra mente al livello
dell'idea che ci facciamo di quegli uomini, e la loro presenza alla
nostra immaginazione ci serve come di fiaccola.
Un consiglio pratico relativo al lavoro una volta
intrapreso, è quello di non deciderne troppo presto definitiva la
forma. Quello che sarebbe terminato potrebbe non servire, e
sarebbe lavoro perduto; ciononostante saresti tentato di conservarlo,
— 272 —
e il dannò sarebbe anche più grande. Ma soprattutto,
procedendo così, per brani compiuti isolatamente, l'uno dopo l'altro,
rischieresti di non ottenere il giusto equilibrio dell'insieme e la sua
unità di tono.
Delacroix dipingeva sempre tutto il suo quadro a un
tempo, prima in abbozzo, poi in un certo grado di avanzamento, dopo da
più vicino al compimento, finalmente nella forma terminata e completa.
Accanto a lui, altri artisti, allievi di David, disegnavano in grosso il
loro insieme, poi terminavano parte per parte. Ma, diceva Delacroix,
questo non da un'opera, ma un musaico di brani (1).
Non apparisce che la natura eseguisca i suoi piani in
altro modo che per via d'insieme. Il grano gonfia tutto intero, si
schiude; dovunque si manifestano dei lineamenti prima che si compia
qualche cosa.
Non intendo di dire che se un brano ti si affaccia tutto
d'un pezzo, non lo debba scrivere; nessun dono gratuito si deve
respingere; ma sappi che è cosa provvisoria, che il piano meglio
fissato si modifica in corso di esecuzione per la scoperta di nuovi e
più felici rapporti, e che da ultimo; per l'omogeneità dell'insieme,
una colatura estetica vuoi la rifusione almeno parziale dei pezzi che vi
s'impiegano.
In favore di questa omogeneità, e per aiutare ancora
l'avviamento del lavoro, consiglierò questo. Hai già un brano di cui
tu sia contento, che ti- sia riuscito bene e ti apparisca nella nota
della tua ispirazione iniziale? Prendilo come punto di partenza, e
obbliga la sua tonalità a espandersi in avanti e indietro. È un
prezioso segreto. Una volta che sei nel tono, questo cammina; il piano
si anima; le redazioni troppo sciatte si rinvigoriscono, e il punto
culminante della tua melodia ne determinerà tutto il livello.
Finalmente, stendendo il tuo lavoro, non dimenticare di
collocarti in quello stato di spirito insieme complesso e uno, che a un
tempo regola con saggia economia i fondamenti geometrici del piano, il
suo dinamismo, il fondo dell'idea che tu stendi nell'istante, lo
sbocciare del suo svolgimento, finalmente la sua forma estetica. Così
il pittore pensa nello stesso tempo alla sua composizione generale, al
disegno del suo pezzo, al colore, al valore, al tocco. Nel momento in
cui ci troviamo, si raccoglie il frutto di tutte le preparazioni; ma a
condizione
(1) E. dblaobòix, Jmwnal, II, pag. 479.
— 273 —
che siano tutte presenti, che si rivivano tutte a un
tempo per portarle a buon termine, nel momento che stanno per scomparire
definitivamente. Poiché nulla ne dovrà sussistere. tTon più
impalcature, non più pezzi provvisori, non più macchinario stridente;
ma la vita. Se non che la vita è uno slancio unitario, e a questo
slancio tutto deve concorrere.
II. — Le qualità dello stile oratorio.
A) la VERITÀ DELLA PAROLA.
Quali sono ora le qualità che deve rivestire la parola
per rispondere al suo fine e avere efficacia? Sono, credo, le seguenti.
Prima di tutto la parola dev'essere vera. Con ciò non
intendo più la verità dottrinale o pratica, qui fuori di questione, ma
la verità della parola come parola, cioè come espressione del
pensiero, come manifestazione dei sentimenti, come atto di vita
oratoria, per opposizione a uno stile artificiale e convenuto, formato
di clichés o di cianciafruscole, senza adesione profonda con l'oggetto
che si tratta di produrre.
Ohimè! non è vero chi vuole. I « pedanti » dei quali
parlava S. Francesco di Sales quando raccomandava a Monsignore di
Grenoble di fuggire i loro quamquam, non sono soli a ignorare
questa qualità madre. Vi sono i timidi, le menti poco attive,
gl'inesperti, che prendono lo « stile della predicazione » come
prenderanno sul pulpito il « tono della predicazione », quel suono
artificiale e monotono fuori di ogni relazione con la parola viva, che
ignora l'uditorio, che pare s'indirizzi alle volte, che si serve di un
vocabolario in disuso, che paria di frecce al tempo delle torpedini e
dei gas lacrimogeni, rimette in uso delle locuzioni logore fino alla
trama, ornamenti come quelli delle dame del tempo di Enrico II.
Sinatto stile è deplorevole, perché è vano; un
uditore non ci potrebbe trovare vita assimilabile e non ci s'interessa.
Quanto egli, davanti a un uomo che appassionatamente vuole dirgli
qualcosa, desidera di sapere che cosa e gli presta tutta l'attenzione
dell'anima sua, altrettanto « lascia cadere » una pura cerimonia
verbale.
Che cosa è una parola che non sgorga da un pensiero e
un pensiero che non sgorga dalle cose? La verità del pensiero è
un'uguaglianza tra le cose e l'intelletto; la verità della parola è
un'uguaglianza tra il verbo e il concetto. Concepire le cose
18 — SEBillliAlTOBS. Voratore cristiano, ;
n, non
solamen tedeu^-- ^ gig,nte, ^^ ,de».
^^Sts^^l-S^-
^-T^re^ Ì? peste <ieU'^S:^,las.^.pre^
.1 ^/A ^-. .- - -
Del rimanente, la pesuo ^.- -- .
.'eloquenza religiosa, e la vita propria dello stile, a
sua ^-.^ • - —•••rta. in vece di produrre il pensiero,
l'oggetto,
sua' l'o
l'eloquenza iviiy^».., di affermarsi a
parte, in vece
e di cancellare se stessa.
• —„ •l'orma, della volontà 'propria,
' T - t^''Q. intellettuale
si
i d'-'^i-i.v,.»-,-
di affermarsi a
parte, m vece ux ^,.-
e di cancellare se stessa.
È questa una forma della volontà 'propria, s
per lo stile
come per l'anima ciò non è una virtù La forza
intellettuale si dimostra nell'esprimere semplicemente le più grandi
cose, come la santità nell'essere eroico semplicemente, come la forza
atletica nel sollevare facilmente i più gravi pesi.
— 274 -——
• lo stile. Ed è spe-
"t - r^^^.%rJ ^=
cialmente lo stile ^ ^^unicare, se no"
cazione. Oonie p^ cadevano sopra
gei tu stesso^ ^bbe: ^MevaT^ 22).
Perché la ,
^'IrS^^-Ss^s^ s^sEr»^^ti ^ ww
yanirna cne,_ alia _ composi-e della grazia? ^ ^gcorsi
che si odon0^ gi gente del La ^S^^^ o pie, e nell<^
^ ^^
rioni fittizie ew^,^^^^^^
^^^eirpre^^^^ Ilon buon volere, .ma ctxe
^ ». Come pensatore, il P ^;
«I, predicazione ^e ^ ^^ ^esse e "r^ ^^ ^
el)be la forza di entra ^ ^^ ^ gè, ai g ^ come
oratore, nonto^0 ^ ^Icbe ^^parti, e che,
occhi il suo P^0^^ anonimo ^^e covare eco. .
. -veniente da se, È JJ ^ro, non potrebO ^ ^^ ^ T
non rendendo ^"^o indicato più voì.,..v,ale
non pò- • ' II rimedio ^^^ ora della.^^^l^so^
^^%;^^^^:^
^^=^^^^
^^^o^^^^^-'" noi: anche il iio^0 ^ ^i.
tessi, grandi . le cose, sopra la e^a a ^^ semphc J se ^
^gniio-
• ^fT^ Sozza delle cose che ^P^^eau solamente della
gra™, ,, -rTn gigante, ai061",.,, „,.„,
B) LA PABOlA
DIRETT^
Una forma di questa verità della parola, „ „
„ disporr diretto, ad Uminem, per opposizione a una^scritZa t)s
un libro, fosse pur vera e semplice a modo CpJcS^^^^ è una
comunicazione, la parola vera dev'^, e la parola
dialogo, un'azione drammatica tia l'udito^ ^^b KL?1 che
lo eccita. Benché sul pulpito tu sia solo ^. .eT0?0 nel
tuo teso; le menti ti rispondono de^0^ p^0^
parleresti invano, e spetta a tè di mantenere u dialogo di non
lasciarlo languire. A ciò servono l'interro^ l'apostrofe, gì inviti
all'adesione il noz e il ^, che sono come una moneta di scambio A
questo fine conferisce anch, ^ ^fituzione di persona, che surroga
per mezzo dell'udito^ ^so un soggetto teorico o un soggetto assente^ „
Egli e ^ ^ ^ ^
crederesti morto ». Certi tropi indicati nel^colo dello
svolgimento possono a ciò servire. Qualunque già il mezzo, lo scopo e
di creare un passaggio, di stabilire ^ ^ ^^ ^ ^
della forma umana, che effettua il contatto g ]. scambio
tra
1 •J'J.. 1)
l'.l- 1, -« " v -*-•-• iSv-'CItlllU-'l.U
ijj-<a
la vita ulteriore e l'ambiente che la deve w^
C) LA paeou viva.
\ Una forma viva darà alla
parola vera , ^ ^ ^^
una maggiore forza di penetrazione. Es^ importa assai al
l'effetto del discorso. Per Newman, un disco^ ^ , effettuazione
appassionata »: ci vuole aidore, anc}^ „ quest'ardore si dovesse
dissimulare, per dare anche più al^nto alla propria fiamma segreta. Fu
detto di Shakespeare ^ tava l'espres. sione « fino al punto di esplosa
», quasi ^ , ^, ^ori sacri lo sorpassano ancora, compreso ^ ^
^esso.. Le parabole, ad onta della loro semplicità ^ematica, dimostrano
un senso drammatico potente; t^ i particolari vi hanno risalto e
impongono con forza il tei^ morale
Perché Claudio Bernard ti tiene conio ^ auando ti spiega
le leggi dell'induzione^ Egu non vi ^ eerto, nessun artifìzio,
è la stessa semplicità e non usa ^ ^ola ridondante.Ma si sente un vivo
che paria a ^ e per il quale il soggetto vive; la scienza s
incarna nell'w^' ^ehe nelle cose più positive o nelle più astratte, a
può se^e ^ punta di una fiamma. Di una pietra, il calore fa un astio
— 276 —•
Ce n^ •un gran bisogno in ciò che ci riguarda. Noi
siamo incaricati di fare che il lontano apparisca presente, il
misterioso diventi evidente, l'oscuro chiaro, il complicato semplice, il
dimenticato reso del tutto nuovo: non è soverchio valersi di tutti gli
espedienti di una parola viva. A proposito del discorso cristiano
Novalis scrive: « In un vero discorso, si fanno tutte le parti, si
passa per tutti i caratteri, per tutti gli stati, a fine di contemplare
il soggetto da tutti i lati a un tempo, di sorprendere l'uditore e di
persuaderlo... Ora l'oratore interroga, ora risponde; dialogizza, poi
racconta; pare che dimentichi il suo soggetto per ritornarvi
bruscamente; pare convinto e ritorna accortamente a tergo per aggredire
il suo convincimento;
parla a tutti, anche agli oggetti inanimati. In
una parola, un discorso è un dramma monologato» (1).
In quanto ai particolari, si eviterà il discorso troppo
sminuzzato, troppo leccato, troppo levigato, che rassomiglia a una
fotografia ritoccata, dove gli accenti della vita scompariscono. È
meglio una grinza o anche una verruca piuttosto che una superficie di un
pane di sapone, dove nulla vibra. Non si patrocina la scorrettezza; ma
essa è preferibile al nulla armonioso, e tra i due, vi è il tratto
netto, un po' tagliente, che segna i rilievi del pensiero e fa sentire
la forza. Non rigidità geometrica, di cui non vi è esempio presso i
viventi; ma una linea franca e dei volumi ben rilevati, le cui relazioni
s'impongano.
Per conseguenza, usare di preferenza le parti del
discorso più vigorose: il sostantivo e il verbo. Non temere di
ripetere la parola, quando si ripete l'idea, in vece di ricorrere
agl'insipidi sinonimi. Evitare gli epiteti molteplici e sdolcinati;
adottare solo quelli che dipingono e che aggiungono all'idea, che
aiutano il cammino del discorso, eliminando quelli che raffinano e
s'indugiano. L'uso abile del presente da più vivacità alla
parola, e anche la soppressione dei legamenti verbali non indispensabili
(segreto di Montesquieu e di Longino). Soprattutto i legamenti logici,
gli infatti, i dunque, i perché, i vale a dire, si
devono eliminare per quanto è possibile, specialmente nei momenti di
passione. Fa' piuttosto della saldatura autogena, per fusione di
concetti senza interposizione di corpo estraneo.
I cambiamenti di soggetto menzionati a proposito del
discorso diretto, trovano qui un'applicazione più generale;
essi sono efficacissimi, specialmente se è Dio stesso
che ne ap-
(1) novaus, Fragmenis inèdita. Stock, ed.
— 277 —
profitta e pare così sorgere tutt'a un tratto: « Noi
siamo soli in questo mondo e il mistero delle cose ci opprime; ma voi, o
Signore, ce lo avete detto... ». Queste brusche svolte danno molta
spigliatezza alla parola, e combattono il sonno, speciale nemico
dell'oratore sacro.
-D) la DIVISA DELLO STILE ORATORIO. il LIRISMO.
Quando patrociniamo la semplicità, per la verità dello
stile oratorio, non dimentichiamo che gli è anche indispensabile
un'alta divisa. I nostri temi sono sublimi: la loro espressione vuoi
dignità, un'aria di nobiltà, anzi una certa solennità, digradata
secondo i casi e le persone. Vi è una « naturalezza » di cui dobbiamo
diffidare, ed è la naturalezza volgare, bassa, che sente di bottega o
del fraseggiare di adunanze pubbliche. Noi parliamo un linguaggio sacro;
la predica è un'estensione della Messa; è una liturgia; e non ne segue
che debba essere un canto; ma poiché in certo modo è una parola
profetica, non le disdice punto una certa esaltazione lirica, purché
sia temperata dal senso delle realtà e delle anime.
Del resto, le realtà, le anime e il lirismo hanno ogni
ragione di accordarsi. Il lirismo è il reale stesso, grazie
all'identità dell'essere e del bello. Un vero pensatore, attento
all'essenza profonda delle cose, è sempre poeta; un vero poeta è
sempre pensatore. Il pensatore e il poeta ammirano, e il lirismo,
osserva Paolo Valéry, non è che « lo svolgimento di una esclamazione
». Vi concorrono tutte le arti, ciascuna secondo i suoi mezzi, e
siccome il mezzo è qui secondario, siccome tuttavia ciascun mezzo
specifico esprime il fondo in un modo che non appartiene se non ad esso,
si deve intendere che vi è in ciascun'arte come un'esigenza delle altre
arti. Ogni arte costruisce, scolpisce, dipinge, poetizza; in ogni arte,
vi è della musica e del canto. L'eloquenza, nonché fare eccezione,
abbraccia tutto il fascio. Una certa commozione poetica e lirica, una
certa musicalità in essa è sempre richiesta; essa crea un ambiente
nobile attorno ai nostri pensieri, loda i nostri oggetti divini e
concorre alla persuasione mediante il fascino, mediante il felice
incantesimo delle anime.
Intendiamoci bene, non si tratta di fare smancerie. Il
gusto, il giusto apprezzamento di tutti gli elementi della parola e dei
generi diversi in cui essa si può esercitare dovranno determinare la
misura. Al massimo, la poesia ottenuta sarebbe una
—278 —
trasposizione in prosa di ciò che trovano sul loro
terreno i Verlaine, i Péguy, i Claudel, i Francis James, cioè una
poesia che oltrepassa la vita senza dimenticare di radicarvisi nel più
profondo, che trae di lì i suoi migliori effetti, che raggiunge una
sublime familiarità, affatto realista, a dispetto della sua elevatezza.
Ma d'altronde, perché cercare così lontano, dal momento che ne abbiamo
il modello nel Vangelo, dove tra i discorsi più semplici comincia la
sacra sinfonia di cui la parola apostolica fa parte?
E) il RITMO.
Trattandosi in particolare del ritmo, importa prima di
tutto rimuovere ciò che si potrebbe chiamare un'armonia prestabilita,
intendo quelle frasi bilanciate che tanti predicatori prediligono e che
provocano il sonno, come del resto ne procedono. Quando l'anima dorme,
culla così se stessa; ma non ne segue che una metrica della prosa
oratoria si debba evitare, tutto all'opposto. Ciò che corregge un ritmo
falso non è l'assenza di ritmo, ma un ritmo vero, procedente dallo
stesso pensiero e dalle sue risonanze inferiori.
Una frase oratoria, un periodo, è l'estensione d'un
soffio ed è lo spiegamento di un pensiero; entrambi ubbidiscono alla
legge del ritmo.
Si vede che non si tratta d'imporre il ritmo dopo il
fatto, per un artifizio di scrittura o di parola; ma bisogna attenersi
bene all'origine, alla congiunzione dell'anima e del corpo,
dell'intelligenza e del soffio. Esso tocca il pensiero come la sua
espressione e lo trascina esso pure in una misteriosa cadenza.
. STon si è forse parlato degli « adagio sublimi » di
Bossuet e dei « prestissimo » di Voltaire? ~Sou si trattava
unicamente delle loro frasi. In essi, l'idea, l'immagine e l'armonia non
formano che una sola cosa. È 1' « intreccio (torsade) divino »
di Hugo.
" Quando la musica è unicamente e principalmente
nella frase, lo stile s'imbastardisce e diventa artificiale. Come
avviene a Chateaubriand, a Pierre Loti, quando scrivono frasi
«incanta-trici» come richiami d'uccellatore e che sentono della loro
insidia.
A titolo negativo, si può intervenire in favore
dell'armonia mediante l'eliminazione delle durezze, delle consonanze
penose, dell'iato, eco. Ma in senso positivo, la musica di una buona
prosa deve risultare dallo stesso suo movimento, vale a dire
— S79 —
dalla vita dello spirito e da' suoi atteggiamenti
felici, mentre esso si sforza per il conseguimento del suo oggetto, e lo
allaccia, e lo stringe, con tutte le spire di una fiamma movente, che
arde e non fa smancerie.
Ne seguirà che il ritmo sarà differente secondo
l'anima di ciascuno, che si dovrà badar bene di non copiare il ritmo
d'uà altro. Imitare il canto di Bossuet, di Massillon o di Lacordaire
sarà cosa più sciocca che plagiare i loro pensieri, di gran lunga meno
individuali. Ma il ritmo varierà anche secondo i soggetti e secondo i
passi. Non si parlerà di « Colui che regna nei cicli e dal quale
dipendono tutti gl'imperi » sul ritmo di Ferretto e della sua lattiera.
Se lunghi, i periodi sono più maestosi, e se eccedono, illanguidiscono
e appesantiscono; se corti, sono più agili, ma possono cadere nello
sbocconcellamento e in una leggerezza di andamento poco conveniente allo
stile religioso. Ciascuno badi a scoprire l'anima sua e l'anima di ciò
che egli esprime.
Una parola ardente è naturalmente più ritmata;
all'altro estremo è una parola abbandonata e come indifferente, a guisa
di una respirazione calma. Tra i due, nel corso di una discussione o
d'una spiegazione ideologica, il ritmo cede alle esigenze razionali che
accaparrano l'attenzione. Ma è solo una questione di grado.
Nell'estrema passione, poiché è ammesso un certo
disordine, che è nella natura, il ritmo ne subirà l'effetto. Esso
sarà allora' spezzato, in qualche modo caotico. Non bisogna dimenticare
che il discorso appassionato già non è che una convenzione
superiore, un effetto dell'arte: la passione estrema non discorre.
Sarebbe dunque un errore esagerare la convenzione con UB vibrare
fittizio.
Besta a sapere che cosa si ha da pensare dei versi che
s'introducono nella frase oratoria così come nell'altra. Vi sarebbe
evidentemente puerilità a cercarli; ma accoglierli è almeno lecito?
La legge è di non conservare del verso se non quello
che ne comporta la prosa, la bella prosa, che è una mescolanza di
costringimento realista e di slancio ispirato. Nietzsche osserva
bellamente che l'incanto della prosa consiste nello sfuggire
continuamente alla poesia, pur correndole dietro. Dionigi di
Ali-carnasso, dal canto suo, dice che la prosa ben misurata è una
specie di canto insensibile {cantus obscurior). I versi, se ce ne
— 280 —
sono, non devono sentirsi, non devono imporsi come tali,
non distaccarsi dalla corrente. Si deve forzarli a sciogliersi, in certo
modo, nella libera fusione del discorso, in modo che questo non
ubbidisca se non ai movimenti spontanei e agili dell'anima senza
artifizio interposto.
Ma quanto al resto, poiché l'anima stessa è poetica, e
poiché, nell'unità umana, il ritmo della materia armonica ha il suo
diritto, vi sarà sempre, in ogni prosa ben misurata, una quantità di
versi discernibili all'analisi, versi di tutti i metri, compresi i
solenni alessandrini, se si tratta di una prosa nobile, e dovunque di
quei facili versi ottonari, che fanno miglior vista.
La ragione è perché gli elementi musicali della parola
forniscono sempre un coefficiente che moltiplica tutto il resto, e
perché l'elocuzione, anziché essere esclusivamente l'espressione del
pensiero, è essenzialmente e al medesimo titolo una testimonianza
dell'immaginazione e della sensibilità che la pervadono, della passione
che essa suscita, dello scotimento nervoso e muscolare che trasmette,
del soffio che la regola, in una parola, dell'essere molteplice e uno,
spirito e materia, che l'ha concepita.
1') le
SENTENZE E LE CITAZIONI.
A questa questione del ritmo e della poesia dello stile
oratorio, si connette quella delle sentenze, delle frasi da medaglia, e
indirettamente quella delle citazioni.
;N'on bisogna abusare delle sentenze: ciò nuocerebbe
alla naturalezza, che è una legge infrangibile. Ma è naturalissimo,
quando ti sei spiegato, il chiudere le tue spiegazioni in una formula
decisiva, impressionante, ben abitabile nella memoria, assai stimolante
per la riflessione. Citata a proposito, una sentenza è come una goccia
di liquore concentrato che si diffonde nell'acqua pura; la pienezza di
senso che essa racchiude trabocca e corrobora il tutto. « È vero! »,
dirà a se stesso, l'uditore.
***
"La forma ellittica della sentenza le permette di
fare angolo;
entra e resta. Se credesi a Vauvenargues, si potrebbe
dire che essa fa prova per se stessa, rappresentando nel massimo grado «
quello splendore di espressione che porta con sé la prova dei grandi
pensieri ».
— 281 —
Spesso le sentenze che s'insinuano nel discorso sono
citazioni. Ciò si capisce; perché, prendendo un pensiero altrui, si
ama che sia il più ricco possibile, e inferiore a un piccolo volume. I
bravi ladri non portano via i mobili ingombranti o il carbone dalla
cantina.
Fare delle citazioni è un'arte particolarissima.
Quest'arte è perfetta quando coincide con l'arte di pensare e di
esprimersi per proprio conto. La citazione deve incastonarsi nel testo
in modo da fare corpo, e non presentarsi se non come una sola fusione di
pensiero, retta dalla stessa estetica. Bisogna dunque che la citazione
sia richiesta e come inevitabile; non dev'essere poi continuata,
salvochè non abbia per incarico di concludere tutto.
Perciò un oratore non fa buone citazioni se non nel
caso che egli ne possa fare a meno, voglio dire nel caso che egli sia
allo stesso livello, capace di fornire lui stesso un'espressione
adeguata, se non altrettanto brillante. Se la citazione ti supera
troppo, ti servirà male; in confronto del tuo testo, formerà una
macchia, una macchia di luce, e tutto ne impallidirà. Invece bisogna
che tutto s'illumini. Per questo scegli bene, senza troppa ambizione, e
poi, soprattutto, tenta di rinvigorire fino a quel tono, prima e dopo,
la tua propria luce; traccia la tua curva di pensiero in modo che essa
passi per questo punto non per soprassalto, ma in dolce pendìo, con un
procedere armonico.
Allora la citazione non solo ti avrà servito, ma ti
avrà anche innalzato, e le parole d'un altro che riferisci saranno di
un altro per così dire, poiché non han fatto che esprimere l'anima
tua.
O) la
PROPRIETÀ DELLO STILE.
Un'altra qualità essenziale dell'elocuzione è la proprietà,
cioè un adattamento esatto dello stile oratorio alla natura e alle
convenienze del discorso.
Vi è una proprietà grammaticale, di cui non parliamo
qui, e che consiste nell'uso di una lingua corretta e precisa; ma vi è
anche una proprietà oratoria, ohe adatta la parola non più soltanto al
pensiero in quanto al suo senso ideologico, ma in quanto al suo
carattere estetico e morale, in quanto alla sua tonalità,
alternativamente nobile, familiare, modesta, sublime, triste, gioconda,
timida, entusiasta, tenera, ferma, qualche volta dura, ecc.
——— 282 —
Parlando della composizione, ricordavamo che lo spirito
di una pianta o d'un animale ha un'architettura che gli è propria; esso
ha pure dei tessuti, una contestura superficiale, un colore che
corrispondono alla sua specie: così vi sono parole e forme per tutti i
movimenti dell'anima, 'per tutte le occasioni della vita, per tutte le
circostanze di persone, per tutti i caratteri delle cose. Vi sono frasi
di maestà, di duolo, d'umiltà, d'eleganza; vi è uno stile marmoreo,
uno stile d'acciaio, di bronzo, di ferro, di granito, o di carne.
Un'esatta appropriazione è una forza e un mezzo di svolgimento del
discorso, come della sua verità piena.
La verità delle cose si deve riflettere non solo nella
logica delle nostre parole, vale a dire in proposizioni vere, ma anche
nella forma estetica dello stile, nella tonalità del discorso. Se tu
parli di cose dolorose con parole scherzevoli o volgari, puoi esser vero
quanto alle proposizioni che emetti; ma non sei vero esteticamente,
moralmente, e la definizione della verità: adae-quatio rei et
iwtellectus, non ha soddisfazione completa.
Sainte-Beuve diceva: « Ho sempre pensato che bisogna
prendere nello scrittoio di ciascun autore l'inchiostro con cui si vuoi
dipingerlo ». Ciò si verifica anche delle cose, dei soggetti, dei
temi, e Sainte-Beuve lo indicava aggiungendo: «Io ho osservato i
costumi del mio soggetto » (1). Amiel dal canto suo scrive: « II solo
stile che mi piace, è lo stile della cosa » (2). Ogni cosa ha il suo stile,
come una colonna, come una cattedrale, come un paesaggio, come un
sembiante espressivo.
Ho detto espressivo, perché vi sono dei sembianti che
non dicono gran cosa, come vi sono dei paesaggi senza molto carattere e
dei monumenti senza stile ben definito, e vi sono pari-menti dei
soggetti poco interessanti, poco caratterizzati esteticamente; ma non
sono certo i nostri! Tutti i nostri soggetti hanno un grande carattere.
Se non che hanno, ciascuno, un carattere proprio, ed è a questo
carattere che bisogna imparentare l'elocuzione.
Ciò dovrebbe essere acquisito fin dal principio;
infatti abbiamo detto che la prima cosa da concepire, quando si medita
un discorso, è l'impressione generale del soggetto, l'effetto che è
destinato a produrre, la sua tonalità morale. Ma acquistata questa
prima concezione, non bisogna abbandonarla
(1) SAiMTB-BEtrvE, Oahiers.
(2) amiisl, Jownal, 21 avril 1879.
— 283 —
nell'esecuzione. Bisogna serbare la tonalità per tutto
il decorso. L'unità tonale, questa legge della musica classica, fu
potuta abbandonare senza troppo danno da certi contemporanei; ma essi
hanno dovuto trovarle un equivalente, ^ulla può fare a meno di unità;
sarebbe quanto fare a meno di essere.
Del resto non si tratta di uniformità; la stessa unità
tonale, in musica, non si oppone alla varietà, ma la regola; la
contiene;
dunque la suppone. 'Seììo stesso modo il
discorso è uno, ma non uniforme. La monotonia è uno dei grandi scogli
dello stile oratorio, e la proprietà di cui parliamo ne è
appunto il rimedio. Come saresti monotono, se segui tutti i movimenti
del pensiero 6 del sentimento, e tutte le differenze delle cose? La
varietà è allora acquistata; la verità la porta seco.
La varietà cercata artificialmente non sarebbe che una
maschera; vi si vedrebbe una monotonia che si traveste, e la collezione
dei falsi sembianti sarebbe sempre ben lontana da proporzione con
l'inesauribile varietà della natura.
Dal momento che il tuo discorso non vacilla, tu dici
sempre cose nuove, cose diverse, e se le dici con proprietà, con
verità, tu sei necessariamente vario.
Tu sei inoltre originale; infatti, come non vi sono due
corpi identici, così non vi possono essere due vestimenti pari, se'.
sono tagliati come una tonaéa di S'esso. Proprietà ed esclusività
sono quasi esattamente sinonime; nel discorso si rispondono, per quanto
comune sia il pensiero in se stesso. « Ridire le cose già dette,
scrive Eemy de Gourmont, e fare che si creda di udirle per la prima
volta, è tutta l'arte di scrivere, come tutta l'arte di vivere è di
rivivere, come tutta l'arte di amare è di amare ancora» (1).
E} la mistjba.
1'Tello stesso tempo, bisogna essere misurato. La misura
è una nuwa qualità dell'elocuzione, benché noi l'abbiamo già
richiesta dalla composizione e dallo svolgimento, benché essa debba far
ritorno per l'azione. « Bisogna mettere del giudizio ' da per tutto »,
diceva Poussin.
Un uomo di zelo come S. Francesco di Sales avrebbe
potuto, sembra, trascorrere a qualche intemperanza verbale; ebbene égli
diceva: « Bisogna che le nostre parole siano infiammate
(1) bemy db gotomont, Esthétìqm de la langw
franfaiSe.
— 284 —
non per grida e azioni smisurate, ma per l'affetto
inferiore;
bisogna che esse escano dal cuore più che dalla bocca.
Si ha un bei dire, ma il cuore parla al cuore, e la lingua non parla che
agli orecchi » (1).
Noi troviamo qui ciò che ci s'insegna in teologia. La
carità non ha misura; ma tutte le virtù che essa c'ispira ne hanno
una; tutte hanno il loro « giusto mezzo ». Slmilmente, non vi è
misura nello zelo col quale parliamo; ma nell'elocuzione, è un altro
paio di maniche. In vece di far risplendere tutto, bisogna lasciare
delle ombre; in vece di dar rilievo a tutto, bisogna procacciare delle
superficie piane. Senza ciò, si avrebbe presto il sopraccarico, e sotto
pretesto di mettere tutto in valore, si rigetterebbe tutto a terra.
Del resto la misura dello stile oratorio si deve
ottenere non tanto smorzando i suoi effetti (ciò che a volte può esser
necessario) quanto equilibrandoli, in modo da conservare sempre un
andamento vivo, franco, il cui effetto ultimo è una sintesi prodotta
nell'anima dell'uditore. Ti sei abbandonato alla foga un momento: ti
ripigli ed entri in un movimento lento, troppo lento e soporifero, se
fosse solo, ma che, giustapposto, riposa e forma equilibrio.
Beethoven si vale costantemente di questo espediente. ~Son
sonnecchia mai; è sempre tutto ardore; ma ora il suo ardore si adopera
a correre eroiche avventure, e tutto a un tratto eccolo accovacciato;
che s'inebria d'immobilità e di silenzio, come nell'andante deli'Appassionata,
il suo capolavoro pianistico. Siffatti movimenti d'anima sono di grande
effetto;
offrono la varietà della vita, e nulla prendono in
prestito dalla morte, come un'attenuazione pura e semplice, come un ammortimento,
parola fatale che fa prevedere la sonnolenza e la noia.
I) la SOBRIETÀ.
La misura, la sobrietà possono sembrare la stessa cosa;
ma io non voglio dire la stessa cosa. Per misura,
intendevo l'esatta ponderazione degli effetti; per sobrietà,
intendo il ridurre alla loro giusta quantità gli elementi destinati a
produrre questi effetti e in generale a esprimersi.
La sobrietà è un gran vigore dello stile oratorio, una
condizione di energia, di mordente, di forza. Abbiamo imparato a
(1) st ebamqois db sales, Lettre a Mgr de Orenoble,
— 288 —
sgombrare la composizione, non ammettendovi se non
quello che sostiene, quello che prova, quello che attrae: in materia di
elocuzione, è necessaria la stessa economia. Quando si studia il
soggetto, si procede per minuto, non sapendo ancora dove sì troverà
l'essenziale, temendo di fallire « il nocciolo », ma se si tratta di
esprimere, uno spirito di sintesi deve riassorbire i particolari
(insetti parassiti), come diceva Voltaire. ;
Goethe racconta che Schiller ridusse a sette strofe un
brano che ne aveva prima ventidue, e senza che vi perdesse nulla, anzi!
Boileau, nella sua dissertazione su Gioconda, osserva che «
tutto l'artifizio della narrazione consiste nel non notare se non le
circostanze assolutamente necessarie ». Ciò si capisce;
perché così si provoca il concentramento dello spirito
sopra l'oggetto, per conseguenza l'interessamento. Se si cerca un
effetto di potenza, si otterrà più sicuramente con lo scorcio, con
l'uso di termini a un tempo misurati e comprensivi, simili agli alimenti
che nutrono con un piccolo volume e che non caricano. E l'impressione
della stessa ricchezza non è il risultato di un accumulamento di
elementi, dovesse pur essere giustificata — apparentemente — da
comprensione, da combinazioni per far entrare molti elementi in una
breve frase;
ma procede piuttosto da giudiziose eliminazioni, da un
gioco serrato, che va diritto all'essenza delle cose.
Vedi gli scorci di Pascal! « Increduli, i più creduli
». « Nessuno è felice come un vero cristiano, ne ragionevole, ne
virtuoso, ne amabile ». «Non è strano che una cosa si conservi
piegandosi, e ciò non è propriamente un mantenersi. Ma che questa
religione si sia sempre mantenuta, e inflessibile, è cosa divina ». «
Corre molta differenza tra un libro che fa un individuo e che egli getta
nel popolo, e un libro il quale forma esso stesso un popolo ». « Noi
godiamo di riposarci nella compagnia dei nostri simili. Miserabili come
noi, impotenti come noi, essi non ci aiuteranno; morremo da soli.
Bisognerebbe dunque fare come se fossimo soli. E allora fabbricheremmo
case superbe?...». Tutto questo è parola animata, e «Iella più viva.
Ora il mezzo per riuscirvi non è altro che il sacrifizio. Il risultato
è di far pensare indefinitamente, come davanti alla espressione più
ricca.
Alla scuola di Leconte de Lisle, Sully Prudhomme diceva
; di avere imparato «che la ricchezza e la sobrietà sono date 'tutt'e
due a un tempo dalla sola giustezza »; non si potrebbe dire meglio.
Del resto i mezzi della sobrietà non devono essere
sistema» tici; bisogna distinguere il caso. Qualche volta il caso
cercato vuole del sovraccarico apparente, della macchia verbale, ovvero
della ripetizione, come in quest'esempio: « Tra noi e l'inferno o il
ciclo, sta solo tra due la vita, che è la cosa più fragile del mondo
». Pascal vuole che la mente si porti su questo fragile tra due: egli
lo ripete. Ma per lo più, la forza è nell'eliminazione. « Aggiungi
qualche volta e cancella spesso ».
Per conseguenza, evitar quell'accumulare di sinonimi, in
cui lo spirito manifesta la sua incapacità di scegliere e di andare
diritto alla parola propria. — Evitare gl'incidenti e le parentesi,
quando non sono che fughe laterali, effetto e causa di distrazione, di
dispersione. — Evitare la moltiplicazione delle immagini, dei
paragoni, dei qualificativi, che non aggiungessero niente e producessero
uno svolazzare nocivo. Il pensiero allora si perde in una specie di
barbaglio. E sarebbe cosa assai vana il credere di dare così prova
d'una forte immaginazione. « Poche persone, dice Paolo Valéry,
percepiscono nettamente quanta immaginazione ci voglia per privarsi
d'immagini ». Sì! perché allora bisogna incontrare il reale, più
nascosto che il suo velo brillante.
Finalmente evitare i termini pomposi e saccenti, i
termini tecnici, dei quali i più grandi dotti, come Pascal, Cuvier,
Claudio Bernard o J.-H. Fabre si sono liberati il più possibile,
anziché farne sfoggio, come usano gl'ignoranti o i mezzo abili.
Tutto questo parrebbe semplice, e la difficoltà è
estrema. Ci vuole un lavoro accanito, un coraggio di ferro, e
un'annega-zione che tocca da vicino una virtù morale. Lo scrittore
probo castiga il suo stile come l'asceta la sua carne; rinunzia allo
svolgimento snervato come si rinunzia ai beni di questo mondo in favore
dei beni eterni.
Insemina, un'elocuzione piena, solida, casta, espansiva
e contenuta: ecco il nostro voto.
J) il MOVIMENTO
ORATORIO. la VEEMENZA, E L'ENTUSIASMO ESAGERATO.
Il dinamismo della
composizione ci è sembrato un carattere essenziale di un'opera
oratoria; l'esecuzione introduce questo carattere sotto il nome di movimento,
ciò che, nel plurale, designa certi periodi particolarmente attivi, e
nel singolare, un andamento generale che deve sempre avere qualcosa
della valanga o della corrente d'acqua.
— 287—
La regola, in tutti i casi, è che il movimento parta
dal fondo e sia come lo scorrere naturale dell'idea, o il suo esplodere,
secondo l'occorrenza. Ogni movimento artificiale, voluto, è una
mancanza contro l'arte, una fatica per l'uditorio, un impedimento
dell'effetto. Dal momento che il discorso cammina sulle tracce del
pensiero e del sentimento, essi stessi sottomessi alle cose, un declivio
o una subitanea depressione trascinano o precipitano la parola; un
ripiano la ritarda; un rialzo del suolo la trattiene.
Se il soggetto è tutto unito, come una semplice
spiegazione, lascialo in ciò che è; contentati, in fatto di movimento,
degli effetti provocati dai piccoli accidenti della strada. Se entri in
discussione, il movimento diventa come la « danza » del boxeur attorno
all'avversario, o come la corsa del bell'atleta, o come lo sforzo ora
bilanciato ora agitato del lottatore. Ma sempre, e qualsisiano le sue
variazioni, a volte estreme, il discorso deve rimanere di una sola
colatura, come esige l'unità della concezione primitiva e della
composizione che se n'è tratta.
In qualsisia momento si produca un movimento oratorio,
questo movimento dev'essere preparato con tutto quello che lo precede, e
utilizzato con tutto quello che lo segue, di modo che in verità da un
capo all'altro non vi sia che un solo movimento, come nel flusso
dell'onda.
Se sei riuscito a provocare una commozione, a far
brillare una chiarezza, non tagliare corto: è il momento di prolungarne
l'effetto, fosse pure per un contrasto. Un altro effetto che succedesse
senza legame col primo non farebbe che di-;
struggerlo, in attesa di essere distrutto esso pure.
Vi sono delle transizioni tra i movimenti del pensiero, come tra i
pensieri nel loro tenore ideologico. La differenza è che non si possono
determinare astrattamente, perché dipendono dalla vita delle idee in
seno all'oratore più che dalle idee stesse; è l'istinto oratorio che
le trova, aiutato dal giudizio, e questo giudizio si forma al contatto
dei maestri, al contatto più fecondo ancora dei soggetti intimamente
vissuti, al contatto delle anime.
Quando il movimento oratorio arriva al massimo, si parla
di veemenza. Ed è una qualità, a condizione che sia
giustificata dall'oggetto e conservi la giusta misura. La veemenza senza
motivo è ridicola; è glaciale, per reazione dello spirito offeso.
Il fuoco oratorio deve manifestare, se posso dire così, la
temperatura naturale del soggetto, non solo lo scaldamento dell'oratore.
— 288 — .
Se la veemenza si giustifica, bisogna ancora che essa
non oltrepassi i limiti della sua giustificazione, sia come grado, sia
come durata. Nessun soggetto si presta a una veemenza continua. «
Pegaso cammina più spesso che non galoppi », diceva Flaubert. Anche
nel caso in cui l'insieme è veemente per definizione, qualche riposo
deve servire di preparazione alle riprese; vi saranno pure dei retro
cedimenti apparenti, come l'onda sulle spiagge, e il discorso non sarà
che più forte.
La continuità stanca; per fatica, si ricade dal punto
in cui l'oratore ti aveva portato. E poi la natura protesta; il tuono
non romba sempre; vi è la « calma terribile » della tempesta. Nel
corso dello svolgimento più vivo, sei pure obbligato a inserire dei
brani descrittivi, delle definizioni, delle osservazioni psicologiche,
ecc.: le farai tu galoppare e ne falserai così il carattere?
Là dove la veemenza è al suo posto e non eccede punto,
ha degli effetti che sembrano opposti alla logica della parola, alla sua
misura esatta, alla sua perfezione. La passione ha le sue proprie
misure; il tutto sta che essa le serbi e non rompa mai il compromesso
tra le regole correnti della parola e la sua sregolatezza. Abbiamo
spesso citato S. Paolo come il più ammirabile spregiatore delle logiche
astratte, degli ordini convenuti e degli assetti verbali; ciò non
gl'impedisce di essere uno stretto logico e di valersene. La passione è
logica quanto la ragione, in una certa maniera; anzi in una certa
maniera è più logica, essendo più strettamente legata che la maggior
parte dei concetti al determinismo della natura. Del resto il discorso
appassionato di S. Paolo deriva dalla soprannatura, da un'ebbrezza
divina che non permette all'autore un andamento regolare. Egli balza
d'impazienza sublime; non lascia alla parola il tempo di formarsi, ma
afferra l'espressione per mezzo della parola saliente come si salta su
un albero per il ramo che pende, in vece di passare per il tronco e per
la biforcatura.
Ciò crea uno stile speciale di cui non bisogna abusare,
ma che, a tempo e luogo, può riuscire a tutti. Per esempio si
lanceranno degli appellativi disposti in gradazione prima di dire a chi
o a che cosa si riferiscono, dei verbi prima che si conosca l'oggetto
dell'azione. « Parlate, cantate, gridate, urlate, ruggite, io non me
curo ». « O insensato, perverso incomprensibile, odioso e sciagurato
nello stesso tempo, il peccatore! ». Frasi di questo genere, a freddo,
sarebbero ridicole; nella foga, fanno bene, e lo stesso avviene di tutte
le arditezze, anzi di tutto ciò
— 289 —
che chiamano « felici negligenze ». Una volontà di
arditezza o di negligenza è sempre una colpa; ma nello stesso tempo non
vi è feconda saggezza se non quella che imbriglia una foga legittima,
come la sobrietà preziosa è quella che disciplina un'opulenza di
spirito.
K} I
TBE GRADI DI STILE OBATOHIO SECONDO S. agostino.
Possiamo ora apprezzare la divisione classica di S.
Agostino rispetto allo stile oratorio. Il Dottore distingue ciò che
egli chiama stile comune, stile moderato, e stile sublime.
Questi tré gradi sono tolti da Cicerone, che fa menzione dell'elocutio
parva, modica e magna, che da modo di esprimersi submisse,
temperate, granditer. Ma questo è preso soprattutto dalla natura
delle cose. Gli estremi e il mezzo si trovano da per tutto.
Certi oggetti della nostra parola sono ordinar!,
correnti, tolti dalla trama ordinaria della vita; altri sono di un
ordine più elevato, ma ancora medio; altri finalmente sono « sublimi
», presentando, cioè, i più alti aspetti della vita, i più
importanti, i più decisivi rispetto a ciò che cerchiamo col meglio di
noi stessi. La parola si deve piegare a queste differenze, se vuole
^raggiungere quello che Quintiliano chiama apte loqui. È questa
una delle forme dell''adattamento di cui abbiamo fatto l'elogio.
E ciò dimostra, nello stesso tempo, che la
distribuzione de^ tré modi non dev'essere arbitraria. Si tratta di
pensare giusto, di prendere un giusto sentimento delle cose, e di
pesarne poi esattamente l'espressione. Siccome tuttavia la natura delle
cose oratorie è in parte opera nostra, giacché noi scegliamo, se pure
non creiamo, le cose di cui vogliamo parlare e l'ordine in cui le
presenteremo, vi è ragione di consigliare qui la varietà, in modo da
evitare la fatica dell'uditorio, pure valendoci de' suoi mezzi di
attenzione e di ardore. ~Son sempre sopra la nuda terra; non
sempre sopra le alture; meno spesso ancora, forse, tra l'uno e l'altro,
atteso quello che abbiamo detto dell'equilibrio per via dei contrari.
Dello stile semplice o wmv,W, non vi è nulla da
dire di speciale. JSiulla parimenti dello stile medio o temperato,
che partecipa dei due estremi e si caratterizza per mezzo di essi. Ma è
utile notare che cosa s'intenda per lo stile sublime, o grande,
19 — SERTilLAsaBS. L'oratore
cristiano. ,
— 290 —
a fine di evitare false nozioni e di tutelare la verità
della parola, nostra regola suprema.
Longino che fece un trattato del sublime, e Boileau, che
lo tradusse e lo commentò, sono d'accordo con tutti circa la sua
definizione. Si tratta di una forma di espressione abbastanza viva e
abbastanza concentrata da mettere la verità in tutta la sua luce, e
darle una specie di evidenza splendida che trasporta a suo malgrado lo
spirito dell'uditore. Questo spirito è gettato in una specie di
contemplazione che gl'impone autorevolmente l'ammirazione e
l'entusiasmo, prepara la sua eventuale adesione, provoca in lui una
generosa stima di ciò che esso ha di meglio e lo aiuta a ritrovare, se
li dimenticasse, i suoi titoli di nobiltà.
Il discorso ordinario può persuadere; ma ci vuole il
tacito consenso dell'uditore, la sua libera riflessione: il sublime
invece lo trasporta.
Il sublime non esige espressioni straordinarie, rare o
magniloquenti; anzi le esclude, se esse si allontanano dal vero. Le «
sottili malizie » che Sainte-Beuve diceva di scoprire in Victor Hugo
non han nulla di sublime, salvo la loro pretensione. All'opposto, il «
Caino che non dorme » della Legende des Siècies, è affatto
semplice. Legouvé osserva che Corneille non ha neppure messo il punto
di esclamazione.
La condizione del sublime, presso l'oratore, è
l'intensità della sua meditazione, il calore della sua immaginazione e
del suo cuore. Ecco tutta la ricetta. Non vi è bisogno neppure di
grandi facoltà. Il curato d'Ars non era un genio, e disse parole
sublimi. « II soffrire passa, l'aver sofferto non passerà ». « Se si
sapesse che cosa è la Messa, si morrebbe ». Queste son grandi visioni,
e il visionario non è a Pathmos.
Se sei dotato dall'alto, tanto più farai tali trovate;
ma non è necessario. Quello che non è in noi è nel nostro oggetto:
non si ha che da coglierlo. Noi maneggiamo dei lampi, dei tuoni e delle
lance di arcangeli: se tratto tratto non siamo sublimi, siamo ben
dappoco. Diciamo meglio, non siamo dei veri apostoli, dei veri uomini di
Dio. Ma tali saremo anche meno se mirassimo al sublime per artifizio,
senza profondità di convincimento e di studio. Allora non si vedrebbe
in noi che quei « commedianti delle grandi cose » di cui parlava
Nietzsche.
Aggiungiamo che il sublime, per produrre il suo effetto,
ha bisogno di una preparazione e di una continuazione, come dicevamo
più sopra dei movimenti. Il caso è a volte identico; per
— 291 —
, ^ lo meno è simile. Per avere il sentimento di una
vétta, bisogna esservi salito e ridiscenderne. La nota folgorante del
sublime deve rischiarare tutto, in avanti e indietro, cioè giustificare
e consacrare quel che precede, come trascinare verso quel che segue.
Sono sempre le medesime idee che ritornano; ma perché le leggi generali
si ritrovano da per tutto.
j&) ilLAVORO DELLO STILE E LA SUA PERFEZIONE.
Se, per finire, parliamo del lavoro dello stile e della
sua perfezione, noi corriamo rischio di essere interrotti dall'im-^
provvisatore. Ma oltreché anche l'improvvisatore ha uno stile e lo deve
« lavorare » in una. certa maniera, noi abbiamo osservato che
l'improvvisazione, se dev'essere seria, s'impara, e s'impara scrivendo.
Vi è qui pertanto materia di riflessione per tutti. La buona
elocuzione, scritta o verbale, esige che tu sia rotto al maneggio del
vocabolario, delle torniture, del collocamento , delle frasi, delle
successioni dei periodi, e ciò suppone il « lavoro », nel senso
speciale che lo pigliamo qui. Il pittore non disegna forse tutta la
vita, come il musico fa delle gamme, come il cantore vocalizza? Ogni
tecnica approfondita vuole un'ostinatezza che mai non si smentisca, che
sempre ricominci ad acquistare quel che ieri si credeva di avere
acquistato. « Ci vuole una volontà sovrumana per scrivere, gemeva
Flaubert, è io non sono che un uomo ».
Si può notare che questo acquisto sarebbe grandemente
facilitato, se nelle nostre conversazioni mirassimo di più alla
correttezza e all'eleganza semplice del linguaggio. Succede invece il
contrario; meno obbligati dal mondo, noi ci rilassiamo, e il nostro
carattere religioso non giunge sempre a convincerci che, per questo,
carattere, noi siamo imparentati in tutti i modi .col mondo superiore.
Comunque, se il nostro zelo del perfetto non si decide
che sul lavoro, almeno allora abituiamoci alla severità. Ci si abitua
così presto alla facilità! E ciò diventa irrimediabile, come l'abito
di certi vizi. Il giudizio stesso vi perisce; si pensa che « va bene
», quando ci sarebbe una lunga tappa da varcare per giungere alla mèta
della propria strada. «Molti scrivono dei libri, dice Massimo Gorki; ma
assai pochi ne hanno vergogna dopo ». Nondimeno, questa sacra vergogna
è un gran segno di vocazione letteraria e lo stimolo del progresso.
— 292 —
Per incoraggiare se stesso
nello sforzo, Goethe, quando poteva, era solito di sospendere la sua
seduta di lavoro in un punto interessante, quando era bene avviato, e
non in uno dei nodi che alla nostra impazienza pare che mai non si
debbano sciogliere. Non si usa mai troppa astuzia con la pigrizia
essenziale che ci tiene. Tuttavia il termine del nostro sforzo non è
forse stato fissato da noi stessi? Quella forma perfetta che noi abbiamo
intraveduto nel momento dell'ispirazione primitiva, è quello che ci ha
messi all'opera; essa esisteva antecedentemente nella nostra intuizione:
sia essa sprigionata; sia eliminato, « castigando », tutto quello che
non è lei; senza di che è a noi stessi che abbiamo rinunziato. Vi è
un voto di perfezione in tutte le cose, dice S. Tommaso d'Aquino: se
l'arte risponde alla natura, deve tendere anch'essa al perfetto. Perciò
amo quel detto di un giovane scrittore al quale, dopo un lavoro prodotto
tutto di un getto, si domandava: « Adesso che cosa farai? » e
rispondeva: « Cominciare ».
Si comincia veramente quando si è finito, e quando si
è finito di cominciare, si ricomincia. Bisogna riprendervisi molte
volte, con intervalli. « Sette anni tra le due riprese », diceva un
autore, credo, con un po' d'ironia. Certuni ricopiano senza stancarsi
ciò che hanno scritto, a fine di meglio giudicare tutto al passaggio.
De Bonaid ricopiò quattordici volte, si dice, la sua risposta alla
signora di Stael. Se ciò si porta via del tempo, che importa? È tempo
bene impiegato quello che ci avvia al perfetto. Lavorando, non si pensi
a finire. La fine è tutto il tempo. Quello che non è concepito ed
eseguito fuori della durata è opera effimera.
In ciò che riguarda l'eloquenza, bisogna però
distinguere tra discorsi che si pubblicano e discorsi destinati
unicamente ad essere pronunziati. Nei due casi il lavoro non è lo
stesso. Per la pronunzia, ti applicherai a conservare quei caratteri
dello stile parlato che abbiamo detto necessari alla vita oratoria e
che, oggi, sono tanto ricercati nel teatro. Per la pubblicazione, ti
accosterai maggiormente allo stile scritto, e la correttezza, la
squisita precisione del linguaggio riprenderanno un valore che la
semplice audizione non esige.
Nei due casi, bisogna sostare al debito punto e non
confondere la cura della perfezione con la ricerca eccessivamente
minuziosa dei perfezionamenti. Avviene che « il perfezionare si oppone
al fare con perfezione» (1). Poiché il giudizio che corti) P. vaiébt,
Discwtt» de reception a VAcadémie franfaife.
— 298 —
regge è instabile come quello che crea, avviene che si
vada a tentoni e che si giri in cerchio; in questo caso, è la sorte che
decide del progresso o del regresso della forma. Giorgio Des-vallières
scrive: « Io voglio fermarmi prima del momento in cui il sapere,
cessando di essere un mezzo a servizio del sentimento, comincia a
contare per se stesso ». Questa risoluzione, valevole per il pittore,
è assai più valevole per l'oratore cristiano, per l'apostolo. È
veramente allora che la forma, la frase è ridotta d'ufficio al compito
di strumento.
Si lavori senza interruzione finché l'opera non si
trova al punto, alla tua propria misura, se non alla sua. L'andare oltre
sarebbe un togliere al discorso la sua felice freschezza; si avrebbe del
lavoro « faticato », nel senso dei pittori, senz'aver più nulla di
quello stato nascente che è l'incanto degli abbozzi, che pa-rimenti non
è estraneo a una esecuzione perfetta. La tua ambizione, se pure ne hai
una, è non solo quella di non esser ripreso per un difetto, ma se ti è
possibile, quella di ottenere qualcosa di grande.
Finalmente, qualsisia la dose dei ritocchi, è
importantissimo operarli a suo tempo, non troppo presto, in modo da non
ostacolare e paralizzare il lavoro creatore. La stesura letteraria,
qualunque ne sia l'oggetto, importa una collaborazione dell'incosciente;
e noi abbiamo riconosciuto nell'ispirazione, che è richiesta sino alla
fine del lavoro, una parte di sonnambulismo: giova rispettare questo
stato e, prima di criticare se stesso nei particolari, giova darsi
arditamente, a benefìzio dell'insieme.
Ho detto arditamente, non in fretta. Una premura
febbrile non conduce che a un lavoro fatto alla peggio. « Affrettati
lentamente ». « Scrivendo affrettatamente, osserva mirabilmente
Quintiliano, non s'impara mai a scrivere bene; ma scrivendo bene,
s'impara a scrivere in fretta ».
294
CAPITOLO VI.
La memoria.
; , I. — Come sviluppare la
memoria.
Già abbiamo parlato della memoria a proposito dei
metodi dell'oratore, ma dobbiamo ritornarvi su un poco, senza per altro
insistere, avendo detto l'essenziale, che è lo stesso per tutti i
lavori della mente, ne La Vie intellectuelle (1).
:N"on tutti godono di una felice memoria; bisogna
accontentarsi di quella che si ha, e quanto meno essa serve di per sé,
tanto più è necessario imparare a servirsene. Si potrebbe credere che
se si improvvisa, la memoria diventi più o meno inutile; la verità è
che la sua necessità è solo meno evidente e meno immediata. Quando
s'impara a memoria, bisogna sapere perfettamente bene; ma s'impari o no,
si scriva o no, bisogna sempre ritenere molte cose, e ritenerle
perfettamente, specie se si è adottato il metodo misto sopra esposto.
L'improvvisazione è sempre relativa.
Di più, e questo è molto più importante, se non si
scrive, è tanto più necessario costituirsi un repertorio intcriore
d'idee, d'immagini, di fatti, di definizioni, di citazioni da servirsene
in ogni circostanza. Quanto più s'improvvisa, tanto più si ha bisogno
di disponibilità abbondanti. L'operaio che va in città senza ben
sapere che cosa. gli sarà domandato, porta seco tutti i suoi attrezzi.
Bisogna dunque sviluppare la propria memoria, e ciò non
a modo dei pappagalli, ma con intelligenza, cioè ottenendo di
ricordare mediante la riflessione.
Il carattere essenziale di ima memoria utile, è quello
di essere organizzata, cioè contenere elementi connessi tra loro per
una logica interna, come schede ben classificate. Se tutto è alla
rinfusa, non vi si raccapezzerà più che in un cassetto
(1) Ch. VII, B.
— 295 —
senza ordine. E il mezzo mnemotecnico per eccellenza, m
ciò che riguarda almeno il principale, è dunque l'abitudine del lavoro
approfondito, attento ai rapporti delle cose.
II. — Come valersi della memoria.
Supposto che la memoria sia sviluppata, o prendendola
com'è, vi è ragione di domandarsi come meglio servirsene in ogni
circostanza. Vi sono metodi che si possono chiamare materiali, perché
consistono nell'associare il ricordo di varie parti o elementi del
discorso a oggetti sensibili, a volte assurdamente scelti, come le
proprie dita, le colonne della chiesa, le finestre o i mobili. Si invita
così la mente ad allontanarsi dal pensiero nel momento in cui esso si
concentra.
Certi si rappresentano il loro manoscritto e, in certo
modo, vi leggono quello che essi declamano. A un visuale, questo può
servire, e in questo caso un manoscritto accidentato sarà meglio che
una bella copia, specialmente a macchina. Ma ciò parimenti non è guari
intelligente, e il miglior ricorso della memoria, in materia
intellettuale, non è forse l'intelligenza'?
Dicevo or ora che la nostra memoria abituale dev'essere
organizzata; lo stesso è della memoria attuale. Per ritenere, bisogna
guidarsi sulla logica delle cose, sulle associazioni riflesse, in tal
modo che la mente sia, per così dire, forzata a ricordare per il
bisogno che ne ha. L'idea di un antecedente autentico richiama di per
sé quella del conseguente, e così di tutti i rapporti.
Il vantaggio di questo metodo non è unicamente nella
facilità che offre per ricordare; esso elimina il rischio, nel caso in
cui uno non si sovvenga. Tu dimentichi questo o quello, ebbene ti manca
quel tanto; ma se i tuoi ricordi sono organizzati, non si tratta che di
un vuoto da colmare, e troverai al di là la tua continuazione. ~Sel
caso contrario, un vuoto qualunque può gettarti nello scompiglio, e tu
resti breve.
Inoltre, anche quando tu ti sovvieni, la tua memoria, se
si appoggia su un piano, ti permette di intercalare idee nuove, di
sostituire quelle che, davanti al pubblico, ti sembrano meno buone, e
ciò senza sconcertare tutto nei tuoi ricordi, come avviene quando
s'impara materialmente. Allora si è schiavi; non si può lasciare la
ringhiera senza fare un capitombolo. "
— 296 —
Impara dunque a memoria non attaccandoti alle parole e
alla loro successione, alle frasi e ai loro legami accidentali, alle
pagine e al loro aspetto grafologico, al ritmo e alla figura dei
periodi, ecc., ma tenendo saldo il tuo piano. Questo piano sia sempre
presente alla mente, vagamente percepito nel suo insieme e nell'atto di
rischiararsi parte per parte in proporzione che si avanza. Se il
pensiero è sempre avanti, formando come una passerella tra ciò che si
è detto e ciò che deve logicamente seguire, l'espressione è libera,
tra l'uno e l'altro, di modificarsi, di valersi di una buona
ispirazione, senza che la sicurezza della parola ne sia compromessa. Il
discorso adunque sarà sgorgante, anche detto a memoria, nella misura in
cui la memoria sarà stata legata allo spirito creatore.
La dizione ne sentirà gli effetti; la recita è assai
più monotona, quando la memoria è puramente verbale. Ciò che si
recita si canta; ciò che si crea o ricrea, si parla.
Cerca il piano necessario, dicevamo; trovatelo,
avrai anche la memoria necessaria; queste cose son fatte per andare
insieme, come la rotaia e la ruota, come il canale e l'acqua che vi
s'immette. Tu imparerai la predica come è stata fatta: per mezzo della
sostanza, e la reciterai nello stesso modo. Vedrai il tuo grano
rifiorire sotto i tuoi occhi. Ciò non si dimentica.
III. — Alcuni consigli pratici.
Ecco, a titolo di complemento, qualche utile indicazione
circa la memoria:
1. Se tu impari una predica poco prima di pronunziarla,
non ti permettere di declamarla, sia ad alta, sia a bassa voce,
soprattutto, forse, a bassa voce; ciò affiochisce la voce, congestiona
la laringe e ti fa salire in pulpito stanchissimo. Si faccia tutto in
immaginazione, anche il suono, le cui immagini — specialmente se si
tratta di un auditivo — aiutano la memoria, come la rima e il ritmo
dei versi.
2. Approfitta, per fissare la memoria, del lavoro
incosciente della notte. Impara alla sera, rivedi quando ti desti. Ciò
vale per il pensiero e vale anche per la memoria. Si fa una filtrazione;
le coordinazioni si stabiliscono da sé, e si resta sorpresi della
facilità con la quale si circola in ciò che sembrava una folta
boscaglia.
— 297 —
3. Negli ultimi istanti, prima di salire in pulpito,
ripassa il discorso non più in particolare, ma a larghe occhiate, come
il corridore guarda la pista prima di slanciarvisi, per non sbagliare i
suoi giri. Tal momento è favorevolissimo a un'ultima fissazione,
perché tu sei allo stato vibrante, con lo spirito desto dal pericolo.
È un pericolo la parola! Il suo avvicinarsi ti stringe, quand'anche
avessi apparentemente una calma perfetta. Allora tutte le tue facoltà
sono sul ponte, la memoria come le altre; è il momento di chiedere a
quest'ultima lo sforzo decisivo.
Ma ancora una volta non ti perdere nei particolari, non
entrare nel fitto della boscaglia; ciò che ti occorre adesso è una
veduta complessiva, dove non figurano che le grandi direzioni e le
masse. Se il tuo piano è ben costrutto, ciò si fa in pochi
secondi, e allora ti senti sicuro di tè.
4. Finalmente se ciononostante, recitando, la tua
memoria esita, non esitare tu, evitando così di turbare tè stesso e
inquietare per tè il tuo uditorio; riempi come puoi il vuoto che si
produce, pur guardando davanti a tè inferiormente, pe'' ritrovare la
strada. Eckermann racconta che Goethe, pronunziando un discorso
notevolissimo, perdette a un tratto il filo delle idee. Per più di
dieci minuti (tempo incredibilmente lungo per una tale pausa) guardò
pacificamente i suoi uditori inchiodati sul posto dalla sua forte
personalità, e riprese poi come se nulla fosse. Non tutti godono di una
tale potenza di rimettersi in carreggiata; ma la calma è per tutti il
mezzo di salvezza; il turbamento compie la rovina.
298
CAPITOLO VII.
L'azione.
I. -—- Importanza somma dell'azione.
L'azione è chiamata dagli antichi un discorso del
corpo:
sermo corporis. Infatti è un mettere in opera,
mediante la persona fìsica, il verbo inferiore destinato alla
comunicazione. ~Soi abbiamo concepito un discorso, l'abbiamo
composto, l'abbiamo elaborato nel segreto: ora bisogna applicarlo alla
sua materia viva, procurargli il suo effetto, e, per questo, non
solamente dirlo, ma riviverlo pienamente quanto potremo, per far
partecipare il pubblico alle impressioni, agl'impulsi che il tema
oratorio ci suggerisce.
L'azione è il discorso vivo, del quale il manoscritto
non è che l'abbozzo preparatorio, simile a quello di cui si serve Dio,
nella Bibbia, per creare il primo uomo. L'azione creatrice, propriamente
parlando non è l'impasto dell'argilla, ma l'infusione del soffio di
vita: così l'attività oratoria propriamente detta, non è la
fabbricazione del discorso, ma l'azione che lo fa vivere.
Da ciò deriva quell'importanza capitale dell'azione che
proclamano tutti i maestri. Il Granata colloca l'azione immediatamente
dopo lo spirito apostolico, prima di tutti gli altri doni — tuttavia
numerosi — che egli esige dall'oratore cristiano. I teorici
dell'antichità non finivano di esaltarne i pregi. « Senza di essa,
dice Quintiliano, il più grande oratore è nulla, e con essa l'oratore
mediocre si solleva al di sopra dei più abili ». Sotto una forma
paradossale destinata a notare meglio il suo convincimento, Demostene
diceva: La parte principale dell'eloquenza è l'azione. — E la
seconda? — È l'azione. — E la terza? — L'azione.
Infatti, osserva il Granata, l'azione ha più importanza
dell'elocuzione, come l'elocuzione ne ha più che la stessa sostanza,
non solo sotto un rapporto accidentale, ma in modo assoluto. Perché,
dice egli, la sostanza non è che una materia; l'elocu-
— 299 —
zione le da la sua forma prima, e l'azione la forma
ultima che ne assicura l'efletto. Ciò che l'elocuzione è alla
sostanza, l'azione è al tutto; essa da una vita effettiva al tutto, e
il valore integrale del discorso vi si concentra.
Non bisogna lagnarsi troppo di questa dipendenza del
discorso pensato e del discorso scritto per rapporto al discorso in atto
di vita nell'azione oratoria. Un pensatore professionale o uno scrittore
puro, adottando questa forma, ne potrebbero gemere, se sono mal dotati
per mettere in opera le loro scritture. Ma il loro caso non è
frequente. Del resto essi non hanno che da pubblicare le loro opere. Di
solito, il discorso non è apprezzato o nemmeno sopportato, in quanto
genere, se non a cagione della dizione, a motivo di quella simpatia che
proviamo per un uomo vivo davanti a noi e che ci parla. È questo uno
dei casi più frequenti della sociabilità, ed è per questa ragione che
sono più delicati quei popoli che sono più socievoli.
I discorsi stampati che conservino dei lettori sono
rari;
all'opposto, bisogna essere assai sprovvisti per non
farsi udire con qualche frutto. Il pubblico giudica, ma ascolta. Per lo
meno il giudizio di un discorso in quanto alla sua sostanza, e in quanto
alla sua forma, è alla portata di ben poche persone;
il giudizio è opera di spirito, e la massa è al
livello dei sensi.
L'azione parla ai sensi, da ciò deriva la sua efficacia
universale. In grazia dell'azione, l'idea è come portata dal corpo,
proiettata in avanti con la voce, resa ritmica dalla respirazione,
disegnata come il gesto, commentata dall'espressione e
dall'atteggiamento, resa concreta e viva come l'oratore e l'uditore
stesso. Vi è lì tutt'insieme un caso di umanità integrale e un caso
di vita comune. Il fluido che passa dallo spirito dell'oratore nella sua
sensibilità si comunica per l'arte alle sensibilità ambienti e risale
agli spiriti per stabilire tra loro una sinergia spirituale.
Noi siamo una sola cosa dentro e tra noi più che non
pensiamo. Un'impressione sopra un punto della nostra unità inferiore si
comunica a tutti gli altri, e così è parimenti dell'unità collettiva.
I pensieri di Gesù Cristo, usciti dal tuo spirito, brillano ne' tuoi
occhi, animano i tuoi gesti, e subito irradiano; il cuore di Gesù
Cristo batte nel tuo cuore, e batterà in quei petti, ai quali forse era
in odio o estraneo.
Cosa più misteriosa, la dizione, una volta pervasa di
pensiero, può acquistare un'importanza tale, che il pensiero si trova
in
— 300 —
certo modo assorbito; l'uditorio, momentaneamente, non
ha per così dire più bisogno di badare a ciò che dici; non vi si
ferma punto; in realtà, egli non è sotto questo influsso, ma sotto
l'incanto della tua persona totale e di quello che essa è riuscita a
riflettere, è gotto l'incanto della tua vita intcriore che si traduce e
che traduce in sé un. tema commovente.
Si vede la somma importanza di quest'ultimo soggetto:
l'azione oratoria. Onde noi ci accingeremo anzitutto a
segnare le leggi generali dell'azione in ciò che riguarda la parola
cristiana, poi quello che esigono di essenziale i suoi varii elementi.
II. —- Le leggi generali dell'azione.
A) la
NATURALEZZA E LE SUE CONDIZIONI COMPLESSE.
Una legge dell'azione, che in qualche modo le comprende
tutte, è che essa dev'esser naturale.
Il naturale, qui, non si oppone al soprannaturale, ma lo
congloba; infatti sarebbe assai poco naturale che l'uomo di Dio si
racchiudesse nella pura natura, come l'oratore profano. Ciò non
risponderebbe alla natura delle cose, la quale vuole che ciascuno sia
quello che egli è, tratti i suoi soggetti tali quali sono e si rivolga
a' suoi uditori secondo il rapporto che essi hanno con lui. Se è in
causa il soprannaturale, questo diventa la cosa naturale, ed essere
soprannaturale in fondo sarà, nel nome della natura stessa, la legge
dell'oratore.
Perché l'azione sia naturale in questo senso, bisogna
Che essa, come tutto il resto, parta interamente dall'intimo,
dall'anima, e, per mezzo dell'anima, dall'oggetto religioso destinato a
essere comunicato dall'apostolo. Ciò non è niente di nuovo;
ma come evitare di ripetere quello che, reggendo tutto
l'insieme, fa necessariamente ritomo a ogni tappa?
Nulla, lo ammettiamo, è più raro di questa naturalezza
cristiana. Se noi vogliamo osservarci, tutti o quasi tutti dovremo
riconoscere che sul pulpito non siamo noi stessi. ]SToi siamo sinceri,
ma di una sincerità remota, che non raggiunge la nostra' parola, che
non la penetra. ÌSoi giochiamo una parte; siamo sdoppiati,
alienati da noi stessi e dai nostri grandi oggetti, che
— 301 —
regnano sopra una parte addormentata dell'anima nostra.
Noi cantiamo l'aria imparata, ma non partiamo.
Colui che parla veramente, naturalmente, evita la
maggior parte dei difetti dell'azione oratoria, specialmente i più
gravi, che sono la falsa solennità, la falsa commozione, la falsa
autorità, la monotonia soporifera o le grida, l'agitazione senza scopo,
le cantilene e i brutti vezzi (tics), prova evidente di un
automatismo estraneo alla persona.
Ciò avviene perché l'anima tua non è lì per
rischiarare tutto, dirigere tutto, precisare tutto e distribuire tutto,
perché determinismi parassiti si stabiliscono e s'impadroniscono della
tua parola. È un mulino che gira nell'assenza del mugnaio. Vada per il
mulino; ma guidare la parola è cosa più delicata che macinare il
grano; vi ci vuole tutta l'anima, tutta l'anima in atto di vita.
E del rimanente quest'anima, che è lì pienamente
presente, dev'essere formata tecnicamente; perché la natura abbandonata
a se stessa non è mai naturale; le condizioni del far bene sono troppo
complesse; la natura ha bisogno di cercarsi e di trovarsi mediante uno
sforzo di riflessione e di esperienza. Vi sono delle eccezioni,
come abbiamo detto in particolare per il maneggio della voce; ma
sono rare; di solito, un'azione oratoria compita è il frutto di un
lungo lavoro.
Andremo dunque a chiedere delle lezioni al
professionista, all'attore, che per mestiere studia da vicino tutto quel
che riguarda le condizioni tecniche della parola? Non sarò io a
consigliarlo. So che si può ricavare grande vantaggio da avvisi
autorevoli e sagaci. In senso negativo, mettendo in rilievo i tuoi
difetti, additandoti i rimedi suggeriti dall'esperienza, è possibile
trasformare assai felicemente la tua azione. Guardati dunque dal
disprezzare un tale aiuto; anzi ricercalo, per tè e per quelli dei
quali hai cura. Ma lezioni propriamente dette impartite al sacerdote
dall'uomo di teatro mi sembrano un grave pericolo. Non essendo il
medesimo lo scopo prefisso, e, soprattutto, essendo essenzialmente
diverso lo spirito del lavoro, è fatale che un equivoco permanente
s'introduca qui tra il maestro e l'allievo; la migliore volontà non vi
farà niente;
coi principii generali della tecnica, valevoli in ogni
ipotesi, s'insinueranno nel giovane clero dei procedimenti di tecnica
teatrale assolutamente fuori di posto in chiesa, anzi uno spirito, un
fare, una non so quale aria veramente disastrosa. È di gran
— 302 —
lunga meglio serbare i proprii difetti che perderli a
questo prezzo, e vedersi privi di doti positive anziché diventare un
istrione religioso, se mi è lecita l'espressione, o anche
rassomigliarvi fosse pure da molto lontano.
Appena che la predicazione apparisce come una riuscita
d'arte, essa è falsata nella sua stessa essenza, tanto più se
quest'arte si prende in prestito dalla « vanità ». Se ad ogni oratore
serio è raccomandato di « sopprimere la marionetta », come si dice,
che sarà dell'inviato di Cristo? Goethe era su ciò d'accordo quando
stabiliva tra Faust e Wagner questo dialogo;
« Io ho spesso udito che un commediante potrebbe
risalire a un predicatore. — Si, quando il predicatore è un cornine-.
diante ».
L'arte oratoria cristiana non dev'essere intenzionale
nel suo esercizio; quello che si è acquistato per studio, per consiglio
o per esperienza si deve incorporare allo sforzo apostolico in tal modo,
che questo non se ne distingua più, che non vi si pensi più, ed è
questa un'impresa ardua, se tu ti riferisci a lezioni di commediante,
cercando di riprodurre delle intonazioni, dei giochi di fisonornia,
degli atteggiamenti, dei gesti. Avrai l'aria di sorvegliare i tuoi
effetti, di mendicare l'approvazione degli sguardi, delle orecchie, e
che cosa vi sarebbe di più detestabile, gotto il saio o sotto la cotta?
Come dunque ti dovrai formare? Con la lettura di autori
competenti, con la riflessione personale, con l'osservazione di quei che
fanno bene e anche di quei che fanno male, con l'esercizio, con i
consigli limitati, specialmente negativi, e con il controllo amichevole
del quale ho detto poc'anzi il benefìzio. Hai potuto trovare più sopra
alcune utili indicazioni; e siamo per aggiungerne altre. Frattanto;
notiamo che a questa preparazione remota dell'azione è necessario
aggiungere una garanzia immediata per mezzo di una preparazione
completissima, tenendo presenti alla mente i tuoi ostacoli abituali, i
tuoi difetti naturali, per adoperarti a difendertene, e finalmente
mantenendo un possesso di tè stesso che ti permetta di essere naturale
nel pieno senso della parola.
Vi sono degli oratori che per essere in possesso di se
stessi hanno bisogno di eccitamento; altri hanno bisogno di calma.
Berryer passeggiava a grandi passi; « egli allena i suoi discorsi,
prima di pronunziarli », diceva Sainte-Beuve. Io conosco di quelli che
con questo procedimento si esaurirebbero anticipa-
— 303 —
tamente. Il Padre Monsabré diceva il rosario, poi
diceva delle facezie da ridere. Certo il primo mezzo è meglio del
secondo;
ma si sa da S. Filippo Neri che l'uno non esclude
l'altro. Quel buon santo non si preparava forse alla Messa giocando con
uccelli, facendosi dire o dicendo egli stesso delle ridicolaggini a
volte abbastanza bizzarre? Si trattava per lui di evitare l'estasi; per
il Padre Monsabré, di derivare una tensione nervosa; è cosa affatto
semplice.
Ma non si può dire altrettanto degli eccitanti
artificiali:
vino, alcool, caffè, ecc. Non si può proscrivere a
taluni, che ne usano moderatamente, questi mezzi di vincere l'inerzia
organica e la sonnolenza; ma si deve avvertire del pericolo. La misura
si oltrepassa presto, e un eccitamento fittizio non è una garanzia di
vero successo. Si tratta di essere tè stesso: ti potrebbe succedere
così di uscire di tè per qualche insidiosa porta. Gli eccitanti
spirituali, ricordati a proposito dell'ispirazione e dell'elocuzione,
saranno di miglior uso. Spetta a ciascuno di conoscere se stesso e di
sapere che cosa gli occorra per essere in buona forma nel momento
dell'azione.
B) la
COMTTNICAZIONE CON L'UDITORIO.
La naturalezza dell'azione vuole adunque che l'azione
venga dall'anima e ciò per intermedi ben procurati. Ma se tu fai
appello all'anima tua, lo fai qui colla mira di comunicarla. La parola
è una comunicazione; essa non sarà dunque naturale, come parola, se
non a patto che vi sia comunicazione, che tu sia a contatto con
l'uditorio. Come abbiamo detto più volte, l'oratore e l'uditorio non
devono formare che una sola cosa, affinchè l'anima del primo si
espanda, insieme con Dio che essa contiene. Vi sono oratori che non
sanno stabilire questo contatto, attaccare il filo. Si direbbe che hanno
paura del loro mondo. Fanno piccoli tentativi e subito indietreggiano,
come il gatto che avanza lo zampino e lo ritira. Una tale timidità si
deve vincere ad ogni costo. Oltre che essa paralizza interamente, molti
difetti dell'azione: il tono cantante, i gesti falsi, ecc., spesso non
dipendono che da essa. Si parla davanti all'uditorio e non a se stesso;
la mente è in una specie di nebbia, e il senso del reale ti sfugge.
Per aiutare la comunicazione, lo sguardo preceda
l'anima. Se trovi qualche buon viso espressivo, puoi servirtene come
— 304 —
indice per guidarti o come appoggio per sostenerti. Del
resto bada a non fissare lo sguardo su nessuno; un'individualità qui
non è che un simbolo, un centro d'onde l'attenzione deve irradiare in
tutto l'uditorio; infatti, oltre che questo vi ha di-ritto, una massa ha
più fluido che un unico viso e irradia verso ' l'oratore con maggior
potere.
C) l'azione
VIVA. '
Se l'anima tua è all'opera e si comunica; se essa è
ciò che deve essere e se tal è attualmente, in grazia di una buona
preparazione, potrai avere un'azione viva, penetrante, potente, e per
conseguenza efficace. Ecco il segreto. A proposito di Demostene, Giorgio
Clemenceau scrive: « Per muovere tante vite indifferenti o ribelli, ci
vuole, nella parola, un'effusione delle profondità. L'uomo se si da, lo
prendi; se si slancia,
10 segui».
Non bisogna per altro confondere un'azione viva con una
azione trepidante, precipitata, nervosa. La vita ha più di una forma;
appena che tu ubbidisci alle sue esigenze precise, sei nella misura,
dalla quale un'agitazione febbrile ti allontana. L'anima sia sottomessa
a quello che essa dice; la dizione sia sottomessa all'anima, e tutto
andrà bene.
Se insieme con questo, dal canto nostro, siffatta «
effusione delle profondità » portasse con sé Gesù Cristo, perché
noi l'abbiamo preso per ospite, avremmo là potenza soprannaturale
assicurata, e la naturalezza della parola, nel senso che conviene a noi,
sarebbe perfetta.
Per questo i santi ci consigliano di rettificare la.
nostra intenzione prima di aprire la bocca, e di richiamarci al pensiero
11 nostro ufficio divino, nel momento di compirlo. Il
cantore prende una positura adatta: anche noi, spiritualmente, dobbiamo
prendere la nostra posizione. Intermediari tra Dio e le anime, noi
dobbiamo stabilirci in questo doppio contatto, e se ci mettessimo
davanti agli occhi Gesù Cristo che predica sul monte, prestandogli
quella parola ideale che ci potrebbero suggerire da lontano questi o
quei predicatori preferiti, forse avremmo la felice sorte di ingrandire
e di vivificare quello che abbiamo da noi stessi. Insomma l'ideale
dell'azione oratoria cristiana è Caterina da Siena che, parlando a
Eaimondo da Capua, prende il -volto di Gesù Cristo.
— 3(tó —
-D) il CAEATTEEE PERSONALE DELL'AZIONE E IL SUO
ADATTAMENTO AD OGNI CIRCOSTANZA.
Una conseguenza ancora di questa naturalezza
dell'azione, che è la sua legge fondamentale, è il suo carattere
personale. Kon occorre dirlo, la natura non è cosa astratta, ma
individuale;
non è però inutile farlo osservare, perché lo zelo
del ben fare
. porta certuni ad adottare dei metodi che non quadrano
col loro temperamento, ed è un gran torto.
I temperamenti oratorii sono molto varii. Il Padre
Lacor-daire aveva un'eloquenza amplissima, molto esteriore; S. Tom-
, maso, secondo Giovanni Blasio, giudice di USTapoli,
che l'aveva udito un'intera quaresima, predicava cogli occhi quasi
chiusi, in un atteggiamento di contemplazione, con la fronte sollevata
verso il cielo, e STewman, la cui parola produceva un effetto così
grande, si accostava in ciò assai più a S. Tommaso che ai
, al P. Laeordaire.
••: Ma la comunicazione? si dirà. Essa si può
fare così. Vi sono degli equivalenti, come dicevamo, e il momento in
cui una
'sinfonia impressiona di più non è sempre quello in
cui gli strumenti fanno maggiore strepito. Un oratore non si deve
violen-.tare; deve solo mettercisi, e per questo deve giudicare bene
delle sue forze. < Un uomo si fa conoscere dal suo modo di parlare
come una moneta dal suono che da », scrive Quintiliano:
non è utile operare una sostituzione di monete; del
resto non ci si riuscirebbe punto, e non si avrebbe come risultato ohe
una moneta falsa. Una moneta d'argento non è una moneta falsa per il
fatto che non è d'oro; ma una moneta d'argento, dorata, diventa una
moneta falsa, e tutti sarebbero gabbati.
Quel che ci dovrebbe incoraggiare a rimanere noi stessi
è che ogni carattere oratorio, anche il più modesto, è suscettibile
del bello e tanto più dell'utile. In ogni anima che si da risiede
un'incomparabile grandezza, e quando, dandosi, essa da Iddio, che
importa la forma del dono per ciò che riguarda una fallace estetica?
Non scimmiottare dunque l'azione degli altri, come
neppure il loro stile o il loro genere, siccome dicevamo a proposito
dell'uso che dobbiamo fare dei maestri. Un modello è sempre prezioso,
ma col beneficio di un adattamento, di una trasposizione. Allora, tolto
di mezzo un altro, noi gli succediamo;
quello che viene da altri è nostro.
20 —
SaBiniABatis. Vmatwe cristicmi. ,: '
306
E) la PUREZZA
DEIiL'AZIO:NÈ. le SINGOLARITÀ VIZIOSE. I LORO RIMEDI.
Quando si parla di purezza dell'azione, si può
intenderla in due sensi diversi e vi si potrebbero far entrare molte
cose;
qui s'intende come l'assenza di elementi parassiti, di
brutti vezzi risultanti sia da difetti naturali, sia da quelle false
pieghe :' che si contraggono spontaneamente e che, se non ci si bada, '
vanno sempre aggravandosi. Vi sono dei vecchi predicatori dei quali si
ride, come dei vecchi istrioni che si scimmiottano, come degli stilisti
che si imitano. Dovrebbe essere impossibile imitare un bravo scrittore o
scimmiottare un buon oratore. Ogni imitazione divertente poggia sopra
singolarità viziose. ':
Per correggersi, una particolare attenzione al caso è
senza dubbio raccomandabile; talvolta è indispensabile; ma per lo più
si rimedierebbe a ogni cosa nello stesso tempo, se si badasse a ciascun
effetto in modo da dargli quel che conviene alla sua natura propria. In
nessuna parte la naturalezza lascia più luogo ai tics, ossia alle
abitudini viziose; il movimento ben determinato rimuove l'automatismo.
Traendo tutto dal fondo di sé e dalla natura delle cose, attualmente, e
fino agli ultimi particolari, non si è più esposti ad andare di
sbieco, come invitano quei meccanismi che un caso ha creati e che
l'abitudine fissa.
Io invoco qui il caso; ma bisogna ben dire che a volte
è lo stesso ardore, la fretta di ben fare che provoca i brutti vezzi.
Si vuole insistere, appuntellare, e questo potrebbe essere bene;
ma perché l'impeto è disordinato, troppo generale e
senza riguardo a ciascuno dei casi che ne dovrebbero avere il
benefìzio, il puntellamento è basato sul falso e il mal vezzo si
radica, • poi si aggrava.
Osservati diligentemente, perché anche il miglior
oratore può essere da ciò sminuito fino a precipitare nel ridicolo.
Osservati e fatti avvertire, se un confratello benevolo e attento si
compiace di renderti questo servigio. Noi siamo così poco amici gli uni
degli altri che ciò non è tanto facile a trovarsi;
ma se è cosa rara, io credo che la ragione principale
sia perché l'interessato non ci tiene. Si dubita di avere dei difetti,
ma si preferirebbe di non averne; allora non si vuoi vederli, e,
nascondendoli a se stesso, si pensa che gli altri non li vedranno. Ma li
vedono; sovente se ne prendono gioco, e la nostra azione ci perde assai
della sua potenza.
— 307 —•
Una volta avvertito, esercita la vigilanza di cui
parlavo. Al principio del discorso, mettiti in guardia; anche parlando,
conserva quell'attenzione subcosciente del cavaliere che, pur sognando o
conversando, maneggia le redini. A capo di un breve tempo, se non è che
una falsa piega, il mal vezzo deve scomparire.
F) la VARIETÀ E
LA MONOTONIA.
Un'altra conseguenza della naturalezza dell'azione è
che sarà svariata e non monotona. L'azione si deve modellare
sull'elocuzione, come questa sul pensiero e il pensiero sul soggetto ne'
suoi diversi aspetti, nelle sue varie fasi. I tré stili di S. Agostino
devono qui intervenire con sfumature tanto più numerose quanto più da
vicino si seguirà la natura.
Le idee portano seco delle immagini mentali
corrispondenti, e queste immagmi sono generatrici di movimenti corporali
appropriati: inflessioni di voce, atteggiamenti, espressioni, gesti. Lo
stesso avviene dei sentimenti, che il sermo corporis deve
tradurre. Il corpo tratta il soggetto come lo spirito, in armonia con lo
spirito: lo tratti dunque in tutte le sue parti, procurando tutte le sue
sfumature. Troppi predicatori vanno da un capo all'altro col medesimo
tono, facendo uso degli stessi effetti, come se dicessero sempre la
stessa cosa. Vuoisi credere che il soggetto è trattato e che la loro
idea è svolta, ma al vederli non lo si direbbe.
(?) L'OMOGENEITÀ NELLA VARIETÀ.
Tuttavia, siccome il discorso è uno, le varie forme per
le quali passa sotto l'aspetto dell'azione devono essere legate,
formare una trama continua, nonostante la varietà del disegno. Una
sinfonia ha il suo adagio, il suo presto, il suo scherzo
o il suo andante; essa è nondimeno una sola armonia, purché
sia ben fatta.
Si passerà dunque da una fase all'altra per tutte le
transizioni della natura, senza scossa, salvo che essa sia giustificata.
Si può cercare un effetto subitaneo, e se vi è motivo di segnare un
contrasto, è il contrasto della dizione che sarà allora la verità. Ma
è questa una transizione come un'altra. Ciò che bisogna evitare a ogni
costo è la dislocazione dell'azione, la sua disarmonia, che disorienta
l'uditore e fa che egli ti abbandoni, non sapendo più dove ti trovi ne
dove vuoi andare,
— 308 —
L'uditore dev'essere incatenato senza scappatoia
possibile;
non bisogna permettergli modo di fuggire, e a ciò
serve, oltre un buon piano e una elocuzione incalzante, un'azione
continua e avvolgente, come una gran rete.
E) L'AZIONE
SVARIATA E L'AZIONE LARGA.
Un'osservazione però si deve qui introdurre. Quando si
parla in un piccolo ambiente, davanti a un piccolo uditorio, la dizione
e l'azione corporale possono avere molte sfumature, essere molto più
svariate, delicate, pieghevoli e sottili; ogni parola può prendere
un'inflessione, e ciascun movimento dell'anima tradursi con un
atteggiamento, un'espressione di volto, un gesto. È la vita veduta da
vicino, nella sua intimità. All'opposto, in un gran vaso, tanto più
all'aria aperta, tu sei obbligato ad adottare un'azione molto più
larga, più sobria, che procede per grandi masse, come quelle
decorazioni che si dipingono colla granata.
È questa un'estetica speciale, essa pure governata
dalla natura; perché l'oratore che forza la voce, non può più
variarla nello stesso modo e l'uditore all'aria libera o sperduto in una
massa non presta più la stessa attenzione. Si è più lontani gli uni
dagli altri; ci si sente più estranei: l'ottica è dunque differente, e
l'azione se ne deve risentire. L'ingrandimento degli effetti, che è
allora imposto, porta seco la loro semplificazione. In pittura questo si
chiama stilizzare, trattare « come decorazione », trattare « per
mezzo delle masse ». Ma il risultato dev'essere lo stesso. Tu
diminuisci il numero de' tuoi effetti, ma li rinforzi: ciò si deve
compensare esattamente, se fai un buon calcolo. È questione di gusto e
di esperienza.
J) la PBOGEESSIONE DELL'AZIONE.
La varietà di cui parlo, dovendo modellarsi sul
dinamismo del discorso, dev'essere progressiva; è una varietà
attraente, che l'oratore deve calcolare in modo da produrre, nel momento
voluto, il suo massimo di effetto. Ciò non è sempre alla fine; ma non
ne è mai lontano, perché bisogna per questo che tutte le tue milizie
abbiano contribuito, compreso il grosso delle tue riserve.
Un discorso ben costrutto ha sempre il suo punto
culminante, che è il centro di unione de' suoi effetti, delle sue
prove, de'
— 309 —
suoi stimoli, delle sue commozioni, secondo il genere
dell'opera. L'azione deve per la sua parte soddisfare a questa
condizione. In vece di partire a tutta vela, senza nulla prevedere, devi
risparmiarti e graduare i tuoi mezzi d'azione, tenendo conto non solo
delle esigenze del soggetto, ma anche delle tue forze. Un Caruso o un
Tamagno, dopo aver cantato, avevano sempre delle risorse supplementari.
Ma non tutti hanno la loro gola.
Il Padre Lacordaire rimproverava al Padre Minjard —
del quale egli si diceva solo il precursore — di abbandonarsi così
fin da principio, mettendosi nell'impossibilità di crescere quanto
sarebbe occorso per mantenere le proporzioni della sua arringa. Il Padre
Lacordaire invece cominciava con gran semplicità, quasi ingombrato
dalle sue ali, come l'aquila che cammina, e poi, a poco a poco, veniva
il gran volo.
\ J) la
misura.
Finalmente, in ogni cosa, presieda la misura. «
Comportati in tutto con moderazione, dice Hamlet ai commedianti che egli
invita; anche in mezzo al torrente, alla tempesta e, se posso dire
così, in mezzo all'uragano, al turbine della tua passione, tu devi
guardare e osservare una misura che temperi la procella.
È questa un'esigenza di ragione. Ciò che è sbrigliato
non è mai ragionevole e quindi non può, nel vero senso, essere forte.
Ciò non è proprio dell'arte, e non è un mezzo di conquista. Potresti
lasciarviti andare col pretesto di naturalezza, dicendo:
Io sento così. Ma noi sappiamo che non tutto quello che
si sente esprime la veridica natura, neppure quella dell'uomo che sente.
III. — Regole particolari dell'azione.
L'atteggiamento.
Sul pulpito, il contegno è il collaboratore della voce
e concorre con essa a caratterizzare la parola. Esso non avrà dunque
nulla di ardito, di provocante, di orgoglioso, di falsamente solenne, ma
avrà dignità con una sfumatura di autorità semplice presa
dall'ufficio, non dalla persona. Se quest'ultima. distinzione è
provata, si farà sentire.
Sguardo diretto, senza rigidezza, senza nessuna tendenza
a fissare le persone, ma neppure a fuggirle e come a smarrirsi
nell'architettura. Uno sguardo posato con affabilità e confi-
— 310 —
(lenza invita l'uditore; se si fa circolare un
poco, da a ciascuno l'impressione che s parli per lui, non per il solo
banco riservato ai dignitari. 'Sei corso della predicazione, non
potrai facilmente girarti a destra e a sinistra, non saresti più udito
da per tutto:
è dunque abbastaiza opportuno prendere contatto prima e
fra due parti del ciscorso. Ma del resto, senza nessun partito preso, se
tu, dal cinto tuo, hai il sentimento di tutto il tuo uditorio, tutto il
tio uditorio se ne accorgerà, per poco che tu abbia agevolezza d
esperienza.
A volte, per atirare l'attenzione, si è ricorso a
piccole ricette puerili e cociche: ritardi abili, tosse diplomatica,
maniche che si rialzalo ostensibilmente... Che bisogno abbiamo di queste
scimmiagini noi, che disponiamo del segno della croce! Ma vi sono delle
ricette buone e da farne uso, perche dipendono dalla nsfcura delle cose:
tenere il corpo diritto, evitando la tentaziciB di coricarsi sul
pulpito; — collocarsi di faccia con una leggira obliquità, che si
ottiene facilmente avanzando un poco il piede destro. L'utilità di
questo atteggiamento è di sciogliee il braccio normalmente incaricato
della gesticolazione prmipale. Ohe se più tardi, il braccio sinistro è
sostituito al desto per i gesti, si cambierà spontaneamente l'appoggio
del cor|0, e sarà un riposo. L'importante è di prendere una buon,
positura, per avere la sicurezza dell'andamento e la libertà lei
movimenti; per questo il peso del corpo deve gravitare sul l'iede che è
indietro.
Inoltre evitare ti avere la vita, il collo o i piedi
stretti, per timore di congestiae alla gola o al cervello; — non
tendere il collo, parlando, (»me per cercare l'uditorio, gesto
frequente, molto brutto, e cb smorza la voce; — liberare la vita, per
respirare liberamene, in modo da allargare la cassa toracica; —
finalmente, occonedo, in un grande ambiente, e se a. tua richiesta tè
ne vien ca.to l'avviso, mirare a qualche distributore di suono, come
unacolonna, una parete favorevole, ed evitare in cambio quei buitii
acustici, quegli anditi che assorbiscono il suono e lo dissipano.
Per il fatto che n pulpito ti nasconde fino alla cintola
e che, per appoggiarti, ti; disponi di una soccorrevole sponda, non
credere di potere impunemente trascurare l'atteggiamento generale.
Anzitutto3 una cattiva abitudine, per il caso in cui dovrai
parlare senz paravento e senza appoggio. Poi, questo si vede, per i suoi
detti sopra il movimento del busto e sopra
— 311 —
la gesticolazione. Quando Leonardo da Vinci studia i
personaggi della Cena, in cui solo la parte superiore dei corpi
sarà veduta o comunque sarà oggetto di attenzione, egli ne disegna
nondimeno con gran cura le sue figure intere, ben conoscendo la
solidarietà del visibile e dell'invisibile, in materia di vita.
Avviene che il predicatore si metta a sedere. Ciò non
conviene se non per i trattenimenti familiari, perché cambia del tutto
il carattere della parola. Non essendo più nell'atteggiamento
dell'azione, allora non ti potresti permettere una mossa un po'
veemente. Quando la regina Luisa di Prùssia, a Tilsitt, supplica
pateticamente Napoleone, questi, per difendersi, la invita a sedere, e
si spiega dicendo: « Nulla interrompe così bene una scena tragica.
Quando si sta a sedere, il tragico diventa comico ».
Stando seduti, è essenziale avere il corpo ben diritto,
per non scomparire del tutto e serbare qualche libertà di gesto. Se sei
in coro, in una sala, e tutto visibile, terrai il corpo diritto, sempre,
le ginocchia leggermente divaricate, i piedi a terra, a breve distanza,
l'uno un po' più avanti dell'altro (normalmente il destro), la mano che
non serve posata un po' più alto del ginocchio.
I grandi attori consigliano ai loro allievi di visitare
spesso i musei di scuitzira, specialmente gli antichi, a fine di
impregnarsi l'immaginazione dei loro atteggiamenti. Un simile consiglio
si darà al predicatore. È tuttavia un fatto che le nostre immagini
mentali ci governano, e non immagazzinarne mai altre che quelle della
strada, quelle di gruppi volgari e di personaggi poco estetici, è un
prepararsi male, sembra, a un ufficio che esige la nobiltà di
portamento e, nella più gran semplicità e umiltà del resto, una
figurazione di^Cristo.
IV. — La fisonomia.
L'atteggiamento è una condizione della parola e in una
certa maniera ne fa già parte, per quel tanto di espressione che esso
racchiude. A questo titolo, esso però cede alla fisonomia, i cui mezzi
di espressione sono ben più ricchi.
Il volto « parla » da solo: recherebbe maraviglia che
la sua azione non sostenesse e non rinforzasse il linguaggio articolato,
l'espressione verbale. Il filosofo Labriola pretendeva di avere un
criterio infallibile per giudicare di un oratore; in
— 312 —
vece di ascoltare le parole, fissava la sua attenzione
sopra l'uomo sopra l'espressione del sembiante dell'uomo, e la serietà
più o meno profonda che vi scopriva era per lui una garanzia della
serietà del pensiero, del valore del verbo. « In facie legitur homo
».
ISTe dovremo concludere che l'oratore cristiano si abbia
da comporre il volto come compone il discorgo, farsi un'espressione come
l'attore si fa una testa? Dio ce ne guardi! Il ridicolo sarebbe
vicinissimo, e il falso sarebbe già acquisito, al rovescio di quella
verità dell'azione che avevamo preso per regola.
Ciò non è a priori,. Si potrebbe benissimo
concepire una composizione del viso legittima quanto la composizione
letteraria; il mimo vi si prova; a volte ci riesce genialmente; ma le
cose son tali, che a ogni svolta l'artifizio rischia di palesarsi, e,
rischiando perpetuamente, si palesa. I giochi di fisonomia hanno troppa
complessità, sono inafferrabili a forza di essere sottili; voler
organizzarli dall'esterno, per decreto e per tattica, non conduce che a
deplorevoli effetti.
Il lavoro non è dunque di notare, secondo le arti
grafiche e i dati della fisiognomonia, il modo come i lineamenti
si dispongano in ciascuna specie di emozione dell'anima. Così si
acquista del sapere e si soddisfa un'intelligente curiosità; ma si
guadagna poco per la pratica; avviene anzi che ci si perda, se non si
usa cautela. Tuttavia, nell'uomo prudente, è possibile che i
suggerimenti venuti da questa parte, come dicevamo a proposito
dell'atteggiamento, non siano interamente vani. Tutto serve quando si
tratta di piegare « l'automa » alle funzioni del pensiero.
Ma, a questo riguardo, corre una gran differenza tra
l'oratore e l'attore, specialmente se trattasi dell'oratore cristiano.
L'attore immagma i suoi personaggi e li rappresenta; l'oratore è
il suo stesso personaggio e l'oratore cristiano in certo modo lo è
doppiamente, perché da una parte egli dice il suo proprio pensiero,
manifesta i suoi proprii sentimenti, e di più rivela Qualcuno che è se
stesso più di lui stesso. Perciò conviene che la modellatura
espressiva dei lineamenti non prenda nulla da un'azione esteriore; tutto
deve sorgere dall'intimo. Se una luce brilla nel cuore, la faccia
scintilla; se un sentimento ti stringe, una contrazione armoniosa,
impossibile a imitare, ma che imita, a suo modo, la causa che la
produce, ne rende testimonianza.
Dagnan-Bouveret, avendo veduto da vicino Sua Santità
Pio XI, diceva: Egli ha « degli occhi formati dal di dentro »,
— 313 —
E voleva significare un'espressione permanente; ma ciò
si verifica tanto più in uno dei casi numerosi che hanno creato questo
stato, che ne è la traccia.
Non fu detto di Stefano Mallarmé, rievocando le famose
conversazioni in cui, nell'intimità, comunicava tutti i suoi sogni: «
Egli pareva aureolato di un pensiero infinito >>? Che ideale, per
un uomo di Dio!...
Ma che cosa ci vuole per questo? Che il pensiero
infinito abiti in noi; che sia attivo in noi nel momento della parola;
che abbiamo per natura o abbiamo acquistato, un poco per
riflessione e per osservazione, molto per uso, una plasticità
sufficiente dei lineamenti; finalmente — e qui l'avvertimento è di
prima urgenza — che l'espressione non sia combattuta, annullata,
girata a rovescio da abitudini viziose e da smorfie.
ISTove oratori su dieci, almeno, fanno smorfie parlando.
Ora gli occhi si stringono o si allargano; ora la fronte si corruga;
le sopracciglia si aggrottano; le labbra si contraggono;
certi movimenti spasmodici percorrono la faccia come crespe che
s'incrociano su un'acqua agitata. Tutto questo deturpa l'uomo, rende
l'espressione volgare e penosa nel momento che il suo concorso sarebbe
più necessario per rinforzare quello che si dice bene, quello che forse
si prova meglio àncora.
E per lo più, cosa strana, ci si sfigura cosi per voler
fare troppo bene; ci si sforza, là dove bisognerebbe abbandonarsi con
una felice confidenza; volendo pronunziare bene, si cinci-schia; volendo
forzare l'attenzione, si sforzano tutti i muscoli facciali, come per
spingere la ruota e far disincagliare le anime. Il lavorio della memoria
accentua frequentemente questo disordine; certe abitudini di ufficio o
di conversazione che sarebbe stato meglio non contrarre e che si
dovrebbero smettere, agiscono la parte loro. Tutto ciò sminuisce
grandemente la parola.
La faccia dev'essere sempre spianata; in tal modo essa
è sempre in disponibilità per espressioni diverse, appropriate al
pensiero e non arbitrarie. Parlando della pronunzia, abbiamo detto che
questa non guadagna nulla dai grandi gesti boccali che pretendono di
favorirla, anzi ne è alterata; una bocca che si contorce sfigura il
suono come la faccia; se cincischia, la pronunzia, non che essere più
netta, è frastagliata e resa sorda;
tutto è perdita; solo la deformità ci guadagna.
È importante badare a questo male quasi universale. Che
sia universale o quasi, è una circostanza attenuante, se si vuole, ma
non è un rimedio; non è neppure una scusa; ciascuno è re-
— 314 —
sponsabile per proprio conto, e Pascal direbbe di quelli
che Si credono così prosciolti: « Essi si nascondono nella folla e
chiamano il numero in loro soccorso ».
V. — La pronunzia oratoria.
Eccoci incontestabilmente alla parte essenziale
dell'azione oratoria, poiché si tratta propriamente della parola. Il
pubblico è estremamente sensibile al modo con cui si pronunzia
il discorso, ed è naturalissimo. È dunque importante che egli abbia
soddisfazione fin dalle prime mosse, e perciò noi consigliamo al
giovane oratore, prima di ogni altra regola, di vegliare molto sulle sue
prime parole. Bisogna che esse siano accaparranti, e prima di tutto
siano intese, come dicevamo a proposito della voce, come abbiamo
rilevato sotto un altro aspetto parlando dell'esordio.
Le prime battute dei pezzi musicali sono sempre
studia-tissime, e l'uomo che tiene la bacchetta ha come prima cura
quella dell'attacco; egli impone così l'attenzione e segna il
carattere del tema. Per l'oratore, è il momento di ricordarsi di tutto
quello che fu detto delle condizioni materiali della parola:
buona respirazione, impostazione di voce, attacco sulla
dominante, misura del suono, portata della voce alla distanza
conveniente, giustezza delle vocali, buona articolazione delle
consonanti, sostegno della voce sulle desinenze, ecc. Per essere
regolate, talune di queste condizioni esigono che ci rendiamo ben conto
della natura dell'ambiente e della distribuzione dell'uditorio: vi si
darà dunque un'occhiata subito, come al golf si giudica del
terreno prima di battere il pallone.
Ecco ora la regola generale, che non è nuova, ma che
s'impone a titoli speciali alla pronunzia oratoria: la verità,
cioè, qui, l'adattamento della parola alla cosa che essa pronunzia, per
opposizione a una dizione artificiale tolta da non so quale canto
inferiore, da abitudini, o da assurdi pregiudizi.
Il Padre Monsabré amava di raccontare che dopo la sua
prima predica di seminario, il professore che faceva la critica gli
disse: « Bene! ma voi non avrete mai il tono della predicazione ». Ohe
cosa è il tono della predicazione? Se si intendesse dell'unzione
sacerdotale, di una certa dignità propria della parola di Dio, benone;
ma non era quello che si voleva dire;
si pensava a un certo rumore sordo e continuo che
distribuisce
—— 316 —
i suoni su un profilo di montagne russe, a una cantilena
che spinge la sua curva monotona attraverso a tutto, trascurando le
particolarità di senso, le sfumature di carattere e di valore.
Il tono della predicazione non significa: « Io
dico questo », ma « Io predico ». Che è quanto dire: « Io
canto », senza guardare sulla partitura, « Io danzo », senza curarmi
della musica. La voce non è forse l'eco del verbo inferiore, e non è
forse questo che deve regolarne il modo di porgere e la forma?
E ancora, se la cantilena fosse bella! Accadrebbe di
essa ^ come di quella musica che trascura le parole, ma per sostituir ?
loro l'effetto di un'altra arte. Qui non si ode che una nenia
•;' in cui bisogna dissotterrare il senso sepolto. Non
si darebbe così a sospettare che il pensiero stesso, nella creazione
del discorso, non sia stato molto attivo, che la sincerità attuale di
questo pensiero non sia molto profonda? Si fa il proprio
,: dovere; si eseguisce piamente, ma come il bambino
recita la ; sua lezione colla testa china, canticchiando anch'egli,
mentre poco prima si vedeva esercitarsi, pieno di naturalezza e di vigore,
in una partita a barra.
''; È strano vedere così dei buoni ecclesiastici
modulare per—
• lettamente un annunzio, dare un avviso alle loro
pecorelle, / prima della predica, con un'arte piena di finezza e di
calore, . e, non appena hanno fatto il segno della croce, eccoli tutti
• contegnosi; il loro modo di porgere è manierato;
non vi è più ; nessun rapporto intimo tra le modulazioni della voce e
quelle dell'idea, che, spesso eccellente, non potrà non eccitare il sonno.
Bisogna proprio dire che questa stranezza sia nella
natura, dal momento che è così frequente. È nella natura, ma non
nella buona natura. Si appiglia a un falso sentimento dell'arte, quello
di cui si da prova quando, con un tono ampolloso, si cantano a se stesso
dei versi amati o una melodia che appassiona. Chi sa? non ci sarebbe
anche lì una persuasione inconfessata, un sentimento segreto che la
parola pubblica, anche sacra, è qualcosa di estraneo alla vita reale,
una rappresentazione verbale, una musica, della quale non è più
questione una volta ridiscesi dall'alto? Sarebbe allora necessario
ritemprarsi nel sentimento della propria sublime vocazione e della
tragica necessità del proprio dovere. Ma, di solito, non si tratta di
questo; solo l'inesperienza, l'insufficienza della riflessione si ,
trovano in causa. Pensaci dunque; di' a tè stesso e cerca di capire che
il tono di voce impiegato per pronunziare una parola
— 316 —
è come un epiteto che le si accoppia, che questo
epiteto deve convenirle in virtù di una proprietà tanto
necessaria quanto quella dello stile, e le conviene non solo secondo il
dizionario o la grammatica, ma secondo il tuo proprio pensiero, secondo
la sua sfumatura, secondo il peso relativo nella frase e nell'insieme
del discorso.
Ciò inteso, certi predicatori si fanno premura di
reagire e si gettano nell'altro estremo, intendo nella naturalezza
volgare, nel tono della conversazione corrente sostituito al « tono
della predicazione ». Anche questo è falso. Il far naturale della
cattedra e la sua verità prendono la loro base nella
conversazione, ma stilizzandola, portandola al livello dell'arte. Il
grande attore Samson diceva di Bachel che « la sua originalità
consisteva nell'essere a un tempo naturale e grandiosa »: ecco quello
che può istruire un predicatore, incaricato d'interpretare un grandioso
vero, e non più delle favole.
Si conserverà nondimeno uno stretto contatto con la
natura comune. E ancora, non basterà adottare in questo pensiero un
tono detto naturale, ma che si applicherebbe senza discernimento a ogni
cosa. Qualunque sia il tono adottato, il non uscirne non può essere
naturale. La natura è svariata; si varii con essa. In un dato caso,
l'enfasi si può trovare molto più naturale che un tono cavalieresco.
Si rende vera la propria dizione adattandola esattamente a un movimento
del pensiero che non ha mai due fasi simili.
Si eviti finalmente una diversità senza motivo, una
diversità voluta e creata artificialmente, o ancora diversità ciclica,
la mi gamma, varia in se stessa, fa continuamente ritorno. Tutto
ciò è peggio della monotonia, o è ancora monotonia. Se sei monotono,
si dorme; se vario capricciosamente, eccedi;
riducendo la pretesa varietà nelle medesime vie, solo
in apparenza sei uscito dal manierato, e l'attenzione dell'uditore avrà
tanta difficoltà a mantenersi quanto il tema a imporsi.
Aggiungo che un tono vario nel vero senso del termine,
per un adattamento continuo alla parola, affatica molto meno il
predicatore, gli procura molte occasioni di sollievo e riserva le sue
energie per utili effetti. .
Ciò posto in generale, dobbiamo precisare un poco le
condizioni di questa verità della pronunzia oratoria. Anzitutto è la
giustezza del fraseggiare, che in qualche modo disegna il
discorso mediante la voce, la giustezza delle modulazioni, che
— 31? -.
gli danno il suo colore, e giustezza àeìl'aocentuaswne,
che ne 'fornisce il valore e come il chiaroscuro.
Tutto ciò non si può definire con parole; ci
vorrebbero esempi accompagnati da critiche. Se tu sei dotato, troverai
con la riflessione quello che conviene. Saprai procurare la disposizione
delle tue parole nella trama sonora, la pausa de' tuoi periodi e il
posto dei loro elementi, in vista di quella unità varia, esattamente
appropriata, che noi abbiamo richiesto già da colui che compone e da
colui che formula. Passerai senza urto dalle inflessioni quasi
insensibili ai grandi sbalzi di tonalità che esigono i « movimenti ».
Tutti i gradi della scala cromatica sono a disposizione dell'oratore; a
lui spetta di regolare la musica, e questa non sarà la stessa in una
semplice spiegazione, in un recitativo oratorio, e in uno squarcio di
passione.
~Son farai abuso delle sfumature, le quali, troppo
moltipllcate, dividono la dizione in particelle. Un tocco largo non è
solamente raccomandato ai pittori; tutte le arti vogliono ampiezza e per
conseguenza sacrifizi di particolari. Del resto vi è qualcosa di
pretensioso nel raffinamento in materia di sfumature; l'oratore ci perde
in autorità. La riserva s'imporrà tanto più in quanto il movimento
del pensiero richiederà un porgere più rapido, poiché ciò che
ritarda e divide deve allora essere in special modo evitato. Lo stesso
sarà se il discorso è pronunziato a gran voce, davanti a un vasto
uditorio, il. che, come abbiamo detto, impone dei piani assai più
larghi.
A proposito dell'accentuazione, si potrà altresì
equilibra.re, l'una coll'altra, la considerazione della sua importanza e
quella de' suoi abusi possibili. I termini essenziali devono 'essere
accentuati, del pari che gli accidenti caratteristici, le sospensioni di
senso destinate a produrre un enetto, ecc. L'impiego della parola di valore
servirà a notare un effetto pittoresco, a operare una rettificazione, a
segnare una sorpresa, a far spiccare un termine atteso, a insistere su
una ripetizione, a rilevare un'opposizione, e di più, a volte, a
determinare il senso.
La parola di valore si distacca per mezzo di una leggera
pausa prima della parola, di un appoggio della voce sulla parola o su
una sillaba della parola, o ancora di una modulazione. Ma si eviti di
dare uno speciale colorito a ogni espressione che vi si presti, di
presentare come una bella trovata una cosa semplice e di affaticare
così 'l'attenzione con costanti appelli. Quanto la parola di valore è
preziosa, altrettanto il sistema della parola di valore è
assurdo.
—318—
Dovrai stabilire la tua dizione su un ritmo conveniente
al tuo proprio temperamento, senza lentezza calcolata come senza fretta
forzata per rapporto al tuo proprio modo di sentire. Sarebbe un errore
il credere che si pronunzierà meglio pronunziando più lentamente: si
urta meno prendendo il proprio passo. Ed è un altro errore il pensare
che andando in fretta/ si dia un'impressione di vita. La pronunzia
ottima esige, a parità di condizione, un tranquillo adattamento alla
persona. Un oratore che va in fretta sembra molto più lungo di un
altro;
colui che s'indugia snerva. Seguendo il movimento
naturale del suo pensiero, della sua immaginazione e sensibilità, egli
da un'impressione di sicurezza ed è, lui stesso, più sicuro della
propria idea, più padrone dell'espressione che le da.
Del resto, sotto il nome di ritmo, non s'intende solo
rapidità o lentezza. Si tratta anche di cadenza. Occhio alle cadenze
artificiali, ai determinismi stabilitisi a poco a poco, alle
singolarità viziose! Ho udito un oratore molto ragguardevole che
cominciava una seconda parte: « Dicevo — al principio — di questo
discorso... », e così continuava a sbalzi. Ecco quanto basta a
sminuire un uomo, e, in breve tèmpo, a scoraggiare l'attenzione. , :
Una buona dizione, se è attenta al ritmo, alle
modulazioni e ai collegamenti, non è meno preoccupata dei silenzi.
Oltre, che ne dipende il ritmo e prima di tutto il senso, in ragione
della/ punteggiatura, il silenzio è per l'oratore un prezioso
espediente. È una « conferma della parola », dice Cicerone, in ciò
che permettendo di seguire nell'uditore l'effetto del discorso, esso lo
provoca con una specie d'invito e di attesa.
Il suo uso richiede il perfetto possesso di sé. L'uomo
debole o intimidito corre a precipizio e non si ferma se non quando è
sfiatato; colui che ha la memoria tesa, per timore di un incidente,
infilza i suoi periodi, in vece di distribuirli con arte. TSon
c'è più autorità in tali condizioni, l'uditore assiste a una sfilata;
non prova nessun attacco.
I silenzi sono in particolar modo al loro posto prima di
un inizio solenne, prima di un racconto importante, prima di una
precisione delicata, e similmente dopo l'espressione di un grande
pensiero, dopo l'evocazione di una visione, dopo una dichiarazione di
tal natura da stordire, da far riflettere. Avendo posta una forte somma,
si aspetta che si giochi la partita e che l'anima dell'uditore si
decida. Ecco uno dei segreti dell'eloquenza, a
— 319 —
Condizione che ogni artifizio sia rimosso e che non si
abbia l'aria di servirsi di un segreto.
È chiaro che la dizione si compone come il
piano, come gli svolgimenti, come l'elocuzione. È pure chiaro che essa
devesi appropriare al genere del discorso. Una meditazione sulla morte
non ha il ritmo, il movimento, le modulazioni di un'ar-; ringa per la
crociata.
Dopo l'esecuzione di Mors et vita al Trocadero,
Gounod diceva di Paure: « Egli cantò in lettere maiuscole ». Era una
perfezione; ma sarebbe una perfezione cantare o pronunziare in lettere
maiuscole una confidenza o un mistico segreto?
Internamente, la dizione deve avere i suoi piani,
le sue dominanti, i suoi valori graduati, le sue luci e le sue ombre,
senza di che puoi sconvolgere il lavoro meglio costruito, semplicemente
perché non hai mantenuto nella pronunzia le relazioni che ne facevano
la coesione armonica.
Per questo, parlando, come scrivendo, conserverai la tua
veduta sull'insieme. Il cavaliere, a qualunque andatura proceda, guarda
la strada. Nei momenti di passione oratoria e di entusiasmo,
soprattutto, si corre un pericolo di abbagliamento, di anestesia dello
spirito, da cui il tenore del discorso e la sua unità potrebbero aver
da soffrire.
VI. — II gesto.
Un ultimo elemento concorre all'efficacia della parola,
la rinforza, la compie nel suo intimo significato perché esso,
d'accordo con la fìsonomia, rivela lo stato inferiore di colui che
parla, ed è il gesto. Non c'era qui bisogno di dimostrazione;
ma se si fosse creduta necessaria, 1' « arte muta » ce
l'avrebbe portata. Prima del cinema non si sapeva tutta la potenza del
gesto; il valore espressivo di questo parlare figurato era
nondimeno inscritto nella natura delle cose.
Una mimica segreta è unita alla parola fin dal momento
della sua nascita in noi; anzi la precede, perché fa corpo col
pensiero, sotto la forma di ciò che chiamano immagini motrici, cioè
non solo dei simboli di azione, ma già delle azioni, degli impulsi
misurati, ritmi la cui trasmissione ingrandita esprimerà ,
schematicamente l'atteggiamento dell'anima, aiuterà a seguire i suoi
concetti, a vederli, nello stesso tempo che la parola ce li fa
udire.
— 320 —
Anche la parola è una mimica; se ha per carattere di
agitare l'aria e di muovere un senso diverso, non per questo essa cambia
natura. Si giudica lo spirito pensando a' suoi gesti; siano essi
boccali, fìsonomici o manuali, la differenza è certamente grande;
ma l'unità rimane, e appartiene al vero oratore di non
spezzarla.
I sordomuti non educati gesticolano, e arrivano a
intendersi tra loro senza nessuna convenzione: quando poi acquistano un
linguaggio convenzionale, sarebbe ammissibile che il primo, mantenuto,
non lo rinforzasse? Si sa che presso certi popoli lo stesso linguaggio
convenzionale comporta essenzialmente, oltre alla sua parte articolata,
una parte fcitta: il senso di una parola o il suo valore cambiano
secondo il gesto delle mani o la posizione delle labbra. Onde i
Boschimani e gli Eschimesi, ed altri, volendo parlarsi di notte,
accendono fuochi per vedersi.
Per noi, benché l'articolazione basti a segnare
l'essenziale del pensiero, la mimica tuttavia conserva un grandissimo
valore. Parlare nella notte sminuirebbe assai l'oratore. Si capisce
molto meglio quando si vede; si assiste alla nascita del pensiero, ci si
rende conto delle sue sfumature, delle sue ripercussioni, delle sue
forze attive. A tal segno che a volte l'espressione diventa inutile; per
lo meno, l'espressione orale, diventa allora essa stessa l'aiutante, e
aggiunge un commento; le proporzioni si cambiano, e, siccome il gesto
precede, nel momento in cui interviene la parola, l'effetto che essa
cerca è già prodotto. Supponi che ti si faccia, una domanda delicata e
che tu voglia mostrare la risposta piena d'insidie o di mistero, non
sarai forse giunto più presto a sbrigartene, non con vane parole, ma
con un atteggiamento sospensivo che ti mette in guardia tutte le tue
membra, tutti i tuoi lineamenti? La minima esclamazione che sembra
partirsi dallo stesso gesto sarà allora tutto il complemento
desiderato.
Aggiungi che la mimica è essenzialmente contagiosa, -e
perciò utile alla comunicazione degli stati dell'anima come alla loro
espressione. Ogni gesto, specialmente se ha un carattere ritmico, tende
a ripetersi nello spettatore e produce in lui una dinamogenia
eccitatrice di sentimenti e d'idee in armonia con l'impulso originale.
Non si potrebbe trascurare una tale forza.
Bisogna a volte notare che la mimica oratoria prende
varie forme e non lascia sempre lo stesso posto al gesto propriamente
detto. Certi oratori che fanno pochissimi gesti, non per questo sono
inferiori agli altri; sarebbero inferiori soltanto se i gesti
— 321 —
normali dai quali si dispensano non trovassero il loro
equivalente. Siccome è nelle immagini inferiori che la mimica prende la
sua origine, ci sarà, secondo la natura e la dosatura di questi
fantasmi — che variano, per una stessa idea e uno stesso sentimento,
con la psicologia di ciascuno — ci sarà, dico, un predominio dei
gesti nell'uno, e nell'altro dell'espressione facciale,
dell'atteggiamento, del ritmo espressivo della parola stessa, di quella
« danza boccale » di cui parla uno dei nostri fonetici. Ciascuno si
deve misurare da se stesso, e non dagli altri. Si faccia solo attenzione
a non finire nel vuoto, col pretesto di far ricorso a facoltà di
sostituzione. L'assenza di gesti spesso non dipende che dalla timidità,
dall'inesperienza, da una mancanza di allenamento alla quale converrebbe
metter rimedio. In qualche giovane oratore, il gesto ha il suo
incitamento nell'intimo, lo indovini dalle piccole scosse, ma esso non
esce.
Le qualità del gesto si deducono dal suo compito, o per
dir meglio, dalla sua natura. Poiché è un accompagnamento dell'idea e
deriva da' suoi fantasmi, il gesto deve far corpo con l'idea e non
modellarsi che su. di essa. Tu fai gesti perché hai prima pensato in
gesti. È anzi dire troppo, che li fai; se sono buoni, si fanno in tè;
il loro schiudersi è spontaneo come il lampo de' tuoi occhi, come il
piegarsi delle tue labbra, e indicano meno la tua volontà che non
l'aiutino.
Ecco dunque esclusa quella gesticolazione senza scopo
che fa di certi oratori delle vere marionette. Si sa che la predicazione
ammette dei gesti: se ne fanno, ed essi rassomigliano a quelle
modulazioni convenute, automatiche o periodiche chiamate « il tono
della predicazione ». « Bisogna che tu agiti le braccia perché sei
animato, dice Fénelon; ma, per apparire animato, non bisognerebbe che
agitassi le braccia ». Un gesto non è buono se non a patto che esso
sia obbligato, nel senso che, in musica, si dice flauto
obbligato, violino obbligato, vale a dire che fa parte della stessa idea
musicale. Se un gesto ti è necessario per esprimere quello che pensi,
come lo pensi, o quello che provi, nella forma e nel grado che lo provi,
fa il gesto; se no, resta tranquillo. L'immobilità vale più di un
gesto vago, di un gesto esagerato, di un gesto ingombrante, di un gesto
falso. In quanto all'agitazione perpetua, fosse pure ben calcolata nei
particolari, è ancora un cattivo calcolo, perché affatica, e fa torto
all'animazione là dove l'animazione è richiesta. Quando non si
discerne, si manca dai due lati.
21 — SBKllLLANaBS. Votatore aistiaiw.
— 322 —
Dal fatto che il gesto nasce o deve nascere col
pensiero, se pure non prima di esso, e dal fatto che può in certi casi
diventare il principale, segue manifestamente che esso deve apparire
prima della voce, che non si può formare così presto. L'intervallo
sarà tanto maggiore in quanto la voce subirà o si crederà che subisca
maggiori ostacoli, come nel caso di una grande impressione. Se ti si
dice una cosa enorme, istintivamente alzi il braccio al cielo, e solo un
istante appresso, come per l'effetto di un allentamento, scoppia un «
oh! no ».
Essendo il gesto un complemento del pensiero, un
perfezionamento della sua espressione fondato sulla sua ricchezza
intcriore, deve cadere specialmente sulle parole di valore, sui mèmbri
principali di frase; i riempitivi non ne hanno bisogno. In queste
parole: « Voi, che piangete, venite a questo Dio, perché egli piange
», il gesto delle braccia aperte, supponendo che ciò si trovi utile,
è richiesto dalla parola venite, che esso deve dunque
leggermente precedere.
Per la stessa ragione, essendo il gesto oratorio un
complemento della parola e l'espressione non dell'idea stessa, ma
dell'ambiente fantasmatico in cui nasce, è un errore cercare di
disegnare esattamente il pensiero col gesto; esso non ne ha bisogno, a
ciò provvedono le parole. Perciò i sordomuti dei quali dicevo sopra
che sanno comunicare prima d'imparare la parola, non fanno più, dopo,
gli stessi gesti; ma ne fanno altri. Ciò che le parole non dicono
punto, cioè gli stati intcriori imparentati con l'idea, gl'impulsi
spontanei d'onde essa procede oppure che essa provoca, è quello che il
gesto e tutta la persona devono manifestare.
Disegnando col gesto, si arriva presto al ridicolo o
alla sconvenienza. Disegnerai tu « chi mangia la mia carne e beve il
mio sangue...? ». O dirai: « Venite, benedetti del Padre mio »,
facendo un gesto col dito? Si può erigere a regola che quanto più
grande è l'oggetto, tanto più il gesto deve restare generale e poco
preciso. Perciò, facendo parlare Dio, serberai un'immobilità quasi
completa; un atteggiamento ben scelto è allora tutto quello che
conviene; perché non « si vedono » dei gesti di Dio;
non si pensa a Dio che in uno stupore senza immagini. Se
tu citi per esempio: « Quand'anche una madre dimenticasse il figliuolo
che ha messo al mondo, tuttavia io non dimenticherei voi », dicendo io,
non vorrai portare la mano al petto, come ho veduto fare a un
principiante.
Aggiungo che la qualità della persona che parla entra
qui
— 323 —
ugualmente in causa. Il gesto del sacerdote è
sacerdotale, non teatrale, o da tribuno, o da monellaccio. Un certo fare
pittoresco diverte la ragazzaglia dell'uditorio; ma non è una
raccomandazione. Guardati in particolar modo dal mettere le mani sulle
anche, o nella cintola, dietro il dorso. Non parlo delle tasche! Non far
rumore battendo le mani, urtando la cattedra, o battendo il piede.
Tieni conto delle osservazioni che precedono, e tré
qualità del gesto già ti son note: la naturalezza, l'espressione,
la convenienza. Aggiungi, se puoi, la bellezza. Non sotto forma
di quella falsa eleganza, esclusa di diritto dalla verità, dalla
spontaneità che abbiamo richiesto, ma in grazia di un'armonia
che si risolve in verità essa pure, in facilità di movimento, in
giustezza, in adattamento.
Del resto la principale bellezza del gesto oratorio non
è la sua bellezza grafica o plastica, ma la sua bellezza spirituale, la
bellezza espressiva. Il gesto poco aggraziato di un paesano che tende le
braccia al suo bambino può essere ammirabile, e là dove Eaffaello fa
dell'armonia all'italiana, Eembrandt ne trova un'altra, Velasquez una
terza, e che non sono punto inferiori.
A questo riguardo tuttavia, vi sono alcune indicazioni
utili a fornire. In un quadro, la concordanza delle linee dev'essere
curata: così nell'insieme di una gesticolazione, si devono evitare gli
urti, i passaggi angolosi, gli arresti troppo bruschi, i quali attestano
che il movimento inferiore non è ubbidito. La natura, dentro di noi, ha
i suoi ritmi e le sue trasmissioni di correnti; se ciò si
traducesse al di fuori, sarebbe la perfezione stessa; avverrebbe come
delle onde, ove leggi di equilibrio assicurano, anche nella violenza,
una larga continuità.
Per questo, farai bene a pensare che se il braccio
muove, è per spostare la mano, vero organo dell'azione, e che per gè
non è che una leva. Il movimento dovrà dunque partire dalla spalla e
valersi della pieghevolezza del braccio per procurare alla mano la sua
posizione più espressiva. Siccome la rotazione ha il suo perno molto
lontano, non nel polso, non nel gomito, che non devono servire se non
alla trasmissione, il movimento è più armonioso, come all'estremità
di una canna agitata si disegnano più belle curve.
L'armonia vuole ancora che al gesto di un braccio non
contraddica quello dell'altro, o la positura della testa, o lo sguardo,
o l'atteggiamento generale del corpo. Ciò non significa"
- , —.324 — '
che la direziono del movimento sarà sempre la stessa;
vi sonò armonie per somiglianzà e armonie per contrasto. Per figurare
la profondità di un abisso, le braccia che si sollevano, mentre lo
sguardo si immerge, saranno più eloquenti che abbassate esse pure;
perché dando un punto di partenza più elevato alla misura discendente,
esse aumentano il balzo e rinforzano l'impressione che si cerca. Così
avviene in molti casi; ma. resta la legge generale; si tratta di una
corrispondenza di elementi, senza distorsione ne disordine.
Nota che tra questi elementi da far concorrere, si
schiera anche la voce. Grandi esclamazioni o un sussurrare non domandano
gli stessi gesti; una voce stentorea e una voce debole avranno un
accompagnamento manuale differente. Paure diceva: « Non bisogna
promettere coi gesti più di quello che la voce può mantenere » (1).
Gli esperti aggiungono a queste condizioni generali
alcune annotazioni più particolari, che ne sono la conseguenza.
Evitare, gesticolando con la mano, la contrazione delle dita, che ti da
l'aspetto di avaro o d'infermo. Evitare le alzate di spalle senza
significato e anche quelle che hanno un significato, perché è quasi
sempre cosa volgare. — Interdirsi i balzi e gli abbassamenti
subitanei, come di un diavolo in scatola. Pare che Bee-' thoven avesse
questo difetto, come direttore d'orchestra; ma brillava altrimenti. —
Non avanzare le due braccia ex aequo^ specialmente in croce, e
non intralciare il corpo gesticolando a ritroso, prova che non si è
usato il braccio che bisogna. — Guardarsi dal tendere il braccio in
avanti o di fianco con esagerazione, ciò che rompe l'equilibrio
dell'atteggiamento, ecc.
Quintiliano vuole che il gesto non oltrepassi mai la
testa;
in ciò nessuno lo segue; ma un gesto partente,
dalla testa sembra doversi escludere, come quello che da un'impressione
di smarrimento. Parimenti il gesto non deve nascondere la figura, anche
se si fa il gesto di nascondersi la figura, il che è tutt'altro che
nasconderla realmente. L'arte non è la realtà; è un simbolismo.
L'oratore del quale non si vede più la figura non la' nasconde
oratoriamente, poiché non esiste più.
Finalmente in caso di dubbio circa l'opportunità di un
gesto. o di un insieme di gesti, dovrai persuaderti che, qui, il meno è
assai preferibile all'eccesso. Troppi gesti distolgono l'atten-
(1) J.-B. faubb, Une awnée d'études, init.
— 325 —
zione dalla parola, come troppe immagmi la distolgono
dall'idea e troppe idee particolari la distolgono dal tema essenziale. I
gesti che si evitano per una saggia riserva giovano a quelli che si
fanno. Gli attori hanno notato da un pezzo che tra quelli che fanno meno
gesti vi sono pure quelli che li fanno giusti.
Quanto più il discorso è solenne, o quanto più lo
squarcio in corso è di stile elevato, tanto meno bisogna gestire, ed è
lo stesso se si vuole dimostrare dignità, perché in tutte queste
occasioni il minimo indizio di agitazione non può far altro che
nuocere. L'immobilità, in certi casi, è ancora il più bei gesto, come
il silenzio la più alta parola.
Aggiungi che un oratore poco agguerrito, che si sente la
mano pesante e che paralizzato più o meno dalla timidità, dalla
disadattaggine naturale al principiante, farà bene a moderarsi molto,
ad allenarsi a poco a poco, a colpo sicuro, non ammettendo da prima che
l'evidente e l'indispensabile.
~Soi potremmo, dopo questo, compilare un catalogo
dei gesti oratorii per generi, specie e varietà; ciò potrebb'essere
interessante; ma sotto l'aspetto pratico, dopo aver detto che vi sono
gesti indicativi, esplicativi, descrittivi, affettivi e misti, gesti di
esposizione e di dimostrazione, gesti di affermazione e di negazione,
gesti di configurazione, di espansione, di scoperta prossima o remota,
di appello, di accoglimento e di repulsione, ecc., ecc., non avresti
progredito molto. Vi sono delle evidenze; ma espresse teoricamente si
prestano sempre a una folla di eccezioni. I casi sono troppo varii, le
sfumature troppo sfuggevoli. Il gesto, nato dalle immagini mentali
soggiacenti al pensiero, cioè preconcettuali o estraconcettuali,
partecipa della loro indeterminatezza; anch'esso, come l'individuo, è
« ineffabile ». Non vi sono gesti sinonimi, fu detto, e ciò significa
che non c'è misura comune tra un'idea o un sentimento definiti e il
gesto incaricato di esprimerli, poiché appunto il gesto deve esprimere
quello che hanno di indefinibile, intendo lo stato dell'anima, l'impulso
interno, il quid proprium che varia da un individuo all'altro e
non si ripete mai.
Onde si possono trovare vanissimo e anche pericolose
lezioni di gesti fondate su « principii » e su classificazioni pretese
metodiche. Tuttavia se ne sono date; furono anzi pubblicate incisioni in
appoggio, e vi è una cosa assai notevole, cioè, che tutti questi gesti
offerti in esempio sono falsi. Si difendono
— 326 —
davanti alla ragione astratta; rappresentano forse una
formula esatta in sé considerata; ma oltre che. non possono convenire
ne a ogni persona ne a ogni caso individuale, hanno un effetto
deplorevole, perché vi si sente l'attore, e ciò nel declamare Bossuet,
Lacordaire. È spaventoso.
Oh! quanto preferisco il povero vicario di campagna
impacciato dalle sue mani, ma il cuore del quat& agisce e da una
impressione di commovente semplicità, più convincente che un « gesto
di espansione! ».
Nessuna ignoranza o imperizia è paragonabile in
nocumento al porgere teatrale del sacerdote, oppure alla sua « arte »
non appena si scorge.
Si dica pure che tutti i gesti così voluti e
organizzati teoricamente sono cattivi, per quanto siano bene studiati,
abili, eleganti e giusti, perché non son naturali. Specialmente sul
pulpito, ciò che sente di ricercatezza è assolutamente da rigettare.
Dico ricercatezza, non esercizio. Puoi, anzi devi esercitarti nel
gestire, come ti eserciti nel pronunziare, nel comporre o nello'
scrivere. L'intervento della ragione è dovunque necessario, ma
esercizi, e, se è possibile, esercizi sorvegliati, criticati da qualche
competente, sono tutt'altro che uno studio aprioristico e un
addestramento sapiente.
Provando; cercando di esprimerti tu stesso sotto questo
rapporto cóme sotto tutti gli altri; controllandoti e facendoti
controllare; correggendo i falsi movimenti con la tua riflessione o con
quella del giudice; sforzandoti soprattutto, di scoprire il gesto alla
sorgente, in quegli stimoli che si subiscono inconsciamente, ma la cui
coscienza si desta nell'individuo attento, arriverai a risultati senza
scapito, senza timore di deviazioni. Poi non ci sarà che da fissare i
tuoi acquisti mediante l'allenamento dell'abitudine. E non si tratterà
di un dato gesto determinato che tu cercheresti di tenere a memoria;
sarebbe la stessa aberrazione che farebbe ritorno; quello che
acquisterai, è l'abitudine delle disposizioni intime che creano il
gesto, e inoltre l'ubbidienza pronta e facile degli organi di
esecuzione.
A questo titolo di esercizio, e senza pregiudizio di
lezioni speciali che vi si potranno consacrare, è utilissimo gestire un
poco imparando il discorso; così ti dirozzi le membra, ti alleni, trovi
qualche movimento che si fissa nella memoria col resto e che, senza che
tu ci pensi — perché bisognerà che oramai tu non ci pensi — si
presenteranno al momento opportuno.
— 327 —
Tuttavia non devi agitarti così all'ultima ora; come
abbiamo detto, ravvicinarsi della battaglia richiede che si raccolga la
propria anima e le proprie forze.
Ultima osservazione. Sappiamo che l'abitudine ha un
doppio effetto: crea tesori di acquisti e stabilisce brutti vezzi. ~Soi
abbiamo previsto il guaio di questa meccanizzazione dicendo che
quello che si deve acquistare, non sono dei gesti abituali, ma
l'abitudine di creare dei gesti, di crearli sempre adatti, per
conseguenza sempre nuovi, poiché nessuno di essi comporta dei sinonimi.
Bisogna vegliare con gran cura; le false pieghe si prendono prestissimo,
e, una volta prese, restano, salvo che ci si esamini frequentemente e ci
si faccia rivedere da altri. Il vizio è il controsenso, ed è
prontamente il ridicolo, quasi tanto nemico della parola quanto il far
teatrale e la falsa arte.
328
L'EPILOGO DEL DISCORSO^
Eccoti alla fine de' tuoi sforzi e invitato a guardare
indietro, non per maledire una sconfitta, o applaudirti di un felice
successo, ma per trarre dall'uno o dall'altro un utile insegnamento.
Mentre si parla si ha la mente stranamente desta; di
fronte al pubblico si giudica come per gli occhi del pubblico stesso;
s'indovina così quello ch'egli pensa o che deve
pensare, e se, discendendo dal pulpito, si sa raccogliere le vaghe o
chiarissime impressioni provate, si è in condizione di fa rè un
progresso, ciò che è il voto perpetuo dell'uomo intelligente, tanto
più dell'apostolo.
Paolo Valéry scrive: « Una cosa riuscita è una
trasformazione d'una cosa mancata. Dunque una cosa mancata non è
mancata se non per abbandono » (1). Hai tu fallito il tuo discorso? ~So,
spero, per chi lo considera alla leggera; ma rispetto a un alto
ideale, un discorso è sempre fallito. Si sperava sempre di far meglio;
a ogni modo, si spera per domani: allora non abbandonare la tua opera
imperfetta. Se sei improvvisatore, il tuo discorso non ti servirà tale
e qziale un'altra volta; ma il suo piano ti servirà: rivedi codesto
piano; hai dovuto provarlo parlando, e vedere il suo forte e il suo
debole. Il forte è quello che metteva in piena luce il pensiero
iniziale e facilitava a tè stesso la sua manifestazione; il debole è
quello che t'ingombrava, quello che ti gettava nel ginepraio o nella
nebbia secondo che si trattava di pratica o di pensiero. Per
conseguenza, rimetti sul telaio codesta trama, mentre la tua impressione
è ancora viva. Domani può essere svanito tutto; il giudice sarà
lontano; tu ti ritroverai di fronte a tè stesso e, forse, ripreso dalle
false evidenze che avevano cagionato l'errore.
Se il discorso è scritto, devi perfezionarlo, forse
rifarlo, e dici bene che non devi aspettare più tardi, perché, una
volta che tutto sia raffreddato, non lo potrai fare con efficacia e con
la minima spesa. Adesso non è niente; hai tutto presente, e le
(1) P. valébt, Notes swr la poesie: « Nouvellae
littéraires » du 28 septein-bre 1929.
—. 329 —
tue facoltà messe in moto funzionano con un pieno
rendimento;
, -approfittane. Quanto tempo e fatica si risparmia,
facendo lavorare quei felici momenti che la pigrizia trascura!
Hai probabilmente avuto la sorte propizia; il controllo
del fatto si è volto in favore di un dato svolgimento, di un dato
periodo manifestamente gustato e che ha fatto presa? Ebbene ; sii tanto
saggio da sfruttare codesto successo, sia per perfezionare l'opera tua
facendo traboccare sopra l'insieme una riuscita parziale, sia per
incominciare un'altra opera. Un buono squarcio può creare un discorso;
un buon discorso ne può creare quattro.
Se hai imparato a memoria, abbi cura di osservare come
si è comportata la tua memoria. Se in un dato punto ha piegato, se si
è smarrita, si può scommettere che una mancanza di composizione è
stata la sua insidia. Difetto di nesso logico, : cattiva distribuzione
delle materie, ripetizione fuori di posto, sovraccarico: ecco
indubbiamente quello che scopriresti.
E poi, se hai un amico, un uomo di senno che abbia da
tè ricevuto il diritto di parlarti liberamente, senza adulazione ma con
amore, se lo hai condotto a udirti, affrettati a trarre da lui le sue
impressioni fresche fresche; rifai con lui il discorso, di fronte
all'uditorio presente in voialtri due; perché anche lui, il tuo alter
ego, ha sentito ciò che si pensava, ciò che si era in diritto di
pensare, e ne ha goduto o sofferto in silenzio. Parli lui, adesso. Ma,
soprattutto, non ti scoraggisca! 2'Ton fare così tu stesso per altri.
« Le pendole, dice bellamente un tale, si fermano da sole, se nessuno
vi guarda l'ora »; ma si fermano molto più se una mano brutale si
getta sul quadrante.
Il Padre Ollivier, citando, credo, un antico
predicatore:
diceva: Quando sono contento scendendo dal pulpito,
recito un Misererò, e quando sono malcontento, un Tè Deum.
Ecco una bella lezione di umiltà e di fede nella Provvidenza; ma è
anche un'indicazione tecnica. L'uomo contento dev'essere ben sicuro di
dimenticare o di trascurare qualche cosa: si faccia avvertire in
proposito e si corregga. Ecco il suo Misererò. L'uomo
malcontento, se sa il perché, è anticipatamente raddrizzato, e se non
lo sa, consulti: dopo ciò si potrà giustificare il Tè Deum.
L'esperienza si deve pagare. 'Son puoi formulare
a tè stesso dei precetti se non dopo averli vissuti. Ma i precetti si
vivono in due modi: per la loro felice applicazione e per l'effetto
calamitoso della loro assenza. Non è vero che « quello che vi è di
meglio nella vittoria è il togliere al vincitore il timore della
—330—
sconfitta» (I): essa produce migliori frutti, e del
rimanente una sconfitta momentanea e parziale non è tanto formidabile.
Ohi sa che per via dello scacco non s'imparino meglio i segreti di
vincere! Il successo, soprattutto se è facile, istruisce poco e non
invita all'esaurimento delle forze; non commove che la superfìcie
dell'anima. Della sconfitta, si soffre, e nessuna esperienza va più
lontano di quella del dolore.
Bisogna forse aggiungere che, avendo posto alla base
della nostra orazione un'altra orazione, un ricorso a Colui che
ci invia, e la Messa del mattino, e l'invocazione dell'ultimo istante,
il Domine, labia mea aperies, conviene ora voltarsi indietro e
dire Deo gratias, o Farce, Domine, o certamente tutti due, ma
gettando verso l'avvenire, a ogni modo, uno sguardo di speranza?
Ogni esperienza è fruttuosa a suo modo; se è felice,
porta più lontano; se è penosa, fa « entrare il mestiere », abbatte
la superbia, impone il sentimento degli ostacoli, e se, pesando questi
due benefizi, è difficile dire quale sia il migliore, dipende da noi,
insieme con Dio, il renderli ugualmente profittevoli. Così s'impone,
sempre, un'azione di grazie confidente. Eiu-scendo, io salgo;
inciampando, rimbalzo: che importa la forma di movimento e la sua
traiettoria, se mi trovo più in alto?
(1) FRéofoio nibtzscw. £e gai samirs aphor.
163. |
|
INDICE DELLE' MATERIE
Prefazione .................. Pag.
6
Introduzione ............... . . » 9
LIBRO I.
la parola DI dio IN SB STESSA.
capitolo I. — La parola di Dio . . . .. . . . .Pag.
11
I. Che cosa è la Parola; di Dio .. . ... . ,..;)>
11
II. La dignità e l'efficacia della parola' di Dio •
• ^ -r ^ » 16 capitolo II. — Le fonti della Parola di Dio .. .
,;^'.-.:• » 23
I. La Sacra Scrittura . . . . .,..,. ,; ... » 23
II, La Liturgia . . . . . . , ., ... . ».,,..,'»
36
HI. I Padri della Chiesa, i Teologi e i Maestri della
aa-,
era Eloquenza . . . ..,.;„.,., .. ., . .,...)> 40
IV. La Vita dei Santi . . . lll%•:/,^^^.,;,;,i,.•.l:i.
^..:.:1-, » -49 :V. La Storia della Chiega . ••.;.::'.1•^...^.-/.1^,•;-1.,/.,1.•^.
. » 50 •VI. La Natura e l'Arte . . . !., •'.•-•;';^^^,;1.,--
• i> 51 VII. L'Esperienza e le sue fonti
,,^;.^,;7.; /•^^•;-;•; ' • » ^
A) La Meditazione . .. ,:•;yly
:"•:.''••,/. i,1."^.1-;'1--.'
'• '• o 53
B) La Lettura . . ...... :^;•"'',1•;^......;:::1;;;?''.,,;;,.
-. » •• 60
(7) Le Frequentazioni . . ..\,,;,.':,,^ :..;,;.:;<
^:. ... »-. 60
D) II Contatto degli uomini di esperienza ,^ . .. .
» 63
.E) II Ministero stesso .. ... .... ;.; . . . » 64
capitolo III. — Gli appoggi inferiori della
PwylictidiDio. » 66
I. La buona vita . . . ..... . ,. . . . » 66
II. Il silenzio e la solitudine . . .. . ,. . . . » .71
JII. La preghiera. L'orazione. La Messa . ... . . » 73
332
LIBRO II.
qualità NECESSASIE ALL'ORATORE CRISTIANO E IL MODO DI
ACQUISTARLE.
capitolo I. Il contegno corporale . ....:; . . . Pag.
79
.1. La cura della persona . . .'...;. :,.,..;•». 79 II.
II portamento .... ..,,/..';.;.;?. .\ .;.-» 81
capitolo II. La buona respirasione '. ..1
'.' .,^.' ''..^-'.•..••t:,^,:,.'» 83
I. La respirazione abituale . .:;."'. '.?\''^.^:'-;'-»''v'»
§3
II. G-li esercizi respiratorii. . .,..•. ...'.,.;'•.;,.»
84
III. La respirazione nel corso della parola. ,t ,. . .
» §5 capitolo III. — La voce . . . ;y,, . .?•.;:.<'
.^.^A.?'.''» @9 .1. La cura della voce . . . .^,,\,.
,:-:,,'^i^.'.!'..:•,^\i•'f.'/»
§9 II. Le qualità della voce . . .•^.,;.^;;;^v.;';;..;'.~,
.,' -..^.i» {?! A.) L'impostazione della voce , ^
\;.^;;'";;;,.:^ •.:.'. » 91 B) Le qualità estetiche
della voce ^.,, »....:.' . ;.., . » 93 G) La sonorità della
voce . . . ;»• '. '",:,<."^».;' '. . » 94 D) La
portata della voce. . . . .',;..' i.,,;;. . » 97 E) La durata e
la resistenza della voce . '.- ..y >•• . » '100 capitolo IV. —
L'emissione della voce . ;. ^. '..,.;'',,,.. » - 103
L'articolazione . .. . .^ . ? .•'^ '., .^H^-'.;.'. .. » 103
A) Le vocali . . . / .l-l•;;'"'";.^';.•i;/fc'^/^'.^-;.'',.,,^:,:..'-^1.
s> 103
B) Le consonanti . . .-'-^a. l^.tl:;l^'\'
,..::•i.i\•:•!•.^:
,;'•-•.;'. » 104 C') LesiUabe .^ '. . l..l-•-;l'^l•..^^.^.•!ly.^l;.^•l^::;^,..^l..l>•.106
Z)) II discorso legato .',/ '.r^1,'^,,^,,;..''1'.^-,^1.',!,
;11.<^1'.'';,11;.\•:|,:„'•',.
» 107 capitolo V. — Le qualità ^té^ièftSwtK^^.'ytyegte^t^^
.;';.. » 109 - I. Il buon senso . . ',1\'•,111.
.••.'.': .^.<.:li:..\^"..:'•^..-;;•.i•^.:l
. » .109
II. La cultura ;. '. .;'.: '.i1-'',,,^;.;..^''..^,;'!:'^?.;"',.,',.
» ,110 A} La cultura generale ,' .. /.: ••. •';;-.
• ^-^"/^•''.•: . » 110
•1 1 i?) La lingua . . . . '.'
''.l•..y:^l^:U.I<;-l.l,"l:.'•^
;',.-' '''•'^'^ • » 116 O) La logica
dimostrativa ....•:'^."!'./:.'^y:;•i.\'^
. » 117 Z>) La rettorica sacra . . :'. .:.;^^.,;^.:.^;;-\;;,;';^,
. » 118
III. L'acquisto
dottrinaleeora.torffr^^Èìetii'óte.:."1.^"..:^'.;..
» 122
IV. La chiarezza .... •."•:..-. ^.^.^•.:'-^.'^^^
• .. » 130
V. L'originalità vera .,. ,.'•'.;'^^» '» •;..
^.;'''',a^^:. » 135 VL La semplicità : . . ^^
,,-.^.:.r;^,;.^l.,Alt^..!:^^ » 138.
VII. Ilsenso e l'adattamentó/f'.'.-^;.'.;,:^:^.';,.;^-,;.-. .»
144
capitolo VI. — L'immaginasioM •'e ^»
;aeA%^<à. •g'à^^à è
, dt/É«t . . .: :' ;'-'. ••11.'•.;'^'^\.^^^;<.::<1:^%.'\..3^•'.
»" 149. :• I. L'aridità . . ;.1 ! .^.^•.-ll^v.'^^''^^^.ll^l^^
'149'
II.- La divagazione ...-•;.;^; \"-."1•11.;•.:'.•"':"•.':'1\,.
'1;;1 "y^', •,,'•. ' ». 152
III. La freddezza . -.. 1-1•.•:'?.
•':'':'. ^.^ '.•;;'. ^iv^".. •\,;:%:t/^.
. » 153.
IV. La sensibilità temperata- .^^^'.^•'"ì^
':^ .-•'È^.i!'';-.' . » 155
V. Le mescolanze impure .;;'',^;'^:.".
••'.'':.t ".:;,.. » 155
— 333 —
capitolo VII. — II carattere del predicatore . . .
;•-. Pag. 157
I. La leggerezza e la gravita. ...... . . . » 157
II. L'asprezza e la compiacenza. . . . ; . . ,: .
» 160
III. La benevolenza e lo spirito di
denigrazione . ;. . » 167
IV. La timidità, l'autorità e la presunzione . .
,;..;.;»c 172
V. L'orgoglio e l'ambizione umana . . . . ,,;;)..•»
176
VI. Il vero zelo e la fiducia fondata in Dio. . . , i .
» 180
LIBRO III.
L'ESERCIZIO EFFETTIVO DELIA pabola PI dio.
capitolo I. — La scelta dei soggetti e dei generi
.... Pag. 189
capitolo II. — II triplice scopo dell'oratore
cristiana . . » 197 I. Insegnare . . . . .. • . . . . . . , . .
»- 197
.A) Necessità dell'insegnamento . . . . . . . s
» 197
B) Qualità di un buon insegnamento. La prova
oratoria » 198 ^II. Commovere . . . . . . . . . « ... . . » 201
' A) La necessità di commovere
i cuori . ;.,.....• .^ » 201
B) Le condizioni per commovere . .v ::.•«.!,..,.
< ;• » 202
III. Piacere ......... .^%:,, ..''.: ..:.^»-
204
IV. Scopo accessorio: dipingere. . .,.:.,.. . .,, o
206 capitolo III. — I metodi dell'oratore cristia»^. .. . , »
209
I. Parola imparata e parola improvvisata.. — Inoonve-
nienti e vantaggi . ... . ..,..,;.'. , : »' » 209
II. Regole per ciascun metodo . . .;.,.,.....' » 210
HI. Conciliazione e dosatura . . . ,•,.,.;....'.•»
218
IV. Si può leggere sul pulpito . ~. . .'.,i'
.,.,';.» .220 capitolo IV. — Il'elaborwione del discorso ., '.
. .. :." » 222
.1. L'invenzione. . . . .,. . . ,. .'^i ' ?
..^.^ . » 222
'/.;, A) L'ispirazione iniziale . ,,,-, ••:,,
:<','a..,..,,;..-'/ ,'» 222 ^ B) La ricerca dei pensieri .
'.. .. ..'^••^..t^ ./:.;;,.',....;;» 228
y.' O) La scelta dei pensieri . ,;.^.^^.;•'',i;'..'^
^.-'i,.:.', .'T ..''.»• 231 :,1I. La composizione .
. './L,'-1•^.'•;^*^...,', . '..^.,.;. »
234 : ' A) Qualità d'una buona composizioiittì'. .
^, ,,;'; e'.S,» 234 -B) L'ordine statico ', .
. . ^v.^.^. ','-; .,^:. >;,:^ » 237 O) L'ordine dinamico
. . :...,,'<,. ^. ^ .;^. . ..^;:; » 240
D) L'ordine della carità . ; ,;^ ..'^t :. -..:
.;. \. ; . ^:</^» 243
III.. Le varie parti del discorso ,:;.' •
.'!^",'T.*'^; ..^ •'.:»• 247 A} L'esordio . .... .•
.^;•.l-;:^.:^.;l;;v,].'^ì''.ll,^;^:'•,:l»•'247
I?) Le divisioni del discorso .^•^..•..'.^^^^^r^^^-^
» 249 C) La perorazione .... .'" . ^ :« :.
.'.«.^i.;,'.;,» 254
IV. Lo svolgimento oratorio ....... . ;, '{{
»^. ' 256
A) Svariate forme e tendenze deHo svolgimento < :•
256
B) Le leggi dello svolgimento . . . . . . .' . . 259
(7) I luoghi comuni . . . ... . . . .,; ^••;„,;;
262
Z>) I tropi e le figure oratorie . . . . . . .e; . .^
, 264
— 334 -
capitolo V. — L'elocuzione o lo stile oratorio
.... Pay. 270
I. Il ricorso alle fonti della sacra eloquenza. . . , .
» 270
II. Le qualità dello stile oratorio '. . . . i i, . .»
273
A) La verità della parola . . . . . . ','i. . . »
273
B) La parola diretta . . . . . . . . '.i-i;. . . »
276
, O) La parola viva ........ :...;; ., . . » 275
—D) La divisa dello stile oratorio. Il lirismo
;.'t.;,. . » 277
:•:. E) II ritmo .... ......,...,,%..',;,;:^ . »
278
•f) Le sentenze e le citazioni .. , . ;
.,/:,...>. » 280
''^ ,G) La proprietà dello stile .'. i'.
:..•/'.;...;.,;'. .':^. » 281
^ B) La misura . . . .'11;.. ^'':^^'.'.;1.^
1:,;.'?.,^.^^;".-11 . » 283
V' I) La sobrietà .... . . . '. ' . . - . . . . .
» 284
J) II movimento oratorio. La veemenza e l'entusiasmo
esagerato . . . . . ,. . .. '. . . . . » 286,
-S") I tré gradi di stile oratorio secondo S.
Agostino . . » 289
. li) II lavoro dello stile e la sua perfezione.
. . . . » 291
capitolo VI. — -La memoria . . . . .'. . . . .
. » 294
I. Come sviluppare la memoria. -.'.,'.... . . » 294
II. Come valersi della memoria . .;: .^;';
• .; . . . » 295
III. Alcuni consigli pratici . . .\ .;
i;. '.' : ..... » 296
capitolo VII. — L'agione . . .
.;.,??./"."'.' .y^ . » 298
I. Importanza somma dell'azione! '.:^'.
. .''.'•-7,.. . » 298
II. Le leggi generali dell'azione . . , . . . •.
.. , » 300
A) La naturalezza e le sue condizioni complesse . .
. » 300.
B) La comunicazione con l'uditòrio • .'•'
....... 303
G) L'azione viva .............. 304
D) II carattere personale dell'azione e il suo
adattamento ad ogni circostanza . . . . . . . . » 305
E) La purezza dell'azione. Le singolarità viziose.
I loro
rimedi . . . . . . ... . . . . . , » 306
F} La varietà e la monotoma . . . . '; .. ...» 307
G) L'omogeneità nella varietà . . . :v . ...» 307
B) L'azione svariata e l'azione larga . . . . . . »
308
I) La progressione dell'azione .......... 308
i7) La misura ............ . . » 309
III. Eegole particolari dell'azione. L'atteggiamento . .
» 309
IV. Lafisonomia ............... 311
«* V. La pronunzia oratoria. . . . . . . . . . . » 314
VI. Il gesto ^ . . - . . . . . . . ......
319
L'Epilogo del discorso. .... .'. ...... 328
Nulla osta.
Torino, 13 luglio 1932.
P. eegina:ldo giuliani, O. P. P. cesiao pbba, O. P.
Imprimi potest. Torino,
13 luglio 1932.'
P. F. igmazio cane, O. P. ProOTwctaié.
Nulla osta.
Torino, 17 £«gKo 1932.
P. ceslao pesa, O. P. Eev. del.
Imprimatur. Taurini, die 21 'lulii
1932.
Can. FBANCisoirs paueabi Prov. Gen.
INDICE DELLE' MATEBIE
Prefazione .................. Pag.
6
Introduzione ............... . . » 9
LIBRO I.
la parola DI dio IN SB STESSA.
capitolo I. — La parola di Dio . . . .. . . . .Pag.
11
I. Che cosa è la Parola; di Dio .. . ... . ,..;)>
11
II. La dignità e l'efficacia della parola' di Dio •
• ^ -r ^ » 16 capitolo II. — Le fonti della Parola di Dio .. .
,;^'.-.:• » 23
I. La Sacra Scrittura . . . . .,..,. ,; ... » 23
II, La Liturgia . . . . . . , ., ... . ».,,..,'»
36
HI. I Padri della Chiesa, i Teologi e i Maestri della
aa-,
era Eloquenza . . . ..,.;„.,., .. ., . .,...)> 40
IV. La Vita dei Santi . . . lll%•:/,^^^.,;,;,i,.•.l:i.
^..:.:1-, » -49 :V. La Storia della Chiega . ••.;.::'.1•^...^.-/.1^,•;-1.,/.,1.•^.
. » 50 •VI. La Natura e l'Arte . . . !., •'.•-•;';^^^,;1.,--
• i> 51 VII. L'Esperienza e le sue fonti
,,^;.^,;7.; /•^^•;-;•; ' • » ^
A) La Meditazione . .. ,:•;yly
:"•:.''••,/. i,1."^.1-;'1--.'
'• '• o 53
B) La Lettura . . ...... :^;•"'',1•;^......;:::1;;;?''.,,;;,.
-. » •• 60
(7) Le Frequentazioni . . ..\,,;,.':,,^ :..;,;.:;<
^:. ... »-. 60
D) II Contatto degli uomini di esperienza ,^ . .. .
» 63
.E) II Ministero stesso .. ... .... ;.; . . . » 64
capitolo III. — Gli appoggi inferiori della
PwylictidiDio. » 66
I. La buona vita . . . ..... . ,. . . . » 66
II. Il silenzio e la solitudine . . .. . ,. . . . » .71
JII. La preghiera. L'orazione. La Messa . ... . . » 73
332
LIBRO II.
qualità NECESSASIE ALL'ORATORE CRISTIANO E IL MODO DI
ACQUISTARLE.
capitolo I. Il contegno corporale . ....:; . . . Pag.
79
.1. La cura della persona . . .'...;. :,.,..;•». 79 II.
II portamento .... ..,,/..';.;.;?. .\ .;.-» 81
capitolo II. La buona respirasione '. ..1
'.' .,^.' ''..^-'.•..••t:,^,:,.'» 83
I. La respirazione abituale . .:;."'. '.?\''^.^:'-;'-»''v'»
§3
II. G-li esercizi respiratorii. . .,..•. ...'.,.;'•.;,.»
84
III. La respirazione nel corso della parola. ,t ,. . .
» §5 capitolo III. — La voce . . . ;y,, . .?•.;:.<'
.^.^A.?'.''» @9 .1. La cura della voce . . . .^,,\,.
,:-:,,'^i^.'.!'..:•,^\i•'f.'/»
§9 II. Le qualità della voce . . .•^.,;.^;;;^v.;';;..;'.~,
.,' -..^.i» {?! A.) L'impostazione della voce , ^
\;.^;;'";;;,.:^ •.:.'. » 91 B) Le qualità estetiche
della voce ^.,, »....:.' . ;.., . » 93 G) La sonorità della
voce . . . ;»• '. '",:,<."^».;' '. . » 94 D) La
portata della voce. . . . .',;..' i.,,;;. . » 97 E) La durata e
la resistenza della voce . '.- ..y >•• . » '100 capitolo IV. —
L'emissione della voce . ;. ^. '..,.;'',,,.. » - 103
L'articolazione . .. . .^ . ? .•'^ '., .^H^-'.;.'. .. » 103
A) Le vocali . . . / .l-l•;;'"'";.^';.•i;/fc'^/^'.^-;.'',.,,^:,:..'-^1.
s> 103
B) Le consonanti . . .-'-^a. l^.tl:;l^'\'
,..::•i.i\•:•!•.^:
,;'•-•.;'. » 104 C') LesiUabe .^ '. . l..l-•-;l'^l•..^^.^.•!ly.^l;.^•l^::;^,..^l..l>•.106
Z)) II discorso legato .',/ '.r^1,'^,,^,,;..''1'.^-,^1.',!,
;11.<^1'.'';,11;.\•:|,:„'•',.
» 107 capitolo V. — Le qualità ^té^ièftSwtK^^.'ytyegte^t^^
.;';.. » 109 - I. Il buon senso . . ',1\'•,111.
.••.'.': .^.<.:li:..\^"..:'•^..-;;•.i•^.:l
. » .109
II. La cultura ;. '. .;'.: '.i1-'',,,^;.;..^''..^,;'!:'^?.;"',.,',.
» ,110 A} La cultura generale ,' .. /.: ••. •';;-.
• ^-^"/^•''.•: . » 110
•1 1 i?) La lingua . . . . '.'
''.l•..y:^l^:U.I<;-l.l,"l:.'•^
;',.-' '''•'^'^ • » 116 O) La logica
dimostrativa ....•:'^."!'./:.'^y:;•i.\'^
. » 117 Z>) La rettorica sacra . . :'. .:.;^^.,;^.:.^;;-\;;,;';^,
. » 118
III. L'acquisto
dottrinaleeora.torffr^^Èìetii'óte.:."1.^"..:^'.;..
» 122
IV. La chiarezza .... •."•:..-. ^.^.^•.:'-^.'^^^
• .. » 130
V. L'originalità vera .,. ,.'•'.;'^^» '» •;..
^.;'''',a^^:. » 135 VL La semplicità : . . ^^
,,-.^.:.r;^,;.^l.,Alt^..!:^^ » 138.
VII. Ilsenso e l'adattamentó/f'.'.-^;.'.;,:^:^.';,.;^-,;.-. .»
144
capitolo VI. — L'immaginasioM •'e ^»
;aeA%^<à. •g'à^^à è
, dt/É«t . . .: :' ;'-'. ••11.'•.;'^'^\.^^^;<.::<1:^%.'\..3^•'.
»" 149. :• I. L'aridità . . ;.1 ! .^.^•.-ll^v.'^^''^^^.ll^l^^
'149'
II.- La divagazione ...-•;.;^; \"-."1•11.;•.:'.•"':"•.':'1\,.
'1;;1 "y^', •,,'•. ' ». 152
III. La freddezza . -.. 1-1•.•:'?.
•':'':'. ^.^ '.•;;'. ^iv^".. •\,;:%:t/^.
. » 153.
IV. La sensibilità temperata- .^^^'.^•'"ì^
':^ .-•'È^.i!'';-.' . » 155
V. Le mescolanze impure .;;'',^;'^:.".
••'.'':.t ".:;,.. » 155
— 333 —
capitolo VII. — II carattere del predicatore . . .
;•-. Pag. 157
I. La leggerezza e la gravita. ...... . . . » 157
II. L'asprezza e la compiacenza. . . . ; . . ,: .
» 160
III. La benevolenza e lo spirito di
denigrazione . ;. . » 167
IV. La timidità, l'autorità e la presunzione . .
,;..;.;»c 172
V. L'orgoglio e l'ambizione umana . . . . ,,;;)..•»
176
VI. Il vero zelo e la fiducia fondata in Dio. . . , i .
» 180
LIBRO III.
L'ESERCIZIO EFFETTIVO DELIA pabola PI dio.
capitolo I. — La scelta dei soggetti e dei generi
.... Pag. 189
capitolo II. — II triplice scopo dell'oratore
cristiana . . » 197 I. Insegnare . . . . .. • . . . . . . , . .
»- 197
.A) Necessità dell'insegnamento . . . . . . . s
» 197
B) Qualità di un buon insegnamento. La prova
oratoria » 198 ^II. Commovere . . . . . . . . . « ... . . » 201
' A) La necessità di commovere
i cuori . ;.,.....• .^ » 201
B) Le condizioni per commovere . .v ::.•«.!,..,.
< ;• » 202
III. Piacere ......... .^%:,, ..''.: ..:.^»-
204
IV. Scopo accessorio: dipingere. . .,.:.,.. . .,, o
206 capitolo III. — I metodi dell'oratore cristia»^. .. . , »
209
I. Parola imparata e parola improvvisata.. — Inoonve-
nienti e vantaggi . ... . ..,..,;.'. , : »' » 209
II. Regole per ciascun metodo . . .;.,.,.....' » 210
HI. Conciliazione e dosatura . . . ,•,.,.;....'.•»
218
IV. Si può leggere sul pulpito . ~. . .'.,i'
.,.,';.» .220 capitolo IV. — Il'elaborwione del discorso ., '.
. .. :." » 222
.1. L'invenzione. . . . .,. . . ,. .'^i ' ?
..^.^ . » 222
'/.;, A) L'ispirazione iniziale . ,,,-, ••:,,
:<','a..,..,,;..-'/ ,'» 222 ^ B) La ricerca dei pensieri .
'.. .. ..'^••^..t^ ./:.;;,.',....;;» 228
y.' O) La scelta dei pensieri . ,;.^.^^.;•'',i;'..'^
^.-'i,.:.', .'T ..''.»• 231 :,1I. La composizione .
. './L,'-1•^.'•;^*^...,', . '..^.,.;. »
234 : ' A) Qualità d'una buona composizioiittì'. .
^, ,,;'; e'.S,» 234 -B) L'ordine statico ', .
. . ^v.^.^. ','-; .,^:. >;,:^ » 237 O) L'ordine dinamico
. . :...,,'<,. ^. ^ .;^. . ..^;:; » 240
D) L'ordine della carità . ; ,;^ ..'^t :. -..:
.;. \. ; . ^:</^» 243
III.. Le varie parti del discorso ,:;.' •
.'!^",'T.*'^; ..^ •'.:»• 247 A} L'esordio . .... .•
.^;•.l-;:^.:^.;l;;v,].'^ì''.ll,^;^:'•,:l»•'247
I?) Le divisioni del discorso .^•^..•..'.^^^^^r^^^-^
» 249 C) La perorazione .... .'" . ^ :« :.
.'.«.^i.;,'.;,» 254
IV. Lo svolgimento oratorio ....... . ;, '{{
»^. ' 256
A) Svariate forme e tendenze deHo svolgimento < :•
256
B) Le leggi dello svolgimento . . . . . . .' . . 259
(7) I luoghi comuni . . . ... . . . .,; ^••;„,;;
262
Z>) I tropi e le figure oratorie . . . . . . .e; . .^
, 264
— 334 -
capitolo V. — L'elocuzione o lo stile oratorio
.... Pay. 270
I. Il ricorso alle fonti della sacra eloquenza. . . , .
» 270
II. Le qualità dello stile oratorio '. . . . i i, . .»
273
A) La verità della parola . . . . . . ','i. . . »
273
B) La parola diretta . . . . . . . . '.i-i;. . . »
276
, O) La parola viva ........ :...;; ., . . » 275
—D) La divisa dello stile oratorio. Il lirismo
;.'t.;,. . » 277
:•:. E) II ritmo .... ......,...,,%..',;,;:^ . »
278
•f) Le sentenze e le citazioni .. , . ;
.,/:,...>. » 280
''^ ,G) La proprietà dello stile .'. i'.
:..•/'.;...;.,;'. .':^. » 281
^ B) La misura . . . .'11;.. ^'':^^'.'.;1.^
1:,;.'?.,^.^^;".-11 . » 283
V' I) La sobrietà .... . . . '. ' . . - . . . . .
» 284
J) II movimento oratorio. La veemenza e l'entusiasmo
esagerato . . . . . ,. . .. '. . . . . » 286,
-S") I tré gradi di stile oratorio secondo S.
Agostino . . » 289
. li) II lavoro dello stile e la sua perfezione.
. . . . » 291
capitolo VI. — -La memoria . . . . .'. . . . .
. » 294
I. Come sviluppare la memoria. -.'.,'.... . . » 294
II. Come valersi della memoria . .;: .^;';
• .; . . . » 295
III. Alcuni consigli pratici . . .\ .;
i;. '.' : ..... » 296
capitolo VII. — L'agione . . .
.;.,??./"."'.' .y^ . » 298
I. Importanza somma dell'azione! '.:^'.
. .''.'•-7,.. . » 298
II. Le leggi generali dell'azione . . , . . . •.
.. , » 300
A) La naturalezza e le sue condizioni complesse . .
. » 300.
B) La comunicazione con l'uditòrio • .'•'
....... 303
G) L'azione viva .............. 304
D) II carattere personale dell'azione e il suo
adattamento ad ogni circostanza . . . . . . . . » 305
E) La purezza dell'azione. Le singolarità viziose.
I loro
rimedi . . . . . . ... . . . . . , » 306
F} La varietà e la monotoma . . . . '; .. ...» 307
G) L'omogeneità nella varietà . . . :v . ...» 307
B) L'azione svariata e l'azione larga . . . . . . »
308
I) La progressione dell'azione .......... 308
i7) La misura ............ . . » 309
III. Eegole particolari dell'azione. L'atteggiamento . .
» 309
IV. Lafisonomia ............... 311
«* V. La pronunzia oratoria. . . . . . . . . . . » 314
VI. Il gesto ^ . . - . . . . . . . ......
319
L'Epilogo del discorso. .... .'. ...... 328
Nulla osta.
Torino, 13 luglio 1932.
P. eegina:ldo giuliani, O. P. P. cesiao pbba, O. P.
Imprimi potest. Torino,
13 luglio 1932.'
P. F. igmazio cane, O. P. ProOTwctaié.
Nulla osta.
Torino, 17 £«gKo 1932.
P. ceslao pesa, O. P. Eev. del.
Imprimatur. Taurini, die 21 'lulii
1932.
Can. FBANCisoirs paueabi Prov. Gen.
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