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A. D. SERTILLANGES

L'AMORE

 

"LA SCUOLA,, EDITRICE

// EDIZIONE 1961

Titolo originale dell' edizione francese :

NOTRE VIE - L'AMOUR

Traduzione di TARCISIO FORNONI

PROPRIETÀ' RISERVATA - 1955

officine grafiche la scuola - brescia [1673]

 

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PREFAZIONE

fra il pensiero, origine e radice dell'agire, e /'azione, nella quale la vita è destinata a impegnarsi, spetta ali' amore il posto centrale. L'Autore si preoccupa di dirci subito, sulla soglia del libro, quale compito nella vita l'amore abbia: orientamento e armonizzazione del pensiero, forza di propulsione, specificazione del lavoro.

L'amore inteso dunque nella sua pienezza. Attorno alla sola parola si affollano subito idee e curiosità, nascono problemi, si annunciano analisi

II Padre A. D. Sertillanges, domenicano, è nato a Clermont-Ferrand il 17 novembre 1863; nel 1893 fu nominato segretario della Revue Thomiste; dal igoo al 1918 tenne la cattedra di filosofia morale Sill'Instìtut Catholique. Nel 1928 fu destinato a Le Saulchoir — centro di studi e di spiritualità — e vi trascorse un decennio, per tornare poi a Parigi. Morì a Sallanches, nell'Alta Savoia, il 26 luglio 1948.

Rimandiamo il lettore, per notizie più complete sulla vita e sull'opera del Padre A. D. Sertillanges, alla Prefazione de // Pensiero, edito in questa collezione dall'Editrice « La Scuola » di Broscia. : \ .

e indagini. Ma qui non si tratta di studiare Sistematicamente la natura, o l'efficienza o le carenze del povero e tormentante amore umano:

compito che si disputano psicologi e poeti, romanzieri e saggisti. Nel quadro totale dell'universo, quale la Rivelazione lo presenta, l'amore e alla radice della soluzione di tutti i problemi di ordine pratico (pertinenti ogni singola esistenza, con impensabili riflessi nell'ordine sociale, economico e politico), la risposta agli svariati interrogativi che la vita continuamente si pone. Il dogma, la morale, l'ascesi, sono nella logica dell'amore. « Dio è amore i); la sua vita intima è mistero d'amore;

la creazione è espressione d'amore; il ritorno dell'universo a Dio è immenso palpito d'amore, che trova la sua espressione più alta nel gesto cosciente dell'uomo orante, il quale si affida docilmente alla volontà del Padre.

La misura della temperie cristiana in un'anima, in un aggregato umano o in una civiltà, rimane perciò la comprensione, l'estimazione e la pratica dell'amore.

Coloro che hanno dimestichezza col Sertil-langes 'filosofo e moralista, e più ancora guida e maestro d'anime, non dureranno fatica a ritrovare in queste pagine commosse e vive il tema costante della sua opera intellettuale e apostolica, e converranno facilmente sulla saggezza di questa riduzione al denominatore comune dell'amore di

tutta l'incantevole economia cristiana. E i giovani soprattutto — ai quali fu indirizzato originariamente il presente lavoro — avranno da tale voce amica l'assicurazione di meravigliose possibilità, la certezza di soluzioni e di risorse nobilissime, che l'amore soltanto rende efficienti e o foranti nella vita.

I vari temi enunciati all'inizio dei sette nutriti capitoli- offrono il quadro del piano sul quale il lavoro è architettato : L'Amore supremo - L'Amore virtuoso di sé - II piacere e il bene - La sofferenza beata e maledetta - Gli altri - I prediletti e il prossimo - Le nostre avversioni.

La conclusione —-che non è solo alla fine del libro, ma sgorga quasi da ogni pagina — e l'impegno avvivato e stringente per ciascuno di operare il bene sul piano e nell'atmosfera dell'amore.

Le deficienze, o le profanazioni e le allucinanti deformazioni di quello che dovrebbe essere l'amore, sono in rapporto diretto ed evidente col declino dei valori cristiani nel mondo. I deliri razziali, i capricci di bellicosa demenza, la visione esclusivamente economica e materiale delle vicende umane e dei rapporti sociali, le serenate ambizioni e le bramosie dì successo', quanto e su scala vastissima un ordine di realtà unicamente terrestri esclude desolatamente l'amore.

Alla rivalutazione e alla riscoperta di questa inestimabile ricchezza umano-divina vuoi contribuire anche questo libro, -pensato e scrìtto con intelletto d'amore, e offerto ai buoni come dóno di amore.

antonio cistellini

AVVERTENZA DELL'AUTORE

« Tré cose — dice S. Tommaso — deve conoscere l'uomo per salvarsi: i) db che deve credere; i) ciò che deve desiderare e amare.; 3) infine ciò che deve farei). Da queste parole è nata l'idea del presente libro (*) e l'autore stimerà giustificata e appagata la sua aspirazione se avrei potuto indurre alcune anime a orientare con più ardore vedute, aspirazioni e sforzi verso la vera vita.

(*) Quest'opera di A. D. Sertillanges è stata edita in lingua francese dalla Revue des Jeunes nel 1926, col titolo noiee vie, raccolta in due volumi e divisa in tré parti: Lei pensée, Uamour, L'action. L'edizione italiana appare invece in tré volumetti, dedicati appunto alle singole parti.

L'AMORE SUPREMO

il pensiero guida l'amore, così come l'amore è la molla dell'azione; in queste tré cose" consiste tutta la vita. Ma in questa trinità l'amore è centrale, perché è l'amore che assegna la mèta ad ogni impresa, è l'amore che dona lo slancio, indica il giusto punto di applicazione e spalanca nuovi orizzonti al pensiero stesso.

Grandi pensatori e saggi consiglieri della vita umana hanno infaticabilmente insistito sulle leggi dell'amore. Tra essi, e in materia specialmente religiosa, quattro ne hanno magnificamente parlato: sant'Agostino, san Bernardo, san Tommaso d'Aquino e l'autore delimitazione, che hanno avuto un buon numero di emuli e un maggior numero di discepoli.

Ora essendo l'amore il tutto della vita, non può essere messo in dubbio che l'amore divino, governando l'amore medesimo ed assegnando leggi a tutte le sue manifestazioni, non sia anche la

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regola migliore, la sovrana ispirazione dell'esistenza.

L'umanità, tra ricerche, ardori, opere, inquietudini e speranze, gioie e sofferenze, tra sorrisi e singhiozzi, non fa altro che amare; essa misura i propri sforzi e giustifica le proprie scelte sulla gerarchla dei suoi amori; questi tendono agli oggetti; di modo che quel che più importa è di sapere, per ciò che riguarda ciascuna vita; quale oggetto d'amore la domina, quale è il signore del suo cuore, la meta liberamente scelta, la divinità che intende adorare. Se questa divinità è una falsa divinità, ogni attività terrena è votata all'insuccesso, l'essere alla rovina.

La Scrittura ce lo ripete continuamente, ed il mussulmano è solito inebriarsi di questa formula, comune a tutti i credo : « Non c'è altro Dio all'in fuori di dìo)). Amare Dio, e tutto il resto dopo Dio, e tutto il resto in Dio, e tutto il resto secondo Dio, è dunque la verità della vita, la sua giustizia, il suo ordine e la sua beatitudine. Cose tutte che si rassomigliano profondamente.

Dio stesso è amore; egli ama il bene divino, egli si ama; la sua divina imparzialità trova perfetto solo ciò che veramente è perfetto e consacra questa perfezione con un amore che le corrisponde. Dio ama Dio perché Dio ama divinamente, cioè nella verità, e perché egli solo è veramente

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amabile. Tutto ciò che noi amiamo, e noi stessi, soggetti dell'amore; tutto ciò che noi apprezziamo e ciò cui aspiriamo; tutto ciò in cui fissiamo l'interesse del nostro essere, tutto ciò è Dio che si espande in un certo modo fuori di sé, che si irraggia e si dona sotto l'impulso dell'amore, del suo amore : se l'infinito si cala così amorosamente nel finito, il finito non lo riconoscerà e, a sua volta, non l'amerà d'un amore che sarà il rientro dell'infinito in se stesso?

« Dio, dice Malebranche, non può dare alle sue creature una volontà per tendere là ove egli stesso non tende. » (i)

L'amore di Dio è la nostra via. Quando l'anima la percorre, essa si avvicina al suo fine e soddisfa alle ragioni creatrici; essa raggiunge unitamente e lo scopo dell'opera e quello dell'Operaio;

in se stessa e nei confronti del disegno universale, essa trova la sua pienezza. ,

Occorre camminare nella fede, ci diceva san Paolo; ma lui stesso ci indica una vìa più eccellente, (I Cof., XII, 31) E' per amore soprattutto che noi siamo viaggiatori, perché i nostri progressi nella vita non sono che quelli del cuore, sempre più proteso al suo fine supremo.

Due sono le leggi dell'amore: amare ciò che

(i) Malebranche, Trattato dell'Amar di Dio.

c'è di migliore; amare, in vista del bene, ciò che ci è più vicino. Da questo doppio punto di vista, Dio non trionferà? Il migliore, in se e per noi, non è lui? Il più vicino, così vicino che noi diciamo non essere possibile godere nei nostri stessi confronti di una simile prossimità, non è ancora lui?

Dio è buono a tal punto che la parola bontà non ha più per lui significato sufficiente : occorre non lasciarsi ingannare dal debole suono di questa parola, ma avvicinarsi a ciò che essa nell'intimo nasconde. La benevolenza di Dio è totale, tutto quel che è in noi procedendo dalla sua causalità sovrana, tutto quel che ci capita, ali'infuori del male, impegnando la sua sovrana responsabilità.

Dio è vicino in mille modi: come la potenza all'effetto, come la provvidenza a ciò che essa regge, come l'Essere a ciò che incessantemente origina dalla sorgente indefettibile. Niente è buono, niente ci è benefico, niente ci è vicino più della prossimità, della benevolenza e della bontà di Dio. Ne risulta che amare qualcuno senza amare Dio è la cosa più illogica che ci sia. Non pensare a questa verità è sintomo d'una incoscienza che dovrebbe parere madornale a chi riflette, e riflettervi senza emendarsi sarebbe prova di una colpevole pertinacia.

Tutto dovrebbe esserci motivo per amare Dio,

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mentre noi finiamo per fare di tutto un motivo per dimenticarlo, offenderlo: inversione che sconvolge nel più profondo, anche se solo nella misura che ci è consentita, l'ordine morale delle cose. Noi, senza Dio e contro Dio, aderiamo a tutto • ciò che è di Dio; noi condividiamo la nostra vita con esseri che- sono i sostituti di Dio, e Dio viene misconosciuto proprio quando questa utile sostituzione ce lo rivela, ci fa gustare la sua bontà, toccare con mano la sua provvidenza, esperimentare il suo potere, accostandoci al suo essere.

Costringiamo i suoi supplenti a nasconder-celo, con una violenza fatta alla loro natura e alla nostra; impediamo che essi adempiano al loro ufficio di intermediari; intralciamo il loro compito di mezzi in modo che, amandoli con un tale amore sviato, noi li odiamo e meritiamo che essi stessi ci odìno, poiché noi li falsiamo e diveniamo i profanatori della loro santità nativa, i. loro bestemmiatori.

Amare la gemma e impedire che fiorisca, amarla come gemma e non amarla come fiore, è forse amore vero alla gemma? Ebbene, tutto fiorisce in Dio. Per questo chi non ama Dio non ha il diritto di dire che ama qualunque,altra, cosa;

niente egli ama come dovrebbe; quel che l'attira, qualunque sia l'attrazione in se stessa, non lo attira e non lo trattiene che per una colpevole sor- , presa, e il sentimento ch'egli vi dedica non è che |

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la rincorsa d'un'ombra e lò stupido amore della morte.

L'amore del creato e l'amore disordinato di noi stessi ci impedisce d'amare Dio, perché non consideriamo e avviciniamo le cose nella loro vera natura e nella loro condizione essenziale. La condizione essenziale del creato è quella d'essere creato; il creato non è questa cosa o quell'altra, ma è desiderabile e buono solo in forza della creazione stessa, e tale creazione non è atto passeggero, il cui beneficio è stato acquistato un tempo ed una volta per tutte : è un dono permanente, un contatto generatore, simile a quello del raggio e della stella, delle labbra e della voce.

In ciascun istante in cui il desiderio l'investe, ciascun essere ha Dio in sé, Dio più vicino a sé di se stesso, Dio più vicino a noi di conseguenza, per merito di questo oggetto, dell'oggetto medesimo; più presente e perciò più benefico, più desiderabile per noi, più degno di gratitudine e di tenerezza.

Tutto riposa sostanzialmente in Dio; nulla si può concepire con idea adeguata, direbbe Spino-za, senza implicarvi Dio; nulla può essere apprezzato senza che si apprezzi e si onori il bene di cui partecipa; con niente si può stabilire vita in comune senza avere prima vita comune con Dio; da questo niente, da nessuno, nemmeno da se stessi si può ricevere qualcosa senza riceverlo

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da Dio. Avere coscienza di questa appartenenza divina, del compito di intermediario e di conduttore di tutto ciò che si ama, non è essere necessitati ad amare Dio?

Ogni vero amore nei confronti di una creatura esige che si ami Dio m essa, conseguente-mente che si ami Dio più di essa, ma nello stesso tempo che la si ami più del fantasma che ci si era formati isolandola, tagliandola da colui che le dona la vera consistenza, la significazione più intima, il suo fine.

I nostri cuori si perdono nel creato perché il mistero della creazione ci sfugge; la faccia increata di questa, se è possibile esprimersi così, ci resta oscura e lontana, quando invece dovrebbe essere intimamente vicina e luce allo spirito. Dio è presente in ogni parte del creato, e noi non ve lo sappiamo scoprire; la corrente profonda che muove il creato ci nasconde e il suo punto di partenza e il suo termine; noi giochiamo con le sue onde e riserviamo per la sua superficie glauca o abbagliante tutta l'attenzione dell'anima, mentre Colui che segna il limite delle sue rive e risplende su essa è completamente dimenticato.

Un ordine vero, lungi dal permettere alla creatura di assorbirci e di raffreddarci nei confronti di Dio, farebbe in modo che l'amore di Dio la vincesse e la trasfigurasse. L'universo fa assegnamento su di noi. « La creazione, dice Bossuet,

2) L'Amore.

non può amare sé stessa ed è per questo che ci invita ad amarla. » Ciò significa che essa ha bisogno di noi, perché quaggiù nessuno può rimanere isolato; un essere raggiunge la sua completezza quando è stretto in società con tutti gli altri. C'è dunque qui un compito dell'amore di Dio.

Della natura, che dai più è ritenuta indifferente, e di una vita placidamente crudele, l'amore divino può fare un regno infuocato. E non ne ha forse il diritto? Tutto deve andare a Dio attraverso la via dell'anima; perché l'anima, lo dice Aristotele, è in qualche maniera in tutte le cose;

essa le porta in se stessa allo stato cosciente e le ricollega alla Coscienza prima. Ma l'anima non va verso Dio e non vi reca la sua messe di creature se non spinta dall'amore.

L'anima sta alla linea d'orizzonte tra l'eternità e il tempo : donandosi all'eternità essa vi trascina il tempo; donandosi al tempo, oltre che tradirlo, vi inabissa da se stessa la sua eternità, non potendo più disporne.

Tale è il senso di queste parole di sant'Agostino nella Città di Dio : « Due amori hanno costruito due città : l'amore di se stessi fino al disprezzo di Dio, la città terrestre; l'amore di Dio fino al disprezzo di se stessi, quella celeste. » (Libro XIV, cap. XXVIII) Sant'Agostino tutto riduce all'amore di se stessi e non parla delle creature, perché le creature non ci interessano se non in

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guanto hanno rapporti con noi, ci sono materia di vita e mezzi pel nostro destino; in tal maniera che il disordine dei falsi amori si riduce ad un conflitto tra Dio e noi, tra l'amore di Dio e l'amore di noi stessi. E sant'Agostino constata che l'amore di noi stessi è alla base di tutto il male e di tutto il niente della città peritura, mentre l'amor di Dio è la causa di tutto il bene e di ogni pienezza nella città dei cicli.

s Ed è ciò che già insegnava il Vangelo e che ci vien confermato da san Paolo con le parole:

« L'amore e la pienezza della legge i) (Rom., XIII, io); « In ciò consistono la legge ed i profeti. » (Matteo, VII, 12) II Vangelo parla qui dell'amore del prossimo; ma amare il prossimo per Dio è ancora amare Dio; la carità, che ha questo doppio oggetto, ha Dio come oggetto principale, cioè esercitante la funzione di principio. E' un fatto che il primo amore, causa degli altri amori e della loro rettitudine, è presentato qui come la sorgente del bene, come la moralità presa nel suo stesso principio, e non solamente nel suo principio astratto, donde in effetti essa si deduce, ma nel suo principio attivo, quello che effettivamente la fa riconoscere e compiere.

Chiunque ama Dio adempie al primo comandamento della legge, ma anche, per questo stesso fatto, a tutti gli altri, i quali consistono nell'amore, perché in un modo o nell'altro entrano in

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qualche veduta provvidenziale, in qualche volontà creatrice cui l'amore ci unisce innanzi tutto;

essi tutti diventano mezzo in vista del fine supremo, che è il fine dell'amore.

L'amore tende a Dio: le virtù gli tracciano la strada; l'amore si dona a Dio : le virtù gli precisano il dono; l'amore subordina la volontà dell'anima alla volontà di Dio: le virtù gli dichiarano il contenuto di questa volontà prima, ed è per questo che san Giovanni della Croce ha potuto dire : « Al tramonto di questa vita, voi sarete giudicati sull'amore. »

Amarsi, tra gente che s'intende sui problemi del cuore, è volere la stessa cosa : quando io dunque amo Dio, io non posso volere senza di lui ne contro di lui, e sono in possesso della regola da applicare in ogni circostanza; non solo la posseggo, ma vi aderisco e non me ne potrei staccare che rinunciando all'amore da cui mi dico preso.

Amando, io farò ciò che Dio vuole; io sarò ove egli vuole; io eviterò o seguirò ciò che vuole;

io donerò o rifiuterò, amerò o odierò secondo la sua approvazione e la sua tendenza; io sarò il suo riflesso nel desiderio e nell'azione come già lo sono nell'essere, e la mia fedeltà, se portasse a fondo questa logica dell'amore, realizzerebbe l'inaccessibile voto del Vangelo : « Siate perfetti come il vostro Padre celeste è perfetto. »

La mia imperfezione e il mio peccato non

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dipendono sempre da una cattiva scelta? Questa è deviazione proprio in rapporto a quel che è il principio della scelta stessa, cioè lo scopo della vita, l'amore supremo. Basta che io mi disperda al di fuori di questo amore, ecco il peccato veniale; che io mi ribelli a questo amore e lo disprezzi, ecco il peccato mortale; al contrario, se gli sono fedele in tutto, nello scopo e nel modo di raggiungerlo, nel fine e nei mezzi, pervengo alla vita perfetta.

«Ama e fa' ciò che vuoi », dice sant'Agostino. « Colui che aderisce a Dio non forma con lui che un solo spinto » (7 C or., VI, 17), aveva detto l'Apostolo; è dunque saggio di una saggezza effettiva, d'una saggezza che in se stessa contiene il fatto, come la saggezza di Dio.

L'amore di Dio, come un soffio potente, spazza le contrade dell'anima e non vi lascia bruttura alcuna. Tutti i nostri oggetti sono investiti e santificati da questo ardore unico, e, assieme ai nostri oggetti, la nostra durata vi è compresa senza che nessun momento di essa possa suggerire scappatoie. Non ci sono nel tempo ore in cui sia possibile mettersi in contraddizione con l'eternità.

L'amore di Dio è amore eterno. Per quel che ci riguarda è sottomesso al tempo; ma in Dio esso si misura a Dio e da Dio piglia le sue caratteri-

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stiche. Colui che ama Dio può anche non amarlo sempre, ma l'ama per sempre; non amarlo che per una parte del tempo sarebbe rinnegarlo e tradirlo in ciò che dona, sarebbe sostituire all'amore un'offesa.

Nella scienza, in cui la conoscenza s'appiglia alla ricerca delle cause, niente si risolve se non con il ritorno del confuso e del molteplice al semplice ed all'uno, cioè delle conseguenze ai principi e dei principi secondi al principio eminente in ciascuna materia; dappertutto l'uno domina e impone il sjo ordine: così la scienza della vita converge all'unità d'un amore supremo.

Tutta la morale è intrecciata all'amore ed esso solo la regge; senza amore quella non ha scopo;

senza amore quella non ha luce; senza amore quella non ha forza; il primo amore dunque determina quel che la morale deve servire, ve la indirizza e la infiamma. '.'•"^ ^; "

« Perché ti disperdi, o piccolo essere, esclama sant'Anselmo : cur ,per multa vagaris, homun-cio? » II tuo cuore sarà forse diviso in tante parti quanti sono gli oggetti che ami? Conquista la tua unità, il giusto senso di tè, la portata della tua vita, la legge della tua azione. Oltrepassa, applican-doviti, il formalismo freddo che ti lascerà disarmato davanti ad esigenze talvolta così tragiche. La legge, da sola, è inerte; la natura, debole; un'amarezza è attaccata a tutto ciò che ci costringe senza

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fare appello in noi alle intime risorse e senza

schiudere le sorgenti della gioia.

Ma l'amore, che è una regola, è anche tutto slancio e tutto dolcezza; allo stesso tempo è una stretta obbligazione e un dolce peso che inclina, e allora tutto ci diventa facile.

La donna che ama sa ciò che deve fare nella sua casa, e non va certo a consultare il codice; lo scolaro affezionato al suo maestro ha trovato una disciplina .vivente e non si fa certo punire. L'a-j nima che ama Dio realizza la volontà di Dio, e Dio l'aiuta nel compimento di questa, che diviene la sua stessa vita, ed essa si unisce, senza lasciarsi e senza perdersi, alla vita di Dio. Seguendo Dio nella sua opera, essa diviene, per mezzo di Dio, un elemento dell'universo; essa si confonde, se passa l'espressione, nella sua Provvidenza; essa ne realizza i fini realizzandosi; essa mette in opera, per sé e per tutti, la forza della fede che trasporta le montagne; perché « la fede opera per l'amore », dice l'Apostolo. (Calati, V, 6)

E' come dire che questo amore, che è rettitudine, unità intcriore, perfezione e fedeltà, è anche beatitudine. Il ciclo consiste nel suo abbraccio divenuto definitivo; l'inferno invece ne è la privazione; il ciclo e l'inferno del tempo saranno dunque così in perfetta correlazione con la sua presenza o con la sua assenza.

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Santa Teresa -definiva l'inferno il luogo ove non si ama. Santa Brigida sentiva Satana dire a Gesù Cristo questa mefistofelica parola: «Io sono la freddezza stessa. » Essere freddo dinnanzi a Dio, freddo di questa freddezza assoluta è come ' una distruzione ulteriore dell'oggetto, vuoi dire essere dannati. Il sentimento contrario e quel che esso implica di intimità con Colui da cui ci viene ogni aumento ed ogni pienezza è la stessa beatitudine,

Del resto, ciò risulta con evidenza da quel che dicevamo. Se l'amore di Dio è identico alla virtù, è anche identico alla felicità, che la felicità è la virtù nel suo pieno sviluppo, omogenea ad essa e distinta solo allo stato iniziale.

L'uomo tenta d'essere felice : quando si mette in cammino, accanto gli sta la virtù, e quando questa è da lui ampiamente posseduta, egli trova la beatitudine. La virtù è tendere a Dio; la felicità è possederlo con tutte le proprie forze, e l'una e l'altra cosa appartengono all'amore.

Noi non possiamo restare in noi stessi o nel creato senza perderci; l'ape non trova il miele in se stessa, le occorre il fiore, e non il sasso; il fiore e non il fango. Noi pure non troviamo la nostra vita in noi; ci occorre Dio, Dio e non il creato abbandonato a se stesso, ne, a maggior ragione, corrotto.

Lontani da Dio ci troviamo in balìa di una

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spaventosa inedia, così come l'uomo che non mangia. Ma Dio non si dona che in vista di una reciprocità che ha le sue conseguenze; Si riceve da Dio e ci si dona a Dio con l'amore virtuoso e meri-tevole in questo mondo; poi, quando la misura di tale dono è colma, con l'amore profondo e beatificante di lassù.

' Dio è il fiume infinito che estingue la sete degli esseri; quaggiù esso ci porta e già ci bagna;

lassù ci inonda; quaggiù ne gustiamo qualche sorso rinfrescandoci in vista dello sforzo : lassù, a sforzo compiuto, a pena finita, l'essere di gioia si schiuderà e si possiederà tutto intero nella sua beatitudine. Appena l'amore mi lega a Dio, egli mette a mia disposizione l'essere inesauribile; mi fa posto nell'equilibrio armonioso delle cose, da cui non posso più essere allontanato; ne seguo le evoluzioni; con esso giungo a completezza; ne gusto gli effetti; attingo al suo Principio, ed allora Dio, la mia anima e quel che le sta attorno formano un cielo solo.

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Questo carattere dell'amore divino che lo fa legge della vita dal principio alla fine, che la governa e la beatifica, fa sì che quell'amore diventi, in un certo modo, naturale a coloro che esso sollecita. Ogni essere porta la sua legge scritta nell'in-

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timo, dicevamo, e, per scoprire il ritmo al quale deve obbedire la sua attività cosciente, non ha che da ascoltare le proprie pulsazioni. I grandi Dottori dichiarano anche che, in uno stato di natura retta e integra, l'amore di Dio sopra ogni altra cosa ha la spontaneità dell'istinto. Anche dopo la caduta, questo amore è in noi allo stato di sollecitazione, e Gesù, per farne una realtà, non ha che da sanare la nostra natura.

Anche l'essere inferiore partecipa a questa tendenza. Ogni creatura ama il suo Dio; l'amore è un fatto universale, come avevano riconosciuto gli antichi filosofi, e questo amore disperso trova la sua giusta prospettiva orientandosi verso l'Essere primo, di cui ciascuna cosa realizza i fini, dopo averne riflesso il pensiero.

Ogni elemento del mondo, particella di bene di cui Dio è sorgente e pienezza, cerca nella dirczione di Dio il suo completamento : solo così partecipa all'opera divina. Obbedendo a questa legge che sottomette la parte al tutto, il singolò elemento permette che il tutto valorizzi quel che esso stesso, nel suo piano e secondo la sua natura, rappresenta e realizza.

L'elemento chimico si subordina al composto, l'ape all'alveare, il padre alla famiglia, il cittadino alla patria : la legge è in tutti i casi la stessa. Di grado in grado, di insieme in insieme, l'universo si costruisce; l'amore è il motore di quel

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che abbiamo chiamato l'eroismo universale, eroismo incosciente in basso, cosciente in alto : in noi infatti non è solo presente allò statò di tendenza ma diventa effettivo e porta, una volta che noi siamo giusti, all'amore supremo.

Sul piano soprannaturale, questo amore, che si solleva infinitamente in rapporto ad un amore naturale, è ancora più spontaneo, e le sue relazioni si fanno più strette. Per natura noi siamo invitati ad un'alleanza con Dio per mezzo delle cose; soprannaturalmente, per rivelazione e comunicazione diretta di Dio attraverso il Cii-sto, noi siamo invitati ad un'alleanza con tutte le cose per mezzo di Dio. Dio è primo qui non solo in ordine di valore, ma in ordine di accesso;

l'amore cristiano vi tende direttamente e giunge a tutto il resto solo per suo mezzo.

Infatti l'amore soprannaturale di Dio è essenzialmente intimo, e non abbisogna di mediazione. Procedendo in noi dalla grazia, esso è una partecipazione dell'Amore vivente che lega il Padre al Figlio nella Trinità; oltre a non avere bisogno di appoggio alcuno sulla creatura, si può dire che se anche nessuna creatura esistesse, 'all'infuo-ri di lui, non per questo mancherebbe del suo oggetto completo. L'amore del creato nulla aggiunge all'amore di Dio : così come la creatura nulla aggiunge al Creatore. Tutto, eccettuato Dio stesso,

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è per l'amore di Dio mezzo di estensione; nulla abbisogna alla sua pienezza.

Non sarà questa però una ragione sufficiente per eliminare dal suo impero quel che può unir-glisi in società completa: ogni amore giusto è il naturale compagno dell'amore divino. « Noi non vogliamo essere sfogliati, dice l'Apostolo, bensì sofravvestiti, affinchè ciò che è mortale sia assorbito dalla vita. » (li Cor., V, 4) L'aspirazione verso l'infinito fornisce l'inspirazione del finito, nell'amore come in tutto il resto. L'amore raccoglie tutto in Dio, ma per poi tutto distribuire cominciando da Dio; l'amore a tutto rinuncia in Dio ma per unirsi meglio a tutto con Dio. « Mio Dio € mio tutto », significa in primo luogo che Dio solo basta e che sostituisce tutto il resto; ma significa anche che fa ritrovare tutto il resto, come quando, giunti al centro di un cerchio, ci si irradia in ogni dirczione. E poiché l'amore di Dio è la sorgente del nostro amore per la creatura, esso tanto più aumenta in noi quanto più noi pensiamo che un maggior numero di creature ne gioisca, a maggior ragione quando noi lo doniamo loro come intermediario, amandole in Dio e quasi da parte sua.

Dio è dunque sempre primo, soprattutto Dio intimo, e se ciascun uomo è per natura sua un cercatore di Dio, ciò soprattutto vale per il cristiano. Se osserva la legge che porta scritta nel-

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l'intimo, il cristiano cercherà Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutte le sue forze e con tutto il suo spirito, così come dice la Bibbia. Lo spirito cercherà la volontà di Dio per esserle sottomesso; il cuore vi tenderà; la forza la realizzerà; l'anima — in questo caso, secondo il commento di san Tommaso d'Aquino, il principio animatore dei sensi e dell'immaginazione — vi troverà essa stessa la sua regola.

Con la grazia e per l'amore che noi chiamiamo amore di carità, la nostra adesione a Dio realizza la promessa di Gesù nel discorso della Cena: « Se qualcuno mi ama, anche mio Padre l'amerà, e noi verremo a lui e porremo in lui la nostra dimora. » (Giov., XIV, 23) L'eternità è in noi dal momento in cui noi lasciamo che si eserciti l'attrazione amorosa dello Spirito che ci è stato dato per mezzo del Figlio assieme al Padre;

il soffio dell'infinito ci investe e ci vuoi far vibrare della sua triplice e unica gioia.

Nessun limite è segnato a questa intimità che lo Spirito animatore vuole sempre più perfetta. « La ragione d'amare Dio è Dio, scrive san Bernando, e la misura d'amarlo è d'amarlo senza misura. » (2)

II cuore fedele vi si lascia andare o meglio vi si porta con un ardore che ogni unione ante-

(2) S. Bemardo, 75e diligendo Deo, I, i.

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cedente non fa che adescare ed ogni soddisfazione non fa che rendere più avido. Esso si difende dalla sete egoistica che non sarebbe che una sensualità raffinata e che, al posto di fare di Dio il vero Dio del suo cuore, farebbe del suo cuore di carne il dio della Divinità stessa; ma nella linea corretta e santa dell'amore, il cuore non conosce limiti.

Il suo amore assume, tutte le forme, la vita lo piega ed esso si piega alla vita senza che nulla della vita, nemmeno il più allettante particolare, possa pretendere di arrestare una rinascita che ha inizio dall'alto. « Noi sappiamo che ne la morte, ne la vita, ne gli angeli, ne i principati, ne le cose presenti, ne le cose future, ne le potenze, ne l'altezza, ne la profondità, ne alcun'altra creatura potrà separarci dall'amore di Dio in Gesù Cristo Nostro Signore. » (JR-om., Vili, 39) ;^"

L'amore di Dio è in sé la più costante delle affezioni, poiché, in sé, tutto conduce ad esso e tutto in esso è contenuto. Gli altri amori hanno oggetti particolari e cause particolari; quello ha un oggetto in certo qual senso universale e cause universali; tutto obbliga ad esso e tutto trattiene in esso una volta che ad esso ci si è -dati.

Le sue fluttuazioni non sono che il gioco necessariamente subito dagli avvenimenti intcriori e dalle circostanze. Esso è ora vibrante e ora placido, ora passivo e ora laborioso; ora geme

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e ora esulta, cade alcune volte in malinconie dalle quali nulla lo stacca, se non il ritorno del Signore nascosto. E' in molti casi pieno di vigore e penetrato dal sentimento della sua vita, ma qualche volta anch'esso è incosciente, non consistendo che nel vivere in Dio come si respira aria pura. In tutti questi casi esso regna, ed esso scaturisce, come da limpida fonte zampillano sicure le acque profonde.

¥

Quando questa fedeltà dell'amore viene confermata e giunge a qualificare una vita, i suoi effetti si manifestano: e sono l'indipendenza al riguardo di tutto il creato, la sicurezza, la pace, la grandezza, la gioia vera e profonda.

Abbiamo appena detto che la necessità attraverso la quale la nostra anima è legata al bene sovrano, chiamato beatitudine, è il fondamento della sua libertà in tutto il resto : la verità di questa necessità psicologica vale anche per il libero legame realizzato dal supremo amore.

Fissata all'essenziale e al sovrano, l'anima che si dona ridiscende al creato in piena indipendenza, non tributaria a cosa alcuna che non sia legata alla sua unica e cara servitù, non più schiava di alcun desiderio e di alcun timore, non più minacciata da alcuna violenza e contraddizio-

3,i

ne. L'amore che la governa la difende, poiché niente d'ostile potrà nascere da essa, non avendo affezioni disordinate, che sotto, l'imperodel Pri-mo Amore tale deviazione è impossibile.

Ma poiché Colui che regna sull'anima regna anche su tutto ciò che è, l'indipendenza di quella si estende dal mondo intcriore a tutte le cose. Ciò che noi dicevamo della buona coscienza cui tutto serve e a tutto è amica, trova qui la sua prima applicazione, dal momento che l'amore sovrano è per la coscienza il principio di ogni bontà, l'essenza quasi della sua rettitudine.

L'amore di Dio rende dunque liberi di una libertà universale e perfetta, perfetta nella misura della propria perfezione. Ciò che più teme il cristiano, il peccato, e ciò che più teme l'uomo carnale, la morte, sono ugualmente lontani dai suoi timori. Il peccato non ha posto là ove abita l'amore e la morte non lo riguarda; essa non interviene che per consacrarlo, per completare la sua opera e per realizzare il suo desiderio di unità sciogliendolo dalla carne.

«7o desidero essere dissello per essere con Cristo », diceva san Paolo. (Filip., I, 23) «O vita lunga! o vita amara! gridava santa Teresa, o vita in cui non si vive! Oh, la mia anima è sola in questa solitudine! questo male è senza rimedio! Quando, Signore, quando? fino a quando?

y

Che farò, o mio Bene, che faro? Desidererò forse di non desiderarvi ? » (3)

Senz'arrivare a questo grado, l'amore di Dio, come è nel cristiano ordinario, non scaccia meno i terrori servili ai quali l'essere di carne può trovarsi inclinato. In sé e per definizione, esso ha l'eternità per dominio; esso possiede il tempo; il suo alto Oggetto, che non può essergli tolto, a meno che egli stesso non lo abbandoni, gli assicura una immortalità nata dalla sua; se l'amore raggiunge Dio in questo mondo e si unisce a lui, ciò a maggior ragione avverrà là dove Dio abita, cioè al di sopra di tutte le durate e di tutti i mondi.

L'amore di Dio, che è legame eterno almeno nella nostra intenzione, è anche legame eterno di fatto, perché Dio eterno ne è il termine. Che cosa conta qui l'impero della morte ? La falciatrice non opera che nella bassa regione ove la materia intreccia le sue azioni, ove la natura impasta e rimpasta i suoi esseri; essa non ha potere alcuno su un soggetto associato alla Potenza prima, potenza che dona la vita ai morti, e che chiama, per unirselo, non solamente ciò che e, ma pure ciò che ancora non e. (Rom,, IV, 17)

« Congiungiti all'Eterno, dice sant'Agostino, e sarai eterno. » « La grazia di Dio è una vita eterna », dice ancora l'Apostolo; manca solo la

(3) Santa Teresa, Esclamazioni, .V elevazione.

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coscienza di questa eternità con i suoi efletti visibili, ed è precisamente ciò che la morte ci porta. Durante la vita, non abbiamo la visione, ma la certezza; noi sappiamo che il tempo porta al di fuori del tempo, che esso ha là i suoi legami lontani, e che questa certezza non è soltanto morale, ideologica ed immaginativa, ma effettiva, fondata sulla realtà della grazia e della carità, che incorpora Dio in noi.

L'anima che fiorisce in amor di Dio, in amore soprannaturale, fiorisce veramente nell'eternità. Disgrazia tocca, al contrario, a coloro che si rifiutano, per troppo attaccamento al tempo presente, di sottoscrivere a questa alleanza preserva-trice; chi agisce così è soggetto alla tomba, al posto d'averla assoggettata; e ha un bell'essere apparentemente nella situazione comune a tutti i mortali, mentre è un condannato la cui sentenza s'eseguisce da sola; esso è già, nell'attesa di rico-noscerlo e a meno che non se ne ritiri in tempo, nella città della morte.

Indipendenza e sicurezza, anche a riguardo dei nemici supremi, non bastano per far nascere la_pace. Occorre aggiungere ciò che le è proprio e che forma l'intima condizione della pace stessa :

la tranquillità dell'ordine.

L'amore di Dio ha tutto notificato, tutto regolato e tutto orientato verso il fine supremo: è

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la pace intcriore. L'amore di Dio ha, d'altro canto, posto il principio della pace esteriore, facendo del bene del prossimo in Dio il nostro stesso bene, della giusta volontà altrui la nostra stessa volontà, dell'anima e del corpo degli altri il nostro fratello e la nostra sorella eterni : esso ci ha strappato dalle cupidigie che dividono, ciascuna cosa materiale non potendo essere posseduta che dopo una divisione, e ha sviluppato gli appetiti spirituali, che al contrario vedono i loro oggetti moltipllcarsi nella divisione e arricchire ciascuno dei beni di tutti.

Amare ad ogni costo una cosa soggetta a contesa e a variazioni è condannarsi alla lotta e alla disgrazia; amare ciò che non muta e non si divide, aspirare a ciò che rimane sempre libero, è prepararsi alla pace.

E quale unica e grande dignità in questo legame! Non sarebbe neppure necessario aspettarne il ricambio; per noi sarebbe vera la parola di sant'Agostino : « Quando i piccoli si attaccano a cose grandi, esse li fanno diventare grandi. » Ma che cosa succederà, se il ricambio ci è assicurato, e più del ricambio,, poiché l'amore di Dio per noi è preveniente, sopraeminente e traboccante al punto di innalzare noi, piccoli esseri, a quell'uguaglianza di amicizia di cui è stato detto : « L'amicizia o trova uguali, o rende uguali » ?

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« Nessuno vince in grandezza un'anima piena di questo amore, dice sant'Agostino, se non Colui che jk> dona. » Quest'anima vive in Dio e nella sua Provvidenza una vita senza limiti; tutto ciò che Dio fa, le appartiene; tutto ciò che è, la riguarda. Da parte sua, essa ha donato tutto, ma per avere tutto, ed essa ha tutto in tutto, perché si riposa nel supremo, da cui tutto proviene. (Imitazione, III, 5)

Infine, la gioia che sta al fondo di ciascun amore non può mancare all'amore che è al fondo di tutti gli altri e che li riunisce. La gioia è il sentimento intimo di un acquisto, riguardi esso il nostro essere, il nostro rapporto con gli altri o i nostri legami. Quando noi siamo cresciuti dal di dentro e il tono della nostra vita si eleva, la gioia divampa; quando il quadro di questa vita si allarga e più beni la riempiono, nuova gioia nasce, perché è per la persona una speranza di miglioramento, e quando ci imbattiamo in un'amicizia nuova, in una lode, in un incontro felice, è nuova gioia, in ragione della facoltà che noi abbiamo, appartenenti come siamo alla medesima razza, di vivere una vita comune e di trovare in altri qualcosa di noi.

Ora, attraverso l'amore di Dio, noi acquistiamo la più ricca pienezza intcriore; il bene universale ci appartiene; la più esaltante amicizia ci toc-

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ca in sorte, e tutte le altre amicizie ci sono preparate secondo la loro verità, al di fuori dell'impostura di una terrena apparenza.

Dio stesso, la sua creazione, i suoi eletti ed il nostro essere nel suo più alto stato: ecco i nostri tesori. Dio ci presta la sua beatitudine; il suo compimento eterno è offerto in partecipazione all'insaziabile desiderio che è in noi. Differente ne è, in vero, la manifestazione; ma è l'amore ancora che è differente, anche se differire in questo senso non è affatto donare meno, poiché si tratta di rendere perfetto il dono con la crescenza delle disposizioni che lo procurano.

Dio è l'amico delle anime, e noi diciamo ingenuamente, audacemente, che egli è il loro sposo; il regime-delia comunità perfetta è loro assicurato quanto ai beni, la più intima associazione quanto agli esseri; la più felice donazione li avvicina ancora in relazioni che essi stringono con medesimo cuore. Se c'è una sorgente di gioia incomparabile, possiamo stare sicuri che la nostra vita la ignora, e solo l'Infinito la può far zampillare dalle divine corrispondenze amorose tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.

Una tale gioia non è gioia chiassosa, come molte di quelle che si ricercano con passione e che se ne vanno con la prontezza con cui sono venute :

è gioia segreta, gioia midollare, come dicono i mistici; essa tocca profondità sconosciute, le crea,

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se è necessario; essa prende tutto l'intimo e non si mostra che poche volte in superficie; discende fino alla radice dell'anima che Dio bagna con la . sua perpetua rugiada creatrice. « Come ci si trova bene, dice sant'Agostino, in Colui che è il Bene!» •

La gioia dell'amore divino è, come questo medesimo amore, un possesso eterno; subisce fluttuazioni senza reale dispersione; essa non soffre che felici pene. « Non si vive nell'amore senza dolore », dice l'autore dell 'Imitazione (III, 5). Ma, essendo sorgente di questo dolore l'amore medesimo, amore ritardato nel suo possesso, contrariato nella sua sicurezza temporale, rattristato nei suoi stessi errori e da mille defezioni, esso ne possiede il rimedio; guarisce le sue stesse piaghe; oppone alla sofferenza la testimonianza che essa gli da con il suo fuoco; esso sarebbe disperato di non soffrire così, il mondo essendo quello che è e non essendo ancora vinta la sua imperfezione. Esso sovrabbonda di gioia in mezzo alle tribolazioni, pieno di contentezza proprio per quello di cui piange, e per cui non piangerebbe se l'Oggetto ed il potere di celesti lacrime non gli fossero stati largiti.

La gioia dell'amore divino, imperfetta da parte nostra, imperfetta nel tempo, è perfetta in se stessa, in quell'eternità misteriosa in cui essa fiorisce. Essa è una pienezza alla quale noi attingiamo solamente, benché essa ci appartenga.

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Non è essa che entra in noi, siamo noi che entriamo in essa. « Entra, dice la parabola del servitore fedele, nella gioia del tuo Signore. (Matt., XXV, 22) Questa gioia è più vasta di noi, e dopo averci riempito, essa si estende attorno a noi come un oceano. La conchiglia cullata dall'onda pretende forse di assegnarle la sua misura? .

In breve, il nostro amore divino dona alla vita tutto ciò che le occorre perché essa abbia il diritto di svilupparsi in se stessa, di guardare il mondo sotto i suoi piedi e non lasciarsi adescare dai miraggi delle illusioni della vita e della morte. Esso solo è necessario, ed esso solo basta, perché dona tutto a colui che non è nulla, che dal nulla, senza Dio, non riceve nulla, e che aspira a tutto.

« L'uomo, dice Ernesto Hello, può ubriacarsi di se stesso, ma non se ne può nutrire; egli è così piccolo che non si compiace che di se medesimo, e così grande che non si sazia che in Dio. » (4)

Chi ci farà dunque credere e supporre che sia nato in noi un sentimento di così alto valore, un sentimento che è più di un sentimento, che è, per la grazia, una forma nuova e superiore di esistenza?

(4) Èmest Hello,-Lo Siede, pag. 14, Perrin, Paris, 1920.

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Questo modo di esprimersi ci indica già che Dio solo lo può. Così come la Verità prima si apre la via nella nostra intelligenza e vi accende la fede, così occorre che l'Amore eterno e* indichi lui stesso il fine dei nostri passi, determini l'oggetto dei nostri cuori e vi ci trascini.

L'amore di Dio è un dono dello Spirito, è una partecipazione dello Spirito. La natura, in noi, inclina ai beni che stanno al nostro livello e a Dio come a loro causa. Essendoci questa causa sconosciuta in se stessa, e l'amore venendo dopo la conoscenza, non c'è materia per un amore intimo, per un'amicizia come la esige la nostra vita cristiana.

Dio, qui, non può dunque domandarci di cominciare e nemmeno di perfezionare l'amore, ne tanto meno, tra noi e Lui, di essere i soli ad amare, ma vuole la nostra cooperazione. A questa doppia condizione noi rispondiamo, qui come dappertutto: pregando e sforzandoci. Noi domanderemo a Dio, utilizzando sotto forma di desiderio e di chiamata ciò che egli già ci dona, di svegliare prima e di attirare poi a lui il nostro cuore assonnato. Se questo cuore non solo dormisse, ma fosse morto, occorrerebbe, dal fondo del nostro sepolcro spirituale, gridare il De profundis a Colui che non è fermato nemmeno dalla morte.

D'altra parte, o piuttosto con lo stesso movimento, poiché in questo caso non c'è da distin-

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guere tra l'uno e l'altro, ricorreremo a Dio per mezzo di Cristo. E' per mezzo di Gesù che noi conosciamo l'amore; è per mezzo suo che noi possiamo esservi « attirati » giacché egli ci disse :

« Nessuno viene al Padre, se non per mio mezzo. » {Giov., XIV, 6) Dell'amore Gesù è ad un tempo rivelazione, modello, oggetto adatto ai nostri sguardi e ricompensa. La ricompensa arriva al momento opportuno; l'oggetto ci chiama; il modellò ci sta dinnanzi, e la rivelazione è così splendente che l'Apostolo par quasi parlare in una specie di estasi quando ci dice : « Dio ha amato il mondo fino a sacrificare per esso il suo unico Figliolo. » {Giov., Ili, 16)

Gesù apra i nostri cuori; ci riscaldi e ci porga la coppa dopo avervi bevuto; ci attiri verso la sua umanità unita alla Divinità e dove questa risplende nell'involucro umano; secondo lo stato del nostro cuore, egli ci strappi le bende come a Lazzaro o ci chiami per nome come Maria Maddalena, affinchè l'accento della sua voce ci convinca e ci distolga dalle nostre colpevoli illusioni.

Ciò suppone, assieme alla preghiera, un ardente e frequente colloquio, un contatto assiduo col Vangelo, una meditazione fedele, una compassione amorosa che si aggiunge alla Passione ove l'amore ci spinge, una frequenza dolce e familiare all'Eucarestia, il capolavoro umano-divino dell'amore. « Si può amare ciò che non si vede,

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dice sant'Agostino, ma non ciò che non si conosce », dunque, nemmeno ciò che non si frequenta.

La lettura degli scrìtti dei santi ci aiuterà a riscaldarci alla loro fiamma. Un saggio allontanamento dal sensibile, e a maggior ragione dal male, ci disporrà a ricevere l'influenza del ciclo. E poi, infine, per meglio amare Dio domani, bisogna incominciare oggi; in seguito si ricomincerà; ci si riprenderà in tutti i giorni che Dio dona e che ci vengono donati in fondo proprio per questo. Il tempo, così pronto ad allontanarci, ci avvicinerà a Dio, una volta che lo,si sia agganciato alla nostra eternità intcriore e all'altra.

« Che cosa fare per giungere all'amore di Dio-? » veniva chiesto a san Francesco di Sales. « Occorre amarlo », rispose il santo. Questa parola è di uno che se ne intende, e ha un duplice valore. Significa innanzi tutto che amando si impara ad amare; vuoi dire anche che amando, si sollecita il celeste Amore. E così, avanzando noi e attirandoci Dio, donando e ricevendo, si arriva progressivamente a ciò che costituisce il tutto del tempo, della vita, dell'anima e della stessa eternità. Perché Dio dona l'amore a chi vi si prepara, mentre l'amore stesso è « un forte clamore alle orecchie di Dio ». (Imitazione, III, 5)

L'AMORE VIRTUOSO DI SÉ

-L< 'amore supremo, cui perveniamo grazie all'amicizia che Dio stringe con noi, è l'atto più alto di cui sia capace la nostra anima; impegna il cristiano a sorpassare se stesso per buttarsi in certo qual modo nell'essere divino. Rovesciando l'altare dell'Io, il fedele del vero Dio non ha che un solo culto; si potrebbe credere che egli abbandoni questo amore incoercibile e necessario che l'attacca alla sua vita, che vi rinunci in favore di Dio, dicendo : Che sia amato lui, lui solo, da questo amore medesimo!

Tuttavia chi è generoso non va quasi mai incontro ad una perdita, e si avrebbe torto di vedere qui una sostituzione dannosa. L'amore -di.J'xoL stessi e l'amore di Dio non si contraddicono; essi sono legati, e -se c'è ragione di combattere in noi l'egoismo, ciò non avviene a danno del nostro io, ma in suo favore, e l'io stesso lo deve ammettere.

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San Tommaso d'Aquino distingue tré modi di amare se stessi: di un amore naturale, di un amore vizioso e di un amore procedente dalla ^ grazia. Il primo di questi amori è in se stesso in-11 differente e ha bisogno che lo si utilizzi; il se-Jcondo è colpevole, il terzo santo.

Se i nostri Dottori non vogliono lodare un amore di se stessi puramente naturale, ci deve ben essere una ragione. La natura è di diritto impegnata dalla soprannatura; non c'è infatti, propriamente parlando, un ordine naturale puro; ciò che viene chiamato ordine naturale non è che una astrazione. Di fatto ci troviamo innanzi a due termini che formano una opposizione che potrebbe essere paragonata alla antitesi agostiniana. Come in sant'Agostino l'amore di Dio fino al disprezzo di se stessi si opponeva all'amore di se stessi fino al disprezzo di Dio, si opporranno qui l'amore egoistico di sé fino al disprezzo dell'io vero, e l'amore virtuoso di sé fino al disprezzo del falso io.

Nemmeno per un istante si può supporre che l'amore di sé, ben compreso, si presti al minimo biasimo, e che gli si possa rifiutare la lode della virtù. Hanno tentato di farlo, e più di una filosofia ha preteso purificare la morale riannodandola al dovere furo, al dovere in quanto dovere, fatta astrazione da ogni considerazione di persona, e so-

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prattutto dalla nostra persona. Ma queste filosofie sono errate proprio nei loro principi fondamentali. Non potendo discuterle qui, noi ci sentiremo al sicuro contro di esse richiamando con semplicità l'ordine umano delle cose.

Due sono le ragioni dell'amore: il valore dell'oggetto e la su^^rossimità, e tutte e due con-'cludóno alla preminenza dell'amore di sé in rapporto ad ogni altro amore, salvo l'amore supremo.

Con altri noi possiamo essere «uniti», ma con noi stessi noi siamo uno, e questo valore eterno dell'umanità, che noi abbiamo sottolineato e riconosciuto così persuasivo, non giova meno al soggetto piegato su se stesso che al soggetto il quale si piega verso gli altri. Noi pure siamo umani, figli di Dio, creature di Dio, speranza dì Dio. Se Dio ci ha creato e se ci ha messo la sua carità nel cuore non è forse perché, orientati verso lui e mischiati alla natura sua serva, legati ad altri esseri umani suoi figlioli, noi vi troviamo, oltre a beni immediati, una garanzia di ricchezza eterna? Possiamo disinteressarci del nostro Autore? Sarebbe ciò veramente virtuoso? Non sarebbe invece incoscienza ed ingratitudine?

Volere il mio bene, è volere ciò elle, DÌO..juo^ le per me; è volére anche ciò che Dio vuole che lo voglia, poiché egli l'ha messo in me allo stato di istinto primo, in modo tale che questo influenzi la mia volontà che non se ne può staccare.

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La mia volontà, proprio perche è volontà, è appetito del bene e non si ferma a me; essa si estende fino a Dio e fino" al bene universale. Ed essendo mia, essa è volontà del mio bene; essa è lo strumento del mio destino, il segno attivo delle volontà della natura in ciò che mi riguarda, come le proprietà dei corpi naturali e gli istinti vitali sono il segno ed il mezzo dello sviluppo provvidenziale in ogni essere.

Io voglio il mio bene perché io sono, così come ogni altra cosa; io voglio il mio bene secondo la mia specie e secondo le mie qualità personali, perché appartengo a quella specie e possiedo queste caratteristiche. In tal senso io sono egoista, - perché io sono ego. In uno slancio di entusiasmo « disinteressato », deciderò forse di non essere più quello che sono? In un caso del genere, la parola di Dio a Caino : Che hai tu fatto del tuo fratello? diventerebbe più grave ancora : Che hai tu fatto di tè stesso?

Dio sorpassa ogni cosa, perché è il Bene primo, sopraeminente in se stesso e per noi, senza uguali ger se stesso e per ogni ragione nata dalla , sua. L'amore di carità ci indirizza subito a lui, f-j perché ne è il principio. Ma quando ridiscende 11 e avvicina la creatura, l'amore di carità non tro-V va nessuno che gli si raccomandi più del soggetti to stesso; gli altri soggetti non vengono in causa

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che a titolo di associati nella comune natura, nella comune amicizia divina e nel comune destino.

Come Dio vuole dunque essere amato prima di ogni altra cosa, perché è il principio del bene e della prossimità nei confronti di ogni creatura, così il soggetto dell'amore vuole essere amato più di ogni altra creatura, perché la sua identità con se stesso è il principio dell'identità relativa o prossimità che creerà i suoi legami.

L'amore di sé è la radice dell'amicizia umana, qualunque ne sia la forma; esso la penetra, la nutre, la informa, come dicono gli Scolastici, cioè le dona la sua qualità di unità derivata, procedendo esso dall'unità essenziale. 'L'amicizia non consiste nel trasportare il proprio io in altri? Dunque l'io è all'origine di ciò che si dona. Non si avrebbero altri se stessi, se non_si ^YE^'l'EJlJ^0' prio io e l'amore di sé.

Si badi bene al senso di questa affermazione. Si tratta di un amore vero, di un amore secondo la ragione e la fede, di un amore che si unisce alla Provvidenza e ne adotta i voleri. Questa considerazione determinerà le modalità dell'amore di cui parliamo, ma nell'attesa essa ne conferma la legittimità e la necessità virtuosa. .

Un vero amore di se stessi è innanzi tutto un I desiderio dei beni supremi; il bene che tutti li sorpassa e li procura è l'amicizia divina : colui che ^

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i non si amerà affatto, sarà dunque disposto a se-I pararsi da Dio? Colui che preferirà un altro a sé ! sarà dunque desideroso di legare quest'altro a Dio piuttosto che di legare Dio a se stesso, di procurare un amico a Dio piuttosto che di essergli lui /stesso amico? Tutto ciò non solo è vizioso, ma assurdo. Qual è l'uomo che, per disinteresse, è pronto a rompere un'amicizia? E qual è l'uomo che rompe un'amicizia perché non la rompa un altro?

Se tali questioni possono essere poste per noi, ciò è perché il nostro spirito è cieco quando si trova innanzi all'ordine mirabile stabilito dall'amore tra tutti gli esseri. Noi non sappiamo ne ciò che veramente è l'amore, ne quali sono i suoi soggetti, ne ciò che siamo noi stessi. Svegliandoci alla verità, noi vedremo che disinteressarci del nostro proprio bene, quando è correttamente concepito e rettamente ricercato, equivarrebbe a lasciare il nostro posto nel mondo, a rifiutare l'azione non volendo nemmeno incominciarla, a preparare l'insuccesso d'una vita, l'annullamento dì un'anima, l'estinzione di un astro spirituale, e ciò con danno dei valori stessi che noi pretenderemmo sostituirgli e che ne dipendono. Forse avremmo in animo di infliggere non solamente sul terreno della nostra persona, ma dappertutto ove essa irradia e può avere una benefica influenza, uno scacco a Dio ?

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« E' troppo basso il rispetto che abbiamo di noi stessi per poterci comprendere », scrive Emer-son. « Ovunque un uomo va, una grande anima si accompagna a lui. » (i) « Dio, dice dal canto suo Malebranche, non ci ha dato una chiara idea della nostra anima, nella paura che non ci occupassimo troppo della sua eccellenza. Noi non conosceremo chiaramente ciò che noi siamo se non quando la vista delle perfezioni divine non ci permetterà di inorgoglirci della eccellenza del nostro essere. » (2) Tali pensieri invitano a riflettere sul valore di ciò che ci è affidato e che, pur portando un nome nostro, è di un valore celeste.

Noi non ci apparteniamo. Noi siamo inclusi nell'ordine divino come il primo dei suoi casi di cui abbiamo incarico. La nostra carne stessa, che noi diciamo grossolana e corruttibile, è eletta nella natura e chiamata dal ciclo; essa concentra e porta alla perfezione tutte le energie del ciclo fisico e incanala verso di noi il ciclo spirituale a mezzo dei sacramenti; essa si unisce alla divinità di Gesù ed allo Spirito di cui è tempio;

essa è in fondo incorruttibile, poiché essa rivestirà l'incorruttibilità e l'immortalità come un abito. (7 Cor., XV, 53)

Lo sviluppo di noi stessi tende a due fini con-

(i) Emerson, Autobiographie, voi. I, .pag. 127. (z) Malebranche, Trattato dell'Amor di Dio.

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nessi. Come creature corporee, noi tendiamo alla costituzione e allo spiegamento dello spirito; come spiriti, oltre che al possesso, dei beni supremi, noi tendiamo ad organizzare la materia corporea e la materia delle cose, ove lo spirito trova il. suo regno e le sue estensioni. La nostra moralità e, a maggior ragione, la nostra santità potranno disprezzare questo lavoro e dichiararsi estranee ad esso solo perché noi stessi ne siamo il cantiere?

Considerazione questa che, lungi dall'esone-rarcene, conclude per se stessa e in modo anche più esplicito all'amore di sé. Poiché noi sappiamo che ogni essere è unico ed è evidente che esso solo può segnarsi il proprio destino, seguirlo fin nei particolari e cavarne le conseguenze ch'esso comporta. Cosi che se ciascuno abbandona sé per l'altro, in nessuno la natura e la soprannatura avranno soddisfazione, il disegno di Dio sarà frustrato, avendo l'agente proprio di ogni vita rifiutato il suo ruolo d'umile provvidenza.

Come potrei io emigrare da me stesso, se io ho cura non solamente di me stesso ma anche degli altri, dell'ambiente in cui vivo, del mondo intero ? Ciascun essere non è forse necessario al mondo? Ciascun essere non è forse un mondo? In ogni punto dell'universo non si trova l'universo irradiante, Dio presente ed agente, l'Essere totale rappresentato da una creatura che tutto prepara e

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che nessuna cosa può sostituire, oggetto consacrato che la Provvidenza governa come fosse solo e che, per quanto poco appaia, avrà pure effetti eterni? .

L'opera di Dio non ha zone d'ombra; tutto, in essa, è nella luce creatrice; tutto pesa, tutto vale e tutto deve giungere al suo fine. Ogni essere interessa l'Essere; ogni vivente interessa la Vita; ciascuno, vedendo il suo singolo caso fatto oggetto di considerazione da parte di una volontà vasta e senza accezione di persona, deve dire a Dio : Eccomi ! e constatando di portare in sé, per amore istintivo, il mezzo per raggiungere il proprio destino, deve confessare questo sentimento e farne, dopo l'amore di Dio, la propria virtù prima.

C'è contraddizione nel dire : noi dobbiamo agire, svilupparci, collaborare all'azione della Provvidenza per noi, e: noi non dobbiamo amarci, L'uomo che disprezza se stesso, che si trascura, non può essere un adoratore ed un aiutante di Dio, secondo l'invito dell'Apostolo; egli misconosce la gloria di Dio riflessa in lui e abbandona nella stessa misura l'opera di Dio.

Teme forse di isolarsi pensando a se stesso? Non si isolerebbe affatto, salvo che si abbandonasse, nei propri riguardi, ad una cieca ossessione. Se ben giudica, egli deve trovare in se stesso e Dio e tutto. L'opposizione degli uomini o il loro isolamento non portano che alla cultura del fal-

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so io; i veri io non sono contrari, non sono estranei l'uno all'altro, ma armonici, esprimendo delle facce complementari di umanità che hanno sempre una formula di accordo. Se c'è quella che il Gratry chiama « la tendenza verso sé contro tutti », c'è anche, nella parte migliore del nostro essere, la tendenza verso sé e verso tutti a proritto di sé e di tutti, ed è la tendenza verso Dio che risponde e lavora per tutti.

L'uomo vero giunge al culmino della perfezione e della beatitudine con beni che per loro essenza sono comuni; coltivare questi beni vuoi dire ingrossare la ricchezza comune; rinunciare agli altri beni nella misura in cui essi ci mettono in lotta, vai più per noi che possederli, e ciò pure, sotto gli auspici dell'amore, è un possesso superiore : ove sarà la divisione allora ?

Quanto alla collaborazione, essa suppone precisamente che ciascuno sviluppi e accresca le proprie risorse, elementi della propria felicità. Se fallisco per me, fallisco per tutti. Nella battaglia dell'eterno che si combatte in questo mondo, non potendo tralasciare di battermi, e non avendo che la scelta dei colpi, devo innanzitutto scegliere il mio posto e non disertarlo. Ora, qual è il mio posto se non l'io stesso, prima di tutto, in attesa di ciò che dipende da me?

Non metterò io in ordine la mia abitazione intcriore? Non avrò cura dello strumento e, quel

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che è più, dell'operaio? Volendo fare della mia vita qualcosa di grande, non devo io eliminare tutto ciò che abbassa e diminuisce la vita: l'impotenza, la tristezza, così come altre deviazioni?

Tutto esige che io sia interamente io, pienamente sviluppato e, se lo posso, felice; tutto, comprese la stessa eternità e l'immensità, compreso il regno di Dio nel tempo e quello al di là del tempo.

Un giusto amore di sé porta a belle azioni;

unito alla natura e alla soprannatura, sole sorgenti di vita durevole, mette queste a profitto comune, poiché esse sono comuni, e la ragione soddisfatta qui non può che dare ad ambedue una uguale soddisfazione avendo, in tutti e due i casi, le medesime esigenze, concorrendo ai medesimi fini.

Parlando della voce intcriore, abbiamo visto che questo intimo richiamo ci spinge nello stesso tempo alla realizzazione di noi stessi e alla realizzazione del piano creatore; voce intima e assieme voce universale; se essa si interessa di tutto,

10 fa per la nostra cultura e pel nostro perfezionarsi individuale, in cui trovasi la nostra felicità. Nessuna opposizione quindi tra l'amore di . sé e la generosità, l'interesse della persona e

11 servizio comune; l'amore, piegandosi sul soggetto, non incorre nel disprezzo.

Si porta disprezzo a colui che si abbassa, ed

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•è il caso dell'uomo che si ama nel suo essere inferiore solamente, come se fosse una bestia, ma non a colui che si ama secondo ragione, secondo l'ordine. Si disprezza colui che non pensa che a sé; ma l'uomo che si ama nella verità, nell'ordine e secondo Dio, pensa alla verità, che è universale; all'ordine, nel quale egli si pone e che è di profitto per tutti; a Dio, nostro Padre comune. Egli fa in verità un servizio universale, così come una famiglia prospera rende migliore la patria e una patria felice migliora l'umanità.

A ben guardare, l'amore di sé è esattamente identico all'amore del bene e all'odio del male. Le cose sono buone o malvagio in sé, moralmente parlando, nella misura in cui esse lo sono per noi. Se la buona coscienza è la forza suprema dell'universo, come abbiamo già detto e ripetiamo, non lo è perché questa forza ci spezzi, ma perché ci esalti, e la ragione vi acconsenta.

Il vero fondamento della virtù sta nella realizzazione di se stessi e nulla viene prima o dopo ^ di questa, se la concepisco in tutta la sua ampiezza. Vivere, agire bene, conservare e sviluppare il ; proprio essere, ricercare la felicità : queste espres-j sioni sono sinonimi. Percorrere il ciclo normale j della vita e giungere al proprio fine, in questo con-J siste la virtù.

Si sa che falsi mistici, come dicevamo dei falsi filosofi, hanno preteso rinnegare questa dot-

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trina. Ciò non ci può più meravigliare: quando un sano equilibrio della mente non lo mantiene nei giusti limiti, il misticismo diventa una tendenza agli eccessi. Un « amore puro » godrà nello sbarazzarsi del soggetto e della beatitudine sua, che condannerà come una bramosia. Ma il pensiero cattolico è lontano da questi eccessi; li rigetta con fermezza; e i loro caldi fautori del XVII secolo, pronti come dicevamo a sfidare la dannazione stessa, in favore del puro amore, ispiravano giustamente a Malebranche questa ironica riflessione : « E' molto strano che coloro stessi i quali j paiono accettare così facilmente la dannazione, si i arrischino a farlo solo per assicurarsi la salvez-;j za. » (3)' i

-¥• ' • .

Resta ora da definire meglio ciò che noi intendiamo per vero e falso amore di sé. Questa distinzione balza da ciò che abbiamo detto precedentemente; ma occorre insistervi, perché il disco-noscerla, anche in maniera parziale, porta con se i peggiori sofismi.

Un vero amore di sé è fondato sulla ragione e non è legato a una sensibilità sviata o a una

(3). Malebranche, Trattato dell'Amar dì Dio.

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immaginazione aberrante. Quando parlo di ragione, intendo parlare della Ragione creatrice;

questa ritroviamo nella ragione rischiarata dalla fede, ed è attraverso essa che Dio consacra in noi la persona regale, escludendo gli usurpatori.

Ci si ama, di fatto, necessariamente: ma ci si ama, ciascuno, tal quale ci si conosce, e se ci

si conosce in modo da farci un'idea sbagliata del nostro io, ne nascerà un falso amore.

La nostra umanità, che è molteplice, può presentare tale o tal altra faccia del bene e prestarsi così ad ogni sorta di compiacenze. Lo sportivo di professione si vedrà volentieri nei suoi muscoli, la vanerella tutta nei suoi monili, il voluttuoso tutto nella carne, il sapientone tutto nell'intelligenza astratta, l'ambizioso tutto nella gloria e l'avaro tutto nell'oro. L'uomo saggio si vede nella sua armonia, e da ciò gli deriva che si ama veramente, essendo in verità un'armonia, della quale la ragione riconosce gli elementi per soddisfarli.

Noi abbiamo bisogno dell'esteriore; l'anima ha bisogno della carne; i nostri poteri intcriori sono vari; ma c'è un ordine: dalle cose alle persone, dai sensi all'immaginazione e alla memoria, da queste al pensiero e dal pensiero a Dio:

occorre elevarci, come ci si eleva in una scala musicale. Anche la vita è musica.

Molti stimano le cose che vedono, e dimen-

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ticano le persone; molti altri si lasciano prendere da ciò che sentono e trascurano il pensiero; cer-tuni si abbandonano al pensiero e offendono la coscienza; i più dimenticano Dio. Tuttavia, il nostro destino è in noi, nel meglio di noi; dipende dalla coscienza, che le regole divine governano e giudicano.

\ v Che serve all'uomo guadagnare tutto il mondo, se ciò avviene a detrimento della sua anima? » .(Matteo, XVI, 26) Son forse più ricco e posso pretendere di amarmi, quando avessi ammassato roba contro coscienza, fossi riuscito con danno del mio 'carattere, avessi gioito dimenticando la saggezza, (posseduto infischiandomene della giustizia di Dio, .calpestato l'amicizia, l'aiuto scambievole, il sacrificio, la munificenza, tutto ciò che migliora, che nobilita e beatifica veramente l'uomo ? E sono forse più povero di vita e di amore verso me stesso quando ho disprezzato, in vista di questo unico valore, tutto ciò che un egoistico accecamento stima e persegue?

// regno dei deli è dentro di noi; l'abbondanza della vita e i veri beni sono per colui che giudica sé in tutta verità e realizza questa giustizia. Gli antichi Greci l'avevano intuito; ne fa testimonianza la loro bella espressione familiare :

dvftpcoitsueo'&ai, agire da uomo. La loro più alta morale potrebbe essere riassunta in questo aforisma: Uomo, sii uomo, rigetta ogni falsi-

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ficazione del tuo essere, confermati in ciò che tu sei: a questo prezzo solamente tu diventerai un vero amante di tè stesso.

Amare, è voler bene; ma vuoi bene chi segue un bene secondario trascurando il principale, un bene relativo lasciando il bene assoluto, un bene che passa dimenticando il bene che rimane?

Quest'ultimo caso, proprio perché caratteri-stico del falso amore, ce ne mostra la follia e la malizia. Va notato che la passione gaudente, egoistica, ambiziosa, sacrifica i suoi oggetti più essenziali appena questi si trovano a una certa distanza di tempo, lontani dall'intuizione immediata e dall'immaginazione, appena le loro immagini svaniscono.

Alcune volte è il più prossimo avvenire che viene sacrificato dalla passione; altre volte è l'avvenire più o meno lontano; è in tutti i casi l'avvenire eterno, e chi è accecato dalla passione non pensa che così sacrifica se stesso. Il nostro io pertanto si distribuisce nella sua durata come nei suoi .organi. Noi siamo nell'oggi e nel domani come siamo nel nostro corpo e nella nostra anima, nella testa e nelle membra. Un'autentica saggezza, governando un vero amore, distinguerebbe tra presente ed avvenire solamente per prevedere e sostenere queste frazioni della durata l'una con l'altra; essa giudicherà sub specie aeterni, come uno spirito eterno; essa armonizzerà, essa tota-

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lizzerà, sapendo che solo il totale conta, che il totale solo rimane.

La nostra infelicità estende questa irragionevolezza applicandola agli esseri ed alle nature materiali come ai compartimenti di durata in cui essi si dispongono. Quando le nostre cure dovrebbero esser rivolte a quel che più conta in noi, siamo distolti dal minimo appello dei sensi e veniamo trascinati nelle nostre decisioni; quando il nostro tutto è in gioco, un interesse parziale, alcune volte insignificante, ma che per un purissimo accidente si trova in primo piano nella nostra coscienza, riesce a togliercelo di vista.

Ne segue uno sparpagliamento del nostro essere con affogamento della vera personalità. Abbiamo già notato questo effetto di dispersione irrazionale e fugace. Non c'è che un vero io; ma ci sono anche tanti falsi io quante sono le combinazioni passionali, e, mentre la ragione ci unifica, la passione ci sbriciola. Una tale dissoluzione del nostro essere morale presagisce, per l'altra vita, quella specie di annientamento eterno che i mistici chiamano la seconda morte, morte cosciente, morte orribile, come quella di un cadavere sperimentante la propria morte e la sua dissoluzione.

Per ironia senza dubbio, gli stessi mistici chiamano la causa di un tale male amor proprio. Essi intendono parlare di un amore che si distacca dal bene per limitarsi a se stesso; che dimen-

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|j dea il primo Bene per il preteso beneficio del-J l'egoistico soggetto; che rigetta la regola e crede : favorire ciò che la regola non costringe più, ma ,i| che nello stesso tempo non governa più e porta •I alla rovina.

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Così dicono con santa Caterina da Genova:

I* « L'amor proprio è un autentico odio. » Sant'Ago-? stino aveva già detto, riferendosi al Vangelo : « Se I. tu ami male, tu odi; se tu odi bene, tu ami. » | « Colui che ama l'iniquità è nemico della propria | anima », aveva cantato il salmista. (Salmo io, 6) I Queste sentenze sono evidenti, visto che amarsi fuori di ragione, fuori di regola a danno dell'armonia, del valore che ci costituisce, dei legami che ci perfezionano, è più o meno un distruggersi, un mettersi su una china pericolosa che porta a pantani e a paludi che sfociano, sotto l'insegna di un amore mortale, a una infelicità senza fine.

1 Si dice del peccatore ,che cade^, ed è un modo di dire appropriato; perché egli si abbandona, perde l'appoggio della ragione, l'appoggio della gra-I zia, che lo trattenevano nella sua orbita di evo-| luzione; è un astro sfuggito alla sua traiettoria e

che le attrazioni del caso fanno cadere non si sa j dove, come una meteorite.

Orribile amore, per chi veramente ci riflette, capace di rendere malvagio l'uomo buono, sciocco l'uomo intelligente, tiepido l'eroe, esitante il

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generoso, maldestro il prudente: amore che falsa le anime e le relazioni, i gruppi e le imprese, amore che giustamente ha potuto essere chiamato « padre di rovine ». (4)

Ma perché attardarsi su questa falsificazione? Già altre volte l'abbiamo denunciata e dovremo denunciarla ancora! Essa è al polo opposto della vera vita che noi vogliamo suggerire; essa è l'ombra che sfugge davanti a noi e staglia sotto il raggio del sole il contorno deformato della nostra persona.

Un vero amore, elemento della celeste carità, ne conserva la lode e ne compie le opere; in esso ed in noi stessi è Dio che noi amiamo, Dio nella sua volontà, che ci intima questo sentimento; Dio nella sua provvidenza, alla quale un amore retto ci associa ed in favore della quale esso rende lo sforzo efficace.

Pensando alVamor proprio, si deve dire, e i mistici lo ripetono molto di frequente : Dio è là ove non è la creatura; ma considerando un vero, giusto e santo amore di sé, si può al contrario dire ; Dio è là dove si trova la sua creatura, la creatura sua tal quale egli la concepisce, tal quale l'ama per primo e la confida a colui che non la può governare che amandola.

E' ben vero che non c'è qui amicizia nel sen-

(4) Ernest Hello, Le Siede, pag. 178, Perrin, Paris, 1920. 6i

so proprio della parola; l'amicizia non c'è che tra due esseri; su questo pianò, dunque, manca qualcosa alla carità divina, che i teologi dicono essere amicizia vera. Ma l'amicizia che manca a questo livello si ritroverà più in alto, se noi amiamo noi stessi nell'amicizia di Dio, attraverso l'amicizia per Dio, sapendo che Dio vuole in noi e per mezzo nostro essere in gloria, in potenza sovrabbondante e in gioia. Dio riconquista in noi ciò che ci dona; donandoci noi ci riconquistiamo in Lui e, consacrandogli questo possesso, noi consentiamo finalmente al sup trionfo.

/

Con una tale visione della carità, ci si rendè conto fino a qual punto un giusto amore di sé è congiunto al sacrificio. Non si può davvero confondere questo amore con le ossessioni dell'egoismo! Più si ama in questo modo, più ci si vuoi donaye. Più si crede in questo alto zelo della persona morale e della vera felicità, più si rinnegano la carne, l'ambizione, il vano potere, la gloriuzza, il denaro; più. ci si stacca dai vantaggi puramente personali in vista di devoti e fraterni servizi.

Sacrificandosi virtuosamente, ci si migliora;

dando, si riceve, e la pietà, la fraternità ci portano sulle loro larghe ali. Prendete, miei fratelli;

prendi, o mio Dio, tutto ciò che non è che di questo tempo, tutto ciò che non è che passeggera e angusta proprietà dell'ho odioso. Al di sopra di

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tutto stanno i beni che non patiscono divisione, che si moltipllcano e rendono ciascuno felice di partecipare con altri all'amore supremo. Mi si privi pure di tutti i beni, se è necessario; si pigli il mio corpo: la carità fraterna ne può disporre. Perché se il mio corpo fa unità con me e se i miei beni ne sono come il prolungamento, mentre, al contrario, il prossimo non è per me che un associato, una tale associazione, di cui Dio è il legame, ha più valore ai miei occhi dell'unità del mio corpo e della mia anima; è una specie di unità meno propria, sì, ma migliore; meno unità, se così posso dire, ma preferibile, e la qualità, in tutte le cose, vince; il mio cuore sceglierà anche qui il bene e il meglio.

In definitiva, noi arriviamo al paradosso cui il Vangelo ci ha spinti ad acconsentire : l'amore di sé è un rigetto di sé, un odio nel senso in cui è inteso in questo mondo; e l'odio vero, l'odio inespiabile ed eterno, è l'amore demente e atroce del peccatore. Quando mi svio e mi perdo, è sempre perché mi son cercato; quando io mi trovo e mi salvo, è perché mi son perso. « Non io debbo cercare la mia vita, dice sant'Agostino; da me sono vissuto male e sono stato per me causa di morte. » (5)'

(5) Sant'Agostino, Confessioni, XII, io.

Spogliarsi di se stessi e rinnegarsi, disprezzarsi, crocifiggersi, è riconquistarsi e rivestirsi di Dio; disperare di se stessi è meritare di confidare in Dio. Per possedere il nostro cuore, noi non abbiamo che da donarlo. Disponendolo secondo la sua legge, regolandolo secondo le sue larghe e tenere volontà, unendolo a tutto ciò che è nella vita, staccandolo da tutto ciò che lo corrompe, lo disperde, l'atrofizza e lo disorbita. Dio renderà questo cuore pieno di rettitudine e di forza, pieno di ricchezza e di dolcezza serena. ,

Allora avremo finalmente imparato ad amare noi stessi.

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IL PIACERE E IL BENE

un argomento di così capitale importanza come l'amore di sé, non può essere trascurato studiando i rapporti tra ..il,.piacere_e il bene, che si disputano o si dividono in noi il regno.

Il bene è ciò che conviene all'uomo secondo la ragione e la fede; il piacere è una reazione, quasi un balzo dell'anima in presenza di un certo bene, ma non sempre di quello die abbiamo testé definito. Dicendo il bene, corriamo subito col pensiero al destino totale, scartando ogni considerazione momentanea e particolare di cui si è già denunciata l'illusione. Al contrario, quando diciamo il piacere, siamo quasi sempre nel particolare e nel transitorio, e il bene che vi può essere o che vi è, in un certo qual modo, preannun,-ciato, non può rivendicare per questo solo fatto la lode generale del vero bene.

Il piacere non ragiona; esso non può dunque totalizzare il nostro essere, ne adeguarne tutte

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5) L'Amore.

le capacità. Esso scaturisce là ove si produce qualche accrescimento, qualche soprassalto di vita;

esso è proprio a una funzione, senza nulla determinare di ciò che riguarda le altre funzioni o il loro insieme. Tanto meno si preoccupa dell'avvenire.

Ci potrebbe venir danno se non ci mettessimo in guardia da ciò che concerne questo fenomeno meraviglioso, questa vibrazione, questo bri-vfdo dell'essere. Il piacere, per se stesso, è estraneo alla ragione; ignora la fede; è un cieco appassionato, e la sua potenza di influsso è tale che tutto si può temere dal suo delirio. Ma non si creda che il constatare un danno e il rifiutare un elogio senza restrizione debba far concludere ad un biasimo universale. Occorre distinguere, e parecchie considerazioni possono essere fatte.

Ci sono tré specie di piaceri: i piaceri corporali, che ci sono comuni con gli animali e risultano da un felice funzionamento delle nostre facoltà organiche; i piaceri puramente spirituali, che Descartes chiamava soddisfazioni, stati della ragione o della volontà; e i piaceri che si potrebbero chiamare sensibili superiori, o dell'anima (san Tommaso dice. in latino animale s), e che vengono comunemente chiamati gioie.

Va sottolineato che la gioia è compatibile con l'assenza di ogni piacere corporale e può avere per oggetto il contrario di quest'ultimo : così i martiri

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erano gioiosi di soffrire per il loro Dio; così Paolo diceva sovrabbondare di gioia in mezzo alle tribolazioni. Lo stesso si può dire della soddisfazione in rapporto alla gioia o al piacere sensibile : si può essere contenti della privazione di gioia o di piacere, qualora la ragione ne preveda un bene. Distinzioni che non vanno dimenticate;

esse portano alle soluzioni e, segretamente, le preannunciano.

Il posto che tiene il piacere o il suo contrario nella vita è così ampio, che sovente viene a coincidere con la vita stessa. La carta non ha che due tinte; il rosa e il nero si mescolano in proporzioni diverse e secondo le sfumature che noi abbiamo segnalato, ma colorano tutto. Non esiste stato d'animo che non offra un aspetto piacevole od ostile, perché non può esserci stato d'animo estraneo al nostro bene o al nostro male. Se ogni specie di movimento ci agita, se noi possiamo essere presi da amore o da odio, da avversione o da simpatia, da desiderio o da ripulsa, da speranza o da disperazione, da timore o da audacia, da slancio o da malavoglia, da collera o da benevolenza, è proprio perché siamo soggetti di gioia o di pe-na. •

Tutto ciò che ci capita finisce in contentezza o dispiacere, gioia o tristezza, voluttà o sofferenza, e si direbbe, a fatto compiuto, che solo queste

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cose ci aspettiamo dalla vita. Chi desidererebbe di essere, se sapesse di dover rinunciare al benessere? Anche il più alto disinteresse non equivale in fondo che a questo : Io pongo la mia gioia negli altri e, se voglio essere completamente felice, ho bisogno della gioia degli altri. Più il disinteresse cresce, più aumenta la potenza dell'attrattiva generosa; non ci si rinuncia virtuosamente a questo riguardo come nel resto, se non per meglio ritrovarsi.

« Non domandatemi perché voglio essere felice, scrive Malebranche; domandatelo a Colui che mi ha fitto.» (i) La felicità non è piacere, ma in quella, questo si compie; là è il termine di ogni acquisizione, di ogni attività, di ogni sentimento e di ogni slancio dell'anima, della vita intera: talmente che il maggiore degli analisti e dei moralisti pagani lascia in sospeso la questione se il piacere sia fatto per la vita o la vita per il piacere. (2)

Noi abbiamo un grande bisogno di piacere, perché abbiamo un grande bisogno di vivere; come fine, se non come motivo determinante agli occhi della ragione, queste due cose coincidono;

noi vi tendiamo con uno stesso slancio, come verso la sorgente e l'onda, come verso l'amabilità e il sorriso.

(1) Malebranche, Trattato dell'Amar di Dio.

(2) Aristotele, Etica a Nicomaco, L. X, e. IV.

Ciò detto, si può negare che il piacere sia in se stesso un bene? Gli stoici lo hanno preteso, rifiutando di associare la parola bene a qualunque altra cosa che non .fosse la virtù morale e credendo esaltare quella per questo esclusivismo superbo; in verità, essi hanno detto cièche nessuno crede e che la professione di stoicismo non basta a far seriamente ammettere. Si dicono tante cose anche quando nell'intimo si pensa il contrario!

Il piacere è un bene, poiché esso segna una espansione della vita ed è, per se stesso, la perfezione propria dell'essere dotato di sentimento, come l'azione è la perfezione dell'essere attivo. Spi-noza ha definito la gioia : il passaggio da una perfezione minore ad una maggiore; e la tristezza:

il passaggio da una maggiore perfezione ad una minore. (3)

La gioia e, in generale, il piacere provengono da ciò che conosciamo innanzi tutto di una cosa; da ciò che, conoscendola, vi troviamo di bene nostro, e da ciò infine che noi abbracciamo, assimiliamo, dopo averne constatato caratteristiche e valore, facendone la nostra ricchezza. Ora, queste attività hanno tutte un compito di testimonianza: non dobbiamo forse mettere all'attivo di ciò che ci migliora la bontà che ci manifesta?

Ciascun essere ha le sue funzioni, da cui sca-

(3) Spinoza, Etica. L. Ili, Teorèma XÌ, Nota.

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turiscono determinati piaceri, che sono per le funzioni stesse un arricchimento e assieme uno stimolo. Si capisce meglio, quando si gusta lo studio; si cammina meglio, su una strada che piace;

dilettandosi di musica, se ne penetra più a fondo l'armonia, così come facendo con piacere quel che la virtù detta, si offre ad essa maggior risorsa.

Il piacere non ostacola l'azione se non nel caso che le sia estraneo o contrario; estraneo, distrae; contrario, corrompe; ma il piacere unito all'azione stessa eccita le nostre facoltà in favore dell'opera, concentra l'attenzione, stringe il legame tra l'anima e l'oggetto, fa che quest'ultimo goda del soprappiù di vitalità da esso provocato.

Quando detestiamo qualcuno, non proviamo forse un certo piacere pensando che ha il tale difetto, che soffre del tale svantaggio, e quel certo piacere non ci porta a rilevare svantaggi e difetti al minimo indizio? E' l'aspetto cattivo del piacere; ma c'è pure quello buono. Quando amiamo, noi gioiamo dell'amore, e questa gioia ci conferma nella fedeltà, nella giustizia, nella benevolenza degli apprezzamenti, nella generosità amichevole.

Chi fa attenzione, s'accorge che una funzione della vita è piacevole nella misura in cui è perfetta secondo la sua specie; perfetta da parte dell'oggetto, che si suppone importante; da parte

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del soggetto, le cui migliori facoltà vi si applicano; da parte del legame tra soggetto e oggetto, che si uniscono fortemente per l'atto. Io ho dinnanzi a me un capolavoro; io vi applico uno spirito penetrante, e non una memoria zeppa di apprezzamenti estranei; io mi sprofondo interamente in questa contemplazione; io ho riunito così le condizioni della gioia estetica. Ora, se il piacere è talmente in funzione del perfetto, non appartiene forse esso stesso al perfetto, e non merita la sua parte di lode ?

Effettivamente è così. Ma occorre osservare che questa perfezione chiamata piacere non è in ogni caso se non un segno dell'altra perfezione, quella che accresce la vita in se stessa; non ne è che un elemento estrinseco, un'eco della nostra facoltà di sentire, una testimonianza, un riflesso, come lo splendore della giovinezza, diceva Ari-stotele.

La giovinezza non consiste propriamente in uno splendore; essa è meno fragile; il fisiologo vi vede un vigore, uno slancio delle funzioni, una freschezza e -una ricchezza organica tendente ad una felice sintesi di elementi : donde risulta lo splendore. Così, il piacere dello studio non è lo studio e non ne forma il valore; il piacere della beneficenza non è la beneficenza e non la eguaglia. Si studia, si soccorre, perché si ama la verità o il bene del prossimo in se stessi e non il gu-" , / fc—4

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IrJ

sto che Se ne prova consacrandosi ad essi. Per provare gusto, occorre precisamente amare la verità, amare la carità indipendentemente da qualunque gioia; il gaudente che vuole il piacere per se stesso, ne rimane certamente escluso.

Vanno fatte dunque due constatazioni egualmente sicure.. Il piacere e un. bene; ma non è U primo feene. Il piacere favorisce la vita; ma non è il tutto nella vita; esso non è affatto quel che più conta; esso suppone innanzitutto un'attività veramente felice, rispondente a ciò che noi siamo, a ciò che la nostra ragione debitamente rischiarata pensa di noi, a ciò che dice la voce intcriore che senza interruzione noi invochiamo come la voce di Dio stesso.

Una restrizione così importante non può che avere conseguenze capitali; ed è per questo che vi insisteremo. Per ora diciamo: il piacere è un bene; il piacere è un valore di vita reale e neces-j sario. La gioia di un'attività giusta è un omaggio J alla creazione e alla sua eccellenza, un omaggio I all'ordine buono che lega le funzioni e la loro ripercussione felice nella sensibilità; è un omaggio a Dio cui la nostra attività da gloria e che ci ripaga in così delicata e amorosa maniera.

Un figlio che non volesse essere felice presso suo padre, pur consentendo a servirlo, compirebbe veramente tutti i suoi doveri? Sarebbe perlomeno ingrato è priverebbe l'amore da cui è sca-

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turito della più cara testimonianza. Dobbiamo essere felici in Dio perché Dio sia felice in noi.

Che il piacere sia un valore morale è talmente vero, dice san Tommaso, che si possono giudicare gli uomini dai loro piaceri, con più sicurezza che dalle loro azioni, perché l'azione può essere raffrenata, il piacere no.

Ammesso, aggiunge il grande Dottore, che si possa giudicare qualcuno dai suoi desideri, e che uno sia migliore quando desideri cose migliori, si dovrebbe, comprendere che ciò vale anche per il piacere. Il piacere è più prossimo all'azione del desiderio, e può dunque assumerne prima i caratteri. Gli è più vicino nel tempo, poiché il piacere accompagna l'azione mentre il desiderio la precede; gli è più vicino anche per intimità, perché il desiderio resta esterno al suo oggetto mentre il piacere lo abbraccia.

Ben lontani quindi dal biasimare il piacere e dal bandirlo come cosa di nessun conto, gli riconosciamo nobile natura e sottoscriviamo a questa proposizione in apparenza sconcertante : in cima a tutto, c'è un piacere che è perfezione essenziale, che è valore e bontà suprema. Dev'essere così, che la gioia di Dio è Dio. Non si è trovato niente di meglio per lodare Dio, come già i Faraoni, come ai nostri tempi il Papa o un Patriarca, che usare il tìtolo di « Beatitudine ».

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Anche in noi il piacere può arrivare al grado di eccellenza, di ricchezza, di stabilità che è promesso, qualora lo vogliamo, al nostro essere. I nostri piaceri passano, ma in se stesso il piacere non è un cambiamento; i nostri piaceri sono fragili, ma il piacere non è in se stesso una fragilità;

esso è relativo al bene, che non comporta per sua natura alcun limite. di valore ne alcun confine temporale. Se gli oggetti che causano il piacere svaniscono, il piacere svanisce; se essi sono scarsi,, esso è scarso. Ma se un giorno qualche bene ci capita che abbia per noi valore totale e ci prometta una fissità totale, il piacere del suo possesso rivestirà tali caratteri; questo piacere sarà pure qualcosa di durevole, di supremo, di perfetto. Queste qualità, le riceverà dall'oggetto; ma una volta ricevute, esse saranno ben sue, e la nostra ragione non separerà ciò che la natura delle cose ha unito.

Noi condanniamo per questi motivi i rigorismi di ogni provenienza — siano essi stoici, kan-"^ tiani o scioccamente mistici — in nome dei quali I si copre il piacere di invettive moralmente inac-|) cettabili se esse si indirizzano alla sua stessa na-| tura.

Queste invettive sono talvolta più politiche che dottrinali. Si crede di far bene svalutando ciò che causa tanta infelicità. Ma se il sentimento di queste disgrazie onora l'oppositore, se ne è

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giustificato, e se noi ci prepariamo ad associar-visi con tutte le nostre forze, dovrebbe essere anche ben chiaro che in nessuna materia le buone intenzioni giustificano gli errori. Un congegno dell'universo non deve essere spezzato perché nuoce ad una colpevole imprudenza.

La tattica di preservazione che si adotta così è di dubbio effetto. Chi esagera in modo così manifesto non tien conto delle lezioni che dal piacere ci vengono; esso è inevitabile, così come è caro a coloro stessi che dicono a parole di rigettarlo;

esso è necessario ad ogni vita, tonificandola nel lavoro e munendola, nel riposo, d'una specie di alimento respiratorio. Non è vero che, a queste condizioni, i suoi detrattori passeranno per poco seri, poco sinceri? E non può capitare che il buon senso, certo non molto sottile, della massa pensi che le si voglia interdire a torto ogni piacere, spingendola ad una reazione per cui ogni piacere diventi il benvenuto, qualunque ne sia la sorgente?

I motivi di quegli intemperanti maestri sono pieni di equivoci. Vengono lodati, essi dicono, coloro che rinunciano ai piaceri : sì, purché si trat-; ti d'un piacere volgare; il piacere corrompe la ij ragione: sì, se offende la ragione; se invece in | essa si rafforza, le comunica calore.

Il piacere è puerile ed animale, aggiungono :

anche quello di donarsi generosamente, quello delle alte scoperte, quello che entusiasma il genio

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morale ? Il piacere è puerile nel ragazzo, animale nella bestia, umano nell'uomo che agisce da uomo, divino in Dio. L'animale e il bambino stesso, che si lasciano guidare dall'istinto, provano che il piacere è gradito alla natura, perché nessun istinto è in se stesso depravato. Ciò che offende la moralità, è il rifiuto di controllo nell'essere adulto e provvisto di senno.

Per cogliere tutta la verità di ciò che stiamo precisando nei suoi giusti limiti e correggendo in tante maniere, noi dobbiamo dire che il gu-* stare nobili piaceri non solo non è un vizio, ma \ che è un vizio il non gustarne. Per questo strano I vizio, i nostri Dottori hanno forgiato un nome : lo ? chiamano insensibilità, che si potrebbe anche tra-' durre, invece che trascriverlo solamente dal loro , latino, con : deviazione, deformazione o meno-I mozione volontaria affila sensibilità. E' un'offesa | a Dio, perché è un rifiutare il suo ordine, un ri-j gettare le sue disposizioni paterne, la sua bontà.

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Ben poche occasioni ci si presentano per rilevare quel vizio! Non che ce le auguriamo, ma la loro frequenza, spiacevole in se stessa, proverebbe almeno una facoltà di resistenza che si potrebbe opporre ad altri eccessi.

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Eccoci obbligati ad esaminare, per cogliere una verità così importante alla sua radice, la seconda delle due constatazioni che noi abbiamo riferite più su, cioè che il piacere, anche se pre-«Jzioso, anche se degno d'essere ritenuto un vero t| bene, non è un bene per se stesso, quantunque

l^l * . . ^KWWHWWtWWlW^^"'^^"™^'8^'™-»-

I esso lo sia in se stesso.

Il piacere fa parte di un ordine di fatto le cui nozioni non si possono troppo accuratamente distinguere. Noi viviamo, e viviamo facendo debiti. Ciò che noi chiediamo a prestito per assimilarcelo sotto tutte le forme della vita assume per noi qualità di bene. Se ne risulta un piacere, ciò avviene perché la vita è cosciente di se stessa, del suo valore, dell'eccellenza delle sue funzioni, e vi si riposa. Questo riposo dell'appetito nei beni posseduti, quest'altra faccia del desiderio che il possesso svela e che si chiama gioia è un. bene anch'esso, ma un bene secondario, un bene innestato sul ceppo primo, che è la vita nella sua costituzione essenziale, nella sua armonia intcriore e nei suoi effetti.

Gioire è un bene; ma gioire di che cosa? La risposta a tale questione è pressante, e se essa non viene data, la ragione non può fissarsi su ciò che essa deve affermare del piacere. i\ piacere non è in se stesso che un fantasma, un'ombra e, come dicevamo poco sopra, un riflesso psicologico dei nostri beni; i filosofi lo chiamano un e fi-

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fenomeno, cioè un qualcosa che sta accanto alla | azione e alla vita, che può valere per esse e at-|j traverso ad esse, che vale in efretto così, ma che in se stesso non è nulla: come qualificarlo senza riferirlo a ciò che costituisce l'appoggio, a ciò che ne è il fondamento, a ciò che gli dona, oltre alla ragione d'essere, la qualificazione, la consistenza intima e perciò il valore?

Vale innanzitutto ciò che la ragione stima degno dell'uomo, proprio all'uomo, in armonia con la natura e il destino dell'uomo; ciò che ha per noi il carattere di un fine o di un mezzo, e per questo ci procura ricchezza, dignità, felicità in funzione di sviluppo e di perfezione secondo la nostra specie. Il godimento vien dopo.

Chi dunque desidererebbe assaporare l'orgoglio della regalità al modo dei pazzi che si credono rè, o rendere eterna, in favore delle gioie dell'infanzia, l'infanzia la più felice? Essere uomo e gioire della propria ragione ci paiono gioie preferibili ad ogni altra fuori della vita normale, e se il vedere, l'intendere, il ricordarsi, ecc. procurano numerose soddisfazioni, noi sappiamo bene che qualora non ne procurassero, qualora anzi la loro mancanza ci assicurasse un aumento di voluttà, noi non vi rinunceremmo mai.

Perché la natura ha unito un piacere alle funzioni? Evidentemente perché quelle funzioni le premono. La prova è che essa ha unito i più vivi

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C piaceri alle funzioni che le sono più care, i meno

; vivi invece a quelle che stimava meno. Per esem-| pio, in materia di piaceri corporali, la natura uni-i sce minor piacere a ciò che interessa solo l'individuo, maggiore a ciò che interessa la specie. C'è qui un segno provvidenziale, e se ne deve. concludere che il bene del piacere non è, nella intenzione creatrice, e, di conseguenza, per la giusta ragione, che un soprappiù, un allettamento, una precauzione di saggezza, l'annuncio di una bontà che si affida al nostro senso delle cose; non una occasione di abuso per attribuzione al piacere di un valore indipendente, ne tanto meno assoluto.

C'è alla base di ogni piacere un valore Senza j del quale esso non si comprenderebbe, non si I qualificherebbe, e non potrebbe quindi preten-I dere di giustificarsi dinnanzi alla legge morale. | Se è un bene gioire della verità, ciò avviene per-| che la verità è innanzitutto un bene; se è un bene, ! in minor grado, dilettarsi moderatamente nella nutrizione, è perché la nutrizione è un bene del corpo e perché, prezioso in se stesso, il corpo è soprattutto lo strumento dello spirito.

!• Generalizzando, si dirà con san Tommaso:

| il piacere vale quanto vale l'azione, come l'azio-'. ne vale quel che vale l'oggetto cui tende. Se l'og-' getto è buono e se l'azione che vi si indirizza è felice, felice agli occhi della ragione, tutto ben

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il considerato, allora anche il piacere è buono; nel

i caso contrario, esso ci inganna.

j Ciò significa che questo valore di azione e d'esistenza, che è alla base del piacere, va rispettato dal piacere stesso e non può esserne distaccato, sotto pena, in tal caso, di consentire ad un disordine, e, nel primo, di commettere un'offesa in proporzione di quel che esso viola.

Colui che ricerca il godimento per il godimento, pecca; perché in ogni caso, in ogni materia è irragionevole, e dunque immorale, sconvolgere l'ordine stabilito dalla Provvidenza. Se tuttavia questo disordine rispetta i fini della vita, se nessun interesse umano o divino è gravemente leso, la colpa è leggera; un motivo, sia pur piccolo, può farla sparire. Ma quando, in vista del piacere, si calpesta la vita, se ne sconvolgono i valori, se ne alterano le funzioni, la si disorganizza in sé o negli altri, nei nostri gruppi o nelle nostre imprese, nelle nostre speranze o nelle nostre conquiste, la gravita aumenta in proporzione del danno.

Ora, chi esprimerà la frequenza spaventosa, quasi universale, di questi eccessi? Quando l'Apostolo ci dice che « il mondo ilìtero è posto nella malizia », non attribuisce ciò alla triplice concupiscenza, di cui il piacere è fine? Così come non ci si preoccupa della constatazione, formulata da Piatene nel Teeteto, che il piacere, sbrigliato, si

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mette contro se stesso. « // punto estremo delle gioie è l'angoscia », sta scritto nella Bibbia. (Pro-ife'vbi, IXI^.r^Gi si scaglia; senza iniilla^ misurare o, ;se si misura, è per meglio spargere e aumentare, con saggezza satanica, la somma dei mali.

Quando gì - si; ^domanda in; che-s cosa; 'pregisa-j'I mente consista la deviazione peccaminosa del piali cere, si riconosce che il falso piacere è quello che { affligge una parte del nostro essere a spese del I tutto; che cerca di crearci un paradiso momenta-

neo a spese del destino finale; che attinge le sue | soddisfazioni in un oggetto, in un essere, obbli-| gando per questo l'oggetto o l'essere in parola a

staccarsi dalla Provvidenza; che per questo fatto » stesso contraddice all'ordine universale, alla ra-| .gione eterna e alla nostra, che ne è il riflesso. e.OfyJlJn tale piacere si aliena Dio, sialiena il soggetto stesso in quanto dotato di ragione, si aliena il mondo: non ci si deve meravigliare che la sua pena sia un giorno, e talvolta presto, in questo mondo o nell'altro, una rivincita terribile dei fatti, una lacerazione intima del peccatore, e la collera di Dio.

s II gaudente calpesta l'ordine; egli immola tutto ase, ivi compreso se stesso; la rettitudine in-teriore ed esteriore gli sono altrettanto indifferenti; egli tutto impiega, ivi compreso il suo stesso .essere, a provocare una sensazione, una fuggitiva

6) L'Amore.

vibrazione emotiva. Non contento di ripiegarsi su se stesso con sprezzo di tutto il resto, egli si divora I e si dissipa follementc; egli si aggrappa al niente, sacrificando l'essere, il suo stesso essere, per un fenomeno passeggero.

Un beneficio di Dio non può essere rivolto in disgrazia e in pregiudizio. Il piacere è un aiutante della virtù, un mezzo della vita di cui intende favorire la crescita; esso è come la ricompensa d'una buona azione; ed ecco che, per una assurda e colpevole inversione, il peccatore lo trasforma non solamente in una causa di rovina, ma nel proprio persecutore.

Una volta che ci si è messi su questa china, il disastro può allargarsi a dismisura.

Tra i caratteri del piacere rilevati dagli antichi, c'era anche questo: esso e causa della propria sete. E gli antichi cominciavano col sottolineare TI Fatò felice di questa tendenza. Essi constatavano che nobili piaceri spingono, grazie a questa attrattiva che provoca il gusto del bene, ad azioni sempre più perfette. L'uomo inebriato della verità non si soddisfa che nell'ardore di perpetue ricerche; l'uomo che ha fatto dono di sé, avendo riconosciuto con la Bibbia che è meglio dare che ricevere, si trova portato da questa sua sete a nuovi sacrifici. E' un fenomeno che avviene normalmente. Un primo servizio impegna; chi esitava

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a soccorrere, una volta che ha gustato il sapore del dono, aspira a gustarlo di nuovo e rinnova le sue offerte. Nell'ordine spirituale, questa sete è quaggiù eccitatrice di progressi; lassù, essa evita la sazietà ed è in questo senso che vanno interpretate le parole della Saggezza: « Coloro che mi bevono avranno ancora sete. » (Ecclesiastico, XXIV, 29) -

Ma quand'essa volge al male, questa specie di infinità che rivela in noi la sete di gioia, questa inquietudine rinascente dopo ciascuna soddisfazione non può mancare di condurci a malaugurate disgrazie. Il piacere giusto ha un limite; il piacere per il piacere non ne ha. « Ove finisce la necessità? Ecco quel che non sa la cupidigia », dice sant'Agostino. (4) L'uomo che sazia la sua fame, una volta che non ha più fame si arresta e pensa ad altro; Apicio pensa a procurarsi il vomito per poter mangiare ancora, e desidera avere un collo di cicogna per gioire più a lungo.

Il piacere sviato non è mai sazio; la concupiscenza è senza fine; desiderio, gioia, disgusto, ripresa d'ardore e poi disgusto ancora : ecco il suo ciclo. Mentre si sfugge alla guida del pensiero, ci si abbandona all'accelerazione del desiderio. Dio ha fatto tutte le cose con numero, peso e misura;

ma se io trascuro le cose e non domando loro che

(4) Sant'Agostino, Confessioni, X, 31.

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un frenetico indeboliménto,' a che cosa mi serve la loro saggezza? Quando l'intelligenza è assente, dice Aristotele, diventa veramente insaziabile l'appetito del piacere. ;

L'attrazione sarà tanto più fatale in quanto l'abitudine, da se stessa, incatena già e, qualunque ne sia l'oggetto, fosse pur insignificante, sgradevole, essa crea una specie di necessità. Applicata al piacere che tanto può su di noi, una simile potenza di fatalità porta all'irresistibile. E come si può pensare che un determinismo così veemente, una volta lontano da qualsiasi regola, non sia distruttore?

Ciò che deve qui più di tutto far riflettere l'uomo saggio, è che egli non è abbastanza garantito dalla sua buona volontà. Il piacere, anteriormente ad ogrii qualificazione, il piacere in se stesso, per il fatto della sua natura e della nostra, comporta un pericolo contro il quale la virtù stessa deve premunirsi. Parlare così non è togliere valore a/ciò che e stato detto. Il piacere ragionevole è buono; siamo noi che non siamo ragionevoli. Non vanno dimenticate le nostre propensioni native e il potere di ciò che piace su ciò che si deve. L'anima umana è in perpetua mutazione;

nói Stiamo sempre per divenire altra cosa e, disgraziatamente, se noi non vegliamo, qualcosa di

! P^O- • .-, • .Ì ^W-^ ' .^ua^^s"^;

Noi abbiamo appena menzionato l'impulso, l'abitudine; ora questi poteri, incominciati nel bene, possono portarci a sorpassarne le frontiere. « La carne desidera contro lo spirito. » (Calati, V, 17) Capita che pietanze innocue, male assimilate, inacidiscano in noi e ci avvelenino. L'attrattiva fascinante dell'esterióre, i .eoroe l'ebrezza dell'intcriore, sono pronte a mettersi in moto. Per poco che si ceda, l'anima diventa vagabonda, esposta a tutte le sorprese, senza posizione ferma e simile ad un -uomo ubriaco. Attrattive insidiose la vincono e attrattive violente ìs soggiogano; le prime lusingano, le altre comane .mo.

p. Il piacere è traditore; esso-serve e sale in irono; più tardi si emancipa, e alla fine nuoce. Spinge a poco a poco l'anima verso la defezione ; la strappa al governo di se stessa, e quindi al governo di Dio. Una tenera radice non annuncia sempre una pianta senza spine ; la radice del cardo non è più spinosa di altre.

Non è forse vero che il piacere molesto ci attacca a questo mondo, ci fa temere la morte, riduce l'attrazione delle speranze eterne, rende la carne nostro idolo, quando invece il saggio cristiano in essa vede una schiava sorniona ? Questo solo dovrebbe bastare a creare una prevenzione. Ma se in più esso è cieco e conduttore di ciechi; se è di per sé inclinato alla irragionevolezza e se viene ad essere pertanto la sola legge dei nostri istinti se-

greti; se, di conseguenza, l'anima e la vita si vedono esposte agli. effetti della sua cecità, abbandonarci in queste condizioni, abbandonarci senza discernimento e senza salvaguardia non sarebbe anche da parte nostra un accecamento?

Non si tratta per nulla di espellerlo; ma di limitarlo, sorvegliarlo, equilibrarlo con una austerità circospetta. Quando i piaceri sono sbrigliati, anche nel bene, è risaputo che essi si eccitano gli uni gli altri e formano catena; là ove ciascuno preso isolatamente sarebbe forse anodino, unito agli altri emana forza fatale. Si può facilmente immaginare che cosa avverrà poi se ai piaceri soltanto sospetti si aggiungeranno quelli malvagi!

Fiatone chiama i piaceri del corpo l'esca e l'amo di tutti i mali e dice che sono quelli che più trascinano gli uomini. La dannazione si accetta e sceglie sotto le sembianze della felicità. Ed è la perdita dell'anima; la vita e l'avvenire eterno di questa dipendono talvolta da una sola caduta. Con quale tremore il cristiano deve guardarsene! Se egli ne vedesse le estreme conseguenze, molte delle sue gioie gli parrebbero senza dubbio puerili, ma molte altre gli farebbero certamente paura!

¥ \

II rimedio ai falsi piaceri e il freno contro l'attrattiva dei piaceri legittimi appartengono alla medesima saggezza. Tré parole possono dire tut-

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to a questo riguardo: preghiera, mortificazione, lavoro. La preghiera ci scosta dai sensi; la mortificazione li sottomette; il lavoro, utilizzandoli, li muove : mentre il piacere non sa che lusingarli.

Fuggendo l'ozio, combattendo la mollezza della carne e del cuore, elevandoci verso Dio, noi possediamo una sicurezza non mai perfetta in questo mondo, ma che soddisfa la prudenza e che chiama la grazia. I nostri contatti con il piacere sono allora come quelli dell'angelo, che tocca e non è toccato, che dona e non perde nulla, perché appartiene ad un altro mondo.

San Paolo enuncia la formula di questa indipendenza dicendo:v. Il tempo sta per finire; coloro che hanno moglie siano come se non l'avessero, coloro che piangono come se non piangessero, coloro che gioiscono come si non gioissero, coloro che possiedono come se non possedessero, e coloro che usano di questo mondo come se non ne usassero, perone la figura di questo mondo passa. » (/ Cor., XVII, 29-31)

II sentimento che traluce da queste parole non è in fondo che quello della gerarchla dei beni e del loro valore. Non vi si condanna la gioia;

l'Apostolo sa che noi siamo fatti per essa e che essa termina la vita così come normalmente conclude ciascun moto dell'anima. Ma si tratta del cambio e della scelta.

All'occorrenza il sacrificio dell'inferiore e del

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temporaneo s'impone, perché il supremo trionfi. Nei .limiti del permesso, la riserva è sempre necessaria^ se si tratta di oggetti che compongono la figura di questo mondo. Coloro che sono provvisti delle gioie che ci procurano questi oggetti, coloro a cui Dio le concede non devono pertanto • attac-earyicisi, perché questa disposizione è pericolosa. Ghe essi ne gioiscano, ma come non ne provassero gioia, cioè pronti a lasciarle in vista di beni più neéessari.udoe in vista del meglio. •

'Ora, il mezzo essenziale per tenersi così nel possesso delle gioie senza che le gioie ci possiedano, ?è-ricordato dall'Apostolo assieme al bisogno. Noi abbiamo appena indicato i modi di agire; a loro fondamento sta un sentimento necessario; La salvezza sta nell'attaccarsi al Signore, nel-l'aderire a Dio come principio dell'ordine, grazie all'amore che contiene ogni legge.

Non si può usare bene delle cose e gioire sag-giamente di esse se non usando e godendo di Dio;

la nostra esatta congiunzione con le cose dipende dalla nostra congiunzione con Dio. Il suo Spirito, saggezza essenziale e amore vivente, ci suggerisce ciò che è favorevole al suo regno, o gli si oppone, o lo minaccia. Alla sorpresa delle apparenze, egli sostituisce le luci del nostro spirito di fede. E ci da forza. Il nostro legame con Dio può resistere ad ogni attrazione del sensibile, avendo la'forza di Dio e quella dei nostri migliori istinti.

Quale dolcezza ci piglierebbe, se noi mettessimo la nostra dolcezza nel non lasciarci vincere e non trovassimo che nella rettitudine, nella prudenza e nella pace del ciclo le nostre attrattive! « La grazia, dice sant'Agostino, messaci nel cuore dallo Spirito Santo, può farci provare maggior gioia in ciò che ci comanda che in quel che ci vieta. » (5) '

Gioia ci occorre; ma cercarla prima nel divino e alle dipendenze del divino, in ciò che esso ci restituisce e che regola, dopo che glielo abbiamo consacrato, è forse rinunciare alla gioia umana?

Se il piacere nasce da una felice disposizione parziale e passeggera compensata qualche volta con mali così grandi, chi supporrà che la santità dell'anima, il suo equilibrio e il suo contatto con i" più alti soggetti siano senza piacere ? Piacere profondo quello, piacere che prende tutta l'anima, piacere calmo, durevole, che scaturisce al centro del cuore e si spande come la sorgente di acqua viva, zampillante, secondo la promessa di Gesù, nell'intimo dell'uomo.

Dall'alto dove esse stanno, Gesù ci manda un messaggio delle vere beatitudini; egli non ce le promette solamente, non le gusta solamente a nome nostro, come capo per le membra, ma le av-

(5) Sant'Agostino, De Spiritu et Littera, LI.

vicina al nostro cuore, nell'attesa che lo invaghiscano e lo sommergano. • ,, ,r i II bene ci dona più gioia del male o della vaii nità. Non si vive senza piacere, quando si sono [j spostati i propri piaceri dal capriccio alla ragio-|j ne, dalla passione alla preveggenza e dalla terra j al ciclo. Il ciclo dei cicli ed il ciclo di quaggiù, | che è la vita virtuosa, contengono più piacere che | non il cavo dei piccoli oceani ove la nostra im-| prudenza si annega.

Disgraziatamente, o felicemente, a seconda del come vogliamo intenderlo e sottoscriverlo, i piaceri del bene, prima di lasciarsi assaporare, obbligano alla rinuncia degli altri.

« La divina consolazione è delicata, dice san Francesco di Sales; non si dona affatto a chi ammette un'estranea. » Non è questa una esigenza arbitraria, è un effetto della natura delle cose. Non si può gustare la gioia dell'amicizia senza rinunciare all'odio, la gioia della generosità senza distaccarsi da sé, non ci si può soddisfare in Dio e restargli ora o poi avversario.

L'egoista certo desidererebbe, senza rinunciare ai suoi bassi calcoli, assaggiare voluttà superiori, e, per esempio, avere amici teneri e affezionati che non gli chiedessero nulla. Ma ciò non può avvenire. Il piacere della cosa esige la cosa e non il suo simulacro; con finzioni non si posso-

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no pagare sublimi realtà. Dio ed il bene .di Dio hanno forse minori esigenze?

Se non si rinuncia a se stessi nella misura voluta dalla legge e dalla generosità della pratica di questa non si è atti a sperimentare le dolcezze del bene. Non si può dire: io provo, poi darò il mio parere; perché provare veramente vuoi dire convertirsi, e convenirsi vuoi dire donarsi senza condizione alcuna. Così san Francesco di Sales aggiunge a quel che diceva più su : « E' ritenuto indegno del favore celeste colui che lo ricerca con amore dubbio, con spirito doppio, preparandosi un altro rifugio se non l'ottenesse. »

, Tra le delizie virtuose e il piacere dei sensi, corre la stessa distanza che c'è tra un palato delicato e una lingua infetta dalla febbre : guarire occorre, prima di pretendere squisiti sapori. Dio non conosce calcoli, non ammette una scelta mercenaria; egli vuole che ci si uniformi anzitutto al proprio dovere, che si sia generosi, che si cerchi per primo il regno di Dio e la sua giustizia, e i virtuosi piaceri ci verranno in so-prappiù.

Dio è fedele, dice san Paolo; ma senza dubbio a condizione che anche noi lo si sia. E la natura delle cose pure è buona, ma occorre seguirla: sfuggire alla natura e a Dio per correre solo dietro al piacere che procurano è gabbare se stessi, proprio quando si vorrebbe gabbare Dio.

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I piaceri del bene possono, ben lo sappiamo, trovarsi dappertutto, poiché la vita, figlia di Dio, ^: sgradita da Dio; tutta intera fper servire il suo regno. Non c'è nulla, che, al proprio posto, non sia buono; nessuna funzione, anche la più corporale, è estranea alla virtù, e non può dunque venire esclusa .quando sL parla ài .piaceri; virtuosi. Tuttavia la scala delle gioie, che noi abbiamo ricordata più su, deve guidare le nostre preferenze, tendendo la propensione umana piuttosto verso la carne. •

Sarà una perdita, dal punto di vista del piacere stesso e di quel centuple assicurato dal Libro Santo alle nostre scelte migliori ? Il voluttuoso lo crede; ma egli è vittima di un'ossessione carnale che svisa le sue vedute.

Se i piaceri del corpo appariscono più seducenti, è perché la loro grossolanità stessa li rende veementi e più convulsi, più facilmente gustabili, più vicini alla nostra costituzione che è innanzitutto materiale, meglio apparentati a ciò che per la nostra anima è il cominciamento di tutto: l'attività dei sensi. Questi piaceri sono più abituali, essendo legati alle necessità prime della vitai essi ci assediano con le loro istanze e costituiscono, così come nota sant'Agostino, un rimedio ai mali incessanti, alle molestie, ai supplizi secreti che ci-infliggeva natura.' •.^^•^•ìQy'ig-o&rfsup'.oi-KKHq

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Noi non gustiamo le gioie spirituali che nella misura in cui noi stessi siamo spirituali, ed è naturale che noi non preferiamo ciò di cui abbiamo solo un'esperienza lontana. Ma non esiterà chi sa apprezzare tutta la vita e sa giudicare con giuste norme. -

Gli oggetti dello spirito sono più alti e più benefici; lo spirito stesso è facoltà più sottile, più attiva, più conoscente, più capace di stringere ciò che essa raggiunge, più stabile nel suo possesso, estranea al flusso della materia e alle rovine del tempo; ecco perché l'uomo veramente uomo preferirà ciò che risponde così alla sua qualifica e vi troverà più delizie, ara&.é u- w^ .^'u^^i k^^b.

Un uomo onesto gioisce più dell'amicizia che del vino, e della scienza e dell'arte più che dei piaceri fisici. Nella contemplazione e nella donazione, soprattutto le più alte, stanno gioie ineffabili, sconosciute ai gaudenti, e alle quali non si può arrivare se non attraverso austeri sforzi.

Chi non vorrà fare questi sforzi? Ci si può rifiutare per debolezza; ma non si possono intelligentemente disprezzare, quasi oltrepassassero i limiti di una saggezza discreta. Non si insegna forse al fanciullo ove porre la sua gioia? E' frutto dell'educazione svelare al discepolo, strappandolo alla puerilità dell'istinto, ciò di cui deve gioire. Ora, la nostra educazione a questo riguardo deve durare quanto noi stessi e farsi per opera nostra.

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Lasciare i bassi piaceri; accostarsi ai migliori;

sapere, quando il presente è duro, gioire nella speranza; partecipare attraverso l'amicizia e l'amore alle felicità altrui quando personalmente non ne abbiamo; accontentarci, quando le gioie vive si allontanano, del beneficio della pace che è, quaggiù, il nostro bene migliore, e, infine, immergerci nell'amore di Dio che spinge ogni felicità al porto dell'anima nostra, pronto a scaricarvela con un vasto e sùbito attracco, non è forse questa la verità dell'esistenza?

Nella privazione stessa, non dobbiamo vedere un male, se ci stacca e ci fa aspirare alla pienezza futura. Non si è detto che il piacere fa rimpiangere il desiderio? Nell'assoluto ciò non è più vero, ma lo è d'ordinario in questo mondo; e quale piacere, in ogni caso, non farà rimpiangere all'uomo saggio il desiderio efficace del «perfetto» ?

Questo è il tempo della santità, dice sant'Agostino, non della gioia. Noi dovremo ben sovente rattristarci dei nostri piaceri: non rattristiamoci dunque per la loro rarità. « Se la natura, dice il P. Pesch, sembra dispensarti la felicità con parsimonia, entra in un cimitero, ciò ti guarirà. » (6)

Vorremo noi ad ogni costo trovare la vita felice nella regione dei morti? Meglio vale, e ciò solo vale, tenersi al Vangelo, che ci dona, così

(6) P. Pesch, Philósophie chrétienne de la Vie, pag. 187.

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come sempre, la verità di fondo riguardo al nostro soggetto, senza pregiudizio delle verità parziali che noi abbiamo incontrato sulla nostra strada. .

Due sentenze correlative vengono a marcare fortemente, nel Discorso della Montagna, lo stato d'animo che ci conviene, in ragione dei nostri rischi e delle nostre speranze :

« Maledetti voi che ridete, perché un giorno piangerete. » (Luca, VI, 25)

« Beati coloro che piangono, perche saranno consolati. » (Mutteo, V, 5)

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LA SOFFERENZA BEATA E MALEDETTA

1 utto è stato detto sulla sofferenza; le anime grandi ne traggono sublimità; in noi invece la sua faccia odiosa si presenta così scura che corriamo il rischio di non vedervi che un male.

Converrebbe, per rendere chiaro il giudizio e guidare il cuore, lasciare da parte innanzi tutto le nostre prove fittizie,/le nostre prove meritate, le nostre prove orgogliose o basse, le nostre esagerazioni cieche o interessate, che non possono, sul piatto della giustizia, rendere legittimo un verdetto.

Sovente le nostre sofferenze ce le fabbrichiamo con le nostre chimere. Quante volte diventiamo gli aguzzini di noi stessi! Possediamo un'arte di torturarci che i nostri avversar! più furiosi ci potrebbero invidiare. Le illusioni, l'ostinazione nelle illusioni, un malsano bisogno di soffrire e di far soffrire in certe giornate, ci dominano più di un dolore o di una catastrofe.

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7) L'Amore.

Uno si crede disprezzato e ritenuto nel suo gruppo peggio di un paria; un altro immagina persecuzioni che porranno fine, pensa, al suo coraggio; un marito, una moglie avvelenano di gelosia il loro reciproco affetto fedele; un uomo d'affari vede fallimenti dappertutto, un fìttavolo carestia, un proprietario rovina.

Tormenti del genere possono essere crudeli come gli altri; Dio talvolta li permette e li utilizza a nostro vantaggio; tuttavia ci troviamo din-nanzi a casi speciali che ci invitano non tanto alla rassegnazione quanto invece ad una riforma della nostra sensibilità e al conseguente rifiuto dei suoi fantasmi.

Accettiamo quel che Dio manda; evitiamo però di pigliare iniziative per le quali non avremmo ne forze ne grazia. Riconosciamo i benefici del ciclo, quelli della terra, quelli che potremmo trovare in noi, piuttosto che capovolgerli nei loro contrari. Non ricorrendo o non aspirando almeno a questa saggezza, noi meriteremmo di essere rimessi sulla buona via dal colpo di una vera disgrazia.

Sull'altra categoria, quella dei mali che ci creiamo per le nostre colpe o che includono una colpa, abbiamo già sostato con le nostre riflessioni. «Gli avvenimenti», dicevamo, siamo sovente noi stessi; « la sorte » è molte volte la nostra sor-

tè; le nostre disgrazie sono sovente la ripercussione delle nostre colpevolezze. E noi ammiravamo la bontà divina che, dopo la redenzione, assume ciò che sarebbe stato naturale lasciare a nostro

carico.

Dicevamo anche che molti dei nostri affanni stagnano al basso e che, se la nostra vita si svolgesse in una sfera più alta, non li incontreremmo nemmeno. Meritano commiserazione le nostre punture di ai'nor proprio, le nostre delusioni di ambiziosi o voluttuosi, gli scacchi della nostra invidia o della nostra ingiustizia, le nostre perdite di avari, le nostre repugnanze di golosi o le nostre fatiche di svogliati? Scacciamo il male e noi avremo allontanato il dolore. Il rimedio è nelle nostre mani; rifiutarne l'applicazione e'lamentarsi è doppia mancanza. Non tutte le sofferenze sono da commiserare; ce n'è di odiose. Colui che pecca nel suo stesso soffrire deve guarirsi due volte.

Quanto alle dolorose conseguenze delle nostre colpe, teniamo fermo che, una volta cancellate le colpe stesse, la Provvidenza se ne incarica;

ma insistiamo nel dire che la condizione deve essere assolutamente adempiuta. Ciò che è vero dopo il perdono non saprebbe esserlo sotto il segno del male. Dio è pronto ad addossarsi e a dirigere paternamente, ad usare, non solo a beneficio nostro ma a nostra gloria, ciò che abbiamo provocato; ma prima l'anima deve convenirsi e il pec-

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calore riparare; solo allora Dio adotterà i nostri dolori.

Occorre infine chiederci, prima ancora di sapere quali sentimenti e quale attitudine vuole da noi la sofferenza, se noi non siamo portati a ingrandirla nell'immaginazione, ad adornarcene, a falsificarla, per guadagnarci la pietà altrui o nostra. Può anche darsi. Dio mi perdoni!, che noi cerchiamo di carpire perfino la commiserazione del ciclo, quasi con la vaga speranza d'illudere l'Omniscienza sull'amarezza o sulla profondità del nostro calice.

Noi siamo talmente ingrati, che invece di lodare Dio per la vita e per tutto ciò che essa ci porta, salvo il segnare al passivo i suoi dolori, non riteniamo che il dare; Vavere passa sotto silenzio. Non abbiamo il coraggio di dirci che una prova è una gioia che finisce, e che dopo di essa una gioia ricomincia.

Superficiali come siamo, par quasi ci dilettiamo di angosce profonde; amiamo dirci accasciati, ridotti a estremi insopportabili. « Insopportabile » è una parola che raramente cade a proposito; a rigore non lo è mai, perché il dolore è, come tutto il resto, somministrato con peso e misura. Quando un vivente è al punto estremo di sopportazione, la natura mette in azione un'ultima energia libe-

joo

ratrice; sopravviene un languore, un deliquio, uno svenimento benefico, una morte.

Come si può dire di non saper soffrire quel che in effetti soffriamo? Vi è forse un frutto che in un modo o nell'altro non sia portato dal suo albero? Il nostro dolore è fatto sulla nostra misura. Fatte le debite proporzioni noi crediamo di essere chissà quali « dannati » e invece non abbiamo che il nostro fardello da portare, come gli altri.

-¥•

Detto questo, non esitiamo ad ammettere che, malgrado le gravi restrizioni che sarà necessario introdurre in seguito, la sofferenza non è tale che la si possa assolvere senza regolare processo. La sofferenza in se stessa, separata dalla utilità che la Provvidenza ne cava per il nostro bene, merita gli anatemi dei viventi e giustifica tutte le proteste di coloro che ne sono colpiti. Il suo morso contrasta col volere profondo che è in noi l'espressione della vita, perché è ribelle ai pensieri creatori; amare la sofferenza in sé non solo non sarebbe virtù, ma deformità esecranda. Un così strano gusto della morte non si trova che nei malati o nei depravati. .

La gioia ci tocca di diritto, perché è un'espansione, come la vita, come l'essere nella sua pro-

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prietà più essenziale. La tristezza è una costrizione; il dolore, più aumenta, più ci avvicina al nulla.

« La tristezza affretta la morte », dice il libro dei Proverbi. « Ciò che la tignola è per i vestiti, il tarlo per il legno, la tristezza e per il cuore. » (Prov., XXV, 20)

Se ci sono dunque sante tristezze e felici dolori, ciò non può essere a titolo primitivo; queste forze, ostili di per sé, non si riabilitano che orien-tandosi verso la gioia e mettendosi al suo servizio. Ed è ciò che insegna il Signore all'inizio dei suoi discorsi, quando, incominciando nel Discorso della Montagna l'elogio del dolore, adopera queste parole: Beati coloro che...

Come può Dio volere per noi la sofferenza, lui che è tutto gioia e tutta la gioia, lui la cui felicità non è gelosa, come dicevano gli antichi Greci ? Dio certamente non mi invidia. Se mi mette alla prova, il suo disegno non ha altro fine che la mia felicità. Dio mi ama; Dio è dalla parte del mio bene e vuoi soddisfare la mia volontà. Ma forse io dovrò sopportare ciò che mi infligge, perché egli mi possa dare ciò che io voglio.

Una cosa cattiva che ne procura una buona non può essa stessa diventare buona? E' questione di proporzione. Se ci fosse eguaglianza, il gioco parrebbe strano, ma non ci si lagnerebbe. Se ci fosse sproporzione a nostro vantaggio, non po-

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/tremino che ringraziare il ciclo e rallegrarcene. Poiché vi è infinità da una parte, piccolezza e caducità dall'altra, perché dovrei resistere ad un disegno, severo senza dubbio, ma che è tutto d'amore ? « Ovunque c'è l'infinito, dice il Pascal, non c'è da misurare, bisogna dare tutto. »

San Paolo, evocando l'utilità finale dei dolori, in cui si riassorbono tutte le utilità transitorie, scrive : « Le sofferenze del tempo presente non so-.no affatto paragonabili alla gloria futura quale sarà manifestata a nei. » (Rom., Vili, 18) Se il mezzo è qualificato da ciò che se ne attende, il mezzo che ha nome dolore è in questo caso una felice scoperta; l'alta paternità che lo impiega è esente da biasimo, e non si può che ammirare la stima in cui ci tiene, quando < i tratta come l'eroe che conquista la vittoria, come il galantuomo che

P^- -

La pietà dei mortali non è quella dei deli;

assolutamente parlando, come è di regola nell'altro mondo, si potrebbe sostenere la severa massima di certi chirurghi : « II fenomeno dolore non mi interessa ». Ma il nostro Dio è migliore : « Egli lascia soffrire il meno che può la sua piccola creatura», dice santa Teresa, II meno che può, pur di riuscire. .

Le immense vedute che Dio ha su noi fanno sì che egli non si ritiri dinnanzi alle rudezze che

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scoraggerebbero un amore meno tenace. Il nostro eterno Amore sa non essere tirchio nei suoi doni. Un uomo esita e sceglie il meno difficile; Dio sce- | glie il più efficace, sapendo che noi potremmo di- J sapprovare la sua debolezza, qualora un giorno ve- | nissimo a sapere che da una lacrima dipendeva, | in questo effimero mondo, una felicità perduta I per sempre. , .,-,aj

La gioia e la pena hanno un unico scopo. Per ^ la Provvidenza che le governa e per l'Amore che ? le circonda riducendone i contrasti, esse sono legate in unità. « Noi riceviamo da Dio il bene, diceva Giobbe alla sua tentatrice, perche non dovremmo riceverne anche il male? » (Giobbe, II, io) Non è la stessa cosa, d'accordo; ma perché cavillare con l'eternità chiedendole ragione delle disposizioni che essa preferisce? Che importanza volete abbiano le mescolanze che avvengono nel tempo? La forma dei vantaggi che ci offre il Padre dei cicli non ha interesse maggiore della loro data: egli può differire; egli può variare; solo il risultato conta; le opportunità appartengono a un mistero che soverchia troppo il nostro pensiero e non consente di ribellarci.

«Nella misura in cui noi comprendiamo che Dio è causa della tristezza, scrive Spinoza, nella stessa misura noi ne godiamo. » (i) Quando un

(i) Spinoza, Ètica, L. V, Teorema LXIII, Nota.

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pensatore così poco ortodosso sale a questo livello, i cristiani vogliono forse attardarsi in vedute meschine ?

Non crediamo che Dio ci opprima; egli ci prova. Noi non siamo la famiglia di Caino che fugge alla collera del ciclo e si nasconde all'occhio terribile; noi siamo l'Idumeo sul mucchietto di cenere all'entrata della citta, Abramo invitato per la sua gloria al sacrificio del figliolo, Agar senza nutrimento per Ismaele nel deserto, Maria ai piedi .della croce.

La gioia è come un sogno dell'anima, e il dolore ne è l'incubo; ma l'uno e l'altra, estranei alle definitive realtà, hanno un medesimo signifi-' cato profetico. La prima direttamente e per se stessa, il secondo per contrasto e quasi tacita misura dei valori del ciclo, pronosticano il nostro destino. Sono due segni, e sono in più anche due forze; solo per colpa nostra possono diventare funeste.

Per sé, la gioia ci solleva, eppure quante volte ci rovina! Per sé, il dolore ci diminuisce, eppure quante volte ci salva! Questa doppia eventualità è inevitabile. Niente è indifferente, in un dominio in cui abbiamo visto confluire tutti i sentimenti dell'anima e tutto ciò che essi determinano. Quanto al dolore, quand'esso tocca un massimo bruciante, non può che ricrearci o annientarci; esso ci innalza o ci spezza. Ma l'annientamento è ope-

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ra solo delle nostre mani; con Dio invece possiamo trarre dal dolore la nostra gloria.

La rosa è il magnifico tormento del roseto.

Si pensava poc'anzi di sminuire la sofferenza e di abbassarla alla categoria dei non-valori dicendo che assomiglia alla morte, che è una morte parziale, che non può dunque pretendere di essere un bene della vita. La si considerava in se stessa; ma, come mezzo, la sofferenza uscirebbe sminuita da questo accostamento, se si riconoscesse che la morte stessa è un valore umano?

Certuni hanno detto che la somiglianzà tra sofferenza e morte non è eguaglianza; che la sofferenza, da un certo punto di vista almeno, è più nera; perché l'incubo è peggiore del sonno senza sogni. Ma queste non sono che vane chiacchiere. Noi parliamo da cristiani e sappiamo che la morte nel Signore è un sonno lucido; che un sogno divino l'occupa, e se si dice che la sofferenza è una piccola morte, una morte mitigata, noi aggiungeremo: che essa aspiri ai medesimi sognil

Senza la morte, non ci sarebbe nella natura alcuna ascesa. Il trapasso è condizione di ogni elevazione, avvenga essa di forma in forma, di stato in stato, di regno in regno, di ordine in ordine, nella scala vivente. Se la pietra non morisse, non nascerebbe la pianta; se la pianta non morisse, non esisterebbe l'animale; se. l'animale non mo-

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risse, la sua carne non potrebbe servire all'uomo come nutrimento; se l'uomo a sua volta non morisse, in piccolo con il dolore, in misura più grande con la tomba, non vedremmo librarsi lo spirito.

La sofferenza occupa in ciascuno il posto che la morte ha nell'universo, e per quanto riguarda quella che tante volte abbiamo chiamato l'eternità del tempo, la sofferenza compie la funzione che la morte ha nei confronti della nostra eternità decisiva. Con il progresso morale la nostra anima accede all'eternità, vi attinge le sue ispirazioni, vi orienta le sue opere; con la morte essa vi si accampa: se il dolore quindi favorisce la nostra ascesa e- se la morte la consacra, potremo noi rifiutare all'una e all'altro il beneficio di questa dichiarazione dell'Apostolo : « La mprte e fer me un guadagno »? ,

La morte e la sofferenza sono una sublimazione; solo noi possiamo farne una caduta. La vita è l'inizio della morte e la morte è l'inizio della vita; la vita non esiste che per la morte e la morte per la vita; ma infine solo la vita trionfa. Allo stesso modo si potrebbe dire che salute e prosperità, piacere e felicità sono per la sofferenza;

essi non hanno consistenza quaggiù; la loro luce non è che un chiarore intenso alla sera e tenue al mattino, che annuncia sempre la notte. Ma la sofferenza a sua volta è per la salute, per la prosperità, per la gioia e per la pienezza eterne.

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Si trovano nei Sonetti di Shakespeare due versi oscuri, forse, ma che hanno un grande significato:

Nutriti della Morte che si nutre degli uomini, E, morta la Morte, allora tu non puoi più morire.

Per mezzo della sofferenza, ivi compresa la sofferenza dell'ultimo sospiro, noi facciamo della morte il nostro nutrimento, noi assimiliamo e utilizziamo la morte, noi trasformiamo il verme in spirito, la cenere in anima. La nostra anima, così nutrita, diventa più forte del suo stesso nutrimento, ne distrugge il potere, e, infine, quando la piccola e la grande morte hanno esaurito il loro compito, noi non possiamo più soffrire, non possiamo più morire.

Dolore e gioia, morte e vita: sono i due poli del destino; il loro succedersi è la sistole e la diastole del mondo. La luce e l'ombra del sistema di cui la nostra anima fa parte si succedono così a turno, come su un pianeta che gira.

E come il destino, dal punto di vista della sua durata, si distingue in due fasi di cui una è transitoria e l'altra permanente, di cui una è mezzo e l'altra fine, questa punto d'arrivo e quella punto di partenza, questa risultato e quella sforzo, ci si può domandare se anche il dolore, invece di apparirci così anormale, non dovrebbe essere considerato come un diritto, diventare abituale, mentre

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la gioia dovrebbe passare all'eccezione, considerarsi la vera anomalia, la sorpresa del nostro spirito conscio dei fini supremi, il problema insomma.

Non era questo il pensiero di santa Teresa, questa veggente così strana per noi, quando diceva, in un apparente delirio fatto di sublime chiaroveggenza : « O soffrire o morire ! » ? Ma, senza cercare altrove, non è questo il senso della formula evangelica : « Beati coloro che piangono » ?

Quando diciamo che gioia e dolore sono ambedue mezzi, facciamo una concessione. Il dolore viene prima; come mezzo è superiore; è il miglior mezzo dateci dal Signore. Il dolore, in tutte le sue forme unite al merito e congenite al lavoro, è la trama segreta della vita; la gioia non è che il ricamo splendente sulla stoffa oscura.

La gioia presagisce; la sofferenza è e agisce in favore di ciò che la gioia annuncia. Un giorno, due giorni, tré giorni; un anno, vent'anni, cin-quant'anni, che cosa sono? Tempo di allegrezza? Durata tutta impregnata dell'idea di felicità? No, è tempo di pena, di pena temperata e rischiarata da rapidi bagliori.

Non c'è, dicevamo, un tempo della gioia; la gioia è cosa dell'eternità. Quando noi siamo nella gioia, noi usciamo dal tempo, o meglio àncora noi ne diveniamo vittime. L'essere di gioia si confonde in noi con l'essere immortale.

« La maggior felicità e il maggior dolore, ha

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scritto Goethe, non sono che leggere deviazioni dal corso ordinario delle cose. » (2) Egli lo diceva con lo spirito di pagano disingannato; ma cristianamente, noi diamo un grande, senso a tali parole. Perché lanciare tante grida, affaticare gli echi coi nostri lamenti? Che cosa succede dunque, nelle nostre vite così teneramente accarezzate, così prontamente giudicate miserabili? Capita quel che accade nella natura, quando durante il suo lavoro essa forma una valanga con la stessa tranquillità con cui spessisce le spighe di una graminacea.

La natura non conosce pene; le sue leggi, qui o là, sono sempre le stesse; beneficile in un modo, esse non sono per null'affatto nocive; o tutt'al più il loro danno è superficiale, parziale, apparente, se ci si riferisce all'opera totale.

Così avviene nella nostra vita. Le leggi morali che dispongono dei nostri destini si rivelano ora nel dolore e ora nella gioia, ora nell'accondiscen-dere e ora nel contraddire i nostri voleri; esse non si turbano; e perché allora il cristiano dovrebbe turbarsi più di esse? Avendo il fine din-nanzi, egli deve stimare, giusto lo sfidare tutte le peripezie pur di giungere alla conclusione.

« Le sofferenze del tempo presente non sono paragonabili alla gloria futura che si manifesterà

(2) Goethe, Wilhelm Ueisier.Glisani di Apprendistato.

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in noi))', esse vengono paragonate a tale gloria perché vi anneghino; esse vi si riferiscono per es-serne giustificate e per assumere esse stesse i colori di quella gloria che in apparenza combattono. Nei momenti in cui la gioia può servire, il dolore diventa odioso, e abbiamo condannato, coloro che vi si intestardiscono con un'assurdità contro natura. Ma quando Dio ce l'assegna e l'utilizza per noi, il dolore deve diventarci una gioia, e allora quel che si chiama gioia è invece una calamità.

« Guai a voi che ridete. » Guai a noi, perché questo mondo è degno di pianto; perché la gioia fuori di posto è demenza e profanazione;

perché il ridere senza scopo ne senso è una falsificazione dell'esistenza nel suo soggetto fondamentale, che se ne è fatto un tutto e un luogo di beatitudine, quando invece è solo un passaggio e una fatica.

^

« La pace in questa miserabile vita consiste più in una umile sofferenza che nell'esenzione dalla sofferenza », dice l'autore delimitazione. «Chi sa meglio soffrire avrà pace maggiore; costui è vincitore di se stesso e signore del mondo, amico di Gesù Cristo ed erede del ciclo. » Parole queste che ci scoprono una dottrina più profon-

in

da e ci rischiarano la vita meglio di tante filosofie ottimiste. Non si è mai abbastanza ottimisti se si tratta del nostro destino preso nel suo insieme; ma lo si è sempre troppo quando si colorisce dell'ambizione dei nostri sogni la fase che stiamo attraversando, v;^?

Noi amiamo così appassionatamente la vita perché abbiamo il sentimento della infinita voluttà che sta in essa, e in effetto, tal quale Dio l'intende, essa è una capacità di felicità che ne la durata senza fine, ne la stretta stessa dell'infinito possono svuotare. Ma bisognerebbe penetrare nelle sue profondità; al contrario noi ci lasciamo sedurre dalle prime dolcezze, e, le; sue prime amarezze ci buttano nella costernazione.

Il P. Olier soleva recitare questa preghiera:

« Che la tua luce, Signore, sia la semplice luce che mi guida; essa mi faccia vedere tutte le cose quali sono in se stesse. » Questo quali sono è di grande avvedutezza. Noi non vediamo alcuna cosa tal quale è, perché dimentichiamo le cause, i fini, i grandi nascimenti e le essenze profonde;

noi consideriamo solo le superfici, e reagiamo solo agli istanti. Ora, l'eternità e l'infinito ci rivelano ogni cosa, e il carattere piacevole o doloroso che le cose presentano ad un primo sguardo non si possono misurare che da questo punto di vista.

Noi diveniamo lo zimbello dell'illusione,

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quando i primi rigori della vita ci colgono. Occor-. rè passare oltre, e domandarci ciò che essi producono nell'insieme. C'è forse qualcosa che si possa giudicare considerandone solo una parte ? La parte ridotta a se stessa è l'apparente; la parte staccata dal tutto è trascurabile.

Il ciclo riunisce le briciole della nostra felicità sparse sulla terra. La nostra felicità è identica alla vita come Dio l'ha fatta; ma l'ha fatta progressiva, e le sue tappe comportano dolori. Amare ciò che ci perfeziona e ci eterna è amare la vita stessa; ribellarci a questo — poiché è volere il fine senza la tappa di passaggio, il fine senza i mezzi — è non volere veramente, è rinunciare a vivere.

« La croce è sempre pronta, insiste l'autore dell 'Imitazione;, essa ti attende dappertutto; non puoi fuggirla, da qualunque parte vada... Innalzati, abbassati, esci da tè stesso, rientra in tè stesso, troverai la croce; occorre pazienza in ogni circostanza, se vuoi possedere la pace e meritare la corona immortale. Se porti la croce serenamente, la croce ti porterà, ed essa ti condurrà al termine desiderato ove cesserai di soffrire; ma ciò non sarà in questo mondo. » (3)

Non mi stanco di citare questi grandi testi, ove un autore sconosciuto scopre il dolore cristia-

(3) Imitazione di Cristo. L. II, cap, XII.

8) L'Amore.

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no meglio di ogni genio famoso. L'autore sapeva che nella contraddizione degli avvenimenti si trova talvolta l'avvenimento che ci salva. Egli vedeva nell'accoglienza fatta alla sofferenza la misura della nostra chiaroveggenza e del nostro valore. Necessaria disposizione, diceva, è la sanità dell'anima; ma anche una sanità migliore ne risulta, così come sotto il morso del freddo che angustia il malato, un organismo sano reagisce e riattiva tutte le sue funzioni.

«L'avversità è la pietra di paragone delle anime », dice dal canto suo Shakespeare. « Quando il mare è calmo, tutte le navi si mostrano ugualmente abili nella navigazione. » « Quando la fortuna assesta i suoi colpi più dolorosi, essa richiede all'anima nobile colpita nobile saggezza. » (4) Ma questa saggezza torna a profitto di chi la concepisce. Nella esperienza universale è scritta questa verità: il dolore è l'educatore supremo. Che cosa non sarà esso per uno sviluppo che ci chiede una trasformazione totale e che intende lasciarci al di là di noi stessi!

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II modo con il quale un dolore accettato accresce le nostre risorse e fornisce al nostro destino nuove garanzie, è cosa che non può essere

(4) Shakespeare, Covwlwo, Atto IV.

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trascurata e che merita qualche parola di chiarimento.

Va previsto che le utilità del dolore sono in numerevoli, perché vi sono implicati tutti gli a spetti della vita; utile, esso non può che essere utile a tutto, allo stesso modo che perderebbe tutto qualora diventasse nocivo. Ma di quel che non può essere completamente enumerato, si può almeno indicare l'essenziale.

Io ho creduto di sottolineare già tale essenza dicendo che la sofferenza è una sublimazione, un fenomeno di vita che tende a sprigionare in noi risorse superiori, che deprime la materia ed eleva lo spirito, che limita i poteri del tempo ed accresce quelli dell'eternità, che riduce alla giusta misura la terra e ci manifesta il ciclo. .

Per salire, occorre rinnegare se stessi; nel Vangelo ci viene detto con inflessibile energia che per ritrovare la propria vita purificata e sublimata, occorre perderla. Chi si porta con un balzo solo vicino alla suprema grandezza? Chi è pronto a morire.

Donare noi stessi, il solo bene che veramente ci appartiene; consacrare questo bene senza condizioni a un grande risultato, a un'opera, a un amore, e, lontani dal cercare un'esistenza facile e gaudente, prendere l'aspro sentiero che Gesù ha detto condurre alla vita, questa già è la grande vita, e chi la fa sua ha rigettato l'abiezione uma-

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na. Ora, la sofferenza cristiana è a mezza altezza

e non rifiuta di scalare la vetta.

« La carne, è sotto il torchio, dice sant'Agostino, perché lo spirito quasi olio ne venga spremuto e risplenda. » Senza il dolore, l'uomo non è che un fanciullo, e il grande fanciullo non conserva l'innocenza 'del. piccolo; sorpreso nella sua puerilità dall'attrazione della materia che lo piega e lo deprime senza che egli possa reagire, esso assomiglia alla bestia. ,

II male ha in noi radici talmente profonde, il bene ci torna così difficile, che per estirpare il primo e promuovere il secondo, occorrono mezzi violenti. Durante il corso di una malattia ci accorgiamo talvolta che la salute ci stava perdendo;

che seguivamo una via di irriflessione, di passione, di negligenza, di peccato, che a mano a mano ci conduceva all'estrema rovina. La malattia, obbligandoci ad una battuta d'arresto, ci pone un problema, ci obbliga a meditare i nostri casi, risveglia la fede e il buon volere inerti, spegno le passioni, rompe le nostre cattive abitudini, ci permette una ripresa e, invitandoci a espiare o a meritare, ci rimette in cammino verso le altezze.

Ciò che si è detto della malattia vale per ogni sorta di prova. Gli insuccessi, le infermità, le debolezze, l'incostanza degli avvenimenti, l'ingiustizia degli uomini, la fragilità dei nostri amori, le fluttuazioni del nostro cuore sono la divina farne

macopea le cui ricette ci son proposte per la guarigione delle nostre anime. E' buona cosa che si sia ostacolati nelle nostre vane ricerche, contraddetti nelle nostre sciocche felicità, inquietati nei nostri dannosi attaccamenti, scossi dal nostro accidioso riposo.

La prova è un colpo di campana, è un calmante di ciò che uccide o uno stimolante di ciò che salva; essa invita a superare l'ostacolo e ne fa un gradino per salire; essa è una vocazione rinnovata, dopo quella del battesimo e della penitenza: con la sua voce,, il ciclo ci avverte che esso esiste, che la terra fugge, che le lusinghe della carne hanno bisogno di un antidoto, che l'attrazione del sensibile esige un contrappeso, che la nostra generosità meritante o espiatrice vuole una materia ardua e non la concesssione delle nostre voglie, che uil regno dei deli patisce violenza e che sono i violenti a impadronirsene ». (Mati., XI, 12)

Perché dunque si vedrebbero i santi buttarsi nella sofferenza con intrepido furore, se essi non trovassero la salvezza nell'avventura pericolosa in cui noi siamo? Essi non si accontentano di quella che la vita naturalmente da; essi ne ricercano e ne vogliono un'altra, essi dichiarano che un giorno passato senza dolore è passato per loro in pura perdita; essi non vogliono sprecare la vita,

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e l'applicano a quella fatica che il latino espressivo ha scoperto nel dolore stesso: labor, dolor.

Ma i santi trovano nel dolore un'altra cosa àncora. Essi non vi scorgono un'entità anonima;

essi non vi cercano materia per placidi giudizi o per calcoli generosi; esso è vivente ai loro occhi;

esso sanguina e chiama l'amore da tutte le bocche delle sue piaghe; esso tende le braccia e vuole abbracciare coloro che la sua tenerezza invita;

esso ha volto divino, perché l'Amore infinito lo penetra e si identifica per così dire con esso. Il dolore, per i santi, si chiama Gesù Cristo.

Se noi vogliamo unirci a Gesù Cristo, bisogna che prendiamo ciò che si presenta come il riassunto della sua persona, della sua dottrina, della sua vita, delle sue vedute temporali per noi e per le sue opere, cioè la croce. Non con le parole e le azioni gloriose Gesù ci ha redento, ma Con la croce. Se con lui noi dobbiamo redimerci, partecipare alla salvezza dei nostri fratelli e pagare a Gesù nella sua persona universale il tributo dell'amore, non possiamo rifiutarci al dolore.

La croce è il segno distintivo della nostra filiazione, della nostra alleanza, della nostra collaborazione, della nostra predestinazione beatifica e della nostra unità amorosa con Gesù Cristo. Noi non siamo liberi di fronte ad essa; il battesimo ci obbliga a seguirla; l'Eucarestìa non ne contiene l'efficacia, se non alla condizione che noi ci adat-

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damo ad essa; essa sola apre la porta attraverso la quale vogliamo passare; solo essa ci procura quel che vogliamo possedere; con questo peso si misura quel che noi dobbiamo pagare, e sulla croce sta l'amore, al di fuori del quale niente di tutto ciò sussiste.

Rifiutare di soffrire è respingere Gesù, e noi sappiamo che « non c'è sotto il ciclo alcun altro nome dato agli uomini, nel quale possiamo aspettarci d'essere salvati. » (Atti, IV, 12) Noi siamo avvertiti che « nessuno può porre altra base oltre quella che già è stata posta: Gesù Cristo. v> (I Cor., Ili, n)

Gesù ha tenuto nel cavo delle sue mani tutto il dolore dell'umanità, e l'ha gettato, seminatore possente, nei solchi della vita, perché germogliasse in verità e bellezza, in virtù amorosa e in beatitudine. Drizzando il suo calvario, egli ha chiamato lassù tutte le nostre croci; esse si chinano ormai verso la loro sorella divina come la canna verso l'albero e la capanna verso la roccia.

La sofferenza è il mezzo scelto da Gesù Cristo: il vero cristiano non può neanche pensare chft se ne possa scegliere un altro; nessun altro ne vorrebbe, per quanto efficace. Non ci si batte lontapi dal proprio comandante; non ci si arruola, neppure per vincere, sotto una bandiera straniera.

Se Gesù si è avanzato verso la croce, è senza dubbio perché vi ci ha visti; ma è anche perché

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ci ha voluto con lui, trovandovi la vita dei suoi fratelli e il segreto del loro ideale. Per libera scelta, egli è disceso nella natura sofferente; di là, risalendo dolorosamente verso la gloria, egli ha detto: lo sono la vìa.

Questo Dio martire era quello che aspettavano gli uomini; per gustare la nostra vita che cosa di meglio poteva fare se non saziarsi di dolore? « Assumendo la mia umanità, egli ha preso pure la mia tristezza », scrive sant'Ambrogio. Egli l'ha presa, ma me la restituisce dopo averla resa salutare; perché, venuto per questo fine, a nulla varrebbe che egli si mostrasse dappertutto ove io passo, se io non lo seguissi.

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La croce fa della disfatta una vittoria e della morte la vita. Associandoci ad essa noi lavoriamo per noi, come il Cristo per sé, trovando anche nel martirio una potenza di resurrezione. Ma non vorremo noi andare più lontano? Gesù si salva e ci salva : sta alla nostra generosità, ricevendo la salvezza, farci a nostra volta salvatori.

« I giusti, dice Lacordaire, nulla di meglio hanno da fare che di essere infelici. Avendo l'onore di rappresentare l'umanità in ciò che essa ha di. più grande e di più santo, essi devono soffrire per

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essa; è la loro funzione. » (5) Sarebbe temerario attribuirsi da se stessi questo posto d'onore; soffrire da giusto non appartiene di rigore che ad uno solo, poiché uno solo è il Giusto; ma umiliandosi ed espiando, meritando per sé, si può, si deve espiare e meritare per gli altri.

Ogni sofferenza che si sopporta con carità, torna di vantaggio alla massa; essa libera da una sofferenza qualcuno. Attraverso la via del merito, attraverso l'esempio, in nome dell'amorosa sostituzione che il Cristo ci permette, egli il sostituto di tutti, noi possiamo liberare i nostri fratelli dai loro debiti, incamminarli verso l'alto, spingerli dolcemente verso la gioia provvisoria e verso la gioia finale.

« lo desidererei essere anatema, lontano da Gesù Cristo, per i miei fratelli », scrive san Paolo. (Rom., XI, 3) Lontano da Cristo! Egli ben sa che così si avvicinerebbe a lui più di tutti gli altri;

ma l'esagerazione verbale spinge fino all'impossibile una carità che nessuna barriera può limitare.

Un cuore generoso si dona, e donarsi vuoi dire accettare di soffrire. La sofferenza per gli altri, pur restando in se stessa l'anomalia e l'or--, rore che noi abbiamo descritto, è bella della bel-

(5) Lacordaire, Fragments inédits.

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lezza dell'amore, e chi vorrebbe privare l'umanità di una tale grandezza?

Soffriamo, perché altri non soffrano. Soffriamo, perché altri imparino a soffrire e si innalzino, soffrendo, al di sopra delle sofferenze. I nostri fratelli, così come noi, devono camminare per la strada comune verso il paese senza dolore; noi possiamo appianare questa strada inevitabile e buona, spingerveli dolcemente, farci loro compagni e, facendo loro vedere dove noi attingiamo la forza, invitarli a fortificarsi essi pure nel Signore. « Io piangerò, mio Dio, io piangerò fino a quando .sarò riuscito a persuadere i miei fratelli che Dio solo può consolare. » (6)

Si può dire che senza la sofferenza non riusciamo a comprendere la bontà di Dio. Non che essa ne sia l'espressione diretta; ma perché, sotto gli auspici dell'amore, essa ci fa penetrare più profondamente nell'intimo di Colui che è l'amore ed il cui piano è costituito su questa base. Non ritenendo opportuno levarci le sofferenze, Dio pensa di condividerle; in seguito ci fa condividere con lui le nostre mutue sofferenze alfine di forgiare in quel fuoco la catena dei viventi.

L'amore sofferente unisce il ciclo alla terra e la terra al ciclo; unisce sulla terra i cuori tra

(6) Claude de Saìnt-Martia, Le Philosophe fncunwu.

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loro, l'innocente al colpevole, il debitore al creditore, il debole al forte, l'eroe agli altri eroi per una vittoria più ricca, e tra tutti ha la miglior sorte chi sa meglio soffrire.

Al posto della sofferenza stupida, della sofferenza ribelle, della sofferenza bassa e qualche volta ignobile, nella quale ci si accascia come in una fossa .ingombra di spine, il cristianesimo ci ha insegnato il dolore pieno di grandezza. E' gloria sua e uno dei suoi più alti benefici quello di avere dato a questo mistero terribile un senso comprensibile e buono.

Esso non poteva asciugare le nostre lagrime;

le ha consacrate. Trovando la croce già piantata sulle nostre strade, sulle nostre tombe, in mezzo ai nostri cuori, esso ha innalzato la croce salvatri-ce, la croce potente, quella che l'apostolo Andrea, al momento di salirvi senza timore, chiama la sua buona croce. E sull'altare, visibile e nascosta, dominatrice del tabernacolo ed abitatrice del suo mistero, il cristianesimo ha posto ancora la croce, come una speranza, una testimonianza d'amore e un pegno di risurrezione.

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GLI ALTRI

il cristiano che ama Dio e ama se stesso solo in Dio, che gusta i nobili piaceri e li misura con saggezza, che accetta all'occorrenza le nobili sofferenze, cosciente del loro valore e disposto ad assecondare la loro fatica, non ha bisogno che lo si spinga all'amore verso gli altri; già in troppi modi quest'amore è implicato in ciò che egli gusta e in ciò che egli pratica. Si può tuttavia confermarlo e, ciò facendo, considerare in lui tutto il resto.

Se non ci fossero in noi tanti disordini e tante ferite, non ci sarebbe bisogno di richiamare un dovere così immediato: la natura basterebbe. Là ove tacciono i nostri interessi esclusivi, le nostre passioni, le nostre pretese, l'amore non si rifiuta. « Ogni vivente ama il suo simile », dicono gli antichi filosofi. I segni più banali ci significano qui alte verità. Il valore che noi diamo alle conversazioni, ai conviti, alle assemblee, ai viaggi in co-

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mitiva, alle visite in comune, il fatto che non si può gioire mai completamente da soli e che niente, senza l'uomo, può essere amico dell'uomo, ci sono chiare testimonianze.

All'estero, quando dei compatrioti si incontrano e un certo isolamento li affligge, la simpatia tra essi è immediata. In pochi minuti si diventa amici! Si sente allora questa voce del sangue che proclama alta la nostra natura.

Ci sono, si dice, delle anime insulari, che rifiutano di lasciarsi abbordare dal genere umano;

anime simili sono rare, e il loro splendido isolamento, sempre parziale, è il segno di un egoismo al quale d'ordinario si alleano molti altri vizi.

Sant'Agostino diceva : « Nessuno è più socievole dell'uomo per natura, e niente lo rende meno socievole del peccato. » Come il peccato è dappertutto, così dappertutto ne soffre più o meno l'amicizia umana; ma la natura sussiste, e non essa si deve invocare quando, all'antico proverbio : L'uomo è amico dell'uomo, vien sostituiio quell'altro, contemporaneo ed egualmente valido : L'uomo è lupo per l'uomo.

Un equilibrio va trovato tra l'istinto sociale e il duro attaccamento che noi sentiamo per noi stessi : questo equilibrio è continuamente rotto da coloro che ne lamentano l'assenza. Gli egoisti sono mal visti nel mondo proprio perché il mon-

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do ne è pieno; ogni ossessione egoista offende tutte le altre.

Pertanto, la ragione che traduce l'istinto di natura ha di che magnificarne i presentimenti; essa guida la nostra solidarietà; essa proclama che ogni vita, e più si procede più ciò diventa vero, è una particella d'una vita più vasta e comune. Vivere è ricevere; ma vivere è anche donare; diciamo che è scambiare; Dio solamente dona e non riceve che per donare ancora.

Se si riflettesse, voglio dire, se il nostro accecamento appassionato potesse sottomettersi alla riflessione, apparirebbe cosa chiara che l'amore mutuo è il più pratico e il migliore dei precetti. In esso stanno le condizioni della cooperazione, la cui nozione è per così dire identica a quella di società, d'adattazione mutua, di vita. Dove mancano i buoni sentimenti, l'azione zoppica, e chi non sa fino a che punto ciascuno dipende dalla azione di tutti?

Santa Caterina diceva che Dio ci spinge alla carità per mezzo del bisogno: egli ci spinge, ma un'influenza satanica si oppone alla sua; gli uomini rifiutano ciò a cui sono costretti e naturalmente ne soffrono; non si violano impunemente le leggi fondamentali.

Risalendo dall'aiuto e dall'amicizia naturale alla loro sorgente, la ragione trova l'Idea crea-trice. Questa idea dell'uomo di cui la Bibbia, pri-

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ma ancora di Fiatone, ha sottolineato il primato, comporta la nostra unità così come prevede le nostre distinzioni e le nostre parti. Il sole ci rischiara senza riunirci; la luce di Dio invece ci unisce e non rivela che in seguito i nostri contrasti.

Dio ci concepisce come razza, e solo più tardi come individui; egli ha detto : « Facciamo l'uomo)), e solamente in seguito pensa agli uomini. La sua concezione dell'umanità è come quella di un ciclo che splendesse in mille stelle. In questo ciclo disseminato, i pianeti cercano i loro soli, i soli sono raccolti in costellazioni. Così l'idea umana, una in se stessa, ma frammentata nella materia, tende sempre più o meno faticosamente a riformarsi: donde tutte le conseguenze morali che si imporranno a tutte le coscienze rette.

Le nostre diversità medesime, se ben si intendono, esigono la nostra unità. Coloro che noi chiamiamo gli altri non sono così altri e talvolta così ostili che per illusione. Più si è se stessi, ammesso che si rimanga nella rettitudine, più si è adattabili ad un prossimo ugualmente retto. Tutte le forme d'umanità, purificate dai loro eccessi, si sentono sorelle. Tutti i colori non formano che un solo arcobaleno. Se il prossimo scivola in deviazioni, occorre seguirlo? Riconosciamo piuttosto il valore degli altri, per elevarci a ciò che perfeziona il nostro; riconosciamo il diritto altrui, per

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confessare i diritti dell'unità, di cui l'amore e la

giustizia sono i legami.

Gli uomini si oppongono gli uni agli altri perche coltivano il falso io, e lo abbiamo visto. I veri io formano armonia, esprimono aspetti dell'umanità che si accordano sempre; al contrario, le passioni sono litigiose, accaparratrici ed esclu-siviste; esse non si conciliano che per peggiorarsi; rinforzate l'una dall'altra si ritrovano poi sempre in battaglia. Così la solidarietà proletaria scivola nella lotta di classe; cosi nell'amore passione gli psicologi hanno sempre trovato un seme di odio, e quante volte una dispotica tenerezza ritorna apertamente all'odio, dal quale è segretamente partita!

Accanto all'istinto e alla ragione, dobbiamo ricordare, come forza propulsiva favorevole ai nostri legami, gli stimoli della grazia. Io non parlo ancora del soprannaturale posto in noi, di quella voce permanente che grida : « Padre! Padre! » (Calati, IV, 6) e che fonda tra gli uomini rigenerati la fraternità. Ma se Dio creatore è in tutti gli esseri e abita specialmente nella sua creatura ragionevole, è da credere che non ne influenzi favorevolmente la volontà ? Ogni cosa segue il suo corso; l'amore di Dio, immanente nei cuori, deve mostrare in essi il suo orientamento e influenzare il nostro. L'autore delle nature non darà forse una mano alle nature deboli, e non opporrà

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9) L'Amore.

qualche intimo freno alle nature ribelli? La semplice riflessione ispirata dalla fede lo fa credere;

ma lo crediamo soprattutto perché ce lo assicura la fede stessa facendoci sperare qui come altrove le grazie attuali.

Diciamo tuttavia dove si trova per prima con certezza senza possibilità di sostituzione, e almeno interamente, la sorgente dell'amore mutuo e non tardiamo più a dichiarare che sia la natura come la ragione e gli impulsi momentanei della grazia hanno il loro punto di inserimento normale nella carità celeste.

Aggiungo questo aggettivo, perché la banalità del linguaggio ha spogliato la parola del suo grande significato, facendola sinonimo di beneficenza esteriore; invece cristianamente significa innanzitutto il nostro attaccamento a Dio, e, partendo di là come dal principio, i nostri legami armoniosi con la creatura.

« Colui che ama suo fratello, dice san Giovanni, è nato da Dio. » (7 Giov., IV, 7) La paternità di Dio stabilisce i nostri rapporti fraterni. Certo va inteso soprannaturalmente, cioè come paternità intima, che si fonda sul nostro ingresso nella Trinità, che procede dal Verbo incarnato e dallo Spirito che ce lo comunica.

« Che la nostra società, dice ancora san Giovanni, sia con il Padre e col Figlio. » (/ Giov., I, 3) In questa inesprimibile società, lo Spirito ci

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introduce, e quando noi saremo cosi nell'intimità di Dio, associati alla sua unità vivente, non formando che un unico spirito con lui, noi formeremo con i fratelli un unico corpo. Immagine di Dio secondo natura, noi saremo in più immagine di Dio per la nostra unità improntata alla sua:

noi daremo soddisfazione al voto del Salvatore intrecciato con la sublime teologia che lo precede: ((Padre, che essi siano uno come io e tè siamo uno.» (Giov., XVII, 21)

Dio Padre, donandoci suo Figlio, intende farci un dono collettivo, e questo dono sostanziale ci unisce. Lo Spirito comune del Padre e del Figlio prende per noi ugualmente carattere di legame. Nel cenacolo, questo Spirito appare sotto il simbolo espressivo delle lingue, legame tra gli uomini. In Gesù Cristo stesso, l'uomo totale quale egli è non può mancare, adottando la nostra natura, di riunire nella sua persona tutte le sue « membra ». Noi siamo corpo di Cristo; la sua carne e le sue ossa, insiste l'Apostolo. (Efesini, V, 6) Potremo dissociare questo corpo sacro che preme al Figlio dell'Uomo più della carne assunta da Maria?

La preoccupazione suprema di Gesù fu evi-. dentemente di ridonarci Dio per Padre; ma si direbbe quasi che in certi momenti questa istanza passi in seconda linea; egli insiste sull'amore scambievole, come se l'amore scambievole fosse

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tutto; egli se ne serve come unica materia di giudizio, perché di fatto il supremo amore e la virtù totale vi si trovano implicati, vi si trovano dimostrati e vi possono agire con pienezza. Al contrario, senza l'amore scambievole, l'amore di Dio e i suoi effetti sono annullati, irraggiungibili;

a dir vero essi non esistono, poiché in termini di una rigidezza ben poco confacente al suo carattere e che possono meglio dirci la veemenza della sua persuasione, Giovanni scrive : « Se qualcuno dice:

lo amo Dio, e non ama suo fratello, costui è un mentitore. » (/ Gioì/., IV, 20)

II prossimo non è solo; ha un testimonio, ha un mallevadore che i nostri disprezzi colpiscono. Dio pure non è solo, ha la sua famiglia di esseri in cui lo si deve ritrovare. Gesù Cristo non è solo;

non lo si può avvicinare senza avvicinare coloro di cui egli è il primogenito, coloro che egli chiama fratelli, amici, figlioli, figliolini. Tra queste grandi presenze e ciascun associato alle nostre vite, non c'è che la nebbia delle forme visibili. Spiritualmente, noi siamo un solo Cristo, un solo corpo di Dio. . ""- •

Per questa ragione, nella spiegazione Che ce ne da, Gesù presenta il comandamento dell'amor di Dio ed il comandamento dell'amor del prossimo quasi come identici. Il secondo, egli dice, è simile al primo, quasi che dicesse : E' la stessa cosa. E' la stessa cosa in effetto in molte manie-

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rè. Che io ami Dio o ami il prossimo, amo sempre qualcuno della stessa famiglia; il padre prende per sé l'amore mutuo dei suoi. In san Tom-maso d'Aquino, i sentimenti familiari sono abbracciati tutti nel termine comune di pietà familiare, perché tutti onorano e favoriscono la razza;

figli del medesimo sangue, i mèmbri della famiglia hanno un medesimo dovere ed essi lo esercitano attraverso tutti i loro legami. Così le membra disperse della razza immortale.

L'uomo, per di più, assomiglia a Dio; lo rappresenta a chi non lo vede affatto, lo insegna a chi non avrebbe di lui alcuna nozione senza questa iniziazione temporale, serve da sostituto a chi non può raggiungerlo, da modo di servire chi non sa donare a Dio quel che riceve e non può gratificare Gesù Cristo nella sua sublime persona. Se il prossimo è spiritualmente corpo di Dio e corpo di Cristo, attraverso il corpo si raggiungerà l'anima, come il cuore di un amico che rallegra un festino cordiale.

Il Vangelo fa vedere che Dio preferisce la carità fraterna al culto medesimo per lui. Ci è comandato, prima di portare l'offerta all'altare, di andare prima a riconciliarci col nostro fratello, perché, dice san Giovanni Crisostomo: « Dio preferisce al suo proprio onore il desiderio di onorarlo. Sospendete il mio culto, sembra dire, per

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ristabilire la carità. La riconciliazione dei fratelli vale per me un sacrificio. »

E' lo stesso amore che fa da mediatore tra gli esseri e tra gli esseri e Dio. E' una identica fraternità, in Gesù, che ci lega a Gesù ed ai suoi « fratelli » e ci fa provare, appoggiando la nostra testa al suo cuore dopo il prediletto, tutto il palpitare dell'umanità che vi si agita.

Amando Cristo, noi ci divinizziamo; amandoci gli uni gli altri nel suo nome ,e secondo il suo Spirito, noi ci divinizziamo gli uni attraverso gli altri e lavoriamo a divinizzarlo, Lui, nella sua opera umana. Che Dio fatto uomo sia completamente Dio, se così si può dire, in tutti coloro che partecipano della sua divinità ! Tale è il suo scopo, e tale è lo sforzo del nostro amore di comunione sulla terra.

Lacarità fraterna è l'effetto e per conseguenza il segno della missione perfezionata del Figlio e del successo della sua opera, poiché essa consiste esclusivamente nell'incorporare il mondo al Padre attraverso lo Spirito, nell'unità intima dell'adozione o deìì'alleanza. Così Gesù, domandando al Padre, nella preghiera sacerdotale, l'unione di tutti i suoi figli, appoggia la richiesta con questo motivo personale che al momento della sua Passione ha immenso valore : « Che essi siano uno... affinchè il mondo creda che tu mi hai mandato. » (Giov., XVII, 23)

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In simili condizioni e se veramente natura, ragione, impulsi passeggeri della grazia e grazia santificante sono d'accordo per riunirci, si capisce che un logico cristiano trovi strana la forma dei nostri rapporti e la denunci alla riflessione dei suoi fratelli. « Perché vedo io tra voi degli odi strani, dice Bossuet, opposizioni tra umore e umore, tra persona e persona, inimicizie, gelosie, acrimonie, repugnanze nascoste? » Ciò è strano davvero nell'unità di un corpo e nell'insieme di un'opera cui concorrono e ciclo e terra. Non converrebbe mettere in relazione col prossimo, al posto delle nostre fantasie appassionate e dei nostri umori mu-tevoli, l'ospite misterioso del cuore ?

C'è da rimanere stupiti al pensare che dei figlioli di Dio possano trattare tra loro dimenticando Dio e il proprio valore divino, dimenticando lo scopo profondo di tutti i gesti della loro vita e delle facoltà stesse che essi con rabbia usano per dividersi. Se l'immortalità è presente nelle nostre origini, nelle leggi cui sottostiamo, nei nostri fini, in tutti i nostri legami, non è benece ne sia anche nel nostro trattare con gli uomini?

Gli uomini ci urtano, è vero, ed è difficile, abbiamo visto quanto, ritrovarci scambievolmente in ciò che ci separa; ma rifiutare di fare. questo sforzo è cosa degna di noi ? In ciò che ci deriva dai nostri fratelli, vediamo innanzitutto ]a fraternità. In ciascuno si trovano delle profondità di cui

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i nostri banali giudizi ignorano il mistero. Quando l'uomo ci pare lontano, ostile, antipatico, piccolo, pensiamo allo spirituale che è amico, che è immenso, che è prossimo e che noi non vediamo. Quel che valiamo come uomini non si può separare, per le coscienze credenti, da quel che valiamo come esseri legati al sovrumano.

Vediamo quel che avviene nell'amicizia. I nostri amici ci deludono quasi sempre. Al primo incontro ci si entusiasma; l'incognito agisce, sveglia il senso dell'ideale, e noi attribuiamo ai nostri amici doti che rispondono in efletto ai nostri desideri. Con la consuetudine, capita che si cambi tutt'ad un tratto d'avviso, ed è allora che si rimane ingannati; ma si cambia d'avviso sempre un po'; il reale non risponde mai al sogno; ciò che noi constatiamo non è, sotto molti aspetti, ciò che noi aspettavamo. Ora, se l'amicizia merita questo nome, noi scopriamo nello stesso tempo tesori che i nostri sogni superficiali non sospettavano affatto, ed è proprio l'amicizia che ci sveglia all'altro nostro io.

Quando si tratta dell'amicizia umana nel più largo senso, e, cristianamente, della carità, le tappe dei nostri sentimenti sono simili. Noi non giudichiamo che amando; prima dell'amore, possiamo trovare nell'amore qualche attrattiva, il più delle volte vi troviamo però degli ostacoli e sempre delle difficoltà parziali che l'amore stesso deve su-

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perare. «Non giudicare, è stato detto, per poter amare»; diciamo meglio, o, se si vuole, in altro senso: Giudicare, ma dal punto di vista voluto dall'amore, perché, illuminati da una luce divina, noi concludiamo allora ai nostri rapporti veri.

Il vero prossimo non è quello che noi vediamo, non sono questi compagni di catena, questi esseri deboli, vacillanti, schiavi di tutto e di loro stessi, pronti a soffrire e a far soffrire, ad ingannare e ad essere ingannati, a deludere e a subire l'orribile delusione dell'esistenza, attendendo la morte. Questo prossimo non è che un fantasma passeggero; dietro, sotto, sta un altro prossimo che non è mai inferiore a quel che le nostre vedute più ambiziose si aspettano. Superficialmente, tutto è fragilità, ma al fondo vi è questa specie di infinità che occorrerebbe tuttavia vedere, se noi vogliamo mantenere autentici rapporti, intraprendere la vera vita tal quale la intende e la suggerisce in tutte le sue pagine il Vangelo.

Perché nel Vangelo il prossimo, sempre grande, bello e fratello, ci invita; è quello che Gesù ha continuamente sotto gli occhi, al quale e in vista del quale egli parla, che egli viene a liberare dall'altro, in se stesso e nei nostri pensieri. Quando lo si è scoperto, questo prossimo eterno, la vita subito si trasforma; essa pare tutta toccata da una nuova luce; la prigione nella quale viviamo vede aprirsi le sue porte; i suoi muri sem-

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brano cadere senza rumore; si direbbe che un vento leggero li porta; è un'aria primaverile che ormai ci fascia, l'aria di quella Galilea ove risuona la Buona Novella e dove il reale non pesa.

I santi hanno questa visione permanente, che non abolisce l'altra, anzi l'affina; per questo essi sono insieme così chiaroveggenti e così magnanimamente ottimisti, così positivi e così fuori della vita. Essi sanno che la vita, quella vera, non è questa banale esistenza, l'uomo non è l'uomo; nelle ore di ispirazione cristiana, c'è in noi uno Spirito sacro che sveglia la luce e ci dice: Vedi!

Ma queste ore di lucidità superiore e a riguardo degli altri, sono anche quelle in cui noi | sappiamo meglio riconoscerei e difenderci dal falso io. E' vero figlio di Dio colui che in un altro ; figlio di Dio scopre il suo fratello e ne gusta il ' segreto. Un uomo umile e virtuoso valuta nel suo prossimo valori che l'orgoglio disprezza, che la passione egoista disconosce; egli ne ha il senti-| mento non considerandoli in se stesso, anche se li i possiede, ma risalendo al comune Signore e fa' I cendo ritorno con Lui verso gli oggetti della sua ; attiva tenerezza.

Non si raggiungono gli esseri, l'abbiamo detto e ripetuto, che attraverso la via infinita che ci procura in principio il divino contatto. Non si possono allacciare relazioni vere con chiunque ( con qualunque cosà se non per mezzo di questi

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mediazione. Al di fuori di Dio, al di fuori dello sguardo e delle suggestioni di Dio, non si hanno davanti a sé che apparenze, non si scoprono di sé che apparenze, non si può conoscere ne se stessi ne il prossimo. Si perde in questo gioco il sentimento della dignità personale, dell'interesse personale così come il rispetto degli altri. Si va innanzi per egoismo, ma con un disprezzo e una disperazione segreta. L'uomo buono, egli solo, non l'uomo infatuato o ebbro; l'uomo spirituale, egli solo, non l'uomo carnale, è il vero ottimista e gusta l'orgoglio sublime.

Una conseguenza di questa origine dell'amore scambievole è che non ce ne possiamo dispensare. Il prossimo avrebbe un bei tenerci liberi, mostrando di disinteressarsene, anche di disprezzarlo;

noi non ne siamo esonerati, perché esso proviene da fonte più alta. Il debito d'amore è inalienabile. Se uno mi rimette un debito materiale, io cesso di essere debitore; ma un tal debito non è mai rimesso valevolmente, ne prescritto; esso appartiene ai diritti dei gruppi di cui facciamo parte, ai diritti del tutto e del suo capo supremo. Un ragazzo che odia il fratello non offende solamente il fratello, ma offende anche suo padre, e con lui tutti i suoi; un cittadino che attacca un altro cittadino, un patriota che oltraggia un altro patriota offendono la patria e la cittadinanza, me-

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ritandone castigo; così il cristiano che rifiuta al cristiano l'amore, legame familiare e sociale della confederazione delle anime, offende la società spirituale e non può accusare ciò che ne pensa un interessato incosciente o lui stesso restio.

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Che cosa ci chiede questo amore degli altri? Esigente nel suo principio, non lo sarà anche nelle sue conseguenze? Esso lo è; ma non senza compenso; ciò che esso vuole non è che la giusta condizione di ciò che esso dona.

Le sue richieste essenziali sono abbastanza conosciute perché se ne abbia a fare qui un elenco fastidioso; vai meglio sottolineare lo spirito nel quale si deve obbedire per rispondere ai motivi che ce li spiegano.

Il Vangelo dice tutto con una sola parola invitandoci a trattare gli altri come noi stessi, a volere loro il bene che noi vogliamo a noi stessi, poiché, in verità, ciò che stabilisce i nostri rapporti è la comune partecipazione di questi beni. Sforzarci di rendere attorno a noi la vita migliore, di allargare le speranze, donare la gioia, suggerire la virtù, tenere pronto il soccorso spirituale e temporale che possono richiedere tante circostanze diverse : il programma è abbastanza bello, e l'obbligo

go che ce lo impone dovrebbe essere giudicato una dolcezza. ,

Impresa divina quella di procurare felicità e grandezza morale ai fratelli! Quale rivincita contro la nullità di questo mondo e contro l'imminenza della morte! Colui che lascia un'opera umana non muore; ma colui che lascia dietro di sé degli uomini migliori e più felici muore meno ancora; egli vive della loro vita, è felice della loro beatitudine e un giorno sarà eterno della loro eternità.

San Paolo vuole che noi ci giudichiamo, in tutta umiltà, superiori gli uni agli altri, più importanti gli uni degli altri e che, di conseguenza, ciascuno non consideri ciò che gli conviene ma ciò che conviene agli altri. {Filipp., II, 4) E' una cosa impossibile? E' al contrario la verità dell'azione, per chi si rende conto dei rapporti assoluti degli esseri. Ciascuno è veramente superiore a tutti dal lato in cui Dio l'avvicina, e ciascuno è in verità inferiore a tutti, guardato dal suo lato d'ombra, nel niente che gli è proprio. Ora, una grande anima guarda negli altri ciò che brilla, e in sé ciò di cui manca. Il punto di vista della carità è un punto di vista divino; la carità raffronta ciò che riceve dall'uomo con ciò che negli altri proviene da Dio; per questo « essa non cerca quel che è suo ».

Non a torto ci si suggerisce con insistenza

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una tale regola di apprezzamento; noi non dimentichiamo ciò che ci conviene come uomini;

qualche cosa provvede a ciò in noi; inclinati per natura verso noi stessi, è salutare che la grazia ci apra sugli altri. Ma di più, essere ansiosi per noi stessi dal punto di vista temporale non è interessante; il Vangelo ci rimprovera per queste basse inquietudini. Se siamo occupati del tempo, esso non vuole che ne siamo preoccupati, cioè turbati nella nostra pace profonda. Non c'è nulla dunque in questo che ci possa separare dal prossimo. Al contrario, il guardare gli altri ed il servire gli altri, fosse pur mediocre la materia, comporta un'attitudine eterna, una frequenza del ciclo, una vita col ciclo. Se tutti vi acconsentissero, la terra avrebbe soddisfazione, poiché nessuno sarebbe dimenticato senza che alcuno fosse egoista; e soprattutto la nostra società sarebbe già una società di immortali.

! Avvicinarsi al prossimo come fratelli è avvi-jcinarsi a Dio; preferire il prossimo a sé in tutto I ciò che si divide, è preferire Dio e quelli dei suoi Ibeni che non si dividono. Noi aggiungeremo più lavanti che perdonare al prossimo, con quel difn-Jcile perdono che così pochi accordano, è imitare j Dio e non volere staccarsi da Lui per seguire l'av-ì versarlo nel suo odio.

Dicevamo sopra che le nostre diversità, invece di renderci ostili, sono in noi. secondo Dio, un

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principio di unità: lo stesso si può dire dei nostri interessi divergenti. Essi sono un'occasione di carità, prima ancora di giustizia, questo minimo d'amore; essi sono dunque un legame. L'opposizione che in essi cogliamo sul piano temporale non deve affliggerei, il loro peso a questo riguardo deve cedere; invece che amare di meno l'uomo a causa della cosa, cioè invece che detestare l'uomo che ci prende la cosa, ce la toglie o ce la contesta, dobbiamo detestare piuttosto la cosa o amarla meno, in favore della persona che ci è legata da fraternità.

San Giovanni vuole che si arrivi, occorrendo, fino al dono della vita: «.Anche noi (come il Cristo) dobbiamo donare la nostra vita per i fratelli. » (/ Giov., Ili, 16) Senza questa disposizione estrema che difficilmente si realizzerà, è vero, il nostro amore scambievole non sarebbe ancora nella croce, esso non sarebbe in Gesù Cristo tal quale è per noi, e il precetto di amarci gli uni gli altri come Lui ci ha amato non sarebbe soddisfatto.

Sublime ideale, certo, ma non spaventiamoci; la vita stessa sovente ci viene in aiuto. In alcuni casi infatti ciò non è più un ideale ma un qualcosa cui siamo obbligati da uno stretto dovere. La carità non è ad libitum; le sue obbligazioni variano secondo il bisogno e secondo i rapporti in cui le responsabilità si radicano; ma il principio

MS

vale sempre e può un giorno reclamare tutto di noi stessi, in favore del suo tutto, che è di natura più alta. L'eternità ha dei diritti sul tempo; l'una trionfa e sussiste per tutti, il secondo è effimero.

La legge di reciprocità accettata fino a questo punto non ci faccia cadere in illusioni; essa crea un dovere verso gli altri; ma qualora non venisse soddisfatta, la violazione non ce ne libera;

i beni che essa garantisce sono inalienabili; ribelle ad ogni condono, il nostro debito non si arrende alla ingratitudine. Quale onore per il cristiano che ha la certezza di non essere, sotto l'apparenza di amare il prossimo, un sottile amante di se stesso!

Ciò che noi vediamo per lo più nel prossimo >, siamo noi stessi, il nostro piacere, la nostra utilità, | un'occasione di ammirarci o di soddisfarci; per | il cristiano invece il motivo d'amare il prossimo, I è il prossimo e, anteriormente, il grande Dio che j l'adotta, il tenero Dio che l'ama e che tutti uni-1 sce nella medesima adozione, nel medesimo ge-| neroso amore. Sapremo ancora meglio che questo j è il motivo che vale per noi, se ci sforzeremo di amare senza essere contraccambiati.

Non temiamo di amare degli ingrati; ingrati non ce ne sono; c'è Dio dalla parte del nostro debito. D'altronde, non crediamo troppo facilmente all'ingratitudine; sovente è un cattivo segno in ciò che concerne il nostro disinteresse e \a. purez-

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( za del nostro amore. « E', ordinariamente, un giu-; dizio temerario, scrive un uomo di buon senso, il : credere che non si venga amati, e ciò dipende dal I fatto che noi stessi non amiamo veramente. » (i) In ogni caso questo rifiuto di reciproco amore costituirebbe, se fosse reale, come una qualunque malizia, un titolo di più alla nostra bontà. Una malattia morale deve commuoverci, non vincerci. Come è necessario che detestiamo il male, così si esige che vedendo in quel male un nemico del nostro fratello, ci opponiamo ad esso con l'ar-f ma dell'amore. I cattivi hanno bisogno di essere | amati più degli altri, anche se lo meritano di me-•I no. Amiamo i buoni perché sono buoni e i cattivi perché diventino buoni. Chissà che il loro merito sia figlio del nostro dono!

i^ L'amore degli altri, che non ammette dispen-! sa alcuna, non ha neppure barriere. I suoi gradi sono numerosi e nessuno di questi esclude là tappa successiva. Il cristiano ama in ogni tempo, con i tutto l'essere; la comunione dei santi lo trova unito a tutti i mèmbri uniti o in attesa di unione con il Cristo, pronto a tutti, i doveri che vengono chiariti a ciascun momento, per ciascun, uomo, dalla natura dei legami.

Gesù Cristo ci ha amato per primo; tutti coti) Tillemont, Réflexions, pag. 138.

io L'Amore.

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loro che l'hanno atteso e seguito, se l'hanno veramente seguito, ci hanno amato in Lui; tutti i nostri contemporanei, cristiani di fatto e non solamente di nome, ci amano, e l'avvenire pure ci amerà se resterà unito al Cristo. A nostra volta dobbiamo amare in questa pienezza umana e temporale. Tutto quel che ha per padre Dio e per fratello Gesù Cristo ci è fraterno. Se la nostra azione non può giungere così lontano — diremo che la sua portata è più vasta di quel che ci sembra — i nostri desideri hanno le ali; il buon volere non ha limiti, e al servizio del buon volere è disponibile una forza il cui uso dirà la sincerità ardente del nostro cuore : la preghiera.

Certuni ridono su questo intervento; è un liberarsi a poca spesa, pensano. E non pensano che a ben giudicarlo e a ben praticarlo, questo mezzo dell'amore è di tutti il più prezioso e il più difficile. Il più prezioso, anche umanamente, perché sveglia e mette in opera i sentimenti profondi cui segue tutto il resto. Il più difficile, perché le parole e i gesti amichevoli utilizzano frequentemente la sensibilità di superficie, l'interesse, senza parlare delle vaghe ipocrisie; davanti a Dio, sotto i cui occhi la preghiera avviene, il desiderio vale quanto il cuore, vale per l'azione quando questa è possibile e mette in moto per di più l'infinita potenza.

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Quali benefici si potrebbero cavare per il proprio spirito da questo rifiuto relativo, a vantaggio altrui, delle preoccupazioni temporali e delle ricerche egoiste! Il mutuo scambio, se è retto, non solamente prova la nostra alleanza con Dio, ma la rinforza con il suo uso più frequente, più vario e più laborioso. Esso rivela noi a noi stessi;

perché non ci si conosce che nelle occasioni di urto e nelle reazioni che una attenta carità analizza necessariamente, dovendovi far fronte. Questo scambio ci forma alla vita di cooperazione e ci forgia al dolore, perché lavorare amando e soffrire per amore, soffrire dell'arpore stesso, è vivere con una pienezza e una nobiltà che provoca una perpetua ascesa.

L'amore trasforma il mondo, e farebbe di ciascun essere, in un ambiente rischiarato da questa calda luce, il centro di un ciclo; ma esso trasforma anche il mondo intcriore di ciascun figlio del Cristo; è da solo una redenzione, e l'avercelo insegnato, inculcato, provato nella sua persona e fatto gustare nella nostra, basta perché Gesù possa essere chiamato Salvatore.

Un primo dono di sé è un atto di alleanza con la vera vita, perché per vivere davvero occorre unirsi a tutti i propri oggetti; tutti ci riguar-

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damo in Dio e con tutti uniti a Dio noi ci avviciniamo a noi stessi, pronti a gioire del nostro essere ed; a vederlo fruttificare.

L'amore fa germinare la nostra personalità, l'innalza, l'allarga, l'arricchisce ad ogni nuova comunicazione come nel solco il seme diventa spiga, poi covone, poi campo di grano, e potrebbe servire a seminare tutta la terra. L'amore, rendendoci comunicativi, ci fa più grandi, e, fatti più grandi, siamo resi atti a comunicarci ancor di più.

Niente esiste che sia completamente isolato;

Ogni cosa esercita una funzione divina. Se si tratta di un essere pensante, il suo sviluppo comincia quando prende coscienza della universalità che è in lui, quando ne segue la chiamata, quando ama tutte le creature e si sente debitore di tutti, come l'Apostolo, quando si forma, se così si può dire, un cuore di Dio.

Colui che si abbandona a questo sentimento largo e forte, intimo e avviluppante come l'etere, profondo come il ciclo, non conosce la mediocrità, ignora la depressione e la sorda malinconia, il gusto del niente che ci procura una vita egoista; lontano dall'io che non appaga, egli ammassa un tesoro, e nel servire, nel creare, nell'amare, sperimenta un'augusta impressione di onnipotenza.

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Non è necessario insistere sui mezzi per raf-forza'-e in noi l'amore del prossimo; essi coincidono con quelli che noi abbiamo elencato in favore dell 3 more supremo. Ciò è comprensibile perché l'amore del prossimo è in Dio, ed è Dio, che sta innanzi a noi, dietro a ciascun vivente, come una grande ombra.

Bisognerà dunque meditare sui nostri legami, scoprirli in Dio meditando Dio; ricorrere alla lettura e alla esortazione che ce ne persuadono; agli esempi del Cristo e dei suoi migliori servitori per poterli imitare; alla preghiera, anche, perché l'autore del precetto consideri i nostri ostacoli e ci soccorra; ali' esercizio, infine, poiché, in materia d'amore, come in tutto il resto, la vita genera la vita, il principio il seguito, il progresso un altro progresso.

Per essere in veri rapporti con gli altri, occorre passare attraverso Dio; occorre dunque rientrare in se stessi, ove Dio tiene la sua dimora; là occorre chiamare Dio, invocare tutti coloro che sono vicini a Dio, nutrire in ogni modo il sentimento di questa presenza e di queste estensioni, e dopo ciò piegare il cuore, perché si muova liberamente e sempre più se ne convinca.

La luce scaturisce dall'azione, l'azione segue la luce; il cuore è tributario dell'una e dell'altra,

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e si ama perché si conosce, ma più ancora perché si ha donato.

Un consiglio negativo di grande valore è quello di evitare più che si può ogni giudizio severo sugli altri, e ogni apprezzamento pessimista sulla vita stessa, per quel che riguarda i suoi rapporti con noi. I nostri legami sono eterni in Dio; sono sacri : solo questo conti per noi, e su tutto il resto, parola o pensiero, venga steso un velo. Non bisogna certo accecarci o smarrire la nostra condotta;

si tratta di abituare la nostra vista, di calmare l'irritazione della nostra sensibilità e di permettere così alla ragione cristiana interventi meno avven-§ tati; Non si è ingenui se si dice: Ciò è male, ciò è spiacevole, ciò è irritante, ciò forse è odioso;

j ma colui che me lo infligge porta e deve far re-i gnare un'anima sublime, un'anima di cui io sono j incaricato; questo essere m'è ostile temporanea-i mente, associato invece eternamente; egli è mio j nemico in Belial, in Mammona, in Eros, ma mio fratello in Cristo; l'umanità stessa, l'umanità intera, in ogni tempo, è tristemente miserabile; ma essa contiene Dio. '

Parlare così è una virtù fondamentale, lo so;

ma non dicevamo che solo la vita genera la vita ? Non ci sono, per ottenere la virtù, mezzi che non siano virtuosi, e lo sforzo iniziale dello spirito è condizione di tutto il resto.

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« L'umanità, dice il Gratry, è una pluralità di anime destinate all'amore. » (2) Definizione mi-1 rabile ! Basterebbe che ciascuno se ne immedesimasse per rassicurare il cuore. Se ben compresa essa non permette più che, dovendo raggiungere Dio attraverso l'uomo, tante difficoltà ostacolino il nostro cammino.

(2) Gratry, La Connaissance de l'dtne, L. V, cap. III. Del Gratry sono apparsi in questa stessa collana due volumi intitolati I Ricordi e Le Sorgenti. . . . '

I PREDILETTI E IL PROSSIMO

uopo Dio, coloro che devono avere la miglior parte dei nostri sentimenti umani e divini sono coloro che Dio stesso ha qualificato prossimi in una maniera speciale, avendoli legati a noi per natura o avendo con la sua Provvidenza preso e consacrato le nostre scelte.

La corrente della carità non alza onde disordinate e non si estende in distesa uniforme;

essa avanza, con andatura regolare, in canali esattamente ramificati, e se amare ogni uomo è un obbligo, perché tutti assieme formiamo in Dio una società sacra, ciò stesso ci avverte che, implicando ogni società una organizzazione, i nostri parenti hanno un posto speciale in ciò che obbliga il nostro cuore.

Ciò non vuoi dire che si debbano sempre preferire, in tutti i sensi della parola, coloro che ci sono più prossimi; perché anche il cuore è tenuto alla giustizia. Se si tratta di accordare della sti-

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ma, di procurare un giusto vantaggio o d'attribuire un posto, io sono tenuto a preferire il soggetto adatto o colui che ne ha il diritto; ma ai miei parenti o amici io dono o per essi desidero con più sollecitudine la parte giusta, e posso desiderare, posso tentare di far sì che, con giustìzia, tocchi loro di più.

Gesù ci dice con il suo esempio dove sta qui la verità. Egli preferisce Giovanni nell'intimità, ed a lui affida sua madre, perché è suo amico e suo parente; e nondimeno affida a Pietro la Chiesa, preferendolo, se cosi posso dire, di una preferenza pubblica. Nella famiglia, alcune differenze si impongono anche ai sentimenti in ragione delle diverse relazioni e dei diversi compiti.

Un figlio che è padre a sua volta deve ai suoi genitori maggior riverenza, e, in caso estremo, ricordandosi d'esser loro debitore della vita, è tenuto a maggiore devozione; mentre deve alla moglie a ai figli cure giornaliere maggiori e maggiore tenerezza.

Tra parenti e amici, la distinzione è la stessa. L'amico è più vicino per elezione: egli avrà il trattamento del più vicino in tutto ciò che è di scelta, come le libere pratiche e le attività esteriori; il parente è vicino per natura: gli si lascerà l'antecedenza in ciò che riguarda la natura, come le esigenze essenziali della vita.

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Gli antichi svisceravano per bene questi casi, mentre noi invece li lasciamo troppe volte all'istinto, per non dire al capriccio. Non è il caso di parlarne a lungo qui, che l'amicizia e la parentela in tutte le loro specie richiedono degli studi a parte (i); ma qualche considerazione generale può •servire a rischiararle tutte e due. Amicizia e parentela coincidono in questo, che l'amicizia è una parentela acquistata, la parentela un'amicizia di natura; la loro inserzione nella carità generale si presta a leggi comuni.

Occorre innanzitutto osservare, in conseguenza di quel che si è detto, che i nostri affetti legittimi, naturali o liberi, fanno tutti parte di un ordine eterno. La libertà stessa è nel grande piano. Dio che mi sorregge. Dio che mi ama, mi ama e mi regge assieme a quel che mi concerne e non mi separa da quel che mi sta vicino; egli include nel medesimo giudizio e nella medesima azione ciò che io scelgo conformemente alla sua legge. C'è un destino divino, dicevamo con san Tommaso d'Aquino, un fatum che si estende a ciò che si ama come a ciò che si subisce e a ciò che si fa. I nostri affetti sono scritti nel Libro eterno; essi sono legati alla eterna tene-

(i) Cfr. A. D. Sertillanges, 'L'amore cristiano, Ist. Prop. Libraria, Milano ' .;..:

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rezza; i nostri legami contraggono per questo fatto un carattere sacro; diventano provvidenziali, rappresentano, se così posso esprimermi, un diritto divino e ne avranno onori e pesi relativi.

Un tale stato di cose come potrebbe non avere vasti effetti? Se Dio è veramente autore dei nostri impegni, delle nostre relazioni familiari, di tutte le estensioni della personalità che stabiliscono la nostra vita nella sua realtà completa; se egli risponde di tutto, salvo che del male, non dovremo noi trattare religiosamente quel che è così religioso nella sua origine e nel suo intimo significato? « Che io gioisca di tè, fratello, nel Signore», dice l'Apostolo. (Filfm., 20)

Gesù mostra con ogni sua azione fino a qual punto la volontà del Padre suo avvolge per Lui i legami del sangue e l'amicizia così come i doveri civici e lo stesso suo compito di redentore. Uomo universale, donato all'umanità intera, egli poteva sentirsi esonerato, se non anche obbligatoriamente sottratto ai nostri impegni singoli. In un certo senso egli la pensa così.

Un giorno, mentre stava tenendo un discorso tutto ardente sul regno di Dio, avendolo qualcuno avvicinato dicendo : « Tua madre e i tuoi fratelli sono di fuori che cercano di parlarti », egli rispose : « Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli? )) e, col cuore ancora pieno di una emozione sovrumana, allargando il suo gesto a cerchio

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sui discepoli che lo attorniavano, egli disse : « Ecco mia madre ed i miei fratelli. Colui che fa la volontà del Padre mìo che e wei deli, quello è mio fratello e sorella e madre. » (Matteo, XV, 20)

Ma questo distacco come uomo pubblico non impedisce a Gesù di consacrare i nostri ledami nella sua persona. Egli conduce la vita di famiglia fino ai trent'anni e ne compie i doveri fino alla croce; egli non lascia il suo focolare che per interessarsi del focolare nuovo, facendo dono agli sposi di Cana del suo primo miracolo; egli coltiva l'amicizia a Betania e nel. gruppo dei suoi apostoli; egli si dichiara animato, nei confronti dei suoi concittadini e della sua patria, di una devozione quasi materna. (Matteo, XXIII, 37)

In ciò è uomo come in tutto il resto, e attua su questo punto come su tutti gli altri, in esempio, in dottrina, in azione la divinizzazione dell'uomo.

Dio, autore dei nostri tegami, non li stringe pertanto senza di nói, e il preoccuparci della loro felice formazione, della loro conservazione, della loro ^preservazione appartiene proprio alla nostra saggezza.

Le relazioni sono una tela che noi stessi tessiamo, e che vale a secondo del colpo di spola e del filo. Si trova amore quando se ne sa dare;

lo si conserva quando se ne compiono i doveri e

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ci si guarda dai suoi tranelli. Le nostre amicizie, i nostri rapporti familiari, felici o meno, non sono che le nostre virtù o i nostri difetti che prendono corpo, e che poi lasciano campo alle loro conseguenze.

Gli egoisti si lamentano volentieri di essere abbandonati; non ci sono amici, dicono; ina si preoccupano essi di meritare l'amicizia?

Come può darsi che non ci sia affetto nel mondo, quando di esso il mondo è costruito? La prima fonte dei gruppi umani non è forse la mutua simpatia? L'amicizia sta alla base delle società più ancora del bisogno. L'egoismo è profondo, ma l'amore è più profondo ancora; dipende da noi l'attingere a questa sorgente e stabilire, a dispetto delle debolezze umane, cordiali relazioni. Ma si dimentica, poiché si è deciso di non pensare che a sé, che l'amicizia è un contratto reciproco e che se ne acquistano i beni solo col dono reciproco.

Non! si possiedono che coloro cui ci si dona;

non ci si offre se non a coloro cui già si appartiene.

Se tu vuoi ottenere la stima e l'affetto degli altri, al posto di brigare e di manovrare pei acquistarli senza fatica, meritateli. La fortuna:

in questa materia soprattutto, non vuole che la s segua; essa corre dietro a colui che cerca altre prede.

Ciò che da gloria procede sovente da quel che si è compiuto senza gloria, nella nobile abnegazione della virtù : allò stesso modo ciò che guadagna i cuori è quel che nasce dentro di tè, senza calcolo e senza esigenza, fiamma generosa che troverà, in altra parte il suo riflesso.

J Qli^amici non si cercano, si trovano. Ciascun l'astro segue la sua traiettoria, e Dio forma le co-J stellazioni. Invece di reclamare con acidità che ti si ami, eccellente ricetta per farti detestare da tutti, sii degno di affetto, e coloro che devono amarti, ti circonderanno, in virtù di questa corrispondenza segreta, per quella gravitazione misteriosa che costituisce i piccoli gruppi come l'universo.

I nostri maggiori affetti sono quelli che non furono mai conclusi, mai spiegati, mai sollecitati, mai troppo desiderati e che sono ih ragione proprio di quel che noi siamo. Il frutto non ha affatto bisogno di parlare o di reclamare il suo diritto, quando pende dal ramo.

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Una volta annodato però L'affetto, Oecorre difenderlo; esso si è formato grazie a virtù, esso perirebbe a "causa di vizi. Un individuo si mantiene in buon stato con la saggezza e con una

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sana attività; l'affetto, che crea una specie di individualità nuova, un'anima in due corpi, prende esso pure la prudenza e la generosità per sue prò" tettrici.

Non è il caso di specificare tutto ciò che potrebbe sminuire o distruggere del tutto i legami del nostro cuore, poiché tutta la vita, occasione di legame, può eventualmente diventare occasione di rottura. Ma quel che attenta più sicuramente al punto vitale dei nostri affetti è questo:

l'eccesso della familiarità; la manìa di imporre in ogni momento agli altri i propri umori e i pro-pri minuscoli disagi; il non volere ammettere limiti per coloro che ne devono subire; infine, soprattutto, il partito preso di coltivare l'amicizia per meschini ed egoistici vantaggi, dimenticando il ricambio.

La familiarità è una tale necessità dei nostri legami che, se manca troppo a lungo e senza es-ser& compensata, essi si dissolvono. Parrebbe quasi risultarne che una riserva su questo terreno equivalesse necessariamente ad una diminuzione. Invece è vero il contrario. Troppa familiarità genera il disprezzo, abbassa i legami, fa apparire in primo piano alcune miserie morali, intellettuali, anche fisiche, che una discrezione delicata aveva tenute in una felice penembra. Mischiare le nostre vite senza un pizzico di rispetto vuoi dire av-

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vilirle, tutta la poesia se ne va, e tutti salmo che un poco di poesia è necessaria come il pane per una felice amicizia. Là dove mancano questi imponderabili, gli urti e i malintesi sono pronti ad insinuarsi; ci si offende e nascono i conflitti.

Di più, ciascuno ha bisogno di una certa fierezza. Ci si dona; ma per donarsi occorre innanzi tutto possedersi; e questa pienezza intcriore, questo riposo di ciascuna individualità in se stessa esige un po' di silenzio e di isolamento, la sospensione momentanea degli scambi, e, negli scambi stessi, un non so che di temperato che è la discrezione del cuore.

Tali disposizioni non diminuiscono affatto l'intimità, ma la concentrano. Il buon serbatoio non è quello che gocciola ogni momento, ma è quello che è sempre disponibile; non è quello che si vuota senza regola, ma quello che proporziona il suo getto alle occasioni e alle utilità del suo impiego.

Perché obbligare parenti ed amici a sopportare i nostri difetti di carattere e affaticarli con una perpetua mostra delle nostre molestie, delle nostre noie, delle nostre incomodità, delle nostre emicranie, degli incidenti spiacevoli e delle piccole disillusioni che assalgono ogni vita?

L'unità di una famiglia e di un'amicizia sovente resiste meglio ad autentici danni che non

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11) L'Amore

al continuo quotidiano attrito e a quello snervante partito preso di imporre agli altri le dimi-nuizioni della nostra personalità. I nostri rapporti sono fondati sulla comunità della vita, mentre i nostri difetti ne favoriscono la dispersione, l'estinzione, la falsificazione, il decadimento parziale. I nostri difetti non sono affatto noi, e il metterli in comune non è davvero una comunicazione di vita, ma un conflitto di elementi malsani e di forze anarchiche.

Colui che non si controlla non è socievole e dovrebbe rinunciare al contatto con i suoi simili. Non ci si può creare di nuovo, e fa proprio parte dell'amore il sopportare quel che l'amico non può vincere; ma accettare di formare un gruppo vuoi dire impegnarsi ad eliminare, nella misura del possibile, quel che irrita e dissocia, quel che fa di noi, invece di un aiuto, un peso qualche volta insopportabile.

Uno di questi difetti io rilevo quando parlo delle lamentele che certuni vedono come un diritto dell'intimità, mentre sono ad essa un serio ostacolo. Queste geremiadi, che non vanno confuse con le confidenze e con i colloqui confortanti, provano ben poco possesso di sé, molta mediocrità, una spiacevole assenza di energia e poco rispetto per la, quiete altrui. Questo non alimenta la nostra unità; il nostro commercio è più alto, e

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perché turbarlo così, invece di portare con aperto sorriso tutti i nostri minuti fardelli ? . '

L'amicizia, che si fortifica col dividere i pesi di una vita che conosce il pericolo e l'angoscia, si innervosisce invece e si scoraggia per il piagnucolio continuo su dei nonnulla. Dobbiamo essere virili se vogliamo essère circondati da un virile affetto! Quando io insisto indiscretamente su mali ridicoli, una voce mormora nell'animo del mio amico: Ancora!... Il suo cuore senza dubbio non ascolta; come tuttavia non pensare che ad un certo momento anche il cuore alzerà la sua protesta?

Ciò accadrebbe un giorno se l'amico dovesse constatare che ci si lamenta continuamente davanti a lui e che non lo si compiange affatto; che, se a sua Volta piange, forse per un più valido motivo, una emozionante meschinità trova in ciò una nuova occasione per ricordare il proprio io. Ci sono alcuni che vi direbbero con calma, se vi vedessero la morte sul volto o nell'anima : Io ho negli occhi un granello di polvere che non mi lascia quieto. Che fare di tali soggetti? Nessun affetto resiste dinnanzi a una così ingombrante parzialità.

Ciascuno pensi agli altri e non pensi tanto a se stesso; il fardello insopportabile, sia pur leggero, sia quello dell'amico e non il proprio. Obbedire a questa regola è la legge dei rapporti di amicizia e di famiglia, e noi vi abbiamo visto anche

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il diritto religioso tra Dio e l'anima. Scostarsene, non è solamente, in questo caso, offendere l'amore, ma è esaurirlo.

Quanto ai limiti che troviamo in coloro che noi abbiamo prescelto o che abbiamo incontrato, occorre che una generosa dimenticanza ce li dissimuli, se vogliamo conservare la giustizia e i benefici dell'amore. Limiti, tutti ne abbiamo. Noi non li amiamo; un senso dell'infinito ci persuade che un carico di beni, venuto dal ciclo o da un cuore, deve tosto ricolmare le nostre attese. Avessimo la stessa curi per rispondere alle attese altrui coltivando il perfetto !

Siamo giusti: non si può reclamare quel che non si dona. Noi sappiamo che gli oceani della vita non sono che pozzanghere e le nostre cime più alte piccoli cocuzzoli di campo. Tale è l'umanità; se noi ci rifiutiamo di andare d'accordo con essa, è bene saperlo subito; ma potremo noi andar d'accordo poi con noi stessi?

« Portare i pesi gli uni degli altri», ci dice san Paolo. Niente ci pesa più del nostro piccolo fardello, delle nostre costanti mancanze e della nostra debolezza; è così per tutti. L'amicizia ha ritorni di egoismo come la mente ha ritorni di errori. Chi pensa, può sbagliare; chi realizza, può inciampare e chi ama, può venir meno. Un amico non è innanzitutto un uomo ? Per essere

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amico perfetto dovrebbe essere un uomo perfetto, ma sappiamo che questa specie manca sulla terra. Vi apparve una volta; ora è fasciata nel mistero; abbiamo in Gesù l'amico che non si smentisce mai; ma il visibile è fragile, e non conviene a noi, fragili come tutti, elevare una protesta contro chi ci assomiglia.

Chiediamo sentimenti veri ai nostri amici; se essi non possono fornirli, non badiamoci; non domandiamo loro, anche in materia di sentimenti, una pienezza impossibile.

Ecco un sofisma molto frequente : II tale mi deve questo, poiché è mio amico. Ma ha l'obbligo forse di essere tuo amico? La libertà non sta alla base del contratto? Si tratta di sapere se quel che ti si offre ne vale la pena, o se la dose di amicizia provata è in tale sproporzione con il tuo dono da farla condannare dalla legge di reciprocità. In questo ultimo caso, rompila; nel primo, non stare a lamentarti.

Parecchi hanno una certa incapacità di acel-ta; essi vogliono mantenere una situazione pur conservando il diritto di lagnarsene; essi la proclamano cattiva e non la troncano; inseparabili da colui che censurano, essi si divertono a zappare a piccoli colpi, con comiche precauzioni, la zolla su cui stanno seduti ambedue. ,

Occorre ripeterlo: siamo sulla terra. Solo la vita eterna darà soddisfazione agli appelli del no-

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stro cuore, come a quelli della nostra mente avida di verità e della nostra volontà nemica delle angustie; quaggiù non è ancora il tempo. Noi abbiamo sete, è la nostra grandezza; ma che le nostre fonti conoscano la nostra indulgenza, se non vogliamo che una grande siccità risponda alla nostra eccessiva fretta di sazietà.

Infine, un avido sfruttamento degli amici, quasi che in essi la persona fosse secondaria e i servizi resici fossero essenziali, è un mezzo di scelta per separare coloro che una reciproca generosità, fuori dalle altre esigenze, dovrebbe unire.': .' • ;.

Un amico non è un possesso, ma è un'alleanza elevata; così come una parentela non è un buono della cassa di risparmio, ma una unione di destini. Ci si rende dei servigi; questa non è la cosa principale; il dono è più ricco. Bisogna trattare da persona a persona, associarsi attraverso la mente, il cuore, l'azione, essere e vivere assieme. Elevarsi con questo concorso alla vera vita, gioire di più della bontà di questo mondo e delle speranze dell'altro, avanzare con passo più fermo verso i fini veri, non è questo l'ideale dell'amore ?

E' naturale ricevere quel che si è pronti a dare; esigerlo con asprezza è un'usurpazione e una specie di infedeltà, poiché comincerebbe con un'alleanza non affettuosa, ma utilitaria. Che i

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nostri amici ci siano davvero amici; basta; sta a loro solamente il decidere, a seconda delle circostanze, quali vantaggi ci devono dare, quali riservarsi per loro o lasciare fuori del conto. Un delicato rispetto moderi le nostre domande e i nostri desideri stessi, conformemente a quella saggia regola adottata dalle persone per bene: non domandare ai nostri amici che quello che ci potranno dare con gioia.

A ben comprenderlo, non il guadagno ma U sacrifìcio è quaggiù l'alimento dell'amore. Dai, se vuoi che i tuoi sentimenti acquistino vigore. Il ricevere sia per tè un'altra forma del dare. Quando ringrazi, che il tuo ringraziamento significhi: Io gusto il tuo buon cuore; io sono contento per la tua gioia generosa; io accetto, a titolo di ricambio, di essere un oggetto di liberalità; sapendo che <.<.si è più felici nel dare che nel ricevere » e che i sentimenti si annodano attraverso le cose.

Oh, come bisognerebbe conservare puri questi scambi reali che non sono per l'affetto che uno sforzo sempre impotente per testimoniare se stesso! Tutto ciò che vi si mescola d'egoismo da una parte e d'avarizia dall'altra è una menomazione dolorosa. I cuori lo capiscono così benel Niente ci urta come il sentirci quasi la sorgente di profitto continuo d'una alleanza unilaterale. Niente ci urta come il vedere che si pigliano ri-

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serve, che si fa l'orecchio da mercante, e che, costretti, ci si riduce al minimo, credendo nascon-dersi dietro silenzi o mezze parole.

La legge che domina la reciprocità nell'amicizia è sempre la stessa : tendere al dono delle due parti, e dalle due parti fare tregua per le rivendicazioni offensive; pensare agli altri e confidare al Dio dell'amore la cura di concludere per noi. Al posto del proverbio : Ciascuno per se e il buon Dio per tutti, mettiamo: Ciascuno per l'altro e il buon Dio per tutti. Cosi nessuno è dimenticato e tutti sono magnanimi.

-^

I nostri legami, che provengono da Dio con il nostro concorso, che Dio mantiene con la nostra prudenza, sono consacrati poi all'opera di Dio. E' la loro sola ragione di essere. Tutto quaggiù è mezzo. Ciò non vuoi dire che i nostri affetti non valgano per se stessi e in se stessi; si dice solo che, nel loro stato presente, adescati e non consacrati, in faticosa ricerca e non in possesso del loro tesoro, essi non devono accontentarsi di se. Essi devono mirare al fine obiettivo di tutto ,1'uomo.

Quali mirabili utilità sono contenute in queste alleanze libere o naturali che moltipllcano per

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noi ogni forma della vita e ci procurano, in ogni occorrenza, un altro io! L'amore collabora alla creazione del ciclo e della terra; esso è « un farmaco d'immortalità e di vita » (Eccli., VI, 16);

formando i legami previsti dalla saggezza creatri-ce, esso dona a ogni esistenza, a ogni gruppo, poi alla specie intera le loro vere condizioni.

L'amore è il segno dei voleri di Dio nel suo universo e li realizza. E' in questo mondo ma non è di questo mondo; ma proprio le cose che non sono di questo mondo danno al mondo la sua vera consistenza e il suo autentico valore.

L'amore è la rugiada della vita; essa cade dall'alto, penetra nell'intimo, rinfresca e feconda, riposa e raddrizza, trasfigura tutto quel che tocca e lo schiude dal di dentro, come il bocciolo in cui s'asconde il fiore.

Con l'amore non ci sono più tentennamenti, il fine è chiaro; non ci sono più afflizioni, ma solamente sacrificio, e non c'è debolezza, perché tutto prende un'energia che è vigore per le anime e per la creazione.

L'amore di tutto conforta, ci aspetta a tutti i passaggi, aiuta a sfruttare le situazioni le più disperate e a riscattare gli abbagli e le colpe pip gravi, nobilita quel che in sua assenza sarebbe banale, innalza ciò che è basso; la sua presenza ci invita ad essere più pienamente noi stessi e attraverso un'altra presenza dilettevole, arricchente

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qualche volta fino alla piena felicità, esso ci rivela la presenza di Dio.

Si capisce che per amore qui si intende l'affetto in tutte le sue forme. Amore propriamente detto, amicizia, fraternità, legami dall'alto al basso e dal basso all'alto prendono parte a questa lode e se ne suddividono i compiti.

Coloro che amiamo ci portano i loro pensieri e ci risvegliano ai nostri; noi ne avevamo in loro una riserva; essi ne trovano in noi. « Come l'acqua profonda, tale è il consiglio nel cuore dell'uomo, dice il Proverbio, ma il saggio lo tirerà a galla. » (Prov., XX, 5) Se il consiglio è assieme in due cuori come in due abissi che comunicano, il tirarlo a galla con una duplice saggezza a che cosa non porterà?

Notiamo che i pensieri nati qui e là non sono più del tutto gli stessi quando si suddividono;

non si riconoscono più. « 11 ferro col ferro s'aguzza, e Vomico aguzza l'ingegno dell'amico. » (Prov., XXVII, 17) .

Quale errore quello di credere che non si possa dire che quel che si sa, che non si possa comunicare che quel che si ha ! Si dice quel che non si sa e dicendolo lo si impara; si comunica quel che non si ha, e comunicandolo lo si acquista. La vita crea la vita; la vita anticipa sulla vita per mezzo dei suoi germi, e l'amore è il sole dei germi.

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ISXitiiamo in. noi tatto sK\o stato \aten\e-, Y amore lo porta alla luce e le anime brillano.

Quel che i nostri veri amici ci danno, è innanzi tutto noi stessi; essi ci svegliano alla nostra vera personalità mettendovi in azione la loro; a questo contatto noi diventiamo più vivi. Ma anche la loro vita arricchisce la nostra.

Non è forse un beneficio ammirevole l'essere presenti per mezzo di altri là dove non si è presenti, vedere quel che non si vede, ascoltare quel che difficilmente si direbbe davanti a noi; essere anzi presentì a se stessi attraverso qualcuno che è insieme intimo ed estraneo, e che fornisce il doppio beneficio d'uno sguardo competente e disinteressato, amante e severo?

Qualora si tratti di azione, se ci si ama e si collabora, ci si raddoppia e ci si allarga; tu diventi due, tré, e ciascuno è più sicuro. Il triplice legame della Scrittura non si rompe tanto facilmente. Sentendosi sostenuto, da tutta la sua forza e non ne riserva per le sconfitte. La ritirata non è prevista; la squadra ha i suoi scaglioni e ciascuno è sicuro.

Un esercito, diceva Napoleone, ha bisogno di sentire dietro di sé un appoggio, non fosse che una bicocca; o quale adorabile bicocca, quale imprendibile bastione, anche nella debolezza, è un cuore tenero e fedele!

Questo cuore non ci salvaguarderà dalle no-

stre stesse defezioni ? « Se essi cadono, dice degli amici l'Ecclesiaste, uno può rialzare il suo compagno. Ma guai a chi è solo e che cade senza avere chi lo sollevi! » (Eccli., IV, io) Si cade sempre, e quale forza per risorgere, quale salvaguardia, ad ogni costo, ti offre l'amore!

Quando una coscienza legata alla tua ama la tua virtù, tu non puoi disprezzarla; tu la onorerai anzi e paventerai ancor più le cadute. L'amico, fosse pur imperfetto quanto tè, vuole essere perfetto in tè, perché verso di tè si trasporta l'interesse della sua persona. Chi vorrà perdere una stima del genere? Chi non temerà uno sguardo così vicino, così facilmente penetrante, così deluso, anche se non dice niente, quando il tuo ideale si raffredda, e che sarebbe, in caso di caduta, quello di Gesù a san Pietro dopo il rin-negamento?

Peccare, in amicizia, è sempre un poco tradire. Ogni azione cattiva è una infedeltà ai nostri affetti. Se si tiene a questi, ci si trova preservati nella misura in cui lo è il bene che ^ il terreno dell'alleanza. Un pudore affettuoso, l'obbligo assunto di essere integri tutti e due, le dichiarazioni scambiate, le attitudini prese, tutto ci preserva, e questa facilità che noi abbiamo a dispetto del nostro orgoglio o piuttosto a causa di esso, di scoraggiarci da noi medesimi, trova allora il suo freno.

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Si scivola così facilmente fino al disprezzo di sé! Per impulso prima, poi per vergogna, ci si disprezza. Ma l'amico non ti disprezza, egli ha sempre fede; egli si crederebbe infedele dubitando dei tuoi ritorni se deve dubitare della tua costanza. Prendendo su di sé là cura del tuo rialzamento, egli ti solleva di un grosso peso, il-peso di tè stesso.

. • ' —¥•

La condizione affinchè questi benefici siano ottenuti è evidentemente quella che si manifestava già prima. L'affetto deve fondarsi sul bene, e ciascuno deve ritenersi responsabile di questo bene.

Si è detto del matrimonio che è un dramma :

resta da augurargli una buona conclusione; ma in ogni affetto non si trova forse il medesimo rischio e per conseguenza la stessa necessità di ricorrere a quel che salva i gruppi? Un'associazione riesce a seconda dell'apporto dei singoli componenti; ciascuno ne porta la sorte in sé, e se si pensa, come ogni cristiano, che il bene è il mezzo del nostro destino, quale partito possono pigliare colóro che vanno di concerto, se non quello che agli occhi di ciascuno farà la felicità dell'altro?

Dio ci ha uniti; a ciascuno di noi ha dunque affidato la sua creatura: o le nostre dichiarazioni affettuose noa significano nulla, o esse tendono

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al miglior bene per il secondo noi stesso. Agire male, fosse pure in pieno accordo e per tenerezza, non sarebbe più amarsi. Il male distrugge i legami, li nega, perlomeno li profana e li convince di illogicità.

La mia felicità, amico, quand'anche io fossi un peccatore, è di saperti virtuoso. Mi importa la tua gioia; vederti in pena è per me vivere nella notte; ma la mia preoccupazione è più alta. Io ho una inquietudine: la rettitudine della tua vita; il resto è un desiderio, e non è la stessa cosa. Noi domandiamo anche il pane; pertanto ci è detto : « Non cercate il fané che ferisce. » (Giov., XI, 27) La gioia, da sola, perisce; per l'anima che io amo, io domando la gioia del bene, magari l'assenza di gioia immediata a profitto della gioia duratura, la privazione della gioia sensibile in vista della gioia profonda, che s'appoggia all'eterno.

In nome dell'amore di sé, al quale non si abdica mai nell'amicizia, si deve anche ricercare per se stessi, negli affetti, ciò che è principale come termine. L'amicizia, dice Bossuet, è « un_legame particolare_peraiutarsia gioire in Bio. » (2) £)e~ finizione nSirabileT'^hTTa^gusterà non andrà a cercare nell'amico o nel parente proprio ciò che invece dovrebbe assieme a quelli rigettare.

(2) Bossiiet, Méditations sur l'Évtingile, XLVII giorno.

«Fuggì dal nemico, dice i] Libro Santo, ma guardati dall'amico. » (Prov., VI, 13) Una compiacenza imprudente cioè può indurci ad imitare i difetti, a partecipare ai torti, a sostenere le azioni riprovevoli, a farci compiici di imprese in cui ne va dell'onore, in breve, invece di inclinarci al bene, a seguire l'altro nella sua, caduta. Detestabile gorgo, che non può con maggior follia rovesciare i compiti.

L'uguaglianza mira ad un livello più alto. Nessuno guadagna a ricevere vizi. Quale più nobile e più fruttuosa convenzione di questa : Noi saliremo tutti e due là dove sarà il migliore?

Ciò suppone che tra gli amici e i parenti regni la verità, non la lusinga e le vili condiscendenze. Che il tuo amico intenda da tè la verità e possa dirti la verità; che egli possa in caso di bisogno usare il bisturi e sentirne egli stesso la ferita; che egli ti resista con il tuo ! consenso, là ove mostri un lato debole, senza ; avere per questo rinunciato alle leggi della tua | alleanza, e che a sua volta la tua resistenza lo ; preservi. Non esigiamo l'un dall'altro una com-| plicità e un conformismo asservito; non scanda-i lizziamoci di un veto. E' il beneficio dell'amore, . quello d'aver la virtù a guardia sia dentro che | fuori di noi,, nei giorni del bisogno.

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Ma quanto ci devono amare, per contraddirci così senza allentare i legami! Una verità penosa e difficile tanto da dire quanto da sentire e per gli stessi motivi. Un caso grave vuole tutta la vigilanza, tutta l'abilità della nostra tenerezza. Taciamo piuttosto quel che ci dividerebbe; salvo il caso di una rottura necessaria, un benefìcio particolare non deve far perire o soffrire l'amore.

Il cuore è così presto chiuso, quando la bocca dell'amico s'apre accusando senza che il cuore la ispiri, senza che l'addolcisca, per così dire. Il minimo orgoglio e il minimo egoismo da un lato, come la minima diffidenza dall'altro, possono in tali casi tutto distruggere. Non toccare una piaga con mani brutali; sia l'amicizia sola, e soprattutto sia Dio in essa, il medico.

Per questo lavoro di emendamento è essenziale che non ci si lusinghi gli uni degli altri. Una amicizia ove regni la reciproca adulazione non arreca benefici morali. Ci si attenga a saggi apprezzamenti. Il cuore fa sempre un largo credito, ed è questa una forza di bene tra coloro che si amano; ma un'opinione più favorevole di quanto richieda la ragione è un germe di corruzione.

Sarà così gradevole all'amico di crederti! Egli soccombe, ed eccolo orgoglioso, eccolo posto su una china pericolosa; un sentimento esagerato

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delle sue risorse può spingerlo a folli imprese. Un amore imprudente gli avrà forse teso un'insidia.

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Non temiamo di affermare una volta ancora che queste leggi dell'amore scambievole non verranno osservate, se il primo Amore non le ispira e non ne assicura il regno. Ciò che è primo regge tutto; quel che orienta verso il fine determina la strada. Nessun amore è il legittimo discendente dell'anima umana, se non è figlio dell'eterno Amore.

Colui a cui tutto appartiene, ci dice quel che dobbiamo fare del cuore, come egli guida l'uso dei beni materiali, dell'onore, della gioia, del potere, di tutto ciò che ci sollecita. I legami veri, utili, esattamente limitati, atti ad accrescerei spiritualmente si annodano e si conservano solo nel circuito infinito di cui noi parliamo continuamente e di cui la curva può ridursi a nulla, tanto Dio è vicino a noi, a dispetto dell'allontanamento morale che la nostra incoscienza e la nostra infedeltà gli impongono. ;

II più breve cammino di un cuore a un altro cuore passa attraverso Dio.'« Non c'è vera amicizia, dice sant'Agostino, se tu, mio Signore, non la saldi, avvicinando esseri che aderiscono innanzitutto a Tè per mezzo della carità diffusa

12) L'Amore.

nei loro cuoia. » (3) Se noi non siamo attaccati a Dio; se noi siamo l'uno per l'altro un dio, o se l'amore stesso è per noi un dio, la nostra anima è sviata, e tutti i suoi difetti nascondono un principio di rovina. Avendo preso in considerazione solo il tempo, noi saremo delusi e divorati dal tempo.

Al contrario, non c'è che felicità in un'amicizia o in una casa, se Dio vi presiede. Nessun cuore è preparato a donarsi con sentimenti più forti, più teneri e più duraturi di un cuore spogliato di sé e riempito di Dio. Questo si fonda su ciò che non subisce alcuna fluttuazione e fornisce all'amore umano motivi sempre indiscutibili, slanci tanto più energici quanto più vengono dall'alto, e preservazioni più sicure, rimedi più efficaci, perseveranza più ferma di quella che può essere fornita dall'uomo. Dio rettifica e vivifica ogni scambio e in tal modo rassicura ogni tenerezza, con il suo dolce e inflessibile amore.

Inoltre, non è forse necessario ricorrere, per amare, a quell'amore di cui quello umano non è che l'apprendistato? Ogni amore particolare non è, nell'ordine provvidenziale, che una disposizione al possesso del bene sovrano, e questo possesso,

(3) Sant'Agostino, Confessioni, I.

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che si consuma nell'amore, incomincia anche sulla terra con un retto amore.

Capita come nella scienza, i cui elementi sono una preparazione alla scienza adulta, come nell'arte del principiante in confronto di quella del maestro, e delia manovra confrontata al vero combattimento. Tutto quel che comincia è un'esca di quel che segue; il bene tende al meglio, e quando il meglio è propriamente il tuo destino, tagliare al bene il contatto col meglio, è misconoscerlo.

Nessun amico è utile ed è amico nel vero senso della parola se non è precursore di un Amico più grande. Nessuna alleanza ci serve, se non ci innalza verso Colui che solo basta. Il bene sovrano è di gioire di Dio assieme : un patto affettuoso consiste nel servirlo assieme, nell'amarlo assieme; l'amore deve condurvici, anticiparlo, figurarlo per quanto può. Se ce ne allontana, è un falso amore : se esso è considerato indipendente da questo fine, sarà forse un vero amore,^ma un amòre legato , che non fiorisce ; colui che vi si dedica, non lo piglia quindi tal quale è; ne altera, se non la sostanza, almeno il dinamismo profondo,, la funzione essenziale, e ne nega lo slancio finale.

L'amore è una china dolce e rapida per camminare verso Dio; inclinato verso l'altro senso, esso ci inganna e ci precipita.

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L'ideale dell'amore è di passare senza scosse, dopo la traversata di tutte le sue fasi, a uno stato più largo, più elevato e più ricco, ove tuttavia si ritroverà esso stesso fissato e approfondito da questo nobile consenso.

La goccia è più in equilibrio nell'oceano che sul bordo della foglia ove il sole la dissecca. L'acqua che ritorna alla fonte da cui è scaturita, non perde la sua forma; essa vi si rigenera. I nostri amori ci presentano un simbolo di Dio : in Dio, quaggiù o lassù, essi sono al loro posto, essi si uniscono al loro tipo, e un'azione reciproca fomenta l'amore di Dio per mezzo dell'amore dell'uomo, l'amore dell'uomo per mezzo dell'amore di Dio. Io imparo a gustare Dio nel tuo cuore, o mio amato; io imparo in Dio ad apprezzare il tuo cuore, ove io trovo un sapore celeste.

Preso in se stesso, il primo di questi due casi è principale; ma le nostre fragilità cercheranno forse in quello che è più umano una forza più trascinante. Riteniamo dunque che Dio serva i nostri amori, quando facciamo dei nostri amori un servizio. Se ne facciamo un ostacolo, essi sono un pericolo per se stessi. Noi amiamo allora non la creatura autentica, cosa del Creatore, ma un fantasma che ci siamo creati e che ci inganna; noi non aderiamo che al nulla essendo noi stessi un nulla.

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Tutto considerato, poiché Dio solo è sufficiente e necessario, poiché Dio dona a tutto, nel cuore come nelle cose, quel che ne forma il valore e la sicurezza, si deve dire che per essere un amico prezioso, occorrerebbe poter esser indipendenti dall'amico, appoggiandosi unicamente all'Amico supremo; per essere un buon parente, occorre sapere, come parente ideale in aspettativa, accontentarsi, se è necessario, della parentela eterna. Ma questa alta indipendenza, ben compresa, non è ne durezza, ne insensibilità, ne misantropia, ne misoginia, ma ne è il contrario; è il principio del dono, e ne assicura il ricambio.

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LE NOSTRE AVVERSIONI

uice il Signore: « Se voi amate coloro che vi amano, che cosa fate di più dei pagani? Ma

10 vi dico: Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi -perseguitano e vi calunniano. »

Noi non conosciamo che amici e parenti, e

11 prossimo non resta sempre in questa forma anonima che forse si presta poco agli slanci ma in pari tempo non offre ostacoli. La vita, che crea legami, crea allo stesso tempo opposizioni; in mille modi essa pone un contro l'altro uomini appassionati e trascinati in sensi contrari.

« Gli uomini assomigliano a vasi che navigano sull'acqua e che cozzano gli uni contro gli altri » diceva Goethe (i) : veduta di un'ironia molto pessimistica, ma che per questo fatto stesso esprime assai fedelmente i nostri rapporti.

(i) Goethe, Colloqui con Eckermann.

Noi pigliamo in avversione coloro che sono in concorrenza con noi, coloro che non ci stimano e non ci favoriscono, coloro che hanno e non ci danno, coloro che, semplicemente, sono gli altri. Noi arriviamo fino a ribellarci contro l'amico che non ci ha fatto tutto il bene che noi ce ne aspettavamo, un bene che noi, forse, non gli facciamo, ma che esigiamo lo stesso, per quella ipocrisia latente e quell'egoismo ai quali tendono i nostri cuori. Chissà poi che cosa sarà dei nemici!

L'impulso istintivo è di arrecare male a coloro che detestiamo, a meno che non temiamo per noi un male maggiore. Se noi non ne facciamo, almeno lo vogliamo, ci rallegriamo di quello che capita; ci abbandoniamo alla derisione, amara gioia che ci fa provare piacere nel disprezzare ciò che noi odiamo.

Le nostre avversioni non sono sempre personali; alcune volte esse riflettono i danni di coloro che noi amiamo. « Gli amici dei nostri amici sono anche nostri amici » : i nemici dei nostri amici sono essi pure nemici nostri, anche se li amavamo al di fuori di quella circostanza; e se la propensione alla simpatia era grande, nasce in noi un conflitto; il sentimento più forte vince.

Quando noi attribuiamo più o meno a una influenza esterna il cattivo volere di cui ci lamentiamo o il male che subiamo, l'ostilità si riversa su questa causa. Noi poi la riversiamo anche

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sulle relazioni, le vicinanze, i legami della persona che ne formano l'oggetto, perché tutto ciò ci appare in essa.

Capita che l'odio succeda all'amore; allora esso s'accresce, e tanto più quanto maggiore fu l'amore di prima; si serba rancore alla persona che prima ci amava perché ci ha privato delle gioie dell'amore e dei suoi vantaggi; si mette tale privazione sul suo conto, e questo danno si aggiunge a quello che ha creato i primi rancori. Non si vedono forse alcuni odiare altri perché li pensano presi da sentimenti simili a quelli che loro provano? Noi siamo fatti per amare, e l'offesa che ci reca l'amore pianta in noi una doppia radice di odio,

Contro tutti questi sentimenti Gesù ha voluto metterci in guardia predicandoci l'unione a ogni costo, se si può dire così, l'amore malgrado le cause di odio, l'amore che vince l'odio e che, a meno di una resistenza perversa della quale non saremmo più responsabili, forzerà l'odio stesso all'amore.

Sembrerebbe che questa predicazione ci dovesse trovare facilmente convinti; perché noi che siamo sempre colpevoli dobbiamo metterci in una situazione ben cattiva per rifiutare il perdono! Ma l'ostacolo ci proviene precisamente dal non essere noi abbastanza innocenti; l'innocenza, che

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sola avrebbe diritto di non perdonare, perdona sempre.

La nostra natura è sviata; per questo il perdono non è nella natura. Il perdono è un eroismo, a meno che non sia indifferenza o sciocca dimenticanza. Il perdono deve attraversare in noi una regione cocente, deve passare attraverso le fiamme; è più difficile alcune volte accettare che sfidare la morte. Morire in una bella vendetta potrebbe procurare una gioia aspra; disarmarsi e sottomettersi al nemico, è il sacrificio di quella superba dignità che è più radicata in noi della stessa vita fisica.

Il perdono è una specie di estasi. Etimologicamente, estasi significa proiezione al di là di se stessi, evasione verso l'alto, verso il sublime, e tale movimento, qui, più che provocare l'ammirazione, suscita le lacrime. Chi ha potuto leggere, senza soffocare un rapido singhiozzo, la parabola del figlio! prodigo, il racconto dell'adultera, o il grido della croce: «.Padre mio, perdona loro »?

E' ben vero che l'eroismo è anche nella natura; ne è il senso profondo, abbiamo detto; l'impulso creatore ci porta ad esso; ma quante cose lo combattono ! Le sue sollecitazioni provengono pertanto dal nostro io migliore. Se ad esse cediamo si può aspettare da noi ogni cosa bella e nobile. Una volta vincitore, l'eroismo misericordioso vuole ar-

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rivare fino in fondo; s'inebria; ha rigettato i limiti, quindi non esiterà nella generosità. Vedi Augusto, nel Cinna; vedi Gesù e san Pietro. L'amore è più implacabile dell'odio, e non disarma mai. Il perdono è naturalmente magnifico; fino a quando non ha vinto l'odio con l'amore e non l'ha trasformato in amore, non ha ancora raggiunto quel che cerca.

Se prevale, la sua vittoria non sarà solamente completa, ma sovrabbondante; perché, se è vero che l'odio che succede all'amore è un odio più tenace, è vero anche che l'amore che succede all'odio è un amore più profondo e più decisivo. Si aveva prima il risentimento di una' gioia morta;

si ha ora la riconoscenza di una gioia ritrovata, di una asprezza e di una contrazione dolorosa dissipate. L'eroismo che non si consuma vanamente ne suscita un altro; una nobile emulazione si stabilisce. Quali strabilianti conversioni non si vedono così, da nemici e nemici in apparenza mortali! E quali splendori abbaglianti in una natura debole da fare pietà !

« La clemenza, dice Shakespeare, è due volte benedetta; essa benedice colui che la dona e colui che la riceve. » (i) « Tu doni denaro, aveva già detto sant'Agostino, tu lo perdi e l'altro lo guadagna; ma se tu doni amore, sei tu che gua-

(2) Shakespeare, II Mercante di Venesia, Atto IV.

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dagni », e se l'amore produce amore assorbendo l'astio, ci sono dunque due guadagni.

Che cosa c'è di più delizioso di questa generosità, quando lo sforzo è compiuto e il cuore batte in sintonia con la natura magnanima ? L'uomo posseduto dall'odio vive miserabilmente; si strazia e le sua gioia atroce non è che un sadi-smo divoratore. Rispondergli con un odio simile, è condannarsi al medesimo tormento e fare due vittime; facciamo piuttosto due creature felici e due fratelli attraverso un nobile e generoso com-, battimento.

La misericordia dell'uomo è come quella di Dio: (i. essa risplende su tutte le sue opere i) (Salmo CXLIV, 9); essa è il segno della sua : grandezza, ben lontana dal nascondere, come invece crede l'orgoglio, una scipitaggine e una debolezza. Il perdono è un entusiasmo : come porrebbe essere spogliato di nobiltà? Perdonare vuoi dire donare al di là, sorpassare il proprio debito e mostrarsi superiore al livello corrente. I nostri i rapporti hanno per legge essenziale la^; giustizia e I colui che fa giustizia obbedisce alla legge dell'uo-j mo; ma fare misericordia è un presentimento dell'eterno. Il misericordioso non da la parola all'uomo; egli la da a Dio.

Il perdono non ha bagliori esterni : negativo, esteriormente; al di dentro, immenso; non si volge invano verso il volto creatore ma vi attinge una

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forza che è propriamente invincibile; in un'attitudine di dolcezza sta la sicurezza inespugnabile. Il mio avversario può ben forzarmi a soffrire; non può però forzarmi a rassomigliargli. Sia pure egli esasperato per la collera, soffocato dal rancore : io sono calmo e posso sfidare a mio talento i suoi furori. Io posso essere a lui inferiore in malizia o in potenza aggressiva: ma io ho su di lui una superiorità: quella del dominio sugli istinti, sulle passioni scaltre o improvvise. Io posso vincere l'ira-; scibilità, neutralizzare l'odio che, simile a un veleno, s'infiltra e corrompe tutta l'anima. Questo coraggio ispirato dall'alto non vale forse quanto la gloriuzza di una rimbeccata o il gusto di una vendetta?

Il possesso di sé forza il nemico ad arrossire davanti a tè e davanti a se stesso; esso sveglia quell'istinto del bello che sonnecchia in tutti, provoca alla grandezza d'animo. Purché non si possa attribuire alla scemenza e alla paura, il rifiuto di ogni vendetta è sicuro di vincere un giorno ogni resistenza morale. Amare chi ci. offende è il mezzo perché non ci siano più offese.

Il risentimento è una vittoria del tuo avversario; che cosa egli cercava se non di metterti in imbarazzo? La tua pena si è tradita per questa detestabile agitazione : eccolo contento. Che piuttosto la tua pace e la tua libertà intcriore lo soggioghino.

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La maestà della dolcezza è più forte degli àr-' tigli sanguinanti; al posto di raddoppiare il male, come avviene nelle rappresaglie, essa non si accontenta nemmeno di controbilanciarlo. Meditare una vendetta, metterla in atto, non è forse adeguarsi alla morale dell'avversario, entrare nei suoi principi? Male per male e male su male, è sempre male. La clemenza cambia il male in bene. Il combattimento che essa fa è di portata vasta e lontana: essa lotta contro molti così come contro uno solo; se essa trionfa, il vantaggio sarà suo e in pari tempo quello del vinto, quello della natura comune, quello del gruppo associato alle nostre vittorie come alle nostre cadute, quello di Dio. La misericordia è una fierezza di Dio: non sarà anche una legittima fierezza dell'uomo?

-¥•

Non si creda del resto a una scelta che lascerebbe intera, qui, la nostra iniziativa. L'amore dei nemici è tutt'altra cosa di una libera grandezza:

è una obbligazione; chi non l'accetta e non lo pratica, non può dirsi cristiano. Molte sfumature nell'applicazione di esso possono presentarsi, e così deve essere per non favorire la malizia; ma Dio vede il cuore, e ne misura la sincerità.

Chi non può dire : Padre Nostro, includendo in quel noi tutti gli uomini, anche i più ostili,

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quegli non è fratello di Cristo. Gesù « ha fatto morire in Lui tutte le inimicizie, dice san Paolo, mettendo in pace con il suo sangue, sparso sulla croce, tutto ciò che è nel ciclo e sulla terra. » (Col., I, 20) Nobile vittoria! Gesù ci ha riconciliato con Dio, ma ciò non può avvenire senza che noi siamo riconciliati con tutti. L'amnistia o è generale o non è. Fratelli tra noi, figli di Dio, fratelli di Cristo, questi tré titoli si equivalgono, ed è l'ultimo che,, facendoci partecipi di una sublime comunità, da valore ai primi due. « Chi dice: lo amo Dio, e non ama il suo fratello, mente. » (/ Gioy., IV, 20)

Ci viene detto inoltre che l'odio conservato nel cuore al riguardo del prossimo è una specie di assassinio. « Chi odia il fratello e un assassino.)) (/ Giov., Ili, 5) Perché? Perché l'odio è una volontà implicita di distruzione. « Conoscete, dice Schylock nel Mercante di Venezia, un uomo che abbia in odio un altro uomo e non ne desideri la morte ? » Può darsi forse che non ci pensi; ma il sentimento porta verso quel punto, Ben più : cristianamente si deve credere che esso porti più lontano. Il prossimo ti ha offeso : lo dichiari colpevole verso tè e verso il bene; gli rifiuti il perdono; e non è forse chiudergli per sempre le porte del ritorno? Lo abbandoni quindi ad un rimorso senza speranza? Nell'intimo di tè stesso verrà posto in stato di dannazione ?

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Si conosce l'atroce pratica di quei condottieri che cercavano di sorprendere il nemico in peccato mortale, ve , lo provocavano magari, l'obbligavano col pugnale alla gola a rinnegare il Cristo e, ottenuto il rinnegamento, lo uccidevano, per gustare una eterna vendetta. In un rifiuto pertinace di perdono, non c'è forse qualcosa di simile? Omicidio, dice san Giovanni; sì, ma omicidio spirituale come temporale, omicidio eterno nella nostra eternità, e che ci rende offensori dell'eternità di Dio.

L'odio è l'inferno, come l'amore è il ciclo;

l'odio è come il rovescio di Dio, che è amore;

essendo un sentimento distruttore, esso si oppone, proprio al contrario dell'amore, alla volontà crea-trice e conservatrice degli esseri.

Quando noi parliamo dell'amore altrui, noi abbiamo riconosciuto la necessità, per legarci, di risalire al primo principio dei legami, a Dio che ci unisce. Ora, questo ricorso sempre necessario, qui lo è più che mai: In questa'radice occorre guarire il male dell'odio, occorre cambiare la dispo-s sizione fondamentale dell'anima, il suo orienfa-'. mento, il suo punto di vista. Vedere il prossimo fin Dio, vedere Dio nel prossimo, far risalire,.,alla. I' sua sorgente la carità disseccata o minacciata.-di-s rovina per rigenerarla : ecco il segreto.

Un nemico non è che un fratello misconosciuto; tutte le grandi paternità lo coprono; là natura

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e l'uomo, l'uomo e Dio, in lui, ci invitano e non

vogliono essere rinnegati.

Sarebbe un errore pensare che è migliore, in sé, amare i propri nemici che i propri amici; niente potrebbe giustificare un simile giudizio, visto che l'amicizia si fonda sul merito e la prossimità, e che il nemico come tale manca dell'uno e dell'altra; ma se questo amore non è in sé il migliore, esso è un segno migliore; esso prova meglio i nostri legami sovrani; esso suppone uno sforzo dell'anima, che noi abbiamo qualificato eroico, e non si vede proprio la possibilità di bastarvi senza guardare Dio. Non ci sono ragioni sufficienti; vi ci occorre una ispirazione; ispirazione fondata, certamente, ma che oltrepassa l'uomo.

Lacordaire metteva questa carità, con altre, tra le virtù che chiamava riservate, cioè proprie del cristianesimo. Egli osava sfidare « il Secolo » di trovare nell'uomo solo di che risalire a questo punto le chine istintive, di che stimolare a questo grado e .in maniera regolare generosità sempre pronte a cadere. Egli segnalava con giusta ragione nell'amore dei nemici una delle forme più meravigliose e per conseguenza più dimo-i strative del precetto nuovo, "as^i.

Una nobile donna diceva : « Io sento Dio in me, e se egli permette che ci si insulti, se egli tollera che ci si colpisca, perché dovrei io essere più sensibile di Lui ? » Quasi replicando, qualcuno scri-

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veva: «Lasciamo in Dio coloro che vi sono, e non pretendiamo di poter dire: Io odio quegli,

10 disprezzo questi, aggiungendo, poiché nessuno se ne può dispensare : Essi sono amati lassù. » Ecco l'occasione di attestare con un segno certo che

11 pensiero e il volere di Dio sono le nostre regole, che il suo cuore guida il nostro cuore : non lasciamoci sfuggire questo mezzo per rassicurarci nella sua presenza, e anche per pesare i nostri perdoni, quelli senza i quali noi siamo perduti,, e che hanno valore di condizione, come affermiamo noi stessi nel Poter.

(.(Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori)): si apprezza la divina insidia di queste parole? Perdonaci come noi perdoniamo, così come noi perdoniamo, nella maniera in cui noi perdoniamo, nel grado in cui noi perdoniamo, pere/le noi perdoniamo, dunque, allo stesso modo, se noi perdoniamo. Di modo che questa preghiera, nel caso in cui noi rifiutassimo il perdono, è il pronunciamento della nostra sentenza. « Non è affatto per mezzo della giustizia che ciascuno di noi troverà la sua salvezza;

noi preghiamo per ottenere clemenza, e questa stessa preghiera con la quale avanziamo la nostra richiesta, ci insegna che noi pure dobbiamo essere clementi. » (3)

(3) Shakespeare, II Mercante di Veneaitl. Atto III. 194

Se non perdoniamo agli altri, non abbiamo il diritto di perdonare a noi stessi. Il solo fatto che noi ci vendichiamo o che coviamo vendette prova che noi siamo i vinti dal male. Noi non sappiamo vincerci in questo : perché il prossimo si vincerebbe in altre cose? Vogliamo noi che altri siano eroi e noi restar schiavi dell'istinto? Quando vediamo con quanta fatica ciascuno riporta vittoria su se stesso, non dovremmo tanto meravigliarci delle cadute altrui, e il fatto che tali cadute riguardino noi non dovrebbe renderli ai nostri occhi ne più malvagi ne migliori.

In ogni caso, assolti o no dalla nostra coscienza, e se anche fossimo pronti a quella parzialità che desidera per sé le indulgenze e per gli altri i castighi, un tale verdetto non sarà confermato lassù. Come i benefici di Dio non sono per noi soli, anqhe i perdoni di Dio non sono per noi soli; essi sono comunicabili, noi dobbiamo farne partecipare anche gli altri; Dio ne giudica come del so-prappiù delle nostre ricchezze, del quale dobbiamo rispondere. I Padri della Chiesa hanno sem-^ pre detto : Chi tiene tutto per sé il superfluo è | un ladro; essi dicono anche con la Scrittura : Chi i tiene solo per sé il perdono di Dio è un assassino, j

Al contrario, se io perdono, io ho acquistato un nuovo diritto sia nelle spartizioni familiari del mio ambiente cristiano, sia nel perdono che è pure una parte della eredità; ho rinforzato i miei ce-

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lesti legami; ho trovato la mia filiazione; ho consacrato il principio di unità che ci stabilisce con il Padre e il Figlio, insieme, e l'amore, che è la nuova legge, la testimonianza della nuova alleanza, mi ha riconosciuto come suo suddito per la sollecitudine che ho della sua suprema richiesta, come a causa di un amico si ama il figlio di questo amico, pur se si fosse portati a detestarlo.

-¥- !

Spinoza osserva che se noi separiamo mentalmente un'affezione dell'anima dalla causa che la produce e la colleghiamo ad altri pensieri, l'amore e l'odio tendono a svanire, e le fluttuazioni dell'anima che ne procedono, si dissipano. Perché, egli dice, è il sentimento di quella causalità che crea la commozione e abbandonarlo vuoi dire smorzare tutto.

Resta da sapere se nel caso presente l'abbandono è possibile. Ma per il cristiano non solamente è una possibilità quella di collegare ad « altri pensieri » le offese che ci tentano all'odio, ma è un dovere. Non sappiamo forse che tutto ci viene da Dio? Non abbiamo forse riconosciuto che tutto in fondo avviene tra noi e Dio; che i nostri nemici, responsabili in ciò che li concerne e clienti del supremo tribunale, non sono al nostro sguardo che strumenti?

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Se l'ingiuria, come ingiuria, ci viene dall'uomo, questa medesima ingiuria, come avvenimento, viene da più in alto. Che io guardi più in alto, proprio io che ho il cuore che sussulta e si corrompe nel vedere l'uomo! La mia lagnanza è una verità, ma una verità secondaria, una verità da un punto di vista troppo immediato; cambiando prospettiva e guardando più lontano, portando tutto all'assoluto, io possiedo la verità eterna, quella che Gesù ha chiamato liberatrice.

Gli stoici avevano molto studiato la questione del punto di vista; essi assicuravano, prima di Spinoza, che l'effetto delle impressioni in noi dipende dalla nostra opinione sulla loro causa; essi ci invitavano a riformare questa opinione, nel caso anche ad abolirla. « Sopprimi l'opinione, dice uno di essi, e avrai soppresso ì'io son stato ferito;

sopprimi Yio son stato ferito, e avrai soppresso la ferita. » (4) Se tali espressioni paiono di primo acchito troppo sottili, riflettendoci sopra non si tarda a penetrarne il senso profondo. E il cristiano vi troverà l'indicazione di tré procedimenti pratici per calmare il suo cuore.

Il primo di questi procedimenti, puramente transitorio, insufficiente in se stesso, ma prezioso come tattica, consiste nello scartare il giudizio, nel dimenticarlo, lasciando che la mente a poco a po-^

(4) Epitteto, Manuale.

co si riprenda e si volga verso oggetti estranei al suo incubo. •

Si penserà che ciò è più facile a parole che a fatti; che è come dare a un condannato a morte il consiglio di dormire o di cantare una romanza. Ma le nostre inimicizie sono sempre così brucianti ? Il tempo non è forse un utile collaboratore? e molte preoccupazioni più alte, l'amicizia, il lavoro, non possono attirare l'attenzione della nostra anima?

Senza trascurare questo mezzo accessorio, si ricorra prontamente a quello che solo basta, e che può, senza variare nel fondo, rivestire una doppia forma. Noi ruminiamo la nostra umiliazione o la nostra sofferenza solamente dinnanzi all'uomo; proviamo a dire: essa viene da Dio; è un caso della sua misteriosa e tenera provvidenza; .è la mia esperienza del tempo sotto uno dei suoi aspetti, ne più ne meno insolito degli altri, altrettanto sopportabile, e, infine, altrettanto salutare.

Se l'uomo a nostro dispetto viene a intromettersi, pensiamo alla sua difficoltà di vincersi come alla nostra, pensiamo alla miseria comune che assume in lui la forma dell'intromissione e in noi quella del rancore, al valore della pace e dell'amicizia umana, ai mezzi di preservare questi valori a dispetto di tutto, al bene della generosità e della pazienza, alla gloria, alla dolcezza di vincere la malizia non con una contromalizia peccaminosa,

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ina con l'amore. Ecco nobili conseguenze, che si corroborano e si uniscono in questo : Dio, l'ordine che egli regola, e la sua suprema verità riguardo alla nostra vita.

L'altro procedimento, che sfocia nei medesimi fini e che utilizza in fondo gli stessi pensieri, ha per caratteristica una maggiore audacia. Essa sì applica quando, invece di fuggire, invece al tentare uno sganciamento per riprendermi, io punto sull'avversario, e cioè sul fatto stesso che causa il mio disordine e la mia tentazione. Prendendo tale fatto di fronte, penetrandolo non solamente in se stesso, ma nelle sue radici profonde, a che cosà vado incontro? A quel che precisamente io ricercavo per un'altra via : la fraternità sostanziale del cosiddetto nemico, la quasi fatalità dei suoi eccessi, che lo feriscono quanto me stesso, le mirabili possibilità di cambiamento, di ritorno, di amicizia rinnovata, di sublimità anche, nel desiderio di redimere e ricuperare il mio cuore.

Io trovo infine, fuggendo così in avanti, come dicono gli uomini di guerra, attraversando per così dire il caso e l'essere in cui è inciampato il mio cuore, la grande visione illuminatrice e trasformatrice di tutto : Dio, di cui la sovrana volontà e la benevola saggezza dominano quel che io temo, utilizzano quel che io soffro, e ne dispongono per piani incommensurabili che sono in accordo con il mio bene.

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« Tu non avresti nessun potere su di me, diceva Gesù a Filato, se non ti fosse stato dato dall'alto » : queste parole divine possono essere rivolte a ogni offensore, a ogni ingiuria e ad ogni violenza che ci colpisce. Lo sguardo in alto, l'affermazione intcriore del celeste primato, l'omaggio reso all'unico potere dal quale noi dipendiamo, e la fede indefettibile nella comune conclusione delle gioie, delle umiliazioni, delle sofferenze, degli amori e delle ostilità alle quali noi siamo sottomessi : è la luce che vincerà la notte dell'odio e l'inevitabile falso bagliore di un caso incompleto.

Se l'astio ci tiene, è unicamente perché prendiamo per totali considerazioni parziali, per evidenti e sufficienti nozioni confuse: una verità relativa ci assorbe e ci nasconde la verità suprema che è la verità dinnanzi a Dio e all'ordine eterno.

Tutti i rimedi che ci potranno suggerire, per vincere la collera e ritrovare la pace, non valgono che per mezzo di questo ritorno alla verità che libera. Là solamente è la sicurezza, perché il ricorso è allora improntato a una considerazione sempre vera, sempre fondamentale e sempre disponibile, a un aspetto delle cose il cui approfondimento non fa che accrescerne l'autorità.

Se l'offesa non fosse che offesa e il nemico nemico, occorrerebbe detestarli tutti e due, in no-

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me dell'odio al male e di un virtuoso amore di se stessi. Ma essi sono uomo, e in una certa maniera essi sono Dio. L'offesa è strumento di Dio; l'offensore è un figlio di Dio, chiamato da Dio, operaio di Dio e, lui pure, strumento di Dio. In tutto ciò l'uomo è molteplicemente fratello, è lo è in ogni occasione, poiché lo è anteriormente ad ogni condizione temporale, nel principio, al totale, e in vista del fine.

Ciò che ci è ostile nel nostro nemico, dice sant'Agostino, non è lui, ma la sua febbre : dunque, combattiamo la febbre e abbiamo cura del febbricitante. Alla febbre stessa, opponiamo un rimedio vero, non una facilità di contagio e un raddoppio certo di virulenza; guariamo la malattia con la salute e l'odio con l'amore.

Se è giusto dire che lo sbaglio, qui, e non il fatto penoso, il fatto provvidenziale, è il vero danno, il nemico merita la nostra pietà. Per lo stesso suo odio egli soffre un grande male, egli si espone a mali maggiori, Dio non voglia al male supremo. Anche solo per commiserazione noi dovremmo amarlo! Egli ne ha veramente bisogno! Noi dicevamo prima dell'odio che è un dolore trasformato, la reazione della pena, una violenza difensiva, se così si può dire; al di là della sua colpevolezza, esso è dunque una malattia. Il sedativo dell'amore ne sarebbe lo specifico, e sarebbe nobile, sarebbe dolce anche l'applicarlo.

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Felice chi ama, e più felice ancora chi spinge all'amore l'uomo che è preso dall'odio. « L'uomo che ti insulta, dice Villiers de l'Isle-Adam, non insulta che l'idea che egli ha di tè, e cioè se stesso » : l'uomo che mi odia e che non riesce a comunicarmi il suo odio, non ha per compagna che la sua inimicizia. ;,: : .

Chi sa se per giustizia, come per bontà, io non dovrei alleggerire il suo male! Il mio offensore, prima di essere il mio carnefice, non sarà stata la mia vittima? Non fu forse provocato? Non sarà forse il mio orgoglio, l'asprezza dei miei desideri, la mia parte di questo enorme e incoercibile amor proprio che in tutti spadroneggia, che avrà costretto per così dire quel cuore a detestarmi?

Noi ci assolviamo troppo facilmente; coscienti di non aver avuto, forse, nel caso specifico in cui l'incendio dell'odio è scoppiato, la responsabilità del sinistro, dimentichiamo volentieri che noi abbiamo lungamente accumulato le materie infiammabili, seccato le sorgenti e allontanato i soccorsi. La scintilla non viene da noi, ma la fiamma divorante rivela altre cause. Se mi si odia per questo, e se io rispondo con l'odio, io sono ingiusto due volte.

In ogni caso, colpevole o no, io devo sapere che nell'unità del Corpo di Cristo, io sono re-' sponsabile. Ciascuno risponde per tutti. Io ho dun-

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que l'incarico di guarire colui che per mia occasione, se non proprio per causa mia, soffre di un male così grave. Perché indignarmi là dove invece io devo soccorrere ?

Che dico? per gratitudine, in un certo modo, ho buone ragioni di venire in aiuto. Una prova è una grazia; se questo odio mi è penoso e se la mia fede sa vedervi un mezzo di formazione, di redenzione, di rassomiglianza gloriosa e feconda con Gesù Cristo; se un ritratto delle mie miserie mi è presentato, una prova delle mie insufficienze, un ricordo delle mie mancanze delle quali il nemico ha un senso così acuto e così utile, non sono oggetto di un prezioso favore?

Questo favore non è da addebitarsi al nemico come tale; al contrario. Dio condanna e minaccia questo strumento involontario della sua Provvidenza su di me; ma questo giudizio non mi concerne; tra me e Dio non ci sono che questi due termini: il bene fatto e il mezzo di cui Dio si serve.

Se i genitori non ci avessero generato per amore, il loro egoismo e la loro indifferenza ci esonererebbero forse dall'amore filiale? No; perché Dio è dietro di essi, ed egli riceverà quest'amore che-forse nessuno dei due merita. Allo stesso modo, avendo ricevuto da Dio attraverso un avversario il vantaggio d'una felice prova, mi conviene be-

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nedire Iddio dicendo : Guarisci, Padre degli uomini, lo strumento di questo dono.

Se, grazie a Dio, il malvagio non mi fa torto senza di me, io devo, a causa di Dio, lasciargliene il beneficio. Dio, che biasima il mio nemico, non mi biasimerebbe meno se lo giudicassi e, come conseguenza, gli rifiutassi il mio aiuto fraterno. Se egli non lo merita, Dio lo merita; che diventeremmo noi tutti se ricevessimo da altri o da Dio stesso .solo favori meritati ?

« lo vi dico: Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano e vi perseguitano affinchè siate figli del Padre vostro celeste, che fa levare il sole sui buoni e sui cattivi, sui giusti e sugli ingiusti. » (Matteo, V) II sole si leva su tutti, tramonta agli occhi di tutti con una gloria uguale, feconda tutti i campi e fa maturare tutte le messi. Se la natura non fa eccezione per nessuno; se Dio è il padre di tutti fino al giorno dell'ultimo giudizio, e se noi stessi, in querela costante con la giustizia, beneficiamo di questa inconcepibile pazienza, saremmo noi, anche solo lontanamente, simili al Padre Celeste, se non perdonassimo?

Un uomo giusto concede agli altri ciò che egli rivendica e di cui egli stesso gioisce. Veniamo perdonati: perdoniamo; veniamo sopportati: sopportiamo; il servitore della parabola, al quale il padrone ha rimesso il debito, e che salta alla gola

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del suo compagno per farsi pagare una somma irrisoria, provoca una giusta indignazione. Ma se anche noi non avessimo, come Dio, nulla da farci perdonare e sopportare, resterebbe l'attrazione e quasi il diritto del perfetto.

Siate perfetti... il Signore ce lo suggerisce come la cosa più naturale, la più conveniente, meglio ancora, la più necessaria, come la cosa che tutto semplifica. Dal momento che noi agiamo con astuzia, noi intorpidiamo la nostra vita, e, in materia di rapporti, noi ci gettiamo in complicazioni inestricabili. Mai si riuscirà a sapere chi ha cominciato. Tu mi urti, io rispondo per le rime, dimenticando l'urto e ricordando la risposta per le rime, tu contrattacchi: dove andremo a finire?

Non si arriva alla pace se non con lo sforzo disinteressato verso la rettitudine. Io farò del mio meglio a tuo riguardo; ma non esigerò che tu faccia del tuo meglio al mio riguardo; questa esigenza che si fa passare per giustificata è il principio di tutte le querele.

Non c'è che una scusa alla rivendicazione del diritto, ed è la volontà di compiere il proprio dovere; ma qui, non è ancora che una scusa. Non rivendichiamo niente, camminiamo rettamente. Veniamo feriti: perdoniamo; veniamo provocati:

racchiudiamoci in un atteggiamento di dolcezza; un uomo si dice nostro nemico: desideriamo

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e prepariamo la cessazione dell'inimicizia, poi il bene dell'uomo ridiventato amico. Offriamo a tutti un viso eguale, un aiuto quieto e buono, adattando tuttavia la nostra azione alle circostanze diverse perché la dignità e la prudenza non abbiano meno soddisfazione dell'amore.

La nostra vita in comune come cristiani esclude le battaglie. Se ne scoppiano momentaneamente, crediamo a sant'Agostino quando ci dice, esprimendo in una sola frase il sentimento della nostra debolezza e il desiderio del nostro progresso:

« Non abbiate querele oppure esse finiscano con prontezza. »

« Che il sole non tramonti sulla tua collera », dice l'Apostolo. (Efesini, IV, 26) Sospesa dal sonno e ripresa con il giorno, la collera, senza grave forza se essa fosse passeggera, sembra farsi eterna, prendere un carattere decisivo, stabilito, consacrato da una volontà formale, e ciò è grave.

Una commozione del cuore è poca cosa; ma non la sua caduta. Non leviamoci per un giorno nuovo con cuore malvagio; non cominciamo una vita di ventiquattro ore — parte notevole di destino, immagine del destino eterno — fuori dei principi di vita. Che la ripresa del nostro cammino non sia fuori della strada di Cristo.

Poiché camminare lontano dai nostri fratelli è chiudere il nostro stesso cammino verso Dio, te-

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niamoci uniti, e facciamo per questo i sacrifici necessari; al bisogno andiamo oltre; a colui che ci colpisce s.ulla guancia destra, tendiamo la sinistra; a colui che vuole la nostra tunica, regaliamo anche il mantello, e se qualcuno vuoi obbligarci a far con lui mille passi, facciamone due mila. Siamo perfetti come il nostro Padre Celeste, per non finire troppo lontani da lui.

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Prefazione. ............. pag. 5

Avvertenza dell'Autore ........ » 9

L'AMORE SUPREMO .... ........ II

L'AMORE VIRTUOSO .DI SÉ ......... 43

il PIACERE E IL BENE .......... 65

la SOFFERENZA BEATA E MALEDETTA . . . . » 

gli ALTRI .............. 125

I PREDILETTI E IL PROSSIMO . . . . . . . » 153

Lp NOSTRE AVVERSIONI .......... 183

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