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A. D. SÈRTILLANGES

IL PENSIERO

"LA SCUOLA,, EDITRICE

Titolo originale dell'edizione francese:

NOTRE VIE - LA PENSÉE

Traduzione di TARCISIO FORNONI

NIHIL OBSTAT M. S. GILLET,

IMPRIMA TUR Can. ANGELUS BERTELLI V. G Brixics, 20 Juna /^//

PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA Società Editrice "La Scuola,, - Brescia - 1955

IL PADRE A.D. SERTILLANGES

l/a memoria del P. Antonino D. Sertil-langes sarà raccomandata alla riconoscente ammirazione di infinite anime come quella d'un meraviglioso armonizzatore del pensiero con la vita, e soprattutto come d'un sapiente distributore di quelle dovizie di luce intellettuale di cui aveva prodigiosamente arricchito il suo spirito.

E' stato detto da molti della sua bontà ed esemplarità religiosa, del suo zelo e dell'altezza della sua vita morale. Qui, sulla soglia d'un'opera nata fra i giovani e a loro destinata, giova portare l'attenzione sull'altro aspetto della sua fisionomia, la singolare sua prerogativa di pedagogo alla scoperta della verità.

A vent'anni (era nato a Clermont-Ferrand il 17 novembre 1863), aggregatesi alla famiglia di S. Domenico, fra la generazione di religiosi che quasi avevano ancora nell'orecchio la voce del grande confratello P. Enrico Lacordaire,

di lui parve continuare l'eloquenza e la dottrina, e ereditarne la -passione per la ricerca intellettuale con l'ardore giovanile della conquista di anime. Al termine di lunghi studi, le sue notevoli capacità vennero impiegate nell'insegnamento e nella predicazione: m queste attività duro tutta la vita.

Nel 1893 fu nominato segretario della Revue Thomiste; dal 1900 al 1918 tenne la cattedra di filosofia morale ali' Institut Catholique, del quale divenne membro. Dopo vicende amare che lo costrinsero a una specie di esilio, confortato tuttavia dall'affetto di tanti confratelli e figli spirituali, nel 1928 fu destinato al convento di Le Saulchoir — centro di studi e di alta spiritualità — e vi trascorse un decennio, per tornare poi definitivamente a Parigi dove attese fino alla morte al lavoro di studi, pubblicazioni e predicazione.

Il curriculum della sua vita potrebbe essere facilmente ricostruito attraverso la sua ingente bibliografia, che va dai grossi volumi di filosofia ai libri di meditazione, di volgarizzazione apologetica, ai numerosi articoli di rivista: scritti maturati nel lungo periodo di insegnamento e nella direzione spirituale, al contatto di problemi sollevati dalle anime gravitanti attorno alla sua cattedra e al suo confessionale. Poiché non fu certo, il P. Sertillanges, un astratto e arido speculativo, anche se la profondità d'ella dottrina si rivela assai

nella sua imponente opera scientifica. Egli ebbe in maniera tutta singolare il dono di saper cogliere le voci e le vibrazioni delle intelligenze e i bisogni delle anime, con l'ansia di risolvere i problemi più appassionanti dell'ora nell'insostituibile luce del messaggio di Cristo. 

Pochi come lui, fra gli apologisti e i maestri, prestarono attenzione e mostrarono simpatia per ogni voce e scritto, per ogni. sincera espressione di travaglio spirituale, da ogni parte venisse: da 'filosofi e poeti, da romanzieri e artisti, da quanti sentiva e giudicava esponenti di pensiero o di opinione pubblica o di indirizzo morale e politico. Anche per questa ragione i suoi scritti risultano vivi e caldi di così intensa umanità, di cosi sofferta esperienza, da trovare grata accoglienza in ogni anima aperta al vero, anche se ancora lontana dalla rivelazione di Cristo.

In tale benevola accettazione di tante voci di sì diversa provenienza sarebbe errato ravvisare un disordinato eclettismo o tanto meno ma posa snobistica, in lui che aveva consumato anni nello studio e nell'insegnamento sistematico del pensiero tomistico. Fra le prime opere d'impegno emerge il poderoso Saint Thomas d'Aquin (1910) e La philosophie morale de Saint Thomas d' Aquin (1916), e fra le ultime, ancora di notevole mole, merita di essere segnalato Le Christianisme et les philosophies (tr. italiana, 2 voli., Morcelliana, Brescia, 1947-1948). Ogni suo lavoro del resto rivela abbastanza quale concetto e venerazione egli avesse della speculazione filosofica e teologica cattolica, e come il suo pensiero fosse ancorato a principi di sicura ortodossia.

Ma il suo sforzo e il suo vero impegno era costantemente di tradurre in termini moderni e di presentare in veste di perenne modernità il messaggio cristiano, di comporre cioè e di conciliare gli argomenti della apologetica tradizionale con le ragioni del cuore, espresse da ogni generazione con sempre nuovo linguaggio. « S. Paolo — soleva dire — non conosceva che una cosa : Gesù Cristo e Gesù Cristo crocifisso. Contentiamoci di questo, è sufficiente; ma non è proibito di spiegarlo. S. Paolo lo faceva bene: lo faceva per il suo tempo. Facciamolo per i.l nostro. »

Quest'opera, che ora vede la luce per la prima volta in Italia (e che, composta nel 1926, non ha perso nulla della sua freschezza e attualità}, e fra le pia espressive di questo suo proposito, durato tutta la vita e percettibile in tutta la sua molteplice produzione. Nato nel raccoglimento e in momenti dolorosi per l'autore, questo libro reca riflessi di conversazione con anime in cammino verso la luce, di ripensamenti di problemi vivi, di gioiose esplorazioni nel mondo soprannaturale, distinto sì, ma sorprendentemente vicino al mondo

naturale, accessibile, permeante ogni aspetto del cosmo e della vita.

Una visione armoniosa dell'universo, del proprio io, dei rapporti fra gli uomini e con le realtà circostanti; una interpretazione e una soluzione dei problemi della vita nella luce della Rivelazione. Forse qualcuno potrebbe ravvisare in questo libro un felice e prezioso compendio di altre opere sue di maggior mole e impegno, assimilabili talvolta soltanto a, una cerchia ristretta di intelligenze abituate alla speculazione.

Senza dire poi che qui — come in tanta parte dell'opera del P. Sertillanges — predomina un interesse pedagogico, una cura sollecita di accostare anime giovanili per condurle e immergerle nel pieno della luce, prima che l'errore o soltanto l'indifferenza abbiano a sterilire o vietare ogni nobile sforzo di ricerca. 

Si sa quanto bene gli volessero i giovani e di quante anime giovanili fosse popolata la sua operosa giornata. I corsivi della Revue des' Jeunes (i Propos che apparivano, sotto lo pseudonimo di Senex, a puntualizzare regolarmente avvenimenti freschi e personaggi vivi) e i libri di meditazione e di saggistica religiosa (La vita cattolica, tr. ital., Queriniana, Broscia; Meditazioni, Doveri, Affinità, Spiritualità, tr. ital., Morcelliana, Broscia), fino all'estrema sua fatica, furono incessantemente rivolti a intelligenze e cuori di giovani, ai quali

sempre il dotto domenicano serbava il meglio del suo spirito. 

Così avverrà che, quando alcuno prenderà in mano i suoi scritti (e i più, come questo, soprav-viveranno all'usura del tempo, come le rare opere ispirate dal gemo e cresciute nell'amore), nello scorrere quella parola calda e suasiva, nel sentire quel pressante ma dolce incalzare di domande e questioni, e nel cogliere le sve soluzioni serene e asserenanti, non avrà difficoltà di immaginare lui, il dotto e pensoso domenicano, come un giovane amico a cui si apre volentieri il cuore e al quale non si teme di affidare i più gelosi segreti dell'anima.

A sottolineare e a gradire quell'apostolato intellettuale rivolto alla gioventù, volle certo il Signore che quella nobile esistenza avesse fra i giovani il suo tramonto, quasi con loro conversando, o meglio concludendo una già lunya conversazione con una parola scritta per loro in limine vitae.

'Nell'estate del 1948 il P. Sertillanges — ormai ottantacinquenne—-si trovava ospite di un pensionato giovanile a Sallanches, nell'Alta Savoia, e il 2.6 luglio avrebbe dovuto celebrare la Messa e rivolgere la parola ai giovani nel giorno di S. Anna, a cui era intitolata la casa. A-tìpena alzato penso di aggiungere qualche parola al fervorino già preparato. Ma si sentì venir meno e si distese ancora sul letto. Sullo scrittoio intanto era fresco d'inchiostro il suo testamento dettato ai giovani, a quelli e agli altri:

Su queste semplici parole fermò la sua mano e chiuse gli occhi sereno. Il Signore, verità cercata e amata, lo stava già certamente inondando della sua luce e saziando della sua gioia.

antonio cistellini

AVVERTENZA DELL'AUTORE

« Tré Cose — dice S. Tommaso — deve conoscere l'uomo per salvarsi: i) ciò che deve credere; t) ciò che deve desiderare e amare; ^.infine ciò che deve fare.-» Da queste parole e nata l'idea del presente libro (*) e l'autore stimerà giustificata e appagata la sua aspirazione se avrà potuto indurre alcune anime a orientare con più ardore vedute, aspirazioni e sforzi verso la vera vita,

(*) Quest'opera di A. D. Sertillanges è stata edita in lingua francese dalla Revue des Jeunes nel 1926, col titolo notre vie, raccolta in due volumi e divisa in tré parti : La pensée, L' amour, I-,' actìon. L' edizione italiana appare invece in tré volumetti, dedicati appunto alle singole parti.

IL SENSO DELL'INVISIBILE

±erchè mai d'ordinario trascuriamo i fatti più importanti della vita umana quasi fossero futilità degne di disprezzo ? Perché a quei due estremi, che sono il tutto e il nulla, nel nostro pensiero e nella nostra azione tocca la stessa sorte? Dovremo dire con il Pascal che ci troviamo perpetuamente in medio e non ci possiamo adattare agli estremi? Siamo forse affetti da una cecità e da un'insufficienza mentali così inquietanti da riuscire a opprimerci?

A ben rifletterci, la nostra condizione fa paura. Circondati di abissi da ogni parte, con l'infinito che si spalanca dovunque si volgano i nostri sguardi e i nostri passi, assediati dall'immensità e dall'eternità, noi ci troviamo a turbinare prodigiosamente negli spazi unitamente al nostro piccolo pianeta, senza sapere dove andiamo, costretti a un drammatico viaggio anche durante il sonno. Molti millenni stanno dietro a noi e di più ne verranno. Gli avvenimenti passati e gli avvenimenti futuri con la durata del tempo compongono un dramma di cui la nostra vita partecipa fino a diventare, nonostante la sua apparente brevità, una storia senza fine.

Alcuni di questi fatti contengono tutto il divino e tutto l'umano, e ce ne fanno partecipi. Il mondo dello spirito, che si libra negli spazi della durata e dell'essere, ci avvolge e c'incalza, preparandoci un ingrandimento, una liberazione tali da toglierci a tutto quello che costituisce l'eterna tragedia dell'uomo : caducità, pochezza della vita, sofferenza, separazioni, fatalità, impotenza, morte.

E noi non solamente restiamo insensibili a questo invito dell'ineffabile, ma in pratica consideriamo come inesistente proprio ciò senza il quale tutto non vale nulla.

Siamo immersi in puerili e momentanee occupazioni; ci divertiamo in cose da nulla; sotto il firmamento stellato, che ci avvolge come uno scintillante padiglione, ci basta attendere a una conchigliuccia; le leggi cosmiche cedono per noi a minuscoli avvenimenti; le supreme finalità si velano perché la nostra incoscienza persegue meschinissimi scopi. Nell'infinito dei tempi, che tutti hanno un valore per noi, a malapena riusciamo a distinguere l'ieri e il domani; e questo ieri e questo domani, avulsi dal resto, perdono il loro senso e il loro valore.

Una prova evidente di malattia, fisica o mentale, è il non sapersi adattare. Chi non è riuscito ad adattarsi è un anormale, in una creazione dove tutto sussiste per un mirabile collegamento e per un sistema di reciproche relazioni.

Che cosa pensare di uno spirito, il quale praticamente ignora ciò che ha in sé di più intimo e di più vivo, le sue relazioni più elevate e i suoi fini più importanti, che perde tempo, che s'immerge in quello che appare e svanisce, trascurando ciò che è, col pretesto che ciò che è non si vede, non si sente, come se lo spirito fosse stato creato per ciò che è visibile e sensibile?

In questo solo fatto, per poco che lo si voglia analizzare, ci sarebbe una prova sufficiente della caduta originale. Il nostro spirito è sviato, è un « mostruoso prodigio », direbbe il Pascal; esso sa far bene la propria parte riguardo al meno necessario e se ne sta inerte davanti all'essenziale, fino a far dubitare del suo potere.

Ciò non di meno tutti quanti riconoscono, all'occasione, che la vita naviga nel mistero. Mentre la nave avanza, l'uomo prende contatto con la vastità del mare stando sotto coperta. Ma che il tempo si metta a burrasca, che inquietanti cigolii si facciano sentire nella carena, che un uomo caschi in mare, o che un cadavere venga silenziosamente sospinto dallo sciabordio delle onde : questo basta perché si frema e si provi il senso dell'abisso.

Un cataclisma, una morte, un avvenimento grave e imprevisto, un sentimento profondo, una scossa che sposti la maschera del destino e ne lasci scorgere il volto: ed eccoci subito staccati dai problemi della vita quotidiana, e ciò che era stato dimenticato riappare e le grandi cose rivivono e la grande realtà riprende il suo valore.

Capiti un uomo che abbia saputo oltrepassare lo strato dell'illusione, venga un oratore la cui parola sia parsa lacerare un velo e risvegliare misteri dormienti : e allora noi impallidiamo, come davanti a una folgorante apparizione.

Sappiamo che esiste l'ignoto, che l'Essere immenso e formidabile esiste, sappiamo che il loro messaggio può essere letto e che questo messaggio contiene, unitamente a possibili minacce, parole di vita; crediamo alle solenni dichiarazioni che di essi ci sono state fatte; siamo pronti a infiammarci davanti a ogni manifestazione, anche parziale, della loro maestà; e tuttavia, eccettuate poche anime, eccettuati rari momenti, tutti ricaschiamo nella dissipazione che praticamente annulla il misterioso al di là.

Sembrerebbe di sfuggire all'ordine umano se si tentasse di sfuggire a questa incomprensibile pazzia. Chi è infatti il santo se non un uomo straordinario solo per il fatto che si è messo in una stretta relazione con l'invisibile e ha fissato la sua dimora là dove gli altri rimangono solamente per troppo brevi istanti? Ciò che noi proviamo sotto l'impressione di un fatto sovrumano, colpiti da improvvisa meraviglia, continuamente viene sperimentato dai santi, i quali, esplorando la vita nelle sue profondità, trovano in essa quello che ai nostri occhi viene illuminato solo dalla fiaccola della morte; essi continuamente avvertono il soffio dell'infinito che avvolge il creato, come gli alisei che spirano benefici sulla cintura del globo terracqueo. Dio passa, ed essi inchinano davanti a lui il loro pensiero e il loro cuore, gli consacrano la loro azione, come Abramo offrì tutti i suoi beni agli ospiti celesti. Ciechi per il nulla che invece attrae a sé tutti i nostri sguardi, i santi sono i chiaroveggenti dell'essere, colpiti dalla divina follia che rende estranei alla realtà inferiore per gettare lo spirito nelle divine realtà : essi sono gli insensati del tempo. Ma perché l'eternità cinge di un'aureola la loro fronte, e nei loro occhi c'è un abisso di luce, l'umanità li invidia e vorrebbe aggrapparsi al loro destino per sollevarsi dal suo.

L'invincibile attrattiva che Gesù esercita sugli increduli non è forse una conferma di questo fatto? La personalità notoriamente più sublime che sia mai apparsa sulla terra, com'essi dicono, non è forse tale per loro perché spira un sentimento immediato del divino? La trasparenza perfetta della vita dell'uomo agli occhi del Figlio dell'Uomo; l'intuizione continua, dietro ad ogni realtà transitoria, del sostegno eterno che la sorregge, la consacra e la trasfigura; la concezione dell'universo come regno di Dio, emanazione del suo spirito, campo della sua opera e speranza del suo amore: non è forse questo ciò che trattiene su questa Persona, unica fra gli uomini per la sua grandezza, ogni pensiero che si sia fermato anche un solo istante sopra di essa? Da ciò si vede come sbagliano quei predicatori che trascurano di riallacciare senza interruzione il proprio insegnamento a Colui che ne incarna l'oggetto e lo rivela nella sua pienezza. Il Ciclo è negli occhi di Gesù; non c'è che da farlo vedere in essi, invece di sciorinare le nostre elucubrazioni, a rischio di non predicare che noi stessi.

C'è senza dubbio, oltre ai santi e al Santo dei santi, una categoria di persone illuminate, coscienti, competenti e stimate, capaci di accostarsi ai lidi oscuri le cui tenebre sono fatte di luce eccessiva: sono gli «intellettuali». Costoro sanno tutto e ragionano di tutti; non dimenticano alcun fatto; non trascurano nessuna conseguenza; riducono nei loro schemi, con arte, l'infinito e sembra che abbiano assidua familiarità con quello che il volgo lascia da parte. Ma se essi non sono che degli intellettuali, in verità la loro superiorità sul volgo si riduce a ben poca cosa. Essi sono gli artefici del concetto; e ciò che il concetto racchiude o dovrebbe racchiudere, come la gluma il chicco di grano, può restare sconosciuto a loro così come agli altri, anzi a loro magari anche di più, a causa dell'orgoglio che talvolta tiene chiusi, negli angusti confini della loro meschina personalità questi che la pretendono a pescatori di stelle.

Di fronte all'invisibile vivente, il concetto vai poco o nulla; ciò che importa è l'intuizione vivente essa stessa e tendente ad agire. Meno conoscenze astratte e più discernimento; meno pensiero puro e più vibrazione d'anima; meno vivisezioni del reale per includerlo nelle definizioni, e più contatto unificante per mezzo dell'ispirazione: questo sarebbe augurabile. Ma l'intellettuale si accontenta di parole che mette in fila al di dentro e fa risuonare al di fuori, trascurando o disdegnando di diventare uno spirituale, il che è tutt'altra cosa.

Il vero saggio è tuttavia il fedele dello spirito; l'intellettuale puro non è che un dotto. Il filosofo e il teologo potranno bene analizzare e creare sistemi in ogni materia umana e sopraumana; avranno un bei da fare, accostandosi all'essenziale, a indagare minutamente ciò che si riferisce all'idea di Dio e a tutto quello che ha relazione con essa; potranno notare i fatti in virtù dei quali Dio è per noi il principale dei personaggi storici, scoprire e provare la sua eternità sotto il velo del tempo, la sua immensità sotto il finito e il suo Essere dietro all'essere, ma non avranno fatto nulla se non avranno acquisito e imparato a comunicare il senso di queste cose.

La divinità di tutto e la presenza di Dio in tutto : che cosa significano queste parole ? Se non si tratta che di un'espressione metafisica, tanto vale un teorema di Maxwell sulla distribuzione dell'energia o una formula di Einstein sul tempo. Ma in pratica utilizza l'idea delle comunicazioni di Dio e della presenza di Dio chi comprende che tutto il nostro essere e tutti i nostri oggetti trovano in Dio la loro prima relazione; che noi non possiamo avvicinare nulla e neppure noi stessi ne trattare validamente con nulla e nemmeno con noi stessi senza partecipare a un sublime convegno, senza entrare in relazioni divine e fare un'opera santa che dovrà venire santamente concepita, santamente condotta e santamente portata fino al termine.

Così Dio è eterno, Dio è immenso, Dio è l'Essere primo: tutto ciò significa in pratica, che tutti i nostri istanti sono collegati a una durata indefettibile e ne possono utilizzare l'ampiezza;

che i nostri nulla dipendono dal Tutto e ne debbono godere la ricchezza; che il nostro minuscolo io è figlio ed erede permanente dell'Io unico comunicato, dell'Uno che agisce al di fuori, cosicché la nostra vita è realmente divina, se noi attingiamo a quella profonda sorgente che in noi e in tutto è la più reale sostanza.

Avviene così in ogni cosa. La scienza salva-trice consiste nel sentirci, e non già solo nel dirci, associati a un'immensa avventura divina, parti-celle solidali di un tutto formidabile e sacro, di cui dobbiamo captare l'influsso vivificante, dopo di essere! ad esso donati con piena coscienza e con fervida sottomissione.

Oh! come la nostra vita sarebbe mutata se ci stabilissimo in spirito una volta per sempre in questa meravigliosa realtà!

Io m'immergo, fino ad estasiarmi, nel pensiero che Dio è qui, presente in ogni oggetto che mi circonda; che tutti gli esseri sono sua emanazione, che tutte le leggi sono sua volontà, che ogni fatto è sua azione, ogni spazio suo possesso, ogni durata sua vita, ogni mistero un segreto del suo amore, e io, che comprendo queste cose, il rappresentante del suo spirito per un'opera associata alla sua.

Eccomi nel cosmo divino. E chiuderò gli occhi, come viaggiatore che dorme mentre attraversa un meraviglioso paesaggio ? Terrò per me solo un complesso di piccoli fatti, di meschine realtà fuggitive, di povere creature mortali, in mezzo a cui io cerco di costruirmi una felicità secondo la mia misura? No; io avrò un'idea più elevata di quella fornace di vita che risplende come un permanente richiamo per ciò che è effimero. So bene che si tratta del regno dei celi, di una famiglia in cui il mio Dio è il Padre, gli spiriti e le anime sono i figli, le grandi leggi morali e religiose sono il codice familiare e le forze fisiche le serventi.

Contrarie apparenze possono venire a turbarmi e l'incoscienza può venire a velarmi ciò che la ragione e la fede mi fanno conoscere: non sono che un fragile pensiero, lo so, ma non sono ciò nonostante figlio del Pensiero creatore e di più usufruttuario delle sue manifestazioni? Io voglio guardare come guarda e giudicare come giudica Colui che mi ha parlato e che si riflette nella mia anima pensante.

Io vedo uscire tutto da Lui come il paesaggio esce dalla luce quando, al mattino, il sole fuga la notte e le toglie il dominio del mondo. Vedo l'Essere immensamente comunicato che resta uno e sacro per la sua origine divina, per la sua provvidenziale azione e per il suo scopo. Vedo Dio non confinato ad altezze inaccessibili in un'ignota lontananza o intorno all'immenso giro della ruota universale, ma immanente a tutto, dappertutto « mescolato alle sue opere », come dice sant'Agostino, e in tale prossimità che nulla mi è così prossimo come quest'intimo Creatore.

Io contemplo, intorno a lui, innumerevoli miriadi di spiriti, illusione per gli occhi corporei e per il pensiero ribelle, ma per la fede meditata realtà prima che trae a sé, ben lontano da questo piccolo groviglio di materia vibrante, il centro di gravita dell'essere.

Secondo alcuni la materia è tutto, la vita non è che una muffa e lo spirito, in questa muffa, un fermento di più; ma io so che la materia è un limite inferiore dello spirito, un trascurabile residuo, un nulla, e che lo spirito la soggioga. L'umanità, nella sua piccolezza, è grande proprio perché accede al mondo dello spirito puro; è piena di speranza perché lo spirito la chiama, l'attira, l'assiste, e perché un giorno dovrà unirsi ad esso.

Vedo questa meravigliosa natura di confine contesa fra l'alto e il basso, fra lo spirito e il corpo, mentre il dramma della salvezza risulta da questo strano litigio che lascia sul suolo molti che dovrebbero invece trionfare. Dio regola la sua azione conforme a tale condizione contemporaneamente ricca e miserabile : in parte nell'intimo per guadagnare lo spirito, in parte all'esterno per aiutare e utilizzare la carne. L'Incarnazione corrisponde appunto a questo pensiero; la storia prepara l'Incarnazione, la riceve e ne usufruisce; la Chiesa visibile e invisibile la prolunga; l'Eucarestia misteriosamente la riproduce e l'applica; gli altri Sacramenti ce ne distribuiscono i frutti secondo le nostre necessità; la grazia ne è l'effetto in ciascun'anima, e la comunione dei santi ne è l'effetto come unità del Corpo Mistico in cui Gesù trova la sua piena realtà.

Tutto ciò, nel suo spirito per lo meno e nel suo tutto per la maggior parte, è l'invisibile; dalla sua pura luce i miei occhi carnali rimangono abbagliati, ma i miei occhi interiori la vedono e, con l'aiuto di Dio, non mancherò di trame le debite conseguenze.

Infatti, se l'invisibile è per noi l'essenziale, non sarà necessario che tutta l'azione si colleghi con esso e che la vita vi trovi la propria regola per ogni istante delle sua durata e in tutte le direzioni del suo cammino? La nostra prova consiste proprio nell'andar così a tastoni verso ciò che non vediamo. Alla luce attraverso le tenebre, a Dio seguendo la sua traccia nelle nostre vie, allo spirito, che ci fa dono di sé, attraverso la materia :

questo è il nostro destino; ma, se noi vogliamo, per mezzo della prova arriveremo alla ricompensa, come pure, se non vorremo, per la nostra infedeltà precipiteremo nella rovina.

Ciascun atto della vita ha nell'invisibile un effetto immediato, sia che ne applichi o ne offenda le leggi, sia che ubbidisca o disubbidisca a ciò che è, sia che onori Dio o ne deprima la gloria; sia che si collochi nella direzione dei fatti che la Provvidenza ha predisposti, di quelli che prepara, di quelli che dirige al momento stesso in cui l'atto si compie, sia che lì avversi. Con ciò l'uomo si concilia o si aliena l'ordine universale;

con ciò egli rivolge al Capo supremo un irresistibile invito a sanzionare con il premio o con il castigo il suo operato e non ci si dovrà stupire se, all'ora stabilita, da quest'ordine a effetto ritardato, che la nostra miopia colpevole sfida con insolenza, scatterà fuori un'energia che opprimerà l'offensore.

II Destino divino è così una specie di fatalità in cui la libertà stessa s'incatena per ubbidire alla legge delle cose. Da principio la libertà è sovrana;

ma, una volta esercitata a vantaggio di un ordine, essa diventa fedeltà, da cui uscirà giustizia piena. In questo senso è stato detto che « Dio stesso non può fare del bene al peccatore»; ma, a più forte ragione, Dio non può far del male o tralasciare di far del bene all'anima del giusto, Le ricompense lassù sono come la soneria dell'orologio, che batte imperturbabile i suoi colpi appena la molla ha messo in moto il meccanismo ad hoc.

Che cosa farò-io dunque, se il senso dell'invisibile avrà destato il mio cuore? Sentendo di comunicare con l'azione di tutti gli esseri, con l'azione di Dio, principio, legge e fine, collocherò la mia azione nella linea ascendente e le imprimerò una traiettoria sicura. Un'azione retta è quella che procede diritta dal punto di partenza al punto d'arrivo, tra ciò che è e ciò che dev'essere in conseguenza di ciò che è. Tutti i tempi hanno preparato quest'azione e la sospingono; tutto lo spazio fa centro su di essa assegnandole un posto adeguato; tutti i figli di Dio, miei fratelli, solidali con me, tutti gli spiriti che mi stanno d'attorno, attendono la mia collaborazione in quella forma felice che deve favorire la fraternità e servire ai fini comuni. . ^?-a

Negherò io il mio contributo? Una vita retta sarà la mia risposta a tale invito universale e benefico. Sarà mia guida l'invisibile, perché l'invisibile è il vero, il grande, il buono, il salutare, mentre il visibile è limitato e perituro.

Su quest'ultimo io chiuderò gli occhi in saggia misura, per ridurre alla giusta proporzione l'importanza ch'esso deve conservare. Ciò mi obbligherà a non poche rinunce, dato che io procedo dal visibile in tutto quello che ho di terreno e che, appunto per questo, tendo al visibile; ma, come pensavano gli antichi Ebrei, non si può vedere il volto di Dio senza morire. Morire a se stessi e a questa vita di morte è proprio la condizione per entrare e restare nella vita eterna.

Quanto è nobile la nostra vita, e noi non lo sappiamo ! Tutto è grande in essa, tutto è sublime, poiché tutto è di Dio, con Dio e per Iddio; tutto è buono della stessa bontà di Dio, poiché tutto è opera sua, suo strumento, sua speranza, supposto il nostro appoggio, e per la nostra felicità. Fi-sicamente siamo dei pigmei, eppure la terra non ha prigione alcuna che possa trattenerci lontani dall'immenso: nessun muro divisorio può essere innalzato tra noi e ciò che vi è di più grande. Ciascun essere ha per sé l'invisibile divino come se, per assisterlo, Dio ritirasse la sua provvidenza dal mondo; e Dio guida la sua provvidenza come se ogni essere dovesse goderne l'esclusiva e trionfante azione.

Noi siamo in Dio e in tutto come una pianta nella terra, e questa nostra pianta cresce contemporaneamente per natura, per grazia e per libertà, mentre la libertà guida la natura, occorrendo la raddrizza, corrisponde alla grazia e le permette così di rendere feconda la terra.

Nessun limite quindi è posto alla nostra grandezza; e nessun confine di tempo, di valore, di spazio può circoscrivere la nostra felicità.

II motto d'Oxford è : Dio è la mia luce, mi piace coronare con questa bella massima la conclusione delle nostre prime osservazioni. Se il vedere le cose secondo Dio e il captare, a questo fine, l'invisibile è il segreto per orientare sapientemente la nostra vita, conviene mettersi in condizioni tali che ci permettano di sviluppare in noi questo senso dell'invisibile.

E' indubitabile che alcune disposizioni naturali ci sono in questo d'aiuto. Si è meditativi o no, secondo le forme e le direzioni del pensiero spontaneo, che in certuni va tutto all'azione immediata, mentre in certi altri si ripiega su se stesso e si eleva. Inoltre può intervenire una chiamata della grazia, da considerarsi come uno sforzo di Dio per ricondurre a sé la sua dimentica creatura. Ma, come abbiamo detto dianzi, la natura e la grazia sono vincolate alla libertà e non possono far a meno del suo concorso. Ci rimane dunque da chiederci di quali mezzi disponga la libertà per ottenere o per sviluppare il senso dell'orientamento verso le altezze, il « sesto senso » che abitualmente ignoriamo.

Confesso che mi trovo esitante a indicare il primo di tali mezzi, perché temo che mi si dica:

Tu pretendi che si arrivi prima di essere partiti, e le tue vie sono al di là della meta a cui si tratta di pervenire. Infatti, le apparenze sonò favorevoli a tale obiezione, perché il mezzo essenziale di cui io parlo non è altro che una santa vita. Paradosso o circolo vizioso? Ne l'uno ne l'altro. Vi sarebbero ambedue se

qui si prendesse l'espressione « santa vita » in senso assoluto e la si proclamasse necessaria per acquistare in qualsiasi grado il senso dell'invisibile. Ma è chiaro che tale non è la nostra pretesa.

Si tratta di due cose che, sotto diversi aspetti, sono mezzo l'una all'altra; e se è cosa certa che la visione è l'inizio, non è meno certo che il suo sviluppo richiede quello dell'azione, come è provato da innumerevoli esempi della vita quotidiana. Il giudizio che guida le arti non è forse il risultato dell'esperienza?, e l'intuito scientifico non cresce forse con le scoperte, che sono il frutto di un appassionato lavoro? Lo stesso avviene nella vita spirituale: la giusta visione delle cose è la ricompensa della nostra rettitudine interiore. Dimmi chi sei e ti dirò quello che vedi. Non è forse questo per davvero il senso più immediato, anche se non il più profondo, della massima evangelica: Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio ?

Questo pensiero tornerà così frequentemente nelle pagine seguenti da rendere mutile che vi ci indugiamo ora; era necessario però presentarlo subito, perché se Dio si nasconde ai nostri sguardi, ciò avviene non tanto a causa del suo mistero quanto a causa della nostra materialità, lenta a fare verso di Lui, sulla strada del bene, i passi necessari. Chi fa la verità viene alla luce. Dio non si nasconde, in realtà, che nel suo splendore!

Il senso dell'invisibile s'acquista, dunque, ò-gni momento, mediante l'impostazione generale della nostra vita cattolica.

In tale complesso, gli atti di culto con cui adempiamo ai nostri doveri verso Dio contengono specialissime grazie di luce perché ci avvicinano alla Luce vivificante; per essi noi siamo immersi — se così possiamo dire — in un bagno spirituale di sole, il quale corrisponde al nostro omaggio all'Eterno Splendore. Anche di questo riparleremo; ma è utile che ora accenniamo brevemente a quello che viene comunemente stimato come il mezzo specifico per svegliare in noi il senso dell'invisibile : la pratica, cioè, della meditazione quotidiana.

Nel silenzio della meditazione si chiudono le porte dell'illusione, si spalancano quelle della realtà, che ci introducono nel paese delle sorgenti. Le verità supreme non hanno familiarità col rumore; e l'azione sregolata, fatta di dissipazione, le fa fuggire senza che possano trovare ove posarsi. I nostri rapporti con Dio e quelli con le realtà invisibili richiedono una intimità voluta e come una spinta violenta verso le più profonde latebre dell'anima. 

Troppo noi siamo immersi nella carne; troppo la materia di cui siamo formati attira a sé quegli elementi del pensiero che sono le nostre immagini mentali, i nostri sentimenti istintivi, i nostri ricordi! L'universo ra sentire sulle nostre spalle un peso sproporzionato alle nostre forze e noi siamo sottoposti a un'attrazione che nella vita spirituale applica tutte le leggi di Newton. Perché l'attrazione dell'invisibile si possa liberamente e-sercitare su di noi, dobbiamo allontanarci dalle attrattive del sensibile, renderci liberi e, per così dire, disincarnarci; dobbiamo applicare la nostra attenzione a ciò che di suo non l'attrae, elevarci a pensieri che non trovano accoglienza e non prendono vita se non nella parte più nobile di noi, pensieri che non vengono dalla terra mediante la carne, ma dal Ciclo e dall'eternità per mezzo dell'anima immortale.

Va da sé che tale sforzo dovrà essere frequentemente rinnovato, perché anche le difficoltà si rinnovano; la terra pesa sempre, il pensiero è sempre soggetto alla materia. La vita esteriore, la parola, l'azione, le relazioni familiari, l'attività sociale, la professione possono servire l'invisibile; tutte possono manifestarlo, potendo in certo modo contenerlo; e perciò anch'esse portano alla meditazione e possono, come un limpido specchio d'acqua, riflettere il ciclo; ma ciò di cui esse partecipano può andare ben presto perduto se manca la cura incessante di ricorrere alla sorgente di luce. Con la meditazione, in queste realtà quotidiane noi scopriremo ciò che possono e devono contenere d'eterno; accostandole al ciclo, renderemo celesti queste ostinate abitatrici della terra, e, nella misura delle nostre grazie, otterremo, con l'unità della vita, la qualità che da valore a quest'ultima e l'orientamento che la divinizza.

Una donna di fervida immaginazione rivolgeva un giorno a un religioso queste acute parole : « Io vedo i vostri pensieri arare la vostra anima. » Proprio così! L'anima nostra spiritualmente arida, ha bisogno di .un'aratura profonda, e l'aratro sarà qui costituito dai luminosi raggi di un'intensa meditazione.

Un'altra diceva : « Quando vedo qualcuno che sta meditando, mi raffiguro tra lui e il ciclo una via luminosa, e Dio che gli viene incontro, quasi affascinato dallo spirito pensante. » E anche questo è verissimo, poiché si tratta d'entrare in intimità con Dio, come lo scienziato e il filosofo si rendono vicina la natura, come lo storico si fa contemporaneo a tutti i secoli per giudicarne il valore e per segnalarne i principali periodi. Lo scienziato vede l'universo muoversi sotto i suoi occhi, come l'orologiaio che sta a osservare il complicato movimento d'un cronometro; per lo storico, Napoleone e Cesare sono più vicini e più vivi di molte persone viventi, anzi che esso stesso a un'età purtuttavia non molto lontana: e non potremo noi tentare di rendere attuali nel nostro pensiero 1' Antico dei giorni e l'universo spirituale di cui l'anima nostra deve vivere ?

Ma ecco un'obiezione : non c'è tempo, la vita incalza e trascina, a mala pena si può provvedere all'indispensabile; ritardare l'azione equivarrebbe a diminuire quello che già è stato troppo ridotto, ecc. Ma tutto questo non è forse già stato confutato dalle precedenti osservazioni ? Se quanto dicevamo della fecondità del raccoglimento è vero, non ci si dovrà davvero pentirò del volontario sacrificio; se poi non fosse vero, non saremmo più, noi e i nostri atti migliori, figli della luce. Non avere il tempo di meditare è lo stesso che non avere il tempo di badare alla via che si percorre, pur continuando a camminare.

Specialmente ogni mattina, prima di mettersi a trattare col visibile, quando l'anima è ancora vergine del giorno e ancor piena del mistero notturno, quando lo spirito nasce a una vita nuova dopo la morte parziale del sonno, ogni cristiano dovrebbe prosternarsi e mettersi alla presenza di Dio, e così, dopo aver adorato e pregato, com'è suo dovere di figlio e di suddito del Padrone supremo, immergere il proprio spirito nelle verità vivificanti: meditare Dio, la sua opera, il. suo Cristo, la sua legge, i suoi consigli, i suoi avvertimenti, i benefici di cui ci colma, i severi castighi che vi deve aggiungere la sua bontà priva di debolezze, i mezzi ch'Egli propone a chi vuol crescere in lui, lo scopo che assegna alle meschine nostre forze; meditare, in una parola, tutta l'economia della salvezza, i suoi personaggi, le possibilità che offre, il suo ordinamento, il suo termine.

In questa esplorazione dell'invisibile, troveremo la legge per le ventiquattr'ore della giornata, e con la legge, che è penosa costrizione, l'ispirazione che solleva, il coraggio che rinfranca, la difesa contro le tentazioni e gli scoraggiamenti, il fervido impulso di cui non si può fare a meno nell'ardua ascesa delle cime. Una vita vissuta interamente così sarà una vita cristiana illuminata e vivificata, e l'avanzamento sarà sicuro e costante.

Potremmo dire che, avendo in noi Dio, con Lui abbiamo tutto quello che fa vivere; ma bisogna anche portare alla luce questo tesoro di vita e, per far questo, ci è necessario penetrare nella cella intcriore e ritornarvi spesso, per trame fuori i pensieri che, altrimenti, ben di rado si affaccerebbero alla soglia.

 

L'INTERPRETAZIONE DELLA NATURA

L' invisibile si manifesta a noi con simboli e con mezzi d'azione che coincidono in certo modo con tutta la nostra vita; ma il primo di questi simboli e il primo di questi mezzi sembrano incontrarsi nell'ambiente visibile in cui la Provvidenza ha collocato gli uomini, che è la natura.

Il primo elogio della natura è stato pronunciato da Colui che ne aveva una conoscenza crea-trice, e che, dopo aver detto che ciascuna cosa era buona, ha detto che tutte, prese nel loro insieme magnificamente coordinato, erano ottime. Ma la bontà della natura, oltre che universale, è anche una bontà per noi, una bontà per il nostro corpo e per la nostra anima; e il suo simbolismo, unito al suo carattere di strumento a servizio della nostra vita, fa parte di questa bontà.

La natura richiede perciò un'interpretazione. « L'universo, ha detto un ignoto filosofo, è una gran favola che comporta una moralità. » Noi non creiamo il mondo, ma lo pensiamo; da noi parte la luce che lo colora ai nostri occhi; il suo valore effettivo per la vita spirituale gli è dato dall'anima dello spettatore. E' quindi cosa di capitale importanza il giudicarne rottamente e il conoscere, attraverso la trama dei fini evidenti, a che mai tendano le sue mire segrete.

Parecchie deviazioni sono qui da temere e sarebbe pericoloso darsi in preda senz'altro ai propri, magari bizzarri, voleri. Non è prudente per un viaggiatore l'avventurarsi tra popoli sconosciuti senz'averne prima imparato la lingua. Ma noi siamo cristiani; e il grave rischio in cui incorriamo non è tanto quello di trattenerci, magari non deliberatamente, in false filosofie della natura, quanto piuttosto quello di non riuscire a capirne il vero senso religioso, accontentandoci delle apparenze sensibili e lasciando la natura al suo ufficio di schermo, invece di usarne anche a guisa di specchio.

Perché la natura è contemporaneamente l'uno e l'altro; e sbaglierebbe chi volesse vedere in ciò una contraddizione. Uno specchio può fare da schermo, se lo si usa come tale, senza badare al raggio che lo colpisce. Qui però, se si fa così, ne viene un danno, e tanto maggiore in quanto la natura fa parte di noi, entrando nella costituzione più intima del nostro essere, così come noi facciamo parte di essa; essendo tale unione congenita e necessaria, facilmente noi tentiamo di goderne senza andare più in là, come talvolta, egoisticamente, noi godiamo di noi stessi.

Ma come sarebbe ingrato e ingiusto l'uomo che si concentrasse in se stesso senza rivolgere al Ciclo la sua lode e i suoi ringraziamenti, così diventa colpevole chi ammira la natura e ne usufruisce senza salire più in alto. Dio è in noi e noi dobbiamo trovarlo nel nostro intimo mediante la silenziosa meditazione; Dio è anche nella natura, e dobbiamo cercarlo in essa nel profondo silenzio che occulta l'opera di Lui.

Possiamo distinguere quattro modi di avvicinare la natura. Di essi, tré l'abbassano, sotto colore di renderle omaggio o di elevarsi fino alla sua altezza. La si può accostare da esteta, oppure da vivente occupato soltanto a vivere, o da indagatore della sua struttura, e, infine, da anima piena di senso religioso e mistico. Quale differenza fra queste diverse attitudini! Quale distanza fra lo stesso ciclo ammirato dall'occhio dell'artista, scrutato dall'agricoltore, analizzato dal freddo sguardo dello scienziato e contemplato estaticamente dall'anima! Armonia di linee e di colori: ecco il ciclo del pittore; radiatore o annaffiatoio: ecco il ciclo del contadino; astri roteanti e intersecanti le loro traiettorie: ecco il ciclo dell'intelletto che non arriva ancora a riconoscere la gloria di Dio nel canto silenzioso delle stelle.

Il cristiano non si può appagare di ciò che d'inferiore gli può offrire l'universo; e tutto è inferiore a lui, se non gli procura l'Unico Necessario. Se la natura non riesce a darci Dio, viene meno al suo compito. Anche se conoscessimo perfettamente e avessimo addirittura misurato i suoi sublimi segreti — e a più forte ragione se non pensiamo ad altro che a servircene per la nostra vita quotidiana —-, non' avremmo fatto altro, per così dire, che rosicchiarla, come fa la tignola quando bucherella un vestito. La natura è al nostro servizio, ma essa, oltre che offrirci paesaggi, pane e teoremi, può servirci in modo ben più elevato e importante.

La natura ha ufficio di nunzia, quantunque questa parola non dica tutto, perché la natura, quello che ci annuncia, anche, in certo modo, ce lo da. Tutta la sua sostanza proviene dalla Sostanza prima, che non soltanto non se ne allontana, ma mette lo spirito nel perpetuo pericolo di confonderle fra loro. Non diciamo forse in teologia che il mondo non aggiunge nulla a Dio e che Dio più il mondo non è più di Dio? Eccoci dunque minacciati dal panteismo; e, a dire il vero, se non dobbiamo essere panteisti, se non lo siamo, non sappiamo precisamente ciò che in Dio e nella realtà ci permette di sfuggire a quest'errore. In ogni caso, se bisogna guardarsi bene dal panteismo, bisogna pure evitare il naturalismo, il materialismo pratico, che separano Dio dalla sua opera e lo trascurano come se non esistesse.

Dio è più vicino alle cose che le cose a se stesse, poiché da loro, prima dell'esistenza, la possibilità ideale. Egli le costituisce in spirito prima di costituirle nella realtà, precedendole così in loro stesse — se è permesso di parlare in tale maniera —. Egli prepara il loro essere e lo affida loro per l'azione utile, come affida noi, creature ragionevoli, « nelle mani del nostro consiglio ».

La presenza di Dio nella natura è perpetuamente creatrice; Dio esercita di presenza il suo dominio su tutte le creature dell'universo; nulla Lo può sostituire, perché tutto esiste solo a causa di Lui, con Lui e in Lui. Nel suo Essere, come in un « mare di sostanza senza termini e senza confini », per usare le parole di san Giovanni Damasceno, ogni creatura nella sua estrema e perpetua miseria s'immerge per sussistere, aspettando tutto da Lui. Così, guardare il mondo è in qualche modo lo stesso che guardare Dio: Dio nel suo effondersi, nella sua partecipazione e, per adoperare un'espressione ardita, nel suo fiore.

Non solo la sostanza del creato, che porta l'impronta dell'Essere divino, ma anche le forze e le leggi sono rivelazioni di Dio Verbo e di Dio Onnipotente. Per interpretare la natura dovremo dunque elevarci a quella concezione di un Potere e di una Sapienza che si manifestano nelle loro opere. Se io dimentico il Pensiero che presiede a tutto; se non penso che gli esseri medesimi — e con essi proprietà, armonie intcriori, poteri d'adattamento, facoltà d'azione che loro appartengono —sono pensiero divino attuato, provvidenza sminuzzata, sapienza concretata, arte divenuta fatto, come potrei pretendere d'aver letto nell'intimità dell'essere? E così, dimenticando di vedere nelle forze della natura una mediazione, trascurando la Potenza che intreccia fenomeni a fenomeni, cicli a cicli, con innumerevoli combinazioni, potrei dire di aver compreso il reale in ciò che ha di più reale, di più intimo dell'intimo suo, ossia in quell'infaticabile e inesauribile al di là che le sue attività ci rivelano?

Le nostre preoccupazioni utilitarie e l'ingegno pratico che hanno sviluppato in noi ci fanno perdere il senso dell'unità del tutto visibile e del suo vincolo essenziale con l'invisibile. Noi spezzettiamo per analizzare, per utilizzare; diciamo: l'albero, la roccia, il vento, il fiume, la stella, e facilmente crediamo che questi siano essèri indipendenti, collegati poi in qualche modo da vincoli soltanto superficiali.. Invece tutti questi esseri non sono altro che la natura universale diversamente manifestata, un unico pensiero del ' Creatore concretato, la rivelazione della Potenza divina. Tutto è collegato e tutto dipende da Dio. Tutto non è che una rete dalle maglie solide e fitte, agitata da una mano : quella mano di Dio che gli antichi artisti raffiguravano in un'aureola, al di sopra delle cose umane.

Tanto il fatto comune quanto quello più importante devono suscitare questi pensieri, perché il reale è dappertutto il medesimo. Io esco: calpesto il suolo, e tale sostegno dei miei passi è come quello delle mani angeliche che, secondo il salmo, per volere di Dio portano l'eletto del suo amore. Appoggiandomi al suolo, io avverto una resistenza protettrice; sperimento la forza che nelle antiche età ha dato forma al globo, riunendo gli atomi nella nebulosa, domando l'ondata delle materie incandescenti in un oceano di fuoco, saldando le rocce che costituiscono osa. la spina dorsale della terra, distribuendo infine sotto queste successive forme l'energia di Dìo.

Anch'io, cedendo alle forze cosmiche a cui la terra è soggetta, partecipo dell'energia che muove e trascina nello spazio il nostro globo roteante. Cammino, e, nel mio procedere, utilizzo l'effetto della gravitazione universale, forza di cui la vita regge e completa il particolare andamento; e la gravitazione e la vita si possono ben chiamare i m'issi dominici di un'unica e sovrana Potenza. La mia intuizione religiosa lascia da parte ogni intermediario e io mi sento animato nell'intimo e custodito all'esterno, equilibrato e sor-retto da un celeste potere.

Le attività che via via sperimento e alle quali partecipo, hanno tutte la stessa origine. Tutta la natura che mi circonda deve a una presenza infinita la vita ch'essa sviluppa. I venti che spirano sono il soffio di Dio che passa; il moto della nube che sfiora una montagna o quello d'una pietra che cade hanno la loro causa profonda nell'anima universale, sotto l'immagine della quale ci raffiguriamo Dio. La vita è tutta uno sforzo di sviluppo che ci rivela una sorgente viva; l'istinto degli animali dimostra una volontà che ha cura dei piccolini ed è conservatrice degli esseri incapaci di provvedere da sé, mentre il prodigioso equilibrio della vita e della morte nell'interno della specie porta l'impronta di una sapienza che continuamente ci presenta misteri preoccupanti, ma che non possiamo misconoscere se non siamo ciechi. Il cuore di Dio pulsa nel seno del mondo e nel giro delle stagioni vivificando l'universo e ogni singolo corpo : e, immerso in questo mio corpo come parte della sua fervida sostanza, non ne ascolterò gl'ineffabili battiti?

Dio è in tutto ciò che viene all'esistenza, in tutto ciò che è, in tutto ciò che si dimostra possibile; eccettuato il male, l'azione gli appartiene in qualsiasi stadio; tutto quello che tentiamo per conciliarci la natura è un uso della sua forza, come tutto quello che facciamo per resistere a questa medesima natura ci proviene da Lui. In me, in quello che mi circonda, in tutte le cose,

Io Lo ritrovo come una miniera d'ideale e di potere di cui tutto usufruisce e che niente esaurisce.

Infine, se davanti alla natura mi domando a che serva tutto questo, quale sia lo scopo di un così immane sforzo e di tali continue trasformazioni, a che miri questo gigante le cui fatiche sono quelle dell'Ercole antico liberate dal simbolo che ce le velava, comprenderò che l'unica ragione di tutto, oltre alla gloria di Dio, è il servizio degli esseri ragionevoli che devono un giorno arrivare all'unione con Lui.

Uno è il cosmo e unico è il suo destino; ma

Il destino di quest'immenso complesso di materia e di spirito non si dovrà forse orientare verso lo spirito subordinandosi la materia, come sempre

Il meno si subordina al più, l'inferiore al superiore e il passeggero al durevole? Quello che è materiale perisce, e lo spirito resta. Tutto ciò che è materiale non esiste per se stesso ne per altro che non sia spirito. Quest'essere che è come se non fosse, che esiste ma non lo sa, verrà dunque posto dalla Provvidenza sotto la legge dello spirito che sa, che ha coscienza di se e che non perisce : Tutto è per gli eletti.

Per questo, quando osservo la rotazione degli astri, il flusso ed il riflusso del mare e l'alternarsi delle stagioni, l'origine e le metamorfosi della vita, lo svolgersi della storia, devo esclamare :

—. Così, mio Dio, tu prepari il regno eterno che era, nei tuoi disegni, origine e scopo di queste mirabili combinazioni creatrici.

Come me, anche la natura è vincolata all'attuazione dell'opera divina. Quello ch'io faccio liberamente, l'animale, il fiore, l'essere inanimato lo fanno senza saperlo. All'interno o all'esterno, nell'anima nostra o nell'universo, l'energia non ha che una meta : quella che è intimata al nostro sforzo morale, e cioè la vita eterna. Tutto effettua i voleri di Dio, miranti anch'essi alla nostra felicità, condizione della sua gloria visibile. L'universo è il luogo dove le anime vengono all'esistenza, la condizione del loro sviluppo, il cantiere del loro lavoro, il campo dei loro combattimenti, la pista di lancio verso la loro definitiva dimora.

Per questo, ciò che in sé è materiale, per il suo fine diventa spirituale, l'immensità stessa è serva. Che noi siamo come inghiottiti da essa, non sarà questa una lezione di più? E' bene ch'io sia così annullato tisicamente, per sentir meglio la grandezza che è in me. Il mio destino è quello di oltrepassare tutto, dopo avere di tutto usufruito. Quello che al mio sguardo appare opprimente e dominatore non è, in realtà, che un mezzo;

ciò che si chiama materia è spirito, ciò che si dichiara indifferente è morale, mistico, santo.

Santo! Santo! Santo è il Signore, Dio degli eserciti celesti, cioè degli astri e di quello che gli astri hanno sotto di sé, illuminano, dirigono, promuovono, e anche, in pari tempo, il Dio delle grandezze terrestri, il Dio della margheritina, del giglio, del vilucchio, del cavolo, del dente di leone, dell'ortica e del cardo, al di sopra dei quali si eleva la cattedrale.

Dio è sempre presente a tutti i suoi servi e comanda alla natura. Chi non si sottrae a questo ordinamento riceve una comunicazione dei misteri divini. « L'uomo spirituale giudica tutto », dice san Paolo; unito allo spirito di Dio, egli comprende che le azioni universali, anche le più basse, anche le più materiali, dipendono da una forza morale e che questa casa bene ordinata è sotto il governo di un Padre.

Non è per questo, forse, che la natura manifesta, nella sua storia, una forza d'ascesa che la sospinge dalla materia allo spirito, come dovrebbe sospingere noi dallo spirito a quello spirito migliore che è integrità morale e infine eroismo? « L'eroismo è il segreto della vita », ha detto un filosofo : non sarà anche il segreto della natura ?

Se è vero l'evoluzionismo cristiano, c'è un eroismo latente in tutte le forme d'esistenza che, nel trascorrere dei secoli, si. elevano dal meno al più, dalla materia pura alla vegetazione, dalla vegetazione alla sensazione, da questa al pensiero ed alla libertà, sotto l'influsso e con il sostegno dell'Essere Primo, la cui perfezione tutto precede e tutto mette in moto.

Il fine della creazione è il perfezionamento degli spiriti impegnati quaggiù in ardue conquiste. La natura non esiste che per le creature ragionevoli. Nel tempio, che è il simbolo più ampio ed espressivo della natura, ogni cosa non è forse rivolta al Dio nascosto; e questo Dio medesimo, nella sua fraterna condiscendenza, non è forse rivolto verso quelli che viene a corroborare, a consolare, ad ammonire, a santificare e infine a trarre con Sé nella sua reggia celeste? Senza dubbio per questo, scrivendo a un giovane che gli aveva vantato gli incanti delle sue villeggiature marine e montane, il P. Lacordaire diceva : «Sono d'accordo con tè per le montagne, per il mare e per le foreste: le amo quanto tè; ma, quanto più s'invecchia, tanto più la natura perde valore, mentre l'acquistano le anime, e più si gusta la bellezza di questo detto di Vauvenargues : " Presto o tardi, non si gioisce che per le anime " ».

Questo è dunque il cammino dell'intuizione religiosa nell'interpretazione della natura : dalla sostanza creata alla sostanza eterna, dal più oscuro fenomeno alle grandi leggi ed alle forze universali; dalle leggi al Pensiero divino e dalle forze alla Potenza di Dio; poi dal travaglio del cosmo allo sforzo delle creature intelligenti, dalla materia allo spirito, dalla terra al ciclo.

Dio compie questa continuità venendo incontro con le sue ispirazioni interiori, con l'insegnamento religioso, con la Bibbia e con la vita della sua Chiesa alla mente e al cuore che lo cercano attraverso le cose. Vivendo una vita spiritualmente elevata, noi daremo a quest'ideale andirivieni la sua consacrazione pratica, in quanto che, appoggiandoci sulla natura e servendocene, la trarremo nella direzione dei suoi fini, la sospingeremo verso il suo autore, o, meglio, ve la porteremo con noi. In tal modo si attuerà l'unità fra noi e il luogo dove si svolge la nostra vita, fra il tempio e il sacerdote, cosicché tutto sarà in pari tempo religioso e naturale, eterno e temporaneo, terminerà e avrà vita, nella nostra vita e nella Vita divina.

Voglio qui far cadere un'illusione che è tanto più sottile in quanto è propria di gente colta. Sembra ad alcuni che il pensiero degli immensi spazi stellari e di quello che dietro ad essi possiamo ancora supporre debba farci perdere d'animo davanti alle bellezze terrestri e abbassare ai nostri occhi la loro grandezza. Come chiamare grande, dicono essi, ciò che in realtà non conta? E quale senso di ammirazione si può provare, quando si conoscono certe cifre astronomiche, davanti a quella briciola che è la terra, contenente una goccia d'acqua, sotto un pozzetto di ciclo?

A quelli che parlano così si può almeno riservare l'astronomia e indicare le geniali anticipazioni dell'autore dei Pensieri in una celebre pagina; ma occorre scoprire le tracce dell'errore. Non è vero che la piccolezza relativa del nostro mondo ne diminuisca in qualsiasi modo il valore, se si considera sotto l'aspetto della sua superiore interpretazione. Grandezza vicina e proporzionata ai miei ordinar! poteri di visione e di osservazione, la natura che mi circonda mi appare tanto più magnifica e impressionante proprio perché incastrata nel doppio infinito che da due parti la prolunga. E' verissimo che, sotto un certo aspetto, l'infinitamente grande la schiaccia e l'annienta, ma, sotto quel medesimo aspetto, l'infinitamente piccolo non la rialza forse? E a che servono qui, del resto, tali misure?

Se ci si rivelassero d'un tratto i conflitti di forze e le armonie dell'infinitamente piccolo, perderebbero ai nostri occhi nel confronto con l'oceano, tanto più vasto? Certo non di più di quello

che perda l'oceano nel confronto con Sirio, che risplende su di esso come sopra una goccia di rugiada. Le leggi, da una parte e dall'altra, sono le medesime e in ambedue questi campi io scopro un tutto prodigioso. Lo sciabordìo dell'onda contro la cala del vecchio porto e la linea arcuata dell'orizzonte, che ci fa conoscere la curva della terra, e la stessa curva della terra parlano un linguaggio che arriva al cuore, come l'orbita solare o la Via Lattea. La lotta delle forze da cui ogni cosa risulta può essere relativamente grande o piccola (e il chiamarla così non è già un dichiarare che in realtà non è ne grande ne piccola?), ma anche se si vuole tener conto di gradi, il grande e il piccolo non sono meno, per questo, una rivelazione, un richiamo alla mente dell'Assoluto, della forza e della magnificenza, che risplendono da ambe le parti.

« Dio solo è grande, o fratelli ! » : Massillon potrebbe ripetere questa parola davanti alla liquida tomba in cui il rè sole discende, come morendo, ogni sera; ma è anche grande qualsiasi cosa, a qualunque grado appartenga, che riflette ai nostri occhi l'unica Grandezza e permette allo spirito di arrivarvi.

Senza badar più alla loro mole, ripetiamo quindi che le cose della natura hanno in sé qualcosa di divino, che è il loro fine e il misterioso moto che le trasporta, l'impronta della potenza creatrice e del pensiero creatore, impressa nel loro essere e nei loro poteri. La natura, per chi sa vederlo, ha un significato religioso, ed è un perpetuo: Ecce Densi Meditando la sua spiritualità, noi rendiamo efficace la fraternità di tutte le cose con noi; come, meditando i nostri vincoli in Dio e con Dio, lavoriamo, noi, povere creature umane, al comune eterno destino.

« Frate sole », « frate foco », « sorella acqua » non sono vana poesia, ma espressioni del più nobile significato di tutto; e se nel nostro spirito e nel nostro cuore non s'imprime questa poesia, la natura diventerà in certo senso cosa inutile. Ma il darsi in preda a tale incapacità non sarà un rinnegare i propri istinti e un mettersi in contraddizione con se stessi? Riflettendoci bene, ci renderemo conto che nella natura noi ammiriamo sempre qualcosa di diverso dalla natura stessa, come nell'amore possiamo oltrepassare infinitamente l'oggetto amato. Il misterioso richiamo che la natura ci fa udire riguarda un segreto che noi non riveliamo, ma che riceviamo, piacevolmente soggiogati. Essa ci offre qualcosa di più che uno spettacolo e un'utilità, perché ci fa sentire l'anima delle cose e Dio che le vivifica. Dio imbalsama per noi il mondo, lo rende sicuro ai nostri passi, dilettevole al nostro cuore e vi fa risuonare, quando seguiamo le sue regali vie, uri cantico di gioia.

La natura è un apparato di festa che permane dopo un glorioso passaggio e ne conserva la commozione. La natura è una serie di geroglifici che non possiamo decifrare, ma che richiama per noi un pensiero segreto. Sull'obelisco di Luxor noi seguiamo le tracce di una civiltà morta, ma quando l'obelisco era ancora nella cava, esso portava una scrittura ben altrimenti profonda di quella che si vede ora sulle sue facce levigate: la scrittura dell'essere che parla all'anima quando c'invade il senso degli arcani del mondo.

Solo apparentemente noi ci troviamo chiusi nel sensibile; e il divino solo in apparenza è inaccessibile allo spirito e al cuore. Per l'intuizione religiosa, la frontiera dei due mondi è aperta ed è come una muraglia cinese che fosse tutta formata di porte.

II Dio della Bibbia ha chiamato ogni cosa con il suo nome e a loro volta le cose pronunziano tutte un nome che è il medesimo : sordo è il nostro spirito se non ode queste bocche silenziose che emettono con tanta potenza il grido dell'essere.

Davanti alla natura Dio ci appare anzitutto come la Causa, la Bellezza, la Potenza, come davanti alla ragione Egli è Sapienza, al volere Santità, al cuore Padre.

Poi tali attributi si riuniscono e noi comprendiamo che nella natura stessa Dio è contemporaneamente tutto questo, com'è tale, nello stesso tempo, in tutto il restante. Tutte le perfezioni divine si manifestano ,in un'opera divina. Se noi nella natura talvolta vediamo soltanto sapienza e potenza, ciò avviene perché spesso il fine di essa ci sfugge; per i suoi fini, la natura è amore e anche, per essi, santità.

Riusciremo noi a comprendere il profondo mistero della natura, in cui ogni enigma ha per chiave un altro enigma e in cui palpita una Vita disconosciuta? Bisogna immergersi in esso e gustarne tutti gli aspetti collegati con la nostra vita, che altrimenti si sperderebbe; occorre vederlo come sapienza, attività, pazienza, stretta solidarietà degli esseri e delle forze, obbedienza alle leggi, ricerca del meglio. Bisogna immergersi in esso senza affogarvi, perdersi in esso e in pari tempo sapercisi ritrovare, perché si tratta di un mistero che è anche nostro; bisogna amarlo e rendercelo familiare santamente, religiosamente; allora, esso pure, religiosamente e affettuosamente, ci parlerà.

In ogni essere, vivente o inanimato. Dio ci parla e ci invita. Il Vivente etemo appare in ogni creatura e attira lo spirito verso le sue profondità; Egli cerca noi per manifestarsi, per comunicarsi, e il suo limpido linguaggio è sempre lo stesso; dice :— Io sono, penso, agisco, governo, amo:E c'invita: -— Vieni!

 

LA VALUTAZIONE DEGLI AVVENIMENTI

la natura e l'uomo sono gli autori degli avvenimenti della vita. Ciò che la natura pro duce da sola non è certo, a questo riguardo, ciò che vi è di più notevole; tuttavia, poiché le azioni umane operanti sul nostro destino prendono, nel loro groviglio, un carattere di fatalità e un aspetto di potenza anonima molto simili a quelli della natura, facilmente si confonde il tutto sotto appellativi comuni, quali, ad esempio: la vita, la sorte, la fortuna, il caso.

Bisogna confessare che tali potenze non godono tra noi fama molto buona. Se giudichiamo le cose superficialmente, esse meritano un trattamento del genere, perché la natura presenta alla nostra vita degli imprevisti che l'urto delle libertà e il capriccio delle passioni aggravano in misura preoccupante per la nostra felicità. Potremo bene sforzarci per decidere di noi, frenare la ruota, far forza con i remi: qualsiasi pendio potrà far precipitare il nostro veicolo e qualsiasi corrente potrà trascinare nei gorghi la nostra barchetta. L'incertezza delle sementi è la prova del contadino e le vicissitudini della vita sono la prova dell'uomo.

Prima di scavare nelle profondità di un tale problema e di ricorrere all'eternità, senza la quale nessuna luce si può gettare sulle cose del tempo, è di grandissima importanza pratica il protestare contro la parte eccessiva che le nostre viltà assegnano al caso negli avvenimenti della vita. Troppo volentieri ci viene sulle labbra la parola caso; essa è una comoda scappatoia per schivare responsabilità e nascondere errori. Basta scrutare attentamente l'indolenza di certi fatalismi, per scoprirvi una buona dose di fariseismo incosciente.

Quanta fretta nell'accusare la sorte! Dio, però, ci ha affidati al nostro proprio consiglio. La-sorte, anzitutto, siamo noi. La sorte è sovente la nostra sorte, ciò che noi abbiamo fatto. I/incertezza delle sementi non impedisce, ordinariamente, la prosperità del contadino che riflette e che lavora. Nel campo intellettuale, il caso felice chiamato ispirazione è stato definito da Baudelaire con parole che fanno meditare : « L'ispirazione — ha detto il poeta — consiste nel lavorare tutta la giornata. » Non è forse risaputo che il genio — altro caso —è « una lunga pazienza »?

Certo non si deve esagerare: ogni definizione in senso assoluto potrebbe trarre in inganno, ma quelle ora citate sono più vere, e di molto, delle loro contrarie. In tutte le cose il buon successo segue allo sforzo con tale regolarità da lasciare poco adito all'incostanza. C'è in questo mondo nel suo complesso una specie di intesa fra il coraggio e la rettitudine. La virtù paga, — benché si tratti qui di un pagamento solo temporaneo —, in ragione delle promesse divine.

Dopo tutto, le cose sono figlio di Dio, e l'uomo non può portare il disordine nel loro intimo, che gli è inaccessibile. Il mondo è buono e il demone caso e la pazza libertà possono renderlo malvagio solo fino a un certo punto. Colui che scopre la bontà delle cose e la vivifica aggiungendovi la propria è vicino alla vittoria sulla sorte.

La nostra eterna inesperienza e l'impetuosità dei nostri desideri sono la causa dei nostri smarrimenti. Crediamo di poter barare con la vita, di poter aspettare « le quaglie già arrostite », di poter agguantare la fortuna al varco, mentre stiamo a baloccarci sulla via abusando dei doni che Dio ci ha dati. Ma Dio non permette che il gioco duri a nostro piacimento e interviene. Gli interventi divini sono certi e ne riparleremo; alcuni però sono vicini e altri più o meno lontani. Anche il tempo paga, benché tutto vi sia messo in conto a grandissima usura. 

Se si parla dell'umanità nel suo insieme, non è forse certo che la maggior parte dei mali che l'affliggono le sono imputabili e non si ripetono nel mondo che per colpa sua? Essa non crea la sofferenza e la morte a meno che non si parli della prima caduta che ha aperto la strada a questi flagelli —, ma aggrava la sofferenza e rende attiva la morte in modo tale che, se si sopprimesse questa causalità peccatrice, la vita muterebbe tanto da ricompensarci largamente di tutte le nostre virtù.

Gli uomini non muoiono, è stato detto, ma si uccidono : allo stesso modo, gli uomini non soffrono, ma si procurano le sofferenze. Parlando poi del singolo, pur non essendoci imputabile la malizia degli altri e non potendo noi evitarne sempre il morso, io stimo che, se ciascuno riuscisse a liberare la propria vita da tutto ciò che vi è di cattivo e le restituisse quello che va perduto per sua colpa, il cambiamento non sarebbe meno radicale.

Ciò si vede specialmente nei casi estremi. I grandi disordini lasciano sempre segni profondi nell'anima e nel corpo, nell'aspetto e nella forza, nella dignità e negli affetti, nei propositi e nella vita intera. Al contrario, una grande saggezza ci riconcilia con noi stessi, con chi ci sta intorno, con tutti. « Sono stato giovane, eccomi vecchio — dice il Saggio —, ma non ho mai visto il giusto abbandonato ne i suoi eredi ridotti ad accattare un pezzo di pane. » Ciò si vede tuttavia, ma costituisce l'eccezione che conferma la regola. Di solito la nostra sorte assomiglia alla nostra azione, così come la nostra azione assomiglia alla nostra anima. L'azione sta tra noi e i fatti, è un ponte di passaggio. Anima virtuosa, azione retta, esiti felici: quest'equazione, che non è matematica, come nessun'altra cosa della vita, si dimostra tuttavia frequentemente esatta. L'azione collega il nostro essere di ieri con quello di do-i mani. Ieri acquistai saggezza; oggi agisco in modo conforme a quella saggezza; domani ne coglierò i frutti e, inoltre, aumenterò la saggezza

stessa. Guardiamoci bene, dunque, dal dare alla pa-1 rola « sorte » un'estensione illimitata, e dal credere che il complesso degli avvenimenti della vita le appartenga. Due volte su tré, la sorte è l'ospite che noi stessi abbiamo invitata : ospite che vie-| ne a passi lenti; ma un passo dopo l'altro si va | lontano, e la cattiva sorte sa raggiungere al mo-| mento opportuno quelli che se la sono attirata e I che forse non l'aspettano più, così come la buo-! na sorte — con meno certezza è vero, perché il bene viene meno facilmente del male — va incontro e da il premio a quelli che hanno meritato il suo aiuto.

Il mezzo più opportuno per aver la sorte dalla nostra parte e per orientare verso la felicità gli avvenimenti della nostra vita, è quello di mostrarci uomini, di procurarci abitudini virtuose, di riflettere prima di ogni nostra azione, e di tenere sempre come consiglieri i dieci comandamenti.

Questo però non basta per negare quello che l'evidenza un giorno o l'altro ci getterebbe davanti agli occhi: la parte del caso, delle fortune avverse che ci perseguitano, la sproporzione alcune volte enorme tra i nostri sbagli e le loro conseguenze, o, inversamente, il poco frutto dei nostri sforzi più grandi. Gli avvenimenti, che sono vincolati all'ordine morale, ne dipendono infatti nel visibile soltanto per mezzo di un debole legame. Ciò è vero, e la nostra poca fede, la nostra poca riflessione si attribuiscono il diritto di accusare nel suo insieme il destino, cioè Dio, il cui procedere resta nascosto ai nostri occhi dall'impersonalità della sorte.

Ciò è indice di vista corta, aggravata, a pensarci bene, da un'autentica bestemmia. I pagani, oppressi dal fato, credendo questa oscura potenza superiore agli stessi dei, dovevano piegarsi al suo decreto, che era decreto arbitrario e necessariamente indiscutibile, poiché per natura esso sfuggiva a ogni ragione. Ma i cristiani si trovano davanti a ben altro : l'ordine divino è un fatto nuovo, in cui l'antico potere del nome si congiunge con il concetto della divina sapienza. Il caso stesso sta nelle mani di Dio.

Vi sono cause necessario e cause contingenti, spiega san Tommaso d'Aquino, ma tutte provengono dalla Causa prima e le sono sottomesse. Questa sottomissione non muta la loro natura, al contrario la da loro, ed è verissimo che nella nostra vita ci sono dei casi, ma il fatto che il caso sia sottoposto a Dio combina gli effetti di essi e costringe questi medesimi effetti a entrare in un ordine di ragione che è anche un ordine d'amore. L'ordine morale riprende così quello che sembrava sfuggirgli in una perpetua fuga.

La nostra vita non è abbandonata, neppure in quello che concerne le circostanze, alle correnti e alle procelle, come una barca in estremo pericolo, ma dipende da leggi precise a cui il suo ritmo può bene adattarsi. Riguardo poi all'ordine ultimo in cui essa va a finire non vi si trovano più casi:

Dio e noi siamo i soli responsabili. Quando una persona ha fatto ciò che poteva fare, ha il diritto di alzare gli occhi e di dire : — Tocca a tè ora, Padre!

Se il ciclo non risponde, se il destino nel suo complesso non si dimostra saggio, benefico, in armonia con lo sforzo virtuoso e con la giustizia, ne va di mezzo la Sapienza stessa di Dio, e perciò l'audace salmista non teme di presentare a Dio la sua richiesta con queste parole così mirabilmente ardite: ((.Pietà di me..., affinché tu sia trovato giusto nella tua sentenza, senza rimprovero nel tuo giudizio. » (Salmo 50)

Che cosa pensare dunque delle ingiustizie e delle svolte in apparenza capricciose degli avvenimenti del mondo? Come interpretare, in caso di piena o di relativa innocenza del soggetto, le contraddizioni che gli vengono dagli uomini e dalle cose, le iniquità, i cattivi successi, le separazioni, le critiche immeritate, le umiliazioni, le delusioni, le malattie, i lutti, le rovine? E come interpretare al contrario il « trionfo dell'empio », che costituisce lo scandalo dei secoli? Ma, soprattutto, come spiegare che apparentemente nulla si spieghi e che gli avvenimenti storici sembrino sovente, come è stato detto, le azioni di un carnefice ubriaco?

Una questione del genere potrebbe condurci lontano; essa ha dato del filo da torcere a molti e non è ancora vicina a una soluzione adeguata; ma per ora basterà quanto segue. Alla sorte divina che noi non comprendiamo, a quest'ordine che agli occhi della nostra saggezza appare misto a disordine, conviene semplicemente dare tutta la nostra fiducia. Facendo così non agiremo a casaccio; vi sono infatti due ragioni, di cui una permette e l'altra vuole che facciamo così.

La prima di esse è questa : il nostro sguardo vede soltanto un ordine parziale e il tempo della nostra esperienza personale non abbraccia tutto il destino.

Noi siamo in cammino, e non scorgiamo attorno a noi che gli accessori del viaggio, se così si può dire. La realtà che ci appare non è tutta la realtà, ne può esprimerne compiutamente le leggi. La realtà totale comprende il soprannaturale, che ha leggi proprie; il destino totale comprende anche l'altra vita; il tempo prepara l'eternità e vi trova la sua regola, mentre le sanzioni dei nostri atti hanno davanti a sé delle date o immediate o differite e più o meno differite: tutto ciò conta qualcosa.

I casi della vita non possono comprendere tutta la vita, ne permetterci su di essa un giudizio decisivo, eccetto che si voglia chiamare « vita » la porzione di destino che misuriamo noi, indipendentemente dai vincoli che l'uniscono al termine destinato a compierla, al fine che la illumina, alla conclusione che le da il suo valore. Sarebbe un falso giudizio.

Se si domandasse subito al proiettile che cosa vada a fare fra le nuvole, senza aspettare ch'esso cada al punto preciso su cui l'artigliere ha puntato; se si volesse giudicare un discorso da alcune frasi avulse dal contesto; se si volesse interpretare un'iscrizione da qualche frammento isolato, non ci sarebbe da meravigliarsi che si cadesse in errore. I giudizi per assurdo avrebbero allora piena cittadinanza e vi si potrebbe dimostrare sottigliezza di spirito oppure solenne scioc-chezza.

Il cristiano riflessivo giudica in modo migliore. Egli dice a se stesso : Ciò che la condotta buona o cattiva non mi procura immediatamente, mi procurerà più tardi; ciò che in un modo essa perde, potrà guadagnarlo in un altro; ciò che non capita in questo mondo, capiterà senza dubbio nell'altro. E che tutto avvenga veramente così, glielo garantiscono gli attributi di Dio, la sua qualità di Agente morale e di Legislatore di tutto l'essere, la sua santità e, infine, le sue promesse.

Il Libro della Sapienza dice dei giusti morenti queste profonde parole : Le loro opere

11 seguono. Le opere che la vita non ha sanzionate, che il caso capriccioso ha dimenticate per calcolo o che ha maliziosamente ritorte, le opere disconosciute, le opere in istanza di giustizia e in stato di protesta, non rimangono in questo mondo, ma seguono chi le ha compiute accompagnandolo al tribunale divino per fissare la sua sorte, che le nostre imperfette sentenze non hanno potuto determinare. Eccole davanti a Dio per chiedergli con insistenza il loro necessario compimento, la loro conclusione (il che è quanto dire loro stesse arrivate al non plus ultra, alle loro ultime conseguenze) e chiedergli per il loro autore quello che altro non è se non lui stesso, nella sua estensione e nel suo libero vincolo con il suo ambiente di vita, cioè gli effetti dei suoi atti.

Anche in questo mondo, le azioni che non ricevono la corrispondente sanzione, le azioni che non ricevono il « loro salario », come dice il Vangelo, hanno almeno, col nome di merito, un valore fiduciario: la loro ricompensa è presso Dio — come non si stanca di ripetere il Sacro Testo —, vale a dire è nello spirito e nel cuore di Dio, pronta ad apparire all'ora opportuna.

Anzi, secondo la dottrina cristiana della grazia, questa ricompensa è già sostanzialmente acquisita: non c'è che da rivelarla, per farle produrre, in un ambiente adatto, i suoi frutti visibili. La grazia, per i suoi gradi e per quello che essa porta con sé di futura felicità, è propriamente una sanzione del bene; la privazione di essa e la rottura del vincolo che c'è tra Dio e l'anima, rottura che di per sé significa eterna infelicità, è la sanzione del male.

Si può dire, del giusto e del peccatore, che l'uno porta in sé il suo ciclo così come l'altro porta in sé il suo inferno, e che la sola differenza, tra il ciclo e l'inferno del tempo e il ciclo e l'inferno dell'eternità, sta qui: i primi possono succedersi l'uno all'altro, mentre i secondi no;

il peccatore può convertirsi ed il giusto perdersi;

cose impossibili agli eletti e ai dannati. Ma, sia per il giusto che per il peccatore, fin da questa vita la sanzione c'è già, come il germe che contiene in sé l'albero e a cui non manca che di svilupparsi. Qualora questo sviluppo richieda particolari condizioni, vien differito; ma che cosa importa, quando giustizia è fatta, che essa non si manifesti subito negli avvenimenti?

Non tocca agli avvenimenti sanzionare subito il bene e il male; essi hanno gli stessi compiti del mondo in quanto che esso è qualcosa di provvisorio, una stazione di partenza, un terreno di ricerca, una pista di lancio, un laboratorio d'apprendistato, un cantiere, una trincea di guerra.

Gli avvenimenti, proprio perché sono al servizio della moralità, devono venirle in aiuto in tutto il suo cammino, e, prima di applicarle le sanzioni, hanno il compito di facilitarle il lavoro. Gli avvenimenti, che appartengono a tutti, si devono svolgere a profitto di tutti: spetta ad essi tenere in esercizio i buoni, avvertire i cattivi, soccorrere quelli che vacillano nella loro buona volontà, favorire la fraternità con l'aiuto reciproco, risollevare i peccatori, spingere più in alto quelli che salgono, scuotere i sonnacchiosi, accecare gli induriti nel male per un giusto e terribile giudizio che è già una sanzione, se pur provvisoria, e sempre rivedibile. Ad essi — e questo dice tutto — tocca preparare il campo per le battaglie degli eroi, dei soldati fedeli e dei codardi; ad essi tocca manifestare il merito, il che vai di più, in questa terra di sforzo, del coronarlo; ad essi tocca procurare la rassomiglianza a Gesù Cristo nei suoi mèmbri, dolore e gloria, croce e bandiera di resurrezione.

Quando gli avvenimenti di questa vita ci rendono felici non si può certo dire che sbaglino;

si può dire invece che sono in anticipo. Non è ancora venuto il tempo della felicità, anzi il tempo della felicità non esiste, perché la gioia è cosa d'eternità, e il tempo ne è soltanto rischiarato. Noi ne riceviamo solo alcuni bagliori; quel poco che ci basta per camminare, per non andare fuori strada e per non disperare; ma sarebbe pazzia pretenderne la sostanza.

Quando il Vangelo dice di alcuni: essi hanno già ricevuto la. loro ricompensa, parla di costoro come degli uomini più infelici. Si potrebbe con verità chiamare felice chi venisse pagato in un luogo dove non c'è che moneta di nessun valore? Inoltre sarebbe forse ben fatto distribuire la paga durante la giornata, in pieno cantiere, mentre si sta lavorando di buòna lena, proprio quan-

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do c'è da far presto e bene, perché il bisogno è urgente, e quando per un buon operaio i giorni paiono sempre troppo breyi? Sarebbe cosa buona distribuire le decorazioni in pieno assalto, festeggiare l'ufficiale quando è al suo posto di osservazione, richiamare a terra l'aviatore per fare allegria, mentre sta inseguendo un aereo nemico?

Il genio dell'azione, come quello dell'amore, come la febbre del sacrificio, non ambisce ricompense immediate. Queste son rimandate a più tardi. Intanto si avanza, ci si sacrifica, ci si lancia, si muore nell'aspra lotta, gettandosi a capofitto, senza domandare verso quali cime o verso quali abissi si vada.

Si sente vagamente, quando non lo si senta esplicitamente, che l'ordine morale domina il tempo, le circostanze, la vita, la morte e che esso paga sempre, che ci .si può fidare, che ci si può abbandonare alla sua fedeltà, come a un Dio che tutti riconoscono, pur senza dirne il nome.

Precisamente qui sta la chiave di tutto. L'ordine morale può essere un ordine ritardato — anzi dev'esserlo, perché gli uomini liberi possano acquistarsi meriti e comportarsi nobilmente di fronte al bene e al male ma è un ordine assoluto, perché è l'ordine divino, perché è la fedeltà delle cose a se stesse, dei fatti a se stessi, sotto lo sguardo di Colui che è fedele per natura e che, occorrendo, sarà fedele per tutti.

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Tutto ciò che è del tempo, è sottoposto, da parte dell'eternità, a una rivendicazione somma. Le proprietà di tutte le cose, compresa la libertà, sono nelle cose stesse un volere di Dio e alla fine non possono che attuare tale volere. Tutte noi creature ci moviamo in Dio come in un infinito che lascia non poco spazio per i nostri movimenti, ma da cui niente può evadere e dov'è pur necessario sottomettersi a ciò che lo qualifica : bontà e saggezza.

In un ordine creato abbandonato a se stesso, potremmo avere delle sorprese, poiché il creato, da solo, non si sostiene; pesa, e quindi è sempre soggetto a cadere, ma quando si tratta dell'ordine universale, Dio medesimo vi prende parte : il capo dell'ordine è congiunto all'ordine stesso e lo completa proprio là dove quello manca, lo corregge dov'è fallibile, lo conferma in ciò che ha di buono. Là dove il capo supremo, indipendente, incorruttibile, immutabile, presente a tutto e dedito totalmente a tutti, decide e pronuncia l'ultima parola sulla sua opera, non possono avvenire sbagli; dove questo rè governa, non vedremo mai crisi politiche o amministrative; dove questo generale comanda di persona, non sarà mai possibile una sconfitta.

Da ciò risulta che, se considero il significato profondo degli avvenimenti della vita, tirando le somme, senza più separare l'immediato dal lon-

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tano, ciò che è di questa vita da ciò che è dell'altra; se io giudico il destino qual è, nella sua infrangibile unità, e se il temporale, che troppo volentieri pigliamo come un tutto, ridiventa ai miei occhi un semplice elemento; se nella morte, che sembra la fine di tutto, riesco a vedere un avvenimento come gli altri — allora posso affermare con certezza : sì, gli avvenimenti pagano e pagano sempre, essi sono debitori e creditori d'una esattezza e d'una integrità rigorosissime; sono servi dell'ordine morale fedeli fino allo scrupolo; favoriscono sempre il bene e puniscono sempre il male; nulla mai li turba; i loro effetti, nell'eternità che avvolge il tempo, cadono, come falde di neve nell'aria calma, e il loro apparente disordine è in realtà una meravigliosa imperturbabile armonia.

In breve, si potrebbe dire : gli avvenimenti sono Dio che si manifesta. Gli avvenimenti infatti non sono che opere di Dio, mezzi di cui Dio si serve, tentativi di Dio, offerte di Dio, aiuto o ammonimento di Dio. Qualunque sia il loro nome, il loro casato è Dio, e occorre quindi guardar più a Dio che ad essi, se si vogliono giudicare rettamenté. ; : "; ^ .:^ .S^r&SA ^'/. '\. . -%•' '-; " . \

L'universo, che pare a tutta prima un mezzo caos e che, considerato nel suo funzionamento, si direbbe un fatale ingranaggio, è in realtà un organismo libero e impeccabile, tutto pervaso da un'anima che lo muove, la quale altro non è

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che la Divina Provvidenza. C'è infatti un corpo . degli avvenimenti che li può far parere ostili o pericolosi, ma c'è anche un'anima degli avvenimenti, che è l'orientamento loro impresso da Dio in conformità a ciò che è richiesto dall'ordine morale. Un artista fa passare l'anima propria nel suo pennello, per dar vita al capolavoro : anche Dio, artista sommo, fa passare la sua anima, cioè la sua Sapienza, la sua Giustizia, la sua Bontà, negli avvenimenti del mondo, per dare a noi vita e perfezione di vita, purché gli siamo sottomessi. :

II segreto del mondo sta proprio in questo adattarsi degli avvenimenti alle creature, ai fìgli di Dio cui il mondo deve la sua ragion d'essere, agli eletti della terra che diventeranno, se vogliono, gli eletti del Ciclo. La realtà è morale, perché Dio è morale ed è come incorporato alla sua opera. Se tutt'a un tratto i nostri occhi si aprissero anche sulla realtà invisibile, noi scopriremmo che tutto non è che Dio manifestato alla sua creatura, chino paternamente su di essa, nell'atto di chiederle in ricambio solo la cooperazione per l'acquisto di un regno ove si trova preparata la felicità della creatura stessa.

E, senza dubbio, in un simile ordine non si può invocare la sorte a spiegazione di alcunché, quando si tratti di spiegazione decisiva. La sorte non ha una parte che le appartenga e in cui sia

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padrona, ne ha un destino particolare, a sé, poiché anch'essa è un'operaia di Dio. La sorte è qualcosa la cui utilità non ci è ancora stata rivelata e la cui legge intima ci sfugge, ma questa utilità è certa e questa legge è rigorosa come qualunque altra. Essa pure sarà chiamata a giudizio e dovrà render conto dei suoi servizi: ma lo farà con tale sicurezza che il bene ed il male non avranno nulla da temerne o da sperarne. E questa sorte capricciosa, di per sé indifferente alla giustizia, si mostrerà, nelle mani di Dio, inflessibile come la bilancia stessa del diritto.

Nulla ci capita per caso, nemmeno gli effetti stessi del caso. Nulla ci può capitare contro di noi, se non lo vogliamo, e nulla ci può essere contrario, perché, in fondo, niente è contrario a qualcosa, perché tutto è armonia in Dio.

Dio è nell'uomo e nell'universo, e risponde dell'uno e dell'altro; è in ciascuna persona e nei luoghi dove l'azione di questa si manifesta: potrà qui e là contraddirsi ? Non sarà forse d'accordo con se stesso? Il nostro sforzo unito a Lui sarà quindi assolutamente invincibile e il nostro destino guidato da Lui non potrà non arrivare gloriosamente in porto. Al contrario, la nostra azione separata da Lui, o contraria a Lui, il che è poi la stessa cosa, non può essere che vana o funesta. La buona coscienza è la forza suprema dell'uni-

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verso; tutto s'inchina davanti ad essa e, alla fine, tutto si ordina sotto il suo impero. ^ ? T^ r'^ir";

Qui sta, per un gioco di reciprocità inevitabile fra contrari, la terribile e fatale condizione del peccatore. Quando il peccatore beve la « sua acqua di morte », come dice santa Caterina da Siena, egli gode un beneficio immediato; ma questo effimero godimento gli nasconde le spaventose ripercussioni che l'ordine morale turbato gli prepara e farà sorgere al momento segnato dalla Provvidenza. Il peccatore non pensa che ci sono dei vincoli segreti tra la grazia o la sua privazione, da una parte, e gli avvenimenti del mondo, dall'altra; e così tenta di portarsi via un po' di gioia da un complesso che difatti gliela da, ma secondo un certo ordine, e che, al di fuori di quest'ordine, è invece terribilmente nefasto.

Il bene e i1 male, come abbiamo già detto, portano in se la oropria sanzione immediata : non resta che scoprirla e il peccatore ne saprà qualcosa quando s'accorgerà che i suoi stati intcriori, in apparenza innocui e tali da far dire al presuntuoso nella Sacra Scrittura : « Ho peccato, e che male me n'e venuto? », sono in realtà l'esca di un incendio che un giorno divorerà tutto, le sue proprietà, tutti i suoi beni e la sua stessa persona. Il peccatore rivolta tutto contro di sé soltanto con l'allontanarsi da Dio, come la virtù ri-

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volge tutto a proprio favore lavorando alla conquista di Dio. : ^ a

II Capo supremo dell'ordine non può abdicare — per concederlo al peccatore — all'alto comando che esercita sulla sua opera, così come non può alterarne, a profitto del peccatore, il carattere morale. Dio può pazientare; ma prima o poi viene la sua ora. « Nessuno può strappare qualcosa dalle sue mani. » A chi abusa, l'ordine divino s'incaricherà di provare, con la sofferenza, l'efficacia di una legge di cui sono stati respinti gli utili servigi.

«Io non temo che i miei peccati», diceva san Vincenzo de' Paoli durante il processo concernente la sua casa di Saint-Lazare. E san Ber-nardo prima di lui aveva detto : « Nulla mi può far danno fuorché io stesso; porto con me il torto da me creato e non soffro mai realmente se non per il mio proprio errore. » C'è in tutto questo una minaccia e, nello stesso tempo, una meravigliosa consolazione. La buona volontà è tanto resa sicura delle sue vie, quanto la malvagia della sua perdizione. Chi segue i disegni di Dio, può render vani i disegni degli uomini, degli avvenimenti e del caso. La distinzione degli stoici tra ciò che dipende e ciò che non dipende da noi, con il dovere per noi di occuparci di quello e di abbandonare questo alla Provvidenza, è ammirevolmente cristiana. Orientati a Dio come l'ago

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magnetico verso il polo, noi viviamo in buona armonia con tutte le potenze del mondo, le quali non faranno che cooperare, in un modo o nell'altro, al nostro perfezionamento.

« Uomini di poca fede, di che cosa temete? », ci dice il Maestro Divino. Quando Dio vi custodisce, qual nemico avrà forza contro di voi? Se un passero non cade dal tetto senza il volere del Padre Celeste, potrà un figlio di Dio venire oppresso senza che il Padre l'abbia voluto, e il Padre potrà volere questo fuori della sua giustizia d'amore ? « Se Dio ci desse dei padroni di sua mano, scrive il Pascal, oh! come sarebbe necessario ubbidire loro di buon grado ! » Ma, aggiunge, «la necessità e gli avvenimenti son sicuramente tali ».

Il nostro bene è caro al cuore di Dio e il nostro bene costituisce il fine stesso dell'immane opera della creazione: gli avvenimenti di questo mondo compongono un dramma divino, la cui conclusione prevista è la nostra felicità. Quello che ci abbisogna, qualora ci abbisogni davvero, ci verrà dato; quello che ci nuoce, se ci nuoce veramente, ci verrà tolto, salvo il caso che noi stessi ce ne vogliamo fare un idolo e un tesoro.

Nella transeunte contraddizione fra gli eventi e il nostro bene, tocca a noi, in collaborazione con Dio, determinare la verità e fare così della nostra vita, tale qual è, la migliore possibile. Non

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dobbiamo far altro che abbracciare la nostra sorte costruendo, con le pietre ch'essa ci getta, la nostra casa, spessissimo quella temporale e, in ogni caso, quella dell'eternità.

Non è necessario che gli avvenimenti ci accarezzino, perché ci debbano servire, come il servo migliore non è sempre quello che si sprofonda in riverenze e si mostra ossequiosissimo davanti al padrone. In molti casi, come c'insegna l'esperienza, ci dobbiamo rallegrare di avvenimenti che da principio avevano prodotto in noi una dolorosa ferita. Una sventura, una malattia, un cattivo successo, una caduta, non segnano forse molte volte l'inizio di una rinascita? Ciascuno potrebbe ricavare esempi di tal genere dalla propria esperienza; in quella di Dio questo avviene sempre,. alla sola condizione che si tratti dei suoi eletti.

Le circostanze sono un nulla, l'uomo è tutto. Il nostro destino totale si attua con gli elementi che la Provvidenza ci fornisce, non con quelli che essa ci nega.

Il contadino che semina da un capo all'altro il suo campo, non si cura dello spostarsi della terra; egli bada a gettare il seme conforme alle regole e poi aspetta. Così noi, gettando la nostra azione nella Provvidenza, non ci dobbiamo preoccupare di quello che ne avverrà poi. La Provvidenza sa bene dove va e noi la possiamo seguire con animo tranquillo; infine, collaborando secon-

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do la nostra legge, avremo parte ai frutti del lavoro. Noi partecipiamo alla grande impresa dì Dio e una parabola ci insegna che ci toccherà ugualmente il salario, anche se avessimo lavorato un'ora soltanto. L'empio fa un lavoro ingannatore, dice il Proverbio, ma chi semina giustizia ha mercede sicura. (Prov., XI, 18)

Anzi — e questo è un meraviglioso segreto che troppe anime dimenticano di mettere nel conto della loro vita morale — lo stesso lavoro ingannatore, che di per sé è un lavoro di morte, può ancora, ad alcune condizioni, essere utile. Gli eventi infelici provocati da noi, quelli che hanno per causa nostri difetti, errori, peccati, magari perfino delitti, tutto, senza eccezione alcuna, risente il beneficio della totale appartenenza degli avvenimenti all'ordine spirituale regolato da Dio.

Dal momento che alla morale tocca l'ultima parola su tutto, il passaggio dal male al bene, come dal bene al male, non può mancare di produrre, negli avvenimenti che ne dipendono, delle notevoli fluttuazioni. La materialità dei fatti non cambia; ma l'anima loro deve mostrare in piena luce la sua segreta virtù. Ne risulta che le conseguenze d'una cattiva azione, senza cambiare aspetto nel visibile, assumono, se faccio ritorno al bene, una qualità e un significato completa-

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mente nuovi — cambiano segno, direbbe un matematico : lasciano il meno e prendono il più.

Quelle conseguenze che erano contro di me si volgono ora a mio vantaggio, e m'è lecito usarne, con Dio, come se venissero dalla sua Provvidenza. E ne vengono effettivamente, perché se il male non è da Dio, le conseguenze dipendono da Lui e fanno l'opera sua, ed Egli se ne serve per punire giustamente o per eccitare al pentimento quelli che vivono nel male, come anche le adopera per rendere sempre più liberi o per mettere alla prova o per ricompensare quelli che ritornano al bene. E che importa che certi avvenimenti siano figli del peccato, quando il peccato ormai non esiste più? Estinta questa paternità, la vera paternità riprende il suo posto, e al peccato si sostituisce Dio. Le conseguenze del mio peccato, che appartengono a Dio e che sono al suo servizio, appartengono anche a me e a me possono servire quando ridivento figlio di Dio.

Capita come se si trattasse d'una eredità. Io eredito da me stesso peccatore; ma non essendo più peccatore al presente, per aver pagato il mio debito e soddisfatto alla giustizia, solo materialmente io sono colui che ha compiuto quegli atti :

moralmente non lo sono più, e, poiché la morale regola tutto, le conseguenze del mio passato mi stanno davanti quasi cosa estranea : è come se ereditassi così da altri. Io mi sottometto a ciò come

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a un fatto provvidenziale e piego quelle conseguenze al mio servizio per meglio redimermi, per progredire e per far trionfare il regno di Dio in me e negli altri. Ciò che io ho sacrificato con le mie mani, potrà così venire rialzato dalle mie mani unite a mani più forti; io lo trasformerò secondo i miei desideri e ne farò splendore e felicità, così come avrei potuto farne, restando peccatore, vergogna e morte.

La Provvidenza non è un terreno infecondo, ove il seme rimanga sterile e, a dispetto di Dio o nostro, inaridito per sempre : al contrario è una terra meravigliosa, dove le acque stagnanti possono diventare sorgive. La Provvidenza comprende il bene e il male, servendosi sempre, per sé, dell'uno e dell'altro; per noi poi essa rende utile tutto ciò che le affidiamo con umile amore.

Quando io sono con Dio, tutto è bene, anche quello che sembrava male e che si doveva concludere in male sotto la dirczione della mia colpa. Ma tutto viene corretto per il fatto che io mi sono corretto e perché io, una volta corretto, ho ristabilito la corrente che fra Dio e me fa circolare tutti i vivifici fluidi del mondo. Di nuovo il creato è al mio servizio e io mi riguadagno il beneficio di quella divina promessa: Tutto e per gli eletti; ciò che avevo commesso a mio danno ora si cambia a mio favore; il divino domina nuovamente l'umano; l'eternità ha ripreso a ser-

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virsi del tempo; l'infinito benefico ha riassorbito il finito e intende farlo partecipe della sua felicità. ' ' . -^.^'^^.••.•'^:^-

Che meravigliosa consolazione!, e quante anime vi potrebbero trovare, dopo il coraggio del ritorno, quello ancora più difficile dell'azione, nella gioia intima e nel potente conforto d'una rinnovata fiducia!

« Io non temo che i miei peccati » diceva san Vincenzo de' Paoli; ma sant'Agostino, completando audacemente un pensiero dell'Apostolo col frutto della propria esperienza, afferma: Per quelli che amano Dio, tutto serve al bene, anche i peccati. Certo queste parole non vanno intese come un incitamento al peccato, poiché il beneficio richiede che il peccatore già si sia convcrtito — cosa che non potrebbe fare da solo — e la presunzione sarebbe una ben pericolosa garanzia;

ma, ancora una volta, per il peccatore umiliato e pentito, quale meravigliosa consolazione!

Ho agito contro di me e ho compromesso la mia vita; ho fatto del mio destino un debitore del passato, sapendo bene che non avrei mai potuto saldare da me solo il conto; ho sciupato la salute, dissipato le mie sostanze, fatto alla peggio mille lavori, scoraggiato gli amici, fatto cadere l'edificio di una vita fino allora felice. Chissà ch'io non mi sia messo in una di quelle condizioni in cui con occhio allucinato e con animo

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in preda alla disperazione si guarda verso la tomba? Ebbene, devo anzitutto pentirmi ed espiare:

l'essenziale sta qui. Ma poi, o Signore, non vorrete voi accettare l'eredità di questi disastri e di tutta la miseria causata dalla stoltezza del vostro disgraziato figliolo?... Ma sì, voi l'accettate con una tranquillità, con una pienezza che cambia in gioia, per chi acconsente a stringersi al vostro Cuore, tutta l'amarezza che gonfiava il suo e vi manteneva sconforto e sfiducia. ^-?• A; w - -

Si potrebbe dire che voi fate vostro il mio peccato, perché ve lo portate via con tutte le sue conseguenze, quasi fosse stato commesso da voi;

voi lo dissolvete, lo annegate nel mare della vostra Provvidenza somma e infinitamente misericordiosa; esso diventa un caso dell'ordine universale che, anche nelle sue manifestazioni più aspre, è sempre al servizio dei vostri figli. Quest'intreccio di avvenimenti che mi doveva tormentare, ora mi viene proposto e io posso accettarlo come dono del vostro amore. Tutto questo, ormai, siete voi, voi con la vostra croce, ma già con la vostra gloria, e voi, tutto bontà, mi invitate a sottomettermi liberamente, dicendomi :

-< Vuoi?

Sì, Signore, voglio ciò che vuole la vostra misericordiosa paternità. Voglio ciò che ho voluto senza di voi e che il vostro amore mi ha tolto : ciò che di male avevo commesso e che è

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stato da voi trasformato in bene, ciò che sconsideratamente avevo progettato a mio danno e che voi piegate ora ai miei ordini. Divino alchimista, tutto cambiate in oro; divino artista, correggete il mio disegno e fate risplendere il capolavoro davanti agli occhi del maldestro imbrattatele. E io voglio partecipare con la vostra grazia a quest'arte santa. Farò con voi e per voi ciò che porta con sé una vita apparentemente sconvolta, ma in realtà più felice dell'altra. Un crollo non può forse presentare maggior bellezza di una costruzione mediocre, e un'aurora sulle rovine non è forse più attraente che sul tetto d'un palazzo d'architettura volgare? Levatevi, mio Sole, e la rovina fiorisca !

La mia vita non sarà più un campo abbandonato, perché vi sarete voi. Le pietre stesse sussulteranno sotto la carezza della vostra luce, da cui sgorga a torrenti la vita; dalle mura screpolate uscire una primavera di verde e di fiori; sotto la cima vacillante grandi ceste si riempiranno di frutta; le volte sconnesse e i blocchi disgiunti canteranno da tutte le loro aperture un osanna di cui l'umiltà stessa sarà la dolce gloria; proclamerò la soave bontà del Signore, e. questo canto del mio cuore rinnovato farà gioire quelli che gustarono e godettero il frutto delle medesime misericordie e andrà ripercotendosi di cuore in cuore fra i vostri eletti.

Quando ci vorremo adattare, noi mortali, a questa divina filosofia della vita? Se conoscessimo la nostra felicità! Vincolati a Dio, noi siamo in grado di affrontare il mondo con speranze illimitate. E' vero che non ci sono promessi buoni esiti temporali, — benché si parli di un centuple il cui annunzio non può essere vano •—, ma in ogni caso il felice successo è senz'altro assicurato a quelli che cercano anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia. " ' -^ "

Che cosa guadagnerò io, infine, a mettermi contro la Provvidenza ? La Provvidenza fa sì ch'io abbia in me la mia felicità, a cui non posso sfuggire che attraverso Ja porta del male. Non ho attorno a me che amici e servi, uomini e cose; e tutto m'obbedisce in ciclo e sulla terra, come al Figlio di Dio, se con lui anch'io sono un figlio di Dio.

Non troverò forse una sovrabbondanza di gioia se entrerò così nei disegni divini? La gioia tocca di diritto quando basta camminare nella sua via per arrivare al più splendido destino e alla più perfetta beatitudine. Inoltre la gioia è sapienza, mentre il pessimismo è follìa, se non si voglia respingere, con una sprezzante negazione, l'esistenza o la sovranità dell'ordine morale.

Eccettuato tale estremo, nessun'altra scelta rimane, e la nostra felicità non sarà limitata che da un mistero la cui grandezza oltrepassa ogni

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previsione. Un senso di liberazione si impadronisce allora dell'oppresso di ieri, quando si sente affrancare dagli altri e: da se stesso, dai fatti e dagli esseri, per entrare nella corrente che trascina tutto verso la perfezione.

Non ci sono più progetti particolari da fare, Dio si prende cura di tutto. Dio ci salva con Sé:

Dio ci salva preservando insieme la sua gloria e ri-traendo incolumi i suoi attributi.

Mettersi in moto, camminare, mantenersi nell'ordine, arrivare: questo è il programma, e gli avvenimenti, con Dio e con noi, ne sono gli esecutori.

Gli avvenimenti non hanno altro fine che quello di spingerci a Dio : se sono favorevoli, Dio li consacra; se sono ostili. Dio li trasfigura. Basta che noi vogliamo. Oh, faccia Iddio che noi vogliamo, e che lo vogliamo con un volere pieno d'amore, questo amoroso adattamento dell'essere al bene, del fatto al diritto, che giustifica tutte le nostre speranze!

Ben risoluti a seguire la Provvidenza in tutto ciò ch'essa dispone, a non trascurare alcuno dei suoi ordini, a studiare con esattezza il nostro dovere e a dedicarci ad esso senza discuterlo mai;

convinti che ogni vita può essere buona, anzi la migliore e l'unica, e che in essa e per mezzo di essa, quali ne siano le apparenze, possiamo di giorno in giorno migliorare la nostra sorte; noi ver-

remo a possedere una beatitudine superiore a tutte; lasceremo, noi immortali, al tempo la sua vera parte, avremo ben giudicato delle possibilità del nostro destino e come anticipato il giorno del giudìzio, in cui si manifesterà in tutti i suoi effetti questa benefica unità delle cose. Confidando che quel giorno ci sarà favorevole, noi potremo allora, per così dire, riposarci sul cuore del mondo, sapendo che batte sul cuore di Dio.

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L'APPREZZAMENTO DEGLI UOMINI

-C/ una cosa difficile, per il nostro spirito, una valutazione degli avvenimenti che sia conforme alla profonda verità della vita; a malapena vi arrivano, congiunte, la ragione e la fede e, per riuscirvi anche noi, dobbiamo, nel nostro sforzo, seguire con grande fedeltà i suggerimenti di queste. Ma ancor più formidabile si presenta la difficoltà di restare nel vero quando, invece di avvenimenti puramente causali, invece della fortuna, della sorte, della vita presa in genere, noi ci troviamo davanti questa o quella persona da cui dipende o dipese poco tempo fa il nostro destino. Il caso, che gettava la colpa su Dio, cede allora a una creatura ragionevole, a qualcuno che si sostituisce, che prende su di sé la responsabilità e che corre il rischio, quando il nostro cuore si

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inasprisce, di guadagnarsene tutta l'amarezza. I sentimenti di odio, il disprezzo, l'avversione minacciano in questo caso di attecchire, e, per un fenomeno di ampliamento noto a tutti, i nostri giudizi sull'intera umanità diventano poco favorevoli.

Va notato che i nostri apprezzamenti riguardo agli uomini dipendono quasi sempre da ciò che essi hanno fatto per noi o contro di noi, e che la nostra stessa condotta di fronte agli altri è ben lontana dal produrre in tutti le medesime reazioni intellettuali; salvo il caso che quegli altri ci vogliano tutti molto bene. La nostra logica pratica è una logica di sentimenti : l'uomo felice è ottimista sul conto dell'umanità, mentre l'uomo infelice vede tutto nero e di nero imbratta i suoi simili. Se costui giudica la vita con severità, questo avviene, evidentemente, perché egli nutre un rancore particolare verso quelli che per lui ne sono come l'incarnazione, o, per dir meglio, la mostruosa esagerazione e la caricatura.

Quanto più un essere ci è vicino, tanto più la sua ostilità ci urta; i fratelli nemici sono più nemici degli altri; le smorfie delle scimmie ci paiono più canzonatorie di quelle delle bestie che non ci « scimmiottano ». Noi sentiamo che gli scambi con il nostro prossimo hanno come fine il vicendevole aiuto e la gioia, e perciò quando si pervertono in discordia e ci attirano dei mali,

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il nostro animo riversa la propria delusione in giudizi amari che poco per volta generano tutta una filosofia pessimista. ^;w:;:%^.-%J$w;~f

Reagire con coraggio a questa tendenza e superare le misure umane degli avvenimenti fino al punto di riferire a Dio solo quello che ci accade richiede uno sforzo che riesce solo a pochi cristiani: la maggior parte non lo tenta neppure.

Victor Hugo, in una lettera scritta a sua moglie dalle rive del Reno, racconta di aver visto un giorno un bambino che si mangiava dì gran gusto una mela : « Bimbo, chi t'ha dato codesta mela ? » — « Nessuno, è stato il vento. » — « Bimbo mio, quando non è nessuno, è Dio. » Riferito questo dialogo, il narratore vi fa questa tardiva postilla : « Avrei potuto aggiungere : anche quando è qualcuno, è sempre Dio. » Commento postumo, che procede da una piena riflessione; ma, al primo momento, per Victor Hugo come per tutti, quand'e qualcuno e. proprio quel qualcuno, specialmente se si fratta di un dolore pungente.

Dicevamo che la natura fa da paravento a Dio, ma quanto più Lo nascondono gli uomini! Lo schermo qui è più fitto e i nostri sentimenti ne rivestono la superficie d'un bagliore che acceca e turba lo spirito. Non dovremo però, anche a questo caso, che in verità non presenta nulla di nuovo, applicare una dottrina essenzialmente generale? Se il Creatore risponde davanti

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a noi e davanti a se stesso per la sua creatura;

se tutto ciò che di positivo viene attribuito alla causa seconda si può attribuire a maggior ragione alla Causa prima, e se il necessario, il contingente o il libero non presentano a tale proposito, come dice san Tommaso, differenza alcuna, cosicché la fatalità, là fortuna o i cattivi voleri per la parte che ci concerne sono ugualmente compresi in questa somma e comune responsabilità, noft si può fare a meno di confessare che i nostri giudizi istintivi battono una falsa via.

Non è vero che le azioni del prossimo possano venirci dal prossimo senza venirci da Dio, come non è'vero che esse possano farci del bene o del male al di fuori del volere di Dio. Tutte le cose sono fatte per gli uomini, dicevamo, e la Provvidenza se ne serve a nostro vantaggio, se vogliamo, anche quando esse ci opprimono. Ma anche gli uomini tra di loro sono al servizio gli uni degli altri, e Dio, come adopera gli avvenimenti e le cose per il bene dei suoi figli, così adopera le persone. Si serve di esse con la nostra collaborazione, ed esse ci servono anche se ostili e aggressive nei sentimenti e malefiche nelle azioni. ?" ^vi

Che cosa è infatti un'ostilità, se non un caso del tempo che l'eternità abbraccia? Che cosa sono un danno e perfino un disastro, cagionati da quell'ostilità, se non casi provvidenziali come gli al-

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tori, obbedienti a una medesima legge e miranti alla gloria del Creatore attraverso la nostra felicità?

Ciò che mi capita, da qualunque parte venga, non mi proviene mai da un'azione indipendente, c'è sempre di mezzo Dio: Dio che usa a modo suo di ciò che, umanamente parlando, sta per ostacolarmi o minacciarmi. L'azione divina a cui nessun'altra azione sfugge, da a ogni azione il suo scopo e la sua forma. La Provvidenza è come un filtro che tutto riceve, e ciò che a noi ne proviene di felice o di funesto nella sua origine, di felice o di funesto in se stesso, prenderà il colore ch'essa gli darà, finirà quindi per essere un fatto conforme alla Provvidenza, cioè in perfetta armonia con l'ordine morale. Avverrà quindi, come succede nella natura, quello che Dio con noi e noi con Dio avremo voluto.

L'uomo oggi .semina la causa;

domani Dio maturerà l'effetto.

Nessuna libertà può pretendere di modificare o di respingere con autorità propria un ordine eterno. Nessuna libertà può agire sopra un'altra libertà, senza che la Libertà suprema intervenga e rivendichi a sé l'ultima parola. Tutto ciò che è umano si muove, come tutto il creato, nel relativo e nel transitorio: l'assoluto e il definitivo sfuggono all'uomo. Alla fine di tutto Dio resta

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vincitore e, Con Lui e in Luì, quelli che gli si sono uniti per questa felice vittoria.

Tutto insomma avviene fra noi e Dio. Il destino di ciascuno dipende dal contatto dell'anima con la sua Legge vivente, con la sua Causa perpetuamente in atto, con il suo Fine pronto a riceverla non appena essa avrà posto le condizioni che umanamente da lei sola dipendono.

La buona coscienza, dicevamo, è la forza suprema dell'universo; essa, aggiungiamo ora, è anche la forza suprema tra gli uomini. Nessuno può salvarmi o perdermi eccettuato me stesso, e nessuno veramente mi reca danno o mi fa del bene nella vita, se io non voglio. Non mi si parli di nemici, perché non ne ho : fino a che rimango amico della mia vita, la mia vita rimane intatta sotto la protezione dell'universo intero; quello che sembra minacciarla, trovandosi di fronte a Dio, davanti ad essa si trova in un lontano infinito; l'ordine divino distende tra ogni male e me i suoi spazi insuperabili e io divento inaccessibile e inviolabile a ogni essere, fuori di vista e lontano dai colpi di tutto il creato, indipendente, solitario, fedele e calmo davanti al mio Dio.

Ecco perché il giudizio su chi mi è avverso o su chi agisce o crede di agire sulla mia sorte, così come il giudizio sulle sue intenzioni, sui suoi sentimenti, sui suoi passi, sulle sue compli-

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cita diventa praticamente ozioso. Sarebbe come s'io volessi sottoporre a giudizio il comignolo che rovina durante un temporale. Siccome poi un tale giudizio è di per sé aleatorio e in fine moralmente dannoso a causa delle reazioni che suscita in noi, si comprende bene che la sapienza cristiana lo disapprovi: Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati. (Luca, VI, 37) « Giudicando gli altri, dice l'autore deli.7 Imitazione, l'uomo s'affatica vanamente, sbaglia quasi sempre e commette molti errori.» (Lib. I, cap. XIV)

Occorre, evidentemente, sapersi regolare. Per evitare che il comignolo mi caschi addosso o caschi addosso ad altri, io devo giudicare della sua stabilità. In balìa del nostro libero consiglio, e quasi sempre più o meno incaricati di altri, noi non possiamo, senza follìa e senza colpevolezza, trascurare di valutare le contingenze e quindi le persone; ma ciò non è quello che, nel linguaggio religioso, s'intende per giudicare o condannare il prossimo. Riflettere per comportarsi bene non è un trascinar gente in tribunale, ma bensì un badare ad agire noi con prudenza. In realtà non si tratta che di se stessi. Dove debbo portare i miei passi, quali risoluzioni e quali mosse sono richieste dalle circostanze, quali bisogna evitare;

tutto il problema sta qui.

L'uomo spirituale non si metterà a guarda-

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rè più in là; non cercherà di intromettersi nella coscienza altrui per tenervi udienza, ne pronuncerà sentenze di condanna, si guarderà bene dal-l'infliggere, come se gli toccasse d'ufficio, la sanzione del disprezzo o la reazione dell'odio e, a maggior ragione, si asterrà dagli atti che sarebbero la naturale conseguenza di tali sentimenti. Egli bada al fatto suo, abbandonando agli altri le loro responsabilità; egli lascia il prossimo fra il prossimo e Dio, restando egli stesso fra sé e Dio, sapendo che tutto si risolve qui, perché Dio è la sorgente prima degli avvenimenti che hanno relazione con la sua persona; perché in Dio si trova l'autorità che giudica questi avvenimenti con giudizio supremo, perché in Lui, finalmente, sta il potere che trarrà da tutto, al momento voluto, quello che conviene alla sua sapienza e alla nostra, nel campo inviolabile e inviolato dell'ordine morale.

Sapesse l'uomo seguire questa filosofia! Non si « stancherebbe » invano, come dice l'autore mistico, conserverebbe invece e diffonderebbe attorno a sé quella pace che è la condizione del vivere bene; non andrebbe incontro a quegli errori perniciosi che ci rendono così estranei e talvolta così crudeli gli uni verso gli altri, così acri verso chi ha per noi i più nobili sentimenti, e infine, per avere supposto il male, non ne resterebbe vittima, come avviene quando il male

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passa dall'incolpato al suo giudice e provoca, sotto la spinta di un'indignazione che si pretende legittima, colpevoli rappresaglie.

Chi si vendica dimostra che il male lo ha vinto : come può stupirsi di questa prima vittoria? Orbene, il giudizio è già una vendetta attenuata, una sanzione enunciata, se non a voce, nel cuore, che partecipa così alla malizia di quella. Se temerario, il giudizio è un'ingiustizia; se fondato, è, giuridicamente parlando, un'usurpazione, quindi ancora un'ingiustizia e, in ogni caso, un'imprudenza.

-¥-

Se poi cerchiamo le ripercussioni di tutto ciò nei nostri giudizi sugli uomini in genere, saremo portati a pensare che il pessimismo e la misantropia siano la risultante d'un atteggiamento poco cristiano e poco saggio nei quotidiani apprezzamenti. Chi giudica male di questo o di quello; chi s'indigna oggi per una cosa e domani per un'altra; chi stima esclusivamente responsabili di ciò che gli capita di male il tal malevolo che ha detto questo, o il tale avversario che ha fatto quello, finirà presto a disprezzare l'uomo in genere e a non proferire più che sentenze amare. Non giudicando secondo Dio quello che non gli veniva se non da Dio, non poteva certo mettersi

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in grado di giudicare secondo Dio l'oggetto della sua avversione e poi tutti i fratelli. Un uomo simile non può essere un giudice imparziale, perché il suo spirito non è indipendente.

E del resto, dire indipendente è dir troppo poco, perché non siamo estranei tra noi, e dobbiamo voler bene ai nostri fratelli. Gli uomini ci sono infinitamente distanti, dicevamo, sotto l'aspetto dell'efficacia ultima dell'azione, di cui decide la Provvidenza; ma la stessa Provvidenza ci avvicina in una società intima e fraterna. Nelle nostre decisioni, intellettuali o pratiche, devono aver valore proprio questi vincoli che Dio sanziona, e i nostri urti che egli alla fine corregge.

Così disposti non ci sentiremo più di pronunciare contro l'umanità una sentenza sommaria. Camminiamo tra la bontà e la cattiveria, tra la viltà e la generosità, tra l'eroismo e la codardia, tra l'intrepida fedeltà e il tradimento. Se manteniamo l'equilibrio dei nostri pensieri, da questa duplice cognizione nascerà un giudizio anch'esso duplice, i nostri sentimenti saranno tanto esaltati da un lato quanto dall'altro depressi, e quando cercheremo di tirare le somme ci sentiremo vincere da una rispettosa commiserazione per quest'umanità sballottata ira due estremi e da una specie di trepida confidenza per la fragilità umana depressa da molte cadute ma rialzata da magnifici impulsi. Concludendo, saremo in-

dotti a pensare che, sia nel bene che nel male, ci sono cose che non si crederebbero compiute da uomini se non si fossero vedute, ma che non ci devono meravigliare quando esse avvengono davvero.

Ma con tutto questo ci troviamo ancora davanti a un aspetto molto limitato e molto superficiale della questione.

Questa non è ancora stata considerata nel suo più profondo aspetto. Noi vogliamo sapere ciò che bisogna pensare non davanti a circostanze accidentali, siano pure tragiche, non misurando gli uomini con il metro dei nostri sentimenti, bisogni e convenienze di vita, ne con quello della mentalità di chi ci sta intorno, non prendendo insomma come criterio di giudizio quello che è parziale, relativo o passeggero, ma considerando invece le cose alla luce dell'eternità, sub specie aeterni, come direbbe Spinoza, davanti a Dio;

alla natura creata da Dio e a noi stessi che proveniamo dall'una e dall'altra sorgente e che formiamo col prossimo, grazie a questo duplice vincolo eterno, un'unità infrangibile.

Quest'ultimo giudizio è quello della fede e della filosofia cristiana ed è anche il giudizio della vera filosofia naturale, intesa non come scienza astratta, ma come affermazione essenziale d'una ragione fondata sulle evidenze prime.

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Ponendoci così davanti al problema umano che cosa vediamo noi? Noi ci troviamo costretti a confessare che le differenze più fondamentali tra gli uomini — fossero anche quelle che corrono tra il genio e l'idiota, tra il santo e il criminale, tra un Bossuet e un san Francesco di Sales da una parte e il selvaggio della Papuasia disprezzato dal Renan dall'altra — lasciano intatte, solo velandole al pensiero, la sublimità meravigliosa e l'incomparabile dignità di quel fenomeno singolare, di quel prodigio sorprendente e sconcertante che si chiama uomo.

Chi conosce meglio l'umanità ? Senza dubbio i grandi uomini, i santi, la Bibbia, Gesù Cristo: dove trovare competenti migliori di questi? Ebbene, alla scuola di questi grandi maestri, impariamo forse la derisione e il disprezzo? Troveremo invece una profonda e affettuosa considerazione.

Di grandi uomini ce n'è d'ogni specie e quindi i loro pensieri sono necessariamente diversi, ma quelli fra loro che vengono stimati come i più profondi conoscitori e descrittori della realtà umana, gli autori di quei mirabili specchi dell'uomo che si chiamano l'epopea indiana, il poema omerico, la tragedia greca, il manuale stoico, la Somma del Medio Evo, la trilogia dantesca, il dramma shakespeariano, la commedia e il trat-

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tato dottrinale del secolo XVII, {'Imitazione di Gesù Cristo, i Pensieri pascaliani, la Conoscenza di Dio e di se stesso, V Introduzione alla vita devota, e molti altri ancora, hanno forse insegnato il disprezzo? Il vero genio non conosce il disprezzo, perché ai suoi occhi tutta la realtà è venerabile per se stessa, ma soprattutto perché l'uomo, la più alta delle realtà di nostra esperienza, assomma in se stesso caratteristiche che riempiono di ammirazione lo spirito, proprio mentre l'evidenza della sua miseria ispira pietà.

La Bibbia, dove troviamo, con la comprensione più umana, la più sicura affermazione dottrinale, la Bibbia che sa tutto e arriva alle radici di tutto, parla forse in diversa maniera e non porta invece all'estremo il sacro ottimismo in favore dei figli dell'uomo? La Bibbia sembrerebbe esser stata scritta per un piccolo popolo, ma la storia romba in essa con il rumore delle grandi acque, l'umanità vi palpita con tutto ciò ch'essa porta, e Dio quasi vi si tocca.

Così stando le cose, la Bibbia certamente non si inganna; essa sa «ciò che c'è nell'uomo»; essa descrive le nostre miserie con una acutezza ed una audacia celestiali; essa non si ferma dinanzi a nessun ostacolo, che ne conosce le cause e i fini: flagella crudelmente i vizi, essendo stata scritta proprio per questo; essa è, si potrebbe di-

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rè, il più crudo dei trattati di morale e la più aspra delle satire. Tuttavia, dove trovare una più splendida raccolta d'inni in favore dell'umanità?

Che cesa dice, celebrando la gloria del nome di Dio, il Salmo Vili che è uno dei gioielli della letteratura universale? Come in esso si risponde all'angosciosa domanda sul valore e sulla nullità della fragile canna pensante sotto le sublimità del ciclo? « Quando contemplo i deli, opera delle tue mani e la luna e le stelle che tu hai creato, io esclamo: Che cos'è l'uomo perche tu abbia a ricordarti di lui? o il figlio dell'uomo, perche tu abbia a prendertene cura? » Ed ecco la risposta :

« Tu l'hai fatto di poco inferiore a Dio stesso, l'hai coronato di gloria e d'onore, gii hai antidato il comando sull'opera delle tue mani, hai messo ai suoi piedi tutta la creazione. » E a causa di questo dominio dell'uomo su tutta la natura, non già a causa dei cicli risplendenti con la luna e le innumerevoli stelle, ma proprio perché l'uomo, posto al vertice della creazione, la compie e la eleva fino al suo Autore, il Salmo conclude : « Signore, Iddio nostro, quant'è ammirabile il tuo nome su tutta la terra! »

E di Gesù Cristo, culmine della Bibbia, di Colui che tutto di noi esprime e in cui l'umanità si concentra, come la luce del mondo vibra nel cuore del sole, che cosa potremo dire senza inde-

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bolire o appannare il suo fraterno giudizio sugli uomini? Gesù non s'è accontentato di dare agli uomini la testimonianza delle sue parole : anche se queste sono magnifiche, anche se il Discorso della Montagna riecheggia come un cantico d'amore, è stata un'altra montagna che ha dato a quelle la loro conferma, quando alle divine sentenze è stato apposto il sigillo della croce. Il Cristo è morto martire, cioè testimone, e questa testimonianza effettiva vale tanto per l'uomo quanto per Dio stesso. E' morto non per un qualche ideale d'umanità seguito con generoso entusiasmo, ne per la natura umana in sé, ma per questa stessa natura incarnata in individui fragili e colpevoli. Il Cristo non estende il suo regno sulle astrazioni, ne si è immolato per le ombre: ma per questo uomo e per quello, per me, per ciascuno come per tutti, egli s'è incarnato ed è morto in Croce.

Il Cristo conosce tutti e nulla ignora di ciò che riguarda ciascun essere pensante, volente, agente; egli tutto misura sul metro delle norme eterne, e questo stesso Cristo che sa, ama: ama e comprende al punto da pesare, sulla sua croce immobile, ciascuna anima e tutto il ciclo.

Quando poi il Cristo rivive nella persona dei santi, il suo sentimento si comunica e si ritrova evidente anche in questi testimoni secondari. Il rispetto per l'uomo ha qualcosa di religioso in

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costoro, i quali ci illustrano al più alto grado una constatazione che è di tutti: che sono i più virtuosi, coloro che sono più indulgenti. Essi conoscono il legame che corre tra la benevolenza del cuore e dello spirito e la virtù principale. La carità infatti non propone forse e prossimo e Dio come unico oggetto? E la carità, anche quella del prossimo, è una virtù teologale, cioè divina. Ne segue che, se i santi ci superano, non è questa una ragione perché essi ci stimino meno, anzi. Sono i nostri vizi che provocano in noi il disprezzo: è l'orgoglioso che non sa sopportare l'orgoglio, l'egoista che dappertutto non vede che offese ai suoi diritti. Le violenze dei nostri giudizi derivano dalla reazione delle nostre passioni urtate dalle passioni avverse. L'orrore del male, al contrario, invita a distinguere il male da colui che lo fa:

la virtù allora governa l'uomo mentre un'oscura complicità ribelle confonderebbe tutto, non avendo Vecchio semplice di cui parla il Vangelo.

L'indulgenza per essenza è la Santità suprema e la stima è una virtù di Dio : i santi ne godono la loro parte in misura della loro santità. La loro chiaroveggenza morale non li fa ciechi nei .nostri confronti — essi infatti non possono ignorare gli altri, quando per gli altri devono tanto spesso soffrire — ma la loro superiore chiaroveggenza, che corregge in essi gli effetti dell'istinto, fa sì che il loro giudizio cada su ciò che

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noi non sappiamo vedere, ed è così ch'essa scarta e condanna i nostri mediocri verdetti.

Ora, ciò che scoprono nell'umanità le alte personalità morali di cui ho parlato, ciò che sentono i geni e meditano i santi, ciò che il Cristo prova in se stesso come uomo universale e ciò che cantano gli inni sacri, è che questo piccolo essere, l'uomo, nonostante tutto ciò che testimonia contro di lui, è posto ai confini di due mondi che concorrono a farlo grande. L'uomo, infatti, è figlio privilegiato della terra e l'eletto del ciclo;

nella sua storia è racchiusa la stessa storia di Dio;

davanti a lui s'aprono infinite possibilità, mentre le sue incoscienze o le sue prevaricazioni non riescono mai ad annullare quaggiù le sue alte speranze e il soprannaturale lo porta fino al seno della divinità, la quale gli diviene così intimamente legata, che anche il più umile battezzato diventa per ciò stesso un essere celeste.

Queste considerazioni, che, in un senso, s'impongono ad ogni spirito e, nell'altro, ad ogni cristiano, hanno certamente un valore per cui sarebbe oltremodo opportuno tenerne conto nei nostri giudizi, piuttosto che lasciare la decisione delle nostre azioni all'istinto dell'immediato.

Se, conoscendo tutta la natura e ignorando noi stessi, incontrassimo per la prima volta un essere umano e venissimo a conoscere i suoi le

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gami terrestri e celesti, e s'egli ci parlasse poi come i visitatori dell'isola incantata parlano a Miranda nella Tempesta, non resteremmo di sasso dall'ammirazione? Fosse pure un primitivo, o un tipo relativamente poco dotato, noi pronunceremmo davanti a lui, pur badando solo a ciò che si vede, il panegirico d'Amieto: «Un angelo quando agisce, una divinità quando parla. » Ora, non è questo sguardo gettato come su una realtà nuova, sguardo che l'artista conserva e che il volgo ha dimenticato, quello che tocca la verità, la verità che la fede, facendoci attenti anche all'invisibile, arricchisce e completa?

Invece, l'abitudine che appiattisce ogni cosa, che ci impedisce di vedere ciò che ci sta vicino e lascia che qualcuno sbadigli davanti al sorgere del sole, limita il giudizio dell'uomo ai pLcoli fatti ed alle caratteristiche superficiali delle cose che più lo riguardano, e chiude i nostri occhi all'essenziale e al permanente: all'eternità umana, se così possiam dire. Ma non dobbiamo noi reagire, da artisti e da poeti, contro una cecità che diventa presto colpevole? Non lo vedremo, noi, il levarsi del sole del pensiero e dell'amore su questa terra oscura?

Da che cosa deriva il fatto che, dinnanzi ad una folla, un uomo moralmente volgare — soprattutto se è un dilettante che si vanta d'una

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cultura raffinata — non sa vedere che le volgarità? E' questo l'effetto d'una vera superiorità, o il risultato d'una fatuità che ottenebra l'intelligenza? Possiamo chiederci che cosa pensa il Cristo in un caso simile : « Vedendo gran folla, Egli salì su un monte e, dopo essersi seduto, coi discepoli attorno, aprì la bocca e parlo...-»

Chi non gusta, nella solennità del racconto evangelico, un profondo sentimento della grandezza umana? Colui che è di Dio non può disprezzare questa piccola terra, poiché sa che tutto il ciclo le gravita attorno e che il Maestro del ciclo vuoi chiamarsi suo Padre, e non solamente suo Signore, '•^.^s^-; . ;;:\:;^.l—^ -:?:,.,

Quando una folla, che personifica la nostra umanità, è sotto i suoi occhi, Gesù uomo non può fare a meno di commuoversi, poiché vede nei poveri contadini un'assemblea meravigliosa, l'assemblea degli eletti del Padre suo, dei chiamati al ciclo, di coloro che gli sono fratelli nella natura ch'egli ha assunto, nel destino cui egli partecipa, nello Spirito che egli porta e nella morte che per Lui diventa risurrezione. Egli vede ciò e freme nello spirito, si turba, come dice ancora il Vangelo. In questo stesso tempo il dilettante invece osserva dei « tipi », l'incosciente non vede che un volgo banale, l'orgoglioso misura con sdegno l'ignoranza dei suoi simili e l'uomo volgare fiuta odor di cose poco pulite.

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Se invece d'un santo poi, tu conducessi dinanzi alla folla un semplice scienziato, quale lezione egli ti darebbe ,.e quale invito al rispetto davanti a una meraviglia che i progressi del sapere obbligano ogni giorno di più a dichiarare stupefacente! La meraviglia dinanzi all'umanità esalta, fino ad estasiarla, la scienza, che in ciascuno dei nostri corpi scorge il mistero della vita e, nel mistero della vita, il mistero dell'essere. La creazione intera tende alla vita come verso l'acme delle sue possibilità, e la vita nella sua ascesa raggiunge questa cima: il corpo dell'uomo — stavo per dire semplicemente l'uomo —, comprendendo in se l'anima pensante, poiché la vita raggiunge veramente i confini dell'anima quando organizza, con il cervello, tutti i mezzi del pensiero, della memoria, dell'emozione, punti di partenza per le più alte funzioni spirituali.

La vita umana è il fiore dell'universo fisico e in essa brilla la fiamma celeste del pensiero, alimentata da ciò che vi è di più delicato e di più ricco nella sostanza universale, che è olio per questa lampada e cera per questa fiaccola. Non sono le stelle che rischiarano il mondo, e non sono le rose ne le foreste che profumano la terra, ma il pensiero ed il cuore. In «questa sottile essenza della polvere », l'uomo è contenuto con tutto ciò che essa, attraverso le sue vaste evoluzioni, ha potuto creare di più perfetto.

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Si dirà che tutto ciò è un voler cercare troppo lontano, per riuscire a sopportare ciò che ci sta vicino. Senza dubbio; ma il reale è veramente lontano, ed è soltanto l'illusione che ci è vicina. O meglio, il reale è con noi, è noi; ma noi non siamo con lui, perché lo allontaniamo con la nostra incoscienza. E' interessante, dopo tutto, pensare che la natura intera converge verso questo piccolo fascio di cellule vibranti, questo punto di ritrovo di forze, questo terreno di scambi che ci costituisce : punto d'incontro delle più sublimi energie, i cui ritmi sono legati ai maggiori cicli degli astri e delle nebulose madri degli astri, senza dimenticare gli atomi, altri astri ai quali noi non pensiamo.

E' ancora volgare l'uomo visto così? Ciò che comunemente vien definito volgarità è, da questo punto di vista, effetto di miopia. Non ci sono infatti volgarità, ma valori che sono incomparabili con qualsiasi altro valore posto al di fuori della nostra specie : c'è l'uomo al quale Galene dedicava il suo « inno », sperando di glorificarne la divinità. Ogni uomo è un prodigio, un oggetto di contemplazione inesauribile, un invito ad ammirare ciò che non teme danno da nessuna pretesa inferiorità, da nessuna deficienza e, a maggior ragione, da nessuna volgarità. Anche l'uomo più sprovveduto, anche l'uomo più comune può

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camminare sotto la volta del ciclo cóme Sotto un arco di trionfo.

Del resto non è il caso di insistere su un argomento così convincente. L'ignoranza pratica in cui ci teniamo delle condizioni reali della vita, della sua grandezza e dei suoi legami universali, ci aiuta a comprendere la nostra disattenzione nei riguardi del soprannaturale. Ma per il cristiano qui sta il valore principale, poiché il soprannaturale non solo è fondato sull'umanità, ma la sorpassa dopo averla presa al suo servizio.

Un uomo che ha alte relazioni e le mantiene è forse un uomo qualunque ? Non si riflette su di lui qualcosa delle persone che egli frequenta?, e il fatto d'essere ammesso a quelle relazioni non è prova dell'interesse ch'egli sa suscitare? Ora, chi di noi non ha e non mantiene, qualora lo voglia, sul piano del soprannaturale, le più luminose e le più feconde relazioni? E' Dio stesso che si fa nostro ospite, quel Dio per cui tutto è « ricreato ». E ogni anima è ripiena di ciclo, e cia-scun uomo ha antenati benedetti, una meravigliosa biografia, fraternità esaltanti e un destino di incommensurabile valore. Benché poca cosa, noi partecipiamo all'opera divina, ed abbiamo il nostro posto nel consiglio della saggezza creatrice, al banchetto dell'amor divino. Grazie a questa adozione, la vita dell'umanità è quasi una vita

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temporale di Dio, e per mezzo del Cristo, una specie d'incarnazione permanente. L'uomo, Qualunque esso sia, è come un principe in viaggio, o meglio, è una divinità smarrita sulla terra, che ha dimenticato il suo ciclo.

Può darsi che a questo punto il critico pessimista, per breve tempo meravigliato delle nostre precedenti considerazioni, riprenda coraggio. Si nutre infatti più disprezzo per un grande decaduto, che per un povero uomo da capestro o per un avanzo di galera, poiché ci si rifiuta di vedere ciò che rendeva nobili, quando la nobiltà è schiacciata proprio da colui che ne beneficiava e che si espone così alla disistima comune. Quale simpatia conservare per un essere in cui il bene non è più presente, se così possiam dire, che per antifrasi?

Non si può negare l'importanza di questa osservazione, che, sotto un certo aspetto, potrebbe essere decisiva; ma non possiamo lasciarcene impressionare. Chi ci dirà infatti chi è « decaduto»? Dov'è l'astensione dal giudizio che, come dicevamo poc'anzi, s'impone al giusto? Possiamo noi sapere con sicurezza su chi, su che cosa e con quale opportunità cadrà la nostra condanna? Il momento in cui noi pronunceremo il giudizio più severo forse, e apparentemente più giustificato, potrebb 'essere quello invece della più sublime ripresa di colui che giudichiamo: e non ras-

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somiglieremmo allora al fariseo che si credeva in diritto di chiamar peccatrice la Maddalena, proprio quando Gesù la riabilitava agli occhi di tutti ?

Accanto al peccato che ci diminuisce, rimane infatti la buona volontà che ci reintegra, restano le qualità non contaminate dal male, restano i non recisi legami con Dio e con gli uomini, restano soprattutto le speranze immortali.

L'essere che sotto certi aspetti ci delude, nasconde sovente qualcosa che può entusiasmarci e commuoverci, se sappiamo penetrargli nell'intimo. Ogni giudizio categorico è dovuto o a grossolanità o a eccesso di passione. I cappellani delle carceri sono testimoni di cose meravigliose, e, prima che vengano eseguite talvolta le sentenze capitali, la ghigliottina provoca rivelazioni commoventi. In ogni essere esistono sublimi stati d'animo; c'è il riflesso dei fini supremi e, in mancanza della vittoria morale, può germogliar la speranza.

Meglio varrebbe, invece di sgomentarci per le miserie umane, entrare nelle divine pazienze, in quella pazienza dell'eternità che fa credito al tempo e conta, perché esso si corregga quando c'è bisogno, sulla potenza del cambiamento che è uno dei ricorsi dell'anima e della natura.

All'anima che abusa delle proprie risorse rimane fedele la suprema Risorsa. Sul cuore cattivo e malato, c'è sempre Dio che si china. Un

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infinito soccorrevole è presente pure in colui che, insensatamente, si mostra atterrito di ciò che questo infinito reclama, e rifiuta il cambio. Dio è presente con la sua luce, con la sua pazienza e la sua speranza, e il nostro compito è quello di aiutarlo con l'amore e con le opere dell'amore, invece di chiudere nel nostro spirito, con una sentenza di condanna, un destino sempre aperto alla speranza.

Si rispetta un condannato a morte e si rende omaggio ad un morto, qualunque sia stata la sua maniera di vivere. Perché? Perché la vicinanza della morte ci richiama all'idea della grandezza del nostro destino, del mistero della vita, dell'eminente dignità umana. Il morto è davanti all'eternità come davanti a un grande fuoco, le cui fiamme lambiscono lui ed abbagliano noi: ma le cose non cominciano ad esistere nel momento in cui le riconosciamo. Ogni essere è grande per il solo fatto che ha dinanzi delle strade aperte e la vocazione per una di esse e la capacità di realizzare tale vocazione sono segni indelebili sulla fronte di ogni essere umano. Siamo dei chiamati da Dio; siamo capaci di verità, di bontà, di abnegazione, di generosità e, in qualche momento, anche d'eroismo. Quale mostro umano non potrà servire di ricetto e di passaggio a questa forza che giunge a noi dalle profondità dell'ordine morale e che, in certi momenti, ci sconvolge?

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Perche il cuore più duro diventi arrendevole come la cera e l'uomo più debole divenga un eroe, basterà una cosa molto semplice, basterà che amino. Un furfante che diventa padre riceve dal ciclo questa divina possibilità. Nel soprannaturale un simile avvenimento può verificarsi:

Dio non ci ha avvertito dei suoi disegni, cammina su strade nascoste, e colui che noi disprezzia-mo può- essere il vaso d'elezione, lo strumento scelto per un capolavoro inedito della grazia.

L'anima, capace di ospitare Dio in tutti i modi in cui Egli si offre a noi, l'eguaglia in profondità, se così si può dire, poiché presenta la' forma misurata ai propri poteri ricettivi, letto dell'oceano e l'oceano non hanno le stesse rive? Il regno dei deli è dentro di noi. Mente e cuore sono sempre un tempio che accoglie l'adorazione o la profanazione di Dio, ma che non è mai in rovina. Non c'è rovina infatti per l'anima immortale, e in questa vita non c'è mai una mancanza d'amore decisiva. Dio sta sempre alla porta, e batte, e le sue premure son rivolte a ciascuno di noi. Vorremo noi sdegnare, sulla soglia dove Egli aspetta pieno d'amore e di rispetto per l'uomo, l'ospite silenzioso che ha il ciclo nella sua ombra? La nostra fede, avvicinandosi ad ogni anima, non si toglierà i calzari dai piedi, sapendo che questo luogo è santo?

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Vorrei ancora far notare che non solamente o'gni essere ha un proprio valore e richiede per questo fatto un giudizio favorevole, ma che quel valore è unico, incomunicabile, impossibile ad essere sostituito, sia pure da uno migliore.

L'arte ci fornisce ancora una volta un paragone e una parte di verità. L'uomo, sia pure un qualsiasi uomo, non attira forse il più profondo interesse dello scultore, del pittore, del poeta, del romanziere, quando vogliono appunto lavorare in profondità e ricercano il contatto intimo con la natura? Il grande artista è colui che sa' creare dei tipi; ma egli li sa creare solo perché li sa vedere e sa scorgere in essi, penetrando nell'intimo della loro individualità, l'inestinguibile e sempre rinnovantesi attività creatrice.^;;^ ;

Sono molti gli artisti che affermano essere il ritratto il più appassionante soggetto d'arte. Rem-brandt, quando dipinge per sé solo; Velasquez, quando nessun principe gli ha commissionato del lavoro; Rubens, quando esce dal suo studio, donde l'Europa trae di che abbellire i suoi palazzi, che cosa dipingono? Se stessi, il prossimo, il semplice passante, l'essere dimenticato forse da tutti, ma non dalla natura, l'essere segnato d'un carattere proprio che non si ritrova in alcun altro, che non si riprodurrà mai, e di cui la loro ardente curiosità ha cercato di cogliere il mistero.

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Esaminando da vicino le tele celebri, si scoprirà quasi sempre, anche in quelle dei più idealisti, uno o più personaggi che paiono balzare dalla vita reale e che sembrano avere interessato l'artista più delle altre figure, spesso convenzionali, astratte o puramente decorative, che formano il soggetto. Il soggetto è poca cosa per l'artista, mentre la vita è tutto: ora, che cosa è la vita, se non l'individuo palpitante, la colata di carne ardente e di sangue caldo che riproduce sotto i nostri occhi il palpito d'un'anima? Un Tiziano, un Holbein, un Clouet, un Durer, un Ingres o un Rodin non sanno distaccarsene.

Se si trasporta ciò sul piano dello spirituale, l'interesse non può non sussistere, e un'intima meraviglia non può mancare dinanzi a ciò che è anche qui singolare, irriducibile, unico al mondo e nel tempo, e che da solo, impegnando tutto il piano della creazione e tutto il piano della redenzione, assomma l'importanza dei fini che questo doppio piano realizza.

Ogni anima è un paese sconosciuto, una terra ove è nascosta una ricchezza che viene dal Cristo eterno, da Dio Padre del secolo futuro, dallo Spirito di santificazione, ogni opera del quale è originale e unica.

Ci si dice continuamente che il Cristo è morto per ciascuno di noi, foss'anche stato per uno solo: la stessa cosa si può dire del Creatore, che,

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anche per uno solo di noi, avrebbe messo in moto la creazione, e dello Spirito Santo, che per un cuore, per un pensiero rischiarati e riscaldati dal suo fuoco, non avrebbe trovato vano rinnovare la faccia della terra.

Occorre che noi consideriamo la nostra specie là dove essa è, ed essa non è che in ciascuno, poiché così solamente è in tutti. Essa non è infatti in tutti come un insieme omogeneo di cui sarebbe espressione sufficiente ciascuna parte: noi non siamo polvere d'anime e la nostra specie è in tutti, come l'individualità è in tutti i nostri tratti, ognuno dei quali esprime un aspetto particolare e irriducibile. Si conoscerebbe la mia fisionomia, se io nascondessi la mia bocca, o il mio naso, o le mie guance, o uno dei miei occhi ? Allo stesso modo, ma su un piano diverso, non si conoscerebbe la specie, ne si agirebbe in suo favore e, se fossimo il Cristo, non la salveremmo, se fossimo Io Spirito, non la santificheremmo, se ne fossimo mèmbri, non eserciteremmo la nostra solidarietà con essa, quando trascurassimo uno qualunque di coloro che la rappresentano.

Anche se non tutto riusciremo a conoscere, occorre in ogni caso completezza, perché la razza è una e la sua unità è ottenuta con una integrazione di elementi tutti diversi e dunque tutti necessari alla somma.

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Il bambino ci fa in certo modo intravedere questa novità fruttuosa della vita. Dinnanzi a lui si ripropone sempre la questione già posta da Zaccaria e dai suoi parenti al riguardo del Battista : « Che cosa pensate che diventerà questo fanciullo? •>•> Ben si avverte che per ogni uomo ci troviamo di fronte ad un mistero senza uguale e ad un nobile mistero. L'impressione è più viva all'inizio della vita, perché l'inizio richiama il tutto con più insistenza; ma ciò è vero sempre, così sul piano soprannaturale come su quello naturale. L'incognita che è nascosta in ciascun essere lo fa degno d'amore e di rispetto agli occhi di colui che ricorda che è stato detto : Facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianzà, ed ancora : Noi siamo il corpo di Cristo, ciascuno per suo conto, membro per membro. L'individuo è una particella del Cristo mistico e, perciò, è un aspetto di Dio, come la sua specie medesima.

E' per questo che la Comunione dei Santi comprende ogni creatura e non può tralasciarne alcuna; è per questo che il Padre nostro sottintende una fraternità integrale. Escludi anche un essere solo, e tu non ami più l'uomo, ne ami più il Cristo, che è il suo capo, ne ami più Dio, che è il suo supremo testimone: tutti gli uomini sono l'uomo e tutti i cristiani sono il Cristo. Rifiutarsi alla simpatia umana, naturale e soprannaturale, è contro natura, è come rifiutarsi

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d'amare se stessi, tanto sono unite le nostre vite. Se l'esteriore ci separa, l'intcriore ci ravvicina;

se il temporale, diviso com'è, ci divide, l'eterno, che è tutto intero in ciascuno, si moltiplica e si comunica diversamente e per questo ci lega.

Apparteniamo tutti alla stessa famiglia, ove ciascun membro ha la sua parte di tenerezza, la sua parte di patrimonio, la sua parte di tradizioni e di onori domestici. Anche coloro che ci recano offesa hanno il nostro stesso albero genealogico e non se ne possono distaccare; la linfa umana non arriva a noi che passando attraverso loro e ad essi che passando attraverso noi, perché nello spirituale c'è una circolazione in tutti i sensi, e ogni rottura è mortale. In Dio e nel Cristo, nell'umanità e nella cattolicità, gli altri sono noi.

Dicevamo poc'anzi che il pessimismo sul conto dell'umanità è sempre segno di inferiorità morale, inferiorità che per di più esso accentua. Solamente l'io odioso, infatti, trova odioso l'io altrui. Il disprezzo per gli altri è dovuto alla allucinazione dell'io, che provoca, sotto le apparenze d'una chiaroveggenza qualche volta acuta, una vera cecità. Perché infine, per non sapere di quale incanto e di quale sublimità il cuore umano è capace, bisogna non aver mai provato il minimo sentimento e non averlo saputo comprendere. Ma dove avevano gli occhi costoro, che pur essendo

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necessariamente passati vicino alla bellezza, non la videro mai? I loro occhi erano coperti da una fascia d'incoscienza, o erano sviati dall'orgoglio;

oppure un veleno segreto uccideva in essi, prima che potessero riceverlo, ogni germe di magnanima impressione. . ^; .

« E' un segno di mediocrità, scrive Vauve-nargues, lodare moderatamente. » Per noi, qui, è segno di bassezza d'animo. Dichiarare che nella vita non si incontra mai alcuna grandezza, è confessare che non se ne ha alcuna; meglio ancora, ciò significa che si offende e si avvilisce ogni grandezza, ivi compresa quella del giudicare dall'alto. ,y^. -,,:;-.

E che tracotanza! Se si dicessero queste cose con umiltà e tristezza, esse potrebbero venir perdonate — ma, allora, non le si direbbe —, poiché l'umiltà è sempre ricca di lodi, e, unita inseparabilmente alla carità, non pensa affatto il male :

stando davanti al suo Signore come cenere e polvere, essa partecipa ai suoi consigli ed è con lui presente a ciò che la sua stima qualifica. Ma quei giudizi sprezzanti o acri che si trinciano sul genere umano, come dall'alto d'una vetta dove ci si sarebbe rifugiati in sdegnosa solitudine, non sono forse insopportabili? Il genere umano non siamo dunque noi? Se siamo coscienti, diciamo dunque con umiltà e nella confusione del nostro cuore: Ecco ciò che siamo!

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Tutti siamo sotto giudizio davanti al ciclo che ci guarda : tutti ugualmente sprovvisti e ugualmente poveri e, in più, legati gli uni agli altri; non ci conviene quindi istituire reciprocamente dei sotto-giudizi concludenti a sentenze di condanna. Un atteggiamento simile metterebbe inevitabilmente contro di noi il Giudice supremo e, più ancora, il Padre, che non può soffrire tra i suoi figli una misconoscenza simile e tale presunzione. Del resto, chiunque vi si arrischi, finirà nell'egoismo più arido, poiché nulla abbassa e soffoca l'anima più del disprezzo, eccezione fatta per l'odio. Il disprezzo ci rende sterili — che non si fa del bene se non sotto l'impulso dell'amore, e per amore — e avvilisce se stesso, mentre il rispetto ci innalza e ci fa presentire Dio.

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LA VOCE INTERIORE

jua rettitudine dei nostri pensieri sulla vita umana parrebbe legata a più d'una condizione. L'insegnamento esterno, la predicazione della fede, l'educazione e l'esperienza naturalmente vi concorrono, e nella formazione d'un'anima non può certo essere messa in dubbio l'importanza di tali elementi. Tuttavia io vorrei dimostrare che tutto ciò non è che un semplice aiuto, come l'irrigazione per la pianta; la pianta si fa in noi indipendente da tutto, una volta che sia radicata nella terra ove nulla perisce e che si incarica di nutrire di sé e di mantenere tutto ciò che in essa vive. La terra di cui parlo è la natura profonda, è la grazia, sorgente della carità che è stata messa nei nostri cuori dallo Spirito Santo che ci è stato mandato. ? , -^

Quanto al nostro comportamento, tutto ciò che

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dobbiamo sapere lo sappiamo da noi, per il solo fatto che siamo uomini e battezzati; lo sappiamo però in modo che non siamo dispensati dallo scoprirlo, anzi siamo a ciò obbligati. Quello che ci è chiesto è in noi allo stato d'istinto e possiamo percepirlo, allo stato d'impulso e dobbiamo seguirlo. Ragione di ciò è che non ci si domanda. in fondo, che d'essere noi stessi; non ci si chiede che di svilupparci, per mezzo dell'azione, in piena conformità con ciò che noi siamo, e ciò che siamo, lo potremmo ignorare, se tendiamo a saperlo, e potremmo non ricavarne da noi le debite conseguenze, se restiamo fedeli alle nostre inclinazioni, che sono espressione in noi della natura e della soprannatura che la completa?

Il grido di ogni essere è : voglio essere! Il voler vivere è la molla di ciascun vivente, e questa volontà prima è caratterizzata in ciascuno dalla propria natura e dalla forma cui si adegua, originariamente o per un nuovo intervento dell'Autore delle cose, quella ragione attiva, quella potenza di realizzazione ideale che si chiama vita.

Si tratta quindi, per ciascun vivente, d'obbedire semplicemente al tipo della specie, adattandosi come individuo alle circostanze in cui è posto, poiché della specie cui appartiene egli porta in se stesso la legge ed è una incarnazione; essa si riconosce in lui come lui si riconosce in quella; essa non esiste che in lui e nei suoi simili, ed è me-

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diante lo sviluppo proprio dell'individuo secondo tutto ciò ch'egli è, ivi comprese le sue normali relazioni, che la specie si realizzerà in uno dei suoi casi e adempierà alla sua funzione sulla terra.

Il Creatore nulla rivendica per sé; la sua gloria è fatta del successo degli esseri, e ciò ch'Egli vuole è che la creatura esista e, se essa è capace di progresso, che progredisca e, se porta in sé una capacità di perfezionamento, che si perfezioni e, se è legata naturalmente o provvidenzialmente ad altre, che collabori con loro: così raggiungerà il suo fine, costruirà la sua felicità e, attraverso questa, per la sua parte, la felicità comune e il fine universale del mondo.

L'avvenire del mondo sta in questo armonioso progredire, la speranza dell'eternità non ha altra garanzia. Il nostro destino è scritto nel nostro essere e nelle sue possibilità: esso non è infatti che l'essere stesso visto nella sua perfezione che va raggiunta con l'azione felice che è preannunciata dall'insieme delle nostre disponibilità. Scoprire, sotto gli aspetti mutevoli dell'io passeggero, la propria autentica personalità; scoprire, al di là degli obiettivi illusori o parziali, il proprio vero scopo : ecco quel che deve contare nella vita. E tutto ciò potrebb'esserci estraneo ? Non saremo noi avvertiti da una voce intcriore di ciò che siamo e quindi di ciò che dobbiamo diventare e di ciò che dobbiamo fare?

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Ogni essere ama di se ciò che è e ciò che gli manca, la sua realtà e il suo ideale, e, avendo questo ideale la sua legge, ogni essere ama la sua legge, che gli permette di perfezionarsi e di evitare il ritorno verso il nulla, donde la potenza crea-trice l'ha tratto. E' per questo che si parla d'una legge naturale, scritta nei cuori; è per questo che ci troviamo dinnanzi ad evidenze pratiche e ad evidenze teoriche. Queste ultime, chiamate assiomi, stanno alla base della scienza, come le prime alla base della vita, e quando si presentano allo spirito, è necessario che questo vi acconsenta.

•Volendo precisare, si noterà che la nostra natura, multiforme nella sua unità e distribuita in funzioni diverse, comporta un destino composto d'una pluralità di risultati, cui concorrono sforzi vari rispondenti a leggi ugualmente diverse. Noi siamo corpo ed anima: come corpo abbiamo sensi e poteri attivi dotati di requisiti propri; come anima abbiamo un'intelligenza, una capacità di affetto, una libera volontà, un senso misterioso del divino. Tutto ciò esige d'essere soddisfatto. Il nostro desiderio di vivere ha così davanti a sé delle direzioni, nella quali potrà più o meno impegnarsi, ma da ciascuna delle quali viene tuttavia sollecitato. Si svegliano in noi segrete tendenze che si traducono in giudizi: noi possiamo contraddire le une e gli altri, ma entrambi rimangono

no lo stesso come inviti all'azione, come richiami dell'avvenire e come testimonianze.

Queste segrete aspirazioni e questi giudizi non riguardano solamente i risultati, ma ne presentano i mezzi, adeguandovisi più o meno stabilmente. Chi vuoi raggiungere un fine, tende costantemente ad esso e, qualora si trovi ostacolato nel raggiungerlo, col cuore tuttavia continua a tendervi. La natura, che è logica, non ama ciò che è vano, e una tendenza priva dei relativi mezzi di realizzazione è'cosa vana, come un desiderio che rifiuta le condizioni che lo realizzano è un desiderio insensato. Ma noi non siamo insensati del tutto: la natura sapiente, che resiste ad ogni forma di follìa, mantiene in noi delle volontà che basterà confermare, o non contrariare, perché si sia tutto quel che bisogna essere, si faccia tutto ciò che si deve fare e si arrivi là dove siamo chiamati. •-.\-:-\- ".'^

Chi è che non vuole arricchire di cognizioni la mente e, in conseguenza di ciò, non è portato a ricercare i mezzi della scienza? Chi è che non vuole comportarsi, bene, esercitare felicemente la propria sensibilità e la propria forza, trovare affetti e corrispondervi, unirsi con chi potrà aiutarlo a realizzare le sue vedute? Chi non vorrà ampliare la propria personalità attraverso la famiglia e la vita sociale e accrescere l'attività spirituale che corrisponde al senso religioso? E, di conse-

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guenza, chi non è inclinato, per il peso d'una logica intcriore cui non si sfugge, a compiere i passi virtuosi richiesti da quei risultati, a fornire le garanzie che essi reclamano, a porre tutte le condizioni senza le quali quei risultati medesimi non sarebbero ottenuti, o non lo sarebbero che in una maniera insufficiente e caduca?

Se si procedesse ad una minuziosa analisi delle condizioni, delle garanzie e degli assensi necessari, vi si scoprirebbero tutte le virtù, senza eccezione alcuna: le virtù « che ci perfezionano, dice san Tommaso, così da soddisfare nel miglior grado (debito modo) le nostre inclinazioni naturali ». Noi saremmo dunque naturalmente virtuosi, se esser virtuoso consistesse nel tendere così inizialmente a realizzare i fini delle virtù. Per esser più esatti, diciamo che abbiamo in noi le virtù allo stato germinale, e che una virtù effettiva consisterà semplicemente nel completare ciò che si trova già cominciato, precisandolo con l'applicazione ai casi della vita, rendendolo più sicuro e difendendolo dalle insidie. ^:^

E queste non mancheranno : ce n'è già una in questa certezza irriflessiva che abbiamo del nostro diritto all'essere e, di conseguenza, a tutto ciò che nel nostro essere stesso chiede di venire soddisfatto ; l'orgoglio è in noi smisurato. Ciascuna tendenza particolare tenta d'alzare la voce e di farsi passare come la voce stessa dell'anima nostra; co-

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me in un'assemblea ove ogni uomo politico dice :

La nazione vuole, il paese vuole...; ognuno vuoi far credere di parlare a nome del paese, sovente invece assai poco dignitosamente servito.

Per evitare simile confusione occorre che noi procediamo ad una selezione, a un discernimento degli spiriti, come dicono gli autori mistici. Il controllo dei moti dell'anima e delle sue confuse chiamate non sarà mai abbastanza vigilante e severo; resta però il fatto che là dove è veramente l'uomo che parla, o, soprannaturalmente, il cristiano, tutto è buono e non c'è che da pigliare questo cammino!

Il caso della soprannatura va studiato a parte. Troppi battezzati ignorano il tesoro di verità e di vita racchiuso nella loro anima rigenerata; forse non sanno nemmeno cosa significa rigenerata. La maggior parte di essi piglia questa parola come sinonimo di restaurata in qualche modo, migliorata, aggiustata, riformata, riparata, guarita, raddrizzata e via di seguito : significati di cui s'accontenta il cristiano distratto. In realtà, rigenerata significa qui, nel senso proprio della parola, generata una seconda volta, possesso d'un essere nuovo, d'una natura partecipante all'Autore delle nature. Ne segue che in noi vi è ormai, con la nostra natura propria, la grazia, nuova natura che la vivifica, e Dio, intima sorgente di tutto, natura

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egli pure, natura naturante, come la chiamavano gli antichi. E' questa l'economia di cui parlava Gesù a Nicodemo, in quell'incontro notturno ove il dottore si mostra tanto colpito dalle parole sublimi del Signore.

Il Cristo, nello stesso tempo in cui veniva a redimere ogni cosa e noi, veniva anche a dare un senso nuovo a noi e a tutto: veniva a rinnovc.re la faccia della terra, e quella della nostra anima, da cui attende nuovi frutti. Il soprannaturale è veramente una natura sopraggiunta, o, se si preferisce, è la prima elevata ad un piano superiore, in modo da permetterle i pensieri, gli afletti e le attività d'una natura celeste.

E' la grazia santificante che da forma in noi a questo essere nuovo, ed è lo Spirito Santo che ne è la legge vivente. E di questa legge avevamo bisogno perché, come non è possibile, dicevamo, che un essere sia privo di legge intcriore, così non può darsi che un essere nuovo manchi della sua legge nuova, che esso porterà come un segno della natura appena acquistata e da cui deriverà tutta una serie di tendenze, le quali dovranno corrispondere alle tendenze naturali, come la soprannatura corrisponde alla natura, raddrizzando ciò che esse hanno di storto o di debole, e sublimandole.

Per questo san Paolo ci dice, con linguaggio preciso ed energico : « Voi siete una lettera di Cristo, non scritta con l'inchiostro, ma con lo

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Spirito di Dio, non su tavole di pietra, ma su tavole di carne, nei vostri cuori. » Le tavole di pietra alludono alla legge di Mosè, e san Tommaso non manca di rilevare, quindi, che la lettera del Cristo cui accenna l'Apostolo ha propriamente il carattere di una legge, la quale è la medesima legge evangelica, non solamente promulgata -all'esterno come qualsiasi altra legge umana, ne contenuta soltanto nella predicazione apostolica e nell'insegnamento della fede, ma inserita in noi dallo Spirito divino sotto la forma della grazia, con i suoi suggerimenti, con i suoi impulsi, con le nuove direzioni che essa ci apre. La luce di Dio infatti non è ne fredda ne sterile, perché per essa Dio diffonde la vita, e non solo rischiara le nostre vie, ma ci muove e ci spinge innanzi esortandoci a camminare. Così nell''Educazione di Achille, di Eugenio Delacroix, il centauro mostra al giovane eroe la mèta lontana e ve lo sospinge con superbo slancio. ;„ . . : .

Ci sono dunque in noi delle virtù infuse, intellettuali e pratiche, accanto alle virtù naturali; le une e le altre sono la sorgente dei nostri buoni pensieri, delle nostre buone ispirazioni, delle nostre buone azioni, e, se vi aggiungiamo i doni dello Spirito Santo, che corrispondono agli impulsi eroici e geniali, abbiamo l'elenco completo di tutte le voci intcriori che, simili a Giovanni nel deser-

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to, lavorano a preparare le vie al Signore, a raddrizzare i suoi sentieri, cioè a procurare l'azione virtuosa e, se è possibile, a sorpassare la virtù corrente spingendoci fino all'eroismo ed alla santità.

Le massime vette raggiunte saranno così la più alta dimostrazione dell'economia intera. Gli eroi e i santi sono, coi geni, coloro che rendono più manifesta l'azione di questa voce del cuore che in certi momenti, invece dei sussurri indistinti ch'essa sospira nelle coscienze timide, manda clamori e provoca slanci di entusiasmo sublime.

Il genio non viene dall'intelligenza, ma passa attraverso essa; l'eroismo non viene dalla volontà, ma la piega e la utilizza; la dedizione fino all'eroismo di una vita consacrata ad un figlio o ad un'opera non viene da una deliberazione paterna, da un calcolo del cuore, ma da questa Sorgente « da cui piglia nome ogni paternità, in ciclo e in terra ». Allo stesso modo la santità, che è una specie di genio morale, un eroismo, una dedizione, si presenta a noi come una permanente adesione alla prima Sorgente, poiché esprime la più alta relazione della creatura con la sua Legge suprema. Ed è essa stessa una legge, in quanto è la verità della vita, quantunque trascenda le ordinarie condizioni del vivere e dell'agire sulla terra.

Già Aristotele aveva detto che il saggio è una regola vivente, e san Tommaso, riprendendone la espressione ed applicandola al Cristo, chiama Ge-

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su « una specie di legge e una specie di giustizia animata. » (I Pars, q. LIX, art. 2 ad I1"). Ora, lo Spirito che parla ed agisce in Gesù, nei santi, in ogni genio morale, in ogni eroe della verità e del bene, è pure ospite nostro. Se non agisce in noi con tutta la sua potenza è perché la nostra gravezza gli resiste e la nostra anima è opaca a quella luce di vita; ma nulla va sciupato, e da ciascuno, oltre ad un'azione ordinaria e quotidiana che la vita morale guida, scaturiscono lampi che abbagliano il soggetto stesso e gli rivelano un'anima della sua anima, cui egli nemmeno lontanamente pensava.

Chi non sente in sé, in alcuni momenti, l'entusiasmo delle belle azioni e come dei sussulti segreti, degli slanci che vorrebbero concludersi con dei fatti eroici? Un racconto commovente, un nobile esempio, una lettura sublime, un entusiasmo collettivo producono in noi tali impulsi. E quando questi riescono a superare quel peso della viltà e dell'egoismo, che è l'aspetto inferiore della nostra natura, noi sentiamo invincibilmente che la bellezza è la legge dell'anima e del mondo, che il bene è per ambedue la forza suprema, che una divinità vuole crescere in noi, e che le sue conquiste non solamente sono esaltanti, ma sono la verità e che, in esse, non nei compromessi e nelle cadute, sta la vera felicità.

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Elevandoci un momento al di sopra del caso umano e guardando all'opera divina, riconosceremo che questo impulso dall'intimo, questa certezza segreta, questa legge non è che un riResso e un caso particolare dell'immensa aspirazione che muove tutta la natura. La creazione geme e soffre le doglie del parto, dice san Paolo; l'essere multiforme tende a salire e cerca se stesso nel suo più alto destino, di cui Dio possiede il segreto. L'universo gravita verso Dio, e le proprietà degli esseri sono i mezzi della sua ascesa, cui si adattano gli istinti dei viventi, ed i cui più potenti collaboratori sono il giudizio ed i sentimenti di fede dell'essere pensante.

L'infinito, da cui siamo partiti e che dobbiamo raggiungere, penetra dunque in noi come tutte le cose e ci muove all'azione : ci sospinge, ci trascina con impulsi dall'esterno, e ci attira in avanti con l'ideale che fa scattare il desiderio. Noi siamo come in un cerchio dal raggio immenso, che va da Dio principio a Dio fine, dalla natura che da lui scaturisce alla natura che in lui si completa, dall'embrionale al perfetto che è la ragione di tutto.

Quando io tendo al bene dopo averlo riconosciuto ed averne gioito in is pirite sono alla presenza di colui che mi ha creato e di colui che è mio fine : la voce intcriore è il suo pensiero ; l'aspirazione intcriore, la sua volontà; e io mi sento trascinato da questo infinito potere che comincia

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e completa, che dona e promette, che semina e miete. Mi si trascina, mi si attende, mi si chiama, mi si spinge; divento così la posta d'un'avventura celeste, di un gioco divino. Sento in me un istinto migratore e mi attirano cicli misteriosi, il cui respiro è arrivato a me attraverso correnti segrete. Perché non seguirò diritto la mia via come gli stormi d'uccelli diritti fendono l'aria, schierati in un triangolo ch'è simile a una prua?

Per mezzo di questa voce che mi parla dall'intimo, posso cosi acquistare il sentimento d'una immediata presenza intcriore. E presente è Dio, assieme al suo Spirito, ne io posso penetrare nel mio intimo senza incontrarlo. Quando mi ritrovo con me stesso dopo aver superato gli schermi frapposti dal mio falso io e dalle realtà importune, io scopro in me questa apparizione e mi sento allora congiunto a Dio in ispirilo con rutta la mia sostanza, così come l'universo a lui è congiunto per essere e per sussistere.

Dio è, Dio pensa. Dio crea: e il reale, incosciente nella materia e cosciente nello spirito, sussiste in modo che nulla può distaccarsi da questa sorgente : la creatura, qualunque essa sia, materia, spirito, forza bruta, istinto, pensiero, a-spirazione, volontà, dipende da Dio, come frutto dall'albero, come raggio di luce dalla fonte luminosa, ^:?;;ite%-^•~:' ' -..^l^;-'— •/

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Perché non so io stabilirmi in questa chiaroveggenza, che farebbe di me quasi un costruttore del mondo e di me stesso? Penetrare nel silenzio intcriore e intendervi il « facciamo l'uomo » che si pronuncia sempre, capirne il senso e riuscire a ripeterlo con Dio, indirizzando di conseguenza la mia azione, non sarebbe diventare quasi creatore di me stesso in unione con Colui che mi ha creato e che mi muove? E, anche per questo solo fatto, non sarebbe un partecipare alla Provvidenza di cui l'uomo, ciascun uomo, è un elemento ?

Seguire la mia legge e rimanere così fedele a me stesso equivale a mettermi in accordo con tutto e rendermi tutto favorevole, perché in un mondo retto da una saggezza irrefragabile, ogni punto di partenza apre illimitate prospettive e le forze di qualunque genere, che all'incosciente sembrano disparate e difficilmente armonizzabili, formano un tutto unico e ripetono in modi differenti lo stesso pensiero iniziale.

Un buon desiderio in me, l'estasi dell'arcangelo, la diligenza della formica e del castoro, la rotazione d'un astro e la caduta d'una cascata, il brivido della canna palustre e gli slanci della massa universale verso il suo fine, sono sempre la medesima cosa. La maestà della creazione e l'umiltà d'un gesto morale son pesate sulla medesima bilancia, perché nell'una e nell'altro è implicato Dio e si obbedisce al'disegno e alle inten-

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zioni divine, mentre un'intesa si stabilisce tra ciò che è fatto secondo virtù e ciò che rivela la virtù delle cose. Tutto l'essere acconsente quando io giudico bene, e l'essere intero applaude quando questo giudizio mi decide. Io sono allora sostenuto dalla creazione ed ho il consenso di tutti coloro che vi collaborano : con me ho la Trinità, il ciclo mi approva, la terra mi sostiene con più sicurezza, il giro degli astri è più sereno perché un atomo nuovo è trascinato nella loro orbita, mentre io do maggiore forza alle leggi che tutto regolano e do una mano all'onnipotenza, e la debolezza umana è in me vinta, superata, dimenticata, quando mi innalzo così all'assoluto dell'ordine e vi collaboro.

L'immagine del bene universale è in ciascuno di noi coi suoi fratti essenziali, e in noi abitano l'eternità e l'immensità: la legge del mondo e la legge di Dio si ricongiungono nei nostri cuori per formare la nostra legge. Prestarle attenzione, tentare di risvegliarsi e di conquistare se stessi, rivestendosi di Dio, sarebbe non solo rendere certa la propria rettitudine, ma assicurare il proprio destino!

Rientrando nel piano divino, se ne trae sicuramente beneficio, perché Dio riesce sempre al suo fine, e le vie ch'Egli traccia e le forze che lancia vanno dove devono senza sviarsi. A nessuna delusione andremo incontro se confideremo nell'or dine e nella testimonianza che troviamo in noi :

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chi affida la sua ala al vento che dall'infinito soffia all'infinito con forte e tranquilla folata, non può cadere.

Ciascun vivente non ha che da restare fedele a se stesso, tenersi unito a se stesso, riconoscere e sanzionare il suo io immortale, l'autentica creatura cui Dio dona la sua forma, intima la sua regola e procura, a tempo opportuno, la perfezione. Mi viene in mente questo verso di Stefano Mal-larmé, descrivente l'uomo:

Tei qu'en lui-meme enfin l'eternile le change!

Noi non dobbiamo costruire la nostra anima;

dobbiamo solo servirla. Formarsi, perfezionarsi è ritrovare se stessi, proprio quando qualche aberrazione tenta di disperderci. Non ci si allontana mai tanto dal bene come quando si misconosce il proprio essere. « Onorare la propria anima » era, nel linguaggio di Fiatone, sinonimo di virtù.

Si fa torto a Dio, agli uomini, alle cose facendo torto a ciò che si possiede di più profondo. Perché Dio ci possegga, basta che noi ci possediamo sotto il suo sguardo, nella forma voluta da lui, secondo l'idea che egli ha di noi e che è in noi : egli ci guida secondo lo spirito, rendendo la nostra vita coerente alle nostre affermazioni e, secondo la coscienza, facendoci fedeli ai nostri desideri.

Per questo, tutto lo sforzo morale di Socrate consisteva nel ricondurre i suoi interlocutori al

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sentimento di se stessi, a convincerli di ciò'che sapevano, a far loro volere quel che volevano, per mezzo d'una maieutica, d'una gestazione spirituale che conobbe grandi vittorie.

Il Libro Sacro ha lo stesso pensiero, quando ci dice per bocca di Isaia : « Riflettete e mostratevi uomini; prevaricatori, rientrate in .voi stessi, ritrovate il vostro cuore. » (Isaia, XLVI, 8) E san Paolo, quando l'oggetto dei nostri desideri è dubbio, e non sappiamo con precisione quel che dobbiamo volere e domandare al ciclo o alla terra, ci consiglia di consultare lo Spirito che è l'anima della nostra anima, di ricorrere alla nostra parte migliore, a Dio presente in noi, perché Dio, che abita nel nostro cuore, desidera sempre conformemente al suo ed al nostro bene, e in lui la nostra debolezza diventa forza. « Lo Spirito sorregge la nostra debolezza, perche noi non sappiamo ne quello che ci convenga domandare, ne come dob-biamo domandarlo; ma lo Spirito stesso -prega per noi con gemiti ineffabili, e Dio, che scruta i cuori, conosce quello che chiede lo Spirito per noi, e sa che in conformità ai disegni eterni quello prega in favore dei santi. » (Rom., Vili, 26-27) •

L'istinto divino che geme così in .noi e che chiama corrisponde ai fini che Dio ci propone nel dominio della grazia, corrisponde cioè al nostro destino soprannaturale ed alle nostre intime felicità. I suoi sospiri fanno parte dei gemitidella crea-

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zione che tutta intera attende destini ineffabili. Tutto ciò che deve apparire all'esterno ha la sua scintilla intcriore, in cui si annuncia e fa testimonianza dinanzi alla nostra anima. Il grido dell'essere e il grido della coscienza sono a vicenda l'uno per l'altro voce ed eco.

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Perché dunque non ricorriamo a questa legge intcriore che fa retta la vita e traccia la strada per raggiungere in essa la perfezione ? « Perché, domandava santa Metilde alle sue figliole, non guardate allo specchio dell'anima vostra? » Sta di fatto che noi non conosciamo, di noi stessi, che la apparenza ingannevole e fugace. Non conosciamo di noi che un fascio di pensieri superficiali ed un pizzico di desideri irrealizzati: non cogliamo il nostro essere che a brandelli.

Le cieche potenze esterne rendono cieca anche l'anima nostra, e questi ciechi si guidano l'un l'altro. C'è in noi un istinto dell'effimero che neutralizza la tendenza all'eterno. La nostra luce è come quella dei fuochi fatui e sotto noi sta la terra oscura. Siamo un concentrato di sconosciuto. Le nostre ricchezze intcriori giacciono in un sonno protetto dalla nostra incoscienza. Di quanto non dovremmo elevarci e abbandonare questo io appallo

rente, per possedere la nostra vera natura, i nostri pensieri fondamentali, i nostri profondi desideri?

La nostra vera essenza esprime e determina in noi i voleri di Dio, e vivere significa conoscerla e acconsentirle. Ma noi non vogliamo vivere, vivacchiarne, e ci basta. Per questa ragione rinunciamo a conoscerei e puntiamo le nostre speranze sul divertimento. Fuggiamo noi stessi per meglio fuggire Dio, perché ciò che presentiamo nel nostro intimo, è un infinito esigente, e noi ce ne scostiamo allora con timore. Come il fanciullo indolente che balbetta su una pagina trascurando di cercarne il senso, così noi passiamo giorno per giorno la nostra vita senza capirne il senso vero. I minimi richiami delle cose smorzano l'appello intcriore, e la nostra anima, distratta da troppi rumori, diventa sorda,,?! che la propria voce le sfugge.

Del resto, se il mondo esterno ha così presa su di noi con le sue allucinazioni, ciò accade perché ci trova compiici. L'anima nostra è come un popolo formato da buoni cittadini, ma in cui si agitano anche fazioni ribelli; lo spirito delle leggi ne è alterato e il paese non conosce più la sua strada. Siamo dotati di ragione e di fede, ospitiamo lo Spirito della natura e della soprannatura, un istinto divino corrisponde in noi ai fini sublimi del -nostro essere e a quelli dell'universo; ma tutto cade davanti a una luce nemica, e un principio di

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resistenza ci paralizza e ci impedisce di conoscere quel che dovremmo veramente volere.

Siamo divisi in noi stessi : la natura peccatrice e Dio ingaggiano in noi una perpetua battaglia;

gli istinti carnali non obbediscono alla ragione ed alla grazia, ma seguono la loro strada e ci sconvolgono. Cittadini di due mondi e derivando da entrambi una parte di sostanza, noi subiamo la legge generale per cui in ogni lega la parte debole indebolisce tutta l'amalgama e la espone a molteplici rischi. La materia è al limite inferiore dello spirito e la sua è una legge che tira al basso, mentre quella dello spirito è una legge d'ascesa. Quando lo spirito vorrebbe innalzarsi e trascinare nell'ascesa anche la carne, questa tende al basso e utilizza per sé lo slancio dello spirito. Se noi cediamo, tutto cede, e, in virtù della logica intcriore che tende sempre all'accordo del pensiero còl desiderio, del pensiero con l'azione, la nostra visione stessa si guasta e i nostri giudizi si sviano. E' questo ciò che faceva dire ad Arnie! che c'è nel fondo della malizia umana un segreto sofisma.

Nessuno ignora le energiche parole di san Paolo esprimenti questo laceramento. « lo mi compiaccio — diceva l'Apostolo —'della legge di Dio secondo l'uomo intcriore; ma sento nelle mie membra un'altra legge che si oppone a quella dello spirito e mi tiene schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra. » (Rom., VII, 23)

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La violenza di questa opposizione non può meravigliarci. L'universo è legato alla materia e attira ciò che ad essa appartiene, ma attira anche lo spirito coi fantasmi creati dalle sue illusioni. Ed è proprio con questa sua potenza d'illusione che il mondo domina facilmente il pigmeo ch'egli stesso ha reso impotente. San Tommaso non si stanca di spiegare che l'esteriore è fiù percettibile, e, per conseguenza, più allettante, più invitante, per un essere le cui percezioni hanno origine dall'esterno, per uno spirito prigioniero delle apparenze terrene a tal punto che solamente attraverso esse, come attraverso una nebbia iridescente, egli può leggere i pensieri creatori e decifrare se stesso.

Non dimentichiamo che la costruzione del nostro essere ha come fondamento un'opera di carne e l'anima vi entra come « dal di fuori », diceva Aristotele, e che questa trova una casa già abitata da potenti determinismi e da tendenze ereditarie e accidentali, che presto si tramuteranno in fiotti d'immagini, le quali sommergeranno facilmente il lavoro del pensiero. Siamo spiriti ben strani, .anzi, più che spiriti, siamo animali ragionevoli, cioè esseri viventi da cui si sprigiona, alla cima delle funzioni carnali, un debole ardore di spiritualità, come la fiamma d'un cero.

Eppure ciò non importa, perché, se vogliamo, lo spirito sarà più forte: una particella di spirito infatti vale più di un mondo di materia, e lo Spi-

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rito del nostro spirito, il Paraclito onnipotente, ha infinita autorità.

Lo spirito non può essere vinto che per propria colpa; lo Spirito Santo perde solo se tradito dal suo alleato umano. E' l'uomo infatti che ha il potere di provocare la caduta, ma in caso di felice rinascita deve anch'egli prendere parte alla vittoria. Terribile alternativa, ma quanto onorevole per noi, nobili e avventurati combattenti, fragili trionfatori!

Ci fu tempo in cui la dualità che è in noi era armonicamente composta in quella che chiamiamo, teologicamente, giustizia originale. Questa giustizia è andata perduta; ma è venuto il Redentore e se questi ha ritenuto opportuno non ristabilire l'ordine primitivo, ciò non è a nostro danno, ma a nostro merito, e quindi a nostra gloria. E' un bene per noi essere feriti, che sono stati messi a nostra disposizione i balsami che guariscono, e, con la paziente e generosa applicazione di meravigliosi rimedi, potremo, con Gesù, diventare i redentori di noi stessi.

Lo Spirito di Cristo e la nostra ragione che egli vivifica hanno il potere di dominare in noi le seduzioni della carne. Possediamo tali forze universali che, sviluppate nella loro energia, non lasciano più alcun potere alla natura fisica. L'antagonismo di due forze viene annullato, quando una di esse

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può òpporsi all'altra con tale preponderanza da escluderla. Noi giochiamo contìnuamente, nella vita, con formidabili potenze che possiamo tuttavia dominare, perché, come dice il proverbio orientale, la prudenza dell'uomo è più forte dell'artiglio del Icone. ^ -: -.';

Quando voglio innalzarmi in volo, non devo vincere la gravita, che è una forza dell'universo? Eppure mi innalzo e mi libro quanto voglio nelle altezze. L'aereo su cui viaggio ha un bell'essere più pesante dell'aria, i suoi elementi hanno un bell'essere ricavati dalla massa terrestre nella sua materia meno eterea : se esso ha ali sicure e motore buono, vinco la gravita e non temo cadute. Così, nonostante tutti i più gravi ostacoli che mi si vogliano frapporre, io ho, per le mie ascensioni spirituali, una forza alla quale posso ricorrere senza paura che s'affievolisca; ho con me ciò che non ha nulla da temere da nessuno, ed io avanzo rassicurato nella dirczione e nella costanza.

Mi è stato anche detto che in tal caso, purché io sia veramente mosso dallo Spirito ispiratore e dalla virtù che egli fa germinare nell'anima, io non ho più bisogno di cercare la mia strada. Ogni deliberazione infatti, quando lo Spirito è a un tal grado presente in me, diventerebbe inutile, anzi mi sarebbe d'impaccio, così come per il virtuoso sarebbe d'impaccio il chiedersi, nel mezzo di un arpeggio, dove sta per posare il suo dito. L'artista

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delìbera nel suo formarsi e nel suo progredire, ma appena possiede interamente i suoi mezzi non cerca più, e allora procede come una forza della natura, quasi per istinto, con una certezza che la ragione non può dare.

L'istinto divino della virtù e del dono è una guida spirituale più sicura di tutti i nostri tentennanti sillogismi, poiché la nostra ragione zoppica là dove esso valica d'un balzo larghi spazi. Dio, unito a noi per mezzo degli istinti della nostra autentica natura e per mezzo dello Spirito santi-ficatore, crea in noi la luce e la rettitudine, e questa sua azione, come un'arte divina immanente alla vita e come genio della specie umana, fiorisce in pensieri ed in nobili atti, come la pianta si effonde in gemme e grappoli pesanti, e l'uccello in piume e in canti.

Sono certamente quest'intima compenetrazione e questa divina impronta che attestano la verità della appassionata esclamazione dell'Apostolo:

« Non son più io che vivo, ma è il Cristo che vive in me)): il Cristo per mezzo del suo Spirito, di Colui che egli doveva inviarci e che ci avrebbe insegnato ogni cosa, che ci avrebbe fatti spirituali, e per ciò giudici di tutto. Si giudica tutto, dopo avere ricevuto la propria legge immanente di vita, fondato la propria gerarchla di valori, regolato il proprio tempo — così come ebbe a dire il Pascal — sul quadrante dell'eternità, conformemente ai

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disegni creatori e redentori di cui ognuno porta la testimonianza nell'intimo.

Sia dunque sempre desta la ragione, e trovi a-scolto in noi lo Spirito ; il nostro mondo intcriore si organizzerà da sé, e anche il mondo esterno lo seguirà sulla stessa via. Succederà come all'aurora della creazione, quando la Parola creatrice chiamò per nome l'universo. Dio chiamò ad alta voce, apostrofando la materia inerte e quindi le forme che organizzarono il cosmo: così brillarono l'ordine e la bellezza. Allo stesso richiamo, anche il nostro universo morale può formarsi ed organizzarsi e, il fiat lux può farsi riudire : basta che noi vi aderiamo e che, per mezzo della libertà e di Dio che così la vivifica, esercitiamo il potere sovrano.

Posso vivere rottamente e posso pensare giusto, qualunque causa di deviazione mi si presenti, se resto unito al mio pensiero, unito a sua volta, nel mio intimo, al pensiero eterno. Se riporto questa vittoria. Dio trionferà in me; e io avrò partecipato alla diffusione del suo regno, avrò assicurato il mio destino e aiutato altri destini, ed avrò collaborato, sia pure in minima parte, al destino universale. Vincitore del mondo, anche se le sue forze mi urtavano e i suoi conflitti violenti si ripercuotevano nella mia carne, avrò dato ragione a Colui che disse ai suoi : « Abbiate fede, io ho vinto il mondo. »

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Noi non vogliamo, mettendo l'opera e l'anima al servizio di una diabolica rivincita, fare in modo che il vinto da Cristo sia il vincitore dell'uomo! Il mondo non è fatto per dominarci ma per servirci, e la voce intcriore è allo stesso tempo la sua e la nostra regola. Se Dio tutto ha posto sotto i nostri piedi, non lo ha fatto perché lo sollevassimo al di sopra di noi e ci facessimo crollare addosso la costruzione che deve sorreggerci.

La voce intcriore ci dice che dobbiamo sviluppare il nostro essere, realizzando l'ideale creatore e l'ideale redentore, la forma di Dio e la forma del Cristo, in vista di un destino che è insieme umano e soprannaturale. La voce intcriore ci dice: sali, crea in tè un'armonia, fa' che tutto serva ai fini del tuo essere e subordina la carne allo spirito e l'esteriore alla carne e a tutta la persona : questo è il compito della vita, e tutti siamo immersi nella natura e legati da un capo all'altro dell'umanità proprio in vista di questo sviluppo. La Comunione dei Santi, sia nel temporale che nello spirituale, tende solo alla perfezione ed alla crescita : per essa, ciascuno cresce e fa crescere, ciascuno vive e fa vivere, ciascuno avanza e trascina, traendo forza, nello stesso tempo, da chi è trascinato. Tale è il nostro compito. Tutto il resto non è che mezzo e non deve pretendere ad altro che alla gloriosa umiltà del servizio.

L'uomo non può sacrificarsi al suo compito

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e soccombere sotto l'opera del tempo. Le fioriture spirituali sono il vero scopo della natura fisica e dello sforzo della civiltà, e la storia non ha senso se non come testimonianza di questa ascesa dell'umanità. I grandi avvenimenti della storia non succedono sui campi di battaglia o attorno ai tavoli da gioco, ma nelle coscienze. Qui sta il dramma del mondo, e ciò che esso ha di tragico è, con tutta l'inquietudine dei sentimenti che provoca, la sua posta eterna.

Gli storici del Medio Evo avevano questa convinzione, che le età del mondo sono segnate dal progresso dello Spirito sulla terra; per loro i grandi combattimenti erano la Passione di Cristo, i trionfi dei martiri, la lotta contro il colosso romano ed i barbari, lo slancio della Chiesa attraverso i secoli; per loro, conquistatori erano i santi, crisi sociali le eresie distruttrici, gli scismi immobilizzanti, il contagio dei vizi corruttori. Ed era una filosofia della storia che valeva più della nostra; puerile forse, alcune volte, ma il punto di vista era alto e tale da fare arrossire delle loro grossolanità Carlo Marx e i suoi adepti.

Si ritorna oggi, in un certo senso, a questa storia scritta dal di dentro; si lascia meno posto al visibile ed al passeggero, al rumore ed all'apparenza, e le storie della civiltà guadagnano terreno sulle storie delle guerre. Ma questo di dentro è ancora un di fuori per troppi, ed i più hanno

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torto di avvicinarsi a ciò che è superiore nell'uomo per meglio dimenticare il divino.

Sta di fatto però che, per confessione dei migliori, la coscienza è il vero terreno della scelta — se ci si mette dal punto di vista finale, dal punto di vista dell'assoluto —, il solo terreno su cui si costruisce la vera civiltà. Costruire l'uomo, e non una casa che crollando lo schiacci; abbeverare l'uomo alle sorgenti della natura e della grazia, e non somministrargli una pozione che lo avveleni; comprendere infine che l'uomo è superiore a ciò che fa e a. ciò che lo aiuta a fare: ecco il progresso che occorre perseguire.

Ebbene, tutto ciò è proclamato in noi, se noi vegliamo nell'ascolto di noi stessi. Un mormorto dolce come quello del profeta, un clamore lontano proveniente dal fondo della razza e dal seno stesso della divinità che ci invita a questo nobile vegliare. Quella voce si ricorda delle epoche millenarie in cui l'umanità si formò ed il caos s'aprì all'ordine e l'ombra alla luce, e presuppone i tempi eterni in cui noi eravamo in Dio creature sognate e non ancora esistenti, creature pensate, sentite, qualificate già, dotate di felici destini e viventi col Padre, il Figlio e lo Spirito la loro vita sovrana. E, più innanzi, questa voce tocca, se noi la seguiamo, la sublime quiete dell'essere pienamente sbocciato, fissato nella sua sorte e nella sorte comune come un gioiello nel suo castone pre-

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zioso, come la stella nel ciclo, come il Cristo in Dio.

La voce intcriore è profeta della felicità, così com'è pure testimone della chiamata, araldo della fedeltà e signora dell'armonia e della virtù, visto che queste cose non sono che una cosa sola. Essere in armonia virtuosa col proprio io, vuoi dire essere fedeli a Dio e alla sua opera, vuoi dire rispondere alla propria vocazione.

Esser così uniti all'opera di Dio e secondarne tutti i ritmi, significa andare verso la felicità, che è il fine stesso di Dio, essendo essa il contenuto di quella volontà primigenia, di cui parlava Dante, nella quale è la nostra pace.

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LÀ LIBERTÀ E LA NECESSITÀ

-l/a voce intcriore s'accompagna in noi ad istinti e tendenze di cui essa non è, per così dire, che la traduzione. Ciò che essa esprime come giudizio e ordinai come legge, quelle tendenze pongono come un'affermazione effettiva, come un fatto. La voce dice: ciò deve essere; la tendenza:

che ciò sia!

La constatazione di inclinazioni naturali, e il conseguente fatto di nostre iniziative personali, pongono un problema complesso e dei più importanti. Quale la parte della libertà e della necessità nella vita umana? Quale significato dobbiamo dare a questi due fattori ? Dove trovare la loro origine? Qual è il loro compito? Quali i loro rapporti? Quali le conseguenze morali che dobbiamo trame? Grosso problema, certamente arduo, che merita d'essere considerato almeno sommariamente.

La nostra vita non nasce sotto il segno della libertà. I primi passi, non siamo noi a muoverli;

essi ci sono imposti da un'oscura potenza che sboccerà un giorno nella personalità, ma tardi, e non completamente. Il bambino è un fascio di sensazioni e di tendenze su cui regna incontrastata la natura, che ne è la sola responsabile. Ci sono, è vero, volontà latenti, e già i balzi del piccolo nel seno della madre stanno a testimoniarlo, ma sono volontà incoscienti; è la natura che geme e si duole, è il genio delle specie che si commuove, anche se, intima alla specie stessa, è l'individualità nascente che si rivela. Pure l'eredità è natura, così come lo sono gli accidenti della generazione : tutto ciò ci costituisce ed imprime in noi le sue esigenze prima di ogni altra cosa.

Si potrebbe dire che tali tendenze sono l'essere medesimo e lo definiscono completamente. Essere e voler essere si toccano e quasi si confondono. Il desiderio ci crea : il desiderio che, nei nostri ascendenti, ci fece passare dalla possibilità all'essere, e che dai nostri genitori ci è stato trasmesso, dopo che essi se ne servirono per concepirci, facendone quasi la nostra sfessa sostanza:

esso è la vera fiaccola della vita, il fuoco animatore, ne e anzi, in qualche modo, il tutto.

Si potrebbe aggiungere che, dalla nostra nascita, è sempre il desiderio d'essere che ci fa essere. Chi non desidera più, è morto. Si è spiegata

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l'apparenza di morte del sonno con la sospensione di una delle forme del desiderio, il desiderio volontario: là dove non rimanesse desiderio alcuno, là dove non ci fosse più alcuna ansia e alcuna ricerca, ivi sarebbe la morte. Ma c'è di più: perfino dopo la morte sembra che noi continuiamo a desiderare, poiché il cadavere vegeta ancora e si direbbe che non si rassegni. Nel vivente, ove con ogni sorta di poteri la natura esprime la sua tendenza ed il suo sforzo, il desiderio è principio di permanenza, di attività, di progresso. Ed è così di tutti gli esseri, i quali sono come archi tesi, dai quali la freccia dell'azione scocca in una dirczione che è determinata dalla loro medesima natura.

Come l'essere infatti, finché rimane essere, determina il desiderio, così la forma d'essere determina la forma del desiderio che essa diversifica dalle altre nature. Ciascun essere ha le inclinazioni che corrispondono a ciò che egli è. Il fuoco diffonde calore; l'animale vivente segue una curva d'evoluzione definita dalla specie, e l'essere pensante, in quanto come tale s'arricchisce d'un essere nuovo, sarà dotato d'una inclinazione nuova, chiamata volontà. E siccome tutto ciò è presente in noi che siamo corpi naturali e animali viventi ed esseri volenti, noi subiremo molteplici inclinazioni su cui la necessità avrà un vasto impero.

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Questa condizione è per noi un segno d'imperfezione, ma è, in compenso, una testimonianza della capacità che possediamo di acquistare ciò che ci manca. Ciò che si cerca, non si ha; ma ciò che si cerca naturalmente, si ha il potere naturale di raggiungerlo e, in seguito, di utilizzarlo: il che significa che in qualche modo già lo si possedeva e che quella conquista era inclusa nella nostra definizione di esseri di desiderio e ci qualificava già e ci determinava prima di perfezionarci.

Se ci mettiamo dal punto di vista dell'oggetto desiderato, notiamo che il desiderio naturale è un legame tra gli esseri: esso da risalto alla loro mutua convenienza e alla loro fraternità, e da un significato alla loro unità mostrandola come unità di funzione, in vista del loro bene e dell'armonia ch'essi compongono. Questa è l'energia che muove l'universo, l'orma del Bene sovrano dal quale procede e verso il quale avanza.

Il desiderio da forma ài mondo, lo conserva, lo muove, lo trasforma e lo spinge; ne è come l'anima molteplice ed in perpetuo slancio: imitazione di quell'amore che piega Dio su se stesso, retaggio di quell'altro amore che spinse Dio a manifestarsi creando il mondo. La natura che desidera, è un'espressione, imperfetta e diversa, del Primo Amore, poiché la necessità che la trascina

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vìen dall*Agente cui tutto obbedisce, mentre essa tende al Fine cui nulla sfugge.

C'è nel mondo una gravitazione misteriosa :

l'essere attira l'essere, e tutti gli esseri sono attratti dall'Essere primo; il perfetto attira l'imperfetto, ed il bene attira il desiderio che in esso si compiace, si appoggia e si realizza. L'amore di Dio si manifesta concretamente in questa aspirazione incoercibile, così come concretamente si manifesta l'intelligenza creatrice nella luce immanente a tutto ciò che è. Il desiderio infatti, di per sé cieco, ha bisogno di una luce, e questa luce traspare da tutte le cose: arte nascosta nel bruto, immagine o idea nell'essere intelligente, essa procede nell'uno e nell'altro dalla Luce eterna, coi riflessi della quale illumina il nostro cammino.

Chi penserà a questi sublimi legami terrà in maggior considerazione la propria vita, e sarà quasi sicuramente portato ad una conclusione preziosa per la sua condotta. Se ci sono in noi necessità intcriori che precedono il volere; se queste necessità ci vengono da Dio attraverso l'azione regolare o i capricci apparenti della natura; se il nostro carattere ne risulta formato, così come quello degli altri, e se le nostre reciproche reazioni, i nostri modi di adattarci e di sentire, hanno per causa vicina o lontana, totale o parziale, quelle divine necessità, bisognerà infine che ci decidiamo ad

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accettare quest'ultime come punti di partenza della nostra azione, sia individuale che collettiva.

Recriminare, accusare la sorte e inquietarsi a motivo di questi fatti, è imprudente ed ingiusto, Di ciò che è in noi senza di noi, nessuno di noi risponde, essendone Dio solo responsabile e facendo esso parte di quegli avvenimenti, materia diretta o indiretta della provvidenza, di cui abbiamo riconosciuto il carattere sacro.

Dobbiamo risolvere un problema morale, sfruttare con estrema prudenza le risorse di cui disponiamo, magari nella loro assenza apparente, e ogni discussione a questo riguardo è perciò una perdita di forza e ogni scoraggiamento una mancanza. Non è forse dalle mani del Signore che riceviamo con venerazione il nostro corpo e la nostra anima quali Egli li ha formati? Le circostanze e le forze che ci hanno costituiti sono tutte a nostra disposizione ed è grande virtù far loro credito, mentre è mancanza deplorevole fare il contrario. Così pure è dannoso maledire o trascurare se stessi : azioni queste che si influenzano reciprocamente. Irritandosi contro i propri difetti, si giunge al medesimo risultato cui s'arriva pigliando pigramente le proprie risoluzioni. Lusingare se stessi o disprezzarsi è tutt'uno. Poco importa che si getti lontano la scure o che ci si serva di essa goffamente : l'effetto è uguale.

Lo stesso va detto del prossimo. Non è giu-

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Sto, anzi è crudele, rimproverare a qualcuno ciò che non viene da lui, ciò che lui per primo subisce e forse deplora. Se non sappiamo quanto è difficile a noi la vittoria sui nostri stessi difetti, siamo ben incoscienti e, se lo sappiamo, perché dovremmo ignorarlo quando è in causa il prossimo?

A giudicarci non sono tanto le nostre azioni quanto i nostri voleri, ancora meno poi le nostre tendenze. Si può essere eroi lottando tutta una vita contro cattive tendenze intcriori difficili a vincersi in se stesse, come si può essere spiriti me-diocri facendo cose generose e talvolta anche sublimi. Chi saprà decidere? La regola di sant'Agostino in materia di predestinazione può essere qui applicata : « Noli velie judicare si non vis errare, non voler giudicare, se non vuoi sbagliare », e, se non si deve giudicare, tanto meno si dovrà maledire. Nessuno è colpevole di ciò che è, ma solamente di ciò che vuole e di conseguenza, indirettamente anche se non sempre strettamente, di ciò che fa.

La giustizia e la saggezza ci chiedono quindi una cordiale compassione per i difetti degli altri e una generosa pazienza per i nostri.

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Ci si può ora chiedere se è solo a riguardo del carattere, e quindi della parte relativamente inferiore del nostro essere, che noi siamo soggetti

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alla necessità, e se libera invece da ogni legame, in quanto presiede alla vita morale, sia la volontà razionale, la signora delle nostre azioni, questa alta potenza che, per il suo compito, appare indipendente. Molti invero così credono e si figurano che ciascuno voglia a piacer suo, e decida come meglio creda, e non subisca, nella propria volontà, imposizioni di sorta. Ciò non è e non può essere.

Evidentemente tutto ciò che esiste, per il fatto stesso che è determinato nel suo essere, si trova determinato a certi movimenti. Ogni essere ha la sua inclinazione. Se la volontà è, deve avere una tendenza fondamentale, naturale, su cui la libertà non avrà presa alcuna, visto che essa al contrario ne dovrà procedere. Ogni variazione riposa su un'essenza delle cose che è fissa in se stessa; ogni mobilità ha il suo perno.

Di fatto, la tendenza naturale della volontà è doppiamente determinata. La volontà ha una ragione di volere che è la sua sovranità; in secondo luogo, e in conseguenza di ciò, essa ha un oggetto primieramente voluto, che sempre la vince. Al di fuori di ciò, nulla potrà deciderla a nulla, si tratti di scegliere questo o quello, si tratti di agire o di non agire.

La ragione di volere, per la volontà, è il bene;

non dico il bene morale, ma il bene nella sua nozione universale, cioè il desiderabile, oggetto che

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giustifica e che qualifica in se stessa la facoltà del desiderio e che l'eguaglia, come si eguagliano la convessità e la concavità d'una medesima sfera. Non si può volere ciò che non costituisce oggetto di volontà, così come non si può vedere ciò che non è visibile. Ogni volontà che vuole è una volontà indirizzata al bene. Se ne risulta un male, e lo si riconosce, si tratterà di un triste accidente al quale ci si può anche rassegnare, ma non è questo ciò che si vuole. Volere è tendere a cose buone.

Tra le cose proposte alla nostra facoltà volitiva ce n'è una poi, una sola, che s'impone alla pari del bene nella sua nozione astratta, con una necessità, quindi, assolutamente ineluttabile. La nostra volontà non può fuggirla, tanto che, anche quando pretende indirizzarsi a un altro oggetto, essa tende ancora a quella e la sua attrattiva è forte al punto di vincere la più nera disperazione e il più completo scoraggiamento. Colui che crede di non essere più capace di volere, gusta questa potenza dominatrice più aspramente di qual-siasi altro; il rifiuto di ogni desiderio ne è il desiderio più alto; quando si ostenta pessimismo e ci si dice pronti alle ultime rinunce, è lei che si esalta, lei che, se vede dirigersi verso l'eternità qualche vittima della vita, sa che ciò avviene per affanno d'amore : perché la si amò troppo, al punto di chiudersi, disperando di lei, in un oscuro abbandono di tutto, che è, al suo confronto, un

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omaggio supremo. Questa potenza che ci lega in nome del bene, motore del volere, è la felicità.

Chi dice felicità, dice bene umano perfetto, perfezione dell'uomo, conclusione del movimento che determina il sorgere della vita: e in che dirczione si volgerà la vita, se non verso ciò che l'ha fatta scaturire? Per questa ragione, la felicità è l'obiettivo per eccellenza di ciascuno e di tutti, « anche di coloro che vogliono impiccarsi », scriveva il Pascal. A quel bene, noi aderiamo con movimento naturale, fatale, senza sentirci per questo minimamente violentati, così come lo spirito non è violentato da una verità evidente. La natura non violenta mai : è ciò che ad essa si oppone che è violenza, la quale ci viene dal di fuori, mentre la natura non solo è in noi, ma è noi.

Per la nostra volontà, desiderare la felicità umana è lo stesso che volere ed essere una volontà. Volendo tale oggetto infatti, essa non si comporta tanto come volontà, come volontà libera, quanto come natura, come cosa. Essa è anzitutto una tendenza, e tende semplicemente; poi è tendenza intellettuale, e tende al bene visto come nozione; infine è tendenza dell'uomo, e tende al bene dell'uomo. Tutto ciò si equivale. Si potrebbe dire allora che essa non vuole la felicità per la felicità, ne che vuole la felicità perché ha il potere di volere, ma che vuole la felicità perché essa semplicemente è. Essa è desiderio dì ciò

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che conviene all'uomo : e che cosa conviene all'uomo se non l'essere uomo e il sentirsi nello stato di perfezione, in possesso di tutto il bene umano, senza alcun difetto che lo possa intaccare e senza alcuna paura di perderlo ? Ebbene, questo è ciò che si chiama felicità.

E' nota la storiella raccontata da sant'Agostino nella Città di Dio. Un mimo greco aveva detto un giorno a teatro : « Venite numerosi alla prossima rappresentazione, perché rivelerò a tutti quel che ciascuno desidera. » Accorse gran folla, curiosa del fatto, e il mimo disse : « Voi tutti volete comprare a buon mercato e rivendere a caro prezzo. » Si trattava infatti di un popolo di mercanti. Ma se il mimo si fosse avvicinato all'uomo, commenta sant'Agostino, e avesse detto : « Volete essere tutti felici, nessuno vuole essere infelice », a-vrebbe detto una cosa di cui ciascuno avrebbe trovato la testimonianza nel proprio cuore.

Per questa ragione allorché un bene, anche insignificante, prende ai nostri occhi l'aspetto del bene sovrano, se circostanze intcriori od esteriori non ci permettono di sventare l'insidia, noi ne veniamo attratti irresistibilmente: e in questo caso, anche se cadiamo nella sventura o nell'errore, la nostra responsabilità è nulla, quantunque una tale evenienza teorica non si trovi mai realizzata allo stato puro. Rientrano in questo caso l'ossessione morbosa, lo sbaglio involontario, la passio-

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ne improvvisa. Può anche darsi che questo determinismo utilizzi talvolta la suggestione ipnotica.

I nostri voleri primi o improvvisi non vengono da noi, ma dalla natura in noi; essi manifestano il substrato della nostra attività, e in essi noi non agiamo come persone, ma come cose, come oggetti di natura senza reazione propria. Ciò è bene a sapersi, e più d'un giudizio avventato su noi stessi o su gli altri, in bene o in male, potrebbe trovare qui l'occasione per esser riveduto.

Quante volte siamo sorpresi, o il prossimo è sorpreso, dal sorgere improvviso di sentimenti o d'impulsi di cui abbiamo coscienza, ma che noi non abbiamo deliberato! Una specie di evidenza s'è sostituita subito, precedendo la deliberazione necessaria. Se qualcuno ci insulta, non è evidente che occorre rispondere per le rime? Se ci troviamo di fronte a un grande pericolo, non è forse evidente che bisogna fuggire? Eppure dovremmo riflettere, ma la sorpresa non ce ne lascia il tempo : fuggiamo, percuotiamo, e solo più tardi si ridesta la ragione. I casisti spagnoli scusavano il ca-ballero che, tacciato d'eresia in una disputa e portato da un'improvvisa collera, passava da parte a parte con la spada colui che lo insultava. Se ciò ci illumina sui costumi del tempo, la dottrina comunque sussiste.

La stessa cosa può accadere anche in bene ed è questo ciò che vuole significare il cinico detto:

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« Diffidate del primo impulso, è quello buono. » Nel caso di volizioni semplici, come dicono gli scolastici, di voleri cioè che precedono il consiglio e quindi anche la libertà, la responsabilità è sempre attenuata e, alcune volte, nulla. Conviene ricordarsene sempre, per non disperarsi o esaltarsi, per non accusare, soprattutto, contro ogni giustizia.

C'è un'altra bella teoria tomista la quale dice che i primi movimenti di ciascuna serie volontaria, i punti di partenza che portano, attraverso successive deliberazioni, a risultati lontani, non ci appartengono mai. Essi vengon dal di fuori — a meno che questo di fuori non sia il Supremo intcriore —; essi vengono da Dio, che, autore delle nature, solo risponde del movimento delle nature, le quali non sono affidate alle mani del loro consiglio.

Quando mi risveglio e mi sorprendo a volere senza avere pensato, questo volere non deliberato rimarrebbe senza spiegazione, se non lo rimandassi a una causa extraumana. Esso è senza dubbio legato a flussi d'immagini mentali e ad impulsi oscuri, ma questi non sono la vera causa :

se lo fossero, sarebbe in gioco il principio medesimo della libertà, e arriveremmo all'uomo macchina. Un solo potere agisce sugli spiriti, ed è il Creatore stesso degli spiriti. Se io voglio senza

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avere prima pensato, così come, del resto, s'io penso senza averlo voluto, vuoi dire che ho subito l'influenza dell'Essere primo, che è dappertutto e in tutto «presente alle sue opere». Qui, come in tutto ciò che è natura, il trascendente traluce sotto l'immanente, l'eternità sostiene il tempo e l'immutabile il fenomeno.

Questi alti concetti erano familiari agli antichi, ma per noi sono lettera morta. E' buona cosa perciò il richiamarli: essi danno un'idea dell'uomo più elevata certo di tutte le spiegazioni psicologiche attuali — che non son loro contrarie, del resto — e gettano sulla nostra vita morale una luce tale che ogni altra ne deriva. I punti di partenza sono sempre luce per il cammino.

Si deve dunque constatare che al principio della nostra vita, così come ad ogni suo ricomin-ciamento, nel fisico e nel morale, è la necessità che governa, e non la libertà. La necessità da il primo impulso alla vita umana, mentre la libertà se ne impadronisce soltanto in seguito e non senza intromissione ancora dell'altro potere. La libertà muove il mondo e ne fa scaturire di volta in volta luci ed ombre, ma la sua azione è sempre limitata; senza questo limite, forse, diventerebbe una forza totalmente distruttrice ! In certi esseri e in certe circostanze, lo sarebbe sicuramente : la corrente trascinerebbe tutto, e la natura, con la

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soprannatura che su di essa si innesta, ne subirebbe un danno mortale. Dio non permette ciò e pone un limite. Ma il necessario, nello stesso tempo che limita la libertà e le serve d'appoggio lungo la sua corsa, si ritrova alla fine a tutto ricevere. Il nostro libero sforzo, attraverso molti ritorni e per un cammino più o meno lungo, non fa che avanzare verso una forma nuova della necessità, che è la fissità eterna.

In effetti, se la felicità è desiderata naturalmente, non meno può esserlo ciò in cui essa consiste come nella sua propria causa e nel suo oggetto; anzi lo sarà di più, perché il concreto ha più potere dell'astratto: e non è risaputo infatti che, tra una nozione e la realtà che l'incarna, è quest'ultima che vince? - ..-,--

Dove si trova la felicità? Come si realizza questo stato reso perfetto per l'accumulazione di tutti i beni, come ha detto Boezio? Sarebbe facile provare che Dio solo procura, con la comunicazione del suo essere e delle sue perfezioni, uno stato di perfettibilità che l'infinità delle nostre aspirazioni e dei nostri poteri recettivi spinge a esigenze infinite. La felicità non è che in Dio; essa è il nome comune, di cui Dio è il nome proprio. Possedere Dio, abbracciandolo con tutte le forze del nostro spirito, aderendovi con tutto il cuore, è lo stato veramente cumulativo di ogni bene, di cui

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noi siamo gli avidi pretendenti ed Egli e-la sorgente suprema. ,' -',

Messi quindi di fronte a Dio, non come quaggiù, sotto gli auspici d'un'idea astratta, di un concetto negativo e quasi d'una parola, ma faccia a faccia, noi non saremo liberi di evitare lui più di quanto non possiamo evitare noi stessi; saremo legati a lui nello stesso modo in cui ora siam legati alle proprietà del nostro corpo e alle leggi del nostro spirito. Possiamo noi evitare di avere un peso? Possiamo tralasciar di credere a una evidenza? Slmilmente noi non potremo sot-trarci a Colui la cui proprietà è di rispondere ad ogni appello, di soddisfare ogni desiderio, di concludere ogni ricerca. Verso di lui si porterà tutto intero il peso della nostra anima volente, la quale sarà trascinata da un'evidenza del bene che assumerà il carattere d'un'infinita ossessione. Nessuna possibile fuga a destra o a sinistra, per una volontà che là trova tutte le ragioni del volere, poiché vi sarebbe ricondotta perfino da ciò ch'essa potrebbe seguire in caso di fuga, in quanto l'oggetto che l'attirerebbe altrove non agirebbe che come partecipazione, riflesso, surrogato di ciò che essa ha abbandonato.

Per seguir ciò che ha solo un valore relativo e dipendente, si lascerà ciò che ha valore per sé? Per seguire ciò che è luminoso, si lascerà la Luce, per ciò che è amabile l'Amore, per ciò che è pre-

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zioso la Ricchezza? Era in vista di questo fine che senza saperlo si cercavan tutti gli altri; era perché scorgevamo un'immagine, un vestigio di questa perfezione, che ci si orientava ad altre perfezioni; era per l'attrazione di questa felicità compiuta, lontanamente intravista in ciò che si ama, che si cercavano le altre felicità. Una volta colà giunti, una sola cosa è possibile : un ripiegamento eterno della volontà soddisfatta sull'unico Bene, un'unione beatificante che tutte le energie dell'essere sono impegnate a formare e che nessuno può disserrare o, meno ancora, distruggere.

Al contatto dell'Essere primo, da cui è uscito e che gli è infinitamente conveniente, l'essere creato non desidera più : egli è. Il suo desiderio è esaurito dalla sua stessa soddisfazione ed egli si attacca all'oggetto, ne sposa i contorni, si assorbe e si fonde in esso senza dispersione, anzi in un più alto possesso di sé, sviluppandovi le sue attività al massimo, ma di colpo, se così si può dire, perché dal punto di vista della sua ricerca, egli non può che immobilizzarsi in un'eterna immobilità, nel perfetto ottenuto. E' la stessa cosa che capita al ruscello, il quale scorre e serpeggia a lungo, ma, arrivato al mare da cui misteriosamente era nato, non corre più, si placa e si stende nel seno della grande pace.

Si può, a questo riguardo, sottolineare quanto grande sia l'idea della felicità cristiana. Noi

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dicevamo che i movimenti naturali della volontà hanno per causa Dio medesimo, Dio che agisce immediatamente come autore e motore immanente di ogni natura. Ma quando la volontà è in Dio, l'oggetto Dio la muove egualmente d'un moto immediato, questa volta nel modo in cui ci muovono i nostri fini. Ecco dunque questa volontà presa tra due motivi, l'uno e l'altro intimi ed irresistibili; ecco la sua libertà di movimento assorbita nella Libertà creatrice, che in due sensi la determina, dietro come agente e davanti come termine. ,:_.y"^;p^'w ' ' '

Se si aggiunge che l'oggetto della Libertà sovrana non è altro che il Bene divino amato per se stesso, e che il principio motore di cui si parla è identico a Dio, ecco l'essere creato impegnato con tutte le sue potenze nella vita di Dio, teso verso Dio, nella gioia del nirvana — ma dì un nirvana cristiano — il quale non è un'evanescenza o una dissoluzione della persona, bensì la più ricca e perfetta maturazione nel seno di Colui che tutto crea e tutto dona a se stesso.

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Torniamo ora sulla ferra a ritrovare la libertà, la quale, partita dalla necessità e in marcia verso la necessità, non segue tuttavia la strada di questa. La schiavitù o, per meglio dire, la fedeltà al

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servizio del Sommo Bene, rende la libertà più indipendente al confronto di tutto il resto. Fatta per questo alto ideale, essa potrà tacciar d'insufficienza e sdegnare, lasciandolo al suo nulla, tutto ciò che non è quello. Anche se crederà di riconoscervelo, decidendosi allora per ciò che glielo rappresenta, ne fa le veci e lo serve, o parrebbe servirlo, ciò avverrà sempre per una scelta cosciente : nulla può forzarla ad abdicare, perché nulla eguaglia in potere di soddisfazione ciò che essa porta in sé come potere di desiderio, e perché, divinità avviata verso dimore di luce, essa può sempre trattare come baracconi da fiera i più sontuosi palazzi.

Quando noi apriamo le braccia, è per richiuderle sull'immenso; tutto ciò che ci trattiene non è in verità che un simbolo di ciò che noi cerchiamo, e non è che per una specie di decreto arbitrario, cioè di libero decreto, che noi accordiamo a checchessia un potere di convinzione sulla nostra intelligenza pratica e, come conseguenza, una signoria sul nostro cuore, ^^s^

La nostra intelligenza è uguale al Vero, cioè all'Essere dal punto di vista del suo valore conoscibile, e la nostra volontà è uguale al Bene, cioè all'Essere dal punto di vista del suo valore di vita. La determinazione profonda di quest'ultima potenza, di cui la prima è guida, tende dunque solamente a ciò che esprime l'essere ed il bene allo

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•«tato perfetto e al cui confronto ogni altro oggetto è così inferiore che non la saprebbe vincere. Il bene assoluto la orienta, mentre tutto il resto la lascia in sospeso, ma sempre padrona del gesto. Di là viene, a ben pensarci, l'insaziabilità del cuore umano; là si fondano i nostri destini; là è il segreto di ciò che si chiama Ubero arbitrio.

Noi soli, nella natura, possediamo questo misterioso potere. Ogni cosa creata tende verso il proprio bene, ma l'essere inanimato tende con impulso cieco, e l'animale, anche se sa dove va, non scorge il bene che l'attira in altro modo che al concreto, in quanto esso non ne ha la nozione, non sa che cosa è il bene, non sa cosa è fine, mezzo, ricerca, ideale: è dunque senz'armi di fronte alla natura che lo spinge.

A differenza di questi fratelli inferiori, la cui condizione si ritrova, a dire il vero, anche nel profondo del suo essere, l'uomo è messo in onore :

corpo greggio per le azioni e reazioni fisiche, vegetale e animale per altri rapporti, egli è in più una natura intelligente. E-ciò significa non solo che egli conosce l'oggetto buono e desiderabile, ma la ragione stessa dell'essere buono, e può misurare i gradi del bene. Egli ha una norma, infatti, che è l'idea di bene in tutta la sua ampiezza, per cui egli può non soltanto giudicare e dire:

questo è buono (ciò che fa anche la bestia) ma anche, in seguito, ricordarsi del suo giudizio e

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farsene ij. giudice, il quale non sarà prevenuto fer natura in favore d'una soluzione resa ineluttabile, ma possiederà l'idea di giustizia col potere di confermarvi il suo verdetto.

Qui sta la sorgente del libero arbitrio. Ne segue che son dotati di libero arbitrio solo coloro che sono provvisti della facoltà delle idee generali;

ma questi ultimi lo possiedono infallibilmente e ne gioiscono in tutte le circostanze, quando questa loro facoltà non sia menomata da una malattia mentale o dal sonno, da distrazioni inevitabili o dalla sorpresa. L'uomo ha questo di meraviglioso, come potere conoscente, che egli non è unicamente uno specchio del mondo. Se non fosse che uno specchio, la sua azione non sarebbe che un riflesso, che l'azione segue il conoscere. La mucca di Hugo, che sogna nel prato, e che rappresenta al poeta la natura fisica, capta impressioni e forme che traduce in gesti : essa conosce, giudica e va. Ma ciò che essa assorbe di idealità diffusa dappertutto nel mondo, è in lei come un'acqua che segue il suo corso : la bestia non reagisce affatto, non pensa il suo pensiero oscuro, ne lo giudica, non riflette ne fa alcun paragone tra ciò che riceve e ciò che potrebbe ricevere, tra ciò di cui essa giudica istintivamente e ciò di cui invece potrebbe giudicare se spiritualmente lo ruminasse, come materialmente rumina il fieno che la nutre. Essa va dunque fatalmente là dove la

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spingono il gioco delle immagini e l'attrazione del desiderio, che è unico e dominante.

L'uomo è altra cosa, e tutta diversa la legge del suo cammino. E' un creatore dell'idealità;

dopo aver ricevuto informazioni da ogni parte, egli stesso s'informa, reagisce spiritualmente su se stesso; non giudica solamente, ma si giudica; non ha unicamente istinti, ma pensieri, i quali valutano tali istinti e, valutandoli, li dominano. Può ben qualificarsi come essere di desiderio, ma egli non seguirà ciecamente il primo venuto dei desideri, ne lo stesso desiderio dominante, ne un desiderio qualunque, ad eccezione di quello che lo definisce nel suo intimo, e che è il desiderio senza limiti, quello cioè del Bene Supremo.

C'è una specie d'infinità che, nello stesso tempo, reca beneficio alla nostra azione e ci carica di responsabilità terribili. La nostra anima ha una profondità d'abisso, alla quale corrispondono soltanto i beni infiniti. Come la natura è in noi, così sono in noi l'immensità e l'eternità. La nostra anima immateriale, sorpassando il corpo che gode dei poteri di lei, sorpassa allo stesso modo quel prolungamento del corpo che è la natura fisica, e non è trascinata affatto dai movimenti di questa, ma sta nel proprio ciclo e si dona da se stessa il suo carattere morale. Nella sua eternità, essa utilizza il tempo che preparò il suo atto e prepara il tempo in cui esso si svilupperà, ma in

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questa preparazione ed in quella utilizzazione essa è sola. Insondabile segreto, che spiegherebbe, se potessimo penetrarlo, i nostri destini meravigliosi e funesti.

Può sempre capitare che. questo infinito potere della nostra libertà ceda di fronte alla più meschina delle forze, e possa derivare le proprie decisioni da non importa quale oggetto; perché, come dicevamo, il più piccolo dei beni, se lo si illumina della nozione vittoriosa di felicità, può esercitare il potere di quest'ultima. Il minimo frammento di vetro, veduto da lontano secondo una certa incidenza, può sembrar quasi un sole. Siccome nulla eguaglia la piena felicità, tutto può sembrare che la eguagli, se può assumerne il volto. La nostra potenza d'illusione possiede una collezione di queste maschere, e in verità noi siamo esperti, qualche volta fino al ridicolo, nell'arte di trasformare il più povero degli esseri in una divinità. Ora, una volta operata la trasformazione, sia liberamente, sia per uno di quegli accidenti dei quali abbiamo parlato più sopra, le conseguenze non mancano.

Eppure, anche quando accade che io, liberamente e accecato di mia mano, crei l'illusione, io resto ancora padrone di me stesso : nessuna circostanza mi trascina, se non quella che io stesso ho creato. Sono io che fornisco armi al vincitore, cioè al bene che io stesso ho incoronato, e che mi

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vince perché, per mezzo mio, è divenuto grande quanto me e, — nel caso in cui sia un bene inferiore e indegno dell'uomo —, esso non riveste che una falsa e pericolosa maestà, della quale tuttavia divento vittima.

Abbiamo notato che alla sostituzione di valori, in ragione della quale io cedo il passo a un motivo in sé miserabile, s'accompagna subito una forza d'attrazione paragonabile a quella che esercita l'infinito stesso. Ciò significa che, dopo la scelta del motivo vincitore, la necessità, che decisamente ci spia da tutte le parti, riprende i suoi diritti. £ inratti, ottenuto quel punto di partenza, essa provoca in primo luogo la nostra decisione, quindi ci porta aUa esecuzione e, infine, essa stessa svolge, senza che noi possiamo nulla, la serie delle conseguenze.

E' spaventoso pensare che noi possiamo così gettarci, con lucidità piena, in braccio alla cieca fatalità. Siamo talmente degli esseri di luce, che anche una falsa luce creata da noi ci affascina.

Un accecamento sicuro è nella passione peccaminosa. S'io non fossi accecato, io che aspiro con tutte le forze del mio essere al bene, potrei correre a ciò che è il mio male? Eppure io vi corro, e so di corrervi, e voglio corrervi, quantunque io non voglia, in fondo, quello ch'io mi

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lascio andare a volere, ingannandomi con una satanica chiaroveggenza. « Io me ne andavo, volendo, verso ciò che non volevo », scrive sant'Agostino.

Camminando così nella dirczione opposta a tutto ciò ch'io cerco con aspro volere in questa vita, io so bene d'essere pazzo: ben valuto infatti ciò che guadagno e ciò che perdo, e non ignoro affatto la scommessa pascaliana, e ho ben capito l'evangelico « che serve all'uomo guadagnar l'universo, se poi perde l'anima? » e ci credo e taccerò magari di pazzia e di frenesia chiunque agirà come me (e può darsi anzi ch'io lo faccia già ogni giorno, con convinzione e con zelo); ma con tutto ciò io non mi ravvedo : il giudizio della mia saggezza è senza forza e io me ne scosto liberamente, dolorosamente, forse, se sono un novizio del peccato, gioiosamente, forse, se sono indurito, me ne scosto e me ne fabbrico un altro, di cui affido la confezione alla passione od al vizio, e quello dice : Occorre godere, occorre pigliarsi la tal soddisfazione o liberarsi dal tal dovere, occorre vincere al gioco dell'esistenza. Io mi affido allora a quest'ultimo giudizio, senza tuttavia che il primo cessi di essermi presente e di avere la mia approvazione. Ed è così infine che, praticamente, io giudico cosa buona compiere un'azione che è gravida di catastrofi morali, e ch'io decreto, in altre parole, la mia infelicità.

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Io agisco in tal modo perché ho offuscato la mia luce, perché ho chiamato le nebbie in soccorso alla mia passione e contro la mia ragione, incaricandole di nascondermi l'avvenire di sventura e il presente di vergogna, dopo di che io entro a occhi chiusi nella fatalità, m'attacco al collo la macina di mulino che mi precipiterà nel mare. ^:^\^^ ^:::\^.' '',:;•:;

Poiché è così purtroppo! La mia caduta nel male è ormai divenuta fatale, mentre era libera nello stato precedente, e io, posta la premessa, non sfuggirò più a una conclusione che la natura m'impone nel nome dell'altra premessa. Infatti io non posso fuggire la felicità, e quando dico a me stesso, liberamente : — Questa è la felicità —, io vi corro. Una volta che tale giudizio è stato formulato, e formulato da me stesso, è inevitabile ch'io lo debba seguire. Dove attingerei la forza di resistergli? Forse dalla riflessione? Ma allora quel che credevo l'ultimo giudizio, ultimo in realtà non era. O forse potrei resistergli inconsciamente ? Ma in tal caso la mia azione non avrebbe più alcun carattere morale. La mia ultima decisione non è che il peso del mio ultimo giudizio, determinato il quale essa resta allo stesso modo determinata, e non soffre più ostacoli.

Si troverà forse strano e moralmente disdicevole che noi siamo così schiavi della luce? Ma essere schiavi della luce, quando siamo noi a cer-

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caria, è essere semplicemente schiavi di noi stessi, cioè essere liberi. Non si tratta qui di attenuare la nostra libertà, ma di dire dov'essa si trova. Perché orniamo la libertà intcriore col nome di libero arbitrio, se non perché essa consiste nel-Y arbitrare, cioè nel giudicare in maniera esente da qual siasi costrizione? Eppure una volta giudicato, una volta espresso, cioè, un ultimo giudizio, il caso sfugge al libero arbitrio, perché sfugge ad ogni arbitrio, e rientra nella necessità che è la legge di ogni atto avente tutte le sue condizioni. Una volta poste quest'ultime, il fatto segue: è una regola universale.

E come è necessario ch'io decida ciò che io ho voluto considerare finalmente come buono, così è necessario che, salvo impedimenti da me indipendenti, io segua questa decisione e la ponga nella realtà esteriore. Io osservo in me una disposizione di forze che la mia libertà può ben mettere in moto, ma che, nei loro legami, sono da me indipendenti e obbedienti al determinismo. Come l'apprendista stregone, noi conosciamo la parola che scatena le potenze fatali, ma non quella che le richiama.

Quando la nostra libertà sceglie, la sua scelta determina in tutta la persona un cambiamento di dirczione delle forze; il regime di vita intcriore risulta modificato; altro è diventato il clima dell'universo congiunto, e ne seguono effetti che più

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nessuno arresta, ad eccezione di un nuòvo verdetto, pur che non sia pronunciato troppo tardi. L'anima pensante e volente si prolunga nelle immagini e nei poteri sensibili e, questi, a loro volta, nel sistema di leve e di fili di cui è composta la macchina fìsica: una volta libera la corrente, la esecuzione segue, come in un meccanismo imperioso.

Se nessuna libertà esiste dunque tra la decisione e l'azione, così come non ce n'era tra il giudizio ultimo e la decisione, ce ne sarà tra la esecuzione e le sue conseguenze? Ce ne sarà ancora meno, perché nei due casi precedenti tutto avveniva in me, e ben si poteva supporre, quantunque a torto, che la mia iniziativa fosse sovrana, mentre qui io sono assente: il masso precipita per la china e sempre più s'allontana da colui che l'ha urtato; il ghiaione e le pietre ch'esso trascina ne trascinano altre a loro volta; la slavina s'allarga e che cosa posso fare io per arrestare questo sorprendente sviluppo della mia azione? ,

Non si deve però dimenticare che la responsabilità così assunta, può essere assolta dal mio pentimento. Nell'universo morale nulla è irrimediabile. Da ciò che non posso più fermare, posso svincolarmi moralmente, perché posso rimetterlo a Dio, la cui provvidenza è così potente da utilizzarlo e così indulgente da assolverlo. Ma, fino a questo momento, io devo rispondere di effetti per

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così dire illimitati; perché nessuno può misurare, in un mondo dove tutto è legato e tutti sono solidali, le conseguenze di un atto. Esse arrivano fino all'eternità e si estendono nell'immenso : solo le grandi assise annunciate per la fine dei tempi potranno mostrarne l'intero corso.

La situazione dell'uomo nella natura è, perciò, unica e ben pericolosa, ma nello stesso tempo è di un'esaltante grandezza. Solo in noi può esserci una contraddizione tra ciò che deve essere e ciò che sarà, tra la legge e il fatto. Le forze naturali non hanno scelta : esse seguono sempre la loro legge, sfruttano sempre in meglio le risorse che nascondono e senza fretta realizzano i loro effetti con ingenuità e rettitudine, ciascuna cosa essendo quella che è nel farsi atto. Noi soli abbiamo la potenza inebriante di sviarci, potenza di cui purtroppo largamente approfittiamo.' ; -;^; : ^

E' pur vero che ci sono nella natura degli accidenti, cioè degli incontri di forze, che non rispondono ad alcuna legge e danno luogo ad apparenti disordini; ma è anche vero che queste fatalità sono senza causa propria, nessun agente naturale tendendovi per sua iniziativa o consacrandovi le sue energie. Al contrario, siamo noi stessi che ci proponiamo la realizzazione del male e che impegniamo per essa in certi giorni tutte le

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nostre forze: noi, gli incidenti, li provochiamo, laddove la natura non fa che subirli. E' un uso della libertà che ci accusa e spesso ci opprime e, alla fine, deve sempre opprimerci, perché ogni disordine è provvisorio e i suoi fautori sono sicuri di subire il contraccolpo.

Ogni potere ha una legge, e l'effetto proprio della legge è la responsabilità : dal momento che noi possiamo, noi dobbiamo e dovremo rispondere. La necessità fisica o psicologica non ci lascia che per fare posto alla necessità morale. Il fatto non è il diritto, ne la libertà è data all'uomo perché egli ne faccia un uso qualunque. La libertà non è un fine, ma un mezzo : essa è donata all'uomo per l'uomo e per i fini dell'uomo, per Dio e per i fini di Dio. Quando noi agiamo bene, noi applichiamo la libertà a ciò per cui essa è fatta e la trattiamo secondo la sua natura profonda, la trattiamo cioè come mezzo umano e come mezzo universale. Ed è allora che noi siamo veramente liberi, quando usiamo della libertà nello stesso senso della libertà e secondo il suo destino, non in senso contrario. Il buon uso d'una cosa non mette forse in evidenza la natura intima della cosa stessa e non la serve, mentre l'abuso di essa la travisa e la sfigura?

La libertà di ogni cosa è nel suo assoggettamento alla legge. La libertà dell'intelligenza è nella sottomissione di questa alla verità e nella do-

cilità nei riguardi di ciò che è, di modo che essa assolve al suo compito e raggiunge il fine che, come intelligenza, le è stato assegnato. La libertà dei movimenti del corpo consiste nello svolgersi di questi secondo linee determinate dalla nostra costituzione anatomica e dagli effetti che se ne desiderano, come la marcia, il salto, la danza, la mimica espressiva. Anche l'arte è libera, quando obbedisce alle proprie regole e le applica con una certezza che noi chiamiamo non solamente libertà, ma padronanza.

In tutte le cose, infatti, che cos'è un vero padrone se non un esatto servitore? Ciò che rende forti e liberi, è perciò la buona e sana obbe-dienza alla legge. Quando sfuggo alla legge o pretendo staccarmene strappando le redini alla Saggezza, mi eredo libero e padrone di me stesso mentre in realtà mi sono dato in braccio a potenze anarchiche ed ostili, e agisco come l'animale;

non sono più io che sono libero, ma è il mondo ed è la natura: ciò che mi muove è la mia passione, cioè il mio corpo, la mia eredità biologica, il tempo che fa, le circostanze che passano, gli oggetti che mi attirano; tutto, tutto eccetto me. Sono un fuscello nella bufera, sottratto alla mia inclinazione naturale, lontano dalla corrente regolare che mi proteggeva sostenendomi e difendendomi dall'abisso.

Al contrario, quando sono nella mia legge,

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che è una parte della legge delle cose, ed è accordata da parte di Dio a tutto l'universo, io sono custodito in questo grande ordine, e mi ci posso evolvere senza pericolo, poiché tutto l'essere è mio testimonio, mio garante, mio difensore, e il Principio dell'ordine mi assiste.;

Anzi, non solo mi assiste, perché io sono suo collaboratore, ma mi associa- al suo regno. La mia libertà, figlia di quella di Dio, non è veramente al suo posto se non quando si ricongiunge, nella sottomissione, alla Libertà prima; essa allora si sottrae a tutto il resto, e questa sua unica subordinazione, che è un concorso ed un'amichevole associazione, la corona. In questo senso san Paolo ha potuto dire: ((Servire Dio è regnare-», e Seneca, osservando che il giusto impiego delle nostre energie è una liberazione : « Obbedire a Dio è la libertà. »

Tutto ciò è talmente vero, che alcuni filosofi si sono domandati come poteva darsi che una libera ragione, la quale per se stessa è serva del bene e strumento dell'ordine, potesse mai venir meno. Era il « dubbio » di Socrate; Kant non vi risponde che con balbettii, e la maggior parte dei pensatori vi si smarriscono : così Cartesio e così Leibniz.

Per san Tommaso, ciò si spiega con la mescolanza di materia che s'introduce,sotto il nome

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<tt di sensibilità, d'immaginazione, di fantasmi intcriori, nel funzionamento della ragione. Parlando in generale, la conoscenza guida l'azione; ma, di fatto, ci sono in noi due principi di conoscenza, gli oggetti dei quali sono ben diversi. La ragione ci presenta la legge in forma astratta; la sensibilità invece è legata ai suoi oggetti per mezzo di intuizioni, e l'intuizione ci avvince in altro modo che non il concetto. Abbiamo già descritto questa lotta e misurato la nostra debolezza, (i)

In verità ciò che ci è impossibile moralmente dovrebb'esserci più impossibile di quel che ci è impossibile tìsicamente; il necessario morale do-vrebb'essere ai nostri occhi più necessario ancora del necessario puro e semplice. Il morale non ha forse per lo spirito più peso di quanto non possa avere il fisico, sia per se stesso che, a più forte ragione, per lo spirito? Il fatale non è che fatale, mentre il necessario morale è obbligato : e l'ob-bligazione non è forse la più alta fatalità dello spirito? Ed è qui che lo spirito, appunto, si riconosce. Là dove esso è costretto da se stessp, non

(i) San Tommaso oppone a questo caso quello dello spirito puro, che, di fronte al bene proporzionato alla sua natura, è impeccabile; poiché la sua intelligenza percepisce senza contraddizione e senza lotta l'evidenza del bene e la sua convenienza per così dire infinita e per ciò costringente. Non è che di fronte al soprannaturale, ove si ritrova a un livello più elevato la dualità più sopra descritta, che l'angelo può peccare. Noi, invece, possiamo peccare in tutto; ma il potere, ancora una volta, non è la nostra regola. . .

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è che natura; là dove è trascinato dalla carne, è natura bruta, come la pietra che cade : esso è spirito unicamente quando la sua legge lo determina a fare qualcosa e non a subirla. Questo è il segno della sua regalità, sotto la regalità sovrana.

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Nel grande conflitto fra la libertà e la necessità in noi, la regola è dunque di consentire alla necessità, dove essa è voluta per se stessa (come quando si tratta del nostro amore del bene in generale e della felicità), e di utilizzarla liberamente, facendola così rientrare nella legge, là ove essa ci è proposta sotto forma di tendenze ereditarie, accidentali, morbose, ecc.

La necessità è in noi al servizio della libertà, e perciò essa, nella misura in cui è contraria a quest'ultima, deve venire sottomessa. Se io lo voglio, la necessità stessa vorrà ciò ch'io voglio: e io devo volerlo, sotto pena di non essere più uomo, così come l'umanità intera deve volerlo, sotto pena di mancare alla sua vocazione sulla terra e di ricadere sotto l'influenza delle forze cosmiche.

La civiltà, allo stesso modo della vita morale, non è che l'esercizio di questo volere e l'affermarsi del regno dell'anima sulle necessità che l'assediano. Che cosa c'è di più necessario della caduta dei corpi, delle combinazioni degli atomi, del-

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l'espansione o della condensazione dei flutti, della corsa del torrente o della marea del mare? E tuttavia la libertà se ne impossessa e ne fa una forza umana. Proporzionalmente alla nostra scienza e alla nostra applicazione, noi governiamo la terra come i nostri corpi : noi diciamo « vieni » a ciò che va, diciamo «sali» a ciò che cade, e il più pesante dell'aria naviga nell'aria, e il torrente risale con la turbina, ed il mare servirà a più vasti disegni. .•^^^?t;':--»';A':-:;.. ;..?

L'arte morale ha eguali segreti. Le passioni cieche e fatali hanno organi di trazione che permettono di legarle allo spirito: e ciò conviene per il loro stesso bene, perché esse non hanno una sorte a parte, ma hanno la medesima sorte dell'uomo e, nell'unità dell'uomo che è principalmente spirito , esse hanno la sorte dello spirito. Subordinarle, è liberarle. Come noi regniamo in virtù della sottomissione a Dio, così i nostri poteri inferiori regnano o regneranno un giorno in virtù della loro sottomissione all'anima nostra. Ogni salvezza è, in tutti i gradi, dal più alto al più basso, nell'ordine secondo cui Dio ha mirabilmente disposto l'opera sua.

Sarebbe utilissimo notare come gli altri impieghi della libertà dipendano da questo, e come la civiltà, della quale ora parlavamo per mostrarla in diretta dipendenza dal libero arbitrio, sia, per

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questo fatto, in diretta dipendenza dalla morale. Molti non vogliono convincersi di questo; ma ciò che è si cura poco di ciò che si vede; il reale continua il suo cammino. La prima creazione dell'uomo, è l'uomo; se egli trascura questa creazione, le altre sono in pericolo. Noi non agiamo sul mondo che agendo su noi stessi, e la nostra azione sul mondo non è feconda se non abbiamo messo in ordine anzitutto la nostra casa. Parlo della casa segreta, intima, prima che della casa familiare. La società si costruisce partendo dal di dentro; la civiltà raggiunge le sue conquiste solo seguendo questa via. E' così che nell'atto della libertà si concentra tutta la vita umana, e regolare la libertà con la subordinazione delle fatalità intcriori, è regolare tutto.

Tale è la via che Dio ci ha aperto verso ascensioni illimitate. Le cadute vi sono facili, come in tutte le imprese eroiche e arrischiate; ma le vittorie diventano più trionfali, e la flessibilità stessa di questa audace libertà permette a quest'ultima riabilitazioni talvolta più gloriose della sua stessa integrità. D'una perdita essa fa sovente un miglior guadagno. Il bilancere utilizza per raddrizzarsi la sua potenza di caduta; quando il pianeta corre verso il sole come se vi si volesse dissolvere, non fa che preparare la curva armoniosa che lo lancia più lontano.

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Del resto, lo sforzo necessario per subordinare in noi la fatalità, non va indefinitamente ripreso allo stesso livello e nelle stesse identiche condizioni, ma s'alleggerisce di mano in mano che si sviluppa. Soppravvengono delle abitudini, e noi sappiamo, da ciò che sono le abitudini perverse, quello che possono essere le abitudini virtuose. r^; •:,^ ^;.

Le abitudini perverse sono la fatalità, che appesantisce la fatalità stessa, in seguito ad una colpevole abdicazione della libertà prima. C'è un modo di lasciarsi andare, che incatena in noi l'angelo alla bestia, poi la bestia alla bestia che sprofonderà sempre più in basso. Un'inesorabile smania di ripetere la conoscenza del male precipita le cadute come l'acqua delle cascate e la massa delle valanghe. I vapori del corpo ottenebrano progressivamente i principi generali che dirigono l'azione. Le più chiare evidenze si oscurano, finché la notte sarà completa quanto il male, vale a dire finché il vizio sarà interamente corrotto e la schiavitù del vizio completamente sistematizzata. E sarà allora, naturalmente, che il vizioso si crederà sovranamente libero. Ma quale atroce libertà è quella di chi non sente d'essere in catene ! « Nulla è più ripugnante, scrive Emerson, che sentire la libertà cantata dagli schiavi! »

E' vero tuttavia che la molteplicità delle attrattive peccaminose pare dover apportare qualche

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rimedio a questo contrasto. Le diverse passioni si combattono tra loro come, nell' interno di una stessa passione, si combattono gli oggetti successivi di cui essa si pasce e le circostanze varie che essa attraversa. Il male non è uno, e l'esperienza dolorosa delle opposizioni che contiene e di quelle che crea, può contribuire al ritorno del peccatore.

Ma, d'altra parte, questa dispersione degli affetti dell'uomo non è forse una miseria ed una specie di distruzione del suo essere? Noi siamo in armonia, ed il nostro ideale è l'accordo di tutto sotto la legge dell'anima, e dei poteri dell'anima sotto la legge di Dio. Lasciar disperdere questo ordine per l'attrazione degli oggetti sottomessi al tempo, è uno sviarci spiritualmente e un umiliare in noi il Dio Uno di cui siamo immagine. Il peccatore è uno schiavo ebete che s'appiglia a tutti i cespugli e si disseta a tutte le pozze; l'uomo virtuoso è un libero artista, la cui opera d'arte è il suo stesso essere e, attraverso il suo essere, i suoi oggetti, i quali son tutti accordati, come lui stesso, a un'euritmia celeste. ;

Si consideri il caso opposto a quello delle abitudini peccaminose, e l'abitudine virtuosa rivelerà il suo valore. Grazie ad essa, una certa necessità verrà in soccorso del bene per assicurarne il ritorno, per fare di lui, come un modo d'essere, una qualità inerente, una buona disposizione,

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per fissarlo in una specie di determinismo, tuttavia sempre fragile, e per renderlo, divenuto così un'inclinazione, facile e sereno come tutto ciò che appartiene alla natura.

La terra non delibera per girare attorno al sole, ma, se fosse cosciente, sentirebbe l'ardente impulso che determina la sua orbita, e il suo giro vivificante sarebbe uno slancio gioioso. Succede lo stesso con l'arte : nella misura stessa in cui progredisce, essa acquista la sicurezza e la naturalezza di un determinismo. Il pianista incorpora una necessità nelle dita, il danzatore nei piedi, l'attore nel viso: l'uomo morale e il cristiano tentano d'incorporarne una nell'anima.

Un'anima virtuosa è così sospinta dal di dentro e trascinata verso il bene da una libera violenza. Essa si sa sempre in pericolo, ed è per questo che, continuando a vegliare, domanda a Dio la perseveranza come un beneficio supremo; ma nel tiepido e nel vizioso, essa è ferma ed inerte, mentre il suo ideale sarebbe invece d'eguagliare in fedeltà le forze della natura.

Lequier aveva trovato, per esprimere questo ideale, una formula sottile : « Non divenire, diceva, ma fare, e facendo, farsi.,» Per mezzo della virtù abituale ci si fa, cioè si acquistano disposizioni che sono come una forma di esistenza. Allo stesso modo che il corpo funziona da solo in tutto ciò che è essenziale alla vita, l'anima tende, at-

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traverso la virtù, a funzionare da sola in tutto ciò che è essenziale al bene. La necessità passa dal corpo all'anima, come la libertà dell'anima si comunica al corpo: l'anima diventa organica ed il corpo obbediente.

Non deve meravigliare che ogni libertà possa divenire così necessità ed ogni necessità libertà, in quanto il principio di entrambe è uno : l'armonia del nostro essere, nello stesso tempo determinato e autonomo. C'è una libertà del necessario e una necessità del libero; la natura inferiore può divenire spirito e lo spirito natura. Una tendenza si subordina alla legge morale e la legge morale diventa una tendenza. La buona azione che noi allora compiremo, si compirà, per così dire, da se stessa, ove prima era compiuta da noi.

Nel caso estremo, come il vizioso, dicevamo, sarebbe interamente corrotto e la sua schiavitù totalmente sistematizzata, così l'uomo virtuoso sarebbe confermato in virtù, confermato in grazia, come si dice nel linguaggio cristiano, e, di spirito come di fatto, egli sarebbe impeccabile. Disgraziatamente in questo e fortunatamente nell'altro, tale limite non si raggiunge in questo mondo. In sé e nell'ordine normale delle cose, il vizio è un male che cresce eternamente, è la virtù è un bene che eternamente cresce; ma questo crescere regolare è teorico piuttosto che effettivo. La logica perfetta del bene e del male non è una cosa

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del tempo, polche il tempo nasconde un'illogicità fondamentale che coincide con la mutabilità della materia.

Per questa ragione, il peccatore può sempre convertirsi e il santo può sempre cadere. Il perfetto e il definitivo sono dell'ai di là, e non si precipita per sempre se non dopo che ci ha coperto la pietra della tomba. Allora l'uno cade nell'abisso, mentre l'altro spazia nel ciclo.

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Una importante considerazione va fatta a questo punto. Certuni pensano che l'abitudine virtuosa, una volta ottenuta, e la facilità degli atti che ne risulta, al punto che questi atti divengono quasi necessari, diminuiscano il merito. Ed altri — o meglio ancora gli stessi — pensano che l'abitudine viziosa una volta presa, essendo allora il peccatore quasi trascinato da una fatalità, diminuisca la malizia. Nei due casi è palese un'aberrazione di eguai sorta. S-"^ ? .

Se un pianista è talmente bravo che le sue dita scorrono, per così dire, da sole, il suo merito artistico ne risulta forse diminuito? Se, al contrario, egli le ha rovinate fino a renderle inadatte, lo si scuserà? Il merito artistico è in rapporto col merito morale, e vivere è pure un'arte. Colui che si corrompe scientemente, rinnova, a ogni atto

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che lo corrompe, la propria responsabilità corrom-pitrice. Colui che si forma virtuosamente, rinnova, a ogni atto, il merito del proprio progresso. Più si avanza nei due sensi; più la distanza cresce tra il merito e la colpa, come tra la virtù ed il vizio :

sarebbe strano davvero che il loro rincrudirsi potesse avvicinarli! : -.^ -.-,;;

Tuttavia, parlando così, si suppone che la libertà rimanga d'accordo sia col progresso della virtù, che con l'eccesso del vizio. Se l'uomo virtuoso traesse più piacere un giorno dalle sue conquiste, queste perderebbero il loro carattere morale e non sarebbero che un addestramento : quest'uomo, compiendo ormai il bene facilmente, ha certo meno merito del novizio che fatica verso il meglio. All'opposto, se l'uomo vizioso si stacca dal suo vizio, se si pente d'essersi impantanato, se formula un buon proposito e si rimette faticosamente in marcia verso la rettitudine, egli cambia completamente il suo stato.

Ciò che noi dicevamo degli effetti del male, sotto il nome di avvenimenti, è vero altresì del male. Il convcrtito è, a riguardo del suo determinismo intcriore, il triste erede di se stesso; la sua sorte è degna di compassione, e s'egli pecca più facilmente di un altro, gli si deve indulgenza nella misura delle sue propensioni, come si farebbe nei riguardi di un uomo difettoso dalla nascita o male educato o ammalato. ^ :;

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Una consuetudine di peccato, quando è lasciata, è come una malattia superata e i cui segni persistono. Ma non è nella materia cerebrale e nelle sue tendenze che si determina il nostro valore reale, il nostro peso, la nostra portata eterna;

è nella sfera intcriore, nell'intimo della coscienza liberata da tutte le condizioni da cui si è staccata. Ora, la sfera morale di cui parlo, è purificata dalla conversione; le brume non sono che in basso, sul bassofondo dell'anima, ed alla buona volontà rinnovata è lasciato il tempo per liberarsene : nell'attesa, le si fa credito e la si scusa per gli inevitabili ritardi.

Una simile dottrina però torna raramente gradita all'istinto, perché l'istinto s'arresta al fatto, e perché noi, al posto di fare riflessioni morali, pensiamo a noi stessi. Il male commesso dagli altri pesa sovente su di noi; esso ci urta; esso ci sembra — e lo è, in effetti -— -un pericolo comune, e noi saremmo portati, istintivamente, ad applicare ad esso la legge di Lynch piuttosto che usare misericordia. Ma l'istinto non dev'essere qui il giudice. D'altra parte, nella realtà, il nostro egoismo è così indifferente al giusto ed all'ingiusto, che un pericolo non è male se non quando vi soccombiamo noi stessi.

Lasciamo dunque, al peccatore di ieri, il beneficio di un ritorno necessariamente lento e, pertanto, più generoso forse; tendiamo piuttosto

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la mano a chi barcolla come un ferito. Col tempo, le chiuse cicatrici possono divenire segni di valore e mezzi di salvaguardia : un'abitudine peccaminosa, veramente vinta e definitivamente lasciata, sta dietro a noi come un fascio di spine dalle cui punture ben ci guarderemo : se ne prova una paura tale che la nostra spinta in avanti ne viene aumentata.

Ci si vorrà scusare della complessità dei casi. Le molteplici e minuziose considerazioni che lo studio del problema posto esìge, provano sufficientemente fino a qual punto la necessità e la libertà siano legate in noi. Il loro accordo è talvolta meraviglioso, mentre altre volte il loro duello è tragico. Nell'insieme dell'umanità, la libertà subisce tali scacchi, che certuni hanno creduto di vedere in essa una forza del male. Tutto il peso del mondo grava su di noi, ora per piegarci nel senso della nostra legge, che non è estranea alla sua, ora anche per sviarci, il che deriva dalla diversità delle circostanze, che in esso e in noi creano urti costanti. ;:<*:?'

Il conflitto è tale, tra la libertà e la necessità disputantisi la nostra anima, che nessuno può prevederne l'esito con certezza; e tuttavia, le abitudini virtuose da una parte e dall'altra le tendenze naturali e, più di tutto, la naturale debolez-

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za della libertà, offrono buone probabilità agli scommettitori e lasciano aperto il pronostico.

Con piacere si presagisce ciò che farà un uomo virtuoso nella tale circostanza, e abbastanza si può sapere ciò che farà nella tal'altra un uomo vizioso: parlando in generale, si sa che l'uomo è fragile, e, anche se non si crede più, come nell'antica astrologia, che le figure del ciclo decidano di tutto ciò che avviene nel mondo degli uomini, si è portati a pensare che, calcolando le inclinazioni, se ne potrà tracciare il percorso. Ma bisogna qui guardarsi dagli estremi, ove l'errore sarebbe eguale. ^ .

L'azione umana è infinitamente complessa :

non tutto è in essa o solo caso o puro arbitrio, come non tutto è determinazione. Una parte di determinismo assicura i fondamenti delle scienze psicologiche e morali; una parte di libertà imprevedibile e di caso le mette fuori strada. Insomma, l'azione umana non può essere espressa da una equazione. Una scienza, anche perfetta, non potrebbe sapere ne « il nome della Maschera di ferro », ne, in antecedenza, l'esito di una consultazione elettorale. Non ci può essere, prima del fatto, scienza sicura di ciò che farà un uomo, nemmeno di ciò che farà l'uomo. L'uomo farà ciò che vorrà, e. ciascun uomo fa ciò che vuole, nei limiti sopra' descritti. Ogni circostanza definibile è imprevedibile di fronte al libero volere, che la

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domina con la sua potente e irriducibile indeterminatezza.

In ogni caso, la lotta e serrata: la libertà si batte aspramente, e la necessità, che alcune volte le obbedisce, le dichiara sovente dura guerra. L'una e l'altra hanno tuttavia il medesimo scopo;

ma, durante l'azione morale, la necessità si mostra cieca e potente, la libertà chiaroveggente e debole.

Tocca alla libertà stessa di ristabilire dolorosamente l'armonia : combattendo per sé essa combatte per l'uomo e, nello stesso tempo, per la sua avversaria, poiché determinismo e libertà non sono che i mezzi complementari per realizzare i suoi disegni e la nostra felicità.

« I veri giorni di festa, diceva a se stesso Epit-teto, son quelli in cui tu sei riuscito a vincere qualche tentazione. » Con l'azione retta, noi prepariamo il trionfo della libertà nella necessità eterna. L'azione stabilisce un'eguaglianza tra ciò che essa fa e ciò che dal fatto essa attende, non solamente a titolo immediato, ma nel totale; poiché ciascuna delle nostre azioni, appartenendo a un vivente e a un candidato alla felicità, porta in se stessa tutta la speranza della beatitudine e tutto lo slancio della vita.

L'azione buona è un legame tra la beatitùdine in intenzione e la beatitudine in realtà: essa lega cioè la necessità che ci lancia verso il fine

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alla necessità di aderire a questo fine quando esso ci accoglie. Da quel punto fìsso a quest'altro punto fisso, l'azione buona, in quanto libera, lancia un agile ponte.

La libertà è soprattutto un'intermediaria. Essa ha il suo posto nel fine, ma non a titolo essenziale, poiché del fine non governa che ciò che non è il fine, vale a dire il soprappiù d'azione che il possesso di Dio permette al di fuori di se stesso. Il nirvana cristiano è una necessità e rappresenta il fine vero, di cui la speranza che lo lega al primo desiderio ci dona la caparra, procurando così all'azione virtuosa un frutto provvisorio e coronando in anticipo la libertà.

LA RAGIONE E LA FEDE

-L' armonia della libertà e della necessità, nella nostra vita spirituale, basta a tutto, e nella sua generalità, come in quella della nostra obbe-dienza alla voce intcriore, comprende tutti i casi;

ma, restando ancora nel campo del pensiero, un'armonia particolare chiede di esser precisata e studiata nelle sue difficoltà: quella della ragione e della fede.

San Tommaso introduce la questione notando che ogni natura fa parte di complessi che le imprimono, oltre al suo proprio movimento, un impulso più largo ed efficace. Il mare ha, sì, un suo equilibrio e la legge delle maree, ma è dal ciclo che riceve il suo flusso e il suo riflusso, i quali comunicano alle acque una specie di vita astrale. I pianeti si muovono attorno al sole, ma una più vasta attrazione li trascina con il sole in una traiettoria nuova, e così è di tutto il resto.

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Come natura corporale, l'uomo è evidentemente sottomesso a questa legge, per cui gli scambi interni che costituiscono la sua vita non gli impediscono di tenersi in relazione di scambio con tutto l'universo, anzi, ve lo obbligano sotto pena di morte: perché dunque, come spirito, non dovrebbe avere contatti sublimi? La rivelazione cristiana ha per scopo di render noti tali contatti, di precisarli, di mostrarne i rapporti con le nostre iniziative, fornendo così una sorta di legge di funzionamento, che tutta l'attività cristiana utilizzerà.

Il risultato sarà un ingresso nell'intimità di Dio; ma questa intimità, come ogni conquista umana, comporterà delle tappe. Ogni carriera presuppone una preparazione. Ciò che noi dovremo un giorno vedere faccia a faccia e gustare senza sforzo, è oggi proposto velato alla nostra acccttazione. Cammineremo con una luce sufficiente a guidare i nostri passi e a stimolare i nostri desideri, ma, ciononostante, abbastanza misteriosa per lasciar posto al libero merito. " : % \ ? ^

Dio stesso si offre così a noi come maestro e come guida, nell'attesa di offrirsi come premio. Per mezzo di diversi intermediari, di cui il Cristo è il primo ed essenziale come partecipante delle due nature da congiungere, ci vien presentata una legge dello spirito, che diverrà legge di vita nella misura in cui la nostra vita si accorderà all'invisibile. Se l'invisibile chiama e attira la creatura

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ragionevole, occorre che ciò avvenga sotto gli auspici dell'ideale, perché è l'idea che regge ogni attività cosciente. Dio agirà su di noi per mezzo della fede, come gli assenti per mezzo del ricordo e della speranza, come il passato per mezzo della tradizione e l'avvenire per mezzo dell'ideale.

In più, essendo l'avvenire sperato per l'ai di là anzitutto ed essenzialmente conoscenza, poiché l'oggetto ne è l'intelligibile ed il soggetto intelligente, le verità di fede che si presentano alla volontà come regole, si presentano allo spirito come elementi della scienza eterna, della quale noi siamo i discepoli prima ancora di esserne i veggenti,

La fede è « l'argomento dell'invisibile » (Ebr., XI, i); essa prova ciò che non si può provare, e ci mostra ciò che non si può vedere; essa è la oscura chiarezza d'un astro che si libra al fondo degli spazi; essa appartiene alla conoscenza lontana che aspira a diventare conoscenza vicina; è un pensiero relativo all'altro mondo, che vuoi divenire un pensiero in quest'altro mondo, un pensiero in Dio, ma che già, per anticipazione, si stabilisce nel suo oggetto e vi fa la sua dimora, ciò che faceva dire a san Paolo : « La nostra conversazione, la nostra cittadinanza è nei cicli ». (F;-l'tff., Ili, 20)

Per essere iniziati a un sapere sovrumano è richiesta una disciplina sovrumana, così come per raggiungere uno scopo sovrumano occorre una so-

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vrumana condotta : nella sua parte teorica, la fede è l'abbicì del divino sapere, è la guida nel cammino: essa prende l'uomo per mano onde con-durlo fuori del tempo.

La natura mista della fede e il doppio carattere del suo contenuto debbono essere chiariti. Il fatto che noi veniamo trascinati in un'avventura celeste suppone, oltre alla utilizzazione completa delle nostre forze, un apporto speciale di Colui che ci invita a vincerci. Noi non ci si supera — lo abbiam detto più volte — se non ci è dato un soccorso. Ci occorre un supplemento di attività spirituale e, nello stesso tempo, corporale; dovendo poi questa attività scaturire dal di dentro, al posto di una perpetua spinta dall'esterno, ci occorre un supplemento di creazione. Dobbiamo venire ricreati in tutte le nostre attività, e questo è il compito della grazia; dobbiamo venire ricreati specialmente dal punto di vista del pensiero, e questa è la virtù, o il dono, della fede.

Si rimane estasiati davanti al mistero della creazione; ma la ricreazione spirituale è un mistero ben maggiore, dato che essa viene da Dio considerato nelle sue intimità, mentre l'altra riguarda soltanto le relazioni che Dio ha fuori di sé. Il soprannaturale, in noi, ha questo significato e anch'esso sarà dunque, necessariamente, un oggetto di fede, come il Dio intimo e tutto ciò che vi si riferisce.

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Per esprimerci più semplicemente, si potrebbe dire : il motore divino e il mobile umano, l'uno e l'altro misteriosi in se stessi o nel loro punto di contatto, devono divenire l'oggetto d'un insegnamento che ce ne informi. La fede è come il lampo che s'accende tra il ciclo e la terra, in quanto appartiene a due universi e li rivela entrambi dal lato in cui sono in rapporto. Nella fede c'è l'uomo e c'è Dio, c'è questo mondo e c'è l'altro. Noi subiamo un contatto del ciclo che ci rivela poteri che non conoscevamo. La fede risveglia uno sguardo assonnato; essa suscita, in un essere umano, quasi una creatura divina.

Eccoci ormai entrati in un'alleanza che corrisponde alla nuova natura così sbocciata. Uno spazio spirituale è creato: la fede lo percorre e ci pone in esso. Senza farci rinunciare a nulla, se non all'errore ed al male, essa ci allontana dal visibile per meglio esaltarci toccando l'invisibile, al quale essa comunica una « sostanza ». (Ebr., XI, i) La fede è come una astrazione, una negligenza relativa, una parziale negazione di ciò che è vicino in favore di ciò che, considerato in se stesso, è più vicino ancora, ma che sembrava lontano. Essa crea in qualche modo per noi gli oggetti divini;

poiché Dio esiste forse per me, prima che io ci creda? Se io infatti l'ignoro o lo misconosco, quell'unico Sole lascia la mia anima alla notte eterna.

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Occorre prendere piena coscienza di questo incomparabile arricchimento. Coloro che pensano che la fede ci impoverisca suppongono senza dubbio che il suo oggetto sia vano ! Allora, sì, noi ne saremmo impoveriti, avendo negato relativamente e non avendo affermato che chimere. Ma se la fede è fondata, si deve vedere in essa il punto di partenza d'una proiezione della vita in una sfera più alta e più ricca. La fede apre dinnanzi a noi spazi inesplorati, come la navigazione al tempo delle prime conquiste sui mari, come l'aviazione moderna, come il microscopio e il telescopio puntati sui due infiniti, con questa differenza, che gli spazi nuovi aperti alla scienza sono omogenei al loro punto di partenza, mentre quelli aperti dalla fede sono trascendenti.

La fede rinnova lo sguardo e, di conseguenza, le nostre possibilità di fronte a Dio e a ciò che è di Dio, di fronte a Dio e a ciò che riguarda Dio, in una parola, di fronte a tutto, in ciò che tutto ha d'essenziale. La fede ci rivela un Creatore più intimo, un universo più vasto, una umanità più profonda e un io più ricco. Essa pone i nostri oggetti sul piano del trascendente; essa tutto innalza al supremo. La ragione aspettava la fede per soddisfare il' suo bisogno di raggiungere ciò che la sorpassava: per mezzo della fede ora essa si sorpassa senza abdicare a nulla. La conoscenza umana era una meta: ecco l'altra. La

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spiegazione e la interpretazione delle cose hanno trovato in essa il loro ultimo perché.

Ed io aggiungo che l'estensione della verità così comunicata diviene totale; perché, se la vita è una nella sua pluralità, una pure sarà la sua trasposizione sul piano superiore. La fede accende per noi una luce che illumina i nostri cuori, le nostre case, i nostri popoli, la natura misteriosa e la divinità fino allora incomunicabile. Al di là della nostra esperienza e delle riflessioni nate da questa, essa svela il soprannaturale immanente a tutto, preposto a tutto e che il tutto deve assimilare in armonia con la propria natura. La fede è fondatrice d'un universo, e in questo universo essa non può ora introdurci che con la mediazione del mistero; ma il segreto del principio e del fine, della legge fondamentale e del significato decisivo, vale, per ciascuna cosa, più della chiarezza delle sue relazioni e della sua natura temporali, della evidenza del suo niente.

D'altro lato, l'oggetto della fede, che è necessariamente il soprannaturale, potrà essere, misericordiosamente, il naturale stesso : in materia del tutto essenziale, dovrà esserlo, se il soprannaturale vuole avere il suo punto d'appoggio sicuro e solido. Non bisogna dimenticare che il soprannaturale e il naturale sono in rapporto, in noi, ad un medesimo essere e, in Dio, a un medesimo Dio; essi sono in continuità: se il naturale man-

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casse o venisse falsato, il soprannaturale ne subirebbe danno.

Ora, e ciò è risaputo, se il pensiero umano è forte nel porre questioni, è debole invece nel trovare le risposte. A proposito dei grandi problemi :

Dio, l'anima, l'origine ed il senso della vita, i pensatori hanno messo innanzi, successivamente o tutti insieme, i loro « sì », i loro « no », i loro «forse ». I filosofi non sanno porre l'umanità che in una bella notte; ci presentano un ciclo disseminato di luci fuggitive, ove il loro fuoco d'artificio seduce e si spegne: e durante questo tempo l'umanità resta incerta nel cammino.

Felice carità del nostro Dio! La fede viene a rischiarare il cammino della vita e a sorreggere la ragione nelle sue fatiche. Nessun credente rimarrà sprovvisto di ciò che gli è necessario; nessuno resterà nell'ambiguità e nell'errore; nessuno avrà bisogno, per proseguire sicuro la sua via, di sobbarcarsi ad un lavoro forse al disopra delle sue possibilità, forse — e così capita il più delle volte — incompatibile con le necessità immediate e i bisogni inevitabili dell'esistenza.

Se fosse necessario, per incominciare la propria vita spirituale, informarsi da soli su ciò che è il fine della scienza, come farebbero i fanciulli? E, se occorresse rimettersi al giudizio di autorità arbitrarie che non s'accordano tra loro, che sarebbe di essi?

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Per questo il dominio della fede sopravanzi quello della conoscenza accessibile agli uomini. Il contenuto della fede è per una parte trascendente; per un'altra non è che la storia sicura e facile del divino e dell'umano, di cui il sapere è la storia inquieta.

A questo riguardo, il fatto conferma il diritto. Non va dimenticato che la filosofia moderna, nel suo insieme, è figlia della teologia, come la società moderna è figlia della Chiesa. Sono due aspetti che si collegano. La nostra civiltà tutta intera viene dal cristianesimo; i nostri secoli prendono nome a partire dalla Croce.

Parlando della Chiesa, la cui azione secolare si trova così rievocata, è necessaria una spiegazione. La Chiesa propone la fede : organo dottrinale di una verità emanata dall'alto, essa non ha per conto suo alcuna pretesa, ma riceve e comunica, come il cervello riceve l'influenza dell'anima e la distribuisce a tutte le membra dei corpo.

La Chiesa richiede la stessa fede che richiede il Cristo, perché il Cristo, che l'ha investita, si esprime per la sua voce; ed il Cristo richiede la stessa fede di Dio; perché per mezzo suo la Verità prima è venuta nel mondo e si è fatta luce agli uomini. Il legame è ininterrotto tra il Principio rivelante e l'ultimo dei suoi beneficiari. E come noi siamo naturalmente in società, così il so-

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prannaturale, per rimanere umano nella sua divinità comunicata, assume la forma sociale.

Per questo si giustifica razionalmente la formazione di un dogma, cioè di una verità statutaria che serva da legame tra tutti i credenti, governi i loro gruppi e regga l'attività che in essi viene svolta in vista di fini propriamente religiosi. Nel vivente. Videa direttrice presiede all'evoluzione degli organi: pure nel corpo spirituale che è la Chiesa regna un'idea direttrice e circola una linfa vitale che è lo spirito di Dio.

Le verità di fede sono le comuni persuasioni che ci tengono legati : esse sono un legame ideale, come la carità è un legame affettivo, come l'autorità disciplinare è un legame attivo tra i fedeli che intendono prendere parte a una medesima vita. La Chiesa è una schiera che avanza con solenni affermazioni, è una società che crede a certe cose e che, credendovi, agisce collettivamente e invita nello stesso tempo i suoi mèmbri ad agire nel senso di quelle cose individualmente.

Per parlare un linguaggio giuridico, si potrebbe dire che le verità di fede sono le considerazioni che fondano le leggi della nostra società cristiana, a cominciare dai dieci comandamenti. Ne possiamo sottrarcehe : infatti, ci metteremmo in società senza saperne il perché? Il perché è qui un giudizio relativo agli oggetti soprannatu-

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rali e a ciò che ne dipende ; relativo cioè agli oggetti soprannaturali considerati sia in se stessi che nel loro rapporto con noi e col nostro fine.

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Si immagini, dopo quel che s'è detto, l'importanza che assumerebbe, in seno alla società religiosa, la realtà di un conflitto tra la ragione e la fede. Non si può pensare a nulla di più profondo e nello stesso tempo di più irriducibile. La ragione e la fede, quando non abbiano trovato il loro accordo, sono necessariamente nemiche mortali: entrambe lottano per il medesimo posto e pretendono al medesimo tutto; l'una e l'altra hanno per regola un imperialismo universale; disgiunte, o semplicemente male aggiunte, male delimitate nei loro diritti e nei loro confini rispettivi, esse devono scontrarsi. E' per questo che secondo le epoche e gli ambienti, la fede mal legata alla scienza opprime la scienza; e la scienza separata dalla fede offende la fede.

Non c'è che un mezzo per accordare le due forze, ed è quello di farle scaturire da un medesimo principio. Ma ciò non avviene di diritto? Che cosa dice la nostra ragione ? Che ciò è, vale a dire che il giudizio enunciato esprime un legame reale delle cose, così come ulteriormente esprime una combinazione creatrice, ed è finalmente questa

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concordanza, tra il Pensiero padre degli esseri ed il pensiero riflesso degli esseri, che fa la verità.

Ora, la fede non attinge precisamente a questa medesima sorgente? O essa è nulla, o è una parola di Dio; o ci inganna, o dice il vero per ordine di Dio. C'è continuità in seno alla verità totale, tra l'oggetto della fede e l'oggetto della ragione, l'una e l'altra nate da Dio.

Due discorsi esprimono Dio : il discorso della natura e il discorso profetico. Il primo si pronuncia nella ragione e per mezzo dei poteri di questa; il secondo si pronuncia ancora nella ragione, ma poiché Dio in sé non ha « parole » che non siano lui stesso, ciò avviene in virtù d'un'illumi-nazione che ha Dio per causa e rende Dio responsabile. Nei due casi, se la ragione funziona bene e se la rivelazione è autentica, l'origine è nella medesima divina Saggezza, la cui luce non solo guida la rivelazione, ma fonda la verità delle cose e i principi della ragione umana.

L'oggetto della fede è un possibile realizzato fuori della portata dei nostri sguardi, mentre l'oggetto della ragione è il possibile scoperto; ma si tratta sempre di possibili, cioè, se così si può dire, del contenuto dello spirito creatore, della ricchezza del Verbo. ,^ ^ -'

Donde potrà venire allora una contraddizione? Unicamente dal fatto che la rivelazione sia male interpretata o che la ragione offenda i suoi

stessi principi. Una volta corrette le due parti, l'accordo è di diritto, perché il regno della verità non può mettersi contro se stesso.

In caso di conflitto, e se la fede è sicura della sua interpretazione, come dopo una dichiarazione autentica, tocca alla ragione cedere; perché il peso di Dio, che garantisce senza intermediar! gli oggetti della fede, vince il peso della ragione interposta tra il vero razionale e la sua sorgente. Dio sempre traluce dalle cose, ma con diversa potenza, sicché là dove esiste un iato, l'errore può introdursi, e la ragione cosciente della propria debolezza non sarà che fedele a se stessa, rifiutando fiducia al suo stesso funzionamento a profittò del proprio oggetto.

E l'oggetto, infatti, è il vero che qui importa, poiché il vero è la meta e, di conseguenza, là giustificazione della ricerca, mentre la ragione non è che uno strumento: e, per non rinnegare questa superba ragione, si arriverà al punto d'offendere ciò per cui essa e fatta e ciò per cui noi stessi siamo fatti?

Rimane quindi assodato che la conciliazione si realizza nella verità e nella sorgente di verità da cui originano l'una e l'altra potenza. La fede e la ragione sono due mezzi naturali per giungere al vero; noi vediamo che in tutta la vita si completano e si controllano. Io so, io credo, con io suppongo ed io opino, sono le parole che espri^-

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mono e caratterizzano gli stati del nostro spirito. Che la religione applichi il credere al soprannaturale e lo riferisca a Dio, non può certo distruggerne la legittimità e non modifica in nulla la sua essenza. - :, ^

Ugo Benson scriveva : « Io non posso discendere una scala al buio senza fare almeno tanti atti di fede quanti sono i gradini della scala stessa. » Questa scala che noi discendiamo al buio e che senza dubbio noi incominciamo con qualche incertezza, ma con fiducia, non è una bella immagine del mistero verso cui la fede ci invita a camminare? Noi non vediamo ove ci conducono i gradini, ne possiamo dire ove posiamo i piedi;

ma noi andiamo sicuri sulla parola del nostro Maestro, come si segue un amico alla voce.

A dire il vero, non è la ragione che è contraria alla fede, ma il razionalismo; non è la scienza che contraddice al Vangelo, ma lo scientismo:

dottrine limitate e arbitrarie, deformazioni e deviazioni che, per una strana ironia, hanno anche esse il carattere della fede.

Io non posso provare qui quello che sto per dire; ma una analisi un poco approfondita lo metterebbe in piena luce: ogni qualvolta la fede trova sul suo cammino la ragione istintiva e la ragione riflessa, se queste ultime coincidono, pure la fede coincide con esse: prova questa che il disaccordo non deriva dalla fede, ma da un cattivo

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funzionamento della facoltà razionale. Esempi:

l'istinto dell'amore esige l'eternità, e la ragione riflessa prova, che il divorzio è antisociale; la fede dichiara, in armonia con questi due testimoni, che il matrimonio è indissolubile. L'istinto vuole appropriarsi dei frutti del lavoro : la ragione prova che la proprietà è la base dell'istituzione sociale : la Chiesa, che conosce la natura e prevede il progresso, appoggia il diritto di proprietà.

In tutte le cose, l'istinto sta alla base del sapere, e la ragione lo prolunga: quando entrambi s'accordano, ciò vuoi dire che si è sulla linea del vero. E il fatto che questa linea, di regola, passi per i punti di fede ove la sfera è comune, non è forse il miglior segno in favore della credenza cristiana, e non mostra come sia infondato il sospetto di un conflitto?

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E' essenziale considerare, d'altra parte, che, nella fede, la ragione rappresenta una parte di tale natura da rassicurare del risultato la fede stessa. La ragione deve intervenire, perché la luce dell'anima non può in alcun caso essere assente. Credere è un atto di libertà, al quale perciò deve presiedere la prudenza, e la prudenza non è altra cosa che l'applicazione della ragione alla condotta umana.

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La fede non è ne un inizio ne una fine, ma un intermediario; essa sta tra due Serie di atti di ragione : controllo dei titoli in partenza e quindi, una volta sopraggiunta la fede, interpretazione, coordinazione, sviluppo, applicazione di ciò che la fede afferma. Più tardi, la visione perfezionerà il tutto e soppianterà la fede, così come renderà inutile lo studio. « Là dove la vita si confonde con la saggezza », come dice sant'Agostino, non c'è più bisogno di fede, come non ce n'è bisogno quando si tratta di stabilire i titoli dai quali l'autorità deriva il suo mandato. E' liberamente che noi decidiamo della nostra credenza, ed è la ragione innanzitutto che, prima ancora di ogni esame, ci dice che il primo passo da fare nella via eterna è quello della fede.

E non lo dovrebb'essere forse? Un'umile e alta ragione, all'opposto d'uno sciocco orgoglio, non può non avvertirci che di fronte ali'infini lo noi siamo come bambini; che davanti al destino noi siamo naufraghi senza barca e senza bussola; che la salvezza esige un aiuto per tutti gli aspetti della vita e, innanzitutto, per il pensiero. Bisogna « camminare nella, fede », dice l'Apostolo, prima di camminare nella visione : questa è la legge in ogni campo. Ma non ci si chiede di credere alla cieca : la ragione rimane padrona e giudice di se stessa, persino nella sua rinunzia.

Che cosa esige la fede individuale ? Esige una

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.adesione riflessa, anche se, senza dubbio, questa riflessione potrà non portare direttamente su motivi di ragione ragionante, poiché questa ragione è di un' élite (quantunque, molto spesso, nemmeno ciò sia vero); ma là ove la dialettica fa difetto, nulla impedisce che la fede s'appoggi ancora alla ragione : intendiamo la ragione istintiva, la ragione immanente alla coscienza morale, la ragione altrui di cui ci si appropria in nome di una fiduciosa solidarietà, la ragione collettiva provata al di dentro e più o meno controllata al di fuori, ecc. E' proprio in merito a tutto ciò che si esercita la nostra prudenza.

Ove si tratti poi non di un individuo ma dell'insieme dei credenti, del credente astratto, se così possiamo dire, non si può più ragionare allo stesso modo. Dire allora che la fede può fare a meno della ragione nel senso pieno della parola, sarebbe come dire che la visione può fare a meno della luce. Anche la fede infatti presuppone una visione: quella della credibilità.

I motivi di credibilità, come diciamo in teologia, sono la parte di ragione che è anteriore alla credenza comune e che la legittima. Si ricorre alla ragione affinchè poi, da sola, in seguito, questa ragione illuminata su se stessa e su Dio, su se stessa e su Cristo, su se stessa e sulla Chiesa, si dichiari, in parte, incompetente, posta in mani così sicure. Ma se essa lo farà, una volta convinse

ta, e se acconsentirà momentaneamente a un abbandono relativo, questo abbandono non farà torto alcuno alle sue nobili funzioni, ma sarà, al contrario, per essa una spinta ad ulteriori progressi.

Se ci si domanda poi quali sono i motivi che appoggiano la fede, e quanto essi valgano, io qui, evidentemente, non mi ci posso attardare: parecchi volumi d'apologetica hanno pagine invitanti su ciò che tali motivi contengono di considerazioni e di studi. Voglio tuttavia segnalarne uno che parrebbe estraneo all'ordine delle Urove, e che, a dire il vero, non è una prova nel senso stretto della parola, ma che offre tuttavia una potenza di convinzione che ciascun nuovo esame, non può, in uno spirito retto, non rafforzare.

Si pensi al contenuto della fede; si tenti di rappresentare nella sua integrità l'insieme di pensieri, di giudizi, di consigli, di precetti, di suggestioni organizzatrici, di speranze formulate, di iniziative fondate, di opposizioni e di riserve avanzate alle potenze di questo mondo, in breve, di idealità teorica e pratica contenuta in questa semplice parola: fede, e si dica se l'assoluta coerenza di tutti questi elementi e la loro esatta corrispondenza ai casi vari e continuamente mutevoli della nostra vita non è sorgente di persuasione meravigliosa.

A chi vorrà porsi da questo punto di vista,

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io oserei dire : la fede non ha alcun bisogno d'essere dimostrata; la sua coerenza universale è la sua stessa prova; calcata sul reale e adattandovisi regolarmente, e vedendo così adattato, nell'intimo

del suo contesto, ogni punto di vista a tutti gli altri, pure a quelli che si impongono inopinatamente nel corso del tempo, questa fede non è che la vita trasparente a se stessa e riconoscibile ad ogni sguardo puro. ^.;:::

Una parola singola duo contraddire un'altra singola parola; il parziale si discute e, se un altro parziale gli si oppone, può soccombere; ma il tutto porta la sua consistenza in se stesso, e una parola in accordo col tutto non ha che da essere pronunciata, perché ogni anima, a meno che non voglia rinnegare se stessa, vi acconsenta e vi si riconosca; e, con lei, gli autentici misteri che la circondano e da cui essa dipende. Luci sparse, ri-chiamantisi l'una con l'altra e consacrantisi nella loro somma, compongono un'unica luce; blocchi squadrati e apparentemente isolati, riuniti a formare un edificio che li impiega tutti armonicamente, portano il sigillo del Maestro dell'opera.

La verità è una, universale ed eterna; tutto è contenuto nell'idea creatrice; le connessioni delle cose fanno parte delle cose e fanno anche parte in qualche modo di Dio. La dottrina che mostra un carattere di universalità e di perdurabile adattazione è dunque dottrina vera: Dio l'ha scritta,

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o meglio l'ha creata coi fatti ch'essa esprime, coli gli esseri ai quali essa dona la loro legge.

Ora, tale è il Vangelo : e per Vangelo non intendo il libro ridotto ove figurano i fatti iniziali e i semi del Verbo, ma la rivelazione totale, quale si è dispiegata e si dispiega nella Chiesa.

Il Vangelo è una calamità che attira a sé tutte le verità essenziali, le quali in esso convergono e s'armonizzano, ponendovi la loro comune affermazione che è il credo della vita. La dottrina evangelica rassomiglia a quei panni preziosi e aderenti con cui i Greci facevano risaltare la bellezza del corpo: essa sposa tutte le forme del reale e le divinizza.

Al Vangelo basta uno sguardo per vedere e un sol gesto per comandare ; esso conosce la legge degli esseri e del loro destino; ravvisa i fini parlando dei mezzi, e i mezzi parlando dei fini; conosce ciò che c'è nell'universo e soprattutto conosce ciò che è nell'uomo; ed è per questo che, quando la nostra anima si mette in ascolto, la sua voce ci penetra nell'intimo. Nulla esso offende in noi, anzi vi trova una complicità; i pensieri che ci sono familiari sono molte volte colpiti dalle sue audacie, ma l'essere ideale, in noi, è soddisfatto e, pur quando viene violentato, si trova d'accordo con esso. ' ^ -^

Ho detto che si ha qui un argomento di capitale importanza in materia di fede, perché, se

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la fede può essere preparata e viene preparata in effetti da altre ragioni, e se altre ragioni possono appoggiarla e venirle in aiuto alla prima richiesta, il più delle volte, anche presso le persone più colte e gli spiriti superiori che mettono il loro genio al suo servizio, essa procede per istinti morali. Ora, per l'istinto morale e per la ragione pratica, quale migliore apologetica di questa ? « Che cosa dice il vostro cuore e che cosa esige la vita, se non proprio quello che propone il Cristo nella più coerente integrità, senza superfluità e senza inganni? » In questa constatazione ed in questa comparazione non si trova forse il segreto d'una vivificante convinzione?

Il Vangelo prova il vero per mezzo del vero;

esso giustifica con l'uomo la sua concezione dell'uomo e con la vita la sua concezione della vita. E' un senso senza controsenso, è un'unità tutta intera raccolta in ciascuno dei suoi punti, è una totalità che può sempre ripiegarsi su di sé e giungere costantemente a coincidere con se stessa, è una grandezza che si ritrova perfino nell'infinita-mente piccolo delle sue applicazioni.

Ciò che è ammirevole nella fede, — cosa che non sanno vedere tanti storici e critici che vogliono trovarla in difetto —, l'ammirevole di questo discorso i cui elementi si ritrovano qua e là, sulla bocca di Budda e di Confucio, di Socrate, di Epitteto, di Seneca, nelle religioni e nelle filo-

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sofie d'ispirazione umana e in tutti i cuori, l'ammirevole, dico, non è tanto il contenuto sbriciolato di questa dottrina, dovunque diffusa, e che deve esserlo inevitabilmente se è dottrina che conviene agli uomini, quanto il' suo insieme, la sua dosatura ed il suo esatto equilibrio. In questo sta il sigillo divino, il sigillo del Creatore che conosce ciò che c'è nell'opera ch'Egli governa, perché Egli stesso ve l'ha posto.

Il Vangelo parla con proprietà di tutte le cose, non ne dimentica alcuna, perché tutto gli appartiene. In esso sono i tesori della famiglia umana come i tesori della saggezza di Dio. Quando si dice che ha dinnanzi a sé avvenire e speranze illimitate, ci si riferisce di solito alle divine garanzie; ma ci si potrebbe contentare di giudicarlo in sé; perché ogni istituzione che risponde con pienezza ai requisiti della vita deve durare tanto quanto la vita, mentre ogni istituzione che manica in qualche punto essenziale alle possibilità umane deve al contrario perire.

E' per questo motivo che la Chiesa mostra e ha sempre mostrato una severità così grande in materia di dottrina. La sua dottrina è un blocco, che se viene intaccato, resta tutto compromesso, in quanto vale proprio per la sua totale coesione. Ciascun errore, come diceva Novalis, anche particolare e in apparenza banale, « è la base

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di un universo falso e il primo anello d'una catena inestricabile di errori», (i)

Tutte le dottrine separate dal Vangelo non sono che ossari della verità; solo il Vangelo ricongiunge le ossa, le anima e le vivifica. Il Vangelo è una vita, è un'armonia, è una sintesi dell'urna-" nità, della natura e di Dio; coro a tré voci per un inno universale. La liturgia ha ragione di cantarlo, poiché in sé il Vangelo è veramente un canto, il canto degli astri e delle creature pensanti, il canto dell'anima e quello della materia, canto dell'amore, della felicità e dello sforzo, il canto dell'eternità dopo quello del tempo.

Occorrerà meravigliarsi se il riconoscere una ricchezza così totale, così intima e così misteriosa esige, da parte di colui che cerca la fede e ne tenta la prova, speciali e molteplici disposizioni?

I casi sono, a questo riguardo, assai diversi. Malgrado l'identità del fine e delle vie, che non saprebbero variare in se stesse ne dispensare alcuno dalle loro esigenze, gli uni non trovano che facilità, laddove altri non vedono che ostacolo e sofferenza. Certuni vanno diritti alla verità, come l'ape al fiore, mentre altri cercano per tutta la vita senza avere la gioia della scoperta. Certo non si può giudicare un'anima in particolare, perché l'anima ha i suoi misteri e la Provvidenza ha i

(i) Novalis, Fragments, Paul Lacomblez, Bruxelles, 1914. 223

suoi segreti; ma, parlando in generale, le condizioni perché la ragione incontri la fede sono le seguenti.

Ci vuole anzitutto un attento esame, e qui basti sottolineare la leggerezza di coloro che credono di aver già fatto molto trattando la materia di fede come discorso da salotto. Si rimanderanno questi tipi alle pagine dove il Pascal parla dell'indifferenza: essi vi vedranno come il grande pensatore giudica il loro modo di fare, e piacesse a Dio ch'essi fossero risvegliati da questa sentenza violenta, ma giusta : « Questa negligenza in un affare ove si tratta di loro stessi, della loro eternità, del loro tutto, mi irrita più che non mi commuova, mi sorprende e spaventa, è una mostruosità per me.» : ^•;:, ^; ^ ; . ,' ^

Ma non sta qui il punto più delicato, come non sta qui la condizione decisiva. La fede, che esige la ricerca, suppone anche, in favore della ricerca stessa, delle condizioni morali e richiede, inoltre, una collaborazione divina.

Non si vuoi dire, parlando di condizioni morali, che il credente sia necessariamente più morale del miscredente; un farisaismo così caratterizzato diminuirebbe il valore del credente e abbandonerebbe la dottrina a un semplicismo ridicolo. Si vuoi dire che il problema religioso è legato al problema morale; che la fede è una virtù;

che se d'altronde, come virtù particolare, la fede

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non esige affatto una virtù integrale, praticamente l'accesso alla fede può essere favorito o impedito da ogni disposizione morale del soggetto. Ora, se ciò è vero, il risultato non può non risentirne.

Avviene di regola che, ovunque la nostra intelligenza non sia determinata da un'evidenza, libere considerazioni e influenze passionali intervengano nella scelta. In ogni caso comunque c'è scelta e c'è, dunque, libertà: e lo stato di questa libertà, di fronte ai beni dell'uomo e ai beni divini, avrà necessariamente peso nel decidere dell'adesione e della resistenza. Non si avverte in quale grave avventura ci introduce l'atto di fede? Una tale spedizione spirituale non è cosa quindi per chi abbia lo spirito malato, e anche un uomo sano non dovrà certo lasciare da parte alcuna sua risorsa per lanciarsi su quella strada e arrivare alla meta. ^: ;, ., ^

Dio è oscuro; i suoi misteri in se stessi non possono venire penetrati; i segni ch'egli ha dato della sua presenza e delle sue manifestazioni sono posti di proposito in una penembra che permette di scoprirli senza togliere alla scoperta il suo merito di fatica e di sforzo. L'oscurità di Dio fa la nostra libertà in questo mondo, nell'attesa che la sua luce faccia la nostra felicità eterna. Ma, in queste condizioni, la certezza dev'essere una conquista, e questa come si realizzerà, se la coscienza non è sveglia, se il desiderio non è nato, se il bi-

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15) 77 Pensiero

sogno di Dio non è sentito, se l'anima è sviata e quasi decisa a volgersi contro i suoi stessi fini? Non solamente allora non si può essere conquistatori di verità, ma non si è nemmeno atti a riceverla: si diventa ostacoli al vero, e lo si rifiuta e lo si elimina allo stesso modo di uno stomaco che rigetti il cibo.

Si potrà tuttavia studiare ancora e discutere :

sono tante le persone che cercano con il segreto desiderio di non trovare! Ma non si eserciterà, davanti al vero, che una fredda e inerte critica, e lo sforzo non renderà nulla, perché non c'è nemmeno sforzo, nel senso morale della parola, una volta che lo spirito è ribelle nel corso stesso del suo tentativo, e l'intelligenza troverà tante vie, per fuggire, quante ne troverebbe una coscienza retta per perseverare.

La verità è troppo nobile per darsi a chi la disprezza ! La verità è per coloro che l'amano, per coloro che non le fanno resistenza, e questo amore non è senza virtù. Il vero germoglia nella stessa terra da cui germoglia il bene : le loro radici sono comunicanti. Praticando la verità che si conosce, amando, in anticipo, la verità che si cerca, si merita di sapere quel che non si sapeva.

Non si dice forse che nessun argomento interessa le donne, se il loro cuore non è d'accordo ? Ciò si dice delle donne perché, più dell'uomo,

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sono esseri di sensibilità e di passione; ma anche l'uomo ha passioni, ed è proprio in virtù deBa passione del vero e d'un'eventuale docilità alle esigenze di esso ch'egli si predispone alla scoperta, mentre, con le disposizioni contrarie, egli chiude gli occhi ponendosi in istato di cecità.

« Se la vista della verità fa tremare lo sguardo della tua anima, scrive sant'Agostino, fermati, lotta per domare l'impulso che ti trascina verso i corpi, e tutti gli ostacoli saranno vinti. » (2) Di se stesso diceva, al tempo della faticosa conversione : « O verità, io ho inteso dentro di me la tua voce che mi gridava di ritornar su me stesso; ma io ti ho male inteso, a causa del tumulto della mia anima inquieta. » (3)

E' il ritmo intcriore dell'anima che si traduce nell'atteggiamento del cercatore, del critico e di colui che conclude a favore o contro la Chiesa, così com'è il ritmo intcriore dei corpi che si trasmette alla superficie di questi, per comporre la loro forma esteriore, il loro aspetto, le loro qualità e i loro gesti. Come si è, tali si crede : la verità non si realizza in noi che per mezzo della nostra volontà di identificarci con essa e di sottometterci ad essa con le sottomissioni di cui siamo capaci :

sottomissione intellettuale, sottomissione sentimentale, sottomissione pratica. Quando tutto in noi

(2) Sant'Agostino, De vera religione, XXXV.

(3) Sant'Agostino, Confessioni, XII, io.

è a posto, e tutti i nostri oggetti sono ordinati e i nostri istinti domati, può introdursi, nell'anima diventata trasparente, la luce — come la luce si introduce in un cristallo, cui ha dato purezza il giusto orientamento delle molecole. Appannare il cristallo e intorbidare l'anima — oscurarli tutti e due — è la medesima cosa.

Quanto all'aiuto divino, se ne capisce la necessità osservando che, in tutto, il principio ed il fine devono corrispondersi. Non si può giungere alle intimità di Dio, che sono misteriose, senza la rivelazione divina del mistero, ma non si può nemmeno porre l'atto di adesione a quelle intimità senza che Dio stesso ci tenda la mano. Una simile adesione, in realtà, impegna in noi più dell'uomo, poiché si tratta di arrivare ad un fine che supera l'uomo. Si tratta di oltrepassare i limiti del pensiero. Fino a un certo punto io capisco : più in là, io adoro. Un giorno vedrò; ma adorare e vedere, fuori della sfera del comprensibile, nella sfera divina, è un atto soprannaturale, per cui occorre, oltre all'oggetto ed alla libertà che lo elegge, un istinto soprannaturale, una specie di coscienza celeste, una luce che venga dall'ordine al quale vuoi arrivare.

La fede potrebbe essere definita un eroismo intellettuale : essa ci lancia fuori della sfera in cui si colgono le evidenze, e si concatenano le dimo-

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strazioni; essa abbandona il visibile a profìtto dell'invisibile; essa si affida a ciò ch'essa non concepisce e che nessuno qui in terra può aiutarla a concepire; essa dice di sì a ciò che, essendole estraneo, non si presta, nell'ordine che le è proprio, ad alcun assentimento. Un assentimento è una determinazione imposta alla facoltà dell'oggetto: oggetto intelligibile in caso di dimostrazione, oggetto buono e come tale intelligibile in caso di libera scelta. Ora, un oggetto non può determinare una facoltà se non al proprio livello, nella propria sfera— e qui si tratta d'un mondo trascendente.

Il credente è un navigatore dell'infinito: egli fa rotta verso una stella, e la sua barca, l'onda che la porta, tutti gli strumenti marittimi non gli bastano; ma basta che le potenze dell'aria lo sollevino, ed egli sale. La fede, che è una conquista, è anche un dono. E questa non è una contraddizione, poiché noi siamo con Dio. Dio e noi, nell'atto di fede, non formiamo che un unico principio, come il cervello e l'anima, come l'occhio e la vista.

Ciò che ci porta a Dio e alla verità di Dio è Dio, con il nostro concorso. Da parte nostra, occorre un abbandono ardente di noi stessi, una fiducia senza riserve, e, se così posso dire, l'acccttazione d'un rischio infinito. Non che il successo non sia certo — esso lo è, anzi, più che non

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sia certa qualsiasi altra cosa a questo mondo —;

ma non riposa su alcuna certezza umana. Perché questa certezza si stabilisca e perché quell'abbandono sia giustificato, occorre, questa volta da parte di Dio, e oltre alla sua rivelazione esteriore, un'azione intima che ci sostenga e ci rassicuri. Così Gesù, camminando sulle acque e invitando Pietro ad avanzare sul mobile elemento, comincia con il realizzare un prodigio; egli intanto ne medita un altro, ed è solamente in virtù di questo doppio miracolo ch'egli dice al suo apostolo: Vieni!

Due sono le condizioni che vanno mantenute e sempre accordate. Perché Dio si riveli all'uomo, occorre che l'uomo lo prevenga col suo cuore, e perché questo cuore dell'uomo abbia l'audacia di un dono che comporta una abnegazione suprema e un rifiuto di tutti i propri sostegni e di tutte le forme abituali dei propri movimenti, occorre che Colui che l'attende l'abbia pure prevenuto e lo ispiri dall'interno della coscienza.

Si potrebbe dire che, a questo livello, le ragioni della fede sonò come ragioni di fanciullo, ragioni di figlio in faccia al Padre; l'uomo infatti aderisce ad esse per sentimento filiale e per un istinto di razza — istinto della razza soprannaturale, che gli è infuso per mezzo della grazia —. L'abbandono davanti al mistero, che è così difficile all'uomo orgoglioso, è naturale per chi ha la fede di un fanciullo. Anche quando si tratta del

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suo tutto, dovesse pur essere portato in altri mondi, il bambino non si abbandona fidente nelle braccia della mamma? C'è qui un fatto di eredità: la carne segue la carne, la razza la razza. Allo stesso modo, simile a fanciullo, l'uomo che è figlio di Dio, ed erede di Dio per la grazia, si abbandona a Dio nell'atto di fede, senza esitazione e senza paura. Per questo. Colui che ci propone la fede e che la corona, ha detto : « Se voi non diventerete come fanciulli, non entrerete nel regno dei deli. » (Matte o, XVIII, 3) Ed ancora :

« Colui che e di Dio, cioè figlio, fanciullo di Dio, capisce la mia voce. »

Qualcuno dirà che tutto ciò è molto faticoso, e che un atto necessario come la fede dovrebbe essere più facile. Ma non tocca a noi imporre le nostre vedute a Dio. Egli ha senza dubbio consultato la sua sapienza, prima di dosare la difficoltà, le risorse ed il valore di ciò che si vuole qui raggiungere. La fede è tanto difficile quanto è grande il suo fine ed è profonda l'anima. La fede è difficile come l'umiltà e misteriosa come la grazia. Essa è il miracolo umano e il miracolo divino concorrenti ad una medesima azione.

La fede fa il cristiano, e il cristiano è su questa terra il supremo sforzo dell'uomo, e lo sforzo supremo di Dio, essendo egli, su questa terra, la creatura definitiva. Ecco perché sono ri-

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chieste tali e tante condizioni, e perché la mancanza d'una sola di esse rovina tutto. Ci vogliono la ragione, la sensibilità, la libertà, la grazia : tali i suoi organi; ci vogliono la riflessione, lo studio, la sorveglianza del cuore, la virtù, la preghiera :

tali i suoi mezzi. Semplificando tutto quanto s'è detto in una definizione schematica, si può dire :

La fede è un atto di ragione, compiuto in certe disposizioni morali, e sotto l'azione di Dio.

¥

Avrò diritto di concludere, dopo le spiegazioni che ho fatto precedere, che coloro che rifiutano la fede per rispetto alla ragione sono male ispirati? La ragione ha qui ogni soddisfazione infatti, poiché senza di essa nulla si fa e il suo accordo iniziale è indispensabile. E ha soddisfazione poi in questo, che non le si propone nulla di contrario al suo oggetto, ma il suo oggetto stesso, il vero, benché questo vero, nel caso del dogma misterioso, la sorpassi.

Noi non abbiamo la pretesa di spiegarci i misteri di Dio e nemmeno quelli della vita : li prendiamo per quel che sono, così come prendiamo noi stessi per quel che siamo. La nostra intelligenza non è all'altezza di ogni verità, quantunque con ogni verità essa debba accordarsi. Arricchirla di più di quello che le spettasse, arricchirla di più

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di quello che da sola avrebbe raggiunto, è forse un farle ingiuria? La fede aggiunge il ciclo alla terra, il divino all'umano, la verità eterna alla verità transitoria, la dirczione immutabile alle variazioni ed alle complessità della vita: sarà ciò una diminuzione?

In fondo, se il mondo non temesse di lasciar correre la ragione al suo fine ultimo, non paventerebbe la fede. Ci si diminuisce volentieri, per diminuire nello stesso tempo, sul piano spirituale, lo sforzo e i sacrifici. Ciò ch'io dico non accusa nessuno in particolare; ma, se l'incredulità offre nobili eccezioni, si ha il diritto di dire che certune resistenze, quando si ammantano di rispetto alla ragione, non sono che espressioni di codardia e di farisaismo.

Noi non vogliamo essere contrari alle vere libertà : si offre alla ragione solo ciò per cui essa è stata fatta, e non le si domanda che di essere fedele a se stessa. Sottomessa ad una fede controllata, sottomessa alla Chiesa, sottomessa al Cristo, sottomessa a Dio, la ragione conquista, attraverso tutto ciò, la propria ricchezza; realizza la propria vita; segue la propria inclinazione: e non dicevamo che si è più liberi usando la libertà nel senso stesso e per i fini della libertà, piuttosto che nel senso opposto o per dei fini arbitrari?

La libertà del pensiero è fatta per il vero, come il pensiero stesso, e se la fede ci propone il

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vero, soddisfa perciò le mire della libertà, che essa infine corona. E' più libero l'uomo che, dietro un'indicazione precisa, avanza su una strada sicura, o l'uomo che ignora il suo cammino? La tirannia, in materia di intelligenza, è l'errore, come l'oppressione della volontà è il male, come l'oppressione della sensibilità è la sofferenza. Ora, la fede, che scarta gli errori più pericolosi e, per di più, ci rivela le più alte verità, non fa solamente cadere le catene, ma ci dona le ali.

Il progresso del sapere, se è autentico, avviene all'ombra della fede : esso ne è, in un certo senso, una preparazione, come, in un altro senso, ne è un arricchimento e un'estensione. La fede e il sapere si sospingono vicendevolmente alla meta. Il credente che conosce è un migliore credente : la sua fede è meglio fondata alla base, più chiara nell'intimo, più protesa in avanti nel senso delle sue applicazioni intellettuali o pratiche; e il sapiente che crede è più sapiente, salvaguardato contro moltissimi errori, arricchito di verità nuove, orientato verso campi di ricerca ch'egli nemmeno immaginava.

Si è fatto sovente della scienza, che in sé è una concatenazione di conoscenze, una catena non meno rigorosa di errori. Si è tessuto di notte :

al contrario, la fede associata alla scienza tesse con la luce, e questa luce, che vince l'uomo, è tuttavia la ricchezza dell'uomo, nella quale si rea-

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lizza la sintesi dei due poteri, la vita comune di due forze e di due ordini di risultati. Questo accordo è indispensabile, perché al fondo di ogni idea c'è l'idea prima, senza la quale nulla si acquista definitivamente per noi, e prima di ogni errore c'è il primo errore, che consiste nel camminare senza guida nel labirinto del vero.

Da sola, la nostra scienza non consiste che nell'apprendere la nostra ignoranza e nel delimitarne i confini. Più la luce è viva su un oggetto, e più l'ombra è nera; più il sapere proietta la luce su quanto ci circonda o su noi stessi e più il mistero piglia forma. Le pretese della ragione « indipendente » non solo sono detestabili, ma ridicole. E' divertente assistere agli sforzi di alcuni che vogliono schivare o modernizzare il mistero, e ridurre alla misura di nozioni elementari l'infinito in cui siamo immersi. E' giusto che la natura rimanga, dopo ciò, incomprensibile e ci apra in tutte le direzioni le porte della notte! Ma uno spirito religioso resiste a questa sorta di malefizio e si mette dalla parte del Vangelo, dove è così vivo il sentimento che la verità essenziale non è accessibile ad alcun mortale e che nulladi-meno essa è fatta per noi, che siamo immortali.

L'ossessione del divino, che è il centro della fede, dona fiducia al credente e lo stimola. L'espansione è figlia della concentrazione. Donando un nuovo campo alla ragione, la fede la sorregge,

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ne moltiplica la forza ispiratrice e ne accresce la vitalità. Se questo risultato non viene raggiunto^ non ne è responsabile la fede, ma la tiepidezza del credente e la sua incoscienza. Una visione di verità sovrumana dona alla spirito nobile la voglia di misurarsi coi problemi ch'essa pone. A parità d'ingegno, quale pensatore si è elevato all'altezza raggiunta dai pensatori cristiani?

Si è potuto dire di san Tommaso d'Aquino:

« II vasto sistema del mondo che la sua dottrina ci presenta si costruiva nel suo pensiero a misura che vi si costruiva la sua dottrina della fede... Allorché egli afferma agli altri che la fede è per la ragione una guida salutare, il ricordo del profitto razionale che la fede gli ha fatto realizzare è ancora vivo in lui. » (4)

Per vincere la pigrizia dello spirito e liberarlo dai sensi, per domare l'orgoglio della carne e dello spirito, ugualmente dannosi a ogni nostra iniziativa, c'è qualcosa di così utile come il sereno e invitante atteggiamento della fede? La sensazione è al fondo, l'idea chiara in alto: solo il mistero ci fa sollevare la testa, come faceva l'antico giudeo che saliva a Sion, la santa montagna. E partire da Dio per tutto esplorare è un guardare veramente dall'alto d'una montagna, come il considerare il moto delle cose fino a Dio, è un giu-

(4) Etienne Gilson, Le Ihomisme, Stràsbtturg, 1920.

dicare e, di conseguenza, un regolare tutto lo svolgersi della vita.

La fede posa il nostro sguardo sull'asse del mondo; ci rivela i fatti dominanti che rischiarano ogni ricerca; ci apre il cammino verso ciò che è, partendo da Colui che è. Il punto di vista Dio permette di riferire ogni cosa, nell'essere, all'Essere supremo, nel funzionamento alla suprema Legge, nelle utilizzazioni all'ultimo Fine — ed è questo il solo principio di spiegazione che basti. Tutto allora si mette nel suo ordine e al suo posto; tutto si armonizza nell'Uno e si gradua nel Perfetto, nei quali trovano la loro regola il giudizio e l'azione.

Giudicare così è simile al giudicare proprio di Dio. Dio conosce ogni cosa in sé e per sé; egli contempla la propria creatura come un prolungamento del proprio essere e la coglie nella sua sorgente. Ebbene, il cristiano, avvicinandosi a Dio per mezzo della fede e trovandovi il punto di partenza di ogni cosa, può quindi ridiscendere alla creatura per quel medesimo cammino, invece di sforzarsi con l'astrazione della scienza o, quasi a ritroso, con la regressione causale. •

La scienza, in seguito, ne guadagnerà sia in chiarezza che in certezza, in ampiezza, in armonia, in potenza inventiva, in vastità universale. Si vedono intelligenze senza alcuna cultura, semplici donne —quali Caterina da Siena — ele-

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varsi per quella via alle più sublimi speculazioni :

c'è da credere che l'uomo istruito non avrà nulla da perdervi, e che la sopraelevazione della sua anima non farà torto al suo sapere.

Riguardo poi alla pratica, si dovrebbe aggiungere che la fede, questo miracolo intellettuale, prepara l'umanità ad altri miracoli. E' essa che fonda la morale cattolica e le divine esigenze sulle quali riposa la più alta civiltà. E' in virtù di essa che la Chiesa non ha mai ceduto a deviazioni quali le eresie, gli scismi, le religioni estranee e le filosofie dissidenti, e che tanto eroismo di virtù hanno dimostrato i più umili cuori.

La fede contiene la vera forza della vita; essa sostiene il volo di ciò che pesa e che cade, purtroppo, ma per sua virtù può raddrizzarsi. Essa tiene insieme ciò che tende a separarsi; è una forza sociale, è un elemento d'amore e di eguaglianza: divina democrazia, fraternità suprema. Essa sposta il punto di vista dei valori e, ponendolo in un amoroso mistero, ci invita all'umiltà, al rispetto, alla fiducia reciproca, al perdono.

In breve, da questo esame dei rapporti tra la ragione e la fede risulta, se non m'inganno, che l'armonia di queste due forze, se non è sempre di fatto ottenuta, a causa dei nostri difetti ed errori, è, in linea di principio, tanto perfetta quanto indispensabile. Non c'è nulla da sacrificare, ma

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tutto da perfezionare. L'uomo, divenendo per partecipazione divino, sia secondo lo spirito o altrimenti, non ne risulta meno uomo, anzi, lo diventa maggiormente; avendo attinto alla sorgente della sua umanità che è la Ragione creatrice, egli è se stesso più di prima; tutto in lui è migliorato, quando egli sorpassa se stesso comunicando con chi è migliore di lui.

L'umanità senza Dio si crederebbe volentieri più leggera; ma quanto ne verrebbe appesantita da quell'assenza: e che peso accasciante, per l'essere abbandonato a tutte le forze esteriori e intcriori sì sovente scatenate e anarchiche, che peso la sua potenza e il suo nulla! :;:,;

La fede libera e alleggerisce, legando l'anima ad una onnipotenza. La fede prepara le gioie più profonde sotto gli auspici della speranza e dell'amore. Essa dirige la nostra azione, ma essa vince l'azione, e rende alla ragione il magnifico omaggio di considerarla come un fine supremo. Essa è una disciplina dei misteri, un'iniziazione a supreme visioni e quasi un'apertura dello sguardo spirituale sullo splendido giorno celeste.

E' per questo motivo che san Tommaso, considerando la scienza della fede, che è la teologia, la dichiara innanzitutto scienza speculativa, benché contenga una morale completa. Essa è speculativa, infatti, poiché il suo fine ultimo è visione e non attività pratica. E la pratica, che è

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guidata dallo spirito, ha pure per scopo lo spirito, in quanto la virtù stessa è semplicemente un mezzo. La ragione è dunque talmente stimata dal cristianesimo, che la si pone al di sopra di tutto:

e la si mette infine anche al di sopra della fede, la quale muore nel proprio trionfo.

« La mia fede passerà, dice Malebranche, ma l'intelligenza sussisterà eternamente. » Tali parole cristiane annunciano una volta di più il profondo rispetto dell'autorità che propone la fede verso la ragione di colui al quale essa la propone. Ecco la fede ridotta al compito di ancella, e di ancella che si ritira, quando, compiuta la sua funzione, essa vede entrare la sua padrona in una definitiva dimora. La fede, che presiede alle certezze oscure, si annulla nel giorno delle certezze abbaglianti. Ci sono due specie di ombre, l'ombra della vita e l'ombra della morte: la fede oscura è quaggiù l'ombra della vita; ma, se durasse lassù, essa non sarebbe più che un'ombra di morte.

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Si lasci dunque il vero significato alle relazioni così normali e misurate delle due forze che si dividono l'anima cristiana. La fede, cosa tragica per gli spostamenti e i rinnegamenti ch'essa suppone, per l'avventura alla quale ci spinge, non è dopo tutto che una cosa ben semplice e giusta e insieme infinitamente dolce, poiché essa rivela l'amore e annuncia la felicità.

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I credenti non si lascino turbare da grida-umilianti solamente per coloro che le lanciano, L'uomo pensoso infatti può rifiutare la fede, ma non l'offende, perché nulla egli vi vede di pericoloso o di degradante per le coscienze di coloro che credono: egli sa troppo bene che, fuori di essa, mediocre è la nostra vita, e strana e spaventosa la morte, e perciò non può che affliggersi di non poter anch'egli riconoscere in questa vita amara una preparazione e nella morte una pre-corritrice.

Quanto al credente che è inquieto per qualche problema o è assalito da dubbi indistinti, mi si permetta ch'io gli dia un doppio consiglio.

Una questione particolare lo lascia turbato? Salga più in alto; elevi il suo spirito all'altezza d'una fedeltà che non si indirizzi più in particolare al dogma messo in dubbio, o alla pratica inquietante, ma a Dio e alla meravigliosa dottrina che ci ha lasciato, presa nel suo insieme. Passar oltre non è negare, ma assumere implicitamente, nell'attesa d'una luce migliore.

Non è necessario che noi risolviamo ogni questione secondo i suoi propri principi, ne che il nostro assenso sia espressamente, specificamente e attualmente su ciò che fa ostacolo : più di un fedele e più di'un giudice intimo sono a questo riguardo nell'errore, e ne derivano angosce da una

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parte, e dall'altra sentenze infiftilamente dannose e ingiuste.

Una cosa è indispensabile, ed è che il nostro assenso alla dottrina di fede non escluda alcun articolo, perché la fede è una. Ma ciò che è uno non può necessariamente essere esaminato, in ogni istante, in tutte le sue parti. Al momento della tentazione è legittimo, è saggio forse, chiudere un po' gli occhi su ciò che urta, rifugiarsi nei propri sentimenti di fede, invocandone i motivi generali, e dire, senza aggiungere altro: Io credo ciò che Dio insegna attraverso il suo Cristo e la sua Chiesa. Ciò basta e, se si ricorre ai motivi di fede, sarà opportuno invocare più di tutto il motivo vivente, che è Cristo, e il motivo trascendente, che è Dio, risvegliando nel cuore la loro presenza, — r?. - .

Ma voglio dire al fratello inquieto un'altra cosa ancora. Le condizioni intellettuali della fede sembrano lasciarlo? E ciò forse nel loro insieme, e non solò su un punto, come dicevamo prima? Tutto non è ancora perduto. Là dove un fatto dipende da più condizioni, queste condizioni possono, all'occorrenza, supplirsi a vicenda;

in ogni caso, le condizioni secondarie, fossero pur necessarie in sé, possono cedere alle principali e passare loro il compito. Così, il credente turbato, che è nella notte, si rifugi nella dirittura del cuore; s^i purifichi iateriormente "e chiami Dio, la

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cui grazia può supplire con le sue ispirazioni alla luce "che manca.

Agire così non è offendere la ragione, anche se momentaneamente la si lascia da parte. Una transizione s'allontana dai due estremi, ma nello stesso tempo li collega. L'atleta che -salta è sollevato nell'aria per un istante, ma non per questo è meno in relazione con la terra ferma, da dove inizia il suo salto e dove ricasca. Così la ragione di ieri, benché oggi oscurata,-invita ancora il credente, e assicura la sua prudenza; la ragione di domani, sperata, fa in lui ugualmente ritorno. Egli è dunque nel diritto, e nell'atteggiamento virtuoso così. assunto è la migliore preparazione a una fede tranquilla. Pregando, purificandosi, egli si mette in disposizione di fede come prima della conversione, se questa fu cosciente, e tende perciò, senza altro sforzo, alla rigenerazione dello stato intellettuale che al momento gli manca.

E' bello e consolante pensare così a tutte le facilità che, per l'intelligenza, come per il cuore e per l'azione, noi constatiamo e dovremo constatare sempre più nell'economia cristiana. Tutto ci è preparato; in tutto troviamo un sostegno:

dopo una mancanza o una caduta ci possiamo raddrizzare. Quando la carne s'abbandona, lo spirito veglia; quando l'individuo sì sente debole,

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la comunità lo circonda e gli trasmette i suoi ritmi; quando l'uomo soccombe, soprattutto allora, perché è proprio in questo caso che si produce la grande frattura tra il fatto e l'ideale, Dio accorre, e purché si sia provvisti di buona volontà e si abbia fiducia, egli supplisce a tutto, egli si fa tutto a tutti come spirito del nostro spirito, intimo vigore della nostra forza.

Mio Dio, donaci dunque ciò che ci manca, in tutti i campi che abbiamo già esplorati, nell'attesa di ciò che potranno scoprire le nostre altre ricerche. Facci dono di ben giudicare la vita; di vederla fino nell'invisibile; di considerare la natura umana che la inquadra con uno sguardo veramente cristiano, di pesarne gli avvenimenti con la tua giustizia e gli esseri con la tua carità;

di ascoltare la voce intcriore e di seguire i tuoi comandamenti; di ancorare la nostra volontà nella necessità della tua legge, ed il nostro spirito nella tua fede : affinchè l'amore e l'azione siano fondati sulla verità, ciascuno nella propria sfera;

poiché tutto, per noi, si fonda nel pensiero, come la creazione nel Verbo.

u.La tua lucerna è il tuo occhio-», dice il Vangelo.

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INDICE

II Padre A. D. Sertillànges Avvertenza dell'Autore

il SÈNSO DELL'INVISIBILE L'INTERPRETAZIONE DELLA NATURA la VALUTAZIONE DEGLI AVVENIMENTI L'APPREZZAMENTO DEGLI UOMINI • la VOCE INTERIORE

la LIBERTÀ E LA NECESSITÀ la RAGIONE E LA FEDE

 

 

 

 

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