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A. D. SERTÌLLANGÉS O.P.

Ex-membro dell' Istituto di Francia

DOVERI

DIECI MINUTI DI CULTURA SPIRITUALE OGNI GIORNO

Traduzione a cura delle Benedettine del Monastero di San Paolo • Sorrento

IV EDIZIONE

M O R C E L L I A N A 1 9 4 8

DELLO STESSO AUTORE PRESSO L'EDITRICE MORCELLIANA

. Dieci minuti di cultura spirituale ogni giorno:

MEDITAZIONI — 4» edizione

^AFFINITÀ — 4" edizione SPIRITUALITÀ —

S. TOMMASO D' AQUINO — 2" edizione

IL MIRACOLO DELLA CHIESA — 3» edizione

IL CRISTIANESIMO E LE FILOSOFIE (2 voli. m-8»)

Ristampa . Settembre 1948

Tutti i diritti riservati in tutti i Paesi Copyright by Morcelliana 1939

Tip. Morcelliana (G. Biasca, Dirett.) - Broscia 1948

Brixiae, die festo S. Apollonii Episcopi VII Julii MCMXXXIX V t s u m : imprimi fatesi Can. PAULUS GUERRINI, Censor

. IMPRIMATUR In Curia Episcopali Brixiensi die festo S. Philastrii Episcopi XVIII Julii MCMXXXIX Can. ERNESTUS PASINI, Prov. Gen.

 

I N T E G R I T A'

II complesso dei nostri doveri si assomma nella parola integrità.

L'integrità consiste, per l'uomo, nel raggiungimento del proprio io in tutta la sua pienezza; nel suo rivestirsi, in certo modo, della propria forma sacra, essendo egli, nello spirito, l'immagine di Dio.

In questo senso pieno l'integrità umana è stata realizzata sulla terra una volta sola; splendeva però già prima e splende tuttora davanti ai nostri occhi come un ideale.

Si ha un bei dire: un ideale totalmente umano non esiste; ci sono ambienti, epoche, razze, temperamenti differenti, il cui ideale è successivamente diverso. Come potrebbe questo esser vero se l'umanità è una specie, se esiste una scienza che si chiama antropologia e per conseguenza un atteggiamento naturale e normale dell'uomo?

Scoprire in noi «l'uomo» è opera ardua. La cultura e la civiltà si sforzano di riuscirvi, ma spesso si arrestano e indietreggiano.

Ogni anima individualmente, senza trascurare le proprie caratteristiche è chiamata a compiere questo lavoro per conto suo. Il fatto che nessuno vi riesca, che nessun uomo riesca ad incarnare per noi « l'idea » dell'uomo, è perciò stesso una prova che dimostra l'esistenza di un

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prototipo proposto a tutte le coscienze. L'ideale esiste, il quanto in ogni giudizio è lui la pietra di paragone. Poch. hanno veduto il campione del metro al padiglione di BreJ teuille, ciò non toglie che chiunque vuole un metro di tela si riferisca a tale misura. |

Indaghiamo, interroghiamo, sentiremo che mai, neppure nei periodi delle delusioni peggiori, si è perduta questa fede nell'uomo; si può constatare la follia con la nostalgia della sapienza; si subisce l'ingiustizia sognando il^ giusto. Il giusto è come l'arcobaleno; non potendo afferrare la meteora ci si accontenta di ammirarla da lontano;

Non si verifica forse che all'annuncio o al primo apparire di un uomo-tipo una sorgente di entusiasmo è sempre pronta a scaturire? Ed anche se non appare, brilla segretamente in noi quando ne applaudiamo appassionata";

mente l'abbozzo,Dopo tutto, sono proprio degli uomini reali che ci hanno suggerito quale sarebbe il modo migliore di vivere, e di rimando è questo concetto che abbiamo di loro che forma in noi il giudizio dell'uomo. L'ideale e il reale interferiscono così costantemente, il reale gettando un'ombra sull'ideale e l'ideale offuscando il reale con lo splendore della sua luce.

Si parla spesso di «vite romanzate»: ma non dovrebbe ciascuno «romanzare» la propria vita, elevandola. al più alto significato nella sua piena potenzialità? L'ea'^, sere che abbiamo ricevuto nascendo non è definitivo, è embrionale, plastico, plasmabile all'infinito in quella forma che Dio c'incarica di realizzare con Lui nel tempo del nostro pellegrinaggio terreno. L'essere iniziale non trova che in questa realizzazione il suo senso originario, perfettamente conforme a quel pensiero che Io crea e quindi Io giudica. Ma noi siamo portati a far conto solo dell'io inferiore, il meno esigente e il più sensibile. Elevarci all'io sublime, all'io divino, sarebbe ritornare alla semplice verità di sé stessi.

Tale è il significato del senso morale: è il senso stesso della vita nella sua forma. È inoltre il senso dell'essere e

L'ORDINE INTERIORE E IL CAOS 

della sua sorgente ed è per questo che il senso morale confina col sentimento religioso. La differenza sta in ciò:

moralmente si sale dalla natura a Dio, mentre religiosamente si scende da Dio, fino alla natura. In ambedue i casi, realizzando il pensiero di Dio obbediamo a noi stessi. Ricevendo senza resistenza l'impulso creatore siamo spinti, sotto un regime di libertà che accetta e che reagisce, a camminare nella nostra via e nel senso che ci è proprio.

Senso dell'integrità, senso morale, coscienza: tre modi di esprimere il sentimento di questo vincolo che ci unisce al Pensiero primo, di questa esistenza che era prima del tempo e misura la nostra nel tempo, di questo essere che abbiamo in Dio per cui siamo a un tempo, come spiega S. Tommaso, noi medesimi nel grado più perfetto, e siamo Dio.

II L'ORDINE INTERIORE E IL CAOS

L'ordine è opera del Saggio. La sapienza creatrice ha escluso il caos e perciò da parte sua ha fatto bene ogni cosa. Al contrario, ogni opera cattiva, ogni breccia nell'integrità della nostra vita tendono a ristabilire il caos fuori e dentro di noi.

Non una sola goccia d'acqua nel mare ha un moto inconsulto; tutto il ciclo vi si opporrebbe: come può avvenire che in seno a Dio, ciclo dell'anima e legge dei suoi movimenti, si agisca male?

La spiegazione è una sola, cioè che la volontà depravata si costituisce per sé stessa una falsa sapienza, una maestra d'errore alla quale poi finge di obbedire come alla rettitudine, alla legge, all'ordine. Quale ordine? Quello che mi piace. Quale sapienza? Quella della mia immaginazione, dei sensi, delle passioni riscaldate che rifrangono la luce a loro piacere.

È naturale che ognuno adori il dio che si crea e ne «sservi i precetti. II male è che ci si creino degli dei falsi

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mentre esiste' Dio, che si proietti sul nulla questa immagine del Tutto di cui pure abbiamo la percezione, raggiante ed attraente, nelle nostre ore di lucidità;

II bene si muove in ciò che è, il male in ciò 'che non ;

è; il bene è l'armonia degli elementi che costituiscono il nostro essere, il male ne è la dispersione per il tradimento della legge che li unisce. L'integrità che è la perfezione del bene, suppone tutta una economia del pensiero, del sentimento, della parola, dell'azione, nel senso genuino della parola economia che significa cura diligente e ordinata.

Il fedele amministratore del Vangelo è lodato perché grazie a lui la casa è bene ordinata e tutti sono tranquilli. A tutti e a ciascuno « egli distribuisce il cibo nel tempo opportuno »; e il nutrimento è quello che fa vivere. Il cibo dell'anima è ciò che la fa vivere spiritualmente, vale a dire l'azione retta è per lei ciò che il pane è per il coicpo « e il pascolo per il bue », dice lo Zend Avesta. Non è forse questo il significato della risposta di Gesù agli Apostoli, sull'orlo del pozzo di Giacobbe: « Io ho un cibo che voi non conoscete, ed è di fare la volontà del Padre mio »?

Qui è per noi non soltanto il cibo ma l'esistenza stessa, se 'chiamiamo l'esistenza ciò che ci fa essere, quel che siamo veramente, in senso assoluto, non nel concetto manchevole e falsato della coscienza peccatrice.

Che cos'è la coscienza retta? Una spiritualità nascosta, una legge attiva, la quale è per la nostra personalità, ciò che questa è per la natura, e cerca di saturarla» di dirigerla, di utilizzarla per i suoi fini. Ma come la materia resiste allo spirito, così lo spirito inferiore, « la legge della carne » di cui parla San Paolo, resiste alla coscienza ordinatrice e mantiene il caos.

Pertanto, l'uomo-ideale, il saggio, il giusto, l'uomo integerrimo non sarebbe al centro delle cose, come l'emblema della suprema vittoria del creatore sul caos, un piccolo mondo di dimensioni ridotte sì, ma di un valore massimo, il capolavoro del sistema planetario e forse di tutto quanto è visibile?

'ORDINE INTERIORE ED ORDINE ESTERIORE li

Perché il Figlio di Maria è chiamato Fiore di Jesse e Fiore del mondo, sé non perché Egli ha concentrato ed armonizzato in sé ogni valore creato, ogni valore della sua razza, ogni valore proprio dell'uomo? Il cristiano integrale sarebbe così, col suo Cristo, al centro di tutto, all'apice di tutto, acquistando il diritto di dire a sua volta, senza bestemmia e direi senza audacia: « Jo sono la via,. la verità, la vita », poiché si sarebbe informato al suo ;

ideale vivente al punto di confondersi con la via ideale». avrebbe sposato la verità fino a diventare con essa un « solo spirito », perché infine offrirebbe alla vita un esem-!? piare così perfetto che basterebbe imitarlo per vivere.

Chimera? No, certo, bensì luce dinanzi allo sguardo, stella che guida, infiamma e trascina senza che mai ci sia dato di raggiungerla. '

III ORDINE INTERIORE ED ORDINE ESTERIORE

L'uomo è abile in moltissime cose, eccetto nel suo destino. Sa fare tutto... meno che l'uomo. Con l'attività esteriore, fieri dell'apparato e del benessere che questa ci procura, lavoriamo, per dir così, ai margini della nostra vita, trascurandone troppo spesso il centro.

Questo male ora ha assunto proporzioni allarmanti Ne siamo avvertiti da tutte le parti; non sono più i mo-falisti soli a farci sentire il loro richiamo, ma sono i biologi, i medici e perfino gli csteti.

L'integrità morale ha una ripercussione in ogni campo, compreso il nostro aspetto ed il nostro stato fisico. È lecito pensare che se gli uomini non sono così armonio-samente belli e fiorenti come i gigli del campo o gli anemoni, ciò non dipende soltanto dal. fatto che le condizioni da riunire sono molto più numerose, ma piuttosto perché nel corso delle generazioni la legge della^ specie non è stata osservata. Oggi meno di ieri.

~T 12 INTEGRITÀ

Marne de Biran scriveva: « Fino a tanto che non si farà andare di pari passo Parte della vita quotidiana con quelle che ci creano nuovi godimenti e nuovi mezzi per dominare la natura, tutti i prodigi del genio non avranno contribuito per nulla al raggiungimento del vero fine di tutti gli sforzi ». Per vita quotidiana, vita pratica, il grande psicologo intende la moralità informatrice degli atti,;

e ciò che egli,, assegna al genio come termine dei suoi sforzi, è il destino. Ma non si sa più cosa sia il destino e' quest'arte della vita quotidiana non conosce più regole.

Goethe forse si adulava, ma certo esponeva un grande pensiero quando diceva a Eckermann: « Ho sempre:. considerato la mia vita esteriore come un simbolo, come un segno visibile di quello che accade in me ». Se pure dentro di noi andasse tutto bene, rimarrebbe sempreposto per gli imprevisti e per gli errori di tattica; ma « certo che il simbolismo di cui parla Goethe avrebbe egualmente un senso profondo, ed il nostro destino vi troverebbe un'armonia meravigliosa. ,4

Come la natura è un precipitato di spirito, una manifestazione dello spirituale, opera del Creatore e della;', sua divina sapienza, così la vita esteriore, individuale e sociale, la civiltà stessa è un concentrato della sapienza e delle virtù dell'uomo. Del resto i due termini di paragone si ricongiungono. Il pensiero umano che cos'è in fondo sa non un'emanazione del pensiero creatore e la virtù ub effetto indiretto del governo divino? I successi dell'uomo sono dunque successi divini. I frutti della sapienza umana, come quelli del genio, sono in onore di Colui che vien chiamato il Dio delle virtù e Padre d'ogni luce. È Dio che si diffonde nell'umanità e nella civiltà, attraverso i pensieri retti e le azioni virtuose. \ ",

Quanto pochi sono i cristiani che s'innalzano a que^ ste considerazioni la cui forza ispiratrice è pertanto cosi grande! Come la nostra pratica ne è lontana! In tutti gli ambienti, nelle varie classi sociali, l'insuccesso dei nostri sforzi dipende essenzialmente da questa dispersione spirituale, dall'oblio in cui sono lasciati i valori primi, dall'at-

; LA RETTITUDINE I»

titudine, forse addirittura dalla smania che abbiamo di,:

urlare con i lupi.

Il senso morale si è indebolito presso gli stessi credenti. Questo senso che direi di orientazione, sia che si tratti dell'atteggiamento individuale come del progredire del mondo, è quasi perduto, ed è perciò che tutti gli altri valori pericolano. Mai le vittorie della vita sono state in un rapporto così stretto ed immediato con la vittoria su noi stessi.

IV LA RETTITUDINE

L'integrità prende anche un altro nome: si chiama dirittura o rettitudine. Questi appellativi si riferiscono alle due estremità della nostra vita e alla loro congiunzione:

punto di partenza, termine, curva vitale, come una traiettoria.

Nel tiro la traiettoria tende ad esser retta; necessariamente dalla spalla al bersaglio la linea deve essere esatta e portare là dove bisogna: così è per Fazione e per l'indirizzo abituale dell'azione. Per servirci d'un altro esempio possiamo pensare a una cordicella ben tesa.

La rettitudine consiste nel permeare tutta la vita del pensiero del suo fine e camminare così decisamente verso il termine. II cristiano potrà forse esitare? I fini della vita gli vengono esposti dalla fede; il punto di partenza è indiscutibile: ci è dato ogni giorno poiché si può dire che ogni giorno la nostra vita ricomincia con i suoi elementi stabili e le sue mutevoli opportunità. La condotta deve ispirarsi a questi principi; non c'è che da vegliare sugli slittamenti e sulle deviazioni, perché raggiunga i suoi fini.

I nostri fini! come son lontani dal dirigere i nostri passi nella vita quotidiana! Non li rigettiamo, ma li salutiamo da lontano a intervalli più o meno spaziati. Quello che manca è l'influsso sulle energie intime dell'anima.

i4 ii^rEeRiTÀ

In realtà, a dispetto di tutta la nostra pretesa al governo assoluto di noi stessi, si può affermare che d'ordinario non sappiamo neppure quel che vogliamo, cioè che disconosciamo in favore di volontà passeggere la volontà essenziale contenuta nella coscienza cristiana. Armonizzare la nostra volontà seconda con quel volere primordiale che ci caratterizza come cristiani e come uomini, ecco la rettitudine.

Il Salvatore ce ne da la formula dicendo; « Cercate prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia ». Sono due termini che si completano e s'illuminano a vicenda. Il regno di Dio consiste nella sua giustizia, e la giustizia^ consiste appunto nel cercare prima e in tutto il regno di Dio, che porta con se tutto il resto: « Cercate prima dii, tutto il regno di Dio e la sua giustizia, tutto il resto vi sarà dato per sopra più »,

Chi crede di difendere i diritti dell'uomo e delle cose dimenticando Dio, è simile a quel servo che paga un debito col danaro rubato al suo padrone. Chi dimentica Dio gli ruba tutta la vita e finisce col perdere questa vita me— •desima che non si può strappare dalle mani divine. D'altra parte colui che dice di voler servire Dio e non fa giustizia agli uomini e alle cose, toglie al Creatore ciò che, nelle ^ cose, è suo; non è quindi ne pio ne giusto: come potrà ricevere, con Dio, « tutto il resto »? (;

Esiste cioè una falsa rettitudine, anzi più d'una: tante quante sono le direzioni false che vanno da un punto di partenza morale fino al termine. '

Si afferma e si nega, secondo l'umore o l'interesse del momento, che il fine giustifica i mezzi e che si può avan-: • zare nel bene con la retta intenzione pur seguendo vie;

tortuose. È uno di quei raggiri con cui l'uomo peccatore;

ama rivestirsi d'una apparenza di giustizia. Quando noli si ha il coraggio di rinunciare al male, si ha però sempre la risorsa di camuffarlo; in questo caso, lo si colora coi riflessi del bene che il fine proposto sembra riverberare sopra di esso, inondandolo della sua luce. È una illusione:

il fine non giustifica i mezzi, perché la giustificazione o il

JItTEGRITA' a LIBERTÀ' 15

biasimo concernono l'uomo, e l'uomo è qualificato per l'atto che compie, prima di esseri» per ciò che pretende di .veder scaturire dal suo atto.

• Mentite per servire? Ebbene: si prende atto della vostra volontà di servire, ma voi mentite e chiunque proferisce la menzogna è un bugiardo; nessuna intenzione sovraggiunta può purificarlo da questa macchia.

Del resto, tutte le astuzie dimentiche della rettitudine, raramente portano un vantaggio sia pure immediato, e in ultima analisi sono sempre in inganno perché l'insieme dei fini creatori le condanna. ; Poste dunque le basi delle speranze cristiane, anche

V un fanciullo sentirà l'evidenza di queste proposizioni. Per giungere al termine che vediamo innanzi a noi bisogna tirare dritto. Per affrontare un giudizio "•iusto, bisogna essere giusti. Per raggiungere pienamente lo sviluppo integrale del proprio essere bisogna essere integri. Integrità, rettitudine, giustizia: tré parole che si fondono in una sola ed hanno tutto il peso d'un verdetto supremo.

V INTEGRITÀ' E LIBERTÀ'

La libertà si definisce volentieri il potere di fare ciò che si vuole. È una formula che si può difendere, ma lasciata nella sua imprecisione o spinta al senso assoluto, diventa assurda.

La vera libertà consiste nel fare quel che si deve e non quel che si vuole; nel fare quanto è necessario per raggiungere i fini che naturalmente si perseguono. La libertà è un mezzo, non è un fine. Quand'io mi affermo libero, mi si domanda subito: libero in che cosa? e bisogna bene che risponda. L'agitazione arbitraria non ha alcun significato, lo spirito non c'entra. Se desidero che la vita si apra liberamente davanti a me, è certo perché voglio

16 INTteGMTÀ

andare in qualche posto; ma dove potrò andare senza alcuna regola?

' Quando i bambini si divertono fra loro, senza nessuna sorveglianza direttrice, le liti non sono lontane, i pericoli ancor meno; in ogni caso è lo smarrimento e la noia. Anche il giucco ha bisogno delle sue leggi, quanto più la vita! Essa ne ha bisogno per la sua buona riuscita, per la sua stessa libertà, se intendiamo per libertà la possibilità di seguire la propria senza urtare in mille impedimenti imprevisti.

i Chi pretende di fare ciò che vuole si rende schiavo di tutto, poiché in questo mondo nulla obbedisce lungamente al capriccio. L'ordine soltanto paga; il disordine è insolvibile. « Una libertà che non vuole obbedire è sempre flagellata dalla sventura », dice Shakespeare. Colui che adempie i suoi doveri con integrità, si concilia il proprio ambiente e possiede se stesso. Questo è il germe della vera libertà.

L'uomo domina la natura, ma a patto che ne rispetti le leggi. L'uomo si erge dinanzi all'uomo e conta su utili cooperazioni; ma cominci anzitutto con l'accettare la legge di giustizia e la legge sociale. Allo stesso modo l'uomo dinanzi a Dio e all'ordine divino si sente libero e sicuro delle sue azioni quando comincia con Faccettare l'ordine, rinuncia alle ribellioni, entra nel quadro della creazione e tende a realizzare i propri fini in armonia con quelli del mondo.

« Che cos'è la libertà? » si domandava il savio Pé-riandre, e rispondeva: « è una coscienza tranquilla ». La buona coscienza è la legge dell'universo, poiché « tutto è per gli eletti » e gli eletti non sono altro che delle coscienze giunte al termine, dei giusti coronati. Se dunque la libertà consiste nell'uniformarsi allo spirito della legge, ed entrare nel suo piano preservatore, possiamo aggiungere che la buona coscienza è la libertà stessa.

« L'uomo solo con se stesso è un governo » diceva Lacordaire. Si è liberi finché ci si lascia dirigere. Difatti quando si obbedisce alla legge delle cose, alla legge di

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INTEGRITÀ E SICUREZZA T1^' i% ^

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Dio che comprende l'ordine delle cose, {'uomo è anco•j^Sl.^'~>^:'l'\ in un certo senso, solo con se stesso, poiché si muove s^fy^^is tutto di cui è parte viva; è libero al punto da poter disporre di se stesso e d'ogni cosa, anche di Dio.

Non volere che il bene, quale semplificazione della vita! che unità nel nostro intimo, che facilità in tutte le , circostanze, e quale fonte di pace! Non è questo essere liberi? Nella grande corrente che conduce tutto a Dio, io navigo, sempre guidato e spinto dai flutti, anche se mi , investono percuotendomi in viso. ^•'

Ne sarò impacciato? non sono forse certo, per il fatto stesso della mia fedeltà, di realizzare perfettamente e liberamente me stesso? Mi si domanda soltanto di essere quel che sono e cioè di aderire al mio essere riconoscendo la legge del suo Principio. La buona volontà che da me si attende non è che una partecipazione di quella Volontà buona per essenza, sola efficace pel conseguimento della felicità.

Mio Dio, ispiratemi questa buona volontà tranquilla e liberatrice. Quando mi lamento dei vostri richiami e delle vostre esigenze, è della vostra stessa bontà ch'io mi lamento. Quando parlo di catene, alludo scioccamente a quelle guide protettrici che fanno correre, come dice il Salmista, con. cuore dilatato. Obbedire a Voi significa liberarmi dal falso io e sottrarmi ai capricci delle cose; condurre senza ostacoli esteriori od intimi la vita che mi avete data, spingerla verso la perfezione, costringerla a quella felicità che è la massima aspirazione di tutto il mio essere. '

VI INTEGRITÀ' E SICUREZZA

Perche, sapendo così poco utilizzare le nostre torio, siamo così ansiosi di ottenerne? Quando trion della vita secondo i nostri desideri, crediamo quasi

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conquistato tutto e vorremmo convincerci che il bene stesso è interessato in quello che ci soddisfa.

Molti benpensanti si comportano come se il bene fosse un povero diavolo bisognoso della pietà degli uomini, della loro abilità ed anche — perché no? — dei doro inganni e dei loro vizi; come se non avessimo bisogno tutti di questo bene che è l'unica garanzia efficace, il solo « scudo », come lo chiama la Bibbia, il solo elemento di sicurezza, piena e reale.

Col bene si possiede tutto; senza il bene, non si possiede nulla, e l'abilità così spiegata diventa un giucco da stolti. Sarebbe strano poter riuscire contro Dio, e la stranezza non sarebbe minore se non si riuscisse con Dio, entrando nelle sue vie, con un'integrità generosa.

Poco importa il disporre o no di mezzi umani; possedendoli, occorre subordinarli senza attribuire loro nulla di decisivo; se non si possiedono, vuoi dire che Dio stesso vi supplisce a vantaggio della sola buona volontà. La salvezza del mondo non è stata procurata con una piccola vita ebrea e coll'annientamento della Croce? Gesù non conosceva che un mezzo, uno solo: fare la volontà del Padre Suo; con questo ha vinto tutto, la morte, il mondo, l'inferno.

Ma noi crediamo di avere altre risorse; per garantire le nostre vite, disponiamo dell'esperienza e d'una sollecitudine sempre vigile; come siamo saggi! Soltanto... si può chiamare sapienza quella che s'inganna sull'essenziale? Credere di ottenere gli effetti del bene ricorrendo alle scappatoie, significa cadere nella rete del male, trovando in questa falsa abilità la propria rovina. Con l'ordine morale non si può giocare d'astuzia.

Ogni falso bene si cambia nel suo opposto: così il piacere in disagio e disgusto, la gloria del mondo in disprezzo del mondo, la ricchezza in avidità o anche in vera povertà, la potenza in terrore e in schiavitù, il tutto nella morte e nel nulla. Soltanto il bene è immutabile o piuttosto non può cambiare che volgendosi al meglio, al perfetto.

GLI ELEMENTI DELL' INTEGRITÀ 19

Sembra un paradosso! il bene moraie con le sue segrete metamorfosi ha una potenza capace di pareggiare tutto. Gli oggetti che accomuna, per quanto diversi ed opposti al giudizio umano, divengono per mezzo suo egualmente accettevoli ed utili. Gioie e dolori si equivalgono per coloro che sanno farli servire al medesimo fine. Successi o insuccessi è tutt'uno, quando Dio garantisce il risultato e quando quel che conta è solo il cuore. Il miglior partito è dunque quello di dedicarsi interamente al proprio dovere, poiché la legge dell'integrità coincide con la legge creatrice, che sola può garantire il risultato finale. Il dovere è nel campo dello spirito, come un effetto commerciale che non venga mai protestato.

Non soltanto, seguendo questa norma, tutto si equivale; c'è di più: tutto ciò che in sé non varrebbe nulla acquista valore. Nulla è veramente perduto di quanto si , fa per il bene anche se in apparenza è « in pura perdita », se non raggiunge lo scopo o magari sembra portare qualche danno; perdere è abbandonarsi al nulla, mentre il bene non conosce che l'essere. Tutto quanto mira al bene è certo che non può far naufragio, come è certo che la Provvidenza non può perire. Il bene ha la solidità di Dio: dispone della perennità e di tutto ciò che è compreso nella sua orbita. A chi si è impadronito di questo potere che altro può importare? Eternità, che cosa è il tempo dinanzi a tè?

VII GLI ELEMENTI DELL'INTEGRITÀ'

Molti vorrebbero credere che l'integrità ha rapporti soltanto con gli affari di danaro o simili. Una specie di garanzia d'onestà a buon mercato! Un « commerciante onesto », un notaio o un banchiere corretto passerebbero per uomini integri e ne raccoglierebbero tutti gli onori. Non è questo: l'integrità si intreccia alla vita intera. Se

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concerne il danaro è per il fatto ch'esso rappresenta molte cose, ma non tutte, e a dire il vero in materia di danaro come in ogni altra, l'integrità ha interesse e valore soltanto per l'uomo morale.

Che influenza esercita sull'uomo morale la diversità degli oggetti e delle circostanze? Questa diversità lo manifesta e lo giudica sotto molti punti di vista, ma è sempre lui che è in causa. La sua unità è inscindibile e non lo si può dire integro se non quando il suo dovere è compiuto integralmente.

Ma a quest'uomo morale, che il bene giudica dall'alto e con una sentenza incorruttibile, si oppone l'individuo semi-cosciente di sé stesso, che si dissolve, a dir così, nella sua attività esteriore, si perde tra la folla, dissimula la propria personalità nell'ente collettivo, oppure si nasconde dietro i suoi compiti, dietro la sua posizione sociale, dietro l'opinione che si ha di lui, difeso da tutto un sistema di apparenze che non hanno nulla a che fare con la sua reale ed intima moralità.

Quel che conta, parlando d'integrità, è di conoscere lo stato della persona per sé ed in sé, delia persona nel suo colloquio con l'infinito che ci giudica tutti, della persona che « muore sola », direbbe Pascal, ma vive anche sola, avuto riguardo al giudizio che cade dall'alto su di lei, in maniera tale che essa è, per così dire, infinitamente lontana da ciò che le è più vicino; lontana dalle apparenze e dalle complicazioni che potrebbero imbrogliare le faccende, lontana da quella massa fra cui cerca di nascondersi e dove scompare ogni responsabilità; insomma in una nudità e sotto una luce in cui più nulla protegge l'uomo contro quello sguardo integro ed onnisciente di cui la coscienza non è che un timido interprete.

La persona considerata così, può dirsi buona? Integralmente buona, nell'intenzione e nella pratica abituale? Vuole il bene, tutto il bene, null'altro che il bene; è pronta a soffrire qualunque cosa piuttosto che tradirlo gravemente? Porta il senso della propria responsabilità in tutti gli ambienti che frequenta e in cui agisce? Sa far fronte

GLI ELEMENTI DELL'INTEGRITÀ 21

ad ogni situazione, agli obblighi privati come ai doveri di famiglia, alla professione, al suo posto nella vita pubblica, per quanto umile e nascosto esso sia? Assume il lavoro col sentimento del dovere, non soltanto in vista del risultato, del successo, del guadagno o d'una piccola vanità, come se questi risultati isolati in sé stessi e staccati dal bene morale non fossero, nei riguardi della coscienza, una vera appropriazione indebita? Vigila sulla purezza dei mezzi come su quella del fine, sapendo che il bene è unico nel termine e nella via, ed unico è il fine della coscienza: il bene, di modo che un buon mezzo per essa rappresenta già un fine, mentre un mezzo illecito le è nemico inconciliabile?

Finalmente, nei rapporti col prossimo, la persona è integra nel senso che ama quanto va amato, serve a quel che deve servire, soccorre quelli che hanno diritto di attendersi da lei aiuto e consolazione, elargisce la sua simpatia ad ogni forma di bene, si svincola da ogni male senza però rinnegare o disprezzare colui che ne è trascinato, si guarda dalle divisioni e dallo spirito di parte che intralciano il bene e mettono di fronte quelli che vi sono impegnati, ed essendo del partito di Dio, è del partito di tutti compreso di quelli che rifiutano di essere del suo partito?

Si può semplificare in base a una distinzione molto precisa: l'integrità dell'uomo suppone la giustizia nei suoi rapporti con Dio, con sé stesso, col prossimo. Con Dio che essendo la sua sorgente è lui più di lui medesimo; con sé stesso perché troverà la sua unità e il suo pieno sviluppo solo sottomettendo le sue facoltà alla ragione che ne è la regola; con tutti gli uomini che sono i suoi associati nell'umanità, i suoi fratelli nella paternità divina e i suoi compagni nel lavoro da compiere quaggiù.

; Possiamo aggiungere, per quanto sia già sottinteso pel fatto della subordinazione della cosa alla persona, che l'integrità esige un equo rapporto con le cose stesse, in maniera che vengano condotte al loro fine e non siano

22 INTEGRITÀ

fuorviate, procurando per quanto è in noi di far sì che l'armonia umana divenga armonia universale.

Tale è il « giusto » di cui parìa la Scrittura, con cui l'uomo integro si identifica a patto però della esatta accezione dei due termini.

Gli si è voluto opporre il superuomo, ma a torto. Il superuomo di Nietzsche supera, certamente, l'uomo banale, senza idee elevate e senza energia, ma l'equilibrio ' perfetto dei valori umani che comprendono i divini, e la armonia musicale, per dir così, di tutta la vita, resta ignorata dal superuomo.

E tuttavia, questa rettitudine accettata è la condizione della salvezza, e nel suo perfezionamento sta la salvezza stessa, poiché la vita eterna non è che la piena armonia dell'anima nei suoi rapporti perfetti con Dio e con ogni cosa. Il rovescio è l'inferno.

Vili « PIETRA FILOSOFALE »

A voler considerare le cose in sé stesse si avrebbe torto di far la voce grossa parlando di « pietra filosofale » a proposito della saggezza. Non è più difficile esser saggio che essere pazzo; anzi, è molto più semplice, e Cyrano aveva ragione di voler semplificare la vita mostrandosi sublime in tutto e per tutto. La vera saggezza non consiste forse nell'unificarci, quindi nel semplificarci, semplificando così, in rapporto a noi, quanto ci riguarda? i

Ma tuttavia Henry de Montherland ha ragione di scrivere: « La saggezza isola quanto il genio ». Isola perché la maggior parte degli uomini preferisce le complicazioni appassionanti alla semplicità virtuosa. Che dire poi;

se neanche la saggezza e il genio son d'accordo tra loro;

e si isolano uno dall'altro? Il genio che non si risolve in grandezza morale non è che un'immensa miseria; sia pure « miseria da gran signori », direbbe Pascal: andate

«PIETRA FILOSOFALE» 23

lontani dal genio, dimenticate ogni grandezza morale, a quale caduta non sarete esposti? Eppure questa è la condizione comune.

II giusto, l'uomo integro nel senso che l'intendiamo noi, non è soltanto raro, ma è generalmente incompreso e perseguitato. Si vede male ciò che è lontano, quel che sta in alto umilia e fa ombra. La giustizia, quando è praticata verso chiunque, ci allontana dagli amici; ci avvicinerebbe ad essi solamente se l'amicizia consistesse in un patto di giustizia, ma questa sublimità è ben rara!

Al contrario, vediamo lodati e ricercati gli adulatori, i compiacenti, coloro che sanno piegarsi, venire a patti, e se in materia di virtù circolano tante perle false, non dipende solo dal fatto che mancano i competenti, ma che tale competenza non la si vuole. Si abbozza l'ideale al proprio livello per poterselo attribuire e compiacersi in esso e questo si chiama « tranquillità di coscienza ». Furfanteria? Sì, dal punto di vista dell'assoluto, ma la nostra umanità è così miserabile!

Per essere « giusto » occorrono molte cose: la « porta stretta » del Vangelo è infatti tanto angusta che sembra misurata sul profilo minimo di ciascuno. Bisogna rimpicciolirsi, comprimere, per dir così, la propria personalità, per trovare al di là, sotto l'egida divina, delle ampiezze che ci eguagliano a tutto l'orbe creato.

L'integrità esige la morte a sé stessi. Questo gesto ! eroico, però, benché vantaggioso, non è troppo frequente, e trova la sua ricompensa solo nel fatto che la morte del falso io produce la nascita di quello vero; l'apparente distruzione è invece una creazione. Vivendo secondo Dio e formando in sé la sua immagine vivente, ci si prepara un'apoteosi; anzi, essa comincia già a realizzarsi, ed ecco che i limiti del vostro essere, o morti spirituali, coincidono con quelli del mondo.

L'ideale sarebbe che alla sua ultima ora, ognuno potesse dirsi: la mia vita non è trascorsa soltanto, l'ho realmente vissuta, ha realizzato il suo valore, ha preso la forma propria, e si compie nella sua pienezza; il mio ultimo

24 ^INTEGRITÀ

giorno è l'ultima occasione di' sviluppo e morire è per me un guadagno.

Questo, si capisce, supporrebbe una giovinezza già conquistata ai valori morali. Coloro che dicono compia- ;

centemente: « Bisogna che la gioventù se la goda » dimenticano quello che nella giovinezza, come in tutta la nostra esistenza, costituisce il nostro essere eterno. La giovinezza ha il suo tempo, come l'età matura e la vecchiaia;". ma l'eternità comprende tutto il tempo e nessuno può sa-1 crificarla a ciò che passa. , ::

È vergognoso che la vecchiaia trascuri quanto v'ha ';

d'eterno nell'età giovanile, è orribile che l'età giovanile ;, disprezzi ciò che nella vecchiaia sussiste d'eterno, ma ciascuno in sé stesso deve rispettare questo duplice aspetto dell'età permanente, e l'integrità a tal prezzo diventerà più perfetta. ;

Tuttavia l'ordine morale è così grande che non può;;

essere impedito dai nostri ritardi, diminuito dalle nostre infedeltà, annientato dalle nostre cadute. La durata della vita è cosa secondaria, quel che conta è la sua pienezza.,;

Ne segue che a qualunque età, dopo qualunque passato,;

malgrado l'amarezza di cui esso avvelena i nostri rimorsi, ;;

l'integrità è ancora possibile. Il colpo d'ala decisivo può, in qualsiasi momento elevare all'empireo un cuore fino ai quel momento prigioniero della terra.

rx

IL FONDAMENTO SPIRITUALE: L'UMILTÀ'

Appena si nomina l'umiltà, sia pure modestamente e con un prudente riserbo, si vedono ergersi tutte le fronti, irrigidirsi i dorsi, mentre un significativo gesto del dito accenna: Io, no! Io... questo povero io umano che si impenna così, che ignora ciò che egli è, ciò che gli prepara l'orgoglio, si rende conto che ha accolto dentro di sé il peggiore dei sette demoni che ci assillano?

S. Bernardo stimava che fra tutti gli insegnamenti del Cristo l'umiltà è il massimo. Forse ciò non appare a prima vista perché molti legami delicati si frappongono tra questo principio di vita spirituale e le sue ultime conseguenze;

ma questa oscurità non infirma l'asserzione del grande monaco: sottrarsi ad ogni sguardo è la sorte di tutte le fondamenta e di tutte le radici.

Quando abbiamo voluto proporre un riassunto dei nostri doveri ci è parso -trovarlo' nella parola integrità o rettitudine: aggiungiamo ora che l'umiltà si presenta alla rettitudine e all'integrità come condizione fondamentale, in attesa di veder apparire l'amore, anima di ogni vita spirituale e suo coronamento.

L'umiltà conduce alla rettitudine nell'obbedienza all'ordine sovrano di cui ha riconosciuto il dominio, poiché

26 IL FONDAMENTO SPIRITUALE : L'UMILTÀ

dopo la capitolazione dell'io egoista ed orgoglioso. Dio è il suo tutto, e in Dio il suo prossimo, e nell'unità col prossimo e con Dio ritrova sé stessa.

L'« abstine et sustine » degli Stoici che, al dire di Pascal, riassume tutta la loro morale, preso in questo senso, torna a vantaggio dell'umiltà, mentre l'orgoglio dei suoi inventori minacciava di turbare l'economia morale al punto di distruggerla.

L'umiltà si astiene da tutto ciò che è contrario a Dio, da tutto ciò che gli fa concorrenza, in sé e in quanto avvicina. Sostiene Fazione di Dio in sé e fuori di sé con una pazienza e uno zelo esenti da negligenze, perché così esigono il posto e la missione ch'essa si attribuisce nell'ordine divino, abbagliata dall'essenza di Dio e, in un altro modo, dai poteri e dalle fastose promesse riservate al suo nulla.

L'umiltà non è soltanto una convinzione dello spirito, è un atteggiamento dell'anima; implica dunque il culto del sommo bene, donde scaturiscono la sottomissione e la :

dipendenza. Dal momento che ci mettiamo al nostro posto, tutto intorno a noi si sistema armoniosamente; adattati a ciò che è, operiamo all'unisono col tutto, lungi dal-l'abusare degli altri più che di noi stessi, pronti ad aiutarci a vicenda in un ordine in cui il rendersi servizio scambievolmente è legge, ignorando l'invidia e l'avarizia poiché il mondo è stato fatto per tutti e deve essere a disposizione di tutti, lieti del bene degli altri come del nostro: l'io separato e nemico è scomparso, si è fuso e in ;

qualche modo è svanito, investito dall'irraggiamento divino,

L'orgoglio invece non sa obbedire, e non sa amare;. non sa dominarsi e non sa servire, non è mai contento di ;

nulla e di nessuno, perché tutto misura secondo le sue i esigenze, e stima le persone in proporzione dell'onore che. ne riceve; è insaziabile. ?

La salvaguardia e il progresso di tutte le virtù sono' dunque in stretto rapporto con l'umiltà, per ciò S. Francesco Saverio poteva dire: « Sulle orme di Gesù Cristo si sale solamente quando si discende ». Mentre l'orgoglio

IL SIGNIFICATO DELL' UMILTÀ 27

spinge all'estremo tutte le passioni, l'umiltà le calma e le subordina; essa è nemica inconciliabile di quelle forze di ; anarchia che l'orgoglio alimenta, e sostiene invece le forze utili che esso abbatte.

La minima particella di virtù, così custodita, vale più che una grande virtù gonfia di sé. La virtù orgogliosa è come lo sforzo per salire una roccia franante lungo il pendio: a che giova l'ascensione, se la caduta dell'alpinista e del suo masso è fatalmente decretata?

L'umiltà, posta alla base, da quella stabilità e quella perseveranza mediante le quali tutto si compie. In che punto sarà vulnerabile colui che ai suoi propri occhi non conta nulla? Ha sostituito a sé stesso ciò che sfugge ad ogni mutamento e ad ogni capriccio: deve per ciò condividerne la sicurezza. Scriveva Leonardo da Vinci nelle sue note: « Colui che dirige il suo cammino verso una stella non muta mai ».

X IL SIGNIFICATO DELL' UMILTÀ'

Occorre intendersi sul significato genuino dell'umiltà, poiché ne esistono numerose contraffazioni, che il falso differisce dal vero in molti modi. C'è quella che si dice volgarmente umiltà « a uncino » : vale a dire una forma d'astuzia per provocare proteste ed osservazioni lusinghiere; è una bassezza talmente spregevole che non mette neppure il conto di perseguitarla, è abbastanza punita da un sorriso di compassione. Una forma più sottile e che può penetrare tutta la vita è quella che Sainte Beuve scopre in sé stesso quando scrive nei suoi Cahiers: « Io sono un ipocrita; ho l'apparenza di non interessarmi alla gloria mentre vi penso continuamente ». Quel pallido sole dei morti di cui parlava Balzac abbaglia molti vivi, ciò che non sarebbe un gran danno se questo luccichio non arrivasse a velare il Sole di giustizia. Ma aspirare alla gloria

28 IL FONDAMENTO SPIRITUALE: L'UMILTÀ

come al bene sovrano, ed assumere a questo scopo un atteggiamento di modesta indifferenza, è un doppio male di cui il secondo è senza dubbio il peggiore. Diderot lo qualifica con un'espressione paradossale ma piena di finezza: « La modestia è il contegno dell'orgoglio ».

Altra specie di falsa umiltà è quella di certi mistici, che si direbbero imitatori di Narciso; essa li inclina ad ammirare il... proprio nulla ed a farlo crescere sotto il loro sguardo, come la pianta cresce quando il sole la mira. Questo si chiama col suo vero nome « amor proprio ». Il fatto stesso che vi componete questo atteggiamento di umiltà prova che non siete umile; prendendo l'io per oggetto e indugiandovi in esso provate il vostro attaccamento. Dimenticatevi! Servitore di Dio, pensate a lui solo ed a ciò che è di Dio: il vostro nulla vi apparirà allora, ma senza trattenervi, evitando così quella specie di rigonfiamento proprio dell'orgoglio. Il sincero nulla dell'uomo umile non è altro che la dimora secreta e inconsciamente magnifica riservata a Colui che è.

L'Ecclesiastico segnala per 1' appunto come origine dell'orgoglio « l'apostasia da Dio »; l'orgoglio caccia Dio;

la falsa umiltà, anche se fa professione di amarlo, lascia fuori Dio e mette al suo posto l'io. Si possono avere delle « buone ragioni » che vorrebbero giustificare tale procedimento: le proprie qualità, le virtù personali, che vengono però così trasformate in vizi. Del resto l'orgoglio e la tal-^ sa umiltà si trovano in' tutti gli stati, non esigono che questa facile condizione: essere pieno di sé.

Che misera condizione è mai quella di chi si pasce delle compiacenti approvazioni e perfino di quelle lodi che sente di disprezzare; peggio ancora s'egli alimenta il suo orgoglio denigrandosi falsamente! L'umiltà sincera ha una dignità corrispondente benché professi di ignorarla prostrandosi dinanzi al Dio presente in lei; non onora al tempo stesso il tempio vivente pur riservando ali' Ospite divino tutto l'ossequio? Dio in me, io stesso in Dio, non è la stessa cosa? . ;;,,

Allora veramente l'umiltà trova il suo significato prò'

L' UMILTÀ' È VERITÀ' 29

fondo; essa consiste nel vedere Dio al primo posto collocandosi nell'equilibrio armonioso di Dio e delle cose create, del visibile e dell'invisibile; dimenticandosi si apre lasciandosi invadere da ciò che la supera, mentre sente che sarebbe troppo misera cosa essere soltanto se stessa!

II cittadino più nobile è colui che nell'ordinamento civile rimane al suo posto e non ne rivendica un altro:

la creatura più nobile, nell'universo divino, sarà dunque quella che rimane al suo posto in quest'ordine, annichi-lendosi spontaneamente, davanti a Colui che è tutto, in un'adorazione piena di riconoscenza.

La sola fierezza permessa a un uomo di nobili sentimenti è quella che appartiene a tutti gli uomini; ma senza rivendicarla, poiché essa non rivendica nulla; l'umiltà la contiene interamente. Colui che rivendica non merita nulla; al contrario chi si dimentica per dedicarsi a grandi cose fa sua la gloria di queste cose, giustificando così quelle belle parole di Chesterton: « L'umiltà è ciò che rinnova per noi lo splendore delle stelle ».

-••XI ::,^L'UMILTÀ' È VERITÀ'

II senso profondo dell'umiltà, si mostra più evidente quando la guardiamo alla luce della verità, verità del nostro spirito e verità corrispondente nelle cose.

L'umiltà è verità perché, sola, colloca l'uomo « al posto suo», in quel posto, fuori di ogni localizzazione, che è misura e grado nel pensiero creatore. La verità non trova forse la sua dimora in Colui che è la Verità stessa? e quello che siamo in Lui, noi e tutte le nostre cose, è ciò che siamo in realtà. Ora, l'uomo che si giudica così e che si giudica in questo modo dal punto di vista di Dio, dall'altezza di Dio, se è lecito esprimersi così, che cosa vede? Vede l'immenso irradiamento d'un essere che appartiene interamente alla sua Sorgente, distinto da' questa origina-

30 IL FONDAMENTO SPIRITUALE: L'UMILTÀ

ria pienezza solo da ciò che gli manca; che vive di essa e non possiede in sé alcuna consistenza al di fuori di essa, di modo che nessuna natura creata ha il diritto di altri-1 buirsi cosa alcuna all'infuori delle sue manchevolezze e,;

per quel che riguarda la creatura ragionevole, del peccato,

Ecco quanto vede l'umiltà. L'essere umile è colui che;, sa quello che è una creatura e una creatura peccatrice perché sa chi è Dio, il Dio creatore, il Dio santo. Perciò ripudiando le illusioni pericolose e le apparenze lusinghiere;', che ci ingannano, egli si annienta e adora, si esamina e.;;

in questo irradiamento puro e luminoso, non trova in sé' che motivo di abbassamento.

Se mi attribuisco qualche cosa di buono vuoi dire che questo qualche cosa è mio e che io sono buono, mentre il Maestro ha detto « Uno solo è buono: Dio », mentre tutto viene da Lui e appartiene a Lui.

Ogni successo nel campo dello spirito suppone una ispirazione, ed ogni opera esteriore una collaborazione proveniente da quella fonte; ogni bene da noi concepito od eseguito è sempre Dio che muove incontro a Dio. Noi vi abbiamo certamente la nostra parte, ma non siamo mai soli, ed anche quando diamo il libero consenso dell'anima nostra non possiamo mai farlo a titolo di propriètari. Una cosa è assolutamente nostra: il male; poiché Dio non può mescolarsi a questo nulla allo stesso modo che non può scindersi dall'essere. Non c'è però in questo fatto nulla di che vantarsi!

Innalzarci dinanzi a Dio, riveste il carattere d'una profanazione e d'una bestemmia; innalzarci di fronte al prossimo e mendicare le sue lodi è ingannare e desiderare di essere ingannati, ed è ancora, indirettamente, rubare a Dio. S. Vincenzo de' Paoli dice: « Dio ama tanto l'umiltà solo perché ama la verità, essendo la Verità stessa ». Tutto questo, d'altra parte, ci diminuisce soltanto nella nostra errata valutazione. Come è vero che l'orgoglio il quale vuoi essere un dio al posto di Dio, non è che un mostro, così l'umiltà annientandosi in Dio, in un certo senso si immedesima con Lui, si sforza di ridursi al

L'UMILTÀ GRANDIOSA 31

nulla in sé stessa perché Dio possa ingrandirsi, quasi per una sostituzione di persona.

« Ogni creatura di Dio — dice Jouhandeau — ha il diritto di essere regale ». È verissimo, purché si comprenda esattamente il senso di tale sovranità: essa consiste nel regno di Dio in noi; escluso Dio non esiste più ne regno ne corona.

Possiamo dire che l'orgoglio è in certo modo un disordine infinito, essendo l'affermazione di sé stesso a danno dell'infinito, prescindendo dalla fonte di ogni realtà e dall'unica realtà indipendente.

Come scoprire in questo il minimo atomo di verità?

Al contrario, morendo a noi stessi e alla nostra superbia, apriamo gli occhi su Dio e sull'universo creato;

giudichiamo tutte le cose nel loro valore, e sappiamo come regolarci su noi e su tutto. Si può dire che l'umiltà contiene tutta una filosofia, anzi la filosofia, perché provando realmente ciò che siamo noi nell'infinito dell'essere, mostra e prova al tempo stesso ciò che è l'umanità, ciò che è la creatura. « Ogni uomo porta in sé la forma intiera dell' umana condizione », dice Montaigne, e allo stesso modo ogni essere porta la forma dell'essere.

Se sono umile, vivo della creazione così com'è, senza spostamenti, nel soffio stesso dello Spirito creatore, nella sapienza del Verbo e nel cuore del Padre.

Non si può essere umile se non ci si paragona a qualcosa di grande; non si può essere umili quanto fa d'uopo, umili ne! senso completo della parola, se non ci si paragona alla grandezza assoluta, ali' Infinito. Soltanto allóra siamo nella verità.

XII •tì, UMILTÀ' GRANDIOSA

Non bisogna stancarsi di proclamare la grandezza dell'umiltà; essa deve uscire vendicata di tanto odioso e sciocco disprezzo, che non c'è da temere di oltrepassare

32 IL .FONDAMENTO SPIRITUALE ;.; L'UMILTÀ

la misura. Ma è poi difficile il convincersi che noi siamo tanto più grandi in Dio quanto più ci sentiamo piccoli in noi stessi; che in Dio siamo Dio e in noi siamo il nulla? Il sentimento di questo nulla a cui ci riduciamo se ci stacchiamo dall'amorosa dipendenza da Dio, e di questo tutto nell'amore di Dio, ecco quella che chiamo l'umiltà grandiosa.

Soren Kierkegaard ha scritto: « Essere vestiti come» il giglio del campo è magnifico; essere il sovrano dominatore (l'uomo) è più glorioso ancora, ma la gloria suprema è di sentirsi un nulla, adorando ». Sì, perché adorando regnarne sull'essere con Dio e ci assomigliamo a Lui; regnando invece nel mondo senza Dio conserviamo la somiglianzà col mondo, così come il ramo principale di un albero, è albero, e il primo cittadino della Francia un francese. Che giova allora atteggiarci a sovrani? Si regna unicamente sul niente, essendo un niente.

Malgrado l'apparenza e senza paradosso si può affermare che l'umiltà è il fondamento della gloria; che essa sola fa veramente grandi i grandi ed esalta i piccoli. « Deus humilium celsitudo », canta la liturgia, « o Dio altezza de-s-li umili... ». I geni come i santi lo hanno riconosciuto. Quando Newton si paragona a un fanciullo che giucca con i ciottoli e le conchiglie davanti all'oceano della verità, non da forse una nuova dimensione a quello spirito, che aveva saputo misurare il peso degli astri? Nel momento in cui s'annienta davanti a Dio l'essere umile si accomuna a Lui e vede indietreggiare dietro di sé l'universo immenso, mentre quando si erge sotto le stelle, deve sospettare la loro pietà e convenire di meritarla.

Ci fu un tempo in cui sul globo, senza continenti e' senza isole, unico sovrano era il mare: dov'erano allora gli uomini? Dove saranno dopo un evo altrettanto lungo? Fra queste due mute immensità, essi si agitano e si esaltano. O vanità!

Per essere esatti, l'umile non è colui che si abbassa, ma colui che ingrandisce Dio; senza di ciò, l'abbassamento diventerebbe un'aberrazione capace di condurci all'odio

L'UMILTÀ GRANDIOSA SS

verso noi stessi. Ripudiarne questa umiltà che si avvicina molto all'orgoglio strano dei materialisti i quali si gloriano persino di disprezzare sé stessi e oscillano fra queste due valutazioni dell'uomo: una bestia o un Dio,

La vera umiltà devolve il sentimento del proprio valóre personale nel sentimento dell'infinito; essa comunica all'uomo la capacita di sentirsi al proprio posto, nell'immenso; lo pone al centro del mondo, centro e mondo egli stesso poiché tutto si dispone attorno al suo spirito, e si include nello spirito, nel cuore dello Spirito supremo.

« È un nulla (l'uomo) ed è un miracolo... E' un Dio, un nulla circondato da Dio, mendico di Dio, capace di Dio, e, se vuole, pieno di Dio ». Queste parole di Bérull® equivalgono a quelle di Taulero il quale afferma con tranquilla profondità: « Se Dio trovasse un uomo veramente umile, certamente gli rivelerebbe la sua grandezza ».

Gran cosa, in realtà, raggiungere il vero equilibrio nei nostri rapporti con Dio e con tutte le cose, uguagliarci in certo modo a quest'ordine perfetto, riflettendolo nel nostro pensiero e attraverso la confessione del cuore!

Si può dire senza tema di esagerare, anzi a pieno rigor di termini, che la grandezza dell'anima non ha altri limiti che quelli della sua umiltà, quindi se togliete l'umiltà, sparirà ogni valore; supponetela presente ed ecco superato ogni limite, poiché Dio si unisce ad essa con tutto il suo essere.

La gloria di Dio, a cui l'umanità si consacra, non solo non distrugge la gloria dell'individuo, ma la crea unendolo a sé. Quanto più io mi convinco di essere nulla senza Dio, tanto maggiormente Dio risplende in me ove egli è me stesso, e tanto più io risplendo ih Lui dove io sono Lui. Allora l'anima vive per sé stessa in Dio ed è totalmente nulla e totalmente Dio.

Indubbiamente, nel senso umano dell'espressione, un grande pensiero o una grande azione non sono necessariamente umili, come un pensiero o un'azione umile non sono sempre necessariamente grandi, ma la forma più autentica di' queste due qualità le identifica. Siamo vera-

34 IL FONDAMENTO SPIRITUALE: L'UMILTÀ

mente grandi solo quando riconosciamo gli stretti limiti della personalità e la sua subordinazione all'ordine del mondo; siamo veramente umili se ci si apre all'invasion'e di quei valori universali che ci assediano da ogni parte, rendendoci veramente grandi.

XIII LE AUDACIE DELL'UMILTÀ'

Sarebbe facile credere che umiltà e timidezza vadano congiunte e che sia facile eliminare un uomo che fa professione di non contare sulle sue sole forze. Ma la verità sta esattamente nell'opposto: « La timidezza è una malattia dell'orgoglio », dice M. Francis Chevassue. L'uomo :

umile non ha paura di nulla, poiché la paura è una ecces-:

siva preoccupazione di sé; avendo rigettato Fio come trascurabile e degno di disprezzo, davanti a chi temere? Am-brogio in presenza di Teodosio, il Crisostomo davanti a Eudosia, o Tommaso Moro di fronte a Enrico Vili sono esemplari sublimi di umiltà magnanima.

Chi ha piegato la testa dinanzi a Dio può, meglio di chiunque altro, rialzarla fieramente al di sopra del mondo, degli avvenimenti, dei pericoli, degli ostacoli d'ogni genere. Quando la realtà tangibile mi intimidisce non devo far altro che questo gesto intcriore per intimidirla ai mia volta.

Abbiamo accettato la definizione che Nietzsche da dell'eroismo: uno stato d'animo per cui il soggetto non conta più nulla; se questa definizione è esatta si può dire che l'umile è sempre un eroe, perché in lui tutto supera l'interesse che egli ha per il suo io. È disposto ad essere ostacolato, incompreso, calunniato e di fatto così avviene quando ci si colloca decisamente .fuori delia corrente del mondo, ma egli (l'umile) non se ne cura, nulla lo farà indietreggiare: una volta stabilite le sue risoluzioni, le manterrà a qualunque costo poiché questa valutazione del co-

LE;AUDACIE DELL'UMILTÀ ; 3S

sto gli sfugge; nulla costa a chi non si preoccupa di calcolare. E quanto agli avversari, dove sono le loro armi? Che potranno fare contro un uomo il quale è venuto una volta per tutte alla determinazione di non esistere?

Fiatone scrive nel Fedro: « Ogni anima che ha potuto mettersi al seguito di un dio deve essere protetta da quaisiasi male fino ad un altro ritorno. Ma se quest'anima è capace di accompagnar sempre il suo dio, sarà anche per sempre al riparo da ogni attacco ». Non è questo il caso dell'umiltà? Che sciocchezza pensare che vicino a Dio ci si possa perdere d'animo, e che il fatto di avergli abbandonato tutto possa renderci meno coraggiosi e meno liberi! Più Dio agisce in noi, più noi siamo, più possiamo, e quanto più abbiamo il senso della potenza, tanto più aumenterà la nostra forza morale.

Andre Suarès ha detto: « L'orgoglio somiglia al coraggio come il dannato agli eletti ». L'eletto perduto in Dio, in Lui s'infiamma e si rassicura; il dannato ridotto a divorare sé stesso non ha trovato le condizioni del coraggio, ma quelle della disperazione.

L'umiltà che nulla teme, tutto osa per l'interesse che è venuto a sostituire quello della sua persona. Avendo aspirato Dio, direbbe S. Tommaso d' Aquino, essa lo esala; crederebbe di non avere una percezione esatta del vero e del bene se non si sentisse pronta a tutto per il loro trionfo. Nelle cose piccole come nelle grandi agirà col medesimo sentimento perché in ambo i casi è decisa ad arrivare sino in fondo; non chiederà nulla poiché a nulla, da importanza, e stima come migliore ricompensa la felicità di non averne alcuna.

Resterà pacifica e indifferente finché si tratterà di lei; \ o delle disprezzabili cose del mondo, ma se l'onore di Dio viene attaccato, allora si ergerà con una energia sorprendente; non vi aspettate che rimanga silenziosa dinanzi ad;

un bestemmiatore o che lasci campo libero ad un settario, Essa difende o, se necessario, attacca per prima, poiché ' l'assenza di interesse personale le crea naturalmente una specie di interesse universale e di responsabilità personale

36 IL FONDAMENTO SPIRITUALE: L'UMILTÀ

nei riguardi di ciò che più conta. «Tutto ciò ch'è nobile, è di sua natura calmo e sembra dormire, scrive Goethe, ma il suo opposto lo eccita e l'obbliga a mostrarsi ».

Inoltre l'umiltà non avendo ostacoli personali, ne lt" miti determinati da un'ambizione propria, ma avendo come unico obbiettivo l'ampiezza illimitata del bene, spingerà le sue audacie sempre più avanti; dimenticherà ciò che ha fatto per pensare al da t'arsi poiché la sua sinistra (come per la beneficenza) non sa ciò che fa la sua destra.

Ma soprattutto non tende ad « anchilosarsi », ad invecchiare prematuramente sottraendosi troppo presto agli inviti della grazia per risparmiarsi qualche noia, evita nell'azione tutti quei compromessi che potrebbero farla cadere in quello stato di schiavitù a. cui pensava Sainte-Beuve quando diceva: « La maggior parte degli uomini celebri muoiono in uno stato di prostituzione ». Infatti chiunque attende dall'esistenza un salario — piccola soddisfazione della vanità,-potere, ricchezze o comoda tranquillità — prostituisce il bene. Chi invece, ha rinunciato a sé ed a tutto in favore dell' Unico necessario tien duro sino alla fine; lo fa senza chiasso, senza paura, senza aco-•raggiamento; si contenta dell'opportunità senza pretendere d'essere rinomato ed applaudito, poiché il rumore e l'esteriorità non convengono davvero ad un'azione e ad una pazienza derivanti da sì alti motivi,

'•'.•'xi^. LE SPERANZE DELL' UMILTÀ'

La caratteristica dell'umiltà è di non esigere nulla poiché non valuta se stessa; sembra dunque un paradosso affermare ch'essa proprio nutre le speranze più vaste e fiduciose. Basterà intenderci sull'oggetto in cui le pone:

essa non aspira ai successi di questo mondo; la gloria del creatore o del vincitore, la fama dell'apostolo o del profeta, non hanno per essa, almeno col suo consenso, alcuna

LE SPERANZE'. DELL'UMILTÀ. • 37

attrattiva. Ed anche pel futuro, supponendo che possa sognare una posterità, non sa che farsi del nome, « quest'ultimo sospiro che resta delle cose », come dice Barbey d' Aurevilly. Malgrado la sua ardente aspirazione per il bene, giunge però fino a guardarsi dal desiderarlo con passione eccessiva, contentandosi di quanto la Provvidenza le affida e rimettendosi pienamente tra le sue mani per la distribuzione dei vari compiti. "

«Gli esseri smisurati e vani cadono in gravi disavventure », dice Sofocle. Questo, vale anche per il pio zelo;

tutto va misurato, ma col metro dell'eternità. Altra cosa tuttavia è la presunzione ed altra la fiducia: il nulla dell'umiltà costituisce la forza delle sue speranze; noi non siamo mai più ricchi e capaci di dare, come quando abbiamo le mani vuote. Chi più povero di Gesù in croce? La sua « imprudenza » aveva rovinato tutto; eppure è il momento in cui dice: « Tutto è compiuto », l'opera è ultimata, poiché egli giudica dal punto di vista dell'eternità.

Spiritualmente l'umiltà ci pone nello stesso caso: stabilendo l'uomo nel suo nulla gli fa trovare l'essere. Il nulla della creatura senza Dio è, in certo modo, l'antitesi di Dio: non si tocca uno dei due termini senza toccare anche l'altro. Se lo si raggiungesse, questo nirvana non avrebbe nulla a che fare con l'umiltà, ma sarebbe invece un vile ripiegamento su sé stesso e un orgoglio satanico.

Se nessuno di noi è grande, possono esserlo invece i nostri rapporti, specialmente nei riguardi di Dio. È precisamente il sentimento del nostro nulla che ci unisce al-F Essere primo con un legame indistruttibile, suscitando in noi le migliori speranze. L'essere tende verso l'essere;

il nulla grida verso Dio quasi con una disperazione infinita, ma in questa disperazione totale è contenuta, per virtù di Dio, la speranza invincibile. Che sarebbe al suo confronto la sensazione delle nostre risorse così limitate, di poteri sempre vacillanti, di possibilità esteriori necessariamente aleatorie? Con Dio abbiamo tutto; ma non arriviamo a capire questa verità finché non ci decidiamo a dimenticare noi stessi, rinunciando a computare i nostri

38 IL FONDAMENTO SPIRITUALE ; L'UMILTÀ

pretesi tesori, a pesare con la bilancia di precisione i nostri beni, le probabilità di riuscita, le provviste di vigore spirituale o fisico, le certezze dell'avvenire.

L'orgoglio ha un bei vantarsi di bastare a sé stesso, la sua pretesa poco gli giova; l'umiltà riconoscendo le su6( lacune, pone la prima condizione per lo sviluppo della libertà; per essa infatti le generosità divine non sono un oggetto d'ambizione, ma di culto: essendosi abbandonata totalmente, essa crede ed ama; chi potrà allora separare la speranza dalla fede e dall'amore?

C'illudiamo, a volte, di forzare Dio accaparrandoci^ orgogliosamente le risorse riservate alla sua provvidenza^, ma se vogliamo che ci venga in aiuto non ci è lecito di cominciare a defraudarlo. L'umiltà se ne guarda al punto ;

che si lascia togliere da Lui anche quel che non ha... vale' a dire consente che Egli aumenti il nulla di lei imponen";

dole l'umiliazione e la prova. Questo ancora dilata la sua speranza, poiché l'anima che si lamenta delle prove e delle esigenze di Dio, assomiglia all'uomo che di fronte ad un munifico benefattore, rifiuta di aprirgli largamente la sua casa ed i suoi forzieri.

Perché dunque l'essere umile non prova alcun bisogno di rinunciare alla sua piccolezza? Per il solo motivo, che egli si sente sicuro e grande nella sua unione a Dio., Chi viaggia su di un immenso piroscafo che lo conduce ^ alla meta desiderata non soffre di sentirsi così piccino nei suoi confronti, anzi ne gode: tale sproporzione lo esalta? Il nano conduce il gigante ed il mare si apre davanti ad;

essi per lasciarli-passare. Così è del destino per il cristia-;

no, così è di Dio stesso perché « Dio fa la volontà di coloro che lo temono », ci dice il salmo. :

Così pieno dell'orgoglio del mio io, che cosa diventerei se la gloria di Dio non colorasse la mia falsa gloria di qualche riflesso? e come, senza questo miraggio che mi nasconde la verità, potrei soffermarmi a guardar me stesso. Ma non ho più bisogno d'essere grande e forte, quando so che Dio è per me, che questo dono incomparabile cai

LA PACE DELL'UMILTÀ 39

viene proprio dalla mia rinuncia. Oh! come lascio volentieri il Tabor del tempo per guadagnarmi il paese della Trasfigurazione, i cui padiglioni durano in eterno!

XV ; LA PACE DELL'UMILTÀ'

Fra le molte cose che formano l'oggetto dei nostri desideri una ha il primo posto: la pace, una pace solida, ; imperturbabile e ;sicura, esteriore ed intima, ben difesa da ogni lato; mentre in realtà non vediamo che pericolo ed inquietudine. Dimentichiamo che la pace va conquistata e che ogni conquista esige il dono eroico di sé.

L'umiltà vi porta il suo contributo e non piccolo. Se la pace è stata definita: « la tranquillità nell'ordine », non dimentichiamo quante volte già ' abbiamo affermato che l'umiltà è ordine. Chi sa mettersi al proprio posto secondo l'ordine divino, sta più al sicuro che se fosse in grado di scegliere da sé tra tutti i beni di questo e dell'altro mondo. È al centro della realtà e la possiede, per dir così, tutta intera.

Ciò che è stato innalzato si sente sicuro per la propria grandezza, ma ciò che è innalzato può rimanere sta" .bile soltanto per l'umiltà, poiché sappiamo che ogn'i essere trova la sua stabilità quando mantiene il proprio rango ed i giusti rapporti con gli altri esseri e soprattutto con Dio; ciò non è altro che l'umiltà.

Guardata così, l'immensità della creazione e le mille incertezze del nostro destino non possono farci paura; in mare il navigante che sa di aver sotto di sé parecchi chilometri d'acqua non è meno tranquillo di colui che s'immerge in una minuscola piscina: così l'uomo nel vasto e temibile oceano delle cose, vive in pace quando sa di essere sotto il ciclo e di navigare secondo la sua legge.

C'è poi il pericolo intcriore; ma un'umiltà sincera l'ha già previsto, e l'uomo che la pratica non può essere

40 IL FONDAMENTO SPIRITUALE: L'UMILTÀ

esaltato ne fuorviato da alcuna situazione, è superiore a tutte; ne può essere oppresso dalla tristezza e dalle umiliazioni: si è posto al disotto di tutte.

In quest'ultimo pericolo è la persuasione del suo nulla che lo mette al riparo da qualunque sorpresa; nell'altro è la grandezza di Colui a cui è unito. L'umiliazione non potrebbe infatti stupire l'umiltà: essa ne vive, o meglio ;

l'ignora, perché dinanzi a Dio trova tutto perfettamente giusto. Che se dal punto di vista umano viene colpita da un abbassamento ingiusto, le basta uno sguardo verso Dio^ per rientrare nella verità. « Quando un uomo avanza senza desideri, senza cupidigie, senza orgoglio — dice il Bha-gavad-Gìta — cammina verso la pace. È questa la sosta divina; l'anima che l'ha raggiunta non conosce più il turbamento e colui che persevera in essa sino all'ultimo giorno, si spegnerà in Dio ».

Costui inoltre contribuirebbe alla pace tra gli uomini assai più e meglio degli esperti internazionali o dei pacifisti; in realtà ogni rinuncia giova alla pace, poiché i conflitti nascono in genere quando c'è qualche cosa da dividere, e l'umiltà come noi la concepiamo, le giova più di tutto, visto che l'orgoglio entra esso pure ih. gioco mesco-':

landosi oscuramente a tutti gli altri conflitti. ; ;

L'umiltà pacifica e disarma, fa dimenticare ogni rao-i, core anziché risvegliarlo, attutisce il chiasso delle nostre dispute; è infine quella pioggerella di cui il proverbio die® che scaccia il vento. ;

Una cosa sola potrebbe turbare l'uw'ità in sé stessa, e cioè quella fame e sete di giustizia raccomandate nel Discorso della montagna e sempre insoddisfatte quaggiù. Ma no, non può esser questo un motivo di turbamento. La fame e la sete del corpo rappresentano una debolezza e una inquietudine, inchinano infatti verso la morte; ma la fame e la sete di giustizia sono la stessa salute poiché trovano in sé stesse il proprio appagamento. Ce lo afferma il Maestro quando dice: « Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia perché saranno saziati ». E tale promessa

L'UMILTÀ DEI SANTI 4Ì.

non sarà adempiuta soltanto nell'altra vita, ma proprio in ^questa, sotto gli auspici della speranza. ,! Di che ci preoccupiamo, dunque? Con Dio, dopo aver xtrinnegato noi stessi, appoggiandoci a Lui, le nostre preoc. ;;cupazioni non sarebbero che ignoranza, oblio, o bestemmia. Più esattamente, non sarebbero forse una vera infedeltà?

XVI L'UMILTÀ' DEI SANTI

L'umiltà dei santi è precisamente quella che abbiamo esaltata fin qui: senza di che" la nostra lode sarebbe stata ingannatrice e questi pretesi santi non sarebbero santi veri. Ma nella pratica l'umiltà di questi eroi dello spirito assume dei caratteri che sembrano sorprendenti ed è necessario esaminarli per cogliervi interamente, nella sua vera luce, l'atteggiamento descritto.

I santi si credono gli ultimi degli uomini, si dichiarano i peggiori peccatori, indegni degli sguardi del ciclo e della terra, anzi non trovano riposo finché quanti li circondano non ne sono convinti. Certamente nel caso loro c'è l'apparenza di quella che in medicina si chiama l'auto-accusa, benché la natura ed i motivi ne siano ben diversi.

In senso assoluto, hanno ragione di sentirsi grandi peccatori: il peccato non è lontano da loro, a volte è anzi vicino, lo rasentano spesso; il cielo invece è a distanza infinita.

' I santi sono i cavalieri dell'ideale, e questo li domina sempre più a misura che la loro virtù si accresce, in maniera che più se ne avvicinano e più se ne sentono lontani, poiché non misurano la prossimità, mentre si rendono ansiosamente conto della distanza. Ma hanno una così alta stima di quello che bisognerebbe fare, che disprezzano quanto hanno già fatto. Aspirando a superare sé stessi è naturale che si trovino sempre al di qua de]

42 IL FONDAMENTO SPIRITUALE: L'UMILTÀ

loro ideale; desiderando l'impossibile, si accusano di non realizzare il possibile.

Conviene inoltre notare che l'orgoglio e l'umiltà una volta stabiliti nell'anima sono per loro essenza illimitati poiché si tratta, in ambo i casi, dell'assoluto: Dio o Satana, i due poli dell'eterna città, di qui la necessità della scelta e quella specie di frenesia con cui i santi per fuggire l'assoluto satanico, si precipitano nel suo contrario,

« Non c'è alcun pericolo, dice Fautore dell' Imitazione, nel mettersi al di sotto di tutti; c'è invece pericolo gravissimo nel mettersi al di sopra fosse anche di uno solo ». Si sente il sacro terrore di queste anime; se accade che vengano loro malgrado elevate a qualche impiego d'importanza ripetono col medesimo autore: « Nessuno sale senza pericolo se non sa abbassarsi volentieri; nessuno senza pericolo comanda se non sa godere dell'obbedienza ». Shakespeare stesso rileva questo pericolo quando fa dire a uno dei personaggi del Trailo e Cressida: « Quando ci si loda con le parole e non con le opere, le lodi divorano le opere ».

I santi vogliono certamente compiere azioni degne di lode, ma non si arrischiano mai a lodarle, ne desiderano che altri lo faccia per tema che ne vengano distrutte.

L'ultima insidia in cui possiamo cadere nella lotta contro le passioni è il gloriarci d'averle vinte. Dirò di più: l'ultimo inganno nella lotta contro l'orgoglio, è proprio l'inorgoglirsi d'averlo superato. Oh, quant'è sottile l'orgoglio, e come hanno ragione i santi di cercare d'estirparlo fino alle ultime radici! Beethoven così ammoniva sé stesso: « Se vuoi ostentare dei miracoli, comincia col compierli ». Nobili parole, senza dubbio, ben lontane però dal soddisfare un santo: i santi fanno miracoli e non li svelano; mostrano invece i loro difetti o quelli che credono tali; creano a sé stessi abbassamenti fittizi quale arma difensiva contro ogni grandezza illusoria.

L'umiliazione è la loro compagna preferita perché vedono in essa l'antidoto della presunzione e della superbia. Ancora: poiché il nulla della creatura è come ranti-

L'UMILTÀ DEI SANTI 43

tesi di Dio, sprofondandosi così nell'abisso del proprio nulla sperano di arrivare « per le umiliazioni alle ispirazioni » come dice Pascal.

E poi, in fine dei conti, la verità esiste: noi la dimentichiamo, ma i santi l'hanno sempre presente. Considerato in rapporto agli altri o a me stesso io esisto, ma in rapporto a Dio non esisto. Guardando ciò che gli altri sono a contatto di Dio, in Dio, nella sua luce, vedo che non valgo nulla più di loro; anzi sono l'ultimo di tutti e non poso preferirmi ad alcuno, poiché se in qualche cosa li supero, anche questo mi vien da Dio, quindi le mie pretese svaniscono e sono obbligato ad arrendermi.

Si potrà obbiettare che gli altri sono nelle stesse con. dizioni: verissimo, e però devono avere lo stesso atteggiamento, ma questo riguarda loro, non dispensa me, e fa sì che tutti quanti, partecipando alla stessa infermità, proprio per il sentimento di questa quasi nullità, ci sentiamo fratelli. « Stimatevi con ogni umiltà superiori gli uni agi' altri », insegna S. Paolo.

Non si vedrà mai un santo seguire la tendenza, già denunziata da Plinio il Giovane, che consiste nell'esten-dere la propria gloria anziché approfondirla; no, essi approfondiscono sempre non la propria gloria, ma piuttosto ciò che, loro malgrado, la giustifica, fino al giorno in cui apparirà al di fuori.

Poiché dovrà risplendere, malgrado i loro sforzi diretti ad impedirlo. Esattamente in proporzione di ciò che meditano contro sé stessi. Dio risplende in loro: poiché Egli riempie l'anima che s'è vuotata di sé rendendosi così pienamente disposta all'invasione dell'immenso. Il firmamento, per quanto illimitato, può esser colto tutto intero dal nostro sguardo e i suoi vasti orizzonti si riducono ad un solo punto prima di dilatarsi negli spazi misteriosi dell'anima nostra; così Dio dimora nel cuore dei santi e può dimorare nel nostro.

Quando ciò si realizza ne segue un irradiamento al di fuori di questo Dio intcriore, una fioritura spirituale di eui l'anima, per quanto non voglia attribuirsi alcun me-

44 IL FONDAMENTO SPIRITUALE : L'UMILTÀ

rito, è pur sempre la causa seconda. Un giorno ne sarà glorificata se così Dio vorrà; per ora bisogna mantenere i! segreto in vista d'una fioritura più abbondante. « Essere magnifico senza pensare a sé, dice Abel Bonnard, non è ciò che si chiama fiorire? ».

XVII

IL CORONAMENTO SPIRITUALE : LA CARITÀ'

L'umiltà era un fondanwnto:. ecco il, fastigio. L'umiltà preparava la casa: ecco l'ospite. Santa Caterina da Siena, in una similitudine efficace, si raffigura la vita spirituale come una sfera destinata ad un continuo sviluppo e di cui queste due virtù sarebbero i poli. Più la sfera cresce, più il polo inferiore discende e quello superiore saie; così Sa carità aumenta e s'innalza, a misura che il cuore umile si abbassa.

L'umiltà preparando così l'amore, fonda in. noi la pienezza del divino sul rinnegamento del satanico; rim-mortale si sostituisce al mortale, l'eternità riassorbe in sé il tempo.

È chiaro che ambedue queste virtù, benché in senso contrario, meritano una supremazia particolare. La carità è prima in dignità e deve conservare il primo posto nelle nostre intenzioni; l'umiltà, sarà il punto di partenza e la condizione permanente d'ogni realizzazione. Ecco come lo spiega Ruysbroeck l'Ammirabile in una lettera a Margherita van Meerbeke: « Soprattutto cercate Dio e amatelo, inoltre scegliete l'ultimo posto al fine di salire in alto ».

Volgerci verso Dio per amarlo e riconoscere in Lui

46 IL CORONAMENTO SPIRITUALE : LA CARITÀ.

il nostro tutto, volgerci verso noi stessi per disprezzarsi e rinnegarsi in ciò che non è comunicazione e vocazione divina: ecco il doppio elemento d'ogni vita spirituale, sincera ed attiva» È come nella respirazione: si aspira un'aria vivificante, e si emettono i detriti e le tossine; la vita è così uno scambio perpetuo fra il vivente ed un mezzo nutritivo che espelle, penetrando in lui, quanto gli è contrario.

La superiorità della carità risplende chiarissima, tanto più che essa proprio crea l'umiltà, dando così a se stessa la propria base.

Per l'umiltà dimentichiamo noi stessi, ma non ci si dimentica se non per amore — si potrebbe forse consentire al vuoto senza aspirare a nient' altro? — È dunque per amore che si diventa umili dinanzi a Dio e ci si piega all'ordine. Possiamo dire che c'è una reciprocità come in tutte le azioni ci cliché di cui la vita è il tipo; ma nelle azioni di questo genere v'è sempre un qualche cosa che le inizia e nel caso nostro è l'amore. E non è questo affatto naturale? Tutto il Vangelo che cosa è in fondo se non la « buona novella » dell'amore di Dio per gli uomini, e insieme l'invito agli uomini di amare Dio? Tale ? la carità nel suo doppio oggetto che ne forma uno solo;;.. tale l'essenza del cristianesimo. La legge dell'amore rias- ^;

suine tutta la nostra morale; il resto, il dettaglio dei pre—' eetti è solo a servizio e in difesa dell'amore. :

Ecco dunque la carità elevata non solo a regina ma;

a madre delle virtù; le esige e le fa nascere; le nutre e;;);

le guida; le stimola e le dirige verso il loro fine ove essa;

regna più che mai, poiché questo fine è proprio la conoscenza amorosa nella gioia, nella pace. , :

La conoscenza amorosa di Dio ha fin d'ora valore di vita eterna essendo essa stessa, come ha insegnato il Mae-' stro, l'essenza della vita eterna, ma occorre svilupparla e difenderla nel tempo; proprio a tal fine le discese in trincea e i combattimenti per la virtù, di cui l'umiltà è il principio.

È chiaro che un tale,; complesso, superando l'uomo

LA CARITÀ MADRE DELLE VIRTÙ' 47

nella concezione e nella realizzazione,, suppone un intervento divino e soprattutto una parola divina: tutto si unifica nell'amore e l'amore è tutto, ma esso conosce il suo principio che è la fede e presente la sua fine che è la pace beata; esso stesso anima, la fede e impregna la pace; ma ciò non toglie che sia preceduto e seguito dall'uno e dall'altra. All'origine del suo mistero vi è una comunicazione, alla fine un riposo,

XVIII LA CARITÀ' MADRE DELLE VIRTIP

Virtù significa forza e a questo riguardo, la virtù cristiana porta bene il suo nome, poiché non soltanto è una forza per sé stessa, ma nella sua perfezione è forza universale: per essa l'obbedienza dell'uomo fa sua la potenza di Dio.

Nel vero senso della parola, la virtù non è un modo d'agire, ma piuttosto un principio intcriore d'azione, una buona disposizione acquistata per abitudine o per grazia, il risultato di una educazione o dell'azione intima dello Spirito. Considerando la virtù sotto questo aspetto si tratta ora di stabilire la struttura dell'anima per regolarne i moti. È in questo senso che Novalis ha detto; « Un carattere è una volontà completamente coltivata ».

Per un cristiano che concepisca la vita intcriore unicamente sotto il regime della grazia, la virtù non può consistere principalmente a coltivarsi ma piuttosto a lasciarsi invadere da quella corrente spirituale che Gesù ha provocato nel mondo. Cesellare la propria anima come un gingillo artistico, o scalpellarla con grandi colpi alla guisa del superuomo, peggio ancora irrigidirla alla maniera degli stoici non servirebbe a nulla per la vita eterna; mentre per noi, fin da ora, la vita eterna è la sola cosa importante. Non si tratta di rinunciare al tempo, ma di impregnarlo di questo riflesso di eternità, quindi

48 IL CORONAMENTO SPIRITUALE; LA CARITÀ

per noi cristiani essere virtuosi non. consiste affatto nel lavorarci con uno sforzo solitario, ma nel? aprirci di fron- , tè al cielo. '' • •• . \-\

Perché tutto ha principio dalla nostra unione con ;

Dio; è Lui che prende l'iniziativa dei nostri rapporti, mentre l'anima offre ia sua fedele cooperaz.ione. Unione ;

a Dio e amore sono la stessa cosa, poiché solo l'amore ha il potere di unire gli esseri, e perciò nel linguaggio cristiano parliamo indifferentemente di ordine soprannaturale e di ordine di carità,, di legge di grazia e di Segg^ ;

di amore. ,

Possiamo distinguere qui un triplice amore in cui $ racchiuso tutto il meccanismo della vita comune proposta da Dio all'uomo. Vi è un amore che eccede la nostra capacità e che procede da Dio a noi: è lo Spirito eterno che Dio ci comunica con la sua grazia; vi è un amore al livello nostro che va da noi a Dio in forza della grazia;

infine v'è un amore che scende da noi per diffondersi su tutti gli esseri. La carità è tutto questo: è V amore di Dio in noi e la buona volontà nostra che lo accoglie per farlo agire nell'intimo e per diffonderlo; è tra Dio, noi e i nostri fratelli, un solo Spirito d'amore. È perciò evidente che le virtù dell'uomo elevato allo stato soprannaturale non possono avere altra origine.

Per fare il bene ed avanzare verso la vita eterna, per aver dentro di noi i mezzi proporzionati allo sforzo, oc- ' corre che lo Spirito di Dio consumi, per dir così, il nostro; per lo meno lo elevi. Io animi in modo che uniti a Dio con l'intimo dell'anima e con tutte le nostre facoltà, siamo in grado di conformarci ai divini voleri e di realizzare quei fini generosi che prevede per tutti la provvidenza del Padre celeste.

Chiunque è nella carità, è nella stessa misura puro e perfetto. Chi è puro e perfetto è necessariamente nella identica proporzione animato dalla carità. Per il cristiano, carità e virtù vengono in fondo a fare una cosa sola; ci si da a Dio e ci si apre alla sua azione coll'agire o col-l'astenersi, col soffrire o col godere, in conformità all'or-'

LA? CARITÀ MADRE DELLE VIRTÙ' 49

dine provvidenziale, secondo il quale Dio a sua volta si dona. Così l'amore determina la santità della vita, si manifesta con la santità della vita e la santità della vita ; accresce l'amore.

Quanto alle diverse virtù che compongono la nostra armonia inferiore, quella che chiamavamo poco fa la struttura delle anime, esse risultano dall'inclinazione dell'a-imore che segue la sua tendenza verso tutte le direzioni propostegli dalla vita. Vita intcriore e vita esteriore hanno delle esigenze alle quali l'amore deve soddisfare, dei pericoli da evitare; è necessario quindi che a questo fine abbia i suoi utensili. In fondo si tratta però sempre dell'amore. Che Dio sia amato in tutto, e che in tutto trionfi o risalti l'amore di Dio: è l'essenza della vita morale cristiana e non ve n'è altra. Comprende tutto e vi è contenute tutto a tal punto che nessuna virtù può sussistere da sola, separata da tutte le altre; poiché se facciamo alcune azioni per virtù, vale a dire per amore del bene •— cristianamente per motivo di carità — agiremo egualmente sempre e dappertutto per un motivo che resta immutato, acquistando perciò tutte le virtù. Se così non fosse, noi agiremmo per un motivo d'egoismo, d'orgoglio personale o estraneo, ma non per virtù. « Chi possiede una virtù, dice San Francesco, e non ne ferisce nessun'altra, le possiede tutte. Chi ne ferisce una, non ne possiede nessuna. e le ferisce tutte ». Tale è il prodigio: al di sopra delle virtù che sono molteplici, varie nella forma, complesse e" a volte anche ardite nell'applicazione, vi è l'unità Iella semplice adesione a Dio; vi è l'amore reciproco per cui Dio dispensa quell'influsso di grazia che si espande in virtù, e in cambio riceve, al di là d'ogni virtù e d'ogni grazia, l'anima nella sua gioia e nel suo riposo.

50 IL CORONAMENTO SPIRITUALE : LA CARITÀ

XIX -. . . •

LA CARITÀ' MADRE DELLE VIRTOB^ RELIGIONE

È inutile ripetere per ogni virtù quanto abbiamo detto di tutte, ma non sarà senza interesse percorrere breve-. mente i loro gruppi principali. _ ,

In primo luogo abbiamo le virtù religiose, cioè fa devozione e lo spirito di preghiera che sono intcriori, ma ispirano al di fuori gli atti d'adorazione, i pii sacrifici," l'uso delle cose sacre che onorano Dio e ci consacrano al suo servizio.

Per quanto si voglia strapazzare la parola «devozione » non si potrà mai distruggerne la grandezza; ci ricorda quegli eroi dell'antichità — come i Decii in Tito Livio — che si « votavano » alla morte per la salvezza del popolo. Per noi la devozione ha, in genere, una nota meno tragica, ma più vasta ed elevata: essa ci annienta in ispirilo per dare a Dio l'essere che gli appartiene e che è tutto l'essere, compreso il nostro; riconosciamo ciò che Egli è e che noi non siamo, ciò che noi siamo mediante Lui e che senza Lui non saremmo. Noi Lo esaltiamo per mezzo di quest'infinita distruzione che operiamo sotto il suo sguardo, per la sua maggior gloria che ci è cara e che facciamo nostra. Così negli ultimi riflessi d'un tramonto la terra si lascia invadere dalla notte perché il ciclo si infiammi; e di questa fiamma che le palpita attorno fa il suo ornamento più bello, perciò lo esalta e non se ne distacca. E tu, o cristiano, quando ti perdi in Dio, ti assicuri, allo stesso modo, la divinizzazione del tuo essere;

il beato nulla, il vuoto meraviglioso attira a tè il Tutto, tanto meglio quanto meno tu tè ne preoccupi.

Agli occhi del teologo, la virtù di religione ha dunque per scopo d'assicurare il pronto compimento di ciò che riguarda il servizio d'onore dovuto a Dio, il che, egli aggiunge, procede dall'amore poiché l'amore rende solleciti al servizio dell'amato, come, d'altra parte, il

LA CARITÀ MADRE DELLE VIRTÙ' DI RELIGIONE SI

servizio alimenta e riscalda l'amore. Per ciò S. Tommaso d' Aquino chiama il culto una « protesta d'amore » osservando che si è sempre zelanti dell'onore di colui che si ama, che l'amore provoca I'« estasi », vale a dire la proiezione dell'anima nel suo oggetto; che a tale oggetto si vuoi bene il che, siccome Dio in sé stesso non ha alcun bisogno, significa una volontà che Dio sia Dio, che lo sia ovunque si estende la creazione e si organizza il suo regno. Di modo che se la virtù di religione non si confonde con la carità, la tocca però col suo culmino come una vetta sfiora la nuvola, come l'mtelletto nel suo più alto grado sfiora l'angelo.

Tuttavia nella Somma Teologica la virtù di religione è collegata con la giustizia: in realtà è giustizia, se-nonché con Dio, come tra gli uomini, la giustizia è appena il minimo dell'amore, il primo vincolo; è un effetto della nostra società — diciamo meglio della nostra amicizia — con Colui che ci offrì la sua alleanza. Ma noi non vogliamo praticare con Dio quella strana politica di certi amici che si credono dispensati dall'usare ogni riguardo, trattandosi di coloro pei quali, pensano, non ci si deve mettere in soggezione.

Potremmo accettare la lezione che ci viene data da quel costruttore ibseniano che costruisce prima le chiese, poi le case per gli uomini e in fine... i castelli in aria! Questi ultimi non ci mancano, del che. Dio mio!, non dobbiamo lamentarci, poiché l'utopia, come il miraggio, non è che la verità spostata e può istruire. Anche le case per gli uomini abbondano giustamente, soltanto le si vorrebbero più disgiunte dalla melma e più stabili.

Ma della chiesa, di questo palladio delle case rag-gruppate, questo campione di castello ideale, chi se ne preoccupa, chi ci si appassiona? Alcuni la rinnegano come indegna di loro e sono piuttosto essi che non ne sono degni; cercano belle relazioni, amicizie utili e gloriose, ma dove le trovano? « La religione, scrive Novalis, è la morale elevata alla sua suprema dignità ». Perché Fuo-mo morale contemporaneo ne dimentica gli atti?

52 IL CORONAMENTO SPIRITUALE: LA CARITÀ

< Proprio all'opposto di questa negligenza è il concetto che Bossuet ha della devozione; egli la descrive come un totale « abbandono ». Non .abbandono passivo, ma ardente e attivo al massimo, poiché quando ci si offre si offrono insieme tutte le proprie potenze attive. E questa dedizione dell'anima è tutta impregnata dalla carità, poi-che la carità ne è l'ispiratrice; sempre, quanto v'ha di meglio nell'ardore ispirato dall'alto gli deriva da quanto ha saputo attingere alla sua sorgente.

La carità ispiratrice della giustizia religiosa, della:

devozione, del pio abbandono, non se ne allontana più.

Con questa affermazione non facciamo alcun torto al primato dell'amore. L'amore crea Punita, la religione riconosce e consacra la subordinazione, ma si tratta della subordinazione a Colui che è al tempo stesso il principio sovrano e il massimo bene oggetto dell'amore. Può la religione ignorarlo e fare così astrazione da ciò che necessariamente predomina? L'amore avvolge la religione;

la religione per sé stessa non implica l'amore. Vi sono infatti le religioni del terrore. La nostra è figlia, compagna e incitatrice magnifica dell'amore.

Perciò le nostre virtù religiose sono un caso particolare di quel ritorno a Dio che l'antichità intera non ha saputo che abbozzare e che il Vangelo soltanto porta a compimento. Tutto viene dall'amore e tutto vi ritorna mediante atti appropriati, fra cui gli atti di religione prendono il primo posto. Come usciamo perpetuamente da Dio, così dobbiamo tornare a Lui in spirito con l'adorazione, la preghiera, l'estasi di devozione e d'amore fedele. E una manifestazione di ciò che Paul Claudel chiama « II senso della radice; il misterioso legame col seno materno ». Ed è una sorgente di gioia, propria dell'amore, con una sfumatura di letizia che corrisponde qui alla prontezza, la gioia nel senso più profondo e più intimo essendo la caratteristica dell' amore e la sua dimora nascosta,

LA CARITÀ MADRE DELLE VIRTÙ' INDIVIDUALI 53 XX

LA CARITÀ' MADRE DELLE VIRTÙ' INDIVIDUALI

Le nostre virtù sono un effetto della nostra adesione a Dio ed al suo regno. Si tratti pure di virtù individuali o personali, vi troviamo il segno di un'adesione che si, rivela anch'essa personale non solo per il motivo e l'in' . tenzione, ma nella materia.

Occorre dunque essere puri ed integri nell'amicizia di Dio e salvaguardare quel complesso di volontà che sono in noi poiché a Lui importano. Primo fra tutti la vita, dono iniziale, sostegno di tutti gli altri, e con la vita quanto essa ha di più prezioso nei riguardi della persona:

i beni del corpo e quelli dell'anima nel suo funzionamento Specifico.

Si potrebbe giudicare tale preoccupazione come estranea all'amore divino che è disinteressato e fa quasi astrazione da sé, ma noi sappiamo che il disinteresse così concepito sarebbe una grave offesa, poiché questo possesso della nostra persona è solo un usufrutto, anzi i frutti stessi della vita appartengono prima che a ogni altro al Creatore dell'essere. Mancare di rispetto al nostro corpo o alla nostra anima non è dunque attentare a quell'amore che ce li ha dati e che intende di dirigerli con noi in un regime di sviluppo, di perfezionamento e di gioia?

È per il nostro bene che questa integrità interessa Dio, Padre nostro; ma lo interessa ancora come agente universale, visto che ogni persona, come ogni essere per quanto minimo, è un elemento della sua opera e uno strumento dei suoi disegni; poiché, se la carità crea tra Dio e noi l'unità di voleri, essa deve avere come primo scopo — dopo aver soddisfatto all'onore di Dio con l'adorazione — di coltivare questo terreno dell'io in cui più che in ogni altro abbiamo accesso e dominio. Lo faremo per amore, come l'amore lo domanda: all'amore sovrano daremo questo pegno di lavorare a consolidare il sue^?e

54 IL CORONAMENTO SPIRITUALE: LA CARITÀ

gno in noi, sotto la forma delle virtù particolari che lo completano.

« Chi è cattivo con sé stesso — dice il Libro Santo

— verso chi sarà buono? ». Come potrà pretendere di onorare i fratelli, di onorare il suo Dio, colui che, solidale di quel tutto di cui Dio è il centro, osa disprezzare sé stesso? Le virtù individuali nel loro complesso sono un, molteplice amore di sé, che, a sua volta, unito all'amore verso il prossimo, è. amore di Dio per interposizione di persona, per così dire, semplice caso particolare che la;

carità universale avvolge e consacra.

Non esistono virtù puramente individuali, poiché l'opera di Dio è indivisibile, di getto, e ci riguarda tutta^ quanta; ma ci sono delle virtù specialmente e immediatamente individuali e sono quelle che assicurano la salvezza e il felice sviluppo di questo frammento di urna"! nità che porta il suo nome; un individuo, amico di Dio,, cantiere di Dio per un'opera intima dalle vaste risonanze ed estensioni che non si possono misurare: non basta questa definizione per spingerci al rispetto ed al culto vir-\ tuoso di noi stessi?

Quanto il culto dell'io, allorché è egoista, è spaventoso, altrettanto è nobile e dolce se riferito a Dio: come le cure della sposa che si adorna per lo sposo in una do-

-nazione piena e ricca di premure. Ogni anima deve essere il Santo dei Santi. Il corpo è un tempio in cui lo Spirito creatore, che v'impiega la sua arte fino ad elevare la ma-;

teria ai confini del pensiero, vuoi darci una figurazione',;

degna di tale prodigio. Le nostre virtù sono perciò l'orna-i, mento di elezione, e si offrono all'amore perché possa ri»;

fulgore, lavori ogni giorno più in profondità, e si diffonda.;;

« Vi softo cose di cui bisogna godere — dice San-t' Agostino — altre di cui bisogna servirsi; il peccato consiste nell'inversione di quest'ordine ». Dobbiamo godere/ di Dio e dei beni spirituali in Dio; dobbiamo usare di, noi stessi in favore dei beni spirituali per rapporto a'Dio; in;? quest'uso ci guida la prudenza soprannaturale; la forzai d'animo, la sobrietà, la castità, la modestia, lo spirito d»

LA CARITÀ MADRE DELLE VIRTÙ' FAMILIARI 55

I sacrificio, la mortificazione dei sensi, la misura nel dor-| mire e nel vegliare, nel lavoro e nel riposo, nella distra-|,zione e nelle occupazioni serie, tutto l'andamento perii sonale della vita ci assecondano.

i|- A tutte queste virtù, ausiliarie o fondamentali, la .carità che domina tutto tiene un unico linguaggio, indirizza un solo ammonimento, lancia una sola parola d'ordine; abbi di mira l'amore.

XXI LA CARITÀ' MADRE DELLE VIRTÙ' FAMILIARI

II focolare è un ponte fra l'individuo e la società. Ciò che la carità conferisce alla vita individuale, e ciò che la vedremo apportare alla vita sociale, trova qui la sua applicazione intermedia.

Gli sposi ed i figlioli sono insieme « altri » ed « uno »; un po' più altri per ciò che concerne i genitori, maggiormente uno dai genitori ai figlioli, per la loro dipendenza nella carne. uh americano, descrivendo il focolare francese ne dava questa definizione: « è il luogo in cui la famiglia si trova intera in ciascuno ». Bellissima testimonianza che si vorrebbe sempre meritare; ma anche dove si realizza questo ideale, ci si domanda come può mantenersi, se l'amore, legame d'una unione così perfetta, non ha una garanzia superiore ai capricci, agli egoismi, ai vizi individuali che fanno presto a scompigliare tutto, anche nel gruppo più compatto.

Le nostre unioni — specialmente quelle strette come in questo caso — esigono un distacco in comune;

distacco da sé, distacco dalla tentazione di immergersi troppo nelle cose temporali, a vantaggio degli alti valori morali. Un ideale condiviso rafforza potentemente l'amore, ma soltanto quando quest'ideale è illimitato esso è forte contro tanti nemici intestini di cui ciascuno dei partecipanti a quest'amore può fornire da solo tutta una

56 IL CORONAMENTO SPIRITUALE: LA CARITÀ

schiera. È diventato ormai un luogo comune dire che l'amore finisce il giorno in cui si scoprono i limiti dell'oggetto amato, ma v'è un solo modo per non vedere in un essere umano i limiti che lo stringono da ogni parte,;

ed è appunto quello d'unirsi a lui nel suo ideale. .(

Le donne dicono volentieri che gli uomini sciupano? l'amore. « Ci amano per i nostri difetti — scrive una di esse — per quegli stessi difetti che ci rimproverano, e ci amano anche coi loro difetti; sono questi che mettiamo appassionatamente in comune ».

Purtroppo molto spesso è così, e l'unione è allora molto fragile, poiché il rimprovero che si congiunge al falso amore, ben presto finisce per divorarne la sostanza;

l'amore sparisce, il rimprovero resta, e ormai la vita a due si sgretola.

A maggior ragione questo vale per la vita in tré, quattro, cinque o più. Queste alternative dell'amore, con le loro sfumature di rispetto e di sollecitudine, di obbe-dienza e di devozione, di gratitudine e di dono, non resistono molto a lungo agli assalti della passione peccatrice, sia essa istintiva, come nei bambini, o accettata, o forse coltivata negli educatori che non sanno educare sé stessi. Il nemico comune, nella famiglia, è il male; il nemico del male, lo troviamo in quel sentimento che è amore del bene incondizionato e universale perché mira al Bene supremo. Ciò crea l'armonia dei sentimenti familiari come di tutti gli altri. Vi è soltanto questo di particolare:

che per il fatto dell'amore e del fine perseguito che è la generazione di esseri immortali, la famiglia è un'istituzione di valore illimitato ed eterno; concepirla come unicamente temporale e sottrarle questa aspirazione infinita significa avvilirla, e quel che è peggio esperia a tutti i rischi.

La pace, questo tesoro inestimabile, questa condizione necessaria perché fioriscano degli esseri nuovi, e gh altri si rifacciano, si distendano e progrediscano, non può disgiungersi dalla virtù più elevata di tutte, là più

LA CARITÀ MADRE DELLE VIRTÙ* FAMILIARI 57

adatta a evitare le collisioni, così come l'aviatore si ride dell'affollamento e degli urti dei veicoli delle vie urbane.

È l'elevazione dell'anima che procura la pace, è la |ua elevazione al più alto vertice, a Dio e all'amore di Ipio, che la rassicura contro ogni timore. Queste guerre 4 più che civili » di cui parlava un Romano, dolorose lotte familiari che assomigliano al volgare paniere di granchi e non possono essere dissimulate dalle apparenze mondane, sarebbero facilmente [evitate se vi fosse jun briciolo di carità.

Quando Dio abita la casa, vi dilata e fonde !in Sé tutti gli esseri; si fa mediatore d'ogni sentimento, rafforza le buone volontà, sopisce i rancori; allora la casa è una « casa di fratelli » come la vuole Scrittura, perché Dio ne è il Padre. Al contrario, il gruppo posto più o meno fuori dell'amore di Dio è in continuo pericolo di dissensi, come di corruzione e di fallimento. Dio solo è l'amore sostanziale; fuori di questo focolare non si potrà partecipare a ciò che ne emana e vi ritorna. O si ama Dio, fors'anche senza saperlo — fortunatamente è pos< sibilo ed anche abbastanza frequente — o non si amai affatto.

I veri amanti, gli « assolutisti » vorranno forse protestare, divinizzando 1' oggetto del loro amore o P amore stesso? Rinettano meglio e ci lascino dire che non possiamo darci interamente all'amore creato,-- ne totalmente l'uno all'altro; l'anima immortale è unica e libera. Ci si può amare, appoggiarsi reciprocamente, fare in certo modo una cosa sola, ma per quell'unità d'ordine e di mutua inerenza che lascia sussistere l'autonomia personale. Nel senso assoluto del termine non ci si appartiene; tuttavia se insieme ci si dona a qualcuno più alto di noi, non è per amare meno, perché la sorgente dell'amore diviene' anzi più attiva ricevendone di più; in questa invasione" dell'assoluto, accolta d'un sol cuore, ogni vincolo si con-, solida.

58 IL CORONAMENTO SPIRITUALE : LA CARITÀ

XXII LA CARITÀ' MADRE DELLE VIRTÙ' SOCIALI

Per virtù sociali intendiamo : la « pietà » patriottica^ il rispetto delle autorità, la mutua affabilità che evita i litigi, la lealtà che stabilisce la fiducia nei rapporti e 1^ liberalità che li favorisce; innanzi tutto e soprattutto la giustizia. Senza almeno un minimum di carità questo complesso di esigenze non sarebbe una chimera?

Il trionfo della carità consiste nel farci amare i nemici, poiché una forza si misura dall'ostacolo e l'inimicizia è il più grande che si possa incontrare nella vita comune; inoltre l'intervento d'una potenza è tanto più glorioso in quanto nessun'altra può supplirlo; e dove trovare, all'infuori della carità, una forza capace di superare Podio? ?

Anche escludendo i nemici, l'amore trova dinanzi a sé dei consociati naturali chiamati concittadini, verso i' quali il minimo che gli si richiede è la giustizia. Ho detto un minimum, pertanto secondo S. Tommaso la giustizia fra tutte le virtù morali « è quella in cui si manifesta in sommo grado lo splendore delle virtù ». Il motivo sta in ciò ch'essa crea l'ordine, realizza un bene superiore ai beni individuali, quel bene collettivo e sociale che il nostro Dottore chiama « più alto e più divino »: « majus et divinius bonum ». « La giustizia è una potenza eminentemente benefica », aveva già detto Aristotile, e il severo pensatore aggiungeva entusiasmandosi: « Ne la stella del mattino ne quella della sera sono così mirabili ».

Soltanto, malgrado le affermazioni in contrario dei cristiani mediocri, o di pensatori senza dottrina, la giustizia è fondata sull'amore. Eliminata la fraternità iniziale. quella che ha il sopravvento non è la giustizia ma è la lotta per la vita, fino alla caccia all'uomo; e d'altra parte perché sia resa giustizia individualmente da uomo a uomo in seno alla società, e da ogni uomo alla società

LA CARITÀ MADKE DELLE VIRTÙ' SOCIALI 59

considerata come collettività, sono necessario tutte le virtù: virtù individuali e familiari, di cui abbiamo notato la filiazione rispetto all'amore.

L'amore ovunque e sempre. Esso è il cemento della città come delle anime, ed è pure il vincolo dell'unità intcriore. E se la sorgente dell'amore è lassù, nell' Amore primo, fa. d'uopo che la carità custodisca la società, come protegge la famiglia e l'uomo. '

Quando si parla di « pietà » patriottica si evoca una causalità che si stabilisce a nostro riguardo fra le nostre famiglie e 1' Agente primo, fra i nostri padri e le nostre madri e la Provvidenza; derivazione dal culto di Dio ed estensione del culto della famiglia, quel culto è dunque sottoposto alle medesime condizioni e dobbiamo dichiararlo egualmente dipendente dall'amore.

Il rispetto delle autorità? C'è chi se ne ride, e quanti cristiani seguono il mondo su questo punto! Essi sono però cristiani solo di nome, oppure dimentichi di sé stessi. Il teologo ricorda loro che il cittadino deve a coloro che governano l'onore, a motivo del rango, l'obbedienza rispondente all'autorità, e la gratitudine per il servizio. L'egoista incosciente si stima sempre mal servito, ma il servo di Dio non aspetta d'essere ben servito per servire egli stesso; non esige d'essere d'accordo per obbedire, ne soddisfatto per onorare, riferisce tutto a Dio e si trova perciò ricondotto attraverso tutte le cose all'amore supremo.

Tutte le virtù sociali sono nella stessa posizione:

hanno tutte gli stessi collegamenti perché tutte hanno identiche le esigenze e i pericoli. « Nessuno è vero amico dell'uomo — scrive S. Agostino -— se non è innanzi tutto amico della Verità prima », di quella Verità che non insegna solamente, ma ispira e trascina. Il carattere « primo » di tale verità in azione imprime, alla carità che vi Si congiunge, un carattere universale. Una carità così protetta può imitare la benevolenza di Dio rispetto a tutti gli esseri poiché imita la sua infinità.

Senza ciò, che sarà mai lecito sperare da un orga-

60 IL CORONAMENTO SPIRITUALE: LA CARITÀ

nismo sociale in balia delle cupidigie, delle gelosie, delle ^ perfide rivendicazioni ammantate di giustizia, o del nn- ^ negamento della giustizia sotto le apparenze dell'ordine^, e della prosperità? Il cozzo degli egoismi è fatale, fino a che l'io non è elevato al livello in cui raggiunge tutti ^ gli altri e volentieri li adotta. Amando il prossimo «come sé stessi per amore di Dio », si può consentire alla : ;

volontà degli altri come alla propria, senza altra Darzia-i^;

lità airinfuori di quella del bene considerato come superiore o in rapporto più stretto col nostro caso provvi- ,;

denziale. Amando invece sé stessi soprattutto o facendo' ;

delle preferenze arbitrarie perché non ci siamo inchinati" y alla preferenza prima, ci troviamo nella lotta; si lavora di gomiti, di artigli, di denti, a maggior ragione quindi non ci si rassegna a sopportare gli altri, a soffrire per gli altri. È certo però che senza queste disposizioni non si realizza la pace.

L'inferno è la negazione dell'amore, e tale sarà qua- , lunque società in cui l'amore scambievole e le virtù inerenti non derivino da un amore superiore. La società rè- ^ prime taluni atti, altri ne premia: non bada alla radice;' • la radice è assai più profonda, nelle preferenze essenziali del cuore, nello slancio iniziale che imprime il moto;; ' a tutto il resto. Così S. Agostino, dopo aver notato chà :

la giustizia è la virtù sociale per eccellenza, scrive: «La giustizia è un amore al servizio di Dio solo », vale a dire che servendo Dio per amore, si è portati a eque relazioni con tutti i fratelli; in altre parole se la giustizia è' la « custode de) diritto altrui », come nota S. Tommaso, la carità è la custode della giustizia. Chi possiede la carità e si lascia possedere da essa adempie .la legge e la sorpassa: la giustizia benché fondata suir amore non gli basta, l'amore libero gli sembra un debito e pensa così, come Gesù di fronte a Giovanni, « di adempiere ogni giustizia ».

In fondo su queste idee tutti sono d'accordo; quando le si negano ci si inganna sul proprio pensiero, ma viene il momento in cui affiorano. « La giustizia è nata

U CARITÀ REGOLATRICE DELLE VIRTÙ' 61

dall'amore — scrive Edgar Quinet — esso solo ha compiuto il miracolo ». E come ogni buon conoscitore delle nostre faccende umane, egli conviene che solo gli zelanti del bene divino sono in grado di servire con generosità e costanza quel « bene migliore », « più divino » che è il bene di tutti, il bene sociale. Siamo d'accordo, se tuttavia il bene sociale è il più alto compimento dei voti della Divinità sulla terra, che realizza nella sua perfezione l'uomo, questo amico del cielo.

XXIII LA CARITÀ' REGOLATRICE DELLE VIRTU'!

La regola delle virtù è la ragione, e in certo senso non ve n'è altra. « II bene per l'uomo è di essere secondo ragione », ripete S. Tommaso seguendo lo Pseudo-Dionigi.

« La tua lampada è il tuo occhio », ci dice il Signore fael Vangelo; la ragione pertanto è una regola seconda .avente un'origine che è dinanzi a lei luce e decreto. La • regola primaria è la Ragione creatrìce. Dio stesso, ed Egli adempie l'ufficio di regolatore tanto meglio quanto più siamo uniti a Lui, ciò che avviene bensì per la fede, ma più di tutto mediante l'amore. Amare significa volere tutto ciò che di buono vuole l'amico, e siccome in questo caso la reciprocità è legge- amare è volere insieme le stesse cose.

La virtù non è del resto che la ricerca del bene sottip» diverse forme e diversi nomi: come dunque non troverebbe la sua regola nel Bene primo che comprende e giù* stifica tutti gli altri, che è per essi quel che sono nella scienza le evidenze che racchiudono in sé le conclusioni i e ne giudicano tutti i procedimenti?

Colui che ama Dio vuole per Dio, in ultima analisi, tutto ciò ch'egli vuole, e respinge, per riguardo a Dio, a titolo definitivo, tutto ciò che rifiuta. Questa forma del volere informa di sé tutta quanta la volontà, motivo per

62 IL CORONAMENTO SPIRITUALE : LA CARITÀ

cui i teologi definiscono la carità la « forma » delle virtù, il che vale a dire l'impulso che le muove e insieme il;;

superiore punto di riferimento che le guida.

Questa guida, quest'ordinamento si esercita per mezzo di intermediari: la prudenza è in noi, alla stessa guisa della Sapienza eterna in Dio, come il consiglio d'amministrazione dell'Amore; tutto ciò che Dio fa è fatto in nome dell'amore; in tutto quel che noi facciamo Dio vede l'amore; in tutto quel che facciamo con cuore unito a Dio, vediamo Dio e l'amor di Dio. Così si svolgono gli;' scambi fra il nostro generoso Infinito e noi.

Tutta la grandezza di queste relazioni sarebbe dissipata se l'ordinamento della carità non fosse attento, preciso e abbastanza vigilante per sventare e schivare tutte le insidie. Ve un amore disordinato della virtù, come v'è una ' ricerca che ha tutta la fisionomia del vizio. Per essere saggi non basta sapere dove dobbiamo andare, ma anche di che passo avanzare e dove arrestarci.

Come procede in noi il progresso spirituale? Quella che chiamiamo virtù acquisita consiste nell'essere stati precedentemente virtuosi: bisogna cominciare, bisogna perseverare con pazienza, fondendo la luce e l'azione e accrescendo l'una per mezzo dell'altra; poiché il cammino si impara percorrendolo ed occorre mettersi all'opera se si vuole orientare il proprio spirito e comprendere. Pian piano, all'ora sua e non alla nostra, si acquista la sicurezza nell'azione, la facilità, la dolcezza: voler invertire quest'ordine significa preparare le delusioni e la sconfitta.

« Gli angeli, sulla scala di Giacobbe, hanno le ali — dice S. Francesco di Sales — e tuttavia non volano; ma salgono e scendono, con ordine, di gradino in gradino». Potremmo aggiungere: se gli angeli di Giacobbe salgono così obbedientemente in ordine, è appunto a motivo delle loro ali, le ali dell'amore. Viva, queste ali, che agiscono al tempo stesso da regolatori e da morbidi freni! Viva il colpo d'ala che non proviene da noi soli come lo sforzo pretenzioso, ma appartiene all'atmosfera celeste, al concorso misurato dello Spirito!

LA CARITÀ ANIMATRICE DELLE VIRTÙ' 63

Si fa spesso l'elogio del carattere ed è giusto, soltanto accade talvolta di scivolare dal carattere all'ostinazione dell'uomo « volitivo » dallo spirito contenzioso. Nulla di più contrario al carattere vero che è un misto di ragione e di forza; la difesa è costituita in tal caso da un'adesione pronta e incondizionata ai divini voleri, che non può a meno d'ispirarsi alla carità. A questo patto il Carattere è veramente, come vuole Eraclito, « il huon genio dell'uomo ». Il carattere naturale infonde energie e rinsalda, ma occorre un altro genio per concepire la vita, misurarla e regolarne il ritmo in conformità al nostro essere superiore, che è divino per la sua partecipazione e per il suo ultimo fine.

Un precetto di uno dei nostri saggi ha il suo valore specialmente nel campo spirituale: « È meno necessario cercare ciò che manca per aggiungerlo, che ciò che esiste per arricchirlo». Ciò che esiste è la condizione in cui Dio ci ha posti e le grazie che ci fa: troveremo nell'amore alla sua volontà tutte le regole utili per arricchirci e progredire. Quanto a ciò che manca, l'attendiamo dall'avvenire se gli piacerà di darcelo, ne facciamo a meno volentieri se ce lo rifiuta. Tale è la vera prudenza di cui la carità è la celeste custode.

« Amiamo la carità — dice il saggio Contenson — essa organizza la vita, infiamma il cuore, informa gli atti, corregge gli eccessi, ordina i costumi, essa vale per tutto e senza di essa nulla ha valore ».

XXIV

LA CARITÀ' ANIMATRICE DELLE VIRTÙ'

'La virtù non è qualche cosa di fisso e di dosato un» volta per tutte; è accrescimento, acquisto e conquista,;

Grande o piccola secondo Io sguardo di chi la giudica, essa può contentare oggi l'ambizione che l'ha raggiunta, mentre domani l'ambizione s'accresce, la sorpassa e quin-

'•-64, IL CORONAMENTO SPIRITUALE^ LA CARITÀ

di torna a perseguirla. Che è, infatti, la virtù esitante del povero diavolo per un galantuomo formato? E d'altra parte che cosa è la virtù del galantuomo formato, per un santo? Se il santo dimenticasse la sua benevolenza, vedrebbe forse in uno stesso lurido ammasso i nostri vizi e le nostre virtù.

San Paolo vuole che ci eleviamo di virtù in virtù come « di chiarezza in chiarezza »: è un programma che sembra presuntuoso, che, come dicevamo, può anche es-serlo, ma che limitato nella volontà di Dio è semplicemente normale, se la vita è per sé stessa una evoluzione e se in un'aletta già si indovina l'ala. Riportare ogni giorno la nostra vita a un grado più elevato, lavorare a correggerla, è un'esigenza così inerente alla vita stessa che non possiamo rinunciarvi se non per una deficienza del principio vitale; e quaì'è questo principio? È ancora l'amore. Dunque l'amore è un principio animatore che dobbiamo vedere sempre in azione al servizio delle virtù:

e a vantaggio dei loro effetti nel mondo.

È proprio il caso di tutti quelli che sono sollecitati dallo stimolo dell'amore: i santi non trovano riposo finché credono di vedere in sé stessi o verso l'esterno una possibilità di accrescere questa sintesi di virtù che chiamiamo integrità, rettitudine ed ognuno degli elementi che la compongono, in una parola il bene e tutti gli effetti del bene. i

Saremmo tentati di dir loro: quanto trambusto!;-quanto rumore! Ci risponderebbero: io sento in me la i voce del Profeta: « Grida, non tacere ». Preferireste for-, se, o mortali, ai clamori che vi spronano, la morte silenziosa che dissolve nelle anime vostre tutto ciò che posseggono di immortale?

Ah! se questo grido risuonasse più lontano! Troppe cose lo smorzano; ciò non toglie che sia permanente nella Chiesa, la cui missione collettiva è quella stessa dei santi',? la precede e la suscita. Lo Spirito Santo, anima della Chiesa, è un amore travolgente che vorrebbe rinnovare ogni giorno la faccia della terra con l'accrescimento di

LA CARITÀ ANMATRICE DELLE VIRTI)' 65

; tutte le virtù congiunte. È il « fuoco immortale » di cui .parla Bossuet: la sua azione non si limita all'umanità,

semplice punto di convergenza di forze più vaste, ma per .essa. tende a rinnovare anche, grazie all'amore, l'essere .?: universale.

La Chiesa non è soltanto umana, è anche Cosmica, 'rannoda la costellazione degli uomini a tutte le costellazioni' del ciclo. C'è una fiamma in seno ai mari astrali come in seno all'oceano e nel cuore della terra, una fiam-;^ìna che non si conosce, ma che pure la carità arriva a ^ ? sconoscere, essa che ne è il punto di concentramento e (li risveglio, la coscienza.

Le stelle aspettano l'uomo p.er amare, l'uomo vuoi , amare per mezzo loro; la carità non anima soltanto le , virtù umane, ma quelle virtù dei deli di cui parla il sal-; ino; poiché tutto è per gli eletti e deve dunque obbedire a un medesimo impulso fondamentale e ad un unico movimento.

Dove regna l'amore sovrano di cui la carità è la espressione una ed universale, non si perde neppure una ; briciola dell'amore che anima la vita del mondo; tutte le forze sono impiegate nel senso buono, ogni tendenza 'trova il suo sbocco ed ogni ricerca scopre il tesoro, poiché si cerca dove si deve cercare, dove il Creatore ha deposto gli elementi richiesti per l'edificazione della sua r opera.

Ohimè! Come noi andiamo in senso opposto! Il mondo si dibatte in un disordine ostile ed opprimente, gli elementi schiacciano gli uomini, e gli uomini si urtano in un caos inesprimibile. Si è perduta la chiave: il vero fine e quindi i veri mezzi ci sfuggono. Dov'è dunque il custode del fine se non in questo, amore sovrano che include tutto, e può mutare questa specie di regno della confusione in una beata armonia?

L'amore è tutto: il principio di vitalità universale, a partire dal cuore dell'uomo è l'umile e significativa carità. Quando essa regnerà, avremo delle anime, dei grup-

5, — Doveri.

66 IL CORONAMENTO SPIRITUALE : LA carità

,v'.'

pi, avremo una civiltà, un cristianesimo integrale e co», sciente, una Chiesa cattolica nel vero senso della parola^ un universo.

• XXV • LA CARITÀ' LIBERATRICE

La virtù è per sé stessa uno sviluppo di vita, una effusione come l'esercizio delle nostre membra o dei sensi, come lo sport, come l'arte: non dovrebbe mai darci un senso di costrizione; se la natura non fosse falsata sarebbe naturale obbedire alla ragione, come lo è ora obbedire ai sensi. Natura, scelta del meglio in vista dei fini della natura, via normale e prontezza nello slanciarsi in questa via: sono tutte nozioni connesse. La virtù non , è un guinzaglio ma un'ala.

Pertanto il fatto è questo: una vita virtuosa esige uno sforzo continuo, spesso dell'eroismo, ed è perciò che, ben a torto alcuni filosofi pretendono misurare il merito;

della virtù dallo sforzo impiegato, la lode dalla costrizione impostasi per esercitarla. Aristotile non è di questo avviso; si dicono virtuosi, sostiene egli, coloro che amano fare atti virtuosi e non quelli che vi sentono ripugnanza. Un virtuoso non mostra forse maggior bravura allorché-eseguisce, come baloccandosi, dei veri acrobatismi?

Resta a vedere perché e in quali condizioni l'artista si ride della difficoltà e l'uomo virtuoso si compiace nel-< l'opera buona. Forse che vi si dedicherebbero egualmente, se il primo non fosse attaccato all'arte a cui si è consacrato con ardore, e il secondo non amasse la virtù, i suoi oggetti, i modelli che per lui la rappresentano, i capi che gliela raccomandano e soprattutto il Maestro su-;' premo dell'opera umana? i

L'amore torna in campo per liberare da ogni intralcio, dopo averlo stimolato, il lavoro virtuoso in tutti 1 domini, per sgombrare ed appianare tutte le sue vie. ,

Si tratti di conquistarla, di mantenerla o di accre»

LA (CARITÀ LIBERATRICE 67

scerla, la vijjtù è, per l'erede di Adamo, una fatica. Ma;

S. Agostino e pronto a dirgli: « Dove c'è l'amore non. c'è più la fatica o se c'è, la si ama ».

Si può agire per timore dei castighi temporali o eterni: allora la libertà dell'anima nostra sembra precaria; in questo caso ancora l'amore libera l'uomo morale trasformando il timore servile in timore filiale, la paura del patimento nella tema di dispiacere all'oggetto amato e di esserne separato. È timore di tutt'altra specie e non ha nulla a che fare con la paura, poiché questa si riferisce alla forza o alla cattiveria, mentre quello guarda alla maestà e alla tenerezza.

L'amore stesso ci rende schiavi, è vero, ma coloro che amano sapranno dirmi che non vedono in questa schiavitù, altro che una libertà inebriante, una liberazione da tutto, un senso di leggerezza, un'impressione di slancio che sembra debba portarvi alla stelle. Ah! no, l'amore non è in catene; esso è diretto ali' Essere senza limiti, all'Essere in possesso di tutto, che ci rende suoi partecipi a questo solo prezzo: l'amore. Dov'è dunque la catena?

Essere libero, in questo mondo, per il cristiano significa essere libero da sé e da tutto per farsi schiavo di Dio, ma schiavo d'amore e per conseguenza libero e assai più che libero, poiché il beato si assicura così un glorioso potere su tutte le cose.

Si può paventare di venir meno all'amore e quindi a ciò che esso ci ottiene: siamo tutti peccatori. Ma la speranza, legata all'amore, non ci assicura soltanto della meta lasciando a noi il solo compito di fornirne le condizioni, essa ci promette aiuto liberandoci così dal pavido timore di noi stessi. Timore prudente, sia pure! Se giova ad allontanare da noi le sorprese sempre possibili, questo timore è buono e l'amore preoccupato di sé stesso non lo sconsiglia. Una donna innamorata diceva assai ingenuamente al suo amato: « Oh! quanto mi dispiacerebbe se un giorno mi accorgessi di amarvi meno! ». Questo timore è amore, e la pena di non amare più, prova che si ama.

68 IL CORONAMENTO SPIRITUALE : LA CARITÀ

Pertanto l'amore mantiene la fiducia in sé e la manterrà tanto meglio se si appoggia siili" Amore onnipotente che non ci viene mai meno.

Di qui proviene quella che nella mistica si chiama « la libertà dei figli di Dio »; lo stato inferiore del giusto, ciò che costituisce la sua serenità. Il giusto che si applica alle opere della virtù non è oppresso dal peso della virtù stessa; egli è superiore a ciò che fa sapendo perché lo fa, e questo « perché » è in lui una sorgente di libertà che supera la costrizione impostagli dal lavoro. Al tempo .'.stesso, in un solo momento si può agire ardentemente . per Dio e riposarsi pacificamente in Lui come Dio stesso. Dio è insieme l'eterno agente e l'eterno immobile, perché l'azione in lui non richiede sforzo come non incontra ostacoli. I suoi amici son fatti partecipi di questa duplice .qualità che la sua essenza armonizza.

Non si può essere buoni lavoratori se non si domina il proprio compito tanto da sentirsi liberi di fronte ad esso. Lavorando per amore si è doppiamente liberi: della libertà che proviene dall'elevazione dell'anima e di quella che l'oblio dell'universo procura al cuore che è invaso da un unico sentimento.

XXVI .^lA' CARITÀ' UNIFICANTE '

La carità, che ha Dio per oggetto principale, si dilata e si -effonde seguendo tutte le tendenze dell'amor di Dio, sposando gli oggetti di Dio, le sue creazioni, i suoi richiami, le sue cure, le sue speranze, tutto in una parola. E siccome Dio è spirito e tutto riconduce allo spirito, così il nostro amore d'ogni cosa in Lui è essenzialmente una .fraternità che si rivolge alle creature ragionevoli, ma con dei prolungamenti e delle interferenze estese quanto l'essere.

L'amore di carità, apparisce così unificante al mas-

LA CARITÀ UNIFICANTE 69

almo grado; nulla sfugge al suo dominio, e tutto esso riconduce all'uno perché in tutto vede Dio, la creazione di Dio, l'opera di Dio, la tenerezza di Dio, l'eterna intimità di Dio che è consumazione e beatitudine.

È veramente deplorevole l'incoscienza con cui trascuriamo, a volte così totalmente, questo contenuto del nostro credo, che racchiude tanta bellezza e tanta forza ispiratrice. Noi siamo uniti e divisi, formiamo una unità eppure a vederci si crederebbe che siamo di quei fratelli che si dilacerano tanto peggio quanto più l'inevitabile comunione della loro vita li esaspera. La creazione materiale ci sembra ostile: un meccanismo crudele, diciamo, una fabbrica di veleni, una prigione, un gigantesco mattatoio, un carnaio. Tuttavia esiste forse una differenza fra uomo e uomo, un interesse, un dissidio di spirito o di cuore che possa competere in valore con la semplice qualità d'uomo e di cristiano, vale a dire di figlio di Dio e di suo eterno consociato? Che proporzione esiste tra il preteso complotto dell'universo contro di noi, e l'infinita generosità delle sue promesse?

Follia dell'odio, dell'invidia, dell'ambizione, delle competizioni, di tutte le rivendicazioni che provocano le lotte intime e le lotte sociali! Assurdità dei nostri lamenti nei riguardi della natura che « geme » come noi ed è destinata a partorire soltanto la nostra felicità! Odiosa tendenza a crederci lesi dalla gioia altrui quando manca la nostra! Bassezza di quei confronti che ci fanno dimenticare la felicità e l'onore di cui tutti siamo partecipi!

Che bisogno abbiamo d'essere grandi quando ci sono dei grandi esseri che sono cosa nostra, ci sono gli eroi, i santi, il Cristo e Dio Uno e Trino di cui noi siamo compartecipi? E che bisogno abbiamo d'essere felici individualmente mentre dura il cammino verso la felicità che tutti attendono, di cui abbiamo i pegni e che è vicina perché la vita è così breve; felicità che dobbiamo conquistare tutti insieme per il fatto della nostra unione, riconosciuta, amata e servita?

Di fronte ai' destini che l'amore ci prepara una cosa

70 IL CORONAMENTO SPIRITUALE : LA CARITÀ

sola può mancarci: l'amore; tutto il resto non ha importanza e dovrebbe sembrarci futile; di fronte ai grandi og. getti ed ai grandi esseri noi siamo piccoli e indigenti soltanto quando non li amiamo.

Quando un essere che tu ami ti fa soffrire, pensa, o uomo, di baciare il suo cadavere sulla fronte. Quando un essere ti fa soffrire al punto che tu osi non amarlo, pensa che Dio ci bacia tutti sulla fronte per la immensa carità che effonde su tutti; pensa a questa Mano di Dio in cui un grande artista ha raffigurato la nostra umanità raccolta come unico oggetto di tenerezza e di sollecitudine.

Un'anima che si chiude agli altri, che si divide dagli altri e maledice gli avvenimenti e le cose, è quasi sempre un'anima che ha creduto d'aprirsi e di confidarsi inutilmente, a proprie spese, correndo il rischio dell'inganno o del ridicolo; una maggiore comprensione le farebbe vedere che solo l'egoismo è ingannatore, assurdo separare ciò che è uno, insensato tagliare un vincolo che ci unisce all'umanità attraverso Dio stesso.

A proposito di quelle amicizie improvvise da cui ci lasciamo prendere certe volte al punto da non saperne più fare a meno, M.me Swetchine scriveva: « Come impoverirsi a questo punto di ciò che ieri non possedevamo? Sarebbe inesplicabile se non vi fosse in certi momenti un riflesso d'eternità ». Ma non c'è forse un poco di eternità in tutti i momenti e non è proprio questa eternità nel tempo che riunisce indivisibilmente e inevitabilmente tutti gli esseri?

Dio è l'unità vivente e feconda in cui tutto ciò che ne emana e vi ritorna deve trovare motivo d'unità; le creature son là, ira sinu Patris, senza esse stesse e con sé Stesse, derivando da Lui la loro unità e la loro distinzione, la loro personalità e la loro relazione, ì'una e l'altra irrefragabile. Tutto è una sola vita in Dio benché da Lui vengano quelle differenze che nei suoi decreti non sono motivi di separazione, ma ragioni di concordia.

- La canta deve unirci proprio per quel che ci divide e ci distingue: di tutte le differenti sfumature di pensie-

\

LA CARITÀ GENEROSA 71

ro, di sentimento, d'aspirazioni e di gesti, ai suoi occhi tutte complementari. Dio vuoi fare un solo candido fascio in cui vengono a confondersi gli stessi colori delle cose. Luce d'amore, ricca di tutte le varietà, luce del raggio divino che dardeggi su creature così meravigliosamente molteplici e mutevoli, non vorrai dunque aprire Tu stessa i nostri occhi e i nostri cuori che non ti cono-

XXVII LA CARITÀ' GENEROSA

La carità ama perdersi in Dio, ma per agire secondo , Dio ritrova sé stessa. Muore nell'intimo e vive al di fuori, di una vita animata e diretta dall'amore.

L'amore non è timido; è imperioso, generoso, esige e da, vuole tutto e concede tutto. L'amore di Dio infinitamente generoso, è anche il più avido, non ammette li-:;I miti, non ne pone nel prevenire e nel ricambiare. Reclama la nostra vita intera, ma secondo un certo ordine e a gradi misurati dalla sua misericordia, in vista soltanto di beatificare e di perfezionare.

Da parte nostra, la generosità è egualmente un bi-;' sogno dell'amore. « Perché noi possiamo amare Dio, occorre che Egli abbia bisogno del nostro aiuto », scrive ;Novalis, e dal momento che ne ha bisogno nel suo uni-everso e si riconosce egli stesso nel prossimo in cui ci in-' vita a riconoscerlo, non ci mancano certo le occasioni di 'essere generosi.

i Per natura non lo siamo troppo: la generosità ha in , noi delle radici, ma l'egoismo ne ha anche di più, così ; pure la rapacità e l'invidia. Dentro di noi permettiamo»

appena agli altri di esistere; siamo poco facili a cróìpa-' ; tire, spesso gelosi pur non sapendo mai di che cosa/soS® '%f o sia privo colui del quale invidiarne la sorte. Pqr Artue- ^^ sto Lacordaire ha potuto vedere nella carità una kvfirtu

VA 't. »-s"

72 IL CORONAMENTO SPIRITUALE: LA CARITÀ

riservata »; essa suppone che Dio occupi un granile posto nel cuore.

La prima generosità verso Dio è indubbiamente il compimento del dovere: verso il prossimo la giustizia. So, di certi sposi che nel 1914, ricondotti a Dio dalla guerra, gli promisero non già rosari o novene, ma figliuoli, sod- , disfacendo così insieme al dovere religioso, personale, familiare e civile.

È bello; ma la grande carità va più lontano. Ha bi-i ' sogno del lusso; gli estremi non la sgomentano, e del resto, come osserva Stendhai, « una grande azione è sem.-» • pre un estremo, nel momento in cui si intraprende ». L'estremo qui è il dare tutto, ciò che non significa affatto, ;

come alcuni credono, il rinnegamento di ogni responsa- -bilità e il disinteresse per. il mondo. Non è vero che il cristiano disprezzi per Dio le cure di quaggiù, poiché nell'amore verso di Lui è incluso l'interesse lodevole per le :

cose di quaggiù. È vero pure che si cura solo di Dio nel , senso che per lui l'interesse di questo mondo non è estra- ' neo a Dio: se fosse estraneo lo rigetterebbe, t

Inoltre dare tutto non consiste necessariamente nel compiere grandi gesti. Quello a cui teniamo di più: salute, ricchezza, ' gioia, speranza, basta che ce lo lasciamo togliere con amore e dolcezza. Lo slancio potrebbe essere inumano, è sufficiente essere cristianamente uomini.

Nei riguardi del prossimo la carità è generosa quando da il suo con facilità, quando previene la domanda e oltrepassa l'indispensabile, quando indovina i bisogni prima di vederli e li sovviene con delicatezza; quando soccorre piuttosto che rimproverare o richiamare semplicemente al catechismo. Il discorso del maestro di scuola all'annegato, diverte il lettore, ma fa riflettere l'uomo;

invitare un affamato a cercare il regno dei cicli sembra un'offesa: lo è in realtà se non lo si soccorre.

La generosità fraterna è prudente, deve esserlo perché FIaubert ha ragione di dire che « la generosità verso i malfattori è quasi un'indelicatezza verso il bene », tut-

LA CARITÀ GENEROSA 73

tavia essa non teme il rischio; malgrado le esperienze capaci di dare delusioni non suppone facilmente il male e non ne prende pretesto per non agire come fanno tanti pseudo-chiaroveggenti che sono soprattutto degli egoisti. Quando si ama Dio bisogna aprire largo credito alla povera umanità.

C'è di più: la generosità che arrischia di sbagliare, rischia anche i fastidi che ne sono naturale conseguenza, ma non si è abbastanza generosi se non si vuole esporre nulla di sé. L'uomo dabbene deve essere disposto ad essere avversato, incompreso, calunniato a motivo del suo stesso disinteresse cosicché tale disinteresse deve corazzarsi di magnanimità e pazienza. Il proverbio orientale che dice: « Colui che non lasci morire non ti lascia vivere », ha qualcosa d'odioso. Io preferisco il salvatore eroico che pensa: Addio, va! vita per vita, anima per anima, poiché fra uomini tutti siamo uno.

Ma la generosità più difficile non è forse nemmeno questa. Agire, anche con rischio, è esaltante, ma patire, tener duro con eroismo senza ricompensa e senza gloria! Quant'è mai difficile mantenersi allora al livello delle esigenze dell'amore!

Abbasso la presunzione! « Far fronte » al dolore ed entrare quasi in lotta con esso è troppo imprudente, si .corre il rischio d'esser vinti; vai meglio nell'ora della prova trovare il proprio posto, nell'intimità di Dio, ada-giarvisi dolcemente e non dimenarsi troppo in questa siepe di spine. In ogni caso la generosità resista! Non è ri-;chiesta l'adesione della sensibilità: i'amor di Dio e del prossimo non ha bisogno d'esser sensibile, l'importante è che sia sensibile a Dio. Ciò che la generosità dell'amore attende è precisamente quanto abbiamo ricevuto da una 'generosità creatrice, provvidenziale, redentrice e ausilia-trice. Dono per dono, amore per amore, senza calcolo, .senza esitazione ne riserva.

Signore io amo ciò che mi hai dato. — Donamelo •tu stesso. — Eccolo, Signore, è giusto che io dia per amo-

74 IL CORONAMENTO , SPIRITUALE : LA CARITÀ

';? rè quello che ho ricevuto dair amore e m'è richiesto dall'amore. — Tu dunque non hai perduto nulla? — No; per due volte ho trovato l'amore e, con l'amore, tutto.

XXVIII LA CARITÀ' DISINTERESSATA

Negli scritti inediti di Victor Hugo si trova questa frase: « L'amore è un immenso egoismo che ha tutti i disinteressi ».

Si può discutere la definizione, ma, applicata alla carità acquista un senso profondo. In paragone del desiderio umano che la carità sottintènde ed appaga pienamente, quel che si chiama egoismo è timido. L'anima è fatta per l'infinito e l'amore di carità la invita così poco a rinunciarvi che glielo propone come oggetto esclusivo. Nei riguardi di tutto il resto solamente, vale a dire di ciò che non ha importanza, le consiglia, le domanda, o anche esige da essa il disinteresse.

Eccoci dunque infinitamente egoisti, se si vuoi chiamare egoismo quell'ambizione del desiderio che costituisce il fondo dell'essere umano. Costruita a immagine di Dio, l'anima quasi divina che abbiamo ricevuta, come potrebbe proporsi un fine all'infuori di Dio stesso?

È stato notato che in quel discorso in cui vuole allontanare da noi la preoccupazione delle cose terrene eccitando la nostra fiducia nel Padre suo. Gesù esordisce con queste parole in apparenza estranee al soggetto ed anche abbastanza dure: « Nessuno può servire a due padroni... voi non potete servire insieme a Dio e a Mammona ». In realtà è questo il punto di partenza: se abbiamo il denaro per padrone, ci preoccupiamo del denaro e di quello che esso rappresenta; se abbiamo per padrone Dio, ci curiamo di' Dio e delle cose di Dio. Ma in un abbandono terreno così motivato si trova una sicurezza alla quale nessuna ambizione oserebbe mai pretendere.

U. CARITÀ DISINTERESSATA 75

Dio che rivendica per sé la nostra preoccupazione, la trasforma in una meravigliosa speranza. L'abbandono che Egli. esige è invero una consegna, una trasposizione di responsabilità; così non cercando più nulla troveremo la ricchezza infinita. '

Egoismo? Se si vuole, ma non nostro: egoismo di Dio per noi, eredità della nostra filiazione sovrumana; ciò non toglie che la carità dia tutto ed abbia, come dice il poeta, « tutti i disinteressi ». Essa esclama con S. Agostino: « Assai avara è quell'anima a cui Dio non basta! »; quel di più promesso dal Vangelo a coloro che cercano il regno di Dio e la sua giustizia gli è prezioso percné viene dal-P Amico celeste, ma in sé stesso non ha importanza. Un milionario che ha ancora un credito di una lira che caso può farne? Una lira è una lira e se ne può cercare il recupero per amore di precisione, ma lo si fa con un sorriso: così il cristiano in possesso del regno di Dio, guarda da lontano le ricchezze di questa vita di cui Mammona è simbolo, e non si lascia prendere da esse; egli ha sempre del superfluo, meglio ancora ha tutto poiché rinunciando al mondo per Dio, ne conquista il possesso in Lui, con un'anima libera, un'anima che sa badare a sé stessa quando il mondo sembra allontanarsi, e sa rimanere sola con Dio anche quando il mondo è con lei.

Questo non è servire Dio « con concupiscenza », come diceva Rimbaud, ma con un amore di confidenza filiale. Dichiariamo che Dio ci basta: non si può impedire che Egli sia ciò che è, e che con i suoi amici più disinteressati si mostri tanto più e tanto meglio spontaneamente grandioso.

Per quanto concerne il prossimo, il disinteresse della carità è ormai senza restrizioni e dovrebbe esserci ben facile se pensiamo che, sprovvisto come noi, e impotente come noi, il nostro prossimo nulla può per noi. Può esso nuocerci? Nemmeno: quanto farebbe a nostro danno finirebbe, in ultima analisi, col nuocere a lui stesso; non sappiamo ancora che tutto si svolge fra Dio e noi?

Di fronte al nemico, la carità desidera che cessi la

76 IL CORONAMENTO SPIRITUALE : LA CARITÀ

ostilità, è pronta alla riconciliazione; prega, ma non per sé stessa. « Ama quelli che ti fanno del male — diceva S. Francesco a uno dei suoi figli —; amali come sono, senza desiderare per tuo solo vantaggio che siano migliori cristiani ».

Quanto agli amici e agli indifferenti — se pure la carità può accettare quest'ultimo termine — il disinteresse vuole che si ricerchi nei loro rapporti soltanto un'occasione di comune progresso spirituale e di dedizione, senza lamentarsi di pretese ingratitudini che provano spesso nel benefattore una avidità egoista di ringraziamenti sproporzionati ai servigi resi.

Il disinteresse domanda ancora che non si faccia dipendere l'amore e le sue opere dalla sapienza e dal merito di coloro che ne sono l'oggetto, come se, tagliati fuori dalla nostra comunità spirituale per la severità dei nostri giudizi, non dovessero più aver parte alla nostra eredità. Questo pensiero presuntuoso è macchiato d'egoismo: cristianamente la famiglia di Dio è anche la nostra. Gli « indegni » Dio li ama, il suo Cristo vuoi guarirli. E vi fosse pure una indegnità senza rimedio, bisognerebbe ripetere con Amiel: « Proprio perché l'umanità non merita il sacrificio, il sacrificio è così grande e il martirio così nobile ».

È bello amare chi non merita l'amore, amarlo per amore dell'amore, per integrità morale e rispetto di sé stessi. Ma quel ch'è ancor più bello, e che solo basta a un'anima cristiana, è di accordare la carità a tutti in nome di quell'unità che ci comprende tutti, e' di non ammettere tuttavia nulla e nessuno fra Dio e noi.

XXIX LA CARITÀ' SORGENTE DI GIOIA E DI PACE

Non v'è gioia all'infuori dell'amore, almeno se prendiamo il termine in senso largo. Non v'è pace che nel riposo del desiderio., una volta conquistato ciò che perse-

LA CARITÀ SORGENTE DI GIOIA E DI PACE'-';;??

guiva. Con questa premessa il cristiano tira subito la conclusione: la gioia vera, la pace sicura si trovano nella carità che ci unisce a Dio e a tutti gli esseri, nella carità che procura a tutti, se lo vogliono, il loro perfezionamento pieno. . ;

Ma le nostre pretese non l'intendono così: abbiamo i i nostri desideri, i nostri impulsi, i nostri fini immediati, e non siamo pronti a sopportare che ci vengano scompi-;

gliati. La Provvidenza stessa, quando ci si arrischia, non è lungi dall'apparirci nemica; è invece l'amica chiaroveg-;

gente e imperturbabile, basterebbe assecondarla per captare la gioia.

Coloro che meritano tali rimproveri e die hanno poca simpatia per queste altezze, coloro in cui la parzialità del desiderio turba l'imparzialità dell'intelligenza e, della fede, non mancano di sviare la questione: fingono di credere che si prendano le difese dell'ottimismo cieco o ;

addirittura dell'incoscienza. È un voler porre la discussio- ;

ne troppo in basso. È bene esser capaci di preoccupazioni, ma è meglio non averne, a motivo della fede. Cosa ottima è scoprire le ragioni che ci inducono a non fidarci degli eventi, e abbandonarsi agli eventi che Dio guida, a motivo dell'amore.

L'uccello dell'aria, di cui il Signore ammira la spensieratezza, è scevro di preoccupazioni perché vive nell'attimo fuggente e ignora l'avvenire: è una inferiorità. L'uomo si mette in pena perché in lui il sentimento dell'avvenire rimbalza, per così dire, sul presente; quindi perché egli domina l'uno e l'altro. Ma se la capacità di preoccuparsi fa l'uomo più grande, la preoccupazione lo diminuisce, poiché il potere che ha di superare il tempo non è che una conseguenza delle sue facoltà di concepire ciò che è eterno, e dal punto di vista dell'eternità la preoccupazione non ha più ragione d'esistere.

Dio regna, e l'uomo unito a Dio, unito ai fratelli in Dio, all'universo intero come opera e servizio di Dio, sfugge agli inganni del tempo. Vi ricade soltanto colui che trascina il passato come se Dio non l'avesse riscattato, o

78 IL CORONAMENTO SPIRITUALE : LA CARITÀ

chi scruta l'avvenire come se non dovesse essere ordinato dall'amore, che questa è mancanza di fede, non più saggezza.

Privo di questo o di quello, deluso, sofferente, sovraccarico di lavoro o di lotte virtuose, perseguitato da ricordi o tormentato da timori, che importa? Ho sempre una via libera verso l'alto: posso sempre rifugiarmi presso il Padre mio. Cervantes ha scritto: « La Fortuna lascia sempre una porta aperta alle sventure, al fine di pervi:

rimedio »; ciò che il poeta accorda alla fortuna vorrò io negarlo alla Provvidenza, Fortuna amorosa del cristiano?^

È Dio che da a chi molto possiede e a chi ha poco, Lui che sostiene i forti e i deboli. Lui che consola e permette che siamo provati. Senza di Lui tutti avrebbero motivo di essere nell'inquietudine, con Lui possiamo stabilirci nella pace. La differenza fra questi e quelli è soltanto provvisoria, non suppone preferenze ne ripulse;' semplicemente pone in termini differenti il problema dell'esistenza, tuttavia la soluzione sarà identica per coloro che sapranno mettervi lo stesso cuore.

Quando Gesù invita il giovane ricco a vendere i suoi beni per seguirlo, non gli propone di rassegnarsi alla povertà, ma di acconsentire a una ricchezza più grande: « Se vuoi esser perfetto », se vuoi accedere alla pienezza. Che poi questo spogliamente si realizzi, volontariamente o no, che la diminuzione della vita sia sotto l'una o l'altra forr ma, questo non cambia niente; il risultato è sempre perfezione, pienezza e per conseguenza pace e gioia.

Gli spirituali trovano qui un insegnamento che vale anche per loro: le virtù che vogliono conquistare potrebbero turbarli quanto i desideri dei mondani o le prove di tutti gli altri. Il lavoro della virtù è duro: ha le sue delusioni e le sue inquietudini; ma l'abbiamo già detto:

la virtù che non è gioia è una virtù imperfetta, poiché è una virtù forzata. La stessa virtù imperfetta, se non è gioiosa, è imperfetta anche per un altro motivo, perché manca di fiducia. La confidenza filiale nell'imperfezione corregge l'imperfezione, purché vi sia la buona volontà,

LA CARITÀ SORGENTE DI GIOIA E DI PACE 79

mentre l'assenza di gioia e di pace in una sedicente perfezione ne denuncia l'errore.

La virtù ha lo scopo di renderci simili a Dio, conformandoci a questa immagine di noi in Dio ch'è Dio stesso. Tale assimilazione poi, non è fatta che per l'amore e il riposo nell'amore: più assomiglia virtuosamente a Dio, più gusteremo in seguito il fidente riposo; ma non bisogna 'dimenticare il termine col pretesto di lavorare al mezzo;

nella lotta bisogna mantenere il sentimento della vittoria che ci ripromettiamo. Così vuole l'amore, fratello della Speranza.

II vero uomo spirituale, possedendo il riposo in Dio, , lo persegue tuttavia nelle opere della virtù e dello zelo, ma pur assorbendosi in esse egli possiede tutto il riposo. L'agitarsi quando si compie il bene prova che non si sa restare abbastanza a contatto con Colui che questo bene esige, che si è più attaccati al lavoro che per Lui si compie che non a Lui; la carità segna un deficit pur prodigandosi. Riassumendo: spirituale, o no, il cristiano animato dalla carità vi deve trovare quella pace essenziale che è contenuta nell'amore, e la gioia che ne deriva; lo deve attraverso tutto e malgrado tutto. Si può soffrire, e non soffrire, per dir così, della propria sofferenza, si può essere indigenti e non soffrire della propria indigenza; o essere imperfetti e trovar perfetto d'essere così imperfetti; si può essere delusi, accasciati, minacciati, sull'orlo della disperazione, e sperare proprio per questa disperazione, perché in fondo all'anima ci siamo fatti un rifugio di serenità, dovuto all'amore e alla confidenza che vi si abbandona. « Qualunque cosa l'amore voglia dare o prendere, scrive Ruysbroek, colui che rinuncia a sé stesso e ama Dio vi trova la pace ».

XXX

IL LAVORO

II lavoro è il vero retaggio dell'umanità sulla terra e ne caratterizza le tappe più di tutti gli avvenimenti che nella storia vengon messi in primo piano. Guerre e rivoluzioni, in fondo, non sono nella maggioranza dei casi;

che accidenti del lavoro: a volte ne interrompono il rendimento, altre volte le provocano. In tutti i casi lavoro è vita, ed è strano vedere la maggior parte dei cristiani la-•sciare questo fenomeno così importante ai margini della loro vita spirituale; è l'errore più pericoloso. Com'è possibile svolgere un'attività illuminata ed efficace senza domandarsi cos'è in sé stessa e a che cosa tende? E per rag-^ giungere un significato decisivo e un'efficacia finale non è forse necessario aprire gli occhi sulla realtà che ci concerne, prevedere e organizzare tutto l'insieme dei movimenti in cui il lavoro ha il suo posto, non ultimo e non isolato? È proprio la vita spirituale che ci stabilisce così nella realtà e ci pone in grado di dirigere in tutte le sue. fasi la « nostra » attività.

Realisti finché si vuole: ma appunto per questo, dato che lo spirituale esiste, dobbiamo essere dei realisti animati di spiritualità e proporrei come programma di seguire in tutti i suoi meandri una realtà esteriore tenuta a

IL LAVORO 81

contatto di ciò che' la domina e la misura, senza che il suo principio e il suo ultimo fine vengano mai dimenticati.

Tale sentimento non ci allontana ne da una cosa ne dall'altra, ne dagli uomini, ne da noi stessi, ci avvicina a tutte le cose a seconda dei loro valore; utilizza tutte le risorse della, nostra personalità, ci mette a contatto di chiunque voglia il bene, promette il nostro eventuale intervento in tutto quello che non è votato al nulla, o peggio che al nulla, qualora fosse l'eterna rovina. .

Fuori delia vita spirituale, non si sa qual senso dare al lavoro, ne come condurlo e nemmeno a qual prezzo questo lavoro potrà ottenere una sanzione adeguata. Il lavoro per sé stesso è una gioia: la creazione, sia pure nel dolore, ci attrae, e non c'è bisogno che ci si erudisca circa i suoi immediati vantaggi. Ma poi? Vogliamo noi, cristiani e conoscenti della nostra immortalità, lasciar cadere alla fine del tempo una gran parte del nostro essére? Lo Spirito che ci anima vuoi condurre tulto al suo fine; ed è nella vita spirituale che si. costituisce l'ingranaggio dell'unità di questo tutto, che il destino si organizza in tutte le sue parti e che la falce o il martello, la penna o il pennello, lo scalpello, i! libro di devozione e il messale, divengono strumenti di vita eterna.

Si è voluto accusare il Vangelo di predicare l'abbandono d'ogni sforzo: « Uomini di poca fede, di che cosa vi angustiate? ». Ma la regale indifferenza del Vangelo è ben al di sopra di ciò che distingue per noi l'ozio dallo sforzo;

essa li condanna ambedue o Si esige entrambi a seconda dei casi, e la sua sublime preoccupazione è di mantenerli nella coscienza della loro comune relatività, senza di che, all'identico titolo, malgrado siano opposti, essi ci adescano,

Come l'oblio di sé invita a soccorrere gli altri, e lo spirito di corpo sposta l'interesse dalla persona verso la collettività: così il distacco evangelico è tanto lungi da una sollecitudine egoista quanto dal negligente abbandono e dalla pigrizia. In tutte le cose si tratta sempre di salvare l'io eterno e di salvare insieme, colla collaborazione di

6. ^ Deferì.

82 IL LAVORO

tutte le realtà figlio di Dio: materie, forze, vite inferiori associate alla nostra vita, o macchine.

Faccio menzione di questi congegni di cui è di moda dir male, per riabilitarli spiritualmente qualunque sia il loro valore economico. Si dice troppo facilmente che la macchina costringe ad un lavoro bestiale. E se citiamo dei :

sublimi pastori e dei nobili agricoltori non so perché dovremmo credere che la dignità sia interdetta a chi sorve' glia una macchina-utensile o tiene bene il suo posto in una « catena ». Ui

L'essenziale è di non invertire l'ordine dei valori, di non credere che l'uomo sia per la macchina quando invece la macchina è per l'uomo, e che i valori dello spirito di cui la macchina è l'espressione e il trionfo siano destinati unicamente a tale trionfo, mentre il trionfo vero è per essi indipendente da ogni utilità, gratuito e libero.

Il volgo crede che la scienza sia fatta per costruire aeroplani e macchine calcolatrici; il pensatore e il cristiano stimano invece che i nostri congegni hanno per compito, utilizzando momentaneamente lo spirito, di procurargli in seguito la sua liberazione e di restituirlo al suo destino che è la comunione disinteressata di tutti gli esseri, il commercio spirituale con sé stessi, coi propri simili,

Ctrti Dio.

Lavoro meccanico o manuale, delle membra o del cervello, si lavora per creare in sé e intorno a sé cose belle e utili, effetti di vita aventi come fine ultimo una vita spirituale. Non v'è interesse ad estendere la civilizzazione se non in vista della « cultura », vale a dire dello sviluppo dello spirito, del suo progresso e del suo bene. Lavorare, nel grande significato della parola, e ancorché l'oggetto del lavoro sia modesto, significa sempre obbedire e far obbedire le cose inferiori alla legge del mondo che è ascensione e spiritualità, pensiero, amore e gioia nella forma eterna. Lavorare equivale dunque a spingere le cose dinanzi a sé, verso l'anima e verso Dio.

QUALITÀ BÉL LAVORO 83

SXXI^ . '1 QUALITÀ'' '.Ì9&- -LAVORO

II sole è regolatore della vita; avvolgendo nel suo corso il riposo e il lavoro, simboleggia la provvidenza e ci invita a includere l'uno e l'altro nell'ordine divino, in maniera di comunicare ad essi un valore decisivo.

L'angelo di Chartres era bello, nascendo, sulla cima del suo promontorio di pietra; con la sua giovinezza eroica e il suo virile sorriso diceva già la superiorità dell'uomo' sul tempo. Tré secoli dopo, un genio sconosciuto gli mise in mano la meridiana ed eccolo padrone degli evi a no-. me di quei passanti che la cattedrale ripara con la sua ombra.

È noto che tutti i mestieri sono raffigurati nel vascello spirituale, che simboleggia, mentre la serve, la vita completa unita alla vita eterna. Il quadrante solare portato da un angelo sorridente acquista allora un grande significato. Mortali, sembra dire, non vi affannate nell'adempimento del vostro compito e durante il vostro lavoro, lavorate nobilmente e tranquillamente; dominatevi nella fretta e nella fatica, mantenete l'anima libera e serena malgrado il vostro fardello.

La più profonda qualità del lavoro è forse qui: la sua origine prima ce l'indica, il lavoro è la continuazione dell'atto creatore, del fiat che costituì l'umanità e che vuole ora, attraverso il sno proprio sforzo, subordinarle le potenze della natura. Questa continuazione umana della genesi non dovrà dunque svolgersi nello stesso spirito del suo punto iniziale? La sapienza creatrice ci viene rappresentata come « dilettantesi sull'orbita della terra ». Che anche la sapienza umana si allieti, vale a dire compia opera di libertà e di gioia tra i sudori e le difficoltà.

Non è una contraddizione. L' Apostolo che « sovrabbonda di gaudio in ogni sua tribolazione » non si rattrista certo quando cace le sue tende. Ce Io rap.presentiamo vo-

W & LAVORO

lentieri in atto di cantare, a meno che « la preoccupazione di tutte le Chiese » o un dolore altrui l'opprima nell'angoscia. Ci ripugna vederlo affrettarsi febbrilmente, affannarsi, alterando l'ardore lodevole che Dio ha messo in^ noi e consentendo all'abbandono di quella forza cbc Fabu-, so finirà col rovinare mentre Dio conta su di essa.

« Colui che vede il riposo nell'azione e l'azione nel riposo, questi è; saggio fra gli uomini», dice il Bhagavad-,Gita. ' ^ ' ' . '::'

La qualità complementare di questa prima disposi-' zione, in apparente antagonismo e in realtà cobi collegata, è lo zelo che si oppone non alla nobile tranquillità ma alla pigrizia. La tranquillità congiunge il tempo all'eternità, la pigrizia lo perde; e perdere il tempo nel pieno lignificato dell'espressione, non deve apparirci come una profanazione delittuosa? Perdere il tempo o perdere sé stesso, atomo trasportato dal tempo, è l'identica cosa, poiché si viene a distruggere l'unica probabilità che abbiamo, momento per momento, di comunicare con l'eterno; se questo stato si prolunga, basta a fuorviarci per sempre.

Ancora una volta ripetiamo che questo è vero soltan. to in senso assoluto: non è facile perdere tempo a tal pun< to. Il male stesso è laborioso e il bene ha forme poco appariscenti; rimane il fatto che l'ozio è uno dei vizi capitali, peccato e padre del peccato, sottrazione di vita e insidia tesa alla vita. L'affanno del lavoratore frenetico è all'altro estremo.

Fra i due, legato al lavoro se'nza persistervi e alla pigrizia senza soccombervi completamente, vi è l'incostanza. Definisco così da una parte il lavoro ardente sul principio e che ben presto illanguidisce, dall'altra quel lavoro mai serio, sempre rilassato, che fa definire che vi attende un «dilettante». In tal senso gli incostanti sono nemici .del lavoro più dei pigri: non solo infatti essi abbandonano il mestiere ma lo discreditano. Come ogni apparenza senza realtà, il loro falso sembiante è un tradimento, un'ipo. crita diserzione che sogna la vittoria.

Rifletta bene il lavoratore novizio: tendere al pretèn.

QUALITÀ DEL LAVORO 85

zioso far niente, al mestiere di « mosca cocchiera », oppure cedere prima d'essere arrivati in fondo, abbandonare l'impresa per debolezza morale o trasportati dalla passione è peccare contro sé stessi e insieme contro gli altri e contro Dio: il lavoratore cristiano è d'altra tempra.

Infine, vi è il lavoro che non si può qualificare riguardo all'uomo perché è inumano, il lavoro estraneo allo spirito del lavoro perché esulante da qualunque spirito;

alludo a quel lavoro automatico, specie di abbrutimento metodico, che non è vivificato da alcuna bellezza morale.. Le bestie lavorano così, l'asino o il cane mettono così in moto la ruota del mulino, così l'elefante trasporta le sue travi. È un vero annientamento della personalità ed è questo il motivo per cui la dottrina sociale del cattolicesimo condanna tutto ciò che tende a costringervi dei disgraziati che per un misero pezzo di pane vengono privati della loro qualità di uomini.

Ma per lo stesso motivo ci rivolgiamo al lavoratore per dirgli, sia egli vittima o disponga di sé: o essere libero, sii libero; essere spirituale, non t'immergere in un lavoro senz'anima che ti rende simile all'utensile di cui ti servi, che ti avvilisce come uomo, come cristiano, come predestinato, anche tu, alla vita immortale.

Si cerca ora di organizzare « il dopolavoro », alti funzionar! sono mobilitati a questo scopo. Noi auguriamo buon successo alle loro iniziative, ma grideremmo loro volentieri: consacrate una parte di questi tempi liberi a far gustare la nobiltà del lavoro, il suo senso umano, e, se voi stessi non. l'avete relegato fra le chimere, il suo senso divino.

Quando il lavoratore si sentirà, gli arnesi in mano, uni-to alle forze universali, con lo Spirito creatore, con l'anima dei sapienti, dei poeti, degli inventori, degli eroi e dei santi; quando la sua officina gli parrà in comunicazione col municipio e la chiesa, la sua canzone unita alla salmodia liturgica e al canto domenicale, la sua anima nella comunione dei santi, il suo corpo nella Chiesa visibile e tutto il suo essere con ogni essere in Dio, quel giorno

86 m LAVORO

il lavoratore sarà l'uomo completo ed ammirabile che il suo nome evoca nello spirito del pensatore cattolico. Sarà il più grande valore che si possa concepire e l'eventuale umiltà del lavoro non influirà per nulla, poiché l'uomo vale per quel che fa solo in ragione di ciò che egli è: essere grande vuoi dire fare ogni cosa nobilmente, elevando le piccole cose ed ergendosi alla statura delle grandi.

XXXII IL DOVERE DI STATO

Bisognerebbe essere poeta per celebrare convenientemente il dovere di stato. Se il lavoro è la vita e ne costituisce il valore per quel vincolo che stabilisce tra noi e le forze eterne, questa varietà del lavoro che è il dovere di stato accresce la dignità della sua specie per il fatto che è il lavoro misurato all'uomo il più esattamente possibile, non solamente in quantità, per l'attribuzione di una particella dello sforzo comune, non solo sotto il nome di mestiere, per un contributo definito alla fatica umana, ma grazie a una coincidenza perfetta tra l'attività di ogni persona e il posto che essa occupa nei disegni della provvidenza.

Si potrebbe affermare che il dovere di stato è una qualificazione della persona stessa, e che accettarlo virtuosamente è un atto così semplice e normale, ma anche così grande, quanto quello di esistere come essere morale.

A torto si usa raffigurare l'umanità come una massa grigiastra su cui brillano alcuni punti chiari: gli esseri grandi. Si può anche vederla così, ma quanto più vera e più profonda la visione di un insieme di coscienze di cui ciascuna ha il proprio significato, la propria responsabilità, la propria originalità e importanza! Non è vero che il genere umano trae la vita da poche persone, come afferma una proverbio latino; ciò è solo un'apparenza; in realtà il genere umano trae la sua vita da tutti quanti e

IL DOVERE DI STATO 87

ognuno può sentire la gioia e la consolazione, attribuirsi la gloria (Tesserne un elemento prezioso.

Il genio viene solo in seconda linea; i posti direttivi sono posti in servizio. Le condizioni eccezionali di esistenza per quanto determinanti appariscano — e siano, sotto un certo aspetto — hanno valore solo in ragione dell'appoggio che ricevono e dalla sorgente di rinnovamento che una miriade di condizioni modeste fornisce loro. Perciò tali eccezioni si mostrano suscettibili di spiegazioni assai più elevate, se si guardano dal punto di vista dell' esistenza comune.

Per la durata, queste missioni eccezionali rappresentano Ristante di elezione, il dovere collettivo rappresenta il tempo, ed è il tempo che costituisce il tessuto della vita umana. I rari istanti indimenticabili cadono presto in oblio, il tempo ha una maestà continua ed armonica.

Ne segue che al riguardo delle nostre legittime ambizioni, l'essenziale non è divenire « qualcuno », ma divenire sé stésso, adempiere il proprio compito, tenere il proprio posto, fornire una buona maglia nella rete, un buon gradino nella scala, un buon elemento d'armonia e di progresso, un recipiente che trabocchi, per quanto minuscolo, un poco di fedeltà e di felicità.

: Tale è il dovere di stato:' è l'io fedele a se stesso e -;; liberamente impegnato in un ordine più grande. Fa il suo .libero ingresso in tutto l'essere e come navigatore di que-;sto oceano ha pure il diritto di respirarne tutti gli aromi;

:non c'è in questo ombra d'orgoglio, c'è piuttosto una sforza. La vita è pesante per tutti e a volte d'un peso oscu-?' ro che non da neppure la sensazione del peso, ricusando al portatore questa testimonianza quasi a svalutarne la forza. «Abbiamo due o tré volte nella vita l'occasione 'd'essere eroi — scrive Rene Bazin -— e quasi tutti i giorni i quella di non essere vili »; occasione poco gloriosa quest'ultima, e che non appaga.. Il salario si ricava risalendo ; all'origine prima dei doveri grandi e piccoli, brillanti ed '•oscuri, all'origine anche della divisione degli uffici fra i s cooperanti. In ciò si trova il bene che appartiene a tutti,

88 H:LAVORO

eh® tutti possono gustare, grazie alla fraternità, in; sé stessi o negli altri.

Che importa, fratello mio, ciò che io faccio o che tu fai? Facciamo la medesima cosa, l'unica cosa, poiché in Dio e nella sua verità il destino è unico. L'ingegnere sovrano ha eretto il telaio, tu componi il disegno, un altro tende i fili, io lancio la spola, e l'opera di tutti ci appartiene. Per riuscirvi a prelevare ciascuno la sua parte di prodotto, il talento e l'abilità sono meno importanti di. quel che si crede: servono a qualcosa, certo, ma quei che conta di più è la fedeltà, l'attaccamento a ciò che si fa e la volontà tenace di condurlo a buon porto. Con questo .mezzo si possono vincere insieme, nel complesso di una vita, e la propria inferiorità e la fortuna.

Avendo desiderato di far della poesia, ci sarà almeno permesso di sognare per l'umanità un avvenire che queste considerazioni ci mostrano possibile? Il lavoro sembra dividere gli uomini a motivo della difficile distribuzione dei compiti e d'una ripartizione litigiosa dei prodotti, non potrebbe invece unirli per le idee ch'esso attua e per i sentimenti che suscita? La tecnica è sempre più generalizzata e a dispetto delle resistenze autarchiche la divisione internazionale del lavoro si va organizzando: sarebbe nor-, male che col diffondersi del senso umano del lavoro, l'umanità si trasformasse poco a poco in un corpo di lavoro con le sue funzioni e la sua unità. L'anima corrispondente "ia tale corpo verrebbe così a completare Punita umana.

v La nostra anima individuale nasce dopo il corpo, nel corpo: altrettanto si può sperare dell' anima del genere umano, che è ancora nel Limbo. Quest' anima sarebbe, come l'altra, una espansione, una forza « d'umanizzazio-ne » e al posto della vecchia anarchia, dopo la lunga dispersione delle coscienze in una materia umana inorganica, si vedrebbe nascere una umanità vera, quella sognata da Dio senza dubbio, e che dovrà pure svilupparsi un giorno se l'uomo non è totalmente corrotto.

In ogni caso, il dovere di stato tende a unire, a egua-

? IL DOVERE DI STATO È UN CULTO 89

gliare al più presto, le condizioni umane per il fatto e per il sentimento di essere ciascuno al proprio posto, di fare

ciò che deve e di concorrere così, quasi ex aequo, alla missione collettiva. Se pensiamo che i vari compiti, in se stessi, sono solo in rapporto al tempo, mentre il dovere ha un aspetto eterno, la quasi eguaglianza di cui ho par? lato non diviene eguaglianza senz'altro? A meno che non si invertano le parli, collocando al più alto vertice colui , che adempie col cuore più nobile il compito più infimo!

XXXIII

IL DOVERE .DI STATO E' UN CULTO

Per un cristiano deve valere egualmente l'essere in casa sua, all'ufficio, all'officina, alla fattoria, o in cielo, perché ovunque trova Dio. Un lavoratore cristiano è un adoratore, direi quasi un sacerdote. Una donna che cuce ed ha il cuore in alto raffigura il Destino in atto di riunire i frammenti dell'evo eterno e Se sue forbici che cadono per caso in mezzo al silenzio orante mi ricordano il suono commovente delle ore nella chiesa durante un rito. Una volta allacciata l'anima a ciò che dura, basterà essere assorti nel presente e nel proprio lavoro, per essere anche in ciò che è eterno.

Per un' aberrazione che ha conseguenze infinite si vuoi dissociare la vita religiosa dalla vita domestica o professionale. Tutto ciò che è dell'uomo, è religioso o deve esserlo. Mi piace questa nota di Barrès nei suoi Cahiers. Ammirando le campagne coltivate a riquadri dall'alto, d'una collina, scrive: « Lunghi tappeti, tappeti di preghiera. La preghiera di ogni famiglia : Dacci oggi il nostri»' pane quotidiano ».

Si è rimproverato ai nostri classici di separare, direi;

quasi sistematicamente, in se stessi, l'autore, l'uomo e il cristiano; che il rimprovero sia fondato o no, è certo che nói lo meriteremmo più di loro se separassimo di fatto, se

9ff IL LÀVOKOF

'. .» , •

non per sistema, l'uomo di tutti i giorni, il cristiano e il professionista comunque qualificato. La nozione cristiana del-dovere di stato è l'antidoto di questo spezzettamento:

essa riconosce lo spirito professionale che dirige le opere e non l'uomo; lascia posto allo spirito umanistico, alla maniera di Erasmo o di Montaigne, che governa l'uomo e non il cristiano; conserva come suo lo spirito religioso che avvolge di soprannaturale la natura adottata e resa più pura, ponendosi così nella condizione di dirigere tutto.

Quale immenso progresso farebbe la nostra mutua comprensione e quante obbiezioni cadrebbero naturalmente se si arrivasse a capire che la religione- non si propone di togliere nulla alla nostra vita, e nulla intende cambiare di ciò che non la disperde e non Sa minaccia! Perché dovrebbe cambiare qualche cosa dal momento che cambia tutto? E il cambiamento consiste in quella trasfigurazione per cui eleva le sue ispirazioni e porta ali' infinito il termine ultimo delle sue ricerche.

Il saggio indù l'ha detto da tanto tempo: « L' uomo soddisfatto della sua funzione, qualunque essa sia, raggiunge la perfezione. Ascolta, tuttavia, come la raggiunge. Onorando con le sue opere Colui da cui sono emanati gli esseri e l'universo ha avuto principio, l'uomo arriva alla perfezione. Val meglio adempiere le proprie funzioni, sebbene meno elevate, che quelle altrui, anche superiori;

poiché facendo l'opera inerente alla sua natura, l'uomo non commette peccato ». Un fedele avvertito da Cristo e circondato dagli insegnamenti della Chiesa sarà meno saggio?

Tutte le ragioni della nostra vita devono essere evangelizzate, dopo che lo sono state — se vi abbiamo provveduto — le porzioni di questa vita che consacriamo al culto. Anche il dovere di stato è un culto, è il culto dei giorni di lavoro, è la preghiera continua che Gesù Cristo ci domanda, allorché lavoriamo in suo nome.

Il cristiano che conduce senza tregua meglio che può la vita che Dio gli ha preparato, che adempie il suo compito, nel suo focolare, nel cantiere, nello studio, nell'uffi-

^L'INTIMITÀ DIVINA NEL DOVERE DI STATO 91

; ciò, in caserma, nella sala di redazione, nel mondo, e per-s sino allo stadio o al campo da giucco, e fa tutto con ^spirito religioso, vale a dire per onorare il suo Creatore ";, e avanzare verso di Lui con i suoi, con tutti, attraverso 'l'esistenza, costui prega perennemente, e per lui vale il ; proverbio: « chi lavora prega », benché a suo tempo debba pure ricordarsi di quello reciproco: chi prega lavora.

La vita è una ed è in Dio. La vita ci è data da Colui che dona se stesso nell'intimo del cuore e vuole darsi un giorno in tutta la pienezza. Oggi nessun progresso sembra più necessario di questo: mettere in piena luce, nella no-• stra anima, le esigenze della vita cristiana in rapporto al nostro lavoro quotidiano, alla nostra vocazione umana e al posto che ciascuno di noi occupa quaggiù.

. XXXIV L'INTIMITÀ' DIVINA NEL DOVERE DI STATO

Poiché il dovere di stato è un culto, ci mette a contatto con l'essere adorato in tal modo nell'azione, servito a dir così per procura, la procura delle nostre opere.

Il sacerdote maneggia Dio; sacramentalmente, egli lo crea; con lui il fedele « comunica », vale a dire si unisce a Dio, al sacerdote e all'assemblea cristiana; e il lavoratore lontano, l'uomo e la donna in casa o nei campi, all'officina o in ufficio, si mantengono uniti a loro, a Dio, r: allorché il lavoro, per l'intenzione o per l'indirizzo, ha 'saputo trasformarsi in un rito.

, Non saliranno al ciclo solo quelli che avranno trascorso la vita a costruire le scale. Il sacerdozio è grande, ma ogni vivente vi partecipa, se vuole, e non è già ai consacrati che sono state dirette queste magninone parole:

« Voi siete una stirpe eletta, un sacerdozio regale, gente santa, popolo d'acquisto, che Dio s'è scelto affinchè annunciate la perfezione di Colui che vi ha chiamati dalle tenebre all'ammirabile sua luce ».

92 .' IL LAVORO

II nostro Dio ci chiama a sé per lo spirito stesso della nostra vita, per la forma e le occupazioni di questa vita, è lui che viene a noi facendo con noi ciò che dobbiamofare d'accordo con Sa sua provvidenza. Il suo cièlo non è più vicino all'altare che ad un macina da mulino, a una vanga o all'incudine; quello che stabilisce la vicinanza è il cuore. Come l'orizzonte è alla medesima distanza da tutti i punti della terra, così ogni istante di lavoro o di preghiera può essere nella medesima relazione d'ogni altro con l'Eterno.

Per stabilire e rafforzare il nostro contatto con Dio è necessario innanzi tutto che sentiamo Dio presente. Presenza in questo caso significa pensiero: se io non penso a Dio lo allontano da me, e benché egli sia sempre con me,

10 non sono più con Lui. In secondo luogo occorre che la nostra volontà aderisca alla sua; negativamente, non ammettendo alcunché di male; positivamente, con l'accetta-zione della nostra sorte, dell'azione presente e dell'avvenire che prova la nostra fedeltà e la nostra fiducia. Il lavoro ci domanda un atto di fede, un atto di sottomissione filiale, un atto d'adorazione, un atto d'amore. Piccolo compito — è sempre piccolo — nobilitato da un grande cuore; opera d'insetto compiuta con la convinzione che per noi non c'è nulla di più grande sulla terra: tale è il dovere di stato, poiché esso ci permette di realizzare

11 voto che il Cristo ci invita a formulare con Lui: « Sia fatta la tua volontà come in ciclo così in terra ».

Tutto considerato, una sola situazione mi conviene ;

la mia. Pesando ogni circostanza sulla bilancia dell'eternità, una sola azione, in questo momento, coopera alla mia salvezza e alla gloria di Dio nell'universo: quella che faccio. Se così non fosse non dovrei compierla; ma dal momento ch'io la faccio con anima retta essa è buona. Il suo valore è in certo modo infinito, perché rappresenta in quest'istante l'infinito volere. Tutto ciò che pretendesse usurparle il posto sarebbe ostile, costituirebbe un ostacolo tra Dio e me, ed io non devo rimpiangere nulla: successo morale, conquiste d' apostolato, eroicità, martirio, sicuro

LO SVILUPPO PERSONALE DEL DOVERE DI STATO 93

al aver fatto o di fare, al mio posto, quel che occorreva. Com'è bello sentirsi così nelle mani di Dio, unito al

.suo cuore, collaborando alla sua opera immensa e secreta! L'umiltà del compito è una dolcezza di più: vedete, mio Dio! io alzo una paglia per vostro amore, e so che la ve-

: drò brillare un giorno, trasfigurata, nei Tempio invisibile. L'universo intero è fatto di fuscelli, il vostro oceano di Secce, e tutte le cascate del Niagara di rivoletti d'acqua.

'La grandezza viene dal!' ordine. Il vero valore dell' uni-

: verso è la sua avanzata vergo il Perfetto, ed anch'io, aman-

' dovi, obbedendovi, sono nell'ordine.

Gloria al lavoro per cui Dio è con noi e noi siamo con Dio! Gloria ai piccoli avvenimenti che provochiamo o ai quali ci adattiamo se essi ci dirigono alla vera meta e ci fanno navigare nella corrente della provvidenza senza deviazioni, ne fretta, ne presunzione, ne violenza, ne impazienza, ne timore, secondando la forma dell'onda!

La nostra vita ha un fine; ma ognuno dei nostri atti ha pure il suo fine: unirci a Colui che è già presente nel. tempo con tutta la magnificenza e la gioia della sua eternità, a Colui ch'è già nostro.

XXXV

LO SVILUPPO PERSONALE DEL DOVERE DI STATO

Tutto ciò che serve Dio, serve anche noi e ci eleva, Se è doloroso e facilmente trascina verso il basso essere schiavi delle persone, da sempre forza e tonifica il rendersi schiavi d'un lavoro, quando esso è opportuno e nell'ordine.

Un poeta diceva che quel che stimolava rnaggior-

' mente la sua vena, non era ciò che si chiama l'ispirazione, ma la necessità di concludere una volta intrapresa un'ope-

' ' ra, una volta gettato il dado. Così una volta letto il numero sul dado che la Provvidenza ci ha posto dinanzi e accettata la sorte con tranquillo coraggio, ogni occasione

94 IL LAVORO

è buona per Io sviluppo di noi stessi e del nostro progresso.

Ogni funzione ha il suo rendimento e spessissimo si pensa e si mira solo ad esso; ma le nostre mire sono sempre superate dalla realtà, il divino è ricco. Quello ch'io' mi propongo come lavoro, paragonato ai moti del mie essere intimo non è che una specie di alibi; l'anima sa* pera la funzione e questa frapponendosi fra il pubblico 6^ me nasconde la mia vita più profonda, senza tuttavia abolirla. Quale migliore consolazione, ne! caso in cui il renX, dimento sia in apparenza nullo, o peggio, qualora abbiamo?^' ottenuto — se si può chiamare ottenere — proprio il contrario di quanto avevamo cercato! Ma certo che abbiamo ottenuto, abbiamo realizzato un guadagno, se con lo sforzo generoso compiuto su di noi per un motivo esteriore, , siamo riusciti ad elevarci in dignità e valore morale!

È frequente il caso che la terra non dia all'agricoltore ciò che egli ne attendeva; è raro che lo-faccia pentirò^ della sua fatica. Qnel che non si guadagna da una parte si guadagna dall'altra: la natura non è ingrata. Ma nel soprannaturale, la dovizia delle speranze sorpassa ogni concezione, il nulla vale per l'infinito, il poco crea l'im-.menso, gli stessi valori negativi si convertono in positivi per opera di Colui che « chiama ciò che è ed anche ciò:

che non è ». :'

Non parlo già di ricompensa, parlo di formazione. In fondo è la stessa cosa; ma non si può non pensare ai :

futuri sviluppi. Il seme d'immortalità che è in noi e si confonde con la nostra persona morale si sviluppa nel dovere dì stato più che in qualunque altro, indipendentemente dalla natura dell'azione e da ogni sua efficacia visibile. « Non c'è forse per ciascuno di noi — dice Jacques Madaule — nelle nostre giornate troppo occupate, un momento in cui sentiamo d'un tratto che tutto ciò non ha in realtà alcuna importanza, che non siamo nell' essenziale, ma rimaniamo soltanto alla superfìcie delle cose? ». Senza dubbio! ma il fondo delle cose ci attende ad ogni istante; sta a noi il coglierlo o per meglio dire lasciarci

LO SVILUPPO PERSONALE DEL DOVERE DI STATO 95

afferrare da esso, poiché solo possedendoci totalmente potrà saziarci. ; Bisogna d'altra parte riconoscere che il riposo dello

^.spirito e l'equilibrio dell'anima, nel dovere di stato, domandano che vi si riesca più o meno ai nostri propri oc-

;; 'chi e che gii altri ne siano soddisfatti; ma il successo dipende da noi in una misura ch'è tanto meglio ricono-i'scinta quanto più ci applichiamo al nostro compito con fedeltà e serietà. Formandoci, acquistiamo fede, come ; avendo fede ci si forma. Accadono degli incidenti, ma

-, nell'insieme lo scacco è dovuto quasi sempre all'irrifles-:';.sione, alla dimenticanza o alla negligenza delle condizio-^ ni essenziali dei propri atti, al fatto che ci si affida al caso, alla probabilità, mentre lo sforzo preciso e la perse-

•' ^veranza raggiungerebbero il risultato. Abbiamo una ten" . denza istintiva a volere gli effetti senza produrne le cau-J;se. Invece di dare fino in fondo, lesiniamo e vogliamo un

• massimo di farina con un minimo di grano; la natura non

•vi si presta, il che racchiude l'elogio della moralità contenuta nelle sue leggi, e il biasimo della nostra pigrizia. ,; Vi è anche il biasimo della nostra imprudenza e delle nostre passioni, poiché non solo noi vogliamo il bene senza sforzo, ma intendiamo egualmente evitare i rischi senza nulla sacrificare. Tale è chi si aggrappa al medico e rifiuta di piegarsi alle più evidenti prescrizioni dell' igiene. Si deduce quindi quale raddrizzamento può operare, in questa doppia serie di casi, un attaccamento al dovere di .stato che vale a reprimere le passiona e dd esercitare la ;energia.

:' ; Uno scrittore contemporaneo non si perita di afferà/mare: « Io non ho dovuto custodire la -mia penna, è lei che ha custodito me ». Delacroix scrive nel suo giornale:

« La pittura vile è la pittura di un vile », ed egli si rallegra d'aver finalmente trovato la felicità ben lungi da ciò che gli appariva un tempo come tale: nel dovere quotidiano. Col tempo, ed anche Delacroix lo nota, la stessa difficoltà si riassorbe e così pure le preparazioni o i ritocchi fastidiosi e la noia: « Non c'è opera lunga all'infnori

96 •• IL LAVORO

'di quella che non si ha il coraggio di cominciare», scrive Baudelaire, e nella « Principessa lontana » sboccia questo verso:.

,; Ora finit pfl'r aimer tout ce vers qum l'oa rame.

Remiamo adunque verso Dio, nella barca quotidiana in cui ci ha posti per amore: .remando, in essa, per amore

impareremo ad amarlo meglio, non fosse che in vista del fine.

XXXVI ^iJTILITA' SOCIALE DEL DOVERE DI STATO

i « I nostri compili sono limitati, scrive Bossuet, ma l'estensione della carità è infinita ». Si sente il colpo d'ala e vi si apprende che quando parliamo da cristiani di utilità sociale, l'affermazione si restringe difficilmente nei limiti del tempo. Restando tuttavia in questi limiti, diremo che il dovere di stato dei cittadini costituisce, per il paese, il fondamento più solido delle sue speranze e, se l'attaccamento a tale dovere illanguidisce, il motivo più fondato dei suoi timori.

La consistenza dello Stato non è data dall'agitazione degli uomini politici, dal chiasso dei giornali e dalle dichiarazioni dei congressi; essa dipende dalla modesta fedeltà dell'umile gente a! proprio dovere, dall' integrità scrupolosa dei funzionar! e degli amministratori di ogni rango, dalla coraggiosa saggezza dei padri di famiglia, dei loro figli e delle loro figlie, e, più che tutto forse, dalla 'silenziosa sovranità della padrona di casa forte e sagace. Questa è l'armatura del paese: il resto non è che l'attrezzatura e la vernice della scesa.

Il lavoro, preso in senso generale, ha per fine di procurare all'umanità nuovi organi, allo spirito nuovi mezzi di manifestazione, ai fini della creazione nuove risorse;

futilità; SOCIALE DEI,' DOVERE DI STATO 97

ma quest'effetto collettivo è prodotto solo dalla perseveranza dell'individuo nel proprio campo d'azione e dalle virtù d'ogni specie che egli vi spiega. Affermazione ingenua? Ahimè! le verità lapalissiane sono quelle che tutti ignorano, ad ogni modo le meno apprezzate e le meno messe in pratica.

Ci si lamenta di questo e di quello: gli affari pubblici non camminano, le ruote cigolano, tutti sono malcontènti e protestano rumorosamente; si accusano le costituzioni, le maggioranze o le minoranze, i partiti troppo attivi o troppo deboli, e le generazioni passate e i popoli vicini e il continente lontano. Andate in fondo e potrete constatare quasi sempre uno sgretolamento delle energie morali e professionali, una volontà incosciente di lasciarsi portare dalla collettività, invece di essere al proprio posto tra quelli che ne assumono il peso prima di reclamare il profitto.

In genere chi si lamenta di più è precisamente chi da meno; il buon lavoratore non ha tempo di fare recriminazioni e vi pensa difficilmente; l'uomo che ama il suo lavoro spera a buon diritto di ricavare ciò che contiene, pur nel comune disordine, e non pensa di aumentarlo con la propria impazienza. Ognuno al posto suo! Ecco la parola d'ordine più utile nei periodi d'agitazione, come su un battello minacciato dalla tempesta. Nella calma, la stessa parola d'ordine rende sicuro il cammino ed evita gli scogli. Tutto il resto son chiacchiere, passioni, agitazioni perniciose.

Non si dica: la mia azione vale poco, io che posso mai fare? Il tale sì che potrebbe... Questo tale è fatto come voi, e finché il vostro dovere non è compiuto, a qual tìtolo venite a dettargli il suo? Ci si lamenta delle autorità, ma le autorità sarebbero ciò che sono, se noi non fossimo quelli che siamo? « Io trovo che si ha maggior ragione di rampognare il proprio tempo quando si è fatto quanto occorreva per servirlo », scriveva Rénan in una lettera.

Ciascuno sta per proprio conto davanti a Dio, alla

98 IL LAVORO

^propria coscienza e alla coscienza comune. Ciascuno ri-^sponde di sé. Il ruscello irriga a seconda della quantità

delle sue acque e non ne è dispensato dal fiume; non gli 1 si chiede che trabocchi; ma solo che scorra e bagni le sue sponde, null'altro; se ogni corso d'acqua lo imitasse—— ,, ma questo non lo concerne più — l'irrigazione della zo-' na sarebbe perfetta. ' Dicevamo sopra che nel piano della provvidenza

'Ogni individuo è indispensabile all'universo intero: ab-•^sbiamo quindi il diritto d'affermare che in un gruppo sorciaie ogni elemento per piccolo che sia, è indispensabile y a tutti. «Non esistono mestieri inutili-», il più umile ar-, .tigiano, la più modesta massaia, apportano il loro con-! tributo al potente, e favoriscono il pensatore glorioso. La

collettività è loro debitrice e lo confessa di tanto in tanto .decorando un vecchio servitore, una devota istitutrice, iuna Suora di Carità, un operaio veterano o un lupo di_ ;;,mare.

i:! Ma perché il dovere di stato sia utile e grande bi-; sogna che sia amato. La tiepidezza e la negligenza gua-. stano tutto, peggio ancora l'invidia, lo spirito diffidente , i e maldicente che pensa sempre al dovere altrui. \ Indirizza a tè stesso, o cristiano, le tue ammonizio-;,ni: sono le uniche efficaci. Ti sembra ragionevole esau-, rirti unicamente là dove non puoi far nulla? Riforma la

,tua vita, se necessario; se già è retta fa un passo avanti ; è lavora per due, come in un sinistro si delineano tosto i coraggiosi e i buoni a nulla.

Ho assistito a parecchi infortuni. C'erano persone che urlavano, donne che piangevano, vili che si scansava-, ;no, ma qua e là emergevano i coraggiosi che salvavano le vite minacciate e si sforzavano di limitare il disastro. Onore a coloro che comprendono così il loro dovere e se ; ; Io prospettano tanto nobilmente da non fare distinzione (fra il loro e quello dell'inetto o del pigro. Ma onore anche a tutti quelli che si mantengono umilmente dinanzi ; al proprio compito, senza pensare a complicarlo o a re-; stringerlo, ma solamente a compierlo, ogni giorno, sino

BELLEZZA E UMILE DOLCEZZA DEL DOVERE DI STATO 99

in fondo. A costoro sarà detto come nella parabola:

« Bene, servo buono e fedele, perché sei stato fedele nel poco ti stabilirò sul molto: entra nel gaudio del tuo Signore ».

XXXVII •

BELLEZZA E UMILE DOLCEZZA DEL DOVERE DI STATO

• ,,,/

Ci è stato rammentato recentemente quel lavoro dell'antica India eseguito cantando, quei delicati vezzeggiativi dati a un velo di garza, a un tappeto, dopo il compimento del lavoro fatto nel gaudio, e quei lavori campestri preceduti dalla confezioni di ghirlande per decorare le corna dei buoi. Dove è andato ormai questo spirito di innocenza, questo nobile svago, autentica testimonianza della semplicità dei cuori,, così atto ad alleviare la fatica? I costumi cambiano e noi non domandiamo che s'inghir--landino le rotative o che si lancino petali di rosa nei ruscelli; non si potrebbe tuttavia aonrezzare di più la bellezza del lavoro, quella specialmente delle fatiche segrete, di cui tutto il lustro è nell'ordine morale, la poesia essenzialmente intima, ma che certo gli angeli guardano, poiché è proprio verso di loro che si orienta?

« Per condurre i bimbi a comprendere le cose grandi, — dice Marie Fargues — bisogna sempre mostrarne loro delle piccole ». E quel fanciullo che sempre sopravvive nell'uomo non sentirà forse la nobiltà del dovere se glielo si mostra incarnato in un'opera infima aureolata di infinito, uno di quei nonnulla appartenenti all'opera eletta che, secondo il poeta, per elevarsi alla gloria del cielo spirituale, « richiede molto amore »?

Quante volte nei nostri momenti migliori noi invochiamo grandi missioni! Dal cielo ci si risponde: rendi. grande la tua. Il tuo onore, o uomo, è in tè stesso 5 inchinandoti verso le cose che si dicono basse, tu lo coiap-

100 IL LAVORO

nichi loro, non lo perdi; se la tua corona è ben salda sulla tua testa, non cadrà.

L'uomo che fa il suo dovere e mantiene il proprio posto sull'uno o l'altro gradino, può guardare chiunque negli occhi, come la più piccola stella palpita in pace nei cicli immensi. Quest'uomo ha diritto alla pace e l'ottiene di fatto, poiché l'amore al dovere va di pari passo con l'amore al diritto altrui, all'ordine, al bisogno di sacrificio, di cui la pace è ricompensa!

Molti sono costretti a soffrire; nessuno è costretto alla pazienza: soltanto quando si piega liberamente l'uomo si rende meritevole, e siccome il dovere di stato ve Io invita di frequente, egli può essere certo di trovarvi la grandezza. Quant'è bella questa costrizione accetta, questa fede nell'inevitabilità di ciò che nessuno ci impone, se non la nostra propria legge!

Un cuore nobile è legato dalla sua fedeltà assai più che il prigioniero daile catene, ma che differenza! Questo è diminuito di tutto ciò che gli si toglie; quello è reso grande da tutto ciò che esige da sé stesso in favore dell'ideale; legato in apparenza al suo destino, subisce una schiavitù che si traduce, in ultima analisi, nella più libera e ricca armonia col medesimo.

Si cerca la definizione della felicita: in un certo senso essa non esiste, in questa vita si intende. Ma se ve n'è un abbozzo, e in forma così velata che solo un'anima nobile può riconoscerlo, essa apparisce nell'acccttazione spontanea del dovere quotidiano. Non esige Sa riuscita ma piuttosto la certezza ben altrimenti pacificante di aver fatto, comunque vadano le cose, quanto dovevamo fare. Felicità della coscienza, felicità nuda, gaudio puro, che è compatibile con molti mali, ma che per l'amore di Dio e la soddisfazione della giustizia si trasforma in beatitudine perfetta dopo la prova terrena.

Un papa diceva che avrebbe canonizzato senz'altre informazioni un religioso interamente fedele alla sua regola: la regola austera del dovere di stato integrale avrebbe diritto ad una dichiarazione consimile. Non c'è diffc-

II/ VU-VAI QUOTIDIANO 101

renza alcuna tra una regola scelta per Dio e quella che Dio c'impone nella sua provvidenza; con lo stesso cuore vi raccogliamo gli stessi meriti e vi scopriamo, noi imperfetti, lo stesso motivo di lode e di imitazione.

Si legge nel Bhagavad-Gita questa bella sentenza attribuita al Dio supremo: « Colui che, senza tregua, adempie il proprio dovere rivolto verso di me, raggiunge per la mia grazia la dimora eternamente immutabile ». Il nostro Vangelo applaudirebbe questa anticipazione dei suoi discorsi, ma aggiungerebbe — e il più nobile pensiero indù vi si accorda — che la dimora della immutabilità eterna ci è aperta fin d'ora, che il regno dei cicli è dentro di noi e che possiamo rallegrarci, nella speranza, come si rallegrano gli eletti del cielo nella loro pace definitiva. « Spe gcaidentes », è la formula di Paolo, che esprime in due parole tutta Fumile dolcezza del dovere.

XXXVIII IL VIA-VAI QUOTIDIANO

Vi è molta varietà di doveri di stato. Una delle forme meno notate e che molti trascurano, è quell'insieme, di azioni che formano come il tessuto connettivo della vita, azioni marginali, valori negativi, sotto-prodotti dell'attività, ritagli, detriti, sedicenti scarti che valgono, tanto quanto noi lo vogliamo, per la vita eterna.

La scienza e la tecnica non ignorano più questa nozione dei rifiuti, degli avanzi che è ancora estranea alla vita spirituale. Il frammento che si disgrega dalla roccia ha il valore di tutta la massa agli occhi del mineralogista, del chimico o del fisico, intenti all'essenza delle cose. Un fascio di azioni animate da un unico sentimento riduce slmilmente all'eguaglianza i suoi elementi grandi o piccoli, omogenei o apparentemente disparati, per il fatto che ciascuno contiene il tutto in ciò che costituisce il suo vero valore.

102 , IL LAVORO

Le grandinose sono fatte da coloro che hanno il senso delle piccole e delle loro aderenze anonime. Napoleone

;ad Austerlitz pensa al rancio del soldato e ai bottoni delle sue ghette. Kinchiusi nel piccolo, si può sognare il grande è servirlo, mentre curare il grande trascurando il piccolo rende moralmente sospetto, anche chi è grande. In realtà tutto ciò che Dio ha fatto è grande della grandezza stessa di Dio, e tutto ciò eh' Egli ci affida costituisce un punto d'incontro tra lui e noi. Sta a noi, dunque, di rispondere facendo del più piccolo dei nostri gesti una testimonianza di fede e un rito del nostro amore.

Guardando un operaio che riordina i suoi utensili

'scopriamo già abbastanza sulla sua diligenza e le sue attitudini. Guardando una donna spolverare i suoi mobili,

.indoviniamo con qual cuore sosterrà la vita di suo marito O coprirà, se occorra, una carica pubblica. Quel che non vale trae da quel che vale tutto ciò che costituisce il pregio e lo rivela a chi sa comprenderlo. Non v'è nulla di così grande nella creazione che non possa essere accolto nel cuore d'un fanciullo che si applica nello studio perché la volontà di Dio sia fatta sulla terra come in cielo. È in Dio stesso che bisogna cercare l'equivalente di una vo« lontà che si allaccia umilmente e pur chiaramente al bene supremo. Vi si oppongono istintivamente tanti falsi valori, espedienti di un amor proprio ipocrita, monete false con cui non si compra nulla e tanto meno il regno dei cicli.

San Francesco di Sales parla di una povera vedova d' Annecy che egli vide alla processione del SS. Sacrameni to e che rappresentava assai bene, così egli osserva, la sorte delle azioni più umili. « Mentre gli altri portavano delle grosse torce di cera bianca, essa aveva una candelina che aveva fatto da sé; e il vento gliela spense. Ma ciò non Raccostò ne l'allontanò dal SS. Sacramento, e non, mancò di giungere alla chiesa insieme con gli altri ». La realtà morale non ci è nota: questo mondo è velato al mondo; quante ve ne sono senza dubbio, di queste bellezze nascoste, di cui gli autori stessi non hanno coscien-

IÈ VIÀ-^Afc QUOTIDIANO 103

za e che si esprimono in frasi fatte, tanto banali quanto può essere grande il sentimento che celano!

L'automatismo dell'abitudine non cambia nulla, quando l'abitudine stessa è considerata da un punto di vista più alto, e diviene sacra. Il simile e il dissimile, il nuovo e il vecchio non si diversificano moralmente che per l'ispirazione, e da essa si giudicano ancora la facilità e la difficoltà. Poco importa il talento che si esige o si da, quando esiste il genio ispiratore. Analogamente giudichiamo dalla loro ispirazione le azioni disinteressate e quelle che portano una utilità, fosse anche la più modesta. « II pane per sé è una preoccupazione materiale •— scrive Berdiaeff — il pane per gli altri è una preoccupazione spirituale ». Ma questo è vero solo a metà: il pane per sé è altrettanto sacro quanto il pane per gli altri, o il pane universale, allorché l'anima vive nell'universale e non guarda a sé che in vista di Dio e di tutti.

Ecco un segno della nobiltà di cui rivestiamo le nostre azioni «nulle»; muore un uomo: il suo passato, anche il più insignificante, si innalza ed acquista una certa grandezza. Questa maestà che egli riveste allora non viene creata dalla morte, la morte la manifesta; il mistero della vita appare indifferente alla misura di ciò che lo rivela, e dobbiamo dirci che l'immensità in cui li introduce la morte, avvolge e prolunga ciò che furono e ciò che compirono i vivi.

Dio registra tanto meglio le nostre azioni insignificanti quanto più abbiamo cura di mantenerle nella sfera dei nostri momenti di preghiera. « Una sola occupazione, periodicamente fissata in una vita — scriveva Deìacroix — orienta tutto il resto della vita; tutto viene a gravitare intorno ad essa ». Ciò che egli diceva così nel suo diario è assai più vero delle nostre ore di culto. Avendo fissato la nostra anima in Dio, noi non Lo lasciamo mn .che in apparenza. Egli stesso ci segue nel nostro viavai 'che ormai può definirsi pio, e ascolta, accoglie ed esaudisce a modo suo la muta preghiera delle nostre piccole azioni. / ,,

m, ; IL LAVORO

La durata, allora, acquista per noi una solennità che la rende, p'er dir così, immutabile. Il tempo non scorre più, in ogni caso non passa ne troppo lentamente ne troppo presto; ciò diviene indifferente perche ogni istante cosi consacrato si ricollega all'Immobile, e la fuga degli istanti che si succedono non ci sottrae nulla di essenziale. Quel che merita di essere arrestato è sempre nostro. L'anima sorvola le occupazioni "delle nostre inani, quelle ancora dello spirito nelle sue regioni di studio o di attività. Nei limiti, del resto sconosciuti, di noi stessi, ci muoviamo. come in uno spazio reso infinito dalla dimensione in altezza che gli abbiamo dato. Abbiamo diritto all'appaga"• mento, alla pace, e la filosofia della vita, che S. Giovanni Crisostomo fa consistere nella semplicità unita alla prudenza, trova in noi piena soddisfazione.

XXXIX

IL RIPOSO

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L'uomo non deve èssere vittima della fatica. In tutti i sensi della parola, il lavoro deve farci vivere; ora sa-, rebbe forse vivere l'acquistare unicamente col lavoro di che lavorare ancora?

Questa rimostranza, in ciò che concerne il proletario,' è forse l'appunto più grave in Carlo Marx. Voi pagate all'operaio — egli dice — lo stretto necessario perché sia in grado di servirvi ancora, mai abbastanza perché, resa in qualche parte alla sua vita propria, questa preda vi sfugga.

Non v'è ragione alcuna, perché il lavoro tenga più posto nella vita dell'uomo che in quella dell'uccello. La vera vita dell'uomo è più vicina alla natura di quel che non Io credano i nostri « civilizzatori ». L'asprezza del lavoro è pena del peccato, ma l'espiazione non è senssa misericordia. I forzati stessi si riposano, e sotto il regime di Cristo noi non siamo dei forzati. L'Antico Patto istituì

IL RIPOSO 105

il sabato; il nuovo, proclamando il suo spirito di libertà e d'amore, domanda ben di più.

Troviamo in Remy de Gourmont queste frasi paradossali: « Noi siamo arrivati a quei grado d'imbecillità che fa considerare il lavoro non solo come onorevole, ma come sacro, mentre non è che una triste necessità ». « II tempo del riposo, ecco la più grande e la più bella conquista dell'uomo ». « L'uomo d'azione è un manovale. L'ultimo oratore da comizio eccita più movimento di un conquistatore». « I pensieri son fatti per essere pensati e non per essere vissuti». Tutto ciò appare paradossale e certo non brilla per l'esattezza e per la misura; è d'uopo / tuttavia ritenerne il profondo significato.

L'uomo è bensì fatto per il pensiero e di conseguenza per il riposo, se si oppone il riposo all'opera servile. Bisogna tendere dunque alla conquista del riposo, purché esso sia umano nel senso pieno e partecipi così del riposo divino in cui consiste la vita eterna. L'idea solo in linea secondaria e fatta per convenirsi in azione, essa vuole innanzi tutto essere pensata, e in ultima analisi l'agire si assorbirà nel puro pensiero. Sarebbe forse per un oscuro intuito di questa verità che le mani oziose godono del pregindizo di distinzione e quasi di aristocrazia umana? Vi sono altre ragioni derivanti dall'ordine sociale; ma io;

suppongo che vi sia in questo un segno evidente che il nostro fine suona riposo e non costrizione.

Si capisce che tutto ciò vale per l'assoluto e non porta conclusioni precise per la nostra pratica. L'assoluto è;

tuttavia una luce direttiva. Non ci resta quindi che avvicinarsi ai fatti per vedere come il cristiano debba consi-y derare il riposo.

Lo si confonde a volte con l'inerzia, col «far niente » e col nulla; altre volte con' un'agitazione artificiosa che è reputata un diversivo dal lavoro, li riposo non è ne questo ne quello; è una distensione, una liberazione dalle costrizioni professionali, una resa del soggetto alla propria iniziativa per l'impiego della sue facoltà o l'arresto relativo del loro funzionamento.

106 IL LAVORO

L'arresto è sempre relativo e secondario. In primo luogo, il riposo è un'attività senza uno scopo ben determinato e imposto, senza preoccupazioni economiche, senza rapporti di sottomissione. Le occupazioni, ch'esso ammette o richiede, sono libere e perciò riposanti. Ci ritroviamo nella piena proprietà e nel godimento di noi stessi. Ne segue che le libere iniziative così intraprese, potranno essere le più feconde. « Domandiamoci, scrive Abel Bonnard, ciò che avrebbero fatto Grazio e La Fohtaine, se non si fosse permesso loro anzitutto di non far nulla ». L'aveva già osservato La Bruyère: « All'ozio del saggio non manca che una migliore denominazione che qualifichi cioè come lavoro il meditare, il parlare, il leggere, lo stare tranquillo ».

D'altra parte il piacere trova qui il suo legittimo posto. Ben regolato, esso aumenta il nostro essere mentre accresce la nostra potenza d'azione. Buono in sé, è anche'. un bene in potenza, al punto che scartarlo dalla vita sa-';

rebbe un rovinarla, poiché ne è l'aroma.

Ad un monaco che gli rivolgeva delle interrogazioni profonde dopo il pranzo, S. Luigi rispondeva: « Non è questa l'ora delle discussioni ma piuttosto quella di ricrearsi con qualche giocondo scherzo, o qualche " quoli-j bet " ». Il « quolibet » ai tempi di S. Luigi significava una'.,;;

conversazione spontanea e dilettevole. L'uomo che discor-8 ;, rè con disinvoltura e si allena spiritosamente è forse menpt;

serio di colui che sovrappone pietra su pietra per costruì- .'• rè un muro? ;

La nostra creazione migliore siamo noi stessi; ora il/'» riposo la permette più del lavoro, allorché il lavoro nonr-crea che cose periture. ( ,x

Un altro aspetto del riposo si è che esso può signifi— ^ care raccoglimento, distillazione, riordinamento, ripresa dit'^y equilibrio fra le ossessioni e le scosse della vita attivay';^ì;) cosicché permette un più completo possesso di sé. ;3

Che faremo dunque di quest'io riconquistato se nons' • assestarlo meglio nei riguardi dei fini della vita e della gerarchla dei suoi oggetti e dei suoi esseri? Il lavoro può

TJTILIZZAZIOi^^DEL RIPOSO 107

mancare; la preoccupazione morale non manca mai. Lo stato dell'animo di un uomo in un giorno di festa, quello di un nobile riposo, è assai più prossimo allo stato del giusto e dell'amico di Dio che è « una perpetua festa ». i II riposo è veramente buono, bello e degno di un cri-; stiano cosciente del senso genuino delle cose, quando ri-i flette in sé la bellezza naturale e soprannaturale della verità terrena e celeste. È come una placida superficie lacustre in cui si specchiano il verde delle fronde e l'azzurro del cielo.

XL UTILIZZAZIONE DEL RIPOSO

Anche lo svago riposante richiede un suo programma^-poiché tutte le funzioni della vita hanno il loro ordine correlativo e l'abbandono al caso non è mai profittevole. L'ordinamento ne è in questo caso assai più agile e soggetto a revisioni, ma deve sussistere. Si deve fare la dovuta parte al corpo a seconda delle possibilità e con saggio criterio, mediante le passeggiate, gli « sports », le soste all'aria aperta; la parte allo' spirito con le letture, conversazioni, conferenze, audizioni musicali, visite artisti-che; la parte a Dio in tutto, ma specialmente colla preghiera e la frequenza nella sua casa.

Taluni amano gingillarsi con qualche lavoruccio, quasi per seguire il loro genio creatore, allentando le catene di un lavoro imposto e definito. Jacques Rivière trovava in ciò « quell'oblio meraviglioso che si prova nell'esser qualcuno per mezzo di cui si compie alcunché di ben materiale e di ben cretino »! Altri preferiscono conversare e vi si indugiano a volte eccessivamente, poiché facil+ mente nelle lunghe chiacchierate senza soggetto definito\ • e senza misura ci si sente cadere nel vuoto.

Nella lettura, si potranno trovare insieme l'utilità e là distrazione, la gioia di apprendere e la sensazione di

108 IL LAVORO

colmare una lacuna... Ve ne sono tante, e quanto tormen. tose, per uno spirito ardente, malgrado una formazione che si volle attenta ed accurata! Il lavoro ci forma a modo suo, ma a causa del auo campo limitato, lascia incolte molte regioni dell'anima. Completarsi liberamente e dilatarsi è un beneficio grande che non si oppone per nulla allo svago riposante, purché vi si badi.

Ognuno sceglie le proprie letture secondo i suoi gusti: l'uomo saggio vorrà perciò che ogni lettura tenda ad accrescere in lui la saggezza. Non dovrà con ciò atteggiarsi a uomo arcigno, nemico di ogni cosa agevole e di ogni diletto, ma nutrire un senso elevato della vita e dei suoi segreti rapporti con l'invisibile. Un libro o un discorso valgono per gli orizzonti che aprono all'intelligenza, per gli stimoli che ne derivano, per le visioni ulteriori ohe provocano; quanto più la lettura è vivificante e ci orienta verso i nostri destini eterni, tanto più il lettore è giustificato della sua scelta e ricompensato della sua prudenza.

La maggior parte dei romanzi di cui taluni si rimpinzano nelle ore di libertà sono scritti come si sferruzza e meritano di essere letti colla stessa attenzione, o, meglio ancora, di non essere letti affatto. Le illustrazioni oggi in voga possono veramente evocare visioni di vita e confermarcene il significato? Io preferisco che si legga nello stesso modo che si fa una ascensione al Monte Bianco, o come tsi segue una sponda fiorita, il sentiero di una foresta...

La natura mi sembra essere l'amica per eccellenza del riposo: essa è la sorgente della salute, ed anche, per molti, della salvezza dell'anima. Si sciupa in città quel che si acquista in campagna; si sfrutta in casa e sotto la lampada quel che ci viene dall'aria libera. Abbandonare il solito carcere quotidiano per errare beatamente fra le. creature libere, gli alberi, i ruscelli, gli animali, i fiori, è quello che Kierkegaard chiama «divina distrazione». Le miserie temporali vi si affogano, lo spirito e il cuore si calmano senza reazioni contrastanti come in certi con-;

tatti che inebriano.

Allora si pensa che l'aria e l'acqua non ci sono date

UTILIZZAZIONE DEL RIPOSO tO?

unicamente come bevanda, le stelle come luminari, le piante e gli animali per fornirci vestiti o cibi; la bellezza e gli altri significati abbondano, il loro fascino ci conquista dolcemente; l'anima si meraviglia, si eleva, e molte lezioni di vita si insinuano in questa contemplazione senza sforzo.

« Più i nostri rapporti con la natura sono intimi — scrive Henry de Montherlant — più noi siamo vicini al soprannaturale ». È vero, benché possa anche succedere il contrario. In ogni caso è a questo che dobbiamo mirare: allo slancio verso la natura che sfocia ip Dio e che consiste, attraverso « il groviglio dei simboli », nel tendergli le mani. Io spirito, il cuore. Tuttavia sono necessari ancora altri rapporti. Il riposo ha un compito religioso precisamente perché fa dimenticare il lavoratore per , l'uomo. È l'uomo « l'animale religioso »; il lavoratore Io diventa in virtù del suo dovere. Non ci stancheremo mai di ripeterlo: l'uomo è più esteso e più alto di ciò che fa.

Il cristiano in riposo ricorderà quindi che il suo riposo essenziale è in Dio, l'ospite del riposante ciclo. Certi giorni gli sono consacrati di sua iniziativa: le domeniche, 'le feste; ma dal momento che Io spirito del riposo è spirito di festa, non dovrà sentirsi una « domenica » in ciascun giorno? L'epoca nostra ha profanato il giorno del Signore, per avarizia, per eccessiva sollecitudine del temporale e il disprezzo della legge divina: il fedele deve dire a se stesso che tutti i giorni sono giorni del Signore, e quando le esigenze del dovere glielo permettono, far largo posto alla preghiera, contento di riposarsi in Dio e di poter compensare tante dimenticanze, forse tante negligenze!

Animando l'ora dello svago colla preghiera non sol- / tanto la santifichiamo, ma la confermiamo nella sua natura, poiché il riposo rende l'uomo a sé stesso, e il mestiere d'uomo è, in ultima analisi, un mestiere di contemplazione alacre, un'estasi, un mestiere divino.

110 IL LAVORO

XLI VIAGGI

./

Un riposo prolungato si traduce volentieri con uno spostamento, sia esso un cambiamento di luogo o una corsa da un posto all'altro, secondo la curiosità o il capriccio.

I! viaggio è imposto dalla moda in certe stagioni, e in ogni tempo dall'ambizione dello yachtman e dalla vanità del viaggiatore gradasso. Si spediscono cartoline da Harrar o da Balakiava; si trascinano bagagli di stazione in stazione per mostrarne, al ritorno le numerose etichette, Si va in cerca di ciò che farà strabiliare gli ascoltatori col racconto di incidenti e la descrizione di meraviglie che forse non si ammirarono affatto! Si sfruttano esperienze e nozioni che a volte non fanno altro che moltipllcare o sve- ' lare la scempiaggine!

Quanto sarebbe meglio allora restarsene a casa! L' I-nutazione ci invita a farlo con un argomento in apparenza ingenuo e pur tanto sagace! « Che puoi vedere altrove che tu non veda qui? Ecco il ciclo, la terra, e tutti gli elementi; di ciò son fatte tutte quante le cose! ». L'uomo sedentario è spesso un gran viaggiatore che basta a sé stesso, il viaggiatore intemperante è sempre una povera anima incapace di vivere in sé.

Uno spirito profondo fa presto a convincersi che la vita è ovunque la stessa, che la vera novità è in ciò che si ripete sempre, e volentieri conchiuderebbe: il profitto, del viaggio si può trovare sul posto guardando le cose con occhi nuovi. Colui che guarda fuori della sua finestra con uno sguardo limpido, Io sguardo del poeta e dell'artista, lo sguardo del contemplatore, vede il mondo rinnovarsi i ogni giorno sotto i suoi occhi. Lo stesso accade per l'amp—i rè, che torna a creare il suo oggetto ad ogni istante e non^ ha bisogno di lasciarlo per godere di rivederlo. Del resto quando si è già molto visto nel passato si può essere, grafie a» ricordi, un viaggiatore segreto, come si può, al di

VIAGGIO 111

fuori, conservare la propria solitudine. La vita si compone

;•', di questi due elementi che si completano: la ricchezza in-

} tenore, il contatto con la natura più o meno vicina e col

^genere umano.

Questo prova che il viaggio ha un valore se intrapreso per un motivo culturale e di simpatia umana. Viaggiare è cambiare, istruirsi, formarsi, è guardare il mondo con altri .occhi, sotto altri aspetti, in rapporto ad altre anime; è perciò vincere la « routine » e controllare i propri giudizi,

/acquistare quel senso della relatività di cui l'abitudine e l'amor proprio ci privano.

i ' Orizzonti nuovi non ci parlano soltanto di liberazione, ci propongono legami più ampi, più disinteressati, meno esigenti in materia di analogie e di utilità volgare, più vicini dunque alla pura umanità. Essi possono ancora, se siamo riflessivi, inculcarci una filosofia dell'essere che i soli libri non possono insegnare. « Allargarsi l'anima con le bellezze straniere », dice il Barrès, non è un vantaggio trascurabile. Il cristiano può apprezzarlo meglio di ogni altro, poiché per lui ogni sradicamento è simbolo e prova del distacco, ogni nuova esperienza un presagio, ogni contatto imprevisto animato di carità un abbozzo di comu-nionS dei santi per cui il fratello sconosciuto sembra rap-ypresentare tutta quanta la cristianità.

, La condizione per realizzare tale guadagno è la se" ; rietà, per cui il viaggio evita il culto esclusivo delle cose Catalogate, si guarda dalle corse « all'americana » che non permettono di afferrare nulla dove. i secoli hanno stampato un'orma inconfondibile e intere civiltà le loro stratificazioni sovrapposte. È ancora una giusta distribuzione tra il godimento egoistico e lo spirito di umanità che si interessa ai lavori e alle sofferenze, alle difficoltà e alle vittorie civilizzatrici. Non è qui riposto un segno distintivo per uno spirito, per un cuore? L'uomo amico dell'uomo non è mai lontano dall'essere o dal divenire amico di Dio.

112 IL LAVORO

* » *

Vorrei ora segnalare un errore che sciupa spesso le nostre impressioni di viaggio e compromette il profitto di questi spostamenti organizzati pure con tanto sforzo. Noi chiediamo ai luoghi, alle città, ai capolavori, o ai personaggi celebri di incarnare S'ideale che ce ne siamo formati, di riprodurre le nostre immaginazioni, di realizzare i nostri sogni e per questa ragione siamo defraudati dall'osservare e dal gustare quanto tali oggetti o tali esseri offrono alla : nostra vita di valore autentico. Di qui provengono, in genere, quelle delusioni che ordinariamente i viaggiatori non confessano, ma che spengono la loro gioia, anche se nei racconti pieni di esclamazioni ammirative la loro gioia si fa chiassosa. Un'altra fonte di delusioni per i viaggiatori appassionati consiste nel fatto che l'ignoto assume spesso, apparenze d'infinito, di quell'infinito che noi perseguiamo senza saperlo e che nessuna realtà può offrire ai nostri ardenti desideri.

Finalmente il viaggio è utile a patto che la passione dei viaggi non ci debba ammaliare al punto di farci perdere l'amore alla casa, ai rapporti domestici, al lavoro familiare. AI contrario, un allontanamento temporaneo dall'ambiente quotidiano ha per scopo di rendercelo più caro e di farci tornare ad esso con nuovo coraggio, e dotati di maggiori risorse. Non c'è che il viaggio eterno che non consente ritorno: è l'nnico che ci accaparra di diritto e ci ferma, mentre tutti gli altri lasciano intatto, nell'animo del viaggiatore prudente, tutto ciò che v'è di più intimo e di più prezioso.

XLH

LE INSIDIE DELLA RETTITUDINE

Quella che si chiama la verità non è altro per noi che;

una eliminazione di errori; quella che chiamiamo virtù' altro non è che un minimo di traviamenti e di cadute. Sappiamo di essere tutti peccatori; perciò è bene, dopo aver ' enumerato gli elementi della nostra rettitudine, di scrutarne le insidie e di confessarne le deviazioni, in attesa di'-, pensare ai preservativi e ai rimedi. ' • '••::;

I trancili, ahimè! esistono ovunque e sempre; sono i molteplici e prolifici come esseri viventi, come i prodotti ' della natura e gli istinti dell'anima. A volte sono assurdi, :, ma questo non cambia niente, poiché lo siamo noi tanto quanto occorre per dar loro consistenza; sono talora anche tragici.

A Valladolid, su un tabernacolo d'argento che rappresenta il paradiso terrestre. Èva offre il pomo ad Adamo con la mano sinistra, mentre due altri ne tiene nella destra che nasconde dietro la schiena. Questa Èva, astuta quanto audace, è la tentazione. Ma perché chiamarla donna? Diamole tutti i nomi della creazione, poiché la creazione intera, fatta per la nostra elevazione e la nostra gioia è divenuta traditrice. , " •

I! male si libra soSl'innocenza come l'avvoltoio sulla preda. L'innocenza stessa, senza saperlo/spia una preda volontaria e complice.

114 LE INSIDIE DELLA RETTITUDINE

« ...I gigli son bianchi, I gigli san fieri e puri, ma i gigli turbano... »

leggiamo nella « Princesse lointaine ». E in « Misura per misura » ; « O astuto nemico che per prendere nn santo metti delle sante come esca al tuo amo! La tentazione pie pericolosa di tutte è proprio quella che conduce al peccato per amore deìla virtù ». Non si direbbe che Shake-speare attinga tali parole dai più profondi moralisti cristiani, da un Padre della Chiesa, da un mistico?... Egli Ila purtroppo ragione. Ma se il bene stesso può servire da tranello, che mai sarà dunque, quanto all'estensione e alla frequenza, dell'azione o della minaccia del male?

I demoni più difficili a vincere sono quelli che Gabriel Marcel chiama i « demoni radiosi » : Pamore e l'orgoglio della scienza. Ma ve ne sono altri e son legione; la loro orda sorge dovunque additando la strada della perdizione,

Tutti i grandi esseri hanno dovuto gemere di questa condizione, hanno sospirato in. segreto ai piedi del Mae-.;

stro, pur nell'amore pago ma sempre timoroso. Sospiro, sollievo dell'anima che non può altrimenti liberarsi dalla sua pena e forse nemmeno lo vuole! Ma a che giova sospirare? Val forse meglio irrigidirsi? «Giammai!», esclama la generosità di fronte al male, ma troppo spesso questa « mai » significa « domani » ed è perciò che il domani rappresenta per la virtù un motivo di inquietudine.

Il peggio si è che l'insidia peggiore è in noi. È « noi ». « Senza di me, mi comporterei abbastanza bene », diceva Alfonso Karr. Scherzava, ma non c'è da scherzare. Che l'uomo sia a tal punto nemico dell'uomo; che l'uomo kob muoia, ma si uccida, e moralmente ch'egli non sia atterrato ma si precipiti volontariamente, tutto ciò è cosa ben triste. Il metodo più sicuro per arrivare alla perdizione è quello di combattere i nemici esteriori senza preoccuparsi dei pro-pri vizi, ma quando i vizi sono i nemici temuti, pensar® all'esterno per garantirsene è spesso fare una strada falsa.. La lotta si svolge nell'intimo.

Accade che la nostra depressione intcriore appaia ai

LE": INSIDIE DELLA RETTITUDINE 115

nostri propri occhi ridicola: ci burliamo di noi stessi, nel" 1 intimo, più di quanto permettiamo ad altri di farlo. L'ironia esteriore ci inasprisce,, que'la intcriore sembra confortarci. Raramente però proseguiamo su questa via quanto si dovrebbe: è duro riconoscerei per ciò che siamo. Non è meglio che essere ciechi? La cecità volontaria non ci,eoa-durrebbe più in basso?

Confessiamolo francamente: siamo dei bambini. Sì, l'infanzia è puerilità, vale a dire, instabilità, fragilità, incapacità di resistere a un impulso, al desiderio irriflessivo del primo oggetto che capita, amore di ciò che passa, subitanea impazienza o testardaggine senza motivo, e Dio sa quanti tratti ci fanno sìd.iìiì al bambino pnr nell'età dello cose più gravi e delle salde pretese di saggezza!

Il bambino è già l'uomo, ma non lo è molto. L'uomo è ancora bambino e lo è moltissimo. L'edacaaione di ciascuno di noi è dunque sempre da rifare. Se ciò è vero sotto ogni aspetto, lo è soprattutto nel campo dello spirito, perché la spiritualità cristiana oltrepassa l'uomo e quand'an-che fossimo sicuri di noi stessi per tutto il resto, a questo riguardo saremmo ancora e sempre bambini.

Il rimedio, su cui dovremo tornare a lungo, appare già: occorre tenerci sempre alla scuola di Dio, vicino a Dio, come/il fanciullo accanto alla mamma. «Camminare davanti a Dio » significa sentirsi alla sua presènza, invocare il suo spirito, chiamare interiormente al soccorso, tornare a Sui prontamente dopo la nostra pazzia e domandargli l'antidoto che è lui stesso sotto le forme in cui si dona. Sarà il mezzo di maturarci poco a poco nella misura della nostra generosità e della sua grazia; sarà in ogni caso una garanzia contro gli effetti più temibili di questa puerilità che ci espone a tutti a rischi, compreso qnellp che non è più solo un rischio, bensì l'estrema sventura.

116 LE INSIDIE DELLA RETTITUDINE

• •XU'II,

FATALITÀ' DELLu| tentazione.

.' ' • _ ;

« È assai irritante — dico Claudel — subire le volontà della pesante macchina corporea méntre sappiamo che siamo fatti per comandarla ». Sì, è cosa urtante invero, ma è fatale a motivo di un'altra « grossa macchina » a cui si1

ingrana la prima e di cui questa, cioè il corpo, non è che-ran elemento.

Con un'altra immagine, Nietzsche esprime la, medesima fatalità: « I! mondo esteriore suona sulle nostre, corde:

ci stupiamo delle dissonanze? ». Il sensibile è intorno a noi, eccita la nostra emotività molto da presso, mentre la ragione è sempre più o meno lontana. Noi trattiamo costan-teiaen?e e fin dagli inizi con, relciaento sensibile, più radamente e da meno tempo con la ragione, che si sveglia tardi ed è al suo posto solo ad intervalli. I!. sensibile ci assorbe e commuove di più, sia con le• sue • attrattive che con i suoi morsi. Lo spirituale si fa cercare' e spesso non lo si trova. 1,'.1.;

Quanto grave è il pericolo di annegare l'anima nei gorghi della carne! Pericolo, minaccia costante di quel, « fango infuocato » di cui parlava Barbey d' Aurevilly, oltre alla minaccia dello spirito orgoglioso e recalcitrante •che, si rinchiude e che si intossica col suo stesso alito. :

Le nostre passioni sono per noi tanto più pericolose in quanto che esse sono condivise. E come una provocazione reciproca, un contagio, e se a volte vi è interferenza e. come estensione parziale di condannabili ardori, è assai frequente il caso die a vicenda si attizzino fondendosi in una unica fiamma. Da, noi al prossimo, dal prossimo' a noi la fiamma •corre: coinè, attraversarla in ogni tempo senza, bruciare? ! . "

Imniagihate l'intimo di un'amma punto di confluenza di, sriille azioni subite, accolte.,, aggravate anche, complicate seiap-c, anarcl-ìiche quanto an popolo in rivoluzione, al

FATALITÀ DELLA TENTAZIONE:',,' 117

posto dell'io unificato e quieto. « Ogni anima rappresenta, da sola, una società segreta », scrive Marcel Jouliandeau. Questa impressione di mistero che rasenta una violenza almeno eventuale è quella che da l'intimo di un uomo medio, di un vivente estratto dalla massa; ognuno di noi può rieonoscervi, più o meno, la propria esperienza.

Usciamo da un sogno pericoloso e ci liberiamo da una ossessione per ricadere in braccio ad un'altra ossessione o ad un altro sogno. Si possono evitare con la fuga o la diver-. sione gli urti che provocano in noi certi oggetti; una volta che ci hanno colpito ii cuore, come non sentire la ferita, come non soffrirne tanto più nella nostra coscienza cristiana per il fatto che segretamente ne godiamo?

« Deliziosa sorgente, feconda di miseria », ognuno di noi può chiamare così ciò che lo alletta, ciò che lo punge. La piaga aperta dai sènsi è allargata e continuamente riaperta dall'immaginazione e il pericolo rinasce ad ogni assalto.

Non esistono uomini assennati: esistono solo uomini capaci alternativamente di saviezza e di follia. L'occasione e la tentazione di fare il male non mancano all'uomo virtuoso, allo stesso modo che al vizioso non manca la possibilità e il desiderio di far bene. Nessun peccatore è stabilito nel male, come nessun eroe votato e condannato al bene; Sa bilancia oscilla sempre...

i Riconosciuta questa alea, bisogna dirci al tempo stesso esposti eventualmente a belle situazioni e a gravi pericoli. Abbiamo la scelta tra la vittoria e la sconfitta, non l'ab-, biamo tra la guerra e la pace. Quando l'antico Giobbe ci avverte ,che « la vita delFuomo sulla terra è m combattimento », egli sottintende che l'accettazione si impone ai valorosi come ai vili, ma in condizioni quanto differenti! « II male è il nostro nemico — dice Leonardo da Vincima. non sarebbe peggio se fosse nostro amico? ». Il peri-: colo può essere mortale, eppure è il pericolo che fa vivere. 'Tutta la grandezza dell'uomo risiede nello sforzo che egli fa per dominare la sua infermità. Coll'evitare sé stessi si

: 1,18 • ' ' LE INSIDIE! DELLA RETTITUDINE , :;

puè pervenire a sorpassarsi, a superarsi. La mia forza è Sa mia vittoria sulla mia debolezza. Allora avanti con fiducia;

coraggio!

XLIV

UTILITÀ' DELLA^ TENTAZIONE

Se potessimo vedere nella testa di un saldo marinaio quale figura vi assume la tempesta, vedremmo che essa vi bì rappresenta non già come un pericolo, ma come una serie di manovre da eseguire, come un « Oh! issa! ». Dinanzi ai suoi leoni un domatore fa i suoi conti e non trema. In tutti i casi la tranquillità è una protezione e in se';

8,tessa un valore. ! ',

11 pericolo è bello. L'uomo che raffronta con prudenza virile è già in anticipo aureolato del riflesso della vittoria. ' Come vincere senza nemici? Il lottatore, in noi, non avrebbe più nulla da fare. Il bene è migliore in colui che ha eorso rischio del peggio. L'esercizio della nostra forza con-, siste per noi unicamente nel disciplinare le nostre debolezze e nel superare l'ostacolo esteriore: esonerarci da tale preoccupazione non sarebbe forse un disastro?

Come ci « prova » bene la tentazione! Ci rendiamo conto del peso del nostro corpo solo nel salire una costa ripida o lungo un pendio vertiginoso; analogamente la pesantezza della nostra anima e la sua instabilità di cui è, necessario fare esperienza per slanciarsi verso l'unico soccorso, diventano sensibili per noi alle falde del mistico monte e dinanzi ai suoi precipizi. Una tentazione è dunque la benvenuta se giova ad accrescere in noi l'esperienza di quel che siamo, se l'umiltà si fa più profonda e se, con una fuga che è una vera ascensione, siamo riportati all'unico fine dell'esistenza. • ,

Ecco quello che noi chiamiamo progresso; il progresso decisivo, al quale i teologi danno il nome di perseveranza finale, ultimo balzo che ci getta in Dio, è come una vittoria' totale che riassume in sé le tentazioni di tutta una vita.

UTILITÀ DELLA TENTAZIONE 119

Le tentazioni soltanto? No, anche le cadute, in quanto rispetto alla utilità della tentazione le cadute sono il prezzo quasi inevitabile. Le linee del Partenone non sono diritte. La linea gotica è ovunque un po' festonata ed è questo i che l'arricchisce. Data la nostra natura la linea rappresen-| tante una vita sarà sempre alquanto arida e povera quando tra il suo principio e la sua fine la congiunzione è rettilinea in modo assoluto. Le ondulazioni hanno un valore di arricchimento, di espansione, purché ogni giorno e sempre meglio si ritrovi la direttrice al termine.

Accade che una tentazione prima ci risparmia e poi ci prostra; ma accade anche il contrario: comincia con l'atterrarci e in seguito ci rende più profondi, ci dilata, ci innalza, sembra accrescere le dimensioni di tutti i nostri gesti, di tutte le nostre facoltà. Un'anima grande che può essere sorpresa dal male come un'altra mediocre dal bene, ei giudica da ciò che sa estrarre dall'abisso. Quante pepite d'oro, talvolta, in fondo al precipizio!

Sappi, o cristiano, che tutto ciò che in tè diviene punto di partenza per uno sforzo spirituale è una grazia. Questo vale per il tuo temperamento naturale come per gli stessi tranelli che hai saputo da tè stesso apprestare, purché però questo cattivo lavoro sia riparato per quel che ti eoncerne e riprenda così l'aspetto di opera divina. Qualunque paura di tè stesso, allorché sei in Dio diventa paura di Dio; avrai dunque paura del Padre tuo? Abbandonati, non in un abbandono passivo, ma con un abbandono di tutto l'essere che esalta al massimo grado le sue virtù attive. Abbandonati così e nulla più potrà prevalere contro di tè.

Dopo la redenzione operata da Gesù Cristo, se vi partecipiamo per la fede e per l'amore, tutto è grazia per noi. È d'uopo ricevere l'eredità di Adamo come quella di Gesù Cristo. La tentazione come il resto è un mezzo proposto alla nostra accettazione virtuosa. Odora di fango? Sa di corruzione originale? Che importa? Lo stabbio della fattoria non è forse un tesoro? L'agricoltore non vi si avvoltola; lo ammucchia, ne fa quel che occorre e ne ricava,

120 LE INSIDIE DELLA RETTITUDINE

attraverso un'alchimia che si burla dei nostri disgusti, l'or» delle spighe.

Non dobbiamo tuttavia cercare in noi quest'arte; essa è in Dio, ma precisamente per questa ragione, cioè non sperando nulla in sé, non si teme neppure la propria miseria. Colui che dona la forza può vincere la debolezza: le grazie non sono fatte per evitarci il pericolo ma per aiutarci a superarlo. Non avremo l'ardire di chiedere a Dio delle grazie di pigrizia!

Iddio non ha miglior servitore di Satana. Non fu forse Satana, insieme con Giuda, il più efficace agente della^ Passione? II più attivo intermediario impiegato da Dio per;

condurci a vincere la nostra inerzia e i nostri difetti, a^ sfruttare le nostre risorse, è quel « Icone divorante » di cui ci parla Sa liturgia, nemico del sonno dell'anima, stimolante del suo vigore e quindi artefice della sua pace. Poiché la vera pace dello spirito non consiste nel non avere nemici, ostacoli e contrasti, ma nelFaver vinto con Dio, vinto della vittoria di Dio. E più la vittoria di Dio con noi è assoluta dopo l'asprezza della prova, della lotta e della riconquista dopo ogni pericolosa peripezia, più profonda sarà la pace.

XLV VITTORIA SULLA TENTAZIONE*'^ l:;11,,

Non è in fondo troppo falsa quell'immagine di Marcel Jouhandeau che rappresenta ogni essere umano con a fianco un angelo e un demonio le cui ali hanno la medesima ampiezza. L'angelo e il demonio sono proporzionati alla statura di ciascuno. La vittoria dell'uno o dell'altro dipende dal nostro arbitrio.

A dire il vero l'arbitrio nostro non è solo, e non è nemmeno pura luce. La coscienza è bensì un mentore e una forza, l'anima religiosa è un agente autonomo e uno strumento di Dio. Per essere completamente attrezzati di

VITTORIA SUÉLA TENTAZIONE 121

fronte alla tentazione si impongono dunque quattro condizioni: aguzzare la nostra chiaroveggenza, esercitare la prudenza, spiegare la nostra forza di resistenza, e di con- » troattacco, finalmente invocare gli aiisilii.

San Paolo osserva che Dio fa nascere 'per noi dalla •tentazione stessa il mezzo di resistere. Intende dire che Dio è presente ma anche che la tentazione è come il richiamo di una campana e che il nostro spirito di fede, destandosi, può opporre al male una luce nemica delle tenebre.

^ Noi amiamo i! bene. L'ordine morale rende testimonianza a sé stesso dentro di noi; Dio vi applaudisce Dio;

ed è soltanto per la nostra complicità a favore delle tendenze al peccato che noi disprezziamo il bene e arriviamo a volte fino al punto di odiarlo. Ma non sono forse tati perverse tendenze -provocate dalle nostre brame insaziabili ' unite alla mancanza di discernimento riguardo a ciò che è veramente atto a soddisfarle? Appunto perché parla un linguaggio divino la natura ci tenta contro Dio; immagine o vestigio del perfetto, plagiaria innocente, essa inganna la passionale distrazione de! nostro cuore. Ne consegue che la salvezza sta nel sapere che non saremo mai più lontani da quel che ci tenta come dopo averlo ottenuto; che l'oggetto della nostra passione proietta la sua ombra su tutto l'universo, ma innanzi tutto su sé stesso, e che malgrado i tanti appellativi lusinghieri di cui il peccato si riveste, il suo vero nome è Menzogna.

È lo spirito di fede che ha il monopolio di questa sapienza; basta ch'esso si risvegli e tutto rientra nell'ordine:

riappare la gerarchia dei beni. Dio troneggia al vertice nella sua pienezza che si offre e che vince così facilmente, i nostri miserabili oggetti di tentazione si dileguano,

La prudenza ha il compito suo nel farci evitare la sorpresa dei sensi, l'accaparramento dell'immaginazione da parte dell'oggetto prolifero, quella usurpazione temibile, insidiosa, progressiva denunciata da tutti i moralisti cristiani. Essi ce la mostrano come sfociante in un esito fatale.' :

dopo aver preso Se mosse da un assalto facilmente evita—.•'.', bile quando sì sappia agire al momento, opportuno. « Dap-.;;'

122 LE INSIDIE DELLA RETTITUDINE

prima un sesaplice pensiero si presenta alla mente — dice Fautore dell"' Imitazione —, poi una immagine definita cui ;

seguono la dilettazione, una emozione malsana e infine il . consenso: così poco a poco iì maligno nemico invade tutto;;

'se non gli si resiste dal principio ». ;;

Una .tentazione è come un fiume che si può scavai-;' ••care presso la sorgente, p.oi non più. « Se avessi saputo! »r, si dice tante volte.'Vi si perdona, ma da quel momento in poi dovreste fare sempre quel che avreste fatto se avreste saputo. Non sappiamo nulla del domani, come nulla dell'oggi che è nuovo e non può che sorprenderci: perciò bisogna riflettere fin dalla vigilia per assicurare Foggi e il domani. In verità dove sono io, in quale regione della durata o delle cose? Non si è mai nel posto che si crede e all'ora che si suppone. La vita inferiore è un perpetuo alibi, una perpetua deriva; chi non si tiene costantemente al timone e sotto la guida delle stelle è perduto.

Bisogna inoltre confessare che si verificano taìora violenze subitanee per le quali una prudenza preventiva non giova. Si può agire solo dall'alto, prendendo le cose non all'istante della manifestazione ma alla loro radice. Le occasioni non creano la nostra fragilità; esse ci rendono testimonianza: spetta alla nostra prudenza di' preparare una .favorevole attestazione. « II declinare dei sensi è l'aurora della verità », dice Enrico Susone. La lotta contro i sensi prima di qualunque offensiva da parte loro è quindi pegno di sicurezza pel futuro. Infatti tutti gli amanti della virtù vi si sono accaniti. Il nostro corpo sa ciò che vuole, l'anima non lo sa abbastanza: bisogna invertire le parti, vale a dire organizzare il nostro essere intcriore in conformità a questa specie di necessità derivata che si chiama virtù acquisita, in contrasto alla quasi necessità della natura.

A tal fine dovremmo accogliere e utilizzare, per la preservazione della nostra anima, quegli aiuti provvidenziali che si chiamano malattie, malesseri, infermità, privazioni, \ umiliazioni, contraddizioni degli avvenimenti, ostacoli di ogni genere! Vi è in tutto ciò di che regolare gli appetiti disordinati, a patto di consentirvi liberamente in vista di

DOPPIO PEGNO DI VITTORIA 125

una rettifica e di una cura salutare. Può avere un significato profondo questa parola dell'ebbro: « Io sono felice quando non mi conosco più ». Non conoscere più il nostro io inferiore, rinnegarci, rigettare da noi tutto ciò che contiene in di peccaminoso e di incline al peccato, è il massimo della prudenza.

D'altra parte — lo abbiamo detto a proposito della carità — questa prudenza non può venire che da uùa virtà più alta. Una fiamma ha tante lingue, ma una sola scaturigine; così tutte le passioni tentatrici procedono da un solo focolaio: l'amore disordinato di noi stessi. Uno solo è dunque il rimedio adeguato, una sola l'acqua che estingue l'incendio, quella di cui è stato detto che zampilla fino alla vita eterna. Il rimedio a qualunque tentazione, provenga essa da noi stessi, o dal di fuori attraverso noi, è l'amore divino.

XLVI DOPPIO PEGNO DI VITTORIA

« II nemico ha un bell'ostentarvi la mostra di tutta la sua mercanzia, — dice Ruysbroek — se voi non comperate nulla, spinti dall'attrattiva, non ve ne resta nulla ». Sappiamo tuttavia che « l'attrattiva » ha dei sussulti inattesi, e per quanto si preveda a distanza, vi sono dei casi in cui la più oculata prudenza non giova. Quale stupore, a volte, dinanzi a ciò che spunta in noi d'un tratto! Quante volte siamo sorpresi da certe adesioni o da certi rifiuti spontanei sènza radici visibili! Ci si domanda: Sono proprio io? Forse ci siamo dati come antenato un « io » nostro, di ieri, ma può anche talora trattarsi di un antenato lontano, o del corpo, o della natura. Tocca allora al coraggio di farsi avanti.

La nostra tendenza è di volere la pace: quando si riposa non ci piace essere destati. Ma nel campo spirituale come nei temporale, non v'è pace sicura se non presidiata!

124 LE INSIDIE DELLA KETTITUMNE

dalle virtù di guerra. « La pace non è l'assenza della guerra — scrive Spinoza — è una virtù che nasce dalla forza d'animo ». Essere forti non è solo avere muscoli robusti o nervi saldi, così per un popolo, essere forte non significa soltanto possedere cannoni e uomini: in ambedue i casi la forza deriva dal coraggio di stabilirsi una meta e di mantenere le proprie risoluzioni.

•; La ragione e l'esperienza non bastano. Se gli nomini

• ^avessero come guida la sola ragione, Fumanità sarebbe pe-

^'.rita da un pezzo. Bisogna che la ragione divenga un istinto

evitale, una forza; è questo che si chiama carattere • ed è quello che ci salva dai pericoli subitanei o eccessivi. È quella durezza essenziale che nell'anima coinè nel diamante si associa così bene allo splendore e alla limpidezza, doppio trionfo della luce in entrambi.

:':'. Una volontà ferma pacifica l'anima agitata dalle passioni. Se si è fermamente decisi si acquista stabilità non

^ priva di una certa prudente inquietudine, simile a quella dell'ufficiale che dal ponte di comando osserva i movimenti del mare. La tentazione, come Fonda, si ripete, ma ciò

; deve avvenire anche per le sue sconfitte: imparare a vincerla una volta significa imparare a vincerla mille e nel caso nostro la situazione è più favorevole che sull'acqua, .poiché il rinnovato combattimento non è indipendente dal-

: la prima vittoria. L'onda non si abitua, l'anima invece sì;

il vincitore vincerà sempre più facilmente, mentre la debolezza neutralizza le buone inclinazioni e favorisce quelle perverse,

« L'uomo capace di sopportare è superiore all'eroe— è detto nei Proverbi — e colui che domina sé stesso vai più del guerriero conquistatore di città». È'bello sentir lodare la nostra forza proprio da Colui che si offre a sostenerla. La Scrittura approva così quanto abbiamo detto intorno al coraggio; non è questa però una buona ragione per mettere il coraggio al primo posto. Il primo in senso assoluto è Colui che crea le supremazie relative.

Senza Dio nulla possiamo; con Dio possiamo tutto, Come il Salmista, e come i. malati che seguivano i passi

DOPPIO PEGNO DI VITTORIA 125

dell' Apostolo Pietro sotto il portico di Salomone, il cristiano coraggioso, per vincere, non chiede a Dio altro che

i',:. la benedizione della sua ombra. . ' ' i;^ • Ombra di Dio! Luce e forza insieme per la direttiva 3''.; che ci segna, per la pacificazione che produce e per quella ^ ''^vibrazione misteriosa che si chiama grazia. Qualunque cosa :;1 ' ini minacci, mi assalga, o mi opprima, ho sempre il mezzo j!';''..di rendermi indipendente ed anche di renderla schiava. La ^"•'•^ola felicità di tornare a Dio dopo ogni conversazione con., i. le creature mi salva dalla loro influenza. O mondo cattivo, |1 mondo insidioso, mondo ingannatore, tu sei costretto a cedere allorché splende la luce e si rivela il potere .rii Colui che ha detto: « Abbiate fede, io ho vinto il mondo ».

Esiste in noi una forza che in una certa misura può vincere la violenza tentatrice: l'orgoglio. Lo stoico si irrigidisce. Ma per il cristiano questa è una caduta anche più grave,: e tra le due potrebbe essere esitante. Quando non si vuoi servire ne !a carne ne l'orgoglio, entrambi possono allearsi contro di noi assommando la loro malizia di fronte a un rifiuto impotente.

Donde può venire il soccorso se non da una potenza Superiore immune dal duplice assalto, posta al di sopra dell'anima e dei suoi nemici, come dei suoi falsi amici? Questo potere è la grazia che si ottiene con la preghiera e si mantiene con la fedeltà. L'opera di Dio in noi non ci appartiene; semplici cooperatori non ci si domanda che ne portiamo soli la responsabilità. Dio difende dunque con noi l'opera sua! Noi possiamo chiederglielo, anzi egli vuole che lo facciamo fino all'indiscrezione, secondo Finse-' gnàmento della parabola.

Si ha il diritto di dire che Sa tentazione trae la sua forza non tanto dalla propria violenza, o dal suo presentarsi improvviso, o dalla sua malizia, o dalle speciali circostanze che l'accompagnano, bensì dalla nostra precedente imprudenza, dall'incostanza successiva del nostro spirito, dal difetto di volontà attuale e, più di tutto, dalla mancanza di affidamento in Dio.

126 LE INSIDIE DELLA RETTITUDINE

XLVÌI^:11'

, LE'PASSIONI

La tentazione trova la sua forza principale nelle passioni; non possiamo fare a meno di pensarvi preoccupandoci delle insidie alla rettitudine. Tuttavia queste « malattie dell'anima », come le denominavano gli stoici, chiedono un esame a parte quanto al giudizio e quanto alla norma.

Malattie dell'anima, le passioni di fatto lo sono troppo spesso, i disastri che ne risultano rattristano l'uomo dabbene e riempiono il mondo. Ve ne sono di violente come il colera, la peste nera, o il tifo; di insidiose e tenaci come la tubercolosi, l'anemia o la consumazione, i cui effetti sono meno tragici solo nell'apparenza: ciascuna di esse non è un flagello isolato: simili a certi insetti che vanno a depositare le loro uova nel corpo di altri insetti ove sono ricevuti come per destinazione, le nostre passioni affidano la loro progenitura ad altre passioni che ne prolungano la vita e ne aumentano la potenza.

Di qui, a condannare la passione in sé stessa, come nemica della vita e distrnttrice dell'ordine morale, il passo era breve, e dottoralmente, pomposamente, gli stoici Io valicarono. Il moralista cristiano, ammonito dall'incarnazione, illaminato dalla miracolosa esperienza della sua Chiesa, non cade in questo eccesso.

La regola morale è la ragione, soprannaturalmente è la fede senza la quale non può darsi ne rettitudine ne perfezione; ma essere una perfezione non è tutto; ha anche valore essere una forza. Senza la passione, il dover® stesso non sarebbe che la « corvée » insostenibile, un vivere facile che non troverebbe più eroi.

La ragione e la fede danno rettitudine alla nostra vita; la volontà, il carattere la fanno decisa: solo la preghiera la rende ardente. L'intensità della vita dipenda dalla passione come il rigoglio della vegetazione dal sole

LE PASSIONI ,127;,

d'estate. Per evitare le deviazioni dei nostri istinti, è ,op-.. ^ portano dunque augurarsene l'indifferenza? « È per il me-',"

-desiino appetito, per la medesima potenza di desiderio —"„'. scrive Spinoza — che l'anima agisce e che è soggetta alle,',.;

passioni». Distruggere la passione sarebbe dunque disa'r—:", mare l'azione; l'anima non avrebbe più altro che dei con-'',, siglieri, delle guide, non più agenti esecutori, niente ardi-':,.:1 tezza conquistatrice, nessun soffio animatore.' VogliaHiKr,::

preferire, insomma, i santi' di fiamma, o i santi arida-,,' inente legnosi? . , .'•:::

"Qualche amico della ragione potrebbe forse depio-'" rare ch'essa sia in noi così debole, così'poco motrice, che::. non possa, da sola, mantenere la vita e promuovere il :

progresso del destino individuale, della società, della sto- :

ria, della civiltà. Ma 'tutti sanno che è cosi. Uomini dalle-, forti passioni hanno sempre trascinati gli eventi per il' , bene o per i! male. La vita non fiorisce, in tutti i suoi gra-'1 di, se non alla temperatura elevata prodotta dalia passione, che la semplice ragione non farebbe salire. Potremmo dire con Nietzsche che lo sforzo civilizzatore, cerne quello morale, come lo slancio mistico, tocca il suo massimo nel « punto di fusione della follia », vaie a dire;":

dove la passione prende contatto con. .la sua regola e,',,

•non si smorza ancora; al grado più basso ci troviamo nel-^ • la mediocrità. . ;,

Come maledire le potenze dell'anima, dono di Dio, la :' carne che Egli ha creato, i sensi che ci ha forniti? Dimen- '.•:,;

tichiamo forse che per- Gesù Cristo le passioni, sono diven-.;^ tate comuni a Dio e agli uomini? O nobili passioni del';:, 3' Uomo-Dio, che sollevarono un mondo, e 'immisero, la": :

serenità eterna in un sangue eccitato! , . .:':

Nel suo campo la passione ha sempre ragione.'Dove":' ha torto, quando ha torto, è sul terreno dell'uomo, sul;

terreno del « superuomo » che è il cristiano; non è quindi il caso di ucciderla o di indebolirla, ma di indirizzarla, di subordinarla, di convertirla.

Il torrente che trascina tutto pi»ò trasformarB» in ruscello nel prato, in una riserTa di « foraa motrice » ; in

128 LE INSIDIE DELLA ..RETTITUDINE .

hi! lago. artificiale che da vita a tutta una regione; è questione di sbarramenti, di argini, di canalizzazione, di turbine. Forse' che nei riguardi dell'anima, l'ingegnere troverebbe più semplice di far tutto inaridire?

Alcuni si contentano di resistere; resistono ciecamente all'impulso che altri subiscono, e certamente hanno ragione di non cedere; ma la resistenza pura a volte non fa-che aumentare il pericolo e in ogni caso esaurisce le forze.. Domandatevi qual è il vostro difetto dominante: avrete;

trovato, forse errante, ma. ben identificata,.-la -vostra più-:' grande risorsa. , 1 '11 .1.11-. , , ,1 1'11.1/ , 1;1-'

Una passione ardente ha per primo effetto di sgomberare dalla vita tutto ciò che è artificioso e inutile, ma soprattutto disalimentarne il dinamismo, a patto di trovare il giusto punto di applicazione dell'energia così fornita e di parare ai rischi. Si dirà che questa normalizzazione è essenziale: ed è vero; non lo dimenticheremo. Occorre però ricordare che l'accessorio è in rapporto all'essenziale ciò che è l'indispensabile aei riguardi dell'arte che Io sa sfruttare. Le nostre passioni sono la materia, certo temibile, presentata alla nostra arte etica, ne sono la grande ricchezza senza di cui quest'arte si renderebbe pressoché inutile. Le passioni sono fiere selvagge; ma si sono visti dei leoni trainare il carro delle divinità.

XLVIII ^^UTILIZZAZIONE DELLE PASSIONI •

Quando fu chiesto a Joubert se l'ingegno ha bisogno delle passioni, egli rispose: « Sì, di molte passioni represse ». Così è della virtù forte. Ma forse la parola represse non è qui la più esatta. È meglio dire utilizzate, ma come? Fiatone ce lo insegna definendo la prudenza, sovrana della vita morale: « la forza suprema che invece di cedere alle passioni le frena assommando in sé l'energia di tutte ». Frenare non vuoi dire reprimere; e sfruttare per sé

UTILIZZAZIONE DELLE PASSIONI 129

l'energia dell'avversario costringendolo a servire, è una politica degna di un'anima virile. .

La volontà comanda in noi, ed essa fa d'uopo come al capo di un governo, specialmente se democratico, ili;

consenso di tutti i sudditi, vale a dire, nel caso presente, l'obbedienza delle passioni e il loro assestamento, senza;

di che non solo la volontà non è obbedita, ma il disordine la travolge, cosicché quella che comanda non obbedisce più a sé stessa. « Io me ne andavo, volendo, verso ciò che non volevo », dice S. Agostino parlando del tempo in cui le passioni erano in lui ancora ribelli. Per poter utilizzar® tuttavia le forze sottomesse occorre entrare un pochino nel loro proprio giucco, non irrigidirsi in un semplice ri-» fiuto, imitare l'ingegnere che obbedisce alla sua macchina mentre la dirige.

La politica delle passioni consiste nel conseguimento dei fini della vita, cioè nel renderci felici; esse hanno tutte questa pretesa e non saprebbero ostentarne altra. Il male è che cedendo loro semplicemente si arriva al fine opposto, vale a dire che vengono esse stesse tradite. Che fare dunque, se non entrare nella loro politica, in questo solo senso, cioè adottando il fine, mentre si giudicano tuttavia i mezzi, riservandosi di accettarli, di correggerli o di scartarli con la più accanita resistenza? Ma il loro accecamento le rende poco malleabili cosicché è necessario costringerle. Resta fermo però che non si deve, a loro riguardo, nutrire propositi di distruzione, bensì di rettifica e di razionale sfruttamento.

La passione sregolata ci divide in noi stessi e non ci permette più di raggiungerci; rovina le nostre disponibilità, ci rapisce l'uso del nostro essere; senonché se la ragione interviene e se per essa è Dio che governa, tutto si riconnette, tutto si organizza e tutto quanto ci viene reso, compreso il vigore della passione asservita.

Vi sono dei casi in cui la prudenza consiglia di distogliere lo spirito dagli oggetti della passione, per tema di esserne presi al laccio e ridotti in schiavitù: è il consiglio di Descartes. A volte sarà preferibile il disprezzo ®

9. -^ Smri.

130 LE INSIDIE DELLA RETTITUDINE

la fredda analisi che smonta: è la tattica di Marc' Aurelio: « Non è che questo; non è che quello... ». Una terza regola è spesso la migliore e più conforme alla natura delle cose: scavare più profondo nel terreno della passione stessa, intendendo una profondità che va oltre le sue pretese immediate e i suoi forsennati appetiti, quanto occorre per sventarne insieme la puerilità e rinvenirne i col-, legamenti più riposti con i nostri autentici fini.

Che vuoi da me, o passione, e dove mi conduci? Alla gioia!, ecco la risposta che ricevo, sia che si tratti di piacere, di riposo, di gloria, di potenza, d'amore o di vendetta. La gioia? sì, ne conosco la via, che la tua cecità incontra solo per caso e da cui la violenza dei tuoi sbalzi nuò ritrarci fino a fuggirla con una fuga eterna. Io ti freno al fine di spingerti nelle tue vere vie, quelle che tu ignori e che pure sono le tue, e le mie ed anche quelle di Dio.

Se la passione si lascia guidare, eccoci forti della sua forza e guidati dalla nostra rettitudine. Se essa resiste, è • il momento di « spezzarle il grugno », fosse pure Leviatan o Behenot.

Il vigore deve sempre essere pronto in questa lotta in cui la prudenza e la stessa astuzia si avvicendano. La passione scalpita, la passione morde, può anche lanciare il suo cavaliere fra i rovi e negli abissi; colui che non è pronto a tirare il morso e a serrare le ginocchia è sicuro, di essere prima o poi gettato a terra e prostrato.

Gli antichi dicevano più nobilmente e più profonda-, mente che la lotta contro le passioni è veramente la lotta ineguale dell'essere umano contro le forze universali, tanto che riuscire vittoriosi e restar saldi nella virtù è dominare sugli astri: « Sapiens dominatur astris ». Ciò è beL lo. Lo sforzo è degno della ragione che ci definisce nella nostra parte migliore, degno dello Spirito che ci guida come cristiani, e che a buon diritto domina gli astri, poiché il cielo non è che il suo irradiamento.

IK CORPO 131

'; XLIX

IL CORPO

II nostro corpo è lo scrigno di quel gioiello invisibile che è l'anima, il ricettacolo di Dio che abita nell'anima e quindi in lui.

A dire il vero, l'ordine dei rapporti si stabilisce in maniera meno fantasiosa e più vicina alla realtà se si dice che il corpo è nell'anima e che l'anima è in Dio. In ogni caso, il corpo, unico legame dell'anima con l'universo, è , per sua natura socio e prezioso servitore dell'anima, come per natura l'anima è socia e serva di Dio.

Un falso ascetismo vorrebbe angariare tale congiunto ostentando di vedere in esso assai più che un elemento :trascurabile, un evaso dei regni del male. Tuttavia anche il corpo è figlio di Dio, ha anch'esso udito il fiat creatore, l'eccitatore della vita per cui ogni oggetto si collega colla Vita prima. Anch'egli ha udito il sesto giorno la frase:

« tutto era buono » ed anche « molto buono » di quanto Dio aveva posto nell'essere.

In attesa di divenire tempio di Dio e corpo di Dio, il corpo è già tempio della natura, poiché è sede delle sue forze per un culto in ispirilo e verità, poiché la natura adora mediante la prostrazione dei nostri corpi come i nostri corpi mediante la devozione delle nostre anime. Ma il corpo umano non è forse diventato, nel!' Incarnazione, anche corpo di Dio? Non se lo è. Dio, unito sostanzialmente affinchè ogni carne torni a Lui? Questa assunzione della carne nell'unità di Dio, concerne ciascuno di noi, e noi siamo figli di Dio per la carne in un modo nuovo, come fratelli di Cristo formanti con Lui, spiritualmente, un unico corpo immortale.

Io sono il Cristo, ma non soltanto io poiché non ne rappresento che un membro. Parimenti, io sono il mio corpo, senza però che in esso io esaurisca il mio essere, ancorché la fiamma dello Spirito domini dall'alto questa

132 LE INSIDIE DELLA RETTITUDINE

materia ignea che la vita perennemente consuma. Non rinnego punto la nebulosità che avvolge la mia anima e ehe il sole rende visibile a me e agli altri, ne me ne disinteresso. Devo andare a Dio col mio essere tutto intero, poiché Dio lo ama tutto intero dell'amore stesso che ha pel suo Cristo, per la somiglianzà terrena col suo Verbo, per il vestigio che ha nome creazione.

Quale illusione in chi disprezza la carne dicendola •volgare e corruttibile! Essa è più sublime di qualsiasi altro composto creato ed è in fondo incorruttibile poiché destinata a rivestirsi d'incorruttibilità come di un manto. Che altro mai nella natura merita di esserle paragonato?* la perla? il rubino? Essi non ne sono che pallidi simboli, ed essa stessa, vista nell'interno, sotto la forma del sangue, eccita, evocando misteri di vita, una specie di sacro orrore. Che cosa è finalmente se vogliamo riferirci ai servizi che essa rende e all'avvenire che tali servizi preparano? Un uomo che diviene spirito è anche uno spirito che diviene carne, che opera per la glorificazione della carne, sia per questo mondo come per l'altro.

Il corpo animato dallo spirito « ascende all'altezza delle cose celesti », dice Bossuet. Le sue funzioni, i suoi gestì sono santi, purché siano compiuti in unione al suo Animatore. Le sue sofferenze, come le sue gioie, sono meritorie; attende il giorno in cui dopo aver servito l'anima, dopo essere stato di essa la visibilità e l'agente, sarà ancora bensì la sua visibilità, ma questa volta anche il felice beneficiario, la sua forma imponderabile e angelica, la sua bellezza riflessa, la sua smagliante divinizzazione in seno all'universo trasformato.

È cosa sorprendente che pur predicando tale dottrina, la Chiesa sia accusata di disprezzare il corpo umano, e proprio da quelli che lo destinano al nulla dopo averlo confuso con la polvere. È sorprendente che siano gli stessi a condannare in nome dello spirito gli aspetti tangibili della religione, il culto esterno, i sacramenti, la risurrezione della carne, e a perorare in favore delle passioni del corpo contro la severità della Chiesa cattolica!

DESTINO SPIRITUALE DEL CORPO 133

Ma la Chiesa è severa col corpo solo perché lo rispetta. Ne afferma la puerizia in vista dell'età adulta » dell'età immortale. Vede in esso un elemento di vita sovrumana per l'oggi e di vita immarcescibile per il domani. Lo presenta quale tabernacolo ali' Eucaristia, alla Trinità, come al pensiero e ai nobili affetti terreni. Per questo soltanto essa si oppone ferma e pur materna ai suoi ciechi od ipocriti difensori.

DESTINO SPIRITUALE DEL CORPO

i

Bossuet stigmatizza coloro « che hanno tanto spirito quanto basta per servire il corpo e nei quali, per così dire, ciò che vi è di più puro è l'atto di respirare ».

Il mio corpo, sono io, dicevo; ma l'io autentico non è tuttavia l'io carnale, il vivente tutto volto alla carne e quasi consacrato alla carne. Tale satanico capovolgimento è piuttosto una negazione di sé, poiché Fio essenziale è l'io spirituale, l'io trasumanato, quello che si rivela al poeta, all'artista, all'eroe, al mistico, al santo; per questi due ultimi, vale a dire per il cristiano, è un io soprannaturale in senso proprio, un io divino.

Come voler conoscere l'essenza umana in ciò che comincia e finisce? Lo spirito, invece, non finisce. « II corpo animale » finisce coi suoi oggetti perché il tempo lo trasporta e dopo averlo innalzato come una rugosità lieve sul suo fiume ondeggiane, lo inghiotte con la debole scossa della morte. Ma lo spirito e quanto esso unisce a sé fuori del tempo non ha ragione di finire perché comincia sempre, collegato com'è alla Sorgente indefettibile. Ecco l'io che il Creatore ha ideato! Quello che conviene dunque considerare come Pio vero.

Lo spirito, in. noi, si sforza di manifestarsi nella carne e di conquistare l'ambiente in cui essa si agita; ma ciò deve fare per il proprio vantaggio e non per affogare ne-,

134 LE INSIDIE DELLA RETTITUDINE

gli elementi che lo trascinano. E qual è il suo vantaggio se non la ricerca della verità, della bellezza e, unitamente a quello che git viene dal creato per sé così esultante, il contatto dello spirito creatore di cui la coscienza gli rende testimonianza? Dio abita nel fondo dell'anima mentre il corpo non ne occupa che la superficie. La nostra anima è più vicina a Dio che al suo proprio corpo.

Ma questo corpo che nulla è senza l'anima e che deve solo servire l'anima al servizio di Dio, potrebbe impacciarla terribilmente. Sorvegliamolo dunque, manteniamolo nei suoi limiti, mortifichiamolo! Quando si sospende la vigilanza, o anche quando ci si propone di accordare alla carne il suo stretto diritto, si è esposti a tutto, e per l'anima e per il corpo. Ma che lunga disputa! Un processo si svolge tra l'anima e il corpo ribelle; ciascuno fornisce i suoi argomenti, arringa in suo favore; la libertà è il giudice, vale a dire che l'anima stessa decide del suo trionfo o della sua rovina.

S. Tommaso afferma che la soggezione del corpo gi0-va alla memoria, alla vivacità dello spirito, all'energia della volontà, al carattere. Ecco perché la castità, egli assicura, è eminentemente favorevole alla contemplazione « quasi regolando ciò che fa divergere con la maggiore veemenza verso la vita sensibile ».

Il retto giudizio è dunque in stretta relazione con questa pace. Gli oggetti si riflettono forse in un'acqua che s'intorbida? Quanto alla vita mistica essa dipende dalla grazia e la grazia a sua volta ha per condizione l'armonia della natura. Perciò San Paolo ci invita a vivere « portando sempre in, noi, nel nostro corpo, la morte di Gesù (per mezzo delia mortificazione dei sensi), affinchè la vita di Gesù sia manifestata nella nostra carne mortale », e cioè con una vita perfetta.

Poiché le folli passioni inclinano automaticamente verso il peccato, è necessario opporre loro un automatismo opposto. Di qui l'ascetismo cristiano, più o meno accentuato secondo gli stati di vita e le iniziative personali. Esso è fondato su questa constatazione cartesiana,

DESTINO SPIRITUALE DEL CORPO 135

che del resto è esperienza universale, che la volontà raggiunge le passioni per la via del corpo e d'altra parte sul

; fatto che «la macchina» guidata con arte ci fa passare, afferma Pascal, « dalle umiliazioni alle ispirazioni », vale a dire alla spiritualità e alla grazia.

Ne concludiamo che le sofferenze involontarie del corpo, le sue malattie, i suoi accidenti hanno un valore spirituale che il cristiano deve apprezzare e accettare fedelmente poiché egli vi si istruisce, apprende a conoscere i suoi limiti, constata la sua dipendenza, prende coscienza

.dei pericoli e soprattutto della morte; spesso vi affina i suoi pensieri e vi approfondisce la meditazione su sé stesso e sull'esistenza. Al culmino della sua acccttazione, se ne ha il coraggio, arriva a preferire una sofferenza di cui sperimenta il beneficio, a piaceri malsani; comprende allora questa audace parola di Tertulliano: « la maggior vo-

;« luttà si trova nel disprezzo della voluttà ».

Riassumendo: il corpo è un amico, ma un amico pericoloso, un intimo di cui è d'uopo diffidare costantemen. ' tè, un ospite col quale bisogna sempre andar d'accordo e sempre romperla. Stato di guerra? Stato di pace? Tutti e due, e tale ambiguità ha per durata l'estensione stessa del tempo; poiché la nostra morte individuale non d? strugge la simpatia e non termina la lotta. Il corpo diserta all'ultimo respiro; l'anima rimpiange e benedice la «confitta del corpo. Ci vorrà la resurrezione perché siano pienamente riconciliate, soddisfatte, armonizzate queste due parti del nostro essere.

u IL PECCATO

II mondo è in Dio; ogni creatura è dunque con Dio;

per Lui essa sussiste e opera attuando, più o meno, il proprio destino. Il male, pertanto, è escluso da questo abbraccio dell'infinito; esso è solo. Il male della creatura ragionevole, che è il peccato, la getta in un isolamento che dovrebbe farla tremare, se l'incoscienza non fosse il massimo dei suoi mali, schermo irrisorio di tutti gli altri.

« Esula dalla potenza stessa di Dio — dice Bossuet — far sì che esista una miseria più grande del peccato ». Senza dubbio poiché per esso, e senza perire, si volgono le spalle ali' Essere. Dal momento che ogni cosa è buona per opera di Dio e in Dio, non è dunque dalla mano di Dio e conforme alla sua volontà che ciascuna di esse deve servire a nostro uso? Stringere a sé una cosa senza Dio è afferrare un'ombra, ombra simile al fantasma delle leggende, che trascina alla rovina chi si lascia sedurre.

Una creatura non può recarci vantaggio indipendentemente da Colui che l'ha creata, senza dubbio per i fini di essa propri, ma anche secondo le sue divine intenzioni, ossia per un ordine in cui fini della creatura ragionevole, quelli degli oggetti e quelli del Creatore si armonizzano insieme. Tutto è per noi con Dio; nulla è per noi senza Dio o contro Dio. Con Lui abbiamo tutto ciò che gli appartiene. Senza di Lui abbiamo la lusinga apparente, for-

. IL PECCATO 137

se, certamente l'ostilità finale di quanto pretendiamo strappargli e che Egli non lascia prèndere.

Colui che cerca l'ordine, trova l'ordine e trova il su® posto nell'ordine, vaie a dire la felicità. Colui che cerca soltanto sé stesso, trova sé stesso nel disordine intcriore e in quello esteriore che egli crea. Alla ììne l'ordine che sempre trionfa costituirà il trionfo del suo difensore. Il suo violatore sarà come il soldato che in una colonna in marcia rifiuta di avanzare o di inquadrare il suo passo:

il reggimento lo travolge, egli può essere calpestato fino a morire.

Così, l'ambiente in cui siamo posti nascendo, ci offre le possibilità più contrastanti; possibilità di arricchimento e di salvezza; possibilità di disinganno e di perdita. La virtù consiste nello scegliere le prime, con quel che Péguy chiama « assenso alle regole della felicità »; il peccatore scivola nelle seconde e di conseguenza si spoglia di tutto riducendosi volontariamente allo stato di cadavere.

Ci si chiede donde provenga un simile accanimento, così diffuso che 1' Apostolo Giovanni ha potuto scrivere:

« II mondo è posto tutto nella malizia ». Forse si perde la coscienza del peccato a forza di ripeterlo? È proprio ciò che avviene, non solo agli individui, ma ancora alle civiltà. Infatti oggi, dove la decadenza delle coscienze si mostra più evidente, chi si pone il problema delle responsabilità?

D'altra parte non c'è bisogno di questo accecamento. La nostra natura è peccatrice in Adamo, e in questa razza la stessa infanzia non è più giovane del peccato. È bastato che Maria fosse pienamente innocente per scavare attorno a lei una solitudine che il suo amore dovrebbe tuttavia vincere. Il peccato è così connaturale a noi che per esso potremmo quasi essere definiti. Che specie di peccatore sei tu? E tu? Ecco quanto ci distingue mentre ci accomuna tutti.

Siamo peccatori, e poiché lo siamo, per così dire, essenzialmente, lo siamo dal principio alla fine: i vecchi come i giovani, i giovani quanto i vecchi. Cambiamo di

138 IL PECCATO

forma nel corso dell'esistenza, mutiamo i gesti, gli oggetti, le preoccupazioni, i discorsi; non cambiarne la nostra follia. Il bimbo assopito nella sua culla non conosce ancora il peccato; lo cova. Il cadavere dagli occhi chiusi per sempre non lo conosce più: ne subisce nel morso del verme sepolcrale gli effetti carnali, mentre l'anima trema dinanzi al suo giudice. Perché destarsi a questa colpevole ;

agitazione? Perché non trame piuttosto una sapiente armonia? Lo possiamo, e con la grazia di Dio, è un dovere ;

di sperarlo sempre.

La natura esterna ce ne offre l'esempio, ambiguo, è vero, poiché si presta a interpretazioni diverse. « La natura ha i suoi gusti — scrive Renan, — solamente es^a non arriva fino alla morale, non va al di là dell'amore ». Chi non ammira la vita innocente del fiore, dell'albero, dell'uccello, della bestia dei campi, la cui linea non ha deviazioni se non per opera di agenti estranei? Ogni agente naturale segue fedelmente la sua inclinazione. Possia- :

mo con sicurezza dedurre da ciò che è, ciò che farà. « O ;' Causa prima — esclama Leonardo da Vinci — tu non hai permesso ad alcuna forza di mancare all'ordine e alla qualità dei suoi effetti necessari ». Quando la scienza possiede la causa, attende con certezza gli effetti; come constatali- ^ do gli effetti, risale con certezza alla causa. Non esiste fra essi alcun iato; la nostra libertà, invece, la crea; nel bene ;

e nel male essa supera il fatto; perché poi soprattutto nel ;

male? . :i,

Più ricca della spontaneità e dell'istinto, la libertà è atta ad ottenere e a procurare effetti infinitamente più elevati, più variati, più durevoli e meglio suddivisi fra i beneficiari. Preferisce invece l'abuso. È la sua maniera di riconoscere una munificenza creatrice che la pone al di sopra di tutti gli esseri. C'è di più: chiamata alla sopran-natura, la libertà umana è in grado di elevarsi infinitamente a! di sopra di sé stessa, e quindi, nella stessa proporzione, al di sopra di tutto: vorrà poi concludere precipitandosi da un vertice? Sta qui il dramma della vita; l'op-aione che ci è offerta. Questo mondo, che nasce, presenta,

DISORDINE DEL PECCATO 139

per la possibilità di tale opzione e dei suoi effetti già visibili, l'aspetto rilevato dal poeta della « Fin de Satan » :

« Ebtìuche par eti haut, et par en bas décombre...•».

LII DISORDINE DEL PECCATO

L'ordine universale presenta alla considerazione dei moralisti un triplice oggetto: l'ordine intcriore del soggetto morale, costituito da elementi molteplici, come un popolo;

l'ordine in cui questo soggetto morale si inserisce, e che può assecondare o turbare l'azione che vi esercita; l'ordine divino, che deve essere attuato dall'ordine dell'universo e degli esseri che contiene, uniformandosi alla volontà crea-trice.

L'ordine intcriore è quello che chiamiamo buona coscienza. Quando il corpo è sottomesso all'anima, i sensi alla ragione, la ragione alla verità, noi siamo in regola e procuriamo la nostra « edificazione »; nel caso contrario lavoriamo alla nostra rovina poiché ogni azione è, rispetto all'essere che la compie, costruttiva o distruttiva.

Rimbaud vedeva i peccatori « più spaventosi dei mo— atri ». È rigorosamente esatto. Il peccato, come disordine vitale e come capovolgimento spirituale, è mostruoso nel più vero senso della parola; distrugge in noi l'uomo.

Ve in me qualcosa di immutabile e di estraneo al tempo, è la mia sopravvivenza come sostanza spirituale;

qualcosa di estraneo alla natura fisica, è ìa mia natura nel 6w fondo spirituale; qualcosa di estraneo a quelli che chiamiamo esseri: il mio essere, in sé stesso spirituale. Il peccato compromette tutto questo: esso mi rende soggetto al tempo, che piega la mia volontà contro la legge eterna, mi fa schiavo della natura, che mi soggioga colle sue attrattive. Denigra così il mio essere portandolo al livello di ciò che è privo di ragione e di coscienza: « L'uomo, pur

140 IL PECC'ATO

trovandosi in posizione di onore, nella natura, non lo co»»-prende; si rende simile ai bruti destinati a perire ».

L'ordine esterno è quello della creazione in cui io sono impegnato e di cui sono solidale, quello della società degli uomini di cui sono membro, dei gruppi diversi che compongono questa società come un campo suddiviso in poderi, quello della famiglia, dell'amicizia, dell'associazione professionale, del gruppo accidentale che mi avvince debolmente e che esprime tuttavia un momento della mia vita e una parte della sua responsabilità di fronte alla Provvidenza.

Tutto questo è turbato, più o meno, dal peccato, ma lo è sempre e necessariamente, in ragione dell'unità umana. Vincoli intrecciantisi e inegualmente stretti, non mai spezzati, uniscono insieme tutti gli uomini in Dio, loro unico Padre, formando di essi una sola razza in cui tutto ciò che è di uno ha rapporto con tutti, più o meno, ma in grado massimo, col cuore di quelle esistenze associate che, per così dire, ne formano una sola. Se getto veleno in una sorgente, anche l'oceano lo saprà, ma lungo il decorso della corrente, quante vittime, forse, quanti malesseri misteriosi che non mi verranno attribuiti!

« L'universo — dice Paul Valéry — è costruito secondo un piano la cui simmetria profonda è presente, in certo modo, nell'intima struttura della nostra anima ». Questo ci aiuta a concepire come il nostro stato intcriore interessi tutta l'opera di Dio, benché per gradi e più da vicino solo sotto forma visibile.

Il nostro universo deve finire sotto specie di anima;

la legge dell'anima ne è quindi naturalmente il segreto. Se io sapessi in quali orbite è attratta la mia vita, in quali evi incommensurabili batte i suoi secondi e scandisce le sue rapide ore, oserei forse ancora peccare? oserei caricare il presente con le mie prevaricazioni come si carica un aeroplano lanciato in capo al mondo? Tempo di peccato, tempo di Dio, tempo dell'universo divino, momento della misteriosa eternità!.,.

A cagione del mio peccato, qualcosa risulta compro-

DISORDINE DEL PECCATO 141

messo nel ritmo del tempo, nell'ordine fra me e me e fra me e tutte le cose. Ma v'è soprattutto qualcosa di turbato di un turbamento quasi infinito, nell'ordine fra me e Dio, che supera infinitamente tutti gli altri.

L'universo non conosce che gli effetti. Dio conosce le cause più nascoste e le pesa sulla bilancia della sua giustizia, le misura alla stregua del suo bene, che è il Bene infinito, indipendente da ciò che nelle cose è di esso partecipe. Dinnanzi agli .uomini è Fazione che costituisce l'innocenza o la colpevolezza: dinanzi a Dio è il pensiero e l'intenzione ultima. « Che un uomo appartenga alla massa dei buoni o dei cattivi, — scrive Nietzsche — non lo decidono le sue azioni, ma l'opinione che egli ha delle sue azioni ».

Al di là di questo giudizio della coscienza, diciamo pure, l'opinione che ne ha Dio. Si può avere l'inferno nella propria vita e il cielo nel proprio cuore, come si può avere il cielo nella vita e l'inferno nel cuore. Quel che decide e che rimane sempre fondamentale è lo stato dei nostri rapporti intimi con Dio, a prescindere da tutti i mondi.

Questo è terribile; non si tratta più allora di trovarsi tra creature quasi eguali nell'esistenza che hanno ricevuta, vale a dire nel loro nulla, ma faccia a faccia con V Essere, il cui diritto è totale e contro cui l'offesa è quasi senza misura. Non è più allora il « divino » nel senso greco, contro cui il prevaricatore ha mancato alle leggi dell'armonia che ne compone l'essenza, alle leggi della bellezza, ma è Dio stesso nella sua persona vivente e tonante. E il più terribile, il più atto a sconvolgere, se si potesse concepirlo fino all'allucinazione, si è che a questo « tète-à-tète » infinitamente ineguale, il peccatore non ha il mezzo di sottrarsi. Non c'è fuga possibile. Se potesse nascondersi a Dio ed evitare, in una specie di notte intcriore, il suo infallibile sguardo, questo peccatore troverebbe il modo di Cavarsela da maestro in tutto il resto. Qui non c'è dissimulazione che tenga, non c'è scappatoia, tutto è limpido

142 IL PECCATO

ed è tale limpidezza derivante dalla scienza divina che colloca l'atto nell'eternità.

Disordine essenziale, disordine sempre conosciuto, disordine universale che colpisce Dio e tutto ciò che è di Dio, tale è il peccato, questo mostro di azione. Ciò che In natura si chiama mostro non è che un simbolo inadeguato.

LUI ORRORE DEL PECCATO

« Io ho pietà di Dio abbandonato a me nella mia anima », scrive Marcel Jouhandeau. Quale umiltà in questo Dio che non ci rifiuta il potere di offenderlo! Ma non è spaventoso al di là di ogni espressione umana, che questo potere sia utilizzato contro Colui che, concedendocelo, ci da una prova di fiducia quasi infinita, come il suo Bene e come la sua tenerezza?

Il peccatore costringe Dio a seguirlo con la sua presenza nell'abisso del male. Questo dannato in aspettativa obbliga Dio ad abitare nell'inferno e ad introdurre l'inferno nel suo cielo. Certo Dio non ne è contaminato, ma che teatro dinanzi agli occhi della Divinità, e che vicinanza! II peccatore si forma un suo paradiso disprezzando il paradiso di Dio, il suo proprio trono contro il trono di Dio:

sconvolgimento, perturbazione sacrilega! Alcuni non comprendono come si possa offendere Dio servendosi dei suoi doni, offenderlo senza la volontà di offenderlo, senza preoccuparsi di servirlo ne d'offenderlo. Ma è concepibile che Dio ci affidi il suo universo, ci affidi i suoi figli, compresi noi stessi, e si metta alla nostra altezza, lui. Dio, per realizzare una gloriosa e beatificante intimità, lasciandoci la facoltà di sconvolgere la sua opera e di non fare alcuna scelta nei suoi riguardi? Una simile sconoscenza, un tale disprezzo dell' Infinito, non è forse una somma ingiuria?

Dio in virtù della sua stessa natura, è posto di fronte a questo dilemma: di non offrirci nulla, mancando così'

ORRORE DEL PECCATO ,14,3

alla sua bontà munifica, o di proporci tutto e sé stesso, esigendo una scelta che salvi il suo onore. Ecco i! significato di queste parole: « Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me dissipa ». Tu dunque disperdi, o peccatore, poiché la tua indipendenza anarchica non può che turbare l'ordine voluto dall'amore, e tu sei contro Dio, perché offendi l'Amore in sé stesso, l'Amore che è Dio, e questo amore non può essere disprezzato impunemente.

Noi non stiamo entro il nostro stesso essere nell'universo e in Dio come sta un sovrano nei suoi domini, noi vi siamo ospiti di Dio e suoi intimi. È in ragione delle divine disposizioni che noi gustiamo il piacere e possiamo assaporare il nostro orgoglio. Colpevoli o innocenti le nostre soddisfazioni sono un dono del Padra. Quale abuso nel rivolgere tutto contro questo Padre, nel sottrargli in certo modo quel che ci dona, nell'obbligarlo a farci del bene nell'atto stesso per il quale l'offendiamo!

« Nulla di più vergognoso -— scrive Cicerone — che il fare la guerra a quegli con cui vivi in intimità »: è il biasimo che conviene al peccatore più che a chiunque altro. Ed è cosa sorprendente che Dio lo tolleri, è incomprensibile che Egli lasci sussistere il peccatore come il sole la nuvola che l'offusca e l'oceano il mostrò che fende le sue acque. È anche vero che l'oceano e il sole sono sempre vincitori.

Se poi pensiamo al Dio incarnato, alla sua umiltà nella Vergine-Madre, alla sua culla, alla sua croce, l'orrore del peccato non ci apparirà ancora più impressionante? Gesù sottomesso alle umiliazioni e agli oltraggi, l'uomo dato al peccato, e Dio che subisce in certo modo l'una e . l'altra disgrazia: questo triplice rapporto si può ridurre a uno solo. L'amore ne è il legame. È per amore che Dio viene a rialzare il peccatore, ed è in ragione dell'amore che Dio è insieme offeso e come punito dalla defezione .oltraggiosa del peccatore.

"; Se Dio potesse soffrire, l'inferno sarebbe sofferenza .sua più che nostra, e le miriadi celesti non lo consolerebbero della perdita di Lucifero. Ma egli ha potuto soffrire

144 IL PECCATO

in Gesù, e anziché raccogliere come gli angeli piangenti dell'arte primitiva il sangue generoso delle sne piaghe, noi ci assumiamo il compito di versarne la nostra parte, nel coreo della perpetua Passione: « Io ho versato per tè quelle gocce di sangue ». Ed io ne verso altre, o Signore, per il riscatto delle mie gioie colpevoli!

Si parla sempre del popolo deicida e volentieri si scaricano sugli ebrei le proprie responsabilità. Ognuno di noi è « un giudeo ». II popolo deicida non è, in senso spirituale, più deicida di qualsiasi altro. II vero deicida è l'uomo allo stesso modo che è lui il beneficiario della redenzione.

È la conoscenza dell'orribile malizia del peccato, conoscenza che solo Gesù poteva avere, quella che l'ha fatto sanguinare di terrore nella sua agonia. L'ostacolo eretto contro Dio, l'ostacolo contro l'amore di Dio, il « contro-amore » quasi eguale all'amore e tale da esigere l'intervento riparatore dell' Amore vivente, la sua sofferenza, il suo supplizio: ecco ciò che egli ha visto e che ha formato l'oggetto della sua atroce accettazione. Ha accettato tutto, ha preso tutto su di sé; « si è fatto peccato » egli stesso. Ciò fu la nostra salvezza, ma anche la lezione di noi peccatori, che tuttavia non conosceremo il prezzo del riscatto ® l'ultima parola del suo movente che in cielo, forse in pargatorio, o ancora — Dio ce ne liberi! -— all'inferno!

LIV1;,',

FOLLIA DEL PECCATO

Che l'orrore e il disordine del male morale si complichino in follia ce lo attesta questa semplice definizione:

per S. Tommaso, « peccare è volgersi smoderatamente verso i beni perituri a danno dei beni eterni ». La formula non ha nulla di tragico; scrutandola essa ben tratteggia l'insensato che volge le spalle alla vita per precipitarsi allegramente verso la tomba, l'innamorato del nulla contro

FOLLIA DEL PECCATO 145

l'essere, contro il tutto, esatta traduzione di quest'altri» formula egualmente semplice: si pecca contro Dio.

Il peccato si oppone a Dio, e poiché evidentemente non ha presa su di lui esso non può che ricadere su chi lo ha perpetrato: avvelena il chimico imprudente, ferisce lo spadaccino inesperto. La ferita a volte è cocente, o ciò che è peggio, indistinta e non da che un'impressione di disperazione cupa. « Vivo in una tristezza continua e mortale — scrive Sainte Beuve, nei suoi Cahiers intimes, — senza ombra di gioia e senza sorriso. È forse perché non mi è più permesso di sperare nell'amore? O piuttosto perché ho'avvizzito in me il fiore della virtù? ». ;

II cielo regola spesso f^ti effetti sulle cause, dice il^ Pompeo di Corneille. Il peccato che ci mette in opposizione a Dio e all'ordine di Dio non può che opporre noi a noi stessi, poiché anche noi siamo nell'ordine, e le ripercussioni dei nostri atti hanno fin d'ora mille vie per assa-r lirci. Questo sarebbe ancora nulla: il più importante viene dopo. « Chi ama l'iniquità odia l'anima sua », dice il Salmo.

Ironia della morte su quel peccatore che era tutto preso, che intendeva « vivere la sua vita » ridendosi degli scrupoli melanconici. Ora non brilla più; la sua boria si;

è spenta, il suo cadavere, come tutti gli altri, è fetido;

più spaventoso è però l'odore della sua anima. « Ergo er- , ravimus! Abbiamo dunque sbagliato », fa dire l'oratore sa-,';

ero quando questi ha oltrepassato le frontiere terrene. Il destino è in sé stesso determinato; coloro che non si deter- ;' minano in rapporto ad esso o si determinano male, saranno da esso determinati secondo le sue proprie leggi. « Noi'' siamo imbarcati » e sul fatidico fiume si arriva sempre.

Da qualunque parte il peccatore si volga, bisogna bene, se apre gli occhi, che si veda dinanzi le due morti:

quella che chiamiamo con questo nome, e l'altra. Come sì, i. può dormire con la propria dannazione nel cuore? Come i, andare, venire, ricrearsi, distrarsi, quando la sorpresa del-, '', ; la morte, così frequente intorno a noi, può precipitarci i ^ nell'eterno abisso? Il peccato produce seme di rimorso, « materia da ardere », dice Tommaso da Kempis, e che

10. —DtVtii,,^^'..'

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146 IL PECCATO

cosa minaccia? Il rimorso spaventosamente ossessionante che ferisce nel profondo. Senonché noi non ci pensiamo, ed è proprio questa la nostra follia. In ogni peccato c'è un errore, in ogni peccato c'è una mancanza di fede che l'affermazione persistente della fede rende insana. Il giorno in cui la ragione e Dio ci avessero pienamente convinti, non potremmo più peccare.

È una specie di circolo vizioso: se il peccato suppone uno smarrimento, esso stesso però lo produce. Lo spirito accetta l'errore quando la passione vittoriosa ne maschera l'evidenza. Non è forse evidente che bisogna godere di ciò che piace? Ho sete, bevo: evidentemente è cosa che s'impone. « Colui che abbandona la sua anima all'ebrezza dei sensi — dice il filosofo indù — vede ben presto la sua intelligenza trascinata come una nave dal vento sulle acque ».

Tutto in noi ha principio dai sensi, e c'è più gente per cominciare che per finire. Dovremmo elevarci alla vita ragionevole: ci lasciamo invece affondare nel fango. Rifiutiamo di venire a capo di noi. Non comprendiamo la vita simili all'uccello che sperduto in una stanza non distingue la finestra, i quadri e gli specchi contro cui va a battere e a farsi male, ebbro com'è di libertà. Tutto ci attira e ci delude, noi persistiamo e sciupiamo così l'esistenza intera.

Per quali sciocchezze ci mettiamo in pericolo di perdere i beni eterni! Si freme al pensiero che si può pagare tutto questo orpello a prezzo di oro vero, al prezzo della vita immortale. L'infinito spande i suoi raggi su di noi, e scioccamente noi ci affanniamo a proiettare sul nulla i suoi prestigi. Si crederebbe che il disgusto del piacere, una volta ottenuto, venga dalla sazietà; viene invece dal disinganno: non è quello che si cercava. Ma allora quel che tu cerchi, o peccatore, attraverso tutto, e che in tutto si nasconde, non finirai col riconoscerlo in fondo alla tua coscienza? La coscienza ha proprio il compito di farci edotti della gerarchla dei nostri istinti. Quanto poco è esplorata quella coscienza che non ci fa sentire il richiamo infinito, al primo posto fra questi istinti che ci agitano!

O accecamento degli uomini! Come si comprende be~

SCUSE DEL PECCATO , 147

ne questa parola di Agostino: « Dio lascia i falsi beni ai suoi nemici, per timore che sembrino grandi ai suoi amici ». A questi ultimi sembra piccolo tutto ciò che passa e che si dovrebbe pagare con ciò che rimane. Il pregustamento delle vere gioie procura loro maggior gaudio che non ne procurino i valori fugaci. Ci si può compiacere del •proprio destino, presente e futuro, delle pene e delle ricompense, quando si è preso il partito del buon economo e del sagace uomo d'affari. Il saggio contempla i meriti dei santi come il sognatore disteso sotto un albero. Le radici sono là sotto, dure e nere; i frutti pendono dall'alto del ciclo. ''

tV SCUSE DEL PECCATO

I peccatori e le persone indulgenti trovano molte scuse al peccato. Ve ne sono di buone, ma anche di inganna-trici; ve ne sono anche di dubbie a motivo di quei compromessi che la nostra vita morale conosce. Vale in ogni caso questa osservazione essenziale: noi dobbiamo, per quel che ci concerne, scusare il peccatore fino all'estremo limite del suo diritto reale o possibile, vale a dire fino a che la sua colpa, o la gravita della colpa, non sia dimostrata in modo assoluto. Il peccatore, da parte sua, dovrebbe osservare quest'esigenza di certezza e di validità nei riguardi dell'attenuante.

Altra osservazione ancor più importante: è d'uopo ricordarsi che il bene e il male non si determinano nel campo visibile, per quanto il visibile ne sia la materia e il testimonio. Vi sono materie resistenti ad ogni forma di arte, e vi sono testimoni sospetti. La nostra vita esteriore può apparire impeccabile e la nostra anima può essere abominevole dinanzi a Dio. Così la nostra anima può essere gradevole a Dio mentre la nostra vita si presta a molti rimproveri. Si può vivere e morire « molto bene » e preci-

148 IL PECCATO

pitare nell'abisso; del resto il divino Maestro ha detto:

« delle cortigiane vi precederanno nel regno dea, deli ».

Ciò premesso resta la questione delle scuse valevoli, frivole o dubbie. Taluni non sarebbero alieni dallo scusarsi e quasi dal gloriarsi delle loro colpe e dei loro delitti, allegando un certo punto d'onore che deriva da pregiudizi di casta o d'ambiente, quali esistono nella vita sociale. Bisogna dire a costoro: vi è un onore del peccato che non salva il suo autore, ma che vale solo a provare la sua schiavitù rispetto a varie usanze, o, nel miglior dei casi, un certo lato più alto della sua natura: circostanze attenuanti, palliativi, speranze di rialzarsi e di far meglio l'indomani, tutto quel che vorrete, ma che però non scusa.

Tanto meno daremo il nome di scusante al fingere a sé stesso della cattiva coscienza. È pòco dire che di fronte a quel che ci tenta o provoca le nostre reazioni, siamo pronti ad ingannare noi stessi: giuochiamo d'astuzia con una sofisticheria che non dipende neppure dalla nostra intelligenza. L'egoismo della carne ha in sé più spirito di Voltaire e di Kivarol riuniti; una passione ardente sostituisce la cultura e l'applicazione sagace.

Bisogna inoltre diffidare delle cosidette sorprese: le sorprese esistono, ma non sempre si trovano dove noi vogliamo vederle. Vi sono colpe non premeditate nei riguardi del calendario e dell'orologio, ma che lo sono in rapporto alla durata inferiore soggetta a ben altra misura. Quante cose, forse, nell'anima, fra l'inizio del più breve avvenimento e la sua fine, fra l'arma levata e il colpo, fra la prima parola d'un discorso e la sua conclusione. Tutto il ciclo di una deliberazione può ivi concentrarsi: il caso, le ob-biezioni della coscienza, e le risposte del cuore appassionato, come il metro d'acciaio nella sua stretta capsula. Si dirà allora che vi fu trascinamento? Però vi è anche il freno mordente e solo Dio conosce i rapporti dell'uno col-l'altro; Dio solo li può commisurare alle singole perso. naiità.

Non vogliamo con ciò contestare la sorpresa pura e semplice, che è la scusa quotidiana dei buoni e fa della

SCUSE DEL PECCATO 148

loro vita anche se esemplare un faro a intermittenza di luce e di ombra. Le alternative sono inevitabili, esse rispondono alla nostra condizione di viatori; l'importante si è che l'ombra fugace non divenga una notte. Il peccato dell'uomo giusto è una virtù che si oblia, come la vita prosaica di un'anima nobile è una poesia assopita. « Che il peccato non imperi sul vostro corpo mortale! », dice 1' A-postolo; esso vi è sempre, purtroppo! Che almeno non tì regni!

D'altra parte occorre tener conto delle persone e delle situazioni. Vi sono anime più esposte, precisamente perché sono sensibili ed assumono i compiti più ingrati. In qualsiasi ordine, la mercede della superiorità e dell'audacia è il rischio. La fuga dal mondo, è cosa buona, ma il servizio del mondo, che è cosa migliore, è anche più pericoloso. Lo ricordi dunque il censore allorché il peccatore contrito non se ne prevale.

Infine vi sono quei trabocchetti così difficili a evitare, coperti di erbacce come quelli che si tendono alle bestie innocenti. Bisognerebbe aver la prontezza di schivare i. propn pensieri e quelli degli altri quando sono nocivi, come ci si apre abilmente un passaggio nella folla brulicante. E come nell'attraversare la folla non è dato evitare del tutto gli urti, così è delle colpe per l'anima tentata.

Uno scrittore si dichiara deciso a « montare Sa guardia intorno alla sua ombra »; ha ragione, poiché abbiamo dei nemici nella nostra stessa ombra: tuttavia la sua buona guardia non lo garantirà del tutto, essa non potrà eh» ripetergli di tanto in tanto il « chi va là ». E chi sa se è bene che ogni pericolo scompaia, e così ogni sventura? Questa interrogazione non lo è più, in un certo senso, poiché è scritto: « Per coloro che amano Dio, tutto coopera al bene ». Un conoscitore competente, S. Agostino, aggiunge: « anche il peccato ».

150 IL PECCATO

LVI EVENTUALE BENEFICIO DEL PECCATO

L'avversario del peccato è l'amore. La legge di per aé è una « legge di peccato »,come dice, e ripete S. Paolo;

essa formula infatti dei precetti di vita senza però dare la vita, e così non fa che schiacciare il peccatore sotto la sua testimonianza. L'amore invece da la vita, e il peccato, allora, non si comprende nemmeno più.

Non lo si comprende, e tuttavia sussiste; anche le' anime migliori piegano sotto il suo peso: amano e peccano. Che fa dunque in esse l'amore? Esso non è davvero inattivo; è per l'amore che in queste anime il peccato va sempre più diminuendo di frequenza, si va sminuendo, per dir così, assottigliando, riducendosi di spessore come certe foglie d'oro che coprono una larga supèrfice e non pesano quasi nulla. « II giusto pecca sette volte al giorno », si dice, e quanto a lui direbbe anche di più poiché pecca continuamente per imperfezione, ma l'amore che lo solleva consacra a Dio questa miseria come tutto il resto. Da tutto! gli dice lo Spirito e questo Spirito che conosce i desideri del nostro cuore lo assolve in segreto presso il Padre.

Non basta però che il peccato sia ridotto e sia scusato: bisogna che sia reso utile, ciò che vale non soltanto per il peccato di fragilità, ma anche per quello deliberato, persistente, per lo stesso delitto.

Quando il Signore dice che delle cortigiane ci precederanno nel regno dei cicli, non lo intende, senza dubbio, di quelle che restano meretrici, bensì di quelle che si con-vertono, e una volta convertite sanno con un balzo superare sulla via del bene uno spazio che l'innocenza non sa varcare. Senza dubbio l'innocenza in sé è migliore, tuttavia per noi, dopo la caduta, il peccato, può tornare di maggiore aiuto.

Perciò quando abbiamo detto che l'amore è nemico

EVENTUALE BENEFICIO DEL PECCATO 151

del peccato, non intendevamo affermare che esso avrebbe dovuto sempre e dappertutto uccidere il peccato. In realtà spesso lo uccide; a volte è invece distrutto o preceduto da esso, ma se non ha potuto evitarlo, ha ancora il potere di colpirlo. « La carità copre la moltitudine dei peccati », dice S. Paolo, e ciò che l'amore così copre, se lo incorpora, lo trasforma, in certo modo, in sé stesso. Della triplice negazione di S. Pietro l'amore ha fatto una triplice testimonianza e un triplice pungolo. I rivi di lagrime che inondarono le guance dell' Apostolo e scesero senza fine hanno contribuito alla fecondità della terra più assai del suo ardore di prima.

Il peccato riparato lascia in noi il sentimento della nostra debolezza, sentimento che unito alla grazia costituisce la nostra più preziosa salvaguardia. Ci convince della nostra schiavitù terrestre e accresce il desiderio della liberazione. Eleva in noi la giustizia per mezzo dell'umiltà: non abbiamo detto sopra che l'umiltà è giustizia? Esso infine ci spinge alla misericordia, che a sua volta, come l'amore di cui è una manifestazione, come l'elemosina che da essa procede, « copre la moltitudine dei peccati ».

« II concetto del male e della sua guarigione — scrive Amiel — è la miglior misura della profondità di una dottrina religiosa ». Sotto questo aspetto, il cristianesimo è doppiamente, anzi triplicemente divino, poiché esso svela il male a una profondità tale che nessuna filosofia ne alcun'altra religione ha saputo raggiungere, lo guarisce con la penitenza, e ne fa, per mezzo dell'amore, una forza benefica.

È Gesù che ha operato questa meravigliosa trasformazione coi suoi meriti e con la sua assistenza fraterna. Gesù ha voluto essere solo nel Getsemani per atterrare il peccato, per annegarlo nel sangue di tutto il suo essere: affinchè noi non fossimo soli, quando, una volta atterrati, avremmo dovuto proprio per questo fatto divenire vincitori. Non lo potremmo senza di lui, con lui lo possiamo.

Il suo spirito che è fuoco, consuma il peccato preservando ed esaltando quanto v'era di vitale nell'atto stesso

152 IL PECCATO

che il peccato qualificava, e soprattutto nell'anima. Lo Spirito di Cristo è amore vivente, esso racchiude nella Trinità ardente non certo il male, ma il bene che è il supporto del male e che si presta alle metamorfosi, direi quasi alle apoteosi dell'amore.

In Dio che è la stessa perfezione, debbono incontrarsi e conciliarsi la bontà e la giustizia, ma la giustizia non viene per prima: la bontà precede e domina. È la bontà che crea, aiuta e riceve; all'occasione la giustizia dovrà raddrizzare. Se non vi fosse il peccato la giustizia dormirebbe un sonno eterno; poiché vi è la bontà non si rassegna ad estinguersi per questo: si afferma sotto il noma di misericordia, e se noi Io vogliamo, si serve del peccato stesso per il trionfo che ha preparato.

Così dopo aver detto — e pronti a ripeterlo ancora — peccato uguale dannazione, eccoci portati ad accettare quest'altra sorprendente eguaglianza: peccato uguale redenzione e, per la redenzione, per l'amore che le unisce, peccato uguale grazia, peccato uguale gloria. L'eternità ha i suoi mezzi che il tempo non conosce. Hanno un senso soprannaturale queste parole di Eugenio d' Ors: « I naufragi stessi sanno condurre in qualche luogo la fortuna di Ulisse ».

LVII SCHIAVITÙ' TEMPORALE DEL PECCATO

Come il peccato riparato può diventare il nostro benefattore, così il peccato in sé stesso, non riparato, ci e nemico e più che nemico, perché l'anima vinta da esso si trova trasferita sotto il suo'potere. Non ogni vinto diviene schiavo; qui segue la schiavitù perché la capitolazione è volontaria, cosicché si vede passare al nemico quel pò-' tere stesso che avrebbe dovuto spezzarlo.

La libertà è fatta per il bene: quando consente al male, abdica. Facoltà di accrescimento e di arricchimento,

SCHIAVITÙ' TEMPORALE DEL PECCATO 158

quando abbandona i veri beni per le soddisfazioni miserabili, decade, è ormai dominata da ciò che formava la materia del suo lavoro, quindi serve. L'uomo è « venduto al peccato », dice S. Paolo, ciò che appunto è vera schiavitù. A prezzo di falsi beni siamo piegati sotto il giogo;

solo da Dio può venirci la liberazione.

La decisione cattiva è come una caduta intcriore che dal contatto con Dio ci precipita agli antipodi di Dio, nel campo delle forze ostili e dominatrici. Dio è libertà, è indipendente da tutte le cose, è padrone di tutto, ed è pronto a ricevere i suoi amici nella partecipazione del suo regno. L'allontanamento da Dio respinge il peccatore nel conflitto degli esseri e nella loro essenziale ostilità, visto che non possono servire insieme a Dio e a Satana, di cui il peccatore è un satellite.

Tolstoi paragona il prevaricatore a un cavallo da tiro che ricusa di camminare o non vuole andare diritto: tutto il traino, il veicolo, il cocchiere, gli diventano avversari. Era libero di camminare bene o male, ma non è libero dalle conseguenze; egli verrà trascinato suo malgrado, soggiogato e tirato in tutti i versi. L'universo di Dio non è meno oppressore per colui che ne scompiglia l'ordine, e l'universo intcriore si mette all'unisono poiché anch'esso infligge al peccatore la costrizione delle sue forze spostate e rese ostili. Il peccatore oppone un no alla sua legge, senza accorgersi che la sua legge è lui stesso, lui intendo, nel suo ordine intcriore, nello stato perfetto e felice, al punto che violando questa legge egli viola il suo essere e si abbandona a quelle forze oscure che l'hanno subornato. Tali forze non possono che opprimerlo, morderlo, com'è espresso dalla parola oggi un po' logora e in origine così espressiva: il rimorso.

Senza dubbio il fenomeno può essere differito e far posto lì per lì al suo contrario. Il peccatore può sentirsi nella gioia, dilatarsi anzi in un delirio di gioia, ma ciò non cambia nulla al suo stato. Pascal gli dice: « Sei forse meno schiavo perché sei amato e lodato dal tuo padrone? Non c'è di che, o schiavo: il tuo padrone ora ti loda; tra

A54 IE PECCATO

poco ti bastonerà ». Cosa strana, il sentimento della libertà si fa tanto più vivo quanto più uno ne abusa perdendola. Uscire dai ranghi può esaltare, ma quel che importa è il sapere dove si cade. Gustate pure la libertà di scelta, ma constatate che avete scelto la prigione e sentite le porte chiuse dietro di voi.

Non basta. La schiavitù del peccato è immediata e grave della gravita stessa del peccato, ma è anche progressiva. Ogni recidiva aumenta l'abitudine cosicché il peccatore non è più in grado di spezzare i vecchi anelli di questa catena che si allunga e si rinforza continuamente. La volontà può fare quel che vuole volgendosi in avanti, nel passato nulla può. Quel che non ha fatto può farlo, ma non può distruggere ciò che ha fatto.

L'abitudine rende più gravi le nostre colpe in due modi: facendoci passare dal piccolo al grande e coinvolgendo in modo sempre più completo e profondo la nostra volontà, a meno che il pentimento non venga a liberarla. , S. Agostino raffigura il peccatore inveterato, dietro un :

muro con tutte le porte chiuse e senza via d'uscita. Il piacere gli ha reso amabile il vizio, l'abitudine glielo rende necessario. Ci si è « dati » al piacere, è la vera parola:

il piacere vi ha presi e non vi lascia più; si gode senza volerlo, ci si trova schiavi col nostro consenso, ed è una volontaria disgraziatissima schiavitù.

Fortunati se la schiavitù della volontà non implica:

quella dell'intelligenza, perché a volte accade anche questo. La saggezza che regola i nostri atti, ne è anche iL risultato, mentre gli atti contrari la dissipano. Lo stadio ultimo e più pericoloso del peccato consiste nell'erigere il peccato a sistema, nell'inventare false dottrine per ten- ;

tare di giustificare i propri disordini. Ne abbiamo illustri esempi vicini a noi. In fondo non si ignora di che si tratta, ma non si vuoi sentire la voce della coscienza, e si ? chiama alla riscossa una ragione compiacente che la co" ora, e al caso le trovi dei compiici.

Che si può mai sperare da un'anima così fuorviata e ;;

pervertita? Ove trovare una condizione peggiore, se noirv

RESPONSABILITÀ DEL PECCATO 155

nel fatto di rallegrarsene come di una vittoria e di una liberazione? Anche questo può capitare, ed è in fondo una conseguenza naturale, quasi seconda natura, e tutto ciò che è naturale è felice. Eccoci dunque in una falsa felicità, voltando le spalle a quella vera, quasi ci fosse diventata fastidiosa ed odiosa e sentendo invece per quell'altra una brama sempre più appassionata, inevitabile. La schiavitù ha assunto una forma di dilatazione e di gioia: è il colmo dello sconvolgimento perché di questa testimonianza di vita che è la gioia si fa testimonianza di morte e la pretesa dilatazione è invece il sommo della rovina.

Umanamente in questo caso non c'è più speranza. « Un vaso rotto — dice Leonardo da Vinci — si può riparare se è crudo, non lo si può se è cotto ». Fortunatamente c'è il miracolo.

LVIII

, RESPONSABILITÀ' DEL PECCATO

II nostro destino è interessato a tutti i nostri atti, e l'ordine divino è interamente legato ad ognuno dei nostri destini. Quanto è tremenda, adunque, la responsabilità dell'uomo e com'è grande questo piccolo essere!

Enrico Heine diceva d'aver visto davanti alla Cattedrale di Colonia uno spettro ammantato di rosso che era, egli assicura, « l'esecutore dei nostri cattivi pensieri ».

Profondo simbolo! I nostri pensieri hanno la loro. esecuzione in qualche luogo: prima di tutto in noi stessi, poi all'infuori di noi mediante ripercussioni visibili o segrete, deduzioni scoperte o celate. I nostri atti, a maggior ragione, creano nell'ambiente umano e universale degli ondeggiamenti come la, pietra nell'acqua in cui viene gettata.

Esiste forse un limite all'effetto provocato sull'oceano dal minimo ciotole lanciato dalla riva? Non ve n'è al*

156 IL PECCATO

cimo. lì movimento potrà smorzarsi o deviare per arti contrari, la componente rimane: in realtà esso ha alterato l'integrale, e un perfetto calcolatore potrebbe rilevarlo anche fra mille anni.

Che cos'è mai un universo materiale, se non un sistema tutto collegato e strettamente solidale da un capo all'altro? Che cos'è mai ancora, un universo morale, s® non un che di analogo, un intreccio di influenze percepibili o no operanti malgrado tutto e attraverso tutto, in bene, in male, per tutta la durata del tempo, che sfocia poi nell'evo perenne? Un giorno ci sentiremo dire: nella tale data, nel tale momento tu hai compiuto il tale atto:

eccone gli effetti! Sulla linea dell'orizzonte, l'ondulazione della pietra produce un piccolo rigonfiamento che l'occhio umano non percepisce, ma a Dio nulla sfugge e l'orizzonte immntabile registra il fatto umano veduto e saputo dalla provvidenza.

Sembra dimostrato sperimentalmente che tutte le impressioni provate nel corso della vita, fino ai particolari in apparenza più insignificanti, si conservano e si possono un giorno ripresentare come nuovissime in uno spirito agitato da qualche scossa violenta. Insidia tremenda per le nostre responsabilità reciproche! Chiacchierando imprudentemente ho fatto sorgere in voi qualche immagine che fra dieci anni potrà forse riapparire ed inclinarvi al male. Evidentemente accade lo stesso per un buon pensiero, ed è perciò che una tale solidarietà consola l'uomo virtuoso che getta così dei germi duraturi. Tuttavia deve anche preoccuparlo, essa che abbatte il perverso e minaccia il negligente che non si cura di giudicare i propri atti.

Non c'è lo stesso rapporto, qui, tra il bene e il male, perché il male è più prolifico: esso viene accolto più facilmente e da un maggior numero di persone poiché noa esige sforzo e lusinga, gli istinti più sensibili. Fortunatamente, si trova nell'umanità una zona più profonda accessibile a quanto vi è di migliore; ed è questo che autorizza la speranza.

« L'uomo è destinato ad essere in un qualche senso

RESPONSABILITÀ DEL PECCATO 157

padre o madre », scrive Nietzsche, e a vantaggio della posterità spirituale, aggiunge, vi è il fatto che si è insieme padre e madre, e che il figlio, una volta nato, entra subito nel mondo e fa la sua strada da solo. Così il peccato segue la sua carriera, una volta uscito dalla culla dove fu vezzeggiato, it^

Forse che il mondo sarebbe quello che è, « tutto pò-;

sto nella malizia », come dice San Giovanni, se l'accumularsi di atti perversi, dubbi, disordinati, assurdi, non avesse formato alluvioni massicce, delle stratificazioni volta a volta indurite, che servono di base le une alle altre? La menzogna e la disonestà sono talmente agglutinate alla vita dell'uomo, che se d'un tratto la sincerità e la rettitudine divenissero legge, possiamo chiederci se il mondo» non ne sarebbe distrutto. Non ci si riconoscerebbe più;

un riadattamento sarebbe quasi un miracolo. Il fatto è che un altro miracolo l'ha preceduto: quello del nostro accecamento e della nostra persistente malizia.

Quale sia la parte di ogni individuo in tutto ciò, Dio solo lo sa; un giorno lo sapremo tutti, e ciascuno riceverà la sua parte di retribuzione « fino all'ultimo centesimo », dice il Vangelo. Se avessimo chiara coscienza di una tale conclusione potremmo ancora vivere? Eppure proprio in quel caso meriteremmo la vita e saremmo in grado di svolgerla nella sua verità, anziché nelle vie traverse imposte dalle nostre bassezze.

Almeno dovremmo pensare agli effetti immediati delle nostre azioni quotidiane. Lo facciamo, o non meritiamo piuttosto quest'accusa di Bossuet: « Nessuno si contenta di essere insensato per sé, ma vuoi far passare ne-' gli altri la sua folliai»? Un uomo onesto arrossirebbe di far torto al suo prossimo: pensa egli al torto che fa gìv.-, dendo la propria legge, che essendo legge di tutti è anche la comune salvaguardia?

Ci lamentiamo delle difficoltà dei tempi: chi le produce, se non tutti noi, ognuno per la sua parte? Durante^ le calamità del sesto secolo, Gregorio Magno scriveva:' «: Noi uniamo le nostre colpe alle forze dei barbari, e for-

158 IL PECCATO

se per la rovina dello Stato siamo proprio noi che faremo traboccare la bilancia ». Pensiero tremendo, tutt'altro che chimerico, d'una forza di verità degna di ogni considerazione, nel segreto, poiché in esso tutto si elabora, e dinanzi a Dio che è il maestro di ogni nostra conquista.

LIX LA SANZIONE DEL PECCATO»

Si entra nella felicità per la porta del dovere, e dal dovere si passa, un giorno, nella felicità, poiché in fondo non sono che un'unica e medesima cosa. Allo stesso modo si entra nell'infelicità per il peccato e se ne esce per entrare nell'infelicità eterna poiché anche qui è una cosa sola.

La punizione del peccato è nel peccato, poiché peccare significare separarsi da Dio, vale a dire dal Bene sorgente d'ogni bene, come Bene supremo. D'altra parte il peccato turba l'ordine e l'ordine turbato deve rivolgersi contro il perturbatore: azione omogenea, come per Furto il rimbalzo, come per la voce l'eco. Infine il peccato ci disorganizza intcriormente e questa disorganizzazione trasportata nel piano dell'eternità è come una cadaverizza-zione, una morte, è ciò che fa definire la dannazione la « seconda morte », una specie di annientamento vivente, di trapasso intcriore, omogeneo alla morte del peccato e che ne rende testimonianza.

La virtù porta la sua sanzione in sé stessa, per mezzo della speranza; ecco, secondo Bossuet, « la grande massima di Stato della politica del cielo »; ma questa massima ha il suo rovescio. Il peccato porta anch'esso in sé la sua propria sanzione, a titolo di condanna scolpita sulle tavolette del cuore, quello che il teologo denomina « reatut ipoeraae », inferno intimo a cui manca solo di esplodere come una polveriera al contatto di una scintilla.

Del resto questi due fatti non sono semplicemente

LA SANZIONE DEL PECCATO 159

paralleli, ma si riducono ad uno solo. L'inferno è della stessa stoffa del ciclo, di cui non è che il rovescio. Il medesimo Bene divino che in ciclo è beatificante qui è torturante per la sua assenza, il medesimo fuoco lassù splende e qui brucia. Ma la sfera universale è così divisa in due parti per opera nostra; siamo noi che creiamo l'inferno: Dio non fa che il cielo, poiché egli crea a sua immagine e somiglianzà e Dio in sé stesso è cielo.

Quand'io mi scandalizzo dell'inferno, sbaglio d'indirizzo; ne muovo rimprovero a Dio perché ho dimenticato di guardare in me; se guardo bene vedrò il peso di Dio — il suo peso e non una volontà sovrapposta — in cia-scun movimento del mio cuore. Il peso di Dio misura il destino verso il quale mi avanzo, sia facendo il bene come peccando. E in questo peso c'è il mio e quello della creatura, che non si addizionano ali' Essere stesso. Io valgo in ragione dell' Essere posseduto o perduto. La mia azione integrale, che Dio misura e la mia morte compie, vale per l'Infinito, favorevole o contrario. Come peccatore porto in me l'inferno in tutti i suoi elementi; assenza di Dio, disordine inferiore, ostilità dell'ordine universale manifesta in fatti di reazioni apparenti, e che portata all'assoluto, è precisamente quel fuoco di cui il pensiero ci ossessiona. L'inferno ha la forma dell'anima e ha la sua stessa dimensione. Ecco ciò che ne forma la mostruosa grandezza.

, Deludere Dio con una delusione totale può rappresentare un fine eterno? L'umiliazione di Dio in me e nelle sue opere, può essere uno stato finale? Tutto questo deve stabilizzarsi, e se non lo stabilizzo con la grazia, in questo tempo di grazia in cui tutto posso, verrà il tempo, in cui, non potendo più nulla, la stabilizzazione si compirà nell'ultima caduta. Quel Dio che abbiamo rinnegato ci farà sentire in un bagliore accecante tutto il gaudio della sua presenza e il vuoto tremendo della sua assenza; l'ordine universale peserà con tutto il suo peso sull'anima fatta per l'universale e che l'ha tradito; l'io disorientato, torturato, non troverà più, nemmeno in sé stesso, di che rè-

il60 IL PECCATO

eriminare, perché non ha saputo riconoscersi nella sua realtà, nella sua essenza celeste, nei suoi legami.

È impossibile rendere infelice il giusto: egli è felice appunto perché giusto. Così senza convertirlo è impossibile rendere felice un peccatore, è un disgraziato in erba, per dir così, realmente disgraziato dal momento che è peccatore. Il giusto non può non incontrare la felicità, mentre l'infelicità insegue il peccatore attraverso i mondi. ^La Scrittura ha detto bene: le nostre opere ci seguono, e ne suggerisce anche la ragione, ed è che le nostre opere sono noi, ed un io antico, un io nascosto allo sguardo mortale e dissimulato al suo stesso possessore, non per questo diventa un altro.

Si può dire di ogni peccatore ciò che Andre Suarès dice di Nietzsche: « Dio l'ha punito condannandolo a sé medesimo ».

Se la virtù non avesse in sé la sua ricompensa, essa aon sarebbe mai ricompensata, poiché nulla risponde alla sua natura, al suo valore alFinfuori di ciò che mostra in sé stessa manifestandosi nelle sue opere. Ma se il peccato, a sua volta non si ripagasse da sé con l'inferno? dove potrebbe trovare giustizia? Abbiamo riconosciuto in esso mia specie d'infinità, e certo Dio non pensa a prevalersene contro la sua disgraziata creatura, ma ciò che è si impone a Dio stesso. Il peccato esclude Dio, esclude l'ordine intcriore ed esteriore: basta manifestare questa esclusione perché sia fatta giustizia; il Bene sovrano non ha bisogno di occuparsene: basta la sua esistenza.

« II potere di peccare e il potere di morire sembrano avanzare con lo stesso passo », dice San Tommaso d' Aquino. Ci sono profondità diverse in questa frase: nel senso assoluto essa è rigorosa e bisognerebbe cancellare quel sembrano; occorre anche prendere la parola morte nel suo secondo significato, per designare la morte eterna. Allora, in realtà, la potenza di peccare equivale alla potenza di morire, vale a dire di dannarsi, e noi tutti indi-TÌdualmente abbiamo questo spaventoso potere.

« Gli uomini scelgono liberamente e da sé stessi i

LA SANZIONE DEL PECCATO 161

f

propri mali », leggiamo già nei Versi d'oro di Pitagora. Nella sua eternità. Dio mi vede astro del ciclo o tizzone dell'inferno: quale dei due? In questo regno fuori del tempo, chi sono io? Sarò quello che ho voluto, quello che voglio, quello che vorrò nel tempo della mia vita terrena.

Pensaci bene, o cristiano, pensaci nel più profondo, del cuore; si tratta qui di ciascuno di noi, di « ogni eia-;;

scuno » come dice energicamente l'uomo del popolo, che. si sente in causa e deve interrogarsi strettamente. Il cielo o l'inferno non sono stati collettivi, se non secondariamente, « accidentalmente » come dice la teologia. Se uno di noi fosse solo a esistere, il cielo e l'inferno resterebbero per lui esattamente quello che sono; la differenza è trascurabile.

Gesù ha detto: «Nella casa del Padre mio ci sono molte mansioni». Ce ne sono di fatto tante quanti sono gli individui, poiché per il giudizio e per i suoi risultati essenziali ciascuno è solo; ciascuno è ad una distanza in— | commensurable dal più vicino, come si dice degli atomi p interastrali. Non esistono due destini identici e realmente | vicini; un'anima sola, dinanzi a Dio, è come un universo. | Ognuno ha il suo peso, la sua forma, la sua proprietà in->', comunicabile. Ovunque esiste una coscienza, — pensaci ^ancora una volta, o cristiano, pensaci, o peccatore, — c'è '; per questa coscienza e secondo la sua misura, una dimora 'ff di felicità eterna o una eterna prigione.

LX

LA CONVERSIONE

« II peccato — dice San Tommaso (T Aquino — tende verso due termini: verso l'uno per sé stesso, ed è la dannazione; verso l'altro per la misericordiosa provvidenza di Dio, ed è la salvezza. Dio infatti permette la caduta di taluni affinchè riconoscano la loro colpa, se ne umilino e si convertano ». Questa formula pur nella tecnica del suo stile proietta tuttavia una gran luce sulla tenerezza di 'Dio nei riguardi dell'umanità peccatrice.

Dio viene a noi attraverso tutto. Per raggiungerci si serve del peccato come della virtù e dell'eroismo. Al peccato che odia sembra accordare qualche indulgenza perché vi trova occasione di perdonare. In ogni caso lo anima e lo obbliga a « tendere alla salute della sua creatura ». Di fatto se la nostra anima può, nel peccato, dimenticare la sua nobiltà. Dio, suo Padre non la dimentica. Quando anche fossimo dei criminali, il suo sguardo vede più lontano e più profondo: scruta le nostre risorse, la nostra segreta buona volontà, scorge anticipatamente il nostro pentimento, e stima, come il suo Dottore, che una volta riparato con la penitenza « qualunque peccato diviene veniale ».

Indulgenza dell' Altissimo! bontà che si è inchinata una volta nel? Incarnazione, nella Redenzione, e che d'al-

LA CONVERSIONE 163

lora in poi vede meno il peccato che il suo rimedio, meno la nostra colpevolezza che la sua metamorfosi nell'amore! La penitenza è la lancia del centurione; il cuore di Dio squarciato emette l'acqua e il sangue, la purificazione e la tenerezza, mentre dietro risplende la croce; il gaudio dei cieli le forma un'aureola!

Non temete, peccatori, è poco dire che siete attesi, poiché c'è per voi quasi una preferenza. Ne dubitereste? Leggete la parabola del figlioì prodieo, della pecorella smarrita, della dramma. La conclusione è sorprendente, ma soprattutto consolante: « Così, vi divo, si farà più festa in cielo per un salo peccatore pentito che per novasn.-tanove giusti che non hanno bisogno di penitenza ».

Non dite mai: è tropno tardi. È soltanto questione di riprendere contatto con le realtà eterne. Il tempo del pentimento, in rapporto a quello del peccato, non è un tempo nuòvo, è un'eternità ritrovata. Temete forse di arrivare troppo tardi all'eternità?

Se sentite in voi qualche velleità di ritorno, vuoi dire che Dio già lavora in voi: aiutatelo e chiedetegli che vi aiuti. È difficile convenirsi, più difficile perseverare nella conversione, ma perché mai l'uomo che può trasformare ogni cosa non potrebbe trasformare sé stesso? Non lo potrà con le sue sole forze, e del resto non realizziamo assolutamente nulla da soli: il contadino che da un colpo di zappa utilizza la gravitazione universale, l'anima che si rialza, utilizza la forza di Dio, ma questa forza è veramente sua. La vittoria di Dio su di noi è la nostra vittoria, come la ricompensa un giorno sarà nostra, benché Dio non faccia mai altro, dice Sant'Agostino, che coronare i suoi doni.

E allora confidiamo. Dio ci crea perpetuamente, può 'quindi in ogni momento ricreare la nostra innocenza. Il nostro passato di peccato non lo pone certo nell'imbarazzo. Se una porcellana rotta non si può mai riparare completamente, sappiamo però che un'esistenza fisica può uscire con forze rinnovellate da una malattia mortale. Per la vita soprannaturale il balzo più miracoloso, non ne è

164 LA CONVERSIONE

che più certo: un peccatore indurito può divenire un santo, ;

II Padre de Foucault fu quello che si suoi definire ;

un gaudente. Questa parola, oggi, pensando a lui ci fa sorridere, tanto è vivo il contrasto. Quale incoraggiamento ;

per tutti gli innamorati dell'assoluto che esiterebbero di fronte a un ritorno senza grandi speranze! Con la vita avvenire si può redimere quella passata. Il tempo è veramente nostro, perche è interamente di Dio, e se gli atti caduti nel passato ci sfuggono, pensiamo però che Dio li- ' ha accolti nella sua eternità e quindi possono esserci resi, non più macchiati come un tempo, ma splendidi di quella ;

luce mirabile che emana dal pentimento e dall'amore. '

Vi sono peccatori che credono di odiare Dio perché';

non osano più amarlo. L'hanno offeso e credono sia que-, , sto un motivo per offenderlo ancora. Anzi si giustificano dell'offesa con l'ostilità. In fondo essi lo amano. Lascino dunque prorompere questo amore cosciente di un altro più grande che aspira a ricambiarlo, lo lascino manife- :

starsi nella sua realtà dianzi compressa, così che susciti; ;

il ritorno!

Non ascoltate, peccatori, il rimorso che vi paralizza, ma colui che dice: « Mi leverò e andrò dal Padre mio ». i Un rimorso che suscita commozione è un buon segno ed una speranza; al contrario, guardatevi dal rimorso inasprito. Quando il corpo soffre, vuoi dire che si difende e la difesa della natura vuoi dire guarigione. Tanto più Dio :

vuole che il vostro rimpianto abbia carattere di convale- ;

scenza, non già di stabilizzazione nel male. :;

Occorrerà forse un po' di tempo. Quel che Dio vuole ;•' da noi non lo vuole sempre nell'attimo. Il globo gira, nà- :

sce una stella poi un'altra e ben presto il ciclo è tutto' acceso. Può darsi che il rimorso affretti la rotazione: non permettete che l'arresti. ?

Quanto all'assenza del rimòrso, rivelerebbe la pervicacia del male, e cioè la peggior disgrazia che possa capitare. Dio vi liberi da questo male supremo, di essere cioè tranquillo testimone della vostra perdizione, fors'an-che di ostentarla. La morte, o peccatori, non vi permet-

DIFFERIMENTO DELLA CONVERSIONE 165

lerà di conservare indefinitamente questo freddo atteggiamento. Siamo tutti sospesi sull'abisso. Che dico? L'abisso è in noi, poiché la vita, quest'ascensione, è anche una per. petua caduta, e il nostro cuore in ogni istante batte insieme la nascita e il funebre rintocco.

LXI DIFFERIMENTO DELLA CONVERSIONE

Non è mai troppo tardi per convertirsi, ma così pure non è mai troppo presto. Riprendere contatto con l'eternità è il compito di ogni momento della nostra vita che solo così acquista valore e consistenza. Colui che si converte, sia pure tardi, e poi persevera, è salvo; chi tarda a convertirsi, foss'anche giovane, si salverà?

Bourdaloue in un celebre sermone, rampogna i peccatori che dispongono col pensiero di un tempo che loro non appartiene, ed offrono a Dio l'avvenire, sua proprietà esclusiva, rifiutandogli il presente della loro vita di cui dispongono. Talora questi calcolatori dimenticano la morte, oppure la mettono nei loro conti, ma essa fa parte di un sistema di previsioni e di precauzioni ch'essi credono infallibili. Non vedono il ghigno dello scheletro pronto ad apparire improvvisamente senza preoccuparsi delle loro combinazioni, « come un ladro », ha detto il Maestro.

La lezione vale per tutti. Non è detto che essa concerna partìcolarmente, come si crede, la gioventù. Quando un giovane ha un cuore nobile comprende subito che tutte le età sono egualmente vicine all'eternità, che non si diventa saggi per il fatto che siamo stati pazzi lungo tempo, ma piuttosto perché siamo stati un poco saggi;

che in fine la saggezza non è un frutto tardivo della vita ma un frutto permanente.

Non è dunque colpa dell'età ma del cuore. Abbiam paura del bene a causa dei sacrifici che esso esige. Fuggiamo dinanzi alla grazia come un uccello spaventato dal

166 LA CONVERSIONE

temporale. Se il potente soffio dovesse trascinarci!... Quei piaceri, e quegli altri, ed altri ancora non sarebbero più possibili. Così diceva a sé stesso Agostino, e concludeva:

« Cras! cras! domani! domani! ».

Rimandando la conversione al domani si fa già la confessione che la conversione è necessaria. Ora il necessario si affida forse al caso? L'uomo che differisce sempre rassomiglia al viaggiatore che ritorna continuamente a casa perché ha dimenticato qualche oggetto. Potrà ri» partire domani? Chi lo sa? In ogni modo è così che le tergiversazioni si aggravano, il desiderio del bene illanguidisce, l'orientamento diventa stabile. Non si decide a prendere le redini in mano e sono le abitudini viziose che tendono il comando. Dove vi condurranno? La velocità fa chiudere gli occhi; un giorno potranno chiudersi per sempre.

In tutto questo che si fa di Dio? Si pretenderebbe forse averlo per complico? La sua provvidenza è forse agli ordini di colui che si addormenta, si nasconde, per dir così, nelle sue dilazioni? Dio non dice come Luigi XIV:

Ho corso pericolo di attendere. Egli attende, e a volte la sua attesa è tremenda; egli accorda a] peccatore tutte le proroghe che vuole, poiché la sua forza sovrana non ha' premura, con essa ci si ritrova sempre. A riguardo del negligente, quale sarà la sua pazienza, lui solo lo sa. Un giorno potrà divenire insistente e questo giorno può coincidere con quello della più grande « diversione » dell'anima, della sua assenza o della sua sordità. « Ascoltate con che forza si batte alla porta — dice Bossuet — fra poco la romperanno, se non aprite ». Ma la coscienza assente non apre; la coscienza intorpidita o definitivamente indurita non sente. Allora forse risuonerà la voce profetica:

« Ecco è giunta la -fine! È giusto! Ora ti sovrasta. Io scatenerò contro di la mia collera e ti giudicherò in conformità delle tue vie! ».

No, il peccatore non guarderà al domani, a qualunque categoria egli appartenga, si tratti del perverso a cui è diretta la minaccia del profeta o del tiepido che la gra-

DIFFERIMENTO DELLA CONVERSIONE 167

zia chiama al necessario progresso. Il peccatóre che ha compreso si alza e dice: « oggi! ». « Ora comincio », come suggerisce il Salmo. È tempo, perché è sempre tempo, perché siamo sempre nell'evo permanente e perché il giorno che ne fa parte ora, può non essere seguito da altri. « Domani è un giorno incerto — dice la Imitazione. — Chi ti assicura che avrai il domani?».

Il peccato non si strappa dall'anima con un colpo solo; cominciate almeno a scalzarne le radici, a minarlo coi buoni desideri e soprattutto a liberarvene, a risalire, per dir così, attraverso la preghiera. Colui che promette di convertirsi e non si muove, assomiglia al debitore che pagherà presto tutto il suo debito, ma rifiuta il minimo acconto. Un piccolo sforzo potrebbe dar credito alle sue promesse, che senza ciò sono nulla.

Meglio sarebbe dire a sé stesso: ora faccio uno sforzo, se poi ricadrò tanto peggio; piuttosto che ragionare così: mi rialzerò poi definitivamente, per oggi intanto cedo. La vittoria attuale avrebbe potuto portare una vittoria ulteriore; la disfatta non garantisce che una sconfitta peggiore. La tentazione a cui voi dichiarate: oggi no, ma forse domani, comprende che il suo regno è finito o declina — provate con qualcuna! —; quella invece a cui consentite aggiungendo: poi sarà finito, è tranquillissima, sa già che le direte lo stesso domani, posdomani, finché non si parlerà più di riserve.

Ah! Quant'è astuto questo nostro povero cuore! Esso conosce tutte le risorse della debolezza che sono forse le più pericolose, ma anche quelle perverse dell'ipocrisia di cui le nostre passioni sono le clienti.

Il peccatore debole o cosciente della sua malizia segreta, pensi dunque a prendere una decisione; non conti sull'incerto, intendo su quella penitenza futura che non giova nulla poiché può confondersi con quella di cui parla Racine:

La tardiva penitenza Degli inconsolabili morti.

168 LA CONVERSIONE

LXII

LA PENITENZA

Non basta convertirsi. L'uomo che vi dice: non vi offenderò più, non per questo si è sdebitato dall'offesa precedente. Responsabile verso Dio e verso l'ordine, il peccatore deve una riparazione. Si dirà: basta l'amore! È vero; ma l'amore ha bisogno di prove e queste sono la;

generosità per chi non ha peccato e la penitenza per chi deve espiare. ' '

La penitenza è l'amore in lacrime, l'amore che vorrebbe elevare una montagna sull'abisso dianzi scavato. Più, umilmente è, secondo San Tommaso d' Aquino, il « dolore delle proprie colpe colla volontà di distruggerle». Non si tratta quindi di una esigenza divina. Dio è infinitamente delicato nei suo perdono, e noi dobbiamo esserlo egualmente nella fiducia. Nulla v'è di più bello della fede del peccatore nell'amore che lo rialza, come non vi è nulla di i più grande di un amore disposto a un simile ritorno e, per così dire, a un oblìo infinito. È in giucco il nostro^;

interesse, e l'ordine nel quale il nostro interesse è comune ;

con quello di tutte le creature. Avendo largheggiato troppo a nostro vantaggio, e abusato volontariamente, bisogna ristabilire l'equilibrio costringendo la nostra volontà. Per, mezzo di chi? Di noi stessi; ed è appunto ciò che costituì-' sce la nobiltà di questo « tribunale della penitenza » ove non vi è alcun accusatore ma dove il delinquente si accusa e si condanna da sé.

Non abbiamo paura di ricorrervi, e apportarvi i sentimenti convenienti. La penitenza non è solamente un rito, è uno spirito. Innanzi tutto è spirito di umiltà, come conviene a chi si presenta in qualità di colpevole. Vergognarsi sarebbe volgare, perché la vergogna proverebbe l'assenza in noi della generosa reazione al male; ma se tale reazione esiste, subentra di diritto l'umiltà, quella profonda umiltà di cui abbiamo detto che ci colloca, nel.

LA PENITENZA 169-

l'ordine divino, al nostro proprio posto, quello di oggi, di riscattato generoso, che ai vergognerebbe soltanto di non trovarsi in ginocchio, riconoscendosi colpevole e, sentendosi debitore, di non pagare quanto deve.

Quando questa umiltà attestata dinanzi a Dio si rivolge verso i fratelli, deve avere per conseguenza l'indulgenza fraterna e il perdono. Le indulgenze di Dio sono, in un certo senso, condizionate: esigono le nostre. Questa esigenza disinteressata, è tanto più stretta in quanto Dio ama il peccatore più di quanto non ama i suoi stessi diritti. Il suo perdono è una specie di transazione: perdona, ed anch'io ti perdono. La risposta da parte nostra non può essere che questa: mio Dio, io vi rimetto tutti i miei crediti, perdonatemi le mie offese come io perdono al tale e al tal'altro che mi hanno offeso.

Allo spirito di umiltà si unisce, nel penitente, lo spirito di rinnovamento, quello che si chiama il « fermo 'proposito », elemento certo indispensabile. Sant'Agostino ci dice che il peccato, specie se abituale, non può essere vinto che dalla « violenza del pentimento », dallo slancio che ci proietta nell'avvenire al di sopra delle occasioni che ci tendono agguati. Una simile risoluzione è per sé stessa momentanea e si riduce a un punto della durata, coestensiva però a tutto lo spazio avvenire che si presenta al no&tro sguardo. Quel che Dio pensi di questo valore di estensione è ciò che giudica la nostra penitenza. Sta a noi di offrire una larga base all'infallibile giudizio.

Inoltre, uno spirito di riparazione, di « soddisfazione », come si dice in linguaggio teologico, tradurrà nella vita, quanto è simboleggiato ed anche in minima parte realizzato nella penitenza sacramentale. Non sarà difficile, se voglio: basta che io accetti quel che Dio mi manda; le prove non mancano mai, anche senza iniziative da parte mia, — in parte queste iniziative si aggiungono sempre a un'ac-cettazione generosa —, avrò mille occasioni di dire a Dio:

I' sia fatta la tua volontà, invece della mia che fu così spes-

| •' so opposta alla tUa.

| Di più, questo spirito di penitenza non sarà solamen-

170 LA CONVERSIONE

tè riparatore, mi gioverà come preservativo. Il peccato non è lontano; il nemico è alle spalle e calpesto ancora la sua ombra. Se voglio sfuggire ai peccati avvenire, devo intraprendere una lotta che, come la guerra, non si vince senza una successione di manovre. Al giorno d'oggi, non si ama questo genere di manovre, si fa l'apologià del desiderio, si lusinga la carne; invitati a scegliere fra le piaghe del vizio e quelle del Crocefisso, decisi a rifiutare queste, ci si fa delle altre come un ornamento. Un peccatore convcrtito ha in orrore simile perversione. Egli doma la carne e anzitutto la sorveglia.

Questo non è un diminuirsi, ma un nobilitarsi. Ci si « mortifica » in vista di una vita più bella. La pianta umana, potata, fiorirà moglie' un germoglio costretto dirigerà la linfa, e tutto ciò che vi è di più prezioso nell'anima e nel corpo sarà custodito meglio. « Mortificarsi — dice Paul Valéry, — è cercare, per una via dura e dolorosa, di edificarsi, di costruirsi, di elevarsi a uno stato che si presenta superiore ».

In apparente contrasto ma in accordo profondo con lo spirito di penitenza e di rammarico, il peccatore convcrtito si abbandona quindi a uno spirito di gioia. Esitare in queso caso sarebbe misconoscere l'amore divino e privare Dio, in noi, del suo più bell'attributo che è la misericordia. I peccati dell'uomo penitente non gli appartengono più; essi passano sul Cristo che li copre e li colora col suo sangue; sono proprietà del Calvario. La penitenza dell'uomo e il perdono di Dio sono da ambo le parti una forma dell'amore, e l'amore è gioia. Gesù lo intende così, poiché dal tribunale alla sua mensa, questo giudice amante non ha lasciato che l'intervallo di una navata di chiesa e invita al bacio eucaristico il più sordido peccatore penitente.

LXIII

I NOSTRI AUSILII

II programma che abbiamo tracciato al cristiano, sia egli integerrimo o peccatore, è nel fatto superumano. Volerlo realizzare da soli sarebbe follia, più assai che pretendere di raggiungere le stelle con un pallone frenato. L'umanità è prigioniera per sua natura, e se anche potesse evaderne, come il pallone che rompe gli ormeggi, per il fatto che è cosa creata non potrebbe elevarsi fino al soprannaturale che è il livello familiare dell'attività cristiana.

Il battesimo ci fa cristiani: siamo dunque, a questo livello di vita celeste, divinizzati interiormente, in certo modo, divenuti « deus Dei », secondo l'ardita espressione di San Tommaso d' Aquino. La questione sta tutta nel non decadere da questa iignità, nel confermarla liberamente, anzi, nel mantenere le altezza attraverso l'azione, come l'aeroplano che è spinto dalla velocità, e nel-l'evitare ogni accidente mortale.

Dio pone una condizione ai suoi doni, ed è che ci manteniamo fedeli ad essi e li impieghiamo. Poiché lo dobbiamo, sembra dunque che lo possiamo, senz'altro intervento superumano. Non è così. « Senza di me non potete far nulla », ci ha detto il Cristo, nulla e nemmeno rispondere alla chiamata che si produce in noi col mutamento

172, I NOSTRI AUSILII

del cuore, poiché la risposta e il cambiamento sono della medesima essenza. ' •

Questa trasformazione iniziale o riconquista, battesimale o penitenziale, è ciò che noi chiamiamo grazia san-tificante; essa risponde all'esigenza formulata dal filosofo sconosciuto (Claude de St. Martin) quando dice: « Uomo, non sperare nulla prima di aver divinizzato il tuo cuore ». Ma oltre questa grazia di prima stabilizzazione, l'uomo che vuoi mantenersi e progredire nelle vie cristiane ha biso- i;

gno ancora di quella che chiamiamo « grazia attuale », ; •! vale a dire un soccorso che si traduce in atti e produce ;

degli atti.

Questa grazia di azione ci è promessa in ogni circostanza; possiamo contare su di essa di fronte ai pericoli, agli sforzi da compiere, ai progressi da realizzare o alle ;;

sofferenze che ci minacciano. Possiamo contarci assai più , < che su noi stessi, e la nostra fiducia già lo dice, poiché è Dio che l'ha messa in noi. ;

Tuttavia Dio vuole che chiediamo questa grazia che egli ci offre e desidera ardentemente di accordarci. Do- ;

mandare, per la creatura, è già ricevere nella misura del- ;;

l'impiego delle sue energie, inoltre ciò che Dio ci concede i.;

in seguito a questo sforzo a volte così doloroso è in certo '»;

modo opera nostra, e potremo dividerne con Dio l'onore, i

Ecco dunque quasi un ausiliare di secondo grado: la • preghiera, invocante il soccorso primario: la grazia. Ve n'è un terzo in cui pare siamo cooperatori, benché Dio vi -abbia il posto principale, e sono i sacramenti, di cui la:

eucaristia è il centro di convergenza, perché essa contiene l'autore degli altri sacramenti e così li unisce.

I sacramenti prevedono tutti gli aspetti principali ? della vita e vi si adattano; l'eucaristia contempla il caso fondamentale che è la nutrizione, per ciò il pane della mensa eucaristica è chiamato pane di vita, senza designa- :

zione di funzione particolare, senza distinzione neppure ;

di dominio o di durata, poiché ci è dato « per la vita eterna », che racchiude tutte le età.

I sussidi sacramentali non ci vengono erogati indivi-

I NOSTRI AUSILII 173

dualmente e separatamente, ma nella Chiesa e per il ministero della Chiesa che vi aggiunge altre azioni di carattere sacramentale più lontano, che si accordano con le prime per sostenerle, estenderle e moltipllcarne gli effetti. In tal modo la Chiesa è come un soccorso collettivo, un soccorso sociale, di cui abbiamo precedentemente ricordato la potenza.

A capo della Chiesa è il Cristo, che se ne distingue soltanto per la preminenza. C'è ancora a fianco dell'unico capo, del Rè delle anime, una Regina che partecipa in' : certo modo del suo potere. Gesù padre di famiglia; Maria madre di famiglia, sono, in misura ineguale, i nostri aiuti. Abbiamo già esaltato il primo, dovremo invocare l'altra.

Infine i fratelli nostri, i santi, tutti i fratelli della oo-• munione dei santi disseminati attraverso i tempi e i mondi vengono in soccorso della nostra buona volontà, a titolo di carità, vale a dire di amicizia soprannaturale, di unità in Dio Padre, Figlio e Spirito Santo, a compimento di quella preghiera del Cenacolo: « Padre, che essi siano uno come noi, siamo uno ».

Il cristiano, in queste condizioni, non può mancare di nulla di quanto può essergli necessario e benefico, È circondato di miracoli. In verità Dio non ama che i miracoli. Abbiamo diritto di dire che il tran-tran della natura, umana o cosmica, non l'interessa affatto; è una base d'azione, non è la sua azione. L'azione di Dio è fare degli eletti, degli « dei da Dio », ciò che costituisce un miracolo di elezione: nulla di sorprendente che per realizzarlo ne occorrano altri. Dio li compie. Sta a noi utilizzarli, perché nel suo regno venga anche il nostro, il nostro umile regno di creature totalmente assorbite, per l'amore, in Colui che le ha create.

174 I NOSTRI AUSILII

LXIV LA GRAZIA

L'uomo giusto è come un cristallo illuminato interior-mente e che non è autore della propria luce. Se egli osserva quanto accade in sé stesso si sente trascinato e guidato,, col suo consenso e con la sua cooperazione, ma non per la sola sua iniziativa. Come il compositore ispirato, il poeta, ;

l'oratore, o il danzatore trasportati dal ritmò, egli è sotto ' l'azione della «Musa». L'autonomia dell'azione non ne risulta turbata, poiché l'influenza subita non viene dal di fuori: viene da questo divino Intimo che crea e porta incessantemente il nostro, più intimo a noi di noi stessi, realizzando il voto del poeta:

Qualcuno che sia m me più yte di me stésso.

L'uomo esteriore non si inganna. Si loda il giusto, si ammira il santo, ma alla sua presenza non pensiamo di essere unicamente alla presenza di un uomo; vediamo attraverso il cristallo la fiamma intcriore, sentiamo la pos-';

sibilila — al suo contatto — di illuminarci e di riscaldarci , in Dio.

Sentiamo tutti chiaramente, che i nostri atti virtuosi, anche quelli indifferenti, non sono interamente nostri, come pure i pensieri, le aspirazioni ed ogni altra cosa. Quel che sboccia d'un tratto nella nostra anima, da dove viene? Sto scrivendo questo, e qualunque cosa ne pensi domani son sicuro di non riconoscermivi, di chiedermi: chi ha fatto questo? Io o un altro? L'ideale sarebbe che fosse quel sacro « Altro » di cui invochiamo l'intervento con timore. Ciò perché la persona autentica, che agisce in noi, e in rapporto con una Realtà prima la cui influenza la ; i anima e la porta, e i cui più alti favori si chiamano grazie.

Vi sono grazie che si manifestano al di fuori ma per giovare all'interno, come le felici coincidenze di avveni-

LA GRAZIA l?S

menti, una prova improvvisa, una malattia eh® spezza il corso del peccato, un consiglio, un esempio efficace, una sollecitazione o l'arresto di qualche ordine. Nell'interno si tratterà di una visione più chiara del soprannaturale, di una comprensione nuova dei nostri bisogni o delle nostre colpe, del timore dei pericoli, che a guisa di dardo o di fiamma nascosta, costringerà il nostro regime intcriore a modificarsi e la nostra attività ad assumere un passo più diritto e più fermo. Aggiungete ancora come proveniente da Dio quella « scintilla » di cui parlano Pietro Lombardo e Ruysbroeck, che si sprigiona spontaneamente dall'anima in dirczione del bene e contro il male.-

Tutto questo dispone l'anima a ricevere l'infusione o l'accrescimento della grazia trasformante che chiamiamo .pure santificante, la quale sotto la guida della prudenza cristiana, ci dirige verso il nostro fine e già lo realizza, poiché ci immette nella luce infuocata dell'amore.

La grazia è Dio dinanzi all'anima e che chiede di entrare; è Dio nell'anima per promuovervi e divinizzarvi tutte le forme della vita; è Dio che unisce l'anima al prossimo con lo stesso amore che unisce quest'anima a lui, Dio, ed è perciò Dio che ci conduce tutti, col nostro consenso e la nostra cooperazione, alla vita eterna.

Ciò costituisce, evidentemente, motivo di immensa speranza; ma anche di timore, poiché, come dice bene Cor-neille: « Le grazie del cielo quando sono rifiutate aprono la via ai fulmini ». O meglio rendono inutile tutto ciò che pretendiamo di compiere senza di esse. « Dio conta per nulla quanto, in tè, non è opera sua », scrive Taulero. Ma non è una ragione per perdere la speranza. Disperiamo di noi stessi, ma in misura assai più grande speriamo in Dio. Chi non dispera di sé ha tutte le ragioni di disperare; il cristiano ne è esente poiché ha in sé, e non Io ignora, uno Spirito più forte della sua debolezza, che tutto può superare perché è lui che ha creato tutto.

Una bolla di sapone, nell'atmosfera, regge un peso schiacciante, senza perdere per questo la sua leggerezza e la sua libertà, perché l'atmosfera è anche in essa. Allo stes-

176 I NOSTRI AUSILII

so modo l'anima in cui Dio abita si sente libera e leggera in mezzo ai rischi ed alle insidie che provengono anch'essi da Dio. Come la bolla si ingrossa per un soffio interno, così l'anima si accresce spiritualmente per la grazia malgrado tutto ciò che, per la permissione di Dio, non lascia di tormentarla.

Vi è tutto un mistero in queste permissioni, in queste occasioni che possono spesso giovarci o perderci. Ma è forse necessario che comprendiamo Dio? L'importante è che egli ci comprenda e che noi lo lasciamo fare. Non sarà sempre secondo i nostri gusti, ma certo per il nostro bene;

sarà quindi il caso di applicare la massima del rè Duncan a lady Macbeth: « L'amore che ci perseguita è spesso un fastidio per noi, eppure gli siamo grati perché è l'amore ».

Del resto Dio misura tutto. La natura e gli uomini ci colpiscono senza preoccuparsi delle nostre forze di resistenza; Dio, invece, sostiene in noi i suoi stessi colpi. Dobbiamo credere che esista proporzione, anzi prevalenza dell'aiuto sul rischio, e i più rudi inviti provvidenziali corrispondono a promesse di vita più elevata.

Guardiamoci bene dall'opporre alla grazia il nostro stupore e dal mostrarle un volto imbronciato. Aspettiamo di comprenderla, accogliamola fiduciosamente, amichevolmente, con riconoscenza, con fede piena. Accogliamo allo stesso modo i suoi apparenti silenzi, quegli abbandoni che a volte costituiscono per noi la più dura prova. Quando Gesù posa la sua mano sulla nostra spalla, non sentiamo più gli altri pesi; quando si allontana e tace, tutto ci prostra e la via che ascende non ci sembra più praticabile. Speriamo! La grazia è misteriosa come Dio, come la nostra anima e come la nostra vita, ma in questo mistero può pro-dursi il lavoro umano e sovrumano, si può raggiungere il risultato, può germinare la gioia indefettibile.

LA PREGHIERA 177

LXV LA PREGHIERA

Abbiamo già detto perché il soccorso della preghiera è indispensabile alla nostra vita spirituale. Essa sgorga spontaneamente quando siamo sollecitati da un bisogno impellente o sollevati da un'ondata di entusiasmo; ma risponde anche al nostro sforzo ed alla nostra buona volontà.

A che cosa miriamo? A evitare il dominio esclusivo delle cose temporali per elevarci allo spirito di fede; a liberarci dal reale immobilizzante o tentatore per vivere in conformità con questa fede il cui regno effettivo in noi è la vita eterna. Prender coscienza della nostra eternità:

ecco il primo fine di quello slancio interiore che si chiama preghiera.

: Un vero cristiano, cioè un santo, è in questo mondo come un'aquila costretta a restare sulla terra da qualche disavventura. Essa vi circolerà e si adatterà del suo meglio, ma non potrà acclimatarvisi; non appena le sarà possibile prenderà il volo. Le ore di volo sono, per il cristiano, quelle di preghiera contemplativa o, come si dice in linguaggio mistico, di orazione. Allora non pesa più, è portato sulle ali, valica in un istante gli spazi ingombri di realtà che trascura e va più lontano. Cambia di universo. Senza preoccuparsi dei suoi limiti, trova modo di abolirli ignorandoli. « Nasconditi la tua apparenza — scrive Marcel Jouhandeau — scoprirai il tuo vero essere. Celati il tuo essere e scoprirai l'Essere del tuo essere». Precisamente. Si tratta di raggiungere il proprio io nella sua realtà per salire di lì fino alla Realtà suprema di cui dobbiamo vivere. A tal fine bisogna rinnegare l'apparenza di se stessi e di tutte le cose, aprire le mani che stringono il mondo e lasciarne cadere tutto il falso, conservando quanto c'è di vero e di utile.

Dio ha posto la creazione dinanzi al suo volto ed essa gli fa da scherm'o. La contemplazione non pnò sollevare

U. ~ Poveri, _________________

178 I NOSTRI AUSILII

questa pesante cortina, ma a misura che la guarda e che il suo sguardo si purifica si avvede che essa diviene trasparente. Solo l'illusione e la mancanza di fede la rendono opaca, perché producono la nostra cecità. Pregare è sforzarsi di vincere la cecità e di intravedere il mistero. Al-;' lorché ci si riesce, pur da questo piccolo angolo di mondo in cui ci siamo rifugiati e che è il fondo di noi stessi, potremo prendere visione del tutto e del suo sublime ;

Principio.

Meglio ancora, nel più intimo di ogni anima vi è una eternità congiunta a Dio pel- cui essa sgorga da Dio, e :

può, di conseguenza, raggiungere Dio e quasi confondersi con lui in un pensiero di amore. La più alta preghiera del contemplativo fissata in quel punto consisterebbe nel prendere coscienza di sé e di tutto, non più in rapporto a sé stesso e al tempo, ma nel-pensiero creatore di cui saremo,;

un giorno partecipi. In mancanza di queste sublimità ci;;1 restano sempre possibili molti gradi di ascesa.

Gl'increduli pensano che sia l'immaginazione a creare per noi questo di là a cui la preghiera vuoi accedere: in realtà è l'immaginazione che lo nasconde a quanti lo igno-' rano, come lo vela agli altri. È il mondo sensibile, prima percepito e poi riprodotto in noi, che ci perseguita perennemente, nascondendoci le realtà essenziali. Poveri increduli che ci dicono, con Francois Porche:

Io scrivo, ahimè! scrivo, perché non so più pregare.

Essi scrivono, pensano, agiscono, creano, muovono e si agitano in questo sepolcro che si chiama l'universo, e hanno obliato Resistenza del libero spazio. Il nostro tempo conosce tutte le direzioni della rosa dei venti, ma ha perduto il Nord. L'uomo di preghiera dimentica troppo spesso ciò che conosce e verso cui si avanza, ma vi ritor-na. Ne fa lo sforzo, uno sforzo vero e proprio, che a volte •;

può sembrarci eroico. Essere al cospetto di Dio nella nostra nudità, spogliarci di noi stessi quali siamo e quali il nostro cuore di carne vorrebbe che restassimo tirandoci in , basso quando lo spirito vuoi salire, tutto questo richiede

LA PREGHIERA 179

una decisa energia! Quante cose bisogna rinunziare a vedere per vedere Dio, quante non più volere per volere Dio! Poi il Signore ve le rende; poi, vale a dire che per riceverle dalla sua mano bisogna strapparle dalla nostra, È duro, ma è proprio qui il beneficio della preghiera. Per mezso della mia preghiera Dio trionfa in me. Quando mi sento l'anima secca e arida, la preghiera mi ricorda che fu detto: « Anche le pietre grideranno». È un miracolo che ne vale la pena. Io grido. Chiedo a Dio che mi attiri, e mentre domando, per chiederglielo più da vicino, io salgo. Voglio che Dio mi ricrei in Sé e intanto io lo creo in me, gli do vita e gli chiedo la vita.

Così si costruisce l'edificio spirituale, fatto di sentimenti retti, di buona volontà e di amori che Dio approva;

che si costruisce nel segreto, nel silenzio, come il tempio di Salomone in cui non si sentiva « ne martello ne scure, ne alcun altro strumento di ferro ». La costruzione è troppo delicata per questi rumori. Il segreto e il silenzio, uniti all'ardore del desiderio, all'amore e ad una perseveranza tenace, ne sono gli strumenti.

La preghiera, ripetendosi, deve mantenere la sua freschezza, essere sempre come nuova, a somiglianzà dello sguardo e del sentimento dell'artista. Quel che sostiene il genio è una ammirazione sempre rinnovata per la natura inesauribile; quel che sostiene il contemplativo religioso è ancor più esaltante poiché egli adora ciò che gli è infinitamente superiore e aspira a quanto è per lui di una ricchezza infinita. Dal fondo della sua ignoranza e del suo nulla, qualunque siano stati i contatti precedenti, può sempre slanciarsi come per la prima volta verso Colui là cui gloria è appunto di sfuggire per sempre a una conquista totale.

Ieri abbiamo visto senza vedere, abbiamo raggiunto senza raggiungere; ci troviamo sempre come i Magi, in cammino, in una regione lontana; la stella non ci condurrà che più tardi alla beata Presenza.

Neanche in quel giorno esauriremo i motivi di stupore e di amorosa adorazione.. Vedere Dio no» significa

180 I NOSTRI AUSILII

ancora comprendere Dio. Una distanza infinita separa irrimediabilmente, noi piccole creature contingenti, da Colui che è l'Essere stesso nella sua unità inaccessibile. Ma una pienezza di vita sempre disponibile e sempre offerta, sempre gustata e mai esaurita, non costituisce forse la felicità? La preghiera l'anticipa allo scopo di raggiungerla un giorno; si sforza di gustarla, temendo di lasciarla sfuggire per sua colpa, per colpa dei falsi beni che l'attirano e che per tal motivi essa intende abbandonare levandosi a volo.

Insomma ciò a cui mira la preghiera considerata sotto questo primo aspetto è una savia occultazione delle cose terrene e una beata apparizione del mistero. È quel che Mallarmé, uscendo da un entusiasmante concerto d'organo chiamava un'« alba di ombra ». Felice aurora che spegno gli astri ingannatori, dissipa i fantasmi che vorrebbero passare per esseri reali e che, come la nuvola apportatrice dell'uragano, fa brillare tra l'anima e Dio, come un lampo tra cielo e terra, la vera luce.

LXVI.^^

LA PREGHIERA E la VITA

La contemplazione che ci colloca fuori del tempo e abolisce per noi il passato, l'avvenire e il presente stesso a favore dell'eternità, non ci taglierà fuori dei rapporti con la vita, non ci seppellirà, non ci segregherà dal mondo rendendoci esseri inutili? C'è chi lo afferma, e se questo verdetto colpisce decisamente chi è contemplativo per lo stato prescelto, estende volentieri il biasimo al cristiano che prega, stimando perduto il tempo che la preghiera toglie all'azione, credendo che questa coincida con la vita stessa.

Vi è in ciò un duplice giudizio erroneo. L'azione non è la vita; e la preghiera, lungi dall'essere inutile all'azione, ne è condizione essenziale. Si comincia col pensare, e pensare bene, si finisce ancora col pensiero, anche quaggiù e a p?ù forte ragione nell'eternità. Fra i due termini sta l'i»-

LA PREGHIERA E LA VITA 181

zione, retta essa pure dal pensiero, cosicché sarà tré volte cieca l'azione che ignora il suo principio, la norma, il suo termine.

La preghiera prepara l'azione fornendole la norma;

suprema. Per utilizzare saviamente le cose non bisognerà misurarle? Ora non si può misurare il creato senza riferirsi al suo Creatore. Ogni cosa vale quanto vale secondo Dio, dal punto di vista di Dio, in Dio, per la marcia verso Dio; la preghiera ci insegna tutto questo. La nostra coscienza vi riceve la parola d'ordine, stabilisce il suo programma di vita, ne allontana il male e la vanità, rettifica le sue intenzioni, concentra le sue forze. Nella preghiera successiva se ne ricorderà: che hai fatto della tua luce, o cristiano? Oserai rimanere dinanzi a Dio con la coscienTa macchiata? Questa presenza è un giudizio; la sola idea del dovere è qui un ordine: ciò a cui p.ensi, l'hai fatto? Nulla di più efficace per stabilire la nostra vita nella rettitudine, utilizzarne i valori, e far fruttificare tutto ciò che potrebbe diventare inutile o dannoso.

: Nella preghiera, inoltre. Dio parla a noi. Non solo parla, ma ci aiuta a comprendere, e ci aiuta a praticare quanto ci suggerisce. Fra cielo e terra passa una corrente, l'anima orante ne è il conduttore, il primo beneficiario:

l'effetto però si estende molto al di là, verso quelli stessi che non pregano. Moltipllcate questi punti di comunicazione, queste zone di irradiamento, e vedrete la povera terra prendere un pochino l'aspetto del cielo.

La preghiera da all'anima la sua unità collegandola al suo centro. Al tempo stesso le da l'universalità; perché, raggiungendo il centro, con lui s'irradia dappertutto. Pregando, unisco le mani quasi per racchiudervi Dio, ma le allargo anche, come all'altare e alle catacombe, quasi volessi raggiungere i confini del reale.

Una volta iniziata l'azione nello spirito richiesto, la preghiera l'accompagna, e sarebbe un errore credere che essa costituisca un ostacolo. Il Signore ci raccomanda di pregare senza interruzione, vale a dire di agire in ispirilo di preghiera, e questo spirito che anima tutto non distrae

182 I NOSTRI AUSILII

più dal lavoro, dalla conversazione, dall' applicazione all'uno o all'altro dei nostri doveri, più di quanto Patten^ zione posta al senso della frase non ci distragga dalla sua pronunzia, o che il desiderio non ci distragga da un'opera in cui esso trova appagamento. Precisamente, la preghiera perenne ha il carattere di un desiderio, e il desiderio ordi-v nato a Dio è l'anima di ogni preghiera. ?

Abbiamo detto che acquistiamo la coscienza di noi stessi e dei nostri più intimi desideri solamente in Dio: è;

la migliore lode della preghiera che, sola, stabilisce questo;

contatto e rettifica perciò il desiderio riconducendolo alla ;;

sua sorgente.

Abbiamo detto anche che non si possono giudicare i propri rapporti se non alla luce di Dio, ed è per ciò che '• la preghiera instaura fra noi e i nostri fratelli una vera comunione di vita, di rapporti, scambi di benevolenza e di favori. Non potremo portare agli uomini l'aridità se ci accostiamo loro irrorati di ciclo. Uniti a Dio si diventa liberali come lui, aperti e accoglienti verso ciascuno come la natura che egli ha creato. '

II fiore dei campi non esige di essere comperato o che gli si chieda il permesso di coglierlo, si offre spontaneamente. Anche Dio si da, e l'uomo unito a lui è, come lui, ^ disponibile. Un diffondersi senza limiti nell'interno ed all'esterno; questo è Dio, e la preghiera lo sa. Il contem-piativo che vede il lampo della Trinità, il sorgere della creazione, l'operazione della Provvidenza, entra in ispirilo :

in questa corrente ed egli stesso, a somiglianzà del suo Dio, diventa sorgente. Ed è anche un canale per cui tutta la creazione ritorna a Dio; così egli la santifica ed anch'essa adora. L'uomo di preghiera, unito ai fratelli e alla natura, inspira il mondo e lo espira in Dio.

Si oserà affermare che tutto ciò è vana illusione? Si neghi allora tutto l'ordine soprannaturale di cui non facciamo che dare la formula. Non parliamo per quelli che non credono, ci indirizziamo a quelli che credono o per lo meno acconsentono a porsi dal punto di vista della fede, ma che sono in errore allorché in nome dell'azione con-

LA PREGHIERA E LA VITA 183

dannano lo spirito di contemplazione e di preghiera. Agire! Agire! e perché Dio è l'attività sovrana in sé e nelle sue creature, ma è nel tempo stesso riposo e beatitudine nel fondo del suo essere in cui si possiede e gode di sé in / una inazione che riassorbe la sua attività sovrana. A que-

, sto, appunto, ci invita. Al di sopra di qualsiasi attività, anche la più virtuosa, al di sopra di ogni pensiero, fos-s'anche il più sublime, c'è una zona di riposo e di silenzio che appartiene alla contemplazione ed all'amore. L'amore non può arrestarvisi, poiché aspira al progresso e alla dedizione, ma vi risale dopo essere aumentato, dopo essersi prodigato, per darsi e per accrescersi sempre più

'e riprendere così la sua ascensione, che in fondo non cessa mai.

^ Riassumendo, la preghiera è così poco inutile alla vita che la regola tutta, rivelandocene il vero senso. Forse sappiamo già prima di pregare quanto la preghiera ci insegna: siamo convinti di molte cose, quando ci pensiamo, ma ci pensiamo troppo poco. Se la preghiera non venisse

. a ricordarci i nostri doveri, i nostri vincoli, le nostre vere aspirazioni e il nostro fine, .che avvilimento nella nostra vita! e se Dio, grazie ad essa, non ci sostenesse nell'intimo, quanta debolezza! Dio viene a noi al richiamo della preghiera come è venuto al mondo nella persona di Gesù, e per gli stessi motivi: insegnarci a vivere, aiutarci a vivere. Inoltre è sempre in nome di Gesù che si prega, e come potrà non renderci buoni. Colui che è la Sapienza personificata e che rende sapiente anche Dio? Come non ci renderà forti Colui a cui tutto è stato rimesso nelle mani, e fraterni. Colui che è il Figlio dell' Uomo?

Quando dunque si parla di inutilità, di superfluità, di improduttività, insomma di tempo perduto, si erra. Per chi si ricorda che Dio è il principio e il fine del nostro essere, il suo ideale, la sua legge, e che la preghiera è il vincolo normale tra Dio e l'anima, apparirà invece chiaro che soltanto il tempo che si consacra all'azione svuotata dello spirito di preghiera, è veramente tempo perduto.

184 I NOSTRI AUSILII

LXVII LA PREGHIERA DI DOMANDA

La preghiera contemplativa è disinteressata, ma resta pertanto eminentemente efficace; la domanda viene, a dir così, come un di più; infatti il divino Maestro, pur racco- ^ mandandola, la vuole breve: « Non moltipllcate le vostre /, parole; il Padre sa di che casa avete bisogno ». .

Più siamo uniti a Dio, più abbiamo fede nella sua ' sollecitudine; orbene è proprio questa fede e non già i no. . stri meriti che assicura l'efficacia della preghiera. Di qui appunto il suo carattere magnifico insieme e familiare, poi- :;

che la grandezza di Dio viene messa in risalto e umanizzata da quanto vi è di commovente nella fiducia della sua creatura. L'insistenza più importuna non è fuor di posi.o:

il Vangelo l'approva. Qualche credente appassionato non si periterà di aggiungervi addirittura la violenza. « Io prego — scrive Leon Bloy — come un ladro che domanda l'elemosina alla porta di una fattoria che si propone di incendiare ».

La questione principale è un'altra. Che cosa domanderemo? A volte si può diffidare della risposta. Un sacerdote del 1830 diceva ad alcune dame legittimiste: « Pregate, signore mie, pregate molto, ma guardatevi dal dire a Dio ciò che volete ».

. Il nostro desiderio non ha il diritto di essere esaudito per il fatto che è intenso, ma perché è elevato. Chiedendo a Dio ciò che ci piace e che risponde ai desideri del momento senza riferirci alla sua volontà, o peggio in contrasto con essa, meriteremmo di sentirci dire come ai mercanti del Tempio: « La mia casa è casa d'orazione e voi ne avete fatta una spelonca di ladri ». Non è forse rubare a Dio il voler ottenere — e da lui stesso — quel che ripugna alla sua volontà?

Quando Gesù Cristo si impegna ad esaudire ogni preghiera fatta in suo nome, non possiamo pensare che

LA PREGHIERA DI DOMANDA 185

ci metta tra le mani un talismano a profitto dei nostri capricci. Molti pregano solo per ottenere di essere confermati in quello che sono, incatenati a una vita medio-ere e mortale. Di fatto Gesù parla di una preghiera fatta ire suo Nome, e tale clausola basta a garantirla contro l'abuso della sua promessa. Potremmo dire che è in nome di Gesù Cristo che chiediamo ciò che contrasta i suoi voleri, intralcia la sua azione o pone ostacolo alla nostra ; ostessa salvezza?

Il nome di Gesù è santo; la preghiera in nome suo ;; deve essere santa e avere un fine santificante, almeno nei suoi effetti ultimi. Tutto ciò che Dio dona agli esseri è destinato a ricondurli a lui da cui procedono; la preghiera contemplativa ha coscienza di questo riflusso, e la preghiera d'impetrazione vi si conforma.

Inoltre la preghiera, anche quando chiede un dono, non è mai esclusivamente e principalmente questuante, è innanzitutto un commercio di amicizia, un sentimento fi-: liale; ora un amico, un figlio, non pensa mai per prima cosa a sé stesso. La dignità della preghiera sarebbe simile a quella dei cigni del Lemano, alteri e ingordi? Il loro portamento è nobile, la candida carena ben sagomata, ma essi non pensano che ai tozzi di pane.

La preghiera sollecita a buon diritto i favori di Dio;

pertanto quella che li invoca senza ottenerli è di una efficacia superiore alle sue speranze, se al posto del dono procura il Donatore. La più perfetta ed efficace delle pre-k. Aiere, quella di Gesù al Getsemani non è stata esaudita perché in fondo non lo voleva.

Com'è delicato su questo punto l'equilibrio da mantenere tra la domanda fidente e il generoso oblio di se! Chamfort diceva di essersi guastato con due amici: con uno, egli spiegava, perché non mi parlava mai di sé, con l'altro perché non mi parlava mai di me. L'amico divino potrebbe spesso rivolgerci ambedue questi rimproveri. Trascuriamo di parlargli di noi e dei nostri bisogni, e ancor più ci disinteressiamo di lui. La sua opera nelle anime e nel mondo ci lascia freddi, la sua perfezione so-

186 I NOSTRI AUSILII

vrana ci è estranea; per ciò che ci riguarda, il rapporto delle nostre domande con l'amicizia divina è l'ultima delle nostre considerazioni, se pure ci preoccupa alcuna volta!

Quando Dio rifiuta di esaudirci, l'animo nostro è deluso, la fiducia vacilla, e nella nostra immaginazione di accattoni respinti siamo quasi disposti a giudicar ciò come una mancanza dell' Altissimo. La riconoscenza per tutto quanto Dio ci dona perennemente non è abbastanza viva per proibirci di mormorare se manca qualche cosa. Giudicheremmo meglio, se il nostro spirito si elevasse al di sopra del mondo visibile e se la preghiera seguisse lo slancio suo proprio. La preghiera è una fiamma, e la fiamma sale quando i rami del fastello non la soffocano. A dire il vero essa sa farsi strada da sé; non bisogna nuindi far perdere il coraggio a quelli che pregano imperfettamente, bisogna solo ammonirli mostrando loro regioni più alte.

Proprio quando la preghiera diventa disinteressata, pur essendo fiduciosa e pressante, allora, e non nelle sue istanze egoiste e appassionate, è veramente efficace. L'amicizia non ama forse la partecipazione? Trattando Dio da amico e occupandoci innanzi tutto di Lui, lo spingiamo ad occuparsi di noi. « Pensa a me e io penserò a tè », diceva Gesù in una visione a Caterina da Siena. Uniti a Dio creatore, noi dividiamo con Lui la sovranità; la preghiera nostra organizza con lui l'universo, raggiunge il mondo delle anime per produrvi effetti di grazia, il mondo dei corpi e il conflitto degli avvenimenti per piegarli alla nostra volontà nella misura, in cui il bene lo richiede o lo permette.

La preghiera può ottenere tutto, tutto le è infatti dovuto a titolo di quell'amicizia per cui acquista il suo valore e di cui fa professione. L'amico di Dio partecipa ai suoi consigli non solo con voce consultiva, ma deliberativa e se del caso, anche preponderante, poiché è stato detto: « Dio fa la volontà di coloro che lo temono ». La preghiera non muta Dio, cambia colui che prega innalzando la sua anima, e cambia il mondo nei riguardi di chi

DISTRAZIONI SALUTARI 187

prega, poiché il mondo è l'opera di Dio nella sua eternità, ove la preghiera dei suoi amici e dei suoi figli lo incontra. I giapponesi dicono: «La volontà tesa trapassa il cielo »: la volontà orante trapassa il cuore del cielo, il cuore dell' Essere che è Dio nella sua volontà amante.

Non intendiamo con questo dire che incarichiamo la preghiera di sostituirsi all'azione. Bisogna agire come se.';;

non pregassimo e pregare come se non agissimo. Le due affermazioni si compenetrano, anzi ne fanno una sola, nel. senso che derivano da un medesimo principio intcriore;

che è una retta intenzione. Il desiderio che cerca direttamente il risultato è Fazione; quello che per realizzarsi prende la via di Dio, è la preghiera. Così l'attività completa del cristiano comporta l'edificazione inferiore di sé' stesso, l'aiuto al prossimo, e, per mezzo della preghiera, la collaborazione al governo divino nelle anime e nell'universo.

LXVIII DISTRAZIONI SALUTARI

Abbiamo ripetutamente asserito l'umanità della vita condannando quella specie di divorzio istituito da tanti cristiani tra la loro vita così detta secolare e la vita religiosa. Non esiste una vita secolare, tutto appartiene alla eternità, di cui il tempo non è altro che il simbolo ruggente e il preannuncio. Nella preghiera ininterrotta —• vale a dire nello spirito di preghiera — raccomandata dal Vangelo, abbiamo veduto un correttivo del male denunciato. Vorrei ora segnalare un complemento ali' efficacia di questo rimedio, non più procedendo dalla preghiera alla vita per santificarla, ma portando la vita nel cuore della preghiera per inondarla di preghiera e così santificarla. A tale scopo possono servire, mediante qualche pia industria, quelle nemiche tradizionali della preghiera fervente che si chiamano le distrazioni.

188 I NOSTRI AUSILI!

Non faremo certo l'elogio delle distrazioni in sé stesse! L'attenzione del nostro spirito, già di per sé preghiera, è condizione iniziale perché la volontà amante possa a sua volta entrare in contatto. « Vigilate e pregate », ci dice il Salvatore: bisogna vegliare e pregare; ma anche vigilare per pregare, riparando l'anima da ciò che la dissipa e la turba. Il colloquio con Dio prende la sua forma perfetta, per quanto ci concerne, coll'amore e col dono, ma comincia con un atto di presenza. L'anima sia dunque presente a Dio e non si stacchi da Lui. In questa luce non dovremo intrattenerci con le nostre tenebre.

Osservate tuttavia ciò che accade nel momento della distrazione. Che cos'è che mi distrae, vale a dire mi distoglie, più o meno violentemente, dal mio discorso religioso? È la vita e null'altro; la vita in sé stessa e nella sua cornice naturale e sociale. S'impone qui una domanda: è forse la vita con quanto ha di tentatore, di perverso, di pericoloso, che si presenta alla mia mente e invade il santuario della mia anima? In tal caso non c'è da esitare; sullo schermo fisso e puro della preghiera non permetterò che si proietti un film malsano. Caccio l'idea, la rappresentazione importuna, o l'odiosa suggestione. Il nemico deve cedere! non dobbiamo metterci a discutere con esso.

Spesso però quello che viene a introdursi così nella nostra orazione, è la vita innocente, la vita buona, la vita obbligatoria e benedetta da Dio. Qui potrà passare p,er indiscreta, non è stata invitata e non è Fora sua, ma la tattica nei suoi riguardi sarà quella dell'inimicizia? Quando un bambino, in chiesa, tira la mamma per la gonna, la mamma non lo respinge violentemente, gli fa giungere le manine e lo volta dolcemente verso l'altare. Anche noi siamo figliuoli di Dio; i nostri pensieri puerili, a volte anche assai gravi dal punto di vista umano, non avranno diritto a questa serena indulgenza?

Dio ci permette di essere davanti a lui quelli che siamo, impegnandoci a tendere al meglio. La nostra vita non è un ostacolo fra lui e noi, è un luogo di passaggio;

DISTRAZIONI SALUTARI 189

per suo mezzo abbiamo la grazia, e risaliamo ali' Autore della grazia. Noi vogliamo che la preghiera, anziché so-vrapporsi a questa vita, ne sia l'anima: ecco dunque un'occasione. Dalla distrazione della mente non sapremo trarre una unione nel cuore?

Sapendo che la vita mi viene da Dio e va a Dio, posso considerarla come un elemento della mia preghiera, anzi come la preghiera stessa, che non è altro che uno scambio tra Dio e me. Questa vita, mio Dio, la ricevo da voi, questa vita io ve la offro. Quella preoccupazione, quel fatto, quella persona, quella circostanza che attraversano la mia preghiera, io le accolgo in voi, le unisco alla vostra provvi3enza e le metto in accordo coi vostri fini. Quando le ritroverò, saprò che sono vostre prima di essere mie, che devono servire voi prima di servire me, è che in tal modo saranno veramente utili a sé stesse e ;a me.

Una distrazione di questo, genere non è più distrazióne, ma contemplazione. Potremmo augurarci di essere distratti in questa maniera assai più spesso, per evitare la vacuità di tante preghiere in cui non facciamo che biascicare delle parole! Versare in Dio un torrente di parole o d'idee, anche se pie, è a volte un modo molto comodo per non ascoltare Dio e non pensare al suo servizio. Dio non sa che farsene delle nostre chiacchiere. Parlargli, non ci impegna a nulla; ma ascoltarlo e mettere la nostra vita davanti a lui, è un'altra cosa!

Evidentemente tutto questo richiede discrezione, non bisogna soffermarvisi scioccamente. Quando la mamma ha fatto giungere le mani al suo piccino, torna alla sua preghiera; torniamo alla nostra ma senza tuttavia svuotarla del suo contenuto concreto. Avremo lavorato così a unificarci; della casa di Dio e di quella dell'uomo, della zona in cui si esplica l'attività religiosa e di quella in cui si agitano le nostre realtà, ne avremo fatta una sola, come c'è un solo destino, un solo Regno di Dio.

Georges Goyau ha dato del Rosario questa definizione profonda e geniale: « Una lunga distrazione verso

190 I NOSTRI AUSILII

Dio». È detto bene. Si recita, si loda, si sgrana, si saluti^ e, come un pio turiferario che nel dondolare il profumato incensiere pensasse al Salvatore e gli aprisse l'animo suo, così il devoto del Rosario, lanciando le sue Ave lascia libero il volo al suo cuore perché mediti la duplice celeste vita che sgrana nei Misteri, per sgranare così il firmamento, come dice Francis Jammes. Ha così la sua corona di grani infilati, -la sua corona d'invocazioni verbali, la sua corona di visioni celesti e tutto questo si armonizza perfettamente.

Ora se la vita di Gesù e di Maria può costituire una distrazione oltremodo salutare, perché la vita nostra, animata, com'è da supporsi, dal desiderio di conformarsi ai suoi modelli, non assumerebbe, proprio sotto gli auspici di quesito desiderio e in vista della sua realizzazione, un carattere analogo? Distrazione? sì, ma « verso Dio » sempre, e quindi raccoglimento e preghiera.

Possano le nostre distrazioni essere tutte così! Si avvicinino cioè all'adorazione e ci aiutino a fare della vita stessa un'adorazione, mettendo in atto l'unità del nostro-essere con Dio, introducendo nelle nostre giornate la pre- ;

senza animatrice di Dio.

LXIX • L'EUCARISTIA

Gesù ha detto: « Venite a me, voi tutti che siete affaticati e piegati sotto il giogo', ed io vi ristorerò ». Questo tenero invito va oltre il fatto eucaristico, ma certamente vi fa allusione come all'incontro più intimo, effettivo ed efficace del Dio incarnato con la creatura.

Nell' Incarnazione Gesù si è dato, nella Passione si è sacrificato; qui, nell'Eucaristia, rinnova il dono e il sacrificio. Vi ritroviamo la sua umanità fraterna, la sua di< vina persona, il suo essere che è l'essere stesso di Dio. •

Cip che aveva fatto qna volta per tutti e per ciascn"

L'EUCARISTIA 191

no, vuoi ripeterlo per ciascuno e per tutti, in vista di un unico fine che è la risurrezione e la vita, la vita eterna. Il monte Sion fn il teatro dell'istituzione e sappiamo che Sion è l'immagine della città celeste. Nel Cenacolo il gesto di S. Giovanni fu il simbolo dell'intimità che Gesù ci offre permanente; qui l'avvenimento si rinnova con unj significato anche più pieno. A dire il vero parrebbe che dalla prima cena alla seconda le parti siano state invertite: in quella fu Giovanni che riposò sul petto del Cristo, in questa è Gesù che riposa nel nostro petto. Ciò è solo perché quel primo gesto sia ripetuto e ripetuto da tutti.

Soprattutto poi, dinanzi ali' Eucaristia, non pretendiamo di suscitare questioni vane e indiscrete sullo svolgimento metafisico del mistero. Non imitiamo quel povero Tolstoi che dice di aver ricevuto come una coltellata quando, bambino, gli si disse che bisognava credere alla presenza reale di Gesù sotto le apparenze del pane. Seguiamo piuttosto Pascal il quale dice che Dio può fare assai più di quanto l'uomo può comprendere, e che l'uomo è troppo piccolo per sapere se Dio possa o no innalzarlo fino a sé. Comprendiamo sempre meno gli stati normali della materia, come quindi stupirci se ci sfuggono i suoi stati soprannaturali?

Convertendo il pane e il vino in nutrimento spirituale, Dio, in fondo, non fa che completare la loro creazione. La materia non è forse fatta per Io spirito e aulla via dello spirito? Così Dio nell'incarnazione ha completato l'uomo e l'ha completato in sé medesimo. Allo stesso modo Dio un giorno perfezionerà l'universo assorbendo in sé il suo gemito e la sua ricerca. Non ha forse completato sé stesso eternamente, per così dire, nella SS. Trinità? Il mistero è sempre il perfezionamento di ciò che esiste nella, realtà, fuori di cui tutto indietreggia e ricade nelle tenebre.

Ma lasciamo da parte tutto questo. Invece del mistero dinanzi a cui lo spirito argomenta senza nulla illuminare, gustiamo il prodigio dell'amore! Il dono che supera

192 I NOSTRI AUSILII

ogni dono perché contiene l'infinito che è il Donatore stesso! Questo fuoco che brilla ogni mattina su di noi, e sulla terra, d'ora in ora, di meridiano in meridiand, riaccendendosi indefettibilmente! Questo pane vivo che ha sapore di ciclo! Questo nutrimento dell'anima libera, antidoto dei veleni del mondo, rimedio contro i suoi allettanti, calmante contro i suoi disgusti, energia per la sua eterna decrepitezza, flagello della sua morte!...

Allorché chi si è comunicato ritorna al suo posto tutto penetrato, non può fare a meno di raccogliersi in sé, quasi raggomitolarsi, come a preservare gelosamente il suo tesoro. Il suo istinto ve lo spinge, ma riflettendo, il gesto si farebbe ancor più ardente, se apprezzassimo pienamente ciò di cui siamo entrati in possesso.

Simile a quel sapiente che non domandava altro che luce e pane, l'anima cristiana si accontenta del sacramento che include la pienezza dei beni spirituali e del tesoro di ogni verità: il Vangelo. Il Libro Santo è lo specchio della vita ed è 1' Autore della vita che glielo presenta. Il tabernacolo le offre inoltre tutti i segreti della nutrizione e dell'igiene spirituali, dell'accrescimento e della gioia. Che può desiderare di più? Viviamo di luce e di pane anche noi, di chiaroveggenza e di forza. Col sacramento dei sacramenti e il Vangelo della fede, camminiamo nella fede e nell'amore con fiducia e con sicurezza.

« Quale miseria — esclamava San Francesco —, quale pietosa infermità, avere Gesù Cristo così vicino e preoccuparsi di qualche altra cosa nel mondo! ». Come Gesù Cristo sarebbe pronto a darsi nel sacramento, anche se ciascuno di noi fosse solo al mondo, così noi dovremmo offrirgli la nostra adorazione, la nostra gratitudine, la nostra fedeltà e il nostro zelo come se potesse riceverli solo da noi.

Dovremmo adesso penetrare più addentro nelle sue vedute e procedere verso i suoi fini. Egli si da per conquistarci, È un fuoco che vuoi divorare tutto quel che c'è di morto in noi, per farlo rivivere. Vuoi sostituirsi, con tutti i suoi beni, alla nostra povertà e al nostro mal®.

EFFETTI DELL'EUCARISTIA 193

Vuole per noi l'infinito. Il candore in cui si cela è un'alba di vita eterna. Unito a noi tutti nella divina carità, ci avvia dal luogo del Sacramento a quello della sua perpetua dimora, là dove le pecorelle affidategli dal Padre e che Egli ha saputo pascere dovranno riconoscere la sua voce, eternamente.

LXX EFFETTI DELI/EUCARISTIA .

La fede nel!' Eucaristia è stata giustamente chiamata il dogma generatore della pietà cattolica, e per suo mezzo, di tutte le altre virtù. Abbiamo detto che la presenza di Dio in noi è la forza antagonista alle forze del mondo che agiscono in nostro danno, e che il di più di questa forza che si contrapnone alle ostilità e le annulla, accelera, quando noi Io vogliamo, il nostro progresso. È certo che Dio ha mille modi di realizzare in noi questa utile presenza, ma quale altro è paragonabile a questo che è come un irrompere violento, una rottura di dighe? E quale cuore umano vi resisterebbe, una volta compreso l'invito, compiuta la riparazione, infiammato il desiderio?

Una tale disposizione della Provvidenza, è stupefacente; ma che immensa grazia è mai questa che 1' Autore stesso della grazia si doni visibilmente per renderci sen- ;

sibilo la grazia e procurarcela! Non basta questo per infiammare un cuore che non sia completamente chiuso alle cose soprannaturali? E una volta impegnato il cuore, sembra che nulla più minacci o resista. Accade che anche il1 corpo ne risulti trasformato, dominato e al tempo stesso elevato, elettrizzato e mantenuto in perfetta disponibilità,, in modo da divenire più docile e da seguire meglio tanto gli slanci come le resistenze dell'anima.

La divina presenza è il miglior calmante, per un cuore turbato dalla concupiscenza e dagli ardori funesti ereditati da mille generazioni! Una madre, un amico, una

194 I NOSTRI AUSILII

tenera sorella, un fratello non possono forse dissipare le nostre febbri con una parola, con uno sguardo silenzioso,' in virtù, insomma, della loro presenza? Essi ci rappresentano un mondo quieto, in cui la vita circola presso la sorgente e dove i sui egoismi e i suoi furori non hanno corso. Ora Gesù è per noi tutto questo; egli lo ha detto, y e il mistero, qui, aumenta ancora gli effetti pacificanti^ ^y della sua accoglienza, '-'.il'

Quanto poi alle nostre sofferenze, un'amicizia che of' ;t fre simili garanzie non sarà meno fruttuosa. Vi sono nella ;.;:

nostra vita difficoltà e angoscio che ci sembrano insormontabili, e ci lasciano boccheggianti e inerti. Fate brillare la ;

piccola ostia e vedrete risollevarsi il coraggio abbattuto mentre gli irrigidimenti più disperati si fonderanno in dolcezza.

Perché lo Specifico agisca bisogna, evidenltemente, • allontanare il peccato. Prima di sorbire la medicina bisogna sbarazzarsi del veleno. Il tribunale della penitenza è il vestibolo ordinario dell'altare, poiché il bacio dato al Cristo non deve arieggiare neppur di lontano quello del-1' Iscariota. Ma l'azione della penitenza viene confermata dal!'Eucaristia che completa la purificazione e la ripara-zione, aiccresce la confidenza, rafforza la 'sicurezza, ci prende in custodia.

Tutto questo è effetto dell'amore. E sempre per effetto dell'amore il cuore orientale così verso il' bene avanzerà con passo più sicuro. L' Eucaristia è il rafforzatore degli sforzi iniziali della virtù è l'interruttore sempre opportuno delle cattive abitudini; dilata il cuore a vantarlo ' del progresso, Io unisce a Dio di contatto in contatto, sempre di più, e lo unisce anche ai fratelli obbligandoli a vedersi in Dio e a deporre sull'altare ogni rancore.

Non c'è migliore ispirazione dei nostri doveri frater- .;:;, ni di quella che emana dal banchetto ove Gesù ci riunisce ';;

tutti, ove non essere in pace con tutti sarebbe come es- $ sere con tutti in guerra, soprattutto con lo stesso Ospite |ì divino. Lo sdegno, la collera, l'odio, la discordia non do- f, vrebbero poter resistere a questo dolce sguardo segreto.

EFFETTI DELL'EUCARISTIA l9S

Tornando dalla mensa in cui ci siamo comunicati l'uno accanto all'altro, vorremmo contendere aspramente?

L'aiuto intimo dell'Eucaristia è compatibile con molte debolezze, ma essa le condanna con tale potenza, il rito è con esse in tale contrasto ch'esse devono attenuarsi in tutta la misura delle preparazioni del cristiano fedele. Si potrà inciampare e ricominciare, cadere e risollevarsi, ma come smarrirsi e come turbarsi?

Prima della moltiplicazione dei pani Gesù disse: « Non voglio rimandarli digiuni, perché temo che vengano meno per via ». Anche noi potremmo venir meno, l'Eucaristia ci ristora. Dipende solo da noi l'essere in forza. Contro i nostri vizi minaccianti, i nostri languori, le nostre pigri-zie e sonnolenze, ci viene offerto il tonico e il preservativo dell'altare.

Questo sacramento visibile e invisibile al tempo stesso, è il mezzo ideale per allenarci verso l'invisibile e per segnare il passaggio dall'uno all'altro aiutandoci a superarlo. Si chiama anche il sacramento della fede, non solamente a motivo del mistero che esige la fede in modo speciale, ma perché a sua volta è stimolatore dello spirito di fede, ponendo dinanzi a noi, sotto il velo dei simboli, l'oggetto stesso della fede, invitandoci a passare dal simbolo alla realtà, dal Cristo misterioso al Cristo trionfante, dall'altare ricco di presenze invisibili al ciclo risplendente di miriadi estasiate.

Del resto l'Eucaristia non è una semplice evocazione del eielo, di quello di lassù e di quello che risiede nell'anima; 'essa ce lo dona in modo positivo. Sì, il suo frutto è la carità, vale a dire l'unione con Dio che da parte di Dio è senza termine; il suo atto essenziale si chiama comunione, inerenza reciproca e fusione — per sé definitiva — nell'amore. Non è questo il cielo, nella sua ultima realtà o nel suo pregustamento?

Il pegno dell'eternità, e uno dei nomi dell' Eucaristia;

ed essa si offre così a noi come viatico per eccellenza, rimedio non solo ai mali passeggeri, spirituali o corporali, ma rimedio della vita, questa malattia inguaribile,

196 I NOSTRI AUSILII

questa conquista che è insieme autoesecuzione di una condanna, questa pretesa salute presaga della morte. « I medici non ti guariranno, — diceva a sé stesso Pascal — poiché alla fine dovrai morire, ma solo Dio rende immortali l'anima e il corpo ». Questo Dio ci è dato sotto forma ^ di pane di vita, e questo pane è, per l'essere che procede verso la morte, una garanzia di perpetuità senza apprensioni. È promessa di salire e di dimorare là dove vive Colui che ci ama. Colui che riceviamo lontani e pure vicini al ano trono eterno.

LXXI FREQUENZA DELL'EUCARISTIA

Dinanzi ad un'istituzione come l'eucaristia, potrebbe venirci una tentazione, tanto più temibile, in quanto si riveste di umiltà. Tutto ciò è bello, si dirà, ma chi sono io mai? L'infinita santità e un'anima sempre peccatrice sarebbero dunque fatte per un'unione cosi intima com'è quella del cibo e della fame? Senonché l'argomento insidioso si volge contro sé stesso, a motivo della munificenza e della tenerezza che l'istituzione rivela. Proprio perché noi abbiamo fame e lui solo può saziarci. Dio si dona, proprio perché siamo peccatori e malati di peccato egli vuole guarirci: « Non hanno bisogno del medico i sani », è' parola sua.

Non è forse per questa ragione che ci è reso così facile Paccesso all'eucaristia? Se un solo sacerdote nel mondo, osserva l'autore dell' Imitazione, consacrasse una sola volta tale sacramento, come tutti i fedeli accorrerebbero per assaporarne l'efficacia! Ed ecco che si moltiplica per quanto lo richiedono le più esigenti comodità. Il fatto che si presenta l'ostia al primo venuto prova senza dubbio che non si è troppo difficili nel concederla. Venite, peccatori, l'abuso sarebbe odioso, ma una facilità esattamente

FREQUENZA DELL'EUCARISTIA 197

commisurata al buon volere, non fa che rispondere a una prodigalità che si è voluta dare senza misura.

Il buon volere suppone la preparazione; ma la preparazione — oltre la penitenza se necessaria — in che consiste se non nel desiderio stesso? « Apri la tua bocca e m la riempirò », dice il Salmo. A chi chiede. Dio da e soprattutto si da. Colui che si comunica si dia dunque nella misura in cui si appartiene, e così si impegni e si avvii; concentri nel suo pensiero eucaristico tutti i suoi sentimenti di fede, di fedeltà, di amore, così come sono,;;. eioè imperfetti; G-esv stesso avrà cura di perfezionarli, ,i,;'.

Gesù ci domanda più di quel che abbiamo, ma è lui stesso che pensa a renderci solvibili. Vuole da noi il nostro infinito umano, quel tutto che noi non possediamo e che solo può rispondere-alla sua generosità: con la sua azione su di noi egli intende rapircelo, vale a dire elevarci a poco a poco al livello del dono, all'altezza del coronamento. L' Eucaristia è un cibo che assimila a sé l'affamato anziché trasformarsi nella sua sostanza; è suo compito strapparci a noi stessi e diffonderci in Dio.

Appare così evidente che una comunione ben preparata deve servire di preparazione alla successiva. Un primo contatto col Cristo dispone a un nuovo contatto come una luce attrae una luce più viva. Fra due comunioni il fedele deve sentirsi sotto una duplice influenza: quella del ricordo che ridesta la sua riconoscenza e fedeltà; quel. la della speranza, che ne infiamma il desiderio e So zelo. Deve essere come la molla del timpano elettrico oscillante tra i due poli, e il cuore non deve cessare di battere.

« Un cristiano, dice il Padre Ollivaint, deve essere sempre pronto a morire e a comunicarsi ». È una niassima preziosa e profonda. Ma se la disposizione a comunicarsi è attiva, vale a dire se costituisce una preparazione e un desiderio, è già una comunione, quella che chiamiamo « comunione spirituale ». « Tutte tè volte che si pensa con amore al Diletto, dice Ruysbrpeck, egli è di nuovo cibo e bevanda ». Tuttavia, aggiunge, quelli che fanno così desiderano più vivamente degli altri di comunicarsi rea!-;

198 I NOSTRI AUSILI!

mente; così crescono da due parti: anticipando nell'intimo ciò che attendono dal di fuori, e ricevendo dal A;

fuori il compimento di ciò che anticipano. Questa concatenazione è senza dubbio propria dell'anima purificata;

che ha bisogno soltanto di mantenersi e di crescere: non';

dobbiamo però pensare che la comunione spirituale sia» vietata al peccatore che non ha ancora ricevuto l'assoluzione. Benché impedito per questo motivo di comunicarsi sacramentalmente il peccatore può comunicarsi spiritualmente nel senso che in nome della carità dell'altare;

egli invoca da Cristo purificazione e forza, così da poter?;

presto ricorrere lui stesso a questa carità. Lanciare que-, sto appello non è già uno sconfessare il male? Può anche essere una riparazione che precede il rito penitenziale;

questo non sarà altro che una semplice garanzia e un atte d'obbedienza.

In ogni caso, poiché la pienezza della vita spiritual® si raggiunge solo nell'altra vita, verso la quale 1' Eucaristia ci indirizza, l'atteggiamento di ciascuno di noi di fronte ad essa deve essere tanto fiducioso quanto umile e tanta umile quanto confidente. Se la nostra comunione non è la salute piena, sia almeno la convalescenza, e una convalescenza che si va consolidando ogni giorno più. Il risanamento, lo sappiamo, si misura dall'espulsione del falso io e dall'instaurazione del regno di Colui che è noi più di quanto lo siamo noi stessi, di Colui che ha la missione, come creatore, redentore e santificatore, di darci o di restituirci a noi stessi.

Di fronte a un qualunque essere creato, si può mantenere il possesso di sé, poiché nessun elemento di qu&-sto mondo può annullarne un altro ed eclissarne il valore individuale inalienabile; ma davanti alla Divinità offerta in questo sacramento, congiunta alla sacra umanità che è la santità stessa, dobbiamo inabissarci senza tema di perire, morire a noi stessi per vivere meglio, e questa volontà d'amore è tutta F Eucaristia.

CRISTO NOSTRO MODELLO 199 LXXII

CRISTO NOSTRO MODELLO

La vita cristiana è un'opera d'arte e un'opera super-umana: era necessario che avesse un modello, " che quésto modello fosse anch'esso più che umano. Ho detto più che umano, ma appunto per questo totalmente umano in modo perfetto, colla sola esclusione del male come nemico dell'umanità, come distruttore per eccellenza di qualunque essere.

In Gesù trova attuazione al grado massimo questa parola di Monandro: « Una cosa amabilissima è l'uomo allorché è veramente uomo ». Grazie a questo tipo ideale della razza noi possiamo riprendere coraggio, dopo tante esperienze e tanti viaggi nella notte profonda, che ci hanno lasciati spossati o ci hanno fatto inorridire disgustandoci dell'uomo e di noi stessi.

Quale gioia, quale conforto, veder levarsi la sua candida figura nella sua grandezza, nella sua nobiltà al centro d'una storia che sarebbe senza di essa tanto triste e talora anche tanto vergognosa! Al di sopra di tutta questa miseria, si stabiliscono per mezzo !di Gesù i diritti del bello e del giusto, al disopra della morte che scava ogni giorno più profonda la tomba d'una umanità peritura, egli fa regnare la vita: « Chi crede in me anche se sarà morto, vivrà; e chi vive e crede in me non morrà in eterno ».

Sì, certo, l'uomo è grande poiché è rappresentato da <Colui che, essendo Dio, ha voluto chiamarsi Figlio idel-V Uomo, e la nostra umanità al seguito di un tal capo è, malgrado tutto, un esercito rispettabile!

Gesù ci mostra l'uomo in tutte le sue dimensioni, terrestri e celesti. Ha assunto la carne. Lui figlio di Maria e figlio della natura,

Goccia di sangue attinta <ill'arteria del mondo

(Lamartine).

200 I NOSTRI AUSILI!

Di questa, egli ha assunto le infermità con la nobiltà che le innalza, l'indigenza insieme col lavoro che vi provvede, le sofferenze con l'eroismo che le sublima. Egli ha trovato ovnnque, sulla terra e nel cielo, le orme 'del Padre suo e le ha amate, consacrando così Fumana poesia. Sulla riva del lago, in quelle solitudini, in cui oggi il silenzio conserva il ricordo dei bagliori divini, egli ha cantato la vita meglio di tutte le liriche poiché la semplicità massima concentrò in sé l'effetto della più alta maestà.

Da un altro lato Gesù ci ha aperto il mondo dello spirito, insegnadoci a « rinascere » 'dopo averci mostrato nel Dio in cui rinasciamo una forma di umanità (beni-gnitas et humanitas) di cui la sua umanità è il simbolo.

Gesù poteva, precisamente a motivo della sua perfezione, velarci il Padre, così come l'umanità greca, eretta nell' Olimpo, aveva fatto schermo tra l'umanità inferiore e i! divino. Ma egli ci ha insegnato a perforare la parete. « Attraverso il velo della sua carne — dice Olier — egli mostrava la bellezza nascosta del Padre ». Quanto vi era in lui di più grande dell'uomo si volgeva a quanto nell'uomo vi ha di più grande. Verso questo Dio presso il quale abbiamo la nostra dimora eterna non ha cessato di farci alzare lo sguardo, di farci tendere col nostro cuore a lui, fine delle nostre aspirazioni più vere, termine della nostra vocazione iniziale: vocazione dimenticata, aspirazioni !di cui si è smarrito il senso dell'autenticità, ma che tuttavia si mantengono vive. Non contento di parlare, con quella parola dinanzi alla quale tutto tace, egli si è slanciato avanti per insegnarci la via. La sua morte è il supremo eccesso, quasi gesto disperato per mostrarci il eie— io. È una Beatitudine in atto: è l'evento che sanziona t divini paradossi del Sermone della Montagna: la morte stessa diventa vita, come pure tutto ciò che somiglia alla morte: la povertà, l'inferiorità, l'ardua sirtù,, l'amore che 8Ì sacrifica. . '

Era necessaria la morte ?di Cristo per darci questa •hiara visione del ciclo. La sua vita era già nel ciclo dove m invitava a aegrorlo, ma noi non lo sapevamo; la sua

CRISTO NOSTRO MODELLO 201

morte, allontanando la terra, quasi respingendola nell'urte della croce, ci ha costretti all'ascensione, cosicché la sede della vita vera, fin d'ora ci attira.

Non è una disintegrazione dell'umano, è al contrario un integrarlo al grado massimo, come conviene a?d ogni essere. La pianta comincia alla radice, ma si concentra nel fiore, l'animale è nel suo sguardo assai più che nella chimica dei suoi visceri,

II Cristo col mettere in evidenza la separazione della carne e dello spirito, della terra e del cielo, del tempo e dell'eternità e, politicamente, ^dall'individuo immortale e dei gruppi mortali, ha dato l'impressione di dissociare l'uomo e tutte le ideologie pagane se ne mostrano offese:

in realtà Egli l'ha invece unificato nel suo centro, prossimo allo spirito a cui la carne stessa deve tendere ed arrivare a suo modo, e che deve servire. Non è colpa sua se la nostra infe'deltà resiste, e se tra due vie — quella pagana consigliata dalla carne e quella cristiana in cui si entra portati dal soffio dello spirito, — l'umanità è più esitante di Èrcole al bivio.

C'è nella nostra vita un piano divino; una corrente ideale di eventi, parallela a quella reale e che ne stabilisce la norma. Ottenere sempre una perfetta coincidenza sarebbe cosa sovrumana; tendervi è virtù, mentre il raggiungerla, per ciascuno, attraverso la imitazione di Cristo, ma nella forma particolare della propria vita, e nella misura preparata ?dalle sue grazie, è la beatitudine. Queste tré domande: che vuole Dio da me? che farebbe il Cristo al mio posto? qual'è il mio dovere? sono in fondo identiche.

La cristianità tenta faticosamente di conformarvisi;

vi perviene solo nei suoi santi, ma una falange di santi scaglionata nel corso dei secoli non è forse, nel campo spirituale, come un'illuminazione permanente? Così la processione umana è, malgrado tutto, costellata di fiaccole. Nel clamore che ne emana, si 'distinguono singhiozzi, stridori e grida, ma anche canti di gloria e di benedizione, e il. miracolo consiste nel fatto che gli uni e gli altri pos-

282 I NOSTRI AUSILII

sono fondersi insieme! Il grappolo della vigna è una gioia;

il vino è una gioia anche niù grande. Gesù vivente in mezzo ai suoi, ne fomentava la gioia nella virtù e nell'amore facendone così un gruppo di eletti. Ma passando per Io strettoio della croce, col corteo dei suoi imitatori. Gesù ha creato la gioia del mondo intero e ciascuno ha facoltà di gustarla.

La croce in tutte le sue direzioni e in tutte le sue dimensioni, è la vita stessa; unisce la terra al ciclo, l'oriente all'occidente, le altezze, le larghezze e le profondità; comprende tutti i dolori e tutte le fauste esaltazioni, tutta l'innocenza e il peccato riparato, tutta l'umiliazione e la gloria che la corona, tutta la nostra umanità e tutta la Divinità che il Figlio dell' Uomo vi ha congiunto.

Per completare il mondo è stato necessario Betlem-me: per con'durlo al suo destino il Calvario, e l'ascensione al monte degli Olivi come al confine del mondo. È per questo che tutti coloro i quali rifiutano di rinascere e di morire spiritualmente in Gesù rinunciano al loro destino ed escono dal mondo divino per ricadere nel baratro satanico. Regolare la propria vita in conformità col Cristo, è portare la propria croce e anfdare verso la propria resurrezione. Accettare la sofferenza in unione al Cristo, è la stessa cosa, poiché la vita ha questi due aspetti: azione e passione; Gesù li ha assunti entrambi. Ambedue gli assomigliano e sono ai suoi ordini; tutto obbedisce alla parola del Cristo, anche il pianto e la morte.

Quando questa parola penetra nel cuore non si sentono più i rumori del mondo. Quando Gesù parla o appare silenziosamente, le meschine realtà fanno anch'esse silenzio. Le lievi speranze cadono per far posto all'immensa speranza proclamata da Lui e in Lui realizzata; i pensieri abituali impallidiscono o si innalzano fino ai pensieri di Dio che il Vangelo diffonde; abbandonando i sentieri fangosi e rocciosi che non portano ad alcuna meta, si entra nella; via regale in cui il Fratello nostro ci faa preceduti.

Cercare umilmente di somigliare al Cristo è già in

LA TERGINE MADRE .203

eerto modo somigliargli. Si-può applicare anche a ciò la frase di Pascal :« Non mi cercheresti se tu non mi avessi già trovato ». Bisogna animarsi sempre di più nella ricerea, tenyere alla somiglianzà, imitare la virtù, accogliere il dolore, portare la croce in tutte le sue forme, morire figuratamente, per vivere. Poiché infine è naturale che un uomo muoia per fare un T)io, com'era naturale che Dio si facesse uomo e conoscesse la morte, perche l'uomo potesse essere Dio.

LXXÌII

LA VERGINE MADRE

Abbiamo un solo modello. Gesù. In un certo modo ne abbiamo due, come dinanzi al mare calmo, la sera, vediamo due campi stellati.

Non poteva nascere, fra gli uomini, un uomo più perfetto di Gesù, ne poteva nascere una donna più perfetta di sua Madre. Gesù, che ha creato, come Dio, colei che gli (diede la vita secondo la carne, l'ha creata a sua immagine. L'ha fatta tutta pura e tutta ardente come se volesse trovare in lei un secondo cielo; l'ha ricolmata di grazia quasi a realizzare in lei per prima l'irraggiungibile ideale che proporrà ai suoi discepoli: « Siate perfetti co-m'è perfetto il Padre vostro celeste ».

Maria è dunque lo specchio fedele, uno specchio cosciente della sua immagine e che vi acconsente, uno specchio potente, che conosce ed ama la luce che riflette e> coloro che vi si illuminano, che ha potestà di comunicare la luce e ?di aprire gli occhi al suo irradiamento.

Maria che ha dato al mondo Gesù può spiritualmente fare degli altri Gesù, poiché la sua maternità è un'associazione di spirito e non un ufficio puramente carnale. Chiedendole il suo consenso. Dio l'ha unita al suo disegno redentore. Rispondendo con un fiat, essa stessa ha aegoziato con Dio la nostra pace. Avendo attirato la sal-

204 I NOSTRI AUSILII

vezza su tutta l'umanità, ha il potere di applicargliela allo stesso modo che l'ha chiamata e ricevuta: per ministero. Da sola non è nulla; per ministero può tutto. Fra il Padre di Gesù e sua Madre v'è una parentela che concerne proprio noi. Venendo fra gli uomini, fu lei, la prima che Dio incontrò: che venendo in noi egli la incontri , e la utilizzi, ciò è nell'ordine.

Colei che ha dato carne al Verbo può dar vita spiritualmente al mondo, per darlo al Verbo; vale a dire, ini ultima analisi, essere la Madre del Figlio dell'uomo tutto:

intero, essere la Madre "del Dio incarnato secondo la carne e secondo lo spirito nella razza umana.

L'unità del corpo spirituale permette questa reciprocità, anzi la richiede, e la nostra anima l'approva. Sorella nostra nell'umanità, madre spirituale, modello rinesso, salvezza nostra sussidiaria, la nostra speranza come via alla speranza: si può pensare nulla di più naturale e di migliore?

Sotto una forma o sotto un'altra, la donna è sempre necessaria in un'opera umana, la riuscita d'una vita vuole questo concorso: perché il successo dell'incarnazione non seguirebbe questa via, a meno che non la mostri? Senza, dubbio la donna possiede tutto quanto occorre per aiutare l'uomo a perdersi; ma sotto la forma della maternità e;

d'una maternità spirituale, può aiutare a perderci in Dio. È quel che accade nella persona di Maria, questa dolcezza familiare delle anime e familiare di Dio, questa santità « che nessuno ha eguagliato prima e nessuno raggiungerà mai nel futuro », come canta la liturgia. Perciò la stessa liturgia fa dire anche alla Madonna con le parole della Sapienza: « Jo sono la madre del puro amore, del timore, della scienza e della santa speranza. In me ogni grazia di giustizia e di verità; in me ogni speranza di vita e 'di fortezza ».

Ripetiamo ancora una volta che tutto questo avviene per ministero, nel segreto delle comunicazioni e delle ge-rarchie di persone o di grazie. Come Gesù disse a Filippo: « Chi vede me vede il Padre mio», così Maria può

LA VITA CON MARIA 205

dire in un certo senso: chi vede me vede Gesù, perché essa ce lo rappresenta e ci conduce a lui, perché facilita la conquista nostra a Dio per mezzo di lui.

Quanto facciamo per lei è sempre fatto per Dio, e

tutto ciò che facciamo con lei, o in lei, vale a dire nel suo spirito, o per la sua mediazione, cioè sotto la sua gui-

; da è sempre fatto secondo Dio. Versando i nostri pensieri nel suo cuore, diamo loro la forma di Dio. Amando con lei, poiché amiamo lei, facciamo del nostro amore di figli un amore di Dio, e ciò neppure per mediazione, poiché essa non trattiene nulla per sé; tutto passa, e passando

;gi profuma, si dilata, si eleva e si allieta.

Così la devozione a Maria è veramente un « segreto di santità », come dice il Beato Grignon di Montfort. Essa è anche la speranza modesta del debole cristiano, l'aiuto degli uomini in tutte le condizioni dell'esistenza. Verso di lei vengono, attraverso i secoli, tutti coloro che sospirano, gemono, piangono nella « valle di lacrime » ; figli di Èva esiliati, guardano a lei nel suo ciclo, gli afflitti sul suo Calvario, i tentati evocano il suo candore, i deboli la sua forza sorridente e tranquilla, i colpevoli la ,sua dolcezza misericordiosa, i turbati e i pavidi la sua serenità.

Al tempo nostro come in tutti i tempi si può sperare moltissimo dalla devozione mariana; purché sia seria e forte, tenera e virile, delicata e saggiamente realistica. Questa seconda immagine di Gesù potrà piegare molti cuori che resistono alla prima! La lontananza dello Spirito, la paura del Padre può essere vinta dalla Madre che tiene il Bambino fra le braccia!.

LXXIV LA VITA- CON MARIA

Maria è nostro modello per il fatto che tutta la sua vita è stata un'assunzione, come dovrebbe essere la nostra. L'immacolata concezione, punto di partenza, e l'in-

206 I NOSTRI AUSILII

coronazione finale in cieìo evidentemente costituiscono per lei privilegi incomunicabili, ma se si eccettuano questi superamenti, nel resto si unisce a noi. Il ciclo che abbiamo descritto: dall'umiltà e dalla carità a tutte le virtù, all'imitazione del Cristo, all'esclusione del peccato, all'utilizzazione della grazia, alla preghiera e alla comunione in Dio, tale fu il suo programma, attuato alla perfezione, programma che ora propone a noi nella sua qualità di edncatrice spirituale e di patrona.

L'umiltà di Maria era forse ancor più giustificata della nostra, poiché la distanza fra la qualità di figlia di Èva e quella di madre di Dio è senza dubbio maggiore che fra il nostro nulla e quello che Dio ci permette di divenire. Maria infatti ha tenuto conto di queste proporzioni, co. me lo attestano le sue parole all'annunciazione e il suo Magnificat. La sua umiltà è relativa a ciò che Dio è, e a ciò che fa, all'autorità di Colui che regna e che comanda, alla munificenza di Colui che si dona e ch'essa accetta di ricevere: « Ecco I' Ancella del Signore. Sia fatto di me secondo la tua parola ». « Egli ha rivolto lo sguardo sulla bassezza della sua serva, e da questo punto mi .chice-merannio beata tutte le generazioni, poiché ha fatto in me grandi cose Colui che è grande e di cui santo è il nome ».

Per noi l'umiltà consiste nell'accogliere tutto ciò eh® è, compreso il nostro nulla, in sottomissione primaria a Colui che è. Ma a causa del peccato siamo invitati a passare dall'orgogliosa ribellione e dall'orgoglioso disinganno all'umile speranza. Così pure siamo condotti alla carità muovendo dalla nostra condizione di peccatori. In questo Maria non ci rassomiglia, ma come Rifugio dei peccatori ci aiuta, e come Madre del puro amore ci incoraggia.

Quando non siamo con Dio, dove mai si può essere? Sant' Agostino se lo chiedeva, spaventandosi di aver vissuto in tale stato senza poterselo «neppure definire. Maria non può spaventarsene che per noi — poiché solo per noi essa conosce il peccato.

Dovette affrontarlo sul Calvario; lo misura dalla sofferenza di suo Figlio; è ancora a questa scuola che ci

LA VITA CON MARIA 207

insegna la penitenza, cauterizzando, se del caso, le piaghe della nostra anima per mezzo della croce. ;

L' Ave Marra è spesso per il peccatore un preludio al Pater. « I mendicanti di Dio » di cui parla Sant' Agostino possono tendere a questa regina la loro ciotola. Come Bianca di Castiglia alla corte di San Luigi, essa è « per le grazie ». Gli stessi schiavi del peccato, coloro cioè che sono come intorpiditi, possono ricorrere alla sua potente verginità, alla sua anima libera e alata. Basta che siano pronti ad alzarsi come lo fu Pietro prigioniero al tocco dell'angelo, allorché la dolce mano si poserà sulla loro spalla o li segnerà in fronte.

Una volta in piedi, è d'uopo camminare e procedere oltre. La penitenza allontana l'ostacolo, ma l'amore è il fine. Colei che morì d'amore dopo di aver vissuto d'amore, c'insegnerà come si ama. Essa accettò di dare tutto e di soffrire tutto. Consacrò il suo eroismo e la sua angoscia ai carnefici del suo Figliuolo. Forse fu una lezione di generosità; senza dubbio Maria ha il diritto di invitarci, ogni qualvolta il sacrificio di Gesù si rinnova e si applica e dall'altare raggiunge le anime nostre, a unirci anche noi per non rendere vano il duplice preziosissimo olocausto.

È Maria che ci da Gesù nell'eucaristia come ce lo ha dato nel presepio e sul Calvario. È suo figlio sempre ed ovunque, ed ovunque egli se l'associa, e intende che sia la nostra mediatrice anche se non lo sappiamo. Ma dobbiamo saperlo. Un rito e gli effetti che procedono dall'incarnazione, che ne sono un'estensione, devono esprimere per noi l'incarnazione tale quale fu e qual'è, con Maria per strumento nei riguardi dello spirito come della carne.

Partecipe dell'incarnazione, intermediaria della grazia, nel pensiero di Dio è la medesima cosa; lo stesso avvenga p.er il nostro pensiero. Il sacramento che ci da la vita e ce la promette eterna, evoca per una forza inerente delle cose il momento in cui Maria diede essa stessa lai

208 I NOSTRI AUSILII

vita a Colui che la da a noi, fu unita all'intenzione di questa vita e associata ad essa perennemente.

Maria ci segue in tutti i nostri sentieri seguendovi suo Figlio. Accompagna la Chiesa nella sua fase viatoria soccorrendoci così anche socialmente oltre che individualmente. Essa è il pontefice di tutti i sacramenti, il veicolo di tutte le grazie, si carica di tutti i dolori, presenta al cielo tutte le preghiere aggiungendovi le sue. Ogni cristiano potrebbe dire come Barac il combattente disse a :

Debora, ispiratrice e animatrice del popolo: « Se tu mi . accompagni, andrò; se tu ricusi di venire con me, non partirò ». Non dobbiamo temere un rifiuto. Maria è sem-wre pronta. Può avvenire che sia Gesù a darcela quando ;

andiamo a lui per primo: oppure è lei che ci da Gesù ;

quando essa per prima fu invocata dalla nostra fiducia. , ^ Che la sua attrattiva abbia iniziato l'opera o la sua sol- ' ,^ lecitudine l'abbia compiuta, la salvezza la rivendicherà : ^ sempre come sua causa, dopo Colui che ne è la causa p,ri- •];

ma, e come l'esemplare perfetto di quello che ci fu dato'- '!^ ottenere.

LXXV

-^r santi

Vivendo nel vortice della società umana facilmente :

può avvenire che si disprezzi l'uomo. Basta però che un uomo vi ricordi l'umanità perché si perdoni alla società / •degli uomini. Così i santi ci portano all'ottimismo e alla benevolenza, perché ci rappresentano la umanità santificata. Essi rendono manifesta quella corrente di graziai che circola nella Chiesa, come il fuoco che cova nelle viscere della terra brilla nei vulcani. ;

Ci si invita a cercare Dio in noi stessi: è giusto, poi^ che l'io ha il privilegio di lasciarsi penetrare meglio, 4',;

le tracce di Dio possono rivelarsi sotto la forma del de-; -siderio infinito, dei segreti richiami e delle sollecitazioni ;

I SANTI 209

della grazia. Negli altri, se virtuosi, ci è offerta un'esperienza più disinteressata, oggettiva, direbbero i pensatori. L'esemplarità risultante ci serve d'intermediaria per apprezzare quella del Cristo o del suo specchio vivente, la nostra Vergine Madre.

Un'anima santa, che fonte di luce in mezzo a noi? Difficile a identificare nelle crude chiarezze di questo mondo, essa è come una pura fiamma di alcool nel sole;

tuttavia un'attenzione fraterna Sa percepisce, e la simpatia che si chiama carità si riconforta.

L'effetto è tanto più vivo in quanto la santità, proclamata dall'autorità religiosa, riveste un carattere sociale, prende un posto ufficiale e impegna per ciò Dio stesso. La santità della Chiesa viene riconosciuta nei santi canonizzati e messa a nostro servizio. La natura postuma del modello ne aumenta il valore per il fatto che il santo scomparso è insieme testimonio di due mondi: il nostro, in cui ha vissuto e brillato, l'altro ove l'eternità lo incorona.

I nostri amici morti ci parlano un linguaggio più puro; sono più vicini perché ciò che separa è svanito: le illusioni, i piccoli urti causati dai pregiudizi e dai desideri del momento, tutto quell'accessorio, che nella vita ai sostituisce frequentemente all'essenziale. I nostri amici-in senso spirituale, i Santi, offrono per eccellenza questa superiorità, e la forma collettiva che il loro culto assume, allontana più che mai da loro ogni traccia di futilità o di debolezza umana.

I Santi ebbero i loro difetti; chi sa? forse i loro difetti basterebbero a comporre le nostre virtù, come quelle macchie solari mille Volte più luminose dei nostri fuochi terrestri. D'altra parte quel che ci si invita ad am* mirare in essi, canonizzandoli, non è tanto la loro persona, quanto il loro significato spirituale, la loro missione-di testimoni, la qualità non precisamente di modelli, ma di specchi, in cui l'eccellenza del Santo dei santi si riflette per nostro uso. Imperfetti o no, i santi offrono all'anima attenta un mistero. Simili agli altri nell'apparenza,

210 I NOSTRI AUSILII

essi dirigono lo sguardo più in alto, verso qualche cosa che non è più essi e non è noi, ma che in essi riveste un aspetto irradiante, ed è, lo sappiamo, la divina sapienza.

Il saggio è la misura delle cose, dice Aristotile; il suo pensiero e la verità, la sua anima e la virtù formano una specie di equazione. Dinanzi al saggio o al santo, si ha l'impressione di ciò che uno è, di ciò che uno deve, nella qual cosa risiede una meravigliosa forza di attrazione. Una legge incarnata! La legge della vita attuantesi in un essere umano in modo da presentarci insieme e la legge e la sua vittoria, la legge e le possibilità nostre, poiché come noi anch'essi furono uomini.

I santi sembrano dividersi l'ideale morale per realizzarne ciascuno un aspetto: questi con l'austerità, quello con il suo ardore, un terzo con la tenerezza, la misericordia, la generosità, la pazienza. Noi sappiamo però che tutte le virtù sono collegate e che ricusarne una sola significherebbe ripudiarle tutte, per infedeltà al loro principio. L'eroe della virtù potrà distinguersi per una particolare caratteristica che tuttavia sarà solo una nota dominante; nel fondo esiste la virtù integrale, l'organismo spirituale completo, ed è ciò che permette un culto ed una imitazione senza segrete diffidenze. Non ci si può sbagliare seguendo i santi. Guardando i loro stessi difetti, cosi come sono, dovremo necessariamente trovarne le virtù che vi si accoppiano nobilitandoli. Ma ripetiamolo ancora una volta, non è ne questo ne quello che ci è realmente proposto, è piuttosto il riflesso autentico della Sapienza.

I santi ci incoraggiano col loro splendore e la loro forza d'attrazione, ci confortano anche con la loro felicità. Sono degli arrivati: dunque la virtù arriva a un fine e il nostro sforzo morale non è una marcia interminabile. Arrivati così, essi si fanno gli ausiliari naturali dei partenti e dei viandanti, poiché siamo tutti un sol corpo le , cui membra sono solidali. Si sentono spinti a soccorrerci ,-come noi ad onorarli, e come onorandoli noi diamo gloria a Dio, così soccorrendoci essi concorrono all'opera di'»

LA COMUNIONE DEI SANTI 211

Dio, ed è questo l'ufficio del cielo, più che della terra indigente e pur già debitrice, così resa solvibile.

I santi proteggono di lassù coloro che li hanno misconosciuti e perseguitati. Dio sa che questi non mancano mai! È il loro ufficio, come fu quello di Cristo di ridare l'innocenza, se lo avessero voluto, ai suoi stessi carnefici, e di riscattare in certo modo, con la sua morte, questa morte stessa in quanto conteneva di orribile ingiustizia. L'innocenza e l'amore si sentono in debito verso chi Si colpisce e colpendoli li eleva e li mette in evidenza.

Questa tutela dei santi si estende ancora ai dimentichi, ai negligenti come noi, ai ritardatari. Dobbiamo dirci però che da soli essi non possono nulla: occorre la nostra cooperazione e i! nostro sforzo. Non ci si salva per procura o con sostituzione di persona. La mia adesione alla verità è un rapporto tra la verità e me, la fedeltà un rapporto fra la virtù e me. Un terzo potere saprà dispormivi, nel caso, con la sollecitazione e l'esempio, ma il rapporto per sé stesso rimane interamente personale, ciascuno l'esercita per conto proprio, nell'inviolabile segreto della coscienza, solo di fronte al cielo.

'LXXVI

. LA COMUNIONE DEI SANTI

II pensiero dei santi richiama spontaneamente una dottrina ch& prende autorità dal loro nome, lo dilata e al tempo stesso» Io concentra, chiamando santo ogni esser® anito a Dio, e comunione dei santi l'unione in Dio di tutti questi esseri.

La comunione dei santi è una delle basi essenziali del cristianesimo poiché esso non ha altro significato all'in— fuori della fratellanza di tutti gli uomini nell'adozione del Padre celeste, in altri termini dell'unione intima di tutti gli uomini nel Padre celeste. I nostri destini sono invincibilmente congiunti; veramente formiamo un solo tutto,

212 I NOSTRI AUSILII

e l'unità dell'universo materiale, che si rivela alla scienza ogni giorno più, non è che il simbolo dell'unità stabilita nell'universo morale.

L'assenza di un astro nel ciclo, è d'una impossibilità rigorosa: così nel mondo spirituale l'assenza di una sola anima. La più piccola — se di piccole si può parlare — farebbe un vuoto per sempre incolmabile e ciò non solamente a causa della somma di spiritualità prevista per il tutto, ma anche a causa della sua differenziazione, poiché ogni anima ha un valore di specie.

Ogni cosa, nella natura, è destinata a differenziarsi da tutto il resto pur mantenendo visi: per parte sua la natura in senso generale è occupata a differenziare ogni cosa e ad unirsela; lo stesso avviene nel campo spirituale, per le anime e la Provvidenza. Almeno il piano è questo, e la nostra vita è retta allorché ad esso si adatta.

Sono gli astri che segnano per noi le posizioni, i riferimenti, che definiscono la situazione del globo e la nostra « in qualche parte di quest'atomo »: è la comunità degli astri spirituali, gli spiriti, che segna il posto a ciascuno di noi e ne fa un essere necessario nel luogo suo» incaricato di una data missione, designato eternamente col suo nome. All'armonia delle sfere di cui parlavano gli antichi corrisponde un morinorio di anime che ognuno potrebbe udire scendendo nell'io più profondo. Solo, non sono solo, poiché sono il soggetto di una infinità di rapporti; sento o devo sentire dei legami universali, poiché sono collegato con Dio e tutto risale a Dio come al centro in cui si unifica la sfora dell' Essere.

Cosa bella il pensarlo, più bella ancora e pur urgente trame le conseguenze. Tale solidarietà ci crea diritti ma ci impone anche doveri. Diritti: è infatti per una disposizione provvidenziale a nostro favore, che in qualsiasi parte del mondo spirituale, un'anima pura, un'anima generosa, un'anima orante, sofferente o attiva irraggia sa noi e ci gratifica in ragione delle proprie grazie e dell'use che ne fa.

Poco importa che quell'anima pensi a noi o no. Se

LA COMUNIONE DEI SANTI 213

vi pensa la sua carità sarà senza dubbio più attiva; ma all'infuori di ogni condizione particolare e di ogni volontà, il solo ritmo, il corso tranquillo e abituale del suo respiro intcriore arricchisce di per sé l'atmosfera che noi respiriamo. È come il balsamo della Maddalena che, destinato a Gesù, non si limita a lui solo, ma « riempie tutta la casa » e profuma anche il fariseo, r Neppure è necessario che l'anima • sia superiore. Se,;

10 è tanto meglio: la sua influenza si estenderà più lon- ;

tano; ma in quest'ordine il piccolo completa il grande, l'ignorante illumina il sapiente, il peccatore può aiutare

11 santo, colui che manca di gioia può darla agli altri, il debole assume il fardello del forte, il fanciullo porta l'uomo. In ricambio, il soggetto agente riceve le risultanti dell'azione fraterna emanante dagli altri. Le influenze si incrociano come i fili di una stoffa impalpabile, nessuno vi sfugge, possiamo soltanto annullarne o moltipllcarne gli effetti.

Spetta a ciascuno di noi, adunque, di non essere negligente, tanto meno profanatore, e di non contentarci della parte di beneficiari. Dobbiamo essere pronti a « captare » le grazie in circolazione. Mostriamoci riconoscenti verso tanti incogniti benefattori che designarne col nome di indifferenti, forse di nemici, e che Dio ha scelto per comunicarci dei favori preziosi. Sentiamoci in secondo luogo tenuti a irradiare, da parte nostra, non il male — responsabilità tremenda di cui abbiamo misurato l'orrore — ma la bontà, la virtù, il coraggio, la gioia! Abbiamo intorno a noi il divino: bisogna averlo anche dentro di noi e manifestandolo a nostra volta, dilatarne il regno.

Quando preghiamo, facciamolo sempre in unione a tutta la Chiesa, con gli assenti di tutti i luoghi e i tempi, con tutte le anime. Un'assemblea adunata intorno a noi non è altro che un simbolo. Il pensiero della comunione dei santi deve sempre vigilare nel nostro cuore e stimolarne la generosità conquistatrice. Non posso sentirmi cristiano completo finché non lo siano anche tutti gli altri. Un membro del corpo non sta mai bene fino a che uo

214 I NOSTRI AUSILII

altro è malato; per quanto felici, si può forse esserlo totalmente finché manca la felicità negli altri?

Ci si lamenta sovente del proprio ambiente, constatandolo triste, indifferente, talora anche ostile, e non si pensa a scuoterlo o a raddrizzarlo, anziché subirlo. Una lampada non si lamenta di essere fra le tenebre. Quante ne occorrono perché le tenebre si attenuino o si illuminino del tutto? Una sola non basterebbe?

« A cosa posso essere buono? », ci si domanda. « Per lo meno a essere buono », risponde il principe Ghika, e noi sappiamo che questa è cosa efficace. In tutti gli stati, essere è agire, progredire è agire di più. In un'apparente inazione si può concorrere al bene più di una forte personalità che ne trascina un'altra con un impulso quasi animale, da cervello a cervello e non da anima a anima, non da grazia a grazia.

Il Verbo che guida gli spiriti è qui l'agente principale; la pura spiritualità è la sua ancella di elezione;

Fazione, sia pur virtuosa, non viene che in un secondo tempo, e l'ebbrezza del falso zelo non conta nulla.

È vero che non si tocca il fondo di sé senza darci agli altri, ma è anche vero, che scendendo nel nostro intimo ci comunichiamo sempre, poiché il bene non conosca dighe e la sua sosta unica è nel cuore della sfera perfetta. Sfera dello spirito creato, sfera del soprannaturale diffuso, come sei immensa! Tanto che ognuno di noi può credersi nel tuo centro e sentir irradiare su di sé l'esercito immenso delle anime, come il ciclo dardeggia su di noi il mistero delle stelle senza nome.

 . . ...

 

 

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INDICE

Integrità . . . . .

Ordine interiore e caos

Ordine interiore ed ordine esteriore

La rettitudine .

Integrità e libertà

Integrità e sicurezza .

Gli elementi dell'integrità .

La pietra filosofale .

Il fondamento spirituale: l'umiltà

 II significato dell'umiltà

L'umiltà è verità 

L'umiltà grandiosa

Le audacie dell'umiltà

Le speranze dell'umiltà

La pace dell'umiltà

L'umiltà dei Santi 

II coronamento spirituale: la Carità .

La Carità madre delle virtù 

La Carità madre delle virtù di religione

La Carità madre delle virtù individuali

La Carità madre delle virtù familiari

La Carità madre delle virtù sociali 

La Carità regolatrice delle virtù 

La Carità animatrice delle virtù 

La Carità liberatrice 

La Carità unificante 

La Carità generosa  

La Carità disinteressata

La Carità sorgente di gioiae di patìe

Il lavoro

Qualità del lavoro

dovere di stato

II dovere di stato è un culto

L'intimità divina nel dovere di stato

Lo sviluppo personale nel dovere di stato

Utilità sociale del dovere di stato 

Bellezza e umile dolcezza del dovere di stato 

II via-vai quotidiano

XXXIX - II riposo .

 XL • Utilizzazione del riposo

XLI - Viaggi

XLII - Le insidie della rettitudine

 XLIII -Fatalità della tentazione

XLIV - Utilità della tentazione , . 

XLV - Vittoria sulla tentazione 

XLVI - Doppio pegno di vittoria

XLVII - Le passioni 

XLVIII - Utilizzazione delle passioni

XLIX - II corpo 

L - Destino spirituale del corpo

LI -  peccato 

LII - Disordine del peccato

LIII - Orrore del peccato

LIV - Follìa del peccato

LV - Scuse del peccato

LVI • Eventuale beneficio del peccato

LVII - Schiavitù temporale del peccato

LVIII - Responsabilità del peccato

LIX - La sanzione del peccato 

LIX - La conversione

LXI - Differimento della conversione 

LXII - La penitenza 

LXIII - / nostri ausilii 

LXIV - La grazia

LXV • La preghiera

LXVI - La preghiera e la vita

LXVII - La preghiera di domanda

LXVIII - Distrazioni salutari 

LXIX - L'Eucaristia

LXX - Effetti dell'Eucaristia

 LXXI - Frequenza dell'Eucaristia

LXXII - Cristo nostro modello 

LXXIII - La Vergine Madre

LXXIV - La vita con Maria

LXXV - I Santi

LXXVI - La Comunione dei Santi 

 

 

 

 

 

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