EDIZIONI ARES - MILANO
Titolo originale:
Catechismo des incroyantes
© Flammarion, Parigi
Traduzione di P.G. Nivoli a cura di Aristide Vesco
Copertina di Herman Vahramian
PRESENTAZIONE
L'autore
Gilbert Sertillanges nacque a Clermont-Ferrand il 17
novembre 1863 da una famiglia profondamente religiosa. Alunno dei
Fratelli delle Scuole Cristiane, sentì, molto presto la chiamata alla
vita religiosa, che egli vedeva come "un mondo di preghiera, di
rinuncia, di studio, di predicazione, di operosità al servizio di Dio e
degli uomini"
(1). A vent'anni,
entrato nell'ordine domenicano, partì per la Spugna per -fare a
Belmonte l'anno di noviziato. L'8 dicembre 1883 ricevette l'abito
religioso, "l'abito nero e bianco, intessuto di luce", come
dirà egli stesso molti anni dopo scrivendo della vestizione di san
Tommaso d'Aquino. Secondo la regola domenicana cambiò il nome di
battesimo, e da Gilbert divenne Antonin-Dalmace.
Gli anni successivi furono anni di intensi studi di
filosofia e di teologia, avendo come maestri Ari-stotele e san Tommaso.
« In quegli anni si formò
(1) Citato da A. vesco, Antonin-Gilbert Sertillanges,
in A.D. sertillanges, Catechismo degli increduli, V ed., voi. 2,
sei, Torino 1963, p. 267.
in lui
l'uomo totalmente consacrato alla 'verità' di cui traccerà poi un
quadro sorprendente ed affascinante nel volume La vita intellettuale
» (2).
Nel 1890 si trasferì a Corbara, in Corsica, dove fu
'lettore di teologia. Nel 1893 è a Parigi. Da quell'anno fino al 1900
è segretario di redazione della
Revue thomiste. Nel 1900, fino al 1922, è docente di filosofia
morale a/Z'Institut catholique, e comincia a pubblicare i primi
suoi libri, mentre percorre tutta la Francia per tenere conferenze su
temi di morale e di spiritualità. La sua straordinaria operosità è
frutto di un lavoro intellettuale e ascetico tenace ed entusiasta. In
anni di -fatica aveva stabilito "con ingegnosità una completa
triangolazione che abbracciasse il territorio della verità solcato da
linee che andavano in tutte le direzioni, quasi un'immensa rete in cui
le verità particolari dovevano alla fine cadere... Stabiliti dei punti
chiari di riferimento, egli si era messo in condizione di poter
affrontare ex abrupto qualsiasi questione, con quasi la certezza
di infilare la strada giusta. Non aveva che da consultare le sue carte.
Tracciando qualche linea dai punti che conosceva, in dirczione di quanto
non conosceva, finiva quasi sempre per portare alla luce un punto
oscuro" (3).
Nel 1918 è nominato membro dell'Institut de France.
Dal 1922, allontanato dall'insegnamento per disposizione dei
superiori, risiede all'estero: prima a Gerusalemme, poi in Olanda
(1923-1927), infine in Belgio (1928-1939). Sono anni nei quali dovette
assaporare la dura prova dell'incomprensione : « Spirito
profondamente libero, non fu mai schiavo del-
(2) A. vesco, op. cit., p. 268.
(3) F.-M. Moos, Le p. Sertillanges, maitre de vie
spirìtuelle, in La vie spirituelle, 1949, p. 610.
la lettera; in più campi ciò gli permise di essere un
precorritore e anticipatore, e come sempre accade ai preocorritori,
andò anche il Sertillanges soggettò a incomprensioni e denigrazioni, e
furono sofferenze morali inaudite »
(4). Sia in filosofia che in teologia Sertillanges aveva mostrato
infatti grande originalità e indipendenza di giudizio, pur nella fedele
adesione al tomismo. Ma il tomismo di Sertillanges — profondo e .acuto
interprete dell'Aquinate, come testimoniano le monografie che poi
citeremo — non fu atteggiamento di scuola, ma una convinta e libera
adesione intellettuale, piena di entusiasmo e di apertura, come era del
resto il tomismo che in quegli stessi anni difendevano in Francia due
insigni studiosi laici, Jacques Maritain ed Etienne Gilson.
« Aldilà dei sistemi, pur sublimi che siano, splende
l'eterna verità », amava ripetere. A questa concezione aperta dei
rapporti fra ricerca filosofica e fede cristiana (5) si deve la
suggestiva visione della continuità e degli sviluppi della filosofia
cristiana delineata nel suo capolavoro filosofico, Le christia-nisme
et les philosophies, di cui si parlerà tra breve. Finalmente, nel
1939, per l'intervento personale di Pio XII, Sertillanges potè
riprendere le lezioni al-
(4) A. vesco, op. cit., pp. 271-272.
(5) « Una duplice cura caratterizza l'opera filosofica
del Sertillanges: esporre la filosofia di san Tommaso, mostrandone la
coerenza e la fecondità dei principii, aperti a tutti gli aspetti della
realtà...; confrontare le filosofie e il cristianesimo; esaminare i
loro rapporti, dimostrando come questo accolga in sé le legittime
aspirazioni di quelle, ne superi le antinomie e colmi le lacune, dando
una risposta pacificante anche di fronte al mistero » (F. weber, Sertillanges,
in Enciclopedia filosofica, voi. V, Sansoni, Firenze 1967, coli.
1295-1296).
/'Institut catholique. Ristabilitesi a Parigi, dirige
con entusiasmo che l'età non affievoliva la Revue des jeunes. E
in mezzo al lavoro lo colse la morte, il 26 luglio 1948. Lasciava
una produzione letteraria vastissima e. di grande pregio.
Fra le opere a carattere filosofico vanno ricordate Agnosticisme
et anthropomorphisme (Parigi 1908), Saint Thomas d'Aquin, 2 voli.
(Parigi 1910; tr. it.:
San Tommaso d'Aquino, Roma 1957), La philoso-phie
morale de saint Thomas (Parigi. 1914), Les grandes thèses de la
philosophie thomiste (Parigi 1928), Le christianisme et les
philosophies, 2 voli. (Parigi 1939-1941; tr. it.: Il
cristianesimo e le filo-so£e. Broscia 1947-1948; II ed. 1956),
Lumières et périis du bergsonisme (Parigi 1943), L'idèe de
créa-tion et ses retentissements en philosophie (Parigi 1945),
Le problème du mal, 2 voli. : L'histoire, La solution (Parigi
1949-1951; tr. it.: Il problema del male. Broscia 1951-1954).
L'opera maestra, fra queste, va considerata senza dubbio Le
christianisme et les philosophies, nella quale Sertillanges affronta
il problema — in quegli anni assai dibattuto — dei rapporti fra
dogma cristiano e ricerca filosofi-ca, risolvendolo in sede teoretica
secondo la soluzione proposta da Maritain e Gilson (anche se con
profonda simpatia per Blondel) e illustrando la soluzione in sede
storica con un'acuta analisi degli sviluppi del pensiero occidentale
dall'età classica ai nostri giorni.
Delle opere a carattere più nettamente teologico —
anche se il metodo di ricerca è sovente filosofico — ricordiamo
Les sources de la croyance en Dieu (Parigi 1905), L'Eglise, 2 voli.
(Parigi 1917; tr. it.:
La Chiesa, Roma 1951), Le miracle de l'Eglise (Parigi
1933; tr. it. : II miracolo della Chiesa, Broscia
1948), Qu'est-ce que le catholicisme? (Parigi
1938;
tr. it. : Che cos'è il cattolicesimo?. Roma.
1945), Dieu gouverne (Parigi 1942). In tutte queste opere risalta
l'intento eminentemente apologetico di Ser-tillanges e l'efficacia del
suo discorso razionale, sor-rotto da un'intelligenza chiara e da una
cultura umanistica vastissima.
Vi è poi una serie di opere di contenuto morale e
ascetico o di spiritualità. Citiamo fra queste Jésus (Parigi
1903), La prière (Parigi 1916; tr. it.: La preghiera, Torino
1950), il famosissimo La vie intellec-tuelle (Parigi 1921; tr.
it. : La vita intellettuale. Roma 1954), La vie catholique, 2
voli. (Parigi 1921;
tr. it. : La vita cattolica. Broscia 1955),
L'amour chrétien (Parigi 1921; tr. it.: L'amore, 77 ed.,
Broscia 1962), Notre vie, 2 voli. (Parigi 1926),
Recueil-lement (Parigi 1944; tr. it.: Meditazioni, Broscia
1953), Affinités (Parigi 1936; tr. it.: Affinità, Broscia
1955), Devoirs (Parigi 1936; tr. it.: Doveri, Broscia
1956).
Un altro gruppo di opero di Sertillanges o dedicato a
temi di etica sociale. Fra questo La politique chrétien (Parigi
1904), Socialisme et christianisme (Parigi 1905; tr. it.:
Socialismo e cristianesimo, Milano 1921), La famille et l'Etat
dans l'éducation (Parigi 1906) e Féminisme et christianisme (Parigi
1908).
Infine vanno citato alcune altre opere a carattere
estetico, fra cui Art et apologétique (Parigi 1909), La
cathédrale: sa mission spirituelle, son esthéti-que, son décor, sa
vie (Parigi 1922), e Prière et musique (Parigi 1936).
L'opera
Risposte sulla fede apparve nel 1930, come risultato
di anni di lavoro intenso, con il titolo Cate-chisme des incroyants.
In italiano fu pubblicato dalla sei nel 1937 nella traduzione
di padre P.G. Nivali, con il titolo Catechismo degli increduli; con
questo stesso titolo fu ripubblicato successivamente, fino alla quinta
edizione, del 1963, curata da Aristide Vosco, che rivide la traduzione e
aggiornò il testo in qualche dettaglio. La presente edizione riproduce
questa quinta della sei.
Risposte sulla fede è ormai un testo classico, e
può considerarsi l'opera migliore di Sertillanges filosofo cristiano e
apologista. Il contenuto corrisponde a un trattato essenziale di
teodicea (Dio, la Provvidenza, la religione), di apologetica o teologia
fondamentale (il cristianesimo cattolico) e di dogmatica (i misteri, la
Chiesa, i sacramenti, i Novissimi). Il metodo espositivo è quello
classico del dialogo di stile platonico: vivace, suggestivo,
coinvolgente. Il linguaggio è chiaro e cordiale. L'autore usa
spessissimo citazioni dei classici greci e cristiani e dei moderni: ma
non sono divagazioni erudite, bensì testimonianze vive di una
tradizione di pensiero che va da Aristotele a san Tommaso, da
sant'Agostino a Pascal. È sempre l'idea di filosofia cristiana — che
valorizza gli elementi perenni della speculazione greca — ad animare
un discorso che Sertillanges conduce con forte personalità e con
spiccata originalità, ma in un tono umile e discreto.
Abbiamo detto che il metodo è quello del dialogo. Gli
interlocutori sono Sertillanges da una parte — il filosofo cristiano,
il credente che accetta e vive la verità proposta dalla Chiesa — e I'
'incredulo'
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dall'altra. L''incredulo' è colui che si accosta al
problema di Dio e alla fede cristiana con sincero desiderio di verità.
Le sue obiezioni sono in parte le obiezioni classiche contro
l'affermazione dell'esistenza di Dio, della Provvidenza, dei dogmi
cristiani; in parte sono invece difficoltà e domande che lo stesso
Sertillanges, nel suo acume critico, propone e poi risolve, mostrando
tutto un itinerario critico che lo ha portato a una fede matura e
solida, un vero rationabile obsequium, una fede che testimoniata
con semplicità e passione non può non comunicarsi agli 'altri'.
Ne risulta un libro utile non solo ai non credenti — a
coloro che, non avendo ancora trovato, cercano con fiducia — ma anche
e soprattutto ai credenti che desiderano di possedere più saldamente,
in profondità, le verità della fede.
antonio livi
11
INTRODUZIONE
Nel nome del Padre, e del Figliuolo, e dello Spirito
Santo...
Che fai?
Segno l'opera mia. Questo è un libro di religione.
Il segno di croce di solito si fa prima di pregare, e tu
parli ad increduli.
La preghiera che intendo suggerire è una preghiera
universale; non c'è uomo che non la possa ripetere.
Il «Pater» di Cristo
Padre nostro che sei ne' deli, sia santificato il tuo
nome: venga il tuo regno: sia fatta la tua volontà, come in ciclo così
in terra. Da' a noi oggi il nostro pane quotidiano; e rimetti a noi i
nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori; e non
c'indurre in tentazione, ma liberaci dal male. Così sia.
—- Ma io non posso ancora pregare così'.
—
Allora
di' quest'altra preghiera:
13
Il «Pater» dell'incredulo
Padre nostro, se tu esisti, io mi rivolgo a tè. Se tu
esisti, il tuo nome è santo: sia santificato. Se tu esisti, il tuo
regno è l'ordine, e anche il suo splendore: venga il tuo regno. Se tu
esisti, la tua volontà è la legge dei mondi e la legge delle anime: la
tua volontà sia fatta in noi tutti e in tutte le cose, in terra come in
ciclo. Da' a noi, se esisti, il nostro pane d'ogni giorno, il pane di
verità, il pane della sapienza, il pane della gioia, il pane
soprassostanziale che si promette a chi lo può riconoscere. Se tu
esisti, io ho dei grandi debiti verso di tè: degnati di rimettere i
miei debiti, come io li rimetto volentieri a' miei debitori. Per
l'avvenire, non mi abbandonare alla tentazione, ma liberami da ogni
male.
Bene; ma ho veramente il diritto di esprimermi in tal
modo?
Non solo il diritto, ne hai il dovere. Dubitare è
possibile; ma chi può in verità e sinceramente negare Dio con
certezza? La preghiera sia pur condizionata è dunque obbligatoria
oltreché utile.
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I PRELIMINARI DELLA FEDE
(L ^.ó^^hs-'t
D. Sono io obbligato a far ricerche wiSUiSLJlil'Jili:
stenta di Dio?
R. Rifletti: Se Dio esiste, egli è tutto; se Dio
esiste, tu gli devi tutto; se Dio esiste, tu da lui devi attendere
tutto. Rifletti e concludi.
D. Ma come si propone il problema di Dio? R. Noi
esseri intelligenti, ci troviamo di fronte all'universo, alla vita, a
noi stessi: noi non possiamo far a meno di cercare di capire, e
domandare alla realtà i suoi perché: di questi abbiamo bisogno per
vivere.
D. Il reale presenta ben altri enigmi. R. Enigmi
parziali, sì; ma, nel suo tutto, anche la realtà universale è un
enigma, e proprio a questo enigma risponde l'affermazione di Dio.
D. Neghi tu che la scienza spieghi il mondo?
R. La scienza spiega il mondo a modo suo; ma la sua
spiegazione non è completa, non è sufficiente.
D. Perché non sarebbe completa?
R. Perché le spiegazioni scientifiche, per
necessità di
metodo, sono ricavate dall'esperienza, e di conseguenza
17
il voler considerare la spiegazione scientifica come
sufficiente e definitiva, sarebbe un volere spiegare il mondo non
servendosi che di esso. Ora non si spiega lo stesso per lo stesso.
D. I fenomeni della natura hanno cause che la scienza
riesce a spiegare.
R. Sì; ma queste cause hanno le stesse deficienze
che i loro effetti; anch'esse a loro volta sono effetti ed esigono altre
cause. Rispetto a una vera spiegazione, non si è dunque fatto un passo
in avanti; la causa e l'effetto si ritrovano in una comune indigenza. Di
tutte le spiegazioni che la scienza propone si può dire che sono
altrettanti problemi. Solo al di là si può trovare la spiegazione
sufficiente, e il suo nome è Dio.
D. Ma la risposta «Dio » non ha anch'essa le, sue
oscurità?
R. Sì, ha quella specie di oscurità che si chiama mistero.
Ma questa oscurità è normale, nei riguardi d'una intelligenza finita.
Quello che non è normale è un preteso sistema di spiegazioni che,
invece di fermare la mente e di chiudere il suo lavoro, fosse pure nel
mistero, la trascina sempre più lontano e, tutto considerato, la
inganna, poiché, relativamente al vero problema, il problema
universale, essa non si trova in una migliore condizione, e così non si
avanza affatto.
D. È però un controsenso spiegare il chiaro, con
l'oscuro.
R. Non un controsenso, ma una necessità. Se la
causa universale fosse per noi chiara come sono i fatti della nostra
esperienza, essa stessa formerebbe parte della nostra esperienza, e non
potrebbe servire a spiegarcela.
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Il mistero di Dio si impone al nostro pensiero proprio
perché lo trascende insieme a quanto è alla sua portata. In caso
diverso il pensiero si sentirebbe in obbligo di procedere più avanti
nelle sue indagini, e la spiegazione ultima non sarebbe mai raggiunta.
D. Per farla breve, tu vuoi spiegare il giorno con la
notte.
R. Non diciamo la notte, perché Dio è luce di
un'altra specie; ma questa luce unica è inaccessibile ai nostri sguardi
mortali: solo per questo la si può chiamare notte. Devi pur renderti
conto che se vuoi spiegare la luce, la nostra, quella di cui si nutrono
i nostri occhi o la nostra mente, tu devi arrivare a qualche cosa che^
non sia luce; finché tu resti nella luce, la luce non ha spiegazione.
D. Ciononostante mi ripugna aumentare la dose del
mistero.
R. Non è un aumentare la dose del mistero il
concentrarlo nel punto dov'è logico che sia, per cacciarlo dagli altri
luoghi dove urta la mente.
D. Io ne aumento la dose supponendo Dio; perché Dio
è un mistero più grande della composizione dei corpi e dell'origine
della vita.
R. Tutt'altro! Il mistero si rende accettabile solo
portandolo al suo massimo; se non fosse assoluto, sarebbe vano; perché
un misto di luce percettibile ai nostri sguardi, in Dio, confinerebbe
Dio almeno parzialmente nel mondo della nostra esperienza, e questo
preteso Dio avrebbe dunque lui stesso bisogno d'una spiegazione. La
verità intorno a Dio è una verità che cessa di essere verità quando
si toglie il suo velo. Concepire Dio sa-
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rebbe in qualche modo fabbricarlo con la mente, e se Dio
è, è lui il Fabbricatore della mente. CpncepireJDio sarebbe non averlo
trovato.
D. Cosi tu ammetti quello che dicono molti pensatori
e che i cristiani sembrano respìngere, cioè che Dio è inconoscibile.
R. Bisogna qui distinguere accuratamente. Dio è
pienamente inconoscibile per la scienza, nel senso corrente di
questo termine; egli è a un tempo conoscibile e inconoscibile per la
filosofia; è eminentemente conoscibile con l'intuizione, supponendo che
le condizioni di questa intuizione trascendente un giorno si
verifichino.
D. Vuoi spiegarti più chiaramente? R. Dio è
inconoscibile scientificamente, perché le leggi tratte dai
fenomeni non possono oltrepassare il mondo dei fenomeni. Una
dimostrazione scientifica dell'esistenza di Dio, nel senso moderno della
parola, è impossibile, e a più forte ragione uno studio de' suoi
attributi. La scienza non ha per questo ne princìpi ne metodo; essa non
conosce che fatti e collegamenti di fatti; può classificare, spiegare e
prevedere in questo campo; ma le cause prime non la riguardano affatto,
appunto perché sono prime, cioè anteriori a tutto il suo lavoro.
D. E la filosofia?
R. Per essa, Dio è a un tempo conoscibile e
inconoscibile, nel senso che si può dimostrare razionalmente che Dio
è; perché la ragione oltrepassa i fenomeni e domanda loro delle
ragioni; essa procede dagli effetti alle cause, e di causa in causa, là
dov'osse si dispongono a scala, la ragione può giungere a una causa
prima, o se si
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vuole a una supercausa. Ma il carattere stesso di questa
causa, perché possa fare la parte che le si attribuisce, è di essere
infinita e per conseguenza inaccessibile in se stessa. Le daremo un
nome, ma sempre partendo dal creato; la caratterizzeremo anche, ma con
caratteri che non serviranno se non per il nostro modo di concepire,
sapendo che in Dio si risolvono nella sua Unità ineffabile, nella
suprema indistinzione del Perfetto.
D. Tu parlavi ài intuizione. R. Sì;
l'intuizione ha già i suoi accessi presso Dio 'in rari individui e in
rare occasioni di questo mondo; più tardi la ritroveremo in tutti gli eletti,
perché essa sfugge al funzionamento zoppicante della ragione
ragionante, alla sua necessità di ridurre tutto in concetti e in
proposizioni, non conoscendo così se non come « in uno specchio », «
in enigmi », al contatto delle immagini in-teriori, invece di afferrare
l'oggetto con una presa immediata e con una sintesi di vita. Dio è in
se stesso eminentemente conoscibile, essendo tutto idea e spirito. La
questione è di essere al suo livello. Vi ci mette egli stesso se così
vuole. Noi crediamo che egli vi ci mette mediante il soprannaturale,
mediante la grazia e la gloria; vi ci solleviamo
remotamente con lo sforzo titubante del pensiero filosofico; non vi ci
troviamo più affatto al piano della scienza. Di qui difficoltà
insuperabili per coloro che rifiutano di distinguere i diversi piani;
accordo nella diversità per gli altri.
D. Ma se per noi, quaggiù, Dio è inconoscibile 'in
se stesso, perché studiarlo?
R. Dio è per noi, quaggiù, inconoscibile in se
stesso. Nessun concetto è abbastanza largo per questa sostanza
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illimitata. Lui solo può definire se stesso; lui solo
può dire se stesso con una parola viva, che è il suo Verbo;
lui solo, come espressione, è uguale a se stesso come
fatto. Tuttavia l'indagine intorno a lui è sempre aperta;
le sue opere ce lo rivelano con le loro analogie e coi
loro simboli, e quanto più la mente vi si avanza, tanto più si
arricchisce. Lo studio di Dio è una navigazione in un mare sconfinato,
splendido, ed esaltante.
D. Ammetto che ne possa seguire un certo
arricchimento; la storia dello spirito umano sta li a testimoniarlo; ma
i tuoi modi di pensare Dio e di parlare di Dio non sono in opposizione
con quello che tu stesso hai detto del mistero di Dio?
R. Bisogna ben che gli uomini « esprimaho come
possono quello che non possono esprimere sufficientemente come egli è
» (bossuet).
D. A che servono queste espressioni?
R. A vivere di Dio con lo spirito, dovendo viverne
moralmente, al fine di raggiungerlo un giorno.
D. Non temi la puerilità?
R. Puerilità, forse, ma allora in un senso
nobilissimo e dolcissimo. L'idea di Dio incoraggia la mente con la sua
stessa grandezza, che è al di sopra della grandezza. Se Dio fosse
solamente grande, sarebbe grande a tal segno che noi non ne potremmo
più dire niente; ma, poiché egli oltrepassa infinitamente ogni
grandezza e l'uguaglia alla piccolezza, egli ridiventa familiare, e noi
ne parliamo con la libertà che i bambini hanno a riguardo di tutto e di
tutti.
D, Non ti pare che l'idea di Dio, concepita come
la 22
spiegazione delle cose, non sia che un'anticipazione, un
preludio quasi della scienza?
R.
Nella tua affermazione vi è del vero; ma soprattutto vi è del falso.
Al principio, non avendo nessuna spiegazione immediata dei fenomeni,
ubbidendo a quel senso dell'assoluto che è inseparabile dallo spirito
umano, per rendersi conto di ciò che si vede, si ricorre immediatamente
alla causa prima. Dio sostituisce l'esperienza, la scienza, la
metafisica delle cause, la morale. A tutto, si risponde: Dio! e si
trascurano le altre risposte. Poi, credendo di trovare e trovando di
fatto delle spiegazioni, si rinnegano le credenze primitive; la scienza
si laicizza, e i sapienti orgogliosi scivolano nell'ateismo,
nell'agnosticismo, o comunque sembra offrano argomenti alle negazioni di
una folla ignorante o semidotta. Finalmente, rendendosi conto del
carattere relativo delle spiegazioni della scienza, degli acquisti
dell'esperienza e dei dati della metafisica generale se la si priva del
primo Principio, si ritrova al di là il mistero, e,, con esso, il «
Dio nascosto ».
D. Ma, d'altra parte, e generalizzando, Dio non
sarebbe semplicemente l'assommarsi semplificato^ dei nostri sogni, la «
categoria dell'ideale », come dice Renan?
R. Dio è questo; difatti noi lo concepiamo,
rispetto alla natura, come Causa; rispetto alla ragione, come Verità;
rispetto alla volontà, come Bene; rispetto al cuore, come Padre;
rispetto alla ricerca universale, come Felicità; il tutto con delle
lettere maiuscole, cioè come categoria dell'ideale, poiché in ogni
cosa egli è il Perfetto. Ma Dio non può essere il Perfetto e l'Ideale
se non a
23
patto di essere reale; infatti che cosa è una
perfezione senza esistenza? Allora è a forza di idealità che Dio è
reale, ed è a forza di realtà che egli è ideale.
D. Tutto ciò non è paradossale? R. Niente
affatto. L'ideale è la più reale delle cose, o non è l'ideale;
parimenti il reale è la più ideale delle cose, sotto pena di essere
imperfetto, cioè semireale. Il proporci, noi stessi, un ideale, non è
forse un dare a noi stessi qualche cosa da realizzare? Il proporci un
ideale perfetto e ottenerlo sarebbe porre Dio. Ma senza Dio nessun
ideale parziale sarebbe concepibile, non essendo altro che un prestito,
un frammento del blocco del quale cerchiamo le origini e le fasi. La
natura ci conduce al di là di se stessa; la natura non è se non
l'immagine viva di un Pensiero eterno; vi è una vocazione essenziale
dell'imperfetto al Perfetto, degli esseri all'Essere.
D. Se Dio è reale, e se è Realtà perfetta,
l'Essere, come dici tu, Dio non_ si confonde forse con.J^Muiverso, col
lutto?
R. Tu ci dai così la formula del panteismo, e
bisogna confessare che il panteismo è seducente.
D. Donde viene secondo tè questa seduzione? R.
Dall'abbagliamento dell'infinito. Da ciò proviene questa poesia da cui
molti si lasciano prendere, e questa metafisica profonda benché
fallace. Il filosofo cristiano, moralmente annientato davanti
all'infinito, non si lascia abbagliare. Egli serba, del panteismo, tutta
la poesia e tutto ciò che vi è di positivo nella sua filosofia; e ne
trae alimento per il suo concetto dell'intima presenza di Dio in tutte
le cose, della vita in Dio di tutte le cose, ma senza pregiudizio
dell'essere proprio e dell'attività di
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ciascuna cosa, che, sprofondandosi in Dio, suo
Principio, trova se stessa e si riafferma, invece di abolirsi.
D. Non hai però risposto alla mia obiezione: se Dio
è la Realtà perfetta, egli è il Tutto, e coincide così con
l'universo.
R. Dio è il tutto, in questo senso cheJutto
l'essere gli appartiene, tutto l'essere è in lui, tuttoJ'essere è di
lui, « egli è ogni essere eminentemente e virtualmente » (S. tommaso
D'ÀQuiNo), è « il Tesoro dell'essere » (id.). Ma appunto per questa
ragione egli non è l'universo, cosa imperfetta e mutevole, dove la sua
unica pienezza si avvilirebbe.
D. Se Dio non è l'insieme degli esseri, dunque è un
Essere determinato, cioè finito. R. Dio non è un Essere
determinato nel senso della tua frase; ma se egli è indeterminato, è
per la sua perfezione stessa, che nessuna determinazione esaurisce, e
perciò non è finito.
D. Allora Dio infinito e runiversp_distinto da lui si
addizionano; Dio e l'universo sono più che Dio, cioè più che
l'infinito, il che è assurdo. R. Il mio corpo e la sua ombra sul
muro, il mio corpo e il suo rinesso nell'acqua, sono forse più che il
mio corpo affatto solo?
D. Lo j-o: l'ombra e il riflesso non sono reali; ma
il
mondo è reale.
R. Il mondo è reale per noi ed è reale m se
stesso;
ma esso non è tale affatto per rapporto a Dio,
essendo impotente a porsi davanti a Dio, come qualcosa che può
sussistere senza di lui. A questo riguardo, non è che una
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ombra, una manifestazione della divina Presenza,
un'effusione dell'Amore. La creatura non ha di proprio altro che il
niente; grazie a Dio essa esiste; ma non avendo niente di proprio, il
fatto che essa esiste per mezzo di Dio non aggiunge niente a Dio, non si
compone con Dio, non cambia niente alla totalità dell'Essere, il cui
nome proprio è Dio.
D. Dio è personale, o è un'immensità resa
impersonale dalla sua ampiezza?
R. Dio è un'immensità senza sponde, e perciò non
è personale alla maniera di un uomo. Noi non crediamo al Dio-finito di
Renouvier, o al Dio-uomo di Sweden-borg. Ma Dio è sommamente personale
per la sua stessa immensità, cioè per la sua perfezione; perché,
quanto più la perfezione sale, quanto più l'intellettualità e la
coscienza si concentrano, tanto più la personalità si compie. Del
resto non andare a dire a un cristiano che Dio non è personale, quando
quello che egli trova in Gesù Cristo è Dio in persona. Dio ha
dimostrato la sua personalità apparendoci, come si dimostra il
movimento camminando, checché ne sia delle difficoltà di Zenone d'Elea
e de' suoi-seguaci.
D. E che dici della filosofia che sfugge a tutte
queste questioni sotto il nome di materialismo? R. Il materialismo
ha due vantaggi: fa dell'universo un trastullo magnifico per il nostro
orgoglio e un campo aperto per le nostre passioni. Fuori di questo, è
una « filosofia » che non merita neppure, un posto nel catalogo degli
errori.
D. Potresti giustificare una tale severità? R.
Il materialismo è una dottrina che alle maraviglie
26
visibili da spiegazioni sciocche, e alle maraviglie
invisibili, quelle dell'anima, spiegazioni inesistenti, non accostando
in nessun modo l'ordine dei fatti che essa vuole spiegare.
D. Se non altro le sue spiegazioni sono semplici, e
non
contraddittorie.
R. Le sue spiegazioni sono semplici fino
all'ingenuità;
esse consistono nel costruire i corpi con dei corpi più
piccoli, « come se si costruissero le case con delle case » (aristotele),
e in quanto allo spirito e alle cose dello spirito, il materialismo non
le spiega, ma se le attribuisce, trovandosi esausto quando ha dichiarato
in quali condizioni si constatano.
Tu dici che esso non è contraddittorio: ma non c'è una
contraddizione evidente tra il materialismo e questo semplice enunzi ato:
le leggi della materia, che i materialisti hanno continuamente in
bocca? Dire che la materia è retta da leggi, non è forse uno
schierarla sotto il regno dello spirito? « La legge è un dettame della
ragione », dice S. Tommaso d'Aquino, e nessuno può accusare di falso
una definizione così lampante. Quei che non credono se non agli atomi
combinati sotto certe « leggi » dovrebbero ben dire chi ha insegnato
agli atomi l'autorità di queste leggi e li inclina all'ubbidienza. E se
dalle leggi elementari ti elevi alle leggi più complesse della chimica
e della mineralogia, della vita e della comunicazione della vita, della
sensazione e del pensiero, della psicologia superiore e della moralità,
chi non vede crescere indefinitamente l'assurdità di attribuire tutto
ciò a una materia senza finalità immanente, senza idea direttrice,
direbbe Claudio Bernard, e per conseguenza
27
senza un Pensiero anteriore e superiore ad essa, e,
poiché l'idea immanente alle cose è evidentemente costitutiva,
e non semplicemente motrice, senza un Creatore? Ancora ho trascurato di
osservare che la « materia » dei materialisti fugge sempre più
davanti alla scienza contemporanea, come se alla fine dovesse svanire a
profitto della legge stessa, e proclamare così il regno universale
dello spirito. Tutto quaggiù è forma, numero, armonia. ripetizione e
ritmo, danza e musica; niente è materia inerte e cieca. Ogni essere
tende, cerca, gravita, passa ad altre gravitazioni, ad altre ricerche,
ad altre tendenze, e un universo si forma in cui lo spirito splende
maggiormente, svelando una Sorgente d'idealità che si espande,
un'armonia fondamentale, un Pensiero primordiale, uno Spirito supremo.
D. Tu tendi così a dimostrare Dio per mezzo
dell'ordina del mondo; è la tua unica prova, o ne hai delle altre?
R. Vi sono tante prove dell'esistenza di Dio quante
se ne vogliono, e non ce n'è che una sola. Tutte si riducono a questo:
vi è qualche cosa, dunque Diox'è. Detto questo puoi sminuzzare il
qualche cosa e fare de' suoi frammenti altrettante prove. Del resto,
siccome uno sminuzzamento intelligente dovrà procedere per gradi, per
generi di cose, troverai prove privilegiate, specifiche. In tal modo S.
Tommaso riconobbe cinque vie per far capo al sommo Essere.
D. Qual è secondo tè la prova più certa? R.
Sono tutte certe.
D. Quale quella che colpisce di più? R. Appunto
quella dell'ordine^dellaJia^ra, e i pehsa-
28
tori più refrattari, come Emmanuele Kant, hanno dovuto
riconoscerne il valore.
D. Qual è la sua sostanza? R. « L'ordine è
opera del sapiente », disse Aristotile. Noi crediamo alla sapienza
umana perché vediamo le sue opere, cioè l'ordine che introduce attorno
a se stessa, ne' suoi dominii, nelle creazioni della sua industria,
nelle istituzioni che fonda, nelle regole d'azione che da a se stessa e
che intima a ciò che essa deve reggere. Ma la sapienza umana non ha la
possibilità di applicarsi se non perché un'altra sapienza la precede,
e questa sapienza anteriore, quella della natura, sulla quale s'innesta
la nostra, è ben più profonda. Chi può sfaccettare una pietra con
tant'arte com'essa è sfaccettata dentro, per il fatto della sua
costituzione stessa, così sconcertante per la scienza che yi penetra a
tentoni? Chi può fare, con della canapa, un tessuto così meraviglioso
come lo stelo della canapa, e come la sua foglia, e come il suo seme? E
così avviene di tutto. Se dunque io credo alla sapienza umana, come non
crederei alla sapienza che essa utilizza, alla sapienza che essa
dischiude, e se questa sapienza della natura è tanto incosciente quanto
meravigliosa, come non cercarne la sorgente in una intelligenza suprema
di cui tutta l'arte della natura non è che una manifestazione? « II
visibile, dice Leone Bloy, è la traccia dell'invisibile ».
D. Quali sono, secondo tè, i segnj^essenziali^dell'ordine,
in seno alle cose?
R. Ordine di ciascuna cosa in se stessa; ordine di
produzione di ciascuna cosa per una convergenza di elementi, per un
concorso di serie causali; ordine delle
29
cose tra loro per fare degli insieme e degli insieme per
fare un cosmo; ordine del cosmo e dell'anima che si incontrano nella
sensazione, nel pensiero, le due più sublimi realtà che esistano.
D. Vi è un rapporto tra quest'ordine di
manifestazione
del reale e l'ordine intimo del pensiero' stesso?
R. « Un albero germoglia per sillogismo », disse
Hegel.
D. E con l'arte?
R. - Quando dall'arte, dal ritmo, dalla poesia e
dalla musica, tu stesso ti senti trascinato nell'ordine del mondo e
comunichi a' suoi movimenti, devi riconoscere che l'emozione provata
nelle parti alte dell'anima tua ha un carattere religioso. L'arte è una
« religione », perché la bellezza è ordine, e l'ordine è divino.
D. Puoi completarne la prova? R. I rapporti delle
cose tra loro, degli elementi tra loro, delle serie causali, che
interferiscono e convergono, degli insieme parziali che ne incontrano
altri in sempre più vaste combinazioni, tutto ciò da prova di un
pensiero che mette insieme e ordina all'attuazione di un progetto, di un
piano che il fatto realizza. L'occhio è ordinato per vedere, il frutto
per germogliare; le potenze della vita come le potenze astrali sono
fidanzate prima del connubio dell'azione e delle evoluzioni comuni. «
II mondo è il risultato di accordo infinito », scrive Novalis. Gli
scambi universali ci appariscono a un tempo come fenomeni e come
tendenze, come effetti e come disegni, e l'idea di una sapienza
organizzatrice brilla al contatto. Quest'idea è in noi, e l'ordine è
nelle cose; ma al di sopra, per giustificare l'idea e per fondare
30
le cose tali quali sono, armonizzate e cariche di
saggezza, ci vuole qualche idealità superiore, una sapienza, un'arte, e
non è forse questo uno degli aspetti di Dio? La natura è come un volto
la cui fisonomia esprime l'anima segreta e quest'anima è Dio. La natura
è un macchinario meraviglioso, il meccanico ne è Dio. Dietro il fatto
vi è l'energia, dietro l'energia la legge, oltre la legge il progetto,
sopra il progetto l'architetto e l'architetto è Dio.
E devi notare che nella natura, l'ordine è tanto più
ammirabile quanto più gli esseri sembrano formati di un piccolissimo
numero di elementi, sotto leggi alla loro volta poco numerose. L'autore
dell'ordine sembra che possa fare tutto con tutto, anzi con un solo
cenno. Per negare quest'autore divino, bisogna ammettere un'inin-telligenza
o una non-intelligenza più intelligente dell'intelligenza stessa.
L'universo come lo conosciamo e specialmente come lo congetturiamo,
l'universo con la sua organizzazione di un'estensione e di una
profondità così sbalorditive, è un peso che Dio solo può portare;
nessun Atlante, figlio di un Giove sottomesso al Destino, potrebbe
esserne all'altezza. Se Dio non esiste, non ci vuole molta immaginazione
ne molto sentimento, per essere presi da un senso di assurdità
spaventosa, da una immensa oscurità. Dio è veramente la Luce del
mondo, creatrice della verità delle cose e del suo riflesso in noi. È
lui lo Spirito nascosto di tutte le creature, l'Essere del loro essere,
la Verità di cui esse non sono, per così dire, che i fantasmi, poiché
senza di lui, senza l'influsso permanente della sua presenza, esse non
sarebbero affatto.
31
D. A queste condizioni, non si dovrebbe pensare che
a Dietro per lo meno a niente senzaPio.
R. « Dimenticato Dio, più nulla è degno di
memoria »
.• . ' , Awfctw.i.-is.- ,a.«i«a».™)t«taw™arfì3BÈ»SK^^aw!a^w
.- " " •
(carlyle).
D. Tu parli dell'influsso divino come d'un fattore
permanente delle cose: è veramente opportuno cercare qualcosa di «
permanente » in questo mondo dove tutto muore?
R. Non si può dire: tutto muore. È vero che le
cose di questo mondo non ci son note e non sono da noi adoperate se non
secondo che passano; noi registriamo la loro fuga; appunto in grazia
della loro morte noi le assimiliamo; ma bisogna che qualcosa resti; se
tutto passasse, non ci sarebbe « dove » avvenga il passaggio, non
legge che regga il passaggio, non potenze stupefacenti per i fatti
particolari, non trama per la decorazione. E bisogna che ciò che resta
abbia di che restare, di che mantenersi così saldo, così immortale.
Bisogna che il necessario ci sia, e al di sopra del necessario che è
tale solo di fatto e non per se stesso, ci vuole il primo Necessario,
necessario per definizione, nel quale diviene tutto quel che diviene.
Quel che muore, muore in Dio.
D. Ciò suppone l'ubiquità; ora come può Dio essere
presente dovunque nello stesso tempo, e tuttavia essere
invisibile?
R. Pascal matematico ne fornisce questa immagine:
« un punto che si muove dappertutto con una velocità
infinita; infatti esso è uno in tutti i luoghi ed è tutto intero in
ciascun luogo ». Abbiamo qui solamente un'immagine spaziale, che non ha
valore se non nell'ordine astratto. Ma se tu la trasporti nell'ordine
dell'esistenza,
32
ti fai un'idea di quella realtà indivisa e infinita,
che avviluppa tutto immediatamente col suo potere creatore e
organizzatore.
D. Ho udito gente ragionare così: Non c'è
bisoJgno_di Qxdinatore; perche il caso, disponendo dell'infinità del
tempo, ha davanti a sé un'infinità dt combinazioni possibili, dunque
anche quella che è sotto i nostri sguardi. R. Quando un uomo
ragiona in tal modo, io non faccio appello ai matematici per
rispondergli; ma gli domando:
Sei matto? Queste idee reggono davanti alle idee, ma
crollano davanti ai fatti. Pensa alla struttura di un occhio di
moscerino, al moscerino, alla sua vita, alla sua meravigliosa
riproduzione, alla sua eredità secolare, alla stabilità dinamica
dell'universo in cui si evolve questa piccola specie in compagnia di
milioni d'altre, e tu riderai di cedeste stoltezze.
D. Ma c'è chi dice, con più verosimiglianza: II
cammino del mondo è impeccabile e d'una rigorosità assoluta, dunque
non ha bisogno di Dio. R. Che lode" di Dio!
D. Che cosa intendi dire?
R. Che questa apparente inutilità di'Dio è proprio
quello che lo esige con maggiore forza, come l'orologio da prova
dell'orologiaio camminando da sé solo, meglio che se egli dovesse
spingerne le ruote. Il cammino del mondo è d'un rigore così assoluto
che una volta posto il mondo, una volta caricato questo meraviglioso
automa nessuna sorpresa può sorprenderci; ma io domando ancora una
volta: Chi ha fatto il mondo?
33
D. Si dice che è il frutto dell'evoluzione. R.
Se PifiiQ^iddI'^0^0^ è vera'
Dia-è.-dunostEato due volte, una volta dal. mondo e una volta
dall'evoluzione.
D. Come?
R. Perché creare una macchina utensile di una tale
perfezione e d'una tale potenza è più difficile che creare un oggetto.
Il mondo è un oggetto sorprendente; ma che dire di quella miracolosa
forza di evoluzione che lo fabbrica ciecamente? Di quale perspicace
pensiero è l'organo una tale cecità! L'evoluzione che si pretende
crea-trice al posto di Dio, è un sistema di efletti sempre più ricco
senza che vi sia alla base alcun principio; è una geometria eterna
senza « Assioma eterno ». Capisco bene Descartes che dice: «
L'esistenza di Dio è più certa del più certo dei teoremi di geometria
». Per me, se l'evoluzione esiste — ed esiste necessariamente in
qualche misura — dimostra, oltre alla ^potenza, sovreminente-di Dio,
la discrezione generosa che lo fa agire per mezzo della stessa opera
sua, dopo aver reso quest'opera attiva e potente. In tal modo Cristo
seminò alcuni germi immortali e affidò a' suoi Apostoli, alla sua
Chiesa, le sue speranze dell'avvenire.
D. Mi pare che tu attribuisca così. alla natura un
immenso sforzo, dei piani maravigliosi. Ora Enrico Berg-son dice
all'opposto: La natura non ha nessun piano prestabilito; inventa con
assoluta libertà, e « per lei è così facile fare un occhio
come per me alzare la mano ». R. Tutto ciò non si contraddice
affatto. La natura non ha piani prestabiliti; neppure l'ape: in nessuna
parte del mondo vi è un modello dell'alveare. L'alveare è una
34
« invenzione » del genio della specie, un'invenzione
spontanea, se si vuole, senza piani stabiliti in antecedenza, in modo
che il piano non esiste che in noi, dopo un atto di riflessione,
quale risultato delle analisi fatte del meraviglioso lavoro. Ciò non
m'incomoda affatto. Ma quel che io domando sempre è che mi si trovi una
origine prima a questo sforzo d'invenzione, all'invenzione quando
esiste, alla nostra mente che l'analizza, al piano che è il prodotto
della nostra mente, a tutto quest'ordine di fatti, che non basta
descrivere per spiegarli. Bergson non si oppone a questa richiesta,
tutt'al-tro. In quanto allo sforzo della natura, è un modo di
dire. La natura è un'arte, e l'arte non fa sforzo salvo che quando è
imperfetta. Un occhio non è che un arpeggio complicato; la natura lo
produce con la squisita facilità di un perfetto virtuoso; ma quanto
più la sua arte è impeccabile e semplice ne' suoi mezzi, tanto più la
natura ha bisogno di una sorgente sublime.
D. E se il mondo e sempvs.. esistito? R. La
durata non è una spiegazione. Per quanto si estenda, le si dovrà
sempre chieder ragione di ciò che essa contiene. Spiegheresti una
locomotiva e daresti la ragione del suo andar avanti dicendo che essa è
sempre andata avanti ? La ragione del cammino non si trova alle proprie
spalle; i motivi non si raggiungono analizzando la sua corsa. Il
procedere si spiega con l'intelligente complicazione del congegno, cioè
per l'arte del meccanico; si spiega con le proprietà del vapore,
dell'aria, del suolo, dei materiali adoperati, dell'ambiente universale
in cui tutto s'immerge, cioè per la possibilità offerta dalla natura e
che il meccanico ha saputo uti-
35
lizzare. L'armonia di tutto l'universo si trova
impegnata in questo semplice fatto; come non è meno impegnata in
qualsiasi altro: tutti i fatti reclamano un Ordinatore.
D. Che dire a quelli che non riescono a convincersi
dell'esistema di Dio per mezzo della ragione? R. Di cercarlo nel
loro cuore, e più ancora di cercarlo nella fede.
D. È una cosa possibile? R. Non solo possibile,
ma anche frequente. Dal momento che Dio si è rivelato nel mondo, se ne
può trovare la traccia nella rivelazione come nella natura. Era il
procedimento raccomandato da Pascal come il più efficace. La credenza
in Dio, che è l'ultima parola della filosofia, è la prima della fede:
« Io credo in Dio, Padre onnipotente, ecc. ». In filosofia, tutta la
conoscenza umana mira appunto a rischiarare debolmente la nozione di
Dio. Nella fede, l'ordine è inverso; è Dio, sorgente di ogni luce, che
sfavilla anzitutto e rischiara potentemente tutto il resto. Se la natura
ci parla di Dio, la fede ce ne dice, a suo riguardo, in poche parole,
più che tutto l'universo insieme, e allontana i pensieri ingannevoli
che provocano pericolosi disorientamenti in tante menti.
D. La dimostrazione razionale di Dio ti pare insamma
poco utile?
R. È utile come preambolo della fede; ma in se
stessa è insufficiente alla salvezza degli uomini. La ragione affatto
sola di fronte a Dio non può comunicare con Dio;
le manca la scala viva, le manca il ponte. Il Dio che
bisogna conoscere non è il « Dio dei filosofi e dei sapienti »,
36
ma il « Dio di Abramo, d'Isacco e di Giacobbe »,.il «
Dio di Gesù Cristo ». « È un Dio di amore e di consolazione; è un
Dio che riempie l'anima e il cuore di quelli che egli possiede; è un
Dio che fa loro sentire in-teriormente la loro miseria e la sua
misericordia infinita;
che si unisce al fondo dell'anima loro, che la riempie
di umiltà, di gioia, di confidenza e di amore; che la rende incapace
d'altro fine che non sia lui stesso » (pascal).
D. Il sentimento prende così una grande importanza
nella credenza in Dio.
R. « Si crede in Dio in virtù di ciò che si ama,
assai' più che in virtù di ciò che si sa » (pietro lasserre).
D. .Che cosa pensi dell'ateo? R. In un certo
senso non vi sono atei : vi è solo gente incoerente, che affermando Dio
tutte le volte che proferiscono una parola o fanno un passo, si servono
nondimeno della parola per negare Dio. Sotto tutte le idee che si
oppongono a Dio, vi è l'idea di Dio. Sotto i sentimenti che allontanano
da Dio, vi è una sete che è la sete di Dio. Ogni uomo crede alla
verità, apprezza il bene e tende alla felicità; tutta quanta la nostra
vita gravita attorno a queste nozioni, e sempre più a misura che il
mondo s'incivilisce. Ora ciascuna di queste nozioni conclude a Dio nel
modo più manifesto, e prese nel loro senso assoluto sono attributi
divini. Nietzsche lo riconobbe, dicendo: « È con la fede in Dio che,
nel mondo moderno, si è dato il benservito a questa stessa fede »;
« L'ateo parla della natura come di una madre che è
nei cieli » (enrico bidou). Nondimeno l'ateismo esiste in quanto presa
di posizione da parte della volontà, ed ecco quel che ne penso. Io
faccio una gran differenza tra
37
l'ateo gaudente,^ « simile alla bestia, che grufola
nella pozzanghera senza vedere in fondo il riflesso del cielo » (giuseppe
serre), e l'ateo per^error.e., per deviazione intellettuale, anzi per
reazione contro falsi deismi che egli rigetta senza sapere come
sostituirli.
D. Vi sono dunque falsi deismi'?
R. Sì, coloro che pongono un Dio da vetrata o un
« Dio della buona gente » senza nessun valore
filosofico.
D. Ci possono dunque essere degli atei in buona fede?
R. Ognuno di noi ne può incontrare ogni giorno.
D. Non si dice il contrario, nelle vostre scuole di
teologia?
R. Si dice con ragione che una cosa così certa, per
una coscienza retta, come l'esistenza di Dio, non può essere
disconosciuta senza peccato. Ma anzitutto vi sono sincerità
peccaminose, quelle che risultano da gravi negligenze o da infedeltà
anteriori. Poi, non è necessario che il peccato così affermato sia un
peccato individuale;
ci può essere una colpa collettiva, i cui effetti si
comunicano a innocenti ingannati. I responsabili sono appunto coloro che
creano tali correnti; quei che le seguono per un'attrazione involontaria
devono essere assolti e soccorsi.
D. E come si spiega che Dio, che a tuo parere è
così evidente, possa essere così lasciato in un canto? R. Dio è
lasciato in un canto — e offeso — come può accadere ad un vecchio
da parte di una generazione troppo irrequieta. L'accesso anarchico della
vita materiale, della vita sensibile, della vita intellettuale stessa,
è all'origine di questo spaventevole abbandono.
38
D. Non c'è nulla di elevato, nell'
ostraasmJoJmJlljtto^al-l'idea di Dio?
R. La disgrazia degli uomini è di volgere contro la
propria salvezza i loro stessi pensieri migliori. Si è fatto credere
all'umanità che l'idea di Dio era un ostacolo alle sue aspirazioni, una
preoccupazione estranea o ostile ai suoi compiti; ed essa ritornerà a
Dio quando avrà capito che l'idea di Dio altro non è che la vera
liberazione dell'uomo; che solamente questo preteso nemico delle sue
soddisfazioni rende la vita degna di essere vissuta, e che tutti i
compiti umani, in ciò che hanno di sacro e di durevole, sono resi più
facili e più dolci col suo concorso. « L'uomo potrà dominare e la sua
propria natura e il mondo che egli abita, prendendo il suo punto di
appoggio al di sopra di sé, nell'idea stessa del Fine per il quale egli
è nato » (emilio boutroux).
D. Però vi sono degli atei che sono spiriti forti.
R. « Ateismo, segno di forza di spirito — scrive
Pascal — ma solamente fino a un certo punto ».
D. E che sono tranquilli. R. Io credo alla calma
della loro angoscia.
D. In ultima analisi, qual è, secondo tè,
l'atteggiamento degli uomini riguardo a Dio? R. « Gli uni temono di
perderlo, gli altri temono di trovarlo » (pascal).
39
LA PROVVIDENZA
D. Tu spesso adoperi l'uno per l'altro questi due
vocaboli: Dio, e ^Provvidenza; è forse perché, a tuo
parere, il compito provvidenziale è essenziale a Dio? R. Esso è
talmente essenziale che, senza la Provvidenza, si domanda se sarebbe
ancora utile parlare di Dio.
D. Qual è la sua nozione precisa? Tu senza dubbio
chiami provvidenza il governo divino.
R. Approssimativamente, sì; .ma vi è una
differenza. Il governo divino è piuttosto il momento esecutivo,
la provvidenza il momento legislativo, nel regime eterno. Dio è
provvido, in ciò che i destini universali e particolari hanno da lui il
loro orientamento e la loro forma, e per conseguenza, il concetto di
quest'ordine, di questi destini, è incluso nell'oggetto
dell'Intelligenza prima.
D. Ciò suppone che Dio conosca tutto. R. Difatti
conosce tutto : del resto come la conoscenza di qualsiasi cosa potrebbe
sfuggire a Dio, che è la causa di tutto ciò che è, e che lo ha
causato intelligentemente?
41
?0?
D. Certamente Dio conosce tutto, ma in generale? R.
Al contrario, la cognizione di Dio è eminentemente particolare e
precisa; conosce tutto nei minimi particolari, fino all'intimo degli
esseri e dei cuori. E come pensare altrimenti senza fare di Dio un uomo
potenziato, una mente astratta, anziché la Causa suprema? Le
generalità non sono che nozioni; colui che conosce solo queste non
conosce veramente quello che esse compren-\ dono, e per
questo il Dio dei deisti, così distante e così sicuro di sé, non è
che un fantoccio creato dall'intelligenza umana. La scienza creatrice si
deve estendere e si estende appunto sopra l'essere, sopra la realtà
dell'essere in tutte le sue manifestazioni.
D. In questo caso. Dio non conoscerà l'avvenire, che
ancora non esiste.. —~~--~--~-~~-~--------~.
R.
Anche l'avvenire è_compreso nell'essere; esso fa parte della creazione
totale, che include il tempo come include lo spazio, o una qualsiasi
determinazione del creato.
D. Nondimeno l'avvenire non è presente, e come
conoscere come presente ciò che non è presente?
R. Anche a noi, in qualche modo, è possibile, ed è
quando l'avvenire ci è presente nella sua causa. Io so che il sole
sorgerà domani, perché la causa che lo ricondurrà sul nostro
orizzonte è già in opera, perché la vedo operare, e prevedo
facilmente a qual punto dell'opera sua sarà domani mattina. Ma non so
ciò che deciderai domani, tu, essere libero, perché ciò non è
determinato da una natura delle cose che io possa decifrare oggi,
perché per giunta ciò non è determinato adesso neppure da tè. Domani
farai quello che vorrai.
42
Ma questa impossibilità in cui io mi trovo di conoscere
l'avvenire non dipende che da una sola cosa, ed è che la mia conoscenza
è nel tempo, come gli oggetti ai quali essa si rivolge. La mia mente
funziona oggi, tu opererai domani: non vi è coincidenza; l'incontro non
ha luogo tra la mente e il fatto. Ma se la mia mente fosse fuori del
tempo, se comprendesse il tempo, io vedrei che cosa faresti domani come
vedo quello che fai oggi; non ci sarebbe alcuna differenza. Ora questo
è il caso di Dio. Dio non è nel tempo; la sua conoscenza non è
successiva; al pari del suo essere, essa non è soggetta a svolgimento e
perciò vede l'opera sua tutta quanta con un semplice sguardo, con uno
sguardo eterno.
D. Tuttavia Iddio dura, e noti si dice eterno se non
perché dura sempre.
R. Niente affatto; se Dio è eterno, è perché non dura
punto. Se dici che dura, aggiungi subito: Egli dura tutta la sua
durata a un tempo. L'eternità non è una durata infinitamente lunga, è
una durata senza lunghezza; non è una successione infinita d'istanti,
ma un unico istante ricco di una vita senza termine, d'una vita senza
vicissitudini, senza divenire.
D. Cosi il tempo non^siste fierJQip, e se esiste per
noi è indubbiamente in ragione di una illusione soggettiva?
R. Il tempo non è un'illusione; è una realtà
creata, e che perciò non può condizionare il suo Creatore, che ne è
affatto indipendente. Dio vede l'opera sua davanti a sé con la sua
durata, come la vede con gli altri suoi caratteri; la vede col suo
passato, col suo presente e col suo avvenire, come si vede un oggetto
con la sua lunghezza,
43
(
<? - d
-^t-M/a—- J'f^nPo
con la sua larghezza e con la sua profondità. Presente,
passato e futuro appariscono a lui, se si può usare questo modo di
esprimersi, come presente, senza essere per questo qualificati
presenti. ,
D. Parlando così, non si fa qualche concessione alle
teorie di Einstein, per il quale il tempo è come una quarta dimensione
delle cose?
R. Propriamente parlando, no; ma è certo che un
fautore della relatività è ben preparato a comprendere quello
che io sto spiegando, poiché egli dice con Edding-ton: « Secondo il
punto di vista della teoria della relatività, gli avvenimenti non si producono;
ma sono al loro posto, e noi li ritroviamo seguendo la nostra linea di universo
», oppure con Cunningham: « La storia intera di un sistema di
avvenimenti fisici si spiega sotto i nostri occhi come una entità priva
di cambiamento ».
D. Ma il compito della Provvidenza non richiede
solamente la conoscenza, ma suppone anche che questa conoscenza diventi
legge, dunque c'è in Dio una volontà, e una volontà sovrana?
R. Infatti, Dio è volontà, e come la sua scienza
comprende tutto, così la sua volontà si estende a tutto, ed è sempre
ubbidita, poiché, come tu dici, è la legge, delle cose. Se certe cose,
come i nostri atti peccaminosi, sembra che si allontanino dalla volontà
di Dio, è senza dubbio perché lo vogliamo noi; ma è anche perché Dio
in un certo modo lo vuole, cioè lo permette. La sua volontà che
provvisoriamente cede il passo, nel disegno temporale, riforma più
avanti, per mezzo del pentimento efficace o del castigo, la sua trama
infrangibile, e,
44
'"i
nell'eternità, non ha cambiato nulla di ciò che,
eternamente, Dio ha concepito. ^
D. Dio è dunque onnipotente. Ma questa onnipotenza
rassomiglia assai all'arbitrario. •
R. L'onnipotenza di Dio non è per nulla arbitraria;
è fedele e giusta; amante e misericordiosa. Dio da a ciascuna creatura
quello che le è dovuto, secondo la sua natura e il suo posto
nell'insieme; soccorre alle miserie degli esseri, dopo averli sollevati
dal nulla, miseria suprema. E li ama; perché nessun altro motivo che
l'amore lo può inclinare ad agire, a dare, a reggere, visto che lui
stesso non ha bisogno di niente e operando non acquista niente, a tal
segno che S. Tommaso dice di lui: « Dio solo è veramente liberale;
perché la stessa generosità, negli uomini, è destinata ad arricchire
loro stessi della miglior ricchezza ». « C'è più beatitudine nel dare
che nel ricevere », disse il Signore Gesù. Ma Dio porta in se
stesso la sua felicità.
D. Strutturato in tal modo, se così posso dire, il
tuo Dio ha di che essere provvido; ma l'esercizio di questa provvidenza
incontra molte difficoltà. Perché, a ben vedere, in questa concezione,
tutti gli elementi si trovano fissati, preordinati nello stesso tempo
che previsti, e non è più possibile che nessuno sfugga proprio in
quanto ciascuno è sottomesso alla Provvidenza, e Dio non può sfuggire
a se stesso. R. È proprio quello che noi intendiamo.
D. Ma se tutto è fissato, anticipatamente (si può
dire, poiché secondo tè Dio non è nel tempo); se tutto è scritto; se
il libro eterno porta i nostri destini e quelli della natura, e se, in
questo libro, non è ammessa alcuna
\
45
cancellatura, alcuna benché minima deroga, che cosa
diventano la libertà e il caso? a che servono le stesse necessita, come
le chiamano, della natura, e come si può spiegare il male?
R. Ci troviamo qui di fronte a problemi difficili, e
non saranno eccessive tutte le" nostre riflessioni per recarvi un
po' di luce.
D. Parliamo anzitutto delle necessità .naturali. Non
sono esse un fatto? Non è forse necessario che vi sia alla tale data
un'ecclisse, alla tal altra un passaggio di cometa, alla tal altra
un'eruzione vulcanica, una tempesta, un cataclisma o una mutazione e, in
conseguenza, miriadi di effetti? Ora, se queste cose son necessario, non
si ha bisogno di Dio per reggerle. La vera provvidenza, per questo
riguardo, si identifica con le leggi, del mondo. R. Si direbbe un
errore impossibile a sradicare il voler vedere un'opposizione tra l'idea
di necessità e quella di provvidenza. Eppure, che illusione! Il
necessario che non è Dio stesso non deve forse dar ragione della sua
necessità? Le conclusioni geometriche sono tutte ne-cessarie; tuttavia
si dimostrano; per dimostrarle si risale ad antecedenti, e da
antecedenti in antecedenti, se si spingesse la cosa sino a fondo, si
risalirebbe fino alla Verità eterna. Così 'le necessità naturali in
cui noi ci incontriamo rimandano ad altre, queste altre ad altre ancora,
fino a.yna Necessità prima, quella cosciente e necessaria in se stessa,
ma libera verso tutto il resto: Dio. Ritorniamo così alla prova di Dio.
Riguardo a Dio e alla provvidenza di Dio, le necessità naturali non
sono che esecutrici. Così dev'essere poiché esse sono cieche e
compiono un'opera intelligente; poiché sono determi-
46
nate, ciascuna, a qualche cosa di preciso e compiono un
disegno. Alla loro azione nel reale, si deve obbligatoriamente supporre
un antecedente ideale, una preconcezione, una prima costituzione dei
fatti e dello svolgimento che essi implicano. E inoltre, essendo
l'azione di Dio universalmente creatrice, la sua provvidenza, a dispetto
degli agenti di esecuzione che essa si da, è in realtà sempre
immediata; i risultati devono essere ad essa attribuiti anzitutto. Con
ciò, le leggi conservano tutto il loro impero, il necessario rimane
quello che è, necessario; ma esso e tale per.via di Dio.
D. Sia pure. Ma vi è il caso, vi è la libertà, e
vi è il male.
R. Procediamo con pazienza e con ordine. Prima il
caso. Non è nostra intenzione eliminare il caso. Vi sono dei cristiani
che vi si credono tenuti per differenziarsi dai pagani, e per onorare
Dio; ma è un'illusione. Il caso e un fatto, come la necessità, sulla
quale esso si basa. La pioggia cade necessariamente; l'erba germoglia
necessariamente; il caso lì non ha impero; ma che una pioggia
sovrabbondante faccia marcire l'erba, è un caso, perché nessuna forza
naturale tendeva per se stessa a questo risultato. Come vedi, il caso e
la necessità sono solidali, e nello stesso modo che la necessità non
sostituisce Dio, così neppure il caso lo elimina. Tutti e due sono suoi
figli; tutti e due sono suoi servi; con tutti e due egli esplica la sua
provvidenza.
D. Ciò pare contraddittorio. Quello che è previsto
e predeterminato non potrebbe essere fortuito. R. E se è previsto
come fortuito? Se è predeterminato ad essere fortuito?
.47
D. Ciò, dico, è contraddittorio. R. T'inganni;
ma'riconosco che la tua illusione è del tutto naturale. Noi ragioniamo
da uomini, pur parlando di Dio. Conveniamo tuttavia che il suo caso non
è punto simile al nostro, ed è unico, perché si tratta del Creatore.
Essere creatore è porre tutto; tutto, dico, senza eccezione, per
conseguenza con tutti i caratteri di questo tutto, necessità e
contingenza comprese. Quasi nessuno scorge quest'ultima condizione;
ma mettiti la testa fra le mani, e cerca di pensare al Primo Essere. Il
Primo Essere è sopra all'essere universale, poiché egli lo crea. Il
Primo Essere non è un essere nel senso umano della parola, ma un
Super-Essere. Esso dunque non è neppure una causa nel senso umano della
parola, ma una Super-Causa, e ne segue che la sua azione non ricongiunge
le azioni create, non si compone con esse, non le sostiene ne le
contraddice nel loro ordine stesso; queste azioni create restano dunque
quello che sono, contingenti, se sono contingenti, necessario se sono
necessarie. Eppure Dio le pone, senza di che esse non sarebbero ne
contingenti ne necessarie, perché non sarebbero affatto.
D. Un esempio chiarirebbe la cosa. R. Supponiamo
che Dio crei tutto a un tratto, davanti a noi, uno stabilimento tessile
in cui vi fosse un tessitore seduto davanti al suo telaio e facesse
della tela. È Dio che ha creato quell'insieme: egli dunque risponde di
tutto, fino ai minimi particolari. Ecco dunque i muri, ecco l'uomo, ecco
il telaio,, ecco la tela che si fa, la tela che è fatta: tutto è di
Dio, tutto si deve rapportare a Dio. Ma ciò impedisce forse che
quest'uomo lavori con tutta tranquillità, subisca certe necessità del
suo lavoro,
48
e anche certi imprevisti, a cui dovrà mettere ordine,
se può? Tutto ciò cammina come se non vi fosse Dio. Forse l'uomo non
sa che egli viene da Dio (è il caso degli atei). Forse non ci pensa
punto (è ben sovente il caso nostro). Ma se non vi fosse Dio non vi
sarebbe niente. È lui che pone tutto. Ma ponendo tutto, non intralcia
niente, perché la sua azione non si inserisce nella trama dei fatti, ne
vi esplica una parte dello stesso ordine di quello della necessità o
del caso. Il suo compito è diverso.
D. In che consiste questo compito? R. Esso è
creatore, nel senso che costituisce tutte le differenze che noi
osserviamo tra le cose che chiamiamo necessario o fortuite. Egli le
costituisce, dunque non le distrugge; e che egli crei del « caso »
nell'interno dell'opera sua, ciò parimenti non impedisce al caso di
essere caso più di quello che creare del necessario gl'impedisca di
esser necessario.
D. Applicheresti questa dottrina alla libertà? R.
Sì, assolutamente. Rifacciamoci all'esempio della fabbrica: Dio l'ha
creata in tutte le sue parti col tessitore e col suo telaio; essa
contiene una libertà all'opera. Il tessitore lavora liberamente, così
liberamente come se non vi fosse Dio, dicevo. Tuttavia Dio lo crea in
tutti i suoi istanti, in tutti gli stadi del suo pensiero, in tutte le
tappe della sua volontà, in tutti i momenti de' suoi atti e in tutti i
loro efletti, poiché la creazione è una cosa fuori del tempo, e
avvolge il tempo tutto quanto, lo pone tutto quanto, con tutto ciò che
esso racchiude. Perché questo toglierebbe qualcosa alla libertà? Ciò,
49
all'opposto, costituisce la libertà, fornendole, in
grazia di Dio creatore, la sua ragione totale. ^
D. Comprendo male questa totalità. R. L'uomo
esiste appunto perché Dio lo crea, è uomo appunto perché Dio lo fa
uomo; l'uomo è libero appunto perché Dio lo fa libero; usa della sua
libertà appunto perché Dio lo crea in atto di esercitare la sua
libertà; si serve della sua libertà in un certo modo, appunto perché
Dio lo crea, attualmente, in atto di esercitare la sua libertà in quel
certo modo.
D. Ma allora egli non è libero! R. È libero
come egli è, poiché per lui, in questo momento, essere e essere
libero.
D. E Dio è causa anche di questo? R. Dio è
causa di tutto ciò che è. Senza Dio e senza l'azione di Dio, senza la
sua azione totale, poiché tutto l'essere gli appartiene, niente di
tutto ciò di cui noi qui stiamo parlando sarebbe scritto, ne la
libertà, ne il resto. Per lui tutto questo è, e tutto questo è ciò
che è, la libertà come il resto. La libertà è dunque libera, anche
sotto l'azione di Dio, la quale, del resto, non è veramente un'azione
nel senso umano della parola, ma una super-azione, nello stesso modo che
Dio è una Super-Causa, essendo un Super-Essere.
D. Il fatto del caso si riconduce a questo? R.
L'errore testé rilevato a proposito del caso prende qui questa forma
speciale di confondere le condizioni del funzionamento psicologico con
la condizione trascendente che l'azione creatrice importa. Psicologica-
50
mente, l'uomo è libero proprio come se Dio non
esistesse o non agisse; bisogna dirlo incessantemente. L'azione di Dio
non è un elemento dell'azione umana, o che si aggiunge a questa azione,
o che si compone con essa. Dio non interviene, nel senso in cui
intervenire significherebbe che l'influsso di Dio viene a inserirsi nel
nostro, e perciò a modificarlo o ad abolirlo. Dio crea, e la creazione
non pone nel creato che una relazione di dipendenza. Questa
"dipendenza è totale; ma lascia quello che dipende tal quale esso
è, libero se è libero, e quindi non incatenato. Insomma, non si tratta
che di questo: il creato è creato; non è l'increato; l'essere derivato
non è l'Essere primo; il mondo o l'uomo non sono Dio. D. Ti aspetto
davanti al male. 6 5 R. Ne parlerò umilmente. Qui il mistero
ci avvolge piuJshe mai, ed è anche più che mai angosciante, poiché è
un mistero morale, un mistero che mette in causa i nostri destini, e,
quello che è anche più grave, e grave anche per noi, la santità di
Dio.
D. Il primo male che io oppongo alla Provvidenza e V
invisibilità della sua azione. Qui non si può dire, tutto avviene come
se non vi fosse Dio.
R. Un cristiano non può non reputare offensive tali
parole. Egli ti dirà con Joad: « Avrai dunque sempre occhi per non
vedere, popolo ingrato!... ». Tutta la serie dei fatti evangelici, dei
fatti biblici, tanti altri fatti che non si possono mettere in dubbio
provano sovrabbondantemente le gesta di Dio. Ma questi sono avvenimenti
straordinari. Vi ritorneremo sopra. Io dico che nella stessa vita
quotidiana, un cristiano non ti ammet-
51
lerebbe che la Provvidenza sia invisibile. La
Provvidenza è una sapienza, e le vie della sapienza sono spesso oscure;
« le opere del Signore sono stupende — dice la Bibbia — e la sua
azione tra gli uomini è nascosta ». Dio si mostra in tutte le cose
come uno che agisce veramente in tutte le cose,,, e..non vuole essere
veduto; si può sempre contestare: è la parte dell'infedele; ma spesso
le cose sono tali che non lo si deve fare: è la parte del fedele
credente.
D. In realtà, non sei spinto a giudicare così della
fiducia?
R. Sì, per motivi di fiducia, e questa fiducia è
giustificata in tante maniere che noi non pensiamo a difendercene; ma
anche per esperienza, quando l'esperienza è attenta e seguita. Quanti
tesori di certezza s'incontrano su questa via, quando si avanza con
occhio e cuore aperto! Ogni uomo ha trovato Dio sul suo cammino, per
poco che egli abbia posto mente a certi incidenti e coincidenze, a certe
affinità prestabilite d'un fatto, d'un concorso di fatti col proprio
destino individuale, in cui vengono a inserirsi come dei pezzi di un
meccanismo, o come una replica impressionante nel corso d'un dialogo in
apparenza indipendente. L'azione della Provvidenza è generalmente di
questa specie, e appunto per questo la certezza sperimentale che ne
hanno i credenti è incomunicabile agli altri. Ma nemmeno a Dio preme di
convincere coloro a cui non preme di essere convinti.
D. Lasciamo questo; è un aspetto trascurabile del
problema. Io perdono volentieri a una Provvidenza in-
52
visibile; ma non potrei perdonare a una Provvidenza
causa del male, onde preferisco dire con Sfendhai, in faccia
all'universo e alla vita tali quali mi appariscono:
« La sola scusa di Dio e che egli non esiste ». R.
Tu bestemmi con troppa frettolosità, e per di più ti esprimi
scorrettamente. Dio non è affatto causa del male, per la semplice
ragione che il male, propriamente parlando, non ha causa. Il male non è
cosa positiva, è una mancanza, e a questo riguardo, si può
sottoscrivere la divertente espressione di Nietzsche: « II diavolo non
è che l'oziosità di Dio ».
D. Ma il male si vede.
R. Si vede come l'ombra delle figure sullo schermo
del cinematografo. L'ombra disegna tanto quanto la luce; tuttavia non è
niente; è l'assenza della luce. Così il male qualifica gli esseri e
specialmente le anime, ma non è niente in se stesso; e l'assenza del
bene.
D. Tuttavia il dolore...
R, È un funzionamento imperfetto che l'anima nostra
percepisce.
D. Il
peccato...
R.
È
una attività felice sopra un punto, quello che tenta il peccatore, ma
che la ragione abbandona. Un vizio non è che una virtù mal collocata.
D. Sottoscrivi realmente quest'ultima formula? R.
S. Tommaso d'Aquino, poco amico del paradosso, sottoscrive questo: « II
male è un certo bene, come il falso è un certo vero ». Tu intendi che
si tratta del male in quanto all'essere. Il male non ha altro
essere che l'essere stesso del bene; esso non è affatto in se
stesso.
53
D. Ammettiamo che il male non è affatto; nondimeno
vi è il male.
R. Vi è il male e io non nego il problema che il
male
presenta.
D. Vi è di che invalidare tutte le tue prove di Dio;
perché il Sommo Bene e il male, sono inc.om patibili.
R. Negare Dio a cagione del male è un espediente molto strano;
perché l'argomento del negatore si rivolge contro di lui. Che cosa si
rimprovera alla vita e alla natura? Dei difetti. Ma i difetti che si
rilevano così nell'opera della Provvidenza suppongono la Provvidenza.
Non si rileverebbero, dei difetti in ciò che non presentasse nessun
ordine, e se vi è un ordine, bisogna necessariamente che vi sia un
Ordinatore. Si rimprovera forse a un mucchio di sabbia il disordine de'
suoi elementi? Si rimprovera il disordine a un cronometro, a_ una
macchina utensile, a un organismo vivente, quando si guastano? Ora nello
stesso modo si rimproverano alla natura i suoi scarti e i suoi mostri,
alla vita le sue sventure e le sue colpe. Ciò avviene dunque perché la
natura, e la vita seguono un ordine, hanno una finalità, ubbidiscono a
un pensiero. Dunque perché sono rette da una Provvidenza.
D. Una Provvidenza colta in fallo? R. Se la
ProvYidenza^Jn_fallQ^.essa_e5Ì5££^.e..se esiste, non è in fallo,
siamo noi che non sappiamo vedere abbastanza lontano.
D. -Non senti la potenza di convincimento di questa
sentenza.- Vi è il male, dunque Dio non è? R. Le oppongo
quest'altra: Vi è il bene, dunque Dio è.
54
D. Allora siamo alla pari, e non si sa di più. R.
Scusami. Il peso della seconda proposizione supera infinitamente quello
della prima; perché anzitutto il bene domina, senza di che il mondo
perirebbe, come un organismo affetto da malattia mortale. In secondo
luogo, è certo che il bene, qualunque sia la sua dose, non si spiega
senza Dio, e non è certo che il male non si spieghi con Dio. Agostino
sfugge dicendo: « Dio non permetterebbe il male, se egli non fosse
così potente e così buono da farne uscire il bene ».
D. È una scappatoia, lo dici tu stesso. R. È un
atto di fede, e l'atto di fede è qui un obbligo logico, tanto quanto il
fatto di un cuore consenziente. L'ordine generale del mondo ci sfugge:
dunque ci manca ogni base logica per decidere direttamente se si tratti
di un mostro piuttosto che di un sublime tenebroso. Ma la necessità di
Dio non ci sfugge punto. Se Dio è, egli è perfetto. Se è perfetto,
l'opera sua, nella sua totalità, è buona, ed ecco espulso il mostro.
In altre parole, il male non c'invita a negare Dio se non quando noi lo
giudichiamo senza Dio. Se vi è un Dio onnipotente e buono, il male
cambia faccia; può bensì includere ancora un mistero, ma non più uno
scandalo; questo disaccordo è si-curissimo di ritrovare il suo ordine,
questa dissonanza la sua soluzione. Ora vi è bene ed ordine sufficiente
per provare Dio, per poco che il male abbia soluzione possibile,
e chi oserebbe dire che esso non ne abbia affatto?
D. Io, forse.
R. Che presunzione! Un giudizio sulla Provvidenza
non appartiene che all'eternità. È proprio l'eternità che decide
della contesa delle cose. Si possono fare due pit-
55
ture del mondo: l'una magnifica e l'altra spaventosa. La
sapienza non sta forse nel dire: Quello che io vedo di bene m'insegna a
fidarmi del Creatore per il male che non comprendo? Sia per me il mio
segreto! dice il Signore in I saia, sia per me il mio segreto!
e chi, per punirlo di questo segreto, vorrà accusarlo di falso contro
quella espressione della sua gioia creatrice: « Dio vide tutte le cose
che aveva fatto, ed erano «grandemente buone »? In fondo, il mistero
morale che aleggia sopra il mondo può condurci a Dio così come il
mistero fisico. È « la presenza di un Dio che si nasconde », ci
direbbe Pascal, e questa evidenza del male nel cuore di un'armonia
meravigliosa, non è forse l'indizio d'un calcolo profondo, d'un volere
superiore ai nostri motivi riguardanti ciò che è parziale e immediato,
di una potenza così alta che ha il potere di trasformare il male e di
fare di tutti i nostri lamenti un cantico?
D. Tu ragioni in generale; ma veniamo ai fatti. Vedi
la natura: quante deviazioni, quanti regressi, quante stragi, quante
vite sacrificate, quanti germi che non maturano!
R. Che cosa obietteresti a chi ti rispondesse: Lo
scopo di Dio qui è la germinazione stessa, questa prodigalità di vita,
segno della sua infinita ricchezza e della sua onnipotenza?
D. Tu vedi un segno di Dio in questo universo
sconvolto?
R. Il segno di Dio non sono gli sconvolgimenti, ma,
quella potente aspirazione verso l'essere, quell'eroismo costruttivo che
non si arresta mai. La natura sale all'essere; ricomincia senza posa il
suo sforzo; rinnova senza
56
posa il suo slancio; quando la dicono crudele, è
perché non si fa vedere fino a qual punto è innocente. Essa è la
stessa innocenza. Si slancia verso la vita, ecco tutto. Gli esseri che
essa anima non hanno parzialità; lavorano per la vita contro se stessi
così come contro gli altri; basta solo vedere le api, le formiche, le
termiti, i castori..., e sovente, gli uomini. Ciò che vuole essere
prende la sua materia dove la trova, e a questo effetto distrugge (per
costruire); fa soffrire (per crescere ed espandersi); fa morire (per
vivere). Ma, in tutto questo, di voluto non vi è che la vita, l'essere,
e l'immensa aspirazione a essere. Ecco l'immagine di Dio. « II male —^
dice Paolo Clau-del — è nel mondo come uno schiavo che fa salire
l'acqua ». Il male, che in se stesso è una caduta, è non di meno, per
la vita dell'universo, un mirabile stimolante;
esso la fa rimbalzare sotto lo sforzo del bene. « Ogni
cosa — scrive Enrico Bergson — nel movimento che la sua forma
registra, manifesta la generosità infinita d'un principio che si da ».
Questo giudizio è più serio che la battuta di Stendhal.
D. Tu dimentichi la sofferenza di tante creature
innocenti, che i successi della natura non consoleranno punto. R.
Intendi parlare degli animali?
D. Di essi in primo luogo. ^. Confesso di non
poter disporre a questo riguardo li una soluzione che mi soddisfi. Ma tu
devi confessare he ciò non ci riguarda affatto. La psicologia animale i
sfugge; il destino animale ci è sconosciuto. Sarebbe n grave errore
credere che la bestia soffra come noi, ?ecialmente che essa reagisca
come noi alla sofferenza;
57
si può pensare che ad onta di passeggeri dolori, le
bestie siano felici. Tuttavia soffrono. Con quale occhio Dio le vede?
Quale sistema di compensazioni ha egli concepito per il passero che cade
dal tetto quale vittima delle leggi che egli pone? Tali compensazioni
sono richieste dalla sorte reale dei viventi inferiori e si trovano
nella loro stessa costituzione, nelle reazioni di cui essi sono il
soggetto? Ecco quello che non sappiamo.
D. Ma che sarà mai, se, dalla creazione inferiore,
noi passiamo all'umanità?
R. Tutto all'opposto! La Provvidenza qui è facile a
difendere, e dolce a rivendicare.
D. Siamo a un quadro idillico della vita? R.
Niente affatto; io constato all'opposto che il dolore e il
peccato vi tengono un posto centrale; ma un centro si sposta fra
estremi, tra un cominciamento e una fine. Il cominciamento è felice, ed
è la nascita; se anche la fine è felice, tutto sarà bene, e noi
potremo pronunziare l'Amen dell'Apocalisse, a lode del Padre
supremo.
D. Chi ti dice che la fine sarà felice? R. Ciò
dipende da noi; mi riservo di fartelo vedere.
D. Ad ogni modo vi è il cammino. R. Bisogna
riconoscere che la Provvidenza è una terribile benef attrice; essa non
è sentimentale; non è romantica; nondimeno è una benef attrice.
Ameremmo noi che si lasciasse vincere, e noi con lei, da troppa
sensibilità? Essa pensa all'opera sua; pensa a noi, e procede con tutta
l'energia che ci vuole, simile in ciò a tanti uomini che non raccolgono
che le nostre lodi. Quante verghe nelle mani dei genitori! quanti pensi
inflitti dal maestro di scuola! quanti veleni nelle vetrine del
farmacista!
58
Quante pinze e bisturi nella sala del chirurgo! Quanti
strumenti di tortura nel laboratorio dell'ortopedico?
D. Che cosa significano questi esempi? R. Per
comprendere il chirurgo, il farmacista o l'ortopedico, bisogna sapere il
pregio della salute; per accettare il penso e le verghe, bisogna pensare
all'educazione; per dire di sì alla Provvidenza, a' suoi rigori e al
suo mistero, bisogna ricordare la vita eterna, e in essa, sotto forme
che ci sfuggono, intravedere il rovesciamento di tutti,.i,nostri valori
di quaggiù.
D. E se non si crede alla vita eterna? R. Allora,
oso dire che si ha il diritto di non credere neppure nella Provvidenza;
queste due verità sono legate insieme; ma la seconda, essendo
certissima, deve servire a confermarci la prima, avanti che il dubbio
sulla prima venga a indebolire o a invalidare la seconda. « Le prove
che concludono sono qualche cosa di positivo — dice Pascal — e le
difficoltà sono semplici negazioni, che provengono dal non vedere tutto
».
D. Come non dubitare davanti alla sventura? R.
Noi dimentichiamo che un male non è mai se non la cessazione di un
bene. Per il male, noi accusiamo Dio; per il bene, noi ci contentiamo
del silenzio, o avanziamo nuove pretese, o ne abusiamo. Crederemmo
facilmente alla Provvidenza, se gli avvenimenti favorissero sempre i
nostri desideri.
D. Si può ritorcere l'argomento, e dire: Se tu credi
così facilmente alla Provvidenza, è certamente perché gli avvenimenti
non contraddicono troppo i tuoi desideri. R- Chi sa! Ma supponiamolo
pure. Allora dirò che
59
questa situazione pacifica è forse la miglior
condizione per giudicare il caso. Si ricusa un giudice troppo
interessato; si teme che si appassioni e non sia più equo. Parliamoci
chiaro: per essere contenti della Provvidenza o solo per crederci,
vorremmo che essa fosse per noi come un distributore automatico, in cui
non ci fosse da mettere moneta.
D. Io chiederei solo quello che tu chiami una
situazione pacifica.
R. Non è forse questo, a dispetto dei nostri
lamenti, il caso nostro più frequente? Il caso stesso si estenderebbe
molto lontano, se sapessimo contribuirvi con un po' di pazienza. Ascolta
il nobile linguaggio del grande Arnauid, che dice a Dio: « I mali di
questo mondo spaventano quando si guardano da lontano, ci si adatta
quando ci si trova in mezzo, e la tua grazia rende tutto sopportabile
».
D. « Sopportabile », è dunque abbastanza
per Dio? R. È abbastanza per questo tempo. Se questo mondo fosse
sufficiente, non vi sarebbe ragione perché ve ne fosse un altro. Se la
nostra destinazione ha delle tappe, non bisogna domandare alla prima di
rappresentare tutto il nostro bene perfetto. Del resto cessiamo di
accusare Dio; la sua incarnazione dolorosa ci dice che le sue ragioni di
permettere il male sono senza dubbio potenti, e che l'indifferenza non
c'entra per nulla, poiché, non giudicando bene eliminare il patire,
egli lo condivide;
non credendo di dovere scacciare il -male morale, ne fa
la sorgente dei più alti valori, ne' suoi figli coraggiosi. Dio non
paventa la sua pena più che la nostra, se così
60
posso dire, ne la nostra più che la sua; egli mira allo
scopo; i mezzi più atti fissano la sua scelta; le condizioni del
compito lo trovano fermo, e quando, ciecamente, la sua materia vivente
gli resiste, egli taglia senza paura, in mezzo alle grida di dolore.
D. Tu supponi sempre che il dolore giovi. R. Non
è fatto se non per_ouesto,Je dipende da noi, con Dio, che faccia la
parte sua, come m un apparecchio fumivoro il fumo si cambia in fuoco.
Dio vuole che il dolore provochi in no^ un'aspirazione, non una
depressione; un progresso, e non una caduta. Ci ha messi in questo mondo
per provarci, formarci: si è provati e ci si forma certamente
mediante la gioia, che pure esige una felice padronanza di se stesso; ma
la prova nel senso duro della parola è spesso necessaria. Prova, misura
delle forze, controllo del buon volere, collaudo di ciò che noi siamo
con lo scopo di migliorarci: non è forse questo lo stato normale di un
essere che fa il suo tirocinio, qual è il nostro caso quaggiù?
Quanto più studio le persone felici, scrive il
Lacor-daire, tanto più sono spaventato della loro incapacità sul piano
del divino. Noi siamo fatti per il divino, per l'ascesa dalla materia
verso lo spirito, e lo spirito è una fiamma che il sacrifizio della sua
cera esalta, e le resistenze della sua cera possono spegnere. Se Dio è
spirito e ci ha fatti per lo spirito, che meraviglia se anche la bontà
di Dio si trovi nell'ordine dello spirito, e che Dio bruci tutto il
resto, quando è necessario per il bene dello spirito?
D. Ci si tratta come dei colpevoli. R- Non
abbiamo niente da espiare? « con quale faci-
61
lita perdoniamo a noi le nostre colpe — dice Bossuet
— quando la fortuna ce le perdona! ». Se la fortuna, questa ancella
di Dio, ci usa qualche rigore, non sarà un beneficio? Bisogna espiare
per se; bisogna espir e anche per gli altri; Cn_sto, ha espiato per
tutti, e tutte le croci del mondo, calvario infinito;_si stringono
attorno alla sua;
infatti, come ci dichiara S. Paolo, alla Passione di
Cristo manca qualcosa, finché per solidarietà fraterna, in lui, gli
uni per gli altri, noi non compiamo il laborioso e sublime riscatto.
D. Bisogna espiare, dici tu; ma ciò è affatto
negativo, mentre la vita è accrescimento. Non bisogna forse essere in
possesso di tutte le proprie forze, per meritare?
R. Si merita con ogni azione retta; ma il dolore
accettato per amore è la più alta occasione di merito e di lavoro che
questa vita ci possa presentare. È il lavoro del Calvario. Il pagano,
quando soffre, crede che il suo Dio l'abbandoni; il cristiano invece,
rico_rdandosi del Calvario, pensa che il suo Dio gli e più vicino, che
il suo Dio \o_ trascina: per la mano, per la nuca, per i capelli,
che importa? Riconosce il suo divin Maestro dalla sua spieiata dolcezza.
Consente perché crede; non prova più violenza, perché ama. Sopra la
croce, come Gesù, con Gesù stesso, si sente sulla via del cielo.
D. Questi sentimenti sono frequenti tra voi?
R. Troppo rari purtroppo; ma questo è ben certo che
in essi è il segreto della vera pace e della sola
serenità.
D. Il tutto sta nel vederci chiaro. R. In questo
dominio quello che si vede abbaglia;
quello che illumina è appunto quello che non si vede.
62
D. Tremo nondimeno per la responsabilità del tuo
Dio. , , ' ——"----'-
R. Quando avremo soppresso da questo mondo la dose
di male di cui siamo noi stessi responsabili, saremo in una condizione
migliore per domandare i conti a Dio. Ma allora non ci penseremo più.
D. Ritorniamo alla filosofia generale del caso:
vorrei, C", riguardo al male, le tue concezioni in modo
sintetico. R. Ecco, liberamente interpretata, la tesi di S. Tom-^^i
maso. Il male non è qualche cosa che Dio abbia fatto, e che avrebbe
dunque potuto dispensarsi dal fare. Il male è una deficienza; è
un'imperfezione di ciò che è. Un uomo dovrebbe camminare diritto; ma
la sua gamba è corta: zoppica. Dovrebbe operare bene; ma una passione
lo trascina: devia. Che cosa ci vorrebbe per evitare questo doppio male,
per evitarlo con certezza?. Bisognerebbe che l'uomo fosse perfetto,
tisicamente e moralmente. E bisognerebbe per giunta che non potesse
essere sloggiato da questa perfezione ne da assalti esterni, e neppure
per sua iniziativa. Si vuole così, senza accorgersene, un universo
molto strano, assai diverso da quello che noi sperimentiamo. A
costruirlo nella nostra mente, urteremmo costantemente in assurdità, e
alla fin fine, se spingessimo sino a fondo il tentativo, ci troveremmo
di fronte a un'impossibilità suprema, che è questa: Un universo
perfettp_e_nnpossibile.
D. Perché?
R. L'universo si stabilisce discendendo, a partire'
da Dio, la scala che noi risaliamo per andare incontro al primo
Principio. L'universo si stabilisce per derivazione, per degradazione..a
partire dal Sommo Bene, in
63
virtù di partecipazioni graduali, ciascuna delle quali
esprime Dio a suo modo, ciascuna delle quali è dunque buona, ma
necessariamente deficiente; il perfetto non si realizza due volte. Che
se ciascuna cosa è imperfetta, l'universo è necessariamente
imperfetto. Dunque esso è, in una qualche misura soggetto al male.
Potremmo soltanto domandarci che cosa è che ne ha determinato la
misura, e se questa misura era tale che il Creatore la accettasse a cuor
leggero. Vedremo anche questo. Ad ogni modo, ne segue che il mondo sia
cattivo? No. Dalla diversità delle nature e dalla loro imperfezione
nascono contrasti che si possono chiamare mali in se stessi, ma che sono
nondimeno il prezzo di un bene. Questo bene è l'ordine; è la varietà
dei beni singolari, sono le gradazioni, gli scambi; è la vita della
natura, ed è la vita umana co' suoi mali senza numero, con le sue
colpe, co' suoi difetti, ma anche co' suoi splendori. Sarebbe meglio che
tutto questo non fosse in alcun modo? Affinchè la pecora non fosse
mangiata dal leone, sarebbe meglio che non ci fossero ne pecore ne
leoni, o unicamente pecore, o solo leoni? Ma il bene che rappresenta il
leone e il bene che rappresenta la pecora, sono due beni preziosi, e non
sono commutabili. Ciascuno è unico, insostituibile dall'altro e da
nessun altro. Di modo che sopprimere il male, qui, sarebbe impoverire
l'essere, impoverire l'universo. E così si dica per tutto il resto. Vi
sono dei ladri; vi sono dei dissoluti; vi sono dei manigoldi. Ma se non
vi fossero dei manigoldi, non vi sarebbero parimenti dei generosi
martiri. Se non vi fossero dei dissoluti e dei ladri, non vi sarebbe,
nell'insieme, ne libertà del male, ne difficoltà del bene, e al-
64
lora non vi sarebbe occasione di vittoria, ne
possibilità di conquista nell'ordine morale. L'indolenza può indurre a
pensare che sarebbe meglio; ma gli eserciti non si organizzano per i
codardi, ne le scuole per i gamberi, ne i circoli di cultura per gli
sciocchi. La natura è lotta, anche la vita; ma alla fine Dio premia il
trionfo, e, tra le creature ragionevoli, vi sarà associato colui che
l'avrà seriamente voluto.
D. È una strana alternativa'. Si sarebbe tentati di
pensare che Dio e Satana lottino a parità di forze.
R. Il bene ha più forza in bene che il male in
male. Il primo ha più valore di quel che conta il secondo. Non vi è
forse maggiore utilità, dice S. Tommaso, a far sì che la casa sia
salda e salga in alto, di quel che si abbia noia a scavare nella terra
le sue fondamenta? Molte cose sono sepolte nell'opera di Dio; ma
quest'opera sale. Il male è male; ma che possa esservi del male è un
bene. Tutto dipende dal risultato, e chi può dire che esso sia cattivo,
che sia inutile? Chi oserebbe dire: Signore, non ne valeva la pena! Il
vostro universo ha cagionato troppe rovine; la vostra umanità ha
conosciuto troppi orrori; noi non vogliamo sottoscrivere per voi
un'opera simile; come l'empio del Salmo, noi preferiamo dire nel nostro
cuore: Non vi è Dio!... È meglio, non è vero?, confessare,
come Giobbe dopo la riprensione del-. l'Eterno: Ho parlato senza
intelligenza delle meraviglie che sono a me superiori e che ignoro;
perciò condanno me stesso e mi pento, nella polvere e nella cenere.
65
LA RELIGIONE
D. Ammettendo Dio e la Provvidenza di Dio, si è
certamente condotti alla religione; ma non si è ancora forzati ad
aderirvi. Che cosa veramente intendi tu per religione?
R. Della religione si possono dare definizioni
abbastanza varie; io ti propongo questa: la religione è il vincolo che
lega la creatura umana alla realtà misteriosa dalla quale sente di
dipendere essa e l'ambiente in cui. vive, e dalla quale per conseguenza
dipende il suo destino.
D. A che prò questo « vincolo »? R.
Questione immensa, tu lo avverti.
D. Chiedo una breve chiarificazione. R. Il
visibile non basta alla nostra aspirazione, allo slancio inferiore che
ci anima. La potenza di espansione che si spiega in noi cerca
qualcos'altro. Sia per la conoscenza, sia per la durata, la potenza, la
rettitudine e la gioia del nostro essere, noi proviamo un bisogno di
allargamento, di tutela, di pienezza felice che questo mondo non ci
fornisce punto. La nostra mente è arrestata dal mistero, la nostra
libertà è incatenata da fatalità inesorabili; il nostro desiderio di
felicità cozza contro la
67
sofferenza, contro umiliazioni, contro incomprensioni,
contro separazioni, contro la morte. La vita non ci appartiene e non ci
basta. Le nostre relazioni col visibile lasciano disponibile una
capacità di apertura superiore che il Dio sconosciuto sollecita
e a cui darà soddisfazione. « L'infinito mi tormenta, a mio dispetto
», non è una vana parola. Per rispondere a questo soprappiù di
attività intcriore che nessun oggetto reale esaurisce, è veramente
l'infinito, che in un modo o in un altro deve entrare nella nostra vita.
Non si tratta di una forza estranea; bisogna che essa sia intima,
poiché la vita in-teriore sarà la sua prima cliente; bisogna ancora
che sia trascendente. A questo doppio segno non si riconosce forse la
realtà sovrana, quella realtà che è alla base di tutto e del nostro
essere stesso, cioè il divino?
D. Credi che si tratti veramente di un fatto
universale?
R. Sì, è un fatto universale; l'etnografia e la
storia lo attestano. Ed è universale perché è un fatto umano e
autentico, non è una superfetazione; non è un sentimento parassitario;
non è, etimologicamente, una superstizione; ma è una necessità
vitale, richiesta da uno sforzo di adattamento superiore, e, se si può
dire, da una esigenza di integralità. Niente è totale, per noi, se si
sopprime l'oggetto della religione e la religione stessa. La religione
è veramente « un prodotto dell'uomo normale », come dice Renan. Max
Muller la chiama « la roccia solida, il granito primordiale e
indistruttibile dell'anima umana ». Per Bergson, essa fa parte di ciò
che egli chiama dati immediati della coscienza. Per questo
Quatrefages ha definito l'uomo « un animale reli-
68
gioso »; « un animale che ha una finestra spalancata
su Dio », come traduce lepidamente uno dei nostri giovani poeti (giuseppe
delteil).
D. Io non posso impedirmi di pensare che, seguendo lo
slancio religioso, come dici tu, lo spirito umano fugge per la tangente,
e si crea una preoccupazione estranea alla vita.
R. Estranea alla vita inferiore e parziale, sì;
estranea alla vita umana integrale, no. Se mi fosse lecito servirmi di
un paragone un po' strano, direi: Vi sono animali striscianti, animali
ambulanti, animali volanti, e solo l'uomo si schiera in queste tré
specie: egli striscia per la sua vita fisica; cammina per
la sua ragione; vola per la religione.
D. Vi son di quelli che non provano punto il bisogno
di volare.
R. Vi son anche di quelli che non sentono affatto il
bisogno di camminare, cioè di essere ragionevoli; vi sono perfino di
quelli che rifiutano di strisciare menando la vita fisica, poiché si
uccidono. L'uomo nondimeno, per natura, è un vivente e un essere
ragionevole. Pari-menti, per natura, è un essere religioso, benché a
volte, per lo meno durante lunghi periodi della sua vita, egli non lo
senta. « I cuori angusti — scrive Rousseau — non sentono mai il
vuoto, perché sono sempre pieni di niente ». Ciò non si verifica meno
dei cuori larghi, quando consentono, per impulso di passione o per
negligenza, al loro proprio immeschinimento.
D. È dunque possibile che si abbia bisogno di essere
destati a questo sentimento che dici istintivo?
•R. Vi sono infatti degli istinti che dormono, come vi
69
sono degli istinti che si corrompono. È la gloria della
religione il rispondere, nello stesso tempo che agli inviti degli
uomini, ai loro presentimenti ignorati.
D. Mi sembra paradossale dare alla vita un
orientamento non proporzionato ad essa.
R. « Quello che mi occupa — scrive Emilio Faguet
— è ciò che è secondo la mia misura; quello che mi preoccupa, è
ciò che mi oltrepassa. I metafisici — e gli uomini religiosi — sono
trattati da folli da qualche 'bello' spirito; ma il 'demente' sarebbe
colui che, svegliandosi in treno e non sapendo più donde è partito e
non sapendo dove va, contemplasse il suo scompartimento, lo verificasse,
lo analizzasse, prendesse delle note, e non si desse pensiero donde ha
potuto partire e dove può arrivare ».
D. Vi furono sempre molti dementi di questa specie, e
temo che tu esageri l'importanza del fatto religioso. R. Apri una
qualsiasi enciclopedia alla parola Santo, e troverai la risposta
che cerchi.
D. Ad ogni modo, molti ci vedono oggi un anacronismo.
R. Coloro che chiamano la religione un anacronismo
dimostrano col loro atteggiamento che essa è piuttosto ai loro occhi un
rimprovero. Di f atto, J^ religione è la preoccupazione ditutti, e
più ancora ^dj_^oloro che la negano.
D. Se certuni fanno a meno della religione, è
certamente perché non è loro necessaria. R. Necessaria a che?
70
D. Per essere felici e buoni.
R. Ma se la religione è vera, è necessaria a tutti
per essere nel vero, ed essere nel vero è necessario per essere buoni,
necessario per essere felici, come essere sulla buona strada è
necessario per essere un buon viaggiatore, e perché si arrivi.
D. Tu rischi di attribuire alla religione ciò che
dovrebbe essere attribuito alla morale. R. Una vita morale è
indispensabile a tutti, e chi pretendesse di sottrarvisi appellandosi
alla religione, più ancora che l'uomo, offenderebbe la religione
stessa. Ma la moralità senza la religione non potrebbe bastare ;
perché, oltre le deficienze alle quali la religione viene incontro e le
cadute ch'essa rialza, è ancora un articolo della legge morale rendere
a Dio quello che gli è dovuto, e come Egli lo vuole.
D. Resta però sempre vero che, entro certi limiti,
la moralità si dimostra indipendente dalla religione. R. Coloro che
se lo immaginano ignorano dunque che le loro idee morali sono idee
religiose a mala pena abbozzate; che la loro moralità è venuta alla
luce e non sussiste se non in grazia di un ambiente spirituale
impregnato di senso cristiano? Colui che parla dell'inutilità della
religione per la sua vita morale rassomiglia all'arbusto che, nella
foresta umida, credesse inutili la sorgente, le piogge, i fiumi,
il lontano oceano.
D. La religione non avrebbe oggi dei succedanei più
atti a compiere il suo ufficio, di modo che la parte che essa si
attribuisce ancora non sarebbe che usurpata? R. Di quali succedanei
parli?
71
?<
•^•e
t /M/vO^-
D. Ho già menzionato la morde, ora penso alla
scienza.
R. Abbiamo veduto la scienza jmpoten tè a
sostituire Dio come spiegazione delle cose; eppure la spiegazione è la
parte sua propria: tanto meno sarà essa in grado di esplicare altre
funzioni, che non sono più del suo dominio.
D. Eppure la scienza conta molto per la vita. R.
Certo! la scienza è una conoscenza che guida un potere; accerta
l'ordine dei fenomeni e se ne vale per l'azione, per utilissime
creazioni. Ma il suo valore esplicativo è debole; anzi molti Io mettono
in dubbio;
esso è nulla finora riguardo ai fatti più generali,
quelli che condizionano e potrebbero giustificare tutti i fenomeni
visibili. In quanto all'interpretazione e alla dirczione della vita
umana, la scienza è, per natura, radicalmente impotente, o meglio
estranea. Che cosa essa offre di efficace contro il dolore, la miseria
morale, l'insufficienza vitale, la morte?
D. Come si spiega allora che là dove la scienza
avanza, la religione indietreggia?
R. Tu generalizzi indebitamente; questo fatto, là
dove si produce, è dovuto a un'ostruzione momentanea, a un'infedeltà
orgogliosa. A meno che tu intenda parlare delle false religioni. Infatti
è indubitabile che la scienza ha detronizzato il dio-sole, il dio-nube,
il Giove che lancia la folgore, il dragone che produce le ecclissi, e
tutto ciò che rassomiglia a queste fantasie religiose. Ha eliminato i
guaritori per incantesimo, le streghe, gli oracoli; ha contribuito a
epurare il sentimento religioso in seno alle popolazioni cristiane
stesse, e bisogna esser-
72
hi. z
S6"^^
gliene grati. Ma nulla di tutto questo tocca il fondo
delle cose, e il dominio del soprannaturale resta inviolato; la vita è
lasciata alle sue insufficienze essenziali; di fronte alle conquiste
della scienza, noi sentiamo forse più che mai quel che manca alla
scienza e quel che occorre agli uomini ed è qualcosa che supera
l'umano. A forza di misurare il visibile, si deve giudicare sempre più
come un vuoto spaventoso l'assenza dell'invisibile.
D. Non si vedono tuttavia di quelli che si attaccano
alla scienza disperatamente, come all'unica salvezza? R. Costoro non
sono generalmente dei sapienti, e sono spesso degli appassionati che
cercano un alibi per il loro odio. « Io sospetto fortemente — come
scrive Andrea Gide a proposito di Remy Gourmont — che non amino tanto
la scienza se non per detestare meglio la religione ».
D. Ma se sono dei geni? R. Allora sono « degli
uomini prodigiosi a cui manca
tutto » (RENATO SCHWOB).
D. Cr'edi tu che la scienza e la religione si
disputeranno così per lungo tempo la dirczione delle anime? R. È
troppo anormale che si sia fatto della scienza una arma dell'uomo contro
Dio; un tale stato di cose è transitorio! « Vaneggiare dei propri lumi
», come dice Bar-bey d'Aurevilly, è cosa che non può essere che
transitoria. Ascolta una bella profezia ottimreta: « Noi siamo in una
èra del mondo in cui l'umanità sta per fare un passo. Dopo tré
secoli, essa porta innanzi un piede da gigante accanto alla natura, e
non sapendo dove posare l'altro, si snerva e si stanca. Il mondo è
troppo piccolo per i suoi due piedi, le occorre l'ai di là, come per
misurare
73
il sole occorre all'astronomo un'altra base diversa
dalla Terra. Un giorno, la religione e la scienza che sembrano oggi
allontanarsi l'una dall'altra, come i due piedi di un uomo che cammini
con la lentezza dei secoli, si ricongiungeranno nella luce. E l'umanità
avrà fatto il suo passo » (giuseppe serre).
D. Tra i succedanei religiosi, si potrebbe nominare
^'-MÌ£- ^olì ^at detto tu stesso: l'arte è una
religione? R. Lo dicevo per metafora, a cagione dello stretto
rapporto di questi due ordini di fatti. Ma come l'arte sostituirebbe la
religione, dal momento che ne vive? Per una parte le è identica,
perché anch'essa si eleva, da ciò che si vede, a quello che non si
vede, poi anch'essa discende alle radici delle cose. Ma bisogna che essa
si completi. L'artista non religioso è un artista incompleto. L'artista
che rigettasse veramente e radicalmente ogni religione, non avrebbe più
nulla da dire.
D. Tuttavia a molti artisti bastò l'arte. R.
Certi l'hanno detto; forse l'hanno pensato; ma il loro cuore non lo
credeva. Dagnan-Bouveret, pochi anni prima della sua morte mirabilmente
cristiana, scriveva:
« La mia povera mente, che non si pasce che di dubbi,
trova almeno nella contemplazione della luce e dell'ombra qualche cosa
di bello e d'indiscutibile nella sua eternità, che l'attira e
l'affascina. E si abbandona a questa certezza evidente per lei,
problematica per il cieco, insufficiente per il credente, con tutto il
trasporto d'un disperato ».
D. La filosofia^ almeno, potrà bastare a se stessa,
poi-che è « sapienza ». R. Essa è « amore della sapienza
», come indica il
74
suo nome, e appunto per questo, il suo compito è di
condurre alla religione, di rischiarare la religione ne' suoi rapporti
coi pensieri terrestri, di costruire, in grazia della religione che la
prolunga dall'alto, la sintesi suprema del sapere. Ma sostituire la
religione non sarebbe possibile alla filosofia se non a patto che essa
disponesse del suo proprio oggetto, invece di conoscerlo soltanto — se
essa lo conoscesse con una cognizione sicura, invece di cedere a tutte
le mode dottrinali — se lo conoscesse con una cognizione viva, invece
di costituirsi in un sistema di astrazioni, e se avesse il potere di
diffondere questa conoscenza in tutti gli uomini, invece di confinarsi
nei limiti d'una scuola o anche di un cervello. La filosofia è un
mandarinato; la filosofia vede lacerare le sue membra che le sètte si
dividono; la filosofia vive di nozioni astratte, quasi ignara
dell'azione, estranea all'immaginazione e ài cuore degli uomini,
impotente a sostenere la vita senza disporre di nessuna promessa eterna,
non fosse che per quella parte di eternità che il tempo importa. La
religione vuole essere un vincolo effettivo tra l'uomo e Dio; la
filosofia non offre in fatto di vincolo altro che il tenue filo della
logica dimostrativa, vero filo della Vergine, che svolazza in
aria e non porta niente. Che cosa è una scuola filosofica di fronte
alla Chiesa universale? e che cosa è l'insegnamento d'una filosofia
umana di fronte a questo: Dio è nostro Padre;
egli c'invita, in seno alla sua Trinità, a un'intimità
domestica; lui stesso ha visitato la nostra terra e misteriosamente
l'abita ancora; egli ci unisce in una società della quale è
l'invisibile capo, della quale il suo Spirito e l'anima, e, dopo questo
tempo di prova durante il quale ci consola, ci promette una vita
perfetta, la rein-
75
tegrazione del nostro corpo, una perpetua e comune
felicità?
D. Non è questa una filosofia? R. È una
filosofia, e la più grandiosa. « II cristianesimo è la prima
religione che sia stata, nello stesso tempo, una filosofia » (pietro
las serre). Ma tale è nello stesso tempo. Il cristianesimo è
ancora un'altra cosa, esso è una fede.
D. Vi sono delle grandi filosofie fuori della fede.
R. Le filosofie senza fede sono come vecchie case sopra un
promontorio di sabbia; scintillano al sole, ma l'interno è povera cosa,
e di fuori il mare le corrode.
D. Non dicono dunque mai il vero, o il vero che
dicono non avrebbe alcun valore?
R. Dicono spesso il vero, ed esse stesse sarebbero
vere, se accettassero il loro proprio compimento nella verità totale.
Ma oltre ai loro errori, credendo di bastare a se stesse, si
annichilano; perché chi rigetta il tutto non può conservare la parte,
e « chi ritira il Verbo, distrugge la parola » (paolo claudel). «
Ogni filosofia — scrive Lachelier — è astratta e formale, semplice
aspirazione o folle esigenza del pensiero, se non finisce in religione
».
D. Perché la filosofia non è fatta per tutti? R.
Proprio come il calcolo integrale.
D. Perché non fa capo a qualche cosa di fisso e di
sicuro?
R. Perché lo spirito umano è debole, orgoglioso,
appassionato, e quello che è sicuro, in queste condizioni, è
l'insicurezza; quello che è fisso, è la disputa. Le divi-
76
sioni della mente e i suoi traviamenti hanno le medesime
cause che le nostre liti domestiche o sociali, e sono i nostri vizi.
D. Ma tutto questo non agisce punto nel mondo
religioso?
R. Agisce dovunque; anche i teologi non sono meno
divisi, nel loro campo, che i filosofi nel proprio. Ma la religione ha
modo di limitare questo male umano con mezzi divini; essa può mantenere
l'essenziale e pervenire al cuore dell'unità umana. Gli errori
teologici girano attorno al dogma, il quale rimane, mentre l'errore
filosofico, periodicamente, altera o spazza via tutto. Perciò la
filosofia disserta senza concludere, là dove la religione afferma; la
filosofia ricomincia, mentre la religione conserva e applica. Ma al di
sopra di tutto, la religione è universalmente umana, popolare nel senso
più alto, nello stesso tempo che sublime. Il suo Dio non è un
interlocutore di geni, ma un Padre; ai geni si rivolge come agli altri,
ma inoltre egli « annunzia il Vangelo ai piccoli »; ecco il suo segno;
egli conta con quelli che non contano punto.
D. Ti stai battendo per le religioni positive, e
specialmente per la tua; ma vi è una religione natw.ale, e questa
potrebbe bastare.
R. Quello che si chiama religione naturale non è
che una filosofia, vagamente tinta di una religiosità presa ad
imprestito dal cristianesimo. Da un punto di vista rigorosamente
religioso, essa fu chiamata « un corridoio aperto sopra il nulla »
(alberto de mun).
D. Quello che è naturale può forse essere un
nulla? R- La religione naturale è così poco nella natura
che
77
/ ..
' o /w,^.^. n, .^ /. ^. n
noti è mai esistita. Fu scritto un libro o due con
questo titolo; ma un libro non è un fatto. In nessun secolo, in nessun
paese, si è prodotto un fatto collettivo che meriti l'appellativo che
si usurpa.
D. E se si producesse?
R. Avrebbe necessariamente i seguenti caratteri. La
religione naturale è una pura filosofia, di conseguenza sarà
accessibile solo ai privilegiati, mentre tutta l'umanità, anche quella
più umile, ne ha bisogno per vivere. È una dottrina astratta, tutta
idee, mentre vi sono i fatti concreti di cui si deve tener conto: vi
sono le particolarità del nostro essere, le difficoltà della nostra
vita, gli imprevisti lungo il nostro cammino; vi è il male in noi e
intorno a noi; poi gli smarrimenti del nostro pensiero, e le debolezze
della nostra volontà, gli eccitamenti dei nostri sensi, e i pericoli
come pure le felici possibilità della vita collettiva. Che cosa ci
propone la religione naturale di fronte a tutto questo? con quale
autorità? e per quali fini superiori che essa possa garantire? È un
programma seducente in apparenza; è un manuale per un allievo maestro
dei tempi andati; ma non un Credo o un formulario d'azione
proprio di un'istituzione viva;
non è una religione.
D. Ricusi perfino di concepire uno sviluppo della
vita naturale fuori del soprannaturale religioso? R. Una natura
fatta per l'infinito e che si chiude all'infinito non può che
rattrappirsi per poi corrompersi.' Essa è capace di qualche
bene, ma non del bene.
D. Ecco qual'è a mio giudizio la religione che tutti
potrebbero ammettere: una religione puramenfe,^;,ffj,ri-
/
78
tuale, cioè consistente in uno spirito, in_ un
orientamento superiore del quale.'J&X££o fosse il grande J'nae-sfro,
di cui il Vangelo fosse,il libro per eccellenza; che guidasse la..
nostra vita, ma senza rinchiuderc^Jm^ un dogma strettoie rigido, sotto
un'autorita dispotica, e sema costrìngerci a riti fastidiosi.
R. Questa supposta religione dello spirito è la
religione del vago, la religione di coloro che non ne hanno punto e non
ne vogliono avere, ma che una volta ne avevano una e ne conservano il
ricordo nostalgico. Essi credono al vero, al bello e al buono senza
definire ne l'uno-ne l'altro, senza garantire ne facilitare il loro
regno, senza unirci nel loro culto e nella loro pratica, senza mostrare
la mèta a cui ci faranno pervenire, insomma, senza effettuare niente di
ciò che è l'oggetto d'una religione, ne dare la minima risposta alle
questioni che una religione propone. Sotto pretesto di « spirito », si
abbandonano così gli uomini a un completo denudamento spirituale, e
senza speranza.
D. Una religione siffatta ha tuttavia degli adepti.
R. Ho detto il perché. Essa è predicata da ex-cattolici romani
diventati già protestanti ortodossi, diventati più recentemente
protestanti liberali o razionalisti;
è predicata anche da quei cattolici che direttamente o
indirettamente sono stati vittime del modernismo. È il « profumo del
vaso vuoto » di cui parlava Renan. Ma l'umanità non può vivere di
profumo, ne di vuoto;
specialmente gli umili, i semplici, che ne sono la gran
parte, sono del tutto estranei ad un dilettantismo del genere.
79
D. I dilettanti di cui parli si orientano almeno
verso l'avvenire, tu invece verso il passato. R. Noi ci orientiamo
verso l'eternità. L'idea che solo l'avvenire offre una speranza è un
pregiudizio evoluzionista senz'alcun fondamento. L'evoluzione non può
toccare nel loro fondo che le realtà inferiori; quanto più si sale,
tanto più si arriva a ciò che è immutabile e permanente, ed è
naturalmente il caso della vita religiosa, rapporto essenziale
dell'uomo, se così posso dire, con Colui che non muta.
D. Un ultimo succedaneo della religione non si
potrebbe trovare nella politica^ nel senso più largo della parola? Hai
sottolineato l'aspetto sociale delle religioni:
non sarebbero esse, a questo tìtolo, delle
anticipazioni, e la laicità associata a un umanismo superiore,
non sarebbe forse la verità definitiva? R. Il giorno che mi sarà
additata una società che funzioni fuori dell'influsso diretto o
indiretto d'un principio religioso, io crederò al « laicismo » in
quanto principio sociale. Ma fin qui gli onori della vita pubblica
furono riservati alle religioni e alle loro derivazioni più o meno
fedeli. Non vi fu mai società laica sotto il ciclo.
D. In arancia, dopo la separazione delle Chiese e
dello Stato la società è forse perfettamente laica? R. Non ti
fermare ai testi legislativi, ai discorsi, ai programmi; noi parliamo di
vita sociale, e la vita sociale è tutt'altra cosa che questo.
D. Che cosa è dunque la nostra società detta «
laica »? R. È una società cristiana che della fede ha
rigettato tutto .ciò che le tornava comodo perdere., e che Jie con-
80
serva, dopo avergli toltoPetichet.ta^tu.HQ.,dò. che
le.tornava comodo conservare.
D. E che sarebbe una società veramente laica? R.
Il nulla organizzato.
D. La religione dunque, secondo té, e necessaria
atta civiltà?
R. Come una madre è necessaria a sua figlia, come
un'anima è necessaria al suo corpo. La religione è l'anima delle
civiltà; ne è l'origine. Si possono costruire delle ipotesi; ma i
fatti sono più sicuri. Ora, concretamente, le civiltà e le religioni
si presentano nella storia come un unico fenomeno sociale. Le civiltà
antiche procedono dagli dèi e dal loro culto; la civiltà moderna, che
sola merita veramente questo titolo, lo merita a cagione del
cristianesimo, dal quale è interamente permeata. Quando la laicità
avrà prodotto qualche cosa di indipendente che sia veramente e
unicamente suo, le cui origini religiose non siano evidenti per tutti,
si potrà paragonare il suo valore di civiltà a quello del
cristianesimo. Per il momento, non è il caso di parlarne.
D. Allora devi temere, per la civiltà, il movimento
« laico » da cui siamo travolti.
R. La notte che si estenderà sopra la nostra
civiltà, se la Chiesa se ne ritira, sarà più nera di quella da cui la
Chiesa la trasse un tempo. La civiltà e la morale sono un prestito
fatto al mondo moderno dal cristianesimo. Tu puoi sostituire ciò che
non dipende da tè, puoi quindi ignorarlo e dissiparlo senza rischio. Ma
ciò che hai da altri e che altri ti mantiene per un influsso segreto,
lo perdi per l'ingratitudine, nello stesso tempo che l'amicizia più
preziosa che tè lo assicura. « Non cercare il
81
regno di Dio, e il resto ti sarà ritirato per
soprappiù » (agostino cochin).
D. E una sentenza dura! Ma ne fai una profezia? R.
Credo all'avvenire, perché credo in Dio e nell'uomo, perche vedo
all'opera immense forze del bene. Si ha un bei fare, ma la nostra
civiltà è ancora adagiata ai piedi della croce come una leonessa
impaziente o distratta. Se tuttavia il movimento « laico » avesse il
sopravvento, e se gli uomini di domani non sapessero riprendersi e
fermarsi a tempo sopra la china, la stessa violenza dei fatti materiali
ci ricondurrebbe alla riscoperta del mondo dello spirito.
D. Sarebbe ancora la salvezza. R. La verità può
vincere l'errore dandogli vinta la causa, come un politico avveduto si
vale del partito avverso lasciandogli momentaneamente il potere.
D. Da chi dipende l'avvenire che tu vagheggi?
R. L'avvenire è nelle mani delle giovinezze nuove.
L'avvenire è nelle mani di Dio.
82
IL CRISTIANESIMO CATTOLICO
a)
La sola vera
religione ,'. c^f/u^iio ^^ ->, .^{^0^, ^
D. "Partendo dal sentimento religioso in
generale, mi hai trascinato nel campo delle religioni positive, e poco
anzi mi parlavi della vera religione. Perché una sola dovrebbe
essere la vera religione? R. Perché non ogni affermazione è
verità; perché ogni particella di verità non è la verità;
perché la vita è una e la legge della vita deve dunque altresì essere
una, al fine di condurci senza esitazioni e senza deviazioni
all'unica mèta che Dio ci assegna.
D. E naturalmente, la vera religione, per tè, è il
cristianesimo.
R. Io sono del parere di Augusto Thierry: « In
fatto di religione, non^sdJLche il cristianesimo ch^-conti ». E
comprendo Littré, che assai prima della sua conversione, diceva: « Se
io fossi sicuro che c'è un Dio personale, mi farei immediatamente
cristiano ».
D. Se tu fossi indù, diresti altrettanto del
buddismo o
del bramanismo.
R. Che cosa potrebbe ciò veramente dimostrare? che
83
O
./^/
n.
la mia mente è debole; che essa soccombe all'eredità;
che giudica da argomenti insufficienti e in condizioni
sfavorevoli alla ricerca: ad ogni modo, la verità non avrebbe nulla a
fare con ciò. Non è possibile fondarsi sopra questa ipotesi per
uguagliare le religioni l'una all'altra o per mandarle tutte a
catafascio.
D. T'alarci sono tentato di preferire il paganesimo
classico, che sotto certi aspetti è così superiore. R. Per la sua
superiorità e per il suo contrario, tra il paganesimo e il
cristianesimo, vi è il medesimo rapporto che tra Plafone e Pascal, tra
una portatrice di fiori alle feste Panatenee e una suora di S. Vincenzo
de' Paoli. Io compiango colui che non vede quanto sia superiore l'umile
'cappellona', e come una qualsiasi frase dei Pensieri dissipi e
sopravvanzi i sogni sublimi di Plafone.
D. Almeno ammetti che vi sono. verità, nelle
.diverse religioni.
R. Dio è un seminatore generoso; egli getta a
profusione la semente perché un filo d'erba cresca nel suo campo.
D. Che cosa intendi con questa metafora? R. Che
il senso del divino, che crea le religioni istintive, è un fatto
provvidenziale, essendo un fatto naturale. Ora in un fatto
provvidenziale, in un fatto naturale, una parte di verità deve
necessariamente esservi. Inventate dall'uomo, le religioni « false »
si studiano di rispondere come possono ai bisogni che le hanno suscitate
e che sono bisogni d'uomini. Nell'uomo, esse si ritrovano e, perché il
loro scopo è lo stesso, si ricongiungono anche alla religione che Dio
ci propone.
8-1
D. Sarebbe questo il segreto di quelle rassomigliamo
che tanti critici vi rincacciano?
R. Ma è proprio incomprensibile che in questo
fatto, trovino motivo di attacco. Una pretesa religione rivelata che, in
molte cose, non incontrasse le religioni figlie degli uomini, non
sarebbe la religione dell'uomo e non potrebbe esser rivelata.
D. Ma se vi sono verità ovunque, perché noti
prendere da tutte le religioni quel che vi è di buono, invece di
rinchiudersi in una sola?
R. Appunto rinchiudendosi in una sola si avrà,
quanto all'essenziale, quello che vi è di buono in tutte le altre, e in
quanto all'accessorio, nulla impedisce di prenderlo.
D. No» capisco.
R. Ricorda il mio paragone. Se il campo del Signore
sovrabbonda, ciò che si trova fuori, in fatto di buon grano, tanto più
deve trovarsi dentro; ma si potranno trovare fuori, senza che si trovino
dentro, fiori, piante utili, minerali preziosi, o qualsiasi cosa di cui
ci si può appropriare. Il cristianesimo se ne è valso largamente;
a volte glielo si rimprovera, per tentar di concludere
che è opera umana. Ma esso non ha preso di lì il suo germe, che viene
dalla croce, e attraverso la croce, dal cielo. Questo germe appunto
contiene, oltre a un capitale trascendente, tutto l'essenziale dei
valori estranei. E come non lo conterrebbe, essendo germe di vita, germe
d'uomo, germe emanato da Colui che crea l'uomo e lo conosce certo tanto
quanto l'uomo stesso? Tuttavia, con la mediazione della natura delle
cose, Dio interviene pure in un certo modo nell'origine delle religioni
inferiori e vi lascia la sua traccia, ed è cosa ovvia che in
85
queste religioni il cristianesimo vada ad attingere, cKe
Dio lo permetta, che Dio lo consigli, in forza di queste parole
evangeliche: «Chi non è contro di voi è per voi », e conforme a
quelle dell'Apostolo: « Tutte le cose vi appartengono ».
D. Se così accade del divino nelle religioni''
istj.nt.iv'e, come -puoi dirle « false »?
R.
Sono
religioni false perche sono. ^imperfette e si pretendono perfette;
perché si dicono venute in linea retta da Dio e non vengono che
dall'uomo; perché credono così d'impegnare Dio e non impegnano che
l'uomo. La religione cristiana è vera per le ragioni contrarie:
essa impegna Dio, perché viene da Dio direttamente per
mezzo della rivelazione, e di conseguenza è perfetta.
D. Questa perfezione, dici, importa che la sola^reli-gtQ.ne.,cristiaw.£,,£attolica
contenga ui..s&l.valor,i.,di..t.utte le altre: potresti dimostrarlo
con qualche fatto?
R. Ecco in breve le ragioni giustificative. Quello
che vi è di buono nel giudaismo è la nozione del vero Dio e il
messianismo, è la filosofia corretta di Dio e una storia corretta del
suo governo: ora noi abbiamo l'unità di Dio arricchita della Trinità;
noi presentiamo degli annali di Dio che conglobano il giudaismo e lo
prolungano;
perché il Messia è per noi un fatto, anziché una
promessa. — Quello che vi è di buono nel paganesimo è
l'apparato esteriore, la poesia dei riti, il culto dei grandi esseri, il
culto del focolare domestico: noi abbiamo, senza il politeismo, una
liturgia splendida, una pietà affatto speciale per la famiglia e il
culto degli antenati religiosi, cioè dei Santi. — Quello che vi è di
buono nel buddismo, è il misticismo, la grandezza delle
concezioni
86
cosmiche, il distacco, la carità: noi abbiamo, e
ampiamente, tutte queste cose; le abbiamo potenziate; le abbiamo
precisate, purificate, ed evitiamo, insieme al panteismo,
l'annichilimento della vita. — Quello che vi è di buono nel maomettgnesimo
è un vivo sentimento del Dio unico e del suo governo universale: noi
crediamo in un Dio intimo e provvido, senza il fatalismo, al quale
Maometto soccombe; senza il sensualismo e il materialismo dell'ai di
là! — Quello che vi è di buono in Zoroa-stro o Monete è
l'opposizione del bene e del male, spinto però fino all'eccesso
blasfemo, poiché esso divide il Principio supremo: ripudiando
quest'eccesso, noi conserviamo il sentimento che vi ci inclinerebbe;
proclamiamo il lato tragico dell'esistenza, la lotta di Dio e di Satana,
il cielo e l'inferno. — Quello che vi è di buono nel protestantesimo
è la fede nel Vangelo e il libero esame de' suoi titoli, è
l'interpretazione spirituale dei rti in opposizione a pratiche puramente
esteriori: ora anche lì noi non eliminiamo se non l'eccesso, che, per
il libero esame assoluto, produce lo sfaldamento delle credenze, e per
eccesso di spiritualità, l'aridità del rito, la dimenticanza che
l'uomo è composto di anima e corpo.
Nello stesso modo si può dimostrare che il
cattoli-cismo ha di tutte le filosofie tutto ciò che esse hanno di
buono, non eliminando che i loro vizi, le loro esagerazioni in un senso
o nell'altro, le loro insufficienze, i loro errori.
D. Una religione così fatta non rischia di essere
una dottrina mediacre, nella quale si trova indebolito tutto ciò che
essa vuole conciliare? R- Proprio il contrario, perché la fede
cattolica ottiene
87
6e^ '.
(\
la conciliazione d'ogni cosa appunto spingendo, in
qualche modo, ogni cosa all'estremo. Le cose di questo mondo — e
dell'altro — sono fatte per vivere insieme;
non si oppongono affatto; non diventano inconciliabili
se non in vedute parziali e partigiane. Per esempio, un materialismo
integrale è sicuro d'incontrare 'lo spirito, che si rivela nella
materia, e uno spiritualismo integrale incontra la materia, che è
condizione dello spirito. — Un panteismo integrale raggiunge il Dio
trascendente, il quale solo può essere immanente senza cessare di
essere lui stesso, e un deismo corretto raggiunge l'immanenza, senza la
quale Dio non è più Colui nel quale noi viviamo, ci moviamo e
siamo. — Un razionalista conseguente deve ammettere la fede, se
essa ne fornisce le prove, e un credente conseguente rende alla ragione
i diritti, che le tolgono invece il fideismo o il tradizionalismo. —
II fatalismo crede di dare tutto all'azione divina, e il naturalismo
tutto alla natura e all'uomo; ma dando anche di più a Dio, non si è
più fatalisti, perché gli si da modo di fondare la libertà mediante
la sua stessa azione, come abbiamo potuto vedere, e se si spinge il
naturalismo a fondo, si riconosce alla base della natura un'idea divina,
un sigillo divino, uno slancio divino, e la stessa cosa nell'uomo, fosse
pure nella sua libertà.
Così è di tutto il resto. Il parziale solo è
inconciliabile con questo o con quello, come il solo insociabile è
l'egoista. Le anime umane in ciò che hanno di più individuale, se
eliminano i loro difetti — e questo è appunto un ritrovare se stesse
— hanno sempre una formula di accordo. Così i fatti; così le cose;
così le dottrine; così i sentimenti religiosi.
V) Schizzo di un'apologià interna
D. Questo carattere integrale e organico della tua
religione è senza dubbio da tè considerato come una seria presunzione
in suo favore, cioè in favore di quella origine divina che tu le
attribuisci.
R. Una tale presunzione, appunto, a' miei occhi è
una prova formale, in due modalità: 1° il cristianesimo cattolico è
divino perché presenta una coerenza meravigliosa di tutti i suoi
elementi tra loro, coerenza umanamente inesplicabile, e 2°, il
cristianesimo cattolico è divino perché offre, in tutte le sue parti,
una capacità di adattamento alla natura e ai fatti, una capacità di
reggere la natura e i fatti umanamente inesplicabili.
D. Si riducono a questo le tue prove?
R. Ce ne sono altre in gran quantità; ma in
mancanza
di altro, io stimo che queste potrebbero e dovrebbero
convincere.
D. In che consiste la loro forza di convinzione? R.
Secondo Fiatone, il carattere delle idee vere è di congiungersi tra
loro, e, per le stesse ragioni, il carattere delle idee vere in materia
pratica è di adattarsi esattamente a ciò che esse devono reggere. Se
dunque l'enun-ziato della rivelazione, che contiene una così grande
somma di nozioni d'ogni specie, e va incontro a una massa anche più
grande di fatti esteriori, si mostra a un tempo di una impeccabile
unità sintetica e di una perfetta concordanza con tutto l'insieme dei
fatti umani, io dico che questo è un segno di verità manifesta.
D. Questa perfetta convenienza, interna ed esterna,
supposto che esista, non è forse semplicemente il se-
89
gno di una notevole sapienza organizzatrice puramente
umana?
R. La tua obiezione è naturale; tuttavia tu stesso
sarai
meravigliato di vedere quanto poco valore essa abbia.
Vaglia accuratamente quanto segue.
D. Ascolto.
R. In nessuna parte, dell'universo religioso, si
vede all'opera la sapienza organizzatrice « notevole, ma affatto umana
» che tu supponi. Nessuno ha concepito i ,,dogmi a titolo d'insieme;
nessuno li ha proposti in blocco organicamente, come Sieyès la sua
costituzione o Bonaparte il Codice. Il Credo non è un sistema di
idee a priori che si sarebbe cercato di rendere coerente e
ragionevole prima di consegnarlo ai fedeli, e che si sarebbe poi
accuratamente conservato. Le nostre credenze ne sono agli antipodi, esse
poggiano su fatti, e su fatti che si distribuiscono su migliala
di anni, nei domini! più disparati, comparendo, si crederebbe, a
piacimento del caso, isolatamente, senza vincoli tra loro, salvo
quell'inesplicabile finalità la quale fa sì che si trovino da per
tutto dove è necessario, a guisa di quegli eroi da romanzo, che
dispersi a causa di rapimenti, guerre o tempeste, si ritrovano in vista
d'un matrimonio.
D. Che cosa intendi perJrff/L-cristiani?,, R.
Intendo, non solo avvenimenti, ma anche parole, dichiarazioni di
princìpi, enunziati di dottrine, precetti o suggerimenti pratici. E
questi fatti, dico, appartengono a tutti i mondi, al mondo giudaico, al
mondo evangelico e all'èra cristiana tutta quanta; sono fatti
grandiosi, come la risurrezione di Cristo o il Discorso della Montagna,
e umilissimi fatti, come quelli che avven-
90
gono tra le nostre pareti domestichc o nel nostri cuori,
fatti che riguardano tutte le razze e tutte le latitudini come pure
tutti i tempi, e hanno il dovere di armonizzarsi. Questi fatti impegnano
Dio, la natura e l'uomo;
la morale, la storia, l'etnografia, la geografia umana e
fisica, la linguistica, l'archeologia, la psicologia vi sono
strettamente implicate. In questo gruppo incalcolabile di fatti, ce n'è
una folla di arbitrar!, di liberi e per conseguenza d'imprevedibili
prima dell'avvenimento, ed anche questi saranno tenuti a concordare.
Supponiamo che nel corso di tanti secoli di applicazione dell'ordine
della grazia, per esempio, l'idea della grazia si fosse modificata nelle
teste come al tempo dei Pelagiani, o la nozione della penitenza si fosse
modificata come sotto S. Clemente, o la dottrina cristologica, come
sotto Ario ed Eutiche, senza che una ferma autorità pensasse a
interporsi per ristabilire la dottrina: da quale immenso perturbamento
interno il dogma non sarebbe stato assalito! La religione oggi non
sarebbe più la stessa; non sarebbe più atta a vivere; non si
reggerebbe più; quello che sarebbe allora la sua incoerenza, lo possono
misurare solo quelli che hanno seguito con uno sguardo chiaro gli
avanzamenti del pensiero cattolico. Supponi che un giorno un Papa, per
errore o per passione, per pressione d'un partito o per capriccio, sotto
l'influsso di un genio, di un principe, o di una scuola particolare, si
lasci andare a definire un dogma senza vincolo di necessità o di
convenienza con gli altri: ecco la nostra unità dogmatica spezzata per
sempre.
Cito questi tré casi tra centomila appartenenti alla
dimensione temporale; se ne potrebbe citare altresì un gran numero a
proposito delle razze, degli ambienti,
91
delle circostanze, delle idee, delle persone. Qui le
diflì-coltà possono sorgere da tutte le parti. Ebbene, si è evitato
tutto; si sono vinte tutte le antinomie e si è passati tra tutte le
insidie senza ricorrere ad alcun sistema di precauzioni, che del resto
erano per lo più impossibili a prendere ed anche a conoscere. Tutto è
stato inquadrato; ogni fatto nuovo risponde come a un appello, ogni
dogma particolare corrobora l'insieme e vi si aggiunge per mille legami.
E il tutto si adatta all'umanità individuale e sociale, a' suoi
caratteri, a' suoi bisogni, alle sue evoluzioni, alla sua coscienza
morale soprattutto e al suo senso religioso, con una evidenza di rigore
tanto maggiore quanto più profondamente si studia e la nostra umanità
da una parte e il dogma dall'altra. Infatti, come osserva Pascal, « la
religione non fa che conoscere a fondo ciò che si riconosce tanto più
quanto si hanno maggiori lumi ».
D. La fede, in tutto questo, non trova quanto cerca?
R. Trova quanto cerca e meglio ancora, sembra, quanto non cerca.
Essa è una relazione universale. La sua profondità nativa la fa
coincidere dovunque con la esperienza. Essa non è sorpresa da niente,
in bene o in male. Non è stata inventata, e sarebbe stato necessario
inventarla perché la vita si spiegasse, perché la vita avesse i suoi
soccorsi innumerevoli; perché avesse soddisfazione ne' suoi istinti
d'integrità, di giustizia, di socialità, d'ideale; perché non
mancasse punto di consolazioni e di speranze; perché potesse essere
preparata agli sconcerti che la sorprendono, alle inquietudini che la
turbano, e, in mancanza del resto, al suo vuoto. Ma ciò che non ha
inventato l'uomo, esiste per un miracolo
92
permanente che è forza constatare. Un filosofo poco
credente, liberissimo di spirito, Novalis, scrisse: « Si potrà
studiare il cristianesimo ancora per l'eternità: esso apparirà sempre
più in alto, più molteplice e più magnifico ». Il più grande
miracolo di Gesù Cristo non è di aver risuscitato dei morti, ma di
aver rigenerato a fondo la vita e la coscienza dell'uomo; non è d'avere
compiute le profezie giudaiche, ma d'aver realizzato quelle del nostro
cuore.
D. Tu presti così al cristianesimo una specie di
necessità ideale.
R. Non è una necessità, ma una straordinaria
convenienza che permette di dire: il cristianesimo era in noi in qualche
maniera, prima di essere in se stesso; vi era come una chiamata: Gesù
Cristo ha portato come una risposta. E non c'è da dire, questa risposta
è perfetta; è «un getto su natura» (agostino cochin). Nell'immensa
estensione della vita e delle verità naturali che la esprimono, vi
possono essere dei punti di attrito provenienti anche dalle inevitabili
imperfezioni di un sistema che congloba i difetti umani; ma è
impossibile rilevare una contraddizione. C'è lì un mistero.
D. Non è forse misteriosa ogni nascita? R.
Tant'è che ogni nascita dimostra una causa proporzionata a ciò che
nasce, e questo vale in favore del cristianesimo come per la nascita di
un uomo. Chi dunque, in seno alla madre, ha distribuito alle membra,
agli organi, ai tessuti, alle cellule innumerevoli del corpo che ella ha
generato gli elementi della sua propria nutrizione, in modo che questo
corpo viva, sia un corpo, e il
93
tipo così realizzato risponda a una idea, direttrice, a
un pensiero eterno? Forse che qualcuno ha disposto gli atomi con la
mano? Parimenti nessun uomo o gruppo d'uomini ha organizzato
industriosamente e adattato il nostro dogma. Esso è apparso allo stato
frammentario, senza piano umanamente preconcetto; l'anima sua, simile all'idea
direttrice dell'embrione umano, non è di questo mondo. E allora di
qual mondo è?
D. Il sistema cattolico ha qualche titolo a così
alte meraviglie?
R. Il sistema cattolico, nel suo insieme, è
l'organizzazione dell'infinito. Ecco un'impresa assai pericolosa per
l'uomo! Vi si devono necessariamente introdurre cose che ci stupiscono,
cose incredibili in se stesse, assurde, si oserebbe dire, se si
prendessero a parte, come la presenza reale di un corpo organico, in
un'apparenza di pane, come la Risurrezione, quel Riforno dalle ceneri
dell'altro mondo. Chi ardirebbe inventare tutto questo? chi potrebbe
poi sperare di metterlo d'accordo, e di mettere d'accordo noi con esso,
e ottenere in suo favore la compiacenza infinita del tempo e degli
uomini? Ad ogni svolta si può produrre uno squarcio mortale, un fatto
che ricalcitra, un agente di esecuzione che fallisce, una dottrina che
trionfa e può rivelarsi caduca, uno scioglimento profondo come quelli
dei ghiacci che l'inverno aveva ammucchiato e che il sole di primavera
disgrega. Nessuno interviene per impedire qualche cosa;
una turba di gente è lì per compromettere tutto e
tutto cammina a perfezione; il sistema funziona, grazie a una potenza
immanente che la Chiesa rappresenta, ma che essa nonJ:pnosce.
94
D. La Chiesa cattolica può forse ignorare il suo
proprio funzionamento?
R. Lo ignora nella sua sintesi completa, nella sua
legge misteriosa, che è una grazia di vita, non di conoscenza chiara.
Gli uomini organizzano con perspicacia delle sintesi ristrette; Dio
organizza con chiara visione la totalità delle cose; la Chiesa,
anch'essa a sua volta organizzatrice, entra nell'organizzazione di Dio
che ne conosce il ruolo, e sa qual è la sua finalità; per una
ispirazione interiore, essa s'adatta all'insieme e lo serve; ma questo
insieme e tutta la somma di Provvidenza che vi si dispensa, la Chiesa
non ha la grazia di discernerlo.
D.. Donde deriva a questo gran corpo di dottrine, di
fatti e di esseri, il suo « sublime » discernimento? R. È proprio
quello che io mi domando. Non vi è convergenza del caso; non vi è
concorso di illusioni disperse. Una concordanza non ideologica, ancora
una volta, ma sperimentale, che la pratica individuale e sociale
conferma, che ha la firma dei fatti, questa concordanza estesa in tutte
le direzioni e in tutti gli ordini, magnifica per altezza e per
profondità, oltre le sue dimensioni temporali e spaziali, esige una
spiegazione.
D. La falsità non ha essa pure i suoi successi? R.
La falsità è come i bugiardi, si contraddice sempre;
solamente la verità piena non è mai presa in fallo. «
Tu credi alla scienza perché raccoglie molti fatti — scrive Giacomo
Rivière — tanto più devi credere alla religione, perché essa li
raccoglie tutti ».
D. Istituzione divina, insomma?
R. Non è forse proprio di una istituzione divina,
lo
sposare in tutti i suoi contorni e in tutta la sua
storia la
95
realtà umana e universale? Se il cattolicesimo
comprende tutto, non è forse perché esso è al di sopra di tutto,
perché il suo Dio è al di sopra di tutto, perché il suo Cristo è il
riformatore di tutto, perché lo Spirito che lo governa è la guida
suprema di tutto? Nessuna rivelazione riesce bene e neppure ha valore se
non è una conferma; ma ancora, una conferma integrale, e sotto questo
aspetto precisa, non si dimostra forse come una autentica rivelazione?
Chi avesse potuto inventarlo avrebbe potuto concepire un universo, e
concepire un universo non appartiene se non a chi lo può creare: e
questa è opera divina.
D. Ciò mi sembra importante; vorrei penetrare meglio
il tuo pensiero.
R. Bisognerebbe esplorare i particolari, e ciascuno
di essi porterebbe seco la conclusione con una certezza crescente.
Preciserò solo qualche caso.
Tutto quanto il dogma dipende dal quadruplice fatto
della Trinità, dell'Incarnazione, della Redenzione e della Grazia. La
Trinità è un'espansione di Dio in se stesso. L'Incarnazione è una
manifestazione della Trinità in missione umana. La Redenzione è il
lavoro del Dio incarnato, della Trinità manifestata e data, lavoro che
include tutta la storia, dalle origini fino « all'ultimo avvenimento
», in cui tutto si concluderà. La Grazia è il dono stesso secondo che
egli è nell'uomo in virtù dell'Incarnazione redentrice e delle
missioni trinitarie, e la Grazia prende tutte le forme della vita,
anzitutto la forma individuale e la forma sociale, con tutti gli aspetti
che, nell'ora stessa e nel corso di tutti i tempi, riveleranno la vita
fisica, la vita morale, la vita professionale,
96
la vita domestica, la vita politica, la vita ecclesiale,
la vita sacramentale e la vita mistica. Tutto questo forma un tutto
unitario, di una coerenza meravigliosa, che da soddisfazione alla mente
sempre più in proporzione che vi penetra, rispondendo ai più alti
pensieri e alle più intime aspirazioni dell'uomo riguardo al divino:
infatti è questo il divino eretto, se così posso dire, dalla Trinità,
al di sopra di ciò che la ragione ne poteva conoscere, ma a
soddisfazione della ragione, come vedremo più avanti, ed è poi il
divino che ridiscende nel creato, attraverso Gesù Cristo, in forme che
sposano tutte quelle del creato riproducendone i caratteri,
sopranaturalizzando i suoi- poteri e utilizzandoli senza sforzo ne
mutilazione.
D. È questa la tua sintesi dogmatica?
R. Ne è uno schema. La Trinità, vita di Dio in se
stesso; l'Incarnazione, prima tappa delle comunicazioni;
la Grazia, seconda tappa che utilizza la nostra unità
solidale nell'Uomo-Dio; la Chiesa, mezzo sociale di un'ampiezza e di
un'organizzazione ammirabile, mai interamente penetrata, mai uguagliata;
i sacramenti, mezzi della Chiesa e di Cristo che comprendono tutta la
vita per rigenerarla, nutrirla, purificarla, fortificarla, reggerla e
perpetuarla fino alla vita eterna: si ha il diritto di dire che questo
solo risponde pienamente, a fondo, nello stesso tempo trascendentalmente
ed esattamente, al senso religioso che l'analisi constata in tutti gli
uomini, e gli da una sovrabbondante soddisfazione.
D. Ad ogni modo io registro il fatto. R. È tutto
quello che io domando. Ma ecco! questo insieme, espresso
schematicamente, ma i cui aspetti sono innumerevoli, conglobando
direttamente o indiret-
97
tamente tutto ciò che è, non può non essere
estremamente delicato. I teologi lo sanno; alcuni lo sanno anche troppo.
Entrandovi, la mente è presa in un terribile ingranaggio; sbagliato il
minimo pezzo, è tutto il sistema che non funziona più o non può più
servire. La complessità poi è massima, i legami sono rigidi; niente
caucciù lì dentro, niente batuffoli di ovatta; metallo, sempre. Lo
stesso Renan, per esperienza, disse: « La teologia cattolica è formata
di blocchi di granito legati insieme da ramponi di ferro ». Ora tutto
ciò, com'è ben manifesto, non è stato elaborato, umanamente, da
nessuno.
D. Non vi sono delle fonti? R. Se si cercano
fonti per ciascun enunziato di fatto o di dottrina, se ne trovano; ma
questa necessità di laboriose ricerche prova già quello che io
affermo. Queste fonti si presentano allo stato frammentario e senza
nessi visibili. Non si sa bene con esattezza donde ciò esca fuori. La
Bibbia è una selva dottrinale. Lo stesso Gesù Cristo si è espresso
senza alcuna preoccupazione di mettere in evidenza la coerenza de' suoi
discorsi. Gettava la sua parola alle turbe, e nessun Fiatone e nessun
Senofonte era presente per mettervi un ordine, per interpretarla
sapientemente o anche per raccoglierla stendendola accuratamente per
iscritto.
D. Gesù però ebbe dei discepoli. R. I suoi
discepoli fecero come lui: vissero religiosamente e comunicarono la
vita; insegnarono, ma non costruirono nessuna teologia sistematica;
spiegarono dei fatti e ne trassero delle regole pratiche; i loro scritti
sono scritti di circostanza, concepiti in vista di un'utilità im-
98
mediata; i principali, dopo le quattro raccolte di note
chiamate Vangeli, sono le Epistole, cioè delle lettere. I fatti, le
parole e i precetti sacri passarono di là in una tradizione in cui
primeggiarono uomini senza cultura, e la cui mente era diversamente
orientata. L'elaborazione è venuta molto tardi,, e, notalo bene,
consistette nel mostrare l'accordo, non nel crearlo.
D. La teologia non è un principio dell'ordine? R.
La teologia mette in luce l'ordine; ma nonJo crea. La teologia non crea
nulla; getta ponti d'idee tra certi fatti, tra certi dati
che non le appartengono in alcun modo; essa si deve servire di ciò che
è, senza modificarlo mai. L'astronomia che inventa un sistema del mondo
non crea gli astri.
D. L'accordo così manifestato, secondo tè, era
dunque nelle cose stesse?
R. Esattamente, e di conseguenza in qualche mente
collocata al di sopra delle cose: ecco quello a cui io voglio
concludere.
D. Quale mente?
R. Lo domando a tè. Quale mente individuare, per un
insieme a un tempo disperso e organico di tanti elementi, di tante
dottrine delicate ed astruse, di tante asserzioni nuove e generalmente
sorprendenti, di tanti fatti gli uni passati o presenti, gli altri
futuri, -che avvolgono tutte le cose umane? Quale mente, se non una
mente sovrumana?
D. Perché parlare di cose future?
R. Perché se l'accordo intimo dei dogmi potè
essere
messo in luce abbastanza presto, accade diversamente
99
per l'adattamento del dogma, di ciascun dogma,
all'insieme e ai particolari di tutti i fatti ai quali una religione
universale e permanente si dovrebbe un giorno applicare. Un tale
adattamento, per essere così assicurato in anticipo, non suppone forse
una conoscenza antecedente o un'intuizione superiore di tutto il
contenuto e di tutto lo sviluppo della natura umana, di tutte le
sorprese della storia, di tutte le richieste future della civiltà? Chi
ha potuto far prevedere ai primi Apostoli, quando predicavano la
dottrina dell'Uomo-Dio, lo sfolgorante successo di questa dottrina
straordinaria, incredibile per i pagani, scandalosa per i Giudei; i suoi
frutti incomparabili di santificazione; la sua riuscita per Dio stesso,
se così posso dire, per il fatto dell'avvicinamento insperato del
Creatore e della creatura sopra questo terreno vivente; la potenza con
la quale questa dottrina ha attratto le anime, le ha strappate a se
stesse, le ha sollevate, le ha lanciate in tutte le imprese, le ha
sottomesse a tutti gli sforzi, piegate a tutte le discipline, pacificate
in tutte le loro sofferenze, esaltate nei loro sentimenti più generosi,
più larghi e più intimamente beatificanti, le ha avvinte a sé con una
tenerezza che non si ha per un padre, per un fratello, per un amico,
neppure per uno sposo o una sposa, poiché per lui si è rinunziato alla
sposa, allo sposo ed è stato dato a lui stesso questo nome?
D. Ammetto che ciò è prodigioso. R. Pensa al
culto della croce, a quello del tabernacolo, a quelle Messe che fanno il
giro del mondo col sole, a quelle Comunioni che inondano i cuori di
gioia,
100
e a quelle liturgie che le accompagnano con un decoro
non solo spirituale, ma estetico, di lì infatti procede tutta l'arte
cristiana. E pensa che si tratta di milioni di esseri, d'una folla
d'istituzioni, d'una costellazione di popoli... e ciò per quanti secoli
ancora?
D. Ti riferisci questa volta all'ordine sociale? R.
Di fatti! Nell'ordine sociale, chi ha detto a Pietro il pescatore e a
Paolo di Tarso, a Gesù stesso, che ci sarebbero stati un giorno dei
barbari da incivilire, un impero da trasformare, rè da domare, terre
immense da dissodare, turbe da istruire e da educare, comuni da
organizzare, corporazioni da formare, guerre da ridurre o da mitigare,
una cristianità da conservare coerente in un tempo di turbolenta
anarchia? ecc.
D. La religione non ha fatto tutto questo da sola. R.
Non lo pretendo affatto. Vi ha però collaborato in un modo che si può
chiamare materno, nel senso proprio della parola. E per collaborarvi
così, non bisognava forse che essa fosse a ciò adatta per sua natura,
che il suo principio concordasse con ciò che si può chiamare il
principio o lo spirito incivilitore?
D. Ormai tutto ciò però è cosa lontana. R.
Più tardi, ai nostri stessi tempi, chi ha detto al pescatore d'uomini
che vi sarebbe stata una democrazia da moralizzare, un regime del lavoro
da rinnovare, una società internazionale da creare, un capitalismo, un
sindacalismo, immensi corpi sociali che pongono dei problemi come
nessuno ne conosceva ne poteva sospettarne una volta? Chi disse loro che
nei nostri giorni, le soluzioni sarebbero tanto più difficili in quanto
che il sentimento della personalità umana e del valore individuale
101
si sarebbero sviluppati nei gruppi sociali come mai, che
le distinzioni artificiali tra gli uomini sarebbero state sempre più
ripudiate e cancellate dalle costituzioni politiche; che la vita
pubblica sarebbe stata obbligata a piegarsi a princìpi di uguaglianza a
volte persin eccessivi, ma in fondo umanissimi e nobilissimi, e che
questo non sarebbe accaduto senza furiosi dibattiti e terribili scosse ?
Chi dunque, chi ha potuto far presagire tutto questo agli organizzatori
della fede, supponendo che ci siano stati?
D. Io non ne vedo la necessità. R. Io la vedo in
ciò che, in questo nuovo campo, l'adattamento non è meno perfetto di
quello che fosse al principio dell'era cristiana; anzi lo è
infinitamente di più. Quanto più l'umanità progredisce, tanto più il
Vangelo le conviene e le è necessario.
D. Il Vangelo non c'entra. R. Io parlo del
Vangelo vivente, della Chiesa, e della dottrina della Chiesa. Metti in
presenza tutti i fatti contemporanei e il dogma cattolico; fa' la
critica dei loro rapporti mediante un'analisi comparativa ben condotta,
e io ti prometto stupore e meraviglia. I nostri sociologi moderni non
sospettano ciò che essi trascurano. Io scrivo a mente fredda, pronto a
provarlo, che questi sapienti « d'avanguardia » sono dei retrogradi;
che essi hanno fatto indietreggiare, per cecità spirituale e per
presunzione, la scienza reale, la scienza profonda degli assettamenti
umani, che si trova appunto nel dogma, in ogni caso importata da esso,
concordante con esso e condizionata dal suo aiuto. Lo stesso avviene
dell'ordinamento familiare moderno, del regime individuale moderno, che
più ancora che i regimi antichi trovano nel
102
dogma cattolico e in esso solo la loro consistenza
morale e la garanzia del loro progresso.
D. La tua Chiesa avrebbe dunque una risposta a tutto?
R. In nessun modo,, e mi preme anche di protestare, come ho fatto
molte volte, contro quelli che domandano alla religione soluzioni che
non dipendono se non dalla tecnica e dall'umana esperienza. A ciascuno
il suo compito. Ma se tu vi rifletti seriamente, vedrai che alla radice
di tutte le difficoltà umane, si trova una o più difficoltà morali, e
sono queste che la Chiesa risolve. In certo modo, nulla di questo mondo
la riguarda, poiché essa non è di questo mondo, e tutto la riguarda,
perché questo mondo ha le sue radici nell'altro, come la pianta nella
terra e nel cielo. La Chiesa, se vuoi, non apre alcuna porta; ma
fornisce tutte le chiavi.
D. Non tutti la pensano così.
R. E sia; eppure io pretendo di dimostrarne a chi
vorrà la verità smagliante. E del resto, in mancanza di una
confessione di verità, non è forse sufficiente che una tale pretesa si
possa anche solo enunziare; che essa non sia ridicola; che, in una
discussione serrata, abbia per sé la pur minima probabilità? Riguardo
a una dottrina che risale a venti secoli e predicata da pescatori, tu mi
confesserai che questo è già un bei miracolo.
D. Si trattava di una prova. R. Se si può dire
che per il nostro tempo la prova non è fatta, non lo si può dire per
il passato, che è acquisito, e che dimostra la coincidenza perfetta del
dogma cattolico con la vita, col movimento storico, con la civiltà.
Un'altra sola dottrina, religiosa o filosofica, oserebbe qui
103
presentarsi in concorrenza con la dottrina di Cristo? La
aspettiamo ancora alla prova.
D. Ma tu non hai detto come la Chiesa conserva e
svolge il deposito che le fu. affidato; sta forse lì il segreto de'
tuoi « miracolosi » adattamenti tra il dogma una volta acquisito e i
fatti umani.
R. Aspetta! La Chiesa è lei stessa un dogma;
sarebbe troppo facile riguardarla come piovuta dal cielo senza farne
onore al cielo. La Chiesa è un dogma che ne contiene molti altri, come
quell'ammirabile comunione dei santi, sopra la quale bisognerà
ritornare, e come l'infallibilità la cui importanza è qui
visibilissima. Ora il dogma della Chiesa, della Chiesa infallibile, ci
fornisce uno di questi segni di coerenza che io rilevo; perché esso è
legato con un vincolo così necessario ai dogmi della Trinità,
dell'Incarnazione, della Redenzione e della Grazia, che non è possibile
separamelo.
D. Sotto quali rapporti tu ve lo annetti? R.
Sotto il rapporto della loro manifestazione, della loro conservazione e
della loro utilizzazione. Il dogma della Chiesa è indispensabile alla manifestazione
degli altri; perché la vita inferiore della Chiesa è fatta del
commercio della Trinità, se mi è lecita l'espressione, con gli uomini
invitati alla sua intima dimestichezza. Essa stessa, la Chiesa, è come
un'incarnazione e una redenzione continuata, una grazia sociale, pegno e
mezzo di tutte le altre, conforme alla nostra natura, che è altresì
sociale, e temporale, e sensibile. Il dogma della Chiesa è necessario
inoltre ali''utilizzazione degli altri dogmi, per gli stessi
motivi tratti dalla nostra natura, donde risultano i nostri bisogni
individuali e sociali. Ed è non
104
meno necessario alla loro conservazione; perché
senza la Chiesa docente, e infallibilmente docente, tutti i dogmi,
compreso quello della Chiesa madre delle anime, sono abbandonati a tutte
le variazioni e snaturati.
D. Lo spirito conservatore della Chiesa non e una
sufficiente garanzia?
R. Lo spirito conservatore della Chiesa appartiene a
ciò che io asserisco; del resto esso non potrebbe impedire lente
derivazioni. Appunto a questo proposito, un illustre protestante,
Augusto Sabatier, dopo ampia discussione, conclude con questo dilemma: o
accettare la Chiesa infallibile, o rinunziare a ogni dogma. Egli per
conto suo, rinunzia a ogni dogma; ma la sua testimonianza è giusta. Si
ha il diritto di dire: Senza la Chiesa sparisce tutto quello che è
cattolicismo, e senza le prerogative essenziali che la Chiesa si
attribuisce, sparirebbe lei stessa. Questa, io credo, è coerenza.
D. Ma come si è stabilito questo dogma della Chiesa?
R. Tanto poco artificiosamente quanto gli altri, proprio per il
gioco dei fatti, in virtù di parole, di gesti e d'interventi sporadici.
Alcune dichiarazioni semplicissime di Gesù ne sono il punto di
partenza, e si crede di metterci nell'imbarazzo dicendo che vi è
sproporzione tra queste dichiarazioni e l'immensa macchina attuale, o
anche coi suoi abbozzi primitivi, le Chiese di Barnaba o di Paolo. Ma
questa sproporzione è per noi un trionfo;
io ne concludo che questo ha germogliato affatto da
solo, come la pianta quando si è gettato il seme. Il seme germoglia e
subito vede tutta la vita della natura collaborare seco, perché?
perché anch'esso è vita, perché vi è in esso un principio di vita.
Io chiedo qual è, per la
105
Chiesa, il principio vitale. Le scosse dei primi giorni,
e poi i venti della storia avevano tutto quello che ci voleva in fatto
di violenza e di capriccio per sradicare un germoglio senza vita
ardente, senza vita miracolosamente salda: a più forte ragione non
avrebbero fecondato un germe senza vita.
D. Ma io parlavo soprattutto della conservazione del
dogma.
R. Infatti vengo ora alla tua domanda: come la
Chiesa, così stabilita, ha conservato tutto il resto? Coi medesimi
procedimenti tanto poco artificiosi quanto era possibile; coi
procedimenti della vita. Un'autorità decide, proprio, come nel vivente,
un ordine parte dal cervello per mettere in azione gli organi. Ma nello
stesso modo che il cervello non fa altro che servire l'idea vitale
inclusa in tutto il corpo e da cui procede esso stesso: così
l'autorità dottrinale non fa altro che prestare una voce al dogma
immanente nella comunità cristiana. Essa non pretende di innovare
niente: consacra. Essa s'informa precedentemente; ma non in aria,
astrattamente; consulta la massa vivente per sapere che cosa essa porta
seco. Essa riapre i suoi grandi libri: la Bibbia, gli scritti dei Padri,
quelli dei dottori illustri, la Somma di S. Tom-maso d'Aquino, e
i teologi viventi si sforzano d'interpretare quest'insieme. Ma i
teologi, come ho detto, si sono guardati bene dal creare qualche cosa;
essi riducono a sistema, ecco tutto il loro compito personale;
quanto al resto, raccolgono e codificano.
D. E di dove attingono?
R. Tè lo dico; nella vita, nella pratica corrente,
nelle
forme della preghiera, che rivelano loro il « senso
della
106
Chiesa », il suo contenuto spirituale, la sua anima. La
tradizione e l'applicazione spontanea che se ne fa sono così l'unica
attestazione del « deposito ». Se l'autorità insegnante rinette, e
molto, prima di decidere qualche cosa, la sua riflessione non ha che
questo oggetto: quale è il deposito? che cosa contiene il germe?
proclamando tale dottrina, restiamo noi nella specie umano-divina, che
è il frutto della nostra istituzione, oppure creiamo un ibrido in cui
la vita autentica non continuerebbe?
D. E chi finalmente deve dire l'ultima parola per
decidere?
R. Tu penseresti che sia il più sapiente, il più
influente, il più esperimentato, il più religioso, il più santo, o
comunque colui che, nella stima altrui, aduna in sé tutti questi
vantaggi? Niente affatto. È un uomo che generalmente è dotato e
competente in una sufficiente misura, ma che può anche non esserlo e
che a volte non lo fu punto; è l'eletto di una maggioranza del caso, un
giudice che non offre alcuna garanzia speciale, salvo che egli è
regolarmente investito come successore di Pietro e con ciò diventa
l'erede della promessa.
D. Questo ti basta?
R. Con questo tutto va bene; la vita continua;
nessuna alterazione si produce; non incombe alcun pericolo, la coerenza
dogmatica non è mai smentita; sono evitate difficoltà a cui soccombono
anche le più grandi menti, quando speculano per conto loro;
l'adattamento all'umanità e alle sue multiformi condizioni si rivela
sempre più ricco, come lo accertano, oltre i risultati della vita,
gl'immensi lavori di comparazione e di approfondimento a cui si dedicano
i teologi, i mistici, gli sto-
107
dei e i sociologi di tutti i tempi. Pascal direbbe: «
Ciò supera l'uomo ».
D. L'adattamento di cui parli è solamente sociale, o
anche individuale?
R. Bisogna che sia individuale per essere sociale;
perché, ad onta dei sociologi inesperti, la società
prende i suoi caratteri appunto nel cuore dell'individuo e nel quadro
della famiglia, individuo completo. Una dottrina di vita ha dunque il
dovere di adattarsi a tutte le parti-colarità individuali legittime, a
tutte le attitudini, a tutti i temperamenti morali, a tutti gli stati di
vita, a tutte le professoni; altrimenti la sua nozione stessa e
specialmente i suoi mezzi non avrebbero niente di concreto;
non sarebbe che uno schema senza alcuna vera utilità
pratica. Ogni cristiano dovrà indubbiamente sentirsi figlio di Cristo,
partecipe della sua salute, stimolato da lui a vivere in conformità
alla legge di amore e a tutte le sue conseguenze comuni; ma nello stesso
tempo si sentirà una « vocazione », « chiamate », un ideale
proprio, un « dovere di stato », « grazie di stato », e anche «
grazie attuali », cioè grazie di atto, grazie per ciascun atto e che
ne prenderanno la forma; a tal segno che egli saprà di essere stato
tenuto presente nella singolarità del suo caso e della sua persona.
D. Di ciò vi sono tracce antiche? R. È quello
che fa vedere la dottrina cattolica prima ancora della sua nascita
effettiva, nella persona del Precursore. Giovanni Battista non
raccomanda a tutti quello che fa egli stesso; parla ai soldati dei
doveri del soldato, al pubblicano, al doganiere dei doveri dell'esattore
delle imposte. Gesù alla sua volta, pur lodando il Bat-
108
tista come il più grande degli uomini, ha cura di
notare che non farà come lui; egli proclama la varietà; la consacra
con la sua azione, che parte sempre dal fatto personale, dal caso e
dalla disposizione presente; e ne da questa ragione sublime: Così la
Sapienza sarà giustificata da tutti i suoi figliuoli, cioè
dall'insieme de' suoi figliuoli.
D. Ciò ha avuto senza alcun dubbio una
continuazione! R. Più tardi, i Santi, quelli che tra i fedeli
incarnano meglio la dottrina, non si danno alcun pensiero di
rassomigliarsi; sono dei potenti originali, a volte fino alla
eccentricità, come lo Stilila, Benedetto Labre o Filippo Neri. Non
hanno neppure la cura di rassomigliare a se stessi nelle varie fasi
della loro vita; essi seguono lo Spirito; ma lo Spirito è uno; tutti
vivono del medesimo succo, che si mostra così conveniente alle piante
umane e alle più disparate forme di evoluzione umana.
D. Vi sono altri segni di questa verità? R.
Eccone uno: tra le persone che vivono attorno a noi, se ne vedono di
quelle che aderiscono o ritornano alla religione cattolica per le
ragioni più diverse: ragioni propriamente religiose, ragioni sociali,
ragioni politiche, ragioni estetiche, ragioni sentimentali, delle quali
ben si vede il lavoro, nel corso di un processo che si sforza di
oltrepassarle. Ciascuno ha cercato il suo adattamento personale, l'ha
trovato e penserebbe volentieri che la Chiesa sia fatta specialmente per
offrirgli quello che a lui importa. Ma un altro ha raggiunto la verità
da un altro lato, un terzo da un altro ancora, e tutti insieme ne
provano l'integrità, il carattere completo, come una statua ben
riuscita si rivela conforme alle leggi dell'equilibrio delle masse e
nella giustezza
109
dei profili. « In fondo, è il cattolicesimo che noi
oggi cerchiamo tutti », scrisse alla vigilia della sua conversione un
giovane ebreo (marcello schwob),
D. Donde viene la tua fiducia in un simile
adattamento per l'avvenire?
R. Dal fatto che l'avvenire di cui tu parli è un
avvenire di uomini, e che .s'incontra necessariamente questo avvenire
incontrando l'uomo. Per il cattolicesimo, essere un risultato autentico
del passato, una sintesi perfetta del presente e un'esatta previsione
dell'avvenire, è la stessa cosa.
D. Ma l'uomo aspira al progresso. R. Se queste
speranze di progresso si effettuano, io dico che la ricchezza
dell'adattamento andrà sempre crescendo; perché la nostra fede
rappresenta un ideale. Essa si offre a un'umanità imperfetta con tutto
quel che ci vuole per trarre partito dalle sue imperfezioni; ma di sua
natura spinge al perfezionamento e in seguito vi si accorda. Di tappa in
tappa, può condurci, e seguirci, e condurci ancora, fino
all'impossibile ideale di Cristo:
Siate perfetti come il vostro Padre celeste è perfetto.
D. Una tale dottrina della vita non sembra un po'
fuori della vita?
R. È la vita stessa. La vita non è altro che uno
sforzo più o meno riuscito verso l'ideale, un eroismo, come dice
William James. Ciò non si oppone per nulla alla semplicità e al senso
pratico. La fede cattolica è tanto pratica quanto ideale, tanto
semplice quanto profonda e ricca. Ce n'è per i pastori e per i Magi,
per i passeri e per gli elefanti. Chiunque, grande o piccolo, ritorna in
sé e si trova collocato in faccia ad essa, la riconosce.
110
D. Allora, perché discutere? R. Si discute con
l'incredulo, per forza; egli non si vorrebbe arrendere senza argomenti;
gli argomenti sono la sua difesa istintiva, le sue armi. Ma in fondo, lo
slancio decisivo non viene dalla disputa, ma dalla connaturalità prima
manifesta, poi riconosciuta, del Vangelo e dell'anima, del dogma e della
vita. La verità è una cosa « tanto naturale quanto il sole e l'acqua
fresca — scrive Paolo Claudel — tanto facile all'anima quanto il
pane e li vino ». Per questo il povero incredulo, una volta fatto il
passo, è di solito stupefatto del tempo e degli sforzi che gli
occorsero per varcare un abisso che non esiste.
D. Tuttavia, nel ^o^w^^^e2tfsS_?$^Z^!^ contraddizioni.
R. Non vedi che queste contraddizioni dipendono
appunto dalla sua^pienezza e.,.dalla sua integrità? Quando si tiene
tutta la strada, si tengono i due fossati, e si trova sempre qualcuno
che ti dice: tu sei troppo a destra; tu sei troppo a sinistra; oppure:
tu raccomandi nello stesso tempo la destra e la sinistra. Al che il
cattolicesimo risponderebbe: È vero, ma io armonizzo tutto. Il dogma è
il maestro dell'equilibrio; esso raduna in sé tutto e spinge tutto alla
sua pienezza, senza che vi sia nulla di discorde. Ma abbracciando tutta
la vita, per forza da l'impressione che esso si contraddica; perché le
circostanze della vita sono infinitamente diverse, e quello che conviene
oggi o qui, domani o là si fa vedere contrario. Per questo abbiamo
definito la dottrina cattolica una relazione universale, potremmo
definirla, per
111
il fatto delle sue opposizioni apparenti: un paradosso
universale; ma ciò sarebbe una suprema lode.
D. Ti farebbe dunque piacere l'opposizione degli
estremisi/ e nello stesso tempo il « giusto mezzo » ?
R.
esattamente per la stessa ragione. Le persone estreme sono estreme non
perché raccomandano un estremo; ma perché non ne raccomandano
che uno solo. Quelli che tu chiami del « giusto mezzo » si
tengono in un posto intermedio donde non si sprigiona nessun orizzonte.
La dottrina cattolica tiene tutto lo spazio, ed è lontana dalla
mediocrità quanto dalla parzialità di questo o di quel dato estremo.
È quello che aveva profondamente colpito Pascal in ciò che riguarda
l'eminente dignità e la miseria dell'uomo, con tutte le loro
conseguenze. La fede cristiana è anche confluenza di questi contrari e
ammette in modo diverso l'uno e l'altro. Essa è ottimista e pessimista
a fondo, secondo il punto di vista da cui uno si colloca. Esalta a un
tempo il misticismo e la positività, l'austerità e la gioia, la
verginità e l'amore, la sollecitudine per se stesso e il generoso
sacrifizio, il dolore e la felicità, la libertà e la subordinazione,
l'uguaglianza e la gerarchla, la pace e la guerra giusta, la dolcezza e
la fermezza, la prudenza e l'audacia, l'abbandono alla Provvidenza e il
lavoro, la fede e le opere, il libero arbitrio e la grazia, il distacco
e l'amore per la vita, la misericordia e la giustizia, la pietà e la
bontà paziente in tutte le tappe della prova terrestre, e la necessaria
implacabilità del supremo giudizio.
D. Ce n'è per tutti'.
R. Sì, ce n'è per tutti in ciò che afferma; ma ce
n'è
anche per tutti in ciò che nega, cioè, vi è di che
susci-
112
tare delle opposizioni da tutte le parti, e rimproveri e
contese che si distruggono a vicenda quando si mira la totalità, ma
che, lasciate ciascuna a se stessa, sembrano giustificate e turbano le
teste. È la luce totale del Vangelo che, offendendo tutti per una
ragione o per un'altra, accumula attorno a sé le nubi. Così il sole è
offuscato dagli efletti del suo proprio irradiamento.
D. Non è così delle altre dottrine? R. Le altre
dottrine mi offrono precisamente la controprova di ciò che io affermo.
Non ce n'è nessuna che non risponda a qualche punto di vista del
pensiero e a qualche esigenza della vita. Ciò che non corrispondesse a
niente non si potrebbe far riconoscere, poiché il bisogno che si crede
di averne è quello stesso che lo crea. Ma la concordanza col bisogno
umano non è mai se non parziale; si afferma una verità, se ne
dimentica un'altra complementare, come già abbiamo rimarcato. « La
loro colpa — dice Pascal — non è di seguire una falsità, ma di non
seguire un'altra verità ». « Perciò — aggiunge egli — il mezzo
più spedito per impedire le eresie (o tutti gli errori di qualsiasi
genere) è istruire su tutte le verità, e il più sicuro mezzo di
confutarli è dichiararle tutte », cioè conoscere tutte le verità.
D. Queste dottrine che tu dici insufficienti possono
essere coerenti in se stesse?
R. Non è possibile. Da questo difetto di
adattamento alla realtà, che si chiama errore, risulta necessariamente,
in materia religiosa, un'incoerenza interna. Ciò che ha rapporto a
tutto e non si adatta a tutto non si può adattare a se stesso. Una
chiave universale che non apre certe
113
porte dimostra un difetto che si dovrebbe riconoscere
anche prima di tentare di aprire.
D. È questo il caso di tutte le dottrine di cui io
parlo? R. È il caso di tutte le dottrine tranne la sola dottrina
cattolica. Tutte offrono un carattere di parzialità facile a,
scoprirsi, delle dimenticanze che nel cristianesimo cattolico fanno
brillare la sua trascendente esperienza, delle mulilazioni che, per
trovare il rimedio, invitano a ricorrere a Colui « che sapeva quello
che è nell'uomo » e alla sua autentica rappresentante, la Chiesa.
D. Così tu rifiuti ogni parità! R. Di tutte le
dottrine ce n'è una sola che sia sensata, ed è quella che si dice
soprannaturale; ce n'è una sola che sia umana, ed è quella che si
presenta come divina. Tutto il vasto movimento di riflessione e di
indagini al quale si dedicano gli uomini, checché ne sia di passeggere
fluttuazioni e di fuggitive esperienze, non è diretto che a una cosa:
rovesciare le dottrine avversarie della fede e confermare la fede;
convincere d'insufficienza e d'inumanità parziale tutto ciò che non è
la pura e semplice verità cattolica, e giustificare la Chiesa
cattolica.
D. Certi dicono tuttavia che la religione va morendo;
si dice perfino che è già morta. R. È forse per
questo che la questione religiosa che, nel mondo civile, si è sempre
confusa con la questione cristiana, e si confonde sempre più con la
questione cattolica, è quella che domina apertamente o sordamente tutte
le altre? Strana morte, quella che riempie il nemico d'inquietudine e il
cimitero di rumore!
114
D. Quello che tu chiami il nemico, è da individuarsi
prima di tutto nel mondo politico? R. Difatti. Ora la società
politica riconosce la Chiesa poiché si difende da essa. La società
politica riconosce il pregio della Chiesa, poiché gareggia d'influenza
con essa, poiché applica sotto altri nomi i suoi princìpi
civilizzatori.
D. Si sente dire che l'istituzione cristiana ha
tallito al suo compito e che la sua ricerca d'un ideale di umanità si
è concluso con una sconfitta.
R. Il mondo non è finito. La « sconfitta » del
cristianesimo è la nostra civiltà! Vi è una sconfitta relativa in
ragione delle nostre infedeltà e delle nostre resistenze;
vi è però un trionfo, trionfo parziale che un'altra
èra ha la missione di completare.
D. Attribuisci dunque ad onore del cristianesimo
tutta la civiltà? ' ' R. In questo non faccio altro che ispirarmi
ai più grandi storici e ai pensatori meno cattolici: Renan, Taine,
Harnack, Guizot, Agostino Thierry, Disraeli, Strauss stesso, che, dopo
avere tentato di scoronare Cristo, scriveva a suo dispetto: « La morale
di Cristo è il fondamento della civiltà umana ».
D. Vedi bene! si tratta della morale, e non del
dogma. R. Conosci tu una morale di Cristo « che operi storicamente
» e che sia indipendente dal dogma? Invano si pretende che il Vangelo
in se stesso sia una pura morale e che il dogma sia una creazione
ecclesiastica. Ma questo non ci interessa. La morale di cui si parla
così non consiste che in belle sentenze. Si fa parlare Gesù « come un
libro »; è un'istituzione vivente, operante, senza la
115
quale il libro chiamato Vangelo non avrebbe maggiore
importanza umana e influenza incivilitrice che il Manuale di Epitteto
o il Baghava-Gita. Ora l'istituzione vivente e operante
uscita da Cristo non ha morale che non sia dogmatica. La sua morale è
una parte della sua teologia, e la sua teologia è dogmatica alla base;
la parte morale non è che una conclusione, come già in S. Paolo. Tè
lo spiega Bossuet, con una grandiosa immagine:
« Non ci vogliono due soli, nella religione del pari
che nella natura, e chiunque ci è mandato per illuminarci nei costumi,
è lo stesso che ci da la conoscenza delle cose divine, che sono il
fondamento necessario della vita onesta ».
D. La religione non moralizza il vivere umano per
mezzo di massime pratiche?
R. La religione moralizza la società con
l'applicazione e con l'azione concreta del suo insegnamento che implica
la natura dell'uomo soprannaturalizzato dalla grazia, unito per mezzo di
Cristo al Padre, nell'unità dello Spirito, e orientato, in comunione
co' suoi fratelli, nella Chiesa, verso la vita eterna. Tal è il
principio civilizzatore; non ce n'è altro. Coloro che parlano di morale
cristiana separata si attaccano a un'astrazione, oppure sono vitime di
puerilità a volte eloquenti, ma sempre ingannatrici e spesso nefaste.
Il Gran Rabbino Lyon scriveva sapientemente: « Per apprezzare
l'influenza del carattere e dell'opera di Gesù sul progresso
dell'umanità, ci vorrebbe la scienza universale ». Un Gran Rabbino si
onora ancora di parlare in tal modo. Ma lui parla, con ragione,
dell'opera di Gesù, e non delle sue parole. Ora l'opera di Gesù è la
Chiesa, la Chiesa dog- .
116
matica, o non è niente; questo solo sopravvive a lui
realmente nella storia; solo questo opera nel suo nome. E se per
apprezzare il risultato ci vuole « la scienza universale », è
perché il risultato è universale, perché esso si estende a tutto,
perché niente di umano, di vivente, di moderno gli è estraneo.
D. Per me l'opera di Gesù è soprattutto spirituale.
R. Difatti, noi dimenticavamo qui l'essenziale, quella corrente di
santità che, attraverso alla civiltà esterna e nel più profondo de'
suoi immensi veli, si espande come un Gulf-Stream spirituale, e
che rende testimonianza al fuoco divino sorto dal Vangelo. Si può
contestare questo fatto quando ci si lascia ipnotizzare dai mille
difetti che l'umanità presenterà sempre; ma questa stessa severità
dei nostri giudizi, donde viene se non dalla santità introdotta nel
mondo da Cristo e che suscita la critica, quando non può suscitare la
virtù? Prima di Cristo, la perfezione morale era una rarità, quasi
un'anomalia; in seno alla Chiesa, è un fatto comune e non ci stupisce
se non per la sua grandezza.
D. Tu intendi alludere agli eroi della santità;
ma non ce ne sono forse in tutte le religioni?
R. Trovami un S. Vincenzo de' Paoli mussulmano; una
Santa Giovanna d'Arco buddista, un curato d'Ars pastore protestante, un
S. Vincenzo Ferreri o un S. Francesco Saverio avventista. E dico questo,
credimi, non per disconoscere delle grandi anime, ne per disprezzare il
bene che è dovunque. Asserisco soltanto che la spiritualità vera, il
succo evangelico sbocciato nelle profondità, l'eroismo spirituale che
fa capo a quella pienezza di donazione, a quel calore di sacro
entusiasmo, a quella ca-
117
rifa nel grande senso in cui consiste la santità,
questo non si vede manifestamente, e al completo, se non nella nostra
Chiesa.
D. Vi sono delle santità nascoste. R. Ve ne sono
anche presso di noi; spero molte; saranno queste le nostre scoperte in
cielo. Ma perché non ve ne sono di splendide, e di pubbliche, e che si
completano, se non in una sola religione? Un caso fortuito del genere
sarebbe assai maraviglioso. La risposta naturale non è forse piuttosto
che là dove sorgono gli eroi religiosi, ivi appunto si formano,
normalmente, gli uomini religiosi, e che se la religione si estende a
tutto, è condizione di tutto, si rivela preziosa per ogni cosa, è lì,
normalmente, che si dovrebbero formare gli uomini?
D. Da ciò si dovrebbe concludere che perissero uomo,
bisogna farsi cattolico romano.
R. Proprio quello che io ne concludo. Se ciò ti
sembra offensivo, è perché ti collochi dal punto di vista delle
persone. Io rispetto le persone, e le difendo. Ma parlando di dottrina,
dico: Sì, per essere pienamente uomo secondo il punto di vista
dell'ideale adottato, del programma e dei mezzi adeguati, bisogna essere
cattolico romano. Ciò non significa affatto che questi o quei cattolici
romani valgano più di questi o quegli altri; ma significa che essi
hanno la verità e che gli altri non l'hanno. Chiunque non è
esplicitamente o implicitamente cattolico non è uomo al completo. È
indubbiamente per questo che il convcrtito ha sempre l'impressione di
ritrovare se stesso e di reintegrarsi in se stesso. E viceversa, come
dice finemente Giacomo Rivière, l'in-
118
credulo « ha sempre l'aria di uno al quale si nasconde
qualche cosa, e che non se lo immagma ».
e) Schizzo di un'apologià esterna
D. Mi dicevi che la coerenza interna della dottrina
cattolica e il suo adattamento alla vita non erano che una delle ragioni
in suo favore. Che sottinteso c'era in queste parole?
R. Io non ti faccio un trattato di apologetica; mi
sono già allontanato molto dal lavoro catechistico che mi sono
proposto. Non ti posso tuttavia rifiutare alcune indicazioni sommarie.
Per cominciare, citerò quel giudizio di Lacordaire che
10 constato in ogni coscienza: « Ogni uomo in buona
fede si può convincere, con pochissima fatica, che il concatenamento
dei fatti cristiani è al di sopra delle forze umane se si suppongono
falsi, e ancora al di sopra delle forze umane se sono veri ». In questa
sola frase,
11 grande apologista da la prova essenziale sulla quale
s'innestano tutte le altre.
D. Che cosa intende il tuo autore per
« ;/ concatenamento dei fatti cristiani »?
R.
Si
tratta di quell'immensa serie dj^ avvenimenti, che, in passato,
si estende da Abramo fino al Papa attuale, e si mostra in grado di
realizzare la sua pretesa di durare sino alla fine dei tempi.
D. Questa serie di fatti è continua e omogenea? R.
È continua, ma non omogenea; essa importa tré fasi: una fase di
preparazione, che è il giudaismo; una fase di realizzazione, che è
l'insieme dei fatti evangelici,
119
e una fase di utilizzazione che è la nostra, cioè
l'èra cristiana. Il giudaismo è un Vangelo nascosto; il Vangelo è un
giudaismo spiegato; i tempi cristiani sono un Vangelo in azione, o per
lo meno un saggio di applicazione laboriosa.
D. Tutta questa evoluzione ha dunque un centro? R.
Il centro o il perno di questa evoluzione è Cristo.
D. E che cosa deduci da questa constatazione? R.
Non sei tu colpito, prima di tutto, da un fenomeno storico di questa
ampiezza: una forza all'opera dalle origini della storia fino a oggi;
che sviluppa gli annali di Dio e la filosofia di Dio senza interruzione,
senza lacuna e senza contraddizione; che attraversa tutti i fatti umani
senza intralciarli e senza confonder visi; che si crea una tradizione
propria nel corso delle nostre tradizioni, una società a sé, una
società perfetta e indipendente nel cuore delle nostre società; che
suscita una vita la quale abbraccia l'altra e ne sposa tutte le forme,
con la mira di elevarla al di sopra di se stessa e di portarla più
avanti? È questa una cosa così ordinaria che non valga la pena di
fermarci per domandare a noi stessi: Quale è questa forza? Il
giudaismo, in quanto storia, sembra più prodigioso di tutti i prodigi
particolari che vi si rilevano, e la fondazione del cristianesimo, la
sua conservazione, il suo modo di evoluzione un prodigio più grande di
tutti i miracoli di Gesù Cristo. Un tal movimento ha'il carattere d'una
vera creazione, d'una creazione dinamica. È un mondo che attraversa un
mondo.
D. Gli storici non ne menzionano le cause? R.
Tutto ha delle cause; ma si dimentica di dire
120
quello che ha causato cedeste cause, organizzato il loro
concorso e assicurata la loro efficacia, ad onta di tante cause
contrarie. Vi sono anche cause che assicurano la grandezza degli imperi
umani, delle imprese umane:
mostrami un caso che a questo si possa paragonare, fosse
pure lontanissimamente.
D. È una questione di grado. R. Quando le cose
arrivano a un certo grado, ti presentano un problema, come se al gioco
tu sbancassi tutti i giorni il tuo compagno. Nel caso di cui parlo,
tutte le leggi dell'equilibrio storico sono spiegate; il «
ricominciamento eterno », senza perdere i suoi diritti sopra una
materia che rimane materia umana, è al servizio di una continuità che
lo domina. Ascolta uno storico (Ernesto Lavisse): « Io storico, non so
quello che avvenne il mattino di Pasqua; ma quello che so, è che, quel
giorno, nacque un'umanità che non muore. Christus resurgens non
moritur ». Ascolta Ernesto Renan, un autore poco sospetto: «
L'avvenimento capitale della storia del mondo è quella rivoluzione per
la quale le più nobili parti dell'umanità passarono dalle antiche
religioni a una religione fondata sull'unità, la Trinità,
l'Incarnazione del Figliuolo di Dio ». E se vuoi il commento, ecco
Rémusat: « I casi fortuiti delle faccende umane non portano affatto a
tali risultati ». E Bossuet: « È un'opera così grande, che se Dio
non la avesse fatta, lui stesso la invidierebbe al suo autore ».
D. Ciò mi colpisce, ma non mi convince. R. Godo
di vederti difficile. Ma vi è altro. Questo immenso spiegamento offre,
nel suo decorso, un carattere profetico; la sua continuazione è
annunziata fin dal
121
principio e ciascuna delle sue tappe è annunziata nella
tappa precedente, diciamo meglio, per mezzo della tappa
precedente, che non ha senso se non ir essa.
D. I primi cristiani annunziarono come imminente la
fine dei tempi, e credevano di appoggiarsi in ciò sopra le -parole di
Gesù; ebbene, erano in errore.
R. Erano di fatto in errore; ma non si trattò di un
errore religioso, e a proposito delle parole di Gesù, che avevano
formalmente scartato questo problema, era una pura interpretazione.
L'errore veniva precisamente da una persuasione religiosa dominante,
unita a una mancanza di prospettiva riguardo al temporale. Gesù aveva
predicato l'essenziale; i suoi discepoli, imbevuti dell'essenziale, lo
schematizzavano così: ieri Adamo; ora Cristo; domani la reintegrazione
del mondo in Dio. Che importa che questo domani fosse stato
compreso in un modo più o meno stretto? Lo schema è esatto. Il
giudaismo è un lungo messianismo; il Vangelo è un annunzio formale dei
tempi cristiani; alla sua volta il cristianesimo profetizza gli ultimi
tempi, e l'avvenire darà la risposta.
D. Chi può azzardare un giudìzio su db che non è
ancora?
R. Già ne abbiamo molti segni; ad ogni modo, oggi
è certo che il fatto della Chiesa giustifica Cristo e il fatto di
Cristo giustifica il giudaismo. Renan fu molto colpito da questi fatti,
che altri « critici » preferiscono passare sotto silenzio.
D. Le profezie di cui parli sono veramente chiare? R.
Puoi leggere dovunque, nei libri dell'Antico Testamento, le visioni che
riguardano l'avvenire, i testi
122
sorprendenti dei Profeti che annunziano nei particolari
la vita, la morte e l'opera di Gesù Cristo, come pure i suoi effetti.
Nel Vangelo trovi l'annunzio della Chiesa, delle sue traversie e
dell'opera sua sino alla fine dei tempi.
D. 5';' è da taluno affermato che i testi antichi
relativi a Cristo s'incontrino con lui per questa semplice ragione che
da essi si sono presi gli elementi della sua storia.
R. Ecco delle sciocchezze che non reggono all'esame.
È certo che gli Evangelisti hanno cercato i raffronti e ta-lora
sottilizzato: certi loro raffronti sono forzati, altri discutibili. Ma
ciò stesso prova la loro sincerità. Quando s'inventa, non si ha
bisogno di sottilizzare così e di esaurire tutte le proprie risorse;
basta lasciar correre; la fantasia è ubbidiente.
D. Da
ciò sembrerebbe che il giudaismo[,.e_Jl_cris.(iaiS£-simo non siano che
una sola e identica religione; mentre in realtà si oppongono l'una
all'altra.
R.
Si
oppongono e si confondono con ragione, sotto diversi rapporti. Il
giudaismo letterale e carnale si oppone al cristianesimo, religione
spirituale; ma il giudaismo vero gli è identico, tenuto conto della
differenza dei tempi. Il vero giudeo non era colui che si faceva
circoncidere e compiva a Gerusalemme dei sacri-fizi materiali, ma colui
che amava Dio con tutto il suo cuore e, coscientemente o no, per mezzo
dei simboli della legge mosaica, si univa a Colui che è la salvezza
degli uomini. Il vero cristiano non è colui che va alla Messa nei
giorni festivi e scioglie i suoi voti; ma colui che ama Dio con tutto il
suo cuore e, .per mezzo dei simboli questa volta vivificanti della legge
evangelica,
123
si unisce a Colui che è il salvatore^degli uomini. Agli
uni e agli altri, a tutti gli uomini, Cristo può rivolgere le solenni
parole del Deuteronomio: Prendo oggi come testimonio il ciclo e la
terra: ho posto davanti a voi la morte e la vita, affinchè scegliate la
vita, e amiate Dio e gli ubbidiate; perché Dio è la vostra vita (Deut.,
XXX, 19).
D. Quale compito ^attribuisci tu a' Giudei riguardo
al cristianesimo?
R. Essi ne sono i testimoni. Attestano la
continuità di cui io parlo. Accoliti involontari, essi presentano il
Libro, e la luce dei fatti antichi, e l'incenso dei salmi. Vi recano uno
zelo esemplare; sono incomparabili conservatori dei nostri testi e delle
nostre tradizioni; sono degli antichi che si vedono e fanno vedere degli
antenati contemporanei, se posso dire così, dei morti che vivono. Sono
dispersi da per tutto e sono una sola cosa; hanno altre patrie senza
potere ne volere rinnegare quella che ai divini disegni importa di
conservare sussistente. Una tale testimonianza permanente, senza pari,
senza sospetto, poiché depone contro di sé; questa testimonianza delle
cose predette delle quali il testimonio rifiuta di vedere il compimento,
ma conserva con amore i testi in cui i suoi profeti annunziano che egli
sarà il nemico del compimento, benché amico della promessa, è un
fenomeno provvidenziale sorprendente al massimo;
esso, dicevo, commosse Renan, e strappò a Pascal la sua
grande esclamazione: « È meraviglioso! ».
D. Ma perché i Giudei,.n.on,.£r.edetterQ,.^erchè
non
credono, dopo avere atteso quello che rifiutano?
R. Non è esatto che tutti non abbiano creduto. Le
124
prime Chiese cristiane sono dei gruppi giudaici. In quel
momento la divisione si fa tra i veri Giudei, che comprendono lo spirito
della loro religione e lo riconoscono in Cristo, e i Giudei carnali, che
disconoscono Cristo perché egli non è carnale. Il seguito si spiega
mediante la tradizione, e mediante la permanenza, in molti, di questo
spirito carnale.
D. Dunque, secondo tè, vi è qualche cosa di
miracoloso nelle profezie di cui parli?
R. Una profezia è necessariamente un miracolo;
nessuno sa per via naturale l'avvenire. Del resto a questo miracolo
psicologico delle profezie si aggiunge il miracolo propriamente detto,
il miracolo esterno, dei quali io non ritengo che il numero meglio
attestato, il più impressionante, quello che forma attorno a Cristo una
costellazione di fatti dolcemente luminosa come le nostre stelle.
D. Il miracolo mi urta. R. Perché?
D. Per la sua stranezza, per la parte arbitraria che
vi si insinua, per il disordine evidente che introdurrebbe nella trama
delle cose, in opposizione con le leggi che la scienza studia e a
scapito di tutte le nostre certezze. R. Il miracolo non può
apparire strano se non a una mente ancora lontana da Dio. Colui che vive
abitualmente in presenza di Dio non si meraviglia di vedere che Dio fa
qualche miracolo, dal momento che egli ha fatto tutto e tutto conserva. ì^eìVEncyclopédie,
di solito antireligiosa, si trova questa lucida osservazione: « Sup-
125
poni il nulla, e ti renderai conto che i fatti naturali
e i fatti soprannaturali non tengono all'essere più gli uni che gli
altri, non son più facili o più difficili a compiere gli uni che gli
altri. Il rendere la vita a un morto è a Dio altrettanto facile quanto
il conservarla a un vivo ».
D. Ecco la faciloneria di ciò che è arbitrano. R.
È forse arbitrario che le leggi d'un ordine inferiore cedano alle leggi
d'un ordine superiore? Ciò non si produce forse in tutta la natura, e
la libertà umana non si oppone forse al determinismo nel nome dello
spirito? Perché l'ordine soprannaturale non s'imporrebbe alle leggi
naturali nel nome di fini superiori? Il funzionamento della natura è
forse fatto per se stesso, e non è orientato allo spirito? Direi
volentieri con Hello che, turbando un ordine di fatti che ci opprime o
che si oppone ai nostri fini spirituali, Dio non fa altro che « turbare
il disordine »; difatti l'ordine è nella subordinazione della natura
alla vita e della vita alle leggi morali che la regolano.
D. La mia impressione d'un ordine alla rovescia non
è dissipata.
R. Aggiungo questo. Secondo nessun punto di vista vi
è qui un « ordine alla rovescia », o disordine. Vi è solo un ordine
nuovo, in ragione di un'inversione che orienta altrimenti i fenomeni e
così fa capo ad altri risultati. Nessun agente naturale è per questo
violentato ne strappato alle sue proprie tendenze. Il miracolo
scaturisce da Dio, ma è nella natura; « la sua trascendenza opera
secondo modi immanenti » (marcello schwob).
126
D. Il determinismo nondimeno viene spezzato. R.
Niente affatto, se tu intendi quel determinismo che è una legge della
mente e una condizione di ogni scienza; perché il determinismo così
inteso vuole soltanto che in date condizioni si produca un dato effetto.
Aggiungi una condizione — qui l'intervento divino —
10 stesso determinismo vuole che il risultato sia
diverso.
11 determinismo naturale lasciato a se stesso, non ha
niente d'intangibile; è un'abitudine dei fatti materiali;
dunque è inferiore allo spirito, del quale, per Enrico
Bergson, esso rappresenta una meccanizzazione e una caduta; esso cede
già davanti allo spirito umano: donde la libertà; cede anche davanti a
Dio: donde il miracolo.
D. Ma che cosa diventa la certezza della scienza? R.
Sei tu certo di ciò che io farò domani? e perché saresti tu certo di
ciò che farà o non farà Dio? Le certezze della scienza non hanno
questo oggetto; esse hanno di mira ciò che io chiamavo or ora le
abitudini dei fatti, i loro collegamenti spontanei, rivelatori d'una
natura delle cose. Ma la natura delle cose si estende fino a Dio stesso;
essa si dispone in gradi in tal modo che ciò che è natura per sé è
soprannatura per rapporto a quello che esso domina e regge. Dio è
soprannatura in modo assoluto; la sua volontà è la legge suprema, come
la volontà dell'architetto è la legge della sua opera, come la
volontà dell'acqua, se posso dire così, è la legge d'una turbina. Qui
non c'è difficoltà se non per coloro a cui preme che la natura sia
sola, senza che Dio la penetri. Ma costoro non hanno più nulla a vedere
coi diritti della scienza o con quelli del cosmo. Il miracolo non
violenta
127
affatto la natura; esso concorre con lei, e con ciò
consacra le sue leggi.
D. E a che serve il miracolo?
R. A fare del bene e a illuminare. I miracoli di
Cristo
sono tutti benefici, tutti chiarificatori.
D. Non danno alla sua vita un'aria di leggenda atta a
diminuire la sua azione, invece d'ingrandirla?
R. Nei miracoli di Cristo non c'è aria di leggenda;
nessun elemento di curiosità, di ostentazione o di
puerilità ci si trova; essi si connettono strettamente al compito
redentore. Gesù guarisce i corpi con quella stessa bontà che guarisce
le anime; attraverso il corpo egli vuole arrivare all'anima, rendere
autorevole la missione col suggello di Dio, rendere inescusabili i suoi
negatori, e i suoi fedeli sicuri della loro prudenza, supplire per la
durata della sua vita alle profezie non ancora compiute (come la
sopravvivenza sua e quella dell'opera sua), combattere l'evidenza
opprimente della sua umanità con uno splendore della sua divinità,
allontanare lo scandalo dalle sue affermazioni trascendenti circa la sua
persona, attribuendosi il diritto di domandare, davanti a un paralitico:
« Che cosa è più facile, dire: I tuoi peccati ti sono rimessi, o
dire: Alzati e cammina»? (matteo, IX, 6).
D. I miracoli di Gesù Cristo non Si spiegherebbero
con il fascino di una personalità meravigliosa? R. La personalità
di Gesù fu potente; ma ogni influenza ha dei limiti che ad ogni istante
il Vangelo supera, e nessuno ha influsso sopra la morte. Del resto nella
vita di Gesù vi sono dei miracoli ai quali la sua personalità è
estranea.
128
D. Alludi ai racconti dell'Infanzia. Ma queste storie
di pastori e di Magi non sembrano molto puerili? R. Non vorrai
giudicare puerile quella divina semplicità che tante grandezze
compensano. È la sublimità propria del Vangelo l'aver messo insieme
queste cose:
le narrazioni di Betlemme, e il Discorso della Montagna,
il Gloria in excelsis e l'anatema contro i Farisei, l'officina di
Nazareth e il Tabor, il presepio e la croce.
D. Ma queste narrazioni di miracoli non sarebbero
state inserite più tardi dai discepoli ingenui e zelanti? R. Ciò
si potrebbe supporre per qualche miracolo isolato; ma in generale essi
fanno corpo con la persona, con la dottrina e con la trama storica della
vita; è impossibile toglierli senza distruggere tutto.
D. Ma ancora, che cosa valgono questi testi e qual è
la loro autorità?
R. Sotto l'aspetto della loro trasmissione, è
riconosciuto che nessuno scritto dell'antichità offre tali garanzie
critiche; e ciò, in grazia del gran numero di manoscritti prossimi agli
originali, delle versioni primitive diverse, delle citazioni sparse e
quasi immediate, delle edizioni scrupolose, ecc. In quanto agli stessi
autografi, possono essere datati in media a una quarantina d'anni dopo
la morte di Gesù; ma nota che lì non si tratta che della scrittura;
prima vi è la testimonianza orale; vi sono quelli che hanno veduto e
udito, e che attestano a costo della loro vita l'oggetto del loro
messaggio. « Io mi fido di testimoni che si fanno sgozzare » (pascal).
D. Molti si sono fatti sgozzare per le loro credenze.
R. Non si tratta di credenze, ma di fatti, di tutta una vita.
129
D. Non vi sono neLy,Mgelo,Jm^e.~oscMÌ.tà...e-,coutrad-dhioni?
R. Esse sono minime, e provano la sincerità,
l'indipendenza reciproca degli scrittori, fino a qual punto essi hanno
« la passione del vero », come dice Origene. Con ciò, se lasciano del
dubbio là dove i racconti non concordano, cioè in quanto
all'accessorio, esse rinforzano la certezza là dove tutto concorda,
cioè su ciò che maggiormente importa. Sarebbe stato così facile,
fuori del profondo rispetto del vero e delle fonti, il mettere d'accordo
gli scritti!
D. Sai che si è giunti a mettere in dubbio perfino
la esistenza di Gesù Cristo?
R. È un eccesso estremamente oltraggioso di critici
dilettanti. Ma se ve ne sono dei sinceri, coloro che qui dubitano hanno
davvero perduto il senso del reale. Negli Evangelisti, la storicità di
Gesù splende altrettanto e più che il misticismo; in essi tutto è
profondamente umano, preso sul vivo dell'azione quotidiana, in
connessione evidente con un ambiente e tempi storici determinatissimi,
con uomini di carne ed ossa e con istituzioni positive che ogni sorta di
minute particola-rità fanno riconoscere. I tratti di realtà locale
confermati dalla storia, dalla topografia, dalla psicologia e
dall'esperienza si contano nel Vangelo a migliala. Qui non si tratta di
immaginazioni disparate. Le lacune dei racconti, le loro contraddizioni
superficiali, l'opposizione apparente di certi tratti con lo scopo dei
narratori, il carattere delle ^sconnessioni che nessun ritocco
letterario corregge, la corsa allo spogliamente registrata nei fatti, ma
non preparata, una moltitudine di affermazioni scon-
130
certami per il senso umano, ambigue, insospettabili, e
tuttavia ingenuamente proposte, come se coloro che riferiscono
dicessero: Ecco, noi non ne possiamo niente:
mi sembra che sia già abbastanza per invalidare la
supposizione d'una vita di Gesù tutta fabbricata di pezzi, e
specialmente di pezzi, come si suppone, fuori di ogni realtà. Una tale
supposizione è insensata. Ma c'è molto di più. Ed è che la
personalità di Gesù si rifiuta a ogni composizione letteraria o
mistica, a ogni creazione spontanea o concertata all'infuori di un fatto
storico, e di un fatto trascendente. Infatti queste due cose sono legate
insieme. Al Gesù del Vangelo .e.tanto impossibile l'essere splamente,_a.n
uomo ..quanto, il,^ dileguarsi come un fantasma.
D. Non sono certo di capire.
R. Mi spiegherò con gioia; perché il mio rispetto
e il mio amore di questa sacra personalità mi rende dolcissimo il
presentarla, se posso dire così, a chi mi può intendere. Domando solo
che non dimentichiamo di raccoglierci.
D. Dici che la persona di Gesù non potrebbe essere
una creazione della mente, che è necessariamente reale, e aggiungi:
divinamente reale?
R. È così. Tu conosci questa brusca interrogazione
di Pascal: « Chi'ha insegnato agli Evangelisti le qualità di un'anima
perfettamente eroica, per dipingerle così perfettamente in Gesù
Cristo? ». Prendendo un esempio aggiunge: « Perché lo fanno debole
nella sua agonia? Non sanno essi dipingere una morte forte? Sì; perché
lo stesso S. Luca dipinge quella di S. Stefano più forte che quella di
Gesù Cristo ». È un particolare; ma ve ne
131
sono mille simili. Il carattere di Gesù nel Vangelo è
elevato quanto lo può essere ideale d'uomo; la sua qualità morale
permette di vedervi, se posso dire così, una forma umana degli
attributi di Dio; ma, con ciò, questo carattere non ha niente di
astratto; offre delle disparità che in una composizione o in un sogno
collettivo sarebbero incomprensibili; in lui l'inatteso è un segno
certo di autenticità, perché ce lo mostra radicato in realtà vive,
che egli stesso non esaurisce.
D. Bisognerebbe vedere questo. R. Qui non posso
far altro che fornire l'indicazione;
ma tu verifica, e sarai colpito dall'evidenza. Nello
stesso modo che la dottrina di Gesù non è una teoria, ma la
espressione della sua propria vita e della sua propria persona, così la
sua vita e la sua persona, quali si presentano nei racconti evangelici,
non sono costruzioni astratte, ma l'espressione di un ambiente in cui si
manifesta un'anima, in cui si manifesta Iddio. Gesù è « una specie di
giustizia animata », dice S. Tommaso d'A-quino; ma animato, alla sua
origine, significa corporale, misto alla natura, versato nella storia,
come un prodotto di questo suolo così come del cielo. Ciò non si
fabbrica punto in un gabinetto di lavoro, ne esaltandosi in conciliaboli
mistici. Nessun vapore d'immaginazione ha questa densità cristallina,
questi contorni spiccati, queste facce in cui si alterna una doppia
chiarezza:
quella di un'anima individuale infinitamente aperta, ma
tanto più consistente, e quella d'un ambiente di vita troppo complesso
e obiettivo per poterlo sognare. Qui, il concreto splende da per tutto
ed è il miracolo! Trova tu altrove la perfezione dell'ideale nella
realtà storica!
132
« La grandezza che emana dalla persona di Cristo -—
scrive Goethe — è d'un genere divino tale, che mai il divino apparve
così sopra la terra ».
D. Questo gran pagano non vuoi forse dire che Gesù
è divinamente uomo?
R. Lo credo; ma non mi basta. Perché ciò suppone
contro i nostri sognatori una piena realtà storica, e offre una salda
base per una prova della divinità.
D. Quest'ultimo punto mi interessa ^articolarmente.
R. Ecco. Che Gesù sia « divinamente uomo », cioè più
semplicemente, uomo perfetto, ciò suppone che in lui nulla sia
difettoso, ne sotto l'aspetto dell'intellettualità, ne in quanto alla
condotta. Bisogna che i suoi nemici siano confusi, quando l'accusano sia
di follia, sia di ambizione esasperata e satanica, proprio come quando
lo dicono un beone o un seduttore. Ora confronta questa esigenza coi
fatti, nella supposizione che Gesù sia semplicemente uomo. Ecco un
riformatore che ti dice:
« Ogni potere mi è stato dato in cielo e sopra la
terra »;, « II cielo e la terra passeranno, ma non passeranno le mie
parole »; « Io sono la luce del mondo »; un giudeo che, in un paese
di teocrazia, si arroga il diritto di abrogare in qualche modo la legge
del suo popolo e di fondare un avvenire sopra di sé solo; un uomo che
parla con autorità di ciò che gli uomini ignorano; che esige la fede e
il culto; che, mortale, pretende di risuscitare se • stesso e di
risuscitare gli altri; che crede di poter fissare, nel giorno del
giudizio mentre è sulla croce, la sorte eterna di chi lo confessa e
ubbidisce a' suoi precetti; in una parola, che in ciò e in mille altre
cose si comporta come una personalità trascendente, e tu dici: È un
133
'••)-- VC O
uomo ideale? Ma io dico: Se non è che un uomo, egli è
l'ideale della superbia o della stravaganza, dell'esaltazione morbosa o
della sfacciataggine. Nei due casi bisogna voltargli le spalle, con
disprezzo o con ira. Se non si fa così, giudico che non si possono
spiegare le sue parole e i suoi atti se non con l'adorazione.
D. Eppure Gesù non si disse Dio. R. Questa
espressione cruda: « Io sono Dio », non corrispondeva alle circostanze
e non avrebbe tenuto conto delle necessarie transizioni. Gesù dice
quello che occorre, giorno per giorno, a una progressiva educazione de'
suoi figli. Quando i suoi discepoli o i suoi miracolati vogliono
precipitare le dichiarazioni, egli li riprende; impóne loro il
silenzio; alle volte pare che egli stesso escluda perfino quello che
rivendica, perché non è ancora venuto il momento e « vi sono
dodici ore nel giorno ». Non svela i misteri; ma ne pone nondimeno
le premesse. Quello che non dice in termini proprii, lo afferma in modo
equivalente. Dice se stesso figlio di Dio in un senso speciale ed unico:
« II Padre e io non formiamo che una sola cosa »; « Chi vede me, vede
mio Padre ». Ha le creature spirituali al suo servizio. Giudica i vivi
e i morti. Domanda che gli si sacrifichi tutto. Rimette i peccati e
delega egli stesso questo potere. An-nunzia che manderà a' suoi lo
Spirito di Dio. Riceve senza rinviarli a Dio omaggi dovuti a Dio solo.
Venne dal Padre sopra la terra. Si dice Signore di Davide, sedente alla
destra del Signore Iddio. Lui solo conosce il Padre come il Padre
conosce se stesso, e tutti gli altri non conoscono il Padre se non per
mezzo di lui. Tutto gli è stato affidato. Relativamente alla vigna
umana, di
134
cui Dio è il vignaiolo, è lui il Figlio, l'Erede in
opposizione agli inviati apostoli o profeti. Davanti all'autorità
suprema del suo paese e della sua religione, egli pone
quell'affermazione solenne, che porta seco la sua morte, cioè che egli
è il Cristo, Figlio del Dio vivo, e che verrà sopra le nubi del cielo
alla destra della potenza di Dio.
D. Ma ha egli veramente detto tutto questo, preteso
tutto questo?
R. Ancora una volta, si potrebbe discutere sopra una
data parola, come si potrebbe cavillare su un dato miracolo, e, secondo
l'uso, distinguere tra i « sinottici » e « Giovanni ». Ma se
si prendono le cose nell'insieme, lealmente, tali quali si presentano,
è impossibile negare che Gesù non si sia presentato come un
personaggio sovrumano. E ciò non ci basta? Vorremmo noi, come certi
gnostici, domandarci se egli non fosse un eone? La questione è
questa: È egli realmente sovrumano, o è un pazzo? È egli sovrumano, o
è il « seduttore » che denunziarono i pontefici chiedendone la morte?
Perché bisogna ben confessarlo, se Gesù non è sovrumano — quindi
dotato di autorità in tutto quello che disse, in tutto quello che fece
— allora sono i farisei che hanno ragione; ed egli meritò la sua
sorte; gli fecero espiare con giustizia le sue sacrileghe impertinenze.
D. Eppure, Renan...
R. Sostenne una scommessa, e non vi riuscì. Volle
collocare « al sommo dell'umanità » un essere che egli stesso
descrive — in frasi graziose — come un allucinato o un mentitore. Lo
incensa e lo beffeggia. Lo dichiara « divino » dolendosi amaramente
della sua divinità e del suo onore nello stesso tempo. « Un essere
135
miracoloso in un universo senza miracolo », dice
Ber-nanos; un prodigio di umiltà e di orgoglio; un predicatore di Dio
che « attira tutto a sé »; un dottore della rinunzia — tutta la
dottrina del quale si fonda sullo spogliamente dell'ho — e che spinge
la sua ambizione fino a brigare, e ottenere, un culto universale. Ciò
non regge.
D. Non sarebbe possibile un'altra interpretazione di
questa vita e di questa personalità? R. Vi è quella di Giulio
Soury: Gesù figlio di un al-coolizzato o di un degenerato; quella di
Binet-Sanglé:
Gesù, un pazzo.
D. Parliamo seriamente.
R. Seriamente: tutte le^ interturetazioni naturali
del caso Gesù Cristo sono st^te distrutte una dopo l'altra, distrutte
l'una dall'altra; insieme si annullano, e il caso Gesù rimane.
D. Che impressione diretta ne avresti tu, facendo
astrazione da' tuoi dogmi?
R. Una tale astrazione è assai difficile; non si
può garantire che la propria sincerità. Col benefizio di questa
riserva, ecco quel che io penso.
D. Ti ascolto con ansia.
R. Gesù si presenta come trascendente al primo
sguardo. Si può credere al migliore Napoleone: « Io m'intendo di
uomini, e ti dico che Gesù Cristo non era un uomo ». Questo equilibrio
di grandezza; quest'armonia di una condotta tanto eminente quanto
semplice e di una parola tanto naturale quanto sublime; questo dono di
essere in casa sua nei due mondi, di parlare
136
delle cose terrene e delle cose celesti come ugualmente
familiari, delle cose grandi e delle piccole come dello stesso valore,
come un grande finanziere parla di milioni e miliardi, un generale di
piazzeforti, un capo di Stato di province; questa facoltà di non mai
stupirsi, di essere all'altezza di tutto, di sciogliere ogni difficoltà
e di dirimere ogni questione con un solo sprazzo di luce:
ecco di che trasportarci in una sfera a parte: questo
non è umanità corrente, e la qualifica 'eccezionale' non mi basta.
Gesù parla positivamente delle cose dell'altro mondo come un
viaggiatore parla al forestiero delle istituzioni del suo paese; egli
dice quello che sa, quello che ha veduto, e che è per lui cosa di
famiglia, quello che è lui stesso, ed opera in conformità.
D. È qualcosa di sublime al modo di Sacrate. R.
Che differenza! « La vita e la morte di Socrate sono di un uomo, dice
Gian Giacomo Rousseau; la vita e la morte di Gesù Cristo sono di un Dio
». Per me è l'evidenza che parla. Leggi il Vangelo con semplicità,
con fedeltà, non con quella fedeltà che consiste nel credere
prima questo o quello, ma con la fedeltà anticipata che si deve alla
verità quando la si cerca; leggilo con spirito religioso, cioè
ponendoti internamente grandi problemi eterni e pronto ad ascoltare la
risposta; leggi così, e di' se non senti la presenza di Dio.
D. Allora è una visione, non più storia. R.
Dico presenza di Dio, e dico anche realtà umana la più autentica.
Questo non è mitologia; non è teologia abbigliata di fatti; il reale
spunta fuori; è il reale positivo che è « caduto dal cielo » (alessandro
dumas figlio); la spiritualità più trascendente e il fatto più con-
137
creto sono qui inseparabilmente legati e si provano l'un
l'altro; il loro incontro è più miracoloso dei miracoli che si vedono.
Tutti i nostri schemi sono spezzati; la nostra mente è sorpassata; il
nostro cuore è anelante, eppure tutto ciò ha l'accento della verità;
è il suono del reale umano e il suono d'una voce divina.
D. Insamma, a' tuoi occhi, il Vangelo prova se
stesso. R. Esatto, e oso dire che ci vuole una specie di cecità
spirituale per non vedere.
D. Questa cecità è assai diffusa.
R. Ahimè! ci sono tante cose accecanti che noi non
vediamo.
D. Almeno si sospettano, e questo sospetto si fa
riconoscere.
R. È questo veramente il caso. Anche quando non si
crede alla divinità di Cristo, la si sente, la si prova sotto la forma
di una venerazione unica, alla quale nessuna personalità della storia
potrebbe pretendere anche solo lontanamente. Dimmi, vi è un uomo del
quale non si stimerebbe ridicolo il dire: Egli è Dio? Ma non si trova
ridicolo dicendolo di Cristo. Coloro che negano la sua dottrina, ed
anche, cosa strana, coloro che negano Dio, lo riconoscono di un ordine
divino, gli attribuiscono, come Augusto Sabatier, « una specie di
natura divina ».
D. Che significa questo?
R. Chiedilo al suo autore. Per conto mio, dico che
una virtù esce da Cristo, come diceva egli stesso, ed essa
guarisce la cecità del bestemmiatore.
D. Che cosa pensi della risurrezione di Gesù? R.
È il più grande de' suoi miracoli, e il meglio atte-
138
stato di tutti; perché gli altri hanno di per sé la
testimonianza degli uomini; questo invece vi aggiunge la testimonianza
de' suoi effetti.
D. Quali effetti?
R. Quelli che lo stabilimento della fede suppone.
Ricorda quello che disse Ernesto Lavisse: « Io, storico, non so ciò
che avvenne il mattino di Pasqua: ma quello che so è che quel giorno
nacque un'umanità che non muore più ». Una umanità perpetua, sorta
da quella tomba, è qualche cosa! È un'attestazione del prodigio
segreto. Infatti, se Gesù soccombette al suo compito, donde è partito
quell'immenso movimento di cui viviamo ancora? Come si spiega che Gesù
sia per noi diveri-, tato ogni cosa ed occupi tutto lo spazio, con la
sua presenza o con la sua assenza; che la sua causa si confonda ormai
con quella della Divinità sopra la terra, e che tutta un'umanità viva
con questo morto, se la tomba ce lo ha restituito?
D. Chi parla di vivere intimamente con lui! R. Si
vive intimamente con Gesù Cristo; egli è per noi più che uno vivo,
più che un uomo presente e che ci parla.
D. Come ciò?
R. È il miracolo della Chiesa, della Grazia e
dell'Eucaristia. Per la Chiesa, Cristo ci avvolge; per la Grazia, abita
nei nostri cuori; per l'Eucaristia, rende sensibile esternamente come
internamente la sua divina presenza.,, Or tutto questo non è niente
senza la risurrezione.
D. £ possibile nutrirsi di ciò che, in sé, non è
niente,
quando dei secoli di tradizione lo consacrano.
R- Ma io parlo del punto di partenza; domando che
139
cosa ha inaugurato il primo impulso e quale ne fu la
molla. Che cosa è che ha messo in moto gli Apostoli e li fece riuscire?
« Bisognava che qualche cosa fosse successo », dice Claudel. « Mentre
Gesù era con essi — dice Pascal — egli li poteva sostenere; ma
dopo, se non è apparso loro, chi li ha fatti agire? ». Si erano veduti
così deboli! fuori di ogni avvenimento sovrumano, come hanno fatto a
trascinare tutta la terra nei loro movimenti ?
D. I discepoli di Maometto sono diventati un grande
popolo.
R. Sono diventati un grande popolo per la forza
della scimitarra; il cristianesimo si stabilì per l'idea e per il
fatto. L'idea era la dottrina di Cristo, che convertì e trasformò in
umanità nuova tutto il mondo civile d'allora;
il fatto, garante della dottrina e che ne era
inseparabile, era, in primo luogo, la risurrezione.
D. Pure si dice comunemente, tra coloro che non
credono, che la risurrezione fu supposta dopo, per il fatto d'un
entusiasmo religioso.
R. Al contrario essa è alla base di tutto. Senza di
essa non si spiega niente. Non è un effetto della fede, ma la causa. La
Chiesa poggia sulla pietra della tomba vuota.
D. Per tè il cristianesimo è dunque dimostrato?
R. È dimostrato quanto, si possono dimostrare le
cose
morali.
D. È una restrizione?
R. Con ciò intendo di eliminare delle esigenze
as-Surde. Ogni ordine di conoscenza ha le sue prove, che corrispondono
alla sua natura; i teoremi si provano ma-
.140
tematicamente, le leggi scientifiche scientificamente, i
fatti morali moralmente, e i fatti religiosi religiosamente.
D. Che cosa significa quest'ultima parola? R.
Essa sottintende un triplice concorso: quello di una saggia indagine,
quello di una volontà retta, quello della grazia, senza le quali Dio
non si può raggiungere.
D. Che cosa fare, con questo spirito? R. Tè lo
dirò in generale, e tè lo dirò per tè stesso, se lo permetti,
pronunziando le mie ultime parole. — Attendo.
141
I MISTERI
CHE COS'È IL MISTERO
D. Che cosa è questo mistero, che si trova sulla
strada della religione e sembra farle correre il rischio dell'assurdo?
R. Il mistero è così poco l'assurdo che ne è
quasi esattamente il contrario. L'assurdo è l'evidenza del falso; il
mistero nasconde il vero sotto la grandezza stessa del vero. Di modo
che, nel primo caso, l'obbligo di ricono-scersi vinto s'impone
all'assurdo, nel secondo all'intelligenza. « La fede dice, è vero,
quello che i sensi non dicono — spiega Pascal —; ma non il contrario
di quello che essi vedono. Essa e. sopra, non contro ».
D. Donde deriva quest''obbligo di abdicare che
spetterebbe all'intelligenza?
R. Limito per ora la portata di questa parola; ma
nella misura che la mantengo, dico: Noi abdichiamo in favore
dell'autorità divina. « Io credo.,,,arditamente dove non vedo niente
— dice Bossuet — perché credo a Chi vede tutto ». Tu certo non mi
domandi di ricominciare a fondare — per quanto brevemente e
incompletamente io l'abbia fatto — questa stessa autorità.
145
D. Io mi attengo alla questione presente, ma temo che
la religione abusi qui di una certa propensione della anima umana.
R. L'abuso sarebbe nel proporre dei misteri senza
garanzia; offrendo la garanzia col mistero, la religione valorizza
solamente la tendenza naturale dell'anima verso l'infinito.
D. Mi stupisco però che tu trovi naturale
l'oscurità. R. Il mistero non è affatto oscuro .m se stesso; se la
nostra vista si potesse estendere fino ad esso, non lo chiameremmo più
mistero, ma evidenza. Le stelle invisibili non sono forse, nel loro
posto, dei globi abbaglianti? Non il mistero è oscuro, l'oscurità è
in noi; è la nostra condizione attuale che ci intercetta la
comunicazione diretta con esso.
D. Le dottrine religiose che scartano il mistero son
tuttavia più facili a credere.
R. In simile materia ciò che è facile a credere
non merita di essere creduto.
D. Il mistero sarebbe dunque a' tuoi occhi una
necessità?
R. « L'ultimo passo della ragione è dji.
riconoscere che c'è un'infinità di cose che la sorpassano^ essa è
fiacca se non arriva a»conoscere.,questo » (pascal).
D. Ma quello che ci sorpassa oggi ci può essere noto
domani.
R. « I princìpi delle cose son nascosti in un
segreto
impenetrabile » (pascal).
D. Pascal dice: I princìpi; ma le cose? R. Le
cose dipendono dai loro princìpi e non sono
146
conosciute di una conoscenza decisiva se non per mezzo
di essi, di modo che tutte le scienze poggiano, come la religione, sopra
l'incomprensibile. « Percorri la cerchia delle scienze — dice
Giuseppe De Maistre — e vedrai che cominciano tutte da un mistero ».
Del resto il mistero vi persiste e vi si ritrova a ogni nuovo passo,
perché ogni passo della scienza dipende da' suoi princìpi.
D. Il mistero naturale e il mistero religioso sono
dello stesso ordine e dello stesso grado? R. Non sono dello stesso
ordine; ma praticamente non vi sono gradi nella notte profonda.
Teoricamente, guardando le cose in sé, il mistero religioso è più
profondo, per la ragione che esso si avanza di più in Dio. Così Pascal
aggiungeva alla prima frase ora citata: « Che se le cose naturali ci
sorpassano, che si deve dire delle soprannaturali? ».
D. Eppure ho letto questo, che mi ha recato
meraviglia: « I misteri della Chiesa, paragonati ai misteri della
natura, non sono che giochi da bambini ».
R. Chi parla così è Le Dantec, un ateo convinto, e
il raffronto m'interessa; ma anche questo è un errore per
rovesciamento, per inversione di valori. La Trinità è più nascosta
che le leggi di costituzione della materia; l'ordine supremo è più
oscuro che la gravitazione dei corpi. In questo senso, si è nel vero
dicendo con Giulio Soury:
« La scuola primaria dello spirito è la scienza ». Il
mistero ci avvolge da ogni parte, ed è assai strano il vedere che una
ragione così radicalmente impotente riguardo alle più semplici cose
elimini con alterezza i dati religiosi che essa non capisce. Noi
respiriamo nell'incomprensibile; siamo noi stessi qualcosa
d'incomprensibile,
147
e l'incomprensibile è anche il nostro pane. Io ti
propongo questa doppia definizione sommaria: Dio è un mistero che si
nasconde, l'universo un mistero che non si nasconde.
D. Ammetteresti dunque la dottrina dell'inconoscibile?
R. Niente affatto. Ciò che si chiama l'Inconoscibile,
con una maiuscola, è una specie di mistero infinito, in tutti i modi
inaccessibile, un « oceano per il quale noi non abbiamo ne barca ne
vela » (littré) e in senso al quale tutto il reale non è che un'isola
sperduta. Il mistero cristiano è finito, circoscritto e incluso in un
sistema di spiegazioni di tale natura da soddisfare la nostra
intelligenza. Non è un grande abisso nero, ma un seminato di macchie
oscure circondate da luce, e dietro alle quali si annunzia una luce più
viva che in nessuna altra parte.
D. Definiresti dunque il mistero... R. Un varco
d'ombra che si apre sulla luce.
D. Quali conseguenze pratiche ne ricavi? R.
Queste: se l'Inconoscibile è una zona interdetta per definizione, il
mistero è un invito a tentare le ricerche, così come si cammina verso
un fuoco lontano. I genii cristiani non si manifestarono meglio che
procedendo in questa dirczione; vi si sono arricchiti in tutto il
percorso, e se non hanno rischiarato niente di ciò che deve restare
oscuro, l'hanno però chiosato di chiarezze preziose, l'hanno mostrato
in rapporto con tante cose, che alla fine queste stesse tenebre si
mostrano le sole plausibili spiegazioni.
148
D. Ecco un bei paradosso! R. Non è affatto un
paradosso. Un punto d'ombra è rischiarante quanto un punto luminoso,
quando si tratta di stabilire delle convergenze e di costruire uno
schema completo della nostra vita e del nostro universo. In se stesso,
il mistero è misterioso: è la sua natura; messo in concordanza con
tutto il resto, è una fonte di chiarezza:
è il suo compito. « Salve, grande Notte della fede —
scrive Paolo Claudel. — Ecco la notte, meglio del giorno, che ci
indica il cammino ».
D. Il mistero dunque non è una prepotenza esercitata
dalle religioni, una « prova » in flit ta allo spirito?
R. È così poco una prepotenza che l'ho definita
poco fa uno stimolo a pensare, nella speranza di sempre nuove conquiste.
Una prova lo è in un certo senso, perché si amerebbe vedere tutto; ma
è assai più una liberazione, perché senza mistero, non è più
solamente la oscurità, ma la stravaganza a cui ci troveremo di fronte.
D. Spieghi enigmi con altri enigmi? R. Proprio
come per Dio, perché anche qui in definitiva si tratta di Dio. Non
bisogna forse che le chiavi abbiano la complessità delle serrature? In
caso diverso non aprirebbero.
D. Ma allora in che consiste la spiegazione? R.
In ciò che il mistero, per quanto inesplicato in se stesso, ci permette
di vedere; un giorno si svelerà esso stesso. Senza di esso, i fatti
della nostra esperienza sono incomprensibili; esso ce li fa comprendere
attirando a sé le loro oscurità, che allora sono al loro posto e pren-
149
dono un carattere: provvisorio. Esso rischiara
localizzando la notte.
D. Di conseguenza il mistero supera la ragione, ma
una ragione oltrepassata non può essere una ragione soddisfatta.
R. Una ragione superata è meravigliosamente
soddisfatta, quando in ciò che la supera le si fa vedere il mezzo di
rassicurarsi e di comprendere, là dove essa stessa non si trovava a suo
agio. Il sistema cristiano risolve i suoi misteri, in grazia di una
convergenza, e risolve il mistero del reale, riunendo tutte le linee
della nostra esperienza e del nostro pensiero.
D. È certamente questo a provocare la tua
ammirazione.
R. Certo. I nostri misteri sono oscuri, ma
intcriormente si collegano gli uni agli altri, sono strutture
architettoniche e danno un'impressione d'armonia, come una cattedrale
nell'ombra.
D. Per queste ragioni -dovrebbero prestarsi a
tentativi di spiegazione relativa?
R. « Si spiega sempre appunto quello che non si
comprende » (BARBEY D'AUREVILLY).
D. Ma in questo caso le spiegazioni saranno spesso
erronee.
R. Spesso. « Lo spirito umano si vendica delle sue
ignoranze co' suoi 'errori » (Idem}.
D. Non sarebbe anche fatale?
R. No. La notte dei misteri ha questa strana
proprietà,
di far produrre alla mente retta che li scruta il suo
mas-
150
simo di luce; essi sono la pietra di paragone del genio
come quella della fede.
D. Dove si trova a loro proposito la più alta
teologia? R. In S. Paolo. Ma bisogna intenderlo. S. Paolo è il
teologo del Vangelo; S. Tommaso d'Aquino è il teologo di S. Paolo.
151
IL MISTERO DELLA SS. TRINITÀ
D. Qual è il più grande dei misteri?
R. È il mistero della SS. Trinità. Il suo effetto
è di
soprannaturalizzare il concetto di Dio, e di portarlo
assai oltre a ciò che potrebbero concepire le più
potenti
intelligenze.
D. In che cosa la nozione di Dio è
soprannaturalizzata grazie al mistero della SS. Trinità?
R. In questo, che Dio nella prospettiva trinitaria
prende vita, invece di presentarsi come una grande X nella formula del
mondo; nel senso che pur « rimanendo unico, non è più solitario »,
secondo la felice formula d'Ilario di Poitiers; nel senso che, vedendo
l'universo materiale e l'universo spirituale come un sistema di scambi,
noi ne ritroviamo il tipo meglio definito, più perfetto negli scambi
interni che ci si descrivono. Il Dio trino ed uno è come un universo
eterno, necessario, infinito e vivente. Egli è la Realtà della quale
ciò che noi chiamiamo universo in certo modo non è che un'ombra, una
proiezione molteplice e labile. L'effondersi di Dio nella natura non è:
che un simbolo di quell'effondersi di
153
Dio in se stesso che le relazioni trinitarie ci fanno
in-travvedere. La teodicea, senza essere alterata, è così portata
sopra un nuovo piano e si apre a una regione meravigliosa, chiusa al «
Dio dei filosofi e dei sapienti ».
D. Il Dio di Aristotile e di Plafone non è già
sublime? R. Il Dio di Fiatone è grande: se a quello che egli dice
dell'Amore supremo si aggiungesse quanto Aristotile dice di Dio
definendolo il Pensiero del Pensiero, si avrebbe già una trinità in
abbozzo.
D. La tua Trinità non deriva per caso da queste
sorgenti remote, attraverso la mediazione alessandrina? R. Nessun
dubbio che le dottrine platoniche abbiano influito sopra i tentativi di
spiegazione della SS. Trinità;
ma l'origine del dogma è tutt'altra, e non ha niente di
metafisico. La Trinità ci è stata data come un fatto; la dichiarazione
di questo fatto per mezzo di Gesù Cristo fu del tutto occasionale,
tratta dalla necessità di definire la persona del Redentore e le
condizioni dell'opera sua. La formula missionaria usata da Gesù
nell'inviare i suoi Apostoli: « Andate e insegnate a tutte le genti,
battezzandole nel nome del Padre, e del Figliuolo, e dello Spirito Santo
», dimostra il carattere pratico, costitutivo, rituale delle sue
dichiarazioni trinitarie, che solo più tardi saranno sistemate e
daranno luogo a un dogma, poi a una filosofia.
D. Dove si trova, nella Scrittura, l'espressione più
viva della Trinità?
R. In S. Giovanni, e. XIV, dove Gesù racconta, per
così dire, la vita delle tré Persone tra loro e nell'anima dei veri
cristiani.
154
D. Sembra assai difficile vedere nella Trinità altro
che dei modi di pensare Dio, dei punti di vista sopra Dio, come si dice:
Dio potenza è il Padre; Dio sapienza è il figliuolo, e Dio amore, lo
Spirito. R. Non si tratta di questo, nel qual caso non si parlerebbe
di Persone.
D. Allora si tratta di emanazioni, e solo il Padre è
Dio.
R. Non si tratta di emanazioni fuori di Dio; ma di
emanazioni (o di processioni, secondo la parola consacrata) in
Dio stesso. La vita di Dio si effonde dentro come in tré centri di
scaturigine, in tré termini di relazioni interiori, in tré io
ugualmente divini. Il Padre è Dio fecondo secondo lo spirito; è la sua
fecondità; è Dio stesso. Il Figliuolo è il frutto divino di questa
fecondità spirituale, Verbo mentale, Idea reale, Assioma eterno,
avrebbe detto Taine, e lo aveva sospettato anche Taine, è in Dio un
soggetto sussistente; è Dio stesso. Lo Spirito Santo è il frutto della
compiacenza che unisce il Padre e il Figliuolo, l'Intelligenza e l'Idea,
il Verbo e Colui che lo dice; perché il Verbo, espressione
dell'infinito, infinito lui stesso, implica un'attrazione reciproca
donde scaturisce l'amore. E questa compiacenza di Dio per Dio è
altresì identica a Dio"; essa è Dio, perché è essenziale e
perfetta.
D. Come la perfezione può avere per effetto la
moltiplicazione?
R. Se il mio pensiero mi diventasse intimo e
adeguato al punto di essere identico a me, e se la mia compiacenza in me
stesso avesse la stèssa intimità e la stessa perfezione, io diventerei
trinità, e non ne sarei se non mag-
155
giormente uno, più semplicemente e indivisibilmente me
stesso. Colui che conosce porta in sé idealmente quello che conosce;
colui che ama porta in sé affettivamente, in impressione, quello che
ama: se è me stesso che io conosco ed amo, dunque io sono in me
triplicemente: per il mio essere, per la conoscenza che ho di me stesso,
per il mio amore. Se non che, una sola di queste tré cose è me
sostanzialmente; le altre non sono che accidenti della mia sostanza. In
Dio, dove nulla è accidentale, dove tutto è Dio perché tutto è
perfetto, il pensiero è sostanziale, l'amore è sostanziale, ed essi
sono Dio senza cessare di essere pensiero, amore, distinti dalla
sorgente da cui procedono secondo che ne procedono identici ad essa
secondo tutta la positività d'un essere comune.
D. Intendi con ciò di spiegare la Trinità? R.
La Trinità non si spiega; si può solo vedere. Un giorno
la vedremo; intanto la esprimiamo, senza la minima pretesa
esplicativa e soprattutto dimostrativa.
D. Bisognerebbe almeno eliminare la contraddizione,
che a prima vista appare manifesta.
R. Nella nozione del Dio trinc^ed uno non vi sarebbe
contraddizione a meno che il tré e Vuno si riferissero
allo stesso termine. Ora noi diciamo: Una sostanza, tré persone, come
diremmo: Un albero e tré rami; un vivente e tré organi; un'anima e
tré facoltà, ecc. L'unità nella pluralità, anziché importare una
contraddizione, sembra la legge e la misura di perfezione di tutte le
cose naturali; l'accrescimento di questa contraddizione apparente è la
legge stessa del progresso. Alla sommità, non recherà meraviglia
trovare la più perfetta unità, e anche la più
156
perfetta pluralità perché è la più semplice, la più
completa, la meglio chiusa sopra se stessa, cioè la trinità. Non è
forse noto che la pluralità tiene in questo mondo un posto
privilegiato? Si potrebbero fornire miriadi di esempi, sia nelle realtà
materiali, sia nell'anima, nella famiglia e fino nella logica, dove il
sillogismo ne offre un'espressione smagliante. Non vi è da stupirsi che
in Dio si trovi, certo ineffabilmente, ma riflesso in qualche modo, il
piano della sua creazione.
D. Sì, ma tu sostieni nello stesso tempo la
semplicità di Dio. Ora come dire semplice quello che è trino, e come
dire semplice quello che è uno da una parte, trino dall'altra,
specialmente se l'unita, e la trinità sono perdette?
R. Noi affermiamo in Dio il massimo di unità; vi
troviamo anche il massimo di distinzione, che è l'opposizione di
persona a persona. Io non intendo assolutamente, lo ripeto ancora una
volta, spiegarti il mistero, descriverti « questa unità così
inviolabile che il numero non vi può portare divisione, e questo numero
così ben ordinato che l'unità non vi mette confusione » (bos-suet).
Ma alla tua precisa difficoltà rispondo: Essa non avrebbe ragioni
d'essere, salvo che in Dio l'uno e il molteplice fossero ugualmente
positivi. Ma, di positivo in Dio, non vi è che la sua sostanza, o il
suo essere, cioè l'unità; la moltiplicità delle persone è costituita
da pure relazioni. Ho già detto che la parola persona dev'essere
corretta quando si applica a Dio. Del resto, persone, relazioni,
ricoprono ugualmente dei misteri.
D. Ti sfa a cuore che non si comprenda? R. « Se
tu comprendi, non è quello », dice S. Ago-
157
stino. Parlando di Dio, non sarebbe possibile eliminare
il mistero. Che se per sfuggirlo si rifiuta la Trinità, lo si ritrova
per la sua assenza. Come concepire Dio altrimenti che pensante, amante e
beato? E come concepire, in lui, un pensiero e un amore che non siano
Dio stesso, e tuttavia distinti? Come concepire per Dio una felicità
senza società, senza scambi, una felicità legata a quella spaventosa
solitudine che sembrerebbe essere quella di un Dio senza universo —
cosa possibilissima — ed anche con un universo, che non gli aggiunge
alcunché? • Tuttavia la più alta e rigorosa delle filosofie non
cristiane, quella di Aristotele, ha affermato la felicità di Dio, e ha
definito Dio il Pensiero del Pensiero. Si può immaginare questo ritorno
di Dio sopra se stesso senza una certa moltiplicità inferiore, dove
tuttavia l'unità eterna non è compromessa? In fondo, quello che noi
affermiamo è semplicemente la vita divina, la vita che consiste
nell'individualizzare il suo pensiero perché esso sia perfetto,
nell'individualizzare il suo amore perché esso sia perfetto. Il Dio
vivente, l'Unità vivente, ecco la Trinità.
D. Dai l'impressione di disprezzare l'universo come
manifestazione di Dio, come vincolo di società con Dio. R. Io non
disprezzo niente quando Dio lo trova buono e lo fa. Ma è certissimo che
l'attività di Dio non potrebbe avere il suo pieno effetto nella
creazione contingente e imperfetta; essa si manifesta per mezzo del
Figliuolo e dello Spirito Santo, nella stessa Divinità. L'arte divina
non può esaurirsi e la paternità divina soddisfarsi se non nel Verbo,
suo uguale e suo Figliuolo con-
158
sostanziale, e solamente nello Spirito placarsi
l'eterno amore.
D. Concepisci le tré Versane come operanti ciascuna
a se, e ancora, richiedono esse un culto a parte? R. Ciascuna
Persona, essendo Dio, merita l'adorazione; si adorano dunque tré
Persone. Nondimeno l'adorazione è una, laus tamen una. Quanto
all'azione divina, essa è realmente una, poiché è la manifestazione
dell'essere divino, che è uno; ma si usa appropriare un dato genere
d'azione a una data Persona divina che ne è il prototipo, come le
azioni di sapienza al Verbo, come le opere di amore all'Amore vivente.
D. Annetti realmente una grande importanza alla
dottrina della Trinità?
R. Certamente! quale luce su Dio! quale modo
decisivo di eliminare il Dio astratto, il Dio primo organismo del mondo,
e di accendere la vita spirituale alla fiamma del Dio vivo!
D. Non è forse troppa vita, voglio dire una vita
troppo
umana?
R. La Trinità si oppone al politeismo
antropomorfico,
e nello stesso tempo che al freddo deismo.
D. Il Dio d'amore è per tè il Dio-Spinto? R.
Sì, e per questo Dio arde, nel medesimo tempo che illumina, nel
medesimo tempo che attrae. L'Amore, questa forza gloriosa che parte dal
Padre verso il suo Uguale e rimbalza tutta viva, attraversa nel suo
slancio tutta la creazione; ricollega tutto al Padre, e al Figliuolo, e
compie tutte le cose, come compie Dio.
159
D. In tali condizioni, la Trinità deve tenere nel
tuo dogma un posto eminente.
R. Già ti ho detto che essa è al centro di tutto.
Come osserva il Catechismo del Concilio di Trento, essa fornisce
gli « articoli », cioè le articolazioni del Credo. Parte
prima: Dio Padre e Creatore; parte seconda: Dio Figliuolo e Redentore;
parte terza: Dio Spirito e Santi-ficatore. La santificazione suppone la
Redenzione, questa l'Incarnazione, questa la Trinità. Abbiamo già
contato e conteremo ancora gli anelli di questa catena.
D. E praticamente?
R. Nella vita cristiana, tutto si fa nel nome del
Padre, e del Figliuolo e dello Spirito Santo. Ogni preghiera rituale
invoca la Trinità esplicitamente, e ogni preghiera privata vi si
riferisce. Il battesimo è conferito nel suo nome. Il Gloria Patri,
et Filio et Spirititi Sancto è il ritornello dei testi liturgici, e
il Gloria in excelsis ne è un sublime canto.
D. Tuttavia il Dio uno come il muezzin lo
annunzio dall'alto del minareto mi affare superiore. R. Quando si
ascolta il muezzin o si legge il Corano, si ha
l'impressione di passare sotto un grande arco. Quando invece risuona il Credo
o il Simbolo di S. Ata-nasio, si cammina sotto le stelle.
160
IL MISTERO DELLA CREAZIONE
a) La creazione stessa
D. Perché dici la creazione un mistero? R.
Perché Dio è un mistero, e benché non si tratti qui della sua
intimità, come nel mistero in senso rigoroso, tuttavia, per noi,
l'oscurità è grande altrettanto. Per capire la creazione, punto di
sutura tra Dio e il mondo, bisognerebbe poter comprendere e il mondo e
Dio.
D. Il mondo dunque deriva da Dio? R. Così dev'essere,
in una certa maniera. Come quest'indigente si sarebbe arricchito
d'essere, se non per un prestito ottenuto dall'Essere perfetto?
D. Accetti allora la dottrina delle emanazioni? R.
S. Tommaso usa questo termine, ma non nel senso degli emanatisti.
Costoro fanno dell'universo, materiale e spirituale, una derivazione, un
irradiamento necessario del primo Principio; la loro concezione è
pantelstica e più o meno trascina Dio nel divenire, distruggendone la
trascendenza. Per il pensiero giudeo-cristiano, Dio è la causa del
mondo e il mondo partecipa di Dio; ma l'essere del mondo non esce
dall'essere di Dio; non ne è
161
una parte; con tutto ciò non si addiziona con esso, e
lì appunto sta il mistero.
D. Dio e il mondo non sono più che Dio solo? R.
No, nello stesso modo che, in matematica, l'infinito più un numero
qualunque è uguale all'infinito. Del resto abbiamo già toccato questo
problema e ne abbiamo riconosciuto la necessaria oscurità.
D. Non dici forse che il mondo fu tratto dal nulla?
R. È un modo di dire. Dal niente, non essendo niente, non si può
trarre niente, ne come si trae un'opera d'arte da una materia, ne come
si trae un oggetto dal vaso in cui era contenuto.
D. Forse vuoi dire che il niente è qui un punto di
partenza?
R. Proprio questo; ma non è ancora se non un modo
di dire; perché il niente non può essere un punto di partenza più che
un recipiente o una materia: il niente è niente e non potrebbe avere
alcun compito positivo. Quando si usa questo termine, bisogna intenderlo
negativamente, e ciò vuoi dire che la creazione non presuppone nessuna
materia, nessun punto di partenza, nessun antecedente qualsiasi; essa da
tutto, e non vi sono materie, punti di partenza, antecedenti, se non
dopo di essa; voglio dire in ragione di essa; perché dopo o
prima della creazione, questo non ha senso.
D. La creazione non ha avuto luogo in un dato
momento?
R. Dove si prenderebbe questo momento, poiché i
momenti stessi hanno bisogno di essere creati? Il tempo non è un figlio
di Dio come tutto il resto, un attributo delle cose, dunque anch'esso
una cosa?
162
D. Ma allora la creazione ha luogo eternamente! R.
La creazione, se si vuoi significarla come azione, è di fatto un'azione
eterna; è un'azione di Dio, e l'azione di Dio è Dio. Se Dio è
immutabile ed eterno, la creazione vista dalla parte di Dio dev'essere
tale; se non che l'effetto, che è il mondo, è temporale. Il tempo è
posteriore alla creazione, come uno de' suoi risultati; non può dunque
fornirle il suo momento. Per la creazione, tutto si radica
nell'eternità, anche la nostra durata effimera.
D. Ecco una cosa assai oscura! R. Ti ho già
detto che la creazione è un mistero.
D. Ma che cosa è in se stessa? R. Presa
attivamente, se si vuole, è come l'irradiamento d'un Centro ineffabile,
in cui il tempo e gli oggetti del tempo prendono la loro origine.
Passivamente è la connessione del raggio al suo fuoco, cioè la
sospensione del temporale all'eterno, la sua dipendenza totale;
è dunque una pura relazione; ma questa relazione forma
il nostro essere. Per noi, essere, o dipendere da Dio, o prendere da
Dio, è la stessa cosa.
D. Ma se Dio « irradia » così nel mondo, ritorni
alle « emanazioni ».
R. Ti ho avvertito che noi ci esprimiamo come
possiamo. Ci rappresentiamo così le cose, perché la nostra mente,
abituata alle relazioni reciproche, concepisce che vi è irradiamento
dovunque vi è il raggio. Ma in realtà, qui, il raggio non discende, ma
sale. Da Dio a noi le relazioni non sono reciproche; noi dipendiamo, ma
egli non dipende affatto, ciò che avrebbe luogo se egli « irradiasse
» in modo da comunicarci qualche cosa. Perché
163
chi tocca è anche toccato; chi agisce nel senso umano
del termine subisce anche un'azione; non vi è azione senza reazione, e
quando io appoggio la mano sulla tavola, anche la tavola agisce sopra di
me.
D. Allora?
R. Allora, rimuovendo ogni immagine e ogni
concessione al discorso, bisogna dire che la creazione è la dipendenza
del mondo in rapporto a Dio; essa non è altro.
D. Ti piglio in parola e dico: II mondo è eterno. R.
Perché?
D. Perché, secondo tè, la creazione è una
relazione del mondo riguardo a Dio che è eterno; perché, presa
attivamente, la creazione è azione di Dio, vale a dire è Dio, che è
eterno; perché, non essendovi « momento » per collocare l'azione
creatrice, e la creazione-relazione non toccando alcun momento piuttosto
che un altro, non si vede come sia possibile un cominciamento del mondo,
che dovrebbe così essere eterno.
R. Tutto ciò non ne segue in alcun modo. Che per la
creazione il mondo dipenda da un Dio eterno, ciò non rende il mondo
eterno come il dipendere da un uomo bianco non rende un oggetto bianco;
la dipendenza del mondo essendo totale, dipende anche la sua durata, ed
essa sarà quella che Dio vuole che essa sia. Presa attivamente, la
creazione è Dio stesso, ma Dio operante per la sua volontà, non per
una necessità della sua natura (il che sarebbe un ritornare al sistema
delle emanazioni): la durata del mondo sarà dunque misurata
dalla volontà di Dio, non misurata alla natura di Dio, alla eternità
di Dio. In ultimo, non vi è momento estraneo
164
al mondo, che possa servire a creare il mondo; ma vi
sono momenti nel mondo, e vi può essere un primo momento del
mondo. In altri termini, la creazione in se stessa è fuori del tempo,
ma tale non è il suo effetto. Il mondo dura. Quanto dura? la sua durata
è finita in avanti, finita in addietro, infinita in avanti, infinita in
addietro? ciò dipende dalla pura e semplice volontà di Dio.
D. E allora nulla impedisce di dirlo eterno. ' . R.
Difatti nulla lo impedisce, stando però nei limiti del ragionamento; ma
poiché ciò dipende dalla volontà di Dio, è naturale riferirsi a Dio,
ed è quello che fanno i cristiani, ammaestrati dai loro sacri testi.
Nulla, per noi, è sempre esistito. Ma del rimanente, e bisogna notarlo
bene, essere sempre esistito non vorrebbe dire, per il mondo, essere
eterno nel senso proprio, essere eterno come Dio. L'eternità di Dio è
un'immobilità, un'indivisibilità, una semplicità; la corsa infinita
del tempo sarebbe una moltiplicità inesauribile. Una tale durata
sarebbe, in certo modo, più lontana ancora della durata eterna che una
corsa che incomincia. Se si volesse rappresentare con un'immagine
quantitativa la eternità e il tempo infinito, questo sarebbe figurato
da una linea senza termine, l'eternità da un punto.
D. Mistero! R. Mistero.
b) Gli angeli e i demoni
D. Quali sono, per ordine, gli esseri che sono stati
creati?
R. Gli angeli, che crediamo abbiano preceduto la
165
creazione materiale; la creazione stessa materiale;
l'uomo, e, se esistono, gli esseri ragionevoli che
abitano negli altri mondi.
D. Credi tu ai mondi abitati? R. Io non credo
niente; nessuno per ora ne sa niente.
D. Ma quali sono, a' tuoi occhi, le -probabilità? R.
Una opinione personale qui non ha importanza;
ma proprio per questo ti posso dire la mia. Secondo
Cicerone, Aristotile stimava « ridicolo » pensare che la terra
producesse esseri viventi e che non si trovasse la vita negli astri.
Oggi che l'unità della materia astrale pare dimostrata, e miliardi di
universi affatto simili al nostro impolverano la carta del cielo e vi
percorrono i medesimi cicli, con molto maggior ragione, se qualcuno mi
dice: Questo grano di polvere chiamato Terra è il solo abitato, io
sarei tentato di domandarmi dove costui abbia la testa.
D. La omogeneità della materia e delle fasi ti pare
una presunzione?
R. Sì; perché mi dico: Identici materiali e
identico lavoro cominciato, identici progetti dell'Architetto;
identici progetti della natura, identiche attuazioni,
qui, là, oggi, domani, secondo che le condizioni lo permettono.
D. Queste condizioni della vita sono delicate ed
esigenti. "
R.
Certamente, e ne segue che in ogni sistema la vita non sarà possibile
che in questo o in quello de' suoi punti, in questa o in quella fase
della sua evoluzione;
ma per l'insieme dei mondi ciò lascia immense
possibilità. Supponi un osservatore che visitasse la Terra due
166
miliardi d'anni fa: egli l'avrebbe trovata, secondo i
calcoli più probabili, inadatta a ogni forma di vita, e ne avrebbe
detto ciò che noi diciamo attualmente di Mercurio e di Venere. Supponi
lo stesso osservatore, colpito da amnesia, che ritornasse qualche
miliardo d'anni più tardi: egli potrà trovare la Terra inadatta alla
vita per una ragione contraria, e ne dirà quello che noi diciamo di
Nettuno o di Saturno. Nei due casi si sbaglierà perché dimentica il
fattore « tempo », che in questo caso è di somma importanza. Non
dimenticare che per Dio e per la creazione nel suo insieme « mille anni
sono come un giorno e un giorno come mille anni » (2" Epistola di
S. Pietro).
D. Al riguardo, le tue Scritture forniscono qualche
indicazione?
R. Nessuna; il loro compito non è di soddisfare le
nostre curiosità, ma di rischiarare i nostri passi. Tuttavia, come i
veggenti d'Israele parlavano alle « isole lontane », è forse permesso
di salutare in spirito queste altre isole, che devono popolare da tutte
le parti il grande mare dell'essere,
D. Ma tu che credi all'Uomo-Dio, primogenito di tutte
le creature, redentore universale, e capo supremo dell'umanità, credi
ancora possibili altre umanità? R. Un altro ordine di creature
pensanti non è necessariamente una umanità. Non è detto che un gruppo
di creature pensanti abbia necessariamente bisogno di redenzione. Se una
redenzione è richiesta, Dio ha mille mezzi per procurarla senza
ripetere la nostra. Se la ripete, ciò non toglie nulla a nulla, ne a
nessuno. Avresti paura di una gelosia tra Uomini-Dio?
167
D. Vi potrebbero dunque essere più Uomini-Dio? R.
Vi può essere tutto quello che Dio vuole, fuori dell'assurdo. Ora che
vi è di assurdo in questo che Dio, avendo assunto una natura umana
individuale, ne assuma ancora un'altra, e che importa che questa nuova
natura abiti in questo mondo o in un altro, in un tempo o in un altro?
Dio, da parte sua, non è ne in un luogo ne in un tempo, e li comprende
tutti.
D. Non dici che l'uomo e Dio, in Cristo, non sono che
una sola persona?
R. I diversi Uomini-Dio disseminati in mondi
diversi, nel loro centro sarebbero non meno di un'unica persona, e le
loro azioni, sotto questo rapporto, un'unica Redenzione. Siccome il
nostro Cristo è detto dalla teologia una « persona composta »,
composta dico di una natura divina e di una natura umana individuale:
così il Salvatore di diversi mondi sarebbe una persona composta della
stessa natura divina e delle nature individuali diverse, essendo queste
nature une in lui, ad onta della loro dispersione.
D. Tutto questo è assai sconcertante! R. Sei tu
che mi hai messo su questa strada. Ho costruito sulla tua ipotesi. In
conclusione, quando non se ne sa niente, la cosa più semplice è dire:
Non so niente.
D. Ma riforniamo agli angeli. Credi veramente a
questi esseri che non si vedono? non è un'illusione, un inganno?
R. L'uomo ingannato — ingannato da' suoi sensi —
è colui che non crede se non a quello che vede.
168
D. Ma perché la creazione di questi esseri
spirituali? R. Trovi una cosa naturale che Shakespeare abbia creato
Ariel, che è al di sopra dell'uomo, e Caliban, che ne è al di sotto; e
ricusi a Dio di creare altri esseri che siano tra lui e l'uomo?
D. I poeti ne hanno il diritto. R. Se i poeti
sono poeti, è perché prima di loro Dio fu poeta. Del resto
l'antichità filosofica credette agli angeli quanto l'antichità
istintiva. Aristotile e Fiatone li fanno intervenire nella cosmologia,
Socrate nella morale; gli angeli custodi figurano in Esiodo e la caduta
degli angeli cattivi in Empedocle.
D. Quello che mi stupisce è il modo in cui tu
concepisci il puro spirito.
R. Il puro spirito è un intermedio del tutto
naturale tra il Super-Spirito e gli spiriti sprofondati nella materia,
quei « mostri » nel senso pascaliano, che sembra appartengano a due
mondi.
D. Ma in questo modo non evochi la gerarchla degli
esseri?
R. Questo antichissimo concetto chiariva molti
problemi. Lo si potè dimenticare; ma la sua validità non ne è
indebolita. Le specie degli esseri sono manifestamente disposte a gradi
secondo un ordine di valore crescente o di valore decrescente, secondo
il punto di vista da cui ci si mette. Il minerale, l'essere vegetale,
l'essere sensitivo, l'essere pensante si dispongono a gradi e si pongono
l'uno sull'altro. In noi lo spirito si schiude appena;
è attivo durante un periodo assai ridotto della vita;
durante questo periodo, è intorpidito per una buona metà del tempo;
impigliato, sempre, nelle insidie dell'imma-
169
ginazione; sfugge a se stesso perfino quando è nella
sua migliore forma, sviandosi in non pochi errori. Com'è possibile
credere che tutto si fermi qui, e che lo spirito non abbia se non una
così misera affermazione!
D. Non è già una gran cosa che la materia si desti
allo spirito?
R. Sì, è una cosa così grande che essa non vi si
potrebbe affatto destare da sola, come vedremo quanto prima. Ma se ne
giudica così guardando dal basso, e questo è l'atteggiamento del
panteismo evoluzionista. Guarda dall'alto, come figlio di Dio; guarda
come guarderebbe il Padre supremo, e vedrai, da lui a noi, un immenso
posto vuoto. La creazione che sale si arresta incompiuta, « lo Spirito
artefice che fece il mondo », come dice Bossuet, non ha la sua.
rappresentazione adeguata.
D. Ma l'uomo non è stato fatto « a immagine di Dio
»?
R. Sì,
ma è soprattutto in opposizione a tutto il resto di ciò che si vede, e
ciò che si vede, sia pure l'uomo, non è a immagine di Dio come
spirito. Noi non siamo spiriti, come un ossido non è ossigeno o un
cloruro non è doro; noi siamo dei misti. La nostra natura è una natura
di frontiera. La nostra intelligenza, anziché parlare, balbetta; il discorso
che le è naturale, è un tragitto titubante, come un camminare di
bambino. Il procedimento naturale dello spirito sarebbe l'intuizione,
cioè la visione dell'idea come abbiamo per gli occhi la visione dei
tendervi, senza raggiungerlo. Dov'è, dunque lo spirito corpi, e questo,
noi non facciamo altro che presagirlo e vero, lo spirito solo e tutto
spirito, lo spirito che fun-
170
ziona secondo la legge dello spirito, senza la nebbia e
la pesantezza della materia? Questo grado di essere e di valore dovrebbe
mancare alla creazione? Un uomo che crede in Dio non lo potrebbe
veramente ammettere. Dio spirito dovette rivelarsi prima di tutto per
via dello spirito, e non ridursi a una degradazione dello spirito, a una
concrezione di spirito. Dopo tutto, lo stato normale dell'essere è
appunto lo spirito, benché noi, esseri inferiori, non concepiamo
l'essere che come corpo o sotto gli auspici del corpo.
D. Come spieghi che vi possano essere degli esseri di
cui non abbiamo nessuna idea? R. Ti risponde Pascal: « L'anima
nostra è gettata nel corpo, dove trova tempo, numero, dimensioni; essa
ragiona lì sopra e chiama questo natura, necessità, e non può credere
ad altro ». E ancora: « L'assuefazione è la nostra natura... Chi
dunque dubita che, essendo l'anima nostra abituata a vedere numero,
spazio, movimento, creda questo e nient'altro che questo? ».
D. Poco fa dicevi che la natura stessa è spirito. R.
La natura è spirito in questo senso, che ciò che è veramente
importante sono le idee che la permeano, e i fini che persegue e non
già la sua realtà materiale, di cui si vede che essa fa così poco
conto. Ma le idee della natura sono fugaci; passano incessantemente e
corrono dietro all'esistenza, senza mai fissarvisi; è come un gioco di
folgori, un fuoco d'artifizio. E ciò che cerco è il mondo dei valori,
il mondo di Fiatone senza le illusioni di Fiatone; il mondo che non sia
l'inutile duplicato di questo, ma un altro, uno più alto, uno più
perfetto, più
171
prossimo alla Sorgente ideale. E, come filosofo, mi
sento colmato di gioia quando la Chiesa mi dice: ecco il mondo che
brami: l'uomo non è solo un punto di arrivo, è anche un punto di
partenza; sopra di lui una gerarchla di spiriti che si protendono verso
lo Spirito Supremo: ecco le celesti « gerarchle »; ecco i « cori »
degli angeli.
D. Dunque i tuoi angeli non sono tutti della stessa
natura, non sono dunque tutti uguali?
R. Sono uguali e della stessa natura negativamente,
cioè sono tutti esenti da materia, tutti puri spiriti. Ma
positivamente, non ce ne sono due della stessa natura, non ce ne sono
due uguali; perché, non differendo che secondo lo spirito,
rappresentano ciascuno, necessariamente, un'idea di natura differente, e
un'idea, come tale, non si ripete. Si può realizzare due volte l'idea
di uomo, l'idea dell'uomo non si ripeterebbe neppur essa. Questo è il
caso degli angeli.
D. Li credi numerosissimi?
R. L'Apocalisse ne parla come di miriadi di
miriadi. E non è forse naturale che la loro varietà oltrepassi di
molto, nei loro gradi, la scala vivente e la scala chimica, se è vero
che essi, per i primi, posseggono il diritto all'essere, costituiscono
la creazione, e l'opera di Dio? Così ragiona S. Tommaso, e
l'osservazione non è da buttar via.
D. Gli angeli hanno relazione con noi? R. Tutti i
gradi dell'essere comunicano tra di loro; i regni si compenetrano e si
rendono servizi scambievoli. Gli angeli collocati tra noi e Dio, sono
come gli amba-
172
sciatori di Dio, i suoi inviati, come indica la
parola angelo. Sono anche i nostri inviati per l'incarico
che si prendono delle nostre preghiere e dei nostri voti. Lo stato in
cui si trovano relativamente a noi crea in essi un movimento inverso del
nostro. Noi cerchiamo quello che non possediamo; i nostri sguardi vanno
dal basso all'alto, verso le regioni superne. Essi, che posseggono,
tendono a comunicare con benevolenza quello che posseggono a quelli che
vi tendono ancora e potrebbero cercarlo per una via sbagliata.
D. Ve ne sono tuttavia dei cattivi? R. Tutti
furono creati buoni; ma crediamo che ce ne sono dei decaduti, cioè di
quelli che rigettarono il bene e scelsero il male, nella inevitabile
opzione proposta dalla Provvidenza a ogni essere libero.
D. È questa una ragione perché essi nuocciano? R.
È naturale che un essere ancorato nel male volga a male la sua stessa
perfezione; caduto, egli ama che si cada; grande nonostante tutto, egli
e propenso a travolgere i più deboli, e si fa loro tentatore.
D. Tale credenza non è oggi un po' fuori moda? R.
Di' piuttosto che è ignorata. I veri cristiani sanno che essa è
attuale più che mai; i Santi l'appoggiano sopra la loro esperienza;
inguanto ai cosiddetti « spiriti forti », si ridono del diavolo a
parole e di fatto lo servono.
D. Com'è possibile servirlo senza credervi?
R. « Mentre non si può servire Dio se non credendo
in lui, il diavolo, da parte sua, non ha bisogno che si
173
creda in lui per servirlo. Anzi, non lo si serve mai
così bene come ignorandolo » (andrea gide).
D. Come può agire sopra di noi? R. Non ha che da
entrare nella corrente delle nostre proprie inclinazioni, nel sorriso
delle cose che ci seducono; non ho che da premere sopra ciò che si
piega, da ostacolare ciò che sale. La sua influenza si spande come un
gas deleterio che si assorbe senza accorgersene.
D. Non si ha dunque coscienza di quest'azione? R.
No; perché essa si serve della mediazione dei nostri propri poteri, in
certo modo vi si confonde e non si presta da parte nostra a una sicura
dissociazione.
D. Lo stesso avverrà delle influenze benefiche? R.
Certamente; ma piamente si attribuisce loro un compito nei lumi
subitanei, nelle consolazioni insperate, negli stimoli virtuosi, nelle
diffidenze istintive che ci avvertono di un pericolo, nelle vedute
superiori che si presentano a noi per giudicare di questo mondo e
dell'altro, ecc. Senza che si possa precisare, è certo che non tutte le
nostre impressioni segrete vengono dall'ambiente umano o dal lavoro
spontaneo dello spirito.
D. Siamo dunque circondati da esseri invisibili? R.
La nostra vita è in pieno cielo. Se i nostri occhi s'aprissero, voglio
dire che se avessimo quell'intuizione della mente che ci manca, noi
saremmo come Giacobbe nel suo misterioso sonno; anche noi vedremmo delle
moltitudini salire e scendere la scala simbolica, e percepiremmo, coi
gradi dell'essere, gli scambi di attività che riallacciano tutto.
174
e) La natura
D. All'opposto del puro spirito, poni la natura
fisica? R. Essa di fatto è all'opposto, pur serbandone il contatto.
D. Che cosa pensi della sua creazione? Ebbe essa
luogo in una sola volta, o successivamente? per tappe, o continuatamente?
R. Secondo quello .che abbiamo detto della
creazione, che è pura relazione di dipendenza riguardo a Dio, la tua
domanda non ha senso. Il mondo dipende in tutto il tempo: dunque è
creato in tutto il tempo. Diciamo 'meglio: esso è creato secondo
tutto il tempo, cioè in tutti i termini della sua durata, in tutte
le sue tappe, perché sappiamo che la creazione in se stessa è
intemporale; sono solamente temporali il tempo stesso e ciò che il
tempo misura.
D. Ecco che il mistero ritorna. R. Io non ne
posso niente. Tuttavia aggiungo che il primo giorno del mondo in un
certo senso è privilegiato. Esso non ha precedente; gli altri ne hanno.
Si può dunque dire — in questo senso — che esso è nuovamente
creato; che il mondo, in sé, è tutto nuovo, benché le parole tutto
nuovo e nuovamente abbiano l'aria di supporre una precessione
illusoria e quel niente immaginario che noi abbiamo eliminato. In
ragione di questo privilegio del primo giorno, si nota una differenza
tra la « creazione continuata » o « conservazione » e la
creazione iniziale, che è la stessa, ma riferita ad ogni istante.
175
D. Come si può continuare ciò che è intemporale,
conservare ciò che dipende nell'intemporale?
R. Non si può. Questi sono modi di dire. Ma il
senso è questo. Si vuoi notare una differenza che non si trova nella
creazione stessa e si trova solo nel suo effetto, la si riporta sulla
creazione facendo una concessione al nostro modo di pensare e di
parlare, per assimilazione a ciò che avviene ordinariamente. E si dice:
« II mondo fu creato al principio del tempo »; oggi e sempre, esso è
« conservato », « governato », il che non impedisce che dipenda
incessantemente, e per conseguenza, in quanto al contenuto essenziale
della parola « creazione », non sia sempre creato.
D. Con ciò il mio quesito resta. N'e modifico
solo un poco i termini; e domando: Dio ha egli dato alla natura un unico
cominciamento, o questa ha conosciuto, in seguito, altri cominciamenti,
che l'arricchiscono di nuove creature?
R. Certi pensatori pensano che vi sono sempre dei
cominciamenti di questo genere; che le produzioni della natura sono
perpetuamente nuove, imprevedibili, inventate volta per volta; che
procedono a ventaglio, sfoggiando sempre maggiori risorse. Ecco quello
che, in Enrico Bergson, significa l'evoluzione creatrice. Questa
creazione continua, non più nel senso d'una semplice conservazione, ma
d'un accrescimento, non ha nulla che possa sorprendere un cristiano. Noi
vi aderiamo almeno in un caso particolare, quello dell'anima, come
presto vedremo. Noi vi aderiamo anche, in maggioranza, quando si tratta
del passaggio da un regno all'altro, supponendo che essi si dispongano a
piani nel tempo. La vita
176
non ha potuto uscire dalla materia inerte per un
semplice sviluppo della materia inerte; assai meno ancora un'anima
pensante può uscire da un organismo o da un'azione organica, dal
momento che essa appartiene al mondo dello spirito, quantunque nel suo
più infimo grado. In questi casi dobbiamo supporre un « prestito »
nuovo dalla sorgente creatrice, che Cristo ci dice perpetuamente attiva:
« Mio Padre opera fino adesso ». La eternità viene in soccorso del
tempo. Se questo soccorso fosse permanente, noi non potremmo lagnarcene.
D. Credi tu per lo meno ai « giorni » della
creazione, che siano giorni propriamente detti o giorni-periodi? R.
Qui non si può dar risposta perentòria. Quello che ne dice la
Scrittura si presta a troppo diverse interpre-tazioni. Ancora una volta,
ti ricorderò che il compito di Mosè non era d'insegnarci la
cosmologia, ma di stringerci a Dio e di avviarci, col suo popolo, verso
la Terra promessa.
D. Dunque, a tuo parere, resta libera la via per una
interpretazione della natura mediante l'evoluzione?
R. Sì, certamente; ma a due condizioni, delle quali
ti ho già esposto sopra la prima, ed è che anzitutto l'evoluzione non
pretenda di sostituire Dio; poi, che essa dia a Dio tutto il posto che
gli può convenire nel corso stesso delle cose. In un sistema di
evoluzione ben compreso, la natura ha due mezzi di effettuare l'opera
sua:
valersi delle risorse iniziali che ha dal Creatore,
spiegando le sue virtualità segrete, le « sue ragioni seminali »,
direbbe S. Agostino; oppure, là dove il suo capitale acquisito non
basta, attingere dalla Sorgente congiunta, o continuamente, come vuole
Bergson, o
177
solamente alle grandi svolte; sia che vi si sorprendano
soltanto dei piccoli cambiamenti, a guisa delle trasformazioni
lamarckiane e darwiniane, oppure vi siano dei salti bruschi,
delle varianti subitanee, come esige De Vries. In realtà, tutto questo
per noi non fa differenza;
se la vedano la scienza e la filosofia. Religiosamente,
noi difendiamo la causa di Dio, rivendichiamo i diritti di Dio e allora
si tratta della Causa, non del piano, e dei procedimenti di spiegamento;
si tratta del perché di tutto, non del come secolare e
delle sue oscure vie. Non è inutile osservare qui che Lamarck e
Geoffroy-Saint-Hilaire, i due creatori del trasformismo, non vedevano in
esso se non « l'esecuzione d'un piano tracciato dalla volontà divina
».
d) L'uomo
D. L'uomo apparve subitaneamente sulla terra, oppure
la sua venuta è il risultato d'una lenta elaborazione della vita?
R. L'uomo, propriamente parlando, non può essere un
prodotto dell'evoluzione anteriore, poiché è costituito essenzialmente
dalla ragione, fatto nuovo, fatto trascendente nei riguardi, di ogni
sviluppo materiale e che esige un apporto sui generis, che può
venire solo dal mondo dello spirito.
D. Perché dici: L'uomo propriamente parlando? R.
Perché, quando ci si esprime con precisione, uomo vuoi dire un'anima e
un corpo formanti un solo essere. Ma, pur dicendo: uomo, si potrebbe
pensare all'uomo quanto al suo corpo, all'uomo quanto alle sue
178
preparazioni, quanto a' suoi antecedenti corporali, e
allora il problema posto sarebbe tutt'altro.
D. Che cosa intendi con questo? R. Che il sapere
se l'uomo è stato formato in una sola volta e tutto insieme, è una
questione, e il sapere donde viene a lui, indipendentemente dal suo
corpo, la parte principale del suo essere, quella che lo fa veramente
uomo, è un'altra questione.
D. Che dici della prima questione? R. È una
questione di fatto. Si può pensare che il Genesi la dirima, con
il racconto della formazione di Adamo e del soffio di vita che
Dio gl'infuse; e invero la scienza, fino al momento presente, non è in
grado di contraddirlo. Ma si può anche pensare che per la religione
come per la scienza, il problema resti sospeso. Razionalmente parlando e
atteso lo stato dei fatti da noi conosciuti, nulla impone e nulla vieta
di credere che l'organismo umano sia stato elaborato nel seno della
natura, nel corso delle età, e che, a suo tempo, Dio presente a tutte
le cose abbia fornito la parte spirituale che costituisce l'uomo.
D. Si potrà allora dire che l'uomo « discende dalla
scimmia ».
R. Sarebbe una grande sciocchezza; perché anzitutto
non si tratta della « scimmia ». Sempre più la scienza crede di
trovare le nostre origini fìsiche lontano dalla linea scimmiesca. Sopra
il tronco dei Primati, l'umanità sarebbe salita al centro, come un gran
fiore, quando divergevano tutt'attorno, in vari sensi, dei rami di cui
gli uni sono periti, e gli altri sussistono. Del resto è questa una
considerazione secondarissima; ciò che importa è
179
questo. L'uomo è l'uomo, non è soltanto il suo essere
fisico, non è il suo corpo. Sarebbe piuttosto l'anima. In realtà, non
è ne l'uno ne l'altro, ma il composto. Ora in quale momento nasce un
composto? Senza dubbio si forma aggiungendo a un primo elemento quello
che lo compie, specialmente se l'elemento complementare è di gran lunga
il principale, se è l'essenziale. Non vi fu dunque uomo, uomo
vero, se non in quel momento, e la nascita dev'essere attribuita a Colui
che è il padrone di quel momento, che ne fornisce la caratteristica
umana, che ne fa una nascita d'uomo.
D. La nostra genealogia risalirebbe dunque a Dio,
anche in questa ipotesi?
R. Così dicendo, tu incontri il Vangelo tanto
ammirato su questo punto da Chateaubriand. La genealogia di Cristo, in
S. Luca, attraversa tutte le età, andando a ritroso, da Giuseppe ad
Adamo, e si getta in Dio. Là nostra, in avanti, vi si raccorda.
D. Ma perché l'anima, o l'intelligenza, non verrebbe
al mondo per evoluzione, come ultimo stadio dell'evoluzione? Quando il
legno è sufficientemente caldo, il ceppo s'infiamma.
R. Avresti ragione, se la fiamma e il ceppo di cui
si tratta qui appartenessero, come nel tuo esempio, a uno stesso ordine
di fatti. Scaldare un ceppo in un focolare, è semplicemente metterlo in
un certo stato di vibrazione; se la vibrazione si accentua, è la
fiamma; a un effetto di calore si unisce un effetto di luce; ma questi
sono fenomeni dello stesso ordine, in continuità l'uno con l'altro,
sullo stesso piano. All'opposto, il pensiero
180
e la materialità sono d'un ordine opposto, esclusivi
l'uno dell'altro.
D. Perché ciò?
R. Perché l'oggetto del pensiero è la natura
delle cose, Videa delle cose, la loro equazione interiore, se
posso dire così, e l'equazione che i loro rapporti stabiliscono. Ora
questo esorbita affatto da ogni materia e da ogni attributo materiale;
questo non è più locale, temporale, individuale, come tutto ciò che
spetta alla materia. Noi siamo qui al di sopra dell'evoluzione e delle
sue varie realizzazioni, delle quali Videa, in noi, ha il
carattere d'un piano intemporale, atto ad esser ripreso quanto si
vorrà, moltipllcato indefiniti vamente, e per conseguenza estraneo alla
realtà che esso riflette.
D. Potresti darmi un esempio? R. Ecco: uno molto
semplice. Due pomi si aggiungono a due pomi per farne quattro; io posso
metterli in un paniere tutti quattro; ma due e due fanno quattro, dove
metterò io questo? dove posso collocarlo? in qual luogo, in qual tempo,
in quali condizioni d'individualità che si possano prestare a una
evoluzione materiale?
D. Non avviene lo stesso d'una sensazione animale? R.
Niente affatto. Una sensazione animale si evolve incessantemente; in
ciascuno de' suoi stati essa è insieme un punto di partenza e un
termine, come tutto ciò che è movimento e tempo. Una sensazione ha per
principio un'immagine, e un'immagine non è un'idea. L'immagine
ha dei caratteri nettamente individualizzati, localizzati; essa è
legata a una durata; trascorre; è estranea a quel potere di ripetizione
e di reincarnazione indefinita che Videa rivendica.
181
D. L'idea, all'origine, non è forse un'immagine,
generalizzata per sovrapposizione d'immagini similari e per la
imprecisione dei suoi contorni?
R. Ti difendi bene; ma senza tenere conto dei fatti.
L'immagine originale esiste, la sovrapposizione d'immagini anche, e ne
risulta l'immagine generalizzata; osserviamo in noi tutto questo. Ma se
vogliamo rifletterci, potremo anche osservare che nello schema così
ottenuto noi vediamo tutt'altro che lo schema. L'idea d'un rapporto
matematico, o d'una definizione, o d'una negazione, o l'idea di un'idea,
quando il pensiero si ripiega su se stesso, tutto questo non ha nulla a
che vedere con le immagini che sottendono il pensiero, ma non sono il
pensiero. Lo schema immaginativo è caratterizzato da una generalità
imprecisa, l'idea da una universalità precisa. Lo schema immaginativo
è temporale e instabile;
segue il flusso del cervello; sotto un'idea identica,
non è in due istanti il medesimo; ma l'idea si presenta come necessaria
e intemporale, fosse pure l'idea d'un oggetto cangiante.
D. E che cosa pretendi di dedurre da questo? R.
Ecco. Gli esseri si caratterizzano per le loro facoltà, per i loro
atti, gli atti per i loro oggetti. Risalendo, si può determinare
mediante il carattere degli oggetti quello degli atti, mediante quello
degli atti, quello delle facoltà, e mediante quello della facoltà
quello degli esseri. L'idea non è forse d'un ordine a sé, estraneo al
flusso materiale? lo stesso dunque avviene dell'ideazione, della
facoltà d'ideazione, dell'anima. Tutto questo è necessariamente sopra
la stessa linea, allo stesso livello, appartenente allo stesso ordine,
allo
182
stesso mondo, e questo mondo non è quello del flusso
materiale. Se nel corso dei fatti di evoluzione, vi è inserzione d'una
sola idea generale, io dico che l'evoluzione ha incontrato un'altra
corrente, un altro ambiente, d'ordine spirituale; il mondo dello spirito
lo ha toccato; una « virtù » è emanata dall'alto, che ha guarito la
sua impotenza d'idealità, come Gesù guariva con il semplice contatto
le malattie. In una parola, Dio è intervenuto, ha « infuso » un
elemento nuovo. Ed è l'anima.
D. Lo sbocciare dell'anima sarebbe dunque un
miracolo?
R. Non è un miracolo, perché anzitutto questo non
si vede e quindi non ha nulla di prodigioso; ma soprattutto
perché appartiene al corso normale delle cose, quale Dio lo ha
preveduto e preordinato. È cosa normale che, essendo un organismo stato
preparato a ricevere un'anima, quest'anima vi si schiuda, e lo
schiudersi non offrirà nulla di drammatico; e neppure di percettibile,
salvo che per i suoi efletti. Tuttavia è un fatto del tutto nuovo, un
fatto che non ha luogo in virtù della sua sola preparazione;
che, datala preparazione, ha luogo in ragione della perpetua
presenza di Dio e della sua fedele provvidenza.
D. Così avviene di ciascun'anima individuale? R.
Sì. A questo riguardo l'umanità ricomincia in ciascuno di noi. Il
ciclo delle preparazioni preadamiche, se è esistito, è ripreso in
qualche modo dal ciclo generatore. La madre è la natura, che offre
l'ambiente di schiudimento e le risorse nutritive; il semen è il
fermento di vita la cui origine remota ci sfugge; lo sviluppo embrionale
è l'evoluzione; il neonato, in cui anima si
183
schiude è come un nuovo Adamo, che alla sua volta darà
principio a una discendenza.
D. Una tale dottrina deve avere vaste conseguenze. R.
Sì, conseguenze immense, e in tutti gli ordini. Di li viene, come
vedremo, il nostro destino. L'anima, non appartenendo al ciclo della
natura, non ne segue il corso, non vi riversa le sue energie proprie, ma
fa ritorno al suo alto Principio, al quale anzi essa trascinerà, un
giorno, come per diritto di conquista, il suo congiunto corporeo. Avendo
così il suo fine individuale, e un fine trascendente al tempo, la
persona umana diventerà perciò sacra, esonerata dalla servitù
completa che amerebbero d'imporle i padroni, di qualunque grado o
di qualunque natura essi siano: padri autocrati, mariti oppressori,
politici fautori di uno stato totalitario, fautori della schiavitù e
de' suoi derivati, ecc. Ciò si estende molto lontano e serve a
risolvere una grande moltitudine di problemi. Il conflitto fra tante
forze avverse che lottano nella nostra società moderna sovente prende
di lì la sua origine.
D. Ritorno al caso della specie. Credi tu alla sua
unità, cioè a uno stipite unico, a una coppia, donde sarebbero usciti
tutti gli uomini e le varie razze d'uomini?
R. Sì; perché noi crediamo alla solidarietà
morale dell'umanità intera; essa ci è attestata dai dogmi del peccato
originale e della redenzione.
D. Per tè, la solidarietà morale importa l'unità
della
specie?
R. Sì, perché, alla base, è fondata
sull'eredità, come
184
nelle famiglie. La morale ha sempre le sue radici
profonde nella natura.
D. A quale data approssimativa potrebbe risalire la
costituzione di questa coppia iniziale? R. Non sappiamo.
D. Non cantate nel vostro cantico di Natale: Da
quattromila anni...
R. Non si potrebbe affermare tutto quello che si
canta. Vi son lì delle tracce di antiche convinzioni che credevano di
appoggiarsi sopra la Bibbia. Oggi è riconosciuto che a questo riguardo
non vi è cronologia biblica.
D. Le vostre storie sono dunque false? R. Le
nostre storie non sono false; ma propriamente parlando non sono storie,
e aftinché ogni falsità sia da esse eliminata, non è necessario che
la serie dei tempi sia in esse registrata sotto una forma regolare e
completa. Siffatta storia non ha neppure bisogno di essere esatta sotto
l'aspetto propriamente scientifico, spesso assai estraneo a' suoi
autori; basta che essa sia esatta quanto al senso religioso dei fatti,
il che non esige se non una storicità relativa, fatta di simboli reali,
se posso dire così, intendo notazioni semplificate, a volte parabole,
che sacrificano i particolari a vedute generali e sintetiche,
percorrendo periodi interi, correndo alla mèta, che è di indicare il
senso della vita.
D. Ma qui quali supposizioni faresti?
R. Spetta alla scienza di rispondere. Pietro
Termier,
geologo eminente, membro dell'Accademia delle scienze
185
e autentico cattolico, scrisse: « Nello stato attuale
delle nostre cognizioni, non si può attribuire all'uomo meno di 35.000
anni di età; ed è possibile che la sua antichità reale raggiunga
40.000 o anche 50.000 anni ». Altri scienziati si spingono molto più
indietro.
D. E ti sembra pacifico che l'evoluzione, ammessa or
ora a titolo d'ipotesi, abbia così concentrato i suoi effetti sopra una
sola coppia, invece di presentarli, qua e là, dispersi?
R. Noi crediamo a un intervento divino affatto
speciale, alla culla della stirpe umana.
D. E come si manifestò questo intervento? R. Per
l'elezione della coppia iniziale capostipite dell'umanità futura e per
il suo collocamento in uno stato di felicità affatto gratuita da cui
purtroppo decadde. È quello che noi chiamiamo in teologia giustizia
originale.
D. E in che consiste questo dono? R. Nell'unione
intima dell'essere umano col suo Dio, e, per conseguenza, in un'armonia
inferiore tale da escludere quella violenta propensione al male che
domina l'umanità attuale, quella cecità spirituale che l'ottenebra,
quella instabilita funzionale che produce la malattia e la morte.
D. La morte stessa, secondo tè, doveva esser
risparmiata al primo uomo?
R. Sì; perché la morte, per quanto naturale ci
apparisca e di fatto lo sia nelle condizioni presenti, non di meno è,
in un certo modo, innaturale. Per essa l'anima perde il suo corpo e si
trova così in uno stato contro na-
186
tura, per quanto felice sia la vita che vive da sola.
Per questa ragione, noi troviamo naturale la risurrezione futura dei
corpi, e naturale, all'inizio dell'umanità, l'immortalità dei corpi.
D. Ecco una cosa che urterà più di uno sdentato. R.
Niente affatto, se egli ci pensa. Osserverà che più di un medico,
attorno a sé, non dispera di vedere un giorno ritardare largamente la
morte, se non di guarirla. Che cosa è la morte se non la caduta di un
edificio lentamente minato da forze avverse, per mancanza di una
coordinazione sufficientemente salda de' suoi poteri intcriori, cioè
per mancanza di un reale dominio dell'anima sopra il suo corpo?
D. Ma che cosa è che può rendere un'anima più
potente del suo corpo?
R. Per una parte la sua propria rettitudine; ma
soprattutto, e per il fatto stesso della sua rettitudine, se la si
suppone perfetta, la sua stretta unione con Dio, come ora l'ho formulata
e di cui dirò di più parlando della redenzione e della grazia. Quanto
più io sono unito alla Sorgente di ogni forza, di ogni luce, di ogni
armonia vitale, tanto maggiori ricchezze ricevo in me e tanto più le
posso comunicare al mio ambiente congiunto, che è il mio corpo, anzi,
al di là, all'ambiente esterno in cui si esercita la mia azione.
D. Era dunque la natura stessa che rie doveva sentire
l'influsso?
R. Sì certamente. Noi crediamo a una specie di «
giustizia » delle cose risultante dalla « giustizia originale »
dell'umanità.
187
D. Puoi essere più preciso?
R. No, non è possibile. S'impara a ritrovare il
nostro
Eden perduto, non a descriverlo.
D. Dunque lo ritroveremo?
R. Lo ritroveremo. Non ora, e ne dirò i motivi; ma
il pieno ricupero temporale non è di grande importanza;
solo l'eterno conta.
D. Come l'abbiamo perduto?
R. È un altro mistero, sul quale dovremo spiegarci
con qualche ampiezza.
D. Prima di abbandonare l'idea di creazione, vorrei
chiederti se tutto ciò che Dio ha creato costituisce ai tuoi occhi un
solo mondo?
R. Sì, se tu prendi queste parole in tutto il loro
rigore. Un mondo può essere un sistema a parte, come il sistema solare;
uno sciame di sistemi, come la Via Lattea o la nebulosa di Orione; la «
goccia d'etere », cioè l'insieme delle realtà accessibili alla nostra
esperienza. Ma se per mondo intendi l'universalità assoluta delle
creature, noi affermiamo che non vi è che un solo mondo.
D. Perché non ce ne sarebbero parecchi? Non limiti
così la potenza di Dio?
R. Non limitiamo la potenza di Dio, ma la potenza di
Dio è anche sapienza, e la sapienza creatrice non
ci pare
compatibile con una pluralità assoluta di opere,
perché
non è punto compatibile con una pluralità assoluta di
fini.
D. Quali fini attribuisci alla causalità creatrice?
R. La manifestazione della bontà di Dio.
188
D. Ma questa manifestazione non si confa forse alla
pluralità?
R. Sì certamente; ma a una pluralità ordinata;
perché
la pluralità, per se stessa, non ha alcun valore; il
valore
non si realizza se non con l'ordine.
D. Due universi non varrebbero dunque più di uno? R.
Due universi valgono più di uno se hanno una unità sintetica, se si
completano, se i fatti dell'uno vengono in soccorso dell'altro per
esprimere con maggiore pienezza il bonum Dei. Ma allora, dal
punto di vista assoluto del termine, essi non formano che un solo
universo. Se l'uno non aggiungesse niente all'altro, se fossero
identici, la loro moltiplicazione perderebbe ogni ragione di essere e
ripugnerebbe a servire da fine.
D. Un universo è dunque, per tè, essenzialmente un
ordine?
R. È quello che esprime la parola cosmo, che
significa
a un tempo ordine, ornamento e universo.
D. E ciò solo è un bene?
R. Ciò non solo è un bene; ma il miglior bene; è
il bene prima di tutto voluto dal Creatore e del quale egli applaude
l'effettuazione nel Genesi, quando dice di ciascuna cosa in
particolare che essa è buona, e di tutte collettivamente che-
sono molto buone. Tutte le cose sono buone come riflesso isolato
del loro principio, al quale rendono una comune testimonianza.
D. E questa comunanza, deve essere accettata? R. Sì;
perché Dio, in ciò che lo riguarda, non può volere se non il miglior
bene, che è l'ordine, si tratti dell'ordine interno di ciascuna cosa o
dell'ordine del loro
189
insieme. Riguardo alla sua creazione totale, quello che
Dio vuole anzitutto, non è questa o quella creatura, il cui valore
limitato non si sostiene da sé e prende da tutto ciò che la circonda;
ma sì l'armonia de' suoi esseri, il cui insieme realizza quel quantum
di perfezione e di bene che egli ha deciso di produrre fuori di sé.
D. Questa legge si trova anche nelle nostre
creazioni? R. Senza dubbio. Quello che vuole l'artista, non è
questo o quell'elemento dell'opera sua, ma l'opera. Ciò che richiede un
saggio governo, non è il successo di questa o quell'impresa
particolare, ma il bene pubblico.
D. Ad ogni modo, il legame che tu supponi tra. gli
universi non pare debba essere necessariamente di ordine fisico, anche
per ciò che riguarda le creature fisiche.
R. È vero. Forse questo legame non è fisico di
fatto, e forse non lo è neppure in ciò che riguarda le creazioni
materiali. Rigorosamente parlando è possibile che vi siano degli
universi tagliati fuori d'ogni comunicazione con noi. Ma in ragione di
ciò che ora ho spiegato, si dovrà sempre dire con S. Tommaso d'Aquino:
« Tutte le cose che vengono da Dio hanno un rapporto le une con le
altre e un rapporto con Dio.., È dunque necessario che tutte
appartengano a un solo mondo ».
190
IL MISTERO DEL PECCATO ORIGINALE
D. Hai fatto un accenno al peccato originale, ma
certo non ignori lo scandalo che provoca questa nozione nell'anima
contemporanea.
R. Lo ignoro così poco che spesso ho dovuto
pensarvi e sono prontissimo ad ascoltarti.
D. Donde ti viene questa idea d'un peccato originale?
R. Mi viene dalla fede.
D. Non hai la pretesa di arrivarci anche per
dimostrazione? ••
R. No; per quanto sia utile all'interpretazione
della nostra vita, questa idea non ha nulla di assolutamente
indispensabile. Tuttavia la sua forza esplicativa è tale, che si ha il
diritto di sottoscrivere a questa affermazione di Pascal: « L'uomo è
inconcepibile senza questo mistero, più che questo mistero non sia
inconcepibile all'uomo ».
D. Pascal riconosce una difficoltà dalle due parti.
• R. Vi è difficoltà dalle due parti, e per questo noi
collochiamo il peccato originale tra i misteri. Ma la partita non è
alla pari; si deve riconoscere insieme l'emi-
191
nente difficoltà di concepire l'uomo senza il peccato
originale, e il dissolversi della difficoltà in presenza del dogma.
D. Dove sta la difficoltà di cui parli?
R. In quelle contraddizioni della natura umana —
grandezza e miseria — di cui l'autore dei Pensieri
e
dopo di lui Bossuet fecero un così incomparabile
quadro.
D. In che cosa consiste? R. In questo, che la
condizione umana ci si presenta come un paradosso. Se noi siamo a un
tempo grandi e miserabili, e non solo sotto diversi aspetti, ciò che si
potrebbe comprendere, ma in qualche modo sotto lo stesso aspetto,
considerato che le nostre miserie sono grandi e le nostre stesse
grandezze sono miserabili, considerato che le nostre miserie procedono
da aspirazioni sublimi e le nostre grandezze vanno scegliendo miserabili
oggetti, allora non siamo noi inclinati a pensare che lì sotto vi è
qualche mistero?
D. Perché?
R. Perché la natura non conosce il paradosso;
perché sembra che così la Provvidenza, nel suo più alto campo,
contraddica a se stessa.
D. Il caso dell'uomo è forse singolare a questo
riguardo?
R. Sì, perché il contrasto del quale parliamo
dipende da quella capacità infinita di aspirazione che appartiene solo
all'uomo. Lì sta il tragico della nostra condizione. Onde Pascal si
arroga il diritto di dire: « Solo l'uomo è miserabile ».
192
D. Non dite forse che le contraddizioni di questa
vita avranno altrove la loro risoluzione? R. Noi lo diciamo, e senza
questo la nostra condizione umana sarebbe inaccettabile. Ma quando pure
ciò fosse a titolo provvisorio, il piano della natura sembra veramente
mancato; esso ci urta; ci pare un'organizzazione della sconfitta, e per
giunta un'arte di assecondare l'ingiustizia; perché là dove la natura
non ci affligge, ci tenta; per lo più ci trascina, ed è peggio.
D. Non ti sembra di esagerare? R. I segni della
nostra « ingiustizia » originale sono abbastanza visibili; noi siamo
sprofondati in un egoismo mostruoso, in un orgoglio incoercibile, in una
cupidigia sfrenata. In noi, l'iniquità è costitutiva, e colui che non
riesce a scoprirla in sé la denunzia tutti i giorni negli altri; colui
poi che non la trova in sé prova del resto un accecamento che tradisce
un vizio originale di un'altra specie. « Forse che l'uomo che è
diventato veramente cosciente di se stesso può veramente rispettare se
stesso? » scrive Dostojewskij. Questa vita che è molto al di sotto
della nostra attesa, è pure, sembra, al di sotto del suo proprio
diritto; essa non soddisfa alla sua propria destinazione, neppure
provvisoria, e pare che accusi il suo autore, una volta ammesso il
carattere del vero Dio: bontà e sapienza.
D. Di fronte a questi mali, il peccato originale è
la sola ipotesi? -
R. È la più naturale. Nell'umanità, tutto succede
come in un individuo che si fosse liberamente corrotto, o in una razza
imbastardita a causa dei suoi vizi.
193
D. Riprendi così il ragionamento di Pascal? R. «
Per me — dice egli — confesso che appena la religione cristiana
scopre questo principio che la natura degli uomini è corrotta e
decaduta da Dio, questo apre gli occhi a vedere dovunque il carattere di
questa verità; perché la natura è tale, che denuncia dovunque un Dio
perduto, e nell'uomo, e fuori dell'uomo, una natura corrotta ». E
ancora: « L'uomo non sa in quale posto mettersi; egli è visibilmente
traviato e caduto dal suo vero posto senza poterlo ritrovare. Egli lo
cerca con inquietudine e senza successo, nelle tenebre impenetrabili ».
« Ciò che c'è di grande nell'uomo — dice alla sua volta Bossuet —
è un resto della sua prima istituzione;
ciò che c'è di basso è il disgraziato efletto della
sua caduta ». Sono « miserie di grande signore », aveva detto più
brevemente Pascal, « miserie d'un rè spodestato ». « Contempla
questo edifizio — si legge nel Sermone per la professione della
signora di La Vallière — e ci vedrai i segni di una mano divina; ma
la disuguaglianza dell'o-pera ti farà presto osservare che il peccato
vi ha mescolato del suo ».
D. Pascal pretende che la natura denunci un Dio
perduto « e nell'uomo, e fuori dell'uomo », e tu estendi forse gli
effetti del peccato originale alla stessa creazione materiale?
R. Abbiamo veduto che l'uomo e il suo ambiente sono
a questo riguardo solidali, e necessariamente solidali. Onde S. Paolo
dice senza distinguere: La creazione geme tutta quanta e soffre quasi
le doglie del parto. « E i gemiti della creazione sono pieni della
miseria non scandagliabile dell'uomo » (v. hugo).
194
D. Ciò può sollevare attorno al peccato originale
molti problemi!
R. Renouvier li solleva tutti, e prima di lui,
Scho-penhauer, Kant, e molti altri. Per Schopenhauer, vi è un peccato
alla base dell'essere stesso. Il cristianesimo è più riservato. Ma,
come ti dicevo, sollevando un problema, avviene che se ne sollevino
mille, e dei più gravi. I nostri misteri sono oscuri, ma sono grandi e,
quando sono ammessi, tutto si spiega; senza di essi, tutto è
miserabilmente piccolo, e niente si spiega.
D. Insamma tu ripeti dei vecchi miti. R. Sì, il
mito di Prometeo, il mito di Pandora, ed altri. Ho detto che è naturale
il ritrovare nelle religioni naturali elementi della religione rivelata;
è una conferma, forse è l'indicazione d'una sorgente comune,
rispettata qui, e alterata là.
D. In che consiste materialmente questo peccato
originale? Bisogna prendere alla lettera la storia del « frutto
proibito »? R. Nulla ti obbliga a ciò. Si tratta d'un fatto
morale.
D. E qual è questo fatto morale? R. Si può
discutere sulla sua precisa natura; ma ogni peccato è una rivolta
contro Dio, un rifiuto dell'ordine, e, a questo titolo, un orgoglio
folle, anche se l'occasione di questo orgoglio può essere, come si
crede solitamente in questo caso, ricercata altrove.
D. Si tratterebbe in qualche modo di un doppio
peccato?
R. Siccome la caduta originale ha deciso di tutto
l'uomo, sarebbe naturale pensare che essa comprendesse
195
a un tempo la sensualità, quest'orgoglio della carne, e
l'orgoglio, questa sensualità dello spirito. Tuttavia, come nell'uomo
ancora giusto lo spirito è signore e facilmente domina, il primo
peccato dev'essere prima di tutto un peccato d'orgoglio. Ecco l'opinione
di S. Tom-maso. È anche quella di Pascal, perché l'uomo peccatore «
volle rendersi centro di se stesso », invece di gravitare intorno al
suo Sole.
D. Ciò si comprende con facilità per quello che
riguarda un individuo; ma ciò che apparisce odioso, è la trasmissione
d'un peccato individuale a tutta la specie. R. Respingo la parola odioso,
ma riaffermo una volta di più il mistero.
D. Un mistero d'ingiustizia?
R. Rigetto ancora questa parola. Il pregiudizio è
antico e molto diffuso: nondimeno chiedo alla tua lealtà di
rinunziarvi, dopo la spiegazione che ti darò.
D. Ascolto.
R. Anzitutto mi permetto di osservare che migliala
d'anime purissime infinitamente delicate in fatto di giustizia, hanno
riverito questo mistero, e l'incredulo, anche virtuoso, qui non ha alcun
privilegio.
D. Lo ammetto.
R. Dopo ciò ecco il mio ragionamento.
Un'ingiustizia è la privazione di un diritto. Là dove non c'è nessun
diritto, ci può essere dell'arbitrio, del capriccio, tutto quello che
vuoi; ma non c'è ingiustizia. Trovi tu ingiusto che un figlio di
tubercolotico sia tubercolotico? che il figlio di un degenerato per
colpa sua sia anche
196
lui degenerato, anzi proclive a certi vizi senza che ci
sia colpa da parte sua?
D. Ne domanderei volentieri conto alla Provvidenza.
R. La Provvidenza ti ha già esposto che essa s'incarica di trarre
da ciò del bene, se gl'interessati vi consentono. Ma proseguo.
Condizioni originali ci sono imposte a tutti per il fatto dei nostri
ascendenti. A volte noi lo possiamo deplorare; ma non abbiamo il diritto
di dire: « È ingiusto ». Non vi è mai ingiustizia nei dati d'un
problema morale; ce ne potrebbe essere solamente nella sua soluzione, e
la ragione è che l'ingiustizia suppone una giustizia a cui essa si
opponga, e la giustizia il diritto. Ora di che cosa siamo noi privati in
conseguenza del peccato originale? Siamo noi privati d'un diritto
acquisito, d'una situazione meritata, o anche solo d'un bene in
proporzione con ciò che noi siamo? No. Ci si ritira quella grazia
originaria a cui l'obiettante non crede punto; si mette fine a quello
stato quasi miracoloso che lo scandalizza, intendo la nostra elevazione
al di sopra della natura e quei formidabili poteri che alternativamente
ci affascinano e ci schiacciano. L'incredulo ride di questi privilegi,
li trova superflui: è davvero curioso vederli reclamare sotto pena
d'ingiustizia!
D. L'ingiustizia è nel fatto che ci si ritira questa
grazia per causa di altri.
R. Si taccerebbe d'ingiustizia un monarca che
concedesse a un signore della sua corte un privilegio ereditario sotto
certe condizioni di servizio, e che poi lo ritirasse perché il servizio
non è stato compiuto? La discendenza di quel signore ne sarebbe intanto
privata; ma essa non avrebbe il diritto di lagnarsi salvo che le si
197
togliessero anche i diritti che essa può ayere per
altri titoli.
D. Ma se il vassallo rientrasse più tardi in grazia?
Ora non è questo il caso nostro? Adamo, provando la sventura, non si è
rialzato dalla sua colpa? R. Sì certamente.
D. Perché egli non ci ha trasmesso il suo
ravvedimento?
R. Perché questo ravvedimento non gli appartiene.
Noi siamo potenti per demolire, ma nel soprannaturale non potremmo
ricostruire. Il ravvedimento di Adamo e la grazia che lo consacra
vengono ad Adamo per il canale della redenzione, per mezzo di quel
Figlio lontano e meritevole che è Cristo, nuovo Adamo, « secondo primo
uomo », che salva l'altro salvando tutta la stirpe. Di questa salute,
Adamo pentito può ben godere il he-neficio, e dopo di lui i suoi
discendenti; ma ne essi ne lui sono atti a trasmetterla. Se un capo di
famiglia rovina i suoi figli e dissipa le loro speranze, e se poi un^
benefattore sostiene la sua vita e quella de' suoi figli stessi, il
danaro ricevuto non passerà per questo in eredità.
D. Ciò sarebbe possibile e sarebbe più generoso.
R. Sarebbe un altro piano, e ne giudicheremo un po'
più innanzi.
D. Ad ogni modo, tu ragioni come se gli effetti della
caduta fossero tutti negativi. Ora si può riportare cosi al negativo
tutta « questa miseria dell'uomo » di cui tu hai tanto
insistito? R. Gli effetti del peccato originale son negativi alla
198
base, o per dir meglio privativi; noi siamo
spogliati,, e ne seguono degli effetti positivi per il corso naturale
delle cose, come se i miei eredi di cui sopra, privati della loro
nobiltà, cadessero per fatto loro o per fatto altrui in nuove sventure.
D. Tu chiami gli uomini peccatori in Adamo: dunque li
ritieni responsabili, e una responsabilità non è una cosa negativa.
R. Qui vi è un equivoco. Il peccato originale è un
peccato in noi; ma è un peccato di natura, uno stato, e che
implica una responsabilità collettiva, in ragione del capo della
stirpe, ma non una responsabilità individuale. Perciò non puniamo,
propriamente parlando, colui che ne è affetto; ma poiché egli
appartiene a una stirpe pec-catrice, non sarà trattato come colui che
appartiene a una stirpe fedele, e questa disuguaglianza non sarà
ingiusta più che non lo siano le ineguaglianze sociali sotto un regime
di uguaglianza di fronte alla legge, o ancora alle disuguaglianze
naturali.
D. Pure tu dici dannati i bambini morti senza
battesimo, e ciò a causa del peccato originale.
R. Questi bambini son degli innocenti in ciò che li
riguarda personalmente; d'altra parte hanno sopra di sé una
colpevolezza di stirpe, e per questa ragione non go-dranno del benefizio
gratuito annesso all'integrità di questa stirpe, all'innocenza
primitiva o alla redenzione. Ma noi non li diciamo dannati in questo
senso che essi sarebbero infelici; i più dei teologi, tra i quali S.
Tom-maso, prevedono anzi per essi una beatitudine naturale. Onde
conviene eliminare qui questa parola « dannazione » che si presta a un
grave equivoco.
199
D. Resta la privazione, come dici. Ora credi
tu che si possa facilmente avallare che tutta una stirpe sia così
immedesimata dal suo capo per il possesso o per la perdita d'un bene
gratuito, sia pure, ma inestimabile? R. Certo no; è una libera
disposizione divina, ma si ricollega a queste grandi leggi di
solidarietà e di eredità, sempre più in onore nella scienza.
D. Queste leggi non si negano; per lo meno alla base,
sono leggi fisiche: come avviene che ci sia solidarietà morale sema
che la volontà dei discendenti partecipi alla volontà del peccatore?
Nelle società umane, vi è solidarietà giuridica, perché vi è un
vincolo giuridico delle volontà; vi è una specie di delegazione, di
contratto mutuo, di consenso unanime.
R. Tu ne parli con precauzione, e a buon diritto. Il
« contratto sociale » ha un valore interpretativo; ma tu ben sai che
questo vincolo giuridico è fittizio nell'immensa maggioranza dei casi
di responsabilità collettiva, sia in bene, sia in male. Di solito è la
solidarietà naturale, è, come qui, l'eredità, che decidono di
tutto. Difatti un'anima individuale non è attaccata a un solo corpo, ma
a parecchi, a tutti quelli della sua discendenza, e per essa di tutta la
stirpe.
D. Tu fai poco conto dell'individuo. R. Sono oggi
ben rari quelli i quali non riconoscono che la responsabilità puramente
individuale è un pregiudizio razionalista, condannato dalla scienza
sociale e dall'esperienza.
D. Confessa che l'oscurità è tutt'altro che
eliminata. R. ' Lo riconosco, ma tu parlavi di scandalo. Del resto
200
c'è ancora un'altra considerazione da fare. Anzitutto
queste leggi di solidarietà, che si sono rivolte contro di noi,
potevano pure lavorare a nostro vantaggio; Adamo fedele ci avrebbe
trasmesso tutti .i suoi privilegi.
D. Ma Dio sapeva come sarebbero andate le cose. R.
Questo modo di ragionare non è accettabile; è inquinato di
antropomorfismo. Si è visto, parlando della Provvidenza, che le
previsioni di Dio e la sua stessa causalità lasciano intatta la nostra
responsabilità, non modificano in nulla le relazioni temporali tra
effetti e cause. Del resto, se tu invochi le previsioni di Dio, seguile
sino in fondo, e tieni conto di ciò che non è più solamente
previsione, ma disposizione effettiva, disposizione ora notificata e ora
operante, cioè la redenzione. Ti lamenti del fatto che la legge di
solidarietà ci abbia nuociuto nell'Eden: rallegrati del fatto che essa
ci favorisce sul Calvario. Questi due fatti sono strettamente legati
dalla Provvidenza; solo un gioco di astrazioni permette di dissociarli,
ed è un brutto gioco; infatti trascurare di ringraziare Dio per la
redenzione allo scopo di prenderlo in fallo nella creazione è il segno
d'una ben triste ingratitudine.
D. L'eredità di Cristo non è gratuita come
sarebbe stata l'altra; bisogna cooperare.
R. È gratuita per il bambino battezzato. Se
l'adulto deve cooperare, cioè fare atto di libera attività virtuosa,
pensi forse che gli eredi di un Adamo rimasto innocente ne sarebbero
stati dispensati? Quello che Adamo non avrebbe perduto per tutti,
ciascuno l'avrebbe ancora potuto perdere per conto proprio; tutti in
qualche modo avrebbero dovuto riconquistarlo, preservarlo, accre-
201
scerlo. In nessuna situazione religiosa l'uomo morale è
esonerato dallo sforzo.
D. Lo sforzo sarebbe stato più agevole, trovandoci
davanti minori ostacoli e maggiori soccorsi.
R. Facciamo il conto. Dopo la nostra adesione a
Cristo, le nostre debolezze congenite si volgono in diminuzione delle
nostre colpe, in lode delle nostre virtù; in certi casi, la nostra
responsabilità peccaminosa è annullata dalla violenza improvvisa
dell'allettamento; in caso di eroismo, avviene l'opposto e ci vien
contato il doppio. Tutto sommato, nulla è perduto a cagione della prima
colpa, nulla è perduto se non per una tenace cattiva volontà
personale. E questa non è una situazione ingiusta.
D. Ciononostante non posso trattenermi dal giudicarla
arbitraria, capricciosa. Faccio mie le tue stesse parole.
R. Siamo veramente in grado di giudicare? È serio
criticare Dio sulla costituzione del suo universo morale più che su
quella dell'universo fisico, dove abbiamo già riconosciuta la nostra
incompetenza? È il fine che decide; i piani ci sfuggono. E devono
sfuggirci tanto più in quanto non si tratta qui unicamente delle leggi
profonde della natura umana, già così misteriose, ma di un ordine di
leggi anche più recondite, quelle del soprannaturale. Il rapporto
soprannaturale dell'uomo con Dio oltrepassa l'esperienza; gli effetti
della sua rottura devono avere una portata non meno segreta; essi si
nascondono nel mistero di un Dio che intimamente si comunica, e
dell'unione singolare, in lui, degli esseri
202
chiamati a questa comunione, al di sopra del tempo e di
tutte le condizioni particolari.
D. Questo può abolire la personalità?' R. Al
contrario: la personalità ne è rinforzata, come ogni cosa al tocco del
suo Creatore; ma nello stesso tempo le diverse personalità si
ravvicinano; per una parte esse sfuggono agli effetti del tempo, e
perciò si comprende meglio come l'una conti per l'altra, come ce lo
rivelerà la comunione dei santi, e come, quaggiù, siano tutte
unite nel loro capo di stirpe, formando con lui una particolarissima
unità.
D. I diritti della giustizia individuale rimangono.
R. Certo, ne sono anzi rinforzati, come ho detto della personalità;
ma vi si sovrappone una giustizia collettiva, e il congegno esatto però
ci sfugge. Il bambino morto senza il battesimo e il bambino battezzato
ci fanno vedere la formula alla prova, ma non ce la spiegano punto. Il
primo di questi due piccoli esseri non è condannato personalmente; gli
si concedono all'opposto tutti i benefizi della natura nella sua piena
espansione:
dunque la giustizia individuale rimane. Ma a differenza
del secondo che ha potuto entrare nell'unità soprannaturale costituita
dalla stirpe del Nuovo Adamo, egli non ha parte alla eredità
particolare di questa stirpe;
non è stato un eletto.
D. Perché lui, e non un altro? R. Ti rimando
alla questione del battesimo. Qui parliamo di solidarietà, e dico: La
solidarietà soprannaturale sta a sé. Essere uni in Dio, in Dio intimo,
in Dio Trinità, è un fatto, e questo fatto non è senza effetti;
il caso di Cristo, ce lo farà vedere meglio. Ne
concludo
203
che non possiamo giudicare del peccato originale e della
sua trasmissione alla discendenza d'Adamo secondo i soli dati della
nostra esperienza già confusi. I bambini nel seno della loro madre non
respirano come noi; una stirpe soprannaturalizzata parimenti non
può aspirare Dio, se posso dire così, e poi espirarlo
nelle stesse condizioni in cui si adotta o si rigetta un servizio
civile. La solidarietà è qui più stretta, perché il legame
dell'individuo alla specie è più stretto, e questo legame è così
serrato perché noi siamo legati a Dio, insieme, e ci pressiamo in
qualche modo nella Trinità.
D. In una parola, Adamo era noi, ed è per questo che
noi pecchiamo in lui.
R. La formula è paradossale; ma riportata al suo
vero significato, è vera. Noi siamo in mezzo alle rovine appunto
perché Adamo ha in sé compromesso l'edifizio morale.
D. Resto un po' perplesso.
R. Non vorrei trarti da una perplessità con un
rimprovero; ma posso rischiare una questione che io risolvetti
precedentemente contro me stesso: fuori del peccato originale, ti senti
tu innocente?
D. No; ma è un poco la colpa del peccato originale;
l'hai messo tu stesso all'origine della nostra
fragilità. R. Esso è all'origine della nostra fragilità, ma non
per questo alla sorgente di ogni responsabilità. I mali che si
attribuiscono al peccato originale sono in gran parte l'effetto dei
peccati personali, accumulati e aggravati con l'aggiunta di essi. Non fu
detto a proposito della stessa morte: Gli uomini non muoiono, ma si
uccidono? L'assenza dei doni soprannaturali facilita certa-
204
mente questo stato di cose, ma non l'impone, non lo
scusa. Pecchiamo tutti, tutti quanti; pecchiamo nonostante le grazie di
riparazione; facciamo del peccato originale una specie di abitudine
accettata e della quale così noi diventiamo responsabili. Il modo con
cui ci comportiamo con Dio deve incuterci dei timori sopra ciò che
sarebbero stati i nostri modi d'agire se fossimo nati « nell'innocenza
dei primordi », come dice Bossuet.
D. Queste sono ipotesi.
R. Sono presunzioni serie, che alleggeriscono la
responsabilità divina quanto all'istituzione di questo piano di
solidarietà che ti urta. Perché finalmente che diresti, se Dio,
apparendoti come a Giobbe per spiegarsi con tè circa la sua condotta,
si esprimesse così: Io vidi voi tutti, nell'Eden! I tempi si aprivano
davanti a me. Trovandovi così al di sotto della vostra propria
coscienza, io non potevo attribuirvi una superiorità molto grande, per
rapporto all'eredità del vostro progenitore peccatore. Taluni di voi
avrebbero forse ragioni fondate di ricusare questo giudizio? Ma non sono
essi a lamentarsi. I Santi stimano cosa affatto naturale l'essere stati
puniti in Adamo: essi si sentono meritevoli di punizione; ma coloro che
lo sono molto di più non lo sentono affatto. Essi dicono: Io non c'ero!
Ma io dico loro: Tu c'eri;
perche i tempi per me non hanno nessuna importanza, e
fatta astrazione dal tempo, tutta questa fiumana di peccati individuali
che dovevano seguire, non è forse anche un peccato della specie? Io vi
ho ritenuti per peccatori in Adamo perché vi vedevo peccatori come
Adamo. Qualcuno di voi si leverà per dire: Io, per conto mio, non
merito di essere nato in un mondo di peccato,
205
con le condizioni del peccato, perché, da parte mia, io
sono senza peccato? Uno solo ha detto questo di sua propria autorità:
il mio Cristo, e a una sola è stato dato per grazia di ripeterlo: la
Madre sua. Ciò non si verifica di nessun altro.
D. Quando Dio parla, si ha sempre torto!
R. Io credo che egli parli, e dica come una volta:
« È
cosa buona! ».
206
IL MISTERO DELL'INCARNAZIONE
D. Hai fatto prevedere or ora e più d'una volta già
prima una riparazione della decadenza umana: desidererei di vederne
precisare,! mezzi. R. I mezzi sono l'Incarnazione e tutte le
conseguenze che essa importa.
D. L'Incarnazione non è forse una bella leggenda,
estranea alla vita e alle intenzioni personali di Gesù? R.
L'affermazione d'una leggenda di Cristo che va crescendo col tempo non
vale più della leggenda. Come abbiamo veduto. Gesù si è presentato
tal quale è riconosciuto oggi dai credenti. La teologia non ha gonfiato
nessuna delle sue affermazioni; essa le ha registrate e coordinate; ne
ha fatto un corpo di dottrina, cosa che non cambia niente.
D. Ammettendo il linguaggio teologico, non si
potrebbe dire che Gesù è nato come tutti gli uomini, e poi ha
conquistato la sua divinità?
R. La divinità non si conquista affatto. Quei che
tengono tali discorsi si contentano di metafore.
207
D. Le metafore sollevano a volte lo spirito dalle sue
difficoltà.
R. Diresti tu come Nestorio a Efeso: « Io mai
chiamerei Dio un bambino di due o tré mesi »?
D. Costui aveva della perspicacia. R. . « Fino a
un certo punto soltanto », ti direbbe Pascal. Avuto riguardo
all'oggetto in causa, egli diceva una sciocchezza.
D. Come parlare d'Incarnazione! Dopo aver cercato dì
oltrepassare Dio in alto, in seno alla Trinità, vuoi ora oltrepassarlo
in basso?
R. Qui sta il prodigio della concezione cristiana.
Essa contiene tutti gli estremi, e il passaggio dall'uno all'altro è
rapido come quello degli animali simbolici nella visione di Ezechiele:
« Esseri che correvano in tutti i sensi, simili alla folgore ». Dopo
la sublimità nella Trinità, la bassezza nell'Incarnazione. Bassezza,
dico, allo sguardo superficiale, ma, invero, sublimità nuova:
sublimità dei rapporti creati, dopo quella dei rapporti increati;
sublimità dei rapporti divini al completo, comprese le loro estensioni
al di fuori, oltre alla sublimità di questi rapporti nella divina
sostanza. La filosofia pura lasciava la nozione di Dio imperfetta, del
tutto arida, come « naturalizzata », vale a dire senza vita: la
Trinità la compie. Alla sua volta il dogma dell'Incarnazione riprende
questa filosofia di Dio e la compie nell'altro senso, precisando e
portando al loro punto estremo i rapporti di Dio con l'opera sua.
Radicale trasformazione, in entrambi i casi nel senso della vita; doppio
segno di una Ragione superiore all'uomo.
208
D. Dopo ciò...
R. Dopo dò, t'avverto che non è ancora finito.
Sarai
spinto fino al Dio sofferente, che è il Dio redentore;
fino al Dio che abita nel cuore degli uomini, che è il
Dio della Grazia; fino al Dio che entra nei nostri ordinamenti unitari,
ed è il Dio della Chiesa; fino al Dio che si da agli uomini come cibo
per preparare la loro divinizzazione, ed è l'Eucaristia. Ma quando sì
parlerà di questa divinizzazione, prima prevista e preparata, poi
effettuata in un'altra esistenza, è allora che tutto si rischiarerà,
gli estremi si toccheranno, il piano manifesterà la sua armonia
perfetta, e il movimento da Dio a Dio attraverso a tutta l'opera sua,
attraverso a tutti i tempi, ti apparirà come un'epopea grandiosa. In
questo tragitto spirtuale e concreto che percorre la vita religiosa
universale, Dio ci va di persona, se così posso dire, fino
all'esaurimento dei mezzi; ma non fa mai se non la sua parte di Dio: non
bisogna forse che colui che crea conduca anche — e coi mezzi che
occorrono — le sue creature al loro termine?
D. Il mezzo Incarnazione è veramente razionale? R.
Esattamente come la Trinità. La Trinità è razionale in questo senso
che soddisfa la ragione oltrepassandola; l'Incarnazione oltrepassa,
anch'essa, la nostra intelligenza e la rapisce. Dopo averci data una
chiarezza ammirabile sopra la intimità di Dio in se stesso, ci abbaglia
per la intimità di Dio con la sua creatura. Qui e là il massimo è
raggiunto: Siamo al capolavoro.
D. Che cosa vi può guadagnare la religione? R.
Immensamente: realizza la sua più alta perfezione.
209
Grazie all'Uomo-Dio, l'umanità può rendere a Dio un
omaggio degno di Dio, comunicare con Dio fino all'intimità più
profonda: l'unità di persona, e ricevere dei beni divini in rapporto
con un tale compito, con una tale prossimità, con un tale dono. D. Bisogna
però che non si onori Dio distruggendolo, che non lo si unisca all'uomo
fino a confonder velo, e che a forza di fare di Dio uno di noi, non vi
sia più Dio.
R. Ti fai una falsa idea del dogma, indottovi
certamente da questi modi di dire: Dio fatto uomo, Dio di-venuto
uno di noi, Dio disceso dal cielo in terra, ecc., tutte
espressioni che bisogna certo adoperare perché il dogma sia compreso da
tutti e maneggiato da tutti comodamente, ma che una sana teologia
corregge.
D. In che consista la correzione? R. In questo,
che le formule suddette, e tutte quelle che ad esse rassomigliano,
benché, grammaticalmente, esprimano dei cambiamenti in Dio, delle
relazioni nuove da parte di Dio e quasi un viaggio di Dio, si devono
tuttavia intendere esclusivamente riferite alla creatura. È
nell'umanità che avviene il cambiamento, che si schiude una relazione
nuova e il riavvicinamento trova la sua possibilità. E non c'è
viaggio.
D. Dio non è dunque venuto? R. Che cosa
potrebbe veramente significare questo? Dio non si sposta affatto. Nel
senso in cui si può dire che sia in qualche parte, egli è da per
tutto. In nessun luogo egli è di più che davanti a noi, in noi, « in
lui, noi viviamo, ci muoviamo e siamo »; il nostro essere, è
nel suo. Tutta la questione è di sapere in quale mi-
210
sura, sotto quale forma noi ci varremo di questa
presenza, e la vivremo. A questo riguardo vi sono gradi infiniti, e
l'Incarnazione ne è il massimo.
D. Desidererei di capire meglio. R. Devi prima di
tutto renderti conto che noi non attentiamo a Dio; che non facciamo
nessuna breccia nell'immutabilità di Dio, come tè lo fa intendere la
bella antifona seguente: Un ammirabile mistero si svela oggi. Due
nature si rinnovano. Dio si è fatto uomo. Quello che egli era, rimane;
quello che non era, lo assunse. Ciò senza subire mescolanza o
divisione. Oltre la precisione di queste ultime espressioni, tu
osservi la precauzione che precede. Quello che Dio era, rimane;
perché Dio non cambia. Quello che Dio non era... non si dice: lo
diventa, benché lo si possa dire col benefizio del ritorno di senso
spiegato or ora; ma si dice più esattamente:
Egli lo assume, per suggerire che è un'ascensione
della creatura, non una discesa di Dio, un cambiamento nella creatura,
non un cambiamento in Dio.
D. Non è tuttavia un po' di paganesimo questa sorta
di apoteosi nel senso proprio, in luogo di una metamorfosi divina? Non
vi è forse antropomorfismo in entrambi i casi?
R. Noi non facciamo dell'antropomorfismo, noi non
pensiamo Dio come un uomo più grande; ma sono i deisti ombrosi, quei
filosofi borghesi per i quali Dio è una specie di monarca
costituzionale, un Luigi XVIII greve a spostarsi, troppo contegnoso e
troppo gallonato per entrare in una composizione così umana, profonda e
intima quale è l'Incarnazione. Noi, dal canto nostro, crediamo al Dio
« Sostanza senza determinazione e senza
211
sponde », Anima del mondo, trascendente e immanente a
un tempo, Spirito intimo e sovreminente di tutte le cose. Perché vi sia
un'incarnazione, non vi è che da tuffare una umanità individuale più
addentro in questa Sorgente viva, e ve la si tuffa sino all'estremo
possibile senza alcuna confusione, ponendo l'unità della persona nella
completa distinzione delle nature. Ciò non abbassa punto Iddio.
D. Come una personalità semplice può convenire a
due nature?
R. La personalità di Cristo non è semplice, ma
unica, il che non è la stessa cosa. È unica perché qui non vi è che
un solo centro, un solo focolare di vita, ed è Dio, o più esattamente
il Verbo di Dio; tuttavia è composta, perché partendo da questo
focolare, da questo centro, vi è un doppio zampillo : l'uno eterno, in
Dio stesso, ed è la natura divina, l'altro temporale, nel creato, che
è la natura umana. Insomma si tratta di una umanità individuale
sussistente e vivente per l'irradiamento immediato della divinità
immanente ad essa.
D. Non avevi detto qualcosa di simile a proposito di
Dio nella creazione?
R. Cristo non è che la creatura più perfetta,
quella che Dio si unì più strettamente; è dunque naturale che le
relazioni si rassomiglino e, sotto certi riguardi, siano anche
identiche. Dio vive entro di sé nella Trinità, si espande fuori nella
creazione; e quello che scaturisce da lui rimane talmente unito a lui
che non vi produce addizione di essere, l'essere rimane il pieno
possesso di Dio, possesso inalienabile, benché egli lo comunichi. Nel
caso di Cristo, la comunicazione ha questo di par-
212
ticolare che non si estende se non a una natura
individuale; non vi è essere nuovo, personalità nuova, ma è l'essere
stesso di Dio che diventa l'essere di un uomo per l'assunzione in lui,
l'adesione a lui d'un corpo e di un'anima naturalmente congiunti.
D. È il panteismo ridotto a un solo caso! R. Si
potrebbe anche dire così dando però le neces-sarie spiegazioni,
perché non c'è alcuna ragione di stupirsi. Sarebbe forse strano il
dire: Cristo è Dio, quando da tanti grandi uomini, da Anassimene a
Spinoza, e anche oggi, si dice: Tutto è Dio?
D. Tra Cristo e Dio, l'unione è così intima come
tra l'anima e il corpo?
R. È assai più intima ma in modo diverso, e sopra
questo punto lo stesso Simbolo di S. Atanasio ha bisogno di
commento. Essa è più intima, perché l'essere divino è un centro
d'unità ben più potente che un'anima in un corpo. Ma è differente,
perché tra l'anima e il corpo vi è composizione e relazione reciproca;
l'uno e l'altro elemento è affetto dalla combinazione.
Nell'Incarnazione nulla di simile. Nessuna combinazione: la divinità
non si compone; essa è indipendente, inaccessibile a ogni influsso di
un congiunto, estranea a ogni relazione che riguardi essa stessa,
benché tutto le sia relativo e sottomesso. L'Incarnazione non è che un
caso particolare di relazione ascendente, di relazione della creazione a
Dio. Con il Cristo, la creazione tocca Dio in un punto, come il circolo
finito ha la tangente infinita;
ma il grande Separato rimane pienamente a se stesso.
D. Così, Dio non da niente di sé. R. Egli da
tutto; non aliena niente. L'Incarnazione è
213
un magnifico dono, ma non è un cambio. Dio non è mai
compromesso in quello che fa. Ma l'uomo ne sarà meno gratificato? Per
quanto l'Incarnazione non costi niente alle grandezze di Dio, tuttavia
è sempre vero in senso generale che un Dio ha mescolato i suoi passi ai
nostri sopra le vie della nostra vita, che egli ha abbandonato il suo
cuore a tutte le nostre angosce e ha gustato la nostra morte.
D. È troppo, a mio parere. Supponendo possibile una
incarnazione, quale apparenza che da questa possibilità metafisica il
Creatore pensi a trarre la minima conseguenza effettiva? Questa cura
dell'Infinito per il piccolo genere umano è credibile? Immaginarsi un
Dio che ami questo nostro mondo non è forse una ridicola presunzione?
R. Tu ragioni come Celso, nel secolo secondo; ma
ascolta Pascal: « Incredibile che Dio si unisca a noi. Questa
considerazione è tratta solamente dalla vista della nostra bassezza. Ma
se codesta considerazione è sincera, seguila tanto lontano quanto la
seguo io, e riconosci che di fatto siamo così in basso, che da noi
stessi siamo incapaci di conoscere se la sua misericordia non ci possa
rendere capaci di lui ».
D. Risposta del tutto negativa, riconoscilo. R.
Ma essa basta a distruggere l'obiezione. Però ecco S. Giovanni: Noi
abbiamo creduto all'amore che Dio ha per noi, perché Dio è
amore. Questa risposta è positiva, ed è quella che ama invocare
ogni cristiano. Del resto, la « piccola umanità », il « nostro
piccolo mondo », formule di cui taluni si empiono la bocca per
un'umiltà piena d'orgoglio, non significano niente. Ri-
214
corda i « due infiniti ». Di fronte alle immensità
astrali, noi non siamo che atomi; di fronte al mondo degli atomi, noi
siamo un'immensità. Il grande e il piccolo non sono che relazioni
diverse. Di fronte all'assoluto divino, nulla è piccolo ne grande, e
sotto un certo aspetto tutto si equivale, come sotto un altro aspetto
tutto si annulla.
D. Quando pure si debba concedere che l'Incarnazione
non diminuisce Dio, mi pare tuttavia che non possa non diminuire l'uomo;
essa è per la religione un falso punto di partenza; fatalmente
condurrà alla mate-rializzazione di tutta la vita religiosa.
R. La storia dimostra che quando si respinge
l'Uomo-Dio, non è ne a benefizio dell'uomo, ne a benefizio di Dio.
Tuttavia se l'Incarnazione fosse una falsificazione di Dio, eliminata la
falsificazione, il culto di Dio dovrebbe crescere, e se fosse una
falsificazione dell'uomo, eliminata la falsificazione, il culto vero
dell'umanità dovrebbe grandeggiare. Ora è esattamente l'opposto. In
entrami i casi, il culto di Dio sparisce e il culto dell'uomo si
abbassa. Il culto in spirito e verità, sia di Dio, sia
dell'uomo, è, di fatto, legato al culto dell'Uomo-Dio.
D. inondimene l'Incarnazione è un cattivo programma.
Noi siamo già troppo incarnati: non dovremmo esser portati a
disincarnarci, per la purificazione dell'anima nostra?
R. Non c'è bisogno di purificarci dal nostro
essere. La carne fa parte di noi. Per raddrizzarci, si tratta di
riportare tutto nell'ordine, non di abolire qualcosa. Quando l'anima si
divinizza per la grazia di Gesù Cristo, a sua
215
volta essa divinizza la carne e la prepara alla vita
immortale. Per questo Dio s'incarna; egli entra nella carne come il
nuotatore nell'acqua, per domarla, o meglio come il germe vivo nella
materia che esso deve organizzare e sottomettere allo spirito, e nel
caso nostro allo Spirito supremo.
D. Ma allora forche l'incarnazione non ha luogo in
tutti noi? Tu la dici cosa possibile; essa ci si presenta ora come una
conveniènza. Non è forse ciascuno di noi che si deve purificare,
spiritualizzare, divinizzare? Preferirei che ciascuno fosse il suo
proprio Cristo, come Luterò disse che ciascuno è il suo proprio
sacerdote.
R. L'Incarnazione, in certa maniera, ha luogo in
tutti noi; difatti il regime della grazia ne è una partecipazione,
un'imitazione. Per il fatto della grazia ci si applica questa parola del
Salmo: Voi tutti siete Dei. Per essa anche noi siamo in contatto
intimo con la natura divina, benché questo contatto non sia personale,
come in Gesù Cristo.
D. Come dici tu stesso, è un'imitazione. R. Nel
senso proprio, l'Incarnazione dev'essere universale ne' suoi effetti; ma
non sarebbe naturale che tale fosse nella sua forma. Noi siamo una
stirpe. Una soluzione individualista a tal punto non sarebbe dunque in
armonia con la nostra umanità. La solidarietà offre un mezzo migliore,
e il valersene è una perfezione di più. Dio sarà unito a uno di noi
per natura e agli altri per solidarietà. Unirsi all'Uomo-Dio, sarà
diventare Dio in una' certa maniera, per mezzo della grazia, come essere
figli della stirpe di Adamo è essere uomini.
216
D. Potresti riassumermi le tue ragioni in favore di
questo ,dogma?
R. La convenienza dell'Incarnazione si può
esaminare e dalla parte di Dio e da quella dell'uomo. Dio opera per
manifestarsi, per darsi, per riflettere nelle sue opere le sue
perfezioni e il suo amore. Ora in quest'opera i suoi attributi
risplendono al massimo grado; specialmente la sua bontà, come abbiamo
detto; ma anche la sua onnipotente sapienza, che escogita un tale mezzo
per riparare quello che era compromesso e di sostituire al disordine
un'armonia magnifica. Infatti grazie all'Incarnazione si vedranno
raggrupparsi in un ordine nuovo tutte le creature, i loro vincoli di
solidarietà concentrarsi in grazia del sublime Fratello, l'unità di
Dio, della natura e dell'uomo fortificarsi in ciò che Dio avrà avuto
di mira, per stabilire la saldatura, il punto delicato dove la materia e
lo spirito si ricongiungono, dove l'animale ragionevole offre
all'intelletto tutto il contributo dei sensi e tutta l'attività
vibrante o vegetante dei corpi insensibili. Dal canto nostro, noi
abbiamo bisogno di Dio: un bisogno essenziale, ma anche un bisogno sensibile,
perché siamo carne. Piuttosto che privarsi di una divinità visibile,
l'umanità ha avvilito il vero Dio. Nell'Incarnazione Dio non si
avvilisce punto, è lui che si avvicina a noi, ma senza decadere in
alcun modo. Resta lui stesso e diventa misteriosamente uno di noi. Il
suo commercio familiare soddisfa l'intima aspirazione della terra.
L'umanità cercava da per tutto il suo Dio, e un giorno lo trovò in
sé. Da ciò quel grandioso movimento morale, nel quale io additavo più
sopra l'incomparabile riuscita dell'Incarnazione e del suo preteso
paradosso. L'Uomo-Dio ha conquistato l'umanità; vi ha eccitato
217
l'entusiasmo, l'ammirazione, la speranza, l'amore, senza
mai scoraggiare la più piccola o la più debole delle anime, offrendo
di che soddisfare le più esigenti e portare all'estremo le più
eroiche. Il suo culto ha animato delle collettività, promosso delle
civiltà, che hanno trovato e troveranno in. lui l'ispirazione e la
guida delle istituzioni più beneficile. Al termine, il rientrare nella
Trinità, per mezzo del Verbo, di tutto il creato rappresentato dalla
creatura ragionevole e congiunto ad essa, non sarà forse l'integrazione
perfetta, la religione realizzata nella sua pienezza, il senso umano
soddisfatto in quell'appetito d'infinito che lo travaglia? Finalmente, e
noi lo dicevamo pure, si vedrà lì un contrappeso al mistero del male,
in ciò che Dio, che la nostra incoscienza tratta alle volte da crudele,
sceglie di farsi vittima, e prova che, se permette il male, non è
affatto indifferenza, poiché egli ne vuole morire?
D:
Questo
piano è bello; ma non è eccessivo nei suoi due estremi?
R. L'intimo unito all'immenso è la grande legge
dell'arte.
D. Ma che bisogno c'è di una così sfretta unità?
R. La natura ce ne da l'esempio, e noi non siamo sorpresi quando,
là dove essa si ferma, il sopprannaturale riprende.
D. . Come questo? R. La scala degli esseri è
formata di successivi gradi:
la materia, la vita, la sensazione, il pensiero; i
pianeti, i soli, le nebulose, gli insieme stellari dei quali ignoriamo
ancora le forme e i vasti inquadramenti. Tutto si collega, tutto si
unifica in un cosmo, in un ordine. Al di
218
sopra, vi è il Creatore, ma tra questo grande Separato
e l'opera sua vi è un immenso iato, e sembra impossibile colmarlo,
poiché il Trascendente e l'essere creato non hanno nessun legame
comune, e l'attribuirne loro uno qualsiasi, sarebbe distruggere Dio. Ora
l'Incarnazione effettua appunto questo miracolo. Per essa vi è una
giuntura, un pezzo di raccordo. Cristo è Dio e uomo, senz'al-cuna
diminuzione di Dio, senz'alcuna alterazione dell'uomo. In lui tutti i
regni si uniscono; materia, vita e pensiero accedono alla divinità e
racchiudono tutto in essa. Il suo essere è una « ricapitolazione »,
come l'opera sua (s. ireneo). L'universo è così definitivamente uno,
uno nell'Uno, nella Sorgente prima, nel Fine, nella Legge, nel
Superessere. Così il mondo gira meglio; l'intelletto, strumento
d'unità, lo stringe meglio; il reale, con questa integrazione, soddisfa
più il pensiero, è più Mondo; la Trinità lo include nel suo triplice
centro;
il nostro universo è come divinizzato e Dio è come
universalizzato per il fatto che è umanato in un Figlio di Adamo.
L'unità regna, e con essa l'armonia, il bello supremo, fratello del
vero dell'intelletto e del bene dell'amore.
D. In tali condizioni, io non capisco come
l'Incarnazione non faccia parte del piano iniziale, e sia invece saltata
fuori quasi per caso.
R. È quanto hanno pensato non pochi teologi, e lo
stesso S. Tommaso nella sua giovinezza. Più tardi l'uomo maturo si
ricredette; dichiarò di riferirsi in proposito alla Scrittura, in una
materia in cui le nostre convenienze intellettuali da sole sono di
troppo poco peso.
219
Ora è indiscutibile che la Scrittura presenta come
solidali le sue idee di Incarnazione e di Redenzione.
D. Tuttavia rimane sempre che un fatto così grande
si effettua solo occasionalmente.
R. Occasione se vuoi; ma è un'occasione eterna.
Tutto quello che Dio fa si commisura all'eternità. E poi, non è forse
il capolavoro della sapienza, il miracolo della potenza, il trovare in
un'occasione la materia d'un piano superiore? L'arte vive di siffatte
occasioni. Tutta la meraviglia dell'arte gotica non è forse una
soluzione di questo problema elementare: come equilibrare la spinta
laterale e procurarsi della luce? Di un'occasione mortale per
l'umanità Dio fece un trionfo per lei e per l'universo. Ed « è cosa
buona! ».
D. Dopo ciò, c'è ancora posto per altri
avvenimenti? R. Non ve ne sono altri, ma vi è lo sviluppo di
questo. L'Incarnazione finisce e comincia. « L'umanità è stata divisa
in due età: nella prima età l'uomo aspettava Dio; nella seconda, è
Dio che aspetta l'uomo. Ecco la spartizione dei tempi » (lacordaire).
D. Perché .questo rimedio arrivò così tardi? R.
Dio l'apprestò nel momento che parve più opportuno alla sua
provvidenza, il più centrale e il più fecondo riguardo a tutte le
età. Bisognava che l'uomo peccatore si rendesse conscio del suo caso,
conscio della sua debolezza, avvertisse la propria indigenza, sì da
concepire un desiderio di liberazione, come di fatto avvenne nei tempi
di fermentazione mistica anteriori a Gesù. « È bene essere stanchi e
affaticati dall'inutile ricerca del vero bene, per tendere le braccia al
liberatore » (pascal). Non bisognava inoltre, per l'onore di Cristo,
220
che venisse nella « pienezza dei tempi » (s. paolo)
affinchè egli, centro della storia, apparisse dominarla tutta quanta?
D. Tu sacrifichi così il passato. R. Non
sacrifichiamo niente. Ho già detto che Cristo irradia nel tempo come
irradia nello spazio e nelle anime; egli non è dato a questi, rifiutato
a quelli; egli appartiene a tutti, e l'attesa secolare che l'ha
preceduto fa parte del suo lavoro, eseguisce le sue intenzioni in tutte
le anime rette; perché l'albero della croce ha radici che sono esse
pure medicinali. L'umanità non mancò mai del suo Cristo.
D. L'elemento divino dell'Incarnazione è espresso
nelle tue parole ora col termine « Verbo », ora col termine « Dio »:
da che dipende questa diversità di termini? R. Dio è la Trinità,
o una delle persone in ciò che ha di comune con le altre, cioè la
Divinità stessa. Il Verbo è la seconda delle persone che si
distinguono o si rilegano in quelle relazioni viventi di cui abbiamo
parlato. Ciò posto, quando si dice: Dio s'incarna, si può volere
esprimere in tal modo l'opera medesima, il fatto, l'azione, e allora è
tutta la Trinità che si designa; perché un'azione di Dio è Dio, è la
sostanza o essenza creatrice nella sua pienezza, e perciò la
distinzione delle persone è qui fuori di questione. All'opposto, se si
vuole indicare il risultato dell'azione, quello a cui essa fa capo,
cioè l'Uomo-Dio, si nomina allora specialmente il Verbo, Figliuolo
eterno di Dio, Sapienza, seconda Persona della SS. Trinità. E, questa
volta, la ragione è che, secondo la nostra fede, solo il Verbo,
nell'Incarnazione, assume, cioè accoglie e raccoglie in sé la
natura umana. Il pro-
221
getto di Dio era deformato dalla colpa: spettava al
Pensiero vivente di riprendere il lavoro al quale egli aveva presieduto
nel momento della creazione. Siccome dunque solo il Verbo è Figliuolo
di Dio nella Trinità eterna, così solo il Verbo è Figliuolo dell'Uomo
nell'Incarnazione.
D. Ne deriva, penso, che la psicologia di Cristo
debba essere abbastanza complessa.
R. Essa è profondamente misteriosa; ma i contrasti
della sua persona si conciliano con una tale agevolezza e con una tale
dolcezza che Giovanni, dopo avere appoggiato la testa sul suo petto,
trova affatto naturale chiamarlo suo Dio.
D. Da questa divinità che è in lui, che cosa deriva
nella sua umanità?
R. Ne deriva il cielo, senza che la terra
l'abbandoni. Voglio dire che egli esplica veracemente tutte le funzioni
della nostra vita terrena; la sua vita non è una commedia; i suoi atti
non sono parvenze; egli è sottomesso a tutte le nostre debolezze, salvo
il peccato e la tendenza al peccato; prova tutti i nostri bisogni; le
nostre fatiche e i nostri dolori l'opprimono, e le nostre noie, e i
nostri disgusti, e i nostri abbattimenti, e le nostre angustie, che la
sua fortezza divina supera, ma non abolisce. Giungerà fino all'agonia
dell'essere per cui la morte è una liberazione, e tuttavia ne ha paura.
Tutto ciò, su cui non ci possono essere dubbi, dev'essere poi
conciliato con una beatitudine segreta, con una scienza senza ombra, e
con una perfetta serenità del volere profondo.
D. Come ciò è possibile? R. Ciò è possibile
tanto facilmente e tanto difficil-
222
mente quanto l'Incarnazione stessa. Conciliare Dio e
l'uomo è conciliare quello che essi sono, e che non sarebbero punto se
nella pretesa conciliazione gli attributi dell'uno nuocessero agli
attributi dell'altro.
D. No» e possibile fare due cose nello stesso tempo,
ne ascoltare due musiche.
R. Di fatto ciò accade. Vi è la dettatura di
Cesare; vi è Mozart che compone un brano mentre ne scrive un altro; vi
sono gli sdoppiamenti di personalità, vi sono quelli che cercano la
solitudine in mezzo a Parigi e la trovano; vi sono quegli stati d'anima
descritti dal D'Annunzio, quando « nell'angoscia più agitata, un
meandro profondo della nostra coscienza rimane in pace »; vi sono
specialmente gli stati mistici, alcuni dei quali ci mostrano in un solo
essere, nello stesso tempo, stati in apparenza contraddittori. Qui «
l'anima che è la forma del corpo, gode Dio increato nel Dio fatto uomo
» (angela da foligno). L'estasi è dunque lo stato normale. Gesù
attraversa la nostra notte come in un'aureola. Egli è un abitatore
della Luce eterna; ascolta una musica segreta; si dona ed è sempre
solo; parla e nasconde nel centro un abisso muto; opera in un riposo
meraviglioso;
prosegue, senza interruzione, l'eterno colloquio; nel
corso della stessa Passione, in stati ciascuno dei quali sembra che
debba accaparrarsi tutta l'anima, il suo essere intimo si potrebbe
definire un oceano di pace e di silenzio sotto una tempesta furiosa.
D. Se Dio lo penetra a tal punto, si sarà tentati'
dì negare l'uomo.
R- « La Chiesa ebbe tanta difficoltà a dimostrare
che Gesù Cristo era uomo contro coloro che lo negavano,
223
quanto a dimostrare che egli era Dio, e le difficoltà
erano altrettanto grandi » (pascal). Del resto, non sottilizziamo,
quando si tratta di miracolo o di mistero;
non facciamo i maligni, direbbe Carlo Péguy. Abbiamo
lì due fatti associati: un fatto divino con tutte le sue conseguenze,
un fatto umano nella sua integrità autentica: l'Onnipotenza e
l'Onniscienza li conciliano.
D. In ogni caso, di tutto ciò che fa Cristo, è Dio
responsabile?
R. Certamente; perciò la sua parola è parola di
Dio, il suo sacrifizio volontario è la salvezza che procede da Dio, e
le stesse sue azioni più comuni sono teandriche, come dicono i
teologi, cioè umano-divine; perché, sebbene per la loro natura
siano del tutto umane, tuttavia sono centrate in Dio, personalizzate
in Dio, in quel Dio che ha assunto la natura umana che esse ci
manifestano. Sono dunque attribuibili a Dio; sono anche azioni divine.
D. Ciononostante viene da domandarsi a che servano
tutte queste complicazioni.
R. Tu dici come Luterò: « Che m'importa! ».
D. Sì, che importa tutta questa teologia ài Cristo,
quando si accetta la sua dottrina?
R. Non si accetta la dottrina di Cristo, quando si
trascura quello che egli ha insegnato di se stesso. E si può dire: Che
importa? quando si tratta di un tale fatto nella storia umana, di una
tale luce sull'amore divino? Si può forse pensare che la vita avrà lo
stesso corso, la stessa forma, lo stesso slancio, lo stesso soffio
inferiore, la stessa dolcezza e gli stessi risultati, se Dio interviene
224
colla sua persona, o se egli parla per mezzo di un
messaggero; se ci affida tutti i misteri e li fa apparire ai nostri
occhi in forma umana, o se è solo la forma e il mistero è assente?
D. Tu vuoi il divino in un doppio e unico esemplare?
R. Io vedo con meraviglia che noi abbiamo, in un solo essere, uno
specchio divino dell'uomo, uno specchio umano di Dio.
D. Dicevi che non si può conoscere Dio. R. Si
conosce per analogia, ed ecco l'analogia vivente:
la persona e l'azione di Cristo. È questo che, nella
sera della Cena, permette a Gesù di dire a Filippo: Chi vede me,
vede mio Padre, ed io mi rappresento il discepolo stupefatto
nell'atto di immergere gli sguardi in quelle pupille d'uomo, per
scorgere la Divinità.
D. Tu non hai detto come Cristo può essere della
nostra stirpe sema partecipare alle nostre miserie peccaminose come alle
nostre umili grandette. R. Non è il flusso delle generazioni che ha
formato Cristo; egli ha per padre Dio; un segreto influsso lo forma
nella Vergine e lo compone come conviene alla dignità di un essere
divino ed umano insieme, destinato ad essere modello e salvatore.
D. Come mai, con tutto questo, Cristo ha potuto
essere disconosciuto?
R. Si può disconoscere tutto. Al di sopra della
nostra cognizione diretta, vi è in noi un potere di divinazione;
al di sotto un potere di accecamento. Se Dio apparisce
in Cristo, non apparisce altrimenti che nella natura, salvo il grado e
la forma, e la sua umanità può fare schermo
225
alla sua divinità, proprio come avviene per la natura.
D. Di modo che la condizione dei contemporanei non
era molto 'più favorevole della nostra a riguardo della
fede?
R. Forse era meno favorevole. Quanto è più
difficile
dire a se stesso, di un uomo che si vede: Quest'uomo
è Dio, che credere questo di un uomo aureolato di
gloria
spirituale per venti secoli!
D. Alla fin fine l'Incarnazione è per tè parte
essenziale del cristianesimo?
R. È il cristianesimo stesso nella sua realtà
centrale. Il cristianesimo è la religione di Cristo, cioè di Dio
incarnato. E non già solamente la religione annunziata da Cristo, ma è
nello stesso tempo la religione che ha il Dio incarnato per oggetto, in
quanto è Dio, grazie all'es-sersi Egli fatto uomo. Il Dio incarnato è
il nostro tutto, l'alfa e l'omega della nostra vita religiosa. E per
questo la nostra religione differisce da tutte le altre. Le religioni
panteistiche e le idolatriche confondono l'uomo e Dio; il deismo e il
maomettanesimo li tengono a distanza; il cristianesimo li associa in
Cristo, e con ciò nella Chiesa, nel pensiero e nel cuore del cristiano.
226
IL MISTERO DELLA REDENZIONE
D. Tu dici che l'Incarnazione ha la sua ragione nella
Redenzione: forse perché vi è un vincolo di necessità tra l'una e
l'altra?
R. Non c'è nessun vincolo di necessità. Dio è
libero nei suoi doni, e l'Incarnazione, al pari di ogni altra soluzione,
non s'impone alla sua provvidenza. Una sola cosa è certa, ed è che,
dopo la caduta, l'iniziativa della riparazione non poteva venire da noi;
occorreva un intervento del cielo. Come si sarebbe prodotto questo
intervento: per mezzo di un'offerta accettata senz'altra condizione che
il pentimento, o per mezzo della grande avventura della Redenzione? ecco
le due soluzioni estreme; ma ce n'erano infinite altre. D. Ma perché
questa?
R. Perché Dio fece tutto da Dio. Non abbiamo forse
detto che la sua religione porta tutto agli estremi, al fine di
conciliare tutto? Si trattava qui di conciliare l'estrema giustizia con
l'estrema misericordia, con la estrema sapienza, con l'estrema potenza,
con l'estremo amore, affinchè tutti gli attributi divini fossero
all'opera, e fossero in gioco tutti i valori umani.
227
D. Come ciò si effettua? R. La disgrazia del
mondo dipendeva dalla rottura del vincolo tra l'anima e Dio, e, per
conseguenza, tra anima e anima, tra l'anima e il corpo, tra la persona
e la cosa, tra lo spirito e l'universo: il rimedio era di
ristabilire questo vincolo e di riparare la rottura. Essendo il vincolo
rotto anzitutto un vincolo morale, bisognava che il riscatto fosse un
atto morale, che fosse un merito, un merito riparatore. Questo
merito, normalmente, doveva essere un merito umano, perché donde è
venuta la colpa deve venire la riparazione, e ancora doveva essere un
merito divino, affinchè ogni giustizia fosse soddisfatta fino alla
sovrabbondanza, come è giusto; infatti non occorre forse che la
riparazione salga al livello dell'offesa, e per conseguenza dell'offeso,
dal quale l'offesa si misura? La riparazione per mezzo dell'Uomo-Dio
risponde a questa necessità di magnificenza, se così posso dire, ed
ecco quello che provoca nei grandi spiriti estasi di ammirazione.
Dall'intimo stesso della massa del peccato Dio fa germogliare la
salvezza intro-ducendovi il lievito che è il suo Verbo. Il Pensiero
creatore riprende l'uomo, l'incorpora, per il fatto che egli l'assume,
all'idea della sua prima costituzione, e così la salva, perché l'idea
della prima costituzione implica il destino primitivo. Prendendo la
forma della nostra miseria, egli la rialza. Lui, infinito, viene a
prenderci in quella lontananza infinita in cui siamo, la lontananza del
peccato e, se posso dire così, del soprannaturale peccato. Il dialogo
iniziale riprende per il fatto che il Padre parla col Figliuolo divenuto
uno di noi, per il fatto che egli riceve da questo Uguale umano una
piena soddisfazione, e si celebra sulla croce il rito del pentimento,
dell'ado-
228
razione filiale e dell'amore. La scrittura della croce
è una cambiale su Dio, un testamento; noi siamo degli aventi diritto e
Cristo prende il nostro posto, quello che permette a Bossuet di
chiamarlo con un po' di audacia:
« II nostro santo, il nostro caritatevole, il nostro
misericordioso colpevole ».
D. Se una riparazione « magnifica » era
prevista, che cosa significa il simbolo dell'angelo dalla spada
fiammeggiante che proibiva l'ingresso del paradiso terrestre? R.
L'angelo era là meno per difendere l'antica porta che per spingere gli
sbanditi verso la nuova. D'ora innanzi è Gesù la « Porta », e il
paradiso perduto è ritrovato.
D. In che modo Gesù è la porta? R. A titolo di
Mediatore. Egli stabilisce un passaggio;
riallaccia e intercede per la sola sua esistenza, a
fortiori per la divina accettazione. È chiaro! Dio non può mancar
di risparmiare e di considerare sua una stirpe alla quale appartiene,
nel tempo, il suo Figliuolo eterno, e per la quale questo Figliuolo
perora come per se stesso. Ma ciò prende un carattere effettivo per la
comunicazione che ci fa il Figliuolo della vita soprannaturale che egli
possiede e che noi abbiamo perduto con la colpa. Con ciò egli è il
nostro Salvatore e si rialza dalla caduta collettiva come da tutti i
suoi effetti individuali. Con ciò è il nostro padre soprannaturale
come Adamo il nostro padre secondo la natura. Con ciò è sacerdote,
cioè donatore delle cose sante, ed è anche il solo sacerdote, in ciò
che gli altri sacerdoti non sono i suoi successori, ma i suoi
rappresentanti e i canali delle sue grazie. E punto per la sua propria
immolazione volle compiere la
229
mediazione efficace di cui parlo. Questa è la
Redenzione. Essa ha naturalmente una portata infinita, vale per tutti
gli uomini, per tutte le colpe che essa ripara dopo o prima, purché
ciascuno ripari per suo conto nella misura delle sue forze. Vale
altresì per tutte le ascensioni, compresa la vita eterna, della quale
Gesù paga il prezzo.
D. Un prezzo pagato per un vantaggio non giustifica
l'idea di redenzione.
R. Vi è redenzione o riscatto perche vi è
cessazione di uno stato di servitù e sborso di un prezzo a questo
scopo.
D. Di quale servitù parli? R. Della servitù del
male, e specialmente del peccato;
perché « chi commette il peccato è schiavo del
peccato », dice S. Pietro, servitù che ne trascina un'altra riguardo a
quell'agente invisibile del male, di quel fautore del peccato che si
chiama Satana.
D. Bisognerà dunque pagare Satana?
R. No, come non si paga al lupo la pecora che gli
viene strappata; si paga un proprietario. Qui si paga
Dio.
D. Quest'apparenza di commercio non ti urta?
R. Non si tratta di commercio, ma di giustizia e di
soddisfazione.
D. Un simile pentimento non è una sufficiente
soddisfazione?
R. Il pentimento è certamente la cosa essenziale;
ma non è affatto una soddisfazione. Un suddito che ha in-sultato il suo
sovrano forsechè « soddisfa » rendendogli semplicemente omaggio?
L'ordine pubblico si può -contentare di questa resipiscenza?
230
D. Qui non c'è ordine pubblico. -R. C'è
l'ordine pubblico degli esseri, l'ordine universale, che è un ordine
morale. Quest'ordine è offeso dal peccatore, e l'offesa grave ha un
carattere in certo modo infinito, in quanto quest'ordine contiene Dio.
D. Tuttavia Iddio non può condonare, come capo
dell'ordine ' universale ?
R. Dio può tutto, e se egli facesse ciò che dici,
noi loderemmo la sua misericordia; ma la stretta giustizia non sarebbe
punto soddisfatta, ne certamente la divina paternità, perché non sarà
forse l'eterno onore dei figli di Dio l'avere, in grazia del loro Cristo
e della loro propria cooperazione, soddisfatto tutti i loro debiti
morali, riparato ampiamente tutto il male, glorificato tutto il bene, e
l'essere così, spiritualmente come in tutti i modi, i figli delle loro
opere? Del resto, quanti benefizi speciali ci sono procurati dalla
soluzione ammessa! Li abbiamo intravveduti trattando dell'Incarnazione.
D. Tuttavia, in questa ipotesi, Iddio non fa la
figura di gran signore toccato sul vivo?
R. Egli fa la figura di Essere universale, sollecito
a un tempo di tutti gli attributi del suo regno, di tutti quelli della
sua paternità e dei molteplici bisogni delle sue creature. La
Redenzione è un'opera d'armonia in cui la giustizia, la misericordia e
la sapienza si abbracciano, come l'Incarnazione è un'opera d'armonia in
cui il divino e il creato uniscono le loro frontiere. Gesù Cristo fa da
parte sua ciò che non possiamo fare noi, e ci porta a ciò che noi
possiamo fare, aiutandoci per di più a compierlo. Ci da l'insegnamento
e l'esempio. L'egoismo orgoglioso e gaudente era la sorgente di ogni
male: egli
231
non solo li denunzia, ma ancora reagisce sposando i loro
contrari. « Egli bevette la medicina che l'uomo non poteva bere —
dice Caterina da Siena — come la madre che allatta prende un rimedio
con l'intenzione che faccia bene al bambino ». Noi rigettiamo tutto
sopra gli altri: i egli prende tutto sopra di sé. Noi non amiamo
che noi stessi contro tutti gli altri: egli non amerà che gli altri
contro di sé. Noi odiamo i patimenti e le umiliazioni necessarie: egli
vi ci incoraggia con l'amore umiliato e dolorante. La morte ci fa
orrore, fosse pure giusta, e buona, e indispensabile egli la chiama suo
calice, che ha fretta di bere, perché egli venne per quest'ora.
D. Perché questo dramma, quando dici che il minimo
atto di Cristo, d'un valore infinito, poteva bastare?
R. Dio non crede bene di salvarci con un colpo di
bacchetta. Dio fa tutto all'eccesso, ancora una volta: eccesso di
giustizia, eccesso di misericordia, eccesso di mistero, eccesso di
chiarezza, eccesso di umiliazione, eccesso di grandezza, eccesso di
tenerezza, eccesso di dolore e di gloria. Organizzata diversamente,
l'opera non sarebbe sufficientemente divina; gli attributi sovrani non
sarebbero abbastanza manifesti; la lezione sarebbe debole; l'avvenire
morale non avrebbe sufficienti garanzie;
il bene e il male non avrebbero mostrato tutto il loro
peso, e l'amore, principalmente, non avrebbe sufficienti testimonianze.
D. Tu perori per l'amore e per la morte? R. Vi è
certamente un vincolo misterioso e intimo, tra l'amore, il patire e la
morte. Dio vuole sottomettersi a questa legge della testimonianza
irrecusabile, e con-
232
sente che vi siano sottomessi con lui tutti quelli che
l'amore travaglia. La salute collettiva per mezzo del sa-crifizio non è
forse la più grande bellezza della storia? Ricorda Leonida, Regolo, il
cavaliere d'Assas, Giovanna d'Arco. Il mistero della Redenzione
ricollega la salute della collettività umana a un sacrifizio supremo
che ne suscita una infinità d'altri, e ogni cuore generoso
10 comprende.
D. Intanto parli della « follia » della croce. R.
Ma aggiungendo: « Quello che sarebbe follia di Dio è più sapiente
della sapienza degli uomini » (1 Cor., I, 25). Questo caso di un
dìo che per amore si mette nelle mani della sua creatura per morire è
l'originalità più profonda del cristianesimo, quella che adatta questa
religione all'anima umana in ciò che essa ha di più forte. Lì sta il
segreto della sua impresa, e, di gran lunga, la sua più potente leva.
D. Più sopra hai detto che l'universo fisico
partecipo alla caduta; ebbene partecipa anche alla Redenzione? R.
Sì! perché Cristo, rinforzando il vincolo che lega l'anima a Dio,
rafforzò nello stesso tempo il vincolo che lega il corpo all'anima e
l'ambiente naturale al corpo. L'anarchia esteriore del mondo è vinta di
diritto, come l'anarchia inferiore del nostro essere, come l'anarchia
iniziale del peccato, e lo spirito riprende, ufficialmente,
11 governo delle cose.
D. Non si capisce bene come dopo tutto ciò, la
situazione sia così poco cambiata. Se Cristo ha riparato tutto, come
mai le conseguenze del peccato originale non sono abolite? R. Esse
sono abolite di diritto; noi non vi siamo più
233
soggetti come a una legge opprimente, ma legati oramai
come a mezzi. L'eliminarle tutte a un tratto, come lo immagina una corta
sapienza, non sarebbe stato degno di Dio. L'azione di Dio è armonia e
ignora le catastrofi. Dio è abbastanza potente da trarre partito da una
situazione senza sconvolgerla e trarre anche da una rovina un edificio
migliore. Il nostro mondo è quello che è: Dio lo conserva; dobbiamo
dire: tutte le sue apparenze restano, ma il segno de' suoi valori è
cambiato. Moralmente questo mondo è radicalmente diverso: ieri una
specie d'inferno, oggi, per chi consente a ben vivere, il vestibolo del
cielo, o per dir meglio un cielo.
D. Tu vuoi che si faccia di necessità virtù. R.
Sì, nel gran senso del termine, e di una fatalità un caso di libertà,
di una condanna una scelta, di una costrizione un amore. È un bei.
rovesciamento, e sarebbe da compiangere colui che volesse dare la
preferenza a un volgare colpo di spugna. Dio ha dei gesti più alti e
che ci onorano meglio. Relativamente al piano nuovo, segnato dalla
croce, il piano originale non era che un piano volgare, come di fronte a
Socrate con la coppa di cicuta in mano, un qualsiasi bevitore.
D. Allora dovresti esser contento per il peccato
originale!
R. Sarei con la liturgia, che dice: « Felice colpa!
». Non ci si rallegra del male, ma della sua riparazione gloriosa e del
fatto che « là dove era abbondato il peccato, sovrabbondi la grazia
», come disse S. Paolo. Ma per noi e per altri, come per Cristo nella
sua propria condizione temporale, i più alti valori sono legati al
sacrificio volontario, e per conseguenza a uno stato di prova,
234
di dolore e di morte temperato da qualche gioia, anzi,
meglio, da un'intima pace.
D. Insamma, dolore e ancora dolore. R. Noi
avevamo il dolore peccaminoso o il dolore gratuito; ora è il dolore
generoso e il dolore che paga.
D. È questa la porta verso la quale ci spingeva
l'angelo?
R. Lo stato di peccatore trova la sua porta di
uscita dal lato della sofferenza, perché la trova dal lato del
sacrifizio volontario. Gesù ci mostrò questa porta passandovi egli per
primo.
D. Il passarvi era cosa grande; ma ciò avrebbe
dovuto bastare.
R. Un capo non lotta mai solo; spesso anzi non si
espone neppure; assume la parte di maggiore responsabilità e affida
l'esecuzione ai suoi seguaci.
D. Potendo tutto, si sarebbe dovuto riserbare tutto.
R. Anche l'onore delle grandi cose? Riconquistare un mondo e
ristabilirlo nella gloria di Dio, è forse un'opera da serbare per sé?
D. L'opera è penosa e piena di rischi. R. Ma è
anche gloriosa. Patetica al più alto segno, l'avventura è al più alto
segno desiderabile per l'eroe, e l'eroe l'affronta.
D. Il mondo non è fatto di eroi. R. Tutti
possono essere eroi nel grado che bisogna, con gli aiuti che ci sono
largamente dati. « Nell'eroismo e il vero senso della vita» (william
james): Cristo ci invita all'eroismo. Che riduzione di benefizio sarebbe
stata da parte di Cristo la sua volontà di soffrire da
235
solo, di nascondere nelle sue sole piaghe i gioielli del
dolore redentore! La croce è un dono regale. Essere ammessi a
partecipare con Cristo, a rassomigliargli in tutto, gioia e pene, a non
salire le cime che egli ha conquistato se non coi nostri passi ne' suoi
passi e carichi dello stesso peso: che felice sorte, per chi sa
comprendere! L'anima cristiana non desidera altro; intcriormente libera,
.essa si attacca al sublime Amico mediante una squisita e utile servitù
« come uno schiavo affrancato che segue per amore il suo padrone »
(lacordaire).
D. È quest'amore che poc'anzi chiamavi un ciclo? R.
È quest'amore unito alla speranza d'un amore più sviluppato, più
ricco di effetti, sciolto da timori e da rimpianti, ebbro di gioie senza
fine a prezzo di rapide sofferenze. Il cielo si apre all'anima nostra
prima che la terra si apra alla'nostra spoglia, e questo stesso
seppellimento della nostra spoglia non è per sempre.
D. È una bazza; ma, secondo tè, molti uomini
sfuggono a quest'azione redentrice, di modo che il primitivo stato
dell'uomo non è interamente restaurato; si è in perdita. R. Noi
crediamo che vi è del guadagno; perché per Cristo l'uomo è sollevato
più in alto, se vuole, partendo da più basso. E nulla assicura che nel
primitivo stato non ci sarebbe parimenti stata perdita. La giustizia
originale non era inammissibile; si era tenuti a servirsene;
si poteva sempre perdere. Certo solamente il primo uomo
poteva privarne la stirpe; ma ciascuno de' suoi discendenti poteva
personalmente decaderne, e noi non sappiamo se egli avrebbe potuto
ricuperarla così sovente e così facilmente come noi stessi.
236
D. No; non possiamo ricuperarla se non a condizione
di riconoscere Cristo: che cosa diventano allora quei che non lo
conoscono, o ancora, non colpevolmente, lo disconoscono?
R. Non tutti i rapporti con Cristo sono visibili;
neppure sono coscienti. Gesù ha dei discepoli segreti, dei discepoli
che si ignorano o anche si credono suoi av-versari.
D. Che cos'è che caratterizza questi discepoli
segreti? R. Gesù disse: « Mio discepolo è colui che fa la
volontà di mio Padre ». Colui che aderisce alla volontà del Padre,
vale a dire a tutto il vero, a tutto il bene tal quale apparisce alla
sua coscienza vigilante, senza che egli vi opponga alcun ostacolo
essenziale, costui è con Cristo, e Cristo lo salva.
D. Bisogna ancora che Cristo sia venuto, e quanti
uomini prima di Cristo!
R. « Cristo viene sempre » (thomassin). « Cristo
è sempre stato presso quelli che ebbero un cuore e che, verso l'origine
o la fine del mondo, si sono sottomessi alla giustizia che viene da lui
» (Idem). S. Paolo non dice forse lo stesso: « Cristo è ieri,
oggi e in tutti i secoli »? Noi abbiamo già veduta questa dottrina del
Cristo centro della storia e raggiante sopra tutti i suoi spazi. La «
linea d'universo » che lo congiunge a cia-scun'anima può sempre essere
tracciata e aprire un dialogo e uno scambio.
D. La Redenzione è dunque cominciata prima della
nascita di Cristo?
R- Cominciò da Adamo, e si può dire prima della
237
colpa stessa. Il Creatore non pensava forse al suo
Figliuolo, modellando Adamo e soffiando in lui la vita?
D. È bello; ma...
R. È pura teologia cattolica, e ne hai il simbolo
in ciò che noi chiamiamo la Discesa di Gesù Cristo all'w-ferno,
cioè l'apparizione, la manifestazione di Cristo alle anime de' suoi
figli del passato, de' suoi riscattati per anticipazione, de' suoi
prossimi fratelli di gloria. Abbiamo qui veramente una consacrazione
dogmatica di questa affermazione che Cristo è di tutti i tempi e che il
punto della storia in cui egli apparisce irradia sopra tutte le età.
D. Ora comprendo perché tu chiami la Redenzione un
mistero.
R. Noi chiamiamo la Redenzione un mistero, non solo
perché essa suppone l'Incarnazione e la Trinità; ma anche perché
contiene il segreto della volontà divina sulla salvezza degli uomini,
sulla giustizia, sulla misericordia e sulla loro conciliazione; perché
essa ci presenta un Dio sofferente, un Dio di sangue e di lacrime, un
Dio che, non avendo fatta la morte, volle soffrirla per liberarne quelli
che l'avevano fatta; perché il prezzo di questa Redenzione rischiara di
una tragica luce il mistero del male, e, correlativamente, innalza il
bene, potenza a cui si accorda il trionfo. Ma il mistero proposto è qui
soprattutto l'abisso dell'amore divino. La croce che congiunge il cielo
alla terra e tende le sue braccia verso tutti gli spazi, è il simbolo
misterioso dell'unità universale, che, per una sofferenza infinitamente
generosa e una stretta giustizia, stabilisce l'amor divino.
238
LA VERGINE MADRE
D. Non dai tu un posto speciale alla Vergine
nell'Incarnazione?
R. Questo posto si delinea da se stesso nel disegno
tal quale lo concepisce la nostra teologia cattolica. L'opera di Dio
nell'Incarnazione ha un cominciamento, ed è la Vergine Madre. Maria è
l'aurora che precede il giorno; la sua luce è fatta del giorno che ella
annunzia;
questa luce non sarà forse della stessa essenza:
spirituale, come la luce di Cristo è spirituale, e superiormente umana
prima dello splendore sovrumano?
D. Che intendi con ciò? R. Che Maria, madre di
Cristo, che è Dio, per conseguenza madre di Dio, benché ciò sia
unicamente secondo la natura umana, Maria, associata immediatamente ai
più grandi misteri e oggetto della loro preparazione, Maria, che sempre
è questo, dacché Cristo è predetto, dacché è preveduto, vale a dire
dalla costituzione di questo disegno eterno, non può essere una madre
come le altre. Gli strumenti si preparano secondo l'opera. Maria è lo
strumento dell'Incarnazione e della
239
Redenzione; il suo caso dipende dall'Incarnazione e
dalla Redenzione; primizia dell'opera e causa della sua Causa, ella
dev'essere il suo capolavoro.
D. Tanti grandi uomini hanno,avuto madri
comunis-sìme e che la storia non ricorda.
R. I grandi uomini di cui parli possono essere
grandi e benefici per quanto li segue; ma nulla possono per quello che
li precede. La loro madre dunque nulla può ritrarre dalla loro
grandezza prima della loro azione. Ma Cristo, che è « ieri, oggi e in
tutti i secoli », regola, come Dio, le condizioni della sua propria
venuta; è lui che si da una madre, come si darà dei discepoli, e se.
ha ricolmato i Dodici del suo Spirito perché lo continuassero
degnamente, come non avrebbe disposto di sua madre in modo che ella lo
precedesse degnamente, pre-corritrice intima, associata ben diversamente
da S. Giovanni Battista, poiché Cristo sarà la carne della sua carne,
invitato così a fare di lei, poiché lo può e in certo modo lo deve,
lo spirito del suo Spirito.
D. Chi ti dice che questa convenienza fosse tenuta
presente?
R. La Chiesa; ma noi ne abbiamo la prova, se non
altro il segno ben chiaro in ciò che ci raccontano gli Evangelisti. Noi
vediamo che Maria è dichiarata piena di grazia e benedetta fra tutte
le donne, perché l'essere santo che nascerà da lei sarà
chiamato Figliuolo di Dio, ed è tutta la nostra dottrina. Noi non
vediamo lì una madre che mette al mondo un bambino che poi
formerà la sua gloria; ma la vediamo prevenuta del disegno, invitata ad
associarvisi e, con il suo consenso, a provocarlo in una certa maniera.
Ella ci da veramente
240
l'Uomo-Dio; si tiene dal lato del Padre e dello Spirito
come una libera cooperazione; è la « porta del cielo »:
chi dubiterà che ella non sia come quelle porte della
celeste Gerusalemme, che Giovanni vide risplendere come perle, o come
quelle strade d'oro della Città di luce che conducono al Sole vivente?
D. Si riferisce forse a questo il vostro dogma
dell'Immacolata Concezione?
R. Senza dubbio! Noi non vogliamo che Dio entri nel
mondo per una porta lorda, che il nuovo Paradiso terrestre, « Paradiso
animato, in cui dev'essere piantato l'Albero della vita » (s. giovanni
damasceno), sia un deserto immondo. Anzi noi domandiamo a Dio di
preservarlo e di ornarlo; egli ci dice che lo ma fatto, e noi gliene
diamo lode.
D. Tuttavia questo dogma è nuovo. R. Questo
dogma non è nuovo; è nuova soltanto la sua dichiarazione. Sempre
latente nella Chiesa, ne è sprigionato, come una bolla nasce da
particelle prima disperse in seno a un liquido.
D. Qual è la sua precisa nozione? R. Figurati un
battesimo anticipato. Quella purezza e quella ricchezza spirituale che i
meriti di Cristo applicati con il battesimo conferiscono al neonato o
all'adulto, Maria l'ottiene sovrabbondantemente e per i medesimi meriti
del momento della sua stessa concezione. La Redenzione la previene prima
che ella vi cooperi per conto suo; ella è la prima riscattata da
Cristo, riscattata prima di nascere e prima che Cristo sia nato;
riscattata per nascere intatta e perché il Cristo; alla sua volta,
nasca da una madre intatta. « Infatti non occorre forse —
241
dice Bossuet — che giovi a Maria l'avete un Figliuolo
che sia l'autore della sua nascita? ».
D. Pensi tu che Maria non avesse altro figlio che
Gesù? R. È una questione di rispetto. La porta del Cielo vivo non
da punto passaggio ad altri.
D. Che sono dunque quei « fratelli di Gesù » di
cui parla il Vangelo?
R. Sono dei cugini, chiamati fratelli secondo il
costume giudaico.
D. E Gesù fu dato a Maria nelle condizioni
ordinarie? R. No affatto. Lo « credevano » figlio di Giuseppe;
ma non era se non figlio di Dio. Il Verbo che ha solo un
Padre eterno, non vuole, neanche temporalmente, averne altro; il nuovo
Adamo « secondo primo uomo » (p. lagrange), nascerà da Dio solo, come
il primo. Una partenogenesi d'onore si è effettuata qui, non a
disprezzo del matrimonio; ma perché vi è qualcosa di più alto: il
commercio con Dio solo per un'opera in cui la causalità divina deve
risplendere.
D. Almeno la nascita di Gesù fu una nascita comune?
R. Neppure. L'integrità della Vergine fu in essa rispettata dalla
delicatezza d'un Figliuolo onnipotente. Facendo uso di quelle
delicatezze del corpo « spirituale » che manifesterà più tardi il
suo corpo risuscitato, egli emana da un astro puro come un puro raggio (Sicut
sidus radium profert virgo filium}.
D. L'esistenza della Vergine finirà come ha
cominciato e proseguito, per un miracolo? R. Noi crediamo alla sua
Assunzione, che è pure un articolo di fede. Il tempio vivo non deve
conoscere la
242
corruzione, benché a somiglianzà del suo Figliuolo
la Regina dei Martiri debba gustare la morte. La corruzione
sepolcrale è come una suprema mortificazione della concupiscenza
primitiva e della concupiscenza volontaria del peccatore; ora « un
essere perfettamente puro, come Cristo o la Vergine, non ha più niente
da purificare. Il suo corpo non è più che il ritmo apparente
dell'anima sua, la quale non ha più nessuna ragione di separarsene »
(MARCELLO SCHWOB).
D. Nella serie dei tempi, quale compito attribuisci
alla Vergine Madre?
R. Poiché ella è stata associata alla nostra
salvezza dandoci con il suo consenso Colui che la opera; poiché Dio
stesso, richiedendo il suo consenso, ha fatto conoscere il suo costante
disegno di unirla all'opera sua re-dentrice, e poiché finalmente ella
ci è stata data sulla croce nella persona di S. Giovanni, come la
intendono tutti i Padri della Chiesa, noi crediamo che Maria, Madre di
Dio, è nello stesso tempo madre degli uomini, madre tenerissima, che
non può rifiutare il suo cuore dopo aver dato il suo Tesoro; madre
potentissima, anzi onnipotente di una onnipotenza di supplicazione (omni-potentia
supplex), in ragione dell'autorità effettiva che ella esercitò
sopra il suo Figliuolo e che le continua la filiale tenerezza. Ella è
una mediatrice in secondo grado, .mediatrice puramente ma squisitamente
umana, al di sotto del Mediatore uomo e Dio.
D. Tu vedi così in lei il canale delle grazie? R.
Non è una dottrina definita, ma una piissima credenza. Maria continua
in noi la sua maternità. Non siamo noi le membra dì Cristo?
Ella ha sofferto per, noi
243
ai piedi della croce, acconsentendo al grande
Sacrificio. Il sangue di Gesù e le lacrime di sua madre non sono
separabili, ne di conseguenza lo sono la mediazione di Gesù e quella di
sua madre, l'umana mediatrice. Vi sono lì due casi essenzialmente
differenti, e, checché ne dicano i protestanti, noi non li confondiamo
affatto, ma li avviciniamo, perché la natura delle cose li avvicina. Il
sole e la luna sono due astri; ma per via del sole, la luna stessa,
illumina la nostra notte.
D. Non dici tu che ogni anima è associata così alla
Redenzione?
R. Ogni anima è associata alla Redenzione; ogni
anima è come Maria, con Maria, una nuova Èva data da Dio al nuovo
Adamo come un aiuto simile a lui. Ma quello che noi siamo, come
imitatori, Maria lo è come modello. Onde noi la chiamiamo nostra
vita, nostra dolcezza e nostra speranza, come Cristo, benché ciò
sia per via di lui.
244
IL MISTERO DELLA GRAZIA
D. Dicevi che la Redenzione non è resa effettiva se
non con la res^ituzjonj'_d,eJj,g_viM.£Qprttttngj^rale.^
per la colpa. In che consiste esattamente questa vita?
R. L'abbiamo espressa in una sola parola: la grazia. Lì sta il
fatto essenziale del cristianesimo, quello in vista del quale sono
istituiti o ci sono rivelati gli altri.
D. Ed è anche un mistero?
R. È un mistero affatto segreto che Dio solo ci
può rivelare, e siamo noi stessi uno di questi segreti, sia nella
nostra natura profonda, sia in ciò che Dio ne vuoi fare.
D. La grazia è dunque un disegno di Dio? R. È
il suo disegno essenziale, ed è poi un fatto.
D. Qual disegno? Quale fatto? R. Il disegno è di
farci figliuoli di Dio in un senso nuovo che la natura non
comportava punto, che la pura filosofia deista ignora, e in cui
propriamente consiste la buona novella evangelica, espressa da
queste parole di S. Giovanni: « A tutti quelli che hanno creduto, egli
diede il potere di diventare figliuoli di Dio, a quelli che credono nel
suo nome, e che, non dal sangue e dalla vo-
245
lontà della carne, ne dalla volontà dell'uomo, ma da
Dio, sono nati » (Prologo).
D. Bisogna dunque nascere di nuovo?
R. Tu poni la questione di Nicodemo, quando andò
di nottetempo a interrogare Gesù sulla sua dottrina:
10 non posso che ripeterti la risposta di Gesù a
Nicodemo: « Nessuno, se non rinasce dall'acqua e dallo Spirito, può
entrare nel regno di Dio ».
D. Tu dici che lì sta l'essenziale? Io credevo che
l'essenziale del cristianesimo fosse nell'adesione a Cristo. R.
L'adesione a Cristo non ha ragione di essere e non vuole altro efletto
che l'effusione in noi dei doni divini che Cristo ha ricevuto per il
genere umano. Cristo è il « Ceppo », e noi siamo i tralci, e il ceppo
non è fatto che per i tralci e per i grappoli. Quando riceviamo la
grazia, noi riconosciamo a Cristo la sua ragione di essere con quella
della nostra adesione. La Trinità non ci fu rivelata se non come la
sorgente di questo fatto, l'Incarnazione come il suo agente, la
Redenzione come la sua condizione e il suo prezzo. La Chiesa, con tutto
quello che porta in sé, ne sarà lo strumento.
D. Vuoi precisarmi che cosa è Ingrazia? R. Si
chiama grazia, in generale, ogni favore che Dio ci fa,
nell'ordine soprannaturale in cui ci ha collocati. Vi sono delle grazie
esteriori, come la Redenzione stessa, gli^esempi e le esortazioni di
Gesù Cristo o dei Santi,
11 ministero della Chiesa, ecc. Ce ne sono delle
interiorr, come le ispirazioni e gli stimoli segreti che ci spingono al
bene.
In questo dominio segreto, si distinguono due_sorta di
grazie: la grazia abituale, o santificante, che si può
246
conservare o perdere, ma che, per sé, ci è data per
sempre, e le grazie attuali, destinate a procurare atti
virtuosi.
D. Queste sono divisioni; io dpmandavo che cosa_e_
veramente la grazia in sé, e che cosa tu intendi per quest'ordine
soprannaturale di cui si tratta fin dall'inizio dei nostri discorsi.
R. Aspettavo questo momento per spiegarmi in
proposito, e la spiegazione chiarirà, come spero, tutto quello che
abbiamo detto, come quello che deve seguire.
D. La grazia deve affiliarci a Dio? R. Noi siamo
dei figli di Dio per natura; la creazione di cui abbiamo stabilito la
nozione precisa, ci mette in relazione necessaria e permanente col
nostro Principio. Ma la relazione tra due esseri può essere più o meno
stretta, e quando si tratta di relazioni che arricchiscono, come quelle
che ci legano a Dio, la ricchezza può essere più o meno preziosa e
appartenere a ordini diversissimi. La creazione ci arricchisce per se
stessa del nostro essere e della nostra natura ragionevole; ci da un
corpo e un'anima, delle facoltà vitali, dei poteri di sensazione e di
pensiero; ci assegna in sorte la cognizione e l'uso di questo mondo, e
inoltre, con la filosofia nel suo più alto insegnamento o con istinto
religioso che la sostituisce, la conoscenza astratta e il culto
razionale del divino.
D. Non basta questo?
R. Noi non possiamo spingerci più lontano della
nostra natura stessa e del funzionamento che le è proprio. Ma, osserva
S. Tommaso, dovunque noi vediamo delle nature coordinate, ciascuna di
esse, oltre il suo movimento proprio, ubbidisce a un movimento che le è
impresso dalla
247
natura superiore. In questo modo il mare, lasciato a se
stesso, si estende a guisa di velo e sposa la forma di globo; ma gli
astri l'attirano e, gonfiando la sua massa, producono il fenomeno delle
maree, che non gli sarebbe naturale se non lo si considerasse in
composizione con gli astri. Ora, aggiunge egli, l'uomo è legato a Dio
dalla sua attività intelligente, poiché l'intelligenza gli permette di
raggiungere l'universale a proposito degli oggetti dell'esperienza,
mettendolo per questo solo sulla strada del principio dell'universale,
che è il Primo Principio. Sarà dunque normale e conforme a
un'induzione costante che la natura umana si sviluppi sopra un duplice
piano: quello che la sua natura determina, tal quale ce la rivela
l'analisi, e quello al quale vorrà elevarlo quel motore supremo, Jbuono
e magnifico, che noi chiamiamo Dio.
D. Questa teoria è interessante; è propria di S.
Tom-maso d'Aquino?
R. Fu abbozzata da parecchi filosofi
dell'antichità. Aristotele ne fornì i lineamenti nella sua celebre
in-terpretazione del genio, genio dell'intelligenza o genio della
virtù, che, secondo lui, non sarebbe altro che un'irruzione subitanea
del divino che si sostituisce ai nostri ragionamenti e alle nostre
prudenze, per portarci più in alto e più lontano. La Morale di
Eudemo, ci presenta a questo proposito una pagina mirabile, e Plu-tarco,
in cui si trova un rinesso di ciò che vi è di meglio nella filosofia
antica, scrisse nel Banchetto dei sette sapienti questo passo
meraviglioso che suscitava l'entusiasmo di Gratry: « II corpo è lo
strumento dell'anima e l'anima è lo strumento di Dio. E come il corpo
ha
248
dei movimenti che gli sono proprii, ma ne ha altri più
belli che gli vengono dall'anima, così l'anima ha il suo ordine proprio
d'azioni e di movimenti, ma può anche, come il più perfetto degli
strumenti, lasciarsi dirigere e muovere da Dio, che agisce in lei. Che
se il fuoco, il vento, l'acqua, le nubi sono strumenti di Dio per la
vita e per la morte, chi crederà che gli esseri viventi non si possano
adattare alla forza di Dio, e lavorare con questa forza, e ispirarsi ai
movimenti di Dio, come la freccia ubbidisce agli Sciti e la lira agli
Elleni? ».
D. È senz'olirò la teoria di S. Tommaso. R.
Attento; S. Tommaso ne fa un uso assai più ardito, sostenuto dalla
rivelazione evangelica, donde vengono per noi e le certezze e le
ispirazioni superiori. Ciò che l'antichità sospetta, è che Dio opera
in noi per portarci più lontano che non potremmo andare da noi stessi,
per esempio, per farci vedere, nelle ore d'ispirazione, quello che
rimane oscuro alla nostra intelligenza ragionante; per alzarci, in
quello slancio che noi chiamiamo eroismo, al di sopra della debolezza
del nostro volere. Ma i dominii di vita in cui quest'azione
complementare ci spinge, sono nondimeno dominii appartenenti al nostro
ordine umano; quello che a noi ne verrà sarà della stessa natura che i
risultati ottenuti da sforzi umani. La nostra vita rimane nell'ambito
della sua essenza, delle sue operazioni naturali, dei suoi valori; non
è cambiato altro che l'ampiezza del gesto, e noi diventiamo divini pur
essendo mossi così dalla Divinità.
D. Perché diventare divini?
R. Così vuole la divina munificenza, e ciò non
avviene, ho detto, senza una profonda armonia con la no-
249
stra natura. « II Vangelo soddisfa la coscienza perché
la oltrepassa », scrive Carlo Secrétan.
D Tu dici dunque, lasciando l'antichità... R.
Che il pensiero cristiano va oltre; che esso intende unirci a Dio non
più solo come il mobile al suo motore, restando ciascuno dei due nel
suo ordine, ma nel modo intimo che permetterà tra loro la comunione, in
maniera che i pensieri e gli amori siano comuni, le vite mescolate, gli
oggetti identici, e che io, cristiano, possa sentire, o ad ogni modo
riconoscere « qualcuno che è in me più me stesso di me » (paolo
claudel).
, . ...„-.. J1--
...>,. ....•«»»iBi<%6&'".'t •••,,-,<.,.•'•„•.,
..—••• t,*--i- -.-.i, ' '
D. Non capisco una tale pretesa. R. Rappresentati
la gamma delle relazioni supponibili tra Dio e la sua creatura. L'uno
degli estremi è abbastanza ben rappresentato dal razionalismo deista,
il quale vede Dio che interviene nelle nostre vite soltanto con la
mediazione delle leggi generali. L'altro estremo sarebbe dato dal
panteismo, che confonde Dio e l'uomo nell'unità d'una stessa sostanza.
Tra i due c'è posto per innumerevoli posizioni intermedie; ma il più
vicino al razionalismo puro sarebbe quello che abbiamo ora incontrato
nei nostri antichi filosofi, e il più vicino al panteismo, del quale
esso si appropria la profondità dottrinale rigettando i suoi eccessi,
è il sistema cristiano del soprannaturale. Noi ne abbiamo trovato il
tipo in Cristo, ed era di diritto, poiché il nostro capo di stirpe
soprannaturale è lui stesso, nella sua umanità fraterna, paterna,
solidale su ogni punto della nostra.
D. Cristo non è Dio?
R. Cristo è Dio, e a questo titolo, dicevamo, egli
realizza una sorta di panteismo individuale, in ciò che noi
250
possiamo dire, designando la sua persona: Questi è Dio,
come Anassimene, mostrando con un largo gesto il cielo e la terra,
diceva: Tutto questo è Dio. Ma questo fatto non annulla punto la sua
umanità. Questa umanità unita a Dio in persona serba il suo
funzionamento proprio, sopraelevato però da una tale unione, e
l'essenza del soprannaturale si rivela appunto in questo funzionamento
di una umanità « piena di grazia ».
D. Vorrei maggiore precisione. R. Si tratta di
un'unione di conoscenza e di amore, di un'intuizione dell'intelletto, di
una fusione dei cuori, di una comunione di vita che introduce l'umanità
stessa nella Trinità, e non forma più che una sola vita delle due vite
naturali infinitamente disparate.
D. Parli sempre di Cristo? R. Parlo di Cristo
anzittutto; perché Cristo per il primo godeva di questi privilegi, e
vedeva Dio, lo esperimentava, lo viveva come noi vediamo ed
esperimentiamo coi nostri sensi gli oggetti di questo mondo, in tal modo
che la sua vita era a un tempo terrestre e celeste. Ma questo stato di grazia
— poiché anche in Cristo è una grazia, benché sia una
derivazione naturale della grazia prima che è la « grazia d'unione »
— questo stato, dico, ci è comunicato nel suo fondo, se noi prestiamo
ai meriti di Cristo l'adesione dell'anima nostra. Noi non ne godiamo
subito come lui, perché abbiamo prima da cooperare e non pretendiamo
alla sua dignità eminente; ma ne abbiamo in noi il germe, come il
bambino prima di nascere ha in germe la vita e il pensiero. Ed è questo
germe, questo germe di immoralità beatifica, d'intuizione trascendente,
d'amore infinito, che
251
noi chiamiamo grazia santificante. Per essa noi
acquistiamo il potere, come diceva S. Giovanni, di esercitare
verso Dio il ruolo di figliuoli nella sua pienezza, cioè di condividere
la sua vita intima, di conoscere lui stesso e tutto quello che egli
conosce, di amare quello che egli ama e volere quello che egli vuole
come oggetti ormai nostri, connaturali all'anima nostra trapiantata,
come il sensibile e i suoi oggetti sono a noi qui connaturali. Vedete,
dice S. Giovanni, quale amore il Padre ci ha dimostrato, perché noi
fossimo chiamati e fossimo realmente figliuoli di Dio. Adesso noi lo
siamo; ma quello che saremo un giorno non è ancora stato manifestato.
Noi sappiamo che quando questo sarà manifestato, saremo simili a Dio,
perché lo vedremo tal quale egli è. Per vedere Dio tal quale è,
bisogna essergli simili a qualche titolo, poiché questo non è naturale
che a lui. Egli lo rende naturale anche a noi comunicandoci questa nuova
natura, questa natura soprannaturale che è la grazia.
D. Tutto questo rasenta la follia. I personaggi
dell'Areopago ne avrebbero riso di cuore.
R. Essi ridevano anche della follia della croce, che
fece la sua strada nel mondo. È appunto la follia della croce che'
richiede questo contrappeso, che spiega queste mire sublimi. Convenne
che Cristo morisse per entrare nella sua gloria e perché noi vi
salissimo con lui; ma bisogna reciprocamente che noi saliamo nella
gloria dove sale Cristo, per giustificare una tale morte. Quando il sole
scende nella notte sanguigna, è per preparare l'alba e il meriggio;
questa caduta d'astro è un pegno; un tramonto di sole non è che
un'aurora anticipata: così la
252
caduta di un Dio nella vita e nella morte umana è il
pegno del nostro destino supremo.
D. È doveroso attenersi al verosimile. R. Il
verosimile è sempre oltrepassato da Dio. Quante inverosimiglianze,
già, nella natura! In fondo, tutto e inverosimile; lo diciamo
verosimile dopo. Ad ogni modo una questione come questa è a noi
superiore. « Se si vuole dire che l'uomo è troppo poco per meritare la
comunicazione con Dio, bisogna essere ben grande per giudicarne »
(pascal).
D. Le tue Scritture nel loro insieme appoggiano
queste straordinarie pretese?
R. Senza il loro appoggio non ci permetteremmo mai
di aprire la bocca in proposito. Pio citato S. Giovanni;
ma questa dottrina è comune nel Nuovo Testamento. «
Voi sarete partecipi della stessa natura di Dio », diceva S. Pietro ai
suoi fedeli, e S. Paolo: « Quando il perfetto sarà venuto, quello che
è parziale e incompleto in noi avrà fine. Conosciamo adesso come in
uno specchio in modo oscuro; ma allora vedremo il divino a faccia a
faccia. Ora conosco in parte; ma allora conoscerò come sono conosciuto
» (1 Cor., XIII, 10, 12).
D. La grazia, dici, presagisce questo sfato; come
intendi i loro rapporti?
R. Per figurarlo, ho usato l'immagine del granò,
del germe, e con ciò intendo che in ragione dell'unità della nostra
vita, naturale o soprannaturale, si deve trovare al punto di partenza,
virtualmente, quello che si troverà sviluppato al termine. È il punto
d'arrivo che da ragione delle tappe che lo preparano. Nessuna evoluzione
si concepisce se non per trasformazione succes-
253
siva di un elemento già differenziato e in relazione al
risultato ultimo. Perché la quercia sia quercia, bisogna che la ghianda
sia ghianda, cioè non una quercia in piccolo, come credevano antichi
naturalisti, ma una quercia in potenza. Nello stesso modo, se l'uomo
dev'essere un giorno divino, nel senso partecipato che abbiamo definito,
bisogna che sia tale già quaggiù nello stesso modo, con la sola
differenza che c'è tra la pianta sviluppata e il suo germe.
D. In altre parole?...
R. Voglio dire che l'uomo, sorretto nell'essere
dalla Divinità così come ogni altra creatura, deve essere da essa
permeato, unito ad essa più a fondo, compenetrato nel suo essere e
nelle sue facoltà da quello stesso influsso di cui Dio stesso vive e
che chiamiamo Spirito Santo. Lo Spirito Santo è l'agente proprio della
grazia; è lui che effettua questa compenetrazione del divino e
dell'umano nell'uomo rigenerato, nuovamente generato per una vita nuova.
E per questo fatto è « l'anima dell'anima nostra », dice S. Agostino,
perché la relazione dell'anima al corpo, come principio di vita, si
riscontra in un grado superiore tra l'anima nostra e l'influsso divino
che la mette in azione. L'anima informa il corpo; la grazia
informa l'anima nostra, e per essa tutto l'essere, per renderlo più
divino. Per questo fatto, si dice che Dio lo abita:-
D. Abitazione metaforica!
R. Abitazione misteriosa, ma reale, sotto gli
auspici della grazia, e questa abitazione di Dio in noi è agli occhi
nostri tutta la religione, poiché è il vincolo non pu-
254
ramente ideale, che ci lega all'oggetto della religione,
alla Divinità in persona.
D. L'individualità umana, in tali condizioni, può
ancora sussistere? Che cosa diventano le nostre facoltà, e di qual
libera azione sono ancora capaci?
R. Dio non distrugge niente di ciò che egli tocca,
perché non tocca se non per vivificare. La sua sopracrea-zìone
rispetta in tutto la creazione primitiva. Le nostre facoltà sono
sopraelevate e rafforzate dal contributo divino della grazia, senza
perdere nulla della loro autonomia e dei loro caratteri. Quello che è grazia
santificante nell'anima presa nella sua entità fondamentale, nella
sua essenza, come noi diciamo, diventa virtù soprannaturale
nell'incanalarsi nelle nostre varie facoltà. Nel nostro intelletto è
la fede, che si sovrappone alle nostre cognizioni naturali senza
contraddirle; nella nostra volontà e nella nostra sensibilità, sono la
speranza, la carità, le virtù morali soprannaturali, e inoltre,
aggiungen-dovisi come il genio alla scienza e l'eroismo alla virtù,
ciò che noi chiamiamo i doni dello Spirito Santo, disposizioni
inferiori procedenti a modo dell'istinto, quando le virtù si valgono
dei procedimenti razionali dei quali la deliberazione è il tipo.
D. E qual è l'essenziale? R. È la carità,
l'amore. Onde l'ordine soprannaturale è chiamato comunemente V
ordine della carità, come dice Pascal. Lì è il centro della
nostra vita soprannaturale, e per conseguenza lì sta il suo principio
organizzatore. La grazia di Dio opera nell'anima il medesimo effetto che
lo Spirito sopra il caos primitivo. Il nostro ingresso nella vita
divina, che è armonia e dirittura, luce e
255
forza, si effettua sotto questo segno dello Spirito, che
è l'Amore vivente, e noi siamo, per questo fatto, sotto una legge
d'amore, scritta, dice S. Paolo, non su tavole di pietra, ma su
tavole di carne, nei nostri cuori.
D. Ciò esclude evidentemente il male morale? R.
La grazia e il male Sono per sé incompatibili; perciò chiamiamo un
peccato grave, peccato mortale, perché trae seco la morte
dell'anima riguardo a quella vita soprannaturale che noi descriviamo.
Parimenti chiamiamo la venuta dello stato di grazia giustificazione,
perché l'uomo in grazia è necessariamente un giusto, un essere gradito
a Dio, un figlio di adozione, un fratello di Cristo, perciò un erede
del regno che Gesù Cristo conquistò, un « tempio » dello Spirito
Santo e di tutta la Trinità, le cui missioni nell'anima sono uno
degli arcani più sottili della fede.
D. Sono questi per tè veramente dei fatti
psicologici, e non solo dei dati morali?
R. Sono dei fatti di biologia spirituale, se così
posso dire, dei modi reali dell'essere, dei fenomeni di vita.
D. Allora perché non ne abbiamo coscienza? R. Un
sommo psicologo non sarebbe d'accordo. Maine de Biran [Journal,
20 dicembre 1823) scrive: « Adesso intendo la comunicazione intcriore
d'uno Spirito superiore a noi, che ci parla, che noi udiamo dentro, che
vivifica e feconda il nostro spirito senza confondersi con esso; infatti
noi sentiamo che i buoni pensieri, i buoni movimenti non nascono da noi
stessi. Questa comunicazione interna dello Spirito col nostro spirito,
quando sappiamo invitarlo o preparargli in noi una dimora, è un vero
fatto psicologico, e non di fede soltanto ». Tut-
256
tavia bisogna riconoscere che di solito lo stato
soprannaturale in se stesso non può essere l'oggetto di una certezza
sperimentale. Onde S. Paolo dice che assolutamente parlando nessuno
sa se sia degno di amore o di odio. Ma si può discernere l'albero
da' suoi frutti. Il modo di vivere, il modo di comportarsi riguardo al
soprannaturale, ecco il segno, e questo segno è moralmente sicuro,
senza che vi sia bisogno di una evidenza immediata, di un contatto.
D. Resta però la stranezza di una completa struttura
spirituale di cui non abbiamo affatto coscienza.
R. Abbiamo noi coscienza dell''incosciente,
la cui esistenza è così certa? Abbiamo coscienza della circolazione
del sangue? Un fenomeno così grossolano non è stato scoperto che dopo
secoli di studi, e non mancarono scienziati che lo negarono. Una miriade
di onde e di radiazioni ci attraversano o si sprigionano da noi senza
che ne abbiano la benché minima sensazione. La terra sotto i nostri
piedi gira e fugge con una rapidità vertiginosa. A più forte ragione
sarà impercettibile un fenomeno soprannaturale, che non ha alcun
rapporto essenziale con ciò che percepiscono i nostri organi o analizza
il nostro pensiero.
D. Devi però ammettere un miracolo permanente. R.
Non è un miracolo più di quello che lo sia il sollevarsi dell'acqua
nella marea. È un ordine nuovo, è vero, che però si presenta in
continuità con tutti gli altri, nell'interno del piano divino. La vita
della grazia si sovrappone alla vita naturale dell'anima che essa
impregna, come questa all'attività cerebrale, e questa alla
257
azione fisico-chimica del corpo e questa ancora
all'inerzia della materia.
D. Ma questo stato soprannaturale, identico in tutti
i « giusti », non è la fine della originalità e della iniziativa
personale? Tutti nello stesso stampo, sia pure uno stampo divino, non
può essere un ideale.
R. Prospettare così le cose sarebbe cadere in un
grave controsenso. La grazia è la stessa per tutti in quanto
soprannaturale e in quanto si adegua alla nostra natura;
ma ho già detto che essa è ricevuta in ciascuno
secondo le sue particolarità, e, fatta eccezione per il male, la grazia
le rispetta. L'Incarnazione non tolse a Cristo uomo i suoi caratteri
individuali, neppure quelli della sua stirpe: a maggior ragione la
grazia non altera i nostri caratteri perché la nostra personalità non
è assorbita da Dio, come fu quella di Cristo. Anzi la grazia consacra e
realizza su un piano superiore ciò che si potrebbe chiamare la nostra
vocazione naturale, essa col-labora con noi nella nostra attività;
sposa il nostro caso e lo coadiuva: in questo caso si parlerà di grazia
di stato. Non vi è alcun dubbio che un essere è molto meglio se
stesso, quando per mezzo della grazia è purificato dai suoi difetti e
potenziato in tutte le sue possibilità. Alla fine di questo lavoro è
la gloria, frutto della grazia, e nella gloria ciascun
uomo apparirà, secondo il celebre detto di Mallarmé: « Così com'è
in se stesso alla fine l'eternità lo cambia ». L'uomo è cambiato, ma
in se stesso, il Creatore come lo ideò e che le nostre miserie terrene
ricoprivano, e per di più in un se stesso trasfigurato, realizzato in
un modo più alto, come una melodia scritta in un tono più alto.
258
D. Hai parlato di grazie attuali: che cosa sono? R.
Noi chiamiamo così ogni soccorso soprannaturale di Dio che non ha un
carattere permanente, ma solo occasionale. Può essere un lume nella
nostra intelligenza, uno stimolo della nostra volontà, un movimento
felice della nostra sensibilità; il tutto in vista del nostro bene
spirituale. Secondo i suoi effetti, si dirà di questa grazia che essa
ci stimola, ci aiuta, ci guarisce, ci eleva. Si
chiamerà efficace se essa porta fino all'azione, o sufficiente
se è lasciata alla mercé del nostro libero arbitrio. Ma in tutti i
casi essa esige la nostra cooperazione. Non siamo salvati, senza la
nostra collaborazione.
D. La grazia dunque non è che un atto preveniente da
parte di Dio.
R. È qualcosa di più, perché anche alla risposta
Iddio coopera, quando al suo atto preveniente noi non cooperiamo. Dio è
sempre il primo, Dio è sempre il più forte, specialmente in amore.
Egli viene, e noi gli andiamo incontro; ma, anche lui che è dovunque e
presente a tutto viene con noi, al suo proprio incontro. Che cosa
potremmo fare noi uomini, in questo ordine che sorpassa l'uomo, senza
l'aiuto di questo compagno divino?
D. Non si può fare nulla di bene senza la grazia? R.
Si possono fare delle buone azioni senza la grazia, checché abbiano
detto luterani e giansenisti, per i quali la natura umana, totalmente
corrotta dal peccato di origine, non sarebbe capace che di male. Ma
senza la grazia non si può fare nulla di efficace per la salvezza, che
è soprannaturale; si è solamente ad essa preparati e messi sulla sua
strada. Di più, senza la grazia, non si potrebbe
259
evitare, in tutto il corso di una vita, ogni colpa grave
contro la legge morale. E noi crediamo ancora giustamente necessario un
soccorso speciale, per ottenere quello che chiamiamo la perseveranza
finale.
D. Credi possibile, con la grazia, di evitare ogni
colpa qualsiasi, anche la più leggera?
R. Praticamente, no; lo spirito umano è troppo
incostante; troppe occasioni e accidenti interni o esterni ci colgono di
sorpresa. Si può evitare ciascuna colpa presa per se stessa; ma per
vincere sempre e non cadere mai, noi crediamo indispensabile un
privilegio fuori dell'ordinario, che per quanto sappiamo non si è
riscontrato che due volte: in Gesù e nella sua purissima Madre.
D. Avendo in sé la grazia che tu chiami «
santificante », si può, senza la grazia attuale, essere santi? R.
Anche qui, la stessa risposta. Teoricamente, è possibile; ma
praticamente, ci son veramente necessarie grazie attuali, grazie
d'occasione. Per quanto armata e coraggiosa sia una milizia, può sempre
evitare di ricorrere al suo capo per chieder rinforzi?
D. J « rinforzi » sono garantiti? R. È
di fede che tutti i giusti ricevono le grazie necessario alla loro
perseveranza nel bene, tutti i peccatori le grazie necessarie alla loro
conversione e alla loro salvezza, tutti gl'infedeli le grazie che, se
vogliono, li condurranno, sia alla fede esplicita, sia ai supplementi
morali e soprannaturali della fede.
D. Questa dottrina da l'impressione di essere uno
sforzo di equilibrio tra il tutto o il niente delle
dottrine
estreme.
R. S. Tommaso scrisse queste belle parole: « La
260
Chiesa santa e apostolica tra due siepi di errori, ben
in mezzo alla strada, va con un passo lento ».
D. La dottrina della grazia urta però contro un
legittimo orgoglio.
R. Quale sorta di orgoglio potrebbe essere in questo
caso legittima? « Che buffa cosa — scrive Pascal —gridare a un uomo
che non conosce se stesso che egli vada da sé a Dio! E quanto buffa
dirlo a un uomo che conosce se stesso! ». E ancora: « Per fare d'un
uomo un santo, è indispensabile che intervenga la grazia, e chi ne
dubita non sa cosa sia un santo e cosa sia un uomo ».
D. Ciò non favorisce quelle eresie contrarie che
poco fa condannavi?
R. L'uomo s'immagina alternativamente, e alle volte
nello stesso tempo che egli può tutto senza Dio e che non può niente,
anche con Dio: la Chiesa gl'insegna che egli non può niente senza Dio e
tutto con Dio. In tal modo essa pensa di onorarlo e d'incoraggiarlo;
perché l'onore dell'uomo è in quello di Dio, e in Dio l'uomo trova la
sua forza.
D. L'uomo da solo compie spesso delle belle opere. R.
Certo compie opere magnifiche, ma in collaborazione con la natura e
servendosi delle forze universali, delle quali egli stesso non è
tisicamente che un punto di convergenza. Ve ne sono anche nell'ordine
spirituale, e più ancora nell'ordine soprannaturale. La grazia è un
collegamento, in noi, per l'utilizzazione delle forze eterne. Vorrà
l'uomo compiere senza Dio un'opera divina, dal momento che non può
agire in questo mondo se non utilizzando la materia che insozza i suoi
piedi?
261
D. Ma dov'è allora il merito umano? R. Il merito
umano non può essere un merito solitario, perché l'uomo non è mai
solo; ma pure è un merito, perché ciò ch'egli fa con un soccorso
normale, lo fa veramente lui, ed è normale altresì che egli ne abbia
vantaggio. Di più, quello che Dio ci da non è nostro, e i meriti di
Cristo non sono forse nostri? Che Dio, coronando le nostre opere, non
faccia altro che coronare i proprii doni, come dice S. Agostino, ciò
non impedisce che egli ci coroni. Dio incomincia, ci mette sulla
strada; accompagna il viaggiatore, ed è lui che ci riceve;
ma ciononostante siamo noi a camminare.
D. Si può meritare l'aumento della grazia?
R. Sì, ma con la grazia, poiché senza di essa non
si
può nulla.
D. Si può dunque meritare la prima grazia?
R. La sua stessa definizione dice di no. Ho detto
però
che uno vi si può disporre.
D. Il peccatore destato da una prima grazia può
meritarne altre e la conversione stessa? R. Strettamente no, poiché
non si merita propriamente se non essendo amico di Dio; ma alla bontà
che lo ha così prevenuto conviene rispondere al suo buon volere e
compiere l'opera sua.
D. E si merita la gloria?
R. Alle stesse condizioni, e si merita pure che essa
aumenti.
D. Che dici del merito per altri o in vista di altri?
R. Non si può salvare un altro senza che lui stesso lo voglia, ma
gli si può meritare soccorso, in ragione della
262
nostra solidarietà in Gesù Cristo e nella comune
paternità divina. Ecco un caso di ciò che noi chiamiamo la comunione
dei santi..
D. Che avviene quando si sono acquistati dei meriti e
si pecca poi gravemente?
R. I meriti periscono, perché non si può essere a
un tempo separato da Dio e meritevole davanti a lui; ma se si rientra
nella sua amicizia, i meriti rivivono.
D. Rivivono anche le colpe perdonate, quando si
ricade?
R. No, e in ciò splende la bontà del nostro Dio,
che ricorda il bene e .dimentica il male. Non si può tuttavia fare a
meno che ne sussistano le tracce, e grande a questo riguardo è la
differenza tra il peccatore che ricade e il peccatore che si rialza;
perché sul primo gli effetti di antichi peccati sono un peso di più,
mentre al secondo servono di scusa. Nel capitolo della « Penitenza »
del resto ritroveremo questo problema.
D. Quali sono, secondo tè, i rapporti di questo
regime individuale e interindividuale della grazia con lo stato sociale?
R. Essi sono stretti, e i loro effetti riconosciuti
sarebbero immensi. Avendo la grazia per compito di raddrizzare la natura
individuale, di sopraelevarla conforme a se stessa e in tutti i suoi
aspetti, di aiutarla in tutte le sue attribuzioni, è chiaro che la
grazia prepara alla società degli elementi scelti e favorisce l'uso di
questi elementi in tutti gli ordini di fatti che la parola società
abbraccia. Essa tende a frenare le forze cattive che mantengono il
disordine e intralciano il progresso; dispone le menti alle sane
concezioni e alle utili riforme; calma
263
le impazienze perturbatrici; da come base all'edificio
sociale una famiglia purificata, consolidata dall'unità e
dall'indissolubilità del matrimonio, perciò conforme alle esigenze di
una società veramente progredita; con la carità unita alla giustizia,
essa aiuta la concordia dei diversi fattori del lavoro, la ricerca e
l'accettazione delle combinazioni economiche favorevoli, l'elaborazione
e il funzionamento d'una buona politica nazionale e d'una politica di
pace.
D. Ammetti tu il rovescio?
R. Certo, e di diritto. Poiché la grazia si deve
adattare a nature individuali definite e attive, e non già a una
materia anonima e inerte, è di sommo interesse per il suo lavoro
sovrumano che le nature individuali siano prese in quadri sociali ben
concepiti e funzionanti normalmente. Come base per l'azione
.soprannaturale, nulla di meglio che individualità umane « qualificate
», e se è possibile altamente qualificate.
D. Vi è dunque un parallelismo sociale tra la grazia
e la natura, come tu hai riconosciuto tra esse un par-alle-lismo
individuale?
R. Socialmente come individualmente vi è di fatto
un avviamento parallelo e concentrato della grazia e della natura.
Questo si concepisce subito, se si osserva che la nostra natura è
sociale, e solo per astrazione ne può prescindere.
D. Vorresti riassumermi in due parole che cosa è il
tuo soprannaturale?
R. È un modo di essere e di agire che è naturale
solo a Dio e che Dio ci comunica. È la vita intima della Trinità,
nella quale noi entriamo.
264
D. È dunque una vita in due mondi? R. « La
nostra conversazione è in cielo », dice S. Paolo. La nostra società
con Dio non dipende da nessun mondo; essa comporta solo delle tappe,
richieste per il necessario uso della nostra libertà. È presentemente
una società per meritare e lavorare alacremente, in attesa del fine e
del godimento.
D. Il divino nell'umano, insomma, e l'umano nel
divino?
R. Satana aveva promesso ad Adamo e ad Èva che
sarebbero come dèi. « Gesù Cristo mantiene la stupenda promessa fatta
dal diavolo » (malebranche).
265
LA CHIESA
IL REGIME SOCIALE DELLA GRAZIA
D. Hai parlato più sopra di una grazia sociale
recata
da Cristo agli uomini: dove si trova?
R. Nella Chiesa. La Chiesa stessa è una grazia
sociale;
essa è una comunicazione dei misteri; suo compito è di
far pervenire la vita divina all'umanità.
D. Ne ha essa la disposizione?
R. Essa ne ha il ministero. È un incaricato
spirituale
di affari; rappresenta e serve l'opera del Cristo.
D. Di quale rappresentazione sì tratta? R. La
Chiesa, istituzione visibile, quantunque di essenza spirituale,
manifesta ai nostri occhi quella società delle anime con Dio che è la
religione, e che, in ciò che ha d'interiore, di passato, di futuro o di
estensione ad altri dominii fuori di questo mondo, ci sfugge.
D. E tu dici che la Chiesa serve ciò che essa
rappresenta?
R. Sì, come Gesù Cristo, suo fondatore, ha
manifestato e servito l'opera di suo Padre, come i suoi proprii
sacramenti manifestano e servono la effusione de' suoi doni divini.
269
D. La Chiesa è dunque una mediatrice? R. È come
un'atmosfera luminosa tra noi e il Sole di verità, un'atmosfera
vivificante tra noi e la Vita prima, un'atmosfera purificante tra noi e
la divina Santità, un'atmosfera che sorregge chi sale all'Altissimo
slanciandosi dal suolo.
D. Che significa la parola « Chiesa »? R.
Significa « assemblea ».
D. Vi sono altre assemblee. R. Nondimeno la
Chiesa ha un nome incomunicabile;
come il suo Dio è Dio, come il suo Cristo è il
Cristo:
cosi la sua religione è la Religione, e
l'Assemblea che essa forma è di diritto, riguardo al soprannaturale,
l'Assemblea umana.
D. Di quale utilità può essere, nel soprannaturale,
l'esistenza di un'assemblea?
R. In grazia di essa, la nostra religione non è una
semplice teoria o un sentimento vago; non è una tradizione in via di
indebolirsi essendo poggiata sopra un fatto lontano; è una vita, una
vita di famiglia, una parentela che ha sempre, per rappresentante, Gesù
Cristo alla sua testa, e si perpetua mediante i procedimenti della vita,
generazione spirituale, educazione, nutrizione, protezione esterna e
intima, emendazione, ecc. In tal modo si può camminare attraverso a
questo mondo e avanzare verso l'altro. Non siamo soli.
D. La solitudine, non è precisamente la legge dello
spirituale? La religione non è forse affare privato? R. Si tenta di
farcelo credere, e i poteri civili sopportano difficilmente, accanto a
sé, un'organizzazione sociale la cui esistenza ed esigenze sembrano a
loro una
270
fonte di conflitti. Ma la natura delle cose è lì che
s'impone. L'uomo è un essere sociale; ogni fatto umano autentico è un
fatto sociale, e la religione è sociale più che il resto, perché se
umanamente 'noi non siamo al completo se non per mezzo di altri,
divinamente noi ci sentiamo anche molto più una sola cosa. Il rapporto
più fondamentale è quello che ha meno probabilità di dividerci, e
deve meglio unirci. Lo scopo più nobile è quello che esige di mettere
in opera le più sante risorse, che sono le risorse sociali. La vita
religiosa non dev'essere la goccia d'acqua che è bevuta o che svapora,
ma l'oceano che resiste alla terra e all'aria con la sua massa. In tutti
i nostri sentieri noi avanziamo in gruppi; ma su quello dell'eterno e
del trascendente, dove la religione c'impegna, noi dobbiamo fare
qualcosa di più che camminare in gruppi distinti: dobbiamo formare una
unità stretta, indissolubile. L'ideale è qui la cattolicità.
D. Un tale ideale è attuabile? R. Fu realizzato
da Cristo, ed è il suo capolavoro. Sono fuori strada coloro che
pretendono di conservare la dottrina del Vangelo e di rigettare la
Chiesa. Non vedono che l'opera essenziale di Cristo consiste meno ancora
nelle verità che egli ci affida che nel sistema di protezione, di
diffusione e di utilizzazione che egli inventa per metterle al servizio
dell'universo e dei secoli, dei grandi e dei piccoli, dei sapienti più
illustri e dei bambini. Lì sta la meraviglia.
D. I protestanti non la pensano come tè. R. Tra
i protestanti e noi corre un buon numero di differenze; ma la differenza
radicale è di fatto questa. Il protestantesimo mette alla sua base
l'individualismo
271
religioso, il libero esame, e non forma gruppi se non
dopo e accessoriamente, secondo contingenze per lo più nazionali. Il
cattolicesimo pone alla sua base la società religiosa, che, da parte di
Cristo e sotto la sua salvaguardia, comunica e amministra i doni divini.
Ora, in ragione del suo principio, il protestantesimo conclude alla
polverizzazione e all'infinita diversità delle dottrine. In ragione del
suo principio, il cattolicesimo è un fattore di unità, di fissità, di
perennità flessibile come la vita stessa, ma rigido come la vita nelle
sue eterne leggi.
D. Se fossi credente, io sarei tentato di dare
ragione al protestantesimo, e, nell'ambito dello spirituale, non
crederei di poter essere salvato dal di fuori.
R. Quello che ci salva, nella Chiesa, non è
un'esteriorità, anzitutto perché la società non è mai
un'esteriorità, per un essere che è sociale per natura; ma
principalmente perché lo Spirito che spira nella Chiesa è lo stesso
che spira nelle nostre coscienze. Quello che la Chiesa dice al nostro
orecchio, Dio lo dice nel nostro cuore per lo Spirito di verità e
d'amore al quale risponde il nostro spirito fedele. Lo stesso vento che
canta nel sartiame della Nave sublime, alimenta la respirazione dei
passeggeri.
D. È assai dubbio che Gesù abbia voluto la Chiesa.
R. Sì, qualche volta lo si dice; ma è vano puntiglio. Tutto
dimostra che egli previde un avvenire per l'opera sua, organizzò
quest'avvenire e stabilì egli stesso per assicurarla un embrione di
società religiosa.
D. Perché un embrione? R. Perché così nascono
tutte le cose viventi. Non c'è
272
motivo che il procedimento che Dio ha seguito nella
natura debba essere diverso per la soprannatura. D. Dunque Gesù non
stabilì che i lineamenti di una Chiesa.
R. Diciamo meglio, stabilì la Chiesa ne' suoi
lineamenti.
D. In che consistono questi lineamenti? R. Nella
costituzione del primo gruppo apostolico, con Pietro a capo e con poteri
definiti da esercitare.
D. E quale prova hai delle intenzioni che attribuisci
a Gesù riguardo alla sua Chiesa?
R. Questo avvenne a Cesarea di Filippo, dove Gesù,
dopo avere provocato da parte di Pietro, che parlava a nome dei Dodici,
il riconoscimento e la proclamazione solenne della sua qualità di
Cristo, Figliuolo del Dio vivo, gli rivolge queste parole non meno
solenni: Tu sei Pietro, e sopra questa pietra edificherò la mia
Chiesa, e le porte dell'inferno non prevarranno contro di essa.
D. Non è questo un gioco di parole? R. Tu citi
Richepin; ma, come troppe volte accade, la sua « bestemmia » è
una sciocchezza. Il capo degli Apostoli si chiamava in origine Simone.
Proprio in ragione dell'ufficio che intendeva attribuirgli, Gesù, nel
momento della sua elezione, gli da il nome di Kephas, cioè
Pietro, o piuttosto roccia. Invece di un gioco accidentale di parole,
abbiamo qui un chiaro segno delle intenzioni iniziali e persistenti di
Gesù riguardo alla costruzione regolare, durevole, alla quale egli
provvede.
D. Che cosa sono quelle « porte dell'inferno » delle
quali parla il testo citato?
R. Sono i poteri di morte. Nell'antico Oriente, la
porta
273
della città era la sede del potere sociale, il luogo
delle deliberazioni e dei giudÌ2Ì, e l'inferno, o scheoi, è il
soggiorno dei morti. Lì si vede dunque che Gesù prevede non solo
un'organizzazione sociale, ma la perpetuità di questa organizzazione.
D. Quando nacque veramente questa Chiesa? K'.
Nella Pentecoste. Una volta assunto nella gloria, Gesù ci fece « i
suoi munifici doni », come dice Male-branche. Egli ci aveva dato delle
massime di vita; poi mandò il suo Spirito perché esse fossero capite e
applicate. Aveva seminato il buon grano; poi fece sorgere il sole.
D. Dunque il fatto precedente non era del tutto
decisivo?
R. Era un annunzio. Gesù posava una prima pietra,
ma l'edificio non si poteva inaugurare come abitazione spirituale,
mancando ancora il suo abitante principale, che è lo Spirito-
D. Gli Apostoli dunque non avevano lo Spirito? R.
L'avevano individualmente, come ogni anima in stato di grazia; ma non
l'avevano come gruppo, e la Chiesa che dovevano formare non aveva dunque
la sua anima propria: essa non era ancora.
274
I CARATTERI DIVINI DELLA CHIESA
a) II fatto sovrumano
D. Credi evidente che la Chiesa abbia un'« anima
divina »?
R.
Questo focolare di verità e di santità nel mondo, questo fermento
della povera pasta umana sempre pronta a ricadere e a inacidirsi, questa
società così stupenda nella sua fondazione, nella sua espansione, nel
suo sviluppo, nella sua fecondità spirituale, nella sua perpetuità,
nella sua unità ad onta di tante lacerazioni secolari, nella sua
stabilità in mezzo a tutto quello che vacilla, non è forse un
argomento incomparabile in favore della sua missione e della sua
divinità?
D. Tu ci vedi un miracolo? R. Vi è certamente un
miracolo nel solo fatto della Chiesa, e ci vuole tutta la potenza di
accecamento che deriva dall'abitudine per non accorgersene. Supponi una
società di amicizia che sia fondata un giorno nelle condizioni in cui
si fondò la Chiesa; sottomettila alle medesime traversie; falla durare
così per duemila anni, e spandila sopra tutto l'universo con effetti
proporzionati. Poi mi dirai che cosa pensi della sua vitalità e a
275
quali cause umane una tale vitalità potrebbe veramente
essere attribuita.
D. Il fatto è così ampio come questo? R. Il
governo attuale e i frutti attuali della Chiesa si estendono a
quattrocento milioni di anime. Addiziona le generazioni passate, calcola
le future, e computa il gregge di Cristo. Nessuna opera umana può
essere, sia pure lontanamente, paragonabile a quest'opera. « Ciò
sorpassa l'uomo », specialmente se si confronta il risultato coi mezzi:
semplicità alla base di un'immensa complicazione; umiltà a servizio di
una onnipotenza; sorgente appena visibile che da origine a un fiume che
si allarga a formare un oceano.
D. Ne parli come di una creazione. R. Attese le
condizioni della sua fondazione e del suo trionfo, attesa la sua
struttura visibile e specialmente spirituale, la Chiesa, come dice
Bossuet, è veramente « un edificio tratto dal niente, una creazione,
l'opera di una mano onnipotente ».
D. Tuttavia gli storici hanno individuato, nel corso
dei tempi, le cause di questo successo della tua Chiesa. R. Ho già
risposto a un argomento di questo genere, e ti dissi: Tutto ha delle
cause; ma bisogna spiegare come queste cause si trovino all'opera nel
momento opportuno, senza mai fare difetto, senza fallire il loro
effetto, senza lasciarsi annullare da tante altre cause che porterebbero
a deviazioni o senz'altro alla rovina. D. Di quali cause contrarie
parli? R. Esse abbondano, e talune ebbero tutta l'apparenza di
cataclismi mortali. Lunghe e terribili persecuzioni, eresie, scismi,
pericoli di assorbimento da parte di capi
276
politici, debolezza e colpe dei fedeli, a volte perfino
dei pastori, invasioni barbare che parevano sommergere ogni cosa,
formidabile pressione dell'Impero, grande scisma di Occidente, riforma,
filosofismo, Rivoluzione francese... non sono che le principali crisi.
Ora la Chiesa ha attraversato tutto senza perire e senza corrompersi;
essa non soccombette mai a questo doppio pericolo, che
la minaccia sempre. Che cosa può umanamente spiegare tutto questo?
D. Il genio, la forza, la virtù che operano nella
Chiesa come dovunque.
R. Se avviene come dovunque, ciò non spiega niente.
Di fatto il genio esiste dovunque, ed è raro dovunque;
la Chiesa non ne ha di più che la parte che le spetta
in proporzione. La forza per lo più vi è assente. La virtù fa parte
del fenomeno da spiegare. Non si può invocare altro che la potenza del
germe e il suo adattamento all'ambiente in cui esso lavora. La Chiesa,
come un vivente, trova in sé le sue forze di creazione, di
accrescimento, di difesa, di riparazione, di progresso. Ciò è ad essa
naturale, dato il suo essere; ma è lo stesso suo essere che lo fa
divino. « La vita è creazione », dice Claudio Bernard; la Chiesa
vive, ed è Iddio che crea.
D. Il vivente di cui parli fu veramente fedele al suo
germe? la Chiesa attuale risponde alla sua prima istituzione?
R. Tutto quanto è essenziale nella Chiesa attuale,
si trova già in S. Paolo.
D. J protestanti lo negano. R. Newman intraprese
un vasto lavoro per contestarlo
277
con maggiore rigorosità scientifica; a misura che egli
procedeva, la tesi che voleva dimostrare si rovesciava in quella
contraria; alla fine si convertì.
D. Altri, oggi, ritornano alla prima idea di New/non,
e forse sono meglio preparati e documentati.
R. Si tratta indiscutibilmente di uomini di valore:
meglio preparati se si vuole; ma la loro passione
anticristiana è troppo manifesta; essa fa torto a se stessa; e succede
ad essa, come sempre alla passione, di non correggere la cattiveria o il
malvolere se non con la stoltezza. Del resto, ve ne sono di quelli che
non capiscono niente affatto, e di quelli che capiscono tanto meno in
quanto non vogliono capire.
D. La rigidità de' suoi princìpi è forse la
ragione della lunga durata della Chiesa e della sua resistenza alle
cause di dissoluzione.
R. Resterebbe da spiegare la rigidità secolare
della Chiesa in mezzo a un mondo che non è meno seducente secondo lo
spirito che secondo le potenze della carne. Abbiamo già detto che cosa
di deve pensare di una difficoltà del genere. Pascal ti oppone un
ragionamento contrario. « Gli Stati perirebbero — dice egli — se
non si facessero piegare sovente le leggi alla necessità. Ma la
religione non ha mai tollerato questo e mai ne ha fatto uso. Così ci
vogliono degli accomodamenti o dei miracoli. Non è strano che ci si
conservi piegandosi, e questo non è propriamente un mantenersi. E
infine ancora essi periscono interamente; non ce n'è uno che abbia
durato mille anni. Ma che questa religione siasi sempre mantenuta, e
inflessibile, ciò è divino ».
D. La Chiesa si è mantenuta indubbiamente, ma sempre
in mezzo alle contraddizioni. R. Ragione di più perché essa abbia
bisogno di una protezione soprannaturale. La passione degli uomini si
scalda prò e contro di essa; ma è l'imparzialità del tempo che la
giudica. A misura che le obiezioni e gli antagonismi andranno
moltipllcandosi, la Chiesa potrà sempre più opporre loro l'argomento e
la forza della sua. perpetuità.
D. A che cosa attribuisci queste contraddizioni? R.
La Chiesa è contraddetta perché, giudicando dal punto di vista
dell'eternità, essa è sempre in ritardo o in anticipo sopra qualche
cosa, esigendo od opponendosi riguardo a qualche cosa. Essa non può
rosi attendere giustizia se non dai fatti, non dagli uomini, che
giudicano in generale, fosse pure a distanza, secondo i loro pregiudizi
e le loro passioni.
D. La storia non è dunque favorevole alla Chiesa? R.
La storia, sì, ma non sempre gli storici. La storia sta dalla parte
della Chiesa, perché registra quello che la Chiesa ha fatto; la
fede è a più forte ragione per la Chiesa, perché inoltre essa prevede
quello che la Chiesa farà. Ma ciò che fa la Chiesa
riesce quasi sempre sospetto a qualcuno, talvolta allo stesso credente.
D. La Chiesa non prende la propria difesa?
R. Essa lascia dire. È « un blocco di forza
silenziosa »,
come avrebbe detto Cariyle.
D. Spieghi nello stesso modo le persecuzioni? R.
Le due questioni non possono mancare di corri-spondersi. La Chiesa è
perseguitata perché rivendica dei diritti e impone dei doveri; perché
si ha paura della sua
279
potenza e ci si irrita delle sue pretese. Ciascun secolo
mette alla prova la Chiesa, ed è per questo che essa è;
e per questo che essa è, altresì, ciascun secolo la
conferma, aggiungendo un nuovo ornamento alla sua giovinezza eterna.
D. Qual è per la Chiesa la suprema garanzia
d'indipendenza? R. Il martirio. Quando si è pronti a morire, si è
liberi.
D. Vuoi spiegarmi il tuo pensiero? R. Ascolta
questo breve dialogo: — Taci, o io ti uccido! — La mia morte sarà
la mia più alta parola. — Tutto morrà di tè eccetto la tua parola.
— Dunque io non morrò punto. — Vattene al diavolo! — Vado, ma in
grado di poter servire Dio.
D. Giungeresti fino a rallegrarti delle persecuzioni,
delle contraddizioni?
R. « Vi è del piacere a trovarsi in una nave
sbattuta dalla procella, quando si è sicuri di non perire »
(PASCAL).
D. Lo sfato presente della Chiesa ti pare che
giustifichi una tale fiducia?
R. Lo stato della Chiesa non fu mai più favorevole
e più ricco di speranze. Nel 1874, non è dunque gran tempo, Disraeli,
membro di un gruppo religioso dissidente e rappresentante di un grande
impero, diceva al Parlamento inglese: « Io non posso non dirlo
francamente, la religione cattolica è un organismo potente, e se mi è
lecito dirlo, il più potente che esista oggi ».
D. Pure certi cattolici credono a un regresso. R. 1
lodatori del passato ne dimenticano le miserie; i
280
disprezzatori del presente trascurano le sue grandezze,
e una tale parzialità di valutazione è del tutto naturale;
sotto un certo aspetto tale atteggiamento si può dir
virtuoso, perché milita in favore del nostro ideale; ma più importante
è vedere quello che la Chiesa è. La Chiesa è piena di vita; non solo
non presenta nessun segno di decadenza, ma si può dire che in certo
modo solo adesso incomincia. Solo ieri ha compiuto la sua costituzione;
il suo ultimo concentramento organico, punto di partenza
di una più ricca espansione che si annunzia da ogni parte, non data che
da un mezzo secolo. Solo ieri si liberava definitivamente del temporale
e accresceva così agli occhi del mondo il suo incomparabile prestigio
spirituale; la santità vi circola più che mai, e la sua potenza
civilizzatrice è così evidente che i gruppi politici più animati
contro di essa cercano insistentemente il suo soccorso, si valgono de'
suoi metodi, copiano i suoi princìpi e vivono, quando vivono bene,
degli influssi segreti emanati secolarmente e quotidianamente da questo
focolare dello spirito. L'avvenire è davvero largamente aperto davanti
alla Chiesa, e benché essa sia antica, pure non è e non sarà mai
vecchia. Avviene di essa, e assai meglio ancora, come della terra ad
ogni primavera, dell'universo in ciascuno de' suoi cicli. Il
ricominciamento eterno è la legge di ciò che non muore.
b) L'unità della Chiesa
D. Oltre alla sua origine e alla sua perpetuità, la
Chiesa, secondo tè, ha altri caratteri divini? R. Ve ne sono
quattro che si presentano tradizionalmente come i più notevoli, e per
questa ragione si chia-
281
mano note o segni caratteristici della Chiesa.
Noi li abbiamo inclusi or ora in una veduta generale; e sono" l'unità,
la santità, la cattolicità e Vapostolicità.
D. Come intendi l'unità?
R. Noi l'intendiamo di una sola credenza, di un solo
governo, di un solo culto; e ciò per tutti i tempi e per tutti i paesi
come in ciascun tempo e in ciascun paese. Perché tale è la prima
necessità di questo gran corpo.
D. Non vi sarebbero dunque, in tutto questo, varietà
e variazioni?
R. Ve ne sono e ve ne devono essere. Ma qui noi
parliamo dell'essenziale.
D. Perché questa unità?
R. Perché l'unità è la realtà stessa, perché
soprattutto l'unità e la vita non sono che una sola cosa. Ma inoltre
ricorda quale vita e quale realtà sono quelle della Chiesa. Se la
Chiesa non è altro che l'unione di Dio con l'uomo e l'unione dell'uomo
con Dio sotto una forma sociale, come mai vi sarebbero più Chiese, o
come mai vi sarebbe divisione nel suo seno proprio riguardo a ciò che
ci unifica? Pluralità di Chiese significherebbe o pluralità di Dio, o
pluralità dell'uomo secondo che egli ha rapporto con Dio. Se Dio è
uno, e se anche l'uomo è uno, in Cristo, per unirsi a Dio, non ci può
essere che una Chiesa. Da Dio e dall'uomo, in essa, sorge una nuova
unità: quella dell'organismo umano-divino del quale Cristo è il capo,
e tutti gli uomini sono chiamati a diventarne i mèmbri, e lo Spirito
Santo ne è l'anima. Perciò noi diciamo della Chiesa che essa è
l'Incarnazione continuata, e l'Incarnazione è necessariamente una. Il
282
corpo di Cristo è forse diviso? —
dice S. Paolo. — Non vi è che un Signore, una fede, un battesimo,
un Dio padre di tutti, che (agisce) per mezzo di tutti, che (è) in
tutti.
D. Dicevi poc'anzi che solo recentemente la Chiesa ha
operato il suo ultimo concentramento: db evidentemente perché fino a
quel momento non era una.
R. La Chiesa fu sempre una; ma vi sono dei gradi
nell'unità come ve ne sono nella vita. Un organismo si unifica tanfo
più quanto più cresce la sua differenziazione e si moltipllcano le sue
funzioni, purché questa differenziazione e quest'accrescimento di
funzioni procedano dall'interno stesso, dal principio iniziale che cerca
di rivelarsi in un modo sempre più ricco. L'uomo è più che un
protozoo; questo, sezionato, sussiste: provati a segare un uomo! Così
la Chiesa oggi, molto più complicata di quella dei primi tempi, e anche
più una, perché la sua complicazione è il risultato d'un rigoglio
interno, quello del principio divino che si vuole manifestare di più, e
per questo si crea degli organi, ma senza cessare di dominarli, di
orientarli verso i suoi proprii fini, tanto più il loro numero è più
grande e tanto maggiori saranno le loro risorse.
D. Non vi sono nella Chiesa delle crisi di unità? R.
La vita sociale, religiosa o civile, come pure la vita individuale, è
una serie di crisi che si superano. L'essere ben costituito, tanto più
l'essere divinamente costituito, trae di lì il suo progresso e realizza
l'opera sua.
D. Le crisi crescono di pari passo con l'unità? R.
Le crisi forse crescono in numero, in ragione delle complicazioni nuove;
ma decrescono in importanza coi progressi dell'unità. Oggi non si vede
più la possibilità
283
dell'arianesimo, del grande scisma d'Occidente, dello
scisma greco, della riforma. Gli accenni di rottura, in Francia, al
momento della separazione, sono caduti nel ridicolo; la crisi modernista
fu prontamente vinta. Ogni volta che una tale prova infierisce, una
reazione unitaria viene a dimostrare la volontà di vita nell'unità che
conserva la Chiesa.
D. Dici che l'unità si limita all'essenziale: in che
consiste l'accessorio?
R. Consiste in differenze alle volte notevolissime,
benché secondarie, in materia di credenze, di pratiche, di vita
rituale, ecc., differenze che la Chiesa accetta oppure rifiuta di
lasciar ridurre, perché essa le giudica utili, ad ogni modo normali, a
condizione che ci si mantenga nei giusti limiti.
D. Chi fissa i limiti?
R. La Chiesa stessa, solo giudice dell'anima sua e
di
ciò che la rispetta, serve od offende.
D. Questa tolleranza può variare con i tempi? R.
Normalmente essa cresce con l'unità di concentramento che ho descritto.
Si è molto più comprensivi circa i particolari, quando si è sicuri
dell'insieme. Se Leone XIII e i suoi successori poterono sciogliere i
riti orientali, è perché il Concilio Vaticano assicurava ugualmente
l'unità, e se domani qualche genio incorporerà alla teologia cristiana
tutto il contributo contemporaneo, sarà perché prima si saranno ben
precisate le frontiere tra ciò che è acquisito e irreformabile da una
parte, e dall'altra ciò che rimane aperto e che è materia di avvenire.
284
D. L'avvenire appartiene tutto alla tua Chiesa?
Perché non vi potrebbe essere, in un domani più o meno lontano,
un'altra Chiesa?
R. Ci vorrebbe per questo un altro Cristo; ci
vorrebbe una nuova Incarnazione, e a che prò? Che farebbe il nuovo
Cristo, che non abbia già fatto e in modo definitivo il primo? Quale
nuovo campo d'azione, quando Gesù si è rivolto a ogni carnè e
ha inteso di unire a sé tutto il genere umano? 'Vi può forse essere un
nuovo Adamo? Dunque, non è possibile, alla pari, che vi sia più un
nuovo Cristo, un nuovo corpo di Cristo così come chiamiamo la
Chiesa.
D. Il nuovo venuto potrebbe essere un nuovo profeta,
un annunziatore.
R. E che cosa annunzierebbe? Parlando nel suo
proprio nome, indipendentemente dalla divina parola già udita, egli non
sarebbe che un anticristo; parlando nel nome di Cristo e nel senso di
Cristo, non farebbe altro che spiegare, sviluppare quanto Cristo ha
detto, e a questo fine basta la Chiesa. Lo Spirito divino in missione
permanente in mezzo a noi non ha altro compito. Venga pure un
annunziatore, ma parlerà secondo questo Spirito; spiegherà il Cristo;
egli sarà nella Chiesa.
D. Tu rifiuti dunque anticipatamente ogni nuovo
Messia?
R. Lo stesso Gesù ci mise in guardia: « Se
qualcuno vi dice: Cristo è qui, o: Egli è là, non lo credete ». Del
resto quei che sognano rivelazioni successive e atten-dono'dei nuovi
Messia, anzitutto sono in ritardo; infatti, per quanto è possibile
prevederlo, il conflitto dell'avvenire, come quello del presente, sarà
questo: il cristia-
285
nesimo, o niente. Ma, ad ogni modo, costoro fanno Gesù
diverso da quello che egli è; vedono in lui il rabbi galileo di
Renan, e non il Figliuolo dell'Uomo.
e) La santità della Chiesa
D. Hai parlato di santità: hai forse la
pretesa che la tua Chiesa sia una società di santi?
R. Tutt'altro! È piuttosto una società di
peccatori, dal momento che è una società di uomini. Ma se gli uomini
ne son la materia, la Chiesa stessa, nella sua realtà totale, è ben
altro. In grazia di Cristo e dello Spirito di Cristo, essa è un
composto umano-divino, e questo composto, disponendo degli influssi di
Dio sotto tutte le forme richieste da questa vita a due che Dio propone
all'umanità, non può essere che santo e santificante, checché ne sia
delle miserie de' suoi mèmbri. La Chiesa è santità in Dio; la Chiesa
è perfettamente santa in Cristo; è santa ne' suoi mezzi usciti da Dio
e da Cristo;
aspira solamente ad essere santa in tutti i suoi
mèmbri.
D. Non basta questa mescolanza per paralizzare la sua
azione?
R. La mescolanza del bene e del male nella Chiesa la
incomodò sempre, ma non la potrebbe paralizzare. Anche un grano impuro
germoglia, purché le sue impurità non tocchino il potere di
germinazione nel suo centro. Qui il centro è divino; la tessitura
stessa è divina e non potrebbe perire.
D. Si possono dunque esigere degli effetti di
santificazione? R. Teoricamente, no; perché questi effetti di
santifi-
286
cazione hanno per soggetto delle creature libere.
L'opera d'arte non è mai sicura di riuscire, quando la sua materia ha
il potere di rifiutarsi. Dipende da ciascuno di noi per parte sua il
tenere in scacco la santità della Chiesa, nelle sue possibili
dilatazioni. La Chiesa sarà nondimeno, nel suo fondo, santa e
santificante, avendo sempre in se lo Spirito e l'insieme de' suoi mezzi
di santificazione.
D. Ma questa risposta è teorica, sei tu ad
affermarlo. R. Unicamente teorica di fatto. Giacché l'umanità è
ciò che è, composta di cattivi e di negligenti indubbiamente, ma anche
di grandi anime e di anime di buona volontà; se nella Chiesa non vi
fossero dei frutti visibili di santità, a buon diritto si dubiterebbe
del suo valore santificante. L'albero si riconosce da' suoi frutti, dice
il nostro Vangelo.
D. No» temi che questa massima si rivolga contro di
tè?
R. La Chiesa non la teme; anzi l'invoca. Il germe
che ha germogliato a dispetto delle sue impurità non dimostra forse la
sua qualità intima e la sua autenticità in quanto seme di una certa
specie? La Chiesa, nonostante i vizi de' suoi fedeli o di quelli che la
dirigono, ha prodotto della santità nel mondo; si può dire che essa ne
ha coperto il mondo: perché appunto vi è in essa un germe divino.
D. Non vi accontentate forse di troppo poco? R.
La Chiesa è lontanissima da un troppo facile contentamento; non è essa
l'eterna brontolona che sempre dispera delle nostre bassezze, motivo per
cui anche le nostre bassezze spesso si esasperano? Ciononostante,
ambiziosa di assoluto, essa, a chi le domanda dei santi,
287
ne può mostrare gloriose falangi. Avevamo riconosciuto
più sopra che nessun gruppo religioso può anche solo lontanamente
offrire l'equivalente. D. Però non ha cambiato il mondo. R.
Anche i discepoli di Emmaus, il giorno dopo la Risurrezione, al
principio dell'opera reale di Cristo, dicevano: « Noi credevamo che
egli avrebbe riscattato Israele ». L'opera della Chiesa è opera di
uomini; è frutto di un lavoro lungo e faticoso; dipende da noi stessi,
e il mondo è tutt'altro che giunto al suo termine.
D. Non vi sono dei tempi in cui la Chiesa pare
disertata dalla santità?
R. Solo la forma cambia. Là dove manca
l'estensione, si osserva una concentrazione. Quando i canali regolari
della grazia si chiudono, la grazia erompe, qua o là, in getti
mirabili, e i periodi ingrati della storia contano i più grandi santi.
D. Questo va bene per gli individui; ma vi è anche
una santità sociale.
R. Ne abbiamo trattato, come dell'altra, a proposito
della vera religione. Abbiamo dovuto riconoscere che la morale
evangelica messa in opera nella Chiesa e per la Chiesa, nelle società
cristiane, è alla base della civiltà.
D. La Chiesa cattolica vi ebbe una parte
preponderante?
R. Fino alla riforma, ciò non si può mettere in
dubbio. Dopo la riforma, ciò è anche più certo. D. Tuttavia si
sente dire che le società protestanti sono superiori, moralmente, alle
società cattoliche. R. Darò una triplice risposta. Guardando alle
apparenze, si potrebbe credere che certi gruppi protestanti
288
siano di una moralità e di una religione superiore,
almeno sotto certi aspetti. Ma quando si è in condizione di andare a
fondo delle cose, il giudizio cambia. In secondo luogo, se tu consideri
la parte eletta, che permette un più giusto apprezzamento, la bilancia
trabocca totalmente in favore della parte eletta cattolica. Finalmente,
e qui sta il principale, cerca dove sono i santi, cioè gli eroi
religiosi, quelli che, in grazia di quell'alto misticismo che prova
l'unione con Dio, manifestano appieno la portata e la fecondità del
principio: essi sono una pleiade nel cattolicismo; non se ne vedono nel
protestantesimo. Il protestantesimo alberga molte nobili anime; se ha
prodotto dei santi, fu nel segreto; storicamente, in ciò che si vede,
che solo è in causa per noi, si ha il diritto di dire: Esso non ha
prodotto dei santi;
non ha dei genii religiosi; non ha degli eroi. Ora, se
tu volessi stabilire tra due eserciti una scala comparativa di valori,
non parleresti anzitutto delle unità eminenti, dei grandi soldati, dei
grandi capi, dei grandi duci, degli eroi? Così si giudica, nel fatto,
il principio vivificante della Chiesa.
D. Attendi dall'avvenire una grande fioritura di
santità nuova?
R. Ancora una volta, che l'opera dello Spirito si
compia, dipende da quelli in cui lo Spirito lavora. Ma noi non temiamo
uno scacco che supporrebbe o una malizia sovrumana da parte degli
uomini, o un rifiuto della misericordia da parte di Colui che disse: La
mia misericordia è più grande del tuo peccato, o Israele. « Io
credo — scriveva Ozanam — al progresso dei tempi cristiani; e non mi
spavento delle cadute e dei traviamenti che lo inter-
289
rompono. Le fredde notti che succedono al calore dei
giorni non impediscono all'estate di seguire il suo corso e di maturare
i suoi frutti ».
</) La cattolicità della Chiesa
O. Che cosa intendi per cattolicità? R. Questa
nota appartiene alla Chiesa in quanto essa è universale, vale a dire
adatta a tutti gli uomini, fatta per tutti gli uomini, e, per questo,
libera da ciò che limita, confina e restringe in un qualunque modo il
suo territorio di azione.
D. Non parli dunque di una universalità di fatto? R.
No, se non in desiderio o in speranza. La Chiesa fu sempre cattolica e
non è sempre stata diffusa da per tutto; è lontana, anche oggi, dal
raccogliere tutti gli uomini. Ma è universale di diritto. I suoi quadri
sono pronti per ricevere l'umanità intera, per avvolgere le
manifestazioni totali della sua vita. La vocazione universale degli
uomini è di entrarvi, in modo che se non vi entrano e ciò sia per
colpa loro, essi sono colpevoli riguardo ad essa, sì da farne parte in
certo modo, come transfughi. E se non è per colpa loro, ma a cagione
delle circostanze esterne o interne che non escludono il buon volere,
essi ne fanno parte, perché il loro cuore ne fa parte, avessero pure
sulle labbra delle negazioni, avessero pure nella bocca delle bestemmie.
D. Le ragioni della cattolicità sono le medesime
della santità e dell'unità?
R. Esattamente le medesime. La Chiesa, non essendo
che l'umanità organizzata in Dio per mezzo di Cristo, si trova ad
essere cattolica per definizione; cattolica in
290
estensione, facendone parte tutte le stirpi a titolo di
aderenti o di candidate; cattolica in durata, non avendo i tempi altra
missione che di render religiosa tutta l'umanità; cattolica in
profondità, perché se ne trovano eliminati gli elementi umani che
suscitano i particolarismi, siano essi etnici, nazionali, sessuali,
intellettuali, politici, economici o mondani, senza dimenticare il
particolari-smo delibo, da cui scaturiscono religioni individualiste. La
religione allora si da pensiero esclusivamente del suo oggetto, che è
di « legare » a Dio, padre di tutti, e si Cristo, Figliuolo dell'Uomo,
l'umanità e tutti i suoi mèmbri vagheggiati nella loro unità, vale a
dire nel loro fondo, dove non si spiega ne si giustifica alcuna tendenza
particolarista.
D. Tu ritorni sempre all'idea del germe universale, e
alle proprietà di questo germe.
R. È vero. La cattolicità della Chiesa è
anzitutto una proprietà; essa qualifica un organismo religioso operante
al modo di un fermento di un germe, potere universale riguardo alla
materia che gli è sottomessa. Uno spermatozoo organizza l'animale
intero; un po' di lievito basta a una grossa massa di pasta; con un
chicco di frumento si può, col tempo, coprire di semenza il mondo.
D. Il Vangelo non dice qualche cosa di simile? R.
Non faccio altro che riferire i suoi paragoni: II regno de' deli
sopra la terra è simile al lievito, che una donna prende e rimescola in
tré staio di farina, finché sia levata tutta la massa. Il regno di Dio
è simile a un granello di senapa, i più piccolo di tutti i semi, che
diventa un grande albero.
291
D. Il fatto dunque è la prova della proprietà di
cui si parla.
R. In realtà ne è la testimonianza. Volendo sapere
se un seme è buono, lo si getta nella terra per vedere se germoglierà;
ma non è necessario aspettare un grand'al-bero, e chi fosse dotato di
una scienza perfetta si potrebbe contentare dell'analisi intima del
granello. Qui, come abbiamo veduto, i due procedimenti si corroborano e
i risultati concordano. La Chiesa ha tutto quello che occorre per
un'opera universale, ed essa lo fa vedere.
D. Come lo fa vedere?
R. Adattandosi indifferentemente, nel corso della
storia, a tutte le razze, a tutte le nazionalità, a tutti i livelli
intellettuali, a tutte le organizzazioni pratiche, a tutte le forme di
governo e di società, a tutti i caratteri individuali, a tutti gli
ambienti e a tutti i gradi che essi formano, a tutti gli stati di vita,
purché siano rispettati i fini che essa si propone e i metodi
indispensabili che li procurano.
D. La tua Chiesa non è forse orientale per la sua
origine, romana per la sua costituzione e la sua sede? R. La
Palestina le prestò la sua culla, ma non ve la rinchiuse; Pietro e
Paolo la portarono subito a dimensioni universali. Roma la servì, e
vedremo in qual senso si chiama romana; non certo in senso restrittivo.
Da Roma, come centro, la Chiesa irradia da per tutto. Essa è così poco
orientale, che s'incorpora senza difficoltà lo spirito americano; è
così poco occidentale, che si adatta al Giappone e lo conquista.
292
D. Non è particolarista in filosofia, col suo
tomismo? R. La Chiesa preconizza il tomismo, perché secondo il suo
giudizio questo sistema di idee è più favorevole al bene intellettuale
dei credenti e si combina meglio col suo dogma. È la filosofia che le
si addice meglio, come il canto fermo è la sua musica; ma essa non ne
fa un obbligo universale più che non imponga il canto fermo ai nostri
artisti contemporanei. S. Agostino era platonico; Fénelon era
cartesiano; Malebranche aveva una sua filosofia; tutti e tré e una
pleiade di altri, aderenti a sistemi diversi, professano
intellettualmente e praticamente lo stesso cristianesimo.
D. In politica, la Chiesa non sta per la monarchici?
R. È essa stessa una monarchia; ma se la intende facilmente con le
repubbliche, purché non si chiami repubblica un governo deliberatamente
anticristiano.
D. In economia sociale e nella vita quotidiana, essa
pare infeudata ai gruppi possidenti, ai potenti, ai padroni. R. Come
può essere ciò, se la Chiesa nacque povera, praticò ne' suoi fervidi
inizi il più stretto comunismo, onorò sempre i poveri per la loro «
eminente dignità » e considerò la ricchezza quasi come una sventura?
Fu detto del cristianesimo che era una religione di poveri, e fu detto
che sedeva a tavola nei castelli: le due cose sono vere, proprio come
per lo stesso Salvatore è vero che era l'amico dei poveri e presenziava
alle nozze di Cana. Ciò significa che la Chiesa è tutta a tutti, al
fine di salvare tutti.
D. I sistemi sociali che favoriscono i piccoli non le
sono sospetti?
R. I sistemi sociali sono giudicati tanto migliori
dalla
293
Chiesa quanto più sposano le sue preoccupazioni
universali. Ma coloro che più si danno pensiero dei piccoli, come il
socialismo, non mancherebbero del suo favore, se, rinunziando a
predicare una falsa dottrina, a incitare alla ribellione contro i
rapporti più naturali degli uomini, e ancor più ad erigersi contro
Dio, diventando così delle religioni a rovescio, consentissero a
rinchiudersi nel loro oggetto: il problema economico e sociale.
D. Il sacerdozio riservato esclusivamente ai maschi
segna un particolarismo dei sessi.' R. Non si tratta di
particolarismo, ma di divisione dei compiti e di utilizzazione di
ciascuno al compito per il quale è riconosciuto più atto. Fin dal
principio fu detto:
Non vi è più ne giudeo ne greco, ne schiavo ne libero,
ne donna ne uomo; perché voi siete una sola cosa in Gesù Cristo
(s. paolo). La testimonianza mistica di questo sentimento è la Vergine
madre. In quanto alle sue testimonianze storiche, sovrabbondano. Ognuno
sa che, se la donna ha nelle società moderne una situazione affatto
nuova, una personalità morale riconosciuta, punto di partenza della sua
emancipazione sociale, essa lo deve alla Chiesa e allo spirito nuovo
recato dal suo Vangelo.
D. Il Vangelo non è la Chiesa. R. Ho già detto
che questa distinzione è fittizia. Quello che il Vangelo ha fatto, è
la Chiesa che lo ha fatto. Quello che la Chiesa non avesse fatto sarebbe
stato nel Vangelo lettera morta; nulla di effettivo ne sarebbe uscito.
294
D. Che cosa intendevi dire, eliminando dalla Chiesa
« il particolarismo dell'io, scaturigine delle religioni
indi-vidualiste »?
R.
Pensavo al protestantesimo, e a ogni dottrina che pretende di partire
dall'io per stabilire un sistema religioso senza radici sociali.
D. La religione non si rivolge all'io'? R. Essa
non può partire dall'io, proprio perché si rivolge all'io.
Bisogna che essa prima esista, che sia una vita, alla quale
l'individualità sarà chiamata ad aggiungersi. La Chiesa deve precedere
l'individuo, e non l'individuo la Chiesa.
D. I protestanti non si trovano nella stessa vostra
condizione? non hanno Chiese in seno alle quali essi nascono
religiosamente, che li formano, e che, in seguito, la loro libera
volontà consacra?
R. È così, e non può essere altrimenti; ma ciò
contraddice la dottrina protestante, e per conseguenza la condanna. I
protestanti hanno delle Chiese; anzi ne hanno troppe; e tutte sono di
troppo, poiché non ne occorre che una sola; secondo la loro teologia,
queste Chiese si sono formate in secondo tempo, per una iniziativa
puramente umana, poiché all'origine è solo la religione individuale;
le varie Chiese hanno la loro origine in un istinto gregario, o in fatti
politici, senza alcun rapporto essenziale con l'atto di fede. Non è la
religione che secondo loro ha l'iniziativa della società: dal che si
deve concludere che questa religione non è una religione umana, essendo
l'uomo un essere essenzialmente sociale, e più che mai, come lo abbiamo
già riconosciuto, nel
295
campo religioso; ne, ancora, questa religione sarà
divina;
non potendo comporsi con l'Incarnazione; essa divide il
« Corpo di Cristo » in tante frazioni quanti sono gli uomini, o per
dir meglio non lo forma affatto, e quindi rigorosamente non è, e non
potrebbe dirsi cristiana.
D. Sei severo!
R. Espongo una dottrina, pur conservando il massimo
rispetto per le persone. Dottrinalmente, sono obbligato a dire con
Augusto Comte: « I protestanti non sanno che cosa sia una religione »;
essi non sono una religione, poiché ignorano la socialità
propriamente religiosa, non fondandosi-religiosamente su una base
sociale. Con ciò, ed è quello che volevo dire, essi presentano
l'estremo opposto della cattolicità, cioè un individualismo angusto,
antropologicamente falso, divinamente offensivo, poiché ignora il fiume
di vita che scaturisce dalla croce, la grazia sodale da cui ogni
vita religiosa individuale procede, e a cui si alimenta.
D. Non avrei mai pensato che foste così lontani gli
uni dagli altri.
R. Intendimi! Quelli che noi chiamiamo nostri
fratelli separati sono vicini a noi in molte cose; per la carità sono
vicinissimi al nostro cuore; ma è un fatto che il loro allontanamento
è al massimo in ciò che riguarda il concetto della Chiesa. Essi fanno
parte di ciò che Bossuet chiama la « moltitudine confusa », nella
quale ciascuno prende in sé solo il suo pensiero e la sua parola
d'ordine, invece della « moltitudine ordinata », che un pensiero e un
impulso venuti dall'alto unificano e adunano. Ciò del resto apparirà
meglio parlando della apostolicità.
296
e)
L'apostolicità della Chiesa
D. Che cosa è dunque questa apostolicità? R. È
un carattere che si attribuisce alla Chiesa per indicare che essa si
riallaccia a Cristo con un vincolo di continuità ininterrotto, un
vincolo visibile nello stesso tempo che spirituale, un vincolo sociale.
Da ciò si vede, chiaramente, quello che distingue il cattolico dal
protestante, che intende allacciarsi « a Cristo » direttamente, senza
società intermedia, senza continuità visibile, a guisa degli Apostoli
senza dubbio, ma non per mezzo di loro e dei loro successori.
D. Come si stabilisce per tè la continuità? R.
Il suo punto di partenza è nella scelta dei dodici Apostoli, nella loro
investitura come rappresentanti di Gesù, nella loro missione solenne e
nella stabilità regolare della loro successione in ciò che riguarda
l'autorità, nella loro tradizione in ciò che riguarda l'insieme del
gruppo. Al principio gli Apostoli sono la Chiesa; noi non possiamo
essere oggi la Chiesa, la Chiesa visibile e vera società, senza
allacciarci visibilmente e socialmente agli Apostoli. Sono i Dodici che
tra Cristo e noi stabiliscono il passaggio. Essi saldano la catena. Sono
il primo anello interamente umano. Se vi fosse una rottura, se tutta la
catena non dipendesse dal primo anello, non dipenderebbe dunque nemmeno
dall'anello principale divino e umano che è il Cristo; non dipenderebbe
dunque da Dio. Siccome essa pretende di dipenderne, non bisogna
meravigliarsi di veder chiamare, presso di noi, l'autorità centrale la Sede
apostolica, e tutta la Chiesa
297
rivendicare una nota di apostolicità senza la quale
essa non sarebbe, autenticamente, questa sintesi del divino e dell'umano
inaugurata in Cristo grazie a questa incarnazione permanente, sociale,
chiamata la Chiesa.
D. Vuoi, insomma, che tutta la tua Chiesa secolare
non costituisca che una sola vita? R. Il tuo pensiero, che è di
fatto il nostro, si trova mirabilmente espresso in questa celebre frase
di Pascal:
« L'umanità è come un uomo unico, che sussiste nel
tempo e continuamente si trasforma ». Un vivente è una continuità per
evoluzione; l'umanità è una continuità per eredità; la Chiesa è una
continuità per comunicazione e per tradizione. E nello stesso modo che
il vivente individuale non può essere una continuità senza
riallacciarsi vitalmente alla sua ambizione; nello stesso modo che il
genere umano non può essere una continuità senza dipendere
ereditariamente dai primi uomini: così la Chiesa non può essere una
vita, una unità del genere umano in Dio, per Cristo, se non a patto che
dipenda da Cristo e da Dio per il tramite dei primi cristiani, che sono
gli Apostoli.
D. Ma la Chiesa non è al di sopra del tempo? R.
Anche un uomo è al di sopra del tempo grazie all'anima sua; ma egli è
nel tempo, e l'anima sua con lui, per mezzo del suo corpo. Così la
Chiesa è al di sopra del tempo grazie al suo Dio; ma tocca il tempo per
mezzo di Cristo, e prolunga il contatto a mezzo degli Apostoli, poi a
mezzo della successione apostolica e della tradizione, con cui essa si
protende verso l'avvenire.
298
D. Allora I'apos felicità non è una unità nel
tempo? R. Hai detto molto bene, ed è per questo che noi abbiamo
incontrato questa nozione parlando dell'unità stessa.
D. Tuttavia i protestanti pretendono di esser loro
quelli che hanno la vera tradizione degli Apostoli.
R. Essi affermano ciò della dottrina, e già ho.
detto quanto vale questa pretesa. Ma supponendo che i protestanti, e non
noi, fossero in possesso della dottrina degli Apostoli, ciò proverebbe
senza dubbio che noi non siamo apostolici, ma non basterebbe per provare
che lo sono essi. È questa una condizione necessaria, ma non
sufficiente. Professare la dottrina di qualcuno, professarla per conto
proprio, sotto la propria responsabilità esclusiva, ciò non significa
essere in continuità sociale con lui. La vita sociale ha altre
esigenze; è una vita collettiva, una vita organizzata, che importa la
comunanza dei beni, sotto un'autorità che rappresenta la finalità
sociale e la serve. Ora, per il protestante, propriamente parlando, non
vi è vita sociale cristiana; non autorità centrale; non sacerdozio
propriamente detto; non atto religioso veramente collettivo; tutto
questo è minimizzato, se pure non è eliminato. Allora come parlare di
aposto-licità nel senso profondo e pieno che importa la teologia
cattolica?
D. Non basta forse a se stesso il cristiano che apre
l'anima sua al ciclo?
R. Il protestante che apre l'anima sua a Dio crede
di bastare a se stesso, almeno con la sua Bibbia, e almeno teoricamente;
perché di fatto, come abbiamo veduto,
299
egli si affida a un gruppo, e siccome questo gruppo è
privo di attacchi autentici con l'origine della vita che esso crede di
trasmettere, si affida al caso. Ma il cattolico, alla sua volta, non si
crede sotto il cielo e in relazione autentica col cielo se non a patto
di essere nel gruppo organizzato che Dio anima, che Dio ha stabilito
appunto per questo, e che è l'effetto della sua incarnazione temporale
e la prolunga attraverso alle età. È possibile, accidentalmente, che
uno si attacchi a Dio senza ricorrere alla Chiesa visibile, come diremo,
e già abbiamo insinuato più volte; ma non si tratta qui di casi
particolari; noi definiamo il piano, l'ordine normale delle cose, e io
constato che nel protestantesimo quest'ordine è distrutto.
D. Gli rimangono pure Dio e Cristo. R. Sì, ma
contraddetti in tutti i loro pensieri, in tutti i loro disegni. Il Dio
dei protestanti è individualista; il loro Cristo è un personaggio
lontano, al quale essi non sono legati se non per mezzo di un libro. E
in queste condizioni, gli apostoli per essi non sono altro che dei
protestanti prima del protestantesimo, degli isolati gli uni in rapporto
agli altri, degli isolati in rapporto a noi, che siamo altresì degli
isolati. Ciò, in luogo della grande effusione di vita, in luogo della
stretta comunanza che, nel concetto cattolico, avvolge i tempi e i
luoghi nel suo amplesso immenso.
D. « La persona eterna » di cui parla Pascal sembra
qualcosa di più grande.
R. Trasferita al soprannaturale, altro non è che la
Chiesa apostolica.
300
/) La Chiesa romana
D. Avevi promesso qualche schiarimento relativo alla
Chiesa romana.
R.
Lo
schiarimento essenziale consiste nel dire questo: Chiesa romana e
Chiesa apostolica sono tutt'uno.
D. Allora perché queste due parole? R..
L'espressione « Chiesa romana » vuole indicare che la Chiesa, che si
connette agli Apostoli il capo dei quali era Pietro, vescovo di Roma, ha
dunque per capo, nel corso delle età, il successore di Pietro, vescovo
di Roma.
D. È una sintesi dell'apostolici fa? R. Si
tratta di fatto di richiamare l'apostolicità al suo centro. Per
connettere la Chiesa attuale al gruppo primitivo che servì di embrione
alla Chiesa, non bisogna forse connetterlo al centro unitario di questo
gruppo rappresentato da Simon Pietro?
D. Simon Pietro non fu sempre .vescovo di Roma. R.
Egli fissò per sempre il centro spirituale del mondo appunto diventando
vescovo di Roma.
D. Il centro spirituale del mondo non è a
Gerusalemme, là dove fu piantata la croce? R. Gerusalemme, città
d'Oriente, città del passato religioso degli uomini, fu il punto di
partenza dell'iniziativa divina, ma non ne è il centro. All'oriente il
sole spunta; ma è a mezzodì che si afferma la pienezza del giorno, la
distribuzione regolare della luce e la sua potenza irradiante e la sua
azione sulla vita. Roma, è lo zenith del sole cristiano.
D. Perché Roma? R. Qui non possiamo far altro
che seguire la Provvi-
301
denza; le nostre ragioni non possono pretendere di
suffragarla. Ma si può osservare che Roma, quando nacque la Chiesa, era
per il mondo quello che Pietro era per la Chiesa; Roma era un centro di
vita; e come la Città per eccellenza, Urbs, irradiava da per
tutto e da Roma le direttive erano date Urbi et Orbi: così nello
spirituale, il capo della Chiesa. Questo era antecedentemente figurato
da quello e da quello doveva essere servito. La Chiesa, collocata nel
cuore del mondo dove essa nasceva, per esercitare subito il suo compito
universale, non avrebbe avuto altro da fare che seguire le pulsazioni di
questo cuore, lanciare come esso, per tutti i canali geografici e
amministrativi secolarmente preparati, il suo sangue e l'anima sua. È
quello che Bossuet descrive così magnificamente nel suo Discorso
sulla Storia universale.
D. Bisogna confessare che si tratta di una
convergenza meravigliosa; ma era necessaria? R. Non era necessaria;
il cattolicismo avrebbe potuto stabilirsi altrimenti e altrove. Ma Dio
si serve normalmente degli strumenti preparati dalla sua Provvidenza.
L'opera dell'incivilimento temporale e l'opera religiosa sono fatte per
unirsi: Dio aiuta l'una con l'altra.
D. Roma aiutò la Chiesa; ma che cosa ha fatto la
Chiesa per Roma?
R. Se Roma esercita ancora oggi quell'attrazione che
fa di essa non una città italiana, ma la città mondiale per
eccellenza, a chi lo deve? Le grandi vinte della storia: Menfi, Tebe,
Ninive, Babilonia, Atene stessa perirono o si atrofizzarono. In grazia
della Rocca evangelica, Roma si sollevò più in alto; salì al mondo
dello Spirito
302
e vi rimane. La croce le sarà più profittevole che le
aquile. Essa aveva conquistato con le armi le rive ammirabili e fertili,
ma ristrette, dopo tutto, del Mediterraneo: con lo Spirito essa
conquistò il mondo. E quello che essa aveva perduto nello scontro con i
popoli barbari, una volta trasferita nel soprannaturale da Cefa, le
viene acquistato per sempre.
D. All'inizio, era ben marcato il legame tra il
vescovo
di Roma e gli altri pastori di Chiese?
R. Era molto debole; la ragione generale è questa:
l'embrione non è l'uomo. Come ragione particolare, vi
è che il governo apostolico dava a ciascuno di quelli che avevano
goduto del contatto personale di Gesù, che avevano udito le sue parole,
una specie di compito universale analogo a quello di Gesù stesso. Una
Chiesa che aveva alla sua testa uno dei Dodici si sentiva al sicuro da
ogni deviazione. Ora questo governo durò qualche tempo ancora, nei
successori immediati che si avvantaggiarono ancora delle abitudini
acquisite. Il ricorso a Roma, difficile in quel tempo, non sembrava
indispensabile. Se ne trovano tuttavia numerose tracce; ma relativamente
deboli, e non bisogna attendersi altro.
D. Come avvenne la transizione? R. Il potere
degli altri vescovi diventa sempre 'più ristretto alle loro Chiese,
più locale; quello del vescovo di Roma si universalizza in proporzione,
con l'intento di soddisfare i bisogni nuovi di una crescente unità e di
una complicazione funzionale che richiede un accentramento più forte.
D. E quando si compì questo accentramento? R.
Nel Concilio Vaticano Primo, con la proclamazione
303
dell'infallibilità personale del Papa e della sua
indipendenza dai concili.
D. Non è questo un eccesso?
R. È l'accettazione letterale del testo già
citato: Tu
sei Pietro, e sopra questa pietra io edificherò la mia
Chiesa.
D. Ma il dare a Roma un tale primato non era un
italianizzare la Chiesa universale? R. Era un universalizzarla
maggiormente, ricondu-cendo all'oceano, dove la barca di Pietro si
avanza, i fiumi che si attardavano nelle pianure nazionali.
D. Dal che si dovrebbe dedurre che vi sono stati
degli
abusi.
R. Ve ne sono sempre; ma un'istituzione secolare non
si giudica secondo la misura di minuscoli incidenti.
D. E come interpreti gli accomodamenti tra la Roma
civile e la Roma apostolica, noti come la Conciliazione? R. Non vi
fu maggiore avvenimento dopo Pipino il Breve e dopo Costantino. Il
Cesare aveva dato alla Chiesa il suo statuto sociale. Il figlio di Carlo
Martello, facendo il Papa sovrano, garantiva l'indipendenza dello
spirituale in un mondo politico movimentato; ma, in cambio, aggravava il
potere religioso delle cure temporali che non sempre tornavano a suo
vantaggio. Per mezzo della Conciliazione, il grave peso è rigettato, e
rimane la garanzia spirituale, fondata oramai sull'accet-tazione
spirituale delle anime e dei popoli.
304
L'ORGANIZZAZIONE DELLA CHIESA
a) L'ordine divino della Chiesa
D. Nella tua Chiesa vi è una grande complessità di
funzioni: ciò non è forse contrario alla sua unità e alla semplicità
del suo oggetto religioso? R. L'oggetto religioso della Chiesa
abbraccia tutta la vita; la sua unità è una unità organica
rispondente alle funzioni della vita: la Chiesa dunque dev'essere a un
tempo e molteplice e una come questa vita che essa intende reggere; è
uno spiegamento che si concentra, un concentramento che si spiega.
D. Ha un modello di organizzazione? R. Sì, la
Trinità, in cui lo spiegamento e il concentramento, perfettamente
compensati, ottengono il loro massimo di ricchezza. Perciò S. Cipriano
chiama la Chiesa « un popolo adunato secondo l'unità del Padre, del
Figliuolo e dello Spirito », e più brevemente: l'unità di Dio.
D. Ciò supporrebbe un'organizzazione perfetta su
tutti i punti.
R. L'ordine della Chiesa è perfetto nel suo
principio
305
e imperfetto nelle sue manifestazioni, perché se il suo
principio è divino, la sua materia umana. Anche l'anima nostra
organizza il nostro corpo come può e non sottomette mai perfettamente i
suoi organi. Così lo Spirito di Dio nella Chiesa.
D. La Chiesa è una monarchici, una democrazìa, o ha
un governo suo proprio?
R. Il governo della Chiesa è necessariamente unico,
come unico è il suo caso; ma se si chiama democrazia un governo in cui
l'autorità sale e monarchia quello in cui essa discende, la Chiesa è
essenzialmente monarchica.
D. Perché ciò?
R. Perché la Chiesa è una società che include
Dio, e dovunque è Dio, Dio non può essere che primo. Un governo
democratico, in queste condizioni, sarebbe il governo di Dio mediante
l'uomo.
D. Ma Dio non governa la Chiesa personalmente? R.
Non la governa visibilmente, ma la governa; non la governa senza
intermediari, ma gl'intermediari non operano che nel suo nome, e perciò
questo non modifica affatto la forma del governo, che è sempre quello
di uno solo.
D. Quali sono qui gl'intermediari? R. Dio governa
per mezzo di Cristo, alle cui mani tutto è stato affidato, il
quale è capo della stirpe soprannaturale, e che, al di sotto di Dio, o
piuttosto congiuntamente con Dio — che gli è unito nell'unità della
persona — è il primo nella Chiesa. Donde la tesi classica fra i
teologi e proclamata da Pio XI, della regalità di
30()
Cristo; regalità spirituale, di cui la parola « Cristo
» non è che l'espressione, poiché Cristo significa « unto,
consacrato regalmente », per il governo delle anime.
D. Ciò forma appena un intermediario. R.
Ulteriormente, essendo Cristo sempre presente, ma rientrato
nell'invisibile, vi è di Cristo, nella Chiesa, una rappresentanza
visibile; infatti fu detto ai Dodici: Come mio Padre ha mandato me,
così io mandò voi. Andate e insegnate a tutte le navoni, e questo
è il potere che noi chiamiamo magistero; Battezzateli nel nome del
Padre, e del figliuolo e dello Spirito Santo, e Fate questo in
memoria di me, e questo è il potere sacramentale chiamato
ministero; Chi ascolta voi ascolta me e chi disprezza voi disprezza
me, Quello che voi legherete sopra la terra sarà legato in ciclo, e
quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto in ciclo, e
questo è il potere di governo (imperium), che comprende il legislativo,
il giudiziario e l'esecutivo, tutti e tré necessari per un vero
governo. Di modo che il collegio dei Dodici nella loro successione
autentica, sarà, nel nome di Cristo e di Dio, in unione con Cristo e
con Dio, l'autorità prima. Tutto il popolo cristiano dipenderà da loro
come il gregge da' suoi pastori, l'insieme del gregge dipendendo dal
loro insieme, e ciascun gregge particolare, richiesto dalle necessità
locali dipendendo da ognuno di loro, senza pregiudizio dell'unità che
avvolge tutti i gruppi. Finalmente i Dodici e i loro successori non sono
essi stessi un gregge amorfo; ma hanno un capo, in quanto Cristo volle
darsi una rappresentanza non solo collettiva, ma individuale, con una
sopravvivenza visibile, dicendo a uno dei Dodici: Pasci i miei
agnelli, cioè. i fe-
307
deli; Pasci le mie pecorelle, cioè i pastori, e
ancora: Io ti darò le chiavi del regno dei deli, come a un
maggiordomo, per il quale bisogna passare per andare dal Padrone. Così,
partito Cristo, Pietro è un Cristo per procura, per missione e per
assistenza, di modo che, nella Chiesa, lui è a capo, lui e i suoi
successori, coi quali gli altri vescovi mantengono lo stesso rapporto
che tutto il gruppo episcopale con Cristo e Cristo con Dio. Tal è
l'emanazione, la derivazione del sovrano potere nella Chiesa.
D. J protestanti non ammettono tutto questo. R.
Non lo potrebbero ammettere; il loro punto di partenza vi si oppone
totalmente; ma la colpa sta precisamente nel punto di partenza. Agli
occhi dei protestanti, Dio è bensì in relazione con noi per mezzo di
Cristo; ma Cristo non è in relazione con noi per mezzo della Chiesa; la
corrente di vita si arresta fin dalla sorgente; la socializzazione si
effettua non da se stessa, in virtù di una natura delle cose che Dio ha
fondata e alla quale egli si adatta, ma avviene dopo, arbitrariamente,
per iniziative individuali e specialmente politiche. Così non è più
Cristo che continua a venire a noi per le vie della vita; siamo noi che
risaliamo verso di lui e costituiamo, cammin facendo, degli organi
sociali di nostra creazione, organi che saranno, per conseguenza, quello
che noi li faremo, il cui governo si stabilirà come noi lo intenderemo,
sempre in dipendenza dalla nostra iniziativa e sempre suscettibile di
revisione.
D. No» e forse il popolo sovrano?
R. L'idea del popolo sovrano nel soprannaturale è
di
fatto evidente nel protestantesimo. È la società reli-
308
giosa nel suo insieme che tiene il potere e che lo
delega ai pastori. Salvo che non si lasci questa cura ai principi
temporali, proprio i più indicati per addossarsi dei pesi che incombono
ai loro popoli!
D. Si eviterebbero così i conflitti tra la Chiesa e
lo Stato.
R. Sì, dopo che la Chiesa sarà stata divorata
dallo Stato.
D. Quali conseguenze traggono i protestanti da questo
sistema?
R. Ne segue naturalmente un diritto di controllo, un
diritto di resistenza eventuale, un diritto di deposizione delle
autorità religiose da parte del popolo o de' suoi rappresentanti, e
molte altre cose ancora, secondo le diverse teorie; perché in ciò,
come in tutto, i protestanti hanno tante idee quante teste.
D. Dalla tua concezione ne deriva qualche
conseguenza. riguardante il governo degli Stati?
R. Bisogna concedere ai teorici della regalità che
la monarchia, in sé, idealmente, è il governo più perfetto, perché
l'unità più o meno ottenuta con la democrazia o con l'aristocrazia non
è che un genere di unità secondaria, che ha la sua ragione finale
nell'altra. Per questo il governo universale è monarchico, ed è il
governo divino. Resta a sapere se un governo ideale risponde a una
realtà che non è guari realtà, e se Dio, rappresentato dai capi di
Stato, ritrova passabilmente se stesso,
D. Si ritrova egli nella Chiesa? R. Vi si ritrova
sufficientemente, perché egli vi abita con il suo Spirito, il che non
è stato promesso alle società temporali. Donde segue che la monarchia
è nella
309
Chiesa di diritto, e, riguardo all'essenziale per lo
meno, non presenta alcun pericolo di oppressione, sia in ciò che
concerne le autorità secondarie, sia in ciò che tocca le libertà.
D. Ciò risponde bene all'idea di organizzazione,
che ti è familiare, e che importa, come sembra, un complesso
spontaneo di elementi?
R. Un'organizzazione, naturale o artificiale, è un
insieme procurato da' suoi elementi se si riferisce all'esecuzione del
piano organico; ma il piano stesso, la sua concezione e la legge della
sua evoluzione non sono forniti dagli elementi. Quello che è primo
nella stessa macchina è l'idea. Nel corpo vivente è l'anima. Nel corpo
Chiesa, quello che è primo è altresì l'anima sua, cioè lo Spirito
divino comunicato da Cristo Figliuolo di Dio e dal Padre che lo ha
mandato.
D. Qui non si fa parola ne di Papa ne di vescovi. R.
Aspetta. Nel corpo vivente, quello che è primo dopo l'anima è il
sistema nervoso centrale, non le cellule lontane. Nella Chiesa quello
che è primo, a titolo di elemento visibile, è il corpo episcopale
unito al Papa: vero centro cerebrale da cui sotto l'azione dello Spirito
Santo animatore, procedono e il pensiero, chiamato dogma, e la spinta e
il dinamismo, che sono il governo e tutta la vita venuta da
Cristo a beneficio delle anime, mediante l'effusione sacramentale.
D. Dunque, nella Chiesa, il semplice cristiano sarà
unicamente passivo?
R. Nessun elemento è passivo, in un organismo
animato. La religione che ci lega a Dio non vi ci assorbe.
310
Il governo religioso dev'essere un stimolatore di
energie, non un accaparratore o un estintore di energie. Io sono
venuto, disse Gesù, per portare il fuoco sulla terra, e che cosa
desidero se non che esso arda? (luc., XII, 49).
D. Che parte dunque attribuisci alle iniziative
spontanee dei singoli, gruppi o individui?
R. Il cristiano reagisce già all'autorità per il
solo fatto che è, e per il modo con cui si comporta sotto il regime
della legge. Quest'autorità, che qui è divina nella sua essenza, non
può evidentemente essere influenzata in se stessa; ma dipende ne' suoi
effetti dall'accettazione da parte della nostra libertà e dalla
collaborazione dei nostri sforzi. Non siamo dunque governati senza di
noi, neppure in questo caso. A più forte ragione non siamo governati
senza di noi dalle autorità umane che, in suo nome, ma con diverse
gradazioni di valore e di possibilità, ci reggono. In quest'ultimo caso
non solo partecipiamo agli effetti del governo, ma in un certo modo
anche al governo stesso.
D. Non è un ritorno alla democrazia? R. Niente
affatto. Il corpo vivente non è una democrazia, dicevamo; perché il
principio animatore ha per punto di applicazione immediata e principale
il cervello, il sistema nervoso centrale, donde partono le grandi
correnti che dirigono tutto il resto. Ma non si deve dire che l'anima
abiti esclusivamente nel cervello; l'anima è da per tutto e da per
tutto si rivela; in modo che la vita - comunicata al cervello a prò
delle membra non impedisce una comunicazione diretta alle stesse membra,
e il cervello stesso a sua volta ne approfitterà.
311
D. Ciò si applica a una società? R.
Perfettamente. Non vi è monarchia così assoluta che non subisca
influenze. Un governo saggio organizza le collaborazioni, non le
respinge; si circonda di consiglieri; si appoggia sull'opinione dei
migliori; valuta il suo popolo prima di proporgli delle leggi, perché
la legge è un dettato di ragione, e nessuna autorità può pretendere
d'incarnare in sé sola la ragione. Così l'autorità religiosa non ha
da sé sola il monopolio dello Spirito; essa lo esprime legittimamente,
e anche i suoi effetti saranno da essa controllati, sì che anche in
ciò noi saremo governati, non governanti; ma sapendo che il suo proprio
Spirito animatore è dovunque diffuso, animando anche i fedeli e
ispirando loro delle verità, provocando in essi degli impulsi,
producendo delle grazie, l'autorità religiosa ascolta, nello stesso
tempo che parla;
essa subisce, pure operando, e quindi il governo è in
ciò una vera collaborazione.
D. Democrazia, ancora una volta. R. Ancora una
volta, non si tratta affatto di democrazia; ma quello che non è
una democrazia può — ed è il caso di ogni saggio governo — partecipare
della democrazia, come anche dell'aristocrazia, nel senso che le
autorità secondarie ed anche i sudditi esercitano o influiscono
realmente sopra l'autorità senza condividerla. Se è vero, come afferma
S. Tommaso d'Aquino, che il migliore governo è quello che unisce la
partecipazione di tutti all'azione dei migliori, controllata e
centralizzata da uno solo, il governo della Chiesa si rivela così
perfetto quanto è possibile, e ciò torna a lode di Dio.
312
D. Pretendi così che la Chiesa sia la società più
perfetta che esista?
R. Essa offre di fatto quello che mai non apparve
più grande e più ammirabile come regime sociale. Raggiunge l'ideale
della concentrazione e della pieghevolezza, dell'autorità efficace e
della libera azione. Nulla si potrebbe concepire di più perfetto, e
nemmeno altra forma, per un governo che si deve estendere a tutto il
mondo.
V) II Papa
D. Qual è, esattamente, quel potere centrale che tu
attribuisci al Papa?
R. È un potere plenario, perché è quello stesso
di
Cristo.
D. Uno stesso potere plenario può appartenere così
a due persone?
R. È il caso di ogni potere esercitato da un
vicario. È proprio dell'essenza di un vicariato di non costituire alcun
grado gerarchico nuovo. Un ambasciatore, nei limiti de' suoi poteri, non
è un'autorità posta al di sotto del suo principe: egli esercita
l'autorità dello stesso principe. Così il Papa esercita nella Chiesa
l'autorità di Cristo; governa nel nome di Cristo, non formando con lui,
come vicario, se non un solo ed unico potere, e nello stesso ruolo di
fondamento, riguardo all'edificio spirituale, congiuntamente a Colui che
lo chiamò Pietra, o Roccia, e che ha detto se stesso pietra
angolare:
D. Che cosa importa questa autorità? R. Essa
comprende nella loro pienezza e centralizzandoli i tré poteri che ho
già menzionato attribuendoli a tutto il gruppo apostolico, cioè il
magistero dot-
313
trinale, il governo, e il ministero, o potere
sacramentale.
D. Riguardo ai Sacramenti, il Papa avrebbe un potere
speciale?
R. Relativamente all'azione sacramentale, no; quindi
egli non è che un sacerdote e un vescovo come gli
altri;
ma in quanto all'uso che se ne fa e in quanto ai riti
che lo accompagnano, egli è il primo così come in tutto il resto. È
il maestro della liturgia, dispone l'insieme e i particolari del culto
divino, al fine di dare alla misticità della Chiesa dei mezzi adeguati
ai tempi, ai luoghi e alle persone.
D. Che cosa intendi per il suo governo? R.
Egli ha un'autorità legislativa plenaria e immediata sopra la
Chiesa intera; nel suo dominio, che è quello del soprannaturale, può
dare ordini a ciascuno e a tutti, individui e gruppi, fedeli, pastori,
chiese particolari o Chiesa universale. Con ciò è giudice supremo, e
il suo giudizio è naturalmente inappellabile, salvochè, essendo egli
uscito dal suo ufficio, non meriti che si dica, come a torto fece Pascal
nel momento del suo giansenismo:
Ad tuum, Domine Jesu, tribunal appello. Finalmente
il potere legislativo e giudiziario del Sommo Pontefice suppone come
conseguenza il potere di applicare delle sanzioni; ben inteso, conforme
alla natura della sua giurisdizione: di qui le pene canoniche, delle
quali egli è il supremo dispensatore.
D. Ma in che consiste, questo potere dottrinale,
questo « magistero » che attribuisci al Pontefice? Cristo non ha forse
detto parlando di se stesso: Voi non avete che un solo Maestro? R.
Ho spiegato or ora che il magistero del Papa è
314
quello stesso di Cristo. Il Papa non pretende
d'insegnare qualsiasi cosa dopo Cristo; ma egli è il capo tra quelli a
cui fu detto: Andate e ammaestrate tutte le genti, insegnando loro
quello che vi ho detto.
D. Il Papa non è dunque altro che un ripetitore? R.
Se così ti piace. Egli è il ripetitore per eccellenza della divina
lezione data agli uomini. Egli conferma i suoi fratelli nella
fede; organizza il simbolo, lo interpreta, lo difende, dirime da sovrano
le questioni che esso suscita, serve da ultimo ricorso nelle dispute che
tali questioni non possono mancar di far nascere tra gli uomini.
D. Pretendi che, in tutto questo, il Papa è
infallibile? R. È infallibile in condizioni ben definite, cioè
quando parla appunto come giudice della dottrina, nei limiti
dell'oggetto assegnato a questa dottrina, e quando, rivolgendosi alla
Chiesa universale, intende obbligarla tutta.
D. Ma perché l'infallibilità?
R. Un illustre protestante (Augusto Sabatier) ha
stabilito questa proposizione: « Un dogma indiscutibile suppone una
Chiesa infallibile ». E conclude, da parte sua, col respingere ogni
dogma fisso: ma la sua dimostrazione resta.
D. In che consiste?
R. Nel far vedere psicologicamente, socialmente, e
nel fatto, quello che diventa un insegnamento, fuori della salvaguardia
di un'autorità vivente e indiscutibile. Quest'insegnamento sfocia,
salvo incoerenze fortunatamente frequenti, a ciò che Andrea Gide chiama
« la più grande liberazione », cioè il nulla dottrinale e
l'immoralismo.
315
D. Questo, dici, si vede nel fatto? R. Le sètte
che negarono questa infallibilità finirono per frantumarsi e
polverizzarsi; il ristagno di alcune, prova semplicemente la loro morte.
È logico allora che, tra i dissidenti, si scrivano libri sopra libri,
per dilucidare questo problema fondamentale: qual è l'essenza del
cristianesimo? Durante questo tempo, la Chiesa vive e fa vivere.
D. Anche gli altri vivono.
R. È forse un vivere il dissociarsi? Ogni
dissociazione è una cadaverizzazione. La Chiesa vive per la sua unità,
e vive potentemente per la sua certezza. L'infallibilità è la forza
della Chiesa, perché le da la piena sicurezza di se stessa di fronte al
divino.
D. Si permetterebbe forse alla Chiesa di affermare se
stessa, se non fosse così pronta a condannare tutto. R. « Una
delle condizioni essenziali dell'affermazione è la negazione e la
distruzione » (nietzsche).
D. Una tale correlazione ha i suoi limiti. Se la
Chiesa facesse delle concessioni, ci si potrebbe intendere con essa; ma
si resta offesi della sua intransigenza. R. L'intransigenza della
Chiesa è una conseguenza della sua certezza e dell'ineluttabilità del
suo insegnamento. Fare delle concessioni sarebbe per lei un abbandonare
ciò che non le appartiene, abbandonare il bene divino, abbandonare
l'unico mezzo di salvezza per gli uomini; sarebbe dunque tradire.
D. Per mantenere una verità, la Chiesa ne può
distruggere altre.
R. Considera quello che la Chiesa distrugge. Che
cosa colpiscono i suoi anatemi? Forse idee positive, forse
316
affermazioni che si possono dire feconde? No; ma sempre
negazioni, esclusioni, punti di vista parziali che, per la loro
parzialità, squilibrano il vero e l'annullano. Nel modernismo, per
esempio, ultima delle sue grandi vittime, quello che la Chiesa ha
condannato, non è l'immanentismo in ciò che essa ha di positivo, ma un
immanentismo opposto alla trascendenza del soprannaturale e a una
rivelazione esteriore; non è neppure l'asserzione che la religione
fosse un sentimento, ma che essa non fosse che un sentimento, negandola
come una dottrina precisa e immutabile. E così via. Ho già detto che
il cattolicesimo abbraccia tutto ciò che vi è di positivo e di sano
nelle religioni e nelle filosofie che si dividono il mondo. I suoi
anatemi sono degli allargamenti, non degli impedimenti; sono degli
inviti a conservare la grande via e ad evitare sentieri pantanosi.
D. Perché questa brutta parola: anatema? R.
Anatèma significa essere collocato fuori. Quando fulmina l'anatèma, la
Chiesa dichiara che questi o quelli altri non sono più suoi, e, ripeto,
che non è affatto perché essi affermino qualche cosa, ma perché
negano o mortificano qualche verità.
D. Vi è però la condanna di Galileo che
affermava la rotazione della Terra.
R. Di grazia! questo caso è già smontato da gran
tempo. Vi fu errore e abusò di potere, non vi è difficoltà ad
ammetterlo, e nessuno pretende che il funzionamento umano della Chiesa
sfugga a tali colpe. Ciò che si assicura è che l'errore non cade mai
sull'oggetto proprio della Chiesa, e non tocca la Chiesa che pronunzia
la sua propria legge, in condizioni che impegnano la sua divina
317
autorità, condizioni che essa stessa-definisce nel modo
più preciso. Su questo punto si dovrebbe portare la contesa; ma non
avrebbe senso.
D. Quello che urta ancora è quell'immutabilità,
quella rigida fissità, in un mondo dove tutto cambia, e dove tutto
necessariamente cambia.
R. Su questo ci siamo spiegati. La Chiesa cambia,
poiché glielo rimproverano dicendo che ella non fu fedele alle sue
origini. Le rimproverano tanto i suoi cambiamenti quanto la sua
immutabilità. Bisognerebbe tuttavia scegliere, o piuttosto comprendere.
I cambiamenti della Chiesa sono le evoluzioni e gli adattamenti della
vita; l'immutabilità della Chiesa è la fissità del tipo e dei
caratteri generali della vita. Dato quello che è la Chiesa,
organizzazione del soprannaturale, l'immutabilità è in lei di prima
necessità; è « la fissità dell'istante in cui l'eterno è entrato
nel tempo » (erik peterson).
D. Lasciamo la Chiesa: si trattava del Papa;
assicurare che è infallibile, non è forse fare di un uomo un Dio? R.
No; come di un flauto, anche se suonato benissimo, non si fa un musico.
D. Il flauto non ha pensiero musicale; il Papa ha un
pensiero dogmatico.
R. Il pensiero dogmatico del Papa, secondo che è a
lui proprio, non c'impegna in nessun modo; anche certo, esso non è alla
base della nostra fede. Certi Papi hanno scritto dei volumi di teologia
che si discutono come gli altri, e che hanno molto minore autorità
nella Chiesa di quelli di un semplice monaco quale Tom-maso d'Aquino.
31S
D. Su che cosa dunque ti appoggi in questo caso? R.
Sull'esercizio di un ufficio garantito da Cristo, che dice: Pietro,
io ho pregato per tè, affinchè la tua fede non venga meno, e tu
conferma i tuoi fratelli.
D. Non vedi dunque nel Papa un uomo miracoloso? R.
È un uomo come gli altri; ma il suo compito non è come gli altri.
D. Ad ogni modo tu fai di questo compito qualcosa
fuori dell'umanità.
R. Se esso fosse dell'umanità e non la
oltrepassasse in qualche modo, come aiuterebbe secolarmente l'umanità
stessa a oltrepassarsi? Si tratta del soprannaturale, in cui l'uomo non
ha di per se stesso alcuna competenza. Cristo ci ha dato il
soprannaturale; ma non è forse noto che una cosa non si conserva se non
cogli stessi mezzi che servirono ad acquistarla?
D. Insamma, il Papa fa la parte di un superuomo,
dunque è un superuomo.
R. Bisogna lasciare questa interpretazione
all'ignoranza, alla mala fede o all'imperdonabile leggerezza di alcuni
dissidenti. Il Papa non è un superuomo, ma un debole mortale che Dio
assiste. Egli non trae beneficio da nessun miracolo psicologico. Prima
delle sue definizioni, egli non ne è più sicuro di noi; dopo, è
tenuto come noi ad aderirvi, come a una cosa che lo supera e di cui non
è stato che l'organo. Cristo ha pregato per lui, e ciò basta. Colui
che il Padre esaudisce sempre ha inteso, con questo mezzo, di
mantenere nella sua umanità religiosa il minimo di verità
indispensabile e quanto vi è di essenziale nelle sue leggi. Noi
crediamo quello
319
che egli disse; noi, abbiamo fede nella onnipotente
salvaguardia.
D. Come si può esercitare questa salvaguardia? R.
La Provvidenza ha mezzi senza numero; questi mezzi si precisano in
ciascun caso secondo le circostanze e secondo le esigenze del caso.
Quello che bisogna ritenere è che egli non agisce con un miracolo; noi
non attribuiamo al Papa nessuna rivelazione particolare; egli s'informa
come noi; prende le sue decisioni come facciamo noi; il suo verdetto
soltanto è l'oggetto d'una speciale provvidenza, che rassicura la
nostra fede.
D. Il privilegio dell'infallibilità appartiene al
Papa
esclusivamente?
R. Esso appartiene alla Chiesa; appartiene, in vista
della Chiesa, al gruppo apostolico anzitutto, e solo
come
capo del gruppo apostolico se ne trova investito il Papa
personalmente.
D. Dunque i concili godono dell'infallibilità. R.
Sì, ma nella loro unità, che non è loro procurata se non dal capo,
sotto la dipendenza del capo. Di modo che un concilio non presieduto o
non confermato dal Papa è senza autorità dottrinale.
D. Qual è il rapporto preciso di queste due
infallibilità?
R. L'infallibilità del gruppo apostolico e del
corpo episcopale suo successore è un'infallibilità confermata;
quella di Pietro e del Papa suo successore è
un'infallibilità che conferma. Quello che dice il concilio senza il
Papa, o più ancora contro il Papa, è nullo; quello che dice il Papa
senza il concilio è sufficiente da solo.
320
D. Da che dipende quest'ultima prerogativa? R. È
una questione di costituzione. Si tratta di sapere se il Papa, da sé
solo, rappresenti sufficientemente la Chiesa, rappresenti
sufficientemente il gruppo apostolico organo della Chiesa; ora,
appoggiati sulle parole di Cristo e sulla tradizione secolare,
confermate tutt'e due e proclamate nel Concilio Vaticano Primo, noi
diciamo di sì. Ne questa è un'esaltazione del Papa come persona:
« Considerando la Chiesa come unità, il Papa che ne è
il capo, è come tutto. Considerandola come moltitudine, il Papa
non ne è che una parte » (pascal).
D. Se l'infallibilità è essenziale alla Chiesa,
perché è stata definita così tardi?
R. Essa esisteva e si esercitava prima di essere
definita, e ciò che era essenziale alla Chiesa era la sua esistenza,
era il suo esercizio e non la sua definizione.
D. Ma si esercitava veramente nella sua pienezza? R.
Niente si esercita subito nella sua pienezza, in seno a un organismo
vivente. La Chiesa è un vivente;
da principio, tutto si trova in stato embrionale, poi
nello stato progressivo, finalmente nello stato compiuto, e il
sentimento che se ne ha segue le stesse tappe, perché la vita riconosce
se stessa vivendo.
D. Prima del Concilio Vaticano Primo, il Papa non
sapeva dunque di essere infallibile? R. Non lo sapeva con la stessa
certezza, con una piena certezza di fede.
D. È strano.
R. È invece del tutto naturale, se tu ti riferisci
alle leggi
della vita, aggiungendo che qui si tratta di una vita
so-
321
prannaturale. L'infallibilità della Chiesa non è altro
che la sua vitalità dottrinale conservata e manifestata alla sua ora
dallo Spirito che risiede in lei, come il vigore del germe è conservato
e manifestato dal « genio della specie » in una discendenza vivente.
D. E che cos'è che decise della definizione? R.
Sembrò venuto il momento, per la Chiesa, di prendere pieno possesso di
sé; di darsi quella forza di esistere e di operare col suo organismo al
completo, in piena luce; di allontanare le contraddizioni, di fissare le
esitazioni, che indefinitamente sarebbero possibili, anche nei più
fedeli, finché la questione di fiducia, se si può parlare così
— qui di fiducia divina — non fosse stata posta risolutamente; di
vincere anche delle illusioni che, sotto pretesto di « comporsi con la
civiltà moderna », tendevano ad assimilare il governo divino della
Chiesa alle costituzioni democratiche sorte un po' dovunque, ecc...: ne
io pretendo in alcun modo di conoscere tutte le intenzioni della Chiesa.
D. Come mai questa opportunità non sì produsse se
non dopo duemila anni?
R. Perché un uomo non ha la sua piena costituzione
se non in un'età avanzata, relativamente al tempo che egli deve passare
sopra la terra? I destini della Chiesa coincidono con quelli della
nostra stirpe; pensando a una tale vita, universale e onnitemporale, si
ha ben il diritto di dire con S. Pietro: Mille anni sono come un
giorno, e un giorno come mille anni.
L'assestamento definitivo del Papato nel suo compito
storico è un fatto parallelo all'assestamento della vera religione
sopra la terra. In entrambi i casi, ci fu un ri-
S22
tardo considerevole, diversamente motivato, ma normale
relativamente a tutto il corso della storia.
D. Questo fatto nuovo costituisce dunque per tè un
vero punto di partenza?
R. È un punto di partenza, perché è il Cristo
pienamente manifestato e riconosciuto nella sua rappresentanza
temporale. Perciò a quei che affermano che la Chiesa muore, io
risponderò: la Chiesa incomincia. La coesione inferiore e lo splendore
delle funzioni centrali è un segno di vita quale non fu mai, perché è
il contrario della cadaverizzazione anarchica. Ogni popolo in procinto
di perire lacera se stesso in convulsioni: è la legge universale. Ogni
popolo uno, in un ambiente in cui la sua esistenza conserva una ragione
di essere, è sicuro dell'avvenire.
D. Vi sarà dunque sempre una Chiesa, e alla sua
testa vi sarà sempre un Papa?
R. Vi sarà sempre una Chiesa, perché Cristo ha
chiuso per lei le porte della morte. Vi sarà sempre un Papa, se
pure si può dire sempre parlando della durata d'un piccolo
pianeta e della vita dell'umanità. Nella sua apoteosi ultima, che
consisterà nel raggiungere il Cristo che viene « sopra le nubi del
cielo », il Papato morirà finalmente, ma come muoiono, nel crepuscolo
mattutino, nell'oceano di luce che incomincia, le ultime stelle.
/c)j'Le
tré Chiese e la comunione dei santi
D. Hai chiamato la tua Chiesa « l'organizzazione
dell'infinito » : essa dunque non è tutta nel visibile; dunque
non è tutta nel tempo. R. La nostra Chiesa oltrepassa il tempo e il
suo ab-
323
braccio si protende attraverso gli spazi. Essa crede
alla continuità della vita in tutti i sensi, sia pure nel mistero
nell'ignoranza, sia pure 'al di là delle barriere della morte, e ciò
che essa crede, la sua propria costituzione consacra. O si canti questa
unità nella Messa, o la si esprima solamente, tu dovrai confessare che
la si proclama a buon diritto.
•—) D. Come la intendi tu?
R. Anzitutto in questo mondo stesso, il regime
sociale della grazia non è interamente espresso dalla Chiesa visibile.
Come ora vedremo, vi è una Chiesa delle anime, più vasta,
incomparabilmente, che il gregge arruolato, — almeno così si spera
— una Chiesa delle buone volontà raggiunte da Cristo, coperte de'
suoi meriti, animate dalla sua intima azione, e in unione implicita,
fosse pure nell'ignoranza e nella negazione, con l'opera sua sopra la
terra. Non è possibile che tra queste due Chiese, o piuttosto in grembo
a questa Chiesa unica, la cui anima trascende il corpo, non vi siano
degli scambi vitali, una comunicazione spirituale, una comunione,
come si dice nel linguaggio mistico. Inoltre quando ci si unisce a
Cristo e al suo Spirito, non è solo per il tempo, non è solo per il
mondo, ma per sempre e dovunque si estenda la nostra vita. Quelli che
sono morti nel Signore non hanno abbandonato il Signore, dunque
non hanno abbandonato, spiritualmente, quelli che essi lasciano
nell'esercito visibile. Il Signore e lo Spirito formano il vincolo; la
fraternità ha il dovere di esser sempre attiva. Sia che essi godano
attualmente la felicità dei santi;
sia che si trovino trattenuti nel luogo del dolore
purificatore, essi sono i fratelli dei viatori, dei militanti di
324
quaggiù. Ecco quello che si vuole esprimere con questa
distinzione di tré Chiese: l'una militante, quella della terra;
un'altra paziente, quella del purgatorio; una terza trionfante,
quella del cielo. Non è che una sola famiglia con tré nomi.
D. Come si debbono concepire i rapporti fra questi
tré diversi gruppi?
R. Siccome vi si adora lo stesso Dio, si partecipa
allo stesso Spirito, si fa corpo in Colui del quale tutte le
anime di buona volontà sono i mèmbri, così per il fatto stesso
ci si trova impegnati in un mutuo scambio di servizi; per giunta vi si
è invitati. Preghiere scambievoli, riversibilità dei meriti sotto il
controllo della Provvidenza, diffusione del bene nel campo delle anime,
carità con tutti i suoi effetti: tal sarà il regime che si chiama comunione
dei santi, prendendo la parola santo nel senso antico, per
indicare ogni essere rigenerato e santificato da Cristo.
D. Tu dici che questa comunione si effettua ipso
facto? R. È inevitabile. Non è forse di regola che in un
ambiente organizzato il bene di un elemento giovi a tutti e il bene di
tutti a ciascuno? « Tutti per ciascuno, ciascuno per tutti », questa
bella regola positiva è indubbiamente un invito, ma è anche una legge
di fatto, dal momento che vi è realmente vita comune. Quest'ultima
condizione è indispensabile; perché, come osserva Pascal, non si
diventa ricchi perché si vede un estraneo che è ricco; ma bensì
perché si vede il proprio padre o il proprio marito che è ricco. Ma
poiché tale è il fatto, in grazia della nostra anima comune che è lo
Spirito di Cristo, in grazia dei « legami e delle giunture » che
325
connettono il corpo di Cristo, ne segue l'effetto, anche
se nessuno vi pensa.
D. È una strana solidarietà.
R. Di' piuttosto « sublime ». La solidarietà, di
cui si parla tanto, non potrebbe trovare espressione più completa. La
comunione dei santi abolisce i limiti dell'essere per rilegarlo
all'universale. Ciascuno, per essa, è forte della forza di tutti;
ciascuno è compatito dalla pietà di tutti; ciascuno è amato
dall'amore di tutti; ciascuno è salvato, per poco che lo voglia, dalla
barca di tutti, la barca di Cristo, in seno al gran naufragio della
vita.
D. Ma vi è anche una forma deliberata e volontaria
di questa comunione?
R. Essa si rivela mediante le preghiere dei vivi per
i vivi e per i morti, degli eletti per i viatori e dei pazienti per i
combattenti della terra, mediante retrocessioni di meriti che Dio
incoraggia e misura, mediante sforzi e sacrifici consentiti e, in ciò
che riguarda specialmente questo mondo, mediante gl'insegnamenti, le
esortazioni, i consigli, gli esempi. In mezzo alle anime che
dimenticano, ve ne sono che si ricordano per loro; in mezzo ad anime che
annegano, ve ne sono che si gettano a nuoto e, con loro rischio,
riconducono a riva i naufraghi. Si stabilisce così un immenso sistema
di soccorso, d'irradiamento spirituale, di santificazione, di felicità.
È una espansione di vita divina regolata secondo le più alte leggi
psicologiche e sanzionata dai misericordiosi voleri del nostro Dio. È
una gravitazione universale delle anime.
D. Nella comunione generale dei santi, vi
sono comunioni più speciali? R. Certamente. Le anime formano delle
costellazioni,
326
come gli astri. Noi non siamo una polvere di esseri,
tutti i nostri legami naturali hanno il loro equivalente soprannaturale
e ritrovano i loro efletti.
D. I due ordini, a questo riguardo, vanno di pari
passo?
R. No; due fratelli secondo la natura possono essere
soprannaturalmente assai distanti; ma non possono essere degli estranei,
perché anche la famiglia è in Cristo. In quanto agli estranei secondo
la natura che sono soprannaturalmente fratelli, essi dilatano l'idea di
famiglia e presentano un altro aspetto dei nostri legami.
D. La comunione dei santi è secondo tè un dogma
propriamente detto?
R. Lo trovi nel Credo: Io credo... nella
comunione dei santi. E questo dogma particolare, come quello della
Chiesa nel suo contenuto molteplice, ripeto, da la più ampia e più
magnifica soddisfazione al nostro senso sociale, a quel desiderio
naturale che abbiamo di lavorare a qualche cosa d'immortale, al nostro
bisogno di solidarietà, di dedizione scambievole, di comunicazione, di
sacrificio.
D. Siamo sociali fino a tal punto?
R. Tali siamo per natura, e ancor più per sopranna-
tura; non cessiamo di essere tali se non per il peccato.
D. Questa solidarietà è dunque insieme interna ed
esterna, apparente e nascosta?
R. Essa è resa apparente nella Chiesa visibile, e
dalla Chiesa visibile si estende sino ai confini dell'invisibile.
D. Gli spiriti puri che tu chiami angeli ne fanno
parte? R. Vi sono associati di diritto, come pure gli abitanti dei
mondi sconosciuti, se esistono. Infatti « è una regola
327
immutabile — dice Bossuet — che gli spiriti che si
uniscono a Dio si trovino nello stesso tempo uniti tutti insieme » e
formino una sola « città di Dio », avente il medesimo capo che è
Dio, la medesima legge che è la carità.
D. Tu mescoli così tutti i deli e tutte le terre. R.,
Non mescoliamo niente; distinguiamo tutto; ma sotto un solo governo, non
vi è che un solo dominio. I tempi e gli spazi qui non contano niente.
Bisogna che vi sia una religione attraverso ogni durata, attraverso ogni
specie di creature ragionevoli, attraverso ogni luogo abitato e
attraverso ogni situazione. Dio è necessariamente tutto in tutti.
/^"
^""^<S6*'"'
d)
La
necessità della Chiesa. C "•L L--\•-
^ I 4^ « Fuori della Chiesa, nessuna salvezza »
D. Dopo tutti questi allargamenti, quasi non si
comprende -più quello che voi volete con questa formula rìgida e
tagliente come una lama: « Fuori della Chiesa, nessuna salvezza ».
R. Di fatto è necessario spiegarci, e si può anche
concedere che tale formula non è felice, perché si presta
terribilmente ad equivoco. Tuttavia, sopra il terreno dov'è collocata,
ha la sua piena e intera giustificazione.
D. Qual terreno?
R. Quello del diritto, quello del piano divino per
la salvezza degli uomini. Vi è Dio; vi è l'Incarnazione; vi è la vita
e la morte redentrice; vi è la successione autentica di Gesù per mezzo
del gruppo apostolico con Pietro alla sua testa, per mezzo della Chiesa
col Papa alla sua testa: questa è l'organizzazione autentica della
salvezza, corrispondente a quello che è la natura umana, a un
328
tempo corpo ed anima, individuale e sociale. Nessuno se
ne deve allontanare. Colui che conosce questa organizzazione o che ha il
mezzo di conoscerla è giudicato da essa; allontanandosene si perde;
abbandona la via, la verità e la vita; esce
dall'edificio non manufatto in cui si trova la porta delle
pecorelle, quella per cui devono passare, per andare ai pascoli
divini, tutte le pecorelle umane. « Fuori della Chiesa, nessuna
salvezza », in questo senso, significa: fuori di Cristo e dei mezzi di
Cristo, non vi è nessuna salvezza; fuori di Dio, non vi è nessuna
salvezza, ed è una evidenza.
D. Il diritto non è il fatto.
R. Ci siamo. Il diritto, in ogni materia morale, non
esprime che una verità parziale. È necessario entrare nelle coscienze
e conoscere quali sono le loro disposizioni riguardo a Dio, la loro
sottomissione ai mezzi di Dio, sia che li conoscano o li ignorino.
D. È possibile essere sottomessi a db che non si
conosce?
R. Vi si può essere sottomessi come disponibilità,
e
un'autorità benevola accoglie questa sottomissione.
D. Così sarà uno salvo senza la grazia? R.
Nessuno può essere salvo senza la grazia, poiché essere salvo è
entrare nell'ordine soprannaturale ed è la grazia che vi ci introduce.
Ma la grazia non è invariabilmente legata a un mezzo esterno, benché
essa abbia la sua strada ufficiale ed ordinaria nei sacramenti della
Chiesa. « La grazia di Dio non è incatenata ai sacramenti », dicono i
teologi.
D. Ne alla Chiesa stessa? R. Ne alla Chiesa
stessa, in ciò che ha di esterno.
329
Alessandro Vili condannò Arnauid perché negava che vi
fosse grazia fuori della Chiesa.
D. Può un incredulo avere la grazia? R. Possono
avere la grazia non solo degli increduli, ma anche degli atei, e perfino
dei persecutori apparenti, che in realtà non sono che degli smarriti.
D. Che cosa ci vuole perché l'abbiano? R. Che
siano nella disposizione di ubbidire alla verità che essi ignorano o
combattono; che, per trovarla, appena sono nel dubbio, facciamo sforzi
seri, e intanto pratichino i doveri importanti che sono loro noti. D. Ma
questo non è la fede, e tu dici che la grazia, quando occupa il fondo
dell'anima, produce nell'intelletto la fede.
R. Gl'increduli di cui parlo hanno la fede;
aderiscono di cuore, e perfino il loro intelletto aderisce
implicitamente, per tendenza, « in intenzione » (p. gardeil), a quanto
ignorano. I bambini battezzati hanno veramente la fede, benché essi non
sappiano niente: il povero incredulo crede di sapere altro; crede di
negare; ma attraverso alle negazioni della mente, Dio vede il cuore
fedele;
anche nella mente, egli vede l'orientamento, in mancanza
dell'oggetto riconosciuto, ed è presente a quel cuore con la sua
grazia, artefice di carità soprannaturale, a quella mente per la virtù
soprannaturale e segreta della fede.
D. E tu dici che questi individui appartengono alla
Chiesa?
R. Sì, in quanto a ciò che fa della Chiesa una
società
propriamente spirituale, cioè l'unione intima con
Cristo
e con lo Spirito di Cristo, sia pure nell'incoscienza e
nel segreto.
330
D. È quello che tu chiami l'anima della Chiesa?
R. S. Tommaso lo chiama anche corpo mistico
della
Chiesa, il suo corpo nascosto, ed è la stessa cosa.
D. La tua Chiesa è un vivente strano! R. È un
vivente spirituale, un vivente immortale:
perciò essa non ha di visibile che una parte di se
stessa, e ne ha due invisibili, una nel mondo sopraterreno, l'altra nei
cuori.
D. Ce n'è ancora un'altra, secondo quello che
dicevi:
quella che precedette la sua nascita storica, formata
dei giusti di altri tempi pagani, o giudei. R. Sì, poiché Cristo
precedette se stesso per l'efficacia anticipata della sua azione;
poiché nel pensiero di Dio, « l'Agnello di Dio è stato immolato
dall'origine del mondo » (s. giovanni).
D. Si possono chiamare cristiani gli pseudo-increduli
che ora hai descritto?
R. Evidentemente, poiché vivono nell'unione di
Cristo. « Vi sono più cristiani che non si pensi », diceva S.
Giustino. Per lui Socrate era un cristiano; parimenti Seneca per S.
Agostino; altrettanto, per S. Tommaso, il centurione Cornelio, in grazia
di una « fede implicita ».
D. E gli eretici, gli scismatici? R. Dal punto di
vista in cui siamo, non vi sono eretici e scismatici se non quelli che
dal P. Gratry sono chiamati « gli eretici del genere umano », cioè i
cattivi.
D. Tu non escludi dalla Chiesa e dalla salvezza della
Chiesa se non i cattivi?
R. Sì, chiamando cattivi coloro che, per malizia o
per
331
grave negligenza, si rifiutano ostinatamente alla
verità di Dio e alle leggi di Dio.
D. La salvezza è dunque accessibile a tutti?
R. Dio ci ama a tal segno, che una sola cosa ci può
strappare al suo amore: la nostra cattiva volontà.
D. Mi viene un dubbio circa l'autenticità di questa
dottrina, così larga e così contraria a quello che generalmente si
sente.
R. Mi rallegro con tè. Ma ti citerò un'autorità
che ti può tranquillare pienamente, poiché si tratta di un Papa
vituperato presso gl'increduli per la sua « intransigenza », il Papa
stesso del Sillabo, Pio IX, nella sua celebre allocuzione del 9
dicembre 1854. « La fede — dice — obbliga a credere che nessuno
può essere salvo fuori della Chiesa cattolica e romana, che è l'unica
arca di salvezza, e chi non vi entra totalmente perirà ».
D. Ma ciò è spaventoso! e tu appoggi lì sopra la
tua 'opinione così larga?
R. Aspetta! Lì sta quello che ho chiamato il
diritto, o se si vuole la verità ufficiale, il piano autentico. Ecco
ora il fatto: « Tuttavia bisogna ugualmente tenere per certo che quelli
che ignorano la vera religione senza loro colpa, non possono portare
agli occhi del Signore la responsabilità di questa condizione ».
D. Ma forse la colpa qui è giudicata per
presunzione;
o forse ancora si rimanda a una responsabilità
collettiva, come per la « colpa » originale. R. Ascolta quanto
segue: « Ora chi avrà la presunzione di fissare i limiti di questa
ignoranza secondo la natura e la varietà dei popoli, dei paesi, degli
spiriti e
332
di tante altre circostanze così numerose? Quando
sciolti dai vincoli di questo corpo, vedremo Dio così com'è, noi
comprenderemo per quale stretta e magnifica unione sono legate la
misericordia e la giustizia divina... Ma i doni della grazia celeste non
faranno mai difetto a quelli che, con un cuor sincero, vogliono esser
rigenerati da questa luce e la domandano ».
-—> ( D. È davvero confortante; ma allora a che
servono le opere di apostolato? Se la salvezza è dovunque, è inutile
attirare la gente nella Chiesa visibile.
R. È un grande errore. La salvezza è possibile
dovunque; ma non è dovunque ugualmente probabile, e soprattutto non è
ugualmente facile, ne ugualmente glorioso per Cristo. A parità di buon
volere, non è identica la situazione di chi è nella Chiesa e di chi ne
è fuori. È forse la medesima cosa abitare in una fredda catapecchia o
in una casa ben riscaldata? È forse la medesima cosa ricevere
attraverso a fitti strati di nubi un luce diffusa o trovarsi in pieno
sole? I mezzi che la Chiesa offre per l'uso del buon volere sono
immensi; essi permettono uh progresso molto maggiore e più rapido della
vita divina in un'anima; garantiscono quest'anima contro i pericoli
formidabili ai quali l'altra resta esposta. Del resto tu dimentichi i
bambini non battezzati, i quali, non arrivando all'età della ragione,
non possono trarre beneficio ne dai supplementi interiori di cui
parliamo, ne dall'azione collettiva incanalata dai riti. Aggiungi che la
gloria esterna di Cristo e il beneficio comune vorrebbero una
incorporazione visibile e attiva di tutta l'umanità alla società
spirituale, che è come il corpo di Cristo, e, per l'apostolo,
ciò è capitale.
333
D. Credi tu che le Chiese dissidenti, cristiane o
pagane, possano servire a questa salvezza inferiore degli individui che
tu dichiari possibile dovunque?
R. Per se stesse, le Chiese dissidenti, per Cristo e
per l'opera di Cristo, sono delle nemiche. Esse lacerano o disconoscono
l'unità che è la legge gloriosa del mondo;
esse offrono mezzi di salvezza che non sono i veri, o
che esse restringono ed alterano, "a scapito delle anime. Ma anche
questa, come per i singoli individui, non è se non una verità
parziale. Infatti queste Chiese dissidenti, che in tutto ciò che esse
hanno di buono riflettono e rappresentano la Chiesa vera, ne possono
dunque in scala ridotta e accidentalmente esercitare il compito. La
Chiesa vera le avvolge in una certa maniera, come avvolge tutte le anime
figlie di Dio. Utili provvidenzialmente, queste Chiese sono per l'opera
autentica della Provvidenza qualcosa come dei surrogati.
D. Dei ripari, per chi non ha trovato la sua casa? R.
Dei ripari occasionali: è infatti il nome che loro conviene, nello
stesso modo che prima di Cristo la Sinagoga era rifugio autentico sia
pure provvisorio.
D. Si può dire che Cristo è in questi rifugi? R.
Egli è dovunque sono i suoi figliuoli, ma non nella stessa maniera. È
a Roma in casa sua; a Benares o a La Mecca come in terra straniera.
D. Ma egli benedice il maomettano, l'indù,
l'ortodosso o il protestante di nobile cuore? R. « Pace in terra
agli uomini di buona volontà ».
334
I SACRAMENTI
I SACRAMENTI IN GENERALE
D. Qual è l'ufficio dei sacramenti nella Chiesa? R.
I sacramenti sono i mezzi di azione soprannaturale della Chiesa; perciò
essi partecipano del suo doppio carattere visibile e invisibile,
individuale e sociale. Sono dei segni, dei simboli, dunque delle
cose esterne, e hanno un efletto nascosto; la società religiosa
v'interviene, ma non senza il concorso dell'adulto che li riceve.
D. Perché dici « l'adulto »?
R.
Perché il bambino approfitta di un soccorso sociale al quale non può
ancora rispondere; vi risponderà più tardi.
D. A che prò adoperare simboli e mezzi visibili, in
materia di vita religiosa?
R. È la natura umana che lo vuole. Tutto ci viene
attraverso i sensi, comprese le idee e i sentimenti, qualunque siano i
loro oggetti e la loro natura; i simboli e i gesti significativi hanno
nella nostra vita una parte
337
immensa, dei quali sono seriamente obbligati a tener
conto coloro che si stupiscono dei riti religiosi. Anche la vita civile
ha i suoi riti che non differiscono dai nostri se non per la loro
sorgente e la loro efficacia.
D. Quando è Dio che opera, l'efficacia non dovrebbe
dipendere da qualcosa di esterno, e meno ancora quando è l'anima che è
chiamata a cooperare.
R. La verità è semplicemente al contrario. Dio
agisce riguardo all'uomo coi mezzi dell'uomo, perché, unendo la nostra
vita alla sua, egli intende rispettare i caratteri di questa vita,
sopraelevata e non distrutta. L'uomo non è solo spirito. L'uomo è
spirito senza dubbio, ma spirito incarnato — e ciò nell'unità di una
sola sostanza — quello che è normale, in religione, è che l'anima
umana sale verso Dio con la carne e servendosi della carne, e Dio
discende pure verso l'uomo per la carne e valendosi della carne. La
carne sarà così un passaggio naturale, per lo scambio religioso, tra
Colui che, avendo fatto l'uomo, deve accostarlo come egli lo ha fatto, e
colui che, essendo fatto così, deve rispondere all'azione divina
secondo la sua propria natura.
D. Ciò però urta molti.
R. Urta coloro che sono traviati da un falso
razionalismo o da orgoglio spirituale. Non c'è qualcosa di strano in
ciò che Dio, per santificare l'uomo, umilmente si adatti a certi
procedimenti dell'uomo, e sia l'uomo a non volerlo?
D. Ne senfi davvero l'utilità? R. Certi
sacramenti visibili ed esterni hanno un'utilità religiosa manifesta;
essi suscitano e dispiegano i sentimenti primordiali della natura umana;
rispondono
338
a tutta la vita; la dose del divino e dell'umano è ivi
stabilita in conformità con la nostra debolezza e con le nostre
risorse; riguardo al soprannaturale, che, dal canto suo, non si vede, ci
offrono delle garanzie che contribuiscono alla tranquillità della
coscienza e alla pace del cuore. Socialmente essi esprimono e affermano
i nostri vincoli, mettono in comune i nostri sentimenti di fede, di
buona volontà e di speranza, e così assicurano la coesione del gruppo
cristiano, affermandolo davanti a tutti.
D. I sacramenti non sono solamente segni e gesti; ma
utilizzano anche svariate materie.
R. Quest'uso di materie significative e attive ha la
stessa importanza che il resto. Dio non usa forse la natura per crearci?
Ebbene, l'adopera per ricrearci secondo la grazia. E le due cose si
spiegano, perché il mondo esterno non è così esterno come può
sembrare; la materia non è che l'uomo prolungato; il potere dell'anima
la foggia, se l'unisce per una parte, non l'abbandona con la morte se
non per riprenderla — come uno statuario che della medesima creta
facesse degli abbozzi senza fine — e, col lavoro intelligente, se la
sottomette in una certa misura. Ora, nello stesso modo che utilizziamo
col lavoro le forze di Dio immanenti alla natura, così utilizziamo coi
sacramenti la forza propria di Dio artefice di grazia. È dunque normale
che nei due casi la materia intervenga come passaggio. Nel caso del
lavoro è inevitabile; nel caso dei sacramenti, è conveniente.
D. Tuttavia Dio è spirito.
R. Dio è spirito; ma noi siamo carne, e nello
stesso
modo per passare dalla carne allo Spirito, dalla natura
339
a Dio, Cristo ci offre nella sua persona un anello di
collegamento: così i sacramenti — che non fan altro che prolungare
gli effetti dell'Incarnazione — saldano nel suo nome la carne allo
spirito, al fine di compiere l'opera sua. Il principio è dovunque lo
stesso, e l'omogeneità dei mezzi è perfetta.
D. Credi che i sacramenti abbiano un'azione
effettiva, e non solamente morale?
R. I sacramenti hanno un'azione effettiva, vale a
dire che il loro effetto non dipende unicamente da quello che vi
apportiamo noi, ma da ciò che vi apporta Iddio. Però non tutti pensano
che quest'azione sia di forma fisica, cioè si valga, per esercitarsi,
degli elementi esteriori; materie, parole o gesti.
D. Quale opinione preferisci? R. Di gran lunga
quella che crede a un'azione reale degli elementi; è quella di S.
Tommaso d'Aquino e dei dottori più fedeli ai dati profondi del dogma.
D. Per quale ragione?
R. Perché questo quadra meglio con l'idea
dell'Incarnazione fondamento di tutta la vita cristiana. L'Incarnazione
è il primo dei sacramenti, il solo, si potrebbe dire; perché tutto
quello che noi chiamiamo « sacramento » non è che un prolungamento
della sua azione a un tempo simbolica e reale: simbolica, poiché
l'Incarnazione è Dio manifestato; reale, perché è Dio che si da. Ora,
siccome l'unione di Dio con l'umanità è reale, e non solamente morale,
pare si debba trovare nel prolungamento lo stesso carattere che nel
punto di partenza.
D. Allora come concepisci l'azione dei sacramenti? R.
L'influsso divino che ci santifica si vale, come pas-
MO
saggio, dell'umanità di Cristo strumento congiunto
della Divinità per la salvezza degli uomini; si vale poi della
mediazione del ministro e delle realtà sacramentali, strumento di
Cristo, e fa capo all'anima del fedele per mezzo del suo corpo.
D. Quest'interpretazione ti pare più cristiana
dell'altra?
R. Sono cristiane entrambe; ma questa si riallaccia
meglio con quello che dicevamo sopra della giustizia originale, della
caduta, dell'incarnazione e della redenzione, di cui i sacramenti sono
l'organo. La ritroveremo a proposito dei « Novissimi ».
D. Come puoi credere a questo approdo divino, e ciò
attraverso a un Cristo scomparso, attraverso a un ministro distinto dal
soggetto che subisce l'azione, attraverso a materie diverse, a gesti e a
parole?
R. Non c'è bisogno di approdo. Dio è in noi; Dio
è presente a tutto, e i suoi strumenti grazie a lui sono presenti a
tutto ciò che egli mette in moto. L'apparenza di serietà che la
difficoltà presenta dipende solo da una immaginazione legata allo
spazio; Spinoza, fervente sostenitore dell'immanenza divina, non la
comprenderebbe. Ora non la comprende meglio un filosofo cristiano;
difatti anche noi, senza essere per nulla panteisti, crediamo
all'immanenza di Dio. Immanenza e trascendenza non si oppongono affatto,
ti dicevo; esse si completano. Dio è infinitamente lontano da noi per
la sua natura; ci è infinitamente vicino, più vicino di noi stessi,
per la sua intima azione. I sacramenti qualificano quest'azione in un
modo particolare e in condizioni definite in cui Cristo, un ministro
umano, mate-
341
rie, gesti espressivi hanno la loro parte, ma non ne
cambiano in nulla il carattere. Dio da a noi l'essere ad ogni istante,
come il sole al raggio: non è forse possibile modificare a piacimento e
secondo certe leggi questa luce dell'essere?
D. Non posso capire un effetto spirituale risultante
da
un atto fisico.
R. L'anima nostra è spirituale, e sboccia, nel
corso
della generazione, da un atto fisico. Un'idea è
spirituale,
e si desta, nella mente di un uditore, a proposito di un
suono.
D. Ma il soprannaturale è qualcosa di più. R.
Tè l'ho detto, il soprannaturale non è che un caso;
particolare dei piani, dei gradi che dalla materia pura
a Dio contrassegnano l'esistenza; esso non può dunque provocare alcuna
nuova difficoltà, benché apporti un nuovo dono.
D. Temo che questo dono, così concesso, riduca la
faccenda della salvezza a una specie di meccanismo dopo tutto abbastanza
comodo.
R. La comodità non è poi così grande;
perché il lavoro del cielo si mette qui sotto la dipendenza di quello
della terra; il contributo di Dio si misura da quello dell'uomo e non fa
altro che supplire a ciò che l'uomo non può fornire. Sforzo aiutato:
tale sarebbe dunque la vera definizione dell'opera sacramentale, e il
sacramento stesso è un contratto di scambio, non un beneficio gratuito.
D. Credi proprio che Gesù abbia voluto i sacramenti?
R. Non si può mettere in dubbio che egli abbia vo-
342
luto e istituito il Battesimo e l'Eucaristia, i nostri
due riti essenziali; questi devono a lui assolutamente tutto, perfino la
precisione delle formule. Gli altri, precisati dalla Chiesa nel suo nome
e non operanti che per la sua grazia, devono dunque a lui per lo meno
l'autorità della loro istituzione e la loro efficacia, il che basta
perché egli si dica il loro autore.
D. Mi sembra evidente che i riti sacramentali ''siano
tolti per la maggior parte dai riti del paganesimo, anzi dalle pratiche
dei primitivi.
R. Non si tratta altro che di apparenze
superficiali. La Chiesa si serve dei gesti e delle formule come si
prendono parole dal dizionario; ma il testo, soprattutto lo spirito del
testo, è essenzialmente differente.
D. Dove sta la differenza? . R. Là si
tratta di gesti cabalistici, qui di atti essenzialmente spirituali. Là
si pretende di costringere un'oscura potenza; qui s'invoca Dio secondo
le profferte paterne di Dio e in conformità di disposizioni con queste
profferte. Là si prefiggono dei fini del tutto temporali, dei quali i
cittadini sono il termine più elevato e spesso unico; qui si mettono in
sintesi il divino e l'umano immortale, conforme a una dottrina sublime
dei rapporti umano-divini. Da un lato, superstizione, o ad ogni modo
religione nell'infanzia, anzi grossolanamente deviata; dall'altro, uso
di simboli e di mezzi meravigliosamente appropriati all'espressione e al
servizio delle più alte concezioni religiose, rispondenti a ciò che
noi siamo davanti a Dio, gli uni verso gli altri, di fronte al fine
soprannaturale e, sopra la terra, di fronte a un corpo sociale chiamato
a una vita superiore e a incessanti progressi.
343
D. Certi storici però pretendono di spiegare i
sacramenti per via di evoluzione dai riti primitivi.
R. Qui c'è equivoco, oppure faziosità o ignoranza.
L'equivoco può venire dal fatto che si confonde una evoluzione
spontanea, automatica senza nuovo contributo, con ciò che Bergson
potrebbe chiamare una evoluzione creatrice. Se l'uomo venisse dalla
scimmia quanto al corpo, si potrebbe ben dirlo un prodotto
dell'evoluzione di questo ramo zoologico; ma ciò non sarebbe se non
quanto al suo corpo; tra le due ci sarebbe la creazione dell'anima,
fatto nuovo, fatto propriamente umano, che rende l'umanità trascendente
le sue origini fisiche. Così i sacramenti, pur precedendo se stessi
nella loro materia, in queste o in quelle particolarità d'intenzione o
di riti, sarebbero nondimeno tutt'altro che i loro pretesi antecessori.
Un capolavoro e una grossolana cromolitografia possono aver dei tratti
comuni; il primo può prendere dalla seconda; ma il genio forma la
differenza, e sarebbe assurdo il dire che come opera d'arte il primo
procede dalla seconda.
D. Ciononostante, come spieghi i rapporti evidenti
fra tutti i riti?
R. I rapporti delle cose anche più differenti, si
spiegano per la somiglianzà relativa delle circostanze in cui son nate
e dei fini a cui devono servire. Ho già osservato che la vera religione
deve contenere una gran quantità di elementi delle false, perché
queste ultime, nate dai bisogni umani sul piano religioso, li esprimono
in una certa misura, e come il cristianesimo, destinato a soddisfarli
del tutto, non li esprimerebbe nella loro perfezione, adottando così
l'espressione imperfetta? Tal
344
è il caso dei sacramenti, dove sta una gran parte della
religione.
D. Ciò si può prestare a confusione. R. Per
coloro che non riflettono o che non vogliono vedere, ma non per gli
altri. Quello che mette i riti cattolici fuori di parità, per rapporto
a ciò che descrivono certi etnologi compiacenti, è, ancora una volta,
il senso del simbolo, la portata spirituale dei riti, l'esigenza di una
collaborazione morale del soggetto, la grandezza degli antecedenti
dogmatici, delle mire, dei sentimenti collettivi e individuali, e, più
di tutto, la unione intima e indissolubile di tutte queste cose.
D. Questi sacramenti che tu attribuisci a una causa
Sovrumana, non dovrebbero avere degli effetti strabilianti? Come mai non
ne hanno neppure dei percettibili?
R. Quando guardi le stelle, hai forse la percezione
dei loro prodigiosi movimenti? La nostra cecità le chiama fisse,
e invece quante migliala di chilometri al secondo non percorrono! Dopo
una buona confessione, un'anima ha fatto un balzo di gran lunga più
importante sopra le vie della vita eterna.
D. Dopo qualche istante, si avverte il movimento
degli astri.
R. Dopo qualche istante, in una vita, l'azione
sacramentale si nota, supposto che rette disposizioni l'accompagnino,
Dopo qualche istante, nella storia dei popoli, la loro fedeltà
religiosa, che è il risultato della vita sacramentale dei singoli
individui, si scorge anche di più.
345
D. Dici che i sacramenti rispondono, per la loro
stessa concezione, a tutto l'insieme della nostra vita: come vi si
applicano?
R. Vi sono sette sacramenti, ed è facile vedere che
essi abbracciano la vita con un amplesso spirituale completo. La vita
corporale nasce, cresce, si nutre, si difende dalle cause di corruzione
e di morte, si propaga per generazione e si ordina socialmente in vista
della prosperità e della pace. Nell'ordine spirituale, ci vuole
altresì una nascita: il Battesimo la procura; una crescenza: ecco
l'effetto della Confermazione; una nutrizione: l'Eucaristia vi provvede;
uno sforzo di difesa e di eventuale guarigione: ecco lo scopo combinato
della Penitenza e dell'Estrema Unzione; una propagazione o nutrizione di
specie conforme a' suoi fini religiosi: ecco il Matrimonio; finalmente
un governo e assetto regolare de' suoi organi: tal è l'oggetto del
sacramento dell'Ordine.
D. Questi vari riti sono di uguale importanza? R.
Ce ne sono due principali: il Battesimo che corrisponde all'ingresso
nella vita, e l'Eucaristia che ne riproduce il fenomeno essenziale: la
nutrizione.
D. E quale dei due ha il sopravvento? R. È
l'Eucaristia, nello stesso modo che, in biologia, la nutrizione ha la
precedenza sulla stessa nascita, visto che la nascita non è che una
prima nutrizione. Nello spirituale, tutto viene in certo modo
dall'Eucaristia, perché tutto viene da Cristo e dalla virtù di Cristo,
immanenti all'Eucaristia. Onde sembra che Gesù abbia voluto riassumere
tutte le condizioni della vita spirituale e della salvezza dicendo: Se
voi non mangiate la carne del Fi-
346
gliuoi dell'Uomo e non bevete il suo sangue, non avete
la vita in voi stessi. Chi mangia la mìa carne e beve il mio sangue ha
la vita eterna, ed io lo risusciterò nell'ultimo giorno.
D. È dunque Cristo il vero sacramento? R. Cristo
è il vero sacramento. Ed anche gli altri sono veri, ma in quanto lo
prolungano e operano mediante la sua persona. Ogni anima si unisce a
Dio, sua salvezza, a mezzo di contatti successivi che Cristo ha
stabilito e di cui l'Eucaristia è il centro di convergenza, come il
Battesimo ne è il punto di partenza.
347
IL BATTESIMO
D. In che modo il battesimo è un punto di partenza?
R. Esso « segna » il cristiano e lo rende atto agli atti
religiosi, nel che la vita cristiana consiste. È quello che si chiama
il suo carattere per sempre incancellabile. Il battesimo nel nome
della Trinità è il segno spirituale del cristiano, come la
circoncisione del giudeo era il suo segno carnale.
D. È dunque un'iniziazione, a guisa degli antichi
misteri?
R. È un'iniziazione, ma senza alcuna di quelle
superstizioni che degradavano i misteri pagani. Esso fa entrare nella
vera vita, la vita con Dio, che, fin da quaggiù, è una vita eterna. La
vita con Dio promessa per più tardi è posta così anticipatamente in
nostro possesso;
perché, dice S. Agostino, la rigenerazione battesimale
e la vita dell'altro mondo non sono che una sola e medesima opera.
D. Come spieghi in questo caso il battesimo di
Cristo? FacenU'ò^i battezzare sulle rive del Giordano, Gesù entrava
forse nella vita cristiana? •R. Vi entrava come il sole entra nel
giorno: dopo
349
di lui, per la stessa via, passeranno i satelliti che
siamo noi.
D. Non dici che il battesimo cancella la colpa
originale?
R. Il battesimo applicandoci i meriti di Cristo,
cancella la colpa originale e tutte quelle che noi abbiamo potuto
aggiungervi di nostra iniziativa; ma questo non è che un preludio e una
disposizione negativa. Positivamente, si tratta di entrare nel Regno
de' deli terrestre, cioè nella Chiesa, in vista del Regno de'
deli celeste, da conquistare mediante l'uso della grazia
battesimale.
D. Il battesimo conferisce dunque una grazia?
R. Solo così può esso introdurre il cristiano
nella vita
soprannaturale il cui principio è la grazia. Per il
fatto
stesso che è un'iniziazione, il battesimo è dunque una
grazia, la grazia fondamentale, se così si può dire;
esso
« qualifica » l'anima cristiana per il suo fine
proprio; la
munisce per il viaggio, nello stesso tempo che le apre
la via.
D. Hai parlato dell'entrata nella vita cristiana come
di una incorporazione a Cristo: è questo l'effetto del
battesimo?
R. Il battesimo di fatto c'incorpora a Cristo; ossia
ci
fa rivestire Cristo secondo la forte metafora di
S. Paolo.
D. Che cosa significano esattamente queste
espressioni? R. Essere incorporato a Cristo è far parte di ciò che
chiamiamo suo corpo mistico, ossia spirituale, cioè la Chiesa.
Rivestire Cristo esprime questa stessa incorporazione sottolineando il
suo benefizio. Prima", noi eravamo nudi; la nostra natura
peccatrice era sola; i meriti del Salvatore non la coprivano, non la
corazzavano con-
350
ero il male, non la ornavano come una figlia di Dio, una
erede, una coerede di Cristo.
D. Non chiami il battesimo il sacramento della fede?
R. È il sacramento della fede, perché la prima condizione per
entrare in un gruppo religioso è aderire alla idea sociale che forma
questo gruppo, ai fini che esso si propone e alle sue leggi. Ecco
l'oggetto della fede. Venendo a Dio, dice S. Paolo, bisogna
sapere che egli è, e che è rimuneratore, e tutto il resto di
quello che egli disse agli uomini per bocca del suo Cristo per
rischiarare la via eterna.
D. Allora sembra che il battesimo debba essere
riservato a quelli che sono in grado di credere. Perché voialtri
battezzate i bambini?
R. La fede non è unicamente dell'uomo. L'abbiamo
già detto: è una grazia, e vedremo più tardi che essa è un atto
comune di Dio e dell'uomo, dell'uomo che acconsente e di Dio che inclina
il suo cuore. In quanto è una grazia, essa può prevenire il consenso,
prepararlo e attenderlo. Perciò, riguardo al bambino stesso, il
battesimo si chiama illuminazione. Per sottolineare l'azione
inferiore dello Spirito Santo, alla quale più tardi si darà
l'adesione.
D. Perché questa anticipazione? Perché una società
spirituale ammette colui nel quale non ha ancora palpitato lo spirito?
R. La vita cristiana è più larga di questa
obiezione individualista. Soprannaturalmente come secondo la'natura, noi
siamo una stirpe; l'individualità sboccia in grembo alla stirpe; essa
segue, ma non precede, come abbiamo spiegato studiando la Chiesa. Come
dunque
351
un padre, in seno a una patria, iscrive suo figlio allo
stato civile, lo impegna in una corrente di vita materiale,
intellettuale e morale che il bambino non può controllare, ma che egli
giudicherà un giorno, quando sarebbe troppo tardi per ottenerne il
pieno benefizio: così un padre, in grembo alla Chiesa che ha benedetto
la sua unione e ne attende i frutti, introduce suo figlio là dov'è lui
stesso, là dove crede sia la via, la verità e la vita. A questo
figlio, più tardi, spetta di giudicare il dono che egli ha ricevuto, di
sanzionarlo con la sua libera accet-tazione; salvo che egli non
preferisca o non creda di dover ripudiare insieme Dio e l'amorosa pietà
paterna.
D. Ammetti che si rigetti così il proprio battesimo?
R. Non l'ammetto certamente. Se non è un grande delitto, è ad ogni
modo una grande disgrazia.
D. Ciò non può essere altro che una disgrazia? R.
Sì, nel caso di quell'errore che noi chiamiamo invincibile.
D. Ma la grazia del battesimo si può perdere senza
colpa?
R. No; ma nel caso contemplato, la grazia del
battesimo non «sarebbe perduta. Abbiamo detto che si può avere la
grazia senza saperlo ed essere figli di Cristo anche nell'incoscienza.
D. Sono casi strani.
R. .Strana è la nostra vita; ma Dio è pieno di
giustizia
e di misericordia.
D. Perché l'entrata nella vita cristiana ha luogo
sotto
il segno dell'acqua?
R. La ragione essenziale è che l'entrata nella vita
cri-
352
stiana suppone come condizione negativa, come dicevamo,
la cancellazione del peccato, il ripudio dell'antico stato di
allontanamento in cui era la nostra stirpe in rapporto a Dio. Il simbolo
dell'acqua è indicatissimo:
come l'acqua lava il corpo, così la grazia di Cristo
purifica l'anima nostra. ,
D. Vi sono altre ragioni? R. Ce n'è una più
profonda, benché meno immediata. Le tradizioni umane hanno sempre
accostato l'elemento liquido all'origine prima delle cose, come per
un'anticipazione delle teorie moderne che traggono la vita dal fondo dei
mari. Sotto questo aspetto, il battesimo vorrebbe dire: Tu che nascesti
dal mare, ripiombati in questo Mare più profondo: nella Divinità di
cui l'acqua del mare non è che uno zampillo. Origine delle origini,
sorgente delle sorgenti, in essa tu devi perderti un giorno, per
ritrovarti veramente, e fin d'ora, per la grazia e per la santa vita,
essa deve comporre il tuo ambiente interiore, come l'acqua del mare,
ambiente originale della vita, bagna le tue membra.
D. 5; tratta proprio di una concezione tradizionale?
R. Io l'ho presa dagli antichi dottori, e l'ho modernizzata
solamente nella forma. Essi aggiungono più semplicemente che la
freddezza naturale dell'acqua e la sua purezza refrigerante sono il
simbolo del rinfrescamento che la grazia oppone a quell'eccitazione
carnale, figlia del peccato originale, che ci trascina al male. L'acqua,
essendo diafana, significa ancora la ricettività dell'anima in rapporto
ai lumi divini. Quando s'immergevano i catecumeni, nelle cerimonie più
complete di una volta, vi si vedeva altresì, con S. Paolo, una specie
di morte e di sep-
353
pellimento, seguiti da una risurrezione, come se l'uomo
vecchio soggetto al peccato fosse annegato e lasciasse il posto all'uomo
nuovo generato dall'azione di Cristo. D. Il battesimo è
indispensabile alla salvezza? R. Il battesimo è indispensabile alla
salvezza al medesimo titolo che l'incorporazione a Cristo, l'adesione a
Dio per mezzo di Cristo, e l'entrata nella Chiesa di Cristo. D. Allora
chi non è battezzato è perduto? R. Ciò non ne segue affatto,
poiché noi sappiamo che l'incorporazione a Cristo, la vita in Dio per
Cristo e l'appartenenza alla Chiesa spirituale se non alla Chiesa
visibile, possono avere luogo senza alcuna condizione esteriore.
D. Adunque il mezzo di salvezza chiamato battesimo
non è un mezzo necessario?
R. Assolutamente e senza eccezione, no, poiché esso
comporta dei supplementi morali; ma è nondimeno il mezzo necessario in
diritto, il mezzo ufficiale, il mezzo sociale; di modo che, se da una
parte la società spirituale non l'applica punto, e se, d'altra parte,
il soggetto non reca o non può recare nessun supplemento morale, la
salvezza come la intendono i cristiani non si potrebbe ottenere.
D. Perché queste precauzióni di linguaggio? R.
Tè ne renderai conto; ma tu devi tener presente che qui si tratta
specialmente dei piccoli esseri che non arrivano all'età della ragione
e muoiono senza battesimo.
D. Vuoi che questi piccoli si dannino? R.
La parola dannazione, ammessa un tempo, dev'essere eliminata,
perché suggerisce un'idea falsa. Parlando del peccato originale,
abbiamo detto: Esso implica una
354
colpevolezza della stirpe, ma per nulla una colpevolezza
personale. Ora, osserva S. Tommaso, un soggetto personalmente innocente
non potrebbe giustamente essere privato dei beni della natura, benché.
si possa giustamente, nel nome di una responsabilità solidario,
privarlo dei benefici gratuiti concessi alla sua stirpe e da essa
perduti. Ne segue che l'anima immortale sfuggita da questo mondo senza
rigenerazione battesimale non può, senza dubbio, accedere al
soprannaturale, ottenere la salvezza cristiana, che è una vita sublime
nella Trinità; ma noi crediamo alla sua beatitudine naturale, senza pur
avere nessuna nozione positiva riguardante questo stato.
D. Ma ciò è ingiusto! Perché l'uno è battezzato,
mentre l'altro non è battezzato?
R. Non giudichiamo la Provvidenza. Abbiamo
riconosciuto più sopra la nostra incompetenza in simili questioni. Del
resto, si può sfidare chiunque a trovare qui ombra d'ingiustizia?
D. Non vi è ingiustizia a trattare diversamente
quelli che non hanno agito diversamente?
R. Il bambino battezzato e il bambino non battezzato
non hanno agito diversamente, poiché non hanno agito affatto. Ma il
primo, non avendo fatto niente personalmente, trae beneficio da
un'azione collettiva e deve essere riconoscente. Il secondo, non avendo
parimenti fatto nulla, non ha avuto la medesima felicità: è una
felicità in meno e non ne può essere afflitto; non ci si può
affliggere per lui; ma poiché non ha fatto niente e non gli toglie
niente di ciò che appartiene al suo caso normale, come si potrebbe
parlare d'ingiustizia? Av-
355
viene come di un bambino nato nella Guayana da parenti
deportati, e i cui fratelli per una felice sorte fossero ricondotti in
patria. Questi avrebbero da lodare Dio; ma l'altro non ha da elevare
sdegnose rivendicazioni. Non è punito personalmente. La Guayana
permette di vivere. Se un fortunato ritorno nel suo paese gli è
rifiutato per un fatto d'una responsabilità di famiglia, è un affare
negativo; molte fortune positive gli restano, e se la deportazione della
famiglia fu giusta, non vi è ingiustizia.
D. Ad ogni modo vi è disuguaglianza. Perché questo,
e non quello? Si capisce questo in un ordine umano; ma non in un ordine
divino.
R. L'ordine divino non è indipendente dall'ordine
umano; esso l'avvolge; lo rispetta; lo utilizza e si compone con esso.
La sorte stessa, come abbiamo detto, entra nella Provvidenza.
D. Ma gli esseri devono soffrire dell'evento
provvidenziale?
R. Ancora una volta, non si tratta di soffrire. Noi
non martirizziamo nessuno. Si tratta dell'assenza non dolorosa di una
felicità di soprappiù, di una felicità non sperimentata, alla quale
il soggetto non è naturalmente adatto, che noi stessi, che patrociniamo
in suo favore, non immaginiamo neppure, di cui spesso, troppo spesso non
ci curiamo, che tutt'a un tratto ci ritorna in mente per accusare la
Provvidenza. Il gioco non è serio. Il non battezzato appartiene a
un'altra classe di esseri, ecco tutto. Il suo destino risponde alla sua
classe; esso è buono; è anch'esso creato per lodare Dio, e se egli si
lagnasse perché altri, in ragione della stessa Provvidenza, ebbero
accesso a una felicità più grande, Dio gli
356
potrebbe rispondere quello che il padrone della vigna
rispose agli operai gelosi della parabola: Non sono libero di fare
quello che voglio? o bisogna che il vostro occhio sia cattivo perché io
sono buono?
D. Dio può essere inegualmente buono? R. Dio non
può essere inegualmente buono in se stesso, essendo la bontà infinita;
ma guardando agli effetti, se Dio fosse ugualmente buono, siccome la sua
bontà è la causa degli esseri, tutti gli esseri sarebbero uguali in
tutte le maniere; non vi sarebbero neppure scambi; non vi sarebbero
movimenti e progresso; non vi sarebbe universo.
D. Ciò pare strano.
R. Penetra bene l'idea, che del resto abbiamo già
incontrato a proposito della Provvidenza, e vedrai che esigere
l'uguaglianza, sotto il falso nome di giustizia, sia nel mondo materiale
sia nel mondo morale, è negare l'universo.
D. Non vedo alcuna difficoltà in un universo in cui
tutti sarebbero salvi.
R. Provati a costruirlo senza perpetui miracoli: non
ci riusciresti.
D. Ritorno al caso dell'adulto. Tu dici che egli può
supplire, con le sue disposizioni, all'assenza del battesimo?
R. Sì, a condizione che il battesimo non sia
disprezzato o gravemente trascurato, ma ignorato, o impossibile, sia
materialmente, sia moralmente.
D. Allora che cosa è che supplisce? R. Il buon
volere che implica l'adesione esplicita o
357
implicita ai mezzi stabiliti da Dio, e per conseguenza
al
battesimo.
D. Dunque il battesimo, sotto questa forma indiretta,
è ancora il mezzo di salvezza,
R. Sì, si può dire, ed è ciò che vuoi
significare la
celebre distinzione dei tré battesimi: battesimo
d'acqua,
battesimo di sangue e battesimo di desiderio.
D. Che cosa è il battesimo di sangue? R. È il
martirio, nel caso in cui vi è assenza involontaria del battesimo
d'acqua, ma in cui il dono di sé spinto fino all'eroismo prova
sovrabbondantemente il buon volere che noi abbiamo richiesto.
D. E il battesimo di desiderio? R. Là dove il
desiderio del battesimo è esplicito, la espressione si comprende da se
stessa. Se il battesimo è ignorato o involontariamente sconosciuto, il
battesimo di desiderio si compendia nella conversione del cuore, come
dice S. Agostino, cioè, sotto l'impulso della grazia, nell'amore del
bene divino così come è appreso, e nella disposizione sincera a
prenderne i mezzi, appena saranno conosciuti.
D. Tu chiami questa semplice disposizione un
battesimo?
R. Sì, perché essa costituisce una specie di
battesimo in intenzione; perché assicura d'altra parte i frutti del
battesimo reale e incorpora colui che vi accede non solo a Dio, che vede
il cuore, ma alla Chiesa stessa, non alla Chiesa gerarchica, visibile,
poiché, per ipotesi, essa è sconosciuta o disconosciuta, ma alla
Chiesa intcriore, invisibile e universale, di cui l'altra non è che il
simbolo e il mezzo.
358 -. •
LA CONFERMAZIONE
D. Che cosa è la Confermazione? R. È un rito
complementare del battesimo, che una volta si celebrava nel medesimo
tempo, e il cui significato è quello di un accrescimento: accrescimento
di grazia dalla parte di Dio; accrescimento di buon volere e di
fedeltà, nel cristiano, riguardo alle realtà superiori.
D. Perché fare ciò in due volte? R. Perché la
nostra vita è soggetta al tempo, e per seguire sempre più le
condizioni del simbolismo, che è alla base delle nostre istituzioni
sacramentali. Vi è un sacramento della nascita spirituale; vi è un
sacramento della virilità spirituale, dell'età adulta, atta all'azione
fruttuosa e alla lotta.
D. Ci dovrebbe dunque essere anche un sacramento
della vecchiaia.
R. Nel mondo dello spirito, non c'è vecchiaia; la
vita cristiana deve normalmente crescere sempre, fino al-perfetto
che la vita eterna realizza.
D. A che età si conferisce il sacramento della
virilità? •K. A un'età qualsiasi, per quella stessa ragione
d'indi-
359
pendenza dello spirituale, e specialmente del
soprannaturale, rispetto alla vita fisica. Come il « sacramento della
fede » a chi non può attualmente credere: così il sacramento della
fortezza si può conferire a un debole bambino. Aggiungi che di questa
fortezza il bambino sa dare esempi all'uomo. I sette figli di Felicita,
saldi davanti alle tanaglie e alle caldaie, o il giovane Tarcisio
morente con l'Eucaristia sul suo cuore, provano che anche per l'eroismo
religioso « il valore non attende il numero degli anni ».
D. Il « confermato » è dunque una specie di
soldato? R. È anzitutto un perfetto cittadino, per una stretta e
-ferma ubbidienza alla legge sociale cristiana. Per l'esterno, è un
soldato di fatto; il sacramento lo fa entrare in uno stato marziale, gli
suggerisce uno spirito di diffusione e di conquista e, come oggi
giustamente si preferisce dire, di testimonianza: « Voi sarete
miei testimoni », disse Gesù ai suoi. Gli si fa capire che essere
illuminato vale quanto essere delegato alla luce per il mondo che è
nelle tenebre; essere elevato a un piano superiore di vita vale quanto
essere invitato a tendere la scala agli altri, ed essere arruolato da
Cristo in una schiera spirituale sempre militante significa che si deve
« combattere la buona battaglia » per la comune vittoria.
D. Chi è incaricato di questa promozione, di questo
conferimento di grado?
R. Naturalmente il capo supremo di ciascun .gruppo
religioso: il Vescovo. Un'azione completiva riguarda colui che è
rivestito della pienezza del sacerdozio. L'artista ritocca il marmo,
dopo il lavoro dell'abbozzatore.
360
D. Che materia adopera questo sacramento? R.
Poiché si tratta di fortezza, l'atletismo offre naturalmente l'arsenale
delle immagini. L'atleta antico ungeva d'olio il suo corpo, per
fortificarlo, proteggerlo, per renderlo flessibile nelle lotte
corporali. Si ammetterà l'unzione, e l'olio, che ne è la materia, come
segno del rafforzamento dell'anima e della sua preparazione alle lotte
cristiane. Di più, dovendo la virilità cristiana impiegarsi ad aiutare
la vita attorno a sé, si aggiunge all'olio dei forti il balsamo, per
significare che nello spirituale, il profumo che si spande, vale a dire
l'esempio, è una forza. Donde questa espressione: II buon odore di
Cristo, spesso usata da S. Paolo in poi.
D. Come sono adoperate queste materie? R. Si fa
l'unzione in forma di croce, come s'impone la spada o il vessillo al
cavaliere, per invitarlo alle battaglie per la giustizia. Si segna la
fronte, come il luogo più nobile e il più manifesto, quello su cui si
afferma la saldezza dell'atteggiamento, come, in caso di debolezza, vi
si manifesterebbe il rossore della timidezza o il pallore della paura.
D. Attribuisci a queste unzioni un effetto intcriore?
R. Noi crediamo che l'anima tragga il beneficio di una grazia, e che
essa, come il corpo, sia segnata di un carattere che le
faciliterà la realizzazione dei simboli. Come gli Apostoli, nel
Cenacolo, furono trasformati, in vista di tutta la Chiesa, dalla venuta
dello Spirito: così noi crediamo a una misteriosa conformazione
dell'anima, in rapporto con ciò che abbiamo detto della grazia e
dell'azione dello Spirito Santo.
361
D. Ci dovrebbe dunque essere qui, come nel Cenacolo.
qualcosa dì strepitoso.
R. Si suonano le campane per la comunità; ma non si
suonano per l'entrata d'un fedele alla Messa. Nel Cenacolo ebbe luogo la
confermazione solenne della Chiesa:
donde le lingue di fuoco, segno di conquista ardente e
di comunicazione collettiva, e il vento violento, che corre gli spazi
della terra e del mare, come i portatori della Buona Novella. Per la
confermazione intima di un semplice cristiano, non c'è bisogno di
strepito.
362
L'EUCARISTIA
D. Hai detto che il sacramento centrale, sacramento
per eccellenza, è l'Eucaristia?
R. Ne ho detto la ragione, ed è che esso ha per
scopo la nostra nutrizione spirituale, e la nutrizione, per un vivente,
non solo è la funzione più importante, ma in certo modo, anche la
funzione unica. Una creazione organica non è che la nutrizione e la
segmentazione di un germe; uno sviluppo è una nutrizione che prosegue;
un funzionamento è una nutrizione che implica una disassimilazione
consecutiva, che sprigiona della forza e l'adopera; la morte non sarà
che un denutrizione non compensata, come ogni malattia, ogni
indebolimento non è che una denutrizione parziale, o una nutrizione non
adatta o insufficiente o sregolata.
D. Un tale raffronto tra la vita fisica e la vita
spirituale è rigoroso?
R. Vi è solo una differenza, essenziale, è vero;
ed è che la nutrizione fisica assorbe l'alimento nel nostro corpo; la
nutrizione eucaristica fa il rovescio; essa incorpora noi a Cristo, per
unirci a Dio. L'alimento è qui
363
il più forte: alimento vivo, simile a una preda che
divora il suo cacciatore, ma per portarlo a uno stato di vita a cui è
bene salire, poiché noi non cresciamo e non possiamo definitivamente
vivere se non a patto di entrare in comunione con il divino.
D. Dunque l'Eucaristia ha secondo tè un effetto
generale: la vita?
R. Sì, la vita, sia nel suo sostentamento, sia
nella sua gioia, nel suo progresso, nella sua riparazione, nel suo
compimento, fino alla vita eterna.
D. La nutrizione non impedisce la morte. R. La
nutrizione spirituale impedisce la morte, perché essa non disassimila
niente, tranne il male; perché essa ci fa crescere incessantemente e ci
spinge solo avanti, capace, con Dio, di vincere la morte a beneficio del
corpo stesso. Io sono la risurrezione e la vita; colui che crede in
me, quand''anche fosse morto, vivrà, e colui che vive e crede in me,
non morrà in eterno.
D. Tu hai presentato questo come l'effetto
dell'Incarnazione e della Redenzione.
R. Per questo l'Eucaristia è una incarnazione e una
redenzione continuate nello stesso tempo che figurate in simboli. In
grazia della presenza reale, Gesù è lì, misteriosamente. Per
lui, l'Essere degli esseri e l'Anima delle anime, lo Spirito Santo, si
unisce a noi. L'opera della redenzione si realizza corpo a corpo, se
posso dire così, ed è proprio così, poiché il corpo di Cristo è qui
lo strumento del suo Spirito per l'opera perpetua e per sé immortale di
questo Spirito. Non vi è come condizione altro che l'espropriazione
dell'io peccatore; vi lavora lui stesso,
364
D. L'Eucaristia è dunque un rito individuale? R.
• È un rito essenzialmente sociale, ma dove l'individuo ritrova se
stesso, come una patria felice forma la felicità del buon cittadino.
D. Qual è l'aspetto sociale dell'Eucaristia? R.
È d'incorporarci a Cristo insieme, nel nome della carità,
vincolo della comunità, e di una carità non puramente sentimentale, ma
organica.
D. L'effetto dell'Eucaristia sarebbe così la vostra
società stessa!
R. È quello che dice S. Tommaso, perché l'effetto
di questo sacramento è l'unità del corpo mistico di Cristo, cioè
della Chiesa. Toccando Dio, io tocco tutto l'universo umano; l'umile
frammento bianco è dovunque il centro.
D. Gli effetti individuali derivano di lì, o è
l'opposto? R. Dire che è l'opposto, sarebbe essere protestanti.
Prima è la Chiesa. Non è che degli individui si amino prima in
Cristo, e poi si costituiscano in Chiesa; essi ubbidiscono alla
legge di quest'organismo spirituale che è la legge dell'amore, appunto
perché formano una Chiesa in Cristo. L'Eucaristia è una Comunione,
e tu sai qual è per noi il largo senso di queste parole.
D. Il simbolismo del pane e del vino non indica
questo.
R. Lo indica. Il pane è fatto della moltitudine dei
grani che la farina mescola e il fuoco unisce; il vino, della
moltitudine degli acini che il tino raccoglie e la cui fermentazione non
forma più che una sola cosa. Ecco il simbolo dei cristiani uniti a
Cristo, fermento vivente
365
della massa umana. Non siamo che un solo pane noi
tutti che partecipiamo allo stesso pane e allo stesso calice (s.
paolo). Aggiungi che l'idea del banchetto eucaristico accentua
questo simbolismo, liberandolo da ogni sottigliezza.
D. Tutto questo è solo relativo al presente.
L'Eucaristia non è anch'essa e prima di tutto una commemorazione?
R. Relativamente al passato, l'Eucaristia è di
fatto la commemorazione e, più ancora, il rinnovamento mistico della
Passione del Salvatore e delle sue preparazioni universali, come si dice
nella Messa. Appunto per questo la diciamo un sacrificio.
D. In che modo è un sacrificio e nello stesso tempo
un ricordo?
R. È un ricordo che si ripete, come in un giorno
anniversario si rinnova l'amore. È dunque un sacrificio reale, benché
puramente spirituale, spoglio di ogni apparato cruento e ridotto alle
realtà dell'anima. Cristo si offre lì di nuovo a suo Padre, e anche
noi lo possiamo offrire. La redenzione, ti dicevo, ricomincia per
ciascuno di noi, cioè raggiunge i suoi partecipanti e si applica
nominatamente a ciascun'anima, come al gruppo attuale delle anime.
D. E si tratta anche dell'avvenire? R.
Relativamente all'avvenire, l'Eucaristia presagisce, prepara e anticipa
l'unione definitiva degli eletti con Dio, per Cristo, nella Chiesa
eterna. Sotto questo aspetto essa si chiama viatico, parola che
si applica specialmente ai morenti, ma che vale per tutti.
366
D. In che modo presagisce?
R. Facendo venire incontro a noi, sulla via, Colui
verso il quale noi camminiamo.
D. In che modo prepara?
R. Con grazie di buona vita, mezzo della beata vita
eterna.
D. E in che modo anticipa?
R. Dando già a noi, benché sotto forma nascosta e
in attesa, quel pane del cielo del quale siamo affamati senza saperlo,
cioè Dio.
D. L'Eucaristia è così per tè una specie di cielo?
R. In ogni luogo del mondo dove c'è un tabernacolo, e in ogni anima
che si comunica con disposizioni convenienti, vi è un cielo.
D. Vi sono tabernacoli e gente che si comunica
dappertutto.
R. Dunque dappertutto vi è il cielo. La nostra
terra è nel cielo. La nostra terra è un cielo. Con l'aurora,
ininterrottamente, la nostra Messa gira attorno al globo;
essa lo desta al soprannaturale, lo rischiara, lo
affascina, lo commuove, lo trascina dolcemente, ed è, spiritualmente,
l'Eucaristia « che fa girare la Terra » (leone bloy).
D. Viviamo dunque tra le meraviglie? R. Ma che un
inconcepibile accecamento ci nasconde.
D. Come mai un tale accecamento è possibile nei.
credenti?
R. Noi siamo povere creature terrene, e il nostro
attacco alla terra fangosa chiude il nostro spirito a questa invasione
del cielo.
367
D. Per lo meno i Santi hanno il sentimento del
mistero? R. Il santo curato d'Ars disse: « Se si sapesse che cosa
è la Messa, si morrebbe ».
D. Ma se voi avete veramente fede, potete qui
star-vene inerti e fiacchi, e ancor più peccare, dopo il bacio tenero e
puro della Comunione? R. Ancora una volta, l'essere umano è un
abisso d'incoscienza, di miseria, d'instabilità inferiore, di oblio. La
« distrazione » pascaliana e le insidie di questo mondo riescono a
trionfare di una fede fragile.
D. Ecco; io ti ho lasciato dire; ma quante
difficoltà arrestano la mente di fronte a tali fantasie! R. Sono
fantasie « divine », e che si cada in stupore davanti ad esse non
dovrebbe essere che per riconoscenza e per ammirazione. •
D. Questa fantasia « divina » non si trova più o
meno in tutte le religioni, in cui l'unione al dio mediante un rito di
manduc azione è comune? R, Fai bene a parlarne con precauzione;
perché sono tali le differenze tra una religione e l'altra, e sono
così fondamentali, tra tutte le altre e la cattolica, che non si ha il
diritto ne di trovare qui una legge, ne soprattutto di applicarla ai
riti eucaristici.
D. Tuttavia, se questa legge esistesse... R. Si
potrebbero costruire sopra di essa due ipotesi:
o la legge ha giocato affatto da sola presso i primi
cristiani e ha fatto loro inventare l'Eucaristia; o questa legge,
fondata in natura, è Stata per questa ragione soprannaturalmente
soddisfatta da Cristo che istituiva l'Eucaristia.
368
D. Chi dirà quello che è veramente stato? R. I
testi e i fatti. Ci sono i Vangeli, e fuori di essi nessuno può dire in
quale momento e da chi l'Eucaristia sarebbe stata inventata. Ciò
dovrebbe essere al più tardi vent'anni dopo la morte di Gesù; infatti,
fin da quel momento, in quel gruppo, si crede alla presenza reale.
Questo gruppo è composto di Giudei, che provano tutte le pene e le
difficoltà possibili a distaccarsi dai riti mosaici, dalle credenze
mosaiche: chi crederà che abbiano essi stessi, e così presto, operato
una tale rivoluzione?
D. Si tratta proprio di una rivoluzione? R. È la
fondazione di una religione nuova. Al cristianesimo è tutt'altro che
indifferente essere con o senza l'Eucaristia, proprio come con o senza
l'Incarnazione;
tolta l'Eucaristia è distrutto il cristianesimo.
D. Il cristianesimo cattolico è dunque
essenzialmente
eucaristico.
R. È proprio così, poiché, come ti ho già detto,
il
frutto dell'Eucaristia è la stessa organizzazione
cattolica.
D. Allora come si spiega che la materia
dell'Eucaristia non è punto cattolica, se cattolico vuoi dire
universale? Il pane e il vino sono prodotti mediterranei, ai quali si
sostituiscono altrove, come alimento comune, il riso, le patate, le
banane, la birra, il latte e l'acqua.
R. Non hai tolto questa difficoltà da Paolo
Valéry?
D. Sì, e mi sembra seria.
R. Fortunatamente per lui, Paolo Valéry disse cose
più serie. Non bisogna forse che un rito, per quanto destinato a
diventare universale, cominci in qualche
369
parte, e sotto una certa forma? -Se il cristianesimo
fosse nato nelle Indie, è probabile che la materia dell'Eucaristia
sarebbe stata diversa, e sarebbe nondimeno il simbolo dell'alimento
spirituale, scelta col medesimo spirito di semplicità, e nella sua
doppia forma.
D. Essa non converrebbe maggiormente a tutto
l'universo.
R. Perché? E come mai questa difficoltà, di fatto,
non è avvertita in nessun luogo? Non si consacra forse nelle Indie,
nella Cina, nella Lapponia, dovunque, con del pane e del vino? Si porta
la mitra solamente in Persia o il pallio solamente a Bisanzio? Come
Cristo fu giudeo, e ciò non gl'impedisce di essere uomo universale,
così il pane e il vino, simboli tolti dal paese d'origine del
cristianesimo, non ripugnano affatto a diventare, per l'uso religioso,
usanza generale. Essi hanno allora il vantaggio di ricordare
costantemente a tutti gli uomini la culla della loro credenza, come i
Musulmani pregano rivolgendosi verso La Mecca, come noi stessi ci
riserbiamo in Cina di servirci almeno entro certi limiti del latino.
Sotto pretesto di universalità, ci si vorrebbe forse imporre, nel rito,
un volapuk o un esperanto?
D. Vi è però qui una difficoltà.
R. Ed è quella di quel buon negro, che non capiva
che
gli si volesse imporre un Dio bianco.
D., Ma vi è ancora qualcos'altro. Questa idea di
sostanza che voi introducete nel dogma eucaristico, appartiene a una
filosofia particolare, a un modo di pensare che non è quello di tutti
gli uomini, sotto tutte le latitudini.
R. L'idea di sostanza non s'introduce in alcun modo
370
nel dogma a titolo d'ingrediente filosofico, con un
significato rigorosamente tecnico, ma nel significato più corrente e
comune a tutti. Tutto il mondo, praticamente, distingue tra il pane e le
apparenze del pane, tra il vino e le apparenze del vino. Devi ammettere
che dopo la consacrazione non vi sono più del pane e del vino altro che
le apparenze, e che al posto, per una sostituzione totale — che si
chiama transustanziazione, perché bisogna pur servirsi di parole
— vi è il corpo e il sangue di Cristo, ecco tutto quello che ti si
domanda. Il resto è interpretazione, sistema, linguaggio, non più il
dogma imposto alla fede.
D. In realtà, questa parola sostanza fu tolta
da una filosofia.
R. È questa una questione di storia, non una
questione di dogma. La religione si vale delle parole coniate dalle
scuole filosofiche come delle altre parole, ma senza infeudarsi ad
alcuna scuola; non si tratta che di comodità di espressione, e tu non
hai bisogno di sapere/quello che Aristotele pensi della sostanza, per
concepire esattissimamente il mistero dell'Eucaristia.
D. Come puoi credere davvero a una tale sostituzione
di realtà tangibili, a un tale gioco di apparenze, in una parola, a una
tale fantasmagoria? R. Non vi è nessuna fantasmagoria; le
apparenze, prima e dopo, sono perfettamente reali, della realtà che
conviene alle apparenze; i nostri sensi non sono dunque ingannati; la
nostra ragione, illuminata dalla fede, non inganna. Non si può in alcun
modo parlare di inganno. Vi è solo un miracolo.
371
D. Tutta una sèrie di miracoli, e dei meno
credibili. R. Scusa, caro incredulo, ma ecco cosa ne pensa Pascal:
« Come abomino queste sciocchezze, di non credere l'Eucaristia, ecc.!
Se il Vangelo è vero, se Gesù Cristo è Dio, che difficoltà vi è
qui? ».
D. Tuttavia dici tu stesso che Dio si arresta di
fronte alla contraddizione. E non è contraddittorio che uno stesso
corpo sia nello stesso tempo qui è là? Se è qui, non è là.
R. Potresti spiegarmi che cosa è qui e là,
che cosa è realmente lo spazio, e quale relazione precisa mantiene
l'essere localizzato col suo luogo? Ignori tu che nessuno al mondo ha
mai detto nulla qui di perentorio e che tutti possano ammettere? Ora
come sai tu che Dio non può collocare una cosa in due luoghi, se non
sai ne che cosa è collocare, ne che cosa è un luogo? Non ammetti anche
tu che un corpo, se non può essere qui e là simultaneamente, può
esserci successivamente? E puoi tu dire che cosa è successione, che
cosa è simultaneità, nozioni che i nostri più sottili filosofi si
sono arrovellati a definire senza riuscire a mettersi d'accordo? Del
resto, noi non diciamo che il corpo" eucaristico "sia posto
qui e là, ma diciamo che vi è presente, e ciò non è la stessa
cosa. La presenza non utilizza necessariamente lo spazio, pur
manifestandosi nello spazio. La presenza eucaristica è indefinibile per
noi; essa ci spinge a pensare che il Creatore della materia e dello
spirito dia in questo caso alla materia qualche cosa delle proprietà
dello spirito. Ma che importano le nostre supposizioni o le nostre
ignoranze? Per quanto misteriosa
372
essa rimanga, ci basta che la presenza reale sia
reale, perché noi ne abbiamo la consolazione e il beneficio.
D. Non posso trattenermi dal pensare che l'abitudine
ti acciechi e non veda più quello che vi è di strano in espressioni
come questa: « ricevere il buon Dio », o « dare il buon Dio ».
R. Queste espressioni sono per noi vere d'una
verità letterale, e che non dev'essere attenuata. Ma forse
l'accecamento non è dove si pensa, e forse qui un'altra « abitudine »
si deve denunciare. Quanto facilmente noi ci assuefacciamo alle cose
quotidiane! Noi tracanniamo i misteri come acqua. Eppure, mangiando un
frusto di pane ordinario, respirando il profumo d'un fiore, non siamo
noi veramente e intimamente al contatto di Dio? Dio è ovunque; Dio è
in tutto. Se nell'Eucaristia egli è più che altrove, perché vi è
più della sua azione, chi s'incaricherà di definire questo « più »,
non potendo definire il meno, e chi pretenderà di obiettare a proposito
di questo più, non avendo nessuna norma da proporre per distinguerlo
del meno, dunque per giudicare qui del possibile e dell'impossibile? «
O presuntuoso! » ci direbbe sempre Pascal.
D. Voi allora credete di possedere Dio? R. Dio si
fa possedere da noi come noi possediamo le cose, e assorbire nell'intimo
della nostra carne mortale come noi mangiamo il pane.
D. È fare un gran conto nei suoi sentimenti! R.
I suoi sentimenti, come pure la sua potenza, ci furono mostrati nella
sua creazione, nella sua redenzione, nella sua vita temporale, nella sua
morte, e non spetta a noi segnar loro dei limiti.
373
D. Non sarebbe sufficiente una bella commemorazione e
un ricco simbolo? I protestanti se ne accontentano. R. I protestanti
si accontentano di troppo poco, e si permettono di dare delle lezioni al
Vangelo. Spetta forse a noi d'interpretare secondo la nostra convenienza
— che qui conviene così poco — parole così solenni? U-n simbolo,
per quanto ricco sia, non è una realtà, ne un pasto commemorativo, una
presenza. La presenza reale di Cristo in mezzo a noi non può
mancare di avere degli rii etti che non produrrebbero affatto quello che
il grande Arnauid chiamava V Assenza reale. Lì sta veramente,
come dice Gerbert, il « dogma generatore della pietà cattolica » e la
sorgente degli effetti di sanità che ti additavo.
D. Anche i simboli hanno un loro effetto. R. Noi
lo riconosciamo e ce ne serviamo; è una parte dell'effetto
sacramentale; ma a parità di disposizioni, potresti tu paragonare
l'effetto d'una Comunione cattolica, anzi d'una « visita al SS.
Sacramento » fatta con la certezza d'una divina presenza, all'effetto
d'una metafora e d'un pio ricordo? Noi siamo, anzitutto, esseri dotati
di sensibilità, e solo dopo siamo esseri dotati d'immaginazione. Per
raccogliere tutte le nostre forze in vista di un vantaggio spirituale
così diffìcile e così necessario, quale invenzione meglio adatta e
più evidentemente divina di questa! « La Santa Ostia, per la quale
l'uomo partecipa alla Divinità ed è obbligato a mostrarsene degno, mi
sembra di una così inconcepibile bellezza, di una potenza così enorme,
che stabilisce nello stesso tempo la superiorità del cattolicismo e la
sua ispirazione soprannaturale » (renato schwob). Non
374
senti tu quello che vi è di ammirabile e di ben degno
di una religione dell'uomo, nel fare così di Dio un'intima e quotidiana
realtà?
D. Questa realtà è troppo umana per un Dio. R.
Dal momento che si è dato all'umanità, il nostro Dio va sempre a
fondo, e gli estremi dell'amore sono per lui una specie di necessità,
come lo sono per noi stessi. Chiunque ha amato intensamente lo
comprende.
D. Dunque attribuisci l'Eucaristia all'amore? R.
Essa è la pazzia dell'amore.
D. La pazzia, in Dio?
R. La pazzia è il mistero dell'amore. L'amore è il
mistero di Dio. Tutto si compendia in queste semplici parole di S.
Giovanni: Noi crediamo all'amore divino.
375
LA PENITENZA
D. Quale posto tiene il sacramento della penitenza
nell'economia cristiana?
R. Lo stesso posto che il peccato nella vita. La
religione, avendo da fare con l'uomo, non poteva dimenticare il
peccatore; non poteva abbandonarlo a se stesso;
bisognava trovar un rimedio e ingegnarsi per riuscire,
per farci riuscire, ad onta delle nostre costanti sconfitte.
D. Che cosa intendi per peccato?
R. I cristiani lo definiscono un'offesa a Dio, o una
disubbidienza alla legge di Dio.
D. Si può offendere Dio?
R. È possibile, purtroppo, ed è una grande
sventura se si bada al fatto; se poi si richiama alla mente il nobile
privilegio che lo permette: la libertà, è il triste prezzo di
una gloria.
D. Offendere Dio!... Io penso al verso di Vietar Hugo
ne La Conscience: « E nella notte si lanciavano frecce contro le
stelle ».
R. Se le stelle fossero vive, si offenderebbero del
gesto, benché perfettamente tranquille per i suoi
. 377
effetti. Impotenza non significa irresponsabilità o
innocenza.
D. Se non si nuoce?
R. L'essere a cui non si potrebbe nuocere, a cagione
della sua grandezza, è quello che si deve venerare di più, dunque è
quello che si offende sommamente, se si tocca la sua gloria.
D. Che cosa fa il peccato alla gloria di Dio? R.
Umilia il pensiero creatore; contraria una volontà di perfezione e di
ordine; nell'armonia dell'opera divina, introduce delle dissonanze e
compromette il « regno de' suoi fini » (kant).
D. Pochi pensano a queste cose; nessuno vuole queste
cose. Si fa questo e quello; ma chi intende veramente offendere Dio?
R. Non s'intende offendere Dio; per lo meno ciò è
raro; ma si vuole contentare se stessi a rischio di offendere Dio, ad
onta dell'offesa di Dio. Se si potesse fare in modo che Dio non fosse
offeso, senza dubbio ciò si farebbe; ma questo vuoi dire che si
desidera di cambiare il male in bene, piuttosto che guardarsi dal male.
D. Siamo dunque tutti peccatori?
R. « II più grave dei peccati è l'orgogliosa
coscienza
di essere senza peccato » (carlyle).
D. Che differenza vi è tra il peccato veniale e
il peccato mortale?
R. Il peccato mortale è quello che si oppone
formal-mente a una volontà di Dio, che per questo ci toglie la sua
amicizia, sì che il peccatore, recedendo dal suo Dio, volta le spalle
al suo ultimo fine preferendogli un bene
378
finito. Il peccato veniale, pur rispettando l'amicizia
di Dio e il buon orientamento della vita, devia però un poco dal
sentiero del bene.
D. Da che dipende una così gran differenza di natura
e di risultati?
R. Può dipendere dalla maggiore o minore gravita
della materia, che in un caso si reputa oggetto di una volontà formale
del legislatore, e nell'altro no. Può dipendere, in una stessa materia
grave, dalla pienezza o dall'imperfezione del consenso.
D. L'uomo in stato di peccato grave fa ancora parte
della. Chiesa?
R. Sì, come un membro morto. Non riceve più il
sangue dal cuore, che è l'amore divino; non ubbidisce più all'idea
direttrice del corpo, che è lo Spirito di Cristo; è privo del
calore vitale e del dinamismo spirituale;
non ha più diritto al pane di vita che dovrebbe
mantenere in lui la vita che gli manca; è « uno scomunicato
all'interno » (bossuet).
D. Che cosa è dunque il sacramento della penitenza?
R. È il sacramento che è destinato a cancellare i peccati
commessi dopo il battesimo e a rendere al peccatore la grazia del suo
Dio.
D. È dunque un sacramento di purificazione? R. E
di riconciliazione. Sono lì quelle acque di Siloe « che scorrono in
silenzio » nelle quali Gesù invita i malati a purificarsi. Ma dopo, o
piuttosto per il fatto stesso della purificazione, che ristabilisce la
grazia battesimale, l'anima pura si sente in Dio, « chiarezza fusa alla
chiarezza » (francis jammes).
379
D. La religione accetta facilmente il peccato! Essa
si rassegna dunque al peccato?
R. La religione non si rassegna al peccato; ma si
rassegna all'uomo peccatore; è il peccatore che Cristo le ha affidato,
affinchè con lui, essa lo salvi.
,D. Il peccato dunque non è più una disgrazia? R.
Il peccato è la più grande delle disgrazie; si potrebbe dire che è la
sola vera disgrazia; ma esso non è irreparabile; dopo di esso non è
finito tutto; dopo di esso tutto si può riprendere, tutto si può
riparare, tutto può ridiventare puro, tutto si può mostrare più alto
di prima, ed è qui che sta il capolavoro.
D. Dunque il cattivo sarà l'oggetto della più
appariscente bontà?
R. Gesù disse: lo non sono venuto per quei che
stanno bene, ma per quelli che sono malati.
D. Si possono amare i cattivi? R. I cattivi hanno
bisogno d'amore più degli altri;
essi sono in estremo pericolo, ed è l'amore che li
rialza.
D. Non vi sono eccezioni? Certi mostri... R. Un
mostro è un uomo spaventosamente deviato;
pure è sempre un uomo; potrà alla fine arrendersi e
piegarsi; solo l'amore divino non disarma.
D. Ma il peccatore ha offeso quest'amore. R. La
penitenza cristiana ci obbliga a collocare la nostra fiducia nello
stesso amore che abbiamo disconosciuto.
D. Lo sforzo della penitenza è dunque...
R. Di vincere il peccato, di passargli per così
dire sul
corpo, per riprendere il giusto cammino.
380
D. No» " questo un compromesso? R. Il sole
s-.i compremette forse spazzando via il fango?
D. Il sole re'^na lassù in alto. R. La religione
non teme il peccato appunto perche essa regna lassù, cioè perche è
divina; essa lo maneggia con dita di luce.
D. Che cosa domanda ai peccatori? R. « Che
vengano a subissarsi tra due braccia tese »
(C. PÉGUY).
D. Vi sono però delle condizioni? R. Vi sono
delle condizioni, ma tutte favoriscono il peccatore; gli si procura a un
tempo l'onore della giustizia e il beneficio della misericordia. La
penitenza è l'amplesso della giustizia e della misericordia.
D. Qual è la parte della giustizia? R. È lo
sforzo. Con la penitenza ci si da il mezzo di rientrare in possesso di
noi come con il lavoro noi conquistiamo la natura ribelle. Qui e là, è
una stessa fatica, che ricompensa una stessa ascensione verso
l'innocenza dell'anima e delle cose.
D. E ne segue?...
R. Il possesso rinnovato della grazia, una migliore
esperienza di se stessi, una fiducia crescente nel soccorso di Dio che
rialza, e una nobile pace.
D. Certi peccati hanno conseguenze esterne o interne.
R. Dio se le addossa insieme con noi; e nella proporzione di quello
che ci è possibile, noi dobbiamo addossarcele insieme con lui.
D. E le abitudini peccaminose? R. Quello che
prima era responsabilità crescente, a
381
cagione della frequenza dei cattivi voleri, diventa poi
scusa. Se un uomo ha colpevolmente avvilito l'anima sua, ma poi si
emenda, viene trattato come un convalescente che l'amore considera con
riguardo.
D. Non è ciò un invito a fare il male? R. Tu
riferisci un'obiezione di Giuliano l'Apostata.
D. Non importa, non è troppo comodo scaricarsi così
tutto a un tratto delle proprie colpe, forse di tutta una vita di
peccato?
R. Preferiresti un'incomodità eterna? Non
sta appunto lì quello che si oppone all'inferno? Sì, tutto finirà; ma
ciò non avviene senza che ci siano proposti, e proposti molte volte,
dei « comodi » ricominciamenti.
D. Nondimeno certi atti si dicono irreparabili. R.
La penitenza smentisce colui che disse: « Ciò che si rimette non è
mai ben rimesso; ma ciò che si smette è sempre ben smesso » (C.
péguy): essa è in certo modo creatrice; ci rifa un'anima, e ci ricrea
un universo, quello di Dio, tutto fatto di bontà e di sapienza, senza
quel disordine e quel turbamento in cui il peccato ci aveva immersi.
D. Si può concedere l'amnistia a un colpevole; ma la
società non gli restituisce mai la sua intera stima. R. La società
non vede il cuore, ed ha poco cuore. Gesù tracciò la condotta della
sua Chiesa facendo sua amica e sua discepola una donna disonorata.
D. Il peccatore deve dunque essere nella gioia? R.
La gioia è per noi un dovere, perché è un omaggio, e significa:
Padre, io credo al tuo perdono, credendo al tuo amore.
382
D. Consigli tu ai penitenti di ricordare sovente i
loro peccati?
R. Essi devono ricordare la loro debolezza e la
misericordia di Dio, ma non vagliare la loro miseria. Una volta usciti
dalla notte, bisogna camminare nella luce, e non indugiarsi a contare le
cadute fatte nell'ombra.
D. Da che dipende la frequenza delle cadute? R. A
volte dalla fiacchezza dello sforzo che raddrizza;
ma specialmente da quella terribile inclinazione
naturale che ci rende caro il peccato, e dall'abitudine, che tende a
renderlo necessario.
D. Quante volte si può ottenere il perdono? R.
È la domanda di S. Pietro al suo Maestro, e Gesù risponde: «
Settantasette volte sette », senza dubbio con un tenero sorriso. Lui
che ci lascia nella nostra debolezza, pur rialzandoci dall'antica
caduta, tiene conto di questa debolezza e la soccorre; essa dev'essere
un mezzo di salvezza, e non vuole farne una causa di perdizione. Per
l'amore che egli ci offre ancora e che possiamo ricuperare, egli intende
di valersi, per rialzarci, della nostra debolezza. Non sono stati falsi
amori ad ingannarci? La bilancia risalga, dopo essere sfuggita al suo
punto morto!
D. Non vi è nessun limite?
R. Nessuno; l'amore del Padre è tale, che
l'infedeltà ostinata del figlio non lo scoraggia mai. « I perdoni del
Signore sono una moltitudine », dice il Salmo. « Quando gli diciamo:
Ti ho tradito, egli ci risponde: Va' in pace, ho fiducia in tè ».
D. Non vi è dunque mai motivo di disperare? R-
II disperare è un disconoscere Dio e se stessi. Si
3^3
fosse pur Caino, si fosse pur Giuda, si è sempre figli
di Dio, e si hanno da prendere per sé queste parole del dolce Maestro,
che non si rivolgono meno alla sventura colpevole che alla sventura
innocente: « Venite a me, voi tutti che soffrite e siete oppressi, e io
vi solleverò ».
D. Perché la Chiesa interviene in un atto così
intimo come la penitenza?
R. Noi siamo mèmbri della Chiesa; quando siamo
ammalati spiritualmente, la Chiesa è ammalata in uno dei suoi mèmbri:
non è forse normale che essa cerchi di guarire se stessa guarendo noi?
D. Mi sorprende questa affermazione che per un
peccato isolato la Chiesa sia ammalata. R. « Non vi sono che
malattie generali », dicono i medici; a cagione della solidarietà
funzionale, un elemento che si turba è un male del tutto.
D. Il peccato però è un'offesa a Dio. R. Dio è
per mezzo di Cristo il capo o la testa della Chiesa; per mezzo dello
Spirito Santo egli ne è l'anima. Dio, Cristo e Chiesa dunque sono qui
tutt'uno, come direbbe Santa Giovanna d'Arco.
D. Il peccato sarebbe dunque un male universale? R.
« II minimo movimento interessa tutta la natura;
il mare intero cambia a motivo di una pietra. Così
nella grazia. La minima azione, per le sue conseguenze, tocca tutto »
(pascal).
D. Tuttavia il peccatore sovente è solo. R. Il
peccatore crede di essere solo; ma è in presenza del cielo e della
terra, ed egli offende il cielo e la terra, di cui sconcerta le leggi.
384
D. E ciò, a' tuoi occhi, crea un diritto
d'intervento in favore della Chiesa?
R. È un diritto, poiché essa è lesa da parte sua,
ed è un beneficio perché là dove c'è solidarietà organica, la
guarigione, come la malattia, è funzione di questa solidarietà. Dio
non volle assolvere senza la Chiesa, dice Pascal; com'essa ha parte
all'offesa, vuole che essa abbia parte al perdono, e l'associa a questo
potere, come i rè i Parlamenti.
D. Come dunque si possono mettere insieme le
condizioni della conversione per mezzo della penitenza? R. Il
peccatore si è mostrato colpevole verso se stesso, verso la Chiesa e
verso Dio: se egli si deve convenire, ciò non potrà essere se non per
un atto spontaneo, per un intervento della Chiesa e per un intervento di
Dio. Nessuna medicina opererebbe sopra un membro, se questo membro non
reagisse vitalmente per liberarsi dal male. Nessuna medicina parimenti
opererebbe, se la solidarietà organica non interessasse tutto il corpo
a questo risanamento che guarisce il corpo stesso. Finalmente nessuna
medicina agirebbe, e meno ancora, se Videa direttrice della vita
chiamata anima non si facesse artefice della riparazione, come fu agente
della fabbricazione, della crescenza e della nutrizione dell'organismo.
D. Quali sono gli atti del penitente che
corrispondono alla sua « reazione » necessaria? R. Sono la contrizione,
la confessione e la soddisfazione. ,
D. Qual è la parte di Dio? R- II perdono.
385
D. E la parte della Chiesa?
R. La Chiesa opera necessariamente per mezzo di un
rappresentante, che è il sacerdote che agisce come giudice, come
ministro di assoluzione, come colui che decide della soddisfazione.
D. Mi vuoi spiegare queste cose, e prima di tutto,
che cosa è la contrizione?
R. Etimologicamente, significa uno « spezzamento o
stritolamento del cuore » per il rimorso del peccato. D. Il
peccatore può sempre provare un tale spezzamelo?
R. Non ci si domanda che il possibile, e l'immagine
usata ha per scopo di farci capire che la contrizione cattolica non è
una passività, ma un atto. Io spezzo il mio cuore davanti a Dio in
onore della sua santità oltraggiata.
D. Senza immagine, che diresti? R. « La
contrizione è un pentimento delle nostre colpe con la volontà della
loro distruzione » (S. tommaso d'àquinoì.
D. Che cosa è la confessione? R. È la
dichiarazione delle colpe commesse quanto alla loro specie, al loro
numero e alle circostanze che ne modificano la natura o la gravita. D. E
la soddisfazione?
R, È la riparazione consentita in favore di Dio
oltraggiato e del prossimo che ha potuto essere leso dalle nostre colpe.
D. Qual è la miglior riparazione riguardo a Dio? R.
Oltre a quello che il sacerdote indica, e che di solito è così poca
cosa, è il sopportare pazientemente i mali che Dio ci manda, o
permette.
386
D. Perché è la miglior riparazione?
R. Perché è la più conforme alla sua volontà e
la più
opposta alla nostra.
D. E qual è la miglior riparazione riguardo al
prossimo?
R. È quella che annulla e compensa il più
esattamente e il più delicatamente possibile il torto che gli abbiamo
fatto. '
D. In che modo ci viene il perdono di Dio? R. Per
me2zo dell'assoluzione.
D. Bisogna dunque chiederla a luì?
R. Sì, ma per mezzo della Chiesa, che ci unisce a
lui,
e attraverso la Chiesa ci viene anche la sua risposta.
D. Non vi è qui un'usurpazione di coscienza? R.
Ho già detto e ridetto le ragioni di questo intervento; ma devi
osservare che nella Chiesa tutti si confessano, compreso il tuo
confessore, compreso il Sommo Pontefice. Dunque si tratta qui d'un fatto
che oltrepassa l'uomo, il che esclude ogni idea di usurpazione. Non ne
hai forse il segno ben chiaro in questo fatto che il confessore, quando
ha assolto, domanda al penitente di « pregare per lui »?
D. Ammetto le ragioni dell'istituzione; ma, nel
fatto, ci si domanda di aprire la nostra coscienza a un uomo. R.
Come l'istituzione potrebbe operare altrimenti, e in un modo più
favorevole? Preferiresti confessarti a tutta la Chiesa?
D. No» si faceva così una volta? R. Così si
faceva sotto il nome di confessione pub-
387
blica, richiesta per certi delitti. Ma vi si rinunziò
presto, a cagione di inconvenienti derivanti dalla nostra miseria
comune; però il diritto assoluto non è stato abolito; la nostra fede
nel giudizio universale lo rammenta, e ciò dovrebbe farci
riflettere quando critichiamo la disposizione prudente e misericordiosa
che la Chiesa mette in pratica.
D. Quello che urta i nervi è siffatta dichiarazione
di uomo a uomo.
R. Ascolta quello che dice in proposito Pascal: «
Noi non vogliamo che gli altri c'ingannino; non troviamo giusto che essi
vogliano essere stimati da noi più di quel che essi meritano: non è
dunque giusto che noi inganniamo loro e che noi vogliamo che essi ci
stimino più che non meritiamo... Ecco i sentimenti che nascerebbero da
un cuore che fosse pieno di equità e di giustizia. Che dobbiamo dunque
dire del nostro, vedendovi una disposizione affatto contraria?... ». «
La religione cattolica non obbliga a svelare i propri peccati a tutti
indifferentemente; tollera che si rimanga nascosti a tutti gli altri
uomini, ma ne eccettua uno solo, al quale essa comanda di svelare il
fondo del proprio cuore e di farsi vedere quello che si è. Non vi è
che un solo uomo al mondo che essa ordina di disilludere, e lo obbliga a
un segreto inviolabile, il quale fa sì che questa conoscenza sia in lui
come se non vi fosse. È possibile immaginare qualcosa di più
caritatevole e di più dolce? Eppure la corruzione degli uomini è tale
che ancora si trova dura questa legge, ed è una delle principali
ragioni che fecero ribellare contro la Chiesa una gran parte di Europa
».
388
D. Now vi sono gravi inconvenienti in una tale
pratica?
R. Tutto presenta gravi inconvenienti, in una vita
come la nostra esposta alla precarietà e alla debolezza. Ma si tratta
di valutare il prò e il contro, e i benefici della confessione son
tali, che la sua soppressione sarebbe un immenso impoverimento per la
vita religiosa e la vita sociale.
D. Perché la vita sociale?
R. Perché la vita religiosa è necessaria alla vita
sociale, come abbiamo spiegato tante volte, e specialmente a questo
riguardo. Nietzsche giunge a dire che la stessa coscienza scientifica è
figlia della morale cristiana, e che essa si è « acuita nei
confessionali ».
D. Che cosa procura dunque la confessione? R.
Argina la corrente del male opponendogli una diga reale, visibile, e
periodica; -— essa sforza a raccogliersi e a precisare il proprio
caso, poiché lo si deve esporre;
così è una luce, per l'anima spesso ottenebrata e
accecata nella sua incoscienza; — mette a nudo il peccato, lo fa
giudicare tanto meglio in quanto tè lo senti giudicato da altri, lo
spoglia de' suoi incanti e lo restituisce alla sua malizia, a volte alla
sua ignominia ipocrita; — come nella psicanalisi, la confessione
procura la liberazione per via della dichiarazione; ti rende la
disponibilità dell'anima tua; rigenera con lo sforzo le energie
virtuose e spezza il determinismo perverso; la schiavitù delle
passioni, nella sua lusinghiera e implacabile stretta, ne sarà
attenuata, oltreché, moralmente, essa cambia segno: aggravamento ieri,
triste scusa domani. Da una
389
altra parte, la confessione ti accerta del perdono
divino e così alleggerisce l'anima tua de' suoi terribili pesi segreti;
— di fronte all'invisibile e muta eternità, t'ispira il sentimento di
essere capito, amato, incoraggiato per l'avvenire; reca dunque seco
questo conforto, la cui assenza cagiona gli abbattimenti e le
disperazioni, di avere davanti a tè una pagina bianca, sulla quale tu
puoi scrivere d'ora in avanti un testo santo. — Finalmente, nello
stesso tempo che un atto di nobile libertà ti rialza, l'amicizia e la
fraternità ti soccorrono, giacché il confessore si fa consigliere,
sostegno, consolatore, purché egli conosca il suo compito e tu dal
canto tuo sappia richiedere il suo aiuto.
D. Eppure i protestanti non si confessano che a Dio.
R. Qui sarebbe il caso di dire: « È troppo comodo! ». Ma io
preferisco dire: È troppo poco misericordioso, troppo poco consolante,
troppo poco efficace. Chi non conosce le grida di desiderio mandate da
certi protestanti quando pensano a questo bagno dell'anima, a questa
frizione energica e corroborante, a questo sollievo, a questa reazione
di pace!
D. Psicologia geniale, sia pure! ma dov'è
l'autenticità e la verità?
R. Ho detto ripetute volte, che nella Chiesa, nulla
di essenziale si è originato per pure esigenze psicologiche;
l'autenticità del sacramento della penitenza è quella
della Chiesa stessa; e di fatto, quale significato e valore potrebbe
avere nei confronti del nostro spirito questo sacramento, se non fosse
stato istituito da Dio stesso? Solo Dio ne può garantire l'efficacia,
ed è questo che conta soprattutto.
390
IL SACRAMENTO DEGLI INFERMI
D. Che cosa è l'Estrema Unzione? R. L'Estrema
Unzione, o il sacramento degli infermi come alcuni preferiscono e non a
torto denominarlo, è il sacramento di coloro che sono gravemente
ammalati.
D. Qual pensiero vi presiede? R. Essa è
l'intervento supremo, in favore di un partente, del gruppo unito in
Cristo e in Dio che noi chiamiamo Chiesa.
D. Pascal disse: « Si muore soli ». R.
Egli pensava agli attori o ai compiici di una vita dissoluta. Di fatto,
quando la morte ci sovrasta, costoro diventano lontani come se
appartenessero a un altro mondo. Ma la solidarietà cristiana è
immortale come Cristo e come Dio; la morte non la raggiunge.
D. È dunque un atto di solidarietà? R. È un
atto di solidarietà da parte dei mèmbri della Chiesa che vi prendono
parte, e un atto di maternità da parte della Chiesa stessa. Avendo
generato questo figlio e avendolo guidato nella vita, essa dev'essere
lì
391
all'ora estrema. II morente si abbandona a lei, ed essa
si piega sopra di lui teneramente.
D. È forse per significargli la potenza imminente?
R. In nessun modo, e hanno assai torto coloro che si rappresentano
« l'uomo nero » come un uccello lugubre.
D. Che cosa si propone dunque? R. Il sollievo
spirituale e corporale del malato.
D. Di qual sollievo spirituale si tratta? R. Si
tratta di aiutare il fedele a compiere in extremis l'opera di
penitenza, a distruggere le « reliquie del peccato », affinchè la
morte che minaccia sia definitivamente spogliata del suo potere di
nuocere, e lo Spirito di pace e di gioia stabilitesi nell'anima
allontani gli spaventi.
D. Hai la pretesa di togliere alla morte i suoi
terrori? R. La morte, per il cristiano, è un avvenimento come un
altro; ma la debolezza ha gran bisogno che si ridesti il suo spirito di
fede.
D. Un tale desiderio suppone già la fede. R.
Difatti, colui che ha la fede deve desiderare vivamente questa
salvaguardia, nel momento in cui si conclude il pericoloso passaggio da
questo mondo. Ma un principio di fede, aiutato dal sacramento e dalla
preghiera comune, genera una fede più grande. E se, per grazia, la fede
venisse a sbocciare da questo fatto stesso, il fortunato malato potrebbe
dire con Giacomo Rivière:
« Adesso, io sono miracolosamente salvo ».
D. Ma se si è vissuto bene? R. Chi è vissuto
bene ha il diritto di essere fiducioso;
392
ma di fronte al mistero, sapendo che alla porta
dell'altro mondo siede la giustizia accanto all'amore, sarebbe un
incosciente se non provasse un salutare timore.
D. Perché salutare?
R. Perché esso invita ad accrescere le proprie
garanzie e a valersi del suo soccorso.
D. Si da l'Estrema Unzione ai condannati a morte';1
R. No, e neppure ai soldati in estremo pericolo, ne in
generale a chiunque affronta la morte fuori della malattia e della
sofferenza.
D. Perché questa diversità?
R. L'uomo in possesso delle sue forze ha dei
soccorsi
ai quali può cooperare, o che si procura da se stesso;
il malato attende, e la sua attesa fraterna vede venire
a sé una fraternità senza confini come la nostra Chiesa universale,
tenera come l'anima di Cristo e potente come Dio.
D. Hai anche parlato d'un sollievo corporale. R.
Riguardo al corpo, la preghiera sacramentale domanda la guarigione, ed
essa l'attenderebbe con una fiducia totale, se non sapesse che questo
effetto, come tutto quello che riguarda il temporale, rimane sottomesso
alla Provvidenza.
D. La Provvidenza non ha essa pietà? R- « La
pietà dei mortali non è quella de' cieli ». (victor hugo). Qui devi
ricordare quanto abbiamo detto della condotta di Dio in questo mondo.
D. È tutto quello che aspetti?
•R. Noi speriamo ancora, nel malato, una felice calma
dello spirito.
393
D. Quale ne sarà la ragione? R. « Quante sante
cerimonie, queste preghiere aposto-• lidie, per una specie d'incanto
divino, sospendono i dolori più violenti, e, come spesso ho veduto,
fanno dimenticare la morte a chi le segue con fede » (bossuet).
D. Qual è il rito di questo sacramento? R. La
materia del sacramento è l'olio, conforto per l'atleta dell'estremo
combattimento, rimedio per l'anima dolente e mai definitivamente
liberata dal peccato, sorgente di calore e di luce per l'anima
intirizzita e brancolante sull'orlo dell'abisso spalancato.
D. In che modo usi questa materia? R. Si
praticano delle unzioni sulle parti del corpo che si possono considerare
come il principio delle nostre miserie morali: gli occhi, le orecchie,
le narici, la bocca, le mani, i piedi, e si accompagnano con una
preghiera.
D. Perché una preghiera invece della forma
affermativa degli altri sacramenti?
R. Perché ci si rivolge a colui che è senza forza
e non si può aiutare da se stesso; perché il morente è già come
partito, rimesso nelle mani di Dio, che solo la preghiera può
raggiungere.
D. Questo sacramento dell'ora estrema dev'essere
l'ultimo dei sacramenti?
R. È l'ultimo dei sacramenti individuali; ma resta
da provvedere, mediante l'Ordine e il Matrimonio, all'arruolamento della
gerarchla religiosa e al popolamento della Chiesa.
394
L'ORDINE
D. Quale idea s'introduce sotto questo termine un po'
speciale: /'Ordine?
R. Si tratta dell'ordine delle comunicazioni
spirituali nella città di Dio.
D. Quali comunicazioni?
R. La gerarchla ordinata deve comunicare i benefici
della redenzione ai fedeli, nel nome di Cristo che essa rappresenta e di
cui continua l'azione sopra la terra.
D. Che nome dai a questa comunicazione stessa? R.
È il sacerdozio.
D. Quali sono le sue attribuzioni? R. Esso è
incaricato di preparare e di distribuire a tutti il nutrimento
spirituale: nutrimento delle intelligenze mediante la predicazione
dottrinale; nutrimento dei cuori mediante le esortazioni e mediante il
ricordo delle divine speranze; nutrimento sovrumano dell'Eucaristia, che
comprende tutti i doni della vita dandoci il loro Autore.
D. Quest'ultimo compito è certamente a' tuoi occhi
il
principale?
R- È l'opera propria del sacrificio; tutto il resto
vi si
395
riferisce come una preparazione, un accompagnamento o
una continuazione. Onde il sacerdote è il centro e il fine di tutta la
gerarchla. Tutti gli uffici che si esercitano sotto di esso: diaconato,
suddiaconato, ordini minori, non sono che servitori. Tutti i poteri
superiori: episcopato, prelature di ogni classe, Papato, servono in
un'altra maniera, incaricati di procurare dei sacerdoti, poi di
sorvegliare l'esercizio del loro potere, non in quanto al principale,
che è l'azione consacratrice, ma per l'uso che se ne fa e le condizioni
esterne che essa suppone.
D. Chi stabilisce i sacerdoti? R. Il Vescovo «
principe dei sacerdoti », secondo il linguaggio dell'antica legge, e di
cui si dice che possiede la pienezza del sacerdozio, per significare che
la sua funzione, oltre che essere completa, è indipendente, e la
comunica mediante l'ordinazione.
D. Non è il Papa « il principe dei sacerdoti
»? R. Sotto l'aspetto propriamente sacerdotale, il Papa è un
vescovo come gli altri; ma egli ha inoltre una giurisdizione universale,
vale a dire un potere di governo.
D. Tu dici che questo potere è supremo, e non è
forse un principato?
R. Il potere del Papa è supremo nel campo dov'osso
si esercita; ma gravita attorno al sacerdozio, per la ragione che tutto
gravita attorno l'Eucaristia, e ciò stesso si spiega perché Cristo,
che arreca l'Eucaristia, è il tutto della nostra vita in Dio: mezzo
universale, sorgente unica di luce, di arricchimento vitale, di gioia.
Che tutto funzioni secondo la legge della sua istituzione, e si vedrà
la gerarchla, dall'alto in basso, da destra a si-
396
nistra, in tutte le sue ramificazioni e in tutti i suoi
gradi, impiegata in una sola opera: la santificazione per mezzo di
Cristo, con l'Eucaristia, opera del sacerdozio, che ci da
sostanzialmente Cristo come centro d'influsso.
D. Il sacerdozio è dunque per noi una grandissima
cosa?
R.
È
la cosa unica, superiore a ogni cosa umana, e che
di superiore non ha che il divino.
D. Ma la Chiesa?
R. La Chiesa stessa non è che un sacerdote
collettivo, corpo spirituale di Cristo sacerdote, il cuore del
quale, ciborio vivente, ci offre la Divinità.
D. Eppure la Chiesa è amministrazione, è politica.
R. La sua essenza è in fondo mistica. La politica,
l'amministrazione non vi si uniscono se non per la necessità del suo
funzionamento umano. La Chiesa ci vuole divinizzare; essa dispone per
questo di un mezzo vivente, che è Cristo. Là dov'è Cristo, ivi è
dunque l'essenziale del suo compito, la ragione del suo organamento, il
nodo vitale in cui tutti i suoi movimenti si coordinano.
D. J riti del sacramento dell'Ordine saranno dunque
relativi all'Eucaristia?
R. Sì, ed essi consistono in questo, che il
consacratore segna il potere che egli intende concedere mediante la
consegna degli oggetti religiosi che servono a ciò: il calice con il
vino, la patena con il pane, l'evangeliario, oppure il calice vuoto,
ecc., secondo gli ordini. Vi si aggiungono parole che esprimono
all'imperativo l'uso di queste cose. Ed è una consacrazione, analoga
alla consa-
397
orazione dei rè, in cui un segno sensibile accompagna
l'attribuzione di un reale potere.
D. La consacrazione sacerdotale conferisce una
grazia? R. Conferisce insieme una grazia e un potere. Il potere
corrisponde a quello che noi chiamiamo carattere sacerdotale, per
sempre inseparabile da chi l'ha ricevuto. In quanto alla grazia
sacramentale annessa all'ordinazione sacerdotale e a tutte quelle che ne
dipendono, essa segna la volontà di Cristo di dare al suo servo, quando
egli lo consacra, i mezzi di compiere non materialmente, ma degnamente
il suo ufficio.
D. La funzione dipende forse dall'uomo? R. No
certo; l'ufficio del sacerdote è indipendente dal suo valore personale,
e, per il fedele, quello che importa, è questo ufficio e non questo
valore. Tuttavia, che il dispensatore dei beni di Dio non possieda egli
stesso i beni di Dio, è un disordine. L'istituzione religiosa, che mira
al perfetto, cerca di procurare l'armonia del vaso e del profumo, del
canale e del liquore che scorre, del sacerdote e della santa vita che
deve promuovere.
D. I capi religiosi dovrebbero dunque essere dei
santi? R. Quanto più sono essi elevati in potere, tanto più si
desidera che siano elevati in grazia, al fine di essere elevati in
abbassamento di umiltà davanti a Dio e in abbassamento di servizio
verso i loro fratelli. Per questo l'episcopato, sacerdozio completo, è
chiamato dalla teologia « uno stato di perfezione », poiché la
pienezza del sacro potere, anziché dispensarlo da qualche cosa, lo
obbliga. Sancta sancteì santamente, l'amministrazione
398
delle cose sante; più santamente, l'amministrazione
delle cose più sante!
D. E se questo non si effettua, quale è secondo tè
il
rimedio?
R. Da un lato la riforma o la santificazione sempre
maggiore del clero; dall'altro, lo spirito di fede dei
fedeli.
D. In che consiste questo spirito di fede? R. Nel
vedere il sacerdote così grande, che quando egli è meno degno
personalmente, la santità del suo compito risplende anche di più,
perché questo compito lo schiaccia.
D. Il sacerdote è in una condizione privilegiata
riguardo alla salvezza?
R. È in una condizione a un tempo privilegiata e
più pericolosa; la sua sorte dipende dell'uso che fa de' suoi doni. A
ogni modo, il suo sacerdozio per se stesso non lo salva; egli deve
guadagnarsi il cielo come tutti gli altri.
399
IL MATRIMONIO
D. Qual è l'oggetto del sacramento del matrimonio?
R. Esso ha rapporto alla propagazione della specie e si propone di
fare ciò in relazione alla particolare condizione dell'uomo religioso.
D. La propagazione della specie riguarda la
religione? R. Tutto riguarda la religione, e specialmente quei riti
della natura che reclutano la Chiesa sopra la terra al fine di popolare
il cielo.
D. La Chiesa si fa legislatrice dell'amore? R.
Essa intende assegnargli il suo posto, quanto glorificarlo nell'opera
sua, e impedirgli di diventare, come tende continuamente, uno spaventoso
flagello.
D. È questo il compito di un sacramento? R. Il
compito di un sacramento è di rendere possibile, con l'intervento di
Cristo nel contratto che lega due esseri, quello che vuole la dottrina
in favore del bene umano e del bene divino.
D. Il matrimonio tuttavia non ha di mira che uno
scopo naturale.
R- La natura non è senza Dio; essa è compresa nel
401
piano religioso del mondo, e l'uomo, nel cammino del suo
reale destino che è soprannaturale, deve impegnare tutto quello che
concorre a spingerlo avanti e che, mal condotto o trascurato, potrebbe
tirarlo indietro.
D. In che modo si può di certe cose fare un oggetto
religioso?
R. Vi è qui un pregiudizio apparentemente
rispettoso, ma che, in realtà, offende la gravita della Chiesa. La
natura è figlia di Dio; Cristo l'ha adottata tutta; dove le deviazioni
sarebbero più formidabili, ivi soprattutto è necessaria l'azione dello
Spiritò santificatore. Ma là dove questo Spirito s'introduce, fa del
matrimonio, di tutto il matrimonio, una funzione religiosa; perché in
lui, la funzione naturale e la funzione sociale fanno parte
dell'organizzazione di cui Cristo è il capo, di cui lui stesso è il
principio. Onde la nostra Chiesa, senza falso pudore e senza timidità
infantile, osa benedire il letto nuziale, dopo avere benedetto le anime.
D. Qual è la materia di questo sacramento? R.
Gli sposi stessi, nel dono scambievole che si fanno.
D. Qual rito lo costituisce? R. Lo scambio dei
consensi.
D. E il ministro è il sacerdote? R. No, il
sacerdote è il testimonio necessario, ma non operante riguardo al
sacramento. Qui i ministri sono gli sposi, ministri officiami del rito
che li unisce.
D. E questo sacramento conferisce una grazia? R.
Ogni sacramento conferisce una grazia. Del rimanente, la propagazione
del genere umano non ha valore
402
religioso e senso religioso se non in ragione della vita
della grazia. Si vuole espandere la grazia, nello stesso tempo che
accrescerla in ogni essere; il matrimonio come sacramento ne è il
mezzo: è dunque naturale che ne sia impregnato esso stesso, per essere
all'altezza del suo doppio compito.
D. Il matrimonio riveste per tè una grande dignità?
R. « È un gran sacramento! » dice S. Paolo.
D. Perché dunque perori in favore della verginità?
R. La grandezza del matrimonio, che pianta l'albero della vita, non
impedisce un valore più grande. L'umanità ha bisogno non solo di
frutti, ma le occorrono anche dei fiori.
D. I frutti non sono superiori ai fiori? R. Per
il corpo; ma non per l'anima. Lasciamo che alcuni chiamati conducano la
vita dell'anima, e abbandonino i frutti della terra per i fiori del
cielo.
D. Queste persone non sono, socialmente, degli
inutili? R. Sono utili allo stesso matrimonio, che esse tendono a
purificare e a ingrandire; farebbero meno a prò di esso, aggravate
dalle sue catene. Del resto la loro rinunzia le libera in favore di più
alti impieghi.
D. Intendi parlare dei preti?
R. Intendo parlare del sacerdote e anche di altri;
ma in quanto al sacerdote, oltre una folla di considerazioni tutte
pressanti, una speciale convenienza deriva dall'Eucaristia. Ogni cuore
delicato capisce che il contatto di un Dio impone qualche riserva, e che
la verginità conviene al sacerdote come convenne a Maria.
403
D. Di fatto egli rinunzia alla famiglia.
R. « Di' piuttosto che egli dilata la sua famiglia
alla
umanità » (lamartine).
D. Ma la sua azione sul mondo non esige dal sacerdote
che egli sia mescolato al mondo e cosciente de' suoi bisogni?
R. Il sacerdote si pone sopra il mondo
distaccandosene; lo smarrirvisi non gli darebbe una migliore esperienza,
e nel suo disinteresse, nella sua abnegazione, trova la sua forza.
D. Quale simbolismo adotti per il sacramento del
matrimonio? i •
R. S. Paolo paragona l'unione degli sposi a quella
di Cristo e della Chiesa: ecco il simbolismo del sacramento e il punto
di partenza delle sue leggi.
D. L'idea pare strana!
R. È invece di una profonda saggezza.
L'integrazione religiosa del mondo esige l'unione dell'uomo e della
donna per formare l'uomo completo, poi l'unione dell'uomo completo a
Cristo, nella Chiesa, per formare l'uomo completo religiosamente, cioè
divinizzato dalla grazia. Così il parallelismo indicato da S, Paolo si
rivela:
ciò che Cristo è per la Chiesa universale per formare
l'umanità religiosa, lo sposo lo è per la sposa per costituire un
elemento di questa umanità, e il sacramento che simboleggia sotto
questa forma il fatto religioso universale, tende da parte sua a
realizzarlo, unendo gli sposi secondo leggi concordanti c©n l'unione
dell'uomo a Cristo, nella Chiesa, e con ciò all'unione a Dio
nell'incarnazione.
404
D. Cristo viene così. come terzo nell'intimità del
matrimonio?
R. Non sarà un terzo ingombrante, e neppure lo
sarà il sacerdote, suo rappresentante, come certuni paventano. Ospite
dei cuori, Cristo sarà nello stesso tempo il loro legame, come la loro
consolazione nei giorni cattivi e la loro forza nell'arduo compito che
assumono. Dio non separa, ma lega; è il vincolo universale degli
esseri. Forse ci separa il luogo dove ci troviamo? Dio è il luogo degli
spiriti. Forse li separa la legge di azione e la vita intima dei
mèmbri? Dio è la nostra legge di azione più profonda e la vita della
nostra vita: essere in lui, è essere meglio in noi stessi e in ciò che
non forma più che una sola cosa con noi.
D. Questa mistica del sacramento ha delle conseguenze
pratiche?
R. Se ne ricavano i due caratteri essenziali del
matrimonio, che sono l'unità e la perpetuità.
D. Come?
R. Se il matrimonio deve fornire un punto fermo di
partenza per la costituzione religiosa del mondo sotto l'aspetto della
sua estensione, senza dimenticare il suo valore, deve anche essere
saldo, e deve stabilirsi in condizioni che permettano al focolare lo
sviluppo di individualità virtuose, pacifiche e utili.
D. L'unità è indispensabile per questo? R. Sì,
perché senza parlare della poliandria, che la stessa filosofia
condanna, la poligamia indebolisce, corrompe e disorganizza il focolare
domestico dividendolo;
invita l'uomo all'egoismo e all'autocrazia, alla
sensua-405
lità e al capriccio; spinge la donna al rango di una
schiava; fa regnare le gelosie, gl'intrighi, le disillusioni, i rancori,
divide i figli e della prole non fa che una tribù di vincoli deboli,
non una famiglia nel pieno senso della parola.
D. Eppure vi sono delle civiltà poligamo. R.
Sì, ma inferiori e stagnanti. Non si fa una casa solida con argilla
impastata, e l'edificio non potrebbe salire in alto se pecca alla base.
D. Ma che cosa esige l'indissolubilità? R. Delle
ragioni affatto simili. L'unione di Cristo all'umanità religiosa è
perpetua; è una vita che non deve finire. Il matrimonio alimenta questa
vita, esercita l'ufficio di formare i suoi elementi nuovi: i figli, e di
formare anche l'uno per l'altro, in una mutua tolleranza, degli sposi
che siano una vita, nell'interno della vita collettiva. Sarebbe
sorprendente che l'instabilità fosse per questo una buona condizione,
essendo un così cattivo simbolo.
D. Non sai che nel corso della storia,
l'indissolubilità del matrimonio fu sempre o inesistente o minacciata?
R. So che questa condizione del matrimonio non è riconosciuta
praticamente e integralmente, non è difesa con fermezza se non dal
cattolicesimo, e so che certi preferirebbero dire: ciò accusa il
cattolicesimo, come se solo esso rifiutasse di riconoscere le condizioni
reali della vita. Ma quando odo d'altra parte i più autorevoli
sociologi dirmi che, a dispetto delle leggi che lo ammettono, il
divorzio è condannato dall'opinione pratica di tutte le collettività
coscienti, antiche e moderne (leggi solamente
406
proudhon!), sono spinto a pensare che il cattolicesimo,
ben lontano dal disconoscere le condizioni reali della vita, le
considera più comprensivamente, le difende contro le deviazioni
individuali abbastanza numerose da pesare sulle leggi, ma che sono
nondimeno delle deviazioni, sotto l'aspetto dell'interesse largamente
inteso del genere umano.
D. Quali sono le ragioni? R. Esse concernono
l'interesse morale degli sposi, che il principio del divorzio
compromette gravemente, favorendo matrimoni male studiati,
anticipatamente disuniti, e che il minimo incidente viene a sconvolgere
o a corrompere. Concernono specialmente la donna, così impari all'uomo
nel contratto, in ragione della sua fragilità e della precarietà dei
beni che ella vi reca. Ma concernono soprattutto la prole, vale a dire
l'umanità futura, temporale ed eterna, a cui si deve guardare con amore
cristiano.
D. Perché la prole esige l'indissolubilità? R.
Perché la sua educazione è lunga, e perché/quando termina, ha ancora
bisogno del focolare domestico. La prole è legione; le tappe della sua
vita, della sua educazione e de' suoi impieghi si succedono per lunghi
anni, durante i quali la famiglia deve irradiare sopra di essa calore e
luce, mantenere, tra i nuovi gruppi che compone, una felice coesione che
è una gran parte dell'ordine sociale. Dov'è il focolare, se l'unione
si sgretola? Cerca bene: non è individuabile un solo momento —
generalmente parlando, come bisogna quando si tratta di istituzioni —
in cui il vincolo matrimoniale si possa ;: rompere senza grave danno
umano.
407
D. Esso viene rotto dalla morte.
R. Grazie tante! O che vorresti assumerti l'ufficio
della morte e di rendere orfani i bambini?
D. E se non si hanno bambini? R. Restano gli
altri motivi, e, inoltre, non si può legiferare per l'eccezione
deplorevole; non si può dare un privilegio all'infecondità.
D. Non si potrebbero almeno sciogliere i cattivi
matrimoni? Essi non giovano a nessuno, nuocciono e fanno soffrire.
R. È vero, e la religione lo riconosce permettendo
allora la separazione, scrutando, se vi è motivo, le origini del
matrimonio, per vedere se qualche incrinatura non permette di spezzare,
senza danno per l'istituzione stessa, questo contratto disgraziato. Ma
quando si parla di divorzio, io sono colpito dalla leggerezza
dell'obii-cente che crede di dirci così delle cose inconfutabili. Si
cerca una legge che rispetti i buoni matrimoni e che permetta di
distruggere i cattivi, ciò sembra semplicissimo, ed è una pura
assurdità.
D. E perché?
R. Ciò non sarebbe possibile se non a condizione
che tu potessi nascondere la tua legge nei codici, e non metterla fuori
se non per il caso in cui giudicassi prudente e necessario. Una volta
pubblicata la tua legge agirà di per sé, e agirà dovunque; agirà
nello spirito dei fidanzati, nello spirito dei parenti, nello spirito
degli sposi, nello spirito dei figli. Dovunque essa introdurrà il
dubbio, l'instabilità, la tentazione, l'irresponsabilità.
408
D. Le leggi del divorzio prendono delle precauzioni.
R. E la passione le elude. Si arriva sempre alla legge del
beneplacito, fosse pure quello d'uno solo dei due coniugi. La breccia si
allarga per il passaggio delle moltitudini, e l'unione libera, vera
anarchia al preteso servizio della socialità, si prospetta in un
lontano avvenire.
D. Stimi dunque che il divorzio sia contrario alla
società come alla religione?
R. Esso non è contrario alla religione se non
perché è contrario alla società, all'individuo morale, uomo e donna,
in una parola alla vita umana. Cristo sposò l'umanità tal quale essa
è, e la natura, la società, la fede, qui non hanno che un solo e
identico interesse.
D. Donde viene allora che il cattolicesimo forma una
schiera a parte ed esige più degli altri?
R. Perché vede più chiaro degli altri e sa di
essere divino. Essendo divino, deve vegliare sopra l'ordine del mondo,
campo di lavoro del suo Dio. Essendo divino, si prende l'incarico della
natura, della moralità, della socialità, del culto, come di un unico
oggetto che lo riguarda, quando altri gruppi gli sono estranei. Essendo
divino, esso ardisce, quando gli altri tergiversano e piegano. Essendo
divino, ha delle divine promesse per quei che esso sacrifica
momentaneamente, e delle divine consolazioni per quei che esso invita ai
sacrifici.
D. Così parlando, tu non tieni più conto
dell'incredulo. R- Io lascio che l'incredulo risponda secondo il suo
cuore. A lui spetta di sapere se, in difetto dei divini compensi che gli
mancano, voglia salvare il suo proprio caso decretando rovine, e se,
legislatore, egli intenda
409
soddisfare a' suoi casi commoventi, anche tragici se si
vuole, ma relativamente rari, e aprire il varco alla corrente di
rilassatezza e di sensualità che trascina gli
uomini.
D. E se egli dicesse di sì?
R. Sarebbe una ragione di ricordarsi fino a qual
punto la religione è necessaria alla natura stessa, e quanto la
qualità di sacramento conferisce al matrimonio in favore dell'umanità.
410
I NOVISSIMI
LA MORTE E L'IMMORTALITÀ
D. La vita soprannaturale che hai descritto è
destinata secondo tè a proseguire e non piuttosto a finire con la
morte?
R. Niente finisce con la morte. Scavare una fossa e
coprirla con la nostra argilla non può essere una fine per l'immenso
movimento spirituale in cui il Vangelo ci lancia. La terra non è che
una soglia; al di là vi è quello che Cariyle chiama « il più Alto
Mondo ».
D. Perché toglierci la vita e poi restituircela? R.
La vita non ci è « tolta »; è solamente « cambiata »: mutatur,
non tollitur, come dice la liturgia, ed è la parte che noi
prendiamo, per noi stessi e per gli altri, alla morte riparatrice di
Cristo.
D. Tuttavia siamo distrutti.
R. L'io terreno è di fatto .distrutto; perché
l'anima non è l'uomo. Ma l'anima è la parte essenziale dell'uomo, e
l'uomo completo sarà un giorno ristabilito.
D. Riesci a comprendere un separazione di questo
genere?
R. Il mistero del nostro essere' è quello di
trovarsi per natura in una regione di frontiera, sì da partecipare
413
a due sfere, e formare un composto instabile la cui
dissociazione crea il dramma della morte, ma la cui unione e riunione
hanno qualche cosa di sublime. L'unione in noi della materia e dello
spirito suggella in un angolo di questo mondo prima, e poi altrove,
l'unità dell'opera divina.
D. Frammenti di un universo in continua
trasformazione, e che va soggetto a incessanti disgregazioni, non
dobbiamo anche noi seguirne la sorte? R. Frammenti dell'universo
spirituale, scintille di spirito, non dobbiamo noi avere la sorte dello
spirito, imitare e raggiungere lo spirito?
D. Perché lo spirito non finirebbe come il resto? R.
Perché esso comincia sempre. Là dove l'evoluzione della vita ha un
termine anticipatamente segnato, definito da una curva di una
inflessione continua, il termine raggiunto significa la morte. Ma
l'evoluzione dello spirito è illimitata, a guisa di una curva che si
apre incessantemente. La ghianda ha compiuto il suo destino quando ha
prodotto la quercia, ricca di altre ghiande;
lo spirito ha davanti a sé l'infinito dell'indagine e
di tutte le possibili acquisizioni, l'infinito della verità e del bene.
Per lo spirito, ogni realizzazione è un abbozzo, o meglio un punto di
partenza, finché non si sia incontrato con il suo oggetto supremo. E
quest'oggetto è indubbiamente per lui un punto fisso, ma che per la sua
infinità inesauribile lo spinge ancora più avanti, invece di frenarne
ed arrestarne lo sforzo.
D. Ma l'anima non è tutto spirito.
R. L'anima non è tutto spirito, perché anima il
corpo,
e sotto questo rapporto essa è corporea. Tuttavia, sic-
414
come il suo compito di animatrice non impiega tutte le
sue energie e quindi non è uguale a tutta la sua sostanza, il dire che
l'uomo è un composto di corpo e di anima è dire che è un composto di
materia e di spirito, e, secondo quanto abbiamo detto, di morte e di
vita.
D. Come spieghi la, sopravvivenza? R. Per una
parte di sé, quella che vedi, l'uomo è un frammento dell'universo, un
punto d'incontro di forze generali. Ma, di fronte a questo aspetto
essenziale del nostro essere e a queste energie inferiori, troviamo una
eccedenza di essere e di attività che il pensiero svela, e l'amore, la
libertà, la sensibilità superiore, la vita morale mettono in opera. È
quanto abbiamo rivelato a proposito della creazione dell'uomo. In
ragione di questa eccedenza, di questo soprappiù in rapporto
all'ambiente fisico, noi non possiamo supporre che l'anima dipenda nel
suo sbocciare, nel suo essere attuale, ne per conseguenza nella sua
durata e nel suo fine, unicamente dalle potenze cosmiche; essa le
oltrepassa e deve sopravvivere ad esse. Essa nasce nell'occasione di
un'attività corporea; è soggetta all'azione delle forze che si
rivelano nel corpo, senza tuttavia ridurre la sua attività inferiore o
le sue manifestazioni a una risultante di queste forze abbandonate al
determinismo. Dunque la sua sorte non dipende, a titolo esclusivo, dal
luogo in cui agisce presentemente; essa ha un avvenire proprio; la ruota
della fortuna non la trascina se non in parte nella sua rotazione;
una scossa, ed eccola prendere la tangente.
D. In due parole...
R. Quello che spiega l'immortalità della vita è
l'immortale della vita.
415
D. Questo spiega, mi dici; ma questo prova? R.
Prova a certe condizioni, cioè se si ammette che Dio non distrugge egli
stesso quello che non porta in sé un principio di distruzione.
D'altronde, se, per l'anima, si tratta di una immortalità cosciente e
attiva, bisogna credere possibile un funzionamento spirituale
indipendente da ciò che si chiama cervello pensante.
D. Come pensare senza l'organo del pensiero? R.
Appunto, il cervello non è propriamente l'organo del pensiero. Gli è
indispensabile quaggiù, ma per l'elaborazione della sua materia, che è
l'esperienza fisica. Il pensiero, propriamente parlando, è indipendente
dal cervello, non vi è neppure proporzione precisa tra l'attività
pensante e l'attività del cervello, come ha dimostrato Bergson.
D. Se il cervello è indispensabile al pensiero
quaggiù, come tu ammetti, perché non gli è indispensabile altrove?
R. Uno stesso potere, collocato in diverse
condizioni, può avere diverse esigenze.
D. Da che dipenderebbe, secondo tè, la differenza?
R. Qui siamo di fronte a un mistero; ma si può credere che si
tratti, per l'anima, di una differenza di orientamento e di attenzione
profonda. Unita al corpo, essa è assorbita dal corpo e assediata dalle
sue oscure chiarezze al punto di non potere aprirsi a un'altra luce. La
sua propria luce spirituale le sfugge prima dell'esperienza delle cose;
essa non si rende conto che è spirito se non dopo aver fatto atti
spirituali riguardanti i corpi.
416
D. È una condizione sorprendente! R.
Sorprendente di fatto, ma che dipende dalla debolezza di quest'anima,
posta nel più basso grado degli spiriti, in vicinanza alla natura
corporea. Quando si rinette a questa condizione, si capisce che l'anima,
povera di spiritualità per natura, e immersa nel corpo che tenta di
accaparrare tutte le sue energie disponibili, possa essere come
offuscata da questo corpo, abbagliata dalla materia, se si può dire
così, e resa impotente a percepire lo spirito, perfino quello che è in
lei e che è lei stessa. La pellicola di luce che circola sopra la
nostra terra non basta forse a nasconderei tutto il cielo? I nostri
deboli occhi, abbagliati, non possono valicare questo sbarramento di
luce; bisogna aspettare la notte perché si riaccendano le stelle. La
notte rivelatrice, per l'anima, è la morte.
D. Perché la morte sarà una rivelazione? R.
Perché l'anima, sciolta, sarà restituita alla sua natura spirituale,
e, cosciente di se stessa immediatamente, voglio dire senza il
condizionamento dei sensi, potrà inoltre sperimentare l'invisibile.
D. Quale invisibile?
R. Gli altri spiriti, diventati ora il suo dominio
e, se posso dire così, il suo mondo; ma soprattutto Dio, se a questo
Dio piace di diventare per l'anima — per una discesa
d'intelligibilità, invece che per una salita — quello che prima era
l'universo.
D. Perché Dio lo vorrebbe?
R. Perché è il fine della sua creazione, e
soprannaturalmente, il fine di tutta l'opera redentrice. Quaggiù, noi
siamo abbandonati all'universo per l'informazione
417
della nostra mente come per la nutrizione della nostra
carne; l'universo, espressione dell'idealità creatrice; vestigio di Dio
ossia sua immagine, ce ne comunica quello che può e quello che noi ne
sappiamo ricavare; ma il contatto di Dio, che è il termine del grande
movimento che opera l'anima attraverso alla vita, ci congiunge alla
sorgente stessa di questa idealità: noi attingeremo da essa come un
tempo dal tesoro dei fatti circostanti, come la carne beve il succo del
mondo.
D. Perché desidereremmo un tale avvenire? R.
Perché tal è la destinazione che Dio ci da, e del resto questa brama,
checché ne pensino alcuni, è insita nel più profondo della nostra
natura.
D. Aspiriamo noi a pensare in Dio? -R. Aspiriamo
a pensare in Dio perché aspiriamo a pienamente vivere, perché la
nostra vita piena è solo in Dio, e il pensiero, per lo spirito, è la
stessa essenza della vita, condizione fondamentale di ogni altra
attività del nostro essere.
D. Da che cosa riconosci un tale istinto? R. Da
quella inquietudine infaticabile e inestinguibile che è in noi, da quel
tormento dell'infinito che è lo stimolo del pensiero, la molla
dell'azione, e che spiega la loro storia. Noi pensiamo per cercar di
captare in effige quello che non si può raggiungere in sé; parliamo
per coprire il grido che è in fondo ai nostri cuori; operiamo per
scansare il cammino sovrano, decisivo, che talvolta non osiamo tentare
perché le sue esigenze ci fanno paura, e che ad ogni modo non possiamo
che iniziare, già in questo mondo. Nell'essere umano vi è una attesa
418
essenziale che tutto può soddisfare, veduto in
desiderio, in aspettativa, cioè in quanto al suo fantasma, ma che
niente può soddisfare nella sua realtà acquistata, nel suo chiaro
possesso. Ogni uomo può dire come Barrès nelle sue Memorie
postume: « Ho camminato verso l'orizzonte per cogliervi qualche cosa
che non esiste ».
D. Tu descrivi quel tipo di natura umana che diciamo
precisamente una natura inquieta. ^ Io descrivo la natura stessa,
che è un'inquietudine sostanziale, se così posso esprimermi, poiché
nessuna soddisfazione, per quanto sostanziale sembri, l'acquieta mai.
D. Ecco ciò che bisognerebbe far vedere. R, Non
è forse evidente, che la cosa posseduta non ci soddisfa punto, e che
tosto si passa ad altro? Quello che noi bramiamo dopo, essendo della
stessa natura, non ci può soddisfare maggiormente, e di fatto,
sopravvenendo, non ci soddisfa più. Un possesso non è che un desiderio
spento; un ricordo non è che « un desiderio che si rimpiange »
(flaubert): quello che si possiede o si è posseduto non è dunque ciò
che veramente desideravamo. La nostra brama ha sbagliato oggetto,
diciamo anzi che ha sbagliato universo, e che avrebbe dovuto risonare,
al di là di tutti gli echi di questo mondo, in un altro mondo.
D. Di certi felici successi non diciamo noi che
sorpassano U nostra attesa?
R. La nostra attesa è sempre ingannata, anche
quando è superata; perché quello che attendevamo da queste fortune
misurate in se stesse, l'attendevamo in noi come pienezza, ed è la
pienezza che non raggiungiamo mai.
419
D. Non sempre siamo ingannati in tal: modo. R.
Siamo sempre ingannati davanti a qualsiasi oggetto, in possesso di
qualsiasi beatitudine, appena cade il velo d'una passione allucinata o
d'un capriccio puerile, appena l'anima profonda si desta. E questo ci
dice che il fine di questa vita non è nella vita stessa; questo ce lo
dice con più evidenza che la sventura, che l'ingiustizia subita, che le
delusioni affatto diverse cagionate dalle nostre impotenze e dai nostri
spropositi. La norma secondo cui si giudica della nostra miseria e
dell'insufficienza di tutte le cose visibili è la felicità.
D. È necessario che noi abbiamo quello che ci manca?
R. È forse naturale che la nostra idea, la nostra aspirazione
abbiano più ampiezza del nostro essere e della somma dei nostri poteri?
Non è questo un segno evidente?
D. Un segno di che?
R. Un segno della nostra vocazione sovrumana e
sopraterrena. Perché, infine, non bisogna forse credere nell'anima
propria, come dice la Scrittura? L'appello inferiore è un fatto
proprio come la gravitazione; il suo punto di partenza è assai più
profondo e ben altrimenti alta è la sua portata. Qual è il significato
di questo fatto, se non vi è niente fuori dell'esperienza? Come mai
l'idea della pienezza può anche solamente affiorare nei nostri fragili
cuori, se non siamo fatti per la pienezza? Se tutto termina in una
mediocrità irrimediabile, perché, in noi, questa spinta verso speranze
illimitate? Noi non possiamo raggiungere ciò che è evidentemente il
nostro fine, ciò verso cui, per l'autentico impulso del desiderio
profondo, la natura ci butta. La traiettoria umana si de-
420
linea, lascia vedere le sue coordinate, e non le
possiamo in alcun modo percorrere. Noi siamo un albero la cui specie è
nota e che, sul suo terreno di nascita, non presenta il suo getto
normale, la sua fioritura, la sua fruttificazione naturale. È « uno
sconcio » (pascal). Non può finire così ogni cosa.
D. Perché?
R, Perché la natura naturante, in noi, non
s'inganna, e non ci inganna. Non può dirigersi verso il vuoto. Uscita
dall'ambiente universale, essa lo riflette e ne esprime la legge. Non si
cerca naturalmente se non ciò che si può trovare. Se non vi fosse
l'erba vi sarebbe l'erbivoro? Colui che constata il desiderio
insaziabile nel quale consiste essenzialmente l'essere umano e nega che
sia possibile la sua soddisfazione, rassomiglia all'uomo che ha fame e
nega il pane.
D. Il sentimento di pienezza non ci è estraneo. R.
Lo proviamo quando proiettiamo sopra i nostri oggetti l'immensità del
sogno e nascondiamo così a noi stessi la loro esiguità. Questi oggetti
ci appariscono allora quasi uccelli dell'infinito presi al laccio; per
quanto insignificanti, per quanto caduchi, la nostra illusione li
pervade di eternità e ne prende come un possesso infinito per
l'ampiezza del gesto. Ma non è questo la smagliante conferma che
l'infinito, solo l'infinito ci soddisfa? Chi ignora quale malinconia
segreta vi si trova in tutte queste pienezze fallaci, appena si sposta
un poco il velo ingannatore! In fondo ai nostri stati felici vi è un
sentimento nostalgico, e a che cosa si riferisce se non a un misterioso
al di là?
421
D. Credi fu che molti sappiano queste cose? R. I
più non le sanno, ma tutti le provano. Altro è il sentimento e altro
l'analisi che se ne fa. Quando, in una chiesa, vediamo dei cristiani
immersi in preghiera, noi non abbiamo alcun dubbio che i più rechino
lì, per averne un sollievo, i fardelli della loro vita terrena, che
essi esprimano i loro desideri umani, le loro inquietudini temporali, e
che forse sia questo solo che pensano di offrire a Dio; ma scava più a
fondo, e troverai altra cosa, che i migliori, e ad intervalli, tutti
scorgono: voglio dire, il desiderio dell'indefinibile e del duraturo che
fa corpo con questi oggetti, ma infinitamente distinto dall'ispirazione
che essi provocano, il desiderio dell'ai di là di tutto, del Tutto, del
Tutto misterioso.
D. Che diresti di coloro che cercano al di sotto
dell'uomo, invece di cercare al di sopra? R. Il loro sentimento è
lo stesso. Ciò che essi si propongono, nelle oscure regioni che loro
aprono i sensi, è ancora l'infinito, riconoscibile dalla sua ombra.
Spaventoso capovolgimento, fatale illusione del povero allucinato che si
immerge in un mare tenebroso per pescare degli astri.
D. Tutto questo non si riferisce che all'ampiezza
degli oggetti della vita, e non alla durata di quest'ultima. Pensi tu
che noi vogliamo vivere eternamente?
R. Noi vogliamo vivere senz'altro, e questo esige la
vita eterna. Perché, sapendo che dobbiam morire, ripugniamo noi
invincibilmente a crederlo, se non perché ciò ci è
inconcepibile? Noi non vogliamo perire. Non possiamo rassegnarci a un
mondo che crolla, sentendo che c'è qualcosa che non crolla. Sotto la
chiarezza degli
422
oggetti che occupano e ingannano la nostra brama di
vivere, scorre un fiume tenebroso che ci trascina, giorno per giorno,
verso la notte eterna, e il nostro cuore non vi può consentire. « II
silenzio eterno di questi spazi infiniti mi spaventa » (pascal).
D. Eppure la nostra brama di vivere, concretamente,
si attacca a questa vita limitata. R. È impossibile capire che ci
si affanni tanto per preservare « un lampo tra due notti » (enrico
poin-caré). Bisogna che si abbia il sentimento profondo di un'altra
vita, anche se non lo si confessa.
D. Sopravviviamo a noi stessi per via dei nostri
discendenti e delle opere nostre.
R. Almeno lo tentiamo, ed è una testimonianza.
Questa vita che si sforza di vincere il tempo, non è forse l'effetto e
il segno dell'eternità inclusa nel desiderio? Noi vogliamo, in tutta la
misura del possibile, rendere imperiture le opere nostre; nei nostri
figli, nelle nostre istituzioni, nelle nostre glorie, noi vediamo delle
assicurazioni contro la morte; ameremmo vederci delle speranze
dell'immortalità. Ma che cosa è ciò, in realtà, se non una povera
aggiunta, una dilazione concessa al desiderio, prima dell'inevitabile e
imminente fine in cui saremo travolti?
D. Questa sopravvivenza in altri soddisfa la
generosità, se non il desiderio proprio.
R. È bello essere generosi, e nulla è più
commovente che il sentimento d'un padre, d'un amico, d'un patriota, che
dice: Che importa la mia vita, purché i miei figli siano felici, il mio
amico prosperi, il mio paese
423
trionfi? Ma che malinconia, nel contemplatore di questa
bellezza, e quale segreta delusione al cuore 'stesso di colui che si
eleva, se essi giungono a dire a se stessi:
Oggi, domani, dopo domani, che importa? io lavoro per la
morte!
D. È da saggi accontentarsi dei propri limiti, a
più forfè ragione di potere oltrepassarli sia pure di poco. R.
Questa sapienza si può attingere da Dio, ed è rassegnazione cristiana,
sorella della speranza; essa può essere puramente stoica ed è
certamente bella, ma non risolve affatto il problema. È urtante, è
contraddittorio che la natura spinga i suoi esseri a voler durare sempre
e imponga loro in nome della saggezza la rinunzia a questo stesso
volere. L'anima non può adattarvisi; ne fanno testimonianza tutte le
letterature, come ogni cuore umano. Del resto, come osservò Renan, «
è quando l'uomo è buono che egli vuole che la virtù corrisponda a un
ordine eterno; è quando egli contempla le cose in modo disinteressato
che egli trova la morte ributtante e assurda. Come non supporre che
l'uomo veda il meglio appunto in tali momenti? ».
D. Pensi tu che noi possiamo afferrare direttamente,
in noi, questo sentimento dell'eternità che dici insito nei nostri
pensieri e implicito in tutti i nostri procedimenti?
R. Non sappiamo scandagliare noi stessi. Vi sono
tanti momenti in cui ci sentiamo immortali! Momenti di contemplazione
religiosa, filosofica, scientifica, artistica; momenti d'estasi fuori
del pensiero, fuori del tempo, perfino fuori del nostro oggetto,
nell'amore; momenti di poesia davanti alla natura, in unione con le
forze eterne;
424
momenti di eroismo in cui sentiamo che si può aver
fiducia nella sorte e che la grande vita non muore...:
tutto questo manifesta la nostra essenza vera, e, come
diceva un eroe: « Che cosa è una palla al cuore? essa può far del
bene ».
D. Riassumendo, tu dici: la vita è eterna o non è
niente?
R. « Tutto quello che deve finire non è niènte »
(s. agostino). Fuori dell'eternità noi siamo come colui
che si trastulla a costruire castelli di carta sull'orlo
del
suo sepolcro...
D. La cooperazione con gli altri non ci viene in
aiuto? R. Termino la mia frase: — ... e che aderisce a una
società di mutuo soccorso per costruire meglio i castelli di carta,
sostenerli, ripararli, ricostruirli... davanti al comune sepolcro.
D. In tali condizioni, la morte prende un valore che
le si concede di rado.
R. Proprio Renan disse che morire è compiere un
atto « di una portata incalcolabile ». /
D. Non sai quanti, oggi, negano la vita eterna? R.
Il numero dei negatori non cambia in nulla le verità. I negatori, se
fossero sinceri con se stessi, direbbero anche: « Io scorgo la vita che
guarda attraverso le occhiaie vuote della morte » ( shake speare). Io
aggiungo che in simile materia la negazione è condannabile in ogni
ipotesi.
D. Perché?
R. Perché nessuno, senza un'estrema temerità, può
pretendere di essere sicuro che l'immortalità non ci
sia,
425
e chi non è convinto della sua realtà dovrebbe almeno
rispettarne il mistero.
D. La negano generalmente per fini pratici; si ha
paura che l'ideale faccia perdere il senso della realtà. R. Ciò
avviene quando non si sa che cosa sia ideale e pratica, che cosa sia
eternità e tempo. Si dimentica che « il Vangelo e il calendario
agricolo sono opera d'uno stesso autore » (maurizio barrès).
D. Non vi è però una certa opposizione tra l'idea
dell'eternità e le cure terrene? •
R. Le cure eccessive, sì, le impazienze, le
preoccupazioni appassionate, ma non l'attività normale. La vita eterna
ispira al vero cristiano una maniera sublime di ricevere la vita e la
morte, i beni e i mali; ma non sminuisce il suo coraggio. Pensa che la
civiltà moderna, e si può dire ogni civiltà, fu costruita da gente
che credeva all'eternità, e tutte le nostre inquietudini per
l'avvenire, come ti dicevo, vengono dal fatto che vi si crede meno.
D. Da che dipende questo?
R. Dal fatto che la vita eterna è l'autentico
sostegno della vita temporale, che, senza questo, poggerebbe sul falso e
si protenderebbe sul vuoto; è il suo appoggio dietro, il trascinatore
davanti. Io ho bisogno di assicurarmi della vita eterna per credere alla
serietà della vita nel tempo, e sarebbe sorprendente che ciò che mi
difende contro ogni scoraggiamento potesse spezzare il mio coraggio.
D. A chi sono maggiormente utili queste riflessioni
sopra l'altra vita?
R. Sono indispensabili a tutti; perché « tutte le
no-
426
stre azioni e tutti i nostri pensieri devono prendere
vie così differenti, a seconda che vi siano da sperare dei beni eterni
oppure no, che è impossibile fare. un passo con senso e con giudizio
senza regolarlo con la mira a questo punto, che dev'essere il nostro
ultimo oggetto » (pascal). Ma evidentemente, ci guadagnano a
ricordarsene quelli soprattutto che hanno più da soffrire e da
combattere. Questi pensieri della morte, del giudizio, della
retribuzione eterna sono lo stimolo e il freno, il sostegno e la forza
di rinsavimento di molte anime. Essi rendono felici degli individui ai
quali questo mondo rifiuta tutto; avverano il paradosso delle Beatitudini
evan-geliche, e provocano la lunga pazienza delle prove della vita
quotidiana, come l'eroica pazienza dei martiri.
D. Donde viene che essi ci sfuggono incessantemente?
R. È la conseguenza del fenomeno che descrivevo a proposito
dell'anima pensante. La luce del giorno ci nasconde l'immensità del
cielo: così gli oggetti della vita, più evidenti, accaparrano l'anima
e solo essi le appariscono reali; così il tempo, presente in noi per il
fluire della carne, fa credere illusoria l'eternità, e siccome tuttavia
il sentimento dell'eternità rimane, lo si trasferisce al tempo; ci
figuriamo vagamente che questo tempo fugace non debba finire.
D. Ciò non avviene incoscientemente? R. Per lo
più; ma avviene pure che ciò sia volontario, e allora l'insensato o il
peccatore si vuole procurare una pace illusoria. « Senza darci pensiero
noi corriamo al precipizio, dopo esserci posto qualche cosa davanti per
impedirci di vedere » (pascal).
427
D. Queste parole sono tragiche! R. Leggi anche
queste: « Tra noi e l'inferno o il cielo, non vi è di mezzo che la
vita, che è la cosa più fragile del mondo ».
D. Se si pensasse così costantemente, non si
potrebbe più vivere.
R. Forse si vivrebbe meglio a pensarci sovente. In
quanto al pensarci costantemente, nessuno lo raccomanda. La buona vita
esige la nostra attenzione, anzi il nostro entusiasmo; una volta mirata
la mèta, e richiamata al pensiero di tempo in tempo, non c'è bisogno
di ipnotizzarsi sulla morte.
D. Che pensi delle trasmigrazioni, di quelle
altre vite, anteriori o posteriori, di cui trattano gli spiritisti, i
teosofi?...
R. Prima di tutto penso col popolo: « Nessuno mai
se ne è accorto »; i teosofi s'immaginano, suppongono;
gli spiritisti si fidano di fenomeni mal conosciuti, in
cui il ridicolo fa a pugni col sublime: lì non vi è proprio nulla da
sapere. Dopo ciò, dico col Vangelo, correggendo la formula popolare con
una riserva divinamente giustificata: Nessuno è salito in cielo,
salvo colui che è disceso dal cielo, il Figliuolo dell'Uomo che è in
cielo.
D. L'idea di trasmigrazione ha un significato morale;
si tratta di purificazioni successive, di una prova
della libertà.
R. Tutto questo ha soddisfazione nel sistema
cattolico, e con garanzie di verità, invece dell'asserzione arbitraria
di un pensatore. Gesù dice quello che sa; il teosofo dice quello che
non sa. In fatto di prova, questa è più che sufficiente, e Dio
non ha bisogno di tante esperienze per
428
sapere ciò che valgo; egli scruta ; reni e i cuori
e li giudica in conseguenza.
D. Dove va dunque l'anima nostra dopo la morte? R.
Questa domanda, presa alla lettera, non ha senso. L'anima non va in
nessun posto, giacché non è un corpo e perciò non è soggetta alle
localizzazioni nello spazio. La morte, per l'anima, non è punto un
cambiamento di luogo, ma un cambiamento di stato; l'anima funziona
diversamente; percepisce altre cose; è in relazione con altri esseri.
D. E arriva così alla fissità?
R. A una fissità che non è un'immobilità, ma che,
rispetto alla situazione attuale, è un termine, e, rispetto alla morte
vivente che è la vita del corpo, una vita immutabile. Noi abbandoniamo
la regione in cui tutto passa, per entrare in quella in cui tutto è.
D. Tu concepisci questo come un'armonia dell'opera
divina?
R. Sarà di fatto l'armonia di tutto, in ragione
della
quale Leone Bloy parlava del « grande organo della vita
eterna ».
D. E il punto di arrivo di tutto? R. « La terra
è come le arie di marcia della chiesa;
essa è per salire al cielo » (e. péguy).
D. È forse quello che tu chiami, usando la formula
degli Alessandrini, il ritorno a Dio? R. Tutto il movimento
della natura materiale, della vita, del pensiero, dell'attività morale
e sociale degli esseri di fatto non è che un vasto riflusso. La
creazione è
429
un immenso sollevamento di marea che sfugge dall'oceano
divino e che vi ritorna.
D. Ma non ciascuna morte individuale esprime questo
ritorno.
R. Nel sollevamento della marea, non tutte le onde
arrivano nello stesso tempo, e sono precedute da spruz-
zaglie. E nel giudizio universale si spiegherà sotto i
«nuovi cieli » sulla « nuova terra » la grande-massa
delle acque.
430
IL GIUDIZIO PARTICOLARE
D. Credi tu a un giudizio dell'anima dopo la morte?
R. Noi crediamo che, subito dopo la morte, l'anima prende la
dirczione di vita che conviene a' suoi meriti.
D. Dove pensi che abbia luogo questo giudizio? R.
Là dov'è l'anima, là dov'è Dio, e ho già detto che questo non è un
luogo materiale. Noi siamo sempre in Dio; non c'è bisogno di viaggio
per raggiungerlo. La vita eterna è essenzialmente uno stato, non un
luogo, e se essa è tale nella sua pienezza, tale è pure nel suo
cominciamento.
D. È sfrano!
R. Sì, è un mistero, che uno possa immergere in
Dio tutta la sua vita senza accorgersene, e quale risveglio, trovarsi
tutt'a un tratto davanti a lui nella piena luce!
D. Non vi è dunque tribunale? R. È
questa una metafora tolta dalla vita sociale.
D. Che cosa significa questa metafora? R.
Comparire al tribunale, per l'anima, è prendere davanti a Dio coscienza
di ciò che essa è, di ciò che vale,
431
di ciò che ha fatto, di ciò che ha utilizzato o
profanato, e di quello che ne segue per la sua sorte eterna.
D. Non vi è dunque sentenza, come non vi è
tribunale? R. Non vi è bisogno di sentenza. Il nostro bilancio
interiore con le sue conseguenze: ecco la nostra sentenza. Sotto gli
auspici della grazia, de' suoi gradi o della sua assenza, la vita eterna
è in noi sostanzialmente; ciascuno porta in sé il suo inferno o il suo
cielo. Colui che fa il bene è subito beatificato nel suo intimo, come
una terra seminata che le stagioni favoriscono; colui che fa il male è
subito colpito mortalmente nel suo intimo, spogliato, disorganizzato,
tagliato fuori di comunicazione con Dio, sola forza che arricchisce,
consegnato alla creazione che gli diventa ostile, e così votato alla
sventura.
D. L'unico tribunale è dunque in noi?
R. Sì, ed è la coscienza; ma la coscienza voce di
Dio,
e non la falsa coscienza formata dai nostri vizi.
D. Questo tribunale è sempre in attività?
R. È sempre in segreta attività; ma al termine,
tutto
verrà alla luce del sole.
D. Ed è anche in noi il luogo di esecuzione? R.
E dove sarebbe, anzitutto? Si tratta del nostro destino. Ma la creazione
vi collabora. Operi bene o male, l'uomo è subito trasformato nella
natura della sua propria azione, posto così in accordo o in conflitto
con l'ordine morale che fa capo a Dio. La sua felicità o la sua
infelicità sono fin da questo momento acquisite, salvo che egli non
cambi. Noi siamo di fronte al mondo come colui che fa la sua scelta
prima di partire.
432
D. Siamo noi dunque, rigorosamente parlando, gli
agenti del nostro destino, compreso il nostro destino eterno?
R. Noi siamo gli autori del nostro destino, nel
quadro dell'ordine voluto da Dio. Il destino eterno non è che la
manifestazione dello stato di coscienza che il giusto o il peccatore
hanno preparato in se stessi, e la fissazione eterna de' suoi efletti.
L'uomo vola allora con le sue proprie ali e respira del suo alito,
quell'alito dello Spirito Santo la cui grazia gonfiò il suo cuore;
oppure è preso nelle sue proprie reti e vi soffoca. «
Dio per punire il male, non ha che da lasciarlo fare » (la-cordaire).
« La loro colpa non è una cosa e la loro pena un'altra; ma contro di
loro si rivolge la loro colpa stessa » (s. gregorio).
D. Perché si parla allora di vita futura? La vita
eterna è tutto il tempo.
R. Difatti, la vita futura non è futura; adesso
appunto noi vi entriamo. « II regno di Dio è dentro di voi », disse
nostro'Signore. La vita eterna non si estende in durata, ma in
profondità, e la successione dei nostri giorni non serve che ad
acquistarla o a ritrovarla se l'abbiamo perduta.
D. E anche il ciclo e l'inferno occupano tutto il
tempo?
R. Essi non sono tutto il tempo nella sua
manifestazione, ma sono tutto il tempo nella sua sostanza; perché alla
fine non fanno altro che rivelare due stati dell'anima: lo stato di
grazia o l'assenza di grazia, la virtù o il peccato.
433
D. Donde viene che non lo sentiamo?
R. Ho già risposto parlando della grazia. Come mai
spaccando un seme, non vi si trova il fiore, o la spiga?
D. Vorrei capire la differenza precisa tra la
coscienza di oggi e la coscienza nell'ora del giudizio. R. Oggi la
coscienza ci avverte; allora sarà tutta occupata nel convincerci. Qui
la sua voce è coperta dai nostri desideri, dalle nostre passioni;
allora essa stessa coprirà ogni voce e si pareggerà all'anima tutta
quanta, tutta riflessa in se stessa. Non abbiamo detto che l'anima
separata sarebbe a se stessa il suo proprio lume, sotto l'irradiamento
divino?
D. Una sincerità assoluta, e in qualche modo
sostanziale? R. L'identità con se stesso, nella propria chiarezza.
D. formidabile sincerità!
R. Sincerità formidabile per tutti, e per il
peccatore terrificante, crudele come l'inferno, del quale essa è una
parte. Perciò Tertulliano evoca con una specie di terrore quell'ora in
cui l'anima « sarà tutt'insieme e il reo e il testimonio ». •
D. Che confusione, senza dubbio! R. Una
confusione infinita, davanti all'infinita perfezione divina e alle
possibilità infinite che in se stessa aveva l'anima peccatrice. Eccola
quest'anima miserabile privata della suprema e futile consolazione di
lagnarsi;
infatti dove trovare una commiserazione disponibile, in
colui che dichiara se stesso e di iniziativa sua la causa de' suoi mali?
434
D. E tutto ciò è irrevocabile? R. Ciò è
necessariamente irrevocabile, se uno è veramente arrivato al termine;
perché la durata è irriversibile. Il destino non riprende mai da capo.
D. Il dramma antico non ha niente di paragonabile a
una tale fatalità!
R. È vero, e vi è di che allibire, quando si pensa
che
nei nostri cinquanta, sessanta o settant'anni — o
anche
in uno spazio più breve — una formidabile eternità
si
nasconde.
D. - Ma noi possiamo rinunciarvi? R. « Noi siamo
imbarcati » (pascal). La felicità è la nostra vocazione, e noi non
possiamo rinunziarvi senza delitto. Felicità, infelicità, ecco
l'alternativa. E Dio era debitore a se stesso di proporci l'opzione; ma
non vi è nulla che ci autorizzi a rigettare il problema, perché la
felicità, qui, coincide col dovere. Se il Signore dei nostri cuori vuoi
renderci felici, è una ragione 'per disubbidirgli?
435
L'INFERNO
D. L'inferno è lo scandalo.
R. Non ti nascondo la mia emozione, nel momento di
parlartene con piena sincerità. Vi son qui dei profondi misteri. Ma tè
ne prego: non formulare alcun giudizio prima d'aver letto quanto segue.
D. L'inferno non è uno spauracchio leggendario, un
mito?
R. L'inferno non è un mito; esso figura nel Vangelo
in termini espliciti, e la sua affermazione fa parte integrante del
deposito della fede. Ciò che è esatto è che talvolta la nostra
immaginazione se lo figura, è vero, sotto forme inevitabilmente
miriche, più che razionali, come ne fanno testimonianza tante opere di
fantasia, delle quali il poema di Dante è la più nota.
D. Tu ripudii le immagini del fiorentino, quelle
delle cattedrali gotiche, quelle dell'Angelico, di Michelangelo, del
Tiepolo, di Giovanni Goujon, e di tanti altri? R. Le ammetto per
quello che sono: immagini, cioè figurazioni simboliche, che bisogna
guardarsi dal pren-
437
dere alla lettera, e che forse sarebbe bene oggi
sostituire, perché esse si allontanano troppo dalla realtà, e traviano
la mente.
D. Ad ogni modo tu tieni ferma la realtà
dell'inferno? R. La affermo con la fede cattolica, e aggiungo che
essa risponde a una necessità del piano universale così come ne
abbiamo tracciato il disegno. L'inferno è una conseguenza terribilmente
logica di quello stesso che esalta le nostre speranze, se la speranza
sbaglia la sua strada.
D. In che consiste questa necessità di piano? R.
Non vi è che un Dio, non vi è che un Salvatore;
non vi è che una sorgente di vita e di salvezza; e noi
abbiamo veduto che è possibile attaccarvisi in più modi;
ma non c'è dubbio che chi se ne distacca, si perde.
D. Perdersi, cioè non fare capo là dove uno vuole e
deve arrivare, è andare all'inferno? R. Sì; perché riguardo
all'essenziale non vi è stato intermedio. Chi non entra nell'ordine
offende l'ordine. Chi non vuole Dio offende Dio di un'offesa infinita
per il suo oggetto, per l'infinita bontà che lo propone, per le tenere
industrie e la pazienza che lo mettono e lo mantengono a disposizione
della nostra libertà. Per questo Gesù disse: Chi non è con me è
contro di me, e nei due casi la scelta implica tutte le conseguenze.
D. Quali conseguenze?
R. Colui che offende l'ordine col peccato dev'essere
ricondotto all'ordine con la pena. Colui che respinge Dio deve sentire
l'abbandono di Dio. Avendo sdegnato
438
l'amore, il peccatore deve vedere la giustizia
adoperarsi a vendicare l'amore.
D. Quale ordine può turbare un piccolo peccatore? R.
Fortunatamente nessuno, alla fine dei conti; ma quello che il peccatore
non può effettuare, in realtà lo tenta; non potendo turbare l'ordine
eterno, egli lo offende, e se l'ordine non è turbato, ciò avviene a
questa condizione che vi sia contro di lui una reazione com-pensatrice.
« La pena è l'ordine del delitto » (s. agostino).
D. il peccatore non è libero, nell'universo? R.
Il peccatore è libero d'impegnare la. lotta contro l'ordine, ma non di
vincerlo. Nella sua totalità eterna, l'ordine è divino; esso resiste,
e contro di esso vi è una sola possibilità: schiantarsi. Non abbiamo
detto e non sostieni tu stesso che Dio è la pienezza dell'essere,
l'onnipotenza, l'Azione per eccellenza? Che se, per un miracolo, egli
potè fare degli esseri capaci di porre atti che procedessero dalla loro
iniziativa, e perciò capaci di ubbidirgli o di urtare i suoi voleri, è
giocoforza — sotto pena che qualche azione sfugga all'Azione e qualche
essere all'Essere — che al di là di questa azione creata si ritrovi
l'azione di Dio, per ricondurre al suo proprio ordine, con
l'approvazione o con la costrizione, quello che lui stesso non ha fatto.
D. Se l'ordine è divino, vi sarà pure posto
per'l'indulgenza.
R. L'indulgenza ci attende, e, appena vi
acconsentiamo, essa ci reintegra nell'ordine; ma, nel caso del pec-
439
catore impenitente, non deve essa riparare anche
l'ordine eterno che egli ha compromesso?
D. Non capisco bene questa bilancia di compensazione,
che pare volere equilibrare un male con un altro. R. Il peccato è
un male; la pena è un altro male; ma che il peccato sia riparato dalla
pena, è un bene; come se dicessi: la cancrena è un male; l'amputazione
d'un-membro è un altro male; ma l'asportazione d'un membro incancrenito
è un bene, certo non in sé, ma per il resto dell'organismo.
D. Dio non è forse tanto grande da lasciar correre,
e sorridere, come fa nella Bibbia: « Ecco Adamo diventato come uno di
noi! ».
R. L'ironia biblica è qui talmente spaventosa che
non è proprio il caso d'invocarla contro i castighi divini. E che cosa
sarebbe la grandezza di Dio, se essa non fosse la grandezza de' suoi
attributi: bontà, misericordia, pazienza in tutta la misura del
possibile; ma, dopo questo, giustizia vendicatrice che procede dalla
stessa scaturigine, che è l'amore del bene?
D. L'amore del bene è una cosa, la vendetta rispetto
al male è un'altra.
R. È esattissimamente la stessa cosa. Che sarebbe
un amore della salute che non fosse anche odio della malattia? Amore del
bene, odio del male, sono due nozioni solidali. L'orrore del male non
può mancare di essere in Dio nella misura della sua perfezione. Egli
permette il male in vista del bene; ma, alla fine, bisogna che questa «
quantità ausiliare » si elimini, e se la libertà mantiene il male in
se stesso, bisogna che l'ordine del bene esploda nella repressione.
440
D. Tutta l'opera di Dio non è .che una effusione di
bontà.
R. « Tutta l'opera della giustizia divina (alla sua
volta)
non è orientata che al bene » (ter/tulliano). Ma
quando
la giustizia non può più adoperarsi a ordinare il bene
che la bontà divina comunica, è necessario che essa si
adoperi a riparare il male che essa condanna.
D. Ogni male è un oggetto di pietà, e la pietà è
divina. R. Il male è un oggetto di pietà quando è involontario,
nella misura che è involontario. Si compatisce l'uomo che soffre senza
averne colpa; si compatisce il reo che si pente; lo si compatisce, anche
ribelle, se si pensa capace di pentimento; ma l'indurito — solo questi
può essere condannato — non offre più alla pietà alcuna occasione.
La pietà è divina; ma, dice Cariyle, « un essere che non conosce il
rigore, non conosce neppure la pietà », perché la sua pretesa pietà
non potrebbe essere che dabbenaggine o codardia. Al Dio amico del bene e
nemico del male, preferisci tu l'impassibile testimonio dei
razionalisti, o lo sciocco « Dio della buona gente »? Dio non può
essere immensamente buono se non a patto di essere anche terribile. Se
si ammette un attributo senza l'altro, una bontà senza giustizia, Dio
non è più Dio. ^
D. Se Dio è Dio, egli è un operatore di felicità.
R. Perciò organizza ogni cosa in vista della felicità. Ma l'ordine
ch'egli stabilisce non sarebbe un ordine morale, se fosse possibile
essere felici allontanandosi dal bene. Quale coscienza si potrebbe
credere onesta, se si offendesse della giustizia di Dio? È possibile
pensare un Dio sotto il cui regno il male possa spassarsela e
441
sfidare la vendetta? Dio non deve forse proteggere la
bontà, perché non diventi oggetto di derisione da parte del vizio?
«Dio non si lascia deridere» (s. paolo),
D. Quasi quasi, tu fai dell'inferno un'opera d'amore!
R. È quello che fa Dante, il quale attribuisce al « Primo Amore »
la costruzione della città infernale.
D. È un lugubre paradosso! R. È una penosa
verità, che tu trovi alla lettera nel Vangelo, poiché appunto per
illustrare il suo comandamento dell'amore, e come una conseguenza del
suo proprio amore unito a quello di suo Padre, Gesù con solennità pone
davanti agli occhi de' suoi ascoltatori il tribunale supremo: Allora
il rè dirà a quelli che sono alla sua destra: Venite, benedetti del
Padre mio... perché io ebbi fame e voi mi avete dato da mangiare,
ecc. E a coloro che saranno alla sua sinistra.: Andate, maledetti,
nel fuoco eterno... Il dittico tenero e terrificante:
« Venite, benedetti », « Andate, maledetti », è
chiarissimamente presentato come una sanzione del doppio precetto: Amatevi
gli uni gli altri come io ho amato voi. Se voi mi amate, osservate i
miei comandamenti.
D. Nel nome di che cosa l'amore divino esige
l'inferno?
R. Nel nome di una reciprocanza la cui assenza è un
orribile scandalo ben più grave che quello dell'inferno. Ci
scandalizziamo dell'inferno 'mentre non diamo nessuna importanza al
peccato, mentre disprezziamo praticamente la grandezza di Dio, ma in
special modo mentre sdegniamo di pensare a tante misteriose prevenienze,
a tanti benefici, a tanti perdoni, a tante misericordie, men-
442
tré ci dimentichiamo di apprezzare la croce, il
tabernacolo e il cielo.
D. Certi santi ebbero spavento dell'inferno. R.
Tutti i santi ebbero spavento dell'inferno; ma non si scandalizzarono se
non della nostra incoscienza. Lì stava per essi il « mostro », come
direbbe Pascal. Ferventi nell'amore, capirono che l'amore è altrettanto
esigente che la giustizia, e che, beffandosi dell'amore divino, si deve
correre un rischio in proporzione con la mercede, che qui è infinita,
poiché la ricompensa è Dio stesso.
D. L'amore si vendica allora? R. All'amore
divino, per vendicarsi, basta ritirarsi in se stesso; questa assenza,
per noi che dobbiamo attendere tutto da Dio, porta con sé una
spaventosa sventura, e ne segue per giunta il ritorno contro di noi di
tutto ciò che l'Amore regola, di modo che noi ci veniamo a trovare al
bando dell'universo intero. È quello che Bossuet chiama « la collera
della colomba », certo per metafora e non prendendolo se non quanto
agli effetti. Nello stesso senso il P. Lacordaire dice: « Non^ la
giustizia, che sia senza misericordia, ma l'amore ». « L'amore è la
vita o la morte, e quando si tratta dell'amore di un Dio, è l'eterna
vita o l'eterna morte ».
D. Un amore che si muta in tal modo scopre i suoi
limiti.
R. L'amore divino non ha altri limiti fuorché i
rifiuti oppostigli dalla nostra libertà. Di più, esso non tiene nessun
conto dei nostri rifiuti parziali e provvisori, per quanto gravi e
ripetuti siano essi. Una sola cosa lo disarma: un rifiuto decisivo e
ostinato. Allora siccome la
443
sorgente delle grazie è esaurita da un'inespiabile
infedeltà, come potrebbe arrestarsi il torrente della giustizia? Per
essa, lo stesso amore è impegnato a punire.
D. Così Dio riporrebbe la sua gioia nella sofferenza
della sua creatura?
R. Dio ripone la sua gioia nella gioia della sua
creatura, entro l'ordine nel quale riposa tutta quanta la creazione.
Fuori di lì, Dio ripone la sua gioia non nella sofferenza della sua
creatura, ma nell'ordine della giustizia. Non bisogna forse che, dopo
avere esaurite tutte le sue prevenienze, l'amore di Dio « si
giustifichi di fronte alla sua giustizia »? (bossuet). E fa ciò
abbandonando il peccatore nelle sue mani.
D. Passiamo sopra il principio dell'inferno; ma come
lo concepisci e quali sono le sue pene? L'inferno è un luogo?
R. Ho detto che la vita eterna, felice o infelice,
è essenzialmente uno stato, e non un luogo. Tuttavia un luogo non le
può essere estraneo, poiché noi crediamo a un aspetto fisico di questa
vita, specialmente/dopo l'ultima risurrezione.
D. Ritorni dunque al « fuoco », che sembravi
scartare or ora?
R. Io scartavo le caldaie bollenti, le fiamme
lambenti i corpi, o Satana con la bocca piena di dannati... Ma devo
mantenere — del resto vi si rivela una grande logica — una pena che
deriva dal mondo corporeo e che il Vangelo ravvisa nel fuoco, come
raffigura nel verme roditore il rimorso che tortura le anime.
D. In che consiste questa pena? R. Non lo
sappiamo. Per saperlo ci occorrerebbe una
444
scienza universale circa la materia del mondo, i suoi
poteri, le sue relazioni con la carne e con lo spirito.
D. Perché sarebbe necessaria questa scienza totale? R.
Perché si tratta qui di rapporti fondamentali, che impegnano l'essenza
ultima delle cose, giacché si tratta dei rapporti eterni. Si può
sapere come una fiamma disgreghi un corpo mortale; ma quale contatto si
possa stabilire tra una sostanza nociva e un corpo immortale, anzi con
un'anima, chi ce lo dirà? S. Tommaso è di opinione che si tratti di
uno spaventoso costringimento, risultante dal fatto che il peccatore,
rigettato fuori dell'ordine, è oppresso da questo fino a un'angoscia
senza nome.
D. L'ordine può forse opprimere? R. Nulla vi è
così oppressivo come l'ordine, per colui che vi penetri e non vi
aderisca. Rappresentati un folle smarrito in mezzo a un esercito in
marcia: senza che nulla gli sia ostile, egli è molestato da ogni parte.
Porta ciò fino all'intimo degli esseri e dei loro più segreti poteri,
e tu potrai forse farti un'idea di 'che cosa sarà questo tormento
inenarrabile e quanto invece sono grossolani quelli che la nostra
barbarie inventa. E questa ragione che faceva dire a S. Tommaso che i
supplizi dell'inferno, che scaturiscono dall'essenza stessa delle cose,
sono in confronto di quelli di quaggiù quello che è un fuoco reale in
confronto della fiamma dipinta.
D. Ciononostante, io non capisco come un'anima
separata dal suo corpo (fino al giorno del Giudizio) possa soffrire un
dolore fisico.
R. Il corpo di un mutilato soffre del membro asportato:
così in qualche maniera l'anima amputata del suo
445
corpo. Nel primo caso, si tratta di terminazioni nervose
e di una falsa localizzazione; nel secondo, dei poteri fisici di cui
l'anima è dotata in se stessa, benché essa quaggiù li eserciti
mediante il corpo.
D. Ma perché l'universo opprimerebbe il peccatore?
R.. Perché l'universo è di Dio e opera ai fini di Dio. Finché noi
siamo legati a Dio, fosse pure con un vincolo provvisorio, l'universo
— sia pure provvisoriamente — lavora altresì per noi. Ma nel caso
definitivo, il peccatore, diventato nemico di Dio, vede l'universo
diventargli ostile, e ostile sino a' suoi ultimi confini. La marea degli
esseri l'assedia^ perché questo mare ubbidisce a un ritmo che al
peccatore è diventato estraneo, e che gli è dunque contrario. « La
natura se non è divina, è diabolica. Se l'uomo è vero, retto e
fedele, la grande Realtà lo porta; se non è tale, il mondo prende
fuoco
SOttO di lui » (CARLYLE).
D. È il rovesciamento delle parti. R. Di fatto
tutto il piano della nostra vita ne è sconvolto: l'ordine divino del
quale noi dovevamo essere beneficiari fino alla suprema felicità, si
precipita contro il suo violatore diventato nemico di Dio, e per
conseguenza nemico dell'uomo che è unito a Dio, nemico di se stesso,
abbandonato all'anarchia inferiore, e nemico dell'universo.
D. Sconfitta.'...
R. Sconfitta totale, anarchia morale decisiva, che
equivale a un'anarchia vitale eterna e universale, a un vivente morto,
come di un cadavere che avvertisse la propria dissoluzione.
446
D. È questa la più grande pena dell'inferno?
R. È di gran lunga la minore. La più grave è
quella
che da il suo nome alla dannazione, la pena del
danno.
D. In che consiste?
R. Consiste nella privazione di Dio ed essa è «
tanto
grande quanto Dio » (s. agostino).
D. La privazione di Dio può essere una così gran
pena? Non vedi che il peccatore vi si adatta?
R. Il peccatore si adatta alla privazione di Dio
perche non conosce ne Dio ne se stesso, e quindi non si può rendere
conto dell'intimo e profondo rapporto dell'Essere primo con ciascun
essere, ma soprattutto con l'essere ragionevole, che è nella
possibilità di tuffarsi in Dio, in un modo che supera ogni speranza.
Crediamo che nell'ora del giudizio, una subitanea rivelazione di questo
rapporto venga fatta a ogni anima. È il lume del giudizio stesso. In
seguito, per il miserabile dannato, questo lume diventa un testimonio
ineliminabile della sua sventura.
D. Si prova difficoltà a rappresentarsi questa
angoscia. R. Rappresentarsela è impossibile; ma riflettendo a
quello che è Dio e a quello che egli è per noi, Tesoro dell'essere in
cui si trovano contenuti in modo sovreminente tutti gli oggetti della
nostra ricerca, vi è già qualcosa di spaventoso nel supporre tra Dio e
un infelice bandito l'eterno addio, « Addio, Padre mio; addio, Fratello
mio; addio, Amico mio; addio, mio Dio; addio, mio Signore; addio, mio
Maestro; addio, mio Rè; addio, mio tutto! » (bossuet). Che Dio
concepisca una specie di odio per la sua creatura, cioè — poiché Dio
in se stesso non è punto soggetto all'odio — che egli la
447
lasci in un abbandono assoluto, non lasciando sussistere
in lei se non la capacità della infelicità, invece di tanti poteri che
per mezzo suo sarebbero beatificanti, è spaventoso, terrificante!
D; Dunque, in quell'antro orrendo, non perviene
la
luce dì Dio?
R.
No.
Essa perverrà sempre ai dannati, ed è la loro
disgrazia.
D. Essa non li rischiara? R. Li abbaglia.
D. No// /;' rallegra? R. Li brucia.
D. No// // attrae?
R. Li attrae infinitamente e nello stesso tempo li
respinge. Da ciò proviene il loro strazio e il loro tormento.
D. La loro infelicità dunque è sema misura? R.
Sì, nel suo oggetto; tuttavia comporta dei gradi, forse delle
attenuazioni, delle riduzioni di pena, e se la infelicità suprema di
certi dannati sta in ciò che essi non hanno la speranza di morire, si
può credere che altri, meno completamente diseredati, si sentano ancora
attaccati all'esistenza. È il sottile filo che allaccia ancora quegli
esuli eterni a quanto noi amiamo.
D. Eterni! ecco la cosa terrificante e inaccettabile.
A questo prezzo, mi sembra che preferirei non credere in Dio piuttosto
che credere all'inferno!
R. Allora tu avresti fatto di questo mondo un
inferno! Inferno per tutti, e specialmente per i buoni, che, come dice
S. Paolo, « sarebbero i più miserabili di tutti gli uomini ». Infatti
avresti scritto alle porte della vita
448
e della morte, così vicine l'una all'altra; « Lasciate
ogni speranza, voi che entrate » (dante).
D. Ma alla fin fine, con quale principio
sufficientemente saldo pretendi tu di giustificare una tale provocazione
al buon senso?
R. Mi rifaccio al punto di partenza della mia
spiegazione. Non vi è che un Dio; non vi è che un Salvatore;
non vi è che una fonte di salvezza: chi se ne distacca
si perde, e ciò, per sé, è irrimediabile.
D. Perché irrimediabile?
R. Perché non è possibile attaccarsi a Dio senza
Dio, e perche, in un ordine soprannaturale, un soccorso soprannaturale
è indispensabile.
D. Questo soccorso è forse negato in. qualche caso?
R. Questo soccorso non è mai rifiutato se non a colui che lo
rifiuta; ma è proprio il dannato colui che ha opposto alla misericordia
divina un definitivo rifiuto.
D. Quale rifiuto può essere definitivo? Non vi è
forse
la possibilità di pentirsi?
R. Sì, quaggiù; ma'nell'al di là, non più.
D. Perché al di là non più? R. Ti rispondo con
precauzione, perche siamo di fronte a un mistero. Del resto perché
meravigliarsi? Che cosa sappiamo noi di ciò che diventa, in quest'altro
stato dell'essere, la nostra categoria del tempo? Che sappiamo noi
dell'anima separata e del regime psicologico in cui essa si stabilisce?
Quali siamo morendo, forse tali rimaniamo per una necessità di
costituzione spirituale, per un arresto dell'evoluzione psichica in ma-
449
teria di scelta. Ad ogni modo, noi sappiamo che allora
non è più il tempo della grazia.
D. Vi è un tempo fisso per la bontà? R. Non vi
è tempo fisso per la bontà in se stessa;
ma vi è un tempo per le sue manifestazioni, che esigono
un certo ordine. Se un buon capo è sempre buono, ciò non gì'impedisce
di segnare un tempo, oltre il quale non si dovrà più fare assegnamento
che sopra la sua giustìzia.
D. Dio capo in tal modo, e non è più dunque padre? R.
Dio è padre, ma è un padre giusto. Anche un padre può essere
costretto al ripudio.
D. Che cosa può « costringere » Dio? non è
forse supremamente libero nei suoi doni? R. Dio è supremamente
libero; ma le opere della sua libertà comportano un ordine intimo, in
cui la giustizia in un certo momento ha un ruolo necessario e
insostituibile,
D. Che cosa può determinare questo ruolo? R. È
quello che noi non sappiamo, ed è la nostra terza ignoranza. Per
saperlo, bisognerebbe esplorare a fondo l'ordine morale in ciò che ha
di eterno, come per sapere quello che è il « fuoco » dell'inferno,
bisognerebbe conoscere a fondo l'ordine fisico in ciò che ha di eterno.
« Le idee che abbiamo di ciò che è giusto e ingiusto sono stranamente
limitate — osserva Pascal — poiché insomma non si tratta fra noi se
non di una giustizia, da uomo a uomo, cioè tra fratelli dei quali tutti
i diritti sono uguali e reciproci; qui invece si tratta di una giustizia
da Creatore a creatura, in cui i reciproci diritti sono in una
sproporzione infinita ». La giustizia
450
dell'inferno dipende dall'ingiustizia del peccato. E chi
può valutare il peccato senza sapere che cosa è Dio, che cosa è
l'uomo nel suo rapporto naturale e soprannaturale con Dio? Dio è
talmente superiore al pensiero che noi ne abbiamo; il Dio intimo, il Dio
Uno e Trino, ci sfugge a tal segno che anche il peccato deve
oltrepassare infinitamente le nostre misure, e la giustizia dell'inferno
la nostra giustizia.
D. Ma la natura del peccato per noi e il peso
delle nostre responsabilità peccaminose non dipendono forse dalla
conoscenza che ne abbiamo noi?
R. Certamente; ma vi è conoscenza e conoscenza.
L'uomo che arguisce nel padre suo qualche grandezza misteriosa a lui
sconosciuta e qualche sacrificio segreto, ma incomparabile, compiuto in
suo favore da questo padre, se egli lo offende non è forse responsabile
anche di ciò che egli non conosce? Noi che sappiamo la grandezza
incommensurabile del nostro Dio, l'infinita sua tenerezza, la sublimità
del sacrificio della croce, possiamo forse dire con fondatezza e
verità: Io non sono responsabile quanto al mistero della giustizia di
Dio, sotto pretesto che nel momento della colpa non riuscivamo a
rappresentarcela e a farcene un'idea adeguata?
D. La tua soluzione circa la possibilità o
l'impossibilità della penitenza è dunque...
R. La penitenza è possibile quaggiù, perché noi
siamo in tempo di « prova », sotto un regime di grazia, e perché la
natura fluttuante delle nostre menti, soggette all'immaginazione, ora ci
fa uscire dalla strada e ora ci fa rientrare. Ma strappati dalla morte a
questa doppia condizione; avendo da rendere conto, e non più in condi-
451
zione di « prova »; non avendo più grazie di
conversione, perché non siamo più esseri in cammino (in via);
non essendo più in balìa di quelle fluttuazioni che
non dipendono se non dalla nostra immaginazione, noi entriamo nel
dominio del definitivo, del fisso, e « dove l'albero cade, ivi rimane
».
D. La dannazione sarebbe dunque l'effetto d'un volere
definitivo e che non potrebbe mutare?
R. Quello che noi vogliamo definitivamente, nel
pieno senso della parola, è di fatto quello che fissa i nostri destini,
che sono destini morali. C'è lì qualcosa di assoluto, qualcosa di
estraneo al tempo, qualunque sia il tempo che mettiamo a produrlo. Il
determinare per saggi a tastoni quello che noi veramente vogliamo, esige
del tempo, e il tempo può servire a riconoscerlo; ma quel volere
decisivo che è come l'edizione ne varietur delle nostre opere
morali, il tempo non lo può diminuire, non lo può modificare, non lo
può consumare; l'anima lo contempla sub specie aeterni, direbbe
Spinoza, in forma eterna; e volere così Dio è dunque essere un eletto
eterno; e rifiutare così Dio è essere un dannato eterno. A ciò non vi
è rimedio.
D. Ma che cosa è questo volere assoluto del
quale tu ragioni? Vi è qualcosa di assoluto in noi? La libertà può
forse incatenare se stessa a qualcosa di definitivo, e disporre per sé
o contro di sé dell'avvenire?
R. Nessuno dei nostri voleri particolari è un
volere assoluto in questo senso che noi lo vogliamo, nel fatto,
definitivo : il peccatore indubbiamente si riserva di cambiare più
tardi; ad ogni modo potrebbe fare ciò, sotto un regime di grazia,
quand'anche non l'avesse voluto
452
prima. Tuttavia, in ogni atto pienamente deliberato vi
è una specie di volontà incondizionata della quale bisogna tener
conto, una scelta senza condizione di tempo, una scelta fuori del tempo,
una scelta che, se l'avvenire non dipendesse che dal volere attuale
nella sua stessa essenza, varrebbe per tutto il tempo, e perciò include
ciò che si potrebbe chiamare una eternità soggettiva, in via di
decidere per l'altra, a meno che nel tempo che gli è lasciato il
peccatore non cambi.
D. Perché non cambierebbe?
R. Egli cambia finché vuole quaggiù. Ma siccome
nell'ai di là non vi è più cambiamento, è giusto, rigorosamente
parlando, che, avendo il peccatore peccato « nella eternità che gli è
propria », come dice S. Agostino, « Dio lo punisca nella sua ».
D. Non intendo bene questa psicologia della colpa. R.
« Tutti i nostri desideri determinati racchiudono qualcosa che non
Jha limiti, e una segreta brama di un godimento eterno... È dunque un
giusto giudizio di Dio che i peccatori, avendo nutrito nel loro cuore
una segreta brama di peccare senza fine, siano rigorosamente puniti con
pene che non avranno fine » (bossuet). In altre parole, vi è qualcosa
di definitivo in fondo a ogni atto di volontà, benché questa volontà
possa esser ritrattata in seguito, nello stesso modo che in fondo a ogni
amore, finché dura, vi è qualcosa di eterno. Ogni peccato mortale
implica come una profondità infinita di abbandono. L'inferno ne è la
reciprocanza. Che dico? l'inferno vi è già contenuto, come notavamo a
proposito del giudizio. Per questo dicevamo che per rigoroso diritto, in
sé, nel modo assoluto, ogni peccato mortale
453
vale l'inferno quanto alla sua durata, nello stesso modo
che esso l'uguaglia e lo supera in gravita, comportando obiettivamente,
poiché è diretto contro Dio, un'infinità di offesa.
D. Che cosa è questa infinità di offesa, in un
essere finito?
R. L'offesa non è infinita in noi; ma è infinita
in se stessa, per definizione — la definizione dell'atto e la
definizione di Dio — e noi lo dobbiamo sapere. Il bene e il male
differiscono infinitamente: così lo sente ogni coscienza sincera e
attenta. Non può recare nessuna meraviglia che la sorte definitiva di
quelli che scelgono l'uno o l'altro sia per così dire infinitamente
distante. In realtà, essa non lo sarà, ed è per questo che i santi
dicono che anche nell'inferno vi sarà misericordia.
D. Resta sempre quel volere « definitivo » del
peccatore, che tu fondi sopra un'esegesi psicologica un po' troppo
sottile.
R. Ma io non ho detto tutto. Ho parlato solo del
rigoroso diritto, giudicando del peccato in sé e dell'ordine morale
soprannaturale.
D. Che cosa ti rimane ancora da dire? R. Questo:
è possibile che uno dei nostri voleri, preso in particolare, per quanto
sia fermo, decisivo e pieno di responsabilità in se stesso, non basti a
qualificarci, riguardo al giudizio eterno. Ma dall'insieme dei nostri
voleri particolari, se ne fai somma, apparisce un carattere morale che
veramente ci giudica.
D. In quale momento questo carattere si determina? R.
Ciò dipende dagli individui; ma è determinato al
454
momento della morte, poiché è in tale momento che
termina la prova. Avviene come di una sala di votazioni in cui l'urna è
a tua disposizione per un certo tempo. Qualunque sia la scheda che tu
deponi nel debito modo, essa decide in sé del risultato; ma tu puoi
esitare, essere combattuto, ritirarti, rimettere e ritirare ancora. Ma
quando è scoccata l'ora finale tutto è finito, e l'ultima scheda conta
come se fosse stata la sola.
D. È dunque il caso che decide. R. Non è il
caso, poiché sei tu a decidere ogni volta, e qui si potrebbe ricordare
quello che dicevamo or ora del rigoroso diritto. Ma c'è dell'altro: II
tempo che ti è lasciato non è fissato da qualcuno estraneo al tuo
stato di spirito e a' tuoi gesti, da qualcuno che ignori le tue
esitazioni, le tue riprese, le tue buone disposizioni, e del quale tutto
il compito consista nel venire a vedere, alla fine, quello che vi è
nell'urna. Dio è il padrone della vita e della morte; ogni decisione
che egli prende ha un carattere morale in armonia col carattere della
nostra propria esistenza. Dobbiamo dunque credere che l'ultima scheda
sia proprio quella che conta per tutte, agli occhi di chi scruta i reni
e i cuori. Di modo che un destino deciso da quest'ultima scheda sia un
destino giusto, o per dire meglio misericordioso. Ecco quello che
s'intende quando si dice: « Di solito si muore come si è vissuto ».
D. Perché di solito?
R. Perché il problema morale non è posto e risolto
per tutti nello stesso modo, ne nella stessa relazione col tempo. Certi
destini si decidono prestissimo e non per questo si decidono meno
profondamente, in una maniera
455
meno significativa in quanto al valore totale e decisivo
della coscienza di cui si tratta. Altri destini, più regolari nel loro
corso, sono da un capo all'altro quasi identici a se stessi... Nel primo
caso, si potrà cominciare male e finire bene, o viceversa, senza che
c'entri il caso più che nell'altra ipotesi. Ma in quest'altra ipotesi,
si veri-ficherà il proverbio: si muore come si è vissuti, perché si
viveva così come si era realmente senza infingimenti, agli occhi del
Padre celeste.
D. È possibile, sì o no, essere dannati per un solo
peccato mortale? R. È possibile.
D. Ecco dunque un povero uomo che ha condotto una
vita onorata e meritoria; alla fine commette un peccato mortale, ed
eccolo dannato!
R. Prendendo l'ipotesi così come suona, bisogna dire
sì, ma è la stessa ipotesi che è assurda. Tu ragioni come se vi fosse
un Dio vendicatore, e non una Provvidenza vigilante e buona, e come se
fosse Atropo che tagliasse il filo dei giorni. Quando diciamo che un
solo peccato mortale merita l'inferno a cagione della sua natura, non
considerando che la sua natura, non per questo diciamo che esso
l'ottenga. Se uno può essere dannato — come anche salvato — per un
solo atto, è perché questo atto esprime, allo sguardo infallibile di
Dio, la nostra personalità profonda tale e quale noi stessi ce la siamo
data, la nostra libertà nel suo slancio totale, il nostro atteggiamento
definitivo di fronte alla vita.
D. Abbiamo conoscenza noi stessi di questo fatto? R.
Non mai con certezza, e per lo più in nessun modo.
456
Nulla è per noi più misterioso che noi stessi. Ma
quello che noi non sappiamo, benché sia opera nostra, lo sa Dio.
D. E tu dici che egli ne tiene conto? R. È
impensabile che Dio tenda un'insidia alla sua creatura, per
sorprenderla, dopo una vita di meriti, nel momento di una negligenza,
fosse pure, per sé, mortale. I giudizi di Dio fanno la somma totale;
pesano l'anima più che il fatto. L'anima nella tua ipotesi, è onesta:
dunque il tuo onest'uomo, incidentalmente in stato di
peccato mortale, o non morrà, lasciandogli Iddio il tempo di ravvedersi
e di rialzarsi, oppure morrà, ma prevenuto da grazie dell'ultima ora
che lo metteranno in stato di operare in extremis questa stessa
conversione.
D. Tu credi a grazie dell'ultima ora come a un caso
normale?
R. Ogni cristiano è convinto che nell'ora decisiva,
sia l'ultima o un'altra, Dio è lì. Dunque soltanto sotto il suo
controllo, e non altrimenti, l'urto della morte spezza in noi la potenza
di metamorfosi, e il nostro essere morale si fissa, si cristallizza, e i
nostri « sì » e i nostri « no » alla legge morale si
sintetizzano in un sì o in un no eterno.
D. Su che cosa appoggi tu questa soluzione? R.
Sulle molteplici dichiarazioni di Dio stesso, nelle Scritture. Ovunque
sta scritto in queste o in altre parole: Io non voglio la morte del
peccatore, ma che egli. si converta e viva. Dunque lo stato di
peccato non crea in Dio una volontà di dannazione finché la
conversione non è stata rifiutata in modo decisivo, finché la persona
morale non è stata espressa integralmente, di modo che la sua
qualificazione decida della sua sorte. L'inferno
457
è un'ultima morte per coloro che assolutamente non
avranno saputo ne voluto vivere.
D. A questo titolo chi metteresti nell'inferno con
certezza? R. Nessuno! Sarebbe un'atroce presunzione il dire:
un tale si è dannato, fosse pure ai nostri occhi il
peggiore delinquente: I miei pensieri non sono i vostri pensieri; le
mie vie non sono le vostre vie, dice il Signore.
D. La Chiesa non pretende dì avere su ciò dei
particolari lumi?
R. Nessuno. Con l'atto di canonizzazione essa
dichiara essere certo che il tale o il tal altro sono nel numero dei
santi; ma non dichiara mai che questo o quello sia dannato.
D. Gli eletti sono a tuo parere un piccolo numero? R.
Coloro che lo pretendono non ne sanno niente. Si può sperare che
all'opposto l'Amen, terminale dell'opera divina sarà un'immensa
e innumerevole acclamazione.
D. Quest'acclamazione finale degli esseri non
dovrebbe forse riunirli tutti; e Hugo e Tapini non hanno forse ragione
di vedere alla fine amnistiato anche Satana? R. Ancora una volta,
noi non sappiamo chi è salvo e chi è dannato; ma ciò che è certo è
che l'ipotesi di cui tu parli, presentata specialmente come
un'esigenza dell'ordine divino, è « immorale ».
D. E perché?
R. Perché suppone che dal principio del mondo sino
alla fine, qualunque cosa facciano e vogliano gli esseri, con qualsiasi
ostinazione pretendano di restare nelle loro vie, vi è una china
necessaria che conduce a Dio. E ciò
458
vuoi dire che la volontà non è punto libera, o che ad
essa si da la facoltà d'infischiarsene.
D. Non sarebbe piuttosto immorale l'ipotesi
dell'eternità delle pene, se per colpe finite da parte dell'uomo, come
hai ammesso, s'infigge all'uomo una punizione infinita?
R. L'inferno è eterno non perché il peccato è
infinito, ma perché è senza rimedio, come una piaga più o meno grave
in se stessa, ma che non possa guarire, poiché il tessuto mortificato
non è più atto alla rigenerazione. Il peccatore non esce dall'inferno
perché non si pente; non si pente perché è fuori della zona in cui il
cambiamento è possibile, fuori del flusso e del riflusso dell'anima;
fuori del tempo della grazia. È sempre punito perché
è sempre peccatore, eternamente ostinato nel suo male.
D. Eppure tu lo abbandoni ai rimorsi. R. Il
rimorso non è il pentimento; tra i due la differenza è immensa, a tal
segno che è quasi un'opposizione radicale. Infatti colui che si
abbandona ai rimorsi decide di restare solo; si ripiega sopra di se
stesso e non si occupa che di rodere se stesso, di « mordersi i pugni
», come si dice volgarmente. Ed è quanto dire che egli ri-nunzia ad
amare. Ora il perdono è una risposta dell'amore misericordioso
all'amore in lacrime.
D. Vi è altro ancora. Perché creare per dannare? La
verità forse è col poeta che diceva: « Caro Signore Iddio, io vi
farò una bella proposta: rimandatemi dov'ero prima di nascere, oppure
perdonatemi tutti i miei peccati; perche io non li avrei, commessi-se
non fossi esistito »
(PEIRE CARDENAL).
R.
Un
tal parlare è legittimo sulle labbra di colui che 459
si pente; se no, è una insopportabile insolenzà. Dio
non crea per dannare; egli non ci colloca sulla strada dell'inferno, ma
su quella del cielo; la sua volontà è quella di associare eternamente
gli esseri alla sua felicità. Se questa mèta si fallisce per colpa
nostra, non è forse normale che la sconfitta abbia la stessa ampiezza?
D. Il bene dovrebbe essere più potente del male. R.
Cosi è; infatti gli eletti godono una felicità fuori di ogni
proporzione coi loro meriti, e il contrario avviene per le pene
dell'inferno. Ma ciononostante vi dev'essere una proporzione tra i due
termini. Il sì e il no si rispondono. « La nostra caduta ha la forma
rovesciata della nostra grandezza possibile » (ernesto hello). Là dove
la vittoria offre più che la vita, è naturale che la disfatta porti
seco più che la morte.
D. Si preferirebbe una vittoria del tutto pura. R.
Essa allora sarebbe gratuita e banale. La mèta non può essere
meravigliosa com'è, senza presentare un rischio terribile. L'estremo
bene trae sempre seco la possibilità dell'estremo male. L'universo ha
troppe vette perché non abbia abissi, e, come osserva Cariyle, l'essere
divini importa necessariamente il rischio di essere eventualmente
infernali. Non basta forse che dipenda assolutamente da ciascuno il
decidere per conto suo ciò che egli dovrà essere?
D. Siamo troppo fragili, perché c'incarichiamo di
una simile scelta.
R: Noi siamo la fragilità stessa; ma non siamo
soli, e non ci si giudica secondo le nostre forze. « Si esigerà molto
da colui al quale si sarà dato molto » (s. luca). La salvezza non
dipende da questa o quell'opera deter-
460
minata che potrebbe superare le nostre forze, ma dallo
stato del nostro cuore di fronte a Colui che lo giudica infallibilmente.
D. Perché lanciarci nostro malgrado in una simile
avventura?
R. Si rimprovera forse a un padre di aver messo
nelle mani di suo figlio una magnifica eredità con tutto quello che
occorre per trame felicità, per la sola ragione-che in caso di abuso
grave e ostinato, recidivo, la caduta sarà più triste e più
deplorevole? Sublime è la nostra voca-2Ìone, sublimi i nostri
soccorsi, sublimi i nostri rimedi, sublimi anche i nostri rischi.
D. Sarebbe meglio annientare piuttosto
gl'incorreggibili, se turbano il piano divino. R. Il niente non è
una soluzione; esso non ha nessun significato razionale; dunque non può
compensare niente, riparare niente.
D. Non sarebbe ciò una sanzione? R. Di'
piuttosto: il contrario di una sanzione. Annientare è rinunziare a
sanzionare e per conseguenza a fare giustizia. Eliminare il colpevole è
sottrarlo al giudizio e alle sue conseguenze. Ciò somiglia a un
verdetto giudiziario così concepito: Quest'uomo è talmente colpevole
che non ci occuperemo più di lui. D. Sarebbe in qualsiasi caso un
modo di finirla. R. Sarebbe l'assenza di fine. Una fine è un'ultima
ma-' niera di essere e qui vi sarebbe assenza di essere. Bisogna che il
dannato sia lì, per proclamare, pure odiandola, la giustizia di Dio.
D. Io mi domando come questa presema negli abissi di
sventurate creature, che gli eletti forse avranno amate,
461
potrà ad essi riuscire tollerabile. Come potranno stare
in pace?
R. Riconosciamo la nostra impotenza a immaginare
queste cose, e lo scandalo della nostra sensibilità terrena di fronte a
tali prospettive. Ma la nostra sensibilità, la nostra immaginazione non
sono il metro dell'assoluto.
D. £ la ragione che dice? R. Dice: la pace è la
tranquillità dell'ordine; la gioia è nella vittoria dell'ordine. Se il
disordine del male persistesse, nUora la pace degli eletti non sarebbe
possibile. Il bene trionfante da una parte, dall'altra il male vinto e
che non può più rialzare la testa, ecco la pace del cielo.
D. Ma non vi è proprio mai stato qualche caso ài
perdono concesso a dannati?
R. Si citano alcuni casi della loro autenticità,
però non si ha alcuna garanzia; comunque debbono interpretarsi
conformemente alla dottrina esposta. S. Tommaso dice: Costoro uscirono
dall'inferno perché la loro sentenza non era definitiva.
D. Come ciò è possibile? R. Nulla incatena il
volere di Dio in ciò che riguarda l'applicazione delle sue leggi. La
legge è: ogni esistenza al suo termine è fissata per sempre. Ma
determinare quando sia il suo termine dipende dalla Provvidenza.
Regolarmente è il tempo della vita; ma al di là, se piace a Dio, la
prova può proseguire; si può essere « viatori » altrove che in
questo nostro mondo; si può essere viatori in questo mondo una seconda
volta, come fu il caso di Lazzaro risuscitato. Ciò non fa torto alcuno
ai princìpi e può rispondere a certe situazioni morali.
462
D. Ma chi può dire che la sentenza di un dannato sia
o no definitiva? R. Dio solo.
D. Allora non si potrebbe dire: L'inferno eterno è
un principio; ma riguardo a qualche essere in particolare, non è
necessariamente un fatto? R. Ciò si può dire tenendo presenti
spiegazioni date precedentemente. Ma quale imperdonabile imprudenza
commetterebbe chi riposasse su una possibilità così astratta! Mi pare
di vedere un uomo che si precipita dalla torre Eiffel dicendo: Forse non
mi ucciderò!
D. Ebbene, teoricamente, non fosse che per una
scappatoia, una porta resta aperta a ineffabili misericordie. R.
Nessuno può imporre limiti alla misericordia di Dio. Quello che
bisogna ritenere di questa discussione penosa, è che
1° Dio è giusto;
2° la sua misericordia oltrepassa di molto la sua
giustizia;
3° noi siamo responsabili dei nostri atti nella misura
precisa dei nostri lumi e dei nostri poteri.
Ecco quello che è certo. Tutto il resto è mistero. Ma
ciò basta perché possiamo dire: Se qualcuno va all'inferno, è perché
lo ha largamente meritato. Che altro possiamo noi chiedere?
D. Di vederci un po' più chiaro, forse. R. A una
santa che gli chiedeva questo in un'estasi, Gesù rispose: « Sta'
tranquilla, io ti farò vedere che tutto è bene ».
463
IL PURGATORIO
D. Che cosa è il purgatorio?
R. « II purgatorio è un luogo di patimento, dove
le anime in stato di grazia finiscono di espiare i loro peccati prima di
entrare in cielo » (Catechismo della dìo-cesi di Parigi).
D. Perché questa sosta prima del termine, per quelli
che hanno felicemente percorsa la via? R. Al termine del cammino,
bisogna correggere gli errori del percorso.
D. Se queste anime sono in stato di grazia, è
perché sono innocenti, oppure si sono liberate dal male. R. «. Per
pagare i propri debiti, non basta non centrarne più dei nuovi, bisogna
anche soddisfare i vecchi » (s. gregorio).
D. Soddisfare come?
R. Chi è stato troppo indulgente verso se stesso,
deve accettare una dolorosa costrizione. Chi ha offeso l'ordine, deve in
cambio subire l'urto dell'ordine, fino a una piena riparazione.
465
D. Qual è dunque la situazione di questi condannati
temporanei?
R. Quella dei prigionieri in una'cittadella esposti
alla
fame e ai lavori penosi, con la certezza d'una prossima
e felice liberazione.
D. Questo paragone della prigione è classico?
R. È quello del Vangelo, e Gesù aggiunge: In
verità,
ti dico che non uscirai se non hai pagato fino
all'ultimo
spicciolo.
D. Queste anime detenute soffrono molto?
R. Soffrono, ed è possibile che le loro pene siano
molto gravi.
D. Come concepisci la loro prova? R. Qui, come a
proposito dell'inferno, bisogna guardarsi dalle immagini puerili. Gli
antichi si rappresentarono a volte il purgatorio sotto la forma d'un
fiume di fuoco che bisognava attraversare per andare in cielo, e che
bruciava al passaggio le scorie dell'anima, non avendo nessun potere
sopra la anime affatto pure. Questi non sono che simboli, ovvero, per
anime semplici, credenze spesso superstiziose.
D. E allora?...
R. Mi sono spiegato nel precedente capitolo. Forse
il caso è lo stesso; forse è differente, ma certo dello stesso ordine,
e ciò non ha importanza pratica. Quello che, ai nostri sguardi, deve
differenziare il purgatorio e l'inferno, non è la natura delle
sofferenze, ma la disposizione delle anime, così radicalmente diversa.
D. In che consiste questa differenza? R. I
dannati non sperano più; le anime del purgatorio
466
invece hanno una ferma speranza. I dannati odiano Dio,
l'universo e se stessi; le anime del purgatorio invece ardono di un
amore universale.
D. La speranza, l'amore procurano loro qualche
felicità?
R. Una felicità attraversata da pena, una felicità
certa, ma che non può per il momento esprimersi.
D. Sono esse in rapporto spirituale con Dio? R.
Dante fa loro cantare il Pater sulla « prima cornice », là
dove ci si purifica dalle vanità di questo mondo, e il suo pensiero è
conforme alle vedute della Chiesa.
D. Le anime del purgatorio fanno parte della Chiesa?
R. Esse compongono quello che noi chiamiamo la Chiesa paziente,
e fanno parte della comunione dei santi, società, di tutti
quelli che vivono in Cristo, figli del suo Padre celeste e animati dal
suo Spirito.
D. E credi tu che questi mondi comunichino?
R. Essi comunicano, e la preghiera ne attraversa le
barriere.
D. Che possono dunque per noi queste anime? Hanno
esse coscienza di ciò che avviene sopra la terra? R. Certo esse non
hanno alcuna conoscenza diretta di ciò che avviene quaggiù; ma il Dio
che esse amano e da cui sono riamate, può loro ispirare pensieri
fraterni, ed anche il loro cuore le inclina a pregare per noi.
D. Pregano specialmente per quelli che amarono, per
quelli che le amano?
R. Così vuole la Provvidenza che ha voluto i nostri
legami. Espiare non può essere un distaccarsi dalle con-
467
venienze divine e dai legami umani che hanno, come tutta
la vita, conseguenze eterne.
D. E noi che cosa possiamo per loro? R. Per essi
noi possiamo offrire a Dio le nostre preghiere, i nostri buoni desideri,
le nostre opere meritorie, le nostre azioni sacramentali, e specialmente
il santo sacrificio della Messa.
D. La Messa ha per tè, a questo riguardo, una
speciale efficacia?
R. Poiché essa dispone dei meriti infiniti, li può
applicare, però con l'acccttazione della volontà di Dio e secondo le
vedute misteriose della Provvidenza.
D. Non si è dunque mai sicuri? R. Abbiamo già
detto che i sacramenti non hanno nulla di comune con una macchina
automatica. Funzioni spirituali, essi agiscono secondo un ordine
spirituale, e specialmente dove la libertà di Dio e la libertà del
prossimo sono in causa, nulla si potrebbe garantire con certezza. Si
crede volentieri che, a parità di condizioni, Dio soccorra più
particolarmente, a nostra richiesta, quelli che durante la loro vita lo
meritarono con la loro propria carità verso i morti.
D. Qual lezione ci può venire da questi esseri che
penano e sono vicini alla gloria?
R. Dante la trae nel suo canto XI, quando così
interpella le anime:
Mostrate da qual mano invér la sedia Si va più corto:
e se c'è più d'un varco, Quel ne insegnate che men erto cala...
(Purgatorio).
468
IL PARADISO
D. Come pensi il paradiso?
R. « L'occhio dell'uomo non vide, ne l'orecchio
udì, ne il cuore ha compreso quello che Dio riserva a quelli che lo
amano » (S. paolo).
D. Tuttavia?...
R. Tu conoscerai un giorno il paradiso, come spero,
possedendolo.
D. Ma in attesa del compimento di questo voto
benevolo...
R. Il paradiso, come S. Paolo c'insegna, non ci vien
descritto se non per mezzo di misteri; quello che se ne ^attesta, è la
sua incomprensibilità. Ad ogni modo, noi vi dobbiamo vedere un tesoro
di gioia.
D. È questo componibile con una morale veramente
pura? 'Dobbiamo guardare alla gioia, e soprattutto collocare in essa il
nostro ultimo fine?
R. Ascolta la risposta di Bergson: «I filosofi, che
hanno speculato sopra il significato della vita e sopra l'ultimo fine
dell'uomo, non han notato abbastanza che la natura si è data la pena
d'informarci appunto intorno
469
a se stessa. Essa ci avverte con un segno preciso che il
nostro destino è raggiunto, e questo segno è la gioia ».
D. Come giustifichi questa dottrina? R. Si
giustifica appena si pensa a quelle che sono a nostro riguardo le
intenzioni della Provvidenza, così come la natura delle cose, la
ragione e la fede ce le manifestano. Noi non siamo sopra la terra se non
per vivere realizzando la perfezione umana e soprannaturale, mediante
un'attività retta, felice, feconda per noi e per tutti. Coloro che,
secondo Kant, vollero stabilire la moralità sopra altre basi, in
realtà la camparono in aria, senza darle nessuna radice nella realtà
naturale e umana.
D. Ma ciò non è propriamente la gioia. R. Ne è
la condizione, e la gioia ne è la testimonianza. Secondo Spinoza,
Leibniz, Aristotele, ai quali si accompagna S. Tommaso d'Aquino, la
gioia è l'espressione di un'espansione vitale, come la tristezza è un
restringimento e un regresso della vita.
D. Che cosa ne concludi?
R. Che lo scopo di tutta la vita è di essere nella
gioia, e che la virtù non è altro che il mezzo autentico di arrivarci.
D. Ciò sembra un paradosso epicureo. R. Quando
lo si intende male. Ma ricordati di quegli altri paradossi che si
chiamano le Beatitudini evange-liche; esse commentano la dottrina
confermandola. Beati quelli che... Ecco posta la questione della
felicità, la quale dunque è ammessa non solo, ma anche proposta come
fine. Al termine di ogni formula così cominciata, si trova: Perché
loro è il regno dei deli; perché sa-
470
ranno consolati; perché saranno saziati,
ecc., ed ecco il risultato ottenuto. Fra i due si trova la virtù:
l'amore del prossimo, la purezza del cuore, la fame e la sete della
giustizia, l'accettazione dei dolori provvisori, ecc.
D. Dunque il ciclo non sarebbe altro che un
compimento armonico di noi stessi, nella gioia, dopo una vita virtuosa?
R. Esattamente, aggiungendo con maggior precisione
che il compimento armonico di se stesso, per il cristiano, importa un
innalzamento. Ma questo innalzamento soprannaturale essendo ab
aeterno nell'intenzione creatrice, è per noi normale. Aristotele
non diceva già che l'uomo non può giungere a capo di se stesso che
oltrepassandosi?
D. Essere virtuosi non è dunque solamente
meritare il paradiso, ma salirvi effettivamente.
R. L'uomo che fa il bene si dedica effettivamente,
benché misteriosamente, alla vita eterna; entra progressivamente in
un mondo di gioia; diventa esso stesso gioia; diventando perfezione,
diventa paradiso; difatti « l'uomo nella sua forma perfetta è paradiso
» ( swe-
DENBORG).
D. Il paradiso sarebbe dunque un effetto, un prodotto
autentico detta stessa attività virtuosa? R. Sì. Il prodotto
superiore dell'anima è il paradiso. Il regno di Dio è dentro di
voi, disse il divin Maestro.
D. Tuttavia il paradiso significa altro. R.
Quest'altro è accessorio. Il paradiso, nella sua sostanza, è uno stato
dell'anima, e questo stato ha il carattere di un compimento felice, di
un'espansione nella pie-
471
nezza, il cui segno naturale è la gioia. Perciò Gesù
nel suo tenero discorso di addio, si esprime così: Io vi ho detto
queste cose (i suoi comandamenti, e specialmente la sua legge
d'amore), affinchè la mia gioia sia in voi, e la vostra gioia sia
perfetta.
D. E ciò è fatto per tutti? È alla portata di
tutti? R. Sì, perché Dio è alla portata di tutti; Dio supplisce,
là dove l'uomo vien meno; Dio compie, quando l'uomo ha cominciato.
Perciò la beatitudine cristiana non è più la mèta del dilettante
greco che, lontano dalla folla, si esercita a realizzare l'uomo « bello
e buono » in cui egli vedeva l'immagine di una felicità astratta; ma
è una beatitudine essenzialmente e universalmente umana, proposta a
tutti, che tutti possono conseguire appena lo vogliano, quand'anche,
come dicevo, a cagione delle circostanze delle quali essi non sono
responsabili, non lo sapessero.
D. Dunque, rispetto alle insufficienze di questa
vita, il paradiso sarebbe un ammirabile compenso? R. Il più
diseredato dei figli di Dio non può disperare della sua forma: « gli
resta un regno intero » (bos-suet). •
D. E rispetto ai dolori è una piena consolazione? R.
Gli eletti lo proclameranno, « quando riconosceranno i giorni della
loro angustia più profondi e più belli che i giorni di felicità »
(e. péguy).
D. È anche un progresso? Il paradiso comporta una
evoluzione di felicità, un accrescimento?
R. Il paradiso è il compimento infinito della
speranza.
472
D. Come il « perfetto » può crescere? R. Per
la sua propria espansione. Un seme perfetto genera un albero perfetto;
un albero perfetto ne genera un altro. La semenza dei beni eterni è di
una virtualità infinita, poiché è Dio stesso.
D. Ma tu rinunzi a descrivere questo paradiso? R.
La nostra povera esistenza offre troppo poche gioie per fornirci qui
delle immagini efficaci, e il soprannaturale non ha equivalenti umani.
Tuttavia ciò che non si può descrivere, si può tentare di precisare.
D. Che ne dici dunque?
R. Già ho distinto il.principale e l'accessorio,
che, in teologia, si chiama la gloria essenziale e la gloria
accidentale. Di questa parleremo fra poco; ma l'essenziale della «
gloria » celeste, quello che effettua questo compimento perfetto e
felice di cui parlavamo, è l'entrata dell'anima in Dio, è la sua
unione intima con Dio, la sua partecipazione alla vita stessa di Dio,
come abbiamo notato quando parlavamo del soprannaturale nella sua
essenza e nelle sue mire ultime.
D. Il cristiano non pretende forse già di essere
unito a Dio, di vivere già in Dio?
R. Sì, perciò la vita eterna non consiste
nell'incon-trare Dio, ma nel « rivederlo », come diceva Leone
Bloy, cioè nel contrarre con lui una società di vita più doviziosa,
un'amicizia se non più intima, almeno più « sensibile al cuore »,
come direbbe Pascal.
D. Come si stabilisce questo legame? R. Dio è
tutto spirito; noi siamo soprattutto spirito:
questo vincolo, nel primo stadio, non può essere che un
vincolo spirituale.
473
D. È uno stato dell'intelletto, oppure del cuore? R.
È sempre l'intelletto a prendere le mosse. È l'intelletto che esercita
la presa; il cuore si riposa poi nell'oggetto conquistato.
D. In che consiste questa presa di Dio da parte di un
intelletto umano?
R. Qui noi non possiamo fare altro che balbettare.
In mancanza di una vera spiegazione, noi chiamiamo ciò conoscenza
intuitiva, una visione, volendo significare che l'intelletto
prende coscienza di Dio, a modo suo, con la stessa evidenza che l'occhio
corporeo prende coscienza dell'oggetto che vede.
D. Si può chiarire un po' meglio questa nozione? R.
Descartes lo tenta. « La conoscenza intuitiva, dice, è
un'illustrazione dello spirito con cui esso vede nel lume di Dio le cose
che a lui piace scoprirgli (e prima di tutto Dio stesso) mediante
un'impressione diretta della luce divina sul nostro intelletto, che in
questo non è considerato come agente, ma solo come ricevente i raggi
della Divinità ».
D. Questi « raggi » cartesiani non rischiarano
granché. R. Qui nulla ci può illuminare. Ma S. Tommaso d'Aquino
tenta una spiegazione dicendo che a differenza di ciò che avviene
quaggiù, dove la conoscenza delle cose ci è fornita dalla loro
rappresentazione in noi, nella visione beatifica, Dio, che
nessuna immagine può veracemente rappresentare, diventa la sua propria
immagine nell'eletto, la sua propria rappresentazione. Ed ecco dunque
quest'essere che pensa Dio mediante Dio, come noi adesso pensiamo l'uomo
mediante l'immagine del-
474
l'uomo e vediamo la pianta mediante la sua figurazione
nel nostro occhio.
D. Non è un introdurre Dio nella stessa contestura
dell'anima, e come un divinizzare questa? R. Perciò noi abbiamo
detto che il soprannaturale è una specie di divinizzazione, un
introdursi oscuro quaggiù, luminoso lassù, nell'ineffabile.
D. Come è possibile ciò?
R. Non si può spiegare la possibilità, come non si
può supporre il fatto, indipendentemente da una dichiarazione divina.
Ma noi abbiamo udito: « C arissimi, noi siamo ora figliuoli di Dio;
e non è ancora manifesto quello che noi saremo; ma sappiamo che quando
si manifesterà saremo simili a lui, perché lo vedremo come egli è »
(s. giovanni).
D. Tu mi parli di tempo! Ma è possibile essere uniti
all'Eterno altrimenti che per un atto eterno?
R. Hai ragione. Dio, quando entra nell'anima per
esercitarvi la parte di idea immanente, deve portarvi le sue proprie
condizioni. L'atto di visione divina si misura dall'eternità, che è
una durata non solo continua e senza pausa, non solo infinita, ma tutta
simultanea, ttttta insieme {tota simul), come dice Boezio. È
davvero un nirvana, dove l'individualità, a dire il vero, si esalta
invece di perdersi, dove anzi si concentra a tal segno che tutta la sua
estensione di conoscenza è assorbita nell'invisibile essenza divina, e
la durata totale di questa conoscenza non è che un punto.
D. Come rappresentarci un tale stato?
R. Non cerchiamo di rappresentarcelo; Alberto Magno
ne vede una vaga immagine e un'anticipazione nel caso di
475
quei contemplativi, di quegli « uomini divini », i
genii, i santi, che anche in questa vita « sfuggono al tempo e non
avvertono più i cambiamenti che il tempo misura ».
D. Quest'ultimo caso si capisce; se ne vedono i
limiti;
ma « conoscere Dio come egli conosce se stesso » è
un atto infinito.
R. Si dice: come conosce se stesso, e si
tratta del modo, cioè per contatto immediato. Non si tratta della
misura, del grado. La prova è che gli stati di beatitudine sono, da un
eletto all'altro, profondamente differenti. Vi sono molte mansioni
nella casa di mio Padre, disse Cristo. In altri termini, si tratta
di « toccare Dio con lo spirito » (s. agostino) e non di «
comprenderlo », cioè di esaurirlo.
D. Ne segue che questo è un attribuirci una
capacità sovrumana, una capacità propria di Dio. R. Bisognerà
evidentemente « spalancare le entrate » (bossuet). Dio non dovrà più
guardare a quello che egli ha fatto dell'anima nostra costituendo la sua
natura, ma a quello che ne può fare. Egli « non baderà alla nostra
disposizione naturale se non in quanto sarà necessario per non farci
violenza » (Idem).
D. Che cosa può significare per noi conoscere Dio?
R. La sola idea che possiamo farci, quando si tratta di Dio, è
quella di una fonte dell'essere, ove ogni valore è contenuto
nell'unità e in un modo ineffabile. Ciò non dice niente
all'immaginazione, ma fa supporre all'intelligenza un inesprimibile
splendore.
D. In Dio, si vedrà dunque tutto quello che quaggiù
è
disseminato lontano dalla fonte dell'essere?
R. Si vedrà tutto nella proporzione che si vedrà
Dio,
476 :
con la stessa estensione o la stessa profondità di
visione, che sarà determinata dalla nostra elezione stessa, vale
a dire dal nostro merito coronato, dalla nostra grazia sbocciata
in gloria. In tale proporzione, Dio farà conoscere all'eletto
tutto ciò che il reale offre per lui di arricchimento ideale e di
spirituale beatitudine.
D. Questo modo di conoscenza è per la mente un
completo capovolgimento.
R. I poli della conoscenza umana si trovano infatti
rovesciati. Qui, noi conosciamo il creato per mezzo dell'esperienza
sensibile e Dio per riflesso. Lassù, conosceremo Dio per esperienza
soprassensibile, intuitiva, e il creato per rinesso in lui. Nell'Assioma
eterno si vedono tutte le proporzioni del reale; nel Decreto eterno,
tutti gli esseri.
D. E sarà questa una felicità? R. .Se la
felicità, come la conoscenza, consistono l'una e l'altra in una
estensione e come in una moltiplicazione del nostro essere, tutte due si
devono ricongiungere.
D. Una felicità puramente ideale, puramente
intellettuale, potrà bastarci? Vuoi tu proporla, con qualche speranza
di sedurli, agli uomini assetati di vita? R. S. Paolo ti risponde
con una espressione che ha un'aria semplicetta, e che tra i cristiani è
diventata abitudinaria, ma in cui si rivela alla riflessione
un'ammirabile profondità. « Dio sarà tutto in tutti ».
D. Che cosa significa questo? R. Dio sarà tutto
per gli eletti, perché la diffusione dell'essere e dei beni che egli
operò con la creazione non ha impoverito Iddio di ciò che egli dona.
Dio co-
. 477
munica; da in partecipazione; non aliena. La Fonte
dell'essere ha questo di speciale e d'incomprensibile per noi, che essa
getta con un'indicibile abbondanza e non vede ridursi la pienezza delle
sue acque. Perciò si trova, in essa, più che in nessuna cosa e più
che in se stesso, quello che è proprio di questa cosa e proprio di se
stesso. Di modo che, possedendo Dio, nella proporzione che lo si
possiede, si possiede se stessi nella propria pienezza e si possiede
tutto il resto. Ecco quello che si vuoi significare dicendo: Dio è tutto
in tutti.
D. Ma tu lasci da parte l'ordine della conoscenza,
del quale avevi detto che condiziona tutto, e anche la nostra adesione
alla Fonte dei beni.
R. Niente affatto, ed ecco la connessione. Ciò che
si chiama una felicità reale, una felicità effettiva, in
opposizione ad una pura conoscenza, di che cosa è fatto se non ancora
di conoscenza, dopo che gli oggetti conoscibili, assimilandosi ai nostri
corpi, ci hanno anzitutto aiutato ad essere? Per noi, tutto consiste nel
vedere, nel toccare, nel gustare, odorare, nel prendere conoscenza di
noi e degli altri, nel reagire di fronte alla verità, alla bellezza, a
un'amicizia riconosciuta, a una stima manifestata, ad una sottomissione
degli avvenimenti o delle persone che certi fatti di conoscenza ci
danno.
D. Ma questi fatti di conoscenza non sono tutti
dell'ordine intellettuale; i più dipendono dai sensi. R. Pensi tu
che ciò sia meglio, in quanto alla loro capacità di felicità?
D. L'immensa maggioranza degli uomini la pensa cosi.
R. In un certo modo hanno ragione; ma nell'assoluto, dove ci riporta
la vita eterna, essi hanno torto.
478
D. Desidererei vederci chiaro. R. Tutto dipende
dal genere dell'intellettualità di cui si parla, quando si oppone la
conoscenza intellettuale a una conoscenza sensibile atta a rallegrare i
viventi.
D. Vi sono dunque più specie d'intellettualità? R.
Ve ne sono qui due da prendere in considerazione:
l'intellettualità astratta, e quella che noi
abbiamo chiamata intuitiva, che ci lega a Dio spirito.
D. Come si nota la differenza? R.
L'intellettualità astratta non ci da se non dei concetti, cioè dei
fantasmi di nostra creazione, che a dire il vero rappresentano il
reale, ma non lo fanno entrare in nostro possesso. Questi concetti sono
della nostra sostanza; sono il nostro io modificato; non possono
dunque procurarci del reale se non una figura e come uno schema vuoto.
Al contrario, con l'intuizione di Dio, noi attingiamo in Dio spirito
quello che vi si trova, e ciò non è più uno schema delle cose. Dio
non è una forma vuota, come quella che noi concepiamo quando
pronunziarne questa parola: Dio. Tutta l'idealità che contiene è
sostanziale, essendo il suo essere stesso. Creatrice, essa è ricca di
tutto il reale. Per conseguenza, tutto quello che, nel reale, è
l'oggetto delle nostre intuizioni sensibili e dei nostri « possessi »,
qualunque ne sia la forma, si deve trovare in questa Sorgente prima allo
stato ideale. Perché allora non ve l'attingeremmo?
D. Potrebbe ciò farsi per mezzo del solo spirito? R.
Per mezzo dello spirito — se esso esercita la sua funzione di spirito
anziché la funzione di animare una materia, di cui abbiamo
l'esperienza, — perché non af-
479
ferreremo noi quello che, in Dio, è spirito, per quanto
sia pieno di ricchezza di essere?
D. Ecco quello che di fatto sfugge a ogni esperienza!
R. Come Dio stesso; ma questo è tuttavia incluso nella nozione di
Dio. « Dio è virtualmente ogni essere », abbiamo detto con S. Tommaso
d'Aquino: se noi possiamo afferrare Dio con un'intuizione ricca del suo
essere stesso, poiché di questa stessa intuizione lui stesso è il
principio immanente, noi saremo in possesso dell'essere, e non del suo
schema astratto. La nostra intuizione intellettuale, elevata dal lume
della gloria al livello del divino in sé, potrebbe essa, in questa
presa dell'essere, mostrarsi inferiore ai nostri occhi, alle nostre
mani, alle nostre papille gustative, a tutto l'attrezzatura sensoriale?
No, di certo. Dunque noi possiamo trovare lì più felicità che in quel
supposto reale in cui già Piatene non vedeva altro che un'ombra.
D. Come ammettere che per mezzo dello spirito si
possa percepire e conquistare, per viverne, quello che dipende dalle
qualità della materia, oggetto dei sensi e non dello spirito?
R. I discepoli di Bergson e non solo di Bergson
sanno che la materia non è che il limite inferiore dello spirito, un
residuo grossolano, una cenere di questo fuoco, un arresto relativo e
come una paralisi di questa attività sublime. Vorremmo noi rimpiangere
la cenere, abbagliati e riscaldati dal fuoco?
D. Questa dottrina è ammessa nella filosofia
cristiana? R. S. Tommaso ne offre l'equivalente quando riunisce
materia e spirito in una sintesi ideale della quale la sostanza divina,
tutta ideale essa stessa, è il centro di
480
emanazione. Per S. Tommaso, tutto quello che è proprio
della materia e dei composti di materia si trova in Dio eminentemente,
come nella sua sorgente prima, e quindi si può ivi ritrovare, se con
l'intelligenza sopraelevata e come divinizzata nella sua potenza, si
afferra Dio in sé.
D. Dunque, secondo tè, un eletto non può
rimpiangere questo mondo.
R. È possibile il rimpianto del miraggio, quando la
sorgente ti abbevera? Una giovane madre rimpiange forse la sua bambola,
quando ha il bimbo in braccio?
D. È tutto lì il paradiso?
R. È l'essenziale, dicevo, a tal segno che, se
anche tutto il resto non ci fosse, non si potrebbe dire che manchi
qualcosa. Chiunque ha il sentimento di ciò che è Dio sottoscriverà
questa sentenza di S. Agostino:
« Assai avara è un'anima a cui Dio non basta ».
D. L'essenziale suppone però l'accessorio. R.
L'eternità di fatto dev'essere presa com'è. Il nostro essere al
contatto di Dio non rinunzia a se stesso, non perde il contatto con le
altre creature, e la sua beatitudine si deve allargare, se non elevarsi,
con tutto ciò che gli può venire dal suo proprio funzionamento
naturale e dalle sue molteplici relazioni.
D. Tuffo questo non è forse offuscato dalla
chiarezza divina, annegato in quel nirvana cristiano che hai descritto?
R. Noi accettiamo come una legge che Dio, fondatore
della natura, attirando a sé le sue creature, non fa mai altro che
darle maggiormente a se stesse. Ne segue
481
che nell'anima separata dal suo corpo, l'attività
relativa a se stessa e a tutte le altre creature dev'essere più intensa
e più ricca, anziché essere abolita.
D. Tutti i suoi pensieri di questo mondo seguono
dunque l'anima nell'altro mondo? R. Questo si crede generalmente,
quantunque non sia un'assoluta certezza. Ciò dipende da una teoria
psicologica un tempo contestata.
D. Che cosa intendi con questo? R. Si può
pensare che le nostre idee nascano e rinascano nell'anima all'occasione
dell'esperienza sensibile e del ricordo, ma senza imprimervisi in modo
durevole. Si può pensare invece che vi persistano tanto più in quanto
l'anima è immateriale e non subisce, come la sostanza cerebrale,
l'usura'del tempo. In quest'ultimo caso, di gran lunga più probabile,
le nostre idee acquistate durante la vita ci rimangono; nell'altro caso,
no.
D. Le conseguenze di quest'ultima ipotesi devono
essere molto gravi.
R. Sono anzi insignificanti; perché ciò che non si
avrebbe per questa via si avrebbe sovrabbondantemente per la precedente.
Non è necessario vedere gli astri nel mare, quando si vedono nel cielo.
D. Dunque tu sostieni che Dio solo basta? R. ..
Dio solo basta; ma Dio ci da con se stesso tutta l'opera sua. Si
potrebbe attribuire questo senso nuovo alla formula evangelica: «
Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutto il resto vi
sarà dato per so-prappiù ».
482
D. In questo soprappiù, metti anche una vita comune
degli esseri salvati, e specialmente di quelli che si conobbero sopra la
terra, che furono legati dal comune lavoro, dalle comuni sofferenze e
dai vìncoli dell'amore? R. È naturale, benché, su questo punto,
non abbiamo alcuna rivelazione precisa. Ammesso che il destino, in Dio,
è principalmente individuale, perché, rispetto all'eternità, ogni
anima vale una specie, così come un puro spirito, si deve pensare che i
nostri legami della terra hanno la loro sanzione in cielo, come ogni
fatto provvidenziale avente i suoi fondamenti nella nostra natura.
D. Ma la natura, in questo caso, non è assorbita nel
soprannaturale?
R. No; come la visione creata non è assorbita dalla
visione divina, come la creatura non è assorbita in Dio, conservatore e
cooperatore della sua opera. « La grazia non distrugge la natura, ma la
perfeziona », è presso di noi un detto corrente. Poiché la nostra
natura è sociale con tutto quello che questa parola astratta comporta
di vincoli eflettivi, il compimento finale deve importare una società
degli spiriti, benché i vincoli spettanti alla carne o nati
dagl'interessi materiali non vi possono manifestamente ritrovare tranne
i loro effetti spirituali, ma in nessun modo la loro propria
sopravvivenza.
D. In paradiso non vi sono dunque famiglie? Non vi
sono patrie?
R. Nella Risurrezione, disse il Salvatore, gli
uomini non hanno moglie, ne le donne mariti; essi sono come gli angeli
di Dio nel ciclo, ed è lo stesso dei gruppi di famiglie legati
dagli avvenimenti del tempo che si chia-
483
mano patrie. Ma ciò che non sussiste punto in sé,
conserva i suoi effetti. Una famiglia, come ce lo insegna il sacramento
del matrimonio, è una via della salvezza, un elemento della Chiesa; una
patria non è che un gruppo di famiglie: dunque nello stesso modo che
rimane la Chiesa, anche la famiglia, in tutto ciò che essa ha di
spirituale, deve rimanere, insieme coi vincoli spirituali nati nelle
patrie e che, fin da quaggiù, ne sono la parte eterna.
D. Non vi è qui, tuttavia, un particolarismo nemico
della carità universale, e questa grandiosa carità non è forse quella
che tu difendevi sotto il nome della comunione dei santi?
R. La comunione dei santi estende un amplesso
immenso a tutti gli altri; non li distrugge affatto. La carità ha i
suoi oggetti ordinati a gerarchizzati, e perché Dio ne è l'oggetto
primo, motivo essenziale d'amore verso tutti gli altri, noi diciamo che
l'essenziale della carità in questo mondo è l'amore di Dio, e
l'essenziale della beatitudine celeste l'unione con Dio. Ma siccome
l'amore di Dio non abolisce l'amore del prossimo, ed anzi lo fonda:
così la beatitudine in Dio non assorbe affatto la felicità affettuosa
che possiamo trovare nelle creature: « La carità rimane », dice S.
Paolo: dunque anche i suoi oggetti, che determinano il suo valore e le
sue forme. Del resto non acclamiamo noi con gioia e tenerezza 1''Incoronazione
della Vergine nel ciclo? Se Cristo corona sua Madre, non è per
toglierci la nostra.
D. Dunque noi, figli di Dio, non ci lasciamo se non
per ritrovarci?
R. « La vita non è che un'occasione d'incontri,
solo
484
dopo la vita avviene il congiungimento » (victor hugo).
D. Ma la nostra ampia unità, attraverso a ogni
frontiera, unità che ha tanta difficoltà a rendersi conscia di se
stessa, tu l'aspetti indubbiamente con l'altra vita? R. Noi
attendiamo l'assemblea universale degli uomini, ora dispersi nello
spazio e nel tempo, come ciascuno di noi attende la coscienza piena del
suo essere, oggi sbriciolato in fenomeni successivi e incoscienti.
Ciascuna creatura pensante deve un giorno ritrovarsi in tutti gli altri,
in una stretta comunità di gioia. La nostra unità divinizzata sarà il
coronamento dell'opera umana nel soprannaturale, come una vera e intima
società delle nazioni sarebbe il coronamento della dviltà' sopra la
terra. Comunicare insieme e nella loro Sorgente è la felicità eterna
degli spiriti.
485
LA RISURREZIONE DELLA CARNE
D. Il tuo Credo parla anche della risurrezione
dei
corpi?
R. « Ogni anima che si salva salva anche il suo
corpo » (e. péguy).
D. Donde viene questa credenza? R. Come quella
dell'immortalità, quella del cielo e dell'inferno, anche la dottrina
della risurrezione dei corpi è nel Vangelo, come ti dicevo, e assai
presuntuosi sono quelli che si limitano a prendere dal Vangelo una «
morale » a loro modo, rigettando lezioni così fondamentali!
D. In quali termini si presenta la dottrina? R. «
Viene l'ora in cui quelli che sono nei sepolcri udiranno la sua voce
(del Figliuolo dell'Uomo), e ne usciranno: quelli che avranno fatto il
bene per una risurrezione di vita, quelli che avranno fatto il male per
una risurrezione di giudizio » (Vang. di s. giovanni).
D. Si credette subito a queste parole? R. I primi
cristiani credettero ad esse a tal segno che questa credenza offuscò in
molti di loro la nozione della sopravvivenza delle anime, quella del
giudizio indivi-
487
duale, e, come ho ricordato e spiegato sopra, fece
credere a una brevissima durata del mondo.
D. Devi confessare che, nella credulità iniziale che
menava a queste conclusioni, vi era molta ignoranza. R. Vi era della
semplicità, e bisognerebbe vedere se questa facilità a credere dei
misteri, là dove interviene l'onnipotenza divina e dove i destini
ultimi sono in gioco, non sarebbe più filosofica, e più assennata di
tanti sorrisi di superiorità.
D. Ma bisogna rispettare la ragione e tenersi nei
limiti del possibile.
R. Pascal che se ne intendeva osserva: « Quale
ragione hanno essi di dire che non si può risuscitare? Che cosa è più
difficile, nascere o risuscitare? Che quello che non è mai stato sia o
che quello che è stato sia ancora? È più difficile venire in essere
che il ritornarvi? La con-suetudine rende l'uno facile e la mancanza di
consue-tudine rende l'altro impossibile. Popolare modo di giudicare! ».
D. Non capisco granché la somiglianzà dei due casi.
R. Bisogna tuttavia che essa sia impressionante, poi-che,
quattordici secoli prima di Pascal, Tertulliano scriveva: « Tu cerchi
di sapere come rivivrai? Cerca prima di sapere, se ti è possibile, come
sei arrivato alla vita ».
D. Dove sfa esattamente la somiglianzà? R. I
nostri genitori sono gli autori della nostra vita;
ma Dio ne è soprattutto l'autore, e quello che essi
poterono, Dio lo può benissimo senza di loro. Per mezzo dei nostri
genitori e in essi, è l'anima il principio vitale, e quest'anima, che
importa con sé la vita, può benissimo rendercela. Che una materia che
è stata una
488
volta impastata da formare un uomo sia impastata una
seconda, non è più difficile di quello che è vedere una argilla
modellata e rimodellata secondo un medesimo modello ideale.
D. Ma dove ritrovare, qui, l'« argilla »? R.
È vecchia questa battuta! vi sono le polveri gettate al vento e
disseminate nelle piante, che gli animali mangiano, che un uomo può
rimangiare. Vi è l'antropofago, e tante altre puerilità di « spiriti
forti ».
D. Perché puerilità?
R. Perché con ciò si sfoggia una leggerezza di
argomentazione ridicola; perché si sottintende una scienza certa di
ciò che nessuno sa, ciò che è veramente il più « popolare modo di
giudicare », se pure non si fa così ingiuria al popolo.
D. Che cosa rimproveri tu a questo ~ modo di
argomentare?
R. Di procedere come se la materia necessaria alla
ricostituzione di un corpo in una vita eterna fosse identica agli atomi
materiali che vi Si succedono come l'acqua in un torrente. E questo è
stoltezza palese.
D. E di quali sottintesi pretenziosi vuoi tu parlare?
R. Si argomenta con fierezza relativamente alla materia: ci si
figura dunque di sapere che cosa essa è. E vedo ridere Pascal. Sento i
dotti e i filosofi moderni disputare con sempre minore speranza a
proposito di questo Proteo, domandarsi se esso esista altrimenti che
come forza, parlare della sua « smaterializzazione », della sua fuga
all'infinito a misura che la si analizza. Il tuo obiettante ignora
deplorevolmente tutte queste cose.
489
D. Ma quale necessità, per l'anima immortale
assorbita in Dio, di ridarsi una materia?
R. Come se tu domandassi: Che necessità, per
l'uomo, di esistere? L'anima immortale non è l'uomo. S. Tom-maso
osserva che non le spetta nemmeno più il nome di uomo. Non si può
dire, parlando con precisione: Un tale è presso Dio. « Un tale » è
semplicemente distrutto;
sussiste solo una parte della sua persona, la parte
principale, è vero, talmente principale che l'altra a buon diritto è
giudicata insignificante per la felicità essenziale. Ma l'essen/.iaic
richiede l'accessorio, dicevi tu. Se non vi è risurrezione della carne,
l'anima umana è salva;
ma l'uomo non è salvo; l'umanità è estinta;
l'universo di Dio è impoverito di una specie che noi amiamo di credere
la più importante, che ad ogni modo è d'un pregio immenso, grazie
all'unione dello spirito; quel posto unico al quale si arresta
indubbiamente l'attenzione degli angeli, dove si fissa con terrore e
fascino quella delle bestie, ai confini della materia e dello spirito:
quel posto non è più occupato, e la morte, che Cristo doveva
abbattere, ha conservato il suo impero; non si può più esclamare con
S. Paolo « O morte, dov'è la tua vittoria; o morte, dov'è il tuo
stimolo? ».
D. Sia pure! L'uomo non esiste più, e ciò può
impoverire l'universo; ma ciò che importa all'anima? Non è forse essa,
come spirito, in una piena integrità, e per conseguenza in una piena
indifferenza riguardo al suo corpo?
R. L'integrità dell'anima è nell'integrità e
nell'armonia di tutte le sue funzioni, un gran numero delle quali
esigono uno strumento materiale. Mancando di queste
490
funzioni, l'anima è mutilata, e per quanto alta sia la
sua vita per la sua unione eoi suo principio, questa vita non è
interamente normale. Un sublime moncherino è sempre un moncherino. La
vita dell'anima separata è quella di un amputato che prova in tutte le
sue estremità nervose l'impressione del membro perduto; non si può
dire che ciò sia una condizione felice, benché incomparabili compensi
ne annullino praticamente il peso. Lo stato naturale dell'anima comporta
una coscienza corrispondente al nostro essere intero: ora nella
sopravvivenza dell'anima sola, non vi è più coscienza corporale, non
vi. è più sensibilità, ne impressione dell'universo e di se stesso al
completo, ne immaginazione, ne, propriamente, memoria, poiché il tempo
fisico non corre più. Però di tutto questo sussiste il principio,
poiché l'anima è una e non può vedersi dividere le funzioni fino alla
loro radice. Come supporre che questo principio di una vasta gamma di
operazioni, ridotto a una sola, cioè il pensiero, non abbia una
tendenza naturale verso tutto quello che esso non ha più? Come
immaginarlo soddisfatto di vedere eternata questa amputazione? Il
pensiero è la quintessenza dell'anima, ma non è tutta l'anima, neppure
aggiungendovi la sua tendenza correlativa che è l'amore.
D. Tu parli da naturalista, ma il punto di vista
soprannaturale non ti spinge ad eliminare queste osservazioni?
R. Proprio il contrario. Il principio della
sopravvivenza del corpo è stato posto col soprannaturale stesso,
poiché la giustizia originale, al punto di partenza, implicava
l'immortalità. In seguito alla caduta interviene
491
la morte; ma la riparazione per mezzo di Cristo, che,
incarnandosi, viene in soccorso della carne come in soccorso dell'anima,
ci reintegra nel diritto dell'immortalità corporale. La Resurrezione di
Cristo ne è il pegno. Perciò S. Paolo, apostrofando taluni de' suoi
Corinzi, esclama: « Se si predica che Cristo è risorto da morte,
come mai certuni tra voi dicono che non vi è risurrezione da morte? Se
non vi è risurrezione da morte, neppure Cristo è risuscitato ».
D. Una religione spirituale non dovrebbe
disinteressarsi di un avvenire corporale?
R. La nostra non è un religione « spirituale »,
ma una religione umana. Essa è integralmente umana appunto perché è
divina, e non è forse cosa più umana che l'anima, un giorno
purificata, possa associare alla sua estasi il corpo che ella invano
cercava, quaggiù, di trascinare alla felicità? La nostra religione è
fondata sopra l'incarnazione, come ti dicevo, e non sopra la
disincarnazione. La visibilità della Chiesa, il suo carattere sociale,
i suoi mezzi sacramentali, la sua pratica tutta quanta attestano questo
carattere. La risurrezione dei morti è un corollario richiesto dalla
coerenza dottrinale come dalla natura delle cose. Uniti, nella Chiesa,
allo Spirito di Cristo, facendo corpo con Cristo, noi, quando sarà
giunta l'ora, abbiamo diritto di prender parte alla risurrezione di
Cristo e al trionfo della sua carne mortale. « Se lo Spirito che ha
risuscitato Gesù abita in voi, esso vivificherà anche i vostri corpi
mortali » (s. paolo).
D. Possiamo allora domandarci perché questo ritardo
sino alla fine dei tempi, quando Cristo risuscitò dopo
492
tré giorni. Possiamo anche domandarci perché la morte,
dal momento che Cristo la vinse.
R.
Abbiamo veduto come la morte e gli altri effetti del peccato siano stati
mantenuti per la nostra utilità spirituale, e non come sevizie, per la
continuità e l'armonia dell'opera provvidenziale, a vantaggio della
nostra unione con Cristo e della nostra cooperazione al suo sforzo
redentore, ecc. Anche per i nostri peccati attuali, la morte è una
purificazione. La morte parziale chiamata mortificazione comincia
il compito; il verme sepolcrale lo compie, e spezza gli attacchi della
carne alla concupiscenza che è in noi. La morte individuale è dunque
in tal modo giustificata, non come carnefice, ma come incaricata di una
missione, come ancella.
D. Ciò non spiega l'attesa sino alla fine del mondo.
R. La spiega mediante un'osservazione supplementare. Un corpo
individuale è un insieme momentaneo di atomi e di forze che si
adoperano a servire un'anima, ma che poi l'abbandonano per rientrare nel
mare donde altre anime a migliala, attingeranno. Tal è la provvidenza
generale. La vita è come una serie di onde su un mare; il movimento
ondoso non s'interrompe se non alla fine, quando, trovandosi compiuto il
lavoro delle forze e delle anime, potrà venire la gran calma. Ora è di
regola che la provvidenza generale limiti la provvidenza particolare di
questo o di quell'essere, per assoggettarsela e per servirsene ai fini
generali. La materia compie presentemente il suo ufficio universale;
lavora alla nascita di nuovi eletti, alla loro prova terrestre, al loro
progresso mediante lo sforzo, al compimento sociale di Cristo, capo
dell'umanità di tutti i tempi.
493
Quando il numero degli eletti sarà completo come la
predestinazione eterna vuole; quando lo sforzo collettivo degli uomini
sarà compiuto, l'incarnazione pienamente utilizzata, raggiunto il
livello di civiltà che Dio ha previsto, il perfetto potrà
venire per tutti e conse guentemente per ciascuno; le anime si potranno
ridare il loro corpo, organizzandolo il più perfettamente che sarà
loro possibile, unite al Principio dell'ordine, et così cominciare
veramente la loro eternità.
D. È un disegno che si compie a lunga scadenza. R.
Così dev'essere; ma il capolavoro è indifferente alla durata. Quando
si tratta di una vita eterna, « mille anni sono come un giorno e un
giorno come mille anni ».
D. Di quale « perfezione » si tratterà
riguardo alla vita corporale futura?
R. Quando l'anima riprende il suo lavoro di
organizzazione, di animazione e tutto l'insieme delle sue funzioni
riguardo al corpo, la riprende in condizioni talmente nuove, che la vita
così rilanciata, il corpo così ricostituito non possono mancare di
provarne gli effetti. L'anima è intimamente unita al suo principio, che
è il principio di tutto. Principio essa stessa, ma nella dipendenza dal
Primo Principio, trova nella sua intimità beata di che infondere nel
corpo delle energie che non possiamo neppure sospettare, in questa
pesante esistenza. Una calamità applicata alla limatura l'organizza
secondo certe linee: l'anima calamitata in Dio non organizzerà essa il
suo corpo in vista di funzioni più alte, più perfette, meglio adatte a
un ambiente rinnovato del quale parleremo, meno lontane dall'anima
494
stessa e da' suoi soprannaturali poteri? Ecco quello che
ci fa chiamare il corpo risuscitato un corpo spirituale, in
rapporto al corpo animale di cui abbiamo l'esperienza. Queste
espressioni sono di S. Paolo, e sono profonde.
D. Quale è il loro senso preciso? R. Il corpo animale
è quello che vive nel senso fisiologico della parola, e
cioè che muore; infatti la vita è una morte perpetua che perpetuamente
si redime, fino al declinare e all'arresto finale. L'assimilazione o
nutrizione è il suo fenomeno fondamentale. Nutrirsi è morire e
rinascere a ciascuna pulsazione della carne. In uno stato immortale, il
corpo non sarà più così palpitante e fluente; la sua organizzazione
sarà necessariamente stabile, com'è stabile lo spirito, unito a
Dio-Spirito, ed è per questo che il corpo risuscitato vien detto un
corpo spirituale. Questa parola non significa un cambiamento di
natura, ma un cambiamento di stato.
D. Come un tale stato di fissità è possibile, per
ciò che è soggetto alla vita?
R. « Vi sono in cielo e sopra la terra più cose
che non ne conosca la tua filosofia » (amleto). Ti si concede che la
parola vita, nei due casi, non ha esattamente lo stesso
significato; vi è solo analogia. Del resto le teorie attuali della
materia ci preparano a tutto. La nostra esperienza banale riguardo
l'universo è dovunque fallimentare. Noi cominciamo a sospettare il
segreto degli esseri e i loro poteri infiniti di metamorfosi. Presto il
« corpo spirituale » o qualsiasi altra cosa non ci stupirà più.
495
D. In qual forma risusciteremo?
R. Nella nostra, tal quale la vuole il principio di
vita
sciolto dagl'impedimenti del corpo animale.
D. Che cosa vuoi dire questo? R. Vuoi dire
un'integrità, una bellezza, un'assenza di difetti e di particolarità
accidentali che non fanno nessun torto al carattere individuale, come
neppure al tipo della razza. Precisare di più non è in nostro potere.
D. Tuttavia si è parlato di « doni » particolari
che si attribuiscono al corpo spirituale. R. Due di essi si
riferiscono a ciò che ora ho detto. Il corpo risorto sarà al sicuro
dalla dissoluzione interna alla quale l'alimentazione reca un rimedio
provvisorio;
al sicuro dalla morte; al sicuro da ogni minaccia
esteriore per la sua vita, ed è quello che si chiama impassibilità.
Esso si troverà esente da vizi deformanti e sarà se stesso
pienamente, tipo e carattere, ed è quello che si chiama chiarezza,
per allusione alla luce immanente che è Videa creatrice nel
composto morfologico, o vivente. Inoltre il vivente immortale dovendo
adattarsi a un ambiente che non ha confini, cittadino dell'opera di Dio
e non più della minuscola Terra, viene dotato deìV agilità, che
lo mette in proporzione col suo nuovo mondo. Finalmente gli ostacoli di
altri tempi, dipendenti dalla pesante opacità e dalla resistenza dei
corpi saranno vinti dalla sottigliezza, qualità che si manifesta
in Cristo quando, pure essendo le porte chiuse, dopo la sua
risurrezione, appare in mezzo a' suoi discepoli.
D. Quali fenomeni di sensibilità puoi supporre in
tali
corpi?
R. Qui, evidentemente, la nostra scienza si trova
scon-
496
cenata e la psicologia incompetente. Crediamo nondimeno
a una vita sensitiva non solo rispettata, ma anche accresciuta,
purificata, raffinata, più vicina allo spirito e alle sue forme
d'azione.
D, Asserisci dunque che vi sono dei piaceri? R.
Certamente. Quello che è la gioia per l'anima, lo è il piacere per il
corpo. Una beatitudine umana senza piaceri del corpo non sarebbe
armonica. Il tutto sta nel concepire questi piaceri corporali in
concordanza con lo stato che viene descritto, nel non prenderne da
Maometto il pensiero grossolano, nel non attribuire dei piaceri di
nutrizione a ciò che non si nutre, di generazione a ciò che non genera
più, ecc. Ma gli organi dei sensi hanno altri usi, e se ora è
impossibile descrivere il loro funzionamento quanto il loro oggetto,
tutto induce a pensare che essi rimangono, a garantire anche in questa
dirczione la raggiunta perfezione della nostra essenza umana.
D. La felicità corporale così compresa aggiunge
qualcosa a ciò che hai chiamato beatitudine essemiale? R. Non
potrebbe aggiungere alcunché, dal momento che procede da essa. Ma
procura la sua estensione, e si può dire che l'estensione di una
felicità, anche senza valore che propriamente vi si aggiunga, è una
felicità nuova.
D. Una felicità nuova per l'anima? R. Una
felicità nuova per l'anima, che, nel beatificare il suo corpo, trova la
soddisfazione della sua propria tendenza, la testimonianza dell'unità
umana di cui essa è il principio, la gioia di questa unità, di
quest'armonia
497
intcriore che accelera in tutti i sensi, nel nostro
essere, la spinta vitale.
D. Se la felicità dell'anima non ne è aumentata di
conseguenza, tutto considerato, non -ne segue che la ri-. surrezione
non le è necessaria?
R. , La felicità dell'anima non ne è aumentata;
quella che viene al corpo procede da essa e le appartiene prima di
estendersi al corpo. E di fatto, per quanto alta convenienza presenti la
risurrezione del corpo, per quanto armonica in grazia di essa sia la
dottrina e generosa si mostri la Provvidenza, ne segue tuttavia che la
felicità dell'anima sarebbe, fuori della felicità del corpo, una
felicità un po' compressa in se stessa, ma sempre una felicità piena.
« Assai avara è un'anima a cui Dio non basta ».
498
I NUOVI CIELI E LA NUOVA TERRA
D. Hai parlato di nuovi cieli e di nuova
terra, che devono servire di dominio alla tua umanità risuscitata:
che intendi con ciò?
R. Osserva anzitutto che agli eletti basta che siano
rinnovati i loro occhi, perché sia rinnovato il mondo. Quale meraviglia
e quale stupore, se tutt'a un tratto ci apparisse, fosse pure in un
lampo, la danza degli astri e degli atomi! L'universo ha una realtà
inferiore che noi non percepiamo, e la cui scienza totale, _ attinta in
Dio, sarà per le anime elette l'equivalente di una vera creazione.
D. Tuttavia non sarà questo un cambiamento che
interessa il mondo in se stesso.
R. Riguardo al mondo stesso, diciamo chiaramente che
non possiamo far altro che proporre delle congetture. Le parole
bibliche: I nuovi deli, la nuova terra, non sono commentate nel
libro santo. È dunque libera la loro in-terpretazione. Dirò quello che
mi sembra meglio con l'insieme della dottrina.
499
D. Non chiedo altro.
R. I nuovi deli e la nuova terra, qualsivoglia
concetto particolare ce ne facciamo, si offrono alla mente come una
necessità ineluttabile, una volta ammessa la risurrezione .del corpo.
Anzi sembra che a tutta prima s'impongano; perché un corpo non è che
un frammento di universo, un microcosmo ad immagine del grande,
poiché offre la stessa costituzione fondamentale, senza di che gli
scambi dall'uno all'altro non sarebbero possibili.
D. Tu dici però che i corpi risorti non assimilano,
e che nel senso fisiologico della parola essi non vivono:
non vi 'e dunque da prevedere scambi vitali tra loro e
l'ambiente in cui dimorano.
R. Ciò è esatto nel campo sostanziale. Non
deperendo il corpo immortale, non ha da ricostituirsi per mezzo di
scambi; ma esso funziona, agisce, riceve dal suo ambiente e gli da,
sotto forme che ci sfuggono completamente. Vi deve dunque essere
omogeneità tra esso e quest'ambiente, e a un corpo spirituale è
indispensabile un ambiente spirituale.
D. Che cosa è un ambiente spirituale? R. Non
t'ingannare sul valore di queste parole; ne abbiamo chiarito il senso
affatto relativo. Si tratta bensì di materia, ma d'una materia dotata
di un'altra organizzazione, atta a entrare in sintesi col corpo
trasformato, o piuttosto, come dicevo, tale da offrire a questa
trasformazione le condizioni necessarie.
D. No» sei tu per il primo a stupirti di tali
asserzioni? R. Mi stupirei solamente di stupori troppo facili.
L'essenza della materia è adesso intravista sotto tali forme,
500
pare offrire una tale plasticità, si sottrae così
interamente, nei suoi ultimi recessi, a ogni combinazione stabilmente
invariabile, a ogni grossolano empirismo, che veramente un universo
tutto diverso da questo e quasi spirituale per rapporto ad esso non ha
nulla che sconcerti. Al posto del conflitto delle forze e degli
scompigli che esso provoca, si concepisce benissimo un ordine, un
equilibrio armonico,, un adattamento spontaneo agli atti dello spirito,
e che permetterebbe a questo, come prevedeva Renan, di « prendere il
governo del mondo ». Quello che non era altro che un sogno arbitrario
nel pensatore, può diventare presso il credente una sistemazione
legittima. Nulla si può precisare; ogni teoria diventerebbe presto
derisoria; ma la dirczione generale s'intravede, e ciò basta per
chiudere la controversia. Invero nessuno, in nome della scienza o altro,
ha il diritto di accusare di falso queste magnifiche parole
dell'Apostolo: La creazione stessa attende con un ardente desiderio
la manifestazione dei figliuoli di Dio... nella speranza che anch'essa
sarà affrancata dalla servitù della corruzione, per aver -parte alla
libertà gloriosa dei figliuoli di Dio.
D. Qual è, secondo tè, nel mondo attuale, il
fenomeno più opposto a questa concezione e che il nuovo ordine di cose
dovrebbe abolire?
R. Non si può rispondere che sorridendo della
propria impertinenza; ma arrischiandosi si direbbe: È la degradazione
dell'energia. Se è vero, come suppongono le nostre teorie
termodinamiche, che un universo abbandonato a se stesso perde di giorno
in giorno la sua energia utilizzabile, di modo che, restando la stessa
la somma
501
di energia, esso tende nondimeno sempre più verso una
specie di nulla di attività, per l'adeguamento, il livellamento di
tutti i suoi valori attivi; se questo avviene, nulla può allontanare
maggiormente questo universo dalla sua « intenzione di gloria » (paolo
claudel), vale a dire da un servizio dello spirito, e da uno spirito che
si alimenta all'Energia suprema.
D. Bisognerebbe dunque?...
R. Che l'ambiente nuovo rappresentasse una specie di
felice equilibrio dotato d'una plasticità, d'una elasticità di
movimento sufficienti, ma non secondo una tendenza determinata e fatale,
simile a quella che minaccia il caos al nostro universo.
D. L'universo, già uscito dal caos, non deve
ritornarci?
R. Noi non pensiamo che il nostro universo sia
uscito dal caos. Con Renouvier, amo pensare che esso era prima ordine e
adattamento allo spirito, del resto a uno spirito all'inizio della sua
evoluzione, e incaricato .di compiere il proprio destino aiutando il suo
universo, col lavoro civilizzatore, a compiere il proprio. Checché ne
sia, il fine dev'essere un ordine e un adattamento perfetto; l'universo
si deve compiere in valore come tutto ciò che ha percorso normalmente
il suo ciclo. Esso deve quadrare coi fini creatori relativi agli eletti,
ragione ultima delle cose. Che esso sia « pieno di anima », secondo la
bella espressione di Aristotele, in grazia del suo servizio dell'anima e
del suo legame sinergico con l'anima, è ciò che si profetizza
legittimamente in suo favore, quando si pensa a' suoi ultimi fini.
502
D. L'universo sarebbe dunque alla fine organizzato
dall'anima?
R. Sì, forse, dall'anima unita a Dio col Cristo
come intermediario. Si può concepire il mondo nuovo come un
prolungamento dello spirito, meno .sofferente, per conseguenza, di
quella degradazione di valore, di quel carattere residuale in cui noi,
con S. Tommaso e Bergson, abbiamo veduto l'essenza della materia. Il
rialzamento terminale sarebbe allora riguardato come una specie di
taumaturgia, di cui Dio sarebbe la sorgente prima, e di cui il Cristo
eterno, formato di tutte le anime reincarnate solidali di Gesù e
formanti con lui un solo « corpo », sarebbe l'agente immediato.
L'universo sarebbe una parte dello splendore delle anime stesse,
splendore di Cristo che è splendore di Dio (Ebr., 1,3). Questa
sarebbe la redenzione compiuta, e non solo nella sua sostanza, come
adesso, ma in tutte le sue manifestazioni. Il mondo sarebbe restituito
alla sua essenza celeste; i vincoli della sua materialità si
scioglierebbero, per dire così, sotto l'irradiamento dello spirito, e
l'ordine totale, come lo esprime S. Paolo, sarebbe istituito:
Tutto sottomesso agli eletti, e gli eletti a Cristo, e
Cristo a Dio.
D. È questo veramente il pensiero di S. Paolo? R.
Il pensiero di S. Paolo è soprattutto morale; ma non è illegittimo
trasporlo sul piano fisico e cosmologico, e oggigiorno questa
trasposizione non può sorprendere.
D. Quale attualità ti sembra che essa rivesta?
R. È la tendenza generale delle filosofie moderne
di
assorbire più o meno la materia nello spirito, e se
spes-
503
sissimo vi è eccesso, come nelle varie forme del
soggettivismo, resta questo che, nel piano generale del mondo, la
materia è come una dipendenza dello spirito, dipendenza immanente e
congiunta nel caso del nostro corpo, dipendenza disgiunta ma
strettamente correlata nel caso dell'ambiente, che sotto certi aspetti
è ancora parte del nostro essere. Trasporta questo nel perfetto, in cui
il regno dello spirito si deve affermare molto di più, e diventa
naturale il pensare che i nuovi deli e la nuova terra di
cui parla la Bibbia saranno il risultato di una taumaturgia permanente,
beatificante per l'universo, se così si può parlare, come l'intuizione
di Dio sarà tale per le anime e, mediante le anime, per i corpi. La
corrente non avrà più interruzione, ne risucchio. Lo slancio vitale,
come direbbe Bergson, ristabilirà la sua bella., corrente da
un'estremità all'altra, da Dio agli ultimi eie-nenti ripresi dall'anima
e a lei subordinati per riallacciarsi a Dio.
D. La tradizione della Chiesa è favorevole a queste
tesi apocalittiche?
R. I Padri della Chiesa e i teologi sono soliti
presentare la gloria corporale e le sue ripercussioni come un
effetto spontaneo della gloria essenziale, che è la visione di
Dio, Ecco il primo termine della nostra ipotesi. S. Agostino lo esprime
in questo bei testo a Dio-scoro: « Dio fece l'anima di una natura così
potente, che dalla sua beatitudine risulta, nella natura inferiore, il
vigore dell'immortalità ». In questo testo si vede ben affermata la
trasformazione effettiva del corpo mediante l'anima, quando l'anima è
al contatto intimo del suo Dio. È vero che quando parlano poi
dell'ambiente
504
esterno, i dottori sembrano attribuirne l'organizzazione
unicamente e immediatamente alla potenza divina. Ma non è un
contraddirli, bensì, credo, un completarli nella loro propria linea di
pensiero l'inserire l'anima tra questa divina potenza e i suoi ultimi
effetti.
D. Che cosa è che, secondo tè, richiede questo
complemento di dottrina?
R. È che la gloria del corpo e quella dell'universo
non sembrano poter procedere da causalità diverse, atteso il legame di
dipendenza che abbiamo ora rivelato tra loro, e se è vero, come
pensiamo, che la trasformazione dell'ambiente è preliminare, essendo
essa condizione in rapporto a quella del corpo. Se dunque è l'anima che
beatifica il suo corpo, ben inteso come strumento di Dio, per mezzo di
Cristo: come non sarebbe lei che sotto le medesime condizioni,
beatificherebbe il suo universo? È possibile vedere così le cose.
D. Non dici che l'universo attuale finirà con una
catastrofe?
R. Ogni cambiamento subitaneo nell'orientamento
delle forze è una catastrofe, ma si tratta sempre di un balzo in avanti
verso l'ordine. Avviene come di quelle cristallizzazioni che si
producono in una soluzione satura, al semplice getto di un cristallo.
D. Quale sarà qui il getto di cristallo?
R. Sarà la « seconda venuta di Cristo », cioè il
segnale
che egli darà del compimento supremo.
D. Tu ricordi la tromba del giudizio? R. Si
tratta evidentemente di una metafora! E metafora altresì la venuta di
Cristo sopra le nubi del cielo,
505
a significare che la sua potenza splenderà come la
folgore nelle nubi, e sarà manifesta come un fenomeno del cielo (s.
tommaso d'aquino). Allora appunto questa potenza, strumento della
Potenza suprema, trasformerà radicalmente il nostro universo, e, se
l'interpreta-zione già data è esatta, farà dei suoi eletti i
compartecipi della sua azione.
D. Non mi hai dato la tua interpretazione della
tromba.
R. Quello che ridesta i morti e riorganizza il mondo
è la voce di Dio che è in tutto. Dico così perché io apprezzo il
nobile pensiero di Mozart, che nel Requiem fa del Tuba mirum
spargens sonum non uno strepito terrificante, ma una lunga melodia
spirituale.
D. È veramente l'uomo Cristo che così tu fai, in
unione co' suoi, l'organizzatore' del mondo? R. Sì, come abbiamo
fatto di lui l'organizzatore dell'umanità religiosa nella Chiesa e
dell'incivilimento per mezzo della Chiesa. Di lui allora e di lui alla
fine, noi diciamo: « Egli ereditava un mondo già fatto, eppure stava
per rifarlo tutto intero » (e. péguy).
D. E che qualificazione morale attribusci tu a questa
vita dell'universo trasformato?
R. È finalmente la vera vita, poiché è il
pensiero creatore realizzato, la forma degli esseri perfettamente
acquisita, la fine del desiderio ottenuto, la gerarchla di tutti i
valori fondata, l'attività universale lanciata nella sua via
definitiva, che non è più una ricerca, un bran-colamento, un tentativo
così spesso combattuto, un'impresa così spesso opposta a se stessa, ma
l'esercizio ar-
506
monico dei poteri pienamente raggiunti, riguardo a
oggetti integri essi stessi e che non si rifiutano più.
D. Tuttavia quello che noi vediamo ora è appunto
l'abbozzo di questo avvenire.
R. La polvere astrale che naviga nel firmamento è
come il suo seme, come il polline lucente. Fino ad ora, dice S.
Paolo, la creazione geme tutta quanta e soffre quasi le doglie del
parto. Ma siccome la polvere dei morti deve lasciare il posto a
creature eternamente viventi; siccome le umanità disperse nell'universo
e le età si devono raccogliere in una sola famiglia di eletti: così
alla dispersione dei mondi nello spazio succederà indubbiamente una
sublime unità, creata sotto il segno dello spirito, per spiriti, ed
eternamente rivelante davanti agli occhi aperti di tutti gli esseri le
segrete armonie che il tempo ci dissimula.
507
IL GIUDIZIO FINALE
D. La trasformazione di tutte le cose è anteriore o
posteriore all'ultimo giudizio?
R. Quello è un solo grande cataclisma, a un tempo
materiale e morale; non è possibile segnarvi dei prima o dei poi.
Tuttavia, sotto certi aspetti, la logica delle cose pone il giudizio
all'inizio, poiché l'ordine supremo è una sanzione; sotto altri
aspetti, il cataclisma materiale precede, poiché la risurrezione dei
morti e il loro collocamento in un nuovo essere ne è una parte.
D. L'aspetto morale del cataclisma ha per tè il
carattere d'una seconda venuta di Cristo? R. Lui stesso l'ha
presentato così. Dopo « la sua venuta in mansuetudine » (pascal),
egli ha annunziato la la sua venuta come giudice. La prima era stata
umile e nascosta; la seconda dev'essere fulgida e gloriosa, perché è
la consumazione dell'opera e la piena evidenza de' suoi frutti.
D. Hai segnalato l'errore dei primi cristiani che
cre^ de vano prossimo il giudizio: non vi contribuì in qualche modo
Gesù? R. Su questo punto Gesù si rifiutò a ogni precisione.
509
Egli giunse fino ad assicurare che anche il Figliuolo
dell'Uomo — come Figliuolo dell'Uomo — non sapeva « ne il tempo ne
l'ora », e cioè che questo non faceva parte del suo messaggio. Egli si
attiene a questo consiglio impellente: Vegliate! il Figliuolo
dell'Uomo viene come un ladro. Ciò si verifica eminentemente per
ciascuno, perché la morte è segreta, e ogni giudizio particolare è
una parte del giudizio generale. Ma ciò si verifica altresì, nel suo
piano, per tutta quanta l'umanità, e non vi è ragione di precisare di
più, perché questo non ha conseguenze morali, e a noi vale molto di
più l'incertezza. Appunto per questo, nel suo Discorso escatologico,
Gesù prende per simbolo e sostegno de' suoi annunzi sopra la fine dei
tempi la rovina prossima di Gerusalemme, indicando soltanto che al di
là, le prospettive si prolungano, senza che nessuna cronologia precisi
la forma o l'estensione di tale prolungamento.
D. Qual è la ragione d'essere d'un giudizio
collettivo, dopo il giudizio particolare?
R. La dottrina è sempre la stessa. La nostra
religione non è individualista, ma sociale; è una comunione.
Dal momento che l'opera di Cristo è una vita comune, comune dev'essere
lo sforzo e comune la mèta. Si vive gli uni accanto agli altri e
sovente lontani gli uni dagli altri, ma uniti dallo Spirito di Cristo.
Si parte gli uni dopo gli altri, ma per ricongiungersi attorno a Cristo,
e in modo visibile, perché la società è cosa visibile, e all'ultimo
termine di ogni vita, perché solo allora saranno prodotte alla luce le
conseguenze totali delle opere umane.
510
D. Ne/ giudizio di ciascun'anima, le conseguenze de'
suoi atti non sono già state pesate? R. Dio ha tenuto conto, nel
nome della sua prescienza, di tutte quelle conseguenze che le nostre
opere avranno dopo di noi; ma ciò dev'essere alla fine denunciato
pubblicamente.
D. Che necessità vi è di questa manifestazione
formidabile, specialmente se deve estendersi al segreto dei cuori?
R. Il segreto dei cuori è tutto l'ordine morale,
del quale i fatti esterni non sono che la testimonianza. Se l'ordine
morale deve rifulgere un giorno, bisogna che si compia la profezia di
Cristo: Nulla vi è di nascosto che non sia palesato, nulla di
segreto che non debba finire con essere conosciuto.
D. Riguarda forse gli altri quello che ho pensato o
voluto io nel segreto della coscienza?
R. Tutto quel che siamo noi riguarda tutti, poiché
noi siamo in società spirituale. Come abbiamo detto a proposito del
sacramento della penitenza, nulla di ciò che fa ciascuno, nulla di ciò
che egli pensa, nulla di ciò che desidera o progetta è estraneo alla
Chiesa universale ne senza effetto sopra il suo funzionamento. La
solidarietà fra noi è stretta fino all'unità, poiché in Gesù Cristo
e nel suo Spirito noi siamo una sola cosa. Chiamati insieme, retti da un
unico potere, ma in stato di reagire immensamente gli uni sopra gli
altri, sia consciamente, sia senza saperlo e senza volerlo, ma con la
certezza precedente e imprescrittibile che ciò avviene, noi abbiamo un
diritto scambievole alla verità, sotto lo sguardo del grande Giudice.
Ragioni di sapienza man-
511
tengono dei segreti nel corso dei tempi; ma il tempo,
alla fine, deve versare il suo tesoro agli occhi dell'universale
assemblea. Quello che è stato fatto nella notte, dev'essere giudicato
nel giorno.
D. Tu dai a ciascun essere l'universo intero fer
testimonio?
R. È il diritto di questo universo, che è un
universo morale. È il diritto altresì di ciascun essere, e, se egli è
stato buono, la sua suprema gloria.
D. Ma se non è stato buono? R. Invece di gloria,
si tratterà di giustizia che si farà alla luce, quando tanti furbi
fariseismi avranno la loro sanzione di vergogna, « e quando apparirà
in una età assoluta l'eterna laidezza delle temporali lebbre » (e.
péguy).
D. Viceversa, ciascun essere sarà il testimonio dì
tutto l'universo e di tutte le età?
R. Sì, « quando tutto si rischiarerà delle fiamme
della memoria, quando ogni uomo sarà come un grande spettatore » (e.
péguy).
D. Ma i buoni che tu vuoi così glorificare, non
avranno da arrossire di molte cose?
R. La loro vergogna sarà coperta dalla divina
misericordia, dalla quale avranno più gioia che affanno a causa del
male. Il rossore d'una fronte non si vede più quando vi brilla il
sangue di Cristo.
D. Com'è possibile questa manifestazione universale
di tutti a tutti?
R. S. Tommaso vi vede un fatto soggettivo, una «
illu-minazione interna », come nel giudizio particolare, ma
512
questa volta collettiva. Dio che sa tutto, svela la sua
scienza agli spiriti.
D. Che cosa ne viene a Dio?
R. La manifestazione dell'opera sua, e la
giustifica-
zione della sua condotta in tutto l'universo.
D. Qui non si tratta che dell'ordine morale. R.
L'ordine morale dipende dall'altro. O piuttosto non ve ne sono due; ma
è la Realtà, che è morale, perché Dio è l'organizzatore, il
legislatore supremo e il fine. Nel Giudizio, ciò brillerà, a
confusione dei nostri dubbi, delle nostre cecità, dei nostri rimproveri
colpevoli e insensati alla Provvidenza, delle nostre bestemmie.
D. Anche l'inferno avrà la sua giustificazione. R.
L'inferno renderà ragione di se stesso; i dannati, digrignando i denti,
sottoscriveranno aìì'Amen apocalittico; la giustizia regnerà
sull'ordine in una cornice di sorprendente bellezza.
D. E il purgatorio?
R. Non sarà più. Il definitivo annulla il
provvisorio.
Non si attende ne si sospira, quando tutto è concluso.
D. Dunque due gruppi solamente? JR. I due gruppi
evangelici: le pecorelle e i capri, che segnano la doppia
fine d'una esistenza sublime e tragica, « quando si avanzeranno verso
un'ultima morte o verso il primo giorno d'una beatitudine » (e.
péguy).
D. formidabile visione!
R. Formidabile per chi lo vuole, esaltante per chi
realizza quanto all'uomo è domandato; ad ogni modo, grandiosa, e tale
che il senso estetico più potente non avrebbe
513
potuto concepire ma che la coscienza morale più
esigente ha il dovere di approvare.
D. E dopo questo?
R. Dopo, comincerà il regno definitivo. Il regno è
la consumazione di tutta l'opera, e perciò è lì quello che si può
vedere finalménte, benché non unicamente, ne certo principalmente, in
questa invocazione del Poter;
Venga il tuo regno!
D. È questo dunque il fine che Gesù ebbe di mira?
R. Lo ebbe di mira certo nella sua profezia solenne, all'uscire dal
tempio, salendo lentamente il Monte degli Ulivi. E quale audacia, in
quella predizione del « piccolo Giudeo » di Renan, se noi dovessimo
veramente ridurre Gesù a questa statura! Eccolo che si incatena la
sorte della sua dottrina, quella della sua opera, quella della sua
persona al ciclo intero dell'umanità sopra la terra e al suo eterno
incoronamento! Una tale affermazione è grave! Essa implica la
trascendenza assoluta della religione nata da Cristo e il suo
spiegamento preminente nella storia, il carattere affatto eccezionale
del Fondatore e il suo dominio sopra il tempo. Ora la prova di queste
pretese è stata cominciata; essa prosegue ogni giorno; non è ancora
compiuta e l'avvenimento terminale è senza dubbio lontano; ma
manifestamente la via è presa, la posizione è segnata e
sfolgoreggiante. Si può attendere con sicurezza l'avvenire.
514
EPILOGO
CONSIGLI ALL'INCREDULO
Non pensare, .caro amico, che io voglia arrogarmi su di
tè la minima autorità personale. Chiunque tu sia, in qualsiasi stato
ti trovi, io mi sento semplicemente tuo fratello, e se ho qualche
vantaggio come primo arrivato, questo per me non è che un motivo di
venirti in soccorso. Io sono nel porto di pace; tu vi tendi ancora.
Forse non vi tendevi, e forse ciò che precede, ad opera della Verità
vivente, ti ha indotto un po' ad orientarviti. In questo caso la mia
audacia fraterna non ti urterà più; posso tenderti la mano e dirti
affettuosamente, con profondo rispetto per la tua libertà di cui Dio
solo è padrone: Ecco quello che io credo che tu possa adesso fare.
In base a ciò che abbiamo detto del punto di partenza
della religione, tu devi renderti conto che la prima cosa è di metterti
di fronte a tè stesso, alla tua condizione in questo mondo, al tuo
stato di coscienza rispetto al bene che conosci, e a' tuoi doveri verso
Colui che non conosci, forse per negligenza, o per un segreto timore.
515
A questo punto, oso farti una domanda stringente. Non
sei battezzato? Non hai fatto la prima Comunione? Non hai praticato,
liberamente, la religione de' tuoi padri? E credi tu che ciò non abbia
alcun peso, per dirigere o per giudicare la tua condotta religiosa
ulteriore? — Ma io non ne sapevo nulla, mi dirai. Mi hanno battezzato
senza di me; mi hanno poi suggerito la fede e la pratica. Più tardi,
venne la riflessione. — Sia pure. Io ti ho concesso che ciò è
possibile, benché le persone di esperienza sorridano, a volte, di ciò
che la pubertà o l'età delle ambizioni giovanili chiama « riflessioni
». Ma io domando a tè, nel segreto, non aspettando altra risposta che
quella che raccoglierà liberamente la tua propria coscienza: Sei tu
sicuro che il problema risolto in quel momento contro Dio, tal quale ti
era fino allora apparso, sia stato legittimamente risolto, voglio dire
con tutta la serietà che esigeva la questione, con tutta l'indipendenza
che ci voleva riguardo a quei sentimenti segreti che ci invitano a
respingere ogni costrizione? Se sì, io ti comprendo. Ogni cattolico
dirà senza dubbio che tu ti sei ingannato; ma poiché, per ipotesi, il
tuo errore non .ti può essere rimproverato, ti devono prendere come
sei, e tu sei in diritto di domandare alla religione i suoi titoli. Mi
sono collocato in questa ipotesi scrivendo le pagine che precedono; io
l'ammetterò ancora in ciò che segue. Solo così per modo di dire io mi
permetto di fare appello alla tua lealtà e di additarti le conseguenze
di una dichiarazione possibile. Se fosse vero che questo problema non
fosse stato saggiamente risolto, che neppure fosse stato proposto, che
tu avessi fatto come tanti altri, dei quali il capriccio, la passione,
le ambizioni, i comodi, o un ambiente anonimo formano
516
tutta la convinzione, tu avresti il dovere di ritornare
a questo esame, di riprendere la questione dove l'hai lasciata, e di
chiedere a tè stesso non se la religione ha dei titoli per ottenere la
tua adesione, ma se tu, battezzato, comunicato, praticante di ieri, hai
anche dei montivi sufficienti per abbandonarla. Non bisogna rovesciare
le parti. Qui interviene il principio di possesso. La tua
eredità, la tua educazione, i tuoi impegni giovanili, la tua pratica
anteriore non sono tutto; ma sono qualche cosa, sono anzi molto, e se tu
li rigetti, se tu ti « con-verti » alla rovescia e decidi di cambiare
rotta, devi dire il perché.
Dov'è questo perché?...
Se esso esiste, se è serio, se, lealmente parlando, è
di necessità assoluta per la tua coscienza, io ne prendo atto e
ripigliamo la conversazione di questo libro. Se esso fosse vago o
inesistente, io ti direi: II tuo dovere — un dovere stretto — è di
rimetterti nella condizione in cui eri alla vigilia di questo
sbandamento, cioè di rientrare nel retto sentiero e di riprendere la
tua vita cristiana, salvo a fare ora quello che avresti dovuto fare
allora, per rischiarare i tuoi dubbi. Quando si è fuori, c'è bisogno
di ragioni per entrare. Quando si è dentro, si ha bisogno di ragioni
per uscire. E quando uno è uscito senza ragione, deve rientrare, in
attesa delle ragioni per uscirne, se pure ce ne sono.
La situazione allora sarà forse un po' difficile; ma
con un po' di buon volere, si esce d'impaccio. Poiché nel cattolicesimo
tu sei in casa tua, frequenta la tua religione, imparala di nuovo,
unisciti a' suoi riti nella proporzione che permettono le tue
disposizioni attuali, parla a Dio tutti i giorni, non fosse che per
dirgli che
517
tu non sei sicuro di credere in lui e « ch'egli ti
annoia » (paolo claudel). Sorveglia la tua vita morale; se è
necessario purificala, e fa' il bene, affinchè in tè il bene si
traduca in luce.
Che se inoltre tu avessi anime a carico, come sposo,
padre, capo, educatore, io ti direi con una insistenza fraterna assai
più calorosa: Dammi retta, pensa al peso di responsabilità che porti;
rifletti alle care anime, alle anime fiduciose sulle quali tu influisci
con la tua noncuranza, a quelle che rattristi, a quelle che immobilizzi,
quando un buon esempio opportuno le indurrebbe a decidersi. Tutto ciò
è di una gravita eterna, e grave altresì per questa povera vita, così
miserabile fuori del conforto della fede.
A tè spetta di concludere, caro « incredulo » che
forse usurpi questo titolo, che io dovrei allora chiamare caro «
negligente », caro « smemorato », caro « infedele », che il cuore
di un fratello invita all'ovile.
Supponiamo adesso che tu abbia le carte in regola. Tu
non sai; tu non hai impegni; tu cerchi. Ecco allora quel che ti
suggerisco.
Posto il problema della fede, non l'abbandonare più
finché esso non sia risolto in modo certo. Se anche, per assurdo, non
dovesse esser risolto, tu avresti almeno il beneficio di queste nobili
parole di Pascal: « Vi sono due sorta di persone che si possono
chiamare ragionevoli: o quelli che servono Dio con tutto il loro cuore
perché lo conoscono, o quelli che lo cercano con tutto il loro cuore
perché non lo conoscono ».
Studia seriamente; medita: ecco l'uomo intcriore che
vede; l'uomo disperso al di fuori è la vittima di alluci-
518
/
nazioni successive, che lo attaccano al supposto reale,
diametralmente opposto al vero.
Non ti dico: sii sincero: penso che tu lo sia nel senso
corrente della parola; io ti dico: non credere facile la sincerità. Noi
siamo abilissimi a ingannare noi stessi! Chi è veramente sincero con se
stesso? Eppure il nostro dovere è di accettare le affermazioni
dell'anima nostra, e anzitutto di scoprirle. Fuggirsi, o rifiutarsi è
il primo peccato dell'anima irreligiosa.
Abbi dunque un cuore semplice, un cuore di bambino; noi
siamo tutti bambini di fronte alla verità eterna; non ci conviene,
prendendo un atteggiamento orgoglioso, collocarci in qualche modo al di
sopra di essa, oppure, con segrete resistenze o con gravi desideri,
collocarci al di sotto. Rimaniamo al livello giusto, per quanto
possiamo, ma inclinati davanti a ciò che da tutte le parti ci
oltrepassa.
Bisogna studiare la religione con spirito religioso,
come ci si applica alla scienza con uno spirito di scienziato, o alla
poesia con uno spirito poetico. Lo spirito di sofisticheria non le
conviene. Esigenze smoderate in materia di dimostrazione darebbero prova
di un falso metodo. Qui non siamo nel campo delle matematiche, e
Aristotele osservò profondamente che a ciascun ordine di conoscenza non
bisogna chiedere che il genere di certezza che esso comporta. Tu non
stringi un'amicizia, non entri in una carriera, non prendi moglie, su
dimostrazioni perentorie. « Ciò è ridicolo », ti direbbe Pascal.
Anche la religione è cosa morale; essa invoca le ragioni del cuore;
così dev'essere, se essa dev'essere la verità di tutte le anime.
Pensar religiosamente è adottare le forme del pensiero più prossime
all'amore.
519
Non ti lasciare imbrogliare da troppe questioni
particolari. Non ti fermare a tutti i grovigli. Vi sono difficoltà
dappertutto; se t'indugi a risolverle una dopo l'altra, non arrivi mai.
Attienti all'essenziale, al fatto. « La vera forza dell'intendimento
consiste nel non lasciare offuscare ciò che sappiamo da ciò che non
sappiamo » (EMERSON).
Ricordati che ogni difficoltà particolare del
cristianesimo trova la sua soluzione nell'insieme; che la coerenza e
l'adattamento sono il segno del vero. Procura dunque di vedere ciascun
problema, se esso si presenta veramente e se è importante, come nel
centro d'una sfera di verità, che allora lo rischiara da ogni parte.
L'opinione agisce sopra di tè come sopra tutti:
concedile la sua parte d'azione legittima; nessuno può pensare solo.
Guardati dalle correnti di pensiero, che non rappresentano se non una
moda passeggera. Ciò che è passeggero del resto può essere
lunghissimo, in rapporto alla nostra breve vita. Non badare al numero,
che si lascia così presto sorprendere e così facilmente trascinare, in
questo tempo di pubblicità e di confusione. L'ignoranza di quasi tutti
questi individui in materia religiosa è così piena e allegra che li
indurrebbe al silenzio, se essi non pretendessero di farsene un'arma. Ma
di fatto, bada bene, vi è lì nello stesso tempo che un pericolo per la
più pura buona fede, una tentazione sottile. « Coloro che non amano la
verità prendono il pretesto della contestazione della moltitudine di
quelli che la negano... Essi si nascondono nei libri e -chiamano il
numero in loro soccorso » (pascal),
520
^.Diffida dei sapienti e dei pensatori che si
scagliano contro la fede con affermazioni affrettate, dimostrando
un'ignoranza a volte madornale di ciò che pretendono di giudicare. E
d'altra parte diffida dei credenti che mettono scioccamente la loro fede
in contraddizione con la scienza o l'esperienza, per ignorare il tutto e
per confondere ogni cosa. Purtroppo costoro sono numerosi. Ve ne sono
pure tra i 'professionisti' della religione. Tè ne meravigli? Esigi
forse che in religione più che altrove una etichetta dia competenza
universale? Non tutto quello che dice un soldato ha il peso di una
dottrina di Foch; non tutto quello che dirà un sacerdote è parola di
Vangelo. Sappi fare, quando è necessario, le tue riserve, e « non
credere a ogni parola » (s. paolo).
Se nonostante i tuoi sforzi sinceri la luce tarda a
venire, non tè ne stupire e non ti scoraggiare. Consentire alle tappe
fa parte della virtù del camminatore. Si parte, si fa una lunga strada
sinuosa e molto spesso in galleria; alla fine si arriva. Chi sa dove sei
veramente? I più grandi avvenimenti dell'anima hanno luogo in noi molto
prima che l'anima se ne accorga; essi sfolgoreggiano un giorno, ma
nacquero in segreto, come la fiamma in un ceppo lentamente riscaldato.
Sappiamo attendere lasciando che k cose si rischiarino da se stesse,
lasciamo maturare l'anima, attenta, sotto il sole di Dio.
Quando un'impressione di verità comincerà a colpirti,
e la tua mente vi si sentirà incline, potrà accaderti di trovare in
tè altre resistenze, come ripugnanze invincibili, certe pieghe della
sensibilità, certi abiti mentali, e più di tutto quella certa
immobilità che non ha nome, ne forma, ne causa visibile; inerzia
dell'anima, o piut-
521
tosto un intoppo che non trovi modo di superare. In tal
caso non si tratta più direttamente di uno sforzo intellettuale, ma di
un atteggiamento pratico. Poiché la verità è anche bellezza e
utilità, la si può raggiungere da questo lato; il giro non è
illegittimo. Ora il bello e l'utile ci muovono, là dove la luce ci
lascia fissi al suolo. Puoi dunque compenetrarti delle bellezze della
religione; piaccia alla tua immaginazione e alla tua sensibilità per le
sue armonie, per il suo culto, per gli scritti de' suoi grandi uomini,
per la sua arte, per i suoi monumenti, e anche per le sue ideali
promesse. Bisogna « eccitare gran bramosia », diceva Pascal; bisogna
eccitarla anche per conto proprio. « Non potendo il cuore dell'uomo
agire senza qualche attrattiva, in un certo senso si può dire che
quello che non gli piace gli è impossibile » (bossuet).
Parimenti non devi dimenticare la « macchina », l'«
automa » e l'« imbestiamento » pascaliani, che sono stati così male
capiti, forse perché l'incomprensione era più comoda. Tu sei convinto
astrattamente; ma lo spirito non ha scattato, l'adesione effettiva non
vuoi venire: cammina, affinchè il movimento ti trascini. La bestia, in
noi, vuoi essere « trattata da bestia »; l'automa messo in moto.
Pratica tutto quello che sai, è un dovere. Pratica anche, nei limiti
della saggezza e delle possibilità morali, quello che speri di sapere,
al fine di arrivare a saperlo, in forza di questo adagio: « Non
conosciamo le cose se non praticandole » (maurizio barrès). E tutto
ciò vuoi dire: Convcrtiti prima, cioè volgiti nel senso giusto,
e allora la Verità stessa, la Verità vivente ti convertirà. Non si
trova Dio se non mettendosi sulla sua strada.
522
Eccomi all'ultimo consiglio. Il centro della religione
è Cristo: non esitare, va' diritto a lui. Là^mediazione della critica
non è necessaria. Questa può venire alla sua ora; essa ha il suo
posto; ma il contatto diretto ha ben altra efficacia! Gesù è prova a
se stesso, ti dicevo. Ascolta queste parole solenni: Io sono nato e
sono venuto al mondo per rendere testimonianza alla verità;
chiunque è figlio della verità ascolta la mia voce.
Qui non vi è inganno. Entra dunque nel Vangelo senza sforzo;
entravi ingenuamente; lascia che il tuo spirito avvicini
quello di Gesù, il tuo cuore apprezzi questa ineffabile Persona, e il
senso tuo del reale gusti la realtà vivente di questi fatti, che gravi
critici inaridiscono e dissipano al soffio delle parole. Non invano ti
attaccherai al vero Maestro. Egli è il « Ponte »; è la « Porta »;
chi va a lui « non cammina nelle tenebre; ma la sua vita sarà mondata
di luce » (s. giovanni).
Io non ti faccio l'ingiuria di credere che, una volta
sufficientemente convinto e invitato internamente, tu esiti a
dichiararti a cagione di vane considerazioni estranee. Quello che si
chiama rispetto umano è un meschino rispetto di se stesso. Fu detto
della conversione:
« Fuori, è un uomo che sì smentisce; dentro, è un
uomo che si compie » (abele bonnard): sapendo compierti meriterai di
ottenere la stima.
L'essenziale è deciderti e spiegare per questo il
coraggio necessario. « Per la fede come per l'amore, ci vuole del
coraggio, del valore; bisogna dire a se stesso: Io credo » (tolstoi).
E bisogna finalmente che confidi nel tuo Dio, senza il
quale tutto quello che ho potuto dire, tutto quello che potrei dire,
sarebbe vano. La fede, come tutto l'in-
523
sieme della vita cristiana, è una collaborazione; è
noi con Dio, è Dio con noi, per mezzo del suo Cristo, nel centro e sino
ai confini dell'anima, sino ai confini della vita.
Per conseguenza, prega. Fino dal principio abbiamo
convenuto che tu lo potevi fare, che lo dovevi fare. Poste tutte le
altre condizioni, ascolta Cristo che ti dice: « La tua conversione è
affare mio; non temere, e prega con confidenza, come per me » (pascal).
Se fai così, fratello mio, io ti oso promettere da
parte di Dio la certezza nella fede, la pace nella certezza, quella pace
« che supera ogni sentimento umano » ed apre una via spaziosa alle
opere e alle ricompense dell'amore.
524