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A. - D. SERTILLANGES

RISPOSTE SULLA FEDE

 

 

EDIZIONI ARES - MILANO

Titolo originale:

Catechismo des incroyantes

© Flammarion, Parigi

Traduzione di P.G. Nivoli a cura di Aristide Vesco

Copertina di Herman Vahramian

PRESENTAZIONE

L'autore

Gilbert Sertillanges nacque a Clermont-Ferrand il 17 novembre 1863 da una famiglia profondamente religiosa. Alunno dei Fratelli delle Scuole Cristiane, sentì, molto presto la chiamata alla vita religiosa, che egli vedeva come "un mondo di preghiera, di rinuncia, di studio, di predicazione, di operosità al servizio di Dio e degli uomini" (1). A vent'anni, entrato nell'ordine domenicano, partì per la Spugna per -fare a Belmonte l'anno di noviziato. L'8 dicembre 1883 ricevette l'abito religioso, "l'abito nero e bianco, intessuto di luce", come dirà egli stesso molti anni dopo scrivendo della vestizione di san Tommaso d'Aquino. Secondo la regola domenicana cambiò il nome di battesimo, e da Gilbert divenne Antonin-Dalmace.

Gli anni successivi furono anni di intensi studi di filosofia e di teologia, avendo come maestri Ari-stotele e san Tommaso. « In quegli anni si formò

(1) Citato da A. vesco, Antonin-Gilbert Sertillanges, in A.D. sertillanges, Catechismo degli increduli, V ed., voi. 2, sei, Torino 1963, p. 267.

in lui l'uomo totalmente consacrato alla 'verità' di cui traccerà poi un quadro sorprendente ed affascinante nel volume La vita intellettuale » (2).

Nel 1890 si trasferì a Corbara, in Corsica, dove fu 'lettore di teologia. Nel 1893 è a Parigi. Da quell'anno fino al 1900 è segretario di redazione della Revue thomiste. Nel 1900, fino al 1922, è docente di filosofia morale a/Z'Institut catholique, e comincia a pubblicare i primi suoi libri, mentre percorre tutta la Francia per tenere conferenze su temi di morale e di spiritualità. La sua straordinaria operosità è frutto di un lavoro intellettuale e ascetico tenace ed entusiasta. In anni di -fatica aveva stabilito "con ingegnosità una completa triangolazione che abbracciasse il territorio della verità solcato da linee che andavano in tutte le direzioni, quasi un'immensa rete in cui le verità particolari dovevano alla fine cadere... Stabiliti dei punti chiari di riferimento, egli si era messo in condizione di poter affrontare ex abrupto qualsiasi questione, con quasi la certezza di infilare la strada giusta. Non aveva che da consultare le sue carte. Tracciando qualche linea dai punti che conosceva, in dirczione di quanto non conosceva, finiva quasi sempre per portare alla luce un punto oscuro" (3).

Nel 1918 è nominato membro dell'Institut de France. Dal 1922, allontanato dall'insegnamento per disposizione dei superiori, risiede all'estero: prima a Gerusalemme, poi in Olanda (1923-1927), infine in Belgio (1928-1939). Sono anni nei quali dovette assaporare la dura prova dell'incomprensione : « Spirito profondamente libero, non fu mai schiavo del-

(2) A. vesco, op. cit., p. 268.

(3) F.-M. Moos, Le p. Sertillanges, maitre de vie spirìtuelle, in La vie spirituelle, 1949, p. 610.

la lettera; in più campi ciò gli permise di essere un precorritore e anticipatore, e come sempre accade ai preocorritori, andò anche il Sertillanges soggettò a incomprensioni e denigrazioni, e furono sofferenze morali inaudite » (4). Sia in filosofia che in teologia Sertillanges aveva mostrato infatti grande originalità e indipendenza di giudizio, pur nella fedele adesione al tomismo. Ma il tomismo di Sertillanges — profondo e .acuto interprete dell'Aquinate, come testimoniano le monografie che poi citeremo — non fu atteggiamento di scuola, ma una convinta e libera adesione intellettuale, piena di entusiasmo e di apertura, come era del resto il tomismo che in quegli stessi anni difendevano in Francia due insigni studiosi laici, Jacques Maritain ed Etienne Gilson.

« Aldilà dei sistemi, pur sublimi che siano, splende l'eterna verità », amava ripetere. A questa concezione aperta dei rapporti fra ricerca filosofica e fede cristiana (5) si deve la suggestiva visione della continuità e degli sviluppi della filosofia cristiana delineata nel suo capolavoro filosofico, Le christia-nisme et les philosophies, di cui si parlerà tra breve. Finalmente, nel 1939, per l'intervento personale di Pio XII, Sertillanges potè riprendere le lezioni al-

(4) A. vesco, op. cit., pp. 271-272.

(5) « Una duplice cura caratterizza l'opera filosofica del Sertillanges: esporre la filosofia di san Tommaso, mostrandone la coerenza e la fecondità dei principii, aperti a tutti gli aspetti della realtà...; confrontare le filosofie e il cristianesimo; esaminare i loro rapporti, dimostrando come questo accolga in sé le legittime aspirazioni di quelle, ne superi le antinomie e colmi le lacune, dando una risposta pacificante anche di fronte al mistero » (F. weber, Sertillanges, in Enciclopedia filosofica, voi. V, Sansoni, Firenze 1967, coli. 1295-1296).

/'Institut catholique. Ristabilitesi a Parigi, dirige con entusiasmo che l'età non affievoliva la Revue des jeunes. E in mezzo al lavoro lo colse la morte, il 26 luglio 1948. Lasciava una produzione letteraria vastissima e. di grande pregio.

Fra le opere a carattere filosofico vanno ricordate Agnosticisme et anthropomorphisme (Parigi 1908), Saint Thomas d'Aquin, 2 voli. (Parigi 1910; tr. it.:

San Tommaso d'Aquino, Roma 1957), La philoso-phie morale de saint Thomas (Parigi. 1914), Les grandes thèses de la philosophie thomiste (Parigi 1928), Le christianisme et les philosophies, 2 voli. (Parigi 1939-1941; tr. it.: Il cristianesimo e le filo-so£e. Broscia 1947-1948; II ed. 1956), Lumières et périis du bergsonisme (Parigi 1943), L'idèe de créa-tion et ses retentissements en philosophie (Parigi 1945), Le problème du mal, 2 voli. : L'histoire, La solution (Parigi 1949-1951; tr. it.: Il problema del male. Broscia 1951-1954). L'opera maestra, fra queste, va considerata senza dubbio Le christianisme et les philosophies, nella quale Sertillanges affronta il problema — in quegli anni assai dibattuto — dei rapporti fra dogma cristiano e ricerca filosofi-ca, risolvendolo in sede teoretica secondo la soluzione proposta da Maritain e Gilson (anche se con profonda simpatia per Blondel) e illustrando la soluzione in sede storica con un'acuta analisi degli sviluppi del pensiero occidentale dall'età classica ai nostri giorni.

Delle opere a carattere più nettamente teologico — anche se il metodo di ricerca è sovente filosofico — ricordiamo Les sources de la croyance en Dieu (Parigi 1905), L'Eglise, 2 voli. (Parigi 1917; tr. it.:

La Chiesa, Roma 1951), Le miracle de l'Eglise (Parigi 1933; tr. it. : II miracolo della Chiesa, Broscia

1948), Qu'est-ce que le catholicisme? (Parigi 1938;

tr. it. : Che cos'è il cattolicesimo?. Roma. 1945), Dieu gouverne (Parigi 1942). In tutte queste opere risalta l'intento eminentemente apologetico di Ser-tillanges e l'efficacia del suo discorso razionale, sor-rotto da un'intelligenza chiara e da una cultura umanistica vastissima.

Vi è poi una serie di opere di contenuto morale e ascetico o di spiritualità. Citiamo fra queste Jésus (Parigi 1903), La prière (Parigi 1916; tr. it.: La preghiera, Torino 1950), il famosissimo La vie intellec-tuelle (Parigi 1921; tr. it. : La vita intellettuale. Roma 1954), La vie catholique, 2 voli. (Parigi 1921;

tr. it. : La vita cattolica. Broscia 1955), L'amour chrétien (Parigi 1921; tr. it.: L'amore, 77 ed., Broscia 1962), Notre vie, 2 voli. (Parigi 1926), Recueil-lement (Parigi 1944; tr. it.: Meditazioni, Broscia 1953), Affinités (Parigi 1936; tr. it.: Affinità, Broscia 1955), Devoirs (Parigi 1936; tr. it.: Doveri, Broscia 1956).

Un altro gruppo di opero di Sertillanges o dedicato a temi di etica sociale. Fra questo La politique chrétien (Parigi 1904), Socialisme et christianisme (Parigi 1905; tr. it.: Socialismo e cristianesimo, Milano 1921), La famille et l'Etat dans l'éducation (Parigi 1906) e Féminisme et christianisme (Parigi 1908).

Infine vanno citato alcune altre opere a carattere estetico, fra cui Art et apologétique (Parigi 1909), La cathédrale: sa mission spirituelle, son esthéti-que, son décor, sa vie (Parigi 1922), e Prière et musique (Parigi 1936).

L'opera

Risposte sulla fede apparve nel 1930, come risultato di anni di lavoro intenso, con il titolo Cate-chisme des incroyants. In italiano fu pubblicato dalla sei nel 1937 nella traduzione di padre P.G. Nivali, con il titolo Catechismo degli increduli; con questo stesso titolo fu ripubblicato successivamente, fino alla quinta edizione, del 1963, curata da Aristide Vosco, che rivide la traduzione e aggiornò il testo in qualche dettaglio. La presente edizione riproduce questa quinta della sei.

Risposte sulla fede è ormai un testo classico, e può considerarsi l'opera migliore di Sertillanges filosofo cristiano e apologista. Il contenuto corrisponde a un trattato essenziale di teodicea (Dio, la Provvidenza, la religione), di apologetica o teologia fondamentale (il cristianesimo cattolico) e di dogmatica (i misteri, la Chiesa, i sacramenti, i Novissimi). Il metodo espositivo è quello classico del dialogo di stile platonico: vivace, suggestivo, coinvolgente. Il linguaggio è chiaro e cordiale. L'autore usa spessissimo citazioni dei classici greci e cristiani e dei moderni: ma non sono divagazioni erudite, bensì testimonianze vive di una tradizione di pensiero che va da Aristotele a san Tommaso, da sant'Agostino a Pascal. È sempre l'idea di filosofia cristiana — che valorizza gli elementi perenni della speculazione greca — ad animare un discorso che Sertillanges conduce con forte personalità e con spiccata originalità, ma in un tono umile e discreto.

Abbiamo detto che il metodo è quello del dialogo. Gli interlocutori sono Sertillanges da una parte — il filosofo cristiano, il credente che accetta e vive la verità proposta dalla Chiesa — e I' 'incredulo'

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dall'altra. L''incredulo' è colui che si accosta al problema di Dio e alla fede cristiana con sincero desiderio di verità. Le sue obiezioni sono in parte le obiezioni classiche contro l'affermazione dell'esistenza di Dio, della Provvidenza, dei dogmi cristiani; in parte sono invece difficoltà e domande che lo stesso Sertillanges, nel suo acume critico, propone e poi risolve, mostrando tutto un itinerario critico che lo ha portato a una fede matura e solida, un vero rationabile obsequium, una fede che testimoniata con semplicità e passione non può non comunicarsi agli 'altri'.

Ne risulta un libro utile non solo ai non credenti — a coloro che, non avendo ancora trovato, cercano con fiducia — ma anche e soprattutto ai credenti che desiderano di possedere più saldamente, in profondità, le verità della fede.

antonio livi

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INTRODUZIONE

Nel nome del Padre, e del Figliuolo, e dello Spirito Santo...

Che fai?

Segno l'opera mia. Questo è un libro di religione.

Il segno di croce di solito si fa prima di pregare, e tu parli ad increduli.

La preghiera che intendo suggerire è una preghiera universale; non c'è uomo che non la possa ripetere.

Il «Pater» di Cristo

Padre nostro che sei ne' deli, sia santificato il tuo nome: venga il tuo regno: sia fatta la tua volontà, come in ciclo così in terra. Da' a noi oggi il nostro pane quotidiano; e rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori; e non c'indurre in tentazione, ma liberaci dal male. Così sia.

—- Ma io non posso ancora pregare così'.

Allora di' quest'altra preghiera:

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Il «Pater» dell'incredulo

Padre nostro, se tu esisti, io mi rivolgo a tè. Se tu esisti, il tuo nome è santo: sia santificato. Se tu esisti, il tuo regno è l'ordine, e anche il suo splendore: venga il tuo regno. Se tu esisti, la tua volontà è la legge dei mondi e la legge delle anime: la tua volontà sia fatta in noi tutti e in tutte le cose, in terra come in ciclo. Da' a noi, se esisti, il nostro pane d'ogni giorno, il pane di verità, il pane della sapienza, il pane della gioia, il pane soprassostanziale che si promette a chi lo può riconoscere. Se tu esisti, io ho dei grandi debiti verso di tè: degnati di rimettere i miei debiti, come io li rimetto volentieri a' miei debitori. Per l'avvenire, non mi abbandonare alla tentazione, ma liberami da ogni male.

Bene; ma ho veramente il diritto di esprimermi in tal modo?

Non solo il diritto, ne hai il dovere. Dubitare è possibile; ma chi può in verità e sinceramente negare Dio con certezza? La preghiera sia pur condizionata è dunque obbligatoria oltreché utile.

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I PRELIMINARI DELLA FEDE

(L ^.ó^^hs-'t

D. Sono io obbligato a far ricerche wiSUiSLJlil'Jili:

stenta di Dio?

R. Rifletti: Se Dio esiste, egli è tutto; se Dio esiste, tu gli devi tutto; se Dio esiste, tu da lui devi attendere tutto. Rifletti e concludi.

D. Ma come si propone il problema di Dio? R. Noi esseri intelligenti, ci troviamo di fronte all'universo, alla vita, a noi stessi: noi non possiamo far a meno di cercare di capire, e domandare alla realtà i suoi perché: di questi abbiamo bisogno per vivere.

D. Il reale presenta ben altri enigmi. R. Enigmi parziali, sì; ma, nel suo tutto, anche la realtà universale è un enigma, e proprio a questo enigma risponde l'affermazione di Dio.

D. Neghi tu che la scienza spieghi il mondo?

R. La scienza spiega il mondo a modo suo; ma la sua

spiegazione non è completa, non è sufficiente.

D. Perché non sarebbe completa?

R. Perché le spiegazioni scientifiche, per necessità di

metodo, sono ricavate dall'esperienza, e di conseguenza

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il voler considerare la spiegazione scientifica come sufficiente e definitiva, sarebbe un volere spiegare il mondo non servendosi che di esso. Ora non si spiega lo stesso per lo stesso.

D. I fenomeni della natura hanno cause che la scienza riesce a spiegare.

R. Sì; ma queste cause hanno le stesse deficienze che i loro effetti; anch'esse a loro volta sono effetti ed esigono altre cause. Rispetto a una vera spiegazione, non si è dunque fatto un passo in avanti; la causa e l'effetto si ritrovano in una comune indigenza. Di tutte le spiegazioni che la scienza propone si può dire che sono altrettanti problemi. Solo al di là si può trovare la spiegazione sufficiente, e il suo nome è Dio.

D. Ma la risposta «Dio » non ha anch'essa le, sue oscurità?

R. Sì, ha quella specie di oscurità che si chiama mistero. Ma questa oscurità è normale, nei riguardi d'una intelligenza finita. Quello che non è normale è un preteso sistema di spiegazioni che, invece di fermare la mente e di chiudere il suo lavoro, fosse pure nel mistero, la trascina sempre più lontano e, tutto considerato, la inganna, poiché, relativamente al vero problema, il problema universale, essa non si trova in una migliore condizione, e così non si avanza affatto.

D. È però un controsenso spiegare il chiaro, con l'oscuro.

R. Non un controsenso, ma una necessità. Se la causa universale fosse per noi chiara come sono i fatti della nostra esperienza, essa stessa formerebbe parte della nostra esperienza, e non potrebbe servire a spiegarcela.

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Il mistero di Dio si impone al nostro pensiero proprio perché lo trascende insieme a quanto è alla sua portata. In caso diverso il pensiero si sentirebbe in obbligo di procedere più avanti nelle sue indagini, e la spiegazione ultima non sarebbe mai raggiunta.

D. Per farla breve, tu vuoi spiegare il giorno con la notte.

R. Non diciamo la notte, perché Dio è luce di un'altra specie; ma questa luce unica è inaccessibile ai nostri sguardi mortali: solo per questo la si può chiamare notte. Devi pur renderti conto che se vuoi spiegare la luce, la nostra, quella di cui si nutrono i nostri occhi o la nostra mente, tu devi arrivare a qualche cosa che^ non sia luce; finché tu resti nella luce, la luce non ha spiegazione.

D. Ciononostante mi ripugna aumentare la dose del mistero.

R. Non è un aumentare la dose del mistero il concentrarlo nel punto dov'è logico che sia, per cacciarlo dagli altri luoghi dove urta la mente.

D. Io ne aumento la dose supponendo Dio; perché Dio è un mistero più grande della composizione dei corpi e dell'origine della vita.

R. Tutt'altro! Il mistero si rende accettabile solo portandolo al suo massimo; se non fosse assoluto, sarebbe vano; perché un misto di luce percettibile ai nostri sguardi, in Dio, confinerebbe Dio almeno parzialmente nel mondo della nostra esperienza, e questo preteso Dio avrebbe dunque lui stesso bisogno d'una spiegazione. La verità intorno a Dio è una verità che cessa di essere verità quando si toglie il suo velo. Concepire Dio sa-

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rebbe in qualche modo fabbricarlo con la mente, e se Dio è, è lui il Fabbricatore della mente. CpncepireJDio sarebbe non averlo trovato.

D. Cosi tu ammetti quello che dicono molti pensatori e che i cristiani sembrano respìngere, cioè che Dio è inconoscibile.

R. Bisogna qui distinguere accuratamente. Dio è pienamente inconoscibile per la scienza, nel senso corrente di questo termine; egli è a un tempo conoscibile e inconoscibile per la filosofia; è eminentemente conoscibile con l'intuizione, supponendo che le condizioni di questa intuizione trascendente un giorno si verifichino.

D. Vuoi spiegarti più chiaramente? R. Dio è inconoscibile scientificamente, perché le leggi tratte dai fenomeni non possono oltrepassare il mondo dei fenomeni. Una dimostrazione scientifica dell'esistenza di Dio, nel senso moderno della parola, è impossibile, e a più forte ragione uno studio de' suoi attributi. La scienza non ha per questo ne princìpi ne metodo; essa non conosce che fatti e collegamenti di fatti; può classificare, spiegare e prevedere in questo campo; ma le cause prime non la riguardano affatto, appunto perché sono prime, cioè anteriori a tutto il suo lavoro.

D. E la filosofia?

R. Per essa, Dio è a un tempo conoscibile e inconoscibile, nel senso che si può dimostrare razionalmente che Dio è; perché la ragione oltrepassa i fenomeni e domanda loro delle ragioni; essa procede dagli effetti alle cause, e di causa in causa, là dov'osse si dispongono a scala, la ragione può giungere a una causa prima, o se si

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vuole a una supercausa. Ma il carattere stesso di questa causa, perché possa fare la parte che le si attribuisce, è di essere infinita e per conseguenza inaccessibile in se stessa. Le daremo un nome, ma sempre partendo dal creato; la caratterizzeremo anche, ma con caratteri che non serviranno se non per il nostro modo di concepire, sapendo che in Dio si risolvono nella sua Unità ineffabile, nella suprema indistinzione del Perfetto.

D. Tu parlavi ài intuizione. R. Sì; l'intuizione ha già i suoi accessi presso Dio 'in rari individui e in rare occasioni di questo mondo; più tardi la ritroveremo in tutti gli eletti, perché essa sfugge al funzionamento zoppicante della ragione ragionante, alla sua necessità di ridurre tutto in concetti e in proposizioni, non conoscendo così se non come « in uno specchio », « in enigmi », al contatto delle immagini in-teriori, invece di afferrare l'oggetto con una presa immediata e con una sintesi di vita. Dio è in se stesso eminentemente conoscibile, essendo tutto idea e spirito. La questione è di essere al suo livello. Vi ci mette egli stesso se così vuole. Noi crediamo che egli vi ci mette mediante il soprannaturale, mediante la grazia e la gloria; vi ci solleviamo remotamente con lo sforzo titubante del pensiero filosofico; non vi ci troviamo più affatto al piano della scienza. Di qui difficoltà insuperabili per coloro che rifiutano di distinguere i diversi piani; accordo nella diversità per gli altri.

D. Ma se per noi, quaggiù, Dio è inconoscibile 'in se stesso, perché studiarlo?

R. Dio è per noi, quaggiù, inconoscibile in se stesso. Nessun concetto è abbastanza largo per questa sostanza

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illimitata. Lui solo può definire se stesso; lui solo può dire se stesso con una parola viva, che è il suo Verbo;

lui solo, come espressione, è uguale a se stesso come fatto. Tuttavia l'indagine intorno a lui è sempre aperta;

le sue opere ce lo rivelano con le loro analogie e coi loro simboli, e quanto più la mente vi si avanza, tanto più si arricchisce. Lo studio di Dio è una navigazione in un mare sconfinato, splendido, ed esaltante.

D. Ammetto che ne possa seguire un certo arricchimento; la storia dello spirito umano sta li a testimoniarlo; ma i tuoi modi di pensare Dio e di parlare di Dio non sono in opposizione con quello che tu stesso hai detto del mistero di Dio?

R. Bisogna ben che gli uomini « esprimaho come possono quello che non possono esprimere sufficientemente come egli è » (bossuet).

D. A che servono queste espressioni?

R. A vivere di Dio con lo spirito, dovendo viverne

moralmente, al fine di raggiungerlo un giorno.

D. Non temi la puerilità?

R. Puerilità, forse, ma allora in un senso nobilissimo e dolcissimo. L'idea di Dio incoraggia la mente con la sua stessa grandezza, che è al di sopra della grandezza. Se Dio fosse solamente grande, sarebbe grande a tal segno che noi non ne potremmo più dire niente; ma, poiché egli oltrepassa infinitamente ogni grandezza e l'uguaglia alla piccolezza, egli ridiventa familiare, e noi ne parliamo con la libertà che i bambini hanno a riguardo di tutto e di tutti.

D, Non ti pare che l'idea di Dio, concepita come la 22

spiegazione delle cose, non sia che un'anticipazione, un preludio quasi della scienza?

R. Nella tua affermazione vi è del vero; ma soprattutto vi è del falso. Al principio, non avendo nessuna spiegazione immediata dei fenomeni, ubbidendo a quel senso dell'assoluto che è inseparabile dallo spirito umano, per rendersi conto di ciò che si vede, si ricorre immediatamente alla causa prima. Dio sostituisce l'esperienza, la scienza, la metafisica delle cause, la morale. A tutto, si risponde: Dio! e si trascurano le altre risposte. Poi, credendo di trovare e trovando di fatto delle spiegazioni, si rinnegano le credenze primitive; la scienza si laicizza, e i sapienti orgogliosi scivolano nell'ateismo, nell'agnosticismo, o comunque sembra offrano argomenti alle negazioni di una folla ignorante o semidotta. Finalmente, rendendosi conto del carattere relativo delle spiegazioni della scienza, degli acquisti dell'esperienza e dei dati della metafisica generale se la si priva del primo Principio, si ritrova al di là il mistero, e,, con esso, il « Dio nascosto ».

D. Ma, d'altra parte, e generalizzando, Dio non sarebbe semplicemente l'assommarsi semplificato^ dei nostri sogni, la « categoria dell'ideale », come dice Renan?

R. Dio è questo; difatti noi lo concepiamo, rispetto alla natura, come Causa; rispetto alla ragione, come Verità; rispetto alla volontà, come Bene; rispetto al cuore, come Padre; rispetto alla ricerca universale, come Felicità; il tutto con delle lettere maiuscole, cioè come categoria dell'ideale, poiché in ogni cosa egli è il Perfetto. Ma Dio non può essere il Perfetto e l'Ideale se non a

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patto di essere reale; infatti che cosa è una perfezione senza esistenza? Allora è a forza di idealità che Dio è reale, ed è a forza di realtà che egli è ideale.

D. Tutto ciò non è paradossale? R. Niente affatto. L'ideale è la più reale delle cose, o non è l'ideale; parimenti il reale è la più ideale delle cose, sotto pena di essere imperfetto, cioè semireale. Il proporci, noi stessi, un ideale, non è forse un dare a noi stessi qualche cosa da realizzare? Il proporci un ideale perfetto e ottenerlo sarebbe porre Dio. Ma senza Dio nessun ideale parziale sarebbe concepibile, non essendo altro che un prestito, un frammento del blocco del quale cerchiamo le origini e le fasi. La natura ci conduce al di là di se stessa; la natura non è se non l'immagine viva di un Pensiero eterno; vi è una vocazione essenziale dell'imperfetto al Perfetto, degli esseri all'Essere.

D. Se Dio è reale, e se è Realtà perfetta, l'Essere, come dici tu, Dio non_ si confonde forse con.J^Muiverso, col lutto?

R. Tu ci dai così la formula del panteismo, e bisogna confessare che il panteismo è seducente.

D. Donde viene secondo tè questa seduzione? R. Dall'abbagliamento dell'infinito. Da ciò proviene questa poesia da cui molti si lasciano prendere, e questa metafisica profonda benché fallace. Il filosofo cristiano, moralmente annientato davanti all'infinito, non si lascia abbagliare. Egli serba, del panteismo, tutta la poesia e tutto ciò che vi è di positivo nella sua filosofia; e ne trae alimento per il suo concetto dell'intima presenza di Dio in tutte le cose, della vita in Dio di tutte le cose, ma senza pregiudizio dell'essere proprio e dell'attività di

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ciascuna cosa, che, sprofondandosi in Dio, suo Principio, trova se stessa e si riafferma, invece di abolirsi.

D. Non hai però risposto alla mia obiezione: se Dio è la Realtà perfetta, egli è il Tutto, e coincide così con l'universo.

R. Dio è il tutto, in questo senso cheJutto l'essere gli appartiene, tutto l'essere è in lui, tuttoJ'essere è di lui, « egli è ogni essere eminentemente e virtualmente » (S. tommaso D'ÀQuiNo), è « il Tesoro dell'essere » (id.). Ma appunto per questa ragione egli non è l'universo, cosa imperfetta e mutevole, dove la sua unica pienezza si avvilirebbe.

D. Se Dio non è l'insieme degli esseri, dunque è un Essere determinato, cioè finito. R. Dio non è un Essere determinato nel senso della tua frase; ma se egli è indeterminato, è per la sua perfezione stessa, che nessuna determinazione esaurisce, e perciò non è finito.

D. Allora Dio infinito e runiversp_distinto da lui si addizionano; Dio e l'universo sono più che Dio, cioè più che l'infinito, il che è assurdo. R. Il mio corpo e la sua ombra sul muro, il mio corpo e il suo rinesso nell'acqua, sono forse più che il mio corpo affatto solo?

D. Lo j-o: l'ombra e il riflesso non sono reali; ma il

mondo è reale.

R. Il mondo è reale per noi ed è reale m se stesso;

ma esso non è tale affatto per rapporto a Dio, essendo impotente a porsi davanti a Dio, come qualcosa che può sussistere senza di lui. A questo riguardo, non è che una

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ombra, una manifestazione della divina Presenza, un'effusione dell'Amore. La creatura non ha di proprio altro che il niente; grazie a Dio essa esiste; ma non avendo niente di proprio, il fatto che essa esiste per mezzo di Dio non aggiunge niente a Dio, non si compone con Dio, non cambia niente alla totalità dell'Essere, il cui nome proprio è Dio.

D. Dio è personale, o è un'immensità resa impersonale dalla sua ampiezza?

R. Dio è un'immensità senza sponde, e perciò non è personale alla maniera di un uomo. Noi non crediamo al Dio-finito di Renouvier, o al Dio-uomo di Sweden-borg. Ma Dio è sommamente personale per la sua stessa immensità, cioè per la sua perfezione; perché, quanto più la perfezione sale, quanto più l'intellettualità e la coscienza si concentrano, tanto più la personalità si compie. Del resto non andare a dire a un cristiano che Dio non è personale, quando quello che egli trova in Gesù Cristo è Dio in persona. Dio ha dimostrato la sua personalità apparendoci, come si dimostra il movimento camminando, checché ne sia delle difficoltà di Zenone d'Elea e de' suoi-seguaci.

D. E che dici della filosofia che sfugge a tutte queste questioni sotto il nome di materialismo? R. Il materialismo ha due vantaggi: fa dell'universo un trastullo magnifico per il nostro orgoglio e un campo aperto per le nostre passioni. Fuori di questo, è una « filosofia » che non merita neppure, un posto nel catalogo degli errori.

D. Potresti giustificare una tale severità? R. Il materialismo è una dottrina che alle maraviglie

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visibili da spiegazioni sciocche, e alle maraviglie invisibili, quelle dell'anima, spiegazioni inesistenti, non accostando in nessun modo l'ordine dei fatti che essa vuole spiegare.

D. Se non altro le sue spiegazioni sono semplici, e non

contraddittorie.

R. Le sue spiegazioni sono semplici fino all'ingenuità;

esse consistono nel costruire i corpi con dei corpi più piccoli, « come se si costruissero le case con delle case » (aristotele), e in quanto allo spirito e alle cose dello spirito, il materialismo non le spiega, ma se le attribuisce, trovandosi esausto quando ha dichiarato in quali condizioni si constatano.

Tu dici che esso non è contraddittorio: ma non c'è una contraddizione evidente tra il materialismo e questo semplice enunzi ato: le leggi della materia, che i materialisti hanno continuamente in bocca? Dire che la materia è retta da leggi, non è forse uno schierarla sotto il regno dello spirito? « La legge è un dettame della ragione », dice S. Tommaso d'Aquino, e nessuno può accusare di falso una definizione così lampante. Quei che non credono se non agli atomi combinati sotto certe « leggi » dovrebbero ben dire chi ha insegnato agli atomi l'autorità di queste leggi e li inclina all'ubbidienza. E se dalle leggi elementari ti elevi alle leggi più complesse della chimica e della mineralogia, della vita e della comunicazione della vita, della sensazione e del pensiero, della psicologia superiore e della moralità, chi non vede crescere indefinitamente l'assurdità di attribuire tutto ciò a una materia senza finalità immanente, senza idea direttrice, direbbe Claudio Bernard, e per conseguenza

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senza un Pensiero anteriore e superiore ad essa, e, poiché l'idea immanente alle cose è evidentemente costitutiva, e non semplicemente motrice, senza un Creatore? Ancora ho trascurato di osservare che la « materia » dei materialisti fugge sempre più davanti alla scienza contemporanea, come se alla fine dovesse svanire a profitto della legge stessa, e proclamare così il regno universale dello spirito. Tutto quaggiù è forma, numero, armonia. ripetizione e ritmo, danza e musica; niente è materia inerte e cieca. Ogni essere tende, cerca, gravita, passa ad altre gravitazioni, ad altre ricerche, ad altre tendenze, e un universo si forma in cui lo spirito splende maggiormente, svelando una Sorgente d'idealità che si espande, un'armonia fondamentale, un Pensiero primordiale, uno Spirito supremo.

D. Tu tendi così a dimostrare Dio per mezzo dell'ordina del mondo; è la tua unica prova, o ne hai delle altre?

R. Vi sono tante prove dell'esistenza di Dio quante se ne vogliono, e non ce n'è che una sola. Tutte si riducono a questo: vi è qualche cosa, dunque Diox'è. Detto questo puoi sminuzzare il qualche cosa e fare de' suoi frammenti altrettante prove. Del resto, siccome uno sminuzzamento intelligente dovrà procedere per gradi, per generi di cose, troverai prove privilegiate, specifiche. In tal modo S. Tommaso riconobbe cinque vie per far capo al sommo Essere.

D. Qual è secondo tè la prova più certa? R. Sono tutte certe.

D. Quale quella che colpisce di più? R. Appunto quella dell'ordine^dellaJia^ra, e i pehsa-

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tori più refrattari, come Emmanuele Kant, hanno dovuto riconoscerne il valore.

D. Qual è la sua sostanza? R. « L'ordine è opera del sapiente », disse Aristotile. Noi crediamo alla sapienza umana perché vediamo le sue opere, cioè l'ordine che introduce attorno a se stessa, ne' suoi dominii, nelle creazioni della sua industria, nelle istituzioni che fonda, nelle regole d'azione che da a se stessa e che intima a ciò che essa deve reggere. Ma la sapienza umana non ha la possibilità di applicarsi se non perché un'altra sapienza la precede, e questa sapienza anteriore, quella della natura, sulla quale s'innesta la nostra, è ben più profonda. Chi può sfaccettare una pietra con tant'arte com'essa è sfaccettata dentro, per il fatto della sua costituzione stessa, così sconcertante per la scienza che yi penetra a tentoni? Chi può fare, con della canapa, un tessuto così meraviglioso come lo stelo della canapa, e come la sua foglia, e come il suo seme? E così avviene di tutto. Se dunque io credo alla sapienza umana, come non crederei alla sapienza che essa utilizza, alla sapienza che essa dischiude, e se questa sapienza della natura è tanto incosciente quanto meravigliosa, come non cercarne la sorgente in una intelligenza suprema di cui tutta l'arte della natura non è che una manifestazione? « II visibile, dice Leone Bloy, è la traccia dell'invisibile ».

D. Quali sono, secondo tè, i segnj^essenziali^dell'ordine, in seno alle cose?

R. Ordine di ciascuna cosa in se stessa; ordine di produzione di ciascuna cosa per una convergenza di elementi, per un concorso di serie causali; ordine delle

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cose tra loro per fare degli insieme e degli insieme per fare un cosmo; ordine del cosmo e dell'anima che si incontrano nella sensazione, nel pensiero, le due più sublimi realtà che esistano.

D. Vi è un rapporto tra quest'ordine di manifestazione

del reale e l'ordine intimo del pensiero' stesso?

R. « Un albero germoglia per sillogismo », disse Hegel.

D. E con l'arte?

R. - Quando dall'arte, dal ritmo, dalla poesia e dalla musica, tu stesso ti senti trascinato nell'ordine del mondo e comunichi a' suoi movimenti, devi riconoscere che l'emozione provata nelle parti alte dell'anima tua ha un carattere religioso. L'arte è una « religione », perché la bellezza è ordine, e l'ordine è divino.

D. Puoi completarne la prova? R. I rapporti delle cose tra loro, degli elementi tra loro, delle serie causali, che interferiscono e convergono, degli insieme parziali che ne incontrano altri in sempre più vaste combinazioni, tutto ciò da prova di un pensiero che mette insieme e ordina all'attuazione di un progetto, di un piano che il fatto realizza. L'occhio è ordinato per vedere, il frutto per germogliare; le potenze della vita come le potenze astrali sono fidanzate prima del connubio dell'azione e delle evoluzioni comuni. « II mondo è il risultato di accordo infinito », scrive Novalis. Gli scambi universali ci appariscono a un tempo come fenomeni e come tendenze, come effetti e come disegni, e l'idea di una sapienza organizzatrice brilla al contatto. Quest'idea è in noi, e l'ordine è nelle cose; ma al di sopra, per giustificare l'idea e per fondare

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le cose tali quali sono, armonizzate e cariche di saggezza, ci vuole qualche idealità superiore, una sapienza, un'arte, e non è forse questo uno degli aspetti di Dio? La natura è come un volto la cui fisonomia esprime l'anima segreta e quest'anima è Dio. La natura è un macchinario meraviglioso, il meccanico ne è Dio. Dietro il fatto vi è l'energia, dietro l'energia la legge, oltre la legge il progetto, sopra il progetto l'architetto e l'architetto è Dio.

E devi notare che nella natura, l'ordine è tanto più ammirabile quanto più gli esseri sembrano formati di un piccolissimo numero di elementi, sotto leggi alla loro volta poco numerose. L'autore dell'ordine sembra che possa fare tutto con tutto, anzi con un solo cenno. Per negare quest'autore divino, bisogna ammettere un'inin-telligenza o una non-intelligenza più intelligente dell'intelligenza stessa. L'universo come lo conosciamo e specialmente come lo congetturiamo, l'universo con la sua organizzazione di un'estensione e di una profondità così sbalorditive, è un peso che Dio solo può portare; nessun Atlante, figlio di un Giove sottomesso al Destino, potrebbe esserne all'altezza. Se Dio non esiste, non ci vuole molta immaginazione ne molto sentimento, per essere presi da un senso di assurdità spaventosa, da una immensa oscurità. Dio è veramente la Luce del mondo, creatrice della verità delle cose e del suo riflesso in noi. È lui lo Spirito nascosto di tutte le creature, l'Essere del loro essere, la Verità di cui esse non sono, per così dire, che i fantasmi, poiché senza di lui, senza l'influsso permanente della sua presenza, esse non sarebbero affatto.

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D. A queste condizioni, non si dovrebbe pensare che

a Dietro per lo meno a niente senzaPio.

R. « Dimenticato Dio, più nulla è degno di memoria »

.• . ' , Awfctw.i.-is.- ,a.«i«a».™)t«taw™arfì3BÈ»SK^^aw!a^w .- " " •

(carlyle).

D. Tu parli dell'influsso divino come d'un fattore permanente delle cose: è veramente opportuno cercare qualcosa di « permanente » in questo mondo dove tutto muore?

R. Non si può dire: tutto muore. È vero che le cose di questo mondo non ci son note e non sono da noi adoperate se non secondo che passano; noi registriamo la loro fuga; appunto in grazia della loro morte noi le assimiliamo; ma bisogna che qualcosa resti; se tutto passasse, non ci sarebbe « dove » avvenga il passaggio, non legge che regga il passaggio, non potenze stupefacenti per i fatti particolari, non trama per la decorazione. E bisogna che ciò che resta abbia di che restare, di che mantenersi così saldo, così immortale. Bisogna che il necessario ci sia, e al di sopra del necessario che è tale solo di fatto e non per se stesso, ci vuole il primo Necessario, necessario per definizione, nel quale diviene tutto quel che diviene. Quel che muore, muore in Dio.

D. Ciò suppone l'ubiquità; ora come può Dio essere

presente dovunque nello stesso tempo, e tuttavia essere

invisibile?

R. Pascal matematico ne fornisce questa immagine:

« un punto che si muove dappertutto con una velocità infinita; infatti esso è uno in tutti i luoghi ed è tutto intero in ciascun luogo ». Abbiamo qui solamente un'immagine spaziale, che non ha valore se non nell'ordine astratto. Ma se tu la trasporti nell'ordine dell'esistenza,

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ti fai un'idea di quella realtà indivisa e infinita, che avviluppa tutto immediatamente col suo potere creatore e organizzatore.

D. Ho udito gente ragionare così: Non c'è bisoJgno_di Qxdinatore; perche il caso, disponendo dell'infinità del tempo, ha davanti a sé un'infinità dt combinazioni possibili, dunque anche quella che è sotto i nostri sguardi. R. Quando un uomo ragiona in tal modo, io non faccio appello ai matematici per rispondergli; ma gli domando:

Sei matto? Queste idee reggono davanti alle idee, ma crollano davanti ai fatti. Pensa alla struttura di un occhio di moscerino, al moscerino, alla sua vita, alla sua meravigliosa riproduzione, alla sua eredità secolare, alla stabilità dinamica dell'universo in cui si evolve questa piccola specie in compagnia di milioni d'altre, e tu riderai di cedeste stoltezze.

D. Ma c'è chi dice, con più verosimiglianza: II cammino del mondo è impeccabile e d'una rigorosità assoluta, dunque non ha bisogno di Dio. R. Che lode" di Dio!

D. Che cosa intendi dire?

R. Che questa apparente inutilità di'Dio è proprio quello che lo esige con maggiore forza, come l'orologio da prova dell'orologiaio camminando da sé solo, meglio che se egli dovesse spingerne le ruote. Il cammino del mondo è d'un rigore così assoluto che una volta posto il mondo, una volta caricato questo meraviglioso automa nessuna sorpresa può sorprenderci; ma io domando ancora una volta: Chi ha fatto il mondo?

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D. Si dice che è il frutto dell'evoluzione. R. Se PifiiQ^iddI'^0^0^ è vera' Dia-è.-dunostEato due volte, una volta dal. mondo e una volta dall'evoluzione.

D. Come?

R. Perché creare una macchina utensile di una tale perfezione e d'una tale potenza è più difficile che creare un oggetto. Il mondo è un oggetto sorprendente; ma che dire di quella miracolosa forza di evoluzione che lo fabbrica ciecamente? Di quale perspicace pensiero è l'organo una tale cecità! L'evoluzione che si pretende crea-trice al posto di Dio, è un sistema di efletti sempre più ricco senza che vi sia alla base alcun principio; è una geometria eterna senza « Assioma eterno ». Capisco bene Descartes che dice: « L'esistenza di Dio è più certa del più certo dei teoremi di geometria ». Per me, se l'evoluzione esiste — ed esiste necessariamente in qualche misura — dimostra, oltre alla ^potenza, sovreminente-di Dio, la discrezione generosa che lo fa agire per mezzo della stessa opera sua, dopo aver reso quest'opera attiva e potente. In tal modo Cristo seminò alcuni germi immortali e affidò a' suoi Apostoli, alla sua Chiesa, le sue speranze dell'avvenire.

D. Mi pare che tu attribuisca così. alla natura un immenso sforzo, dei piani maravigliosi. Ora Enrico Berg-son dice all'opposto: La natura non ha nessun piano prestabilito; inventa con assoluta libertà, e « per lei è così facile fare un occhio come per me alzare la mano ». R. Tutto ciò non si contraddice affatto. La natura non ha piani prestabiliti; neppure l'ape: in nessuna parte del mondo vi è un modello dell'alveare. L'alveare è una

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« invenzione » del genio della specie, un'invenzione spontanea, se si vuole, senza piani stabiliti in antecedenza, in modo che il piano non esiste che in noi, dopo un atto di riflessione, quale risultato delle analisi fatte del meraviglioso lavoro. Ciò non m'incomoda affatto. Ma quel che io domando sempre è che mi si trovi una origine prima a questo sforzo d'invenzione, all'invenzione quando esiste, alla nostra mente che l'analizza, al piano che è il prodotto della nostra mente, a tutto quest'ordine di fatti, che non basta descrivere per spiegarli. Bergson non si oppone a questa richiesta, tutt'al-tro. In quanto allo sforzo della natura, è un modo di dire. La natura è un'arte, e l'arte non fa sforzo salvo che quando è imperfetta. Un occhio non è che un arpeggio complicato; la natura lo produce con la squisita facilità di un perfetto virtuoso; ma quanto più la sua arte è impeccabile e semplice ne' suoi mezzi, tanto più la natura ha bisogno di una sorgente sublime.

D. E se il mondo e sempvs.. esistito? R. La durata non è una spiegazione. Per quanto si estenda, le si dovrà sempre chieder ragione di ciò che essa contiene. Spiegheresti una locomotiva e daresti la ragione del suo andar avanti dicendo che essa è sempre andata avanti ? La ragione del cammino non si trova alle proprie spalle; i motivi non si raggiungono analizzando la sua corsa. Il procedere si spiega con l'intelligente complicazione del congegno, cioè per l'arte del meccanico; si spiega con le proprietà del vapore, dell'aria, del suolo, dei materiali adoperati, dell'ambiente universale in cui tutto s'immerge, cioè per la possibilità offerta dalla natura e che il meccanico ha saputo uti-

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lizzare. L'armonia di tutto l'universo si trova impegnata in questo semplice fatto; come non è meno impegnata in qualsiasi altro: tutti i fatti reclamano un Ordinatore.

D. Che dire a quelli che non riescono a convincersi dell'esistema di Dio per mezzo della ragione? R. Di cercarlo nel loro cuore, e più ancora di cercarlo nella fede.

D. È una cosa possibile? R. Non solo possibile, ma anche frequente. Dal momento che Dio si è rivelato nel mondo, se ne può trovare la traccia nella rivelazione come nella natura. Era il procedimento raccomandato da Pascal come il più efficace. La credenza in Dio, che è l'ultima parola della filosofia, è la prima della fede: « Io credo in Dio, Padre onnipotente, ecc. ». In filosofia, tutta la conoscenza umana mira appunto a rischiarare debolmente la nozione di Dio. Nella fede, l'ordine è inverso; è Dio, sorgente di ogni luce, che sfavilla anzitutto e rischiara potentemente tutto il resto. Se la natura ci parla di Dio, la fede ce ne dice, a suo riguardo, in poche parole, più che tutto l'universo insieme, e allontana i pensieri ingannevoli che provocano pericolosi disorientamenti in tante menti.

D. La dimostrazione razionale di Dio ti pare insamma poco utile?

R. È utile come preambolo della fede; ma in se stessa è insufficiente alla salvezza degli uomini. La ragione affatto sola di fronte a Dio non può comunicare con Dio;

le manca la scala viva, le manca il ponte. Il Dio che bisogna conoscere non è il « Dio dei filosofi e dei sapienti »,

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ma il « Dio di Abramo, d'Isacco e di Giacobbe »,.il « Dio di Gesù Cristo ». « È un Dio di amore e di consolazione; è un Dio che riempie l'anima e il cuore di quelli che egli possiede; è un Dio che fa loro sentire in-teriormente la loro miseria e la sua misericordia infinita;

che si unisce al fondo dell'anima loro, che la riempie di umiltà, di gioia, di confidenza e di amore; che la rende incapace d'altro fine che non sia lui stesso » (pascal).

D. Il sentimento prende così una grande importanza nella credenza in Dio.

R. « Si crede in Dio in virtù di ciò che si ama, assai' più che in virtù di ciò che si sa » (pietro lasserre).

D. .Che cosa pensi dell'ateo? R. In un certo senso non vi sono atei : vi è solo gente incoerente, che affermando Dio tutte le volte che proferiscono una parola o fanno un passo, si servono nondimeno della parola per negare Dio. Sotto tutte le idee che si oppongono a Dio, vi è l'idea di Dio. Sotto i sentimenti che allontanano da Dio, vi è una sete che è la sete di Dio. Ogni uomo crede alla verità, apprezza il bene e tende alla felicità; tutta quanta la nostra vita gravita attorno a queste nozioni, e sempre più a misura che il mondo s'incivilisce. Ora ciascuna di queste nozioni conclude a Dio nel modo più manifesto, e prese nel loro senso assoluto sono attributi divini. Nietzsche lo riconobbe, dicendo: « È con la fede in Dio che, nel mondo moderno, si è dato il benservito a questa stessa fede »;

« L'ateo parla della natura come di una madre che è nei cieli » (enrico bidou). Nondimeno l'ateismo esiste in quanto presa di posizione da parte della volontà, ed ecco quel che ne penso. Io faccio una gran differenza tra

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l'ateo gaudente,^ « simile alla bestia, che grufola nella pozzanghera senza vedere in fondo il riflesso del cielo » (giuseppe serre), e l'ateo per^error.e., per deviazione intellettuale, anzi per reazione contro falsi deismi che egli rigetta senza sapere come sostituirli.

D. Vi sono dunque falsi deismi'?

R. Sì, coloro che pongono un Dio da vetrata o un

« Dio della buona gente » senza nessun valore filosofico.

D. Ci possono dunque essere degli atei in buona fede? R. Ognuno di noi ne può incontrare ogni giorno.

D. Non si dice il contrario, nelle vostre scuole di teologia?

R. Si dice con ragione che una cosa così certa, per una coscienza retta, come l'esistenza di Dio, non può essere disconosciuta senza peccato. Ma anzitutto vi sono sincerità peccaminose, quelle che risultano da gravi negligenze o da infedeltà anteriori. Poi, non è necessario che il peccato così affermato sia un peccato individuale;

ci può essere una colpa collettiva, i cui effetti si comunicano a innocenti ingannati. I responsabili sono appunto coloro che creano tali correnti; quei che le seguono per un'attrazione involontaria devono essere assolti e soccorsi.

D. E come si spiega che Dio, che a tuo parere è così evidente, possa essere così lasciato in un canto? R. Dio è lasciato in un canto — e offeso — come può accadere ad un vecchio da parte di una generazione troppo irrequieta. L'accesso anarchico della vita materiale, della vita sensibile, della vita intellettuale stessa, è all'origine di questo spaventevole abbandono.

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D. Non c'è nulla di elevato, nell' ostraasmJoJmJlljtto^al-l'idea di Dio?

R. La disgrazia degli uomini è di volgere contro la propria salvezza i loro stessi pensieri migliori. Si è fatto credere all'umanità che l'idea di Dio era un ostacolo alle sue aspirazioni, una preoccupazione estranea o ostile ai suoi compiti; ed essa ritornerà a Dio quando avrà capito che l'idea di Dio altro non è che la vera liberazione dell'uomo; che solamente questo preteso nemico delle sue soddisfazioni rende la vita degna di essere vissuta, e che tutti i compiti umani, in ciò che hanno di sacro e di durevole, sono resi più facili e più dolci col suo concorso. « L'uomo potrà dominare e la sua propria natura e il mondo che egli abita, prendendo il suo punto di appoggio al di sopra di sé, nell'idea stessa del Fine per il quale egli è nato » (emilio boutroux).

D. Però vi sono degli atei che sono spiriti forti.

R. « Ateismo, segno di forza di spirito — scrive

Pascal — ma solamente fino a un certo punto ».

D. E che sono tranquilli. R. Io credo alla calma della loro angoscia.

D. In ultima analisi, qual è, secondo tè, l'atteggiamento degli uomini riguardo a Dio? R. « Gli uni temono di perderlo, gli altri temono di trovarlo » (pascal).

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LA PROVVIDENZA

D. Tu spesso adoperi l'uno per l'altro questi due vocaboli: Dio, e ^Provvidenza; è forse perché, a tuo parere, il compito provvidenziale è essenziale a Dio? R. Esso è talmente essenziale che, senza la Provvidenza, si domanda se sarebbe ancora utile parlare di Dio.

D. Qual è la sua nozione precisa? Tu senza dubbio chiami provvidenza il governo divino.

R. Approssimativamente, sì; .ma vi è una differenza. Il governo divino è piuttosto il momento esecutivo, la provvidenza il momento legislativo, nel regime eterno. Dio è provvido, in ciò che i destini universali e particolari hanno da lui il loro orientamento e la loro forma, e per conseguenza, il concetto di quest'ordine, di questi destini, è incluso nell'oggetto dell'Intelligenza prima.

D. Ciò suppone che Dio conosca tutto. R. Difatti conosce tutto : del resto come la conoscenza di qualsiasi cosa potrebbe sfuggire a Dio, che è la causa di tutto ciò che è, e che lo ha causato intelligentemente?

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?0?

D. Certamente Dio conosce tutto, ma in generale? R. Al contrario, la cognizione di Dio è eminentemente particolare e precisa; conosce tutto nei minimi particolari, fino all'intimo degli esseri e dei cuori. E come pensare altrimenti senza fare di Dio un uomo potenziato, una mente astratta, anziché la Causa suprema? Le generalità non sono che nozioni; colui che conosce solo queste non conosce veramente quello che esse compren-\ dono, e per questo il Dio dei deisti, così distante e così sicuro di sé, non è che un fantoccio creato dall'intelligenza umana. La scienza creatrice si deve estendere e si estende appunto sopra l'essere, sopra la realtà dell'essere in tutte le sue manifestazioni.

D. In questo caso. Dio non conoscerà l'avvenire, che ancora non esiste.. —~~--~--~-~~-~--------~.

R. Anche l'avvenire è_compreso nell'essere; esso fa parte della creazione totale, che include il tempo come include lo spazio, o una qualsiasi determinazione del creato.

D. Nondimeno l'avvenire non è presente, e come conoscere come presente ciò che non è presente?

R. Anche a noi, in qualche modo, è possibile, ed è quando l'avvenire ci è presente nella sua causa. Io so che il sole sorgerà domani, perché la causa che lo ricondurrà sul nostro orizzonte è già in opera, perché la vedo operare, e prevedo facilmente a qual punto dell'opera sua sarà domani mattina. Ma non so ciò che deciderai domani, tu, essere libero, perché ciò non è determinato da una natura delle cose che io possa decifrare oggi, perché per giunta ciò non è determinato adesso neppure da tè. Domani farai quello che vorrai.

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Ma questa impossibilità in cui io mi trovo di conoscere l'avvenire non dipende che da una sola cosa, ed è che la mia conoscenza è nel tempo, come gli oggetti ai quali essa si rivolge. La mia mente funziona oggi, tu opererai domani: non vi è coincidenza; l'incontro non ha luogo tra la mente e il fatto. Ma se la mia mente fosse fuori del tempo, se comprendesse il tempo, io vedrei che cosa faresti domani come vedo quello che fai oggi; non ci sarebbe alcuna differenza. Ora questo è il caso di Dio. Dio non è nel tempo; la sua conoscenza non è successiva; al pari del suo essere, essa non è soggetta a svolgimento e perciò vede l'opera sua tutta quanta con un semplice sguardo, con uno sguardo eterno.

D. Tuttavia Iddio dura, e noti si dice eterno se non perché dura sempre.

R. Niente affatto; se Dio è eterno, è perché non dura punto. Se dici che dura, aggiungi subito: Egli dura tutta la sua durata a un tempo. L'eternità non è una durata infinitamente lunga, è una durata senza lunghezza; non è una successione infinita d'istanti, ma un unico istante ricco di una vita senza termine, d'una vita senza vicissitudini, senza divenire.

D. Cosi il tempo non^siste fierJQip, e se esiste per noi è indubbiamente in ragione di una illusione soggettiva?

R. Il tempo non è un'illusione; è una realtà creata, e che perciò non può condizionare il suo Creatore, che ne è affatto indipendente. Dio vede l'opera sua davanti a sé con la sua durata, come la vede con gli altri suoi caratteri; la vede col suo passato, col suo presente e col suo avvenire, come si vede un oggetto con la sua lunghezza,

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con la sua larghezza e con la sua profondità. Presente, passato e futuro appariscono a lui, se si può usare questo modo di esprimersi, come presente, senza essere per questo qualificati presenti. ,

D. Parlando così, non si fa qualche concessione alle teorie di Einstein, per il quale il tempo è come una quarta dimensione delle cose?

R. Propriamente parlando, no; ma è certo che un fautore della relatività è ben preparato a comprendere quello che io sto spiegando, poiché egli dice con Edding-ton: « Secondo il punto di vista della teoria della relatività, gli avvenimenti non si producono; ma sono al loro posto, e noi li ritroviamo seguendo la nostra linea di universo », oppure con Cunningham: « La storia intera di un sistema di avvenimenti fisici si spiega sotto i nostri occhi come una entità priva di cambiamento ».

D. Ma il compito della Provvidenza non richiede solamente la conoscenza, ma suppone anche che questa conoscenza diventi legge, dunque c'è in Dio una volontà, e una volontà sovrana?

R. Infatti, Dio è volontà, e come la sua scienza comprende tutto, così la sua volontà si estende a tutto, ed è sempre ubbidita, poiché, come tu dici, è la legge, delle cose. Se certe cose, come i nostri atti peccaminosi, sembra che si allontanino dalla volontà di Dio, è senza dubbio perché lo vogliamo noi; ma è anche perché Dio in un certo modo lo vuole, cioè lo permette. La sua volontà che provvisoriamente cede il passo, nel disegno temporale, riforma più avanti, per mezzo del pentimento efficace o del castigo, la sua trama infrangibile, e,

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nell'eternità, non ha cambiato nulla di ciò che, eternamente, Dio ha concepito. ^

D. Dio è dunque onnipotente. Ma questa onnipotenza rassomiglia assai all'arbitrario. •

R. L'onnipotenza di Dio non è per nulla arbitraria; è fedele e giusta; amante e misericordiosa. Dio da a ciascuna creatura quello che le è dovuto, secondo la sua natura e il suo posto nell'insieme; soccorre alle miserie degli esseri, dopo averli sollevati dal nulla, miseria suprema. E li ama; perché nessun altro motivo che l'amore lo può inclinare ad agire, a dare, a reggere, visto che lui stesso non ha bisogno di niente e operando non acquista niente, a tal segno che S. Tommaso dice di lui: « Dio solo è veramente liberale; perché la stessa generosità, negli uomini, è destinata ad arricchire loro stessi della miglior ricchezza ». « C'è più beatitudine nel dare che nel ricevere », disse il Signore Gesù. Ma Dio porta in se stesso la sua felicità.

D. Strutturato in tal modo, se così posso dire, il tuo Dio ha di che essere provvido; ma l'esercizio di questa provvidenza incontra molte difficoltà. Perché, a ben vedere, in questa concezione, tutti gli elementi si trovano fissati, preordinati nello stesso tempo che previsti, e non è più possibile che nessuno sfugga proprio in quanto ciascuno è sottomesso alla Provvidenza, e Dio non può sfuggire a se stesso. R. È proprio quello che noi intendiamo.

D. Ma se tutto è fissato, anticipatamente (si può dire, poiché secondo tè Dio non è nel tempo); se tutto è scritto; se il libro eterno porta i nostri destini e quelli della natura, e se, in questo libro, non è ammessa alcuna

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cancellatura, alcuna benché minima deroga, che cosa diventano la libertà e il caso? a che servono le stesse necessita, come le chiamano, della natura, e come si può spiegare il male?

R. Ci troviamo qui di fronte a problemi difficili, e non saranno eccessive tutte le" nostre riflessioni per recarvi un po' di luce.

D. Parliamo anzitutto delle necessità .naturali. Non sono esse un fatto? Non è forse necessario che vi sia alla tale data un'ecclisse, alla tal altra un passaggio di cometa, alla tal altra un'eruzione vulcanica, una tempesta, un cataclisma o una mutazione e, in conseguenza, miriadi di effetti? Ora, se queste cose son necessario, non si ha bisogno di Dio per reggerle. La vera provvidenza, per questo riguardo, si identifica con le leggi, del mondo. R. Si direbbe un errore impossibile a sradicare il voler vedere un'opposizione tra l'idea di necessità e quella di provvidenza. Eppure, che illusione! Il necessario che non è Dio stesso non deve forse dar ragione della sua necessità? Le conclusioni geometriche sono tutte ne-cessarie; tuttavia si dimostrano; per dimostrarle si risale ad antecedenti, e da antecedenti in antecedenti, se si spingesse la cosa sino a fondo, si risalirebbe fino alla Verità eterna. Così 'le necessità naturali in cui noi ci incontriamo rimandano ad altre, queste altre ad altre ancora, fino a.yna Necessità prima, quella cosciente e necessaria in se stessa, ma libera verso tutto il resto: Dio. Ritorniamo così alla prova di Dio. Riguardo a Dio e alla provvidenza di Dio, le necessità naturali non sono che esecutrici. Così dev'essere poiché esse sono cieche e compiono un'opera intelligente; poiché sono determi-

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nate, ciascuna, a qualche cosa di preciso e compiono un disegno. Alla loro azione nel reale, si deve obbligatoriamente supporre un antecedente ideale, una preconcezione, una prima costituzione dei fatti e dello svolgimento che essi implicano. E inoltre, essendo l'azione di Dio universalmente creatrice, la sua provvidenza, a dispetto degli agenti di esecuzione che essa si da, è in realtà sempre immediata; i risultati devono essere ad essa attribuiti anzitutto. Con ciò, le leggi conservano tutto il loro impero, il necessario rimane quello che è, necessario; ma esso e tale per.via di Dio.

D. Sia pure. Ma vi è il caso, vi è la libertà, e vi è il male.

R. Procediamo con pazienza e con ordine. Prima il caso. Non è nostra intenzione eliminare il caso. Vi sono dei cristiani che vi si credono tenuti per differenziarsi dai pagani, e per onorare Dio; ma è un'illusione. Il caso e un fatto, come la necessità, sulla quale esso si basa. La pioggia cade necessariamente; l'erba germoglia necessariamente; il caso lì non ha impero; ma che una pioggia sovrabbondante faccia marcire l'erba, è un caso, perché nessuna forza naturale tendeva per se stessa a questo risultato. Come vedi, il caso e la necessità sono solidali, e nello stesso modo che la necessità non sostituisce Dio, così neppure il caso lo elimina. Tutti e due sono suoi figli; tutti e due sono suoi servi; con tutti e due egli esplica la sua provvidenza.

D. Ciò pare contraddittorio. Quello che è previsto e predeterminato non potrebbe essere fortuito. R. E se è previsto come fortuito? Se è predeterminato ad essere fortuito?

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D. Ciò, dico, è contraddittorio. R. T'inganni; ma'riconosco che la tua illusione è del tutto naturale. Noi ragioniamo da uomini, pur parlando di Dio. Conveniamo tuttavia che il suo caso non è punto simile al nostro, ed è unico, perché si tratta del Creatore. Essere creatore è porre tutto; tutto, dico, senza eccezione, per conseguenza con tutti i caratteri di questo tutto, necessità e contingenza comprese. Quasi nessuno scorge quest'ultima condizione; ma mettiti la testa fra le mani, e cerca di pensare al Primo Essere. Il Primo Essere è sopra all'essere universale, poiché egli lo crea. Il Primo Essere non è un essere nel senso umano della parola, ma un Super-Essere. Esso dunque non è neppure una causa nel senso umano della parola, ma una Super-Causa, e ne segue che la sua azione non ricongiunge le azioni create, non si compone con esse, non le sostiene ne le contraddice nel loro ordine stesso; queste azioni create restano dunque quello che sono, contingenti, se sono contingenti, necessario se sono necessarie. Eppure Dio le pone, senza di che esse non sarebbero ne contingenti ne necessarie, perché non sarebbero affatto.

D. Un esempio chiarirebbe la cosa. R. Supponiamo che Dio crei tutto a un tratto, davanti a noi, uno stabilimento tessile in cui vi fosse un tessitore seduto davanti al suo telaio e facesse della tela. È Dio che ha creato quell'insieme: egli dunque risponde di tutto, fino ai minimi particolari. Ecco dunque i muri, ecco l'uomo, ecco il telaio,, ecco la tela che si fa, la tela che è fatta: tutto è di Dio, tutto si deve rapportare a Dio. Ma ciò impedisce forse che quest'uomo lavori con tutta tranquillità, subisca certe necessità del suo lavoro,

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e anche certi imprevisti, a cui dovrà mettere ordine, se può? Tutto ciò cammina come se non vi fosse Dio. Forse l'uomo non sa che egli viene da Dio (è il caso degli atei). Forse non ci pensa punto (è ben sovente il caso nostro). Ma se non vi fosse Dio non vi sarebbe niente. È lui che pone tutto. Ma ponendo tutto, non intralcia niente, perché la sua azione non si inserisce nella trama dei fatti, ne vi esplica una parte dello stesso ordine di quello della necessità o del caso. Il suo compito è diverso.

D. In che consiste questo compito? R. Esso è creatore, nel senso che costituisce tutte le differenze che noi osserviamo tra le cose che chiamiamo necessario o fortuite. Egli le costituisce, dunque non le distrugge; e che egli crei del « caso » nell'interno dell'opera sua, ciò parimenti non impedisce al caso di essere caso più di quello che creare del necessario gl'impedisca di esser necessario.

D. Applicheresti questa dottrina alla libertà? R. Sì, assolutamente. Rifacciamoci all'esempio della fabbrica: Dio l'ha creata in tutte le sue parti col tessitore e col suo telaio; essa contiene una libertà all'opera. Il tessitore lavora liberamente, così liberamente come se non vi fosse Dio, dicevo. Tuttavia Dio lo crea in tutti i suoi istanti, in tutti gli stadi del suo pensiero, in tutte le tappe della sua volontà, in tutti i momenti de' suoi atti e in tutti i loro efletti, poiché la creazione è una cosa fuori del tempo, e avvolge il tempo tutto quanto, lo pone tutto quanto, con tutto ciò che esso racchiude. Perché questo toglierebbe qualcosa alla libertà? Ciò,

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all'opposto, costituisce la libertà, fornendole, in grazia di Dio creatore, la sua ragione totale. ^

D. Comprendo male questa totalità. R. L'uomo esiste appunto perché Dio lo crea, è uomo appunto perché Dio lo fa uomo; l'uomo è libero appunto perché Dio lo fa libero; usa della sua libertà appunto perché Dio lo crea in atto di esercitare la sua libertà; si serve della sua libertà in un certo modo, appunto perché Dio lo crea, attualmente, in atto di esercitare la sua libertà in quel certo modo.

D. Ma allora egli non è libero! R. È libero come egli è, poiché per lui, in questo momento, essere e essere libero.

D. E Dio è causa anche di questo? R. Dio è causa di tutto ciò che è. Senza Dio e senza l'azione di Dio, senza la sua azione totale, poiché tutto l'essere gli appartiene, niente di tutto ciò di cui noi qui stiamo parlando sarebbe scritto, ne la libertà, ne il resto. Per lui tutto questo è, e tutto questo è ciò che è, la libertà come il resto. La libertà è dunque libera, anche sotto l'azione di Dio, la quale, del resto, non è veramente un'azione nel senso umano della parola, ma una super-azione, nello stesso modo che Dio è una Super-Causa, essendo un Super-Essere.

D. Il fatto del caso si riconduce a questo? R. L'errore testé rilevato a proposito del caso prende qui questa forma speciale di confondere le condizioni del funzionamento psicologico con la condizione trascendente che l'azione creatrice importa. Psicologica-

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mente, l'uomo è libero proprio come se Dio non esistesse o non agisse; bisogna dirlo incessantemente. L'azione di Dio non è un elemento dell'azione umana, o che si aggiunge a questa azione, o che si compone con essa. Dio non interviene, nel senso in cui intervenire significherebbe che l'influsso di Dio viene a inserirsi nel nostro, e perciò a modificarlo o ad abolirlo. Dio crea, e la creazione non pone nel creato che una relazione di dipendenza. Questa "dipendenza è totale; ma lascia quello che dipende tal quale esso è, libero se è libero, e quindi non incatenato. Insomma, non si tratta che di questo: il creato è creato; non è l'increato; l'essere derivato non è l'Essere primo; il mondo o l'uomo non sono Dio. D. Ti aspetto davanti al male. 6 5 R. Ne parlerò umilmente. Qui il mistero ci avvolge piuJshe mai, ed è anche più che mai angosciante, poiché è un mistero morale, un mistero che mette in causa i nostri destini, e, quello che è anche più grave, e grave anche per noi, la santità di Dio.

D. Il primo male che io oppongo alla Provvidenza e V invisibilità della sua azione. Qui non si può dire, tutto avviene come se non vi fosse Dio.

R. Un cristiano non può non reputare offensive tali parole. Egli ti dirà con Joad: « Avrai dunque sempre occhi per non vedere, popolo ingrato!... ». Tutta la serie dei fatti evangelici, dei fatti biblici, tanti altri fatti che non si possono mettere in dubbio provano sovrabbondantemente le gesta di Dio. Ma questi sono avvenimenti straordinari. Vi ritorneremo sopra. Io dico che nella stessa vita quotidiana, un cristiano non ti ammet-

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lerebbe che la Provvidenza sia invisibile. La Provvidenza è una sapienza, e le vie della sapienza sono spesso oscure; « le opere del Signore sono stupende — dice la Bibbia — e la sua azione tra gli uomini è nascosta ». Dio si mostra in tutte le cose come uno che agisce veramente in tutte le cose,,, e..non vuole essere veduto; si può sempre contestare: è la parte dell'infedele; ma spesso le cose sono tali che non lo si deve fare: è la parte del fedele credente.

D. In realtà, non sei spinto a giudicare così della fiducia?

R. Sì, per motivi di fiducia, e questa fiducia è giustificata in tante maniere che noi non pensiamo a difendercene; ma anche per esperienza, quando l'esperienza è attenta e seguita. Quanti tesori di certezza s'incontrano su questa via, quando si avanza con occhio e cuore aperto! Ogni uomo ha trovato Dio sul suo cammino, per poco che egli abbia posto mente a certi incidenti e coincidenze, a certe affinità prestabilite d'un fatto, d'un concorso di fatti col proprio destino individuale, in cui vengono a inserirsi come dei pezzi di un meccanismo, o come una replica impressionante nel corso d'un dialogo in apparenza indipendente. L'azione della Provvidenza è generalmente di questa specie, e appunto per questo la certezza sperimentale che ne hanno i credenti è incomunicabile agli altri. Ma nemmeno a Dio preme di convincere coloro a cui non preme di essere convinti.

D. Lasciamo questo; è un aspetto trascurabile del problema. Io perdono volentieri a una Provvidenza in-

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visibile; ma non potrei perdonare a una Provvidenza causa del male, onde preferisco dire con Sfendhai, in faccia all'universo e alla vita tali quali mi appariscono:

« La sola scusa di Dio e che egli non esiste ». R. Tu bestemmi con troppa frettolosità, e per di più ti esprimi scorrettamente. Dio non è affatto causa del male, per la semplice ragione che il male, propriamente parlando, non ha causa. Il male non è cosa positiva, è una mancanza, e a questo riguardo, si può sottoscrivere la divertente espressione di Nietzsche: « II diavolo non è che l'oziosità di Dio ».

D. Ma il male si vede.

R. Si vede come l'ombra delle figure sullo schermo del cinematografo. L'ombra disegna tanto quanto la luce; tuttavia non è niente; è l'assenza della luce. Così il male qualifica gli esseri e specialmente le anime, ma non è niente in se stesso; e l'assenza del bene.

D. Tuttavia il dolore...

R, È un funzionamento imperfetto che l'anima nostra

percepisce.

D. Il peccato...

R. È una attività felice sopra un punto, quello che tenta il peccatore, ma che la ragione abbandona. Un vizio non è che una virtù mal collocata.

D. Sottoscrivi realmente quest'ultima formula? R. S. Tommaso d'Aquino, poco amico del paradosso, sottoscrive questo: « II male è un certo bene, come il falso è un certo vero ». Tu intendi che si tratta del male in quanto all'essere. Il male non ha altro essere che l'essere stesso del bene; esso non è affatto in se stesso.

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D. Ammettiamo che il male non è affatto; nondimeno

vi è il male.

R. Vi è il male e io non nego il problema che il male

presenta.

D. Vi è di che invalidare tutte le tue prove di Dio;

perché il Sommo Bene e il male, sono inc.om patibili. R. Negare Dio a cagione del male è un espediente molto strano; perché l'argomento del negatore si rivolge contro di lui. Che cosa si rimprovera alla vita e alla natura? Dei difetti. Ma i difetti che si rilevano così nell'opera della Provvidenza suppongono la Provvidenza. Non si rileverebbero, dei difetti in ciò che non presentasse nessun ordine, e se vi è un ordine, bisogna necessariamente che vi sia un Ordinatore. Si rimprovera forse a un mucchio di sabbia il disordine de' suoi elementi? Si rimprovera il disordine a un cronometro, a_ una macchina utensile, a un organismo vivente, quando si guastano? Ora nello stesso modo si rimproverano alla natura i suoi scarti e i suoi mostri, alla vita le sue sventure e le sue colpe. Ciò avviene dunque perché la natura, e la vita seguono un ordine, hanno una finalità, ubbidiscono a un pensiero. Dunque perché sono rette da una Provvidenza.

D. Una Provvidenza colta in fallo? R. Se la ProvYidenza^Jn_fallQ^.essa_e5Ì5££^.e..se esiste, non è in fallo, siamo noi che non sappiamo vedere abbastanza lontano.

D. -Non senti la potenza di convincimento di questa sentenza.- Vi è il male, dunque Dio non è? R. Le oppongo quest'altra: Vi è il bene, dunque Dio è.

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D. Allora siamo alla pari, e non si sa di più. R. Scusami. Il peso della seconda proposizione supera infinitamente quello della prima; perché anzitutto il bene domina, senza di che il mondo perirebbe, come un organismo affetto da malattia mortale. In secondo luogo, è certo che il bene, qualunque sia la sua dose, non si spiega senza Dio, e non è certo che il male non si spieghi con Dio. Agostino sfugge dicendo: « Dio non permetterebbe il male, se egli non fosse così potente e così buono da farne uscire il bene ».

D. È una scappatoia, lo dici tu stesso. R. È un atto di fede, e l'atto di fede è qui un obbligo logico, tanto quanto il fatto di un cuore consenziente. L'ordine generale del mondo ci sfugge: dunque ci manca ogni base logica per decidere direttamente se si tratti di un mostro piuttosto che di un sublime tenebroso. Ma la necessità di Dio non ci sfugge punto. Se Dio è, egli è perfetto. Se è perfetto, l'opera sua, nella sua totalità, è buona, ed ecco espulso il mostro. In altre parole, il male non c'invita a negare Dio se non quando noi lo giudichiamo senza Dio. Se vi è un Dio onnipotente e buono, il male cambia faccia; può bensì includere ancora un mistero, ma non più uno scandalo; questo disaccordo è si-curissimo di ritrovare il suo ordine, questa dissonanza la sua soluzione. Ora vi è bene ed ordine sufficiente per provare Dio, per poco che il male abbia soluzione possibile, e chi oserebbe dire che esso non ne abbia affatto?

D. Io, forse.

R. Che presunzione! Un giudizio sulla Provvidenza non appartiene che all'eternità. È proprio l'eternità che decide della contesa delle cose. Si possono fare due pit-

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ture del mondo: l'una magnifica e l'altra spaventosa. La sapienza non sta forse nel dire: Quello che io vedo di bene m'insegna a fidarmi del Creatore per il male che non comprendo? Sia per me il mio segreto! dice il Signore in I saia, sia per me il mio segreto! e chi, per punirlo di questo segreto, vorrà accusarlo di falso contro quella espressione della sua gioia creatrice: « Dio vide tutte le cose che aveva fatto, ed erano «grandemente buone »? In fondo, il mistero morale che aleggia sopra il mondo può condurci a Dio così come il mistero fisico. È « la presenza di un Dio che si nasconde », ci direbbe Pascal, e questa evidenza del male nel cuore di un'armonia meravigliosa, non è forse l'indizio d'un calcolo profondo, d'un volere superiore ai nostri motivi riguardanti ciò che è parziale e immediato, di una potenza così alta che ha il potere di trasformare il male e di fare di tutti i nostri lamenti un cantico?

D. Tu ragioni in generale; ma veniamo ai fatti. Vedi la natura: quante deviazioni, quanti regressi, quante stragi, quante vite sacrificate, quanti germi che non maturano!

R. Che cosa obietteresti a chi ti rispondesse: Lo scopo di Dio qui è la germinazione stessa, questa prodigalità di vita, segno della sua infinita ricchezza e della sua onnipotenza?

D. Tu vedi un segno di Dio in questo universo sconvolto?

R. Il segno di Dio non sono gli sconvolgimenti, ma, quella potente aspirazione verso l'essere, quell'eroismo costruttivo che non si arresta mai. La natura sale all'essere; ricomincia senza posa il suo sforzo; rinnova senza

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posa il suo slancio; quando la dicono crudele, è perché non si fa vedere fino a qual punto è innocente. Essa è la stessa innocenza. Si slancia verso la vita, ecco tutto. Gli esseri che essa anima non hanno parzialità; lavorano per la vita contro se stessi così come contro gli altri; basta solo vedere le api, le formiche, le termiti, i castori..., e sovente, gli uomini. Ciò che vuole essere prende la sua materia dove la trova, e a questo effetto distrugge (per costruire); fa soffrire (per crescere ed espandersi); fa morire (per vivere). Ma, in tutto questo, di voluto non vi è che la vita, l'essere, e l'immensa aspirazione a essere. Ecco l'immagine di Dio. « II male —^ dice Paolo Clau-del — è nel mondo come uno schiavo che fa salire l'acqua ». Il male, che in se stesso è una caduta, è non di meno, per la vita dell'universo, un mirabile stimolante;

esso la fa rimbalzare sotto lo sforzo del bene. « Ogni cosa — scrive Enrico Bergson — nel movimento che la sua forma registra, manifesta la generosità infinita d'un principio che si da ». Questo giudizio è più serio che la battuta di Stendhal.

D. Tu dimentichi la sofferenza di tante creature innocenti, che i successi della natura non consoleranno punto. R. Intendi parlare degli animali?

D. Di essi in primo luogo. ^. Confesso di non poter disporre a questo riguardo li una soluzione che mi soddisfi. Ma tu devi confessare he ciò non ci riguarda affatto. La psicologia animale i sfugge; il destino animale ci è sconosciuto. Sarebbe n grave errore credere che la bestia soffra come noi, ?ecialmente che essa reagisca come noi alla sofferenza;

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si può pensare che ad onta di passeggeri dolori, le bestie siano felici. Tuttavia soffrono. Con quale occhio Dio le vede? Quale sistema di compensazioni ha egli concepito per il passero che cade dal tetto quale vittima delle leggi che egli pone? Tali compensazioni sono richieste dalla sorte reale dei viventi inferiori e si trovano nella loro stessa costituzione, nelle reazioni di cui essi sono il soggetto? Ecco quello che non sappiamo.

D. Ma che sarà mai, se, dalla creazione inferiore, noi passiamo all'umanità?

R. Tutto all'opposto! La Provvidenza qui è facile a difendere, e dolce a rivendicare.

D. Siamo a un quadro idillico della vita? R. Niente affatto; io constato all'opposto che il dolore e il peccato vi tengono un posto centrale; ma un centro si sposta fra estremi, tra un cominciamento e una fine. Il cominciamento è felice, ed è la nascita; se anche la fine è felice, tutto sarà bene, e noi potremo pronunziare l'Amen dell'Apocalisse, a lode del Padre supremo.

D. Chi ti dice che la fine sarà felice? R. Ciò dipende da noi; mi riservo di fartelo vedere.

D. Ad ogni modo vi è il cammino. R. Bisogna riconoscere che la Provvidenza è una terribile benef attrice; essa non è sentimentale; non è romantica; nondimeno è una benef attrice. Ameremmo noi che si lasciasse vincere, e noi con lei, da troppa sensibilità? Essa pensa all'opera sua; pensa a noi, e procede con tutta l'energia che ci vuole, simile in ciò a tanti uomini che non raccolgono che le nostre lodi. Quante verghe nelle mani dei genitori! quanti pensi inflitti dal maestro di scuola! quanti veleni nelle vetrine del farmacista!

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Quante pinze e bisturi nella sala del chirurgo! Quanti strumenti di tortura nel laboratorio dell'ortopedico?

D. Che cosa significano questi esempi? R. Per comprendere il chirurgo, il farmacista o l'ortopedico, bisogna sapere il pregio della salute; per accettare il penso e le verghe, bisogna pensare all'educazione; per dire di sì alla Provvidenza, a' suoi rigori e al suo mistero, bisogna ricordare la vita eterna, e in essa, sotto forme che ci sfuggono, intravedere il rovesciamento di tutti,.i,nostri valori di quaggiù.

D. E se non si crede alla vita eterna? R. Allora, oso dire che si ha il diritto di non credere neppure nella Provvidenza; queste due verità sono legate insieme; ma la seconda, essendo certissima, deve servire a confermarci la prima, avanti che il dubbio sulla prima venga a indebolire o a invalidare la seconda. « Le prove che concludono sono qualche cosa di positivo — dice Pascal — e le difficoltà sono semplici negazioni, che provengono dal non vedere tutto ».

D. Come non dubitare davanti alla sventura? R. Noi dimentichiamo che un male non è mai se non la cessazione di un bene. Per il male, noi accusiamo Dio; per il bene, noi ci contentiamo del silenzio, o avanziamo nuove pretese, o ne abusiamo. Crederemmo facilmente alla Provvidenza, se gli avvenimenti favorissero sempre i nostri desideri.

D. Si può ritorcere l'argomento, e dire: Se tu credi così facilmente alla Provvidenza, è certamente perché gli avvenimenti non contraddicono troppo i tuoi desideri. R- Chi sa! Ma supponiamolo pure. Allora dirò che

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questa situazione pacifica è forse la miglior condizione per giudicare il caso. Si ricusa un giudice troppo interessato; si teme che si appassioni e non sia più equo. Parliamoci chiaro: per essere contenti della Provvidenza o solo per crederci, vorremmo che essa fosse per noi come un distributore automatico, in cui non ci fosse da mettere moneta.

D. Io chiederei solo quello che tu chiami una situazione pacifica.

R. Non è forse questo, a dispetto dei nostri lamenti, il caso nostro più frequente? Il caso stesso si estenderebbe molto lontano, se sapessimo contribuirvi con un po' di pazienza. Ascolta il nobile linguaggio del grande Arnauid, che dice a Dio: « I mali di questo mondo spaventano quando si guardano da lontano, ci si adatta quando ci si trova in mezzo, e la tua grazia rende tutto sopportabile ».

D. « Sopportabile », è dunque abbastanza per Dio? R. È abbastanza per questo tempo. Se questo mondo fosse sufficiente, non vi sarebbe ragione perché ve ne fosse un altro. Se la nostra destinazione ha delle tappe, non bisogna domandare alla prima di rappresentare tutto il nostro bene perfetto. Del resto cessiamo di accusare Dio; la sua incarnazione dolorosa ci dice che le sue ragioni di permettere il male sono senza dubbio potenti, e che l'indifferenza non c'entra per nulla, poiché, non giudicando bene eliminare il patire, egli lo condivide;

non credendo di dovere scacciare il -male morale, ne fa la sorgente dei più alti valori, ne' suoi figli coraggiosi. Dio non paventa la sua pena più che la nostra, se così

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posso dire, ne la nostra più che la sua; egli mira allo scopo; i mezzi più atti fissano la sua scelta; le condizioni del compito lo trovano fermo, e quando, ciecamente, la sua materia vivente gli resiste, egli taglia senza paura, in mezzo alle grida di dolore.

D. Tu supponi sempre che il dolore giovi. R. Non è fatto se non per_ouesto,Je dipende da noi, con Dio, che faccia la parte sua, come m un apparecchio fumivoro il fumo si cambia in fuoco. Dio vuole che il dolore provochi in no^ un'aspirazione, non una depressione; un progresso, e non una caduta. Ci ha messi in questo mondo per provarci, formarci: si è provati e ci si forma certamente mediante la gioia, che pure esige una felice padronanza di se stesso; ma la prova nel senso duro della parola è spesso necessaria. Prova, misura delle forze, controllo del buon volere, collaudo di ciò che noi siamo con lo scopo di migliorarci: non è forse questo lo stato normale di un essere che fa il suo tirocinio, qual è il nostro caso quaggiù?

Quanto più studio le persone felici, scrive il Lacor-daire, tanto più sono spaventato della loro incapacità sul piano del divino. Noi siamo fatti per il divino, per l'ascesa dalla materia verso lo spirito, e lo spirito è una fiamma che il sacrifizio della sua cera esalta, e le resistenze della sua cera possono spegnere. Se Dio è spirito e ci ha fatti per lo spirito, che meraviglia se anche la bontà di Dio si trovi nell'ordine dello spirito, e che Dio bruci tutto il resto, quando è necessario per il bene dello spirito?

D. Ci si tratta come dei colpevoli. R- Non abbiamo niente da espiare? « con quale faci-

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lita perdoniamo a noi le nostre colpe — dice Bossuet — quando la fortuna ce le perdona! ». Se la fortuna, questa ancella di Dio, ci usa qualche rigore, non sarà un beneficio? Bisogna espiare per se; bisogna espir e anche per gli altri; Cn_sto, ha espiato per tutti, e tutte le croci del mondo, calvario infinito;_si stringono attorno alla sua;

infatti, come ci dichiara S. Paolo, alla Passione di Cristo manca qualcosa, finché per solidarietà fraterna, in lui, gli uni per gli altri, noi non compiamo il laborioso e sublime riscatto.

D. Bisogna espiare, dici tu; ma ciò è affatto negativo, mentre la vita è accrescimento. Non bisogna forse essere in possesso di tutte le proprie forze, per meritare?

R. Si merita con ogni azione retta; ma il dolore accettato per amore è la più alta occasione di merito e di lavoro che questa vita ci possa presentare. È il lavoro del Calvario. Il pagano, quando soffre, crede che il suo Dio l'abbandoni; il cristiano invece, rico_rdandosi del Calvario, pensa che il suo Dio gli e più vicino, che il suo Dio \o_ trascina: per la mano, per la nuca, per i capelli, che importa? Riconosce il suo divin Maestro dalla sua spieiata dolcezza. Consente perché crede; non prova più violenza, perché ama. Sopra la croce, come Gesù, con Gesù stesso, si sente sulla via del cielo.

D. Questi sentimenti sono frequenti tra voi?

R. Troppo rari purtroppo; ma questo è ben certo che

in essi è il segreto della vera pace e della sola serenità.

D. Il tutto sta nel vederci chiaro. R. In questo dominio quello che si vede abbaglia;

quello che illumina è appunto quello che non si vede.

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D. Tremo nondimeno per la responsabilità del tuo Dio. , , ' ——"----'-

R. Quando avremo soppresso da questo mondo la dose di male di cui siamo noi stessi responsabili, saremo in una condizione migliore per domandare i conti a Dio. Ma allora non ci penseremo più.

D. Ritorniamo alla filosofia generale del caso: vorrei, C", riguardo al male, le tue concezioni in modo sintetico. R. Ecco, liberamente interpretata, la tesi di S. Tom-^^i maso. Il male non è qualche cosa che Dio abbia fatto, e che avrebbe dunque potuto dispensarsi dal fare. Il male è una deficienza; è un'imperfezione di ciò che è. Un uomo dovrebbe camminare diritto; ma la sua gamba è corta: zoppica. Dovrebbe operare bene; ma una passione lo trascina: devia. Che cosa ci vorrebbe per evitare questo doppio male, per evitarlo con certezza?. Bisognerebbe che l'uomo fosse perfetto, tisicamente e moralmente. E bisognerebbe per giunta che non potesse essere sloggiato da questa perfezione ne da assalti esterni, e neppure per sua iniziativa. Si vuole così, senza accorgersene, un universo molto strano, assai diverso da quello che noi sperimentiamo. A costruirlo nella nostra mente, urteremmo costantemente in assurdità, e alla fin fine, se spingessimo sino a fondo il tentativo, ci troveremmo di fronte a un'impossibilità suprema, che è questa: Un universo perfettp_e_nnpossibile.

D. Perché?

R. L'universo si stabilisce discendendo, a partire' da Dio, la scala che noi risaliamo per andare incontro al primo Principio. L'universo si stabilisce per derivazione, per degradazione..a partire dal Sommo Bene, in

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virtù di partecipazioni graduali, ciascuna delle quali esprime Dio a suo modo, ciascuna delle quali è dunque buona, ma necessariamente deficiente; il perfetto non si realizza due volte. Che se ciascuna cosa è imperfetta, l'universo è necessariamente imperfetto. Dunque esso è, in una qualche misura soggetto al male. Potremmo soltanto domandarci che cosa è che ne ha determinato la misura, e se questa misura era tale che il Creatore la accettasse a cuor leggero. Vedremo anche questo. Ad ogni modo, ne segue che il mondo sia cattivo? No. Dalla diversità delle nature e dalla loro imperfezione nascono contrasti che si possono chiamare mali in se stessi, ma che sono nondimeno il prezzo di un bene. Questo bene è l'ordine; è la varietà dei beni singolari, sono le gradazioni, gli scambi; è la vita della natura, ed è la vita umana co' suoi mali senza numero, con le sue colpe, co' suoi difetti, ma anche co' suoi splendori. Sarebbe meglio che tutto questo non fosse in alcun modo? Affinchè la pecora non fosse mangiata dal leone, sarebbe meglio che non ci fossero ne pecore ne leoni, o unicamente pecore, o solo leoni? Ma il bene che rappresenta il leone e il bene che rappresenta la pecora, sono due beni preziosi, e non sono commutabili. Ciascuno è unico, insostituibile dall'altro e da nessun altro. Di modo che sopprimere il male, qui, sarebbe impoverire l'essere, impoverire l'universo. E così si dica per tutto il resto. Vi sono dei ladri; vi sono dei dissoluti; vi sono dei manigoldi. Ma se non vi fossero dei manigoldi, non vi sarebbero parimenti dei generosi martiri. Se non vi fossero dei dissoluti e dei ladri, non vi sarebbe, nell'insieme, ne libertà del male, ne difficoltà del bene, e al-

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lora non vi sarebbe occasione di vittoria, ne possibilità di conquista nell'ordine morale. L'indolenza può indurre a pensare che sarebbe meglio; ma gli eserciti non si organizzano per i codardi, ne le scuole per i gamberi, ne i circoli di cultura per gli sciocchi. La natura è lotta, anche la vita; ma alla fine Dio premia il trionfo, e, tra le creature ragionevoli, vi sarà associato colui che l'avrà seriamente voluto.

D. È una strana alternativa'. Si sarebbe tentati di pensare che Dio e Satana lottino a parità di forze.

R. Il bene ha più forza in bene che il male in male. Il primo ha più valore di quel che conta il secondo. Non vi è forse maggiore utilità, dice S. Tommaso, a far sì che la casa sia salda e salga in alto, di quel che si abbia noia a scavare nella terra le sue fondamenta? Molte cose sono sepolte nell'opera di Dio; ma quest'opera sale. Il male è male; ma che possa esservi del male è un bene. Tutto dipende dal risultato, e chi può dire che esso sia cattivo, che sia inutile? Chi oserebbe dire: Signore, non ne valeva la pena! Il vostro universo ha cagionato troppe rovine; la vostra umanità ha conosciuto troppi orrori; noi non vogliamo sottoscrivere per voi un'opera simile; come l'empio del Salmo, noi preferiamo dire nel nostro cuore: Non vi è Dio!... È meglio, non è vero?, confessare, come Giobbe dopo la riprensione del-. l'Eterno: Ho parlato senza intelligenza delle meraviglie che sono a me superiori e che ignoro; perciò condanno me stesso e mi pento, nella polvere e nella cenere.

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LA RELIGIONE

D. Ammettendo Dio e la Provvidenza di Dio, si è certamente condotti alla religione; ma non si è ancora forzati ad aderirvi. Che cosa veramente intendi tu per religione?

R. Della religione si possono dare definizioni abbastanza varie; io ti propongo questa: la religione è il vincolo che lega la creatura umana alla realtà misteriosa dalla quale sente di dipendere essa e l'ambiente in cui. vive, e dalla quale per conseguenza dipende il suo destino.

D. A che prò questo « vincolo »? R. Questione immensa, tu lo avverti.

D. Chiedo una breve chiarificazione. R. Il visibile non basta alla nostra aspirazione, allo slancio inferiore che ci anima. La potenza di espansione che si spiega in noi cerca qualcos'altro. Sia per la conoscenza, sia per la durata, la potenza, la rettitudine e la gioia del nostro essere, noi proviamo un bisogno di allargamento, di tutela, di pienezza felice che questo mondo non ci fornisce punto. La nostra mente è arrestata dal mistero, la nostra libertà è incatenata da fatalità inesorabili; il nostro desiderio di felicità cozza contro la

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sofferenza, contro umiliazioni, contro incomprensioni, contro separazioni, contro la morte. La vita non ci appartiene e non ci basta. Le nostre relazioni col visibile lasciano disponibile una capacità di apertura superiore che il Dio sconosciuto sollecita e a cui darà soddisfazione. « L'infinito mi tormenta, a mio dispetto », non è una vana parola. Per rispondere a questo soprappiù di attività intcriore che nessun oggetto reale esaurisce, è veramente l'infinito, che in un modo o in un altro deve entrare nella nostra vita. Non si tratta di una forza estranea; bisogna che essa sia intima, poiché la vita in-teriore sarà la sua prima cliente; bisogna ancora che sia trascendente. A questo doppio segno non si riconosce forse la realtà sovrana, quella realtà che è alla base di tutto e del nostro essere stesso, cioè il divino?

D. Credi che si tratti veramente di un fatto universale?

R. Sì, è un fatto universale; l'etnografia e la storia lo attestano. Ed è universale perché è un fatto umano e autentico, non è una superfetazione; non è un sentimento parassitario; non è, etimologicamente, una superstizione; ma è una necessità vitale, richiesta da uno sforzo di adattamento superiore, e, se si può dire, da una esigenza di integralità. Niente è totale, per noi, se si sopprime l'oggetto della religione e la religione stessa. La religione è veramente « un prodotto dell'uomo normale », come dice Renan. Max Muller la chiama « la roccia solida, il granito primordiale e indistruttibile dell'anima umana ». Per Bergson, essa fa parte di ciò che egli chiama dati immediati della coscienza. Per questo Quatrefages ha definito l'uomo « un animale reli-

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gioso »; « un animale che ha una finestra spalancata su Dio », come traduce lepidamente uno dei nostri giovani poeti (giuseppe delteil).

D. Io non posso impedirmi di pensare che, seguendo lo slancio religioso, come dici tu, lo spirito umano fugge per la tangente, e si crea una preoccupazione estranea alla vita.

R. Estranea alla vita inferiore e parziale, sì; estranea alla vita umana integrale, no. Se mi fosse lecito servirmi di un paragone un po' strano, direi: Vi sono animali striscianti, animali ambulanti, animali volanti, e solo l'uomo si schiera in queste tré specie: egli striscia per la sua vita fisica; cammina per la sua ragione; vola per la religione.

D. Vi son di quelli che non provano punto il bisogno di volare.

R. Vi son anche di quelli che non sentono affatto il bisogno di camminare, cioè di essere ragionevoli; vi sono perfino di quelli che rifiutano di strisciare menando la vita fisica, poiché si uccidono. L'uomo nondimeno, per natura, è un vivente e un essere ragionevole. Pari-menti, per natura, è un essere religioso, benché a volte, per lo meno durante lunghi periodi della sua vita, egli non lo senta. « I cuori angusti — scrive Rousseau — non sentono mai il vuoto, perché sono sempre pieni di niente ». Ciò non si verifica meno dei cuori larghi, quando consentono, per impulso di passione o per negligenza, al loro proprio immeschinimento.

D. È dunque possibile che si abbia bisogno di essere

destati a questo sentimento che dici istintivo?

•R. Vi sono infatti degli istinti che dormono, come vi

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sono degli istinti che si corrompono. È la gloria della religione il rispondere, nello stesso tempo che agli inviti degli uomini, ai loro presentimenti ignorati.

D. Mi sembra paradossale dare alla vita un orientamento non proporzionato ad essa.

R. « Quello che mi occupa — scrive Emilio Faguet — è ciò che è secondo la mia misura; quello che mi preoccupa, è ciò che mi oltrepassa. I metafisici — e gli uomini religiosi — sono trattati da folli da qualche 'bello' spirito; ma il 'demente' sarebbe colui che, svegliandosi in treno e non sapendo più donde è partito e non sapendo dove va, contemplasse il suo scompartimento, lo verificasse, lo analizzasse, prendesse delle note, e non si desse pensiero donde ha potuto partire e dove può arrivare ».

D. Vi furono sempre molti dementi di questa specie, e temo che tu esageri l'importanza del fatto religioso. R. Apri una qualsiasi enciclopedia alla parola Santo, e troverai la risposta che cerchi.

D. Ad ogni modo, molti ci vedono oggi un anacronismo.

R. Coloro che chiamano la religione un anacronismo dimostrano col loro atteggiamento che essa è piuttosto ai loro occhi un rimprovero. Di f atto, J^ religione è la preoccupazione ditutti, e più ancora ^dj_^oloro che la negano.

D. Se certuni fanno a meno della religione, è certamente perché non è loro necessaria. R. Necessaria a che?

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D. Per essere felici e buoni.

R. Ma se la religione è vera, è necessaria a tutti per essere nel vero, ed essere nel vero è necessario per essere buoni, necessario per essere felici, come essere sulla buona strada è necessario per essere un buon viaggiatore, e perché si arrivi.

D. Tu rischi di attribuire alla religione ciò che dovrebbe essere attribuito alla morale. R. Una vita morale è indispensabile a tutti, e chi pretendesse di sottrarvisi appellandosi alla religione, più ancora che l'uomo, offenderebbe la religione stessa. Ma la moralità senza la religione non potrebbe bastare ; perché, oltre le deficienze alle quali la religione viene incontro e le cadute ch'essa rialza, è ancora un articolo della legge morale rendere a Dio quello che gli è dovuto, e come Egli lo vuole.

D. Resta però sempre vero che, entro certi limiti, la moralità si dimostra indipendente dalla religione. R. Coloro che se lo immaginano ignorano dunque che le loro idee morali sono idee religiose a mala pena abbozzate; che la loro moralità è venuta alla luce e non sussiste se non in grazia di un ambiente spirituale impregnato di senso cristiano? Colui che parla dell'inutilità della religione per la sua vita morale rassomiglia all'arbusto che, nella foresta umida, credesse inutili la sorgente, le piogge, i fiumi, il lontano oceano.

D. La religione non avrebbe oggi dei succedanei più atti a compiere il suo ufficio, di modo che la parte che essa si attribuisce ancora non sarebbe che usurpata? R. Di quali succedanei parli?

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?< •^•e t /M/vO^-

D. Ho già menzionato la morde, ora penso alla scienza.

R. Abbiamo veduto la scienza jmpoten tè a sostituire Dio come spiegazione delle cose; eppure la spiegazione è la parte sua propria: tanto meno sarà essa in grado di esplicare altre funzioni, che non sono più del suo dominio.

D. Eppure la scienza conta molto per la vita. R. Certo! la scienza è una conoscenza che guida un potere; accerta l'ordine dei fenomeni e se ne vale per l'azione, per utilissime creazioni. Ma il suo valore esplicativo è debole; anzi molti Io mettono in dubbio;

esso è nulla finora riguardo ai fatti più generali, quelli che condizionano e potrebbero giustificare tutti i fenomeni visibili. In quanto all'interpretazione e alla dirczione della vita umana, la scienza è, per natura, radicalmente impotente, o meglio estranea. Che cosa essa offre di efficace contro il dolore, la miseria morale, l'insufficienza vitale, la morte?

D. Come si spiega allora che là dove la scienza avanza, la religione indietreggia?

R. Tu generalizzi indebitamente; questo fatto, là dove si produce, è dovuto a un'ostruzione momentanea, a un'infedeltà orgogliosa. A meno che tu intenda parlare delle false religioni. Infatti è indubitabile che la scienza ha detronizzato il dio-sole, il dio-nube, il Giove che lancia la folgore, il dragone che produce le ecclissi, e tutto ciò che rassomiglia a queste fantasie religiose. Ha eliminato i guaritori per incantesimo, le streghe, gli oracoli; ha contribuito a epurare il sentimento religioso in seno alle popolazioni cristiane stesse, e bisogna esser-

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gliene grati. Ma nulla di tutto questo tocca il fondo delle cose, e il dominio del soprannaturale resta inviolato; la vita è lasciata alle sue insufficienze essenziali; di fronte alle conquiste della scienza, noi sentiamo forse più che mai quel che manca alla scienza e quel che occorre agli uomini ed è qualcosa che supera l'umano. A forza di misurare il visibile, si deve giudicare sempre più come un vuoto spaventoso l'assenza dell'invisibile.

D. Non si vedono tuttavia di quelli che si attaccano alla scienza disperatamente, come all'unica salvezza? R. Costoro non sono generalmente dei sapienti, e sono spesso degli appassionati che cercano un alibi per il loro odio. « Io sospetto fortemente — come scrive Andrea Gide a proposito di Remy Gourmont — che non amino tanto la scienza se non per detestare meglio la religione ».

D. Ma se sono dei geni? R. Allora sono « degli uomini prodigiosi a cui manca

tutto » (RENATO SCHWOB).

D. Cr'edi tu che la scienza e la religione si disputeranno così per lungo tempo la dirczione delle anime? R. È troppo anormale che si sia fatto della scienza una arma dell'uomo contro Dio; un tale stato di cose è transitorio! « Vaneggiare dei propri lumi », come dice Bar-bey d'Aurevilly, è cosa che non può essere che transitoria. Ascolta una bella profezia ottimreta: « Noi siamo in una èra del mondo in cui l'umanità sta per fare un passo. Dopo tré secoli, essa porta innanzi un piede da gigante accanto alla natura, e non sapendo dove posare l'altro, si snerva e si stanca. Il mondo è troppo piccolo per i suoi due piedi, le occorre l'ai di là, come per misurare

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il sole occorre all'astronomo un'altra base diversa dalla Terra. Un giorno, la religione e la scienza che sembrano oggi allontanarsi l'una dall'altra, come i due piedi di un uomo che cammini con la lentezza dei secoli, si ricongiungeranno nella luce. E l'umanità avrà fatto il suo passo » (giuseppe serre).

D. Tra i succedanei religiosi, si potrebbe nominare ^'-MÌ£- ^olì ^at detto tu stesso: l'arte è una religione? R. Lo dicevo per metafora, a cagione dello stretto rapporto di questi due ordini di fatti. Ma come l'arte sostituirebbe la religione, dal momento che ne vive? Per una parte le è identica, perché anch'essa si eleva, da ciò che si vede, a quello che non si vede, poi anch'essa discende alle radici delle cose. Ma bisogna che essa si completi. L'artista non religioso è un artista incompleto. L'artista che rigettasse veramente e radicalmente ogni religione, non avrebbe più nulla da dire.

D. Tuttavia a molti artisti bastò l'arte. R. Certi l'hanno detto; forse l'hanno pensato; ma il loro cuore non lo credeva. Dagnan-Bouveret, pochi anni prima della sua morte mirabilmente cristiana, scriveva:

« La mia povera mente, che non si pasce che di dubbi, trova almeno nella contemplazione della luce e dell'ombra qualche cosa di bello e d'indiscutibile nella sua eternità, che l'attira e l'affascina. E si abbandona a questa certezza evidente per lei, problematica per il cieco, insufficiente per il credente, con tutto il trasporto d'un disperato ».

D. La filosofia^ almeno, potrà bastare a se stessa, poi-che è « sapienza ». R. Essa è « amore della sapienza », come indica il

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suo nome, e appunto per questo, il suo compito è di condurre alla religione, di rischiarare la religione ne' suoi rapporti coi pensieri terrestri, di costruire, in grazia della religione che la prolunga dall'alto, la sintesi suprema del sapere. Ma sostituire la religione non sarebbe possibile alla filosofia se non a patto che essa disponesse del suo proprio oggetto, invece di conoscerlo soltanto — se essa lo conoscesse con una cognizione sicura, invece di cedere a tutte le mode dottrinali — se lo conoscesse con una cognizione viva, invece di costituirsi in un sistema di astrazioni, e se avesse il potere di diffondere questa conoscenza in tutti gli uomini, invece di confinarsi nei limiti d'una scuola o anche di un cervello. La filosofia è un mandarinato; la filosofia vede lacerare le sue membra che le sètte si dividono; la filosofia vive di nozioni astratte, quasi ignara dell'azione, estranea all'immaginazione e ài cuore degli uomini, impotente a sostenere la vita senza disporre di nessuna promessa eterna, non fosse che per quella parte di eternità che il tempo importa. La religione vuole essere un vincolo effettivo tra l'uomo e Dio; la filosofia non offre in fatto di vincolo altro che il tenue filo della logica dimostrativa, vero filo della Vergine, che svolazza in aria e non porta niente. Che cosa è una scuola filosofica di fronte alla Chiesa universale? e che cosa è l'insegnamento d'una filosofia umana di fronte a questo: Dio è nostro Padre;

egli c'invita, in seno alla sua Trinità, a un'intimità domestica; lui stesso ha visitato la nostra terra e misteriosamente l'abita ancora; egli ci unisce in una società della quale è l'invisibile capo, della quale il suo Spirito e l'anima, e, dopo questo tempo di prova durante il quale ci consola, ci promette una vita perfetta, la rein-

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tegrazione del nostro corpo, una perpetua e comune felicità?

D. Non è questa una filosofia? R. È una filosofia, e la più grandiosa. « II cristianesimo è la prima religione che sia stata, nello stesso tempo, una filosofia » (pietro las serre). Ma tale è nello stesso tempo. Il cristianesimo è ancora un'altra cosa, esso è una fede.

D. Vi sono delle grandi filosofie fuori della fede. R. Le filosofie senza fede sono come vecchie case sopra un promontorio di sabbia; scintillano al sole, ma l'interno è povera cosa, e di fuori il mare le corrode.

D. Non dicono dunque mai il vero, o il vero che dicono non avrebbe alcun valore?

R. Dicono spesso il vero, ed esse stesse sarebbero vere, se accettassero il loro proprio compimento nella verità totale. Ma oltre ai loro errori, credendo di bastare a se stesse, si annichilano; perché chi rigetta il tutto non può conservare la parte, e « chi ritira il Verbo, distrugge la parola » (paolo claudel). « Ogni filosofia — scrive Lachelier — è astratta e formale, semplice aspirazione o folle esigenza del pensiero, se non finisce in religione ».

D. Perché la filosofia non è fatta per tutti? R. Proprio come il calcolo integrale.

D. Perché non fa capo a qualche cosa di fisso e di sicuro?

R. Perché lo spirito umano è debole, orgoglioso, appassionato, e quello che è sicuro, in queste condizioni, è l'insicurezza; quello che è fisso, è la disputa. Le divi-

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sioni della mente e i suoi traviamenti hanno le medesime cause che le nostre liti domestiche o sociali, e sono i nostri vizi.

D. Ma tutto questo non agisce punto nel mondo religioso?

R. Agisce dovunque; anche i teologi non sono meno divisi, nel loro campo, che i filosofi nel proprio. Ma la religione ha modo di limitare questo male umano con mezzi divini; essa può mantenere l'essenziale e pervenire al cuore dell'unità umana. Gli errori teologici girano attorno al dogma, il quale rimane, mentre l'errore filosofico, periodicamente, altera o spazza via tutto. Perciò la filosofia disserta senza concludere, là dove la religione afferma; la filosofia ricomincia, mentre la religione conserva e applica. Ma al di sopra di tutto, la religione è universalmente umana, popolare nel senso più alto, nello stesso tempo che sublime. Il suo Dio non è un interlocutore di geni, ma un Padre; ai geni si rivolge come agli altri, ma inoltre egli « annunzia il Vangelo ai piccoli »; ecco il suo segno; egli conta con quelli che non contano punto.

D. Ti stai battendo per le religioni positive, e specialmente per la tua; ma vi è una religione natw.ale, e questa potrebbe bastare.

R. Quello che si chiama religione naturale non è che una filosofia, vagamente tinta di una religiosità presa ad imprestito dal cristianesimo. Da un punto di vista rigorosamente religioso, essa fu chiamata « un corridoio aperto sopra il nulla » (alberto de mun).

D. Quello che è naturale può forse essere un nulla? R- La religione naturale è così poco nella natura che

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noti è mai esistita. Fu scritto un libro o due con questo titolo; ma un libro non è un fatto. In nessun secolo, in nessun paese, si è prodotto un fatto collettivo che meriti l'appellativo che si usurpa.

D. E se si producesse?

R. Avrebbe necessariamente i seguenti caratteri. La religione naturale è una pura filosofia, di conseguenza sarà accessibile solo ai privilegiati, mentre tutta l'umanità, anche quella più umile, ne ha bisogno per vivere. È una dottrina astratta, tutta idee, mentre vi sono i fatti concreti di cui si deve tener conto: vi sono le particolarità del nostro essere, le difficoltà della nostra vita, gli imprevisti lungo il nostro cammino; vi è il male in noi e intorno a noi; poi gli smarrimenti del nostro pensiero, e le debolezze della nostra volontà, gli eccitamenti dei nostri sensi, e i pericoli come pure le felici possibilità della vita collettiva. Che cosa ci propone la religione naturale di fronte a tutto questo? con quale autorità? e per quali fini superiori che essa possa garantire? È un programma seducente in apparenza; è un manuale per un allievo maestro dei tempi andati; ma non un Credo o un formulario d'azione proprio di un'istituzione viva;

non è una religione.

D. Ricusi perfino di concepire uno sviluppo della vita naturale fuori del soprannaturale religioso? R. Una natura fatta per l'infinito e che si chiude all'infinito non può che rattrappirsi per poi corrompersi.' Essa è capace di qualche bene, ma non del bene.

D. Ecco qual'è a mio giudizio la religione che tutti

potrebbero ammettere: una religione puramenfe,^;,ffj,ri-

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tuale, cioè consistente in uno spirito, in_ un orientamento superiore del quale.'J&X££o fosse il grande J'nae-sfro, di cui il Vangelo fosse,il libro per eccellenza; che guidasse la.. nostra vita, ma senza rinchiuderc^Jm^ un dogma strettoie rigido, sotto un'autorita dispotica, e sema costrìngerci a riti fastidiosi.

R. Questa supposta religione dello spirito è la religione del vago, la religione di coloro che non ne hanno punto e non ne vogliono avere, ma che una volta ne avevano una e ne conservano il ricordo nostalgico. Essi credono al vero, al bello e al buono senza definire ne l'uno-ne l'altro, senza garantire ne facilitare il loro regno, senza unirci nel loro culto e nella loro pratica, senza mostrare la mèta a cui ci faranno pervenire, insomma, senza effettuare niente di ciò che è l'oggetto d'una religione, ne dare la minima risposta alle questioni che una religione propone. Sotto pretesto di « spirito », si abbandonano così gli uomini a un completo denudamento spirituale, e senza speranza.

D. Una religione siffatta ha tuttavia degli adepti. R. Ho detto il perché. Essa è predicata da ex-cattolici romani diventati già protestanti ortodossi, diventati più recentemente protestanti liberali o razionalisti;

è predicata anche da quei cattolici che direttamente o indirettamente sono stati vittime del modernismo. È il « profumo del vaso vuoto » di cui parlava Renan. Ma l'umanità non può vivere di profumo, ne di vuoto;

specialmente gli umili, i semplici, che ne sono la gran parte, sono del tutto estranei ad un dilettantismo del genere.

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D. I dilettanti di cui parli si orientano almeno verso l'avvenire, tu invece verso il passato. R. Noi ci orientiamo verso l'eternità. L'idea che solo l'avvenire offre una speranza è un pregiudizio evoluzionista senz'alcun fondamento. L'evoluzione non può toccare nel loro fondo che le realtà inferiori; quanto più si sale, tanto più si arriva a ciò che è immutabile e permanente, ed è naturalmente il caso della vita religiosa, rapporto essenziale dell'uomo, se così posso dire, con Colui che non muta.

D. Un ultimo succedaneo della religione non si potrebbe trovare nella politica^ nel senso più largo della parola? Hai sottolineato l'aspetto sociale delle religioni:

non sarebbero esse, a questo tìtolo, delle anticipazioni, e la laicità associata a un umanismo superiore, non sarebbe forse la verità definitiva? R. Il giorno che mi sarà additata una società che funzioni fuori dell'influsso diretto o indiretto d'un principio religioso, io crederò al « laicismo » in quanto principio sociale. Ma fin qui gli onori della vita pubblica furono riservati alle religioni e alle loro derivazioni più o meno fedeli. Non vi fu mai società laica sotto il ciclo.

D. In arancia, dopo la separazione delle Chiese e dello Stato la società è forse perfettamente laica? R. Non ti fermare ai testi legislativi, ai discorsi, ai programmi; noi parliamo di vita sociale, e la vita sociale è tutt'altra cosa che questo.

D. Che cosa è dunque la nostra società detta « laica »? R. È una società cristiana che della fede ha rigettato tutto .ciò che le tornava comodo perdere., e che Jie con-

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serva, dopo avergli toltoPetichet.ta^tu.HQ.,dò. che le.tornava comodo conservare.

D. E che sarebbe una società veramente laica? R. Il nulla organizzato.

D. La religione dunque, secondo té, e necessaria atta civiltà?

R. Come una madre è necessaria a sua figlia, come un'anima è necessaria al suo corpo. La religione è l'anima delle civiltà; ne è l'origine. Si possono costruire delle ipotesi; ma i fatti sono più sicuri. Ora, concretamente, le civiltà e le religioni si presentano nella storia come un unico fenomeno sociale. Le civiltà antiche procedono dagli dèi e dal loro culto; la civiltà moderna, che sola merita veramente questo titolo, lo merita a cagione del cristianesimo, dal quale è interamente permeata. Quando la laicità avrà prodotto qualche cosa di indipendente che sia veramente e unicamente suo, le cui origini religiose non siano evidenti per tutti, si potrà paragonare il suo valore di civiltà a quello del cristianesimo. Per il momento, non è il caso di parlarne.

D. Allora devi temere, per la civiltà, il movimento « laico » da cui siamo travolti.

R. La notte che si estenderà sopra la nostra civiltà, se la Chiesa se ne ritira, sarà più nera di quella da cui la Chiesa la trasse un tempo. La civiltà e la morale sono un prestito fatto al mondo moderno dal cristianesimo. Tu puoi sostituire ciò che non dipende da tè, puoi quindi ignorarlo e dissiparlo senza rischio. Ma ciò che hai da altri e che altri ti mantiene per un influsso segreto, lo perdi per l'ingratitudine, nello stesso tempo che l'amicizia più preziosa che tè lo assicura. « Non cercare il

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regno di Dio, e il resto ti sarà ritirato per soprappiù » (agostino cochin).

D. E una sentenza dura! Ma ne fai una profezia? R. Credo all'avvenire, perché credo in Dio e nell'uomo, perche vedo all'opera immense forze del bene. Si ha un bei fare, ma la nostra civiltà è ancora adagiata ai piedi della croce come una leonessa impaziente o distratta. Se tuttavia il movimento « laico » avesse il sopravvento, e se gli uomini di domani non sapessero riprendersi e fermarsi a tempo sopra la china, la stessa violenza dei fatti materiali ci ricondurrebbe alla riscoperta del mondo dello spirito.

D. Sarebbe ancora la salvezza. R. La verità può vincere l'errore dandogli vinta la causa, come un politico avveduto si vale del partito avverso lasciandogli momentaneamente il potere.

D. Da chi dipende l'avvenire che tu vagheggi?

R. L'avvenire è nelle mani delle giovinezze nuove.

L'avvenire è nelle mani di Dio.

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IL CRISTIANESIMO CATTOLICO

a) La sola vera religione ,'. c^f/u^iio ^^ ->, .^{^0^, ^

D. "Partendo dal sentimento religioso in generale, mi hai trascinato nel campo delle religioni positive, e poco anzi mi parlavi della vera religione. Perché una sola dovrebbe essere la vera religione? R. Perché non ogni affermazione è verità; perché ogni particella di verità non è la verità; perché la vita è una e la legge della vita deve dunque altresì essere una, al fine di condurci senza esitazioni e senza deviazioni all'unica mèta che Dio ci assegna.

D. E naturalmente, la vera religione, per tè, è il cristianesimo.

R. Io sono del parere di Augusto Thierry: « In fatto di religione, non^sdJLche il cristianesimo ch^-conti ». E comprendo Littré, che assai prima della sua conversione, diceva: « Se io fossi sicuro che c'è un Dio personale, mi farei immediatamente cristiano ».

D. Se tu fossi indù, diresti altrettanto del buddismo o

del bramanismo.

R. Che cosa potrebbe ciò veramente dimostrare? che

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O ./^/

n.

la mia mente è debole; che essa soccombe all'eredità;

che giudica da argomenti insufficienti e in condizioni sfavorevoli alla ricerca: ad ogni modo, la verità non avrebbe nulla a fare con ciò. Non è possibile fondarsi sopra questa ipotesi per uguagliare le religioni l'una all'altra o per mandarle tutte a catafascio.

D. T'alarci sono tentato di preferire il paganesimo classico, che sotto certi aspetti è così superiore. R. Per la sua superiorità e per il suo contrario, tra il paganesimo e il cristianesimo, vi è il medesimo rapporto che tra Plafone e Pascal, tra una portatrice di fiori alle feste Panatenee e una suora di S. Vincenzo de' Paoli. Io compiango colui che non vede quanto sia superiore l'umile 'cappellona', e come una qualsiasi frase dei Pensieri dissipi e sopravvanzi i sogni sublimi di Plafone.

D. Almeno ammetti che vi sono. verità, nelle .diverse religioni.

R. Dio è un seminatore generoso; egli getta a profusione la semente perché un filo d'erba cresca nel suo campo.

D. Che cosa intendi con questa metafora? R. Che il senso del divino, che crea le religioni istintive, è un fatto provvidenziale, essendo un fatto naturale. Ora in un fatto provvidenziale, in un fatto naturale, una parte di verità deve necessariamente esservi. Inventate dall'uomo, le religioni « false » si studiano di rispondere come possono ai bisogni che le hanno suscitate e che sono bisogni d'uomini. Nell'uomo, esse si ritrovano e, perché il loro scopo è lo stesso, si ricongiungono anche alla religione che Dio ci propone.

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D. Sarebbe questo il segreto di quelle rassomigliamo che tanti critici vi rincacciano?

R. Ma è proprio incomprensibile che in questo fatto, trovino motivo di attacco. Una pretesa religione rivelata che, in molte cose, non incontrasse le religioni figlie degli uomini, non sarebbe la religione dell'uomo e non potrebbe esser rivelata.

D. Ma se vi sono verità ovunque, perché noti prendere da tutte le religioni quel che vi è di buono, invece di rinchiudersi in una sola?

R. Appunto rinchiudendosi in una sola si avrà, quanto all'essenziale, quello che vi è di buono in tutte le altre, e in quanto all'accessorio, nulla impedisce di prenderlo.

D. No» capisco.

R. Ricorda il mio paragone. Se il campo del Signore sovrabbonda, ciò che si trova fuori, in fatto di buon grano, tanto più deve trovarsi dentro; ma si potranno trovare fuori, senza che si trovino dentro, fiori, piante utili, minerali preziosi, o qualsiasi cosa di cui ci si può appropriare. Il cristianesimo se ne è valso largamente;

a volte glielo si rimprovera, per tentar di concludere che è opera umana. Ma esso non ha preso di lì il suo germe, che viene dalla croce, e attraverso la croce, dal cielo. Questo germe appunto contiene, oltre a un capitale trascendente, tutto l'essenziale dei valori estranei. E come non lo conterrebbe, essendo germe di vita, germe d'uomo, germe emanato da Colui che crea l'uomo e lo conosce certo tanto quanto l'uomo stesso? Tuttavia, con la mediazione della natura delle cose, Dio interviene pure in un certo modo nell'origine delle religioni inferiori e vi lascia la sua traccia, ed è cosa ovvia che in

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queste religioni il cristianesimo vada ad attingere, cKe Dio lo permetta, che Dio lo consigli, in forza di queste parole evangeliche: «Chi non è contro di voi è per voi », e conforme a quelle dell'Apostolo: « Tutte le cose vi appartengono ».

D. Se così accade del divino nelle religioni'' istj.nt.iv'e, come -puoi dirle « false »?

R. Sono religioni false perche sono. ^imperfette e si pretendono perfette; perché si dicono venute in linea retta da Dio e non vengono che dall'uomo; perché credono così d'impegnare Dio e non impegnano che l'uomo. La religione cristiana è vera per le ragioni contrarie:

essa impegna Dio, perché viene da Dio direttamente per mezzo della rivelazione, e di conseguenza è perfetta.

D. Questa perfezione, dici, importa che la sola^reli-gtQ.ne.,cristiaw.£,,£attolica contenga ui..s&l.valor,i.,di..t.utte le altre: potresti dimostrarlo con qualche fatto?

R. Ecco in breve le ragioni giustificative. Quello che vi è di buono nel giudaismo è la nozione del vero Dio e il messianismo, è la filosofia corretta di Dio e una storia corretta del suo governo: ora noi abbiamo l'unità di Dio arricchita della Trinità; noi presentiamo degli annali di Dio che conglobano il giudaismo e lo prolungano;

perché il Messia è per noi un fatto, anziché una promessa. — Quello che vi è di buono nel paganesimo è l'apparato esteriore, la poesia dei riti, il culto dei grandi esseri, il culto del focolare domestico: noi abbiamo, senza il politeismo, una liturgia splendida, una pietà affatto speciale per la famiglia e il culto degli antenati religiosi, cioè dei Santi. — Quello che vi è di buono nel buddismo, è il misticismo, la grandezza delle concezioni

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cosmiche, il distacco, la carità: noi abbiamo, e ampiamente, tutte queste cose; le abbiamo potenziate; le abbiamo precisate, purificate, ed evitiamo, insieme al panteismo, l'annichilimento della vita. — Quello che vi è di buono nel maomettgnesimo è un vivo sentimento del Dio unico e del suo governo universale: noi crediamo in un Dio intimo e provvido, senza il fatalismo, al quale Maometto soccombe; senza il sensualismo e il materialismo dell'ai di là! — Quello che vi è di buono in Zoroa-stro o Monete è l'opposizione del bene e del male, spinto però fino all'eccesso blasfemo, poiché esso divide il Principio supremo: ripudiando quest'eccesso, noi conserviamo il sentimento che vi ci inclinerebbe; proclamiamo il lato tragico dell'esistenza, la lotta di Dio e di Satana, il cielo e l'inferno. — Quello che vi è di buono nel protestantesimo è la fede nel Vangelo e il libero esame de' suoi titoli, è l'interpretazione spirituale dei rti in opposizione a pratiche puramente esteriori: ora anche lì noi non eliminiamo se non l'eccesso, che, per il libero esame assoluto, produce lo sfaldamento delle credenze, e per eccesso di spiritualità, l'aridità del rito, la dimenticanza che l'uomo è composto di anima e corpo.

Nello stesso modo si può dimostrare che il cattoli-cismo ha di tutte le filosofie tutto ciò che esse hanno di buono, non eliminando che i loro vizi, le loro esagerazioni in un senso o nell'altro, le loro insufficienze, i loro errori.

D. Una religione così fatta non rischia di essere una dottrina mediacre, nella quale si trova indebolito tutto ciò che essa vuole conciliare? R- Proprio il contrario, perché la fede cattolica ottiene

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6e^ '. (\

la conciliazione d'ogni cosa appunto spingendo, in qualche modo, ogni cosa all'estremo. Le cose di questo mondo — e dell'altro — sono fatte per vivere insieme;

non si oppongono affatto; non diventano inconciliabili se non in vedute parziali e partigiane. Per esempio, un materialismo integrale è sicuro d'incontrare 'lo spirito, che si rivela nella materia, e uno spiritualismo integrale incontra la materia, che è condizione dello spirito. — Un panteismo integrale raggiunge il Dio trascendente, il quale solo può essere immanente senza cessare di essere lui stesso, e un deismo corretto raggiunge l'immanenza, senza la quale Dio non è più Colui nel quale noi viviamo, ci moviamo e siamo. — Un razionalista conseguente deve ammettere la fede, se essa ne fornisce le prove, e un credente conseguente rende alla ragione i diritti, che le tolgono invece il fideismo o il tradizionalismo. — II fatalismo crede di dare tutto all'azione divina, e il naturalismo tutto alla natura e all'uomo; ma dando anche di più a Dio, non si è più fatalisti, perché gli si da modo di fondare la libertà mediante la sua stessa azione, come abbiamo potuto vedere, e se si spinge il naturalismo a fondo, si riconosce alla base della natura un'idea divina, un sigillo divino, uno slancio divino, e la stessa cosa nell'uomo, fosse pure nella sua libertà.

Così è di tutto il resto. Il parziale solo è inconciliabile con questo o con quello, come il solo insociabile è l'egoista. Le anime umane in ciò che hanno di più individuale, se eliminano i loro difetti — e questo è appunto un ritrovare se stesse — hanno sempre una formula di accordo. Così i fatti; così le cose; così le dottrine; così i sentimenti religiosi.

V) Schizzo di un'apologià interna

D. Questo carattere integrale e organico della tua religione è senza dubbio da tè considerato come una seria presunzione in suo favore, cioè in favore di quella origine divina che tu le attribuisci.

R. Una tale presunzione, appunto, a' miei occhi è una prova formale, in due modalità: 1° il cristianesimo cattolico è divino perché presenta una coerenza meravigliosa di tutti i suoi elementi tra loro, coerenza umanamente inesplicabile, e 2°, il cristianesimo cattolico è divino perché offre, in tutte le sue parti, una capacità di adattamento alla natura e ai fatti, una capacità di reggere la natura e i fatti umanamente inesplicabili.

D. Si riducono a questo le tue prove?

R. Ce ne sono altre in gran quantità; ma in mancanza

di altro, io stimo che queste potrebbero e dovrebbero

convincere.

D. In che consiste la loro forza di convinzione? R. Secondo Fiatone, il carattere delle idee vere è di congiungersi tra loro, e, per le stesse ragioni, il carattere delle idee vere in materia pratica è di adattarsi esattamente a ciò che esse devono reggere. Se dunque l'enun-ziato della rivelazione, che contiene una così grande somma di nozioni d'ogni specie, e va incontro a una massa anche più grande di fatti esteriori, si mostra a un tempo di una impeccabile unità sintetica e di una perfetta concordanza con tutto l'insieme dei fatti umani, io dico che questo è un segno di verità manifesta.

D. Questa perfetta convenienza, interna ed esterna, supposto che esista, non è forse semplicemente il se-

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gno di una notevole sapienza organizzatrice puramente

umana?

R. La tua obiezione è naturale; tuttavia tu stesso sarai

meravigliato di vedere quanto poco valore essa abbia.

Vaglia accuratamente quanto segue.

D. Ascolto.

R. In nessuna parte, dell'universo religioso, si vede all'opera la sapienza organizzatrice « notevole, ma affatto umana » che tu supponi. Nessuno ha concepito i ,,dogmi a titolo d'insieme; nessuno li ha proposti in blocco organicamente, come Sieyès la sua costituzione o Bonaparte il Codice. Il Credo non è un sistema di idee a priori che si sarebbe cercato di rendere coerente e ragionevole prima di consegnarlo ai fedeli, e che si sarebbe poi accuratamente conservato. Le nostre credenze ne sono agli antipodi, esse poggiano su fatti, e su fatti che si distribuiscono su migliala di anni, nei domini! più disparati, comparendo, si crederebbe, a piacimento del caso, isolatamente, senza vincoli tra loro, salvo quell'inesplicabile finalità la quale fa sì che si trovino da per tutto dove è necessario, a guisa di quegli eroi da romanzo, che dispersi a causa di rapimenti, guerre o tempeste, si ritrovano in vista d'un matrimonio.

D. Che cosa intendi perJrff/L-cristiani?,, R. Intendo, non solo avvenimenti, ma anche parole, dichiarazioni di princìpi, enunziati di dottrine, precetti o suggerimenti pratici. E questi fatti, dico, appartengono a tutti i mondi, al mondo giudaico, al mondo evangelico e all'èra cristiana tutta quanta; sono fatti grandiosi, come la risurrezione di Cristo o il Discorso della Montagna, e umilissimi fatti, come quelli che avven-

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gono tra le nostre pareti domestichc o nel nostri cuori, fatti che riguardano tutte le razze e tutte le latitudini come pure tutti i tempi, e hanno il dovere di armonizzarsi. Questi fatti impegnano Dio, la natura e l'uomo;

la morale, la storia, l'etnografia, la geografia umana e fisica, la linguistica, l'archeologia, la psicologia vi sono strettamente implicate. In questo gruppo incalcolabile di fatti, ce n'è una folla di arbitrar!, di liberi e per conseguenza d'imprevedibili prima dell'avvenimento, ed anche questi saranno tenuti a concordare. Supponiamo che nel corso di tanti secoli di applicazione dell'ordine della grazia, per esempio, l'idea della grazia si fosse modificata nelle teste come al tempo dei Pelagiani, o la nozione della penitenza si fosse modificata come sotto S. Clemente, o la dottrina cristologica, come sotto Ario ed Eutiche, senza che una ferma autorità pensasse a interporsi per ristabilire la dottrina: da quale immenso perturbamento interno il dogma non sarebbe stato assalito! La religione oggi non sarebbe più la stessa; non sarebbe più atta a vivere; non si reggerebbe più; quello che sarebbe allora la sua incoerenza, lo possono misurare solo quelli che hanno seguito con uno sguardo chiaro gli avanzamenti del pensiero cattolico. Supponi che un giorno un Papa, per errore o per passione, per pressione d'un partito o per capriccio, sotto l'influsso di un genio, di un principe, o di una scuola particolare, si lasci andare a definire un dogma senza vincolo di necessità o di convenienza con gli altri: ecco la nostra unità dogmatica spezzata per sempre.

Cito questi tré casi tra centomila appartenenti alla dimensione temporale; se ne potrebbe citare altresì un gran numero a proposito delle razze, degli ambienti,

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delle circostanze, delle idee, delle persone. Qui le diflì-coltà possono sorgere da tutte le parti. Ebbene, si è evitato tutto; si sono vinte tutte le antinomie e si è passati tra tutte le insidie senza ricorrere ad alcun sistema di precauzioni, che del resto erano per lo più impossibili a prendere ed anche a conoscere. Tutto è stato inquadrato; ogni fatto nuovo risponde come a un appello, ogni dogma particolare corrobora l'insieme e vi si aggiunge per mille legami. E il tutto si adatta all'umanità individuale e sociale, a' suoi caratteri, a' suoi bisogni, alle sue evoluzioni, alla sua coscienza morale soprattutto e al suo senso religioso, con una evidenza di rigore tanto maggiore quanto più profondamente si studia e la nostra umanità da una parte e il dogma dall'altra. Infatti, come osserva Pascal, « la religione non fa che conoscere a fondo ciò che si riconosce tanto più quanto si hanno maggiori lumi ».

D. La fede, in tutto questo, non trova quanto cerca? R. Trova quanto cerca e meglio ancora, sembra, quanto non cerca. Essa è una relazione universale. La sua profondità nativa la fa coincidere dovunque con la esperienza. Essa non è sorpresa da niente, in bene o in male. Non è stata inventata, e sarebbe stato necessario inventarla perché la vita si spiegasse, perché la vita avesse i suoi soccorsi innumerevoli; perché avesse soddisfazione ne' suoi istinti d'integrità, di giustizia, di socialità, d'ideale; perché non mancasse punto di consolazioni e di speranze; perché potesse essere preparata agli sconcerti che la sorprendono, alle inquietudini che la turbano, e, in mancanza del resto, al suo vuoto. Ma ciò che non ha inventato l'uomo, esiste per un miracolo

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permanente che è forza constatare. Un filosofo poco credente, liberissimo di spirito, Novalis, scrisse: « Si potrà studiare il cristianesimo ancora per l'eternità: esso apparirà sempre più in alto, più molteplice e più magnifico ». Il più grande miracolo di Gesù Cristo non è di aver risuscitato dei morti, ma di aver rigenerato a fondo la vita e la coscienza dell'uomo; non è d'avere compiute le profezie giudaiche, ma d'aver realizzato quelle del nostro cuore.

D. Tu presti così al cristianesimo una specie di necessità ideale.

R. Non è una necessità, ma una straordinaria convenienza che permette di dire: il cristianesimo era in noi in qualche maniera, prima di essere in se stesso; vi era come una chiamata: Gesù Cristo ha portato come una risposta. E non c'è da dire, questa risposta è perfetta; è «un getto su natura» (agostino cochin). Nell'immensa estensione della vita e delle verità naturali che la esprimono, vi possono essere dei punti di attrito provenienti anche dalle inevitabili imperfezioni di un sistema che congloba i difetti umani; ma è impossibile rilevare una contraddizione. C'è lì un mistero.

D. Non è forse misteriosa ogni nascita? R. Tant'è che ogni nascita dimostra una causa proporzionata a ciò che nasce, e questo vale in favore del cristianesimo come per la nascita di un uomo. Chi dunque, in seno alla madre, ha distribuito alle membra, agli organi, ai tessuti, alle cellule innumerevoli del corpo che ella ha generato gli elementi della sua propria nutrizione, in modo che questo corpo viva, sia un corpo, e il

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tipo così realizzato risponda a una idea, direttrice, a un pensiero eterno? Forse che qualcuno ha disposto gli atomi con la mano? Parimenti nessun uomo o gruppo d'uomini ha organizzato industriosamente e adattato il nostro dogma. Esso è apparso allo stato frammentario, senza piano umanamente preconcetto; l'anima sua, simile all'idea direttrice dell'embrione umano, non è di questo mondo. E allora di qual mondo è?

D. Il sistema cattolico ha qualche titolo a così alte meraviglie?

R. Il sistema cattolico, nel suo insieme, è l'organizzazione dell'infinito. Ecco un'impresa assai pericolosa per l'uomo! Vi si devono necessariamente introdurre cose che ci stupiscono, cose incredibili in se stesse, assurde, si oserebbe dire, se si prendessero a parte, come la presenza reale di un corpo organico, in un'apparenza di pane, come la Risurrezione, quel Riforno dalle ceneri dell'altro mondo. Chi ardirebbe inventare tutto questo? chi potrebbe poi sperare di metterlo d'accordo, e di mettere d'accordo noi con esso, e ottenere in suo favore la compiacenza infinita del tempo e degli uomini? Ad ogni svolta si può produrre uno squarcio mortale, un fatto che ricalcitra, un agente di esecuzione che fallisce, una dottrina che trionfa e può rivelarsi caduca, uno scioglimento profondo come quelli dei ghiacci che l'inverno aveva ammucchiato e che il sole di primavera disgrega. Nessuno interviene per impedire qualche cosa;

una turba di gente è lì per compromettere tutto e tutto cammina a perfezione; il sistema funziona, grazie a una potenza immanente che la Chiesa rappresenta, ma che essa nonJ:pnosce.

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D. La Chiesa cattolica può forse ignorare il suo proprio funzionamento?

R. Lo ignora nella sua sintesi completa, nella sua legge misteriosa, che è una grazia di vita, non di conoscenza chiara. Gli uomini organizzano con perspicacia delle sintesi ristrette; Dio organizza con chiara visione la totalità delle cose; la Chiesa, anch'essa a sua volta organizzatrice, entra nell'organizzazione di Dio che ne conosce il ruolo, e sa qual è la sua finalità; per una ispirazione interiore, essa s'adatta all'insieme e lo serve; ma questo insieme e tutta la somma di Provvidenza che vi si dispensa, la Chiesa non ha la grazia di discernerlo.

D.. Donde deriva a questo gran corpo di dottrine, di fatti e di esseri, il suo « sublime » discernimento? R. È proprio quello che io mi domando. Non vi è convergenza del caso; non vi è concorso di illusioni disperse. Una concordanza non ideologica, ancora una volta, ma sperimentale, che la pratica individuale e sociale conferma, che ha la firma dei fatti, questa concordanza estesa in tutte le direzioni e in tutti gli ordini, magnifica per altezza e per profondità, oltre le sue dimensioni temporali e spaziali, esige una spiegazione.

D. La falsità non ha essa pure i suoi successi? R. La falsità è come i bugiardi, si contraddice sempre;

solamente la verità piena non è mai presa in fallo. « Tu credi alla scienza perché raccoglie molti fatti — scrive Giacomo Rivière — tanto più devi credere alla religione, perché essa li raccoglie tutti ».

D. Istituzione divina, insomma?

R. Non è forse proprio di una istituzione divina, lo

sposare in tutti i suoi contorni e in tutta la sua storia la

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realtà umana e universale? Se il cattolicesimo comprende tutto, non è forse perché esso è al di sopra di tutto, perché il suo Dio è al di sopra di tutto, perché il suo Cristo è il riformatore di tutto, perché lo Spirito che lo governa è la guida suprema di tutto? Nessuna rivelazione riesce bene e neppure ha valore se non è una conferma; ma ancora, una conferma integrale, e sotto questo aspetto precisa, non si dimostra forse come una autentica rivelazione? Chi avesse potuto inventarlo avrebbe potuto concepire un universo, e concepire un universo non appartiene se non a chi lo può creare: e questa è opera divina.

D. Ciò mi sembra importante; vorrei penetrare meglio il tuo pensiero.

R. Bisognerebbe esplorare i particolari, e ciascuno di essi porterebbe seco la conclusione con una certezza crescente. Preciserò solo qualche caso.

Tutto quanto il dogma dipende dal quadruplice fatto della Trinità, dell'Incarnazione, della Redenzione e della Grazia. La Trinità è un'espansione di Dio in se stesso. L'Incarnazione è una manifestazione della Trinità in missione umana. La Redenzione è il lavoro del Dio incarnato, della Trinità manifestata e data, lavoro che include tutta la storia, dalle origini fino « all'ultimo avvenimento », in cui tutto si concluderà. La Grazia è il dono stesso secondo che egli è nell'uomo in virtù dell'Incarnazione redentrice e delle missioni trinitarie, e la Grazia prende tutte le forme della vita, anzitutto la forma individuale e la forma sociale, con tutti gli aspetti che, nell'ora stessa e nel corso di tutti i tempi, riveleranno la vita fisica, la vita morale, la vita professionale,

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la vita domestica, la vita politica, la vita ecclesiale, la vita sacramentale e la vita mistica. Tutto questo forma un tutto unitario, di una coerenza meravigliosa, che da soddisfazione alla mente sempre più in proporzione che vi penetra, rispondendo ai più alti pensieri e alle più intime aspirazioni dell'uomo riguardo al divino: infatti è questo il divino eretto, se così posso dire, dalla Trinità, al di sopra di ciò che la ragione ne poteva conoscere, ma a soddisfazione della ragione, come vedremo più avanti, ed è poi il divino che ridiscende nel creato, attraverso Gesù Cristo, in forme che sposano tutte quelle del creato riproducendone i caratteri, sopranaturalizzando i suoi- poteri e utilizzandoli senza sforzo ne mutilazione.

D. È questa la tua sintesi dogmatica?

R. Ne è uno schema. La Trinità, vita di Dio in se

stesso; l'Incarnazione, prima tappa delle comunicazioni;

la Grazia, seconda tappa che utilizza la nostra unità solidale nell'Uomo-Dio; la Chiesa, mezzo sociale di un'ampiezza e di un'organizzazione ammirabile, mai interamente penetrata, mai uguagliata; i sacramenti, mezzi della Chiesa e di Cristo che comprendono tutta la vita per rigenerarla, nutrirla, purificarla, fortificarla, reggerla e perpetuarla fino alla vita eterna: si ha il diritto di dire che questo solo risponde pienamente, a fondo, nello stesso tempo trascendentalmente ed esattamente, al senso religioso che l'analisi constata in tutti gli uomini, e gli da una sovrabbondante soddisfazione.

D. Ad ogni modo io registro il fatto. R. È tutto quello che io domando. Ma ecco! questo insieme, espresso schematicamente, ma i cui aspetti sono innumerevoli, conglobando direttamente o indiret-

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tamente tutto ciò che è, non può non essere estremamente delicato. I teologi lo sanno; alcuni lo sanno anche troppo. Entrandovi, la mente è presa in un terribile ingranaggio; sbagliato il minimo pezzo, è tutto il sistema che non funziona più o non può più servire. La complessità poi è massima, i legami sono rigidi; niente caucciù lì dentro, niente batuffoli di ovatta; metallo, sempre. Lo stesso Renan, per esperienza, disse: « La teologia cattolica è formata di blocchi di granito legati insieme da ramponi di ferro ». Ora tutto ciò, com'è ben manifesto, non è stato elaborato, umanamente, da nessuno.

D. Non vi sono delle fonti? R. Se si cercano fonti per ciascun enunziato di fatto o di dottrina, se ne trovano; ma questa necessità di laboriose ricerche prova già quello che io affermo. Queste fonti si presentano allo stato frammentario e senza nessi visibili. Non si sa bene con esattezza donde ciò esca fuori. La Bibbia è una selva dottrinale. Lo stesso Gesù Cristo si è espresso senza alcuna preoccupazione di mettere in evidenza la coerenza de' suoi discorsi. Gettava la sua parola alle turbe, e nessun Fiatone e nessun Senofonte era presente per mettervi un ordine, per interpretarla sapientemente o anche per raccoglierla stendendola accuratamente per iscritto.

D. Gesù però ebbe dei discepoli. R. I suoi discepoli fecero come lui: vissero religiosamente e comunicarono la vita; insegnarono, ma non costruirono nessuna teologia sistematica; spiegarono dei fatti e ne trassero delle regole pratiche; i loro scritti sono scritti di circostanza, concepiti in vista di un'utilità im-

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mediata; i principali, dopo le quattro raccolte di note chiamate Vangeli, sono le Epistole, cioè delle lettere. I fatti, le parole e i precetti sacri passarono di là in una tradizione in cui primeggiarono uomini senza cultura, e la cui mente era diversamente orientata. L'elaborazione è venuta molto tardi,, e, notalo bene, consistette nel mostrare l'accordo, non nel crearlo.

D. La teologia non è un principio dell'ordine? R. La teologia mette in luce l'ordine; ma nonJo crea. La teologia non crea nulla; getta ponti d'idee tra certi fatti, tra certi dati che non le appartengono in alcun modo; essa si deve servire di ciò che è, senza modificarlo mai. L'astronomia che inventa un sistema del mondo non crea gli astri.

D. L'accordo così manifestato, secondo tè, era dunque nelle cose stesse?

R. Esattamente, e di conseguenza in qualche mente collocata al di sopra delle cose: ecco quello a cui io voglio concludere.

D. Quale mente?

R. Lo domando a tè. Quale mente individuare, per un insieme a un tempo disperso e organico di tanti elementi, di tante dottrine delicate ed astruse, di tante asserzioni nuove e generalmente sorprendenti, di tanti fatti gli uni passati o presenti, gli altri futuri, -che avvolgono tutte le cose umane? Quale mente, se non una mente sovrumana?

D. Perché parlare di cose future?

R. Perché se l'accordo intimo dei dogmi potè essere

messo in luce abbastanza presto, accade diversamente

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per l'adattamento del dogma, di ciascun dogma, all'insieme e ai particolari di tutti i fatti ai quali una religione universale e permanente si dovrebbe un giorno applicare. Un tale adattamento, per essere così assicurato in anticipo, non suppone forse una conoscenza antecedente o un'intuizione superiore di tutto il contenuto e di tutto lo sviluppo della natura umana, di tutte le sorprese della storia, di tutte le richieste future della civiltà? Chi ha potuto far prevedere ai primi Apostoli, quando predicavano la dottrina dell'Uomo-Dio, lo sfolgorante successo di questa dottrina straordinaria, incredibile per i pagani, scandalosa per i Giudei; i suoi frutti incomparabili di santificazione; la sua riuscita per Dio stesso, se così posso dire, per il fatto dell'avvicinamento insperato del Creatore e della creatura sopra questo terreno vivente; la potenza con la quale questa dottrina ha attratto le anime, le ha strappate a se stesse, le ha sollevate, le ha lanciate in tutte le imprese, le ha sottomesse a tutti gli sforzi, piegate a tutte le discipline, pacificate in tutte le loro sofferenze, esaltate nei loro sentimenti più generosi, più larghi e più intimamente beatificanti, le ha avvinte a sé con una tenerezza che non si ha per un padre, per un fratello, per un amico, neppure per uno sposo o una sposa, poiché per lui si è rinunziato alla sposa, allo sposo ed è stato dato a lui stesso questo nome?

D. Ammetto che ciò è prodigioso. R. Pensa al culto della croce, a quello del tabernacolo, a quelle Messe che fanno il giro del mondo col sole, a quelle Comunioni che inondano i cuori di gioia,

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e a quelle liturgie che le accompagnano con un decoro non solo spirituale, ma estetico, di lì infatti procede tutta l'arte cristiana. E pensa che si tratta di milioni di esseri, d'una folla d'istituzioni, d'una costellazione di popoli... e ciò per quanti secoli ancora?

D. Ti riferisci questa volta all'ordine sociale? R. Di fatti! Nell'ordine sociale, chi ha detto a Pietro il pescatore e a Paolo di Tarso, a Gesù stesso, che ci sarebbero stati un giorno dei barbari da incivilire, un impero da trasformare, rè da domare, terre immense da dissodare, turbe da istruire e da educare, comuni da organizzare, corporazioni da formare, guerre da ridurre o da mitigare, una cristianità da conservare coerente in un tempo di turbolenta anarchia? ecc.

D. La religione non ha fatto tutto questo da sola. R. Non lo pretendo affatto. Vi ha però collaborato in un modo che si può chiamare materno, nel senso proprio della parola. E per collaborarvi così, non bisognava forse che essa fosse a ciò adatta per sua natura, che il suo principio concordasse con ciò che si può chiamare il principio o lo spirito incivilitore?

D. Ormai tutto ciò però è cosa lontana. R. Più tardi, ai nostri stessi tempi, chi ha detto al pescatore d'uomini che vi sarebbe stata una democrazia da moralizzare, un regime del lavoro da rinnovare, una società internazionale da creare, un capitalismo, un sindacalismo, immensi corpi sociali che pongono dei problemi come nessuno ne conosceva ne poteva sospettarne una volta? Chi disse loro che nei nostri giorni, le soluzioni sarebbero tanto più difficili in quanto che il sentimento della personalità umana e del valore individuale

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si sarebbero sviluppati nei gruppi sociali come mai, che le distinzioni artificiali tra gli uomini sarebbero state sempre più ripudiate e cancellate dalle costituzioni politiche; che la vita pubblica sarebbe stata obbligata a piegarsi a princìpi di uguaglianza a volte persin eccessivi, ma in fondo umanissimi e nobilissimi, e che questo non sarebbe accaduto senza furiosi dibattiti e terribili scosse ? Chi dunque, chi ha potuto far presagire tutto questo agli organizzatori della fede, supponendo che ci siano stati?

D. Io non ne vedo la necessità. R. Io la vedo in ciò che, in questo nuovo campo, l'adattamento non è meno perfetto di quello che fosse al principio dell'era cristiana; anzi lo è infinitamente di più. Quanto più l'umanità progredisce, tanto più il Vangelo le conviene e le è necessario.

D. Il Vangelo non c'entra. R. Io parlo del Vangelo vivente, della Chiesa, e della dottrina della Chiesa. Metti in presenza tutti i fatti contemporanei e il dogma cattolico; fa' la critica dei loro rapporti mediante un'analisi comparativa ben condotta, e io ti prometto stupore e meraviglia. I nostri sociologi moderni non sospettano ciò che essi trascurano. Io scrivo a mente fredda, pronto a provarlo, che questi sapienti « d'avanguardia » sono dei retrogradi; che essi hanno fatto indietreggiare, per cecità spirituale e per presunzione, la scienza reale, la scienza profonda degli assettamenti umani, che si trova appunto nel dogma, in ogni caso importata da esso, concordante con esso e condizionata dal suo aiuto. Lo stesso avviene dell'ordinamento familiare moderno, del regime individuale moderno, che più ancora che i regimi antichi trovano nel

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dogma cattolico e in esso solo la loro consistenza morale e la garanzia del loro progresso.

D. La tua Chiesa avrebbe dunque una risposta a tutto? R. In nessun modo,, e mi preme anche di protestare, come ho fatto molte volte, contro quelli che domandano alla religione soluzioni che non dipendono se non dalla tecnica e dall'umana esperienza. A ciascuno il suo compito. Ma se tu vi rifletti seriamente, vedrai che alla radice di tutte le difficoltà umane, si trova una o più difficoltà morali, e sono queste che la Chiesa risolve. In certo modo, nulla di questo mondo la riguarda, poiché essa non è di questo mondo, e tutto la riguarda, perché questo mondo ha le sue radici nell'altro, come la pianta nella terra e nel cielo. La Chiesa, se vuoi, non apre alcuna porta; ma fornisce tutte le chiavi.

D. Non tutti la pensano così.

R. E sia; eppure io pretendo di dimostrarne a chi vorrà la verità smagliante. E del resto, in mancanza di una confessione di verità, non è forse sufficiente che una tale pretesa si possa anche solo enunziare; che essa non sia ridicola; che, in una discussione serrata, abbia per sé la pur minima probabilità? Riguardo a una dottrina che risale a venti secoli e predicata da pescatori, tu mi confesserai che questo è già un bei miracolo.

D. Si trattava di una prova. R. Se si può dire che per il nostro tempo la prova non è fatta, non lo si può dire per il passato, che è acquisito, e che dimostra la coincidenza perfetta del dogma cattolico con la vita, col movimento storico, con la civiltà. Un'altra sola dottrina, religiosa o filosofica, oserebbe qui

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presentarsi in concorrenza con la dottrina di Cristo? La aspettiamo ancora alla prova.

D. Ma tu non hai detto come la Chiesa conserva e svolge il deposito che le fu. affidato; sta forse lì il segreto de' tuoi « miracolosi » adattamenti tra il dogma una volta acquisito e i fatti umani.

R. Aspetta! La Chiesa è lei stessa un dogma; sarebbe troppo facile riguardarla come piovuta dal cielo senza farne onore al cielo. La Chiesa è un dogma che ne contiene molti altri, come quell'ammirabile comunione dei santi, sopra la quale bisognerà ritornare, e come l'infallibilità la cui importanza è qui visibilissima. Ora il dogma della Chiesa, della Chiesa infallibile, ci fornisce uno di questi segni di coerenza che io rilevo; perché esso è legato con un vincolo così necessario ai dogmi della Trinità, dell'Incarnazione, della Redenzione e della Grazia, che non è possibile separamelo.

D. Sotto quali rapporti tu ve lo annetti? R. Sotto il rapporto della loro manifestazione, della loro conservazione e della loro utilizzazione. Il dogma della Chiesa è indispensabile alla manifestazione degli altri; perché la vita inferiore della Chiesa è fatta del commercio della Trinità, se mi è lecita l'espressione, con gli uomini invitati alla sua intima dimestichezza. Essa stessa, la Chiesa, è come un'incarnazione e una redenzione continuata, una grazia sociale, pegno e mezzo di tutte le altre, conforme alla nostra natura, che è altresì sociale, e temporale, e sensibile. Il dogma della Chiesa è necessario inoltre ali''utilizzazione degli altri dogmi, per gli stessi motivi tratti dalla nostra natura, donde risultano i nostri bisogni individuali e sociali. Ed è non

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meno necessario alla loro conservazione; perché senza la Chiesa docente, e infallibilmente docente, tutti i dogmi, compreso quello della Chiesa madre delle anime, sono abbandonati a tutte le variazioni e snaturati.

D. Lo spirito conservatore della Chiesa non e una sufficiente garanzia?

R. Lo spirito conservatore della Chiesa appartiene a ciò che io asserisco; del resto esso non potrebbe impedire lente derivazioni. Appunto a questo proposito, un illustre protestante, Augusto Sabatier, dopo ampia discussione, conclude con questo dilemma: o accettare la Chiesa infallibile, o rinunziare a ogni dogma. Egli per conto suo, rinunzia a ogni dogma; ma la sua testimonianza è giusta. Si ha il diritto di dire: Senza la Chiesa sparisce tutto quello che è cattolicismo, e senza le prerogative essenziali che la Chiesa si attribuisce, sparirebbe lei stessa. Questa, io credo, è coerenza.

D. Ma come si è stabilito questo dogma della Chiesa? R. Tanto poco artificiosamente quanto gli altri, proprio per il gioco dei fatti, in virtù di parole, di gesti e d'interventi sporadici. Alcune dichiarazioni semplicissime di Gesù ne sono il punto di partenza, e si crede di metterci nell'imbarazzo dicendo che vi è sproporzione tra queste dichiarazioni e l'immensa macchina attuale, o anche coi suoi abbozzi primitivi, le Chiese di Barnaba o di Paolo. Ma questa sproporzione è per noi un trionfo;

io ne concludo che questo ha germogliato affatto da solo, come la pianta quando si è gettato il seme. Il seme germoglia e subito vede tutta la vita della natura collaborare seco, perché? perché anch'esso è vita, perché vi è in esso un principio di vita. Io chiedo qual è, per la

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Chiesa, il principio vitale. Le scosse dei primi giorni, e poi i venti della storia avevano tutto quello che ci voleva in fatto di violenza e di capriccio per sradicare un germoglio senza vita ardente, senza vita miracolosamente salda: a più forte ragione non avrebbero fecondato un germe senza vita.

D. Ma io parlavo soprattutto della conservazione del dogma.

R. Infatti vengo ora alla tua domanda: come la Chiesa, così stabilita, ha conservato tutto il resto? Coi medesimi procedimenti tanto poco artificiosi quanto era possibile; coi procedimenti della vita. Un'autorità decide, proprio, come nel vivente, un ordine parte dal cervello per mettere in azione gli organi. Ma nello stesso modo che il cervello non fa altro che servire l'idea vitale inclusa in tutto il corpo e da cui procede esso stesso: così l'autorità dottrinale non fa altro che prestare una voce al dogma immanente nella comunità cristiana. Essa non pretende di innovare niente: consacra. Essa s'informa precedentemente; ma non in aria, astrattamente; consulta la massa vivente per sapere che cosa essa porta seco. Essa riapre i suoi grandi libri: la Bibbia, gli scritti dei Padri, quelli dei dottori illustri, la Somma di S. Tom-maso d'Aquino, e i teologi viventi si sforzano d'interpretare quest'insieme. Ma i teologi, come ho detto, si sono guardati bene dal creare qualche cosa; essi riducono a sistema, ecco tutto il loro compito personale;

quanto al resto, raccolgono e codificano.

D. E di dove attingono?

R. Tè lo dico; nella vita, nella pratica corrente, nelle

forme della preghiera, che rivelano loro il « senso della

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Chiesa », il suo contenuto spirituale, la sua anima. La tradizione e l'applicazione spontanea che se ne fa sono così l'unica attestazione del « deposito ». Se l'autorità insegnante rinette, e molto, prima di decidere qualche cosa, la sua riflessione non ha che questo oggetto: quale è il deposito? che cosa contiene il germe? proclamando tale dottrina, restiamo noi nella specie umano-divina, che è il frutto della nostra istituzione, oppure creiamo un ibrido in cui la vita autentica non continuerebbe?

D. E chi finalmente deve dire l'ultima parola per decidere?

R. Tu penseresti che sia il più sapiente, il più influente, il più esperimentato, il più religioso, il più santo, o comunque colui che, nella stima altrui, aduna in sé tutti questi vantaggi? Niente affatto. È un uomo che generalmente è dotato e competente in una sufficiente misura, ma che può anche non esserlo e che a volte non lo fu punto; è l'eletto di una maggioranza del caso, un giudice che non offre alcuna garanzia speciale, salvo che egli è regolarmente investito come successore di Pietro e con ciò diventa l'erede della promessa.

D. Questo ti basta?

R. Con questo tutto va bene; la vita continua; nessuna alterazione si produce; non incombe alcun pericolo, la coerenza dogmatica non è mai smentita; sono evitate difficoltà a cui soccombono anche le più grandi menti, quando speculano per conto loro; l'adattamento all'umanità e alle sue multiformi condizioni si rivela sempre più ricco, come lo accertano, oltre i risultati della vita, gl'immensi lavori di comparazione e di approfondimento a cui si dedicano i teologi, i mistici, gli sto-

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dei e i sociologi di tutti i tempi. Pascal direbbe: « Ciò supera l'uomo ».

D. L'adattamento di cui parli è solamente sociale, o

anche individuale?

R. Bisogna che sia individuale per essere sociale;

perché, ad onta dei sociologi inesperti, la società prende i suoi caratteri appunto nel cuore dell'individuo e nel quadro della famiglia, individuo completo. Una dottrina di vita ha dunque il dovere di adattarsi a tutte le parti-colarità individuali legittime, a tutte le attitudini, a tutti i temperamenti morali, a tutti gli stati di vita, a tutte le professoni; altrimenti la sua nozione stessa e specialmente i suoi mezzi non avrebbero niente di concreto;

non sarebbe che uno schema senza alcuna vera utilità pratica. Ogni cristiano dovrà indubbiamente sentirsi figlio di Cristo, partecipe della sua salute, stimolato da lui a vivere in conformità alla legge di amore e a tutte le sue conseguenze comuni; ma nello stesso tempo si sentirà una « vocazione », « chiamate », un ideale proprio, un « dovere di stato », « grazie di stato », e anche « grazie attuali », cioè grazie di atto, grazie per ciascun atto e che ne prenderanno la forma; a tal segno che egli saprà di essere stato tenuto presente nella singolarità del suo caso e della sua persona.

D. Di ciò vi sono tracce antiche? R. È quello che fa vedere la dottrina cattolica prima ancora della sua nascita effettiva, nella persona del Precursore. Giovanni Battista non raccomanda a tutti quello che fa egli stesso; parla ai soldati dei doveri del soldato, al pubblicano, al doganiere dei doveri dell'esattore delle imposte. Gesù alla sua volta, pur lodando il Bat-

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tista come il più grande degli uomini, ha cura di notare che non farà come lui; egli proclama la varietà; la consacra con la sua azione, che parte sempre dal fatto personale, dal caso e dalla disposizione presente; e ne da questa ragione sublime: Così la Sapienza sarà giustificata da tutti i suoi figliuoli, cioè dall'insieme de' suoi figliuoli.

D. Ciò ha avuto senza alcun dubbio una continuazione! R. Più tardi, i Santi, quelli che tra i fedeli incarnano meglio la dottrina, non si danno alcun pensiero di rassomigliarsi; sono dei potenti originali, a volte fino alla eccentricità, come lo Stilila, Benedetto Labre o Filippo Neri. Non hanno neppure la cura di rassomigliare a se stessi nelle varie fasi della loro vita; essi seguono lo Spirito; ma lo Spirito è uno; tutti vivono del medesimo succo, che si mostra così conveniente alle piante umane e alle più disparate forme di evoluzione umana.

D. Vi sono altri segni di questa verità? R. Eccone uno: tra le persone che vivono attorno a noi, se ne vedono di quelle che aderiscono o ritornano alla religione cattolica per le ragioni più diverse: ragioni propriamente religiose, ragioni sociali, ragioni politiche, ragioni estetiche, ragioni sentimentali, delle quali ben si vede il lavoro, nel corso di un processo che si sforza di oltrepassarle. Ciascuno ha cercato il suo adattamento personale, l'ha trovato e penserebbe volentieri che la Chiesa sia fatta specialmente per offrirgli quello che a lui importa. Ma un altro ha raggiunto la verità da un altro lato, un terzo da un altro ancora, e tutti insieme ne provano l'integrità, il carattere completo, come una statua ben riuscita si rivela conforme alle leggi dell'equilibrio delle masse e nella giustezza

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dei profili. « In fondo, è il cattolicesimo che noi oggi cerchiamo tutti », scrisse alla vigilia della sua conversione un giovane ebreo (marcello schwob),

D. Donde viene la tua fiducia in un simile adattamento per l'avvenire?

R. Dal fatto che l'avvenire di cui tu parli è un avvenire di uomini, e che .s'incontra necessariamente questo avvenire incontrando l'uomo. Per il cattolicesimo, essere un risultato autentico del passato, una sintesi perfetta del presente e un'esatta previsione dell'avvenire, è la stessa cosa.

D. Ma l'uomo aspira al progresso. R. Se queste speranze di progresso si effettuano, io dico che la ricchezza dell'adattamento andrà sempre crescendo; perché la nostra fede rappresenta un ideale. Essa si offre a un'umanità imperfetta con tutto quel che ci vuole per trarre partito dalle sue imperfezioni; ma di sua natura spinge al perfezionamento e in seguito vi si accorda. Di tappa in tappa, può condurci, e seguirci, e condurci ancora, fino all'impossibile ideale di Cristo:

Siate perfetti come il vostro Padre celeste è perfetto.

D. Una tale dottrina della vita non sembra un po' fuori della vita?

R. È la vita stessa. La vita non è altro che uno sforzo più o meno riuscito verso l'ideale, un eroismo, come dice William James. Ciò non si oppone per nulla alla semplicità e al senso pratico. La fede cattolica è tanto pratica quanto ideale, tanto semplice quanto profonda e ricca. Ce n'è per i pastori e per i Magi, per i passeri e per gli elefanti. Chiunque, grande o piccolo, ritorna in sé e si trova collocato in faccia ad essa, la riconosce.

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D. Allora, perché discutere? R. Si discute con l'incredulo, per forza; egli non si vorrebbe arrendere senza argomenti; gli argomenti sono la sua difesa istintiva, le sue armi. Ma in fondo, lo slancio decisivo non viene dalla disputa, ma dalla connaturalità prima manifesta, poi riconosciuta, del Vangelo e dell'anima, del dogma e della vita. La verità è una cosa « tanto naturale quanto il sole e l'acqua fresca — scrive Paolo Claudel — tanto facile all'anima quanto il pane e li vino ». Per questo il povero incredulo, una volta fatto il passo, è di solito stupefatto del tempo e degli sforzi che gli occorsero per varcare un abisso che non esiste.

D. Tuttavia, nel ^o^w^^^e2tfsS_?$^Z^!^ contraddizioni.

R. Non vedi che queste contraddizioni dipendono appunto dalla sua^pienezza e.,.dalla sua integrità? Quando si tiene tutta la strada, si tengono i due fossati, e si trova sempre qualcuno che ti dice: tu sei troppo a destra; tu sei troppo a sinistra; oppure: tu raccomandi nello stesso tempo la destra e la sinistra. Al che il cattolicesimo risponderebbe: È vero, ma io armonizzo tutto. Il dogma è il maestro dell'equilibrio; esso raduna in sé tutto e spinge tutto alla sua pienezza, senza che vi sia nulla di discorde. Ma abbracciando tutta la vita, per forza da l'impressione che esso si contraddica; perché le circostanze della vita sono infinitamente diverse, e quello che conviene oggi o qui, domani o là si fa vedere contrario. Per questo abbiamo definito la dottrina cattolica una relazione universale, potremmo definirla, per

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il fatto delle sue opposizioni apparenti: un paradosso universale; ma ciò sarebbe una suprema lode.

D. Ti farebbe dunque piacere l'opposizione degli estremisi/ e nello stesso tempo il « giusto mezzo » ?

R. esattamente per la stessa ragione. Le persone estreme sono estreme non perché raccomandano un estremo; ma perché non ne raccomandano che uno solo. Quelli che tu chiami del « giusto mezzo » si tengono in un posto intermedio donde non si sprigiona nessun orizzonte. La dottrina cattolica tiene tutto lo spazio, ed è lontana dalla mediocrità quanto dalla parzialità di questo o di quel dato estremo. È quello che aveva profondamente colpito Pascal in ciò che riguarda l'eminente dignità e la miseria dell'uomo, con tutte le loro conseguenze. La fede cristiana è anche confluenza di questi contrari e ammette in modo diverso l'uno e l'altro. Essa è ottimista e pessimista a fondo, secondo il punto di vista da cui uno si colloca. Esalta a un tempo il misticismo e la positività, l'austerità e la gioia, la verginità e l'amore, la sollecitudine per se stesso e il generoso sacrifizio, il dolore e la felicità, la libertà e la subordinazione, l'uguaglianza e la gerarchla, la pace e la guerra giusta, la dolcezza e la fermezza, la prudenza e l'audacia, l'abbandono alla Provvidenza e il lavoro, la fede e le opere, il libero arbitrio e la grazia, il distacco e l'amore per la vita, la misericordia e la giustizia, la pietà e la bontà paziente in tutte le tappe della prova terrestre, e la necessaria implacabilità del supremo giudizio.

D. Ce n'è per tutti'.

R. Sì, ce n'è per tutti in ciò che afferma; ma ce n'è

anche per tutti in ciò che nega, cioè, vi è di che susci-

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tare delle opposizioni da tutte le parti, e rimproveri e contese che si distruggono a vicenda quando si mira la totalità, ma che, lasciate ciascuna a se stessa, sembrano giustificate e turbano le teste. È la luce totale del Vangelo che, offendendo tutti per una ragione o per un'altra, accumula attorno a sé le nubi. Così il sole è offuscato dagli efletti del suo proprio irradiamento.

D. Non è così delle altre dottrine? R. Le altre dottrine mi offrono precisamente la controprova di ciò che io affermo. Non ce n'è nessuna che non risponda a qualche punto di vista del pensiero e a qualche esigenza della vita. Ciò che non corrispondesse a niente non si potrebbe far riconoscere, poiché il bisogno che si crede di averne è quello stesso che lo crea. Ma la concordanza col bisogno umano non è mai se non parziale; si afferma una verità, se ne dimentica un'altra complementare, come già abbiamo rimarcato. « La loro colpa — dice Pascal — non è di seguire una falsità, ma di non seguire un'altra verità ». « Perciò — aggiunge egli — il mezzo più spedito per impedire le eresie (o tutti gli errori di qualsiasi genere) è istruire su tutte le verità, e il più sicuro mezzo di confutarli è dichiararle tutte », cioè conoscere tutte le verità.

D. Queste dottrine che tu dici insufficienti possono essere coerenti in se stesse?

R. Non è possibile. Da questo difetto di adattamento alla realtà, che si chiama errore, risulta necessariamente, in materia religiosa, un'incoerenza interna. Ciò che ha rapporto a tutto e non si adatta a tutto non si può adattare a se stesso. Una chiave universale che non apre certe

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porte dimostra un difetto che si dovrebbe riconoscere anche prima di tentare di aprire.

D. È questo il caso di tutte le dottrine di cui io parlo? R. È il caso di tutte le dottrine tranne la sola dottrina cattolica. Tutte offrono un carattere di parzialità facile a, scoprirsi, delle dimenticanze che nel cristianesimo cattolico fanno brillare la sua trascendente esperienza, delle mulilazioni che, per trovare il rimedio, invitano a ricorrere a Colui « che sapeva quello che è nell'uomo » e alla sua autentica rappresentante, la Chiesa.

D. Così tu rifiuti ogni parità! R. Di tutte le dottrine ce n'è una sola che sia sensata, ed è quella che si dice soprannaturale; ce n'è una sola che sia umana, ed è quella che si presenta come divina. Tutto il vasto movimento di riflessione e di indagini al quale si dedicano gli uomini, checché ne sia di passeggere fluttuazioni e di fuggitive esperienze, non è diretto che a una cosa: rovesciare le dottrine avversarie della fede e confermare la fede; convincere d'insufficienza e d'inumanità parziale tutto ciò che non è la pura e semplice verità cattolica, e giustificare la Chiesa cattolica.

D. Certi dicono tuttavia che la religione va morendo;

si dice perfino che è già morta. R. È forse per questo che la questione religiosa che, nel mondo civile, si è sempre confusa con la questione cristiana, e si confonde sempre più con la questione cattolica, è quella che domina apertamente o sordamente tutte le altre? Strana morte, quella che riempie il nemico d'inquietudine e il cimitero di rumore!

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D. Quello che tu chiami il nemico, è da individuarsi prima di tutto nel mondo politico? R. Difatti. Ora la società politica riconosce la Chiesa poiché si difende da essa. La società politica riconosce il pregio della Chiesa, poiché gareggia d'influenza con essa, poiché applica sotto altri nomi i suoi princìpi civilizzatori.

D. Si sente dire che l'istituzione cristiana ha tallito al suo compito e che la sua ricerca d'un ideale di umanità si è concluso con una sconfitta.

R. Il mondo non è finito. La « sconfitta » del cristianesimo è la nostra civiltà! Vi è una sconfitta relativa in ragione delle nostre infedeltà e delle nostre resistenze;

vi è però un trionfo, trionfo parziale che un'altra èra ha la missione di completare.

D. Attribuisci dunque ad onore del cristianesimo tutta la civiltà? ' ' R. In questo non faccio altro che ispirarmi ai più grandi storici e ai pensatori meno cattolici: Renan, Taine, Harnack, Guizot, Agostino Thierry, Disraeli, Strauss stesso, che, dopo avere tentato di scoronare Cristo, scriveva a suo dispetto: « La morale di Cristo è il fondamento della civiltà umana ».

D. Vedi bene! si tratta della morale, e non del dogma. R. Conosci tu una morale di Cristo « che operi storicamente » e che sia indipendente dal dogma? Invano si pretende che il Vangelo in se stesso sia una pura morale e che il dogma sia una creazione ecclesiastica. Ma questo non ci interessa. La morale di cui si parla così non consiste che in belle sentenze. Si fa parlare Gesù « come un libro »; è un'istituzione vivente, operante, senza la

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quale il libro chiamato Vangelo non avrebbe maggiore importanza umana e influenza incivilitrice che il Manuale di Epitteto o il Baghava-Gita. Ora l'istituzione vivente e operante uscita da Cristo non ha morale che non sia dogmatica. La sua morale è una parte della sua teologia, e la sua teologia è dogmatica alla base; la parte morale non è che una conclusione, come già in S. Paolo. Tè lo spiega Bossuet, con una grandiosa immagine:

« Non ci vogliono due soli, nella religione del pari che nella natura, e chiunque ci è mandato per illuminarci nei costumi, è lo stesso che ci da la conoscenza delle cose divine, che sono il fondamento necessario della vita onesta ».

D. La religione non moralizza il vivere umano per mezzo di massime pratiche?

R. La religione moralizza la società con l'applicazione e con l'azione concreta del suo insegnamento che implica la natura dell'uomo soprannaturalizzato dalla grazia, unito per mezzo di Cristo al Padre, nell'unità dello Spirito, e orientato, in comunione co' suoi fratelli, nella Chiesa, verso la vita eterna. Tal è il principio civilizzatore; non ce n'è altro. Coloro che parlano di morale cristiana separata si attaccano a un'astrazione, oppure sono vitime di puerilità a volte eloquenti, ma sempre ingannatrici e spesso nefaste. Il Gran Rabbino Lyon scriveva sapientemente: « Per apprezzare l'influenza del carattere e dell'opera di Gesù sul progresso dell'umanità, ci vorrebbe la scienza universale ». Un Gran Rabbino si onora ancora di parlare in tal modo. Ma lui parla, con ragione, dell'opera di Gesù, e non delle sue parole. Ora l'opera di Gesù è la Chiesa, la Chiesa dog- .

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matica, o non è niente; questo solo sopravvive a lui realmente nella storia; solo questo opera nel suo nome. E se per apprezzare il risultato ci vuole « la scienza universale », è perché il risultato è universale, perché esso si estende a tutto, perché niente di umano, di vivente, di moderno gli è estraneo.

D. Per me l'opera di Gesù è soprattutto spirituale. R. Difatti, noi dimenticavamo qui l'essenziale, quella corrente di santità che, attraverso alla civiltà esterna e nel più profondo de' suoi immensi veli, si espande come un Gulf-Stream spirituale, e che rende testimonianza al fuoco divino sorto dal Vangelo. Si può contestare questo fatto quando ci si lascia ipnotizzare dai mille difetti che l'umanità presenterà sempre; ma questa stessa severità dei nostri giudizi, donde viene se non dalla santità introdotta nel mondo da Cristo e che suscita la critica, quando non può suscitare la virtù? Prima di Cristo, la perfezione morale era una rarità, quasi un'anomalia; in seno alla Chiesa, è un fatto comune e non ci stupisce se non per la sua grandezza.

D. Tu intendi alludere agli eroi della santità; ma non ce ne sono forse in tutte le religioni?

R. Trovami un S. Vincenzo de' Paoli mussulmano; una Santa Giovanna d'Arco buddista, un curato d'Ars pastore protestante, un S. Vincenzo Ferreri o un S. Francesco Saverio avventista. E dico questo, credimi, non per disconoscere delle grandi anime, ne per disprezzare il bene che è dovunque. Asserisco soltanto che la spiritualità vera, il succo evangelico sbocciato nelle profondità, l'eroismo spirituale che fa capo a quella pienezza di donazione, a quel calore di sacro entusiasmo, a quella ca-

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rifa nel grande senso in cui consiste la santità, questo non si vede manifestamente, e al completo, se non nella nostra Chiesa.

D. Vi sono delle santità nascoste. R. Ve ne sono anche presso di noi; spero molte; saranno queste le nostre scoperte in cielo. Ma perché non ve ne sono di splendide, e di pubbliche, e che si completano, se non in una sola religione? Un caso fortuito del genere sarebbe assai maraviglioso. La risposta naturale non è forse piuttosto che là dove sorgono gli eroi religiosi, ivi appunto si formano, normalmente, gli uomini religiosi, e che se la religione si estende a tutto, è condizione di tutto, si rivela preziosa per ogni cosa, è lì, normalmente, che si dovrebbero formare gli uomini?

D. Da ciò si dovrebbe concludere che perissero uomo, bisogna farsi cattolico romano.

R. Proprio quello che io ne concludo. Se ciò ti sembra offensivo, è perché ti collochi dal punto di vista delle persone. Io rispetto le persone, e le difendo. Ma parlando di dottrina, dico: Sì, per essere pienamente uomo secondo il punto di vista dell'ideale adottato, del programma e dei mezzi adeguati, bisogna essere cattolico romano. Ciò non significa affatto che questi o quei cattolici romani valgano più di questi o quegli altri; ma significa che essi hanno la verità e che gli altri non l'hanno. Chiunque non è esplicitamente o implicitamente cattolico non è uomo al completo. È indubbiamente per questo che il convcrtito ha sempre l'impressione di ritrovare se stesso e di reintegrarsi in se stesso. E viceversa, come dice finemente Giacomo Rivière, l'in-

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credulo « ha sempre l'aria di uno al quale si nasconde qualche cosa, e che non se lo immagma ».

e) Schizzo di un'apologià esterna

D. Mi dicevi che la coerenza interna della dottrina cattolica e il suo adattamento alla vita non erano che una delle ragioni in suo favore. Che sottinteso c'era in queste parole?

R. Io non ti faccio un trattato di apologetica; mi sono già allontanato molto dal lavoro catechistico che mi sono proposto. Non ti posso tuttavia rifiutare alcune indicazioni sommarie.

Per cominciare, citerò quel giudizio di Lacordaire che

10 constato in ogni coscienza: « Ogni uomo in buona fede si può convincere, con pochissima fatica, che il concatenamento dei fatti cristiani è al di sopra delle forze umane se si suppongono falsi, e ancora al di sopra delle forze umane se sono veri ». In questa sola frase,

11 grande apologista da la prova essenziale sulla quale s'innestano tutte le altre.

D. Che cosa intende il tuo autore per « ;/ concatenamento dei fatti cristiani »?

R. Si tratta di quell'immensa serie dj^ avvenimenti, che, in passato, si estende da Abramo fino al Papa attuale, e si mostra in grado di realizzare la sua pretesa di durare sino alla fine dei tempi.

D. Questa serie di fatti è continua e omogenea? R. È continua, ma non omogenea; essa importa tré fasi: una fase di preparazione, che è il giudaismo; una fase di realizzazione, che è l'insieme dei fatti evangelici,

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e una fase di utilizzazione che è la nostra, cioè l'èra cristiana. Il giudaismo è un Vangelo nascosto; il Vangelo è un giudaismo spiegato; i tempi cristiani sono un Vangelo in azione, o per lo meno un saggio di applicazione laboriosa.

D. Tutta questa evoluzione ha dunque un centro? R. Il centro o il perno di questa evoluzione è Cristo.

D. E che cosa deduci da questa constatazione? R. Non sei tu colpito, prima di tutto, da un fenomeno storico di questa ampiezza: una forza all'opera dalle origini della storia fino a oggi; che sviluppa gli annali di Dio e la filosofia di Dio senza interruzione, senza lacuna e senza contraddizione; che attraversa tutti i fatti umani senza intralciarli e senza confonder visi; che si crea una tradizione propria nel corso delle nostre tradizioni, una società a sé, una società perfetta e indipendente nel cuore delle nostre società; che suscita una vita la quale abbraccia l'altra e ne sposa tutte le forme, con la mira di elevarla al di sopra di se stessa e di portarla più avanti? È questa una cosa così ordinaria che non valga la pena di fermarci per domandare a noi stessi: Quale è questa forza? Il giudaismo, in quanto storia, sembra più prodigioso di tutti i prodigi particolari che vi si rilevano, e la fondazione del cristianesimo, la sua conservazione, il suo modo di evoluzione un prodigio più grande di tutti i miracoli di Gesù Cristo. Un tal movimento ha'il carattere d'una vera creazione, d'una creazione dinamica. È un mondo che attraversa un mondo.

D. Gli storici non ne menzionano le cause? R. Tutto ha delle cause; ma si dimentica di dire

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quello che ha causato cedeste cause, organizzato il loro concorso e assicurata la loro efficacia, ad onta di tante cause contrarie. Vi sono anche cause che assicurano la grandezza degli imperi umani, delle imprese umane:

mostrami un caso che a questo si possa paragonare, fosse pure lontanissimamente.

D. È una questione di grado. R. Quando le cose arrivano a un certo grado, ti presentano un problema, come se al gioco tu sbancassi tutti i giorni il tuo compagno. Nel caso di cui parlo, tutte le leggi dell'equilibrio storico sono spiegate; il « ricominciamento eterno », senza perdere i suoi diritti sopra una materia che rimane materia umana, è al servizio di una continuità che lo domina. Ascolta uno storico (Ernesto Lavisse): « Io storico, non so quello che avvenne il mattino di Pasqua; ma quello che so, è che, quel giorno, nacque un'umanità che non muore. Christus resurgens non moritur ». Ascolta Ernesto Renan, un autore poco sospetto: « L'avvenimento capitale della storia del mondo è quella rivoluzione per la quale le più nobili parti dell'umanità passarono dalle antiche religioni a una religione fondata sull'unità, la Trinità, l'Incarnazione del Figliuolo di Dio ». E se vuoi il commento, ecco Rémusat: « I casi fortuiti delle faccende umane non portano affatto a tali risultati ». E Bossuet: « È un'opera così grande, che se Dio non la avesse fatta, lui stesso la invidierebbe al suo autore ».

D. Ciò mi colpisce, ma non mi convince. R. Godo di vederti difficile. Ma vi è altro. Questo immenso spiegamento offre, nel suo decorso, un carattere profetico; la sua continuazione è annunziata fin dal

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principio e ciascuna delle sue tappe è annunziata nella tappa precedente, diciamo meglio, per mezzo della tappa precedente, che non ha senso se non ir essa.

D. I primi cristiani annunziarono come imminente la fine dei tempi, e credevano di appoggiarsi in ciò sopra le -parole di Gesù; ebbene, erano in errore.

R. Erano di fatto in errore; ma non si trattò di un errore religioso, e a proposito delle parole di Gesù, che avevano formalmente scartato questo problema, era una pura interpretazione. L'errore veniva precisamente da una persuasione religiosa dominante, unita a una mancanza di prospettiva riguardo al temporale. Gesù aveva predicato l'essenziale; i suoi discepoli, imbevuti dell'essenziale, lo schematizzavano così: ieri Adamo; ora Cristo; domani la reintegrazione del mondo in Dio. Che importa che questo domani fosse stato compreso in un modo più o meno stretto? Lo schema è esatto. Il giudaismo è un lungo messianismo; il Vangelo è un annunzio formale dei tempi cristiani; alla sua volta il cristianesimo profetizza gli ultimi tempi, e l'avvenire darà la risposta.

D. Chi può azzardare un giudìzio su db che non è ancora?

R. Già ne abbiamo molti segni; ad ogni modo, oggi è certo che il fatto della Chiesa giustifica Cristo e il fatto di Cristo giustifica il giudaismo. Renan fu molto colpito da questi fatti, che altri « critici » preferiscono passare sotto silenzio.

D. Le profezie di cui parli sono veramente chiare? R. Puoi leggere dovunque, nei libri dell'Antico Testamento, le visioni che riguardano l'avvenire, i testi

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sorprendenti dei Profeti che annunziano nei particolari la vita, la morte e l'opera di Gesù Cristo, come pure i suoi effetti. Nel Vangelo trovi l'annunzio della Chiesa, delle sue traversie e dell'opera sua sino alla fine dei tempi.

D. 5';' è da taluno affermato che i testi antichi relativi a Cristo s'incontrino con lui per questa semplice ragione che da essi si sono presi gli elementi della sua storia.

R. Ecco delle sciocchezze che non reggono all'esame. È certo che gli Evangelisti hanno cercato i raffronti e ta-lora sottilizzato: certi loro raffronti sono forzati, altri discutibili. Ma ciò stesso prova la loro sincerità. Quando s'inventa, non si ha bisogno di sottilizzare così e di esaurire tutte le proprie risorse; basta lasciar correre; la fantasia è ubbidiente.

D. Da ciò sembrerebbe che il giudaismo[,.e_Jl_cris.(iaiS£-simo non siano che una sola e identica religione; mentre in realtà si oppongono l'una all'altra.

R. Si oppongono e si confondono con ragione, sotto diversi rapporti. Il giudaismo letterale e carnale si oppone al cristianesimo, religione spirituale; ma il giudaismo vero gli è identico, tenuto conto della differenza dei tempi. Il vero giudeo non era colui che si faceva circoncidere e compiva a Gerusalemme dei sacri-fizi materiali, ma colui che amava Dio con tutto il suo cuore e, coscientemente o no, per mezzo dei simboli della legge mosaica, si univa a Colui che è la salvezza degli uomini. Il vero cristiano non è colui che va alla Messa nei giorni festivi e scioglie i suoi voti; ma colui che ama Dio con tutto il suo cuore e, .per mezzo dei simboli questa volta vivificanti della legge evangelica,

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si unisce a Colui che è il salvatore^degli uomini. Agli uni e agli altri, a tutti gli uomini, Cristo può rivolgere le solenni parole del Deuteronomio: Prendo oggi come testimonio il ciclo e la terra: ho posto davanti a voi la morte e la vita, affinchè scegliate la vita, e amiate Dio e gli ubbidiate; perché Dio è la vostra vita (Deut., XXX, 19).

D. Quale compito ^attribuisci tu a' Giudei riguardo al cristianesimo?

R. Essi ne sono i testimoni. Attestano la continuità di cui io parlo. Accoliti involontari, essi presentano il Libro, e la luce dei fatti antichi, e l'incenso dei salmi. Vi recano uno zelo esemplare; sono incomparabili conservatori dei nostri testi e delle nostre tradizioni; sono degli antichi che si vedono e fanno vedere degli antenati contemporanei, se posso dire così, dei morti che vivono. Sono dispersi da per tutto e sono una sola cosa; hanno altre patrie senza potere ne volere rinnegare quella che ai divini disegni importa di conservare sussistente. Una tale testimonianza permanente, senza pari, senza sospetto, poiché depone contro di sé; questa testimonianza delle cose predette delle quali il testimonio rifiuta di vedere il compimento, ma conserva con amore i testi in cui i suoi profeti annunziano che egli sarà il nemico del compimento, benché amico della promessa, è un fenomeno provvidenziale sorprendente al massimo;

esso, dicevo, commosse Renan, e strappò a Pascal la sua grande esclamazione: « È meraviglioso! ».

D. Ma perché i Giudei,.n.on,.£r.edetterQ,.^erchè non

credono, dopo avere atteso quello che rifiutano?

R. Non è esatto che tutti non abbiano creduto. Le

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prime Chiese cristiane sono dei gruppi giudaici. In quel momento la divisione si fa tra i veri Giudei, che comprendono lo spirito della loro religione e lo riconoscono in Cristo, e i Giudei carnali, che disconoscono Cristo perché egli non è carnale. Il seguito si spiega mediante la tradizione, e mediante la permanenza, in molti, di questo spirito carnale.

D. Dunque, secondo tè, vi è qualche cosa di miracoloso nelle profezie di cui parli?

R. Una profezia è necessariamente un miracolo; nessuno sa per via naturale l'avvenire. Del resto a questo miracolo psicologico delle profezie si aggiunge il miracolo propriamente detto, il miracolo esterno, dei quali io non ritengo che il numero meglio attestato, il più impressionante, quello che forma attorno a Cristo una costellazione di fatti dolcemente luminosa come le nostre stelle.

D. Il miracolo mi urta. R. Perché?

D. Per la sua stranezza, per la parte arbitraria che vi si insinua, per il disordine evidente che introdurrebbe nella trama delle cose, in opposizione con le leggi che la scienza studia e a scapito di tutte le nostre certezze. R. Il miracolo non può apparire strano se non a una mente ancora lontana da Dio. Colui che vive abitualmente in presenza di Dio non si meraviglia di vedere che Dio fa qualche miracolo, dal momento che egli ha fatto tutto e tutto conserva. ì^eìVEncyclopédie, di solito antireligiosa, si trova questa lucida osservazione: « Sup-

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poni il nulla, e ti renderai conto che i fatti naturali e i fatti soprannaturali non tengono all'essere più gli uni che gli altri, non son più facili o più difficili a compiere gli uni che gli altri. Il rendere la vita a un morto è a Dio altrettanto facile quanto il conservarla a un vivo ».

D. Ecco la faciloneria di ciò che è arbitrano. R. È forse arbitrario che le leggi d'un ordine inferiore cedano alle leggi d'un ordine superiore? Ciò non si produce forse in tutta la natura, e la libertà umana non si oppone forse al determinismo nel nome dello spirito? Perché l'ordine soprannaturale non s'imporrebbe alle leggi naturali nel nome di fini superiori? Il funzionamento della natura è forse fatto per se stesso, e non è orientato allo spirito? Direi volentieri con Hello che, turbando un ordine di fatti che ci opprime o che si oppone ai nostri fini spirituali, Dio non fa altro che « turbare il disordine »; difatti l'ordine è nella subordinazione della natura alla vita e della vita alle leggi morali che la regolano.

D. La mia impressione d'un ordine alla rovescia non è dissipata.

R. Aggiungo questo. Secondo nessun punto di vista vi è qui un « ordine alla rovescia », o disordine. Vi è solo un ordine nuovo, in ragione di un'inversione che orienta altrimenti i fenomeni e così fa capo ad altri risultati. Nessun agente naturale è per questo violentato ne strappato alle sue proprie tendenze. Il miracolo scaturisce da Dio, ma è nella natura; « la sua trascendenza opera secondo modi immanenti » (marcello schwob).

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D. Il determinismo nondimeno viene spezzato. R. Niente affatto, se tu intendi quel determinismo che è una legge della mente e una condizione di ogni scienza; perché il determinismo così inteso vuole soltanto che in date condizioni si produca un dato effetto. Aggiungi una condizione — qui l'intervento divino —

10 stesso determinismo vuole che il risultato sia diverso.

11 determinismo naturale lasciato a se stesso, non ha niente d'intangibile; è un'abitudine dei fatti materiali;

dunque è inferiore allo spirito, del quale, per Enrico Bergson, esso rappresenta una meccanizzazione e una caduta; esso cede già davanti allo spirito umano: donde la libertà; cede anche davanti a Dio: donde il miracolo.

D. Ma che cosa diventa la certezza della scienza? R. Sei tu certo di ciò che io farò domani? e perché saresti tu certo di ciò che farà o non farà Dio? Le certezze della scienza non hanno questo oggetto; esse hanno di mira ciò che io chiamavo or ora le abitudini dei fatti, i loro collegamenti spontanei, rivelatori d'una natura delle cose. Ma la natura delle cose si estende fino a Dio stesso; essa si dispone in gradi in tal modo che ciò che è natura per sé è soprannatura per rapporto a quello che esso domina e regge. Dio è soprannatura in modo assoluto; la sua volontà è la legge suprema, come la volontà dell'architetto è la legge della sua opera, come la volontà dell'acqua, se posso dire così, è la legge d'una turbina. Qui non c'è difficoltà se non per coloro a cui preme che la natura sia sola, senza che Dio la penetri. Ma costoro non hanno più nulla a vedere coi diritti della scienza o con quelli del cosmo. Il miracolo non violenta

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affatto la natura; esso concorre con lei, e con ciò consacra le sue leggi.

D. E a che serve il miracolo?

R. A fare del bene e a illuminare. I miracoli di Cristo

sono tutti benefici, tutti chiarificatori.

D. Non danno alla sua vita un'aria di leggenda atta a

diminuire la sua azione, invece d'ingrandirla?

R. Nei miracoli di Cristo non c'è aria di leggenda;

nessun elemento di curiosità, di ostentazione o di puerilità ci si trova; essi si connettono strettamente al compito redentore. Gesù guarisce i corpi con quella stessa bontà che guarisce le anime; attraverso il corpo egli vuole arrivare all'anima, rendere autorevole la missione col suggello di Dio, rendere inescusabili i suoi negatori, e i suoi fedeli sicuri della loro prudenza, supplire per la durata della sua vita alle profezie non ancora compiute (come la sopravvivenza sua e quella dell'opera sua), combattere l'evidenza opprimente della sua umanità con uno splendore della sua divinità, allontanare lo scandalo dalle sue affermazioni trascendenti circa la sua persona, attribuendosi il diritto di domandare, davanti a un paralitico: « Che cosa è più facile, dire: I tuoi peccati ti sono rimessi, o dire: Alzati e cammina»? (matteo, IX, 6).

D. I miracoli di Gesù Cristo non Si spiegherebbero con il fascino di una personalità meravigliosa? R. La personalità di Gesù fu potente; ma ogni influenza ha dei limiti che ad ogni istante il Vangelo supera, e nessuno ha influsso sopra la morte. Del resto nella vita di Gesù vi sono dei miracoli ai quali la sua personalità è estranea.

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D. Alludi ai racconti dell'Infanzia. Ma queste storie di pastori e di Magi non sembrano molto puerili? R. Non vorrai giudicare puerile quella divina semplicità che tante grandezze compensano. È la sublimità propria del Vangelo l'aver messo insieme queste cose:

le narrazioni di Betlemme, e il Discorso della Montagna, il Gloria in excelsis e l'anatema contro i Farisei, l'officina di Nazareth e il Tabor, il presepio e la croce.

D. Ma queste narrazioni di miracoli non sarebbero state inserite più tardi dai discepoli ingenui e zelanti? R. Ciò si potrebbe supporre per qualche miracolo isolato; ma in generale essi fanno corpo con la persona, con la dottrina e con la trama storica della vita; è impossibile toglierli senza distruggere tutto.

D. Ma ancora, che cosa valgono questi testi e qual è la loro autorità?

R. Sotto l'aspetto della loro trasmissione, è riconosciuto che nessuno scritto dell'antichità offre tali garanzie critiche; e ciò, in grazia del gran numero di manoscritti prossimi agli originali, delle versioni primitive diverse, delle citazioni sparse e quasi immediate, delle edizioni scrupolose, ecc. In quanto agli stessi autografi, possono essere datati in media a una quarantina d'anni dopo la morte di Gesù; ma nota che lì non si tratta che della scrittura; prima vi è la testimonianza orale; vi sono quelli che hanno veduto e udito, e che attestano a costo della loro vita l'oggetto del loro messaggio. « Io mi fido di testimoni che si fanno sgozzare » (pascal).

D. Molti si sono fatti sgozzare per le loro credenze. R. Non si tratta di credenze, ma di fatti, di tutta una vita.

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D. Non vi sono neLy,Mgelo,Jm^e.~oscMÌ.tà...e-,coutrad-dhioni?

R. Esse sono minime, e provano la sincerità, l'indipendenza reciproca degli scrittori, fino a qual punto essi hanno « la passione del vero », come dice Origene. Con ciò, se lasciano del dubbio là dove i racconti non concordano, cioè in quanto all'accessorio, esse rinforzano la certezza là dove tutto concorda, cioè su ciò che maggiormente importa. Sarebbe stato così facile, fuori del profondo rispetto del vero e delle fonti, il mettere d'accordo gli scritti!

D. Sai che si è giunti a mettere in dubbio perfino la esistenza di Gesù Cristo?

R. È un eccesso estremamente oltraggioso di critici dilettanti. Ma se ve ne sono dei sinceri, coloro che qui dubitano hanno davvero perduto il senso del reale. Negli Evangelisti, la storicità di Gesù splende altrettanto e più che il misticismo; in essi tutto è profondamente umano, preso sul vivo dell'azione quotidiana, in connessione evidente con un ambiente e tempi storici determinatissimi, con uomini di carne ed ossa e con istituzioni positive che ogni sorta di minute particola-rità fanno riconoscere. I tratti di realtà locale confermati dalla storia, dalla topografia, dalla psicologia e dall'esperienza si contano nel Vangelo a migliala. Qui non si tratta di immaginazioni disparate. Le lacune dei racconti, le loro contraddizioni superficiali, l'opposizione apparente di certi tratti con lo scopo dei narratori, il carattere delle ^sconnessioni che nessun ritocco letterario corregge, la corsa allo spogliamente registrata nei fatti, ma non preparata, una moltitudine di affermazioni scon-

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certami per il senso umano, ambigue, insospettabili, e tuttavia ingenuamente proposte, come se coloro che riferiscono dicessero: Ecco, noi non ne possiamo niente:

mi sembra che sia già abbastanza per invalidare la supposizione d'una vita di Gesù tutta fabbricata di pezzi, e specialmente di pezzi, come si suppone, fuori di ogni realtà. Una tale supposizione è insensata. Ma c'è molto di più. Ed è che la personalità di Gesù si rifiuta a ogni composizione letteraria o mistica, a ogni creazione spontanea o concertata all'infuori di un fatto storico, e di un fatto trascendente. Infatti queste due cose sono legate insieme. Al Gesù del Vangelo .e.tanto impossibile l'essere splamente,_a.n uomo ..quanto, il,^ dileguarsi come un fantasma.

D. Non sono certo di capire.

R. Mi spiegherò con gioia; perché il mio rispetto e il mio amore di questa sacra personalità mi rende dolcissimo il presentarla, se posso dire così, a chi mi può intendere. Domando solo che non dimentichiamo di raccoglierci.

D. Dici che la persona di Gesù non potrebbe essere una creazione della mente, che è necessariamente reale, e aggiungi: divinamente reale?

R. È così. Tu conosci questa brusca interrogazione di Pascal: « Chi'ha insegnato agli Evangelisti le qualità di un'anima perfettamente eroica, per dipingerle così perfettamente in Gesù Cristo? ». Prendendo un esempio aggiunge: « Perché lo fanno debole nella sua agonia? Non sanno essi dipingere una morte forte? Sì; perché lo stesso S. Luca dipinge quella di S. Stefano più forte che quella di Gesù Cristo ». È un particolare; ma ve ne

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sono mille simili. Il carattere di Gesù nel Vangelo è elevato quanto lo può essere ideale d'uomo; la sua qualità morale permette di vedervi, se posso dire così, una forma umana degli attributi di Dio; ma, con ciò, questo carattere non ha niente di astratto; offre delle disparità che in una composizione o in un sogno collettivo sarebbero incomprensibili; in lui l'inatteso è un segno certo di autenticità, perché ce lo mostra radicato in realtà vive, che egli stesso non esaurisce.

D. Bisognerebbe vedere questo. R. Qui non posso far altro che fornire l'indicazione;

ma tu verifica, e sarai colpito dall'evidenza. Nello stesso modo che la dottrina di Gesù non è una teoria, ma la espressione della sua propria vita e della sua propria persona, così la sua vita e la sua persona, quali si presentano nei racconti evangelici, non sono costruzioni astratte, ma l'espressione di un ambiente in cui si manifesta un'anima, in cui si manifesta Iddio. Gesù è « una specie di giustizia animata », dice S. Tommaso d'A-quino; ma animato, alla sua origine, significa corporale, misto alla natura, versato nella storia, come un prodotto di questo suolo così come del cielo. Ciò non si fabbrica punto in un gabinetto di lavoro, ne esaltandosi in conciliaboli mistici. Nessun vapore d'immaginazione ha questa densità cristallina, questi contorni spiccati, queste facce in cui si alterna una doppia chiarezza:

quella di un'anima individuale infinitamente aperta, ma tanto più consistente, e quella d'un ambiente di vita troppo complesso e obiettivo per poterlo sognare. Qui, il concreto splende da per tutto ed è il miracolo! Trova tu altrove la perfezione dell'ideale nella realtà storica!

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« La grandezza che emana dalla persona di Cristo -— scrive Goethe — è d'un genere divino tale, che mai il divino apparve così sopra la terra ».

D. Questo gran pagano non vuoi forse dire che Gesù è divinamente uomo?

R. Lo credo; ma non mi basta. Perché ciò suppone contro i nostri sognatori una piena realtà storica, e offre una salda base per una prova della divinità.

D. Quest'ultimo punto mi interessa ^articolarmente. R. Ecco. Che Gesù sia « divinamente uomo », cioè più semplicemente, uomo perfetto, ciò suppone che in lui nulla sia difettoso, ne sotto l'aspetto dell'intellettualità, ne in quanto alla condotta. Bisogna che i suoi nemici siano confusi, quando l'accusano sia di follia, sia di ambizione esasperata e satanica, proprio come quando lo dicono un beone o un seduttore. Ora confronta questa esigenza coi fatti, nella supposizione che Gesù sia semplicemente uomo. Ecco un riformatore che ti dice:

« Ogni potere mi è stato dato in cielo e sopra la terra »;, « II cielo e la terra passeranno, ma non passeranno le mie parole »; « Io sono la luce del mondo »; un giudeo che, in un paese di teocrazia, si arroga il diritto di abrogare in qualche modo la legge del suo popolo e di fondare un avvenire sopra di sé solo; un uomo che parla con autorità di ciò che gli uomini ignorano; che esige la fede e il culto; che, mortale, pretende di risuscitare se • stesso e di risuscitare gli altri; che crede di poter fissare, nel giorno del giudizio mentre è sulla croce, la sorte eterna di chi lo confessa e ubbidisce a' suoi precetti; in una parola, che in ciò e in mille altre cose si comporta come una personalità trascendente, e tu dici: È un

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uomo ideale? Ma io dico: Se non è che un uomo, egli è l'ideale della superbia o della stravaganza, dell'esaltazione morbosa o della sfacciataggine. Nei due casi bisogna voltargli le spalle, con disprezzo o con ira. Se non si fa così, giudico che non si possono spiegare le sue parole e i suoi atti se non con l'adorazione.

D. Eppure Gesù non si disse Dio. R. Questa espressione cruda: « Io sono Dio », non corrispondeva alle circostanze e non avrebbe tenuto conto delle necessarie transizioni. Gesù dice quello che occorre, giorno per giorno, a una progressiva educazione de' suoi figli. Quando i suoi discepoli o i suoi miracolati vogliono precipitare le dichiarazioni, egli li riprende; impóne loro il silenzio; alle volte pare che egli stesso escluda perfino quello che rivendica, perché non è ancora venuto il momento e « vi sono dodici ore nel giorno ». Non svela i misteri; ma ne pone nondimeno le premesse. Quello che non dice in termini proprii, lo afferma in modo equivalente. Dice se stesso figlio di Dio in un senso speciale ed unico: « II Padre e io non formiamo che una sola cosa »; « Chi vede me, vede mio Padre ». Ha le creature spirituali al suo servizio. Giudica i vivi e i morti. Domanda che gli si sacrifichi tutto. Rimette i peccati e delega egli stesso questo potere. An-nunzia che manderà a' suoi lo Spirito di Dio. Riceve senza rinviarli a Dio omaggi dovuti a Dio solo. Venne dal Padre sopra la terra. Si dice Signore di Davide, sedente alla destra del Signore Iddio. Lui solo conosce il Padre come il Padre conosce se stesso, e tutti gli altri non conoscono il Padre se non per mezzo di lui. Tutto gli è stato affidato. Relativamente alla vigna umana, di

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cui Dio è il vignaiolo, è lui il Figlio, l'Erede in opposizione agli inviati apostoli o profeti. Davanti all'autorità suprema del suo paese e della sua religione, egli pone quell'affermazione solenne, che porta seco la sua morte, cioè che egli è il Cristo, Figlio del Dio vivo, e che verrà sopra le nubi del cielo alla destra della potenza di Dio.

D. Ma ha egli veramente detto tutto questo, preteso tutto questo?

R. Ancora una volta, si potrebbe discutere sopra una data parola, come si potrebbe cavillare su un dato miracolo, e, secondo l'uso, distinguere tra i « sinottici » e « Giovanni ». Ma se si prendono le cose nell'insieme, lealmente, tali quali si presentano, è impossibile negare che Gesù non si sia presentato come un personaggio sovrumano. E ciò non ci basta? Vorremmo noi, come certi gnostici, domandarci se egli non fosse un eone? La questione è questa: È egli realmente sovrumano, o è un pazzo? È egli sovrumano, o è il « seduttore » che denunziarono i pontefici chiedendone la morte? Perché bisogna ben confessarlo, se Gesù non è sovrumano — quindi dotato di autorità in tutto quello che disse, in tutto quello che fece — allora sono i farisei che hanno ragione; ed egli meritò la sua sorte; gli fecero espiare con giustizia le sue sacrileghe impertinenze.

D. Eppure, Renan...

R. Sostenne una scommessa, e non vi riuscì. Volle collocare « al sommo dell'umanità » un essere che egli stesso descrive — in frasi graziose — come un allucinato o un mentitore. Lo incensa e lo beffeggia. Lo dichiara « divino » dolendosi amaramente della sua divinità e del suo onore nello stesso tempo. « Un essere

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miracoloso in un universo senza miracolo », dice Ber-nanos; un prodigio di umiltà e di orgoglio; un predicatore di Dio che « attira tutto a sé »; un dottore della rinunzia — tutta la dottrina del quale si fonda sullo spogliamente dell'ho — e che spinge la sua ambizione fino a brigare, e ottenere, un culto universale. Ciò non regge.

D. Non sarebbe possibile un'altra interpretazione di questa vita e di questa personalità? R. Vi è quella di Giulio Soury: Gesù figlio di un al-coolizzato o di un degenerato; quella di Binet-Sanglé:

Gesù, un pazzo.

D. Parliamo seriamente.

R. Seriamente: tutte le^ interturetazioni naturali del caso Gesù Cristo sono st^te distrutte una dopo l'altra, distrutte l'una dall'altra; insieme si annullano, e il caso Gesù rimane.

D. Che impressione diretta ne avresti tu, facendo astrazione da' tuoi dogmi?

R. Una tale astrazione è assai difficile; non si può garantire che la propria sincerità. Col benefizio di questa riserva, ecco quel che io penso.

D. Ti ascolto con ansia.

R. Gesù si presenta come trascendente al primo sguardo. Si può credere al migliore Napoleone: « Io m'intendo di uomini, e ti dico che Gesù Cristo non era un uomo ». Questo equilibrio di grandezza; quest'armonia di una condotta tanto eminente quanto semplice e di una parola tanto naturale quanto sublime; questo dono di essere in casa sua nei due mondi, di parlare

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delle cose terrene e delle cose celesti come ugualmente familiari, delle cose grandi e delle piccole come dello stesso valore, come un grande finanziere parla di milioni e miliardi, un generale di piazzeforti, un capo di Stato di province; questa facoltà di non mai stupirsi, di essere all'altezza di tutto, di sciogliere ogni difficoltà e di dirimere ogni questione con un solo sprazzo di luce:

ecco di che trasportarci in una sfera a parte: questo non è umanità corrente, e la qualifica 'eccezionale' non mi basta. Gesù parla positivamente delle cose dell'altro mondo come un viaggiatore parla al forestiero delle istituzioni del suo paese; egli dice quello che sa, quello che ha veduto, e che è per lui cosa di famiglia, quello che è lui stesso, ed opera in conformità.

D. È qualcosa di sublime al modo di Sacrate. R. Che differenza! « La vita e la morte di Socrate sono di un uomo, dice Gian Giacomo Rousseau; la vita e la morte di Gesù Cristo sono di un Dio ». Per me è l'evidenza che parla. Leggi il Vangelo con semplicità, con fedeltà, non con quella fedeltà che consiste nel credere prima questo o quello, ma con la fedeltà anticipata che si deve alla verità quando la si cerca; leggilo con spirito religioso, cioè ponendoti internamente grandi problemi eterni e pronto ad ascoltare la risposta; leggi così, e di' se non senti la presenza di Dio.

D. Allora è una visione, non più storia. R. Dico presenza di Dio, e dico anche realtà umana la più autentica. Questo non è mitologia; non è teologia abbigliata di fatti; il reale spunta fuori; è il reale positivo che è « caduto dal cielo » (alessandro dumas figlio); la spiritualità più trascendente e il fatto più con-

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creto sono qui inseparabilmente legati e si provano l'un l'altro; il loro incontro è più miracoloso dei miracoli che si vedono. Tutti i nostri schemi sono spezzati; la nostra mente è sorpassata; il nostro cuore è anelante, eppure tutto ciò ha l'accento della verità; è il suono del reale umano e il suono d'una voce divina.

D. Insamma, a' tuoi occhi, il Vangelo prova se stesso. R. Esatto, e oso dire che ci vuole una specie di cecità spirituale per non vedere.

D. Questa cecità è assai diffusa.

R. Ahimè! ci sono tante cose accecanti che noi non

vediamo.

D. Almeno si sospettano, e questo sospetto si fa riconoscere.

R. È questo veramente il caso. Anche quando non si crede alla divinità di Cristo, la si sente, la si prova sotto la forma di una venerazione unica, alla quale nessuna personalità della storia potrebbe pretendere anche solo lontanamente. Dimmi, vi è un uomo del quale non si stimerebbe ridicolo il dire: Egli è Dio? Ma non si trova ridicolo dicendolo di Cristo. Coloro che negano la sua dottrina, ed anche, cosa strana, coloro che negano Dio, lo riconoscono di un ordine divino, gli attribuiscono, come Augusto Sabatier, « una specie di natura divina ».

D. Che significa questo?

R. Chiedilo al suo autore. Per conto mio, dico che una virtù esce da Cristo, come diceva egli stesso, ed essa guarisce la cecità del bestemmiatore.

D. Che cosa pensi della risurrezione di Gesù? R. È il più grande de' suoi miracoli, e il meglio atte-

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stato di tutti; perché gli altri hanno di per sé la testimonianza degli uomini; questo invece vi aggiunge la testimonianza de' suoi effetti.

D. Quali effetti?

R. Quelli che lo stabilimento della fede suppone. Ricorda quello che disse Ernesto Lavisse: « Io, storico, non so ciò che avvenne il mattino di Pasqua: ma quello che so è che quel giorno nacque un'umanità che non muore più ». Una umanità perpetua, sorta da quella tomba, è qualche cosa! È un'attestazione del prodigio segreto. Infatti, se Gesù soccombette al suo compito, donde è partito quell'immenso movimento di cui viviamo ancora? Come si spiega che Gesù sia per noi diveri-, tato ogni cosa ed occupi tutto lo spazio, con la sua presenza o con la sua assenza; che la sua causa si confonda ormai con quella della Divinità sopra la terra, e che tutta un'umanità viva con questo morto, se la tomba ce lo ha restituito?

D. Chi parla di vivere intimamente con lui! R. Si vive intimamente con Gesù Cristo; egli è per noi più che uno vivo, più che un uomo presente e che ci parla.

D. Come ciò?

R. È il miracolo della Chiesa, della Grazia e dell'Eucaristia. Per la Chiesa, Cristo ci avvolge; per la Grazia, abita nei nostri cuori; per l'Eucaristia, rende sensibile esternamente come internamente la sua divina presenza.,, Or tutto questo non è niente senza la risurrezione.

D. £ possibile nutrirsi di ciò che, in sé, non è niente,

quando dei secoli di tradizione lo consacrano.

R- Ma io parlo del punto di partenza; domando che

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cosa ha inaugurato il primo impulso e quale ne fu la molla. Che cosa è che ha messo in moto gli Apostoli e li fece riuscire? « Bisognava che qualche cosa fosse successo », dice Claudel. « Mentre Gesù era con essi — dice Pascal — egli li poteva sostenere; ma dopo, se non è apparso loro, chi li ha fatti agire? ». Si erano veduti così deboli! fuori di ogni avvenimento sovrumano, come hanno fatto a trascinare tutta la terra nei loro movimenti ?

D. I discepoli di Maometto sono diventati un grande popolo.

R. Sono diventati un grande popolo per la forza della scimitarra; il cristianesimo si stabilì per l'idea e per il fatto. L'idea era la dottrina di Cristo, che convertì e trasformò in umanità nuova tutto il mondo civile d'allora;

il fatto, garante della dottrina e che ne era inseparabile, era, in primo luogo, la risurrezione.

D. Pure si dice comunemente, tra coloro che non credono, che la risurrezione fu supposta dopo, per il fatto d'un entusiasmo religioso.

R. Al contrario essa è alla base di tutto. Senza di essa non si spiega niente. Non è un effetto della fede, ma la causa. La Chiesa poggia sulla pietra della tomba vuota.

D. Per tè il cristianesimo è dunque dimostrato?

R. È dimostrato quanto, si possono dimostrare le cose

morali.

D. È una restrizione?

R. Con ciò intendo di eliminare delle esigenze as-Surde. Ogni ordine di conoscenza ha le sue prove, che corrispondono alla sua natura; i teoremi si provano ma-

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tematicamente, le leggi scientifiche scientificamente, i fatti morali moralmente, e i fatti religiosi religiosamente.

D. Che cosa significa quest'ultima parola? R. Essa sottintende un triplice concorso: quello di una saggia indagine, quello di una volontà retta, quello della grazia, senza le quali Dio non si può raggiungere.

D. Che cosa fare, con questo spirito? R. Tè lo dirò in generale, e tè lo dirò per tè stesso, se lo permetti, pronunziando le mie ultime parole. — Attendo.

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I MISTERI

CHE COS'È IL MISTERO

D. Che cosa è questo mistero, che si trova sulla strada della religione e sembra farle correre il rischio dell'assurdo?

R. Il mistero è così poco l'assurdo che ne è quasi esattamente il contrario. L'assurdo è l'evidenza del falso; il mistero nasconde il vero sotto la grandezza stessa del vero. Di modo che, nel primo caso, l'obbligo di ricono-scersi vinto s'impone all'assurdo, nel secondo all'intelligenza. « La fede dice, è vero, quello che i sensi non dicono — spiega Pascal —; ma non il contrario di quello che essi vedono. Essa e. sopra, non contro ».

D. Donde deriva quest''obbligo di abdicare che spetterebbe all'intelligenza?

R. Limito per ora la portata di questa parola; ma nella misura che la mantengo, dico: Noi abdichiamo in favore dell'autorità divina. « Io credo.,,,arditamente dove non vedo niente — dice Bossuet — perché credo a Chi vede tutto ». Tu certo non mi domandi di ricominciare a fondare — per quanto brevemente e incompletamente io l'abbia fatto — questa stessa autorità.

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D. Io mi attengo alla questione presente, ma temo che la religione abusi qui di una certa propensione della anima umana.

R. L'abuso sarebbe nel proporre dei misteri senza garanzia; offrendo la garanzia col mistero, la religione valorizza solamente la tendenza naturale dell'anima verso l'infinito.

D. Mi stupisco però che tu trovi naturale l'oscurità. R. Il mistero non è affatto oscuro .m se stesso; se la nostra vista si potesse estendere fino ad esso, non lo chiameremmo più mistero, ma evidenza. Le stelle invisibili non sono forse, nel loro posto, dei globi abbaglianti? Non il mistero è oscuro, l'oscurità è in noi; è la nostra condizione attuale che ci intercetta la comunicazione diretta con esso.

D. Le dottrine religiose che scartano il mistero son tuttavia più facili a credere.

R. In simile materia ciò che è facile a credere non merita di essere creduto.

D. Il mistero sarebbe dunque a' tuoi occhi una necessità?

R. « L'ultimo passo della ragione è dji. riconoscere che c'è un'infinità di cose che la sorpassano^ essa è fiacca se non arriva a»conoscere.,questo » (pascal).

D. Ma quello che ci sorpassa oggi ci può essere noto

domani.

R. « I princìpi delle cose son nascosti in un segreto

impenetrabile » (pascal).

D. Pascal dice: I princìpi; ma le cose? R. Le cose dipendono dai loro princìpi e non sono

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conosciute di una conoscenza decisiva se non per mezzo di essi, di modo che tutte le scienze poggiano, come la religione, sopra l'incomprensibile. « Percorri la cerchia delle scienze — dice Giuseppe De Maistre — e vedrai che cominciano tutte da un mistero ». Del resto il mistero vi persiste e vi si ritrova a ogni nuovo passo, perché ogni passo della scienza dipende da' suoi princìpi.

D. Il mistero naturale e il mistero religioso sono dello stesso ordine e dello stesso grado? R. Non sono dello stesso ordine; ma praticamente non vi sono gradi nella notte profonda. Teoricamente, guardando le cose in sé, il mistero religioso è più profondo, per la ragione che esso si avanza di più in Dio. Così Pascal aggiungeva alla prima frase ora citata: « Che se le cose naturali ci sorpassano, che si deve dire delle soprannaturali? ».

D. Eppure ho letto questo, che mi ha recato meraviglia: « I misteri della Chiesa, paragonati ai misteri della natura, non sono che giochi da bambini ».

R. Chi parla così è Le Dantec, un ateo convinto, e il raffronto m'interessa; ma anche questo è un errore per rovesciamento, per inversione di valori. La Trinità è più nascosta che le leggi di costituzione della materia; l'ordine supremo è più oscuro che la gravitazione dei corpi. In questo senso, si è nel vero dicendo con Giulio Soury:

« La scuola primaria dello spirito è la scienza ». Il mistero ci avvolge da ogni parte, ed è assai strano il vedere che una ragione così radicalmente impotente riguardo alle più semplici cose elimini con alterezza i dati religiosi che essa non capisce. Noi respiriamo nell'incomprensibile; siamo noi stessi qualcosa d'incomprensibile,

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e l'incomprensibile è anche il nostro pane. Io ti propongo questa doppia definizione sommaria: Dio è un mistero che si nasconde, l'universo un mistero che non si nasconde.

D. Ammetteresti dunque la dottrina dell'inconoscibile?

R. Niente affatto. Ciò che si chiama l'Inconoscibile, con una maiuscola, è una specie di mistero infinito, in tutti i modi inaccessibile, un « oceano per il quale noi non abbiamo ne barca ne vela » (littré) e in senso al quale tutto il reale non è che un'isola sperduta. Il mistero cristiano è finito, circoscritto e incluso in un sistema di spiegazioni di tale natura da soddisfare la nostra intelligenza. Non è un grande abisso nero, ma un seminato di macchie oscure circondate da luce, e dietro alle quali si annunzia una luce più viva che in nessuna altra parte.

D. Definiresti dunque il mistero... R. Un varco d'ombra che si apre sulla luce.

D. Quali conseguenze pratiche ne ricavi? R. Queste: se l'Inconoscibile è una zona interdetta per definizione, il mistero è un invito a tentare le ricerche, così come si cammina verso un fuoco lontano. I genii cristiani non si manifestarono meglio che procedendo in questa dirczione; vi si sono arricchiti in tutto il percorso, e se non hanno rischiarato niente di ciò che deve restare oscuro, l'hanno però chiosato di chiarezze preziose, l'hanno mostrato in rapporto con tante cose, che alla fine queste stesse tenebre si mostrano le sole plausibili spiegazioni.

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D. Ecco un bei paradosso! R. Non è affatto un paradosso. Un punto d'ombra è rischiarante quanto un punto luminoso, quando si tratta di stabilire delle convergenze e di costruire uno schema completo della nostra vita e del nostro universo. In se stesso, il mistero è misterioso: è la sua natura; messo in concordanza con tutto il resto, è una fonte di chiarezza:

è il suo compito. « Salve, grande Notte della fede — scrive Paolo Claudel. — Ecco la notte, meglio del giorno, che ci indica il cammino ».

D. Il mistero dunque non è una prepotenza esercitata dalle religioni, una « prova » in flit ta allo spirito?

R. È così poco una prepotenza che l'ho definita poco fa uno stimolo a pensare, nella speranza di sempre nuove conquiste. Una prova lo è in un certo senso, perché si amerebbe vedere tutto; ma è assai più una liberazione, perché senza mistero, non è più solamente la oscurità, ma la stravaganza a cui ci troveremo di fronte.

D. Spieghi enigmi con altri enigmi? R. Proprio come per Dio, perché anche qui in definitiva si tratta di Dio. Non bisogna forse che le chiavi abbiano la complessità delle serrature? In caso diverso non aprirebbero.

D. Ma allora in che consiste la spiegazione? R. In ciò che il mistero, per quanto inesplicato in se stesso, ci permette di vedere; un giorno si svelerà esso stesso. Senza di esso, i fatti della nostra esperienza sono incomprensibili; esso ce li fa comprendere attirando a sé le loro oscurità, che allora sono al loro posto e pren-

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dono un carattere: provvisorio. Esso rischiara localizzando la notte.

D. Di conseguenza il mistero supera la ragione, ma una ragione oltrepassata non può essere una ragione soddisfatta.

R. Una ragione superata è meravigliosamente soddisfatta, quando in ciò che la supera le si fa vedere il mezzo di rassicurarsi e di comprendere, là dove essa stessa non si trovava a suo agio. Il sistema cristiano risolve i suoi misteri, in grazia di una convergenza, e risolve il mistero del reale, riunendo tutte le linee della nostra esperienza e del nostro pensiero.

D. È certamente questo a provocare la tua ammirazione.

R. Certo. I nostri misteri sono oscuri, ma intcriormente si collegano gli uni agli altri, sono strutture architettoniche e danno un'impressione d'armonia, come una cattedrale nell'ombra.

D. Per queste ragioni -dovrebbero prestarsi a tentativi di spiegazione relativa?

R. « Si spiega sempre appunto quello che non si comprende » (BARBEY D'AUREVILLY).

D. Ma in questo caso le spiegazioni saranno spesso erronee.

R. Spesso. « Lo spirito umano si vendica delle sue ignoranze co' suoi 'errori » (Idem}.

D. Non sarebbe anche fatale?

R. No. La notte dei misteri ha questa strana proprietà,

di far produrre alla mente retta che li scruta il suo mas-

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simo di luce; essi sono la pietra di paragone del genio come quella della fede.

D. Dove si trova a loro proposito la più alta teologia? R. In S. Paolo. Ma bisogna intenderlo. S. Paolo è il teologo del Vangelo; S. Tommaso d'Aquino è il teologo di S. Paolo.

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IL MISTERO DELLA SS. TRINITÀ

D. Qual è il più grande dei misteri?

R. È il mistero della SS. Trinità. Il suo effetto è di

soprannaturalizzare il concetto di Dio, e di portarlo

assai oltre a ciò che potrebbero concepire le più potenti

intelligenze.

D. In che cosa la nozione di Dio è soprannaturalizzata grazie al mistero della SS. Trinità?

R. In questo, che Dio nella prospettiva trinitaria prende vita, invece di presentarsi come una grande X nella formula del mondo; nel senso che pur « rimanendo unico, non è più solitario », secondo la felice formula d'Ilario di Poitiers; nel senso che, vedendo l'universo materiale e l'universo spirituale come un sistema di scambi, noi ne ritroviamo il tipo meglio definito, più perfetto negli scambi interni che ci si descrivono. Il Dio trino ed uno è come un universo eterno, necessario, infinito e vivente. Egli è la Realtà della quale ciò che noi chiamiamo universo in certo modo non è che un'ombra, una proiezione molteplice e labile. L'effondersi di Dio nella natura non è: che un simbolo di quell'effondersi di

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Dio in se stesso che le relazioni trinitarie ci fanno in-travvedere. La teodicea, senza essere alterata, è così portata sopra un nuovo piano e si apre a una regione meravigliosa, chiusa al « Dio dei filosofi e dei sapienti ».

D. Il Dio di Aristotile e di Plafone non è già sublime? R. Il Dio di Fiatone è grande: se a quello che egli dice dell'Amore supremo si aggiungesse quanto Aristotile dice di Dio definendolo il Pensiero del Pensiero, si avrebbe già una trinità in abbozzo.

D. La tua Trinità non deriva per caso da queste sorgenti remote, attraverso la mediazione alessandrina? R. Nessun dubbio che le dottrine platoniche abbiano influito sopra i tentativi di spiegazione della SS. Trinità;

ma l'origine del dogma è tutt'altra, e non ha niente di metafisico. La Trinità ci è stata data come un fatto; la dichiarazione di questo fatto per mezzo di Gesù Cristo fu del tutto occasionale, tratta dalla necessità di definire la persona del Redentore e le condizioni dell'opera sua. La formula missionaria usata da Gesù nell'inviare i suoi Apostoli: « Andate e insegnate a tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre, e del Figliuolo, e dello Spirito Santo », dimostra il carattere pratico, costitutivo, rituale delle sue dichiarazioni trinitarie, che solo più tardi saranno sistemate e daranno luogo a un dogma, poi a una filosofia.

D. Dove si trova, nella Scrittura, l'espressione più viva della Trinità?

R. In S. Giovanni, e. XIV, dove Gesù racconta, per così dire, la vita delle tré Persone tra loro e nell'anima dei veri cristiani.

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D. Sembra assai difficile vedere nella Trinità altro che dei modi di pensare Dio, dei punti di vista sopra Dio, come si dice: Dio potenza è il Padre; Dio sapienza è il figliuolo, e Dio amore, lo Spirito. R. Non si tratta di questo, nel qual caso non si parlerebbe di Persone.

D. Allora si tratta di emanazioni, e solo il Padre è Dio.

R. Non si tratta di emanazioni fuori di Dio; ma di emanazioni (o di processioni, secondo la parola consacrata) in Dio stesso. La vita di Dio si effonde dentro come in tré centri di scaturigine, in tré termini di relazioni interiori, in tré io ugualmente divini. Il Padre è Dio fecondo secondo lo spirito; è la sua fecondità; è Dio stesso. Il Figliuolo è il frutto divino di questa fecondità spirituale, Verbo mentale, Idea reale, Assioma eterno, avrebbe detto Taine, e lo aveva sospettato anche Taine, è in Dio un soggetto sussistente; è Dio stesso. Lo Spirito Santo è il frutto della compiacenza che unisce il Padre e il Figliuolo, l'Intelligenza e l'Idea, il Verbo e Colui che lo dice; perché il Verbo, espressione dell'infinito, infinito lui stesso, implica un'attrazione reciproca donde scaturisce l'amore. E questa compiacenza di Dio per Dio è altresì identica a Dio"; essa è Dio, perché è essenziale e perfetta.

D. Come la perfezione può avere per effetto la moltiplicazione?

R. Se il mio pensiero mi diventasse intimo e adeguato al punto di essere identico a me, e se la mia compiacenza in me stesso avesse la stèssa intimità e la stessa perfezione, io diventerei trinità, e non ne sarei se non mag-

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giormente uno, più semplicemente e indivisibilmente me stesso. Colui che conosce porta in sé idealmente quello che conosce; colui che ama porta in sé affettivamente, in impressione, quello che ama: se è me stesso che io conosco ed amo, dunque io sono in me triplicemente: per il mio essere, per la conoscenza che ho di me stesso, per il mio amore. Se non che, una sola di queste tré cose è me sostanzialmente; le altre non sono che accidenti della mia sostanza. In Dio, dove nulla è accidentale, dove tutto è Dio perché tutto è perfetto, il pensiero è sostanziale, l'amore è sostanziale, ed essi sono Dio senza cessare di essere pensiero, amore, distinti dalla sorgente da cui procedono secondo che ne procedono identici ad essa secondo tutta la positività d'un essere comune.

D. Intendi con ciò di spiegare la Trinità? R. La Trinità non si spiega; si può solo vedere. Un giorno la vedremo; intanto la esprimiamo, senza la minima pretesa esplicativa e soprattutto dimostrativa.

D. Bisognerebbe almeno eliminare la contraddizione, che a prima vista appare manifesta.

R. Nella nozione del Dio trinc^ed uno non vi sarebbe contraddizione a meno che il tré e Vuno si riferissero allo stesso termine. Ora noi diciamo: Una sostanza, tré persone, come diremmo: Un albero e tré rami; un vivente e tré organi; un'anima e tré facoltà, ecc. L'unità nella pluralità, anziché importare una contraddizione, sembra la legge e la misura di perfezione di tutte le cose naturali; l'accrescimento di questa contraddizione apparente è la legge stessa del progresso. Alla sommità, non recherà meraviglia trovare la più perfetta unità, e anche la più

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perfetta pluralità perché è la più semplice, la più completa, la meglio chiusa sopra se stessa, cioè la trinità. Non è forse noto che la pluralità tiene in questo mondo un posto privilegiato? Si potrebbero fornire miriadi di esempi, sia nelle realtà materiali, sia nell'anima, nella famiglia e fino nella logica, dove il sillogismo ne offre un'espressione smagliante. Non vi è da stupirsi che in Dio si trovi, certo ineffabilmente, ma riflesso in qualche modo, il piano della sua creazione.

D. Sì, ma tu sostieni nello stesso tempo la semplicità di Dio. Ora come dire semplice quello che è trino, e come dire semplice quello che è uno da una parte, trino dall'altra, specialmente se l'unita, e la trinità sono perdette?

R. Noi affermiamo in Dio il massimo di unità; vi troviamo anche il massimo di distinzione, che è l'opposizione di persona a persona. Io non intendo assolutamente, lo ripeto ancora una volta, spiegarti il mistero, descriverti « questa unità così inviolabile che il numero non vi può portare divisione, e questo numero così ben ordinato che l'unità non vi mette confusione » (bos-suet). Ma alla tua precisa difficoltà rispondo: Essa non avrebbe ragioni d'essere, salvo che in Dio l'uno e il molteplice fossero ugualmente positivi. Ma, di positivo in Dio, non vi è che la sua sostanza, o il suo essere, cioè l'unità; la moltiplicità delle persone è costituita da pure relazioni. Ho già detto che la parola persona dev'essere corretta quando si applica a Dio. Del resto, persone, relazioni, ricoprono ugualmente dei misteri.

D. Ti sfa a cuore che non si comprenda? R. « Se tu comprendi, non è quello », dice S. Ago-

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stino. Parlando di Dio, non sarebbe possibile eliminare il mistero. Che se per sfuggirlo si rifiuta la Trinità, lo si ritrova per la sua assenza. Come concepire Dio altrimenti che pensante, amante e beato? E come concepire, in lui, un pensiero e un amore che non siano Dio stesso, e tuttavia distinti? Come concepire per Dio una felicità senza società, senza scambi, una felicità legata a quella spaventosa solitudine che sembrerebbe essere quella di un Dio senza universo — cosa possibilissima — ed anche con un universo, che non gli aggiunge alcunché? • Tuttavia la più alta e rigorosa delle filosofie non cristiane, quella di Aristotele, ha affermato la felicità di Dio, e ha definito Dio il Pensiero del Pensiero. Si può immaginare questo ritorno di Dio sopra se stesso senza una certa moltiplicità inferiore, dove tuttavia l'unità eterna non è compromessa? In fondo, quello che noi affermiamo è semplicemente la vita divina, la vita che consiste nell'individualizzare il suo pensiero perché esso sia perfetto, nell'individualizzare il suo amore perché esso sia perfetto. Il Dio vivente, l'Unità vivente, ecco la Trinità.

D. Dai l'impressione di disprezzare l'universo come manifestazione di Dio, come vincolo di società con Dio. R. Io non disprezzo niente quando Dio lo trova buono e lo fa. Ma è certissimo che l'attività di Dio non potrebbe avere il suo pieno effetto nella creazione contingente e imperfetta; essa si manifesta per mezzo del Figliuolo e dello Spirito Santo, nella stessa Divinità. L'arte divina non può esaurirsi e la paternità divina soddisfarsi se non nel Verbo, suo uguale e suo Figliuolo con-

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sostanziale, e solamente nello Spirito placarsi l'eterno amore.

D. Concepisci le tré Versane come operanti ciascuna a se, e ancora, richiedono esse un culto a parte? R. Ciascuna Persona, essendo Dio, merita l'adorazione; si adorano dunque tré Persone. Nondimeno l'adorazione è una, laus tamen una. Quanto all'azione divina, essa è realmente una, poiché è la manifestazione dell'essere divino, che è uno; ma si usa appropriare un dato genere d'azione a una data Persona divina che ne è il prototipo, come le azioni di sapienza al Verbo, come le opere di amore all'Amore vivente.

D. Annetti realmente una grande importanza alla dottrina della Trinità?

R. Certamente! quale luce su Dio! quale modo decisivo di eliminare il Dio astratto, il Dio primo organismo del mondo, e di accendere la vita spirituale alla fiamma del Dio vivo!

D. Non è forse troppa vita, voglio dire una vita troppo

umana?

R. La Trinità si oppone al politeismo antropomorfico,

e nello stesso tempo che al freddo deismo.

D. Il Dio d'amore è per tè il Dio-Spinto? R. Sì, e per questo Dio arde, nel medesimo tempo che illumina, nel medesimo tempo che attrae. L'Amore, questa forza gloriosa che parte dal Padre verso il suo Uguale e rimbalza tutta viva, attraversa nel suo slancio tutta la creazione; ricollega tutto al Padre, e al Figliuolo, e compie tutte le cose, come compie Dio.

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D. In tali condizioni, la Trinità deve tenere nel tuo dogma un posto eminente.

R. Già ti ho detto che essa è al centro di tutto. Come osserva il Catechismo del Concilio di Trento, essa fornisce gli « articoli », cioè le articolazioni del Credo. Parte prima: Dio Padre e Creatore; parte seconda: Dio Figliuolo e Redentore; parte terza: Dio Spirito e Santi-ficatore. La santificazione suppone la Redenzione, questa l'Incarnazione, questa la Trinità. Abbiamo già contato e conteremo ancora gli anelli di questa catena.

D. E praticamente?

R. Nella vita cristiana, tutto si fa nel nome del Padre, e del Figliuolo e dello Spirito Santo. Ogni preghiera rituale invoca la Trinità esplicitamente, e ogni preghiera privata vi si riferisce. Il battesimo è conferito nel suo nome. Il Gloria Patri, et Filio et Spirititi Sancto è il ritornello dei testi liturgici, e il Gloria in excelsis ne è un sublime canto.

D. Tuttavia il Dio uno come il muezzin lo annunzio dall'alto del minareto mi affare superiore. R. Quando si ascolta il muezzin o si legge il Corano, si ha l'impressione di passare sotto un grande arco. Quando invece risuona il Credo o il Simbolo di S. Ata-nasio, si cammina sotto le stelle.

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IL MISTERO DELLA CREAZIONE

a) La creazione stessa

D. Perché dici la creazione un mistero? R. Perché Dio è un mistero, e benché non si tratti qui della sua intimità, come nel mistero in senso rigoroso, tuttavia, per noi, l'oscurità è grande altrettanto. Per capire la creazione, punto di sutura tra Dio e il mondo, bisognerebbe poter comprendere e il mondo e Dio.

D. Il mondo dunque deriva da Dio? R. Così dev'essere, in una certa maniera. Come quest'indigente si sarebbe arricchito d'essere, se non per un prestito ottenuto dall'Essere perfetto?

D. Accetti allora la dottrina delle emanazioni? R. S. Tommaso usa questo termine, ma non nel senso degli emanatisti. Costoro fanno dell'universo, materiale e spirituale, una derivazione, un irradiamento necessario del primo Principio; la loro concezione è pantelstica e più o meno trascina Dio nel divenire, distruggendone la trascendenza. Per il pensiero giudeo-cristiano, Dio è la causa del mondo e il mondo partecipa di Dio; ma l'essere del mondo non esce dall'essere di Dio; non ne è

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una parte; con tutto ciò non si addiziona con esso, e lì appunto sta il mistero.

D. Dio e il mondo non sono più che Dio solo? R. No, nello stesso modo che, in matematica, l'infinito più un numero qualunque è uguale all'infinito. Del resto abbiamo già toccato questo problema e ne abbiamo riconosciuto la necessaria oscurità.

D. Non dici forse che il mondo fu tratto dal nulla? R. È un modo di dire. Dal niente, non essendo niente, non si può trarre niente, ne come si trae un'opera d'arte da una materia, ne come si trae un oggetto dal vaso in cui era contenuto.

D. Forse vuoi dire che il niente è qui un punto di partenza?

R. Proprio questo; ma non è ancora se non un modo di dire; perché il niente non può essere un punto di partenza più che un recipiente o una materia: il niente è niente e non potrebbe avere alcun compito positivo. Quando si usa questo termine, bisogna intenderlo negativamente, e ciò vuoi dire che la creazione non presuppone nessuna materia, nessun punto di partenza, nessun antecedente qualsiasi; essa da tutto, e non vi sono materie, punti di partenza, antecedenti, se non dopo di essa; voglio dire in ragione di essa; perché dopo o prima della creazione, questo non ha senso.

D. La creazione non ha avuto luogo in un dato momento?

R. Dove si prenderebbe questo momento, poiché i momenti stessi hanno bisogno di essere creati? Il tempo non è un figlio di Dio come tutto il resto, un attributo delle cose, dunque anch'esso una cosa?

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D. Ma allora la creazione ha luogo eternamente! R. La creazione, se si vuoi significarla come azione, è di fatto un'azione eterna; è un'azione di Dio, e l'azione di Dio è Dio. Se Dio è immutabile ed eterno, la creazione vista dalla parte di Dio dev'essere tale; se non che l'effetto, che è il mondo, è temporale. Il tempo è posteriore alla creazione, come uno de' suoi risultati; non può dunque fornirle il suo momento. Per la creazione, tutto si radica nell'eternità, anche la nostra durata effimera.

D. Ecco una cosa assai oscura! R. Ti ho già detto che la creazione è un mistero.

D. Ma che cosa è in se stessa? R. Presa attivamente, se si vuole, è come l'irradiamento d'un Centro ineffabile, in cui il tempo e gli oggetti del tempo prendono la loro origine. Passivamente è la connessione del raggio al suo fuoco, cioè la sospensione del temporale all'eterno, la sua dipendenza totale;

è dunque una pura relazione; ma questa relazione forma il nostro essere. Per noi, essere, o dipendere da Dio, o prendere da Dio, è la stessa cosa.

D. Ma se Dio « irradia » così nel mondo, ritorni alle « emanazioni ».

R. Ti ho avvertito che noi ci esprimiamo come possiamo. Ci rappresentiamo così le cose, perché la nostra mente, abituata alle relazioni reciproche, concepisce che vi è irradiamento dovunque vi è il raggio. Ma in realtà, qui, il raggio non discende, ma sale. Da Dio a noi le relazioni non sono reciproche; noi dipendiamo, ma egli non dipende affatto, ciò che avrebbe luogo se egli « irradiasse » in modo da comunicarci qualche cosa. Perché

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chi tocca è anche toccato; chi agisce nel senso umano del termine subisce anche un'azione; non vi è azione senza reazione, e quando io appoggio la mano sulla tavola, anche la tavola agisce sopra di me.

D. Allora?

R. Allora, rimuovendo ogni immagine e ogni concessione al discorso, bisogna dire che la creazione è la dipendenza del mondo in rapporto a Dio; essa non è altro.

D. Ti piglio in parola e dico: II mondo è eterno. R. Perché?

D. Perché, secondo tè, la creazione è una relazione del mondo riguardo a Dio che è eterno; perché, presa attivamente, la creazione è azione di Dio, vale a dire è Dio, che è eterno; perché, non essendovi « momento » per collocare l'azione creatrice, e la creazione-relazione non toccando alcun momento piuttosto che un altro, non si vede come sia possibile un cominciamento del mondo, che dovrebbe così essere eterno.

R. Tutto ciò non ne segue in alcun modo. Che per la creazione il mondo dipenda da un Dio eterno, ciò non rende il mondo eterno come il dipendere da un uomo bianco non rende un oggetto bianco; la dipendenza del mondo essendo totale, dipende anche la sua durata, ed essa sarà quella che Dio vuole che essa sia. Presa attivamente, la creazione è Dio stesso, ma Dio operante per la sua volontà, non per una necessità della sua natura (il che sarebbe un ritornare al sistema delle emanazioni): la durata del mondo sarà dunque misurata dalla volontà di Dio, non misurata alla natura di Dio, alla eternità di Dio. In ultimo, non vi è momento estraneo

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al mondo, che possa servire a creare il mondo; ma vi sono momenti nel mondo, e vi può essere un primo momento del mondo. In altri termini, la creazione in se stessa è fuori del tempo, ma tale non è il suo effetto. Il mondo dura. Quanto dura? la sua durata è finita in avanti, finita in addietro, infinita in avanti, infinita in addietro? ciò dipende dalla pura e semplice volontà di Dio.

D. E allora nulla impedisce di dirlo eterno. ' . R. Difatti nulla lo impedisce, stando però nei limiti del ragionamento; ma poiché ciò dipende dalla volontà di Dio, è naturale riferirsi a Dio, ed è quello che fanno i cristiani, ammaestrati dai loro sacri testi. Nulla, per noi, è sempre esistito. Ma del rimanente, e bisogna notarlo bene, essere sempre esistito non vorrebbe dire, per il mondo, essere eterno nel senso proprio, essere eterno come Dio. L'eternità di Dio è un'immobilità, un'indivisibilità, una semplicità; la corsa infinita del tempo sarebbe una moltiplicità inesauribile. Una tale durata sarebbe, in certo modo, più lontana ancora della durata eterna che una corsa che incomincia. Se si volesse rappresentare con un'immagine quantitativa la eternità e il tempo infinito, questo sarebbe figurato da una linea senza termine, l'eternità da un punto.

D. Mistero! R. Mistero.

b) Gli angeli e i demoni

D. Quali sono, per ordine, gli esseri che sono stati

creati?

R. Gli angeli, che crediamo abbiano preceduto la

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creazione materiale; la creazione stessa materiale;

l'uomo, e, se esistono, gli esseri ragionevoli che abitano negli altri mondi.

D. Credi tu ai mondi abitati? R. Io non credo niente; nessuno per ora ne sa niente.

D. Ma quali sono, a' tuoi occhi, le -probabilità? R. Una opinione personale qui non ha importanza;

ma proprio per questo ti posso dire la mia. Secondo Cicerone, Aristotile stimava « ridicolo » pensare che la terra producesse esseri viventi e che non si trovasse la vita negli astri. Oggi che l'unità della materia astrale pare dimostrata, e miliardi di universi affatto simili al nostro impolverano la carta del cielo e vi percorrono i medesimi cicli, con molto maggior ragione, se qualcuno mi dice: Questo grano di polvere chiamato Terra è il solo abitato, io sarei tentato di domandarmi dove costui abbia la testa.

D. La omogeneità della materia e delle fasi ti pare una presunzione?

R. Sì; perché mi dico: Identici materiali e identico lavoro cominciato, identici progetti dell'Architetto;

identici progetti della natura, identiche attuazioni, qui, là, oggi, domani, secondo che le condizioni lo permettono.

D. Queste condizioni della vita sono delicate ed esigenti. "

R. Certamente, e ne segue che in ogni sistema la vita non sarà possibile che in questo o in quello de' suoi punti, in questa o in quella fase della sua evoluzione;

ma per l'insieme dei mondi ciò lascia immense possibilità. Supponi un osservatore che visitasse la Terra due

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miliardi d'anni fa: egli l'avrebbe trovata, secondo i calcoli più probabili, inadatta a ogni forma di vita, e ne avrebbe detto ciò che noi diciamo attualmente di Mercurio e di Venere. Supponi lo stesso osservatore, colpito da amnesia, che ritornasse qualche miliardo d'anni più tardi: egli potrà trovare la Terra inadatta alla vita per una ragione contraria, e ne dirà quello che noi diciamo di Nettuno o di Saturno. Nei due casi si sbaglierà perché dimentica il fattore « tempo », che in questo caso è di somma importanza. Non dimenticare che per Dio e per la creazione nel suo insieme « mille anni sono come un giorno e un giorno come mille anni » (2" Epistola di S. Pietro).

D. Al riguardo, le tue Scritture forniscono qualche indicazione?

R. Nessuna; il loro compito non è di soddisfare le nostre curiosità, ma di rischiarare i nostri passi. Tuttavia, come i veggenti d'Israele parlavano alle « isole lontane », è forse permesso di salutare in spirito queste altre isole, che devono popolare da tutte le parti il grande mare dell'essere,

D. Ma tu che credi all'Uomo-Dio, primogenito di tutte le creature, redentore universale, e capo supremo dell'umanità, credi ancora possibili altre umanità? R. Un altro ordine di creature pensanti non è necessariamente una umanità. Non è detto che un gruppo di creature pensanti abbia necessariamente bisogno di redenzione. Se una redenzione è richiesta, Dio ha mille mezzi per procurarla senza ripetere la nostra. Se la ripete, ciò non toglie nulla a nulla, ne a nessuno. Avresti paura di una gelosia tra Uomini-Dio?

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D. Vi potrebbero dunque essere più Uomini-Dio? R. Vi può essere tutto quello che Dio vuole, fuori dell'assurdo. Ora che vi è di assurdo in questo che Dio, avendo assunto una natura umana individuale, ne assuma ancora un'altra, e che importa che questa nuova natura abiti in questo mondo o in un altro, in un tempo o in un altro? Dio, da parte sua, non è ne in un luogo ne in un tempo, e li comprende tutti.

D. Non dici che l'uomo e Dio, in Cristo, non sono che una sola persona?

R. I diversi Uomini-Dio disseminati in mondi diversi, nel loro centro sarebbero non meno di un'unica persona, e le loro azioni, sotto questo rapporto, un'unica Redenzione. Siccome il nostro Cristo è detto dalla teologia una « persona composta », composta dico di una natura divina e di una natura umana individuale: così il Salvatore di diversi mondi sarebbe una persona composta della stessa natura divina e delle nature individuali diverse, essendo queste nature une in lui, ad onta della loro dispersione.

D. Tutto questo è assai sconcertante! R. Sei tu che mi hai messo su questa strada. Ho costruito sulla tua ipotesi. In conclusione, quando non se ne sa niente, la cosa più semplice è dire: Non so niente.

D. Ma riforniamo agli angeli. Credi veramente a questi esseri che non si vedono? non è un'illusione, un inganno?

R. L'uomo ingannato — ingannato da' suoi sensi — è colui che non crede se non a quello che vede.

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D. Ma perché la creazione di questi esseri spirituali? R. Trovi una cosa naturale che Shakespeare abbia creato Ariel, che è al di sopra dell'uomo, e Caliban, che ne è al di sotto; e ricusi a Dio di creare altri esseri che siano tra lui e l'uomo?

D. I poeti ne hanno il diritto. R. Se i poeti sono poeti, è perché prima di loro Dio fu poeta. Del resto l'antichità filosofica credette agli angeli quanto l'antichità istintiva. Aristotile e Fiatone li fanno intervenire nella cosmologia, Socrate nella morale; gli angeli custodi figurano in Esiodo e la caduta degli angeli cattivi in Empedocle.

D. Quello che mi stupisce è il modo in cui tu concepisci il puro spirito.

R. Il puro spirito è un intermedio del tutto naturale tra il Super-Spirito e gli spiriti sprofondati nella materia, quei « mostri » nel senso pascaliano, che sembra appartengano a due mondi.

D. Ma in questo modo non evochi la gerarchla degli esseri?

R. Questo antichissimo concetto chiariva molti problemi. Lo si potè dimenticare; ma la sua validità non ne è indebolita. Le specie degli esseri sono manifestamente disposte a gradi secondo un ordine di valore crescente o di valore decrescente, secondo il punto di vista da cui ci si mette. Il minerale, l'essere vegetale, l'essere sensitivo, l'essere pensante si dispongono a gradi e si pongono l'uno sull'altro. In noi lo spirito si schiude appena;

è attivo durante un periodo assai ridotto della vita; durante questo periodo, è intorpidito per una buona metà del tempo; impigliato, sempre, nelle insidie dell'imma-

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ginazione; sfugge a se stesso perfino quando è nella sua migliore forma, sviandosi in non pochi errori. Com'è possibile credere che tutto si fermi qui, e che lo spirito non abbia se non una così misera affermazione!

D. Non è già una gran cosa che la materia si desti allo spirito?

R. Sì, è una cosa così grande che essa non vi si potrebbe affatto destare da sola, come vedremo quanto prima. Ma se ne giudica così guardando dal basso, e questo è l'atteggiamento del panteismo evoluzionista. Guarda dall'alto, come figlio di Dio; guarda come guarderebbe il Padre supremo, e vedrai, da lui a noi, un immenso posto vuoto. La creazione che sale si arresta incompiuta, « lo Spirito artefice che fece il mondo », come dice Bossuet, non ha la sua. rappresentazione adeguata.

D. Ma l'uomo non è stato fatto « a immagine di Dio »?

R. Sì, ma è soprattutto in opposizione a tutto il resto di ciò che si vede, e ciò che si vede, sia pure l'uomo, non è a immagine di Dio come spirito. Noi non siamo spiriti, come un ossido non è ossigeno o un cloruro non è doro; noi siamo dei misti. La nostra natura è una natura di frontiera. La nostra intelligenza, anziché parlare, balbetta; il discorso che le è naturale, è un tragitto titubante, come un camminare di bambino. Il procedimento naturale dello spirito sarebbe l'intuizione, cioè la visione dell'idea come abbiamo per gli occhi la visione dei tendervi, senza raggiungerlo. Dov'è, dunque lo spirito corpi, e questo, noi non facciamo altro che presagirlo e vero, lo spirito solo e tutto spirito, lo spirito che fun-

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ziona secondo la legge dello spirito, senza la nebbia e la pesantezza della materia? Questo grado di essere e di valore dovrebbe mancare alla creazione? Un uomo che crede in Dio non lo potrebbe veramente ammettere. Dio spirito dovette rivelarsi prima di tutto per via dello spirito, e non ridursi a una degradazione dello spirito, a una concrezione di spirito. Dopo tutto, lo stato normale dell'essere è appunto lo spirito, benché noi, esseri inferiori, non concepiamo l'essere che come corpo o sotto gli auspici del corpo.

D. Come spieghi che vi possano essere degli esseri di cui non abbiamo nessuna idea? R. Ti risponde Pascal: « L'anima nostra è gettata nel corpo, dove trova tempo, numero, dimensioni; essa ragiona lì sopra e chiama questo natura, necessità, e non può credere ad altro ». E ancora: « L'assuefazione è la nostra natura... Chi dunque dubita che, essendo l'anima nostra abituata a vedere numero, spazio, movimento, creda questo e nient'altro che questo? ».

D. Poco fa dicevi che la natura stessa è spirito. R. La natura è spirito in questo senso, che ciò che è veramente importante sono le idee che la permeano, e i fini che persegue e non già la sua realtà materiale, di cui si vede che essa fa così poco conto. Ma le idee della natura sono fugaci; passano incessantemente e corrono dietro all'esistenza, senza mai fissarvisi; è come un gioco di folgori, un fuoco d'artifizio. E ciò che cerco è il mondo dei valori, il mondo di Fiatone senza le illusioni di Fiatone; il mondo che non sia l'inutile duplicato di questo, ma un altro, uno più alto, uno più perfetto, più

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prossimo alla Sorgente ideale. E, come filosofo, mi sento colmato di gioia quando la Chiesa mi dice: ecco il mondo che brami: l'uomo non è solo un punto di arrivo, è anche un punto di partenza; sopra di lui una gerarchla di spiriti che si protendono verso lo Spirito Supremo: ecco le celesti « gerarchle »; ecco i « cori » degli angeli.

D. Dunque i tuoi angeli non sono tutti della stessa natura, non sono dunque tutti uguali?

R. Sono uguali e della stessa natura negativamente, cioè sono tutti esenti da materia, tutti puri spiriti. Ma positivamente, non ce ne sono due della stessa natura, non ce ne sono due uguali; perché, non differendo che secondo lo spirito, rappresentano ciascuno, necessariamente, un'idea di natura differente, e un'idea, come tale, non si ripete. Si può realizzare due volte l'idea di uomo, l'idea dell'uomo non si ripeterebbe neppur essa. Questo è il caso degli angeli.

D. Li credi numerosissimi?

R. L'Apocalisse ne parla come di miriadi di miriadi. E non è forse naturale che la loro varietà oltrepassi di molto, nei loro gradi, la scala vivente e la scala chimica, se è vero che essi, per i primi, posseggono il diritto all'essere, costituiscono la creazione, e l'opera di Dio? Così ragiona S. Tommaso, e l'osservazione non è da buttar via.

D. Gli angeli hanno relazione con noi? R. Tutti i gradi dell'essere comunicano tra di loro; i regni si compenetrano e si rendono servizi scambievoli. Gli angeli collocati tra noi e Dio, sono come gli amba-

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sciatori di Dio, i suoi inviati, come indica la parola angelo. Sono anche i nostri inviati per l'incarico che si prendono delle nostre preghiere e dei nostri voti. Lo stato in cui si trovano relativamente a noi crea in essi un movimento inverso del nostro. Noi cerchiamo quello che non possediamo; i nostri sguardi vanno dal basso all'alto, verso le regioni superne. Essi, che posseggono, tendono a comunicare con benevolenza quello che posseggono a quelli che vi tendono ancora e potrebbero cercarlo per una via sbagliata.

D. Ve ne sono tuttavia dei cattivi? R. Tutti furono creati buoni; ma crediamo che ce ne sono dei decaduti, cioè di quelli che rigettarono il bene e scelsero il male, nella inevitabile opzione proposta dalla Provvidenza a ogni essere libero.

D. È questa una ragione perché essi nuocciano? R. È naturale che un essere ancorato nel male volga a male la sua stessa perfezione; caduto, egli ama che si cada; grande nonostante tutto, egli e propenso a travolgere i più deboli, e si fa loro tentatore.

D. Tale credenza non è oggi un po' fuori moda? R. Di' piuttosto che è ignorata. I veri cristiani sanno che essa è attuale più che mai; i Santi l'appoggiano sopra la loro esperienza; inguanto ai cosiddetti « spiriti forti », si ridono del diavolo a parole e di fatto lo servono.

D. Com'è possibile servirlo senza credervi?

R. « Mentre non si può servire Dio se non credendo

in lui, il diavolo, da parte sua, non ha bisogno che si

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creda in lui per servirlo. Anzi, non lo si serve mai così bene come ignorandolo » (andrea gide).

D. Come può agire sopra di noi? R. Non ha che da entrare nella corrente delle nostre proprie inclinazioni, nel sorriso delle cose che ci seducono; non ho che da premere sopra ciò che si piega, da ostacolare ciò che sale. La sua influenza si spande come un gas deleterio che si assorbe senza accorgersene.

D. Non si ha dunque coscienza di quest'azione? R. No; perché essa si serve della mediazione dei nostri propri poteri, in certo modo vi si confonde e non si presta da parte nostra a una sicura dissociazione.

D. Lo stesso avverrà delle influenze benefiche? R. Certamente; ma piamente si attribuisce loro un compito nei lumi subitanei, nelle consolazioni insperate, negli stimoli virtuosi, nelle diffidenze istintive che ci avvertono di un pericolo, nelle vedute superiori che si presentano a noi per giudicare di questo mondo e dell'altro, ecc. Senza che si possa precisare, è certo che non tutte le nostre impressioni segrete vengono dall'ambiente umano o dal lavoro spontaneo dello spirito.

D. Siamo dunque circondati da esseri invisibili? R. La nostra vita è in pieno cielo. Se i nostri occhi s'aprissero, voglio dire che se avessimo quell'intuizione della mente che ci manca, noi saremmo come Giacobbe nel suo misterioso sonno; anche noi vedremmo delle moltitudini salire e scendere la scala simbolica, e percepiremmo, coi gradi dell'essere, gli scambi di attività che riallacciano tutto.

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e) La natura

D. All'opposto del puro spirito, poni la natura fisica? R. Essa di fatto è all'opposto, pur serbandone il contatto.

D. Che cosa pensi della sua creazione? Ebbe essa luogo in una sola volta, o successivamente? per tappe, o continuatamente?

R. Secondo quello .che abbiamo detto della creazione, che è pura relazione di dipendenza riguardo a Dio, la tua domanda non ha senso. Il mondo dipende in tutto il tempo: dunque è creato in tutto il tempo. Diciamo 'meglio: esso è creato secondo tutto il tempo, cioè in tutti i termini della sua durata, in tutte le sue tappe, perché sappiamo che la creazione in se stessa è intemporale; sono solamente temporali il tempo stesso e ciò che il tempo misura.

D. Ecco che il mistero ritorna. R. Io non ne posso niente. Tuttavia aggiungo che il primo giorno del mondo in un certo senso è privilegiato. Esso non ha precedente; gli altri ne hanno. Si può dunque dire — in questo senso — che esso è nuovamente creato; che il mondo, in sé, è tutto nuovo, benché le parole tutto nuovo e nuovamente abbiano l'aria di supporre una precessione illusoria e quel niente immaginario che noi abbiamo eliminato. In ragione di questo privilegio del primo giorno, si nota una differenza tra la « creazione continuata » o « conservazione » e la creazione iniziale, che è la stessa, ma riferita ad ogni istante.

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D. Come si può continuare ciò che è intemporale, conservare ciò che dipende nell'intemporale?

R. Non si può. Questi sono modi di dire. Ma il senso è questo. Si vuoi notare una differenza che non si trova nella creazione stessa e si trova solo nel suo effetto, la si riporta sulla creazione facendo una concessione al nostro modo di pensare e di parlare, per assimilazione a ciò che avviene ordinariamente. E si dice: « II mondo fu creato al principio del tempo »; oggi e sempre, esso è « conservato », « governato », il che non impedisce che dipenda incessantemente, e per conseguenza, in quanto al contenuto essenziale della parola « creazione », non sia sempre creato.

D. Con ciò il mio quesito resta. N'e modifico solo un poco i termini; e domando: Dio ha egli dato alla natura un unico cominciamento, o questa ha conosciuto, in seguito, altri cominciamenti, che l'arricchiscono di nuove creature?

R. Certi pensatori pensano che vi sono sempre dei cominciamenti di questo genere; che le produzioni della natura sono perpetuamente nuove, imprevedibili, inventate volta per volta; che procedono a ventaglio, sfoggiando sempre maggiori risorse. Ecco quello che, in Enrico Bergson, significa l'evoluzione creatrice. Questa creazione continua, non più nel senso d'una semplice conservazione, ma d'un accrescimento, non ha nulla che possa sorprendere un cristiano. Noi vi aderiamo almeno in un caso particolare, quello dell'anima, come presto vedremo. Noi vi aderiamo anche, in maggioranza, quando si tratta del passaggio da un regno all'altro, supponendo che essi si dispongano a piani nel tempo. La vita

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non ha potuto uscire dalla materia inerte per un semplice sviluppo della materia inerte; assai meno ancora un'anima pensante può uscire da un organismo o da un'azione organica, dal momento che essa appartiene al mondo dello spirito, quantunque nel suo più infimo grado. In questi casi dobbiamo supporre un « prestito » nuovo dalla sorgente creatrice, che Cristo ci dice perpetuamente attiva: « Mio Padre opera fino adesso ». La eternità viene in soccorso del tempo. Se questo soccorso fosse permanente, noi non potremmo lagnarcene.

D. Credi tu per lo meno ai « giorni » della creazione, che siano giorni propriamente detti o giorni-periodi? R. Qui non si può dar risposta perentòria. Quello che ne dice la Scrittura si presta a troppo diverse interpre-tazioni. Ancora una volta, ti ricorderò che il compito di Mosè non era d'insegnarci la cosmologia, ma di stringerci a Dio e di avviarci, col suo popolo, verso la Terra promessa.

D. Dunque, a tuo parere, resta libera la via per una interpretazione della natura mediante l'evoluzione?

R. Sì, certamente; ma a due condizioni, delle quali ti ho già esposto sopra la prima, ed è che anzitutto l'evoluzione non pretenda di sostituire Dio; poi, che essa dia a Dio tutto il posto che gli può convenire nel corso stesso delle cose. In un sistema di evoluzione ben compreso, la natura ha due mezzi di effettuare l'opera sua:

valersi delle risorse iniziali che ha dal Creatore, spiegando le sue virtualità segrete, le « sue ragioni seminali », direbbe S. Agostino; oppure, là dove il suo capitale acquisito non basta, attingere dalla Sorgente congiunta, o continuamente, come vuole Bergson, o

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solamente alle grandi svolte; sia che vi si sorprendano soltanto dei piccoli cambiamenti, a guisa delle trasformazioni lamarckiane e darwiniane, oppure vi siano dei salti bruschi, delle varianti subitanee, come esige De Vries. In realtà, tutto questo per noi non fa differenza;

se la vedano la scienza e la filosofia. Religiosamente, noi difendiamo la causa di Dio, rivendichiamo i diritti di Dio e allora si tratta della Causa, non del piano, e dei procedimenti di spiegamento; si tratta del perché di tutto, non del come secolare e delle sue oscure vie. Non è inutile osservare qui che Lamarck e Geoffroy-Saint-Hilaire, i due creatori del trasformismo, non vedevano in esso se non « l'esecuzione d'un piano tracciato dalla volontà divina ».

d) L'uomo

D. L'uomo apparve subitaneamente sulla terra, oppure la sua venuta è il risultato d'una lenta elaborazione della vita?

R. L'uomo, propriamente parlando, non può essere un prodotto dell'evoluzione anteriore, poiché è costituito essenzialmente dalla ragione, fatto nuovo, fatto trascendente nei riguardi, di ogni sviluppo materiale e che esige un apporto sui generis, che può venire solo dal mondo dello spirito.

D. Perché dici: L'uomo propriamente parlando? R. Perché, quando ci si esprime con precisione, uomo vuoi dire un'anima e un corpo formanti un solo essere. Ma, pur dicendo: uomo, si potrebbe pensare all'uomo quanto al suo corpo, all'uomo quanto alle sue

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preparazioni, quanto a' suoi antecedenti corporali, e allora il problema posto sarebbe tutt'altro.

D. Che cosa intendi con questo? R. Che il sapere se l'uomo è stato formato in una sola volta e tutto insieme, è una questione, e il sapere donde viene a lui, indipendentemente dal suo corpo, la parte principale del suo essere, quella che lo fa veramente uomo, è un'altra questione.

D. Che dici della prima questione? R. È una questione di fatto. Si può pensare che il Genesi la dirima, con il racconto della formazione di Adamo e del soffio di vita che Dio gl'infuse; e invero la scienza, fino al momento presente, non è in grado di contraddirlo. Ma si può anche pensare che per la religione come per la scienza, il problema resti sospeso. Razionalmente parlando e atteso lo stato dei fatti da noi conosciuti, nulla impone e nulla vieta di credere che l'organismo umano sia stato elaborato nel seno della natura, nel corso delle età, e che, a suo tempo, Dio presente a tutte le cose abbia fornito la parte spirituale che costituisce l'uomo.

D. Si potrà allora dire che l'uomo « discende dalla scimmia ».

R. Sarebbe una grande sciocchezza; perché anzitutto non si tratta della « scimmia ». Sempre più la scienza crede di trovare le nostre origini fìsiche lontano dalla linea scimmiesca. Sopra il tronco dei Primati, l'umanità sarebbe salita al centro, come un gran fiore, quando divergevano tutt'attorno, in vari sensi, dei rami di cui gli uni sono periti, e gli altri sussistono. Del resto è questa una considerazione secondarissima; ciò che importa è

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questo. L'uomo è l'uomo, non è soltanto il suo essere fisico, non è il suo corpo. Sarebbe piuttosto l'anima. In realtà, non è ne l'uno ne l'altro, ma il composto. Ora in quale momento nasce un composto? Senza dubbio si forma aggiungendo a un primo elemento quello che lo compie, specialmente se l'elemento complementare è di gran lunga il principale, se è l'essenziale. Non vi fu dunque uomo, uomo vero, se non in quel momento, e la nascita dev'essere attribuita a Colui che è il padrone di quel momento, che ne fornisce la caratteristica umana, che ne fa una nascita d'uomo.

D. La nostra genealogia risalirebbe dunque a Dio, anche in questa ipotesi?

R. Così dicendo, tu incontri il Vangelo tanto ammirato su questo punto da Chateaubriand. La genealogia di Cristo, in S. Luca, attraversa tutte le età, andando a ritroso, da Giuseppe ad Adamo, e si getta in Dio. Là nostra, in avanti, vi si raccorda.

D. Ma perché l'anima, o l'intelligenza, non verrebbe al mondo per evoluzione, come ultimo stadio dell'evoluzione? Quando il legno è sufficientemente caldo, il ceppo s'infiamma.

R. Avresti ragione, se la fiamma e il ceppo di cui si tratta qui appartenessero, come nel tuo esempio, a uno stesso ordine di fatti. Scaldare un ceppo in un focolare, è semplicemente metterlo in un certo stato di vibrazione; se la vibrazione si accentua, è la fiamma; a un effetto di calore si unisce un effetto di luce; ma questi sono fenomeni dello stesso ordine, in continuità l'uno con l'altro, sullo stesso piano. All'opposto, il pensiero

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e la materialità sono d'un ordine opposto, esclusivi l'uno dell'altro.

D. Perché ciò?

R. Perché l'oggetto del pensiero è la natura delle cose, Videa delle cose, la loro equazione interiore, se posso dire così, e l'equazione che i loro rapporti stabiliscono. Ora questo esorbita affatto da ogni materia e da ogni attributo materiale; questo non è più locale, temporale, individuale, come tutto ciò che spetta alla materia. Noi siamo qui al di sopra dell'evoluzione e delle sue varie realizzazioni, delle quali Videa, in noi, ha il carattere d'un piano intemporale, atto ad esser ripreso quanto si vorrà, moltipllcato indefiniti vamente, e per conseguenza estraneo alla realtà che esso riflette.

D. Potresti darmi un esempio? R. Ecco: uno molto semplice. Due pomi si aggiungono a due pomi per farne quattro; io posso metterli in un paniere tutti quattro; ma due e due fanno quattro, dove metterò io questo? dove posso collocarlo? in qual luogo, in qual tempo, in quali condizioni d'individualità che si possano prestare a una evoluzione materiale?

D. Non avviene lo stesso d'una sensazione animale? R. Niente affatto. Una sensazione animale si evolve incessantemente; in ciascuno de' suoi stati essa è insieme un punto di partenza e un termine, come tutto ciò che è movimento e tempo. Una sensazione ha per principio un'immagine, e un'immagine non è un'idea. L'immagine ha dei caratteri nettamente individualizzati, localizzati; essa è legata a una durata; trascorre; è estranea a quel potere di ripetizione e di reincarnazione indefinita che Videa rivendica.

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D. L'idea, all'origine, non è forse un'immagine, generalizzata per sovrapposizione d'immagini similari e per la imprecisione dei suoi contorni?

R. Ti difendi bene; ma senza tenere conto dei fatti. L'immagine originale esiste, la sovrapposizione d'immagini anche, e ne risulta l'immagine generalizzata; osserviamo in noi tutto questo. Ma se vogliamo rifletterci, potremo anche osservare che nello schema così ottenuto noi vediamo tutt'altro che lo schema. L'idea d'un rapporto matematico, o d'una definizione, o d'una negazione, o l'idea di un'idea, quando il pensiero si ripiega su se stesso, tutto questo non ha nulla a che vedere con le immagini che sottendono il pensiero, ma non sono il pensiero. Lo schema immaginativo è caratterizzato da una generalità imprecisa, l'idea da una universalità precisa. Lo schema immaginativo è temporale e instabile;

segue il flusso del cervello; sotto un'idea identica, non è in due istanti il medesimo; ma l'idea si presenta come necessaria e intemporale, fosse pure l'idea d'un oggetto cangiante.

D. E che cosa pretendi di dedurre da questo? R. Ecco. Gli esseri si caratterizzano per le loro facoltà, per i loro atti, gli atti per i loro oggetti. Risalendo, si può determinare mediante il carattere degli oggetti quello degli atti, mediante quello degli atti, quello delle facoltà, e mediante quello della facoltà quello degli esseri. L'idea non è forse d'un ordine a sé, estraneo al flusso materiale? lo stesso dunque avviene dell'ideazione, della facoltà d'ideazione, dell'anima. Tutto questo è necessariamente sopra la stessa linea, allo stesso livello, appartenente allo stesso ordine, allo

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stesso mondo, e questo mondo non è quello del flusso materiale. Se nel corso dei fatti di evoluzione, vi è inserzione d'una sola idea generale, io dico che l'evoluzione ha incontrato un'altra corrente, un altro ambiente, d'ordine spirituale; il mondo dello spirito lo ha toccato; una « virtù » è emanata dall'alto, che ha guarito la sua impotenza d'idealità, come Gesù guariva con il semplice contatto le malattie. In una parola, Dio è intervenuto, ha « infuso » un elemento nuovo. Ed è l'anima.

D. Lo sbocciare dell'anima sarebbe dunque un miracolo?

R. Non è un miracolo, perché anzitutto questo non si vede e quindi non ha nulla di prodigioso; ma soprattutto perché appartiene al corso normale delle cose, quale Dio lo ha preveduto e preordinato. È cosa normale che, essendo un organismo stato preparato a ricevere un'anima, quest'anima vi si schiuda, e lo schiudersi non offrirà nulla di drammatico; e neppure di percettibile, salvo che per i suoi efletti. Tuttavia è un fatto del tutto nuovo, un fatto che non ha luogo in virtù della sua sola preparazione; che, datala preparazione, ha luogo in ragione della perpetua presenza di Dio e della sua fedele provvidenza.

D. Così avviene di ciascun'anima individuale? R. Sì. A questo riguardo l'umanità ricomincia in ciascuno di noi. Il ciclo delle preparazioni preadamiche, se è esistito, è ripreso in qualche modo dal ciclo generatore. La madre è la natura, che offre l'ambiente di schiudimento e le risorse nutritive; il semen è il fermento di vita la cui origine remota ci sfugge; lo sviluppo embrionale è l'evoluzione; il neonato, in cui anima si

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schiude è come un nuovo Adamo, che alla sua volta darà principio a una discendenza.

D. Una tale dottrina deve avere vaste conseguenze. R. Sì, conseguenze immense, e in tutti gli ordini. Di li viene, come vedremo, il nostro destino. L'anima, non appartenendo al ciclo della natura, non ne segue il corso, non vi riversa le sue energie proprie, ma fa ritorno al suo alto Principio, al quale anzi essa trascinerà, un giorno, come per diritto di conquista, il suo congiunto corporeo. Avendo così il suo fine individuale, e un fine trascendente al tempo, la persona umana diventerà perciò sacra, esonerata dalla servitù completa che amerebbero d'imporle i padroni, di qualunque grado o di qualunque natura essi siano: padri autocrati, mariti oppressori, politici fautori di uno stato totalitario, fautori della schiavitù e de' suoi derivati, ecc. Ciò si estende molto lontano e serve a risolvere una grande moltitudine di problemi. Il conflitto fra tante forze avverse che lottano nella nostra società moderna sovente prende di lì la sua origine.

D. Ritorno al caso della specie. Credi tu alla sua unità, cioè a uno stipite unico, a una coppia, donde sarebbero usciti tutti gli uomini e le varie razze d'uomini?

R. Sì; perché noi crediamo alla solidarietà morale dell'umanità intera; essa ci è attestata dai dogmi del peccato originale e della redenzione.

D. Per tè, la solidarietà morale importa l'unità della

specie?

R. Sì, perché, alla base, è fondata sull'eredità, come

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nelle famiglie. La morale ha sempre le sue radici profonde nella natura.

D. A quale data approssimativa potrebbe risalire la costituzione di questa coppia iniziale? R. Non sappiamo.

D. Non cantate nel vostro cantico di Natale: Da quattromila anni...

R. Non si potrebbe affermare tutto quello che si canta. Vi son lì delle tracce di antiche convinzioni che credevano di appoggiarsi sopra la Bibbia. Oggi è riconosciuto che a questo riguardo non vi è cronologia biblica.

D. Le vostre storie sono dunque false? R. Le nostre storie non sono false; ma propriamente parlando non sono storie, e aftinché ogni falsità sia da esse eliminata, non è necessario che la serie dei tempi sia in esse registrata sotto una forma regolare e completa. Siffatta storia non ha neppure bisogno di essere esatta sotto l'aspetto propriamente scientifico, spesso assai estraneo a' suoi autori; basta che essa sia esatta quanto al senso religioso dei fatti, il che non esige se non una storicità relativa, fatta di simboli reali, se posso dire così, intendo notazioni semplificate, a volte parabole, che sacrificano i particolari a vedute generali e sintetiche, percorrendo periodi interi, correndo alla mèta, che è di indicare il senso della vita.

D. Ma qui quali supposizioni faresti?

R. Spetta alla scienza di rispondere. Pietro Termier,

geologo eminente, membro dell'Accademia delle scienze

185

e autentico cattolico, scrisse: « Nello stato attuale delle nostre cognizioni, non si può attribuire all'uomo meno di 35.000 anni di età; ed è possibile che la sua antichità reale raggiunga 40.000 o anche 50.000 anni ». Altri scienziati si spingono molto più indietro.

D. E ti sembra pacifico che l'evoluzione, ammessa or ora a titolo d'ipotesi, abbia così concentrato i suoi effetti sopra una sola coppia, invece di presentarli, qua e là, dispersi?

R. Noi crediamo a un intervento divino affatto speciale, alla culla della stirpe umana.

D. E come si manifestò questo intervento? R. Per l'elezione della coppia iniziale capostipite dell'umanità futura e per il suo collocamento in uno stato di felicità affatto gratuita da cui purtroppo decadde. È quello che noi chiamiamo in teologia giustizia originale.

D. E in che consiste questo dono? R. Nell'unione intima dell'essere umano col suo Dio, e, per conseguenza, in un'armonia inferiore tale da escludere quella violenta propensione al male che domina l'umanità attuale, quella cecità spirituale che l'ottenebra, quella instabilita funzionale che produce la malattia e la morte.

D. La morte stessa, secondo tè, doveva esser risparmiata al primo uomo?

R. Sì; perché la morte, per quanto naturale ci apparisca e di fatto lo sia nelle condizioni presenti, non di meno è, in un certo modo, innaturale. Per essa l'anima perde il suo corpo e si trova così in uno stato contro na-

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tura, per quanto felice sia la vita che vive da sola. Per questa ragione, noi troviamo naturale la risurrezione futura dei corpi, e naturale, all'inizio dell'umanità, l'immortalità dei corpi.

D. Ecco una cosa che urterà più di uno sdentato. R. Niente affatto, se egli ci pensa. Osserverà che più di un medico, attorno a sé, non dispera di vedere un giorno ritardare largamente la morte, se non di guarirla. Che cosa è la morte se non la caduta di un edificio lentamente minato da forze avverse, per mancanza di una coordinazione sufficientemente salda de' suoi poteri intcriori, cioè per mancanza di un reale dominio dell'anima sopra il suo corpo?

D. Ma che cosa è che può rendere un'anima più potente del suo corpo?

R. Per una parte la sua propria rettitudine; ma soprattutto, e per il fatto stesso della sua rettitudine, se la si suppone perfetta, la sua stretta unione con Dio, come ora l'ho formulata e di cui dirò di più parlando della redenzione e della grazia. Quanto più io sono unito alla Sorgente di ogni forza, di ogni luce, di ogni armonia vitale, tanto maggiori ricchezze ricevo in me e tanto più le posso comunicare al mio ambiente congiunto, che è il mio corpo, anzi, al di là, all'ambiente esterno in cui si esercita la mia azione.

D. Era dunque la natura stessa che rie doveva sentire l'influsso?

R. Sì certamente. Noi crediamo a una specie di « giustizia » delle cose risultante dalla « giustizia originale » dell'umanità.

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D. Puoi essere più preciso?

R. No, non è possibile. S'impara a ritrovare il nostro

Eden perduto, non a descriverlo.

D. Dunque lo ritroveremo?

R. Lo ritroveremo. Non ora, e ne dirò i motivi; ma

il pieno ricupero temporale non è di grande importanza;

solo l'eterno conta.

D. Come l'abbiamo perduto?

R. È un altro mistero, sul quale dovremo spiegarci

con qualche ampiezza.

D. Prima di abbandonare l'idea di creazione, vorrei chiederti se tutto ciò che Dio ha creato costituisce ai tuoi occhi un solo mondo?

R. Sì, se tu prendi queste parole in tutto il loro rigore. Un mondo può essere un sistema a parte, come il sistema solare; uno sciame di sistemi, come la Via Lattea o la nebulosa di Orione; la « goccia d'etere », cioè l'insieme delle realtà accessibili alla nostra esperienza. Ma se per mondo intendi l'universalità assoluta delle creature, noi affermiamo che non vi è che un solo mondo.

D. Perché non ce ne sarebbero parecchi? Non limiti

così la potenza di Dio?

R. Non limitiamo la potenza di Dio, ma la potenza di

Dio è anche sapienza, e la sapienza creatrice non ci pare

compatibile con una pluralità assoluta di opere, perché

non è punto compatibile con una pluralità assoluta di

fini.

D. Quali fini attribuisci alla causalità creatrice? R. La manifestazione della bontà di Dio.

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D. Ma questa manifestazione non si confa forse alla

pluralità?

R. Sì certamente; ma a una pluralità ordinata; perché

la pluralità, per se stessa, non ha alcun valore; il valore

non si realizza se non con l'ordine.

D. Due universi non varrebbero dunque più di uno? R. Due universi valgono più di uno se hanno una unità sintetica, se si completano, se i fatti dell'uno vengono in soccorso dell'altro per esprimere con maggiore pienezza il bonum Dei. Ma allora, dal punto di vista assoluto del termine, essi non formano che un solo universo. Se l'uno non aggiungesse niente all'altro, se fossero identici, la loro moltiplicazione perderebbe ogni ragione di essere e ripugnerebbe a servire da fine.

D. Un universo è dunque, per tè, essenzialmente un

ordine?

R. È quello che esprime la parola cosmo, che significa

a un tempo ordine, ornamento e universo.

D. E ciò solo è un bene?

R. Ciò non solo è un bene; ma il miglior bene; è il bene prima di tutto voluto dal Creatore e del quale egli applaude l'effettuazione nel Genesi, quando dice di ciascuna cosa in particolare che essa è buona, e di tutte collettivamente che- sono molto buone. Tutte le cose sono buone come riflesso isolato del loro principio, al quale rendono una comune testimonianza.

D. E questa comunanza, deve essere accettata? R. Sì; perché Dio, in ciò che lo riguarda, non può volere se non il miglior bene, che è l'ordine, si tratti dell'ordine interno di ciascuna cosa o dell'ordine del loro

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insieme. Riguardo alla sua creazione totale, quello che Dio vuole anzitutto, non è questa o quella creatura, il cui valore limitato non si sostiene da sé e prende da tutto ciò che la circonda; ma sì l'armonia de' suoi esseri, il cui insieme realizza quel quantum di perfezione e di bene che egli ha deciso di produrre fuori di sé.

D. Questa legge si trova anche nelle nostre creazioni? R. Senza dubbio. Quello che vuole l'artista, non è questo o quell'elemento dell'opera sua, ma l'opera. Ciò che richiede un saggio governo, non è il successo di questa o quell'impresa particolare, ma il bene pubblico.

D. Ad ogni modo, il legame che tu supponi tra. gli universi non pare debba essere necessariamente di ordine fisico, anche per ciò che riguarda le creature fisiche.

R. È vero. Forse questo legame non è fisico di fatto, e forse non lo è neppure in ciò che riguarda le creazioni materiali. Rigorosamente parlando è possibile che vi siano degli universi tagliati fuori d'ogni comunicazione con noi. Ma in ragione di ciò che ora ho spiegato, si dovrà sempre dire con S. Tommaso d'Aquino: « Tutte le cose che vengono da Dio hanno un rapporto le une con le altre e un rapporto con Dio.., È dunque necessario che tutte appartengano a un solo mondo ».

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IL MISTERO DEL PECCATO ORIGINALE

D. Hai fatto un accenno al peccato originale, ma certo non ignori lo scandalo che provoca questa nozione nell'anima contemporanea.

R. Lo ignoro così poco che spesso ho dovuto pensarvi e sono prontissimo ad ascoltarti.

D. Donde ti viene questa idea d'un peccato originale? R. Mi viene dalla fede.

D. Non hai la pretesa di arrivarci anche per dimostrazione? ••

R. No; per quanto sia utile all'interpretazione della nostra vita, questa idea non ha nulla di assolutamente indispensabile. Tuttavia la sua forza esplicativa è tale, che si ha il diritto di sottoscrivere a questa affermazione di Pascal: « L'uomo è inconcepibile senza questo mistero, più che questo mistero non sia inconcepibile all'uomo ».

D. Pascal riconosce una difficoltà dalle due parti.R. Vi è difficoltà dalle due parti, e per questo noi collochiamo il peccato originale tra i misteri. Ma la partita non è alla pari; si deve riconoscere insieme l'emi-

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nente difficoltà di concepire l'uomo senza il peccato originale, e il dissolversi della difficoltà in presenza del dogma.

D. Dove sta la difficoltà di cui parli?

R. In quelle contraddizioni della natura umana —

grandezza e miseria — di cui l'autore dei Pensieri e

dopo di lui Bossuet fecero un così incomparabile

quadro.

D. In che cosa consiste? R. In questo, che la condizione umana ci si presenta come un paradosso. Se noi siamo a un tempo grandi e miserabili, e non solo sotto diversi aspetti, ciò che si potrebbe comprendere, ma in qualche modo sotto lo stesso aspetto, considerato che le nostre miserie sono grandi e le nostre stesse grandezze sono miserabili, considerato che le nostre miserie procedono da aspirazioni sublimi e le nostre grandezze vanno scegliendo miserabili oggetti, allora non siamo noi inclinati a pensare che lì sotto vi è qualche mistero?

D. Perché?

R. Perché la natura non conosce il paradosso; perché sembra che così la Provvidenza, nel suo più alto campo, contraddica a se stessa.

D. Il caso dell'uomo è forse singolare a questo riguardo?

R. Sì, perché il contrasto del quale parliamo dipende da quella capacità infinita di aspirazione che appartiene solo all'uomo. Lì sta il tragico della nostra condizione. Onde Pascal si arroga il diritto di dire: « Solo l'uomo è miserabile ».

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D. Non dite forse che le contraddizioni di questa vita avranno altrove la loro risoluzione? R. Noi lo diciamo, e senza questo la nostra condizione umana sarebbe inaccettabile. Ma quando pure ciò fosse a titolo provvisorio, il piano della natura sembra veramente mancato; esso ci urta; ci pare un'organizzazione della sconfitta, e per giunta un'arte di assecondare l'ingiustizia; perché là dove la natura non ci affligge, ci tenta; per lo più ci trascina, ed è peggio.

D. Non ti sembra di esagerare? R. I segni della nostra « ingiustizia » originale sono abbastanza visibili; noi siamo sprofondati in un egoismo mostruoso, in un orgoglio incoercibile, in una cupidigia sfrenata. In noi, l'iniquità è costitutiva, e colui che non riesce a scoprirla in sé la denunzia tutti i giorni negli altri; colui poi che non la trova in sé prova del resto un accecamento che tradisce un vizio originale di un'altra specie. « Forse che l'uomo che è diventato veramente cosciente di se stesso può veramente rispettare se stesso? » scrive Dostojewskij. Questa vita che è molto al di sotto della nostra attesa, è pure, sembra, al di sotto del suo proprio diritto; essa non soddisfa alla sua propria destinazione, neppure provvisoria, e pare che accusi il suo autore, una volta ammesso il carattere del vero Dio: bontà e sapienza.

D. Di fronte a questi mali, il peccato originale è la sola ipotesi? -

R. È la più naturale. Nell'umanità, tutto succede come in un individuo che si fosse liberamente corrotto, o in una razza imbastardita a causa dei suoi vizi.

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D. Riprendi così il ragionamento di Pascal? R. « Per me — dice egli — confesso che appena la religione cristiana scopre questo principio che la natura degli uomini è corrotta e decaduta da Dio, questo apre gli occhi a vedere dovunque il carattere di questa verità; perché la natura è tale, che denuncia dovunque un Dio perduto, e nell'uomo, e fuori dell'uomo, una natura corrotta ». E ancora: « L'uomo non sa in quale posto mettersi; egli è visibilmente traviato e caduto dal suo vero posto senza poterlo ritrovare. Egli lo cerca con inquietudine e senza successo, nelle tenebre impenetrabili ». « Ciò che c'è di grande nell'uomo — dice alla sua volta Bossuet — è un resto della sua prima istituzione;

ciò che c'è di basso è il disgraziato efletto della sua caduta ». Sono « miserie di grande signore », aveva detto più brevemente Pascal, « miserie d'un rè spodestato ». « Contempla questo edifizio — si legge nel Sermone per la professione della signora di La Vallière — e ci vedrai i segni di una mano divina; ma la disuguaglianza dell'o-pera ti farà presto osservare che il peccato vi ha mescolato del suo ».

D. Pascal pretende che la natura denunci un Dio perduto « e nell'uomo, e fuori dell'uomo », e tu estendi forse gli effetti del peccato originale alla stessa creazione materiale?

R. Abbiamo veduto che l'uomo e il suo ambiente sono a questo riguardo solidali, e necessariamente solidali. Onde S. Paolo dice senza distinguere: La creazione geme tutta quanta e soffre quasi le doglie del parto. « E i gemiti della creazione sono pieni della miseria non scandagliabile dell'uomo » (v. hugo).

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D. Ciò può sollevare attorno al peccato originale molti problemi!

R. Renouvier li solleva tutti, e prima di lui, Scho-penhauer, Kant, e molti altri. Per Schopenhauer, vi è un peccato alla base dell'essere stesso. Il cristianesimo è più riservato. Ma, come ti dicevo, sollevando un problema, avviene che se ne sollevino mille, e dei più gravi. I nostri misteri sono oscuri, ma sono grandi e, quando sono ammessi, tutto si spiega; senza di essi, tutto è miserabilmente piccolo, e niente si spiega.

D. Insamma tu ripeti dei vecchi miti. R. Sì, il mito di Prometeo, il mito di Pandora, ed altri. Ho detto che è naturale il ritrovare nelle religioni naturali elementi della religione rivelata; è una conferma, forse è l'indicazione d'una sorgente comune, rispettata qui, e alterata là.

D. In che consiste materialmente questo peccato originale? Bisogna prendere alla lettera la storia del « frutto proibito »? R. Nulla ti obbliga a ciò. Si tratta d'un fatto morale.

D. E qual è questo fatto morale? R. Si può discutere sulla sua precisa natura; ma ogni peccato è una rivolta contro Dio, un rifiuto dell'ordine, e, a questo titolo, un orgoglio folle, anche se l'occasione di questo orgoglio può essere, come si crede solitamente in questo caso, ricercata altrove.

D. Si tratterebbe in qualche modo di un doppio peccato?

R. Siccome la caduta originale ha deciso di tutto l'uomo, sarebbe naturale pensare che essa comprendesse

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a un tempo la sensualità, quest'orgoglio della carne, e l'orgoglio, questa sensualità dello spirito. Tuttavia, come nell'uomo ancora giusto lo spirito è signore e facilmente domina, il primo peccato dev'essere prima di tutto un peccato d'orgoglio. Ecco l'opinione di S. Tom-maso. È anche quella di Pascal, perché l'uomo peccatore « volle rendersi centro di se stesso », invece di gravitare intorno al suo Sole.

D. Ciò si comprende con facilità per quello che riguarda un individuo; ma ciò che apparisce odioso, è la trasmissione d'un peccato individuale a tutta la specie. R. Respingo la parola odioso, ma riaffermo una volta di più il mistero.

D. Un mistero d'ingiustizia?

R. Rigetto ancora questa parola. Il pregiudizio è antico e molto diffuso: nondimeno chiedo alla tua lealtà di rinunziarvi, dopo la spiegazione che ti darò.

D. Ascolto.

R. Anzitutto mi permetto di osservare che migliala d'anime purissime infinitamente delicate in fatto di giustizia, hanno riverito questo mistero, e l'incredulo, anche virtuoso, qui non ha alcun privilegio.

D. Lo ammetto.

R. Dopo ciò ecco il mio ragionamento. Un'ingiustizia è la privazione di un diritto. Là dove non c'è nessun diritto, ci può essere dell'arbitrio, del capriccio, tutto quello che vuoi; ma non c'è ingiustizia. Trovi tu ingiusto che un figlio di tubercolotico sia tubercolotico? che il figlio di un degenerato per colpa sua sia anche

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lui degenerato, anzi proclive a certi vizi senza che ci sia colpa da parte sua?

D. Ne domanderei volentieri conto alla Provvidenza. R. La Provvidenza ti ha già esposto che essa s'incarica di trarre da ciò del bene, se gl'interessati vi consentono. Ma proseguo. Condizioni originali ci sono imposte a tutti per il fatto dei nostri ascendenti. A volte noi lo possiamo deplorare; ma non abbiamo il diritto di dire: « È ingiusto ». Non vi è mai ingiustizia nei dati d'un problema morale; ce ne potrebbe essere solamente nella sua soluzione, e la ragione è che l'ingiustizia suppone una giustizia a cui essa si opponga, e la giustizia il diritto. Ora di che cosa siamo noi privati in conseguenza del peccato originale? Siamo noi privati d'un diritto acquisito, d'una situazione meritata, o anche solo d'un bene in proporzione con ciò che noi siamo? No. Ci si ritira quella grazia originaria a cui l'obiettante non crede punto; si mette fine a quello stato quasi miracoloso che lo scandalizza, intendo la nostra elevazione al di sopra della natura e quei formidabili poteri che alternativamente ci affascinano e ci schiacciano. L'incredulo ride di questi privilegi, li trova superflui: è davvero curioso vederli reclamare sotto pena d'ingiustizia!

D. L'ingiustizia è nel fatto che ci si ritira questa grazia per causa di altri.

R. Si taccerebbe d'ingiustizia un monarca che concedesse a un signore della sua corte un privilegio ereditario sotto certe condizioni di servizio, e che poi lo ritirasse perché il servizio non è stato compiuto? La discendenza di quel signore ne sarebbe intanto privata; ma essa non avrebbe il diritto di lagnarsi salvo che le si

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togliessero anche i diritti che essa può ayere per altri titoli.

D. Ma se il vassallo rientrasse più tardi in grazia? Ora non è questo il caso nostro? Adamo, provando la sventura, non si è rialzato dalla sua colpa? R. Sì certamente.

D. Perché egli non ci ha trasmesso il suo ravvedimento?

R. Perché questo ravvedimento non gli appartiene. Noi siamo potenti per demolire, ma nel soprannaturale non potremmo ricostruire. Il ravvedimento di Adamo e la grazia che lo consacra vengono ad Adamo per il canale della redenzione, per mezzo di quel Figlio lontano e meritevole che è Cristo, nuovo Adamo, « secondo primo uomo », che salva l'altro salvando tutta la stirpe. Di questa salute, Adamo pentito può ben godere il he-neficio, e dopo di lui i suoi discendenti; ma ne essi ne lui sono atti a trasmetterla. Se un capo di famiglia rovina i suoi figli e dissipa le loro speranze, e se poi un^ benefattore sostiene la sua vita e quella de' suoi figli stessi, il danaro ricevuto non passerà per questo in eredità.

D. Ciò sarebbe possibile e sarebbe più generoso.

R. Sarebbe un altro piano, e ne giudicheremo un po'

più innanzi.

D. Ad ogni modo, tu ragioni come se gli effetti della caduta fossero tutti negativi. Ora si può riportare cosi al negativo tutta « questa miseria dell'uomo » di cui tu hai tanto insistito? R. Gli effetti del peccato originale son negativi alla

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base, o per dir meglio privativi; noi siamo spogliati,, e ne seguono degli effetti positivi per il corso naturale delle cose, come se i miei eredi di cui sopra, privati della loro nobiltà, cadessero per fatto loro o per fatto altrui in nuove sventure.

D. Tu chiami gli uomini peccatori in Adamo: dunque li ritieni responsabili, e una responsabilità non è una cosa negativa.

R. Qui vi è un equivoco. Il peccato originale è un peccato in noi; ma è un peccato di natura, uno stato, e che implica una responsabilità collettiva, in ragione del capo della stirpe, ma non una responsabilità individuale. Perciò non puniamo, propriamente parlando, colui che ne è affetto; ma poiché egli appartiene a una stirpe pec-catrice, non sarà trattato come colui che appartiene a una stirpe fedele, e questa disuguaglianza non sarà ingiusta più che non lo siano le ineguaglianze sociali sotto un regime di uguaglianza di fronte alla legge, o ancora alle disuguaglianze naturali.

D. Pure tu dici dannati i bambini morti senza battesimo, e ciò a causa del peccato originale.

R. Questi bambini son degli innocenti in ciò che li riguarda personalmente; d'altra parte hanno sopra di sé una colpevolezza di stirpe, e per questa ragione non go-dranno del benefizio gratuito annesso all'integrità di questa stirpe, all'innocenza primitiva o alla redenzione. Ma noi non li diciamo dannati in questo senso che essi sarebbero infelici; i più dei teologi, tra i quali S. Tom-maso, prevedono anzi per essi una beatitudine naturale. Onde conviene eliminare qui questa parola « dannazione » che si presta a un grave equivoco.

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D. Resta la privazione, come dici. Ora credi tu che si possa facilmente avallare che tutta una stirpe sia così immedesimata dal suo capo per il possesso o per la perdita d'un bene gratuito, sia pure, ma inestimabile? R. Certo no; è una libera disposizione divina, ma si ricollega a queste grandi leggi di solidarietà e di eredità, sempre più in onore nella scienza.

D. Queste leggi non si negano; per lo meno alla base, sono leggi fisiche: come avviene che ci sia solidarietà morale sema che la volontà dei discendenti partecipi alla volontà del peccatore? Nelle società umane, vi è solidarietà giuridica, perché vi è un vincolo giuridico delle volontà; vi è una specie di delegazione, di contratto mutuo, di consenso unanime.

R. Tu ne parli con precauzione, e a buon diritto. Il « contratto sociale » ha un valore interpretativo; ma tu ben sai che questo vincolo giuridico è fittizio nell'immensa maggioranza dei casi di responsabilità collettiva, sia in bene, sia in male. Di solito è la solidarietà naturale, è, come qui, l'eredità, che decidono di tutto. Difatti un'anima individuale non è attaccata a un solo corpo, ma a parecchi, a tutti quelli della sua discendenza, e per essa di tutta la stirpe.

D. Tu fai poco conto dell'individuo. R. Sono oggi ben rari quelli i quali non riconoscono che la responsabilità puramente individuale è un pregiudizio razionalista, condannato dalla scienza sociale e dall'esperienza.

D. Confessa che l'oscurità è tutt'altro che eliminata. R. ' Lo riconosco, ma tu parlavi di scandalo. Del resto

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c'è ancora un'altra considerazione da fare. Anzitutto queste leggi di solidarietà, che si sono rivolte contro di noi, potevano pure lavorare a nostro vantaggio; Adamo fedele ci avrebbe trasmesso tutti .i suoi privilegi.

D. Ma Dio sapeva come sarebbero andate le cose. R. Questo modo di ragionare non è accettabile; è inquinato di antropomorfismo. Si è visto, parlando della Provvidenza, che le previsioni di Dio e la sua stessa causalità lasciano intatta la nostra responsabilità, non modificano in nulla le relazioni temporali tra effetti e cause. Del resto, se tu invochi le previsioni di Dio, seguile sino in fondo, e tieni conto di ciò che non è più solamente previsione, ma disposizione effettiva, disposizione ora notificata e ora operante, cioè la redenzione. Ti lamenti del fatto che la legge di solidarietà ci abbia nuociuto nell'Eden: rallegrati del fatto che essa ci favorisce sul Calvario. Questi due fatti sono strettamente legati dalla Provvidenza; solo un gioco di astrazioni permette di dissociarli, ed è un brutto gioco; infatti trascurare di ringraziare Dio per la redenzione allo scopo di prenderlo in fallo nella creazione è il segno d'una ben triste ingratitudine.

D. L'eredità di Cristo non è gratuita come sarebbe stata l'altra; bisogna cooperare.

R. È gratuita per il bambino battezzato. Se l'adulto deve cooperare, cioè fare atto di libera attività virtuosa, pensi forse che gli eredi di un Adamo rimasto innocente ne sarebbero stati dispensati? Quello che Adamo non avrebbe perduto per tutti, ciascuno l'avrebbe ancora potuto perdere per conto proprio; tutti in qualche modo avrebbero dovuto riconquistarlo, preservarlo, accre-

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scerlo. In nessuna situazione religiosa l'uomo morale è esonerato dallo sforzo.

D. Lo sforzo sarebbe stato più agevole, trovandoci davanti minori ostacoli e maggiori soccorsi.

R. Facciamo il conto. Dopo la nostra adesione a Cristo, le nostre debolezze congenite si volgono in diminuzione delle nostre colpe, in lode delle nostre virtù; in certi casi, la nostra responsabilità peccaminosa è annullata dalla violenza improvvisa dell'allettamento; in caso di eroismo, avviene l'opposto e ci vien contato il doppio. Tutto sommato, nulla è perduto a cagione della prima colpa, nulla è perduto se non per una tenace cattiva volontà personale. E questa non è una situazione ingiusta.

D. Ciononostante non posso trattenermi dal giudicarla arbitraria, capricciosa. Faccio mie le tue stesse parole.

R. Siamo veramente in grado di giudicare? È serio criticare Dio sulla costituzione del suo universo morale più che su quella dell'universo fisico, dove abbiamo già riconosciuta la nostra incompetenza? È il fine che decide; i piani ci sfuggono. E devono sfuggirci tanto più in quanto non si tratta qui unicamente delle leggi profonde della natura umana, già così misteriose, ma di un ordine di leggi anche più recondite, quelle del soprannaturale. Il rapporto soprannaturale dell'uomo con Dio oltrepassa l'esperienza; gli effetti della sua rottura devono avere una portata non meno segreta; essi si nascondono nel mistero di un Dio che intimamente si comunica, e dell'unione singolare, in lui, degli esseri

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chiamati a questa comunione, al di sopra del tempo e di tutte le condizioni particolari.

D. Questo può abolire la personalità?' R. Al contrario: la personalità ne è rinforzata, come ogni cosa al tocco del suo Creatore; ma nello stesso tempo le diverse personalità si ravvicinano; per una parte esse sfuggono agli effetti del tempo, e perciò si comprende meglio come l'una conti per l'altra, come ce lo rivelerà la comunione dei santi, e come, quaggiù, siano tutte unite nel loro capo di stirpe, formando con lui una particolarissima unità.

D. I diritti della giustizia individuale rimangono. R. Certo, ne sono anzi rinforzati, come ho detto della personalità; ma vi si sovrappone una giustizia collettiva, e il congegno esatto però ci sfugge. Il bambino morto senza il battesimo e il bambino battezzato ci fanno vedere la formula alla prova, ma non ce la spiegano punto. Il primo di questi due piccoli esseri non è condannato personalmente; gli si concedono all'opposto tutti i benefizi della natura nella sua piena espansione:

dunque la giustizia individuale rimane. Ma a differenza del secondo che ha potuto entrare nell'unità soprannaturale costituita dalla stirpe del Nuovo Adamo, egli non ha parte alla eredità particolare di questa stirpe;

non è stato un eletto.

D. Perché lui, e non un altro? R. Ti rimando alla questione del battesimo. Qui parliamo di solidarietà, e dico: La solidarietà soprannaturale sta a sé. Essere uni in Dio, in Dio intimo, in Dio Trinità, è un fatto, e questo fatto non è senza effetti;

il caso di Cristo, ce lo farà vedere meglio. Ne concludo

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che non possiamo giudicare del peccato originale e della sua trasmissione alla discendenza d'Adamo secondo i soli dati della nostra esperienza già confusi. I bambini nel seno della loro madre non respirano come noi; una stirpe soprannaturalizzata parimenti non può aspirare Dio, se posso dire così, e poi espirarlo nelle stesse condizioni in cui si adotta o si rigetta un servizio civile. La solidarietà è qui più stretta, perché il legame dell'individuo alla specie è più stretto, e questo legame è così serrato perché noi siamo legati a Dio, insieme, e ci pressiamo in qualche modo nella Trinità.

D. In una parola, Adamo era noi, ed è per questo che noi pecchiamo in lui.

R. La formula è paradossale; ma riportata al suo vero significato, è vera. Noi siamo in mezzo alle rovine appunto perché Adamo ha in sé compromesso l'edifizio morale.

D. Resto un po' perplesso.

R. Non vorrei trarti da una perplessità con un rimprovero; ma posso rischiare una questione che io risolvetti precedentemente contro me stesso: fuori del peccato originale, ti senti tu innocente?

D. No; ma è un poco la colpa del peccato originale;

l'hai messo tu stesso all'origine della nostra fragilità. R. Esso è all'origine della nostra fragilità, ma non per questo alla sorgente di ogni responsabilità. I mali che si attribuiscono al peccato originale sono in gran parte l'effetto dei peccati personali, accumulati e aggravati con l'aggiunta di essi. Non fu detto a proposito della stessa morte: Gli uomini non muoiono, ma si uccidono? L'assenza dei doni soprannaturali facilita certa-

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mente questo stato di cose, ma non l'impone, non lo scusa. Pecchiamo tutti, tutti quanti; pecchiamo nonostante le grazie di riparazione; facciamo del peccato originale una specie di abitudine accettata e della quale così noi diventiamo responsabili. Il modo con cui ci comportiamo con Dio deve incuterci dei timori sopra ciò che sarebbero stati i nostri modi d'agire se fossimo nati « nell'innocenza dei primordi », come dice Bossuet.

D. Queste sono ipotesi.

R. Sono presunzioni serie, che alleggeriscono la responsabilità divina quanto all'istituzione di questo piano di solidarietà che ti urta. Perché finalmente che diresti, se Dio, apparendoti come a Giobbe per spiegarsi con tè circa la sua condotta, si esprimesse così: Io vidi voi tutti, nell'Eden! I tempi si aprivano davanti a me. Trovandovi così al di sotto della vostra propria coscienza, io non potevo attribuirvi una superiorità molto grande, per rapporto all'eredità del vostro progenitore peccatore. Taluni di voi avrebbero forse ragioni fondate di ricusare questo giudizio? Ma non sono essi a lamentarsi. I Santi stimano cosa affatto naturale l'essere stati puniti in Adamo: essi si sentono meritevoli di punizione; ma coloro che lo sono molto di più non lo sentono affatto. Essi dicono: Io non c'ero! Ma io dico loro: Tu c'eri;

perche i tempi per me non hanno nessuna importanza, e fatta astrazione dal tempo, tutta questa fiumana di peccati individuali che dovevano seguire, non è forse anche un peccato della specie? Io vi ho ritenuti per peccatori in Adamo perché vi vedevo peccatori come Adamo. Qualcuno di voi si leverà per dire: Io, per conto mio, non merito di essere nato in un mondo di peccato,

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con le condizioni del peccato, perché, da parte mia, io sono senza peccato? Uno solo ha detto questo di sua propria autorità: il mio Cristo, e a una sola è stato dato per grazia di ripeterlo: la Madre sua. Ciò non si verifica di nessun altro.

D. Quando Dio parla, si ha sempre torto!

R. Io credo che egli parli, e dica come una volta: « È

cosa buona! ».

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IL MISTERO DELL'INCARNAZIONE

D. Hai fatto prevedere or ora e più d'una volta già prima una riparazione della decadenza umana: desidererei di vederne precisare,! mezzi. R. I mezzi sono l'Incarnazione e tutte le conseguenze che essa importa.

D. L'Incarnazione non è forse una bella leggenda, estranea alla vita e alle intenzioni personali di Gesù? R. L'affermazione d'una leggenda di Cristo che va crescendo col tempo non vale più della leggenda. Come abbiamo veduto. Gesù si è presentato tal quale è riconosciuto oggi dai credenti. La teologia non ha gonfiato nessuna delle sue affermazioni; essa le ha registrate e coordinate; ne ha fatto un corpo di dottrina, cosa che non cambia niente.

D. Ammettendo il linguaggio teologico, non si potrebbe dire che Gesù è nato come tutti gli uomini, e poi ha conquistato la sua divinità?

R. La divinità non si conquista affatto. Quei che tengono tali discorsi si contentano di metafore.

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D. Le metafore sollevano a volte lo spirito dalle sue difficoltà.

R. Diresti tu come Nestorio a Efeso: « Io mai chiamerei Dio un bambino di due o tré mesi »?

D. Costui aveva della perspicacia. R. . « Fino a un certo punto soltanto », ti direbbe Pascal. Avuto riguardo all'oggetto in causa, egli diceva una sciocchezza.

D. Come parlare d'Incarnazione! Dopo aver cercato dì oltrepassare Dio in alto, in seno alla Trinità, vuoi ora oltrepassarlo in basso?

R. Qui sta il prodigio della concezione cristiana. Essa contiene tutti gli estremi, e il passaggio dall'uno all'altro è rapido come quello degli animali simbolici nella visione di Ezechiele: « Esseri che correvano in tutti i sensi, simili alla folgore ». Dopo la sublimità nella Trinità, la bassezza nell'Incarnazione. Bassezza, dico, allo sguardo superficiale, ma, invero, sublimità nuova: sublimità dei rapporti creati, dopo quella dei rapporti increati; sublimità dei rapporti divini al completo, comprese le loro estensioni al di fuori, oltre alla sublimità di questi rapporti nella divina sostanza. La filosofia pura lasciava la nozione di Dio imperfetta, del tutto arida, come « naturalizzata », vale a dire senza vita: la Trinità la compie. Alla sua volta il dogma dell'Incarnazione riprende questa filosofia di Dio e la compie nell'altro senso, precisando e portando al loro punto estremo i rapporti di Dio con l'opera sua. Radicale trasformazione, in entrambi i casi nel senso della vita; doppio segno di una Ragione superiore all'uomo.

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D. Dopo ciò...

R. Dopo dò, t'avverto che non è ancora finito. Sarai

spinto fino al Dio sofferente, che è il Dio redentore;

fino al Dio che abita nel cuore degli uomini, che è il Dio della Grazia; fino al Dio che entra nei nostri ordinamenti unitari, ed è il Dio della Chiesa; fino al Dio che si da agli uomini come cibo per preparare la loro divinizzazione, ed è l'Eucaristia. Ma quando sì parlerà di questa divinizzazione, prima prevista e preparata, poi effettuata in un'altra esistenza, è allora che tutto si rischiarerà, gli estremi si toccheranno, il piano manifesterà la sua armonia perfetta, e il movimento da Dio a Dio attraverso a tutta l'opera sua, attraverso a tutti i tempi, ti apparirà come un'epopea grandiosa. In questo tragitto spirtuale e concreto che percorre la vita religiosa universale, Dio ci va di persona, se così posso dire, fino all'esaurimento dei mezzi; ma non fa mai se non la sua parte di Dio: non bisogna forse che colui che crea conduca anche — e coi mezzi che occorrono — le sue creature al loro termine?

D. Il mezzo Incarnazione è veramente razionale? R. Esattamente come la Trinità. La Trinità è razionale in questo senso che soddisfa la ragione oltrepassandola; l'Incarnazione oltrepassa, anch'essa, la nostra intelligenza e la rapisce. Dopo averci data una chiarezza ammirabile sopra la intimità di Dio in se stesso, ci abbaglia per la intimità di Dio con la sua creatura. Qui e là il massimo è raggiunto: Siamo al capolavoro.

D. Che cosa vi può guadagnare la religione? R. Immensamente: realizza la sua più alta perfezione.

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Grazie all'Uomo-Dio, l'umanità può rendere a Dio un omaggio degno di Dio, comunicare con Dio fino all'intimità più profonda: l'unità di persona, e ricevere dei beni divini in rapporto con un tale compito, con una tale prossimità, con un tale dono. D. Bisogna però che non si onori Dio distruggendolo, che non lo si unisca all'uomo fino a confonder velo, e che a forza di fare di Dio uno di noi, non vi sia più Dio.

R. Ti fai una falsa idea del dogma, indottovi certamente da questi modi di dire: Dio fatto uomo, Dio di-venuto uno di noi, Dio disceso dal cielo in terra, ecc., tutte espressioni che bisogna certo adoperare perché il dogma sia compreso da tutti e maneggiato da tutti comodamente, ma che una sana teologia corregge.

D. In che consista la correzione? R. In questo, che le formule suddette, e tutte quelle che ad esse rassomigliano, benché, grammaticalmente, esprimano dei cambiamenti in Dio, delle relazioni nuove da parte di Dio e quasi un viaggio di Dio, si devono tuttavia intendere esclusivamente riferite alla creatura. È nell'umanità che avviene il cambiamento, che si schiude una relazione nuova e il riavvicinamento trova la sua possibilità. E non c'è viaggio.

D. Dio non è dunque venuto? R. Che cosa potrebbe veramente significare questo? Dio non si sposta affatto. Nel senso in cui si può dire che sia in qualche parte, egli è da per tutto. In nessun luogo egli è di più che davanti a noi, in noi, « in lui, noi viviamo, ci muoviamo e siamo »; il nostro essere, è nel suo. Tutta la questione è di sapere in quale mi-

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sura, sotto quale forma noi ci varremo di questa presenza, e la vivremo. A questo riguardo vi sono gradi infiniti, e l'Incarnazione ne è il massimo.

D. Desidererei di capire meglio. R. Devi prima di tutto renderti conto che noi non attentiamo a Dio; che non facciamo nessuna breccia nell'immutabilità di Dio, come tè lo fa intendere la bella antifona seguente: Un ammirabile mistero si svela oggi. Due nature si rinnovano. Dio si è fatto uomo. Quello che egli era, rimane; quello che non era, lo assunse. Ciò senza subire mescolanza o divisione. Oltre la precisione di queste ultime espressioni, tu osservi la precauzione che precede. Quello che Dio era, rimane; perché Dio non cambia. Quello che Dio non era... non si dice: lo diventa, benché lo si possa dire col benefizio del ritorno di senso spiegato or ora; ma si dice più esattamente:

Egli lo assume, per suggerire che è un'ascensione della creatura, non una discesa di Dio, un cambiamento nella creatura, non un cambiamento in Dio.

D. Non è tuttavia un po' di paganesimo questa sorta di apoteosi nel senso proprio, in luogo di una metamorfosi divina? Non vi è forse antropomorfismo in entrambi i casi?

R. Noi non facciamo dell'antropomorfismo, noi non pensiamo Dio come un uomo più grande; ma sono i deisti ombrosi, quei filosofi borghesi per i quali Dio è una specie di monarca costituzionale, un Luigi XVIII greve a spostarsi, troppo contegnoso e troppo gallonato per entrare in una composizione così umana, profonda e intima quale è l'Incarnazione. Noi, dal canto nostro, crediamo al Dio « Sostanza senza determinazione e senza

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sponde », Anima del mondo, trascendente e immanente a un tempo, Spirito intimo e sovreminente di tutte le cose. Perché vi sia un'incarnazione, non vi è che da tuffare una umanità individuale più addentro in questa Sorgente viva, e ve la si tuffa sino all'estremo possibile senza alcuna confusione, ponendo l'unità della persona nella completa distinzione delle nature. Ciò non abbassa punto Iddio.

D. Come una personalità semplice può convenire a due nature?

R. La personalità di Cristo non è semplice, ma unica, il che non è la stessa cosa. È unica perché qui non vi è che un solo centro, un solo focolare di vita, ed è Dio, o più esattamente il Verbo di Dio; tuttavia è composta, perché partendo da questo focolare, da questo centro, vi è un doppio zampillo : l'uno eterno, in Dio stesso, ed è la natura divina, l'altro temporale, nel creato, che è la natura umana. Insomma si tratta di una umanità individuale sussistente e vivente per l'irradiamento immediato della divinità immanente ad essa.

D. Non avevi detto qualcosa di simile a proposito di Dio nella creazione?

R. Cristo non è che la creatura più perfetta, quella che Dio si unì più strettamente; è dunque naturale che le relazioni si rassomiglino e, sotto certi riguardi, siano anche identiche. Dio vive entro di sé nella Trinità, si espande fuori nella creazione; e quello che scaturisce da lui rimane talmente unito a lui che non vi produce addizione di essere, l'essere rimane il pieno possesso di Dio, possesso inalienabile, benché egli lo comunichi. Nel caso di Cristo, la comunicazione ha questo di par-

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ticolare che non si estende se non a una natura individuale; non vi è essere nuovo, personalità nuova, ma è l'essere stesso di Dio che diventa l'essere di un uomo per l'assunzione in lui, l'adesione a lui d'un corpo e di un'anima naturalmente congiunti.

D. È il panteismo ridotto a un solo caso! R. Si potrebbe anche dire così dando però le neces-sarie spiegazioni, perché non c'è alcuna ragione di stupirsi. Sarebbe forse strano il dire: Cristo è Dio, quando da tanti grandi uomini, da Anassimene a Spinoza, e anche oggi, si dice: Tutto è Dio?

D. Tra Cristo e Dio, l'unione è così intima come tra l'anima e il corpo?

R. È assai più intima ma in modo diverso, e sopra questo punto lo stesso Simbolo di S. Atanasio ha bisogno di commento. Essa è più intima, perché l'essere divino è un centro d'unità ben più potente che un'anima in un corpo. Ma è differente, perché tra l'anima e il corpo vi è composizione e relazione reciproca; l'uno e l'altro elemento è affetto dalla combinazione. Nell'Incarnazione nulla di simile. Nessuna combinazione: la divinità non si compone; essa è indipendente, inaccessibile a ogni influsso di un congiunto, estranea a ogni relazione che riguardi essa stessa, benché tutto le sia relativo e sottomesso. L'Incarnazione non è che un caso particolare di relazione ascendente, di relazione della creazione a Dio. Con il Cristo, la creazione tocca Dio in un punto, come il circolo finito ha la tangente infinita;

ma il grande Separato rimane pienamente a se stesso.

D. Così, Dio non da niente di sé. R. Egli da tutto; non aliena niente. L'Incarnazione è

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un magnifico dono, ma non è un cambio. Dio non è mai compromesso in quello che fa. Ma l'uomo ne sarà meno gratificato? Per quanto l'Incarnazione non costi niente alle grandezze di Dio, tuttavia è sempre vero in senso generale che un Dio ha mescolato i suoi passi ai nostri sopra le vie della nostra vita, che egli ha abbandonato il suo cuore a tutte le nostre angosce e ha gustato la nostra morte.

D. È troppo, a mio parere. Supponendo possibile una incarnazione, quale apparenza che da questa possibilità metafisica il Creatore pensi a trarre la minima conseguenza effettiva? Questa cura dell'Infinito per il piccolo genere umano è credibile? Immaginarsi un Dio che ami questo nostro mondo non è forse una ridicola presunzione?

R. Tu ragioni come Celso, nel secolo secondo; ma ascolta Pascal: « Incredibile che Dio si unisca a noi. Questa considerazione è tratta solamente dalla vista della nostra bassezza. Ma se codesta considerazione è sincera, seguila tanto lontano quanto la seguo io, e riconosci che di fatto siamo così in basso, che da noi stessi siamo incapaci di conoscere se la sua misericordia non ci possa rendere capaci di lui ».

D. Risposta del tutto negativa, riconoscilo. R. Ma essa basta a distruggere l'obiezione. Però ecco S. Giovanni: Noi abbiamo creduto all'amore che Dio ha per noi, perché Dio è amore. Questa risposta è positiva, ed è quella che ama invocare ogni cristiano. Del resto, la « piccola umanità », il « nostro piccolo mondo », formule di cui taluni si empiono la bocca per un'umiltà piena d'orgoglio, non significano niente. Ri-

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corda i « due infiniti ». Di fronte alle immensità astrali, noi non siamo che atomi; di fronte al mondo degli atomi, noi siamo un'immensità. Il grande e il piccolo non sono che relazioni diverse. Di fronte all'assoluto divino, nulla è piccolo ne grande, e sotto un certo aspetto tutto si equivale, come sotto un altro aspetto tutto si annulla.

D. Quando pure si debba concedere che l'Incarnazione non diminuisce Dio, mi pare tuttavia che non possa non diminuire l'uomo; essa è per la religione un falso punto di partenza; fatalmente condurrà alla mate-rializzazione di tutta la vita religiosa.

R. La storia dimostra che quando si respinge l'Uomo-Dio, non è ne a benefizio dell'uomo, ne a benefizio di Dio. Tuttavia se l'Incarnazione fosse una falsificazione di Dio, eliminata la falsificazione, il culto di Dio dovrebbe crescere, e se fosse una falsificazione dell'uomo, eliminata la falsificazione, il culto vero dell'umanità dovrebbe grandeggiare. Ora è esattamente l'opposto. In entrami i casi, il culto di Dio sparisce e il culto dell'uomo si abbassa. Il culto in spirito e verità, sia di Dio, sia dell'uomo, è, di fatto, legato al culto dell'Uomo-Dio.

D. inondimene l'Incarnazione è un cattivo programma. Noi siamo già troppo incarnati: non dovremmo esser portati a disincarnarci, per la purificazione dell'anima nostra?

R. Non c'è bisogno di purificarci dal nostro essere. La carne fa parte di noi. Per raddrizzarci, si tratta di riportare tutto nell'ordine, non di abolire qualcosa. Quando l'anima si divinizza per la grazia di Gesù Cristo, a sua

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volta essa divinizza la carne e la prepara alla vita immortale. Per questo Dio s'incarna; egli entra nella carne come il nuotatore nell'acqua, per domarla, o meglio come il germe vivo nella materia che esso deve organizzare e sottomettere allo spirito, e nel caso nostro allo Spirito supremo.

D. Ma allora forche l'incarnazione non ha luogo in tutti noi? Tu la dici cosa possibile; essa ci si presenta ora come una conveniènza. Non è forse ciascuno di noi che si deve purificare, spiritualizzare, divinizzare? Preferirei che ciascuno fosse il suo proprio Cristo, come Luterò disse che ciascuno è il suo proprio sacerdote.

R. L'Incarnazione, in certa maniera, ha luogo in tutti noi; difatti il regime della grazia ne è una partecipazione, un'imitazione. Per il fatto della grazia ci si applica questa parola del Salmo: Voi tutti siete Dei. Per essa anche noi siamo in contatto intimo con la natura divina, benché questo contatto non sia personale, come in Gesù Cristo.

D. Come dici tu stesso, è un'imitazione. R. Nel senso proprio, l'Incarnazione dev'essere universale ne' suoi effetti; ma non sarebbe naturale che tale fosse nella sua forma. Noi siamo una stirpe. Una soluzione individualista a tal punto non sarebbe dunque in armonia con la nostra umanità. La solidarietà offre un mezzo migliore, e il valersene è una perfezione di più. Dio sarà unito a uno di noi per natura e agli altri per solidarietà. Unirsi all'Uomo-Dio, sarà diventare Dio in una' certa maniera, per mezzo della grazia, come essere figli della stirpe di Adamo è essere uomini.

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D. Potresti riassumermi le tue ragioni in favore di questo ,dogma?

R. La convenienza dell'Incarnazione si può esaminare e dalla parte di Dio e da quella dell'uomo. Dio opera per manifestarsi, per darsi, per riflettere nelle sue opere le sue perfezioni e il suo amore. Ora in quest'opera i suoi attributi risplendono al massimo grado; specialmente la sua bontà, come abbiamo detto; ma anche la sua onnipotente sapienza, che escogita un tale mezzo per riparare quello che era compromesso e di sostituire al disordine un'armonia magnifica. Infatti grazie all'Incarnazione si vedranno raggrupparsi in un ordine nuovo tutte le creature, i loro vincoli di solidarietà concentrarsi in grazia del sublime Fratello, l'unità di Dio, della natura e dell'uomo fortificarsi in ciò che Dio avrà avuto di mira, per stabilire la saldatura, il punto delicato dove la materia e lo spirito si ricongiungono, dove l'animale ragionevole offre all'intelletto tutto il contributo dei sensi e tutta l'attività vibrante o vegetante dei corpi insensibili. Dal canto nostro, noi abbiamo bisogno di Dio: un bisogno essenziale, ma anche un bisogno sensibile, perché siamo carne. Piuttosto che privarsi di una divinità visibile, l'umanità ha avvilito il vero Dio. Nell'Incarnazione Dio non si avvilisce punto, è lui che si avvicina a noi, ma senza decadere in alcun modo. Resta lui stesso e diventa misteriosamente uno di noi. Il suo commercio familiare soddisfa l'intima aspirazione della terra. L'umanità cercava da per tutto il suo Dio, e un giorno lo trovò in sé. Da ciò quel grandioso movimento morale, nel quale io additavo più sopra l'incomparabile riuscita dell'Incarnazione e del suo preteso paradosso. L'Uomo-Dio ha conquistato l'umanità; vi ha eccitato

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l'entusiasmo, l'ammirazione, la speranza, l'amore, senza mai scoraggiare la più piccola o la più debole delle anime, offrendo di che soddisfare le più esigenti e portare all'estremo le più eroiche. Il suo culto ha animato delle collettività, promosso delle civiltà, che hanno trovato e troveranno in. lui l'ispirazione e la guida delle istituzioni più beneficile. Al termine, il rientrare nella Trinità, per mezzo del Verbo, di tutto il creato rappresentato dalla creatura ragionevole e congiunto ad essa, non sarà forse l'integrazione perfetta, la religione realizzata nella sua pienezza, il senso umano soddisfatto in quell'appetito d'infinito che lo travaglia? Finalmente, e noi lo dicevamo pure, si vedrà lì un contrappeso al mistero del male, in ciò che Dio, che la nostra incoscienza tratta alle volte da crudele, sceglie di farsi vittima, e prova che, se permette il male, non è affatto indifferenza, poiché egli ne vuole morire?

D: Questo piano è bello; ma non è eccessivo nei suoi due estremi?

R. L'intimo unito all'immenso è la grande legge dell'arte.

D. Ma che bisogno c'è di una così sfretta unità? R. La natura ce ne da l'esempio, e noi non siamo sorpresi quando, là dove essa si ferma, il sopprannaturale riprende.

D. . Come questo? R. La scala degli esseri è formata di successivi gradi:

la materia, la vita, la sensazione, il pensiero; i pianeti, i soli, le nebulose, gli insieme stellari dei quali ignoriamo ancora le forme e i vasti inquadramenti. Tutto si collega, tutto si unifica in un cosmo, in un ordine. Al di

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sopra, vi è il Creatore, ma tra questo grande Separato e l'opera sua vi è un immenso iato, e sembra impossibile colmarlo, poiché il Trascendente e l'essere creato non hanno nessun legame comune, e l'attribuirne loro uno qualsiasi, sarebbe distruggere Dio. Ora l'Incarnazione effettua appunto questo miracolo. Per essa vi è una giuntura, un pezzo di raccordo. Cristo è Dio e uomo, senz'al-cuna diminuzione di Dio, senz'alcuna alterazione dell'uomo. In lui tutti i regni si uniscono; materia, vita e pensiero accedono alla divinità e racchiudono tutto in essa. Il suo essere è una « ricapitolazione », come l'opera sua (s. ireneo). L'universo è così definitivamente uno, uno nell'Uno, nella Sorgente prima, nel Fine, nella Legge, nel Superessere. Così il mondo gira meglio; l'intelletto, strumento d'unità, lo stringe meglio; il reale, con questa integrazione, soddisfa più il pensiero, è più Mondo; la Trinità lo include nel suo triplice centro;

il nostro universo è come divinizzato e Dio è come universalizzato per il fatto che è umanato in un Figlio di Adamo. L'unità regna, e con essa l'armonia, il bello supremo, fratello del vero dell'intelletto e del bene dell'amore.

D. In tali condizioni, io non capisco come l'Incarnazione non faccia parte del piano iniziale, e sia invece saltata fuori quasi per caso.

R. È quanto hanno pensato non pochi teologi, e lo stesso S. Tommaso nella sua giovinezza. Più tardi l'uomo maturo si ricredette; dichiarò di riferirsi in proposito alla Scrittura, in una materia in cui le nostre convenienze intellettuali da sole sono di troppo poco peso.

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Ora è indiscutibile che la Scrittura presenta come solidali le sue idee di Incarnazione e di Redenzione.

D. Tuttavia rimane sempre che un fatto così grande si effettua solo occasionalmente.

R. Occasione se vuoi; ma è un'occasione eterna. Tutto quello che Dio fa si commisura all'eternità. E poi, non è forse il capolavoro della sapienza, il miracolo della potenza, il trovare in un'occasione la materia d'un piano superiore? L'arte vive di siffatte occasioni. Tutta la meraviglia dell'arte gotica non è forse una soluzione di questo problema elementare: come equilibrare la spinta laterale e procurarsi della luce? Di un'occasione mortale per l'umanità Dio fece un trionfo per lei e per l'universo. Ed « è cosa buona! ».

D. Dopo ciò, c'è ancora posto per altri avvenimenti? R. Non ve ne sono altri, ma vi è lo sviluppo di questo. L'Incarnazione finisce e comincia. « L'umanità è stata divisa in due età: nella prima età l'uomo aspettava Dio; nella seconda, è Dio che aspetta l'uomo. Ecco la spartizione dei tempi » (lacordaire).

D. Perché .questo rimedio arrivò così tardi? R. Dio l'apprestò nel momento che parve più opportuno alla sua provvidenza, il più centrale e il più fecondo riguardo a tutte le età. Bisognava che l'uomo peccatore si rendesse conscio del suo caso, conscio della sua debolezza, avvertisse la propria indigenza, sì da concepire un desiderio di liberazione, come di fatto avvenne nei tempi di fermentazione mistica anteriori a Gesù. « È bene essere stanchi e affaticati dall'inutile ricerca del vero bene, per tendere le braccia al liberatore » (pascal). Non bisognava inoltre, per l'onore di Cristo,

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che venisse nella « pienezza dei tempi » (s. paolo) affinchè egli, centro della storia, apparisse dominarla tutta quanta?

D. Tu sacrifichi così il passato. R. Non sacrifichiamo niente. Ho già detto che Cristo irradia nel tempo come irradia nello spazio e nelle anime; egli non è dato a questi, rifiutato a quelli; egli appartiene a tutti, e l'attesa secolare che l'ha preceduto fa parte del suo lavoro, eseguisce le sue intenzioni in tutte le anime rette; perché l'albero della croce ha radici che sono esse pure medicinali. L'umanità non mancò mai del suo Cristo.

D. L'elemento divino dell'Incarnazione è espresso nelle tue parole ora col termine « Verbo », ora col termine « Dio »: da che dipende questa diversità di termini? R. Dio è la Trinità, o una delle persone in ciò che ha di comune con le altre, cioè la Divinità stessa. Il Verbo è la seconda delle persone che si distinguono o si rilegano in quelle relazioni viventi di cui abbiamo parlato. Ciò posto, quando si dice: Dio s'incarna, si può volere esprimere in tal modo l'opera medesima, il fatto, l'azione, e allora è tutta la Trinità che si designa; perché un'azione di Dio è Dio, è la sostanza o essenza creatrice nella sua pienezza, e perciò la distinzione delle persone è qui fuori di questione. All'opposto, se si vuole indicare il risultato dell'azione, quello a cui essa fa capo, cioè l'Uomo-Dio, si nomina allora specialmente il Verbo, Figliuolo eterno di Dio, Sapienza, seconda Persona della SS. Trinità. E, questa volta, la ragione è che, secondo la nostra fede, solo il Verbo, nell'Incarnazione, assume, cioè accoglie e raccoglie in sé la natura umana. Il pro-

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getto di Dio era deformato dalla colpa: spettava al Pensiero vivente di riprendere il lavoro al quale egli aveva presieduto nel momento della creazione. Siccome dunque solo il Verbo è Figliuolo di Dio nella Trinità eterna, così solo il Verbo è Figliuolo dell'Uomo nell'Incarnazione.

D. Ne deriva, penso, che la psicologia di Cristo debba essere abbastanza complessa.

R. Essa è profondamente misteriosa; ma i contrasti della sua persona si conciliano con una tale agevolezza e con una tale dolcezza che Giovanni, dopo avere appoggiato la testa sul suo petto, trova affatto naturale chiamarlo suo Dio.

D. Da questa divinità che è in lui, che cosa deriva nella sua umanità?

R. Ne deriva il cielo, senza che la terra l'abbandoni. Voglio dire che egli esplica veracemente tutte le funzioni della nostra vita terrena; la sua vita non è una commedia; i suoi atti non sono parvenze; egli è sottomesso a tutte le nostre debolezze, salvo il peccato e la tendenza al peccato; prova tutti i nostri bisogni; le nostre fatiche e i nostri dolori l'opprimono, e le nostre noie, e i nostri disgusti, e i nostri abbattimenti, e le nostre angustie, che la sua fortezza divina supera, ma non abolisce. Giungerà fino all'agonia dell'essere per cui la morte è una liberazione, e tuttavia ne ha paura. Tutto ciò, su cui non ci possono essere dubbi, dev'essere poi conciliato con una beatitudine segreta, con una scienza senza ombra, e con una perfetta serenità del volere profondo.

D. Come ciò è possibile? R. Ciò è possibile tanto facilmente e tanto difficil-

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mente quanto l'Incarnazione stessa. Conciliare Dio e l'uomo è conciliare quello che essi sono, e che non sarebbero punto se nella pretesa conciliazione gli attributi dell'uno nuocessero agli attributi dell'altro.

D. No» e possibile fare due cose nello stesso tempo, ne ascoltare due musiche.

R. Di fatto ciò accade. Vi è la dettatura di Cesare; vi è Mozart che compone un brano mentre ne scrive un altro; vi sono gli sdoppiamenti di personalità, vi sono quelli che cercano la solitudine in mezzo a Parigi e la trovano; vi sono quegli stati d'anima descritti dal D'Annunzio, quando « nell'angoscia più agitata, un meandro profondo della nostra coscienza rimane in pace »; vi sono specialmente gli stati mistici, alcuni dei quali ci mostrano in un solo essere, nello stesso tempo, stati in apparenza contraddittori. Qui « l'anima che è la forma del corpo, gode Dio increato nel Dio fatto uomo » (angela da foligno). L'estasi è dunque lo stato normale. Gesù attraversa la nostra notte come in un'aureola. Egli è un abitatore della Luce eterna; ascolta una musica segreta; si dona ed è sempre solo; parla e nasconde nel centro un abisso muto; opera in un riposo meraviglioso;

prosegue, senza interruzione, l'eterno colloquio; nel corso della stessa Passione, in stati ciascuno dei quali sembra che debba accaparrarsi tutta l'anima, il suo essere intimo si potrebbe definire un oceano di pace e di silenzio sotto una tempesta furiosa.

D. Se Dio lo penetra a tal punto, si sarà tentati' dì negare l'uomo.

R- « La Chiesa ebbe tanta difficoltà a dimostrare che Gesù Cristo era uomo contro coloro che lo negavano,

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quanto a dimostrare che egli era Dio, e le difficoltà erano altrettanto grandi » (pascal). Del resto, non sottilizziamo, quando si tratta di miracolo o di mistero;

non facciamo i maligni, direbbe Carlo Péguy. Abbiamo lì due fatti associati: un fatto divino con tutte le sue conseguenze, un fatto umano nella sua integrità autentica: l'Onnipotenza e l'Onniscienza li conciliano.

D. In ogni caso, di tutto ciò che fa Cristo, è Dio responsabile?

R. Certamente; perciò la sua parola è parola di Dio, il suo sacrifizio volontario è la salvezza che procede da Dio, e le stesse sue azioni più comuni sono teandriche, come dicono i teologi, cioè umano-divine; perché, sebbene per la loro natura siano del tutto umane, tuttavia sono centrate in Dio, personalizzate in Dio, in quel Dio che ha assunto la natura umana che esse ci manifestano. Sono dunque attribuibili a Dio; sono anche azioni divine.

D. Ciononostante viene da domandarsi a che servano

tutte queste complicazioni.

R. Tu dici come Luterò: « Che m'importa! ».

D. Sì, che importa tutta questa teologia ài Cristo, quando si accetta la sua dottrina?

R. Non si accetta la dottrina di Cristo, quando si trascura quello che egli ha insegnato di se stesso. E si può dire: Che importa? quando si tratta di un tale fatto nella storia umana, di una tale luce sull'amore divino? Si può forse pensare che la vita avrà lo stesso corso, la stessa forma, lo stesso slancio, lo stesso soffio inferiore, la stessa dolcezza e gli stessi risultati, se Dio interviene

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colla sua persona, o se egli parla per mezzo di un messaggero; se ci affida tutti i misteri e li fa apparire ai nostri occhi in forma umana, o se è solo la forma e il mistero è assente?

D. Tu vuoi il divino in un doppio e unico esemplare? R. Io vedo con meraviglia che noi abbiamo, in un solo essere, uno specchio divino dell'uomo, uno specchio umano di Dio.

D. Dicevi che non si può conoscere Dio. R. Si conosce per analogia, ed ecco l'analogia vivente:

la persona e l'azione di Cristo. È questo che, nella sera della Cena, permette a Gesù di dire a Filippo: Chi vede me, vede mio Padre, ed io mi rappresento il discepolo stupefatto nell'atto di immergere gli sguardi in quelle pupille d'uomo, per scorgere la Divinità.

D. Tu non hai detto come Cristo può essere della nostra stirpe sema partecipare alle nostre miserie peccaminose come alle nostre umili grandette. R. Non è il flusso delle generazioni che ha formato Cristo; egli ha per padre Dio; un segreto influsso lo forma nella Vergine e lo compone come conviene alla dignità di un essere divino ed umano insieme, destinato ad essere modello e salvatore.

D. Come mai, con tutto questo, Cristo ha potuto essere disconosciuto?

R. Si può disconoscere tutto. Al di sopra della nostra cognizione diretta, vi è in noi un potere di divinazione;

al di sotto un potere di accecamento. Se Dio apparisce in Cristo, non apparisce altrimenti che nella natura, salvo il grado e la forma, e la sua umanità può fare schermo

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alla sua divinità, proprio come avviene per la natura.

D. Di modo che la condizione dei contemporanei non

era molto 'più favorevole della nostra a riguardo della

fede?

R. Forse era meno favorevole. Quanto è più difficile

dire a se stesso, di un uomo che si vede: Quest'uomo

è Dio, che credere questo di un uomo aureolato di gloria

spirituale per venti secoli!

D. Alla fin fine l'Incarnazione è per tè parte essenziale del cristianesimo?

R. È il cristianesimo stesso nella sua realtà centrale. Il cristianesimo è la religione di Cristo, cioè di Dio incarnato. E non già solamente la religione annunziata da Cristo, ma è nello stesso tempo la religione che ha il Dio incarnato per oggetto, in quanto è Dio, grazie all'es-sersi Egli fatto uomo. Il Dio incarnato è il nostro tutto, l'alfa e l'omega della nostra vita religiosa. E per questo la nostra religione differisce da tutte le altre. Le religioni panteistiche e le idolatriche confondono l'uomo e Dio; il deismo e il maomettanesimo li tengono a distanza; il cristianesimo li associa in Cristo, e con ciò nella Chiesa, nel pensiero e nel cuore del cristiano.

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IL MISTERO DELLA REDENZIONE

D. Tu dici che l'Incarnazione ha la sua ragione nella Redenzione: forse perché vi è un vincolo di necessità tra l'una e l'altra?

R. Non c'è nessun vincolo di necessità. Dio è libero nei suoi doni, e l'Incarnazione, al pari di ogni altra soluzione, non s'impone alla sua provvidenza. Una sola cosa è certa, ed è che, dopo la caduta, l'iniziativa della riparazione non poteva venire da noi; occorreva un intervento del cielo. Come si sarebbe prodotto questo intervento: per mezzo di un'offerta accettata senz'altra condizione che il pentimento, o per mezzo della grande avventura della Redenzione? ecco le due soluzioni estreme; ma ce n'erano infinite altre. D. Ma perché questa?

R. Perché Dio fece tutto da Dio. Non abbiamo forse detto che la sua religione porta tutto agli estremi, al fine di conciliare tutto? Si trattava qui di conciliare l'estrema giustizia con l'estrema misericordia, con la estrema sapienza, con l'estrema potenza, con l'estremo amore, affinchè tutti gli attributi divini fossero all'opera, e fossero in gioco tutti i valori umani.

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D. Come ciò si effettua? R. La disgrazia del mondo dipendeva dalla rottura del vincolo tra l'anima e Dio, e, per conseguenza, tra anima e anima, tra l'anima e il corpo, tra la persona e la cosa, tra lo spirito e l'universo: il rimedio era di ristabilire questo vincolo e di riparare la rottura. Essendo il vincolo rotto anzitutto un vincolo morale, bisognava che il riscatto fosse un atto morale, che fosse un merito, un merito riparatore. Questo merito, normalmente, doveva essere un merito umano, perché donde è venuta la colpa deve venire la riparazione, e ancora doveva essere un merito divino, affinchè ogni giustizia fosse soddisfatta fino alla sovrabbondanza, come è giusto; infatti non occorre forse che la riparazione salga al livello dell'offesa, e per conseguenza dell'offeso, dal quale l'offesa si misura? La riparazione per mezzo dell'Uomo-Dio risponde a questa necessità di magnificenza, se così posso dire, ed ecco quello che provoca nei grandi spiriti estasi di ammirazione. Dall'intimo stesso della massa del peccato Dio fa germogliare la salvezza intro-ducendovi il lievito che è il suo Verbo. Il Pensiero creatore riprende l'uomo, l'incorpora, per il fatto che egli l'assume, all'idea della sua prima costituzione, e così la salva, perché l'idea della prima costituzione implica il destino primitivo. Prendendo la forma della nostra miseria, egli la rialza. Lui, infinito, viene a prenderci in quella lontananza infinita in cui siamo, la lontananza del peccato e, se posso dire così, del soprannaturale peccato. Il dialogo iniziale riprende per il fatto che il Padre parla col Figliuolo divenuto uno di noi, per il fatto che egli riceve da questo Uguale umano una piena soddisfazione, e si celebra sulla croce il rito del pentimento, dell'ado-

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razione filiale e dell'amore. La scrittura della croce è una cambiale su Dio, un testamento; noi siamo degli aventi diritto e Cristo prende il nostro posto, quello che permette a Bossuet di chiamarlo con un po' di audacia:

« II nostro santo, il nostro caritatevole, il nostro misericordioso colpevole ».

D. Se una riparazione « magnifica » era prevista, che cosa significa il simbolo dell'angelo dalla spada fiammeggiante che proibiva l'ingresso del paradiso terrestre? R. L'angelo era là meno per difendere l'antica porta che per spingere gli sbanditi verso la nuova. D'ora innanzi è Gesù la « Porta », e il paradiso perduto è ritrovato.

D. In che modo Gesù è la porta? R. A titolo di Mediatore. Egli stabilisce un passaggio;

riallaccia e intercede per la sola sua esistenza, a fortiori per la divina accettazione. È chiaro! Dio non può mancar di risparmiare e di considerare sua una stirpe alla quale appartiene, nel tempo, il suo Figliuolo eterno, e per la quale questo Figliuolo perora come per se stesso. Ma ciò prende un carattere effettivo per la comunicazione che ci fa il Figliuolo della vita soprannaturale che egli possiede e che noi abbiamo perduto con la colpa. Con ciò egli è il nostro Salvatore e si rialza dalla caduta collettiva come da tutti i suoi effetti individuali. Con ciò è il nostro padre soprannaturale come Adamo il nostro padre secondo la natura. Con ciò è sacerdote, cioè donatore delle cose sante, ed è anche il solo sacerdote, in ciò che gli altri sacerdoti non sono i suoi successori, ma i suoi rappresentanti e i canali delle sue grazie. E punto per la sua propria immolazione volle compiere la

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mediazione efficace di cui parlo. Questa è la Redenzione. Essa ha naturalmente una portata infinita, vale per tutti gli uomini, per tutte le colpe che essa ripara dopo o prima, purché ciascuno ripari per suo conto nella misura delle sue forze. Vale altresì per tutte le ascensioni, compresa la vita eterna, della quale Gesù paga il prezzo.

D. Un prezzo pagato per un vantaggio non giustifica l'idea di redenzione.

R. Vi è redenzione o riscatto perche vi è cessazione di uno stato di servitù e sborso di un prezzo a questo scopo.

D. Di quale servitù parli? R. Della servitù del male, e specialmente del peccato;

perché « chi commette il peccato è schiavo del peccato », dice S. Pietro, servitù che ne trascina un'altra riguardo a quell'agente invisibile del male, di quel fautore del peccato che si chiama Satana.

D. Bisognerà dunque pagare Satana?

R. No, come non si paga al lupo la pecora che gli

viene strappata; si paga un proprietario. Qui si paga Dio.

D. Quest'apparenza di commercio non ti urta?

R. Non si tratta di commercio, ma di giustizia e di

soddisfazione.

D. Un simile pentimento non è una sufficiente soddisfazione?

R. Il pentimento è certamente la cosa essenziale; ma non è affatto una soddisfazione. Un suddito che ha in-sultato il suo sovrano forsechè « soddisfa » rendendogli semplicemente omaggio? L'ordine pubblico si può -contentare di questa resipiscenza?

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D. Qui non c'è ordine pubblico. -R. C'è l'ordine pubblico degli esseri, l'ordine universale, che è un ordine morale. Quest'ordine è offeso dal peccatore, e l'offesa grave ha un carattere in certo modo infinito, in quanto quest'ordine contiene Dio.

D. Tuttavia Iddio non può condonare, come capo dell'ordine ' universale ?

R. Dio può tutto, e se egli facesse ciò che dici, noi loderemmo la sua misericordia; ma la stretta giustizia non sarebbe punto soddisfatta, ne certamente la divina paternità, perché non sarà forse l'eterno onore dei figli di Dio l'avere, in grazia del loro Cristo e della loro propria cooperazione, soddisfatto tutti i loro debiti morali, riparato ampiamente tutto il male, glorificato tutto il bene, e l'essere così, spiritualmente come in tutti i modi, i figli delle loro opere? Del resto, quanti benefizi speciali ci sono procurati dalla soluzione ammessa! Li abbiamo intravveduti trattando dell'Incarnazione.

D. Tuttavia, in questa ipotesi, Iddio non fa la figura di gran signore toccato sul vivo?

R. Egli fa la figura di Essere universale, sollecito a un tempo di tutti gli attributi del suo regno, di tutti quelli della sua paternità e dei molteplici bisogni delle sue creature. La Redenzione è un'opera d'armonia in cui la giustizia, la misericordia e la sapienza si abbracciano, come l'Incarnazione è un'opera d'armonia in cui il divino e il creato uniscono le loro frontiere. Gesù Cristo fa da parte sua ciò che non possiamo fare noi, e ci porta a ciò che noi possiamo fare, aiutandoci per di più a compierlo. Ci da l'insegnamento e l'esempio. L'egoismo orgoglioso e gaudente era la sorgente di ogni male: egli

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non solo li denunzia, ma ancora reagisce sposando i loro contrari. « Egli bevette la medicina che l'uomo non poteva bere — dice Caterina da Siena — come la madre che allatta prende un rimedio con l'intenzione che faccia bene al bambino ». Noi rigettiamo tutto sopra gli altri: i egli prende tutto sopra di sé. Noi non amiamo che noi stessi contro tutti gli altri: egli non amerà che gli altri contro di sé. Noi odiamo i patimenti e le umiliazioni necessarie: egli vi ci incoraggia con l'amore umiliato e dolorante. La morte ci fa orrore, fosse pure giusta, e buona, e indispensabile egli la chiama suo calice, che ha fretta di bere, perché egli venne per quest'ora.

D. Perché questo dramma, quando dici che il minimo atto di Cristo, d'un valore infinito, poteva bastare?

R. Dio non crede bene di salvarci con un colpo di bacchetta. Dio fa tutto all'eccesso, ancora una volta: eccesso di giustizia, eccesso di misericordia, eccesso di mistero, eccesso di chiarezza, eccesso di umiliazione, eccesso di grandezza, eccesso di tenerezza, eccesso di dolore e di gloria. Organizzata diversamente, l'opera non sarebbe sufficientemente divina; gli attributi sovrani non sarebbero abbastanza manifesti; la lezione sarebbe debole; l'avvenire morale non avrebbe sufficienti garanzie;

il bene e il male non avrebbero mostrato tutto il loro peso, e l'amore, principalmente, non avrebbe sufficienti testimonianze.

D. Tu perori per l'amore e per la morte? R. Vi è certamente un vincolo misterioso e intimo, tra l'amore, il patire e la morte. Dio vuole sottomettersi a questa legge della testimonianza irrecusabile, e con-

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sente che vi siano sottomessi con lui tutti quelli che l'amore travaglia. La salute collettiva per mezzo del sa-crifizio non è forse la più grande bellezza della storia? Ricorda Leonida, Regolo, il cavaliere d'Assas, Giovanna d'Arco. Il mistero della Redenzione ricollega la salute della collettività umana a un sacrifizio supremo che ne suscita una infinità d'altri, e ogni cuore generoso

10 comprende.

D. Intanto parli della « follia » della croce. R. Ma aggiungendo: « Quello che sarebbe follia di Dio è più sapiente della sapienza degli uomini » (1 Cor., I, 25). Questo caso di un dìo che per amore si mette nelle mani della sua creatura per morire è l'originalità più profonda del cristianesimo, quella che adatta questa religione all'anima umana in ciò che essa ha di più forte. Lì sta il segreto della sua impresa, e, di gran lunga, la sua più potente leva.

D. Più sopra hai detto che l'universo fisico partecipo alla caduta; ebbene partecipa anche alla Redenzione? R. Sì! perché Cristo, rinforzando il vincolo che lega l'anima a Dio, rafforzò nello stesso tempo il vincolo che lega il corpo all'anima e l'ambiente naturale al corpo. L'anarchia esteriore del mondo è vinta di diritto, come l'anarchia inferiore del nostro essere, come l'anarchia iniziale del peccato, e lo spirito riprende, ufficialmente,

11 governo delle cose.

D. Non si capisce bene come dopo tutto ciò, la situazione sia così poco cambiata. Se Cristo ha riparato tutto, come mai le conseguenze del peccato originale non sono abolite? R. Esse sono abolite di diritto; noi non vi siamo più

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soggetti come a una legge opprimente, ma legati oramai come a mezzi. L'eliminarle tutte a un tratto, come lo immagina una corta sapienza, non sarebbe stato degno di Dio. L'azione di Dio è armonia e ignora le catastrofi. Dio è abbastanza potente da trarre partito da una situazione senza sconvolgerla e trarre anche da una rovina un edificio migliore. Il nostro mondo è quello che è: Dio lo conserva; dobbiamo dire: tutte le sue apparenze restano, ma il segno de' suoi valori è cambiato. Moralmente questo mondo è radicalmente diverso: ieri una specie d'inferno, oggi, per chi consente a ben vivere, il vestibolo del cielo, o per dir meglio un cielo.

D. Tu vuoi che si faccia di necessità virtù. R. Sì, nel gran senso del termine, e di una fatalità un caso di libertà, di una condanna una scelta, di una costrizione un amore. È un bei. rovesciamento, e sarebbe da compiangere colui che volesse dare la preferenza a un volgare colpo di spugna. Dio ha dei gesti più alti e che ci onorano meglio. Relativamente al piano nuovo, segnato dalla croce, il piano originale non era che un piano volgare, come di fronte a Socrate con la coppa di cicuta in mano, un qualsiasi bevitore.

D. Allora dovresti esser contento per il peccato originale!

R. Sarei con la liturgia, che dice: « Felice colpa! ». Non ci si rallegra del male, ma della sua riparazione gloriosa e del fatto che « là dove era abbondato il peccato, sovrabbondi la grazia », come disse S. Paolo. Ma per noi e per altri, come per Cristo nella sua propria condizione temporale, i più alti valori sono legati al sacrificio volontario, e per conseguenza a uno stato di prova,

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di dolore e di morte temperato da qualche gioia, anzi, meglio, da un'intima pace.

D. Insamma, dolore e ancora dolore. R. Noi avevamo il dolore peccaminoso o il dolore gratuito; ora è il dolore generoso e il dolore che paga.

D. È questa la porta verso la quale ci spingeva l'angelo?

R. Lo stato di peccatore trova la sua porta di uscita dal lato della sofferenza, perché la trova dal lato del sacrifizio volontario. Gesù ci mostrò questa porta passandovi egli per primo.

D. Il passarvi era cosa grande; ma ciò avrebbe dovuto bastare.

R. Un capo non lotta mai solo; spesso anzi non si espone neppure; assume la parte di maggiore responsabilità e affida l'esecuzione ai suoi seguaci.

D. Potendo tutto, si sarebbe dovuto riserbare tutto. R. Anche l'onore delle grandi cose? Riconquistare un mondo e ristabilirlo nella gloria di Dio, è forse un'opera da serbare per sé?

D. L'opera è penosa e piena di rischi. R. Ma è anche gloriosa. Patetica al più alto segno, l'avventura è al più alto segno desiderabile per l'eroe, e l'eroe l'affronta.

D. Il mondo non è fatto di eroi. R. Tutti possono essere eroi nel grado che bisogna, con gli aiuti che ci sono largamente dati. « Nell'eroismo e il vero senso della vita» (william james): Cristo ci invita all'eroismo. Che riduzione di benefizio sarebbe stata da parte di Cristo la sua volontà di soffrire da

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solo, di nascondere nelle sue sole piaghe i gioielli del dolore redentore! La croce è un dono regale. Essere ammessi a partecipare con Cristo, a rassomigliargli in tutto, gioia e pene, a non salire le cime che egli ha conquistato se non coi nostri passi ne' suoi passi e carichi dello stesso peso: che felice sorte, per chi sa comprendere! L'anima cristiana non desidera altro; intcriormente libera, .essa si attacca al sublime Amico mediante una squisita e utile servitù « come uno schiavo affrancato che segue per amore il suo padrone » (lacordaire).

D. È quest'amore che poc'anzi chiamavi un ciclo? R. È quest'amore unito alla speranza d'un amore più sviluppato, più ricco di effetti, sciolto da timori e da rimpianti, ebbro di gioie senza fine a prezzo di rapide sofferenze. Il cielo si apre all'anima nostra prima che la terra si apra alla'nostra spoglia, e questo stesso seppellimento della nostra spoglia non è per sempre.

D. È una bazza; ma, secondo tè, molti uomini sfuggono a quest'azione redentrice, di modo che il primitivo stato dell'uomo non è interamente restaurato; si è in perdita. R. Noi crediamo che vi è del guadagno; perché per Cristo l'uomo è sollevato più in alto, se vuole, partendo da più basso. E nulla assicura che nel primitivo stato non ci sarebbe parimenti stata perdita. La giustizia originale non era inammissibile; si era tenuti a servirsene;

si poteva sempre perdere. Certo solamente il primo uomo poteva privarne la stirpe; ma ciascuno de' suoi discendenti poteva personalmente decaderne, e noi non sappiamo se egli avrebbe potuto ricuperarla così sovente e così facilmente come noi stessi.

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D. No; non possiamo ricuperarla se non a condizione di riconoscere Cristo: che cosa diventano allora quei che non lo conoscono, o ancora, non colpevolmente, lo disconoscono?

R. Non tutti i rapporti con Cristo sono visibili; neppure sono coscienti. Gesù ha dei discepoli segreti, dei discepoli che si ignorano o anche si credono suoi av-versari.

D. Che cos'è che caratterizza questi discepoli segreti? R. Gesù disse: « Mio discepolo è colui che fa la volontà di mio Padre ». Colui che aderisce alla volontà del Padre, vale a dire a tutto il vero, a tutto il bene tal quale apparisce alla sua coscienza vigilante, senza che egli vi opponga alcun ostacolo essenziale, costui è con Cristo, e Cristo lo salva.

D. Bisogna ancora che Cristo sia venuto, e quanti uomini prima di Cristo!

R. « Cristo viene sempre » (thomassin). « Cristo è sempre stato presso quelli che ebbero un cuore e che, verso l'origine o la fine del mondo, si sono sottomessi alla giustizia che viene da lui » (Idem). S. Paolo non dice forse lo stesso: « Cristo è ieri, oggi e in tutti i secoli »? Noi abbiamo già veduta questa dottrina del Cristo centro della storia e raggiante sopra tutti i suoi spazi. La « linea d'universo » che lo congiunge a cia-scun'anima può sempre essere tracciata e aprire un dialogo e uno scambio.

D. La Redenzione è dunque cominciata prima della

nascita di Cristo?

R- Cominciò da Adamo, e si può dire prima della

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colpa stessa. Il Creatore non pensava forse al suo Figliuolo, modellando Adamo e soffiando in lui la vita?

D. È bello; ma...

R. È pura teologia cattolica, e ne hai il simbolo in ciò che noi chiamiamo la Discesa di Gesù Cristo all'w-ferno, cioè l'apparizione, la manifestazione di Cristo alle anime de' suoi figli del passato, de' suoi riscattati per anticipazione, de' suoi prossimi fratelli di gloria. Abbiamo qui veramente una consacrazione dogmatica di questa affermazione che Cristo è di tutti i tempi e che il punto della storia in cui egli apparisce irradia sopra tutte le età.

D. Ora comprendo perché tu chiami la Redenzione un mistero.

R. Noi chiamiamo la Redenzione un mistero, non solo perché essa suppone l'Incarnazione e la Trinità; ma anche perché contiene il segreto della volontà divina sulla salvezza degli uomini, sulla giustizia, sulla misericordia e sulla loro conciliazione; perché essa ci presenta un Dio sofferente, un Dio di sangue e di lacrime, un Dio che, non avendo fatta la morte, volle soffrirla per liberarne quelli che l'avevano fatta; perché il prezzo di questa Redenzione rischiara di una tragica luce il mistero del male, e, correlativamente, innalza il bene, potenza a cui si accorda il trionfo. Ma il mistero proposto è qui soprattutto l'abisso dell'amore divino. La croce che congiunge il cielo alla terra e tende le sue braccia verso tutti gli spazi, è il simbolo misterioso dell'unità universale, che, per una sofferenza infinitamente generosa e una stretta giustizia, stabilisce l'amor divino.

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LA VERGINE MADRE

D. Non dai tu un posto speciale alla Vergine nell'Incarnazione?

R. Questo posto si delinea da se stesso nel disegno tal quale lo concepisce la nostra teologia cattolica. L'opera di Dio nell'Incarnazione ha un cominciamento, ed è la Vergine Madre. Maria è l'aurora che precede il giorno; la sua luce è fatta del giorno che ella annunzia;

questa luce non sarà forse della stessa essenza: spirituale, come la luce di Cristo è spirituale, e superiormente umana prima dello splendore sovrumano?

D. Che intendi con ciò? R. Che Maria, madre di Cristo, che è Dio, per conseguenza madre di Dio, benché ciò sia unicamente secondo la natura umana, Maria, associata immediatamente ai più grandi misteri e oggetto della loro preparazione, Maria, che sempre è questo, dacché Cristo è predetto, dacché è preveduto, vale a dire dalla costituzione di questo disegno eterno, non può essere una madre come le altre. Gli strumenti si preparano secondo l'opera. Maria è lo strumento dell'Incarnazione e della

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Redenzione; il suo caso dipende dall'Incarnazione e dalla Redenzione; primizia dell'opera e causa della sua Causa, ella dev'essere il suo capolavoro.

D. Tanti grandi uomini hanno,avuto madri comunis-sìme e che la storia non ricorda.

R. I grandi uomini di cui parli possono essere grandi e benefici per quanto li segue; ma nulla possono per quello che li precede. La loro madre dunque nulla può ritrarre dalla loro grandezza prima della loro azione. Ma Cristo, che è « ieri, oggi e in tutti i secoli », regola, come Dio, le condizioni della sua propria venuta; è lui che si da una madre, come si darà dei discepoli, e se. ha ricolmato i Dodici del suo Spirito perché lo continuassero degnamente, come non avrebbe disposto di sua madre in modo che ella lo precedesse degnamente, pre-corritrice intima, associata ben diversamente da S. Giovanni Battista, poiché Cristo sarà la carne della sua carne, invitato così a fare di lei, poiché lo può e in certo modo lo deve, lo spirito del suo Spirito.

D. Chi ti dice che questa convenienza fosse tenuta presente?

R. La Chiesa; ma noi ne abbiamo la prova, se non altro il segno ben chiaro in ciò che ci raccontano gli Evangelisti. Noi vediamo che Maria è dichiarata piena di grazia e benedetta fra tutte le donne, perché l'essere santo che nascerà da lei sarà chiamato Figliuolo di Dio, ed è tutta la nostra dottrina. Noi non vediamo lì una madre che mette al mondo un bambino che poi formerà la sua gloria; ma la vediamo prevenuta del disegno, invitata ad associarvisi e, con il suo consenso, a provocarlo in una certa maniera. Ella ci da veramente

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l'Uomo-Dio; si tiene dal lato del Padre e dello Spirito come una libera cooperazione; è la « porta del cielo »:

chi dubiterà che ella non sia come quelle porte della celeste Gerusalemme, che Giovanni vide risplendere come perle, o come quelle strade d'oro della Città di luce che conducono al Sole vivente?

D. Si riferisce forse a questo il vostro dogma dell'Immacolata Concezione?

R. Senza dubbio! Noi non vogliamo che Dio entri nel mondo per una porta lorda, che il nuovo Paradiso terrestre, « Paradiso animato, in cui dev'essere piantato l'Albero della vita » (s. giovanni damasceno), sia un deserto immondo. Anzi noi domandiamo a Dio di preservarlo e di ornarlo; egli ci dice che lo ma fatto, e noi gliene diamo lode.

D. Tuttavia questo dogma è nuovo. R. Questo dogma non è nuovo; è nuova soltanto la sua dichiarazione. Sempre latente nella Chiesa, ne è sprigionato, come una bolla nasce da particelle prima disperse in seno a un liquido.

D. Qual è la sua precisa nozione? R. Figurati un battesimo anticipato. Quella purezza e quella ricchezza spirituale che i meriti di Cristo applicati con il battesimo conferiscono al neonato o all'adulto, Maria l'ottiene sovrabbondantemente e per i medesimi meriti del momento della sua stessa concezione. La Redenzione la previene prima che ella vi cooperi per conto suo; ella è la prima riscattata da Cristo, riscattata prima di nascere e prima che Cristo sia nato; riscattata per nascere intatta e perché il Cristo; alla sua volta, nasca da una madre intatta. « Infatti non occorre forse —

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dice Bossuet — che giovi a Maria l'avete un Figliuolo che sia l'autore della sua nascita? ».

D. Pensi tu che Maria non avesse altro figlio che Gesù? R. È una questione di rispetto. La porta del Cielo vivo non da punto passaggio ad altri.

D. Che sono dunque quei « fratelli di Gesù » di cui parla il Vangelo?

R. Sono dei cugini, chiamati fratelli secondo il costume giudaico.

D. E Gesù fu dato a Maria nelle condizioni ordinarie? R. No affatto. Lo « credevano » figlio di Giuseppe;

ma non era se non figlio di Dio. Il Verbo che ha solo un Padre eterno, non vuole, neanche temporalmente, averne altro; il nuovo Adamo « secondo primo uomo » (p. lagrange), nascerà da Dio solo, come il primo. Una partenogenesi d'onore si è effettuata qui, non a disprezzo del matrimonio; ma perché vi è qualcosa di più alto: il commercio con Dio solo per un'opera in cui la causalità divina deve risplendere.

D. Almeno la nascita di Gesù fu una nascita comune? R. Neppure. L'integrità della Vergine fu in essa rispettata dalla delicatezza d'un Figliuolo onnipotente. Facendo uso di quelle delicatezze del corpo « spirituale » che manifesterà più tardi il suo corpo risuscitato, egli emana da un astro puro come un puro raggio (Sicut sidus radium profert virgo filium}.

D. L'esistenza della Vergine finirà come ha cominciato e proseguito, per un miracolo? R. Noi crediamo alla sua Assunzione, che è pure un articolo di fede. Il tempio vivo non deve conoscere la

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corruzione, benché a somiglianzà del suo Figliuolo la Regina dei Martiri debba gustare la morte. La corruzione sepolcrale è come una suprema mortificazione della concupiscenza primitiva e della concupiscenza volontaria del peccatore; ora « un essere perfettamente puro, come Cristo o la Vergine, non ha più niente da purificare. Il suo corpo non è più che il ritmo apparente dell'anima sua, la quale non ha più nessuna ragione di separarsene »

(MARCELLO SCHWOB).

D. Nella serie dei tempi, quale compito attribuisci alla Vergine Madre?

R. Poiché ella è stata associata alla nostra salvezza dandoci con il suo consenso Colui che la opera; poiché Dio stesso, richiedendo il suo consenso, ha fatto conoscere il suo costante disegno di unirla all'opera sua re-dentrice, e poiché finalmente ella ci è stata data sulla croce nella persona di S. Giovanni, come la intendono tutti i Padri della Chiesa, noi crediamo che Maria, Madre di Dio, è nello stesso tempo madre degli uomini, madre tenerissima, che non può rifiutare il suo cuore dopo aver dato il suo Tesoro; madre potentissima, anzi onnipotente di una onnipotenza di supplicazione (omni-potentia supplex), in ragione dell'autorità effettiva che ella esercitò sopra il suo Figliuolo e che le continua la filiale tenerezza. Ella è una mediatrice in secondo grado, .mediatrice puramente ma squisitamente umana, al di sotto del Mediatore uomo e Dio.

D. Tu vedi così in lei il canale delle grazie? R. Non è una dottrina definita, ma una piissima credenza. Maria continua in noi la sua maternità. Non siamo noi le membra dì Cristo? Ella ha sofferto per, noi

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ai piedi della croce, acconsentendo al grande Sacrificio. Il sangue di Gesù e le lacrime di sua madre non sono separabili, ne di conseguenza lo sono la mediazione di Gesù e quella di sua madre, l'umana mediatrice. Vi sono lì due casi essenzialmente differenti, e, checché ne dicano i protestanti, noi non li confondiamo affatto, ma li avviciniamo, perché la natura delle cose li avvicina. Il sole e la luna sono due astri; ma per via del sole, la luna stessa, illumina la nostra notte.

D. Non dici tu che ogni anima è associata così alla Redenzione?

R. Ogni anima è associata alla Redenzione; ogni anima è come Maria, con Maria, una nuova Èva data da Dio al nuovo Adamo come un aiuto simile a lui. Ma quello che noi siamo, come imitatori, Maria lo è come modello. Onde noi la chiamiamo nostra vita, nostra dolcezza e nostra speranza, come Cristo, benché ciò sia per via di lui.

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IL MISTERO DELLA GRAZIA

D. Dicevi che la Redenzione non è resa effettiva se non con la res^ituzjonj'_d,eJj,g_viM.£Qprttttngj^rale.^

per la colpa. In che consiste esattamente questa vita? R. L'abbiamo espressa in una sola parola: la grazia. Lì sta il fatto essenziale del cristianesimo, quello in vista del quale sono istituiti o ci sono rivelati gli altri.

D. Ed è anche un mistero?

R. È un mistero affatto segreto che Dio solo ci può rivelare, e siamo noi stessi uno di questi segreti, sia nella nostra natura profonda, sia in ciò che Dio ne vuoi fare.

D. La grazia è dunque un disegno di Dio? R. È il suo disegno essenziale, ed è poi un fatto.

D. Qual disegno? Quale fatto? R. Il disegno è di farci figliuoli di Dio in un senso nuovo che la natura non comportava punto, che la pura filosofia deista ignora, e in cui propriamente consiste la buona novella evangelica, espressa da queste parole di S. Giovanni: « A tutti quelli che hanno creduto, egli diede il potere di diventare figliuoli di Dio, a quelli che credono nel suo nome, e che, non dal sangue e dalla vo-

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lontà della carne, ne dalla volontà dell'uomo, ma da Dio, sono nati » (Prologo).

D. Bisogna dunque nascere di nuovo?

R. Tu poni la questione di Nicodemo, quando andò

di nottetempo a interrogare Gesù sulla sua dottrina:

10 non posso che ripeterti la risposta di Gesù a Nicodemo: « Nessuno, se non rinasce dall'acqua e dallo Spirito, può entrare nel regno di Dio ».

D. Tu dici che lì sta l'essenziale? Io credevo che l'essenziale del cristianesimo fosse nell'adesione a Cristo. R. L'adesione a Cristo non ha ragione di essere e non vuole altro efletto che l'effusione in noi dei doni divini che Cristo ha ricevuto per il genere umano. Cristo è il « Ceppo », e noi siamo i tralci, e il ceppo non è fatto che per i tralci e per i grappoli. Quando riceviamo la grazia, noi riconosciamo a Cristo la sua ragione di essere con quella della nostra adesione. La Trinità non ci fu rivelata se non come la sorgente di questo fatto, l'Incarnazione come il suo agente, la Redenzione come la sua condizione e il suo prezzo. La Chiesa, con tutto quello che porta in sé, ne sarà lo strumento.

D. Vuoi precisarmi che cosa è Ingrazia? R. Si chiama grazia, in generale, ogni favore che Dio ci fa, nell'ordine soprannaturale in cui ci ha collocati. Vi sono delle grazie esteriori, come la Redenzione stessa, gli^esempi e le esortazioni di Gesù Cristo o dei Santi,

11 ministero della Chiesa, ecc. Ce ne sono delle interiorr, come le ispirazioni e gli stimoli segreti che ci spingono al bene.

In questo dominio segreto, si distinguono due_sorta di grazie: la grazia abituale, o santificante, che si può

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conservare o perdere, ma che, per sé, ci è data per sempre, e le grazie attuali, destinate a procurare atti virtuosi.

D. Queste sono divisioni; io dpmandavo che cosa_e_ veramente la grazia in sé, e che cosa tu intendi per quest'ordine soprannaturale di cui si tratta fin dall'inizio dei nostri discorsi.

R. Aspettavo questo momento per spiegarmi in proposito, e la spiegazione chiarirà, come spero, tutto quello che abbiamo detto, come quello che deve seguire.

D. La grazia deve affiliarci a Dio? R. Noi siamo dei figli di Dio per natura; la creazione di cui abbiamo stabilito la nozione precisa, ci mette in relazione necessaria e permanente col nostro Principio. Ma la relazione tra due esseri può essere più o meno stretta, e quando si tratta di relazioni che arricchiscono, come quelle che ci legano a Dio, la ricchezza può essere più o meno preziosa e appartenere a ordini diversissimi. La creazione ci arricchisce per se stessa del nostro essere e della nostra natura ragionevole; ci da un corpo e un'anima, delle facoltà vitali, dei poteri di sensazione e di pensiero; ci assegna in sorte la cognizione e l'uso di questo mondo, e inoltre, con la filosofia nel suo più alto insegnamento o con istinto religioso che la sostituisce, la conoscenza astratta e il culto razionale del divino.

D. Non basta questo?

R. Noi non possiamo spingerci più lontano della nostra natura stessa e del funzionamento che le è proprio. Ma, osserva S. Tommaso, dovunque noi vediamo delle nature coordinate, ciascuna di esse, oltre il suo movimento proprio, ubbidisce a un movimento che le è impresso dalla

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natura superiore. In questo modo il mare, lasciato a se stesso, si estende a guisa di velo e sposa la forma di globo; ma gli astri l'attirano e, gonfiando la sua massa, producono il fenomeno delle maree, che non gli sarebbe naturale se non lo si considerasse in composizione con gli astri. Ora, aggiunge egli, l'uomo è legato a Dio dalla sua attività intelligente, poiché l'intelligenza gli permette di raggiungere l'universale a proposito degli oggetti dell'esperienza, mettendolo per questo solo sulla strada del principio dell'universale, che è il Primo Principio. Sarà dunque normale e conforme a un'induzione costante che la natura umana si sviluppi sopra un duplice piano: quello che la sua natura determina, tal quale ce la rivela l'analisi, e quello al quale vorrà elevarlo quel motore supremo, Jbuono e magnifico, che noi chiamiamo Dio.

D. Questa teoria è interessante; è propria di S. Tom-maso d'Aquino?

R. Fu abbozzata da parecchi filosofi dell'antichità. Aristotele ne fornì i lineamenti nella sua celebre in-terpretazione del genio, genio dell'intelligenza o genio della virtù, che, secondo lui, non sarebbe altro che un'irruzione subitanea del divino che si sostituisce ai nostri ragionamenti e alle nostre prudenze, per portarci più in alto e più lontano. La Morale di Eudemo, ci presenta a questo proposito una pagina mirabile, e Plu-tarco, in cui si trova un rinesso di ciò che vi è di meglio nella filosofia antica, scrisse nel Banchetto dei sette sapienti questo passo meraviglioso che suscitava l'entusiasmo di Gratry: « II corpo è lo strumento dell'anima e l'anima è lo strumento di Dio. E come il corpo ha

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dei movimenti che gli sono proprii, ma ne ha altri più belli che gli vengono dall'anima, così l'anima ha il suo ordine proprio d'azioni e di movimenti, ma può anche, come il più perfetto degli strumenti, lasciarsi dirigere e muovere da Dio, che agisce in lei. Che se il fuoco, il vento, l'acqua, le nubi sono strumenti di Dio per la vita e per la morte, chi crederà che gli esseri viventi non si possano adattare alla forza di Dio, e lavorare con questa forza, e ispirarsi ai movimenti di Dio, come la freccia ubbidisce agli Sciti e la lira agli Elleni? ».

D. È senz'olirò la teoria di S. Tommaso. R. Attento; S. Tommaso ne fa un uso assai più ardito, sostenuto dalla rivelazione evangelica, donde vengono per noi e le certezze e le ispirazioni superiori. Ciò che l'antichità sospetta, è che Dio opera in noi per portarci più lontano che non potremmo andare da noi stessi, per esempio, per farci vedere, nelle ore d'ispirazione, quello che rimane oscuro alla nostra intelligenza ragionante; per alzarci, in quello slancio che noi chiamiamo eroismo, al di sopra della debolezza del nostro volere. Ma i dominii di vita in cui quest'azione complementare ci spinge, sono nondimeno dominii appartenenti al nostro ordine umano; quello che a noi ne verrà sarà della stessa natura che i risultati ottenuti da sforzi umani. La nostra vita rimane nell'ambito della sua essenza, delle sue operazioni naturali, dei suoi valori; non è cambiato altro che l'ampiezza del gesto, e noi diventiamo divini pur essendo mossi così dalla Divinità.

D. Perché diventare divini?

R. Così vuole la divina munificenza, e ciò non avviene, ho detto, senza una profonda armonia con la no-

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stra natura. « II Vangelo soddisfa la coscienza perché la oltrepassa », scrive Carlo Secrétan.

D Tu dici dunque, lasciando l'antichità... R. Che il pensiero cristiano va oltre; che esso intende unirci a Dio non più solo come il mobile al suo motore, restando ciascuno dei due nel suo ordine, ma nel modo intimo che permetterà tra loro la comunione, in maniera che i pensieri e gli amori siano comuni, le vite mescolate, gli oggetti identici, e che io, cristiano, possa sentire, o ad ogni modo riconoscere « qualcuno che è in me più me stesso di me » (paolo claudel).

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D. Non capisco una tale pretesa. R. Rappresentati la gamma delle relazioni supponibili tra Dio e la sua creatura. L'uno degli estremi è abbastanza ben rappresentato dal razionalismo deista, il quale vede Dio che interviene nelle nostre vite soltanto con la mediazione delle leggi generali. L'altro estremo sarebbe dato dal panteismo, che confonde Dio e l'uomo nell'unità d'una stessa sostanza. Tra i due c'è posto per innumerevoli posizioni intermedie; ma il più vicino al razionalismo puro sarebbe quello che abbiamo ora incontrato nei nostri antichi filosofi, e il più vicino al panteismo, del quale esso si appropria la profondità dottrinale rigettando i suoi eccessi, è il sistema cristiano del soprannaturale. Noi ne abbiamo trovato il tipo in Cristo, ed era di diritto, poiché il nostro capo di stirpe soprannaturale è lui stesso, nella sua umanità fraterna, paterna, solidale su ogni punto della nostra.

D. Cristo non è Dio?

R. Cristo è Dio, e a questo titolo, dicevamo, egli realizza una sorta di panteismo individuale, in ciò che noi

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possiamo dire, designando la sua persona: Questi è Dio, come Anassimene, mostrando con un largo gesto il cielo e la terra, diceva: Tutto questo è Dio. Ma questo fatto non annulla punto la sua umanità. Questa umanità unita a Dio in persona serba il suo funzionamento proprio, sopraelevato però da una tale unione, e l'essenza del soprannaturale si rivela appunto in questo funzionamento di una umanità « piena di grazia ».

D. Vorrei maggiore precisione. R. Si tratta di un'unione di conoscenza e di amore, di un'intuizione dell'intelletto, di una fusione dei cuori, di una comunione di vita che introduce l'umanità stessa nella Trinità, e non forma più che una sola vita delle due vite naturali infinitamente disparate.

D. Parli sempre di Cristo? R. Parlo di Cristo anzittutto; perché Cristo per il primo godeva di questi privilegi, e vedeva Dio, lo esperimentava, lo viveva come noi vediamo ed esperimentiamo coi nostri sensi gli oggetti di questo mondo, in tal modo che la sua vita era a un tempo terrestre e celeste. Ma questo stato di grazia — poiché anche in Cristo è una grazia, benché sia una derivazione naturale della grazia prima che è la « grazia d'unione » — questo stato, dico, ci è comunicato nel suo fondo, se noi prestiamo ai meriti di Cristo l'adesione dell'anima nostra. Noi non ne godiamo subito come lui, perché abbiamo prima da cooperare e non pretendiamo alla sua dignità eminente; ma ne abbiamo in noi il germe, come il bambino prima di nascere ha in germe la vita e il pensiero. Ed è questo germe, questo germe di immoralità beatifica, d'intuizione trascendente, d'amore infinito, che

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noi chiamiamo grazia santificante. Per essa noi acquistiamo il potere, come diceva S. Giovanni, di esercitare verso Dio il ruolo di figliuoli nella sua pienezza, cioè di condividere la sua vita intima, di conoscere lui stesso e tutto quello che egli conosce, di amare quello che egli ama e volere quello che egli vuole come oggetti ormai nostri, connaturali all'anima nostra trapiantata, come il sensibile e i suoi oggetti sono a noi qui connaturali. Vedete, dice S. Giovanni, quale amore il Padre ci ha dimostrato, perché noi fossimo chiamati e fossimo realmente figliuoli di Dio. Adesso noi lo siamo; ma quello che saremo un giorno non è ancora stato manifestato. Noi sappiamo che quando questo sarà manifestato, saremo simili a Dio, perché lo vedremo tal quale egli è. Per vedere Dio tal quale è, bisogna essergli simili a qualche titolo, poiché questo non è naturale che a lui. Egli lo rende naturale anche a noi comunicandoci questa nuova natura, questa natura soprannaturale che è la grazia.

D. Tutto questo rasenta la follia. I personaggi dell'Areopago ne avrebbero riso di cuore.

R. Essi ridevano anche della follia della croce, che fece la sua strada nel mondo. È appunto la follia della croce che' richiede questo contrappeso, che spiega queste mire sublimi. Convenne che Cristo morisse per entrare nella sua gloria e perché noi vi salissimo con lui; ma bisogna reciprocamente che noi saliamo nella gloria dove sale Cristo, per giustificare una tale morte. Quando il sole scende nella notte sanguigna, è per preparare l'alba e il meriggio; questa caduta d'astro è un pegno; un tramonto di sole non è che un'aurora anticipata: così la

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caduta di un Dio nella vita e nella morte umana è il pegno del nostro destino supremo.

D. È doveroso attenersi al verosimile. R. Il verosimile è sempre oltrepassato da Dio. Quante inverosimiglianze, già, nella natura! In fondo, tutto e inverosimile; lo diciamo verosimile dopo. Ad ogni modo una questione come questa è a noi superiore. « Se si vuole dire che l'uomo è troppo poco per meritare la comunicazione con Dio, bisogna essere ben grande per giudicarne » (pascal).

D. Le tue Scritture nel loro insieme appoggiano queste straordinarie pretese?

R. Senza il loro appoggio non ci permetteremmo mai di aprire la bocca in proposito. Pio citato S. Giovanni;

ma questa dottrina è comune nel Nuovo Testamento. « Voi sarete partecipi della stessa natura di Dio », diceva S. Pietro ai suoi fedeli, e S. Paolo: « Quando il perfetto sarà venuto, quello che è parziale e incompleto in noi avrà fine. Conosciamo adesso come in uno specchio in modo oscuro; ma allora vedremo il divino a faccia a faccia. Ora conosco in parte; ma allora conoscerò come sono conosciuto » (1 Cor., XIII, 10, 12).

D. La grazia, dici, presagisce questo sfato; come intendi i loro rapporti?

R. Per figurarlo, ho usato l'immagine del granò, del germe, e con ciò intendo che in ragione dell'unità della nostra vita, naturale o soprannaturale, si deve trovare al punto di partenza, virtualmente, quello che si troverà sviluppato al termine. È il punto d'arrivo che da ragione delle tappe che lo preparano. Nessuna evoluzione si concepisce se non per trasformazione succes-

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siva di un elemento già differenziato e in relazione al risultato ultimo. Perché la quercia sia quercia, bisogna che la ghianda sia ghianda, cioè non una quercia in piccolo, come credevano antichi naturalisti, ma una quercia in potenza. Nello stesso modo, se l'uomo dev'essere un giorno divino, nel senso partecipato che abbiamo definito, bisogna che sia tale già quaggiù nello stesso modo, con la sola differenza che c'è tra la pianta sviluppata e il suo germe.

D. In altre parole?...

R. Voglio dire che l'uomo, sorretto nell'essere dalla Divinità così come ogni altra creatura, deve essere da essa permeato, unito ad essa più a fondo, compenetrato nel suo essere e nelle sue facoltà da quello stesso influsso di cui Dio stesso vive e che chiamiamo Spirito Santo. Lo Spirito Santo è l'agente proprio della grazia; è lui che effettua questa compenetrazione del divino e dell'umano nell'uomo rigenerato, nuovamente generato per una vita nuova. E per questo fatto è « l'anima dell'anima nostra », dice S. Agostino, perché la relazione dell'anima al corpo, come principio di vita, si riscontra in un grado superiore tra l'anima nostra e l'influsso divino che la mette in azione. L'anima informa il corpo; la grazia informa l'anima nostra, e per essa tutto l'essere, per renderlo più divino. Per questo fatto, si dice che Dio lo abita:-

D. Abitazione metaforica!

R. Abitazione misteriosa, ma reale, sotto gli auspici della grazia, e questa abitazione di Dio in noi è agli occhi nostri tutta la religione, poiché è il vincolo non pu-

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ramente ideale, che ci lega all'oggetto della religione, alla Divinità in persona.

D. L'individualità umana, in tali condizioni, può ancora sussistere? Che cosa diventano le nostre facoltà, e di qual libera azione sono ancora capaci?

R. Dio non distrugge niente di ciò che egli tocca, perché non tocca se non per vivificare. La sua sopracrea-zìone rispetta in tutto la creazione primitiva. Le nostre facoltà sono sopraelevate e rafforzate dal contributo divino della grazia, senza perdere nulla della loro autonomia e dei loro caratteri. Quello che è grazia santificante nell'anima presa nella sua entità fondamentale, nella sua essenza, come noi diciamo, diventa virtù soprannaturale nell'incanalarsi nelle nostre varie facoltà. Nel nostro intelletto è la fede, che si sovrappone alle nostre cognizioni naturali senza contraddirle; nella nostra volontà e nella nostra sensibilità, sono la speranza, la carità, le virtù morali soprannaturali, e inoltre, aggiungen-dovisi come il genio alla scienza e l'eroismo alla virtù, ciò che noi chiamiamo i doni dello Spirito Santo, disposizioni inferiori procedenti a modo dell'istinto, quando le virtù si valgono dei procedimenti razionali dei quali la deliberazione è il tipo.

D. E qual è l'essenziale? R. È la carità, l'amore. Onde l'ordine soprannaturale è chiamato comunemente V ordine della carità, come dice Pascal. Lì è il centro della nostra vita soprannaturale, e per conseguenza lì sta il suo principio organizzatore. La grazia di Dio opera nell'anima il medesimo effetto che lo Spirito sopra il caos primitivo. Il nostro ingresso nella vita divina, che è armonia e dirittura, luce e

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forza, si effettua sotto questo segno dello Spirito, che è l'Amore vivente, e noi siamo, per questo fatto, sotto una legge d'amore, scritta, dice S. Paolo, non su tavole di pietra, ma su tavole di carne, nei nostri cuori.

D. Ciò esclude evidentemente il male morale? R. La grazia e il male Sono per sé incompatibili; perciò chiamiamo un peccato grave, peccato mortale, perché trae seco la morte dell'anima riguardo a quella vita soprannaturale che noi descriviamo. Parimenti chiamiamo la venuta dello stato di grazia giustificazione, perché l'uomo in grazia è necessariamente un giusto, un essere gradito a Dio, un figlio di adozione, un fratello di Cristo, perciò un erede del regno che Gesù Cristo conquistò, un « tempio » dello Spirito Santo e di tutta la Trinità, le cui missioni nell'anima sono uno degli arcani più sottili della fede.

D. Sono questi per tè veramente dei fatti psicologici, e non solo dei dati morali?

R. Sono dei fatti di biologia spirituale, se così posso dire, dei modi reali dell'essere, dei fenomeni di vita.

D. Allora perché non ne abbiamo coscienza? R. Un sommo psicologo non sarebbe d'accordo. Maine de Biran [Journal, 20 dicembre 1823) scrive: « Adesso intendo la comunicazione intcriore d'uno Spirito superiore a noi, che ci parla, che noi udiamo dentro, che vivifica e feconda il nostro spirito senza confondersi con esso; infatti noi sentiamo che i buoni pensieri, i buoni movimenti non nascono da noi stessi. Questa comunicazione interna dello Spirito col nostro spirito, quando sappiamo invitarlo o preparargli in noi una dimora, è un vero fatto psicologico, e non di fede soltanto ». Tut-

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tavia bisogna riconoscere che di solito lo stato soprannaturale in se stesso non può essere l'oggetto di una certezza sperimentale. Onde S. Paolo dice che assolutamente parlando nessuno sa se sia degno di amore o di odio. Ma si può discernere l'albero da' suoi frutti. Il modo di vivere, il modo di comportarsi riguardo al soprannaturale, ecco il segno, e questo segno è moralmente sicuro, senza che vi sia bisogno di una evidenza immediata, di un contatto.

D. Resta però la stranezza di una completa struttura spirituale di cui non abbiamo affatto coscienza.

R. Abbiamo noi coscienza dell''incosciente, la cui esistenza è così certa? Abbiamo coscienza della circolazione del sangue? Un fenomeno così grossolano non è stato scoperto che dopo secoli di studi, e non mancarono scienziati che lo negarono. Una miriade di onde e di radiazioni ci attraversano o si sprigionano da noi senza che ne abbiano la benché minima sensazione. La terra sotto i nostri piedi gira e fugge con una rapidità vertiginosa. A più forte ragione sarà impercettibile un fenomeno soprannaturale, che non ha alcun rapporto essenziale con ciò che percepiscono i nostri organi o analizza il nostro pensiero.

D. Devi però ammettere un miracolo permanente. R. Non è un miracolo più di quello che lo sia il sollevarsi dell'acqua nella marea. È un ordine nuovo, è vero, che però si presenta in continuità con tutti gli altri, nell'interno del piano divino. La vita della grazia si sovrappone alla vita naturale dell'anima che essa impregna, come questa all'attività cerebrale, e questa alla

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azione fisico-chimica del corpo e questa ancora all'inerzia della materia.

D. Ma questo stato soprannaturale, identico in tutti i « giusti », non è la fine della originalità e della iniziativa personale? Tutti nello stesso stampo, sia pure uno stampo divino, non può essere un ideale.

R. Prospettare così le cose sarebbe cadere in un grave controsenso. La grazia è la stessa per tutti in quanto soprannaturale e in quanto si adegua alla nostra natura;

ma ho già detto che essa è ricevuta in ciascuno secondo le sue particolarità, e, fatta eccezione per il male, la grazia le rispetta. L'Incarnazione non tolse a Cristo uomo i suoi caratteri individuali, neppure quelli della sua stirpe: a maggior ragione la grazia non altera i nostri caratteri perché la nostra personalità non è assorbita da Dio, come fu quella di Cristo. Anzi la grazia consacra e realizza su un piano superiore ciò che si potrebbe chiamare la nostra vocazione naturale, essa col-labora con noi nella nostra attività; sposa il nostro caso e lo coadiuva: in questo caso si parlerà di grazia di stato. Non vi è alcun dubbio che un essere è molto meglio se stesso, quando per mezzo della grazia è purificato dai suoi difetti e potenziato in tutte le sue possibilità. Alla fine di questo lavoro è la gloria, frutto della grazia, e nella gloria ciascun uomo apparirà, secondo il celebre detto di Mallarmé: « Così com'è in se stesso alla fine l'eternità lo cambia ». L'uomo è cambiato, ma in se stesso, il Creatore come lo ideò e che le nostre miserie terrene ricoprivano, e per di più in un se stesso trasfigurato, realizzato in un modo più alto, come una melodia scritta in un tono più alto.

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D. Hai parlato di grazie attuali: che cosa sono? R. Noi chiamiamo così ogni soccorso soprannaturale di Dio che non ha un carattere permanente, ma solo occasionale. Può essere un lume nella nostra intelligenza, uno stimolo della nostra volontà, un movimento felice della nostra sensibilità; il tutto in vista del nostro bene spirituale. Secondo i suoi effetti, si dirà di questa grazia che essa ci stimola, ci aiuta, ci guarisce, ci eleva. Si chiamerà efficace se essa porta fino all'azione, o sufficiente se è lasciata alla mercé del nostro libero arbitrio. Ma in tutti i casi essa esige la nostra cooperazione. Non siamo salvati, senza la nostra collaborazione.

D. La grazia dunque non è che un atto preveniente da parte di Dio.

R. È qualcosa di più, perché anche alla risposta Iddio coopera, quando al suo atto preveniente noi non cooperiamo. Dio è sempre il primo, Dio è sempre il più forte, specialmente in amore. Egli viene, e noi gli andiamo incontro; ma, anche lui che è dovunque e presente a tutto viene con noi, al suo proprio incontro. Che cosa potremmo fare noi uomini, in questo ordine che sorpassa l'uomo, senza l'aiuto di questo compagno divino?

D. Non si può fare nulla di bene senza la grazia? R. Si possono fare delle buone azioni senza la grazia, checché abbiano detto luterani e giansenisti, per i quali la natura umana, totalmente corrotta dal peccato di origine, non sarebbe capace che di male. Ma senza la grazia non si può fare nulla di efficace per la salvezza, che è soprannaturale; si è solamente ad essa preparati e messi sulla sua strada. Di più, senza la grazia, non si potrebbe

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evitare, in tutto il corso di una vita, ogni colpa grave contro la legge morale. E noi crediamo ancora giustamente necessario un soccorso speciale, per ottenere quello che chiamiamo la perseveranza finale.

D. Credi possibile, con la grazia, di evitare ogni colpa qualsiasi, anche la più leggera?

R. Praticamente, no; lo spirito umano è troppo incostante; troppe occasioni e accidenti interni o esterni ci colgono di sorpresa. Si può evitare ciascuna colpa presa per se stessa; ma per vincere sempre e non cadere mai, noi crediamo indispensabile un privilegio fuori dell'ordinario, che per quanto sappiamo non si è riscontrato che due volte: in Gesù e nella sua purissima Madre.

D. Avendo in sé la grazia che tu chiami « santificante », si può, senza la grazia attuale, essere santi? R. Anche qui, la stessa risposta. Teoricamente, è possibile; ma praticamente, ci son veramente necessarie grazie attuali, grazie d'occasione. Per quanto armata e coraggiosa sia una milizia, può sempre evitare di ricorrere al suo capo per chieder rinforzi?

D. J « rinforzi » sono garantiti? R. È di fede che tutti i giusti ricevono le grazie necessario alla loro perseveranza nel bene, tutti i peccatori le grazie necessarie alla loro conversione e alla loro salvezza, tutti gl'infedeli le grazie che, se vogliono, li condurranno, sia alla fede esplicita, sia ai supplementi morali e soprannaturali della fede.

D. Questa dottrina da l'impressione di essere uno

sforzo di equilibrio tra il tutto o il niente delle dottrine

estreme.

R. S. Tommaso scrisse queste belle parole: « La

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Chiesa santa e apostolica tra due siepi di errori, ben in mezzo alla strada, va con un passo lento ».

D. La dottrina della grazia urta però contro un legittimo orgoglio.

R. Quale sorta di orgoglio potrebbe essere in questo caso legittima? « Che buffa cosa — scrive Pascal —gridare a un uomo che non conosce se stesso che egli vada da sé a Dio! E quanto buffa dirlo a un uomo che conosce se stesso! ». E ancora: « Per fare d'un uomo un santo, è indispensabile che intervenga la grazia, e chi ne dubita non sa cosa sia un santo e cosa sia un uomo ».

D. Ciò non favorisce quelle eresie contrarie che poco fa condannavi?

R. L'uomo s'immagina alternativamente, e alle volte nello stesso tempo che egli può tutto senza Dio e che non può niente, anche con Dio: la Chiesa gl'insegna che egli non può niente senza Dio e tutto con Dio. In tal modo essa pensa di onorarlo e d'incoraggiarlo; perché l'onore dell'uomo è in quello di Dio, e in Dio l'uomo trova la sua forza.

D. L'uomo da solo compie spesso delle belle opere. R. Certo compie opere magnifiche, ma in collaborazione con la natura e servendosi delle forze universali, delle quali egli stesso non è tisicamente che un punto di convergenza. Ve ne sono anche nell'ordine spirituale, e più ancora nell'ordine soprannaturale. La grazia è un collegamento, in noi, per l'utilizzazione delle forze eterne. Vorrà l'uomo compiere senza Dio un'opera divina, dal momento che non può agire in questo mondo se non utilizzando la materia che insozza i suoi piedi?

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D. Ma dov'è allora il merito umano? R. Il merito umano non può essere un merito solitario, perché l'uomo non è mai solo; ma pure è un merito, perché ciò ch'egli fa con un soccorso normale, lo fa veramente lui, ed è normale altresì che egli ne abbia vantaggio. Di più, quello che Dio ci da non è nostro, e i meriti di Cristo non sono forse nostri? Che Dio, coronando le nostre opere, non faccia altro che coronare i proprii doni, come dice S. Agostino, ciò non impedisce che egli ci coroni. Dio incomincia, ci mette sulla strada; accompagna il viaggiatore, ed è lui che ci riceve;

ma ciononostante siamo noi a camminare.

D. Si può meritare l'aumento della grazia?

R. Sì, ma con la grazia, poiché senza di essa non si

può nulla.

D. Si può dunque meritare la prima grazia?

R. La sua stessa definizione dice di no. Ho detto però

che uno vi si può disporre.

D. Il peccatore destato da una prima grazia può meritarne altre e la conversione stessa? R. Strettamente no, poiché non si merita propriamente se non essendo amico di Dio; ma alla bontà che lo ha così prevenuto conviene rispondere al suo buon volere e compiere l'opera sua.

D. E si merita la gloria?

R. Alle stesse condizioni, e si merita pure che essa

aumenti.

D. Che dici del merito per altri o in vista di altri? R. Non si può salvare un altro senza che lui stesso lo voglia, ma gli si può meritare soccorso, in ragione della

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nostra solidarietà in Gesù Cristo e nella comune paternità divina. Ecco un caso di ciò che noi chiamiamo la comunione dei santi..

D. Che avviene quando si sono acquistati dei meriti e si pecca poi gravemente?

R. I meriti periscono, perché non si può essere a un tempo separato da Dio e meritevole davanti a lui; ma se si rientra nella sua amicizia, i meriti rivivono.

D. Rivivono anche le colpe perdonate, quando si ricade?

R. No, e in ciò splende la bontà del nostro Dio, che ricorda il bene e .dimentica il male. Non si può tuttavia fare a meno che ne sussistano le tracce, e grande a questo riguardo è la differenza tra il peccatore che ricade e il peccatore che si rialza; perché sul primo gli effetti di antichi peccati sono un peso di più, mentre al secondo servono di scusa. Nel capitolo della « Penitenza » del resto ritroveremo questo problema.

D. Quali sono, secondo tè, i rapporti di questo regime individuale e interindividuale della grazia con lo stato sociale?

R. Essi sono stretti, e i loro effetti riconosciuti sarebbero immensi. Avendo la grazia per compito di raddrizzare la natura individuale, di sopraelevarla conforme a se stessa e in tutti i suoi aspetti, di aiutarla in tutte le sue attribuzioni, è chiaro che la grazia prepara alla società degli elementi scelti e favorisce l'uso di questi elementi in tutti gli ordini di fatti che la parola società abbraccia. Essa tende a frenare le forze cattive che mantengono il disordine e intralciano il progresso; dispone le menti alle sane concezioni e alle utili riforme; calma

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le impazienze perturbatrici; da come base all'edificio sociale una famiglia purificata, consolidata dall'unità e dall'indissolubilità del matrimonio, perciò conforme alle esigenze di una società veramente progredita; con la carità unita alla giustizia, essa aiuta la concordia dei diversi fattori del lavoro, la ricerca e l'accettazione delle combinazioni economiche favorevoli, l'elaborazione e il funzionamento d'una buona politica nazionale e d'una politica di pace.

D. Ammetti tu il rovescio?

R. Certo, e di diritto. Poiché la grazia si deve adattare a nature individuali definite e attive, e non già a una materia anonima e inerte, è di sommo interesse per il suo lavoro sovrumano che le nature individuali siano prese in quadri sociali ben concepiti e funzionanti normalmente. Come base per l'azione .soprannaturale, nulla di meglio che individualità umane « qualificate », e se è possibile altamente qualificate.

D. Vi è dunque un parallelismo sociale tra la grazia e la natura, come tu hai riconosciuto tra esse un par-alle-lismo individuale?

R. Socialmente come individualmente vi è di fatto un avviamento parallelo e concentrato della grazia e della natura. Questo si concepisce subito, se si osserva che la nostra natura è sociale, e solo per astrazione ne può prescindere.

D. Vorresti riassumermi in due parole che cosa è il tuo soprannaturale?

R. È un modo di essere e di agire che è naturale solo a Dio e che Dio ci comunica. È la vita intima della Trinità, nella quale noi entriamo.

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D. È dunque una vita in due mondi? R. « La nostra conversazione è in cielo », dice S. Paolo. La nostra società con Dio non dipende da nessun mondo; essa comporta solo delle tappe, richieste per il necessario uso della nostra libertà. È presentemente una società per meritare e lavorare alacremente, in attesa del fine e del godimento.

D. Il divino nell'umano, insomma, e l'umano nel divino?

R. Satana aveva promesso ad Adamo e ad Èva che sarebbero come dèi. « Gesù Cristo mantiene la stupenda promessa fatta dal diavolo » (malebranche).

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LA CHIESA

IL REGIME SOCIALE DELLA GRAZIA

D. Hai parlato più sopra di una grazia sociale recata

da Cristo agli uomini: dove si trova?

R. Nella Chiesa. La Chiesa stessa è una grazia sociale;

essa è una comunicazione dei misteri; suo compito è di far pervenire la vita divina all'umanità.

D. Ne ha essa la disposizione?

R. Essa ne ha il ministero. È un incaricato spirituale

di affari; rappresenta e serve l'opera del Cristo.

D. Di quale rappresentazione sì tratta? R. La Chiesa, istituzione visibile, quantunque di essenza spirituale, manifesta ai nostri occhi quella società delle anime con Dio che è la religione, e che, in ciò che ha d'interiore, di passato, di futuro o di estensione ad altri dominii fuori di questo mondo, ci sfugge.

D. E tu dici che la Chiesa serve ciò che essa rappresenta?

R. Sì, come Gesù Cristo, suo fondatore, ha manifestato e servito l'opera di suo Padre, come i suoi proprii sacramenti manifestano e servono la effusione de' suoi doni divini.

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D. La Chiesa è dunque una mediatrice? R. È come un'atmosfera luminosa tra noi e il Sole di verità, un'atmosfera vivificante tra noi e la Vita prima, un'atmosfera purificante tra noi e la divina Santità, un'atmosfera che sorregge chi sale all'Altissimo slanciandosi dal suolo.

D. Che significa la parola « Chiesa »? R. Significa « assemblea ».

D. Vi sono altre assemblee. R. Nondimeno la Chiesa ha un nome incomunicabile;

come il suo Dio è Dio, come il suo Cristo è il Cristo:

cosi la sua religione è la Religione, e l'Assemblea che essa forma è di diritto, riguardo al soprannaturale, l'Assemblea umana.

D. Di quale utilità può essere, nel soprannaturale, l'esistenza di un'assemblea?

R. In grazia di essa, la nostra religione non è una semplice teoria o un sentimento vago; non è una tradizione in via di indebolirsi essendo poggiata sopra un fatto lontano; è una vita, una vita di famiglia, una parentela che ha sempre, per rappresentante, Gesù Cristo alla sua testa, e si perpetua mediante i procedimenti della vita, generazione spirituale, educazione, nutrizione, protezione esterna e intima, emendazione, ecc. In tal modo si può camminare attraverso a questo mondo e avanzare verso l'altro. Non siamo soli.

D. La solitudine, non è precisamente la legge dello spirituale? La religione non è forse affare privato? R. Si tenta di farcelo credere, e i poteri civili sopportano difficilmente, accanto a sé, un'organizzazione sociale la cui esistenza ed esigenze sembrano a loro una

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fonte di conflitti. Ma la natura delle cose è lì che s'impone. L'uomo è un essere sociale; ogni fatto umano autentico è un fatto sociale, e la religione è sociale più che il resto, perché se umanamente 'noi non siamo al completo se non per mezzo di altri, divinamente noi ci sentiamo anche molto più una sola cosa. Il rapporto più fondamentale è quello che ha meno probabilità di dividerci, e deve meglio unirci. Lo scopo più nobile è quello che esige di mettere in opera le più sante risorse, che sono le risorse sociali. La vita religiosa non dev'essere la goccia d'acqua che è bevuta o che svapora, ma l'oceano che resiste alla terra e all'aria con la sua massa. In tutti i nostri sentieri noi avanziamo in gruppi; ma su quello dell'eterno e del trascendente, dove la religione c'impegna, noi dobbiamo fare qualcosa di più che camminare in gruppi distinti: dobbiamo formare una unità stretta, indissolubile. L'ideale è qui la cattolicità.

D. Un tale ideale è attuabile? R. Fu realizzato da Cristo, ed è il suo capolavoro. Sono fuori strada coloro che pretendono di conservare la dottrina del Vangelo e di rigettare la Chiesa. Non vedono che l'opera essenziale di Cristo consiste meno ancora nelle verità che egli ci affida che nel sistema di protezione, di diffusione e di utilizzazione che egli inventa per metterle al servizio dell'universo e dei secoli, dei grandi e dei piccoli, dei sapienti più illustri e dei bambini. Lì sta la meraviglia.

D. I protestanti non la pensano come tè. R. Tra i protestanti e noi corre un buon numero di differenze; ma la differenza radicale è di fatto questa. Il protestantesimo mette alla sua base l'individualismo

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religioso, il libero esame, e non forma gruppi se non dopo e accessoriamente, secondo contingenze per lo più nazionali. Il cattolicesimo pone alla sua base la società religiosa, che, da parte di Cristo e sotto la sua salvaguardia, comunica e amministra i doni divini. Ora, in ragione del suo principio, il protestantesimo conclude alla polverizzazione e all'infinita diversità delle dottrine. In ragione del suo principio, il cattolicesimo è un fattore di unità, di fissità, di perennità flessibile come la vita stessa, ma rigido come la vita nelle sue eterne leggi.

D. Se fossi credente, io sarei tentato di dare ragione al protestantesimo, e, nell'ambito dello spirituale, non crederei di poter essere salvato dal di fuori.

R. Quello che ci salva, nella Chiesa, non è un'esteriorità, anzitutto perché la società non è mai un'esteriorità, per un essere che è sociale per natura; ma principalmente perché lo Spirito che spira nella Chiesa è lo stesso che spira nelle nostre coscienze. Quello che la Chiesa dice al nostro orecchio, Dio lo dice nel nostro cuore per lo Spirito di verità e d'amore al quale risponde il nostro spirito fedele. Lo stesso vento che canta nel sartiame della Nave sublime, alimenta la respirazione dei passeggeri.

D. È assai dubbio che Gesù abbia voluto la Chiesa. R. Sì, qualche volta lo si dice; ma è vano puntiglio. Tutto dimostra che egli previde un avvenire per l'opera sua, organizzò quest'avvenire e stabilì egli stesso per assicurarla un embrione di società religiosa.

D. Perché un embrione? R. Perché così nascono tutte le cose viventi. Non c'è

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motivo che il procedimento che Dio ha seguito nella natura debba essere diverso per la soprannatura. D. Dunque Gesù non stabilì che i lineamenti di una Chiesa.

R. Diciamo meglio, stabilì la Chiesa ne' suoi lineamenti.

D. In che consistono questi lineamenti? R. Nella costituzione del primo gruppo apostolico, con Pietro a capo e con poteri definiti da esercitare.

D. E quale prova hai delle intenzioni che attribuisci a Gesù riguardo alla sua Chiesa?

R. Questo avvenne a Cesarea di Filippo, dove Gesù, dopo avere provocato da parte di Pietro, che parlava a nome dei Dodici, il riconoscimento e la proclamazione solenne della sua qualità di Cristo, Figliuolo del Dio vivo, gli rivolge queste parole non meno solenni: Tu sei Pietro, e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell'inferno non prevarranno contro di essa.

D. Non è questo un gioco di parole? R. Tu citi Richepin; ma, come troppe volte accade, la sua « bestemmia » è una sciocchezza. Il capo degli Apostoli si chiamava in origine Simone. Proprio in ragione dell'ufficio che intendeva attribuirgli, Gesù, nel momento della sua elezione, gli da il nome di Kephas, cioè Pietro, o piuttosto roccia. Invece di un gioco accidentale di parole, abbiamo qui un chiaro segno delle intenzioni iniziali e persistenti di Gesù riguardo alla costruzione regolare, durevole, alla quale egli provvede.

D. Che cosa sono quelle « porte dell'inferno » delle

quali parla il testo citato?

R. Sono i poteri di morte. Nell'antico Oriente, la porta

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della città era la sede del potere sociale, il luogo delle deliberazioni e dei giudÌ2Ì, e l'inferno, o scheoi, è il soggiorno dei morti. Lì si vede dunque che Gesù prevede non solo un'organizzazione sociale, ma la perpetuità di questa organizzazione.

D. Quando nacque veramente questa Chiesa? K'. Nella Pentecoste. Una volta assunto nella gloria, Gesù ci fece « i suoi munifici doni », come dice Male-branche. Egli ci aveva dato delle massime di vita; poi mandò il suo Spirito perché esse fossero capite e applicate. Aveva seminato il buon grano; poi fece sorgere il sole.

D. Dunque il fatto precedente non era del tutto decisivo?

R. Era un annunzio. Gesù posava una prima pietra, ma l'edificio non si poteva inaugurare come abitazione spirituale, mancando ancora il suo abitante principale, che è lo Spirito-

D. Gli Apostoli dunque non avevano lo Spirito? R. L'avevano individualmente, come ogni anima in stato di grazia; ma non l'avevano come gruppo, e la Chiesa che dovevano formare non aveva dunque la sua anima propria: essa non era ancora.

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I CARATTERI DIVINI DELLA CHIESA

a) II fatto sovrumano

D. Credi evidente che la Chiesa abbia un'« anima divina »?

R. Questo focolare di verità e di santità nel mondo, questo fermento della povera pasta umana sempre pronta a ricadere e a inacidirsi, questa società così stupenda nella sua fondazione, nella sua espansione, nel suo sviluppo, nella sua fecondità spirituale, nella sua perpetuità, nella sua unità ad onta di tante lacerazioni secolari, nella sua stabilità in mezzo a tutto quello che vacilla, non è forse un argomento incomparabile in favore della sua missione e della sua divinità?

D. Tu ci vedi un miracolo? R. Vi è certamente un miracolo nel solo fatto della Chiesa, e ci vuole tutta la potenza di accecamento che deriva dall'abitudine per non accorgersene. Supponi una società di amicizia che sia fondata un giorno nelle condizioni in cui si fondò la Chiesa; sottomettila alle medesime traversie; falla durare così per duemila anni, e spandila sopra tutto l'universo con effetti proporzionati. Poi mi dirai che cosa pensi della sua vitalità e a

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quali cause umane una tale vitalità potrebbe veramente essere attribuita.

D. Il fatto è così ampio come questo? R. Il governo attuale e i frutti attuali della Chiesa si estendono a quattrocento milioni di anime. Addiziona le generazioni passate, calcola le future, e computa il gregge di Cristo. Nessuna opera umana può essere, sia pure lontanamente, paragonabile a quest'opera. « Ciò sorpassa l'uomo », specialmente se si confronta il risultato coi mezzi: semplicità alla base di un'immensa complicazione; umiltà a servizio di una onnipotenza; sorgente appena visibile che da origine a un fiume che si allarga a formare un oceano.

D. Ne parli come di una creazione. R. Attese le condizioni della sua fondazione e del suo trionfo, attesa la sua struttura visibile e specialmente spirituale, la Chiesa, come dice Bossuet, è veramente « un edificio tratto dal niente, una creazione, l'opera di una mano onnipotente ».

D. Tuttavia gli storici hanno individuato, nel corso dei tempi, le cause di questo successo della tua Chiesa. R. Ho già risposto a un argomento di questo genere, e ti dissi: Tutto ha delle cause; ma bisogna spiegare come queste cause si trovino all'opera nel momento opportuno, senza mai fare difetto, senza fallire il loro effetto, senza lasciarsi annullare da tante altre cause che porterebbero a deviazioni o senz'altro alla rovina. D. Di quali cause contrarie parli? R. Esse abbondano, e talune ebbero tutta l'apparenza di cataclismi mortali. Lunghe e terribili persecuzioni, eresie, scismi, pericoli di assorbimento da parte di capi

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politici, debolezza e colpe dei fedeli, a volte perfino dei pastori, invasioni barbare che parevano sommergere ogni cosa, formidabile pressione dell'Impero, grande scisma di Occidente, riforma, filosofismo, Rivoluzione francese... non sono che le principali crisi. Ora la Chiesa ha attraversato tutto senza perire e senza corrompersi;

essa non soccombette mai a questo doppio pericolo, che la minaccia sempre. Che cosa può umanamente spiegare tutto questo?

D. Il genio, la forza, la virtù che operano nella Chiesa come dovunque.

R. Se avviene come dovunque, ciò non spiega niente. Di fatto il genio esiste dovunque, ed è raro dovunque;

la Chiesa non ne ha di più che la parte che le spetta in proporzione. La forza per lo più vi è assente. La virtù fa parte del fenomeno da spiegare. Non si può invocare altro che la potenza del germe e il suo adattamento all'ambiente in cui esso lavora. La Chiesa, come un vivente, trova in sé le sue forze di creazione, di accrescimento, di difesa, di riparazione, di progresso. Ciò è ad essa naturale, dato il suo essere; ma è lo stesso suo essere che lo fa divino. « La vita è creazione », dice Claudio Bernard; la Chiesa vive, ed è Iddio che crea.

D. Il vivente di cui parli fu veramente fedele al suo germe? la Chiesa attuale risponde alla sua prima istituzione?

R. Tutto quanto è essenziale nella Chiesa attuale, si trova già in S. Paolo.

D. J protestanti lo negano. R. Newman intraprese un vasto lavoro per contestarlo

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con maggiore rigorosità scientifica; a misura che egli procedeva, la tesi che voleva dimostrare si rovesciava in quella contraria; alla fine si convertì.

D. Altri, oggi, ritornano alla prima idea di New/non,

e forse sono meglio preparati e documentati.

R. Si tratta indiscutibilmente di uomini di valore:

meglio preparati se si vuole; ma la loro passione anticristiana è troppo manifesta; essa fa torto a se stessa; e succede ad essa, come sempre alla passione, di non correggere la cattiveria o il malvolere se non con la stoltezza. Del resto, ve ne sono di quelli che non capiscono niente affatto, e di quelli che capiscono tanto meno in quanto non vogliono capire.

D. La rigidità de' suoi princìpi è forse la ragione della lunga durata della Chiesa e della sua resistenza alle cause di dissoluzione.

R. Resterebbe da spiegare la rigidità secolare della Chiesa in mezzo a un mondo che non è meno seducente secondo lo spirito che secondo le potenze della carne. Abbiamo già detto che cosa di deve pensare di una difficoltà del genere. Pascal ti oppone un ragionamento contrario. « Gli Stati perirebbero — dice egli — se non si facessero piegare sovente le leggi alla necessità. Ma la religione non ha mai tollerato questo e mai ne ha fatto uso. Così ci vogliono degli accomodamenti o dei miracoli. Non è strano che ci si conservi piegandosi, e questo non è propriamente un mantenersi. E infine ancora essi periscono interamente; non ce n'è uno che abbia durato mille anni. Ma che questa religione siasi sempre mantenuta, e inflessibile, ciò è divino ».

D. La Chiesa si è mantenuta indubbiamente, ma sempre in mezzo alle contraddizioni. R. Ragione di più perché essa abbia bisogno di una protezione soprannaturale. La passione degli uomini si scalda prò e contro di essa; ma è l'imparzialità del tempo che la giudica. A misura che le obiezioni e gli antagonismi andranno moltipllcandosi, la Chiesa potrà sempre più opporre loro l'argomento e la forza della sua. perpetuità.

D. A che cosa attribuisci queste contraddizioni? R. La Chiesa è contraddetta perché, giudicando dal punto di vista dell'eternità, essa è sempre in ritardo o in anticipo sopra qualche cosa, esigendo od opponendosi riguardo a qualche cosa. Essa non può rosi attendere giustizia se non dai fatti, non dagli uomini, che giudicano in generale, fosse pure a distanza, secondo i loro pregiudizi e le loro passioni.

D. La storia non è dunque favorevole alla Chiesa? R. La storia, sì, ma non sempre gli storici. La storia sta dalla parte della Chiesa, perché registra quello che la Chiesa ha fatto; la fede è a più forte ragione per la Chiesa, perché inoltre essa prevede quello che la Chiesa farà. Ma ciò che fa la Chiesa riesce quasi sempre sospetto a qualcuno, talvolta allo stesso credente.

D. La Chiesa non prende la propria difesa?

R. Essa lascia dire. È « un blocco di forza silenziosa »,

come avrebbe detto Cariyle.

D. Spieghi nello stesso modo le persecuzioni? R. Le due questioni non possono mancare di corri-spondersi. La Chiesa è perseguitata perché rivendica dei diritti e impone dei doveri; perché si ha paura della sua

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potenza e ci si irrita delle sue pretese. Ciascun secolo mette alla prova la Chiesa, ed è per questo che essa è;

e per questo che essa è, altresì, ciascun secolo la conferma, aggiungendo un nuovo ornamento alla sua giovinezza eterna.

D. Qual è per la Chiesa la suprema garanzia d'indipendenza? R. Il martirio. Quando si è pronti a morire, si è liberi.

D. Vuoi spiegarmi il tuo pensiero? R. Ascolta questo breve dialogo: — Taci, o io ti uccido! — La mia morte sarà la mia più alta parola. — Tutto morrà di tè eccetto la tua parola. — Dunque io non morrò punto. — Vattene al diavolo! — Vado, ma in grado di poter servire Dio.

D. Giungeresti fino a rallegrarti delle persecuzioni, delle contraddizioni?

R. « Vi è del piacere a trovarsi in una nave sbattuta dalla procella, quando si è sicuri di non perire »

(PASCAL).

D. Lo sfato presente della Chiesa ti pare che giustifichi una tale fiducia?

R. Lo stato della Chiesa non fu mai più favorevole e più ricco di speranze. Nel 1874, non è dunque gran tempo, Disraeli, membro di un gruppo religioso dissidente e rappresentante di un grande impero, diceva al Parlamento inglese: « Io non posso non dirlo francamente, la religione cattolica è un organismo potente, e se mi è lecito dirlo, il più potente che esista oggi ».

D. Pure certi cattolici credono a un regresso. R. 1 lodatori del passato ne dimenticano le miserie; i

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disprezzatori del presente trascurano le sue grandezze, e una tale parzialità di valutazione è del tutto naturale;

sotto un certo aspetto tale atteggiamento si può dir virtuoso, perché milita in favore del nostro ideale; ma più importante è vedere quello che la Chiesa è. La Chiesa è piena di vita; non solo non presenta nessun segno di decadenza, ma si può dire che in certo modo solo adesso incomincia. Solo ieri ha compiuto la sua costituzione;

il suo ultimo concentramento organico, punto di partenza di una più ricca espansione che si annunzia da ogni parte, non data che da un mezzo secolo. Solo ieri si liberava definitivamente del temporale e accresceva così agli occhi del mondo il suo incomparabile prestigio spirituale; la santità vi circola più che mai, e la sua potenza civilizzatrice è così evidente che i gruppi politici più animati contro di essa cercano insistentemente il suo soccorso, si valgono de' suoi metodi, copiano i suoi princìpi e vivono, quando vivono bene, degli influssi segreti emanati secolarmente e quotidianamente da questo focolare dello spirito. L'avvenire è davvero largamente aperto davanti alla Chiesa, e benché essa sia antica, pure non è e non sarà mai vecchia. Avviene di essa, e assai meglio ancora, come della terra ad ogni primavera, dell'universo in ciascuno de' suoi cicli. Il ricominciamento eterno è la legge di ciò che non muore.

b) L'unità della Chiesa

D. Oltre alla sua origine e alla sua perpetuità, la Chiesa, secondo tè, ha altri caratteri divini? R. Ve ne sono quattro che si presentano tradizionalmente come i più notevoli, e per questa ragione si chia-

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mano note o segni caratteristici della Chiesa. Noi li abbiamo inclusi or ora in una veduta generale; e sono" l'unità, la santità, la cattolicità e Vapostolicità.

D. Come intendi l'unità?

R. Noi l'intendiamo di una sola credenza, di un solo governo, di un solo culto; e ciò per tutti i tempi e per tutti i paesi come in ciascun tempo e in ciascun paese. Perché tale è la prima necessità di questo gran corpo.

D. Non vi sarebbero dunque, in tutto questo, varietà e variazioni?

R. Ve ne sono e ve ne devono essere. Ma qui noi parliamo dell'essenziale.

D. Perché questa unità?

R. Perché l'unità è la realtà stessa, perché soprattutto l'unità e la vita non sono che una sola cosa. Ma inoltre ricorda quale vita e quale realtà sono quelle della Chiesa. Se la Chiesa non è altro che l'unione di Dio con l'uomo e l'unione dell'uomo con Dio sotto una forma sociale, come mai vi sarebbero più Chiese, o come mai vi sarebbe divisione nel suo seno proprio riguardo a ciò che ci unifica? Pluralità di Chiese significherebbe o pluralità di Dio, o pluralità dell'uomo secondo che egli ha rapporto con Dio. Se Dio è uno, e se anche l'uomo è uno, in Cristo, per unirsi a Dio, non ci può essere che una Chiesa. Da Dio e dall'uomo, in essa, sorge una nuova unità: quella dell'organismo umano-divino del quale Cristo è il capo, e tutti gli uomini sono chiamati a diventarne i mèmbri, e lo Spirito Santo ne è l'anima. Perciò noi diciamo della Chiesa che essa è l'Incarnazione continuata, e l'Incarnazione è necessariamente una. Il

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corpo di Cristo è forse diviso? — dice S. Paolo. — Non vi è che un Signore, una fede, un battesimo, un Dio padre di tutti, che (agisce) per mezzo di tutti, che (è) in tutti.

D. Dicevi poc'anzi che solo recentemente la Chiesa ha operato il suo ultimo concentramento: db evidentemente perché fino a quel momento non era una.

R. La Chiesa fu sempre una; ma vi sono dei gradi nell'unità come ve ne sono nella vita. Un organismo si unifica tanfo più quanto più cresce la sua differenziazione e si moltipllcano le sue funzioni, purché questa differenziazione e quest'accrescimento di funzioni procedano dall'interno stesso, dal principio iniziale che cerca di rivelarsi in un modo sempre più ricco. L'uomo è più che un protozoo; questo, sezionato, sussiste: provati a segare un uomo! Così la Chiesa oggi, molto più complicata di quella dei primi tempi, e anche più una, perché la sua complicazione è il risultato d'un rigoglio interno, quello del principio divino che si vuole manifestare di più, e per questo si crea degli organi, ma senza cessare di dominarli, di orientarli verso i suoi proprii fini, tanto più il loro numero è più grande e tanto maggiori saranno le loro risorse.

D. Non vi sono nella Chiesa delle crisi di unità? R. La vita sociale, religiosa o civile, come pure la vita individuale, è una serie di crisi che si superano. L'essere ben costituito, tanto più l'essere divinamente costituito, trae di lì il suo progresso e realizza l'opera sua.

D. Le crisi crescono di pari passo con l'unità? R. Le crisi forse crescono in numero, in ragione delle complicazioni nuove; ma decrescono in importanza coi progressi dell'unità. Oggi non si vede più la possibilità

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dell'arianesimo, del grande scisma d'Occidente, dello scisma greco, della riforma. Gli accenni di rottura, in Francia, al momento della separazione, sono caduti nel ridicolo; la crisi modernista fu prontamente vinta. Ogni volta che una tale prova infierisce, una reazione unitaria viene a dimostrare la volontà di vita nell'unità che conserva la Chiesa.

D. Dici che l'unità si limita all'essenziale: in che consiste l'accessorio?

R. Consiste in differenze alle volte notevolissime, benché secondarie, in materia di credenze, di pratiche, di vita rituale, ecc., differenze che la Chiesa accetta oppure rifiuta di lasciar ridurre, perché essa le giudica utili, ad ogni modo normali, a condizione che ci si mantenga nei giusti limiti.

D. Chi fissa i limiti?

R. La Chiesa stessa, solo giudice dell'anima sua e di

ciò che la rispetta, serve od offende.

D. Questa tolleranza può variare con i tempi? R. Normalmente essa cresce con l'unità di concentramento che ho descritto. Si è molto più comprensivi circa i particolari, quando si è sicuri dell'insieme. Se Leone XIII e i suoi successori poterono sciogliere i riti orientali, è perché il Concilio Vaticano assicurava ugualmente l'unità, e se domani qualche genio incorporerà alla teologia cristiana tutto il contributo contemporaneo, sarà perché prima si saranno ben precisate le frontiere tra ciò che è acquisito e irreformabile da una parte, e dall'altra ciò che rimane aperto e che è materia di avvenire.

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D. L'avvenire appartiene tutto alla tua Chiesa? Perché non vi potrebbe essere, in un domani più o meno lontano, un'altra Chiesa?

R. Ci vorrebbe per questo un altro Cristo; ci vorrebbe una nuova Incarnazione, e a che prò? Che farebbe il nuovo Cristo, che non abbia già fatto e in modo definitivo il primo? Quale nuovo campo d'azione, quando Gesù si è rivolto a ogni carnè e ha inteso di unire a sé tutto il genere umano? 'Vi può forse essere un nuovo Adamo? Dunque, non è possibile, alla pari, che vi sia più un nuovo Cristo, un nuovo corpo di Cristo così come chiamiamo la Chiesa.

D. Il nuovo venuto potrebbe essere un nuovo profeta, un annunziatore.

R. E che cosa annunzierebbe? Parlando nel suo proprio nome, indipendentemente dalla divina parola già udita, egli non sarebbe che un anticristo; parlando nel nome di Cristo e nel senso di Cristo, non farebbe altro che spiegare, sviluppare quanto Cristo ha detto, e a questo fine basta la Chiesa. Lo Spirito divino in missione permanente in mezzo a noi non ha altro compito. Venga pure un annunziatore, ma parlerà secondo questo Spirito; spiegherà il Cristo; egli sarà nella Chiesa.

D. Tu rifiuti dunque anticipatamente ogni nuovo Messia?

R. Lo stesso Gesù ci mise in guardia: « Se qualcuno vi dice: Cristo è qui, o: Egli è là, non lo credete ». Del resto quei che sognano rivelazioni successive e atten-dono'dei nuovi Messia, anzitutto sono in ritardo; infatti, per quanto è possibile prevederlo, il conflitto dell'avvenire, come quello del presente, sarà questo: il cristia-

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nesimo, o niente. Ma, ad ogni modo, costoro fanno Gesù diverso da quello che egli è; vedono in lui il rabbi galileo di Renan, e non il Figliuolo dell'Uomo.

e) La santità della Chiesa

D. Hai parlato di santità: hai forse la pretesa che la tua Chiesa sia una società di santi?

R. Tutt'altro! È piuttosto una società di peccatori, dal momento che è una società di uomini. Ma se gli uomini ne son la materia, la Chiesa stessa, nella sua realtà totale, è ben altro. In grazia di Cristo e dello Spirito di Cristo, essa è un composto umano-divino, e questo composto, disponendo degli influssi di Dio sotto tutte le forme richieste da questa vita a due che Dio propone all'umanità, non può essere che santo e santificante, checché ne sia delle miserie de' suoi mèmbri. La Chiesa è santità in Dio; la Chiesa è perfettamente santa in Cristo; è santa ne' suoi mezzi usciti da Dio e da Cristo;

aspira solamente ad essere santa in tutti i suoi mèmbri.

D. Non basta questa mescolanza per paralizzare la sua azione?

R. La mescolanza del bene e del male nella Chiesa la incomodò sempre, ma non la potrebbe paralizzare. Anche un grano impuro germoglia, purché le sue impurità non tocchino il potere di germinazione nel suo centro. Qui il centro è divino; la tessitura stessa è divina e non potrebbe perire.

D. Si possono dunque esigere degli effetti di santificazione? R. Teoricamente, no; perché questi effetti di santifi-

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cazione hanno per soggetto delle creature libere. L'opera d'arte non è mai sicura di riuscire, quando la sua materia ha il potere di rifiutarsi. Dipende da ciascuno di noi per parte sua il tenere in scacco la santità della Chiesa, nelle sue possibili dilatazioni. La Chiesa sarà nondimeno, nel suo fondo, santa e santificante, avendo sempre in se lo Spirito e l'insieme de' suoi mezzi di santificazione.

D. Ma questa risposta è teorica, sei tu ad affermarlo. R. Unicamente teorica di fatto. Giacché l'umanità è ciò che è, composta di cattivi e di negligenti indubbiamente, ma anche di grandi anime e di anime di buona volontà; se nella Chiesa non vi fossero dei frutti visibili di santità, a buon diritto si dubiterebbe del suo valore santificante. L'albero si riconosce da' suoi frutti, dice il nostro Vangelo.

D. No» temi che questa massima si rivolga contro di tè?

R. La Chiesa non la teme; anzi l'invoca. Il germe che ha germogliato a dispetto delle sue impurità non dimostra forse la sua qualità intima e la sua autenticità in quanto seme di una certa specie? La Chiesa, nonostante i vizi de' suoi fedeli o di quelli che la dirigono, ha prodotto della santità nel mondo; si può dire che essa ne ha coperto il mondo: perché appunto vi è in essa un germe divino.

D. Non vi accontentate forse di troppo poco? R. La Chiesa è lontanissima da un troppo facile contentamento; non è essa l'eterna brontolona che sempre dispera delle nostre bassezze, motivo per cui anche le nostre bassezze spesso si esasperano? Ciononostante, ambiziosa di assoluto, essa, a chi le domanda dei santi,

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ne può mostrare gloriose falangi. Avevamo riconosciuto più sopra che nessun gruppo religioso può anche solo lontanamente offrire l'equivalente. D. Però non ha cambiato il mondo. R. Anche i discepoli di Emmaus, il giorno dopo la Risurrezione, al principio dell'opera reale di Cristo, dicevano: « Noi credevamo che egli avrebbe riscattato Israele ». L'opera della Chiesa è opera di uomini; è frutto di un lavoro lungo e faticoso; dipende da noi stessi, e il mondo è tutt'altro che giunto al suo termine.

D. Non vi sono dei tempi in cui la Chiesa pare disertata dalla santità?

R. Solo la forma cambia. Là dove manca l'estensione, si osserva una concentrazione. Quando i canali regolari della grazia si chiudono, la grazia erompe, qua o là, in getti mirabili, e i periodi ingrati della storia contano i più grandi santi.

D. Questo va bene per gli individui; ma vi è anche una santità sociale.

R. Ne abbiamo trattato, come dell'altra, a proposito della vera religione. Abbiamo dovuto riconoscere che la morale evangelica messa in opera nella Chiesa e per la Chiesa, nelle società cristiane, è alla base della civiltà.

D. La Chiesa cattolica vi ebbe una parte preponderante?

R. Fino alla riforma, ciò non si può mettere in dubbio. Dopo la riforma, ciò è anche più certo. D. Tuttavia si sente dire che le società protestanti sono superiori, moralmente, alle società cattoliche. R. Darò una triplice risposta. Guardando alle apparenze, si potrebbe credere che certi gruppi protestanti

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siano di una moralità e di una religione superiore, almeno sotto certi aspetti. Ma quando si è in condizione di andare a fondo delle cose, il giudizio cambia. In secondo luogo, se tu consideri la parte eletta, che permette un più giusto apprezzamento, la bilancia trabocca totalmente in favore della parte eletta cattolica. Finalmente, e qui sta il principale, cerca dove sono i santi, cioè gli eroi religiosi, quelli che, in grazia di quell'alto misticismo che prova l'unione con Dio, manifestano appieno la portata e la fecondità del principio: essi sono una pleiade nel cattolicismo; non se ne vedono nel protestantesimo. Il protestantesimo alberga molte nobili anime; se ha prodotto dei santi, fu nel segreto; storicamente, in ciò che si vede, che solo è in causa per noi, si ha il diritto di dire: Esso non ha prodotto dei santi;

non ha dei genii religiosi; non ha degli eroi. Ora, se tu volessi stabilire tra due eserciti una scala comparativa di valori, non parleresti anzitutto delle unità eminenti, dei grandi soldati, dei grandi capi, dei grandi duci, degli eroi? Così si giudica, nel fatto, il principio vivificante della Chiesa.

D. Attendi dall'avvenire una grande fioritura di santità nuova?

R. Ancora una volta, che l'opera dello Spirito si compia, dipende da quelli in cui lo Spirito lavora. Ma noi non temiamo uno scacco che supporrebbe o una malizia sovrumana da parte degli uomini, o un rifiuto della misericordia da parte di Colui che disse: La mia misericordia è più grande del tuo peccato, o Israele. « Io credo — scriveva Ozanam — al progresso dei tempi cristiani; e non mi spavento delle cadute e dei traviamenti che lo inter-

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rompono. Le fredde notti che succedono al calore dei giorni non impediscono all'estate di seguire il suo corso e di maturare i suoi frutti ».

</) La cattolicità della Chiesa

O. Che cosa intendi per cattolicità? R. Questa nota appartiene alla Chiesa in quanto essa è universale, vale a dire adatta a tutti gli uomini, fatta per tutti gli uomini, e, per questo, libera da ciò che limita, confina e restringe in un qualunque modo il suo territorio di azione.

D. Non parli dunque di una universalità di fatto? R. No, se non in desiderio o in speranza. La Chiesa fu sempre cattolica e non è sempre stata diffusa da per tutto; è lontana, anche oggi, dal raccogliere tutti gli uomini. Ma è universale di diritto. I suoi quadri sono pronti per ricevere l'umanità intera, per avvolgere le manifestazioni totali della sua vita. La vocazione universale degli uomini è di entrarvi, in modo che se non vi entrano e ciò sia per colpa loro, essi sono colpevoli riguardo ad essa, sì da farne parte in certo modo, come transfughi. E se non è per colpa loro, ma a cagione delle circostanze esterne o interne che non escludono il buon volere, essi ne fanno parte, perché il loro cuore ne fa parte, avessero pure sulle labbra delle negazioni, avessero pure nella bocca delle bestemmie.

D. Le ragioni della cattolicità sono le medesime della santità e dell'unità?

R. Esattamente le medesime. La Chiesa, non essendo che l'umanità organizzata in Dio per mezzo di Cristo, si trova ad essere cattolica per definizione; cattolica in

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estensione, facendone parte tutte le stirpi a titolo di aderenti o di candidate; cattolica in durata, non avendo i tempi altra missione che di render religiosa tutta l'umanità; cattolica in profondità, perché se ne trovano eliminati gli elementi umani che suscitano i particolarismi, siano essi etnici, nazionali, sessuali, intellettuali, politici, economici o mondani, senza dimenticare il particolari-smo delibo, da cui scaturiscono religioni individualiste. La religione allora si da pensiero esclusivamente del suo oggetto, che è di « legare » a Dio, padre di tutti, e si Cristo, Figliuolo dell'Uomo, l'umanità e tutti i suoi mèmbri vagheggiati nella loro unità, vale a dire nel loro fondo, dove non si spiega ne si giustifica alcuna tendenza particolarista.

D. Tu ritorni sempre all'idea del germe universale, e alle proprietà di questo germe.

R. È vero. La cattolicità della Chiesa è anzitutto una proprietà; essa qualifica un organismo religioso operante al modo di un fermento di un germe, potere universale riguardo alla materia che gli è sottomessa. Uno spermatozoo organizza l'animale intero; un po' di lievito basta a una grossa massa di pasta; con un chicco di frumento si può, col tempo, coprire di semenza il mondo.

D. Il Vangelo non dice qualche cosa di simile? R. Non faccio altro che riferire i suoi paragoni: II regno de' deli sopra la terra è simile al lievito, che una donna prende e rimescola in tré staio di farina, finché sia levata tutta la massa. Il regno di Dio è simile a un granello di senapa, i più piccolo di tutti i semi, che diventa un grande albero.

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D. Il fatto dunque è la prova della proprietà di cui si parla.

R. In realtà ne è la testimonianza. Volendo sapere se un seme è buono, lo si getta nella terra per vedere se germoglierà; ma non è necessario aspettare un grand'al-bero, e chi fosse dotato di una scienza perfetta si potrebbe contentare dell'analisi intima del granello. Qui, come abbiamo veduto, i due procedimenti si corroborano e i risultati concordano. La Chiesa ha tutto quello che occorre per un'opera universale, ed essa lo fa vedere.

D. Come lo fa vedere?

R. Adattandosi indifferentemente, nel corso della storia, a tutte le razze, a tutte le nazionalità, a tutti i livelli intellettuali, a tutte le organizzazioni pratiche, a tutte le forme di governo e di società, a tutti i caratteri individuali, a tutti gli ambienti e a tutti i gradi che essi formano, a tutti gli stati di vita, purché siano rispettati i fini che essa si propone e i metodi indispensabili che li procurano.

D. La tua Chiesa non è forse orientale per la sua origine, romana per la sua costituzione e la sua sede? R. La Palestina le prestò la sua culla, ma non ve la rinchiuse; Pietro e Paolo la portarono subito a dimensioni universali. Roma la servì, e vedremo in qual senso si chiama romana; non certo in senso restrittivo. Da Roma, come centro, la Chiesa irradia da per tutto. Essa è così poco orientale, che s'incorpora senza difficoltà lo spirito americano; è così poco occidentale, che si adatta al Giappone e lo conquista.

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D. Non è particolarista in filosofia, col suo tomismo? R. La Chiesa preconizza il tomismo, perché secondo il suo giudizio questo sistema di idee è più favorevole al bene intellettuale dei credenti e si combina meglio col suo dogma. È la filosofia che le si addice meglio, come il canto fermo è la sua musica; ma essa non ne fa un obbligo universale più che non imponga il canto fermo ai nostri artisti contemporanei. S. Agostino era platonico; Fénelon era cartesiano; Malebranche aveva una sua filosofia; tutti e tré e una pleiade di altri, aderenti a sistemi diversi, professano intellettualmente e praticamente lo stesso cristianesimo.

D. In politica, la Chiesa non sta per la monarchici? R. È essa stessa una monarchia; ma se la intende facilmente con le repubbliche, purché non si chiami repubblica un governo deliberatamente anticristiano.

D. In economia sociale e nella vita quotidiana, essa pare infeudata ai gruppi possidenti, ai potenti, ai padroni. R. Come può essere ciò, se la Chiesa nacque povera, praticò ne' suoi fervidi inizi il più stretto comunismo, onorò sempre i poveri per la loro « eminente dignità » e considerò la ricchezza quasi come una sventura? Fu detto del cristianesimo che era una religione di poveri, e fu detto che sedeva a tavola nei castelli: le due cose sono vere, proprio come per lo stesso Salvatore è vero che era l'amico dei poveri e presenziava alle nozze di Cana. Ciò significa che la Chiesa è tutta a tutti, al fine di salvare tutti.

D. I sistemi sociali che favoriscono i piccoli non le

sono sospetti?

R. I sistemi sociali sono giudicati tanto migliori dalla

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Chiesa quanto più sposano le sue preoccupazioni universali. Ma coloro che più si danno pensiero dei piccoli, come il socialismo, non mancherebbero del suo favore, se, rinunziando a predicare una falsa dottrina, a incitare alla ribellione contro i rapporti più naturali degli uomini, e ancor più ad erigersi contro Dio, diventando così delle religioni a rovescio, consentissero a rinchiudersi nel loro oggetto: il problema economico e sociale.

D. Il sacerdozio riservato esclusivamente ai maschi segna un particolarismo dei sessi.' R. Non si tratta di particolarismo, ma di divisione dei compiti e di utilizzazione di ciascuno al compito per il quale è riconosciuto più atto. Fin dal principio fu detto:

Non vi è più ne giudeo ne greco, ne schiavo ne libero, ne donna ne uomo; perché voi siete una sola cosa in Gesù Cristo (s. paolo). La testimonianza mistica di questo sentimento è la Vergine madre. In quanto alle sue testimonianze storiche, sovrabbondano. Ognuno sa che, se la donna ha nelle società moderne una situazione affatto nuova, una personalità morale riconosciuta, punto di partenza della sua emancipazione sociale, essa lo deve alla Chiesa e allo spirito nuovo recato dal suo Vangelo.

D. Il Vangelo non è la Chiesa. R. Ho già detto che questa distinzione è fittizia. Quello che il Vangelo ha fatto, è la Chiesa che lo ha fatto. Quello che la Chiesa non avesse fatto sarebbe stato nel Vangelo lettera morta; nulla di effettivo ne sarebbe uscito.

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D. Che cosa intendevi dire, eliminando dalla Chiesa « il particolarismo dell'io, scaturigine delle religioni indi-vidualiste »?

R. Pensavo al protestantesimo, e a ogni dottrina che pretende di partire dall'io per stabilire un sistema religioso senza radici sociali.

D. La religione non si rivolge all'io'? R. Essa non può partire dall'io, proprio perché si rivolge all'io. Bisogna che essa prima esista, che sia una vita, alla quale l'individualità sarà chiamata ad aggiungersi. La Chiesa deve precedere l'individuo, e non l'individuo la Chiesa.

D. I protestanti non si trovano nella stessa vostra condizione? non hanno Chiese in seno alle quali essi nascono religiosamente, che li formano, e che, in seguito, la loro libera volontà consacra?

R. È così, e non può essere altrimenti; ma ciò contraddice la dottrina protestante, e per conseguenza la condanna. I protestanti hanno delle Chiese; anzi ne hanno troppe; e tutte sono di troppo, poiché non ne occorre che una sola; secondo la loro teologia, queste Chiese si sono formate in secondo tempo, per una iniziativa puramente umana, poiché all'origine è solo la religione individuale; le varie Chiese hanno la loro origine in un istinto gregario, o in fatti politici, senza alcun rapporto essenziale con l'atto di fede. Non è la religione che secondo loro ha l'iniziativa della società: dal che si deve concludere che questa religione non è una religione umana, essendo l'uomo un essere essenzialmente sociale, e più che mai, come lo abbiamo già riconosciuto, nel

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campo religioso; ne, ancora, questa religione sarà divina;

non potendo comporsi con l'Incarnazione; essa divide il « Corpo di Cristo » in tante frazioni quanti sono gli uomini, o per dir meglio non lo forma affatto, e quindi rigorosamente non è, e non potrebbe dirsi cristiana.

D. Sei severo!

R. Espongo una dottrina, pur conservando il massimo rispetto per le persone. Dottrinalmente, sono obbligato a dire con Augusto Comte: « I protestanti non sanno che cosa sia una religione »; essi non sono una religione, poiché ignorano la socialità propriamente religiosa, non fondandosi-religiosamente su una base sociale. Con ciò, ed è quello che volevo dire, essi presentano l'estremo opposto della cattolicità, cioè un individualismo angusto, antropologicamente falso, divinamente offensivo, poiché ignora il fiume di vita che scaturisce dalla croce, la grazia sodale da cui ogni vita religiosa individuale procede, e a cui si alimenta.

D. Non avrei mai pensato che foste così lontani gli uni dagli altri.

R. Intendimi! Quelli che noi chiamiamo nostri fratelli separati sono vicini a noi in molte cose; per la carità sono vicinissimi al nostro cuore; ma è un fatto che il loro allontanamento è al massimo in ciò che riguarda il concetto della Chiesa. Essi fanno parte di ciò che Bossuet chiama la « moltitudine confusa », nella quale ciascuno prende in sé solo il suo pensiero e la sua parola d'ordine, invece della « moltitudine ordinata », che un pensiero e un impulso venuti dall'alto unificano e adunano. Ciò del resto apparirà meglio parlando della apostolicità.

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e) L'apostolicità della Chiesa

D. Che cosa è dunque questa apostolicità? R. È un carattere che si attribuisce alla Chiesa per indicare che essa si riallaccia a Cristo con un vincolo di continuità ininterrotto, un vincolo visibile nello stesso tempo che spirituale, un vincolo sociale. Da ciò si vede, chiaramente, quello che distingue il cattolico dal protestante, che intende allacciarsi « a Cristo » direttamente, senza società intermedia, senza continuità visibile, a guisa degli Apostoli senza dubbio, ma non per mezzo di loro e dei loro successori.

D. Come si stabilisce per tè la continuità? R. Il suo punto di partenza è nella scelta dei dodici Apostoli, nella loro investitura come rappresentanti di Gesù, nella loro missione solenne e nella stabilità regolare della loro successione in ciò che riguarda l'autorità, nella loro tradizione in ciò che riguarda l'insieme del gruppo. Al principio gli Apostoli sono la Chiesa; noi non possiamo essere oggi la Chiesa, la Chiesa visibile e vera società, senza allacciarci visibilmente e socialmente agli Apostoli. Sono i Dodici che tra Cristo e noi stabiliscono il passaggio. Essi saldano la catena. Sono il primo anello interamente umano. Se vi fosse una rottura, se tutta la catena non dipendesse dal primo anello, non dipenderebbe dunque nemmeno dall'anello principale divino e umano che è il Cristo; non dipenderebbe dunque da Dio. Siccome essa pretende di dipenderne, non bisogna meravigliarsi di veder chiamare, presso di noi, l'autorità centrale la Sede apostolica, e tutta la Chiesa

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rivendicare una nota di apostolicità senza la quale essa non sarebbe, autenticamente, questa sintesi del divino e dell'umano inaugurata in Cristo grazie a questa incarnazione permanente, sociale, chiamata la Chiesa.

D. Vuoi, insomma, che tutta la tua Chiesa secolare non costituisca che una sola vita? R. Il tuo pensiero, che è di fatto il nostro, si trova mirabilmente espresso in questa celebre frase di Pascal:

« L'umanità è come un uomo unico, che sussiste nel tempo e continuamente si trasforma ». Un vivente è una continuità per evoluzione; l'umanità è una continuità per eredità; la Chiesa è una continuità per comunicazione e per tradizione. E nello stesso modo che il vivente individuale non può essere una continuità senza riallacciarsi vitalmente alla sua ambizione; nello stesso modo che il genere umano non può essere una continuità senza dipendere ereditariamente dai primi uomini: così la Chiesa non può essere una vita, una unità del genere umano in Dio, per Cristo, se non a patto che dipenda da Cristo e da Dio per il tramite dei primi cristiani, che sono gli Apostoli.

D. Ma la Chiesa non è al di sopra del tempo? R. Anche un uomo è al di sopra del tempo grazie all'anima sua; ma egli è nel tempo, e l'anima sua con lui, per mezzo del suo corpo. Così la Chiesa è al di sopra del tempo grazie al suo Dio; ma tocca il tempo per mezzo di Cristo, e prolunga il contatto a mezzo degli Apostoli, poi a mezzo della successione apostolica e della tradizione, con cui essa si protende verso l'avvenire.

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D. Allora I'apos felicità non è una unità nel tempo? R. Hai detto molto bene, ed è per questo che noi abbiamo incontrato questa nozione parlando dell'unità stessa.

D. Tuttavia i protestanti pretendono di esser loro quelli che hanno la vera tradizione degli Apostoli.

R. Essi affermano ciò della dottrina, e già ho. detto quanto vale questa pretesa. Ma supponendo che i protestanti, e non noi, fossero in possesso della dottrina degli Apostoli, ciò proverebbe senza dubbio che noi non siamo apostolici, ma non basterebbe per provare che lo sono essi. È questa una condizione necessaria, ma non sufficiente. Professare la dottrina di qualcuno, professarla per conto proprio, sotto la propria responsabilità esclusiva, ciò non significa essere in continuità sociale con lui. La vita sociale ha altre esigenze; è una vita collettiva, una vita organizzata, che importa la comunanza dei beni, sotto un'autorità che rappresenta la finalità sociale e la serve. Ora, per il protestante, propriamente parlando, non vi è vita sociale cristiana; non autorità centrale; non sacerdozio propriamente detto; non atto religioso veramente collettivo; tutto questo è minimizzato, se pure non è eliminato. Allora come parlare di aposto-licità nel senso profondo e pieno che importa la teologia cattolica?

D. Non basta forse a se stesso il cristiano che apre l'anima sua al ciclo?

R. Il protestante che apre l'anima sua a Dio crede di bastare a se stesso, almeno con la sua Bibbia, e almeno teoricamente; perché di fatto, come abbiamo veduto,

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egli si affida a un gruppo, e siccome questo gruppo è privo di attacchi autentici con l'origine della vita che esso crede di trasmettere, si affida al caso. Ma il cattolico, alla sua volta, non si crede sotto il cielo e in relazione autentica col cielo se non a patto di essere nel gruppo organizzato che Dio anima, che Dio ha stabilito appunto per questo, e che è l'effetto della sua incarnazione temporale e la prolunga attraverso alle età. È possibile, accidentalmente, che uno si attacchi a Dio senza ricorrere alla Chiesa visibile, come diremo, e già abbiamo insinuato più volte; ma non si tratta qui di casi particolari; noi definiamo il piano, l'ordine normale delle cose, e io constato che nel protestantesimo quest'ordine è distrutto.

D. Gli rimangono pure Dio e Cristo. R. Sì, ma contraddetti in tutti i loro pensieri, in tutti i loro disegni. Il Dio dei protestanti è individualista; il loro Cristo è un personaggio lontano, al quale essi non sono legati se non per mezzo di un libro. E in queste condizioni, gli apostoli per essi non sono altro che dei protestanti prima del protestantesimo, degli isolati gli uni in rapporto agli altri, degli isolati in rapporto a noi, che siamo altresì degli isolati. Ciò, in luogo della grande effusione di vita, in luogo della stretta comunanza che, nel concetto cattolico, avvolge i tempi e i luoghi nel suo amplesso immenso.

D. « La persona eterna » di cui parla Pascal sembra qualcosa di più grande.

R. Trasferita al soprannaturale, altro non è che la Chiesa apostolica.

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/) La Chiesa romana

D. Avevi promesso qualche schiarimento relativo alla Chiesa romana.

R. Lo schiarimento essenziale consiste nel dire questo: Chiesa romana e Chiesa apostolica sono tutt'uno.

D. Allora perché queste due parole? R.. L'espressione « Chiesa romana » vuole indicare che la Chiesa, che si connette agli Apostoli il capo dei quali era Pietro, vescovo di Roma, ha dunque per capo, nel corso delle età, il successore di Pietro, vescovo di Roma.

D. È una sintesi dell'apostolici fa? R. Si tratta di fatto di richiamare l'apostolicità al suo centro. Per connettere la Chiesa attuale al gruppo primitivo che servì di embrione alla Chiesa, non bisogna forse connetterlo al centro unitario di questo gruppo rappresentato da Simon Pietro?

D. Simon Pietro non fu sempre .vescovo di Roma. R. Egli fissò per sempre il centro spirituale del mondo appunto diventando vescovo di Roma.

D. Il centro spirituale del mondo non è a Gerusalemme, là dove fu piantata la croce? R. Gerusalemme, città d'Oriente, città del passato religioso degli uomini, fu il punto di partenza dell'iniziativa divina, ma non ne è il centro. All'oriente il sole spunta; ma è a mezzodì che si afferma la pienezza del giorno, la distribuzione regolare della luce e la sua potenza irradiante e la sua azione sulla vita. Roma, è lo zenith del sole cristiano.

D. Perché Roma? R. Qui non possiamo far altro che seguire la Provvi-

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denza; le nostre ragioni non possono pretendere di suffragarla. Ma si può osservare che Roma, quando nacque la Chiesa, era per il mondo quello che Pietro era per la Chiesa; Roma era un centro di vita; e come la Città per eccellenza, Urbs, irradiava da per tutto e da Roma le direttive erano date Urbi et Orbi: così nello spirituale, il capo della Chiesa. Questo era antecedentemente figurato da quello e da quello doveva essere servito. La Chiesa, collocata nel cuore del mondo dove essa nasceva, per esercitare subito il suo compito universale, non avrebbe avuto altro da fare che seguire le pulsazioni di questo cuore, lanciare come esso, per tutti i canali geografici e amministrativi secolarmente preparati, il suo sangue e l'anima sua. È quello che Bossuet descrive così magnificamente nel suo Discorso sulla Storia universale.

D. Bisogna confessare che si tratta di una convergenza meravigliosa; ma era necessaria? R. Non era necessaria; il cattolicismo avrebbe potuto stabilirsi altrimenti e altrove. Ma Dio si serve normalmente degli strumenti preparati dalla sua Provvidenza. L'opera dell'incivilimento temporale e l'opera religiosa sono fatte per unirsi: Dio aiuta l'una con l'altra.

D. Roma aiutò la Chiesa; ma che cosa ha fatto la Chiesa per Roma?

R. Se Roma esercita ancora oggi quell'attrazione che fa di essa non una città italiana, ma la città mondiale per eccellenza, a chi lo deve? Le grandi vinte della storia: Menfi, Tebe, Ninive, Babilonia, Atene stessa perirono o si atrofizzarono. In grazia della Rocca evangelica, Roma si sollevò più in alto; salì al mondo dello Spirito

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e vi rimane. La croce le sarà più profittevole che le aquile. Essa aveva conquistato con le armi le rive ammirabili e fertili, ma ristrette, dopo tutto, del Mediterraneo: con lo Spirito essa conquistò il mondo. E quello che essa aveva perduto nello scontro con i popoli barbari, una volta trasferita nel soprannaturale da Cefa, le viene acquistato per sempre.

D. All'inizio, era ben marcato il legame tra il vescovo

di Roma e gli altri pastori di Chiese?

R. Era molto debole; la ragione generale è questa:

l'embrione non è l'uomo. Come ragione particolare, vi è che il governo apostolico dava a ciascuno di quelli che avevano goduto del contatto personale di Gesù, che avevano udito le sue parole, una specie di compito universale analogo a quello di Gesù stesso. Una Chiesa che aveva alla sua testa uno dei Dodici si sentiva al sicuro da ogni deviazione. Ora questo governo durò qualche tempo ancora, nei successori immediati che si avvantaggiarono ancora delle abitudini acquisite. Il ricorso a Roma, difficile in quel tempo, non sembrava indispensabile. Se ne trovano tuttavia numerose tracce; ma relativamente deboli, e non bisogna attendersi altro.

D. Come avvenne la transizione? R. Il potere degli altri vescovi diventa sempre 'più ristretto alle loro Chiese, più locale; quello del vescovo di Roma si universalizza in proporzione, con l'intento di soddisfare i bisogni nuovi di una crescente unità e di una complicazione funzionale che richiede un accentramento più forte.

D. E quando si compì questo accentramento? R. Nel Concilio Vaticano Primo, con la proclamazione

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dell'infallibilità personale del Papa e della sua indipendenza dai concili.

D. Non è questo un eccesso?

R. È l'accettazione letterale del testo già citato: Tu

sei Pietro, e sopra questa pietra io edificherò la mia

Chiesa.

D. Ma il dare a Roma un tale primato non era un italianizzare la Chiesa universale? R. Era un universalizzarla maggiormente, ricondu-cendo all'oceano, dove la barca di Pietro si avanza, i fiumi che si attardavano nelle pianure nazionali.

D. Dal che si dovrebbe dedurre che vi sono stati degli

abusi.

R. Ve ne sono sempre; ma un'istituzione secolare non

si giudica secondo la misura di minuscoli incidenti.

D. E come interpreti gli accomodamenti tra la Roma civile e la Roma apostolica, noti come la Conciliazione? R. Non vi fu maggiore avvenimento dopo Pipino il Breve e dopo Costantino. Il Cesare aveva dato alla Chiesa il suo statuto sociale. Il figlio di Carlo Martello, facendo il Papa sovrano, garantiva l'indipendenza dello spirituale in un mondo politico movimentato; ma, in cambio, aggravava il potere religioso delle cure temporali che non sempre tornavano a suo vantaggio. Per mezzo della Conciliazione, il grave peso è rigettato, e rimane la garanzia spirituale, fondata oramai sull'accet-tazione spirituale delle anime e dei popoli.

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L'ORGANIZZAZIONE DELLA CHIESA

a) L'ordine divino della Chiesa

D. Nella tua Chiesa vi è una grande complessità di funzioni: ciò non è forse contrario alla sua unità e alla semplicità del suo oggetto religioso? R. L'oggetto religioso della Chiesa abbraccia tutta la vita; la sua unità è una unità organica rispondente alle funzioni della vita: la Chiesa dunque dev'essere a un tempo e molteplice e una come questa vita che essa intende reggere; è uno spiegamento che si concentra, un concentramento che si spiega.

D. Ha un modello di organizzazione? R. Sì, la Trinità, in cui lo spiegamento e il concentramento, perfettamente compensati, ottengono il loro massimo di ricchezza. Perciò S. Cipriano chiama la Chiesa « un popolo adunato secondo l'unità del Padre, del Figliuolo e dello Spirito », e più brevemente: l'unità di Dio.

D. Ciò supporrebbe un'organizzazione perfetta su

tutti i punti.

R. L'ordine della Chiesa è perfetto nel suo principio

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e imperfetto nelle sue manifestazioni, perché se il suo principio è divino, la sua materia umana. Anche l'anima nostra organizza il nostro corpo come può e non sottomette mai perfettamente i suoi organi. Così lo Spirito di Dio nella Chiesa.

D. La Chiesa è una monarchici, una democrazìa, o ha un governo suo proprio?

R. Il governo della Chiesa è necessariamente unico, come unico è il suo caso; ma se si chiama democrazia un governo in cui l'autorità sale e monarchia quello in cui essa discende, la Chiesa è essenzialmente monarchica.

D. Perché ciò?

R. Perché la Chiesa è una società che include Dio, e dovunque è Dio, Dio non può essere che primo. Un governo democratico, in queste condizioni, sarebbe il governo di Dio mediante l'uomo.

D. Ma Dio non governa la Chiesa personalmente? R. Non la governa visibilmente, ma la governa; non la governa senza intermediari, ma gl'intermediari non operano che nel suo nome, e perciò questo non modifica affatto la forma del governo, che è sempre quello di uno solo.

D. Quali sono qui gl'intermediari? R. Dio governa per mezzo di Cristo, alle cui mani tutto è stato affidato, il quale è capo della stirpe soprannaturale, e che, al di sotto di Dio, o piuttosto congiuntamente con Dio — che gli è unito nell'unità della persona — è il primo nella Chiesa. Donde la tesi classica fra i teologi e proclamata da Pio XI, della regalità di

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Cristo; regalità spirituale, di cui la parola « Cristo » non è che l'espressione, poiché Cristo significa « unto, consacrato regalmente », per il governo delle anime.

D. Ciò forma appena un intermediario. R. Ulteriormente, essendo Cristo sempre presente, ma rientrato nell'invisibile, vi è di Cristo, nella Chiesa, una rappresentanza visibile; infatti fu detto ai Dodici: Come mio Padre ha mandato me, così io mandò voi. Andate e insegnate a tutte le navoni, e questo è il potere che noi chiamiamo magistero; Battezzateli nel nome del Padre, e del figliuolo e dello Spirito Santo, e Fate questo in memoria di me, e questo è il potere sacramentale chiamato ministero; Chi ascolta voi ascolta me e chi disprezza voi disprezza me, Quello che voi legherete sopra la terra sarà legato in ciclo, e quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto in ciclo, e questo è il potere di governo (imperium), che comprende il legislativo, il giudiziario e l'esecutivo, tutti e tré necessari per un vero governo. Di modo che il collegio dei Dodici nella loro successione autentica, sarà, nel nome di Cristo e di Dio, in unione con Cristo e con Dio, l'autorità prima. Tutto il popolo cristiano dipenderà da loro come il gregge da' suoi pastori, l'insieme del gregge dipendendo dal loro insieme, e ciascun gregge particolare, richiesto dalle necessità locali dipendendo da ognuno di loro, senza pregiudizio dell'unità che avvolge tutti i gruppi. Finalmente i Dodici e i loro successori non sono essi stessi un gregge amorfo; ma hanno un capo, in quanto Cristo volle darsi una rappresentanza non solo collettiva, ma individuale, con una sopravvivenza visibile, dicendo a uno dei Dodici: Pasci i miei agnelli, cioè. i fe-

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deli; Pasci le mie pecorelle, cioè i pastori, e ancora: Io ti darò le chiavi del regno dei deli, come a un maggiordomo, per il quale bisogna passare per andare dal Padrone. Così, partito Cristo, Pietro è un Cristo per procura, per missione e per assistenza, di modo che, nella Chiesa, lui è a capo, lui e i suoi successori, coi quali gli altri vescovi mantengono lo stesso rapporto che tutto il gruppo episcopale con Cristo e Cristo con Dio. Tal è l'emanazione, la derivazione del sovrano potere nella Chiesa.

D. J protestanti non ammettono tutto questo. R. Non lo potrebbero ammettere; il loro punto di partenza vi si oppone totalmente; ma la colpa sta precisamente nel punto di partenza. Agli occhi dei protestanti, Dio è bensì in relazione con noi per mezzo di Cristo; ma Cristo non è in relazione con noi per mezzo della Chiesa; la corrente di vita si arresta fin dalla sorgente; la socializzazione si effettua non da se stessa, in virtù di una natura delle cose che Dio ha fondata e alla quale egli si adatta, ma avviene dopo, arbitrariamente, per iniziative individuali e specialmente politiche. Così non è più Cristo che continua a venire a noi per le vie della vita; siamo noi che risaliamo verso di lui e costituiamo, cammin facendo, degli organi sociali di nostra creazione, organi che saranno, per conseguenza, quello che noi li faremo, il cui governo si stabilirà come noi lo intenderemo, sempre in dipendenza dalla nostra iniziativa e sempre suscettibile di revisione.

D. No» e forse il popolo sovrano?

R. L'idea del popolo sovrano nel soprannaturale è di

fatto evidente nel protestantesimo. È la società reli-

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giosa nel suo insieme che tiene il potere e che lo delega ai pastori. Salvo che non si lasci questa cura ai principi temporali, proprio i più indicati per addossarsi dei pesi che incombono ai loro popoli!

D. Si eviterebbero così i conflitti tra la Chiesa e lo Stato.

R. Sì, dopo che la Chiesa sarà stata divorata dallo Stato.

D. Quali conseguenze traggono i protestanti da questo sistema?

R. Ne segue naturalmente un diritto di controllo, un diritto di resistenza eventuale, un diritto di deposizione delle autorità religiose da parte del popolo o de' suoi rappresentanti, e molte altre cose ancora, secondo le diverse teorie; perché in ciò, come in tutto, i protestanti hanno tante idee quante teste.

D. Dalla tua concezione ne deriva qualche conseguenza. riguardante il governo degli Stati?

R. Bisogna concedere ai teorici della regalità che la monarchia, in sé, idealmente, è il governo più perfetto, perché l'unità più o meno ottenuta con la democrazia o con l'aristocrazia non è che un genere di unità secondaria, che ha la sua ragione finale nell'altra. Per questo il governo universale è monarchico, ed è il governo divino. Resta a sapere se un governo ideale risponde a una realtà che non è guari realtà, e se Dio, rappresentato dai capi di Stato, ritrova passabilmente se stesso,

D. Si ritrova egli nella Chiesa? R. Vi si ritrova sufficientemente, perché egli vi abita con il suo Spirito, il che non è stato promesso alle società temporali. Donde segue che la monarchia è nella

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Chiesa di diritto, e, riguardo all'essenziale per lo meno, non presenta alcun pericolo di oppressione, sia in ciò che concerne le autorità secondarie, sia in ciò che tocca le libertà.

D. Ciò risponde bene all'idea di organizzazione, che ti è familiare, e che importa, come sembra, un complesso spontaneo di elementi?

R. Un'organizzazione, naturale o artificiale, è un insieme procurato da' suoi elementi se si riferisce all'esecuzione del piano organico; ma il piano stesso, la sua concezione e la legge della sua evoluzione non sono forniti dagli elementi. Quello che è primo nella stessa macchina è l'idea. Nel corpo vivente è l'anima. Nel corpo Chiesa, quello che è primo è altresì l'anima sua, cioè lo Spirito divino comunicato da Cristo Figliuolo di Dio e dal Padre che lo ha mandato.

D. Qui non si fa parola ne di Papa ne di vescovi. R. Aspetta. Nel corpo vivente, quello che è primo dopo l'anima è il sistema nervoso centrale, non le cellule lontane. Nella Chiesa quello che è primo, a titolo di elemento visibile, è il corpo episcopale unito al Papa: vero centro cerebrale da cui sotto l'azione dello Spirito Santo animatore, procedono e il pensiero, chiamato dogma, e la spinta e il dinamismo, che sono il governo e tutta la vita venuta da Cristo a beneficio delle anime, mediante l'effusione sacramentale.

D. Dunque, nella Chiesa, il semplice cristiano sarà unicamente passivo?

R. Nessun elemento è passivo, in un organismo animato. La religione che ci lega a Dio non vi ci assorbe.

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Il governo religioso dev'essere un stimolatore di energie, non un accaparratore o un estintore di energie. Io sono venuto, disse Gesù, per portare il fuoco sulla terra, e che cosa desidero se non che esso arda? (luc., XII, 49).

D. Che parte dunque attribuisci alle iniziative spontanee dei singoli, gruppi o individui?

R. Il cristiano reagisce già all'autorità per il solo fatto che è, e per il modo con cui si comporta sotto il regime della legge. Quest'autorità, che qui è divina nella sua essenza, non può evidentemente essere influenzata in se stessa; ma dipende ne' suoi effetti dall'accettazione da parte della nostra libertà e dalla collaborazione dei nostri sforzi. Non siamo dunque governati senza di noi, neppure in questo caso. A più forte ragione non siamo governati senza di noi dalle autorità umane che, in suo nome, ma con diverse gradazioni di valore e di possibilità, ci reggono. In quest'ultimo caso non solo partecipiamo agli effetti del governo, ma in un certo modo anche al governo stesso.

D. Non è un ritorno alla democrazia? R. Niente affatto. Il corpo vivente non è una democrazia, dicevamo; perché il principio animatore ha per punto di applicazione immediata e principale il cervello, il sistema nervoso centrale, donde partono le grandi correnti che dirigono tutto il resto. Ma non si deve dire che l'anima abiti esclusivamente nel cervello; l'anima è da per tutto e da per tutto si rivela; in modo che la vita - comunicata al cervello a prò delle membra non impedisce una comunicazione diretta alle stesse membra, e il cervello stesso a sua volta ne approfitterà.

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D. Ciò si applica a una società? R. Perfettamente. Non vi è monarchia così assoluta che non subisca influenze. Un governo saggio organizza le collaborazioni, non le respinge; si circonda di consiglieri; si appoggia sull'opinione dei migliori; valuta il suo popolo prima di proporgli delle leggi, perché la legge è un dettato di ragione, e nessuna autorità può pretendere d'incarnare in sé sola la ragione. Così l'autorità religiosa non ha da sé sola il monopolio dello Spirito; essa lo esprime legittimamente, e anche i suoi effetti saranno da essa controllati, sì che anche in ciò noi saremo governati, non governanti; ma sapendo che il suo proprio Spirito animatore è dovunque diffuso, animando anche i fedeli e ispirando loro delle verità, provocando in essi degli impulsi, producendo delle grazie, l'autorità religiosa ascolta, nello stesso tempo che parla;

essa subisce, pure operando, e quindi il governo è in ciò una vera collaborazione.

D. Democrazia, ancora una volta. R. Ancora una volta, non si tratta affatto di democrazia; ma quello che non è una democrazia può — ed è il caso di ogni saggio governo — partecipare della democrazia, come anche dell'aristocrazia, nel senso che le autorità secondarie ed anche i sudditi esercitano o influiscono realmente sopra l'autorità senza condividerla. Se è vero, come afferma S. Tommaso d'Aquino, che il migliore governo è quello che unisce la partecipazione di tutti all'azione dei migliori, controllata e centralizzata da uno solo, il governo della Chiesa si rivela così perfetto quanto è possibile, e ciò torna a lode di Dio.

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D. Pretendi così che la Chiesa sia la società più perfetta che esista?

R. Essa offre di fatto quello che mai non apparve più grande e più ammirabile come regime sociale. Raggiunge l'ideale della concentrazione e della pieghevolezza, dell'autorità efficace e della libera azione. Nulla si potrebbe concepire di più perfetto, e nemmeno altra forma, per un governo che si deve estendere a tutto il mondo.

V) II Papa

D. Qual è, esattamente, quel potere centrale che tu

attribuisci al Papa?

R. È un potere plenario, perché è quello stesso di

Cristo.

D. Uno stesso potere plenario può appartenere così a due persone?

R. È il caso di ogni potere esercitato da un vicario. È proprio dell'essenza di un vicariato di non costituire alcun grado gerarchico nuovo. Un ambasciatore, nei limiti de' suoi poteri, non è un'autorità posta al di sotto del suo principe: egli esercita l'autorità dello stesso principe. Così il Papa esercita nella Chiesa l'autorità di Cristo; governa nel nome di Cristo, non formando con lui, come vicario, se non un solo ed unico potere, e nello stesso ruolo di fondamento, riguardo all'edificio spirituale, congiuntamente a Colui che lo chiamò Pietra, o Roccia, e che ha detto se stesso pietra angolare:

D. Che cosa importa questa autorità? R. Essa comprende nella loro pienezza e centralizzandoli i tré poteri che ho già menzionato attribuendoli a tutto il gruppo apostolico, cioè il magistero dot-

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trinale, il governo, e il ministero, o potere sacramentale.

D. Riguardo ai Sacramenti, il Papa avrebbe un potere

speciale?

R. Relativamente all'azione sacramentale, no; quindi

egli non è che un sacerdote e un vescovo come gli altri;

ma in quanto all'uso che se ne fa e in quanto ai riti che lo accompagnano, egli è il primo così come in tutto il resto. È il maestro della liturgia, dispone l'insieme e i particolari del culto divino, al fine di dare alla misticità della Chiesa dei mezzi adeguati ai tempi, ai luoghi e alle persone.

D. Che cosa intendi per il suo governo? R. Egli ha un'autorità legislativa plenaria e immediata sopra la Chiesa intera; nel suo dominio, che è quello del soprannaturale, può dare ordini a ciascuno e a tutti, individui e gruppi, fedeli, pastori, chiese particolari o Chiesa universale. Con ciò è giudice supremo, e il suo giudizio è naturalmente inappellabile, salvochè, essendo egli uscito dal suo ufficio, non meriti che si dica, come a torto fece Pascal nel momento del suo giansenismo:

Ad tuum, Domine Jesu, tribunal appello. Finalmente il potere legislativo e giudiziario del Sommo Pontefice suppone come conseguenza il potere di applicare delle sanzioni; ben inteso, conforme alla natura della sua giurisdizione: di qui le pene canoniche, delle quali egli è il supremo dispensatore.

D. Ma in che consiste, questo potere dottrinale, questo « magistero » che attribuisci al Pontefice? Cristo non ha forse detto parlando di se stesso: Voi non avete che un solo Maestro? R. Ho spiegato or ora che il magistero del Papa è

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quello stesso di Cristo. Il Papa non pretende d'insegnare qualsiasi cosa dopo Cristo; ma egli è il capo tra quelli a cui fu detto: Andate e ammaestrate tutte le genti, insegnando loro quello che vi ho detto.

D. Il Papa non è dunque altro che un ripetitore? R. Se così ti piace. Egli è il ripetitore per eccellenza della divina lezione data agli uomini. Egli conferma i suoi fratelli nella fede; organizza il simbolo, lo interpreta, lo difende, dirime da sovrano le questioni che esso suscita, serve da ultimo ricorso nelle dispute che tali questioni non possono mancar di far nascere tra gli uomini.

D. Pretendi che, in tutto questo, il Papa è infallibile? R. È infallibile in condizioni ben definite, cioè quando parla appunto come giudice della dottrina, nei limiti dell'oggetto assegnato a questa dottrina, e quando, rivolgendosi alla Chiesa universale, intende obbligarla tutta.

D. Ma perché l'infallibilità?

R. Un illustre protestante (Augusto Sabatier) ha stabilito questa proposizione: « Un dogma indiscutibile suppone una Chiesa infallibile ». E conclude, da parte sua, col respingere ogni dogma fisso: ma la sua dimostrazione resta.

D. In che consiste?

R. Nel far vedere psicologicamente, socialmente, e nel fatto, quello che diventa un insegnamento, fuori della salvaguardia di un'autorità vivente e indiscutibile. Quest'insegnamento sfocia, salvo incoerenze fortunatamente frequenti, a ciò che Andrea Gide chiama « la più grande liberazione », cioè il nulla dottrinale e l'immoralismo.

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D. Questo, dici, si vede nel fatto? R. Le sètte che negarono questa infallibilità finirono per frantumarsi e polverizzarsi; il ristagno di alcune, prova semplicemente la loro morte. È logico allora che, tra i dissidenti, si scrivano libri sopra libri, per dilucidare questo problema fondamentale: qual è l'essenza del cristianesimo? Durante questo tempo, la Chiesa vive e fa vivere.

D. Anche gli altri vivono.

R. È forse un vivere il dissociarsi? Ogni dissociazione è una cadaverizzazione. La Chiesa vive per la sua unità, e vive potentemente per la sua certezza. L'infallibilità è la forza della Chiesa, perché le da la piena sicurezza di se stessa di fronte al divino.

D. Si permetterebbe forse alla Chiesa di affermare se stessa, se non fosse così pronta a condannare tutto. R. « Una delle condizioni essenziali dell'affermazione è la negazione e la distruzione » (nietzsche).

D. Una tale correlazione ha i suoi limiti. Se la Chiesa facesse delle concessioni, ci si potrebbe intendere con essa; ma si resta offesi della sua intransigenza. R. L'intransigenza della Chiesa è una conseguenza della sua certezza e dell'ineluttabilità del suo insegnamento. Fare delle concessioni sarebbe per lei un abbandonare ciò che non le appartiene, abbandonare il bene divino, abbandonare l'unico mezzo di salvezza per gli uomini; sarebbe dunque tradire.

D. Per mantenere una verità, la Chiesa ne può distruggere altre.

R. Considera quello che la Chiesa distrugge. Che cosa colpiscono i suoi anatemi? Forse idee positive, forse

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affermazioni che si possono dire feconde? No; ma sempre negazioni, esclusioni, punti di vista parziali che, per la loro parzialità, squilibrano il vero e l'annullano. Nel modernismo, per esempio, ultima delle sue grandi vittime, quello che la Chiesa ha condannato, non è l'immanentismo in ciò che essa ha di positivo, ma un immanentismo opposto alla trascendenza del soprannaturale e a una rivelazione esteriore; non è neppure l'asserzione che la religione fosse un sentimento, ma che essa non fosse che un sentimento, negandola come una dottrina precisa e immutabile. E così via. Ho già detto che il cattolicesimo abbraccia tutto ciò che vi è di positivo e di sano nelle religioni e nelle filosofie che si dividono il mondo. I suoi anatemi sono degli allargamenti, non degli impedimenti; sono degli inviti a conservare la grande via e ad evitare sentieri pantanosi.

D. Perché questa brutta parola: anatema? R. Anatèma significa essere collocato fuori. Quando fulmina l'anatèma, la Chiesa dichiara che questi o quelli altri non sono più suoi, e, ripeto, che non è affatto perché essi affermino qualche cosa, ma perché negano o mortificano qualche verità.

D. Vi è però la condanna di Galileo che affermava la rotazione della Terra.

R. Di grazia! questo caso è già smontato da gran tempo. Vi fu errore e abusò di potere, non vi è difficoltà ad ammetterlo, e nessuno pretende che il funzionamento umano della Chiesa sfugga a tali colpe. Ciò che si assicura è che l'errore non cade mai sull'oggetto proprio della Chiesa, e non tocca la Chiesa che pronunzia la sua propria legge, in condizioni che impegnano la sua divina

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autorità, condizioni che essa stessa-definisce nel modo più preciso. Su questo punto si dovrebbe portare la contesa; ma non avrebbe senso.

D. Quello che urta ancora è quell'immutabilità, quella rigida fissità, in un mondo dove tutto cambia, e dove tutto necessariamente cambia.

R. Su questo ci siamo spiegati. La Chiesa cambia, poiché glielo rimproverano dicendo che ella non fu fedele alle sue origini. Le rimproverano tanto i suoi cambiamenti quanto la sua immutabilità. Bisognerebbe tuttavia scegliere, o piuttosto comprendere. I cambiamenti della Chiesa sono le evoluzioni e gli adattamenti della vita; l'immutabilità della Chiesa è la fissità del tipo e dei caratteri generali della vita. Dato quello che è la Chiesa, organizzazione del soprannaturale, l'immutabilità è in lei di prima necessità; è « la fissità dell'istante in cui l'eterno è entrato nel tempo » (erik peterson).

D. Lasciamo la Chiesa: si trattava del Papa; assicurare che è infallibile, non è forse fare di un uomo un Dio? R. No; come di un flauto, anche se suonato benissimo, non si fa un musico.

D. Il flauto non ha pensiero musicale; il Papa ha un pensiero dogmatico.

R. Il pensiero dogmatico del Papa, secondo che è a lui proprio, non c'impegna in nessun modo; anche certo, esso non è alla base della nostra fede. Certi Papi hanno scritto dei volumi di teologia che si discutono come gli altri, e che hanno molto minore autorità nella Chiesa di quelli di un semplice monaco quale Tom-maso d'Aquino.

31S

D. Su che cosa dunque ti appoggi in questo caso? R. Sull'esercizio di un ufficio garantito da Cristo, che dice: Pietro, io ho pregato per tè, affinchè la tua fede non venga meno, e tu conferma i tuoi fratelli.

D. Non vedi dunque nel Papa un uomo miracoloso? R. È un uomo come gli altri; ma il suo compito non è come gli altri.

D. Ad ogni modo tu fai di questo compito qualcosa fuori dell'umanità.

R. Se esso fosse dell'umanità e non la oltrepassasse in qualche modo, come aiuterebbe secolarmente l'umanità stessa a oltrepassarsi? Si tratta del soprannaturale, in cui l'uomo non ha di per se stesso alcuna competenza. Cristo ci ha dato il soprannaturale; ma non è forse noto che una cosa non si conserva se non cogli stessi mezzi che servirono ad acquistarla?

D. Insamma, il Papa fa la parte di un superuomo, dunque è un superuomo.

R. Bisogna lasciare questa interpretazione all'ignoranza, alla mala fede o all'imperdonabile leggerezza di alcuni dissidenti. Il Papa non è un superuomo, ma un debole mortale che Dio assiste. Egli non trae beneficio da nessun miracolo psicologico. Prima delle sue definizioni, egli non ne è più sicuro di noi; dopo, è tenuto come noi ad aderirvi, come a una cosa che lo supera e di cui non è stato che l'organo. Cristo ha pregato per lui, e ciò basta. Colui che il Padre esaudisce sempre ha inteso, con questo mezzo, di mantenere nella sua umanità religiosa il minimo di verità indispensabile e quanto vi è di essenziale nelle sue leggi. Noi crediamo quello

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che egli disse; noi, abbiamo fede nella onnipotente salvaguardia.

D. Come si può esercitare questa salvaguardia? R. La Provvidenza ha mezzi senza numero; questi mezzi si precisano in ciascun caso secondo le circostanze e secondo le esigenze del caso. Quello che bisogna ritenere è che egli non agisce con un miracolo; noi non attribuiamo al Papa nessuna rivelazione particolare; egli s'informa come noi; prende le sue decisioni come facciamo noi; il suo verdetto soltanto è l'oggetto d'una speciale provvidenza, che rassicura la nostra fede.

D. Il privilegio dell'infallibilità appartiene al Papa

esclusivamente?

R. Esso appartiene alla Chiesa; appartiene, in vista

della Chiesa, al gruppo apostolico anzitutto, e solo come

capo del gruppo apostolico se ne trova investito il Papa

personalmente.

D. Dunque i concili godono dell'infallibilità. R. Sì, ma nella loro unità, che non è loro procurata se non dal capo, sotto la dipendenza del capo. Di modo che un concilio non presieduto o non confermato dal Papa è senza autorità dottrinale.

D. Qual è il rapporto preciso di queste due infallibilità?

R. L'infallibilità del gruppo apostolico e del corpo episcopale suo successore è un'infallibilità confermata;

quella di Pietro e del Papa suo successore è un'infallibilità che conferma. Quello che dice il concilio senza il Papa, o più ancora contro il Papa, è nullo; quello che dice il Papa senza il concilio è sufficiente da solo.

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D. Da che dipende quest'ultima prerogativa? R. È una questione di costituzione. Si tratta di sapere se il Papa, da sé solo, rappresenti sufficientemente la Chiesa, rappresenti sufficientemente il gruppo apostolico organo della Chiesa; ora, appoggiati sulle parole di Cristo e sulla tradizione secolare, confermate tutt'e due e proclamate nel Concilio Vaticano Primo, noi diciamo di sì. Ne questa è un'esaltazione del Papa come persona:

« Considerando la Chiesa come unità, il Papa che ne è il capo, è come tutto. Considerandola come moltitudine, il Papa non ne è che una parte » (pascal).

D. Se l'infallibilità è essenziale alla Chiesa, perché è stata definita così tardi?

R. Essa esisteva e si esercitava prima di essere definita, e ciò che era essenziale alla Chiesa era la sua esistenza, era il suo esercizio e non la sua definizione.

D. Ma si esercitava veramente nella sua pienezza? R. Niente si esercita subito nella sua pienezza, in seno a un organismo vivente. La Chiesa è un vivente;

da principio, tutto si trova in stato embrionale, poi nello stato progressivo, finalmente nello stato compiuto, e il sentimento che se ne ha segue le stesse tappe, perché la vita riconosce se stessa vivendo.

D. Prima del Concilio Vaticano Primo, il Papa non sapeva dunque di essere infallibile? R. Non lo sapeva con la stessa certezza, con una piena certezza di fede.

D. È strano.

R. È invece del tutto naturale, se tu ti riferisci alle leggi

della vita, aggiungendo che qui si tratta di una vita so-

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prannaturale. L'infallibilità della Chiesa non è altro che la sua vitalità dottrinale conservata e manifestata alla sua ora dallo Spirito che risiede in lei, come il vigore del germe è conservato e manifestato dal « genio della specie » in una discendenza vivente.

D. E che cos'è che decise della definizione? R. Sembrò venuto il momento, per la Chiesa, di prendere pieno possesso di sé; di darsi quella forza di esistere e di operare col suo organismo al completo, in piena luce; di allontanare le contraddizioni, di fissare le esitazioni, che indefinitamente sarebbero possibili, anche nei più fedeli, finché la questione di fiducia, se si può parlare così — qui di fiducia divina — non fosse stata posta risolutamente; di vincere anche delle illusioni che, sotto pretesto di « comporsi con la civiltà moderna », tendevano ad assimilare il governo divino della Chiesa alle costituzioni democratiche sorte un po' dovunque, ecc...: ne io pretendo in alcun modo di conoscere tutte le intenzioni della Chiesa.

D. Come mai questa opportunità non sì produsse se non dopo duemila anni?

R. Perché un uomo non ha la sua piena costituzione se non in un'età avanzata, relativamente al tempo che egli deve passare sopra la terra? I destini della Chiesa coincidono con quelli della nostra stirpe; pensando a una tale vita, universale e onnitemporale, si ha ben il diritto di dire con S. Pietro: Mille anni sono come un giorno, e un giorno come mille anni.

L'assestamento definitivo del Papato nel suo compito storico è un fatto parallelo all'assestamento della vera religione sopra la terra. In entrambi i casi, ci fu un ri-

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tardo considerevole, diversamente motivato, ma normale relativamente a tutto il corso della storia.

D. Questo fatto nuovo costituisce dunque per tè un vero punto di partenza?

R. È un punto di partenza, perché è il Cristo pienamente manifestato e riconosciuto nella sua rappresentanza temporale. Perciò a quei che affermano che la Chiesa muore, io risponderò: la Chiesa incomincia. La coesione inferiore e lo splendore delle funzioni centrali è un segno di vita quale non fu mai, perché è il contrario della cadaverizzazione anarchica. Ogni popolo in procinto di perire lacera se stesso in convulsioni: è la legge universale. Ogni popolo uno, in un ambiente in cui la sua esistenza conserva una ragione di essere, è sicuro dell'avvenire.

D. Vi sarà dunque sempre una Chiesa, e alla sua testa vi sarà sempre un Papa?

R. Vi sarà sempre una Chiesa, perché Cristo ha chiuso per lei le porte della morte. Vi sarà sempre un Papa, se pure si può dire sempre parlando della durata d'un piccolo pianeta e della vita dell'umanità. Nella sua apoteosi ultima, che consisterà nel raggiungere il Cristo che viene « sopra le nubi del cielo », il Papato morirà finalmente, ma come muoiono, nel crepuscolo mattutino, nell'oceano di luce che incomincia, le ultime stelle.

/c)j'Le tré Chiese e la comunione dei santi

D. Hai chiamato la tua Chiesa « l'organizzazione dell'infinito » : essa dunque non è tutta nel visibile; dunque non è tutta nel tempo. R. La nostra Chiesa oltrepassa il tempo e il suo ab-

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braccio si protende attraverso gli spazi. Essa crede alla continuità della vita in tutti i sensi, sia pure nel mistero nell'ignoranza, sia pure 'al di là delle barriere della morte, e ciò che essa crede, la sua propria costituzione consacra. O si canti questa unità nella Messa, o la si esprima solamente, tu dovrai confessare che la si proclama a buon diritto.

•—) D. Come la intendi tu?

R. Anzitutto in questo mondo stesso, il regime sociale della grazia non è interamente espresso dalla Chiesa visibile. Come ora vedremo, vi è una Chiesa delle anime, più vasta, incomparabilmente, che il gregge arruolato, — almeno così si spera — una Chiesa delle buone volontà raggiunte da Cristo, coperte de' suoi meriti, animate dalla sua intima azione, e in unione implicita, fosse pure nell'ignoranza e nella negazione, con l'opera sua sopra la terra. Non è possibile che tra queste due Chiese, o piuttosto in grembo a questa Chiesa unica, la cui anima trascende il corpo, non vi siano degli scambi vitali, una comunicazione spirituale, una comunione, come si dice nel linguaggio mistico. Inoltre quando ci si unisce a Cristo e al suo Spirito, non è solo per il tempo, non è solo per il mondo, ma per sempre e dovunque si estenda la nostra vita. Quelli che sono morti nel Signore non hanno abbandonato il Signore, dunque non hanno abbandonato, spiritualmente, quelli che essi lasciano nell'esercito visibile. Il Signore e lo Spirito formano il vincolo; la fraternità ha il dovere di esser sempre attiva. Sia che essi godano attualmente la felicità dei santi;

sia che si trovino trattenuti nel luogo del dolore purificatore, essi sono i fratelli dei viatori, dei militanti di

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quaggiù. Ecco quello che si vuole esprimere con questa distinzione di tré Chiese: l'una militante, quella della terra; un'altra paziente, quella del purgatorio; una terza trionfante, quella del cielo. Non è che una sola famiglia con tré nomi.

D. Come si debbono concepire i rapporti fra questi tré diversi gruppi?

R. Siccome vi si adora lo stesso Dio, si partecipa allo stesso Spirito, si fa corpo in Colui del quale tutte le anime di buona volontà sono i mèmbri, così per il fatto stesso ci si trova impegnati in un mutuo scambio di servizi; per giunta vi si è invitati. Preghiere scambievoli, riversibilità dei meriti sotto il controllo della Provvidenza, diffusione del bene nel campo delle anime, carità con tutti i suoi effetti: tal sarà il regime che si chiama comunione dei santi, prendendo la parola santo nel senso antico, per indicare ogni essere rigenerato e santificato da Cristo.

D. Tu dici che questa comunione si effettua ipso facto? R. È inevitabile. Non è forse di regola che in un ambiente organizzato il bene di un elemento giovi a tutti e il bene di tutti a ciascuno? « Tutti per ciascuno, ciascuno per tutti », questa bella regola positiva è indubbiamente un invito, ma è anche una legge di fatto, dal momento che vi è realmente vita comune. Quest'ultima condizione è indispensabile; perché, come osserva Pascal, non si diventa ricchi perché si vede un estraneo che è ricco; ma bensì perché si vede il proprio padre o il proprio marito che è ricco. Ma poiché tale è il fatto, in grazia della nostra anima comune che è lo Spirito di Cristo, in grazia dei « legami e delle giunture » che

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connettono il corpo di Cristo, ne segue l'effetto, anche se nessuno vi pensa.

D. È una strana solidarietà.

R. Di' piuttosto « sublime ». La solidarietà, di cui si parla tanto, non potrebbe trovare espressione più completa. La comunione dei santi abolisce i limiti dell'essere per rilegarlo all'universale. Ciascuno, per essa, è forte della forza di tutti; ciascuno è compatito dalla pietà di tutti; ciascuno è amato dall'amore di tutti; ciascuno è salvato, per poco che lo voglia, dalla barca di tutti, la barca di Cristo, in seno al gran naufragio della vita.

D. Ma vi è anche una forma deliberata e volontaria di questa comunione?

R. Essa si rivela mediante le preghiere dei vivi per i vivi e per i morti, degli eletti per i viatori e dei pazienti per i combattenti della terra, mediante retrocessioni di meriti che Dio incoraggia e misura, mediante sforzi e sacrifici consentiti e, in ciò che riguarda specialmente questo mondo, mediante gl'insegnamenti, le esortazioni, i consigli, gli esempi. In mezzo alle anime che dimenticano, ve ne sono che si ricordano per loro; in mezzo ad anime che annegano, ve ne sono che si gettano a nuoto e, con loro rischio, riconducono a riva i naufraghi. Si stabilisce così un immenso sistema di soccorso, d'irradiamento spirituale, di santificazione, di felicità. È una espansione di vita divina regolata secondo le più alte leggi psicologiche e sanzionata dai misericordiosi voleri del nostro Dio. È una gravitazione universale delle anime.

D. Nella comunione generale dei santi, vi sono comunioni più speciali? R. Certamente. Le anime formano delle costellazioni,

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come gli astri. Noi non siamo una polvere di esseri, tutti i nostri legami naturali hanno il loro equivalente soprannaturale e ritrovano i loro efletti.

D. I due ordini, a questo riguardo, vanno di pari passo?

R. No; due fratelli secondo la natura possono essere soprannaturalmente assai distanti; ma non possono essere degli estranei, perché anche la famiglia è in Cristo. In quanto agli estranei secondo la natura che sono soprannaturalmente fratelli, essi dilatano l'idea di famiglia e presentano un altro aspetto dei nostri legami.

D. La comunione dei santi è secondo tè un dogma propriamente detto?

R. Lo trovi nel Credo: Io credo... nella comunione dei santi. E questo dogma particolare, come quello della Chiesa nel suo contenuto molteplice, ripeto, da la più ampia e più magnifica soddisfazione al nostro senso sociale, a quel desiderio naturale che abbiamo di lavorare a qualche cosa d'immortale, al nostro bisogno di solidarietà, di dedizione scambievole, di comunicazione, di sacrificio.

D. Siamo sociali fino a tal punto?

R. Tali siamo per natura, e ancor più per sopranna-

tura; non cessiamo di essere tali se non per il peccato.

D. Questa solidarietà è dunque insieme interna ed esterna, apparente e nascosta?

R. Essa è resa apparente nella Chiesa visibile, e dalla Chiesa visibile si estende sino ai confini dell'invisibile.

D. Gli spiriti puri che tu chiami angeli ne fanno parte? R. Vi sono associati di diritto, come pure gli abitanti dei mondi sconosciuti, se esistono. Infatti « è una regola

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immutabile — dice Bossuet — che gli spiriti che si uniscono a Dio si trovino nello stesso tempo uniti tutti insieme » e formino una sola « città di Dio », avente il medesimo capo che è Dio, la medesima legge che è la carità.

D. Tu mescoli così tutti i deli e tutte le terre. R., Non mescoliamo niente; distinguiamo tutto; ma sotto un solo governo, non vi è che un solo dominio. I tempi e gli spazi qui non contano niente. Bisogna che vi sia una religione attraverso ogni durata, attraverso ogni specie di creature ragionevoli, attraverso ogni luogo abitato e attraverso ogni situazione. Dio è necessariamente tutto in tutti.

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d) La necessità della Chiesa. C "•L L--\•- ^ I 4^ « Fuori della Chiesa, nessuna salvezza »

D. Dopo tutti questi allargamenti, quasi non si comprende -più quello che voi volete con questa formula rìgida e tagliente come una lama: « Fuori della Chiesa, nessuna salvezza ».

R. Di fatto è necessario spiegarci, e si può anche concedere che tale formula non è felice, perché si presta terribilmente ad equivoco. Tuttavia, sopra il terreno dov'è collocata, ha la sua piena e intera giustificazione.

D. Qual terreno?

R. Quello del diritto, quello del piano divino per la salvezza degli uomini. Vi è Dio; vi è l'Incarnazione; vi è la vita e la morte redentrice; vi è la successione autentica di Gesù per mezzo del gruppo apostolico con Pietro alla sua testa, per mezzo della Chiesa col Papa alla sua testa: questa è l'organizzazione autentica della salvezza, corrispondente a quello che è la natura umana, a un

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tempo corpo ed anima, individuale e sociale. Nessuno se ne deve allontanare. Colui che conosce questa organizzazione o che ha il mezzo di conoscerla è giudicato da essa; allontanandosene si perde; abbandona la via, la verità e la vita; esce dall'edificio non manufatto in cui si trova la porta delle pecorelle, quella per cui devono passare, per andare ai pascoli divini, tutte le pecorelle umane. « Fuori della Chiesa, nessuna salvezza », in questo senso, significa: fuori di Cristo e dei mezzi di Cristo, non vi è nessuna salvezza; fuori di Dio, non vi è nessuna salvezza, ed è una evidenza.

D. Il diritto non è il fatto.

R. Ci siamo. Il diritto, in ogni materia morale, non esprime che una verità parziale. È necessario entrare nelle coscienze e conoscere quali sono le loro disposizioni riguardo a Dio, la loro sottomissione ai mezzi di Dio, sia che li conoscano o li ignorino.

D. È possibile essere sottomessi a db che non si

conosce?

R. Vi si può essere sottomessi come disponibilità, e

un'autorità benevola accoglie questa sottomissione.

D. Così sarà uno salvo senza la grazia? R. Nessuno può essere salvo senza la grazia, poiché essere salvo è entrare nell'ordine soprannaturale ed è la grazia che vi ci introduce. Ma la grazia non è invariabilmente legata a un mezzo esterno, benché essa abbia la sua strada ufficiale ed ordinaria nei sacramenti della Chiesa. « La grazia di Dio non è incatenata ai sacramenti », dicono i teologi.

D. Ne alla Chiesa stessa? R. Ne alla Chiesa stessa, in ciò che ha di esterno.

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Alessandro Vili condannò Arnauid perché negava che vi fosse grazia fuori della Chiesa.

D. Può un incredulo avere la grazia? R. Possono avere la grazia non solo degli increduli, ma anche degli atei, e perfino dei persecutori apparenti, che in realtà non sono che degli smarriti.

D. Che cosa ci vuole perché l'abbiano? R. Che siano nella disposizione di ubbidire alla verità che essi ignorano o combattono; che, per trovarla, appena sono nel dubbio, facciamo sforzi seri, e intanto pratichino i doveri importanti che sono loro noti. D. Ma questo non è la fede, e tu dici che la grazia, quando occupa il fondo dell'anima, produce nell'intelletto la fede.

R. Gl'increduli di cui parlo hanno la fede; aderiscono di cuore, e perfino il loro intelletto aderisce implicitamente, per tendenza, « in intenzione » (p. gardeil), a quanto ignorano. I bambini battezzati hanno veramente la fede, benché essi non sappiano niente: il povero incredulo crede di sapere altro; crede di negare; ma attraverso alle negazioni della mente, Dio vede il cuore fedele;

anche nella mente, egli vede l'orientamento, in mancanza dell'oggetto riconosciuto, ed è presente a quel cuore con la sua grazia, artefice di carità soprannaturale, a quella mente per la virtù soprannaturale e segreta della fede.

D. E tu dici che questi individui appartengono alla

Chiesa?

R. Sì, in quanto a ciò che fa della Chiesa una società

propriamente spirituale, cioè l'unione intima con Cristo

e con lo Spirito di Cristo, sia pure nell'incoscienza e

nel segreto.

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D. È quello che tu chiami l'anima della Chiesa?

R. S. Tommaso lo chiama anche corpo mistico della

Chiesa, il suo corpo nascosto, ed è la stessa cosa.

D. La tua Chiesa è un vivente strano! R. È un vivente spirituale, un vivente immortale:

perciò essa non ha di visibile che una parte di se stessa, e ne ha due invisibili, una nel mondo sopraterreno, l'altra nei cuori.

D. Ce n'è ancora un'altra, secondo quello che dicevi:

quella che precedette la sua nascita storica, formata dei giusti di altri tempi pagani, o giudei. R. Sì, poiché Cristo precedette se stesso per l'efficacia anticipata della sua azione; poiché nel pensiero di Dio, « l'Agnello di Dio è stato immolato dall'origine del mondo » (s. giovanni).

D. Si possono chiamare cristiani gli pseudo-increduli che ora hai descritto?

R. Evidentemente, poiché vivono nell'unione di Cristo. « Vi sono più cristiani che non si pensi », diceva S. Giustino. Per lui Socrate era un cristiano; parimenti Seneca per S. Agostino; altrettanto, per S. Tommaso, il centurione Cornelio, in grazia di una « fede implicita ».

D. E gli eretici, gli scismatici? R. Dal punto di vista in cui siamo, non vi sono eretici e scismatici se non quelli che dal P. Gratry sono chiamati « gli eretici del genere umano », cioè i cattivi.

D. Tu non escludi dalla Chiesa e dalla salvezza della

Chiesa se non i cattivi?

R. Sì, chiamando cattivi coloro che, per malizia o per

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grave negligenza, si rifiutano ostinatamente alla verità di Dio e alle leggi di Dio.

D. La salvezza è dunque accessibile a tutti?

R. Dio ci ama a tal segno, che una sola cosa ci può

strappare al suo amore: la nostra cattiva volontà.

D. Mi viene un dubbio circa l'autenticità di questa dottrina, così larga e così contraria a quello che generalmente si sente.

R. Mi rallegro con tè. Ma ti citerò un'autorità che ti può tranquillare pienamente, poiché si tratta di un Papa vituperato presso gl'increduli per la sua « intransigenza », il Papa stesso del Sillabo, Pio IX, nella sua celebre allocuzione del 9 dicembre 1854. « La fede — dice — obbliga a credere che nessuno può essere salvo fuori della Chiesa cattolica e romana, che è l'unica arca di salvezza, e chi non vi entra totalmente perirà ».

D. Ma ciò è spaventoso! e tu appoggi lì sopra la tua 'opinione così larga?

R. Aspetta! Lì sta quello che ho chiamato il diritto, o se si vuole la verità ufficiale, il piano autentico. Ecco ora il fatto: « Tuttavia bisogna ugualmente tenere per certo che quelli che ignorano la vera religione senza loro colpa, non possono portare agli occhi del Signore la responsabilità di questa condizione ».

D. Ma forse la colpa qui è giudicata per presunzione;

o forse ancora si rimanda a una responsabilità collettiva, come per la « colpa » originale. R. Ascolta quanto segue: « Ora chi avrà la presunzione di fissare i limiti di questa ignoranza secondo la natura e la varietà dei popoli, dei paesi, degli spiriti e

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di tante altre circostanze così numerose? Quando sciolti dai vincoli di questo corpo, vedremo Dio così com'è, noi comprenderemo per quale stretta e magnifica unione sono legate la misericordia e la giustizia divina... Ma i doni della grazia celeste non faranno mai difetto a quelli che, con un cuor sincero, vogliono esser rigenerati da questa luce e la domandano ».

-—> ( D. È davvero confortante; ma allora a che servono le opere di apostolato? Se la salvezza è dovunque, è inutile attirare la gente nella Chiesa visibile.

R. È un grande errore. La salvezza è possibile dovunque; ma non è dovunque ugualmente probabile, e soprattutto non è ugualmente facile, ne ugualmente glorioso per Cristo. A parità di buon volere, non è identica la situazione di chi è nella Chiesa e di chi ne è fuori. È forse la medesima cosa abitare in una fredda catapecchia o in una casa ben riscaldata? È forse la medesima cosa ricevere attraverso a fitti strati di nubi un luce diffusa o trovarsi in pieno sole? I mezzi che la Chiesa offre per l'uso del buon volere sono immensi; essi permettono uh progresso molto maggiore e più rapido della vita divina in un'anima; garantiscono quest'anima contro i pericoli formidabili ai quali l'altra resta esposta. Del resto tu dimentichi i bambini non battezzati, i quali, non arrivando all'età della ragione, non possono trarre beneficio ne dai supplementi interiori di cui parliamo, ne dall'azione collettiva incanalata dai riti. Aggiungi che la gloria esterna di Cristo e il beneficio comune vorrebbero una incorporazione visibile e attiva di tutta l'umanità alla società spirituale, che è come il corpo di Cristo, e, per l'apostolo, ciò è capitale.

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D. Credi tu che le Chiese dissidenti, cristiane o pagane, possano servire a questa salvezza inferiore degli individui che tu dichiari possibile dovunque?

R. Per se stesse, le Chiese dissidenti, per Cristo e per l'opera di Cristo, sono delle nemiche. Esse lacerano o disconoscono l'unità che è la legge gloriosa del mondo;

esse offrono mezzi di salvezza che non sono i veri, o che esse restringono ed alterano, "a scapito delle anime. Ma anche questa, come per i singoli individui, non è se non una verità parziale. Infatti queste Chiese dissidenti, che in tutto ciò che esse hanno di buono riflettono e rappresentano la Chiesa vera, ne possono dunque in scala ridotta e accidentalmente esercitare il compito. La Chiesa vera le avvolge in una certa maniera, come avvolge tutte le anime figlie di Dio. Utili provvidenzialmente, queste Chiese sono per l'opera autentica della Provvidenza qualcosa come dei surrogati.

D. Dei ripari, per chi non ha trovato la sua casa? R. Dei ripari occasionali: è infatti il nome che loro conviene, nello stesso modo che prima di Cristo la Sinagoga era rifugio autentico sia pure provvisorio.

D. Si può dire che Cristo è in questi rifugi? R. Egli è dovunque sono i suoi figliuoli, ma non nella stessa maniera. È a Roma in casa sua; a Benares o a La Mecca come in terra straniera.

D. Ma egli benedice il maomettano, l'indù, l'ortodosso o il protestante di nobile cuore? R. « Pace in terra agli uomini di buona volontà ».

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I SACRAMENTI

I SACRAMENTI IN GENERALE

D. Qual è l'ufficio dei sacramenti nella Chiesa? R. I sacramenti sono i mezzi di azione soprannaturale della Chiesa; perciò essi partecipano del suo doppio carattere visibile e invisibile, individuale e sociale. Sono dei segni, dei simboli, dunque delle cose esterne, e hanno un efletto nascosto; la società religiosa v'interviene, ma non senza il concorso dell'adulto che li riceve.

D. Perché dici « l'adulto »?

R. Perché il bambino approfitta di un soccorso sociale al quale non può ancora rispondere; vi risponderà più tardi.

D. A che prò adoperare simboli e mezzi visibili, in materia di vita religiosa?

R. È la natura umana che lo vuole. Tutto ci viene attraverso i sensi, comprese le idee e i sentimenti, qualunque siano i loro oggetti e la loro natura; i simboli e i gesti significativi hanno nella nostra vita una parte

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immensa, dei quali sono seriamente obbligati a tener conto coloro che si stupiscono dei riti religiosi. Anche la vita civile ha i suoi riti che non differiscono dai nostri se non per la loro sorgente e la loro efficacia.

D. Quando è Dio che opera, l'efficacia non dovrebbe dipendere da qualcosa di esterno, e meno ancora quando è l'anima che è chiamata a cooperare.

R. La verità è semplicemente al contrario. Dio agisce riguardo all'uomo coi mezzi dell'uomo, perché, unendo la nostra vita alla sua, egli intende rispettare i caratteri di questa vita, sopraelevata e non distrutta. L'uomo non è solo spirito. L'uomo è spirito senza dubbio, ma spirito incarnato — e ciò nell'unità di una sola sostanza — quello che è normale, in religione, è che l'anima umana sale verso Dio con la carne e servendosi della carne, e Dio discende pure verso l'uomo per la carne e valendosi della carne. La carne sarà così un passaggio naturale, per lo scambio religioso, tra Colui che, avendo fatto l'uomo, deve accostarlo come egli lo ha fatto, e colui che, essendo fatto così, deve rispondere all'azione divina secondo la sua propria natura.

D. Ciò però urta molti.

R. Urta coloro che sono traviati da un falso razionalismo o da orgoglio spirituale. Non c'è qualcosa di strano in ciò che Dio, per santificare l'uomo, umilmente si adatti a certi procedimenti dell'uomo, e sia l'uomo a non volerlo?

D. Ne senfi davvero l'utilità? R. Certi sacramenti visibili ed esterni hanno un'utilità religiosa manifesta; essi suscitano e dispiegano i sentimenti primordiali della natura umana; rispondono

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a tutta la vita; la dose del divino e dell'umano è ivi stabilita in conformità con la nostra debolezza e con le nostre risorse; riguardo al soprannaturale, che, dal canto suo, non si vede, ci offrono delle garanzie che contribuiscono alla tranquillità della coscienza e alla pace del cuore. Socialmente essi esprimono e affermano i nostri vincoli, mettono in comune i nostri sentimenti di fede, di buona volontà e di speranza, e così assicurano la coesione del gruppo cristiano, affermandolo davanti a tutti.

D. I sacramenti non sono solamente segni e gesti; ma utilizzano anche svariate materie.

R. Quest'uso di materie significative e attive ha la stessa importanza che il resto. Dio non usa forse la natura per crearci? Ebbene, l'adopera per ricrearci secondo la grazia. E le due cose si spiegano, perché il mondo esterno non è così esterno come può sembrare; la materia non è che l'uomo prolungato; il potere dell'anima la foggia, se l'unisce per una parte, non l'abbandona con la morte se non per riprenderla — come uno statuario che della medesima creta facesse degli abbozzi senza fine — e, col lavoro intelligente, se la sottomette in una certa misura. Ora, nello stesso modo che utilizziamo col lavoro le forze di Dio immanenti alla natura, così utilizziamo coi sacramenti la forza propria di Dio artefice di grazia. È dunque normale che nei due casi la materia intervenga come passaggio. Nel caso del lavoro è inevitabile; nel caso dei sacramenti, è conveniente.

D. Tuttavia Dio è spirito.

R. Dio è spirito; ma noi siamo carne, e nello stesso

modo per passare dalla carne allo Spirito, dalla natura

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a Dio, Cristo ci offre nella sua persona un anello di collegamento: così i sacramenti — che non fan altro che prolungare gli effetti dell'Incarnazione — saldano nel suo nome la carne allo spirito, al fine di compiere l'opera sua. Il principio è dovunque lo stesso, e l'omogeneità dei mezzi è perfetta.

D. Credi che i sacramenti abbiano un'azione effettiva, e non solamente morale?

R. I sacramenti hanno un'azione effettiva, vale a dire che il loro effetto non dipende unicamente da quello che vi apportiamo noi, ma da ciò che vi apporta Iddio. Però non tutti pensano che quest'azione sia di forma fisica, cioè si valga, per esercitarsi, degli elementi esteriori; materie, parole o gesti.

D. Quale opinione preferisci? R. Di gran lunga quella che crede a un'azione reale degli elementi; è quella di S. Tommaso d'Aquino e dei dottori più fedeli ai dati profondi del dogma.

D. Per quale ragione?

R. Perché questo quadra meglio con l'idea dell'Incarnazione fondamento di tutta la vita cristiana. L'Incarnazione è il primo dei sacramenti, il solo, si potrebbe dire; perché tutto quello che noi chiamiamo « sacramento » non è che un prolungamento della sua azione a un tempo simbolica e reale: simbolica, poiché l'Incarnazione è Dio manifestato; reale, perché è Dio che si da. Ora, siccome l'unione di Dio con l'umanità è reale, e non solamente morale, pare si debba trovare nel prolungamento lo stesso carattere che nel punto di partenza.

D. Allora come concepisci l'azione dei sacramenti? R. L'influsso divino che ci santifica si vale, come pas-

MO

saggio, dell'umanità di Cristo strumento congiunto della Divinità per la salvezza degli uomini; si vale poi della mediazione del ministro e delle realtà sacramentali, strumento di Cristo, e fa capo all'anima del fedele per mezzo del suo corpo.

D. Quest'interpretazione ti pare più cristiana dell'altra?

R. Sono cristiane entrambe; ma questa si riallaccia meglio con quello che dicevamo sopra della giustizia originale, della caduta, dell'incarnazione e della redenzione, di cui i sacramenti sono l'organo. La ritroveremo a proposito dei « Novissimi ».

D. Come puoi credere a questo approdo divino, e ciò attraverso a un Cristo scomparso, attraverso a un ministro distinto dal soggetto che subisce l'azione, attraverso a materie diverse, a gesti e a parole?

R. Non c'è bisogno di approdo. Dio è in noi; Dio è presente a tutto, e i suoi strumenti grazie a lui sono presenti a tutto ciò che egli mette in moto. L'apparenza di serietà che la difficoltà presenta dipende solo da una immaginazione legata allo spazio; Spinoza, fervente sostenitore dell'immanenza divina, non la comprenderebbe. Ora non la comprende meglio un filosofo cristiano; difatti anche noi, senza essere per nulla panteisti, crediamo all'immanenza di Dio. Immanenza e trascendenza non si oppongono affatto, ti dicevo; esse si completano. Dio è infinitamente lontano da noi per la sua natura; ci è infinitamente vicino, più vicino di noi stessi, per la sua intima azione. I sacramenti qualificano quest'azione in un modo particolare e in condizioni definite in cui Cristo, un ministro umano, mate-

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rie, gesti espressivi hanno la loro parte, ma non ne cambiano in nulla il carattere. Dio da a noi l'essere ad ogni istante, come il sole al raggio: non è forse possibile modificare a piacimento e secondo certe leggi questa luce dell'essere?

D. Non posso capire un effetto spirituale risultante da

un atto fisico.

R. L'anima nostra è spirituale, e sboccia, nel corso

della generazione, da un atto fisico. Un'idea è spirituale,

e si desta, nella mente di un uditore, a proposito di un

suono.

D. Ma il soprannaturale è qualcosa di più. R. Tè l'ho detto, il soprannaturale non è che un caso;

particolare dei piani, dei gradi che dalla materia pura a Dio contrassegnano l'esistenza; esso non può dunque provocare alcuna nuova difficoltà, benché apporti un nuovo dono.

D. Temo che questo dono, così concesso, riduca la faccenda della salvezza a una specie di meccanismo dopo tutto abbastanza comodo.

R. La comodità non è poi così grande; perché il lavoro del cielo si mette qui sotto la dipendenza di quello della terra; il contributo di Dio si misura da quello dell'uomo e non fa altro che supplire a ciò che l'uomo non può fornire. Sforzo aiutato: tale sarebbe dunque la vera definizione dell'opera sacramentale, e il sacramento stesso è un contratto di scambio, non un beneficio gratuito.

D. Credi proprio che Gesù abbia voluto i sacramenti? R. Non si può mettere in dubbio che egli abbia vo-

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luto e istituito il Battesimo e l'Eucaristia, i nostri due riti essenziali; questi devono a lui assolutamente tutto, perfino la precisione delle formule. Gli altri, precisati dalla Chiesa nel suo nome e non operanti che per la sua grazia, devono dunque a lui per lo meno l'autorità della loro istituzione e la loro efficacia, il che basta perché egli si dica il loro autore.

D. Mi sembra evidente che i riti sacramentali ''siano tolti per la maggior parte dai riti del paganesimo, anzi dalle pratiche dei primitivi.

R. Non si tratta altro che di apparenze superficiali. La Chiesa si serve dei gesti e delle formule come si prendono parole dal dizionario; ma il testo, soprattutto lo spirito del testo, è essenzialmente differente.

D. Dove sta la differenza? . R. Là si tratta di gesti cabalistici, qui di atti essenzialmente spirituali. Là si pretende di costringere un'oscura potenza; qui s'invoca Dio secondo le profferte paterne di Dio e in conformità di disposizioni con queste profferte. Là si prefiggono dei fini del tutto temporali, dei quali i cittadini sono il termine più elevato e spesso unico; qui si mettono in sintesi il divino e l'umano immortale, conforme a una dottrina sublime dei rapporti umano-divini. Da un lato, superstizione, o ad ogni modo religione nell'infanzia, anzi grossolanamente deviata; dall'altro, uso di simboli e di mezzi meravigliosamente appropriati all'espressione e al servizio delle più alte concezioni religiose, rispondenti a ciò che noi siamo davanti a Dio, gli uni verso gli altri, di fronte al fine soprannaturale e, sopra la terra, di fronte a un corpo sociale chiamato a una vita superiore e a incessanti progressi.

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D. Certi storici però pretendono di spiegare i sacramenti per via di evoluzione dai riti primitivi.

R. Qui c'è equivoco, oppure faziosità o ignoranza. L'equivoco può venire dal fatto che si confonde una evoluzione spontanea, automatica senza nuovo contributo, con ciò che Bergson potrebbe chiamare una evoluzione creatrice. Se l'uomo venisse dalla scimmia quanto al corpo, si potrebbe ben dirlo un prodotto dell'evoluzione di questo ramo zoologico; ma ciò non sarebbe se non quanto al suo corpo; tra le due ci sarebbe la creazione dell'anima, fatto nuovo, fatto propriamente umano, che rende l'umanità trascendente le sue origini fisiche. Così i sacramenti, pur precedendo se stessi nella loro materia, in queste o in quelle particolarità d'intenzione o di riti, sarebbero nondimeno tutt'altro che i loro pretesi antecessori. Un capolavoro e una grossolana cromolitografia possono aver dei tratti comuni; il primo può prendere dalla seconda; ma il genio forma la differenza, e sarebbe assurdo il dire che come opera d'arte il primo procede dalla seconda.

D. Ciononostante, come spieghi i rapporti evidenti fra tutti i riti?

R. I rapporti delle cose anche più differenti, si spiegano per la somiglianzà relativa delle circostanze in cui son nate e dei fini a cui devono servire. Ho già osservato che la vera religione deve contenere una gran quantità di elementi delle false, perché queste ultime, nate dai bisogni umani sul piano religioso, li esprimono in una certa misura, e come il cristianesimo, destinato a soddisfarli del tutto, non li esprimerebbe nella loro perfezione, adottando così l'espressione imperfetta? Tal

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è il caso dei sacramenti, dove sta una gran parte della religione.

D. Ciò si può prestare a confusione. R. Per coloro che non riflettono o che non vogliono vedere, ma non per gli altri. Quello che mette i riti cattolici fuori di parità, per rapporto a ciò che descrivono certi etnologi compiacenti, è, ancora una volta, il senso del simbolo, la portata spirituale dei riti, l'esigenza di una collaborazione morale del soggetto, la grandezza degli antecedenti dogmatici, delle mire, dei sentimenti collettivi e individuali, e, più di tutto, la unione intima e indissolubile di tutte queste cose.

D. Questi sacramenti che tu attribuisci a una causa Sovrumana, non dovrebbero avere degli effetti strabilianti? Come mai non ne hanno neppure dei percettibili?

R. Quando guardi le stelle, hai forse la percezione dei loro prodigiosi movimenti? La nostra cecità le chiama fisse, e invece quante migliala di chilometri al secondo non percorrono! Dopo una buona confessione, un'anima ha fatto un balzo di gran lunga più importante sopra le vie della vita eterna.

D. Dopo qualche istante, si avverte il movimento degli astri.

R. Dopo qualche istante, in una vita, l'azione sacramentale si nota, supposto che rette disposizioni l'accompagnino, Dopo qualche istante, nella storia dei popoli, la loro fedeltà religiosa, che è il risultato della vita sacramentale dei singoli individui, si scorge anche di più.

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D. Dici che i sacramenti rispondono, per la loro stessa concezione, a tutto l'insieme della nostra vita: come vi si applicano?

R. Vi sono sette sacramenti, ed è facile vedere che essi abbracciano la vita con un amplesso spirituale completo. La vita corporale nasce, cresce, si nutre, si difende dalle cause di corruzione e di morte, si propaga per generazione e si ordina socialmente in vista della prosperità e della pace. Nell'ordine spirituale, ci vuole altresì una nascita: il Battesimo la procura; una crescenza: ecco l'effetto della Confermazione; una nutrizione: l'Eucaristia vi provvede; uno sforzo di difesa e di eventuale guarigione: ecco lo scopo combinato della Penitenza e dell'Estrema Unzione; una propagazione o nutrizione di specie conforme a' suoi fini religiosi: ecco il Matrimonio; finalmente un governo e assetto regolare de' suoi organi: tal è l'oggetto del sacramento dell'Ordine.

D. Questi vari riti sono di uguale importanza? R. Ce ne sono due principali: il Battesimo che corrisponde all'ingresso nella vita, e l'Eucaristia che ne riproduce il fenomeno essenziale: la nutrizione.

D. E quale dei due ha il sopravvento? R. È l'Eucaristia, nello stesso modo che, in biologia, la nutrizione ha la precedenza sulla stessa nascita, visto che la nascita non è che una prima nutrizione. Nello spirituale, tutto viene in certo modo dall'Eucaristia, perché tutto viene da Cristo e dalla virtù di Cristo, immanenti all'Eucaristia. Onde sembra che Gesù abbia voluto riassumere tutte le condizioni della vita spirituale e della salvezza dicendo: Se voi non mangiate la carne del Fi-

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gliuoi dell'Uomo e non bevete il suo sangue, non avete la vita in voi stessi. Chi mangia la mìa carne e beve il mio sangue ha la vita eterna, ed io lo risusciterò nell'ultimo giorno.

D. È dunque Cristo il vero sacramento? R. Cristo è il vero sacramento. Ed anche gli altri sono veri, ma in quanto lo prolungano e operano mediante la sua persona. Ogni anima si unisce a Dio, sua salvezza, a mezzo di contatti successivi che Cristo ha stabilito e di cui l'Eucaristia è il centro di convergenza, come il Battesimo ne è il punto di partenza.

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IL BATTESIMO

D. In che modo il battesimo è un punto di partenza? R. Esso « segna » il cristiano e lo rende atto agli atti religiosi, nel che la vita cristiana consiste. È quello che si chiama il suo carattere per sempre incancellabile. Il battesimo nel nome della Trinità è il segno spirituale del cristiano, come la circoncisione del giudeo era il suo segno carnale.

D. È dunque un'iniziazione, a guisa degli antichi misteri?

R. È un'iniziazione, ma senza alcuna di quelle superstizioni che degradavano i misteri pagani. Esso fa entrare nella vera vita, la vita con Dio, che, fin da quaggiù, è una vita eterna. La vita con Dio promessa per più tardi è posta così anticipatamente in nostro possesso;

perché, dice S. Agostino, la rigenerazione battesimale e la vita dell'altro mondo non sono che una sola e medesima opera.

D. Come spieghi in questo caso il battesimo di Cristo? FacenU'ò^i battezzare sulle rive del Giordano, Gesù entrava forse nella vita cristiana? •R. Vi entrava come il sole entra nel giorno: dopo

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di lui, per la stessa via, passeranno i satelliti che siamo noi.

D. Non dici che il battesimo cancella la colpa originale?

R. Il battesimo applicandoci i meriti di Cristo, cancella la colpa originale e tutte quelle che noi abbiamo potuto aggiungervi di nostra iniziativa; ma questo non è che un preludio e una disposizione negativa. Positivamente, si tratta di entrare nel Regno de' deli terrestre, cioè nella Chiesa, in vista del Regno de' deli celeste, da conquistare mediante l'uso della grazia battesimale.

D. Il battesimo conferisce dunque una grazia?

R. Solo così può esso introdurre il cristiano nella vita

soprannaturale il cui principio è la grazia. Per il fatto

stesso che è un'iniziazione, il battesimo è dunque una

grazia, la grazia fondamentale, se così si può dire; esso

« qualifica » l'anima cristiana per il suo fine proprio; la

munisce per il viaggio, nello stesso tempo che le apre

la via.

D. Hai parlato dell'entrata nella vita cristiana come

di una incorporazione a Cristo: è questo l'effetto del

battesimo?

R. Il battesimo di fatto c'incorpora a Cristo; ossia ci

fa rivestire Cristo secondo la forte metafora di S. Paolo.

D. Che cosa significano esattamente queste espressioni? R. Essere incorporato a Cristo è far parte di ciò che chiamiamo suo corpo mistico, ossia spirituale, cioè la Chiesa. Rivestire Cristo esprime questa stessa incorporazione sottolineando il suo benefizio. Prima", noi eravamo nudi; la nostra natura peccatrice era sola; i meriti del Salvatore non la coprivano, non la corazzavano con-

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ero il male, non la ornavano come una figlia di Dio, una erede, una coerede di Cristo.

D. Non chiami il battesimo il sacramento della fede? R. È il sacramento della fede, perché la prima condizione per entrare in un gruppo religioso è aderire alla idea sociale che forma questo gruppo, ai fini che esso si propone e alle sue leggi. Ecco l'oggetto della fede. Venendo a Dio, dice S. Paolo, bisogna sapere che egli è, e che è rimuneratore, e tutto il resto di quello che egli disse agli uomini per bocca del suo Cristo per rischiarare la via eterna.

D. Allora sembra che il battesimo debba essere riservato a quelli che sono in grado di credere. Perché voialtri battezzate i bambini?

R. La fede non è unicamente dell'uomo. L'abbiamo già detto: è una grazia, e vedremo più tardi che essa è un atto comune di Dio e dell'uomo, dell'uomo che acconsente e di Dio che inclina il suo cuore. In quanto è una grazia, essa può prevenire il consenso, prepararlo e attenderlo. Perciò, riguardo al bambino stesso, il battesimo si chiama illuminazione. Per sottolineare l'azione inferiore dello Spirito Santo, alla quale più tardi si darà l'adesione.

D. Perché questa anticipazione? Perché una società spirituale ammette colui nel quale non ha ancora palpitato lo spirito?

R. La vita cristiana è più larga di questa obiezione individualista. Soprannaturalmente come secondo la'natura, noi siamo una stirpe; l'individualità sboccia in grembo alla stirpe; essa segue, ma non precede, come abbiamo spiegato studiando la Chiesa. Come dunque

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un padre, in seno a una patria, iscrive suo figlio allo stato civile, lo impegna in una corrente di vita materiale, intellettuale e morale che il bambino non può controllare, ma che egli giudicherà un giorno, quando sarebbe troppo tardi per ottenerne il pieno benefizio: così un padre, in grembo alla Chiesa che ha benedetto la sua unione e ne attende i frutti, introduce suo figlio là dov'è lui stesso, là dove crede sia la via, la verità e la vita. A questo figlio, più tardi, spetta di giudicare il dono che egli ha ricevuto, di sanzionarlo con la sua libera accet-tazione; salvo che egli non preferisca o non creda di dover ripudiare insieme Dio e l'amorosa pietà paterna.

D. Ammetti che si rigetti così il proprio battesimo? R. Non l'ammetto certamente. Se non è un grande delitto, è ad ogni modo una grande disgrazia.

D. Ciò non può essere altro che una disgrazia? R. Sì, nel caso di quell'errore che noi chiamiamo invincibile.

D. Ma la grazia del battesimo si può perdere senza colpa?

R. No; ma nel caso contemplato, la grazia del battesimo non «sarebbe perduta. Abbiamo detto che si può avere la grazia senza saperlo ed essere figli di Cristo anche nell'incoscienza.

D. Sono casi strani.

R. .Strana è la nostra vita; ma Dio è pieno di giustizia

e di misericordia.

D. Perché l'entrata nella vita cristiana ha luogo sotto

il segno dell'acqua?

R. La ragione essenziale è che l'entrata nella vita cri-

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stiana suppone come condizione negativa, come dicevamo, la cancellazione del peccato, il ripudio dell'antico stato di allontanamento in cui era la nostra stirpe in rapporto a Dio. Il simbolo dell'acqua è indicatissimo:

come l'acqua lava il corpo, così la grazia di Cristo purifica l'anima nostra. ,

D. Vi sono altre ragioni? R. Ce n'è una più profonda, benché meno immediata. Le tradizioni umane hanno sempre accostato l'elemento liquido all'origine prima delle cose, come per un'anticipazione delle teorie moderne che traggono la vita dal fondo dei mari. Sotto questo aspetto, il battesimo vorrebbe dire: Tu che nascesti dal mare, ripiombati in questo Mare più profondo: nella Divinità di cui l'acqua del mare non è che uno zampillo. Origine delle origini, sorgente delle sorgenti, in essa tu devi perderti un giorno, per ritrovarti veramente, e fin d'ora, per la grazia e per la santa vita, essa deve comporre il tuo ambiente interiore, come l'acqua del mare, ambiente originale della vita, bagna le tue membra.

D. 5; tratta proprio di una concezione tradizionale? R. Io l'ho presa dagli antichi dottori, e l'ho modernizzata solamente nella forma. Essi aggiungono più semplicemente che la freddezza naturale dell'acqua e la sua purezza refrigerante sono il simbolo del rinfrescamento che la grazia oppone a quell'eccitazione carnale, figlia del peccato originale, che ci trascina al male. L'acqua, essendo diafana, significa ancora la ricettività dell'anima in rapporto ai lumi divini. Quando s'immergevano i catecumeni, nelle cerimonie più complete di una volta, vi si vedeva altresì, con S. Paolo, una specie di morte e di sep-

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pellimento, seguiti da una risurrezione, come se l'uomo vecchio soggetto al peccato fosse annegato e lasciasse il posto all'uomo nuovo generato dall'azione di Cristo. D. Il battesimo è indispensabile alla salvezza? R. Il battesimo è indispensabile alla salvezza al medesimo titolo che l'incorporazione a Cristo, l'adesione a Dio per mezzo di Cristo, e l'entrata nella Chiesa di Cristo. D. Allora chi non è battezzato è perduto? R. Ciò non ne segue affatto, poiché noi sappiamo che l'incorporazione a Cristo, la vita in Dio per Cristo e l'appartenenza alla Chiesa spirituale se non alla Chiesa visibile, possono avere luogo senza alcuna condizione esteriore.

D. Adunque il mezzo di salvezza chiamato battesimo non è un mezzo necessario?

R. Assolutamente e senza eccezione, no, poiché esso comporta dei supplementi morali; ma è nondimeno il mezzo necessario in diritto, il mezzo ufficiale, il mezzo sociale; di modo che, se da una parte la società spirituale non l'applica punto, e se, d'altra parte, il soggetto non reca o non può recare nessun supplemento morale, la salvezza come la intendono i cristiani non si potrebbe ottenere.

D. Perché queste precauzióni di linguaggio? R. Tè ne renderai conto; ma tu devi tener presente che qui si tratta specialmente dei piccoli esseri che non arrivano all'età della ragione e muoiono senza battesimo.

D. Vuoi che questi piccoli si dannino? R. La parola dannazione, ammessa un tempo, dev'essere eliminata, perché suggerisce un'idea falsa. Parlando del peccato originale, abbiamo detto: Esso implica una

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colpevolezza della stirpe, ma per nulla una colpevolezza personale. Ora, osserva S. Tommaso, un soggetto personalmente innocente non potrebbe giustamente essere privato dei beni della natura, benché. si possa giustamente, nel nome di una responsabilità solidario, privarlo dei benefici gratuiti concessi alla sua stirpe e da essa perduti. Ne segue che l'anima immortale sfuggita da questo mondo senza rigenerazione battesimale non può, senza dubbio, accedere al soprannaturale, ottenere la salvezza cristiana, che è una vita sublime nella Trinità; ma noi crediamo alla sua beatitudine naturale, senza pur avere nessuna nozione positiva riguardante questo stato.

D. Ma ciò è ingiusto! Perché l'uno è battezzato, mentre l'altro non è battezzato?

R. Non giudichiamo la Provvidenza. Abbiamo riconosciuto più sopra la nostra incompetenza in simili questioni. Del resto, si può sfidare chiunque a trovare qui ombra d'ingiustizia?

D. Non vi è ingiustizia a trattare diversamente quelli che non hanno agito diversamente?

R. Il bambino battezzato e il bambino non battezzato non hanno agito diversamente, poiché non hanno agito affatto. Ma il primo, non avendo fatto niente personalmente, trae beneficio da un'azione collettiva e deve essere riconoscente. Il secondo, non avendo parimenti fatto nulla, non ha avuto la medesima felicità: è una felicità in meno e non ne può essere afflitto; non ci si può affliggere per lui; ma poiché non ha fatto niente e non gli toglie niente di ciò che appartiene al suo caso normale, come si potrebbe parlare d'ingiustizia? Av-

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viene come di un bambino nato nella Guayana da parenti deportati, e i cui fratelli per una felice sorte fossero ricondotti in patria. Questi avrebbero da lodare Dio; ma l'altro non ha da elevare sdegnose rivendicazioni. Non è punito personalmente. La Guayana permette di vivere. Se un fortunato ritorno nel suo paese gli è rifiutato per un fatto d'una responsabilità di famiglia, è un affare negativo; molte fortune positive gli restano, e se la deportazione della famiglia fu giusta, non vi è ingiustizia.

D. Ad ogni modo vi è disuguaglianza. Perché questo, e non quello? Si capisce questo in un ordine umano; ma non in un ordine divino.

R. L'ordine divino non è indipendente dall'ordine umano; esso l'avvolge; lo rispetta; lo utilizza e si compone con esso. La sorte stessa, come abbiamo detto, entra nella Provvidenza.

D. Ma gli esseri devono soffrire dell'evento provvidenziale?

R. Ancora una volta, non si tratta di soffrire. Noi non martirizziamo nessuno. Si tratta dell'assenza non dolorosa di una felicità di soprappiù, di una felicità non sperimentata, alla quale il soggetto non è naturalmente adatto, che noi stessi, che patrociniamo in suo favore, non immaginiamo neppure, di cui spesso, troppo spesso non ci curiamo, che tutt'a un tratto ci ritorna in mente per accusare la Provvidenza. Il gioco non è serio. Il non battezzato appartiene a un'altra classe di esseri, ecco tutto. Il suo destino risponde alla sua classe; esso è buono; è anch'esso creato per lodare Dio, e se egli si lagnasse perché altri, in ragione della stessa Provvidenza, ebbero accesso a una felicità più grande, Dio gli

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potrebbe rispondere quello che il padrone della vigna rispose agli operai gelosi della parabola: Non sono libero di fare quello che voglio? o bisogna che il vostro occhio sia cattivo perché io sono buono?

D. Dio può essere inegualmente buono? R. Dio non può essere inegualmente buono in se stesso, essendo la bontà infinita; ma guardando agli effetti, se Dio fosse ugualmente buono, siccome la sua bontà è la causa degli esseri, tutti gli esseri sarebbero uguali in tutte le maniere; non vi sarebbero neppure scambi; non vi sarebbero movimenti e progresso; non vi sarebbe universo.

D. Ciò pare strano.

R. Penetra bene l'idea, che del resto abbiamo già incontrato a proposito della Provvidenza, e vedrai che esigere l'uguaglianza, sotto il falso nome di giustizia, sia nel mondo materiale sia nel mondo morale, è negare l'universo.

D. Non vedo alcuna difficoltà in un universo in cui tutti sarebbero salvi.

R. Provati a costruirlo senza perpetui miracoli: non ci riusciresti.

D. Ritorno al caso dell'adulto. Tu dici che egli può supplire, con le sue disposizioni, all'assenza del battesimo?

R. Sì, a condizione che il battesimo non sia disprezzato o gravemente trascurato, ma ignorato, o impossibile, sia materialmente, sia moralmente.

D. Allora che cosa è che supplisce? R. Il buon volere che implica l'adesione esplicita o

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implicita ai mezzi stabiliti da Dio, e per conseguenza al

battesimo.

D. Dunque il battesimo, sotto questa forma indiretta,

è ancora il mezzo di salvezza,

R. Sì, si può dire, ed è ciò che vuoi significare la

celebre distinzione dei tré battesimi: battesimo d'acqua,

battesimo di sangue e battesimo di desiderio.

D. Che cosa è il battesimo di sangue? R. È il martirio, nel caso in cui vi è assenza involontaria del battesimo d'acqua, ma in cui il dono di sé spinto fino all'eroismo prova sovrabbondantemente il buon volere che noi abbiamo richiesto.

D. E il battesimo di desiderio? R. Là dove il desiderio del battesimo è esplicito, la espressione si comprende da se stessa. Se il battesimo è ignorato o involontariamente sconosciuto, il battesimo di desiderio si compendia nella conversione del cuore, come dice S. Agostino, cioè, sotto l'impulso della grazia, nell'amore del bene divino così come è appreso, e nella disposizione sincera a prenderne i mezzi, appena saranno conosciuti.

D. Tu chiami questa semplice disposizione un battesimo?

R. Sì, perché essa costituisce una specie di battesimo in intenzione; perché assicura d'altra parte i frutti del battesimo reale e incorpora colui che vi accede non solo a Dio, che vede il cuore, ma alla Chiesa stessa, non alla Chiesa gerarchica, visibile, poiché, per ipotesi, essa è sconosciuta o disconosciuta, ma alla Chiesa intcriore, invisibile e universale, di cui l'altra non è che il simbolo e il mezzo.

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LA CONFERMAZIONE

D. Che cosa è la Confermazione? R. È un rito complementare del battesimo, che una volta si celebrava nel medesimo tempo, e il cui significato è quello di un accrescimento: accrescimento di grazia dalla parte di Dio; accrescimento di buon volere e di fedeltà, nel cristiano, riguardo alle realtà superiori.

D. Perché fare ciò in due volte? R. Perché la nostra vita è soggetta al tempo, e per seguire sempre più le condizioni del simbolismo, che è alla base delle nostre istituzioni sacramentali. Vi è un sacramento della nascita spirituale; vi è un sacramento della virilità spirituale, dell'età adulta, atta all'azione fruttuosa e alla lotta.

D. Ci dovrebbe dunque essere anche un sacramento della vecchiaia.

R. Nel mondo dello spirito, non c'è vecchiaia; la vita cristiana deve normalmente crescere sempre, fino al-perfetto che la vita eterna realizza.

D. A che età si conferisce il sacramento della virilità? •K. A un'età qualsiasi, per quella stessa ragione d'indi-

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pendenza dello spirituale, e specialmente del soprannaturale, rispetto alla vita fisica. Come il « sacramento della fede » a chi non può attualmente credere: così il sacramento della fortezza si può conferire a un debole bambino. Aggiungi che di questa fortezza il bambino sa dare esempi all'uomo. I sette figli di Felicita, saldi davanti alle tanaglie e alle caldaie, o il giovane Tarcisio morente con l'Eucaristia sul suo cuore, provano che anche per l'eroismo religioso « il valore non attende il numero degli anni ».

D. Il « confermato » è dunque una specie di soldato? R. È anzitutto un perfetto cittadino, per una stretta e -ferma ubbidienza alla legge sociale cristiana. Per l'esterno, è un soldato di fatto; il sacramento lo fa entrare in uno stato marziale, gli suggerisce uno spirito di diffusione e di conquista e, come oggi giustamente si preferisce dire, di testimonianza: « Voi sarete miei testimoni », disse Gesù ai suoi. Gli si fa capire che essere illuminato vale quanto essere delegato alla luce per il mondo che è nelle tenebre; essere elevato a un piano superiore di vita vale quanto essere invitato a tendere la scala agli altri, ed essere arruolato da Cristo in una schiera spirituale sempre militante significa che si deve « combattere la buona battaglia » per la comune vittoria.

D. Chi è incaricato di questa promozione, di questo conferimento di grado?

R. Naturalmente il capo supremo di ciascun .gruppo religioso: il Vescovo. Un'azione completiva riguarda colui che è rivestito della pienezza del sacerdozio. L'artista ritocca il marmo, dopo il lavoro dell'abbozzatore.

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D. Che materia adopera questo sacramento? R. Poiché si tratta di fortezza, l'atletismo offre naturalmente l'arsenale delle immagini. L'atleta antico ungeva d'olio il suo corpo, per fortificarlo, proteggerlo, per renderlo flessibile nelle lotte corporali. Si ammetterà l'unzione, e l'olio, che ne è la materia, come segno del rafforzamento dell'anima e della sua preparazione alle lotte cristiane. Di più, dovendo la virilità cristiana impiegarsi ad aiutare la vita attorno a sé, si aggiunge all'olio dei forti il balsamo, per significare che nello spirituale, il profumo che si spande, vale a dire l'esempio, è una forza. Donde questa espressione: II buon odore di Cristo, spesso usata da S. Paolo in poi.

D. Come sono adoperate queste materie? R. Si fa l'unzione in forma di croce, come s'impone la spada o il vessillo al cavaliere, per invitarlo alle battaglie per la giustizia. Si segna la fronte, come il luogo più nobile e il più manifesto, quello su cui si afferma la saldezza dell'atteggiamento, come, in caso di debolezza, vi si manifesterebbe il rossore della timidezza o il pallore della paura.

D. Attribuisci a queste unzioni un effetto intcriore? R. Noi crediamo che l'anima tragga il beneficio di una grazia, e che essa, come il corpo, sia segnata di un carattere che le faciliterà la realizzazione dei simboli. Come gli Apostoli, nel Cenacolo, furono trasformati, in vista di tutta la Chiesa, dalla venuta dello Spirito: così noi crediamo a una misteriosa conformazione dell'anima, in rapporto con ciò che abbiamo detto della grazia e dell'azione dello Spirito Santo.

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D. Ci dovrebbe dunque essere qui, come nel Cenacolo. qualcosa dì strepitoso.

R. Si suonano le campane per la comunità; ma non si suonano per l'entrata d'un fedele alla Messa. Nel Cenacolo ebbe luogo la confermazione solenne della Chiesa:

donde le lingue di fuoco, segno di conquista ardente e di comunicazione collettiva, e il vento violento, che corre gli spazi della terra e del mare, come i portatori della Buona Novella. Per la confermazione intima di un semplice cristiano, non c'è bisogno di strepito.

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L'EUCARISTIA

D. Hai detto che il sacramento centrale, sacramento per eccellenza, è l'Eucaristia?

R. Ne ho detto la ragione, ed è che esso ha per scopo la nostra nutrizione spirituale, e la nutrizione, per un vivente, non solo è la funzione più importante, ma in certo modo, anche la funzione unica. Una creazione organica non è che la nutrizione e la segmentazione di un germe; uno sviluppo è una nutrizione che prosegue; un funzionamento è una nutrizione che implica una disassimilazione consecutiva, che sprigiona della forza e l'adopera; la morte non sarà che un denutrizione non compensata, come ogni malattia, ogni indebolimento non è che una denutrizione parziale, o una nutrizione non adatta o insufficiente o sregolata.

D. Un tale raffronto tra la vita fisica e la vita spirituale è rigoroso?

R. Vi è solo una differenza, essenziale, è vero; ed è che la nutrizione fisica assorbe l'alimento nel nostro corpo; la nutrizione eucaristica fa il rovescio; essa incorpora noi a Cristo, per unirci a Dio. L'alimento è qui

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il più forte: alimento vivo, simile a una preda che divora il suo cacciatore, ma per portarlo a uno stato di vita a cui è bene salire, poiché noi non cresciamo e non possiamo definitivamente vivere se non a patto di entrare in comunione con il divino.

D. Dunque l'Eucaristia ha secondo tè un effetto generale: la vita?

R. Sì, la vita, sia nel suo sostentamento, sia nella sua gioia, nel suo progresso, nella sua riparazione, nel suo compimento, fino alla vita eterna.

D. La nutrizione non impedisce la morte. R. La nutrizione spirituale impedisce la morte, perché essa non disassimila niente, tranne il male; perché essa ci fa crescere incessantemente e ci spinge solo avanti, capace, con Dio, di vincere la morte a beneficio del corpo stesso. Io sono la risurrezione e la vita; colui che crede in me, quand''anche fosse morto, vivrà, e colui che vive e crede in me, non morrà in eterno.

D. Tu hai presentato questo come l'effetto dell'Incarnazione e della Redenzione.

R. Per questo l'Eucaristia è una incarnazione e una redenzione continuate nello stesso tempo che figurate in simboli. In grazia della presenza reale, Gesù è lì, misteriosamente. Per lui, l'Essere degli esseri e l'Anima delle anime, lo Spirito Santo, si unisce a noi. L'opera della redenzione si realizza corpo a corpo, se posso dire così, ed è proprio così, poiché il corpo di Cristo è qui lo strumento del suo Spirito per l'opera perpetua e per sé immortale di questo Spirito. Non vi è come condizione altro che l'espropriazione dell'io peccatore; vi lavora lui stesso,

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D. L'Eucaristia è dunque un rito individuale? R. • È un rito essenzialmente sociale, ma dove l'individuo ritrova se stesso, come una patria felice forma la felicità del buon cittadino.

D. Qual è l'aspetto sociale dell'Eucaristia? R. È d'incorporarci a Cristo insieme, nel nome della carità, vincolo della comunità, e di una carità non puramente sentimentale, ma organica.

D. L'effetto dell'Eucaristia sarebbe così la vostra società stessa!

R. È quello che dice S. Tommaso, perché l'effetto di questo sacramento è l'unità del corpo mistico di Cristo, cioè della Chiesa. Toccando Dio, io tocco tutto l'universo umano; l'umile frammento bianco è dovunque il centro.

D. Gli effetti individuali derivano di lì, o è l'opposto? R. Dire che è l'opposto, sarebbe essere protestanti. Prima è la Chiesa. Non è che degli individui si amino prima in Cristo, e poi si costituiscano in Chiesa; essi ubbidiscono alla legge di quest'organismo spirituale che è la legge dell'amore, appunto perché formano una Chiesa in Cristo. L'Eucaristia è una Comunione, e tu sai qual è per noi il largo senso di queste parole.

D. Il simbolismo del pane e del vino non indica

questo.

R. Lo indica. Il pane è fatto della moltitudine dei grani che la farina mescola e il fuoco unisce; il vino, della moltitudine degli acini che il tino raccoglie e la cui fermentazione non forma più che una sola cosa. Ecco il simbolo dei cristiani uniti a Cristo, fermento vivente

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della massa umana. Non siamo che un solo pane noi tutti che partecipiamo allo stesso pane e allo stesso calice (s. paolo). Aggiungi che l'idea del banchetto eucaristico accentua questo simbolismo, liberandolo da ogni sottigliezza.

D. Tutto questo è solo relativo al presente. L'Eucaristia non è anch'essa e prima di tutto una commemorazione?

R. Relativamente al passato, l'Eucaristia è di fatto la commemorazione e, più ancora, il rinnovamento mistico della Passione del Salvatore e delle sue preparazioni universali, come si dice nella Messa. Appunto per questo la diciamo un sacrificio.

D. In che modo è un sacrificio e nello stesso tempo un ricordo?

R. È un ricordo che si ripete, come in un giorno anniversario si rinnova l'amore. È dunque un sacrificio reale, benché puramente spirituale, spoglio di ogni apparato cruento e ridotto alle realtà dell'anima. Cristo si offre lì di nuovo a suo Padre, e anche noi lo possiamo offrire. La redenzione, ti dicevo, ricomincia per ciascuno di noi, cioè raggiunge i suoi partecipanti e si applica nominatamente a ciascun'anima, come al gruppo attuale delle anime.

D. E si tratta anche dell'avvenire? R. Relativamente all'avvenire, l'Eucaristia presagisce, prepara e anticipa l'unione definitiva degli eletti con Dio, per Cristo, nella Chiesa eterna. Sotto questo aspetto essa si chiama viatico, parola che si applica specialmente ai morenti, ma che vale per tutti.

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D. In che modo presagisce?

R. Facendo venire incontro a noi, sulla via, Colui

verso il quale noi camminiamo.

D. In che modo prepara?

R. Con grazie di buona vita, mezzo della beata vita

eterna.

D. E in che modo anticipa?

R. Dando già a noi, benché sotto forma nascosta e in attesa, quel pane del cielo del quale siamo affamati senza saperlo, cioè Dio.

D. L'Eucaristia è così per tè una specie di cielo? R. In ogni luogo del mondo dove c'è un tabernacolo, e in ogni anima che si comunica con disposizioni convenienti, vi è un cielo.

D. Vi sono tabernacoli e gente che si comunica dappertutto.

R. Dunque dappertutto vi è il cielo. La nostra terra è nel cielo. La nostra terra è un cielo. Con l'aurora, ininterrottamente, la nostra Messa gira attorno al globo;

essa lo desta al soprannaturale, lo rischiara, lo affascina, lo commuove, lo trascina dolcemente, ed è, spiritualmente, l'Eucaristia « che fa girare la Terra » (leone bloy).

D. Viviamo dunque tra le meraviglie? R. Ma che un inconcepibile accecamento ci nasconde.

D. Come mai un tale accecamento è possibile nei. credenti?

R. Noi siamo povere creature terrene, e il nostro attacco alla terra fangosa chiude il nostro spirito a questa invasione del cielo.

367

D. Per lo meno i Santi hanno il sentimento del mistero? R. Il santo curato d'Ars disse: « Se si sapesse che cosa è la Messa, si morrebbe ».

D. Ma se voi avete veramente fede, potete qui star-vene inerti e fiacchi, e ancor più peccare, dopo il bacio tenero e puro della Comunione? R. Ancora una volta, l'essere umano è un abisso d'incoscienza, di miseria, d'instabilità inferiore, di oblio. La « distrazione » pascaliana e le insidie di questo mondo riescono a trionfare di una fede fragile.

D. Ecco; io ti ho lasciato dire; ma quante difficoltà arrestano la mente di fronte a tali fantasie! R. Sono fantasie « divine », e che si cada in stupore davanti ad esse non dovrebbe essere che per riconoscenza e per ammirazione. •

D. Questa fantasia « divina » non si trova più o meno in tutte le religioni, in cui l'unione al dio mediante un rito di manduc azione è comune? R, Fai bene a parlarne con precauzione; perché sono tali le differenze tra una religione e l'altra, e sono così fondamentali, tra tutte le altre e la cattolica, che non si ha il diritto ne di trovare qui una legge, ne soprattutto di applicarla ai riti eucaristici.

D. Tuttavia, se questa legge esistesse... R. Si potrebbero costruire sopra di essa due ipotesi:

o la legge ha giocato affatto da sola presso i primi cristiani e ha fatto loro inventare l'Eucaristia; o questa legge, fondata in natura, è Stata per questa ragione soprannaturalmente soddisfatta da Cristo che istituiva l'Eucaristia.

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D. Chi dirà quello che è veramente stato? R. I testi e i fatti. Ci sono i Vangeli, e fuori di essi nessuno può dire in quale momento e da chi l'Eucaristia sarebbe stata inventata. Ciò dovrebbe essere al più tardi vent'anni dopo la morte di Gesù; infatti, fin da quel momento, in quel gruppo, si crede alla presenza reale. Questo gruppo è composto di Giudei, che provano tutte le pene e le difficoltà possibili a distaccarsi dai riti mosaici, dalle credenze mosaiche: chi crederà che abbiano essi stessi, e così presto, operato una tale rivoluzione?

D. Si tratta proprio di una rivoluzione? R. È la fondazione di una religione nuova. Al cristianesimo è tutt'altro che indifferente essere con o senza l'Eucaristia, proprio come con o senza l'Incarnazione;

tolta l'Eucaristia è distrutto il cristianesimo.

D. Il cristianesimo cattolico è dunque essenzialmente

eucaristico.

R. È proprio così, poiché, come ti ho già detto, il

frutto dell'Eucaristia è la stessa organizzazione cattolica.

D. Allora come si spiega che la materia dell'Eucaristia non è punto cattolica, se cattolico vuoi dire universale? Il pane e il vino sono prodotti mediterranei, ai quali si sostituiscono altrove, come alimento comune, il riso, le patate, le banane, la birra, il latte e l'acqua.

R. Non hai tolto questa difficoltà da Paolo Valéry?

D. Sì, e mi sembra seria.

R. Fortunatamente per lui, Paolo Valéry disse cose più serie. Non bisogna forse che un rito, per quanto destinato a diventare universale, cominci in qualche

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parte, e sotto una certa forma? -Se il cristianesimo fosse nato nelle Indie, è probabile che la materia dell'Eucaristia sarebbe stata diversa, e sarebbe nondimeno il simbolo dell'alimento spirituale, scelta col medesimo spirito di semplicità, e nella sua doppia forma.

D. Essa non converrebbe maggiormente a tutto l'universo.

R. Perché? E come mai questa difficoltà, di fatto, non è avvertita in nessun luogo? Non si consacra forse nelle Indie, nella Cina, nella Lapponia, dovunque, con del pane e del vino? Si porta la mitra solamente in Persia o il pallio solamente a Bisanzio? Come Cristo fu giudeo, e ciò non gl'impedisce di essere uomo universale, così il pane e il vino, simboli tolti dal paese d'origine del cristianesimo, non ripugnano affatto a diventare, per l'uso religioso, usanza generale. Essi hanno allora il vantaggio di ricordare costantemente a tutti gli uomini la culla della loro credenza, come i Musulmani pregano rivolgendosi verso La Mecca, come noi stessi ci riserbiamo in Cina di servirci almeno entro certi limiti del latino. Sotto pretesto di universalità, ci si vorrebbe forse imporre, nel rito, un volapuk o un esperanto?

D. Vi è però qui una difficoltà.

R. Ed è quella di quel buon negro, che non capiva che

gli si volesse imporre un Dio bianco.

D., Ma vi è ancora qualcos'altro. Questa idea di sostanza che voi introducete nel dogma eucaristico, appartiene a una filosofia particolare, a un modo di pensare che non è quello di tutti gli uomini, sotto tutte le latitudini.

R. L'idea di sostanza non s'introduce in alcun modo

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nel dogma a titolo d'ingrediente filosofico, con un significato rigorosamente tecnico, ma nel significato più corrente e comune a tutti. Tutto il mondo, praticamente, distingue tra il pane e le apparenze del pane, tra il vino e le apparenze del vino. Devi ammettere che dopo la consacrazione non vi sono più del pane e del vino altro che le apparenze, e che al posto, per una sostituzione totale — che si chiama transustanziazione, perché bisogna pur servirsi di parole — vi è il corpo e il sangue di Cristo, ecco tutto quello che ti si domanda. Il resto è interpretazione, sistema, linguaggio, non più il dogma imposto alla fede.

D. In realtà, questa parola sostanza fu tolta da una filosofia.

R. È questa una questione di storia, non una questione di dogma. La religione si vale delle parole coniate dalle scuole filosofiche come delle altre parole, ma senza infeudarsi ad alcuna scuola; non si tratta che di comodità di espressione, e tu non hai bisogno di sapere/quello che Aristotele pensi della sostanza, per concepire esattissimamente il mistero dell'Eucaristia.

D. Come puoi credere davvero a una tale sostituzione di realtà tangibili, a un tale gioco di apparenze, in una parola, a una tale fantasmagoria? R. Non vi è nessuna fantasmagoria; le apparenze, prima e dopo, sono perfettamente reali, della realtà che conviene alle apparenze; i nostri sensi non sono dunque ingannati; la nostra ragione, illuminata dalla fede, non inganna. Non si può in alcun modo parlare di inganno. Vi è solo un miracolo.

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D. Tutta una sèrie di miracoli, e dei meno credibili. R. Scusa, caro incredulo, ma ecco cosa ne pensa Pascal: « Come abomino queste sciocchezze, di non credere l'Eucaristia, ecc.! Se il Vangelo è vero, se Gesù Cristo è Dio, che difficoltà vi è qui? ».

D. Tuttavia dici tu stesso che Dio si arresta di fronte alla contraddizione. E non è contraddittorio che uno stesso corpo sia nello stesso tempo qui è là? Se è qui, non è là.

R. Potresti spiegarmi che cosa è qui e là, che cosa è realmente lo spazio, e quale relazione precisa mantiene l'essere localizzato col suo luogo? Ignori tu che nessuno al mondo ha mai detto nulla qui di perentorio e che tutti possano ammettere? Ora come sai tu che Dio non può collocare una cosa in due luoghi, se non sai ne che cosa è collocare, ne che cosa è un luogo? Non ammetti anche tu che un corpo, se non può essere qui e là simultaneamente, può esserci successivamente? E puoi tu dire che cosa è successione, che cosa è simultaneità, nozioni che i nostri più sottili filosofi si sono arrovellati a definire senza riuscire a mettersi d'accordo? Del resto, noi non diciamo che il corpo" eucaristico "sia posto qui e là, ma diciamo che vi è presente, e ciò non è la stessa cosa. La presenza non utilizza necessariamente lo spazio, pur manifestandosi nello spazio. La presenza eucaristica è indefinibile per noi; essa ci spinge a pensare che il Creatore della materia e dello spirito dia in questo caso alla materia qualche cosa delle proprietà dello spirito. Ma che importano le nostre supposizioni o le nostre ignoranze? Per quanto misteriosa

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essa rimanga, ci basta che la presenza reale sia reale, perché noi ne abbiamo la consolazione e il beneficio.

D. Non posso trattenermi dal pensare che l'abitudine ti acciechi e non veda più quello che vi è di strano in espressioni come questa: « ricevere il buon Dio », o « dare il buon Dio ».

R. Queste espressioni sono per noi vere d'una verità letterale, e che non dev'essere attenuata. Ma forse l'accecamento non è dove si pensa, e forse qui un'altra « abitudine » si deve denunciare. Quanto facilmente noi ci assuefacciamo alle cose quotidiane! Noi tracanniamo i misteri come acqua. Eppure, mangiando un frusto di pane ordinario, respirando il profumo d'un fiore, non siamo noi veramente e intimamente al contatto di Dio? Dio è ovunque; Dio è in tutto. Se nell'Eucaristia egli è più che altrove, perché vi è più della sua azione, chi s'incaricherà di definire questo « più », non potendo definire il meno, e chi pretenderà di obiettare a proposito di questo più, non avendo nessuna norma da proporre per distinguerlo del meno, dunque per giudicare qui del possibile e dell'impossibile? « O presuntuoso! » ci direbbe sempre Pascal.

D. Voi allora credete di possedere Dio? R. Dio si fa possedere da noi come noi possediamo le cose, e assorbire nell'intimo della nostra carne mortale come noi mangiamo il pane.

D. È fare un gran conto nei suoi sentimenti! R. I suoi sentimenti, come pure la sua potenza, ci furono mostrati nella sua creazione, nella sua redenzione, nella sua vita temporale, nella sua morte, e non spetta a noi segnar loro dei limiti.

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D. Non sarebbe sufficiente una bella commemorazione e un ricco simbolo? I protestanti se ne accontentano. R. I protestanti si accontentano di troppo poco, e si permettono di dare delle lezioni al Vangelo. Spetta forse a noi d'interpretare secondo la nostra convenienza — che qui conviene così poco — parole così solenni? U-n simbolo, per quanto ricco sia, non è una realtà, ne un pasto commemorativo, una presenza. La presenza reale di Cristo in mezzo a noi non può mancare di avere degli rii etti che non produrrebbero affatto quello che il grande Arnauid chiamava V Assenza reale. Lì sta veramente, come dice Gerbert, il « dogma generatore della pietà cattolica » e la sorgente degli effetti di sanità che ti additavo.

D. Anche i simboli hanno un loro effetto. R. Noi lo riconosciamo e ce ne serviamo; è una parte dell'effetto sacramentale; ma a parità di disposizioni, potresti tu paragonare l'effetto d'una Comunione cattolica, anzi d'una « visita al SS. Sacramento » fatta con la certezza d'una divina presenza, all'effetto d'una metafora e d'un pio ricordo? Noi siamo, anzitutto, esseri dotati di sensibilità, e solo dopo siamo esseri dotati d'immaginazione. Per raccogliere tutte le nostre forze in vista di un vantaggio spirituale così diffìcile e così necessario, quale invenzione meglio adatta e più evidentemente divina di questa! « La Santa Ostia, per la quale l'uomo partecipa alla Divinità ed è obbligato a mostrarsene degno, mi sembra di una così inconcepibile bellezza, di una potenza così enorme, che stabilisce nello stesso tempo la superiorità del cattolicismo e la sua ispirazione soprannaturale » (renato schwob). Non

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senti tu quello che vi è di ammirabile e di ben degno di una religione dell'uomo, nel fare così di Dio un'intima e quotidiana realtà?

D. Questa realtà è troppo umana per un Dio. R. Dal momento che si è dato all'umanità, il nostro Dio va sempre a fondo, e gli estremi dell'amore sono per lui una specie di necessità, come lo sono per noi stessi. Chiunque ha amato intensamente lo comprende.

D. Dunque attribuisci l'Eucaristia all'amore? R. Essa è la pazzia dell'amore.

D. La pazzia, in Dio?

R. La pazzia è il mistero dell'amore. L'amore è il mistero di Dio. Tutto si compendia in queste semplici parole di S. Giovanni: Noi crediamo all'amore divino.

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LA PENITENZA

D. Quale posto tiene il sacramento della penitenza nell'economia cristiana?

R. Lo stesso posto che il peccato nella vita. La religione, avendo da fare con l'uomo, non poteva dimenticare il peccatore; non poteva abbandonarlo a se stesso;

bisognava trovar un rimedio e ingegnarsi per riuscire, per farci riuscire, ad onta delle nostre costanti sconfitte.

D. Che cosa intendi per peccato?

R. I cristiani lo definiscono un'offesa a Dio, o una

disubbidienza alla legge di Dio.

D. Si può offendere Dio?

R. È possibile, purtroppo, ed è una grande sventura se si bada al fatto; se poi si richiama alla mente il nobile privilegio che lo permette: la libertà, è il triste prezzo di una gloria.

D. Offendere Dio!... Io penso al verso di Vietar Hugo ne La Conscience: « E nella notte si lanciavano frecce contro le stelle ».

R. Se le stelle fossero vive, si offenderebbero del gesto, benché perfettamente tranquille per i suoi

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effetti. Impotenza non significa irresponsabilità o innocenza.

D. Se non si nuoce?

R. L'essere a cui non si potrebbe nuocere, a cagione della sua grandezza, è quello che si deve venerare di più, dunque è quello che si offende sommamente, se si tocca la sua gloria.

D. Che cosa fa il peccato alla gloria di Dio? R. Umilia il pensiero creatore; contraria una volontà di perfezione e di ordine; nell'armonia dell'opera divina, introduce delle dissonanze e compromette il « regno de' suoi fini » (kant).

D. Pochi pensano a queste cose; nessuno vuole queste cose. Si fa questo e quello; ma chi intende veramente offendere Dio?

R. Non s'intende offendere Dio; per lo meno ciò è raro; ma si vuole contentare se stessi a rischio di offendere Dio, ad onta dell'offesa di Dio. Se si potesse fare in modo che Dio non fosse offeso, senza dubbio ciò si farebbe; ma questo vuoi dire che si desidera di cambiare il male in bene, piuttosto che guardarsi dal male.

D. Siamo dunque tutti peccatori?

R. « II più grave dei peccati è l'orgogliosa coscienza

di essere senza peccato » (carlyle).

D. Che differenza vi è tra il peccato veniale e il peccato mortale?

R. Il peccato mortale è quello che si oppone formal-mente a una volontà di Dio, che per questo ci toglie la sua amicizia, sì che il peccatore, recedendo dal suo Dio, volta le spalle al suo ultimo fine preferendogli un bene

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finito. Il peccato veniale, pur rispettando l'amicizia di Dio e il buon orientamento della vita, devia però un poco dal sentiero del bene.

D. Da che dipende una così gran differenza di natura e di risultati?

R. Può dipendere dalla maggiore o minore gravita della materia, che in un caso si reputa oggetto di una volontà formale del legislatore, e nell'altro no. Può dipendere, in una stessa materia grave, dalla pienezza o dall'imperfezione del consenso.

D. L'uomo in stato di peccato grave fa ancora parte della. Chiesa?

R. Sì, come un membro morto. Non riceve più il sangue dal cuore, che è l'amore divino; non ubbidisce più all'idea direttrice del corpo, che è lo Spirito di Cristo; è privo del calore vitale e del dinamismo spirituale;

non ha più diritto al pane di vita che dovrebbe mantenere in lui la vita che gli manca; è « uno scomunicato all'interno » (bossuet).

D. Che cosa è dunque il sacramento della penitenza? R. È il sacramento che è destinato a cancellare i peccati commessi dopo il battesimo e a rendere al peccatore la grazia del suo Dio.

D. È dunque un sacramento di purificazione? R. E di riconciliazione. Sono lì quelle acque di Siloe « che scorrono in silenzio » nelle quali Gesù invita i malati a purificarsi. Ma dopo, o piuttosto per il fatto stesso della purificazione, che ristabilisce la grazia battesimale, l'anima pura si sente in Dio, « chiarezza fusa alla chiarezza » (francis jammes).

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D. La religione accetta facilmente il peccato! Essa si rassegna dunque al peccato?

R. La religione non si rassegna al peccato; ma si rassegna all'uomo peccatore; è il peccatore che Cristo le ha affidato, affinchè con lui, essa lo salvi.

,D. Il peccato dunque non è più una disgrazia? R. Il peccato è la più grande delle disgrazie; si potrebbe dire che è la sola vera disgrazia; ma esso non è irreparabile; dopo di esso non è finito tutto; dopo di esso tutto si può riprendere, tutto si può riparare, tutto può ridiventare puro, tutto si può mostrare più alto di prima, ed è qui che sta il capolavoro.

D. Dunque il cattivo sarà l'oggetto della più appariscente bontà?

R. Gesù disse: lo non sono venuto per quei che stanno bene, ma per quelli che sono malati.

D. Si possono amare i cattivi? R. I cattivi hanno bisogno d'amore più degli altri;

essi sono in estremo pericolo, ed è l'amore che li rialza.

D. Non vi sono eccezioni? Certi mostri... R. Un mostro è un uomo spaventosamente deviato;

pure è sempre un uomo; potrà alla fine arrendersi e piegarsi; solo l'amore divino non disarma.

D. Ma il peccatore ha offeso quest'amore. R. La penitenza cristiana ci obbliga a collocare la nostra fiducia nello stesso amore che abbiamo disconosciuto.

D. Lo sforzo della penitenza è dunque...

R. Di vincere il peccato, di passargli per così dire sul

corpo, per riprendere il giusto cammino.

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D. No» " questo un compromesso? R. Il sole s-.i compremette forse spazzando via il fango?

D. Il sole re'^na lassù in alto. R. La religione non teme il peccato appunto perche essa regna lassù, cioè perche è divina; essa lo maneggia con dita di luce.

D. Che cosa domanda ai peccatori? R. « Che vengano a subissarsi tra due braccia tese »

(C. PÉGUY).

D. Vi sono però delle condizioni? R. Vi sono delle condizioni, ma tutte favoriscono il peccatore; gli si procura a un tempo l'onore della giustizia e il beneficio della misericordia. La penitenza è l'amplesso della giustizia e della misericordia.

D. Qual è la parte della giustizia? R. È lo sforzo. Con la penitenza ci si da il mezzo di rientrare in possesso di noi come con il lavoro noi conquistiamo la natura ribelle. Qui e là, è una stessa fatica, che ricompensa una stessa ascensione verso l'innocenza dell'anima e delle cose.

D. E ne segue?...

R. Il possesso rinnovato della grazia, una migliore esperienza di se stessi, una fiducia crescente nel soccorso di Dio che rialza, e una nobile pace.

D. Certi peccati hanno conseguenze esterne o interne. R. Dio se le addossa insieme con noi; e nella proporzione di quello che ci è possibile, noi dobbiamo addossarcele insieme con lui.

D. E le abitudini peccaminose? R. Quello che prima era responsabilità crescente, a

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cagione della frequenza dei cattivi voleri, diventa poi scusa. Se un uomo ha colpevolmente avvilito l'anima sua, ma poi si emenda, viene trattato come un convalescente che l'amore considera con riguardo.

D. Non è ciò un invito a fare il male? R. Tu riferisci un'obiezione di Giuliano l'Apostata.

D. Non importa, non è troppo comodo scaricarsi così tutto a un tratto delle proprie colpe, forse di tutta una vita di peccato?

R. Preferiresti un'incomodità eterna? Non sta appunto lì quello che si oppone all'inferno? Sì, tutto finirà; ma ciò non avviene senza che ci siano proposti, e proposti molte volte, dei « comodi » ricominciamenti.

D. Nondimeno certi atti si dicono irreparabili. R. La penitenza smentisce colui che disse: « Ciò che si rimette non è mai ben rimesso; ma ciò che si smette è sempre ben smesso » (C. péguy): essa è in certo modo creatrice; ci rifa un'anima, e ci ricrea un universo, quello di Dio, tutto fatto di bontà e di sapienza, senza quel disordine e quel turbamento in cui il peccato ci aveva immersi.

D. Si può concedere l'amnistia a un colpevole; ma la società non gli restituisce mai la sua intera stima. R. La società non vede il cuore, ed ha poco cuore. Gesù tracciò la condotta della sua Chiesa facendo sua amica e sua discepola una donna disonorata.

D. Il peccatore deve dunque essere nella gioia? R. La gioia è per noi un dovere, perché è un omaggio, e significa: Padre, io credo al tuo perdono, credendo al tuo amore.

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D. Consigli tu ai penitenti di ricordare sovente i loro peccati?

R. Essi devono ricordare la loro debolezza e la misericordia di Dio, ma non vagliare la loro miseria. Una volta usciti dalla notte, bisogna camminare nella luce, e non indugiarsi a contare le cadute fatte nell'ombra.

D. Da che dipende la frequenza delle cadute? R. A volte dalla fiacchezza dello sforzo che raddrizza;

ma specialmente da quella terribile inclinazione naturale che ci rende caro il peccato, e dall'abitudine, che tende a renderlo necessario.

D. Quante volte si può ottenere il perdono? R. È la domanda di S. Pietro al suo Maestro, e Gesù risponde: « Settantasette volte sette », senza dubbio con un tenero sorriso. Lui che ci lascia nella nostra debolezza, pur rialzandoci dall'antica caduta, tiene conto di questa debolezza e la soccorre; essa dev'essere un mezzo di salvezza, e non vuole farne una causa di perdizione. Per l'amore che egli ci offre ancora e che possiamo ricuperare, egli intende di valersi, per rialzarci, della nostra debolezza. Non sono stati falsi amori ad ingannarci? La bilancia risalga, dopo essere sfuggita al suo punto morto!

D. Non vi è nessun limite?

R. Nessuno; l'amore del Padre è tale, che l'infedeltà ostinata del figlio non lo scoraggia mai. « I perdoni del Signore sono una moltitudine », dice il Salmo. « Quando gli diciamo: Ti ho tradito, egli ci risponde: Va' in pace, ho fiducia in tè ».

D. Non vi è dunque mai motivo di disperare? R- II disperare è un disconoscere Dio e se stessi. Si

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fosse pur Caino, si fosse pur Giuda, si è sempre figli di Dio, e si hanno da prendere per sé queste parole del dolce Maestro, che non si rivolgono meno alla sventura colpevole che alla sventura innocente: « Venite a me, voi tutti che soffrite e siete oppressi, e io vi solleverò ».

D. Perché la Chiesa interviene in un atto così intimo come la penitenza?

R. Noi siamo mèmbri della Chiesa; quando siamo ammalati spiritualmente, la Chiesa è ammalata in uno dei suoi mèmbri: non è forse normale che essa cerchi di guarire se stessa guarendo noi?

D. Mi sorprende questa affermazione che per un peccato isolato la Chiesa sia ammalata. R. « Non vi sono che malattie generali », dicono i medici; a cagione della solidarietà funzionale, un elemento che si turba è un male del tutto.

D. Il peccato però è un'offesa a Dio. R. Dio è per mezzo di Cristo il capo o la testa della Chiesa; per mezzo dello Spirito Santo egli ne è l'anima. Dio, Cristo e Chiesa dunque sono qui tutt'uno, come direbbe Santa Giovanna d'Arco.

D. Il peccato sarebbe dunque un male universale? R. « II minimo movimento interessa tutta la natura;

il mare intero cambia a motivo di una pietra. Così nella grazia. La minima azione, per le sue conseguenze, tocca tutto » (pascal).

D. Tuttavia il peccatore sovente è solo. R. Il peccatore crede di essere solo; ma è in presenza del cielo e della terra, ed egli offende il cielo e la terra, di cui sconcerta le leggi.

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D. E ciò, a' tuoi occhi, crea un diritto d'intervento in favore della Chiesa?

R. È un diritto, poiché essa è lesa da parte sua, ed è un beneficio perché là dove c'è solidarietà organica, la guarigione, come la malattia, è funzione di questa solidarietà. Dio non volle assolvere senza la Chiesa, dice Pascal; com'essa ha parte all'offesa, vuole che essa abbia parte al perdono, e l'associa a questo potere, come i rè i Parlamenti.

D. Come dunque si possono mettere insieme le condizioni della conversione per mezzo della penitenza? R. Il peccatore si è mostrato colpevole verso se stesso, verso la Chiesa e verso Dio: se egli si deve convenire, ciò non potrà essere se non per un atto spontaneo, per un intervento della Chiesa e per un intervento di Dio. Nessuna medicina opererebbe sopra un membro, se questo membro non reagisse vitalmente per liberarsi dal male. Nessuna medicina parimenti opererebbe, se la solidarietà organica non interessasse tutto il corpo a questo risanamento che guarisce il corpo stesso. Finalmente nessuna medicina agirebbe, e meno ancora, se Videa direttrice della vita chiamata anima non si facesse artefice della riparazione, come fu agente della fabbricazione, della crescenza e della nutrizione dell'organismo.

D. Quali sono gli atti del penitente che corrispondono alla sua « reazione » necessaria? R. Sono la contrizione, la confessione e la soddisfazione. ,

D. Qual è la parte di Dio? R- II perdono.

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D. E la parte della Chiesa?

R. La Chiesa opera necessariamente per mezzo di un rappresentante, che è il sacerdote che agisce come giudice, come ministro di assoluzione, come colui che decide della soddisfazione.

D. Mi vuoi spiegare queste cose, e prima di tutto, che cosa è la contrizione?

R. Etimologicamente, significa uno « spezzamento o stritolamento del cuore » per il rimorso del peccato. D. Il peccatore può sempre provare un tale spezzamelo?

R. Non ci si domanda che il possibile, e l'immagine usata ha per scopo di farci capire che la contrizione cattolica non è una passività, ma un atto. Io spezzo il mio cuore davanti a Dio in onore della sua santità oltraggiata.

D. Senza immagine, che diresti? R. « La contrizione è un pentimento delle nostre colpe con la volontà della loro distruzione » (S. tommaso d'àquinoì.

D. Che cosa è la confessione? R. È la dichiarazione delle colpe commesse quanto alla loro specie, al loro numero e alle circostanze che ne modificano la natura o la gravita. D. E la soddisfazione?

R, È la riparazione consentita in favore di Dio oltraggiato e del prossimo che ha potuto essere leso dalle nostre colpe.

D. Qual è la miglior riparazione riguardo a Dio? R. Oltre a quello che il sacerdote indica, e che di solito è così poca cosa, è il sopportare pazientemente i mali che Dio ci manda, o permette.

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D. Perché è la miglior riparazione?

R. Perché è la più conforme alla sua volontà e la più

opposta alla nostra.

D. E qual è la miglior riparazione riguardo al prossimo?

R. È quella che annulla e compensa il più esattamente e il più delicatamente possibile il torto che gli abbiamo fatto. '

D. In che modo ci viene il perdono di Dio? R. Per me2zo dell'assoluzione.

D. Bisogna dunque chiederla a luì?

R. Sì, ma per mezzo della Chiesa, che ci unisce a lui,

e attraverso la Chiesa ci viene anche la sua risposta.

D. Non vi è qui un'usurpazione di coscienza? R. Ho già detto e ridetto le ragioni di questo intervento; ma devi osservare che nella Chiesa tutti si confessano, compreso il tuo confessore, compreso il Sommo Pontefice. Dunque si tratta qui d'un fatto che oltrepassa l'uomo, il che esclude ogni idea di usurpazione. Non ne hai forse il segno ben chiaro in questo fatto che il confessore, quando ha assolto, domanda al penitente di « pregare per lui »?

D. Ammetto le ragioni dell'istituzione; ma, nel fatto, ci si domanda di aprire la nostra coscienza a un uomo. R. Come l'istituzione potrebbe operare altrimenti, e in un modo più favorevole? Preferiresti confessarti a tutta la Chiesa?

D. No» si faceva così una volta? R. Così si faceva sotto il nome di confessione pub-

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blica, richiesta per certi delitti. Ma vi si rinunziò presto, a cagione di inconvenienti derivanti dalla nostra miseria comune; però il diritto assoluto non è stato abolito; la nostra fede nel giudizio universale lo rammenta, e ciò dovrebbe farci riflettere quando critichiamo la disposizione prudente e misericordiosa che la Chiesa mette in pratica.

D. Quello che urta i nervi è siffatta dichiarazione di uomo a uomo.

R. Ascolta quello che dice in proposito Pascal: « Noi non vogliamo che gli altri c'ingannino; non troviamo giusto che essi vogliano essere stimati da noi più di quel che essi meritano: non è dunque giusto che noi inganniamo loro e che noi vogliamo che essi ci stimino più che non meritiamo... Ecco i sentimenti che nascerebbero da un cuore che fosse pieno di equità e di giustizia. Che dobbiamo dunque dire del nostro, vedendovi una disposizione affatto contraria?... ». « La religione cattolica non obbliga a svelare i propri peccati a tutti indifferentemente; tollera che si rimanga nascosti a tutti gli altri uomini, ma ne eccettua uno solo, al quale essa comanda di svelare il fondo del proprio cuore e di farsi vedere quello che si è. Non vi è che un solo uomo al mondo che essa ordina di disilludere, e lo obbliga a un segreto inviolabile, il quale fa sì che questa conoscenza sia in lui come se non vi fosse. È possibile immaginare qualcosa di più caritatevole e di più dolce? Eppure la corruzione degli uomini è tale che ancora si trova dura questa legge, ed è una delle principali ragioni che fecero ribellare contro la Chiesa una gran parte di Europa ».

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D. Now vi sono gravi inconvenienti in una tale pratica?

R. Tutto presenta gravi inconvenienti, in una vita come la nostra esposta alla precarietà e alla debolezza. Ma si tratta di valutare il prò e il contro, e i benefici della confessione son tali, che la sua soppressione sarebbe un immenso impoverimento per la vita religiosa e la vita sociale.

D. Perché la vita sociale?

R. Perché la vita religiosa è necessaria alla vita sociale, come abbiamo spiegato tante volte, e specialmente a questo riguardo. Nietzsche giunge a dire che la stessa coscienza scientifica è figlia della morale cristiana, e che essa si è « acuita nei confessionali ».

D. Che cosa procura dunque la confessione? R. Argina la corrente del male opponendogli una diga reale, visibile, e periodica; -— essa sforza a raccogliersi e a precisare il proprio caso, poiché lo si deve esporre;

così è una luce, per l'anima spesso ottenebrata e accecata nella sua incoscienza; — mette a nudo il peccato, lo fa giudicare tanto meglio in quanto tè lo senti giudicato da altri, lo spoglia de' suoi incanti e lo restituisce alla sua malizia, a volte alla sua ignominia ipocrita; — come nella psicanalisi, la confessione procura la liberazione per via della dichiarazione; ti rende la disponibilità dell'anima tua; rigenera con lo sforzo le energie virtuose e spezza il determinismo perverso; la schiavitù delle passioni, nella sua lusinghiera e implacabile stretta, ne sarà attenuata, oltreché, moralmente, essa cambia segno: aggravamento ieri, triste scusa domani. Da una

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altra parte, la confessione ti accerta del perdono divino e così alleggerisce l'anima tua de' suoi terribili pesi segreti; — di fronte all'invisibile e muta eternità, t'ispira il sentimento di essere capito, amato, incoraggiato per l'avvenire; reca dunque seco questo conforto, la cui assenza cagiona gli abbattimenti e le disperazioni, di avere davanti a tè una pagina bianca, sulla quale tu puoi scrivere d'ora in avanti un testo santo. — Finalmente, nello stesso tempo che un atto di nobile libertà ti rialza, l'amicizia e la fraternità ti soccorrono, giacché il confessore si fa consigliere, sostegno, consolatore, purché egli conosca il suo compito e tu dal canto tuo sappia richiedere il suo aiuto.

D. Eppure i protestanti non si confessano che a Dio. R. Qui sarebbe il caso di dire: « È troppo comodo! ». Ma io preferisco dire: È troppo poco misericordioso, troppo poco consolante, troppo poco efficace. Chi non conosce le grida di desiderio mandate da certi protestanti quando pensano a questo bagno dell'anima, a questa frizione energica e corroborante, a questo sollievo, a questa reazione di pace!

D. Psicologia geniale, sia pure! ma dov'è l'autenticità e la verità?

R. Ho detto ripetute volte, che nella Chiesa, nulla di essenziale si è originato per pure esigenze psicologiche;

l'autenticità del sacramento della penitenza è quella della Chiesa stessa; e di fatto, quale significato e valore potrebbe avere nei confronti del nostro spirito questo sacramento, se non fosse stato istituito da Dio stesso? Solo Dio ne può garantire l'efficacia, ed è questo che conta soprattutto.

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IL SACRAMENTO DEGLI INFERMI

D. Che cosa è l'Estrema Unzione? R. L'Estrema Unzione, o il sacramento degli infermi come alcuni preferiscono e non a torto denominarlo, è il sacramento di coloro che sono gravemente ammalati.

D. Qual pensiero vi presiede? R. Essa è l'intervento supremo, in favore di un partente, del gruppo unito in Cristo e in Dio che noi chiamiamo Chiesa.

D. Pascal disse: « Si muore soli ». R. Egli pensava agli attori o ai compiici di una vita dissoluta. Di fatto, quando la morte ci sovrasta, costoro diventano lontani come se appartenessero a un altro mondo. Ma la solidarietà cristiana è immortale come Cristo e come Dio; la morte non la raggiunge.

D. È dunque un atto di solidarietà? R. È un atto di solidarietà da parte dei mèmbri della Chiesa che vi prendono parte, e un atto di maternità da parte della Chiesa stessa. Avendo generato questo figlio e avendolo guidato nella vita, essa dev'essere lì

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all'ora estrema. II morente si abbandona a lei, ed essa si piega sopra di lui teneramente.

D. È forse per significargli la potenza imminente? R. In nessun modo, e hanno assai torto coloro che si rappresentano « l'uomo nero » come un uccello lugubre.

D. Che cosa si propone dunque? R. Il sollievo spirituale e corporale del malato.

D. Di qual sollievo spirituale si tratta? R. Si tratta di aiutare il fedele a compiere in extremis l'opera di penitenza, a distruggere le « reliquie del peccato », affinchè la morte che minaccia sia definitivamente spogliata del suo potere di nuocere, e lo Spirito di pace e di gioia stabilitesi nell'anima allontani gli spaventi.

D. Hai la pretesa di togliere alla morte i suoi terrori? R. La morte, per il cristiano, è un avvenimento come un altro; ma la debolezza ha gran bisogno che si ridesti il suo spirito di fede.

D. Un tale desiderio suppone già la fede. R. Difatti, colui che ha la fede deve desiderare vivamente questa salvaguardia, nel momento in cui si conclude il pericoloso passaggio da questo mondo. Ma un principio di fede, aiutato dal sacramento e dalla preghiera comune, genera una fede più grande. E se, per grazia, la fede venisse a sbocciare da questo fatto stesso, il fortunato malato potrebbe dire con Giacomo Rivière:

« Adesso, io sono miracolosamente salvo ».

D. Ma se si è vissuto bene? R. Chi è vissuto bene ha il diritto di essere fiducioso;

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ma di fronte al mistero, sapendo che alla porta dell'altro mondo siede la giustizia accanto all'amore, sarebbe un incosciente se non provasse un salutare timore.

D. Perché salutare?

R. Perché esso invita ad accrescere le proprie garanzie e a valersi del suo soccorso.

D. Si da l'Estrema Unzione ai condannati a morte';1 R. No, e neppure ai soldati in estremo pericolo, ne in generale a chiunque affronta la morte fuori della malattia e della sofferenza.

D. Perché questa diversità?

R. L'uomo in possesso delle sue forze ha dei soccorsi

ai quali può cooperare, o che si procura da se stesso;

il malato attende, e la sua attesa fraterna vede venire a sé una fraternità senza confini come la nostra Chiesa universale, tenera come l'anima di Cristo e potente come Dio.

D. Hai anche parlato d'un sollievo corporale. R. Riguardo al corpo, la preghiera sacramentale domanda la guarigione, ed essa l'attenderebbe con una fiducia totale, se non sapesse che questo effetto, come tutto quello che riguarda il temporale, rimane sottomesso alla Provvidenza.

D. La Provvidenza non ha essa pietà? R- « La pietà dei mortali non è quella de' cieli ». (victor hugo). Qui devi ricordare quanto abbiamo detto della condotta di Dio in questo mondo.

D. È tutto quello che aspetti?

•R. Noi speriamo ancora, nel malato, una felice calma

dello spirito.

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D. Quale ne sarà la ragione? R. « Quante sante cerimonie, queste preghiere aposto-• lidie, per una specie d'incanto divino, sospendono i dolori più violenti, e, come spesso ho veduto, fanno dimenticare la morte a chi le segue con fede » (bossuet).

D. Qual è il rito di questo sacramento? R. La materia del sacramento è l'olio, conforto per l'atleta dell'estremo combattimento, rimedio per l'anima dolente e mai definitivamente liberata dal peccato, sorgente di calore e di luce per l'anima intirizzita e brancolante sull'orlo dell'abisso spalancato.

D. In che modo usi questa materia? R. Si praticano delle unzioni sulle parti del corpo che si possono considerare come il principio delle nostre miserie morali: gli occhi, le orecchie, le narici, la bocca, le mani, i piedi, e si accompagnano con una preghiera.

D. Perché una preghiera invece della forma affermativa degli altri sacramenti?

R. Perché ci si rivolge a colui che è senza forza e non si può aiutare da se stesso; perché il morente è già come partito, rimesso nelle mani di Dio, che solo la preghiera può raggiungere.

D. Questo sacramento dell'ora estrema dev'essere l'ultimo dei sacramenti?

R. È l'ultimo dei sacramenti individuali; ma resta da provvedere, mediante l'Ordine e il Matrimonio, all'arruolamento della gerarchla religiosa e al popolamento della Chiesa.

394

L'ORDINE

D. Quale idea s'introduce sotto questo termine un po' speciale: /'Ordine?

R. Si tratta dell'ordine delle comunicazioni spirituali nella città di Dio.

D. Quali comunicazioni?

R. La gerarchla ordinata deve comunicare i benefici della redenzione ai fedeli, nel nome di Cristo che essa rappresenta e di cui continua l'azione sopra la terra.

D. Che nome dai a questa comunicazione stessa? R. È il sacerdozio.

D. Quali sono le sue attribuzioni? R. Esso è incaricato di preparare e di distribuire a tutti il nutrimento spirituale: nutrimento delle intelligenze mediante la predicazione dottrinale; nutrimento dei cuori mediante le esortazioni e mediante il ricordo delle divine speranze; nutrimento sovrumano dell'Eucaristia, che comprende tutti i doni della vita dandoci il loro Autore.

D. Quest'ultimo compito è certamente a' tuoi occhi il

principale?

R- È l'opera propria del sacrificio; tutto il resto vi si

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riferisce come una preparazione, un accompagnamento o una continuazione. Onde il sacerdote è il centro e il fine di tutta la gerarchla. Tutti gli uffici che si esercitano sotto di esso: diaconato, suddiaconato, ordini minori, non sono che servitori. Tutti i poteri superiori: episcopato, prelature di ogni classe, Papato, servono in un'altra maniera, incaricati di procurare dei sacerdoti, poi di sorvegliare l'esercizio del loro potere, non in quanto al principale, che è l'azione consacratrice, ma per l'uso che se ne fa e le condizioni esterne che essa suppone.

D. Chi stabilisce i sacerdoti? R. Il Vescovo « principe dei sacerdoti », secondo il linguaggio dell'antica legge, e di cui si dice che possiede la pienezza del sacerdozio, per significare che la sua funzione, oltre che essere completa, è indipendente, e la comunica mediante l'ordinazione.

D. Non è il Papa « il principe dei sacerdoti »? R. Sotto l'aspetto propriamente sacerdotale, il Papa è un vescovo come gli altri; ma egli ha inoltre una giurisdizione universale, vale a dire un potere di governo.

D. Tu dici che questo potere è supremo, e non è forse un principato?

R. Il potere del Papa è supremo nel campo dov'osso si esercita; ma gravita attorno al sacerdozio, per la ragione che tutto gravita attorno l'Eucaristia, e ciò stesso si spiega perché Cristo, che arreca l'Eucaristia, è il tutto della nostra vita in Dio: mezzo universale, sorgente unica di luce, di arricchimento vitale, di gioia. Che tutto funzioni secondo la legge della sua istituzione, e si vedrà la gerarchla, dall'alto in basso, da destra a si-

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nistra, in tutte le sue ramificazioni e in tutti i suoi gradi, impiegata in una sola opera: la santificazione per mezzo di Cristo, con l'Eucaristia, opera del sacerdozio, che ci da sostanzialmente Cristo come centro d'influsso.

D. Il sacerdozio è dunque per noi una grandissima

cosa?

R. È la cosa unica, superiore a ogni cosa umana, e che

di superiore non ha che il divino.

D. Ma la Chiesa?

R. La Chiesa stessa non è che un sacerdote collettivo, corpo spirituale di Cristo sacerdote, il cuore del quale, ciborio vivente, ci offre la Divinità.

D. Eppure la Chiesa è amministrazione, è politica. R. La sua essenza è in fondo mistica. La politica, l'amministrazione non vi si uniscono se non per la necessità del suo funzionamento umano. La Chiesa ci vuole divinizzare; essa dispone per questo di un mezzo vivente, che è Cristo. Là dov'è Cristo, ivi è dunque l'essenziale del suo compito, la ragione del suo organamento, il nodo vitale in cui tutti i suoi movimenti si coordinano.

D. J riti del sacramento dell'Ordine saranno dunque relativi all'Eucaristia?

R. Sì, ed essi consistono in questo, che il consacratore segna il potere che egli intende concedere mediante la consegna degli oggetti religiosi che servono a ciò: il calice con il vino, la patena con il pane, l'evangeliario, oppure il calice vuoto, ecc., secondo gli ordini. Vi si aggiungono parole che esprimono all'imperativo l'uso di queste cose. Ed è una consacrazione, analoga alla consa-

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orazione dei rè, in cui un segno sensibile accompagna l'attribuzione di un reale potere.

D. La consacrazione sacerdotale conferisce una grazia? R. Conferisce insieme una grazia e un potere. Il potere corrisponde a quello che noi chiamiamo carattere sacerdotale, per sempre inseparabile da chi l'ha ricevuto. In quanto alla grazia sacramentale annessa all'ordinazione sacerdotale e a tutte quelle che ne dipendono, essa segna la volontà di Cristo di dare al suo servo, quando egli lo consacra, i mezzi di compiere non materialmente, ma degnamente il suo ufficio.

D. La funzione dipende forse dall'uomo? R. No certo; l'ufficio del sacerdote è indipendente dal suo valore personale, e, per il fedele, quello che importa, è questo ufficio e non questo valore. Tuttavia, che il dispensatore dei beni di Dio non possieda egli stesso i beni di Dio, è un disordine. L'istituzione religiosa, che mira al perfetto, cerca di procurare l'armonia del vaso e del profumo, del canale e del liquore che scorre, del sacerdote e della santa vita che deve promuovere.

D. I capi religiosi dovrebbero dunque essere dei santi? R. Quanto più sono essi elevati in potere, tanto più si desidera che siano elevati in grazia, al fine di essere elevati in abbassamento di umiltà davanti a Dio e in abbassamento di servizio verso i loro fratelli. Per questo l'episcopato, sacerdozio completo, è chiamato dalla teologia « uno stato di perfezione », poiché la pienezza del sacro potere, anziché dispensarlo da qualche cosa, lo obbliga. Sancta sancteì santamente, l'amministrazione

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delle cose sante; più santamente, l'amministrazione delle cose più sante!

D. E se questo non si effettua, quale è secondo tè il

rimedio?

R. Da un lato la riforma o la santificazione sempre

maggiore del clero; dall'altro, lo spirito di fede dei

fedeli.

D. In che consiste questo spirito di fede? R. Nel vedere il sacerdote così grande, che quando egli è meno degno personalmente, la santità del suo compito risplende anche di più, perché questo compito lo schiaccia.

D. Il sacerdote è in una condizione privilegiata riguardo alla salvezza?

R. È in una condizione a un tempo privilegiata e più pericolosa; la sua sorte dipende dell'uso che fa de' suoi doni. A ogni modo, il suo sacerdozio per se stesso non lo salva; egli deve guadagnarsi il cielo come tutti gli altri.

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IL MATRIMONIO

D. Qual è l'oggetto del sacramento del matrimonio? R. Esso ha rapporto alla propagazione della specie e si propone di fare ciò in relazione alla particolare condizione dell'uomo religioso.

D. La propagazione della specie riguarda la religione? R. Tutto riguarda la religione, e specialmente quei riti della natura che reclutano la Chiesa sopra la terra al fine di popolare il cielo.

D. La Chiesa si fa legislatrice dell'amore? R. Essa intende assegnargli il suo posto, quanto glorificarlo nell'opera sua, e impedirgli di diventare, come tende continuamente, uno spaventoso flagello.

D. È questo il compito di un sacramento? R. Il compito di un sacramento è di rendere possibile, con l'intervento di Cristo nel contratto che lega due esseri, quello che vuole la dottrina in favore del bene umano e del bene divino.

D. Il matrimonio tuttavia non ha di mira che uno

scopo naturale.

R- La natura non è senza Dio; essa è compresa nel

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piano religioso del mondo, e l'uomo, nel cammino del suo reale destino che è soprannaturale, deve impegnare tutto quello che concorre a spingerlo avanti e che, mal condotto o trascurato, potrebbe tirarlo indietro.

D. In che modo si può di certe cose fare un oggetto religioso?

R. Vi è qui un pregiudizio apparentemente rispettoso, ma che, in realtà, offende la gravita della Chiesa. La natura è figlia di Dio; Cristo l'ha adottata tutta; dove le deviazioni sarebbero più formidabili, ivi soprattutto è necessaria l'azione dello Spiritò santificatore. Ma là dove questo Spirito s'introduce, fa del matrimonio, di tutto il matrimonio, una funzione religiosa; perché in lui, la funzione naturale e la funzione sociale fanno parte dell'organizzazione di cui Cristo è il capo, di cui lui stesso è il principio. Onde la nostra Chiesa, senza falso pudore e senza timidità infantile, osa benedire il letto nuziale, dopo avere benedetto le anime.

D. Qual è la materia di questo sacramento? R. Gli sposi stessi, nel dono scambievole che si fanno.

D. Qual rito lo costituisce? R. Lo scambio dei consensi.

D. E il ministro è il sacerdote? R. No, il sacerdote è il testimonio necessario, ma non operante riguardo al sacramento. Qui i ministri sono gli sposi, ministri officiami del rito che li unisce.

D. E questo sacramento conferisce una grazia? R. Ogni sacramento conferisce una grazia. Del rimanente, la propagazione del genere umano non ha valore

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religioso e senso religioso se non in ragione della vita della grazia. Si vuole espandere la grazia, nello stesso tempo che accrescerla in ogni essere; il matrimonio come sacramento ne è il mezzo: è dunque naturale che ne sia impregnato esso stesso, per essere all'altezza del suo doppio compito.

D. Il matrimonio riveste per tè una grande dignità? R. « È un gran sacramento! » dice S. Paolo.

D. Perché dunque perori in favore della verginità? R. La grandezza del matrimonio, che pianta l'albero della vita, non impedisce un valore più grande. L'umanità ha bisogno non solo di frutti, ma le occorrono anche dei fiori.

D. I frutti non sono superiori ai fiori? R. Per il corpo; ma non per l'anima. Lasciamo che alcuni chiamati conducano la vita dell'anima, e abbandonino i frutti della terra per i fiori del cielo.

D. Queste persone non sono, socialmente, degli inutili? R. Sono utili allo stesso matrimonio, che esse tendono a purificare e a ingrandire; farebbero meno a prò di esso, aggravate dalle sue catene. Del resto la loro rinunzia le libera in favore di più alti impieghi.

D. Intendi parlare dei preti?

R. Intendo parlare del sacerdote e anche di altri; ma in quanto al sacerdote, oltre una folla di considerazioni tutte pressanti, una speciale convenienza deriva dall'Eucaristia. Ogni cuore delicato capisce che il contatto di un Dio impone qualche riserva, e che la verginità conviene al sacerdote come convenne a Maria.

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D. Di fatto egli rinunzia alla famiglia.

R. « Di' piuttosto che egli dilata la sua famiglia alla

umanità » (lamartine).

D. Ma la sua azione sul mondo non esige dal sacerdote che egli sia mescolato al mondo e cosciente de' suoi bisogni?

R. Il sacerdote si pone sopra il mondo distaccandosene; lo smarrirvisi non gli darebbe una migliore esperienza, e nel suo disinteresse, nella sua abnegazione, trova la sua forza.

D. Quale simbolismo adotti per il sacramento del matrimonio? i •

R. S. Paolo paragona l'unione degli sposi a quella di Cristo e della Chiesa: ecco il simbolismo del sacramento e il punto di partenza delle sue leggi.

D. L'idea pare strana!

R. È invece di una profonda saggezza. L'integrazione religiosa del mondo esige l'unione dell'uomo e della donna per formare l'uomo completo, poi l'unione dell'uomo completo a Cristo, nella Chiesa, per formare l'uomo completo religiosamente, cioè divinizzato dalla grazia. Così il parallelismo indicato da S, Paolo si rivela:

ciò che Cristo è per la Chiesa universale per formare l'umanità religiosa, lo sposo lo è per la sposa per costituire un elemento di questa umanità, e il sacramento che simboleggia sotto questa forma il fatto religioso universale, tende da parte sua a realizzarlo, unendo gli sposi secondo leggi concordanti c©n l'unione dell'uomo a Cristo, nella Chiesa, e con ciò all'unione a Dio nell'incarnazione.

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D. Cristo viene così. come terzo nell'intimità del matrimonio?

R. Non sarà un terzo ingombrante, e neppure lo sarà il sacerdote, suo rappresentante, come certuni paventano. Ospite dei cuori, Cristo sarà nello stesso tempo il loro legame, come la loro consolazione nei giorni cattivi e la loro forza nell'arduo compito che assumono. Dio non separa, ma lega; è il vincolo universale degli esseri. Forse ci separa il luogo dove ci troviamo? Dio è il luogo degli spiriti. Forse li separa la legge di azione e la vita intima dei mèmbri? Dio è la nostra legge di azione più profonda e la vita della nostra vita: essere in lui, è essere meglio in noi stessi e in ciò che non forma più che una sola cosa con noi.

D. Questa mistica del sacramento ha delle conseguenze

pratiche?

R. Se ne ricavano i due caratteri essenziali del matrimonio, che sono l'unità e la perpetuità.

D. Come?

R. Se il matrimonio deve fornire un punto fermo di partenza per la costituzione religiosa del mondo sotto l'aspetto della sua estensione, senza dimenticare il suo valore, deve anche essere saldo, e deve stabilirsi in condizioni che permettano al focolare lo sviluppo di individualità virtuose, pacifiche e utili.

D. L'unità è indispensabile per questo? R. Sì, perché senza parlare della poliandria, che la stessa filosofia condanna, la poligamia indebolisce, corrompe e disorganizza il focolare domestico dividendolo;

invita l'uomo all'egoismo e all'autocrazia, alla sensua-405

lità e al capriccio; spinge la donna al rango di una schiava; fa regnare le gelosie, gl'intrighi, le disillusioni, i rancori, divide i figli e della prole non fa che una tribù di vincoli deboli, non una famiglia nel pieno senso della parola.

D. Eppure vi sono delle civiltà poligamo. R. Sì, ma inferiori e stagnanti. Non si fa una casa solida con argilla impastata, e l'edificio non potrebbe salire in alto se pecca alla base.

D. Ma che cosa esige l'indissolubilità? R. Delle ragioni affatto simili. L'unione di Cristo all'umanità religiosa è perpetua; è una vita che non deve finire. Il matrimonio alimenta questa vita, esercita l'ufficio di formare i suoi elementi nuovi: i figli, e di formare anche l'uno per l'altro, in una mutua tolleranza, degli sposi che siano una vita, nell'interno della vita collettiva. Sarebbe sorprendente che l'instabilità fosse per questo una buona condizione, essendo un così cattivo simbolo.

D. Non sai che nel corso della storia, l'indissolubilità del matrimonio fu sempre o inesistente o minacciata? R. So che questa condizione del matrimonio non è riconosciuta praticamente e integralmente, non è difesa con fermezza se non dal cattolicesimo, e so che certi preferirebbero dire: ciò accusa il cattolicesimo, come se solo esso rifiutasse di riconoscere le condizioni reali della vita. Ma quando odo d'altra parte i più autorevoli sociologi dirmi che, a dispetto delle leggi che lo ammettono, il divorzio è condannato dall'opinione pratica di tutte le collettività coscienti, antiche e moderne (leggi solamente

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proudhon!), sono spinto a pensare che il cattolicesimo, ben lontano dal disconoscere le condizioni reali della vita, le considera più comprensivamente, le difende contro le deviazioni individuali abbastanza numerose da pesare sulle leggi, ma che sono nondimeno delle deviazioni, sotto l'aspetto dell'interesse largamente inteso del genere umano.

D. Quali sono le ragioni? R. Esse concernono l'interesse morale degli sposi, che il principio del divorzio compromette gravemente, favorendo matrimoni male studiati, anticipatamente disuniti, e che il minimo incidente viene a sconvolgere o a corrompere. Concernono specialmente la donna, così impari all'uomo nel contratto, in ragione della sua fragilità e della precarietà dei beni che ella vi reca. Ma concernono soprattutto la prole, vale a dire l'umanità futura, temporale ed eterna, a cui si deve guardare con amore cristiano.

D. Perché la prole esige l'indissolubilità? R. Perché la sua educazione è lunga, e perché/quando termina, ha ancora bisogno del focolare domestico. La prole è legione; le tappe della sua vita, della sua educazione e de' suoi impieghi si succedono per lunghi anni, durante i quali la famiglia deve irradiare sopra di essa calore e luce, mantenere, tra i nuovi gruppi che compone, una felice coesione che è una gran parte dell'ordine sociale. Dov'è il focolare, se l'unione si sgretola? Cerca bene: non è individuabile un solo momento — generalmente parlando, come bisogna quando si tratta di istituzioni — in cui il vincolo matrimoniale si possa ;: rompere senza grave danno umano.

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D. Esso viene rotto dalla morte.

R. Grazie tante! O che vorresti assumerti l'ufficio

della morte e di rendere orfani i bambini?

D. E se non si hanno bambini? R. Restano gli altri motivi, e, inoltre, non si può legiferare per l'eccezione deplorevole; non si può dare un privilegio all'infecondità.

D. Non si potrebbero almeno sciogliere i cattivi matrimoni? Essi non giovano a nessuno, nuocciono e fanno soffrire.

R. È vero, e la religione lo riconosce permettendo allora la separazione, scrutando, se vi è motivo, le origini del matrimonio, per vedere se qualche incrinatura non permette di spezzare, senza danno per l'istituzione stessa, questo contratto disgraziato. Ma quando si parla di divorzio, io sono colpito dalla leggerezza dell'obii-cente che crede di dirci così delle cose inconfutabili. Si cerca una legge che rispetti i buoni matrimoni e che permetta di distruggere i cattivi, ciò sembra semplicissimo, ed è una pura assurdità.

D. E perché?

R. Ciò non sarebbe possibile se non a condizione che tu potessi nascondere la tua legge nei codici, e non metterla fuori se non per il caso in cui giudicassi prudente e necessario. Una volta pubblicata la tua legge agirà di per sé, e agirà dovunque; agirà nello spirito dei fidanzati, nello spirito dei parenti, nello spirito degli sposi, nello spirito dei figli. Dovunque essa introdurrà il dubbio, l'instabilità, la tentazione, l'irresponsabilità.

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D. Le leggi del divorzio prendono delle precauzioni. R. E la passione le elude. Si arriva sempre alla legge del beneplacito, fosse pure quello d'uno solo dei due coniugi. La breccia si allarga per il passaggio delle moltitudini, e l'unione libera, vera anarchia al preteso servizio della socialità, si prospetta in un lontano avvenire.

D. Stimi dunque che il divorzio sia contrario alla società come alla religione?

R. Esso non è contrario alla religione se non perché è contrario alla società, all'individuo morale, uomo e donna, in una parola alla vita umana. Cristo sposò l'umanità tal quale essa è, e la natura, la società, la fede, qui non hanno che un solo e identico interesse.

D. Donde viene allora che il cattolicesimo forma una schiera a parte ed esige più degli altri?

R. Perché vede più chiaro degli altri e sa di essere divino. Essendo divino, deve vegliare sopra l'ordine del mondo, campo di lavoro del suo Dio. Essendo divino, si prende l'incarico della natura, della moralità, della socialità, del culto, come di un unico oggetto che lo riguarda, quando altri gruppi gli sono estranei. Essendo divino, esso ardisce, quando gli altri tergiversano e piegano. Essendo divino, ha delle divine promesse per quei che esso sacrifica momentaneamente, e delle divine consolazioni per quei che esso invita ai sacrifici.

D. Così parlando, tu non tieni più conto dell'incredulo. R- Io lascio che l'incredulo risponda secondo il suo cuore. A lui spetta di sapere se, in difetto dei divini compensi che gli mancano, voglia salvare il suo proprio caso decretando rovine, e se, legislatore, egli intenda

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soddisfare a' suoi casi commoventi, anche tragici se si vuole, ma relativamente rari, e aprire il varco alla corrente di rilassatezza e di sensualità che trascina gli

uomini.

D. E se egli dicesse di sì?

R. Sarebbe una ragione di ricordarsi fino a qual punto la religione è necessaria alla natura stessa, e quanto la qualità di sacramento conferisce al matrimonio in favore dell'umanità.

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I NOVISSIMI

LA MORTE E L'IMMORTALITÀ

D. La vita soprannaturale che hai descritto è destinata secondo tè a proseguire e non piuttosto a finire con la morte?

R. Niente finisce con la morte. Scavare una fossa e coprirla con la nostra argilla non può essere una fine per l'immenso movimento spirituale in cui il Vangelo ci lancia. La terra non è che una soglia; al di là vi è quello che Cariyle chiama « il più Alto Mondo ».

D. Perché toglierci la vita e poi restituircela? R. La vita non ci è « tolta »; è solamente « cambiata »: mutatur, non tollitur, come dice la liturgia, ed è la parte che noi prendiamo, per noi stessi e per gli altri, alla morte riparatrice di Cristo.

D. Tuttavia siamo distrutti.

R. L'io terreno è di fatto .distrutto; perché l'anima non è l'uomo. Ma l'anima è la parte essenziale dell'uomo, e l'uomo completo sarà un giorno ristabilito.

D. Riesci a comprendere un separazione di questo genere?

R. Il mistero del nostro essere' è quello di trovarsi per natura in una regione di frontiera, sì da partecipare

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a due sfere, e formare un composto instabile la cui dissociazione crea il dramma della morte, ma la cui unione e riunione hanno qualche cosa di sublime. L'unione in noi della materia e dello spirito suggella in un angolo di questo mondo prima, e poi altrove, l'unità dell'opera divina.

D. Frammenti di un universo in continua trasformazione, e che va soggetto a incessanti disgregazioni, non dobbiamo anche noi seguirne la sorte? R. Frammenti dell'universo spirituale, scintille di spirito, non dobbiamo noi avere la sorte dello spirito, imitare e raggiungere lo spirito?

D. Perché lo spirito non finirebbe come il resto? R. Perché esso comincia sempre. Là dove l'evoluzione della vita ha un termine anticipatamente segnato, definito da una curva di una inflessione continua, il termine raggiunto significa la morte. Ma l'evoluzione dello spirito è illimitata, a guisa di una curva che si apre incessantemente. La ghianda ha compiuto il suo destino quando ha prodotto la quercia, ricca di altre ghiande;

lo spirito ha davanti a sé l'infinito dell'indagine e di tutte le possibili acquisizioni, l'infinito della verità e del bene. Per lo spirito, ogni realizzazione è un abbozzo, o meglio un punto di partenza, finché non si sia incontrato con il suo oggetto supremo. E quest'oggetto è indubbiamente per lui un punto fisso, ma che per la sua infinità inesauribile lo spinge ancora più avanti, invece di frenarne ed arrestarne lo sforzo.

D. Ma l'anima non è tutto spirito.

R. L'anima non è tutto spirito, perché anima il corpo,

e sotto questo rapporto essa è corporea. Tuttavia, sic-

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come il suo compito di animatrice non impiega tutte le sue energie e quindi non è uguale a tutta la sua sostanza, il dire che l'uomo è un composto di corpo e di anima è dire che è un composto di materia e di spirito, e, secondo quanto abbiamo detto, di morte e di vita.

D. Come spieghi la, sopravvivenza? R. Per una parte di sé, quella che vedi, l'uomo è un frammento dell'universo, un punto d'incontro di forze generali. Ma, di fronte a questo aspetto essenziale del nostro essere e a queste energie inferiori, troviamo una eccedenza di essere e di attività che il pensiero svela, e l'amore, la libertà, la sensibilità superiore, la vita morale mettono in opera. È quanto abbiamo rivelato a proposito della creazione dell'uomo. In ragione di questa eccedenza, di questo soprappiù in rapporto all'ambiente fisico, noi non possiamo supporre che l'anima dipenda nel suo sbocciare, nel suo essere attuale, ne per conseguenza nella sua durata e nel suo fine, unicamente dalle potenze cosmiche; essa le oltrepassa e deve sopravvivere ad esse. Essa nasce nell'occasione di un'attività corporea; è soggetta all'azione delle forze che si rivelano nel corpo, senza tuttavia ridurre la sua attività inferiore o le sue manifestazioni a una risultante di queste forze abbandonate al determinismo. Dunque la sua sorte non dipende, a titolo esclusivo, dal luogo in cui agisce presentemente; essa ha un avvenire proprio; la ruota della fortuna non la trascina se non in parte nella sua rotazione; una scossa, ed eccola prendere la tangente.

D. In due parole...

R. Quello che spiega l'immortalità della vita è l'immortale della vita.

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D. Questo spiega, mi dici; ma questo prova? R. Prova a certe condizioni, cioè se si ammette che Dio non distrugge egli stesso quello che non porta in sé un principio di distruzione. D'altronde, se, per l'anima, si tratta di una immortalità cosciente e attiva, bisogna credere possibile un funzionamento spirituale indipendente da ciò che si chiama cervello pensante.

D. Come pensare senza l'organo del pensiero? R. Appunto, il cervello non è propriamente l'organo del pensiero. Gli è indispensabile quaggiù, ma per l'elaborazione della sua materia, che è l'esperienza fisica. Il pensiero, propriamente parlando, è indipendente dal cervello, non vi è neppure proporzione precisa tra l'attività pensante e l'attività del cervello, come ha dimostrato Bergson.

D. Se il cervello è indispensabile al pensiero quaggiù, come tu ammetti, perché non gli è indispensabile altrove?

R. Uno stesso potere, collocato in diverse condizioni, può avere diverse esigenze.

D. Da che dipenderebbe, secondo tè, la differenza? R. Qui siamo di fronte a un mistero; ma si può credere che si tratti, per l'anima, di una differenza di orientamento e di attenzione profonda. Unita al corpo, essa è assorbita dal corpo e assediata dalle sue oscure chiarezze al punto di non potere aprirsi a un'altra luce. La sua propria luce spirituale le sfugge prima dell'esperienza delle cose; essa non si rende conto che è spirito se non dopo aver fatto atti spirituali riguardanti i corpi.

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D. È una condizione sorprendente! R. Sorprendente di fatto, ma che dipende dalla debolezza di quest'anima, posta nel più basso grado degli spiriti, in vicinanza alla natura corporea. Quando si rinette a questa condizione, si capisce che l'anima, povera di spiritualità per natura, e immersa nel corpo che tenta di accaparrare tutte le sue energie disponibili, possa essere come offuscata da questo corpo, abbagliata dalla materia, se si può dire così, e resa impotente a percepire lo spirito, perfino quello che è in lei e che è lei stessa. La pellicola di luce che circola sopra la nostra terra non basta forse a nasconderei tutto il cielo? I nostri deboli occhi, abbagliati, non possono valicare questo sbarramento di luce; bisogna aspettare la notte perché si riaccendano le stelle. La notte rivelatrice, per l'anima, è la morte.

D. Perché la morte sarà una rivelazione? R. Perché l'anima, sciolta, sarà restituita alla sua natura spirituale, e, cosciente di se stessa immediatamente, voglio dire senza il condizionamento dei sensi, potrà inoltre sperimentare l'invisibile.

D. Quale invisibile?

R. Gli altri spiriti, diventati ora il suo dominio e, se posso dire così, il suo mondo; ma soprattutto Dio, se a questo Dio piace di diventare per l'anima — per una discesa d'intelligibilità, invece che per una salita — quello che prima era l'universo.

D. Perché Dio lo vorrebbe?

R. Perché è il fine della sua creazione, e soprannaturalmente, il fine di tutta l'opera redentrice. Quaggiù, noi siamo abbandonati all'universo per l'informazione

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della nostra mente come per la nutrizione della nostra carne; l'universo, espressione dell'idealità creatrice; vestigio di Dio ossia sua immagine, ce ne comunica quello che può e quello che noi ne sappiamo ricavare; ma il contatto di Dio, che è il termine del grande movimento che opera l'anima attraverso alla vita, ci congiunge alla sorgente stessa di questa idealità: noi attingeremo da essa come un tempo dal tesoro dei fatti circostanti, come la carne beve il succo del mondo.

D. Perché desidereremmo un tale avvenire? R. Perché tal è la destinazione che Dio ci da, e del resto questa brama, checché ne pensino alcuni, è insita nel più profondo della nostra natura.

D. Aspiriamo noi a pensare in Dio? -R. Aspiriamo a pensare in Dio perché aspiriamo a pienamente vivere, perché la nostra vita piena è solo in Dio, e il pensiero, per lo spirito, è la stessa essenza della vita, condizione fondamentale di ogni altra attività del nostro essere.

D. Da che cosa riconosci un tale istinto? R. Da quella inquietudine infaticabile e inestinguibile che è in noi, da quel tormento dell'infinito che è lo stimolo del pensiero, la molla dell'azione, e che spiega la loro storia. Noi pensiamo per cercar di captare in effige quello che non si può raggiungere in sé; parliamo per coprire il grido che è in fondo ai nostri cuori; operiamo per scansare il cammino sovrano, decisivo, che talvolta non osiamo tentare perché le sue esigenze ci fanno paura, e che ad ogni modo non possiamo che iniziare, già in questo mondo. Nell'essere umano vi è una attesa

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essenziale che tutto può soddisfare, veduto in desiderio, in aspettativa, cioè in quanto al suo fantasma, ma che niente può soddisfare nella sua realtà acquistata, nel suo chiaro possesso. Ogni uomo può dire come Barrès nelle sue Memorie postume: « Ho camminato verso l'orizzonte per cogliervi qualche cosa che non esiste ».

D. Tu descrivi quel tipo di natura umana che diciamo precisamente una natura inquieta. ^ Io descrivo la natura stessa, che è un'inquietudine sostanziale, se così posso esprimermi, poiché nessuna soddisfazione, per quanto sostanziale sembri, l'acquieta mai.

D. Ecco ciò che bisognerebbe far vedere. R, Non è forse evidente, che la cosa posseduta non ci soddisfa punto, e che tosto si passa ad altro? Quello che noi bramiamo dopo, essendo della stessa natura, non ci può soddisfare maggiormente, e di fatto, sopravvenendo, non ci soddisfa più. Un possesso non è che un desiderio spento; un ricordo non è che « un desiderio che si rimpiange » (flaubert): quello che si possiede o si è posseduto non è dunque ciò che veramente desideravamo. La nostra brama ha sbagliato oggetto, diciamo anzi che ha sbagliato universo, e che avrebbe dovuto risonare, al di là di tutti gli echi di questo mondo, in un altro mondo.

D. Di certi felici successi non diciamo noi che sorpassano U nostra attesa?

R. La nostra attesa è sempre ingannata, anche quando è superata; perché quello che attendevamo da queste fortune misurate in se stesse, l'attendevamo in noi come pienezza, ed è la pienezza che non raggiungiamo mai.

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D. Non sempre siamo ingannati in tal: modo. R. Siamo sempre ingannati davanti a qualsiasi oggetto, in possesso di qualsiasi beatitudine, appena cade il velo d'una passione allucinata o d'un capriccio puerile, appena l'anima profonda si desta. E questo ci dice che il fine di questa vita non è nella vita stessa; questo ce lo dice con più evidenza che la sventura, che l'ingiustizia subita, che le delusioni affatto diverse cagionate dalle nostre impotenze e dai nostri spropositi. La norma secondo cui si giudica della nostra miseria e dell'insufficienza di tutte le cose visibili è la felicità.

D. È necessario che noi abbiamo quello che ci manca? R. È forse naturale che la nostra idea, la nostra aspirazione abbiano più ampiezza del nostro essere e della somma dei nostri poteri? Non è questo un segno evidente?

D. Un segno di che?

R. Un segno della nostra vocazione sovrumana e sopraterrena. Perché, infine, non bisogna forse credere nell'anima propria, come dice la Scrittura? L'appello inferiore è un fatto proprio come la gravitazione; il suo punto di partenza è assai più profondo e ben altrimenti alta è la sua portata. Qual è il significato di questo fatto, se non vi è niente fuori dell'esperienza? Come mai l'idea della pienezza può anche solamente affiorare nei nostri fragili cuori, se non siamo fatti per la pienezza? Se tutto termina in una mediocrità irrimediabile, perché, in noi, questa spinta verso speranze illimitate? Noi non possiamo raggiungere ciò che è evidentemente il nostro fine, ciò verso cui, per l'autentico impulso del desiderio profondo, la natura ci butta. La traiettoria umana si de-

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linea, lascia vedere le sue coordinate, e non le possiamo in alcun modo percorrere. Noi siamo un albero la cui specie è nota e che, sul suo terreno di nascita, non presenta il suo getto normale, la sua fioritura, la sua fruttificazione naturale. È « uno sconcio » (pascal). Non può finire così ogni cosa.

D. Perché?

R, Perché la natura naturante, in noi, non s'inganna, e non ci inganna. Non può dirigersi verso il vuoto. Uscita dall'ambiente universale, essa lo riflette e ne esprime la legge. Non si cerca naturalmente se non ciò che si può trovare. Se non vi fosse l'erba vi sarebbe l'erbivoro? Colui che constata il desiderio insaziabile nel quale consiste essenzialmente l'essere umano e nega che sia possibile la sua soddisfazione, rassomiglia all'uomo che ha fame e nega il pane.

D. Il sentimento di pienezza non ci è estraneo. R. Lo proviamo quando proiettiamo sopra i nostri oggetti l'immensità del sogno e nascondiamo così a noi stessi la loro esiguità. Questi oggetti ci appariscono allora quasi uccelli dell'infinito presi al laccio; per quanto insignificanti, per quanto caduchi, la nostra illusione li pervade di eternità e ne prende come un possesso infinito per l'ampiezza del gesto. Ma non è questo la smagliante conferma che l'infinito, solo l'infinito ci soddisfa? Chi ignora quale malinconia segreta vi si trova in tutte queste pienezze fallaci, appena si sposta un poco il velo ingannatore! In fondo ai nostri stati felici vi è un sentimento nostalgico, e a che cosa si riferisce se non a un misterioso al di là?

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D. Credi fu che molti sappiano queste cose? R. I più non le sanno, ma tutti le provano. Altro è il sentimento e altro l'analisi che se ne fa. Quando, in una chiesa, vediamo dei cristiani immersi in preghiera, noi non abbiamo alcun dubbio che i più rechino lì, per averne un sollievo, i fardelli della loro vita terrena, che essi esprimano i loro desideri umani, le loro inquietudini temporali, e che forse sia questo solo che pensano di offrire a Dio; ma scava più a fondo, e troverai altra cosa, che i migliori, e ad intervalli, tutti scorgono: voglio dire, il desiderio dell'indefinibile e del duraturo che fa corpo con questi oggetti, ma infinitamente distinto dall'ispirazione che essi provocano, il desiderio dell'ai di là di tutto, del Tutto, del Tutto misterioso.

D. Che diresti di coloro che cercano al di sotto dell'uomo, invece di cercare al di sopra? R. Il loro sentimento è lo stesso. Ciò che essi si propongono, nelle oscure regioni che loro aprono i sensi, è ancora l'infinito, riconoscibile dalla sua ombra. Spaventoso capovolgimento, fatale illusione del povero allucinato che si immerge in un mare tenebroso per pescare degli astri.

D. Tutto questo non si riferisce che all'ampiezza degli oggetti della vita, e non alla durata di quest'ultima. Pensi tu che noi vogliamo vivere eternamente?

R. Noi vogliamo vivere senz'altro, e questo esige la vita eterna. Perché, sapendo che dobbiam morire, ripugniamo noi invincibilmente a crederlo, se non perché ciò ci è inconcepibile? Noi non vogliamo perire. Non possiamo rassegnarci a un mondo che crolla, sentendo che c'è qualcosa che non crolla. Sotto la chiarezza degli

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oggetti che occupano e ingannano la nostra brama di vivere, scorre un fiume tenebroso che ci trascina, giorno per giorno, verso la notte eterna, e il nostro cuore non vi può consentire. « II silenzio eterno di questi spazi infiniti mi spaventa » (pascal).

D. Eppure la nostra brama di vivere, concretamente, si attacca a questa vita limitata. R. È impossibile capire che ci si affanni tanto per preservare « un lampo tra due notti » (enrico poin-caré). Bisogna che si abbia il sentimento profondo di un'altra vita, anche se non lo si confessa.

D. Sopravviviamo a noi stessi per via dei nostri discendenti e delle opere nostre.

R. Almeno lo tentiamo, ed è una testimonianza. Questa vita che si sforza di vincere il tempo, non è forse l'effetto e il segno dell'eternità inclusa nel desiderio? Noi vogliamo, in tutta la misura del possibile, rendere imperiture le opere nostre; nei nostri figli, nelle nostre istituzioni, nelle nostre glorie, noi vediamo delle assicurazioni contro la morte; ameremmo vederci delle speranze dell'immortalità. Ma che cosa è ciò, in realtà, se non una povera aggiunta, una dilazione concessa al desiderio, prima dell'inevitabile e imminente fine in cui saremo travolti?

D. Questa sopravvivenza in altri soddisfa la generosità, se non il desiderio proprio.

R. È bello essere generosi, e nulla è più commovente che il sentimento d'un padre, d'un amico, d'un patriota, che dice: Che importa la mia vita, purché i miei figli siano felici, il mio amico prosperi, il mio paese

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trionfi? Ma che malinconia, nel contemplatore di questa bellezza, e quale segreta delusione al cuore 'stesso di colui che si eleva, se essi giungono a dire a se stessi:

Oggi, domani, dopo domani, che importa? io lavoro per la morte!

D. È da saggi accontentarsi dei propri limiti, a più forfè ragione di potere oltrepassarli sia pure di poco. R. Questa sapienza si può attingere da Dio, ed è rassegnazione cristiana, sorella della speranza; essa può essere puramente stoica ed è certamente bella, ma non risolve affatto il problema. È urtante, è contraddittorio che la natura spinga i suoi esseri a voler durare sempre e imponga loro in nome della saggezza la rinunzia a questo stesso volere. L'anima non può adattarvisi; ne fanno testimonianza tutte le letterature, come ogni cuore umano. Del resto, come osservò Renan, « è quando l'uomo è buono che egli vuole che la virtù corrisponda a un ordine eterno; è quando egli contempla le cose in modo disinteressato che egli trova la morte ributtante e assurda. Come non supporre che l'uomo veda il meglio appunto in tali momenti? ».

D. Pensi tu che noi possiamo afferrare direttamente, in noi, questo sentimento dell'eternità che dici insito nei nostri pensieri e implicito in tutti i nostri procedimenti?

R. Non sappiamo scandagliare noi stessi. Vi sono tanti momenti in cui ci sentiamo immortali! Momenti di contemplazione religiosa, filosofica, scientifica, artistica; momenti d'estasi fuori del pensiero, fuori del tempo, perfino fuori del nostro oggetto, nell'amore; momenti di poesia davanti alla natura, in unione con le forze eterne;

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momenti di eroismo in cui sentiamo che si può aver fiducia nella sorte e che la grande vita non muore...:

tutto questo manifesta la nostra essenza vera, e, come diceva un eroe: « Che cosa è una palla al cuore? essa può far del bene ».

D. Riassumendo, tu dici: la vita è eterna o non è

niente?

R. « Tutto quello che deve finire non è niènte »

(s. agostino). Fuori dell'eternità noi siamo come colui

che si trastulla a costruire castelli di carta sull'orlo del

suo sepolcro...

D. La cooperazione con gli altri non ci viene in aiuto? R. Termino la mia frase: — ... e che aderisce a una società di mutuo soccorso per costruire meglio i castelli di carta, sostenerli, ripararli, ricostruirli... davanti al comune sepolcro.

D. In tali condizioni, la morte prende un valore che le si concede di rado.

R. Proprio Renan disse che morire è compiere un atto « di una portata incalcolabile ». /

D. Non sai quanti, oggi, negano la vita eterna? R. Il numero dei negatori non cambia in nulla le verità. I negatori, se fossero sinceri con se stessi, direbbero anche: « Io scorgo la vita che guarda attraverso le occhiaie vuote della morte » ( shake speare). Io aggiungo che in simile materia la negazione è condannabile in ogni ipotesi.

D. Perché?

R. Perché nessuno, senza un'estrema temerità, può

pretendere di essere sicuro che l'immortalità non ci sia,

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e chi non è convinto della sua realtà dovrebbe almeno rispettarne il mistero.

D. La negano generalmente per fini pratici; si ha paura che l'ideale faccia perdere il senso della realtà. R. Ciò avviene quando non si sa che cosa sia ideale e pratica, che cosa sia eternità e tempo. Si dimentica che « il Vangelo e il calendario agricolo sono opera d'uno stesso autore » (maurizio barrès).

D. Non vi è però una certa opposizione tra l'idea dell'eternità e le cure terrene? •

R. Le cure eccessive, sì, le impazienze, le preoccupazioni appassionate, ma non l'attività normale. La vita eterna ispira al vero cristiano una maniera sublime di ricevere la vita e la morte, i beni e i mali; ma non sminuisce il suo coraggio. Pensa che la civiltà moderna, e si può dire ogni civiltà, fu costruita da gente che credeva all'eternità, e tutte le nostre inquietudini per l'avvenire, come ti dicevo, vengono dal fatto che vi si crede meno.

D. Da che dipende questo?

R. Dal fatto che la vita eterna è l'autentico sostegno della vita temporale, che, senza questo, poggerebbe sul falso e si protenderebbe sul vuoto; è il suo appoggio dietro, il trascinatore davanti. Io ho bisogno di assicurarmi della vita eterna per credere alla serietà della vita nel tempo, e sarebbe sorprendente che ciò che mi difende contro ogni scoraggiamento potesse spezzare il mio coraggio.

D. A chi sono maggiormente utili queste riflessioni

sopra l'altra vita?

R. Sono indispensabili a tutti; perché « tutte le no-

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stre azioni e tutti i nostri pensieri devono prendere vie così differenti, a seconda che vi siano da sperare dei beni eterni oppure no, che è impossibile fare. un passo con senso e con giudizio senza regolarlo con la mira a questo punto, che dev'essere il nostro ultimo oggetto » (pascal). Ma evidentemente, ci guadagnano a ricordarsene quelli soprattutto che hanno più da soffrire e da combattere. Questi pensieri della morte, del giudizio, della retribuzione eterna sono lo stimolo e il freno, il sostegno e la forza di rinsavimento di molte anime. Essi rendono felici degli individui ai quali questo mondo rifiuta tutto; avverano il paradosso delle Beatitudini evan-geliche, e provocano la lunga pazienza delle prove della vita quotidiana, come l'eroica pazienza dei martiri.

D. Donde viene che essi ci sfuggono incessantemente? R. È la conseguenza del fenomeno che descrivevo a proposito dell'anima pensante. La luce del giorno ci nasconde l'immensità del cielo: così gli oggetti della vita, più evidenti, accaparrano l'anima e solo essi le appariscono reali; così il tempo, presente in noi per il fluire della carne, fa credere illusoria l'eternità, e siccome tuttavia il sentimento dell'eternità rimane, lo si trasferisce al tempo; ci figuriamo vagamente che questo tempo fugace non debba finire.

D. Ciò non avviene incoscientemente? R. Per lo più; ma avviene pure che ciò sia volontario, e allora l'insensato o il peccatore si vuole procurare una pace illusoria. « Senza darci pensiero noi corriamo al precipizio, dopo esserci posto qualche cosa davanti per impedirci di vedere » (pascal).

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D. Queste parole sono tragiche! R. Leggi anche queste: « Tra noi e l'inferno o il cielo, non vi è di mezzo che la vita, che è la cosa più fragile del mondo ».

D. Se si pensasse così costantemente, non si potrebbe più vivere.

R. Forse si vivrebbe meglio a pensarci sovente. In quanto al pensarci costantemente, nessuno lo raccomanda. La buona vita esige la nostra attenzione, anzi il nostro entusiasmo; una volta mirata la mèta, e richiamata al pensiero di tempo in tempo, non c'è bisogno di ipnotizzarsi sulla morte.

D. Che pensi delle trasmigrazioni, di quelle altre vite, anteriori o posteriori, di cui trattano gli spiritisti, i teosofi?...

R. Prima di tutto penso col popolo: « Nessuno mai se ne è accorto »; i teosofi s'immaginano, suppongono;

gli spiritisti si fidano di fenomeni mal conosciuti, in cui il ridicolo fa a pugni col sublime: lì non vi è proprio nulla da sapere. Dopo ciò, dico col Vangelo, correggendo la formula popolare con una riserva divinamente giustificata: Nessuno è salito in cielo, salvo colui che è disceso dal cielo, il Figliuolo dell'Uomo che è in cielo.

D. L'idea di trasmigrazione ha un significato morale;

si tratta di purificazioni successive, di una prova della libertà.

R. Tutto questo ha soddisfazione nel sistema cattolico, e con garanzie di verità, invece dell'asserzione arbitraria di un pensatore. Gesù dice quello che sa; il teosofo dice quello che non sa. In fatto di prova, questa è più che sufficiente, e Dio non ha bisogno di tante esperienze per

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sapere ciò che valgo; egli scruta ; reni e i cuori e li giudica in conseguenza.

D. Dove va dunque l'anima nostra dopo la morte? R. Questa domanda, presa alla lettera, non ha senso. L'anima non va in nessun posto, giacché non è un corpo e perciò non è soggetta alle localizzazioni nello spazio. La morte, per l'anima, non è punto un cambiamento di luogo, ma un cambiamento di stato; l'anima funziona diversamente; percepisce altre cose; è in relazione con altri esseri.

D. E arriva così alla fissità?

R. A una fissità che non è un'immobilità, ma che, rispetto alla situazione attuale, è un termine, e, rispetto alla morte vivente che è la vita del corpo, una vita immutabile. Noi abbandoniamo la regione in cui tutto passa, per entrare in quella in cui tutto è.

D. Tu concepisci questo come un'armonia dell'opera

divina?

R. Sarà di fatto l'armonia di tutto, in ragione della

quale Leone Bloy parlava del « grande organo della vita

eterna ».

D. E il punto di arrivo di tutto? R. « La terra è come le arie di marcia della chiesa;

essa è per salire al cielo » (e. péguy).

D. È forse quello che tu chiami, usando la formula degli Alessandrini, il ritorno a Dio? R. Tutto il movimento della natura materiale, della vita, del pensiero, dell'attività morale e sociale degli esseri di fatto non è che un vasto riflusso. La creazione è

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un immenso sollevamento di marea che sfugge dall'oceano divino e che vi ritorna.

D. Ma non ciascuna morte individuale esprime questo

ritorno.

R. Nel sollevamento della marea, non tutte le onde

arrivano nello stesso tempo, e sono precedute da spruz-

zaglie. E nel giudizio universale si spiegherà sotto i

«nuovi cieli » sulla « nuova terra » la grande-massa

delle acque.

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IL GIUDIZIO PARTICOLARE

D. Credi tu a un giudizio dell'anima dopo la morte? R. Noi crediamo che, subito dopo la morte, l'anima prende la dirczione di vita che conviene a' suoi meriti.

D. Dove pensi che abbia luogo questo giudizio? R. Là dov'è l'anima, là dov'è Dio, e ho già detto che questo non è un luogo materiale. Noi siamo sempre in Dio; non c'è bisogno di viaggio per raggiungerlo. La vita eterna è essenzialmente uno stato, non un luogo, e se essa è tale nella sua pienezza, tale è pure nel suo cominciamento.

D. È sfrano!

R. Sì, è un mistero, che uno possa immergere in Dio tutta la sua vita senza accorgersene, e quale risveglio, trovarsi tutt'a un tratto davanti a lui nella piena luce!

D. Non vi è dunque tribunale? R. È questa una metafora tolta dalla vita sociale.

D. Che cosa significa questa metafora? R. Comparire al tribunale, per l'anima, è prendere davanti a Dio coscienza di ciò che essa è, di ciò che vale,

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di ciò che ha fatto, di ciò che ha utilizzato o profanato, e di quello che ne segue per la sua sorte eterna.

D. Non vi è dunque sentenza, come non vi è tribunale? R. Non vi è bisogno di sentenza. Il nostro bilancio interiore con le sue conseguenze: ecco la nostra sentenza. Sotto gli auspici della grazia, de' suoi gradi o della sua assenza, la vita eterna è in noi sostanzialmente; ciascuno porta in sé il suo inferno o il suo cielo. Colui che fa il bene è subito beatificato nel suo intimo, come una terra seminata che le stagioni favoriscono; colui che fa il male è subito colpito mortalmente nel suo intimo, spogliato, disorganizzato, tagliato fuori di comunicazione con Dio, sola forza che arricchisce, consegnato alla creazione che gli diventa ostile, e così votato alla sventura.

D. L'unico tribunale è dunque in noi?

R. Sì, ed è la coscienza; ma la coscienza voce di Dio,

e non la falsa coscienza formata dai nostri vizi.

D. Questo tribunale è sempre in attività?

R. È sempre in segreta attività; ma al termine, tutto

verrà alla luce del sole.

D. Ed è anche in noi il luogo di esecuzione? R. E dove sarebbe, anzitutto? Si tratta del nostro destino. Ma la creazione vi collabora. Operi bene o male, l'uomo è subito trasformato nella natura della sua propria azione, posto così in accordo o in conflitto con l'ordine morale che fa capo a Dio. La sua felicità o la sua infelicità sono fin da questo momento acquisite, salvo che egli non cambi. Noi siamo di fronte al mondo come colui che fa la sua scelta prima di partire.

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D. Siamo noi dunque, rigorosamente parlando, gli agenti del nostro destino, compreso il nostro destino eterno?

R. Noi siamo gli autori del nostro destino, nel quadro dell'ordine voluto da Dio. Il destino eterno non è che la manifestazione dello stato di coscienza che il giusto o il peccatore hanno preparato in se stessi, e la fissazione eterna de' suoi efletti. L'uomo vola allora con le sue proprie ali e respira del suo alito, quell'alito dello Spirito Santo la cui grazia gonfiò il suo cuore;

oppure è preso nelle sue proprie reti e vi soffoca. « Dio per punire il male, non ha che da lasciarlo fare » (la-cordaire). « La loro colpa non è una cosa e la loro pena un'altra; ma contro di loro si rivolge la loro colpa stessa » (s. gregorio).

D. Perché si parla allora di vita futura? La vita eterna è tutto il tempo.

R. Difatti, la vita futura non è futura; adesso appunto noi vi entriamo. « II regno di Dio è dentro di voi », disse nostro'Signore. La vita eterna non si estende in durata, ma in profondità, e la successione dei nostri giorni non serve che ad acquistarla o a ritrovarla se l'abbiamo perduta.

D. E anche il ciclo e l'inferno occupano tutto il tempo?

R. Essi non sono tutto il tempo nella sua manifestazione, ma sono tutto il tempo nella sua sostanza; perché alla fine non fanno altro che rivelare due stati dell'anima: lo stato di grazia o l'assenza di grazia, la virtù o il peccato.

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D. Donde viene che non lo sentiamo?

R. Ho già risposto parlando della grazia. Come mai

spaccando un seme, non vi si trova il fiore, o la spiga?

D. Vorrei capire la differenza precisa tra la coscienza di oggi e la coscienza nell'ora del giudizio. R. Oggi la coscienza ci avverte; allora sarà tutta occupata nel convincerci. Qui la sua voce è coperta dai nostri desideri, dalle nostre passioni; allora essa stessa coprirà ogni voce e si pareggerà all'anima tutta quanta, tutta riflessa in se stessa. Non abbiamo detto che l'anima separata sarebbe a se stessa il suo proprio lume, sotto l'irradiamento divino?

D. Una sincerità assoluta, e in qualche modo sostanziale? R. L'identità con se stesso, nella propria chiarezza.

D. formidabile sincerità!

R. Sincerità formidabile per tutti, e per il peccatore terrificante, crudele come l'inferno, del quale essa è una parte. Perciò Tertulliano evoca con una specie di terrore quell'ora in cui l'anima « sarà tutt'insieme e il reo e il testimonio ». •

D. Che confusione, senza dubbio! R. Una confusione infinita, davanti all'infinita perfezione divina e alle possibilità infinite che in se stessa aveva l'anima peccatrice. Eccola quest'anima miserabile privata della suprema e futile consolazione di lagnarsi;

infatti dove trovare una commiserazione disponibile, in colui che dichiara se stesso e di iniziativa sua la causa de' suoi mali?

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D. E tutto ciò è irrevocabile? R. Ciò è necessariamente irrevocabile, se uno è veramente arrivato al termine; perché la durata è irriversibile. Il destino non riprende mai da capo.

D. Il dramma antico non ha niente di paragonabile a

una tale fatalità!

R. È vero, e vi è di che allibire, quando si pensa che

nei nostri cinquanta, sessanta o settant'anni — o anche

in uno spazio più breve — una formidabile eternità si

nasconde.

D. - Ma noi possiamo rinunciarvi? R. « Noi siamo imbarcati » (pascal). La felicità è la nostra vocazione, e noi non possiamo rinunziarvi senza delitto. Felicità, infelicità, ecco l'alternativa. E Dio era debitore a se stesso di proporci l'opzione; ma non vi è nulla che ci autorizzi a rigettare il problema, perché la felicità, qui, coincide col dovere. Se il Signore dei nostri cuori vuoi renderci felici, è una ragione 'per disubbidirgli?

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L'INFERNO

D. L'inferno è lo scandalo.

R. Non ti nascondo la mia emozione, nel momento di parlartene con piena sincerità. Vi son qui dei profondi misteri. Ma tè ne prego: non formulare alcun giudizio prima d'aver letto quanto segue.

D. L'inferno non è uno spauracchio leggendario, un mito?

R. L'inferno non è un mito; esso figura nel Vangelo in termini espliciti, e la sua affermazione fa parte integrante del deposito della fede. Ciò che è esatto è che talvolta la nostra immaginazione se lo figura, è vero, sotto forme inevitabilmente miriche, più che razionali, come ne fanno testimonianza tante opere di fantasia, delle quali il poema di Dante è la più nota.

D. Tu ripudii le immagini del fiorentino, quelle delle cattedrali gotiche, quelle dell'Angelico, di Michelangelo, del Tiepolo, di Giovanni Goujon, e di tanti altri? R. Le ammetto per quello che sono: immagini, cioè figurazioni simboliche, che bisogna guardarsi dal pren-

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dere alla lettera, e che forse sarebbe bene oggi sostituire, perché esse si allontanano troppo dalla realtà, e traviano la mente.

D. Ad ogni modo tu tieni ferma la realtà dell'inferno? R. La affermo con la fede cattolica, e aggiungo che essa risponde a una necessità del piano universale così come ne abbiamo tracciato il disegno. L'inferno è una conseguenza terribilmente logica di quello stesso che esalta le nostre speranze, se la speranza sbaglia la sua strada.

D. In che consiste questa necessità di piano? R. Non vi è che un Dio, non vi è che un Salvatore;

non vi è che una sorgente di vita e di salvezza; e noi abbiamo veduto che è possibile attaccarvisi in più modi;

ma non c'è dubbio che chi se ne distacca, si perde.

D. Perdersi, cioè non fare capo là dove uno vuole e deve arrivare, è andare all'inferno? R. Sì; perché riguardo all'essenziale non vi è stato intermedio. Chi non entra nell'ordine offende l'ordine. Chi non vuole Dio offende Dio di un'offesa infinita per il suo oggetto, per l'infinita bontà che lo propone, per le tenere industrie e la pazienza che lo mettono e lo mantengono a disposizione della nostra libertà. Per questo Gesù disse: Chi non è con me è contro di me, e nei due casi la scelta implica tutte le conseguenze.

D. Quali conseguenze?

R. Colui che offende l'ordine col peccato dev'essere ricondotto all'ordine con la pena. Colui che respinge Dio deve sentire l'abbandono di Dio. Avendo sdegnato

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l'amore, il peccatore deve vedere la giustizia adoperarsi a vendicare l'amore.

D. Quale ordine può turbare un piccolo peccatore? R. Fortunatamente nessuno, alla fine dei conti; ma quello che il peccatore non può effettuare, in realtà lo tenta; non potendo turbare l'ordine eterno, egli lo offende, e se l'ordine non è turbato, ciò avviene a questa condizione che vi sia contro di lui una reazione com-pensatrice. « La pena è l'ordine del delitto » (s. agostino).

D. il peccatore non è libero, nell'universo? R. Il peccatore è libero d'impegnare la. lotta contro l'ordine, ma non di vincerlo. Nella sua totalità eterna, l'ordine è divino; esso resiste, e contro di esso vi è una sola possibilità: schiantarsi. Non abbiamo detto e non sostieni tu stesso che Dio è la pienezza dell'essere, l'onnipotenza, l'Azione per eccellenza? Che se, per un miracolo, egli potè fare degli esseri capaci di porre atti che procedessero dalla loro iniziativa, e perciò capaci di ubbidirgli o di urtare i suoi voleri, è giocoforza — sotto pena che qualche azione sfugga all'Azione e qualche essere all'Essere — che al di là di questa azione creata si ritrovi l'azione di Dio, per ricondurre al suo proprio ordine, con l'approvazione o con la costrizione, quello che lui stesso non ha fatto.

D. Se l'ordine è divino, vi sarà pure posto per'l'indulgenza.

R. L'indulgenza ci attende, e, appena vi acconsentiamo, essa ci reintegra nell'ordine; ma, nel caso del pec-

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catore impenitente, non deve essa riparare anche l'ordine eterno che egli ha compromesso?

D. Non capisco bene questa bilancia di compensazione, che pare volere equilibrare un male con un altro. R. Il peccato è un male; la pena è un altro male; ma che il peccato sia riparato dalla pena, è un bene; come se dicessi: la cancrena è un male; l'amputazione d'un-membro è un altro male; ma l'asportazione d'un membro incancrenito è un bene, certo non in sé, ma per il resto dell'organismo.

D. Dio non è forse tanto grande da lasciar correre, e sorridere, come fa nella Bibbia: « Ecco Adamo diventato come uno di noi! ».

R. L'ironia biblica è qui talmente spaventosa che non è proprio il caso d'invocarla contro i castighi divini. E che cosa sarebbe la grandezza di Dio, se essa non fosse la grandezza de' suoi attributi: bontà, misericordia, pazienza in tutta la misura del possibile; ma, dopo questo, giustizia vendicatrice che procede dalla stessa scaturigine, che è l'amore del bene?

D. L'amore del bene è una cosa, la vendetta rispetto al male è un'altra.

R. È esattissimamente la stessa cosa. Che sarebbe un amore della salute che non fosse anche odio della malattia? Amore del bene, odio del male, sono due nozioni solidali. L'orrore del male non può mancare di essere in Dio nella misura della sua perfezione. Egli permette il male in vista del bene; ma, alla fine, bisogna che questa « quantità ausiliare » si elimini, e se la libertà mantiene il male in se stesso, bisogna che l'ordine del bene esploda nella repressione.

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D. Tutta l'opera di Dio non è .che una effusione di

bontà.

R. « Tutta l'opera della giustizia divina (alla sua volta)

non è orientata che al bene » (ter/tulliano). Ma quando

la giustizia non può più adoperarsi a ordinare il bene

che la bontà divina comunica, è necessario che essa si

adoperi a riparare il male che essa condanna.

D. Ogni male è un oggetto di pietà, e la pietà è divina. R. Il male è un oggetto di pietà quando è involontario, nella misura che è involontario. Si compatisce l'uomo che soffre senza averne colpa; si compatisce il reo che si pente; lo si compatisce, anche ribelle, se si pensa capace di pentimento; ma l'indurito — solo questi può essere condannato — non offre più alla pietà alcuna occasione. La pietà è divina; ma, dice Cariyle, « un essere che non conosce il rigore, non conosce neppure la pietà », perché la sua pretesa pietà non potrebbe essere che dabbenaggine o codardia. Al Dio amico del bene e nemico del male, preferisci tu l'impassibile testimonio dei razionalisti, o lo sciocco « Dio della buona gente »? Dio non può essere immensamente buono se non a patto di essere anche terribile. Se si ammette un attributo senza l'altro, una bontà senza giustizia, Dio non è più Dio. ^

D. Se Dio è Dio, egli è un operatore di felicità. R. Perciò organizza ogni cosa in vista della felicità. Ma l'ordine ch'egli stabilisce non sarebbe un ordine morale, se fosse possibile essere felici allontanandosi dal bene. Quale coscienza si potrebbe credere onesta, se si offendesse della giustizia di Dio? È possibile pensare un Dio sotto il cui regno il male possa spassarsela e

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sfidare la vendetta? Dio non deve forse proteggere la bontà, perché non diventi oggetto di derisione da parte del vizio? «Dio non si lascia deridere» (s. paolo),

D. Quasi quasi, tu fai dell'inferno un'opera d'amore! R. È quello che fa Dante, il quale attribuisce al « Primo Amore » la costruzione della città infernale.

D. È un lugubre paradosso! R. È una penosa verità, che tu trovi alla lettera nel Vangelo, poiché appunto per illustrare il suo comandamento dell'amore, e come una conseguenza del suo proprio amore unito a quello di suo Padre, Gesù con solennità pone davanti agli occhi de' suoi ascoltatori il tribunale supremo: Allora il rè dirà a quelli che sono alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio... perché io ebbi fame e voi mi avete dato da mangiare, ecc. E a coloro che saranno alla sua sinistra.: Andate, maledetti, nel fuoco eterno... Il dittico tenero e terrificante:

« Venite, benedetti », « Andate, maledetti », è chiarissimamente presentato come una sanzione del doppio precetto: Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi. Se voi mi amate, osservate i miei comandamenti.

D. Nel nome di che cosa l'amore divino esige l'inferno?

R. Nel nome di una reciprocanza la cui assenza è un orribile scandalo ben più grave che quello dell'inferno. Ci scandalizziamo dell'inferno 'mentre non diamo nessuna importanza al peccato, mentre disprezziamo praticamente la grandezza di Dio, ma in special modo mentre sdegniamo di pensare a tante misteriose prevenienze, a tanti benefici, a tanti perdoni, a tante misericordie, men-

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tré ci dimentichiamo di apprezzare la croce, il tabernacolo e il cielo.

D. Certi santi ebbero spavento dell'inferno. R. Tutti i santi ebbero spavento dell'inferno; ma non si scandalizzarono se non della nostra incoscienza. Lì stava per essi il « mostro », come direbbe Pascal. Ferventi nell'amore, capirono che l'amore è altrettanto esigente che la giustizia, e che, beffandosi dell'amore divino, si deve correre un rischio in proporzione con la mercede, che qui è infinita, poiché la ricompensa è Dio stesso.

D. L'amore si vendica allora? R. All'amore divino, per vendicarsi, basta ritirarsi in se stesso; questa assenza, per noi che dobbiamo attendere tutto da Dio, porta con sé una spaventosa sventura, e ne segue per giunta il ritorno contro di noi di tutto ciò che l'Amore regola, di modo che noi ci veniamo a trovare al bando dell'universo intero. È quello che Bossuet chiama « la collera della colomba », certo per metafora e non prendendolo se non quanto agli effetti. Nello stesso senso il P. Lacordaire dice: « Non^ la giustizia, che sia senza misericordia, ma l'amore ». « L'amore è la vita o la morte, e quando si tratta dell'amore di un Dio, è l'eterna vita o l'eterna morte ».

D. Un amore che si muta in tal modo scopre i suoi limiti.

R. L'amore divino non ha altri limiti fuorché i rifiuti oppostigli dalla nostra libertà. Di più, esso non tiene nessun conto dei nostri rifiuti parziali e provvisori, per quanto gravi e ripetuti siano essi. Una sola cosa lo disarma: un rifiuto decisivo e ostinato. Allora siccome la

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sorgente delle grazie è esaurita da un'inespiabile infedeltà, come potrebbe arrestarsi il torrente della giustizia? Per essa, lo stesso amore è impegnato a punire.

D. Così Dio riporrebbe la sua gioia nella sofferenza della sua creatura?

R. Dio ripone la sua gioia nella gioia della sua creatura, entro l'ordine nel quale riposa tutta quanta la creazione. Fuori di lì, Dio ripone la sua gioia non nella sofferenza della sua creatura, ma nell'ordine della giustizia. Non bisogna forse che, dopo avere esaurite tutte le sue prevenienze, l'amore di Dio « si giustifichi di fronte alla sua giustizia »? (bossuet). E fa ciò abbandonando il peccatore nelle sue mani.

D. Passiamo sopra il principio dell'inferno; ma come lo concepisci e quali sono le sue pene? L'inferno è un luogo?

R. Ho detto che la vita eterna, felice o infelice, è essenzialmente uno stato, e non un luogo. Tuttavia un luogo non le può essere estraneo, poiché noi crediamo a un aspetto fisico di questa vita, specialmente/dopo l'ultima risurrezione.

D. Ritorni dunque al « fuoco », che sembravi scartare or ora?

R. Io scartavo le caldaie bollenti, le fiamme lambenti i corpi, o Satana con la bocca piena di dannati... Ma devo mantenere — del resto vi si rivela una grande logica — una pena che deriva dal mondo corporeo e che il Vangelo ravvisa nel fuoco, come raffigura nel verme roditore il rimorso che tortura le anime.

D. In che consiste questa pena? R. Non lo sappiamo. Per saperlo ci occorrerebbe una

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scienza universale circa la materia del mondo, i suoi poteri, le sue relazioni con la carne e con lo spirito.

D. Perché sarebbe necessaria questa scienza totale? R. Perché si tratta qui di rapporti fondamentali, che impegnano l'essenza ultima delle cose, giacché si tratta dei rapporti eterni. Si può sapere come una fiamma disgreghi un corpo mortale; ma quale contatto si possa stabilire tra una sostanza nociva e un corpo immortale, anzi con un'anima, chi ce lo dirà? S. Tommaso è di opinione che si tratti di uno spaventoso costringimento, risultante dal fatto che il peccatore, rigettato fuori dell'ordine, è oppresso da questo fino a un'angoscia senza nome.

D. L'ordine può forse opprimere? R. Nulla vi è così oppressivo come l'ordine, per colui che vi penetri e non vi aderisca. Rappresentati un folle smarrito in mezzo a un esercito in marcia: senza che nulla gli sia ostile, egli è molestato da ogni parte. Porta ciò fino all'intimo degli esseri e dei loro più segreti poteri, e tu potrai forse farti un'idea di 'che cosa sarà questo tormento inenarrabile e quanto invece sono grossolani quelli che la nostra barbarie inventa. E questa ragione che faceva dire a S. Tommaso che i supplizi dell'inferno, che scaturiscono dall'essenza stessa delle cose, sono in confronto di quelli di quaggiù quello che è un fuoco reale in confronto della fiamma dipinta.

D. Ciononostante, io non capisco come un'anima separata dal suo corpo (fino al giorno del Giudizio) possa soffrire un dolore fisico.

R. Il corpo di un mutilato soffre del membro asportato: così in qualche maniera l'anima amputata del suo

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corpo. Nel primo caso, si tratta di terminazioni nervose e di una falsa localizzazione; nel secondo, dei poteri fisici di cui l'anima è dotata in se stessa, benché essa quaggiù li eserciti mediante il corpo.

D. Ma perché l'universo opprimerebbe il peccatore? R.. Perché l'universo è di Dio e opera ai fini di Dio. Finché noi siamo legati a Dio, fosse pure con un vincolo provvisorio, l'universo — sia pure provvisoriamente — lavora altresì per noi. Ma nel caso definitivo, il peccatore, diventato nemico di Dio, vede l'universo diventargli ostile, e ostile sino a' suoi ultimi confini. La marea degli esseri l'assedia^ perché questo mare ubbidisce a un ritmo che al peccatore è diventato estraneo, e che gli è dunque contrario. « La natura se non è divina, è diabolica. Se l'uomo è vero, retto e fedele, la grande Realtà lo porta; se non è tale, il mondo prende fuoco

SOttO di lui » (CARLYLE).

D. È il rovesciamento delle parti. R. Di fatto tutto il piano della nostra vita ne è sconvolto: l'ordine divino del quale noi dovevamo essere beneficiari fino alla suprema felicità, si precipita contro il suo violatore diventato nemico di Dio, e per conseguenza nemico dell'uomo che è unito a Dio, nemico di se stesso, abbandonato all'anarchia inferiore, e nemico dell'universo.

D. Sconfitta.'...

R. Sconfitta totale, anarchia morale decisiva, che equivale a un'anarchia vitale eterna e universale, a un vivente morto, come di un cadavere che avvertisse la propria dissoluzione.

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D. È questa la più grande pena dell'inferno?

R. È di gran lunga la minore. La più grave è quella

che da il suo nome alla dannazione, la pena del danno.

D. In che consiste?

R. Consiste nella privazione di Dio ed essa è « tanto

grande quanto Dio » (s. agostino).

D. La privazione di Dio può essere una così gran pena? Non vedi che il peccatore vi si adatta?

R. Il peccatore si adatta alla privazione di Dio perche non conosce ne Dio ne se stesso, e quindi non si può rendere conto dell'intimo e profondo rapporto dell'Essere primo con ciascun essere, ma soprattutto con l'essere ragionevole, che è nella possibilità di tuffarsi in Dio, in un modo che supera ogni speranza. Crediamo che nell'ora del giudizio, una subitanea rivelazione di questo rapporto venga fatta a ogni anima. È il lume del giudizio stesso. In seguito, per il miserabile dannato, questo lume diventa un testimonio ineliminabile della sua sventura.

D. Si prova difficoltà a rappresentarsi questa angoscia. R. Rappresentarsela è impossibile; ma riflettendo a quello che è Dio e a quello che egli è per noi, Tesoro dell'essere in cui si trovano contenuti in modo sovreminente tutti gli oggetti della nostra ricerca, vi è già qualcosa di spaventoso nel supporre tra Dio e un infelice bandito l'eterno addio, « Addio, Padre mio; addio, Fratello mio; addio, Amico mio; addio, mio Dio; addio, mio Signore; addio, mio Maestro; addio, mio Rè; addio, mio tutto! » (bossuet). Che Dio concepisca una specie di odio per la sua creatura, cioè — poiché Dio in se stesso non è punto soggetto all'odio — che egli la

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lasci in un abbandono assoluto, non lasciando sussistere in lei se non la capacità della infelicità, invece di tanti poteri che per mezzo suo sarebbero beatificanti, è spaventoso, terrificante!

D; Dunque, in quell'antro orrendo, non perviene la

luce dì Dio?

R. No. Essa perverrà sempre ai dannati, ed è la loro

disgrazia.

D. Essa non li rischiara? R. Li abbaglia.

D. No// /;' rallegra? R. Li brucia.

D. No// // attrae?

R. Li attrae infinitamente e nello stesso tempo li respinge. Da ciò proviene il loro strazio e il loro tormento.

D. La loro infelicità dunque è sema misura? R. Sì, nel suo oggetto; tuttavia comporta dei gradi, forse delle attenuazioni, delle riduzioni di pena, e se la infelicità suprema di certi dannati sta in ciò che essi non hanno la speranza di morire, si può credere che altri, meno completamente diseredati, si sentano ancora attaccati all'esistenza. È il sottile filo che allaccia ancora quegli esuli eterni a quanto noi amiamo.

D. Eterni! ecco la cosa terrificante e inaccettabile. A questo prezzo, mi sembra che preferirei non credere in Dio piuttosto che credere all'inferno!

R. Allora tu avresti fatto di questo mondo un inferno! Inferno per tutti, e specialmente per i buoni, che, come dice S. Paolo, « sarebbero i più miserabili di tutti gli uomini ». Infatti avresti scritto alle porte della vita

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e della morte, così vicine l'una all'altra; « Lasciate ogni speranza, voi che entrate » (dante).

D. Ma alla fin fine, con quale principio sufficientemente saldo pretendi tu di giustificare una tale provocazione al buon senso?

R. Mi rifaccio al punto di partenza della mia spiegazione. Non vi è che un Dio; non vi è che un Salvatore;

non vi è che una fonte di salvezza: chi se ne distacca si perde, e ciò, per sé, è irrimediabile.

D. Perché irrimediabile?

R. Perché non è possibile attaccarsi a Dio senza Dio, e perche, in un ordine soprannaturale, un soccorso soprannaturale è indispensabile.

D. Questo soccorso è forse negato in. qualche caso? R. Questo soccorso non è mai rifiutato se non a colui che lo rifiuta; ma è proprio il dannato colui che ha opposto alla misericordia divina un definitivo rifiuto.

D. Quale rifiuto può essere definitivo? Non vi è forse

la possibilità di pentirsi?

R. Sì, quaggiù; ma'nell'al di là, non più.

D. Perché al di là non più? R. Ti rispondo con precauzione, perche siamo di fronte a un mistero. Del resto perché meravigliarsi? Che cosa sappiamo noi di ciò che diventa, in quest'altro stato dell'essere, la nostra categoria del tempo? Che sappiamo noi dell'anima separata e del regime psicologico in cui essa si stabilisce? Quali siamo morendo, forse tali rimaniamo per una necessità di costituzione spirituale, per un arresto dell'evoluzione psichica in ma-

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teria di scelta. Ad ogni modo, noi sappiamo che allora non è più il tempo della grazia.

D. Vi è un tempo fisso per la bontà? R. Non vi è tempo fisso per la bontà in se stessa;

ma vi è un tempo per le sue manifestazioni, che esigono un certo ordine. Se un buon capo è sempre buono, ciò non gì'impedisce di segnare un tempo, oltre il quale non si dovrà più fare assegnamento che sopra la sua giustìzia.

D. Dio capo in tal modo, e non è più dunque padre? R. Dio è padre, ma è un padre giusto. Anche un padre può essere costretto al ripudio.

D. Che cosa può « costringere » Dio? non è forse supremamente libero nei suoi doni? R. Dio è supremamente libero; ma le opere della sua libertà comportano un ordine intimo, in cui la giustizia in un certo momento ha un ruolo necessario e insostituibile,

D. Che cosa può determinare questo ruolo? R. È quello che noi non sappiamo, ed è la nostra terza ignoranza. Per saperlo, bisognerebbe esplorare a fondo l'ordine morale in ciò che ha di eterno, come per sapere quello che è il « fuoco » dell'inferno, bisognerebbe conoscere a fondo l'ordine fisico in ciò che ha di eterno. « Le idee che abbiamo di ciò che è giusto e ingiusto sono stranamente limitate — osserva Pascal — poiché insomma non si tratta fra noi se non di una giustizia, da uomo a uomo, cioè tra fratelli dei quali tutti i diritti sono uguali e reciproci; qui invece si tratta di una giustizia da Creatore a creatura, in cui i reciproci diritti sono in una sproporzione infinita ». La giustizia

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dell'inferno dipende dall'ingiustizia del peccato. E chi può valutare il peccato senza sapere che cosa è Dio, che cosa è l'uomo nel suo rapporto naturale e soprannaturale con Dio? Dio è talmente superiore al pensiero che noi ne abbiamo; il Dio intimo, il Dio Uno e Trino, ci sfugge a tal segno che anche il peccato deve oltrepassare infinitamente le nostre misure, e la giustizia dell'inferno la nostra giustizia.

D. Ma la natura del peccato per noi e il peso delle nostre responsabilità peccaminose non dipendono forse dalla conoscenza che ne abbiamo noi?

R. Certamente; ma vi è conoscenza e conoscenza. L'uomo che arguisce nel padre suo qualche grandezza misteriosa a lui sconosciuta e qualche sacrificio segreto, ma incomparabile, compiuto in suo favore da questo padre, se egli lo offende non è forse responsabile anche di ciò che egli non conosce? Noi che sappiamo la grandezza incommensurabile del nostro Dio, l'infinita sua tenerezza, la sublimità del sacrificio della croce, possiamo forse dire con fondatezza e verità: Io non sono responsabile quanto al mistero della giustizia di Dio, sotto pretesto che nel momento della colpa non riuscivamo a rappresentarcela e a farcene un'idea adeguata?

D. La tua soluzione circa la possibilità o l'impossibilità della penitenza è dunque...

R. La penitenza è possibile quaggiù, perché noi siamo in tempo di « prova », sotto un regime di grazia, e perché la natura fluttuante delle nostre menti, soggette all'immaginazione, ora ci fa uscire dalla strada e ora ci fa rientrare. Ma strappati dalla morte a questa doppia condizione; avendo da rendere conto, e non più in condi-

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zione di « prova »; non avendo più grazie di conversione, perché non siamo più esseri in cammino (in via);

non essendo più in balìa di quelle fluttuazioni che non dipendono se non dalla nostra immaginazione, noi entriamo nel dominio del definitivo, del fisso, e « dove l'albero cade, ivi rimane ».

D. La dannazione sarebbe dunque l'effetto d'un volere definitivo e che non potrebbe mutare?

R. Quello che noi vogliamo definitivamente, nel pieno senso della parola, è di fatto quello che fissa i nostri destini, che sono destini morali. C'è lì qualcosa di assoluto, qualcosa di estraneo al tempo, qualunque sia il tempo che mettiamo a produrlo. Il determinare per saggi a tastoni quello che noi veramente vogliamo, esige del tempo, e il tempo può servire a riconoscerlo; ma quel volere decisivo che è come l'edizione ne varietur delle nostre opere morali, il tempo non lo può diminuire, non lo può modificare, non lo può consumare; l'anima lo contempla sub specie aeterni, direbbe Spinoza, in forma eterna; e volere così Dio è dunque essere un eletto eterno; e rifiutare così Dio è essere un dannato eterno. A ciò non vi è rimedio.

D. Ma che cosa è questo volere assoluto del quale tu ragioni? Vi è qualcosa di assoluto in noi? La libertà può forse incatenare se stessa a qualcosa di definitivo, e disporre per sé o contro di sé dell'avvenire?

R. Nessuno dei nostri voleri particolari è un volere assoluto in questo senso che noi lo vogliamo, nel fatto, definitivo : il peccatore indubbiamente si riserva di cambiare più tardi; ad ogni modo potrebbe fare ciò, sotto un regime di grazia, quand'anche non l'avesse voluto

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prima. Tuttavia, in ogni atto pienamente deliberato vi è una specie di volontà incondizionata della quale bisogna tener conto, una scelta senza condizione di tempo, una scelta fuori del tempo, una scelta che, se l'avvenire non dipendesse che dal volere attuale nella sua stessa essenza, varrebbe per tutto il tempo, e perciò include ciò che si potrebbe chiamare una eternità soggettiva, in via di decidere per l'altra, a meno che nel tempo che gli è lasciato il peccatore non cambi.

D. Perché non cambierebbe?

R. Egli cambia finché vuole quaggiù. Ma siccome nell'ai di là non vi è più cambiamento, è giusto, rigorosamente parlando, che, avendo il peccatore peccato « nella eternità che gli è propria », come dice S. Agostino, « Dio lo punisca nella sua ».

D. Non intendo bene questa psicologia della colpa. R. « Tutti i nostri desideri determinati racchiudono qualcosa che non Jha limiti, e una segreta brama di un godimento eterno... È dunque un giusto giudizio di Dio che i peccatori, avendo nutrito nel loro cuore una segreta brama di peccare senza fine, siano rigorosamente puniti con pene che non avranno fine » (bossuet). In altre parole, vi è qualcosa di definitivo in fondo a ogni atto di volontà, benché questa volontà possa esser ritrattata in seguito, nello stesso modo che in fondo a ogni amore, finché dura, vi è qualcosa di eterno. Ogni peccato mortale implica come una profondità infinita di abbandono. L'inferno ne è la reciprocanza. Che dico? l'inferno vi è già contenuto, come notavamo a proposito del giudizio. Per questo dicevamo che per rigoroso diritto, in sé, nel modo assoluto, ogni peccato mortale

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vale l'inferno quanto alla sua durata, nello stesso modo che esso l'uguaglia e lo supera in gravita, comportando obiettivamente, poiché è diretto contro Dio, un'infinità di offesa.

D. Che cosa è questa infinità di offesa, in un essere finito?

R. L'offesa non è infinita in noi; ma è infinita in se stessa, per definizione — la definizione dell'atto e la definizione di Dio — e noi lo dobbiamo sapere. Il bene e il male differiscono infinitamente: così lo sente ogni coscienza sincera e attenta. Non può recare nessuna meraviglia che la sorte definitiva di quelli che scelgono l'uno o l'altro sia per così dire infinitamente distante. In realtà, essa non lo sarà, ed è per questo che i santi dicono che anche nell'inferno vi sarà misericordia.

D. Resta sempre quel volere « definitivo » del peccatore, che tu fondi sopra un'esegesi psicologica un po' troppo sottile.

R. Ma io non ho detto tutto. Ho parlato solo del rigoroso diritto, giudicando del peccato in sé e dell'ordine morale soprannaturale.

D. Che cosa ti rimane ancora da dire? R. Questo: è possibile che uno dei nostri voleri, preso in particolare, per quanto sia fermo, decisivo e pieno di responsabilità in se stesso, non basti a qualificarci, riguardo al giudizio eterno. Ma dall'insieme dei nostri voleri particolari, se ne fai somma, apparisce un carattere morale che veramente ci giudica.

D. In quale momento questo carattere si determina? R. Ciò dipende dagli individui; ma è determinato al

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momento della morte, poiché è in tale momento che termina la prova. Avviene come di una sala di votazioni in cui l'urna è a tua disposizione per un certo tempo. Qualunque sia la scheda che tu deponi nel debito modo, essa decide in sé del risultato; ma tu puoi esitare, essere combattuto, ritirarti, rimettere e ritirare ancora. Ma quando è scoccata l'ora finale tutto è finito, e l'ultima scheda conta come se fosse stata la sola.

D. È dunque il caso che decide. R. Non è il caso, poiché sei tu a decidere ogni volta, e qui si potrebbe ricordare quello che dicevamo or ora del rigoroso diritto. Ma c'è dell'altro: II tempo che ti è lasciato non è fissato da qualcuno estraneo al tuo stato di spirito e a' tuoi gesti, da qualcuno che ignori le tue esitazioni, le tue riprese, le tue buone disposizioni, e del quale tutto il compito consista nel venire a vedere, alla fine, quello che vi è nell'urna. Dio è il padrone della vita e della morte; ogni decisione che egli prende ha un carattere morale in armonia col carattere della nostra propria esistenza. Dobbiamo dunque credere che l'ultima scheda sia proprio quella che conta per tutte, agli occhi di chi scruta i reni e i cuori. Di modo che un destino deciso da quest'ultima scheda sia un destino giusto, o per dire meglio misericordioso. Ecco quello che s'intende quando si dice: « Di solito si muore come si è vissuto ».

D. Perché di solito?

R. Perché il problema morale non è posto e risolto per tutti nello stesso modo, ne nella stessa relazione col tempo. Certi destini si decidono prestissimo e non per questo si decidono meno profondamente, in una maniera

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meno significativa in quanto al valore totale e decisivo della coscienza di cui si tratta. Altri destini, più regolari nel loro corso, sono da un capo all'altro quasi identici a se stessi... Nel primo caso, si potrà cominciare male e finire bene, o viceversa, senza che c'entri il caso più che nell'altra ipotesi. Ma in quest'altra ipotesi, si veri-ficherà il proverbio: si muore come si è vissuti, perché si viveva così come si era realmente senza infingimenti, agli occhi del Padre celeste.

D. È possibile, sì o no, essere dannati per un solo peccato mortale? R. È possibile.

D. Ecco dunque un povero uomo che ha condotto una vita onorata e meritoria; alla fine commette un peccato mortale, ed eccolo dannato!

R. Prendendo l'ipotesi così come suona, bisogna dire sì, ma è la stessa ipotesi che è assurda. Tu ragioni come se vi fosse un Dio vendicatore, e non una Provvidenza vigilante e buona, e come se fosse Atropo che tagliasse il filo dei giorni. Quando diciamo che un solo peccato mortale merita l'inferno a cagione della sua natura, non considerando che la sua natura, non per questo diciamo che esso l'ottenga. Se uno può essere dannato — come anche salvato — per un solo atto, è perché questo atto esprime, allo sguardo infallibile di Dio, la nostra personalità profonda tale e quale noi stessi ce la siamo data, la nostra libertà nel suo slancio totale, il nostro atteggiamento definitivo di fronte alla vita.

D. Abbiamo conoscenza noi stessi di questo fatto? R. Non mai con certezza, e per lo più in nessun modo.

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Nulla è per noi più misterioso che noi stessi. Ma quello che noi non sappiamo, benché sia opera nostra, lo sa Dio.

D. E tu dici che egli ne tiene conto? R. È impensabile che Dio tenda un'insidia alla sua creatura, per sorprenderla, dopo una vita di meriti, nel momento di una negligenza, fosse pure, per sé, mortale. I giudizi di Dio fanno la somma totale; pesano l'anima più che il fatto. L'anima nella tua ipotesi, è onesta:

dunque il tuo onest'uomo, incidentalmente in stato di peccato mortale, o non morrà, lasciandogli Iddio il tempo di ravvedersi e di rialzarsi, oppure morrà, ma prevenuto da grazie dell'ultima ora che lo metteranno in stato di operare in extremis questa stessa conversione.

D. Tu credi a grazie dell'ultima ora come a un caso normale?

R. Ogni cristiano è convinto che nell'ora decisiva, sia l'ultima o un'altra, Dio è lì. Dunque soltanto sotto il suo controllo, e non altrimenti, l'urto della morte spezza in noi la potenza di metamorfosi, e il nostro essere morale si fissa, si cristallizza, e i nostri « sì » e i nostri « no » alla legge morale si sintetizzano in un sì o in un no eterno.

D. Su che cosa appoggi tu questa soluzione? R. Sulle molteplici dichiarazioni di Dio stesso, nelle Scritture. Ovunque sta scritto in queste o in altre parole: Io non voglio la morte del peccatore, ma che egli. si converta e viva. Dunque lo stato di peccato non crea in Dio una volontà di dannazione finché la conversione non è stata rifiutata in modo decisivo, finché la persona morale non è stata espressa integralmente, di modo che la sua qualificazione decida della sua sorte. L'inferno

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è un'ultima morte per coloro che assolutamente non avranno saputo ne voluto vivere.

D. A questo titolo chi metteresti nell'inferno con certezza? R. Nessuno! Sarebbe un'atroce presunzione il dire:

un tale si è dannato, fosse pure ai nostri occhi il peggiore delinquente: I miei pensieri non sono i vostri pensieri; le mie vie non sono le vostre vie, dice il Signore.

D. La Chiesa non pretende dì avere su ciò dei particolari lumi?

R. Nessuno. Con l'atto di canonizzazione essa dichiara essere certo che il tale o il tal altro sono nel numero dei santi; ma non dichiara mai che questo o quello sia dannato.

D. Gli eletti sono a tuo parere un piccolo numero? R. Coloro che lo pretendono non ne sanno niente. Si può sperare che all'opposto l'Amen, terminale dell'opera divina sarà un'immensa e innumerevole acclamazione.

D. Quest'acclamazione finale degli esseri non dovrebbe forse riunirli tutti; e Hugo e Tapini non hanno forse ragione di vedere alla fine amnistiato anche Satana? R. Ancora una volta, noi non sappiamo chi è salvo e chi è dannato; ma ciò che è certo è che l'ipotesi di cui tu parli, presentata specialmente come un'esigenza dell'ordine divino, è « immorale ».

D. E perché?

R. Perché suppone che dal principio del mondo sino alla fine, qualunque cosa facciano e vogliano gli esseri, con qualsiasi ostinazione pretendano di restare nelle loro vie, vi è una china necessaria che conduce a Dio. E ciò

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vuoi dire che la volontà non è punto libera, o che ad essa si da la facoltà d'infischiarsene.

D. Non sarebbe piuttosto immorale l'ipotesi dell'eternità delle pene, se per colpe finite da parte dell'uomo, come hai ammesso, s'infigge all'uomo una punizione infinita?

R. L'inferno è eterno non perché il peccato è infinito, ma perché è senza rimedio, come una piaga più o meno grave in se stessa, ma che non possa guarire, poiché il tessuto mortificato non è più atto alla rigenerazione. Il peccatore non esce dall'inferno perché non si pente; non si pente perché è fuori della zona in cui il cambiamento è possibile, fuori del flusso e del riflusso dell'anima;

fuori del tempo della grazia. È sempre punito perché è sempre peccatore, eternamente ostinato nel suo male.

D. Eppure tu lo abbandoni ai rimorsi. R. Il rimorso non è il pentimento; tra i due la differenza è immensa, a tal segno che è quasi un'opposizione radicale. Infatti colui che si abbandona ai rimorsi decide di restare solo; si ripiega sopra di se stesso e non si occupa che di rodere se stesso, di « mordersi i pugni », come si dice volgarmente. Ed è quanto dire che egli ri-nunzia ad amare. Ora il perdono è una risposta dell'amore misericordioso all'amore in lacrime.

D. Vi è altro ancora. Perché creare per dannare? La verità forse è col poeta che diceva: « Caro Signore Iddio, io vi farò una bella proposta: rimandatemi dov'ero prima di nascere, oppure perdonatemi tutti i miei peccati; perche io non li avrei, commessi-se non fossi esistito »

(PEIRE CARDENAL).

R. Un tal parlare è legittimo sulle labbra di colui che 459

si pente; se no, è una insopportabile insolenzà. Dio non crea per dannare; egli non ci colloca sulla strada dell'inferno, ma su quella del cielo; la sua volontà è quella di associare eternamente gli esseri alla sua felicità. Se questa mèta si fallisce per colpa nostra, non è forse normale che la sconfitta abbia la stessa ampiezza?

D. Il bene dovrebbe essere più potente del male. R. Cosi è; infatti gli eletti godono una felicità fuori di ogni proporzione coi loro meriti, e il contrario avviene per le pene dell'inferno. Ma ciononostante vi dev'essere una proporzione tra i due termini. Il sì e il no si rispondono. « La nostra caduta ha la forma rovesciata della nostra grandezza possibile » (ernesto hello). Là dove la vittoria offre più che la vita, è naturale che la disfatta porti seco più che la morte.

D. Si preferirebbe una vittoria del tutto pura. R. Essa allora sarebbe gratuita e banale. La mèta non può essere meravigliosa com'è, senza presentare un rischio terribile. L'estremo bene trae sempre seco la possibilità dell'estremo male. L'universo ha troppe vette perché non abbia abissi, e, come osserva Cariyle, l'essere divini importa necessariamente il rischio di essere eventualmente infernali. Non basta forse che dipenda assolutamente da ciascuno il decidere per conto suo ciò che egli dovrà essere?

D. Siamo troppo fragili, perché c'incarichiamo di una simile scelta.

R: Noi siamo la fragilità stessa; ma non siamo soli, e non ci si giudica secondo le nostre forze. « Si esigerà molto da colui al quale si sarà dato molto » (s. luca). La salvezza non dipende da questa o quell'opera deter-

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minata che potrebbe superare le nostre forze, ma dallo stato del nostro cuore di fronte a Colui che lo giudica infallibilmente.

D. Perché lanciarci nostro malgrado in una simile avventura?

R. Si rimprovera forse a un padre di aver messo nelle mani di suo figlio una magnifica eredità con tutto quello che occorre per trame felicità, per la sola ragione-che in caso di abuso grave e ostinato, recidivo, la caduta sarà più triste e più deplorevole? Sublime è la nostra voca-2Ìone, sublimi i nostri soccorsi, sublimi i nostri rimedi, sublimi anche i nostri rischi.

D. Sarebbe meglio annientare piuttosto gl'incorreggibili, se turbano il piano divino. R. Il niente non è una soluzione; esso non ha nessun significato razionale; dunque non può compensare niente, riparare niente.

D. Non sarebbe ciò una sanzione? R. Di' piuttosto: il contrario di una sanzione. Annientare è rinunziare a sanzionare e per conseguenza a fare giustizia. Eliminare il colpevole è sottrarlo al giudizio e alle sue conseguenze. Ciò somiglia a un verdetto giudiziario così concepito: Quest'uomo è talmente colpevole che non ci occuperemo più di lui. D. Sarebbe in qualsiasi caso un modo di finirla. R. Sarebbe l'assenza di fine. Una fine è un'ultima ma-' niera di essere e qui vi sarebbe assenza di essere. Bisogna che il dannato sia lì, per proclamare, pure odiandola, la giustizia di Dio.

D. Io mi domando come questa presema negli abissi di sventurate creature, che gli eletti forse avranno amate,

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potrà ad essi riuscire tollerabile. Come potranno stare in pace?

R. Riconosciamo la nostra impotenza a immaginare queste cose, e lo scandalo della nostra sensibilità terrena di fronte a tali prospettive. Ma la nostra sensibilità, la nostra immaginazione non sono il metro dell'assoluto.

D. £ la ragione che dice? R. Dice: la pace è la tranquillità dell'ordine; la gioia è nella vittoria dell'ordine. Se il disordine del male persistesse, nUora la pace degli eletti non sarebbe possibile. Il bene trionfante da una parte, dall'altra il male vinto e che non può più rialzare la testa, ecco la pace del cielo.

D. Ma non vi è proprio mai stato qualche caso ài perdono concesso a dannati?

R. Si citano alcuni casi della loro autenticità, però non si ha alcuna garanzia; comunque debbono interpretarsi conformemente alla dottrina esposta. S. Tommaso dice: Costoro uscirono dall'inferno perché la loro sentenza non era definitiva.

D. Come ciò è possibile? R. Nulla incatena il volere di Dio in ciò che riguarda l'applicazione delle sue leggi. La legge è: ogni esistenza al suo termine è fissata per sempre. Ma determinare quando sia il suo termine dipende dalla Provvidenza. Regolarmente è il tempo della vita; ma al di là, se piace a Dio, la prova può proseguire; si può essere « viatori » altrove che in questo nostro mondo; si può essere viatori in questo mondo una seconda volta, come fu il caso di Lazzaro risuscitato. Ciò non fa torto alcuno ai princìpi e può rispondere a certe situazioni morali.

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D. Ma chi può dire che la sentenza di un dannato sia o no definitiva? R. Dio solo.

D. Allora non si potrebbe dire: L'inferno eterno è un principio; ma riguardo a qualche essere in particolare, non è necessariamente un fatto? R. Ciò si può dire tenendo presenti spiegazioni date precedentemente. Ma quale imperdonabile imprudenza commetterebbe chi riposasse su una possibilità così astratta! Mi pare di vedere un uomo che si precipita dalla torre Eiffel dicendo: Forse non mi ucciderò!

D. Ebbene, teoricamente, non fosse che per una scappatoia, una porta resta aperta a ineffabili misericordie. R. Nessuno può imporre limiti alla misericordia di Dio. Quello che bisogna ritenere di questa discussione penosa, è che

1° Dio è giusto;

2° la sua misericordia oltrepassa di molto la sua giustizia;

3° noi siamo responsabili dei nostri atti nella misura precisa dei nostri lumi e dei nostri poteri.

Ecco quello che è certo. Tutto il resto è mistero. Ma ciò basta perché possiamo dire: Se qualcuno va all'inferno, è perché lo ha largamente meritato. Che altro possiamo noi chiedere?

D. Di vederci un po' più chiaro, forse. R. A una santa che gli chiedeva questo in un'estasi, Gesù rispose: « Sta' tranquilla, io ti farò vedere che tutto è bene ».

463

IL PURGATORIO

D. Che cosa è il purgatorio?

R. « II purgatorio è un luogo di patimento, dove le anime in stato di grazia finiscono di espiare i loro peccati prima di entrare in cielo » (Catechismo della dìo-cesi di Parigi).

D. Perché questa sosta prima del termine, per quelli che hanno felicemente percorsa la via? R. Al termine del cammino, bisogna correggere gli errori del percorso.

D. Se queste anime sono in stato di grazia, è perché sono innocenti, oppure si sono liberate dal male. R. «. Per pagare i propri debiti, non basta non centrarne più dei nuovi, bisogna anche soddisfare i vecchi » (s. gregorio).

D. Soddisfare come?

R. Chi è stato troppo indulgente verso se stesso, deve accettare una dolorosa costrizione. Chi ha offeso l'ordine, deve in cambio subire l'urto dell'ordine, fino a una piena riparazione.

465

D. Qual è dunque la situazione di questi condannati

temporanei?

R. Quella dei prigionieri in una'cittadella esposti alla

fame e ai lavori penosi, con la certezza d'una prossima

e felice liberazione.

D. Questo paragone della prigione è classico?

R. È quello del Vangelo, e Gesù aggiunge: In verità,

ti dico che non uscirai se non hai pagato fino all'ultimo

spicciolo.

D. Queste anime detenute soffrono molto?

R. Soffrono, ed è possibile che le loro pene siano

molto gravi.

D. Come concepisci la loro prova? R. Qui, come a proposito dell'inferno, bisogna guardarsi dalle immagini puerili. Gli antichi si rappresentarono a volte il purgatorio sotto la forma d'un fiume di fuoco che bisognava attraversare per andare in cielo, e che bruciava al passaggio le scorie dell'anima, non avendo nessun potere sopra la anime affatto pure. Questi non sono che simboli, ovvero, per anime semplici, credenze spesso superstiziose.

D. E allora?...

R. Mi sono spiegato nel precedente capitolo. Forse il caso è lo stesso; forse è differente, ma certo dello stesso ordine, e ciò non ha importanza pratica. Quello che, ai nostri sguardi, deve differenziare il purgatorio e l'inferno, non è la natura delle sofferenze, ma la disposizione delle anime, così radicalmente diversa.

D. In che consiste questa differenza? R. I dannati non sperano più; le anime del purgatorio

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invece hanno una ferma speranza. I dannati odiano Dio, l'universo e se stessi; le anime del purgatorio invece ardono di un amore universale.

D. La speranza, l'amore procurano loro qualche felicità?

R. Una felicità attraversata da pena, una felicità certa, ma che non può per il momento esprimersi.

D. Sono esse in rapporto spirituale con Dio? R. Dante fa loro cantare il Pater sulla « prima cornice », là dove ci si purifica dalle vanità di questo mondo, e il suo pensiero è conforme alle vedute della Chiesa.

D. Le anime del purgatorio fanno parte della Chiesa? R. Esse compongono quello che noi chiamiamo la Chiesa paziente, e fanno parte della comunione dei santi, società, di tutti quelli che vivono in Cristo, figli del suo Padre celeste e animati dal suo Spirito.

D. E credi tu che questi mondi comunichino?

R. Essi comunicano, e la preghiera ne attraversa le

barriere.

D. Che possono dunque per noi queste anime? Hanno esse coscienza di ciò che avviene sopra la terra? R. Certo esse non hanno alcuna conoscenza diretta di ciò che avviene quaggiù; ma il Dio che esse amano e da cui sono riamate, può loro ispirare pensieri fraterni, ed anche il loro cuore le inclina a pregare per noi.

D. Pregano specialmente per quelli che amarono, per quelli che le amano?

R. Così vuole la Provvidenza che ha voluto i nostri legami. Espiare non può essere un distaccarsi dalle con-

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venienze divine e dai legami umani che hanno, come tutta la vita, conseguenze eterne.

D. E noi che cosa possiamo per loro? R. Per essi noi possiamo offrire a Dio le nostre preghiere, i nostri buoni desideri, le nostre opere meritorie, le nostre azioni sacramentali, e specialmente il santo sacrificio della Messa.

D. La Messa ha per tè, a questo riguardo, una speciale efficacia?

R. Poiché essa dispone dei meriti infiniti, li può applicare, però con l'acccttazione della volontà di Dio e secondo le vedute misteriose della Provvidenza.

D. Non si è dunque mai sicuri? R. Abbiamo già detto che i sacramenti non hanno nulla di comune con una macchina automatica. Funzioni spirituali, essi agiscono secondo un ordine spirituale, e specialmente dove la libertà di Dio e la libertà del prossimo sono in causa, nulla si potrebbe garantire con certezza. Si crede volentieri che, a parità di condizioni, Dio soccorra più particolarmente, a nostra richiesta, quelli che durante la loro vita lo meritarono con la loro propria carità verso i morti.

D. Qual lezione ci può venire da questi esseri che penano e sono vicini alla gloria?

R. Dante la trae nel suo canto XI, quando così interpella le anime:

Mostrate da qual mano invér la sedia Si va più corto: e se c'è più d'un varco, Quel ne insegnate che men erto cala...

(Purgatorio).

468

IL PARADISO

D. Come pensi il paradiso?

R. « L'occhio dell'uomo non vide, ne l'orecchio udì, ne il cuore ha compreso quello che Dio riserva a quelli che lo amano » (S. paolo).

D. Tuttavia?...

R. Tu conoscerai un giorno il paradiso, come spero,

possedendolo.

D. Ma in attesa del compimento di questo voto benevolo...

R. Il paradiso, come S. Paolo c'insegna, non ci vien descritto se non per mezzo di misteri; quello che se ne ^attesta, è la sua incomprensibilità. Ad ogni modo, noi vi dobbiamo vedere un tesoro di gioia.

D. È questo componibile con una morale veramente pura? 'Dobbiamo guardare alla gioia, e soprattutto collocare in essa il nostro ultimo fine?

R. Ascolta la risposta di Bergson: «I filosofi, che hanno speculato sopra il significato della vita e sopra l'ultimo fine dell'uomo, non han notato abbastanza che la natura si è data la pena d'informarci appunto intorno

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a se stessa. Essa ci avverte con un segno preciso che il nostro destino è raggiunto, e questo segno è la gioia ».

D. Come giustifichi questa dottrina? R. Si giustifica appena si pensa a quelle che sono a nostro riguardo le intenzioni della Provvidenza, così come la natura delle cose, la ragione e la fede ce le manifestano. Noi non siamo sopra la terra se non per vivere realizzando la perfezione umana e soprannaturale, mediante un'attività retta, felice, feconda per noi e per tutti. Coloro che, secondo Kant, vollero stabilire la moralità sopra altre basi, in realtà la camparono in aria, senza darle nessuna radice nella realtà naturale e umana.

D. Ma ciò non è propriamente la gioia. R. Ne è la condizione, e la gioia ne è la testimonianza. Secondo Spinoza, Leibniz, Aristotele, ai quali si accompagna S. Tommaso d'Aquino, la gioia è l'espressione di un'espansione vitale, come la tristezza è un restringimento e un regresso della vita.

D. Che cosa ne concludi?

R. Che lo scopo di tutta la vita è di essere nella gioia, e che la virtù non è altro che il mezzo autentico di arrivarci.

D. Ciò sembra un paradosso epicureo. R. Quando lo si intende male. Ma ricordati di quegli altri paradossi che si chiamano le Beatitudini evange-liche; esse commentano la dottrina confermandola. Beati quelli che... Ecco posta la questione della felicità, la quale dunque è ammessa non solo, ma anche proposta come fine. Al termine di ogni formula così cominciata, si trova: Perché loro è il regno dei deli; perché sa-

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ranno consolati; perché saranno saziati, ecc., ed ecco il risultato ottenuto. Fra i due si trova la virtù: l'amore del prossimo, la purezza del cuore, la fame e la sete della giustizia, l'accettazione dei dolori provvisori, ecc.

D. Dunque il ciclo non sarebbe altro che un compimento armonico di noi stessi, nella gioia, dopo una vita virtuosa?

R. Esattamente, aggiungendo con maggior precisione che il compimento armonico di se stesso, per il cristiano, importa un innalzamento. Ma questo innalzamento soprannaturale essendo ab aeterno nell'intenzione creatrice, è per noi normale. Aristotele non diceva già che l'uomo non può giungere a capo di se stesso che oltrepassandosi?

D. Essere virtuosi non è dunque solamente meritare il paradiso, ma salirvi effettivamente.

R. L'uomo che fa il bene si dedica effettivamente, benché misteriosamente, alla vita eterna; entra progressivamente in un mondo di gioia; diventa esso stesso gioia; diventando perfezione, diventa paradiso; difatti « l'uomo nella sua forma perfetta è paradiso » ( swe-

DENBORG).

D. Il paradiso sarebbe dunque un effetto, un prodotto autentico detta stessa attività virtuosa? R. Sì. Il prodotto superiore dell'anima è il paradiso. Il regno di Dio è dentro di voi, disse il divin Maestro.

D. Tuttavia il paradiso significa altro. R. Quest'altro è accessorio. Il paradiso, nella sua sostanza, è uno stato dell'anima, e questo stato ha il carattere di un compimento felice, di un'espansione nella pie-

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nezza, il cui segno naturale è la gioia. Perciò Gesù nel suo tenero discorso di addio, si esprime così: Io vi ho detto queste cose (i suoi comandamenti, e specialmente la sua legge d'amore), affinchè la mia gioia sia in voi, e la vostra gioia sia perfetta.

D. E ciò è fatto per tutti? È alla portata di tutti? R. Sì, perché Dio è alla portata di tutti; Dio supplisce, là dove l'uomo vien meno; Dio compie, quando l'uomo ha cominciato. Perciò la beatitudine cristiana non è più la mèta del dilettante greco che, lontano dalla folla, si esercita a realizzare l'uomo « bello e buono » in cui egli vedeva l'immagine di una felicità astratta; ma è una beatitudine essenzialmente e universalmente umana, proposta a tutti, che tutti possono conseguire appena lo vogliano, quand'anche, come dicevo, a cagione delle circostanze delle quali essi non sono responsabili, non lo sapessero.

D. Dunque, rispetto alle insufficienze di questa vita, il paradiso sarebbe un ammirabile compenso? R. Il più diseredato dei figli di Dio non può disperare della sua forma: « gli resta un regno intero » (bos-suet). •

D. E rispetto ai dolori è una piena consolazione? R. Gli eletti lo proclameranno, « quando riconosceranno i giorni della loro angustia più profondi e più belli che i giorni di felicità » (e. péguy).

D. È anche un progresso? Il paradiso comporta una

evoluzione di felicità, un accrescimento?

R. Il paradiso è il compimento infinito della speranza.

472

D. Come il « perfetto » può crescere? R. Per la sua propria espansione. Un seme perfetto genera un albero perfetto; un albero perfetto ne genera un altro. La semenza dei beni eterni è di una virtualità infinita, poiché è Dio stesso.

D. Ma tu rinunzi a descrivere questo paradiso? R. La nostra povera esistenza offre troppo poche gioie per fornirci qui delle immagini efficaci, e il soprannaturale non ha equivalenti umani. Tuttavia ciò che non si può descrivere, si può tentare di precisare.

D. Che ne dici dunque?

R. Già ho distinto il.principale e l'accessorio, che, in teologia, si chiama la gloria essenziale e la gloria accidentale. Di questa parleremo fra poco; ma l'essenziale della « gloria » celeste, quello che effettua questo compimento perfetto e felice di cui parlavamo, è l'entrata dell'anima in Dio, è la sua unione intima con Dio, la sua partecipazione alla vita stessa di Dio, come abbiamo notato quando parlavamo del soprannaturale nella sua essenza e nelle sue mire ultime.

D. Il cristiano non pretende forse già di essere unito a Dio, di vivere già in Dio?

R. Sì, perciò la vita eterna non consiste nell'incon-trare Dio, ma nel « rivederlo », come diceva Leone Bloy, cioè nel contrarre con lui una società di vita più doviziosa, un'amicizia se non più intima, almeno più « sensibile al cuore », come direbbe Pascal.

D. Come si stabilisce questo legame? R. Dio è tutto spirito; noi siamo soprattutto spirito:

questo vincolo, nel primo stadio, non può essere che un vincolo spirituale.

473

D. È uno stato dell'intelletto, oppure del cuore? R. È sempre l'intelletto a prendere le mosse. È l'intelletto che esercita la presa; il cuore si riposa poi nell'oggetto conquistato.

D. In che consiste questa presa di Dio da parte di un intelletto umano?

R. Qui noi non possiamo fare altro che balbettare. In mancanza di una vera spiegazione, noi chiamiamo ciò conoscenza intuitiva, una visione, volendo significare che l'intelletto prende coscienza di Dio, a modo suo, con la stessa evidenza che l'occhio corporeo prende coscienza dell'oggetto che vede.

D. Si può chiarire un po' meglio questa nozione? R. Descartes lo tenta. « La conoscenza intuitiva, dice, è un'illustrazione dello spirito con cui esso vede nel lume di Dio le cose che a lui piace scoprirgli (e prima di tutto Dio stesso) mediante un'impressione diretta della luce divina sul nostro intelletto, che in questo non è considerato come agente, ma solo come ricevente i raggi della Divinità ».

D. Questi « raggi » cartesiani non rischiarano granché. R. Qui nulla ci può illuminare. Ma S. Tommaso d'Aquino tenta una spiegazione dicendo che a differenza di ciò che avviene quaggiù, dove la conoscenza delle cose ci è fornita dalla loro rappresentazione in noi, nella visione beatifica, Dio, che nessuna immagine può veracemente rappresentare, diventa la sua propria immagine nell'eletto, la sua propria rappresentazione. Ed ecco dunque quest'essere che pensa Dio mediante Dio, come noi adesso pensiamo l'uomo mediante l'immagine del-

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l'uomo e vediamo la pianta mediante la sua figurazione nel nostro occhio.

D. Non è un introdurre Dio nella stessa contestura dell'anima, e come un divinizzare questa? R. Perciò noi abbiamo detto che il soprannaturale è una specie di divinizzazione, un introdursi oscuro quaggiù, luminoso lassù, nell'ineffabile.

D. Come è possibile ciò?

R. Non si può spiegare la possibilità, come non si può supporre il fatto, indipendentemente da una dichiarazione divina. Ma noi abbiamo udito: « C arissimi, noi siamo ora figliuoli di Dio; e non è ancora manifesto quello che noi saremo; ma sappiamo che quando si manifesterà saremo simili a lui, perché lo vedremo come egli è » (s. giovanni).

D. Tu mi parli di tempo! Ma è possibile essere uniti all'Eterno altrimenti che per un atto eterno?

R. Hai ragione. Dio, quando entra nell'anima per esercitarvi la parte di idea immanente, deve portarvi le sue proprie condizioni. L'atto di visione divina si misura dall'eternità, che è una durata non solo continua e senza pausa, non solo infinita, ma tutta simultanea, ttttta insieme {tota simul), come dice Boezio. È davvero un nirvana, dove l'individualità, a dire il vero, si esalta invece di perdersi, dove anzi si concentra a tal segno che tutta la sua estensione di conoscenza è assorbita nell'invisibile essenza divina, e la durata totale di questa conoscenza non è che un punto.

D. Come rappresentarci un tale stato?

R. Non cerchiamo di rappresentarcelo; Alberto Magno

ne vede una vaga immagine e un'anticipazione nel caso di

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quei contemplativi, di quegli « uomini divini », i genii, i santi, che anche in questa vita « sfuggono al tempo e non avvertono più i cambiamenti che il tempo misura ».

D. Quest'ultimo caso si capisce; se ne vedono i limiti;

ma « conoscere Dio come egli conosce se stesso » è un atto infinito.

R. Si dice: come conosce se stesso, e si tratta del modo, cioè per contatto immediato. Non si tratta della misura, del grado. La prova è che gli stati di beatitudine sono, da un eletto all'altro, profondamente differenti. Vi sono molte mansioni nella casa di mio Padre, disse Cristo. In altri termini, si tratta di « toccare Dio con lo spirito » (s. agostino) e non di « comprenderlo », cioè di esaurirlo.

D. Ne segue che questo è un attribuirci una capacità sovrumana, una capacità propria di Dio. R. Bisognerà evidentemente « spalancare le entrate » (bossuet). Dio non dovrà più guardare a quello che egli ha fatto dell'anima nostra costituendo la sua natura, ma a quello che ne può fare. Egli « non baderà alla nostra disposizione naturale se non in quanto sarà necessario per non farci violenza » (Idem).

D. Che cosa può significare per noi conoscere Dio? R. La sola idea che possiamo farci, quando si tratta di Dio, è quella di una fonte dell'essere, ove ogni valore è contenuto nell'unità e in un modo ineffabile. Ciò non dice niente all'immaginazione, ma fa supporre all'intelligenza un inesprimibile splendore.

D. In Dio, si vedrà dunque tutto quello che quaggiù è

disseminato lontano dalla fonte dell'essere?

R. Si vedrà tutto nella proporzione che si vedrà Dio,

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con la stessa estensione o la stessa profondità di visione, che sarà determinata dalla nostra elezione stessa, vale a dire dal nostro merito coronato, dalla nostra grazia sbocciata in gloria. In tale proporzione, Dio farà conoscere all'eletto tutto ciò che il reale offre per lui di arricchimento ideale e di spirituale beatitudine.

D. Questo modo di conoscenza è per la mente un completo capovolgimento.

R. I poli della conoscenza umana si trovano infatti rovesciati. Qui, noi conosciamo il creato per mezzo dell'esperienza sensibile e Dio per riflesso. Lassù, conosceremo Dio per esperienza soprassensibile, intuitiva, e il creato per rinesso in lui. Nell'Assioma eterno si vedono tutte le proporzioni del reale; nel Decreto eterno, tutti gli esseri.

D. E sarà questa una felicità? R. .Se la felicità, come la conoscenza, consistono l'una e l'altra in una estensione e come in una moltiplicazione del nostro essere, tutte due si devono ricongiungere.

D. Una felicità puramente ideale, puramente intellettuale, potrà bastarci? Vuoi tu proporla, con qualche speranza di sedurli, agli uomini assetati di vita? R. S. Paolo ti risponde con una espressione che ha un'aria semplicetta, e che tra i cristiani è diventata abitudinaria, ma in cui si rivela alla riflessione un'ammirabile profondità. « Dio sarà tutto in tutti ».

D. Che cosa significa questo? R. Dio sarà tutto per gli eletti, perché la diffusione dell'essere e dei beni che egli operò con la creazione non ha impoverito Iddio di ciò che egli dona. Dio co-

. 477

munica; da in partecipazione; non aliena. La Fonte dell'essere ha questo di speciale e d'incomprensibile per noi, che essa getta con un'indicibile abbondanza e non vede ridursi la pienezza delle sue acque. Perciò si trova, in essa, più che in nessuna cosa e più che in se stesso, quello che è proprio di questa cosa e proprio di se stesso. Di modo che, possedendo Dio, nella proporzione che lo si possiede, si possiede se stessi nella propria pienezza e si possiede tutto il resto. Ecco quello che si vuoi significare dicendo: Dio è tutto in tutti.

D. Ma tu lasci da parte l'ordine della conoscenza, del quale avevi detto che condiziona tutto, e anche la nostra adesione alla Fonte dei beni.

R. Niente affatto, ed ecco la connessione. Ciò che si chiama una felicità reale, una felicità effettiva, in opposizione ad una pura conoscenza, di che cosa è fatto se non ancora di conoscenza, dopo che gli oggetti conoscibili, assimilandosi ai nostri corpi, ci hanno anzitutto aiutato ad essere? Per noi, tutto consiste nel vedere, nel toccare, nel gustare, odorare, nel prendere conoscenza di noi e degli altri, nel reagire di fronte alla verità, alla bellezza, a un'amicizia riconosciuta, a una stima manifestata, ad una sottomissione degli avvenimenti o delle persone che certi fatti di conoscenza ci danno.

D. Ma questi fatti di conoscenza non sono tutti dell'ordine intellettuale; i più dipendono dai sensi. R. Pensi tu che ciò sia meglio, in quanto alla loro capacità di felicità?

D. L'immensa maggioranza degli uomini la pensa cosi. R. In un certo modo hanno ragione; ma nell'assoluto, dove ci riporta la vita eterna, essi hanno torto.

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D. Desidererei vederci chiaro. R. Tutto dipende dal genere dell'intellettualità di cui si parla, quando si oppone la conoscenza intellettuale a una conoscenza sensibile atta a rallegrare i viventi.

D. Vi sono dunque più specie d'intellettualità? R. Ve ne sono qui due da prendere in considerazione:

l'intellettualità astratta, e quella che noi abbiamo chiamata intuitiva, che ci lega a Dio spirito.

D. Come si nota la differenza? R. L'intellettualità astratta non ci da se non dei concetti, cioè dei fantasmi di nostra creazione, che a dire il vero rappresentano il reale, ma non lo fanno entrare in nostro possesso. Questi concetti sono della nostra sostanza; sono il nostro io modificato; non possono dunque procurarci del reale se non una figura e come uno schema vuoto. Al contrario, con l'intuizione di Dio, noi attingiamo in Dio spirito quello che vi si trova, e ciò non è più uno schema delle cose. Dio non è una forma vuota, come quella che noi concepiamo quando pronunziarne questa parola: Dio. Tutta l'idealità che contiene è sostanziale, essendo il suo essere stesso. Creatrice, essa è ricca di tutto il reale. Per conseguenza, tutto quello che, nel reale, è l'oggetto delle nostre intuizioni sensibili e dei nostri « possessi », qualunque ne sia la forma, si deve trovare in questa Sorgente prima allo stato ideale. Perché allora non ve l'attingeremmo?

D. Potrebbe ciò farsi per mezzo del solo spirito? R. Per mezzo dello spirito — se esso esercita la sua funzione di spirito anziché la funzione di animare una materia, di cui abbiamo l'esperienza, — perché non af-

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ferreremo noi quello che, in Dio, è spirito, per quanto sia pieno di ricchezza di essere?

D. Ecco quello che di fatto sfugge a ogni esperienza! R. Come Dio stesso; ma questo è tuttavia incluso nella nozione di Dio. « Dio è virtualmente ogni essere », abbiamo detto con S. Tommaso d'Aquino: se noi possiamo afferrare Dio con un'intuizione ricca del suo essere stesso, poiché di questa stessa intuizione lui stesso è il principio immanente, noi saremo in possesso dell'essere, e non del suo schema astratto. La nostra intuizione intellettuale, elevata dal lume della gloria al livello del divino in sé, potrebbe essa, in questa presa dell'essere, mostrarsi inferiore ai nostri occhi, alle nostre mani, alle nostre papille gustative, a tutto l'attrezzatura sensoriale? No, di certo. Dunque noi possiamo trovare lì più felicità che in quel supposto reale in cui già Piatene non vedeva altro che un'ombra.

D. Come ammettere che per mezzo dello spirito si possa percepire e conquistare, per viverne, quello che dipende dalle qualità della materia, oggetto dei sensi e non dello spirito?

R. I discepoli di Bergson e non solo di Bergson sanno che la materia non è che il limite inferiore dello spirito, un residuo grossolano, una cenere di questo fuoco, un arresto relativo e come una paralisi di questa attività sublime. Vorremmo noi rimpiangere la cenere, abbagliati e riscaldati dal fuoco?

D. Questa dottrina è ammessa nella filosofia cristiana? R. S. Tommaso ne offre l'equivalente quando riunisce materia e spirito in una sintesi ideale della quale la sostanza divina, tutta ideale essa stessa, è il centro di

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emanazione. Per S. Tommaso, tutto quello che è proprio della materia e dei composti di materia si trova in Dio eminentemente, come nella sua sorgente prima, e quindi si può ivi ritrovare, se con l'intelligenza sopraelevata e come divinizzata nella sua potenza, si afferra Dio in sé.

D. Dunque, secondo tè, un eletto non può rimpiangere questo mondo.

R. È possibile il rimpianto del miraggio, quando la sorgente ti abbevera? Una giovane madre rimpiange forse la sua bambola, quando ha il bimbo in braccio?

D. È tutto lì il paradiso?

R. È l'essenziale, dicevo, a tal segno che, se anche tutto il resto non ci fosse, non si potrebbe dire che manchi qualcosa. Chiunque ha il sentimento di ciò che è Dio sottoscriverà questa sentenza di S. Agostino:

« Assai avara è un'anima a cui Dio non basta ».

D. L'essenziale suppone però l'accessorio. R. L'eternità di fatto dev'essere presa com'è. Il nostro essere al contatto di Dio non rinunzia a se stesso, non perde il contatto con le altre creature, e la sua beatitudine si deve allargare, se non elevarsi, con tutto ciò che gli può venire dal suo proprio funzionamento naturale e dalle sue molteplici relazioni.

D. Tuffo questo non è forse offuscato dalla chiarezza divina, annegato in quel nirvana cristiano che hai descritto?

R. Noi accettiamo come una legge che Dio, fondatore della natura, attirando a sé le sue creature, non fa mai altro che darle maggiormente a se stesse. Ne segue

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che nell'anima separata dal suo corpo, l'attività relativa a se stessa e a tutte le altre creature dev'essere più intensa e più ricca, anziché essere abolita.

D. Tutti i suoi pensieri di questo mondo seguono dunque l'anima nell'altro mondo? R. Questo si crede generalmente, quantunque non sia un'assoluta certezza. Ciò dipende da una teoria psicologica un tempo contestata.

D. Che cosa intendi con questo? R. Si può pensare che le nostre idee nascano e rinascano nell'anima all'occasione dell'esperienza sensibile e del ricordo, ma senza imprimervisi in modo durevole. Si può pensare invece che vi persistano tanto più in quanto l'anima è immateriale e non subisce, come la sostanza cerebrale, l'usura'del tempo. In quest'ultimo caso, di gran lunga più probabile, le nostre idee acquistate durante la vita ci rimangono; nell'altro caso, no.

D. Le conseguenze di quest'ultima ipotesi devono essere molto gravi.

R. Sono anzi insignificanti; perché ciò che non si avrebbe per questa via si avrebbe sovrabbondantemente per la precedente. Non è necessario vedere gli astri nel mare, quando si vedono nel cielo.

D. Dunque tu sostieni che Dio solo basta? R. .. Dio solo basta; ma Dio ci da con se stesso tutta l'opera sua. Si potrebbe attribuire questo senso nuovo alla formula evangelica: « Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutto il resto vi sarà dato per so-prappiù ».

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D. In questo soprappiù, metti anche una vita comune degli esseri salvati, e specialmente di quelli che si conobbero sopra la terra, che furono legati dal comune lavoro, dalle comuni sofferenze e dai vìncoli dell'amore? R. È naturale, benché, su questo punto, non abbiamo alcuna rivelazione precisa. Ammesso che il destino, in Dio, è principalmente individuale, perché, rispetto all'eternità, ogni anima vale una specie, così come un puro spirito, si deve pensare che i nostri legami della terra hanno la loro sanzione in cielo, come ogni fatto provvidenziale avente i suoi fondamenti nella nostra natura.

D. Ma la natura, in questo caso, non è assorbita nel soprannaturale?

R. No; come la visione creata non è assorbita dalla visione divina, come la creatura non è assorbita in Dio, conservatore e cooperatore della sua opera. « La grazia non distrugge la natura, ma la perfeziona », è presso di noi un detto corrente. Poiché la nostra natura è sociale con tutto quello che questa parola astratta comporta di vincoli eflettivi, il compimento finale deve importare una società degli spiriti, benché i vincoli spettanti alla carne o nati dagl'interessi materiali non vi possono manifestamente ritrovare tranne i loro effetti spirituali, ma in nessun modo la loro propria sopravvivenza.

D. In paradiso non vi sono dunque famiglie? Non vi sono patrie?

R. Nella Risurrezione, disse il Salvatore, gli uomini non hanno moglie, ne le donne mariti; essi sono come gli angeli di Dio nel ciclo, ed è lo stesso dei gruppi di famiglie legati dagli avvenimenti del tempo che si chia-

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mano patrie. Ma ciò che non sussiste punto in sé, conserva i suoi effetti. Una famiglia, come ce lo insegna il sacramento del matrimonio, è una via della salvezza, un elemento della Chiesa; una patria non è che un gruppo di famiglie: dunque nello stesso modo che rimane la Chiesa, anche la famiglia, in tutto ciò che essa ha di spirituale, deve rimanere, insieme coi vincoli spirituali nati nelle patrie e che, fin da quaggiù, ne sono la parte eterna.

D. Non vi è qui, tuttavia, un particolarismo nemico della carità universale, e questa grandiosa carità non è forse quella che tu difendevi sotto il nome della comunione dei santi?

R. La comunione dei santi estende un amplesso immenso a tutti gli altri; non li distrugge affatto. La carità ha i suoi oggetti ordinati a gerarchizzati, e perché Dio ne è l'oggetto primo, motivo essenziale d'amore verso tutti gli altri, noi diciamo che l'essenziale della carità in questo mondo è l'amore di Dio, e l'essenziale della beatitudine celeste l'unione con Dio. Ma siccome l'amore di Dio non abolisce l'amore del prossimo, ed anzi lo fonda: così la beatitudine in Dio non assorbe affatto la felicità affettuosa che possiamo trovare nelle creature: « La carità rimane », dice S. Paolo: dunque anche i suoi oggetti, che determinano il suo valore e le sue forme. Del resto non acclamiamo noi con gioia e tenerezza 1''Incoronazione della Vergine nel ciclo? Se Cristo corona sua Madre, non è per toglierci la nostra.

D. Dunque noi, figli di Dio, non ci lasciamo se non

per ritrovarci?

R. « La vita non è che un'occasione d'incontri, solo

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dopo la vita avviene il congiungimento » (victor hugo).

D. Ma la nostra ampia unità, attraverso a ogni frontiera, unità che ha tanta difficoltà a rendersi conscia di se stessa, tu l'aspetti indubbiamente con l'altra vita? R. Noi attendiamo l'assemblea universale degli uomini, ora dispersi nello spazio e nel tempo, come ciascuno di noi attende la coscienza piena del suo essere, oggi sbriciolato in fenomeni successivi e incoscienti. Ciascuna creatura pensante deve un giorno ritrovarsi in tutti gli altri, in una stretta comunità di gioia. La nostra unità divinizzata sarà il coronamento dell'opera umana nel soprannaturale, come una vera e intima società delle nazioni sarebbe il coronamento della dviltà' sopra la terra. Comunicare insieme e nella loro Sorgente è la felicità eterna degli spiriti.

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LA RISURREZIONE DELLA CARNE

D. Il tuo Credo parla anche della risurrezione dei

corpi?

R. « Ogni anima che si salva salva anche il suo

corpo » (e. péguy).

D. Donde viene questa credenza? R. Come quella dell'immortalità, quella del cielo e dell'inferno, anche la dottrina della risurrezione dei corpi è nel Vangelo, come ti dicevo, e assai presuntuosi sono quelli che si limitano a prendere dal Vangelo una « morale » a loro modo, rigettando lezioni così fondamentali!

D. In quali termini si presenta la dottrina? R. « Viene l'ora in cui quelli che sono nei sepolcri udiranno la sua voce (del Figliuolo dell'Uomo), e ne usciranno: quelli che avranno fatto il bene per una risurrezione di vita, quelli che avranno fatto il male per una risurrezione di giudizio » (Vang. di s. giovanni).

D. Si credette subito a queste parole? R. I primi cristiani credettero ad esse a tal segno che questa credenza offuscò in molti di loro la nozione della sopravvivenza delle anime, quella del giudizio indivi-

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duale, e, come ho ricordato e spiegato sopra, fece credere a una brevissima durata del mondo.

D. Devi confessare che, nella credulità iniziale che menava a queste conclusioni, vi era molta ignoranza. R. Vi era della semplicità, e bisognerebbe vedere se questa facilità a credere dei misteri, là dove interviene l'onnipotenza divina e dove i destini ultimi sono in gioco, non sarebbe più filosofica, e più assennata di tanti sorrisi di superiorità.

D. Ma bisogna rispettare la ragione e tenersi nei limiti del possibile.

R. Pascal che se ne intendeva osserva: « Quale ragione hanno essi di dire che non si può risuscitare? Che cosa è più difficile, nascere o risuscitare? Che quello che non è mai stato sia o che quello che è stato sia ancora? È più difficile venire in essere che il ritornarvi? La con-suetudine rende l'uno facile e la mancanza di consue-tudine rende l'altro impossibile. Popolare modo di giudicare! ».

D. Non capisco granché la somiglianzà dei due casi. R. Bisogna tuttavia che essa sia impressionante, poi-che, quattordici secoli prima di Pascal, Tertulliano scriveva: « Tu cerchi di sapere come rivivrai? Cerca prima di sapere, se ti è possibile, come sei arrivato alla vita ».

D. Dove sfa esattamente la somiglianzà? R. I nostri genitori sono gli autori della nostra vita;

ma Dio ne è soprattutto l'autore, e quello che essi poterono, Dio lo può benissimo senza di loro. Per mezzo dei nostri genitori e in essi, è l'anima il principio vitale, e quest'anima, che importa con sé la vita, può benissimo rendercela. Che una materia che è stata una

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volta impastata da formare un uomo sia impastata una seconda, non è più difficile di quello che è vedere una argilla modellata e rimodellata secondo un medesimo modello ideale.

D. Ma dove ritrovare, qui, l'« argilla »? R. È vecchia questa battuta! vi sono le polveri gettate al vento e disseminate nelle piante, che gli animali mangiano, che un uomo può rimangiare. Vi è l'antropofago, e tante altre puerilità di « spiriti forti ».

D. Perché puerilità?

R. Perché con ciò si sfoggia una leggerezza di argomentazione ridicola; perché si sottintende una scienza certa di ciò che nessuno sa, ciò che è veramente il più « popolare modo di giudicare », se pure non si fa così ingiuria al popolo.

D. Che cosa rimproveri tu a questo ~ modo di argomentare?

R. Di procedere come se la materia necessaria alla ricostituzione di un corpo in una vita eterna fosse identica agli atomi materiali che vi Si succedono come l'acqua in un torrente. E questo è stoltezza palese.

D. E di quali sottintesi pretenziosi vuoi tu parlare? R. Si argomenta con fierezza relativamente alla materia: ci si figura dunque di sapere che cosa essa è. E vedo ridere Pascal. Sento i dotti e i filosofi moderni disputare con sempre minore speranza a proposito di questo Proteo, domandarsi se esso esista altrimenti che come forza, parlare della sua « smaterializzazione », della sua fuga all'infinito a misura che la si analizza. Il tuo obiettante ignora deplorevolmente tutte queste cose.

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D. Ma quale necessità, per l'anima immortale assorbita in Dio, di ridarsi una materia?

R. Come se tu domandassi: Che necessità, per l'uomo, di esistere? L'anima immortale non è l'uomo. S. Tom-maso osserva che non le spetta nemmeno più il nome di uomo. Non si può dire, parlando con precisione: Un tale è presso Dio. « Un tale » è semplicemente distrutto;

sussiste solo una parte della sua persona, la parte principale, è vero, talmente principale che l'altra a buon diritto è giudicata insignificante per la felicità essenziale. Ma l'essen/.iaic richiede l'accessorio, dicevi tu. Se non vi è risurrezione della carne, l'anima umana è salva;

ma l'uomo non è salvo; l'umanità è estinta; l'universo di Dio è impoverito di una specie che noi amiamo di credere la più importante, che ad ogni modo è d'un pregio immenso, grazie all'unione dello spirito; quel posto unico al quale si arresta indubbiamente l'attenzione degli angeli, dove si fissa con terrore e fascino quella delle bestie, ai confini della materia e dello spirito: quel posto non è più occupato, e la morte, che Cristo doveva abbattere, ha conservato il suo impero; non si può più esclamare con S. Paolo « O morte, dov'è la tua vittoria; o morte, dov'è il tuo stimolo? ».

D. Sia pure! L'uomo non esiste più, e ciò può impoverire l'universo; ma ciò che importa all'anima? Non è forse essa, come spirito, in una piena integrità, e per conseguenza in una piena indifferenza riguardo al suo corpo?

R. L'integrità dell'anima è nell'integrità e nell'armonia di tutte le sue funzioni, un gran numero delle quali esigono uno strumento materiale. Mancando di queste

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funzioni, l'anima è mutilata, e per quanto alta sia la sua vita per la sua unione eoi suo principio, questa vita non è interamente normale. Un sublime moncherino è sempre un moncherino. La vita dell'anima separata è quella di un amputato che prova in tutte le sue estremità nervose l'impressione del membro perduto; non si può dire che ciò sia una condizione felice, benché incomparabili compensi ne annullino praticamente il peso. Lo stato naturale dell'anima comporta una coscienza corrispondente al nostro essere intero: ora nella sopravvivenza dell'anima sola, non vi è più coscienza corporale, non vi. è più sensibilità, ne impressione dell'universo e di se stesso al completo, ne immaginazione, ne, propriamente, memoria, poiché il tempo fisico non corre più. Però di tutto questo sussiste il principio, poiché l'anima è una e non può vedersi dividere le funzioni fino alla loro radice. Come supporre che questo principio di una vasta gamma di operazioni, ridotto a una sola, cioè il pensiero, non abbia una tendenza naturale verso tutto quello che esso non ha più? Come immaginarlo soddisfatto di vedere eternata questa amputazione? Il pensiero è la quintessenza dell'anima, ma non è tutta l'anima, neppure aggiungendovi la sua tendenza correlativa che è l'amore.

D. Tu parli da naturalista, ma il punto di vista soprannaturale non ti spinge ad eliminare queste osservazioni?

R. Proprio il contrario. Il principio della sopravvivenza del corpo è stato posto col soprannaturale stesso, poiché la giustizia originale, al punto di partenza, implicava l'immortalità. In seguito alla caduta interviene

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la morte; ma la riparazione per mezzo di Cristo, che, incarnandosi, viene in soccorso della carne come in soccorso dell'anima, ci reintegra nel diritto dell'immortalità corporale. La Resurrezione di Cristo ne è il pegno. Perciò S. Paolo, apostrofando taluni de' suoi Corinzi, esclama: « Se si predica che Cristo è risorto da morte, come mai certuni tra voi dicono che non vi è risurrezione da morte? Se non vi è risurrezione da morte, neppure Cristo è risuscitato ».

D. Una religione spirituale non dovrebbe disinteressarsi di un avvenire corporale?

R. La nostra non è un religione « spirituale », ma una religione umana. Essa è integralmente umana appunto perché è divina, e non è forse cosa più umana che l'anima, un giorno purificata, possa associare alla sua estasi il corpo che ella invano cercava, quaggiù, di trascinare alla felicità? La nostra religione è fondata sopra l'incarnazione, come ti dicevo, e non sopra la disincarnazione. La visibilità della Chiesa, il suo carattere sociale, i suoi mezzi sacramentali, la sua pratica tutta quanta attestano questo carattere. La risurrezione dei morti è un corollario richiesto dalla coerenza dottrinale come dalla natura delle cose. Uniti, nella Chiesa, allo Spirito di Cristo, facendo corpo con Cristo, noi, quando sarà giunta l'ora, abbiamo diritto di prender parte alla risurrezione di Cristo e al trionfo della sua carne mortale. « Se lo Spirito che ha risuscitato Gesù abita in voi, esso vivificherà anche i vostri corpi mortali » (s. paolo).

D. Possiamo allora domandarci perché questo ritardo sino alla fine dei tempi, quando Cristo risuscitò dopo

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tré giorni. Possiamo anche domandarci perché la morte, dal momento che Cristo la vinse.

R. Abbiamo veduto come la morte e gli altri effetti del peccato siano stati mantenuti per la nostra utilità spirituale, e non come sevizie, per la continuità e l'armonia dell'opera provvidenziale, a vantaggio della nostra unione con Cristo e della nostra cooperazione al suo sforzo redentore, ecc. Anche per i nostri peccati attuali, la morte è una purificazione. La morte parziale chiamata mortificazione comincia il compito; il verme sepolcrale lo compie, e spezza gli attacchi della carne alla concupiscenza che è in noi. La morte individuale è dunque in tal modo giustificata, non come carnefice, ma come incaricata di una missione, come ancella.

D. Ciò non spiega l'attesa sino alla fine del mondo. R. La spiega mediante un'osservazione supplementare. Un corpo individuale è un insieme momentaneo di atomi e di forze che si adoperano a servire un'anima, ma che poi l'abbandonano per rientrare nel mare donde altre anime a migliala, attingeranno. Tal è la provvidenza generale. La vita è come una serie di onde su un mare; il movimento ondoso non s'interrompe se non alla fine, quando, trovandosi compiuto il lavoro delle forze e delle anime, potrà venire la gran calma. Ora è di regola che la provvidenza generale limiti la provvidenza particolare di questo o di quell'essere, per assoggettarsela e per servirsene ai fini generali. La materia compie presentemente il suo ufficio universale; lavora alla nascita di nuovi eletti, alla loro prova terrestre, al loro progresso mediante lo sforzo, al compimento sociale di Cristo, capo dell'umanità di tutti i tempi.

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Quando il numero degli eletti sarà completo come la predestinazione eterna vuole; quando lo sforzo collettivo degli uomini sarà compiuto, l'incarnazione pienamente utilizzata, raggiunto il livello di civiltà che Dio ha previsto, il perfetto potrà venire per tutti e conse guentemente per ciascuno; le anime si potranno ridare il loro corpo, organizzandolo il più perfettamente che sarà loro possibile, unite al Principio dell'ordine, et così cominciare veramente la loro eternità.

D. È un disegno che si compie a lunga scadenza. R. Così dev'essere; ma il capolavoro è indifferente alla durata. Quando si tratta di una vita eterna, « mille anni sono come un giorno e un giorno come mille anni ».

D. Di quale « perfezione » si tratterà riguardo alla vita corporale futura?

R. Quando l'anima riprende il suo lavoro di organizzazione, di animazione e tutto l'insieme delle sue funzioni riguardo al corpo, la riprende in condizioni talmente nuove, che la vita così rilanciata, il corpo così ricostituito non possono mancare di provarne gli effetti. L'anima è intimamente unita al suo principio, che è il principio di tutto. Principio essa stessa, ma nella dipendenza dal Primo Principio, trova nella sua intimità beata di che infondere nel corpo delle energie che non possiamo neppure sospettare, in questa pesante esistenza. Una calamità applicata alla limatura l'organizza secondo certe linee: l'anima calamitata in Dio non organizzerà essa il suo corpo in vista di funzioni più alte, più perfette, meglio adatte a un ambiente rinnovato del quale parleremo, meno lontane dall'anima

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stessa e da' suoi soprannaturali poteri? Ecco quello che ci fa chiamare il corpo risuscitato un corpo spirituale, in rapporto al corpo animale di cui abbiamo l'esperienza. Queste espressioni sono di S. Paolo, e sono profonde.

D. Quale è il loro senso preciso? R. Il corpo animale è quello che vive nel senso fisiologico della parola, e cioè che muore; infatti la vita è una morte perpetua che perpetuamente si redime, fino al declinare e all'arresto finale. L'assimilazione o nutrizione è il suo fenomeno fondamentale. Nutrirsi è morire e rinascere a ciascuna pulsazione della carne. In uno stato immortale, il corpo non sarà più così palpitante e fluente; la sua organizzazione sarà necessariamente stabile, com'è stabile lo spirito, unito a Dio-Spirito, ed è per questo che il corpo risuscitato vien detto un corpo spirituale. Questa parola non significa un cambiamento di natura, ma un cambiamento di stato.

D. Come un tale stato di fissità è possibile, per ciò che è soggetto alla vita?

R. « Vi sono in cielo e sopra la terra più cose che non ne conosca la tua filosofia » (amleto). Ti si concede che la parola vita, nei due casi, non ha esattamente lo stesso significato; vi è solo analogia. Del resto le teorie attuali della materia ci preparano a tutto. La nostra esperienza banale riguardo l'universo è dovunque fallimentare. Noi cominciamo a sospettare il segreto degli esseri e i loro poteri infiniti di metamorfosi. Presto il « corpo spirituale » o qualsiasi altra cosa non ci stupirà più.

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D. In qual forma risusciteremo?

R. Nella nostra, tal quale la vuole il principio di vita

sciolto dagl'impedimenti del corpo animale.

D. Che cosa vuoi dire questo? R. Vuoi dire un'integrità, una bellezza, un'assenza di difetti e di particolarità accidentali che non fanno nessun torto al carattere individuale, come neppure al tipo della razza. Precisare di più non è in nostro potere.

D. Tuttavia si è parlato di « doni » particolari che si attribuiscono al corpo spirituale. R. Due di essi si riferiscono a ciò che ora ho detto. Il corpo risorto sarà al sicuro dalla dissoluzione interna alla quale l'alimentazione reca un rimedio provvisorio;

al sicuro dalla morte; al sicuro da ogni minaccia esteriore per la sua vita, ed è quello che si chiama impassibilità. Esso si troverà esente da vizi deformanti e sarà se stesso pienamente, tipo e carattere, ed è quello che si chiama chiarezza, per allusione alla luce immanente che è Videa creatrice nel composto morfologico, o vivente. Inoltre il vivente immortale dovendo adattarsi a un ambiente che non ha confini, cittadino dell'opera di Dio e non più della minuscola Terra, viene dotato deìV agilità, che lo mette in proporzione col suo nuovo mondo. Finalmente gli ostacoli di altri tempi, dipendenti dalla pesante opacità e dalla resistenza dei corpi saranno vinti dalla sottigliezza, qualità che si manifesta in Cristo quando, pure essendo le porte chiuse, dopo la sua risurrezione, appare in mezzo a' suoi discepoli.

D. Quali fenomeni di sensibilità puoi supporre in tali

corpi?

R. Qui, evidentemente, la nostra scienza si trova scon-

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cenata e la psicologia incompetente. Crediamo nondimeno a una vita sensitiva non solo rispettata, ma anche accresciuta, purificata, raffinata, più vicina allo spirito e alle sue forme d'azione.

D, Asserisci dunque che vi sono dei piaceri? R. Certamente. Quello che è la gioia per l'anima, lo è il piacere per il corpo. Una beatitudine umana senza piaceri del corpo non sarebbe armonica. Il tutto sta nel concepire questi piaceri corporali in concordanza con lo stato che viene descritto, nel non prenderne da Maometto il pensiero grossolano, nel non attribuire dei piaceri di nutrizione a ciò che non si nutre, di generazione a ciò che non genera più, ecc. Ma gli organi dei sensi hanno altri usi, e se ora è impossibile descrivere il loro funzionamento quanto il loro oggetto, tutto induce a pensare che essi rimangono, a garantire anche in questa dirczione la raggiunta perfezione della nostra essenza umana.

D. La felicità corporale così compresa aggiunge qualcosa a ciò che hai chiamato beatitudine essemiale? R. Non potrebbe aggiungere alcunché, dal momento che procede da essa. Ma procura la sua estensione, e si può dire che l'estensione di una felicità, anche senza valore che propriamente vi si aggiunga, è una felicità nuova.

D. Una felicità nuova per l'anima? R. Una felicità nuova per l'anima, che, nel beatificare il suo corpo, trova la soddisfazione della sua propria tendenza, la testimonianza dell'unità umana di cui essa è il principio, la gioia di questa unità, di quest'armonia

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intcriore che accelera in tutti i sensi, nel nostro essere, la spinta vitale.

D. Se la felicità dell'anima non ne è aumentata di conseguenza, tutto considerato, non -ne segue che la ri-. surrezione non le è necessaria?

R. , La felicità dell'anima non ne è aumentata; quella che viene al corpo procede da essa e le appartiene prima di estendersi al corpo. E di fatto, per quanto alta convenienza presenti la risurrezione del corpo, per quanto armonica in grazia di essa sia la dottrina e generosa si mostri la Provvidenza, ne segue tuttavia che la felicità dell'anima sarebbe, fuori della felicità del corpo, una felicità un po' compressa in se stessa, ma sempre una felicità piena. « Assai avara è un'anima a cui Dio non basta ».

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I NUOVI CIELI E LA NUOVA TERRA

D. Hai parlato di nuovi cieli e di nuova terra, che devono servire di dominio alla tua umanità risuscitata:

che intendi con ciò?

R. Osserva anzitutto che agli eletti basta che siano rinnovati i loro occhi, perché sia rinnovato il mondo. Quale meraviglia e quale stupore, se tutt'a un tratto ci apparisse, fosse pure in un lampo, la danza degli astri e degli atomi! L'universo ha una realtà inferiore che noi non percepiamo, e la cui scienza totale, _ attinta in Dio, sarà per le anime elette l'equivalente di una vera creazione.

D. Tuttavia non sarà questo un cambiamento che interessa il mondo in se stesso.

R. Riguardo al mondo stesso, diciamo chiaramente che non possiamo far altro che proporre delle congetture. Le parole bibliche: I nuovi deli, la nuova terra, non sono commentate nel libro santo. È dunque libera la loro in-terpretazione. Dirò quello che mi sembra meglio con l'insieme della dottrina.

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D. Non chiedo altro.

R. I nuovi deli e la nuova terra, qualsivoglia concetto particolare ce ne facciamo, si offrono alla mente come una necessità ineluttabile, una volta ammessa la risurrezione .del corpo. Anzi sembra che a tutta prima s'impongano; perché un corpo non è che un frammento di universo, un microcosmo ad immagine del grande, poiché offre la stessa costituzione fondamentale, senza di che gli scambi dall'uno all'altro non sarebbero possibili.

D. Tu dici però che i corpi risorti non assimilano, e che nel senso fisiologico della parola essi non vivono:

non vi 'e dunque da prevedere scambi vitali tra loro e l'ambiente in cui dimorano.

R. Ciò è esatto nel campo sostanziale. Non deperendo il corpo immortale, non ha da ricostituirsi per mezzo di scambi; ma esso funziona, agisce, riceve dal suo ambiente e gli da, sotto forme che ci sfuggono completamente. Vi deve dunque essere omogeneità tra esso e quest'ambiente, e a un corpo spirituale è indispensabile un ambiente spirituale.

D. Che cosa è un ambiente spirituale? R. Non t'ingannare sul valore di queste parole; ne abbiamo chiarito il senso affatto relativo. Si tratta bensì di materia, ma d'una materia dotata di un'altra organizzazione, atta a entrare in sintesi col corpo trasformato, o piuttosto, come dicevo, tale da offrire a questa trasformazione le condizioni necessarie.

D. No» sei tu per il primo a stupirti di tali asserzioni? R. Mi stupirei solamente di stupori troppo facili. L'essenza della materia è adesso intravista sotto tali forme,

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pare offrire una tale plasticità, si sottrae così interamente, nei suoi ultimi recessi, a ogni combinazione stabilmente invariabile, a ogni grossolano empirismo, che veramente un universo tutto diverso da questo e quasi spirituale per rapporto ad esso non ha nulla che sconcerti. Al posto del conflitto delle forze e degli scompigli che esso provoca, si concepisce benissimo un ordine, un equilibrio armonico,, un adattamento spontaneo agli atti dello spirito, e che permetterebbe a questo, come prevedeva Renan, di « prendere il governo del mondo ». Quello che non era altro che un sogno arbitrario nel pensatore, può diventare presso il credente una sistemazione legittima. Nulla si può precisare; ogni teoria diventerebbe presto derisoria; ma la dirczione generale s'intravede, e ciò basta per chiudere la controversia. Invero nessuno, in nome della scienza o altro, ha il diritto di accusare di falso queste magnifiche parole dell'Apostolo: La creazione stessa attende con un ardente desiderio la manifestazione dei figliuoli di Dio... nella speranza che anch'essa sarà affrancata dalla servitù della corruzione, per aver -parte alla libertà gloriosa dei figliuoli di Dio.

D. Qual è, secondo tè, nel mondo attuale, il fenomeno più opposto a questa concezione e che il nuovo ordine di cose dovrebbe abolire?

R. Non si può rispondere che sorridendo della propria impertinenza; ma arrischiandosi si direbbe: È la degradazione dell'energia. Se è vero, come suppongono le nostre teorie termodinamiche, che un universo abbandonato a se stesso perde di giorno in giorno la sua energia utilizzabile, di modo che, restando la stessa la somma

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di energia, esso tende nondimeno sempre più verso una specie di nulla di attività, per l'adeguamento, il livellamento di tutti i suoi valori attivi; se questo avviene, nulla può allontanare maggiormente questo universo dalla sua « intenzione di gloria » (paolo claudel), vale a dire da un servizio dello spirito, e da uno spirito che si alimenta all'Energia suprema.

D. Bisognerebbe dunque?...

R. Che l'ambiente nuovo rappresentasse una specie di felice equilibrio dotato d'una plasticità, d'una elasticità di movimento sufficienti, ma non secondo una tendenza determinata e fatale, simile a quella che minaccia il caos al nostro universo.

D. L'universo, già uscito dal caos, non deve ritornarci?

R. Noi non pensiamo che il nostro universo sia uscito dal caos. Con Renouvier, amo pensare che esso era prima ordine e adattamento allo spirito, del resto a uno spirito all'inizio della sua evoluzione, e incaricato .di compiere il proprio destino aiutando il suo universo, col lavoro civilizzatore, a compiere il proprio. Checché ne sia, il fine dev'essere un ordine e un adattamento perfetto; l'universo si deve compiere in valore come tutto ciò che ha percorso normalmente il suo ciclo. Esso deve quadrare coi fini creatori relativi agli eletti, ragione ultima delle cose. Che esso sia « pieno di anima », secondo la bella espressione di Aristotele, in grazia del suo servizio dell'anima e del suo legame sinergico con l'anima, è ciò che si profetizza legittimamente in suo favore, quando si pensa a' suoi ultimi fini.

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D. L'universo sarebbe dunque alla fine organizzato dall'anima?

R. Sì, forse, dall'anima unita a Dio col Cristo come intermediario. Si può concepire il mondo nuovo come un prolungamento dello spirito, meno .sofferente, per conseguenza, di quella degradazione di valore, di quel carattere residuale in cui noi, con S. Tommaso e Bergson, abbiamo veduto l'essenza della materia. Il rialzamento terminale sarebbe allora riguardato come una specie di taumaturgia, di cui Dio sarebbe la sorgente prima, e di cui il Cristo eterno, formato di tutte le anime reincarnate solidali di Gesù e formanti con lui un solo « corpo », sarebbe l'agente immediato. L'universo sarebbe una parte dello splendore delle anime stesse, splendore di Cristo che è splendore di Dio (Ebr., 1,3). Questa sarebbe la redenzione compiuta, e non solo nella sua sostanza, come adesso, ma in tutte le sue manifestazioni. Il mondo sarebbe restituito alla sua essenza celeste; i vincoli della sua materialità si scioglierebbero, per dire così, sotto l'irradiamento dello spirito, e l'ordine totale, come lo esprime S. Paolo, sarebbe istituito:

Tutto sottomesso agli eletti, e gli eletti a Cristo, e Cristo a Dio.

D. È questo veramente il pensiero di S. Paolo? R. Il pensiero di S. Paolo è soprattutto morale; ma non è illegittimo trasporlo sul piano fisico e cosmologico, e oggigiorno questa trasposizione non può sorprendere.

D. Quale attualità ti sembra che essa rivesta?

R. È la tendenza generale delle filosofie moderne di

assorbire più o meno la materia nello spirito, e se spes-

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sissimo vi è eccesso, come nelle varie forme del soggettivismo, resta questo che, nel piano generale del mondo, la materia è come una dipendenza dello spirito, dipendenza immanente e congiunta nel caso del nostro corpo, dipendenza disgiunta ma strettamente correlata nel caso dell'ambiente, che sotto certi aspetti è ancora parte del nostro essere. Trasporta questo nel perfetto, in cui il regno dello spirito si deve affermare molto di più, e diventa naturale il pensare che i nuovi deli e la nuova terra di cui parla la Bibbia saranno il risultato di una taumaturgia permanente, beatificante per l'universo, se così si può parlare, come l'intuizione di Dio sarà tale per le anime e, mediante le anime, per i corpi. La corrente non avrà più interruzione, ne risucchio. Lo slancio vitale, come direbbe Bergson, ristabilirà la sua bella., corrente da un'estremità all'altra, da Dio agli ultimi eie-nenti ripresi dall'anima e a lei subordinati per riallacciarsi a Dio.

D. La tradizione della Chiesa è favorevole a queste tesi apocalittiche?

R. I Padri della Chiesa e i teologi sono soliti presentare la gloria corporale e le sue ripercussioni come un effetto spontaneo della gloria essenziale, che è la visione di Dio, Ecco il primo termine della nostra ipotesi. S. Agostino lo esprime in questo bei testo a Dio-scoro: « Dio fece l'anima di una natura così potente, che dalla sua beatitudine risulta, nella natura inferiore, il vigore dell'immortalità ». In questo testo si vede ben affermata la trasformazione effettiva del corpo mediante l'anima, quando l'anima è al contatto intimo del suo Dio. È vero che quando parlano poi dell'ambiente

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esterno, i dottori sembrano attribuirne l'organizzazione unicamente e immediatamente alla potenza divina. Ma non è un contraddirli, bensì, credo, un completarli nella loro propria linea di pensiero l'inserire l'anima tra questa divina potenza e i suoi ultimi effetti.

D. Che cosa è che, secondo tè, richiede questo complemento di dottrina?

R. È che la gloria del corpo e quella dell'universo non sembrano poter procedere da causalità diverse, atteso il legame di dipendenza che abbiamo ora rivelato tra loro, e se è vero, come pensiamo, che la trasformazione dell'ambiente è preliminare, essendo essa condizione in rapporto a quella del corpo. Se dunque è l'anima che beatifica il suo corpo, ben inteso come strumento di Dio, per mezzo di Cristo: come non sarebbe lei che sotto le medesime condizioni, beatificherebbe il suo universo? È possibile vedere così le cose.

D. Non dici che l'universo attuale finirà con una catastrofe?

R. Ogni cambiamento subitaneo nell'orientamento delle forze è una catastrofe, ma si tratta sempre di un balzo in avanti verso l'ordine. Avviene come di quelle cristallizzazioni che si producono in una soluzione satura, al semplice getto di un cristallo.

D. Quale sarà qui il getto di cristallo?

R. Sarà la « seconda venuta di Cristo », cioè il segnale

che egli darà del compimento supremo.

D. Tu ricordi la tromba del giudizio? R. Si tratta evidentemente di una metafora! E metafora altresì la venuta di Cristo sopra le nubi del cielo,

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a significare che la sua potenza splenderà come la folgore nelle nubi, e sarà manifesta come un fenomeno del cielo (s. tommaso d'aquino). Allora appunto questa potenza, strumento della Potenza suprema, trasformerà radicalmente il nostro universo, e, se l'interpreta-zione già data è esatta, farà dei suoi eletti i compartecipi della sua azione.

D. Non mi hai dato la tua interpretazione della tromba.

R. Quello che ridesta i morti e riorganizza il mondo è la voce di Dio che è in tutto. Dico così perché io apprezzo il nobile pensiero di Mozart, che nel Requiem fa del Tuba mirum spargens sonum non uno strepito terrificante, ma una lunga melodia spirituale.

D. È veramente l'uomo Cristo che così tu fai, in unione co' suoi, l'organizzatore' del mondo? R. Sì, come abbiamo fatto di lui l'organizzatore dell'umanità religiosa nella Chiesa e dell'incivilimento per mezzo della Chiesa. Di lui allora e di lui alla fine, noi diciamo: « Egli ereditava un mondo già fatto, eppure stava per rifarlo tutto intero » (e. péguy).

D. E che qualificazione morale attribusci tu a questa vita dell'universo trasformato?

R. È finalmente la vera vita, poiché è il pensiero creatore realizzato, la forma degli esseri perfettamente acquisita, la fine del desiderio ottenuto, la gerarchla di tutti i valori fondata, l'attività universale lanciata nella sua via definitiva, che non è più una ricerca, un bran-colamento, un tentativo così spesso combattuto, un'impresa così spesso opposta a se stessa, ma l'esercizio ar-

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monico dei poteri pienamente raggiunti, riguardo a oggetti integri essi stessi e che non si rifiutano più.

D. Tuttavia quello che noi vediamo ora è appunto l'abbozzo di questo avvenire.

R. La polvere astrale che naviga nel firmamento è come il suo seme, come il polline lucente. Fino ad ora, dice S. Paolo, la creazione geme tutta quanta e soffre quasi le doglie del parto. Ma siccome la polvere dei morti deve lasciare il posto a creature eternamente viventi; siccome le umanità disperse nell'universo e le età si devono raccogliere in una sola famiglia di eletti: così alla dispersione dei mondi nello spazio succederà indubbiamente una sublime unità, creata sotto il segno dello spirito, per spiriti, ed eternamente rivelante davanti agli occhi aperti di tutti gli esseri le segrete armonie che il tempo ci dissimula.

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IL GIUDIZIO FINALE

D. La trasformazione di tutte le cose è anteriore o posteriore all'ultimo giudizio?

R. Quello è un solo grande cataclisma, a un tempo materiale e morale; non è possibile segnarvi dei prima o dei poi. Tuttavia, sotto certi aspetti, la logica delle cose pone il giudizio all'inizio, poiché l'ordine supremo è una sanzione; sotto altri aspetti, il cataclisma materiale precede, poiché la risurrezione dei morti e il loro collocamento in un nuovo essere ne è una parte.

D. L'aspetto morale del cataclisma ha per tè il carattere d'una seconda venuta di Cristo? R. Lui stesso l'ha presentato così. Dopo « la sua venuta in mansuetudine » (pascal), egli ha annunziato la la sua venuta come giudice. La prima era stata umile e nascosta; la seconda dev'essere fulgida e gloriosa, perché è la consumazione dell'opera e la piena evidenza de' suoi frutti.

D. Hai segnalato l'errore dei primi cristiani che cre^ de vano prossimo il giudizio: non vi contribuì in qualche modo Gesù? R. Su questo punto Gesù si rifiutò a ogni precisione.

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Egli giunse fino ad assicurare che anche il Figliuolo dell'Uomo — come Figliuolo dell'Uomo — non sapeva « ne il tempo ne l'ora », e cioè che questo non faceva parte del suo messaggio. Egli si attiene a questo consiglio impellente: Vegliate! il Figliuolo dell'Uomo viene come un ladro. Ciò si verifica eminentemente per ciascuno, perché la morte è segreta, e ogni giudizio particolare è una parte del giudizio generale. Ma ciò si verifica altresì, nel suo piano, per tutta quanta l'umanità, e non vi è ragione di precisare di più, perché questo non ha conseguenze morali, e a noi vale molto di più l'incertezza. Appunto per questo, nel suo Discorso escatologico, Gesù prende per simbolo e sostegno de' suoi annunzi sopra la fine dei tempi la rovina prossima di Gerusalemme, indicando soltanto che al di là, le prospettive si prolungano, senza che nessuna cronologia precisi la forma o l'estensione di tale prolungamento.

D. Qual è la ragione d'essere d'un giudizio collettivo, dopo il giudizio particolare?

R. La dottrina è sempre la stessa. La nostra religione non è individualista, ma sociale; è una comunione. Dal momento che l'opera di Cristo è una vita comune, comune dev'essere lo sforzo e comune la mèta. Si vive gli uni accanto agli altri e sovente lontani gli uni dagli altri, ma uniti dallo Spirito di Cristo. Si parte gli uni dopo gli altri, ma per ricongiungersi attorno a Cristo, e in modo visibile, perché la società è cosa visibile, e all'ultimo termine di ogni vita, perché solo allora saranno prodotte alla luce le conseguenze totali delle opere umane.

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D. Ne/ giudizio di ciascun'anima, le conseguenze de' suoi atti non sono già state pesate? R. Dio ha tenuto conto, nel nome della sua prescienza, di tutte quelle conseguenze che le nostre opere avranno dopo di noi; ma ciò dev'essere alla fine denunciato pubblicamente.

D. Che necessità vi è di questa manifestazione formidabile, specialmente se deve estendersi al segreto dei cuori?

R. Il segreto dei cuori è tutto l'ordine morale, del quale i fatti esterni non sono che la testimonianza. Se l'ordine morale deve rifulgere un giorno, bisogna che si compia la profezia di Cristo: Nulla vi è di nascosto che non sia palesato, nulla di segreto che non debba finire con essere conosciuto.

D. Riguarda forse gli altri quello che ho pensato o voluto io nel segreto della coscienza?

R. Tutto quel che siamo noi riguarda tutti, poiché noi siamo in società spirituale. Come abbiamo detto a proposito del sacramento della penitenza, nulla di ciò che fa ciascuno, nulla di ciò che egli pensa, nulla di ciò che desidera o progetta è estraneo alla Chiesa universale ne senza effetto sopra il suo funzionamento. La solidarietà fra noi è stretta fino all'unità, poiché in Gesù Cristo e nel suo Spirito noi siamo una sola cosa. Chiamati insieme, retti da un unico potere, ma in stato di reagire immensamente gli uni sopra gli altri, sia consciamente, sia senza saperlo e senza volerlo, ma con la certezza precedente e imprescrittibile che ciò avviene, noi abbiamo un diritto scambievole alla verità, sotto lo sguardo del grande Giudice. Ragioni di sapienza man-

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tengono dei segreti nel corso dei tempi; ma il tempo, alla fine, deve versare il suo tesoro agli occhi dell'universale assemblea. Quello che è stato fatto nella notte, dev'essere giudicato nel giorno.

D. Tu dai a ciascun essere l'universo intero fer testimonio?

R. È il diritto di questo universo, che è un universo morale. È il diritto altresì di ciascun essere, e, se egli è stato buono, la sua suprema gloria.

D. Ma se non è stato buono? R. Invece di gloria, si tratterà di giustizia che si farà alla luce, quando tanti furbi fariseismi avranno la loro sanzione di vergogna, « e quando apparirà in una età assoluta l'eterna laidezza delle temporali lebbre » (e. péguy).

D. Viceversa, ciascun essere sarà il testimonio dì tutto l'universo e di tutte le età?

R. Sì, « quando tutto si rischiarerà delle fiamme della memoria, quando ogni uomo sarà come un grande spettatore » (e. péguy).

D. Ma i buoni che tu vuoi così glorificare, non avranno da arrossire di molte cose?

R. La loro vergogna sarà coperta dalla divina misericordia, dalla quale avranno più gioia che affanno a causa del male. Il rossore d'una fronte non si vede più quando vi brilla il sangue di Cristo.

D. Com'è possibile questa manifestazione universale di tutti a tutti?

R. S. Tommaso vi vede un fatto soggettivo, una « illu-minazione interna », come nel giudizio particolare, ma

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questa volta collettiva. Dio che sa tutto, svela la sua scienza agli spiriti.

D. Che cosa ne viene a Dio?

R. La manifestazione dell'opera sua, e la giustifica-

zione della sua condotta in tutto l'universo.

D. Qui non si tratta che dell'ordine morale. R. L'ordine morale dipende dall'altro. O piuttosto non ve ne sono due; ma è la Realtà, che è morale, perché Dio è l'organizzatore, il legislatore supremo e il fine. Nel Giudizio, ciò brillerà, a confusione dei nostri dubbi, delle nostre cecità, dei nostri rimproveri colpevoli e insensati alla Provvidenza, delle nostre bestemmie.

D. Anche l'inferno avrà la sua giustificazione. R. L'inferno renderà ragione di se stesso; i dannati, digrignando i denti, sottoscriveranno aìì'Amen apocalittico; la giustizia regnerà sull'ordine in una cornice di sorprendente bellezza.

D. E il purgatorio?

R. Non sarà più. Il definitivo annulla il provvisorio.

Non si attende ne si sospira, quando tutto è concluso.

D. Dunque due gruppi solamente? JR. I due gruppi evangelici: le pecorelle e i capri, che segnano la doppia fine d'una esistenza sublime e tragica, « quando si avanzeranno verso un'ultima morte o verso il primo giorno d'una beatitudine » (e. péguy).

D. formidabile visione!

R. Formidabile per chi lo vuole, esaltante per chi realizza quanto all'uomo è domandato; ad ogni modo, grandiosa, e tale che il senso estetico più potente non avrebbe

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potuto concepire ma che la coscienza morale più esigente ha il dovere di approvare.

D. E dopo questo?

R. Dopo, comincerà il regno definitivo. Il regno è la consumazione di tutta l'opera, e perciò è lì quello che si può vedere finalménte, benché non unicamente, ne certo principalmente, in questa invocazione del Poter;

Venga il tuo regno!

D. È questo dunque il fine che Gesù ebbe di mira? R. Lo ebbe di mira certo nella sua profezia solenne, all'uscire dal tempio, salendo lentamente il Monte degli Ulivi. E quale audacia, in quella predizione del « piccolo Giudeo » di Renan, se noi dovessimo veramente ridurre Gesù a questa statura! Eccolo che si incatena la sorte della sua dottrina, quella della sua opera, quella della sua persona al ciclo intero dell'umanità sopra la terra e al suo eterno incoronamento! Una tale affermazione è grave! Essa implica la trascendenza assoluta della religione nata da Cristo e il suo spiegamento preminente nella storia, il carattere affatto eccezionale del Fondatore e il suo dominio sopra il tempo. Ora la prova di queste pretese è stata cominciata; essa prosegue ogni giorno; non è ancora compiuta e l'avvenimento terminale è senza dubbio lontano; ma manifestamente la via è presa, la posizione è segnata e sfolgoreggiante. Si può attendere con sicurezza l'avvenire.

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EPILOGO

CONSIGLI ALL'INCREDULO

Non pensare, .caro amico, che io voglia arrogarmi su di tè la minima autorità personale. Chiunque tu sia, in qualsiasi stato ti trovi, io mi sento semplicemente tuo fratello, e se ho qualche vantaggio come primo arrivato, questo per me non è che un motivo di venirti in soccorso. Io sono nel porto di pace; tu vi tendi ancora. Forse non vi tendevi, e forse ciò che precede, ad opera della Verità vivente, ti ha indotto un po' ad orientarviti. In questo caso la mia audacia fraterna non ti urterà più; posso tenderti la mano e dirti affettuosamente, con profondo rispetto per la tua libertà di cui Dio solo è padrone: Ecco quello che io credo che tu possa adesso fare.

In base a ciò che abbiamo detto del punto di partenza della religione, tu devi renderti conto che la prima cosa è di metterti di fronte a tè stesso, alla tua condizione in questo mondo, al tuo stato di coscienza rispetto al bene che conosci, e a' tuoi doveri verso Colui che non conosci, forse per negligenza, o per un segreto timore.

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A questo punto, oso farti una domanda stringente. Non sei battezzato? Non hai fatto la prima Comunione? Non hai praticato, liberamente, la religione de' tuoi padri? E credi tu che ciò non abbia alcun peso, per dirigere o per giudicare la tua condotta religiosa ulteriore? — Ma io non ne sapevo nulla, mi dirai. Mi hanno battezzato senza di me; mi hanno poi suggerito la fede e la pratica. Più tardi, venne la riflessione. — Sia pure. Io ti ho concesso che ciò è possibile, benché le persone di esperienza sorridano, a volte, di ciò che la pubertà o l'età delle ambizioni giovanili chiama « riflessioni ». Ma io domando a tè, nel segreto, non aspettando altra risposta che quella che raccoglierà liberamente la tua propria coscienza: Sei tu sicuro che il problema risolto in quel momento contro Dio, tal quale ti era fino allora apparso, sia stato legittimamente risolto, voglio dire con tutta la serietà che esigeva la questione, con tutta l'indipendenza che ci voleva riguardo a quei sentimenti segreti che ci invitano a respingere ogni costrizione? Se sì, io ti comprendo. Ogni cattolico dirà senza dubbio che tu ti sei ingannato; ma poiché, per ipotesi, il tuo errore non .ti può essere rimproverato, ti devono prendere come sei, e tu sei in diritto di domandare alla religione i suoi titoli. Mi sono collocato in questa ipotesi scrivendo le pagine che precedono; io l'ammetterò ancora in ciò che segue. Solo così per modo di dire io mi permetto di fare appello alla tua lealtà e di additarti le conseguenze di una dichiarazione possibile. Se fosse vero che questo problema non fosse stato saggiamente risolto, che neppure fosse stato proposto, che tu avessi fatto come tanti altri, dei quali il capriccio, la passione, le ambizioni, i comodi, o un ambiente anonimo formano

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tutta la convinzione, tu avresti il dovere di ritornare a questo esame, di riprendere la questione dove l'hai lasciata, e di chiedere a tè stesso non se la religione ha dei titoli per ottenere la tua adesione, ma se tu, battezzato, comunicato, praticante di ieri, hai anche dei montivi sufficienti per abbandonarla. Non bisogna rovesciare le parti. Qui interviene il principio di possesso. La tua eredità, la tua educazione, i tuoi impegni giovanili, la tua pratica anteriore non sono tutto; ma sono qualche cosa, sono anzi molto, e se tu li rigetti, se tu ti « con-verti » alla rovescia e decidi di cambiare rotta, devi dire il perché.

Dov'è questo perché?...

Se esso esiste, se è serio, se, lealmente parlando, è di necessità assoluta per la tua coscienza, io ne prendo atto e ripigliamo la conversazione di questo libro. Se esso fosse vago o inesistente, io ti direi: II tuo dovere — un dovere stretto — è di rimetterti nella condizione in cui eri alla vigilia di questo sbandamento, cioè di rientrare nel retto sentiero e di riprendere la tua vita cristiana, salvo a fare ora quello che avresti dovuto fare allora, per rischiarare i tuoi dubbi. Quando si è fuori, c'è bisogno di ragioni per entrare. Quando si è dentro, si ha bisogno di ragioni per uscire. E quando uno è uscito senza ragione, deve rientrare, in attesa delle ragioni per uscirne, se pure ce ne sono.

La situazione allora sarà forse un po' difficile; ma con un po' di buon volere, si esce d'impaccio. Poiché nel cattolicesimo tu sei in casa tua, frequenta la tua religione, imparala di nuovo, unisciti a' suoi riti nella proporzione che permettono le tue disposizioni attuali, parla a Dio tutti i giorni, non fosse che per dirgli che

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tu non sei sicuro di credere in lui e « ch'egli ti annoia » (paolo claudel). Sorveglia la tua vita morale; se è necessario purificala, e fa' il bene, affinchè in tè il bene si traduca in luce.

Che se inoltre tu avessi anime a carico, come sposo, padre, capo, educatore, io ti direi con una insistenza fraterna assai più calorosa: Dammi retta, pensa al peso di responsabilità che porti; rifletti alle care anime, alle anime fiduciose sulle quali tu influisci con la tua noncuranza, a quelle che rattristi, a quelle che immobilizzi, quando un buon esempio opportuno le indurrebbe a decidersi. Tutto ciò è di una gravita eterna, e grave altresì per questa povera vita, così miserabile fuori del conforto della fede.

A tè spetta di concludere, caro « incredulo » che forse usurpi questo titolo, che io dovrei allora chiamare caro « negligente », caro « smemorato », caro « infedele », che il cuore di un fratello invita all'ovile.

Supponiamo adesso che tu abbia le carte in regola. Tu non sai; tu non hai impegni; tu cerchi. Ecco allora quel che ti suggerisco.

Posto il problema della fede, non l'abbandonare più finché esso non sia risolto in modo certo. Se anche, per assurdo, non dovesse esser risolto, tu avresti almeno il beneficio di queste nobili parole di Pascal: « Vi sono due sorta di persone che si possono chiamare ragionevoli: o quelli che servono Dio con tutto il loro cuore perché lo conoscono, o quelli che lo cercano con tutto il loro cuore perché non lo conoscono ».

Studia seriamente; medita: ecco l'uomo intcriore che vede; l'uomo disperso al di fuori è la vittima di alluci-

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/

nazioni successive, che lo attaccano al supposto reale, diametralmente opposto al vero.

Non ti dico: sii sincero: penso che tu lo sia nel senso corrente della parola; io ti dico: non credere facile la sincerità. Noi siamo abilissimi a ingannare noi stessi! Chi è veramente sincero con se stesso? Eppure il nostro dovere è di accettare le affermazioni dell'anima nostra, e anzitutto di scoprirle. Fuggirsi, o rifiutarsi è il primo peccato dell'anima irreligiosa.

Abbi dunque un cuore semplice, un cuore di bambino; noi siamo tutti bambini di fronte alla verità eterna; non ci conviene, prendendo un atteggiamento orgoglioso, collocarci in qualche modo al di sopra di essa, oppure, con segrete resistenze o con gravi desideri, collocarci al di sotto. Rimaniamo al livello giusto, per quanto possiamo, ma inclinati davanti a ciò che da tutte le parti ci oltrepassa.

Bisogna studiare la religione con spirito religioso, come ci si applica alla scienza con uno spirito di scienziato, o alla poesia con uno spirito poetico. Lo spirito di sofisticheria non le conviene. Esigenze smoderate in materia di dimostrazione darebbero prova di un falso metodo. Qui non siamo nel campo delle matematiche, e Aristotele osservò profondamente che a ciascun ordine di conoscenza non bisogna chiedere che il genere di certezza che esso comporta. Tu non stringi un'amicizia, non entri in una carriera, non prendi moglie, su dimostrazioni perentorie. « Ciò è ridicolo », ti direbbe Pascal. Anche la religione è cosa morale; essa invoca le ragioni del cuore; così dev'essere, se essa dev'essere la verità di tutte le anime. Pensar religiosamente è adottare le forme del pensiero più prossime all'amore.

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Non ti lasciare imbrogliare da troppe questioni particolari. Non ti fermare a tutti i grovigli. Vi sono difficoltà dappertutto; se t'indugi a risolverle una dopo l'altra, non arrivi mai. Attienti all'essenziale, al fatto. « La vera forza dell'intendimento consiste nel non lasciare offuscare ciò che sappiamo da ciò che non sappiamo » (EMERSON).

Ricordati che ogni difficoltà particolare del cristianesimo trova la sua soluzione nell'insieme; che la coerenza e l'adattamento sono il segno del vero. Procura dunque di vedere ciascun problema, se esso si presenta veramente e se è importante, come nel centro d'una sfera di verità, che allora lo rischiara da ogni parte.

L'opinione agisce sopra di tè come sopra tutti: concedile la sua parte d'azione legittima; nessuno può pensare solo. Guardati dalle correnti di pensiero, che non rappresentano se non una moda passeggera. Ciò che è passeggero del resto può essere lunghissimo, in rapporto alla nostra breve vita. Non badare al numero, che si lascia così presto sorprendere e così facilmente trascinare, in questo tempo di pubblicità e di confusione. L'ignoranza di quasi tutti questi individui in materia religiosa è così piena e allegra che li indurrebbe al silenzio, se essi non pretendessero di farsene un'arma. Ma di fatto, bada bene, vi è lì nello stesso tempo che un pericolo per la più pura buona fede, una tentazione sottile. « Coloro che non amano la verità prendono il pretesto della contestazione della moltitudine di quelli che la negano... Essi si nascondono nei libri e -chiamano il numero in loro soccorso » (pascal),

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^.Diffida dei sapienti e dei pensatori che si scagliano contro la fede con affermazioni affrettate, dimostrando un'ignoranza a volte madornale di ciò che pretendono di giudicare. E d'altra parte diffida dei credenti che mettono scioccamente la loro fede in contraddizione con la scienza o l'esperienza, per ignorare il tutto e per confondere ogni cosa. Purtroppo costoro sono numerosi. Ve ne sono pure tra i 'professionisti' della religione. Tè ne meravigli? Esigi forse che in religione più che altrove una etichetta dia competenza universale? Non tutto quello che dice un soldato ha il peso di una dottrina di Foch; non tutto quello che dirà un sacerdote è parola di Vangelo. Sappi fare, quando è necessario, le tue riserve, e « non credere a ogni parola » (s. paolo).

Se nonostante i tuoi sforzi sinceri la luce tarda a venire, non tè ne stupire e non ti scoraggiare. Consentire alle tappe fa parte della virtù del camminatore. Si parte, si fa una lunga strada sinuosa e molto spesso in galleria; alla fine si arriva. Chi sa dove sei veramente? I più grandi avvenimenti dell'anima hanno luogo in noi molto prima che l'anima se ne accorga; essi sfolgoreggiano un giorno, ma nacquero in segreto, come la fiamma in un ceppo lentamente riscaldato. Sappiamo attendere lasciando che k cose si rischiarino da se stesse, lasciamo maturare l'anima, attenta, sotto il sole di Dio.

Quando un'impressione di verità comincerà a colpirti, e la tua mente vi si sentirà incline, potrà accaderti di trovare in tè altre resistenze, come ripugnanze invincibili, certe pieghe della sensibilità, certi abiti mentali, e più di tutto quella certa immobilità che non ha nome, ne forma, ne causa visibile; inerzia dell'anima, o piut-

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tosto un intoppo che non trovi modo di superare. In tal caso non si tratta più direttamente di uno sforzo intellettuale, ma di un atteggiamento pratico. Poiché la verità è anche bellezza e utilità, la si può raggiungere da questo lato; il giro non è illegittimo. Ora il bello e l'utile ci muovono, là dove la luce ci lascia fissi al suolo. Puoi dunque compenetrarti delle bellezze della religione; piaccia alla tua immaginazione e alla tua sensibilità per le sue armonie, per il suo culto, per gli scritti de' suoi grandi uomini, per la sua arte, per i suoi monumenti, e anche per le sue ideali promesse. Bisogna « eccitare gran bramosia », diceva Pascal; bisogna eccitarla anche per conto proprio. « Non potendo il cuore dell'uomo agire senza qualche attrattiva, in un certo senso si può dire che quello che non gli piace gli è impossibile » (bossuet).

Parimenti non devi dimenticare la « macchina », l'« automa » e l'« imbestiamento » pascaliani, che sono stati così male capiti, forse perché l'incomprensione era più comoda. Tu sei convinto astrattamente; ma lo spirito non ha scattato, l'adesione effettiva non vuoi venire: cammina, affinchè il movimento ti trascini. La bestia, in noi, vuoi essere « trattata da bestia »; l'automa messo in moto. Pratica tutto quello che sai, è un dovere. Pratica anche, nei limiti della saggezza e delle possibilità morali, quello che speri di sapere, al fine di arrivare a saperlo, in forza di questo adagio: « Non conosciamo le cose se non praticandole » (maurizio barrès). E tutto ciò vuoi dire: Convcrtiti prima, cioè volgiti nel senso giusto, e allora la Verità stessa, la Verità vivente ti convertirà. Non si trova Dio se non mettendosi sulla sua strada.

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Eccomi all'ultimo consiglio. Il centro della religione è Cristo: non esitare, va' diritto a lui. Là^mediazione della critica non è necessaria. Questa può venire alla sua ora; essa ha il suo posto; ma il contatto diretto ha ben altra efficacia! Gesù è prova a se stesso, ti dicevo. Ascolta queste parole solenni: Io sono nato e sono venuto al mondo per rendere testimonianza alla verità;

chiunque è figlio della verità ascolta la mia voce. Qui non vi è inganno. Entra dunque nel Vangelo senza sforzo;

entravi ingenuamente; lascia che il tuo spirito avvicini quello di Gesù, il tuo cuore apprezzi questa ineffabile Persona, e il senso tuo del reale gusti la realtà vivente di questi fatti, che gravi critici inaridiscono e dissipano al soffio delle parole. Non invano ti attaccherai al vero Maestro. Egli è il « Ponte »; è la « Porta »; chi va a lui « non cammina nelle tenebre; ma la sua vita sarà mondata di luce » (s. giovanni).

Io non ti faccio l'ingiuria di credere che, una volta sufficientemente convinto e invitato internamente, tu esiti a dichiararti a cagione di vane considerazioni estranee. Quello che si chiama rispetto umano è un meschino rispetto di se stesso. Fu detto della conversione:

« Fuori, è un uomo che sì smentisce; dentro, è un uomo che si compie » (abele bonnard): sapendo compierti meriterai di ottenere la stima.

L'essenziale è deciderti e spiegare per questo il coraggio necessario. « Per la fede come per l'amore, ci vuole del coraggio, del valore; bisogna dire a se stesso: Io credo » (tolstoi).

E bisogna finalmente che confidi nel tuo Dio, senza il quale tutto quello che ho potuto dire, tutto quello che potrei dire, sarebbe vano. La fede, come tutto l'in-

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sieme della vita cristiana, è una collaborazione; è noi con Dio, è Dio con noi, per mezzo del suo Cristo, nel centro e sino ai confini dell'anima, sino ai confini della vita.

Per conseguenza, prega. Fino dal principio abbiamo convenuto che tu lo potevi fare, che lo dovevi fare. Poste tutte le altre condizioni, ascolta Cristo che ti dice: « La tua conversione è affare mio; non temere, e prega con confidenza, come per me » (pascal).

Se fai così, fratello mio, io ti oso promettere da parte di Dio la certezza nella fede, la pace nella certezza, quella pace « che supera ogni sentimento umano » ed apre una via spaziosa alle opere e alle ricompense dell'amore.

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INDICE

5 Presentazione, di Antonio Livi

13 Introduzione

LIBRO PRIMO - I PRELIMINARI DELLA FEDE 17 DÌO- '

41 La Provvidenza»

67 La religione

83 II cristianesimo cattolico

83 a) La sola vera religione

89 b} Schizzo di un'apologià interna

119 e) Schizzo di un'apologià esterna

LIBRO SECONDO - I MISTERI

145 Che cos'è il mistero

153 II mistero della SS. Trinità

161 II mistero della creazione

161 a} La creazione stessa

165 b) Gli angeli e i demoni

175 e) La natura

178 d} L'uomo '

191 II mistero del peccato originale

207 II mistero dell'Incarnazione 227 II mistero della Redenzione 239 La Vergine Madre 245 II mistero della Grazia

LIBRO TERZO - LA CHIESA

269'- II regime sociale della Grazia 275 I caratteri divini della Chiesa 275 a) II fatto sovrumano 281 b) L'unità della Chiesa 286 e) La santità della Chiesa 290 d) La cattolicità della Chiesa 297 e) L'apostolicità della Chiesa 301 /) La Chiesa romana 305 L'organizzazione della Chiesa 305 a) L'ordine divino della Chiesa 313 b} II Papa

323 e) Le tré Chiese e la Comunione dei santi 328 d) La necessità della Chiesa. « Fuori della Chiesa, nessuna salvezza »

LIBRO QUARTO - I SACRAMENTI

337 I sacramenti in generale

349 II Battesimo

359 La Confermazione

363 L'Eucaristia

377 La Penitenza

391 II Sacramento degli infermi

395 L'Ordine

401 II Matrimonio

LIBRO QUINTO - I NOVISSIMI

413 La morte e l'immortalità 431 II giudizio particolare

437 L'inferno

465 II purgatorio

469 II paradiso

487 La risurrezione della carne

499 I nuovi deli e la nuova terra

509 II giudizio finale

epilogo 515 Consigli all'incredulo

con approvazione ecclesiastica

Finito di stampare nel giugno 1977 proprietà letteraria riservata Edizioni Ares - 20131 Milano - Via Stradivari, 7

Tecnografica Milanese - Ponte Sesto di Rozzano

 

 

 

 

 

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