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A. D. SERTILLANGES O. P.

IL PROBLEMA DEL MALE

LA SOLUZIONE

MORCELLIANA - BRESCIA

1954

Titolo originale dell'opera:

LE PROBLÈME DU MAL Traduzione di giovanni scotuzzi

Tutti i diritti riservati in tutti i Paesi Copyright by Morcelliana 1954

, Printed in Italy

Tipografia Editrice « Morcelliana » - Broscia

 

CHE COS'È' IL MALE?

Si parte sempre da una definizione. Di qui vengono quasi tutte le ulteriori determinazioni. La preoccupazione comune è di trovare il covo di questo nemico, che si chiama il male e di sapere da dove viene. E se si suppone che abbia questa o quella causa cosciente, un perché doloroso mette subito questa causa in stato di accusa, se si osa dire, a meno che non si preferisca negarla per il suo stesso onore. Tuttavia, nell'ordine della ricerca, questa preoccupazione è secondaria. Prima di sapere donde venga il male, conviene domandarsi ciò che esso sia. Non è assurdo, dice Sant'Agostino, cercare l'origine d'una cosa sconosciuta?

L'evidenza del male colpisce ognuno, e alcuni preferirebbero accontentarsi di ciò, trattando come sottigliezze le determinazioni più necessario. Ma l'indeterminato comporta troppi inconvenienti perché cediamo qui alla facilità. Vogliamo soddisfare i pensatori, e siamo persuasi che, trascurando le basi, si espone la verità a tutte le misconoscenze e a tutte le contraddizioni.

Il male non è una realtà naturale

IlJmale è l'opposto del bene, e per lo sguardo semplicista sarebbe volentieri qualificato cattivo ciò che compromette il nostro bene o semplicemente ci da fastidio. Sotto questo rispetto, la belva, il serpente, il topo, lo scorpione, la cimice, la pulce appartengono al male. Sono bestie sporche. Ma lo scienziato non conosce bestie sporche, vede ovunque mirabili organizzazioni e prodigi di attività creatrice. Quanto al metafisico, a maggior ragione si rifiuta di chiamare cattiva una qualsiasi natura d'essere, per il motivo che una natura siffatta non potrebbe ne agire ne ricevere un'azione, e che posto potrebbe pertanto occupare nel mondo? Non potrebbe agire, poiché ogni essere agisce solo in ragione d'una perfezione, che esso possiede e mette in opera. Non potrebbe ricevere un'azione, poiché in ogni soggetto d'azione, preso in quanto tale, si attua un'evoluzione, nella quale si manifestano e trionfano le qualità dell'agente. Il male, preso in se stesso, è dunque estraneo all'essere e alla causalità; non vi si può vedere che una mancanza, un'assenza, un niente di realtà, non un'autentica realtà.

 

A ciò il teologo aggiunge: ogni realtà è Dio o viene da Dio. O Dio non è, o è sorgente universale d'essere. Pertanto, affermare un'esistenza cattiva, vorrebbe dire introdurre il male in Dio; poiché questa esistenza essendo necessariamente creata, cioè emanata da Dio, partecipante di Dio e così somigliante a Dio, denuncerebbe in Dio una tara incompatibile con . la sua perfezione sovrana. Abbiamo infatti visto i sostenitori della positività del male, quando erano coscienti delle loro affermazioni, optare col Renouvier per un Dio finito, concetto che suscita orrore in un vero teologo.

Nel senso rigoroso dell'espressione, l'essere del mondo partecipa di Dio. E' appunto ciò che significa partecipazione. Se dunque il male ha un essere proprio, vuoi dire che in Dio c'è del male. Conclusione tanto più rigorosa, in quanto che, per il teologo, la creazione, benché distinta da Dio, contrariamente alle concezioni panteistiche, non viene tuttavia ad aggiungersi a Dio, tanto è totale la sua appartenenza. Come la sua perversione, se fosse una qualificazione positiva del suo essere, potrebbe non trapassare in Dio, vale a dire annullare Dio? « Che possa esistere la pura malignità, dice l'Emerson, è una dichiarazione di ateismo » 1.

Il male è una privazione

Ma a questo punto sopraggiunge in molti un equivoco capace di sconvolgere tutti i giudizi e di introdurre nelle esposizioni perpetui fraintendimenti. Per il fatto che si rifiuta al male una esistenza positiva, una propria natura e un'attività che gli appartenga, alcuni concludono che lo si nega puramente e semplicemente, che si elude così un terribile problema.

Il male non sarebbe dunque che un bene minore, una mera negazione del perfetto, un limite? Ciò, si dice, non regge. La virulenza del male è troppo evidente. La rivolta che il male eccita nelle coscienze non autorizza una palinodia metafisica valida solo a parole. E quanto agli orrori che abbiamo visto ai nostri giorni, quelli che punteggiano i racconti della storia a partire dal primo assassinio? Invero la burla ha dei limiti, e vi sono argomenti, nei quali la filosofia perde quel potere di mistificazione, che gli scettici le hanno in ogni tempo attribuito.

Non insistiamo e diciamo subito : ci si sbaglia. Non si nega il male per il fatto che gli si rifiuta una realtà positiva, così come non si nega e non si cessa di deplorare lo strappo d'un tessuto pregiato dicendo che questo buco non è tuttavia un essere.

E' di immensa importanza sapere e proclamare che il male non è un essere; ne abbiamo detta or ora la ragione. Ma ciò non diminuisce per nulla la gravita del problema che esso pone; ciò non ne fa affatto un semplice limite, una semplice diminuzione di bene, una semplice negazione.

Anzi che negazione, dite privazione, e tutto cambia. E' per non aver avvertito il peso di tale distinzione che alcuni pensatori si sono indignati davanti alla tesi della non-positività del male. Bisogna riconoscere che

1 Gli uomini rappresentativi, Swedenborg.

 

EQUIVOCO DEL «MALE METAFISICO»

 

Alcuni filosofi ve li hanno aiutati, quando hanno parlato, come Leibniz, peraltro senza errore di dottrina, di un mede metafisico, consistente semplicemente nella imperfezione che è propria necessariamente di ogni creatura.

Una denominazione simile è abbastanza sorprendente da parte di un filosofo ottimista; poiché se ogni assenza di bene fosse un male, si sarebbe portati a professare un pessimismo universale. Nondimeno questo modo di parlare non è interamente arbitrario, e Gesù stesso sembra di questo parere quando dice al giovane ricco: «Perché mi chiami buono? Nessiwo è buono, se non Dio » (Luca, XVIII, 19). Ciò che si chiama bene, in questa terminologia, è il bene per antonomasia, il bene perfetto. Ed è certo che l'imperfezione del creato è all'origine di ogni male, come dovremo mostrarlo in seguito. Ma l'origine del male non è il male. Un essere limitato, a qualsiasi livello sia della scala degli esseri, ha la possibilità di essere perfetto nei limiti della sua natura e così di non comportare alcun male.

Meglio, nell'ordine del creato, l'idea di limite è inclusa nella caratteristica del bene, poiché serve a definire tutti gli esseri. Che cos'è definire, se non limitare? E' il limite che stabilisce un essere nella sua propria essenza. Se il triangolo non fosse limitato a tré lati, non sarebbe un triangolo, e il triangolo non esisterebbe affatto. E se una qualsiasi creatura non fosse limitata a un'essenza particolare, questa creatura comprendendo in sé la pienezza dell'essere sarebbe Dio. Confondendo il bene con il perfetto, è come si proibisse a Dio di realizzare un qualsiasi bene, non potendo Dio riprodurre se stesso ; è come si ammettesse la conseguenza che ogni essere è cattivo per il fatto che non è un altro essere, etc.

Sotto questo riguardo, il preteso male metafisico di Leibniz, del quale abbiamo incontrato precedentemente tracce in Origene2, appare abbastanza antimetafisico. Lo si può ammettere come espressione, poiché le definizioni delle parole sono libere; ma poiché può dar luogo a confusione, è meglio escluderla. Si dirà allora che il male non è una certa natura d'essere, non è neppure un grado inferiore d'essere; è una assenza d'essere avente il carattere d'una corruzione nei riguardi di ciò che esso affetta, di un deterioramento, effetto di ciò che Jacques Maritain denomina energicamente la « lebbra dell'assenza » 3.

Un essere umano ha due braccia : la mancanza d'un braccio non è in lui una semplice negazione, come sarebbe una mancanza di ali ; non è il segno di un grado inferiore d'umanità, come una statura mediocre o un mediocre spirito; è una ferita, una tara, ed è ciò che si chiama un male.

2 Ci si ricorda che Origene collocava nel novero dei mali le stesse ineguaglianze tra gli esseri, ritenendo che il meno buono abbia il carattere del male. Per la qual ragione attribuiva le ineguaglianze iniziali non all'azione di Dio, ma ai diversi comportamenti del libero arbitrio.

 

3 De Bergson. a Thomas d'Aquin, p. 270.

 

10 CHE COS'È' IL MALE?

 

B male è positivo in un senso

 

In queste condizioni, dire privativo il male, è dirlo positivo in un certo modo; poiché pone qualche cosa, cioè una violazione della natura, e, nell'ordine morale, una offesa a quest'ordine e al suo Capo. Il peccatore oppone a Dio un no; afferma la volontà dell'uomo contro Dio, così come nel cosmo una forza di distruzione o d'alterazione rompe in parte lo sforzo costruttivo del mondo. E' .questo lato positivo del male, che, a modo suo, lo pseudo-Dionigi esprime quando dice: « II male è distante dall'essere, ma ancor più dal non-essere » *.

Nello stesso senso e allo stesso modo, il male agisce — non per virtù propria, poiché di per sé esso non è affatto, ma per il bene che esso altera e di cui così devia l'azione. E tanto più nuocerà il male quanto maggiore è il potere del bene sviato. Si pensi al genio traviato, a una grande anima perversa. Satana è il tipo di quei poteri che esercitano, se così si può dire, la loro virtù nel male. L'universo è un'immensa colata di bene, che il male, sornionamente, vessa.

 

Perché il male sembra un'esistenza

 

Queste spiegazioni dovrebbero bastare a calmare coloro, che ritengono che noi minimizziamo il male chiamandolo una privazione, come se intendessimo per male un bene minore, un bene minore che lascerebbe intatta nel mondo la qualificazione di bene, mentre il male costituisce una orribile sottrazione, e precisamente perché non c'è in esso niente dell'essere, cioè del bene, è tale avversario per il bene.

Ciò che inganna, è che il male, per reale e potente che sia, non è isolabile. Chi lo isola, lo annienta. Cercate di isolare una cecità, una sordità. Ciò che esiste, è l'occhio privato della vista, è l'orecchio morto. Il male volge al concreto nel bene, non ha realtà effettiva che in virtù del bene. « Una deformità non esiste allo stesso modo di un animale », diceva San Basilio. Non si incontra mai il male, ma qualcuno o qualcosa, in cui c'è del male. Ora, un soggetto, in cui c'è del male, è un bene. Per questo San Tommaso, seguendo Sant'Agostino, non teme di sottoscrivere la proposizione seguente, apparentemente cosi paradossale : il male è un certo bene (quoddam bonum}, come l'errore è un certo vero (quoddam verum} ! E spiega che nelle frasi, in cui si afferma: il male è, il verbo essere cosi impiegato non designa un'esistenza, ma semplicemente il legame logico d'una proposizione vera. Il contenuto di questa proposizione conserva nondimeno la sua natura di pura privazione. Dire che un occhio è colpito da cecità, è dire soltanto che non vede. . « Nessuno, dice Giusto Lipsie, vede le tenebre, ne ode il silenzio; ma ciascuno li comprende in base

 

4 De divinis Nominibus, lezione XIV del Commentario di S. Tommaso.

PERCHE' IL MALE SEMBRA UN'ESISTENZA li

all'assenza dei. contrari »5. L'Emerson fa un'osservazione assai simile quando dice : « II male ha un'esistenza oggettiva, ma non soggettiva », cioè, nella sua terminologia, che esso è positivamente oggetto dell'intelligenza, ma non soggetto esistente 6.

Aggiungiamo che se questo nulla che è il male prende ai nostri occhi una apparenza d'essere e compare nelle nostre proposizioni al coperto dell'essere, è perché il bene come tale non può assumere la parte d'un oggetto dello spirito, come ha brillantemente mostrato il Bergson. Porre il nulla, è porre l'essere; porre la privazione, è porre l'essere imperfetto. Ma poiché nell'imperfetto che limita l'essere sembra che il bene, identico all'essere, non si riconosca più, si attribuisce al limite là positività che appartiene al soggetto, al male la positività di cui solo il bene è capace.

La ragione ultima di ciò, forse, sta nel fatto che ogni idea, in noi, ha bisogno d'appoggiarsi a un'immagine, o fantasma, di cui è l'interpreta-zione astratta. E questo vale per le idee negative come per le altre. Dicendo:

il niente, ci si rappresenta uno spazio vuoto atto a essere riempito. Dicendo : l'assenza, si vede una casa vuota, una strada deserta. Allo stesso modo, la cecità è una specie di velo o di federa davanti allo sguardo. E tale è il male. Con la riflessione, ci si accorge che il niente è nulla, nemmeno un nulla; che la privazione designa un soggetto che è privato in quanto è privato, e che il male è ciò. Donde le proposizioni di Sant'Agostino e di San Tommaso apparentemente esagerate : « Malum est quoddam honum », « non potest esse malum nisi aliquod bonum » 7.

Da questa verità che il male è nel bene come nel suo soggetto, risulta quest'altra che il male non può mai esaurire tutto il bene, con il quale annienterebbe anche se stesso. Il male della morte, che sembra far eccezione, rientra nella regola; poiché la morte non tocca la materia, che si mostra territorio di vita nel momento stesso in cui è territorio di morte. Cosi il regno del male non può costituirsi che con elementi mutuati dal" bene e rispettando il bene. Il suo trionfo totale, in qualsiasi punto si voglia, presupporrebbe un'abolizione dello stesso atto creatore e una potenza di distruzione equivalente all'onnipotenza di Dio. Soltanto, ciò che il male costruisce è una derisione rispetto. alla vera città. II male porta il segno dell'irrazionale e cosi della negazione nella stessa affermazione.

 

Il male non ha causa prima

 

Da questa stessa definizione del male preso come privazione discende un'altra conseguenza, cioè che il bene, soggetto della privazione, può, crescendo, sfuggire alla privazione e avvicinarsi al bene sovrano, mentre il male, crescendo non può sfuggire al bene e avvicinarsi al male sovrano, che non potrebbe esistere. Ogni manicheismo di questa specie è un'aberrazione. Non c'è causa prima del male, poiché, il male essendo privazione

 

5 Physiol. Stoic., libri tres, p. 71.

6 Saggi, 1 serie. Esperienza.

7 S. agostino, Enchiridion, XIII; S. tommaso, passim.

 

12 CHE COS'È* IL MALE?

 

in un soggetto buono, la causalità riguarda questo soggetto e non la fondazione di un vuoto. Tuttavia, poiché questo vuoto è pur reale come vuoto occorrerà fornirne la ragione. In altre parole, il male, in se stesso non ha causa; ma il fatto che ci sia del male richiede una causa, gj n]la ricerca di questa causa dovremo in seguito dedicarci. Prima dobbiamo percorrere altra strada.

 

Carattere innaturale del male

 

Poiché definiamo il male come una privazione, non come una sernniice mancanza, ci incombe di dire rispetto a che cosa si deve giudicare la privazione chiamata male. Bisogna che ci sia uno stato normale in mancanza del quale, non essendoci norma di giudizio, non si potrà scoDrire ne bene ne male. Per questo, un materialista conseguente dovrebbe dichiararsi estraneo a queste nozioni. Abbandonando tutto al caso degli incontri tra forze brute, senza immanente idealità ne finalità, egli scarta a nrìnri ogni idea di andamento normale o anormale degli avvenimenti, di riusrita naturale o di scacco nella costituzione delle cose. Si comporta, in filosofia come il puro scienziato, per il quale lo sviluppo d'un cancro è altrettanto normale di quello d'un cervello; poiché vi si rivelano le stesse legg; della materia, e non vi considera che ciò.

Ma se si riconosce dell'idealità nelle cose; se le cose si definiscono per lo spirito con il nome di nature, e se c'è una tendenza dei fatti verso la costituzione, la conservazione e il progresso di queste nature, si considererà come un bene tutto ciò che esprime o favorisce questo stato di cose, come un male tutto ciò che lo nega o gli fa ostacolo.

Cosi la natura umana essendo definita da certi caratteri, sarà un bene tutto ciò che serve a costituire, a conservare o a sviluppare ouesti caratteri. Per esempio, sul terreno fisico, la cecità o lo zoppicamento sono un male, poiché privano l'uomo di facoltà che gli sono naturali in quanto uomo. Moralmente, l'uomo avendo pure caratteri propri, come l'autonomia personale o la sociabilità, sarà considerato come un male tutto ciò che si oppone alla manifestazione "o allo sviluppo di questi caratteri.

Bisogna osservare di conseguenza che, se si tratta di nature evolutive l'apprezzamento del bene e del male dovrà pure evolvere. Ciò che manca a un fanciullo all'inizio del suo sviluppo non è considerato un male Al contrario, ci si preoccuperebbe se ve lo si riscontrasse. Cosi, spaventano le facoltà mostruose di certi bambini prodigio.

Allo stesso modo, per gli esseri sottoposti a mutazioni sostanziali. Vedendo un bruco deperire fino al punto di risolversi in una materia apparentemente informe, si potrebbe ritenere che è per esso un male estremo, confinante col male assoluto della morte. Più tardi, costatando la metamorfosi, si continuerà a dire che la decrepitezza precedente era un male del bruco, ma non un male senz'altro di quel modesto vivente thè nella volontà della natura era, per nascita, una farfalla.

Si intuisce di quale alto impiego sia suscettibile tale esempio. Anche l'essere umano, bruco errante sulla terra, va distrutto ad opera di ciò che si chiama la morte. Ma se sopravvive, come il cristiano crede, in una forma superiore e definitiva, la morte continuerà nondimeno ad essere detta un male, anzi il male supremo dell'uomo terrestre, non però dell'uomo simpliciter; poiché l'uomo simpliciter è un immortale.

L'applicazione di questi principi è universale. Non vi ritorneremo sopra; poiché il nostro proposito essendo ormai d'esporre le soluzioni cristiane, non intendiamo occuparci delle filosofie dissidenti. Ciò che tuttavia ci si impone, è di rispondere a gravi difficoltà che si oppongono alla concezione del male come privazione, anche se sia stata compresa la differenza essenziale tra privazione e negazione, la confusione tra le quali intrica dapprima le intelligenze.

 

il caso della materia pura

 

La prima di queste difficoltà concerne la materia pura, che sembra debba essere un male supremo, se il male è definito Come una privazione. Non è essa la stessa privazione, quale indeterminato adatto a tutte le forme e tale da non averne di per sé alcuna?

Ma cosi parlando, ci si confina nell'astratto e ci si allontana dalla realtà delle cose. E' vero che la materia pura è affetta di privazione, per la ragione che, sotto una forma che la determina attualmente, è necessariamente estranea a mille altre che tuttavia potrebbe rivestire. Ma poiché di fatto ne ha una, la privazione di cui si parla non è un male ne per essa, ne per il soggetto, di cui è nel momento attuale un elemento iCostitutivo. Il male eventuale riguarda, sotto il nome di deterioramento o di morte, il soggetto, che sarà spogliato più o meno della forma d'esistenza. La materia stessa non è in alcun modo un male, comunque abbiano pensato in proposito un tempo Piotino e qualcun altro. Non si può cosi qualificare il materiale del mondo, l'elemento senza il quale non sarebbe possibile alcun mutamento, poiché è esso a fornire all'attività universale il territorio d'azione.

Diciamo piuttosto con Aristotele e con tutta la Scuola che la materia, quale principio costitutivo della sostanza, partecipa del bene rappresentato da questa sostanza, e che la capacità ch'essa conserva di figurare sotto nuove forme la rende già partecipe dei beni futuri.

 

Il caso del dolore

 

Più difficile è il caso del dolore, del quale, ci si dice, è ben manifesto il carattere positivo e non meno la malizia, oggetto di lamenti universali. Di modo che di fronte ad esso è quasi ridicolo dire : il male è semplice-privazione. Consideriamo questo caso, e cerchiamo di illuminare un poco il problema.

Che cos'è il dolore? San Tommaso lo definisce : il sentimento d'una lesione (sensus laesionis). Se si da al termine lesione tutta la sua generalità è difficile contestare una. cosi lucida definizione. Ma si pone subito allora una domanda : di che cosa si parla quando si dice che il dolore è un male? Si tratta della lesione, o del sentimento che se ne ha? Se si guarda alla lesione, si ha ragione di dire che è un male, ma si ricade nel caso precedentemente considerato, e si svia il senso del termine dolore;

poiché questa parola designa direttamente il sentimento penoso e solo indirettamente si riferisce alla sua causa.

Il sentimento è penoso, se si vuole è un male, come turbamento della sensibilità e interruzione nel riposo del nostro essere. Ma allora sarebbe altrettanto ben detto del messaggero, il quale ci sveglia per annunciarci una grande fortuna, che ci inHigge un male. Qui non si tratta di una fortuna, al contrario, ma è la stessa cosa, poiché abbiamo interesse a essere noi-stessi e ad essere avvertiti di ciò che ci lede. Si ritiene un bene che un uomo sia inerte o che il manipolatore di radium scopra in sé parti corrose mortalmente senza aver niente sentito? « I mali senza dolore sono i peggiori, dice Sant'Agostino. Meglio una ferita dolorosa che una cancrena indolore, poiché in quest'ultimo caso si tratta di corruzione » 8.

Les meilleurs coups soni ceux qui ne font pas crier dice abbastanza piacevolmente Sully Prudhomme '.

II dolore è la testimonianza del nostro essere sensibile atto pure al piacere, ed è un elemento di difesa per il nostro essere geloso della sua integrità: due benefici che non possiamo negare senza incoscienza. Henri Bergson in Matière et Mémoire (p. 47), vi vede inoltre uno sforzo di liberazione dai mali interni, come i medici dicono della febbre. Se un essere soffre, è perché lotta, e la sua sofferenza è uno degli elementi della sua liberazione, al tempo stesso che un segno di relativa impotenza. E' Milone di Crotone preso nell'albero è sofferente nel tentativo di svincolare le mani.

Tutto ciò non ci impedisce di lamentarci del dolore e di desiderare, senza rendercene conto, cose contraddittorie. Vogliamo si essere di carne e di sangue, e dotati di sensibilità fertile in opere delicate o in delizie, ma non consentiamo a che questa squisita costituzione ci renda vulnerabili. E' volere a un tempo essere soggetti alle impressioni e non esserlo. E ugualmente nell'ordine morale. Chi è sensibile all'amicizia può non esserlo al tradimento e chi gioisce per l'onore non sarà attristato dalla vergogna? Ogni lama delicata e ben acuminata può ferire e tagliare con grazia : accettiamo il rischio in favore del buon lavoro.

E' soprattutto nel dominio morale che si manifesta il valore della sofferenza nella supposizione del male. Nessuno vorrebbe non soffrire della morte di un essere caro, della rovina di un'amicizia o d'una macchia fatta al proprio onore. Si vuoi soffrire; ci si immerge nella propria pena come ci si compiaceva nella propria gioia. E' una specie di sostituzione, e l'esseme guariti costituirebbe un aggravamento dell'assenza. Non

8 De natura Boni, XX.

9 Le Destin.

 

IL CASO DEL DOLORE 15

confondiamo qui il male e il gusto del male provato da una sensibilità soddisfatta di se stessa e godente nobilmente, nella sua pena, perché sa piangere.

Si sono scritte molte poesie sul sapore delle lagrime, e non era poesia vana. Il segreto di ciò sta in una considerazione che spesso si trascura, ma non dovrebbe sfuggire al filosofo, e cioè che in fondo il male non è relativo alla sensibilità, ma alla volontà, o alla tendenza che le è analoga. C'è del male in nature incapaci di soffrire, e altre vogliono soffrire, non considerando la loro sofferenza come un male.

Un puro materialista, è vero, non riconoscendo alcun senso oggettivo al bene e al male, non può vedere nella sofferenza — almeno in teoria — che un fenomeno strano e piuttosto importuno. E' un epifenomeno, senza azione sulla realtà delle cose. Si dice che provoca reazioni, ma queste reazioni si produrrebbero anche se il fenomeno soggettivo non esistesse. Cosi pretendono scienziati, come Félix le Dantec. Ma queste posizioni insostenibili non ci interessano. In ogni filosofia che riconosce valori, il dolore è il segno d'un male. In se stesso è un male pure come interruzione nel godimento del bene. Ma si pone ancora il problema del suo significato vitale e della sua utilità. Ciò che abbiamo or ora detto in merito è importante, riteniamo, e tuttavia, lungi da esserne soddisfatti, alcuni vi vedono un'esagerazione.

Alla fine del secolo XVII Pierre Bayle istituì una disputa intorno al problema se il dolore come salvaguardia e avvertimento fosse veramente necessario. Anzitutto, diceva, come concepire che un Creatore infinitamente saggio, buono e potente, abbia posto le sue creature nel pericolo del male e nella necessità di esserne avvertite 10? Passiamo oltre. Esamineremo ampiamente in seguito questo genere di problemi. Ma supposto il bisogno dell'avvertimento, ve ne sono di più benigni del dolore. La natura poteva pervenire allo stesso risultato procurando al vivente un'idea chiara del pericolo, anziché un danno. Oppure una gradazione di piaceri, al posto di un avvicendamento di piaceri e di sofferenze.

Si vede bene quanto sia chimerico l'ingegno di quest'autore — volontariamente chimerico, del resto. Troverebbe naturale che per avvertire un uomo che sta per scottarsi, gli si suonasse un'aria di flauto.

A ciò Bossuet rispondeva, fondandosi sull'esperienza, che in casi simili le idee servono poco, i piaceri addormentano e non avvertono affatto e che bisogna colpire fortemente. E come sapremmo, aggiunge Jean-Jacques Rousseau, che il bambino soffre e che la sua fragile vita corre un rischio forse mortale, se non ne fossimo avvertiti dai suoi lamenti? "

« Quale che sia la teoria adottata per spiegare l'origine dell'uomo, scrive ai nostri giorni Charles Richet, il dolore è una funzione salutare, che ci costringe, con crudeli avvertimenti, ad occuparci del nostro organismo e ad evitargli bruschi mutamenti di stato, che certamente lo distruggerebbero se non ne fossimo resi avvertiti»12. «E' la sentinella della vita, dice altrove; ci ferma nei nostri eccessi e ci castigo spieiatamente dei nostri errori»'". Aggiunge, è vero, che il dolore va spesso al di là dello scopo; ma si può chiedere a una funzione generale di piegarsi a tutti i casi e di misurare per ciascuno l'applicazione delle sue forze? E' qui in giucco l'equilibrio del mondo. Lo si scompiglia per impedire che un granellino di sabbia danneggi il nostro occhio o che un nervo scosso intempestivamente ci infligga inutili sofferenze? Simile truccatura, che dovrebbe essere permanente, non potrebbe entrare nelle prospettive d'una saggia provvidenza. Tutto ciò che si può chiedere, è che siano state previste compensazioni atte a riparare all'eccesso e all'ingiustizia.

Non tralasceremo più avanti di ricercare se e come ciò si verifichi. In questo momento, ci basta sapere che il dolore è una funzione utile;

che non si può considerarlo come un male che isolandolo dalla lesione di cui è il segno avvertitore e dalla sensibilità di cui è la testimonianza. Presupposti questi antecedenti, lo si deve dire un bene. Ora, ciò che è un bene in un presupposto verificato deve essere giudicato puramente e semplicemente buono; poiché è il concreto che conta, ed è nel presupposto verificato che qui è il concreto. Il dolore di per se stesso, cioè staccato dal fatto, non è che una rappresentazione della mente ".

Di conseguenza, coloro che ritengono di trionfare invocando il dolore come testimonio della positività del male, s'illudono. Mettono il male dove non è. Dove si trova, il loro argomento è inefficace e la nostra dottrina sussiste.

Vi sono tuttavia scienziati, i quali hanno ritenuto di elevarsi contro la teoria della sofferenza come avvertimento, in nome di ciò che chiamano la sofferenza-malattia, che si deve odiare, invece di lodarla, e che non merita che un atteggiamento: che la si estirpi15. Ma ci sembra che accanto a osservazioni preziosissime questi scienziati hanno lasciato passare qualche confusione. Ciò che si chiama dolore-malattia è un guasto dell'apparecchio avvertitore che impazzisce ed eccede, come nel caso di un campanello elettrico che faccia corto circuito e susciti un incendio. Si estingua l'incendio; si guarisca la malattia-dolore, che, una volta scoperto l'altro male (ce n'è sempre uno alla base), non ha più ragion d'essere. Ma non si dica per questo motivo : il dolore è un male, ne, di conseguenza :

il male è un valore positivo.

Il caso del male morale

Ultima obiezione, forse più grave ancora delle altre. Come si può considerare semplice privazione un male morale quale un falso giuramento, un furto, un attentato contro una reputazione, un omicidio o un

12 L'Homme et PIntelligence, p. 39. Paris, Alcan.

13 La Douleur, in « Revue philosophique », 1877, t. IV.

14 Cfr. S. tommaso, I-II, q. 39, a. 1.

15 Cfr. il Dr. Leriche, dell'Académie de Medicine, nei suoi bei studi su) dolore nel dominio chirurgico.

IL CASO DEL MALE MORALE . ir

adulterio? Sembra che ci si beffi conservando siffatta teoria di fronte a.

situazioni concrete.

E tuttavia, considerando le cose da vicino, non è anzitutto chiaro / che gli atti concreti di cui si parla, isolati dalle loro circostanze morali : e lasciati veramente alla loro natura d'atti concreti, non possono essere | qualificati ne buoni ne cattivi? Il male dell'omicidio non sta nel coltello, ': ne quello dello svaligiamento nella violazione d'una cassaforte. Vi sono colpi di coltello virtuosi e l'abile apertura d'una serratura segreta potrebbe essere un'impresa che si ammira. Il male sta nel rapporto di questi atti con il nostro regime di giustizia sociale e di fraternità. L'assassino, il ' ladro obbedisce a una passione qualsiasi a danno dell'esigenza, delle relazioni umane. Offende la sua regola. Ed ecco scoperto il lato negativo.

' Tutto ciò che c'è di positivo nell'atto ha rapporto al bene. Uno scienziato che lo analizzerà non vi troverà che la manifestazione delle leggi che reggono la natura e la vita, e che sono effettivamente mirabili. L'uomo-stesso si aspetta un bene dalla sua azione, senza di che non la compirebbe. La soddisfazione, che egli ricerca, sarebbe legittima in altri casi. Se in questo caso non lo è, è soltanto a causa della regola che domina la circostanza e qualifica come prevaricatore colui che non vi si piega.

Non sta in ciò la spiegazione dello stato d'animo, per noi cosi strano e mostruoso, del vero criminale? Il criminale-nato è uno stregato. Procede senza considerazione per ciò che viola o calpesta. E' tutto preso da ciò che motiva il suo atto e da ciò che se ne aspetta. Non è forse per lui necessario vendicare quest'ingiuria, procurarsi quella somma ch'egli brama, anche se non ne ha bisogno? Questo lato positivo dell'atto per lui è __tutto; l'altro lato sfugge alla sua coscienza incolta od ottusasi, si che con una ingenuità atroce si stupirà di vedersi rimproverato il suo delitto. Egli pensa che non poteva fare altrimenti. Doveva uccidere, ha ucciso, è cosi semplice.

Destatelo al sentimento dei valori umani, della regola dei nostri rapporti, tutto cambierà, poiché il Iato privativo dell'atto, che ne costituisce il male, apparirà chiaro alla sua coscienza. Un criminale non è che un ossesso colpevolmente dimentico delle regole morali. Il cattivo non è 'che un giusto sviato da ciò cui deve tendere camminando. Sviamento peccaminoso, poiché il soggetto morale può vincersi e dovrebbe, ma che non toglie che la sua posizione come peccatore sia interamente negativa, diciamo privativa, contrariamente a ciò che sembra dapprima.

 

10 Réponse aux questions d'un provincial, cap. CIV. " Emile, I.

 

 

II peccato non è mai in ciò che si fa, ma in ciò che si trascura. II ; male non sta nella ricerca dei valori vitali che il peccatore desidera, ma ; nell'abbandono dei valori più alti, ai quali la sua azione presente proibisce : l'accesso. Generalmente parlando, tutto ciò che è positivo nell'atto criminale è buono. Ciò che è cattivo è la negazione implicita in questo o in ,' quell'atto, e con questo non resta dimostrata la positività del male.

Resta invece dimostrata una verità infinitamente preziosa, cioè che l'uomo si perde sempre solo perché s'inganna sul suo amore e sacrifica l'amore vero ad apparenze ingannevoli. Nessuno tende veramente al male, dice incessantemente San Tommaso (Nullus intendens ad mcdwn operatur). Il male non sta in una ricerca, ma in una trascuranza. Non è un''efficienza,

ma una deficienza. Sono queste espressioni mutuate da Sant'Agostino, che ha scavato profondamente in questo problema.

E' vero si che la deficienza volontaria, in cui consiste il male, ha un carattere positivo in quanto fenomeno di coscienza. Il peccato è si un atto, anche in ciò che ha di negativo, poiché è volontariamente negativo. Ma considerato in questo modo, come fenomeno di coscienza, è buono; è una manifestazione di libertà. Il male deriva in esso, ancora una volta, dalla non-considerazione attuale della regola razionale a profitto della legge della carne o dell'orgoglio dello spirito. Ora, in ciò non si tratta appunto che di deficienza. Nell'analisi del male morale come già in quella del male fisico non si discopre nessuna realtà cattiva.

Conveniamo tuttavia che c'è del mistero in questa causalità privativa della volontà deficiente, in questa non-considerazione della regola morale nel momento in cui il peccatore agisce. Essere causa, e pertanto responsabile del proprio non-agire, sembra un paradosso, come volere non volere. Ma ciò dipende dalla natura dello spirito che, riflettendosi su se medesimo, si duplica in qualche modo, senza per questo essere diviso. E' il mistero bell'anima. '

In definitiva, il male morale analizzato con precisione appare come -un sottrarsi. Si sfugge alla propria legge; si sfugge all'ordine del mondo;

si sfugge a Dio creatore e legislatore di ciò che ha creato. Bisogna uscire da Dio per far male, e non si può uscirne che dalla porta del niente;

poiché ovunque c'è dell'essere, Dio è presente.

L'uomo, che non è causa prima di nulla, è tuttavia causa prima del peccato, causa prima di questo male, precisamente perché il male è nulla.

 

DA DOVE VIENE IL MALE?

 

Una sana comprensione del male deve facilitarci la comprensione della sua esistenza e la esatta individuazione del suo punto di scaturimento. Parliamo di scaturimento primo, riferendoci a ciò che in filosofia si chiama le cause prime; poiché le cause particolari del male sono legione, cosi come lo stesso male.

 

Il pessimismo

 

A seconda dell'idea che ci si fa della sua gravita è della sua estensione, si è portati a situare differentemente e a qualificare - più o meno severamente le cause del male. Per il pessimismo assoluto, la fonte del male è nell'essere stesso; poiché ai suoi occhi il male non è un fatto tra altri, ma un fatto fondamentale e quasi unico, sul quale altri vengono soltanto a intessere, senza interrompere o rompere la trama. Ciò che si chiama bene o piacere non ha che un carattere negativo ; il male rode tutto; e, per cosi dire, non ha bisogno di spiegazione, poiché è esso che spiega tutto il resto.

Abbiamo giudicato a suo luogo questi stati d'animo e quelli che ne derivano. Credere che il male sia tutto o, solo, domini nel mondo, è fare della creazione non più un cosmo (ordine) come ha ritenuto il pensiero antico e un'opera divina come la vede il cristiano, ma un'escrescenza mostruosa e malsana, un tumore maligno, un cancro.

Per di più, ciò non resiste. L'universo si costruisce col bene e si •distrugge col male. Ora, sussiste e sono numerosi coloro che ritengono che progredisca, il che certamente è vero sotto molti riguardi. Dunque il male non vi predomina. Nella società umana, ad esempio, se predominassero il male dell'ingiustizia, della crudeltà, della menzogna, non si potrebbe più vivere; il corpo sociale si dissolverebbe, poiché la sua coesione dipende da ciò che Aristotele denominava urbanità o amicizia sociale. Ora, si vive; molti si dichiarano felici, e tutti lo sono più o meno in certi momenti. Dunque l'amicizia sociale ha più potere dell'ingiustizia e dell'odio. E cosi per il resto.

Se il mondo fosse cosi perverso, donde attingeremmo la nostra idea del bene? La nostra anima si alimenta d'altro che degli spettacoli della natura e della vita? La nostra legge inferiore, quella che forma i nostri giudizi, non è l'espressione epurata, certamente, ma autentica d'una esperienza universale? Il pessimismo spinge l'affermazione del male fino alla negazione del bene, ed è perciò assurdo e nefasto. La nube, con tutto ciò, non spegne il sole.

Tuttavia, almeno in certa misura, è certo che il male ci guasta il mondo. Quante volte l'umanità non ha assomigliato a quel poeta, il quale, essendosi trovato di fronte, in una natura mirabile, a una terribile miseria immeritata, non osava più guardare il mare splendido,

Ni sur la terre en fleur l'éclat du grand ciel bleu, Tremblant qu'il n'y manquat la justice de Dieu 1.

Il male è uno Scacco dell'essere fisico fatto per l'integrità, e dell'essere morale fatto per la rettitudine. Ora, Dio è Fautore dell'essere, e si crede di vedere cosi uno scacco di Dio. Il male è una sfida a Dio, alla sua potenza o alla sua bontà, alla sua generosità o alla sua saggezza e alla sua giustizia. Da qui tanti dubbi e sistemi aberranti.

 

II dualismo

 

Abbiamo notato in tutti i tempi una tendenza ad assegnare al male una sua propria causa prima, opposta alla causa del bene e ostacolante il regno di quest'ultimo. E' ciò che si chiama approssimativamente il manicheismo o più esattamente il dualismo; poiché non è necessario, per trovare una causa prima al male, finire nelle grossolane aberrazioni di Mani. Abbiamo incontrato dualismi raffinati, ma non per ciò giustificati agli occhi di una retta ragione.

Perché due divinità? Poiché appunto di ciò si tratta. Una causa prima del male di fronte al Dio buono, è un secondo Dio, anche quando

•fosse una pretesa materia indipendente, che per il fatto stesso di questa indipendenza eterna sarebbe divinizzata. Si disconosce cosi la legge di

•regressione causale, che costringe, partendo da un soggetto o da uh fenomeno qualunque, a risalire, per la via dell'essere considerato come tale, fino a un primo e unico garante, nel quale trova spiegazione

•Finterà serie.

L'Essere primo non potrebbe sopportare un antagonismo. L'Essere primo non può vedersi opposto che il non-essere. E' per questa via che si deve cercare, se si vuole una spiegazione del male, ed è a ciò che tendeva il nostro sforzo di definizione, quando ci siamo chiesti : che cos'è veramente il male?

 

1 henry cazalis, Matinée de printemps [Ne sulla terra in fiore lo splendore del gran cielo azzurro, nel tremore che vi mancasse la giustizia di Dio].

 

Se il male è una cosa, una natura determinata e positiva, gli occorre una causa determinata e positiva del suo stesso ordine, cioè un male, e di male in male si perverrà a un Male primo, dal quale procede ogni male. Ma. se il male non è che il non-essere chiamato privazione, bisognerà pure cercarne una ragione; ma questa ragione potrà trovarsi nella linea del bene, e sarà di bene in bene che si salirà per assegnargli una causa prima.

Potranno esservi dei mali sulla strada, che saranno la spiegazione dei mali susseguenti; ma questa causalità non potrà essere che accidentale e in qualche modo, negativa; il non-essere, di per se, non spiega niente. Bisognerà dunque riferirsi a questo o quell'essere, per finire all'Essere primo. Per questo, fra poco, dovremo volgerci a Dio per chiedergli ragione del male che affligge la sua creazione.

Il dualismo non avendo compreso ciò, ha voluto ad ogni costo scoprire un antagonismo .positivo, simmetrico alla positività del bene; & di positività in positività, nella linea del male cosi compreso, si è visto obbligato a porre un Male supremo. Si vede quanto poco arbitrarie e-artificiose fossero le nostre ricerche sulla definizione del male. Tutto deriva da ciò, e ne dipendono i più grandi errori come le più grandi verità.

Diciamo dunque che il male essendo privazione, cercare un primo principio del male significa cercare un autore delle tenebre, o un autore del freddo, o un autore del vuoto che si vede, nei pozzi, nelle canne dei cucili o nelle stoffe bucate. Basta trovare un autore, del pieno, del caldo, —della luce, e poi si spiegher-à, se si può, che cessando la sua attività di operare interamente in questo o quel caso, per questa ragione — restrittiva. e non positiva, — c'è vuoto, freddo, tenebre, senza che. ci sia bisogno che qualcuno li crei.

In altri termini, il male è, un difetto di partecipazione al primo Bene ed è un'aberrazione farne una partecipazione a un preteso primo Male, che non sarebbe che. un supremo nulla.

Se ci fosse un primo male scoperto risalendo la linea dei mali, sarebbe un Male in cui non sussisterebbe alcun bene, allo stesso modo. che c'è un Bene in cui non sussiste alcun male.. Ora, ciò è; impossibile. se, come abbiamo, mostrato, il male è; una privazione in un soggetto buono. Se in un colatoio non vi fossero che fori, in che consisterebbe, il colatoio? se l'anima, di una bocca da fuoco vi prendesse l'intero posto che diventerebbe il congegno?

Un male supremo sarebbe un atale, per essenza. Ora, il male non ha essenza, non è. che. un'imperfezione in un'essenza buona, come il difetto di un membro o di una facoltà in un uomo, come il cattivo funzionamento d'un organo o di una coscienza.

Alcuni pensatori, considerando che la vita, è inseparabile, dalla morte e si trova; inclusa, nel suo funzionamento, come ha notato con energia Claude Bernard, hanno ritenuto di dover concludere da ciò ad un antagonismo, a una forza misteriosa contrariante ovunque lo sforzo della vita. « Se la vita produce la morte, dice. uno d'essi, o essa stessa e cattiva in se oppure la morte ha la sua sorgente in una realtà estranea alla vita » 2. Ma in questo argomentare si dimenticano le cause indirette o accidentali, che non sono ne cause prime ne riferite alle cause prime. Quando una corrente d'acqua scaccia Paria da un canale, la fuga dell'aria non è l'effetto di una forza antagonista, bensì deriva indirettamente, accidentalmente dall'entrata dello stesso liquido. Cosi l'assimilazione, che è il fenomeno essenziale della vita, si tira dietro la disassimilazione, che è una specie di morte interiore, in attesa dell'altra. Ma non si tratta di forza-antagonista e non è necessario ricorrere, se non metaforicamente, a una Morte nemica. La Importuna, è la stessa vita limitata quanto a durata e a pienezza; non è una Divinità.

Nell'ordine cosmico, Keplero vedeva nella materia un'imperfezione congenita, che ne faceva un ostacolo all'ordine e al bene in ragione della sua inerzia. Non per questo era dualista, poiché nell'inerzia della materia non vedeva che un limite all'attività, un ostacolo negativo e non una forza contraria o una resistenza indipendente e ostile rispetto alla Causa prima. Diversamente, come abbiamo visto, nel caso della materia platonica, nella quale il filosofo dell'Accademia vedeva un elemento indipendente e eternamente ostile all'attività costruttiva del Demiurgo, una specie d'anti-Dio.

 

Un dualismo incosciente

 

Si rendono conto molti cristiani che inclinano al dualismo, o addirittura vi si-trovano inconsciamente, quando fanno di Satana un Avversario indipendente, che condivide con Dio e contro Dio il governo di questo mondo?

Non stiamo per niente attenti a opporre un fin de non recevoir alle parole del Cristo quando c'aama espressamente Satana il Nemico (Matteo XIII, 39), il Principe di questo mondo (Giovanni, XII, 31) o, per bocca dell'Evangelista e sul terreno propriamente umano l'Omicida (Giovanni, Vili, 44). Si tratta di interpretare queste parole e della portata che si da loro. Non c'è inconveniente, del resto, a chiamare Satana lo Spirito del male, o anche il Male senz'auro, se si intende ciò metaforicamente o-a modo di personificazione poetica. Ma si intende sempre cosi?

Quando Nietzsche scrive nei suoi Aforismi : « II diavolo non è che l'ozio di Dio », alla buon'ora, ecco contrassegnati ad un tempo il carattere privativo del male e, per ciò che concerne Satana — supponendo che Nietzsche vi credesse — la sua collocazione, la sua cacciata nel mondo-che Dio governa. Cosi deve essere per ogni cristiano. Satana è sotto il governo di Dio. Avversario come un peccatore, come un persecutore, soltanto con più estensione e potenza, è nondimeno, sottomesso al governo-divino e non potrebbe porsi di fronte a lui come libera potenza.

Il combattimento apocalittico tra Satana e Michele sia una realtà o uii simbolo, resta che il. Principe maledetto e i suoi fanatici sono vinti, precipitati (Luca, X, 18), rigettati e, come diciamo, per gli uomini, dannati : non attribuiremo loro, nel senso proprio della parola, l'impero della terra. Possono pur tentare di trascinare gli uomini nell'orgoglio del loro peccato e nella terribile gioia di ciò che vorrebbero chiamare la loro indipendenza, essi non sono indipendenti. Ciò che è stato loro abbandonato di potere, come ai malvagi del nostro mondo umano, non lo esercitano che nella provvidenza, limitati dai suoi fini e a profitto dei suoi eletti, quando questi conducono valorosamente la lotta. Satana in certo senso è scatenato; ma non va malgrado tutto che fino al capo della catena, che egli strascina digrignando i denti.

 

2 e..lasbax, Le Problème du Mal, p. 331.

 

In queste condizioni, fare di lui un principio del male opponentesi al Principio del bene sarebbe un grave errore. Ciò che Vigny gli fa dire in Eloa:

J'ai pris au Créateur sa faible creature;

Nous avons, malgré lui, partagé la nature3,

3 Eloa, canto III [Ho tolto al Creatore la sua debole creatura; suo malgrado ci siam divisi la natura].

 

non è che una finzione di poeta. La natura è di Dio solo, come tutto il creato e còme Satana stesso, tolto il mal volere.

Ce noir esprit du mal qu'irrite l'innocence4[4 Ibid. [Questo nero spirito del male che l'innocenza irrita]].serve l'innocenza quanto possono farlo gli angeli buoni, quando piace a Dio di impiegarlo a questo scopo. Solo, con altri mezzi, in altre condizioni e, da parte sua, con intenzioni contrarie.

Se insistiamo su questo punto, è perché anche grandi menti hanno sbagliato in .proposito. Schelling scrive: «Secondo il pensiero cristiano, il diavolo non è una creatura limitata, ma la creatura più illimitata. Non è la terra che s'oppone al cielo, ma l'inferno. C'è nel mondo un entusiasmo per il male come per il bene»5. [5 Lezioni sulla filosofia della mitologia e della rivelazione, I.] Queste ultime parole sono vere; ma la prima è radicalmente falsa. Satana non è una creatura illimitata, allo stesso modo di un principio; è una creatura individuale sviata e malefica, un cattivo ragazzo, insomma, che a torto si gonfierebbe, ancorché a ragione lo si tema. I santi lo disprezzano. Il Curato d'Ars lo chiamava il Rampone, e parlando delle sue brighe diceva: non è nulla!

Che dire, di conseguenza, di coloro che propongono di attribuire a Satana resistenza stessa del mondo concepito radicalmente cattivo. Dio esercitando, da parte sua, una per noi benefica e benevola opposizione contro questo cattivo Principio? L'aspetto delle cose sembra cosi a questi pensatori più spiegabile e più facile la loro speculazione. Che faccia loro buon prò! Per noi, tale opinione non testimonia di una sicura competenza filosofica, ne di chiara e acuta visione delle cose. Il male, stante la sua natura, non può essere primo. « Niente comincia dal male », dice Joseph de Maistre8, e Spinoza ha osservato che portare all'assoluto una negazione non ha senso. E poi l'universo, nonostante ciò che in esso ci turba, possiede troppa magnificenza e grandezza per essere attribuito a «l'essere alato, ma zoppo » della Legende des siècies7.

Il Libro sacro fa miglior giustizia di questo potere atroce e miserabile. €e Io mostra, invero. Principe di questo mondo, in ragione dell'estensione del male che provoca, accolto com'è dagli umani deboli e ciechi; ma nondimeno vinto dalla semplice virtù degli amici di Dio, quali Giobbe e gli antichi patriarchi, poi ridotto alla totale impotenza; meglio, ridotto a un preciso servizio, a beneficio di coloro che la grazia del Cristo ha toccato.

Gesù ha vinto il Maligno consegnandosi, in apparenza, a lui, nella persona dei capi prevaricatori, che si facevano esecutori delle sue opere. L'Umanità sublime è stata l'esca cui terminava il terribile amo della Divinità, che gli ha trafitto le viscere. Siffatta vittoria non deve essere interpretata come il risultato d'un combattimento da eguale a eguale, in qualche modo, tra l'inferno e il cielo. L'inferno è un luogo in basso, che il cielo domina da un infinito. Si tratti della storia generale del mondo o della storia di ciascun'anima, Satana non ha importanza che a titolo di agente strumentale nella attuazione delle vedute provvidenziali; non ne ha alcuna come agente principale, come forza indipendente.

E' ciò che suggerisce l'Apocalisse, quando propone la vittoria del Cristo sul male dapprima in termini generali, senza alcun accenno a un principio antagonista, che possa pretendere di bilanciare la sua azione. Solo in seguito, avvicinandosi al concreto, nel quale il male trova i suoi servizi, se cosi si può dire, è presentata la storia di Satana come quella^ d'un caso particolare della grande lotta, insieme con l'impero dei Cesari, nemici della Chiesa nascente.

Bisogna notare a questo proposito che tutto ciò che di Satana è dettò nella Scrittura non deve essere preso alla lettera. Vi deve sicuramente essere riconosciuta Una parte di simbolo. Satana come personificazione del male entra manifestamente nei procedimenti letterali della Bibbia.

Come che sia, quando una personalità terribile è disegnata sotto questo nome, è quella d'un malfattore eccezionale, allo stesso titolo di Nerone o di Caligola. E' un flagello di Dio più grande di Attila; non è un anti-Dio.

 

IL peccato originale come spiegazione del male

 

Che dire ora di questa spiegazione, cosi corrente tra i cristiani, e che ai più sembra sufficiente, almeno in ciò che concerne il male umano:sofferenza, morte, inclinazione al peccato, con tutte té loro conseguenze. « E' il peccato originale ! », si dice a proposito di tutto ciò. E certamente, non si può contestare che nella fede cristiana la spiegazione del male col peccato originale non occupi un posto importantissimo. Ma non può essere che un posto intermediario. Alla base occorre altro. [* Soirés de Satat-pétersbowg, VII entretien, 7 Puissance égale bonté.]

Poiché anzitutto il male umano non esaurisce il male, e non possiamo cosi rinchiuderci su noi stessi. Inoltre, il peccato originale, questo mal» iniziale, non avrebbe a sua volta bisogno di spiegazione? Vedremo più avanti quali terribili problemi esso ponga. Partire da là senza risalire più in alto sarebbe dunque una grave amputazione del problema.

E' notevole che uno spirito rigoroso come San Tommaso d'Aquino, trattando ex professo del problema del male in nove articoli della Somma teologica (I P., q. 48-49), non faccia menzione del peccato originale, ne di Satana. Questi per lui sono casi particolari, di cui si tratterà ampiamente a loro luogo, ma che non hanno che fare con le radici del male universale. Queste non sono d'ordine storico, ma metafisico. Si tratta della costituzione del reale alla fonte stessa dell'essere. Poiché il bene e il male dividono l'essere concreto prima di ogni altra differenza generica &. specifica. Far tutto cominciare dall'Eden è dunque manifesta insufficienza filoso&ca. Nonostante il suo carattere derisorio ne Les Plaideurs, l'esordio. di Georges Dandin : « Prima della nascita del mondo », è qui perfettamente a proposito. Pensare « al diluvio» sarebbe già riferirsi troppo tardi.

Aggiungiamo che se anche si volesse cominciare dal male umano e-ridursi a non parlare che di esso, si può supporre che nell'assenza stessa, d'ogni peccato il male avrebbe potuto essere risparmiato in tutte le sue forme agli umani? Lo si dice, parlando volgarmente; ma la più piccola analisi smentisce l'affermazione se vuole avere una portata universale, Per quanto ci si sforzi a sognare d'un Eden roseo come le dita dell'Aurora, non si riuscirà mai a renderlo abbastanza benigno per evitare ai suoi;

abitanti ogni pena, anche leggera. Per lieti che siano di devastarli con. foga, le dita si pungono sui rosai. Il sangue gocciola, se addirittura non cola.. ° Con quale miracolo permanente si impedirà che un essere umano di carne e d'ossa, in, una natura che non è di sogno, sia esposto a un accidente vitale, a un'inaspettata caduta, a un incontro doloroso, a una lesione-di tessuti tanto più delicati quanto più perfetti, o a un accidente climatico;

. generatore di sofferenza, che non possa spingersi, per speciale favore» fino al pericolo di morte?

La nostra esperienza, e a più forte ragione la scienza, non ci permettono di concepire un tale stato di fatto. Tutto ciò che si può supporre, è che le condizioni della prima vita erano soffuse di benevolenza 6 estranee ai grandi rischi, che ora ci minacciano.

Bisogna pure tener conto che tale stato non era destinato a durare. Era un'esperienza, e si sapeva senza dubbio, in alto, che l'esperienza non sarebbe riuscita. In ogni caso, una completa assenza di male in un universo reale, in favore d'una umanità costruita come la nostra, non è pensabile. Di conseguenza, si sbaglia quando si presenta il peccato originale, susseguente a uno stato d'innocenza, come una soluzione completa del problema del male.

 

Un altro problema riguarda il nostro stato d'animo, soprattutto a-partire da Pascal, in merito al valore esplicativo del peccato originale-di fronte al male umano.

Il peccato di razza spiega storicamente lo stato attuale dell'umanità, quanto al bene e al male, rispetto alle prime intenzioni creatrici. E' ciò che dice il domma cristiano. Ma questa spiegazione di fatto è richiesta, o almeno fortemente suggerita dall'analisi del comportamento umano quale. l'ha tentata l'autore delle Pensées?

L'interesse di questo problema è esclusivamente teorico, apparentemente; ma non è tuttavia senza conseguenze. Poiché se l'evocazione del peccato originale è imposta logicamente dal nostro stato presente esattamente giudicato, si è che ai nostri occhi questo stato è anormale in se stesso, indegno del Creatore come intenzione prima, e deve essere messo in conto alla sola umanità peccatrice.

Ma allora invoco ancora San Tommaso. Quando cerca le fonti dei fatti attuali in materia di bene e di male, egli non si riferisce, come abbiamo detto, a ciò che è accaduto nell'Eden, ma alle condizioni della creazione iniziale, che esigevano, dice, questo, quello, come se la situazione attuale fosse del tutto naturale e non mostruosa, come vuole dimostrarcelo Pascal. Ciò colpisce.

Ma si comprende. Se la sofferenza e la morte, se le tare congenite dell'umanità non fossero giustificabili oggi, non esisterebbero. Non siamo più sotto il regno del peccato originale, ma della Redenzione. Se la sofferenza e la morte, se la nostra fragilità spirituale sussistono, si è che non sono tanto anormali; sono utilizzabili per una vita buona, benché faticosa. ~E' vero che ciò ha luogo col Cristo, cioè sotto il regime del soprannaturale. Ma non essendo il soprannaturale esigibile, non si può condannare o priori, in nome della ragione, uno stato di fatto che storicamente deriva dal peccato, ma in se stesso si ricollega alle condizioni fondamentali della nostra natura.

Questa ci sembra la ragione dell'atteggiamento di San Tommaso. Poiché tuttavia San Tommaso crede fermamente nel peccato originale, che è oggetto di fede e la cui funzione in teologia è immensa, non si ; proibirà, come filosofo, di tentare un'apologià della giustizia originale, dalla quale siamo decaduti, muovendo dalle richieste della natura. E con ciò egli si ricongiunge a Pascal. Ma in quale tono diverso si esprime e con quale moderazione pretende concludere!

Per lui, come pensatore, sussistono due ipotesi. O l'uomo è realmente decaduto da uno stato anteriore, come proclama la fede; oppure, semplicemente, è collocato a un livello inferiore della scala degli esseri, e questo livello spiega le sue tare come essere carnale, nonostante le sue aspirazioni come spirito.

Dovendo scegliere, San Tommaso pende naturalmente nel senso della Rivelazione. E' una regola in lui, una volta acquisito per questa via un fatto, di cercare di ritrovarlo razionalmente, per mezzo di ciò che si chiama ragioni di convenienza. Ma le ragioni di convenienza non provano; inclinano la mente e in modo tale, dice il cardinal Gaetano, che i motivi che determinano il conveniente non rendono il contrario non-conveniente. Tale è la legge del genere.

E' interessante notare che Lamartine, teologo anch'egli in qualche momento, ha perfettamente compreso questa situazione. Dopo aver proclamato, conforme alla tradizione cristiana: L'homme est un dieu tombe qui se souvient des cieux;

lascia nondimeno sussistere, nei versi che seguono a questo famoso alessandrino, la suddetta ambiguità;

 

Soit que deshérité de son antique gioire,

De son ancien état i] garde la mémoire,

Soit que de ses désirs l'immense profondeur

Lui présage de loin sa future grandeur,

Imparfait ou déchu, l'homme est le grand inystère s.

 

8 Premières Méditations, L'Homme. [L'uomo è un dio caduto che si ricorda del cielo; — sia che, diseredato della sua antica gloria, conservi il ricordo del suo-antico stato, sia che l'immensa profondità dei suoi desideri gli faccia presagire da lungi la sua futura grandezza, imperfetto o decaduto, l'uomo è il grande mistero]-

 

Supposto ciò. San Tommaso si esprime cosi : « Nel genere umano» appaiono, con un carattere di probabilità, alcuni segni d'un peccato-originale »9 [9 Contra Gentes, 1. IV, cap. LII, iniz.] Si riconoscerà che una dimostrazione non si annuncia in? questi termini.

Ecco i segni e la probabilità. Essendo dato che la Provvidenza-usa adattare ogni perfezione ontologica a ciò che è destinata compire,. sembrerebbe da ciò indicato che l'anima, destinata a perfezionare il corppy non sia impedita a riuscirvi e che, se ne è incapace da sola, le sia elargito a questo scopo uno speciale e soprannaturale soccorso.

Non si può dire che questo argomento sia senza valore dialettico; ma filosoficamente, e soprattutto scientificamente, la sua portata è presso a poco nulla. E San Tommaso lo sa perfettamente. Egli che ha tanto lottato — e anche sofferto — in favore dell'unità umana contro i platonizzanti del suo tempo, non tralascia di scorgere nel suo argomento d'oggi un fondamentale inganno. Questo argomento procede come se l'uomo fosse costituito da un'anima creata a parte e introdotta a cosa fatta in un corpo per governarlo. Se cosi fosse, si sarebbe autorizzati a dire : Una saggia Provvidenza non affida a un agente di governo una funzione, che egli è incapace di assolvere felicemente. Se da solo non ne è capace» che lo rafforzi. ,

E' vero, e San Tommaso lo ha dapprima obiettato a se stesso, che per natura l'uomo è un essere destinato alla morte e al disordine inferiore. E' un composto instabile, poco più consistente, nell'oceano dell'essere cosmico in perpetua trasformazione, della cresta d'un'onda sul mare. Ora, ogni sofferenza è annuncio, minaccia e inizio di morte, e ogni disordine interiore ne procede. Solo, cosi parlando, sembra che non si pensi che alla natura corporea. Lo spirito, da parte sua, tende a crescere e non a morire. La volontà è un organismo conquistatore e tende al perfetto. L'ideale, pure, è nella natura e non è innaturale che ci sia cosi difficile moralmente e nsicamente? Ecco il ragionamento di Pascal !

Tutto ciò si regge solo in apparenza e in realtà falsa radicalmente la situazione. Le cose non si presentano affatto cosi Nella dottrina di San Tommaso, quando vuole ricordarsene e ragiona di conseguenza, l'anima non è per niente nel corpo come un agente di governo a parte, avente diritto a soddisfazioni a parte; è un elemento analitico dell'insieme. Al punto che per lui l'uomo pensa col corpo nello stesso tempo che con l'anima. Nella più alta contemplazione, non è solo l'intelletto che .s'innalza all'adorazione o all'estasi, ma anche, in seconda linea, a titolo di collaborazione o di sostegno, i fantasmi dell'immaginazione, le impressioni dei sensi e pertanto le viscere, gli elementi istologici, gli umori, il sangue, in breve tutti gli elementi che l'anima s'è uniti nel corso della evoluzione embriogenetica. In caso di cattivo funzionamento, è Io stesso. Di conseguenza, se si vuole che l'uomo pensi più puramente, che sia meno vittima dell'immaginazione e dei sensi, e che sul terreno dell'azione possa operare con meno rischi, meno opposizioni dolorose e lungi da ogni pericolo di morte, non è solo l'anima che bisogna cambiare, ma l'intero. essere umano e bisogna inoltre cercare di subordinargli il suo stesso

ambiente vitale; poiché il corpo non è che un frammento di questa ambiente, la cui complessità, i cui sconvolgimenti e la cui instabilità costituiscono i suoi rischi.

In definitiva, si tratta di cambiare l'universo, e i Padri della Chiesa lo hanno sempre compreso quando hanno speculato sullo stato detto di giustizia originale. Si trattava per loro d'una innocenza della natura cosi

come dell'uomo. Oppure allora bisognerebbe immaginare un sistema di preservazione costituente un miracolo perpetuo e che ci taglierebbe le comunicazioni con ciò che è, per natura, il nostro ambiente congiunta e: non soltanto, come se lo immagina l'istinto, una dimora.

Non si riflette a tutto ciò quando si sogna del meglio senza coaside-.

carne le condizioni e quando si fonda un argomento dialettico lo si trascura; ma ritornando al concreto ci si rende conto dell'enormità delle proprie richieste10.

In nome di che esigere dal Creatore tale rimaneggiamento della sua

creazione? Ha stabilito gradi tra gli esseri: cercheremo subito di scoprirne il motivo. I-n questo scaglionamento, che va dal puro spirito alla, materia pura, c'è. un gradò d'organizzazione particolarmente delicato, si

direbbe volentieri scabroso, se non si trattasse d'un'opera divina: è

10 Un altro esempio liti san Tommaso di questo procedimento d'astrazione, del

quale è ben consapevole, si può credere, si ha quando nella Stimma (q. 48, a. 2, e. e ad 3) e nella questione De Malo (q. 5, a. 5) dice che è naturale per l'uomo, quale essere ragionevole, di vedere la. ragione dominare in lui l'essere materiale, e così

sfuggire, sul terreno morale, alla. concupiscenza della carne, sul terreno fisico- alla malattia e alla morte. Ma cosi esprimersi, è fondarsi sull'astratto. L'uomo non è. un essere ragionevole; è un animale ragionevole. L'animalità, fa parte della nostra essenza, ed è naturale che imponga le sue condizioni.

 

quello che unisce lo spirito alla materia in un'unità sintetica partecipante: dell'uno e dell'altra, con questa particolarità che è nella materia che si sveglia lo spirito, che è in essa che attinge le sue stesse informazioni spirituali, attraverso il filtro dei sensi, e che le forze che impiega per agire, al didentro o al di fuori, sono tutte derivate da questo universo-relativamente caotico, da questo mare sconvolto.

Ciò è straordinariamente bello, d'una concezione sublime, prodigiosamente riuscito, e ci si immagina che su un tale caso si fissi con interesse l'attenzione degli angeli, come con timore e ammirazione quella delle bestie. Diciamo riuscito; poiché se qualche cosa sorprende, non è che la nostra macchina umana, materiale o spirituale, abbia dei falliti, bensf che funzioni, che l'uomo stia in piedi, cammini, veda, intenda, s'istruisca, si perfezioni e fino a che punto!, dal momento che vi sono tra noi,. nonostante tante miserie, eroi e santi.

Ma noi siamo insaziabili. Per fortuna. E' un gran segno, come l'abbiam visto ricordato da Lamartine. Non si tratta di rinunciare alle nostre aspirazioni; bensì di sapere se la loro soddisfazione può essere? pretesa subito, prima dell'evoluzione della nostra condizione presente. Abbiamo diritto di esigere un Eden? Non ci basta un Paradiso? Ci sarà modo di conquistarlo? Tanto meglio! E se fosse peggio, la combinazione sarebbe pur sempre degna di Dio. Gli argomenti a priori su ciò che Dio deve o non deve fare in fatto di creazione non sono di alcun peso. San Tommaso lo sa; ma giucca sicuramente; ha dietro a sé un. fatto; argomenta in favore di questo fatto come per autorizzarlo, per razionalizzarlo, quando invece è libero.

Questo fatto della prima condizione umana, Io discuteremo più avanti;

ma ci tenevamo a dire che non è in alcun modo richiesto; che Pascal ha ecceduto scrivendo : « L'uomo è più incomprensibile senza questo. mistero che non sia incomprensibile questo mistero all'uomo» e che la-modesta argomentazione di San Tommaso stesso è di nessuna portata al di fuori della fede. In quanto ragione di convenienza, non la introduce dal difuori ma dal didentro, piuttosto come una illustrazione ideologica che come una prova.

Bisogna aggiungere che nella dottrina dell'Evoluzione le nostre osservazioni assumono una portata ancora maggiore. Se la natura umana,. anziché essere costruita di colpo dal Creatore, è il risultato della collaborazione divina e dell'immensa colata della vita sulla terra, si comprende che, compiutasi Yominizzazione, spetta al pensiero di sciogliersi a poco-a poco dalla materia materna e ad un tempo appesantente, opprimente e, per l'individuo, mortale. Se sono offerti doni preternaturali, sarà un favore; non può essere considerato un diritto.

Diciamolo francamente, in questa ipotesi che s'impone sempre di più alle menti, è la giustizia originale a costituire difficoltà, non la sua assenza. Se non si trattasse del racconto biblico e della sua autentìca elaborazione nella Chiesa, non vi si penserebbe nemmeno.

Al posto dell'Onnipotente di Michelangelo, che sveglia con dito imperante e alza sul suo poggio Adamo miracolato, si vedrebbe allora il nostro umile Dio « mescolato alle sue opere », come dice Sant'Agostino» procacciante in noi dal didentro il risveglio della sua immagine nella sua creazione, invitanteci a compirla con lui con un'azione continua che non .ha bisogno di prodigi.

Il problema è lo stesso, nel caso d'un mondo imperfetto in via di crescita e nel caso di un mondo decaduto in via di raddrizzamento. Nei due casi i mali della vita sono naturali e inevitabili. Nei due casi possono essere utilizzati per il bene di tutti gli uomini e per quello dell'universo.

Del resto, nell'ipotesi dell'evoluzione, la continuazione del passato in linea continua — sul piano empirico, s'intende — sarebbe pur sempre la conseguenza più naturale della condizione prima delle cose, poiché in questa ipotesi l'umanità è realmente cominciata col cosmo, in ogni caso con lo schiudersi della vita sulla terra, non in un Eden.

L'idea del prodigio non è con questo esclusa. E' quella che risponde al fatto, e dovremo trattarne in seguito. Ma noi diciamo che dal punto di vista della ragion pura, la situazione è capovolta. Pascal appassionatamente, San Tommaso placidamente e piuttosto in apparenza, cercano di provarci che la creazione dell'uomo fornito di doni protei-naturali era di diritto; noi diciamo: no, piuttosto il contrario. Di modo che la situazione attuale dell'uomo non deve essere considerata ne cóme un male

rispetto a un ordine naturale delle cose, ne necessariamente, e neppure probabilmente, come la conseguenza d'un male.

In conclusione : le assicurazioni che richiediamo in merito al male ;umano — questo caso particolare, che per di più non esaurisce il nostro argomento — non devono essere cercate soltanto nel passato adamitico, ma aldilà o, meglio, aldisopra, nell'azione creatrice stessa, là dove tutte le forme dell'essere, e anche del non-essere, trovano la loro prima origine

e le loro ragioni supreme.

Bisogna consultare Dio. Solo, ci sono sempre stati e più che mai vi sono oggi spiriti, che appunto a ragione del male si rifiutano di riconoscere Dio o si scandalizzano di lui. Che pensare del loro atteggiamento, quale che sia il valore scientifico delle prove dell'esistenza di Dio, che qui non dobbiamo «discutere? "[11 Questo problema è stato studiato da noi in opere precedenti, come Les sowces de la croyance era Dieu, Paris, Perrin ; Dieu ou Rien, Paris, Flammarion,, per non .parlare d'un opuscolo intitolato: Athées, mes frères en Dieu, Paris, Gallimard ]

 

Rimproveri fatti a Dio a motivo del male

 

Osserviamo anzitutto che questa facilità, nei moderni, a negare Dio o a rimproverarlo a motivo del male è una testimonianza della nostra concezione cristiana di Dio. Un pagano penserebbe a una divinità ostile e cercherebbe di garantirsi da essa. Questa nettezza nel dilemma Dio o nulla è già un bene; ma certamente non potrebbe bastare.

Quale audacia, quando vi si pensa, nelle parole d'un Stendhal, il «quale dichiara per aver dispiegato, come si dice, la vita universale al nostro sguardo : « La sola scusa di Dio, è che non esiste ». Clemente Alessandrino diceva di colui che contesta la provvidenza: « Non merita una risposta, ma una pena. Poiché attorno a noi le prove della Provvidenza si moltiplicano. Ovunque c'è del bene, e donde viene, se non da un Principio del bene? ».

Bisogna concedere che la bontà di Dio non si manifesta nell'insieme non sufficiente continuità ed evidenza per provocare una convinzione senza incertezze. Vi è troppo miscuglio; vi sono troppe sventure. Ma la mescolanza del bene e del male deve bastarci; poiché il più piccolo elemento di bene, come il più piccolo barlume di bellezza, come la più piccola particella d'essere — e Dio sa che cosa sono queste particelle! — prova Dio e impone la fede nei suoi attributi12.

Dopo di che è inutile dire : II male è, dunque Dio non è. Si replicherà subito : C'è il bene, dunque Dio è. E le due affermazioni non sono ex aequo; poiché anzitutto il bene domina, e il male non è che un accidente, che lascia dunque sussistere l'affermazione essenziale. Tanto che se il bene non fosse, non vi sarebbe neppure il male. Cosi anziché dire:

II male è, dunque Dio non è, si deve dire: II male è, dunque. Dio è;

poiché se Dio non fosse, non esistendo il bene affatto, non vi sarebbe

neppure il male.

Poi, l'affermazione di Dio è positiva e fondata con certezza, mentre la negazione di Dio a motivo del male è azzardata e del tutto negativa, sfondata soltanto sul fatto che noi non vediamo le ragioni del male. Non si tratta di non vedere per niente, come scriveva Pascal. In altri termini, è certo che il bene è incomprensibile senza Dio, e non è certo che il male sia incomprensibile con Dio.

Descartes, gran matematico, diceva di essere più sicuro dell'esistenza di Dio che di qualsiasi proposizione delle matematiche. Non gli sfuggivano tuttavia i mali della natura e della vita. A chi gliene avesse chiesto la .ragione, senza dubbio avrebbe risposto : non ne so niente, e sarebbe stata risposta molto saggia. E' appunto in questo spirito che egli diceva, a proposito dei fini della natura, il cui caso è cosi strettamente congiunto al nostro problema : « Non dobbiamo tanto presumere di noi stessi da credere che Dio abbia voluto farci partecipi dei suoi consigli » ". « Non abbiamo il diritto d'interrogare il Creatore su checchessia », dice Lautréa-mont\*. E il buon senso di Voltaire aveva completato in anticipo con la semplicissima osservazione che si deve far credito per ciò che non si vede in ragione di ciò che si vede [ Dict. philos; alla voce Théisme.]

12 San Crisostomo diceva con garbo : « L'universo possiede un tale splendore che sembra sempre nuovo e fabbricato oggi. E' così bello che si è potuto ritenerlo esso stesso un dio ».

13 Principia, I, 28.

14 Poésies.

Per il filosofo teista o per il credente, la contemplazione del più piccolo atomo di materia o del più piccolo fremito di vita porta di lancio alla Causa prima, e se il male sembra opporre un ostacolo, che cosa prova ciò se non che quella strada per noi è senza esito e forse ci è interdetta. Condannati al mistero, nel corso del nostro viaggio del tempo, dobbiamo accoglierlo dalla stessa mano che getta davanti a noi tanta luce. E' bello dire con Bossuet : « Non comprendo, ma adoro », essendo ammesso che si conoscono le ragioni della propria adorazione, anche se non si può andare a fondo di ciò che essa comporta di oscuro.

Sant'Agostino diceva : « Non è sano di mente, chi trova a ridire della creazione ». E l'ironia del favolista colpisce giustamente i sempliciotti che sostituiscono la loro piccola saggezza a quella del Fabbricatore sovrano. Se Dio consentisse ad adeguarsi ai nostri corti cervelli, è certo che gli riuscirebbe duro sottoscrivere alla sua creazione. Ma se invece cerchiamo noi di entrare nella sua mente per accostarci alla sua creazione, vi riconosceremo la sua gloria.

Che cosa di più ragionevole di questo passo d'una lettera di Leibniz al P. des Bosses : « Tutti gli inconvenienti che vediamo, tutte le difficoltà che ci si può prospettare non impediscono che si debba credere ragionevolmente, quando non lo si sapesse d'altronde dimostrativamente, che non c'è niente di cosi elevato come la saggezza, niente di altrettanto giusto che i suoi giudizi, niente di cosi puro come la sua santità e niente di più immenso che la sua bontà » 16.

Questa via della fiducia è altrettanto seria di un orgoglio rivendicatore, che talvolta non teme abbastanza di cadere nel ridicolo. E' il caso di coloro che danno alla loro negazione di Dio a motivo del male un tono d'invettiva, come se volessero punire il Creatore decretando la sua inesistenza.

Je crois bieh, entre nous, que tu n'existe pas17.

Ciò serve a divertire; ma preso sul serio, è piuttosto sciocco. Con chi se la prendono? Se il mondo è abbandonato al caso, è naturale che vi si trovino effetti del caso; non c'è motivo per riscaldarsi. Ci si dovrebbe piuttosto rallegrare per tante parziali buoni riuscite e piccole impreviste fortune. Il caso è ancora un buon uomo ! Invece ci si adira : non è appunto perché nel fatto si conserva questa esigenza d'un Dio organizzatore, al quale si rimprovera amaramente di non rispondere alle nostre vedute?

Ma il Signore risponde : « / miei pensieri non sono i vostri pensieri e le mie vie non sono le vostre vie » (Is., LV, 8). E a coloro che interrogano con un'aria apparentemente sommessa, in realtà comminatoria, dice: « II mio segreto mi appartiene! Il mio segreto mi appartiene!» (Is., XXIV, 16). Non dobbiamo cercare di punirlo di questo segreto accusandolo di falso .per questa espressione della sua gioia creatrice:

16 dotens, t. VI, p. 174.

17 jeam richepin, Les Blasphèmes [Io ritengo, tra noi, che non es&i].

RIMPROVERI A DIO 33

« Dio vide tutte le cose che aveva fatto, ed esse erano assai buone » (Gen., I, 31).

Ci si ricorda dei versi di Musset neVEspoir en Dieu:

Brise cette voùte profonde

Qui couvre ta création

Ecarte les voiles du monde,

Et montre-toi, Dieu juste et bon *.

Non si sente l'incosciente tracotanza, che si nasconde sotto queste pie parole? Ricorda l'appuntamento che Pierre Loti dava un giorno al Cristo sotto gli olivi di Getsemani, e che lo lasciava deluso, offeso, più che mai distante, poiché il Cristo non aveva risposto. Forse il biglietto da visita non era stato consegnato.

Il silenzio di Dio è la lezione più alta che Dio ci dia, ancor più degna di lui di quella che rivolge a Giobbe dal seno della tempesta:

« Chi è colui che denigra i miei disegni con discorsi senza intelligenza? » (Giobbe, XXXVIII, I).

Atteggiamenti, visi arcigni, interrogazioni, specie d'ultimatum tutti in fondo derisori e troppo mancanti di pietà per il cosmo divino. L'universo di Dio non dipende da noi, bensì noi da esso e dalla sua sublime Sorgente. Se mai gli stoici hanno parlato con grandezza, è proprio a questo proposito. Abbiamo citato sotto questo riguardo parole mirabili, che dovrebbero far arrossire dei cristiani. Noi abbiamo tutto ciò che occorre per amare i misteri di Dio, la cui bellezza ci è stata manifestata in modo cosi fulgente nel Cristo. Se resta il velo, è animato di palpiti che rivelano la presenza divina. E' « la presenza d'un Dio che si nasconde », dice Pascal. Adoriamo le sue ragioni per nascondersi e non misconosciamo la sua presenza. Amiamo che Dio sia Dio; amiamo che sia Creatore e che governi la sua creazione come occorre, con la gioia e col dolore, con la vita e con la morte, attirando tutto verso la vita eterna.

« L'uomo buono vuole che Dio sia », dice Kant. Vuole anche che Dio mantenga i suoi attributi, anche i più segreti. Vede in ciò una grandezza che deve avvincerci proprio perché ci sorpassa. Vi vede una poesia dell'infinito, che si risolve alla fine nell'amore.

La differenza dei beni e dei mali scomparirà per noi il giorno in cui ci sarà dato di vedere tutto nella luce eterna. Si può anticipare quella visione elevandosi con la contemplazione aldisopra della sfera delle domande e delle misere risposte, aldisopra dei disordini e dei cosiddetti segreti. Spinoza diceva : « Tutto è bene, poiché tutto è Dio ». Noi correggiamo e diciamo : « Tutto è bene, poiché tutto è di Dio, in Dio e orientato verso Dio. Il bene regna ».

* [Infrangi la profonda volta che copre la tua creazione, scosta i veli del mondo, e mostrati. Dio giusto e buono].

 

34 DA DOVE VIENE IL MALE?

Le ragioni della creazione

Riprendiamo tutto daccapo. Forse, in spirito di fedeltà e di aiuto fraterno, otterremo qualche lume più decisivo.

L'attingimento della verità esige che si metta in rapporto l'idea da illuminare con la totalità della conoscenza esplorata nei suoi principi. Qui, dove si tratta di tutto il concreto commisto di male, risalire al principio significa ricorrere a Dio.

Teniamo fermo che è oltracotante chiedere a Dio le sue ragioni! Tuttavia, in ciò che concerne la sua creazione, le necessità della sua azione non corrispondono a ciò che esige la sua esistenza? Dio è richiesto per fondare il reale e render conto dei beni che vi si trovano espressi. O il concetto di Dio non serve a niente, o è identico a quello del Perfetto, della pienezza d'essere, che si mostra diffusa nella sua creazione.

Quando S. Giovanni dice che Dio è Amore (Giov., IV, 8), pone in evidenza questa tendenza alla diffusione, che è un carattere del bene, e da la ragione dell'atto creatore, nel che si compendia fuori del tempo tutto ciò che ci viene da lui.

Il Bene divino tende a diffondersi come se Dio fosse troppo pieno di Dio.

Ce grand besoin d'amour, la seule soif de Dieu,

di cui parla il poeta ls [victor Hugo, Les Feuilles d'Automnne, La Prière pour tous. [Questo grande bisogno d'amore, la sola sete di Dio]], è alla base di tutto. Ma Dio chi può amare anzitutto se non se stesso, e il resto a causa di sé? Un amore illuminato misura i beni e non può-capovolgere l'ordine dei valori senza tradire se stesso. Sarebbe questo un egoismo? Per niente; poiché, la pienezza non potendo ricevere nulla, il ritorno di Dio a se stesso in vista dell'azione non può consistere che nel darsi, nel comunicarsi misteriosamente senza nulla perdere, dal momento che perderlo, oltre che essere impossibile, sarebbe un impoverirci. Non avremmo più Dio.

Posto ciò, è vano chiedersi se ciò che Dio fa sia buono? Quale altra qualificazione potrebbe avere? Effusione del bene, non può partecipare che di esso. Che sia limitato, è ciò che constatiamo; ma è anche una necessità inevitabile; poiché comunicandosi tutto quanto Dio originerebbe un altro se stesso. E' appunto ciò che avviene nella Trinità; ma non si tratta allora per Dio di creare, ma di costituirsi, e non è più il nostro problema. Noi parliamo dell'espansione di Dio fuori da sé. Ora questa non può essere che partecipazione, di conseguenza imperfezione, e con ciò si vede già il male spuntare all'orizzonte del pensiero. Non è che si chiami male l'imperfezione stessa, al modo del male metafisico di Leibniz. Noi abbiamo respinto questo modo di parlare, che da luogo a gravi equivoci. Ma se l'inevitabile imperfezione del creato non è un male, poiché non è privazione rispetto a qualcosa di costituito, semplice limite del bene che non viola nessuna esigenza, tuttavia questa imperfezione è all'origine del male; ne è la radice.

Invero, questa condizione dell'essere creato che oppone a ciò che esso è ciò che esso non è, comporta per esso la possibilità di deteriorarsi e di scadere. Ovunque c'è del vuoto, può aver luogo una caduta. La perfetta consistenza in se stesso, che da la sicurezza, suppone la pienezza, e non c'è pienezza che nell'Essere perfetto.

I tornisti chiamano questa vacuità interiore dell'essere imperfetto una potenzialità, che nei gradi inferiori diventa materia. Si tratta di ciò che si potrebbe avere e non si ha. Da qui la possibilità di una degradante diminuzione, d'una rottura della armoniosa continuità dell'essere, d'un guasto, in breve di quella lebbra esistenziale, in cui abbiamo riconosciuto del male19. 19

Hugo ha cercato di esprimere questa dottrina nei versi seguenti. Quando Dio •creò il mondo, dice il poeta,

II le fit radieux, bon, splendide, adorable

Mais imparfait; sans quoi, sur la meme hauteur,

La creature étant égale au Créateur,

Cette perfection, dans l'infini perdue,

Se serait avec Dieu mélée et confondue,

Et la création, a force de ciarle,

En lui serait rentrée et n'aurait pas été.

La création sainte, où reve le prophète,

Pour ètre, o profondeur! devait erre imparfaite.

Donc, Dieu fit l'univers, l'univers fit le mal.

(Les contemplations, VI, XXVI)

 

[Lo fece radioso, buono, splendido, adorabile ma imperfetto; altrimenti, alla stessa altezza, la creatura essendo uguale al Creatore, questa perfezione perduta nell'infinito si sarebbe mescolata e confusa con Dio e la creazione, per la sua stessa chiarezza, sarebbe ritornata in lui e non sarebbe stata. La creazione santa, dove il profeta sogna, per poter essere, o profondità, doveva essere imperfetta. Dunque, Dio fece l'universo, l'universo fece il male].

 

Ci si comprenda bene. Non è male essere soltanto ciò che si è; il male sta nel non essere interamente ciò che si è, integralmente costituito e mantenuto nella propria natura d'essere. Ora, il passaggio dall'uno all'altro caso è sempre possibile. Dio stesso non può far si che questa possibilità sia esclusa; può solo impedire che si attui, e più avanti ci chiederemo se gli conviene esercitare questo potere. Ma impedire che una possibilità si eserciti non è distruggerla. La possibilità persiste e si incontra in tutti gli esseri come una debolezza congenita. Sant'Agostino l'attribuisce al fatto che gli esseri vengono dal nulla (ex nihilo). Non che egli entifichi il nulla; anche per lui si tratta d'un limite (Creatura quae summa non est). E' questo limite, che offre presa agli attacchi del male, e che cosi riduce la parte di bene attuata quaggiù dall'azione divina. -Poiché Dio si manifesta a noi attraverso il bene della creatura» come l'anima si manifesta attraverso i movimenti del suo corpo 20»[ 20 teofilo d'antiochia, Ad Autol., IV, 6.].

 

Si potrebbe riprendere in questo senso il detto di Fiatone, che il mondo è il risultato dell'Intelligenza e della necessità, intendendo per

questa il limite essenziale a tutto ciò che non è Dio e introducente un punto debole in ogni realizzazione di Dio.

Ora da un punto debole in tutte le cose alla rottura, a una grave rottura, il passaggio è fatale. L'autonomia della creatura difettosa rende inevitabile il male, senza renderlo necessario in nessun caso. Invero, una cosa che potrebbe, per quel che si pretende, prodursi e non si producesse mai non potrebbe, in realtà, prodursi, se si intende d'una possibilità reale, oggettiva, fondata in natura. Poiché nell'ambito del concreto la possibilità e il fatto si ricongiungono sempre. In una natura che muta continuamente, in cui la ruota della fortuna trascina tutto, è fatale che un giorno o l'altro la possibilità dia adito al fatto, che il numero della lotteria realmente esca. Non è certo una probabilità, è una certezza naturale che il calcolo delle probabilità non fa che numerare e che è inscritta nella natura delle cose, « natura rerum hoc habet », dice San Tommaso. Essendo tutti i fenomeni sottoposti al tempo e al suo scorrere irreversibile, vi è sempre un legame, che congiunge un reale potere alla sua realizzazione, purché l'ampiezza di tempo e la varietà delle circostanze diano a questo potere un margine sufficiente. Il bicchiere è fragile : può darsi che in una città, un determinato giorno, non si rompa nessun bicchiere;

ma che non se ne rompano mai, quali che siano la durata della città e la frequenza dell'uso, non è possibile. Stante il grado di fragilità, se ne romperanno certo molti. Analogamente per le sostanze fragili, i fragili viventi, i fragili umani, le coscienze fragili. Questo è il male.

Sotto questo riguardo, si può dire che è lo stesso essere la radice del male, intendendo l'essere creato dal punto di vista della sua essenziale imperfezione. Si può anche dire che per questo fatto il principio del male è in qualche modo in Dio, nel senso che il mondo che egli deve creare è in Dio prima d'essere in sé; nel senso che Dio lo vuole qual è, con le sue imperfezioni e le sue tare, benché non voglia in verità che il bene. E invero preso come tutto è bene ed è questo tutto. San Tommaso lo dice incessantemente, l'oggetto primo e principale della sua creazione.

Mistero, diciamolo ben chiaro, questa inclusione del male nel bene fino alla sua fonte ideale in Dio stesso! E' il mistero della creazione. Non è questa una specie di anomalia metafisica? Dio non dovrebbe essere solo? Non se ne può partecipare che a condizione di uscirne in qualche modo, e come uscire dall'essere senza attingere al non-essere, senza rischiare la privazione d'essere, cioè il male? E' senza dubbio il pensiero di Paul Valéry, quando cosi descrive la discesa dell'Assoluto nell'essere:

Cieux, son erreur! Temps, sa ruine! Et l'abime animai béant! Quelle chute dans l'origine, Etincelle au lieu du néant21 !

21 Charmes, L'ébauche du Serpent. [Ciclo, il suo errore! Tempo, la sua rovina! E l'abisso animale spalancato! Quale caduta nell'origine, favilla al pósto del niente].

 

LA LIBERTÀ' DI DIO NELLA CREAZIONE 37

Ma la scintilla è pur brillante. Dio vi si riHette ed esprime un'altra volta per mezzo del suo Verbo. E poi, spetta a noi, beneficiari per sempre del generoso errore, disapprovare l'atto creatore?

Tuttavia ci incalza un altro problema, che può diventare una vera angoscia quando vi ci si immerge senza controparte. Che Dio abbia scelto di attuare i fini della sua bontà attraverso lo scotimento del mondo che abbiamo sotto gli occhi, attraverso tutto questo dispiegamento spaziale e temporale che comporta cosi grandi rischi e effettivi scadimenti, sia nell'ordine della natura che in quello delle libertà, ciò non è chiaro di per sé; ciò sembra strano e calamitoso in misura impressionante, oggetto più di fatalità che di scelta.

Pourquoi donc, o Maitre supreme, As-tu créé le mal si grand, Que la raison, la vertu meme S'épouvantent en le voyant?2222 alfred de musset, L'Espoir en Dieu. [Perché dunque, o supremo Signore, hai creato così grande il male, che la ragione, la stessa virtù si spaventano vedendolo?].

 

Bisogna che la ragione sia afferrata dallo stesso bene. E' impossibile a priori che sia diversamente. Ma come ciò è possibile?

Non nascondiamo la nostra impotenza a dare qui ragioni soddisfacenti. Dobbiamo dire : E' meglio cosi. Ma perché sia meglio cosi, non si può cercare di spiegarlo chiaramente senza tirarsi addosso il riso. Anche noi sorrideremo dopo aver parlato, e il nostro ultimo capitolo sarà intitolato: «II Mistero». Ecco tuttavia ciò che balbettando si può tentare disdire.

 

La libertà di Dio nella creazione .

 

Anzitutto affermiamo che al livello della prima costituzione delle cose. Dio è interamente libero. Quando Montesquieu ci dice che « anche la Divinità ha leggi », si deve intendere rispetto all'opera creatrice una volta costituita, nella quale essendosi una volta manifestato il volere divino, esso deve a se stesso coerenza e, per cosi dire, giustizia. Ma alla radice. Dio è interamente libero in ciò che fa. Si potrebbe dire, se la parola non fosse un poco incongrua, che il suo arbitrio è la legge delle cose. Basterebbe, per correggere l'espressione, ricordarsi che egli 'è il Bene sostanziale e che, per fare il bene, non ha che da seguire la sua tendenza senza obbedire ad alcuna regola. Egli è la regola, e tutto è bene a seconda che è conforme alla sua volontà.

E' ciò che Leibniz non ha visto chiaramente quando ha creduto di dover affermare che Dio, disposto a creare, si era trovato obbligato moralmente e infallibilmente a creare il migliore dei mondi possibili. D'altronde, non vi è mondo che sia il migliore tra i possibili, dal momento che sussisterà sempre un margine infinito tra un qualsiasi universo creato e la perfezione suprema. E poi, non si potrebbe concepire un dovere di Dio, una sua saggezza obbligata, una sua giustizia a questo livello. Dio

è determinato, moralmente o no, solo rispetto al bene infinito che è lui stesso.

Se dunque si domanda perché Dio ha creato questo mondo, la risposta è anzitutto: perché il mondo è buono. Se si. insiste: perché questo piuttosto che un altro? non c'è altra risposta che il volere stesso di Dio. Di modo che, essendo questo volere del tutto incondizionato e non essendovi regola per giudicarlo al di fuori di esso, ciò che esso farà non soltanto sarà sempre buono, ma sarà sempre il meglio rispetto a ciò che lo guida, cioè se stesso 23. 23 Cfr. S. tommaso, q. I, de Potentia, a. 5, ad 15.

 

 

Gli attributi di Dio nella creazione

 

Ciò non impedisce di ricercare un principio, secondo il quale il dispiegamento del creato, qual è, troverebbe un abbozzo di spiegazione razionale. Abbiamo detto che il mondo è fatto per esprimere e comunicare aldifuori il Bene sovrano. Abbiamo convenuto che ciò non può avvenire che imperfettamente. Ancora, bisogna che, nella misura di ciò che ne è stato liberamente deciso, questa espressione e questa comunicazione siano le più efficaci possibili. Non vediamo che la saggezza divina si fermi al meno buono dispiegamento del proprio volere. Non si tratta sempre di costringerla, ma di comprenderla. Siamo nelle ragioni di convenienza, di cui abbiamo misurato la portata.

La comunicazione del divieto sarebbe potuta avvenire a profitto di una o di alcune nature privilegiate e assai perfette. Sarebbe stato bene. Ma si vede subito che una siffatta soluzione avrebbe raggiunto lo scopo prefisso in maniera assai meno efficace. E' come se si volesse rappresentare la ricchezza dello spirito umano co", un solo pensiero o con alcuni.

E questo confronto è adeguato, per la ragione che l'essere prima di manifestarsi come realtà sostanziale è idea. Una sola idea, una sola natura d'essere, come potrebbe esprimere la pienezza divina? C'è si un'Idea che esprime Dio tutto; pure essa è Dio: è il Verbo. Ma il Verbo, ancora una volta, è costitutivo di Dio, non lo comunica. Dio non può avere un duplicato creato a disposizione della sua potenza. Cosi una sola natura d'essere o alcune soltanto sarebbero impotenti a esprimere convenientemente le virtualità infinite della natura divina.

E l'inconveniente non sarebbe affatto soppresso con una moltiplicazione numerica in una stessa natura. Leibniz ragiona bene quando dice :

« La saggezza deve variare. Moltiplicare soltanto la stessa cosa, per nobile che possa essere : sarebbe una superfluità, una povertà. Avere mille Virgilio ben rilegati nella propria biblioteca, cantare sempre le arie dell'opera di Cadmo e d'Ermione, rompere tutte le porcellane per avere solo tazze d'oro, avere solo bottoni di diamante, mangiare solo pernici, bere solo vino d'Ungheria o di Sturai, si chiamerebbe ciò ragione? La natura ha avuto bisogno di animali, di piante, di corpi inanimati »24. 24 Théodicée, TI. 124.

 

 

II fatto è che una creatura. finita, per perfetta che sia, manca sempre di ciò che possiede la creatura più imperfetta. Un angelo non ha la perfezione propria dell'insetto o della gramigna, e non le sostituisce. Non sarebbe peccato che accanto all'uomo non esistessero il leone, l'aquila, l'elefante, il toro... accanto alla donna la gazzella, la colomba, l'ermellino, la rondine... alcuni aggiungerebbero il serpente? Quante bellezze sparse che non si possono riunire senza che si contraddicano e si annullino. Bisogna dunque lasciarle sussistere ognuna in se stessa, non potendo assommare i loro valori. Bisogna che la perfezione che in Dio è semplice e una si manifesti nella sua creazione in maniera molteplice e diversa. Senza di che non sarebbe raggiunto lo scopo, che è di esprìmere Dio e di esercitare la sua munificenza.

Vale qui per la potenza attiva come per la potenza passiva o virtualità nella natura o nell'arte. Una sostanza chimica si rivela con la ricchezza dei suoi composti o dei suoi derivati. Il marmo può ricevere forme diverse. < Tutte le più belle statue, diceva Michelangelo, sono nel marmo », e una sola non manifesta tutte le possibilità, che il marmo offre allo scultore.

Se ci si attenesse a questo punto di vista platonico, il male dovrebbe essere interpretato come un conflitto tra l'unità identica all'essere e al bene, e la molteplicità in cui l'essere si degrada, pur conservando un'unità relativa, grazie alla quale il male non sarà mai interamente vincitore. Ma c'è dell'altro, o meglio questo concetto ne richiama subito un altro.

La pluralità cosi richiesta deve essere ineguale e costituire una gerarchla. Ciò segue necessariamente; poiché, come notava Aristotele, la diversità si stabilisce per addizione o sottrazione di caratteri, come nella scala numerica un'addizione o una sottrazione di unità cambia la specie. All'interno delle specie, individui differenziali da differenti condizioni materiali di manifestazione compiranno la diffusione gerarchica del Principio primo.

Questa idea della scala degli esseri, trasmessa dalla scuola di Ales-sandria, è stata molto cara ai nostri antichi, ed è sempre stata considerata una perfezione, meno che nel modo d'intenderla d'Origene, che, come si è visto, vi scopriva una specie d'ingiustizia. Anche questo pensatore attribuiva le ineguaglianze della natura a un differente impiego del libero arbitrio da parte di esseri dapprima tutti uguali. Ma questo è un errore manifesto. L'ordinamento delle perfezioni diverse non potrebbe essere un'imperfezione, è una ricchezza.

Certamente l'essere superiore presenta più bene dell'essere inferiore;

ma non perché è superiore. Supponetelo solo e tale da non potersi più confrontare a niente, resta ciò che è e non perde niente di sé. L'essere inferiore, da parte sua, ha meno bene, ma meno bene è ancora ed & unicamente bene. Bene o male, perfezione o imperfezione, ciò si deve giudicare, se si paria assolutamente, non rispetto a un essere differente, ina rispetto a ciò che conviene o non conviene a ciascun essere.

Essere privo del bene altruiy non è, propriamente parlando, una privazione; da questo lato non c'è imperfezione, ma una semplice man-

40 DA DOVE VIENE IL MALE?

caraa. Non sarebbe assurdo dire di un uomo ben alloggiato nella propria casa che è privato dì un palazzo? Si dirà che ha un alloggio minore di quello del principe, ma non che è alloggiato imperfettamente, e che la sua dimora sia altra, è l'elogio dell'ordine sociale.

Procediamo e diciamo che la diversità gerarchica nella creazione deve essere attiva e comportare scambi. Le creature ineguali e poste a differenti livelli ontologici reagiranno le une sulle altre. Senza di ciò il Creatore tralascerebbe di comunicare ciò che vi è di migliore, che è di creare. Le creature, propriamente parlando, non creeranno, poiché com-pete solo all'Onnipotenza; ma daranno l'essere per procura, e sarà la loro gloria più alta, la cui lode salirà fino al Creatore.

L'idea si rafforzerà d'altronde e la perfezione del mondo sarà accresciuta se, nel dominio degli esseri soggetti allo spazio e al tempo, gli scambi di attività portano a trasformazioni nel senso pieno, vogliamo dire non riferentisi solamente a una materia successivamente determinata da forme diverse, ma a una evoluzione delle stesse forme. Questa concezione, che oggi domina la scienza, apporta un incomparabile allargamento alla idea di creazione e conferisce al nostro problema e alle nostre soluzioni una nuova dimensione, di cui non mancheremo di tener conto. Una specie di creazione permanente esprimente nella durata successiva la pienezza dell'atto eterno che pone la creazione universale, ciò non può non aver effetto sulla nostra concezione dell'opera divina, sul suo bene e su ciò che lascia sussistere di male.

Tutto sommato, la creazione di Dio, se vuole rispondere ai suoi fini, deve, sembra, esprimere la ricchezza infinita di Dio attraverso la profusa molteplicità dei suoi esseri e delle loro forme d'essere, la sua saggezza attraverso la loro gerarchia, la sua potenza attraverso la loro mutua causalità, la sua giustizia con l'esattezza dei loro rapporti, la sua provvidenza con i benefici che circolano in tutti i gradi di questo vasto ordinamento gerarchico. Alla cima sarà l'ordine, supremo bene creato, abbiamo detto, e in cui saremo obbligati a scoprire la norma di tutti gli altri.

Visione grandiosa, secondo la quale creare è per Dio evocare fuori di sé alcunché per cui ricostituire in qualche modo se stesso, in una imitazione molteplice dell'Uno, imperfetta del perfetto, mobile dell'Immobile agente, insomma coerente e buona.

Tu t'es produit toi-même en ton brillant ouvrage, L'univers tout entier réfléchit ton image,

ha cantato Lamartine2525 Premierei Méditations poétiques. La Prière. [Ti sei manifestato nella tua opera brillante, l'intero universo riflette la tua immagine]. Narciso divino, che può compiacersi in ciò che ha fatto, in/ragione di ciò che è, come in una testimonianza.

Il Sopra-Esistente che è Dio si è posto al di fuori come esistente, sottoposto alle categorie dell'essere e manifestante come per sbriciolamento, alla maniera di un lingotto da monete, d'un iridato geyser , le sue ricchezze e le sue potenze d'essere.

Evidentemente, comunque faccia, l'universo sarà sempre ineguale allo scopo che persegue. Che faccia almeno ciò che può, affinché uscendo da sé possa dispiegarsi in esso, darsi e splendere in un ultimo trionfo in gloria benefica.

 

Solo, c'è la conseguenza. Un universo cosi costruito, e che costituisce per noi il maggior bene, è un insieme, in cui innumerevoli mali entrano come elementi della sua stessa struttura.

Si può concepire una molteplicità gerarchizzata e dinamica senza permanenti sacrifici di ciò che è inferiore a ciò che è superiore, di ciò che dipende a ciò da cui dipende, di ciò che precede nelle generazioni verso ciò che segue e succede ad esso? Ed ecco subito gli urti, i conflitti, le costrizioni, le sostituzioni d'esistenze e, se si tratta di viventi, le sofferenze e la morte.

Le forze contrarie sono in contatto, in un cosmo in cui gli elementi sono del tutto solidali. Le loro collusioni sono inevitabili. Poiché ogni essere segue la sua via come se fosse solo e ogni elemento si dispiega per conto proprio, ovunque si determinano occasioni di male, e cosi pure necessità che è impossibile ridurre, soprattutto se si tratta di dividersi una stessa stoffa d'essere : la materia, gli stessi istanti di durata, le stesse forme, gli stessi ritmi.

Il carnivoro dovrà vivere a spese dell'erbivoro, l'erbivoro a spese delle piante, le piante a spese delle sostanze chimiche. Una specie di eroismo costruttore comporterà distruzioni e devastazioni; l'ordine esigerà disordini ; ci si lancerà verso la vita contro di sé cosi come contro altri, destinati a ritrovarsi in altri a pericolo dell'individualità e della propria passeggera palpitazione, e dall'alto in basso il sacrificio sarà il prezzo dell'ordine sovrano del cosmo e del suo splendore incomparabile.

Passiamo nel dominio dello spirito. Nella sua profonda essenza l'universo è pensiero, esprimente il pensiero creatore. Vi si deve distinguere il pensiero immanente, che non ha coscienza di sé, come nella creazione materiale; il pensiero che ha coscienza di sé oscuramente, confusamente, come nella bestia; il pensiero che si ripiega su di sé, come nella creatura ragionevole e nel puro spirito. Qui nasce la libertà, nella quale la possibilità di scadimento che abbiamo riconosciuto in .ogni creatura diventa la possibilità di peccare e, tra creature libere, l'eventualità di competizioni e di conflitti, di cui la storia umana ci presenta cosi numerosi spettacoli.

E' vero che la libertà non è incompatibile con la certezza di una buona azione. Questa sarà assicurata se l'essere che ha la capacità di mal fare possiede nello stesso tempo l'evidenza dell'assurdo di questo scarto. E' il caso di coloro che vedono Dio faccia a faccia e nei quali il Bene sovrano con le sue richieste recita la stessa parte del bene astratto che è sempre alla base delle nostre scelte. Ma quest'ultima condizione della libertà è naturale per noi solo al termine. Per ora deve lasciar posto al grado inferiore che ha il suo proprio bene; come l'istinto animale ha il suo proprio bene rispetto allo spirito umano.

Il bene proprio della libertà tra bene e male, è la nobiltà della scelta, è il merito della preferenza virtuosa, è la gloria del combattimento che precede la vittoria. Soltanto, il prezzo di questo privilegio è alto.

Non importa. Noi supponiamo che un universo morale concepito su questo piano, come l'universo fisico sopra considerato, è potuto apparire al Creatore preferibile a un universo senza male, ma anche senza la ricchezza quasi infinita di questo molteplice specchio delle perfezioni che ii(??) fa e la creazione .

Non si dirà che non abbiamo anticipatamente confessato la relativa debolezza di queste considerazioni. Le nostre costruzioni mentali non valgono molto. Ma gli schiamazzi arroganti dei miscredenti e le bestemmie dei rivoltati, le stesse gementi debolezze dei credenti, avrebbero più saldo appoggio? Chi deve avere la meglio tra il difensore e l'aggressore di Dio?

Tra i due la partita non è uguale. Il negatore gioca sul velluto, con le sue evidenze da due soldi, facili da opporre ai terribili misteri. Il fedele ha solo le sue certezze di ragione facilmente qualificate astrazioni o la sua fede battezzata chimera. Ha tuttavia come forza ciò che è, e che l'oppositore sarebbe imbarazzato a sostituire con qualcosa che stia insieme.

 

26 Alcuni pensatori hanno preteso giustificare il male dichiarando che l'armonia universale esige la presenza dei contrari, come lo sono il bianco e il nero per l'incisione. Anche in sant'Agostino abbiamo incontrato qualcosa del genere. Ora, presentato sotto questa forma, l'argomento è sofistico. Il male è inevitabile, infatti, nell'armonia delle cose diverse, inuguali e sottoposte ai mutamenti; ma non è richiesto.

 

Insensate esigenze dei critici

 

La maggior parte degli obbiettanti non si rendono per niente conto di ciò che chiedono quando esigono dal Creatore l'esclusione del male. Vogliono un nuovo universo? L'insania di tale pretesa dovrebbe fare riflettere spiriti lucidi. Un nuovo universo, e quale? Chi dice loro che un universo dei loro sogni sarebbe migliore, alla fine, di questo? Pretendono di confrontare due universi come si confrontano due orologi che si prendono in mano per vedere quale segna meglio l'ora.

Un universo ipotetico, non ha, per cosi dire, senso. E' un fumo dell'immaginazione. Quanto a questo nostro, ci siamo e vi siamo annegati. II nostro sguardo non si spinge che qualche passo in là, verifica del suo funzionamento solo qualche fase nel tempo, qualche aspetto nell'insieme. Non ne conosciamo né gli inizi, né i fini, né le leggi veramente fondamentali del comportamento, né i reciproci condizionamenti il cui gioco rende alla fine utile o nocivo questo o quello. Non ne sappiamo niente, insomma, e decidiamo !

In realtà, i malcontenti vogliono questo nostro universo meno ciò che li muta o li ferisce, e non comprendono che ciò è infantile. Un

universo è un tessuto infrangibile, dove tutto dipende da tutto e non consente arbitrari prelevamenti. Si può togliere a un orologio un meccanismo o un perno senza cambiarlo interamente? L'universo è più duttile, ma non a spese della sua profonda unità. E' d'un sol getto, soprattutto se lo si consideri dal punto di vista dell'evoluzione. Che cambiereste alla nebulosa primitiva perché ne derivi questo e non quello? In queste condizioni, chiedere il miglioramento del mondo, è condannare la propria esistenza e al suo posto chiedere — ci pensiamo? — un mondo in cui non saremmo.

Chi può desiderarlo sul serio? Ci si tiene al proprio universo poiché si tiene a se stessi, cosi come una tessera di mosaico, se fosse cosciente, ci terrebbe al mosaico che è la sua ragion d'essere, come un punto di tappezzeria all'intreccio complicato, da cui non è separabile che per astrazione. Coloro che pensano il contrario si sbagliano scioccamente;

rassomigliano al bambino che desidera di avere altri genitori, non rendendosi conto che allora non sarebbe più lui, e cosi non esisterebbe.

Osserviamo d'altronde che l'universo, nel senso pieno della parola, ingloba il mondo futuro tanto quanto quello presente, il mondo soprannaturale come quello naturale, i nuovi cicli e la nuova terra come il cielo e la terra che stanno sotto i nostri occhi e che non sono che un esercito in marcia. Chi può dirci le richieste di tutto ciò, le possibilità e le impossibilità che un piano cosi grandioso cela? Alla ragione qui è accordata una sola risorsa: accordare fiducia a ciò che è, perché è, perché ha una presunzione di bontà per questo stesso fatto, e per il fatto degli splendori che ci presenta la sua faccia luminosa, che nessuna ombra può offuscare.

E' un'idea giudiziosa di Leibniz che l'incomparabile armonia di certi frammenti di questo mondo : una rosa, un albero sbocciato, un bell'animale, una ragazza in fiore, deve farci pensare che l'insieme non è assurdo. Noi, siamo assurdi dubitando e reclamando. « Va e insegna alla Saggezza eterna come deve agire, scrive Pope. Poi rientra in tè stesso e riconosci la tua imbecillità » 27 [27Saggio sull'uomo. Epistola II.]. Giudicare presuntuosamente, talvolta insolentemente, aggiunge, ciò che Dio fa o non fa nella sua provvidenza, è « giudicare la stessa Giustizia e farsi il Dio di Dio » 2B. 28 Ibid., Epistola I.

 

 

L'umiltà di Dio nella sua creazione

 

Quante volte pensiamo, ruminando questo eterno problema, a ciò che oseremo chiamare l'umiltà di Dio nella sua creazione! Creando un mondo, in cui ci sarebbe stato necessariamente del male, Dio s'è esposto lui stesso allo scacco. Certamente, scacco relativo, che riserva trionfanti riprese alla sua gloria; ma pur sempre scacco e avvilimento della sua immagine, che, tutto malgrado, l'essere difforme o l'essere perverso riflette quanto alla sua sostanza.

 

E la ragione più profonda di questa umiltà di Dio nell'accettazione del male testimonia ancora maggiore umiltà, è il rispetto dell'autonomia dei suoi esseri, che lascia svolgersi nei loro comportamenti, deterministici o secondo libertà, senza mai fare violenza alla loro natura. Nello stesso miracolo, che egli non prodiga. Dio non viola niente; agisce per preterizione, e l'ordine è preservato.

I pensatori greci dicevano: gli dei non sono gelosi. Il nostro Dio è cosi poco geloso che, lui l'Onnipotente, consente alla creatura di essere se stessa per l'azione come per l'esistenza. La consegna nelle mani del suo proprio consiglio, cioè alle sue leggi. Non è ciò che appunto suggerisce il Genesi, quando dice che, dopo la prima costituzione del mondo, Dio riposò?

Tale rispetto costa caro, se si osa dire, alla gloria divina, specialmente nel caso delle nostre prevaricazioni; poiché in quest'ultimo caso non solo ne soffre la sua opera o la sua somiglianzà, ma sono rotti gli stessi rapporti di amicizia che ci ha offerto. Dio si espone agli schiaffi, come il Figlio suo. Molti insultatori gli sputano in faccia. La diminuzione della sua opera a causa dei nostri crimini potrebbe essere per lui una" crudele ossessione. In verità, se potesse soffrire, l'agonia del Gethsemani non l'afferrerebbe?

Ma Dio sopporta il male poiché è puro, ed è perché non siamo puri che ce lo rimprovera. Il male è al nostro livello; ci minaccia negli altri e in noi stessi. Ma il male non minaccia Dio; Dio sa piegarlo alla propria volontà e farlo servire al bene. Non lo vede per finire che sotto la figura del bene, il bene della misericordia o quello della giustizia.

Utilità del male per il tutto

Ritorna qui il tema dell'utilità del male, caro agli apologisti, e che dovremo richiamare a più riprese. « II bene non potrebbe separarsi dal male, diceva già Euripide; è per l'unione dei due che tutto prospera»2929 Dramma di Euripide perduto, citato da Plutarco nel De Iside eK-Osiride.. Più sottilmente e non con meno verità, Maurice Blondel fa eco dicendo :

« L'imperfezione della creatura e la forma che essa prende nel nostro universo è come la felice invenzione che apre le vie ascendenti della vita e del pensiero » 3030 La pensée, 1, p. 10. « II male è come Io schiavo che fa salire l'acqua », dice Claudel. Dio si serve della pioggia e della grandine nell'organizzazione fisica del cosmo, e non si serve meno dei cattivi per la costruzione del suo ordine morale.

L'esperienza non prova — e qui gli esempi si presenterebbero a iosa — che avvenimenti che sembravano grandi mali sono stati la fonte di beni molto più considerevoli? E' vero che accade frequentemente l'inverso; ma ciò che importa è il risultato ultimo per l'insieme dell'opera intrapresa. Che il totale possa essere buono, è abbastanza perché sia proibita ogni critica a noi che non sappiamo, e che possa essere migliore, è motivo per cambiare eventualmente in lode tutte le nostre lamentele.

Senza dubbio Dio potrebbe creare un universo, dal quale fosse assente questo o quello, e di conseguenza più o meno male, o anche tutto il male, benché non la radice del male in una creatura. Ma nello stesso tempo sopprimerebbe tutte le felici ripercussioni che possiamo in molti casi constatare e che dobbiamo presumere per il resto. Ora, « appartiene qualche volta a un più grande ordine, dice san Bernardo, che una cosa sia fatta con meno ordine » 31. 31 Al papa Eugenio III, lettera 276. s2 Rom., HI, 8.

Si opporrà a Dio il precetto del suo apostolo, che non bisogna fare un male perché ne venga un bene? 32 32 Rom., HI, 8.

Non diciamo che Dio faccia male alcuno; fa del bene dal quale risulta un male. E se si insiste dicendo:

non si deve neppure dare occasione al male, ne permetterlo quando si può impedirlo, allora sorge il problema del prezzo dell'impedimento. Se l'impedimento compromette un bene superiore di cui si è incaricati, non ci si deve abbandonare. Sarebbe il caso di una sentinella che abbandonasse il suo posto in pericolo per separare malviventi che litigano. Ora, Dio ha su dì sé la cura del suo universo per il miglior bene di questo, e se per questo bene sono richieste particolari tolleranze, è obbligato per saggezza a consentirle.

Ricordiamoci che a motivo della sua sovrana trascendenza il Sopra-Essere domina le differenze degli esseri, anche le più profonde. Il bene e il male non sfuggono a questo dominio. Entrambi devono servire, ciascuno secondo i mezzi della sua natura. Il male da occasione al bene;

il bene riassorbe il male e ne distorna gli effetti nel proprio senso, e cosi il piano eterno si attua per mezzo di entrambi. Di modo che si può dire, in un certo senso, totalizzando, che in questo universo vi sono molti mali, ma non vi è male. O, se si vuole, il male cosi riassorbito conserva, per il giudizio che considera l'insieme, solo il carattere di limite che è inerente alla condizione della creatura. L'universo, per perfetto che fosse, comporterebbe sempre questo difetto, e non accusa pertanto la propria Causa. Non si può rimproverare a Dio di non fare che creature, a Dio che è il solo Creatore, e lo si deve lodare per il fatto che l'ultimo orizzonte della sua opera, simile alla sublime congiunzione del cielo e delle acque, non racchiuda solo del perfetto nella sua pura linea, che nessuna onda. interrompe e di cui nessun rumore viene a turbare il vasto silenzio.

 

Il caso degli individui

 

Tuttavia a questo punto dobbiamo fermarci su una osservazione fondamentale. Quando parliamo dell'universo nel suo insieme e diciamo: questo insieme prova, non intendiamo disprezzare il bene individuale come se potesse essere sacrificato al tutto e la sua infelicità potesse trovare una sufficiente giustificazione nel servizio del tutto. Tale interpre-tazione sarebbe orrenda, e sarebbe assai poco filosofica; poiché il bene del tutto non ha interesse, alla fine, che se distribuito, e nella famiglia di Dio che ne dev'essere beneficiarla tutti contano.

Abbiamo opposto questa considerazione alla dottrina del progresso, in quanto intendeva coonestare il presente e le sue iniquità a favore di un'avvenire di cui sarebbe la condizione attuale. L'avvenire, dicevamo, non beneficia in niente al presente sotto questo rapporto. Il mondo morale deve essere morale in tutte le sue fasi, nei riguardi di tutti i suoi esseri. L'idea di progresso può congiungere il bene al meglio e l'imperfetto al perfetto in modo da formare un tutto favorevole; ma l'opposizione del bene al male è al di fuori della sua presa; l'assoluta eterogeneità dell'uno all'altro non consente loro di ricongiungersi e di costituire una serie buona nel suo insieme. L'avvenire, allora, non corregge niente.

Dio, dunque, risponde del male, in tutte le sue forme, nei riguardi di tutte le sue creature ragionevoli e in tutte le epoche. Non può ripararsi, se osiamo dire, dietro la durata ne dietro leggi generali che agiscano in suo nome.

Le Hot sait ce qu'il fait; le vent sait qui le pousse33. 33 V. Huco, Les Rayons et les Ombres, Sagesse. [L'onda sa ciò che fa ; il vento sa chi lo spinge].

Le leggi, i casi generali, non sono che astrazioni; ciò che esiste, è l'individualità, e se il problema del male individuo non è risolto, la Causa prima è in colpa.

Questa verità deve essere proclamata fermamente, poiché è stata misconosciuta più di una volta nell'apologetica cristiana. Si è osato dire che Dio non dovendo niente a nessuno poteva realizzare i suoi grandi: fini passando sopra a disgrazie e sofferenze, senza preoccuparsi dei miseri umani. Noi siamo niente davanti a lui: che ci traili come niente, è giusto.

Siffatti discorsi fanno inorridire. La verità è all'estremo opposto e non potrebbe esagerare le sue richieste. Nei Fratelli Karamazov, Dostoievski fa dire a Ivan: « Anche se questa immensa fabbrica (l'universo) apportasse le più straordinarie meraviglie e non costasse che una sola lagrima d'un solo bambino, io rifiuto ». Ha ragione, a meno che questa lagrima di bambino non sia preziosa al bambino stesso, in modo che la sua persona sia espressamente messa in conto. Ma possiamo essere tranquilli. Se tutti i capelli delle nostre teste sono contati (Mt., X, 30), a maggior ragione le lagrime del cuore.

Col beneficio di questa riserva, per importante che sia, manteniamo questa verità, che in bene o in male il tutto è giudice della parte e il fine di ciò che si orienta ad esso. Inoltre questi due casi non vanno distinti, non ne sono che uno solo. Il tutto della creazione include la durata come l'essenza divina la propria eternità. Il tempo non è che un attributo delle cose. Il Creatore vede davanti a sé la propria opera, durata compresa, come un unico panorama, di cui ordina con lo stesso gesto le parti simultanee o successive. Vuole che tutto si accordi, e se c'è del male, com'è inevitabile in un piano di grandi proporzioni, lo considera nella sua relazione al tutto, come fa l'artista, anch'egli amico del sacrificio, quello delle forme o quello dei valori, perché l'insieme risplenda.

Più l'uomo s'innalza a un'intuizione del tutto e della sua infinita complessità secondaria, più scompare il concetto del male. Questa idea che Giordano Bruno e Leibniz hanno posto potentemente in rilievo è stata sfortunatamente guastata nel primo dal suo panteismo, nel secondo dalla sua infelice concezione del migliore dei mondi possibili. E' in sant'Agostino e in san Tommaso che ha trovato la sua purezza e misura.

Ecco un bei brano che apporta la testimonianza della poesia alla dottrina :

Le sage, en sa pensée, a dit un jour : Pourquoi Si je suis fils du ciel le mal est-il en moi? Si l'homme dut tomber, qui donc prévit sa chute? S'il il dut etre vaincu, qui donc prévit la lutte? Est-il donc, 6 douleur, deux axes dans les cieux, Deux àmes dans mon sein, dans Jéhovah deux dieux? Or l'esprit du Seigneur qui dans notre nuit plonge Vit son doute et sourit. Et l'emportant en songe Au point de l'infini d'où le regard divin Voit les commencements, les milieux et les fins, Et complétant les temps qui ne sont pas encore Du désordre apparent voit l'harmonie éclore;

Regarde, lui dit-il. Et le sage éperdu Vit l'horizon divin sous ses pieds étendu.

Par l'admiration son àme anéantie Se fondit; par le tout il comprit la partie;

La fin justifie la voie et le moyen; Ce qu'il appelait mal fut le souverain bien34. 34 lamartine, La Chute d'un cenge. Vili visione. [Il saggio, nel suo pensiero, un giorno ha detto: Perché se sono figlio del cielo il male è in me? Se l'uomo doveva cadere, chi dunque previde la sua caduta? Se doveva essere vinto, chi dunque previde la lotta? Vi sono dunque, o dolore, due assi nei cieli, due anime nel mio seno, due dei in Jehova? Lo spirito del Signore che s'immerge nella nostra notte vide il suo dubbio e sorrise. E trasportandolo in sogno al punto dell'infinito, donde lo sguardo divino vede i cominciamenti, i centri e le fini, e completando i tempi che ancora non sono vede dischiudersi l'armonia dal disordine apparente; guarda, gli dice. E il saggio smarrito vide l'orrizonte diviso disteso sotto i suoi piedi. La sua anima annientata dall'ammirazione si sciolse; dal tutto comprese la parte; il fine giustifica la via e il mezzo; ciò che chiamava male fu il bene supremo].

 

Il nostro collega Edouard Le Roy trova mirabile questa risposta, ma insufficiente, poiché, dice, sembra dimenticare « la realtà attiva e positiva del male » e d'altra parte « sacrificare la persona al tutto ». Non siamo di questo parere. Ci sembra che il poeta includa la sorte della persona in questa conclusione totale, che egli presenta come la giustificazione delle tappe. Quanto alla realtà positiva e attiva del male, riteniamo di averne escluso il concetto. Il male non ha in sé alcuna realtà attiva, nessuna realtà positiva. Tutto ciò che è in esso di positivo e di attivo è un bene, come il passo nonostante lo zoppicamento, come l'occhio nonostante la sua notte nella cecità. E' l'essenziale della nostra tesi per ciò che concerne la natura del male.

Lamartine ha ragione. Se vedessimo l'opera di Dio quale è, con una vista uguale a quella che la fa, quando il Verbo creatore. Luce vivente, la proietta sullo schermo illimitato dello spazio e del tempo, constateremmo che il bene regna in essa alla maniera di una regola obbedita nella più perfetta tra le opere d'arte, nella più perfetta delle città, nel più perfetto dei sistemi di forze. E la sua presenza è necessaria affinché l'opera non sia falsificata, violentata nella sua autonomia e in quella dei suoi esseri.

Poiché, ripetiamolo, è la creazione stessa che si costruisce da sé per ordine di Dio. L'arte divina è solo l'iniziatrice e la guida della sua arte. La spontaneità naturale, l'istinto o la libertà sono gli agenti del prodigioso slancio. I falliti del motore cosmico o umano sono il segno del loro dominio contestato, ma alla fine vittorioso. E bisogna dire che l'ordine universale, compreso il tempo, possiede più realtà ontologica e pregio, di quanto ne possa fornire il compimento o l'attiva impeccabilità delle sue parti. L'universo è organico, e si sa che un organismo vale come insieme, debba pure riassorbire ogni specie di difetti interni, apparenti o reali.

Non si tratta di risuscitare l'Anima del Mondo degli antichi, ancorché sul piano dei fenomeni geologici, biologici o anche psicologici le si possano trovare succedanei, che faciliterebbero notevolmente le soluzioni della scienza. Ma è certo che a proposito della creazione nella sua totalità questa nozione non conviene. Ciò che intendiamo conservarne è quanto comporta come concezione di un tutto che sia veramente un tutto, e che autorizza le imperfezioni particolari nel pensiero e sotto il governo del Dio uno.

 

ALLE PRESE CON L'AVVERSARIO

 

Ciò che abbiamo esposto sommariamente lascia luogo a obiezioni e domande, che i nemici delle nostre dottrine, i loro amici cauti, magari i loro fedeli turbati non hanno mancato di formulare. Il vecchio ragionamento di Epicuro è ripreso da loro con un accanimento che si reputa trionfante. Impossibile sfuggirvi, dicono, poiché esaurisce le possibilità dialettiche e distrugge cosi in anticipo ogni scappatoia.

Secondo Lattanzio, Epicuro ragionava cosi : « O Dio vuole sopprimere i mali e non può; o può e non vuole; o vuole e può. Se vuole e non può, è impotente; il che noit si riscontra in Dio. Se può e non lo vuole, è malvagio, il che è pure estraneo a Dio. Se non vuole ne può, è a un tempo malvagio e debole, cioè non è Dio. Se vuole e può, il che solo conviene a Dio, donde vengono i mali, e perché non li sopprime? » 1. 1 lattanzio, De ira Dei, cap. XIII.

Lattanzio riconosce che molti sostenitori della Provvidenza si sono lasciati turbare da questo argomento fino a essere tentati di concedere ciò, a cui tendeva Epicuro, cioè che Dio (o piuttosto gli dei o la Divinità) non si occupa delle cose umane. Per Pierre Bavle l'argomento favorirebbe soprattutto la dottrina manichea dei due Principi, o quella degli antichi Greci : la materia che resiste allo sforzo organizzatore del primo Principio.

Quanto allo stesso Lattanzio, prospetta una risposta forse un po' generale e insufficiente, ma che Bayle a torto trova « pietosa ». « Dio, dice Lattanzio, non sopprime il male; ma con il male ci ha dato la saggezza (cioè l'intelligenza), e la saggezza ci reca più beni e ci procura più attrattive che non siano le sofferenze arrecateci dai mali. Senza dire che è per mezzo della saggezza che conosciamo Dio, e che questa conoscenza ci conduce all'immortalità, al bene sommo ».

Questa risposta è più profonda e più vicina al concreto che non sembri a prima lettura. La saggezza di cui parla Lattanzio è il motore della civiltà sotto la pressione del bisogno, ed è l'inventrice delle arti, che ci alleggeriscono l'esistenza. Costituisce sotto questo riguardo un rimedio al male, quello stesso che al tempo di Bayle cercavano gli ardenti amici del progresso e, un po' più tardi, Schopenhauer quando proponeva contro il male l'evasione dell'arte. Quanto all'immortalità, verso la quale la saggezza ci orienta, è appunto il supremo rimedio.

Ma Pierre Bayle non disarma. Questo acuto sofista, armato di una dialettica sottile e potente, conduce l'assalto con un vigore, che deve essere apparso impressionante al suo tempo, se ha indotto un Leibniz a prendere la penna e a opporgli la Teodicea.

Il grande cavallo di battaglia di Bayle è questo : l'apparenza a tutti visibile è che se Dio si è proposto tutto sommato, come si pretende, la felicità delle sue creature, ha disposto le cose in modo da concederla solo a un piccolo numero, e a un prezzo spaventoso.

E' un fatto che Bayle intendeva apertamente proclamare la tesi del piccolo numero degli eletti; che non erano ancora chiaramente aperte le prospettive davanti all'eventualità d'un numero incalcolabile di creature sconosciute popolanti i mondi celesti ; che il preteso scacco divino, nell'Eden, era messo in relazione alla Redenzione e all'insieme del piano creatore in maniera poco comprensiva, ecc. Ma c'era sempre nell'argomentazione di Pierre Bayle un difetto capitale. Prendeva tutto dal lato piccolo. Giudicava l'azione di Dio come si trattasse di quella d'un piccolo proprietario rurale, d'un capo di famiglia, d'un amministratore o di un rè. Certamente simili analogie sono legittimamente usate, e noi pure non ricorriamo ad altre. Ma non dobbiamo perder di vista che hanno bisogno di una correzione radicale, a motivo della trascendenza di Dio, la cui Persona e la cui azione non possono entrare nel quadro angusto delle nostre categorie umane.

Posto difronte a questa osservazione, Stuart Mili protestava, dicendo :

« Se la bontà di Dio non è ciò che noi chiamiamo bontà, rinuncio a capire, e se devo essere dannato per questo, che lo sia! ». Senonché questa disperazione logica non è in questione. La bontà di Dio è perfettamente analoga alla nostra, altrimenti non la conosceremmo, poiché ci siamo elevati ad essa partendo dalla nostra. Ma poiché c'è solo analogia, poiché invero la bontà di Dio, identica alla sua saggezza, alla sua potenza, alla sua misericordia si fonde per noi nell'incomprensibilità dell'essere divino, dobbiamo stare attenti, nel giudicare, a non rinchiudere questo o quell'attributo divino nei nostri limiti e a non apportare la stessa ristrettezza nella considerazione degli ambiti, in cui gli attributi divini devono applicarsi. Questi ambiti sono immensi, e i nostri punti di vista sono ristretti. Da qui la nostra tendenza a non vedere dinnanzi a noi, quando si tratta dell'Infinito creatore, rettore e rimuneratore, che il Dio da vetrata delle bigotte.

In tutte le sue pagine Bayle è vittima di questo fraintendimento. Spirito meravigliosamente chiaro, lo è fino alla volgarità dei punti di vista, fino alla sofistica delle false evidenze. A lui e ai suoi simili, che sono legione, s'applica l'osservazione penetrante che Bergson pronunciò in mia presenza : « Negli argomenti elevati e difficili, ciò che è vero da .quasi sempre l'impressione di essere falso e ciò che è falso di essere vero ». Pierre Bayle era veramente vittima di questa illusione,; o si faceva .beffe, sicuro cosi di ottenere credito? Giudichi Dio : ma il nostro dovere

è comunque ben delineato : dobbiamo denunciare queste palinodie, soffiar via questa polvere negli occhi che fa perdere al lettore la sua libertà di sguardo e lo costringe in orizzonti da miope.

« Fanno pensare Dio a modo nostro, diceva Bossuet a proposito dei libertini, e vogliono che la sua saggezza si assoggetti a seguire le nostre regole »2. 2 Ms., t. IL p. 337.Al che il Bayle contrapponeva subito una di quelle eleganti buffonate, di cui aveva il segreto. In questo problema dell'impossibilità di accordare gli attributi divini con l'esistenza del male, diceva, la difficoltà « non proviene soltanto dal fatto che ci manca la luce, ma soprattutto dai lumi che abbiamo e che non possiamo accordare con i misteri » 3 3 Réponse aux questioni d'un Provincial, cap. II.

. Certamente. Sono appunto i nostri lumi che qui producono l'ombra. Ma è lo stesso caso della pellicola di luminosità che avviluppa la terra durante il giorno e che ci nasconde le stelle. Le nostre chiarezze sono tenebre riguardo ai misteri di Dio. Ci illudono con apparenze, e si vede benissimo nelle obiezioni dello stesso Bayle, che prendono tutte questa forma : « Se un uomo, se un rè, se un padre, se un creditore, se io... ». Tutti questi esempi rischiano d'ingannare e la loro falsa evidenza può farci prendere abbagli in merito a ciò che può convenire a Dio nel suo universo immenso e misterioso. C'è una sproporzione quasi infinita tra le considerazioni che vengono in causa nei casi cosi assunti ad esempio e le ragioni di Dio. Queste riguardano un ordine universale, naturale e soprannaturale, le cui esigenze ci sfuggono da tutte le parti, mentre le preoccupazioni d'un re, d'un padre, di un tutore sono relativamente la stessa semplicità.

Il Dio paterno che Bayle e la sua compagnia vorrebbero veder regnare sulla creazione non sarebbe che un idolo, essendo fatto su nostra misura, ^e di più, sarebbe condannato a sfiorare continuamente il male, che è inseparabile dal finito, come abbiamo riconosciuto. Dio può essere estraneo al male solo se è totalmente fuori dell'essere, come pura Sorgente. Per questo Dio è chiamato dalla Bibbia con un nome che significa a un tempo il Separato e il Santo. Ma allora ci è incomprensibile, e non bisogna imporgli senza radicale correzione, di cui egli solo è giudice, le norme temporali dell'azione.

E' bene che vi sia tra Dio e noi, tra i comportamenti di Dio e i comportamenti umani, tutto lo spessore del mistero del mondo, che si prolunga nel mistero di Dio. Presentiamo cosi la grandezza di ciò che adoriamo, e non è il feticcio razionalista che ci si propone. Il punto di vista se fossi Dio ci appare allora d'una puerilità indegna persino d'un bambino.

Bisogna riconoscere che il razionalismo povero del cartesianesimo ha largamente contaminato sotto questo riguardo l'intelligenza cristiana. Lo stesso pio Malebranche non sempre sfugge a ciò. Abbiamo visto che in questi argomenti come in altri ha inciampato, e non c'è da stupirsi che abbia trovato imitatori. .

 

La ragione fondamentale si è che risalendo a Dio muovendo da ciò che il mondo offre di mirabile e di benefico, si segue una via relativamente facile e gradevole; le occasioni e le tentazioni di deviare non si presentano-frequentemente; ma quando si parte dal male, è l'opposto; si procede a zigzag e la strada è sassosa. Succede allora facilmente che ci si smarrisca;

si falsifica il concetto di Dio sia in se stesso, sia quanto ai rapporti che ha verso il mondo. E' appunto per questo che abbiamo detto : « II problema del male è alla base della fondazione delle filosofie ».

Bayle fa notare abbastanza sagacemente (cap. LXXVIII) che nelle spiegazioni che si danno in merito al piano adottato da Dio, nel quale si riscontra tanto male, il più delle volte si sottintende, senza dirlo, magari dicendo il contrario, che il Creatore aveva dinnanzi a lui aperta solo una. via, appunto quella che perviene a risultati cosi penosi. Ora, aggiunge:

Bayle, il Creatore aveva dinnanzi a sé aperte tutte le vie, poiché è l'Onnipotente.

Ecco il nostro sofista, pieno di ingannevoli evidenze e di chiarezza nell'errore. E' cosi difficile osservare che, onnipotente o no, un agente è legato e limitato nelle sue vie dai fini che si propongono alla sua azione e che non sono qualsiasi? Siamo partiti da là poiché non si poteva partire da nient'altro, ed è ciò che ci è parso chiudesse a Dio alcune vie, che Bayle preferirebbe lasciar aperte, o delle quali piuttosto sfrutta ai propri fini la chiusura.

Henri Bergson, nelle ultime pagine di Les deux sources de la Morale et de la Religion, ha denunciato questo sofisma, mostrando che l'Onnipotenza non può consistere nel poter fare qualsiasi cosa; che non si estende al contradditorio, e che uno dei termini della contraddizione può essere imposto dai fini. Di modo che in ciò che ci riguarda si stabilisce un'alternativa : o non realizzare i fini di creazione, o rassegnarsi alle condizioni, tra le quali trova necessariamente posto il male.

Un'altra causa di menda nei ragionamenti del nostro autore e di molti altri, è l'abuso delle formule : Dio sapeva. Dio aveva previsto... a ragione di che si pretende qualificare la sua azione da ciò che ne è risultato di spiacevole, come se suo dovere fosse stato, avendo previsto» di non porre l'azione che comporta gli effetti deplorati. Ma tutto ciò è infantilmente scoraggiante. Non ci sono in Dio pre-visioni, e ciò che sì designa con questo nome, cioè la sua visione eterna, discorrendo su tutto il reale, non muta niente dei rapporti delle cose. Se questi rapporti sono giusti in se stessi, non possono essere ingiusti considerando la previsione divina.

Vi si ponga attenzione; poiché sta in ciò una causa d'inciampo per molte intelligenze. Le previsioni di Dio non sono come le nostre e non si prestano agli stessi ragionamenti. Le previsioni umane mutano i rapporti degli esseri. Un padre che conosce in anticipo l'incidente che deve capitare a suo figlio non è più con lui negli stessi rapporti di prima che lo sapesse, e per ciò è obbligato a modificare la sua condotta.

Ma non è cosi di Dio. I rapporti che legano gli eventi umani alle previsioni divine sono rapporti trascendenti e senza reciprocità da termine a termine. Si tratta qui dei rapporti del creato con l'increato, del finito con l'infinito, rapporti incommensurabili e quindi inconoscibili, e quindi fuori giucco se si tratta di riportare il fatto alla sua previsione. Paragonare ciò alle previsioni d'un padre o d'un comandante di battaglione è degno d'un ragazzetto prima che abbia frequentato il catechismo.

Quando cosi si giudica, si tiene presente che Dio agisce nell'eterno;

che pone il tempo con il suo contenuto e che non potrebbe pertanto subirne la legge; che la sua creazione sta davanti a lui come un tutto ininterrotto e in cui tutto è presente come simultaneamente, in ciò che lo concerne? I rapporti di successione e per conseguenza di pre-visione concernono solo le cose create le une in rapporto alle altre, e quindi se le cose create hanno tra loro giusti rapporti, se ad esempio un peccatore subisce la giusta pena del suo peccato, che ha che fare per giudicarne la considerazione della previsione divina? Ciò che è giusto è giusto; è previsto qual è, e non si può retrocedere per dire : Dio, avendo previsto, doveva agire in altro modo. Non si può retrocedere dal temporale all'eterno, i quali non sono sulla stessa linea, sono l'uno all'altro trascendenti. Col suo gesto eterno, se si può dire. Dio pone le cose nei loro giusti rapporti, e se la giustezza o la giustizia di questi rapporti è riconosciuta, non c'è più niente da dire. Non ci si ricorda di quanto abbiam detto dell'autonomia creata rispetto all'azione divina? C'è un'autonomia degli esseri; c'è pure un'autonomia dei rapporti, e non si può chiedere a Dio di romperne la trama.

Lo scacco iniziale di Dio II caso tipico di questo misconoscimento e di questa debolezza di giudizio è la critica, che cosi spesso si fa al piano divino concernente il peccato originale e la redenzione. Pietro Bayle ne ha piena la bocca,

e numerosissimi ne sono gli imitatori. Si affetta di beffarsi, di stupirsi ipocritamente o, in ogni caso, di confessare il proprio disagio davanti a questo Creatore, il quale inciampa fin dal primo passo, il quale istituisce un bell'Eden per poi espellerne vergognosamente l'abitante dopo alcuni giorni passati insieme; il quale si vede costretto, dopo questa sorprendente avventura, ad annullare i suoi disegni primitivi e a concepire una nuova organizzazione, in cui dovrà intervenire questa volta di persona. L'incarnazione sarà il risultato d'un fallito, e il sangue d'un Dio dovrà esser versato, poiché non si ha saputo impedire, in un'impresa senza dubbio male iniziata, un falso passo iniziale che porta a una catastrofe.

Quante volte si è visto cosi esposto il più grande tra i fatti umani in collegamento con le anticipazioni divine! Cosi parlando, apparentemente si rispettano i fatti, in realtà si deforma tutto, non fosse che misconoscendo i rapporti dell'eternità e del tempo, ponendoli a capo a capo; Dio prevedendo, l'uomo agendo. Dio tornando alla carica, come se si trattasse di lunghezze dello stesso ordine, mentre si tratta di una lunghezza per ciò che riguarda il tempo, ma di una misura ineffabile per ciò che riguarda Dio.

Dio non ha bisogno di riprendere in mano la sua creazione dopo Io scacco, come noi immaginiamo, poiché per lui non c'è ne prima ne dopo. Egli l'afferra nel suo atto eterno con tutte le sue relazioni, ponendo in essere ad un tempo la sua creazione e la sua ri-creazione, cioè il suo riscatto ad opera del Cristo, cosi che il tutto costituisce un'unica opera in due fasi temporali, come se gettasse un seme destinato prima ad avvizzire e poi a fiorire.

C'è il primo Adamo e c'è il .secondo. Adamo peccatore e il suo Divino Fratello sono una sola parentela e partecipano, assai diversamente, è vero, a uno stesso avvenimento di famiglia: il peccato raddrizzato, la caduta finalmente trionfale. Ciò si presenta in Dio sotto il segno dell'unità, ancorché si distingua e si coordini sotto le specie del tempo.

Ciò è tanto più vero in quanto il Redentore è, come Dio, anch'egli fuori del tempo, identico per sostanza al Creatore, Verbo coeterno al Padre e allo Spirito. I fabbricanti d'immagini delle cattedrali non facevano impastare il corpo d'Adamo da un Dio dall'apparenza del Cristo?

In questa ampia visione, che resta dell'obiezione d'un imprevidente Creatore sorpreso dal disastro, d'un fabbricante costretto a riappiccicare dei frantumi, d'un costruttore che innalza una casa destinata a diventare subito una rovina, d'un urbanista che discopre una fonte nel mezzo d'un parco incantato che diventerà una palude prima che l'acqua si sia riversata e abbia riflettuto il cielo... ecc... ecc.? Le immagini non mancano ai nostri critici. Ma come non pensare che il ridicolo, qui, muta campo e che dall'opera ricade sui suoi detrattori?

Se ci si pone dal punto di vista della bontà, si vedranno Bayle e i suoi soci stupirsi scioccamente che Dio abbia elargito al primo uomo, sotto il nome di giustizia originale e anzitutto di libero arbitrio, un dono cosi pericoloso per lui e per la sua razza. Una bomba a scoppio ritardato, insomma, una granata inescata, sotto le apparenze d'una mela. E sempre il ragionamento preferito : qual è il padre, che... Ma anche qui la puerilità è patente. Lo stesso Calvino ha risposto : « Dio ha permesso il peccato di Adamo poiché aveva disposto ciò che voleva fame **• Commento al Genesi, III ». La creazione era buona; là redenzione lo sarà incomparabilmente ancor più. Che desiderare di più? Cadiamo in una fossa solo per scalare colline, le

colline eterne ».

Resteranno le tracce del peccato? — Dio saprà farne mezzi di vittoria, e per ciò si potrà dire con la Liturgia : « Colpa felice, che ci ha meritato' tale Redentore! O peccato d'Adamo veramente necessario!...». Questa. parola necessario sottolinea la solidarietà, che abbiamo poco sopra rilevato tra le due fasi temporali del piano creatore. Si può dire che non-ci sarebbe stata creazione nelle condizioni che ci sono descritte, se non. ci fosse dovuto essere redenzione. E dunque non è vero che noi della vita non abbiamo che i resti di un naufragio.

Non c'è che un piano, una volta ancora, buono della bontà e della sovraeminente eccellenza delle sue due fasi. Lo stesso peccato ne fa-parte in certo modo, cosi come gli insuccessi d'un apprendista fanno parte della sua formazione, e, lungi dal sorprendere il suo maestro, sono-spiati da lui come l'occasione, ciascuno, di una lezione utile.

Questo carattere quasi pedagogico del primo peccato e di tutte le-circostanze che lo circondano è ciò che ci sembra più sorprendente, lungi dall'idea di scacco, di cui gli avversar! si beffano. Vista da quest'angolo, la storia del Paradiso terrestre ha un carattere di puerilità voluta, che non da più motivo di sorridere. Niente conviene meglio, in qualsiasi maniera si interpretino i suoi simboli (ve ne sono certamente), all'infanzia spirituale dell'umanità.

Ecco un eletto chiamato ad alti destini, che egli deve conquistare da sé con l'aiuto di Dio. A questo fine è dotato di un potere terribile :

la libertà. Libertà per un essere della sua specie e d'altronde per qualsiasi altro allo stato normale, significa fragilità, in ogni caso peccabilità: è bene che lo sappia. Le piccole felicità disposte davanti a lui in caso dì ipotetica fedeltà sono un simbolo più che una realtà seriamente considerata. E' un lampo d'un attimo, che fa presagire la luce eterna.

Il destino cosi definito sarebbe assai poco degno d'un essere virile! Felicità tutta fatta, pane già cotto, eredità di un figlio di papa, che non costa niente e non vale di più, senza significato decisivo, poiché, fugace, doveva cessare quasi arbitrariamente : è una misura per niente, in qualche modo, al più un preludio e non è che l'esperienza che, riportata a zero la vita quanto a doni. preternaturali, l'annuncio del Redentore e il suo possesso anticipato in virtù della speranza daranno inizio alla bella storia morale dell'umanità.

Dio creatore sapeva che c'era per noi qualcosa di meglio dell'innocenza, cioè la virtù consapevole e penosamente conquistata, la virtù nel dolore e nel rischio, l'ostacolo generosamente superato, portante al trionfo in nome della libertà e della grazia. Fin dall'inizio si presagiva ciò e Dio lo aveva presente dall'eternità, lo predeterminava, la sua Saggezza facendo le sue delizie d'essere cosi con i figli degli uomini (Prov, VIII, 31).

 

Per di più, c'è una considerazione da non trascurare. Adamo peccatore è il prototipo dell'uomo collettivo quale si sarebbe necessariamente manifestato in seguito. Non si manifesta davanti a noi e in noi ogni giorno? « La caduta non è un fatto compiuto un tempo e di cui subiamo le conseguenze, dice Leon Bloy, noi cadiamo sempre »5 5 Celle qui pleure, p. 127.. Non era male, senza dubbio, che questo perpetuo peccatore si manifestasse subito nel suo rappresentante, e che di conseguenza fosse subito intrapresa l'opera di riscatto e di valorizzazione di tutti i peccati della terra.

Invero, non è stata questa pedagogia divina che, permettendo il primo peccato come un drammatico insegnamento per sempre, ha ispirato al cristianesimo il sentimento del peccato, della sua gravita, della sua minaccia perpetua? Un fatto che poco mancò non distruggesse tutto per il genere umano potrebbe pure annientare tutto per ciascun'anima. Spettava a un preveggente educatore ispirarcene l'orrore, e il fatto che preparasse subito il rimedio impediva che lo si potesse accusare di crudeltà.' Inoltre, quale insegnamento di solidarietà e di carità, quale invito alla comunione dei santi questo duplice fatto combinato del peccato in Adamo e della Redenzione in Gesù Cristo.

Dopo di che, il ritardo dell'atto redentore da compiere nel tempo rientrerebbe nelle stesse intenzioni di prudente benevolenza. I nostri teologi ne danno ragioni ottimistiche tratte, anch'esse, da convenienze pedagogiche e da utilità collettive, senza pregiudizio per le anime di buona volontà di tutti i tempi.

 

Lo scacco della riparazione

 

Sta bene, diranno i nostri avversar!; ma bisogna vedere la fine: non avete voi stesso detto che è ciò che giudica? L'obiezione di partenza: perché un'iniziativa destinata a un insuccesso immediato? si trasforma ora in questa: perché questo piano che si pretende allargato, rafforzato quasi infinitamente, voi dite, e che conclude a un risultato cosi parziale che la gran maggioranza degli uomini ne sarà esclusa, come convengono i vostri autori?

Bisogna constatare che su questo punto gli autori cattolici in gran numero, in grandissimo numero, hanno assunto una grave responsabilità. Quella di sostenere — senza prove, osiamo affermare arditamente — che il piccolo gregge raggruppato intorno al Maestro resterebbe eternamente piccolo rispetto alla massa umana; che la via stretta sboccherebbe su una piccola dimora permanente, che la Redenzione sarebbe, in effetti, il riscatto di alcuni e il triste abbandono di tutti ali altri; in breve, che il numero degli eletti sarebbe minimo : appena venti su mille, stimava Malebranche, e, se proprio non a questo grado e con questa audacia, la tesi ha prevalso, si deve dirlo, per tutta la durata dei secoli cristiani.

Su che cosa si appoggia? Su niente che costituisca fede, niente che obblighi all'adesione e impedisca di liberarsi da quest'incubo spaventoso. La ragione sta essenzialmente in una interpretazione strettissima dei testi sacri, da cui stentiamo oggi ancora a staccarci, nonostante immensi progressi e felici iniziative delle autorità religiose.

Era meglio ispirato san Giustino, che in materia aveva tanto peso quanto un altro e di cui Renan ha potuto dire : « Nessun teologo ha mai aperto cosi largamente come Giustino le porte della salvezza ». Alla buon'ora! Ci occorrerebbero ragioni assai perentorie per credere a un tale scarto nel contenuto delle reti della pesca miracolosa, a una tale votezza della Città eterna per ciò che riguarda gli uomini.

Queste ragioni non esistono. I testi che si allegano hanno ricevuto tante interpretazioni diverse che la loro autorità sotto questo rispetto vi si annulla. I testimoni della tradizione si contraddicono a seconda delle tendenze di ciascuno e a seconda delle epoche. Niente indica che essi si esprimano come tali, e la Chiesa non ha mai condiviso le loro sentenze. Il più delle volte si tratta di questa materia per modo di esortazione morale piuttosto che di intenzione dommatica. Insomma, la via è libera. Si ha il diritto di pensare che 1'Amen finale della vita universale sarà un'immensa e innumerevole acclamazione.

E poi, cari dissidenti, quando parlate di eletti e tendenziosamente ne limitate il numero, ritenete che basti fare i conti con i soli abitanti della Terra? Negli abissi di spazio che ci sono stati aperti, saremmo noi piccoli umani i soli rappresentanti dello spirito e la sola lode del Creatore di tante dispiegate meraviglie?

Ci rifiutiamo, per parte nostra, di vedere il nostro piccolo globo terracqueo:

Seul flotteur anime sur ce torrent d'étoiles *.* [Unico galleggiante animato su questo torrente di stelle].

 

Leibniz, come dopo lui Bergson, credeva fermamente alla pluralità dei mondi abitati. Supponeva che aldilà della sfera delle stelle « fisse » potessero essere! immensi spazi popolati da creature di ogni specie, comprese creature ragionevoli. Non c'è ragione perché tutto il reale consista in fasci di polvere astrale e in sfere rotanti le une intorno alle altre. Questa disposizione può essere puramente locale, essa che offre tante possibilità alla vita, e quindi all'intelligenza e alla moralità? Si crede che i due infiniti di Pascal si riducessero per lui a tale struttura?

L' Esclangon, direttore dell' Osservatorio di Parigi, assicura che se un essere pensante microscopico abitasse nel profondo del corpo umano e da là potesse osservare il resto, vedrebbe qualcosa abbastanza simile a ciò che ci presenta il cielo con i suoi astri vicini e lontani, i suoi ammassi di materia condensata o diffusa, ma sicuramente non avrebbe alcun'idea di un organo o di un corpo.

Si riconoscerà che ciò fa sognare, e che certi sogni cosmici fondati su questa osservazione non sarebbero tacciabili di vuota immaginazione. Il sogno di Pascal, per ipotetico che fosse, non era una vuota immaginazione. Ora, che diventano in questa supposizione, e anche in quelle più modeste consentite dai nostri milioni di galassie, i calcoli escatologici dei nostri avversar!? Il piccolo o il grande numero degli eletti terreni mantiene la sua importanza per la nostra piccola famiglia umana; ma rispetto all'opera di Dio, del successo o dello scacco della sua intrapresa creatrice e della prevalenza della sua misericordia sulla sua giustizia, della sua bontà o delle sue necessarie severità, ciò non conta più, per cosi dire. Non è cosi per un piccolo formicaio preservato o calpestato in una pianura immensa?

E il mondo dei puri spiriti? Se i nostri antenati non avevano che una debole idea dell'universo materiale, in compenso spiegavano il mondo dello spirito con un'immaginazione altrimenti audace. La Scrittura ve li invitava, con le miriadi di miriadi dell'Apocalisse. E pensavano con ragione, come scriverà Clarke a Leibniz nella loro celebre disputa -— si sa che Leibniz era d'accordo — che « la materia è la più piccola e la meno considerevole parte dell'universo »6. Per parte nostra diremmo volentieri che supponendo l'intera creazione rappresentata da una piramide capovolta, la cui punta fosse dalle nostre parti, tutta la materia raccolta non occuperebbe che l'ultimissima punta di questa piramide, mentre Io spirito ne popolerebbe la massa fin nelle più alte e lontane profondità.

Che cosa ne sia in ciò del bene e del male, nessuno può dire, ma nessuno ha mai pensato che i demoni fossero superiori in numero agli angeli buoni; tutte le probabilità sono a ciò contrarie, ed è una ragione in più perché i nostri avversar! non abbiano partita vinta su questo punto che è di comune incertezza.

L'indefinita ampiezza del piano divino c'impedisce di sperare di poterlo mai abbracciare nel suo insieme, e di avere cosi un'idea della parte che in esso possono avere il male, gli effetti del male e le riparazioni cui da occasione. E' spaventevole la piccineria che vediamo sia nel mondo religioso che in quello dei suoi critici. E ciò, nonostante gli insegnamenti, le mortificazioni che la scienza ci infligge periodicamente.

* Prima replica.

 

Les cieux pour les morteis soni un livre entr'ouvert Ligne a ligne a leure yeux par la nature offerì. Chaque siede avec peine en déchiffre une page Et dit: lei finit ce magnifique ouvrage7. 7 lamartine, Harmonies poétiques, L'Infini dans les cieux. [I cieli sono per i mortali un libro socchiuso, offerto riga per riga ai loro occhi dalla natura. Ogni secolo a stento ne decifra una pagina e dice: Qui finisce quest'opera magnifica].

 

Ma in cambio questo infinito inesplorabile offre al fedele un argomento invincibile da opporre ai bestemmiatori. Si è spesso detto che le scoperte astrali rendevano difficile la posizione del credente facilmente antropocentrista, anche dopo che ha dovuto rinunciare al geocentrismo. Ora, per ciò che riguarda il problema che stiamo trattando, la sua posizione è assai migliore. A ogni tentazione di attacco contro la Provvidenza, di giudizio pessimistico per ciò che riguarda gli ultimi risultati, egli può opporre l'esclamazione di Pascal: «O presuntuosi!». Invero la presunzione è clamorosa, e là dove la speranza è a questo punto permessa, il silenzio è di diritto.

 

La protesta dell'abisso

 

Con questo, non tutto è stato detto, si replicherà giustamente. Anche se il bene dovesse alla fine superare il male in proporzioni aumentate quanto si vuole, resta un residuo. La dottrina vuole che la perdita s'opponga al guadagno sui piatti della bilancia eterna. C'è l'Inferno. E cosi il piano di Dio comporta una parte d'insuccesso che non si potrebbe ridurre. La grandezza attribuita all'uomo serve a portarlo al sublime, ma anche a farlo cadere da più in alto. E poiché per nostro stesso riconoscimento ogni anima conta, poiché ogni individualità costituisce, per cosi dire, da sola un mondo, che cosa pensare di questo Organizzatore sedicente benevolo, di questa Provvidenza cosiddetta materna, che si assume di preparare destini conchiudenti a siffatto termine e di porre cosi degli esseri sulla china d'un abisso senza fondo?

Ohimè! l'Inferno è triste. Non tralasceremo d'affrontare questo argomento, e di dedicargli tutta l'attenzione che merita. Ma si tratta qui delle responsabilità di Dio. Ora, l'avversario crede di aver buon giucco ritornando alla sua vecchia posizione : Dio certamente prevedeva ciò che sarebbe accaduto delle sue disposizioni. Stabilendo liberamente tutto l'ordine morale, onnisciente e quindi in grado di giudicarne anticipatamente, onnipotente per apportarvi gli accomodamenti, occorrendo i correttivi necessari, egli assume la responsabilità di tutti i risultati, anche se le sue creature sono in colpa nella loro posizione subalterna.

Poiché alla fine queste creature non hanno chiesto di vivere. « Ciò che mi sembra odioso nella natura fa dire Byron al suo Childe Harold, è di costituire mio malgrado un anello nella catena degli esseri ». Ora, colui che cosi impone l'esistenza è obbligato a costituirla buona. Se la sua creatura perisce, pur avendo egli tutti i mezzi per impedire che perisca, il sentimento morale gli ritira retrospettivamente il diritto di perla. Che il nulla benefico la protegga! Si, il nulla beato è nel suo diritto, in mancanza di quella grazia che si dice onnipotente e che non gli è concessa.

Non si può simulare la pace dell'anima di fronte a un problema per sua natura inquietante poiché mette in causa gli ultimi segreti della provvidenza divina, di ciò che si chiama predestinazione —, con una parola abbastanza infelice, invero, ma che ha la sua parte di terribile verità. Tutto ciò che si può con sincerità, ma allora con certezza, è di mettere a nudo il vizio dei ragionamenti contrari, la fatuità delle loro pretese e la tracotanza delle loro domande a Colui la cui grandezza ci schiaccia col suo mistero.

Una prima cosa sicura, stando dalla nostra parte e imponendoci dal didentro la sua evidenza, è che se pecchiamo, lo facciamo liberamente—, si mette da parte, ben inteso, tutto ciò che sarebbe malattia, suggestione imposta, errore o violenza. E' più di un'evidenza inferiore, è una tautologia; poiché se non fossimo liberi non ci si chiamerebbe peccatori e non temeremmo le vendette celesti. Che possano ingannarvisi gli uomini, qui poco importa: parliamo di Colui che vede nel segreto (Matt., VI, 4).

Peccando siamo liberi, e ne viene immediatamente che siamo responsabili. Di fronte a Dio, non abbiamo niente da dire, e le proteste d'un terzo personaggio chiamato Bayle o altrimenti non ci riguardano.

Invocheremo la protesta di Childe Harold? Eccoci in una strana posizione! Si può esigere da Dio che ci consulti prima di crearci? Che si <lirebbe d'un figlio che elevasse simile pretesa? Ordinariamente si ritiene che un padre è in regola quando è ben deciso a fare, per quanto sta in lui, la felicità di suo figlio.

— Ma è appunto ciò che Dio non fa! Se lo facesse, poiché è onnipotente...

Sempre Io stesso abuso di un'onnipotenza che si suppone sotto ogni riguardo incondizionata, e che è certamente incondizionata assolutamente parlando, ma non rispetto ai fini che essa persegue e che la sua saggezza •vuole ch'essa persegua.

Bisogna sempre ritornare al punto di partenza. Dio si fa creatore per manifestare e elargire la ricchezza infinita del suo essere. Non può farlo che stabilendo una scala di valori più o meno vicini o più o meno lontani da sé e che dovrà poi, pena contraddirsi e tutto confondere, abbandonare alla loro autonomia relativa. Ora, tra questi valori, ce n'è vno eminente e anche sovreminente : la libertà.

 

IL valore della libertà

 

Si conosce il pregio che Descartes attribuiva a questo valore : « Dio, diceva, ha fatto tré cose mirabili: la creazione dal niente, il libero arbitrio e l'Uomo-Dio ». E' appunto ciò che fa la grandezza della vita umana e la pone senza confronto aldisopra della bestia, assicurandole uno sviluppo indefinito nella perennità.

La bestia propriamente parlando non agisce, è agita, è guidata dalla. sua natura. L'uomo in qualche modo sorpassa la sua natura, giudica i suoi giudizi naturali, obbedisce loro o li supera, e si traccia da sé la via. Fa e facendo si fa; si costruisce a poco a poco, di modo che il suo ultimo-destino sia opera sua.

Non fa ciò da solo; la solitudine della causa seconda nell'azione è-una contraddizione in termini. Causa prima - causa seconda, è una coppia di forze che non si può spezzare. Ma ciò che si può con Dio, lo si può per cosi dire da se, poiché il sé considerato come creatura. include Dio.

E' bello, ma comporta una possibilità di caduta, e questa possibilità racchiude un .rischio mortale. Esistendo il rischio, è fatale che un giorno o l'altro, qui o là, vi si incorra realmente; poiché la forza delle passioni e la varietà dei nostri giudizi di valori esercitandosi nel concreto rendono infinitamente improbabile una perpetua e universale resistenza al male. Nei grandi numeri — abbiamo già più sopra rilevato questa legge — la-caduta è rigorosamente inevitabile.

Non era una ragione, si dirà, per rifiutare un dono cosi generoso?

— Rifiutare ciò che ci fa uomini? Rifiutare il magnifico alberò da. frutto per timore che in alcuni frutti s'introduca un verme?

— Quando si è buoni, si vuoi rendere felici e buoni. Quando oltre-a ciò si è onnipotenti, e si può scegliere, non si crea un soggetto morale:

cosi fragile.

— La disposizione che costituisce la nostra fragilità, questa mescolanza di materia e di spirito, di cui sopra abbiamo celebrato il mistero e che ancora mette a prova la sagacia dei pensatori, bisognava espellerla dall'opera divina, a prezzo d'uno di quei iati nella scala degli esseri, di uno di quei vuoti di forme (vacuum formarum) che i pensatori antichi. aborrivano? La cessazione di questa alleanza non sarebbe un progresso per il cosmo uno e gerarchico, per l'evoluzione della vita che ammiriamo tanto e che ottiene in quella, unita a Dio nascosto, la riuscita più sorprendente. Il sigillo dello spirito sulla materia è un segno di onnipotenza e un simbolo di unità attiva che non si troverebbe in nessun'altra parte:

la sua assenza diminuirebbe la sublime connessione delle cose.

— Questo risultato può essere ottenuto con le garanzie di cui parlo.

— Si, ma per mezzo di una falsificazione permanente, nemica dell'ordine morale delle cose. Sopprimere o turbare costantemente quest'ordine, vorrebbe dire togliere all'universo la sua principale bellezza e far torto all'autonomia delle creature sul terreno dell'azione, autonomia che si mani-

62 ALLE PRESE CON L'AVVERSARIO

festa in ciò, che ciascun essere inferiore agisce secondo ciò che è e l'uomo conforme a ciò che vuole.

— Tuttavia voi credete alla grazia detta efficace o vittoriosa.

— Ha sue leggi, che non conosciamo.

— Comodo rifugio!

— Non c'è bisogno di rifugio dove si tratta d'una grazia, di cui l'obiettante pretende fare un diritto.

— Vi sono i diritti della bontà.

— Riteniamo che la bontà si eserciti al massimo e possiamo vederne in copia i segni. Cosi pure riteniamo fermamente che solo il peccatore pertinace è perduto.

—- Peccatore pertinace è per voi colui che abusa della grazia. Ecco dunque che Dio da grazie a uomini ch'egli sa non le accetteranno e che per questo stesso fatto divengono peggiori.

— In effetti divengono peggiori; ma sarebbe stato meglio che Dio apparisse egli stesso biasimevole o meno bene non offrendo le sue grazie e desse loro cosi motivo di dire : forse mi sarei salvato se le avessi avute? Ciascuno qui ha la sua parte da compiere : Dio agisce da Dio dando la sua grazia, l'uomo sia uomo esercitando la sua libertà.

— Ma voi stessi non dite che colui che si salva è salvo solo in virtù delle grazie senza le quali non si salverebbe più di colui che si perde?

— Lo diciamo invero, ma con ciò semplicemente affermiamo, come poco sopra, la cooperazione obbligata della Causa prima a tutto ciò che fa la causa seconda. Ma ciò non fa torto alla causalità del merito ne alla autonomia del volere. L'uomo è libero, sotto la stessa grazia, come se non esistesse Dio. __

— Resta che la perdita definitiva d'un essere ragionevole è una macchia nella creazione.

— La salvezza definitiva di colui che poteva perdersi è una gloria della creazione.

— Le due non sono compatibili?

— Solo al prezzo di quella diminuzione dell'essere, che respingevamo or ora, e cosi della gloria della creazione e del Creatore.

— Voi parlate sempre della gloria di Dio e si direbbe, a leggere i vostri autori, che Dio organizzi in qualche modo il male per avere la gloria — in verità, falsa gloria — di vincerlo o di punirlo.

— Dio non organizza per niente il male; organizza un universo in cui il gioco del bene, del maggior bene, da al male un'occasione inevitabile. Quindi, che il male si volga in bene in un modo o in un altro e ne prenda la tinta, è una vera gloria e Dio la rivendica a buon diritto.

— Molti vi periscono, e vorrei che si escludesse piuttosto dall'essere coloro che si prevede dovranno cosi perire.

— Riconoscete almeno che essi non hanno niente da reclamare da questo lato, come osservavamo poco fa. Per il resto, considerate che gli uomini non sono creati ad uno ad uno, bensì fanno parte d'una razza, rientrano in un piano collettivo. E come rivendichiamo l'autonomia individuale, anche la razza come tale ha la propria autonomia; si sviluppa secondo proprie leggi, come se non dipendesse che da sé.

— Dio sa tuttavia ciò che ne uscirà.

— Un padre che si da una posterità sa pure che nel seguito delle età potrà darsi che abbia generato un criminale.

— Il Padre divino ha il privilegio di poter scegliere.

— Scegliere, in questo caso, vorrebbe dire far torto all'autonomia della razza considerata in quanto tale, ed è di ciò che parliamo in questo momento.

— Tuttavia voi dite che Dio è responsabile di ogni essere, e non solo dei complessi.

— Dio ha la responsabilità di ciascun essere, e anche dei complessi,

•e non si mostrerebbe miglior padre facendo il maggior bene possibile a Tin singolo, soprattutto a un colpevole, a spese dell'insieme e delle sue leggi. Ma, inoltre, sul terreno individuale, quando il peccatore dice a Dio come voi gli suggerivate : Perché mi hai creato, sapendo che dovevo perdermi? Sant'Agostino gli risponde, d'accordo con le nostre stesse parole:

•« Tu ami la vita come gli altri secondo la tua natura, e quindi Dio dandotela è stato buono per tè. Se poi ora, a motivo del tuo peccato, delle sue «conseguenze desideri non esistere più, è la sua giustizia che ti respinge » '. 8 Enchiridion, e. XIL

 

La libertà limitata al bene

 

— Tutti i vostri ragionamenti sulla libertà, tutti i vostri sforzi per discolpare Dio d'averla data all'uomo cosi fragile, presuppongono che il Creatore fosse posto dinnanzi a questo dilemma : o sopprimere la libertà, o collocarla sull'orlo d'un abisso; o crearla miserabile e pronta alla caduta, o rinunciarvi insieme a tutti i suoi benefici. Ecco che cosa leggo a questo proposito in uno dei vostri e non dei minori :

« Senza libertà fallibile, niente libertà creata ; senza libertà creata, niente amore d'amicizia tra Dio e la creatura; senza amore d'amicizia tra Dio e la creatura, niente trasformazione della creatura in Dio, niente ingresso della creatura nella gioia del suo Signore. Ed era bene che questa suprema libertà fosse liberamente conquistata. Il peccato, il male è il prezzo della gloria » 9. 9 jacques maritain, De Bergson a Thomos d'Aquin, p. 282.

 

Non è evidente che in questo ingranaggio razionale in apparenza rigido, c'è un pezzo debole? Si concede, alla fine, che c'è una « suprema libertà » che non comporta più rischi e si pretende, invero, che era bene che questa suprema libertà fosse conquistata per mezzo dell'altra. Ma io lo contesto assolutamente, e allora nel mio pensiero tutto il resto rovina, e nello stesso tempo mi fornisce il mio programma. Dio poteva dare all'uomo una libertà non fallibile, che sarebbe stata pur sempre una libertà creata; una. libertà che permettesse e anche presupponesse un amore d'amicizia tra Dio e la creatura; una trasformazione della creatura in Dio e il suo dischiudersi nella gioia del suo Signore. Alla buon'ora! Questa era la

 

soluzione buona, più degna di Dio, perché ad un tempo la più benevola e la più perfetta.

— E' vero che la libertà degli eletti, a imitazione di quella di Dio, è più perfetta di una libertà esposta al male. E' un pregiudizio ritenere che la libertà comporti di per se stessa un rischio peccatore. Ciò è per essa un'imperfezione; quella degli eletti presuppone l'evidenza del Bene supremo, al quale non si sfuggirebbe conoscendolo in lui medesimo, dal momento che sotto le apparenze del bene astratto tutti corrono verso di esso a tutta velocità. Chi oserebbe dire che la libertà è tanto più grande quanto meno è illuminata? Al contrario, più lumi si hanno per decidere, più si è liberi, e se la luce arriva al grado dell'evidenza perfetta, la scelta con ciò stesso è fissata nella più alta libertà, benché infallibilmente.

Ma se la libertà degli eletti è più perfetta, tutto il resto essendo peraltro uguale, è meno gloriosa se si tratta d'una creatura, che non la possiede naturalmente, come Dio. Invero, quella libertà è ricevuta passivamente, non è conquistata e non si può contestare che non sia questa una fortuna in meno. E' ciò che vuoi dire il nostro autore nella sua ultima frase:

« Era bene... ».

— Che ciò fosse bene, lo contesto sempre, e secondo me sussiste il ragionamento d'Epicuro.

— Al contrario, il piano di Dio sotto questo rispetto è magnificamente bello e buono. Poteva costituire degli esseri già perfetti; ha preferito, per essi medesimi, degli esseri che pervenissero alla loro perfezióne. La loro volontà trionfante sarà loro più preziosa di un desiderio soddisfatto. Dischiusisi nella materia traditrice, avranno saputo liberarsene;

—dall'ignoranza si saranno innalzati al sapere, e dai legami passionali ar lungo oppressori saranno riusciti alla libertà. In tutto, lo sforzo sarà per essi il prezzo del successo, perché ne abbiano la gioia e l'onore, e lo stesso rischio sarà cosi giustificato.

A vaincre sans perii on triomphe sans gioire.

E' quindi male dare a un essere come punto di partenza la speranza, come frontiera protettrice la legge, la coscienza come ispiratrice e giudice, e alla fine lo sforzo coronato? Non è un beneficio in più che il Dio il quale ci si da liberamente sia nello stesso tempo nostra conquista?

— E' soprattutto una trappola.

— Solo per la cattiva volontà, ed è una triste difesa quella che tende a favorire il cattivo volere, a spese della generosità pronta a tentar la propria sorte.

— Voi mettete l'uomo nella condizione di scegliere tra l'uomo e Dio. E' una scommessa.

— E' una meraviglia. L'uomo manifesta cosi il suo maggiore privilegio, che è l'autonomia. Non è prodigioso poter dire no al proprio Creatore? E se ciò comporta un grande rischio, in caso di riuscita la felicità è maggiore.

— C'è troppa perdita

— In quest'impresa, chi oserà pesare il guadagno e la perdita? Chi

 

oserà dire che il trionfo meritorio di un eletto non equilibra la perdita di più dannati, per loro colpa? « Un po' di luce vale più di molte tenebre », dice Claudel1010 Sept grandes odes, L. Il cavaliere medievale rischiava la vita nel torneo, e la sua vittoria significava qualcosa. Si sono fondate civiltà sul rischio di morte.

— Il militarismo sarebbe cosi la legge dell'universo?

— Si tratta di un esempio; ma in ogni impresa il dispiegamento del bene sorpassa la preoccupazione di scansarsi dal male. Non si organizza una competizione sportiva a favore dei vili ne dei bari. Le scuole non regolano i loro programmi sui deficienti e le mostre non vengono aperte per gli sciocchi. Lo sforzo meritorio sta nel promuovere il bene, sia pure a prezzo del male.

— Spingete il vostro punto di vista fino all'inumanità? Non è inumano infliggere a una umanità debole un destino sovrumano?

— L'umanità di Dio è abbastanza provata dal suo comportamento verso gli uomini. L'espressione è adoperata da san Paolo ed entra nella liturgia di Natale : « Ci è apparsa la benignità e l'umanità di Dio salva' tare nostro » 11 11 Ep. ad Titum, in, 4.

. Il Cristo non dev'essere dimenticato in tutto ciò. Questa apparizione non è tale da persuadere gli uomini che il destino che è loro riservato è ad un tempo esaltante e possibile, e che esiste un piano della creazione?

— Ma occorre la fede.

— Certo, ma la fede ha solo la funzione di fornirci da una parte un supplemento di luce e dall'altra una luce decisiva e specifica; e se il male a questa luce diventa accettabile, si ha diritto di trascurare l'ipotesi per ostinarsi nel rifiuto di ogni spiegazione?

— Resta da discutere il prezzo. — Per primo il Cristo ha pagato il prezzo, e senza dubbio non sproporzionato al vantaggio.

— Non comprendo che un Dio permetta il male e, per cosi dire, lo metta in moto, quando si poteva evitare. Insemina, ci si mette nella condizione di mal fare.

— Ci si mette nella condizione di mal fare solo per invitarci a ben fare. Non aver mai occasione di mal fare, sarebbe come dire un Ercole senza le sue fatiche. Certamente ciò è bello. Giove trionfa e non ha da fare con l'Idra di Lerno. Ma un Olimpo completo esige dei inferiori. L'eroe vittorioso arricchisce l'Olimpo.

— Perché divinità inferiori dove tutto può essere perfetto?

—— L'imperfetto aggiunto al perfetto costituisce un nuovo valore, che da solo il perfetto non comporta. Si pensi a un cacciatore con i suoi cani, a un cavaliere con la sua cavalcatura nello scenario d'una foresta.

— Odio questi ragionamenti capziosi. Parlo per un Dio buono, il quale non ponga condizione a ciò che da.

S - It problema Set mais

— Noi sosteniamo le ragioni di un Dio la cui bontà si manifesta in una creazione ampia e diversa, per aver più occasioni e spazio di espandersi. Radunare d'autorità tutte le anime e uniformare le loro vite dando a tutte, fin dall'inizio, la sicurezza, vorrebbe dire impoverire l'universo morale, come s'impoverirebbe l'universo fisico sopprimendo i gradi e le diversità tra le specie.

— Per questa preoccupazione di gerarchla è necessario lasciar cadere uomini sventurati in supplizi crudeli?

— Abbiamo detto che ci rìserviaJno_ questo problema dell'inferno. Resta che il piano dell'universo morale si giustifica come queuodeU'unì-verso fisico con una finalità superiore e con un'armonia dei valori, in cui la ragione deve vedere un bene.

— Trovo immorale il vostro ordine morale. Dio deve avere il male in orrore ed escluderlo dalla sua opera.

— Coloro che si lamentano tanto perché Dio permette il male sono sempre tanto zelanti da proibirlo a se medesimi?

— Che importa questa osservazione? La mia obiezione resta.

— L'osservazione ha un interesse dottrinale : quando ci si lamenta di Dio a proposito del male morale pur commettendolo da parte nostra contro di lui, si formula un rimprovero che potrebbe cosi tradursi :

Perché avete costruito un universo che mi permette di offendervi? E' una strana protesta ! S'indovina la risposta di Dio : Questo stesso universo ti permette di amarmi, e permette anche che io ti ami.

— Non rispondete mai alla mia domanda. Si o no. Dio ha il male in orrore?

— Dio ha in orrore il male, ma il suo orrore del male è fatto del "suo amore per il bene, e dove si trova un maggior bene a prezzo TPuii— male, deve permettere il male.

— « II permesso d'un certo male è scusabile solo quando non vi si potrebbe rimediare senza introdurre un male maggiore; non potrebbe essere scusabile in coloro che hanno in mano un rimedio efficacissimo contro questo male e contro i mali che potrebbero nascere dalla soppressione di questo » 12. 12 pierre bayle, XIV" Maxime philosophique

— Dio può impedire ogni male; ma non può procurare ogni bene senza permettere il male, e per la sua bontà è obbligato a procurare il maggior bene possibile alla sua opera, anche a prezzo di qualche male. Di più, si può dire che sarebbe stato « un maggior male » se Dio avesse rifiutato di permettere il male, poiché cosi agendo avrebbe fatto in qualche modo una cattiva scelta, il che da parte di Dio sarebbe un male.

— In ogni caso, un ordine morale cosi concepito è deprimente.

— Deprimente un ordine morale che ci invita a costruirci con le nostre forze e ad aiutare Dio?

— Come, aiutare Dio?

— Non abbiamo detto che Dio partecipa alla sua creazione, cerea in qualche modo di ritrovarvisi e di perfezionarvi la sua immagine con gli sforzi congiunti della sua grazia e della nostra azione? Molti pensatori hanno parlato d'un Dio che si fa e che noi dobbiamo aiutare a divenire. Quest'idea pantelstica dev'essere respinta, ma ciò che non è vero di Dio nella sua persona è vero delle sue partecipazioni e della sua immagine. Lo sforzo morale è il grande mezzo di questa nascita di Dio e di questo compimento del divino negli esseri. Ciò comporta, certamente, oltre al nostro bene, le nostre fatiche dolorose e i nostri rischi. E' un onore, di cui non ci conviene fare un rimprovero, e rispondere con generosità è senza dubbio meglio che recriminare e contribuire con la nostra diserzione a rendere veramente assurdo un mondo, che avremmo arbitrariamente e follemente giudicato tale.

 

Tutto considerato

 

Tutto considerato, l'origine del male, che cercavamo, è nello stesso bene, come l'origine dell'ombra è nella luce. E con questo esempio si

-vede bene dov'è la realtà principale, dominante e che cosa deve concludere in merito all'opera divina un retto giudizio.

Quando qui parliamo d'origine, non si deve intendere causalità. Propriamente parlando, non c'è causalità del male. Non si tratta che di risultati accidentali, di interferenze, di deviazioni nel corso di un retto funzionamento, di mancanze e degradazioni connesse all'inevitabile imperfezione dello stesso bene, che nel creato non può esercitare pienamente la sua potenza.

Il bene è causa, poiché ha qualchecosa da dare. Il male non ha altro da dare che la sua stessa mancanza, il suo deplorevole nulla e la sua rovina mortale. Deplorevole, mortale : ciò comporta si una causalità, ma indiretta e accidentale, il che è fondamentale per il giudizio sul Tutto. E' triste che vi sia del male e tanto male nel nostro universo, in certi momenti si può ritenere che ciò sia spaventoso, ma nonostante tutto il

-male non è, non può esser causa di niente e quando nell'universo si risale di causa in causa, se si tratta di cause proprie, di agenti effettivamente produttori, non si trova che bene.

Allora, se ci si riporta alla cima, non si va più verso l'ombra, ma verso la luce. Salendo all'essere, non si trova più il niente. La Causa prima è lo stesso Essere sussistente, o meglio il Sopra-Essere, ed è cosi il Bene,

•non diviso, come vorrebbe il dualismo manicheo, non imperfetto, come lo immaginano i sostenitori del Dio-finito, ma il Bene in sé, che non patisce limite. Attività pura, che spande solo bene.

 

Dio fa solo il bene

 

Questa esclusività del bene nella causalità divina è stata una vera ossessione da parte dei nostri pensatori cristiani. Essi erigono i loro argomenti, come baluardi e barricate a protezione della Cittadella. San Tommaso vi esaurisce il suo virtuosismo e la sua forza. Chiude tutti i pas-' saggi all'assalitore e s'ingegna a togliergli tutte le possibilità.

Era stato preceduto in ciò da molti altri. Uno dei primi, Origene, aveva detto, con un'energia che è nei suoi modi : « Tutto è stato fatto dal Verbo ; ma il niente è stato fatto senza di lui ». Si riferisce al niente che è incluso nel male, che è il male quanto alla sua essenza privativa, se si possono associare questi due termini.

Sant'Agostino, più di ogni altro prima di san Tommaso si è travagliato nello stesso senso. E' soprattutto il caso del peccato che lo impegna, poiché in questo caso un'opinione contraria sarebbe più grave e l'apparenza è più vistosa.

L'apparenza è questa : Dio prende parte al peccato, poiché quale primo Agente collabora necessariamente a ogni atto. E ancora aldilà del fatto, ritorna la stessa apparenza, poiché Dio, diciamo continuamente, utilizza il male piegandolo ai suoi fini. E allora, perché non ne è contaminato, cosi come il minatore o il contadino sporcano le loro mani maneggiando del concime o del carbone?

Ma no. Bisogna a questo proposito tener ferme due verità, certe-l'una e l'altra. Dio causa tutto l'essere, e di conseguenza il peccato, intutto ciò che ha di positivo, sia nell'ambiente esterno dove pone i Suoi effetti, sia nell'ambiente interno che è la sua dimora. Coloro che cercano mitigazioni a questa causalità universale di Dio cadono in complicazioni inestricabili. Per non aver assunto una posizione netta, accumulano le-difficoltà e non soddisfano nessuno.

Ma d'altra parte Dio non può causare il peccato, poiché il peccato» è contro di lui, ed egli è santo, la santità medesima.

De l'Etre tout parfait le mal ne saurait naitre 13. 13 voltaire, Poème sur le désastre de Lisbonne. [Dall'Essere assolutamente;

perfetto il male non potrebbe nascere].

E' contradditorio ciò? Molti hanno preteso di si, e Hume ha scritto r «Mostrare che Dio non è causa del peccato è stato superiore finora a. tutte le forze della filosofia»14. 14 Essai sur la Liberto et la Necessitò, circa finem. Si può ammettere quest'ultima formulazione, poiché invero l'innocenza di Dio nella sua causalità riguardo-all'atto del peccatore non potrebbe mostrarsi, cioè farsi vedere con evidenza. Ma non per questo è esclusa la possibilità, e quanto si diràdei peccato sotto questo rispetto varrà ugualmente per il male nella natura.

Già lo stoico Crisippo proponeva un esempio illuminante : quello-d'un rullo che vien tirato con un movimento perfettamente regolare e-eccellente per il risultato che il conduttore si propone, ma che trabalza con fracasso a causa delle ineguaglianze della superfìcie. Aggiungeva che-essendo fatto di materia, un rullo non può mai essere perfettamente-levigato ". 15 Cfr. aulo gellio, apud giusto lipsio, Noct. Att., VI, C. TÉ Cosi la creatura, quale che sia, fatta di niente, se cosi si può dire, a motivo dei suoi limiti, non può non essere deficiente, capace di sfuggire alla causalità di Dio a profitto del male, senza per questo cessare dal dipenderne quanto al bene che è il sostegno del male o che ne è il risultato.

San Tommaso ricorre a un altro esempio ancor più sorprendente. Un uomo sano conduce uno zoppo verso un luogo dov'è bene e utile che sia. Ma lo zoppo zoppica: è colpa del suo accompagnatore? No, bensì della sua gamba troppo corta.

Leibniz presenta un terzo esempio nella sua Teodicea, quello di un convoglio di barche che procede su un corso d'acqua. Il corso è causa del procedere delle barche, ed è bene; ma non è causa del ritardo, rispetto alle altre, della barca più carica e del suo eventuale arresto in un'insenatura.

Il significato filosofico di questi tre esempi è ben chiaro. La Causa prima può essere perfettamente retta nella sua azione, non tendere che al bene e condurre infine al bene, pur lasciando posto a un possibile scadimento della causa seconda.

Inutilmente si direbbe : la causa seconda che vien meno è stata creata dalla Causa prima. Dio l'ha creata capace di errare, non l'ha creata errante. Uscendo dalle sue mani era buona, sia dal punto di vista del suo essere che da quello delle sue tendenze profonde. Ogni essere è buono, abbiamo insistito abbastanza; ma anche ogni tendenza naturale è buona, e ne è la conseguenza, poiché a questo livello è l'essere e solo l'essere a manifestarsi nell'azione.

Ciò che gli antichi chiamavano col nome di tendenza naturale, ciò che Henri Bergson, generalizzando, chiama YElan vital, Schopenhauer, più particolarmente, il genio della specie, Claude Bernard Videa direttrice, diciamo, su questo terreno, l'impulso rappresentato dal germe, ciò è sempre perfettamente retto. La prova, nel vivente, è data dal fatto che ciò si riscontra nella generazione successiva dopo le peggiori deviazioni accidentali. Uno zoppo non genera un altro zoppo. Vi sono difetti ereditari, ma sono soltanto accidenti un po' più prolungati. Lo slancio specifico persiste nella sua rettitudine e un po' più lontano viene ritrovato.

Nell'ipotesi dell'Evoluzione questa osservazione deve essere trasportata più lontano, ma sussiste e si rafforza. Poiché se tutte le specie d'essere sono buone e tendono a conservarsi quali sono al presente, nondimeno rileviamo in esse stranezze e particolarità abbastanza poco favorevoli per meritare forse al nostro sguardo accorto il nome di male. La responsabilità è allora della stessa Evoluzione, in cui intervengono molti casi fortuiti. Al punto di partenza dell'Evoluzione — ne occorre pur sempre uno — non si troverebbe alcuno di questi accidenti; sareste di fronte • a un dato prodigiosamente fecondo di combinazioni future e di un orientamento perfetto.

Non diversamente nell'ordine morale. Le nostre primissime tendenze sono la dirittura stessa. « Dio ha fatto l’uomo retto », dice l'Ecclesìaste (VII, 28); la volontà è un appetito del bene e tende al nostro bene finché falsi giudizi ispirati dalla passione vengono a distoglierla dalla sua strada.

 

« L'uomo, si trovi in una casa innominabile, in una prigione o sulla forca, è sulla via di tutto ciò che è vero e buono » 16.

16 Gli uomini rappresentativi, Swedenborg.

Si obbietta talvolta che il fatto del male morale suppone nella volontà un principio di malizia che le è consostanziale e rimonta cosi al Creatore, Ma l'obiezione non è accettabile. Non è necessario, perché una libertà pecchi, che sia viziosa in lei medesima, basta che sia una volontà. Anche san Tommaso rifiuta di risalire più in alto del volere per spiegare la perversione del volere. Lachelier dice profondamente da parte sua : « Spiegare vorrebbe dire assolvere, e la metafisica non deve spiegare ciò che la morale condanna » "17 Psychologie et Métaphysique, p. 171 (Alcan).. Ora, fare risalire qui la causalità a Dio, è cercare in lui una spiegazione metafisica. E' ciò che a buon diritto i nostri due pensatori escludono.

 

C'è tuttavia in noi un'inclinazione al male, ma il principio non ne va cercato in una segreta malizia della volontà, bensì in ciò che san Paolo-chiama la legge delle membra, cioè l'attrazione della carne per i suoi oggetti, che sono buoni ma non sempre in accordo con i fini della volontà ragionevole. Il male si produce al punto d'incontro di questi due beni e per la mancanza attuale del volere dimentico della sua regola. Non c'è dunque in nessun senso malizia congenita, bensì una natura mista, il cui funzionamento è delicato: ecco tutto.

Infine, il male è solo un'interruzione o una deviazione in un cammino rette, una fermata che interrompe uno slancio, o una fuga tangenziale in una macchina che si muove in giro. Abbiam detto perché Dio lo ha permesso : per un bene, il bene dell'universo e il bene della creatura ragionevole. Un grande bene ne risulterà alla fine : che si vuole di più? — Alcuni mistici hanno avuto l'intuizione di questa permissione divina accordata al male, allo stesso peccato, per motivi che sorpassano l'uomo, « In questo stato, scrive Angela da Foligno, il peccato mi piace quando lo vedo commesso da altri poiché sento che Dio lo permette giustamente » 18. 18 La via della salvezza.

La Bibbia non dice mai che Dio faccia il male, ma che crea il bene e il male, cioè che crea tutto, poiché il tutto è buono nonostante il male; poiché il male è occasione di bene e serve cosi ad accrescere il bene dell'universo.

Non diciamo con ciò che il male serva a integrare il bene dell'universo; tale formulazione è inesatta. Soltanto il bene concorre veramente al bene. Ma poiché il male da al bene occasione di manifestarsi e d'agire, è pur vero che senza di esso il bene risultante sarebbe minore. S. Agostino dice : « Dio, sovranamente buono, non permetterebbe che sussistesse qualcosa di male nelle sue opere, se non fosse cosi potente e buono da poter trarre un bene dal male stesso » ".19 Enchirìdion, e. XI.

 

Si vede quindi che se Dio avesse creato un mondo migliore di questo, non solo questa scelta non avrebbe eliminato il male, ma avrebbe potuto, in alcune ipotesi, aumentarne la dose aumentando d'altra parte quella del bene. Dal mescolarsi col male, poi. Dio è impedito dalla sua santità e anche dalla sua natura, se si può distinguere l'una dall'altra.

Quanto cosi diciamo del Creatore riguardo alla sua azione è vero anche della sua volontà. Su questo punto Descartes dava alla principessa Elisabetta (lettera X) spiegazioni assai pertinenti. Parlando in generale, diceva, « non entra il più piccolo pensiero nella mente d'un uomo che Dio non voglia e non abbia voluto dall'eternità ». E' vero, poiché Dio vuole tutta la combinazione universale di cui questo pensiero è un elemento ed è Dio che lo porta ad essere. Ma non ne viene che Dio voglia determinatamente quel fatto, preso cioè isolatamente. Lo permette, non lo vuole e la prova è data dal fatto che all'interno di quest'universo, ch'egli vuole nel suo insieme, regnano leggi che si oppongono alla sua volontà. In altri termini. Dio vuole un universo in cui c'è il peccato, lo vuole tale nonostante il peccato, non vuole il peccato.

 

La volontà permissiva

 

Ci si stupirebbe di vedere Bayle in silenzio difronte a questa dottrina. E' troppo sottile per non prestarsi ad altre sottigliezze sofistiche e blasfeme. La distinzione teologica tra volere e permettere, per ciò che riguarda Dio, o, in altri termini — intervenendo la volontà divina in entrambi i casi — tra volontà permissiva e volontà formale, eccita i! suo estro. Pretende tradurre l'idea di volontà permissiva dicendo : « Dio vuole che il peccatore gli disobbedisca, poiché rientra nei suoi piani; ma vuole che il peccatore creda che Dio voglia che gli si obbedisca » 2020 Réponses, e. CLTV.. Palinodia,. inganno degno del suo inventore, ma non del Dio di verità e di giustizia. La verità è che vi sono due volontà il cui oggetto è differente e che sono quasi estranee l'una all'altra rispetto alla nostra analisi, umana. La prima ha di mira il fatto nei suoi rapporti con altri fatti e con l'ordine universale regolato da Dio. Sotto questo riguardo, il peccato è voluto da Dio, poiché sotto questo riguardo è buono. La seconda volontà ha di mira la stessa volontà creata di fronte alle leggi morali e, sotto questo riguardo peccaminoso, l'atto lungi dall'essere voluto è proibito. Forse si renderebbe abbastanza bene la situazione dicendo: II peccatore fa ciò che Dio non vuole, ma in maniera tale che con il suo stesso peccato Dio fa ciò che vuole.

La prova che non è questo un vano distinguo è data dal fatto che noi stessi vogliamo alcune cose che tuttavia consentiamo a veder impedite da un motivo superiore. Ad esempio, un padre intende condurre quanto più possibile al bene i suoi figli e proibisce loro il male; acconsente tuttavia a un momentaneo allontanamento d'uno dei suoi figli se se ne ripromette una migliore formazione per lui e una lezione utile per gli altri.

La differenza tra il caso dell'uomo e il caso di Dio in questa circostanza è che l'uomo non collabora di persona all'atto che permette, mentre Dio collabora a titolo di Causa prima, non al peccato come tale, che è puramente privativo, ma all'atto del peccato in tutto ciò che ha di positivo inserito nella trama delle cose.

Vi collabora, dunque lo vuole? — Si, ma lasciando in conto alla creatura la cattiva volontà che Io determina, e rispettando pienamente l'autonomia di questa determinazione. La volontà divina e la volontà umana qui non si compongono, e come non c'è addizione dove concordano, non c'è contraddizione dove sono contrarie. Ciò che l'uomo fa liberamente contro la volontà di Dio, Dio lo fa liberamente per i suoi fini, considerandolo sotto il rispetto del bene, forse il bene dello stesso peccatore. Sono i misteri della trascendenza divina, e sappiamo che si devono affermare, ma non si possono chiarire21. 21 Abbiamo cercato di chiarire almeno l'esposizione del problema in un'altra opera: Dieu gouveme, pp. 57-77.

 

I fini governano

 

Ritorniamo al nostro inizio. Al culmino di tutto l'essere è il Bene. Risalendo attraverso le nostre tenebre incontriamo l'abbagliamento, lo scaturimento di ciò che si svolge nel tempo con le sue scie di luce e d'ombra, in cui la luce, destinata a trionfare un giorno, si presenta al momento come in una proiezione sullo schermo, dove gli oggetti si segnalano con grigi di diverso valore e con grandi neri.

E' con la bellezza del tutto che si giustifica questa sorprendente organizzazione, comprendendo in questo tutto sia le durate che gli esseri, e soprattutto ciò che Emanuele Kant ha chiamato con una parola magnifica il regno dei fini.

Per l'uomo che sa guardare da abbastanza in alto, ogni realtà è venerabile, ogni avvenimento proficuo, e ogni uomo associato al divino per il suo proprio compimento e il successo di tutta la natura.

Un assioma di diritto dice incivile giudicare prima d'avere esplorato tutta la legge : Incivile est nisi tota lege inspecta judicare. Quando conosceremo l'intera legge delle cose, forse sorrideremo dei nostri dubbi angosciosi e ci vergogneremo delle nostre rivolte.

Noi frantumiamo l'universo per giudicarlo e dichiariamo informi i suoi rottami. Ma l'universo è un universo, cioè un tutto non lacerabile e chiuso in se stesso nella sua perfezione unitaria. Meraviglia di questo numero perfetto!

Dio ha promesso che al momento della sua manifestazione ultima mostrerà a tutti la giustizia dei suoi giudizi 22. Gesù diceva a una santa che si lamentava con lui in un'estasi a proposito della sorte dei peccatori :

« Sta tranquilla, ti farò vedere che tutto è bene ». Ciò basta a chi Io crede o lo sa a priori per la forza invincibile delle prove di Dio e dei suoi attributi. Il resto, che fa ostacolo o turba o scandalizza, non è che apparenza ingannevole, riguardante un fatto che umanamente non possiamo abbracciare.

Sarebbe meglio per noi che tutto fosse chiaro e che l'universo presente ci apparisse come una perfezione compiuta? Potrebbe allora presentarsi il pericolo segnalato da Dostojevskij, cioè che l'assenza di ogni male ai nostri occhi ci porti a divinizzare il mondo e deponga cosi per l'inutilità di Dio. La presenza del male testimonia l'imperfezione di questo mondo provvisorio e fa rimbalzare lo spirito verso la sua causa senza per questo lasciarci sprovvisti.

Leibniz dice : « Essendo assicurati dalla dimostrazione — aggiungiamovi la parola del Cristo — della bontà e della giustizia di Dio, disprezziamo le apparenze di durezza e d'ingiustizia che vediamo in questa piccola parte del suo regno esposta ai nostri occhi. Fin qui siamo illuminati dalla luce della natura e da quella della grazia, ma non ancora da quella della gloria. Quaggiù, vediamo l'ingiustizia apparente, e crediamo, sappiamo la verità della giustizia nascosta di Dio. Ma vedremo questa giustizia quando il Sole di giustizia si mostrerà qual è » 23.

Mais un jour, ton oeuvre profonde, Nous la verrons, Dieu redolite;

Nous irons voir de monde en monde S'épanouir ton unite 24,

L'estasi nnificatrice

Questa visione .beata può essere anticipata in alcuni stati d'animo e provocare, anziché lo scandalo, l'entusiasmo. Non ne sono testimonianza tanti scritti dei mistici o dei poeti ispirati? Nell'estasi il contemplativo, attraversando con lo sguardo le ombre e tendendo aldilà, sempre aldilà, non trova alla fine che un intenso focolare di luce. All'origine dell'immenso ventaglio di luminosità, vede la grande Mano nella pace della quale riposa il mondo armonioso.

Momenti fortunati, che il più umile dei mortali può sperare di condividere in certi giorni. Senza cessare dal percepire il gemito della creazione imperfetta, capita che si approdi a

Ces hauts-lieux d'où Fon voit la figure du monde2a

23 Discours de la Conformile de la foi avec la raison, nella Théodicée.

24 victob hugo, Les Rayons et les Ombres, Caeruleum Mare. [Ma un giorno vedremo la tua opera profonda, o Dio temuto; vedremo svolgersi di mondo in mondo la tua unità].

25 victok Huco, Les Voix intérieures, Pensar, Dudar. [Quei luoghi elevati donde si vede la figura del mondo].

74 ALLE PRESE CON L'AVVERSARIO

e che appaia al cuore la bontà che tutto penetra. A Dio stesso si chiede questo modo di vedere ; è suo e discendendo non può che indebolirsi. Anche il filosofo Boezio diceva: « Quando si ha lo sguardo fissato sulla Provvidenza • che dirige tutte le cose, si cessa di vedere il male padrone del mondo ; lo si vede ovunque svanire » 28.

L'uomo, che ha scritto queste righe, le ha scritte in prigione attendendo la morte. Era più facile a Malebranche impiegare lo stesso metodo, benché sia sempre difficile : « Quando mi do da fare per scoprire qual-checosa della condotta di Dio e dei suoi eterni attributi — scrive l'autore della Recherche de la vérité — non consulto me stesso, dimentico quanto posso tutto ciò che è entrato nella mia coscienza attraverso i sensi, respingo tutti i fantasmi rappresentatimi dall'immaginazione e contemplo con tutta l'attenzione di cui sono capace l'idea vasta e immensa dell'Essere infinitamente perfetto » 27.

Ciò che qui invero occorre è un'intuizione d'insieme, come davanti a un vasto panorama, come sotto l'impressione d'un sentimento comprensivo in cui si riassorbono gli incidenti, gli urti, le supposte ingiustizie, le sofferenze. I piccoli giudizi nel tempo falsano le prospettive. Spinoza, il quale intendeva giudicare sempre sub specie aeterni, in ciò aveva ragione. Tutto si riporta alla grande armonia, e lo stato d'animo felice è quello dell'uomo che si assorbe in questo muto concerto.

Il mondo come oggetto di contemplazione è sublime, una volta comprese le grandi leggi e i grandi fini, di cui ci è dato augurare il regno. E' l'aspetto temporale di questo mondo movimentato che ci turba. Nell'ira sé, come dicono i kantiani, tutto non è che ammirazione e gioia. Non è uno -sforzo bello considerarlo cosi e, a favore della sua trascendente bellezza^ rinunciare a lamentarci? Acconsentendo a ciò, non faremmo che trasferire l'interesse della nostra personalità dove è più elevata, dov'è veramente se stessa.

Già nell'immediato, il dolore e la bruttezza possono essere trasfigurati nella contemplazione estetica, come ha affermato sant'Agostino e come hanno compreso da parte loro Beethoven, Wagner, Nietzsche, Ravaissoh, Marcel Proust, Bergson e molti altri. Quando dalla contemplazione estetica si passa alla contemplazione religiosa e alla concezione del Dio-Amore, allora il riassorbimento e la sublimazione si compiono, e il male invero non è più. Al suo posto invade il cuore del credente l'alta comprensione dell'ordine divino, della felice finalità proposta a ogni anima, del risultato possente e gioioso di tutto il vasto universo. Con attorno alla fronte l'aureola della potenza contemplativa e nella nostra anima la tranquilla ebbrezza che attingiamo alla serenità di Dio, sembra che la creazione ci sia già sottomessa e che le sue pretese sevizie non siano che un'apparenza fuggitiva e un giucco dell'amore.

Il mondo della prova e quello della fine felice sono talmente solidali, all'interno dell'ordine provvidenziale che regge lo stesso presente, che

26 De consolatione, IV, e. II.

27 Réponse a la Dissertation de M. Arnauid, X, § 9,

 

il giudizio su di essi non dev'essere diviso. E' un tutto armonioso, in cui tutti gli elementi testimoniano l'uno per l'altro e tutti per l'insieme. Dio è glorificato in tutto, rappresentato ovunque. « Sotto i disordini e gli antagonismi che agitano questa superficie su cui passano i fenomeni, al fondo, nell'essenziale ed eterna verità, tutto è grazia, amore e armonia » 28. 28 felix ravaisson, La Philosophie franyaise au XIX siede, in fine. 19 Ed. Tourneur, t. II, p. 8, n. 296.

Ai nostri poveri scandali, fa difetto questa visione dell'unità. Uno spirito di contemplazione credente ce ne libererebbe. Ci farebbe sentire, come gli antichi, la Musica dei Mondi e cantare col Poverello sublime il Cantico del Sole.

 

Il Cristo giustifica tutto

 

Abbiam fatto presentire, poco fa, che il supremo ricorso per l’accettazione del male, non sta nella ragione lasciata a essa sola, ma nel mistero dell'Incarnazione. La nostra relativa impotenza, affrontando questo problema, non starebbe nel considerarlo solo rispetto al Dio dei filosofi e dei dotti, come dice Pascal, dimenticando il Dio d'Abramo, di I sacco e di Giacobbe, il Dio di Cesù-Cristo29, cioè il Dio inserito nella storia umana per raddrizzarla, compirla e portarla a fine?

Quando pensiamo al Dio di Gesù-Cristo, al Dio che è Gesù-Cristo, conserviamo ad un tempo il concetto del Dio autentico, che è Amore, e il concetto autentico della creazione nella quale s'immerge e che la sua presenza ci prova essere un'opera d'amore. Amore non mollemente compiacente, ma amore forte, che ad ogni costo vuole il miglior bene di ciò che ama. E se Dio ama anzitutto la creatura ragionevole e il resto a causa di essa, almeno in rapporto ad essa, allora il male universale è giustificato, e il grande Amen dell'Apocalisse è legittimo.

Se il principio del male è l'imperfezione della creatura e se questa imperfezione, essendo congenita, è irrimediabile, lo sforzo di liberazione dal male non poteva essere opera della sola creatura. Bisognava che questa fosse continuamente orientata dallo slancio creatore che spinge tutta la natura verso il bene. L'uomo poteva ricongiungervisi con la sua libertà, ma anche questa è manchevole, appesantita dalla massa degli impedimenti interni ed esterni, che pesano su essa da ogni parte. Occorre dunque, perché non sia vinta, che le provenga una grazia dalla Fonte prima dalla quale viene già tutto il bene che è in essa. La sola ragione non può affermare la realtà di questo soccorso, ma lo chiama, e dove essa si ferma impotente risponde la fede.

Perché il male del mondo sia vinto, occorre che presso qualcuno se ne attui una coscienza integrale, con una volontà di riparazione all'altezza del male e un potere che corrisponda a questa volontà. Questa coscienza integrale dev'essere universale, poiché noi tutti siamo impigliati nel male morale e nel male fisico tutta la natura. La volontà di-

 

 

riparazione a sua volta non può essere che un amore universale del bene, una innocenza perfetta che assume tutte le nostre responsabilità, facendosi « peccato per noi »3030 II Cor., V, 21.

. E infine il potere da mettere in giucco per la riparazione del male come per la ricerca del bene non può essere che un potere umano-divino, cioè capace di disporre, per solidarietà con noi e con i nostri prolungamenti naturali, della materia da espurgare, delle coscienze da riportare all'amicizia beatificante, dalla quale il peccato ci esclude. In breve, occorre qui un'azione che abbia valore di umanità totale, tempo e spazio, e di divinità disponibile. E benché si possano immaginare diverse forme di quest'azione, ce n'è una che realizza tutto con una perfezione senza lacune, è un'Incarnazione redentrice, è il fatto dell'Uomo-Dio Salvatore.

E' egli che attua l'impossibile e necessario legame tra il Creatore e la creatura, e che Io mostra possibile portandolo al suo massimo.

Dio non sarebbe venuto a noi con il Cristo, se con il Cristo non potessimo andare a Dio. Che l'impresa abbia avuto questa forma umana, è segno che è umanamente possibile. Non occorre a ciò che fedeltà e amore.

Maine de Biran ha già osservato che i rapporti tra il Cristo e Dio da una parte, tra il Cristo e noi dall'altra, sono tali che ciò che ci è possibile mediante il Cristo ci è cosi possibile da noi medesimi. « Posso tutto in Colui che mi fortifica » 31. 31 Philip., IV, 13.

 

Il fatto del Cristo giustifica il male universale, non lo spiega. Il mistero rimane, impenetrabile come la nascita del mondo e i rapporti essenziali che lo costituiscono. Ma che Dio possa ad un tempo essere il Dio d'amore manifestatesi in Gesù Cristo e il Dio che permette il male, non può più sembrare incomprensibile. Questo scandalo deve essere accettato dal credente, e allo stesso non credente si presenta come una ipotesi che non ha diritto di disprezzare.

Il male rivela la sua vera natura solo al reattivo della croce. Senza la croce non è possibile isolarlo e conoscerlo; sciupa tutto e alla fine non significa niente, a meno che non significhi l'orrore e l'assurdo.

Non dimentichiamo che la croce è contemporanea della creazione. Nell'unità del piano creatore e nell'eternità di Dio, la croce costituisce la pietra d'angolo. Senza di essa non si concepisce niente ne si giustifica. Ma c'è la croce a porre il sigillo, a dare il senso, ad apportare l'ultima giustificazione. Il Creatore, mescolandosi di persona alla sua opera e soffrendo, ci dimostra la necessità di soffrire, essendo dato il resto dell'opera, per il successo di quest'opera. E poiché il successo di cui si parla è gioia, ci è dimostrato col fatto che la sofferenza è fonte di gioia e che unirvisi con una saggezza amorosa apporta agli uomini

La certitude heureuse et l'espoir confiant32. 32 alfred de vign», Le Mont des Oliviers. [La certezza felice e la speranza fidente],

Gesù Cristo ha provato tutto il peso dell'universo di cui ci lamentiamo; ha esaurito il dolore in tutte le sue forme; ha subito la morte; ha fatto esperienza della mediocrità e delle bassezze dell'esistenza fisica, delle relazioni esterne, delle amicizie, quando De la vie avec l'homme il partageait Penimi33. 33 Io., La Femme Adultere [condividerà con l'uomo la noia della vita].

 

Ha avuto fame e sete; ha sudato lavorando con le sue mani; al Getsemani ha sanguinato, e cosi al Pretorio, sul Calvario; è stato abbandonato dai suoi, abbandonato anche dal Padre, dopo l'insuccesso d'una vita che l'umanità doveva penosamente ricominciare. Si direbbe che abbia voluto bere a tutte le vene della creazione l'amarezza ch'esse contengono, perché si possa dire mostrandolo come Filato: Ecco l’uomo! 34 34 Giov-, XIX, 5.E ancor meglio : Ecco la creazione di cui vi lamentate e che Dio stesso assume proponendovela, affinchè sappiate che è buona e che dopo aver sofferto e subito l'umiliazione si risuscita per una felicità senza fine.

Questo mistero non dimostra sovrabbondantemente il valore dell'iniziativa soprannaturale e le ragioni per le quali Dio permette il male? E' attraverso il Cristo che il cristiano più semplice può elevarsi alla concezione dell'ordine eterno, di cui il bene è la regola e il male è solo la triste condizione. « II Verbo si è fatto carne, dice sant'Agostino, affinchè la vostra Saggezza, o Dio, con la quale avete tutto creilo, diventasse il latte della nostra infanzia » 35. 35 Confessioni, VII, C. XVIIL

Saggezza di Dio!, manifestata in Gallica in quelle chiare parabole

Où le Maitre abaissé jusqu'au sens des hnmains Faisait toucher le ciel aux plus petites mains *.* [Nelle quali il Maestro abbassandosi al senso degli umani faceva toccare il ciclo alle mani più piccole].

Senza Gesù Cristo come testimone ad un tempo del dolore umano e dei suoi frutti, del suo significato spirituale e delle sue grazie, le nostre speranze teoriche e le consolazioni che ci si rivolge in nome della stessa fede, in nome dell'altra vita e dell'affermazione paolina : « Le sofferenze di questo tempo non sono paragonabili con la gloria che deve manifestarsi in noi »38 36 Rom., Vili, 18.rischierebbero di rimanere lettera morta, di sembrarci persino una spaventosa ironia. Poiché alla fine siffatta preparazione alla .felicità, predisposta da un Dio buono e onnipotente, resta nonostante tutto un mistero terribile. Ci è caro allora sapere che uno di noi, il •quale era in relazione personale con il Mistero supremo ne ha portato la testimonianza nella carne, ha accettato di subirne gli orrori, per meglio mostrarcene il carattere benevolo con la sua resurrezione succeduta alla .sua croce.

Compagno di dolore e conduttore verso la vita etema, tale è il Cristo consolatorc. E questa doppia qualità costituisce una coppia, che gli è essenziale. Solo un consolatorc umano pronto ad assomigliargli può rappresentarlo efficacemente accanto a noi. E' un insegnamento, o fratelli nel sacerdozio e nell'apostolato !

Quando la ragione è ridotta a tacere davanti all'eccesso del male, il Cristo può parlare.

Grazie al Cristo, l'amore di Dio per la sua creatura non è più una conclusione filosofica o teologica derivata da principi astratti, è un .fatto d'esperienza. « .Dio ha tanto amato il mondo che ha dato per esso il suo unico Figlio » 3737 Giov., m, 10..

Dio, Padre del Cristo sofferente può essere altresì il Padre del mondo. Colui che acconsente a subire le pretese anomalie di questo mondo può altresì averle istituite.

Come credere che Dio sia crudele o indifferente alla sofferenza degli uomini se ha scelto, per mostrarsi agli uomini, il viso del Crocifisso?

Dopo questo mezzo eroico per convincerci, che bisogno c'è di darci —ragioni e quali diritto abbiamo di esigerle? L'Eterno dell'Antica Legge-atterra il suo servo Giobbe con il solo spiegare al suo sguardo la propria opera cosmica: la grande opera che si chiama Incarnazione e Redenzione sarà meno potente su noi?

Dio sceglie di soffrire in Gesù Cristo come per farsi perdonare di

-abbandonarci alla sofferenza. Si fa Redentore per scusarsi d'essere stato

Creatore di una natura cosi facilmente peccatrice e punita. Si getta nell'abisso dei mali in cui ci ha immerso.

Noi siamo i peccatori, egli ne porta le conseguenze. I nostri peccati :sono i suoi ed egli li espia. Vive e muore per essi. A causa di essi

ansima sui nostri cammini. Freme sull'orlo delle nostre tombe38 38 Marco, XIV, 33-34.e teme

• disperatamente la propria39 39 ( Giov., XI, 33.). Urla, se si osa dire, il suo ultimo respiro, non l'ultimo, è vero, ma quello che lo precede e che è l'ultimo della sua prova : « Dio mio. Dio mio, perché mi hai abbandonato » 40. 40 Matteo, XXVII, 46.Soffre cosi fino al dubbio orribile che uccide la nostra speranza:

Car il ne lui restait que le doute a souffrir, Cette nuit de l'esprit qui doit aussi mourir41. 41 lamartine, Harnwnies poetigues, IV, Novissima verba. [Poiché non gli restava •da soffrire che il dubbio, quella notte dello spirito che deve pure morire].

Gesù ha dovuto mangiare intero il pane del dolore, di cui noi rifiutiamo le briciole.

O Gesù, la vostra croce sarebbe una sfida alla bellezza del mondo, il vostro dolore alla sua gioia? Quanti incoscienti lo pretendono! Per noi, voi aggiungete alla gioia umana e alla bellezza universale la suprema bellezza dell'amore, rispetto al quale niente vale.

Lo stesso Schopenhauer oppone al saggio razionalista, stoico o altro, automa spirituale costruito in nome d'un fatto arbitrario, irreale e cosi senza autentica poesia, un « Cristo salvatore, figura ideale, esuberante di vita, di cosi ampia bellezza poetica e di cosi alto significato, e che tuttavia, malgrado la sua perfetta virtù, la sua santità, la sua altezza morale, vediamo esposto alle sofferenze più crudeli»42. 42 II mondo come volontà e rappresentazione, 1. I, in fine.

Il Dio incarnato non teme più la sua sofferenza che la nostra. La teme ancor molto meno, poiché è dottrina costante che, a motivo dei caratteri e delle circostanze della sua umanità, egli ha dovuto soffrire tìsicamente e soprattutto moralmente incomparabilmente più di noi tutti. _ La sofferenza del Cristo non è stata una sofferenza nobile, consolante-e gloriosa, bensì ignominiosa, disperata, bassa come quella degli schiavi. Si è trattato di una sofferenza penale, essendo Gesù stato fatto peccato per noi 43. 43 II Cor., V, 21.

Spesso si parla dell'Albero della croce con allusione al Paradiso terrestre, e vi sono molte ragioni per parlare cosi. Ma non bisogna dimenticare che la croce è un palo sinistro, senza fiori ne frutti, senza fogliame protettore e senz'ombra propizia. Essere « alzato da terra »44 44 Giov., XII, 32.

in questo modo non mette al riparo. La nudità del patibolo risponde a quella dell'impiccato. L'una e l'altra non sono che vergogna e dolore.

Gesù si è degnato di accogliere la sofferenza alla maniera degli uomini che la temono e non degli eroi, che egli stesso ispirerà. Ha voluto misericordiosamente allontanare il calice prima di berlo. Cosi potrebbe presentarcelo con più comprensione e dolcezza.

Il Cristo basta a giustificare il mondo, e il peccato, e il dolore, e la morte, e tutto. Tutto è bene, poiché Egli è. E perché Egli fosse e fosse ciò che è, bisognava che tutto fosse e che tutto fosse ciò che è.

Il pagano, quando soffre, crede volentieri che il suo dio lo abbandona. Ricordandosi del Calvario, il cristiano pensa che il suo Dio è più vicino a lui, che il suo Dio lo trascina per la mano, per la nuca, per i capelli, che importa? Riconosce il Maestro da questa spieiata dolcezza.

A partire dalla grande notte di Betlemme, « le nostre tenebre sono sul punto di partorire stelle » '".45 paul claudel, Sept grandes odes.

Col suo amore il Cristo ha messo fuoco alla terra, come aveva promesso 46. 46 Luca, XII, 49.Il fuoco adesso cova, di tanto in tanto manifestato da grandi splendori nelle grandi anime; ma un giorno fiammeggerà tutta la creazione, e il vasto slancio della vita avrà in esso il suo termine.

La miseria universale e la gioia universale si concentrano nella sua miseria e nella sua gioia, e cosi si deve vedere il mattino trionfale del terzo giorno come una vittoria universale.

I Faraoni hanno tentato di rendere immortale la morte nelle loro piramidi e nei loro ipogei. Il Cristo è venuto a ucciderla e ha reso immortale la vita.

La manifestazione di questa vittoria è si differita, ma per il suo arricchimento e per consentire a nuove moltitudini di aggregarvisi di età in età, fino alla fine dei tempi. Allora avrà luogo la manifestazione. E' ciò che san Paolo esprime dicendo : « La vostra vita è nascosta col Cristo m Dio. Quando il Cristo, la vostra vita, apparirà, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria » 47. 47 Coloss., Il, 4.

 

 

IV

IL MALE NELLA NATURA

 

. Nei capitoli precedenti abbiam detto tutto, e potremmo chiudere il discorso. Parlando del male secondo la generalità del suo concetto, l'abbiamo guardato dall'alto, sorvolando i suoi domini e astenendoci d'atterrare su qualcuno di essi, per timore di perdere di vista l'insieme. Tuttavia bisogna venire al particolare, poiché la luce e le ombre in esso hanno i loro domicili preferiti e alla fine è il concreto che giudica.

Per procedere ancora una volta dal generale al particolare, dobbiamo studiare, prima della vita umana, che naturalmente sarà il nostro principale oggetto, l'ambiente in cui essa si muove, ambiente congiunto e che già la comprende, ma anche la supera, cioè la natura.

Ciò che chiamiamo con questo nome si suddivide in differenti regni,. che non cadono ex aequo sotto la nostra presente considerazione. I nostri fratelli inferiori, come diciamo parlando degli animali, hanno indubbiamente diritto alla nostra speciale attenzione, soprattutto se è esatto che noi siamo della loro stirpe, parvenus, ad opera di Dio è vero, dalla grande famiglia dei viventi, di cui i vegetali stessi fanno parte umilmente e cosi magnificamente.

Non trascureremo questa gerarchia. Ma del resto anzitutto c'importa l'insieme della natura, e almeno quanto all'apparenza la sostanza morta che ne costituisce il fondo. La vita diffusa del globo non è stata definita:

una muffa su una roccia? Per poco esatta che possa essere tale definizione, la materia sussiste, e sarebbe scorretto escluderla dai domini del male.

Anche le creature insensibili avendo una loro natura hanno un loro destino. Se per se stesse sono insensibili, osserva Leibniz, Dio è sensibile per esse, e sappiamo che il bene dell'universo è un'integrazione, che tutti gli ordini del bene si sostengono l'un l'altro e concorrono alla perfezione l'uno dell'altro; che la vita umana in particolare dipende in molte cose» e anche moralmente, dalle disposizioni favorevoli o ostili della natura-ambiente, in tutti i suoi regni e in tutte le sue evoluzioni.

Ciò che chiamiamo i disordini della natura riguarda più spesso le sofferenze e le molestie che la natura ci infligge, e il problema del male allora si trova ricondotto dalla natura all'uomo. Ma per il filosofo non è cosi. Dal momento che si riconoscono, dicevamo, esseri naturali aventi una propria essenza, si deve riconoscere loro una specie di destino, che può essere favorito o turbato, uno stato di fatto normale o no, che in quest'ultimo caso ha il carattere d'un male.

Ciò è vero soprattutto per gli esseri viventi, ma non è questa una ragione per disconoscerlo là dove le condizioni sono analoghe, se non simili. In un certo modo tutto vive. Nelle stesse sostanze inorganiche c'è un'attività analoga a quella della vita, benché non assuma la forma cellulare o protoplasmica propria dell'organismo vegetale o animale. Non ne sono un segno sorprendente i cristalli, che in qualche modo si nutrono e si rigenerano da sé nella loro soluzione, come i tessuti animali nel sangue? I metalli e le loro leghe sono sede d'attività, che lord Kelvin ha interpretato come fenomeni biologici, fino a parlare di invecchiamento, di fatica, di difesa contro i fenomeni morbosi di cui sono teatro. Gerolamo Cardano ha fatto le stesse osservazioni sulle pietre preziose. Attribuisce loro una lenta morte, che ritiene non esente da sofferenza. Tutto muore, e tra un acido che intacca il ferro e un lupo che divora una pecora la differenza non è poi tanto essenziale.

In maniera generale, c'è una concezione quasi biologica della natura che noi crediamo la vera. Se su questo punto Descartes suppone ad Aristotele in nome del suo spirito matematico e della sua materia pura «stensione, non è forse un bene; Lachelier lo Biasimava per ciò, nonostante i rilevanti vantaggi per ciò che concerne la scienza sperimentale,

Nonostante il sistema professato, nessuno si rifiuterà di ammettere che le alterazioni d'ogni specie alle quali è soggetta la natura delle cose,_ le difformità, i cataclismi, i mostri rivestono il carattere d'un male per i soggetti o gli insiemi armoniosi che essi colpiscono. C'è male ovunque c'è bene. C'è bene ovunque v'è finalità, ricerca d'un risultato, d'un •equilibrio di elementi, d'una struttura definita. Un essere non è appunto ciò?

Anche gli antichi dicevano che l'essere, l'uno e il bene coincidono. Chiunque produce qualche cosa di definito attua un bene. Chiunque lo distrugge causa un male opposto a questo bene. Ciò basta per affermare che la natura è piena di mali, per il fatto che è piena di beni, che possono essere alterati dal suo stesso funzionamento.

 

Uno sguardo troppo umano

 

Il nostro primo sguardo sulla natura è quasi sempre antropomorfico, influenzato com'è dal nostro interesse vitale, diciamo dal nostro egoismo istintivo. Abbiamo già rilevato questa tendenza a chiamare cattivo ciò che mette in pericolo il nostro interesse o le nostre comodità, e a maggior ragione la nostra vita. Per questo è accaduto che anche pensatori, come Swedenborg, abbiano considerato gli esseri nocivi all'uomo : tigri, serpenti, coccodrilli, insetti noiosi o dannosi, piante velenose o veleni minerali come estranei alla prima creazione divina, «provenuti dall'inferno»,

piuttosto, o effetti del peccato originale.

Quest'ultimo teorico non arriva al punto di attribuire agli animali e alle piante una specie di libero arbitrio, col quale possono volgere al male e diventare nocivi, le piante velenose ad esempio utilizzando le radiazioni solari per comporre tossine anziché sostanze benefiche o nutritive?

Simili fantasticherie non dovrebbero avere presa su uno spirito serio. Il bene e il male della natura non devono essere considerati dapprima quod nos, ma in loro stessi. La « sporca pulce » o l'« ignobile ragno », lo scorpione e il serpente sono in sé creature mirabili, e il loro rapporto con noi viene naturalmente in considerazione a suo luogo, ma non deve impedirci di considerare il bene loro proprio come quello di tutti gli •esseri, e cosi il male che gli corrisponde.

Gli eroi primitivi, come Ercole, volevano liberare la terra dai mostri dannosi, e sotto questo riguardo avevano ragione. Oggi invece si protegge la razza dei mostri minacciati di estinzione, poiché si riconosce, con il male che provocano, il loro valore nella scala della creazione.

 

Due aspetti della natura

 

Posto ciò, gettiamo sulla natura uno sguardo d'insieme e chiediamoci, dal punto di vista del nostro problema, quale spettacolo ci offre.

Possono essere disegnati due quadri ben diversi. Nei poeti, la cui testimonianza su questo punto è più sorprendente, questi due quadri s'oppongono senza cercare di conciliarsi ; entrambi sono assoluti nel loro senso. E' l'orrore; è l'estasi. E' lo stordimento nell'ammirazione, ed è la mano che copre gli occhi per non più vedere.

Non è difficile immaginare l'idillio e la grandezza può sfuggire solo alle anime basse. « II fiorito lavoro della campagna », come dice Rimbaud, non seduce, non rapisce? La prateria e i campi, che sanno tanti poemi, ce li smerciano di stagione in stagione, e ci incantano.

Inutile guardare il cielo : un fiore vale una stella. Un amore attonito può nascere a ogni svolta nel parco familiare in cui tutto è sulla nostra misura, dove basta un'alba ancora dormiente, un tramonto o un riflesso di luna su una betulla per provocare la nostra emozione. E tutto ciò che passa in noi di questa multiforme realtà in un istante di sogno, non è come un volo intcriore di nubi e di uccelli?

Com'è bella una natura benevola riflessa in un'anima d'uomo!

Se ci si trova in questo stato d'animo, gli aspetti terribili della creazione non ci danno più un'impressione di pessimismo, ma di grandezza.

Mi ricordo d'una tempesta in un mattino di primavera a Biarritz. Sotto un sole raggiante ondate gigantesche scalavano le muraglie rocciose con una violenza terrificante e splendida : l'Eroica eseguita dall'oceano incollerito. Era bello. Ma sulla linea dell'orizzonte, laggiù, forse un povero guscio di noce lottava disperatamente contro le onde. E se la mente si volgeva ad esso, i furori del mare non potevano non richiamare al pensiero un altro aspetto delle cose: ricordo dei cataclismi che in tempi successivi hanno sconvolto il nostro globo, ribaltato continenti abitati e. di un rigoglio di vita fatto vaste necropoli.

La natura fa e disfa; costruisce per la rovina'e trionfa per il disastro-Quando ha pazientemente edificato una architettura meravigliosa, dice; adesso, rovina!, e non resta più niente di ciò che aveva innalzato.

Ma soprattutto nel dominio della vita si mostra il lato ambiguo e terribile della natura. L'assassinio è il suo unico mezzo d'esistenza. La « mer mélée au soleil » di Rimbaud copre combattimenti, il cui pensiero fa fremere. Fendendo l'aria, il caprimulgo assorbe migliala d'esistenze e il bue, col suo passo tranquillo, ne schiaccia altre migliaio. Nella pace delle foreste s'accumulano montagne di resti per la nascita di nuovi rami e la belva tende l'agguato per il nutrimento dei suoi piccoli.

Sarebbe a non finire l'evocazione di tutti gli esseri costretti dalla fame o dalla voce della specie ad assalirsi o a divorarsi tranquillamente, cosi come si scambiano servizi. Poeticamente diciamo : Dio da il nutrimento ai piccoli degli uccelli. Ma quale nutrimento? Vermi palpitanti, E l'astore spia questi piccoli sazi e cantanti. L'animale da preda è un baratro che si aggira malintenzionato. E quale animale non è predatore? Il sangue della pecora è come latte nel corpo del lupacchiotto; ma anche per l'agnello mille incantevoli fiori son dovuti scomparire, e montoni furiosi hanno cercato di sfondarsi il cranio alla presenza di una femmina dal dolce vello.

Generalizzate e componete un quadro d'insieme. Il tempo : una metamorfosi a base di distruzione permanente. Lo spazio : una strage infinita. E' senza dubbio questo spettacolo che ha ispirato alle religioni primitive l'idea di divinità truci, ad un tempo capricciose e assetate di sangue.

Allora, ci si rivolta e si dice, ricordandosi degli entusiasmi di ieri:

La nature trahit nos yeux par ses merveilles2. 2 lamartine, Harmonies poétiques. III, Le tombeau d'une mère. [La natura tradisce i nostri occhi con le sue meraviglie].

Ci si illudeva. Tutti questi esseri lanciati loro malgrado all'assalto gli uni degli altri; tutti questi denti che sono zanne; tutti questi ventri che sono voragini; ovunque la fame torturante, e ovunque pure a lato dell'amore la morte che spia : questo era il nostro idillio ! In questa campagna percorsa sognando, la minaccia è ovunque e ovunque la pace trema. Angelus della sera, chi sei? Lugubre rintocco che pretende a essere un richiamo alla pace di ogni creatura! E' il tuo Signore che ha detto : Amatevi gli uni gli altri33 Giov., XV, 12, 14.

. Ma precedentemente il Creatore non aveva detto ai rappresentanti di tutta la gerarchia vivente : Mangiatevi gli uni gli altri? Ed è per sua disposizione — o Provvidenza! — che l'erba mangia il minerale sotto la terra, l'animale mangia l'erba e sarà un giorno la preda del suo simile o quella degli uomini. Tutto cosi è battaglia sotto i cieli.

 

Lucrezio, come si è visto, si è compiaciuto di descrivere questi spettacoli, e ne ha concluso che la natura non potrebbe essere opera degli dei. Molti lo hanno seguito e si sono elevati, in nome di tutto questo male, contro la Provvidenza. Il cristiano che dirà? Chi ha ragione, san Francesco che intona il Cantico delle creature o Schopenhauer che vede il mondo in preda a una volontà di male?

 

Ancora il peccato originale

Ci si ricordava poco fa il peccato originale, e abbiamo visto Renouvier far risalire a questo punto di caduta divenuto punto di partenza tutto -ciò che, nella natura, ci offende. I Padri della Chiesa, senza cadere in questi eccessi assurdi, hanno creduto spesso a una responsabilità della creatura ragionevole in tutto questo male che la circonda e la minaccia. Jn questo caso, quando sparliamo della natura, avremmo motivo di riportare su noi stessi i rimproveri che le facciamo.

Che pensare? — Rinunciamo a enumerare qui un parere che sarebbe necessariamente incerto. La natura è ciò che è : splendida e crudele, miracolosa di potenza e di ingegno, e con ciò disdegnosa di ciò che fa, distruttrice quanto sapiente architetto. Meglio partire da qui per «cercare di comprendere. Dopo tutto, il peccato originale è cosa passata.

 

L'argomento della bellezza

Riconsideriamo le lamentele enunciate, le testimonianze d'ammirazione proclamate a gran voce dalle due parti, e cerchiamo di fare il punto, se siffatta pretesa non è tracotante.

Anzitutto, la bellezza della natura, che nessuno contesta, non è un argomento valido in favore della sua bontà essenziale e del risultato sfavorevole, che ci si può aspettare dal suo lavoro? La bellezza è una risultante. Essa testimonia di un'armonia interiore, che a sua volta fa presagire fini felici. Il bello e il bene sono fratelli. Quando sono separati, è a motivo di deviazioni accidentali che coprono ma non aboliscono il senso profondo delle cose e la tendenza dell'armonioso verso il benefico, di cui Ravaisson ci ha dato con convincente fervore la teoria: Homme, ne craihs rien; la nature Sait le grand secret et sourit4. 4 V. Huco, Les Rayons et les Ombres, Spectacle rassurant. tUomo, non temere nulla; la natura sa il gran segreto e sorride].

 

Questo sorriso della natura, non è la sua bellezza? Avvertimento •segreto, destinato a prevenire il nostro errore,e a calmare i nostri timori. Ciò che è di aspetto incantevole e esaltante non può essere cattivo nel suo germe. E' felice lo slancio che si manifesta in forme belle e in ritmi seducenti. E qui sono forse le realtà più modeste che hanno più significato poiché non vi si scopre nessuna ostentazione. Una margheritina vi è più eloquente d'una costellazione. Più vicina alle sorgenti che ci sono accessibili, la realtà umile le discopre meglio, dopo che i grandi splendori — potenza degli oceani, bellezza del cielo, silenzio commovente delle montagne — ci hanno aperto ai veri sentimenti. Bisogna cadere dall'alto sulle cose più umili per giudicare la grandezza della loro semplicità. La grande semplicità estetica è la verità ed è la bontà promessa.

Inoltre, è ovunque, nel grande e nel piccolo, che s'impone la stessa legge. Perché la natura canta negli uccelli e saltella con i capretti e le gazzelle, e perché prorompe in petali nei boschetti e nel cielo in astri cosi calmi, se ovunque non respira che orrore? La natura è fondamentalmente gioia ; solo accidentalmente è dolore e morte. Lo sentiamo quando il nostro sogno, approfondendosi e sorpassando la zona delle laidezze, dei difetti e delle minacce, ritiene di essere veramente in contatto con il reale. Ciò che allora domina, è il sentimento della pace-e della fiducia. La meraviglia, nel senso forte della parola è ciò che resta di quanto ci aveva terrificati.

 

I difetti della natura

Parliamo di difetti: è la prima forma del male nel lavorio sorprendente della natura. Si possono scorgere ovunque queste deviazioni dello slancio creatore, che sono come i peccati della materia, i suoi scarti, talvolta le sue mostruosità. Non bisogna però dimenticare, e tanto meno misconoscere, che in ciò più che altrove si manifesta Io sforzo iniziale,. che non ha potuto mantenersi fino in fondo.

Geoffroy Saint-Hilaire si è dedicato su questo punto ad analisi penetranti, mettendo in rilievo che un'attività di compensazione è subito iniziata dallo slancio vitale a partire dal momento che l'attività normale è turbata in un punto. Si tratta di ristabilire l'equilibrio, di utilizzare nel miglior modo l'accidente deformatore per mezzo di ciò che lo scienziato chiama un « equilibrio degli organi ». Quali prodigi la natura compie in questo senso.

Ci si ricorda la boutade di quel predicatore, il quale, avendo dichiarato nel suo sermone che la Provvidenza fa bene ogni cosa/vede arrivare in sagrestia un gobbo che gli chiede: «E io? — Voi, amico mio, come gobbo siete assai ben fatto ». La facezia va assai più lontano che non si creda. Una colonna vertebrale deviata potrebbe essere un accidente-mortale. Il male è stato arrestato, stabilizzato in virtù di quella idea, direttrice della vita di cui Claude Bernard ha cantato le lodi.

E' la stessa possibilità dell'accidente, osserva un pensatore, che costituisce la perfezione della macchina vivente. « Se l'occhio fosse costruito come uno strumento di ottica meccanica, non potrebbe funzionare; se-la circolazione fosse regolata come un orologio, sarebbe presto guasta » s- Pensées. Gennain Baillière, 1937.

 

Ciò che si chiama imperfezione è qui elasticità, prontezza d'adattamento ed è uno dei segreti più felici della natura. « Se la natura si adatta presto al mostruoso, osservano in comune Paul Vignori e Cuénot "* ltjcien cuenot, Invention et finalité en biologie, p. 145., si è che le sue leggi generali vi sono soddisfatte quanto altrove; si è che la possibilità di questi falliti è indispensabile al suo stesso funzionamento normale ».

Basta un po' di riflessione, per rendersi conto che una meccanica precisa, funzionante micrometricamente come occorrerebbe, non potrebbe prestarsi agli scambi infinitamente complessi di attività donde risulta la vita, neppure potrebbe derivarne. Cosi è solo per boutade che uno scienziato ha potuto dire : « Se il mio ottico mi portasse uno strumento d'ottica costruito come un occhio, non lo accetterei ». Presa alla lettera, l'affermazione è fondata; ma l'intenzione critica sottintesa è assurda.

C'è sempre l'argomento dell'onnipotenza di Dio, che, si dice, avrebbe potuto accomodare tutto, eliminare l'accidente e mantenere il beneficio. Ma abbiamo già risposto con Bergson che l'onnipotenza non include il contradditorio; che le grandi leggi costruttive del mondo, per pervenire alla ricchezza di combinazioni che era nel piano creatore, dovevano avere abbastanza giucco per permettere interferenze produttrici di approssimazioni, di difformità locali, persino di mostri. Di modo che queste irregolarità, questi scacchi della finalità creatrice non sono disordini rispetto al tutto. Sono il risultato di leggi generali, che si applicano favorevolmente cosi com'è possibile nell'insieme, soprattutto se si tiene presente l'ipotesi dell'evoluzione. Non è attraverso ogni specie di circostanze accidentali che le vie della potenza creatrice hanno probabilità di incontrare felici invenzioni e fruttuosi progressi?

A questo riguardo e a questo livello di generalità, che si deve considerare se si vuole pronunciare un giudizio equo, Andre Suarès ha ragione di dire : « Tutti i mostri sono nella natura. Tutti i cancri sono forze sane per le cellule del tumore. La contro-natura è natura come il resto. E tutto è legittimo e giustificato da Dio. Poiché tutto è in Dio e da lui » 7. 7 Valews, p. 344.

 

I cataclismi

Si vogliono rimproverare alla natura le sue rivoluzioni, che periodi-camente provocano sconvolgimenti e cataclismi? Inondazioni, terremoti, inghiottimento d'isole, progresso di ghiacciai, diluvi, che hanno lasciato nella storia tante tracce del loro terrore : ci lamentiamo di ciò quando ne soffriamo; poemi lamentosi come quello di Voltaire sul terremoto di Lisbona sono l'eco di queste lagnanze. Ma non è proprio a queste rivoluzioni e alla loro successione nel corso delle ere geologiche che dobbiamo l'attuale equilibrio del nostro habitat e le possibilità di vita e di civiltà che ci offre? Il principio di distruzione è ovunque correlativo al principio di costruzione. E' vero dei continenti, dei siti e degli habitat umani come degli individui viventi che la morte dell'uno è la generazione dell'altro. Di modo che lamentandoci perché la natura si muove e muovendosi ci scompiglia, ci lamentiamo semplicemente d'esistere.

E' penoso sotto più d'un aspetto constatare che questa mirabile « macchina tonda », oggetto di una forma d'adorazione da parte di coloro che la osservano — si pensi a Pietro Termier, a Humboldt, a Buffon — sembra occupata, di età in età, solo a combattere la propria bellezza. Ma il fatto è che essa ne ha di ricambio; che le innovazioni cosi effettuate, in continuazione coll'impastamento primitivo del nostro pianeta, del nostro sistema solare, della nostra galassia, del sistema sconosciuto di cui fa parte lo sciame delle nebulose spirali, sono il mezzo per lo schiudersi della nostra umanità e di quella di tutti i mondi.

Se sapessimo vedere in grande, saremmo meravigliati di questo lavoro, anche se un giorno dovesse colpirci. Lo stato d'instabilità nel quale ci mantiene è la condizione generale della vita del tempo. Chiediamo che si sopprima il tempo? Si, sogniamo l'eternità, la stabilità, la sicurezza; ma è un bene che di tanto in tanto la terra scossa ci avverta che non < ancora il momento.

 

La strage

 

Ciò che poco fa ci spaventava non era tanto la constatazione dei

•disordini particolari, dei difetti, degli accidenti, quanto quella della strage terribile istituita come legge della vita, della carneficina generalizzata, <lella morte signora universale.

Le destili dévorant, sourd comme l'onde amère, Engloutit en son temps toute chose éphémère8.

Questa è la legge del tutto, e per la nostra sensibilità la sua applicazione al mondo vivente è una prova difficilmente sopportabile, una volta scortala chiaramente.

Ciò è tanto più vero in quanto il dominio cui si applica questa legge è smisuratamente esteso, in tutte le direzioni della nostra dimora. Si direbbe che l'intero globo vibri e palpiti sotto l'irraggiamento del sole. « La natura è piena d'anima » diceva Aristotele e c'è proprio come un'anima della terra, per il fatto che questi milioni di specie e questi innumerevoli viventi che sul suolo e nelle sue profondità, nei mari, nell'aria, negli stessi tessuti delle piante e degli animali pullulano, soffrono e muoiono, si nutrorio gli uni degli altri con un'innocenza spaventosa.

Quando i poeti parlano di questo spettacolo, Io fanno ora con una brutalità di esseri offesi, ora con un'ironia crudele.

Chaque vivante promène, écrit sur sa macboire, L'arrét de inort d'un autre exigé par sa faim,

8 leconte de lisle, Poèmes an.tiqu.es, Khiron. [Il destino divoratore, sordo come Fonda amare inghiotte nel suo tempo ogni cosa effìmera].

dice Sully Prudhomme ". 9 Destina. [Ogni vivente porta attorno, scritto sulla mascella, la sentenza di morte d'un altro richiesta dalla sua fame].

E Hugo, beffardo: La vie est une joie où le meurtre fourmille, Et la création se dévore en famille10. x0 La Legende des Siecles, L'epopèe du ver. [La vita è una gioia in cui l'assassinio brulica e la creazione si divora in famiglia].

Tuttavia bisogna considerare ragionevolmente, se non freddamente, questa condizione della natura, che si ricongiunge alle nostre considerazioni anteriori con nessi, di cui dobbiamo sottolineare l'evidenza.

Per ciò che con cerne la natura generale, siamo fissati. Le gerarchie dell'essere, in accordo con le finalità prime della creazione; le diversità, madri di ineluttabili opposizioni; i dinamismi misurati dal tempo —, tempo astrale per l'insieme, tempo proprio a ciascun mobile vivente o insensibile —, ciò preso nel suo tutto e nell'evoluzione secolare di questo tutto, non può dar luogo ad altro universo che a quello che ci abbaglia e nello stesso tempo ci offende. Bisogna decidersi sulla base di ciò che è, cui nessun pensiero saprebbe sostituire niente di valido.

Ma è certo che venendo al concreto, soprattutto nel dominio della vita che ci tocca da vicino e mette in guardia la nostra sensibilità, come una corda vibrante ne eccita subito un'altra, è difficile acquietarsi dopo aver abbracciato l'ampiezza del male, delle stragi della morte.

Tuttavia c'è una verità che, una volta constatata, diminuisce lo scandalo, orientando la mente verso i fini realmente considerati da questa natura apparentemente crudele. .Tutto tende solo alla_vita. Nessuna attività della natura ha la minima intenzione distruggitrice. Essa cammina; ma il calpestamento dell'erba d'un sentiero è nelle intenzioni di chi cammina? Un universo in cui tutto muore è pure un universo in cui tutto nasce. Su tutta la distesa del pianeta, la morte non fa che alimentare la vita.

Si dirà al contrario che la vita non serve che ad approvvigionare la morte? Lo si dice; ma è un capovolgimento dei fini, e il filosofo protesta. La morte è un risultato ; ma la vita è una tendenza, ed è altra cosa. « La natura s'interessa a tutto ad un tempo, scrive Lachelier. Vuole la conservazione del montone in quanto s'interessa del montone, e che il lupo mangi il montone in quanto s'interessa del lupo » ". 11 Cfr. gabriel seailles, La philosophie de Jules Lachelier, p. 133.E l'unità di ciò? L'ordine, e l'ordine dell'avvenire è il progresso. Niente tende alla morte.

Tonte sa prévoyance est pour ce qui va naitre, dice della natura l'Ackermann 1212 Poèmes philosophiques, IV, IIL [La sua previdenza è tutta per ciò che deve nascere].. Il suo anno è lungo ; essa può seppellire tante cose quante sono necessarie per liberare il suolo e fecondarlo in vista della prossima stagione. Indifferente al passato come tale, la si vede distendersi nel presente e dispensare in favore dell'avvenire il suo fuoco segreto. Per opera sua, il più piccolo filo d'erba si slancia come se dovesse trapassare il cielo. La vita ardente e la morte impassibile fanno parte entrambe del suo vigore creatore. Il punto morto della biella costituisce una fase del suo movimento, e il nodo di vibrazione d'una corda sonora è pure vibrazione. Cosi la vita e la morte integrano quasi indifferentemente la grande vita della natura.

E' per questo, forse, che presso i popoli in cui l'idea della sopravvivenza era debole, si scolpivano sui sarcofagi immagini di vita ardente e di generazione. Si ristabiliva cosi nel pensiero la continuità umana, la sintesi che tendeva a distruggere l'impressione troppo viva della morte.

Continuità, unità, attraverso cadute e raddrizzamenti: questo è il ritmo alterno con sistole e diastole, inspirazione ed espirazione nella colata della vita. L'uomo alla sera s'addormenta tranquillamente, dopo aver provveduto al proprio domani : l'insetto, l'uccello muoiono dopo aver organizzato il dischiudimento delle loro uova e dei loro piccoli per la stagione successiva.

L'aloe d'America, che può diventare centenario, perisce inevitabilmente entro l’anno, se ha fruttificato. La farfalla, dopo l'amore, perde le ali e la vita l'abbandona. Alcune specie di ortotteri sono sacrificati dalle loro femmine nel corso del congiungimento, e tutti s'affannano a preparare il nido e il coperto alla loro progenitura, che spesso non vedranno.

Ogni creatura vivente aspira alla propria morte, dice Leonardo da Vinci. Intende che aspira a sopravvivere a se stessa, alla sopravvivenza in un altro alla quale è congiunta la necessità della morte. Sacrificio spontaneo, benché non volontario; sacrificio che è implicato nello stesso slancio vitale, poiché questo passa di germe in germe, l'individuo essendo tra i due solo una manifestazione transitoria:

La fieur des champs entr'ouverte a l'aurore Voyant sur la pelouse une autre fleur éclore, S'inclino sans munnure et tombe avec la nuit13. 13 alfred de musset, La nuit S'ao&t. [Il fiore dei campi socchiuso all'aurora vedendo sul prato dischiudersi un altro fiore, si piega silenzioso e cade con la notte].

 

La morte dell'animale o del vegetale è decisa nel momento Stesso della sua nascita, l'una e l'altra essendo necessario alla manifestazione e alla propagazione della specie. La parte è per il tutto, sia per integrarlo o per conservargli la sua misura. La prima parte è compiuta dalla vita dell'individuo, la seconda dalla sua morte. Altrettanto è della specie, che è pure destinata a morire. La natura la sacrifica in favore dello slancio vitale generale, che è più preziosa di essa, cosi com'essa è più preziosa di qualsiasi dei suoi individui.

Sotto un certo rispetto, non si potrebbe anche dire che gli individui sopravvivono a se stessi, pur cedendo il posto? « Desinunt ista, non pereunt », dice Seneca. Ritornano alla potenza universale in cui erano già prima di nascere : quo non nata jacent14. 14 seneca, Lue., IV.

Nulla s'annienta. E' in Dio medesimo, in fondo, che tutto si dissolve e si riforma. Per morire come per vivere le sue creature non sfuggono al suo seno, e sono eternamente in lui come non sono mai state in se stesse. Ciascuna non è che una volta, una sola e non ritorna più. Ma che una volta sia stata, ciò non è più reversibile. In se stessa, la durata passa; ma in Dio e nei suoi eletti, perdura. Niente di ciò che sarà stato non sarà veramente perito.

In ogni caso, fin d'ora, il dolore e la morte non sono che la scia lasciata dietro a sé dall'avanzamento della vita. E se si sogna che il propulsore della vita sia l'amore, si deve comprendere che, senza il dolore e la morte, l'amore non sarebbe mai comparso sulla terra.

Confucio, che era lungi dal saperne tanto quanto noi in proposito, vedeva anch'egli in ciò un benefico prodigio. « Ecco, diceva, ciò che fa la grandezza del ciclo e della terra » 1515 /; Giusto Mezzo, cap. XXX.. Ed ecco dunque pure, interpretato nel suo alto significato, un segno di Dio. La morte degli esseri era per lui, come Creatore, la condizione dell'ordine della natura nel tempo, cosi come la loro diversità, che abbiamo cercato di difendere, era la condizione dell'ordine della natura nello spazio. Sembra che il Creatore si sia detto, come scrive uno dei suoi aedi :

Soyons prodigue de la vie,

Et que la mort la multiplie

Par un retour perpétuel

Du froid sépulcre a la lumière,

Comme un jet d'eau tombe en poussière

Pour rejaillir du marbré au ciel16. 16 sclly pbudhomme, Les Destins. [Siamo prodighi della vita e che la morte la moltiplichi con un ritorno perpetuo dal freddo sepolcro alla luce, come un getto d'acqua cade in polvere per risorgere dal inarmo al cielo].

 

Un siffatto discorso non è arbitrario. Non c'è in esso capriccio, come pretendono teste leggere. Si tratta di procurare una somma di vita grazie alla quale possa a poco a poco operarsi una selezione, io spirito crescere e il cosmo aumentare di valore fino a produrre con Dio colui che deve realizzare la sua apoteosi. L'uomo è il frutto del lavoro di filtrazione compiuto dallo sforzo delle generazioni; non sta bene dunque dirne male.

L'uomo può assaporare

L'infini de la vie éphémère et profonde17, 17 feknand grech, La Chaìne étemelle. L'infini quotidien. [L'infinito della vita effimera e profonda]. e ha tutto ciò che occorre per portarla a termine. Qual termine? — A questo punto tutto può illuminarsi. Secondo Aristotele, ogni animale confrontato all'uomo è una specie di mostro, tutto il movimento generale della natura è teso verso l'umanità. A sua volta. Augusto Comte dirà : « Ogni specie si riduce in fondo a un essere umano più o meno abortito ». Poiché l'aborto è vinto e l'uomo sussiste, possiamo, voltandoci in due sensi, considerare l'intero corso della genesi vitale sul globo. La pianta ha tratto la linfa dai succhi della terra, il mammifero il latte; l'uomo si è innalzato allo spirito, e non è nel disegno che tutto finisca cosi- Pensando a Dio, l'uomo già chiude il cerchio, terminando là donde tutto viene. E se un giorno perviene a Dio effettivamente, intimamente, dilatandosi nell'Infinito che già s'era come frammentato nel mondo, non sarà tutto giustificato?

Niente può interamente giustificare alcunché nell'universo, se non l'universo stesso. Ma l'universo esiste, e al termine di tutte le notti che oscurano i suoi giorni, c'è la grande aurora. Per questa grande opera occorrevano molte vite e morti, molte costruzioni e distruzioni. Non che Dio non potesse attuare tutto ciò per prima cosa, farlo dischiudere d'un colpo. Ma abbiamo già più volte detto che l'autonomia creata doveva essa stessa per opera di Dio attuare gloriosamente ciò che Dio aveva voluto per essa. L'autonomia della creatura è il capolavoro del Creatore e la maggior prova della sua magnificenza.

Per tutto questo gran movimento e questi sconvolgimenti intestini : . vita, morte, costruzioni, distruzioni e costruzioni ancora, l'universo è opera dell'universo nello stesso tempo che un'opera divina. Per la vita e anche per la morte, per le sue fatiche e per le sue prove, l'uomo è opera dell'uomo con il concorso dei poteri divini. Non è ciò bello e grande? Non consente ciò di trasferire a beneficio dell'opera universale queste parole riferite al Cristo, che ne è garante : « La Morte è stata inghiottita nella vittoria. Dov'è, o Morte, la tua vittoria? Dov'è, o Morte il tuo aculeo?» (Cor., XV, 54-55).

 

La testimonianza della fede

 

E' credenza incrollabile del cristiano — ipotesi salvifica proposta allo stesso non credente — che la salvezza universale è al termine di tutto ciò che ci sembra disordinato e lugubre; che ogni coscienza retta ne può avere il beneficio; che i nuovi deli e la nuova terra rappresentano l'ultimo equilibrio cui tendono tutte le trasformazioni del presente ; che qui si tratta di una ricerca, non di un termine; che la natura ancor caotica e non sviluppata che sì chiama cosmo, cioè ordine, è cosi chiamata J^Qlp_pJir_Jinticij3azione, e che non si deve perciò giudicarne legger-mente, come se si volesse dare un senso a una iscrizione prima che sia stato letto il verbo determinante.

C'è un verbo dell'iscrizione universale. Ci sarà rivelato nel suo senso preciso solo l'ultimo giorno, ma sappiamo che esprime il Perfetto. E certamente questo Perfetto è già inscritto nella ricerca, come il risultato d'un calcolo nei suoi termini; ma come leggere questa equazione? E' questione di fiducia. Questione di certezza a priori fondata su Dio e gli attributi di Dio, come diceva Leibniz.

Abbiamo già detto tutto ciò; ma non si potrebbe ripeterlo troppo.

Tutt' altro è lo sguardo, quando si sa che sotto il velo mutevole delle apparenze mortali il destino persegue il suo corso immutabile.

Perché meravigliarsi, dopo tutto, che il vero ordine della natura, che e il suo ordine futuro, abbia bisogno per attuarsi della relativa confusione attuale? L'embrione umano forse che assomiglia a un efebo o a una fanciulla sviluppata? Non è confusione, in attesa della differenziazione e della sintesi?

La natura generale si nutre di tutto ciò che muore come di tutto ciò che nasce; alimenta la sua attività perpetua con tutti gli sbocci come con tutte le cadute, con le formazioni come con le deformazioni che per essa sono tutte rette, esprimendo sempre le proprie leggi, riferendosi sempre ai propri fini e tramite i propri fini, già ampi, al Fine supremo.

Quando il poeta si domanda ansioso :

Que peut étre, après tout, le but de tout ceci?18 is victor Huco, Les Feuilles d'Antonine, Ce qu'on entend sur la montagne. [Quale può essere, infine, lo scopo di tutto ciò?].

il cristiano sa la risposta, e questa risposta vale tanto per il male quanto per il bene. La natura ha una vocazione, in accordo con quella delle anime. Si può ritenere che questi due fatti si sviluppino parallelamente, nel senso che il cosmo matura e progredisce verso il suo equilibrio finale di mano in mano che il cielo si popola di eletti schiudentisi nei suoi domini mutevoli. Non c'è in ciò necessità; ma vi è soddisfacente l'armonia del piano. Allo stesso modo che nel corso dei periodi geologici l'evoluzione della vita preparava l'ominizzazione e ne determinava l'ora, benché non potesse effettuarla da sola: cosi, forse, e normalmente a colpo sicuro, l'evoluzione universale può preparare, col suo compimento, la parusia annunciata dal Cristo.

Ciò che è certo, per testimonianza dell'Apostolo, è che « tutte le creature insieme sospirano, e sono nel dolore del parto ». « Poiché questo mondo creato sta alle vedette, aspettando la manifestazione dei figliuoli di Dio... con la speranza tuttavia che anch'esso sarà reso libero dalla .servitù della corruzione alla libertà della gloria dei figliuoli di Dio»19._ 19 Rom., Vili, 22, 21.

 

L'universo deve compiersi in valore come tutto ciò che ha percorso il suo ciclo. Per esso come per noi sarà infine la vera vita, l'ultima forma acquisita, la gerarchla di tutti i valori fondata, l'attività universale lanciata sulla sua vita definitiva, che non è più un tentativo cosi spesso combattuto, un'iniziativa spesso opposta a se stessa, ma l'esercizio armonioso di poteri pienamente svolti, verso oggetti anch'essi integri e che non si rifiutano.

La polvere astrale che naviga nel firmamento non è forse il seme di quest'ultima fioritura, come un polline splendente? Come la polvere dei morti deve lasciar il posto a un'umanità eternamente vivente; come le umanità disperse, se esistono, devono raccogliersi in una sola famiglia in Dio; cosi alla dispersione dei mondi vorticosi succederà senza dubbio un'unità sublime costituita sotto il segno dello spirito, per lo spirito, forse ad opera dello spirito, e rivelante per sempre, per gli occhi aperti di tutti gli eletti, le armonie che il tempo ci nasconde.

 

In questo modo anticipiamo un poco. dovendo confermare più tardi queste vedute sintetiche trattando della vita umana, della storia — storia profana e storia della Città di Dio. Ma dovevamo, per non falsare subito le soluzioni. In tutto e per tutto è l'ultima parola che convalida il detto.

L'éternel est écrit dans ce qui dure peu20. 20 victor Hugo, Les Contemplations, III, 8. {L'eterno è scritto in ciò che dura poco].

 

Tutto considerato, la natura è buona

Dopo di che non occorre molta filosofia per comprendere che la qualificazione di buono o di cattivo applicata all'universo non è più ambigua, come c'era sembrato a primo sguardo. Si deve dire : La natura è buona. Invero il bene si confonde con il fine. Una cosa è buona quando risponde a ciò che ci si attende da essa. Una buona sveglia è quella che suona all'ora desiderata. Una buona corazza è quella che protegge. E' l'esempio di Socrate. Un buon figlio è quello che attua le intenzioni paterne, quando sono in se stesse rette. E cosi via.

Nella natura, la distinzione dei beni e dei mali dipende da ciò che ci si attende dagli esseri che la compongono, e aldilà del loro concorso. Gli esseri inorganici son voluti per essi stessi? Sotto un rispetto, si;

poiché già in essi brilla un lontano riflesso di quel Bene divino che la creazione ha il compito di diffondere. Ma a titolo primo, quegli esseri costituiscono solo il territorio, la materia e II mezzo per la manifestazione della vita. Il bene o il male che è in essi è dunque riportato in riferimento a ciò, e in ciò che li riguarda tutto è bene se adempiono a questa funzione.

Nel mondo vivente inferiore vi sono individui e specie. L'individuo ha il suo fine in lui stesso? Per un rispetto, si ancora; ma è soprattutto ordinato alla specie, che rappresenta l'idea di cui gli individui non sono che la manifestazione successiva. Quest'idea passa di germe in germe attraverso gli individui, abbiam detto, come il maroso attraverso le ondate che corrono alla riva. Se dunque l'individuo perisce affinchè la specie sopravviva e aumenti, questo processo deve essere inscritto nel conto del bene, e in questo bene il male si riassorbe.

Quanto alla specie, se avesse in sé la propria sufficienza, il problema delle specie scomparse, quello stesso delle specie attuali assumerebbe un carattere che non ha se le specie inferiori hanno soprattutto la funzione di preparare il dischiudimento dello spirito, immagine di Dio e non più suo vestigio; essere che dura eternamente e non più passeggiero; chiamato all'amicizia intima di Dio e non più al servizio : « Non vi chiamo più servitori... vi ho chiamato amici » 21. 21 Giovanni, XV, 15.

 

« La vita è un primo innalzamento dell'universo verso l'immortalità », scrive magnificamente Maurice Blondel22. 22 La pensée. I, p. 40.

Da questo punto di vista, che è il vero, la natura deve essere giudicata un'armonia e il suo sforzo millenario un buon successo, poiché è pervenuto nel fatto all'umanità e alla civiltà, dinnanzi alla quale s'aprono le prospettive or ora descritte.

Vi sono molti mali intorno a noi, davanti e dietro; ma tutto_si risolve nell'ordine dei fini, questa logica trionfante dell'universo. "" C'è in ciò, come nell’industria, un ricupero dei cascami e dei vapori, che porta a una rigenerazione di tutto l'essere. L'unico brivido che anima la natura si riassume in una grande pace.

Un viso è espressivo veramente solo se è visto interamente : chi interpreterà l'espressione del mondo?

Il mondo è assurdo e cattivo solo per coloro che non considerano il I tutto, non avendo a ciò gli aiuti della fede e della filosofia cristiana. Non è un argomento in suo favore che senza di essa non si spiega niente t e che il Tutto, che pure ci presenta tante meraviglie, non può che oscurarsi nel buio?

 

Il Cantico

Cerchiamo di rialzare la discussione.

Senza ritrarre niente di ciò che abbiamo detto, e che impegna l'uomo, non possiamo alzarci alla contemplazione della natura considerata puramente in lei stessa, per vedere se veramente si presta al giudizio pessimistico, questo giudizio al quale noi pure abbiamo concesso una parte di validità, quando dicevamo: considerata da un certo iato, la natura è orribile.

Orribile, veramente? Non era il parere di sant'Agostino, questo spirito alato, che scriveva a un amico : « Nel cantico meraviglioso delle cose, la vita e la morte degli esseri sono come le sillabe e le parole del tempo. I loro intervalli non sono ne più lunghi ne più brevi di quanto esiga la melodia concepita e determinata in anticipo » 23. 23 Lettere, CLXVI, 5, 15.

Sarebbe ciò inumano? Tuttavia i nostri poeti sono spesso d'accordo con questa veduta. Ecco Lamartine: Dans l'hymne de la nature Seigneur, chaque creature Forme a son heure en mesure Un son du concert divin24. 24 Harmonies poétiques, Hymne du matin. [Nell'inno della natura, o Signore, ogni creatura costituisce alla sua ora, in misura, un suono del concerto divino —; II monnorio vivente dell'intera natura non è che l'eco confusa, di un'immensa preghiera].

 

Non è esattamente lo stesso pensiero? E altrove: Le murmurc vivant de la nature entière N'est que l'écho confus d'une immense prière.

E in Hugo: la musique est dans tout. Un hymne sort du monde2S. 25 Les Contemplations, III, 21. [La musica è in tutto. Un inno esce dal mondo].

Moi que Dieu tient sous son empire, J'admire, humble et religieux, Et par tous les pores j'aspire Ce spectacle prodigieux2<>.26 Les Rayons et les Ombres, Caeruleum mare. [Io, che Dio tiene sotto il suo-dominio, ammiro umile e pio, e da tutti i pori aspiro questo prodigioso spettacolo] -

Si rifletta attentamente: se la bellezza del mondo spesso ci sfugge e si volta in scandalo, è per un motivo, che ha la sua parte di legittimità, ma che è troppo esclusivo. Noi consideriamo questa natura come fosse fatta per noi e avesse l'obbligo di fare il nostro comodo, di soddisfare, per di più, la nostra sensibilità. Non è una pretesa vana. Figli di Dio, pensiamo che ci tenga in conto e che non si dimentichi della più piccola fra le sue creature. Tuttavia, assicurati sulle conclusioni, sapendo che tutto andrà bene in ciò che concerne i nostri legittimi desideri e i nostri modi di sentire più esigenti, non potremmo porci, per giudicare l'universo, dal punto di vista dell'universo, guardare dal lato di Dio, lasciando da parte sotto questo riguardo le nostre passeggere e parziali sensibilità?

Uno spirito di contemplazione senza esigenza ci farebbe trovare il mondo perfetto; poiché le irregolarità o i sacrifici che vi si notano, per reali che siano, non sono tali che riguardo ai punti di vista particolari, e non rispetto all'insieme. Di modo che se si-trascura il particolare, si deve trovare che tutto è bene.

E' ciò che ha visto chiaramente Spinoza, questo puro intelletto,- e ciò cui consente il perfetto stoico, il quale si congiunge alla natura e le si subordina interamente. Il vero cristiano si riserva il suo diritto filiale ;

fa bene, ma postolo al sicuro perché non si eleva lui pure in alto quanto il pagano o il pensatore senza fede?

Ancora una volta, bisogna giudicare l'universo dal lato di Dio, non da quello della nostra sensibilità. Cioè bisogna con la mente uscire dall'universo per vederlo quale è in lui stesso e alla fine per noi. Il nuotatore, per apprezzare il paesaggio, non deve aver la testa fuor d'acqua? « Mio Dio, diceva l'Olier, fatemi la grazia di vedere le cose quali sono ». Pensiero mirabile, che solo il disinteresse può comprendere.

Ecco ciò che dice un non credente : « Tutti i disordini, tutte le lotte, tutte le mostruosità perdono il loro significato menzognero dal momento in cui questi fenomeni sono pei nostri occhi meglio illuminati manifestazioni particolari d'un ordine sempre identico a lui stesso » ",27 H. taine, Histoire de la Liltérature anglaise, IX, p. 422. ";

 

Si aggiunga che è un ordine divino, e il punto di vista di sant'Agostino non sembrerà più cosi inumano ne per niente utopistico.

La vita dell'universo è costituita dall'alternarsi delle vite e delle morti, di cai fornisce la legge e di cui fa la somma. La materia soggiacente ne fornisce il territorio, e lo spirito, finalmente, ne raccoglie il frutto. 'E' bello e buono, e il nostro geniale Dottore lo illustra con un paragone, che gli deve sembrare illuminante, se vi ritorna in forme diverse : « La parola che si pronuncia passa e si spegne nel silenzio^ Nondimeno il nostro discorso è costituito da queste parole che passano, si succedono e si spengono, e con intervalli di silenzio ben distribuiti scorre in maniera dolce e conveniente. Cosi è della bellezza corporea inferiore all'uomo. Essa è costituita dalla successione delle cose e riceve i suoi caratteri dalla stessa morte di ciò che è nato. Se i nostri sensi & la nostra memoria potessero cogliere l'ordine e la misura di questa bellezza, essa ci incanterebbe al punto che non oseremmo più designare col nome di corruzione gli intervalli di morte di cui è segnata » 28. 28 Cantra Epistolas Manichaei, cap. XII.

Come si vede, la sofferenza animale non è qui messa in conto. Vi ritorneremo a lungo da parte nostra, e ci siamo tenuti, poiché altrimenti la replica all'obiettante sarebbe troppo facile. Due linee tagliandosi non sanguinano; due nubi inseguendosi a vicenda non si procurano dolore» e qui il punto di vista puramente estetico è a suo posto. Ma nella vita è diverso. Certamente! Ma il punto di vista di sant'Agostino non è meno autentico e più che autentico; è esso che conta alla fine, come cercheremo di far vedere. In ogni caso, a parte la sofferenza, l'evoluzione delle specie e degli esseri s'inscrive nella durata come una scia di luce vivente, come _un poema o una melodia. Queste migliaia di esseri che ad ogni momento— si divorano in silenzio? Intrecciano quietamente la fascia infinita con cui la natura si adorna. Un grande disinteresse soggiace a questo dramma superficiale.

La natura conosce la forma e il numero; ignora il dolore. Va verso dove è lanciata, e non sopporta cavilli sulla via da prendere. Questo mondo, pur con tutte le sue agitazioni e sofferenze, è fondato su una vasta pace, quella del tutto armonioso e sublime.

Supponete che si proietti su uno schermo, a folle velocità, tutta la serie paleontologica e storica della vita sulla terra : che vedreste, se non un'armonia che si va disvelando, una prodigiosa gettata in cui quelli che si chiamano esseri costituiscono gli elementi di una curva continua, magnifica nel suo dispiegamento, misteriosa nel suo termine? Nascite e morti si fonderebbero nel disegno d'insieme; non si percepirebbero più o se ne comprenderebbe il significato transeunte e indispensabile. Invero, niente nasce ne muore per ciò che è continuità essenziale, slancio, progresso, avvenire che viene alla luce, armonia temporale, creazione, bellezza.

L'artista non si pone da questo punto di vista, per esperienza, comunque sia della vita o della natura generale? Lo stato d'animo di Francesco d'Assisi non era ad un tempo d'artista e di santo? I suoi fratelli

 

uccelli, frate lupo o « nostra sorella morte corporale » non eccitavano in lui che accesa e gioiosa ammirazione. La sua personale sofferenza non lo distoglieva dalla contemplazione superiore, e neppure quella delle bestie non l'avrebbe fatto fremere. Egli la vedeva, certamente; ma considerava tutto nella grande irradiazione della bontà e della bellezza eterna.

Attraverso il tessuto di mutevoli apparenze e di vite transitorie che si succedono, che si accendono e si spengono come un fuoco, lo spirito percepisce l'indistruttibile. Aldilà dello scenario sta la Realtà prima, che si fa riconoscere in tutto.

Claude Bernard ha scritto in un suo quaderno : « Questa mischia che per antifrasi, senza dubbio, si chiama l'armonia della natura ». Il grande scienziato è stato generalmente meglio ispirato. Sant'Agostino gli insegna parlando d'un discorso bello in tutte le sue parti o di un cantico. A parte il dolore, che non è più un problema di armonia o di disordine, è certo che lo sviluppo della vita sulla terra ha qualcosa di mirabile e di prodigioso. Un meraviglioso equilibrio vi si mostra : sistemi di compensazione, scambi, successioni ben disposte, piani e improvvise variazioni, vite e morti previste in modo che il tutto possa sussistere senza soffocamento per pletora o senza estinzione per mancanza di principi moltiplicatori, con aborti compensati e invenzioni rigeneratrici sempre attive.

Si ritiene di non potere dar ragione di questi fatti che con una specie di effettiva solidarietà di tutte le forme della vita nella biosfera, come se la terra stessa fosse vivente e regolante le sue funzioni e distribuente le parti tra i viventi. Comunque sia di quest'ultima nozione, è certo che c'è un equilibrio della vita generale e che la morte degli individui e —delle specie particolari ne è un elemento essenziale.

Se la scala zoologica e paleontologica quale oggi ci è nota, ""ale possiamo rappresentarcela con una semplice visita al Museo di storia naturale di Parigi o alle collezioni londinesi, non suscita l'ammirazione nel lettore o nel visitatore, questi è assai poco riflessivo o assai difficile. Il cantico di sant'Agostino ha buon fondamento. La natura lo canta attraverso il tempo che noi possiamo esplorare, e certamente si continua aldilà in ogni senso. E' necessario, affinchè sussista la parte percettibile.

Se poi si aderisse alla concezione della biosfera, che ha a proprio vantaggio tanti fatti, il problema della morte animale o vegetale prenderebbe tutt'altro aspetto. Potrebbe venire avvicinato alla morte delle cellule all'intemo d'un vivente, morte relativa, che, per cosi dire, non fa più impressione.

C'è un entusiasmo della natura che si accende a favore delle leggi. Le grandi cavalcate delle onde all'equinozio, o il fracasso dei torrenti che precipitano dai ghiacciai verso la pianura dove li chiama la gravitazione, non ne costituiscono un'alta testimonianza? Le valanghe, i cicloni, i cataclismi d'ogni genere e i grandi sacrifici della vita non hanno lo stesso significato?

Sono una specie di giucco questi caleidoscopici cambiamenti, l'instabilità incessantemente rinnovata di queste combinazioni cosmiche. Questa parola : giucco, si trova nella Scrittura, là dove la Saggezza •- dice di se stessa, riferendosi alle opere di Dio : « Io ero all'opera vicino a lui, ogni giorno felice, e giocando incessantemente alla sua presema »29. 29 Prov., Vili, 30.Nell'Apocalisse, gli stessi tuoni e il rombo delle grandi acque si presentano come liuti accordati, come concerti di arpe30. 30 Apoc., XIV, 2.Vi è in ciò invero un giucco di forze pure il cui incatenamento è musicale ed esaltante; qualcosa capace di provocare un'adorazione in ginocchio e non scandalo.

La vita e la morte lodano Dio, nella natura, come la luce e le tenebre nel cantico dei tre giovani in Daniele : Benedicite lux et tenebra Domino 31.

31 Dan., II, 72: Tutte le cose incessanti e vane che ci circondano esprimono Dio a modo loro e non spetta a noi imporne loro un altro. Stanno bene cosi. Per vane che siano, abolite Runa dall'altra, esse cantano un cantico eterno,

•cantico muto, a dir vero; la natura non parla; ma noi possiamo parlare in suo nome, esprimere quello che sarebbe il suo linguaggio, oh lode di Dio!

La sofferenza animale

 

Sant'Agostino suppone che se siamo colpiti dalle « stragi » della snatura e dalle sofferenze che esse infliggono ai nostri fratelli inferiori, è perché, avendo una costituzione identica quanto alla nostra natura mortale, vi ci si indugiamo senza misura e non sappiamo innalzarci abbastanza per giudicare l'ordine mirabile del mondo di cui siamo parte 32. 32 La città di Dio, XII, IV. Ciò è vero. Ma poiché nondimeno riscontriamo il dolore e non ce ne è stata rifiutata l'interpretazione per ciò che ci riguarda, si pone il problema di questa interpretazione per ciò che concerne gli esseri irragionevoli. Renouvier, alla fine di sua vita, riconosceva che il suo sistema di spiegazione del male era incompleto, poiché non dava ragione del caso-degii animali3333 Derniers entretiens, pubblicati dal prat, p, 63. Cfr. renotjvieb, Prindpes de la Nature, 2 ed., t. II, p. 141.. Pure noi abbiamo altrove scritto che non avevamo una soluzione soddisfacente a questo proposito 34. 34 Catechismo des incroyantÀ, t. 1, p. 154Forse, riflettendo meglio, ci sarà consentito di proporre qualchecosa.

C'è una categoria di pensatori che non sarebbero imbarazzati per cosi poco. La sofferenza degli animali per loro è solo un'ingenua illusione della sensibilità. Essi dicono : questi esseri sono materia, non sono spirito, «e il sentimento come il pensiero stanno dalla parte dello spirito. Le sensazioni sono pensieri confusi, e non possono quindi essere attribuite a esseri puramente materiali. Come potrebbero essere altro che materia inerte gli uccelli, dal momento che non sono spirito? Non c'è un terzo partito. Il pensiero si trova di fronte all'estensione in movimento, e non c'è niente altro.

Si riconosce in ciò il sistema cartesiano. Il tenero Malebranche, che vi crede con tutta l'anima, da calci alla sua cagna e sorride : « E' un orologio più flessibile e più tollerante di un altro; abbaia come l'uccello di legno delle pendole svizzere tuba; ma non sente niente. Per fortuna!, aggiunge il vecchio oratoriano, poiché se gli animali soffrissero, essi che sono innocenti, non sarebbe in causa la giustizia di Dio? ».

Si vede dove conducono siffatte aberrazioni, Condillac dirà queste « stravaganze » 35 35 Traité des Animaux, e. I: con esse si compromettono gli attributi di Dio, e non si sa dire che, se un sistema porta a queste conseguenze, è falso. Il dualismo radicale: da una parte il pensiero puro, dall'altro la materia puramente geometrica, falsifica la realtà che si presenta nella nostra esperienza.

Buffon, legato al cartesianesimo, ma d'altronde sagace osservatore del concreto, si mantiene nell'ambiguità. Interpreta il sentimento animale come una « azione di movimento in occasione di un urto o di una resistenza » e concede tuttavia che questo sentimento può essere piacevole o spiacevole. Tanto che Condillac, analizzando le sue esposizioni ira materia, non riesce a cogliere il suo pensiero 36. 36 Loc. cit.

 

Si sa che alla stessa epoca, e molto spesso dopo, miscredenti si sono dati da fare per esagerare, al contrario, le sofferenze delle bestie per incolparne Dio, fino a denunciare il « cinismo » del Creatore (al quale non credevano) per aver organizzato la tortura tra le bestie, come in quei pesci che accecano Je loro vittime prima d'impadronirsene o come nell'angolo dei ragni, di cui si descrivono con compiacenza le barbare pratiche.

Spesso è proprio dopo aver messo in opera verso gli animali un egoismo abbastanza rivoltante che questi pii censori ardiscono incolpare Dio di ciò che ha dovuto permettere. Trovano naturale di veder torturare a lungo del pollame per poterlo mangiare con più delizia, di uccidere bestie alla caccia per divertimento, di farle combattere davanti a loro come spettacolo, se non per una sadica curiosità, di mandarne al macello per economia dopo lunghi servizi. Ma Dio non aveva il diritto di dar loro la vita a condizioni che si giudicano oppressive e crudeli. Siffatta ipocrisia ripugna. Si preferisce l'ironica confessione dell'onesto Sully Prudhomme:

J'ai mon coeur; je ne veux a nul etre aucun mal;

Mais je retiens ma pari du boeuf qu'un autre assommo, Et malgré ma douceur, je suis bien aise, en somme, Que le fouet d'un cocher hàte un peu mon cheval37. 37 La J astice, 7° veille. [Ho cuore, non voglio male a nessuno; ma faccio mia una parte del bue che un altro ammazza, e nonostante la mia dolcezza, mi fa; comodo» insomma, che la frusta d'un cocchiere acceleri un po' il mio cavallo].

 

Alla buon'ora. Chi parla cosi è sincero; l'ipocrisia libertina non gli conviene, sia pur mitigata come in tanti pseudo-cristiani che accolgono l'obiezione dei miscredenti, pur continuando a sacrificare o a lasciar sacrificare gli animali al loro servizio. Tolstoi, almeno, era conseguente quando diceva che « la virtù è incompatibile con la bistecca ». Si sa d'altronde che obbligava sua moglie a cure infinite perché il suo regime vegetariano fosse almeno succolento e sostanzioso.

Piccolezze umane, che non escludono la stima. Meglio però la semplicità che rifugge da tutti gli eccessi, che tratta bene tutti gli animali senza credersi obbligata, come accade in America e in Inghilterra, e qualche volta anche in Francia, di predisporre loro ospedali e cimiteri, con un servizio di notizie e pietosi anniversari. Idee da zitelle, senza dubbio, deviazioni di migliori sentimenti non realizzati.

C'è sempre un motivo di acquietamento che si può dare a coloro che si fanno scrupolo di usare delle bestie per la propria vita: cioè, che anche per quest'ultime verrà il loro turno. Le mangiamo, ma a patto di ricambio. Anche noi entriamo nel giro della vita. La sottomissione che siamo obbligati a riconoscerle equilibria senza dubbio il breve profitto che ne otteniamo.

Basta con ciò. S'impone ineluttabilmente una domanda, e gli eccessi in ogni senso, le aberrazioni, gli scrupoli ingiustificati non ci esonerano dal rispondere ad essa.

Tanto più siamo obbligati, dal momento che alcuni di questi esseri sono associati alla nostra vita come buoni e affettuosi servitori. Aveva torto Lucrezio di difendere il buon cane « dal cuore fedele »? Augusto Comte li incorporava al grande Essere, che era per lui l'umanità, al posto degli umani indegni che non lo meritano 38. 38 Catechismo positiviste.

Si tratta di un abuso, che però non ci scioglie da un obbligo che riguarda persino Dio.

Qual'è esattamente la portata di quest'obbligo? Si tratta di bontà? di giustizia? E come spiegare, in ogni modo, il comportamento provvidenziale verso gli animali?

Diciamo chiaramente che la considerazione di giustizia, nel senso proprio del termine, è del tutto esclusa. Le bestie non sono" soggetti di diritto. Hanno un'individualità, ma non hanno personalità, e dall'una all'altra c'è un abisso, tanto che per questa ragione l'uomo e l'animale sono ad un tempo « vicinissimi e per sempre separati », come diceva Pope 3S>. 39 Saggio sali'uomo. Lettera L'individualità nasce da una porzione di materia sotto il dominio di un'idea immanente, di vm'idea direttrice, come diceva Claude Bernard. La personalità consiste nel pensiero che riflette su di sé e che sa dire io. La giustizia è appunto tra me e tè; è una virtù sociale; non può rivolgersi a chi è incapace di società, a chi non sa di se stesso.

 

Quando dunque si parla di doveri verso gli animali, si può pensare qualcosa di giusto, ma ci si esprime male. Abbiamo doveri a proposito degli ammali, concernenti gli animali; ma non è davanti a loro che rispondiamo, come davanti a una «parte» in tribunale; è davanti a Dio. Cosi pure, quando si dice : le bestie innocenti, si fa legittimamente della poesia, ma con ciò stesso si rinuncia alla precisione. In realtà, le bestie non sono ne innocenti ne colpevoli; sono aldifuori dell'ordine morale^ obbedendo a istinti che provengon loro dalla natura e di cui la sola natura risponde. Ci si può comportare male verso gli animali, ma non si può offenderli. Sotto questo riguardo sono cose, non persone, e le mancanze verso di loro si devono chiamare crudeltà, e inoltre inconseguenza e mancanza di rispetto verso di sé, ma non ingiustizia *°.40 Questa non è una ragione per non biasimare o condannare i giucchi crudeli,, che aumentano arbitrariamente o troppo leggermente le sofferenze degli animali: Ie-corride, le cacce alla volpe, il tiro ai piccioni, i combattimenti dei galli o delle pernici, le vivisezioni inutili o inutilmente crudeli, etc. Si può credere che un'umanità più evoluta proverà il bisogno di correggersi su questi punti come si tende a fare, nelle epoche di progresso, per ciò che riguarda i gruppi umani diseredati.

 

Sgombrato cosi il terreno, resta il caso della Provvidenza, che qui soprattutto ci impegna. Non stiamo scrivendo un trattato di morale, bensì studiando il problema del male nella creazione. Come dunque si può-giustificare il Creatore d'aver permesso, anzi d'aver organizzato la sofferenza animale? Ne è sufficiente giustificazione il bene del suo universo? Ne è una valida e acquietante ragione la manifestazione prodigamente sparsa delle potenze vitali e, nell'ipotesi dell'evoluzione, la secolare preparazione del regno del pensiero? Non sono in questo modo trascurate le bestie e si vede brillare in ciò quella bontà che il Vangelo proclama quando ci dice che un passerotto non è dimenticato al cospetto di Dio "-41 Luca, XII, 6.

Abbiamo detto che, in generale, il dolore è correlativo al piacere e-si giustifica quindi in certo modo con esso; che inoltre è utile al soggetto" come avvertimento in caso di cattivo funzionamento. Questa duplice osservazione è di rilevanza particolare per ciò che riguarda gli animali. Privi di ragione e dotati d'un discernimento istintivo talora mirabile, ma limitato,. non posseggono, per orientarsi nelle partìcolarità dell'attività, che l'attrattiva del piacere e il timore delle reazioni dolorose.

Meglio ancora, gli stessi atti istintivi sono in connessione, quanto-al loro esercizio, con un'attrattiva o una repulsione che ne sono il motivo immediato. Se impedite a una pecora di allattare il suo agnello, provocate-

 

in essa una inquietudine dolorosa, che si calmerà solo nel momento in cui le è ridata, con l'allattamento, l'impressione soddisfatta che in essa è l'analogo delle gioie materne. La tesi di Descartes, su questo punto, non è seria; quella di Le Dantec con il suo epifenomeno non lo è di più. Le bestie reagiscono a impressioni, e senza di queste non reagirebbero o non reagirebbero allo stesso modo.

D'altronde, ripetiamolo, la sofferenza e il piacere sono solidali come manifestazioni della sensibilità generale. Se si supponesse la coscienza abolita in un caso, lo sarebbe anche nell'altro, a spese dello stesso animale.

Certe esperienze sembra abbiano provato che la maternità animale aveva bisogno dello stimolo del dolore perché la femmina si affezionasse alla prole. Alcune cerve anestetizzate al momento del parto da un naturalista sud-africano, Eugenio Marais, abbandonarono tutte il loro cerbiatto, mentre invece nessuna rifiutava la sua tenerezza nel caso di un parto ordinario. Se l'anestesia era stata parziale, la cerva esitava e talvolta si rifiutava ancora. Se l'anestesia aveva avuto luogo dopo il parto, ma prima che la cerva avesse potuto vedere il cerbiatto, l'animale riconosceva il suo nato senza esitazione, il che prova che il rifiuto precedente non era dovuto a un turbamento provocato dall'anestesia. Ricapitolando, non si può dire che in questo caso la sofferenza è la stessa condizione dell'attività animale e della gioia?

Bisogna tuttavia riconoscere che siffatte considerazioni, troppo generali, troppo impersonali, se si osa dire, non. calmano l'animo. Se non vi fossero che quelle, dice Max Scheler, non sacrificherei loro la sofferenza d'un verme 42. Ve ne sono altre. Ma anzitutto si può attenuare il rimprovero facendo osservare quanto sono esagerate, d'ordinario, le nostre rivolte o le nostre compassioni riguardo alla sofferenza degli animali. Sono viziate da un difetto quasi inevitabile, ma assai grave, che consiste nei supporsi al posto del paziente inferiore e nell'attribuirgli ciò che allora si proverebbe, come se soffrisse alla maniera umana. Ora, in questo modo si è lontani dal vero.

«Bisognerebbe essere pessimi osservatori, scrive Ch. Richet, per supporre che gli animali siano capaci di soffrire quanto noi. La ferita che annienta la forza del soldato più coraggioso permette a un lupo, a un cinghiale, a una lepre di compiere una lunga corsa e di sfuggire a un inseguimento accanito. Negli animali inferiori, la resistenza non è ancor maggiore? Un animale inferiore può vivere più giorni con gravi lesioni, mentre invece con le stesse lesioni un uomo non vivrebbe un secondo ». Si possono rompere le zampe di una rana in fregola senza riuscire a farle abbandonare il perseguimento del suo scopo. E lo scienziato ha cura d'aggiungere, benché vada da sé, che non si tratta soltanto del traumatismo, ma del dolore di questo traumatismo : « Un traumatismo che per l'uomo sarebbe un dolore è appena sentito da certi ammali » is. *2 Le sens de la souffrance, p. 11, Paris, Aiibier. 43 L'Homme et FIntelligence, p. 457.

 

La causa di questa differenza è nello sviluppo del sistema nervoso, che nell'uomo deve servire all'elaborazione dell'idea generale, al linguaggio, alla vita sociale, al lavoro civilizzatore, funzioni alle quali serve da base la sensibilità organica, tanto che il materialismo ne fa l'unico fattore.

Ch. Richet perviene alla conclusione, che dice ormai adottata da tutti gli psicologi e fisiologi : « il dolore è una funzione intellettuale » ** 44 Bisogna intendere nel senso lato della parola intellettuale.

ed è dunque proporzionato, nella sua intensità, allo sviluppo dell'intelligenza. « Più si è intelligenti, più si può soffrire. Gli animali non intelligenti sono incapaci di provare in tutta la sua pienezza questa sensazione che chiamiamo dolore... Vivono sempre in una specie di sogno o di semi-coscienza che esclude il dolore terribile. I loro nervi sono meno eccitabili, e soprattutto il loro cervello è meno suscettibile della netta percezione di sé senza la quale non v'è dolore » ".45 Ibid., pp. 130-145

La legge di Richet si verifica nell'uomo nel modo più chiaro. Il selvaggio è capace di sopportare molto più del civilizzato. Le operazioni più serie lo trovano talvolta resistente in maniera sorprendente e le ferite di guerra suscitano il suo disprezzo. Se gli fate una larga ferita nella mano, ne soffre meno che non una sartina per una puntura di spillo. Ora, la differenza tra il selvaggio e una parigina raffinata è molto meno grande che tra lui e l'animale più vicino all'uomo.

Del resto, qui l'essenziale è in quella specie di assenza da se stesso rilevata giustamente dallo scienziato. L'uomo è « presente al proprio dolore», dice Seneca, adest dolori suo; l'animale, no: lo sente, ma non lo assapora. I grandi buoi di Leconte de Lisle, che Suivent de leurs yeux languissants et superbes Le songe intérieur qu*ils n'achèvent jamaTs46

46 Poèmes cmtiques. Midi. [Seguono con i loro occhi languidi e superbi il sogno intcriore che non terminano inai].

,non hanno la possibilità d'imparare la sofferenza con forza. La subiscono come un incubo. Soffrendo gemono come noi gemiamo nei nostri sogni. Il « sogno inferiore » di cui parla il poeta si compie in noi con la riflessione; ne prendiamo cosi possesso e diventa nostro. Ma se l'attenzione resta allentata e la riflessione è assente, la sofferenza attraversa l'anima, in qualche modo, e non s'incrosta. La sua punta è corta e non può pungere che in proporzione alla sua lunghezza. Si soffre, e, per cosi dire, non si sa che si soffre e ciò significa che si è colpiti ma non si soffre nel senso umano del termine.

Non era questo il segreto di quel carnefice benevolo, il quale in un romanzo di Tolstoi diceva al suo paziente per aiutarlo a tener duro :« L'essenziale è di non pensare ». Non pensare è difficile per l'uomo. Per l'animale è naturale.

E' accaduto che per contestare questa legge ci si sia richiamati al caso dei bambini che, d'intelligenza ancor poco sviluppata, sono capaci di profondi dispiaceri. L'obiezione non colpisce. Il bambino ha tutte le facoltà umane, ha solo bisogno di raccogliere i loro oggetti per mezzo dell'esperienza. Ciò che già gli è noto agisce tanto più su di lui poiché è presente senza antagonismo e senza il freno della riflessione. Non ha il senso dei limiti, pur avendo quello dell'attacco che subisce. La bestia ignora tutto questo.

Non solo. Molte altre ragioni tratte dalla psicologia comparata tendono a fissare la differenza tra il caso umano e quello dei gradi anche più elevati della serie animale. Se si osserva, si resta colpiti dalla pace abituale delle bestie e dalla loro salute psichica, come del resto dalla loro salute organica, in confronto alle nostre frequenti malattie e perpetue agitazioni.

L'animale vive nel presente e non prolunga la sua sofferenza verso l'avvenire, come facciamo noi nostro malgrado e talora deliberatamente, in modo da meritare il rimprovero del poeta;

Fol est celui qui soufflé au delà de l'instant; Le malheur d'aujourd'hui n'en domande pas tant47. 4T marie noel, Les chansons et les heures, Berceuse de la grand mère. [Pazzo colui che soffre aldilà dell'istante; la disgrazia d'oggi non esige tanto].

 

La ricerca di che vivere assorbe quasi totalmente Fazione dell'animale. L'ignoranza dell'avvenire lo esenta dall'inquietudine e dal timore di ciò che può sopravvenire. Ora « chi teme di soffrire, soffre già per ciò che teme », dice Montaigne. Sotto questo riguardo gli animali si avvicinano a ciò che Leibniz chiama mens instantanea parlando delle sostanze morte.

L'animale si slancia su piste terrestri o negli spazi aerei, ma non verso l'avvenire per cogliervi la preoccupazione. E' tutto nell'istante, e senza conoscerlo applica molto meglio dell'uomo quel detto della saggezza : « A ciascun giorno basta la sua preoccupazione ». Un giorno è lungo; ma l'istante nel quale vive l'animale non è lungo e non si può in esso moltipllcare la sofferenza48. 48 Per essere giusti, bisogna aggiungere che questo argomento è un po' a doppio taglio; poiché se la mancanza di previsione allevia il dolore nel senso che limita l'ampiezza del male, questo stesso tatto isolando il male percepito può pure renderlo più dominante, richiudendolo in lui stesso, come nei bambini. Solo, che questo secondo aspetto è molto meno importante del primo.

 

L'angoscia, questo sentimento cosi profondo e cosi ricco di mali, che negli ultimi tempi è stato analizzato con passione, è ignoto alle bestie, ed è un incomparabile alleviamento della loro sorte rispetto a quella dell'uomo.

Sembra certo che l'animale non compia sintesi mentali, che provi e concepisca tutto sporadicamente, per cosi dire, uri caso e poi un altro, senza darsi cura di concatenarli, come facciamo noi col risultato di opprimere ancor più l'anima. Per ciò non è capace di quelle accumulazioni d'impressioni rincaranti l'una sull'altra fino a portare talora l'uomo agli eccessi estremi. Gli animali non si suicidano.

Le nostre iniziative cosi spesso abortite, i nostri capricci d'esseri sedicenti ragionevoli sono occasione di molte sofferenze, alcune delle quali potrebbero essere evitate, molte delle quali s'impongono. Gli animali seguono pacificamente la curva del loro destino specifico, mangiando, dormendo, amando in periodi fissati, generalmente senza eccessi. Non avendo le nostre possibilità, non sono esposti al rischio delle nostre insidie.

Può darsi che la sensibilità animale abbia i suoi oscuri drammi, ai quali non facciamo caso : li ha certamente, ma il fatto stesso che sono oscuri — e per essa medesima — ne attenua notevolmente gli orrori.

L'animale soffre per il male; ma non avendo l'idea del bene, non può giudicare della contraddizione tra questo male e una realtà che esso ignora. Si accontenta di ciò su cui ha presa e non si sente ostacolato nel suo destino. In realtà, esso non ha destino nel senso proprio del termine. E' oggetto di natura e il suo destino è quello del tutto che il suo male cosi come il suo bene servono a integrare.

Ciò che ora bisogna aggiungere è che gli animali privi di ragione, oltre a soffrir meno nella loro sensibilità a motivo dei nessi che congiungono la sensibilità all'intelligenza, vanno esenti dai mali propri della intelligenza. Sono capaci di dolore, non di dispiacere. Ne hanno timori dolorosi. Non conoscono la noia, soprattutto quella noia radicale che, come diremo più sotto, è la prova più cupa e più opprimente dell'esistenza umana. Ignorano la propria miseria e la speranza, in essi, non è mai delusa. Li si rappresenta come aventi una specie di fede inconsapevole nella loro sorte accettata, abbandonantisi passivamente al destino, non tementi ne dantisi pena per l'ora successiva, e accoglienti quando —•riene il profitto vitale che per quel momento si confonde con il loro essere.

Schopenhauer fa notare che il valore d'una gioia che ci sopraggiunge è misurato meno in essa medesima che dalle speranze che ci apre verso l'avvenire. Lo stesso vale per la sventura. E' questo imprestito all'avvenire, e in qualche modo all'assoluto, che permette al dolore di raggiungere un parossismo, che il suo tenore attuale, da solo, non comporterebbe. Ora, siffatto prolungamento, siffatto riporto è ignoto al povero animale che sogna oscuramente e che rimugina, se addirittura, come è per migliala di specie di suoi congeneri, non è assai vicino alla condizione della pianta o del masso.

Infine, non abbiamo imparato dagli Orientali che la sofferenza è figlia del desiderio e che basterebbe uccidere il desiderio per abolire ogni sofferenza? Questo era il primo detto del Sermone di Benares di Budda. Ora, certamente gli animali desiderano, hanno le loro passioni violente: due tori, due cervi o due montoni in lotta ce ne danno ampia prova. Nondimeno, in queste passioni c'è qualchecosa di passivo, come nel caso di due torrenti che incontrandosi spumeggiano. Manca la lucidità, alla quale abbiamo riconosciuto tanto potere, e da\cui dipende la sofferenza. Questa è molto acuta solo nella piena chiarezza, della quale noi uomini abbiamo il monopolio e la vicinanza alla quale varia dalla madrepora all'uomo.

Non è un paradosso aggiungere che l'abituale indifferenza degli animali per le loro reciproche sofferenze ne diminuisce pure la gravita.

 

Quante volte giudichiamo i nostri dolori alla stregua della considerazione altrui. La compassione tende a accrescere la passione volendola consolare, e rispetto ai soggetti la raddoppia. Compatite il bambino per un maluccio, piangerà, mentre invece tra i suoi compagni distratti se ne sarebbe appena accorto. E la mamma, da parte sua, se ne affligge senza ragione.

Quando dicevamo poco sopra che la riflessione aumenta i nostri mali, non intendevamo solo della nostra. Ogni specchio moltiplica. Ogni riflettore aumenta l'intensità dei colori e il rilievo delle forme. Privo di questo rafforzamento, il dolore animale è maggiormente ridotto ai suoi soli elementi vitali; la nostra psicologia individuale e collettiva non lo tocca.

 

La morte degli animali

« Soffrire piuttosto che morire, ha detto il favolista, è l'insegna degli uomini ». Non sarebbe anche quella degli animali? II problema non sussiste, poiché non si possono mettere a confronto una cosa sulla quale non si riflette con una che si ignora. L'animale non rinette sulla propria sofferenza e ignora la morte. La ignora, poiché la morte non può essere provata da nessuno, può essere solo pensata. Anche noi la soffriamo solo perché la temiamo. Il nostro ultimo respiro è della stessa natura degli altri. E' ancora un sospiro di vita. Accompagnato o no dalla sofferenza, è in piena esistenza; la non-esistenza che segue non si esperimenta.

Lucrezio a~ ha abbastanza vessato con questi ragionamenti; Voleva convenlic gli uomini e liberarli da vani timori. Per ciò che riguarda le bestie avrebbe perduto il suo tempo, e si direbbe che le bestie medesime siano d'accordo, almeno nel pensiero dei poeti:

Ceceri vécut et-meurt selon de bonnes-lois^-

Car son ame confase et vaguement ravie

A dans Ics jours de paix gouté la douce vie.

Son àme s'est compili, lunette, au fond des bois.

Douce aux destina nouveaux, son ame vegetale

Se disperse aisément dans la forét natale.

L'universelle vie accueille ses esprits.

II retourne a la terre, aux vents aromatiques,

Aux chenes, aux sapins, ses nourriciers antiques,

Aux fontaines, aux fieurs, tout ce qu'il leur a pris49.

49 anatole frange, Les Poèmes dorés, Les Cerfs. [Questo cervo ha vissuto e muore secondo leggi buone; poiché la sua anima confusa e vagamente rapita ha nei giorni di pace gustato la dolce vita. La sua anima s'è compiaciuta, muta, nel fondo dei boschi. Dolce ai nuovi destini, la sua anima vegetale si disperde facilmente nella foresta natale. La vita universale accoglie i suoi spiriti. Restituisce alla terra, ai venti aromatici, alle querele, agli abeti, suoi antichi nutrimenti, alle fonti, ai fiori ciò che ha loro tolto].

In Francis Jammes un uccello incaricato d'esprimere l'anima animale dice:

Pourquoi ne veux-tu pas, poète, que je meure? Ne vois-tu pas tranquillement mourir les fleurs'5050 Le Deuil des Primevères, Le Poète et l'Oiseau. [Perché, poeta, non vuoi che muoia? Non vedi tranquillamente morire i fiori?].

 

Invero è quasi lo stesso. L'animale, come la pianta, è nella natura e per cosi dire non si distingue da essa. La natura ha i suoi cicli, nei quali trascina i suoi esseri e il ritorno delle stagioni riconduce, da un anno all'altro, il grappolo e l'uccello identici a se stessi. Ciò che vive solo per la specie, sopravvive nella specie, cosi tutto è a posto.

Ecco indicata, ancora da un poeta, la differenza con l'uomo. Parlando degli animali e di se stesso, Lamartine scrive : davanti alla morte Ds n'ont ni sentiment, ni murmurc, ni plainte, Et moi je vis assez pour sentir que je meurs 51. 51 Harmonies poétiques, IV, Novissima Verba. [Essi non hanno ne sentimento» ne mormorio, ne pianto, ed io vivo abbastanza per sentire che muoio].

 

Vivere abbastanza, qui, è vivere secondo lo spirito. Ciò cambia tutto; poiché guardando davanti a sé, si giudica la vita con il sentimento del proprio limite, ciò che l'animale non sa fare. La situazione resta in qualche modo capovolta. L'animale muore come si vive; noi viviamo come si muore, sapendo che ogni istante di questa vita può esser l'ultimo e che la scadenza, in ogni caso, è ineluttabile.

L'animale, di per sé non è ne mortale ne immortale; è, senza sguardo sul suo stato, in ogni istante pienezza di sé. Il suo sentimento è puro e non gli guasta l'esistenza. Mortale, non è come se fosse immortale?

Sotto questo rispetto, una morte accidentale e prematura non si" distingue, per cosi dire, per lui da una morte in vecchiaia. Per far differenza, bisogna essere coscienti della vita e della sua misura. L'animale ha il sentimento della vita, ma non ne ha l'idea e non ne percepisce la misura.

Ciò che ci misura l'esistenza, è la molteplicità degli avvenimenti, che contiamo nelle nostre vite. Nei bambini, il cui ritmo di vita è rapido e gli avvenimenti inferiori numerosi, una giornata è più lunga che per l'anziano, per il quale le mattine e le sere quasi si toccano. L'anziano se ne rende conto. Anche il bambino ha più o meno il sentimento del proprio caso, ma solo da un certa età; nella culla non l'ha affatto. Ora, l'animale è sempre in culla, e sotto questo rispetto non c'è per lui condizione d'adulto. Quindi non misura niente. La vita ha per lui un carattere assoluto che non si confronta a nient'altro. Può finire in un momento qualsiasi : la differenza non lo riguarda. Meglio, la morte, che è un male per l'essere che esso è, non è un male per lui. E' un male obbiettivo e non soggettivo, direbbe il filosofo. Non lo tocca che con i suoi prodromi,

cioè al modo della stessa vita. L'animale non sa che sia, per lui, essere morto.

Noi lo sappiamo. Niente c'impedisce di trasferirci idealmente, in finzione, nel momento in cui non saremo più, per rimpiangere, come l'antico Greco, la dolce luce del ciclo, per deplorare ciò che avremo perduto; ciò di cui non avremo potuto sdebitarci, ciò da cui ci saremo separati, etc. Come Girano che, nel momento in cui si espone alla morte, esclama parlando di Rossana: Mourir n'est rien; Mais ne plus la revoir jamais, voilà l'horrible *.* Morire è niente; ma non più rivederla, per sempre, questo è orribile.

E' un'affermazione assurda, in fondo, ma non è per ciò meno pungente. Lo abbiamo osservato sul vivo in una madre : « Allora, non vedrò più Maddalena?... ». Parola straziante, che trae seco una specie d'infinito nei suoi prolungamenti.

A contrasto. Pope scrive nel suo Saggio 52 52 Epistola L :« II tuo appetito condanna oggi l'agnello a morte: se avesse la tua ragione salterebbe e si divertirebbe sul prato? Contento fino all'ultimo momento, bruca il pascolo fiorito e lambisce la mano che si alza per scannarlo ».

Si sa che Pascal rimprovera agli uomini di mostrare troppo spesso simile incoscienza. Ma non si è sempre incoscienti ; vi sono crisi, e il più di frequente alla fine vi sono i terrori. Questa previsione dell'eterno, che è la gloria e il tormento dell'uomo, è estranea al fratello inferiore. Il fatto che esso muoia non fa di lui, che lo ignora, ciò che il nostro linguaggio chiama un « morente » o un «mortale»._ __

Ciò che per concludere stiamo per dire è forse troppo sottile? Non è paradossale affermare che gli animali devono la loro esistenza alla morte e non hanno quindi il diritto di lamentarsene. La morte non è inscritta nella loro stessa natura, che non ha in sé più che uno slancio, la cui ricaduta è prefissata, al termine della sua curva? La loro morte è la loro vita nell'ultima fase del suo dispiegamento, e il suo legame con uno stato ulteriore della stessa materia. Sopprimere la loro morte, vorrebbe dire sopprimere essi stessi. Senza la loro morte non potrebbero essere, non più che l'onda senza il suo frangersi, non più che l'anello senza la catena e Senza l'incatenamento.

Non lamentiamoci dunque se scompaiono e se s'inabissano nella vita universale, donde sono usciti. L'angoscia della morte è prima, e l'animale non conosce prima. L'« è finito » supera la sua esperienza. II « sempre » e il « mai » non appartengono al suo universo.

 

La vera spiegazione dell'enigma

 

A che cosa mirava ciò che precede, se non ad attenuare la difficoltà senza dire niente di decisivo per risolverla?

Sta bene che gli animali soffrono meno di noi, ma soffrono. Sia pure che non conoscono la morte, ma la subiscono con il suo accompagnamento di dolori talvolta atroci, e l'ultimo fremito di vita sostituisce in loro l'ignoto della morte. D'altra parte non hanno niente da espiare, essendo incapaci di peccare e sempre obbedienti alla legge della loro natura. Come spiegare, in queste condizioni, la specie di condanna che pesa su di loro, come sulla natura inferiore dell'uomo?

Rispetto a questa, ci possiamo placare. C'è la vita eterna. Lo slancio vitale e la sua ricaduta riguardano solo la nostra carne. L'anima fugge per la tangente. Ha i suoi tempio, serena e niente impedisce che antìcipi. La speranza! Ne diremo in seguito le virtù. Ma l'animale non ha avvenire, e se il suo presente è doloroso. Colui dal quale il passero non è dimenticato, deve una spiegazione, se si osa dire, per la sua severa provvidenza.

Una prima risposta è questa. Posto ciò che abbiam detto della sofferenza animale — e lo abbiam detto invero solo per ciò — si ha diritto di pensare che nell'insieme e generalmente parlando le bestie sono felici. La natura, che arreca alle loro sofferenze tante attenuazioni, arreca pure compensazioni, che forse hanno più peso di queste stesse sofferenze.

E' vero che in proposito non possiamo dare salde assicurazioni. Non sconosciamo direttamente l'anima animale. Newman diceva :« Ne sappiamo _più sugli angeli che sugli animali». Lo spiegava col motivo che l'intelligenza è più aperta alla intelligenza, suo analogo, che a un'anima oscura tutt'immersa nella materia. Gli Egiziani avevano compreso questo mistero e lo avevano tradotto in simboli potenti.

Si è dunque costretti qui a una certa riserva. Nondimeno alla base .delle nostre congetture vi sono cose certe -e non riteniamo di eccedere se diciamo:« II Creatore è stato buono con gli animali dando loro l'esistenza. Potrebbero dolersene solo se i loro mali, quali li soffrono, superassero i loro vantaggi e i loro piaceri, quali sono loro elargiti ». Non c'è nessuna probabilità che sia cosi; la loro stessa psicologia vi si oppone. Anche le bestie hanno un universo nella loro testa, e non importa che sia piccolo. Possono trovare la loro pienezza in ciò che per noi sarebbe niente, e pienezza non significa perfetta felicità?

La loro pace e la loro gioia si palesano spesso a noi, anche in situazioni che ci sembrerebbero attristanti e penose. Uccelli prigionieri saltellano e cantano. Liberi, rovesciano dall'alto del ciclo cascate di grida. Nei pascoli, nelle stalle e nelle scuderie sembra che le bestie godano ordinariamente una pace profonda. Il rumore delle loro catene, di notte, non è lugubre. La felicità proverbiale del « pesce nell'acqua » non è forse cosi ingannevole. E anche se si tratta di un piccolo chiozzo che i1 luccio passando inghiotte, è forse questa una prova in contrario?

 

L'immaginazione c'inganna. Finché viveva, questo piccolo essere godeva di vivere. Non esiste più: è tutto, e il passaggio dall'essere al non essere comporta per lui assai poca coscienza, e quindi assai poco dolore.

Ha ragione sant'Agostino: è la nostra parentela corporea con i nostri fratelli inferiori che ci inganna sulla loro condizione. Ci mettiamo « al loro posto », e non consideriamo sufficientemente la differenza capitale che ci separa da essi. Differenza decisiva su questo punto e che ci costringe a capovolgere completamente i nostri giudizi.

Ecco quindi l'osservazione che tenevamo in riserva e che ci sembra capace di dirimere il contrasto. Tutti i cristiani sostengono che nella natura generale la materia è per lo spirito. I naturalisti da parte loro affermano che l'evoluzione delle specie viventi si è sempre orientata verso la presa di coscienza più alta, finché è esploso il miracolo detto Yominizzazione, per il quale lo spirito è emerso e ha assunto la dirczione del mondo.

Un fatto cosi strepitoso getta una luce decisiva sul nostro problema. Se la materia è per lo spirito, se la vita inferiore è tutta orientata verso la vita superiore dello spirito, si deve vedere nell'animalità una specie di tirocinio della vita umana, uno slancio verso di essa, slancio raggelatesi ora che il risultato è acquisito —, a meno che non ci sentiamo spinti a continuarlo in noi stessi; ma che in ogni caso lascia sussistere la solidarietà dei due gruppi. Si tratta di una stessa famiglia, di cui il primogenito è riuscito, ha « bucato », l'altro essendo rimasto indietro senza per questo cessare d'essere dipendente, derivando la sua ragion d'essere dal fratello maggiore, la cui esistenza palesa l'intenzione prima della creazione.

Meraviglioso disegno cui ha dato-avviamento l'apparizione del primo seme di protoplasma sulla terra- A motivo della sua attuazione, le bestie sono legate al nostro destino da una comune finalità, che è nostra. Gli animali sono nostri. Lo sono carnalmente in ragione dell'unità della biosfera, di cui l'umanità è il culmine. Lo sono quasi spiritualmente, poiché la carne è per Io spirito e partecipa di esso, nell'animale, in una maniera che ha potuto far pensare a una identità di natura. L'uomo nei loro rispetti è una creatura centrale, che riunisce nella sua costituzione, la più perfetta di tutte, le proprietà vitali di tutti, per quanto erano compatibili.

Ma per ciò la sofferenza animale partecipa come la nostra a quel gemito universale, che prepara i nuovi deli & la nuova terra predetti dall'Apocalisse. Vi si manifesta la legge del sacrificio, legge che l'animale non conosce, ma che noi conosciamo per lui, legge che esso subisce solidamente con noi, raccogliendo i frutti a suo vantaggio sotto forma delle umili gioie che tutto malgrado gli sono concesse.

Il sacrificio animale mirava primariamente al dischiudimento dello spirito e non ha terminato di collaborare a ciò, dal momento che siamo debitori all'animale di molte cose per la nostra educazione individuale e il nostro lavoro, per il nostro nutrimento, vestimento, per i nostri utensili, per la materia delle nostre produzioni, etc. L'animale manifesta nel suo comportamento mille faville d'intelligenza, d'abilità, d'arte e di istinti utili che s'incorporano nella nostra civiltà. Molte volte è il nostro istnittorc, spesso il nostro amico e come avversario non ci è inutile. Ci controlla. C'è tra lui e noi una sorte di comunità e talvolta di rivalità culturale che ci è di profitto. La storia dell'uomo non può essere stabilita indipendentemente dalla sua e non si continua che col suo concorso. La macchina non sostituirà mai completamente questa forza vivente, che vede e a modo suo ci comprende. Non a torto il poeta evoca, tra altri esempi di questo scambio segreto :

Le chien a qui Fon parie et dont l'oeil vous comprend 53. 53 V. Hcco, Les Voix intériewes. Pensar, Dudar. [Il cane, cui si parla e il cui occhio vi comprende].

 

Nel momento in cui scriviamo, in Haute-Savoie, un cane da pastore ritorna alla fattoria spingendo innanzi con piccoli abbaiamenti un gruppo di mucche ch'esso era andato a cercare a tré quarti d'ora da qua, in alta montagna, e che aveva dovuto scegliere una ad una in una massa di loro simili. Ne aveva ricevuto l'ordine nei termini usati, fissi nella sua memoria, e ora veniva gioioso a chiedere la ricompensa.

Non tutta l'immensa tribù animale è in simili rapporti con noi; ma tutta, nella provvidenza, è connessa alla nostra condizione, non esisterebbe se non fossimo dovuti esistere, si tiene disponibile per il nostro servizio e per il servizio generale dello spirito.

L'ère de Fame, en elle, est déjà commencée54. 54 V. hcgo, ibid. [L'era dell'anima, in essa, è già cominciatal.

 

Lo era già

—Aa-eems de& temps.. profonda puThomme n'était pas55. 55 sully pkcdhomme, La /astice, 8° veille. tNel corso dei tempi lontani, in cui l'uomo ancora non era].

Per ciò le sue sofferenze come le sue umili gioie sono mescolate alle nostre, avendo lo stesso significato, tendendo allo stesso scopo, sotto la legge universale del sacrificio, cosciente o incosciente, lo scopo che tutto domina. Uno scopo sublime, poiché si tratta, essendo stato raggiunto lo spirito, di spingersi fino alle forme più alte dello spirito e insieme, si, insieme, con il prolungamento all'indietro di tutta la natura, di « fare degli dei » 5B. 56 H. bebgson, Les deux sources de la morale et de la religiw, alla fine.

 

Ci sembra che ci sia in ciò una giustificazione. Ci si diceva : « L'animale è innocente », ed è vero. Si aggiungeva : « Essendo impossibile il suo svolgimento morale, il suo dolore non viene utilizzato ». Ora, la prova che l'animale poteva per volontà divina accedere all'ordine morale è data dal fatto che noi vi siamo pervenuti. La sofferenza dell'animale pre-umano allora forse non si giustificava : si giustifica ora con ciò che doveva produrre, con ciò che produce, con ciò che produrrà. Se c'è una biosfera propriamente detta, bisogna considerare sotto questo riguardo tutto l'ordine della vita come un solo essere, le cui condizioni di crescita sono infinitamente molteplici, e tra esse il dolore e il sacrificio.

La preoccupazione per la sua immensa opera doveva, per cosi dire, indurire il cuore di Dio contro le nostre debolezze sentimentali. Non si ferma un esercito in marcia verso la vittoria per evitare ferite ai combattenti. E inoltre, bisogna ripeterlo ancora una volta, parlando della sofferenza delle povere bestie, per lo più ragioniamo come bambini ingannati dal loro caso.

In breve, nei riguardi dell'universo, la giustificazione della sofferenza animale è l'uomo divenuto il dio del filosofo e Veletta cristiano. Nei riguardi dello stesso animale, questa sofferenza è lo scotto della sua esistenza, che deve a quest'ordine, e dei piaceri che gliene vengono in compenso dei suoi dolori. Il trionfo del combattente paga la ferita della bestia che egli cavalca come paga la sua, di lui che fa con essa un glorioso centauro. E il trionfo dell'umanità paga la sofferenza immemorabile della terra, del mare e delle acque.

Ci si accuserà di mancanza di rispetto o di bestemmia se diciamo che c'è continuità tra la sofferenza del più piccolo verme e il sacrificio del Cristo? Tuttavia è cosi, poiché il Cristo cammina con la sua croce in testa alla schiera degli umani che va verso il suo ultimo fine, e l'umile animalità sta in disparte o ai fianchi di questa mistica processione, a titolo ^ILJontana a immediata condizione.

 

Caso delle piante

 

Molti si stupiranno di veder introdotto il caso delle piante in un lavoro sul Problema del male. Dall'uomo, che sembra loro la debba accaparrare tutta, possono essere disposti ad estendere la loro preoccupazione all'animale, che vedono soffrire, e di cui alcuni rappresentanti entrano nella loro vita familiare. Ma la pianta!

I principi sopra esposti non ci consentono la più piccola esitazione. La pianta ha una costituzione naturale che può essere alterata dal male. La pianta vive. Anche la pianta ha un'« anima », dalla quale deriva il tipo della sua specie, la finalità organica con il suo ciclo d'operazioni, la facoltà di nutrizione e di riproduzione, l'istinto, la tendenza estetica. Tutto ciò può essere soddisfatto, può anche essere eluso, coartato, ferito e alla fine distrutto dalla morte. Non è male ciò?

La pianta raggiunge il germe animale nel suo grado più basso d'organizzazione e si distingue da esso a fatica. Ci si compiace di dire che se ne distingue almeno per la mancanza di sensazione; ma è un'affermazione assai audace. Siamo soliti classificare gli esseri in compartimenti ben delimitati, etichettati, di gran comodità per la scienza medesima e soprattutto per il linguaggio. Ma la natura se ne ride delle nostre divisioni, s'insinua, continua, « s'imita » dice Pascal, e questo principio di continuità che ovunque sembra presiedere al suo lavoro rende piuttosto improbabile l'assenza di ogni sensibilità in un vegetale di struttura un po' complessa.

Oui, chaque atome de matìère Par un esprit est habité;

Tout seni, et la nature entière N'est que douleur et volupté,

ha detto Lamartine5757 Troisième Méditation, Les Esprits dea fleurs. [Si, ogni atomo di materia è abitato da uno spirito; ogni cosa sente, e l'intiera natura non è che dolore e voluttà].

Parole di poeta? Certo, ma le intuizioni dei poeti hanno il loro valore, inoltre la scienza non sconfessa su questo punto la Musa. Ch. Richet, che non è un poeta, scrive : « Se si cerca un segno preciso che separi l'animale dal vegetale, non lo si trova. Non vi sono caratteri differenziali assoluti tra l'animale e il vegetale ». « Vi sono animali che per tutta la durata della loro esistenza restano immobili, apparentemente insensibili, senza nemmeno, come la sensitiva, la facoltà di sottrarsi con un brusco movimento alle offese esteriori »58. 58 L'Homme et FIntelligence, p. 339

Gli zoofiti, che segnano il passaggio tra il mondo vegetale e il mondo animale, sono dotati di sensibilità : questa non deve forse continuare da entrambe le parti? Se si rifiuta ogni sentimento alle amebe, che probabilmente sono vegetali, non c'è motivo per concederla ai radio-lari, che sono sicuramente animali.

Nello stato attuale delle nostre conoscenze, molti fatti spingono a ritenere che le piante superiori si congiungono agli animali inferiori per la sensibilità, cosi come li raggiungono per l'organizzazione e che ad esempio il convolvolo, il girasole o la foglia di vite sentono la luce verso la quale si dirigono; che la mimosa pudica o la dionea sentono il contatto degli insetti, sui quali le loro foglie si piegano.

La rose, vierge encore, se referme, jalouse, Sur le frelon nacré qu'elle enivre un moment,

aveva detto Alfred de Musset5959 La Nuit de Mai. [La rosa, ancor vergine, si richiude, gelosa, sul calabrone ch'essa per un momento inebria].

. Non è regola che ogni azione riflessa sia preceduta o accompagnata almeno da un minimo di percezione psichica?

Si può pure sostenere che le sensazioni animali legate alla nutrizione e alla riproduzione hanno il loro analogo nell'interno della pianta, tenuto conto della relativa semplicità della sua organizzazione e dell'assenza d'un sistema nervoso centrale che qui non è indispensabile. Può darsi invero che queste sensazioni si producano in maniera strettamente locale, in ordine disperso, e che cosi la pianta nel suo insieme non conosca l'unità di coscienza. Poco importa ; se sente è nella condizione di soffrire, e in ogni caso, questa volta sia nel suo insieme che nelle sue parti, può subire gli attacchi in cui consiste essenzialmente il male.

Se in materia fosse consentito esprimersi da puro filosofo si direbbe:

Una certa soggettività di ogni vita è inevitabile dal momento che è un ritorno dell'attività su se stessa: motus ab extrinseco. Ciò dovrebbe essere tanto più vero quando la vita si manifesta non più in una forma ancora indeterminata, come nel protoplasma, ma in una forma nettamente individuale, come in un rosaio o in una quercia. Un albero, un arbusto è un indivìduo. Non è anche un soggetto? Lo si riterrebbe o priori, se non si pensasse di avere l'evidenza contraria. Ma questa evidenza, estrinseca, non inganna? Le piante talvolta reagiscono altrettanto decisamente di certi individui di specie animali inferiori. Dormono e si risvegliano. Sono sensibili al cloroformio e agli eccitanti allo stesso modo dell'animale, come ha sperimentato Claude Bernard. Non è questo il segno di una

•certa emotività, per diffusa e subcosciente che si supponga? Si può percepire senza appercepire, per adoperare il linguaggio di Leibniz 60 60 Oeuvres, Ed. Dutens, II, B. 40.. Le piante forse non appercepiscono che esse percepiscono, intorpidite in ciò che Schlegel chiama una « divina pigrizia » ; ma che non percepiscano in nessun modo, si stenta a credere.

Darwin, in base a numerose osservazioni, non esita ad attribuire al vegetale la facoltà di sentire e persino un inizio di attività volontaria. Cita a sostegno un gran numero di fatti notevoli, che sono stati poi

•osservati da altri6161 darwin, Trattato di zoonomia; L. labat, De rimtabilité des plantes, de l'analogie qu'elle peut avoir avec la sensibilité organique des animaax, 1834, Germain Baillière.. Constatando come tutti che le piante sono soggette all'anestesia e al sonno, ritiene di osservare in esse, di notte, movimenti simili a quelli provocati dai sogni.

Da parte loro, Bonnet, Humboldt, de Saussure, hanno riconosciuto alle piante movimenti spontanei, e sembra assai certo che la spontaneità e la sensibilità siano due fenomeni inseparabili.

Le piante insettivore, particolarmente interessanti a questo proposito, sono state studiate da Darwin in un'opera speciale (Le piante insettivore). Recentemente, nel 1926, il sistema nervoso delle piante è stato posto fuori dubbio e studiato con metodi molto precisi da sir Yagadis Chunder Bos, direttore dell'Istituto di Ricerche di Calcutta, in un'opera intitolata :

Thè nervous mechanism of plants. Vi si trova stabilito che, almeno nelle piante vascolari, c'è un sistema nervoso ben definito, come nell'animale, con centri per la trasformazione dell'eccitazione in movimenti efferenti. L'impressione passa dal fusto alle foglie e dalle foglie al fusto, con

•velocità variabili a seconda delle stagioni e dello stato di salute della pianta. Sotto questo riguardo nella pianta e nell'animale si rivela uno stesso meccanismo. Per la verità, non si è scoperta una struttura corrispondente al ganglio animale, ma essendo stati constatati i fatti fisiologici si può sperare di trovarne un giorno l'equivalente istologico. Non è detta i'ultima parola.

In queste condizioni non si può affermare con certezza che vi sia sensazione propriamente detta, cioè percezione soggettiva. Le Dantec lo metteva in dubbio per i suoi stessi fratelli umani. Il soggettivo è percepito-solo dal soggetto. Ma l'analogia, congiunta al principio di continuità,. induce fortemente a crederlo, per vaga che d'altronde possa supporsi questa percezione. In questo caso si dovrebbe vedere nella pianta un soggetto di dolore, e la caduta di un bell'albero o un incendio di foresta assumerebbe un senso più tragico.

Difronte a un grande abete in fiamme oppure che cade, dopo un ultimo colpo di scure, con uno strepito cosi commovente, si stenta a immaginare un'assenza totale di percezione penosa. E forse è pura immaginazione; ma forse è l'opinione contraria un difetto d'immaginazione. « Sembra che qualcosa abbia gridato, pianto, tremato nel cuore dell'albero », dice in qualche luogo Tolstoi. Lamartine fa dire ai cedri della Chute d'un Ange: Et nous, n'avons-nous pas une ame Dont chaque feuille est une voix? *

Qui la metafora scoppia. Ma c'è qualcosa di più in questo verso di Gerard de Nerval tolto da un celebre sonetto: Chaque fieur est une ame a la nature éelose, e l'affermazione è ormai assai decisa in Sully Prudhomme, quando paria delle piante

Où le silence est fait d'impuissance a gemir, o quando invoca come noi il principio di continuità in questa forma poetica :

La sève que j'y vois courir Est déjà du sang, pale encore. **

Continuità che si compie in questa osservazione: Tout etre a, dès qu'il sent, quelque chose d'humain62. 62 sully prudhomme, La Jwtice, 2" veille. [Ogni essere, dal momeiyo che sente, ha qualcosa d'umano],

Non si potrebbe esprimere questa stessa continuità naturale dicendo r L'uomo è un animale che pensa; l'animale è una pianta che sente e che imita il pensiero; la pianta è uno stormo di atomi che vive e che imita la sensazione; il tutto è un'organizzazione in nome del bene e cosi si presta al morso del male?

E noi, non abbiamo un'anima noi, di cui ogni foglia è una voce?

Ogni fiore è un'anima dalla natura dischiusa —; In cui il silenzio è fatto" d'impotenza a gemere —; La linfa che vi vedo scorrere è già sangue, ancor pallido.

 

II bene, abbiam detto, e perché non facciamo intervenire il concetto del bello? Una donna, alla quale una malattia ruba la bellezza non considera questa disgrazia un male? Molte bestie sono sensibili a questo accidente. Allora si nascondono. L'ostentazione di bellezza che accompagna nella pianta le funzioni di riproduzione non sembra testimoniare una sensibilità analoga, una specie di segreta coscienza estetica? Il fiore dispiega i suoi petali come il pavone la sua coda. Si direbbe che anch'essa si mostra, anziché soltanto lasciarsi vedere.

Inoltre, oggettivamente parlando, il problema del male che si pone per gli umani e per gli animali a motivo della bellezza, e non soltanto della sofferenza, si pone pure a questo riguardo per le piante. Porre il piede su una rosa sbocciata ci sembra una specie di profanazione. Ora, la misura delle bellezze floreali e vegetali, nella natura, non è minore di quella delle bellezze animali; è superiore. In ogni modo il problema s'imponeva, e nessuno ha diritto di negarne l'esigenza.

In una lettera all'editore Dunoyer, Baudelaire scriveva : « Sono incapace di intenerirmi sui vegetali ». Sia ! Non si singhiozza al veder abbattere un albero, ma un contadino è impressionato già da questa grandezza abbattuta, da questa bellezza distrutta. Assi, al posto della quercia di IVIambré!... E tutte queste umili vite che sono i fiori dei campi, le meraviglie dei nostri giardini, le siepi primaverili non sono un poco nostre sorelle e non ci commuovono?

Baudelaire stesso scrive nel medesimo passo : « La musica prodigiosa che vaga sulle cime mi sembra la traduzione dei lamenti umani ». Da che cosa dipende questa musica se non dall'inquietudine delle fronde tormentate da grandi soffi di vento? Vi sono pure altre musiche, non meno significative, che indicano una fraternità tra gli esseri, simbolo cosi gli uni degli altri. Si ricordi Baudelaire: Là nature est un temple où des vivants piliers Laissent parfois sortir de confuses paroles;

On y marche a travers des forets de symboles Qui nous frolent avec des regards familiers63. 63 Les Fleurs du, Mal. [La natura è un tempio in cui colonne viventi lascian talvolta uscire confuse parole; vi si cammina attraverso foreste di simboli, che ci •sfiorano con sguardi familiari].

 

Conclusione. Anche le piante sono soggette al male e non possono essere escluse ne dall'universale lamento degli esseri, ne dall'universale redenzione.

 

Si comprenda il senso che qui diamo alla parola redenzione. San-Paolo ce lo ha commentato con forza, e il discorso di Galilea sui fiori dei campi e gli uccelli del cielo, le effusioni dei salmi nello stesso senso. hanno colto la realtà della natura meglio del filosofo pessimista. Il lato d'ombra è in tutto e ovunque facile da dipingere; ma il cantico universale-ha le sue ragioni, e tutte le creature sono invitate a cantarlo insieme.

Tutto ciò che è sulla terra: rocce, terre, acque, atmosfera, piante,. animali ragionevoli o irragionevoli, è l'umanità in potenza o in attuazione, in stato di risveglio o di compimento, in sostanza o in prolungamento. Pertanto la condizione comune è per cosi dire la stessa, e il risultato può concludersi con lo stesso Amen mistico alla fine dei tempL

 

NOTA DEGLI EDITORI

La stesura di quest'opera, alla quale U P. Sertillanges lavorava da più di cinque anni e che doveva coronare la sua carriera di scrittore, era a questo punto il 25 luglio 1948.

Come usava fare da quattro anni, U Padre s'era ritirato durante l'estate nell'ospitale casa delle Domenicane di Sallanches, in Haute-Savoie e, di fronte al grandioso massiccio del Monte Bianco, proseguiva la sua opera con accanimento. Quell'anno, per portare a termine il suo lavoro, aveva anticipato la data ordinaria del suo laborioso ritiro. Niente nel suo stato di salute poteva suggerire preoccupazione: i suoi ottantacinque anni non avevano indebolito la sua attività. E nondimeno, come se presentisse confusamente che i giorni per lui erano contati, aveva fretta di finire la sua fatica.

Lavorava alla composizione del -secondo volume, in, cui, dopo aver esposto criticamente la storia del problema del male attraverso le filosofie, avrebbe proposto la sua risposta in uno studio sintetico, cui si era accostato a più riprese nel corso della sua opera e che ora si trattava di fissare in tutta la sua ampiezza.

Assistiamo a una specie di corsa patetica: per ciascuno dei capitoli che finisce, si direbbe che abbia riportato una vittoria sul tempo. « Tutto ha ritrovato il suo posto, e il lavoro è in corso, scriveva da Sallanches il 3 giugno 1948. Ho classificato le note del mio primo capitolo: "La natura del male ", e ne ho scritto quattro pagine doppie... ».

Negli ultimi anni, aveva accumulato note sul problema che lo premeva: un pensiero che sorgeva improvvisamente dalla sua mente al lavoro giorno e notte, un abbozzo di svolgimento, una citazione in occasione di una lettura, secondo il metodo che aveva preconizzato ne La Via Intel-lectuelle. Si trattava ora di dare la vita a questo cumulo di foglietti disparati.

A partire dal 10 giugno, terminato il primo capitolo, comincia U secondo. Trentotto pacchetti di note sono classificati. « Questo Capitolo è il più importante, scrive a un corrispondente; è il capitolo sintesi; se riuscisse, la battaglia sarebbe vìnta ».

Aveva dovuto lottare duramente contro la pesantezza di questa massa da ordinare, voleva arrecare un estremo rigore nella confusione e oscurità di questo difficile problema. Si era dato consegne, che aveva fissato per iscritto:« Cercare che il piano si dispieghi come un concatenamento necessario. Un piano inclinato permanente ». Provava ora fatica a mantenere la sua decisione, e questo infaticabile lavoratore, che scriveva come

•si respira, annotava alla data del 17 giugno: «Avevo scritto, negli ultimi storni della mia preparazione: Mi sento ricco, adesso bisogna saper spendere. Ahimè! quanto poco importano queste parole d'ordine quando si prende in mano effettivamente la penna; ci si sente schiavi della materia anziché dominarla e trascinarla in un bello slancio. Non importa, non sono malcontento di ciò che ha fatto fin qui. Continuando cosi, spero d'arrivare in porto ».

Il 24 giugno, il P. Sertillanges intravedeva la fine di questo secondo capitolo, che gli aveva dato tanta preoccupazione. Ancora tre o quattro giorni, diceva, e sarà finito. « Ma allora, molto sarà stato ottenuto, poiché, ve I7 ho detto, è il capitolo centrale che avrà influenza su tutto il resto ».

Il 1° luglio il punto era posto a questo secondo capitolo, che aveva assunto proporzioni cosi imponenti che bisognò sdoppiarlo. Come il buon operaio che si frega le mani dopo un duro compito portato a termine, Fautore dichiara d'esser contento: « La somma d'idee è considerevole e eredo che sia nondimeno vivo, e vario sia di tono che per i punti di vista ».

Si spiega sulle difficoltà che ha dovuto superare. Questo capitolo cruciale tratta invero dell'origine del male. D'altronde è in esso che espone il problema capitale dei rapporti di Dio e della -sua creazione, e cosi quello del peccato originale come spiegazione del male. Nella seconda parte, diventata il capitolo III : « Alle prese con l'avversario », si sforza di risoondere alle obiezioni sollevate dall'insuccesso iniziale di Dio, dalla— scacco della Riparazione, dalla protesta dell'Abisso e dal prezzo della libertà. Il Padre aveva l'impressione d'aver trionfato in questa prova con suo onore: « Se il resto ha la stessa vena, spero di metter insieme un'opera utile e che, fino ad oggi, non esisteva ».

Prima di passare al quarto capitolo, il P. Sertillanges decise di metter in pulito il suo lavoro, le carte essendo sovraccariche di aggiunte e di correzioni. Come succede in questi casi, questa fatica fastidiosa gli diede occasione di dare maggior stringatezza al testo e di perfezionarlo. « E' ora pronto per la stampa, scrive F8 luglio, di modo che se domani m'accadesse qualcosa, potrebbe benissimo esser pubblicato. Il lavoro, come, non è molto ricco, ma ha di che vivere; poiché tutti i punti di vista generali sono considerati. Domani mattina affronto " II male nella natura "... ».

Lavora con tutte le sue forze. A Sallanches, il tempo cattivo non invita alla passeggiata. Meglio: come il suo compatriotta di Clermont-Ferrand, il P. Sertillanges ha le sue nebbie e il suo bei tempo nell'intimo. « II tempo e il mio umore hanno poco nesso... ». Non dipende per niente dalle condizioni atmosferiche e poiché gli è preclusa la passeggiata quotidiana, l'opera ne avvantaggia.

Siamo al 15 luglio. «.Ho portato avanti il quarto capitolo: "II male nella natura". Oggi ho scritto un lungo paragrafo (un piccolo capitolo} intitolato " II Cantico ", che è abbastanza cantante. Comprendete che cosa significhi ciò: la natura in quanto ordine e bellezza. .Domani tratterò degli animali; ho in proposito molte idee, e una nuova, credo, e illuminante ».

Ma ad un tratto ecco riflessioni che non ci fanno più sorridere, poiché si spiega sull'allusione alla sua prossima fine, nella lettera delT8 luglio che aveva messo in apprensione il suo corrispondente:

« Credete, non ho voglia di vedermi morto. Ma non si sa mai; allora si è contenti di avere una piccola eventuale assicurazione. A ogni capitolo mi dirò: Ecco una piccola garanzia in più».

In data 21 luglio: « Qui tutto bene. La mia salute è sempre perfetta. Ho terminato il capitolo su " 11 male nella natura ". Ciò che riguarda gli animali e le piante ha richiesto più pagine che non credevo. Penso che non sarà privo d'interesse. Sto ricopiando questo capitolo ».

Era un mercoledì, quando il P. Sertillanges scriveva familiarmente queste linee. Non gli restava più da vivere che fino al lunedì. Quel giorno era la festa di sant'Anna, sotto la cui protezione era posto il Preventorio delle Domenicane, di cui era f'ospite.

In quest'occasione, la direttrice gli aveva chiesto di rivolgere qualche parola al gruppo di ragazzi e di giovinette, degli operai e degli studenti della regione parigina, alloggiati allo Chalet Sdinte-Anne, e ai contadini del casale. Non era la prima volta che il celebre oratore della Madeleine parlava a quest'umile uditorio. Certo, avrebbe potuto abbandonarsi, a caso, all'ispirazione o all'improvvisazione, ma rispettava troppo gli spiriti, fossero pure i meno esigenti, per non dedicare tutte le sue cure al lavoro più semplice, e si era preso la briga di redigere questa breve allocuzione.

Si preparava dunque a celebrare la messa del 26 luglio in una cappella rustica dedicata a sant'Anna, a pochi passi dal padiglione, in cui si trovava la camera che occupava. Poiché tardava un poco, lui sempre scrupolosamente preciso, si bussò alla sua porta per avvertirlo ch'era ora e che l'uditorio lo aspettava.

Poiché non rispondeva, bisognò spingere la porta: il P. Sertillanges, steso sul letto, aveva da poco esalato l'ultimo respiro. Mentre si preparava a scendere in cappella, rifletteva sul suo breve discorso. Gli parve che dovesse aggiungere un finale meglio riuscito. Smise di vestirsi e, sedutosi al tavolo di lavoro, scrisse queste righe, le ultime che dovevano uscire dalla sua penna:

« E poi anche noi pregheremo gli uni per gli altri, non è vero, per pagare i nostri debiti reciproci, e affinchè il buon Dio ci conceda di approfittare sempre più dei suoi benefici per avvicinarci sempre più a lui e andarlo un giorno a ritrovare nel suo paradiso ».

Dopo aver scritto quest'ultima parola — la risposta pratica al problema del male —, il 26 luglio 1948, verso le ore 7 e mezzo del mattino, il P. Sertillanges sentendo d'un tratto che il suo cuore cessava di battere, si distese per addormentarsi nel Signore.

La sua grande opera non restava, in verità, incompiuta. Il P. Sertillanges aveva ripetuto e scritto in diverse riprese, durante i suoi ultimi giorni, che ormai l'essenziale era detto e che il resto era secondario. I capitoli, che rimanevan da comporre su « II male nella vita umana, nella

122 NOTA DEGLI EDITORI .

storia e netta città di Dio », li concepiva come corollari della parte metafisica ch'egli aveva elaborato.

Aveva tuttavia una coscienza troppo viva del mistero per non lasciare in sospeso tultima ragione che avremmo di conceder fiducia a Dio non ostante il male sotto tutte le sue forme. Per ciò l'ultimo suo capitolo doveva, a modo di conclusione, immergerci nel senso del mistero davanti a questo problema formidabile e oscuro, sul quale nessuno quaggiù avrà l'ultima parola, il solo problema, in definitiva, che ci ferma ai confini i del creato e della soprannatura. Si potrà giudicarne dai pochi pensieri ^ che facciamo seguire a questa nota e che il Padre avrebbe inserito neìla \ conclusione. '

Non c'è risposta compiuta e esauriente. Se il fascio di luci che questo lavoro approfondito getta sul problema ci fa intravvedere Dio che | spalanca le sue braccio, solo « la fede vivente, cioè animata d'amore », ci indurrà a rannicchiarci nel cuore di Dio. « Soltanto da questo rifugio, ci si può rivolgere all'opera, e con lo sguardo a Lui, comprenderla. Sema di ciò, anche sapendo che lo ha fatto, il suo universo ci sembrerà uno scandalo ».

Alcuni pensieri, raccolti nelle numerose schede che dovevano aiutare l'autore a comporre l'ultimo capitolo, ci permetteranno di accettare meglio U mistero.

IL MISTERO

II problema fondamentale è questo : Perché il male è incluso in un ordine ritenuto buono? Perché c'è cosi opposizione tra il fine e i mezzi? Perché la felicità è posta nella dipendenza della sofferenza, la salvezza nella dipendenza della caduta possibile, probabile e, per Io sguardo divino, certa? Perché la salvezza d'uno è legata alla perdita dell'altro? Perché la vita presuppone la morte? Quest'ordine sembra cattivo. E non si può dire che un altro non può esistere; significherebbe negare l'onnipotenza divina. Da questo punto di vista, si comprendono le supposizioni manichee e si capisce che la tentazione ne sia stata cosi frequente.

E' certo che coloro che domandano un altro universo in cui il male non esisterebbe non sanno ciò che chiedono. Sarebbero in imbarazzo se dovessero definire tale universo e incapaci di costituirlo. Ma ciò non è un argomento sufficiente contro di loro; poiché le nostre possibilità di concezione non uguagliano la potenza divina di concepire e di fare. Da parte nostra, abbiam detto ciò che abbiamo potuto. Ma se lo scandalo è cosi escluso, non lo è il mistero.

Per dare una soluzione decisiva al problema del male, occorrerebbe attuare una condizione che sfugge necessariamente a tutti, cioè illuminare la connessione del pensiero divino e del pensiero umano, cioè del relativo e deU'assoluto, del finito e dell'infinito.

La connessione la nominiamo, è Fazione, o, meglio, la relazione creatrice; ma non la penetriamo. Poiché, come dice profondamente Victor Delbos, « tra l'infinito e il finito, che l'atto creatore unisce, c'è ancora un infinito » (Le problème mond dans la philosophie de Spinoza, p. 501). Si, un infinito ; poiché una unione reale implica la presenza intiera dei due termini, dei quali uno è qui l'Infinito in persona. Di modo che per definire la partecipazione, che ci illuminerebbe il resto, bisognerebbe definire Dio,

324 IL MISTERO

•che è per noi un abisso di luce, cioè un abisso che ci abbaglia, cioè un abisso di tenebre.

In nostro potere rimane di cercar di definire questi rapporti sia con simboli, sia nel caso migliore con analogie parzialmente valide, ed è appunto ciò che abbiam fatto, opponendoci, invece, ad analogie meno valide poiché troppo lontane. Ma in nessun caso perveniamo alla radice "delle cose.

Dinnanzi al mistero e al silenzio del mondo c'è scampo solo nelle traccia di Dio. Solo da questo rifugio ci si può rivolgere all'opera e, •con lo sguardo a Lui, comprenderla. Senza di ciò, anche sapendo che lo ha fatto lui, il suo universo ci sembrerà uno scandalo. Al fondo della nostra adorazione vi sarà bestemmia, dubbio al fondo della nostra affermazione. Bestemmia sconfessata, dubbio virtuosamente scartato, ma conservanti entrambi il loro morso. Si potrebbe dare questo senso alla grande parola di sant'Agostino quando constata che « il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Dio ».

In questo mondo, lo può con la fede e l'amore fiduciosi.

Dio può agire solo per il Bene ch'egli stesso rappresenta. Dove altrimenti troverebbe un motivo per agire? Come si concili questo Bene con il bene della creazione nel suo insieme e col bene di ogni singola creatura,

-è il problema della creazione, dei fini divini della creazione, delle volontà

-e delle permissioni divine della Provvidenza, del bene e del male che potranno incontrarsi sotto questo governo. E si vede che in ciò, alla :fme, sta un mistero impenetrabile.

Questo problema comincia con quello dell'essere partecipato; continua 'con quello dell'attività divisa, con quello dei fini considerati e, infine,

-dei fini ottenuti. E si deve pensare che lo stesso mistero si trova ovunque. In che modo noi siamo, dal momento che Dio ha tutto l'essere? In che modo agiamo liberamente, dal momento che Dio fa tutto? In che modo possiamo tendere ai beni che ci appartengono, dal "momento che l'impulso che ci crea tende e non può tendere che all'Infinito del bene?

Come possiamo concepire in questo cammino da Dio a Dio deficienze

-chiamate male o peccato, dal momento che l'impulso che attiva o trascina tutto si mantiene perfettamente in regola, e come infine, nel risultato, c'è armonia tra il male che sussiste e la soddisfazione del volere divino tendente al perfetto? Tutto ciò è connesso e manifesta ad ogni grado

-la stessa dose di mistero.

IL MISTERO 125

Quando ci rifugiamo nell'uso della celebre esclamazione O (dtitudo!..., si dice che fuggiamo e rinunciamo a ragionare. Al contrario, ragioniamo molto bene e obbediamo a una regola della ragione che non si dovrebbe mai misconoscere, cioè di non rinunciare a una certezza per un dubbio, a un sapere sicuro per un'ignoranza. Sappiamo di scienza sicura, per ragionamento dimostrabile cosi come per convinzione religiosa, che Dio è sovranamente potente, saggio e buono. Non rinunceremo a questa certezza per apparenze sia pure inquietanti, anche se sfioranti l'evidenza, relative alla piccola parte del piano divino che possiamo esplorare e che non è niente rispetto all'insieme.

Il bene e il male essendo in lotta perpetua e dandosi reciprocamente occasione in ogni dominio e a tutte le tappe temporali dell'attività, il problema della legittimità del male in una creazione saggia e buona può essere risolto solo per mezzo di una conoscenza integrale dell'ordine del bene.

Ora, l'ordine del bene può essere conosciuto in due stati : nella sua sorgente e nella sua partecipazione globale derivata dal fatto creatore.

Nella sua sorgente, il Bene è Dio stesso, che potremmo conoscere solo. con una intuizione diretta, che, beninteso, è aldilà dei nostri poteri. E' la sorte degli eletti nella visione eterna.

Il bene partecipato nella sua integralità essendo temporale ' può esser conosciuto solo dopo l'intiero dispiegamento del tempo, nell'ora di ciò che san Paolo chiama il Perfetto, che non sarà la fine dell'attività, ma sarà la fine della ricerca, di modo che l'ordine dei fini e dei mezzi sarà interamente manifesto e il piano potrà essere giudicato, poiché in ciò consiste.

Fino a quel momento c'è solo un buon argomento ad uso degli obbiettanti e ad uso pure degli apologisti troppo sicuri di se stessi :

quello di Giobbe, Giobbe che si sente dire : « Troverai la natura di Dio? Penetrerai fino .in fondo l'Onnipotente? » (XI, 7).

I misteri non sono vuoti. Si può dire senza paradosso, hanno più densità che tutto il resto, ed è appunto la loro densità adamantina che li rende impenetrabili. Nella loro notte il pensiero illuminato assicura les sue articolazioni e trova la sua forza.

Quando diciamo, del problema del male, che la sua ultima soluzione è nel mistero, non affermiamo dunque che sfugge al reale e svanisce; notiamo che essa raggiunge l'Essere pieno, le cui comunicazioni hanno una radice comune inaccessibile al pensiero come questo stesso Essere, e diciamo che la partenza come il ritorno dell'essere degradato, poiché è creato dall'essere, misto d'imperfezione e pertanto soggetto al male, può apparirci solo mediante una intenzione totalizzante includente lo stesso Creatore. Ciò non è vacuità, ma pienezza. E' la visione beatifica postulata e espressa negativamente sotto il nome di Mistero.

 

INDICE

CHE COS'È' IL MALE?

Il male non è una realtà

II male è una privazione

Equivoco del « male metafisico

E male è positivo in un senso

Perché il male sembra un'esistenza

H male non ha causa prima

Carattere innaturale del male

Il caso della pura materia

Il caso del dolore

II caso del male morale

DA DOVE VIENE IL MALE?

Il pessimismo

II dualismo

Un dualismo incosciente

II peccato originale come spiegazione del male

Rimproveri fatti a Dio a motivo del male

Le ragioni della creazione

La libertà nella creazione

Gli attributi di Dio nella creazione

II male ne deriva

Insensate esigenze dei critici

L'umiltà di Dio nella creazione

Utilità del male nel gran Tutto

II caso degli individui

ALLE PRESE CON L'AVVERSARIO

Lo scacco iniziale di Dio

Lo scacco della riparazione

La protesta dell'abisso

 

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INDICE

II valore della libertà

La libertà limitata al bene

Tutto considerato

Dio fa solo il bene

La volontà permissiva

I fini governano

L'estasi unificatrice

II Cristo giustifica tutto

IL MALE NELLA NATURA

Uno sguardo troppo umano

Due aspetti opposti della natura

Ancora il peccato originale

L'argomento della bellezza

I difetti della natura

I cataclismi

La strage

La testimonianza della fede

Tutto considerato, la natura è buona

II Cantico

La sofferenza animale

La morte degli animali

La vera spiegazione dell'enigma

II caso delle piante

APPENDICE

Nota degli Editori

Conclusione : il Mistero

 

 

 

 

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