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A. D. SERTILLANGES O. P.
IL PROBLEMA DEL MALE
LA SOLUZIONE
MORCELLIANA - BRESCIA
1954
Titolo originale dell'opera:
LE PROBLÈME DU MAL Traduzione di giovanni scotuzzi
Tutti i diritti riservati in tutti i Paesi Copyright
by Morcelliana 1954
, Printed in Italy
Tipografia Editrice « Morcelliana » - Broscia
CHE COS'È' IL MALE?
Si parte sempre da una definizione. Di qui vengono
quasi tutte le ulteriori determinazioni. La preoccupazione comune è di
trovare il covo di questo nemico, che si chiama il male e di sapere da
dove viene. E se si suppone che abbia questa o quella causa cosciente, un
perché doloroso mette subito questa causa in stato di accusa, se si osa
dire, a meno che non si preferisca negarla per il suo stesso onore.
Tuttavia, nell'ordine della ricerca, questa preoccupazione è secondaria.
Prima di sapere donde venga il male, conviene domandarsi ciò che esso
sia. Non è assurdo, dice Sant'Agostino, cercare l'origine d'una cosa
sconosciuta?
L'evidenza del male colpisce ognuno, e alcuni
preferirebbero accontentarsi di ciò, trattando come sottigliezze le
determinazioni più necessario. Ma l'indeterminato comporta troppi
inconvenienti perché cediamo qui alla facilità. Vogliamo soddisfare i
pensatori, e siamo persuasi che, trascurando le basi, si espone la verità
a tutte le misconoscenze e a tutte le contraddizioni.
Il male non è una realtà naturale
IlJmale è l'opposto del bene, e per lo sguardo
semplicista sarebbe volentieri qualificato cattivo ciò che compromette il
nostro bene o semplicemente ci da fastidio. Sotto questo rispetto,
la belva, il serpente, il topo, lo scorpione, la cimice, la pulce
appartengono al male. Sono bestie sporche. Ma lo scienziato non conosce
bestie sporche, vede ovunque mirabili organizzazioni e prodigi di
attività creatrice. Quanto al metafisico, a maggior ragione si rifiuta di
chiamare cattiva una qualsiasi natura d'essere, per il motivo che una
natura siffatta non potrebbe ne agire ne ricevere un'azione, e che posto
potrebbe pertanto occupare nel mondo? Non potrebbe agire, poiché ogni
essere agisce solo in ragione d'una perfezione, che esso possiede e mette
in opera. Non potrebbe ricevere un'azione, poiché in ogni soggetto
d'azione, preso in quanto tale, si attua un'evoluzione, nella quale si
manifestano e trionfano le qualità dell'agente. Il male, preso in se
stesso, è dunque estraneo all'essere e alla causalità; non vi si può
vedere che una mancanza, un'assenza, un niente di realtà, non
un'autentica realtà.
A ciò il teologo aggiunge: ogni realtà è Dio o viene
da Dio. O Dio non è, o è sorgente universale d'essere. Pertanto,
affermare un'esistenza cattiva, vorrebbe dire introdurre il male in Dio;
poiché questa esistenza essendo necessariamente creata, cioè emanata da
Dio, partecipante di Dio e così somigliante a Dio, denuncerebbe in Dio
una tara incompatibile con . la sua perfezione sovrana. Abbiamo infatti
visto i sostenitori della positività del male, quando erano coscienti
delle loro affermazioni, optare col Renouvier per un Dio finito, concetto
che suscita orrore in un vero teologo.
Nel senso rigoroso dell'espressione, l'essere del mondo
partecipa di Dio. E' appunto ciò che significa partecipazione. Se
dunque il male ha un essere proprio, vuoi dire che in Dio c'è del male.
Conclusione tanto più rigorosa, in quanto che, per il teologo, la
creazione, benché distinta da Dio, contrariamente alle concezioni
panteistiche, non viene tuttavia ad aggiungersi a Dio, tanto è totale la
sua appartenenza. Come la sua perversione, se fosse una qualificazione
positiva del suo essere, potrebbe non trapassare in Dio, vale a dire
annullare Dio? « Che possa esistere la pura malignità, dice l'Emerson,
è una dichiarazione di ateismo » 1.
Il male è una privazione
Ma a questo punto sopraggiunge in molti un equivoco
capace di sconvolgere tutti i giudizi e di introdurre nelle esposizioni
perpetui fraintendimenti. Per il fatto che si rifiuta al male una
esistenza positiva, una propria natura e un'attività che gli appartenga,
alcuni concludono che lo si nega puramente e semplicemente, che si elude
così un terribile problema.
Il male non sarebbe dunque che un bene minore, una mera
negazione del perfetto, un limite? Ciò, si dice, non regge. La virulenza
del male è troppo evidente. La rivolta che il male eccita nelle coscienze
non autorizza una palinodia metafisica valida solo a parole. E quanto agli
orrori che abbiamo visto ai nostri giorni, quelli che punteggiano i
racconti della storia a partire dal primo assassinio? Invero la burla ha
dei limiti, e vi sono argomenti, nei quali la filosofia perde quel potere
di mistificazione, che gli scettici le hanno in ogni tempo attribuito.
Non insistiamo e diciamo subito : ci si sbaglia. Non si
nega il male per il fatto che gli si rifiuta una realtà positiva, così
come non si nega e non si cessa di deplorare lo strappo d'un tessuto
pregiato dicendo che questo buco non è tuttavia un essere.
E' di immensa importanza sapere e proclamare che il
male non è un essere; ne abbiamo detta or ora la ragione. Ma ciò non
diminuisce per nulla la gravita del problema che esso pone; ciò non ne fa
affatto un semplice limite, una semplice diminuzione di bene, una semplice
negazione.
Anzi che negazione, dite privazione, e tutto cambia. E'
per non aver avvertito il peso di tale distinzione che alcuni pensatori si
sono indignati davanti alla tesi della non-positività del male. Bisogna
riconoscere che
1 Gli uomini rappresentativi, Swedenborg.
EQUIVOCO DEL «MALE METAFISICO»
Alcuni filosofi ve li hanno aiutati, quando hanno
parlato, come Leibniz, peraltro senza errore di dottrina, di un mede
metafisico, consistente semplicemente nella imperfezione che è
propria necessariamente di ogni creatura.
Una denominazione simile è abbastanza sorprendente da
parte di un filosofo ottimista; poiché se ogni assenza di bene fosse un
male, si sarebbe portati a professare un pessimismo universale. Nondimeno
questo modo di parlare non è interamente arbitrario, e Gesù stesso
sembra di questo parere quando dice al giovane ricco: «Perché mi
chiami buono? Nessiwo è buono, se non Dio » (Luca, XVIII, 19). Ciò
che si chiama bene, in questa terminologia, è il bene per antonomasia, il
bene perfetto. Ed è certo che l'imperfezione del creato è all'origine di
ogni male, come dovremo mostrarlo in seguito. Ma l'origine del male non è
il male. Un essere limitato, a qualsiasi livello sia della scala degli
esseri, ha la possibilità di essere perfetto nei limiti della sua natura
e così di non comportare alcun male.
Meglio, nell'ordine del creato, l'idea di limite è
inclusa nella caratteristica del bene, poiché serve a definire tutti gli
esseri. Che cos'è definire, se non limitare? E' il limite che stabilisce
un essere nella sua propria essenza. Se il triangolo non fosse limitato a
tré lati, non sarebbe un triangolo, e il triangolo non esisterebbe
affatto. E se una qualsiasi creatura non fosse limitata a un'essenza
particolare, questa creatura comprendendo in sé la pienezza dell'essere
sarebbe Dio. Confondendo il bene con il perfetto, è come si
proibisse a Dio di realizzare un qualsiasi bene, non potendo Dio
riprodurre se stesso ; è come si ammettesse la conseguenza che ogni
essere è cattivo per il fatto che non è un altro essere, etc.
Sotto questo riguardo, il preteso male metafisico di
Leibniz, del quale abbiamo incontrato precedentemente tracce in
Origene2, appare abbastanza antimetafisico. Lo si può
ammettere come espressione, poiché le definizioni delle parole
sono libere; ma poiché può dar luogo a confusione, è meglio escluderla.
Si dirà allora che il male non è una certa natura d'essere, non è
neppure un grado inferiore d'essere; è una assenza d'essere avente il
carattere d'una corruzione nei riguardi di ciò che esso affetta, di un
deterioramento, effetto di ciò che Jacques Maritain denomina
energicamente la « lebbra dell'assenza » 3.
Un essere umano ha due braccia : la mancanza d'un
braccio non è in lui una semplice negazione, come sarebbe una mancanza di
ali ; non è il segno di un grado inferiore d'umanità, come una statura
mediocre o un mediocre spirito; è una ferita, una tara, ed è ciò che si
chiama un male.
2 Ci si ricorda che Origene collocava nel novero
dei mali le stesse ineguaglianze tra gli esseri, ritenendo che il meno
buono abbia il carattere del male. Per la qual ragione attribuiva
le ineguaglianze iniziali non all'azione di Dio, ma ai diversi
comportamenti del libero arbitrio.
3 De Bergson. a Thomas d'Aquin, p. 270.
10 CHE COS'È' IL MALE?
B male è positivo in un senso
In queste condizioni, dire privativo il male, è dirlo
positivo in un certo modo; poiché pone qualche cosa, cioè una violazione
della natura, e, nell'ordine morale, una offesa a quest'ordine e al suo
Capo. Il peccatore oppone a Dio un no; afferma la volontà
dell'uomo contro Dio, così come nel cosmo una forza di distruzione o
d'alterazione rompe in parte lo sforzo costruttivo del mondo. E' .questo
lato positivo del male, che, a modo suo, lo pseudo-Dionigi esprime quando
dice: « II male è distante dall'essere, ma ancor più dal non-essere » *.
Nello stesso senso e allo stesso modo, il male agisce
— non per virtù propria, poiché di per sé esso non è affatto, ma per
il bene che esso altera e di cui così devia l'azione. E tanto più
nuocerà il male quanto maggiore è il potere del bene sviato. Si pensi al
genio traviato, a una grande anima perversa. Satana è il tipo di quei
poteri che esercitano, se così si può dire, la loro virtù nel male.
L'universo è un'immensa colata di bene, che il male, sornionamente,
vessa.
Perché il male sembra un'esistenza
Queste spiegazioni dovrebbero bastare a calmare coloro,
che ritengono che noi minimizziamo il male chiamandolo una privazione,
come se intendessimo per male un bene minore, un bene minore che
lascerebbe intatta nel mondo la qualificazione di bene, mentre il male
costituisce una orribile sottrazione, e precisamente perché non c'è in
esso niente dell'essere, cioè del bene, è tale avversario per il bene.
Ciò che inganna, è che il male, per reale e potente
che sia, non è isolabile. Chi lo isola, lo annienta. Cercate di isolare
una cecità, una sordità. Ciò che esiste, è l'occhio privato della
vista, è l'orecchio morto. Il male volge al concreto nel bene, non ha
realtà effettiva che in virtù del bene. « Una deformità non esiste
allo stesso modo di un animale », diceva San Basilio. Non si incontra mai
il male, ma qualcuno o qualcosa, in cui c'è del male. Ora, un soggetto,
in cui c'è del male, è un bene. Per questo San Tommaso, seguendo
Sant'Agostino, non teme di sottoscrivere la proposizione seguente,
apparentemente cosi paradossale : il male è un certo bene (quoddam
bonum}, come l'errore è un certo vero (quoddam verum} ! E
spiega che nelle frasi, in cui si afferma: il male è, il verbo
essere cosi impiegato non designa un'esistenza, ma semplicemente il legame
logico d'una proposizione vera. Il contenuto di questa proposizione
conserva nondimeno la sua natura di pura privazione. Dire che un occhio è
colpito da cecità, è dire soltanto che non vede. . « Nessuno, dice
Giusto Lipsie, vede le tenebre, ne ode il silenzio; ma ciascuno li
comprende in base
4 De divinis Nominibus, lezione XIV del
Commentario di S. Tommaso.
PERCHE' IL MALE SEMBRA UN'ESISTENZA li
all'assenza dei. contrari »5. L'Emerson fa
un'osservazione assai simile quando dice : « II male ha un'esistenza
oggettiva, ma non soggettiva », cioè, nella sua terminologia, che esso
è positivamente oggetto dell'intelligenza, ma non soggetto
esistente 6.
Aggiungiamo che se questo nulla che è il male prende
ai nostri occhi una apparenza d'essere e compare nelle nostre proposizioni
al coperto dell'essere, è perché il bene come tale non può assumere la
parte d'un oggetto dello spirito, come ha brillantemente mostrato il
Bergson. Porre il nulla, è porre l'essere; porre la privazione, è porre
l'essere imperfetto. Ma poiché nell'imperfetto che limita l'essere sembra
che il bene, identico all'essere, non si riconosca più, si attribuisce al
limite là positività che appartiene al soggetto, al male la positività
di cui solo il bene è capace.
La ragione ultima di ciò, forse, sta nel fatto che
ogni idea, in noi, ha bisogno d'appoggiarsi a un'immagine, o fantasma, di
cui è l'interpreta-zione astratta. E questo vale per le idee negative
come per le altre. Dicendo:
il niente, ci si rappresenta uno spazio vuoto atto a
essere riempito. Dicendo : l'assenza, si vede una casa vuota, una strada
deserta. Allo stesso modo, la cecità è una specie di velo o di federa
davanti allo sguardo. E tale è il male. Con la riflessione, ci si accorge
che il niente è nulla, nemmeno un nulla; che la privazione designa
un soggetto che è privato in quanto è privato, e che il male è ciò.
Donde le proposizioni di Sant'Agostino e di San Tommaso apparentemente
esagerate : « Malum est quoddam honum », « non potest esse
malum nisi aliquod bonum » 7.
Da questa verità che il male è nel bene come nel suo
soggetto, risulta quest'altra che il male non può mai esaurire tutto il
bene, con il quale annienterebbe anche se stesso. Il male della morte, che
sembra far eccezione, rientra nella regola; poiché la morte non tocca la
materia, che si mostra territorio di vita nel momento stesso in cui è
territorio di morte. Cosi il regno del male non può costituirsi che con
elementi mutuati dal" bene e rispettando il bene. Il suo trionfo
totale, in qualsiasi punto si voglia, presupporrebbe un'abolizione dello
stesso atto creatore e una potenza di distruzione equivalente
all'onnipotenza di Dio. Soltanto, ciò che il male costruisce è una
derisione rispetto. alla vera città. II male porta il segno
dell'irrazionale e cosi della negazione nella stessa affermazione.
Il male non ha causa prima
Da questa stessa definizione del male preso come
privazione discende un'altra conseguenza, cioè che il bene,
soggetto della privazione, può, crescendo, sfuggire alla privazione e
avvicinarsi al bene sovrano, mentre il male, crescendo non può sfuggire
al bene e avvicinarsi al male sovrano, che non potrebbe esistere. Ogni
manicheismo di questa specie è un'aberrazione. Non c'è causa prima del
male, poiché, il male essendo privazione
5 Physiol. Stoic., libri tres, p. 71.
6 Saggi, 1 serie. Esperienza.
7 S. agostino, Enchiridion, XIII;
S. tommaso, passim.
12 CHE COS'È* IL MALE?
in un soggetto buono, la causalità riguarda questo
soggetto e non la fondazione di un vuoto. Tuttavia, poiché questo vuoto
è pur reale come vuoto occorrerà fornirne la ragione. In altre parole,
il male, in se stesso non ha causa; ma il fatto che ci sia del male
richiede una causa, gj n]la ricerca di questa causa dovremo in seguito
dedicarci. Prima dobbiamo percorrere altra strada.
Carattere innaturale del male
Poiché definiamo il male come una privazione, non come
una sernniice mancanza, ci incombe di dire rispetto a che cosa si deve
giudicare la privazione chiamata male. Bisogna che ci sia uno stato
normale in mancanza del quale, non essendoci norma di giudizio, non
si potrà scoDrire ne bene ne male. Per questo, un materialista
conseguente dovrebbe dichiararsi estraneo a queste nozioni. Abbandonando
tutto al caso degli incontri tra forze brute, senza immanente idealità ne
finalità, egli scarta a nrìnri ogni idea di andamento normale o
anormale degli avvenimenti, di riusrita naturale o di scacco nella
costituzione delle cose. Si comporta, in filosofia come il puro
scienziato, per il quale lo sviluppo d'un cancro è altrettanto normale di
quello d'un cervello; poiché vi si rivelano le stesse legg; della
materia, e non vi considera che ciò.
Ma se si riconosce dell'idealità nelle cose; se le
cose si definiscono per lo spirito con il nome di nature, e se c'è
una tendenza dei fatti verso la costituzione, la conservazione e il
progresso di queste nature, si considererà come un bene tutto ciò che
esprime o favorisce questo stato di cose, come un male tutto ciò che lo
nega o gli fa ostacolo.
Cosi la natura umana essendo definita da certi
caratteri, sarà un bene tutto ciò che serve a costituire, a conservare o
a sviluppare ouesti caratteri. Per esempio, sul terreno fisico, la cecità
o lo zoppicamento sono un male, poiché privano l'uomo di facoltà che gli
sono naturali in quanto uomo. Moralmente, l'uomo avendo pure caratteri
propri, come l'autonomia personale o la sociabilità, sarà considerato
come un male tutto ciò che si oppone alla manifestazione "o allo
sviluppo di questi caratteri.
Bisogna osservare di conseguenza che, se si tratta di
nature evolutive l'apprezzamento del bene e del male dovrà pure evolvere.
Ciò che manca a un fanciullo all'inizio del suo sviluppo non è
considerato un male Al contrario, ci si preoccuperebbe se ve lo si
riscontrasse. Cosi, spaventano le facoltà mostruose di certi
bambini prodigio.
Allo stesso modo, per gli esseri sottoposti a mutazioni
sostanziali. Vedendo un bruco deperire fino al punto di risolversi in una
materia apparentemente informe, si potrebbe ritenere che è per esso un
male estremo, confinante col male assoluto della morte. Più tardi,
costatando la metamorfosi, si continuerà a dire che la
decrepitezza precedente era un male del bruco, ma non un male senz'altro
di quel modesto vivente thè nella volontà della natura era, per nascita,
una farfalla.
Si intuisce di quale alto impiego sia suscettibile tale
esempio. Anche l'essere umano, bruco errante sulla terra, va distrutto ad
opera di ciò che si chiama la morte. Ma se sopravvive, come il
cristiano crede, in una forma superiore e definitiva, la morte continuerà
nondimeno ad essere detta un male, anzi il male supremo dell'uomo
terrestre, non però dell'uomo simpliciter; poiché l'uomo simpliciter
è un immortale.
L'applicazione di questi principi è universale. Non vi
ritorneremo sopra; poiché il nostro proposito essendo ormai d'esporre le
soluzioni cristiane, non intendiamo occuparci delle filosofie dissidenti.
Ciò che tuttavia ci si impone, è di rispondere a gravi difficoltà che
si oppongono alla concezione del male come privazione, anche se sia
stata compresa la differenza essenziale tra privazione e negazione, la
confusione tra le quali intrica dapprima le intelligenze.
il caso della materia pura
La prima di queste difficoltà concerne la materia
pura, che sembra debba essere un male supremo, se il male è definito Come
una privazione. Non è essa la stessa privazione, quale indeterminato
adatto a tutte le forme e tale da non averne di per sé alcuna?
Ma cosi parlando, ci si confina nell'astratto e ci si
allontana dalla realtà delle cose. E' vero che la materia pura è affetta
di privazione, per la ragione che, sotto una forma che la determina
attualmente, è necessariamente estranea a mille altre che tuttavia
potrebbe rivestire. Ma poiché di fatto ne ha una, la privazione di cui si
parla non è un male ne per essa, ne per il soggetto, di cui è nel
momento attuale un elemento iCostitutivo. Il male eventuale riguarda,
sotto il nome di deterioramento o di morte, il soggetto, che sarà
spogliato più o meno della forma d'esistenza. La materia stessa non è in
alcun modo un male, comunque abbiano pensato in proposito un tempo Piotino
e qualcun altro. Non si può cosi qualificare il materiale del mondo,
l'elemento senza il quale non sarebbe possibile alcun mutamento, poiché
è esso a fornire all'attività universale il territorio d'azione.
Diciamo piuttosto con Aristotele e con tutta la Scuola
che la materia, quale principio costitutivo della sostanza, partecipa del
bene rappresentato da questa sostanza, e che la capacità ch'essa
conserva di figurare sotto nuove forme la rende già
partecipe dei beni futuri.
Il caso del dolore
Più difficile è il caso del dolore, del quale, ci
si dice, è ben manifesto il carattere positivo e non meno la malizia,
oggetto di lamenti universali. Di modo che di fronte ad esso è
quasi ridicolo dire : il male è semplice-privazione. Consideriamo questo
caso, e cerchiamo di illuminare un poco il problema.
Che cos'è il dolore? San Tommaso lo definisce : il
sentimento d'una lesione (sensus laesionis). Se si da al termine
lesione tutta la sua generalità è difficile contestare una. cosi lucida
definizione. Ma si pone subito allora una domanda : di che cosa si parla
quando si dice che il dolore è un male? Si tratta della lesione, o del
sentimento che se ne ha? Se si guarda alla lesione, si ha ragione di dire
che è un male, ma si ricade nel caso precedentemente considerato, e si
svia il senso del termine dolore;
poiché questa parola designa direttamente il
sentimento penoso e solo indirettamente si riferisce alla sua causa.
Il sentimento è penoso, se si vuole è un male, come
turbamento della sensibilità e interruzione nel riposo del nostro essere.
Ma allora sarebbe altrettanto ben detto del messaggero, il quale ci
sveglia per annunciarci una grande fortuna, che ci inHigge un male. Qui
non si tratta di una fortuna, al contrario, ma è la stessa cosa, poiché
abbiamo interesse a essere noi-stessi e ad essere avvertiti di ciò che ci
lede. Si ritiene un bene che un uomo sia inerte o che il manipolatore di
radium scopra in sé parti corrose mortalmente senza aver niente sentito?
« I mali senza dolore sono i peggiori, dice Sant'Agostino. Meglio una
ferita dolorosa che una cancrena indolore, poiché in quest'ultimo caso si
tratta di corruzione » 8.
Les meilleurs coups soni ceux qui ne font pas crier
dice abbastanza piacevolmente Sully Prudhomme '.
II dolore è la testimonianza del nostro essere
sensibile atto pure al piacere, ed è un elemento di difesa per il nostro
essere geloso della sua integrità: due benefici che non possiamo negare
senza incoscienza. Henri Bergson in Matière et Mémoire (p. 47),
vi vede inoltre uno sforzo di liberazione dai mali interni, come i medici
dicono della febbre. Se un essere soffre, è perché lotta, e la sua
sofferenza è uno degli elementi della sua liberazione, al tempo stesso
che un segno di relativa impotenza. E' Milone di Crotone preso nell'albero
è sofferente nel tentativo di svincolare le mani.
Tutto ciò non ci impedisce di lamentarci del dolore e
di desiderare, senza rendercene conto, cose contraddittorie. Vogliamo si
essere di carne e di sangue, e dotati di sensibilità fertile in opere
delicate o in delizie, ma non consentiamo a che questa squisita
costituzione ci renda vulnerabili. E' volere a un tempo essere soggetti
alle impressioni e non esserlo. E ugualmente nell'ordine morale. Chi è
sensibile all'amicizia può non esserlo al tradimento e chi gioisce per
l'onore non sarà attristato dalla vergogna? Ogni lama delicata e ben
acuminata può ferire e tagliare con grazia : accettiamo il rischio in
favore del buon lavoro.
E' soprattutto nel dominio morale che si manifesta il
valore della sofferenza nella supposizione del male. Nessuno vorrebbe non
soffrire della morte di un essere caro, della rovina di un'amicizia o
d'una macchia fatta al proprio onore. Si vuoi soffrire; ci si immerge
nella propria pena come ci si compiaceva nella propria gioia. E' una
specie di sostituzione, e l'esseme guariti costituirebbe un aggravamento
dell'assenza. Non
8 De natura
Boni, XX.
9 Le Destin.
IL CASO DEL DOLORE 15
confondiamo qui il male e il gusto del male provato da
una sensibilità soddisfatta di se stessa e godente nobilmente, nella sua
pena, perché sa piangere.
Si sono scritte molte poesie sul sapore delle lagrime,
e non era poesia vana. Il segreto di ciò sta in una considerazione che
spesso si trascura, ma non dovrebbe sfuggire al filosofo, e cioè che in
fondo il male non è relativo alla sensibilità, ma alla volontà, o alla
tendenza che le è analoga. C'è del male in nature incapaci di soffrire,
e altre vogliono soffrire, non considerando la loro sofferenza come un
male.
Un puro materialista, è vero, non riconoscendo alcun
senso oggettivo al bene e al male, non può vedere nella sofferenza —
almeno in teoria — che un fenomeno strano e piuttosto importuno. E' un epifenomeno,
senza azione sulla realtà delle cose. Si dice che provoca reazioni,
ma queste reazioni si produrrebbero anche se il fenomeno soggettivo non
esistesse. Cosi pretendono scienziati, come Félix le Dantec. Ma queste
posizioni insostenibili non ci interessano. In ogni filosofia che
riconosce valori, il dolore è il segno d'un male. In se stesso è un male
pure come interruzione nel godimento del bene. Ma si pone ancora il
problema del suo significato vitale e della sua utilità. Ciò che abbiamo
or ora detto in merito è importante, riteniamo, e tuttavia, lungi da
esserne soddisfatti, alcuni vi vedono un'esagerazione.
Alla fine del secolo XVII Pierre Bayle istituì una
disputa intorno al problema se il dolore come salvaguardia e avvertimento
fosse veramente necessario. Anzitutto, diceva, come concepire che un
Creatore infinitamente saggio, buono e potente, abbia posto le sue
creature nel pericolo del male e nella necessità di esserne avvertite 10?
Passiamo oltre. Esamineremo ampiamente in seguito questo genere di
problemi. Ma supposto il bisogno dell'avvertimento, ve ne sono di più
benigni del dolore. La natura poteva pervenire allo stesso risultato
procurando al vivente un'idea chiara del pericolo, anziché un danno.
Oppure una gradazione di piaceri, al posto di un avvicendamento di piaceri
e di sofferenze.
Si vede bene quanto sia chimerico l'ingegno di
quest'autore — volontariamente chimerico, del resto. Troverebbe naturale
che per avvertire un uomo che sta per scottarsi, gli si suonasse un'aria
di flauto.
A ciò Bossuet rispondeva, fondandosi sull'esperienza,
che in casi simili le idee servono poco, i piaceri addormentano e non
avvertono affatto e che bisogna colpire fortemente. E come sapremmo,
aggiunge Jean-Jacques Rousseau, che il bambino soffre e che la sua fragile
vita corre un rischio forse mortale, se non ne fossimo avvertiti dai suoi
lamenti? "
« Quale che sia la teoria adottata per spiegare
l'origine dell'uomo, scrive ai nostri giorni Charles Richet, il dolore è
una funzione salutare, che ci costringe, con crudeli avvertimenti, ad
occuparci del nostro organismo e ad evitargli bruschi mutamenti di stato,
che certamente lo distruggerebbero se non ne fossimo resi
avvertiti»12. «E' la sentinella della vita, dice altrove; ci
ferma nei nostri eccessi e ci castigo spieiatamente dei nostri
errori»'". Aggiunge, è vero, che il dolore va spesso al di là
dello scopo; ma si può chiedere a una funzione generale di piegarsi a
tutti i casi e di misurare per ciascuno l'applicazione delle sue forze? E'
qui in giucco l'equilibrio del mondo. Lo si scompiglia per impedire che un
granellino di sabbia danneggi il nostro occhio o che un nervo scosso
intempestivamente ci infligga inutili sofferenze? Simile truccatura, che
dovrebbe essere permanente, non potrebbe entrare nelle prospettive d'una
saggia provvidenza. Tutto ciò che si può chiedere, è che siano state
previste compensazioni atte a riparare all'eccesso e all'ingiustizia.
Non tralasceremo più avanti di ricercare se e come
ciò si verifichi. In questo momento, ci basta sapere che il dolore
è una funzione utile;
che non si può considerarlo come un male che
isolandolo dalla lesione di cui è il segno avvertitore e dalla
sensibilità di cui è la testimonianza. Presupposti questi antecedenti,
lo si deve dire un bene. Ora, ciò che è un bene in un presupposto
verificato deve essere giudicato puramente e semplicemente buono; poiché
è il concreto che conta, ed è nel presupposto verificato che qui è il
concreto. Il dolore di per se stesso, cioè staccato dal fatto, non
è che una rappresentazione della mente ".
Di conseguenza, coloro che ritengono di trionfare
invocando il dolore come testimonio della positività del male,
s'illudono. Mettono il male dove non è. Dove si trova, il loro argomento
è inefficace e la nostra dottrina sussiste.
Vi sono tuttavia scienziati, i quali hanno ritenuto di
elevarsi contro la teoria della sofferenza come avvertimento, in nome di
ciò che chiamano la sofferenza-malattia, che si deve odiare, invece di
lodarla, e che non merita che un atteggiamento: che la si estirpi15.
Ma ci sembra che accanto a osservazioni preziosissime questi scienziati
hanno lasciato passare qualche confusione. Ciò che si chiama dolore-malattia
è un guasto dell'apparecchio avvertitore che impazzisce ed eccede,
come nel caso di un campanello elettrico che faccia corto circuito e
susciti un incendio. Si estingua l'incendio; si guarisca la
malattia-dolore, che, una volta scoperto l'altro male (ce n'è sempre uno
alla base), non ha più ragion d'essere. Ma non si dica per questo motivo
: il dolore è un male, ne, di conseguenza :
il male è un valore positivo.
Il caso del male morale
Ultima obiezione, forse più grave ancora delle altre.
Come si può considerare semplice privazione un male morale quale un falso
giuramento, un furto, un attentato contro una reputazione, un omicidio o
un
12 L'Homme et PIntelligence, p. 39. Paris,
Alcan.
13 La Douleur, in « Revue philosophique
», 1877, t. IV.
14 Cfr. S. tommaso, I-II, q. 39, a. 1.
15 Cfr. il Dr. Leriche, dell'Académie de
Medicine, nei suoi bei studi su) dolore nel dominio chirurgico.
IL CASO DEL MALE MORALE . ir
adulterio? Sembra che ci si beffi conservando siffatta
teoria di fronte a.
situazioni concrete.
E tuttavia, considerando le cose da vicino,
non è anzitutto chiaro / che gli atti concreti di cui si parla,
isolati dalle loro circostanze morali : e lasciati veramente alla loro
natura d'atti concreti, non possono essere | qualificati ne buoni ne
cattivi? Il male dell'omicidio non sta nel coltello, ': ne
quello dello svaligiamento nella violazione d'una cassaforte. Vi sono
colpi di coltello virtuosi e l'abile apertura d'una serratura segreta
potrebbe essere un'impresa che si ammira. Il male sta nel rapporto
di questi atti con il nostro regime di giustizia sociale e di
fraternità. L'assassino, il ' ladro obbedisce a una passione qualsiasi a
danno dell'esigenza, delle relazioni umane. Offende la sua regola. Ed ecco
scoperto il lato negativo.
' Tutto ciò che c'è di positivo nell'atto ha rapporto
al bene. Uno scienziato che lo analizzerà non vi troverà che la
manifestazione delle leggi che reggono la natura e la vita, e che sono
effettivamente mirabili. L'uomo-stesso si aspetta un bene dalla sua
azione, senza di che non la compirebbe. La soddisfazione, che egli
ricerca, sarebbe legittima in altri casi. Se in questo caso non lo è, è
soltanto a causa della regola che domina la circostanza e qualifica come
prevaricatore colui che non vi si piega.
Non sta in ciò la spiegazione dello stato d'animo, per
noi cosi strano e mostruoso, del vero criminale? Il criminale-nato è uno
stregato. Procede senza considerazione per ciò che viola o calpesta. E'
tutto preso da ciò che motiva il suo atto e da ciò che se ne aspetta.
Non è forse per lui necessario vendicare quest'ingiuria, procurarsi
quella somma ch'egli brama, anche se non ne ha bisogno? Questo lato
positivo dell'atto per lui è __tutto; l'altro lato sfugge alla sua
coscienza incolta od ottusasi, si che con una ingenuità atroce si
stupirà di vedersi rimproverato il suo delitto. Egli pensa che non poteva
fare altrimenti. Doveva uccidere, ha ucciso, è cosi semplice.
Destatelo al sentimento dei valori umani, della regola
dei nostri rapporti, tutto cambierà, poiché il Iato privativo dell'atto,
che ne costituisce il male, apparirà chiaro alla sua coscienza. Un
criminale non è che un ossesso colpevolmente dimentico delle regole
morali. Il cattivo non è 'che un giusto sviato da ciò cui deve tendere
camminando. Sviamento peccaminoso, poiché il soggetto morale può
vincersi e dovrebbe, ma che non toglie che la sua posizione come peccatore
sia interamente negativa, diciamo privativa, contrariamente a ciò che
sembra dapprima.
10 Réponse aux questions d'un
provincial, cap. CIV. " Emile, I.
II peccato non è mai in ciò che si fa, ma in ciò che
si trascura. II ; male non sta nella ricerca dei valori vitali che
il peccatore desidera, ma ; nell'abbandono dei valori più alti, ai quali
la sua azione presente proibisce : l'accesso. Generalmente
parlando, tutto ciò che è positivo nell'atto criminale è buono. Ciò
che è cattivo è la negazione implicita in questo o in ,' quell'atto, e
con questo non resta dimostrata la positività del male.
Resta invece dimostrata una verità infinitamente
preziosa, cioè che l'uomo si perde sempre solo perché s'inganna sul suo
amore e sacrifica l'amore vero ad apparenze ingannevoli. Nessuno tende
veramente al male, dice incessantemente San Tommaso (Nullus intendens
ad mcdwn operatur). Il male non sta in una ricerca, ma in
una trascuranza. Non è un''efficienza,
ma una deficienza. Sono queste espressioni
mutuate da Sant'Agostino, che ha scavato profondamente in
questo problema.
E' vero si che la deficienza volontaria, in cui
consiste il male, ha un carattere positivo in quanto fenomeno di
coscienza. Il peccato è si un atto, anche in ciò che ha di negativo,
poiché è volontariamente negativo. Ma considerato in questo modo, come
fenomeno di coscienza, è buono; è una manifestazione di libertà. Il
male deriva in esso, ancora una volta, dalla non-considerazione attuale
della regola razionale a profitto della legge della carne o dell'orgoglio
dello spirito. Ora, in ciò non si tratta appunto che di deficienza.
Nell'analisi del male morale come già in quella del male fisico non si
discopre nessuna realtà cattiva.
Conveniamo tuttavia che c'è del mistero in questa causalità
privativa della volontà deficiente, in questa non-considerazione
della regola morale nel momento in cui il peccatore agisce. Essere causa,
e pertanto responsabile del proprio non-agire, sembra un paradosso, come volere
non volere. Ma ciò dipende dalla natura dello spirito che,
riflettendosi su se medesimo, si duplica in qualche modo, senza per questo
essere diviso. E' il mistero bell'anima. '
In definitiva, il male morale analizzato con
precisione appare come -un sottrarsi. Si sfugge alla propria legge; si
sfugge all'ordine del mondo;
si sfugge a Dio creatore e legislatore di ciò che ha
creato. Bisogna uscire da Dio per far male, e non si può uscirne che
dalla porta del niente;
poiché ovunque c'è dell'essere, Dio è presente.
L'uomo, che non è causa prima di nulla, è tuttavia
causa prima del peccato, causa prima di questo male, precisamente perché
il male è nulla.
DA DOVE VIENE IL MALE?
Una sana comprensione del male deve facilitarci la
comprensione della sua esistenza e la esatta individuazione del suo punto
di scaturimento. Parliamo di scaturimento primo, riferendoci a ciò che in
filosofia si chiama le cause prime; poiché le cause particolari
del male sono legione, cosi come lo stesso male.
Il pessimismo
A seconda dell'idea che ci si fa della sua gravita è
della sua estensione, si è portati a situare differentemente e a
qualificare - più o meno severamente le cause del male. Per il pessimismo
assoluto, la fonte del male è nell'essere stesso; poiché ai suoi occhi
il male non è un fatto tra altri, ma un fatto fondamentale e quasi unico,
sul quale altri vengono soltanto a intessere, senza interrompere o rompere
la trama. Ciò che si chiama bene o piacere non ha che un carattere
negativo ; il male rode tutto; e, per cosi dire, non ha bisogno di
spiegazione, poiché è esso che spiega tutto il resto.
Abbiamo giudicato a suo luogo questi stati d'animo e
quelli che ne derivano. Credere che il male sia tutto o, solo, domini nel
mondo, è fare della creazione non più un cosmo (ordine) come ha
ritenuto il pensiero antico e un'opera divina come la vede il cristiano,
ma un'escrescenza mostruosa e malsana, un tumore maligno, un cancro.
Per di più, ciò non resiste. L'universo si costruisce
col bene e si •distrugge col male. Ora, sussiste e sono numerosi coloro
che ritengono che progredisca, il che certamente è vero sotto molti
riguardi. Dunque il male non vi predomina. Nella società umana, ad
esempio, se predominassero il male dell'ingiustizia, della crudeltà,
della menzogna, non si potrebbe più vivere; il corpo sociale si
dissolverebbe, poiché la sua coesione dipende da ciò che Aristotele
denominava urbanità o amicizia sociale. Ora, si vive; molti si dichiarano
felici, e tutti lo sono più o meno in certi momenti. Dunque l'amicizia
sociale ha più potere dell'ingiustizia e dell'odio. E cosi per il resto.
Se il mondo fosse cosi perverso, donde attingeremmo la
nostra idea del bene? La nostra anima si alimenta d'altro che degli
spettacoli della natura e della vita? La nostra legge inferiore, quella
che forma i nostri giudizi, non è l'espressione epurata, certamente, ma
autentica d'una esperienza universale? Il pessimismo spinge l'affermazione
del male fino alla negazione del bene, ed è perciò assurdo e nefasto. La
nube, con tutto ciò, non spegne il sole.
Tuttavia, almeno in certa misura, è certo che il male
ci guasta il mondo. Quante volte l'umanità non ha assomigliato a
quel poeta, il quale, essendosi trovato di fronte, in una natura mirabile,
a una terribile miseria immeritata, non osava più guardare il mare
splendido,
Ni sur la terre en fleur l'éclat du grand ciel bleu,
Tremblant qu'il n'y manquat la justice de Dieu 1.
Il male è uno Scacco dell'essere fisico fatto per
l'integrità, e dell'essere morale fatto per la rettitudine. Ora, Dio è
Fautore dell'essere, e si crede di vedere cosi uno scacco di Dio. Il male
è una sfida a Dio, alla sua potenza o alla sua bontà, alla sua
generosità o alla sua saggezza e alla sua giustizia. Da qui tanti dubbi e
sistemi aberranti.
II dualismo
Abbiamo notato in tutti i tempi una tendenza ad
assegnare al male una sua propria causa prima, opposta alla causa
del bene e ostacolante il regno di quest'ultimo. E' ciò che si
chiama approssimativamente il manicheismo o più esattamente il dualismo;
poiché non è necessario, per trovare una causa prima al male, finire
nelle grossolane aberrazioni di Mani. Abbiamo incontrato dualismi
raffinati, ma non per ciò giustificati agli occhi di una retta ragione.
Perché due divinità? Poiché appunto di ciò si
tratta. Una causa prima del male di fronte al Dio buono, è un secondo
Dio, anche quando
•fosse una pretesa materia indipendente, che per il
fatto stesso di questa indipendenza eterna sarebbe divinizzata. Si
disconosce cosi la legge di
•regressione causale, che costringe, partendo da un
soggetto o da uh fenomeno qualunque, a risalire, per la via dell'essere
considerato come tale, fino a un primo e unico garante, nel quale trova
spiegazione
•Finterà serie.
L'Essere primo non potrebbe sopportare un antagonismo.
L'Essere primo non può vedersi opposto che il non-essere. E' per questa
via che si deve cercare, se si vuole una spiegazione del male, ed è a
ciò che tendeva il nostro sforzo di definizione, quando ci siamo chiesti
: che cos'è veramente il male?
1 henry cazalis, Matinée de printemps [Ne
sulla terra in fiore lo splendore del gran cielo azzurro, nel tremore che
vi mancasse la giustizia di Dio].
Se il male è una cosa, una natura determinata e
positiva, gli occorre una causa determinata e positiva del suo stesso
ordine, cioè un male, e di male in male si perverrà a un Male primo, dal
quale procede ogni male. Ma. se il male non è che il non-essere chiamato privazione,
bisognerà pure cercarne una ragione; ma questa ragione potrà trovarsi
nella linea del bene, e sarà di bene in bene che si salirà per
assegnargli una causa prima.
Potranno esservi dei mali sulla strada, che saranno la
spiegazione dei mali susseguenti; ma questa causalità non potrà essere
che accidentale e in qualche modo, negativa; il non-essere, di per se, non
spiega niente. Bisognerà dunque riferirsi a questo o quell'essere, per
finire all'Essere primo. Per questo, fra poco, dovremo volgerci a Dio per
chiedergli ragione del male che affligge la sua creazione.
Il dualismo non avendo compreso ciò, ha voluto ad ogni
costo scoprire un antagonismo .positivo, simmetrico alla positività del
bene; & di positività in positività, nella linea del male cosi
compreso, si è visto obbligato a porre un Male supremo. Si vede quanto
poco arbitrarie e-artificiose fossero le nostre ricerche sulla definizione
del male. Tutto deriva da ciò, e ne dipendono i più grandi errori come
le più grandi verità.
Diciamo dunque che il male essendo privazione, cercare
un primo principio del male significa cercare un autore delle tenebre, o
un autore del freddo, o un autore del vuoto che si vede, nei pozzi, nelle
canne dei cucili o nelle stoffe bucate. Basta trovare un autore, del
pieno, del caldo, —della luce, e poi si spiegher-à, se si può, che
cessando la sua attività di operare interamente in questo o quel caso,
per questa ragione — restrittiva. e non positiva, — c'è vuoto,
freddo, tenebre, senza che. ci sia bisogno che qualcuno li crei.
In altri termini, il male è, un difetto di
partecipazione al primo Bene ed è un'aberrazione farne una partecipazione
a un preteso primo Male, che non sarebbe che. un supremo nulla.
Se ci fosse un primo male scoperto risalendo la linea
dei mali, sarebbe un Male in cui non sussisterebbe alcun bene, allo stesso
modo. che c'è un Bene in cui non sussiste alcun male.. Ora, ciò è;
impossibile. se, come abbiamo, mostrato, il male è; una privazione in un
soggetto buono. Se in un colatoio non vi fossero che fori, in che
consisterebbe, il colatoio? se l'anima, di una bocca da fuoco vi prendesse
l'intero posto che diventerebbe il congegno?
Un male supremo sarebbe un atale, per essenza. Ora, il
male non ha essenza, non è. che. un'imperfezione in un'essenza buona,
come il difetto di un membro o di una facoltà in un uomo, come il cattivo
funzionamento d'un organo o di una coscienza.
Alcuni pensatori, considerando che la vita, è
inseparabile, dalla morte e si trova; inclusa, nel suo funzionamento, come
ha notato con energia Claude Bernard, hanno ritenuto di dover concludere
da ciò ad un antagonismo, a una forza misteriosa contrariante ovunque lo
sforzo della vita. « Se la vita produce la morte, dice. uno d'essi, o
essa stessa e cattiva in se oppure la morte ha la sua sorgente in una
realtà estranea alla vita » 2. Ma in questo argomentare si
dimenticano le cause indirette o accidentali, che non sono ne cause prime
ne riferite alle cause prime. Quando una corrente d'acqua scaccia Paria da
un canale, la fuga dell'aria non è l'effetto di una forza antagonista,
bensì deriva indirettamente, accidentalmente dall'entrata dello stesso
liquido. Cosi l'assimilazione, che è il fenomeno essenziale della vita,
si tira dietro la disassimilazione, che è una specie di morte interiore,
in attesa dell'altra. Ma non si tratta di forza-antagonista e non è
necessario ricorrere, se non metaforicamente, a una Morte nemica. La
Importuna, è la stessa vita limitata quanto a durata e a pienezza; non è
una Divinità.
Nell'ordine cosmico, Keplero vedeva nella materia
un'imperfezione congenita, che ne faceva un ostacolo all'ordine e al bene
in ragione della sua inerzia. Non per questo era dualista, poiché
nell'inerzia della materia non vedeva che un limite all'attività, un
ostacolo negativo e non una forza contraria o una resistenza indipendente
e ostile rispetto alla Causa prima. Diversamente, come abbiamo visto, nel
caso della materia platonica, nella quale il filosofo dell'Accademia
vedeva un elemento indipendente e eternamente ostile all'attività
costruttiva del Demiurgo, una specie d'anti-Dio.
Un dualismo incosciente
Si rendono conto molti cristiani che inclinano al
dualismo, o addirittura vi si-trovano inconsciamente, quando fanno di
Satana un Avversario indipendente, che condivide con Dio e contro Dio il
governo di questo mondo?
Non stiamo per niente attenti a opporre un fin de
non recevoir alle parole del Cristo quando c'aama espressamente Satana
il Nemico (Matteo XIII, 39), il Principe di questo mondo
(Giovanni, XII, 31) o, per bocca dell'Evangelista e sul terreno
propriamente umano l'Omicida (Giovanni, Vili, 44). Si tratta di
interpretare queste parole e della portata che si da loro. Non c'è
inconveniente, del resto, a chiamare Satana lo Spirito del male, o anche
il Male senz'auro, se si intende ciò metaforicamente o-a modo di
personificazione poetica. Ma si intende sempre cosi?
Quando Nietzsche scrive nei suoi Aforismi : «
II diavolo non è che l'ozio di Dio », alla buon'ora, ecco contrassegnati
ad un tempo il carattere privativo del male e, per ciò che concerne
Satana — supponendo che Nietzsche vi credesse — la sua collocazione,
la sua cacciata nel mondo-che Dio governa. Cosi deve essere per ogni
cristiano. Satana è sotto il governo di Dio. Avversario come un
peccatore, come un persecutore, soltanto con più estensione e potenza, è
nondimeno, sottomesso al governo-divino e non potrebbe porsi di fronte a
lui come libera potenza.
Il combattimento apocalittico tra Satana e Michele sia
una realtà o uii simbolo, resta che il. Principe maledetto e i suoi
fanatici sono vinti, precipitati (Luca, X, 18), rigettati e, come diciamo,
per gli uomini, dannati : non attribuiremo loro, nel senso proprio della
parola, l'impero della terra. Possono pur tentare di trascinare gli uomini
nell'orgoglio del loro peccato e nella terribile gioia di ciò che
vorrebbero chiamare la loro indipendenza, essi non sono indipendenti. Ciò
che è stato loro abbandonato di potere, come ai malvagi del nostro mondo
umano, non lo esercitano che nella provvidenza, limitati dai suoi fini e a
profitto dei suoi eletti, quando questi conducono valorosamente la lotta.
Satana in certo senso è scatenato; ma non va malgrado tutto che fino al
capo della catena, che egli strascina digrignando i denti.
2 e..lasbax, Le Problème du Mal, p. 331.
In queste condizioni, fare di lui un principio del male
opponentesi al Principio del bene sarebbe un grave errore. Ciò che Vigny
gli fa dire in Eloa:
J'ai pris au Créateur sa faible creature;
Nous avons, malgré lui, partagé la nature3,
3 Eloa,
canto III [Ho tolto al Creatore la sua debole creatura; suo malgrado ci
siam divisi la natura].
non è che una finzione di poeta. La natura è di Dio
solo, come tutto il creato e còme Satana stesso, tolto il mal volere.
Ce noir esprit du mal qu'irrite l'innocence4[ 4
Ibid. [Questo nero spirito del male che l'innocenza irrita]].serve
l'innocenza quanto possono farlo gli angeli buoni, quando piace a Dio di
impiegarlo a questo scopo. Solo, con altri mezzi, in altre condizioni e,
da parte sua, con intenzioni contrarie.
Se insistiamo su questo punto, è perché anche grandi
menti hanno sbagliato in .proposito. Schelling scrive: «Secondo il
pensiero cristiano, il diavolo non è una creatura limitata, ma la
creatura più illimitata. Non è la terra che s'oppone al cielo, ma
l'inferno. C'è nel mondo un entusiasmo per il male come per il bene»5.
[5 Lezioni sulla
filosofia della mitologia e della rivelazione, I.]
Queste ultime parole sono vere; ma la prima è radicalmente falsa. Satana
non è una creatura illimitata, allo stesso modo di un principio;
è una creatura individuale sviata e malefica, un cattivo ragazzo,
insomma, che a torto si gonfierebbe, ancorché a ragione lo si tema. I
santi lo disprezzano. Il Curato d'Ars lo chiamava il Rampone, e parlando
delle sue brighe diceva: non è nulla!
Che dire, di conseguenza, di coloro che propongono di
attribuire a Satana resistenza stessa del mondo concepito radicalmente
cattivo. Dio esercitando, da parte sua, una per noi benefica e benevola
opposizione contro questo cattivo Principio? L'aspetto delle cose sembra
cosi a questi pensatori più spiegabile e più facile la loro
speculazione. Che faccia loro buon prò! Per noi, tale opinione non
testimonia di una sicura competenza filosofica, ne di chiara e acuta
visione delle cose. Il male, stante la sua natura, non può essere primo.
« Niente comincia dal male », dice Joseph de Maistre8,
e Spinoza ha osservato che portare all'assoluto una negazione non ha
senso. E poi l'universo, nonostante ciò che in esso ci turba, possiede
troppa magnificenza e grandezza per essere attribuito a «l'essere alato,
ma zoppo » della Legende des siècies7.
Il Libro sacro fa miglior giustizia di questo potere
atroce e miserabile. €e Io mostra, invero. Principe di questo mondo, in
ragione dell'estensione del male che provoca, accolto com'è dagli umani
deboli e ciechi; ma nondimeno vinto dalla semplice virtù degli amici di
Dio, quali Giobbe e gli antichi patriarchi, poi ridotto alla totale
impotenza; meglio, ridotto a un preciso servizio, a beneficio di coloro
che la grazia del Cristo ha toccato.
Gesù ha vinto il Maligno consegnandosi, in apparenza,
a lui, nella persona dei capi prevaricatori, che si facevano esecutori
delle sue opere. L'Umanità sublime è stata l'esca cui terminava il
terribile amo della Divinità, che gli ha trafitto le viscere. Siffatta
vittoria non deve essere interpretata come il risultato d'un combattimento
da eguale a eguale, in qualche modo, tra l'inferno e il cielo. L'inferno
è un luogo in basso, che il cielo domina da un infinito. Si tratti della
storia generale del mondo o della storia di ciascun'anima, Satana non ha
importanza che a titolo di agente strumentale nella attuazione delle
vedute provvidenziali; non ne ha alcuna come agente principale, come forza
indipendente.
E' ciò che suggerisce l'Apocalisse, quando propone la
vittoria del Cristo sul male dapprima in termini generali, senza alcun
accenno a un principio antagonista, che possa pretendere di bilanciare la
sua azione. Solo in seguito, avvicinandosi al concreto, nel quale il male
trova i suoi servizi, se cosi si può dire, è presentata la storia di
Satana come quella^ d'un caso particolare della grande lotta, insieme con
l'impero dei Cesari, nemici della Chiesa nascente.
Bisogna notare a questo proposito che tutto ciò che di
Satana è dettò nella Scrittura non deve essere preso alla lettera. Vi
deve sicuramente essere riconosciuta Una parte di simbolo. Satana come
personificazione del male entra manifestamente nei procedimenti letterali
della Bibbia.
Come che sia, quando una personalità terribile è
disegnata sotto questo nome, è quella d'un malfattore eccezionale, allo
stesso titolo di Nerone o di Caligola. E' un flagello di Dio più
grande di Attila; non è un anti-Dio.
IL peccato originale come spiegazione del male
Che dire ora di questa spiegazione, cosi corrente tra i
cristiani, e che ai più sembra sufficiente, almeno in ciò che concerne
il male umano:sofferenza, morte, inclinazione al peccato, con tutte té
loro conseguenze. « E' il peccato originale ! », si dice a proposito di
tutto ciò. E certamente, non si può contestare che nella fede cristiana
la spiegazione del male col peccato originale non occupi un posto
importantissimo. Ma non può essere che un posto intermediario. Alla base
occorre altro. [* Soirés de
Satat-pétersbowg, VII entretien, 7 Puissance égale
bonté.]
Poiché anzitutto il male umano non esaurisce il male,
e non possiamo cosi rinchiuderci su noi stessi. Inoltre, il peccato
originale, questo mal» iniziale, non avrebbe a sua volta bisogno di
spiegazione? Vedremo più avanti quali terribili problemi esso ponga.
Partire da là senza risalire più in alto sarebbe dunque una grave
amputazione del problema.
E' notevole che uno spirito rigoroso come San Tommaso
d'Aquino, trattando ex professo del problema del male in nove
articoli della Somma teologica (I P., q. 48-49), non faccia
menzione del peccato originale, ne di Satana. Questi per lui sono casi
particolari, di cui si tratterà ampiamente a loro luogo, ma che non hanno
che fare con le radici del male universale. Queste non sono d'ordine
storico, ma metafisico. Si tratta della costituzione del reale alla fonte
stessa dell'essere. Poiché il bene e il male dividono l'essere concreto
prima di ogni altra differenza generica &. specifica. Far tutto
cominciare dall'Eden è dunque manifesta insufficienza filoso&ca.
Nonostante il suo carattere derisorio ne Les Plaideurs, l'esordio.
di Georges Dandin : « Prima della nascita del mondo », è qui
perfettamente a proposito. Pensare « al diluvio» sarebbe già riferirsi
troppo tardi.
Aggiungiamo che se anche si volesse cominciare dal male
umano e-ridursi a non parlare che di esso, si può supporre che
nell'assenza stessa, d'ogni peccato il male avrebbe potuto essere
risparmiato in tutte le sue forme agli umani? Lo si dice, parlando
volgarmente; ma la più piccola analisi smentisce l'affermazione se vuole
avere una portata universale, Per quanto ci si sforzi a sognare d'un Eden
roseo come le dita dell'Aurora, non si riuscirà mai a renderlo abbastanza
benigno per evitare ai suoi;
abitanti ogni pena, anche leggera. Per lieti che siano
di devastarli con. foga, le dita si pungono sui rosai. Il sangue gocciola,
se addirittura non cola.. ° Con quale miracolo permanente si impedirà
che un essere umano di carne e d'ossa, in, una natura che non è di sogno,
sia esposto a un accidente vitale, a un'inaspettata caduta, a un incontro
doloroso, a una lesione-di tessuti tanto più delicati quanto più
perfetti, o a un accidente climatico;
. generatore di sofferenza, che non possa spingersi,
per speciale favore» fino al pericolo di morte?
La nostra esperienza, e a più forte ragione la
scienza, non ci permettono di concepire un tale stato di fatto. Tutto ciò
che si può supporre, è che le condizioni della prima vita erano
soffuse di benevolenza 6 estranee ai grandi rischi, che ora ci minacciano.
Bisogna pure tener conto che tale stato non era
destinato a durare. Era un'esperienza, e si sapeva senza dubbio, in alto,
che l'esperienza non sarebbe riuscita. In ogni caso, una completa assenza
di male in un universo reale, in favore d'una umanità costruita come la
nostra, non è pensabile. Di conseguenza, si sbaglia quando si presenta il
peccato originale, susseguente a uno stato d'innocenza, come una soluzione
completa del problema del male.
Un altro problema riguarda il nostro stato d'animo,
soprattutto a-partire da Pascal, in merito al valore esplicativo del
peccato originale-di fronte al male umano.
Il peccato di razza spiega storicamente lo stato
attuale dell'umanità, quanto al bene e al male, rispetto alle prime
intenzioni creatrici. E' ciò che dice il domma cristiano. Ma questa
spiegazione di fatto è richiesta, o almeno fortemente suggerita
dall'analisi del comportamento umano quale. l'ha tentata l'autore delle Pensées?
L'interesse di questo problema è esclusivamente
teorico, apparentemente; ma non è tuttavia senza conseguenze. Poiché se
l'evocazione del peccato originale è imposta logicamente dal nostro stato
presente esattamente giudicato, si è che ai nostri occhi questo stato è
anormale in se stesso, indegno del Creatore come intenzione prima, e deve
essere messo in conto alla sola umanità peccatrice.
Ma allora invoco ancora San Tommaso. Quando cerca le
fonti dei fatti attuali in materia di bene e di male, egli non si
riferisce, come abbiamo detto, a ciò che è accaduto nell'Eden, ma alle
condizioni della creazione iniziale, che esigevano, dice, questo, quello,
come se la situazione attuale fosse del tutto naturale e non mostruosa,
come vuole dimostrarcelo Pascal. Ciò colpisce.
Ma si comprende. Se la sofferenza e la morte, se le
tare congenite dell'umanità non fossero giustificabili oggi, non
esisterebbero. Non siamo più sotto il regno del peccato originale, ma
della Redenzione. Se la sofferenza e la morte, se la nostra fragilità
spirituale sussistono, si è che non sono tanto anormali; sono
utilizzabili per una vita buona, benché faticosa. ~E' vero che ciò ha
luogo col Cristo, cioè sotto il regime del soprannaturale. Ma non essendo
il soprannaturale esigibile, non si può condannare o priori, in
nome della ragione, uno stato di fatto che storicamente deriva dal
peccato, ma in se stesso si ricollega alle condizioni fondamentali della
nostra natura.
Questa ci sembra la ragione dell'atteggiamento di San
Tommaso. Poiché tuttavia San Tommaso crede fermamente nel peccato
originale, che è oggetto di fede e la cui funzione in teologia è
immensa, non si ; proibirà, come filosofo, di tentare un'apologià della giustizia
originale, dalla quale siamo decaduti, muovendo dalle richieste della
natura. E con ciò egli si ricongiunge a Pascal. Ma in quale tono diverso
si esprime e con quale moderazione pretende concludere!
Per lui, come pensatore, sussistono due ipotesi. O
l'uomo è realmente decaduto da uno stato anteriore, come proclama la
fede; oppure, semplicemente, è collocato a un livello inferiore della
scala degli esseri, e questo livello spiega le sue tare come essere
carnale, nonostante le sue aspirazioni come spirito.
Dovendo scegliere, San Tommaso pende naturalmente nel
senso della Rivelazione. E' una regola in lui, una volta acquisito per
questa via un fatto, di cercare di ritrovarlo razionalmente, per mezzo di
ciò che si chiama ragioni di convenienza. Ma le ragioni di
convenienza non provano; inclinano la mente e in modo tale, dice il
cardinal Gaetano, che i motivi che determinano il conveniente non rendono
il contrario non-conveniente. Tale è la legge del genere.
E' interessante notare che Lamartine, teologo anch'egli
in qualche momento, ha perfettamente compreso questa situazione. Dopo aver
proclamato, conforme alla tradizione cristiana: L'homme est un dieu tombe
qui se souvient des cieux;
lascia nondimeno sussistere, nei versi che seguono a
questo famoso alessandrino, la suddetta ambiguità;
Soit que deshérité de son antique gioire,
De son ancien état i] garde la mémoire,
Soit que de ses désirs l'immense profondeur
Lui présage de loin sa future grandeur,
Imparfait ou déchu, l'homme est le grand inystère s.
8 Premières
Méditations, L'Homme. [L'uomo è un dio caduto che si ricorda del
cielo; — sia che, diseredato della sua antica gloria, conservi il
ricordo del suo-antico stato, sia che l'immensa profondità dei suoi
desideri gli faccia presagire da lungi la sua futura grandezza, imperfetto
o decaduto, l'uomo è il grande mistero]-
Supposto ciò. San Tommaso si esprime cosi : « Nel
genere umano» appaiono, con un carattere di probabilità, alcuni segni
d'un peccato-originale »9 [ 9
Contra Gentes, 1. IV, cap. LII, iniz.] Si
riconoscerà che una dimostrazione non si annuncia in? questi termini.
Ecco i segni e la probabilità. Essendo dato che la
Provvidenza-usa adattare ogni perfezione ontologica a ciò che è
destinata compire,. sembrerebbe da ciò indicato che l'anima, destinata a
perfezionare il corppy non sia impedita a riuscirvi e che, se ne è
incapace da sola, le sia elargito a questo scopo uno speciale e
soprannaturale soccorso.
Non si può dire che questo argomento sia senza valore
dialettico; ma filosoficamente, e soprattutto scientificamente, la sua
portata è presso a poco nulla. E San Tommaso lo sa perfettamente. Egli
che ha tanto lottato — e anche sofferto — in favore dell'unità umana
contro i platonizzanti del suo tempo, non tralascia di scorgere nel suo
argomento d'oggi un fondamentale inganno. Questo argomento procede come se
l'uomo fosse costituito da un'anima creata a parte e introdotta a cosa
fatta in un corpo per governarlo. Se cosi fosse, si sarebbe autorizzati a
dire : Una saggia Provvidenza non affida a un agente di governo una
funzione, che egli è incapace di assolvere felicemente. Se da solo non ne
è capace» che lo rafforzi. ,
E' vero, e San Tommaso lo ha dapprima obiettato a se
stesso, che per natura l'uomo è un essere destinato alla morte e al
disordine inferiore. E' un composto instabile, poco più consistente,
nell'oceano dell'essere cosmico in perpetua trasformazione, della cresta
d'un'onda sul mare. Ora, ogni sofferenza è annuncio, minaccia e inizio di
morte, e ogni disordine interiore ne procede. Solo, cosi parlando, sembra
che non si pensi che alla natura corporea. Lo spirito, da parte sua, tende
a crescere e non a morire. La volontà è un organismo conquistatore e
tende al perfetto. L'ideale, pure, è nella natura e non è innaturale che
ci sia cosi difficile moralmente e nsicamente? Ecco il ragionamento di
Pascal !
Tutto ciò si regge solo in apparenza e in realtà
falsa radicalmente la situazione. Le cose non si presentano affatto cosi
Nella dottrina di San Tommaso, quando vuole ricordarsene e ragiona
di conseguenza, l'anima non è per niente nel corpo come un agente di
governo a parte, avente diritto a soddisfazioni a parte; è un elemento
analitico dell'insieme. Al punto che per lui l'uomo pensa col corpo nello
stesso tempo che con l'anima. Nella più alta contemplazione, non è solo
l'intelletto che .s'innalza all'adorazione o all'estasi, ma anche, in
seconda linea, a titolo di collaborazione o di sostegno, i fantasmi
dell'immaginazione, le impressioni dei sensi e pertanto le viscere, gli
elementi istologici, gli umori, il sangue, in breve tutti gli elementi che
l'anima s'è uniti nel corso della evoluzione embriogenetica. In caso di
cattivo funzionamento, è Io stesso. Di conseguenza, se si vuole che
l'uomo pensi più puramente, che sia meno vittima dell'immaginazione e dei
sensi, e che sul terreno dell'azione possa operare con meno rischi, meno
opposizioni dolorose e lungi da ogni pericolo di morte, non è solo
l'anima che bisogna cambiare, ma l'intero. essere umano e bisogna inoltre
cercare di subordinargli il suo stesso
ambiente vitale; poiché il corpo non è che un
frammento di questa ambiente, la cui complessità, i cui sconvolgimenti e
la cui instabilità costituiscono i suoi rischi.
In definitiva, si tratta di cambiare l'universo, e i
Padri della Chiesa lo hanno sempre compreso quando hanno speculato sullo
stato detto di giustizia originale. Si trattava per loro d'una
innocenza della natura cosi
come dell'uomo. Oppure allora bisognerebbe immaginare
un sistema di preservazione costituente un miracolo perpetuo e che ci
taglierebbe le comunicazioni con ciò che è, per natura, il nostro
ambiente congiunta e: non soltanto, come se lo immagina l'istinto,
una dimora.
Non si riflette a tutto ciò quando si sogna del meglio
senza coaside-.
carne le condizioni e quando si fonda un argomento
dialettico lo si trascura; ma ritornando al concreto ci si rende conto
dell'enormità delle proprie richieste10.
In nome di che esigere dal Creatore tale
rimaneggiamento della sua
creazione? Ha stabilito gradi tra gli esseri:
cercheremo subito di scoprirne il motivo. I-n questo scaglionamento, che
va dal puro spirito alla, materia pura, c'è. un gradò d'organizzazione
particolarmente delicato, si
direbbe volentieri scabroso, se non si trattasse
d'un'opera divina: è
10 Un altro esempio liti san Tommaso di
questo procedimento d'astrazione, del
quale è ben consapevole, si può credere, si ha quando
nella Stimma (q. 48, a. 2, e. e ad 3) e nella questione De Malo
(q. 5, a. 5) dice che è naturale per l'uomo, quale essere ragionevole,
di vedere la. ragione dominare in lui l'essere materiale, e così
sfuggire, sul terreno morale, alla. concupiscenza della
carne, sul terreno fisico- alla malattia e alla morte. Ma cosi esprimersi,
è fondarsi sull'astratto. L'uomo non è. un essere ragionevole; è
un animale ragionevole. L'animalità, fa parte della nostra essenza, ed è
naturale che imponga le sue condizioni.
quello che unisce lo spirito alla materia in un'unità
sintetica partecipante: dell'uno e dell'altra, con questa particolarità
che è nella materia che si sveglia lo spirito, che è in essa che
attinge le sue stesse informazioni spirituali, attraverso il filtro dei
sensi, e che le forze che impiega per agire, al didentro o al di fuori,
sono tutte derivate da questo universo-relativamente caotico, da questo
mare sconvolto.
Ciò è straordinariamente bello, d'una concezione
sublime, prodigiosamente riuscito, e ci si immagina che su un tale caso si
fissi con interesse l'attenzione degli angeli, come con timore e
ammirazione quella delle bestie. Diciamo riuscito; poiché se qualche cosa
sorprende, non è che la nostra macchina umana, materiale o spirituale,
abbia dei falliti, bensf che funzioni, che l'uomo stia in piedi, cammini,
veda, intenda, s'istruisca, si perfezioni e fino a che punto!, dal momento
che vi sono tra noi,. nonostante tante miserie, eroi e santi.
Ma noi siamo insaziabili. Per fortuna. E' un gran
segno, come l'abbiam visto ricordato da Lamartine. Non si tratta di
rinunciare alle nostre aspirazioni; bensì di sapere se la loro
soddisfazione può essere? pretesa subito, prima dell'evoluzione della
nostra condizione presente. Abbiamo diritto di esigere un Eden? Non ci
basta un Paradiso? Ci sarà modo di conquistarlo? Tanto meglio! E se fosse
peggio, la combinazione sarebbe pur sempre degna di Dio. Gli argomenti a
priori su ciò che Dio deve o non deve fare in fatto di creazione non
sono di alcun peso. San Tommaso lo sa; ma giucca sicuramente; ha dietro a
sé un. fatto; argomenta in favore di questo fatto come per autorizzarlo,
per razionalizzarlo, quando invece è libero.
Questo fatto della prima condizione umana, Io
discuteremo più avanti;
ma ci tenevamo a dire che non è in alcun modo
richiesto; che Pascal ha ecceduto scrivendo : « L'uomo è più
incomprensibile senza questo. mistero che non sia incomprensibile questo
mistero all'uomo» e che la-modesta argomentazione di San Tommaso stesso
è di nessuna portata al di fuori della fede. In quanto ragione di
convenienza, non la introduce dal difuori ma dal didentro, piuttosto
come una illustrazione ideologica che come una prova.
Bisogna aggiungere che nella dottrina dell'Evoluzione
le nostre osservazioni assumono una portata ancora maggiore. Se la natura
umana,. anziché essere costruita di colpo dal Creatore, è il risultato
della collaborazione divina e dell'immensa colata della vita sulla terra,
si comprende che, compiutasi Yominizzazione, spetta al pensiero di
sciogliersi a poco-a poco dalla materia materna e ad un tempo
appesantente, opprimente e, per l'individuo, mortale. Se sono offerti doni
preternaturali, sarà un favore; non può essere considerato un diritto.
Diciamolo francamente, in questa ipotesi che s'impone
sempre di più alle menti, è la giustizia originale a costituire
difficoltà, non la sua assenza. Se non si trattasse del racconto biblico
e della sua autentìca elaborazione nella Chiesa, non vi si penserebbe
nemmeno.
Al posto dell'Onnipotente di Michelangelo, che sveglia
con dito imperante e alza sul suo poggio Adamo miracolato, si vedrebbe
allora il nostro umile Dio « mescolato alle sue opere », come dice
Sant'Agostino» procacciante in noi dal didentro il risveglio della sua immagine
nella sua creazione, invitanteci a compirla con lui con un'azione continua
che non .ha bisogno di prodigi.
Il problema è lo stesso, nel caso d'un mondo
imperfetto in via di crescita e nel caso di un mondo decaduto in via di
raddrizzamento. Nei due casi i mali della vita sono naturali e
inevitabili. Nei due casi possono essere utilizzati per il bene di tutti
gli uomini e per quello dell'universo.
Del resto, nell'ipotesi dell'evoluzione, la
continuazione del passato in linea continua — sul piano empirico,
s'intende — sarebbe pur sempre la conseguenza più naturale della
condizione prima delle cose, poiché in questa ipotesi l'umanità è
realmente cominciata col cosmo, in ogni caso con lo schiudersi della vita
sulla terra, non in un Eden.
L'idea del prodigio non è con questo esclusa. E'
quella che risponde al fatto, e dovremo trattarne in seguito. Ma noi
diciamo che dal punto di vista della ragion pura, la situazione è
capovolta. Pascal appassionatamente, San Tommaso placidamente e piuttosto
in apparenza, cercano di provarci che la creazione dell'uomo fornito di
doni protei-naturali era di diritto; noi diciamo: no, piuttosto il
contrario. Di modo che la situazione attuale dell'uomo non deve essere
considerata ne cóme un male
rispetto a un ordine naturale delle cose, ne
necessariamente, e neppure probabilmente, come la conseguenza d'un male.
In conclusione : le assicurazioni che richiediamo in
merito al male ;umano — questo caso particolare, che per di più non
esaurisce il nostro argomento — non devono essere cercate soltanto nel
passato adamitico, ma aldilà o, meglio, aldisopra, nell'azione creatrice
stessa, là dove tutte le forme dell'essere, e anche del non-essere,
trovano la loro prima origine
e le loro ragioni supreme.
Bisogna consultare Dio. Solo, ci sono sempre stati e
più che mai vi sono oggi spiriti, che appunto a ragione del male si
rifiutano di riconoscere Dio o si scandalizzano di lui. Che pensare del
loro atteggiamento, quale che sia il valore scientifico delle prove
dell'esistenza di Dio, che qui non dobbiamo «discutere? "[ 11
Questo problema è stato studiato da noi in opere precedenti, come Les
sowces de la croyance era Dieu, Paris, Perrin ; Dieu ou Rien,
Paris, Flammarion,, per non .parlare d'un opuscolo intitolato: Athées,
mes frères en Dieu, Paris, Gallimard ]
Rimproveri fatti a Dio a motivo del male
Osserviamo anzitutto che questa facilità, nei moderni,
a negare Dio o a rimproverarlo a motivo del male è una testimonianza
della nostra concezione cristiana di Dio. Un pagano penserebbe a una
divinità ostile e cercherebbe di garantirsi da essa. Questa nettezza nel
dilemma Dio o nulla è già un bene; ma certamente non potrebbe
bastare.
Quale audacia, quando vi si pensa, nelle parole d'un
Stendhal, il «quale dichiara per aver dispiegato, come si dice, la vita
universale al nostro sguardo : « La sola scusa di Dio, è che non esiste
». Clemente Alessandrino diceva di colui che contesta la provvidenza: «
Non merita una risposta, ma una pena. Poiché attorno a noi le prove della
Provvidenza si moltiplicano. Ovunque c'è del bene, e donde viene, se non
da un Principio del bene? ».
Bisogna concedere che la bontà di Dio non si manifesta
nell'insieme non sufficiente continuità ed evidenza per provocare una
convinzione senza incertezze. Vi è troppo miscuglio; vi sono troppe
sventure. Ma la mescolanza del bene e del male deve bastarci; poiché il
più piccolo elemento di bene, come il più piccolo barlume di
bellezza, come la più piccola particella d'essere — e Dio sa che cosa
sono queste particelle! — prova Dio e impone la fede nei suoi attributi12.
Dopo di che è inutile dire : II male è, dunque Dio
non è. Si replicherà subito : C'è il bene, dunque Dio è. E le due
affermazioni non sono ex aequo; poiché anzitutto il bene domina, e
il male non è che un accidente, che lascia dunque sussistere
l'affermazione essenziale. Tanto che se il bene non fosse, non vi sarebbe
neppure il male. Cosi anziché dire:
II male è, dunque Dio non è, si deve dire: II male
è, dunque. Dio è;
poiché se Dio non fosse, non esistendo il bene
affatto, non vi sarebbe
neppure il male.
Poi, l'affermazione di Dio è positiva e fondata con
certezza, mentre la negazione di Dio a motivo del male è azzardata e del
tutto negativa, sfondata soltanto sul fatto che noi non vediamo le ragioni
del male. Non si tratta di non vedere per niente, come scriveva Pascal. In
altri termini, è certo che il bene è incomprensibile senza Dio, e non è
certo che il male sia incomprensibile con Dio.
Descartes, gran matematico, diceva di essere più
sicuro dell'esistenza di Dio che di qualsiasi proposizione delle
matematiche. Non gli sfuggivano tuttavia i mali della natura e della vita.
A chi gliene avesse chiesto la .ragione, senza dubbio avrebbe risposto :
non ne so niente, e sarebbe stata risposta molto saggia. E' appunto in
questo spirito che egli diceva, a proposito dei fini della natura, il cui
caso è cosi strettamente congiunto al nostro problema : « Non dobbiamo
tanto presumere di noi stessi da credere che Dio abbia voluto farci
partecipi dei suoi consigli » ". « Non abbiamo il diritto
d'interrogare il Creatore su checchessia », dice Lautréa-mont\*.
E il buon senso di Voltaire aveva completato in anticipo con la
semplicissima osservazione che si deve far credito per ciò che non si
vede in ragione di ciò che si vede [
Dict. philos; alla voce Théisme.]
12 San Crisostomo diceva
con garbo : « L'universo possiede un tale splendore che sembra sempre
nuovo e fabbricato oggi. E' così bello che si è potuto ritenerlo esso
stesso un dio ».
13 Principia, I, 28.
14 Poésies.
Per il filosofo teista o per il credente, la
contemplazione del più piccolo atomo di materia o del più piccolo
fremito di vita porta di lancio alla Causa prima, e se il male sembra
opporre un ostacolo, che cosa prova ciò se non che quella strada per noi
è senza esito e forse ci è interdetta. Condannati al mistero, nel corso
del nostro viaggio del tempo, dobbiamo accoglierlo dalla stessa mano che
getta davanti a noi tanta luce. E' bello dire con Bossuet : « Non
comprendo, ma adoro », essendo ammesso che si conoscono le ragioni della
propria adorazione, anche se non si può andare a fondo di ciò che essa
comporta di oscuro.
Sant'Agostino diceva : « Non è sano di mente, chi
trova a ridire della creazione ». E l'ironia del favolista colpisce
giustamente i sempliciotti che sostituiscono la loro piccola saggezza a
quella del Fabbricatore sovrano. Se Dio consentisse ad adeguarsi ai nostri
corti cervelli, è certo che gli riuscirebbe duro sottoscrivere alla sua
creazione. Ma se invece cerchiamo noi di entrare nella sua mente per
accostarci alla sua creazione, vi riconosceremo la sua gloria.
Che cosa di più ragionevole di questo passo d'una
lettera di Leibniz al P. des Bosses : « Tutti gli inconvenienti che
vediamo, tutte le difficoltà che ci si può prospettare non impediscono
che si debba credere ragionevolmente, quando non lo si sapesse d'altronde
dimostrativamente, che non c'è niente di cosi elevato come la saggezza,
niente di altrettanto giusto che i suoi giudizi, niente di cosi puro come
la sua santità e niente di più immenso che la sua bontà » 16.
Questa via della fiducia è altrettanto seria di un
orgoglio rivendicatore, che talvolta non teme abbastanza di cadere nel
ridicolo. E' il caso di coloro che danno alla loro negazione di Dio a
motivo del male un tono d'invettiva, come se volessero punire il Creatore
decretando la sua inesistenza.
Je crois bieh, entre nous, que tu n'existe pas17.
Ciò serve a divertire; ma preso sul serio, è
piuttosto sciocco. Con chi se la prendono? Se il mondo è abbandonato al
caso, è naturale che vi si trovino effetti del caso; non c'è motivo per
riscaldarsi. Ci si dovrebbe piuttosto rallegrare per tante parziali buoni
riuscite e piccole impreviste fortune. Il caso è ancora un buon uomo !
Invece ci si adira : non è appunto perché nel fatto si conserva questa
esigenza d'un Dio organizzatore, al quale si rimprovera amaramente di non
rispondere alle nostre vedute?
Ma il Signore risponde : « / miei pensieri non sono
i vostri pensieri e le mie vie non sono le vostre vie » (Is., LV, 8).
E a coloro che interrogano con un'aria apparentemente sommessa, in realtà
comminatoria, dice: « II mio segreto mi appartiene! Il mio segreto mi
appartiene!» (Is., XXIV, 16). Non dobbiamo cercare di punirlo di
questo segreto accusandolo di falso .per questa espressione della sua
gioia creatrice:
16 dotens, t. VI, p. 174.
17 jeam richepin, Les Blasphèmes [Io
ritengo, tra noi, che non es&i].
RIMPROVERI A DIO 33
« Dio vide tutte le cose che aveva fatto, ed esse
erano assai buone » (Gen., I, 31).
Ci si ricorda dei versi di Musset neVEspoir en Dieu:
Brise cette voùte profonde
Qui couvre ta création
Ecarte les voiles du monde,
Et montre-toi, Dieu juste et bon *.
Non si sente l'incosciente tracotanza, che si nasconde
sotto queste pie parole? Ricorda l'appuntamento che Pierre Loti dava un
giorno al Cristo sotto gli olivi di Getsemani, e che lo lasciava
deluso, offeso, più che mai distante, poiché il Cristo non aveva
risposto. Forse il biglietto da visita non era stato consegnato.
Il silenzio di Dio è la lezione più alta che Dio ci
dia, ancor più degna di lui di quella che rivolge a Giobbe dal seno della
tempesta:
« Chi è colui che denigra i miei disegni con
discorsi senza intelligenza? » (Giobbe, XXXVIII, I).
Atteggiamenti, visi arcigni, interrogazioni, specie
d'ultimatum tutti in fondo derisori e troppo mancanti di pietà per il
cosmo divino. L'universo di Dio non dipende da noi, bensì noi da esso e
dalla sua sublime Sorgente. Se mai gli stoici hanno parlato con grandezza,
è proprio a questo proposito. Abbiamo citato sotto questo riguardo parole
mirabili, che dovrebbero far arrossire dei cristiani. Noi abbiamo tutto
ciò che occorre per amare i misteri di Dio, la cui bellezza ci è stata
manifestata in modo cosi fulgente nel Cristo. Se resta il velo, è animato
di palpiti che rivelano la presenza divina. E' « la presenza d'un Dio che
si nasconde », dice Pascal. Adoriamo le sue ragioni per nascondersi e non
misconosciamo la sua presenza. Amiamo che Dio sia Dio; amiamo che sia
Creatore e che governi la sua creazione come occorre, con la gioia e col
dolore, con la vita e con la morte, attirando tutto verso la vita eterna.
« L'uomo buono vuole che Dio sia », dice Kant. Vuole
anche che Dio mantenga i suoi attributi, anche i più segreti. Vede in
ciò una grandezza che deve avvincerci proprio perché ci sorpassa. Vi
vede una poesia dell'infinito, che si risolve alla fine nell'amore.
La differenza dei beni e dei mali scomparirà per noi
il giorno in cui ci sarà dato di vedere tutto nella luce eterna. Si può
anticipare quella visione elevandosi con la contemplazione aldisopra della
sfera delle domande e delle misere risposte, aldisopra dei disordini e dei
cosiddetti segreti. Spinoza diceva : « Tutto è bene, poiché tutto è
Dio ». Noi correggiamo e diciamo : « Tutto è bene, poiché tutto è di
Dio, in Dio e orientato verso Dio. Il bene regna ».
* [Infrangi la profonda volta che copre la tua
creazione, scosta i veli del mondo, e mostrati. Dio giusto e buono].
34 DA DOVE VIENE IL MALE?
Le ragioni della creazione
Riprendiamo tutto daccapo. Forse, in spirito di
fedeltà e di aiuto fraterno, otterremo qualche lume più decisivo.
L'attingimento della verità esige che si metta in
rapporto l'idea da illuminare con la totalità della conoscenza esplorata
nei suoi principi. Qui, dove si tratta di tutto il concreto commisto di
male, risalire al principio significa ricorrere a Dio.
Teniamo fermo che è oltracotante chiedere a Dio le sue
ragioni! Tuttavia, in ciò che concerne la sua creazione, le necessità
della sua azione non corrispondono a ciò che esige la sua esistenza? Dio
è richiesto per fondare il reale e render conto dei beni che vi si
trovano espressi. O il concetto di Dio non serve a niente, o è identico a
quello del Perfetto, della pienezza d'essere, che si mostra diffusa nella
sua creazione.
Quando S. Giovanni dice che Dio è Amore (Giov., IV,
8), pone in evidenza questa tendenza alla diffusione, che è un carattere
del bene, e da la ragione dell'atto creatore, nel che si compendia fuori
del tempo tutto ciò che ci viene da lui.
Il Bene divino tende a diffondersi come se Dio fosse
troppo pieno di Dio.
Ce grand besoin d'amour, la seule soif de Dieu,
di cui parla il poeta ls [ victor
Hugo, Les Feuilles d'Automnne, La Prière pour tous. [Questo grande
bisogno d'amore, la sola sete di Dio]], è alla base
di tutto. Ma Dio chi può amare anzitutto se non se stesso, e il resto a
causa di sé? Un amore illuminato misura i beni e non può-capovolgere
l'ordine dei valori senza tradire se stesso. Sarebbe questo un egoismo?
Per niente; poiché, la pienezza non potendo ricevere nulla, il ritorno di
Dio a se stesso in vista dell'azione non può consistere che nel darsi,
nel comunicarsi misteriosamente senza nulla perdere, dal momento che
perderlo, oltre che essere impossibile, sarebbe un impoverirci. Non
avremmo più Dio.
Posto ciò, è vano chiedersi se ciò che Dio fa sia
buono? Quale altra qualificazione potrebbe avere? Effusione del bene, non
può partecipare che di esso. Che sia limitato, è ciò che constatiamo;
ma è anche una necessità inevitabile; poiché comunicandosi tutto quanto
Dio originerebbe un altro se stesso. E' appunto ciò che avviene nella
Trinità; ma non si tratta allora per Dio di creare, ma di costituirsi, e
non è più il nostro problema. Noi parliamo dell'espansione di Dio fuori
da sé. Ora questa non può essere che partecipazione, di conseguenza
imperfezione, e con ciò si vede già il male spuntare all'orizzonte del
pensiero. Non è che si chiami male l'imperfezione stessa, al modo del male
metafisico di Leibniz. Noi abbiamo respinto questo modo di parlare,
che da luogo a gravi equivoci. Ma se l'inevitabile imperfezione del creato
non è un male, poiché non è privazione rispetto a qualcosa di
costituito, semplice limite del bene che non viola nessuna esigenza,
tuttavia questa imperfezione è all'origine del male; ne è la radice.
Invero, questa condizione dell'essere creato che oppone
a ciò che esso è ciò che esso non è, comporta per esso la possibilità
di deteriorarsi e di scadere. Ovunque c'è del vuoto, può aver luogo una
caduta. La perfetta consistenza in se stesso, che da la sicurezza, suppone
la pienezza, e non c'è pienezza che nell'Essere perfetto.
I tornisti chiamano questa vacuità interiore
dell'essere imperfetto una potenzialità, che nei gradi inferiori
diventa materia. Si tratta di ciò che si potrebbe avere e non si
ha. Da qui la possibilità di una degradante diminuzione, d'una rottura
della armoniosa continuità dell'essere, d'un guasto, in breve di quella
lebbra esistenziale, in cui abbiamo riconosciuto del male19.
19
Hugo ha cercato di esprimere questa dottrina nei versi
seguenti. Quando Dio •creò il mondo, dice il poeta,
II le fit radieux, bon, splendide, adorable
Mais imparfait; sans quoi, sur la meme hauteur,
La creature étant égale au Créateur,
Cette perfection, dans l'infini perdue,
Se serait avec Dieu mélée et confondue,
Et la création, a force de ciarle,
En lui serait rentrée et n'aurait pas été.
La création sainte, où reve le prophète,
Pour ètre, o profondeur! devait erre imparfaite.
Donc, Dieu fit l'univers, l'univers fit le mal.
(Les contemplations, VI, XXVI)
[Lo fece radioso, buono, splendido, adorabile ma
imperfetto; altrimenti, alla stessa altezza, la creatura essendo uguale al
Creatore, questa perfezione perduta nell'infinito si sarebbe mescolata e
confusa con Dio e la creazione, per la sua stessa chiarezza, sarebbe
ritornata in lui e non sarebbe stata. La creazione santa, dove il profeta
sogna, per poter essere, o profondità, doveva essere imperfetta. Dunque,
Dio fece l'universo, l'universo fece il male].
Ci si comprenda bene. Non è male essere soltanto
ciò che si è; il male sta nel non essere interamente ciò
che si è, integralmente costituito e mantenuto nella propria natura
d'essere. Ora, il passaggio dall'uno all'altro caso è sempre possibile.
Dio stesso non può far si che questa possibilità sia esclusa; può solo
impedire che si attui, e più avanti ci chiederemo se gli conviene
esercitare questo potere. Ma impedire che una possibilità si eserciti non
è distruggerla. La possibilità persiste e si incontra in tutti gli
esseri come una debolezza congenita. Sant'Agostino l'attribuisce al fatto
che gli esseri vengono dal nulla (ex nihilo). Non che egli
entifichi il nulla; anche per lui si tratta d'un limite (Creatura quae
summa non est). E' questo limite, che offre presa agli attacchi del
male, e che cosi riduce la parte di bene attuata quaggiù dall'azione
divina. -Poiché Dio si manifesta a noi attraverso il bene della
creatura» come l'anima si manifesta attraverso i movimenti del suo corpo 20»[
20
teofilo d'antiochia, Ad Autol., IV, 6.].
Si potrebbe riprendere in questo senso il detto di
Fiatone, che il mondo è il risultato dell'Intelligenza e della
necessità, intendendo per
questa il limite essenziale a tutto ciò che non è Dio
e introducente un punto debole in ogni realizzazione di Dio.
Ora da un punto debole in tutte le cose alla
rottura, a una grave rottura, il passaggio è fatale. L'autonomia
della creatura difettosa rende inevitabile il male, senza renderlo
necessario in nessun caso. Invero, una cosa che potrebbe, per quel che si
pretende, prodursi e non si producesse mai non potrebbe, in realtà,
prodursi, se si intende d'una possibilità reale, oggettiva, fondata in
natura. Poiché nell'ambito del concreto la possibilità e il fatto si
ricongiungono sempre. In una natura che muta continuamente, in cui la ruota
della fortuna trascina tutto, è fatale che un giorno o l'altro la
possibilità dia adito al fatto, che il numero della lotteria realmente
esca. Non è certo una probabilità, è una certezza naturale che il
calcolo delle probabilità non fa che numerare e che è inscritta nella
natura delle cose, « natura rerum hoc habet », dice San Tommaso.
Essendo tutti i fenomeni sottoposti al tempo e al suo scorrere
irreversibile, vi è sempre un legame, che congiunge un reale potere alla
sua realizzazione, purché l'ampiezza di tempo e la varietà delle
circostanze diano a questo potere un margine sufficiente. Il bicchiere è
fragile : può darsi che in una città, un determinato giorno, non si
rompa nessun bicchiere;
ma che non se ne rompano mai, quali che siano la durata
della città e la frequenza dell'uso, non è possibile. Stante il
grado di fragilità, se ne romperanno certo molti. Analogamente per le
sostanze fragili, i fragili viventi, i fragili umani, le coscienze
fragili. Questo è il male.
Sotto questo riguardo, si può dire che è lo stesso
essere la radice del male, intendendo l'essere creato dal punto di vista
della sua essenziale imperfezione. Si può anche dire che per questo fatto
il principio del male è in qualche modo in Dio, nel senso che il mondo
che egli deve creare è in Dio prima d'essere in sé; nel senso che Dio lo
vuole qual è, con le sue imperfezioni e le sue tare, benché non voglia
in verità che il bene. E invero preso come tutto è bene ed è questo
tutto. San Tommaso lo dice incessantemente, l'oggetto primo e principale
della sua creazione.
Mistero, diciamolo ben chiaro, questa inclusione del
male nel bene fino alla sua fonte ideale in Dio stesso! E' il mistero
della creazione. Non è questa una specie di anomalia metafisica? Dio non
dovrebbe essere solo? Non se ne può partecipare che a condizione di
uscirne in qualche modo, e come uscire dall'essere senza attingere al
non-essere, senza rischiare la privazione d'essere, cioè il male?
E' senza dubbio il pensiero di Paul Valéry, quando cosi descrive la
discesa dell'Assoluto nell'essere:
Cieux, son erreur! Temps, sa ruine! Et l'abime
animai béant! Quelle chute dans l'origine, Etincelle au lieu du néant21
!
21 Charmes, L'ébauche du Serpent. [Ciclo,
il suo errore! Tempo, la sua rovina! E l'abisso animale spalancato! Quale
caduta nell'origine, favilla al pósto del niente].
LA LIBERTÀ' DI DIO NELLA CREAZIONE 37
Ma la scintilla è pur brillante. Dio vi si riHette
ed esprime un'altra volta per mezzo del suo Verbo. E poi, spetta a
noi, beneficiari per sempre del generoso errore, disapprovare
l'atto creatore?
Tuttavia ci incalza un altro problema, che può
diventare una vera angoscia quando vi ci si immerge senza controparte. Che
Dio abbia scelto di attuare i fini della sua bontà attraverso lo
scotimento del mondo che abbiamo sotto gli occhi, attraverso tutto questo
dispiegamento spaziale e temporale che comporta cosi grandi rischi e
effettivi scadimenti, sia nell'ordine della natura che in quello delle
libertà, ciò non è chiaro di per sé; ciò sembra strano e calamitoso
in misura impressionante, oggetto più di fatalità che di scelta.
Pourquoi donc, o Maitre supreme, As-tu créé le mal si
grand, Que la raison, la vertu meme S'épouvantent en le voyant?22 22
alfred de musset, L'Espoir en Dieu. [Perché dunque, o supremo
Signore, hai creato così grande il male, che la ragione, la stessa
virtù si spaventano vedendolo?].
Bisogna che la ragione sia afferrata dallo stesso bene.
E' impossibile a priori che sia diversamente. Ma come ciò è
possibile?
Non nascondiamo la nostra impotenza a dare qui ragioni
soddisfacenti. Dobbiamo dire : E' meglio cosi. Ma perché sia meglio cosi,
non si può cercare di spiegarlo chiaramente senza tirarsi addosso il
riso. Anche noi sorrideremo dopo aver parlato, e il nostro ultimo capitolo
sarà intitolato: «II Mistero». Ecco tuttavia ciò che balbettando si
può tentare disdire.
La libertà di Dio nella creazione .
Anzitutto affermiamo che al livello della prima
costituzione delle cose. Dio è interamente libero. Quando Montesquieu ci
dice che « anche la Divinità ha leggi », si deve intendere rispetto
all'opera creatrice una volta costituita, nella quale essendosi una volta
manifestato il volere divino, esso deve a se stesso coerenza e, per cosi
dire, giustizia. Ma alla radice. Dio è interamente libero in ciò che fa.
Si potrebbe dire, se la parola non fosse un poco incongrua, che il suo
arbitrio è la legge delle cose. Basterebbe, per correggere l'espressione,
ricordarsi che egli 'è il Bene sostanziale e che, per fare il bene, non
ha che da seguire la sua tendenza senza obbedire ad alcuna regola. Egli è
la regola, e tutto è bene a seconda che è conforme alla sua volontà.
E' ciò che Leibniz non ha visto chiaramente quando ha
creduto di dover affermare che Dio, disposto a creare, si era trovato
obbligato moralmente e infallibilmente a creare il migliore dei mondi
possibili. D'altronde, non vi è mondo che sia il migliore tra i
possibili, dal momento che sussisterà sempre un margine infinito tra un
qualsiasi universo creato e la perfezione suprema. E poi, non si potrebbe
concepire un dovere di Dio, una sua saggezza obbligata, una sua giustizia
a questo livello. Dio
è determinato, moralmente o no, solo rispetto al bene
infinito che è lui stesso.
Se dunque si domanda perché Dio ha creato questo
mondo, la risposta è anzitutto: perché il mondo è buono. Se si.
insiste: perché questo piuttosto che un altro? non c'è altra risposta
che il volere stesso di Dio. Di modo che, essendo questo volere del tutto
incondizionato e non essendovi regola per giudicarlo al di fuori di esso,
ciò che esso farà non soltanto sarà sempre buono, ma sarà sempre il
meglio rispetto a ciò che lo guida, cioè se stesso 23. 23
Cfr. S. tommaso, q. I, de Potentia, a. 5, ad 15.
Gli attributi di Dio nella creazione
Ciò non impedisce di ricercare un principio, secondo
il quale il dispiegamento del creato, qual è, troverebbe un abbozzo di
spiegazione razionale. Abbiamo detto che il mondo è fatto per esprimere e
comunicare aldifuori il Bene sovrano. Abbiamo convenuto che ciò non può
avvenire che imperfettamente. Ancora, bisogna che, nella misura di ciò
che ne è stato liberamente deciso, questa espressione e questa
comunicazione siano le più efficaci possibili. Non vediamo che la
saggezza divina si fermi al meno buono dispiegamento del proprio volere.
Non si tratta sempre di costringerla, ma di comprenderla. Siamo nelle ragioni
di convenienza, di cui abbiamo misurato la portata.
La comunicazione del divieto sarebbe potuta avvenire a
profitto di una o di alcune nature privilegiate e assai perfette. Sarebbe
stato bene. Ma si vede subito che una siffatta soluzione avrebbe raggiunto
lo scopo prefisso in maniera assai meno efficace. E' come se si volesse
rappresentare la ricchezza dello spirito umano co", un solo pensiero
o con alcuni.
E questo confronto è adeguato, per la ragione che
l'essere prima di manifestarsi come realtà sostanziale è idea. Una sola
idea, una sola natura d'essere, come potrebbe esprimere la pienezza
divina? C'è si un'Idea che esprime Dio tutto; pure essa è Dio: è il
Verbo. Ma il Verbo, ancora una volta, è costitutivo di Dio, non lo
comunica. Dio non può avere un duplicato creato a disposizione della sua
potenza. Cosi una sola natura d'essere o alcune soltanto sarebbero
impotenti a esprimere convenientemente le virtualità infinite della
natura divina.
E l'inconveniente non sarebbe affatto soppresso con una
moltiplicazione numerica in una stessa natura. Leibniz ragiona bene quando
dice :
« La saggezza deve variare. Moltiplicare soltanto la
stessa cosa, per nobile che possa essere : sarebbe una superfluità, una
povertà. Avere mille Virgilio ben rilegati nella propria biblioteca,
cantare sempre le arie dell'opera di Cadmo e d'Ermione, rompere tutte le
porcellane per avere solo tazze d'oro, avere solo bottoni di diamante,
mangiare solo pernici, bere solo vino d'Ungheria o di Sturai, si
chiamerebbe ciò ragione? La natura ha avuto bisogno di animali, di
piante, di corpi inanimati »24.
24 Théodicée, TI.
124.
II fatto è che una creatura. finita, per perfetta che
sia, manca sempre di ciò che possiede la creatura più imperfetta. Un
angelo non ha la perfezione propria dell'insetto o della gramigna, e non
le sostituisce. Non sarebbe peccato che accanto all'uomo non esistessero
il leone, l'aquila, l'elefante, il toro... accanto alla donna la gazzella,
la colomba, l'ermellino, la rondine... alcuni aggiungerebbero il serpente?
Quante bellezze sparse che non si possono riunire senza che si
contraddicano e si annullino. Bisogna dunque lasciarle sussistere ognuna
in se stessa, non potendo assommare i loro valori. Bisogna che la
perfezione che in Dio è semplice e una si manifesti nella sua creazione
in maniera molteplice e diversa. Senza di che non sarebbe raggiunto lo
scopo, che è di esprìmere Dio e di esercitare la sua munificenza.
Vale qui per la potenza attiva come per la potenza
passiva o virtualità nella natura o nell'arte. Una sostanza
chimica si rivela con la ricchezza dei suoi composti o dei suoi derivati.
Il marmo può ricevere forme diverse. < Tutte le più belle statue,
diceva Michelangelo, sono nel marmo », e una sola non manifesta tutte le
possibilità, che il marmo offre allo scultore.
Se ci si attenesse a questo punto di vista platonico,
il male dovrebbe essere interpretato come un conflitto tra l'unità
identica all'essere e al bene, e la molteplicità in cui l'essere si
degrada, pur conservando un'unità relativa, grazie alla quale il male non
sarà mai interamente vincitore. Ma c'è dell'altro, o meglio questo
concetto ne richiama subito un altro.
La pluralità cosi richiesta deve essere ineguale e
costituire una gerarchla. Ciò segue necessariamente; poiché, come notava
Aristotele, la diversità si stabilisce per addizione o sottrazione di
caratteri, come nella scala numerica un'addizione o una sottrazione di
unità cambia la specie. All'interno delle specie, individui differenziali
da differenti condizioni materiali di manifestazione compiranno la
diffusione gerarchica del Principio primo.
Questa idea della scala degli esseri, trasmessa dalla
scuola di Ales-sandria, è stata molto cara ai nostri antichi, ed è
sempre stata considerata una perfezione, meno che nel modo d'intenderla
d'Origene, che, come si è visto, vi scopriva una specie d'ingiustizia.
Anche questo pensatore attribuiva le ineguaglianze della natura a un
differente impiego del libero arbitrio da parte di esseri dapprima tutti
uguali. Ma questo è un errore manifesto. L'ordinamento delle perfezioni
diverse non potrebbe essere un'imperfezione, è una ricchezza.
Certamente l'essere superiore presenta più bene
dell'essere inferiore;
ma non perché è superiore. Supponetelo solo e
tale da non potersi più confrontare a niente, resta ciò che è e non
perde niente di sé. L'essere inferiore, da parte sua, ha meno bene, ma
meno bene è ancora ed & unicamente bene. Bene o male, perfezione o
imperfezione, ciò si deve giudicare, se si paria assolutamente, non
rispetto a un essere differente, ina rispetto a ciò che conviene o
non conviene a ciascun essere.
Essere privo del bene altruiy non è, propriamente
parlando, una privazione; da questo lato non c'è imperfezione, ma una
semplice man-
40 DA DOVE VIENE IL MALE?
caraa. Non sarebbe assurdo dire di un uomo ben
alloggiato nella propria casa che è privato dì un palazzo? Si
dirà che ha un alloggio minore di quello del principe, ma non che è
alloggiato imperfettamente, e che la sua dimora sia altra, è
l'elogio dell'ordine sociale.
Procediamo e diciamo che la diversità gerarchica nella
creazione deve essere attiva e comportare scambi. Le creature ineguali e
poste a differenti livelli ontologici reagiranno le une sulle altre. Senza
di ciò il Creatore tralascerebbe di comunicare ciò che vi è di
migliore, che è di creare. Le creature, propriamente parlando, non
creeranno, poiché com-pete solo all'Onnipotenza; ma daranno l'essere per
procura, e sarà la loro gloria più alta, la cui lode salirà fino al
Creatore.
L'idea si rafforzerà d'altronde e la perfezione del
mondo sarà accresciuta se, nel dominio degli esseri soggetti allo spazio
e al tempo, gli scambi di attività portano a trasformazioni nel
senso pieno, vogliamo dire non riferentisi solamente a una materia
successivamente determinata da forme diverse, ma a una evoluzione delle
stesse forme. Questa concezione, che oggi domina la scienza, apporta un
incomparabile allargamento alla idea di creazione e conferisce al nostro
problema e alle nostre soluzioni una nuova dimensione, di cui non
mancheremo di tener conto. Una specie di creazione permanente esprimente
nella durata successiva la pienezza dell'atto eterno che pone la creazione
universale, ciò non può non aver effetto sulla nostra concezione
dell'opera divina, sul suo bene e su ciò che lascia sussistere di male.
Tutto sommato, la creazione di Dio, se vuole rispondere
ai suoi fini, deve, sembra, esprimere la ricchezza infinita di Dio
attraverso la profusa molteplicità dei suoi esseri e delle loro forme
d'essere, la sua saggezza attraverso la loro gerarchia, la sua potenza
attraverso la loro mutua causalità, la sua giustizia con l'esattezza dei
loro rapporti, la sua provvidenza con i benefici che circolano in tutti i
gradi di questo vasto ordinamento gerarchico. Alla cima sarà l'ordine,
supremo bene creato, abbiamo detto, e in cui saremo obbligati a scoprire
la norma di tutti gli altri.
Visione grandiosa, secondo la quale creare è per Dio
evocare fuori di sé alcunché per cui ricostituire in qualche modo se
stesso, in una imitazione molteplice dell'Uno, imperfetta del perfetto,
mobile dell'Immobile agente, insomma coerente e buona.
Tu t'es produit toi-même en ton brillant ouvrage, L'univers
tout entier réfléchit ton image,
ha cantato Lamartine25 25
Premierei Méditations poétiques. La Prière. [Ti sei manifestato
nella tua opera brillante, l'intero universo riflette la tua immagine].
Narciso divino, che può compiacersi in ciò che ha fatto, in/ragione di
ciò che è, come in una testimonianza.
Il Sopra-Esistente che è Dio si è posto al di fuori
come esistente, sottoposto alle categorie dell'essere e manifestante come
per sbriciolamento, alla maniera di un lingotto da monete, d'un iridato
geyser , le sue ricchezze e le sue potenze d'essere.
Evidentemente, comunque faccia, l'universo sarà sempre
ineguale allo scopo che persegue. Che faccia almeno ciò che
può, affinché uscendo da sé possa dispiegarsi in esso, darsi e
splendere in un ultimo trionfo in gloria benefica.
Solo, c'è la conseguenza. Un universo cosi costruito,
e che costituisce per noi il maggior bene, è un insieme, in cui
innumerevoli mali entrano come elementi della sua stessa struttura.
Si può concepire una molteplicità gerarchizzata e
dinamica senza permanenti sacrifici di ciò che è inferiore a ciò che è
superiore, di ciò che dipende a ciò da cui dipende, di ciò che precede
nelle generazioni verso ciò che segue e succede ad esso? Ed ecco subito
gli urti, i conflitti, le costrizioni, le sostituzioni d'esistenze e, se
si tratta di viventi, le sofferenze e la morte.
Le forze contrarie sono in contatto, in un cosmo in cui
gli elementi sono del tutto solidali. Le loro collusioni sono inevitabili.
Poiché ogni essere segue la sua via come se fosse solo e ogni elemento si
dispiega per conto proprio, ovunque si determinano occasioni di male, e
cosi pure necessità che è impossibile ridurre, soprattutto se si tratta
di dividersi una stessa stoffa d'essere : la materia, gli stessi istanti
di durata, le stesse forme, gli stessi ritmi.
Il carnivoro dovrà vivere a spese dell'erbivoro,
l'erbivoro a spese delle piante, le piante a spese delle sostanze
chimiche. Una specie di eroismo costruttore comporterà distruzioni e
devastazioni; l'ordine esigerà disordini ; ci si lancerà verso la vita
contro di sé cosi come contro altri, destinati a ritrovarsi in altri a
pericolo dell'individualità e della propria passeggera palpitazione, e
dall'alto in basso il sacrificio sarà il prezzo dell'ordine sovrano del
cosmo e del suo splendore incomparabile.
Passiamo nel dominio dello spirito. Nella sua profonda
essenza l'universo è pensiero, esprimente il pensiero creatore. Vi si
deve distinguere il pensiero immanente, che non ha coscienza di sé, come
nella creazione materiale; il pensiero che ha coscienza di sé
oscuramente, confusamente, come nella bestia; il pensiero che si ripiega
su di sé, come nella creatura ragionevole e nel puro spirito. Qui nasce
la libertà, nella quale la possibilità di scadimento che abbiamo
riconosciuto in .ogni creatura diventa la possibilità di peccare e, tra
creature libere, l'eventualità di competizioni e di conflitti, di cui la
storia umana ci presenta cosi numerosi spettacoli.
E' vero che la libertà non è incompatibile con la
certezza di una buona azione. Questa sarà assicurata se l'essere che ha
la capacità di mal fare possiede nello stesso tempo l'evidenza
dell'assurdo di questo scarto. E' il caso di coloro che vedono Dio faccia
a faccia e nei quali il Bene sovrano con le sue richieste recita la stessa
parte del bene astratto che è sempre alla base delle nostre scelte. Ma
quest'ultima condizione della libertà è naturale per noi solo al
termine. Per ora deve lasciar posto al grado inferiore che ha il suo
proprio bene; come l'istinto animale ha il suo proprio bene rispetto allo
spirito umano.
Il bene proprio della libertà tra bene e male, è la
nobiltà della scelta, è il merito della preferenza virtuosa, è la
gloria del combattimento che precede la vittoria. Soltanto, il prezzo di
questo privilegio è alto.
Non importa. Noi supponiamo che un universo morale
concepito su questo piano, come l'universo fisico sopra considerato, è
potuto apparire al Creatore preferibile a un universo senza male, ma anche
senza la ricchezza quasi infinita di questo molteplice specchio delle
perfezioni che ii (??)
fa e la creazione .
Non si dirà che non abbiamo anticipatamente confessato
la relativa debolezza di queste considerazioni. Le nostre costruzioni
mentali non valgono molto. Ma gli schiamazzi arroganti dei miscredenti e
le bestemmie dei rivoltati, le stesse gementi debolezze dei credenti,
avrebbero più saldo appoggio? Chi deve avere la meglio tra il difensore e
l'aggressore di Dio?
Tra i due la partita non è uguale. Il negatore gioca
sul velluto, con le sue evidenze da due soldi, facili da opporre ai
terribili misteri. Il fedele ha solo le sue certezze di ragione facilmente
qualificate astrazioni o la sua fede battezzata chimera. Ha tuttavia come
forza ciò che è, e che l'oppositore sarebbe imbarazzato a sostituire con
qualcosa che stia insieme.
26 Alcuni
pensatori hanno preteso giustificare il male dichiarando che l'armonia
universale esige la presenza dei contrari, come lo sono il bianco e il
nero per l'incisione. Anche in sant'Agostino abbiamo incontrato qualcosa
del genere. Ora, presentato sotto questa forma, l'argomento è sofistico.
Il male è inevitabile, infatti, nell'armonia delle cose diverse,
inuguali e sottoposte ai mutamenti; ma non è richiesto.
Insensate esigenze dei critici
La maggior parte degli obbiettanti non si rendono per
niente conto di ciò che chiedono quando esigono dal Creatore l'esclusione
del male. Vogliono un nuovo universo? L'insania di tale pretesa dovrebbe
fare riflettere spiriti lucidi. Un nuovo universo, e quale? Chi dice loro
che un universo dei loro sogni sarebbe migliore, alla fine, di questo?
Pretendono di confrontare due universi come si confrontano due orologi che
si prendono in mano per vedere quale segna meglio l'ora.
Un universo ipotetico, non ha, per cosi dire, senso. E'
un fumo dell'immaginazione. Quanto a questo nostro, ci siamo e vi siamo
annegati. II nostro sguardo non si spinge che qualche passo in là,
verifica del suo funzionamento solo qualche fase nel tempo, qualche
aspetto nell'insieme. Non ne conosciamo né gli inizi, né i fini, né le
leggi veramente fondamentali del comportamento, né i reciproci
condizionamenti il cui gioco rende alla fine utile o nocivo questo o
quello. Non ne sappiamo niente, insomma, e decidiamo !
In realtà, i malcontenti vogliono questo nostro
universo meno ciò che li muta o li ferisce, e non comprendono che ciò è
infantile. Un
universo è un tessuto infrangibile, dove tutto dipende
da tutto e non consente arbitrari prelevamenti. Si può togliere a un
orologio un meccanismo o un perno senza cambiarlo interamente? L'universo
è più duttile, ma non a spese della sua profonda unità. E' d'un sol
getto, soprattutto se lo si consideri dal punto di vista dell'evoluzione.
Che cambiereste alla nebulosa primitiva perché ne derivi questo e non
quello? In queste condizioni, chiedere il miglioramento del mondo, è
condannare la propria esistenza e al suo posto chiedere — ci pensiamo?
— un mondo in cui non saremmo.
Chi può desiderarlo sul serio? Ci si tiene al proprio
universo poiché si tiene a se stessi, cosi come una tessera di mosaico,
se fosse cosciente, ci terrebbe al mosaico che è la sua ragion
d'essere, come un punto di tappezzeria all'intreccio complicato, da cui
non è separabile che per astrazione. Coloro che pensano il contrario si
sbagliano scioccamente;
rassomigliano al bambino che desidera di avere altri
genitori, non rendendosi conto che allora non sarebbe più lui, e cosi non
esisterebbe.
Osserviamo d'altronde che l'universo, nel senso pieno
della parola, ingloba il mondo futuro tanto quanto quello presente, il
mondo soprannaturale come quello naturale, i nuovi cicli e la nuova
terra come il cielo e la terra che stanno sotto i nostri occhi e che
non sono che un esercito in marcia. Chi può dirci le richieste di tutto
ciò, le possibilità e le impossibilità che un piano cosi grandioso
cela? Alla ragione qui è accordata una sola risorsa: accordare fiducia a
ciò che è, perché è, perché ha una presunzione di bontà per questo
stesso fatto, e per il fatto degli splendori che ci presenta la sua faccia
luminosa, che nessuna ombra può offuscare.
E' un'idea giudiziosa di Leibniz che l'incomparabile
armonia di certi frammenti di questo mondo : una rosa, un albero
sbocciato, un bell'animale, una ragazza in fiore, deve farci pensare che
l'insieme non è assurdo. Noi, siamo assurdi dubitando e reclamando. « Va
e insegna alla Saggezza eterna come deve agire, scrive Pope. Poi rientra
in tè stesso e riconosci la tua imbecillità » 27
[27Saggio sull'uomo. Epistola II.].
Giudicare presuntuosamente, talvolta insolentemente, aggiunge, ciò che
Dio fa o non fa nella sua provvidenza, è « giudicare la stessa Giustizia
e farsi il Dio di Dio » 2B.
28 Ibid., Epistola I.
L'umiltà di Dio nella sua creazione
Quante volte pensiamo, ruminando questo eterno
problema, a ciò che oseremo chiamare l'umiltà di Dio nella sua
creazione! Creando un mondo, in cui ci sarebbe stato necessariamente del
male, Dio s'è esposto lui stesso allo scacco. Certamente, scacco
relativo, che riserva trionfanti riprese alla sua gloria; ma pur sempre
scacco e avvilimento della sua immagine, che, tutto malgrado, l'essere
difforme o l'essere perverso riflette quanto alla sua sostanza.
E la ragione più profonda di questa umiltà di Dio
nell'accettazione del male testimonia ancora maggiore umiltà, è il
rispetto dell'autonomia dei suoi esseri, che lascia svolgersi nei loro
comportamenti, deterministici o secondo libertà, senza mai fare violenza
alla loro natura. Nello stesso miracolo, che egli non prodiga. Dio non
viola niente; agisce per preterizione, e l'ordine è preservato.
I pensatori greci dicevano: gli dei non sono gelosi. Il
nostro Dio è cosi poco geloso che, lui l'Onnipotente, consente alla
creatura di essere se stessa per l'azione come per l'esistenza. La
consegna nelle mani del suo proprio consiglio, cioè alle sue
leggi. Non è ciò che appunto suggerisce il Genesi, quando dice che, dopo
la prima costituzione del mondo, Dio riposò?
Tale rispetto costa caro, se si osa dire, alla gloria
divina, specialmente nel caso delle nostre prevaricazioni; poiché in
quest'ultimo caso non solo ne soffre la sua opera o la sua somiglianzà,
ma sono rotti gli stessi rapporti di amicizia che ci ha offerto. Dio si
espone agli schiaffi, come il Figlio suo. Molti insultatori gli sputano in
faccia. La diminuzione della sua opera a causa dei nostri crimini potrebbe
essere per lui una" crudele ossessione. In verità, se potesse
soffrire, l'agonia del Gethsemani non l'afferrerebbe?
Ma Dio sopporta il male poiché è puro, ed è perché
non siamo puri che ce lo rimprovera. Il male è al nostro livello; ci
minaccia negli altri e in noi stessi. Ma il male non minaccia Dio; Dio sa
piegarlo alla propria volontà e farlo servire al bene. Non lo vede per
finire che sotto la figura del bene, il bene della misericordia o quello
della giustizia.
Utilità del male per il tutto
Ritorna qui il tema dell'utilità del male, caro agli
apologisti, e che dovremo richiamare a più riprese. « II bene non
potrebbe separarsi dal male, diceva già Euripide; è per l'unione dei due
che tutto prospera»29 29
Dramma di Euripide perduto, citato da Plutarco nel De Iside eK-Osiride..
Più sottilmente e non con meno verità, Maurice Blondel fa eco dicendo :
« L'imperfezione della creatura e la forma che essa
prende nel nostro universo è come la felice invenzione che apre le vie
ascendenti della vita e del pensiero » 30 30
La pensée, 1, p. 10. « II male è come Io
schiavo che fa salire l'acqua », dice Claudel. Dio si serve della pioggia
e della grandine nell'organizzazione fisica del cosmo, e non si
serve meno dei cattivi per la costruzione del suo ordine morale.
L'esperienza non prova — e qui gli esempi si
presenterebbero a iosa — che avvenimenti che sembravano grandi mali sono
stati la fonte di beni molto più considerevoli? E' vero che accade
frequentemente l'inverso; ma ciò che importa è il risultato ultimo per
l'insieme dell'opera intrapresa. Che il totale possa essere buono, è
abbastanza perché sia proibita ogni critica a noi che non
sappiamo, e che possa essere migliore, è motivo per cambiare
eventualmente in lode tutte le nostre lamentele.
Senza dubbio Dio potrebbe creare un universo, dal quale
fosse assente questo o quello, e di conseguenza più o meno male, o anche
tutto il male, benché non la radice del male in una creatura. Ma nello
stesso tempo sopprimerebbe tutte le felici ripercussioni che possiamo in
molti casi constatare e che dobbiamo presumere per il resto. Ora, «
appartiene qualche volta a un più grande ordine, dice san Bernardo, che
una cosa sia fatta con meno ordine » 31.
31 Al papa Eugenio III,
lettera 276. s2 Rom., HI, 8.
Si opporrà a Dio il precetto del suo apostolo, che non
bisogna fare un male perché ne venga un bene? 32 32
Rom., HI, 8.
Non diciamo che Dio faccia male alcuno; fa del bene dal
quale risulta un male. E se si insiste dicendo:
non si deve neppure dare occasione al male, ne
permetterlo quando si può impedirlo, allora sorge il problema del prezzo
dell'impedimento. Se l'impedimento compromette un bene superiore di cui si
è incaricati, non ci si deve abbandonare. Sarebbe il caso di una
sentinella che abbandonasse il suo posto in pericolo per separare
malviventi che litigano. Ora, Dio ha su dì sé la cura del suo universo
per il miglior bene di questo, e se per questo bene sono richieste
particolari tolleranze, è obbligato per saggezza a consentirle.
Ricordiamoci che a motivo della sua sovrana
trascendenza il Sopra-Essere domina le differenze degli esseri,
anche le più profonde. Il bene e il male non sfuggono a questo dominio.
Entrambi devono servire, ciascuno secondo i mezzi della sua natura. Il
male da occasione al bene;
il bene riassorbe il male e ne distorna gli effetti nel
proprio senso, e cosi il piano eterno si attua per mezzo di entrambi. Di
modo che si può dire, in un certo senso, totalizzando, che in questo
universo vi sono molti mali, ma non vi è male. O, se si vuole, il male
cosi riassorbito conserva, per il giudizio che considera l'insieme, solo
il carattere di limite che è inerente alla condizione della
creatura. L'universo, per perfetto che fosse, comporterebbe sempre questo
difetto, e non accusa pertanto la propria Causa. Non si può rimproverare
a Dio di non fare che creature, a Dio che è il solo Creatore, e lo si
deve lodare per il fatto che l'ultimo orizzonte della sua opera, simile
alla sublime congiunzione del cielo e delle acque, non racchiuda solo del
perfetto nella sua pura linea, che nessuna onda. interrompe e di cui
nessun rumore viene a turbare il vasto silenzio.
Il caso degli individui
Tuttavia a questo punto dobbiamo fermarci su una
osservazione fondamentale. Quando parliamo dell'universo nel suo insieme e
diciamo: questo insieme prova, non intendiamo disprezzare il bene
individuale come se potesse essere sacrificato al tutto e la sua
infelicità potesse trovare una sufficiente giustificazione nel servizio
del tutto. Tale interpre-tazione sarebbe orrenda, e sarebbe assai poco
filosofica; poiché il bene del tutto non ha interesse, alla fine,
che se distribuito, e nella famiglia di Dio che ne dev'essere beneficiarla
tutti contano.
Abbiamo opposto questa considerazione alla dottrina del
progresso, in quanto intendeva coonestare il presente e le sue iniquità a
favore di un'avvenire di cui sarebbe la condizione attuale. L'avvenire,
dicevamo, non beneficia in niente al presente sotto questo rapporto. Il
mondo morale deve essere morale in tutte le sue fasi, nei riguardi di
tutti i suoi esseri. L'idea di progresso può congiungere il bene al
meglio e l'imperfetto al perfetto in modo da formare un tutto favorevole;
ma l'opposizione del bene al male è al di fuori della sua presa;
l'assoluta eterogeneità dell'uno all'altro non consente loro di
ricongiungersi e di costituire una serie buona nel suo insieme.
L'avvenire, allora, non corregge niente.
Dio, dunque, risponde del male, in tutte le sue forme,
nei riguardi di tutte le sue creature ragionevoli e in tutte le epoche.
Non può ripararsi, se osiamo dire, dietro la durata ne dietro leggi
generali che agiscano in suo nome.
Le Hot sait ce qu'il fait; le vent sait qui le pousse33.
33 V. Huco, Les Rayons et
les Ombres, Sagesse. [L'onda sa ciò che fa ; il vento sa chi lo
spinge].
Le leggi, i casi generali, non sono che astrazioni;
ciò che esiste, è l'individualità, e se il problema del male individuo
non è risolto, la Causa prima è in colpa.
Questa verità deve essere proclamata fermamente,
poiché è stata misconosciuta più di una volta nell'apologetica
cristiana. Si è osato dire che Dio non dovendo niente a nessuno poteva
realizzare i suoi grandi: fini passando sopra a disgrazie e sofferenze,
senza preoccuparsi dei miseri umani. Noi siamo niente davanti a lui: che
ci traili come niente, è giusto.
Siffatti discorsi fanno inorridire. La verità è
all'estremo opposto e non potrebbe esagerare le sue richieste. Nei Fratelli
Karamazov, Dostoievski fa dire a Ivan: « Anche se questa immensa
fabbrica (l'universo) apportasse le più straordinarie meraviglie e non
costasse che una sola lagrima d'un solo bambino, io rifiuto ». Ha
ragione, a meno che questa lagrima di bambino non sia preziosa al bambino
stesso, in modo che la sua persona sia espressamente messa in conto. Ma
possiamo essere tranquilli. Se tutti i capelli delle nostre teste sono
contati (Mt., X, 30), a maggior ragione le lagrime del cuore.
Col beneficio di questa riserva, per importante che
sia, manteniamo questa verità, che in bene o in male il tutto è giudice
della parte e il fine di ciò che si orienta ad esso. Inoltre questi due
casi non vanno distinti, non ne sono che uno solo. Il tutto della
creazione include la durata come l'essenza divina la propria eternità. Il
tempo non è che un attributo delle cose. Il Creatore vede davanti a sé
la propria opera, durata compresa, come un unico panorama, di cui ordina
con lo stesso gesto le parti simultanee o successive. Vuole che tutto si
accordi, e se c'è del male, com'è inevitabile in un piano di grandi
proporzioni, lo considera nella sua relazione al tutto, come fa l'artista,
anch'egli amico del sacrificio, quello delle forme o quello dei valori,
perché l'insieme risplenda.
Più l'uomo s'innalza a un'intuizione del tutto e della
sua infinita complessità secondaria, più scompare il concetto del male.
Questa idea che Giordano Bruno e Leibniz hanno posto potentemente in
rilievo è stata sfortunatamente guastata nel primo dal suo panteismo, nel
secondo dalla sua infelice concezione del migliore dei mondi possibili. E'
in sant'Agostino e in san Tommaso che ha trovato la sua purezza e misura.
Ecco un bei brano che apporta la testimonianza della
poesia alla dottrina :
Le sage, en sa pensée, a dit un jour : Pourquoi Si je
suis fils du ciel le mal est-il en moi? Si l'homme dut tomber, qui donc
prévit sa chute? S'il il dut etre vaincu, qui donc prévit la lutte?
Est-il donc, 6 douleur, deux axes dans les cieux, Deux àmes dans mon sein,
dans Jéhovah deux dieux? Or l'esprit du Seigneur qui dans notre nuit
plonge Vit son doute et sourit. Et l'emportant en songe Au point de l'infini
d'où le regard divin Voit les commencements, les milieux et les fins, Et
complétant les temps qui ne sont pas encore Du désordre apparent voit l'harmonie
éclore;
Regarde, lui dit-il. Et le sage éperdu Vit l'horizon
divin sous ses pieds étendu.
Par l'admiration son àme anéantie Se fondit; par le
tout il comprit la partie;
La fin justifie la voie et le moyen; Ce qu'il appelait
mal fut le souverain bien34.
34 lamartine, La Chute d'un
cenge. Vili visione. [Il saggio, nel suo pensiero, un giorno ha detto:
Perché se sono figlio del cielo il male è in me? Se l'uomo doveva
cadere, chi dunque previde la sua caduta? Se doveva essere vinto, chi
dunque previde la lotta? Vi sono dunque, o dolore, due assi nei cieli, due
anime nel mio seno, due dei in Jehova? Lo spirito del Signore che
s'immerge nella nostra notte vide il suo dubbio e sorrise. E
trasportandolo in sogno al punto dell'infinito, donde lo sguardo divino
vede i cominciamenti, i centri e le fini, e completando i tempi che ancora
non sono vede dischiudersi l'armonia dal disordine apparente; guarda, gli
dice. E il saggio smarrito vide l'orrizonte diviso disteso sotto i suoi
piedi. La sua anima annientata dall'ammirazione si sciolse; dal tutto
comprese la parte; il fine giustifica la via e il mezzo; ciò che chiamava
male fu il bene supremo].
Il nostro collega Edouard Le Roy trova mirabile questa
risposta, ma insufficiente, poiché, dice, sembra dimenticare « la
realtà attiva e positiva del male » e d'altra parte « sacrificare la
persona al tutto ». Non siamo di questo parere. Ci sembra che il poeta
includa la sorte della persona in questa conclusione totale, che egli
presenta come la giustificazione delle tappe. Quanto alla realtà positiva
e attiva del male, riteniamo di averne escluso il concetto. Il male
non ha in sé alcuna realtà attiva, nessuna realtà positiva. Tutto ciò
che è in esso di positivo e di attivo è un bene, come il passo
nonostante lo zoppicamento, come l'occhio nonostante la sua notte nella
cecità. E' l'essenziale della nostra tesi per ciò che concerne la natura
del male.
Lamartine ha ragione. Se vedessimo l'opera di Dio
quale è, con una vista uguale a quella che la fa, quando il Verbo
creatore. Luce vivente, la proietta sullo schermo illimitato dello
spazio e del tempo, constateremmo che il bene regna in essa alla maniera
di una regola obbedita nella più perfetta tra le opere d'arte, nella più
perfetta delle città, nel più perfetto dei sistemi di forze. E la sua
presenza è necessaria affinché l'opera non sia falsificata, violentata
nella sua autonomia e in quella dei suoi esseri.
Poiché, ripetiamolo, è la creazione stessa che si
costruisce da sé per ordine di Dio. L'arte divina è solo l'iniziatrice e
la guida della sua arte. La spontaneità naturale, l'istinto o la libertà
sono gli agenti del prodigioso slancio. I falliti del motore
cosmico o umano sono il segno del loro dominio contestato, ma alla fine
vittorioso. E bisogna dire che l'ordine universale, compreso il
tempo, possiede più realtà ontologica e pregio, di quanto ne possa
fornire il compimento o l'attiva impeccabilità delle sue parti.
L'universo è organico, e si sa che un organismo vale come insieme,
debba pure riassorbire ogni specie di difetti interni, apparenti o reali.
Non si tratta di risuscitare l'Anima del Mondo degli
antichi, ancorché sul piano dei fenomeni geologici, biologici o anche
psicologici le si possano trovare succedanei, che faciliterebbero
notevolmente le soluzioni della scienza. Ma è certo che a proposito della
creazione nella sua totalità questa nozione non conviene. Ciò che
intendiamo conservarne è quanto comporta come concezione di un tutto che
sia veramente un tutto, e che autorizza le imperfezioni particolari nel
pensiero e sotto il governo del Dio uno.
ALLE PRESE CON L'AVVERSARIO
Ciò che abbiamo esposto sommariamente lascia luogo a
obiezioni e domande, che i nemici delle nostre dottrine, i loro amici
cauti, magari i loro fedeli turbati non hanno mancato di formulare. Il
vecchio ragionamento di Epicuro è ripreso da loro con un accanimento che
si reputa trionfante. Impossibile sfuggirvi, dicono, poiché esaurisce le
possibilità dialettiche e distrugge cosi in anticipo ogni scappatoia.
Secondo Lattanzio, Epicuro ragionava cosi : « O Dio
vuole sopprimere i mali e non può; o può e non vuole; o vuole e può. Se
vuole e non può, è impotente; il che noit si riscontra in Dio. Se può e
non lo vuole, è malvagio, il che è pure estraneo a Dio. Se non vuole ne
può, è a un tempo malvagio e debole, cioè non è Dio. Se vuole e può,
il che solo conviene a Dio, donde vengono i mali, e perché non li
sopprime? » 1. 1
lattanzio, De ira Dei, cap. XIII.
Lattanzio riconosce che molti sostenitori della
Provvidenza si sono lasciati turbare da questo argomento fino a essere
tentati di concedere ciò, a cui tendeva Epicuro, cioè che Dio (o
piuttosto gli dei o la Divinità) non si occupa delle cose umane. Per
Pierre Bavle l'argomento favorirebbe soprattutto la dottrina manichea dei
due Principi, o quella degli antichi Greci : la materia che resiste allo
sforzo organizzatore del primo Principio.
Quanto allo stesso Lattanzio, prospetta una risposta
forse un po' generale e insufficiente, ma che Bayle a torto trova «
pietosa ». « Dio, dice Lattanzio, non sopprime il male; ma con il male
ci ha dato la saggezza (cioè l'intelligenza), e la saggezza ci reca più
beni e ci procura più attrattive che non siano le sofferenze arrecateci
dai mali. Senza dire che è per mezzo della saggezza che conosciamo Dio, e
che questa conoscenza ci conduce all'immortalità, al bene sommo
».
Questa risposta è più profonda e più vicina al
concreto che non sembri a prima lettura. La saggezza di cui parla
Lattanzio è il motore della civiltà sotto la pressione del bisogno, ed
è l'inventrice delle arti, che ci alleggeriscono l'esistenza. Costituisce
sotto questo riguardo un rimedio al male, quello stesso che al tempo di
Bayle cercavano gli ardenti amici del progresso e, un po' più tardi,
Schopenhauer quando proponeva contro il male l'evasione dell'arte. Quanto
all'immortalità, verso la quale la saggezza ci orienta, è appunto il
supremo rimedio.
Ma Pierre Bayle non disarma. Questo acuto sofista,
armato di una dialettica sottile e potente, conduce l'assalto con un
vigore, che deve essere apparso impressionante al suo tempo, se ha indotto
un Leibniz a prendere la penna e a opporgli la Teodicea.
Il grande cavallo di battaglia di Bayle è questo :
l'apparenza a tutti visibile è che se Dio si è proposto tutto sommato,
come si pretende, la felicità delle sue creature, ha disposto le cose in
modo da concederla solo a un piccolo numero, e a un prezzo spaventoso.
E' un fatto che Bayle intendeva apertamente proclamare
la tesi del piccolo numero degli eletti; che non erano ancora chiaramente
aperte le prospettive davanti all'eventualità d'un numero incalcolabile
di creature sconosciute popolanti i mondi celesti ; che il preteso scacco
divino, nell'Eden, era messo in relazione alla Redenzione e all'insieme
del piano creatore in maniera poco comprensiva, ecc. Ma c'era sempre
nell'argomentazione di Pierre Bayle un difetto capitale. Prendeva tutto
dal lato piccolo. Giudicava l'azione di Dio come si trattasse di quella
d'un piccolo proprietario rurale, d'un capo di famiglia, d'un
amministratore o di un rè. Certamente simili analogie sono legittimamente
usate, e noi pure non ricorriamo ad altre. Ma non dobbiamo perder di vista
che hanno bisogno di una correzione radicale, a motivo della trascendenza
di Dio, la cui Persona e la cui azione non possono entrare nel quadro
angusto delle nostre categorie umane.
Posto difronte a questa osservazione, Stuart Mili
protestava, dicendo :
« Se la bontà di Dio non è ciò che noi chiamiamo
bontà, rinuncio a capire, e se devo essere dannato per questo, che lo
sia! ». Senonché questa disperazione logica non è in questione. La
bontà di Dio è perfettamente analoga alla nostra, altrimenti non la
conosceremmo, poiché ci siamo elevati ad essa partendo dalla nostra. Ma
poiché c'è solo analogia, poiché invero la bontà di Dio, identica alla
sua saggezza, alla sua potenza, alla sua misericordia si fonde per noi
nell'incomprensibilità dell'essere divino, dobbiamo stare attenti, nel
giudicare, a non rinchiudere questo o quell'attributo divino nei nostri
limiti e a non apportare la stessa ristrettezza nella considerazione degli
ambiti, in cui gli attributi divini devono applicarsi. Questi ambiti sono
immensi, e i nostri punti di vista sono ristretti. Da qui la nostra
tendenza a non vedere dinnanzi a noi, quando si tratta dell'Infinito
creatore, rettore e rimuneratore, che il Dio da vetrata delle bigotte.
In tutte le sue pagine Bayle è vittima di questo
fraintendimento. Spirito meravigliosamente chiaro, lo è fino alla
volgarità dei punti di vista, fino alla sofistica delle false evidenze. A
lui e ai suoi simili, che sono legione, s'applica l'osservazione
penetrante che Bergson pronunciò in mia presenza : « Negli argomenti
elevati e difficili, ciò che è vero da .quasi sempre l'impressione di
essere falso e ciò che è falso di essere vero ». Pierre Bayle era
veramente vittima di questa illusione,; o si faceva .beffe, sicuro cosi di
ottenere credito? Giudichi Dio : ma il nostro dovere
è comunque ben delineato : dobbiamo denunciare queste
palinodie, soffiar via questa polvere negli occhi che fa perdere al
lettore la sua libertà di sguardo e lo costringe in orizzonti da miope.
« Fanno pensare Dio a modo nostro, diceva Bossuet a
proposito dei libertini, e vogliono che la sua saggezza si
assoggetti a seguire le nostre regole »2. 2
Ms., t. IL p. 337.Al che il Bayle
contrapponeva subito una di quelle eleganti buffonate, di cui aveva il
segreto. In questo problema dell'impossibilità di accordare gli attributi
divini con l'esistenza del male, diceva, la difficoltà « non proviene
soltanto dal fatto che ci manca la luce, ma soprattutto dai lumi che
abbiamo e che non possiamo accordare con i misteri » 3 3
Réponse aux questioni d'un Provincial, cap. II.
. Certamente. Sono appunto i nostri lumi che qui
producono l'ombra. Ma è lo stesso caso della pellicola di luminosità che
avviluppa la terra durante il giorno e che ci nasconde le stelle. Le
nostre chiarezze sono tenebre riguardo ai misteri di Dio. Ci illudono con
apparenze, e si vede benissimo nelle obiezioni dello stesso Bayle, che
prendono tutte questa forma : « Se un uomo, se un rè, se un padre, se un
creditore, se io... ». Tutti questi esempi rischiano d'ingannare e la
loro falsa evidenza può farci prendere abbagli in merito a ciò che può
convenire a Dio nel suo universo immenso e misterioso. C'è una
sproporzione quasi infinita tra le considerazioni che vengono in causa nei
casi cosi assunti ad esempio e le ragioni di Dio. Queste riguardano un
ordine universale, naturale e soprannaturale, le cui esigenze ci sfuggono
da tutte le parti, mentre le preoccupazioni d'un re, d'un padre, di un
tutore sono relativamente la stessa semplicità.
Il Dio paterno che Bayle e la sua compagnia vorrebbero
veder regnare sulla creazione non sarebbe che un idolo, essendo fatto su
nostra misura, ^e di più, sarebbe condannato a sfiorare continuamente il
male, che è inseparabile dal finito, come abbiamo riconosciuto. Dio può
essere estraneo al male solo se è totalmente fuori dell'essere, come pura
Sorgente. Per questo Dio è chiamato dalla Bibbia con un nome che
significa a un tempo il Separato e il Santo. Ma allora ci è
incomprensibile, e non bisogna imporgli senza radicale correzione, di cui
egli solo è giudice, le norme temporali dell'azione.
E' bene che vi sia tra Dio e noi, tra i comportamenti
di Dio e i comportamenti umani, tutto lo spessore del mistero del mondo,
che si prolunga nel mistero di Dio. Presentiamo cosi la grandezza di ciò
che adoriamo, e non è il feticcio razionalista che ci si propone. Il
punto di vista se fossi Dio ci appare allora d'una puerilità
indegna persino d'un bambino.
Bisogna riconoscere che il razionalismo povero del
cartesianesimo ha largamente contaminato sotto questo riguardo
l'intelligenza cristiana. Lo stesso pio Malebranche non sempre sfugge a
ciò. Abbiamo visto che in questi argomenti come in altri ha inciampato, e
non c'è da stupirsi che abbia trovato imitatori. .
La ragione fondamentale si è che risalendo a Dio
muovendo da ciò che il mondo offre di mirabile e di benefico, si segue
una via relativamente facile e gradevole; le occasioni e le tentazioni di
deviare non si presentano-frequentemente; ma quando si parte dal male, è
l'opposto; si procede a zigzag e la strada è sassosa. Succede allora
facilmente che ci si smarrisca;
si falsifica il concetto di Dio sia in se stesso, sia
quanto ai rapporti che ha verso il mondo. E' appunto per questo che
abbiamo detto : « II problema del male è alla base della fondazione
delle filosofie ».
Bayle fa notare abbastanza sagacemente (cap.
LXXVIII) che nelle spiegazioni che si danno in merito al piano adottato da
Dio, nel quale si riscontra tanto male, il più delle volte si
sottintende, senza dirlo, magari dicendo il contrario, che il Creatore
aveva dinnanzi a lui aperta solo una. via, appunto quella che perviene a
risultati cosi penosi. Ora, aggiunge:
Bayle, il Creatore aveva dinnanzi a sé aperte tutte le
vie, poiché è l'Onnipotente.
Ecco il nostro sofista, pieno di ingannevoli evidenze e
di chiarezza nell'errore. E' cosi difficile osservare che, onnipotente o
no, un agente è legato e limitato nelle sue vie dai fini che si
propongono alla sua azione e che non sono qualsiasi? Siamo partiti da là
poiché non si poteva partire da nient'altro, ed è ciò che ci è parso
chiudesse a Dio alcune vie, che Bayle preferirebbe lasciar aperte, o delle
quali piuttosto sfrutta ai propri fini la chiusura.
Henri Bergson, nelle ultime pagine di Les deux
sources de la Morale et de la Religion, ha denunciato questo sofisma,
mostrando che l'Onnipotenza non può consistere nel poter fare qualsiasi
cosa; che non si estende al contradditorio, e che uno dei termini della
contraddizione può essere imposto dai fini. Di modo che in ciò che ci
riguarda si stabilisce un'alternativa : o non realizzare i fini di
creazione, o rassegnarsi alle condizioni, tra le quali trova
necessariamente posto il male.
Un'altra causa di menda nei ragionamenti del nostro
autore e di molti altri, è l'abuso delle formule : Dio sapeva. Dio aveva
previsto... a ragione di che si pretende qualificare la sua azione da ciò
che ne è risultato di spiacevole, come se suo dovere fosse stato, avendo
previsto» di non porre l'azione che comporta gli effetti deplorati. Ma
tutto ciò è infantilmente scoraggiante. Non ci sono in Dio pre-visioni,
e ciò che sì designa con questo nome, cioè la sua visione eterna,
discorrendo su tutto il reale, non muta niente dei rapporti delle cose. Se
questi rapporti sono giusti in se stessi, non possono essere ingiusti
considerando la previsione divina.
Vi si ponga attenzione; poiché sta in ciò una causa
d'inciampo per molte intelligenze. Le previsioni di Dio non sono come le
nostre e non si prestano agli stessi ragionamenti. Le previsioni umane
mutano i rapporti degli esseri. Un padre che conosce in anticipo
l'incidente che deve capitare a suo figlio non è più con lui
negli stessi rapporti di prima che lo sapesse, e per ciò è
obbligato a modificare la sua condotta.
Ma non è cosi di Dio. I rapporti che legano gli eventi
umani alle previsioni divine sono rapporti trascendenti e senza
reciprocità da termine a termine. Si tratta qui dei rapporti del creato
con l'increato, del finito con l'infinito, rapporti incommensurabili e
quindi inconoscibili, e quindi fuori giucco se si tratta di riportare il
fatto alla sua previsione. Paragonare ciò alle previsioni d'un padre o
d'un comandante di battaglione è degno d'un ragazzetto prima che
abbia frequentato il catechismo.
Quando cosi si giudica, si tiene presente che Dio
agisce nell'eterno;
che pone il tempo con il suo contenuto e che non
potrebbe pertanto subirne la legge; che la sua creazione sta davanti a lui
come un tutto ininterrotto e in cui tutto è presente come
simultaneamente, in ciò che lo concerne? I rapporti di successione e per
conseguenza di pre-visione concernono solo le cose create le une in
rapporto alle altre, e quindi se le cose create hanno tra loro giusti
rapporti, se ad esempio un peccatore subisce la giusta pena del suo
peccato, che ha che fare per giudicarne la considerazione della previsione
divina? Ciò che è giusto è giusto; è previsto qual è, e non si può
retrocedere per dire : Dio, avendo previsto, doveva agire in altro modo.
Non si può retrocedere dal temporale all'eterno, i quali non sono sulla
stessa linea, sono l'uno all'altro trascendenti. Col suo gesto eterno, se
si può dire. Dio pone le cose nei loro giusti rapporti, e se la giustezza
o la giustizia di questi rapporti è riconosciuta, non c'è più niente da
dire. Non ci si ricorda di quanto abbiam detto dell'autonomia creata
rispetto all'azione divina? C'è un'autonomia degli esseri; c'è pure
un'autonomia dei rapporti, e non si può chiedere a Dio di romperne la
trama.
Lo scacco iniziale di Dio II caso tipico di
questo misconoscimento e di questa debolezza di giudizio è la critica,
che cosi spesso si fa al piano divino concernente il peccato originale e
la redenzione. Pietro Bayle ne ha piena la bocca,
e numerosissimi ne sono gli imitatori. Si affetta
di beffarsi, di stupirsi ipocritamente o, in ogni caso, di confessare il
proprio disagio davanti a questo Creatore, il quale inciampa fin dal primo
passo, il quale istituisce un bell'Eden per poi espellerne
vergognosamente l'abitante dopo alcuni giorni passati insieme; il quale si
vede costretto, dopo questa sorprendente avventura, ad annullare i suoi
disegni primitivi e a concepire una nuova organizzazione, in cui dovrà
intervenire questa volta di persona. L'incarnazione sarà il risultato
d'un fallito, e il sangue d'un Dio dovrà esser versato, poiché non si ha
saputo impedire, in un'impresa senza dubbio male iniziata, un falso passo
iniziale che porta a una catastrofe.
Quante volte si è visto cosi esposto il più grande
tra i fatti umani in collegamento con le anticipazioni divine! Cosi
parlando, apparentemente si rispettano i fatti, in realtà si deforma
tutto, non fosse che misconoscendo i rapporti dell'eternità e del tempo,
ponendoli a capo a capo; Dio prevedendo, l'uomo agendo. Dio tornando alla
carica, come se si trattasse di lunghezze dello stesso ordine, mentre si
tratta di una lunghezza per ciò che riguarda il tempo, ma di una misura
ineffabile per ciò che riguarda Dio.
Dio non ha bisogno di riprendere in mano la sua
creazione dopo Io scacco, come noi immaginiamo, poiché per lui non c'è
ne prima ne dopo. Egli l'afferra nel suo atto eterno con tutte le sue
relazioni, ponendo in essere ad un tempo la sua creazione e la sua
ri-creazione, cioè il suo riscatto ad opera del Cristo, cosi che il tutto
costituisce un'unica opera in due fasi temporali, come se gettasse un seme
destinato prima ad avvizzire e poi a fiorire.
C'è il primo Adamo e c'è il .secondo. Adamo peccatore
e il suo Divino Fratello sono una sola parentela e partecipano, assai
diversamente, è vero, a uno stesso avvenimento di famiglia: il peccato
raddrizzato, la caduta finalmente trionfale. Ciò si presenta in
Dio sotto il segno dell'unità, ancorché si distingua e si coordini sotto
le specie del tempo.
Ciò è tanto più vero in quanto il Redentore è, come
Dio, anch'egli fuori del tempo, identico per sostanza al Creatore, Verbo
coeterno al Padre e allo Spirito. I fabbricanti d'immagini delle
cattedrali non facevano impastare il corpo d'Adamo da un Dio
dall'apparenza del Cristo?
In questa ampia visione, che resta dell'obiezione d'un
imprevidente Creatore sorpreso dal disastro, d'un fabbricante costretto a
riappiccicare dei frantumi, d'un costruttore che innalza una casa
destinata a diventare subito una rovina, d'un urbanista che discopre una
fonte nel mezzo d'un parco incantato che diventerà una palude prima che
l'acqua si sia riversata e abbia riflettuto il cielo... ecc... ecc.? Le
immagini non mancano ai nostri critici. Ma come non pensare che il
ridicolo, qui, muta campo e che dall'opera ricade sui suoi detrattori?
Se ci si pone dal punto di vista della bontà, si
vedranno Bayle e i suoi soci stupirsi scioccamente che Dio abbia elargito
al primo uomo, sotto il nome di giustizia originale e anzitutto di libero
arbitrio, un dono cosi pericoloso per lui e per la sua razza. Una
bomba a scoppio ritardato, insomma, una granata inescata, sotto le
apparenze d'una mela. E sempre il ragionamento preferito : qual è il
padre, che... Ma anche qui la puerilità è patente. Lo stesso Calvino ha
risposto : « Dio ha permesso il peccato di Adamo poiché aveva disposto
ciò che voleva fame * *•
Commento al Genesi, III ». La creazione
era buona; là redenzione lo sarà incomparabilmente ancor più. Che
desiderare di più? Cadiamo in una fossa solo per scalare colline, le
colline eterne
».
Resteranno le tracce del peccato? — Dio saprà farne
mezzi di vittoria, e per ciò si potrà dire con la Liturgia : « Colpa
felice, che ci ha meritato' tale Redentore! O peccato d'Adamo veramente
necessario!...». Questa. parola necessario sottolinea la
solidarietà, che abbiamo poco sopra rilevato tra le due fasi temporali
del piano creatore. Si può dire che non-ci sarebbe stata creazione nelle
condizioni che ci sono descritte, se non. ci fosse dovuto essere
redenzione. E dunque non è vero che noi della vita non abbiamo che i
resti di un naufragio.
Non c'è che un piano, una volta ancora, buono della
bontà e della sovraeminente eccellenza delle sue due fasi. Lo stesso
peccato ne fa-parte in certo modo, cosi come gli insuccessi d'un
apprendista fanno parte della sua formazione, e, lungi dal sorprendere il
suo maestro, sono-spiati da lui come l'occasione, ciascuno, di una lezione
utile.
Questo carattere quasi pedagogico del primo peccato e
di tutte le-circostanze che lo circondano è ciò che ci sembra più
sorprendente, lungi dall'idea di scacco, di cui gli avversar! si beffano.
Vista da quest'angolo, la storia del Paradiso terrestre ha un
carattere di puerilità voluta, che non da più motivo di sorridere.
Niente conviene meglio, in qualsiasi maniera si interpretino i suoi
simboli (ve ne sono certamente), all'infanzia spirituale dell'umanità.
Ecco un eletto chiamato ad alti destini, che egli deve
conquistare da sé con l'aiuto di Dio. A questo fine è dotato di un
potere terribile :
la libertà. Libertà per un essere della sua specie e
d'altronde per qualsiasi altro allo stato normale, significa fragilità,
in ogni caso peccabilità: è bene che lo sappia. Le piccole felicità
disposte davanti a lui in caso dì ipotetica fedeltà sono un simbolo più
che una realtà seriamente considerata. E' un lampo d'un attimo, che fa
presagire la luce eterna.
Il destino cosi definito sarebbe assai poco degno d'un
essere virile! Felicità tutta fatta, pane già cotto, eredità di un
figlio di papa, che non costa niente e non vale di più, senza significato
decisivo, poiché, fugace, doveva cessare quasi arbitrariamente : è una
misura per niente, in qualche modo, al più un preludio e non è che
l'esperienza che, riportata a zero la vita quanto a doni. preternaturali,
l'annuncio del Redentore e il suo possesso anticipato in virtù della
speranza daranno inizio alla bella storia morale dell'umanità.
Dio creatore sapeva che c'era per noi qualcosa di
meglio dell'innocenza, cioè la virtù consapevole e penosamente
conquistata, la virtù nel dolore e nel rischio, l'ostacolo generosamente
superato, portante al trionfo in nome della libertà e della grazia. Fin
dall'inizio si presagiva ciò e Dio lo aveva presente dall'eternità, lo
predeterminava, la sua Saggezza facendo le sue delizie d'essere
cosi con i figli degli uomini (Prov, VIII, 31).
Per di più, c'è una considerazione da non trascurare.
Adamo peccatore è il prototipo dell'uomo collettivo quale si sarebbe
necessariamente manifestato in seguito. Non si manifesta davanti a noi e
in noi ogni giorno? « La caduta non è un fatto compiuto un tempo e di
cui subiamo le conseguenze, dice Leon Bloy, noi cadiamo sempre »5
5 Celle qui pleure, p.
127.. Non era male, senza dubbio, che questo
perpetuo peccatore si manifestasse subito nel suo rappresentante, e che di
conseguenza fosse subito intrapresa l'opera di riscatto e di
valorizzazione di tutti i peccati della terra.
Invero, non è stata questa pedagogia divina che,
permettendo il primo peccato come un drammatico insegnamento per sempre,
ha ispirato al cristianesimo il sentimento del peccato, della sua gravita,
della sua minaccia perpetua? Un fatto che poco mancò non distruggesse
tutto per il genere umano potrebbe pure annientare tutto per
ciascun'anima. Spettava a un preveggente educatore ispirarcene l'orrore, e
il fatto che preparasse subito il rimedio impediva che lo si potesse
accusare di crudeltà.' Inoltre, quale insegnamento di solidarietà e di
carità, quale invito alla comunione dei santi questo duplice fatto
combinato del peccato in Adamo e della Redenzione in Gesù Cristo.
Dopo di che, il ritardo dell'atto redentore da compiere
nel tempo rientrerebbe nelle stesse intenzioni di prudente benevolenza. I
nostri teologi ne danno ragioni ottimistiche tratte, anch'esse, da
convenienze pedagogiche e da utilità collettive, senza pregiudizio per le
anime di buona volontà di tutti i tempi.
Lo scacco della riparazione
Sta bene, diranno i nostri avversar!; ma bisogna vedere
la fine: non avete voi stesso detto che è ciò che giudica? L'obiezione
di partenza: perché un'iniziativa destinata a un insuccesso immediato? si
trasforma ora in questa: perché questo piano che si pretende allargato,
rafforzato quasi infinitamente, voi dite, e che conclude a un risultato
cosi parziale che la gran maggioranza degli uomini ne sarà esclusa, come
convengono i vostri autori?
Bisogna constatare che su questo punto gli autori
cattolici in gran numero, in grandissimo numero, hanno assunto una grave
responsabilità. Quella di sostenere — senza prove, osiamo affermare
arditamente — che il piccolo gregge raggruppato intorno al
Maestro resterebbe eternamente piccolo rispetto alla massa umana; che la via
stretta sboccherebbe su una piccola dimora permanente, che la
Redenzione sarebbe, in effetti, il riscatto di alcuni e il triste
abbandono di tutti ali altri; in breve, che il numero degli eletti sarebbe
minimo : appena venti su mille, stimava Malebranche, e, se proprio non a
questo grado e con questa audacia, la tesi ha prevalso, si deve dirlo, per
tutta la durata dei secoli cristiani.
Su che cosa si appoggia? Su niente che costituisca
fede, niente che obblighi all'adesione e impedisca di liberarsi da
quest'incubo spaventoso. La ragione sta essenzialmente in una
interpretazione strettissima dei testi sacri, da cui stentiamo oggi ancora
a staccarci, nonostante immensi progressi e felici iniziative delle
autorità religiose.
Era meglio ispirato san Giustino, che in materia aveva
tanto peso quanto un altro e di cui Renan ha potuto dire : « Nessun
teologo ha mai aperto cosi largamente come Giustino le porte della
salvezza ». Alla buon'ora! Ci occorrerebbero ragioni assai perentorie per
credere a un tale scarto nel contenuto delle reti della pesca miracolosa,
a una tale votezza della Città eterna per ciò che riguarda gli uomini.
Queste ragioni non esistono. I testi che si allegano
hanno ricevuto tante interpretazioni diverse che la loro autorità sotto
questo rispetto vi si annulla. I testimoni della tradizione si
contraddicono a seconda delle tendenze di ciascuno e a seconda delle
epoche. Niente indica che essi si esprimano come tali, e la Chiesa non ha
mai condiviso le loro sentenze. Il più delle volte si tratta di questa
materia per modo di esortazione morale piuttosto che di intenzione
dommatica. Insomma, la via è libera. Si ha il diritto di pensare che 1'Amen
finale della vita universale sarà un'immensa e innumerevole acclamazione.
E poi, cari dissidenti, quando parlate di eletti e
tendenziosamente ne limitate il numero, ritenete che basti fare i conti
con i soli abitanti della Terra? Negli abissi di spazio che ci sono stati
aperti, saremmo noi piccoli umani i soli rappresentanti dello spirito e la
sola lode del Creatore di tante dispiegate meraviglie?
Ci rifiutiamo, per parte nostra, di
vedere il nostro piccolo globo terracqueo:
Seul flotteur anime sur ce torrent d'étoiles *. *
[Unico galleggiante animato su questo torrente di stelle].
Leibniz, come dopo lui Bergson, credeva fermamente alla
pluralità dei mondi abitati. Supponeva che aldilà della sfera
delle stelle « fisse » potessero essere! immensi spazi popolati da
creature di ogni specie, comprese creature ragionevoli. Non c'è ragione
perché tutto il reale consista in fasci di polvere astrale e in sfere
rotanti le une intorno alle altre. Questa disposizione può essere
puramente locale, essa che offre tante possibilità alla vita, e quindi
all'intelligenza e alla moralità? Si crede che i due infiniti di
Pascal si riducessero per lui a tale struttura?
L' Esclangon, direttore dell' Osservatorio di Parigi,
assicura che se un essere pensante microscopico abitasse nel profondo del
corpo umano e da là potesse osservare il resto, vedrebbe qualcosa
abbastanza simile a ciò che ci presenta il cielo con i suoi astri vicini
e lontani, i suoi ammassi di materia condensata o diffusa, ma sicuramente
non avrebbe alcun'idea di un organo o di un corpo.
Si riconoscerà che ciò fa sognare, e che certi sogni
cosmici fondati su questa osservazione non sarebbero tacciabili di vuota
immaginazione. Il sogno di Pascal, per ipotetico che fosse, non era una
vuota immaginazione. Ora, che diventano in questa supposizione, e anche in
quelle più modeste consentite dai nostri milioni di galassie, i calcoli
escatologici dei nostri avversar!? Il piccolo o il grande numero degli
eletti terreni mantiene la sua importanza per la nostra piccola famiglia
umana; ma rispetto all'opera di Dio, del successo o dello scacco della sua
intrapresa creatrice e della prevalenza della sua misericordia sulla sua
giustizia, della sua bontà o delle sue necessarie severità, ciò non
conta più, per cosi dire. Non è cosi per un piccolo formicaio preservato
o calpestato in una pianura immensa?
E il mondo dei puri spiriti? Se i nostri antenati non
avevano che una debole idea dell'universo materiale, in compenso
spiegavano il mondo dello spirito con un'immaginazione altrimenti audace.
La Scrittura ve li invitava, con le miriadi di miriadi dell'Apocalisse. E
pensavano con ragione, come scriverà Clarke a Leibniz nella loro celebre
disputa -— si sa che Leibniz era d'accordo — che « la materia è la
più piccola e la meno considerevole parte dell'universo »6.
Per parte nostra diremmo volentieri che supponendo l'intera creazione
rappresentata da una piramide capovolta, la cui punta fosse dalle nostre
parti, tutta la materia raccolta non occuperebbe che l'ultimissima punta
di questa piramide, mentre Io spirito ne popolerebbe la massa fin nelle
più alte e lontane profondità.
Che cosa ne sia in ciò del bene e del male, nessuno
può dire, ma nessuno ha mai pensato che i demoni fossero superiori in
numero agli angeli buoni; tutte le probabilità sono a ciò contrarie, ed
è una ragione in più perché i nostri avversar! non abbiano partita
vinta su questo punto che è di comune incertezza.
L'indefinita ampiezza del piano divino c'impedisce di
sperare di poterlo mai abbracciare nel suo insieme, e di avere cosi
un'idea della parte che in esso possono avere il male, gli effetti del
male e le riparazioni cui da occasione. E' spaventevole la piccineria che
vediamo sia nel mondo religioso che in quello dei suoi critici. E ciò,
nonostante gli insegnamenti, le mortificazioni che la scienza ci infligge
periodicamente.
* Prima replica.
Les cieux pour les morteis soni un livre entr'ouvert
Ligne a ligne a leure yeux par la nature offerì. Chaque siede avec peine
en déchiffre une page Et dit: lei finit ce magnifique ouvrage7.
7 lamartine, Harmonies
poétiques, L'Infini dans les cieux. [I cieli sono per i mortali un
libro socchiuso, offerto riga per riga ai loro occhi dalla natura. Ogni
secolo a stento ne decifra una pagina e dice: Qui finisce quest'opera
magnifica].
Ma in cambio questo infinito inesplorabile offre al
fedele un argomento invincibile da opporre ai bestemmiatori. Si è spesso
detto che le scoperte astrali rendevano difficile la posizione del
credente facilmente antropocentrista, anche dopo che ha dovuto rinunciare
al geocentrismo. Ora, per ciò che riguarda il problema che stiamo
trattando, la sua posizione è assai migliore. A ogni tentazione di
attacco contro la Provvidenza, di giudizio pessimistico per ciò che
riguarda gli ultimi risultati, egli può opporre l'esclamazione di Pascal:
«O presuntuosi!». Invero la presunzione è clamorosa, e là dove la
speranza è a questo punto permessa, il silenzio è di diritto.
La protesta dell'abisso
Con questo, non tutto è stato detto, si replicherà
giustamente. Anche se il bene dovesse alla fine superare il male in
proporzioni aumentate quanto si vuole, resta un residuo. La dottrina vuole
che la perdita s'opponga al guadagno sui piatti della bilancia eterna.
C'è l'Inferno. E cosi il piano di Dio comporta una parte d'insuccesso che
non si potrebbe ridurre. La grandezza attribuita all'uomo serve a portarlo
al sublime, ma anche a farlo cadere da più in alto. E poiché per nostro
stesso riconoscimento ogni anima conta, poiché ogni individualità
costituisce, per cosi dire, da sola un mondo, che cosa pensare di questo
Organizzatore sedicente benevolo, di questa Provvidenza cosiddetta
materna, che si assume di preparare destini conchiudenti a siffatto
termine e di porre cosi degli esseri sulla china d'un abisso senza fondo?
Ohimè! l'Inferno è triste. Non tralasceremo
d'affrontare questo argomento, e di dedicargli tutta l'attenzione che
merita. Ma si tratta qui delle responsabilità di Dio. Ora, l'avversario
crede di aver buon giucco ritornando alla sua vecchia posizione : Dio
certamente prevedeva ciò che sarebbe accaduto delle sue disposizioni.
Stabilendo liberamente tutto l'ordine morale, onnisciente e quindi in
grado di giudicarne anticipatamente, onnipotente per apportarvi gli
accomodamenti, occorrendo i correttivi necessari, egli assume la
responsabilità di tutti i risultati, anche se le sue creature sono in
colpa nella loro posizione subalterna.
Poiché alla fine queste creature non hanno chiesto di
vivere. « Ciò che mi sembra odioso nella natura fa dire Byron al suo
Childe Harold, è di costituire mio malgrado un anello nella catena degli
esseri ». Ora, colui che cosi impone l'esistenza è obbligato a
costituirla buona. Se la sua creatura perisce, pur avendo egli tutti i
mezzi per impedire che perisca, il sentimento morale gli ritira
retrospettivamente il diritto di perla. Che il nulla benefico la protegga!
Si, il nulla beato è nel suo diritto, in mancanza di quella grazia che si
dice onnipotente e che non gli è concessa.
Non si può simulare la pace dell'anima di fronte a un
problema per sua natura inquietante poiché mette in causa gli ultimi
segreti della provvidenza divina, di ciò che si chiama predestinazione
—, con una parola abbastanza infelice, invero, ma che ha la sua
parte di terribile verità. Tutto ciò che si può con sincerità, ma
allora con certezza, è di mettere a nudo il vizio dei ragionamenti
contrari, la fatuità delle loro pretese e la tracotanza delle loro
domande a Colui la cui grandezza ci schiaccia col suo mistero.
Una prima cosa sicura, stando dalla nostra parte e
imponendoci dal didentro la sua evidenza, è che se pecchiamo, lo
facciamo liberamente—, si mette da parte, ben inteso, tutto ciò che
sarebbe malattia, suggestione imposta, errore o violenza. E' più di
un'evidenza inferiore, è una tautologia; poiché se non fossimo liberi
non ci si chiamerebbe peccatori e non temeremmo le vendette celesti. Che
possano ingannarvisi gli uomini, qui poco importa: parliamo di Colui che
vede nel segreto (Matt., VI, 4).
Peccando siamo liberi, e ne viene immediatamente che
siamo responsabili. Di fronte a Dio, non abbiamo niente da dire, e le
proteste d'un terzo personaggio chiamato Bayle o altrimenti non ci
riguardano.
Invocheremo la protesta di Childe Harold? Eccoci in una
strana posizione! Si può esigere da Dio che ci consulti prima di crearci?
Che si <lirebbe d'un figlio che elevasse simile pretesa? Ordinariamente
si ritiene che un padre è in regola quando è ben deciso a fare, per
quanto sta in lui, la felicità di suo figlio.
— Ma è appunto ciò che Dio non fa! Se lo facesse,
poiché è onnipotente...
Sempre Io stesso abuso di un'onnipotenza che si suppone
sotto ogni riguardo incondizionata, e che è certamente incondizionata
assolutamente parlando, ma non rispetto ai fini che essa persegue e che la
sua saggezza •vuole ch'essa persegua.
Bisogna sempre ritornare al punto di partenza. Dio si
fa creatore per manifestare e elargire la ricchezza infinita del suo
essere. Non può farlo che stabilendo una scala di valori più o meno
vicini o più o meno lontani da sé e che dovrà poi, pena contraddirsi e
tutto confondere, abbandonare alla loro autonomia relativa. Ora, tra
questi valori, ce n'è vno eminente e anche sovreminente : la
libertà.
IL valore della libertà
Si conosce il pregio che Descartes attribuiva a questo
valore : « Dio, diceva, ha fatto tré cose mirabili: la creazione dal
niente, il libero arbitrio e l'Uomo-Dio ». E' appunto ciò che fa la
grandezza della vita umana e la pone senza confronto aldisopra della
bestia, assicurandole uno sviluppo indefinito nella perennità.
La bestia propriamente parlando non agisce, è agita,
è guidata dalla. sua natura. L'uomo in qualche modo sorpassa la sua
natura, giudica i suoi giudizi naturali, obbedisce loro o li supera, e si
traccia da sé la via. Fa e facendo si fa; si costruisce
a poco a poco, di modo che il suo ultimo-destino sia opera
sua.
Non fa ciò da solo; la solitudine della causa seconda
nell'azione è-una contraddizione in termini. Causa prima - causa seconda,
è una coppia di forze che non si può spezzare. Ma ciò che si può con
Dio, lo si può per cosi dire da se, poiché il sé considerato come
creatura. include Dio.
E' bello, ma comporta una possibilità di caduta, e
questa possibilità racchiude un .rischio mortale. Esistendo il rischio,
è fatale che un giorno o l'altro, qui o là, vi si incorra realmente;
poiché la forza delle passioni e la varietà dei nostri giudizi di valori
esercitandosi nel concreto rendono infinitamente improbabile una perpetua
e universale resistenza al male. Nei grandi numeri — abbiamo già
più sopra rilevato questa legge — la-caduta è rigorosamente
inevitabile.
Non era una ragione, si dirà, per rifiutare un dono
cosi generoso?
— Rifiutare ciò che ci fa uomini? Rifiutare il
magnifico alberò da. frutto per timore che in alcuni frutti
s'introduca un verme?
— Quando si è buoni, si vuoi rendere felici e buoni.
Quando oltre-a ciò si è onnipotenti, e si può scegliere, non si crea un
soggetto morale:
cosi fragile.
— La disposizione che costituisce la nostra
fragilità, questa mescolanza di materia e di spirito, di cui sopra
abbiamo celebrato il mistero e che ancora mette a prova la sagacia dei
pensatori, bisognava espellerla dall'opera divina, a prezzo d'uno di quei
iati nella scala degli esseri, di uno di quei vuoti di forme (vacuum
formarum) che i pensatori antichi. aborrivano? La cessazione di questa
alleanza non sarebbe un progresso per il cosmo uno e gerarchico, per
l'evoluzione della vita che ammiriamo tanto e che ottiene in quella, unita
a Dio nascosto, la riuscita più sorprendente. Il sigillo dello spirito
sulla materia è un segno di onnipotenza e un simbolo di unità attiva che
non si troverebbe in nessun'altra parte:
la sua assenza diminuirebbe la sublime connessione
delle cose.
— Questo risultato può essere ottenuto con le
garanzie di cui parlo.
— Si, ma per mezzo di una falsificazione permanente,
nemica dell'ordine morale delle cose. Sopprimere o turbare costantemente
quest'ordine, vorrebbe dire togliere all'universo la sua principale
bellezza e far torto all'autonomia delle creature sul terreno dell'azione,
autonomia che si mani-
62 ALLE PRESE CON L'AVVERSARIO
festa in ciò, che ciascun essere inferiore agisce
secondo ciò che è e l'uomo conforme a ciò che vuole.
— Tuttavia voi credete alla grazia detta efficace o
vittoriosa.
— Ha sue leggi, che non conosciamo.
— Comodo rifugio!
— Non c'è bisogno di rifugio dove si tratta d'una
grazia, di cui l'obiettante pretende fare un diritto.
— Vi sono i diritti della bontà.
— Riteniamo che la bontà si eserciti al massimo e
possiamo vederne in copia i segni. Cosi pure riteniamo fermamente che solo
il peccatore pertinace è perduto.
—- Peccatore pertinace è per voi colui che abusa
della grazia. Ecco dunque che Dio da grazie a uomini ch'egli sa non le
accetteranno e che per questo stesso fatto divengono peggiori.
— In effetti divengono peggiori; ma sarebbe stato
meglio che Dio apparisse egli stesso biasimevole o meno bene non offrendo
le sue grazie e desse loro cosi motivo di dire : forse mi sarei salvato se
le avessi avute? Ciascuno qui ha la sua parte da compiere : Dio agisce da
Dio dando la sua grazia, l'uomo sia uomo esercitando la sua libertà.
— Ma voi stessi non dite che colui che si salva è
salvo solo in virtù delle grazie senza le quali non si salverebbe più di
colui che si perde?
— Lo diciamo invero, ma con ciò semplicemente
affermiamo, come poco sopra, la cooperazione obbligata della Causa prima a
tutto ciò che fa la causa seconda. Ma ciò non fa torto alla causalità
del merito ne alla autonomia del volere. L'uomo è libero, sotto la stessa
grazia, come se non esistesse Dio. __
— Resta che la perdita definitiva d'un essere
ragionevole è una macchia nella creazione.
— La salvezza definitiva di colui che poteva perdersi
è una gloria della creazione.
— Le due non sono compatibili?
— Solo al prezzo di quella diminuzione dell'essere,
che respingevamo or ora, e cosi della gloria della creazione e del
Creatore.
— Voi parlate sempre della gloria di Dio e si
direbbe, a leggere i vostri autori, che Dio organizzi in qualche modo il
male per avere la gloria — in verità, falsa gloria — di
vincerlo o di punirlo.
— Dio non organizza per niente il male; organizza un
universo in cui il gioco del bene, del maggior bene, da al male
un'occasione inevitabile. Quindi, che il male si volga in bene in un modo
o in un altro e ne prenda la tinta, è una vera gloria e Dio la rivendica
a buon diritto.
— Molti vi periscono, e vorrei che si escludesse
piuttosto dall'essere coloro che si prevede dovranno cosi perire.
— Riconoscete almeno che essi non hanno niente da
reclamare da questo lato, come osservavamo poco fa. Per il resto,
considerate che gli uomini non sono creati ad uno ad uno, bensì fanno
parte d'una razza, rientrano in un piano collettivo. E come rivendichiamo
l'autonomia individuale, anche la razza come tale ha la propria autonomia;
si sviluppa secondo proprie leggi, come se non dipendesse che da sé.
— Dio sa tuttavia ciò che ne uscirà.
— Un padre che si da una posterità sa pure che nel
seguito delle età potrà darsi che abbia generato un criminale.
— Il Padre divino ha il privilegio di poter
scegliere.
— Scegliere, in questo caso, vorrebbe dire far torto
all'autonomia della razza considerata in quanto tale, ed è di ciò che
parliamo in questo momento.
— Tuttavia voi dite che Dio è responsabile di ogni
essere, e non solo dei complessi.
— Dio ha la responsabilità di ciascun essere, e anche
dei complessi,
•e non si mostrerebbe miglior padre facendo il
maggior bene possibile a Tin singolo, soprattutto a un colpevole, a spese
dell'insieme e delle sue leggi. Ma, inoltre, sul terreno individuale,
quando il peccatore dice a Dio come voi gli suggerivate : Perché mi hai
creato, sapendo che dovevo perdermi? Sant'Agostino gli risponde, d'accordo
con le nostre stesse parole:
•« Tu ami la vita come gli altri secondo la tua
natura, e quindi Dio dandotela è stato buono per tè. Se poi ora, a
motivo del tuo peccato, delle sue «conseguenze desideri non esistere
più, è la sua giustizia che ti respinge » '.
8 Enchiridion,
e. XIL
La libertà limitata al bene
— Tutti i vostri ragionamenti sulla libertà, tutti i
vostri sforzi per discolpare Dio d'averla data all'uomo cosi fragile,
presuppongono che il Creatore fosse posto dinnanzi a questo dilemma : o
sopprimere la libertà, o collocarla sull'orlo d'un abisso; o crearla
miserabile e pronta alla caduta, o rinunciarvi insieme a tutti i suoi
benefici. Ecco che cosa leggo a questo proposito in uno dei vostri e non
dei minori :
« Senza libertà fallibile, niente libertà creata ;
senza libertà creata, niente amore d'amicizia tra Dio e la creatura;
senza amore d'amicizia tra Dio e la creatura, niente trasformazione della
creatura in Dio, niente ingresso della creatura nella gioia del suo
Signore. Ed era bene che questa suprema libertà fosse liberamente
conquistata. Il peccato, il male è il prezzo della gloria » 9.
9 jacques
maritain, De Bergson a Thomos d'Aquin, p. 282.
Non è evidente che in questo ingranaggio razionale in
apparenza rigido, c'è un pezzo debole? Si concede, alla fine, che c'è
una « suprema libertà » che non comporta più rischi e si pretende,
invero, che era bene che questa suprema libertà fosse conquistata per
mezzo dell'altra. Ma io lo contesto assolutamente, e allora nel mio
pensiero tutto il resto rovina, e nello stesso tempo mi fornisce il mio
programma. Dio poteva dare all'uomo una libertà non fallibile, che
sarebbe stata pur sempre una libertà creata; una. libertà che
permettesse e anche presupponesse un amore d'amicizia tra Dio e la
creatura; una trasformazione della creatura in Dio e il suo dischiudersi
nella gioia del suo Signore. Alla buon'ora! Questa era la
soluzione buona, più degna di Dio, perché ad un tempo
la più benevola e la più perfetta.
— E' vero che la libertà degli eletti, a imitazione
di quella di Dio, è più perfetta di una libertà esposta al male. E' un
pregiudizio ritenere che la libertà comporti di per se stessa un rischio
peccatore. Ciò è per essa un'imperfezione; quella degli eletti
presuppone l'evidenza del Bene supremo, al quale non si sfuggirebbe
conoscendolo in lui medesimo, dal momento che sotto le apparenze del bene
astratto tutti corrono verso di esso a tutta velocità. Chi oserebbe dire
che la libertà è tanto più grande quanto meno è illuminata? Al
contrario, più lumi si hanno per decidere, più si è liberi, e se la
luce arriva al grado dell'evidenza perfetta, la scelta con ciò stesso è
fissata nella più alta libertà, benché infallibilmente.
Ma se la libertà degli eletti è più perfetta, tutto
il resto essendo peraltro uguale, è meno gloriosa se si tratta d'una
creatura, che non la possiede naturalmente, come Dio. Invero, quella
libertà è ricevuta passivamente, non è conquistata e non si può
contestare che non sia questa una fortuna in meno. E' ciò che vuoi dire
il nostro autore nella sua ultima frase:
« Era bene... ».
— Che ciò fosse bene, lo contesto sempre, e
secondo me sussiste il ragionamento d'Epicuro.
— Al contrario, il piano di Dio sotto questo rispetto
è magnificamente bello e buono. Poteva costituire degli esseri già
perfetti; ha preferito, per essi medesimi, degli esseri che pervenissero
alla loro perfezióne. La loro volontà trionfante sarà loro più
preziosa di un desiderio soddisfatto. Dischiusisi nella materia
traditrice, avranno saputo liberarsene;
—dall'ignoranza si saranno innalzati al sapere, e dai
legami passionali ar lungo oppressori saranno riusciti alla libertà. In
tutto, lo sforzo sarà per essi il prezzo del successo, perché ne abbiano
la gioia e l'onore, e lo stesso rischio sarà cosi giustificato.
A vaincre sans perii on triomphe sans gioire.
E' quindi male dare a un essere come punto di partenza
la speranza, come frontiera protettrice la legge, la coscienza come
ispiratrice e giudice, e alla fine lo sforzo coronato? Non è un beneficio
in più che il Dio il quale ci si da liberamente sia nello stesso tempo
nostra conquista?
— E' soprattutto una trappola.
— Solo per la cattiva volontà, ed è una triste
difesa quella che tende a favorire il cattivo volere, a spese della
generosità pronta a tentar la propria sorte.
— Voi mettete l'uomo nella condizione di scegliere
tra l'uomo e Dio. E' una scommessa.
— E' una meraviglia. L'uomo manifesta cosi il suo
maggiore privilegio, che è l'autonomia. Non è prodigioso poter dire no
al proprio Creatore? E se ciò comporta un grande rischio, in caso di
riuscita la felicità è maggiore.
— C'è troppa perdita
— In quest'impresa, chi oserà pesare il
guadagno e la perdita? Chi
oserà dire che il trionfo meritorio di un eletto non
equilibra la perdita di più dannati, per loro colpa? « Un po' di luce
vale più di molte tenebre », dice Claudel10 10
Sept grandes odes, L. Il cavaliere
medievale rischiava la vita nel torneo, e la sua vittoria significava
qualcosa. Si sono fondate civiltà sul rischio di morte.
— Il militarismo sarebbe cosi la legge dell'universo?
— Si tratta di un esempio; ma in ogni impresa il
dispiegamento del bene sorpassa la preoccupazione di scansarsi dal male.
Non si organizza una competizione sportiva a favore dei vili ne dei bari.
Le scuole non regolano i loro programmi sui deficienti e le mostre non
vengono aperte per gli sciocchi. Lo sforzo meritorio sta nel promuovere il
bene, sia pure a prezzo del male.
— Spingete il vostro punto di vista fino
all'inumanità? Non è inumano infliggere a una umanità debole un destino
sovrumano?
— L'umanità di Dio è abbastanza provata dal suo
comportamento verso gli uomini. L'espressione è adoperata da san Paolo ed
entra nella liturgia di Natale : « Ci
è apparsa la benignità e l'umanità di Dio salva' tare nostro » 11
11
Ep. ad Titum, in, 4.
. Il Cristo non dev'essere dimenticato in tutto ciò.
Questa apparizione non è tale da persuadere gli uomini che il destino che
è loro riservato è ad un tempo esaltante e possibile, e che esiste un
piano della creazione?
— Ma occorre la fede.
— Certo, ma la fede ha solo la funzione di fornirci
da una parte un supplemento di luce e dall'altra una luce decisiva e
specifica; e se il male a questa luce diventa accettabile, si ha diritto
di trascurare l'ipotesi per ostinarsi nel rifiuto di ogni spiegazione?
— Resta da discutere il prezzo. — Per primo il
Cristo ha pagato il prezzo, e senza dubbio non sproporzionato al
vantaggio.
— Non comprendo che un Dio permetta il male e, per
cosi dire, lo metta in moto, quando si poteva evitare. Insemina, ci si
mette nella condizione di mal fare.
— Ci si mette nella condizione di mal fare solo per
invitarci a ben fare. Non aver mai occasione di mal fare, sarebbe come
dire un Ercole senza le sue fatiche. Certamente ciò è bello. Giove
trionfa e non ha da fare con l'Idra di Lerno. Ma un Olimpo completo esige
dei inferiori. L'eroe vittorioso arricchisce l'Olimpo.
— Perché divinità inferiori dove tutto può essere
perfetto?
—— L'imperfetto aggiunto al perfetto costituisce un
nuovo valore, che da solo il perfetto non comporta. Si pensi a un
cacciatore con i suoi cani, a un cavaliere con la sua
cavalcatura nello scenario d'una foresta.
— Odio questi ragionamenti capziosi. Parlo per un Dio
buono, il quale non ponga condizione a ciò che da.
S - It problema Set mais
— Noi sosteniamo le ragioni di un Dio la cui bontà
si manifesta in una creazione ampia e diversa, per aver più occasioni e
spazio di espandersi. Radunare d'autorità tutte le anime e uniformare le
loro vite dando a tutte, fin dall'inizio, la sicurezza, vorrebbe dire
impoverire l'universo morale, come s'impoverirebbe l'universo fisico
sopprimendo i gradi e le diversità tra le specie.
— Per questa preoccupazione di gerarchla è
necessario lasciar cadere uomini sventurati in supplizi crudeli?
— Abbiamo detto che ci rìserviaJno_ questo problema
dell'inferno. Resta che il piano dell'universo morale si giustifica come
queuodeU'unì-verso fisico con una finalità superiore e con un'armonia
dei valori, in cui la ragione deve vedere un bene.
— Trovo immorale il vostro ordine morale. Dio deve
avere il male in orrore ed escluderlo dalla sua opera.
— Coloro che si lamentano tanto perché Dio permette
il male sono sempre tanto zelanti da proibirlo a se medesimi?
— Che importa questa osservazione? La mia obiezione
resta.
— L'osservazione ha un interesse dottrinale : quando
ci si lamenta di Dio a proposito del male morale pur commettendolo
da parte nostra contro di lui, si formula un rimprovero che potrebbe cosi
tradursi :
Perché avete costruito un universo che mi permette di
offendervi? E' una strana protesta ! S'indovina la risposta di Dio :
Questo stesso universo ti permette di amarmi, e permette anche che
io ti ami.
— Non rispondete mai alla mia domanda. Si o no. Dio
ha il male in orrore?
— Dio ha in orrore il male, ma il suo orrore del male
è fatto del "suo amore per il bene, e dove si trova un
maggior bene a prezzo TPuii— male, deve permettere il male.
— « II permesso d'un certo male è scusabile solo
quando non vi si potrebbe rimediare senza introdurre un male maggiore; non
potrebbe essere scusabile in coloro che hanno in mano un rimedio
efficacissimo contro questo male e contro i mali che potrebbero nascere
dalla soppressione di questo » 12.
12 pierre bayle, XIV"
Maxime philosophique
— Dio può impedire ogni male; ma non può procurare
ogni bene senza permettere il male, e per la sua bontà è obbligato a
procurare il maggior bene possibile alla sua opera, anche a prezzo di
qualche male. Di più, si può dire che sarebbe stato « un maggior male
» se Dio avesse rifiutato di permettere il male, poiché cosi agendo
avrebbe fatto in qualche modo una cattiva scelta, il che da parte di Dio
sarebbe un male.
— In ogni caso, un ordine morale cosi concepito è
deprimente.
— Deprimente un ordine morale che ci invita a
costruirci con le nostre forze e ad aiutare Dio?
— Come, aiutare Dio?
— Non abbiamo detto che Dio partecipa alla sua
creazione, cerea in qualche modo di ritrovarvisi e di perfezionarvi la sua
immagine con gli sforzi congiunti della sua grazia e della nostra azione?
Molti pensatori hanno parlato d'un Dio che si fa e che noi dobbiamo
aiutare a divenire. Quest'idea pantelstica dev'essere respinta, ma ciò
che non è vero di Dio nella sua persona è vero delle sue partecipazioni
e della sua immagine. Lo sforzo morale è il grande mezzo di questa
nascita di Dio e di questo compimento del divino negli esseri. Ciò
comporta, certamente, oltre al nostro bene, le nostre fatiche dolorose e i
nostri rischi. E' un onore, di cui non ci conviene fare un rimprovero, e
rispondere con generosità è senza dubbio meglio che recriminare e
contribuire con la nostra diserzione a rendere veramente assurdo un mondo,
che avremmo arbitrariamente e follemente giudicato tale.
Tutto considerato
Tutto considerato, l'origine del male, che cercavamo,
è nello stesso bene, come l'origine dell'ombra è nella luce. E con
questo esempio si
-vede bene dov'è la realtà principale, dominante e
che cosa deve concludere in merito all'opera divina un retto giudizio.
Quando qui parliamo d'origine, non si deve
intendere causalità. Propriamente parlando, non c'è causalità
del male. Non si tratta che di risultati accidentali, di interferenze, di
deviazioni nel corso di un retto funzionamento, di mancanze e degradazioni
connesse all'inevitabile imperfezione dello stesso bene, che nel creato
non può esercitare pienamente la sua potenza.
Il bene è causa, poiché ha qualchecosa da dare. Il
male non ha altro da dare che la sua stessa mancanza, il suo deplorevole
nulla e la sua rovina mortale. Deplorevole, mortale : ciò comporta si una
causalità, ma indiretta e accidentale, il che è fondamentale per il
giudizio sul Tutto. E' triste che vi sia del male e tanto male nel nostro
universo, in certi momenti si può ritenere che ciò sia spaventoso, ma
nonostante tutto il
-male non è, non può esser causa di niente e quando
nell'universo si risale di causa in causa, se si tratta di cause proprie,
di agenti effettivamente produttori, non si trova che bene.
Allora, se ci si riporta alla cima, non si va più
verso l'ombra, ma verso la luce. Salendo all'essere, non si trova più il
niente. La Causa prima è lo stesso Essere sussistente, o meglio il
Sopra-Essere, ed è cosi il Bene,
•non diviso, come vorrebbe il dualismo manicheo, non
imperfetto, come lo immaginano i sostenitori del Dio-finito, ma il Bene in
sé, che non patisce limite. Attività pura, che spande solo bene.
Dio fa solo il bene
Questa esclusività del bene nella causalità divina è
stata una vera ossessione da parte dei nostri pensatori cristiani. Essi
erigono i loro argomenti, come baluardi e barricate a protezione della
Cittadella. San Tommaso vi esaurisce il suo virtuosismo e la sua forza.
Chiude tutti i pas-' saggi all'assalitore e s'ingegna a togliergli tutte
le possibilità.
Era stato preceduto in ciò da molti altri. Uno dei
primi, Origene, aveva detto, con un'energia che è nei suoi modi : «
Tutto è stato fatto dal Verbo ; ma il niente è stato fatto senza di lui
». Si riferisce al niente che è incluso nel male, che è il male quanto
alla sua essenza privativa, se si possono associare questi due termini.
Sant'Agostino, più di ogni altro prima di san Tommaso
si è travagliato nello stesso senso. E' soprattutto il caso del peccato
che lo impegna, poiché in questo caso un'opinione contraria sarebbe più
grave e l'apparenza è più vistosa.
L'apparenza è questa : Dio prende parte al peccato,
poiché quale primo Agente collabora necessariamente a ogni atto. E ancora
aldilà del fatto, ritorna la stessa apparenza, poiché Dio, diciamo
continuamente, utilizza il male piegandolo ai suoi fini. E allora, perché
non ne è contaminato, cosi come il minatore o il contadino sporcano le
loro mani maneggiando del concime o del carbone?
Ma no. Bisogna a questo proposito tener ferme due
verità, certe-l'una e l'altra. Dio causa tutto l'essere, e di conseguenza
il peccato, intutto ciò che ha di positivo, sia nell'ambiente
esterno dove pone i Suoi effetti, sia nell'ambiente interno che è la sua
dimora. Coloro che cercano mitigazioni a questa causalità universale
di Dio cadono in complicazioni inestricabili. Per non aver assunto una
posizione netta, accumulano le-difficoltà e non soddisfano nessuno.
Ma d'altra parte Dio non può causare il peccato,
poiché il peccato» è contro di lui, ed egli è santo, la santità
medesima.
De l'Etre tout parfait le mal ne saurait naitre 13.
13 voltaire, Poème sur le
désastre de Lisbonne. [Dall'Essere assolutamente;
perfetto il male non potrebbe nascere].
E' contradditorio ciò? Molti hanno preteso di si, e
Hume ha scritto r «Mostrare che Dio non è causa del peccato è stato
superiore finora a. tutte le forze della filosofia»14. 1 4
Essai sur la Liberto et la Necessitò, circa finem.
Si può ammettere quest'ultima formulazione, poiché invero l'innocenza di
Dio nella sua causalità riguardo-all'atto del peccatore non potrebbe mostrarsi,
cioè farsi vedere con evidenza. Ma non per questo è esclusa la
possibilità, e quanto si diràdei peccato sotto questo rispetto varrà
ugualmente per il male nella natura.
Già lo stoico Crisippo proponeva un esempio
illuminante : quello-d'un rullo che vien tirato con un movimento
perfettamente regolare e-eccellente per il risultato che il conduttore si
propone, ma che trabalza con fracasso a causa delle ineguaglianze della
superfìcie. Aggiungeva che-essendo fatto di materia, un rullo non può
mai essere perfettamente-levigato ". 15
Cfr. aulo gellio, apud giusto lipsio, Noct. Att., VI, C. TÉ
Cosi la creatura, quale che sia, fatta di niente, se cosi si può dire, a
motivo dei suoi limiti, non può non essere deficiente, capace di sfuggire
alla causalità di Dio a profitto del male, senza per questo cessare dal
dipenderne quanto al bene che è il sostegno del male o che ne è il
risultato.
San Tommaso ricorre a un altro esempio ancor più
sorprendente. Un uomo sano conduce uno zoppo verso un luogo dov'è bene e
utile che sia. Ma lo zoppo zoppica: è colpa del suo accompagnatore? No,
bensì della sua gamba troppo corta.
Leibniz presenta un terzo esempio nella sua Teodicea,
quello di un convoglio di barche che procede su un corso d'acqua.
Il corso è causa del procedere delle barche, ed è bene; ma non è causa
del ritardo, rispetto alle altre, della barca più carica e del suo
eventuale arresto in un'insenatura.
Il significato filosofico di questi tre esempi è ben
chiaro. La Causa prima può essere perfettamente retta nella sua azione,
non tendere che al bene e condurre infine al bene, pur lasciando posto a
un possibile scadimento della causa seconda.
Inutilmente si direbbe : la causa seconda che vien meno
è stata creata dalla Causa prima. Dio l'ha creata capace di errare, non
l'ha creata errante. Uscendo dalle sue mani era buona, sia dal punto di
vista del suo essere che da quello delle sue tendenze profonde. Ogni
essere è buono, abbiamo insistito abbastanza; ma anche ogni tendenza
naturale è buona, e ne è la conseguenza, poiché a questo livello è
l'essere e solo l'essere a manifestarsi nell'azione.
Ciò che gli antichi chiamavano col nome di tendenza
naturale, ciò che Henri Bergson, generalizzando, chiama YElan vital,
Schopenhauer, più particolarmente, il genio della specie, Claude
Bernard Videa direttrice, diciamo, su questo terreno, l'impulso
rappresentato dal germe, ciò è sempre perfettamente retto. La prova, nel
vivente, è data dal fatto che ciò si riscontra nella generazione
successiva dopo le peggiori deviazioni accidentali. Uno zoppo non genera
un altro zoppo. Vi sono difetti ereditari, ma sono soltanto accidenti un
po' più prolungati. Lo slancio specifico persiste nella sua rettitudine e
un po' più lontano viene ritrovato.
Nell'ipotesi dell'Evoluzione questa osservazione deve
essere trasportata più lontano, ma sussiste e si rafforza. Poiché se
tutte le specie d'essere sono buone e tendono a conservarsi quali sono al
presente, nondimeno rileviamo in esse stranezze e particolarità
abbastanza poco favorevoli per meritare forse al nostro sguardo accorto il
nome di male. La responsabilità è allora della stessa Evoluzione, in cui
intervengono molti casi fortuiti. Al punto di partenza dell'Evoluzione —
ne occorre pur sempre uno — non si troverebbe alcuno di questi
accidenti; sareste di fronte • a un dato prodigiosamente fecondo di
combinazioni future e di un orientamento perfetto.
Non diversamente nell'ordine morale. Le nostre
primissime tendenze sono la dirittura stessa. « Dio ha fatto l’uomo
retto », dice l'Ecclesìaste (VII, 28); la volontà è un appetito
del bene e tende al nostro bene finché falsi giudizi ispirati
dalla passione vengono a distoglierla dalla sua strada.
« L'uomo, si trovi in una casa innominabile, in una
prigione o sulla forca, è sulla via di tutto ciò che è vero e buono » 16.
16 Gli
uomini rappresentativi, Swedenborg.
Si obbietta talvolta che il fatto del male morale
suppone nella volontà un principio di malizia che le è consostanziale e
rimonta cosi al Creatore, Ma l'obiezione non è accettabile. Non è
necessario, perché una libertà pecchi, che sia viziosa in lei medesima,
basta che sia una volontà. Anche san Tommaso rifiuta di risalire più in
alto del volere per spiegare la perversione del volere. Lachelier dice
profondamente da parte sua : « Spiegare vorrebbe dire assolvere, e la
metafisica non deve spiegare ciò che la morale condanna » "17
Psychologie et Métaphysique, p. 171 (Alcan).. Ora, fare risalire
qui la causalità a Dio, è cercare in lui una spiegazione metafisica. E'
ciò che a buon diritto i nostri due pensatori escludono.
C'è tuttavia in noi un'inclinazione al male, ma il
principio non ne va cercato in una segreta malizia della volontà, bensì
in ciò che san Paolo-chiama la legge delle membra, cioè
l'attrazione della carne per i suoi oggetti, che sono buoni ma non sempre
in accordo con i fini della volontà ragionevole. Il male si produce al
punto d'incontro di questi due beni e per la mancanza attuale del volere
dimentico della sua regola. Non c'è dunque in nessun senso malizia
congenita, bensì una natura mista, il cui funzionamento è delicato: ecco
tutto.
Infine, il male è solo un'interruzione o una
deviazione in un cammino rette, una fermata che interrompe uno slancio, o
una fuga tangenziale in una macchina che si muove in giro. Abbiam detto
perché Dio lo ha permesso : per un bene, il bene dell'universo e il bene
della creatura ragionevole. Un grande bene ne risulterà alla fine : che
si vuole di più? — Alcuni mistici hanno avuto l'intuizione di questa
permissione divina accordata al male, allo stesso peccato, per motivi che
sorpassano l'uomo, « In questo stato, scrive Angela da Foligno, il
peccato mi piace quando lo vedo commesso da altri poiché sento che Dio lo
permette giustamente » 18. 18
La via della salvezza.
La Bibbia non dice mai che Dio faccia il male, ma che
crea il bene e il male, cioè che crea tutto, poiché il tutto è buono
nonostante il male; poiché il male è occasione di bene e serve cosi ad
accrescere il bene dell'universo.
Non diciamo con ciò che il male serva a integrare il
bene dell'universo; tale formulazione è inesatta. Soltanto il bene
concorre veramente al bene. Ma poiché il male da al bene occasione di
manifestarsi e d'agire, è pur vero che senza di esso il bene risultante
sarebbe minore. S. Agostino dice : « Dio, sovranamente buono, non
permetterebbe che sussistesse qualcosa di male nelle sue opere, se non
fosse cosi potente e buono da poter trarre un bene dal male stesso »
". 19
Enchirìdion, e. XI.
Si vede quindi che se Dio avesse creato un mondo
migliore di questo, non solo questa scelta non avrebbe eliminato il male,
ma avrebbe potuto, in alcune ipotesi, aumentarne la dose aumentando
d'altra parte quella del bene. Dal mescolarsi col male, poi. Dio è
impedito dalla sua santità e anche dalla sua natura, se si può
distinguere l'una dall'altra.
Quanto cosi diciamo del Creatore riguardo alla sua
azione è vero anche della sua volontà. Su questo punto Descartes dava
alla principessa Elisabetta (lettera X) spiegazioni assai pertinenti.
Parlando in generale, diceva, « non entra il più piccolo pensiero nella
mente d'un uomo che Dio non voglia e non abbia voluto dall'eternità ».
E' vero, poiché Dio vuole tutta la combinazione universale di cui questo
pensiero è un elemento ed è Dio che lo porta ad essere. Ma non ne viene
che Dio voglia determinatamente quel fatto, preso cioè isolatamente. Lo
permette, non lo vuole e la prova è data dal fatto che all'interno di
quest'universo, ch'egli vuole nel suo insieme, regnano leggi che si
oppongono alla sua volontà. In altri termini. Dio vuole un universo in
cui c'è il peccato, lo vuole tale nonostante il peccato, non vuole il
peccato.
La volontà permissiva
Ci si stupirebbe di vedere Bayle in silenzio difronte a
questa dottrina. E' troppo sottile per non prestarsi ad altre sottigliezze
sofistiche e blasfeme. La distinzione teologica tra volere e permettere,
per ciò che riguarda Dio, o, in altri termini — intervenendo la
volontà divina in entrambi i casi — tra volontà permissiva e volontà
formale, eccita i! suo estro. Pretende tradurre l'idea di volontà
permissiva dicendo : « Dio vuole che il peccatore gli disobbedisca,
poiché rientra nei suoi piani; ma vuole che il peccatore creda che Dio
voglia che gli si obbedisca » 20 20
Réponses, e. CLTV.. Palinodia,. inganno
degno del suo inventore, ma non del Dio di verità e di giustizia. La
verità è che vi sono due volontà il cui oggetto è differente e che
sono quasi estranee l'una all'altra rispetto alla nostra analisi, umana.
La prima ha di mira il fatto nei suoi rapporti con altri fatti e con
l'ordine universale regolato da Dio. Sotto questo riguardo, il peccato è
voluto da Dio, poiché sotto questo riguardo è buono. La seconda volontà
ha di mira la stessa volontà creata di fronte alle leggi morali e, sotto
questo riguardo peccaminoso, l'atto lungi dall'essere voluto è proibito.
Forse si renderebbe abbastanza bene la situazione dicendo: II peccatore fa
ciò che Dio non vuole, ma in maniera tale che con il suo stesso peccato
Dio fa ciò che vuole.
La prova che non è questo un vano distinguo è
data dal fatto che noi stessi vogliamo alcune cose che tuttavia
consentiamo a veder impedite da un motivo superiore. Ad esempio, un
padre intende condurre quanto più possibile al bene i suoi figli e
proibisce loro il male; acconsente tuttavia a un momentaneo allontanamento
d'uno dei suoi figli se se ne ripromette una migliore formazione per lui e
una lezione utile per gli altri.
La differenza tra il caso dell'uomo e il caso di Dio in
questa circostanza è che l'uomo non collabora di persona all'atto che
permette, mentre Dio collabora a titolo di Causa prima, non al peccato
come tale, che è puramente privativo, ma all'atto del peccato in tutto
ciò che ha di positivo inserito nella trama delle cose.
Vi collabora, dunque lo vuole? — Si, ma lasciando in
conto alla creatura la cattiva volontà che Io determina, e rispettando
pienamente l'autonomia di questa determinazione. La volontà divina e la
volontà umana qui non si compongono, e come non c'è addizione dove
concordano, non c'è contraddizione dove sono contrarie. Ciò che l'uomo
fa liberamente contro la volontà di Dio, Dio lo fa liberamente per i suoi
fini, considerandolo sotto il rispetto del bene, forse il bene
dello stesso peccatore. Sono i misteri della trascendenza divina, e
sappiamo che si devono affermare, ma non si possono chiarire21.
21
Abbiamo cercato di chiarire almeno l'esposizione del problema in un'altra
opera: Dieu gouveme, pp. 57-77.
I fini governano
Ritorniamo al nostro inizio. Al culmino di tutto
l'essere è il Bene. Risalendo attraverso le nostre tenebre incontriamo
l'abbagliamento, lo scaturimento di ciò che si svolge nel tempo con le
sue scie di luce e d'ombra, in cui la luce, destinata a trionfare un
giorno, si presenta al momento come in una proiezione sullo
schermo, dove gli oggetti si segnalano con grigi di diverso valore e con
grandi neri.
E' con la bellezza del tutto che si giustifica questa
sorprendente organizzazione, comprendendo in questo tutto sia le durate
che gli esseri, e soprattutto ciò che Emanuele Kant ha chiamato
con una parola magnifica il regno dei fini.
Per l'uomo che sa guardare da abbastanza in alto, ogni
realtà è venerabile, ogni avvenimento proficuo, e ogni uomo associato al
divino per il suo proprio compimento e il successo di tutta la natura.
Un assioma di diritto dice incivile giudicare
prima d'avere esplorato tutta la legge : Incivile est nisi tota lege
inspecta judicare. Quando conosceremo l'intera legge delle cose, forse
sorrideremo dei nostri dubbi angosciosi e ci vergogneremo delle nostre
rivolte.
Noi frantumiamo l'universo per giudicarlo e dichiariamo
informi i suoi rottami. Ma l'universo è un universo, cioè un tutto
non lacerabile e chiuso in se stesso nella sua perfezione unitaria.
Meraviglia di questo numero perfetto!
Dio ha promesso che al momento della sua manifestazione
ultima mostrerà a tutti la giustizia dei suoi giudizi 22.
Gesù diceva a una santa che si lamentava con lui in un'estasi a proposito
della sorte dei peccatori :
« Sta tranquilla, ti farò vedere che tutto è bene
». Ciò basta a chi Io crede o lo sa a priori per la forza
invincibile delle prove di Dio e dei suoi attributi. Il resto, che fa
ostacolo o turba o scandalizza, non è che apparenza ingannevole,
riguardante un fatto che umanamente non possiamo abbracciare.
Sarebbe meglio per noi che tutto fosse chiaro e che
l'universo presente ci apparisse come una perfezione compiuta? Potrebbe
allora presentarsi il pericolo segnalato da Dostojevskij, cioè che
l'assenza di ogni male ai nostri occhi ci porti a divinizzare il mondo e
deponga cosi per l'inutilità di Dio. La presenza del male testimonia
l'imperfezione di questo mondo provvisorio e fa rimbalzare lo spirito
verso la sua causa senza per questo lasciarci sprovvisti.
Leibniz dice : « Essendo assicurati dalla
dimostrazione — aggiungiamovi la parola del Cristo — della bontà e
della giustizia di Dio, disprezziamo le apparenze di durezza e
d'ingiustizia che vediamo in questa piccola parte del suo regno esposta ai
nostri occhi. Fin qui siamo illuminati dalla luce della natura e da quella
della grazia, ma non ancora da quella della gloria. Quaggiù, vediamo
l'ingiustizia apparente, e crediamo, sappiamo la verità della giustizia
nascosta di Dio. Ma vedremo questa giustizia quando il Sole di giustizia
si mostrerà qual è » 23.
Mais un jour, ton oeuvre profonde, Nous la verrons,
Dieu redolite;
Nous irons voir de monde en monde S'épanouir ton unite
24,
L'estasi nnificatrice
Questa visione .beata può essere anticipata in alcuni
stati d'animo e provocare, anziché lo scandalo, l'entusiasmo. Non
ne sono testimonianza tanti scritti dei mistici o dei poeti ispirati?
Nell'estasi il contemplativo, attraversando con lo sguardo le ombre e
tendendo aldilà, sempre aldilà, non trova alla fine che un intenso
focolare di luce. All'origine dell'immenso ventaglio di luminosità, vede
la grande Mano nella pace della quale riposa il mondo armonioso.
Momenti fortunati, che il più umile dei mortali può
sperare di condividere in certi giorni. Senza cessare dal percepire il
gemito della creazione imperfetta, capita che si approdi a
Ces hauts-lieux d'où Fon voit la figure du monde2a
23 Discours de la Conformile de la foi avec la
raison, nella Théodicée.
24 victob hugo, Les Rayons et les Ombres,
Caeruleum Mare. [Ma un giorno vedremo la tua opera profonda, o Dio temuto;
vedremo svolgersi di mondo in mondo la tua unità].
25 victok Huco, Les Voix intérieures,
Pensar, Dudar. [Quei luoghi elevati donde si vede la figura del mondo].
74 ALLE PRESE CON L'AVVERSARIO
e che appaia al cuore la bontà che tutto penetra. A
Dio stesso si chiede questo modo di vedere ; è suo e discendendo non può
che indebolirsi. Anche il filosofo Boezio diceva: « Quando si ha lo
sguardo fissato sulla Provvidenza • che dirige tutte le cose, si cessa
di vedere il male padrone del mondo ; lo si vede ovunque svanire » 28.
L'uomo, che ha scritto queste righe, le ha scritte in
prigione attendendo la morte. Era più facile a Malebranche impiegare lo
stesso metodo, benché sia sempre difficile : « Quando mi do da fare per
scoprire qual-checosa della condotta di Dio e dei suoi eterni attributi
— scrive l'autore della Recherche de la vérité — non consulto
me stesso, dimentico quanto posso tutto ciò che è entrato nella mia
coscienza attraverso i sensi, respingo tutti i fantasmi rappresentatimi
dall'immaginazione e contemplo con tutta l'attenzione di cui sono capace
l'idea vasta e immensa dell'Essere infinitamente perfetto » 27.
Ciò che qui invero occorre è un'intuizione d'insieme,
come davanti a un vasto panorama, come sotto l'impressione d'un sentimento
comprensivo in cui si riassorbono gli incidenti, gli urti, le supposte
ingiustizie, le sofferenze. I piccoli giudizi nel tempo falsano le
prospettive. Spinoza, il quale intendeva giudicare sempre sub specie
aeterni, in ciò aveva ragione. Tutto si riporta alla grande armonia,
e lo stato d'animo felice è quello dell'uomo che si assorbe in questo
muto concerto.
Il mondo come oggetto di contemplazione è sublime, una
volta comprese le grandi leggi e i grandi fini, di cui ci è dato augurare
il regno. E' l'aspetto temporale di questo mondo movimentato che ci turba.
Nell'ira sé, come dicono i kantiani, tutto non è che ammirazione
e gioia. Non è uno -sforzo bello considerarlo cosi e, a favore della sua
trascendente bellezza^ rinunciare a lamentarci? Acconsentendo a ciò, non
faremmo che trasferire l'interesse della nostra personalità dove è più
elevata, dov'è veramente se stessa.
Già nell'immediato, il dolore e la bruttezza possono
essere trasfigurati nella contemplazione estetica, come ha affermato
sant'Agostino e come hanno compreso da parte loro Beethoven, Wagner,
Nietzsche, Ravaissoh, Marcel Proust, Bergson e molti altri. Quando dalla
contemplazione estetica si passa alla contemplazione religiosa e alla
concezione del Dio-Amore, allora il riassorbimento e la sublimazione si
compiono, e il male invero non è più. Al suo posto invade il cuore del
credente l'alta comprensione dell'ordine divino, della felice finalità
proposta a ogni anima, del risultato possente e gioioso di tutto il vasto
universo. Con attorno alla fronte l'aureola della potenza contemplativa e
nella nostra anima la tranquilla ebbrezza che attingiamo alla serenità di
Dio, sembra che la creazione ci sia già sottomessa e che le sue pretese
sevizie non siano che un'apparenza fuggitiva e un giucco dell'amore.
Il mondo della prova e quello della fine felice sono
talmente solidali, all'interno dell'ordine provvidenziale che regge lo
stesso presente, che
26 De
consolatione, IV, e. II.
27 Réponse a la Dissertation de M. Arnauid,
X, § 9,
il giudizio su di essi non dev'essere diviso. E' un
tutto armonioso, in cui tutti gli elementi testimoniano l'uno per
l'altro e tutti per l'insieme. Dio è glorificato in tutto, rappresentato
ovunque. « Sotto i disordini e gli antagonismi che agitano questa
superficie su cui passano i fenomeni, al fondo, nell'essenziale ed eterna
verità, tutto è grazia, amore e armonia » 28.
28 felix ravaisson, La
Philosophie franyaise au XIX siede, in fine. 19 Ed.
Tourneur, t. II, p. 8, n. 296.
Ai nostri poveri scandali, fa difetto questa visione
dell'unità. Uno spirito di contemplazione credente ce ne
libererebbe. Ci farebbe sentire, come gli antichi, la Musica dei
Mondi e cantare col Poverello sublime il Cantico del
Sole.
Il Cristo giustifica tutto
Abbiam fatto presentire, poco fa, che il supremo
ricorso per l’accettazione del male, non sta nella ragione lasciata a
essa sola, ma nel mistero dell'Incarnazione. La nostra relativa impotenza,
affrontando questo problema, non starebbe nel considerarlo solo rispetto
al Dio dei filosofi e dei dotti, come dice Pascal, dimenticando il Dio
d'Abramo, di I sacco e di Giacobbe, il Dio di Cesù-Cristo29,
cioè il Dio inserito nella storia umana per raddrizzarla, compirla e
portarla a fine?
Quando pensiamo al Dio di Gesù-Cristo, al Dio che è
Gesù-Cristo, conserviamo ad un tempo il concetto del Dio autentico, che
è Amore, e il concetto autentico della creazione nella quale s'immerge e
che la sua presenza ci prova essere un'opera d'amore. Amore non mollemente
compiacente, ma amore forte, che ad ogni costo vuole il miglior bene di
ciò che ama. E se Dio ama anzitutto la creatura ragionevole e il resto a
causa di essa, almeno in rapporto ad essa, allora il male universale è
giustificato, e il grande Amen dell'Apocalisse è legittimo.
Se il principio del male è l'imperfezione della
creatura e se questa imperfezione, essendo congenita, è irrimediabile, lo
sforzo di liberazione dal male non poteva essere opera della sola
creatura. Bisognava che questa fosse continuamente orientata dallo slancio
creatore che spinge tutta la natura verso il bene. L'uomo poteva
ricongiungervisi con la sua libertà, ma anche questa è manchevole,
appesantita dalla massa degli impedimenti interni ed esterni, che pesano
su essa da ogni parte. Occorre dunque, perché non sia vinta, che le
provenga una grazia dalla Fonte prima dalla quale viene già tutto
il bene che è in essa. La sola ragione non può affermare la realtà di
questo soccorso, ma lo chiama, e dove essa si ferma impotente risponde la
fede.
Perché il male del mondo sia vinto, occorre che presso
qualcuno se ne attui una coscienza integrale, con una volontà di
riparazione all'altezza del male e un potere che corrisponda a questa
volontà. Questa coscienza integrale dev'essere universale, poiché noi
tutti siamo impigliati nel male morale e nel male fisico tutta la natura.
La volontà di-
riparazione a sua volta non può essere che un amore
universale del bene, una innocenza perfetta che assume tutte le nostre
responsabilità, facendosi « peccato per noi »30 30
II Cor., V, 21.
. E infine il potere da mettere in giucco per la
riparazione del male come per la ricerca del bene non può essere che un
potere umano-divino, cioè capace di disporre, per solidarietà con noi e
con i nostri prolungamenti naturali, della materia da espurgare, delle
coscienze da riportare all'amicizia beatificante, dalla quale il peccato
ci esclude. In breve, occorre qui un'azione che abbia valore di umanità
totale, tempo e spazio, e di divinità disponibile. E benché si possano
immaginare diverse forme di quest'azione, ce n'è una che realizza tutto
con una perfezione senza lacune, è un'Incarnazione redentrice, è il
fatto dell'Uomo-Dio Salvatore.
E' egli che attua l'impossibile e necessario legame tra
il Creatore e la creatura, e che Io mostra possibile portandolo al
suo massimo.
Dio non sarebbe venuto a noi con il Cristo, se con il
Cristo non potessimo andare a Dio. Che l'impresa abbia avuto questa forma
umana, è segno che è umanamente possibile. Non occorre a ciò che
fedeltà e amore.
Maine de Biran ha già osservato che i rapporti tra il
Cristo e Dio da una parte, tra il Cristo e noi dall'altra, sono
tali che ciò che ci è possibile mediante il Cristo ci è cosi possibile
da noi medesimi. « Posso tutto in Colui che mi fortifica » 31.
31 Philip., IV, 13.
Il fatto del Cristo giustifica il male universale, non
lo spiega. Il mistero rimane, impenetrabile come la nascita del mondo e i
rapporti essenziali che lo costituiscono. Ma che Dio possa ad un tempo
essere il Dio d'amore manifestatesi in Gesù Cristo e il Dio che permette
il male, non può più sembrare incomprensibile. Questo scandalo deve
essere accettato dal credente, e allo stesso non credente si presenta come
una ipotesi che non ha diritto di disprezzare.
Il male rivela la sua vera natura solo al reattivo
della croce. Senza la croce non è possibile isolarlo e conoscerlo; sciupa
tutto e alla fine non significa niente, a meno che non significhi l'orrore
e l'assurdo.
Non dimentichiamo che la croce è contemporanea della
creazione. Nell'unità del piano creatore e nell'eternità di Dio, la
croce costituisce la pietra d'angolo. Senza di essa non si
concepisce niente ne si giustifica. Ma c'è la croce a porre il sigillo, a
dare il senso, ad apportare l'ultima giustificazione. Il Creatore,
mescolandosi di persona alla sua opera e soffrendo, ci dimostra la
necessità di soffrire, essendo dato il resto dell'opera, per il
successo di quest'opera. E poiché il successo di cui si parla è gioia,
ci è dimostrato col fatto che la sofferenza è fonte di gioia e che
unirvisi con una saggezza amorosa apporta agli uomini
La certitude heureuse et l'espoir confiant32.
32 alfred de vign», Le
Mont des Oliviers. [La certezza felice e la speranza
fidente],
Gesù Cristo ha provato tutto il peso dell'universo di
cui ci lamentiamo; ha esaurito il dolore in tutte le sue forme; ha subito
la morte; ha fatto esperienza della mediocrità e delle bassezze
dell'esistenza fisica, delle relazioni esterne, delle amicizie, quando De
la vie avec l'homme il partageait Penimi33.
33 Io., La Femme Adultere
[condividerà con l'uomo la noia della vita].
Ha avuto fame e sete; ha sudato lavorando con le sue
mani; al Getsemani ha sanguinato, e cosi al Pretorio, sul Calvario; è
stato abbandonato dai suoi, abbandonato anche dal Padre, dopo l'insuccesso
d'una vita che l'umanità doveva penosamente ricominciare. Si direbbe che
abbia voluto bere a tutte le vene della creazione l'amarezza ch'esse
contengono, perché si possa dire mostrandolo come Filato: Ecco l’uomo!
34 34
Giov-, XIX, 5.E ancor meglio : Ecco la creazione di
cui vi lamentate e che Dio stesso assume proponendovela, affinchè
sappiate che è buona e che dopo aver sofferto e subito l'umiliazione si
risuscita per una felicità senza fine.
Questo mistero non dimostra sovrabbondantemente il
valore dell'iniziativa soprannaturale e le ragioni per le quali Dio
permette il male? E' attraverso il Cristo che il cristiano più semplice
può elevarsi alla concezione dell'ordine eterno, di cui il bene è la
regola e il male è solo la triste condizione. « II Verbo si è fatto
carne, dice sant'Agostino, affinchè la vostra Saggezza, o Dio, con la
quale avete tutto creilo, diventasse il latte della nostra infanzia » 35.
35 Confessioni, VII,
C. XVIIL
Saggezza di Dio!, manifestata in Gallica in quelle
chiare parabole
Où le Maitre abaissé jusqu'au sens des hnmains
Faisait toucher le ciel aux plus petites mains *. *
[Nelle quali il Maestro abbassandosi al senso degli umani faceva toccare
il ciclo alle mani più piccole].
Senza Gesù Cristo come testimone ad un tempo del
dolore umano e dei suoi frutti, del suo significato spirituale e delle sue
grazie, le nostre speranze teoriche e le consolazioni che ci si rivolge in
nome della stessa fede, in nome dell'altra vita e dell'affermazione
paolina : « Le sofferenze di questo tempo non sono paragonabili
con la gloria che deve manifestarsi in noi »38 36
Rom., Vili, 18.rischierebbero di rimanere
lettera morta, di sembrarci persino una spaventosa ironia. Poiché alla
fine siffatta preparazione alla .felicità, predisposta da un Dio buono e
onnipotente, resta nonostante tutto un mistero terribile. Ci è caro
allora sapere che uno di noi, il •quale era in relazione personale con
il Mistero supremo ne ha portato la testimonianza nella carne, ha
accettato di subirne gli orrori, per meglio mostrarcene il carattere
benevolo con la sua resurrezione succeduta alla .sua croce.
Compagno di dolore e conduttore verso la vita etema,
tale è il Cristo consolatorc. E questa doppia qualità costituisce
una coppia, che gli è essenziale. Solo un consolatorc umano pronto
ad assomigliargli può rappresentarlo efficacemente accanto a noi.
E' un insegnamento, o fratelli nel sacerdozio e nell'apostolato !
Quando la ragione è ridotta a tacere davanti
all'eccesso del male, il Cristo può parlare.
Grazie al Cristo, l'amore di Dio per la sua creatura
non è più una conclusione filosofica o teologica derivata da principi
astratti, è un .fatto d'esperienza. « .Dio ha tanto amato il mondo
che ha dato per esso il suo unico Figlio » 37 37
Giov., m, 10..
Dio, Padre del Cristo sofferente può essere
altresì il Padre del mondo. Colui che acconsente a subire le
pretese anomalie di questo mondo può altresì averle istituite.
Come credere che Dio sia crudele o indifferente alla
sofferenza degli uomini se ha scelto, per mostrarsi agli uomini, il viso
del Crocifisso?
Dopo questo mezzo eroico per convincerci, che bisogno
c'è di darci —ragioni e quali diritto abbiamo di esigerle? L'Eterno
dell'Antica Legge-atterra il suo servo Giobbe con il solo spiegare al suo
sguardo la propria opera cosmica: la grande opera che si chiama
Incarnazione e Redenzione sarà meno potente su noi?
Dio sceglie di soffrire in Gesù Cristo come per farsi
perdonare di
-abbandonarci alla sofferenza. Si fa Redentore per
scusarsi d'essere stato
Creatore di una natura cosi facilmente peccatrice e
punita. Si getta nell'abisso dei mali in cui ci ha immerso.
Noi siamo i peccatori, egli ne porta le conseguenze. I
nostri peccati :sono i suoi ed egli li espia. Vive e muore per essi. A
causa di essi
ansima sui nostri cammini. Freme sull'orlo delle nostre
tombe38 38
Marco, XIV, 33-34.e teme
• disperatamente la propria39 39
( Giov., XI, 33.).
Urla, se si osa dire, il suo ultimo respiro, non l'ultimo, è vero, ma
quello che lo precede e che è l'ultimo della sua prova : « Dio mio.
Dio mio, perché mi hai abbandonato » 40. 40
Matteo, XXVII, 46.Soffre cosi fino al dubbio
orribile che uccide la nostra speranza:
Car il ne lui restait que le doute a souffrir, Cette
nuit de l'esprit qui doit aussi mourir41. 41
lamartine, Harnwnies poetigues, IV, Novissima verba. [Poiché non
gli restava •da soffrire che il dubbio, quella notte dello spirito che
deve pure morire].
Gesù ha dovuto mangiare intero il pane del
dolore, di cui noi rifiutiamo le briciole.
O Gesù, la vostra croce sarebbe una sfida alla
bellezza del mondo, il vostro dolore alla sua gioia? Quanti incoscienti lo
pretendono! Per noi, voi aggiungete alla gioia umana e alla bellezza
universale la suprema bellezza dell'amore, rispetto al quale niente vale.
Lo stesso Schopenhauer oppone al saggio razionalista,
stoico o altro, automa spirituale costruito in nome d'un fatto arbitrario,
irreale e cosi senza autentica poesia, un « Cristo salvatore, figura
ideale, esuberante di vita, di cosi ampia bellezza poetica e di cosi alto
significato, e che tuttavia, malgrado la sua perfetta virtù, la sua
santità, la sua altezza morale, vediamo esposto alle sofferenze più
crudeli»42. 42
II mondo come volontà e rappresentazione, 1. I, in fine.
Il Dio incarnato non teme più la sua sofferenza che la
nostra. La teme ancor molto meno, poiché è dottrina costante che, a
motivo dei caratteri e delle circostanze della sua umanità, egli ha
dovuto soffrire tìsicamente e soprattutto moralmente incomparabilmente
più di noi tutti. _ La sofferenza del Cristo non è stata una sofferenza
nobile, consolante-e gloriosa, bensì ignominiosa, disperata, bassa come
quella degli schiavi. Si è trattato di una sofferenza penale, essendo
Gesù stato fatto peccato per noi 43. 43
II Cor., V, 21.
Spesso si parla dell'Albero della croce con allusione
al Paradiso terrestre, e vi sono molte ragioni per parlare cosi. Ma non
bisogna dimenticare che la croce è un palo sinistro, senza fiori ne
frutti, senza fogliame protettore e senz'ombra propizia. Essere « alzato
da terra »44 44
Giov., XII, 32.
in questo modo non mette al riparo. La nudità del
patibolo risponde a quella dell'impiccato. L'una e l'altra non sono che
vergogna e dolore.
Gesù si è degnato di accogliere la sofferenza alla
maniera degli uomini che la temono e non degli eroi, che egli stesso
ispirerà. Ha voluto misericordiosamente allontanare il calice prima di
berlo. Cosi potrebbe presentarcelo con più comprensione e dolcezza.
Il Cristo basta a giustificare il mondo, e il peccato,
e il dolore, e la morte, e tutto. Tutto è bene, poiché Egli è. E
perché Egli fosse e fosse ciò che è, bisognava che tutto fosse e
che tutto fosse ciò che è.
Il pagano, quando soffre, crede volentieri che il suo
dio lo abbandona. Ricordandosi del Calvario, il cristiano pensa che il suo
Dio è più vicino a lui, che il suo Dio lo trascina per la mano, per la
nuca, per i capelli, che importa? Riconosce il Maestro da questa spieiata
dolcezza.
A partire dalla grande notte di Betlemme, « le nostre
tenebre sono sul punto di partorire stelle » '". 45
paul claudel, Sept grandes odes.
Col suo amore il Cristo ha messo fuoco alla terra, come
aveva promesso 46. 46
Luca, XII, 49.Il fuoco adesso cova, di tanto in
tanto manifestato da grandi splendori nelle grandi anime; ma un giorno
fiammeggerà tutta la creazione, e il vasto slancio della vita avrà in
esso il suo termine.
La miseria universale e la gioia universale si
concentrano nella sua miseria e nella sua gioia, e cosi si deve vedere il
mattino trionfale del terzo giorno come una vittoria universale.
I Faraoni hanno tentato di rendere immortale la morte
nelle loro piramidi e nei loro ipogei. Il Cristo è venuto a
ucciderla e ha reso immortale la vita.
La manifestazione di questa vittoria è si differita,
ma per il suo arricchimento e per consentire a nuove moltitudini di
aggregarvisi di età in età, fino alla fine dei tempi. Allora avrà luogo
la manifestazione. E' ciò che san Paolo esprime dicendo : « La
vostra vita è nascosta col Cristo m Dio. Quando il Cristo, la vostra
vita, apparirà, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria
» 47. 47
Coloss., Il, 4.
IV
IL MALE NELLA NATURA
. Nei capitoli precedenti abbiam detto tutto, e
potremmo chiudere il discorso. Parlando del male secondo la
generalità del suo concetto, l'abbiamo guardato dall'alto, sorvolando i
suoi domini e astenendoci d'atterrare su qualcuno di essi, per timore di
perdere di vista l'insieme. Tuttavia bisogna venire al particolare,
poiché la luce e le ombre in esso hanno i loro domicili preferiti e alla
fine è il concreto che giudica.
Per procedere ancora una volta dal generale al
particolare, dobbiamo studiare, prima della vita umana, che naturalmente
sarà il nostro principale oggetto, l'ambiente in cui essa si muove,
ambiente congiunto e che già la comprende, ma anche la supera,
cioè la natura.
Ciò che chiamiamo con questo nome si suddivide in
differenti regni,. che non cadono ex aequo sotto la nostra presente
considerazione. I nostri fratelli inferiori, come diciamo parlando degli
animali, hanno indubbiamente diritto alla nostra speciale attenzione,
soprattutto se è esatto che noi siamo della loro stirpe, parvenus,
ad opera di Dio è vero, dalla grande famiglia dei viventi, di cui i
vegetali stessi fanno parte umilmente e cosi magnificamente.
Non trascureremo questa gerarchia. Ma del resto
anzitutto c'importa l'insieme della natura, e almeno quanto all'apparenza
la sostanza morta che ne costituisce il fondo. La vita diffusa del globo
non è stata definita:
una muffa su una roccia? Per poco esatta che possa
essere tale definizione, la materia sussiste, e sarebbe scorretto
escluderla dai domini del male.
Anche le creature insensibili avendo una loro natura
hanno un loro destino. Se per se stesse sono insensibili, osserva Leibniz,
Dio è sensibile per esse, e sappiamo che il bene dell'universo è
un'integrazione, che tutti gli ordini del bene si sostengono l'un l'altro
e concorrono alla perfezione l'uno dell'altro; che la vita umana in
particolare dipende in molte cose» e anche moralmente, dalle disposizioni
favorevoli o ostili della natura-ambiente, in tutti i suoi regni e in
tutte le sue evoluzioni.
Ciò che chiamiamo i disordini della natura riguarda
più spesso le sofferenze e le molestie che la natura ci infligge,
e il problema del male allora si trova ricondotto dalla natura
all'uomo. Ma per il filosofo non è cosi. Dal momento che si riconoscono,
dicevamo, esseri naturali aventi una propria essenza, si deve riconoscere
loro una specie di destino, che può essere favorito o turbato, uno stato
di fatto normale o no, che in quest'ultimo caso ha il carattere d'un male.
Ciò è vero soprattutto per gli esseri viventi, ma non
è questa una ragione per disconoscerlo là dove le condizioni sono
analoghe, se non simili. In un certo modo tutto vive. Nelle stesse
sostanze inorganiche c'è un'attività analoga a quella della vita,
benché non assuma la forma cellulare o protoplasmica propria
dell'organismo vegetale o animale. Non ne sono un segno sorprendente i
cristalli, che in qualche modo si nutrono e si rigenerano da sé nella
loro soluzione, come i tessuti animali nel sangue? I metalli e le loro
leghe sono sede d'attività, che lord Kelvin ha interpretato come fenomeni
biologici, fino a parlare di invecchiamento, di fatica, di difesa contro i
fenomeni morbosi di cui sono teatro. Gerolamo Cardano ha fatto le stesse
osservazioni sulle pietre preziose. Attribuisce loro una lenta morte, che
ritiene non esente da sofferenza. Tutto muore, e tra un acido che intacca
il ferro e un lupo che divora una pecora la differenza non è poi tanto
essenziale.
In maniera generale, c'è una concezione quasi
biologica della natura che noi crediamo la vera. Se su questo punto
Descartes suppone ad Aristotele in nome del suo spirito matematico e della
sua materia pura «stensione, non è forse un bene; Lachelier lo Biasimava
per ciò, nonostante i rilevanti vantaggi per ciò che concerne la scienza
sperimentale,
Nonostante il sistema professato, nessuno si rifiuterà
di ammettere che le alterazioni d'ogni specie alle quali è soggetta la
natura delle cose,_ le difformità, i cataclismi, i mostri rivestono il
carattere d'un male per i soggetti o gli insiemi armoniosi che essi
colpiscono. C'è male ovunque c'è bene. C'è bene ovunque v'è finalità,
ricerca d'un risultato, d'un •equilibrio di elementi, d'una struttura
definita. Un essere non è appunto ciò?
Anche gli antichi dicevano che l'essere, l'uno e il
bene coincidono. Chiunque produce qualche cosa di definito attua un bene.
Chiunque lo distrugge causa un male opposto a questo bene. Ciò basta per
affermare che la natura è piena di mali, per il fatto che è piena di
beni, che possono essere alterati dal suo stesso funzionamento.
Uno sguardo troppo umano
Il nostro primo sguardo sulla natura è quasi sempre
antropomorfico, influenzato com'è dal nostro interesse vitale, diciamo
dal nostro egoismo istintivo. Abbiamo già rilevato questa tendenza a
chiamare cattivo ciò che mette in pericolo il nostro interesse o le
nostre comodità, e a maggior ragione la nostra vita. Per questo è
accaduto che anche pensatori, come Swedenborg, abbiano considerato gli
esseri nocivi all'uomo : tigri, serpenti, coccodrilli, insetti noiosi o
dannosi, piante velenose o veleni minerali come estranei alla prima
creazione divina, «provenuti dall'inferno»,
piuttosto, o effetti del peccato originale.
Quest'ultimo teorico non arriva al punto di attribuire
agli animali e alle piante una specie di libero arbitrio, col quale
possono volgere al male e diventare nocivi, le piante velenose ad esempio
utilizzando le radiazioni solari per comporre tossine anziché sostanze
benefiche o nutritive?
Simili fantasticherie non dovrebbero avere presa su uno
spirito serio. Il bene e il male della natura non devono essere
considerati dapprima quod nos, ma in loro stessi. La « sporca
pulce » o l'« ignobile ragno », lo scorpione e il serpente sono in sé
creature mirabili, e il loro rapporto con noi viene naturalmente in
considerazione a suo luogo, ma non deve impedirci di considerare il bene
loro proprio come quello di tutti gli •esseri, e cosi il male che gli
corrisponde.
Gli eroi primitivi, come Ercole, volevano liberare la
terra dai mostri dannosi, e sotto questo riguardo avevano ragione. Oggi
invece si protegge la razza dei mostri minacciati di estinzione, poiché
si riconosce, con il male che provocano, il loro valore nella scala della
creazione.
Due aspetti della natura
Posto ciò, gettiamo sulla natura uno sguardo d'insieme
e chiediamoci, dal punto di vista del nostro problema, quale spettacolo ci
offre.
Possono essere disegnati due quadri ben diversi. Nei
poeti, la cui testimonianza su questo punto è più sorprendente, questi
due quadri s'oppongono senza cercare di conciliarsi ; entrambi sono
assoluti nel loro senso. E' l'orrore; è l'estasi. E' lo stordimento
nell'ammirazione, ed è la mano che copre gli occhi per non più vedere.
Non è difficile immaginare l'idillio e la grandezza
può sfuggire solo alle anime basse. « II fiorito lavoro della campagna
», come dice Rimbaud, non seduce, non rapisce? La prateria e i campi, che
sanno tanti poemi, ce li smerciano di stagione in stagione, e ci
incantano.
Inutile guardare il cielo : un fiore vale una stella.
Un amore attonito può nascere a ogni svolta nel parco familiare in cui
tutto è sulla nostra misura, dove basta un'alba ancora dormiente, un
tramonto o un riflesso di luna su una betulla per provocare la
nostra emozione. E tutto ciò che passa in noi di questa multiforme
realtà in un istante di sogno, non è come un volo intcriore di
nubi e di uccelli?
Com'è bella una natura benevola riflessa in un'anima
d'uomo!
Se ci si trova in questo stato d'animo, gli aspetti
terribili della creazione non ci danno più un'impressione di pessimismo,
ma di grandezza.
Mi ricordo d'una tempesta in un mattino di primavera a
Biarritz. Sotto un sole raggiante ondate gigantesche scalavano le muraglie
rocciose con una violenza terrificante e splendida : l'Eroica
eseguita dall'oceano incollerito. Era bello. Ma sulla linea
dell'orizzonte, laggiù, forse un povero guscio di noce lottava
disperatamente contro le onde. E se la mente si volgeva ad esso, i furori
del mare non potevano non richiamare al pensiero un altro aspetto delle
cose: ricordo dei cataclismi che in tempi successivi hanno sconvolto il
nostro globo, ribaltato continenti abitati e. di un rigoglio
di vita fatto vaste necropoli.
La natura fa e disfa; costruisce per la rovina'e
trionfa per il disastro-Quando ha pazientemente edificato una architettura
meravigliosa, dice; adesso, rovina!, e non resta più niente di ciò che
aveva innalzato.
Ma soprattutto nel dominio della vita si mostra il lato
ambiguo e terribile della natura. L'assassinio è il suo unico mezzo
d'esistenza. La « mer mélée au soleil » di Rimbaud copre
combattimenti, il cui pensiero fa fremere. Fendendo l'aria, il caprimulgo
assorbe migliala d'esistenze e il bue, col suo passo tranquillo, ne
schiaccia altre migliaio. Nella pace delle foreste s'accumulano montagne
di resti per la nascita di nuovi rami e la belva tende l'agguato per il
nutrimento dei suoi piccoli.
Sarebbe a non finire l'evocazione di tutti gli esseri
costretti dalla fame o dalla voce della specie ad assalirsi o a divorarsi
tranquillamente, cosi come si scambiano servizi. Poeticamente diciamo :
Dio da il nutrimento ai piccoli degli uccelli. Ma quale nutrimento? Vermi
palpitanti, E l'astore spia questi piccoli sazi e cantanti. L'animale da
preda è un baratro che si aggira malintenzionato. E quale animale non è
predatore? Il sangue della pecora è come latte nel corpo del lupacchiotto;
ma anche per l'agnello mille incantevoli fiori son dovuti scomparire, e
montoni furiosi hanno cercato di sfondarsi il cranio alla presenza di una
femmina dal dolce vello.
Generalizzate e componete un quadro d'insieme. Il tempo
: una metamorfosi a base di distruzione permanente. Lo spazio : una strage
infinita. E' senza dubbio questo spettacolo che ha ispirato alle religioni
primitive l'idea di divinità truci, ad un tempo capricciose e assetate di
sangue.
Allora, ci si rivolta e si dice, ricordandosi degli
entusiasmi di ieri:
La nature trahit nos yeux par ses merveilles2.
2 lamartine, Harmonies
poétiques. III, Le tombeau d'une mère. [La natura tradisce i nostri
occhi con le sue meraviglie].
Ci si illudeva. Tutti questi esseri lanciati loro
malgrado all'assalto gli uni degli altri; tutti questi denti che sono
zanne; tutti questi ventri che sono voragini; ovunque la fame torturante,
e ovunque pure a lato dell'amore la morte che spia : questo era il nostro
idillio ! In questa campagna percorsa sognando, la minaccia è ovunque e
ovunque la pace trema. Angelus della sera, chi sei? Lugubre rintocco che
pretende a essere un richiamo alla pace di ogni creatura! E' il tuo
Signore che ha detto : Amatevi gli uni gli altri3 3
Giov., XV, 12, 14.
. Ma precedentemente il
Creatore non aveva detto ai rappresentanti di tutta la gerarchia vivente :
Mangiatevi gli uni gli altri? Ed è per sua disposizione — o
Provvidenza! — che l'erba mangia il minerale sotto la terra, l'animale
mangia l'erba e sarà un giorno la preda del suo simile o quella degli
uomini. Tutto cosi è battaglia sotto i cieli.
Lucrezio, come si è visto, si è compiaciuto di
descrivere questi spettacoli, e ne ha concluso che la natura non potrebbe
essere opera degli dei. Molti lo hanno seguito e si sono elevati, in nome
di tutto questo male, contro la Provvidenza. Il cristiano che dirà? Chi
ha ragione, san Francesco che intona il Cantico delle creature o
Schopenhauer che vede il mondo in preda a una volontà di male?
Ancora il peccato originale
Ci si ricordava poco fa il peccato originale, e abbiamo
visto Renouvier far risalire a questo punto di caduta divenuto punto di
partenza tutto -ciò che, nella natura, ci offende. I Padri della Chiesa,
senza cadere in questi eccessi assurdi, hanno creduto spesso a una
responsabilità della creatura ragionevole in tutto questo male che la
circonda e la minaccia. Jn questo caso, quando sparliamo della natura,
avremmo motivo di riportare su noi stessi i rimproveri che le facciamo.
Che pensare? — Rinunciamo a enumerare qui un parere
che sarebbe necessariamente incerto. La natura è ciò che è : splendida
e crudele, miracolosa di potenza e di ingegno, e con ciò disdegnosa di
ciò che fa, distruttrice quanto sapiente architetto. Meglio partire da
qui per «cercare di comprendere. Dopo tutto, il peccato originale è cosa
passata.
L'argomento della bellezza
Riconsideriamo le lamentele enunciate, le testimonianze
d'ammirazione proclamate a gran voce dalle due parti, e cerchiamo di fare
il punto, se siffatta pretesa non è tracotante.
Anzitutto, la bellezza della natura, che nessuno
contesta, non è un argomento valido in favore della sua bontà essenziale
e del risultato sfavorevole, che ci si può aspettare dal suo lavoro? La
bellezza è una risultante. Essa testimonia di un'armonia interiore, che a
sua volta fa presagire fini felici. Il bello e il bene sono fratelli.
Quando sono separati, è a motivo di deviazioni accidentali che coprono ma
non aboliscono il senso profondo delle cose e la tendenza dell'armonioso
verso il benefico, di cui Ravaisson ci ha dato con convincente fervore la
teoria: Homme, ne craihs rien; la nature Sait le grand secret et sourit4.
4 V. Huco, Les Rayons et
les Ombres, Spectacle rassurant. tUomo, non temere nulla; la natura sa
il gran segreto e sorride].
Questo sorriso della natura, non è la sua bellezza?
Avvertimento •segreto, destinato a prevenire il nostro errore,e a
calmare i nostri timori. Ciò che è di aspetto incantevole e esaltante
non può essere cattivo nel suo germe. E' felice lo slancio che si
manifesta in forme belle e in ritmi seducenti. E qui sono forse le realtà
più modeste che hanno più significato poiché non vi si scopre nessuna
ostentazione. Una margheritina vi è più eloquente d'una costellazione.
Più vicina alle sorgenti che ci sono accessibili, la realtà umile le
discopre meglio, dopo che i grandi splendori — potenza degli oceani,
bellezza del cielo, silenzio commovente delle montagne — ci hanno aperto
ai veri sentimenti. Bisogna cadere dall'alto sulle cose più umili per
giudicare la grandezza della loro semplicità. La grande semplicità
estetica è la verità ed è la bontà promessa.
Inoltre, è ovunque, nel grande e nel piccolo, che
s'impone la stessa legge. Perché la natura canta negli uccelli e saltella
con i capretti e le gazzelle, e perché prorompe in petali nei boschetti e
nel cielo in astri cosi calmi, se ovunque non respira che orrore? La
natura è fondamentalmente gioia ; solo accidentalmente è dolore e morte.
Lo sentiamo quando il nostro sogno, approfondendosi e sorpassando la zona
delle laidezze, dei difetti e delle minacce, ritiene di essere veramente
in contatto con il reale. Ciò che allora domina, è il sentimento della
pace-e della fiducia. La meraviglia, nel senso forte della parola è ciò
che resta di quanto ci aveva terrificati.
I difetti della natura
Parliamo di difetti: è la prima forma del male nel
lavorio sorprendente della natura. Si possono scorgere ovunque queste
deviazioni dello slancio creatore, che sono come i peccati della materia,
i suoi scarti, talvolta le sue mostruosità. Non bisogna però
dimenticare, e tanto meno misconoscere, che in ciò più che altrove si
manifesta Io sforzo iniziale,. che non ha potuto mantenersi fino in fondo.
Geoffroy Saint-Hilaire si è dedicato su questo punto
ad analisi penetranti, mettendo in rilievo che un'attività di
compensazione è subito iniziata dallo slancio vitale a partire dal
momento che l'attività normale è turbata in un punto. Si tratta di
ristabilire l'equilibrio, di utilizzare nel miglior modo l'accidente
deformatore per mezzo di ciò che lo scienziato chiama un « equilibrio
degli organi ». Quali prodigi la natura compie in questo senso.
Ci si ricorda la boutade di quel predicatore, il
quale, avendo dichiarato nel suo sermone che la Provvidenza fa bene ogni
cosa/vede arrivare in sagrestia un gobbo che gli chiede: «E io? — Voi,
amico mio, come gobbo siete assai ben fatto ». La facezia va assai più
lontano che non si creda. Una colonna vertebrale deviata potrebbe essere
un accidente-mortale. Il male è stato arrestato, stabilizzato in virtù
di quella idea, direttrice della vita di cui Claude Bernard ha
cantato le lodi.
E' la stessa possibilità dell'accidente, osserva un
pensatore, che costituisce la perfezione della macchina vivente. « Se
l'occhio fosse costruito come uno strumento di ottica meccanica, non
potrebbe funzionare; se-la circolazione fosse regolata come un orologio,
sarebbe presto guasta » s-
Pensées. Gennain Baillière,
1937.
Ciò che si chiama imperfezione è qui elasticità,
prontezza d'adattamento ed è uno dei segreti più felici della natura. «
Se la natura si adatta presto al mostruoso, osservano in comune Paul
Vignori e Cuénot " * ltjcien
cuenot, Invention et finalité en biologie, p. 145.,
si è che le sue leggi generali vi sono soddisfatte quanto altrove; si è
che la possibilità di questi falliti è indispensabile al suo stesso
funzionamento normale ».
Basta un po' di riflessione, per rendersi conto
che una meccanica precisa, funzionante micrometricamente come
occorrerebbe, non potrebbe prestarsi agli scambi infinitamente complessi
di attività donde risulta la vita, neppure potrebbe derivarne. Cosi è
solo per boutade che uno scienziato ha potuto dire : « Se il mio
ottico mi portasse uno strumento d'ottica costruito come un occhio, non lo
accetterei ». Presa alla lettera, l'affermazione è fondata; ma
l'intenzione critica sottintesa è assurda.
C'è sempre l'argomento dell'onnipotenza di Dio, che,
si dice, avrebbe potuto accomodare tutto, eliminare l'accidente e
mantenere il beneficio. Ma abbiamo già risposto con Bergson che
l'onnipotenza non include il contradditorio; che le grandi leggi
costruttive del mondo, per pervenire alla ricchezza di combinazioni che
era nel piano creatore, dovevano avere abbastanza giucco per permettere
interferenze produttrici di approssimazioni, di difformità locali,
persino di mostri. Di modo che queste irregolarità, questi scacchi della
finalità creatrice non sono disordini rispetto al tutto. Sono il
risultato di leggi generali, che si applicano favorevolmente cosi com'è
possibile nell'insieme, soprattutto se si tiene presente l'ipotesi
dell'evoluzione. Non è attraverso ogni specie di circostanze accidentali
che le vie della potenza creatrice hanno probabilità di incontrare felici
invenzioni e fruttuosi progressi?
A questo riguardo e a questo livello di generalità,
che si deve considerare se si vuole pronunciare un giudizio equo, Andre
Suarès ha ragione di dire : « Tutti i mostri sono nella natura. Tutti i
cancri sono forze sane per le cellule del tumore. La contro-natura è
natura come il resto. E tutto è legittimo e giustificato da Dio. Poiché
tutto è in Dio e da lui » 7.
7 Valews, p. 344.
I cataclismi
Si vogliono rimproverare alla natura le sue
rivoluzioni, che periodi-camente provocano sconvolgimenti e cataclismi?
Inondazioni, terremoti, inghiottimento d'isole, progresso di ghiacciai,
diluvi, che hanno lasciato nella storia tante tracce del loro terrore : ci
lamentiamo di ciò quando ne soffriamo; poemi lamentosi come quello di
Voltaire sul terremoto di Lisbona sono l'eco di queste lagnanze. Ma non è
proprio a queste rivoluzioni e alla loro successione nel corso delle ere
geologiche che dobbiamo l'attuale equilibrio del nostro habitat e
le possibilità di vita e di civiltà che ci offre? Il principio di
distruzione è ovunque correlativo al principio di costruzione. E'
vero dei continenti, dei siti e degli habitat umani come degli individui
viventi che la morte dell'uno è la generazione dell'altro. Di modo che
lamentandoci perché la natura si muove e muovendosi ci scompiglia, ci
lamentiamo semplicemente d'esistere.
E' penoso sotto più d'un aspetto constatare che questa
mirabile « macchina tonda », oggetto di una forma d'adorazione da parte
di coloro che la osservano — si pensi a Pietro Termier, a Humboldt, a
Buffon — sembra occupata, di età in età, solo a combattere la propria
bellezza. Ma il fatto è che essa ne ha di ricambio; che le innovazioni
cosi effettuate, in continuazione coll'impastamento primitivo del nostro
pianeta, del nostro sistema solare, della nostra galassia, del sistema
sconosciuto di cui fa parte lo sciame delle nebulose spirali, sono il
mezzo per lo schiudersi della nostra umanità e di quella di tutti i
mondi.
Se sapessimo vedere in grande, saremmo meravigliati di
questo lavoro, anche se un giorno dovesse colpirci. Lo stato
d'instabilità nel quale ci mantiene è la condizione generale
della vita del tempo. Chiediamo che si sopprima il tempo? Si,
sogniamo l'eternità, la stabilità, la sicurezza; ma è un bene
che di tanto in tanto la terra scossa ci avverta che non < ancora il
momento.
La strage
Ciò che poco fa ci spaventava non era tanto la
constatazione dei
•disordini particolari, dei difetti, degli accidenti,
quanto quella della strage terribile istituita come legge della vita,
della carneficina generalizzata, <lella morte signora universale.
Le destili dévorant, sourd comme l'onde amère,
Engloutit en son temps toute chose éphémère8.
Questa è la legge del tutto, e per la nostra
sensibilità la sua applicazione al mondo vivente è una prova
difficilmente sopportabile, una volta scortala chiaramente.
Ciò è tanto più vero in quanto il dominio cui si
applica questa legge è smisuratamente esteso, in tutte le direzioni della
nostra dimora. Si direbbe che l'intero globo vibri e palpiti sotto
l'irraggiamento del sole. « La natura è piena d'anima » diceva
Aristotele e c'è proprio come un'anima della terra, per il fatto che
questi milioni di specie e questi innumerevoli viventi che sul suolo e
nelle sue profondità, nei mari, nell'aria, negli stessi tessuti delle
piante e degli animali pullulano, soffrono e muoiono, si nutrorio gli uni
degli altri con un'innocenza spaventosa.
Quando i poeti parlano di questo spettacolo, Io
fanno ora con una brutalità di esseri offesi, ora con un'ironia
crudele.
Chaque vivante promène, écrit sur sa macboire, L'arrét
de inort d'un autre exigé par sa faim,
8 leconte
de lisle, Poèmes an.tiqu.es, Khiron. [Il destino divoratore, sordo
come Fonda amare inghiotte nel suo tempo ogni cosa effìmera].
dice Sully Prudhomme ". 9
Destina. [Ogni vivente porta attorno, scritto sulla mascella, la
sentenza di morte d'un altro richiesta dalla sua fame].
E Hugo, beffardo: La vie est une joie où le meurtre
fourmille, Et la création se dévore en famille10. x0
La Legende des Siecles, L'epopèe du ver. [La vita è una gioia in
cui l'assassinio brulica e la creazione si divora in famiglia].
Tuttavia bisogna considerare ragionevolmente, se non
freddamente, questa condizione della natura, che si ricongiunge alle
nostre considerazioni anteriori con nessi, di cui dobbiamo
sottolineare l'evidenza.
Per ciò che con cerne la natura generale, siamo
fissati. Le gerarchie dell'essere, in accordo con le finalità prime della
creazione; le diversità, madri di ineluttabili opposizioni; i dinamismi
misurati dal tempo —, tempo astrale per l'insieme, tempo proprio a
ciascun mobile vivente o insensibile —, ciò preso nel suo tutto e
nell'evoluzione secolare di questo tutto, non può dar luogo ad altro
universo che a quello che ci abbaglia e nello stesso tempo ci offende.
Bisogna decidersi sulla base di ciò che è, cui nessun pensiero saprebbe
sostituire niente di valido.
Ma è certo che venendo al concreto, soprattutto nel
dominio della vita che ci tocca da vicino e mette in guardia la nostra
sensibilità, come una corda vibrante ne eccita subito un'altra, è
difficile acquietarsi dopo aver abbracciato l'ampiezza del male,
delle stragi della morte.
Tuttavia c'è una verità che, una volta constatata,
diminuisce lo scandalo, orientando la mente verso i fini realmente
considerati da questa natura apparentemente crudele. .Tutto tende solo
alla_vita. Nessuna attività della natura ha la minima intenzione
distruggitrice. Essa cammina; ma il calpestamento dell'erba d'un sentiero
è nelle intenzioni di chi cammina? Un universo in cui tutto muore è pure
un universo in cui tutto nasce. Su tutta la distesa del pianeta, la morte
non fa che alimentare la vita.
Si dirà al contrario che la vita non serve che ad
approvvigionare la morte? Lo si dice; ma è un capovolgimento dei fini, e
il filosofo protesta. La morte è un risultato ; ma la vita è una
tendenza, ed è altra cosa. « La natura s'interessa a tutto ad un tempo,
scrive Lachelier. Vuole la conservazione del montone in quanto s'interessa
del montone, e che il lupo mangi il montone in quanto s'interessa
del lupo » ". 11
Cfr. gabriel seailles, La philosophie de Jules Lachelier, p.
133.E l'unità di ciò? L'ordine, e l'ordine
dell'avvenire è il progresso. Niente tende alla morte.
Tonte sa prévoyance est pour ce qui va naitre,
dice della natura l'Ackermann 12 12
Poèmes philosophiques, IV, IIL [La sua previdenza è tutta per
ciò che deve nascere].. Il suo anno è lungo ; essa
può seppellire tante cose quante sono necessarie per liberare il suolo e
fecondarlo in vista della prossima stagione. Indifferente al passato come
tale, la si vede distendersi nel presente e dispensare in favore
dell'avvenire il suo fuoco segreto. Per opera sua, il più piccolo filo
d'erba si slancia come se dovesse trapassare il cielo. La vita ardente e
la morte impassibile fanno parte entrambe del suo vigore creatore. Il
punto morto della biella costituisce una fase del suo movimento, e il nodo
di vibrazione d'una corda sonora è pure vibrazione. Cosi la vita e la
morte integrano quasi indifferentemente la grande vita della natura.
E' per questo, forse, che presso i popoli in cui l'idea
della sopravvivenza era debole, si scolpivano sui sarcofagi immagini di
vita ardente e di generazione. Si ristabiliva cosi nel pensiero la
continuità umana, la sintesi che tendeva a distruggere l'impressione
troppo viva della morte.
Continuità, unità, attraverso cadute e
raddrizzamenti: questo è il ritmo alterno con sistole e diastole,
inspirazione ed espirazione nella colata della vita. L'uomo alla sera
s'addormenta tranquillamente, dopo aver provveduto al proprio domani :
l'insetto, l'uccello muoiono dopo aver organizzato il dischiudimento delle
loro uova e dei loro piccoli per la stagione successiva.
L'aloe d'America, che può diventare centenario,
perisce inevitabilmente entro l’anno, se ha fruttificato. La farfalla,
dopo l'amore, perde le ali e la vita l'abbandona. Alcune specie di
ortotteri sono sacrificati dalle loro femmine nel corso del
congiungimento, e tutti s'affannano a preparare il nido e il coperto alla
loro progenitura, che spesso non vedranno.
Ogni creatura vivente aspira alla propria morte, dice
Leonardo da Vinci. Intende che aspira a sopravvivere a se stessa, alla
sopravvivenza in un altro alla quale è congiunta la necessità della
morte. Sacrificio spontaneo, benché non volontario; sacrificio che è
implicato nello stesso slancio vitale, poiché questo passa di germe in
germe, l'individuo essendo tra i due solo una manifestazione transitoria:
La fieur des champs entr'ouverte a l'aurore Voyant sur
la pelouse une autre fleur éclore, S'inclino sans munnure et tombe avec
la nuit13. 13
alfred de musset, La nuit S'ao&t. [Il fiore dei campi socchiuso
all'aurora vedendo sul prato dischiudersi un altro fiore, si piega
silenzioso e cade con la notte].
La morte dell'animale o del vegetale è decisa nel
momento Stesso della sua nascita, l'una e l'altra essendo necessario alla
manifestazione e alla propagazione della specie. La parte è per il tutto,
sia per integrarlo o per conservargli la sua misura. La prima parte è
compiuta dalla vita dell'individuo, la seconda dalla sua morte.
Altrettanto è della specie, che è pure destinata a morire. La natura la
sacrifica in favore dello slancio vitale generale, che è più preziosa di
essa, cosi com'essa è più preziosa di qualsiasi dei suoi individui.
Sotto un certo rispetto, non si potrebbe anche dire che
gli individui sopravvivono a se stessi, pur cedendo il posto? « Desinunt
ista, non pereunt », dice Seneca. Ritornano alla potenza universale
in cui erano già prima di nascere : quo non nata jacent14.
14
seneca, Lue., IV.
Nulla s'annienta. E' in Dio medesimo, in fondo, che
tutto si dissolve e si riforma. Per morire come per vivere le sue creature
non sfuggono al suo seno, e sono eternamente in lui come non sono mai
state in se stesse. Ciascuna non è che una volta, una sola e non ritorna
più. Ma che una volta sia stata, ciò non è più reversibile. In se
stessa, la durata passa; ma in Dio e nei suoi eletti, perdura. Niente di
ciò che sarà stato non sarà veramente perito.
In ogni caso, fin d'ora, il dolore e la morte non sono
che la scia lasciata dietro a sé dall'avanzamento della vita. E se si
sogna che il propulsore della vita sia l'amore, si deve comprendere che,
senza il dolore e la morte, l'amore non sarebbe mai comparso sulla terra.
Confucio, che era lungi dal saperne tanto quanto noi in
proposito, vedeva anch'egli in ciò un benefico prodigio. « Ecco, diceva,
ciò che fa la grandezza del ciclo e della terra » 15 15
/; Giusto Mezzo, cap. XXX.. Ed ecco
dunque pure, interpretato nel suo alto significato, un segno di Dio. La
morte degli esseri era per lui, come Creatore, la condizione dell'ordine
della natura nel tempo, cosi come la loro diversità, che abbiamo cercato
di difendere, era la condizione dell'ordine della natura nello spazio.
Sembra che il Creatore si sia detto, come scrive uno dei suoi aedi :
Soyons prodigue de la vie,
Et que la mort la multiplie
Par un retour perpétuel
Du froid sépulcre a la lumière,
Comme un jet d'eau tombe en poussière
Pour rejaillir du marbré au ciel16.
16
sclly pbudhomme, Les Destins. [Siamo prodighi della vita e che la
morte la moltiplichi con un ritorno perpetuo dal freddo sepolcro alla
luce, come un getto d'acqua cade in polvere per risorgere dal inarmo al
cielo].
Un siffatto discorso non è arbitrario. Non c'è in
esso capriccio, come pretendono teste leggere. Si tratta di procurare una
somma di vita grazie alla quale possa a poco a poco operarsi una
selezione, io spirito crescere e il cosmo aumentare di valore fino a
produrre con Dio colui che deve realizzare la sua apoteosi. L'uomo è il
frutto del lavoro di filtrazione compiuto dallo sforzo delle generazioni;
non sta bene dunque dirne male.
L'uomo può assaporare
L'infini de la vie éphémère et profonde17,
17
feknand grech, La Chaìne étemelle. L'infini quotidien.
[L'infinito della vita effimera e profonda]. e
ha tutto ciò che occorre per portarla a termine. Qual termine? — A
questo punto tutto può illuminarsi. Secondo Aristotele, ogni animale
confrontato all'uomo è una specie di mostro, tutto il movimento generale
della natura è teso verso l'umanità. A sua volta. Augusto Comte dirà :
« Ogni specie si riduce in fondo a un essere umano più o meno abortito
». Poiché l'aborto è vinto e l'uomo sussiste, possiamo, voltandoci in
due sensi, considerare l'intero corso della genesi vitale sul globo. La
pianta ha tratto la linfa dai succhi della terra, il mammifero il latte;
l'uomo si è innalzato allo spirito, e non è nel disegno che tutto
finisca cosi- Pensando a Dio, l'uomo già chiude il cerchio, terminando
là donde tutto viene. E se un giorno perviene a Dio effettivamente,
intimamente, dilatandosi nell'Infinito che già s'era come frammentato nel
mondo, non sarà tutto giustificato?
Niente può interamente giustificare alcunché
nell'universo, se non l'universo stesso. Ma l'universo esiste, e al
termine di tutte le notti che oscurano i suoi giorni, c'è la grande
aurora. Per questa grande opera occorrevano molte vite e morti, molte
costruzioni e distruzioni. Non che Dio non potesse attuare tutto ciò per
prima cosa, farlo dischiudere d'un colpo. Ma abbiamo già più volte detto
che l'autonomia creata doveva essa stessa per opera di Dio attuare
gloriosamente ciò che Dio aveva voluto per essa. L'autonomia della
creatura è il capolavoro del Creatore e la maggior prova della sua
magnificenza.
Per tutto questo gran movimento e questi sconvolgimenti
intestini : . vita, morte, costruzioni, distruzioni e costruzioni ancora,
l'universo è opera dell'universo nello stesso tempo che un'opera divina.
Per la vita e anche per la morte, per le sue fatiche e per le sue prove,
l'uomo è opera dell'uomo con il concorso dei poteri divini. Non è ciò
bello e grande? Non consente ciò di trasferire a beneficio dell'opera
universale queste parole riferite al Cristo, che ne è garante : « La
Morte è stata inghiottita nella vittoria. Dov'è, o Morte, la tua
vittoria? Dov'è, o Morte il tuo aculeo?» (Cor., XV, 54-55).
La testimonianza della fede
E' credenza incrollabile del cristiano — ipotesi
salvifica proposta allo stesso non credente — che la salvezza universale
è al termine di tutto ciò che ci sembra disordinato e lugubre; che ogni
coscienza retta ne può avere il beneficio; che i nuovi deli e la nuova
terra rappresentano l'ultimo equilibrio cui tendono tutte le
trasformazioni del presente ; che qui si tratta di una ricerca, non di un
termine; che la natura ancor caotica e non sviluppata che sì chiama cosmo,
cioè ordine, è cosi chiamata J^Qlp_pJir_Jinticij3azione, e che
non si deve perciò giudicarne legger-mente, come se si volesse dare un
senso a una iscrizione prima che sia stato letto il verbo determinante.
C'è un verbo dell'iscrizione universale. Ci sarà
rivelato nel suo senso preciso solo l'ultimo giorno, ma sappiamo che
esprime il Perfetto. E certamente questo Perfetto è già inscritto nella
ricerca, come il risultato d'un calcolo nei suoi termini; ma come leggere
questa equazione? E' questione di fiducia. Questione di certezza a
priori fondata su Dio e gli attributi di Dio, come diceva Leibniz.
Abbiamo già detto tutto ciò; ma non si potrebbe
ripeterlo troppo.
Tutt' altro è lo sguardo, quando si sa che sotto il
velo mutevole delle apparenze mortali il destino persegue il suo corso
immutabile.
Perché meravigliarsi, dopo tutto, che il vero ordine
della natura, che e il suo ordine futuro, abbia bisogno per attuarsi della
relativa confusione attuale? L'embrione umano forse che assomiglia a un
efebo o a una fanciulla sviluppata? Non è confusione, in
attesa della differenziazione e della sintesi?
La natura generale si nutre di tutto ciò che muore
come di tutto ciò che nasce; alimenta la sua attività perpetua con tutti
gli sbocci come con tutte le cadute, con le formazioni come con le
deformazioni che per essa sono tutte rette, esprimendo sempre le proprie
leggi, riferendosi sempre ai propri fini e tramite i propri fini, già
ampi, al Fine supremo.
Quando il poeta si domanda ansioso :
Que peut étre, après tout, le but de tout ceci?18
is victor Huco, Les Feuilles d'Antonine, Ce qu'on entend sur la
montagne. [Quale può essere, infine, lo scopo di tutto ciò?].
il cristiano sa la risposta, e questa risposta vale
tanto per il male quanto per il bene. La natura ha una vocazione, in
accordo con quella delle anime. Si può ritenere che questi due fatti si
sviluppino parallelamente, nel senso che il cosmo matura e progredisce
verso il suo equilibrio finale di mano in mano che il cielo si popola di
eletti schiudentisi nei suoi domini mutevoli. Non c'è in ciò necessità;
ma vi è soddisfacente l'armonia del piano. Allo stesso modo che nel corso
dei periodi geologici l'evoluzione della vita preparava l'ominizzazione e
ne determinava l'ora, benché non potesse effettuarla da sola: cosi,
forse, e normalmente a colpo sicuro, l'evoluzione universale può
preparare, col suo compimento, la parusia annunciata dal Cristo.
Ciò che è certo, per testimonianza dell'Apostolo, è
che « tutte le creature insieme sospirano, e sono nel dolore del parto
». « Poiché questo mondo creato sta alle vedette, aspettando la
manifestazione dei figliuoli di Dio... con la speranza tuttavia che
anch'esso sarà reso libero dalla .servitù della corruzione alla libertà
della gloria dei figliuoli di Dio»19._
19 Rom., Vili, 22, 21.
L'universo deve compiersi in valore come tutto ciò che
ha percorso il suo ciclo. Per esso come per noi sarà infine
la vera vita, l'ultima forma acquisita, la gerarchla di tutti i valori
fondata, l'attività universale lanciata sulla sua vita definitiva, che
non è più un tentativo cosi spesso combattuto, un'iniziativa spesso
opposta a se stessa, ma l'esercizio armonioso di poteri pienamente
svolti, verso oggetti anch'essi integri e che non si rifiutano.
La polvere astrale che naviga nel firmamento non è
forse il seme di quest'ultima fioritura, come un polline splendente? Come
la polvere dei morti deve lasciar il posto a un'umanità eternamente
vivente; come le umanità disperse, se esistono, devono raccogliersi in
una sola famiglia in Dio; cosi alla dispersione dei mondi vorticosi
succederà senza dubbio un'unità sublime costituita sotto il segno dello
spirito, per lo spirito, forse ad opera dello spirito, e rivelante
per sempre, per gli occhi aperti di tutti gli eletti, le armonie che il
tempo ci nasconde.
In questo modo anticipiamo un poco. dovendo confermare
più tardi queste vedute sintetiche trattando della vita umana, della
storia — storia profana e storia della Città di Dio. Ma dovevamo, per
non falsare subito le soluzioni. In tutto e per tutto è l'ultima
parola che convalida il detto.
L'éternel est écrit dans ce qui dure peu20.
20 victor Hugo, Les Contemplations, III, 8. {L'eterno è scritto in
ciò che dura poco].
Tutto considerato, la natura è buona
Dopo di che non occorre molta filosofia per comprendere
che la qualificazione di buono o di cattivo applicata all'universo non è
più ambigua, come c'era sembrato a primo sguardo. Si deve dire : La
natura è buona. Invero il bene si confonde con il fine. Una
cosa è buona quando risponde a ciò che ci si attende da essa. Una buona
sveglia è quella che suona all'ora desiderata. Una buona corazza è
quella che protegge. E' l'esempio di Socrate. Un buon figlio è quello che
attua le intenzioni paterne, quando sono in se stesse rette. E cosi via.
Nella natura, la distinzione dei beni e dei mali
dipende da ciò che ci si attende dagli esseri che la compongono, e
aldilà del loro concorso. Gli esseri inorganici son voluti per essi
stessi? Sotto un rispetto, si;
poiché già in essi brilla un lontano riflesso di quel
Bene divino che la creazione ha il compito di diffondere. Ma a titolo
primo, quegli esseri costituiscono solo il territorio, la materia e II
mezzo per la manifestazione della vita. Il bene o il male che è in essi
è dunque riportato in riferimento a ciò, e in ciò che li riguarda tutto
è bene se adempiono a questa funzione.
Nel mondo vivente inferiore vi sono individui e specie.
L'individuo ha il suo fine in lui stesso? Per un rispetto, si
ancora; ma è soprattutto ordinato alla specie, che rappresenta l'idea di
cui gli individui non sono che la manifestazione successiva. Quest'idea
passa di germe in germe attraverso gli individui, abbiam detto, come il
maroso attraverso le ondate che corrono alla riva. Se dunque l'individuo
perisce affinchè la specie sopravviva e aumenti, questo processo deve
essere inscritto nel conto del bene, e in questo bene il male si
riassorbe.
Quanto alla specie, se avesse in sé la propria
sufficienza, il problema delle specie scomparse, quello stesso delle
specie attuali assumerebbe un carattere che non ha se le specie inferiori
hanno soprattutto la funzione di preparare il dischiudimento dello
spirito, immagine di Dio e non più suo vestigio; essere che
dura eternamente e non più passeggiero; chiamato all'amicizia intima
di Dio e non più al servizio : « Non vi chiamo più
servitori... vi ho chiamato amici » 21. 21
Giovanni, XV, 15.
« La vita è un primo innalzamento dell'universo verso
l'immortalità », scrive magnificamente Maurice Blondel22. 22
La pensée. I, p. 40.
Da questo punto di vista, che è il vero, la natura
deve essere giudicata un'armonia e il suo sforzo millenario un buon
successo, poiché è pervenuto nel fatto all'umanità e alla civiltà,
dinnanzi alla quale s'aprono le prospettive or ora descritte.
Vi sono molti mali intorno a noi, davanti e dietro; ma
tutto_si risolve nell'ordine dei fini, questa logica trionfante
dell'universo. "" C'è in ciò, come nell’industria, un
ricupero dei cascami e dei vapori, che porta a una rigenerazione di tutto
l'essere. L'unico brivido che anima la natura si riassume in una grande
pace.
Un viso è espressivo veramente solo se è visto
interamente : chi interpreterà l'espressione del mondo?
Il mondo è assurdo e cattivo solo per coloro che non
considerano il I tutto, non avendo a ciò gli aiuti della fede e della
filosofia cristiana. Non è un argomento in suo favore che senza di essa
non si spiega niente t e che il Tutto, che pure ci presenta tante
meraviglie, non può che oscurarsi nel buio?
Il Cantico
Cerchiamo di rialzare la discussione.
Senza ritrarre niente di ciò che abbiamo detto, e che
impegna l'uomo, non possiamo alzarci alla contemplazione della natura
considerata puramente in lei stessa, per vedere se veramente si presta al
giudizio pessimistico, questo giudizio al quale noi pure abbiamo concesso
una parte di validità, quando dicevamo: considerata da un certo iato, la
natura è orribile.
Orribile, veramente? Non era il parere di
sant'Agostino, questo spirito alato, che scriveva a un amico : « Nel
cantico meraviglioso delle cose, la vita e la morte degli esseri sono come
le sillabe e le parole del tempo. I loro intervalli non sono ne più
lunghi ne più brevi di quanto esiga la melodia concepita e determinata in
anticipo » 23. 23
Lettere, CLXVI, 5, 15.
Sarebbe ciò inumano? Tuttavia i nostri poeti sono
spesso d'accordo con questa veduta. Ecco Lamartine: Dans l'hymne de la
nature Seigneur, chaque creature Forme a son heure en mesure Un son du
concert divin24. 24
Harmonies poétiques, Hymne du matin. [Nell'inno della natura, o
Signore, ogni creatura costituisce alla sua ora, in misura, un suono del
concerto divino —; II monnorio vivente dell'intera natura non è che
l'eco confusa, di un'immensa preghiera].
Non è esattamente lo stesso pensiero? E
altrove: Le murmurc vivant de la nature entière N'est que l'écho
confus d'une immense prière.
E in Hugo: l a musique
est dans tout. Un hymne sort du monde2S.
25 Les Contemplations,
III, 21. [La musica è in tutto. Un inno esce dal mondo].
Moi que Dieu tient sous son empire, J'admire, humble et
religieux, Et par tous les pores j'aspire Ce spectacle prodigieux2<>. 26
Les Rayons et les Ombres, Caeruleum mare. [Io, che Dio tiene sotto
il suo-dominio, ammiro umile e pio, e da tutti i pori aspiro questo
prodigioso spettacolo] -
Si rifletta attentamente: se la bellezza del mondo
spesso ci sfugge e si volta in scandalo, è per un motivo, che ha la sua
parte di legittimità, ma che è troppo esclusivo. Noi consideriamo questa
natura come fosse fatta per noi e avesse l'obbligo di fare il nostro
comodo, di soddisfare, per di più, la nostra sensibilità. Non è una
pretesa vana. Figli di Dio, pensiamo che ci tenga in conto e che non si
dimentichi della più piccola fra le sue creature. Tuttavia, assicurati
sulle conclusioni, sapendo che tutto andrà bene in ciò che concerne i
nostri legittimi desideri e i nostri modi di sentire più esigenti, non
potremmo porci, per giudicare l'universo, dal punto di vista
dell'universo, guardare dal lato di Dio, lasciando da parte sotto questo
riguardo le nostre passeggere e parziali sensibilità?
Uno spirito di contemplazione senza esigenza ci farebbe
trovare il mondo perfetto; poiché le irregolarità o i sacrifici che vi
si notano, per reali che siano, non sono tali che riguardo ai punti di
vista particolari, e non rispetto all'insieme. Di modo che se si-trascura
il particolare, si deve trovare che tutto è bene.
E' ciò che ha visto chiaramente Spinoza, questo
puro intelletto,- e ciò cui consente il perfetto stoico, il quale si
congiunge alla natura e le si subordina interamente. Il vero cristiano si
riserva il suo diritto filiale ;
fa bene, ma postolo al sicuro perché non si eleva lui
pure in alto quanto il pagano o il pensatore senza fede?
Ancora una volta, bisogna giudicare l'universo dal lato
di Dio, non da quello della nostra sensibilità. Cioè bisogna con la
mente uscire dall'universo per vederlo quale è in lui stesso e alla fine
per noi. Il nuotatore, per apprezzare il paesaggio, non deve aver la testa
fuor d'acqua? « Mio Dio, diceva l'Olier, fatemi la grazia di vedere le
cose quali sono ». Pensiero mirabile, che solo il disinteresse può
comprendere.
Ecco ciò che dice un non credente : « Tutti i
disordini, tutte le lotte, tutte le mostruosità perdono il loro
significato menzognero dal momento in cui questi fenomeni sono pei nostri
occhi meglio illuminati manifestazioni particolari d'un ordine sempre
identico a lui stesso » ", 27
H. taine, Histoire de la Liltérature anglaise, IX, p. 422.
";
Si aggiunga che è un ordine divino, e il punto di
vista di sant'Agostino non sembrerà più cosi inumano ne per niente
utopistico.
La vita dell'universo è costituita dall'alternarsi
delle vite e delle morti, di cai fornisce la legge e di cui fa la somma.
La materia soggiacente ne fornisce il territorio, e lo spirito,
finalmente, ne raccoglie il frutto. 'E' bello e buono, e il nostro geniale
Dottore lo illustra con un paragone, che gli deve sembrare illuminante, se
vi ritorna in forme diverse : « La parola che si pronuncia passa e si
spegne nel silenzio^ Nondimeno il nostro discorso è costituito da queste
parole che passano, si succedono e si spengono, e con intervalli di
silenzio ben distribuiti scorre in maniera dolce e conveniente. Cosi è
della bellezza corporea inferiore all'uomo. Essa è costituita dalla
successione delle cose e riceve i suoi caratteri dalla stessa morte di
ciò che è nato. Se i nostri sensi & la nostra memoria potessero
cogliere l'ordine e la misura di questa bellezza, essa ci incanterebbe al
punto che non oseremmo più designare col nome di corruzione gli
intervalli di morte di cui è segnata » 28.
28 Cantra Epistolas
Manichaei, cap. XII.
Come si vede, la sofferenza animale non è qui messa in
conto. Vi ritorneremo a lungo da parte nostra, e ci siamo tenuti, poiché
altrimenti la replica all'obiettante sarebbe troppo facile. Due linee
tagliandosi non sanguinano; due nubi inseguendosi a vicenda non si
procurano dolore» e qui il punto di vista puramente estetico è a suo
posto. Ma nella vita è diverso. Certamente! Ma il punto di vista di
sant'Agostino non è meno autentico e più che autentico; è esso che
conta alla fine, come cercheremo di far vedere. In ogni caso, a
parte la sofferenza, l'evoluzione delle specie e degli esseri s'inscrive
nella durata come una scia di luce vivente, come _un poema o una melodia.
Queste migliaia di esseri che ad ogni momento— si divorano in silenzio?
Intrecciano quietamente la fascia infinita con cui la natura si adorna. Un
grande disinteresse soggiace a questo dramma superficiale.
La natura conosce la forma e il numero; ignora il
dolore. Va verso dove è lanciata, e non sopporta cavilli sulla via da
prendere. Questo mondo, pur con tutte le sue agitazioni e sofferenze, è
fondato su una vasta pace, quella del tutto armonioso e sublime.
Supponete che si proietti su uno schermo, a folle
velocità, tutta la serie paleontologica e storica della vita sulla terra
: che vedreste, se non un'armonia che si va disvelando, una prodigiosa
gettata in cui quelli che si chiamano esseri costituiscono gli elementi di
una curva continua, magnifica nel suo dispiegamento, misteriosa nel suo
termine? Nascite e morti si fonderebbero nel disegno d'insieme; non si
percepirebbero più o se ne comprenderebbe il significato transeunte e
indispensabile. Invero, niente nasce ne muore per ciò che è continuità
essenziale, slancio, progresso, avvenire che viene alla luce, armonia
temporale, creazione, bellezza.
L'artista non si pone da questo punto di vista, per
esperienza, comunque sia della vita o della natura generale? Lo stato
d'animo di Francesco d'Assisi non era ad un tempo d'artista e di santo? I
suoi fratelli
uccelli, frate lupo o « nostra sorella morte corporale
» non eccitavano in lui che accesa e gioiosa ammirazione. La sua
personale sofferenza non lo distoglieva dalla contemplazione superiore, e
neppure quella delle bestie non l'avrebbe fatto fremere. Egli la vedeva,
certamente; ma considerava tutto nella grande irradiazione della bontà e
della bellezza eterna.
Attraverso il tessuto di mutevoli apparenze e di vite
transitorie che si succedono, che si accendono e si spengono come un
fuoco, lo spirito percepisce l'indistruttibile. Aldilà dello scenario sta
la Realtà prima, che si fa riconoscere in tutto.
Claude Bernard ha scritto in un suo quaderno : «
Questa mischia che per antifrasi, senza dubbio, si chiama l'armonia della
natura ». Il grande scienziato è stato generalmente meglio ispirato.
Sant'Agostino gli insegna parlando d'un discorso bello in tutte le sue
parti o di un cantico. A parte il dolore, che non è più un problema di
armonia o di disordine, è certo che lo sviluppo della vita sulla terra ha
qualcosa di mirabile e di prodigioso. Un meraviglioso equilibrio vi si
mostra : sistemi di compensazione, scambi, successioni ben disposte, piani
e improvvise variazioni, vite e morti previste in modo che il tutto possa
sussistere senza soffocamento per pletora o senza estinzione per mancanza
di principi moltiplicatori, con aborti compensati e invenzioni
rigeneratrici sempre attive.
Si ritiene di non potere dar ragione di questi fatti
che con una specie di effettiva solidarietà di tutte le forme della vita
nella biosfera, come se la terra stessa fosse vivente e regolante
le sue funzioni e distribuente le parti tra i viventi. Comunque sia
di quest'ultima nozione, è certo che c'è un equilibrio della vita
generale e che la morte degli individui e —delle specie particolari ne
è un elemento essenziale.
Se la scala zoologica e paleontologica quale oggi ci è
nota, ""ale possiamo rappresentarcela con una semplice visita al
Museo di storia naturale di Parigi o alle collezioni londinesi, non
suscita l'ammirazione nel lettore o nel visitatore, questi è assai poco
riflessivo o assai difficile. Il cantico di sant'Agostino ha buon
fondamento. La natura lo canta attraverso il tempo che noi possiamo
esplorare, e certamente si continua aldilà in ogni senso. E' necessario,
affinchè sussista la parte percettibile.
Se poi si aderisse alla concezione della biosfera,
che ha a proprio vantaggio tanti fatti, il problema della morte animale o
vegetale prenderebbe tutt'altro aspetto. Potrebbe venire avvicinato alla
morte delle cellule all'intemo d'un vivente, morte relativa, che, per cosi
dire, non fa più impressione.
C'è un entusiasmo della natura che si accende a favore
delle leggi. Le grandi cavalcate delle onde all'equinozio, o il fracasso
dei torrenti che precipitano dai ghiacciai verso la pianura dove li chiama
la gravitazione, non ne costituiscono un'alta testimonianza? Le valanghe,
i cicloni, i cataclismi d'ogni genere e i grandi sacrifici della vita non
hanno lo stesso significato?
Sono una specie di giucco questi caleidoscopici
cambiamenti, l'instabilità incessantemente rinnovata di queste
combinazioni cosmiche. Questa parola : giucco, si trova nella Scrittura,
là dove la Saggezza •- dice di se stessa, riferendosi alle opere
di Dio : « Io ero all'opera vicino a lui, ogni giorno felice, e
giocando incessantemente alla sua presema »29. 29
Prov., Vili, 30.Nell'Apocalisse, gli stessi tuoni e
il rombo delle grandi acque si presentano come liuti accordati, come
concerti di arpe30. 30
Apoc., XIV, 2.Vi è in ciò invero un giucco di
forze pure il cui incatenamento è musicale ed esaltante; qualcosa capace
di provocare un'adorazione in ginocchio e non scandalo.
La vita e la morte lodano Dio, nella natura, come la
luce e le tenebre nel cantico dei tre giovani in Daniele : Benedicite
lux et tenebra Domino 31.
31 Dan., II, 72: Tutte le
cose incessanti e vane che ci circondano esprimono Dio a modo loro e non
spetta a noi imporne loro un altro. Stanno bene cosi. Per vane che siano,
abolite Runa dall'altra, esse cantano un cantico eterno,
•cantico muto, a dir vero; la natura non parla; ma
noi possiamo parlare in suo nome, esprimere quello che sarebbe il suo
linguaggio, oh lode di Dio!
La sofferenza animale
Sant'Agostino suppone che se siamo colpiti dalle «
stragi » della snatura e dalle sofferenze che esse infliggono ai nostri
fratelli inferiori, è perché, avendo una costituzione identica
quanto alla nostra natura mortale, vi ci si indugiamo senza misura e non
sappiamo innalzarci abbastanza per giudicare l'ordine mirabile del mondo
di cui siamo parte 32. 32
La città di Dio, XII, IV. Ciò
è vero. Ma poiché nondimeno riscontriamo il dolore e non ce ne è stata
rifiutata l'interpretazione per ciò che ci riguarda, si pone il problema
di questa interpretazione per ciò che concerne gli esseri irragionevoli.
Renouvier, alla fine di sua vita, riconosceva che il suo sistema di
spiegazione del male era incompleto, poiché non dava ragione del
caso-degii animali3333
Derniers entretiens, pubblicati dal prat, p, 63. Cfr. renotjvieb, Prindpes
de la Nature, 2 ed., t. II, p. 141.. Pure noi
abbiamo altrove scritto che non avevamo una soluzione soddisfacente a
questo proposito 34. 34
Catechismo des incroyantÀ, t. 1, p. 154Forse,
riflettendo meglio, ci sarà consentito di proporre qualchecosa.
C'è una categoria di pensatori che non sarebbero
imbarazzati per cosi poco. La sofferenza degli animali per loro è solo
un'ingenua illusione della sensibilità. Essi dicono : questi esseri sono
materia, non sono spirito, «e il sentimento come il pensiero stanno dalla
parte dello spirito. Le sensazioni sono pensieri confusi, e non
possono quindi essere attribuite a esseri puramente materiali. Come
potrebbero essere altro che materia inerte gli uccelli, dal momento
che non sono spirito? Non c'è un terzo partito. Il pensiero si trova di
fronte all'estensione in movimento, e non c'è niente altro.
Si riconosce in ciò il sistema cartesiano. Il tenero
Malebranche, che vi crede con tutta l'anima, da calci alla sua cagna e
sorride : « E' un orologio più flessibile e più tollerante di un altro;
abbaia come l'uccello di legno delle pendole svizzere tuba; ma non sente
niente. Per fortuna!, aggiunge il vecchio oratoriano, poiché se gli
animali soffrissero, essi che sono innocenti, non sarebbe in causa
la giustizia di Dio? ».
Si vede dove conducono siffatte aberrazioni, Condillac
dirà queste « stravaganze » 35 35
Traité des Animaux, e. I:
con esse si compromettono gli attributi di Dio, e non si sa dire che, se
un sistema porta a queste conseguenze, è falso. Il dualismo radicale: da
una parte il pensiero puro, dall'altro la materia puramente geometrica,
falsifica la realtà che si presenta nella nostra esperienza.
Buffon, legato al cartesianesimo, ma d'altronde sagace
osservatore del concreto, si mantiene nell'ambiguità. Interpreta il
sentimento animale come una « azione di movimento in occasione di un urto
o di una resistenza » e concede tuttavia che questo sentimento può
essere piacevole o spiacevole. Tanto che Condillac, analizzando le sue
esposizioni ira materia, non riesce a cogliere il suo pensiero 36.
36 Loc.
cit.
Si sa che alla stessa epoca, e molto spesso dopo,
miscredenti si sono dati da fare per esagerare, al contrario, le
sofferenze delle bestie per incolparne Dio, fino a denunciare il «
cinismo » del Creatore (al quale non credevano) per aver organizzato la
tortura tra le bestie, come in quei pesci che accecano Je loro vittime
prima d'impadronirsene o come nell'angolo dei ragni, di cui si descrivono
con compiacenza le barbare pratiche.
Spesso è proprio dopo aver messo in opera verso gli
animali un egoismo abbastanza rivoltante che questi pii censori ardiscono
incolpare Dio di ciò che ha dovuto permettere. Trovano naturale di veder
torturare a lungo del pollame per poterlo mangiare con più delizia, di
uccidere bestie alla caccia per divertimento, di farle combattere davanti
a loro come spettacolo, se non per una sadica curiosità, di mandarne al
macello per economia dopo lunghi servizi. Ma Dio non aveva il diritto di
dar loro la vita a condizioni che si giudicano oppressive e crudeli.
Siffatta ipocrisia ripugna. Si preferisce l'ironica confessione
dell'onesto Sully Prudhomme:
J'ai mon coeur; je ne veux a nul etre aucun mal;
Mais je retiens ma pari du boeuf qu'un autre assommo,
Et malgré ma douceur, je suis bien aise, en somme, Que le fouet d'un
cocher hàte un peu mon cheval37.
37 La J astice, 7°
veille. [Ho cuore, non voglio male a nessuno; ma faccio mia una parte del
bue che un altro ammazza, e nonostante la mia dolcezza, mi fa; comodo»
insomma, che la frusta d'un cocchiere acceleri un po' il mio cavallo].
Alla buon'ora. Chi parla cosi è sincero; l'ipocrisia
libertina non gli conviene, sia pur mitigata come in tanti
pseudo-cristiani che accolgono l'obiezione dei miscredenti, pur
continuando a sacrificare o a lasciar sacrificare gli animali al loro
servizio. Tolstoi, almeno, era conseguente quando diceva che « la virtù
è incompatibile con la bistecca ». Si sa d'altronde che obbligava sua
moglie a cure infinite perché il suo regime vegetariano fosse almeno
succolento e sostanzioso.
Piccolezze umane, che non escludono la stima. Meglio
però la semplicità che rifugge da tutti gli eccessi, che tratta bene
tutti gli animali senza credersi obbligata, come accade in America e in
Inghilterra, e qualche volta anche in Francia, di predisporre loro
ospedali e cimiteri, con un servizio di notizie e pietosi anniversari.
Idee da zitelle, senza dubbio, deviazioni di migliori sentimenti
non realizzati.
C'è sempre un motivo di acquietamento che si può dare
a coloro che si fanno scrupolo di usare delle bestie per la propria vita:
cioè, che anche per quest'ultime verrà il loro turno. Le mangiamo, ma a
patto di ricambio. Anche noi entriamo nel giro della vita. La
sottomissione che siamo obbligati a riconoscerle equilibria senza dubbio
il breve profitto che ne otteniamo.
Basta con ciò. S'impone ineluttabilmente una domanda,
e gli eccessi in ogni senso, le aberrazioni, gli scrupoli ingiustificati
non ci esonerano dal rispondere ad essa.
Tanto più siamo obbligati, dal momento che alcuni di
questi esseri sono associati alla nostra vita come buoni e affettuosi
servitori. Aveva torto Lucrezio di difendere il buon cane « dal cuore
fedele »? Augusto Comte li incorporava al grande Essere, che era per lui
l'umanità, al posto degli umani indegni che non lo meritano 38.
38
Catechismo positiviste.
Si tratta di un abuso, che però non ci scioglie da un
obbligo che riguarda persino Dio.
Qual'è esattamente la portata di quest'obbligo? Si
tratta di bontà? di giustizia? E come spiegare, in ogni modo, il
comportamento provvidenziale verso gli animali?
Diciamo chiaramente che la considerazione di giustizia,
nel senso proprio del termine, è del tutto esclusa. Le bestie non
sono" soggetti di diritto. Hanno un'individualità, ma non hanno
personalità, e dall'una all'altra c'è un abisso, tanto che per questa
ragione l'uomo e l'animale sono ad un tempo « vicinissimi e per sempre
separati », come diceva Pope 3S>. 39
Saggio sali'uomo. Lettera L'individualità
nasce da una porzione di materia sotto il dominio di un'idea immanente, di
vm'idea direttrice, come diceva Claude Bernard. La personalità
consiste nel pensiero che riflette su di sé e che sa dire io. La
giustizia è appunto tra me e tè; è una virtù sociale; non può
rivolgersi a chi è incapace di società, a chi non sa di se stesso.
Quando dunque si parla di doveri verso gli animali, si
può pensare qualcosa di giusto, ma ci si esprime male. Abbiamo doveri a
proposito degli ammali, concernenti gli animali; ma non è
davanti a loro che rispondiamo, come davanti a una «parte» in tribunale;
è davanti a Dio. Cosi pure, quando si dice : le bestie innocenti, si
fa legittimamente della poesia, ma con ciò stesso si rinuncia alla
precisione. In realtà, le bestie non sono ne innocenti ne colpevoli; sono
aldifuori dell'ordine morale^ obbedendo a istinti che provengon loro dalla
natura e di cui la sola natura risponde. Ci si può comportare male verso
gli animali, ma non si può offenderli. Sotto questo riguardo sono cose,
non persone, e le mancanze verso di loro si devono chiamare crudeltà, e
inoltre inconseguenza e mancanza di rispetto verso di sé, ma non
ingiustizia *°. 40
Questa non è una ragione per non biasimare o condannare i giucchi
crudeli,, che aumentano arbitrariamente o troppo leggermente le
sofferenze degli animali: Ie-corride, le cacce alla volpe, il tiro ai
piccioni, i combattimenti dei galli o delle pernici, le vivisezioni
inutili o inutilmente crudeli, etc. Si può credere che un'umanità più
evoluta proverà il bisogno di correggersi su questi punti come si tende
a fare, nelle epoche di progresso, per ciò che riguarda i gruppi
umani diseredati.
Sgombrato cosi il terreno, resta il caso della
Provvidenza, che qui soprattutto ci impegna. Non stiamo scrivendo un
trattato di morale, bensì studiando il problema del male nella creazione.
Come dunque si può-giustificare il Creatore d'aver permesso, anzi d'aver
organizzato la sofferenza animale? Ne è sufficiente giustificazione il
bene del suo universo? Ne è una valida e acquietante ragione la
manifestazione prodigamente sparsa delle potenze vitali e, nell'ipotesi
dell'evoluzione, la secolare preparazione del regno del pensiero? Non sono
in questo modo trascurate le bestie e si vede brillare in ciò quella
bontà che il Vangelo proclama quando ci dice che un passerotto non è
dimenticato al cospetto di Dio "- 41
Luca, XII, 6.
Abbiamo detto che, in generale, il dolore è
correlativo al piacere e-si giustifica quindi in certo modo con esso; che
inoltre è utile al soggetto" come avvertimento in caso di cattivo
funzionamento. Questa duplice osservazione è di rilevanza particolare per
ciò che riguarda gli animali. Privi di ragione e dotati d'un
discernimento istintivo talora mirabile, ma limitato,. non posseggono, per
orientarsi nelle partìcolarità dell'attività, che l'attrattiva del
piacere e il timore delle reazioni dolorose.
Meglio ancora, gli stessi atti istintivi sono in
connessione, quanto-al loro esercizio, con un'attrattiva o una
repulsione che ne sono il motivo immediato. Se impedite a una pecora di
allattare il suo agnello, provocate-
in essa una inquietudine dolorosa, che si calmerà solo
nel momento in cui le è ridata, con l'allattamento, l'impressione
soddisfatta che in essa è l'analogo delle gioie materne. La tesi di
Descartes, su questo punto, non è seria; quella di Le Dantec con il suo epifenomeno
non lo è di più. Le bestie reagiscono a impressioni, e senza di
queste non reagirebbero o non reagirebbero allo stesso modo.
D'altronde, ripetiamolo, la sofferenza e il piacere
sono solidali come manifestazioni della sensibilità generale. Se si
supponesse la coscienza abolita in un caso, lo sarebbe anche nell'altro, a
spese dello stesso animale.
Certe esperienze sembra abbiano provato che la
maternità animale aveva bisogno dello stimolo del dolore perché la
femmina si affezionasse alla prole. Alcune cerve anestetizzate al momento
del parto da un naturalista sud-africano, Eugenio Marais, abbandonarono
tutte il loro cerbiatto, mentre invece nessuna rifiutava la sua tenerezza
nel caso di un parto ordinario. Se l'anestesia era stata parziale, la
cerva esitava e talvolta si rifiutava ancora. Se l'anestesia aveva avuto
luogo dopo il parto, ma prima che la cerva avesse potuto vedere il
cerbiatto, l'animale riconosceva il suo nato senza esitazione, il che
prova che il rifiuto precedente non era dovuto a un turbamento provocato
dall'anestesia. Ricapitolando, non si può dire che in questo caso la
sofferenza è la stessa condizione dell'attività animale e della gioia?
Bisogna tuttavia riconoscere che siffatte
considerazioni, troppo generali, troppo impersonali, se si osa dire, non.
calmano l'animo. Se non vi fossero che quelle, dice Max Scheler,
non sacrificherei loro la sofferenza d'un verme 42. Ve
ne sono altre. Ma anzitutto si può attenuare il rimprovero facendo
osservare quanto sono esagerate, d'ordinario, le nostre rivolte o le
nostre compassioni riguardo alla sofferenza degli animali. Sono viziate da
un difetto quasi inevitabile, ma assai grave, che consiste nei supporsi al
posto del paziente inferiore e nell'attribuirgli ciò che allora si
proverebbe, come se soffrisse alla maniera umana. Ora, in
questo modo si è lontani dal vero.
«Bisognerebbe essere pessimi osservatori, scrive Ch.
Richet, per supporre che gli animali siano capaci di soffrire quanto noi.
La ferita che annienta la forza del soldato più coraggioso permette a un
lupo, a un cinghiale, a una lepre di compiere una lunga corsa e di
sfuggire a un inseguimento accanito. Negli animali inferiori, la
resistenza non è ancor maggiore? Un animale inferiore può vivere più
giorni con gravi lesioni, mentre invece con le stesse lesioni un uomo non
vivrebbe un secondo ». Si possono rompere le zampe di una rana in fregola
senza riuscire a farle abbandonare il perseguimento del suo scopo. E lo
scienziato ha cura d'aggiungere, benché vada da sé, che non si tratta
soltanto del traumatismo, ma del dolore di questo traumatismo : « Un
traumatismo che per l'uomo sarebbe un dolore è appena sentito da certi
ammali » is. *2
Le sens de la souffrance, p. 11, Paris, Aiibier. 43 L'Homme
et FIntelligence, p. 457.
La causa di questa differenza è nello sviluppo del
sistema nervoso, che nell'uomo deve servire all'elaborazione
dell'idea generale, al linguaggio, alla vita sociale, al lavoro
civilizzatore, funzioni alle quali serve da base la sensibilità
organica, tanto che il materialismo ne fa l'unico fattore.
Ch. Richet perviene alla conclusione, che dice ormai
adottata da tutti gli psicologi e fisiologi : « il dolore è una funzione
intellettuale » ** 44
Bisogna intendere nel senso lato della parola intellettuale.
ed è dunque proporzionato, nella sua intensità, allo
sviluppo dell'intelligenza. « Più si è intelligenti, più si può
soffrire. Gli animali non intelligenti sono incapaci di provare in tutta
la sua pienezza questa sensazione che chiamiamo dolore... Vivono sempre in
una specie di sogno o di semi-coscienza che esclude il dolore terribile. I
loro nervi sono meno eccitabili, e soprattutto il loro cervello è meno
suscettibile della netta percezione di sé senza la quale non v'è dolore
» ". 45
Ibid., pp. 130-145
La legge di Richet si verifica nell'uomo nel modo più
chiaro. Il selvaggio è capace di sopportare molto più del civilizzato.
Le operazioni più serie lo trovano talvolta resistente in maniera
sorprendente e le ferite di guerra suscitano il suo disprezzo. Se gli fate
una larga ferita nella mano, ne soffre meno che non una sartina per una
puntura di spillo. Ora, la differenza tra il selvaggio e una parigina
raffinata è molto meno grande che tra lui e l'animale più vicino
all'uomo.
Del resto, qui l'essenziale è in quella specie di
assenza da se stesso rilevata giustamente dallo scienziato. L'uomo è «
presente al proprio dolore», dice Seneca, adest dolori suo;
l'animale, no: lo sente, ma non lo assapora. I grandi buoi di Leconte de
Lisle, che Suivent de leurs yeux languissants et superbes Le songe
intérieur qu*ils n'achèvent jamaTs46
46 Poèmes
cmtiques. Midi. [Seguono con i loro occhi languidi e superbi il
sogno intcriore che non terminano inai].
,non hanno la possibilità d'imparare la sofferenza con
forza. La subiscono come un incubo. Soffrendo gemono come noi gemiamo nei
nostri sogni. Il « sogno inferiore » di cui parla il poeta si compie in
noi con la riflessione; ne prendiamo cosi possesso e diventa nostro. Ma se
l'attenzione resta allentata e la riflessione è assente, la sofferenza
attraversa l'anima, in qualche modo, e non s'incrosta. La sua punta è
corta e non può pungere che in proporzione alla sua lunghezza. Si soffre,
e, per cosi dire, non si sa che si soffre e ciò significa che si è
colpiti ma non si soffre nel senso umano del termine.
Non era questo il segreto di quel carnefice benevolo,
il quale in un romanzo di Tolstoi diceva al suo paziente per aiutarlo a
tener duro :« L'essenziale è di non pensare ». Non pensare è difficile
per l'uomo. Per l'animale è naturale.
E' accaduto che per contestare questa legge ci si sia
richiamati al caso dei bambini che, d'intelligenza ancor poco sviluppata,
sono capaci di profondi dispiaceri. L'obiezione non colpisce. Il bambino
ha tutte le facoltà umane, ha solo bisogno di raccogliere i loro
oggetti per mezzo dell'esperienza. Ciò che già gli è noto agisce tanto
più su di lui poiché è presente senza antagonismo e senza il freno
della riflessione. Non ha il senso dei limiti, pur avendo quello
dell'attacco che subisce. La bestia ignora tutto questo.
Non solo. Molte altre ragioni tratte dalla psicologia
comparata tendono a fissare la differenza tra il caso umano e quello dei
gradi anche più elevati della serie animale. Se si osserva, si resta
colpiti dalla pace abituale delle bestie e dalla loro salute psichica,
come del resto dalla loro salute organica, in confronto alle nostre
frequenti malattie e perpetue agitazioni.
L'animale vive nel presente e non prolunga la sua
sofferenza verso l'avvenire, come facciamo noi nostro malgrado e talora
deliberatamente, in modo da meritare il rimprovero del poeta;
Fol est celui qui soufflé au delà de l'instant; Le
malheur d'aujourd'hui n'en domande pas tant47. 4T
marie noel, Les chansons et les heures, Berceuse de la grand mère.
[Pazzo colui che soffre aldilà dell'istante; la disgrazia d'oggi non
esige tanto].
La ricerca di che vivere assorbe quasi totalmente
Fazione dell'animale. L'ignoranza dell'avvenire lo esenta
dall'inquietudine e dal timore di ciò che può sopravvenire. Ora « chi
teme di soffrire, soffre già per ciò che teme », dice Montaigne. Sotto
questo riguardo gli animali si avvicinano a ciò che Leibniz chiama mens
instantanea parlando delle sostanze morte.
L'animale si slancia su piste terrestri o negli spazi
aerei, ma non verso l'avvenire per cogliervi la preoccupazione. E' tutto
nell'istante, e senza conoscerlo applica molto meglio dell'uomo quel detto
della saggezza : « A ciascun giorno basta la sua preoccupazione ». Un
giorno è lungo; ma l'istante nel quale vive l'animale non è lungo e non
si può in esso moltipllcare la sofferenza48. 48
Per essere giusti, bisogna aggiungere che questo argomento è un po' a
doppio taglio; poiché se la mancanza di previsione allevia il dolore nel
senso che limita l'ampiezza del male, questo stesso tatto isolando il male
percepito può pure renderlo più dominante, richiudendolo in lui stesso,
come nei bambini. Solo, che questo secondo aspetto è molto meno
importante del primo.
L'angoscia, questo sentimento cosi profondo e cosi
ricco di mali, che negli ultimi tempi è stato analizzato con
passione, è ignoto alle bestie, ed è un incomparabile
alleviamento della loro sorte rispetto a quella dell'uomo.
Sembra certo che l'animale non compia sintesi mentali,
che provi e concepisca tutto sporadicamente, per cosi dire, uri caso e poi
un altro, senza darsi cura di concatenarli, come facciamo noi col
risultato di opprimere ancor più l'anima. Per ciò non è capace di
quelle accumulazioni d'impressioni rincaranti l'una sull'altra fino a
portare talora l'uomo agli eccessi estremi. Gli animali non si suicidano.
Le nostre iniziative cosi spesso abortite, i nostri
capricci d'esseri sedicenti ragionevoli sono occasione di molte
sofferenze, alcune delle quali potrebbero essere evitate, molte delle
quali s'impongono. Gli animali seguono pacificamente la curva del loro
destino specifico, mangiando, dormendo, amando in periodi fissati,
generalmente senza eccessi. Non avendo le nostre possibilità, non sono
esposti al rischio delle nostre insidie.
Può darsi che la sensibilità animale abbia i suoi
oscuri drammi, ai quali non facciamo caso : li ha certamente, ma il fatto
stesso che sono oscuri — e per essa medesima — ne attenua notevolmente
gli orrori.
L'animale soffre per il male; ma non avendo l'idea del
bene, non può giudicare della contraddizione tra questo male e una
realtà che esso ignora. Si accontenta di ciò su cui ha presa e non si
sente ostacolato nel suo destino. In realtà, esso non ha destino nel
senso proprio del termine. E' oggetto di natura e il suo destino è quello
del tutto che il suo male cosi come il suo bene servono a integrare.
Ciò che ora bisogna aggiungere è che gli animali
privi di ragione, oltre a soffrir meno nella loro sensibilità a motivo
dei nessi che congiungono la sensibilità all'intelligenza, vanno esenti
dai mali propri della intelligenza. Sono capaci di dolore, non di
dispiacere. Ne hanno timori dolorosi. Non conoscono la noia, soprattutto
quella noia radicale che, come diremo più sotto, è la prova più cupa e
più opprimente dell'esistenza umana. Ignorano la propria miseria e la
speranza, in essi, non è mai delusa. Li si rappresenta come aventi una
specie di fede inconsapevole nella loro sorte accettata, abbandonantisi
passivamente al destino, non tementi ne dantisi pena per l'ora successiva,
e accoglienti quando —•riene il profitto vitale che per quel momento
si confonde con il loro essere.
Schopenhauer fa notare che il valore d'una gioia che ci
sopraggiunge è misurato meno in essa medesima che dalle speranze che ci
apre verso l'avvenire. Lo stesso vale per la sventura. E' questo
imprestito all'avvenire, e in qualche modo all'assoluto, che permette al
dolore di raggiungere un parossismo, che il suo tenore attuale, da solo,
non comporterebbe. Ora, siffatto prolungamento, siffatto riporto è ignoto
al povero animale che sogna oscuramente e che rimugina, se addirittura,
come è per migliala di specie di suoi congeneri, non è assai vicino alla
condizione della pianta o del masso.
Infine, non abbiamo imparato dagli Orientali che la
sofferenza è figlia del desiderio e che basterebbe uccidere il desiderio
per abolire ogni sofferenza? Questo era il primo detto del Sermone di
Benares di Budda. Ora, certamente gli animali desiderano, hanno le
loro passioni violente: due tori, due cervi o due montoni in lotta ce ne
danno ampia prova. Nondimeno, in queste passioni c'è qualchecosa di
passivo, come nel caso di due torrenti che incontrandosi spumeggiano.
Manca la lucidità, alla quale abbiamo riconosciuto tanto potere, e da\cui
dipende la sofferenza. Questa è molto acuta solo nella piena chiarezza,
della quale noi uomini abbiamo il monopolio e la vicinanza alla quale
varia dalla madrepora all'uomo.
Non è un paradosso aggiungere che l'abituale
indifferenza degli animali per le loro reciproche sofferenze ne diminuisce
pure la gravita.
Quante volte giudichiamo i nostri dolori alla stregua
della considerazione altrui. La compassione tende a accrescere la passione
volendola consolare, e rispetto ai soggetti la raddoppia. Compatite il
bambino per un maluccio, piangerà, mentre invece tra i suoi compagni
distratti se ne sarebbe appena accorto. E la mamma, da parte sua, se ne
affligge senza ragione.
Quando dicevamo poco sopra che la riflessione aumenta i
nostri mali, non intendevamo solo della nostra. Ogni specchio moltiplica.
Ogni riflettore aumenta l'intensità dei colori e il rilievo delle forme.
Privo di questo rafforzamento, il dolore animale è maggiormente ridotto
ai suoi soli elementi vitali; la nostra psicologia individuale e
collettiva non lo tocca.
La morte degli animali
« Soffrire piuttosto che morire, ha detto il
favolista, è l'insegna degli uomini ». Non sarebbe anche quella degli
animali? II problema non sussiste, poiché non si possono mettere a
confronto una cosa sulla quale non si riflette con una che si ignora.
L'animale non rinette sulla propria sofferenza e ignora la morte. La
ignora, poiché la morte non può essere provata da nessuno, può essere
solo pensata. Anche noi la soffriamo solo perché la temiamo. Il nostro
ultimo respiro è della stessa natura degli altri. E' ancora un sospiro di
vita. Accompagnato o no dalla sofferenza, è in piena esistenza; la
non-esistenza che segue non si esperimenta.
Lucrezio a~ ha abbastanza vessato con questi
ragionamenti; Voleva convenlic gli uomini e liberarli da vani timori. Per
ciò che riguarda le bestie avrebbe perduto il suo tempo, e si direbbe che
le bestie medesime siano d'accordo, almeno nel pensiero dei poeti:
Ceceri vécut et-meurt selon de bonnes-lois^-
Car son ame confase et vaguement ravie
A dans Ics jours de paix gouté la douce vie.
Son àme s'est compili, lunette, au fond des
bois.
Douce aux destina nouveaux, son ame vegetale
Se disperse aisément dans la forét natale.
L'universelle vie accueille ses esprits.
II retourne a la terre, aux vents aromatiques,
Aux chenes, aux sapins, ses nourriciers antiques,
Aux fontaines, aux fieurs, tout ce qu'il leur a pris49.
49 anatole
frange, Les Poèmes dorés, Les Cerfs. [Questo cervo ha vissuto e
muore secondo leggi buone; poiché la sua anima confusa e vagamente rapita
ha nei giorni di pace gustato la dolce vita. La sua anima s'è
compiaciuta, muta, nel fondo dei boschi. Dolce ai nuovi destini, la sua
anima vegetale si disperde facilmente nella foresta natale. La vita
universale accoglie i suoi spiriti. Restituisce alla terra, ai venti
aromatici, alle querele, agli abeti, suoi antichi nutrimenti, alle fonti,
ai fiori ciò che ha loro tolto].
In Francis Jammes un uccello incaricato d'esprimere
l'anima animale dice:
Pourquoi ne veux-tu pas, poète, que je meure? Ne
vois-tu pas tranquillement mourir les fleurs'50 50
Le Deuil des Primevères, Le Poète et l'Oiseau. [Perché, poeta,
non vuoi che muoia? Non vedi tranquillamente morire i fiori?].
Invero è quasi lo stesso. L'animale, come la pianta,
è nella natura e per cosi dire non si distingue da essa. La natura ha i
suoi cicli, nei quali trascina i suoi esseri e il ritorno delle stagioni
riconduce, da un anno all'altro, il grappolo e l'uccello identici a se
stessi. Ciò che vive solo per la specie, sopravvive nella specie, cosi
tutto è a posto.
Ecco indicata, ancora da un poeta, la differenza con
l'uomo. Parlando degli animali e di se stesso, Lamartine scrive :
davanti alla morte Ds n'ont ni sentiment, ni murmurc, ni plainte,
Et moi je vis assez pour sentir que je meurs 51.
51 Harmonies poétiques,
IV, Novissima Verba. [Essi non hanno ne sentimento» ne mormorio, ne
pianto, ed io vivo abbastanza per sentire che muoio].
Vivere abbastanza, qui, è vivere secondo lo spirito.
Ciò cambia tutto; poiché guardando davanti a sé, si giudica la vita con
il sentimento del proprio limite, ciò che l'animale non sa fare. La
situazione resta in qualche modo capovolta. L'animale muore come si vive;
noi viviamo come si muore, sapendo che ogni istante di questa vita può
esser l'ultimo e che la scadenza, in ogni caso, è ineluttabile.
L'animale, di per sé non è ne mortale ne immortale;
è, senza sguardo sul suo stato, in ogni istante pienezza di sé.
Il suo sentimento è puro e non gli guasta l'esistenza. Mortale, non è
come se fosse immortale?
Sotto questo rispetto, una morte accidentale e
prematura non si" distingue, per cosi dire, per lui da una morte in
vecchiaia. Per far differenza, bisogna essere coscienti della vita e della
sua misura. L'animale ha il sentimento della vita, ma non ne ha l'idea e
non ne percepisce la misura.
Ciò che ci misura l'esistenza, è la molteplicità
degli avvenimenti, che contiamo nelle nostre vite. Nei bambini, il cui
ritmo di vita è rapido e gli avvenimenti inferiori numerosi, una giornata
è più lunga che per l'anziano, per il quale le mattine e le sere quasi
si toccano. L'anziano se ne rende conto. Anche il bambino ha più o meno
il sentimento del proprio caso, ma solo da un certa età; nella culla non
l'ha affatto. Ora, l'animale è sempre in culla, e sotto questo rispetto
non c'è per lui condizione d'adulto. Quindi non misura niente. La vita ha
per lui un carattere assoluto che non si confronta a nient'altro. Può
finire in un momento qualsiasi : la differenza non lo riguarda. Meglio, la
morte, che è un male per l'essere che esso è, non è un male per
lui. E' un male obbiettivo e non soggettivo, direbbe il filosofo. Non
lo tocca che con i suoi prodromi,
cioè al modo della stessa vita. L'animale non sa che
sia, per lui, essere morto.
Noi lo sappiamo. Niente c'impedisce di
trasferirci idealmente, in finzione, nel momento in cui non saremo più,
per rimpiangere, come l'antico Greco, la dolce luce del ciclo, per
deplorare ciò che avremo perduto; ciò di cui non avremo potuto
sdebitarci, ciò da cui ci saremo separati, etc. Come Girano che, nel
momento in cui si espone alla morte, esclama parlando di Rossana:
Mourir n'est rien; Mais ne plus la revoir jamais, voilà l'horrible *.*
Morire è niente; ma non più rivederla, per sempre, questo è orribile.
E' un'affermazione assurda, in fondo, ma non è per
ciò meno pungente. Lo abbiamo osservato sul vivo in una madre : «
Allora, non vedrò più Maddalena?... ». Parola straziante, che trae seco
una specie d'infinito nei suoi prolungamenti.
A contrasto. Pope scrive nel suo Saggio 52
52
Epistola L :« II tuo appetito condanna oggi
l'agnello a morte: se avesse la tua ragione salterebbe e si divertirebbe
sul prato? Contento fino all'ultimo momento, bruca il pascolo
fiorito e lambisce la mano che si alza per scannarlo ».
Si sa che Pascal rimprovera agli uomini di mostrare
troppo spesso simile incoscienza. Ma non si è sempre incoscienti ; vi
sono crisi, e il più di frequente alla fine vi sono i terrori. Questa
previsione dell'eterno, che è la gloria e il tormento dell'uomo, è
estranea al fratello inferiore. Il fatto che esso muoia non fa di lui, che
lo ignora, ciò che il nostro linguaggio chiama un « morente » o un
«mortale»._ __
Ciò che per concludere stiamo per dire è forse troppo
sottile? Non è paradossale affermare che gli animali devono la loro
esistenza alla morte e non hanno quindi il diritto di lamentarsene. La
morte non è inscritta nella loro stessa natura, che non ha in sé più
che uno slancio, la cui ricaduta è prefissata, al termine della sua
curva? La loro morte è la loro vita nell'ultima fase del suo
dispiegamento, e il suo legame con uno stato ulteriore della stessa
materia. Sopprimere la loro morte, vorrebbe dire sopprimere essi stessi.
Senza la loro morte non potrebbero essere, non più che l'onda senza il
suo frangersi, non più che l'anello senza la catena e Senza
l'incatenamento.
Non lamentiamoci dunque se scompaiono e se s'inabissano
nella vita universale, donde sono usciti. L'angoscia della morte è prima,
e l'animale non conosce prima. L'« è finito » supera la sua esperienza.
II « sempre » e il « mai » non appartengono al suo universo.
La vera spiegazione dell'enigma
A che cosa mirava ciò che precede, se non ad attenuare
la difficoltà senza dire niente di decisivo per risolverla?
Sta bene che gli animali soffrono meno di noi, ma
soffrono. Sia pure che non conoscono la morte, ma la subiscono con il suo
accompagnamento di dolori talvolta atroci, e l'ultimo fremito di vita
sostituisce in loro l'ignoto della morte. D'altra parte non hanno niente
da espiare, essendo incapaci di peccare e sempre obbedienti alla legge
della loro natura. Come spiegare, in queste condizioni, la specie di
condanna che pesa su di loro, come sulla natura inferiore dell'uomo?
Rispetto a questa, ci possiamo placare. C'è la vita
eterna. Lo slancio vitale e la sua ricaduta riguardano solo la nostra
carne. L'anima fugge per la tangente. Ha i suoi tempio, serena e
niente impedisce che antìcipi. La speranza! Ne diremo in seguito le
virtù. Ma l'animale non ha avvenire, e se il suo presente è doloroso.
Colui dal quale il passero non è dimenticato, deve una spiegazione, se si
osa dire, per la sua severa provvidenza.
Una prima risposta è questa. Posto ciò che abbiam
detto della sofferenza animale — e lo abbiam detto invero solo per ciò
— si ha diritto di pensare che nell'insieme e generalmente parlando le
bestie sono felici. La natura, che arreca alle loro sofferenze tante
attenuazioni, arreca pure compensazioni, che forse hanno più peso di
queste stesse sofferenze.
E' vero che in proposito non possiamo dare salde
assicurazioni. Non sconosciamo direttamente l'anima animale. Newman diceva
:« Ne sappiamo _più sugli angeli che sugli animali». Lo spiegava col
motivo che l'intelligenza è più aperta alla intelligenza, suo analogo,
che a un'anima oscura tutt'immersa nella materia. Gli Egiziani avevano
compreso questo mistero e lo avevano tradotto in simboli potenti.
Si è dunque costretti qui a una certa riserva.
Nondimeno alla base .delle nostre congetture vi sono cose certe -e non
riteniamo di eccedere se diciamo:« II Creatore è stato buono con gli
animali dando loro l'esistenza. Potrebbero dolersene solo se i loro mali,
quali li soffrono, superassero i loro vantaggi e i loro piaceri, quali
sono loro elargiti ». Non c'è nessuna probabilità che sia cosi; la loro
stessa psicologia vi si oppone. Anche le bestie hanno un universo nella
loro testa, e non importa che sia piccolo. Possono trovare la loro
pienezza in ciò che per noi sarebbe niente, e pienezza non
significa perfetta felicità?
La loro pace e la loro gioia si palesano spesso a noi,
anche in situazioni che ci sembrerebbero attristanti e penose. Uccelli
prigionieri saltellano e cantano. Liberi, rovesciano dall'alto del ciclo
cascate di grida. Nei pascoli, nelle stalle e nelle scuderie sembra che le
bestie godano ordinariamente una pace profonda. Il rumore delle loro
catene, di notte, non è lugubre. La felicità proverbiale del « pesce
nell'acqua » non è forse cosi ingannevole. E anche se si tratta di un
piccolo chiozzo che i1 luccio passando inghiotte, è forse questa una
prova in contrario?
L'immaginazione c'inganna. Finché viveva, questo
piccolo essere godeva di vivere. Non esiste più: è tutto, e il passaggio
dall'essere al non essere comporta per lui assai poca coscienza, e quindi
assai poco dolore.
Ha ragione sant'Agostino: è la nostra parentela
corporea con i nostri fratelli inferiori che ci inganna sulla loro
condizione. Ci mettiamo « al loro posto », e non consideriamo
sufficientemente la differenza capitale che ci separa da essi. Differenza
decisiva su questo punto e che ci costringe a capovolgere completamente i
nostri giudizi.
Ecco quindi l'osservazione che tenevamo in riserva e
che ci sembra capace di dirimere il contrasto. Tutti i cristiani
sostengono che nella natura generale la materia è per lo spirito. I
naturalisti da parte loro affermano che l'evoluzione delle specie viventi
si è sempre orientata verso la presa di coscienza più alta, finché è
esploso il miracolo detto Yominizzazione, per il quale lo spirito
è emerso e ha assunto la dirczione del mondo.
Un fatto cosi strepitoso getta una luce decisiva sul
nostro problema. Se la materia è per lo spirito, se la vita inferiore è
tutta orientata verso la vita superiore dello spirito, si deve vedere
nell'animalità una specie di tirocinio della vita umana, uno slancio
verso di essa, slancio raggelatesi ora che il risultato è acquisito —,
a meno che non ci sentiamo spinti a continuarlo in noi stessi; ma che in
ogni caso lascia sussistere la solidarietà dei due gruppi. Si tratta di
una stessa famiglia, di cui il primogenito è riuscito, ha « bucato »,
l'altro essendo rimasto indietro senza per questo cessare d'essere
dipendente, derivando la sua ragion d'essere dal fratello maggiore, la cui
esistenza palesa l'intenzione prima della creazione.
Meraviglioso disegno cui ha dato-avviamento
l'apparizione del primo seme di protoplasma sulla terra- A motivo della
sua attuazione, le bestie sono legate al nostro destino da una comune
finalità, che è nostra. Gli animali sono nostri. Lo sono carnalmente in
ragione dell'unità della biosfera, di cui l'umanità è il culmine. Lo
sono quasi spiritualmente, poiché la carne è per Io spirito e partecipa
di esso, nell'animale, in una maniera che ha potuto far pensare a una
identità di natura. L'uomo nei loro rispetti è una creatura centrale,
che riunisce nella sua costituzione, la più perfetta di tutte, le
proprietà vitali di tutti, per quanto erano compatibili.
Ma per ciò la sofferenza animale partecipa come
la nostra a quel gemito universale, che prepara i nuovi deli &
la nuova terra predetti dall'Apocalisse. Vi si manifesta la legge
del sacrificio, legge che l'animale non conosce, ma che noi conosciamo per
lui, legge che esso subisce solidamente con noi, raccogliendo i frutti a
suo vantaggio sotto forma delle umili gioie che tutto malgrado gli sono
concesse.
Il sacrificio animale mirava primariamente al
dischiudimento dello spirito e non ha terminato di collaborare a ciò, dal
momento che siamo debitori all'animale di molte cose per la nostra
educazione individuale e il nostro lavoro, per il nostro nutrimento,
vestimento, per i nostri utensili, per la materia delle nostre produzioni,
etc. L'animale manifesta nel suo comportamento mille faville
d'intelligenza, d'abilità, d'arte e di istinti utili che
s'incorporano nella nostra civiltà. Molte volte è il nostro istnittorc,
spesso il nostro amico e come avversario non ci è inutile. Ci controlla.
C'è tra lui e noi una sorte di comunità e talvolta di rivalità
culturale che ci è di profitto. La storia dell'uomo non può essere
stabilita indipendentemente dalla sua e non si continua che col suo
concorso. La macchina non sostituirà mai completamente questa forza
vivente, che vede e a modo suo ci comprende. Non a torto il poeta evoca,
tra altri esempi di questo scambio segreto :
Le chien a qui Fon parie et dont l'oeil vous comprend 53.
53 V. Hcco, Les Voix
intériewes. Pensar, Dudar. [Il cane, cui si parla e il cui occhio vi
comprende].
Nel momento in cui scriviamo, in Haute-Savoie, un cane
da pastore ritorna alla fattoria spingendo innanzi con piccoli abbaiamenti
un gruppo di mucche ch'esso era andato a cercare a tré quarti d'ora da
qua, in alta montagna, e che aveva dovuto scegliere una ad una in una
massa di loro simili. Ne aveva ricevuto l'ordine nei termini usati, fissi
nella sua memoria, e ora veniva gioioso a chiedere la ricompensa.
Non tutta l'immensa tribù animale è in simili
rapporti con noi; ma tutta, nella provvidenza, è connessa alla
nostra condizione, non esisterebbe se non fossimo dovuti esistere, si
tiene disponibile per il nostro servizio e per il servizio generale dello
spirito.
L'ère de Fame, en elle, est déjà commencée54.
54 V. hcgo, ibid. [L'era
dell'anima, in essa, è già cominciatal.
Lo era già
—Aa-eems de& temps.. profonda puThomme n'était
pas55. 55
sully pkcdhomme, La /astice, 8° veille. tNel corso dei tempi
lontani, in cui l'uomo ancora non era].
Per ciò le sue sofferenze
come le sue umili gioie sono mescolate alle nostre, avendo lo stesso
significato, tendendo allo stesso scopo, sotto la legge universale del
sacrificio, cosciente o incosciente, lo scopo che tutto domina. Uno scopo
sublime, poiché si tratta, essendo stato raggiunto lo spirito, di
spingersi fino alle forme più alte dello spirito e insieme, si, insieme,
con il prolungamento all'indietro di tutta la natura, di « fare degli dei
» 5B. 56
H. bebgson, Les deux sources de la morale et de la religiw, alla
fine.
Ci sembra che ci sia in ciò una giustificazione. Ci si
diceva : « L'animale è innocente », ed è vero. Si aggiungeva : «
Essendo impossibile il suo svolgimento morale, il suo dolore non viene
utilizzato ». Ora, la prova che l'animale poteva per volontà divina
accedere all'ordine morale è data dal fatto che noi vi siamo pervenuti.
La sofferenza dell'animale pre-umano allora forse non si giustificava : si
giustifica ora con ciò che doveva produrre, con ciò che produce, con
ciò che produrrà. Se c'è una biosfera propriamente detta,
bisogna considerare sotto questo riguardo tutto l'ordine della vita come
un solo essere, le cui condizioni di crescita sono infinitamente
molteplici, e tra esse il dolore e il sacrificio.
La preoccupazione per la sua immensa opera doveva, per
cosi dire, indurire il cuore di Dio contro le nostre debolezze
sentimentali. Non si ferma un esercito in marcia verso la vittoria per
evitare ferite ai combattenti. E inoltre, bisogna ripeterlo ancora una
volta, parlando della sofferenza delle povere bestie, per lo più
ragioniamo come bambini ingannati dal loro caso.
In breve, nei riguardi dell'universo, la
giustificazione della sofferenza animale è l'uomo divenuto il dio
del filosofo e Veletta cristiano. Nei riguardi dello stesso
animale, questa sofferenza è lo scotto della sua esistenza, che deve a
quest'ordine, e dei piaceri che gliene vengono in compenso dei suoi
dolori. Il trionfo del combattente paga la ferita della bestia che egli
cavalca come paga la sua, di lui che fa con essa un glorioso centauro. E
il trionfo dell'umanità paga la sofferenza immemorabile della terra, del
mare e delle acque.
Ci si accuserà di mancanza di rispetto o di bestemmia
se diciamo che c'è continuità tra la sofferenza del più piccolo verme e
il sacrificio del Cristo? Tuttavia è cosi, poiché il Cristo cammina con
la sua croce in testa alla schiera degli umani che va verso il suo ultimo
fine, e l'umile animalità sta in disparte o ai fianchi di questa mistica
processione, a titolo ^ILJontana a immediata condizione.
Caso delle piante
Molti si stupiranno di veder introdotto il caso delle
piante in un lavoro sul Problema del male. Dall'uomo, che sembra loro la
debba accaparrare tutta, possono essere disposti ad estendere la loro
preoccupazione all'animale, che vedono soffrire, e di cui alcuni
rappresentanti entrano nella loro vita familiare. Ma la pianta!
I principi sopra esposti non ci consentono la più
piccola esitazione. La pianta ha una costituzione naturale che può essere
alterata dal male. La pianta vive. Anche la pianta ha un'« anima »,
dalla quale deriva il tipo della sua specie, la finalità organica con il
suo ciclo d'operazioni, la facoltà di nutrizione e di riproduzione,
l'istinto, la tendenza estetica. Tutto ciò può essere soddisfatto, può
anche essere eluso, coartato, ferito e alla fine distrutto dalla morte.
Non è male ciò?
La pianta raggiunge il germe animale nel suo grado più
basso d'organizzazione e si distingue da esso a fatica. Ci si compiace di
dire che se ne distingue almeno per la mancanza di sensazione; ma è
un'affermazione assai audace. Siamo soliti classificare gli esseri in
compartimenti ben delimitati, etichettati, di gran comodità per la
scienza medesima e soprattutto per il linguaggio. Ma la natura se ne ride
delle nostre divisioni, s'insinua, continua, « s'imita » dice Pascal, e
questo principio di continuità che ovunque sembra presiedere al suo
lavoro rende piuttosto improbabile l'assenza di ogni sensibilità in un
vegetale di struttura un po' complessa.
Oui, chaque atome de matìère Par un esprit est
habité;
Tout seni, et la nature entière N'est que douleur et
volupté,
ha detto Lamartine57 57
Troisième Méditation, Les Esprits dea fleurs. [Si, ogni
atomo di materia è abitato da uno spirito; ogni cosa sente, e l'intiera
natura non è che dolore e voluttà].
Parole di poeta? Certo, ma le intuizioni dei poeti
hanno il loro valore, inoltre la scienza non sconfessa su questo punto la
Musa. Ch. Richet, che non è un poeta, scrive : « Se si cerca un segno
preciso che separi l'animale dal vegetale, non lo si trova. Non vi sono
caratteri differenziali assoluti tra l'animale e il vegetale ». « Vi
sono animali che per tutta la durata della loro esistenza restano
immobili, apparentemente insensibili, senza nemmeno, come la sensitiva, la
facoltà di sottrarsi con un brusco movimento alle offese esteriori »58.
58 L'Homme et FIntelligence,
p. 339
Gli zoofiti, che segnano il passaggio tra il mondo
vegetale e il mondo animale, sono dotati di sensibilità : questa non deve
forse continuare da entrambe le parti? Se si rifiuta ogni sentimento alle
amebe, che probabilmente sono vegetali, non c'è motivo per concederla ai
radio-lari, che sono sicuramente animali.
Nello stato attuale delle nostre conoscenze, molti
fatti spingono a ritenere che le piante superiori si congiungono agli
animali inferiori per la sensibilità, cosi come li raggiungono per
l'organizzazione e che ad esempio il convolvolo, il girasole o la foglia
di vite sentono la luce verso la quale si dirigono; che la mimosa pudica o
la dionea sentono il contatto degli insetti, sui quali le loro foglie si
piegano.
La rose, vierge encore, se referme, jalouse, Sur le
frelon nacré qu'elle enivre un moment,
aveva detto Alfred de Musset59 59
La Nuit de Mai. [La rosa, ancor vergine, si richiude, gelosa, sul
calabrone ch'essa per un momento inebria].
. Non è regola che ogni azione riflessa sia preceduta
o accompagnata almeno da un minimo di percezione psichica?
Si può pure sostenere che le sensazioni animali legate
alla nutrizione e alla riproduzione hanno il loro analogo nell'interno
della pianta, tenuto conto della relativa semplicità della sua
organizzazione e dell'assenza d'un sistema nervoso centrale che qui non è
indispensabile. Può darsi invero che queste sensazioni si producano in
maniera strettamente locale, in ordine disperso, e che cosi la pianta nel
suo insieme non conosca l'unità di coscienza. Poco importa ; se sente è
nella condizione di soffrire, e in ogni caso, questa volta sia nel suo
insieme che nelle sue parti, può subire gli attacchi in cui consiste
essenzialmente il male.
Se in materia fosse consentito esprimersi da puro
filosofo si direbbe:
Una certa soggettività di ogni vita è inevitabile dal
momento che è un ritorno dell'attività su se stessa: motus ab
extrinseco. Ciò dovrebbe essere tanto più vero quando la vita si
manifesta non più in una forma ancora indeterminata, come nel
protoplasma, ma in una forma nettamente individuale, come in un rosaio o
in una quercia. Un albero, un arbusto è un indivìduo. Non è anche un
soggetto? Lo si riterrebbe o priori, se non si pensasse di avere
l'evidenza contraria. Ma questa evidenza, estrinseca, non inganna? Le
piante talvolta reagiscono altrettanto decisamente di certi individui di
specie animali inferiori. Dormono e si risvegliano. Sono sensibili al
cloroformio e agli eccitanti allo stesso modo dell'animale, come ha
sperimentato Claude Bernard. Non è questo il segno di una
•certa emotività, per diffusa e subcosciente che si
supponga? Si può percepire senza appercepire, per adoperare
il linguaggio di Leibniz 60 60
Oeuvres, Ed. Dutens, II, B. 40.. Le
piante forse non appercepiscono che esse percepiscono, intorpidite
in ciò che Schlegel chiama una « divina pigrizia » ; ma che non
percepiscano in nessun modo, si stenta a credere.
Darwin, in base a numerose osservazioni, non esita ad
attribuire al vegetale la facoltà di sentire e persino un inizio di
attività volontaria. Cita a sostegno un gran numero di fatti notevoli,
che sono stati poi
•osservati da altri61 61
darwin, Trattato di zoonomia; L. labat, De rimtabilité des
plantes, de l'analogie qu'elle peut avoir avec la sensibilité organique
des animaax, 1834, Germain Baillière..
Constatando come tutti che le piante sono soggette all'anestesia e al
sonno, ritiene di osservare in esse, di notte, movimenti simili a quelli
provocati dai sogni.
Da parte loro, Bonnet, Humboldt, de Saussure, hanno
riconosciuto alle piante movimenti spontanei, e sembra assai certo che
la spontaneità e la sensibilità siano due fenomeni inseparabili.
Le piante insettivore, particolarmente interessanti a
questo proposito, sono state studiate da Darwin in un'opera speciale (Le
piante insettivore). Recentemente, nel 1926, il sistema nervoso delle
piante è stato posto fuori dubbio e studiato con metodi molto precisi da
sir Yagadis Chunder Bos, direttore dell'Istituto di Ricerche di Calcutta,
in un'opera intitolata :
Thè nervous mechanism of plants. Vi si trova
stabilito che, almeno nelle piante vascolari, c'è un sistema nervoso ben
definito, come nell'animale, con centri per la trasformazione
dell'eccitazione in movimenti efferenti. L'impressione passa dal fusto
alle foglie e dalle foglie al fusto, con
•velocità variabili a seconda delle stagioni e dello
stato di salute della pianta. Sotto questo riguardo nella pianta e
nell'animale si rivela uno stesso meccanismo. Per la verità, non
si è scoperta una struttura corrispondente al ganglio animale, ma essendo
stati constatati i fatti fisiologici si può sperare di trovarne un giorno
l'equivalente istologico. Non è detta i'ultima parola.
In queste condizioni non si può affermare con certezza
che vi sia sensazione propriamente detta, cioè percezione soggettiva. Le
Dantec lo metteva in dubbio per i suoi stessi fratelli umani. Il
soggettivo è percepito-solo dal soggetto. Ma l'analogia, congiunta al
principio di continuità,. induce fortemente a crederlo, per vaga che
d'altronde possa supporsi questa percezione. In questo caso si dovrebbe
vedere nella pianta un soggetto di dolore, e la caduta di un bell'albero o
un incendio di foresta assumerebbe un senso più tragico.
Difronte a un grande abete in fiamme oppure che cade,
dopo un ultimo colpo di scure, con uno strepito cosi commovente, si stenta
a immaginare un'assenza totale di percezione penosa. E forse è pura
immaginazione; ma forse è l'opinione contraria un difetto
d'immaginazione. « Sembra che qualcosa abbia gridato, pianto, tremato nel
cuore dell'albero », dice in qualche luogo Tolstoi. Lamartine fa dire ai
cedri della Chute d'un Ange: Et nous, n'avons-nous pas une ame Dont
chaque feuille est une voix? *
Qui la metafora scoppia. Ma c'è qualcosa di più in
questo verso di Gerard de Nerval tolto da un celebre sonetto: Chaque
fieur est une ame a la nature éelose, e l'affermazione è ormai assai
decisa in Sully Prudhomme, quando paria delle piante
Où le silence est fait d'impuissance a gemir, o
quando invoca come noi il principio di continuità in questa forma
poetica :
La sève que j'y vois courir Est déjà du sang, pale
encore. **
Continuità che si compie in questa osservazione: Tout
etre a, dès qu'il sent, quelque chose d'humain62.
62 sully prudhomme, La
Jwtice, 2" veille. [Ogni essere, dal momeiyo che sente, ha
qualcosa d'umano],
Non si potrebbe esprimere questa stessa continuità
naturale dicendo r L'uomo è un animale che pensa; l'animale è una pianta
che sente e che imita il pensiero; la pianta è uno stormo di atomi che
vive e che imita la sensazione; il tutto è un'organizzazione in
nome del bene e cosi si presta al morso del male?
E noi, non abbiamo un'anima noi, di cui ogni foglia è
una voce?
Ogni fiore è un'anima dalla natura dischiusa —; In
cui il silenzio è fatto" d'impotenza a gemere —; La linfa che vi
vedo scorrere è già sangue, ancor pallido.
II bene, abbiam detto, e perché non facciamo
intervenire il concetto del bello? Una donna, alla quale una malattia ruba
la bellezza non considera questa disgrazia un male? Molte bestie sono
sensibili a questo accidente. Allora si nascondono. L'ostentazione di
bellezza che accompagna nella pianta le funzioni di riproduzione non
sembra testimoniare una sensibilità analoga, una specie di segreta
coscienza estetica? Il fiore dispiega i suoi petali come il pavone la sua
coda. Si direbbe che anch'essa si mostra, anziché soltanto lasciarsi
vedere.
Inoltre, oggettivamente parlando, il problema del male
che si pone per gli umani e per gli animali a motivo della bellezza, e non
soltanto della sofferenza, si pone pure a questo riguardo per le piante.
Porre il piede su una rosa sbocciata ci sembra una specie di
profanazione. Ora, la misura delle bellezze floreali e vegetali,
nella natura, non è minore di quella delle bellezze animali; è
superiore. In ogni modo il problema s'imponeva, e nessuno ha diritto di
negarne l'esigenza.
In una lettera all'editore Dunoyer, Baudelaire scriveva
: « Sono incapace di intenerirmi sui vegetali ». Sia ! Non si singhiozza
al veder abbattere un albero, ma un contadino è impressionato già da
questa grandezza abbattuta, da questa bellezza distrutta. Assi, al posto
della quercia di IVIambré!... E tutte queste umili vite che sono i fiori
dei campi, le meraviglie dei nostri giardini, le siepi primaverili
non sono un poco nostre sorelle e non ci commuovono?
Baudelaire stesso scrive nel medesimo passo : « La
musica prodigiosa che vaga sulle cime mi sembra la traduzione dei lamenti
umani ». Da che cosa dipende questa musica se non dall'inquietudine delle
fronde tormentate da grandi soffi di vento? Vi sono pure altre musiche,
non meno significative, che indicano una fraternità tra gli esseri,
simbolo cosi gli uni degli altri. Si ricordi Baudelaire: Là nature est
un temple où des vivants piliers Laissent parfois sortir de confuses
paroles;
On y marche a travers des forets de symboles Qui nous
frolent avec des regards familiers63.
63 Les Fleurs du, Mal.
[La natura è un tempio in cui colonne viventi lascian talvolta uscire
confuse parole; vi si cammina attraverso foreste di simboli, che ci •sfiorano
con sguardi familiari].
Conclusione. Anche le piante sono soggette al male e
non possono essere escluse ne dall'universale lamento degli esseri,
ne dall'universale redenzione.
Si comprenda il senso che qui diamo alla parola
redenzione. San-Paolo ce lo ha commentato con forza, e il discorso di
Galilea sui fiori dei campi e gli uccelli del cielo, le effusioni dei
salmi nello stesso senso. hanno colto la realtà della natura meglio del
filosofo pessimista. Il lato d'ombra è in tutto e ovunque facile da
dipingere; ma il cantico universale-ha le sue ragioni, e tutte le creature
sono invitate a cantarlo insieme.
Tutto ciò che è sulla terra: rocce, terre, acque,
atmosfera, piante,. animali ragionevoli o irragionevoli, è l'umanità in
potenza o in attuazione, in stato di risveglio o di compimento, in
sostanza o in prolungamento. Pertanto la condizione comune è per cosi
dire la stessa, e il risultato può concludersi con lo stesso Amen
mistico alla fine dei tempL
NOTA DEGLI EDITORI
La stesura di quest'opera, alla quale U P. Sertillanges
lavorava da più di cinque anni e che doveva coronare la sua carriera di
scrittore, era a questo punto il 25 luglio 1948.
Come usava fare da quattro anni, U Padre s'era ritirato
durante l'estate nell'ospitale casa delle Domenicane di Sallanches, in
Haute-Savoie e, di fronte al grandioso massiccio del Monte Bianco,
proseguiva la sua opera con accanimento. Quell'anno, per portare a termine
il suo lavoro, aveva anticipato la data ordinaria del suo laborioso
ritiro. Niente nel suo stato di salute poteva suggerire preoccupazione: i
suoi ottantacinque anni non avevano indebolito la sua attività. E
nondimeno, come se presentisse confusamente che i giorni per lui
erano contati, aveva fretta di finire la sua fatica.
Lavorava alla composizione del -secondo volume, in,
cui, dopo aver esposto criticamente la storia del problema del male
attraverso le filosofie, avrebbe proposto la sua risposta in uno studio
sintetico, cui si era accostato a più riprese nel corso della sua opera e
che ora si trattava di fissare in tutta la sua ampiezza.
Assistiamo a una specie di corsa patetica: per ciascuno
dei capitoli che finisce, si direbbe che abbia riportato una vittoria sul
tempo. « Tutto ha ritrovato il
suo posto, e il lavoro è in corso, scriveva da Sallanches il 3 giugno
1948. Ho classificato le note del mio primo capitolo: "La natura del
male ", e ne ho scritto quattro pagine doppie... ».
Negli ultimi anni, aveva accumulato note sul problema
che lo premeva: un pensiero che sorgeva improvvisamente dalla sua mente
al lavoro giorno e notte, un abbozzo di svolgimento, una citazione in
occasione di una lettura, secondo il metodo che aveva preconizzato ne
La Via Intel-lectuelle. Si trattava ora di dare la vita a questo cumulo
di foglietti disparati.
A partire dal 10 giugno, terminato il primo capitolo,
comincia U secondo. Trentotto pacchetti di note sono classificati. «
Questo Capitolo è il più importante, scrive a un corrispondente; è il
capitolo sintesi; se riuscisse, la battaglia sarebbe vìnta ».
Aveva dovuto lottare duramente contro la pesantezza di
questa massa da ordinare, voleva arrecare un estremo rigore nella
confusione e oscurità di questo difficile problema. Si era dato consegne,
che aveva fissato per iscritto:« Cercare che il piano si dispieghi
come un concatenamento necessario. Un piano inclinato permanente ». Provava
ora fatica a mantenere la sua decisione, e questo infaticabile lavoratore,
che scriveva come
•si respira, annotava alla data del 17 giugno:
«Avevo scritto, negli ultimi storni della mia preparazione: Mi sento
ricco, adesso bisogna saper spendere. Ahimè! quanto poco importano queste
parole d'ordine quando si prende in mano effettivamente la penna;
ci si sente schiavi della materia anziché dominarla e trascinarla in un
bello slancio. Non importa, non sono malcontento di ciò che
ha fatto fin qui. Continuando cosi, spero d'arrivare in porto ».
Il 24 giugno, il P. Sertillanges intravedeva la
fine di questo secondo capitolo, che gli aveva dato tanta preoccupazione.
Ancora tre o quattro giorni, diceva, e sarà finito. « Ma allora, molto
sarà stato ottenuto, poiché, ve I7 ho detto, è il capitolo
centrale che avrà influenza su tutto il resto ».
Il 1° luglio il punto era posto a questo secondo
capitolo, che aveva assunto proporzioni cosi imponenti che bisognò
sdoppiarlo. Come il buon operaio che si frega le mani dopo un duro compito
portato a termine, Fautore dichiara d'esser contento: « La somma
d'idee è considerevole e eredo che sia nondimeno vivo, e vario sia di
tono che per i punti di vista ».
Si spiega sulle difficoltà che ha dovuto superare.
Questo capitolo cruciale tratta invero dell'origine del male. D'altronde
è in esso che espone il problema capitale dei rapporti di Dio e
della -sua creazione, e cosi quello del peccato originale come spiegazione
del male. Nella seconda parte, diventata il capitolo III : « Alle prese
con l'avversario », si sforza di risoondere alle obiezioni
sollevate dall'insuccesso iniziale di Dio, dalla— scacco della
Riparazione, dalla protesta dell'Abisso e dal prezzo della libertà. Il
Padre aveva l'impressione d'aver trionfato in questa prova con suo
onore: « Se il resto ha la stessa vena, spero di metter insieme
un'opera utile e che, fino ad oggi, non esisteva ».
Prima di passare al quarto capitolo, il P. Sertillanges
decise di metter in pulito il suo lavoro, le carte essendo sovraccariche
di aggiunte e di correzioni. Come succede in questi casi, questa fatica
fastidiosa gli diede occasione di dare maggior stringatezza al testo e di
perfezionarlo. « E' ora pronto per la stampa, scrive F8 luglio, di
modo che se domani m'accadesse qualcosa, potrebbe benissimo esser
pubblicato. Il lavoro, come, non è molto ricco, ma ha di che vivere;
poiché tutti i punti di vista generali sono considerati. Domani mattina
affronto " II male nella natura "... ».
Lavora con tutte le sue forze. A Sallanches, il tempo
cattivo non invita alla passeggiata. Meglio: come il suo compatriotta di
Clermont-Ferrand, il P. Sertillanges ha le sue nebbie e il suo bei tempo
nell'intimo. « II tempo e il mio umore hanno poco nesso... ».
Non dipende per niente dalle condizioni atmosferiche e poiché gli è
preclusa la passeggiata quotidiana, l'opera ne avvantaggia.
Siamo al 15 luglio. «.Ho portato avanti il quarto
capitolo: "II male nella natura". Oggi ho scritto un lungo
paragrafo (un piccolo capitolo} intitolato " II Cantico
", che è abbastanza cantante. Comprendete che cosa significhi ciò:
la natura in quanto ordine e bellezza. .Domani tratterò degli animali; ho
in proposito molte idee, e una nuova, credo, e illuminante ».
Ma ad un tratto ecco riflessioni che non ci fanno più
sorridere, poiché si spiega sull'allusione alla sua prossima fine, nella
lettera delT8 luglio che aveva messo in apprensione il suo corrispondente:
« Credete, non ho voglia di vedermi morto. Ma non
si sa mai; allora si è contenti di avere una piccola eventuale
assicurazione. A ogni capitolo mi dirò: Ecco una piccola garanzia in
più».
In data 21 luglio: « Qui tutto bene. La mia salute è
sempre perfetta. Ho terminato il capitolo su " 11 male nella
natura ". Ciò che riguarda gli animali e le piante ha richiesto più
pagine che non credevo. Penso che non sarà privo d'interesse. Sto
ricopiando questo capitolo ».
Era un mercoledì, quando il P. Sertillanges scriveva
familiarmente queste linee. Non gli restava più da vivere che fino al
lunedì. Quel giorno era la festa di sant'Anna, sotto la cui protezione
era posto il Preventorio delle Domenicane, di cui era f'ospite.
In quest'occasione, la direttrice gli aveva chiesto di
rivolgere qualche parola al gruppo di ragazzi e di giovinette, degli
operai e degli studenti della regione parigina, alloggiati allo Chalet
Sdinte-Anne, e ai contadini del casale. Non era la prima volta che il
celebre oratore della Madeleine parlava a quest'umile uditorio. Certo,
avrebbe potuto abbandonarsi, a caso, all'ispirazione o
all'improvvisazione, ma rispettava troppo gli spiriti, fossero pure i meno
esigenti, per non dedicare tutte le sue cure al lavoro più semplice, e si
era preso la briga di redigere questa breve allocuzione.
Si preparava dunque a celebrare la messa del 26 luglio
in una cappella rustica dedicata a sant'Anna, a pochi passi dal
padiglione, in cui si trovava la camera che occupava. Poiché tardava un
poco, lui sempre scrupolosamente preciso, si bussò alla sua porta per
avvertirlo ch'era ora e che l'uditorio lo aspettava.
Poiché non rispondeva, bisognò spingere la porta: il
P. Sertillanges, steso sul letto, aveva da poco esalato l'ultimo respiro.
Mentre si preparava a scendere in cappella, rifletteva sul suo breve
discorso. Gli parve che dovesse aggiungere un finale meglio riuscito.
Smise di vestirsi e, sedutosi al tavolo di lavoro, scrisse queste righe,
le ultime che dovevano uscire dalla sua penna:
« E poi anche noi pregheremo gli uni per gli altri,
non è vero, per pagare i nostri debiti reciproci, e affinchè il buon Dio
ci conceda di approfittare sempre più dei suoi benefici per avvicinarci
sempre più a lui e andarlo un giorno a ritrovare nel suo paradiso ».
Dopo aver scritto quest'ultima parola — la risposta
pratica al problema del male —, il 26 luglio 1948, verso le ore 7 e
mezzo del mattino, il P. Sertillanges sentendo d'un tratto che il suo
cuore cessava di battere, si distese per addormentarsi nel Signore.
La sua grande opera non restava, in verità,
incompiuta. Il P. Sertillanges aveva ripetuto e scritto in diverse
riprese, durante i suoi ultimi giorni, che ormai l'essenziale era detto e
che il resto era secondario. I capitoli, che rimanevan da comporre su
« II male nella vita umana, nella
122 NOTA DEGLI EDITORI .
storia e
netta città di Dio », li concepiva come corollari della parte
metafisica ch'egli aveva elaborato.
Aveva tuttavia una coscienza troppo viva del mistero
per non lasciare in sospeso tultima ragione che avremmo di conceder
fiducia a Dio non ostante il male sotto tutte le sue forme. Per ciò
l'ultimo suo capitolo doveva, a modo di conclusione, immergerci nel senso
del mistero davanti a questo problema formidabile e oscuro, sul quale
nessuno quaggiù avrà l'ultima parola, il solo problema, in definitiva,
che ci ferma ai confini i del creato e della soprannatura. Si
potrà giudicarne dai pochi pensieri ^ che facciamo seguire a questa nota
e che il Padre avrebbe inserito neìla \ conclusione. '
Non c'è risposta compiuta e esauriente. Se il fascio
di luci che questo lavoro approfondito getta sul problema ci fa
intravvedere Dio che | spalanca le sue braccio, solo « la fede
vivente, cioè animata d'amore », ci indurrà a rannicchiarci
nel cuore di Dio. « Soltanto da questo rifugio, ci si può
rivolgere all'opera, e con lo sguardo a Lui, comprenderla. Sema di ciò,
anche sapendo che lo ha fatto, il suo universo ci sembrerà uno scandalo
».
Alcuni pensieri, raccolti nelle numerose schede che
dovevano aiutare l'autore a comporre l'ultimo capitolo, ci permetteranno
di accettare meglio U mistero.
IL MISTERO
II problema fondamentale è questo : Perché il male è
incluso in un ordine ritenuto buono? Perché c'è cosi opposizione tra
il fine e i mezzi? Perché la felicità è posta nella dipendenza
della sofferenza, la salvezza nella dipendenza della caduta possibile,
probabile e, per Io sguardo divino, certa? Perché la salvezza d'uno è
legata alla perdita dell'altro? Perché la vita presuppone la morte?
Quest'ordine sembra cattivo. E non si può dire che un altro non può
esistere; significherebbe negare l'onnipotenza divina. Da questo punto di
vista, si comprendono le supposizioni manichee e si capisce che la
tentazione ne sia stata cosi frequente.
E' certo che coloro che domandano un altro universo in
cui il male non esisterebbe non sanno ciò che chiedono. Sarebbero in
imbarazzo se dovessero definire tale universo e incapaci di costituirlo.
Ma ciò non è un argomento sufficiente contro di loro; poiché le nostre
possibilità di concezione non uguagliano la potenza divina di concepire e
di fare. Da parte nostra, abbiam detto ciò che abbiamo potuto. Ma se lo
scandalo è cosi escluso, non lo è il mistero.
Per dare una soluzione decisiva al problema del male,
occorrerebbe attuare una condizione che sfugge necessariamente a tutti,
cioè illuminare la connessione del pensiero divino e del pensiero umano,
cioè del relativo e deU'assoluto, del finito e dell'infinito.
La connessione la nominiamo, è Fazione, o, meglio, la
relazione creatrice; ma non la penetriamo. Poiché, come dice
profondamente Victor Delbos, « tra l'infinito e il finito, che l'atto
creatore unisce, c'è ancora un infinito » (Le problème mond dans la
philosophie de Spinoza, p. 501). Si, un infinito ; poiché una unione
reale implica la presenza intiera dei due termini, dei quali uno è qui
l'Infinito in persona. Di modo che per definire la partecipazione,
che ci illuminerebbe il resto, bisognerebbe definire Dio,
324 IL MISTERO
•che è per noi un abisso di luce, cioè un abisso
che ci abbaglia, cioè un abisso di tenebre.
In nostro potere rimane di cercar di definire questi
rapporti sia con simboli, sia nel caso migliore con analogie parzialmente
valide, ed è appunto ciò che abbiam fatto, opponendoci, invece, ad
analogie meno valide poiché troppo lontane. Ma in nessun caso perveniamo
alla radice "delle cose.
Dinnanzi al mistero e al silenzio del mondo c'è scampo
solo nelle traccia di Dio. Solo da questo rifugio ci si può rivolgere
all'opera e, •con lo sguardo a Lui, comprenderla. Senza di ciò, anche
sapendo che lo ha fatto lui, il suo universo ci sembrerà uno scandalo. Al
fondo della nostra adorazione vi sarà bestemmia, dubbio al fondo della
nostra affermazione. Bestemmia sconfessata, dubbio virtuosamente scartato,
ma conservanti entrambi il loro morso. Si potrebbe dare questo senso alla
grande parola di sant'Agostino quando constata che « il nostro cuore è
inquieto finché non riposa in Dio ».
In questo mondo, lo può con la fede e l'amore
fiduciosi.
Dio può agire solo per il Bene ch'egli stesso
rappresenta. Dove altrimenti troverebbe un motivo per agire? Come si
concili questo Bene con il bene della creazione nel suo insieme e
col bene di ogni singola creatura,
-è il problema della creazione, dei fini divini della
creazione, delle volontà
-e delle permissioni divine della Provvidenza,
del bene e del male che potranno incontrarsi sotto questo
governo. E si vede che in ciò, alla :fme, sta un
mistero impenetrabile.
Questo problema comincia con quello dell'essere partecipato;
continua 'con quello dell'attività divisa, con quello dei fini
considerati e, infine,
-dei fini ottenuti. E si deve pensare
che lo stesso mistero si trova ovunque. In che modo noi siamo, dal momento
che Dio ha tutto l'essere? In che modo agiamo liberamente, dal momento che
Dio fa tutto? In che modo possiamo tendere ai beni che ci appartengono,
dal "momento che l'impulso che ci crea tende e non può tendere che
all'Infinito del bene?
Come possiamo concepire in questo cammino da Dio
a Dio deficienze
-chiamate male o peccato, dal momento che
l'impulso che attiva o trascina tutto si mantiene perfettamente in regola,
e come infine, nel risultato, c'è armonia tra il male che sussiste e la
soddisfazione del volere divino tendente al perfetto? Tutto ciò è
connesso e manifesta ad ogni grado
-la stessa dose di mistero.
IL MISTERO 125
Quando ci rifugiamo nell'uso della celebre esclamazione
O (dtitudo!..., si dice che fuggiamo e rinunciamo a ragionare. Al
contrario, ragioniamo molto bene e obbediamo a una regola della ragione
che non si dovrebbe mai misconoscere, cioè di non rinunciare a una
certezza per un dubbio, a un sapere sicuro per un'ignoranza. Sappiamo di
scienza sicura, per ragionamento dimostrabile cosi come per convinzione
religiosa, che Dio è sovranamente potente, saggio e buono. Non
rinunceremo a questa certezza per apparenze sia pure inquietanti, anche se
sfioranti l'evidenza, relative alla piccola parte del piano divino che
possiamo esplorare e che non è niente rispetto all'insieme.
Il bene e il male essendo in lotta perpetua e dandosi
reciprocamente occasione in ogni dominio e a tutte le tappe temporali
dell'attività, il problema della legittimità del male in una creazione
saggia e buona può essere risolto solo per mezzo di una conoscenza
integrale dell'ordine del bene.
Ora, l'ordine del bene può essere conosciuto in due
stati : nella sua sorgente e nella sua partecipazione globale derivata dal
fatto creatore.
Nella sua sorgente, il Bene è Dio stesso, che potremmo
conoscere solo. con una intuizione diretta, che, beninteso, è aldilà dei
nostri poteri. E' la sorte degli eletti nella visione eterna.
Il bene partecipato nella sua integralità essendo
temporale ' può esser conosciuto solo dopo l'intiero dispiegamento del
tempo, nell'ora di ciò che san Paolo chiama il Perfetto, che non sarà la
fine dell'attività, ma sarà la fine della ricerca, di modo che l'ordine
dei fini e dei mezzi sarà interamente manifesto e il piano potrà essere
giudicato, poiché in ciò consiste.
Fino a quel momento c'è solo un buon argomento ad uso
degli obbiettanti e ad uso pure degli apologisti troppo sicuri di se
stessi :
quello di Giobbe, Giobbe che si sente dire : «
Troverai la natura di Dio? Penetrerai fino .in fondo l'Onnipotente? » (XI,
7).
I misteri non sono vuoti. Si può dire senza paradosso,
hanno più densità che tutto il resto, ed è appunto la loro densità
adamantina che li rende impenetrabili. Nella loro notte il pensiero
illuminato assicura les sue articolazioni e trova la sua forza.
Quando diciamo, del problema del male, che la sua
ultima soluzione è nel mistero, non affermiamo dunque che sfugge al reale
e svanisce; notiamo che essa raggiunge l'Essere pieno, le cui
comunicazioni hanno una radice comune inaccessibile al pensiero come
questo stesso Essere, e diciamo che la partenza come il ritorno
dell'essere degradato, poiché è creato dall'essere, misto d'imperfezione
e pertanto soggetto al male, può apparirci solo mediante una intenzione
totalizzante includente lo stesso Creatore. Ciò non è vacuità, ma
pienezza. E' la visione beatifica postulata e espressa negativamente sotto
il nome di Mistero.
INDICE
CHE COS'È' IL MALE?
Il male non è una realtà
II male è una privazione
Equivoco del « male metafisico
E male è positivo in un senso
Perché il male sembra un'esistenza
H male non ha causa prima
Carattere innaturale del male
Il caso della pura materia
Il caso del dolore
II caso del male morale
DA DOVE VIENE IL MALE?
Il pessimismo
II dualismo
Un dualismo incosciente
II peccato originale come spiegazione del male
Rimproveri fatti a Dio a motivo del male
Le ragioni della creazione
La libertà nella creazione
Gli attributi di Dio nella creazione
II male ne deriva
Insensate esigenze dei critici
L'umiltà di Dio nella creazione
Utilità del male nel gran Tutto
II caso degli individui
ALLE PRESE CON L'AVVERSARIO
Lo scacco iniziale di Dio
Lo scacco della riparazione
La protesta dell'abisso
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di correzione della biblioteca teologica(clicca)
provvisoriamente per cercare i capitoli usare l'opzione
control+f in seguito le voci in basso saranno rese attive per consentire
una rapida consultazione e navigazione. Grazie.
INDICE
II valore della libertà
La libertà limitata al bene
Tutto considerato
Dio fa solo il bene
La volontà permissiva
I fini governano
L'estasi unificatrice
II Cristo giustifica tutto
IL MALE NELLA NATURA
Uno sguardo troppo umano
Due aspetti opposti della natura
Ancora il peccato originale
L'argomento della bellezza
I difetti della natura
I cataclismi
La strage
La testimonianza della fede
Tutto considerato, la natura è
buona
II Cantico
La sofferenza animale
La morte degli animali
La vera spiegazione dell'enigma
II caso delle piante
APPENDICE
Nota degli Editori
Conclusione : il Mistero
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