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A.
D. SÈRTILLANGES
IL PENSIERO
"LA SCUOLA,, EDITRICE
Titolo originale dell'edizione francese:
NOTRE VIE - LA PENSÉE
Traduzione di TARCISIO FORNONI
NIHIL OBSTAT M.
S. GILLET, O. P. G. THÉRY, O. P.
IMPRIMA TUR Can.
ANGELUS BERTELLI V. G Brixics, 20 Juna /^//
PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA Società
Editrice "La Scuola,, - Brescia - 1955
IL PADRE A.D. SERTILLANGES
l/a
memoria del P.
Antonino D. Sertil-langes sarà raccomandata alla riconoscente ammirazione
di infinite anime come quella d'un meraviglioso armonizzatore del pensiero
con la vita, e soprattutto come d'un sapiente distributore di quelle
dovizie di luce intellettuale di cui aveva prodigiosamente arricchito il
suo spirito.
E' stato detto da molti della sua
bontà ed esemplarità religiosa, del suo zelo e dell'altezza della sua
vita morale. Qui, sulla soglia d'un'opera nata fra i giovani e a loro
destinata, giova portare l'attenzione sull'altro aspetto della sua
fisionomìa, la singolare sua prerogativa di pedagogo alla scoperta della
verità.
A vent'anni (era nato a
Clermont-Ferrand il 17 novembre
1863), aggregatesi alla famiglia di S. Domenico, fra la generazione di
religiosi che quasi avevano ancora nell'orecchio la voce del grande
confratello P. Enrico Lacordaire,
di lui parve continuare
l'eloquenza e la dottrina, e ereditarne la -passione per la ricerca
intellettuale con l'ardore giovanile della conquista di anime. Al termine
di lunghi studi, le sue notevoli capacità vennero impiegate
nell'insegnamento e nella predicazione: m queste attività duro tutta la
vita.
Nel
1893 fu nominato segretario della Revue Thomiste; dal 1900 al
1918 tenne la cattedra di filosofia morale ali' Institut Catholique,
del quale divenne membro. Dopo vicende amare che lo costrinsero a una
specie di esilio, confortato tuttavia dall'affetto di tanti confratelli e
figli spirituali, nel 1928 fu destinato al convento di Le
Saulchoir — centro di studi e di alta spiritualità — e vi trascorse
un decennio, per tornare poi definitivamente a Parigi dove attese fino
alla morte al lavoro di studi, pubblicazioni e predicazione.
Il
curriculum della sua vita potrebbe essere facilmente ricostruito
attraverso la sua ingente bibliografìa, che va dai grossi volumi di
filosofia ai libri di meditazione, di volgarizzazione apologetica, ai
numerosi articoli di rivista: scritti maturati nel lungo periodo di
insegnamento e nella dirczione spirituale, al contatto di problemi
sollevati dalle anime gravitanti attorno alla sua cattedra e al suo
confessionale. Poiché non fu certo, il P. Sertillanges, un astratto e
arido speculativo, anche se la profondità d'ella dottrina si rivela assai
nella sua imponente opera
scientifica. Egli ebbe in maniera tutta singolare il dono di saper
cogliere le voci e le vibrazioni delle intelligenze e i bisogni delle
anime, con l'ansia di risolvere i problemi più appassionanti dell'ora
nell'insostituibile luce del messaggio di Cristo. -',: • W^'^:^^-'
Pochi come lui, fra gli
apologisti e i maestri, prestarono attenzione e mostrarono simpatìa per
ogni voce e scrìtto, per ogni. sincera espressione di travaglio
spirituale, da ogni parte venisse: da 'filosofi e poeti, da romanzieri e
artisti, da quanti sentiva e giudicava esponenti di pensiero o di opinione
pubblica o di indirizzo morale e politico. Anche per questa ragione i suoi
scritti risultano vivi e caldi di così intensa umanità, di cosi sofferta
esperienza, da trovare grata accoglienza in ogni anima aperta al vero,
anche se ancora lontana dalla rivelazione di Cristo.
In tale benevola acccttazione di
tante voci di sì diversa provenienza sarebbe errato ravvisare un
disordinato eclettismo o tanto meno ma posa snobistica, in lui che aveva
consumato anni nello studio e nell'insegnamento sistematico del pensiero
tomistico. Fra le prime opere d'impegno emerge il poderoso
Saint Thomas d'Aquin (1910) e La philosophie morale de Saint Thomas
d' Aquin (1916), e fra le ultime, ancora di notevole mole, merita di
essere segnalato Le Christianisme et les philosophies (tr.
italiana, 2 voli., Morcelliana,
•Brescia,
1947-1948). Ogni suo lavoro del resto rivela abbastanza quale concetto
e venerazione egli avesse della speculazione filosofica e teologica
cattolica, e come il suo pensiero fosse ancorato a principi di sicura
ortodossia.
Ma il suo sforzo e il suo vero impegno era
costantemente di tradurre in termini moderni e di presentare in veste di
perenne modernità il messaggio cristiano, di comporre cioè e di
conciliare gli argomenti della apologetica tradizionale con le
ragioni del cuore, espresse da ogni generazione con sempre nuovo
linguaggio. « S. Paolo — soleva dire — non conosceva che
una cosa : Gesù Cristo e Gesù Cristo crocifisso. Contentiamoci di
questo, è sufficiente; ma non è proibito di spiegarlo. S. Paolo lo
faceva bene: lo faceva per il suo tempo. Facciamolo per i.l nostro. »
Quest'opera, che ora vede la luce
per la prima volta in Italia (e che, composta nel
1926, non ha perso
nulla della sua freschezza e attualità}, e fra le pia espressive di
questo suo proposito, durato tutta la vita e percettibile in tutta la sua
molteplice produzione. Nato nel raccoglimento e in momenti dolorosi per
l'autore, questo libro reca riflessi di conversazione con anime in cammino
verso la luce, di ripensamenti di problemi vivi, di gioiose esplorazioni
nel mondo soprannaturale, distìnto sì, ma sorprendentemente vicino al
mondo
naturale, accessibile, permeante
ogni aspetto del cosmo e della vita.
Una visione armoniosa
dell'universo, del proprio io, dei rapporti fra gli uomini e con le
realtà circostanti; una interpretazione e una soluzione dei problemi
della vita nella luce della Rivelazione. Forse qualcuno potrebbe ravvisare
in questo libro un felice e prezioso compendio di altre opere sue di
maggior mole e impegno, assimilabili talvolta soltanto a, una cerchia
ristretta di intelligenze abituate alla speculazione.
Senza dire poi che qui — come
in tanta parte dell'opera del P. Sertillanges — predomina un interesse
pedagogico, una cura sollecita di accostare anime giovanili per condurle e
immergerle nel pieno della luce, prima che l'errore o soltanto
l'indifferenza abbiano a sterilire o vietare ogni nobile sforzo di
ricerca. : -a^^^v^a,.^^,
"y '
Si sa quanto bene gli volessero i
giovani e di quante anime giovanili fosse popolata la sua operosa
giornata. I corsivi della
Revue des' Jeunes (i Propos che apparivano, sotto lo pseudonimo
di Senex, a puntualizzare regolarmente avvenimenti freschi e
personaggi vivi) e i libri di meditazione e di saggistica religiosa
(La vita cattolica, tr. ital., Queriniana, Broscia; Meditazioni,
Doveri, Affinità, Spiritualità, tr. ital., Morcelliana, Broscia),
fino all'estrema sua fatica, furono incessantemente rivolti a intelligenze
e cuori di giovani, ai quali
sempre il dotto domenicano
serbava il meglio del suo spirito.
'A ; ^-' '"? ; -^
Così avverrà che, quando alcuno
prenderà in mano i suoi scritti (e i più, come questo, soprav-viveranno
all'usura del tempo, come le rare opere ispirate dal gemo e cresciute
nell'amore), nello scorrere quella parola calda e suasiva, nel sentire
quel pressante ma dolce incalzare di domande e questioni, e nel cogliere
le sve soluzioni serene e asserenanti, non avrà difficoltà di immaginare
lui, il dotto e pensoso domenicano, come un giovane amico a cui si apre
volentieri il cuore e al quale non si teme di affidare i più gelosi
segreti dell'anima.
A sottolineare e a gradire
quell'apostolato intellettuale rivolto alla gioventù, volle certo il
Signore che quella nobile esistenza avesse fra i giovani il suo tramonto,
quasi con loro conversando, o meglio concludendo una già lunya
conversazione con una parola scritta per loro
in limine vitae.
'Nell'estate del
1948 il P. Sertillanges — ormai ottantacinquenne—-si trovava ospite
di un pensionato giovanile a Sallanches, nell'Alta Savoia, e il 2.6 luglio
avrebbe dovuto celebrare la Messa e rivolgere la parola ai giovani nel
giorno di S. Anna, a cui era intitolata la casa. A-tìpena alzato penso di
aggiungere qualche parola al fervorino già preparato. Ma si sentì venir
meno e si distese ancora sul letto. Sullo scrittoio intanto
io
era fresco d'inchiostro il suo testamento
dettato ai giovani, a quelli e agli altri:
« E poi, noi pregheremo gli uni per gli altri, non è vero?, al fine di
pagare i nostri debiti reciproci, e perché il buon Dio ci conceda di
profittare sempre dei suoi benefici per avvicinarci sempre più a lui e
andarlo a ritrovare un giorno nel suo Paradiso... ».
Su queste semplici parole fermò
la sua mano e chiuse gli occhi sereno. Il Signore, verità cercata e
amata, lo stava già certamente inondando della sua luce e saziando della
sua gioia.
antonio cistellini
AVVERTENZA
DELL'AUTORE
« Tré Cose — dice S.
Tommaso — deve conoscere l'uomo per salvarsi: i) ciò che deve
credere; t) ciò che deve desiderare e amare; ^.infine ciò che deve
fare.-» Da queste parole e nata l'idea del presente libro (*) e
l'autore stimerà giustificata e appagata la sua aspirazione se avrà
potuto indurre alcune anime a orientare con più ardore vedute,
aspirazioni e sforzi verso la vera vita,
(*) Quest'opera di A. D. Sertillanges è
stata edita in lingua francese dalla Revue des Jeunes nel 1926, col
titolo notre vie, raccolta in due volumi e divisa in tré parti : La
pensée, L' amour, I-,' actìon. L' edizione italiana appare invece in
tré volumetti, dedicati appunto alle singole parti.
IL SENSO DELL'INVISIBILE
±erchè mai d'ordinario trascuriamo i
fatti più importanti della vita umana quasi fossero futilità degne di
disprezzo ? Perché a quei due estremi, che sono il tutto e il nulla, nel
nostro pensiero e nella nostra azione tocca la stessa sorte? Dovremo dire
con il Pascal che ci troviamo perpetuamente in medio e non ci
possiamo adattare agli estremi? Siamo forse affetti da una cecità e da
un'insufficienza mentali così inquietanti da riuscire a opprimerci?
A ben rifletterci, la nostra condizione fa
paura. Circondati di abissi da ogni parte, con l'infinito che si spalanca
dovunque si volgano i nostri sguardi e i nostri passi, assediati
dall'immensità e dall'eternità, noi ci troviamo a turbinare
prodigiosamente negli spazi unitamente al nostro piccolo pianeta, senza
sapere dove andia-
^
mo, costretti a un drammatico viaggio
anche durante il sonno. Molti millenni stanno dietro a noi e di più ne
verranno. Gli avvenimenti passati e gli avvenimenti futuri con la durata
del tempo compongono un dramma di cui la nostra vita partecipa fino a
diventare, nonostante la sua apparente brevità, una storia senza fine.
Alcuni di questi fatti contengono tutto il
divino e tutto l'umano, e ce ne fanno partecipi. Il mondo dello spirito,
che si libra negli spazi della durata e dell'essere, ci avvolge e
c'incalza, preparandoci un ingrandimento, una liberazione tali da
toglierci a tutto quello che costituisce l'eterna tragedia dell'uomo :
caducità, pochezza della vita, sofferenza, separazioni, fatalità,
impotenza, morte.
E noi non solamente restiamo insensibili a
questo invito dell'ineffabile, ma in pratica consideriamo come inesistente
proprio ciò senza il quale tutto non vale nulla.
Siamo immersi in puerili e momentanee
occupazioni; ci divertiamo in cose da nulla; sotto il firmamento stellato,
che ci avvolge come uno scintillante padiglione, ci basta attendere a una
conchigliuccia; le leggi cosmiche cedono per noi a minuscoli avvenimenti;
le supreme finalità si velano perché la nostra incoscienza persegue
meschinissimi scopi. Nell'infinito dei tempi, che tutti hanno un valore
per noi, a malapena riu-
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sciamo a distìnguere l'ieri e il domani;
e questo ieri e questo domani, avulsi dal resto, perdono il loro senso e
il loro valore.
Una prova evidente di malattia, fisica o
mentale, è il non sapersi adattare. Chi non è riuscito ad adattarsi è
un anormale, in una creazione dove tutto sussiste per un mirabile
collegamento e per un sistema di reciproche relazioni.
Che cosa pensare di uno spirito, il quale
praticamente ignora ciò che ha in sé di più intimo e di più vivo, le
sue relazioni più elevate e i suoi fini più importanti, che perde tempo,
che s'immerge in quello che appare e svanisce, trascurando ciò che è,
col pretesto che ciò che è non si vede, non si sente, come se lo spirito
fosse stato creato per ciò che è visibile e sensibile?
In questo solo fatto, per poco che lo si
voglia analizzare, ci sarebbe una prova sufficiente della caduta
originale. Il nostro spirito è sviato, è un « mostruoso prodigio »,
direbbe il Pascal; esso sa far bene la propria parte riguardo al meno
necessario e se ne sta inerte davanti all'essenziale, fino a far dubitare
del suo potere.
Ciò non di meno tutti quanti riconoscono,
all'occasione, che la vita naviga nel mistero. Mentre la nave avanza,
l'uomo prende contatto con la vastità del mare stando sotto coperta. Ma
che il tempo si metta a burrasca, che inquietanti cigolii si facciano
sentire nella carena, che un uomo ca-
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scili in mare, o che un cadavere venga
silenziosamente sospinto dallo sciabordio delle onde : questo basta
perché si frema e si provi il senso dell'abisso.
Un cataclisma, una morte, un avvenimento
grave e imprevisto, un sentimento profondo, una scossa che sposti la
maschera del destino e ne lasci scorgere il volto: ed eccoci subito
staccati dai problemi della vita quotidiana, e ciò che era stato
dimenticato riappare e le grandi cose rivivono e la grande realtà
riprende il suo valore.
Capiti un uomo che abbia saputo
oltrepassare lo strato dell'illusione, venga un oratore la cui parola sia
parsa lacerare un velo e risvegliare misteri dormienti : e allora noi
impallidiamo, come davanti a una folgorante apparizione.
Sappiamo che esiste l'ignoto, che l'Essere
immenso e formidabile esiste, sappiamo che il loro messaggio può essere
letto e che questo messaggio contiene, unitamente a possibili minacce,
parole di vita; crediamo alle solenni dichiarazioni che di essi ci sono
state fatte; siamo pronti a infiammarci davanti a ogni manifestazione,
anche parziale, della loro maestà; e tuttavia, eccettuate poche anime,
eccettuati rari momenti, tutti ricaschiamo nella dissipazione che
praticamente annulla il misterioso al di là.
Sembrerebbe di sfuggire all'ordine umano
se si tentasse di sfuggire a questa incomprensibile
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pazzia. Chi è infatti il santo se non un
uomo straordinario solo per il fatto che si è messo in una stretta
relazione con l'invisibile e ha fissato la sua dimora là dove gli altri
rimangono solamente per troppo brevi istanti? Ciò che noi proviamo sotto
l'impressione di un fatto sovrumano, colpiti da improvvisa meraviglia,
continuamente viene sperimentato dai santi, i quali, esplorando la vita
nelle sue profondità, trovano in essa quello che ai nostri occhi viene
illuminato solo dalla fiaccola della morte; essi continuamente avvertono
il soffio dell'infinito che avvolge il creato, come gli alisei che spirano
benefìci sulla cintura del globo terracqueo. Dio passa, ed essi inchinano
davanti a lui il loro pensiero e il loro cuore, gli consacrano la loro
azione, come Abramo offrì tutti i suoi beni agli ospiti celesti. Ciechi
per il nulla che invece attrae a sé tutti i nostri sguardi, i santi sono
i chiaroveggenti dell'essere, colpiti dalla divina follia che rende
estranei alla realtà inferiore per gettare lo spirito nelle divine
realtà : essi sono gli insensati del tempo. Ma perché l'eternità cinge
di un'aureola la loro fronte, e nei loro occhi c'è un abisso di luce,
l'umanità li invidia e vorrebbe aggrapparsi al loro destino per
sollevarsi dal suo.
L'invincibile attrattiva che Gesù
esercita sugli increduli non è forse una conferma di questo fatto? La
personalità notoriamente più sublime che sia mai apparsa sulla terra,
com'essi dicono,
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non è forse tale per loro perché spira
un sentimento immediato del divino? La trasparenza perfetta della vita
dell'uomo agli occhi del Figlio dell'Uomo; l'intuizione continua, dietro
ad ogni realtà transitoria, del sostegno eterno che la sorregge, la
consacra e la trasfigura; la concezione dell'universo come regno di
Dio, emanazione del suo spirito, campo della sua opera e speranza del
suo amore: non è forse questo ciò che trattiene su questa Persona, unica
fra gli uomini per la sua grandezza, ogni pensiero che si sia fermato
anche un solo istante sopra di essa? Da ciò si vede come sbagliano quei
predicatori che trascurano di riallacciare senza interruzione il proprio
insegnamento a Colui che ne incarna l'oggetto e lo rivela nella sua
pienezza. Il Ciclo è negli occhi di Gesù; non c'è che da farlo vedere
in essi, invece di sciorinare le nostre elucubrazioni, a rischio di non
predicare che noi stessi.
C'è senza dubbio, oltre ai santi e al
Santo dei santi, una categoria di persone illuminate, coscienti,
competenti e stimate, capaci di accostarsi ai lidi oscuri le cui tenebre
sono fatte di luce eccessiva: sono gli «intellettuali». Costoro sanno
tutto e ragionano di tutti; non dimenticano alcun fatto; non trascurano
nessuna conseguenza; riducono nei loro schemi, con arte, l'infinito e
sembra che abbiano assidua familiarità con quello
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che il volgo lascia da parte. Ma se essi
non sono che degli intellettuali, in verità la loro superiorità sul
volgo si riduce a ben poca cosa. Essi sono gli artefici del concetto; e
ciò che il concetto racchiude o dovrebbe racchiudere, come la gluma il
chicco di grano, può restare sconosciuto a loro così come agli altri,
anzi a loro magari anche di più, a causa dell'orgoglio che talvolta tiene
chiusi, negli angusti confini della loro meschina personalità questi che
la pretendono a pescatori di stelle.
Di fronte all'invisibile vivente, il
concetto vai poco o nulla; ciò che importa è l'intuizione vivente essa
stessa e tendente ad agire. Meno conoscenze astratte e più discernimento;
meno pensiero puro e più vibrazione d'anima; meno vivisezioni del reale
per includerlo nelle definizioni, e più contatto unificante per mezzo
dell'ispirazione: questo sarebbe augurabile. Ma l'intellettuale si
accontenta di parole che mette in fila al di dentro e fa risuonare al di
fuori, trascurando o disdegnando di diventare uno spirituale, il
che è tutt'altra cosa.
Il vero saggio è tuttavia il fedele dello
spirito; l'intellettuale puro non è che un dotto. Il filosofo e il
teologo potranno bene analizzare e creare sistemi in ogni materia umana e
soprauma-na; avranno un bei da fare, accostandosi all'essenziale, a
indagare minutamente ciò che si riferisce all'idea di Dio e a tutto
quello che ha relazione con essa; potranno notare i fatti in virtù dei
quali Dio è per noi il principale dei personaggi storici, scoprire e
provare la sua eternità sotto il velo del tempo, la sua immensità sotto
il finito e il suo Essere dietro all'essere, ma non avranno fatto nulla se
non avranno acquisito e imparato a comunicare il senso di queste
cose.
La divinità di tutto e la presenza di Dio
in tutto : che cosa significano queste parole ? Se non si tratta che di
un'espressione metafisica, tanto vale un teorema di Maxwell sulla
distribuzione dell'energia o una formula di Einstein sul tempo. Ma in
pratica utilizza l'idea delle comunicazioni di Dio e della presenza di Dio
chi comprende che tutto il nostro essere e tutti i nostri oggetti trovano
in Dio la loro prima relazione; che noi non possiamo avvicinare nulla e
neppure noi stessi ne trattare validamente con nulla e nemmeno con noi
stessi senza partecipare a un sublime convegno, senza entrare in relazioni
divine e fare un'opera santa che dovrà venire santamente concepita,
santamente condotta e santamente portata fino al termine.
Così Dio è eterno, Dio è immenso, Dio
è l'Essere primo: tutto ciò significa in pratica, che tutti i nostri
istanti sono collegati a una durata indefettibile e ne possono utilizzare
l'ampiezza;
che i nostri nulla dipendono dal Tutto e
ne deb-
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bono godere la ricchezza; che il nostro
minuscolo io è figlio ed erede permanente dell'Io unico comunicato,
dell'Uno che agisce al di fuori, cosicché la nostra vita è realmente
divina, se noi attingiamo a quella profonda sorgente che in noi e in tutto
è la più reale sostanza.
Avviene così in ogni cosa. La scienza
salva-trice consiste nel sentirci, e non già solo nel dirci, associati a
un'immensa avventura divina, parti-celle solidali di un tutto formidabile
e sacro, di cui dobbiamo captare l'influsso vivificante, dopo di essere!
ad esso donati con piena coscienza e con fervida sottomissione.
Oh! come la nostra vita sarebbe mutata se
ci stabilissimo in spirito una volta per sempre in questa meravigliosa
realtà!
Io m'immergo, fino ad estasiarmi, nel
pensiero che Dio è qui, presente in ogni oggetto che mi circonda; che
tutti gli esseri sono sua emanazione, che tutte le leggi sono sua
volontà, che ogni fatto è sua azione, ogni spazio suo possesso, ogni
durata sua vita, ogni mistero un segreto del suo amore, e io, che
comprendo queste cose, il rappresentante del suo spirito per un'opera
associata alla sua.
Eccomi nel cosmo divino. E chiuderò gli
occhi, come viaggiatore che dorme mentre attraversa un meraviglioso
paesaggio ? Terrò per me solo un complesso di piccoli fatti, di meschine
realtà fuggitive, di povere creature mortali, in mezzo a cui io cerco di
costruirmi una felicità secondo la mia misura? No; io avrò un'idea più
elevata di quella fornace di vita che risplende come un permanente
richiamo per ciò che è effimero. So bene che si tratta del regno dei
deli, di una famiglia in cui il mio Dio è il Padre, gli spiriti e le
anime sono i figli, le grandi leggi morali e religiose sono il codice
familiare e le forze fisiche le serventi.
Contrarie apparenze possono venire a
turbarmi e l'incoscienza può venire a velarmi ciò che la ragione
e la fede mi fanno conoscere: non sono che un fragile pensiero, lo so, ma
non sono ciò nonostante figlio del Pensiero creatore e di più
usufruttuario delle sue manifestazioni? Io voglio guardare come guarda e
giudicare come giudica Colui che mi ha parlato e che si riflette nella mia
anima pensante.
Io vedo uscire tutto da Lui come il
paesaggio esce dalla luce quando, al mattino, il sole fuga la notte e le
toglie il dominio del mondo. Vedo l'Essere immensamente comunicato che
resta uno e sacro per la sua origine divina, per la sua provvidenziale
azione e per il suo scopo. Vedo Dio non confinato ad altezze inaccessibili
in un'ignota lontananza o intorno all'immenso giro della ruota universale,
ma immanente a tutto, dappertutto « mescolato alle sue opere », come
dice sant'Agostino, e in tale prossimità che nulla mi è così prossimo
come quest'intimo Creatore.
Io contemplo, intorno a lui, innumerevoli
miriadi di spiriti, illusione per gli occhi corporei e per il pensiero
ribelle, ma per la fede meditata realtà prima che trae a sé, ben lontano
da questo piccolo groviglio di materia vibrante, il centro di gravita
dell'essere.
Secondo alcuni la materia è tutto, la
vita non è che una muffa e lo spirito, in questa muffa, un fermento di
più; ma io so che la materia è un limite inferiore dello spirito, un
trascurabile residuo, un nulla, e che lo spirito la soggioga. L'umanità,
nella sua piccolezza, è grande proprio perché accede al mondo dello
spirito puro; è piena di speranza perché lo spirito la chiama, l'attira,
l'assiste, e perché un giorno dovrà unirsi ad esso.
Vedo questa meravigliosa natura di confine
contesa fra l'alto e il basso, fra lo spirito e il corpo, mentre il dramma
della salvezza risulta da questo strano litigio che lascia sul suolo molti
che dovrebbero invece trionfare. Dio regola la sua azione conforme a tale
condizione contemporaneamente ricca e miserabile : in parte nell'intimo
per guadagnare lo spirito, in parte all'esterno per aiutare e utilizzare
la carne. L'Incarnazione corrisponde appunto a questo pensiero; la storia
prepara l'Incarnazione, la riceve e ne usufruisce; la Chiesa visibile e
invisibile la prolunga; l'Eucarestia misteriosamente la riproduce e
l'applica; gli altri Sacramenti ce ne distribuiscono i frutti secondo le
nostre necessità; la grazia ne è l'effetto in ciascun'anima, e la
comunione dei santi ne è l'effetto come unità del Corpo Mistico
in cui Gesù trova la sua piena realtà.
Tutto ciò, nel suo spirito per lo meno e
nel suo tutto per la maggior parte, è l'invisibile; dalla sua pura luce i
miei occhi carnali rimangono abbagliati, ma i miei occhi intcriori la
vedono e, con l'aiuto di Dio, non mancherò di trame le debite
conseguenze. -•:
Infatti, se l'invisibile è per noi
l'essenziale, non sarà necessario che tutta l'azione si colleghi con esso
e che la vita vi trovi la propria regola per ogni istante delle sua durata
e in tutte le direzioni del suo cammino? La nostra prova consiste proprio
nell'andar così a tastoni verso ciò che non vediamo. Alla luce
attraverso le tenebre, a Dio seguendo la sua traccia nelle nostre vie,
allo spirito, che ci fa dono di sé, attraverso la materia :
questo è il nostro destino; ma, se noi
vogliamo, per mezzo della prova arriveremo alla ricompensa, come pure, se
non vorremo, per la nostra infedeltà precipiteremo nella rovina.
Ciascun atto della vita ha nell'invisibile
un effetto immediato, sia che ne applichi o ne of-
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fenda le leggi, sia che ubbidisca o
disubbidisca a ciò che è, sia che onori Dio o ne deprima la gloria; sia
che si collochi nella dirczione dei fatti che la Provvidenza ha
predisposti, di quelli che prepara, di quelli che dirige al momento stesso
in cui l'atto si compie, sia che lì avversi. Con ciò l'uomo si concilia
o si aliena l'ordine universale;
con ciò egli rivolge al Capo supremo un
irresistibile invito a sanzionare con il premio o con il castigo
il suo operato e non ci si dovrà stupire se, all'ora stabilita, da
quest'ordine a effetto ritardato, che la nostra miopia colpevole sfida con
insolenza, scatterà fuori un'energia che opprimerà l'offensore.
II Destino divino è così una specie di
fatalità in cui la libertà stessa s'incatena per ubbidire alla legge
delle cose. Da principio la libertà è sovrana;
ma, una volta esercitata a vantaggio di un
ordine, essa diventa fedeltà, da cui uscirà giustizia piena. In questo
senso è stato detto che « Dio stesso non può fare del bene al
peccatore»; ma, a più forte ragione, Dio non può far del male o
tralasciare di far del bene all'anima del giusto, Le ricompense lassù
sono come la soneria dell'orologio, che batte imperturbabile i suoi colpi
appena la molla ha messo in moto il meccanismo ad
hoc.
Che cosa farò-io dunque, se il senso
dell'invisibile avrà destato il mio cuore? Sentendo di comunicare con
l'azione di tutti gli esseri, con l'azione di Dio, principio, legge e
fine, collocherò la mia azione nella linea ascendente e le imprimerò una
traiettoria sicura. Un'azione retta è quella che procede diritta dal
punto di partenza al punto d'arrivo, tra ciò che è e ciò che dev'essere
in conseguenza di ciò che è. Tutti i tempi hanno preparato quest'azione
e la sospingono; tutto lo spazio fa centro su di essa assegnandole un
posto adeguato; tutti i figli di Dio, miei fratelli, solidali con me,
tutti gli spiriti che mi stanno d'attorno, attendono la mia collaborazione
in quella forma felice che deve favorire la fraternità e servire ai fini
comuni. . ^?-a
Negherò io il mio contributo? Una vita
retta sarà la mia risposta a tale invito universale e benefico. Sarà mia
guida l'invisibile, perché l'invisibile è il vero, il grande, il buono,
il salutare, mentre il visibile è limitato e perituro.
Su quest'ultimo io chiuderò gli occhi in
saggia misura, per ridurre alla giusta proporzione l'importanza ch'esso
deve conservare. Ciò mi obbligherà a non poche rinunce, dato che io
procedo dal visibile in tutto quello che ho di terreno e che, appunto per
questo, tendo al visibile; ma, come pensavano gli antichi Ebrei, non si
può vedere il volto di Dio senza morire. Morire a se stessi e a questa
vita di morte è proprio la condizione per entrare e restare nella vita
eterna,
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Quanto è nobile la nostra vita, e noi non
lo sappiamo ! Tutto è grande in essa, tutto è sublime, poiché tutto è
di Dio, con Dio e per Iddio; tutto è buono della stessa bontà di Dio,
poiché tutto è opera sua, suo strumento, sua speranza, supposto il
nostro appoggio, e per la nostra felicità. Fi-sicamente siamo dei pigmei,
eppure la terra non ha prigione alcuna che possa trattenerci lontani
dall'immenso: nessun muro divisorio può essere innalzato tra noi e ciò
che vi è di più grande. Ciascun essere ha per sé l'invisibile divino
come se, per assisterlo, Dio ritirasse la sua provvidenza dal mondo; e Dio
guida la sua provvidenza come se ogni essere dovesse goderne l'esclusiva e
trionfante azione.
Noi siamo in Dio e in tutto come una
pianta nella terra, e questa nostra pianta cresce contemporaneamente per
natura, per grazia e per libertà, mentre la libertà guida la natura,
occorrendo la raddrizza, corrisponde alla grazia e le permette così di
rendere feconda la terra.
Nessun limite quindi è posto alla nostra
grandezza; e nessun confine di tempo, di valore, di spazio può
circoscrivere la nostra felicità.
•¥-
II motto d'Oxford è : Dio è la mia
luce, mi piace coronare con questa bella massima la conclusione delle
nostre prime osservazioni. Se il
29
vedere le cose secondo Dio e il captare, a
questo fine, l'invisibile è il segreto per orientare sapientemente la
nostra vita, conviene mettersi in condizioni tali che ci permettano di
sviluppare in noi questo senso dell'invisibile.
E' indubitabile che alcune disposizioni
naturali ci sono in questo d'aiuto. Si è meditativi o no, secondo le
forme e le direzioni del pensiero spontaneo, che in certuni va tutto
all'azione immediata, mentre in certi altri si ripiega su se stesso e si
eleva. Inoltre può intervenire una chiamata della grazia, da considerarsi
come uno sforzo di Dio per ricondurre a sé la sua dimentica creatura. Ma,
come abbiamo detto dianzi, la natura e la grazia sono vincolate alla
libertà e non possono far a meno del suo concorso. Ci rimane dunque da
chiederci di quali mezzi disponga la libertà per ottenere o per
sviluppare il senso dell'orientamento verso le altezze, il « sesto senso
» che abitualmente ignoriamo.
Confesso che mi trovo esitante a indicare
il primo di tali mezzi, perché temo che mi si dica:
Tu pretendi che si arrivi prima di essere
partiti, e le tue vie sono al di là della meta a cui si tratta di
pervenire. Infatti, le apparenze sonò favorevoli a tale obiezione,
perché il mezzo essenziale di cui io parlo non è altro che una santa
vita. Paradosso o circolo vizioso? Ne l'uno ne l'altro. Vi sarebbero
ambedue se
qui si prendesse l'espressione « santa
vita » in senso assoluto e la si proclamasse necessaria per acquistare in
qualsiasi grado il senso dell'invisibile. Ma è chiaro che tale non è la
nostra pretesa.
Si tratta di due cose che, sotto diversi
aspetti, sono mezzo l'una all'altra; e se è cosa certa che la visione è
l'inizio, non è meno certo che il suo sviluppo richiede quello
dell'azione, come è provato da innumerevoli esempi della vita quotidiana.
Il giudizio che guida le arti non è forse il risultato dell'esperienza?,
e l'intuito scientifico non cresce forse con le scoperte, che sono il
frutto di un appassionato lavoro? Lo stesso avviene nella vita spirituale:
la giusta visione delle cose è la ricompensa della nostra rettitudine
interiore. Dimmi chi sei e ti dirò quello che vedi. Non è forse questo
per davvero il senso più immediato, anche se non il più profondo, della
massima evangelica: Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio ?
Questo pensiero tornerà così
frequentemente nelle pagine seguenti da rendere mutile che vi ci indugiamo
ora; era necessario però presentarlo subito, perché se Dio si nasconde
ai nostri sguardi, ciò avviene non tanto a causa del suo mistero quanto a
causa della nostra materialità, lenta a fare verso di Lui, sulla strada
del bene, i passi necessari. Chi fa la verità viene alla luce. Dio
non si nasconde, in realtà, che nel suo splendore!
31
Il senso dell'invisibile s'acquista,
dunque, ò-gni momento, mediante l'impostazione generale della nostra vita
cattolica.
In tale complesso, gli atti di culto con
cui adempiamo ai nostri doveri verso Dio contengono specialissime grazie
di luce perché ci avvicinano alla Luce vivificante; per essi noi siamo
immersi — se così possiamo dire — in un bagno spirituale di sole, il
quale corrisponde al nostro omaggio all'Eterno Splendore. Anche di questo
riparleremo; ma è utile che ora accenniamo brevemente a quello che viene
comunemente stimato come il mezzo specifico per svegliare in noi il senso
dell'invisibile : la pratica, cioè, della meditazione quotidiana.
Nel silenzio della meditazione si chiudono
le porte dell'illusione,^ si spalancano quelle della realtà, che ci
introducono nel paese delle sorgenti. Le verità supreme non hanno
familiarità col rumore; e l'azione sregolata, fatta di dissipazione, le
fa fuggire senza che possano trovare ove posarsi. I nostri rapporti con
Dio e quelli con le realtà invisibili richiedono una intimità voluta e
come una spinta violenta verso le più profonde latebre dell'anima. .
Troppo noi siamo immersi nella carne;
troppo la materia di cui siamo formati attira a sé quegli elementi del
pensiero che sono le nostre immagini mentali, i nostri sentimenti
istintivi, i no-
32
stri ricordi! L'universo ra sentire sulle
nostre spalle un peso sproporzionato alle nostre forze e noi siamo
sottoposti a un'attrazione che nella vita spirituale applica tutte le
leggi di Newton. Perché l'attrazione dell'invisibile si possa liberamente
e-sercitare su di noi, dobbiamo allontanarci dalle attrattive del
sensibile, renderci liberi e, per così dire, disincarnarci; dobbiamo
applicare la nostra attenzione a ciò che di suo non l'attrae, elevarci a
pensieri che non trovano accoglienza e non prendono vita se non nella
parte più nobile di noi, pensieri che non vengono dalla terra mediante la
carne, ma dal Ciclo e dall'eternità per mezzo dell'anima immortale.
Va da sé che tale sforzo dovrà essere
frequentemente rinnovato, perché anche le difficoltà si rinnovano; la
terra pesa sempre, il pensiero è sempre soggetto alla materia. La vita
esteriore, la parola, l'azione, le relazioni familiari, l'attività
sociale, la professione possono servire l'invisibile; tutte possono
manifestarlo, potendo in certo modo contenerlo; e perciò anch'esse
portano alla meditazione e possono, come un limpido specchio d'acqua,
riflettere il ciclo; ma ciò di cui esse partecipano può andare ben
presto perduto se manca la cura incessante di ricorrere alla sorgente di
luce. Con la meditazione, in queste realtà quotidiane noi scopriremo ciò
che possono e devono contenere d'eterno; accostandole al ciclo, rende-
33
i.) Il Pensiero
remo celesti queste ostinate abitatrici
della terra, e, nella misura delle nostre grazie, otterremo, con l'unità
della vita, la qualità che da valore a quest'ultima e l'orientamento che
la divinizza.
Una donna di fervida immaginazione
rivolgeva un giorno a un religioso queste acute parole : « Io vedo i
vostri pensieri arare la vostra anima. » Proprio così! L'anima nostra
spiritualmente arida, ha bisogno di .un'aratura profonda, e l'aratro sarà
qui costituito dai luminosi raggi di un'intensa meditazione.
Un'altra diceva : « Quando vedo qualcuno
che sta meditando, mi raffiguro tra lui e il ciclo una via luminosa, e Dio
che gli viene incontro, quasi affascinato dallo spirito pensante. » E
anche questo è verissimo, poiché si tratta d'entrare in intimità con
Dio, come lo scienziato e il filosofo si rendono vicina la natura, come lo
storico si fa contemporaneo a tutti i secoli per giudicarne il valore e
per segnalarne i principali periodi. Lo scienziato vede l'universo
muoversi sotto i suoi occhi, come l'orologiaio che sta a osservare il
complicato movimento d'un cronometro; per lo storico, Napoleone e Cesare
sono più vicini e più vivi di molte persone viventi, anzi che esso
stesso a un'età purtuttavia non molto lontana: e non potremo noi tentare
di rendere attuali nel nostro pensiero 1' Antico dei giorni e
34
l'universo spirituale di cui l'anima
nostra deve vivere ?
Ma ecco un'obiezione : non c'è tempo,
la vita incalza e trascina, a mala pena si può provvedere
all'indispensabile; ritardare l'azione equivarrebbe a diminuire quello che
già è stato troppo ridotto, ecc. Ma tutto questo non è forse già stato
confutato dalle precedenti osservazioni ? Se quanto dicevamo della
fecondità del raccoglimento è vero, non ci si dovrà davvero pentirò
del volontario sacrificio; se poi non fosse vero, non saremmo più, noi e
i nostri atti migliori, figli della luce. Non avere il tempo di meditare
è lo stesso che non avere il tempo di badare alla via che si percorre,
pur continuando a camminare.
Specialmente ogni mattina, prima di
mettersi a trattare col visibile, quando l'anima è ancora vergine del
giorno e ancor piena del mistero notturno, quando lo spirito nasce a una
vita nuova dopo la morte parziale del sonno, ogni cristiano dovrebbe
prosternarsi e mettersi alla presenza di Dio, e così, dopo aver adorato e
pregato, com'è suo dovere di figlio e di suddito del Padrone supremo,
immergere il proprio spirito nelle verità vivificanti: meditare Dio, la
sua opera, il. suo Cristo, la sua legge, i suoi consigli, i suoi
avvertimenti, i benefici di cui ci colma, i severi castighi che vi deve
aggiungere la sua bontà priva di debolezze, i mezzi ch'Egli propone a chi
35
vuoi crescere in lui, lo scopo che assegna
alle meschine nostre forze; meditare, in una parola, tutta l'economia
della salvezza, i suoi personaggi, le possibilità che offre, il suo
ordinamento, il suo termine.
In questa esplorazione dell'invisibile,
troveremo la legge per le ventiquattr'ore della giornata, e con la legge,
che è penosa costrizione, l'ispirazione che solleva, il coraggio che
rinfranca, la difesa contro le tentazioni e gli scoraggiamenti, il fervido
impulso di cui non si può fare a meno nell'ardua ascesa delle cime. Una
vita vissuta interamente così sarà una vita cristiana illuminata e
vivificata, e l'avanzamento sarà sicuro e costante.
Potremmo dire che, avendo in noi Dio, con
Lui abbiamo tutto quello che fa vivere; ma bisogna anche portare alla luce
questo tesoro di vita e, per far questo, ci è necessario penetrare nella
cella intcriore e ritornarvi spesso, per trame fuori i pensieri che,
altrimenti, ben di rado si affaccerebbero alla soglia.
36
L'INTERPRETAZIONE DELLA NATURA
-L<
invisibile si manifesta a noi con simboli e con mezzi d'azione che
coincidono in certo modo con tutta la nostra vita; ma il primo di questi
simboli e il primo di questi mezzi sembrano incontrarsi nell'ambiente
visibile in cui la Provvidenza ha collocato gli uomini, che è la natura.
Il primo elogio della natura è stato
pronunciato da Colui che ne aveva una conoscenza crea-trice, e che, dopo
aver detto che ciascuna cosa era buona, ha detto che tutte, prese
nel loro insieme magnificamente coordinato, erano ottime. Ma la
bontà della natura, oltre che universale, è anche una bontà per noi,
una bontà per il nostro corpo e per la nostra anima; e il suo simbolismo,
unito al suo carattere di strumento a servizio della nostra vita, fa parte
di questa bontà.
37
La natura richiede perciò
un'interpretazione. « L'universo, ha detto un ignoto filosofo, è una
gran favola che comporta una moralità. » Noi non creiamo il mondo, ma lo
pensiamo; da noi parte la luce che lo colora ai nostri occhi; il suo
valore effettivo per la vita spirituale gli è dato dall'anima dello
spettatore. E' quindi cosa di capitale importanza il giudicarne rottamente
e il conoscere, attraverso la trama dei fini evidenti, a che mai tendano
le sue mire segrete.
Parecchie deviazioni sono qui da temere e
sarebbe pericoloso darsi in preda senz'altro ai propri, magari bizzarri,
voleri. Non è prudente per un viaggiatore l'avventurarsi tra popoli
sconosciuti senz'averne prima imparato la lingua. Ma noi siamo cristiani;
e il grave rischio in cui incorriamo non è tanto quello di trattenerci,
magari non deliberatamente, in false filosofie della natura, quanto
piuttosto quello di non riuscire a capirne il vero senso religioso,
accontentandoci delle apparenze sensibili e lasciando la natura al suo
ufficio di schermo, invece di usarne anche a guisa di specchio.
Perché la natura è contemporaneamente
l'uno e l'altro; e sbaglierebbe chi volesse vedere in ciò una
contraddizione. Uno specchio può fare da schermo, se lo si usa cóme
tale, senza badare al raggio che lo colpisce. Qui però, se si fa così,
ne viene un danno, e tanto maggiore in quanto
38
la natura fa parte di noi, entrando nella
costituzione più intima del nostro essere, così come noi facciamo parte
di essa; essendo tale unione congenita e necessaria, facilmente noi
tentiamo di goderne senza andare più in là, come talvolta,
egoisticamente, noi godiamo di noi stessi.
Ma come sarebbe ingrato e ingiusto l'uomo
che si concentrasse in se stesso senza rivolgere al Ciclo la sua lode e i
suoi ringraziamenti, così diventa colpevole chi ammira la natura e ne
usufruisce senza salire più in alto. Dio è in noi e noi dobbiamo
trovarlo nel nostro intimo mediante la silenziosa meditazione; Dio è
anche nella natura, e dobbiamo cercarlo in essa nel profondo silenzio che
occulta l'opera di Lui.
Possiamo distinguere quattro modi di
avvicinare la natura. Di essi, tré l'abbassano, sotto colore di renderle
omaggio o di elevarsi fino alla sua altezza. La si può accostare da
csteta, oppure da vivente occupato soltanto a vivere, o da indagatore
della sua struttura, e, infine, da anima piena di senso religioso e
mistico. Quale differenza fra queste diverse attitudini! Quale distanza
fra lo stesso ciclo ammirato dall'occhio dell'artista, scrutato
dall'agricoltore, analizzato dal freddo sguardo dello scienziato e
contemplato estaticamente dall'anima! Armonia di linee e di colori: ecco
il ciclo del pittore; radiatore o annaf-
39
fiatoio: ecco il ciclo del contadino;
astri roteanti e intersecanti le loro traiettorie: ecco il ciclo
dell'intelletto che non arriva ancora a riconoscere la gloria di Dio nel
canto silenzioso delle stelle.
Il cristiano non si può appagare di ciò
che d'inferiore gli può offrire l'universo; e tutto è inferiore a lui,
se non gli procura l'Unico Necessario. Se la natura non riesce a darci
Dio, viene meno al suo compito. Anche se conoscessimo perfettamente e
avessimo addirittura misurato i suoi sublimi segreti — e a più forte
ragione se non pensiamo ad altro che a servircene per la nostra vita
quotidiana —-, non' avremmo fatto altro, per così dire, che
rosicchiarla, come fa la tignola quando bucherella un vestito. La natura
è al nostro servizio, ma essa, oltre che offrirci paesaggi, pane e
teoremi, può servirci in modo ben più elevato e importante.
La natura ha ufficio di nunzia, quantunque
questa parola non dica tutto, perché la natura, quello che ci annuncia,
anche, in certo modo, ce lo da. Tutta la sua sostanza proviene dalla
Sostanza prima, che non soltanto non se ne allontana, ma mette lo spirito
nel ^perpetuo pericolo di confonderle fra loro. Non diciamo forse in
teologia che il mondo non aggiunge nulla a Dio e che Dio più il mondo non
è più di Dio? Eccoci dunque minacciati dal panteismo; e, a dire il ve-
40
ro, se non dobbiamo essere panteisti, se
non lo siamo, non sappiamo precisamente ciò che in Dio e nella realtà ci
permette di sfuggire a quest'errore. In ogni caso, se bisogna guardarsi
bene dal panteismo, bisogna pure evitare il naturalismo, il materialismo
pratico, che separano Dio dalla sua opera e lo trascurano come se non
esistesse.
Dio è più vicino alle cose che le cose a
se stesse, poiché da loro, prima dell'esistenza, la possibilità ideale.
Egli le costituisce in spirito prima di costituirle nella realtà,
precedendole così in loro stesse — se è permesso di parlare in tale
maniera —. Egli prepara il loro essere e lo affida loro per l'azióne
utile, come affida noi, creature ragionevoli, « nelle mani del nostro
consiglio ».
La presenza di Dio nella natura è
perpetuamente creatrìce; Dio esercita di presenza il suo dominio su tutte
le creature dell'universo; nulla Lo può sostituire, perché tutto esiste
solo a causa di Lui, con Lui e in Lui. Nel suo Essere, come in un « mare
di sostanza senza termini e senza confini », per usare le parole di san
Giovanni Damasceno, ogni creatura nella sua estrema e perpetua miseria
s'immerge per sussistere, aspettando tutto da Lui. Così, guardare il
mondo è in qualche modo lo stesso che guardare Dio: Dio nel suo
effondersi, nella sua partecipazione e, per adoperare un'espressióne
ardita, nel suo fiore.
41
Non solo la sostanza del creato, che porta
l'impronta dell'Essere divino, ma anche le forze e le leggi sono
rivelazioni di Dio Verbo e di Dio Onnipotente. Per interpretare la natura
dovremo dunque elevarci a quella concezione di un Potere e di una Sapienza
che si manifestano nelle loro opere. Se io dimentico il Pensiero che
presiede a tutto; se non penso che gli esseri medesimi — e con essi
proprietà, armonie intcriori, poteri d'adattamento, facoltà d'azione che
loro appartengono —sono pensiero divino attuato, provvidenza sminuzzata,
sapienza concretata, arte divenuta fatto, come potrei pretendere d'aver
letto nell'intimità dell'essere? E così, dimenticando di vedere nelle
forze della natura una mediazione, trascurando la Potenza che intreccia
fenomeni a fenomeni, cicli a cicli, con innumerevoli combinazioni, potrei
dire di aver compreso il reale in ciò che ha di più reale, di più
intimo dell'intimo suo, ossia in quell'infaticabile e inesauribile al di
là che le sue attività ci rivelano?
Le nostre preoccupazioni utilitarie e
l'ingegno pratico che hanno sviluppato in noi ci fanno perdere il senso
dell'unità del tutto visibile e del suo vincolo essenziale con
l'invisibile. Noi spezzettiamo per analizzare, per utilizzare; diciamo:
l'albero, la roccia, il vento, il fiume, la stella, e facilmente crediamo
che questi siano essèri indipendenti, collegati poi in qualche modo da
42
vincoli soltanto superficiali.. Invece
tutti questi esseri non sono altro che la natura universale diversamente
manifestata, un unico pensiero del ' Creatore concretato, la rivelazione
della Potenza divina. Tutto è collegato e tutto dipende da Dio. Tutto non
è che una rete dalle maglie solide e fitte, agitata da una mano : quella mano
di Dio che gli antichi artisti raffiguravano in un'aureola, al di
sopra delle cose umane.
Tanto il fatto comune quanto quello più
importante devono suscitare questi pensieri, perché il reale è
dappertutto il medesimo. Io esco: calpesto il suolo, e tale sostegno dei
miei passi è come quello delle mani angeliche che, secondo il salmo, per
volere di Dio portano l'eletto del suo amore. Appoggiandomi al suolo, io
avverto una resistenza protettrice; sperimento la forza che nelle antiche
età ha dato forma al globo, riunendo gli atomi nella nebulosa, domando
l'ondata delle materie incandescenti in un oceano di fuoco, saldando le
rocce che costituiscono osa. la spina dorsale della terra,
distribuendo infine sotto queste successive forme l'energia di Dìo.
Anch'io, cedendo alle forze cosmiche a cui
la terra è soggetta, partecipo dell'energia che muove e trascina nello
spazio il nostro globo roteante. Cammino, e, nel mio procedere, utilizzo
l'effetto della gravitazione universale, forza di cui la vita regge e
completa il particolare andamen-
43
to; e la gravitazione e la vita si possono
ben chiamare i m'issi dominici di un'unica e sovrana Potenza. La
mia intuizione religiosa lascia da parte ogni intermediario e io mi sento
animato nell'intimo e custodito all'esterno, equilibrato e sor-retto da un
celeste potere.
Le attività che via via sperimento e alle
quali partecipo, hanno tutte la stessa origine. Tutta la natura che mi
circonda deve a una presenza infinita la vita ch'essa sviluppa. I venti
che spirano sono il soffio di Dio che passa; il moto della nube che sfiora
una montagna o quello d'una pietra che cade hanno la loro causa profonda
nell'anima universale, sotto l'immagine della quale ci raffiguriamo Dio.
La vita è tutta uno sforzo di sviluppo che ci rivela una sorgente viva;
l'istinto degli animali dimostra una volontà che ha cura dei piccolini ed
è conservatrice degli esseri incapaci di provvedere da sé, mentre il
prodigioso equilibrio della vita e della morte nell'interno della specie
porta l'impronta di una sapienza che continuamente ci presenta misteri
preoccupanti, ma che non possiamo misconoscere se non siamo ciechi. Il
cuore di Dio pulsa nel seno del mondo e nel giro delle stagioni
vivificando l'universo e ogni singolo corpo : e, immerso in questo mio
corpo come parte della sua fervida sostanza, non ne ascolterò
gl'ineffabili battiti?
Dio è in tutto ciò che viene
all'esistenza, in
44
tutto ciò che è, in tutto ciò che si
dimostra possibile; eccettuato il male, l'azione gli appartiene in
qualsiasi stadio; tutto quello che tentiamo per conciliarci la natura è
un uso della sua forza, come tutto quello che facciamo per resistere a
questa medesima natura ci proviene da Lui. In me, in quello che mi
circonda, in tutte le cose,
10 Lo ritrovo come una miniera d'ideale e
di potere di cui tutto usufruisce e che niente esaurisce.
Infine, se davanti alla natura mi domando
a che serva tutto questo, quale sia lo scopo di un così immane sforzo e
di tali continue trasformazioni, a che miri questo gigante le cui fatiche
sono quelle dell'Ercole antico liberate dal simbolo che ce le velava,
comprenderò che l'unica ragione di tutto, oltre alla gloria di Dio, è il
servizio degli esseri ragionevoli che devono un giorno arrivare all'unione
con Lui.
Uno è il cosmo e unico è il suo destino;
ma
11 destino di quest'immenso complesso di
materia e di spirito non si dovrà forse orientare verso
10 spirito subordinandosi la materia, come
sempre
11 meno si subordina al più, l'inferiore
al superiore e il passeggero al durevole? Quello che è materiale perisce,
e lo spirito resta. Tutto ciò che è materiale non esiste per se stesso
ne per altro che non sia spirito. Quest'essere che è come se non fosse,
che esiste ma non lo sa, verrà dunque posto dalla Provvidenza sotto la
legge dello spi-
45
rito che sa, che ha coscienza di se e che
non perisce : Tutto è per gli
eletti.
Per questo, quando osservo la rotazione
degli astri, il flusso ed il riflusso del mare e l'alternarsi delle
stagioni, l'origine e le metamorfosi della vita, lo svolgersi della
storia, devo esclamare :
—. Così, mio Dio, tu prepari il regno
eterno che era, nei tuoi disegni, origine e scopo di queste mirabili
combinazioni creatricì.
Come me, anche la natura è vincolata
all'attuazione dell'opera divina. Quello ch'io faccio liberamente,
l'animale, il fiore, l'essere inanimato lo fanno senza saperlo.
All'interno o all'esterno, nell'anima nostra o nell'universo, l'energia
non ha che una meta : quella che è intimata al nostro sforzo morale, e
cioè la vita eterna. Tutto effettua i voleri di Dio, miranti anch'essi
alla nostra felicità, condizione della sua gloria visibile. L'universo è
il luogo dove le anime vengono all'esistenza, la condizione del loro
sviluppo, il cantiere del loro lavoro, il campo dei loro combattimenti, la
pista di lancio verso la loro definitiva dimora.
Per questo, ciò che in sé è materiale,
per il suo fine diventa spirituale, l'immensità stessa è serva. Che noi
siamo come inghiottiti da essa, non sarà questa una lezione di più? E'
bene ch'io sia così annullato tisicamente, per sentir meglio la grandezza
che è in me. Il mio destino è quello
46
di oltrepassare tutto, dopo avere di tutto
usufruito. Quello che al mio sguardo appare opprimente e dominatore non
è, in realtà, che un mezzo;
ciò che si chiama materia è spirito,
ciò che si dichiara indifferente è morale, mistico, santo.
Santo! Santo! Santo è il Signore, Dio
degli eserciti celesti, cioè
degli astri e di quello che gli astri hanno sotto di sé, illuminano,
dirigono, promuovono, e anche, in pari tempo, il Dio delle grandezze
terrestri, il Dio della margheritina, del giglio, del vilucchio, del
cavolo, del dente di leone, dell'ortica e del cardo, al di sopra dei quali
si eleva la cattedrale.
Dio è sempre presente a tutti i suoi
servi e comanda alla natura. Chi non si sottrae a questo ordinamento
riceve una comunicazione dei misteri divini. « L'uomo spirituale giudica
tutto », dice san Paolo; unito allo spirito di Dio, egli comprende che le
azioni universali, anche le più basse, anche le più materiali, dipendono
da una forza morale e che questa casa bene ordinata è sotto il governo di
un Padre.
Non è per questo, forse, che la natura
manifesta, nella sua storia, una forza d'ascesa che la sospinge dalla
materia allo spirito, come dovrebbe sospingere noi dallo spirito a quello
spirito migliore che è integrità morale e infine eroismo? « L'eroismo
è il segreto della vita », ha detto un filosofo : non sarà anche il
segreto della natura ?
• 47
Se è vero l'evoluzionismo cristiano, c'è
un eroismo latente in tutte le forme d'esistenza che, nel trascorrere dei
secoli, si. elevano dal meno al più, dalla materia pura alla vegetazione,
dalla vegetazione alla sensazione, da questa al pensiero ed alla libertà,
sotto l'influsso e con il sostegno dell'Essere Primo, la cui perfezione
tutto precede e tutto mette in moto.
Il fine della creazione è il
perfezionamento degli spiriti impegnati quaggiù in ardue conquiste. La
natura non esiste che per le creature ragionevoli. Nel tempio, che è il
simbolo più ampio ed espressivo della natura, ogni cosa non è forse
rivolta al Dio nascosto; e questo Dio medesimo, nella sua fraterna
condiscendenza, non è forse rivolto verso quelli che viene a corroborare,
a consolare, ad ammonire, a santificare e infine a trarre con Sé nella
sua reggia celeste? Senza dubbio per questo, scrivendo a un giovane che
gli aveva vantato gli incanti delle sue villeggiature marine e montane, il
P. Lacordaire diceva : «Sono d'accordo con tè per le montagne, per il
mare e per le foreste: le amo quanto tè; ma, quanto più s'invecchia,
tanto più la natura perde valore, mentre l'acquistano le anime, e più si
gusta la bellezza di questo detto di Vauvenargues : " Presto o tardi,
non si gioisce che per le anime " ».
Questo è dunque il cammino
dell'intuizione
48
religiosa nell'interpretazione della
natura : dalla sostanza creata alla sostanza eterna, dal più oscuro
fenomeno alle grandi leggi ed alle forze universali; dalle leggi al
Pensiero divino e dalle forze alla Potenza di Dio; poi dal travaglio del
cosmo allo sforzo delle creature intelligenti, dalla materia allo spirito,
dalla terra al ciclo.
Dio compie questa continuità venendo
incontro con le sue ispirazioni intcriori, con l'insegnamento religioso,
con la Bibbia e con la vita della sua Chiesa alla mente e al cuore che lo
cercano attraverso le cose. Vivendo una vita spiritualmente elevata, noi
daremo a quest'ideale andirivieni la sua consacrazione pratica, in quanto
che, appoggiandoci sulla natura e servendocene, la trarremo nella
dirczione dei suoi fini, la sospingeremo verso il suo autore, o, meglio,
ve la porteremo con noi. In tal modo si attuerà l'unità fra noi e il
luogo dove si svolge la nostra vita, fra il tempio e il sacerdote,
cosicché tutto sarà in pari tempo religioso e naturale, eterno e
temporaneo, terminerà e avrà vita, nella nostra vita e nella Vita
divina.
^- '
Voglio qui far cadere un'illusione che è
tanto più sottile in quanto è propria di gente colta. Sembra ad alcuni
che il pensiero degli immensi spazi stellari e di quello che dietro ad
essi pos-
49
siamo àncora supporre debba farci perdere
d'animo davanti alle bellezze terrestri e abbassare ai nostri occhi la
loro grandezza. Come chiamare grande, dicono essi, ciò che in realtà non
conta? E quale senso di ammirazione si può provare, quando si conoscono
certe cifre astronomiche, davanti a quella briciola che è la terra,
contenente una goccia d'acqua, sotto un pozzetto di ciclo?
A quelli che parlano così si può almeno
riservare l'astronomia e indicare le geniali anticipazioni dell'autore dei
Pensieri in una celebre pagina; ma occorre scoprire le tracce
dell'errore. Non è vero che la piccolezza relativa del nostro mondo ne
diminuisca in qualsiasi modo il valore, se si considera sotto l'aspetto
della sua superiore interpretazione. Grandezza vicina e proporzionata ai
miei ordinar! poteri di visione e di osservazione, la natura che mi
circonda mi appare tanto più magnifica e impressionante proprio perché
incastrata nel doppio infinito che da due parti la prolunga. E' verissimo
che, sotto un certo aspetto, l'infinitamente grande la schiaccia e
l'annienta, ma, sotto quel medesimo aspetto, l'infinitamente piccolo non
la rialza forse? E a che servono qui, del resto, tali misure?
Se ci si rivelassero d'un tratto i
conflitti di forze e le armonie dell'infinitamente piccolo, perderebbero
ai nostri occhi nel confronto con l'oceano, tanto più vasto? Certo non di
più di quello
che perda l'oceano nel confronto con
Sirio, che risplende su di esso come sopra una goccia di rugiada. Le
leggi, da una parte e dall'altra, sono le medesime e in ambedue questi
campi io scopro un tutto prodigioso. Lo sciabordìo dell'onda contro la
cala del vecchio porto e la linea arcuata dell'orizzonte, che ci fa
conoscere la curva della terra, e la stessa curva della terra parlano un
linguaggio che arriva al cuore, come l'orbita solare o la Via Lattea. La
lotta delle forze da cui ogni cosa risulta può essere relativamente
grande o piccola (e il chiamarla così non è già un dichiarare che in
realtà non è ne grande ne piccola?), ma anche se si vuole tener conto di
gradi, il grande e il piccolo non sono meno, per questo, una rivelazione,
un richiamo alla mente dell'Assoluto, della forza e della magnificenza,
che risplendono da ambe le parti.
« Dio solo è grande, o fratelli ! » :
Massillon potrebbe ripetere questa parola davanti alla liquida tomba in
cui il rè sole discende, come morendo, ogni sera; ma è anche grande
qualsiasi cosa, a qualunque grado appartenga, che riflette ai nostri occhi
l'unica Grandezza e permette allo spirito di arrivarvi.
Senza badar più alla loro mole, ripetiamo
quindi che le cose della natura hanno in sé qualcosa di divino, che è il
loro fine e il miste-
5i
rioso moto che le trasporta, l'impronta
della potenza creatrice e del pensiero creatore, impressa nel loro essere
e nei loro poteri. La natura, per chi sa vederlo, ha un significato
religioso, ed è un perpetuo: Ecce Densi Meditando la sua
spiritualità, noi rendiamo efficace la fraternità di tutte le cose con
noi; come, meditando i nostri vincoli in Dio e con Dio, lavoriamo, noi,
povere creature umane, al comune eterno destino.
« Frate sole », « frate foco », «
sorella acqua » non sono vana poesia, ma espressioni del più nobile
significato di tutto; e se nel nostro spirito e nel nostro cuore non
s'imprime questa poesia, la natura diventerà in certo senso cosa inutile.
Ma il darsi in preda a tale incapacità non sarà un rinnegare i propri
istinti e un mettersi in contraddizione con se stessi? Riflettendoci bene,
ci renderemo conto che nella natura noi ammiriamo sempre qualcosa di
diverso dalla natura stessa, come nell'amore possiamo oltrepassare
infinitamente l'oggetto amato. Il misterioso richiamo che la natura ci fa
udire riguarda un segreto che noi non riveliamo, ma che riceviamo,
piacevolmente soggiogati. Essa ci offre qualcosa di più che uno
spettacolo e un'utilità, perché ci fa sentire l'anima delle cose e Dio
che le vivifica. Dio imbalsama per noi il mondo, lo rende sicuro ai nostri
passi, dilettevole al nostro cuore e vi fa ri-
52
suonare, quando seguiamo le sue regali
vie, uri cantico di gioia.
La natura è un apparato di festa che
permane dopo un glorioso passaggio e ne conserva la commozione. La natura
è una serie di geroglifici che non possiamo decifrare, ma che richiama
per noi un pensiero segreto. Sull'obelisco di Luxor noi seguiamo le tracce
di una civiltà morta, ma quando l'obelisco era ancora nella cava, esso
portava una scrittura ben altrimenti profonda di quella che si vede ora
sulle sue facce levigate: la scrittura dell'essere che parla all'anima
quando c'invade il senso degli arcani del mondo.
Solo apparentemente noi ci troviamo chiusi
nel sensibile; e il divino solo in apparenza è inaccessibile allo spirito
e al cuore. Per l'intuizione religiosa, la frontiera dei due mondi è
aperta ed è come una muraglia cinese che fosse tutta formata di porte, --.^y^:^;-.;-
^;^^;;s:
II Dio della Bibbia ha chiamato ogni cosa
con il suo nome e a loro volta le cose pronunziano tutte un nome che è il
medesimo : sordo è il nostro spirito se non ode queste bocche silenziose
che emettono con tanta potenza il grido dell'essere.
Davanti alla natura Dio ci appare
anzitutto come la Causa, la Bellezza, la Potenza, come da-
53
vanti alla ragione Egli è Sapienza, al
volere Santità, al cuore Padre.
Poi tali attributi si riuniscono e noi
comprendiamo che nella natura stessa Dio è contemporaneamente tutto
questo, com'è tale, nello stesso tempo, in tutto il restante. Tutte le
perfezioni divine si manifestano ,in un'opera divina. Se noi nella natura
talvolta vediamo soltanto sapienza e potenza, ciò avviene perché spesso
il fine di essa ci sfugge; per i suoi fini, la natura è amore e anche,
per essi, santità.
Riusciremo noi a comprendere il profondo
mistero della natura, in cui ogni enigma ha per chiave un altro enigma e
in cui palpita una Vita disconosciuta? Bisogna immergersi in esso e
gustarne tutti gli aspetti collegati con la nostra vita, che altrimenti si
sperderebbe; occorre vederlo come sapienza, attività, pazienza, stretta
solidarietà degli esseri e delle forze, obbedienza alle leggi, ricerca
del meglio. Bisogna immergersi in esso senza affogarvi, perdersi in esso e
in pari tempo sapercisi ritrovare, perche si tratta di un mistero che è
anche nostro; bisogna amarlo e rendercelo familiare santamente,
religiosamente;
allora, esso pure, religiosamente e
affettuosamente, ci parlerà.
In ogni essere, vivente o inanimato. Dio
ci parla e ci invita. Il Vivente etemo appare in ogni
54
creatura e attira lo spirito verso le sue
profondità; Egli cerca noi per manifestarsi, per comunicarsi, e il suo
limpido linguaggio è sempre lo stesso; dice : •— Io sono, penso,
agisco, governo, amo:
E c'invita: -— Vieni!
55
LA VA LUTAZIONE DEGLI AVVENIMENTI
la
natura e l'uomo sono gli autori degli avvenimenti della vita. Ciò che la
natura pro duce da sola non è certo, a questo riguardo, ciò che
vi è di più notevole; tuttavia, poiché le azioni umane operanti sul
nostro destino prendono, nel loro groviglio, un carattere di fatalità e
un aspetto di potenza anonima molto simili a quelli della natura,
facilmente si confonde il tutto sotto appellativi comuni, quali, ad
esempio: la vita, la sorte, la fortuna, il caso.
Bisogna confessare che tali potenze non
godono tra noi fama molto buona. Se giudichiamo le cose superficialmente,
esse meritano un trattamento del genere, perché la natura presenta alla
nostra vita degli imprevisti che l'urto delle libertà e il capriccio
delle passioni aggravano in
57
misura preoccupante per la nostra
felicità. Potremo bene sforzarci per decidere di noi, frenare la ruota,
far forza con i remi: qualsiasi pendio potrà far precipitare il nostro
veicolo e qual- • siasi corrente potrà trascinare nei gorghi la nostra
barchetta. L'incertezza delle sementi è la prova del contadino e le
vicissitudini della vita sono la prova dell'uomo.
Prima di scavare nelle profondità di un
tale problema e di ricorrere all'eternità, senza la quale nessuna luce si
può gettare sulle cose del tempo, è di grandissima importanza pratica il
protestare contro la parte eccessiva che le nostre viltà assegnano al
caso negli avvenimenti della vita. Troppo volentieri ci viene sulle labbra
la parola caso; essa è una comoda scappatoia per schivare responsabilità
e nascondere errori. Basta scrutare attentamente l'indolenza di certi
fatalismi, per scoprirvi una buona dose di fariseismo incosciente.
Quanta fretta nell'accusare la sorte! Dio,
però, ci ha affidati al nostro proprio consiglio. La-sorte, anzitutto,
siamo noi. La sorte è sovente la nostra sorte, ciò che noi
abbiamo fatto. I/incertezza delle sementi non impedisce, ordinariamente,
la prosperità del contadino che riflette e che lavora. Nel campo
intellettuale, il caso felice chiamato ispirazione è stato definito da
Baudelaire con parole che fanno meditare : « L'ispirazione — ha detto
il poeta — consiste nel lavorare tutta la
58 '
giornata. » Non è forse risaputo che il
genio — altro caso —è « una lunga pazienza »?
Certo non si deve esagerare: ogni
definizione in senso assoluto potrebbe trarre in inganno, ma quelle ora
citate sono più vere, e di molto, delle loro contrarie. In tutte le cose
il buon successo segue allo sforzo con tale regolarità da lasciare poco
adito all'incostanza. C'è in questo mondo nel suo complesso una specie di
intesa fra il coraggio e la rettitudine. La virtù paga, — benché si
tratti qui di un pagamento solo temporaneo —, in ragione delle promesse
divine.
Dopo tutto, le cose sono figlio di Dio, e
l'uomo non può portare il disordine nel loro intimo, che gli è
inaccessibile. Il mondo è buono e il demone caso e la pazza libertà
possono renderlo malvagio solo fino a un certo punto. Colui che scopre la
bontà delle cose e la vivifica aggiungendovi la propria è vicino alla
vittoria sulla sorte.
La nostra eterna inesperienza e
l'impetuosità dei nostri desideri sono la causa dei nostri smarrimenti.
Crediamo di poter barare con la vita, di poter aspettare « le quaglie
già arrostite », di poter agguantare la fortuna al varco, mentre stiamo
a baloccarci sulla via abusando dei doni che Dio ci ha dati. Ma Dio non
permette che il gioco duri a nostro piacimento e interviene. Gli
interventi divini sono certi e ne riparleremo; al-
59
cuni però sono vicini e altri più o meno
lontani. Anche il tempo paga, benché tutto vi sia messo in conto a
grandissima usura. "\ - ^^
Se si parla dell'umanità nel suo insieme,
non è forse certo che la maggior parte dei mali che l'affliggono le sono
imputabili e non si ripetono nel mondo che per colpa sua? Essa non crea la
sofferenza e la morte •—• a meno che non si parli della prima caduta
che ha aperto la strada a questi flagelli —, ma aggrava la sofferenza e
rende attiva la morte in modo tale che, se si sopprimesse questa
causalità peccatrice, la vita muterebbe tanto da ricompensarci largamente
di tutte le nostre virtù.
Gli uomini non muoiono, è stato detto, ma
si uccidono : allo stesso modo, gli uomini non soffrono, ma si procurano
le sofferenze. Parlando poi del singolo, pur non essendoci imputabile la
malizia degli altri e non potendo noi evitarne sempre il morso, io stimo
che, se ciascuno riuscisse a liberare la propria vita da tutto ciò che vi
è di cattivo e le restituisse quello che va perduto per sua colpa, il
cambiamento non sarebbe meno radicale.
Ciò si vede specialmente nei casi
estremi. I grandi disordini lasciano sempre segni profondi nell'anima e
nel corpo, nell'aspetto e nella forza, nella dignità e negli affetti, nei
propositi e nella vita intera. Al contrario, una grande sag-
60
gezza ci riconcilia con noi stessi, con
chi ci sta intorno, con tutti. « Sono stato giovane, eccomi vecchio
— dice il Saggio —, ma non ho mai visto il giusto abbandonato
ne i suoi eredi ridotti ad accattare un pezzo di pane. » Ciò si vede
tuttavia, ma costituisce l'eccezione che conferma la regola. Di solito la
nostra sorte assomiglia alla nostra azione, così come la nostra azione
assomiglia alla nostra anima. L'azione sta tra noi e i fatti, è un ponte
di passaggio. Anima virtuosa, azione retta, esiti felici: quest'equazione,
che non è matematica, come nessun'altra cosa della vita, si dimostra
tuttavia frequentemente esatta. L'azione % collega il nostro essere di
ieri con quello di do-i mani. Ieri acquistai saggezza; oggi agisco in modo
conforme a quella saggezza; domani ne co-,. glierò i frutti e, inoltre,
aumenterò la saggezza
stessa. . ^^-^^. . Guardiamoci bene,
dunque, dal dare alla pa-1 rola « sorte »
un'estensione illimitata, e dal credere che il complesso degli avvenimenti
della vita le appartenga. Due volte su tré, la sorte è l'ospite che noi
stessi abbiamo invitata : ospite che vie-| ne a passi lenti; ma un passo
dopo l'altro si va | lontano, e la cattiva sorte sa raggiungere al mo-|
mento opportuno quelli che se la sono attirata e I che forse non
l'aspettano più, così come la buo-! na sorte — con meno
certezza è vero, perché il bene viene meno facilmente del male — va
in-
^•sr •e
6l
contro e da il premio a quelli che hanno
meritato il suo aiuto.
Il mezzo più opportuno per aver la sorte
dalla nostra parte e per orientare verso la felicità gli avvenimenti
della nostra vita, è quello di mostrarci uomini, di procurarci abitudini
virtuose, di riflettere prima di ogni nostra azione, e di tenere sempre
come consiglieri i dieci comandamenti.
-¥-
Questo però non basta per negare quello
che l'evidenza un giorno o l'altro ci getterebbe davanti agli occhi: la
parte del caso, delle fortune avverse che ci perseguitano, la sproporzione
alcune volte enorme tra i nostri sbagli e le loro conseguenze, o,
inversamente, il poco frutto dei nostri sforzi più grandi. Gli
avvenimenti, che sono vincolati all'ordine morale, ne dipendono infatti
nel visibile soltanto per mezzo di un debole legame. Ciò è vero, e la
nostra poca fede, la nostra poca riflessione si attribuiscono il diritto
di accusare nel suo insieme il destino, cioè Dio, il cui procedere resta
nascosto ai nostri occhi dall'impersonalità della sorte.
Ciò è indice di vista corta, aggravata,
a pensarci bene, da un'autentica bestemmia. I pagani, oppressi dal fato,
credendo questa oscura poten-
62
Za superiore agli stessi dei, dovevano
piegarsi al suo decreto, che era decreto arbitrario e necessariamente
indiscutibile, poiché per natura esso sfuggiva a ogni ragione. Ma i
cristiani si trovano davanti a ben altro : l'ordine divino è un fatto
nuovo, in cui l'antico potere del nome si congiunge con il concetto della
divina sapienza. Il caso stesso sta nelle mani di
Dio.
Vi sono cause necessario e cause
contingenti, spiega san Tommaso d'Aquino, ma tutte provengono dalla Causa
prima e le sono sottomesse. Questa sottomissione non muta la loro natura,
al contrario la da loro, ed è verissimo che nella nostra vita ci sono dei
casi, ma il fatto che il caso sia sottoposto a Dio combina gli efletti di
essi e costringe questi medesimi effetti a entrare in un ordine di ragione
che è anche un ordine d'amore. L'ordine morale riprende così quello che
sembrava sruggirgli in una perpetua fuga.
La nostra vita non è abbandonata, neppure
in quello che concerne le circostanze, alle correnti e alle procelle, come
una barca in estremo pericolo, ma dipende da leggi precise a cui il suo
ritmo può bene adattarsi. Riguardo poi all'ordine ultimo in cui essa va a
finire non vi si trovano più casi:
Dio e noi siamo i soli responsabili.
Quando una persona ha fatto ciò che poteva fare, ha il diritto di alzare
gli occhi e di dire : — Tocca a tè ora, Padre!
63
Se il ciclo non risponde, se il destino
nel suo complesso non si dimostra saggio, benefico, in armonia con lo
sforzo virtuoso e con la giustizia, ne va di mezzo la Sapienza stessa di
Dio, e perciò l'audace salmista non teme di presentare a Dio la sua
richiesta con queste parole così mirabilmente ardite: ((.Pietà di
me..., affinchè tu sia trovato giusto nella tua sentenza, senza
rimprovero nel tuo giudizio. » (Salmo 50)
Che cosa pensare dunque delle ingiustizie
e delle svolte in apparenza capricciose degli avvenimenti del mondo? Come
interpretare, in caso di piena o di relativa innocenza del soggetto, le
contraddizioni che gli vengono dagli uomini e dalle cose, le iniquità, i
cattivi successi, le separazioni, le critiche immeritate, le umiliazioni,
le delusioni, le malattie, i lutti, le rovine? E come interpretare al
contrario il « trionfo dell'empio », che costituisce lo scandalo dei
secoli? Ma, soprattutto, come spiegare che apparentemente nulla si spieghi
e che gli avvenimenti storici sembrino sovente, come è stato detto, le
azioni di un carnefice ubriaco?
Una questione del genere potrebbe condurci
lontano; essa ha dato del filo da torcere a molti e non è ancora vicina a
una soluzione adeguata;
ma per ora basterà quanto segue. Alla
sorte divina che noi non comprendiamo, a quest'ordine che agli occhi della
nostra saggezza appare mi-
64
sto a disordine, conviene semplicemente
dare tutta la nostra fiducia. Facendo così non agiremo a casaccio; vi
sono infatti due ragioni, di cui una permette e l'altra vuole che facciamo
così.
La prima di esse è questa : il nostro
sguardo vede soltanto un ordine parziale e il tempo della nostra
esperienza personale non abbraccia tutto il destino. :'^
Noi siamo in cammino, e non scorgiamo
attorno a noi che gli accessori del viaggio, se così si può dire. La
realtà che ci appare non è tutta la realtà, ne può esprimerne
compiutamente le leggi. La realtà totale comprende il soprannaturale, che
ha leggi proprie; il destino totale comprende anche l'altra vita; il tempo
prepara l'eternità e vi trova la sua regola, mentre le sanzioni dei
nostri atti hanno davanti a sé delle date o immediate o differite e più
o meno differite: tutto ciò conta qualcosa.
I casi della vita non possono comprendere
tutta la vita, ne permetterci su di essa un giudizio decisivo, eccetto che
si voglia chiamare « vita » la porzione di destino che misuriamo noi,
indipendentemente dai vincoli che l'uniscono al termine destinato a
compierla, al fine che la illumina, alla conclusione che le da il suo
valore. Sarebbe un falso giudizio.
Se si domandasse subito al proiettile che
cosa
65
vada a fare fra le nuvole, senza aspettare
ch'esso cada al punto preciso su cui l'artigliere ha puntato; se si
volesse giudicare un discorso da alcune frasi avulse dal contesto; se si
volesse interpretare un'iscrizione da qualche frammento isolato, non ci
sarebbe da meravigliarsi che si cadesse in errore. I giudizi per assurdo
avrebbero allora piena cittadinanza e vi si potrebbe dimostrare
sottigliezza di spirito oppure solenne scioc-chezza.
Il cristiano riflessivo giudica in modo
migliore. Egli dice a se stesso : Ciò che la condotta buona o cattiva non
mi procura immediatamente, me
10 procurerà più tardi; ciò che in un
modo essa perde, potrà guadagnarlo in un altro; ciò che non capita in
questo mondo, capiterà senza dubbio nell'altro. E che tutto avvenga
veramente così, glielo garantiscono gli attributi di Dio, la sua qualità
di Agente morale e di Legislatore di tutto l'essere, la sua santità e,
infine, le sue promesse.
Il Libro della Sapienza dice dei giusti
morenti queste profonde parole : Le
loro opere
11 seguono.
Le opere che la vita non ha sanzionate, che il caso capriccioso ha
dimenticate per calcolo o che ha maliziosamente ritorte, le opere
disconosciute, le opere in istanza di giustizia e in stato di protesta,
non rimangono in questo mondo, ma seguono chi le ha compiute
accompagnandolo al tribunale divino per fissare la sua
66
sorte, che le nostre imperfette sentenze
non hanno potuto determinare. Eccole davanti a Dio per chiedergli con
insistenza il loro necessario compimento, la loro conclusione (il che è
quanto dire loro stesse arrivate al non plus ultra, alle loro
ultime conseguenze) e chiedergli per il loro autore quello che altro non
è se non lui stesso, nella sua estensione e nel suo libero vincolo con il
suo ambiente di vita, cioè gli effetti dei suoi atti.
Anche in questo mondo, le azioni che non
ricevono la corrispondente sanzione, le azioni che non ricevono il « loro
salario », come dice il Vangelo, hanno almeno, col nome di merito, un
valore fiduciario: la loro ricompensa è presso Dio — come non si
stanca di ripetere il Sacro Testo —, vale a dire è nello spirito e nel
cuore di Dio, pronta ad apparire all'ora opportuna.
Anzi, secondo la dottrina cristiana della
grazia, questa ricompensa è già sostanzialmente acquisita: non c'è che
da rivelarla, per farle produrre, in un ambiente adatto, i suoi frutti
visibili. La grazia, per i suoi gradi e per quello che essa porta con sé
di futura felicità, è propriamente una sanzione del bene; la privazione
di essa e la rottura del vincolo che c'è tra Dio e l'anima, rottura che
di per sé significa eterna infelicità, è la sanzione del male.
Si può dire, del giusto e del peccatore,
che l'uno porta in sé il suo ciclo così come l'altro
67
porta in sé il suo inferno, e che la sola
differenza, tra il ciclo e l'inferno del tempo e il ciclo e l'inferno
dell'eternità, sta qui: i primi possono succedersi l'uno all'altro,
mentre i secondi no;
il peccatore può convertirsi ed il giusto
perdersi;
cose impossibili agli eletti e ai dannati.
Ma, sia per il giusto che per il peccatore, fin da questa vita la sanzione
c'è già, come il germe che contiene in sé l'albero e a cui non manca
che di svilupparsi. Qualora questo sviluppo richieda particolari
condizioni, vien differito; ma che cosa importa, quando giustizia è
fatta, che essa non si manifesti subito negli avvenimenti?
Non tocca agli avvenimenti sanzionare
subito il bene e il male; essi hanno gli stessi compiti del mondo in
quanto che esso è qualcosa di provvisorio, una stazione di partenza, un
terreno di ricerca, una pista di lancio, un laboratorio d'apprendistato,
un cantiere, una trincea di guerra.
Gli avvenimenti, proprio perché sono al
servizio della moralità, devono venirle in aiuto in tutto il suo cammino,
e, prima di applicarle le sanzioni, hanno il compito di facilitarle il
lavoro. Gli avvenimenti, che appartengono a tutti, si devono svolgere a
profitto di tutti: spetta ad essi tenere in esercizio i buoni, avvertire i
cattivi, soccorrere quelli che vacillano nella loro buona volontà,
favorire la fraternità con l'aiuto reciproco, risollevare i peccatori,
spingere più in alto quelli
68
che salgono, scuotere i sonnacchiosi,
accecare gli induriti nel male per un giusto e terribile giudizio che è
già una sanzione, se pur provvisoria, e sempre rivedibile. Ad essi — e
questo dice tutto — tocca preparare il campo per le battaglie degli
eroi, dei soldati fedeli e dei codardi; ad essi tocca manifestare il
merito, il che vai di più, in questa terra di sforzo, del coronarlo; ad
essi tocca procurare la rassomiglianza a Gesù Cristo nei suoi mèmbri,
dolore e gloria, croce e bandiera di'resurrezione.
Quando gli avvenimenti di questa vita ci
rendono felici non si può certo dire che sbaglino;
si può dire invece che sono in anticipo.
Non è ancora venuto il tempo della felicità, anzi il tempo della
felicità non esiste, perche la gioia è cosa d'eternità, e il tempo ne
è soltanto rischiarato. Noi ne riceviamo solo alcuni bagliori; quel poco
che ci basta per camminare, per non andare fuori strada e per non
disperare; ma sarebbe pazzia pretenderne la sostanza.
Quando il Vangelo dice di alcuni: essi
hanno già ricevuto la. loro ricompensa, parla di costoro come degli
uomini più infelici. Si potrebbe con verità chiamare felice chi venisse
pagato in un luogo dove non c'è che moneta di nessun valore? Inoltre
sarebbe forse ben fatto distribuire la paga durante la giornata, in pieno
cantiere, mentre si sta lavorando di buòna lena, proprio quan-
69
do c'è da far presto e bene, perché il
bisogno è urgente, e quando per un buon operaio i giorni paiono sempre
troppo breyi? Sarebbe cosa buona distribuire le decorazioni in pieno
assalto, festeggiare l'ufficiale quando è al suo posto di osservazione,
richiamare a terra l'aviatore per fare allegria, mentre sta inseguendo un
aereo nemico?
Il genio dell'azione, come quello
dell'amore, come la febbre del sacrificio, non ambisce ricompense
immediate. Queste son rimandate a più tardi. Intanto si avanza, ci si
sacrifica, ci si lancia, si muore nell'aspra lotta, gettandosi a
capofitto, senza domandare verso quali cime o verso quali abissi si vada.
Si sente vagamente, quando non lo si senta
esplicitamente, che l'ordine morale domina il tempo, le circostanze, la
vita, la morte e che esso paga sempre, che ci .si può fidare, che ci si
può abbandonare alla sua fedeltà, come a un Dio che tutti riconoscono,
pur senza dirne il nome.
Precisamente qui sta la chiave di tutto.
L'ordine morale può essere un ordine ritardato — anzi dev'esserlo,
perché gli uomini liberi possano acquistarsi meriti e comportarsi
nobilmente di fronte al bene e al male — ma è un ordine
assoluto, perché è l'ordine divino, perché è la fedeltà delle cose a
se stesse, dei fatti a se stessi, sotto lo sguardo di Colui che è fedele
per natura e che, occorrendo, sarà fedele per tutti.
70
Tutto ciò che è del tempo, è
sottoposto, da parte dell'eternità, a una rivendicazione somma. Le
proprietà di tutte le cose, compresa la libertà, sono nelle cose stesse
un volere di Dio e alla fine non possono che attuare tale volere. Tutte
noi creature ci moviamo in Dio come in un infinito che lascia non poco
spazio per i nostri movimenti, ma da cui niente può evadere e dov'è pur
necessario sottomettersi a ciò che lo qualifica : bontà e saggezza.
In un ordine creato abbandonato a se
stesso, potremmo avere delle sorprese, poiché il creato, da solo, non si
sostiene; pesa, e quindi è sempre soggetto a cadere, ma quando si tratta
dell'ordine universale, Dio medesimo vi prende parte : il capo dell'ordine
è congiunto all'ordine stesso e lo completa proprio là dove quello
manca, lo corregge dov'è fallibile, lo conferma in ciò che ha di buono.
Là dove il capo supremo, indipendente, incorruttibile, immutabile,
presente a tutto e dedito totalmente a tutti, decide e pronuncia l'ultima
parola sulla sua opera, non possono avvenire sbagli; dove questo rè
governa, non vedremo mai crisi politiche o amministrative; dove questo
generale comanda di persona, non sarà mai possibile una sconfitta.
Da ciò risulta che, se considero il
significato profondo degli avvenimenti della vita, tirando le somme, senza
più separare l'immediato dal lon-
71
tano, ciò che è di questa vita da ciò
che è dell'altra; se io giudico il destino qual è, nella sua
infrangibile unità, e se il temporale, che troppo volentieri pigliamo
come un tutto, ridiventa ai miei occhi un semplice elemento; se nella
morte, che sembra la fine di tutto, riesco a vedere un avvenimento come
gli altri — allora posso affermare con certezza : sì, gli avvenimenti
pagano e pagano sempre, essi sono debitori e creditori d'una esattezza e
d'una integrità rigorosissime; sono servi dell'ordine morale fedeli fino
allo scrupolo; favoriscono sempre il bene e puniscono sempre il male;
nulla mai li turba; i loro effetti, nell'eternità che avvolge il tempo,
cadono, come falde di neve nell'aria calma, e il loro apparente disordine
è in realtà una meravigliosa imperturbabile armonia.
In breve, si potrebbe dire : gli
avvenimenti sono Dio che si manifesta. Gli avvenimenti infatti non sono
che opere di Dio, mezzi di cui Dio si serve, tentativi di Dio, offerte di
Dio, aiuto o ammonimento di Dio. Qualunque sia il loro nome, il loro
casato è Dio, e occorre quindi guardar più a Dio che ad essi, se si
vogliono giudicare rettamenté. ; : ";
^ .:^ .S^r&SA ^'/. '\. . -%•' '-;
" . \
L'universo, che pare a tutta prima un
mezzo caos e che, considerato nel suo funzionamento, si direbbe un fatale
ingranaggio, è in realtà un organismo libero e impeccabile, tutto
pervaso da un'anima che lo muove, la quale altro non è
72 . ,
che la Divina Provvidenza. C'è infatti un
corpo . degli avvenimenti che li può far parere ostili o pericolosi, ma
c'è anche un'anima degli avvenimenti, che è l'orientamento loro impresso
da Dio in conformità a ciò che è richiesto dall'ordine morale. Un
artista fa passare l'anima propria nel suo pennello, per dar vita al
capolavoro : anche Dio, artista sommo, fa passare la sua anima, cioè la
sua Sapienza, la sua Giustizia, la sua Bontà, negli avvenimenti del
mondo, per dare a noi vita e perfezione di vita, purché gli siamo
sottomessi. :
II segreto del mondo sta proprio in questo
adattarsi degli avvenimenti alle creature, ai fìgli di Dio cui il mondo
deve la sua ragion d'essere, agli eletti della terra che diventeranno, se
vogliono, gli eletti del Ciclo. La realtà è morale, perché Dio è
morale ed è come incorporato alla sua opera. Se tutt'a un tratto i nostri
occhi si aprissero anche sulla realtà invisibile, noi scopriremmo che
tutto non è che Dio manifestato alla sua creatura, chino paternamente su
di essa, nell'atto di chiederle in ricambio solo la cooperazione per
l'acquisto di un regno ove si trova preparata la felicità della creatura
stessa.
E, senza dubbio, in un simile ordine non
si può invocare la sorte a spiegazione di alcunché, quando si tratti di
spiegazione decisiva. La sorte non ha una parte che le appartenga e
in cui sia
73
padrona, ne ha un destino particolare, a
sé, poiché anch'essa è un'operaia di Dio. La sorte è qualcosa
la cui utilità non ci è ancora stata rivelata e la cui legge intima ci
sfugge, ma questa utilità è certa e questa legge è rigorosa come
qualunque altra. Essa pure sarà chiamata a giudizio e dovrà render conto
dei suoi servizi: ma lo farà con tale sicurezza che il bene ed il male
non avranno nulla da temerne o da sperarne. E questa sorte capricciosa, di
per sé indifferente alla giustizia, si mostrerà, nelle mani di Dio,
inflessibile come la bilancia stessa del diritto.
Nulla ci capita per caso, nemmeno gli
effetti stessi del caso. Nulla ci può capitare contro di noi, se non lo
vogliamo, e nulla ci può essere contrario, perché, in fondo, niente è
contrario a qualcosa, perché tutto è armonia in Dio.
Dio è nell'uomo e nell'universo, e
risponde dell'uno e dell'altro; è in ciascuna persona e nei luoghi dove
l'azione di questa si manifesta: potrà qui e là contraddirsi ? Non sarà
forse d'accordo con se stesso? Il nostro sforzo unito a Lui sarà quindi
assolutamente invincibile e il nostro destino guidato da Lui non potrà
non arrivare gloriosamente in porto. Al contrario, la nostra azione
separata da Lui, o contraria a Lui, il che è poi la stessa cosa, non può
essere che vana o funesta. La buona coscienza è la forza suprema
dell'uni-
74
verso; tutto s'inchina davanti ad essa e,
alla fine, tutto si ordina sotto il suo impero. ^ ? T^
r'^ir";
Qui sta, per un gioco di reciprocità
inevitabile fra contrari, la terribile e fatale condizione del peccatore.
Quando il peccatore beve la « sua acqua di morte », come dice santa
Caterina da Siena, egli gode un beneficio immediato; ma questo effimero
godimento gli nasconde le spaventose ripercussioni che l'ordine morale
turbato gli prepara e farà sorgere al momento segnato dalla Provvidenza.
Il peccatore non pensa che ci sono dei vincoli segreti tra la grazia o la
sua privazione, da una parte, e gli avvenimenti del mondo, dall'altra; e
così tenta di portarsi via un po' di gioia da un complesso che difatti
gliela da, ma secondo un certo ordine, e che, al di fuori di quest'ordine,
è invece terribilmente nefasto.
Il bene e i1 male, come abbiamo già
detto, portano in se la oropria sanzione immediata : non resta che
scoprirla e il peccatore ne saprà qualcosa quando s'accorgerà che i suoi
stati intcriori, in apparenza innocui e tali da far dire al presuntuoso
nella Sacra Scrittura : « Ho peccato, e che male me n'e venuto?
», sono in realtà l'esca di un incendio che un giorno divorerà tutto,
le sue proprietà, tutti i suoi beni e la sua stessa persona. Il peccatore
rivolta tutto contro di sé soltanto con l'allontanarsi da Dio, come la
virtù ri-
75
volge tutto a proprio favore lavorando
alla conquista di Dio. : ^ a
II Capo supremo dell'ordine non può
abdicare — per concederlo al peccatore — all'alto comando che esercita
sulla sua opera, così come non può alterarne, a profitto del peccatore,
il carattere morale. Dio può pazientare; ma prima o poi viene la sua ora.
« Nessuno può strappare qualcosa dalle sue mani. » A chi abusa,
l'ordine divino s'incaricherà di provare, con la sofferenza, l'efficacia
di una legge di cui sono stati respinti gli utili servigi.
«Io non temo che i miei peccati», diceva
san Vincenzo de' Paoli durante il processo concernente la sua casa di
Saint-Lazare. E san Ber-nardo prima di lui aveva detto : « Nulla mi può
far danno fuorché io stesso; porto con me il torto da me creato e non
soffro mai realmente se non per il mio proprio errore. » C'è in tutto
questo una minaccia e, nello stesso tempo, una meravigliosa consolazione.
La buona volontà è tanto resa sicura delle sue vie, quanto la malvagia
della sua perdizione. Chi segue i disegni di Dio, può render vani i
disegni degli uomini, degli avvenimenti e del caso. La distinzione degli
stoici tra ciò che dipende e ciò che non dipende da noi, con il dovere
per noi di occuparci di quello e di abbandonare questo alla Provvidenza,
è ammirevolmente cristiana. Orientati a Dio come l'ago
76
magnetico verso il polo, noi viviamo in
buona armonia con tutte le potenze del mondo, le quali non faranno che
cooperare, in un modo o nell'altro, al nostro perfezionamento.
« Uomini di poca fede, di che cosa
temete? », ci dice il Maestro Divino. Quando Dio vi custodisce, qual
nemico avrà forza contro di voi? Se un passero non cade dal tetto senza
il volere del Padre Celeste, potrà un figlio di Dio venire oppresso senza
che il Padre l'abbia voluto, e il Padre potrà volere questo fuori della
sua giustizia d'amore ? « Se Dio ci desse dei padroni di sua mano, scrive
il Pascal, oh! come sarebbe necessario ubbidire loro di buon grado ! »
Ma, aggiunge, «la necessità e gli avvenimenti son sicuramente tali ».
Il nostro bene è caro al cuore di Dio e
il nostro bene costituisce il fine stesso dell'immane opera della
creazione: gli avvenimenti di questo mondo compongono un dramma divino, la
cui conclusione prevista è la nostra felicità. Quello che ci abbisogna,
qualora ci abbisogni davvero, ci verrà dato; quello che ci nuoce, se ci
nuoce veramente, ci verrà tolto, salvo il caso che noi stessi ce ne
vogliamo fare un idolo e un tesoro.
Nella transeunte contraddizione fra gli
eventi e il nostro bene, tocca a noi, in collaborazione con Dio,
determinare la verità e fare così della nostra vita, tale qual è, la
migliore possibile. Non
77
dobbiamo far altro che abbracciare la
nostra sorte costruendo, con le pietre ch'essa ci getta, la nostra casa,
spessissimo quella temporale e, in ogni caso, quella dell'eternità.
Non è necessario che gli avvenimenti ci
accarezzino, perché ci debbano servire, come il servo migliore non è
sempre quello che si sprofonda in riverenze e si mostra ossequiosissimo
davanti al padrone. In molti casi, come c'insegna l'esperienza, ci
dobbiamo rallegrare di avvenimenti che da principio avevano prodotto in
noi una dolorosa ferita. Una sventura, una malattia, un cattivo successo,
una caduta, non segnano forse molte volte l'inizio di una rinascita?
Ciascuno potrebbe ricavare esempi di tal genere dalla propria esperienza;
in quella di Dio questo avviene sempre,. alla sola condizione che si
tratti dei suoi eletti.
Le circostanze sono un nulla, l'uomo è
tutto. Il nostro destino totale si attua con gli elementi che la
Provvidenza ci fornisce, non con quelli che essa ci nega.
Il contadino che semina da un capo
all'altro il suo campo, non si cura dello spostarsi della terra; egli bada
a gettare il seme conforme alle regole e poi aspetta. Così noi, gettando
la nostra azione nella Provvidenza, non ci dobbiamo preoccupare di quello
che ne avverrà poi. La Provvidenza sa bene dove va e noi la possiamo
seguire con animo tranquillo; infine, collaborando secon-
78
do la nostra legge, avremo parte ai frutti
del lavoro. Noi partecipiamo alla grande impresa dì Dio e una parabola ci
insegna che ci toccherà ugualmente il salario, anche se avessimo lavorato
un'ora soltanto. L'empio fa un lavoro ingannatore, dice il
Proverbio, ma chi semina giustizia ha mercede sicura. (Prov., XI,
18)
Anzi — e questo è un meraviglioso
segreto che troppe anime dimenticano di mettere nel conto della loro vita
morale — lo stesso lavoro ingannatore, che di per sé è un
lavoro di morte, può ancora, ad alcune condizioni, essere utile. Gli
eventi infelici provocati da noi, quelli che hanno per causa nostri
difetti, errori, peccati, magari perfino delitti, tutto, senza eccezione
alcuna, risente il beneficio della totale appartenenza degli avvenimenti
all'ordine spirituale regolato da Dio.
Dal momento che alla morale tocca l'ultima
parola su tutto, il passaggio dal male al bene, come dal bene al male, non
può mancare di produrre, negli avvenimenti che ne dipendono, delle
notevoli fluttuazioni. La materialità dei fatti non cambia; ma l'anima
loro deve mostrare in piena luce la sua segreta virtù. Ne risulta che le
conseguenze d'una cattiva azione, senza cambiare aspetto nel visibile,
assumono, se faccio ritorno al bene, una qualità e un significato
completa-
79
mente nuovi — cambiano segno, direbbe un
matematico : lasciano il meno e prendono il più.
Quelle conseguenze che erano contro di me
si volgono ora a mio vantaggio, e m'è lecito usarne, con Dio, come se
venissero dalla sua Provvidenza. E ne vengono effettivamente, perché se
il male non è da Dio, le conseguenze dipendono da Lui e fanno l'opera
sua, ed Egli se ne serve per punire giustamente o per eccitare al
pentimento quelli che vivono nel male, come anche le adopera per rendere
sempre più liberi o per mettere alla prova o per ricompensare quelli che
ritornano al bene. E che importa che certi avvenimenti siano figli del
peccato, quando il peccato ormai non esiste più? Estinta questa
paternità, la vera paternità riprende il suo posto, e al peccato si
sostituisce Dio. Le conseguenze del mio peccato, che appartengono a Dio e
che sono al suo servizio, appartengono anche a me e a me possono servire
quando ridivento figlio di Dio.
Capita come se si trattasse d'una
eredità. Io eredito da me stesso peccatore; ma non essendo più peccatore
al presente, per aver pagato il mio debito e soddisfatto alla giustizia,
solo materialmente io sono colui che ha compiuto quegli atti :
moralmente non lo sono più, e, poiché la
morale regola tutto, le conseguenze del mio passato mi stanno davanti
quasi cosa estranea : è come se ereditassi così da altri. Io mi
sottometto a ciò come
80
a un fatto provvidenziale e piego quelle
conseguenze al mio servizio per meglio redimermi, per progredire e per far
trionfare il regno di Dio in me e negli altri. Ciò che io ho sacrificato
con le mie mani, potrà così venire rialzato dalle mie mani unite a mani
più forti; io lo trasformerò secondo i miei desideri e ne farò
splendore e felicità, così come avrei potuto farne, restando peccatore,
vergogna e morte.
La Provvidenza non è un terreno
infecondo, ove il seme rimanga sterile e, a dispetto di Dio o nostro,
inaridito per sempre : al contrario è una terra meravigliosa, dove le
acque stagnanti possono diventare sorgive. La Provvidenza comprende il
bene e il male, servendosi sempre, per sé, dell'uno e dell'altro; per noi
poi essa rende utile tutto ciò che le affidiamo con umile amore.
Quando io sono con Dio, tutto è bene,
anche quello che sembrava male e che si doveva concludere in male sotto la
dirczione della mia colpa. Ma tutto viene corretto per il fatto che io mi
sono corretto e perché io, una volta corretto, ho ristabilito la corrente
che fra Dio e me fa circolare tutti i vivifici fluidi del mondo. Di nuovo
il creato è al mio servizio e io mi riguadagno il beneficio di quella
divina promessa: Tutto e per gli eletti; ciò che avevo commesso a
mio danno ora si cambia a mio favore; il divino domina nuovamente l'umano;
l'eternità ha ripreso a ser-
81
virsi del tempo; l'infinito benefico ha
riassorbito il finito e intende farlo partecipe della sua felicità. ' ' .
-^.^'^^.••.•'^:^-
Che meravigliosa consolazione!, e quante
anime vi potrebbero trovare, dopo il coraggio del ritorno, quello ancora
più difficile dell'azione, nella gioia intima e nel potente conforto
d'una rinnovata fiducia!
« Io non temo che i miei peccati »
diceva san Vincenzo de' Paoli; ma sant'Agostino, completando audacemente
un pensiero dell'Apostolo col frutto della propria esperienza, afferma: Per
quelli che amano Dio, tutto serve al bene, anche i peccati. Certo
queste parole non vanno intese come un incitamento al peccato, poiché il
beneficio richiede che il peccatore già si sia convcrtito — cosa che
non potrebbe fare da solo — e la presunzione sarebbe una ben pericolosa
garanzia;
ma, ancora una volta, per il peccatore
umiliato e pentito, quale meravigliosa consolazione!
Ho agito contro di me e ho compromesso la
mia vita; ho fatto del mio destino un debitore del passato, sapendo bene
che non avrei mai potuto saldare da me solo il conto; ho sciupato la
salute, dissipato le mie sostanze, fatto alla peggio mille lavori,
scoraggiato gli amici, fatto cadere l'edificio di una vita fino allora
felice. Chissà ch'io non mi sia messo in una di quelle condizioni in cui
con occhio allucinato e con animo
82
in preda alla disperazione si guarda verso
la tomba? Ebbene, devo anzitutto pentirmi ed espiare:
l'essenziale sta qui. Ma poi, o Signore,
non vorrete voi accettare l'eredità di questi disastri e di tutta la
miseria causata dalla stoltezza del vostro disgraziato figliolo?... Ma
sì, voi l'accettate con una tranquillità, con una pienezza che cambia in
gioia, per chi acconsente a stringersi al vostro Cuore, tutta l'amarezza
che gonfiava il suo e vi manteneva sconforto e sfiducia. ^-?• A; w - -
Si potrebbe dire che voi fate vostro il
mio peccato, perché ve lo portate via con tutte le sue conseguenze, quasi
fosse stato commesso da voi;
voi lo dissolvete, lo annegate nel mare
della vostra Provvidenza somma e infinitamente misericordiosa; esso
diventa un caso dell'ordine universale che, anche nelle sue manifestazioni
più aspre, è sempre al servizio dei vostri figli. Quest'intreccio di
avvenimenti che mi doveva tormentare, ora mi viene proposto e io posso
accettarlo come dono del vostro amore. Tutto questo, ormai, siete voi, voi
con la vostra croce, ma già con la vostra gloria, e voi, tutto bontà, mi
invitate a sottomettermi liberamente, dicendomi :
-< Vuoi?
Sì, Signore, voglio ciò che vuole la
vostra misericordiosa paternità. Voglio ciò che ho voluto senza di voi e
che il vostro amore mi ha tolto : ciò che di male avevo commesso e che è
83
stato da voi trasformato in bene, ciò che
sconsideratamente avevo progettato a mio danno e che voi piegate ora ai
miei ordini. Divino alchimista, tutto cambiate in oro; divino artista,
correggete il mio disegno e fate risplendere il capolavoro davanti agli
occhi del maldestro imbrattatele. E io voglio partecipare con la vostra
grazia a quest'arte santa. Farò con voi e per voi ciò che porta con sé
una vita apparentemente sconvolta, ma in realtà più felice dell'altra.
Un crollo non può forse presentare maggior bellezza di una costruzione
mediocre, e un'aurora sulle rovine non è forse più attraente che sul
tetto d'un palazzo d'architettura volgare? Levatevi, mio Sole, e la rovina
fiorisca !
La mia vita non sarà più un campo
abbandonato, perché vi sarete voi. Le pietre stesse sussulteranno sotto
la carezza della vostra luce, da cui sgorga a torrenti la vita; dalle mura
screpolate uscire una primavera di verde e di fiori; sotto la cima
vacillante grandi ceste si riempiranno di frutta; le volte sconnesse e i
blocchi disgiunti canteranno da tutte le loro aperture un osanna di cui
l'umiltà stessa sarà la dolce gloria; proclamerò la soave bontà del
Signore, e. questo canto del mio cuore rinnovato farà gioire quelli
che gustarono e godettero il frutto delle medesime misericordie e andrà
ripercotendosi di cuore in cuore fra i vostri eletti.
Quando ci vorremo adattare, noi mortali, a
questa divina filosofia della vita? Se conoscessimo la nostra felicità!
Vincolati a Dio, noi siamo in grado di affrontare il mondo con speranze
illimitate. E' vero che non ci sono promessi buoni esiti temporali, —
benché si parli di un centuple il cui annunzio non può essere
vano •—, ma in ogni caso il felice successo è senz'altro assicurato a
quelli che cercano anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia. "
' -^ "
Che cosa guadagnerò io, infine, a
mettermi contro la Provvidenza ? La Provvidenza fa sì ch'io abbia in me
la mia felicità, a cui non posso sfuggire che attraverso Ja porta del
male. Non ho attorno a me che amici e servi, uomini e cose; e tutto
m'obbedisce in ciclo e sulla terra, come al Figlio di Dio, se con lui
anch'io sono un figlio di Dio.
Non troverò forse una sovrabbondanza di
gioia se entrerò così nei disegni divini? La gioia tocca di diritto
quando basta camminare nella sua via per arrivare al più splendido
destino e alla più perfetta beatitudine. Inoltre la gioia è sapienza,
mentre il pessimismo è follìa, se non si voglia respingere, con una
sprezzante negazione, l'esistenza o la sovranità dell'ordine morale.
Eccettuato tale estremo, nessun'altra
scelta rimane, e la nostra felicità non sarà limitata che da un mistero
la cui grandezza oltrepassa ogni
85
previsione. Un senso di liberazione si
impadronisce allora dell'oppresso di ieri, quando si sente affrancare
dagli altri e: da se stesso, dai fatti e dagli esseri, per entrare nella
corrente che trascina tutto verso la perfezione.
Non ci sono più progetti particolari da
fare, Dio si prende cura di tutto. Dio ci salva con Sé:
Dio ci salva preservando insieme la sua
gloria e ri-traendo incolumi i suoi attributi.
Mettersi in moto, camminare, mantenersi
nell'ordine, arrivare: questo è il programma, e gli avvenimenti, con Dio
e con noi, ne sono gli esecutori.
Gli avvenimenti non hanno altro fine che
quello di spingerci a Dio : se sono favorevoli, Dio li consacra; se sono
ostili. Dio li trasfigura. Basta che noi vogliamo. Oh, faccia Iddio che
noi vogliamo, e che lo vogliamo con un volere pieno d'amore, questo
amoroso adattamento dell'essere al bene, del fatto al diritto, che
giustifica tutte le nostre speranze!
Ben risoluti a seguire la Provvidenza in
tutto ciò ch'essa dispone, a non trascurare alcuno dei suoi ordini, a
studiare con esattezza il nostro dovere e a dedicarci ad esso senza
discuterlo mai;
convinti che ogni vita può essere buona,
anzi la migliore e l'unica, e che in essa e per mezzo di essa, quali ne
siano le apparenze, possiamo di giorno in giorno migliorare la nostra
sorte; noi ver-
remo a possedere una beatitudine superiore
a tutte; lasceremo, noi immortali, al tempo la sua vera parte, avremo ben
giudicato delle possibilità del nostro destino e come anticipato il
giorno del giudìzio, in cui si manifesterà in tutti i suoi effetti
questa benefica unità delle cose. Confidando che quel giorno ci sarà
favorevole, noi potremo allora, per così dire, riposarci sul cuore del
mondo, sapendo che batte sul cuore di Dio.
87
L'APPREZZAMENTO DEGLI UOMINI
-C/
una cosa difficile, per il nostro spirito, una valutazione degli
avvenimenti che sia conforme alla profonda verità della vita; a malapena
vi arrivano, congiunte, la ragione e la fede e, per riuscirvi anche noi,
dobbiamo, nel nostro sforzo, seguire con grande fedeltà i suggerimenti di
queste. Ma ancor più formidabile si presenta la difficoltà di restare
nel vero quando, invece di avvenimenti puramente causali, invece della
fortuna, della sorte, della vita presa in genere, noi ci troviamo davanti
questa o quella persona da cui dipende o dipese poco tempo fa il nostro
destino. Il caso, che gettava la colpa su Dio, cede allora a una creatura
ragionevole, a qualcuno che si sostituisce, che prende su di sé la
responsabilità e che corre il rischio, quando il nostro cuore si
89
inasprisce, di guadagnarsene tutta
l'amarezza. I sentimenti di odio, il disprezzo, l'avversione minacciano in
questo caso di attecchire, e, per un fenomeno di ampliamento noto a tutti,
i nostri giudizi sull'intera umanità diventano poco favorevoli.
Va notato che i nostri apprezzamenti
riguardo agli uomini dipendono quasi sempre da ciò che essi hanno fatto
per noi o contro di noi, e che la nostra stessa condotta di fronte agli
altri è ben lontana dal produrre in tutti le medesime reazioni
intellettuali; salvo il caso che quegli altri ci vogliano tutti
molto bene. La nostra logica pratica è una logica di sentimenti : l'uomo
felice è ottimista sul conto dell'umanità, mentre l'uomo infelice vede
tutto nero e di nero imbratta i suoi simili. Se costui giudica la vita
con severità, questo avviene, evidentemente, perché egli nutre un
rancore particolare verso quelli che per lui ne sono come l'incarnazione,
o, per dir meglio, la mostruosa esagerazione e la caricatura.
Quanto più un essere ci è vicino, tanto
più la sua ostilità ci urta; i fratelli nemici sono più nemici degli
altri; le smorfie delle scimmie ci paiono più canzonatorie di quelle
delle bestie che non ci « scimmiottano ». Noi sentiamo che gli scambi
con il nostro prossimo hanno come fine il vicendevole aiuto e la gioia, e
perciò quando si pervertono in discordia e ci attirano dei mali,
90
il nostro animo riversa la propria
delusione in giudizi amari che poco per volta generano tutta una filosofia
pessimista. ^;w:;:%^.-%J$w;~f
Reagire con coraggio a questa tendenza e
superare le misure umane degli avvenimenti fino al punto di riferire a Dio
solo quello che ci accade richiede uno sforzo che riesce solo a pochi
cristiani: la maggior parte non lo tenta neppure.
Victor Hugo, in una lettera scritta a sua
moglie dalle rive del Reno, racconta di aver visto un giorno un bambino
che si mangiava dì gran gusto una mela : « Bimbo, chi t'ha dato codesta
mela ? » — « Nessuno, è stato il vento. » — « Bimbo mio, quando
non è nessuno, è Dio. » Riferito questo dialogo, il narratore vi fa
questa tardiva postilla : « Avrei potuto aggiungere : anche quando è
qualcuno, è sempre Dio. » Commento postumo, che procede da una piena
riflessione; ma, al primo momento, per Victor Hugo come per tutti, quand'e
qualcuno e. proprio quel qualcuno, specialmente se si fratta di un
dolore pungente.
Dicevamo che la natura fa da paravento a
Dio, ma quanto più Lo nascondono gli uomini! Lo schermo qui è più fitto
e i nostri sentimenti ne rivestono la superficie d'un bagliore che acceca
e turba lo spirito. Non dovremo però, anche a questo caso, che in verità
non presenta nulla di nuovo, applicare una dottrina essenzialmente
generale? Se il Creatore risponde davanti
9i
a noi e davanti a se stesso per la sua
creatura;
se tutto ciò che di positivo viene
attribuito alla causa seconda si può attribuire a maggior ragione alla
Causa prima, e se il necessario, il contingente o il libero non presentano
a tale proposito, come dice san Tommaso, differenza alcuna, cosicché la
fatalità, là fortuna o i cattivi voleri per la parte che ci concerne
sono ugualmente compresi in questa somma e comune responsabilità, noft si
può fare a meno di confessare che i nostri giudizi istintivi battono una
falsa via.
Non è vero che le azioni del prossimo
possano venirci dal prossimo senza venirci da Dio, come non è'vero che
esse possano farci del bene o del male al di fuori del volere di Dio.
Tutte le cose sono fatte per gli uomini, dicevamo, e la Provvidenza se ne
serve a nostro vantaggio, se vogliamo, anche quando esse ci opprimono. Ma
anche gli uomini tra di loro sono al servizio gli uni degli altri, e Dio,
come adopera gli avvenimenti e le cose per il bene dei suoi figli, così
adopera le persone. Si serve di esse con la nostra collaborazione, ed esse
ci servono anche se ostili e aggressive nei sentimenti e malefiche nelle
azioni. ?" ^vi
Che cosa è infatti un'ostilità, se non
un caso del tempo che l'eternità abbraccia? Che cosa sono un danno e
perfino un disastro, cagionati da quell'ostilità, se non casi
provvidenziali come gli al-
92
tori, obbedienti a una medesima legge e
miranti alla gloria del Creatore attraverso la nostra felicità?
Ciò che mi capita, da qualunque parte
venga, non mi proviene mai da un'azione indipendente, c'è sempre di mezzo
Dio: Dio che usa a modo suo di ciò che, umanamente parlando, sta per
ostacolarmi o minacciarmi. L'azione divina a cui nessun'altra azione
sfugge, da a ogni azione il suo scopo e la sua forma. La Provvidenza è
come un filtro che tutto riceve, e ciò che a noi ne proviene di felice o
di funesto nella sua origine, di felice o di funesto in se stesso,
prenderà il colore ch'essa gli darà, finirà quindi per essere un fatto
conforme alla Provvidenza, cioè in perfetta armonia con l'ordine morale.
Avverrà quindi, come succede nella natura, quello che Dio con noi e noi
con Dio avremo voluto.
L'uomo oggi .semina la causa;
domani Dio maturerà l'effetto.
Nessuna libertà può pretendere di
modificare o di respingere con autorità propria un ordine eterno. Nessuna
libertà può agire sopra un'altra libertà, senza che la Libertà suprema
intervenga e rivendichi a sé l'ultima parola. Tutto ciò che è umano si
muove, come tutto il creato, nel relativo e nel transitorio: l'assoluto e
il definitivo sfuggono all'uomo. Alla fine di tutto Dio resta
93
vincitore e, Con Lui e in Luì, quelli che
gli si sono uniti per questa felice vittoria.
Tutto insomma avviene fra noi e Dio.
Il destino di ciascuno dipende dal contatto dell'anima con la sua Legge
vivente, con la sua Causa perpetuamente in atto, con il suo Fine pronto a
riceverla non appena essa avrà posto le condizioni che umanamente da lei
sola dipendono.
La buona coscienza, dicevamo, è la forza
suprema dell'universo; essa, aggiungiamo ora, è anche la forza suprema
tra gli uomini. Nessuno può salvarmi o perdermi eccettuato me stesso, e
nessuno veramente mi reca danno o mi fa del bene nella vita, se io non
voglio. Non mi si parli di nemici, perché non ne ho : fino a che rimango
amico della mia vita, la mia vita rimane intatta sotto la protezione
dell'universo intero; quello che sembra minacciarla, trovandosi di fronte
a Dio, davanti ad essa si trova in un lontano infinito; l'ordine divino
distende tra ogni male e me i suoi spazi insuperabili e io divento
inaccessibile e inviolabile a ogni essere, fuori di vista e lontano dai
colpi di tutto il creato, indipendente, solitario, fedele e calmo davanti
al mio Dio.
Ecco perché il giudizio su chi mi è
avverso o su chi agisce o crede di agire sulla mia sorte, così come il
giudizio sulle sue intenzioni, sui suoi sentimenti, sui suoi passi, sulle
sue compli-
94
cita diventa praticamente ozioso. Sarebbe
come s'io volessi sottoporre a giudizio il comignolo che rovina durante un
temporale. Siccome poi un tale giudizio è di per sé aleatorio e in fine
moralmente dannoso a causa delle reazioni che suscita in noi, si comprende
bene che la sapienza cristiana lo disapprovi: Non giudicate e non
sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati. (Luca, VI,
37) « Giudicando gli altri, dice l'autore deli.7
Imitazione, l'uomo s'affatica vanamente, sbaglia quasi sempre e
commette molti errori.» (Lib. I, cap. XIV)
Occorre, evidentemente, sapersi regolare.
Per evitare che il comignolo mi caschi addosso o caschi addosso ad altri,
io devo giudicare della sua stabilità. In balìa del nostro libero
consiglio, e quasi sempre più o meno incaricati di altri, noi non
possiamo, senza follìa e senza colpevolezza, trascurare di valutare le
contingenze e quindi le persone; ma ciò non è quello che, nel linguaggio
religioso, s'intende per giudicare o condannare il prossimo.
Riflettere per comportarsi bene non è un trascinar gente in tribunale, ma
bensì un badare ad agire noi con prudenza. In realtà non si tratta che
di se stessi. Dove debbo portare i miei passi, quali risoluzioni e quali
mosse sono richieste dalle circostanze, quali bisogna evitare;
tutto il problema sta qui.
L'uomo spirituale non si metterà a
guarda-
95
rè più in là; non cercherà di
intromettersi nella coscienza altrui per tenervi udienza, ne pronuncerà
sentenze di condanna, si guarderà bene dal-l'infliggere, come se gli
toccasse d'ufficio, la sanzione del disprezzo o la reazione dell'odio e, a
maggior ragione, si asterrà dagli atti che sarebbero la naturale
conseguenza di tali sentimenti. Egli bada al fatto suo, abbandonando agli
altri le loro responsabilità; egli lascia il prossimo fra il prossimo e
Dio, restando egli stesso fra sé e Dio, sapendo che tutto si risolve qui,
perché Dio è la sorgente prima degli avvenimenti che hanno relazione con
la sua persona; perché in Dio si trova l'autorità che giudica questi
avvenimenti con giudizio supremo, perché in Lui, finalmente, sta il
potere che trarrà da tutto, al momento voluto, quello che conviene alla
sua sapienza e alla nostra, nel campo inviolabile e inviolato dell'ordine
morale.
Sapesse l'uomo seguire questa filosofia!
Non si « stancherebbe » invano, come dice l'autore mistico,
conserverebbe invece e diffonderebbe attorno a sé quella pace che è la
condizione del vivere bene; non andrebbe incontro a quegli errori
perniciosi che ci rendono così estranei e talvolta così crudeli gli uni
verso gli altri, così acri verso chi ha per noi i più nobili sentimenti,
e infine, per avere supposto il male, non ne resterebbe vittima, come
avviene quando il male
96
passa dall'incolpato al suo giudice e
provoca, sotto la spinta di un'indignazione che si pretende legittima,
colpevoli rappresaglie.
Chi si vendica dimostra che il male lo ha
vinto : come può stupirsi di questa prima vittoria? Orbene, il giudizio
è già una vendetta attenuata, una sanzione enunciata, se non a voce, nel
cuore, che partecipa così alla malizia di quella. Se temerario, il
giudizio è un'ingiustizia; se fondato, è, giuridicamente parlando,
un'usurpazione, quindi ancora un'ingiustizia e, in ogni caso,
un'imprudenza.
-¥-
Se poi cerchiamo le ripercussioni di tutto
ciò nei nostri giudizi sugli uomini in genere, saremo portati a pensare
che il pessimismo e la misantropia siano la risultante d'un atteggiamento
poco cristiano e poco saggio nei quotidiani apprezzamenti. Chi giudica
male di questo o di quello; chi s'indigna oggi per una cosa e domani per
un'altra; chi stima esclusivamente responsabili di ciò che gli capita di
male il tal malevolo che ha detto questo, o il tale avversario che ha
fatto quello, finirà presto a disprezzare l'uomo in genere e a non
proferire più che sentenze amare. Non giudicando secondo Dio quello che
non gli veniva se non da Dio, non poteva certo mettersi
97
in grado di giudicare secondo Dio
l'oggetto della sua avversione e poi tutti i fratelli. Un uomo simile non
può essere un giudice imparziale, perché il suo spirito non è
indipendente.
E del resto, dire indipendente è dir
troppo poco, perché non siamo estranei tra noi, e dobbiamo voler bene ai
nostri fratelli. Gli uomini ci sono infinitamente distanti, dicevamo,
sotto l'aspetto dell'efficacia ultima dell'azione, di cui decide la
Provvidenza; ma la stessa Provvidenza ci avvicina in una società intima e
fraterna. Nelle nostre decisioni, intellettuali o pratiche, devono aver
valore proprio questi vincoli che Dio sanziona, e i nostri urti che egli
alla fine corregge.
Così disposti non ci sentiremo più di
pronunciare contro l'umanità una sentenza sommaria. Camminiamo tra la
bontà e la cattiveria, tra la viltà e la generosità, tra l'eroismo e la
codardia, tra l'intrepida fedeltà e il tradimento. Se manteniamo
l'equilibrio dei nostri pensieri, da questa duplice cognizione nascerà un
giudizio anch'esso duplice, i nostri sentimenti saranno tanto esaltati da
un lato quanto dall'altro depressi, e quando cercheremo di tirare le somme
ci sentiremo vincere da una rispettosa commiserazione per quest'umanità
sballottata ira due estremi e da una specie di trepida confidenza per la
fragilità umana depressa da molte cadute ma rialzata da magnifici
impulsi. Concludendo, saremo in-
dotti a pensare che, sia nel bene che nel
male, ci sono cose che non si crederebbero compiute da uomini se non si
fossero vedute, ma che non ci devono meravigliare quando esse avvengono
davvero.
Ma con tutto questo ci troviamo ancora
davanti a un aspetto molto limitato e molto superficiale della questione.
Questa non è ancora stata considerata nel
suo più profondo aspetto. Noi vogliamo sapere ciò che bisogna pensare
non davanti a circostanze accidentali, siano pure tragiche, non misurando
gli uomini con il metro dei nostri sentimenti, bisogni e convenienze di
vita, ne con quello della mentalità di chi ci sta intorno, non prendendo
insomma come criterio di giudizio quello che è parziale, relativo o
passeggero, ma considerando invece le cose alla luce dell'eternità, sub
specie aeterni, come direbbe Spinoza, davanti a Dio;
alla natura creata da Dio e a noi stessi
che proveniamo dall'una e dall'altra sorgente e che formiamo col prossimo,
grazie a questo duplice vincolo eterno, un'unità infrangibile.
Quest'ultimo giudizio è quello della fede
e della filosofia cristiana ed è anche il giudizio della vera filosofia
naturale, intesa non come scienza astratta, ma come affermazione
essenziale d'una ragione fondata sulle evidenze prime.
99
Ponendoci così davanti al problema umano
che cosa vediamo noi? Noi ci troviamo costretti a confessare che le
differenze più fondamentali tra gli uomini — fossero anche quelle che
corrono tra il genio e l'idiota, tra il santo e il criminale, tra un
Bossuet e un san Francesco di Sales da una parte e il selvaggio della
Papuasia disprezzato dal Renan dall'altra — lasciano intatte, solo
velandole al pensiero, la sublimità meravigliosa e l'incomparabile
dignità di quel fenomeno singolare, di quel prodigio sorprendente e
sconcertante che si chiama uomo.
Chi conosce meglio l'umanità ? Senza
dubbio i grandi uomini, i santi, la Bibbia, Gesù Cristo: dove trovare
competenti migliori di questi? Ebbene, alla scuola di questi grandi
maestri, impariamo forse la derisione e il disprezzo? Troveremo invece una
profonda e affettuosa considerazione.
Di grandi uomini ce n'è d'ogni specie e
quindi i loro pensieri sono necessariamente diversi, ma quelli fra loro
che vengono stimati come i più profondi conoscitori e descrittori della
realtà umana, gli autori di quei mirabili specchi dell'uomo che si
chiamano l'epopea indiana, il poema omerico, la tragedia greca, il manuale
stoico, la Somma del Medio Evo, la trilogia dantesca, il dramma
shakespeariano, la commedia e il trat-
100
tato dottrinale del secolo XVII, {'Imitazione
di Gesù Cristo, i Pensieri pascaliani, la Conoscenza di
Dio e di se stesso, V Introduzione alla vita devota, e molti altri
ancora, hanno forse insegnato il disprezzo? Il vero genio non conosce il
disprezzo, perché ai suoi occhi tutta la realtà è venerabile per se
stessa, ma soprattutto perché l'uomo, la più alta delle realtà
di nostra esperienza, assomma in se stesso caratteristiche che riempiono
di ammirazione lo spirito, proprio mentre l'evidenza della sua miseria
ispira pietà.
La Bibbia, dove troviamo, con la
comprensione più umana, la più sicura affermazione dottrinale, la Bibbia
che sa tutto e arriva alle radici di tutto, parla forse in diversa maniera
e non porta invece all'estremo il sacro ottimismo in favore dei figli
dell'uomo? La Bibbia sembrerebbe esser stata scritta per un piccolo
popolo, ma la storia romba in essa con il rumore delle grandi acque,
l'umanità vi palpita con tutto ciò ch'essa porta, e Dio quasi vi si
tocca.
Così stando le cose, la Bibbia certamente
non si inganna; essa sa «ciò che c'è nell'uomo»; essa descrive le
nostre miserie con una acutezza ed una audacia celestiali; essa non si
ferma dinanzi a nessun ostacolo, che ne conosce le cause e i fini:
flagella crudelmente i vizi, essendo stata scritta proprio per questo;
essa è, si potrebbe di-
101
rè, il più crudo dei trattati di morale
e la più aspra delle satire. Tuttavia, dove trovare una più splendida
raccolta d'inni in favore dell'umanità?
Che cesa dice, celebrando la gloria del
nome di Dio, il Salmo Vili che è uno dei gioielli della letteratura
universale? Come in esso si risponde all'angosciosa domanda sul valore e
sulla nullità della fragile canna pensante sotto le sublimità del ciclo?
« Quando contemplo i deli, opera delle tue mani e la luna e le stelle
che tu hai creato, io esclamo: Che cos'è l'uomo perche tu abbia a
ricordarti di lui? o il figlio dell'uomo, perche tu abbia a prendertene
cura? » Ed ecco la risposta :
« Tu l'hai fatto di poco inferiore a
Dio stesso, l'hai coronato di gloria e d'onore, gii hai antidato il
comando sull'opera delle tue mani, hai messo ai suoi piedi tutta la
creazione. » E a causa di questo dominio dell'uomo su tutta la
natura, non già a causa dei cicli risplendenti con la luna e le
innumerevoli stelle, ma proprio perché l'uomo, posto al vertice della
creazione, la compie e la eleva fino al suo Autore, il Salmo conclude : «
Signore, Iddio nostro, quant'è ammirabile il tuo nome su tutta la
terra! »
E di Gesù Cristo, culmine della Bibbia,
di Colui che tutto di noi esprime e in cui l'umanità si concentra, come
la luce del mondo vibra nel cuore del sole, che cosa potremo dire senza
inde-
102
bolire o appannare il suo fraterno
giudizio sugli uomini? Gesù non s'è accontentato di dare agli uomini la
testimonianza delle sue parole : anche se queste sono magnifiche, anche se
il Discorso della Montagna riecheggia come un cantico d'amore, è
stata un'altra montagna che ha dato a quelle la loro conferma, quando alle
divine sentenze è stato apposto il sigillo della croce. Il Cristo è
morto martire, cioè testimone, e questa testimonianza effettiva vale
tanto per l'uomo quanto per Dio stesso. E' morto non per un qualche ideale
d'umanità seguito con generoso entusiasmo, ne per la natura umana
in sé, ma per questa stessa natura incarnata in individui fragili e
colpevoli. Il Cristo non estende il suo regno sulle astrazioni, ne si è
immolato per le ombre: ma per questo uomo e per quello, per me, per
ciascuno come per tutti, egli s'è incarnato ed è morto in Croce.
Il Cristo conosce tutti e nulla ignora di
ciò che riguarda ciascun essere pensante, volente, agente; egli tutto
misura sul metro delle norme eterne, e questo stesso Cristo che sa, ama:
ama e comprende al punto da pesare, sulla sua croce immobile, ciascuna
anima e tutto il ciclo.
Quando poi il Cristo rivive nella persona
dei santi, il suo sentimento si comunica e si ritrova evidente anche in
questi testimoni secondari. Il rispetto per l'uomo ha qualcosa di
religioso in
103
costoro, i quali ci illustrano al più
alto grado una constatazione che è di tutti: che sono i più virtuosi,
coloro che sono più indulgenti. Essi conoscono il legame che corre tra la
benevolenza del cuore e dello spirito e la virtù principale. La carità
infatti non propone forse e prossimo e Dio come unico oggetto? E la
carità, anche quella del prossimo, è una virtù teologale, cioè divina.
Ne segue che, se i santi ci superano, non è questa una ragione perché
essi ci stimino meno, anzi. Sono i nostri vizi che provocano in noi il
disprezzo: è l'orgoglioso che non sa sopportare l'orgoglio, l'egoista che
dappertutto non vede che offese ai suoi diritti. Le violenze dei nostri
giudizi derivano dalla reazione delle nostre passioni urtate dalle
passioni avverse. L'orrore del male, al contrario, invita a distinguere il
male da colui che lo fa:
la virtù allora governa l'uomo mentre
un'oscura complicità ribelle confonderebbe tutto, non avendo Vecchio
semplice di cui parla il Vangelo.
L'indulgenza per essenza è la Santità
suprema e la stima è una virtù di Dio : i santi ne godono la loro parte
in misura della loro santità. La loro chiaroveggenza morale non li fa
ciechi nei .nostri confronti — essi infatti non possono ignorare gli
altri, quando per gli altri devono tanto spesso soffrire — ma la loro
superiore chiaroveggenza, che corregge in essi gli effetti dell'istinto,
fa sì che il loro giudizio cada su ciò che
104
noi non sappiamo vedere, ed è così
ch'essa scarta e condanna i nostri mediocri verdetti.
Ora, ciò che scoprono nell'umanità le
alte personalità morali di cui ho parlato, ciò che sentono i geni e
meditano i santi, ciò che il Cristo prova in se stesso come uomo
universale e ciò che cantano gli inni sacri, è che questo piccolo
essere, l'uomo, nonostante tutto ciò che testimonia contro di lui, è
posto ai confini di due mondi che concorrono a farlo grande. L'uomo,
infatti, è figlio privilegiato della terra e l'eletto del ciclo;
nella sua storia è racchiusa la stessa
storia di Dio;
davanti a lui s'aprono infinite
possibilità, mentre le sue incoscienze o le sue prevaricazioni non
riescono mai ad annullare quaggiù le sue alte speranze e il
soprannaturale lo porta fino al seno della divinità, la quale gli diviene
così intimamente legata, che anche il più umile battezzato diventa per
ciò stesso un essere celeste.
Queste considerazioni, che, in un senso,
s'impongono ad ogni spirito e, nell'altro, ad ogni cristiano, hanno
certamente un valore per cui sarebbe oltremodo opportuno tenerne conto nei
nostri giudizi, piuttosto che lasciare la decisione delle nostre azioni
all'istinto dell'immediato.
Se, conoscendo tutta la natura e ignorando
noi stessi, incontrassimo per la prima volta un essere umano e venissimo a
conoscere i suoi le
105
gami terrestri e celesti, e s'egli ci
parlasse poi come i visitatori dell'isola incantata parlano a Miranda
nella Tempesta, non resteremmo di sasso dall'ammirazione? Fosse
pure un primitivo, o un tipo relativamente poco dotato, noi pronunceremmo
davanti a lui, pur badando solo a ciò che si vede, il panegirico d'Amieto:
«Un angelo quando agisce, una divinità quando parla. » Ora, non è
questo sguardo gettato come su una realtà nuova, sguardo che l'artista
conserva e che il volgo ha dimenticato, quello che tocca la verità, la
verità che la fede, facendoci attenti anche all'invisibile, arricchisce e
completa?
Invece, l'abitudine che appiattisce ogni
cosa, che ci impedisce di vedere ciò che ci sta vicino e lascia che
qualcuno sbadigli davanti al sorgere del sole, limita il giudizio
dell'uomo ai pLcoli fatti ed alle caratteristiche superficiali delle cose
che più lo riguardano, e chiude i nostri occhi all'essenziale e al
permanente: all'eternità umana, se così possiam dire. Ma non dobbiamo
noi reagire, da artisti e da poeti, contro una cecità che diventa presto
colpevole? Non lo vedremo, noi, il levarsi del sole del pensiero e
dell'amore su questa terra oscura?
Da che cosa deriva il fatto che, dinnanzi
ad una folla, un uomo moralmente volgare — soprattutto se è un
dilettante che si vanta d'una
106
cultura raffinata — non sa vedere che le
volgarità? E' questo l'effetto d'una vera superiorità, o il risultato
d'una fatuità che ottenebra l'intelligenza? Possiamo chiederci che cosa
pensa il Cristo in un caso simile : « Vedendo
gran folla, Egli salì su un monte e, dopo essersi seduto, coi discepoli
attorno, aprì la bocca e parlo...-»
Chi non gusta, nella solennità del
racconto evangelico, un profondo sentimento della grandezza umana? Colui
che è di Dio non può disprezzare questa piccola terra, poiché sa
che tutto il ciclo le gravita attorno e che il Maestro del ciclo vuoi
chiamarsi suo Padre, e non solamente suo Signore, '•^.^s^-; . ;;:\:;^.l—^
-:?:,.,
Quando una folla, che personifica la
nostra umanità, è sotto i suoi occhi, Gesù uomo non può fare a meno di
commuoversi, poiché vede nei poveri contadini un'assemblea meravigliosa,
l'assemblea degli eletti del Padre suo, dei chiamati al ciclo, di coloro
che gli sono fratelli nella natura ch'egli ha assunto, nel destino cui
egli partecipa, nello Spirito che egli porta e nella morte che per Lui
diventa risurrezione. Egli vede ciò e freme nello spirito, si turba,
come dice ancora il Vangelo. In questo stesso tempo il dilettante invece
osserva dei « tipi », l'incosciente non vede che un volgo banale,
l'orgoglioso misura con sdegno l'ignoranza dei suoi simili e l'uomo
volgare fiuta odor di cose poco pulite.
107
Se invece d'un santo poi, tu conducessi
dinanzi alla folla un semplice scienziato, quale lezione egli ti darebbe
,.e quale invito al rispetto davanti a una meraviglia che i progressi del
sapere obbligano ogni giorno di più a dichiarare stupefacente! La
meraviglia dinanzi all'umanità esalta, fino ad estasiarla, la scienza,
che in ciascuno dei nostri corpi scorge il mistero della vita e, nel
mistero della vita, il mistero dell'essere. La creazione intera tende alla
vita come verso l'acme delle sue possibilità, e la vita nella sua ascesa
raggiunge questa cima: il corpo dell'uomo — stavo per dire semplicemente
l'uomo —, comprendendo in se l'anima pensante, poiché la vita raggiunge
veramente i confini dell'anima quando organizza, con il cervello, tutti i
mezzi del pensiero, della memoria, dell'emozione, punti di partenza per le
più alte funzioni spirituali.
La vita umana è il fiore dell'universo
fisico e in essa brilla la fiamma celeste del pensiero, alimentata da ciò
che vi è di più delicato e di più ricco nella sostanza universale, che
è olio per questa lampada e cera per questa fiaccola. Non sono le stelle
che rischiarano il mondo, e non sono le rose ne le foreste che profumano
la terra, ma il pensiero ed il cuore. In «questa sottile essenza della
polvere », l'uomo è contenuto con tutto ciò che essa, attraverso le sue
vaste evoluzioni, ha potuto creare di più perfetto.
108
Si dirà che tutto ciò è un voler
cercare troppo lontano, per riuscire a sopportare ciò che ci sta vicino.
Senza dubbio; ma il reale è veramente lontano, ed è soltanto l'illusione
che ci è vicina. O meglio, il reale è con noi, è noi; ma noi non siamo
con lui, perché lo allontaniamo con la nostra incoscienza. E'
interessante, dopo tutto, pensare che la natura intera converge verso
questo piccolo fascio di cellule vibranti, questo punto di ritrovo di
forze, questo terreno di scambi che ci costituisce : punto d'incontro
delle più sublimi energie, i cui ritmi sono legati ai maggiori cicli
degli astri e delle nebulose madri degli astri, senza dimenticare gli
atomi, altri astri ai quali noi non pensiamo.
E' ancora volgare l'uomo visto così? Ciò
che comunemente vien definito volgarità è, da questo punto di vista,
effetto di miopia. Non ci sono infatti volgarità, ma valori che sono
incomparabili con qualsiasi altro valore posto al di fuori della nostra
specie : c'è l'uomo al quale Galene dedicava il suo « inno », sperando
di glorificarne la divinità. Ogni uomo è un prodigio, un oggetto di
contemplazione inesauribile, un invito ad ammirare ciò che non teme danno
da nessuna pretesa inferiorità, da nessuna deficienza e, a maggior
ragione, da nessuna volgarità. Anche l'uomo più sprovveduto, anche
l'uomo più comune può
109
camminare sotto la volta del ciclo cóme
Sotto un arco di trionfo.
Del resto non è il caso di insistere su
un argomento così convincente. L'ignoranza pratica in cui ci teniamo
delle condizioni reali della vita, della sua grandezza e dei suoi legami
universali, ci aiuta a comprendere la nostra disattenzione nei riguardi
del soprannaturale. Ma per il cristiano qui sta il valore principale,
poiché il soprannaturale non solo è fondato sull'umanità, ma la
sorpassa dopo averla presa al suo servizio.
Un uomo che ha alte relazioni e le
mantiene è forse un uomo qualunque ? Non si riflette su di lui qualcosa
delle persone che egli frequenta?, e il fatto d'essere ammesso a quelle
relazioni non è prova dell'interesse ch'egli sa suscitare? Ora, chi di
noi non ha e non mantiene, qualora lo voglia, sul piano del
soprannaturale, le più luminose e le più feconde relazioni? E' Dio
stesso che si fa nostro ospite, quel Dio per cui tutto è « ricreato ».
E ogni anima è ripiena di ciclo, e cia-scun uomo ha antenati benedetti,
una meravigliosa biografia, fraternità esaltanti e un destino di
incommensurabile valore. Benché poca cosa, noi partecipiamo all'opera
divina, ed abbiamo il nostro posto nel consiglio della saggezza creatrice,
al banchetto dell'amor divino. Grazie a questa adozione, la vita
dell'umanità è quasi una vita
no
temporale di Dio, e per mezzo del Cristo,
una specie d'incarnazione permanente. L'uomo, Qualunque esso sia, è come
un principe in viaggio, o meglio, è una divinità smarrita sulla terra,
che ha dimenticato il suo ciclo.
Può darsi che a questo punto il critico
pessimista, per breve tempo meravigliato delle nostre precedenti
considerazioni, riprenda coraggio. Si nutre infatti più disprezzo per un
grande decaduto, che per un povero uomo da capestro o per un avanzo di
galera, poiché ci si rifiuta di vedere ciò che rendeva nobili, quando la
nobiltà è schiacciata proprio da colui che ne beneficiava e che si
espone così alla disistima comune. Quale simpatia conservare per un
essere in cui il bene non è più presente, se così possiam dire, che per
antifrasi?
Non si può negare l'importanza di questa
osservazione, che, sotto un certo aspetto, potrebbe essere decisiva; ma
non possiamo lasciarcene impressionare. Chi ci dirà infatti chi è «
decaduto»? Dov'è l'astensione dal giudizio che, come dicevamo poc'anzi,
s'impone al giusto? Possiamo noi sapere con sicurezza su chi, su che cosa
e con quale opportunità cadrà la nostra condanna? Il momento in cui noi
pronunceremo il giudizio più severo forse, e apparentemente più
giustificato, potrebb 'essere quello invece della più sublime ripresa di
colui che giudichiamo: e non ras-
in
somiglieremmo allora al fariseo che si
credeva in diritto di chiamar peccatrice la Maddalena, proprio quando
Gesù la riabilitava agli occhi di tutti ?
Accanto al peccato che ci diminuisce,
rimane infatti la buona volontà che ci reintegra, restano le qualità non
contaminate dal male, restano i non recisi legami con Dio e con gli
uomini, restano soprattutto le speranze immortali.
L'essere che sotto certi aspetti ci
delude, nasconde sovente qualcosa che può entusiasmarci e commuoverci, se
sappiamo penetrargli nell'intimo. Ogni giudizio categorico è dovuto o a
grossolanità o a eccesso di passione. I cappellani delle carceri sono
testimoni di cose meravigliose, e, prima che vengano eseguite talvolta le
sentenze capitali, la ghigliottina provoca rivelazioni commoventi. In ogni
essere esistono sublimi stati d'animo; c'è il riflesso dei fini supremi
e, in mancanza della vittoria morale, può germogliar la speranza.
Meglio varrebbe, invece di sgomentarci per
le miserie umane, entrare nelle divine pazienze, in quella pazienza
dell'eternità che fa credito al tempo e conta, perché esso si corregga
quando c'è bisogno, sulla potenza del cambiamento che è uno dei ricorsi
dell'anima e della natura.
All'anima che abusa delle proprie risorse
rimane fedele la suprema Risorsa. Sul cuore cattivo e malato, c'è sempre
Dio che si china. Un
112
infinito soccorrevole è presente pure in
colui che, insensatamente, si mostra atterrito di ciò che questo infinito
reclama, e rifiuta il cambio. Dio è presente con la sua luce, con la sua
pazienza e la sua speranza, e il nostro compito è quello di aiutarlo con
l'amore e con le opere dell'amore, invece di chiudere nel nostro spirito,
con una sentenza di condanna, un destino sempre aperto alla speranza.
Si rispetta un condannato a morte e si
rende omaggio ad un morto, qualunque sia stata la sua maniera di vivere.
Perché? Perché la vicinanza della morte ci richiama all'idea della
grandezza del nostro destino, del mistero della vita, dell'eminente
dignità umana. Il morto è davanti all'eternità come davanti a un grande
fuoco, le cui fiamme lambiscono lui ed abbagliano noi: ma le cose non
cominciano ad esistere nel momento in cui le riconosciamo. Ogni essere è
grande per il solo fatto che ha dinanzi delle strade aperte e la vocazione
per una di esse e la capacità di realizzare tale vocazione sono segni
indelebili sulla fronte di ogni essere umano. Siamo dei chiamati da Dio;
siamo capaci di verità, di bontà, di abnegazione, di generosità e, in
qualche momento, anche d'eroismo. Quale mostro umano non potrà servire di
ricetto e di passaggio a questa forza che giunge a noi dalle profondità
dell'ordine morale e che, in certi momenti, ci sconvolge?
113
Perche il cuore più duro diventi
arrendevole come la cera e l'uomo più debole divenga un eroe, basterà
una cosa molto semplice, basterà che amino. Un furfante che diventa padre
riceve dal ciclo questa divina possibilità. Nel soprannaturale un simile
avvenimento può verificarsi:
Dio non ci ha avvertito dei suoi disegni,
cammina su strade nascoste, e colui che noi disprezzia-mo può- essere il vaso
d'elezione, lo strumento scelto per un capolavoro inedito della
grazia.
L'anima, capace di ospitare Dio in tutti i
modi in cui Egli si offre a noi, l'eguaglia in profondità, se così si
può dire, poiché presenta la' forma misurata ai propri poteri ricettivi,
lì letto dell'oceano e l'oceano non hanno le stesse rive? Il
regno dei deli è dentro di noi. Mente e cuore sono sempre un tempio
che accoglie l'adorazione o la profanazione di Dio, ma che non è mai in
rovina. Non c'è rovina infatti per l'anima immortale, e in questa vita
non c'è mai una mancanza d'amore decisiva. Dio sta sempre alla porta,
e batte, e le sue premure son rivolte a ciascuno di noi. Vorremo noi
sdegnare, sulla soglia dove Egli aspetta pieno d'amore e di rispetto per
l'uomo, l'ospite silenzioso che ha il ciclo nella sua ombra? La nostra
fede, avvicinandosi ad ogni anima, non si toglierà i calzari dai piedi,
sapendo che questo luogo è santo?
114
Vorrei ancora far notare che non solamente
o'gni essere ha un proprio valore e richiede per questo fatto un giudizio
favorevole, ma che quel valore è unico, incomunicabile, impossibile ad
essere sostituito, sia pure da uno migliore.
L'arte ci fornisce ancora una volta un
paragone e una parte di verità. L'uomo, sia pure un qualsiasi uomo, non
attira forse il più profondo interesse dello scultore, del pittore, del
poeta, del romanziere, quando vogliono appunto lavorare in profondità e
ricercano il contatto intimo con la natura? Il grande artista è colui che
sa' creare dei tipi; ma egli li sa creare solo perché li sa vedere e sa
scorgere in essi, penetrando nell'intimo della loro individualità,
l'inestinguibile e sempre rinnovantesi attività creatrice.^;;^ ;
Sono molti gli artisti che affermano
essere il ritratto il più appassionante soggetto d'arte. Rem-brandt,
quando dipinge per sé solo; Velasquez, quando nessun principe gli ha
commissionato del lavoro; Rubens, quando esce dal suo studio, donde
l'Europa trae di che abbellire i suoi palazzi, che cosa dipingono? Se
stessi, il prossimo, il semplice passante, l'essere dimenticato forse da
tutti, ma non dalla natura, l'essere segnato d'un carattere proprio che
non si ritrova in alcun altro, che non si riprodurrà mai, e di cui la
loro ardente curiosità ha cercato di cogliere il mistero.
"5
Esaminando da vicino le tele celebri, si
scoprirà quasi sempre, anche in quelle dei più idealisti, uno o più
personaggi che paiono balzare dalla vita reale e che sembrano avere
interessato l'artista più delle altre figure, spesso convenzionali,
astratte o puramente decorative, che formano il soggetto. Il
soggetto è poca cosa per l'artista, mentre la vita è tutto: ora, che
cosa è la vita, se non l'individuo palpitante, la colata di carne ardente
e di sangue caldo che riproduce sotto i nostri occhi il palpito
d'un'anima? Un Tiziano, un Holbein, un Clouet, un Durer, un Ingres o un
Rodin non sanno distaccarsene.
Se si trasporta ciò sul piano dello
spirituale, l'interesse non può non sussistere, e un'intima meraviglia
non può mancare dinanzi a ciò che è anche qui singolare, irriducibile,
unico al mondo e nel tempo, e che da solo, impegnando tutto il piano della
creazione e tutto il piano della redenzione, assomma l'importanza dei fini
che questo doppio piano realizza.
Ogni anima è un paese sconosciuto, una
terra ove è nascosta una ricchezza che viene dal Cristo eterno, da Dio Padre
del secolo futuro, dallo Spirito di santificazione, ogni opera del
quale è originale e unica.
Ci si dice continuamente che il Cristo è
morto per ciascuno di noi, foss'anche stato per uno solo: la stessa cosa
si può dire del Creatore, che,
116
anche per uno solo di noi, avrebbe messo
in moto la creazione, e dello Spirito Santo, che per un cuore, per un
pensiero rischiarati e riscaldati dal suo fuoco, non avrebbe trovato vano
rinnovare la faccia della terra.
Occorre che noi consideriamo la nostra
specie là dove essa è, ed essa non è che in ciascuno, poiché così
solamente è in tutti. Essa non è infatti in tutti come un insieme
omogeneo di cui sarebbe espressione sufficiente ciascuna parte: noi non
siamo polvere d'anime e la nostra specie è in tutti, come
l'individualità è in tutti i nostri tratti, ognuno dei quali esprime un
aspetto particolare e irriducibile. Si conoscerebbe la mia fisionomia, se
io nascondessi la mia bocca, o il mio naso, o le mie guance, o uno dei
miei occhi ? Allo stesso modo, ma su un piano diverso, non si conoscerebbe
la specie, ne si agirebbe in suo favore e, se fossimo il Cristo, non la
salveremmo, se fossimo Io Spirito, non la santificheremmo, se ne fossimo
mèmbri, non eserciteremmo la nostra solidarietà con essa, quando
trascurassimo uno qualunque di coloro che la rappresentano.
Anche se non tutto riusciremo a conoscere,
occorre in ogni caso completezza, perché la razza è una e la sua unità
è ottenuta con una integrazione di elementi tutti diversi e dunque tutti
necessari alla somma.
117
Il bambino ci fa in certo modo intravedere
questa novità fruttuosa della vita. Dinnanzi a lui si ripropone sempre la
questione già posta da Zaccaria e dai suoi parenti al riguardo del
Battista : « Che cosa pensate che diventerà questo fanciullo? •>•>
Ben si avverte che per ogni uomo ci troviamo di fronte ad un mistero senza
uguale e ad un nobile mistero. L'impressione è più viva all'inizio della
vita, perché l'inizio richiama il tutto con più insistenza; ma ciò è
vero sempre, così sul piano soprannaturale come su quello naturale.
L'incognita che è nascosta in ciascun essere lo fa degno d'amore e di
rispetto agli occhi di colui che ricorda che è stato detto : Facciamo
l'uomo a nostra immagine e somiglianzà, ed ancora : Noi siamo il
corpo di Cristo, ciascuno per suo conto, membro per membro.
L'individuo è una particella del Cristo mistico e, perciò, è un aspetto
di Dio, come la sua specie medesima.
E' per questo che la Comunione dei
Santi comprende ogni creatura e non può tralasciarne alcuna; è per
questo che il Padre nostro sottintende una fraternità integrale.
Escludi anche un essere solo, e tu non ami più l'uomo, ne ami più il
Cristo, che è il suo capo, ne ami più Dio, che è il suo supremo
testimone: tutti gli uomini sono l'uomo e tutti i cristiani sono il
Cristo. Rifiutarsi alla simpatia umana, naturale e soprannaturale, è
contro natura, è come rifiutarsi
118
d'amare se stessi, tanto sono unite le
nostre vite. Se l'esteriore ci separa, l'intcriore ci ravvicina;
se il temporale, diviso com'è, ci divide,
l'eterno, che è tutto intero in ciascuno, si moltiplica e si comunica
diversamente e per questo ci lega.
Apparteniamo tutti alla stessa famiglia,
ove ciascun membro ha la sua parte di tenerezza, la sua parte di
patrimonio, la sua parte di tradizioni e di onori domestici. Anche coloro
che ci recano offesa hanno il nostro stesso albero genealogico e non se ne
possono distaccare; la linfa umana non arriva a noi che passando
attraverso loro e ad essi che passando attraverso noi, perché nello
spirituale c'è una circolazione in tutti i sensi, e ogni rottura è
mortale. In Dio e nel Cristo, nell'umanità e nella cattolicità, gli
altri sono noi.
Dicevamo poc'anzi che il pessimismo sul
conto dell'umanità è sempre segno di inferiorità morale, inferiorità
che per di più esso accentua. Solamente l'io odioso, infatti, trova
odioso l'io altrui. Il disprezzo per gli altri è dovuto alla
allucinazione dell'io, che provoca, sotto le apparenze d'una
chiaroveggenza qualche volta acuta, una vera cecità. Perché infine, per
non sapere di quale incanto e di quale sublimità il cuore umano è
capace, bisogna non aver mai provato il minimo sentimento e non averlo
saputo comprendere. Ma dove avevano gli occhi costoro, che pur essendo
"9
necessariamente passati vicino alla
bellezza, non la videro mai? I loro occhi erano coperti da una fascia
d'incoscienza, o erano sviati dall'orgoglio;
oppure un veleno segreto uccideva in essi,
prima che potessero riceverlo, ogni germe di magnanima impressione. . ^; .
« E' un segno di mediocrità, scrive
Vauve-nargues, lodare moderatamente. » Per noi, qui, è segno di bassezza
d'animo. Dichiarare che nella vita non si incontra mai alcuna grandezza,
è confessare che non se ne ha alcuna; meglio ancora, ciò significa che
si offende e si avvilisce ogni grandezza, ivi compresa quella del
giudicare dall'alto. ,y^. -,,:;-.
E che tracotanza! Se si dicessero queste
cose con umiltà e tristezza, esse potrebbero venir perdonate — ma,
allora, non le si direbbe —, poiché l'umiltà è sempre ricca di lodi,
e, unita inseparabilmente alla carità, non
pensa affatto il male :
stando davanti al suo Signore come cenere
e polvere, essa partecipa ai suoi consigli ed è con lui presente a ciò
che la sua stima qualifica. Ma quei giudizi sprezzanti o acri che si
trinciano sul genere umano, come dall'alto d'una vetta dove ci si sarebbe
rifugiati in sdegnosa solitudine, non sono forse insopportabili? Il genere
umano non siamo dunque noi? Se siamo coscienti, diciamo dunque con umiltà
e nella confusione del nostro cuore: Ecco ciò che siamo!
m
Tutti siamo sotto giudizio davanti al
ciclo che ci guarda : tutti ugualmente sprovvisti e ugualmente poveri e,
in più, legati gli uni agli altri; non ci conviene quindi istituire
reciprocamente dei sotto-giudizi concludenti a sentenze di condanna. Un
atteggiamento simile metterebbe inevitabilmente contro di noi il Giudice
supremo e, più ancora, il Padre, che non può soffrire tra i suoi figli
una misconoscenza simile e tale presunzione. Del resto, chiunque vi si
arrischi, finirà nell'egoismo più arido, poiché nulla abbassa e soffoca
l'anima più del disprezzo, eccezione fatta per l'odio. Il disprezzo ci
rende sterili — che non si fa del bene se non sotto l'impulso
dell'amore, e per amore — e avvilisce se stesso, mentre il rispetto ci
innalza e ci fa presentire Dio.
I2X
LA VOCE INTERIORE
jua
rettitudine dei nostri pensieri sulla vita umana parrebbe legata a più
d'una condizione. L'insegnamento esterno, la predicazione della fede,
l'educazione e l'esperienza naturalmente vi concorrono, e nella formazione
d'un'anima non può certo essere messa in dubbio l'importanza di tali
elementi. Tuttavia io vorrei dimostrare che tutto ciò non è che un
semplice aiuto, come l'irrigazione per la pianta; la pianta si fa in noi
indipendente da tutto, una volta che sia radicata nella terra ove nulla
perisce e che si incarica di nutrire di sé e di mantenere tutto ciò che
in essa vive. La terra di cui parlo è la natura profonda, è la grazia,
sorgente della carità che è stata messa nei nostri cuori dallo
Spirito Santo che ci è stato mandato. ? , -^
Quanto al nostro comportamento, tutto ciò
che
"3
dobbiamo sapere lo sappiamo da noi, per il
solo fatto che siamo uomini e battezzati; lo sappiamo però in modo che
non siamo dispensati dallo scoprirlo, anzi siamo a ciò obbligati. Quello
che ci è chiesto è in noi allo stato d'istinto e possiamo percepirlo,
allo stato d'impulso e dobbiamo seguirlo. Ragione di ciò è che non ci si
domanda. in fondo, che d'essere noi stessi; non ci si chiede che di
svilupparci, per mezzo dell'azione, in piena conformità con ciò che noi
siamo, e ciò che siamo, lo potremmo ignorare, se tendiamo a saperlo, e
potremmo non ricavarne da noi le debite conseguenze, se restiamo fedeli
alle nostre inclinazioni, che sono espressione in noi della natura e della
soprannatura che la completa?
Il grido di ogni essere è : voglio
essere! Il voler vivere è la molla di ciascun vivente, e questa volontà
prima è caratterizzata in ciascuno dalla propria natura e dalla forma cui
si adegua, originariamente o per un nuovo intervento dell'Autore delle
cose, quella ragione attiva, quella potenza di realizzazione ideale che si
chiama vita.
Si tratta quindi, per ciascun vivente,
d'obbedire semplicemente al tipo della specie, adattandosi come individuo
alle circostanze in cui è posto, poiché della specie cui appartiene egli
porta in se stesso la legge ed è una incarnazione; essa si riconosce in
lui come lui si riconosce in quella; essa non esiste che in lui e nei suoi
simili, ed è me-
124
diante lo sviluppo proprio dell'individuo
secondo tutto ciò ch'egli è, ivi comprese le sue normali relazioni, che
la specie si realizzerà in uno dei suoi casi e adempierà alla sua
funzione sulla terra.
Il Creatore nulla rivendica per sé; la
sua gloria è fatta del successo degli esseri, e ciò ch'Egli vuole è che
la creatura esista e, se essa è capace di progresso, che progredisca e,
se porta in sé una capacità di perfezionamento, che si perfezioni e, se
è legata naturalmente o provvidenzialmente ad altre, che collabori con
loro: così raggiungerà il suo fine, costruirà la sua felicità e,
attraverso questa, per la sua parte, la felicità comune e il fine
universale del mondo.
L'avvenire del mondo sta in questo
armonioso progredire, la speranza dell'eternità non ha altra garanzia. Il
nostro destino è scritto nel nostro essere e nelle sue possibilità: esso
non è infatti che l'essere stesso visto nella sua perfezione che va
raggiunta con l'azione felice che è preannunciata dall'insieme delle
nostre disponibilità. Scoprire, sotto gli aspetti mutevoli dell'io
passeggero, la propria autentica personalità; scoprire, al di là degli
obiettivi illusori o parziali, il proprio vero scopo : ecco quel che deve
contare nella vita. E tutto ciò potrebb'esserci estraneo ? Non saremo noi
avvertiti da una voce intcriore di ciò che siamo e quindi di ciò che
dobbiamo diventare e di ciò che dobbiamo fare?
"5
Ogni essere ama di se ciò che è e ciò
che gli manca, la sua realtà e il suo ideale, e, avendo questo ideale la
sua legge, ogni essere ama la sua legge, che gli permette di perfezionarsi
e di evitare il ritorno verso il nulla, donde la potenza crea-trice l'ha
tratto. E' per questo che si parla d'una legge naturale, scritta nei
cuori; è per questo che ci troviamo dinnanzi ad evidenze pratiche e ad
evidenze teoriche. Queste ultime, chiamate assiomi, stanno alla base della
scienza, come le prime alla base della vita, e quando si presentano allo
spirito, è necessario che questo vi acconsenta.
•Volendo precisare, si noterà che la
nostra natura, multiforme nella sua unità e distribuita in funzioni
diverse, comporta un destino composto d'una pluralità di risultati, cui
concorrono sforzi vari rispondenti a leggi ugualmente diverse. Noi siamo
corpo ed anima: come corpo abbiamo sensi e poteri attivi dotati di
requisiti propri; come anima abbiamo un'intelligenza, una capacità di
affetto, una libera volontà, un senso misterioso del divino. Tutto ciò
esige d'essere soddisfatto. Il nostro desiderio di vivere ha così davanti
a sé delle direzioni, nella quali potrà più o meno impegnarsi, ma da
ciascuna delle quali viene tuttavia sollecitato. Si svegliano in noi
segrete tendenze che si traducono in giudizi: noi possiamo contraddire le
une e gli altri, ma entrambi rimangono
no lo stesso come inviti all'azione, come
richiami dell'avvenire e come testimonianze.
Queste segrete aspirazioni e questi
giudizi non riguardano solamente i risultati, ma ne presentano i mezzi,
adeguandovisi più o meno stabilmente. Chi vuoi raggiungere un fine, tende
costantemente ad esso e, qualora si trovi ostacolato nel raggiungerlo, col
cuore tuttavia continua a tendervi. La natura, che è logica, non ama ciò
che è vano, e una tendenza priva dei relativi mezzi di realizzazione
è'cosa vana, come un desiderio che rifiuta le condizioni che lo
realizzano è un desiderio insensato. Ma noi non siamo insensati del
tutto: la natura sapiente, che resiste ad ogni forma di follìa, mantiene
in noi delle volontà che basterà confermare, o non contrariare, perché
si sia tutto quel che bisogna essere, si faccia tutto ciò che si deve
fare e si arrivi là dove siamo chiamati. •-.\-:-\-
".'^
Chi è che non vuole arricchire di
cognizioni la mente e, in conseguenza di ciò, non è portato a ricercare
i mezzi della scienza? Chi è che non vuole comportarsi, bene, esercitare
felicemente la propria sensibilità e la propria forza, trovare affetti e
corrispondervi, unirsi con chi potrà aiutarlo a realizzare le sue vedute?
Chi non vorrà ampliare la propria personalità attraverso la famiglia e
la vita sociale e accrescere l'attività spirituale che corrisponde al
senso religioso? E, di conse-
127
guenza, chi non è inclinato, per il peso
d'una logica intcriore cui non si sfugge, a compiere i passi virtuosi
richiesti da quei risultati, a fornire le garanzie che essi reclamano, a
porre tutte le condizioni senza le quali quei risultati medesimi non
sarebbero ottenuti, o non lo sarebbero che in una maniera insufficiente e
caduca?
Se si procedesse ad una minuziosa analisi
delle condizioni, delle garanzie e degli assensi necessari, vi si
scoprirebbero tutte le virtù, senza eccezione alcuna: le virtù « che ci
perfezionano, dice san Tommaso, così da soddisfare nel miglior grado (debito
modo) le nostre inclinazioni naturali ». Noi saremmo dunque
naturalmente virtuosi, se esser virtuoso consistesse nel tendere così
inizialmente a realizzare i fini delle virtù. Per esser più esatti,
diciamo che abbiamo in noi le virtù allo stato germinale, e che una
virtù effettiva consisterà semplicemente nel completare ciò che si
trova già cominciato, precisandolo con l'applicazione ai casi della vita,
rendendolo più sicuro e difendendolo dalle insidie. ^:^
E queste non mancheranno : ce n'è già
una in questa certezza irriflessiva che abbiamo del nostro diritto
all'essere e, di conseguenza, a tutto ciò che nel nostro essere stesso
chiede di venire soddisfatto ; l'orgoglio è in noi smisurato. Ciascuna
tendenza particolare tenta d'alzare la voce e di farsi passare come la
voce stessa dell'anima nostra; co-
128
me in un'assemblea ove ogni uomo politico
dice :
La nazione vuole, il paese vuole...;
ognuno vuoi far credere di parlare a nome del paese, sovente invece assai
poco dignitosamente servito.
Per evitare simile confusione occorre che
noi procediamo ad una selezione, a un discernimento degli spiriti,
come dicono gli autori mistici. Il controllo dei moti dell'anima e delle
sue confuse chiamate non sarà mai abbastanza vigilante e severo; resta
però il fatto che là dove è veramente l'uomo che parla, o,
soprannaturalmente, il cristiano, tutto è buono e non c'è che da
pigliare questo cammino!
Il caso della soprannatura va studiato a
parte. Troppi battezzati ignorano il tesoro di verità e di vita racchiuso
nella loro anima rigenerata; forse non sanno nemmeno cosa significa rigenerata.
La maggior parte di essi piglia questa parola come sinonimo di restaurata
in qualche modo, migliorata, aggiustata, riformata, riparata, guarita,
raddrizzata e via di seguito : significati di cui s'accontenta il
cristiano distratto. In realtà, rigenerata significa qui, nel senso
proprio della parola, generata una seconda volta, possesso d'un
essere nuovo, d'una natura partecipante all'Autore delle nature. Ne segue
che in noi vi è ormai, con la nostra natura propria, la grazia, nuova
natura che la vivifica, e Dio, intima sorgente di tutto, natura
129
egli pure, natura naturante, come
la chiamavano gli antichi. E' questa l'economia di cui parlava Gesù a
Nicodemo, in quell'incontro notturno ove il dottore si mostra tanto
colpito dalle parole sublimi del Signore.
Il Cristo, nello stesso tempo in cui
veniva a redimere ogni cosa e noi, veniva anche a dare un senso nuovo a
noi e a tutto: veniva a rinnovc.re la faccia della terra, e quella
della nostra anima, da cui attende nuovi frutti. Il soprannaturale è
veramente una natura sopraggiunta, o, se si preferisce, è la prima
elevata ad un piano superiore, in modo da permetterle i pensieri, gli
afletti e le attività d'una natura celeste.
E' la grazia santificante che da
forma in noi a questo essere nuovo, ed è lo Spirito Santo che ne è la
legge vivente. E di questa legge avevamo bisogno perché, come non è
possibile, dicevamo, che un essere sia privo di legge intcriore, così non
può darsi che un essere nuovo manchi della sua legge nuova, che esso
porterà come un segno della natura appena acquistata e da cui deriverà
tutta una serie di tendenze, le quali dovranno corrispondere alle tendenze
naturali, come la soprannatura corrisponde alla natura, raddrizzando ciò
che esse hanno di storto o di debole, e sublimandole.
Per questo san Paolo ci dice, con
linguaggio preciso ed energico : « Voi
siete una lettera di Cristo, non scritta con l'inchiostro, ma con lo
130
Spirito di Dio, non su tavole di pietra,
ma su tavole di carne, nei vostri cuori.
» Le tavole di pietra alludono alla legge di Mosè, e san Tommaso non
manca di rilevare, quindi, che la lettera del Cristo cui accenna
l'Apostolo ha propriamente il carattere di una legge, la quale è la
medesima legge evangelica, non solamente promulgata -all'esterno come
qualsiasi altra legge umana, ne contenuta soltanto nella predicazione
apostolica e nell'insegnamento della fede, ma inserita in noi dallo
Spirito divino sotto la forma della grazia, con i suoi suggerimenti, con i
suoi impulsi, con le nuove direzioni che essa ci apre. La luce di Dio
infatti non è ne fredda ne sterile, perché per essa Dio diffonde la
vita, e non solo rischiara le nostre vie, ma ci muove e ci spinge innanzi
esortandoci a camminare. Così nell''Educazione di Achille, di
Eugenio Delacroix, il centauro mostra al giovane eroe la mèta lontana e
ve lo sospinge con superbo slancio. ;„ . . : .
Ci sono dunque in noi delle virtù
infuse, intellettuali e pratiche, accanto alle virtù naturali; le une
e le altre sono la sorgente dei nostri buoni pensieri, delle nostre buone
ispirazioni, delle nostre buone azioni, e, se vi aggiungiamo i doni
dello Spirito Santo, che corrispondono agli impulsi eroici e geniali,
abbiamo l'elenco completo di tutte le voci intcriori che, simili a
Giovanni nel deser-
131
to, lavorano a preparare le vie al
Signore, a raddrizzare i suoi sentieri, cioè a procurare
l'azione virtuosa e, se è possibile, a sorpassare la virtù corrente
spingendoci fino all'eroismo ed alla santità.
Le massime vette raggiunte saranno così
la più alta dimostrazione dell'economia intera. Gli eroi e i santi sono,
coi geni, coloro che rendono più manifesta l'azione di questa voce del
cuore che in certi momenti, invece dei sussurri indistinti ch'essa sospira
nelle coscienze timide, manda clamori e provoca slanci di entusiasmo
sublime.
Il genio non viene dall'intelligenza, ma
passa attraverso essa; l'eroismo non viene dalla volontà, ma la piega e
la utilizza; la dedizione fino all'eroismo di una vita consacrata ad un
figlio o ad un'opera non viene da una deliberazione paterna, da un calcolo
del cuore, ma da questa Sorgente « da cui piglia nome ogni paternità,
in ciclo e in terra ». Allo stesso modo la santità, che è una
specie di genio morale, un eroismo, una dedizione, si presenta a noi come
una permanente adesione alla prima Sorgente, poiché esprime la più alta
relazione della creatura con la sua Legge suprema. Ed è essa stessa una
legge, in quanto è la verità della vita, quantunque trascenda le
ordinarie condizioni del vivere e dell'agire sulla terra.
Già Aristotele aveva detto che il saggio
è una regola vivente, e san Tommaso, riprendendone la espressione ed
applicandola al Cristo, chiama Ge-
132
su « una specie di legge e una specie
di giustizia animata. » (I Pars, q. LIX, art. 2 ad I1").
Ora, lo Spirito che parla ed agisce in Gesù, nei santi, in ogni genio
morale, in ogni eroe della verità e del bene, è pure ospite nostro. Se
non agisce in noi con tutta la sua potenza è perché la nostra gravezza
gli resiste e la nostra anima è opaca a quella luce di vita; ma nulla va
sciupato, e da ciascuno, oltre ad un'azione ordinaria e quotidiana che la
vita morale guida, scaturiscono lampi che abbagliano il soggetto stesso e
gli rivelano un'anima della sua anima, cui egli nemmeno lontanamente
pensava.
Chi non sente in sé, in alcuni momenti,
l'entusiasmo delle belle azioni e come dei sussulti segreti, degli slanci
che vorrebbero concludersi con dei fatti eroici? Un racconto commovente,
un nobile esempio, una lettura sublime, un entusiasmo collettivo producono
in noi tali impulsi. E quando questi riescono a superare quel peso della
viltà e dell'egoismo, che è l'aspetto inferiore della nostra natura, noi
sentiamo invincibilmente che la bellezza è la legge dell'anima e del
mondo, che il bene è per ambedue la forza suprema, che una divinità
vuole crescere in noi, e che le sue conquiste non solamente sono
esaltanti, ma sono la verità e che, in esse, non nei compromessi e nelle
cadute, sta la vera felicità.
^
Elevandoci un momento al di sopra del caso
umano e guardando all'opera divina, riconosceremo che questo impulso
dall'intimo, questa certezza segreta, questa legge non è che un riResso e
un caso particolare dell'immensa aspirazione che muove tutta la natura. La
creazione geme e soffre le doglie del parto, dice san Paolo; l'essere
multiforme tende a salire e cerca se stesso nel suo più alto destino, di
cui Dio possiede il segreto. L'universo gravita verso Dio, e le proprietà
degli esseri sono i mezzi della sua ascesa, cui si adattano gli istinti
dei viventi, ed i cui più potenti collaboratori sono il giudizio ed i
sentimenti di fede dell'essere pensante.
L'infinito, da cui siamo partiti e che
dobbiamo raggiungere, penetra dunque in noi come tutte le cose e ci muove
all'azione : ci sospinge, ci trascina con impulsi dall'esterno, e ci
attira in avanti con l'ideale che fa scattare il desiderio. Noi siamo come
in un cerchio dal raggio immenso, che va da Dio principio a Dio fine,
dalla natura che da lui scaturisce alla natura che in lui si completa,
dall'embrionale al perfetto che è la ragione di tutto.
Quando io tendo al bene dopo averlo
riconosciuto ed averne gioito in is pirite sono alla presenza di colui che
mi ha creato e di colui che è mio fine : la voce intcriore è il suo
pensiero ; l'aspirazione intcriore, la sua volontà; e io mi sento
trascinato da questo infinito potere che comincia
^4
e completa, che dona e promette, che
semina e miete. Mi si trascina, mi si attende, mi si chiama, mi si spinge;
divento così la posta d'un'avventura celeste, di un gioco divino. Sento
in me un istinto migratore e mi attirano cicli misteriosi, il cui respiro
è arrivato a me attraverso correnti segrete. Perché non seguirò diritto
la mia via come gli stormi d'uccelli diritti fendono l'aria, schierati in
un triangolo ch'è simile a una prua?
Per mezzo di questa voce che mi parla
dall'intimo, posso cosi acquistare il sentimento d'una immediata presenza
intcriore. E presente è Dio, assieme al suo Spirito, ne io posso
penetrare nel mio intimo senza incontrarlo. Quando mi ritrovo con me
stesso dopo aver superato gli schermi frapposti dal mio falso io e dalle
realtà importune, io scopro in me questa apparizione e mi sento allora
congiunto a Dio in ispirilo con rutta la mia sostanza, così come
l'universo a lui è congiunto per essere e per sussistere.
Dio è, Dio pensa. Dio crea: e il reale,
incosciente nella materia e cosciente nello spirito, sussiste in modo che
nulla può distaccarsi da questa sorgente : la creatura, qualunque essa
sia, materia, spirito, forza bruta, istinto, pensiero, a-spirazione,
volontà, dipende da Dio, come frutto dall'albero, come raggio di luce
dalla fonte luminosa, ^:?;;ite%-^•~:' ' -..^l^;-'— •/—
" i35
Perché non so io stabilirmi in questa
chiaroveggenza, che farebbe di me quasi un costruttore del mondo e di me
stesso? Penetrare nel silenzio intcriore e intendervi il « facciamo
l'uomo » che si pronuncia sempre, capirne il senso e riuscire a
ripeterlo con Dio, indirizzando di conseguenza la mia azione, non sarebbe
diventare quasi creatore di me stesso in unione con Colui che mi ha creato
e che mi muove? E, anche per questo solo fatto, non sarebbe un partecipare
alla Provvidenza di cui l'uomo, ciascun uomo, è un elemento ?
Seguire la mia legge e rimanere così
fedele a me stesso equivale a mettermi in accordo con tutto e rendermi
tutto favorevole, perché in un mondo retto da una saggezza irrefragabile,
ogni punto di partenza apre illimitate prospettive e le forze di qualunque
genere, che all'incosciente sembrano disparate e difficilmente
armonizzabili, formano un tutto unico e ripetono in modi differenti lo
stesso pensiero iniziale.
Un buon desiderio in me, l'estasi
dell'arcangelo, la diligenza della formica e del castoro, la rotazione
d'un astro e la caduta d'una cascata, il brivido della canna palustre e
gli slanci della massa universale verso il suo fine, sono sempre la
medesima cosa. La maestà della creazione e l'umiltà d'un gesto morale
son pesate sulla medesima bilancia, perché nell'una e nell'altro è
implicato Dio e si obbedisce al'disegno e alle inten-
136 •
zioni divine, mentre un'intesa si
stabilisce tra ciò che è fatto secondo virtù e ciò che rivela la
virtù delle cose. Tutto l'essere acconsente quando io giudico bene, e
l'essere intero applaude quando questo giudizio mi decide. Io sono allora
sostenuto dalla creazione ed ho il consenso di tutti coloro che vi
collaborano : con me ho la Trinità, il ciclo mi approva, la terra mi
sostiene con più sicurezza, il giro degli astri è più sereno perché un
atomo nuovo è trascinato nella loro orbita, mentre io do maggiore forza
alle leggi che tutto regolano e do una mano all'onnipotenza, e la
debolezza umana è in me vinta, superata, dimenticata, quando mi innalzo
così all'assoluto dell'ordine e vi collaboro.
L'immagine del bene universale è in
ciascuno di noi coi suoi fratti essenziali, e in noi abitano l'eternità e
l'immensità: la legge del mondo e la legge di Dio si ricongiungono nei
nostri cuori per formare la nostra legge. Prestarle attenzione, tentare di
risvegliarsi e di conquistare se stessi, rivestendosi di Dio, sarebbe non
solo rendere certa la propria rettitudine, ma assicurare il proprio
destino!
Rientrando nel piano divino, se ne trae
sicuramente beneficio, perché Dio riesce sempre al suo fine, e le vie
ch'Egli traccia e le forze che lancia vanno dove devono senza sviarsi. A
nessuna delusione andremo incontro se confideremo nell'or dine e nella
testimonianza che troviamo in noi :
137
chi affida la sua ala al vento che
dall'infinito soffia all'infinito con forte e tranquilla folata, non può
cadere.
Ciascun vivente non ha che da restare
fedele a se stesso, tenersi unito a se stesso, riconoscere e sanzionare il
suo io immortale, l'autentica creatura cui Dio dona la sua forma, intima
la sua regola e procura, a tempo opportuno, la perfezione. Mi viene in
mente questo verso di Stefano Mal-larmé, descrivente l'uomo:
Tei qu'en lui-meme enfin l'eternile
le change!
Noi non dobbiamo costruire la nostra
anima;
dobbiamo solo servirla. Formarsi,
perfezionarsi è ritrovare se stessi, proprio quando qualche aberrazione
tenta di disperderci. Non ci si allontana mai tanto dal bene come quando
si misconosce il proprio essere. « Onorare la propria anima » era, nel
linguaggio di Fiatone, sinonimo di virtù.
Si fa torto a Dio, agli uomini, alle cose
facendo torto a ciò che si possiede di più profondo. Perché Dio ci
possegga, basta che noi ci possediamo sotto il suo sguardo, nella forma
voluta da lui, secondo l'idea che egli ha di noi e che è in noi : egli ci
guida secondo lo spirito, rendendo la nostra vita coerente alle nostre
affermazioni e, secondo la coscienza, facendoci fedeli ai nostri desideri.
Per questo, tutto lo sforzo morale di
Socrate consisteva nel ricondurre i suoi interlocutori al
138
sentimento di se stessi, a convincerli di
ciò'che sapevano, a far loro volere quel che volevano, per mezzo d'una maieutica,
d'una gestazione spirituale che conobbe grandi vittorie.
Il Libro Sacro ha lo stesso pensiero,
quando ci dice per bocca di Isaia : « Riflettete e mostratevi uomini;
prevaricatori, rientrate in .voi stessi, ritrovate il vostro cuore. »
(Isaia, XLVI, 8) E san Paolo, quando l'oggetto dei nostri desideri
è dubbio, e non sappiamo con precisione quel che dobbiamo volere e
domandare al ciclo o alla terra, ci consiglia di consultare lo Spirito che
è l'anima della nostra anima, di ricorrere alla nostra parte migliore, a
Dio presente in noi, perché Dio, che abita nel nostro cuore, desidera
sempre conformemente al suo ed al nostro bene, e in lui la nostra
debolezza diventa forza. « Lo Spirito sorregge la nostra debolezza,
perche noi non sappiamo ne quello che ci convenga domandare, ne come
dob-biamo domandarlo; ma lo Spirito stesso -prega per noi con gemiti
ineffabili, e Dio, che scruta i cuori, conosce quello che chiede lo
Spirito per noi, e sa che in conformità ai disegni eterni quello prega in
favore dei santi. » (Rom., Vili, 26-27) •
L'istinto divino che geme così in .noi e
che chiama corrisponde ai fini che Dio ci propone nel dominio della
grazia, corrisponde cioè al nostro destino soprannaturale ed alle nostre
intime felicità. I suoi sospiri fanno parte dei gemitidella
crea-
"39
zione
che tutta intera attende destini ineffabili. Tutto ciò che deve apparire
all'esterno ha la sua scintilla intcriore, in cui si annuncia e fa
testimonianza dinanzi alla nostra anima. Il grido dell'essere e il grido
della coscienza sono a vicenda l'uno per l'altro voce ed eco.
-¥-
Perché dunque non ricorriamo a questa
legge intcriore che fa retta la vita e traccia la strada per raggiungere
in essa la perfezione ? « Perché, domandava santa Metilde alle sue
figliole, non guardate allo specchio dell'anima vostra? » Sta di fatto
che noi non conosciamo, di noi stessi, che la apparenza ingannevole e
fugace. Non conosciamo di noi che un fascio di pensieri superficiali ed un
pizzico di desideri irrealizzati: non cogliamo il nostro essere che a
brandelli.
Le cieche potenze esterne rendono cieca
anche l'anima nostra, e questi ciechi si guidano l'un l'altro. C'è in noi
un istinto dell'effimero che neutralizza la tendenza all'eterno. La nostra
luce è come quella dei fuochi fatui e sotto noi sta la terra oscura.
Siamo un concentrato di sconosciuto. Le nostre ricchezze intcriori
giacciono in un sonno protetto dalla nostra incoscienza. Di quanto non
dovremmo elevarci e abbandonare questo io appallo
rente, per possedere la nostra vera
natura, i nostri pensieri fondamentali, i nostri profondi desideri?
La nostra vera essenza esprime e determina
in noi i voleri di Dio, e vivere significa conoscerla e acconsentirle. Ma
noi non vogliamo vivere, vivacchiarne, e ci basta. Per questa ragione
rinunciamo a conoscerei e puntiamo le nostre speranze sul divertimento.
Fuggiamo noi stessi per meglio fuggire Dio, perché ciò che presentiamo
nel nostro intimo, è un infinito esigente, e noi ce ne scostiamo allora
con timore. Come il fanciullo indolente che balbetta su una pagina
trascurando di cercarne il senso, così noi passiamo giorno per giorno la
nostra vita senza capirne il senso vero. I minimi richiami delle cose
smorzano l'appello intcriore, e la nostra anima, distratta da troppi
rumori, diventa sorda,,?! che la propria voce le sfugge.
Del resto, se il mondo esterno ha così
presa su di noi con le sue allucinazioni, ciò accade perché ci trova
compiici. L'anima nostra è come un popolo formato da buoni cittadini, ma
in cui si agitano anche fazioni ribelli; lo spirito delle leggi ne è
alterato e il paese non conosce più la sua strada. Siamo dotati di
ragione e di fede, ospitiamo lo Spirito della natura e della soprannatura,
un istinto divino corrisponde in noi ai fini sublimi del -nostro essere e
a quelli dell'universo; ma tutto cade davanti a una luce nemica, e un
principio di
141
resistenza ci paralizza e ci impedisce di
conoscere quel che dovremmo veramente volere.
Siamo divisi in noi stessi : la natura
peccatrice e Dio ingaggiano in noi una perpetua battaglia;
gli istinti carnali non obbediscono alla
ragione ed alla grazia, ma seguono la loro strada e ci sconvolgono.
Cittadini di due mondi e derivando da entrambi una parte di sostanza, noi
subiamo la legge generale per cui in ogni lega la parte debole indebolisce
tutta l'amalgama e la espone a molteplici rischi. La materia è al limite
inferiore dello spirito e la sua è una legge che tira al basso, mentre
quella dello spirito è una legge d'ascesa. Quando lo spirito vorrebbe
innalzarsi e trascinare nell'ascesa anche la carne, questa tende al basso
e utilizza per sé lo slancio dello spirito. Se noi cediamo, tutto cede,
e, in virtù della logica intcriore che tende sempre all'accordo del
pensiero còl desiderio, del pensiero con l'azione, la nostra visione
stessa si guasta e i nostri giudizi si sviano. E' questo ciò che faceva
dire ad Arnie! che c'è nel fondo della malizia umana un segreto sofisma.
Nessuno ignora le energiche parole di san
Paolo esprimenti questo laceramento. « lo mi compiaccio — diceva
l'Apostolo —'della legge di Dio secondo l'uomo intcriore; ma sento
nelle mie membra un'altra legge che si oppone a quella dello spirito e mi
tiene schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra. » (Rom.,
VII, 23)
142
La violenza di questa opposizione non può
meravigliarci. L'universo è legato alla materia e attira ciò che ad essa
appartiene, ma attira anche lo spirito coi fantasmi creati dalle sue
illusioni. Ed è proprio con questa sua potenza d'illusione che il mondo
domina facilmente il pigmeo ch'egli stesso ha reso impotente. San Tommaso
non si stanca di spiegare che l'esteriore è fiù percettibile, e, per
conseguenza, più allettante, più invitante, per un essere le cui
percezioni hanno origine dall'esterno, per uno spirito prigioniero delle
apparenze terrene a tal punto che solamente attraverso esse, come
attraverso una nebbia iridescente, egli può leggere i pensieri creatori e
decifrare se stesso.
Non dimentichiamo che la costruzione del
nostro essere ha come fondamento un'opera di carne e l'anima vi entra come
« dal di fuori », diceva Aristotele, e che questa trova una casa già
abitata da potenti determinismi e da tendenze ereditarie e accidentali,
che presto si tramuteranno in fiotti d'immagini, le quali sommergeranno
facilmente il lavoro del pensiero. Siamo spiriti ben strani, .anzi, più
che spiriti, siamo animali ragionevoli, cioè esseri viventi da cui
si sprigiona, alla cima delle funzioni carnali, un debole ardore di
spiritualità, come la fiamma d'un cero.
Eppure ciò non importa, perché, se
vogliamo, lo spirito sarà più forte: una particella di spirito infatti
vale più di un mondo di materia, e lo Spi-
M3
rito del nostro spirito, il Paraclito
onnipotente, ha infinita autorità.
Lo spirito non può essere vinto che per
propria colpa; lo Spirito Santo perde solo se tradito dal suo alleato
umano. E' l'uomo infatti che ha il potere di provocare la caduta, ma in
caso di felice rinascita deve anch'egli prendere parte alla vittoria.
Terribile alternativa, ma quanto onorevole per noi, nobili e avventurati
combattenti, fragili trionfatori!
Ci fu tempo in cui la dualità che è in
noi era armonicamente composta in quella che chiamiamo, teologicamente, giustizia
originale. Questa giustizia è andata perduta; ma è venuto il
Redentore e se questi ha ritenuto opportuno non ristabilire l'ordine
primitivo, ciò non è a nostro danno, ma a nostro merito, e quindi a
nostra gloria. E' un bene per noi essere feriti, che sono stati messi a
nostra disposizione i balsami che guariscono, e, con la paziente e
generosa applicazione di meravigliosi rimedi, potremo, con Gesù,
diventare i redentori di noi stessi.
Lo Spirito di Cristo e la nostra ragione
che egli vivifica hanno il potere di dominare in noi le seduzioni della
carne. Possediamo tali forze universali che, sviluppate nella loro
energia, non lasciano più alcun potere alla natura fisica. L'antagonismo
di due forze viene annullato, quando una di esse
144
può òpporsi all'altra con tale
preponderanza da escluderla. Noi giochiamo contìnuamente, nella vita, con
formidabili potenze che possiamo tuttavia dominare, perché, come dice il
proverbio orientale, la prudenza dell'uomo è più forte dell'artiglio
del Icone. ^ -: -.';
Quando voglio innalzarmi in volo, non devo
vincere la gravita, che è una forza dell'universo? Eppure mi innalzo e mi
libro quanto voglio nelle altezze. L'aereo su cui viaggio ha un
bell'essere più pesante dell'aria, i suoi elementi hanno un bell'essere
ricavati dalla massa terrestre nella sua materia meno eterea : se esso ha
ali sicure e motore buono, vinco la gravita e non temo cadute. Così,
nonostante tutti i più gravi ostacoli che mi si vogliano frapporre, io
ho, per le mie ascensioni spirituali, una forza alla quale posso ricorrere
senza paura che s'affievolisca; ho con me ciò che non ha nulla da temere
da nessuno, ed io avanzo rassicurato nella dirczione e nella costanza.
Mi è stato anche detto che in tal caso,
purché io sia veramente mosso dallo Spirito ispiratore e dalla virtù che
egli fa germinare nell'anima, io non ho più bisogno di cercare la mia
strada. Ogni deliberazione infatti, quando lo Spirito è a un tal grado
presente in me, diventerebbe inutile, anzi mi sarebbe d'impaccio, così
come per il virtuoso sarebbe d'impaccio il chiedersi, nel mezzo di un
arpeggio, dove sta per posare il suo dito. L'artista
ìn^ Ti T>aia.viawn
delìbera nel suo formarsi e nel suo
progredire, ma appena possiede interamente i suoi mezzi non cerca più, e
allora procede come una forza della natura, quasi per istinto, con una
certezza che la ragione non può dare.
L'istinto divino della virtù e del dono
è una guida spirituale più sicura di tutti i nostri tentennanti
sillogismi, poiché la nostra ragione zoppica là dove esso valica d'un
balzo larghi spazi. Dio, unito a noi per mezzo degli istinti della nostra
autentica natura e per mezzo dello Spirito santi-ficatore, crea in noi la
luce e la rettitudine, e questa sua azione, come un'arte divina immanente
alla vita e come genio della specie umana, fiorisce in pensieri ed in
nobili atti, come la pianta si effonde in gemme e grappoli pesanti, e
l'uccello in piume e in canti.
Sono certamente quest'intima
compenetrazione e questa divina impronta che attestano la verità della
appassionata esclamazione dell'Apostolo:
« Non son più io che vivo, ma è il
Cristo che vive in me)): il Cristo per mezzo del suo Spirito, di Colui
che egli doveva inviarci e che ci avrebbe insegnato ogni cosa, che
ci avrebbe fatti spirituali, e per ciò giudici di tutto. Si
giudica tutto, dopo avere ricevuto la propria legge immanente di vita,
fondato la propria gerarchla di valori, regolato il proprio tempo —
così come ebbe a dire il Pascal — sul quadrante dell'eternità,
conformemente ai
146
disegni creatori e redentori di cui ognuno
porta la testimonianza nell'intimo.
Sia dunque sempre desta la ragione, e
trovi a-scolto in noi lo Spirito ; il nostro mondo intcriore si
organizzerà da sé, e anche il mondo esterno lo seguirà sulla stessa
via. Succederà come all'aurora della creazione, quando la Parola
creatrice chiamò per nome l'universo. Dio chiamò ad alta voce,
apostrofando la materia inerte e quindi le forme che organizzarono il
cosmo: così brillarono l'ordine e la bellezza. Allo stesso richiamo,
anche il nostro universo morale può formarsi ed organizzarsi e, il fiat
lux può farsi riudire : basta che noi vi aderiamo e che, per mezzo
della libertà e di Dio che così la vivifica, esercitiamo il potere
sovrano.
Posso vivere rottamente e posso pensare
giusto, qualunque causa di deviazione mi si presenti, se resto unito al
mio pensiero, unito a sua volta, nel mio intimo, al pensiero eterno. Se
riporto questa vittoria. Dio trionferà in me; e io avrò partecipato alla
diffusione del suo regno, avrò assicurato il mio destino e aiutato altri
destini, ed avrò collaborato, sia pure in minima parte, al destino
universale. Vincitore del mondo, anche se le sue forze mi urtavano e i
suoi conflitti violenti si ripercuotevano nella mia carne, avrò dato
ragione a Colui che disse ai suoi : « Abbiate fede, io ho vinto il
mondo. »
U7
Noi non vogliamo, mettendo l'opera e
l'anima al servizio di una diabolica rivincita, fare in modo che il vinto
da Cristo sia il vincitore dell'uomo! Il mondo non è fatto per dominarci
ma per servirci, e la voce intcriore è allo stesso tempo la sua e la
nostra regola. Se Dio tutto ha posto sotto i nostri piedi, non lo
ha fatto perché lo sollevassimo al di sopra di noi e ci facessimo
crollare addosso la costruzione che deve sorreggerci.
La voce intcriore ci dice che dobbiamo
sviluppare il nostro essere, realizzando l'ideale creatore e l'ideale
redentore, la forma di Dio e la forma del Cristo, in vista
di un destino che è insieme umano e soprannaturale. La voce intcriore ci
dice: sali, crea in tè un'armonia, fa' che tutto serva ai fini del tuo
essere e subordina la carne allo spirito e l'esteriore alla carne e a
tutta la persona : questo è il compito della vita, e tutti siamo immersi
nella natura e legati da un capo all'altro dell'umanità proprio in vista
di questo sviluppo. La Comunione dei Santi, sia nel temporale che
nello spirituale, tende solo alla perfezione ed alla crescita : per essa,
ciascuno cresce e fa crescere, ciascuno vive e fa vivere, ciascuno avanza
e trascina, traendo forza, nello stesso tempo, da chi è trascinato. Tale
è il nostro compito. Tutto il resto non è che mezzo e non deve
pretendere ad altro che alla gloriosa umiltà del servizio.
L'uomo non può sacrificarsi al suo
compito
.,--,
148
e soccombere sotto l'opera del tempo. Le
fioriture spirituali sono il vero scopo della natura fisica e dello sforzo
della civiltà, e la storia non ha senso se non come testimonianza di
questa ascesa dell'umanità. I grandi avvenimenti della storia non
succedono sui campi di battaglia o attorno ai tavoli da gioco, ma nelle
coscienze. Qui sta il dramma del mondo, e ciò che esso ha di tragico è,
con tutta l'inquietudine dei sentimenti che provoca, la sua posta eterna.
Gli storici del Medio Evo avevano questa
convinzione, che le età del mondo sono segnate dal progresso dello
Spirito sulla terra; per loro i grandi combattimenti erano la Passione di
Cristo, i trionfi dei martiri, la lotta contro il colosso romano ed i
barbari, lo slancio della Chiesa attraverso i secoli; per loro,
conquistatori erano i santi, crisi sociali le eresie distruttrici, gli
scismi immobilizzanti, il contagio dei vizi corruttori. Ed era una
filosofia della storia che valeva più della nostra; puerile forse, alcune
volte, ma il punto di vista era alto e tale da fare arrossire delle loro
grossolanità Carlo Marx e i suoi adepti.
Si ritorna oggi, in un certo senso, a
questa storia scritta dal di dentro; si lascia meno posto al visibile ed
al passeggero, al rumore ed all'apparenza, e le storie della civiltà
guadagnano terreno sulle storie delle guerre. Ma questo di dentro è
ancora un di fuori per troppi, ed i più hanno
149
torto di avvicinarsi a ciò che è
superiore nell'uomo per meglio dimenticare il divino.
Sta di fatto però che, per confessione
dei migliori, la coscienza è il vero terreno della scelta — se ci si
mette dal punto di vista finale, dal punto di vista dell'assoluto —, il
solo terreno su cui si costruisce la vera civiltà. Costruire l'uomo, e
non una casa che crollando lo schiacci; abbeverare l'uomo alle sorgenti
della natura e della grazia, e non somministrargli una pozione che lo
avveleni; comprendere infine che l'uomo è superiore a ciò che fa e a.
ciò che lo aiuta a fare: ecco il progresso che occorre perseguire.
Ebbene, tutto ciò è proclamato in noi,
se noi vegliamo nell'ascolto di noi stessi. Un mormorto dolce come quello
del profeta, un clamore lontano proveniente dal fondo della razza e dal
seno stesso della divinità che ci invita a questo nobile vegliare. Quella
voce si ricorda delle epoche millenarie in cui l'umanità si formò ed il
caos s'aprì all'ordine e l'ombra alla luce, e presuppone i tempi eterni
in cui noi eravamo in Dio creature sognate e non ancora esistenti,
creature pensate, sentite, qualificate già, dotate di felici destini e
viventi col Padre, il Figlio e lo Spirito la loro vita sovrana. E, più
innanzi, questa voce tocca, se noi la seguiamo, la sublime quiete
dell'essere pienamente sbocciato, fissato nella sua sorte e nella sorte
comune come un gioiello nel suo castone pre-
^g
zioso, come la stella nel ciclo, come il
Cristo in Dio.
La voce intcriore è profeta della
felicità, così com'è pure testimone della chiamata, araldo della
fedeltà e signora dell'armonia e della virtù, visto che queste cose non
sono che una cosa sola. Essere in armonia virtuosa col proprio io, vuoi
dire essere fedeli a Dio e alla sua opera, vuoi dire rispondere alla
propria vocazione.
Esser così uniti all'opera di Dio e
secondarne tutti i ritmi, significa andare verso la felicità, che è il
fine stesso di Dio, essendo essa il contenuto di quella volontà
primigenia, di cui parlava Dante, nella quale è la nostra pace.
I ?1
LÀ LIBERTÀ E LA NECESSITÀ
-l/a
voce intcriore s'accompagna in noi ad istinti e tendenze di cui essa non
è, per così dire, che la traduzione. Ciò che essa esprime come giudizio
e ordinai come legge, quelle tendenze pongono come un'affermazione
effettiva, come un fatto. La voce dice: ciò deve essere; la tendenza:
che ciò sia!
La constatazione di inclinazioni naturali,
e il conseguente fatto di nostre iniziative personali, pongono un problema
complesso e dei più importanti. Quale la parte della libertà e della
necessità nella vita umana? Quale significato dobbiamo dare a questi due
fattori ? Dove trovare la loro origine? Qual è il loro compito? Quali i
loro rapporti? Quali le conseguenze morali che dobbiamo trame? Grosso
problema, certamente arduo, che merita d'essere considerato almeno
sommariamente.
La nostra vita non nasce sotto il segno
della libertà. I primi passi, non siamo noi a muoverli;
essi ci sono imposti da un'oscura potenza
che sboccerà un giorno nella personalità, ma tardi, e non completamente.
Il bambino è un fascio di sensazioni e di tendenze su cui regna
incontrastata la natura, che ne è la sola responsabile. Ci sono, è vero,
volontà latenti, e già i balzi del piccolo nel seno della madre stanno a
testimoniarlo, ma sono volontà incoscienti; è la natura che geme e si
duole, è il genio delle specie che si commuove, anche se, intima
alla specie stessa, è l'individualità nascente che si rivela. Pure
l'eredità è natura, così come lo sono gli accidenti della generazione :
tutto ciò ci costituisce ed imprime in noi le sue esigenze prima di ogni
altra cosa.
Si potrebbe dire che tali tendenze sono
l'essere medesimo e lo definiscono completamente. Essere e voler essere si
toccano e quasi si confondono. Il desiderio ci crea : il desiderio che,
nei nostri ascendenti, ci fece passare dalla possibilità all'essere, e
che dai nostri genitori ci è stato trasmesso, dopo che essi se ne
servirono per concepirci, facendone quasi la nostra sfessa sostanza:
esso è la vera fiaccola della vita, il
fuoco animatore, ne e anzi, in qualche modo, il tutto.
Si potrebbe aggiungere che, dalla nostra
nascita, è sempre il desiderio d'essere che ci fa essere. Chi non
desidera più, è morto. Si è spiegata
^
l'apparenza di morte del sonno con la
sospensione di una delle forme del desiderio, il desiderio volontario: là
dove non rimanesse desiderio alcuno, là dove non ci fosse più alcuna
ansia e alcuna ricerca, ivi sarebbe la morte. Ma c'è di più: perfino
dopo la morte sembra che noi continuiamo a desiderare, poiché il cadavere
vegeta ancora e si direbbe che non si rassegni. Nel vivente, ove con ogni
sorta di poteri la natura esprime la sua tendenza ed il suo sforzo, il
desiderio è principio di permanenza, di attività, di progresso. Ed è
così di tutti gli esseri, i quali sono come archi tesi, dai quali la
freccia dell'azione scocca in una dirczione che è determinata dalla loro
medesima natura.
Come l'essere infatti, finché rimane
essere, determina il desiderio, così la forma d'essere determina la forma
del desiderio che essa diversifica dalle altre nature. Ciascun essere ha
le inclinazioni che corrispondono a ciò che egli è. Il fuoco diffonde
calore; l'animale vivente segue una curva d'evoluzione definita dalla
specie, e l'essere pensante, in quanto come tale s'arricchisce d'un essere
nuovo, sarà dotato d'una inclinazione nuova, chiamata volontà. E siccome
tutto ciò è presente in noi che siamo corpi naturali e animali viventi
ed esseri volenti, noi subiremo molteplici inclinazioni su cui la
necessità avrà un vasto impero.
i55
Questa condizione è per noi un segno
d'imperfezione, ma è, in compenso, una testimonianza della capacità che
possediamo di acquistare ciò che ci manca. Ciò che si cerca, non si ha;
ma ciò che si cerca naturalmente, si ha il potere naturale di
raggiungerlo e, in seguito, di utilizzarlo: il che significa che in
qualche modo già lo si possedeva e che quella conquista era inclusa nella
nostra definizione di esseri di desiderio e ci qualificava già e ci
determinava prima di perfezionarci.
Se ci mettiamo dal punto di vista
dell'oggetto desiderato, notiamo che il desiderio naturale è un legame
tra gli esseri: esso da risalto alla loro mutua convenienza e alla loro
fraternità, e da un significato alla loro unità mostrandola come unità
di funzione, in vista del loro bene e dell'armonia ch'essi compongono.
Questa è l'energia che muove l'universo, l'orma del Bene sovrano dal
quale procede e verso il quale avanza.
Il desiderio da forma ài mondo, lo
conserva, lo muove, lo trasforma e lo spinge; ne è come l'anima
molteplice ed in perpetuo slancio: imitazione di quell'amore che piega Dio
su se stesso, retaggio di quell'altro amore che spinse Dio a manifestarsi
creando il mondo. La natura che desidera, è un'espressione, imperfetta e
diversa, del Primo Amore, poiché la necessità che la trascina
1^6
vìen dall*Agente cui tutto obbedisce,
mentre essa tende al Fine cui nulla sfugge.
C'è nel mondo una gravitazione misteriosa
:
l'essere attira l'essere, e tutti gli
esseri sono attratti dall'Essere primo; il perfetto attira l'imperfetto,
ed il bene attira il desiderio che in esso si compiace, si appoggia e si
realizza. L'amore di Dio si manifesta concretamente in questa aspirazione
incoercibile, così come concretamente si manifesta l'intelligenza
creatrice nella luce immanente a tutto ciò che è. Il desiderio infatti,
di per sé cieco, ha bisogno di una luce, e questa luce traspare da tutte
le cose: arte nascosta nel bruto, immagine o idea nell'essere
intelligente, essa procede nell'uno e nell'altro dalla Luce eterna, coi
riflessi della quale illumina il nostro cammino.
Chi penserà a questi sublimi legami
terrà in maggior considerazione la propria vita, e sarà quasi
sicuramente portato ad una conclusione preziosa per la sua condotta. Se ci
sono in noi necessità intcriori che precedono il volere; se queste
necessità ci vengono da Dio attraverso l'azione regolare o i capricci
apparenti della natura; se il nostro carattere ne risulta formato, così
come quello degli altri, e se le nostre reciproche reazioni, i nostri modi
di adattarci e di sentire, hanno per causa vicina o lontana, totale o
parziale, quelle divine necessità, bisognerà infine che ci decidiamo ad
157
accettare quest'ultime come punti di
partenza della nostra azione, sia individuale che collettiva.
Recriminare, accusare la sorte e
inquietarsi a motivo di questi fatti, è imprudente ed ingiusto, Di ciò
che è in noi senza di noi, nessuno di noi risponde, essendone Dio solo
responsabile e facendo esso parte di quegli avvenimenti, materia
diretta o indiretta della provvidenza, di cui abbiamo riconosciuto il
carattere sacro.
Dobbiamo risolvere un problema morale,
sfruttare con estrema prudenza le risorse di cui disponiamo, magari nella
loro assenza apparente, e ogni discussione a questo riguardo è perciò
una perdita di forza e ogni scoraggiamento una mancanza. Non è forse
dalle mani del Signore che riceviamo con venerazione il nostro corpo e la
nostra anima quali Egli li ha formati? Le circostanze e le forze che ci
hanno costituiti sono tutte a nostra disposizione ed è grande virtù far
loro credito, mentre è mancanza deplorevole fare il contrario. Così pure
è dannoso maledire o trascurare se stessi : azioni queste che si
influenzano reciprocamente. Irritandosi contro i propri difetti, si giunge
al medesimo risultato cui s'arriva pigliando pigramente le proprie
risoluzioni. Lusingare se stessi o disprezzarsi è tutt'uno. Poco importa
che si getti lontano la scure o che ci si serva di essa goffamente :
l'effetto è uguale.
Lo stesso va detto del prossimo. Non è
giu-
138
Sto, anzi è crudele, rimproverare a
qualcuno ciò che non viene da lui, ciò che lui per primo subisce e forse
deplora. Se non sappiamo quanto è difficile a noi la vittoria sui nostri
stessi difetti, siamo ben incoscienti e, se lo sappiamo, perché dovremmo
ignorarlo quando è in causa il prossimo?
A giudicarci non sono tanto le nostre
azioni quanto i nostri voleri, ancora meno poi le nostre tendenze. Si può
essere eroi lottando tutta una vita contro cattive tendenze intcriori
difficili a vincersi in se stesse, come si può essere spiriti me-diocri
facendo cose generose e talvolta anche sublimi. Chi saprà decidere? La
regola di sant'Agostino in materia di predestinazione può essere qui
applicata : « Noli velie judicare si non vis errare, non voler
giudicare, se non vuoi sbagliare », e, se non si deve giudicare, tanto
meno si dovrà maledire. Nessuno è colpevole di ciò che è, ma solamente
di ciò che vuole e di conseguenza, indirettamente anche se non sempre
strettamente, di ciò che fa.
La giustizia e la saggezza ci chiedono
quindi una cordiale compassione per i difetti degli altri e una generosa
pazienza per i nostri.
• ' <;-—— ^
^^ ^ ,...,
Ci si può ora chiedere se è solo a
riguardo del carattere, e quindi della parte relativamente inferiore del
nostro essere, che noi siamo soggetti
159
alla necessità, e se libera invece da
ogni legame, in quanto presiede alla vita morale, sia la volontà
razionale, la signora delle nostre azioni, questa alta potenza che, per il
suo compito, appare indipendente. Molti invero così credono e si figurano
che ciascuno voglia a piacer suo, e decida come meglio creda, e non
subisca, nella propria volontà, imposizioni di sorta. Ciò non è e non
può essere.
Evidentemente tutto ciò che esiste, per
il fatto stesso che è determinato nel suo essere, si trova determinato a
certi movimenti. Ogni essere ha la sua inclinazione. Se la volontà è,
deve avere una tendenza fondamentale, naturale, su cui la libertà non
avrà presa alcuna, visto che essa al contrario ne dovrà procedere. Ogni
variazione riposa su un'essenza delle cose che è fissa in se stessa; ogni
mobilità ha il suo perno.
Di fatto, la tendenza naturale della
volontà è doppiamente determinata. La volontà ha una ragione di
volere che è la sua sovranità; in secondo luogo, e in conseguenza di
ciò, essa ha un oggetto primieramente voluto, che sempre la vince.
Al di fuori di ciò, nulla potrà deciderla a nulla, si tratti di
scegliere questo o quello, si tratti di agire o di non agire.
La ragione di volere, per la volontà, è
il bene;
non dico il bene morale, ma il bene nella
sua nozione universale, cioè il desiderabile, oggetto che
160
giustifica e che qualifica in se stessa la
facoltà del desiderio e che l'eguaglia, come si eguagliano la convessità
e la concavità d'una medesima sfera. Non si può volere ciò che non
costituisce oggetto di volontà, così come non si può vedere ciò che
non è visibile. Ogni volontà che vuole è una volontà indirizzata al
bene. Se ne risulta un male, e lo si riconosce, si tratterà di un triste
accidente al quale ci si può anche rassegnare, ma non è questo ciò che
si vuole. Volere è tendere a cose buone.
Tra le cose proposte alla nostra facoltà
volitiva ce n'è una poi, una sola, che s'impone alla pari del bene nella
sua nozione astratta, con una necessità, quindi, assolutamente
ineluttabile. La nostra volontà non può fuggirla, tanto che, anche
quando pretende indirizzarsi a un altro oggetto, essa tende ancora a
quella e la sua attrattiva è forte al punto di vincere la più nera
disperazione e il più completo scoraggiamento. Colui che crede di non
essere più capace di volere, gusta questa potenza dominatrice più
aspramente di qual-siasi altro; il rifiuto di ogni desiderio ne è il
desiderio più alto; quando si ostenta pessimismo e ci si dice pronti alle
ultime rinunce, è lei che si esalta, lei che, se vede dirigersi verso
l'eternità qualche vittima della vita, sa che ciò avviene per affanno
d'amore : perché la si amò troppo, al punto di chiudersi, disperando di
lei, in un oscuro abbandono di tutto, che è, al suo confronto, un
161
omaggio supremo. Questa potenza che ci
lega in nome del bene, motore del volere, è la felicità.
Chi dice felicità, dice bene umano
perfetto, perfezione dell'uomo, conclusione del movimento che determina il
sorgere della vita: e in che dirczione si volgerà la vita, se non verso
ciò che l'ha fatta scaturire? Per questa ragione, la felicità è
l'obiettivo per eccellenza di ciascuno e di tutti, « anche di coloro che
vogliono impiccarsi », scriveva il Pascal. A quel bene, noi aderiamo con
movimento naturale, fatale, senza sentirci per questo minimamente
violentati, così come lo spirito non è violentato da una verità
evidente. La natura non violenta mai : è ciò che ad essa si oppone che
è violenza, la quale ci viene dal di fuori, mentre la natura non solo è
in noi, ma è noi.
Per la nostra volontà, desiderare la
felicità umana è lo stesso che volere ed essere una volontà. Volendo
tale oggetto infatti, essa non si comporta tanto come volontà, come
volontà libera, quanto come natura, come cosa. Essa è anzitutto una
tendenza, e tende semplicemente; poi è tendenza intellettuale, e tende al
bene visto come nozione; infine è tendenza dell'uomo, e tende al bene
dell'uomo. Tutto ciò si equivale. Si potrebbe dire allora che essa non
vuole la felicità per la felicità, ne che vuole la felicità perché ha
il potere di volere, ma che vuole la felicità perché essa semplicemente
è. Essa è desiderio dì ciò
162
che conviene all'uomo : e che cosa
conviene all'uomo se non l'essere uomo e il sentirsi nello stato di
perfezione, in possesso di tutto il bene umano, senza alcun difetto che lo
possa intaccare e senza alcuna paura di perderlo ? Ebbene, questo è ciò
che si chiama felicità.
E' nota la storiella raccontata da
sant'Agostino nella Città di Dio. Un mimo greco aveva detto un
giorno a teatro : « Venite numerosi alla prossima rappresentazione,
perché rivelerò a tutti quel che ciascuno desidera. » Accorse gran
folla, curiosa del fatto, e il mimo disse : « Voi tutti volete comprare a
buon mercato e rivendere a caro prezzo. » Si trattava infatti di un
popolo di mercanti. Ma se il mimo si fosse avvicinato all'uomo, commenta
sant'Agostino, e avesse detto : « Volete essere tutti felici, nessuno
vuole essere infelice », a-vrebbe detto una cosa di cui ciascuno avrebbe
trovato la testimonianza nel proprio cuore.
Per questa ragione allorché un bene,
anche insignificante, prende ai nostri occhi l'aspetto del bene sovrano,
se circostanze intcriori od esteriori non ci permettono di sventare
l'insidia, noi ne veniamo attratti irresistibilmente: e in questo caso,
anche se cadiamo nella sventura o nell'errore, la nostra responsabilità
è nulla, quantunque una tale evenienza teorica non si trovi mai
realizzata allo stato puro. Rientrano in questo caso l'ossessione morbosa,
lo sbaglio involontario, la passio-
103
ne improvvisa. Può anche darsi che questo
determinismo utilizzi talvolta la suggestione ipnotica.
I nostri voleri primi o improvvisi non
vengono da noi, ma dalla natura in noi; essi manifestano il substrato
della nostra attività, e in essi noi non agiamo come persone, ma come
cose, come oggetti di natura senza reazione propria. Ciò è bene a
sapersi, e più d'un giudizio avventato su noi stessi o su gli altri, in
bene o in male, potrebbe trovare qui l'occasione per esser riveduto.
Quante volte siamo sorpresi, o il prossimo
è sorpreso, dal sorgere improvviso di sentimenti o d'impulsi di cui
abbiamo coscienza, ma che noi non abbiamo deliberato! Una specie di
evidenza s'è sostituita subito, precedendo la deliberazione necessaria.
Se qualcuno ci insulta, non è evidente che occorre rispondere per le
rime? Se ci troviamo di fronte a un grande pericolo, non è forse evidente
che bisogna fuggire? Eppure dovremmo riflettere, ma la sorpresa non ce ne
lascia il tempo : fuggiamo, percuotiamo, e solo più tardi si ridesta la
ragione. I casisti spagnoli scusavano il ca-ballero che, tacciato
d'eresia in una disputa e portato da un'improvvisa collera, passava da
parte a parte con la spada colui che lo insultava. Se ciò ci illumina sui
costumi del tempo, la dottrina comunque sussiste.
La stessa cosa può accadere anche in bene
ed è questo ciò che vuole significare il cinico detto:
164
« Diffidate del primo impulso, è quello
buono. » Nel caso di volizioni semplici, come dicono gli
scolastici, di voleri cioè che precedono il consiglio e quindi
anche la libertà, la responsabilità è sempre attenuata e, alcune volte,
nulla. Conviene ricordarsene sempre, per non disperarsi o esaltarsi, per
non accusare, soprattutto, contro ogni giustizia.
C'è un'altra bella teoria tomista la
quale dice che i primi movimenti di ciascuna serie volontaria, i punti di
partenza che portano, attraverso successive deliberazioni, a risultati
lontani, non ci appartengono mai. Essi vengon dal di fuori — a meno che
questo di fuori non sia il Supremo intcriore —; essi vengono da Dio,
che, autore delle nature, solo risponde del movimento delle nature, le
quali non sono affidate alle mani
del loro consiglio.
Quando mi risveglio e mi sorprendo a
volere senza avere pensato, questo volere non deliberato rimarrebbe senza
spiegazione, se non lo rimandassi a una causa extraumana. Esso è senza
dubbio legato a flussi d'immagini mentali e ad impulsi oscuri, ma questi
non sono la vera causa :
se lo fossero, sarebbe in gioco il
principio medesimo della libertà, e arriveremmo all'uomo macchina.
Un solo potere agisce sugli spiriti, ed è il Creatore stesso degli
spiriti. Se io voglio senza
165
avere prima pensato, così come, del
resto, s'io penso senza averlo voluto, vuoi dire che ho subito l'influenza
dell'Essere primo, che è dappertutto e in tutto «presente alle sue
opere». Qui, come in tutto ciò che è natura, il trascendente traluce
sotto l'immanente, l'eternità sostiene il tempo e l'immutabile il
fenomeno.
Questi alti concetti erano familiari agli
antichi, ma per noi sono lettera morta. E' buona cosa perciò il
richiamarli: essi danno un'idea dell'uomo più elevata certo di tutte le
spiegazioni psicologiche attuali — che non son loro contrarie, del resto
— e gettano sulla nostra vita morale una luce tale che ogni altra ne
deriva. I punti di partenza sono sempre luce per il cammino.
Si deve dunque constatare che al principio
della nostra vita, così come ad ogni suo ricomin-ciamento, nel fisico e
nel morale, è la necessità che governa, e non la libertà. La necessità
da il primo impulso alla vita umana, mentre la libertà se ne impadronisce
soltanto in seguito e non senza intromissione ancora dell'altro potere. La
libertà muove il mondo e ne fa scaturire di volta in volta luci ed ombre,
ma la sua azione è sempre limitata; senza questo limite, forse,
diventerebbe una forza totalmente distruttrice ! In certi esseri e in
certe circostanze, lo sarebbe sicuramente : la corrente trascinerebbe
tutto, e la natura, con la
166
soprannatura che su di essa si innesta, ne
subirebbe un danno mortale. Dio non permette ciò e pone un limite. Ma il
necessario, nello stesso tempo che limita la libertà e le serve
d'appoggio lungo la sua corsa, si ritrova alla fine a tutto ricevere. Il
nostro libero sforzo, attraverso molti ritorni e per un cammino più o
meno lungo, non fa che avanzare verso una forma nuova della necessità,
che è la fissità eterna.
In effetti, se la felicità è desiderata
naturalmente, non meno può esserlo ciò in cui essa consiste come nella
sua propria causa e nel suo oggetto; anzi lo sarà di più, perché il
concreto ha più potere dell'astratto: e non è risaputo infatti che, tra
una nozione e la realtà che l'incarna, è quest'ultima che vince? - ..-,--
Dove si trova la felicità? Come si
realizza questo stato reso perfetto per l'accumulazione di tutti i
beni, come ha detto Boezio? Sarebbe facile provare che Dio solo
procura, con la comunicazione del suo essere e delle sue perfezioni, uno
stato di perfettibilità che l'infinità delle nostre aspirazioni e dei
nostri poteri recettivi spinge a esigenze infinite. La felicità non è
che in Dio; essa è il nome comune, di cui Dio è il nome proprio.
Possedere Dio, abbracciandolo con tutte le forze del nostro spirito,
aderendovi con tutto il cuore, è lo stato veramente cumulativo di ogni
bene, di cui
167
noi siamo gli avidi pretendenti ed Egli
e-la sorgente suprema. ,' -',
Messi quindi di fronte a Dio, non come
quaggiù, sotto gli auspici d'un'idea astratta, di un concetto negativo e
quasi d'una parola, ma faccia a faccia, noi non saremo liberi di evitare
lui più di quanto non possiamo evitare noi stessi; saremo legati a lui
nello stesso modo in cui ora siam legati alle proprietà del nostro corpo
e alle leggi del nostro spirito. Possiamo noi evitare di avere un peso?
Possiamo tralasciar di credere a una evidenza? Slmilmente noi non potremo
sot-trarci a Colui la cui proprietà è di rispondere ad ogni appello, di
soddisfare ogni desiderio, di concludere ogni ricerca. Verso di lui si
porterà tutto intero il peso della nostra anima volente, la quale sarà
trascinata da un'evidenza del bene che assumerà il carattere
d'un'infinita ossessione. Nessuna possibile fuga a destra o a sinistra,
per una volontà che là trova tutte le ragioni del volere, poiché vi
sarebbe ricondotta perfino da ciò ch'essa potrebbe seguire in caso di
fuga, in quanto l'oggetto che l'attirerebbe altrove non agirebbe che come
partecipazione, riflesso, surrogato di ciò che essa ha abbandonato.
Per seguir ciò che ha solo un valore
relativo e dipendente, si lascerà ciò che ha valore per sé? Per seguire
ciò che è luminoso, si lascerà la Luce, per ciò che è amabile
l'Amore, per ciò che è pre-
168
zioso la Ricchezza? Era in vista di questo
fine che senza saperlo si cercavan tutti gli altri; era perché scorgevamo
un'immagine, un vestigio di questa perfezione, che ci si orientava ad
altre perfezioni; era per l'attrazione di questa felicità compiuta,
lontanamente intravista in ciò che si ama, che si cercavano le altre
felicità. Una volta colà giunti, una sola cosa è possibile : un
ripiegamento eterno della volontà soddisfatta sull'unico Bene, un'unione
beatificante che tutte le energie dell'essere sono impegnate a formare e
che nessuno può disserrare o, meno ancora, distruggere.
Al contatto dell'Essere primo, da cui è
uscito e che gli è infinitamente conveniente, l'essere creato non
desidera più : egli è. Il suo desiderio è esaurito dalla sua stessa
soddisfazione ed egli si attacca all'oggetto, ne sposa i contorni, si
assorbe e si fonde in esso senza dispersione, anzi in un più alto
possesso di sé, sviluppandovi le sue attività al massimo, ma di colpo,
se così si può dire, perché dal punto di vista della sua ricerca, egli
non può che immobilizzarsi in un'eterna immobilità, nel perfetto
ottenuto. E' la stessa cosa che capita al ruscello, il quale scorre e
serpeggia a lungo, ma, arrivato al mare da cui misteriosamente era nato,
non corre più, si placa e si stende nel seno della grande pace.
Si può, a questo riguardo, sottolineare
quanto grande sia l'idea della felicità cristiana. Noi
169
dicevamo che i movimenti naturali della
volontà hanno per causa Dio medesimo, Dio che agisce immediatamente come
autore e motore immanente di ogni natura. Ma quando la volontà è in Dio,
l'oggetto Dio la muove egualmente d'un moto immediato, questa volta nel
modo in cui ci muovono i nostri fini. Ecco dunque questa volontà presa
tra due motivi, l'uno e l'altro intimi ed irresistibili; ecco la sua
libertà di movimento assorbita nella Libertà creatrice, che in due sensi
la determina, dietro come agente e davanti come termine. ,:_.y"^;p^'w
' ' '
Se si aggiunge che l'oggetto della
Libertà sovrana non è altro che il Bene divino amato per se stesso, e
che il principio motore di cui si parla è identico a Dio, ecco l'essere
creato impegnato con tutte le sue potenze nella vita di Dio, teso verso
Dio, nella gioia del nirvana — ma dì un nirvana cristiano — il quale
non è un'evanescenza o una dissoluzione della persona, bensì la più
ricca e perfetta maturazione nel seno di Colui che tutto crea e tutto dona
a se stesso.
-¥-
Torniamo ora sulla ferra a ritrovare la
libertà, la quale, partita dalla necessità e in marcia verso la
necessità, non segue tuttavia la strada di questa. La schiavitù o, per
meglio dire, la fedeltà al
170
servizio del Sommo Bene, rende la libertà
più indipendente al confronto di tutto il resto. Fatta per questo alto
ideale, essa potrà tacciar d'insufficienza e sdegnare, lasciandolo al suo
nulla, tutto ciò che non è quello. Anche se crederà di riconoscervelo,
decidendosi allora per ciò che glielo rappresenta, ne fa le veci e lo
serve, o parrebbe servirlo, ciò avverrà sempre per una scelta cosciente
: nulla può forzarla ad abdicare, perché nulla eguaglia in potere di
soddisfazione ciò che essa porta in sé come potere di desiderio, e
perché, divinità avviata verso dimore di luce, essa può sempre trattare
come baracconi da fiera i più sontuosi palazzi.
Quando noi apriamo le braccia, è per
richiuderle sull'immenso; tutto ciò che ci trattiene non è in verità
che un simbolo di ciò che noi cerchiamo, e non è che per una specie di
decreto arbitrario, cioè di libero decreto, che noi accordiamo a
checchessia un potere di convinzione sulla nostra intelligenza pratica e,
come conseguenza, una signoria sul nostro cuore, ^^s^
La nostra intelligenza è uguale al Vero,
cioè all'Essere dal punto di vista del suo valore conoscibile, e la
nostra volontà è uguale al Bene, cioè all'Essere dal punto di vista del
suo valore di vita. La determinazione profonda di quest'ultima potenza, di
cui la prima è guida, tende dunque solamente a ciò che esprime l'essere
ed il bene allo
171
•«tato perfetto e al cui confronto ogni
altro oggetto è così inferiore che non la saprebbe vincere. Il bene
assoluto la orienta, mentre tutto il resto la lascia in sospeso, ma sempre
padrona del gesto. Di là viene, a ben pensarci, l'insaziabilità del
cuore umano; là si fondano i nostri destini; là è il segreto di ciò
che si chiama Ubero arbitrio.
Noi soli, nella natura, possediamo questo
misterioso potere. Ogni cosa creata tende verso il proprio bene, ma
l'essere inanimato tende con impulso cieco, e l'animale, anche se sa dove
va, non scorge il bene che l'attira in altro modo che al concreto, in
quanto esso non ne ha la nozione, non sa che cosa è il bene, non
sa cosa è fine, mezzo, ricerca, ideale: è dunque senz'armi di fronte
alla natura che lo spinge.
A differenza di questi fratelli inferiori,
la cui condizione si ritrova, a dire il vero, anche nel profondo del suo
essere, l'uomo è messo in onore :
corpo greggio per le azioni e reazioni
fisiche, vegetale e animale per altri rapporti, egli è in più una natura
intelligente. E-ciò significa non solo che egli conosce l'oggetto buono e
desiderabile, ma la ragione stessa dell'essere buono, e può misurare i
gradi del bene. Egli ha una norma, infatti, che è l'idea di bene in tutta
la sua ampiezza, per cui egli può non soltanto giudicare e dire:
questo è buono (ciò che fa anche la
bestia) ma anche, in seguito, ricordarsi del suo giudizio e
172
farsene ij. giudice, il quale non sarà
prevenuto fer natura in favore d'una soluzione resa ineluttabile,
ma possiederà l'idea di giustizia col potere di confermarvi il suo
verdetto.
Qui sta la sorgente del libero arbitrio.
Ne segue che son dotati di libero arbitrio solo coloro che sono provvisti
della facoltà delle idee generali;
ma questi ultimi lo possiedono
infallibilmente e ne gioiscono in tutte le circostanze, quando questa loro
facoltà non sia menomata da una malattia mentale o dal sonno, da
distrazioni inevitabili o dalla sorpresa. L'uomo ha questo di
meraviglioso, come potere conoscente, che egli non è unicamente uno
specchio del mondo. Se non fosse che uno specchio, la sua azione non
sarebbe che un riflesso, che l'azione segue il conoscere. La mucca di Hugo,
che sogna nel prato, e che rappresenta al poeta la natura fisica, capta
impressioni e forme che traduce in gesti : essa conosce, giudica e va. Ma
ciò che essa assorbe di idealità diffusa dappertutto nel mondo, è in
lei come un'acqua che segue il suo corso : la bestia non reagisce affatto,
non pensa il suo pensiero oscuro, ne lo giudica, non riflette ne fa alcun
paragone tra ciò che riceve e ciò che potrebbe ricevere, tra ciò di cui
essa giudica istintivamente e ciò di cui invece potrebbe giudicare se
spiritualmente lo ruminasse, come materialmente rumina il fieno che la
nutre. Essa va dunque fatalmente là dove la
m
spingono il gioco delle immagini e
l'attrazione del desiderio, che è unico e dominante.
L'uomo è altra cosa, e tutta diversa la
legge del suo cammino. E' un creatore dell'idealità;
dopo aver ricevuto informazioni da ogni
parte, egli stesso s'informa, reagisce spiritualmente su se stesso; non
giudica solamente, ma si giudica; non ha unicamente istinti, ma
pensieri, i quali valutano tali istinti e, valutandoli, li dominano. Può
ben qualificarsi come essere di desiderio, ma egli non seguirà ciecamente
il primo venuto dei desideri, ne lo stesso desiderio dominante, ne un
desiderio qualunque, ad eccezione di quello che lo definisce nel suo
intimo, e che è il desiderio senza limiti, quello cioè del Bene Supremo.
C'è una specie d'infinità che, nello
stesso tempo, reca beneficio alla nostra azione e ci carica di
responsabilità terribili. La nostra anima ha una profondità d'abisso,
alla quale corrispondono soltanto i beni infiniti. Come la natura è in
noi, così sono in noi l'immensità e l'eternità. La nostra anima
immateriale, sorpassando il corpo che gode dei poteri di lei, sorpassa
allo stesso modo quel prolungamento del corpo che è la natura fisica, e
non è trascinata affatto dai movimenti di questa, ma sta nel proprio
ciclo e si dona da se stessa il suo carattere morale. Nella sua eternità,
essa utilizza il tempo che preparò il suo atto e prepara il tempo in cui
esso si svilupperà, ma in
W
questa preparazione ed in quella
utilizzazione essa è sola. Insondabile segreto, che spiegherebbe, se
potessimo penetrarlo, i nostri destini meravigliosi e funesti.
Può sempre capitare che. questo infinito
potere della nostra libertà ceda di fronte alla più meschina delle
forze, e possa derivare le proprie decisioni da non importa quale oggetto;
perché, come dicevamo, il più piccolo dei beni, se lo si illumina della
nozione vittoriosa di felicità, può esercitare il potere di
quest'ultima. Il minimo frammento di vetro, veduto da lontano secondo una
certa incidenza, può sembrar quasi un sole. Siccome nulla eguaglia la
piena felicità, tutto può sembrare che la eguagli, se può assumerne il
volto. La nostra potenza d'illusione possiede una collezione di queste
maschere, e in verità noi siamo esperti, qualche volta fino al ridicolo,
nell'arte di trasformare il più povero degli esseri in una divinità.
Ora, una volta operata la trasformazione, sia liberamente, sia per uno di
quegli accidenti dei quali abbiamo parlato più sopra, le conseguenze non
mancano.
Eppure, anche quando accade che io,
liberamente e accecato di mia mano, crei l'illusione, io resto ancora
padrone di me stesso : nessuna circostanza mi trascina, se non quella che
io stesso ho creato. Sono io che fornisco armi al vincitore, cioè al bene
che io stesso ho incoronato, e che mi
^5
vince perché, per mezzo mio, è divenuto
grande quanto me e, — nel caso in cui sia un bene inferiore e indegno
dell'uomo —, esso non riveste che una falsa e pericolosa maestà, della
quale tuttavia divento vittima.
Abbiamo notato che alla sostituzione di
valori, in ragione della quale io cedo il passo a un motivo in sé
miserabile, s'accompagna subito una forza d'attrazione paragonabile a
quella che esercita l'infinito stesso. Ciò significa che, dopo la scelta
del motivo vincitore, la necessità, che decisamente ci spia da tutte le
parti, riprende i suoi diritti. £ inratti, ottenuto quel punto di
partenza, essa provoca in primo luogo la nostra decisione, quindi ci porta
aUa esecuzione e, infine, essa stessa svolge, senza che noi possiamo
nulla, la serie delle conseguenze.
E' spaventoso pensare che noi possiamo
così gettarci, con lucidità piena, in braccio alla cieca fatalità.
Siamo talmente degli esseri di luce, che anche una falsa luce creata da
noi ci affascina.
Un accecamento sicuro è nella passione
peccaminosa. S'io non fossi accecato, io che aspiro con tutte le forze del
mio essere al bene, potrei correre a ciò che è il mio male? Eppure io vi
corro, e so di corrervi, e voglio corrervi, quantunque io non voglia, in
fondo, quello ch'io mi
176
lascio andare a volere, ingannandomi con
una satanica chiaroveggenza. « Io me ne andavo, volendo, verso ciò che
non volevo », scrive sant'Agostino.
Camminando così nella dirczione opposta a
tutto ciò ch'io cerco con aspro volere in questa vita, io so bene
d'essere pazzo: ben valuto infatti ciò che guadagno e ciò che perdo, e
non ignoro affatto la scommessa pascaliana, e ho ben capito
l'evangelico « che serve all'uomo guadagnar l'universo, se poi perde
l'anima? » e ci credo e taccerò magari di pazzia e di frenesia
chiunque agirà come me (e può darsi anzi ch'io lo faccia già ogni
giorno, con convinzione e con zelo); ma con tutto ciò io non mi ravvedo :
il giudizio della mia saggezza è senza forza e io me ne scosto
liberamente, dolorosamente, forse, se sono un novizio del peccato,
gioiosamente, forse, se sono indurito, me ne scosto e me ne fabbrico un
altro, di cui affido la confezione alla passione od al vizio, e quello
dice : Occorre godere, occorre pigliarsi la tal soddisfazione o liberarsi
dal tal dovere, occorre vincere al gioco dell'esistenza. Io mi affido
allora a quest'ultimo giudizio, senza tuttavia che il primo cessi di
essermi presente e di avere la mia approvazione. Ed è così infine che,
praticamente, io giudico cosa buona compiere un'azione che è gravida di
catastrofi morali, e ch'io decreto, in altre parole, la mia infelicità.
. W
Io agisco in tal modo perché ho offuscato
la mia luce, perché ho chiamato le nebbie in soccorso alla mia passione e
contro la mia ragione, incaricandole di nascondermi l'avvenire di sventura
e il presente di vergogna, dopo di che io entro a occhi chiusi nella
fatalità, m'attacco al collo la macina di mulino che mi precipiterà nel
mare. ^:^\^^ ^:::\^.' '',:;•:;
Poiché è così purtroppo! La mia caduta
nel male è ormai divenuta fatale, mentre era libera nello stato
precedente, e io, posta la premessa, non sfuggirò più a una conclusione
che la natura m'impone nel nome dell'altra premessa. Infatti io non posso
fuggire la felicità, e quando dico a me stesso, liberamente : — Questa
è la felicità —, io vi corro. Una volta che tale giudizio è stato
formulato, e formulato da me stesso, è inevitabile ch'io lo debba
seguire. Dove attingerei la forza di resistergli? Forse dalla riflessione?
Ma allora quel che credevo l'ultimo giudizio, ultimo in realtà non era. O
forse potrei resistergli inconsciamente ? Ma in tal caso la mia azione non
avrebbe più alcun carattere morale. La mia ultima decisione non è che il
peso del mio ultimo giudizio, determinato il quale essa resta allo stesso
modo determinata, e non soffre più ostacoli.
Si troverà forse strano e moralmente
disdicevole che noi siamo così schiavi della luce? Ma essere schiavi
della luce, quando siamo noi a cer-
178
caria, è essere semplicemente schiavi di
noi stessi, cioè essere liberi. Non si tratta qui di attenuare la nostra
libertà, ma di dire dov'essa si trova. Perché orniamo la libertà
intcriore col nome di libero arbitrio, se non perché essa consiste nel-Y
arbitrare, cioè nel giudicare in maniera esente da qual siasi
costrizione? Eppure una volta giudicato, una volta espresso, cioè, un
ultimo giudizio, il caso sfugge al libero arbitrio, perché sfugge ad ogni
arbitrio, e rientra nella necessità che è la legge di ogni atto avente
tutte le sue condizioni. Una volta poste quest'ultime, il fatto segue: è
una regola universale.
E come è necessario ch'io decida ciò che
io ho voluto considerare finalmente come buono, così è necessario che,
salvo impedimenti da me indipendenti, io segua questa decisione e la ponga
nella realtà esteriore. Io osservo in me una disposizione di forze che la
mia libertà può ben mettere in moto, ma che, nei loro legami, sono da me
indipendenti e obbedienti al determinismo. Come l'apprendista stregone,
noi conosciamo la parola che scatena le potenze fatali, ma non quella che
le richiama.
Quando la nostra libertà sceglie, la sua
scelta determina in tutta la persona un cambiamento di dirczione delle
forze; il regime di vita intcriore risulta modificato; altro è diventato
il clima dell'universo congiunto, e ne seguono effetti che più
^79
nessuno arresta, ad eccezione di un nuòvo
verdetto, pur che non sia pronunciato troppo tardi. L'anima pensante e
volente si prolunga nelle immagini e nei poteri sensibili e, questi, a
loro volta, nel sistema di leve e di fili di cui è composta la macchina
fìsica: una volta libera la corrente, la esecuzione segue, come in un
meccanismo imperioso.
Se nessuna libertà esiste dunque tra la
decisione e l'azione, così come non ce n'era tra il giudizio ultimo e la
decisione, ce ne sarà tra la esecuzione e le sue conseguenze? Ce ne sarà
ancora meno, perché nei due casi precedenti tutto avveniva in me, e ben
si poteva supporre, quantunque a torto, che la mia iniziativa fosse
sovrana, mentre qui io sono assente: il masso precipita per la china e
sempre più s'allontana da colui che l'ha urtato; il ghiaione e le pietre
ch'esso trascina ne trascinano altre a loro volta; la slavina s'allarga e
che cosa posso fare io per arrestare questo sorprendente sviluppo della
mia azione? ,
Non si deve però dimenticare che la
responsabilità così assunta, può essere assolta dal mio pentimento.
Nell'universo morale nulla è irrimediabile. Da ciò che non posso più
fermare, posso svincolarmi moralmente, perché posso rimetterlo a Dio, la
cui provvidenza è così potente da utilizzarlo e così indulgente da
assolverlo. Ma, fino a questo momento, io devo rispondere di effetti per
180
così dire illimitati; perché nessuno
può misurare, in un mondo dove tutto è legato e tutti sono solidali, le
conseguenze di un atto. Esse arrivano fino all'eternità e si estendono
nell'immenso : solo le grandi assise annunciate per la fine dei tempi
potranno mostrarne l'intero corso.
La situazione dell'uomo nella natura è,
perciò, unica e ben pericolosa, ma nello stesso tempo è di un'esaltante
grandezza. Solo in noi può esserci una contraddizione tra ciò che deve
essere e ciò che sarà, tra la legge e il fatto. Le forze naturali non
hanno scelta : esse seguono sempre la loro legge, sfruttano sempre in
meglio le risorse che nascondono e senza fretta realizzano i loro effetti
con ingenuità e rettitudine, ciascuna cosa essendo quella che è nel
farsi atto. Noi soli abbiamo la potenza inebriante di sviarci, potenza di
cui purtroppo largamente approfittiamo.' ; -;^; : ^
E' pur vero che ci sono nella natura degli
accidenti, cioè degli incontri di forze, che non rispondono ad alcuna
legge e danno luogo ad apparenti disordini; ma è anche vero che queste
fatalità sono senza causa propria, nessun agente naturale tendendovi per
sua iniziativa o consacrandovi le sue energie. Al contrario, siamo noi
stessi che ci proponiamo la realizzazione del male e che impegniamo per
essa in certi giorni tutte le
181
nostre forze: noi, gli incidenti, li
provochiamo, laddove la natura non fa che subirli. E' un uso della
libertà che ci accusa e spesso ci opprime e, alla fine, deve sempre
opprimerci, perché ogni disordine è provvisorio e i suoi fautori sono
sicuri di subire il contraccolpo.
Ogni potere ha una legge, e l'effetto
proprio della legge è la responsabilità : dal momento che noi possiamo,
noi dobbiamo e dovremo rispondere. La necessità fisica o psicologica non
ci lascia che per fare posto alla necessità morale. Il fatto non è il
diritto, ne la libertà è data all'uomo perché egli ne faccia un uso
qualunque. La libertà non è un fine, ma un mezzo : essa è donata
all'uomo per l'uomo e per i fini dell'uomo, per Dio e per i fini di Dio.
Quando noi agiamo bene, noi applichiamo la libertà a ciò per cui essa è
fatta e la trattiamo secondo la sua natura profonda, la trattiamo cioè
come mezzo umano e come mezzo universale. Ed è allora che noi siamo
veramente liberi, quando usiamo della libertà nello stesso senso della
libertà e secondo il suo destino, non in senso contrario. Il buon uso
d'una cosa non mette forse in evidenza la natura intima della cosa stessa
e non la serve, mentre l'abuso di essa la travisa e la sfigura?
La libertà di ogni cosa è nel suo
assoggettamento alla legge. La libertà dell'intelligenza è nella
sottomissione di questa alla verità e nella do-
cilità nei riguardi di ciò che è, di
modo che essa assolve al suo compito e raggiunge il fine che, come
intelligenza, le è stato assegnato. La libertà dei movimenti del corpo
consiste nello svolgersi di questi secondo linee determinate dalla nostra
costituzione anatomica e dagli effetti che se ne desiderano, come la
marcia, il salto, la danza, la mimica espressiva. Anche l'arte è libera,
quando obbedisce alle proprie regole e le applica con una certezza che noi
chiamiamo non solamente libertà, ma padronanza.
In tutte le cose, infatti, che cos'è un
vero padrone se non un esatto servitore? Ciò che rende forti e liberi, è
perciò la buona e sana obbe-dienza alla legge. Quando sfuggo alla legge o
pretendo staccarmene strappando le redini alla Saggezza, mi eredo libero e
padrone di me stesso mentre in realtà mi sono dato in braccio a potenze
anarchiche ed ostili, e agisco come l'animale;
non sono più io che sono libero, ma è il
mondo ed è la natura: ciò che mi muove è la mia passione, cioè il mio
corpo, la mia eredità biologica, il tempo che fa, le circostanze che
passano, gli oggetti che mi attirano; tutto, tutto eccetto me. Sono un
fuscello nella bufera, sottratto alla mia inclinazione naturale, lontano
dalla corrente regolare che mi proteggeva sostenendomi e difendendomi
dall'abisso.
Al contrario, quando sono nella mia legge,
r83
che è una parte della legge delle cose,
ed è accordata da parte di Dio a tutto l'universo, io sono custodito in
questo grande ordine, e mi ci posso evolvere senza pericolo, poiché tutto
l'essere è mio testimonio, mio garante, mio difensore, e il Principio
dell'ordine mi assiste.;
Anzi, non solo mi assiste, perché io sono
suo collaboratore, ma mi associa- al suo regno. La mia libertà, figlia di
quella di Dio, non è veramente al suo posto se non quando si ricongiunge,
nella sottomissione, alla Libertà prima; essa allora si sottrae a tutto
il resto, e questa sua unica subordinazione, che è un concorso ed
un'amichevole associazione, la corona. In questo senso san Paolo ha potuto
dire: ((Servire Dio è regnare-», e Seneca, osservando che il
giusto impiego delle nostre energie è una liberazione : « Obbedire a Dio
è la libertà. »
Tutto ciò è talmente vero, che alcuni
filosofi si sono domandati come poteva darsi che una libera ragione, la
quale per se stessa è serva del bene e strumento dell'ordine, potesse mai
venir meno. Era il « dubbio » di Socrate; Kant non vi risponde che con
balbettii, e la maggior parte dei pensatori vi si smarriscono : così
Cartesio e così Leibniz.
Per san Tommaso, ciò si spiega con la
mescolanza di materia che s'introduce,sotto il nome
184
<tt di sensibilità, d'immaginazione,
di fantasmi intcriori, nel funzionamento della ragione. Parlando in
generale, la conoscenza guida l'azione; ma, di fatto, ci sono in noi due
principi di conoscenza, gli oggetti dei quali sono ben diversi. La ragione
ci presenta la legge in forma astratta; la sensibilità invece è legata
ai suoi oggetti per mezzo di intuizioni, e l'intuizione ci avvince in
altro modo che non il concetto. Abbiamo già descritto questa lotta e
misurato la nostra debolezza, (i)
In verità ciò che ci è impossibile
moralmente dovrebb'esserci più impossibile di quel che ci è impossibile
tìsicamente; il necessario morale do-vrebb'essere ai nostri occhi più
necessario ancora del necessario puro e semplice. Il morale non ha forse
per lo spirito più peso di quanto non possa avere il fisico, sia per se
stesso che, a più forte ragione, per lo spirito? Il fatale non è che
fatale, mentre il necessario morale è obbligato : e l'ob-bligazione non
è forse la più alta fatalità dello spirito? Ed è qui che lo spirito,
appunto, si riconosce. Là dove esso è costretto da se stessp, non
(i) San Tommaso oppone a questo caso
quello dello spirito puro, che, di fronte al bene proporzionato alla sua
natura, è impeccabile; poiché la sua intelligenza percepisce senza
contraddizione e senza lotta l'evidenza del bene e la sua convenienza per
così dire infinita e per ciò costringente. Non è che di fronte al
soprannaturale, ove si ritrova a un livello più elevato la dualità più
sopra descritta, che l'angelo può peccare. Noi, invece, possiamo peccare
in tutto; ma il potere, ancora una volta, non è la nostra regola. . .
^5
è che natura; là dove è trascinato
dalla carne, è natura bruta, come la pietra che cade : esso è spirito
unicamente quando la sua legge lo determina a fare qualcosa e non a
subirla. Questo è il segno della sua regalità, sotto la regalità
sovrana.
-^
Nel grande conflitto fra la libertà e la
necessità in noi, la regola è dunque di consentire alla necessità, dove
essa è voluta per se stessa (come quando si tratta del nostro amore del
bene in generale e della felicità), e di utilizzarla liberamente,
facendola così rientrare nella legge, là ove essa ci è proposta sotto
forma di tendenze ereditarie, accidentali, morbose, ecc.
La necessità è in noi al servizio della
libertà, e perciò essa, nella misura in cui è contraria a quest'ultima,
deve venire sottomessa. Se io lo voglio, la necessità stessa vorrà ciò
ch'io voglio: e io devo volerlo, sotto pena di non essere più uomo, così
come l'umanità intera deve volerlo, sotto pena di mancare alla sua
vocazione sulla terra e di ricadere sotto l'influenza delle forze
cosmiche.
La civiltà, allo stesso modo della vita
morale, non è che l'esercizio di questo volere e l'affermarsi del regno
dell'anima sulle necessità che l'assediano. Che cosa c'è di più
necessario della caduta dei corpi, delle combinazioni degli atomi, del-
i?$
l'espansione o della condensazione dei
flutti, della corsa del torrente o della marea del mare? E tuttavia la
libertà se ne impossessa e ne fa una forza umana. Proporzionalmente alla
nostra scienza e alla nostra applicazione, noi governiamo la terra come i
nostri corpi : noi diciamo « vieni » a ciò che va, diciamo «sali» a
ciò che cade, e il più pesante dell'aria naviga nell'aria, e il
torrente risale con la turbina, ed il mare servirà a più vasti disegni.
.•^^^?t;':--»';A':-:;.. ;..?
L'arte morale ha eguali segreti. Le
passioni cieche e fatali hanno organi di trazione che permettono di
legarle allo spirito: e ciò conviene per il loro stesso bene, perché
esse non hanno una sorte a parte, ma hanno la medesima sorte dell'uomo e,
nell'unità dell'uomo che è principalmente spirito , esse hanno la sorte
dello spirito. Subordinarle, è liberarle. Come noi regniamo in virtù
della sottomissione a Dio, così i nostri poteri inferiori regnano o
regneranno un giorno in virtù della loro sottomissione all'anima nostra.
Ogni salvezza è, in tutti i gradi, dal più alto al più basso,
nell'ordine secondo cui Dio ha mirabilmente disposto l'opera sua.
Sarebbe utilissimo notare come gli altri
impieghi della libertà dipendano da questo, e come la civiltà, della
quale ora parlavamo per mostrarla in diretta dipendenza dal libero
arbitrio, sia, per
^ . 187
questo fatto, in diretta dipendenza dalla
morale. Molti non vogliono convincersi di questo; ma ciò che è si cura
poco di ciò che si vede; il reale continua il suo cammino. La prima
creazione dell'uomo, è l'uomo; se egli trascura questa creazione, le
altre sono in pericolo. Noi non agiamo sul mondo che agendo su noi stessi,
e la nostra azione sul mondo non è feconda se non abbiamo messo in ordine
anzitutto la nostra casa. Parlo della casa segreta, intima, prima che
della casa familiare. La società si costruisce partendo dal di dentro; la
civiltà raggiunge le sue conquiste solo seguendo questa via. E' così che
nell'atto della libertà si concentra tutta la vita umana, e regolare la
libertà con la subordinazione delle fatalità intcriori, è regolare
tutto.
Tale è la via che Dio ci ha aperto verso
ascensioni illimitate. Le cadute vi sono facili, come in tutte le imprese
eroiche e arrischiate; ma le vittorie diventano più trionfali, e la
flessibilità stessa di questa audace libertà permette a quest'ultima
riabilitazioni talvolta più gloriose della sua stessa integrità. D'una
perdita essa fa sovente un miglior guadagno. Il bilancere utilizza per
raddrizzarsi la sua potenza di caduta; quando il pianeta corre verso il
sole come se vi si volesse dissolvere, non fa che preparare la curva
armoniosa che lo lancia più lontano.
i8§
Del resto, lo sforzo necessario per
subordinare in noi la fatalità, non va indefinitamente ripreso allo
stesso livello e nelle stesse identiche condizioni, ma s'alleggerisce di
mano in mano che si sviluppa. Soppravvengono delle abitudini, e noi
sappiamo, da ciò che sono le abitudini perverse, quello che possono
essere le abitudini virtuose. r^; •:,^ ^;.
Le abitudini perverse sono la fatalità,
che appesantisce la fatalità stessa, in seguito ad una colpevole
abdicazione della libertà prima. C'è un modo di lasciarsi andare, che
incatena in noi l'angelo alla bestia, poi la bestia alla bestia che
sprofonderà sempre più in basso. Un'inesorabile smania di ripetere la
conoscenza del male precipita le cadute come l'acqua delle cascate e la
massa delle valanghe. I vapori del corpo ottenebrano progressivamente i
principi generali che dirigono l'azione. Le più chiare evidenze si
oscurano, finché la notte sarà completa quanto il male, vale a dire
finché il vizio sarà interamente corrotto e la schiavitù del vizio
completamente sistematizzata. E sarà allora, naturalmente, che il vizioso
si crederà sovranamente libero. Ma quale atroce libertà è quella di chi
non sente d'essere in catene ! « Nulla è più ripugnante, scrive Emerson,
che sentire la libertà cantata dagli schiavi! »
E' vero tuttavia che la molteplicità
delle attrattive peccaminose pare dover apportare qualche
189
rimedio a questo contrasto. Le diverse
passioni si combattono tra loro come, nell' interno di una stessa
passione, si combattono gli oggetti successivi di cui essa si pasce e le
circostanze varie che essa attraversa. Il male non è uno, e l'esperienza
dolorosa delle opposizioni che contiene e di quelle che crea, può
contribuire al ritorno del peccatore.
Ma, d'altra parte, questa dispersione
degli affetti dell'uomo non è forse una miseria ed una specie di
distruzione del suo essere? Noi siamo in armonia, ed il nostro ideale è
l'accordo di tutto sotto la legge dell'anima, e dei poteri dell'anima
sotto la legge di Dio. Lasciar disperdere questo ordine per l'attrazione
degli oggetti sottomessi al tempo, è uno sviarci spiritualmente e un
umiliare in noi il Dio Uno di cui siamo immagine. Il peccatore è uno
schiavo ebete che s'appiglia a tutti i cespugli e si disseta a tutte le
pozze; l'uomo virtuoso è un libero artista, la cui opera d'arte è il suo
stesso essere e, attraverso il suo essere, i suoi oggetti, i quali son
tutti accordati, come lui stesso, a un'euritmia celeste. ;
Si consideri il caso opposto a quello
delle abitudini peccaminose, e l'abitudine virtuosa rivelerà il suo
valore. Grazie ad essa, una certa necessità verrà in soccorso del bene
per assicurarne il ritorno, per fare di lui, come un modo d'essere, una
qualità inerente, una buona disposizione,
190
per fissarlo in una specie di
determinismo, tuttavia sempre fragile, e per renderlo, divenuto così
un'inclinazione, facile e sereno come tutto ciò che appartiene alla
natura.
La terra non delibera per girare attorno
al sole, ma, se fosse cosciente, sentirebbe l'ardente impulso che
determina la sua orbita, e il suo giro vivificante sarebbe uno slancio
gioioso. Succede lo stesso con l'arte : nella misura stessa in cui
progredisce, essa acquista la sicurezza e la naturalezza di un
determinismo. Il pianista incorpora una necessità nelle dita, il
danzatore nei piedi, l'attore nel viso: l'uomo morale e il cristiano
tentano d'incorporarne una nell'anima.
Un'anima virtuosa è così sospinta dal di
dentro e trascinata verso il bene da una libera violenza. Essa si sa
sempre in pericolo, ed è per questo che, continuando a vegliare, domanda
a Dio la perseveranza come un beneficio supremo; ma nel tiepido e nel
vizioso, essa è ferma ed inerte, mentre il suo ideale sarebbe invece
d'eguagliare in fedeltà le forze della natura.
Lequier aveva trovato, per esprimere
questo ideale, una formula sottile : « Non divenire, diceva, ma fare,
e facendo, farsi.,» Per mezzo della virtù abituale ci si fa,
cioè si acquistano disposizioni che sono come una forma di esistenza.
Allo stesso modo che il corpo funziona da solo in tutto ciò che è
essenziale alla vita, l'anima tende, at-
191
traverso la virtù, a funzionare da sola
in tutto ciò che è essenziale al bene. La necessità passa dal corpo
all'anima, come la libertà dell'anima si comunica al corpo: l'anima
diventa organica ed il corpo obbediente.
Non deve meravigliare che ogni libertà
possa divenire così necessità ed ogni necessità libertà, in quanto il
principio di entrambe è uno : l'armonia del nostro essere, nello stesso
tempo determinato e autonomo. C'è una libertà del necessario e una
necessità del libero; la natura inferiore può divenire spirito e lo
spirito natura. Una tendenza si subordina alla legge morale e la legge
morale diventa una tendenza. La buona azione che noi allora compiremo, si
compirà, per così dire, da se stessa, ove prima era compiuta da noi.
Nel caso estremo, come il vizioso,
dicevamo, sarebbe interamente corrotto e la sua schiavitù totalmente
sistematizzata, così l'uomo virtuoso sarebbe confermato in virtù,
confermato in grazia, come si dice nel linguaggio cristiano, e, di spirito
come di fatto, egli sarebbe impeccabile. Disgraziatamente in questo e
fortunatamente nell'altro, tale limite non si raggiunge in questo mondo.
In sé e nell'ordine normale delle cose, il vizio è un male che cresce
eternamente, è la virtù è un bene che eternamente cresce; ma questo
crescere regolare è teorico piuttosto che effettivo. La logica perfetta
del bene e del male non è una cosa
^
del tempo, polche il tempo nasconde
un'illogicità fondamentale che coincide con la mutabilità della materia.
Per questa ragione, il peccatore può
sempre convertirsi e il santo può sempre cadere. Il perfetto e il
definitivo sono dell'ai di là, e non si precipita per sempre se non dopo
che ci ha coperto la pietra della tomba. Allora l'uno cade nell'abisso,
mentre l'altro spazia nel ciclo.
^& .
Una importante considerazione va fatta a
questo punto. Certuni pensano che l'abitudine virtuosa, una volta
ottenuta, e la facilità degli atti che ne risulta, al punto che questi
atti divengono quasi necessari, diminuiscano il merito. Ed altri — o
meglio ancora gli stessi — pensano che l'abitudine viziosa una volta
presa, essendo allora il peccatore quasi trascinato da una fatalità,
diminuisca la malizia. Nei due casi è palese un'aberrazione di eguai
sorta. S-"^ ? .
Se un pianista è talmente bravo che le
sue dita scorrono, per così dire, da sole, il suo merito artistico
ne risulta forse diminuito? Se, al contrario, egli le ha rovinate fino a
renderle inadatte, lo si scuserà? Il merito artistico è in rapporto col
merito morale, e vivere è pure un'arte. Colui che si corrompe
scientemente, rinnova, a ogni atto
i93
che lo corrompe, la propria
responsabilità corrom-pitrice. Colui che si forma virtuosamente, rinnova,
a ogni atto, il merito del proprio progresso. Più si avanza nei due
sensi; più la distanza cresce tra il merito e la colpa, come tra la
virtù ed il vizio :
sarebbe strano davvero che il loro
rincrudirsi potesse avvicinarli! : -.^ -.-,;;
Tuttavia, parlando così, si suppone che
la libertà rimanga d'accordo sia col progresso della virtù, che con
l'eccesso del vizio. Se l'uomo virtuoso traesse più piacere un giorno
dalle sue conquiste, queste perderebbero il loro carattere morale e non
sarebbero che un addestramento : quest'uomo, compiendo ormai il bene
facilmente, ha certo meno merito del novizio che fatica verso il meglio.
All'opposto, se l'uomo vizioso si stacca dal suo vizio, se si pente
d'essersi impantanato, se formula un buon proposito e si rimette
faticosamente in marcia verso la rettitudine, egli cambia completamente il
suo stato.
Ciò che noi dicevamo degli effetti del
male, sotto il nome di avvenimenti, è vero altresì del male. Il
convcrtito è, a riguardo del suo determinismo intcriore, il triste erede
di se stesso; la sua sorte è degna di compassione, e s'egli pecca più
facilmente di un altro, gli si deve indulgenza nella misura delle sue
propensioni, come si farebbe nei riguardi di un uomo difettoso dalla
nascita o male educato o ammalato. ^ :;
194
Una consuetudine di peccato, quando è
lasciata, è come una malattia superata e i cui segni persistono. Ma non
è nella materia cerebrale e nelle sue tendenze che si determina il nostro
valore reale, il nostro peso, la nostra portata eterna;
è nella sfera intcriore, nell'intimo
della coscienza liberata da tutte le condizioni da cui si è staccata.
Ora, la sfera morale di cui parlo, è purificata dalla conversione; le
brume non sono che in basso, sul bassofondo dell'anima, ed alla buona
volontà rinnovata è lasciato il tempo per liberarsene : nell'attesa, le
si fa credito e la si scusa per gli inevitabili ritardi.
Una simile dottrina però torna raramente
gradita all'istinto, perché l'istinto s'arresta al fatto, e perché noi,
al posto di fare riflessioni morali, pensiamo a noi stessi. Il male
commesso dagli altri pesa sovente su di noi; esso ci urta; esso ci sembra
— e lo è, in effetti -— -un pericolo comune, e noi saremmo portati,
istintivamente, ad applicare ad esso la legge di Lynch piuttosto che usare
misericordia. Ma l'istinto non dev'essere qui il giudice. D'altra parte,
nella realtà, il nostro egoismo è così indifferente al giusto ed
all'ingiusto, che un pericolo non è male se non quando vi soccombiamo noi
stessi.
Lasciamo dunque, al peccatore di ieri, il
beneficio di un ritorno necessariamente lento e, pertanto, più generoso
forse; tendiamo piuttosto
195
la mano a chi barcolla come un ferito. Col
tempo, le chiuse cicatrici possono divenire segni di valore e mezzi di
salvaguardia : un'abitudine peccaminosa, veramente vinta e definitivamente
lasciata, sta dietro a noi come un fascio di spine dalle cui punture ben
ci guarderemo : se ne prova una paura tale che la nostra spinta in avanti
ne viene aumentata.
Ci si vorrà scusare della complessità
dei casi. Le molteplici e minuziose considerazioni che lo studio del
problema posto esìge, provano sufficientemente fino a qual punto la
necessità e la libertà siano legate in noi. Il loro accordo è talvolta
meraviglioso, mentre altre volte il loro duello è tragico. Nell'insieme
dell'umanità, la libertà subisce tali scacchi, che certuni hanno creduto
di vedere in essa una forza del male. Tutto il peso del mondo grava su di
noi, ora per piegarci nel senso della nostra legge, che non è estranea
alla sua, ora anche per sviarci, il che deriva dalla diversità delle
circostanze, che in esso e in noi creano urti costanti. ;:<*:?'
Il conflitto è tale, tra la libertà e la
necessità disputantisi la nostra anima, che nessuno può prevederne
l'esito con certezza; e tuttavia, le abitudini virtuose da una parte e
dall'altra le tendenze naturali e, più di tutto, la naturale debolez-
196
za della libertà, offrono buone
probabilità agli scommettitori e lasciano aperto il pronostico.
Con piacere si presagisce ciò che farà
un uomo virtuoso nella tale circostanza, e abbastanza si può sapere ciò
che farà nella tal'altra un uomo vizioso: parlando in generale, si sa che
l'uomo è fragile, e, anche se non si crede più, come nell'antica
astrologia, che le figure del ciclo decidano di tutto ciò che avviene nel
mondo degli uomini, si è portati a pensare che, calcolando le
inclinazioni, se ne potrà tracciare il percorso. Ma bisogna qui guardarsi
dagli estremi, ove l'errore sarebbe eguale. ^ .
L'azione umana è infinitamente complessa
:
non tutto è in essa o solo caso o puro
arbitrio, come non tutto è determinazione. Una parte di determinismo
assicura i fondamenti delle scienze psicologiche e morali; una parte di
libertà imprevedibile e di caso le mette fuori strada. Insomma, l'azione
umana non può essere espressa da una equazione. Una scienza, anche
perfetta, non potrebbe sapere ne « il nome della Maschera di ferro »,
ne, in antecedenza, l'esito di una consultazione elettorale. Non ci può
essere, prima del fatto, scienza sicura di ciò che farà un uomo, nemmeno
di ciò che farà l'uomo. L'uomo farà ciò che vorrà, e. ciascun uomo fa
ciò che vuole, nei limiti sopra' descritti. Ogni circostanza definibile
è imprevedibile di fronte al libero volere, che la
197
domina con la sua potente e irriducibile
indeterminatezza.
In ogni caso, la lotta e serrata: la
libertà si batte aspramente, e la necessità, che alcune volte le
obbedisce, le dichiara sovente dura guerra. L'una e l'altra hanno tuttavia
il medesimo scopo;
ma, durante l'azione morale, la necessità
si mostra cieca e potente, la libertà chiaroveggente e debole.
Tocca alla libertà stessa di ristabilire
dolorosamente l'armonia : combattendo per sé essa combatte per l'uomo e,
nello stesso tempo, per la sua avversaria, poiché determinismo e libertà
non sono che i mezzi complementari per realizzare i suoi disegni e la
nostra felicità.
« I veri giorni di festa, diceva a se
stesso Epit-teto, son quelli in cui tu sei riuscito a vincere qualche
tentazione. » Con l'azione retta, noi prepariamo il trionfo della
libertà nella necessità eterna. L'azione stabilisce un'eguaglianza tra
ciò che essa fa e ciò che dal fatto essa attende, non solamente a titolo
immediato, ma nel totale; poiché ciascuna delle nostre azioni,
appartenendo a un vivente e a un candidato alla felicità, porta in se
stessa tutta la speranza della beatitudine e tutto lo slancio della vita.
L'azione buona è un legame tra la
beatitùdine in intenzione e la beatitudine in realtà: essa lega cioè la
necessità che ci lancia verso il fine
198
alla necessità di aderire a questo fine
quando esso ci accoglie. Da quel punto fìsso a quest'altro punto fisso,
l'azione buona, in quanto libera, lancia un agile ponte.
La libertà è soprattutto
un'intermediaria. Essa ha il suo posto nel fine, ma non a titolo
essenziale, poiché del fine non governa che ciò che non è il fine, vale
a dire il soprappiù d'azione che il possesso di Dio permette al di fuori
di se stesso. Il nirvana cristiano è una necessità e rappresenta il fine
vero, di cui la speranza che lo lega al primo desiderio ci dona la
caparra, procurando così all'azione virtuosa un frutto provvisorio e
coronando in anticipo la libertà.
LA RAGIONE E LA FEDE
-L'
armonia della libertà e della necessità, nella nostra vita spirituale,
basta a tutto, e nella sua generalità, come in quella della nostra
obbe-dienza alla voce intcriore, comprende tutti i casi;
ma, restando ancora nel campo del
pensiero, un'armonia particolare chiede di esser precisata e studiata
nelle sue difficoltà: quella della ragione e della fede.
San Tommaso introduce la questione notando
che ogni natura fa parte di complessi che le imprimono, oltre al suo
proprio movimento, un impulso più largo ed efficace. Il mare ha, sì, un
suo equilibrio e la legge delle maree, ma è dal ciclo che riceve il suo
flusso e il suo riflusso, i quali comunicano alle acque una specie di vita
astrale. I pianeti si muovono attorno al sole, ma una più vasta
attrazione li trascina con il sole in una traiettoria nuova, e così è di
tutto il resto.
201
Come natura corporale, l'uomo è
evidentemente sottomesso a questa legge, per cui gli scambi interni che
costituiscono la sua vita non gli impediscono di tenersi in relazione di
scambio con tutto l'universo, anzi, ve lo obbligano sotto pena di morte:
perché dunque, come spirito, non dovrebbe avere contatti sublimi? La
rivelazione cristiana ha per scopo di render noti tali contatti, di
precisarli, di mostrarne i rapporti con le nostre iniziative, fornendo
così una sorta di legge di funzionamento, che tutta l'attività cristiana
utilizzerà.
Il risultato sarà un ingresso
nell'intimità di Dio; ma questa intimità, come ogni conquista umana,
comporterà delle tappe. Ogni carriera presuppone una preparazione. Ciò
che noi dovremo un giorno vedere faccia a faccia e gustare senza sforzo,
è oggi proposto velato alla nostra acccttazione. Cammineremo con una luce
sufficiente a guidare i nostri passi e a stimolare i nostri desideri, ma,
ciononostante, abbastanza misteriosa per lasciar posto al libero merito.
" : % \ ? ^
Dio stesso si offre così a noi come
maestro e come guida, nell'attesa di offrirsi come premio. Per mezzo di
diversi intermediari, di cui il Cristo è il primo ed essenziale come
partecipante delle due nature da congiungere, ci vien presentata una legge
dello spirito, che diverrà legge di vita nella misura in cui la nostra
vita si accorderà all'invisibile. Se l'invisibile chiama e attira la
creatura
202
ragionevole, occorre che ciò avvenga
sotto gli auspici dell'ideale, perché è l'idea che regge ogni attività
cosciente. Dio agirà su di noi per mezzo della fede, come gli assenti per
mezzo del ricordo e della speranza, come il passato per mezzo della
tradizione e l'avvenire per mezzo dell'ideale.
In più, essendo l'avvenire sperato per
l'ai di là anzitutto ed essenzialmente conoscenza, poiché l'oggetto ne
è l'intelligibile ed il soggetto intelligente, le verità di fede che si
presentano alla volontà come regole, si presentano allo spirito come elementi
della scienza eterna, della quale noi siamo i discepoli prima ancora di
esserne i veggenti,
La fede è « l'argomento
dell'invisibile » (Ebr., XI, i); essa prova ciò che non si
può provare, e ci mostra ciò che non si può vedere; essa è la oscura
chiarezza d'un astro che si libra al fondo degli spazi; essa appartiene
alla conoscenza lontana che aspira a diventare conoscenza vicina; è un
pensiero relativo all'altro mondo, che vuoi divenire un pensiero in
quest'altro mondo, un pensiero in Dio, ma che già, per anticipazione, si
stabilisce nel suo oggetto e vi fa la sua dimora, ciò che faceva dire a
san Paolo : « La nostra conversazione, la nostra cittadinanza è
nei cicli ». (F;-l'tff., Ili, 20)
Per essere iniziati a un sapere sovrumano
è richiesta una disciplina sovrumana, così come per raggiungere uno
scopo sovrumano occorre una so-
203
vrumana condotta : nella sua parte
teorica, la fede è l'abbicì del divino sapere, è la guida nel cammino:
essa prende l'uomo per mano onde con-durlo fuori del tempo.
La natura mista della fede e il doppio
carattere del suo contenuto debbono essere chiariti. Il fatto che noi
veniamo trascinati in un'avventura celeste suppone, oltre alla
utilizzazione completa delle nostre forze, un apporto speciale di Colui
che ci invita a vincerci. Noi non ci si supera — lo abbiam detto più
volte — se non ci è dato un soccorso. Ci occorre un supplemento di
attività spirituale e, nello stesso tempo, corporale; dovendo poi questa
attività scaturire dal di dentro, al posto di una perpetua spinta
dall'esterno, ci occorre un supplemento di creazione. Dobbiamo venire
ricreati in tutte le nostre attività, e questo è il compito della
grazia; dobbiamo venire ricreati specialmente dal punto di vista del
pensiero, e questa è la virtù, o il dono, della fede.
Si rimane estasiati davanti al mistero
della creazione; ma la ricreazione spirituale è un mistero ben maggiore,
dato che essa viene da Dio considerato nelle sue intimità, mentre l'altra
riguarda soltanto le relazioni che Dio ha fuori di sé. Il soprannaturale,
in noi, ha questo significato e anch'esso sarà dunque, necessariamente,
un oggetto di fede, come il Dio intimo e tutto ciò che vi si riferisce.
204
Per esprimerci più semplicemente, si
potrebbe dire : il motore divino e il mobile umano, l'uno e l'altro
misteriosi in se stessi o nel loro punto di contatto, devono divenire
l'oggetto d'un insegnamento che ce ne informi. La fede è come il lampo
che s'accende tra il ciclo e la terra, in quanto appartiene a due universi
e li rivela entrambi dal lato in cui sono in rapporto. Nella fede c'è
l'uomo e c'è Dio, c'è questo mondo e c'è l'altro. Noi subiamo un
contatto del ciclo che ci rivela poteri che non conoscevamo. La fede
risveglia uno sguardo assonnato; essa suscita, in un essere umano, quasi
una creatura divina.
Eccoci ormai entrati in un'alleanza che
corrisponde alla nuova natura così sbocciata. Uno spazio spirituale è
creato: la fede lo percorre e ci pone in esso. Senza farci rinunciare a
nulla, se non all'errore ed al male, essa ci allontana dal visibile per
meglio esaltarci toccando l'invisibile, al quale essa comunica una « sostanza
». (Ebr., XI, i) La fede è come una astrazione, una negligenza
relativa, una parziale negazione di ciò che è vicino in favore di ciò
che, considerato in se stesso, è più vicino ancora, ma che sembrava
lontano. Essa crea in qualche modo per noi gli oggetti divini;
poiché Dio esiste forse per me, prima che
io ci creda? Se io infatti l'ignoro o lo misconosco, quell'unico Sole
lascia la mia anima alla notte eterna.
205
Occorre prendere piena coscienza di questo
incomparabile arricchimento. Coloro che pensano che la fede ci impoverisca
suppongono senza dubbio che il suo oggetto sia vano ! Allora, sì, noi ne
saremmo impoveriti, avendo negato relativamente e non avendo affermato che
chimere. Ma se la fede è fondata, si deve vedere in essa il punto di
partenza d'una proiezione della vita in una sfera più alta e più ricca.
La fede apre dinnanzi a noi spazi inesplorati, come la navigazione al
tempo delle prime conquiste sui mari, come l'aviazione moderna, come il
microscopio e il telescopio puntati sui due infiniti, con questa
differenza, che gli spazi nuovi aperti alla scienza sono omogenei al loro
punto di partenza, mentre quelli aperti dalla fede sono trascendenti.
La fede rinnova lo sguardo e, di
conseguenza, le nostre possibilità di fronte a Dio e a ciò che è di
Dio, di fronte a Dio e a ciò che riguarda Dio, in una parola, di fronte a
tutto, in ciò che tutto ha d'essenziale. La fede ci rivela un Creatore
più intimo, un universo più vasto, una umanità più profonda e un io
più ricco. Essa pone i nostri oggetti sul piano del trascendente; essa
tutto innalza al supremo. La ragione aspettava la fede per soddisfare il'
suo bisogno di raggiungere ciò che la sorpassava: per mezzo della fede
ora essa si sorpassa senza abdicare a nulla. La conoscenza umana era una
meta: ecco l'altra. La
206
spiegazione e la interpretazione delle
cose hanno trovato in essa il loro ultimo perché.
Ed io aggiungo che l'estensione della
verità così comunicata diviene totale; perché, se la vita è una nella
sua pluralità, una pure sarà la sua trasposizione sul piano superiore.
La fede accende per noi una luce che illumina i nostri cuori, le nostre
case, i nostri popoli, la natura misteriosa e la divinità fino allora
incomunicabile. Al di là della nostra esperienza e delle riflessioni nate
da questa, essa svela il soprannaturale immanente a tutto, preposto a
tutto e che il tutto deve assimilare in armonia con la propria natura. La
fede è fondatrice d'un universo, e in questo universo essa non può ora
introdurci che con la mediazione del mistero; ma il segreto del principio
e del fine, della legge fondamentale e del significato decisivo, vale, per
ciascuna cosa, più della chiarezza delle sue relazioni e della sua natura
temporali, della evidenza del suo niente.
D'altro lato, l'oggetto della fede, che è
necessariamente il soprannaturale, potrà essere, misericordiosamente, il
naturale stesso : in materia del tutto essenziale, dovrà esserlo, se il
soprannaturale vuole avere il suo punto d'appoggio sicuro e solido. Non
bisogna dimenticare che il soprannaturale e il naturale sono in rapporto,
in noi, ad un medesimo essere e, in Dio, a un medesimo Dio; essi sono in
continuità: se il naturale man-
207
casse o venisse falsato, il soprannaturale
ne subirebbe danno.
Ora, e ciò è risaputo, se il pensiero
umano è forte nel porre questioni, è debole invece nel trovare le
risposte. A proposito dei grandi problemi :
Dio, l'anima, l'origine ed il senso della
vita, i pensatori hanno messo innanzi, successivamente o tutti insieme, i
loro « sì », i loro « no », i loro «forse ». I filosofi non sanno
porre l'umanità che in una bella notte; ci presentano un ciclo
disseminato di luci fuggitive, ove il loro fuoco d'artificio seduce e si
spegne: e durante questo tempo l'umanità resta incerta nel cammino.
Felice carità del nostro Dio! La fede
viene a rischiarare il cammino della vita e a sorreggere la ragione nelle
sue fatiche. Nessun credente rimarrà sprovvisto di ciò che gli è
necessario; nessuno resterà nell'ambiguità e nell'errore; nessuno avrà
bisogno, per proseguire sicuro la sua via, di sobbarcarsi ad un lavoro
forse al disopra delle sue possibilità, forse — e così capita il più
delle volte — incompatibile con le necessità immediate e i bisogni
inevitabili dell'esistenza.
Se fosse necessario, per incominciare la
propria vita spirituale, informarsi da soli su ciò che è il fine della
scienza, come farebbero i fanciulli? E, se occorresse rimettersi al
giudizio di autorità arbitrarie che non s'accordano tra loro, che sarebbe
di essi?
208
Per questo il dominio della fede
sopravanzi quello della conoscenza accessibile agli uomini. Il contenuto
della fede è per una parte trascendente; per un'altra non è che la
storia sicura e facile del divino e dell'umano, di cui il sapere è la
storia inquieta.
A questo riguardo, il fatto conferma il
diritto. Non va dimenticato che la filosofia moderna, nel suo insieme, è
figlia della teologia, come la società moderna è figlia della Chiesa.
Sono due aspetti che si collegano. La nostra civiltà tutta intera viene
dal cristianesimo; i nostri secoli prendono nome a partire dalla Croce.
Parlando della Chiesa, la cui azione
secolare si trova così rievocata, è necessaria una spiegazione. La
Chiesa propone la fede : organo dottrinale di una verità emanata
dall'alto, essa non ha per conto suo alcuna pretesa, ma riceve e comunica,
come il cervello riceve l'influenza dell'anima e la distribuisce a tutte
le membra dei corpo.
La Chiesa richiede la stessa fede che
richiede il Cristo, perché il Cristo, che l'ha investita, si esprime per
la sua voce; ed il Cristo richiede la stessa fede di Dio; perché per
mezzo suo la Verità prima è venuta nel mondo e si è fatta luce agli
uomini. Il legame è ininterrotto tra il Principio rivelante e l'ultimo
dei suoi beneficiari. E come noi siamo naturalmente in società, così il
so-
209
prannaturale, per rimanere umano nella sua
divinità comunicata, assume la forma sociale.
Per questo si giustifica razionalmente la
formazione di un dogma, cioè di una verità statutaria che serva
da legame tra tutti i credenti, governi i loro gruppi e regga l'attività
che in essi viene svolta in vista di fini propriamente religiosi. Nel
vivente. Videa direttrice presiede all'evoluzione degli organi:
pure nel corpo spirituale che è la Chiesa regna un'idea direttrice e
circola una linfa vitale che è lo spirito di Dio.
Le verità di fede sono le comuni
persuasioni che ci tengono legati : esse sono un legame ideale, come la
carità è un legame affettivo, come l'autorità disciplinare è un legame
attivo tra i fedeli che intendono prendere parte a una medesima vita. La
Chiesa è una schiera che avanza con solenni affermazioni, è una società
che crede a certe cose e che, credendovi, agisce collettivamente e invita
nello stesso tempo i suoi mèmbri ad agire nel senso di quelle cose
individualmente.
Per parlare un linguaggio giuridico, si
potrebbe dire che le verità di fede sono le considerazioni che fondano le
leggi della nostra società cristiana, a cominciare dai dieci
comandamenti. Ne possiamo sottrarcehe : infatti, ci metteremmo in società
senza saperne il perché? Il perché è qui un giudizio relativo agli
oggetti soprannatu-
210
rali e a ciò che ne dipende ; relativo
cioè agli oggetti soprannaturali considerati sia in se stessi che nel
loro rapporto con noi e col nostro fine.
•¥-
Si immagini, dopo quel che s'è detto,
l'importanza che assumerebbe, in seno alla società religiosa, la realtà
di un conflitto tra la ragione e la fede. Non si può pensare a nulla di
più profondo e nello stesso tempo di più irriducibile. La ragione e la
fede, quando non abbiano trovato il loro accordo, sono necessariamente
nemiche mortali: entrambe lottano per il medesimo posto e pretendono al
medesimo tutto; l'una e l'altra hanno per regola un imperialismo
universale; disgiunte, o semplicemente male aggiunte, male delimitate nei
loro diritti e nei loro confini rispettivi, esse devono scontrarsi. E' per
questo che secondo le epoche e gli ambienti, la fede mal legata alla
scienza opprime la scienza; e la scienza separata dalla fede offende la
fede.
Non c'è che un mezzo per accordare le due
forze, ed è quello di farle scaturire da un medesimo principio. Ma ciò
non avviene di diritto? Che cosa dice la nostra ragione ? Che ciò è,
vale a dire che il giudizio enunciato esprime un legame reale delle cose,
così come ulteriormente esprime una combinazione creatrice, ed è
finalmente questa
211
concordanza, tra il Pensiero padre degli
esseri ed il pensiero riflesso degli esseri, che fa la verità.
Ora, la fede non attinge precisamente a
questa medesima sorgente? O essa è nulla, o è una parola di Dio; o ci
inganna, o dice il vero per ordine di Dio. C'è continuità in seno alla
verità totale, tra l'oggetto della fede e l'oggetto della ragione, l'una
e l'altra nate da Dio.
Due discorsi esprimono Dio : il discorso
della natura e il discorso profetico. Il primo si pronuncia nella ragione
e per mezzo dei poteri di questa; il secondo si pronuncia ancora nella
ragione, ma poiché Dio in sé non ha « parole » che non siano lui
stesso, ciò avviene in virtù d'un'illumi-nazione che ha Dio per causa e
rende Dio responsabile. Nei due casi, se la ragione funziona bene e se la
rivelazione è autentica, l'origine è nella medesima divina Saggezza, la
cui luce non solo guida la rivelazione, ma fonda la verità delle cose e i
principi della ragione umana.
L'oggetto della fede è un possibile
realizzato fuori della portata dei nostri sguardi, mentre l'oggetto della
ragione è il possibile scoperto; ma si tratta sempre di possibili, cioè,
se così si può dire, del contenuto dello spirito creatore, della
ricchezza del Verbo. ,^ ^ -'
Donde potrà venire allora una
contraddizione? Unicamente dal fatto che la rivelazione sia male
interpretata o che la ragione offenda i suoi
stessi principi. Una volta corrette le due
parti, l'accordo è di diritto, perché il regno della verità non può
mettersi contro se stesso.
In caso di conflitto, e se la fede è
sicura della sua interpretazione, come dopo una dichiarazione autentica,
tocca alla ragione cedere; perché il peso di Dio, che garantisce senza
intermediar! gli oggetti della fede, vince il peso della ragione
interposta tra il vero razionale e la sua sorgente. Dio sempre traluce
dalle cose, ma con diversa potenza, sicché là dove esiste un iato,
l'errore può introdursi, e la ragione cosciente della propria debolezza
non sarà che fedele a se stessa, rifiutando fiducia al suo stesso
funzionamento a profittò del proprio oggetto.
E l'oggetto, infatti, è il vero che qui
importa, poiché il vero è la meta e, di conseguenza, là giustificazione
della ricerca, mentre la ragione non è che uno strumento: e, per non
rinnegare questa superba ragione, si arriverà al punto d'offendere ciò
per cui essa e fatta e ciò per cui noi stessi siamo fatti?
Rimane quindi assodato che la
conciliazione si realizza nella verità e nella sorgente di verità da cui
originano l'una e l'altra potenza. La fede e la ragione sono due mezzi
naturali per giungere al vero; noi vediamo che in tutta la vita si
completano e si controllano. Io so, io credo, con io suppongo ed
io opino, sono le parole che espri^-
"3
mono e caratterizzano gli stati del nostro
spirito. Che la religione applichi il credere al soprannaturale e lo
riferisca a Dio, non può certo distruggerne la legittimità e non
modifica in nulla la sua essenza. - :, ^
Ugo Benson scriveva : « Io non posso
discendere una scala al buio senza fare almeno tanti atti di fede quanti
sono i gradini della scala stessa. » Questa scala che noi discendiamo al
buio e che senza dubbio noi incominciamo con qualche incertezza, ma con
fiducia, non è una bella immagine del mistero verso cui la fede ci invita
a camminare? Noi non vediamo ove ci conducono i gradini, ne possiamo dire
ove posiamo i piedi;
ma noi andiamo sicuri sulla parola del
nostro Maestro, come si segue un amico alla voce.
A dire il vero, non è la ragione che è
contraria alla fede, ma il razionalismo; non è la scienza che contraddice
al Vangelo, ma lo scientismo:
dottrine limitate e arbitrarie,
deformazioni e deviazioni che, per una strana ironia, hanno anche esse il
carattere della fede.
Io non posso provare qui quello che sto
per dire; ma una analisi un poco approfondita lo metterebbe in piena luce:
ogni qualvolta la fede trova sul suo cammino la ragione istintiva e la
ragione riflessa, se queste ultime coincidono, pure la fede coincide con
esse: prova questa che il disaccordo non deriva dalla fede, ma da un
cattivo
214
funzionamento della facoltà razionale.
Esempi:
l'istinto dell'amore esige l'eternità, e
la ragione riflessa prova, che il divorzio è antisociale; la fede
dichiara, in armonia con questi due testimoni, che il matrimonio è
indissolubile. L'istinto vuole appropriarsi dei frutti del lavoro : la
ragione prova che la proprietà è la base dell'istituzione sociale : la
Chiesa, che conosce la natura e prevede il progresso, appoggia il diritto
di proprietà.
In tutte le cose, l'istinto sta alla base
del sapere, e la ragione lo prolunga: quando entrambi s'accordano, ciò
vuoi dire che si è sulla linea del vero. E il fatto che questa linea, di
regola, passi per i punti di fede ove la sfera è comune, non è forse il
miglior segno in favore della credenza cristiana, e non mostra come sia
infondato il sospetto di un conflitto?
-¥-
E' essenziale considerare, d'altra parte,
che, nella fede, la ragione rappresenta una parte di tale natura da
rassicurare del risultato la fede stessa. La ragione deve intervenire,
perché la luce dell'anima non può in alcun caso essere assente. Credere
è un atto di libertà, al quale perciò deve presiedere la prudenza, e la
prudenza non è altra cosa che l'applicazione della ragione alla condotta
umana.
215
La fede non è ne un inizio ne una fine,
ma un intermediario; essa sta tra due Serie di atti di ragione : controllo
dei titoli in partenza e quindi, una volta sopraggiunta la fede,
interpretazione, coordinazione, sviluppo, applicazione di ciò che la fede
afferma. Più tardi, la visione perfezionerà il tutto e soppianterà la
fede, così come renderà inutile lo studio. « Là dove la vita si
confonde con la saggezza », come dice sant'Agostino, non c'è più
bisogno di fede, come non ce n'è bisogno quando si tratta di stabilire i
titoli dai quali l'autorità deriva il suo mandato. E' liberamente che noi
decidiamo della nostra credenza, ed è la ragione innanzitutto che, prima
ancora di ogni esame, ci dice che il primo passo da fare nella via eterna
è quello della fede.
E non lo dovrebb'essere forse? Un'umile e
alta ragione, all'opposto d'uno sciocco orgoglio, non può non avvertirci
che di fronte ali'infini lo noi siamo come bambini; che davanti al destino
noi siamo naufraghi senza barca e senza bussola; che la salvezza esige un
aiuto per tutti gli aspetti della vita e, innanzitutto, per il pensiero.
Bisogna « camminare nella, fede », dice l'Apostolo, prima di
camminare nella visione : questa è la legge in ogni campo. Ma non ci si
chiede di credere alla cieca : la ragione rimane padrona e giudice di se
stessa, persino nella sua rinunzia.
Che cosa esige la fede individuale ? Esige
una
21$
.adesione riflessa, anche se, senza
dubbio, questa riflessione potrà non portare direttamente su motivi di
ragione ragionante, poiché questa ragione è di un' élite
(quantunque, molto spesso, nemmeno ciò sia vero); ma là ove la
dialettica fa difetto, nulla impedisce che la fede s'appoggi ancora alla
ragione : intendiamo la ragione istintiva, la ragione immanente alla
coscienza morale, la ragione altrui di cui ci si appropria in nome di una
fiduciosa solidarietà, la ragione collettiva provata al di dentro e più
o meno controllata al di fuori, ecc. E' proprio in merito a tutto ciò che
si esercita la nostra prudenza.
Ove si tratti poi non di un individuo ma
dell'insieme dei credenti, del credente astratto, se così possiamo dire,
non si può più ragionare allo stesso modo. Dire allora che la fede può
fare a meno della ragione nel senso pieno della parola, sarebbe come dire
che la visione può fare a meno della luce. Anche la fede infatti
presuppone una visione: quella della credibilità.
I motivi di credibilità, come
diciamo in teologia, sono la parte di ragione che è anteriore alla
credenza comune e che la legittima. Si ricorre alla ragione affinchè poi,
da sola, in seguito, questa ragione illuminata su se stessa e su Dio, su
se stessa e su Cristo, su se stessa e sulla Chiesa, si dichiari, in parte,
incompetente, posta in mani così sicure. Ma se essa lo farà, una volta
convinse
ta, e se acconsentirà momentaneamente a
un abbandono relativo, questo abbandono non farà torto alcuno alle sue
nobili funzioni, ma sarà, al contrario, per essa una spinta ad ulteriori
progressi.
Se ci si domanda poi quali sono i motivi
che appoggiano la fede, e quanto essi valgano, io qui, evidentemente, non
mi ci posso attardare: parecchi volumi d'apologetica hanno pagine
invitanti su ciò che tali motivi contengono di considerazioni e di studi.
Voglio tuttavia segnalarne uno che parrebbe estraneo all'ordine delle Urove,
e che, a dire il vero, non è una prova nel senso stretto della parola, ma
che offre tuttavia una potenza di convinzione che ciascun nuovo esame, non
può, in uno spirito retto, non rafforzare.
Si pensi al contenuto della fede; si tenti
di rappresentare nella sua integrità l'insieme di pensieri, di giudizi,
di consigli, di precetti, di suggestioni organizzatrici, di speranze
formulate, di iniziative fondate, di opposizioni e di riserve avanzate
alle potenze di questo mondo, in breve, di idealità teorica e pratica
contenuta in questa semplice parola: fede, e si dica se l'assoluta
coerenza di tutti questi elementi e la loro esatta corrispondenza ai casi
vari e continuamente mutevoli della nostra vita non è sorgente di
persuasione meravigliosa.
A chi vorrà porsi da questo punto di
vista,
318
io oserei dire : la fede non ha alcun
bisogno d'essere dimostrata; la sua coerenza universale è la sua stessa
prova; calcata sul reale e adattandovisi regolarmente, e vedendo così
adattato, nell'intimo
del suo contesto, ogni punto di vista a
tutti gli altri, pure a quelli che si impongono inopinatamente nel corso
del tempo, questa fede non è che la vita trasparente a se stessa e
riconoscibile ad ogni sguardo puro. ^.;:::
Una parola singola duo contraddire
un'altra singola parola; il parziale si discute e, se un altro parziale
gli si oppone, può soccombere; ma il tutto porta la sua consistenza in se
stesso, e una parola in accordo col tutto non ha che da essere
pronunciata, perché ogni anima, a meno che non voglia rinnegare se
stessa, vi acconsenta e vi si riconosca; e, con lei, gli autentici misteri
che la circondano e da cui essa dipende. Luci sparse, ri-chiamantisi l'una
con l'altra e consacrantisi nella loro somma, compongono un'unica luce;
blocchi squadrati e apparentemente isolati, riuniti a formare un edificio
che li impiega tutti armonicamente, portano il sigillo del Maestro
dell'opera.
La verità è una, universale ed eterna;
tutto è contenuto nell'idea creatrice; le connessioni delle cose fanno
parte delle cose e fanno anche parte in qualche modo di Dio. La dottrina
che mostra un carattere di universalità e di perdurabile adattazione è
dunque dottrina vera: Dio l'ha scritta,
319
o meglio l'ha creata coi fatti ch'essa
esprime, coli gli esseri ai quali essa dona la loro legge.
Ora, tale è il Vangelo : e per Vangelo
non intendo il libro ridotto ove figurano i fatti iniziali e i semi del
Verbo, ma la rivelazione totale, quale si è dispiegata e si dispiega
nella Chiesa.
Il Vangelo è una calamità che attira a
sé tutte le verità essenziali, le quali in esso convergono e
s'armonizzano, ponendovi la loro comune affermazione che è il credo della
vita. La dottrina evangelica rassomiglia a quei panni preziosi e aderenti
con cui i Greci facevano risaltare la bellezza del corpo: essa sposa tutte
le forme del reale e le divinizza.
Al Vangelo basta uno sguardo per vedere e
un sol gesto per comandare ; esso conosce la legge degli esseri e del loro
destino; ravvisa i fini parlando dei mezzi, e i mezzi parlando dei fini;
conosce ciò che c'è nell'universo e soprattutto conosce ciò che è
nell'uomo; ed è per questo che, quando la nostra anima si mette in
ascolto, la sua voce ci penetra nell'intimo. Nulla esso offende in noi,
anzi vi trova una complicità; i pensieri che ci sono familiari sono molte
volte colpiti dalle sue audacie, ma l'essere ideale, in noi, è
soddisfatto e, pur quando viene violentato, si trova d'accordo con esso. '
^ -^
Ho detto che si ha qui un argomento di
capitale importanza in materia di fede, perché, se
»o
la fede può essere preparata e viene
preparata in effetti da altre ragioni, e se altre ragioni possono
appoggiarla e venirle in aiuto alla prima richiesta, il più delle volte,
anche presso le persone più colte e gli spiriti superiori che mettono il
loro genio al suo servizio, essa procede per istinti morali. Ora, per
l'istinto morale e per la ragione pratica, quale migliore apologetica di
questa ? « Che cosa dice il vostro cuore e che cosa esige la vita, se non
proprio quello che propone il Cristo nella più coerente integrità, senza
superfluità e senza inganni? » In questa constatazione ed in questa
comparazione non si trova forse il segreto d'una vivificante convinzione?
Il Vangelo prova il vero per mezzo del
vero;
esso giustifica con l'uomo la sua
concezione dell'uomo e con la vita la sua concezione della vita. E' un
senso senza controsenso, è un'unità tutta intera raccolta in ciascuno
dei suoi punti, è una totalità che può sempre ripiegarsi su di sé e
giungere costantemente a coincidere con se stessa, è una grandezza che si
ritrova perfino nell'infinita-mente piccolo delle sue applicazioni.
Ciò che è ammirevole nella fede, —
cosa che non sanno vedere tanti storici e critici che vogliono trovarla in
difetto —, l'ammirevole di questo discorso i cui elementi si ritrovano
qua e là, sulla bocca di Budda e di Confucio, di Socrate, di Epitteto, di
Seneca, nelle religioni e nelle filo-
221
sofie d'ispirazione umana e in tutti i
cuori, l'ammirevole, dico, non è tanto il contenuto sbriciolato di questa
dottrina, dovunque diffusa, e che deve esserlo inevitabilmente se è
dottrina che conviene agli uomini, quanto il' suo insieme, la sua dosatura
ed il suo esatto equilibrio. In questo sta il sigillo divino, il sigillo
del Creatore che conosce ciò che c'è nell'opera ch'Egli governa, perché
Egli stesso ve l'ha posto.
Il Vangelo parla con proprietà di tutte
le cose, non ne dimentica alcuna, perché tutto gli appartiene. In esso
sono i tesori della famiglia umana come i tesori della saggezza di Dio.
Quando si dice che ha dinnanzi a sé avvenire e speranze illimitate, ci si
riferisce di solito alle divine garanzie; ma ci si potrebbe contentare di
giudicarlo in sé; perché ogni istituzione che risponde con pienezza ai
requisiti della vita deve durare tanto quanto la vita, mentre ogni
istituzione che manica in qualche punto essenziale alle possibilità umane
deve al contrario perire.
E' per questo motivo che la Chiesa mostra
e ha sempre mostrato una severità così grande in materia di dottrina. La
sua dottrina è un blocco, che se viene intaccato, resta tutto
compromesso, in quanto vale proprio per la sua totale coesione. Ciascun
errore, come diceva Novalis, anche particolare e in apparenza banale, «
è la base
222
di un universo falso e il primo anello
d'una catena inestricabile di errori», (i)
Tutte le dottrine separate dal Vangelo non
sono che ossari della verità; solo il Vangelo ricongiunge le ossa, le
anima e le vivifica. Il Vangelo è una vita, è un'armonia, è una sintesi
dell'urna-" nità, della natura e di Dio; coro a tré voci per un
inno universale. La liturgia ha ragione di cantarlo, poiché in sé il
Vangelo è veramente un canto, il canto degli astri e delle creature
pensanti, il canto dell'anima e quello della materia, canto dell'amore,
della felicità e dello sforzo, il canto dell'eternità dopo quello del
tempo.
Occorrerà meravigliarsi se il riconoscere
una ricchezza così totale, così intima e così misteriosa esige, da
parte di colui che cerca la fede e ne tenta la prova, speciali e
molteplici disposizioni?
I casi sono, a questo riguardo, assai
diversi. Malgrado l'identità del fine e delle vie, che non saprebbero
variare in se stesse ne dispensare alcuno dalle loro esigenze, gli uni non
trovano che facilità, laddove altri non vedono che ostacolo e sofferenza.
Certuni vanno diritti alla verità, come l'ape al fiore, mentre altri
cercano per tutta la vita senza avere la gioia della scoperta. Certo non
si può giudicare un'anima in particolare, perché l'anima ha i suoi
misteri e la Provvidenza ha i
(i) Novalis, Fragments, Paul
Lacomblez, Bruxelles, 1914. 223
suoi segreti; ma, parlando in
generale, le condizioni perché la ragione incontri la fede sono le
seguenti.
Ci vuole anzitutto un attento esame, e qui
basti sottolineare la leggerezza di coloro che credono di aver già fatto
molto trattando la materia di fede come discorso da salotto. Si
rimanderanno questi tipi alle pagine dove il Pascal parla
dell'indifferenza: essi vi vedranno come il grande pensatore giudica il
loro modo di fare, e piacesse a Dio ch'essi fossero risvegliati da questa
sentenza violenta, ma giusta : « Questa negligenza in un affare ove si
tratta di loro stessi, della loro eternità, del loro tutto, mi irrita
più che non mi commuova, mi sorprende e spaventa, è una mostruosità per
me.» : ^•;:, ^; ^ ; . ,' ^
Ma non sta qui il punto più delicato,
come non sta qui la condizione decisiva. La fede, che esige la ricerca,
suppone anche, in favore della ricerca stessa, delle condizioni morali e
richiede, inoltre, una collaborazione divina.
Non si vuoi dire, parlando di condizioni
morali, che il credente sia necessariamente più morale del miscredente;
un farisaismo così caratterizzato diminuirebbe il valore del credente e
abbandonerebbe la dottrina a un semplicismo ridicolo. Si vuoi dire che il
problema religioso è legato al problema morale; che la fede è una
virtù;
che se d'altronde, come virtù
particolare, la fede
224
non esige affatto una virtù integrale,
praticamente l'accesso alla fede può essere favorito o impedito da ogni
disposizione morale del soggetto. Ora, se ciò è vero, il risultato non
può non risentirne.
Avviene di regola che, ovunque la nostra
intelligenza non sia determinata da un'evidenza, libere considerazioni e
influenze passionali intervengano nella scelta. In ogni caso comunque c'è
scelta e c'è, dunque, libertà: e lo stato di questa libertà, di fronte
ai beni dell'uomo e ai beni divini, avrà necessariamente peso nel
decidere dell'adesione e della resistenza. Non si avverte in quale grave
avventura ci introduce l'atto di fede? Una tale spedizione spirituale non
è cosa quindi per chi abbia lo spirito malato, e anche un uomo sano non
dovrà certo lasciare da parte alcuna sua risorsa per lanciarsi su quella
strada e arrivare alla meta. ^: ;, ., ^
Dio è oscuro; i suoi misteri in se stessi
non possono venire penetrati; i segni ch'egli ha dato della sua presenza e
delle sue manifestazioni sono posti di proposito in una penembra che
permette di scoprirli senza togliere alla scoperta il suo merito di fatica
e di sforzo. L'oscurità di Dio fa la nostra libertà in questo mondo,
nell'attesa che la sua luce faccia la nostra felicità eterna. Ma, in
queste condizioni, la certezza dev'essere una conquista, e questa come si
realizzerà, se la coscienza non è sveglia, se il desiderio non è nato,
se il bi-
225
15) 77 Pensiero
sogno di Dio non è sentito, se l'anima è
sviata e quasi decisa a volgersi contro i suoi stessi fini? Non solamente
allora non si può essere conquistatori di verità, ma non si è nemmeno
atti a riceverla: si diventa ostacoli al vero, e lo si rifiuta e lo si
elimina allo stesso modo di uno stomaco che rigetti il cibo.
Si potrà tuttavia studiare ancora e
discutere :
sono tante le persone che cercano con il
segreto desiderio di non trovare! Ma non si eserciterà, davanti al vero,
che una fredda e inerte critica, e lo sforzo non renderà nulla, perché
non c'è nemmeno sforzo, nel senso morale della parola, una volta che lo
spirito è ribelle nel corso stesso del suo tentativo, e l'intelligenza
troverà tante vie, per fuggire, quante ne troverebbe una coscienza retta
per perseverare.
La verità è troppo nobile per darsi a
chi la disprezza ! La verità è per coloro che l'amano, per coloro che
non le fanno resistenza, e questo amore non è senza virtù. Il vero
germoglia nella stessa terra da cui germoglia il bene : le loro radici
sono comunicanti. Praticando la verità che si conosce, amando, in
anticipo, la verità che si cerca, si merita di sapere quel che non si
sapeva.
Non si dice forse che nessun argomento
interessa le donne, se il loro cuore non è d'accordo ? Ciò si dice delle
donne perché, più dell'uomo,
226
sono esseri di sensibilità e di passione;
ma anche l'uomo ha passioni, ed è proprio in virtù deBa passione del
vero e d'un'eventuale docilità alle esigenze di esso ch'egli si
predispone alla scoperta, mentre, con le disposizioni contrarie, egli
chiude gli occhi ponendosi in istato di cecità.
« Se la vista della verità fa tremare lo
sguardo della tua anima, scrive sant'Agostino, fermati, lotta per domare
l'impulso che ti trascina verso i corpi, e tutti gli ostacoli saranno
vinti. » (2) Di se stesso diceva, al tempo della faticosa
conversione : « O verità, io ho inteso dentro di me la tua voce che mi
gridava di ritornar su me stesso; ma io ti ho male inteso, a causa del
tumulto della mia anima inquieta. » (3)
E' il ritmo intcriore dell'anima che si
traduce nell'atteggiamento del cercatore, del critico e di colui che
conclude a favore o contro la Chiesa, così com'è il ritmo intcriore dei
corpi che si trasmette alla superficie di questi, per comporre la loro
forma esteriore, il loro aspetto, le loro qualità e i loro gesti. Come si
è, tali si crede : la verità non si realizza in noi che per mezzo della
nostra volontà di identificarci con essa e di sottometterci ad essa con
le sottomissioni di cui siamo capaci :
sottomissione intellettuale, sottomissione
sentimentale, sottomissione pratica. Quando tutto in noi
(2) Sant'Agostino, De vera religione,
XXXV.
(3) Sant'Agostino, Confessioni, XII,
io.
è a posto, e tutti i nostri oggetti sono
ordinati e i nostri istinti domati, può introdursi, nell'anima diventata
trasparente, la luce — come la luce si introduce in un cristallo, cui ha
dato purezza il giusto orientamento delle molecole. Appannare il cristallo
e intorbidare l'anima — oscurarli tutti e due — è la medesima cosa.
Quanto all'aiuto divino, se ne capisce la
necessità osservando che, in tutto, il principio ed il fine devono
corrispondersi. Non si può giungere alle intimità di Dio, che sono
misteriose, senza la rivelazione divina del mistero, ma non si può
nemmeno porre l'atto di adesione a quelle intimità senza che Dio stesso
ci tenda la mano. Una simile adesione, in realtà, impegna in noi più
dell'uomo, poiché si tratta di arrivare ad un fine che supera l'uomo. Si
tratta di oltrepassare i limiti del pensiero. Fino a un certo punto io
capisco : più in là, io adoro. Un giorno vedrò; ma adorare e vedere,
fuori della sfera del comprensibile, nella sfera divina, è un atto
soprannaturale, per cui occorre, oltre all'oggetto ed alla libertà che lo
elegge, un istinto soprannaturale, una specie di coscienza celeste, una
luce che venga dall'ordine al quale vuoi arrivare.
La fede potrebbe essere definita un
eroismo intellettuale : essa ci lancia fuori della sfera in cui si colgono
le evidenze, e si concatenano le dimo-
228
strazioni; essa abbandona il visibile a
profìtto dell'invisibile; essa si affida a ciò ch'essa non concepisce e
che nessuno qui in terra può aiutarla a concepire; essa dice di sì a
ciò che, essendole estraneo, non si presta, nell'ordine che le è
proprio, ad alcun assentimento. Un assentimento è una determinazione
imposta alla facoltà dell'oggetto: oggetto intelligibile in caso di
dimostrazione, oggetto buono e come tale intelligibile in caso di libera
scelta. Ora, un oggetto non può determinare una facoltà se non al
proprio livello, nella propria sfera— e qui si tratta d'un mondo
trascendente.
Il credente è un navigatore
dell'infinito: egli fa rotta verso una stella, e la sua barca, l'onda che
la porta, tutti gli strumenti marittimi non gli bastano; ma basta che le
potenze dell'aria lo sollevino, ed egli sale. La fede, che è una
conquista, è anche un dono. E questa non è una contraddizione, poiché
noi siamo con Dio. Dio e noi, nell'atto di fede, non formiamo che un unico
principio, come il cervello e l'anima, come l'occhio e la vista.
Ciò che ci porta a Dio e alla verità di
Dio è Dio, con il nostro concorso. Da parte nostra, occorre un abbandono
ardente di noi stessi, una fiducia senza riserve, e, se così posso dire,
l'acccttazione d'un rischio infinito. Non che il successo non sia certo
— esso lo è, anzi, più che non
229
sia certa qualsiasi altra cosa a questo
mondo —;
ma non riposa su alcuna certezza umana.
Perché questa certezza si stabilisca e perché quell'abbandono sia
giustificato, occorre, questa volta da parte di Dio, e oltre alla sua
rivelazione esteriore, un'azione intima che ci sostenga e ci rassicuri.
Così Gesù, camminando sulle acque e invitando Pietro ad avanzare sul
mobile elemento, comincia con il realizzare un prodigio; egli intanto ne
medita un altro, ed è solamente in virtù di questo doppio miracolo
ch'egli dice al suo apostolo: Vieni!
Due
sono le condizioni che vanno mantenute e sempre accordate. Perché Dio si
riveli all'uomo, occorre che l'uomo lo prevenga col suo cuore, e perché
questo cuore dell'uomo abbia l'audacia di un dono che comporta una
abnegazione suprema e un rifiuto di tutti i propri sostegni e di tutte le
forme abituali dei propri movimenti, occorre che Colui che l'attende
l'abbia pure prevenuto e lo ispiri dall'interno della coscienza.
Si potrebbe dire che, a questo livello, le
ragioni della fede sonò come ragioni di fanciullo, ragioni di figlio in
faccia al Padre; l'uomo infatti aderisce ad esse per sentimento filiale e
per un istinto di razza — istinto della razza soprannaturale, che gli è
infuso per mezzo della grazia —. L'abbandono davanti al mistero, che è
così difficile all'uomo orgoglioso, è naturale per chi ha la fede di un
fanciullo. Anche quando si tratta del
230
suo tutto, dovesse pur essere portato in
altri mondi, il bambino non si abbandona fidente nelle braccia della
mamma? C'è qui un fatto di eredità: la carne segue la carne, la razza la
razza. Allo stesso modo, simile a fanciullo, l'uomo che è figlio di Dio,
ed erede di Dio per la grazia, si abbandona a Dio nell'atto di fede, senza
esitazione e senza paura. Per questo. Colui che ci propone la fede e che
la corona, ha detto : « Se voi non diventerete come fanciulli, non
entrerete nel regno dei deli. » (Matte o, XVIII, 3) Ed ancora
:
« Colui che e di Dio, cioè
figlio, fanciullo di Dio, capisce la mia voce. »
Qualcuno dirà che tutto ciò è molto
faticoso, e che un atto necessario come la fede dovrebbe essere più
facile. Ma non tocca a noi imporre le nostre vedute a Dio. Egli ha senza
dubbio consultato la sua sapienza, prima di dosare la difficoltà, le
risorse ed il valore di ciò che si vuole qui raggiungere. La fede è
tanto difficile quanto è grande il suo fine ed è profonda l'anima. La
fede è difficile come l'umiltà e misteriosa come la grazia. Essa è
il miracolo umano e il miracolo divino concorrenti ad una medesima azione.
La fede fa il cristiano, e il cristiano è
su questa terra il supremo sforzo dell'uomo, e lo sforzo supremo di Dio,
essendo egli, su questa terra, la creatura definitiva. Ecco perché sono
ri-
231
chieste tali e tante condizioni, e perché
la mancanza d'una sola di esse rovina tutto. Ci vogliono la ragione, la
sensibilità, la libertà, la grazia : tali i suoi organi; ci vogliono la
riflessione, lo studio, la sorveglianza del cuore, la virtù, la preghiera
:
tali i suoi mezzi. Semplificando tutto
quanto s'è detto in una definizione schematica, si può dire :
La fede è un atto di ragione, compiuto in
certe disposizioni morali, e sotto l'azione di Dio.
¥
Avrò diritto di concludere, dopo le
spiegazioni che ho fatto precedere, che coloro che rifiutano la fede per
rispetto alla ragione sono male ispirati? La ragione ha qui ogni
soddisfazione infatti, poiché senza di essa nulla si fa e il suo accordo
iniziale è indispensabile. E ha soddisfazione poi in questo, che non le
si propone nulla di contrario al suo oggetto, ma il suo oggetto stesso, il
vero, benché questo vero, nel caso del dogma misterioso, la sorpassi.
Noi non abbiamo la pretesa di spiegarci i
misteri di Dio e nemmeno quelli della vita : li prendiamo per quel che
sono, così come prendiamo noi stessi per quel che siamo. La nostra
intelligenza non è all'altezza di ogni verità, quantunque con ogni
verità essa debba accordarsi. Arricchirla di più di quello che le
spettasse, arricchirla di più
232
di quello che da sola avrebbe raggiunto,
è forse un farle ingiuria? La fede aggiunge il ciclo alla terra, il
divino all'umano, la verità eterna alla verità transitoria, la dirczione
immutabile alle variazioni ed alle complessità della vita: sarà ciò una
diminuzione?
In fondo, se il mondo non temesse di
lasciar correre la ragione al suo fine ultimo, non paventerebbe la fede.
Ci si diminuisce volentieri, per diminuire nello stesso tempo, sul piano
spirituale, lo sforzo e i sacrifici. Ciò ch'io dico non accusa nessuno in
particolare; ma, se l'incredulità offre nobili eccezioni, si ha il
diritto di dire che certune resistenze, quando si ammantano di rispetto
alla ragione, non sono che espressioni di codardia e di farisaismo.
Noi non vogliamo essere contrari alle vere
libertà : si offre alla ragione solo ciò per cui essa è stata fatta, e
non le si domanda che di essere fedele a se stessa. Sottomessa ad una fede
controllata, sottomessa alla Chiesa, sottomessa al Cristo, sottomessa a
Dio, la ragione conquista, attraverso tutto ciò, la propria ricchezza;
realizza la propria vita; segue la propria inclinazione: e non dicevamo
che si è più liberi usando la libertà nel senso stesso e per i fini
della libertà, piuttosto che nel senso opposto o per dei fini arbitrari?
La libertà del pensiero è fatta per il
vero, come il pensiero stesso, e se la fede ci propone il
233
vero, soddisfa perciò le mire della
libertà, che essa infine corona. E' più libero l'uomo che, dietro
un'indicazione precisa, avanza su una strada sicura, o l'uomo che ignora
il suo cammino? La tirannia, in materia di intelligenza, è l'errore, come
l'oppressione della volontà è il male, come l'oppressione della
sensibilità è la sofferenza. Ora, la fede, che scarta gli errori più
pericolosi e, per di più, ci rivela le più alte verità, non fa
solamente cadere le catene, ma ci dona le ali.
Il progresso del sapere, se è autentico,
avviene all'ombra della fede : esso ne è, in un certo senso, una
preparazione, come, in un altro senso, ne è un arricchimento e
un'estensione. La fede e il sapere si sospingono vicendevolmente alla
meta. Il credente che conosce è un migliore credente : la sua fede è
meglio fondata alla base, più chiara nell'intimo, più protesa in avanti
nel senso delle sue applicazioni intellettuali o pratiche; e il sapiente
che crede è più sapiente, salvaguardato contro moltissimi errori,
arricchito di verità nuove, orientato verso campi di ricerca ch'egli
nemmeno immaginava.
Si è fatto sovente della scienza, che in
sé è una concatenazione di conoscenze, una catena non meno rigorosa di
errori. Si è tessuto di notte :
al contrario, la fede associata alla
scienza tesse con la luce, e questa luce, che vince l'uomo, è tuttavia la
ricchezza dell'uomo, nella quale si rea-
234
lizza la sintesi dei due poteri, la vita
comune di due forze e di due ordini di risultati. Questo accordo è
indispensabile, perché al fondo di ogni idea c'è l'idea prima, senza la
quale nulla si acquista definitivamente per noi, e prima di ogni errore
c'è il primo errore, che consiste nel camminare senza guida nel labirinto
del vero.
Da sola, la nostra scienza non consiste
che nell'apprendere la nostra ignoranza e nel delimitarne i confini. Più
la luce è viva su un oggetto, e più l'ombra è nera; più il sapere
proietta la luce su quanto ci circonda o su noi stessi e più il mistero
piglia forma. Le pretese della ragione « indipendente » non solo sono
detestabili, ma ridicole. E' divertente assistere agli sforzi di alcuni
che vogliono schivare o modernizzare il mistero, e ridurre alla misura di
nozioni elementari l'infinito in cui siamo immersi. E' giusto che la
natura rimanga, dopo ciò, incomprensibile e ci apra in tutte le direzioni
le porte della notte! Ma uno spirito religioso resiste a questa sorta di
malefizio e si mette dalla parte del Vangelo, dove è così vivo il
sentimento che la verità essenziale non è accessibile ad alcun mortale e
che nulladi-meno essa è fatta per noi, che siamo immortali.
L'ossessione del divino, che è il centro
della fede, dona fiducia al credente e lo stimola. L'espansione è figlia
della concentrazione. Donando un nuovo campo alla ragione, la fede la
sorregge,
235
ne moltiplica la forza ispiratrice e ne
accresce la vitalità. Se questo risultato non viene raggiunto^ non ne è
responsabile la fede, ma la tiepidezza del credente e la sua incoscienza.
Una visione di verità sovrumana dona alla spirito nobile la voglia di
misurarsi coi problemi ch'essa pone. A parità d'ingegno, quale pensatore
si è elevato all'altezza raggiunta dai pensatori cristiani?
Si è potuto dire di san Tommaso d'Aquino:
« II vasto sistema del mondo che la sua
dottrina ci presenta si costruiva nel suo pensiero a misura che vi si
costruiva la sua dottrina della fede... Allorché egli afferma agli altri
che la fede è per la ragione una guida salutare, il ricordo del profitto
razionale che la fede gli ha fatto realizzare è ancora vivo in lui. »
(4)
Per vincere la pigrizia dello spirito e
liberarlo dai sensi, per domare l'orgoglio della carne e dello spirito,
ugualmente dannosi a ogni nostra iniziativa, c'è qualcosa di così utile
come il sereno e invitante atteggiamento della fede? La sensazione è al
fondo, l'idea chiara in alto: solo il mistero ci fa sollevare la testa,
come faceva l'antico giudeo che saliva a Sion, la santa montagna. E
partire da Dio per tutto esplorare è un guardare veramente dall'alto
d'una montagna, come il considerare il moto delle cose fino a Dio, è un
giu-
(4) Etienne Gilson, Le Ihomisme,
Stràsbtturg, 1920.
dicare e, di conseguenza, un regolare
tutto lo svolgersi della vita.
La fede posa il nostro sguardo sull'asse
del mondo; ci rivela i fatti dominanti che rischiarano ogni ricerca; ci
apre il cammino verso ciò che è, partendo da Colui che è. Il punto di
vista Dio permette di riferire ogni cosa, nell'essere, all'Essere supremo,
nel funzionamento alla suprema Legge, nelle utilizzazioni all'ultimo Fine
— ed è questo il solo principio di spiegazione che basti. Tutto allora
si mette nel suo ordine e al suo posto; tutto si armonizza nell'Uno e si
gradua nel Perfetto, nei quali trovano la loro regola il giudizio e
l'azione.
Giudicare così è simile al giudicare
proprio di Dio. Dio conosce ogni cosa in sé e per sé; egli contempla la
propria creatura come un prolungamento del proprio essere e la coglie
nella sua sorgente. Ebbene, il cristiano, avvicinandosi a Dio per mezzo
della fede e trovandovi il punto di partenza di ogni cosa, può quindi
ridiscendere alla creatura per quel medesimo cammino, invece di sforzarsi
con l'astrazione della scienza o, quasi a ritroso, con la regressione
causale. •
La scienza, in seguito, ne guadagnerà sia
in chiarezza che in certezza, in ampiezza, in armonia, in potenza
inventiva, in vastità universale. Si vedono intelligenze senza alcuna
cultura, semplici donne —quali Caterina da Siena — ele-
237
varsi per quella via alle più sublimi
speculazioni :
c'è da credere che l'uomo istruito non
avrà nulla da perdervi, e che la sopraelevazione della sua anima non
farà torto al suo sapere.
Riguardo poi alla pratica, si dovrebbe
aggiungere che la fede, questo miracolo intellettuale, prepara l'umanità
ad altri miracoli. E' essa che fonda la morale cattolica e le divine
esigenze sulle quali riposa la più alta civiltà. E' in virtù di essa
che la Chiesa non ha mai ceduto a deviazioni quali le eresie, gli scismi,
le religioni estranee e le filosofie dissidenti, e che tanto eroismo di
virtù hanno dimostrato i più umili cuori.
La fede contiene la vera forza della vita;
essa sostiene il volo di ciò che pesa e che cade, purtroppo, ma per sua
virtù può raddrizzarsi. Essa tiene insieme ciò che tende a separarsi;
è una forza sociale, è un elemento d'amore e di eguaglianza: divina
democrazia, fraternità suprema. Essa sposta il punto di vista dei valori
e, ponendolo in un amoroso mistero, ci invita all'umiltà, al rispetto,
alla fiducia reciproca, al perdono.
In breve, da questo esame dei rapporti tra
la ragione e la fede risulta, se non m'inganno, che l'armonia di queste
due forze, se non è sempre di fatto ottenuta, a causa dei nostri difetti
ed errori, è, in linea di principio, tanto perfetta quanto
indispensabile. Non c'è nulla da sacrificare, ma
238
tutto da perfezionare. L'uomo, divenendo
per partecipazione divino, sia secondo lo spirito o altrimenti, non ne
risulta meno uomo, anzi, lo diventa maggiormente; avendo attinto alla
sorgente della sua umanità che è la Ragione creatrice, egli è se stesso
più di prima; tutto in lui è migliorato, quando egli sorpassa se stesso
comunicando con chi è migliore di lui.
L'umanità senza Dio si crederebbe
volentieri più leggera; ma quanto ne verrebbe appesantita da
quell'assenza: e che peso accasciante, per l'essere abbandonato a tutte le
forze esteriori e intcriori sì sovente scatenate e anarchiche, che peso
la sua potenza e il suo nulla! :;:,;
La fede libera e alleggerisce, legando
l'anima ad una onnipotenza. La fede prepara le gioie più profonde sotto
gli auspici della speranza e dell'amore. Essa dirige la nostra azione, ma
essa vince l'azione, e rende alla ragione il magnifico omaggio di
considerarla come un fine supremo. Essa è una disciplina dei misteri,
un'iniziazione a supreme visioni e quasi un'apertura dello sguardo
spirituale sullo splendido giorno celeste.
E' per questo motivo che san Tommaso,
considerando la scienza della fede, che è la teologia, la dichiara
innanzitutto scienza speculativa, benché contenga una morale completa.
Essa è speculativa, infatti, poiché il suo fine ultimo è visione e non
attività pratica. E la pratica, che è
239
guidata dallo spirito, ha pure per scopo
lo spirito, in quanto la virtù stessa è semplicemente un mezzo. La
ragione è dunque talmente stimata dal cristianesimo, che la si pone al di
sopra di tutto:
e la si mette infine anche al di sopra
della fede, la quale muore nel proprio trionfo.
« La mia fede passerà, dice Malebranche,
ma l'intelligenza sussisterà eternamente. » Tali parole cristiane
annunciano una volta di più il profondo rispetto dell'autorità che
propone la fede verso la ragione di colui al quale essa la propone. Ecco
la fede ridotta al compito di ancella, e di ancella che si ritira, quando,
compiuta la sua funzione, essa vede entrare la sua padrona in una
definitiva dimora. La fede, che presiede alle certezze oscure, si annulla
nel giorno delle certezze abbaglianti. Ci sono due specie di ombre,
l'ombra della vita e l'ombra della morte: la fede oscura è quaggiù
l'ombra della vita; ma, se durasse lassù, essa non sarebbe più che
un'ombra di morte.
-'^^-^•s-^\\,,•••-: -_
Si lasci dunque il vero significato alle
relazioni così normali e misurate delle due forze che si dividono l'anima
cristiana. La fede, cosa tragica per gli spostamenti e i rinnegamenti
ch'essa suppone, per l'avventura alla quale ci spinge, non è dopo tutto
che una cosa ben semplice e giusta e insieme infinitamente dolce, poiché
essa rivela l'amore e annuncia la felicità.
240
I credenti non si lascino turbare da
grida-umilianti solamente per coloro che le lanciano, L'uomo pensoso
infatti può rifiutare la fede, ma non l'offende, perché nulla egli vi
vede di pericoloso o di degradante per le coscienze di coloro che credono:
egli sa troppo bene che, fuori di essa, mediocre è la nostra vita, e
strana e spaventosa la morte, e perciò non può che affliggersi di non
poter anch'egli riconoscere in questa vita amara una preparazione e nella
morte una pre-corritrice.
Quanto al credente che è inquieto per
qualche problema o è assalito da dubbi indistinti, mi si permetta ch'io
gli dia un doppio consiglio.
Una questione particolare lo lascia
turbato? Salga più in alto; elevi il suo spirito all'altezza d'una
fedeltà che non si indirizzi più in particolare al dogma messo in
dubbio, o alla pratica inquietante, ma a Dio e alla meravigliosa dottrina
che ci ha lasciato, presa nel suo insieme. Passar oltre non è negare, ma
assumere implicitamente, nell'attesa d'una luce migliore.
Non è necessario che noi risolviamo ogni
questione secondo i suoi propri principi, ne che il nostro assenso sia
espressamente, specificamente e attualmente su ciò che fa ostacolo : più
di un fedele e più di'un giudice intimo sono a questo riguardo
nell'errore, e ne derivano angosce da una
241
parte, e dall'altra sentenze
infiftilamente dannose e ingiuste.
Una cosa è indispensabile, ed è che il
nostro assenso alla dottrina di fede non escluda alcun articolo, perché
la fede è una. Ma ciò che è uno non può necessariamente essere
esaminato, in ogni istante, in tutte le sue parti. Al momento della
tentazione è legittimo, è saggio forse, chiudere un po' gli occhi su
ciò che urta, rifugiarsi nei propri sentimenti di fede, invocandone i
motivi generali, e dire, senza aggiungere altro: Io credo ciò che Dio
insegna attraverso il suo Cristo e la sua Chiesa. Ciò basta e, se si
ricorre ai motivi di fede, sarà opportuno invocare più di tutto il
motivo vivente, che è Cristo, e il motivo trascendente, che è Dio,
risvegliando nel cuore la loro presenza, — r?. - .
Ma voglio dire al fratello inquieto
un'altra cosa ancora. Le condizioni intellettuali della fede sembrano
lasciarlo? E ciò forse nel loro insieme, e non solò su un punto, come
dicevamo prima? Tutto non è ancora perduto. Là dove un fatto dipende da
più condizioni, queste condizioni possono, all'occorrenza, supplirsi a
vicenda;
in ogni caso, le condizioni secondarie,
fossero pur necessarie in sé, possono cedere alle principali e passare
loro il compito. Così, il credente turbato, che è nella notte, si rifugi
nella dirittura del cuore; s^i purifichi iateriormente "e chiami Dio,
la
342
cui grazia può supplire con le sue
ispirazioni alla luce "che manca.
Agire così non è offendere la ragione,
anche se momentaneamente la si lascia da parte. Una transizione
s'allontana dai due estremi, ma nello stesso tempo li collega. L'atleta
che -salta è sollevato nell'aria per un istante, ma non per questo è
meno in relazione con la terra ferma, da dove inizia il suo salto e dove
ricasca. Così la ragione di ieri, benché oggi oscurata,-invita ancora il
credente, e assicura la sua prudenza; la ragione di domani, sperata, fa in
lui ugualmente ritorno. Egli è dunque nel diritto, e nell'atteggiamento
virtuoso così. assunto è la migliore preparazione a una fede tranquilla.
Pregando, purificandosi, egli si mette in disposizione di fede come prima
della conversione, se questa fu cosciente, e tende perciò, senza altro
sforzo, alla rigenerazione dello stato intellettuale che al momento gli
manca.
E' bello e consolante pensare così a
tutte le facilità che, per l'intelligenza, come per il cuore e per
l'azione, noi constatiamo e dovremo constatare sempre più nell'economia
cristiana. Tutto ci è preparato; in tutto troviamo un sostegno:
dopo una mancanza o una caduta ci possiamo
raddrizzare. Quando la carne s'abbandona, lo spirito veglia; quando
l'individuo sì sente debole,
343
la comunità lo circonda e gli trasmette i
suoi ritmi; quando l'uomo soccombe, soprattutto allora, perché è proprio
in questo caso che si produce la grande frattura tra il fatto e l'ideale,
Dio accorre, e purché si sia provvisti di buona volontà e si abbia
fiducia, egli supplisce a tutto, egli si fa tutto a tutti come spirito del
nostro spirito, intimo vigore della nostra forza.
Mio Dio, donaci dunque ciò che ci manca,
in tutti i campi che abbiamo già esplorati, nell'attesa di ciò che
potranno scoprire le nostre altre ricerche. Facci dono di ben giudicare la
vita; di vederla fino nell'invisibile; di considerare la natura umana che
la inquadra con uno sguardo veramente cristiano, di pesarne gli
avvenimenti con la tua giustizia e gli esseri con la tua carità;
di ascoltare la voce intcriore e di
seguire i tuoi comandamenti; di ancorare la nostra volontà nella
necessità della tua legge, ed il nostro spirito nella tua fede :
affinchè l'amore e l'azione siano fondati sulla verità, ciascuno nella
propria sfera;
poiché tutto, per noi, si fonda nel
pensiero, come la creazione nel Verbo.
u.La tua lucerna è il tuo
occhio-», dice il
Vangelo.
344
INDICE
II Padre A. D. Sertillànges
Avvertenza dell'Autore
il SÈNSO DELL'INVISIBILE
L'INTERPRETAZIONE DELLA NATURA la VALUTAZIONE DEGLI AVVENIMENTI
L'APPREZZAMENTO DEGLI UOMINI • la VOCE INTERIORE
la LIBERTÀ E LA NECESSITÀ la RAGIONE E
LA FEDE
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per consentire una rapida consultazione e navigazione. Grazie.
INDICE
I - II pensiero di Dio
II - Il mondo cerca Dio?
III - Dio manifestato dalla
creazione
IV - Dio nascosto dalla
creazione
V - II mistero di Dio
VI ~ La presenza di Dio
VII - La presenza interiore di
Dio
VIII- La presenza
soprannaturale di Dio
IX - La presenza di Dio nelle
nostre opere
X - Dio presente per la sua
assenza
XI - Dio nella
solitudine
XII - Dell'abbandono nella
presenza di Dio
XIII -Provvidenza di Dio
XIV - Processo della
Provvidenza
XV - Parzialità del
querelante
XVI - Mistero della
Provvidenza
XVII - Giustificazione della
Provvidenza
XVIIl - Fiducia nella
Provvidenza
XIX - Collaborare con la
Provvidenza
XX - A ciascuno il suo compito
XXI - La vita con Dio
XXII - Tutto avviene tra noi e
Dio
XXIII - L'unione con Dio in
vista di noi stessi
XXIV - L'unione con Dio per
Dio
XXV - L un'ione a Dio con
l'universo
XXVI - L'unione a Dio per
Gesù Cristo
XXVII - L'unione a Dio e a
Gesù Cristo attraverso , la,: Chiesa
XXVIII; , - La religione
intcriore
XXIX , '! - La
religione esteriore
XXX ; ' — La religione
puramente esterióre '''.
XXXI - La religione
perfetta
XXXII- Amare e Ulte
XXXIII- L'amore sovrano
XXXIV- L'amore che regola
XXXV- L'amore che organizza
XXXVI- L'amore che consola
XXXVII- L'amore che-libera
XXXVIII- L'amore che nobilita
.
XXXIX - L'amore che elargisce.
XL - Il compimento dell'amore,
XLI - L'amore
eterno
XLII - Amore nobile dì
se -steSsk^.
XLIII - Amarci come siamo .
,.'•;:'• ,; - Difficile amore di sé .;:'',•
XLIV - Il vano amor proprio
..',.•. ;- L'amor proprio degli spirituali .
XLV- Le sottigliezze dell'amor
proprio ,- Vera e falsa rinunzia . .
XLVI - Il senso della vera
rinunzia
XLVII- Prezzo della vera
rinunzia . '.'•:-• La pace di Dio . .
LII Il prossimo
LIII Conoscenza degli altri
LIV Capri e pecore
LV Regole del giudizio
LVI Giudizi degli aìlri sii
noi
LVII Amore scambievole Sopportazione e perdono
LVIII buoni sciocchi
LVIII Conformismo virtuoso
e'conformismo pernicioso Servizi scambievoli
LIX Riguardi e educazione
LX Conversazioni e rapporti
quotidiani
LXI La bontà
LXII Gli egoisti
LXIII Gli stizzosi e gli
invidiosi inimicizie
LXIV
II bene in comune
LV L'apostolato del bene
LVI Spirito d'apostolato
LVII I mezzi dell' apostolato
. . .
LVIIII nostri amici . , .
LIX Regole dell'amicizia . . .
,- ., .
LXX passanti . . . . . ;.^,.
; •
L XXI In autobus . . . . .'.',
•^.^.1 • •/
LXXII Le creature nostre «creile
. . . .
|