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Spiegazione del non detto nella relazione terapeutica

La psicoterapia palestra d’incontro

Dott. Anna Iorio Gagliardi

La relazione terapeutica è un incontro fra mondi soggettivi diversi che con la loro fenomenologia influenzano il processo attraverso il quale il cliente (e qualche volta il terapeuta) modifica quegli aspetti disfunzionali del suo universo esistenziale.

Una delle condizioni indicate da C. Rogers affinché il cambiamento abbia luogo è che il terapeuta, almeno al momento dell’incontro, sia in uno stato di congruenza: cioè profondamente se stesso nel senso che la sua esperienza reale sia integrata nella coscienza.

La riflessione su questo stato di congruenza del terapeuta richiama alcune considerazioni. Essere disponibile ai propri sentimenti o esperienze, viverle e, se è il caso, comunicarle, prevede l’accettazione incondizionata di noi stessi così come siamo, che significa tra l’altro, accettare le nostre "imperfezioni".

Ma se per scelte di valore fissate da altri, ci troviamo in uno stato di incongruenza, questa può essere o solo subcepita o non essere affatto simbolizzata e diventare, così, veicolo di risposte disfunzionali che non produrranno condivisione di significati, ma renderanno disfunzionale la relazione terapeutica.

Riconoscere la propria incongruenza è la condizione indispensabile per una relazione autentica.

Il non detto nella relazione terapeutica, invece, falsifica il senso originale di comunicazione, cioè di mettere in comune, che è l’unico modo di entrare in rapporto con l’altro. E così può accadere che nello spazio ritualistico e ripetitivo della terapia si aggirino i fantasmi del cliente, ma anche quelli del terapeuta che impediranno l’incontro terapeutico tra due persone.

Fu circa venti anni fa che fui introdotta nel regno del non detto da un ricoverato dell’Ospedale Psichiatrico "L. Bianchi" di Napoli, dove lavoravo. Era un uomo di circa trentacinque anni, degente in ospedale da quindici anni con diagnosi di schizofrenia. Lo incontravo con altre otto persone ricoverate nello stesso reparto, una volta alla settimana, in un gruppo d’incontro.

L’intero gruppo, anche se molto lentamente, si evolveva da una certa fissità ad una maggiore fluidità, fatta eccezione per Antonio, che dopo circa due mesi di incontri continuava a mantenere nei miei confronti un atteggiamento ostile e provocatorio. Entrava nella sala riunioni, si sedeva alla mia destra e mi fissava senza staccare gli occhi da me per due ore consecutive. Rispondevo al suo atteggiamento con tutta l’empatia e l’accettazione di cui ero capace. Mi avvalevo anche, nel mio dialogo interno, della conoscenza che ogni sindrome clinica presenta una specifica gamma di costrutti e schemi e dalla quale non si può prescindere.

Intimamente ero sicura che sarei riuscita ad avere la meglio su di lui e l’avrei fatto capitolare (era in piena attivazione il mio sistema comportamentale dell’agonismo).

Col passare del tempo cominciavo a sentire dentro di me una "perturbazione" non meglio identificata, finché un giorno, visibilmente irritata, gli dissi che non sopportavo più la sua presenza che sentivo ostile e minacciosa. Antonio improvvisamente cambiò espressione e con occhi sfavillanti mi disse: "Finalmente ti sei fatta vedere. Ricordati che noi qui, non abbiamo bisogno di nessuno, tranne che dell’assistente sociale. In un solo caso tu ci puoi essere utile: se sei capace di scendere dal piedistallo e di incontrarti con noi sullo stesso piano, da persona a persona. Se non credi che anche noi possiamo aiutare te allora non c’è niente da fare (si parlava di reciprocità) -ed aggiunse- Per creare un rapporto simile è necessario che ti chieda perché fai questo lavoro, dove e come nascondi la tua paura, la tua rabbia etc. Se non sarai capace di risponderti, allora è inutile che continui a venire qui".

Jung parla di "contemporaneità del patire e dell’agire, quale reciproco arricchimento dello scambio. In esso il ricevere è in funzione del dare, il dare è già in funzione del ricevere…"(Jung C. G. "La vita simbolica", opere, vol XVIII, Boringhieri, Torino p.23).

Le parole di Antonio furono per me la prima vera lezione sul significato di "relazione terapeutica".

Capii che la congruenza e l’autenticità nella relazione terapeutica non possono essere atti finalistici e volontaristici dettati dalle migliori intenzioni, ma sono atti involontari che scaturiscono dal viaggio che abbiamo fatto e siamo disposti continuamente a riaffrontare nelle radici del nostro essere.

Solo se riusciamo a catapultarci nel regno del non detto, possiamo scoprire realtà irrisolte, perché troppo minacciose per essere ascoltate e realtà inquietanti che appartengono ad esperienze passate o al flusso dell’esperienza attuale: la difficoltà di vivere la propria vita individuale, la pesantezza del reale, la sofferenza per l’impotenza rispetto a noi stessi, all’altro, all’ineluttabile. E non solo: nel non detto ci sono i desideri, il corpo, le fantasie censurate e vietate dalla situazione terapeutica. È il non detto dell’impossibilità d’essere se stesso per una teorizzazione ideologica di sé. Ma lungo e complesso è l’itinerario per raggiungere un "modo di essere" nella relazione che faciliti il processo di cambiamento. Un modo di essere che richiede silenzio, un silenzio pieno di vuoti necessario all’accoglimento dell’altro e di se stesso.

Riporto una poesia che una persona che faceva un percorso terapeutico con me scrisse nel ’97:

Anna, a piccoli passi,

senza punti esclamativi

sei entrata nel mio cuore,

indicandomi nuovi scenari,

mi hai aiutato a scoprire

una via di silenzio

che ha colmato la mia anima.

Credo che è su quella via di silenzio che G. ed io ci siamo incontrate e affiancate rimanendo "due".

Qualche anno dopo, così mi scriveva G. fra le altre cose, in una lettera aperta: "…..tu non eri quella che io volevo, ossia un soldato che doveva combattere una guerra con me e per me, ma una persona che affiancandomi, poteva darmi una mano. Nella mia famiglia d’origine le relazioni erano molto invischiate e ancora oggi faccio degli sforzi enormi per non ricadere in quel tipo di relazioni.

Capisci dunque il mio sconcerto quando mi accorgevo che cresceva nei fatti una relazione profonda, ma che io ero io e tu eri tu, senza "guerre sante".

Vorrei aggiungere, se G. me lo permette, a quell’io ero io e tu eri tu, "io con il mio mondo e tu con il tuo, io con la mia verità e tu con la tua, io con il mio segreto e tu con il tuo"…..forse tutto ancora da scoprire ma entrambe disponibili a farlo. È questa, secondo me, l’unica possibilità che due mondi hanno d’incontrarsi ed è un processo involontario che dipende dall’ "essere" e non dal "fare".

E per "essere" non bastano un training di formazione o cento ore di psicoterapia, perché la conoscenza di sé è un processo di analisi e costruzione di significati e rappresentazioni che si sovrappongono nel corso della nostra vita e quindi è un processo che non finisce mai; è un’opera mai compiuta, specialmente se vogliamo permetterci di fare i terapeuti senza rischiare di compromettere la spontaneità personale, o di confondere gli eventi dentro di noi con gli eventi dentro il cliente.

 

 

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