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Cosa vive chi lascia la propria terra e come si può ricominciare DOVE STANNO ANDANDO? di Simona Baldanza
Emigrazione interna, esterna, di massa, a piccoli gruppi, per ragioni politiche o economiche, per inseguire un sogno o una realtà, l'emigrazione è un fenomeno antico ma dall'aspetto sempre nuovo. Cambiano, nel tempo e nei luoghi, le cause per cui un emigrante sceglie di lasciare la propria terra, cambiano i contesti e le modalità, ma sempre ritroviamo elementi comuni a tutte quelle persone che si mettono in viaggio verso un paese che le accolga. Lo strappo Il distacco dalla propria terra implica una profonda crisi e quasi sempre da essa si origina. Crisi che comporta la rottura di un equilibrio che, seppur nella sua precarietà, è stato tuttavia costruito faticosamente nel tempo. Ogni crisi comporta un'esperienza di rottura, di separazione, di strappo. La scelta di partire non è mai facile e da questo presupposto non si può prescindere: la vita di un emigrante subisce radicali mutamenti esterni che si ripercuotono inevitabilmente sull'interiorità della persona. L'esperienza migratoria assume connotati diversi in relazione all'individualità di ciascuno. Di per sé è una fase transitoria, che obbliga ad una riorganizzazione della propria vita, delle relazioni, di tutto l'intero sé e per questo comporta stati di intenso stress e angoscia. Le più comuni difficoltà che un emigrato si trova a dover affrontare sono la solitudine, soprattutto quando lo spostamento sia avvenuto senza la famiglia, la ricerca di una casa, di un lavoro, la lingua spesso sconosciuta. Tutto questo contribuisce in modo significativo alla percezione di un paese come estraneo, nemico, minaccioso. Chi emigra? Sul lento e graduale processo di adattamento di ogni emigrato influiscono diversi fattori. Primo tra tutti, la reale motivazione che ha spinto alla partenza: sarà profondamente diversa la situazione di chi si sposti per desiderio di avventura da chi lo fa per necessità. E' banale, ma è così e non sempre la reale causa di un'emigrazione è così palese come sembra. In secondo luogo occorre considerare la personalità e la predisposizione individuale alla partenza, al distacco. Balint ha distinto due diversi atteggiamenti: l'ocnofilia e il filobatismo. Il primo si riferisce alla tendenza a rimanere legati a quel che si ha, ai posti in cui si vive, alla sicurezza che offre tutto questo, il secondo ad una spiccata tendenza al cambiamento, all'avventura, al non creare legami solidi con cose e persone che si incontrano nel corso della vita. Chi si trova a dover emigrare partendo dal primo di questi due presupposti vivrà l'esperienza migratoria in modo molto più drammatico ed angosciante rispetto al secondo. L'integrazione Ogni personalità interpreterà ed elaborerà l'esperienza del distacco e dell'integrazione in modo molto soggettivo. Il successo o l'insuccesso di questa elaborazione dipenderà, oltre che dalle diverse tendenze verso il distacco di cui si è parlato, dalla struttura della personalità di ognuno. Una personalità sana, un Io sano ed efficace possono elaborare un vissuto di questo tipo per approdare ad una riorganizzazione che permetta l'adattamento dell'individuo alla nuova cultura, al nuovo ambiente, alla nuova vita di cui egli diventa protagonista ed artefice. D'altra parte, l'emigrazione può trasformarsi in un'esperienza catastrofica qualora non abbia luogo una corretta elaborazione dell'evento e l'Io ne risulterà fortemente danneggiato. La conseguenza è il disadattamento, che può sfociare nella malattia sia mentale sia fisica, oltre alle naturali conseguenze a livello sociale, come l'emarginazione e la criminalità, fenomeni ben noti soprattutto nelle grandi città. L'integrazione dell'emigrante al nuovo ambiente, pur nella sua soggettività ed individualità, si snoda attraverso tappe che si possono ritrovare nella maggior parte di coloro che riescono a portare a termine positivamente questo processo. I primi periodi sono solitamente caratterizzati da sentimenti di intenso dolore, di paura dell'ignoto, della solitudine e dell'abbandono. In questa fase domina una sensazione di ansia dovuta al senso di persecuzione e alla confusione causata da un'ambivalenza di atteggiamenti sia verso il paese che è stato lasciato, sia verso il nuovo. Da un lato si tende ad idealizzare la situazione che si è lasciata a casa per disprezzare e temere quella nuova, da un altro si disprezza il paese d'origine per difendersi da queste angosce e si loda il nuovo per convincersi che si starà bene. Il conflitto si estende al rapporto che c'è tra il progetto di vita reale che ha un emigrante e gli affetti legati al paese d'origine. Questo si traduce in un senso di colpa verso il paese che si è lasciato abbastanza diffuso negli emigranti, soprattutto quando i familiari sono rimasti a casa. Quindi, da un punto di vista emotivo, la persona si sente sola e depressa. Nella seconda fase si ha una riconsiderazione del paese d'origine sotto forma di una nostalgia ripulita da tutte quelle ambivalenze e conflittualità tipiche dei primi periodi. Il dolore viene vissuto ed accettato in modo consapevole e non negato. Inizia una lenta assimilazione alla nuova cultura, grazie ad una progressiva interazione tra mondo interno ed esterno. Infine, il processo di integrazione si conclude con la riconquista del piacere di pensare, desiderare, creare e progettare. Ci si riappropria dell'identità, arricchita però da una serie di elementi nuovi e trasformati che la rendono un'identità "rimodellata". Alla buona riuscita dell'integrazione e dell'adattamento di un emigrante contribuiscono indubbiamente tutti i fattori di personalità di cui si è parlato, le attitudini e le capacità personali, le risorse che si hanno a disposizione per far fronte allo stress e all'angoscia che caratterizzano la situazione. D'altra parte il ruolo dell'ambiente può intervenire, agevolando o al contrario ostacolando l'evoluzione di questo processo. Tanto più il nuovo paese sarà lontano per cultura e tenore di vita da quello precedente, quanto più numerose saranno le difficoltà incontrate. Il fattore che in maggior misura incide sull'integrazione è il lavoro, soprattutto se soddisfacente: esso diventa uno strumento che organizza e stabilizza la vita psichica della persona, rafforzando la sua autostima e permettendo il sostentamento e l'autonomia. Spesso si corre il rischio di trattare l'immigrato come un serbatoio da riempire, senza tener conto del vissuto e delle radici socio-culturali che rappresentano le sue fondamenta. Questa tendenza ci è confermata dalla gran quantità di ricerca condotta sul fenomeno dell'immigrazione per lo più intorno agli anni 70-80 da un punto di vista quantitativo, attraverso l'impiego e la diffusione di innumerevoli statistiche. La comprensione dell'immigrato deve riguardare la sua storicità e la sua identità culturale perché queste possano riadattarsi e rivivere nella matrice della nuova cultura, senza che questo sfoci in un atteggiamento assistenzialista, che contribuisce ancor più alla cristallizzazione della emarginazione. |
2001 2000 |