L’ADATTAMENTO
UMANO IN AMBIENTI ESTREMI
di
Simona Baldanza
Ogniqualvolta un essere
vivente, nel corso della sua vita, si trova di fronte a situazioni
nuove, problematiche, sconosciute e spesso non facilmente modificabili,
esso è costretto ad "adattarsi" per poter sopravvivere
fisicamente e/o psicologicamente.
Adattamento è
cambiamento di sé, delle strutture e dei mezzi di cui si dispone per
affrontare le "novità" che arrivano dall’ambiente. Si
tratta di un processo tanto complesso quanto frequente, ma soprattutto
di fondamentale importanza per il mantenimento di un equilibrio
essenziale per il nostro benessere.
L’uomo appare uno
degli esseri viventi che riesce ad adattarsi con maggior successo alle
condizioni ambientali, non certo per le sue potenzialità e
caratteristiche biologico-fisiche, quanto piuttosto per l’enorme
varietà di risposte comportamentali che può mettere in atto e per l’elevata
plasticità che le caratterizza. Adattamento nel quotidiano, quindi,
dove relazioni, situazione e problemi sempre nuovi evocano comportamenti
e risposte altrettanto mutevoli; ma adattamento anche nelle situazioni
più inusuali, ostiche, estreme, appunto.
Grazie ai progressi
della ricerca scientifica e della tecnologia, la vita umana è resa
possibile anche in quegli ambienti che si presentano molto ostili, come
quello antartico, sottomarino o nello spazio.
L’Antartide può
essere considerato senza dubbio il continente degli estremi: il più
freddo, elevato, arido, ventoso, deserto ed il meno esplorato sulla
terra. Ogni anno, centinaia di ricercatori, tecnici e operai si recano
nelle basi antartiche per svolgere le loro ricerche nel campo della
fisica, biologia, astrofisica, geodesia, ecologia, ecc… Alcuni gruppi
di lavoro partecipano a spedizioni della durata di un intero anno,
trascorrendo in Antartide sia i mesi invernali, caratterizzati da una
prevalente assenza di luminosità, da temperature particolarmente rigide
(fino a –60°C), da tempeste di neve e vento molto secco, sia i sei
mesi estivi, con luce presente per quasi tutta la giornata e condizioni
meteorologiche più "miti".
Oltre a queste
difficoltà inerenti all’ambiente fisico, si presentano delle
condizioni psico-sociali singolari. Spesso, i gruppi che trascorrono l’inverno
in Antartide sono composti da pochi elementi e vivono in un ambiente
isolato, non raggiungibile, dove un costante rispetto delle norme di
sicurezza è indispensabile per la sopravvivenza. I contatti con persone
al di fuori della base sono limitati, pertanto, anche le relazioni
affettive con i propri cari si riducono in molti casi a sporadici
contatti telefonici. Inoltre, anche l’esser costretti a vivere a
stretto contatto con le stesse persone in un ambiente esiguo, dove la
privacy è scarsa, può rappresentare un fattore di disagio. In alcuni
casi, il soggiorno è confinato all’interno di tende piantate in mezzo
al ghiaccio e le condizioni di vita diventano, naturalmente, ancora più
difficoltose.
L’isolamento e la
monotonia dell’ambiente (il colore predominante è il bianco e l’elemento
che circonda tutto all’esterno è il ghiaccio), nonché il profondo
silenzio da cui viene colpito ogni uomo che si rechi in Antartide,
rendono, però, l’esperienza in questo luogo certamente unica anche
per vari aspetti positivi. Si generano sensazioni ed emozioni
indimenticabili, si trova una dimensione diversa da quella in cui si è
soliti percepire la propria identità, grazie alla possibilità di
ritrovarsi soli con se stessi e di riflettere. Anche i contatti umani
diventano più coinvolgenti, grazie alla solidarietà che nasce dal
trovarsi insieme in una così singolare situazione, condividendo per di
più molti aspetti della vita quotidiana. Insomma, sono molti quelli che
si dicono colpiti dal "mal d’Antartide", che li spinge prima
o poi a far ritorno in questa terra.
Se da un lato, quindi,
il soggiorno in Antartide può rappresentare un’esperienza che
arricchisce l’animo di chi la vive, da un altro può essere una fonte
di disagi ed eventi stressanti, che mettono a dura prova l’equilibrio
psicofisico della persona.
Gli effetti dell’isolamento
e delle ardue condizioni di vita sui partecipanti alle campagne
antartiche sono stati osservati da vari ricercatori, fin dai tempi delle
prime spedizioni. Uno dei fenomeni maggiormente descritti in letteratura
è la winter-over syndrome, caratterizzata da depressione dell’umore,
ostilità, disturbi del sonno, decremento della performance cognitiva,
talvolta in associazione ad abuso di alcool. Un'altra manifestazione è
lo staring, che consiste nel fissare il vuoto o un punto
qualsiasi con lo sguardo, un temporaneo distacco mentale ed apatia.
Questi effetti sono stati interpretati come risposte allo stress
provocato dalle condizioni di vita antartica e alla monotonia percettiva
dell’ambiente, considerando soprattutto che i sintomi scompaiono poco
dopo il ritorno a casa.
E in effetti, le
richieste ambientali cui sono sottoposti i partecipanti alle spedizioni
sono numerose, senza dimenticare il "riadattamento" alla vita
quotidiana una volta tornati nel continente dopo un lungo periodo,
quando si ritrovano il rumore e le città affollate.
Per queste ragioni, l’ambiente
antartico offre la possibilità di studiare l’adattamento psicologico,
attraverso la valutazione delle strategie adattive che vengono
utilizzate.
In psicologia, l’insieme
dei comportamenti utilizzati per far fronte ad eventi stressanti esterni
prende il nome di coping (to cope = affronatare). Il
coping è un processo dinamico, in continua evoluzione, poiché si
costruisce sulla base di un rapporto di feed-back tra l’individuo e l’ambiente.
L’atteggiamento che possiamo adottare di fronte a situazioni più o
meno problematiche può essere diverso secondo il contesto e la
personalità di ognuno: da comportamenti finalizzati alla reale
soluzione del problema (coping attivo), a comportamenti che tentano di
controllare la reazione emotiva conseguente alla situazione stressante,
fino alle strategie meno adattive, che si limitano ad una negazione del
problema o ad un suo aggiramento, attraverso l’impiego di risorse in
diverse attività, come il bere, l’assunzione di droghe, pensare o
fare altro.
La comparsa di sintomi
fisici e di comportamenti inappropriati, come l’apatia o la
depressione, in persone che hanno trascorso prolungati periodi in
Antartide, potrebbe essere interpretata come una reazione di
disadattamento all’ambiente. In questa ottica, saremmo portati a
considerare ben adattata una persona che riesce a svolgere le sue
normali mansioni lavorative e a tenere le sue relazioni sociali,
mantenendo una buona salute psicofisica.
Da recenti studi, però,
emerge un’interpretazione alternativa. Il ritirarsi in se stessi, il
mettere in atto strategie di coping che mirano alla negazione del
problema o alla momentanea sospensione di attività finalizzate alla sua
risoluzione ed una riduzione del generale livello di attivazione
fisiologica sarebbero visti come comportamenti tutt’altro che
disadattivi. Per comprendere questa ipotesi, occorre considerare le
caratteristiche dell’ambiente lavorativo e sociale in Antartide.
Soprattutto durante i periodi di maggior difficoltà meteorologiche,
risulta spesso impossibile intervenire in modo attivo per la soluzione
di problemi. Non sempre si hanno a disposizione varie alternative tra
cui poter scegliere o l’unica soluzione possibile ed efficace non è
al momento disponibile, risulta impossibile, cioè, un controllo sull’ambiente
e allora l’unica via d’uscita si rivela la non-azione, l’immobilità.
Una sorta di risparmio energetico, laddove l’accanirsi
rappresenterebbe un inutile dispendio, una reazione che tanto fa pensare
al letargo animale e che è stata chiamata da alcuni ricercatori
psicologi di "congelamento". Reazione peraltro riscontrabile
anche ad un livello fisiologico, poiché è stato notato un abbassamento
dei livelli ematici dei così detti ormoni dello stress (ormone della
crescita, prolattina e cortisolo), finalizzati a mobilitare tutte le
energie dell’organismo in condizioni di pericolo. Questo atteggiamento
di distacco emotivo compare anche in vari punti della letteratura sul
mondo antartico, a cominciare dal diario di F. Cook (1898-1899), il
quale, trovandosi a trascorrere circa 13 mesi in mezzo ai ghiacci a
bordo della Belgica, descrive le sue sensazioni, parlando di letargia
mentale.
Concludendo, è
importante sottolineare che nella maggioranza dei casi, non si
riscontrano effetti molto evidenti derivati dall’isolamento e dalle
ostili condizioni climatiche, né a livello fisico né psicologico.
Qualora questi siano osservabili, sono comunque reversibili e
rappresentano probabilmente il modo più immediato per adattarsi alla
realtà antartica, dimostrando che le capacità adattive dell’essere
umano si rivelano molto efficaci in ambienti che definiamo estremi.
Inoltre, il comfort sempre maggiore che caratterizza la vita in base e i
contatti sempre più frequenti con persone lontane, grazie ai progressi
compiuti nel campo delle telecomunicazioni, contribuiscono
significativamente a rendere meno difficoltoso il soggiorno in questo
affascinante continente.