ROMANO GUARDINI
HÒLDERLIN Immagine del mondo e
religiosità
Postfazione di Giuseppe Beschin Volume primo
MORCELUANA
Titolo originale dell'opera:
Holderlin. Weltbild und Frommigkeit
©
Kósel Verlag - Mùnchen 19803 © Tutti i diritti d'autore
sono della
Katholische Akademie in Bayern
Traduzione del testo di Guardini di Ludwig Tieck
Revisione di Giulio Colombi
© 1995 Editrice Morcelliana Via Gabriele Rosa 71 -
25121 Broscia
In copertina:
Caspar David Friedrich, Viandante sul mare di nebbia (Hamburg,
Kunsthalle)
Prima edizione: novembre 1995
ISBN 88-372-1584-3
Tipolitografia La Nuova Cartografica S.p.A. - Bresda
1995
PREFAZIONE DELL'AUTORE ALLA PRIMA EDIZIONE
(1939)
II presente lavoro parte dalla convinzione che la poesia
di Hólderlin sia diversa da quella sviluppatasi in età moderna. Il
processo creativo di quest'ultima si basa - più o meno consciamente -
sulla concezione dell'opera d'arte autonoma che scaturisce dall'impulso
della predisposizione creativa. La validità dell'opera d'arte è
determinata dall'autenticità dell'esperienza, dalla purezza
dell'occhio, dalla forza formativa e dalla precisione con cui esperienza
ed immagine sono collegati a priori al relativo corpo verbale.
Questa accezione non è valida per l'opera di Friedrich Hólderlin,
poiché essa non nasce dal processo creativo deH'«artista», bensì
dalla visione e dalla commozione del vate. Ciò non toglie che
Hólderlin sia un'artista nel senso più puro della parola, se per
«arte» si intende capacità.
Con questo non si vuole dire che la poesia moderna
scaturisca dall'arbitrio dell'intelletto o della volontà. Anche in essa
è presente l'esperienza che non è ottenibile con la forza, ma è
quella immediata della personalità ancorata a se stessa. Anche in essa
si compie il costituirsi della forma che occupa lo spirito e i
sentimenti del poeta, quasi non appartenesse più a se stesso. Ma ciò
che qui accade, per quanto veemente
8 Prefazione dell'Autore alla prima edizione
l'esperienza possa essere, non è altro che il processo
di creazione dell'opera stessa. Ma l'origine da cui deriva la poesia di
Hólderlin è situata oltre, d'un intero ordine di cose più all'interno
o al di sopra, a seconda di come si voglia definire la dirczione di una
lontananza che non appartiene più all'ambito soggettivo. Il suo
processo creativo è al servizio di una chiamata. Sottrarsi ad essa non
significherebbe solo mancare alla propria opera, ma opporsi ad una
potenza che trascende l'essere e il volere individuale - senza
descrivere oltre in questi termini l'essenza di questa potenza e il
senso della sua chiamata. Ciò che è presente qui occupa l'occhio e la
bocca del poeta in modo diverso rispetto all'impulso artistico. Non solo
in modo più forte, più appassionante o più profondamente inconscio,
bensì in modo essenzialmente diverso. Il modello a cui si rifa un tale
processo creativo non è quello dell'artista-poeta autonomo, bensì
quello del vate chiamato al servizio religioso, nella cui sfe-ra
intcriore avviene il «contatto», si eleva la visione e viene conferito
il mandato del messaggio. Hólderlin fa parte di una schiera composta da
nomi come Dante, Eschilo e Pindaro.
Non solo la sua parola, ma anche la sua vita è
testimonianza del fatto che egli contempla e parla da vate. Il destino
esteriore di Hólderlin rivela lo sradicamento di un uomo che non sa
dove andare; ma la sua interiorità si manifesta nelle parole scritte il
2 dicembre 1802 a Bóhlendorff, in seguito alla sua esperienza nella
Francia meridionale:
«L'elemento possente, il fuoco del delo e il silenzio
degli uomini, la loro vita nella natura, la loro misuratezza e con-
Prefazione dell'Autore alla prima edizione
9
lentezza mi hanno toccato costantemente, e, come si
ripete degli eroi, posso ben dire di essere stato colpito da Apollo» (Sàmtliche
WerkeV, p. 327).
La mirabile purezza della sua figura, conservata
finanche nella confusione mentale, deriva da questa unità di opera e
vita. Certamente chiunque sia veramente votato alla sua opera mostra una
intrinseca connessione di processo creativo e vita, ma in Hól-derlin
ciò è particolarmente evidente. Il concetto di opera d'arte di cui
abbiamo trattato non rivendica solo l'autonomia del processo creativo
nei confronti di qualsiasi criterio non immanente ad esso, ma anche -con
le dovute riserve, certo, ma in linea di massima -quella dell'opera nei
confronti della vita di chi la produce. Anche in questo si differenzia
il poeta-vate. Dante non poteva avere per la propria esistenza personale
la libertà concessa invece a Shakespeare per natura, ed -Eschilo non
quella che Goethe possedeva a partire dalla sua disposizione intcriore.
Queste affermazioni non esprimono nessun giudizio di valore, si
riferiscono esclusivamente al rapporto tra processo creativo e vita.
Hólderlin non poteva scrivere gli inni che portano il suo nome, ed
essere allo stesso tempo un uomo la cui vita assumesse questa o
quell'altra piega: c'era invece in questo un'unità indissolubile, beata
e tragica. E questa unità che noi avvertiamo in lui - insieme ad una
prima dote, non oltre analizzabi-le, nel suo essere - come purezza.
Questa convinzione ha determinato l'impostazione e il
metodo di chi scrive, che doveva soprattutto ascoltare ed apprendere.
Molti punti di vista, di solito decisivi, erano inutilizzabili in questo
contesto. Decisioni preliminari come: «questo non può essere il si-
10 Prefazione dell'Autore alla prima edizione
gnifìcato, perché questo non esiste ... questo
pensiero deve essere inteso cosi, perché questo principio psicologico o
fìlosofico lo esige ...» non avevano senso. Si trattava di ascoltare
che cosa dice Hólderlin, ma veramente lui e solo lui e totalmente lui.
Non si trattava neppure di analizzare «un poeta visionario» o «la
forma d'esperienza vissuta della poesia visionaria», rinunciando a
prendere sul serio il contenuto di questa esistenza e di questa poesia
in quanto tali e limitandosi ad apprendere ciò che qui veniva vissuto
ed annunciato. L'elemento visionario non andava inteso come «fenomeno
psicologico» bensì come «processo di donazione», attraverso cui
possono emergere fenomeni e connessioni altrimenti nascosti. Ciò che
Hólderlin voleva dire, come dovesse essere inteso, che cosa fosse
importante e che cosa trascurabile nella sua opera, poteva essere
dedotto solo dalle sue stesse parole, dal contesto dei suoi pensieri e
delle sue immagini, dalla forma e dall'atmosfera della sua poesia. Norma
e garanzia perché ciò veramente avvenisse erano costituiti dal primo
assioma di ogni vera interp relazione: che fino alla prova del contrario
la parola di un uomo onesto significa ciò che dice - tanto più quando
è un grande a parlare; che quindi l'interprete rischia, appena si
discosta da questa proposizione, non solo di diventare presuntuoso, ma
anche di applicare al grande i metri di misura della propria figura e di
perderlo in tal modo di vista. Quanti lavori apparentemente scientifici
sono per così dire un tristo trafficare attorno ad un oggetto
scomparso! L'interpretazione doveva tener conto di tutta l'ampiezza dei
testi, sempre pronta a vedere ampliato, ridotto, sfumato o mutato,
attraverso un nuovo contesto, ciò che già sembrava
Prefazione dell'Autore alla prima edizione
11
chiaro e definito. Anche la comparazione con la vita
spirituale anteriore e contemporanea, praticata dal metodo storico in
modo così magistrale, ma spesso anche fatale, sembrava in questo caso
meno utilizzabile di altre volte. Comportava infatti il rischio di
trasformare la figura solitària del vate-poeta in una specie di
espressione della situazione spirituale del tempo.
In molti anni di lavoro interpretativo ho tentato di
comprendere e descrivere come gli appaiono il mondo, l'uomo e il divino,
e non so di che cosa mi sono stupito di più: se della splendida
decisione di questa parola che non solo non poneva fuori questione
l'intelletto, ma ne esigeva l'applicazione; o della profondità
contemplativa da cui venivano le visioni di Hól-derlin; oppure dalla
coerenza con cui le sue idee fondamentali si imponevano in qualunque
passo del testo che l'analisi si trovasse ad affrontare. Al lavoro di
interpretazione dovrebbe ora far seguito quello del filosofo e teologo,
e il compito di questo lavoro darebbe frutti molto importanti. Nel corso
degli anni è stato anche prodotto qualcosa che potrebbe servire a
questo fine; ritenni tuttavia di dovervi rinunciare. Mi sembrava
sufficiente aver descritto i fenomeni nel modo più puro possibile. Ma
solo entro questo limite - sottolineo la riserva. Poiché il compito è
molto difficile; considerandone l'oggetto, verrebbe spontaneo dire che
non vi è soluzione. Ed infatti non pubblico questo libro a cuor
leggero. Ma un lavoro più lungo difficilmente apporterebbe progressi
essenziali per quanto riguarda gli aspetti che a me interessano. Così
posso solamente sperare che il lavoro qui presentato possa costituire un
contributo reale alla comprensio-
12
Prefazione
dell'Autore alla prima edizione
ne di questa figura che è misteriosa in un senso molto
preciso.
Qui non si tratta di ricostruire le connessioni di
storia letteraria o di storia della cultura; di queste si occupa una
ricerca sempre più differenziata a cui non mi sento autorizzato a
collaborare. Per me non si trattava di ciò che era, ma di ciò che è.
Volevo chiedere a Hólderlin cose che egli sembra sapere e che
altrimenti nessun altro facilmente sa. Ora, il mondo intellettuale di
Hólderlin non ha molti motivi. Alcune esperienze, immagini, riflessioni
ritornano continuamente; ma ogni volta in modo tale da contenere tutta
l'esistenza. Così non era possibile estrapolare i diversi momenti
singoli e svilupparli in un contesto sistematico. Il lavoro è stato
invece strutturato per contesti di senso che, per quanto caratterizzati
in se stessi, contengono però sempre l'intero. Per delineare questo
carattere, le cinque parti del libro sono state denominate «cerchi».
Il primo analizza i fenomeni del fiume e della montagna nella poesia di
Hólderlin, così come la rappresentazione dello spazio vitale da essi
determinata. Il secondo cerchio indaga l'essenza dell'uomo e della
storia. Il terzo cerchio affronta quelle figure del religioso che
costantemente riappaiono nella poesia di Hólderlin, gli dèi - una
questione molto importante, dal momento che egli sembra essere l'unico
poeta dopo l'antichità, a cui poter credere quando dice di credere
negli dèi. Il quarto è dedicato al concetto che contiene quanto ha
valore di primo e ultimo per Hólderlin, ovvero la natura. Il quinto,
infine, cerca di stabilire che cosa significano le figure della fede
cristiana, in particolare Cristo stesso, che compaiono nella sua poesia
tarda e in quale rapporto si
Prefazione dell'Autore alla prima edizione
13
pongono sia verso gli dèi che verso la natura. Ognuno
di questi punti di vista dischiude un'immagine di tutta l'esistenza,
determinata in modo particolare. Ma se ogni «cerchio» contiene il
tutto, allora in ciascuno devono ripresentarsi le stesse realtà. Ho
cercato di limitare queste ripetizioni. Ma ciò è stato possibile solo
fino a un certo punto; spero pertanto che esso sia anche quel punto a
partire dal quale le ripetizioni non sono solo ineluttabili, ma anche
sensate. Come i miei lavori su Dostoevskij, Pascal, Agostino e Dante,
pubblicati dallo stesso editore, anche questo contiene molti testi
originali poiché mi premeva di far parlare la parola di Hólderlin nel
modo più ricco e pieno possibile. Ringrazio l'editore per aver
approvato l'incremento della mole dovuto a questa decisione.
Per quanto conceme la letteratura esistente ho adottato
i criteri già praticati nei precedenti lavori menzionati. Ho cercato di
entrare nel rapporto il più stretto possibile coi testi stessi; ho
ritenuto perciò di poter ridurre la letteratura sull'argomento al
minimo necessario per essere informato sui fatti. Non ho letto nemmeno
scritti importanti come quello di Bóck-mann (Hólderlin una seine
Gotter, Monaco 1935) e di Hildebrandt (Hólderlin. Philosophie
und Dichtung, Stoccarda 1939). Dico questo per chiarire il motivo
per cui il mio lavoro non si riferisce alla letteratura esistente. Una
simile mancanza è molto grave dal punto di vista della precisione
scientifica; sono costretto a dar ragione ai critici che l'hanno
condannata nei miei scritti precedenti. E non sarebbe nemmeno facile
replicare qualora questo mio metodo venisse definito come presuntuoso.
Ma per svariate ragioni non sono in grado di ovviare alla mancanza;
credo
14
Prefazione
dell'Autore alla prima edizione
addirittura che, considerando la peculiare intenzione di
questo libro, ciò non abbia un peso così grave. Permane tuttavia la
possibilità che io dica cose già dette o sostenga errori già
confutati. Per l'informazione sui dati di fatto sono debitore al libro
di Wilhelm Bóhm {Holderlin I e II, Halle 1928 e 1929), per il
rapporto generale con la personalità e l'opera di Holderlin ai lavori
di Norbert von Hellingrath e Ludwig von Pigenot'.
1. In italiano ricordiamo: A. Pellegrini, Holderlin.
Storia della critica, Sansoni, Firenze 1956, pp. 654 (n.d.r.).
PREFAZIONE DELL'EDITORE ALLA SECONDA EDIZIONE (1955)
Da quando questo lavoro venne pubblicato per la prima
volta più di quindici anni fa, la ricerca ha prodotto una quantità di
testi, modi di lettura ed inter-pretazioni che renderebbe necessario
correggere le esposizioni che seguono in alcuni punti. L'autore si
rammarica perciò che altri impegni gli impediscano di tener conto di
questa esigenza. Questa rinuncia gli pesa in particolar modo per quanto
riguarda l'inter-pretazione del dionisiaco, dato che il «dio del vino»
in Hólderlin è concepito, nonostante gli aspetti dell'ebbra
distruttività e dell'«orgiastico», in primo luogo come una potenza
che libera dall'ottusità, che anima ed esalta e che è all'origine di
ordine e unità. D'altro canto anche la figura e il significato
dell'esistenza di Apollo richiederebbero una nuova interpre-tazione. Si
tratterebbe in particolare di mostrare che Hólderlin, rispetto
all'elemento «apollineo» tradizionale, vi scopre potenze attive ben
più primordiali. Lo svolgimento di questi aspetti implicherebbe
tuttavia una ristesura di parti essenziali di questo libro. Abbiamo
però motivi di ritenere che la monografia di Guardini rappresenti una
tappa importante nell'inter-pretazione della poesia di Hólderlin. Una
ristampa che lascia sostanzialmente immutato il testo prece-
16
Prefazione
dell'Editore alla seconda edizione
dente ha quindi una sua giustificazione. Nonostante
avesse delle perplessità, l'autore ha acconsentito a questa operazione.
In alcune parti sono state operate piccole correzioni. Le citazioni
dall'opera di Hólder-lin sono state adeguate alle nuove edizioni. Per
questo e per proposte e suggerimenti ulteriori ringrazia-mo qui
Friedhelm Kemp.
In questa riedizione i testi delle poesie vengono
riportati dalla Grosse Stuttgarter Azisgabe (a cura di Friedrich
Beissner; voi. I 1946, voi. II 1951); gli altri testi sono citati dalla
edizione dei Sàmtliche Werke (voli. I-VI, 2' ed., Monaco 1933;
voli. I-IV, 3' ed., Berlino 1943 - la 1' ed. di quest'Opera è in 6
voli., Berlino 1913-1923) a cura di Norbert von Hellingrath, Friedrich
Seebass e Ludwig von Pigenot. A queste due edizioni si riferiscono
quindi i numeri delle pagine accanto ai passi riportati nonché le
indicazioni contenute nel testo stesso. Una cifra romana isolata o
correlata ad una «p» e alle indicazioni infra o supra si
riferisce al «cerchio» e alla pagina del presente lavoro. La grafia è
stata adeguata alle esigenze moderne; la punteggiatura, spesso lacunosa
e causa di fraintendimenti per il lettore di oggi, è stata
opportunamente semplificata.
nota del traduttore E della redazione. Nella traduzione
si è ricorsi alla versione di Giorgio Vigolo, per le poesie, le odi e
altre forme, le elegie, gli inni, la produzione dell'ultimo periodo di
Friedrich Hólderlin (Mondadori, Milano 1971); quanto non rientra in
tale versione, è statò tradotto da Giovanna Fozzer; per La morte di
Empedocle, la tr. è a cura di Ervino Pocar, Guanda, Parma 1983;
quella di Iperione è a cura di G.V. Amoretti, Feltrinelli,
Milano 1980; per altro, soprattutto in queste due ultime versioni, sono
state fatte modificazioni, specialmente per armonizzarle con
l'interpretazione di Guardini.
Primo cerchio
Fiume e montagna
NOTA INTRODUTTIVA
Da qualsiasi parte si entri nella poesia di Hólderiin
ci si imbatte nell'acqua che scorre. Certi fiumi sono costantemente
ricorrenti, in particolar modo quelli della sua terra, il Neckar e il
Danubio. Poi quelli che ha conosciuto durante il suo soggiorno a Bad
Hom-burg, Meno e Reno. Dal viaggio in Francia vengono nominati la
Garonna e il Rodano. Dai paesi della sua nostalgia, Grecia e Asia
Minore, l'Ilisso, l'Eurota e i ruscelli di Calàuria1; il
Caistro e il Fattóio che scendono dallo Tmolo, il Meandro. Dall'Egitto
il Nilo, dal lontano Oriente l'Indo.
L'acqua appare nelle più svariate forme. Le fonti
zampillano e i ruscelli scorrono, soprattutto nelle descrizioni di
paesaggio deìVIperione. Nelle poesie delle Alpi e dei fiumi
scroscia la giovane acqua di montagna. Attraverso i ruscelli che si
riversano in essa cresce diventando un torrente, per poi farsi un fiume
che attraversa lento e maestoso i paesi. Nel Ritomo risalta.
nella sua bellezza il lago vicino alle Alpi, pieno di vita silenziosa.
Anche il mare risplende. Soprattutto quello greco, l'Arcipelago; la
poesia che porta questo nome è tra le più splendide descrizioni mai
dedicate al mare che è vicino all'uomo e collega gli uomini. Poi
l'oceano in generale che dal Mediterraneo si estende nel mondo, come in Ricordo.
Dei «flutti del cielo», della pioggia parla una lirica incompiuta,
20 Primo cerchio - Fiume e montagna
A Diotima. Infine, all'inizio di Patmo,
l'acqua sciolta da qualsiasi forma, l'acqua divenuta per così dire
assoluta, l'elemento che scorre in sé.
Presso il fiume e il mare si dispiegano il paesaggio di
Hólderlin e lo spazio dell'esistenza umana. Il fiume nasce in montagna.
Le valli lo rinserrano e gli additano la dirczione. Il suo corso sempre
più lento e potente attraversa i paesi. Al suo fianco sorgono le
città, i suoi «figli». Attraverso il suo movimento i luoghi distanti
della terra e le loro popolazioni vengono raggnippati a formare una
unità. Ma il mare con le sue coste e le sue isole apre l'ampiezza dello
spazio terreno in quanto tale. Chi Io attraversa apprende l'unità del
tutto nella dimensione di storia nello spazio.
In termini poetici, il fiume riveste svariate forme che
esprimono allo stesso tempo differenti forme di esperienza vissuta del
mondo. Esse si confondono fra loro, in tal modo non è sempre possibile
discemerle chiaramente; alcune comunque risaltano in modo più netto. Vi
è innanzitutto l'acqua vista realisticamente - per quanto abbia senso
questo concetto in Hólderlin. Pensiamo soprattutto al romanzo, ai fiumi
dell'Asia Minore attraversata da Iperione, oppure alle fonti e ai
ruscelli del paesaggio in cui vive Diotima. Anche il Meno ed il Neckar
nelle liriche omonime e i fiumi dell'idillio eroico Emilia innanzi il
giorno delle sue nozze ne fanno parte. Ciò che qui appare è il
determinato corso d'acqua nel suo paesaggio egualmente determinato.
Quantunque la sua immagine sia attraversata da forti sentimenti e da un
movimento metafisico che trascende la realtà immediata, il fenomeno
geografico rimane senz'altro riconoscibile. In altri testi il fiume
diventa un'essenza. La realtà empi-
Nota introduttiva
21
rica non si dissolve, però muta. Dietro
all'immediata-mente esperibile una realtà nascosta si spinge avanti,
ponendo il fenomeno al proprio servizio; per esempio nelle liriche II
fiume incatenato. Voce del popolo, e II Reno. In altre
occasioni, infine, il fiume diventa figura e movimento puri; così
nell'inno L 'Istro verso la metà, dove ormai si avverte solo lo
scorrere nella sua profondità, oppure alla fine, dove il percorso del
fiume appare come una runa tracciata nella terra.
Un simile passaggio dall'immediato-oggettivo al
«significato» - un passaggio che coincide con la maturità poetica di
Hólderlin - sembra avvenire anche nella figura del mare. Si ha questa
impressione confrontando per esempio la sua apparizione nelYIperione con
quella nell'Arcipelago o ancora in Ricordo. Tuttavia
queste figure sono inserite in un contesto fluente e, spesso all'interno
della stessa poesia, si confondono fra loro.
Quest'acqua che scorre diventa portatrice di diversi
significati. In Heidelberg con il suo movimento si fonde quello
della vita e del tempo. Nell'inno II Reno, nel fiume si manifesta
la legge dell'esistenza secondo cui la volontà tesa all'incondizionato
deve attenersi a limiti e forme, se non vuole perire. Alcune poesie
presentano il fiume come traiettoria di un movimento allo stesso tempo
spirituale-simbolico e storico che unisce gli spazi distanti del mondo
nel vivente spazio degli uomini, nell'oikouméne; così per
esempio II Meno e II Neckar. Nell'inno Al fonte del Danubio,
esso diventa infine una metafora musicale della figura sonora, che si
sviluppa nel suo passare, come anche del linguaggio peregrinante che
chiama l'uomo non ancora sviluppato all'esistenza spirituale.
IL FENOMENO E LO SGUARDO CORRELATO
II fiume sarebbe allora un simbolo?
Un simbolo nasce appena la forma diventa capace di
esprimere qualcosa che trascende il suo dato immediato. Esso sembra
avere due punti di origine. II primo risiede nel rapporto tra spirito e
corpo. Nella misura in cui lo spirito compenetra efficacemente la carne2
trasformandola in corpo, ne fa anche un simbolo. Le sue forme e i suoi
movimenti rivelano ciò che è al di là dell'immediatamente corporeo.
In un movimento degli occhi, in un gesto divengono evidenti la vita
spirituale ed il senso personale. Essi non sono solo additati da segni
oppure richiamati alla memoria attraverso mezzi di comunicazione, bensì
resi presenti in modo da poter essere contemplati. Il corpo è
l'interiorità che diventa manifesta, l'anima che diventa visibile, lo
spirito che diventa contemplabile. L'altra fonte del simbolo sono le
immagini della natura presenti nella forma e nel movimento degli astri,
negli elementi terra, acqua, aria e fuoco, oppure nella crescita, con le
sue vicende e i suoi tempi sempre uguali. L'efficacia semantica di
queste forme primordiali conquista la contemplazione, tocca il
sentimento, si coniuga con sensazioni fondamentali e con esperienze
costantemente ricorrenti dell'uomo. E non solo per abitudine o
attraverso la contemplazione estetica,
24 Primo cerchio - Fiume e montagna
bensì per via di impressioni religiose precocissime e
profondissime - «precoci» nella misura in cui sono percepite
all'inizio dello sviluppo individuale e di quello generale, e
«profonde» nella misura in cui si sono impresse negli strati
primordiali del mondo intcriore - in modo tale da far penetrare il loro
effetto, anche inconsciamente, in tutta la vita futura. Questo rapporto
simbolico emerge dappertutto, nella vita individuale come in quella
comunitaria. Soprattutto laddove quest'ultima acquista un significato
particolare: nelle forme tradizionali del comportamento, nel modo in cui
vengono espressi importanti avvenimenti della vita oppure celebrate
feste religiose.
Oltre a ciò esistono però anche simboli che sono in un
certo qual modo di secondo grado. Figure che già di per sé, come
espressione immediata di essenza del mondo ed interiorità, significano
qualcosa, che al di là di questo vengono ricolmate di significati più
lontani, dalla forza contemplativa e formativa dei singoli, dalla
consuetudine storica e dalla tradizione. Così, poniamo, il viaggio
diventa il simbolo della vita umana: una concezione di antichità
primordiale, segnata da tratti che illuminano, che interpretano
l'esistenza, come quello della partenza e quello della fine; della
dirczione, con la possibilità di trovarla e di perderla;
del pericolo e del compagno di strada; della stanchezza,
del riposo e dell'impossibilità di rimanere per sempre ecc. In questo
senso anche il fiume è un simbolo simile a quello della via. È un
simbolo di immediata familiarità, e la poesia l'ha usato spesso - anche
la poesia di Hólderlin. Ma con questo non si è ancora detta la cosa
centrale circa il ruolo del fiume in essa. , Un grande esempio per un
tale svolgimento simbolico del motivo 'fiume' è costituito dal Canto
di
Il fenomeno e lo sguardo correlato 25
Maometto
di Goethe. Esso si sviluppa magnificamente, dalla «fonte nella roccia»
fino al fiume del corso successivo che, come Atlante il cielo, sosteneva
sulle spalle la ricca vita che s'esprime nella navigazione, ha suscitato
sulle sue rive il mondo creativo degli uomini e lo mantiene
alimentandolo, per porgere infine «fremente di gioia, tutto al cuore
del Genitore in attesa». Leggendo la poesia, si ha dapprima
l'impressione di trovarsi davanti a qualcosa di simile a quanto si
trova, per esempio, nell'inno II Reno, ossia al «fiume» come
immagine dell'esistenza. Presto però ci si accorge che si tratta di
qualcosa di diverso. La poesia di Goethe, parlando in forme pure e
grandi all'intuito sensitivo di chiunque abbia recettività, forma
realmente il simbolo del fiume; Hólderlin invece intende dire di più.
Per capirlo dobbiamo rifarci più indietro, per esempio
alla favola. Essa non scaturisce dallo sguardo simbolico universale e
dalla fantasia artistica che gli da spessore. Ma anche questo accade;
almeno nel caso della favola come oggi la recepiamo e come noi, gente di
oggi, la ascoltiamo o, meglio, la leggiamo. Ci riferiamo quindi più
precisamente alla favola che ascolta un vero bambino quando gli viene
raccontata. Questo sembra essere già più vicino al fenomeno dell'inno II
Reno, senza però raggiungere ancora la grande serietà
dell'intenzione hólderliniana, poiché ciò che essa significa è la
massima maturità. Ora, la favola non nasce da una fonte propria, ma da
qualcosa di più primordiale: da quell'esperiènza che l'uomo fece agli
inizi, nel suo incontro con la natura e con gli avvenimenti
dell'esistenza. Nella favola tali esperienze originarie sono scivolate
nell'ambito del favoloso-fantastico; ma le prime impressioni vi sono
ancora riecheggiate.
26 Primo cerchio - Fiume e montagna
Quando l'uomo primitivo si imbatteva nel fiume, vedeva
dapprima l'acqua reale: sorgente, corso, affluente, sbocco nel mare. Ma
l'insieme era più di quanto noi intendiamo con il concetto geografico;
era un essere. Con questo non si vuole alludere a nessun
«antropomorfismo» che, scaturito da una deficienza di conoscenza
scientifica, si sostituirebbe a precisi concetti; nemmeno alla
«personificazione» di un oggetto in sé astratto da parte di un
pensiero ancora assorbito dalla fantasia. Ciò che avveniva qui era
un'autentica visione. Essa si riferiva a ciò che scorreva, che gelava
nell'inverno e si rimetteva in movimento in primavera, che straripava
minacciando pericolo, ma. che permetteva anche la navigazione e
la pesca. Appunto questo era un essere: una realtà misteriosa,
terrificante e allo stesso tempo invitante; un qualcuno, che aveva una
volontà. Questo qualcuno lo si poteva improvvisamente incontrare, sotto
le spoglie d'un toro ad esempio, oppure di un uomo o d'una donna. Queste
figure non erano un'«allegoria» del fiume, e nemmeno la sua «anima»,
bensì il fiume stesso; una realtà di carattere religioso e misterioso,
e allo stesso tempo empirica. Il fiume reale aveva questa forma e quella
- e forse anche altre. Da questa visione scaturivano dapprima il mito ed
il culto. A partire da questi, l'esperienza, dissimulandosi,
assottigliandosi e mutando, veniva trasmessa attraverso leggende e
fàvole, per essere tuttavia riattualizzata in esse ancora oggi, da chi
è ricettivo.
In Hólderlin essa irrompe in modo primordiale. Del
fiume egli conserva ancora l'antica esperienza nu-minosa. Lo contempla
con lo sguardo dell'uomo primitivo - che però, dal momento che egli
appartiene
Il fenomeno e lo sguardo correlato
27
ad un'epoca successiva, ha avuto un'evoluzione propria.
Ma siccome egli è uno spirito elevato e un grande maestro della parola,
e si sente mandato per resistere al male accumulato dalla storia e per
annunciare ciò che veramente è autentico, tale esperienza assume in
lui una particolare potenza: diventa visionaria. A questa esperienza è
votata la sua poesia. Hólderlin non è un poeta nell'accezione moderna
della parola. Forse lo è ancora ne\V Iperione; non lo è quasi
più nelì'Empe-docle. Nei suoi grandi inni e nelle elegie supera
comunque di gran lunga i confini del poetico. Il poetico in Hólderlin
non è legato alla concezione di autonomia estetica sviluppatasi nel
Rinascimento; esso è bensì - come in Dante, Eschilo o Pindaro - legato
alla consapevolezza d'una missione religiosa. Non si muove
nell'arbitrarietà della creazione artistica determinata esclusivamente
dalle leggi intrinseche del processo creativo stesso, ma si sottomette
al comando di una realtà misteriosa di cui vive l'esperienza. Detto
questo, l'orecchio dovrebbe essere affinato per percepire la profonda
differenza di visione intcriore, d'atmosfera e di carattere verbale tra
le due poesie. Il canto di Maometto così suona:
Mirate l'acqua di rocda
Splendere gioiosa,
Come sguardo di stella!
D'oltre le nubi
Spiriti buoni
Nutrirono la sua giovinezza
Tra le rupi, nel bosco.
Giovanilmente fresco Danza, fuor dalla nube Giù, sulle
rocce marmoree;
28 Primo cerchio • Fiume e montagna
E ancora grida d'esultanza Verso il delo.
Per sentieri di vetta
Insegue i ciottoli variopinti,
E, precedendoli con passo di guida
I fonti fraterni
Trae con sé.
Laggiù nella valle nascono Sotto il suo passo i fiori E
la prateria Vive del suo respiro.
Ma non lo arresta ombrosa valle, Non i fiori
Che le ginocchia gli avvinghiano E con occhi d'amore lo
lusingano. Verso il piano il suo corso Dirige serpeggiando.
Ruscelli a lui si uniscono
E l'accompagnano. Ora esso va
D'argento fulgido per il piano
Ed il piano con lui brilla
Ed i fiumi del piano
Ed i rivi del monte
Lo acclamano e gridan: Fratello!
Fratello, prendici con tè,
Portaci al tuo padre antico
All'eterno Oceano
Che, spalancate le braccia
Ci attende [...]
«Venite tutti!»
Ed ecco s'ingrossa
Più maestoso, un'intera progenie
Eleva in alto il principe!
E nel suo fluire trionfale
Il fenomeno e lo sguardo correlato
29
Da i nomi alle contrade, Sotto il piede gli nascono
atta.
Irrefrenato procede mormorando, Lascia le dme a fiamma
delle torri, I marmorei palazzi, creazione Della sua dovizia, dietro di
sé.
Case di cedro porta l'Atlante, Sulle gigantesche spalle;
stormendo Garriscono sul suo capo Mille bandiere nel vento, Insegne
della sua signoria.
E così il fiume porta i fratelli,
I suoi tesori, i suoi figli •
Al Padre che attende ;
Fremendo di gioia nel cuore.
Seht den Felsenquell, / Freudehell, / Wie ein
Sternen-blick! / Ùber Wolken / Nahrten seine Jugend / Gute Gei-ster /
Zwischen Klippen irci Gebùsch. // Jùnglingfrisch / Tanzt er aus der
Wolke / Auf die Marmorfelsen nieder, / Jauchzet wieder / Nach dem Himmel.
// Durch die Gip-felgànge /Jagt er bunten Kiesein nach, / Und mit
frùhem Fùhrertritt / ReiBt er seine Bruderquellen / Mit sich fort. //
Drunten werden in dem Tal / Unter seinem FuBtritt Blumen, / Und die
Wiese / Lebt von seinem Hauch. // Doch ihn hàlt kein Schattental, /
Keine Blumen, / Die ihm seine Knie umschiingen, / Ihm mit Uebes-Augen
schmeichein: / Nach der Ebne dringt sein Lauf/ Schlan-genwandeind. //
Bàche schmiegen/ Sich gesellig an. Nun tritt er / In die Ebne
silberprangend, / Und die Ebne prangt mit ihm, / Und die Flùsse von der
Ebne / Und die Bàche von den Bergen /Jauchzen ihm und rufen: Bruder! /
Bruder, nimm die Bruder mit, / Mit zu deinem alten Va-ter, / Zum dem ew'gen
Ozean [...] // Und nun schwilit er / Herrlicher; ein ganz Geschlechte /
Tragt den Fùrsten hoch empor! / Und im rollenden Triumphe / Gibt er
30 Primo cerchio - Fiume e montagna
Làndern Namen, Stàdie / Werden unter seinem FuB. //
Unaufhaltsam rauscht er welter, / Làfit der Tùrme Flam-mengipfel, /
Marmorhàuser, eine Schópfung / Seiner Fùl-le, hinter sich. //
Zedernhàuser tràgt der Atlas / Auf den Riesenschuitem; sausend / Wehen
ùber seinem Haupte / Tausend Flaggen durch die Lùfte, / Zeugen seiner
Herr-lichkeit. // Und so tràgt er scine Brùder, / Seine Schàtze,
seine Kinder / Dem erwartenden Erzeuger / Freudebrau-send an das Herz (Inselausgabe,
Gedichte I, p. 119; cfr. tr. it. in Poesie liriche, tr. di
O. Ferrari, Riccardo Ricciardi, Mi-lano-Napoli 1951, pp. 59-61).
Le prime due strofe dell'inno di Hólderlin II Reno, invece:
Nell'edera buia sedevo, alla porta
Della foresta, proprio quando il meriggio d'oro
Per visitare il fonte scendeva
Le scale dell'Alpe,
Che per me è la rocca dei numi,
Costruita da mano divina, '
Secondo l'antica voce, ma donde
Più d'un segreto verdetto
Giunge ancora agli uomini: di lì
Imprevisto ebbi il senso
D'un destino, che appena poc'anzi
Mi si era, in calda ombra
Molto seco conversando, l'anima
Allontanata verso l'Italia
E più oltre alle coste di Morea.
Ma ora, là dentro ai monti,
Nel profondo sotto le argentee dme
E fra il verde lieto,
Dove i boschi rabbrividendo
E le teste delle rupi s'affollano
A guardarlo per giorni,
Là nel più gelido abisso udii
Gemere a liberazione l'adolescente: e lo udivano furente
Il fenomeno e lo sguardo correlato
31
Accusare la Madre Terra
E il Tonante che l'ha generato,
I genitori, mossi a pietà,
Ma i mortali fuggivano il luogo,
Che metteva paura, quando al buio
Nelle catene si voltolava
La collera del Semidio.
Im dunkein Efeu saB ich, an der Pforte / Des Waldes,
eben, da der goldene Mittag, / Den Quell besuchend, he-runterkam / Von
Treppen des Alpengebirgs, / Das mir die góttlichgebaute, / Die Burg der
Himmlischen heiBt / Nach alter Meinung, wo aber / Geheim noch manches
ent-schieden / Zu Menschen gelanget; von da / Vernahm ich ohne Vermuten
/ Ein Schicksal, denn noch kaum / War mir im warmen Schatten / Sich
manches beredend, die Seele / Italia zu geschweift / Und fernhin an die
Kùsten Moreas. // Jezt aber, drin im Gebirg, / Tief unter den sil-bemen
Gipfein / Und unter fróhiichem Grùn, / Wo die Wàlder schauernd zu ihm,
/ Und der Felsen Hàupter ùbe-reinander/ Hinabschaun, taglang, dort/ Im
kàltesten Ab-grund hórt/Ich um Eriósungjammern/ DenJùngling, es
hórten ihn, wie er tobt', / Un die Mutter Erd ankiagt', / Und den
Donnerer, der ihn gezeuget, / Erbarmend die El-tern, doch / Die
Sterbiichen flohn von dem Ort, / Denn furchtbar war, da lichtios er / In
den Fessein sich wàlzte, / Das Rasen des Halbgotts (Grafie
Stuttgarter Ansgabe II, pp. 142-143; tr. it. cit. [cfr. qui p. 16],
p. 195).
Ciò che Hólderlin vede nel fiume supera evidentemente
ciò che è accessibile allo sguardo moderno -perfino a quello di Goethe.
Si tratta di una realtà nu-minosa; di una «semidivinità», per usare
il suo stesso concetto. Essa non è sospesa al di sopra
dell'imme-diatamente esperibile e non ne costituisce nemmeno la
personalizzazione poetica, bensì è la cosa naturale stessa. Il fiume
reale è per lui fin dall'inizio qualcosa
32
Primo
cerchio - Fiume e montagna
che trascende il significato che la geografia o anche la
scienza della cultura3 attribuiscono a questa parola. Da esso
emerge un viso, una figura, qualcuno rivolto a chi è capace di vedere.
Nel suo scaturire e nel suo trasformarsi si compie un destino. Ma per il
fatto di vedere, il vate stesso è preso. Egli non riesce più a
staccarsi. Non è più in grado di assumere nel loro senso banale le
cose che incontra, come colui che è assorbito, ma anche protetto dal
consueto. Egli deve rimanere un visionario, annunciando ciò che ha
visto e partecipandovi in qualche modo. La sua vita perso-n?;e viene
implicata entro ciò che è contemplato. Anzi, solo per il fatto di
essere votato e segnato fin dalla nascita, egli ha potuto diventare un
vate.
In tal modo la poesia di Hólderlin scaturisce nel modo
più profondo dalla visione4. Ciò che la visione vede è
ogni volta una figura in sé conclusa, che tuttavia interpreta l'intera
esistenza. Così il fiume intende ciò che è costituito dallo scorrere;
ciò che viene da un'origine e si precipita verso una fine; verso un
compimento che allo stesso tempo è tramonto. Esso intende l'impeto che
viene fratto dall'ostacolo, ma che grazie a questo acquista la sua
forma; ciò che minaccia di dissolversi e che deve essere spinto in una
dirczione chiara attraverso la costrizione. Da ciò che scorre via via
emergono le forme definite dell'esistenza:
abitazioni, ordini, opere, simboli, maschere. Essi
vengono da ciò che scorre, si consolidano e sussistono, pronti per
essere subito travolti dallo stesso scorrere per nuovamente perire ...
Tutto questo esprime il fiume; ma come realtà misteriosa, percepita da
un'esperienza di tipo religioso ad essa correlata, appunto da una
visione. ;
FIUMI E MARI
II fenomeno è stato finora descritto in termini
generali; adesso si tratta di analizzarlo partendo da alcune forme
caratteristiche. Iniziarne con Heidelberg-.
Come l'uccello del bosco s'invola sopra le cime, Si
landa sul fiume che accanto d corre splendendo, Agile e forte il ponte
Che di carri e d'uomini suona.
Come mandato da dèi, una volta m'avvinse un incanto
Sopra quel ponte, mentre l'attraversavo, E di laggiù nello sfondo dei
monti Malioso m'appariva il lontano,
E il giovane fiume fuggiva, ilare e fosco, alla piana
Come il cuore che oppresso dalla sua troppa bellezza, Per trapassare
amando Nei flutti del tempo si scaglia.
Sorgenti avevi, avevi al fuggitivo Fresche ombre donato
e lo seguivan le rive Tutte coi loro sguardi, ne tremava Sulle onde
l'immagine amabile.
Ma sulla valle cadeva a piombo il titanico Castello,
provato dal fato, ai fondamenti Arato dalle folgori; -Pur versava
l'eterno sole •
34 Primo cerchio - Fiume e montagna |
I Ringiovanente luce sul decrepito i Gigante e la
virente edera i cespi; S Amorose immagini I Sussurravano giù sulla
rocca, :j
•i E arbusti in fiore fino alla valle serena t
''€
Dove appoggiate al colle o inclini alla riva i Le tue
stradette gaie 5 In un profumo di giardini dormono.
Wie der Vogel des Walds ùber die Gipfel fliegt, /
Schwingt sich ùber den Strom, wo er vorbei dir glànzt, / Leicht und
kràftig die Brùcke, / Die von Wagen und Menschen tónt. i // Wie von
Góttern gesandt, fesseit' ein Zauber einst / Auf die Brùcke mich an,
da ich vorùber ging, / Und herein in die Berge / Mir die reizende Ferne
schien, // Und der " Jùngling, der Strom, fort in die Ebne zog, /
Traurigfroh, * wie das Herz, wenn es, sich selbst zu schón, / Uebend
un- :
terzugehen, / In die Fluten der Zeit sich wirft. //
Quellen ? hattest du ihm, hattest dem Flùchtigen / Kùhle Schatten *
geschenkt, und die Gestade sahn / Ali im nach, und es --bebte
/ Aus den Wellen ihr liebiich Bild. // Aber schwer in das Tal hing die
gigantische, /Schicksaiskundige Burg nieder bis auf den Grund, / Von den
Wettern zerrissen; / Doch die ewige Sonne goB// Ihr verjùngendes Ucht
ùber das alternde / Riesenbild, und umher grùnte lebendiger / Efeu;
freundiiche Bilder / Rauschten ùber die Burg herab. // Stràuche
blùhten herab, bis wo im heitern Tal, / An den Hùgel gelehnt, oder dem
Ufer hold, / Deine fróhii-chen Gassen / Unter duftenden Gàrten ruhn
(il, pp. 14-15; tr. it. dt., p. 49)5.
Tutto è pieno di movimento. L'uccello vola sopra i le
cime; il ponte si lancia sul fiume; sul pónte stesso passano i carri in
viaggio e la strada dell'uomo. Per i questa strada viene il poeta. Si
sofferma alla testa del ponte e guarda lontano. In quella dirczione,
sotto di lui, scorre anche il fiume; anche lui va lontano. Il mo-
Fiumi e mari
35
vimento dello sguardo come quello del fiume vengono
accolti dalle rive: esse «lo seguono coi loro sguardi», nel riflesso
cioè che rimane sul posto, pur dando l'illusione di scorrere via. Anche
la città, questa struttura solidamente fondata e massiccia, è mossa.
Per via del suo peso «titanico», su cui poggia una storia molto
antica, «il castello» cade sulla valle «a piombo». Sulla rocca
«amorose immagini sussurravano»: tutte le forme del rinverdire e
fiorire; cespugli, prati, fiori, tutto quello che cresce lungo il pendio
della montagna e con amena copiosità discende fin giù nella città che
«gaia» dorme, s
In questo movimento è entrato colui che guarda. Ha
attraversato il ponte - in quel momento «un incanto mandato come dagli
Dèi m'avvinse sopra quel ponte mentre l'attraversavo»: il tocco
visionario attraverso cui tutto cambia. A partire da esso, il castello
viene visto come «provato dal fato», come «decrepito gigante»; a
partire da esso le «immagini» discendono in un «sussurrare» e le vie
«gaie [...] dormono». Dal castello scaturisce tutto il movimento della
poesia. Esso non viene proiettato esteticamente su ciò che è
obiettivamente dato o sentito liricamente; si manifesta bensì
all'occhio visionario come un mistero che domina ovunque. Il medesimo
tocco eleva anche la vita personale a un momento culminante: il fiume è
«ilare e fosco» a un tempo, come il cuore che «oppresso dalla sua
troppa bellezza / Per trapassare amando / Nei flutti del tempo si
scaglia». E l'istante dionisiaco in cui il senso dell'esistenza e
l'esperienza del bello giungono al limite intcriore ed in cui la vita,
superandoli, si spinge verso il Tutto, ma ciò vuoi dire:
verso la fine. Tutto ciò è «il fiume»: dismisura
della ricchezza che desidera donarsi; sovrabbondanza della
36 Primo cerchio - Fiume e montagna
felicità da cui si leva la tristezza; un uscire dalla
forma d'esistenza, sicura del suo esser presente, del paesaggio e della
patria intcriore e tendere verso la lontananza infinita, dove aspetta la
fine; vita che si compie nello scorrere e che perisce nella misura in
cui diventa potente ... Eppoi è il tempo: poiché «tempo» significa
per Hólderlin non una semplice successione di ciò che avviene, ma la
fluidità dell'esistenza stessa. Tempo intcriore quindi, che scorre più
o meno veloce, a seconda dell'intensità della vita (II, infra).
Dapprima vi è il moto intcriore, raccolto nell'immagine
che lo sguardo domina; poi il movimento mirato, che tende ad un
obiettivo lontano - lo stesso avviene nel Canto del Destino di
Iperione; solo che il 1 secondo movimento non scaturisce dal primo,
ma si * compie in contraddizione ad esso.
All'inizio della poesia vi è presente puro, esistenza
compiuta, pienezza mossa nella quiete:
Senza destino, come lattante ;
Che donna, respirano i superi;
Serbato casto
In umile bocdo
È in etemo fiorire
Per loro lo spirito
E gli occhi beati
Brillano in tadta '
Eterna chiarità. ,
Schicksallos, wie der schlafende / Sàugling, atmen die
Himmlischen; /. Keusch bewahrt / In bescheidener Kno-spe, / Blùhet ewig
/ Ihnen der Geist, / Und die seligen Augen / Blicken in stiller / Ewiger
Klarheit (i, p. 265; tr. it.dt.,p.37).
Poi il movimento mirato - non verso la lontanan-
Fiumi e mari
37
za, ma precipitando in profondità; in una profondità
fatale, inconsapevolmente sotto costrizione:
Ma a noi non è dato
In luogo nessuno posare,
Dileguano, cadono,
Soffrendo gli uomini
Alla cieca, da una
Ora nell'altra,
Come acqua da scoglio
A scoglio gettata
Per anni nell'incerto giù.
Doch uns ist gegeben, / Auf keiner Stàtte zu ruhn, / Es
schwinden, es fallen / Die leidenden Menschen / Blind-lings von einer /
Stunde zur andern, / Wie Wasser von Klippe / Zu Klippe geworfen, /Jahriang
ins Ungewisse hi-nab (I, p. 265; tr. it. dt., p. 39).
E di nuovo l'acqua; ma non il fiume che cresce
pazientemente, bensì lo scrosciante torrente di montagna. Anche in esso
si manifesta la vita, la cui natura consiste nel tendere in profondità,
verso la fine; ma ora non sotto la forma dell'abbondanza dionisiaca, ma
sotto la costrizione del destino. È caduta che ricorre alla fine dell'Arcipelago:
... là in quei monti
Mandate ogni dì un lamento alla valle della battaglia
Dai picchi dell'Età, o erranti acque mandate giù il
canto
del fato.
... dort, dort von den Bergen / Klagt ins Schlachttal
tàglich herab, dort singet von Oetas / Gipfein das SchicksalsUed, ihr
wandeinden Wasser, herunter! (n, p. Ili; tr. it. dt, p. 117).
Raggiungendo il massimo vertice del dionisiaco, lo
38 Primo
cerchio - Fiume e montagna
stesso contenuto ricorre nella Poesia Voce del popolo
(seconda versione). Dapprima il mito del fiume stesso: '
Indifferenti alla nostra saggezza scrosciano ben anche i
fiumi, e tuttavia
Chi non li ama? E sempre mi commuovono II cuore, quando
li sento lontanare, Carichi di presagi, non per la mia strada, Ma la
sicura che li guida al mare.
Oblioso di sé, pronto sempre il desio Degli dèi a
compiere, troppo dodle Ciò ch'è mortale, ad occhi aperti Correndo
rapido per il suo sentiero,
Prende la via più breve del ritomo nel tutto;
Così precipita il fiume in cerca di pace, lo strappa,
Lo trae contro sua voglia, di scoglio In scoglio, giù, senza alcun
freno,
La brama meravigliosa d'inabissare [...].
Um unsre Weisheit unbekùmmert / Rauschen die Strème
doch auch, und dennoch, // Wer liebt sie nicht? und im-mer bewegen sie /
Das Herz mir, hór ich ferne die Schwindenden, / Die Ahnungsvollen,
meine Bahn nicht, / Aber gewisser ins Meer hin eilen. // Denn
selbstverges-sen, allzubereit den Wunsch / Der Getter zu erfullen,
er-greift zu gern / Was sterbiich ist, wenn offnen Augs auf/ Eigenen
Pfaden es einmal wandeit, //Ins Ali zurùck die kùrzeste Bahn; so
stùrzt / Der Strom hinab, er suchet die Ruh, es reiBt, / Es ziehet
wider Willen ihn, von / Klippe zu Klippe den Steuerlosen //Das
wunderbare Sehnen dem Abgrund zu [...] (il, p. 51; tr. it. cit-, p. 65).
Ciò che è nato e confinato entro un'esistenza
particolare brama di ritornare al tutto. Con questo non
Fiumi e mari
39
si allude alla connessione sperimentabile delle cose,
dei processi, delle materie e delle forze, bensì all'unità assoluta
che sta dietro ad ogni essere particolare. Questo tutto è il grembo
dell'esistenza, dal quale si è elevata la vita e al quale ritorna
quando muore. Più l'essere è grande, più la sua vitalità è pura,
tanto più è potente la sua spinta verso la fine. Quando la vita sale,
cresce la sua inclinazione verso la morte.
Ciò vale anche per il popolo. «Popolo» è vita d'un
contesto più grande; è una vita che attraversa tempi più lunghi e
svolge contenuti più vasti che non quella del singolo. Siccome non è
sostenuta da un unico essere, è più esposta a scosse incessanti, di
esaltazione come di distruzione; essa è «fiume» in un senso più alto
che non l'essere individuale. Tanto più fortemente in esso la vita
tende a ritornare verso la profondità. Così arriva infine il momento
sublime e tremendo del culmino, quando l'impeto «sacro» prorompe:
L'illimitato affascina e anche i popoli
Son presi dal gusto della morte, e le audad ,
Città, dopo aver cercato il meglio,
Di anno in anno continuando l'opera,
Hanno incontrato una fine sacra [...].
Das Ungebundne reizet und Vólker auch / Ergreift die
Todeslust und kùhne / Stàdie, nachdem sie versucht das Beste, /
VonJahr zuJahr forttreibend das Werk, sie hat/ Ein heilig Ende troffen
[...] (n, p. 51).
Così è accaduto alla città di Xanto6 in
Asia Minore, situata presso il fiume omonimo, quando venne assediata
dall'esercito di Bruto. In quel momento è stata assalita dal «gusto
della morte»:
40 Primo cerchio -Fiume e montagna
Fu la bontà di Bruto ad eccitarli. Poiché Quando il
fuoco eruppe, egli si offrì Di aiutarli, lui stesso, il condottiero,
Sebbene di fronte a quelle porte li assediasse.
Pur dagli spalti i servi essi gettarono, Che egli
inviò. Più vivo ne fu II fuoco ed essi ne gioirono, e a loro Le mani
Bruto tendeva
E tutti eran fuori di sé. Un urlo
Si levò, e giubilo. Giù nella fiamma si gettarono
Uomini e donne, e dei fanciulli l'uno
Dal tetto, sulla spada paterna l'altro.
Es reizte sie die Gùte von Brutus. Denh / Als Feuer
ausge-gangen, so bot er sich / Zu helfen ihnen, ob er gleich, als
Feldherr, / Stand in Belagerung vor den Toren.// Doch von den Mauem
warfen die Diener sie, / Die er gesandt. Lebendiger ward darauf/ Das
Feuer und sie freuten sich und ihnen/ Strecket' entgegen die Hànde
Brutus // Und alle waren auBer sich selbst. Geschrei / Entstand und
Jauchzen. Drauf in die Fiamme warf / Sich Mann und Weib, von Knaben
stùrzt' auch / Der von dem Dach, in der Vàter Schwert der (il, pp.
52-53).
II
Finora il fiume era una forma della vita, il fenomeno
del tempo vivente. Adesso diventa espressione della tensione dello
spazio in cui si compie questa vita. L'esempio più semplice è la
poesia II Neckar.
Nelle tue valli il cuore mi si destò Alla vita: mi
giocavano intorno le tue onde E dei leggiadri colli che ti conoscono.
Viandante, non m'è estraneo nessuno. [...]
Fiumi e mari
41
Le fonti montane correvano a tè, E con loro anche il
mio cuore, e d rapivi Giù verso il Reno maestoso, verso . Le sue
atta e le isole liete.
E ancor bello mi pare il mondo, e l'occhio
Con desiderio mi corre alle attrattive della terra,
All'oro del Fattóio7, alle riviere
Di Smirne, al bosco d'Ilio. Anche vorrei
Spesso al Sunio sbarcare, sul tadto Sentiero ricercare
le tue colonne. Olimpio, Avanti che la bufera e gli anni Anche tè
seppelliscano col tempio
D'Alena e con le sue statue degli dèi, Che già da gran
tempo, orgoglio del mondo Che non è più, d levi solitario. E voi, O
belle isole di Ionia, dove l'aria marina
Le rive ardenti affresca e nel laureto spira Quando il
sole da calore alla vite [...]
E forse a voi, isole di Ionia, a voi Mi porterà il mio
nume tutelare; ma là pure Avrò in cuore fedelmente il mio Neckar Con i
suoi prati ameni e i salid alle sponde.
In deinen Talem wachte mein Herz mir auf/ Zum Leben,
deine Wellen umspielten mieti, / Und ali der holden Hù-gel, die dich, /
Wanderer! kennen, ist keiner fremd mir // [...] Der Berge Quellen eilten
hinab zu dir, / Mit ihnen auch mein Herz und du nahmst uns mit, / Zum
stiller-habnen Rhein, zu seinen / Stàdten hinunter und lustgen Insein.
// Noch dùnkt die Welt mir schón, und das Aug entflieht / Verlangend
nach den Reizen der Erde mir, / Zum goldenen Paktoi, zu Smymas / Ufer,
zu Ilions Wald. Auch mócht ich // Bei Sunium oft landen, den stummen
42 Primo cerchio - Fiume e montagna
Pfad / Nach deinen Sàulen fragen, Olympion! / Noch eh
der Sturmwind und das Alter / Hin in den Schutt der Athenertempel // Und
ihrer Gottesbilder auch dich be-gràbt, / Denn lang schon einsam stehst
du, o Stolz der Welt, / Die nicht mehr ist. Und o ihr schónen / Insein
lo-niens! wo die Meerluft // Die heiBen Ufer kùhit und den Lorbeerwaid
/ Durchsàuseit, wenn die Sonne den Wein-stock wàrmt // [...] Zu euch,
ihr Insein! bringt mich viel-leicht, zu euch / Mein Schutzgott einst;
doch weicht mir aus treuem Sinn / Auch da mein Neckar nicht mit seinen /
Uebiichen Wiesen und Uferweiden (il, pp. 17-18).
Qui il fiume è un «viandante». L'inizio del cammino
è prestabilito: la sorgente. Anche il traguardo è , prestabilito: per
il Neckar il Reno, per il Reno il ma- ;
rè. Il letto del fiume costituisce la via, egualmente 1
predeterminata. Anche l'uomo è un viandante. An- | ch'egli parte da
fatti prestabiliti: dalla nascita e dalla
sua destinazione che non deve mai dimenticare, allo a
stesso modo come il fiume non dimentica la propria origine; il
grembo, infatti rimane una zona profonda che passa al di sotto del corso
seguito dalla vita e da f cui la vita, costantemente reimmergendovisi,
trae la ? propria norma. Anche l'uomo deve staccarsi dalla i
propria origine e partire, ma anch'egli non deve ten- I dere verso
l'arbitrario, ma verso un obiettivo determi- i nato. Egli deve cercare
il polo opposto alla sicurezza j e protezione del grembo: la vastità
del mondo. Egli * deve tendere l'arco dell'esistenza, fino a raggiunger-
j ne la terra straniera; ma non una qualsiasi, bensì , quella
assegnatagli, la controreplica della patria. Tale »
èperHólderlinlaGrecia. I
La Germania e la Grecia sono per lui tutt'uno, co- | me
i punti focali di un'ellisse la cui tensione da luogo s
?si
Fiumi e mari
43
al delinearsi della curva. Essi sono talmente correlati
che non appena viene menzionato uno dei due nella sua poesia, anche
l'altro appare/sia pure con un breve riferimento. Ciò che lo attira non
è una connessione esteriore, ma una compresenza vivente: i due formano
insieme un tutt'uno.
Anzi, la relazione è ancora più determinata. Essa non
comprende semplicemente «la Germania»; questo sarebbe troppo grande,
non sarebbe abbastanza terra natia, sorgente, grembo; bensì la
«Svevia». Sve-via-Grecia, ecco la tensione. Stoccarda è posta
addirittura in relazione ad Atene. Ma non sotto forma di denominazioni
composte dal suono ingrato come «Atene del Neckar», bensì in modo
intcriore, essenziale, come per esempio nella grande poesia che porta il
nome della capitale sveva.
Ma ciò che unisce i paesi è il fiume. Esso è la via
del pellegrinaggio e allo stesso tempo il viandante, il pellegrino
stesso. Esso è lo scorrere vivente che collega gli spazi della partenza
e dell'arrivo. Costeggiandolo, l'uomo viaggia dalla Svevia-Germania alla
Grecia. Anzi, quando è sveglio, anticipa già in patria la lontananza,
ritrovando nella lontananza la patria, come nelle strofe della poesia La
•migrazione3.
In una forma del tutto visionaria lo stesso senso si
manifesta nell'inno tardo L 'Istro. Esso è diffìcile da
interpretare nel dettaglio ed ogni sua frase richiede un'analisi
accurata9. Analogamente a La migrazione, incontriamo
dapprima un popolo nomade partito dall'Asia:
Vieni ora, fuoco!
Ansiosi siamo ,
Di guardare il giorno.
44 Primo cerchio - Fiume e montagna
E quando la prova
È passata per le ginocchia,
Piace sentire il boschivo grido.
Ma noi cantiamo, dall'Indo
Venuti qui di lontano
E dall'Alfeo10; cercato a lungo abbiamo
Ciò ch'era a noi destinato11,
Ne senza ali si può
Afferrare di slancio
Nemmeno quanto è più presso
E varcare all'altra riva.
Ma qui vogliamo stabilirci,
Che fiumi fanno ferace
II paese. Dove alta è l'erba
E vanno d'eslate
Gli animali a bere,
Vi vanno gli uomini pure.
Jetzt komme, Feuer! / Begierig sind wir / Zu schauen den
Tag, / Und wenn die Prùfung / Ist durch die Knie gegan-gen, / Mag einer
spùren das Waldgeschrei. / Wir singen aber vom Indus her /
Fernangekommen und / Vom Al-pheus, lange haben / Das Schickiiche wir
gesucht, / Nicht ohne Schwingen mag / Zum Nàchsten einer greifen /
Geradezu / Und kommen auf die andere Seite. / Hier aber wollen wir bauen.
/ Denn Strème machen urbar / Das Land. Wenn namlich Kràuter wachsen /
Und an den-selben gehn / Im Sommer zu trinken die Tiere, / So gehn auch
Menschen daran (il, p. 190; tr. it. dt., p. 239).
Il popolo è stato in cammino durante la notte e adesso
chiama «il fuoco», il sole. È stanco; la prova è passata per le
ginocchia, nelle «ginocchia» si avverte la fatica del camminare, ma
anche la commozione dell'anima. Esso vuole sentire «il boschivo
grido», l'allegro canto mattutino degli uccelli, che viene
«dall'Indo», dalla lontana Asia, dalla patria di Dioniso e ha
Fiumi e mari
45
attraversato, costeggiando l'«Alfeo», la Grecia e si
è diretto verso nord.
Cerca «ciò ch'era [...] destinato». L'«Asia» è
abbondanza dionisiaca; questa dev'essere contenuta per dar modo alla
vita di prosperare - il tema verrà sviluppato ampiamente nell'inno II
Reno. Questo contenimento è «ciò ch'era [...] destinato», il
«dovuto», e si trova nel nord più aspro. I fiumi indicano la strada:
l'Indo, l'Alleo, il Danubio. Il fiume unisce, ma allo
stesso tempo divide: una riva dall'altra. In tal modo la sua immagine
diventa espressione della distanza esistenziale tra il momento
dionisiaco della partenza e il freno di «ciò ch'è destinato», anche
se questo freno è assai «vicino» - vedi la vicinanza delle montagne
divise all'inizio dell'inno Palmo. È quindi difficile superare
questa distanza, e vi è bisogno delle «ali» per «varcare all'altra
riva»: della forza del salto, del volo, del superamento.
Sono di nuovo i fiumi a fare «ferace il paese», a
creare uno spazio di vita per le piante, gli animali e gli uomini. Così
il cammino arriva alla destinazione:
«Ma qui vogliamo stabilirci». Poi appare l'Istro
stesso, ossia il corso inferiore del Danubio:
Lo chiamano l'Istro
Ha bella dimora. Arde delle colonne
La fronda e tremola. Dal folto diritte
Sorgono alla rinfusa: su esse,
Secondo ordine, sporge
II tetto di rupi. E non
Mi stupisce ch'egli abbia
Èrcole come ospite invitato,
Di lungi splendendogli, alle falde d'Olimpo,
Quando per cercarsi ombra
Venne dall'Istmo ardente12,
46 Primo cerchio - Fiume e.montagna
Che là grande cuore -
Avevano, ma abbisogna, per gli spiriti, ..,
Anche la frescura. Perdo quegli preferì migrare
Qui, alle sorgenti e alle ripe gialle
Alto odoranti nell'aria e nere
D'abetaie, ove nel fitto
II cacciatore ama vagare
Di meriggio e udibile è la crescita
Nei resinosi alberi dell'Istro.
Man nennet aber diesen den Ister. / Schón wohnt er. Es
brennet der Sàulen Laub, / Und reget sich. Wild stehn / Sie
aufgerichtet, untereinander; darob / Ein zweites MaB, springt vor / Von
Felsen das Dach. So wundert / Mich nicht, da6 er / Den Herkules zu Gaste
geladen, / Fern-glànzend, am Olympos drunten, / Da der, sich Schatten
zu suchen, / Vom heiBen Isthmos kam, / Denn voli des Mutes waren /
Daselbst sie, es bedarf aber, der Geister we-gen, / Der Kùhiung auch.
Darum zog jener lieber / An die Wasserquellen hieher und gelben Ufer, /
Hoch duft-end oben, und schwarz / Vom Fichtenwaid, wo in den Tie-fen/
EinJàger gern lustwandeit/ Mittags, und Wachstum hórbar ist / An
harzigen Bàumen des Isters (il, pp. 190-191; tr. it. cit., pp.
240-241).
Il modo di descrivere qui il paesaggio dovrà ancora
essere discusso (IV, infra, p. 597). Nella forma par-ticolarmente
ciclica prediletta dalla poesia di Hólder-lin, i temi della prima
strofa ritornano: il mistero del porre freno, espresso dal refrigerio
che, Eracle, aggravato dalla dismisura delle sue fatiche, vi ha trovato.
Poi continua:
II quale, però, sembra quasi
Che vada a ritroso ,
E io penso debba venire , ,
Da oriente. ' , ••.'•••
Fiumi e mari •• . " 47
Molto d sarebbe
Da dirne. E perché
Sta così addosso ai monti? L'altro,
II Reno, se n'è andato
Da parte [...].
Der scheinet aber fast / Rùckwàrts zu gehen und / Ich
mein', er mùsse kommen/ Von Osten. / Vieles wàre/ Zu sagen davon. Und
warum hàngt er / An den Bergen ge-rad? Der andre, / Der Rhein, ist
seitwàrts / Hinweggegan-gen [...] (n, p. 191; tr. it. dt., p. 241).
Il fiume va «avanti» e «a ritroso». D movimento che
giunge dalle lontananze dell'Indo, termina qui: l'altro, che parte dalla
patria tedesca, l'ha captato. Essi si compenetrano. Questo è un
mistero: «Molto ci sarebbe da dirne» Diventa evidente un'unità che
comprende l'«Asia insieme alla Grecia» e «la Germania».
Nell'Zrtro già si accenna al fatto che il Reno «se
n'è andato da parte». La dirczione dello spazio di movimento da esso
creato va da Nord a Sud. Essa emerge chiaramente nella poesia II
viandante.
In Hólderiin non viene tematizzato lo spazio esteriore,
la giustapposizione astratta dei corpi, bensì lo spazio vivente. Esso
si trova allo stesso tempo fuori e dentro. Esso costituisce non solo la
possibilità di estendersi per il movimento fisico, ma anche quella
intcriore, dando luogo, a seconda del suo potere di inarcarsi, a
differenti spazi della vita stessa. Ma nell'J-stro diventa
evidente ancora un'altra tensione di spazio evita:
[...] Non vanno senza ragione '"
Nel secco i fiumi. Ma come? È ch'essi debbono
Fare da lingua. Un segno d vuole, '
48 Primo cerchio - Fiume e montagna
Nient'altro, chiaro e netto, che Sole
E Luna porti nell'animo inseparabili,
E prosegua di e notte, e i Celesti .
Al caldo ci si sentano l'un l'altro.
Perdo quelli son pure
La gioia dell'Altissimo. In che modo verrebbe,
Altrimenti, quaggiù? E, come Hertha13 verdi,
Sono essi i figliuoli del cielo [...].
[...] Umsonst nicht gehn / Im Trocknen die Strème. Aber
wie? Sie sollen namlich / Zur Sprache sein. Ein Zeichen braucht es /
Nichts anderes, schlecht und recht, damit es Sonn / Und Mond trag im
Gemut, untrennbar, / Und fort-geh, Tag und Nacht auch, und / Die
Himmlischen warm , sich fùhlen aneinander. / Darum sind jene auch / Die
S Freude des Hóchsten. Denn wie kàm er / Herunter? Und wie Hertha
grùn, / Sind sie die Kinder des Himmeis [...] (Il, p. 191; tr. it.
cit., p. 239).
I fiumi non scorrono «senza ragione», senza senso.
Essi devono «fare da lingua», essere «segni» che parlano. Ma di che
cosa? Della tensione degli ambiti dell'esistenza in generale. Ma si
tratta di analizzare ogni « parola. I fiumi scorrono «nel secco»:
vengono intro- * dotti gli antichi concetti elementari del «secco» e
del-l'«umido». Essi, che sono opposti, vengono conciliati dal corso
del fiume. Poi: il «segno» porta nell'animo «Sole e Luna [...]». Con
questo si intende dire che entrambi i corpi celesti, l'uno durante il
giorno, l'altro di notte, vengono riflessi dal suo specchio. Solitamente
separati - quando sopravviene uno, l'altro deve an- J darsene - si
trovano uniti in esso. Ogni separazione significa condizione critica,
nostalgia, dolore; qui essa è superata. Ciò vale anche per la
separazione di «di e notte», di quegli ambiti dell'essere determinati
dal sole e dalla luna, dalla chiarezza e dalle tenebre, dall'or-
Fiumi e mari
49
dine e dal caos, dall'altezza dei cieli e dal grembo
della terra- Nel fiume che, scorrendo costantemente e coerentemente,
«se ne va», essi vengono riuniti.
I fiumi sono «la gioia dell'Altissimo». «In che modo
verrebbe altrimenti quaggiù»14. «L'Altissimo» è il
ciclo. Come «viene quaggiù»? Innanzi tutto attraverso
l'immediatamente percepibile: attraverso il riflesso nell'acqua. Allo
stesso tempo però si abbassa anche l'etere dominante stesso, la regione
dell'altezza regnante e feconda, immergendosi come potenza divina in
profondità, nella vita della terra che attende, e nasce l'unità di
sopra e sotto, di cielo e terra, in un susseguirsi di nascite. In tal
modo il fiume è l'«ani-mo» vivente della terra stessa, la sua
interiorità piena di amore che compie l'unità, la sua «intimità».
Tutto ciò accade perché «i Celesti al caldo ci si
sentano l'un l'altro». Gli dèi non sentono; abbiamo udito cosa dice II
canto del Destino di loro. Essi non provano sentimenti, essi sono
soltanto; non provano amore, lo suscitano soltanto. Di questo hanno
bisogno; è questa l'unica cosa necessaria a loro, ricchi e privi di
bisogni. Essi si spingono verso gli esseri terreni che, per quanto
effimeri, hanno un cuore sensibile. Quando questi sentono gli dèi,
allora gli dèi sentono se stessi nel loro intimo (ili, infra, p.
367). Qui il fiume è un essere terreno tale che in esso gli dèi
possano sentirsi. Ma questi dèi sono divisi; Essi sono la forma
numinosa di ambiti dell'esistenza che per loro natura sono separati (III,
infra, p. 453). Giorno e notte non possono stare insieme; quando
viene uno, l'altro se ne deve andare. Questo è dolore; il dolore di per
se stesso, la sofferenza mitica. Qui, nell'«animo» del fiume che
riflette prima questo, poi quello, e che
50 Primo cerchio - Fiume e montagna
scorrendo - ricordando - li conserva entrambi, essi
possono stare insieme. Così nell'intimità della vita che scorre nasce
l'unità degli ambiti del mondo tra loro separati e delle regioni
dell'esistenza: il mondo |, che si realizza nella pace. "
III ,
, '
L'immagine del fiume si presenta in termini nuovi
all'interno della poesia Al fonte del Danubio. Essa inizia in
modo possente:
Come d'accordi stupendi alto dall'organo , ; ! Per
le sacre volte
Sgorgando puro da inesauste canne § II preludio,
destante, del mattino comincia '• E in vasti cerclii di navata
in navata ? Il refrigerio si versa della melodica piena 1 E fino nelle
fredde ombre ricolma | D'entusiasmi le mura, s Ma ora si desta, ora
sorgendo al sole :: | Della festa risponde ',: * II coro
dei fedeli; così giunse "" f La parola da Oriente a noi, 5 E
di Parnaso alle rupi e al Citerone, 3 O Asia, odo l'eco tua che si
frange ' ' j Al Campidoglio e subito giù dalle Alpi 3
'•M:
' .. ' ^
Straniera giunge ,1 A noi la risvegliatrice, I La voce
che forma gli umani. ^ |
I Denn, wie wenn hoch von der herrlichgestimmten, der
Or- »
gel / Im heiligen Saal, / Reinquillend aus den
unerschóp- " flichen Róhren, / Das Vorspiel, weckend, des Morgens
be- i
Fiumi e mari
51
ginnt / Und weitumher, von Halle zu Halle, /Der
erfri-schende nun, der melodische Strom rinnt, / Bis in den kalten
Schatten das Haus / Von Begeisterungen eriùllt, / Nun aber erwacht ist,
nun, aufsteigend ihr, / Der Sonne des Fests, antwortet / Der Chor der
Gemeinde; so kam / Das Wort aus Osten zu uns, / Und an Pamassos Felsen
und am Kidiàron hór ich, / O Asia, das Echo von dir und es bricht sich
/ Am Kapitoi undjàhiings herab von den Al-pen // Kommt eine Fremdiingin
sie / Zu uns, die Erwec-kerin, / Die menschenbildende Stimine (il, p.
126; tr. it. dt., p. 163).
La comunità si è radunata in chiesa. Dapprima tutto è
assorto nel silenzio. Poi attacca l'organo, scorre il fiume dei suoni,
ed in esso traluce il «sole della festa». La realtà numinosa si
avvicina; levandosi nel canto, lo spirito della comunità risponde e
tutto è pervaso di vita (m, infra, p. 402). Così, fluendo come
scorre il fiume dei suoni, continua la riflessione, viene «la Parola»,
«la voce che forma gli umani». E, come dimostra il brano successivo,
non si tratta del linguaggio in generale, ma di una parola particolare,
proferita da una voce particolare, attraverso cui soltanto però l'uomo
diventa un uomo vero. Questa parola non è un semplice segno semantico
oppure uno strumento di intesa, bensì una potenza, un essere. Esso non
è nato originariamente in un luogo qualsiasi, dal linguaggio comune
degli uomini, bensì in un luogo preciso, là dove si è manifestato in
assoluto ciò che è valido e sacro, in «Oriente». Nuovamente appare
la grande tensione, l'inarcarsi dello spazio cosmico: dair«0riente»
«a noi», daU'«Asia» alla comunità del villaggio svevo radunata nel
giorno di festa. Questa tensione è nuovamente costituita da un
«fiume», che possente scroscia: la parola, la voce. Il suo corso
52 Primo cerchio - Fiume e montagna
è segnato da grandi nomi: Asia, Parnaso e Citerone,
Campidoglio, Alpi e Germania. Per questa strada esso viene potente,
improvviso, non come qualcosa di terreno e noto, ma come «straniero»
che porta in sé il mistero del divino, l'estraneità numinosa.
La «voce» e la «parola» a cui qui si accenna sono
essenziali. Esse formano l'uomo, elevandolo in assoluto alla sua
esistenza autentica. A che cosa alludono quindi? La chiesa e la festa
nonché il nome «Asia» indicano che si tratta innanzitutto della
parola manife-statasi nel messaggio di fede, connessa però con
un'altra, come emerge dai grandi nomi dell'ambito culturale greco e
romano.
Si tratta comunque di una parola piena di potenza, il
mistero d'una divinità che risveglia. Ciò diventa evidente nei suoi
effetti: '
Stupore invase allora l'anime tutte '
Dei colpiti e notte
Fu sopra gli occhi dei migliori. ;
Poi che grande ha potere,
E flutto e rupe e infino la forza del fuoco -
Con arte l'uomo astringe
E più spada non cura
II nobile cuore, ma innanzi al divino
II forte resta annientato, '
E quasi somiglia alla fiera ' .' Che da soave gioventù
sospinta, :;• Vaga senza requie i monti E sente la sua forza ;
Nell'ardente meriggio. Ma quando
S'è dipartita fra zefiri ilari ;
La sacra luce e, con più fresco raggio,
Gioioso spirito arriva ;
Alla terra felice, cade affranta, non usa !
Fiumi e mari
53
A tanta bellezza e in dormiveglia s'assonna prima che
stelle si appressino:
Così anche noi: a molti s'è spenta
La luce degli occhi prima dei doni divini,
Degli amorevoli doni che di Ionia
Che d'Arabia ci vennero: ne s'allegrarono
Mai di cara dottrina, mai di soavi cand
La anime di quegli addormentati.
Pure vegliavano alcuni [...].
Da faBt* ein Staunen die Seele / Der Getroffenen ali und
Nacht / War ùber den Augen der Besten. / Denn vieles vennag / Und die
Flut und den Feis und Feuersgewalt auch / Bezwinget mit Kunst der Mensch
/ Und achtet, der Hochgesinnte, das Schwert / Nicht, aber es steht / Vor
Góttlichem der Starke niedergeschlagen, // Und gleichet dem Wild fast;
das, / Von sùBer Jugend getrieben, / Schweift rasdos ùber die Berg' /
Und fuhiet die eigene Kraft / In der Mittagshitze. Wenn aber /
Herabgefuhrt, in spielenden Lùften, / Das heilige Licht, und mit dem
kùhl-eren Strahi / Der freudige Geist kommt zu / Der seligen Erde, dann
eriiegt es, ungewohnt / Des Schónsten, und schiummert wachenden Schlaf,
/ Noch ehe Gestirn naht. So auch wir. Denn manchen eriosch / Das
Augenlicht schon vor den góttlichgesendeten Gaben, // Den Freund-lichen,
die aus lonien uns, / Auch aus Arabia kamen, und froh ward / Der teueren
Lehr und auch der holden Ge-sànge / Die Seele jener Entschlafenen nie,
/ Doch einige wachten [...] (Il, p. 127; tr. it. dt., pp. 163-165).
Questa parola viene dallo «spirito gioioso». Questo
concetto abbisognerà di ulteriore chiarimento (il, infra, p.
204; IV, infra, p. 516 e altrove). Non si tratta del fattore
logico-concettuale, e nemmeno di quello culturale-creativo, bensì di
una potenza religiosa che prende, scuote, solleva al di sopra dello
stato abituale, trasforma. Esperienze religiose universali di tipo
54 Primo cerchio - Fiume e montagna
mistico-dionisiaco e concetti cristiani dello Spirito'
Santo qui si compenetrano. Ciò diventa evidente nei versi che
descrivono come la parola nata dallo spirito investa coloro che non ne
sono ancora stati toccati. L'uomo tiene testa alla pura forza della
natura e alla potenza del nemico, ma l'elemento «pneumatico» lo scuote
- allo stesso modo come scuote «le fiere» che per Hólderlin sono
riferite allo spirito, sacre a Dioni-so e di natura dionisiaca esse
stesse15. Così come queste, pur superando gli sforzi fisici,
soccombono al soffio del respiro terrestre, alla «bellezza» suprema,
così l'uomo quando lo tocca ciò che in sé è più delicato di
qualsiasi. forza fisica, ciò ch'è alitato dallo spirito, la parola
sacra con la sua varietà di forme e la potenza del suo significato. Per
molti si è già oscurata in questo modo la sicura luce intcriore. -1
Le ultime frasi mettono maggiormente in evidenza le due
forme di «doni divini», contessuti nella copia di quel fiume
spirituale. Una è la «cara dottrina» e viene dall'Arabia; l'altra
sono i «soavi canti» che provengono «di Ionia». Nel seguito verranno
sviluppati più riccamente. Dapprima le parole provenienti
dalla Grecia: ;
!
;
*
' i . •• ' 'i A
[...] E migravano spesso contenti , . , ,£ Fra voi,
cittadini di belle atta, •: , | Alle gare ove, un tempo, in
segreto l'eroe accanto ai poeti ;
Sedeva invisibile, mirava i campioni e ridente | Lodava,
il lodato, i fanciulli nell'ozio serii. . J Un indefettìbile amore era
quello ed è ancora. ( E benché separati, proprio perdo d pensiamo, !
Gli uni gli altri, o voi lieti sull'Istmo, I Sul Cefiso, sul Taigeto. |
" "•' [...] Und sie wandelten oft /
Zùfrieden unter euch, ihr |
Fiumi e mari
55
Bùrger schóner Stàdte, / Beim Kampfspiel, wo sonst
unsichtbar der Heros / Geheim bei Dichtem saB, die Ringer schaut' und
làcheind / Pries, der gepriesene, die mùBigem-sten Kinder. / Ein
unaufhórlich Ueben wars und ists. / Und wohigeschieden, aber darum
denken / Wir aneinander doch, ihr Fróhiichen am Isthmos, / Und am
CephyB und am Taygetos (il, pp. 127-128; tr. it. dt., p. 165)16.
Questa parola è nata presso i «fanciulli nell'ozio
seri», i Greci, l'altra viene dalla Palestina, proferita dai messaggeri
dell'ambito biblico, i patriarchi e i profeti:
E pensiamo anche a voi, valli del Caucaso, Antiche
quanto siete, a voi paradisi di là E ai tuoi patriarchi, ai tuoi
profeti,
Asia, ai tuoi forti, o madre!
Che impavidi innanzi ai segni del mondo
Con sulle spalle il cielo e tutto il destino,
Interi giorni, radicati sui mond
Per primi seppero
Parlare soli
A Dio.
Auch eurer denken wir, ihr Tale des Kaukasos, / So alt
ihr seid, ihr Paradiese dort, / Und deiner Patriarchen und dei-ner
Propheten, / O Asia, deiner Starken, o Mutter! / Die furchtios vor den
Zeichen der Welt, / Und den Himmel auf Schuitem und alles Schicksal, /
Taglang auf Bergen gewurzeit, / Zuerst es verstanden, / AUein zu reden /
Zu Gott (n, p. 128; tr. it. dt., p. 165).
Queste due forme della parola: il messaggio dell'Asia
nella Bibbia e il messaggio della Grecia nella sua poesia costituiscono
per Hòlderlin un'unità indissolubile. Esse formano quella potenza che,
scaturen-
56 Primo cerchio - Fiume e montagna
do dalla «Rivelazione», ha destato lo spirito
dell'Occidente e plasmato l'umanità. Ma la fonte di entrambe le parole,
l'origine profonda di entrambe le forme dello spirito, il mistero non
nominato ne dai profeti ne dagli antichi aedi è ora proferito dal
poeta. Egli lo «nomina», «per sacra necessità», anch'esso afferrato
dallo spirito: è la natura.17.
[...] Riposano ora. Ma se voi,
E questo è a dire,
Voi antichi tutti, non diceste donde,
Noi ti nominiamo, per sacra necessità, nominiamo
Tè, o Natura: e nuovo, come dal lavacro, sorge
Da tè quanto nacque divino.
[...] Die ruhn nun. Aber wenn ihr, / Und dies ist zu
sagen, / Ihr Alten ali, nicht sagtet, woher? / Wir nennen dich,
heiliggenótiget, nennen, / Natur! dich wir, und neu, wie dem Bad
entsteigt/ Dir alles Góttlichgeborne (il, p. 128;
tr.it. dt., p. 165).
IV
La potenza che costituisce davvero propriamente lo
spazio d'esistenza dell'uomo nel suo contesto generale, ovvero la oikouméne,
è il mare; origine e mèta del ritomo di ogni cosa che scorre.
Hólderlin l'ha descritto spesso. Esso riempie con la sua bellezza
nostalgica YIperione. Nelle poesie su Empedocle esso circonda la
Sicilia, più avvertito che espressamente presente. In prima persona
esso appare nell'Arcipelago e più tardi nel Ricordo.
La poesia L'Arcipelago ha nell'opera di
Hólderlin un significato analogo a quello dell'inno // Reno.
Essa
Fiumi e mari
57
scaturisce dalla pura pienezza, mantenendo un equilibrio
stupendo. La sua forma è una felice via di mezzo tra la ricca
descrizione deWIperione e il grande stile degli i""1
tardi. Essa rappresenta l'espressione più radiosa di ciò che per
Hólderlin significa la Grecia. Ma è il mare a costituire
quell'ampiezza, quello spazio aperto, colmo di bellezza, in cui sta la
Grecia.
Tornano a tè le gru? e cercan di nuovo la rotta
Verso i tuoi lidi le navi? Spirano desiderate
Brezze a tè sul flutto pacato e soleggia il delfino
Attratto dal fondo, col dorso alla nuova luce?
Fiorisce laJonia? È questo il tempo? Che in primavera
Quando ai viventi rinasce il cuore ed il primo
Amore si desta negli uomini e le epoche d'oro ricordano,
A tè vengo e saluto il tuo silenzio, o antico!
Sempre, o possente! tu vivi e riposi nell'ombra
Dei tuoi monti ancora; con bracda d'adolescente
Avvinci l'amabile terra; e delle tue figlie, o padre!
Delle tue isole in fiore nessuna s'è ancora perduta.
Creta è lì, Salamina verdeggia, in un vespro d'allori,
Fiorita intomo di raggi, innalza al sole nascente
Delo il suo capo ispirato, e Tino e Chio
Hanno purpurei frutti in copia, da ebbre colline
Sgorga il filtro di Cipro e da Calàuria torrenti
D'argento si gettano ancora nelle acque antiche del
padre.
Tutte vivono ancora le isole madri d'eroi
D'anno in anno fiorendo, e se dall'abisso talora
Lo scatenato fuoco notturno, uragano inferiore,
Una delle soavi ghermì, che morente calò nel tuo seno,
Tu perdurasti sempre, o divino!, che sopra le buie
Profondità molte cose ti sono già sorte e
perite.
Kehren die Kraniche wieder zu dir, und suchen zu deinen
/ Ufern wieder die Schiffe den Lauf? umatmen erwùn-schte / Lùfte dir
die beruhigte Flut, und Sonnet der Del-
58 Primo cerchio - Fiume e montagna
phin, / Aus der Tiefe gelockt, am neuen Lichte den
Rùc-' ken? / Blùht lonien? ists die Zeit? denn immer im Frùh-ling, /
Wenn den Lebenden sich das Herz erneut und die i erste / Uebe den
Menschen erwacht und goldner Zeiten Erinnrung, / Komm ich zu dir und
grùB in deiner Sulle dich, Alter! // Immer, Gewaltiger! lebst du noch
und ruhest im Schatten / Deiner Berge, wie sonst; mitJùnglings- ^ armen
umfàngst du / Noch dein liebiiches Land, und deiner Tóchter, o Valer!
/ Deiner Insein ist noch, der blùhen-den, keine verloren. / Kreta steht
und Salamis grùnt, :
umdàmmert von Lorbeem, / Rings von Strahien umblùht,
erhebt zur Stunde des Aufgangs / Delos ihr begeistertes Haupt, und Tenos
und Chios / Haben der purpurnen Frùchte genug, von trunkenen Hùgein /
Quillt der Cy-priertrank, und von Kalauria fallen / Silberne Bàche, wie
;
einst, in die alten Wasser des Vaters. / Alle leben sie
noch, die Heroenmùtter, die Insein, / Blùhend vonJahr zuJahr, und wenn
zu Zeiten, vom Abgrund / Losgelassen, die ^ Fiamme der Nacht, das untre
Gewitter, / Eine der Holden T ergriff, und die Sterbende dir
in den SchoB sank, / Góttli- ' cher! du, du dauertest aus, denn ùber
den dunkein / Tie- ;• fen ist manches schon dir auf- und untergegangen
(il, p. 103; tr. it. cit., p. 101). :,
Anche il mare è un essere. Si tratterà più avanti
dell'affinità che lo lega all'altro regno della profondità,
all'interno della terra (ili, infra, p. 285). Il mare è più
attivo, più maschile e possiede un carattere storico. Esso non è la
sfera della fecondità, ma lo spazio di un avvenimento; il campo per
l'impresa e l'azione. Così esso appare ne\V Arcipelago.
Circondata dal do- , minio di Posidone, Atene cresce. Sul mare, vicino a
• Salamina, viene deciso il destino della Grecia ed inizia un nuovo
periodo di splendore. Davanti alla bellezza di questo «mare per
eccellenza» il poeta è testi- ;
mone del tramonto della magnificenza greca, del lamento
e della speranza di un risorgimento.
Fiumi e mari
59
Diverso è il carattere che il mare assume nella poesia
tarda Ricordo, quanto di più bello abbia la lingua tedesca. Essa
si situa al limite del possibile - un passo oltre, e tutto sprofonda. Ma
qui, prima di quell'ultimo passo, quale sospesa lievità, quale
interiorità!
Soffia il nord-est
A me fra i venti il più caro,
Perché focoso spirito
E buona rotta ai naviganti promette.
Ma ora va' e saluta
La bella Garonna
E i giardini di Bordeaux
Là, dove rasente alla riva
Ripida va il sentiero e nel fiume
Precipita a fondo il torrente, ma di lassù
Guarda una nobile coppia
Di querce e di argentei pioppi.
Ancora me ne ricordo bene, e come
Le larghe vette inclina
L'olmeto, sopra il mulino,
Mentre nel corrile cresce il fico.
Nei di festivi là vanno
Le brune donne
Su serico suolo
Al tempo di marzo,
Quando uguale è notte e giorno,
E su lenti sentieri,
Carichi di sogni d'oro
Cullanti zefiri spirano.
Der Nordost wehet, / Der liebste unter den Winden / Mir,
weil er feurigen Geist / Und gute Fahrt erheiBet den Schiffern. / Geh
aber nun und grùBe / Die schóne Garon-ne, / Und die Gàrten von
Bordeaux / Dort, wo am schar-fen Ufer / Hingehet der Steg und den Strom
/ Tief fàlit
60 Primo cerchio - Fiume e montagna 1
der Bach, darùber aber / Hinschauet ein edel Paar /•
Von Eichen und Silberpappein; // Noch denket das mir wohi und wie / Die
breiten Gipfel neiget / Der Ulmwaid, ùber die Mùhl, / Im Hofe aber
wàchset ein Feigenbaum. / An Feiertagen gehn / Die braunen Frauen
daselbst / Aus seidnen Boden, / Zur Màrzenzeit, / Wenn gleich ist Nacht
und Tag, / Und ùber langsamen Stegen, / Von goldenen Tràumen schwer, /
Einwiegende Lùfte riehen (il, p. 188;
tr. it. cit., p. 235).
Subito la sensazione di uno spazio vasto: vento,
pieno di «spirito focoso», lieto e chiaro - il fenomeno complesso,
percepito da Hólderlin nella sua origina-rietà, che va dal vento
empirico all'anima del sentimento e al religioso dell'entusiasmo,
dell'ispirazione divina. Un soffiare calmo dello spirito e prontezza
vogliosa di navigare: navigatori coraggiosi che si affidano alla forza
che scorre. Il vento trasporta il poeta insieme al suo ricordo in quella
terra ove ha percepito l'esistenza dell'antichità, nel sudovest della
Francia -ed è difficile ridescrivere tutto ciò che si trova espresso
in un paio di frasi brevi, in poche forme, in pochi profumi e movimenti.
Le immagini sembrano interamente risolte nella memoria, anzi come
dissolte in atmosfera di sogno. Molti particolari sono omessi. Da un
punto di vista realistico mancano cose molto importanti. Sono rimaste
solo alcune forme che allora hanno coinvolto il suo sentimento e che ora
sono piene della dolcezza e della tristezza del ricordo. Ma da esse si
eleva un intero paesaggio; un mondo in cui si coniugano la
presenzialità pura del Sud con l'interiorità profonda del Nord ... Poi
il momento dionisiaco:
Mi porga, però, D'oscura luce pieno,
Fiumi e mari
61
Qualcuno, il bicchiere odoroso,
perché m'addorma, che dolce
Sarebbe all'ombra assopirsi.
Non è bene
Senz'anima di mortali
Pensieri restare, ma bene
È un colloquio e dire
L'avviso del cuore, ascoltare molto
Dei giorni dell'amore
E di fatti, che sono accaduti.
Ma dove sono gli amia? Bellarmino Con il compagno?
[...].
Es reiche aber, / Des dunkein Uchtes voli, / Mir einer
den duftenden Becher, / Damit ich ruhen móge; den sù6 / Wàr unter
Schatten der Schiummer. / Nicht ist es gut, / Seellos von sterbiichen /
Gedanken zu sein. Doch gut / Ist ein Gespràch und zu sagen / Des
Herzens Meinung, zu hóren viel / Von Tagen der Ueb, / Und Taten, welche
ge-schehen. // Wo aber sind die Freunde? Bellarmin / Mit dem Gefahrten?
[...] (n, pp. 188-189; tr. it. dt-, pp. 235-237).
Lo sprofondare nel ricordo e allo stesso tempo nella
visione trasfbrmatrice è espresso nel bicchiere, «d'oscura luce
pieno». Il poeta cerca la quiete, l'unità nel tormento della
divisione. Egli vuole staccarsi dai «mortali pensieri» gravidi di
morte; non vuole rimanere «senz'anima», senza vita creativa, ma anela
ad un parlare vivo che porti ad un'unità comprendente il presente e il
passato, il qui ed il lontano. Manca però l'altro, «Bellarmino con il
compagno»; l'amico con cui è stato condotto il grande colloquio rìeìVIperione,
e gli altri fidi del mondo beato in cui è vissuta Dioti-ma. Ora
tutto si fonde in uno: il presente con la sua solitudine, dal momento
che Diotima è morta ed egli
62 Primo cerchio - Fiume e montagna
stesso vive, abbattuto di spirito, al Nord; il mondo di
Iperione con i «giorni dell'amore e dei fatti che sono accaduti», il
Sud con la sua luce ed il suo mare aperti al mondo. Bellarmino è
partito con gli uomini sul I mare - più avanti si dirà «per le
Indie». Un dionisiaco ! desiderio di spazio totale erompe da quella
parola, j poiché l'Indo fa parte del mito di Dioniso: |
[...] Più d'uno Ì Porta Umore di andare alla sorgente;
| Certo comincia la ricchezza s Sul mare. Essi, : , i Come
pittori fanno accolta ^ Del bello sulla terra e non disdegnano | L'alata
guerra, e it Vivere soli, per anni, sotto ; , La schiomata antenna dove
di notte non giungono | I bagliori della atta in festa, ,1
Ne accordi, ne del paese la danza, i
••^
[...] Mancher/ Tràgt Scheue, an die Quelle zu gehn; /
Es " beginnet namlich der Reichtum / Im Meere. Sie, / Wie Maler,
bringen zusammen / Das Schóne der Erd und ver- i schmahn / Den
geflùgelten Krieg nicht, und / Zu wohnen ;
einsam, jahriang, unter / Dem entlaubten Mast, wo nicht
die Nacht durchglànzen / Die Feiertage der Stadt, / Und ;
Saitenspiel und eingeborener Tanz nicht (II, p. 189; tr.
it. dt., p. 237). ^
Non tutti osano misurarsi col mare. È circondato :
dal terrore che incutono le cose primordiali. Esso è ?
«la sorgente», l'inizio, quindi un tremendum. In esso è f
riposto l'inizio della «ricchezza», delle figure e delle ^ vicende del
mondo. Quelli che osano affrontarlo sono gli audaci, coloro che sono
legati alla forma grande della vita, i naviganti... E adesso un'immagine
po-
Fiumi e mari
63
lente: i navigatori sono «pittori» che ritraggono il
bello della terra riconducendolo all'unità dell'essere visto - come
giorno e notte che si trovano nell'unità dello spirito fluviale in cui
«i celesti al caldo ci si sentano l'un l'altro». Qui si manifesta la
consapevolezza ecumenica, lo spirituale fiume totale della vita umana. I
naviganti sono «guerrieri» che combattono con nemici mitici, le
potenze della lacerazione, della lontananza, del tempo, dei venti e
delle onde, facendo ['«alata guerra» delle vele. Ma la grandiosa
solitudine di questa attività risalta nelle poche frasi che descrivono
ciò che manca: il fogliame sull'albero morto, il movimento e
l'abbondanza di luci della città e la gaiezza della campagna in mezzo
al monotono ritmo della vita di nave.
Gli «uomini», Bellarmino e i compagni, hanno scelto
una tale vita. Essi sono partiti dalla Francia del Sud - e ora tutto il
paesaggio si mette in moto:
Ma ora sono per le Indie •
Gli uomini partiti,
Là sull'arioso promontorio
Fra le vigne, di dove giù
La Dordogna scende
E insieme con la magnifica
Garonna larga qual mare
La fiumana sfocia [...].
Nun aber sind zu Indiem / Die Mànner gegangen, / Dort
an der luftìgen Spitz' / An Traubenbergen, wo herab / Die Dordogne
kommt, / Und zusammen mit der pràcht'-gen / Garonne meerbreit /
Ausgehet der Strom [...] (il, p. 189; tr. it. cit., p. 237).
Il movimento del paesaggio costituisce in un certo
64 Primo cerchio - Fiume e montagna
qual modo l'origine ed il propulsore del movimento
umano. Dalla cima dei monti «fra le vigne», da cui scende la Dordogna,
«larga qual mare», si va lontano, I «per le Indie». Tutto è colmo
del mare - una vastità ;
in cui tutto è uno. Eppoi, in modo completamente vi- £
sionario, la conclusione improvvisa: t
^ t [...] Ma toglie e da Memoria il mare,
E l'amore anche affisa assidui occhi. Ma ciò che resta
fondano i poeti.
[...] Es nehmet aber / Und gibt Gedàchtnis die See, /
Und die LJeb auch heftet fleiBig die Augen, / Was bleibet aber, .
stiften die Dichter (il, p. 189; tr. it. rit., p. 237). -
II mare «toglie la memoria» e la «dona». La sua
grandezza infinita e la monotonia maestosa del lungo viaggio cancellano
dalla coscienza le piccole cose. Allo ? stesso tempo però esso produce
la memoria del mon- | do; sensazioni vive sul mondo nella sua
connessione. |
Questa coscienza viene elevata dall'amore. Esso è
riesce ad «affisare assidui occhi», a comprendere e a conservare.
Poiché esso stesso è il mare, infinito nel ;
suo scorrere, concepire e divorare. Ma esso da solo ;
non basta; vi è bisogno di colui che ha potenza, che I
interpreta, istituisce, «fonda» di diritto. È ciò che fa il ;
poeta, a cui sono dati lo sguardo e la missione per
trasportare la realtà mitica, dalla sua consistenza so- ;
spesa, nello spazio della storia.
L'INNO IL RENO
II fenomeno del fiume si manifesta in tutta la sua
pienezza nell'inno II Reno. n fiume vi è rappresentato come la
grande vitalità in sé, come essere eroico, semidivino.
L'inno ha un preludio nella poesia II fiume
incatenato e una specie di commento nell'ode già citata Voce del
popolo. La prima parte di quest'ulama sviluppa il mito del fiume.
Sarà quindi opportuno ricordare ancora una volta i versi, dal momento
che il loro contenuto ricorre successivamente nell'inno R Reno.
Indifferenti alla nostra saggezza Scroscian ben anche i
fiumi, e tuttavia
Chi non li ama? E sempre mi commuovono II cuore, quando
li sento lontanare, Carichi di presagi, non per la mia strada, Ma la
sicura che li guida al mare.
Oblioso di sé, pronto sempre il desio
Degli dèi a compiere, troppo docile .
Ciò ch'è mortale, ad occhi aperti
Correndo rapido per il suo sonderò,
Prende la via più breve del ritorno nel tutto;
Così precipita il fiume in cerca di pace, lo strappa,
Lo trae contro sua voglia, di scoglio In scoglio, giù, senza alcun
freno,
La brama meravigliosa d'inabissare [...].
66
Primo
cerchio - Fiume e montagna
Um unsre Weisheit unbekùmmert / Rauschen die Stróme '
dodi auch, und dennoch, // Wer liebt sie nicht? und im-mer bewegen sie /
Das Herz mir, hór ich ferne die Schwindenden, / Die Ahnungsvollen,
meine Bahn nicht, / Aber gewisser ins Meer hin eilen. // Denn
selbstverges-sen, allzubereit den Wunsch / Der Gòtter zu erfullen,
er-greift zu gern / Was sterbiich ist, wenn offnen Augs auf/ Eigenen
Pfaden es einmal wandeit, // Ins Ali zurùck die kùrzeste Bahn; so
stùrzt / Der Strom hinab, er suchet die Ruh, es reiBt, / Es ziehet
wider Willen ihn, von / Klippe zu Klippe den Steuerlosen // Das
wunderbare Sehnen dem Abgrund zu [...] (II, p. 51; tr. it. cit., p. 65).
Il fiume è una parte della natura, un essere scaturito
dal suo grembo. Per Hólderlin tutta la natura vive, anche ciò che in
essa è apparentemente senza vita. Di questa vitalità i fiumi sono,
insieme alle altre cose che sgorgano e scorrono, l'interno dei vulcani e
il moto infinito dell'aria, l'espressione più forte. Essi vengono dalla
profondità, obbedendo alla legge del dovervi ritornare. Questa
profondità è l'interno empirico della terra, allo stesso tempo
tuttavia la sfera dell'origine, del non essere nati, come pure del
ritorno, dell'entrare nel Tutto; di tutto ciò quindi che sta prima e
dopo la morte. L'acqua è un elemento di purezza - l'antica concezione
greca dell'acqua come sostanza prima che costituiva non solo una teoria
fisica o fìlosofica, ma anche una visione mitica. Così il fiume è
puro per essenza. La legge dell'esistenza che nel fiume si compie, il
«desio degli dèi» per cui ogni essere che corre rapido «ad occhi
aperti [...] per il suo sentiero», che arriva cioè all'individualità,
deve ritornare nel Tutto, si esprime in esso senza riserve. Più un
essere è puro, più questa legge, come bramosia, destino, felicità, è
tremenda allo stesso tempo. La legge della grande
L'mnoHReno 67
esistenza è tragica. Essa deve volere ciò che è
sublime, nobile, inaudito, non benché, ma proprio perché cosi facendo
va incontro alla sua fine. Nessuno come Hólderlin ha rappresentato in
modo tanto puro la concezione di Nietzsche, secondo cui i valori nobili
arrecano la fine, ma una fine in cui si compie anche il senso della
vita.
L'immagine del fiume si trasforma poi in quella del
popolo:
Lungo lo Xanto si stendeva, in età greca, la città,
Ora però, come l'altre maggiori che laggiù riposano, Per un destino,
alla sacra Luce del giorno s'è'sottratta.
Ma non nell'aperta battaglia perirono Di propria mano.
Spaventoso, quanto Laggiù avvenne, nella mirabile saga Dall'Oriente ci
è giunto.
Fu la bontà di Bruto ad eccitarli. Poiché Quando il
fuoco eruppe, egli si offrì Di aiutarli, lui stesso, il condottiero,
Sebbene di fronte a quelle porte li assediasse.
Pur dagli spalti i servi essi gettarono, Che egli
inviò. Più vivo ne fu II fuoco ed essi ne gioirono, e a loro Le mani
Bruto tendeva
E tutti eran fuor di sé. Un urlo
Si levò, e giubilo. Giù nella fiamma si gettarono
Uomini e donne, e dei fanciulli l'uno
Dal tetto, sulla spada paterna l'altro.
Am Xanthos lag, in griechischer Zeit, die Stadt, / Jetzt
aber, gleich den gróBeren, die dort ruhn, / Ist durch ein
68 Primo cerchio - fiume e montagna
Schicksal sie dem heilgen / Udite des Tages
hinwegge-kommen. // Sie kamen aber nicht in der offnen Schlacht / Durch
eigne Hand um. Fùrchterlich ist davon, / Was dort geschehn, die
wunderbare / Sage von Osten zu uns gelanget. // Es reizte sie die Gùte
von Brutus. Denn / Als Feuer ausgegangen, so bot er sich / Zu helfen
ihnen, ob er gleich, als Feldherr, / Stand in Belagerung vor den Toren.
// Doch von den Mauern warfen die Diener sie, / Die er gesandt.
Lebendiger ward darauf / Das Feuer und sie freuten sich und ihnen /
Strecket' entgegen die Hànde Brutus // Und alle waren auBer sich selbst.
Geschrei / Ent-stand und Jauchzen. Drauf in die Fiamme warf / Sich Mann
und Weib, von Knaben stùrzt' auch / Der von dem Dach, in der Vàter
Schwert der (il, pp. 52-53). .,:,
La poesia è un contributo alla concezione della storia
di Hólderlin (II, infra). Anche il popolo è un fiume. L'abbiamo
visto in movimento, quando è salito lungo l'Istro. Lo incontreremo nel Viaggio
dove esso collega Oriente e Occidente, Germania ed Asia, Svevia e
Caucaso, come per altro fa il Danubio ... Qui il popolo significa il
fiume della vita stessa, visto nell'attimo in cui esso è impetuosamente
assoggettato alla legge della profondità secondo cui la volontà di
morte scaturisce dalla pienezza della vita stessa. Il popolo della
città di Xanto, situata in Asia Minore, pres- '| so il fiume omonimo,
è assediato dall'esercito roma- | no comandato da Bruto. I nemici si
accorgono che è | scoppiato un incendio nella città. Il generale,
cavalierescamente, offre aiuto. Questa bontà li «eccita»: il termine
allude a quel tocco misterioso che suscita l'estasi della vita. La
chiamata visionaria - pensiamo a ciò che precede il gesto della Sibilla
delfica di Miche- j| langelo: il suono intcriore che fa voltare la testa
- rapisce nello stato del contemplare e dell'udire; da esso
L'innoll
Reno 69
nasce la trasformazione strutturale delle cose che
divengono ora «aperte», trasparenti al senso nascosto. Il tocco
dionisiaco solleva a un agire che trascende tanto l'attività quotidiana
quanto il guardare ed il comprendere universali sono trascesi dalla
contemplazione visionaria. Nella misura in cui il vate è sottoposto
alle leggi di una nuova conoscenza, anche chi è colto dal tocco
dionisiaco segue la legge di una nuova attività estatica, gravida di
morte. L'attimo è preparato:
L'illimitato affascina e anche i popoli
Son presi dal gusto della morte, e le audad
Città, dopo aver cercato il meglio,
Di anno in anno continuando l'opera, Hanno incontrato
una fine sacra; verdeggia la terra, E quieta sotto le stelle
giace la lunga arte, come Gli oranti, gettata sulla sabbia del deserto,
Per suo volere vinta
Di fronte a quelle inimitabili; lui stesso, L'uomo, di
propria mano ha spezzato, Per onorare gli dèi, la sua opera d'artista.
Das Ungebundne reizet und Vólker auch / Ergreift die
Todeslust und kùhne / Stàdie, nachdem sie versucht das Beste, // Von
Jahr zu Jahr forttreibend das Werk, sie hat / Ein heilig Ende troffen;
die Erde grùnt / Und stille vor den Sternen liegt, den / Betenden
gleich, in den Sand ge-worfen // Freiwillig ùberwunden die lange Kunst
/ Vor jenen Unnachahmbaren da; er selbst, / Der Mensch, mit eigner Hand
zerbrach, die / Hohen zu ehren, sein Werk der Kùnstler (il, pp. 51-52).
Per un lungo periodo «i popoli continuano l'opera»,
vivendo, lavorando, costruendo. Poi viene un
70 Primo cerchio - Fiume e montagna
momento in cui si sentono travolti e rompono - co me
atto di devozione rivolto all'ainimitabile», alla realtà della vita,
della natura soverchiante nella sua potenza - la forma di opera ed
esistenza, prostrandosi come il fedele che, gettatesi col volto a terra,
ha sacrificato così l'altezza della sua figura. Questa possibilità era
presente nell'interiorità; adesso il gesto di Bruto l'ha liberata.
Scocca la scintilla dionisiaca, accendendo nell'anima del popolo la
fiamma che tutto consuma. «Fuor di sé», essi l'alimentano fino al
limite estremo, e tutto «perisce». Questo è il complesso di
significati racchiuso - ma domato - nell'inno II Reno. Ma di per
se stesso l'inno costituisce il grande canto di Hólderlin sullo sforzo
di domare il dionisiaco, formando insieme a L'Arcipelago la
possente coppia delle sue poesie sulla luce e sul giorno. Ad esse sono
opposte le poesie sulla notte, sulla profondità, sulla piena
dionisiaca, soprattutto Pane e vino.
II
All'inizio dell'inno viviamo il momento del tocco
visionario. Abbiamo già commentato il passo parlando del carattere
mitico della simbologia hólderliniana: j
Nell'edera buia sedevo, alla porta Ì Della foresta,
proprio quando il meriggio d'oro | Per visitare il fonte scendeva ' % Le
scale dell'Alpe, 4 Che per me è la rocca dei numi, . : s Costruita da
mano divina, Secondo l'antica voce, ma donde Più d'un segreto verdetto
'
L'inno II Reno : v 71
Giunge ancora agli uomini: di lì
Imprevisto ebbi il senso
D'un destino, che appena poc'anzi
Mi si era in calda ombra
Molto seco conversando, l'anima
Allontanata verso l'Italia
E più oltre alle coste di Morea.
Ma ora, là dentro ai monti,
Nel profondo sotto le argentee cime
E fra il verde lieto,
Dove i boschi rabbrividendo
E le teste delle rupi s'affollano
A guardarlo per giorni,
Là nel più gelido abisso udii
Gemere a liberazione
L'adolescente; e lo udivano furente
Accusare la Madre Terra
E il Tonante che l'ha generato,
I genitori movendo a pietà,
Ma i mortali fuggivano il luogo,
Che metteva paura, quando al buio
Nelle catene si voltolava
La collera del Semidio.
Im dunkein Efeu SaB ich, an der Pforte / Des Waldes,
eben, da der goldene Mittag, / Den Quell besuchend, he-runterkam / Von
Treppen des Alpengebirgs, / Das mir die gótuichgebaute, / Die Burg der
Himmlischen heiBt / Nach alter Meinung, wo aber / Geheim noch manches
ent-schieden / Zu Menschen gelanget; von da / Vernahm ich ohne Vermuten
/ Ein Schicksal, denn noch kaum / War mir im warmen Schatten / Sich
manches beredend, die Seele / Italia zu geschweift / Und férnhin an die
Kùsten Moreas. // Jetzt aber, di-in im Gebirg, / Tief unter den
sil-bemen Gipfein / Und unter fróhiichem Grùn, / Wo die Wàlder
schauemd zu ihm, / Und der Felsen Hàupter ùber-einander / Hinabschaun,
taglang, dort / Im kàltesten Ab-
72 Primo cerchio -Fiume e montagna
grund hórt / Ich um Eriósung jammern / Den Junglinsr
es hórten ihn, wie er tobt', / Und die Mutter Erd ankiagt', / Und den
Donnerer, der ihn gezeuget, / Erbarmend die'1 Eltern, doch /
Die Sterbiichen flohn von dem Ort, / Denn1 furchtbar war, da
lichdos er / In den Fessein sich wàlzte, /| Das Rasen des Halbgotts (II,
pp. 142-143; tr. it. dt., p. 195). J •a
In questo stato di apertura e di ascolto, il vate
percepisce un «destino», quello del fiume. Per mostrare
l'indissolubilità dei temi nel mondo delle immagini è delle idee di
Hólderlin, va sottolineato che il tocco visionario ha luogo quando egli
è nel pieno del suo mondo, ai piedi delle «Alpi». Poiché è appunto
là che si trova «la rocca dei numi», sede della gloria che domina e
del mistero nel suo rivelarsi, come Delfi o Do-dona (cfr. infra,
p. 109). Da là spira il soffio, e appunto nel momento in cui «molto
seco conversando», l'anima vagò verso l'Italia e più lungi, alle
coste dij Morea. È lo spirito dunque che, toccato al centro, si,
protende da Nord a Sud, da Ovest a Est, descrivendo in tal modo la volta
che s'inarca sullo spazio storico. Improvvisamente sente il «giovane».
L'età giovanile è per Hólderlin l'età dell'esistenza pura, in
obbediente ascolto della legge intcriore e pronta all'assoluto. Egli
sente il giovane fiume imperversare contro la costrizione che gli
impongono l'alveo stretto, la gola rocciosa. Essi però sono voluti
dalla sapienza dei genitóri, dalla madre Terra e dal padre Zeus.
È nuovamente un piccolo particolare a svelarci che i
temi dell'opera hólderliniana, lungi dall'essere invenzioni fantastiche
o ludiche, scaturiscono da una visione molto precisa:
Era la voce del più nobile fiume, Del nato libero Reno,
L'ireraoIIReno 73
e altro sperava, quando lassù dai fratelli,
Dal Ticino e dal Rodano
S'era diviso, vago di errare, e impaziente
In Asia la regale anima lo spingeva.
Irragionevole
È il desiderio di fronte al destino.
Ma i più ciechi
Sono i figli di dèi. L'uomo conosce
La sua casa e all'animale fu
Assegnato ove costruirla, ma a quelli
L'errore di non sapere dove,
Nell'anima inesperta è dato.
Die Stimine wars des edelsten der Strème, / Des
freigebo-renen Rheins, / Und anderes hoffte der, als droben von den
Brùdern, / Dem Tessin und dem Rhodanus, / Er schied und wandem wolit,
und ungeduldig ihn / Nach Asia trieb die kónigliche Seele. / Doch
unverstàndig ist / Das Wùnschen vor dem Schicksal. / Die Blindesten
aber / Sind Góttersóhne. Denn es kennet der Mensch / Sein Haus und dem
Tier ward, wo / Es bauen solle, dochjenen ist / Der Fehi, daB sie nicht
wissen wohin? / In die uner-fahrne Seele gegeben (n, p. 143; tr. it. di.,
pp. 195-197).
Appena nato, nel momento cioè in cui è completamente
determinato dalla legge primordiale, compie nel modo più puro il suo
movimento essenziale, «la regale anima impaziente» spinge il fiume
«in Asia»: in dirczione orientale, verso i paesi del mistero e della
chiarezza. Si allude a quel breve tratto in cui il Reno, scendendo dal
San Gottardo, dirige il suo corso verso Est per poi scartare bruscamente
verso Nord. Si tratta di precise realtà geografiche, trasfigurate
tuttavia in una luce mitica: la grande esistenza deve cercare la
dirczione essenziale verso il bello e il valido assoluti.
Questa esistenza è «inesperta», stolta. E quella
stoi-
74 Primo cerchio - Fiume e montagna
tezzache avvolge Parsifal, il giovane di nobile origini
l'opporsi alla prudenza che anzi, in questa prospetti va, già si
accosta in modo sospetto alla scaltrezza e a] la bassezza. ']
Con venerazione visionaria, la prossima strofa sofferma
sul mistero della nascita:
Enigma è il puro scaturire. Anche II canto può appena
svelarlo;
Come comind, lale resterai,
Per quanto agisca la costrizione
E il rigore, il più
Lo può la nascita
E il raggio di luce
Che al neonato va incontro.
Ma dov'è un altro
Che per restare libero
Tutta la vita e i voti del cuore
Adempiere solo,
Da così fauste altezze come il Reno
E così da grembo sacro sia
Nato felicemente come lui?
Ein Ràtsel ist Reinentsprungenes. Auch / Der Gesang
kaum darf es enthùllen. Denn / Wie du anfingst, wirst du ;
bleiben, / Soviet auch wirket die Not, /und die Zucht,
das meiste namlich / Vermag die Geburt, / Und der lichtstrahi, der/ Dem
Neugebornen begegnet. / Wo aber ist einer, / Um frei zu bleiben / Sein
Leben lang, und des Herzens Wunsch / Allein zu erfullen, so / Aus
gùnstigen Hóhn, wie der Rhein, / Und so aus heiligem SchoBe /
Glùckiich geboren, wiejener? (il, p. 143; tr. it. cit., p. 197). ^
Nessuna grandezza viene dall'arbitrio. All'inizio non vi
è un movimento universale suscettibile di arrivare dovunque, nessuna
sostanza universale che possa assumere qualsiasi forma, bensì la
determinazione.
L'inno II Reno 75
Essa viene dalla profondità, sorge nell'essere come
nucleo e s'afferma nell'agire. Inoltre essa viene dall'altezza, scende
dal destino dominante. Le due cose diventano qui una sola: «la
nascita» e «il raggio di luce che al neonato va incontro».
Questa destinazione si impone fin dall'inizio. Essa
comanda al Reno di trattenersi dal compiere subito la caduta a
precipizio nel Tutto. La culminazione dionisiaca e il suo declino gli
sono vietati. Lo costringono certe resistenze che prescrivono il corso e
gli assegnano in compito l'opera. Ma esso rasenta la caduta, come
descrive la strofa successiva:
Perciò è un grido di gioia la sua parola. Non gli
piace come altri nati Piangere in fasce;
Poiché dove prima le rive
A fianco gli strisciano, le sinuose,
E assetate si avvolgono a lui,
Incauto, di trascinarlo
E ben custodirlo cupide
Nel loro dente, ridendo
Schianta le serpi e giù piomba
Con la preda, e se in quella furia •
Un più grande non lo ammansisse,
Se lo lasciasse crescere, come folgore
Fenderebbe la terra, e i boschi incantati
Dietro di lui fuggirebbero e i monti frananti.
Drum ist ein Jauchzen sein Wort. / Nicht liebt er, wie
an-dere Kinder, / In Wickelbanden zu weinen; / Denn, wo die Ufer zuerst
/ An die Seit ihm schleichen, die krum-men, / Und durstig umwindend ihn,
/ Den Unbedachten, zu ziehn / Und wohi zu behùten begehren / Im eigenen
Zahne, lachend / ZerreiBt er die Schlangen und stùrzt / Mit der Beut
und wenn in der Eil / Ein Grófierer ihn
76 Primo cerchio - Fiume è montagna
nicht zàhmt, / Ihn wachsen làBt, wie der Blitz mu6 ery
Die Erde spalten, und wie Bezauberte fliehn / Die Wàldec ihm nach
und zusammensinkend die Berge (il, p. 144; tr, it.dt.,p. 197). -
Questo passo è un grande esempio per quanto conceme la
forza trasformatrice dell'occhio hólderli-J niano. Il dionisiaco, che
supera gli ostacoli e rompe B le forme, è arrivato fin sotto
la superfìcie. Ancora un i momento, e rompe la crosta. Già le
rive sono «serpi»;4 già il fiume le «schianta», come un
tempo fece Eracle con i mostri che avvolgevano la sua culla; già «piom-
;
ba giù». Le rive si mettono in movimento ed esso le i
porta con sé. Ancora un attimo, e il fiume diventa il} fulmine,
il precipitare si fa un folgorare, l'acqua il fuoco: la terra si spacca,
le montagne perdono il loro S peso, e tutto naufraga nell'indistinto. Ma
ecco che si a impone la legge del raggio di luce: «Un più grande» ^
ammansisce l'impetuoso e lo trattiene affinchè riman-1 ga, cresca e
compia delle opere.
Al Reno non è posto il compito di salire a pienezza
mortale e di perire, ma quello di essere limitato e disciplinato:
Ma un Dio preserva ai figli ;' La vita fugace e sorride
•;
Quando sfrenati, eppure coatti ' , '
Da sacre Alpi, verso di lui '
Nel profondo, com'esso, infuriano i fiumi. ^.
In tale fucina viene allora
Anche temprato tutto dò ch'è puro. i,
Ed è bello vederlo come poi,
Dopo lasdati i monti,
Calmo vagando per la campagna tedesca .1
Si contenta e l'ansia acqueta. ^ .'• , ••;'.
'-^•;1- ,,t
L'inno II Reno 77
Tn traffici fruttuosi, quando coltiva i campi, II
padre Reno e cari figliuoli alleva In città, che egli ha fondate.
Ein Gott will aber sparen den Sóhnen / Das eilende
Leben und làcheit, / Wenn unenthaltsam, aber gehemmt / Von heiligen
Alpen, ihm / In der Tiefe, wie jener, zùrnen die Stróme. / In solcher
Esse wird dann / Auch alles Lautre peschmiedet, / Und schón ists, wie
er drauf, / nachdem er die Berge verlassen, / Stiliwandeind sich im
deutschen Lande / Begnùget und das Sehnen stillt / Im guten Ge-schàfte,
wenn er das Land baut, / Der Vater Rhein, und liebe Kinder nàhrt / In
Stàdten, die er gegrùndet (il, p. 144; tr. it. dt., p. 199).
Qui sta la decisione che l'esistenza grande deve
prendere: accettare la misura, schiettamente, limpidamente lasciarsi
«temprare nella fucina» dalla necessità del destino, oppure carpire
l'assoluto che non le è assegnato ed erompere nel titanico. Il Reno
accetta la legge; così la sua forza diventa fecondità pura.
Ma il mistero dell'origine continua a scorrervi sotto:
Pure mai se ne scorda.
Prima perirà la casa
E le leggi e tornerà all'informe
II giorno degli uomini, che dimenticare
Un pari suo possa l'origine
E la voce pura della gioventù.
Doch nimmer, nimmer vergiBt ers. / Denn eher mu6 die
Wohnung vergehn, / Und die Satzung und zum Unbild werden / Der Tag der
Menschen, ehe vergessen / Ein solcher dùrfte den Ursprung / Und die
reine Stimme derJu-gend (II, pp. 144-145; tr. it. dt, p. 199).
78 Primo cerchio - Fiume e montagna
Ciò è dovuto ad un'altra separazione sempre rin?'
novata. Il costante ricordo, la costante presenza del dovere separano la
fecondità, che ha nobile origine plasmata dalla rinuncia che è legge
divina, dal benessere e dalla contentezza della quotidianità. In quei
momenti il pensiero ritorna alla possibilità di un titanismo malvagio:
Chi fu che per primo ^à Corruppe i vincoli d'amore ' J,
Per farne corde? I Allora hanno la propria legge -s E insino al
fuoco celeste ' s Irriso i superbi, da allora "I
Sprezzando la strada mortale t Protervia dessero "i E agli dèi
farsi uguali anelarono. '1
,.;. n
Hanno però della loro , s Immortalità gli dèi assai,
e se mancano | I celesti di una cosa, ^ È di eroi e di uomini i| O
altrimenti mortali. Che mentre ;S I beatissimi nulla sentono da sé
soli, a Bisogna pure, se dirlo | È ledto, in nome degli dèi
^f Che un altro senta partedpando; | Di lui necessitano; ma è loro
sentenza : t Che la sua casa j Quegli schianti e quanto ha più caro S
Ingiurii come nemico, e padre e prole | Seppellisca sotto macerie, j| Se
vuoi essere come loro e non ? Sopportare la disparità, l'esaltato. »
Wer war es, der zuerst / Die Liebesbande verderbt / Und
Stricke von ihnen gemacht hat?/ Dann haben des eigenen Rechts / Und
gewiB des himmlischen Feuers / Gespottet
-L'mnoIIReno 79
die trotzigen, dann erst / Die sterbiichen Pfade
ver-achtend / Verwegnes erwàhit / Und den Góttern gleich 7ii werden
getrachtet. // Es haben aber eigner / Unster-blichkeit die Gótter genug,
und bedùrfen / Die Himmli-schen eines Dings, / So sinds Heroen und
Menschen / (Jnd Sterbiiche sonst. Denn weil / Die Seligsten nichts
fùhlen von selbst, / Mu6 wohi, wenn solches zu sagen / Eriaubt ist, in
der Gótter Namen / Teilnehmend fùhlen ein andrer, / Den brauchen sie;
jedoch ihr Geiicht / Ist, (la6 sein eigenes Haus / Zerbreche der und das
Uebste / VVie den Feind scheit und sich Vater und Kind / Begrabe unter
den Trùmmem, / Wenn einer wie sie sein will und nicht / Ungleiches
dulden, der Schwàrmer (il, p. 145; tr. it.dt.,pp. 199-201).
Gli dèi vivono nell'eterna gloria, ma non l'avvertono;
così essi hanno bisogno del calore dei cuori umani - ne abbiamo già
parlato a proposito dell'Istro. Essi cercano la vicinanza
dell'essere terreno per partecipare al rapimento che suscita in lui la
loro gloria olimpica, per avvertire il loro stesso splendore. Ma ciò
comporta che i compagni mortali non rispettino il limite:
quella tentazione a cui ha ceduto un tempo Tantalo, e
poi anche Empedocle. Beato perciò colui che onora ciò che è
istituito:
Perdo buon per lui che ha trovato Un ben assegnato
destino Dove ancora del molto vagare E dei duoli la rimembranza Mormora
dolce alla riva sicura;
Egli ama allora guardare
Da ogni lato fino ai confini
Che dalla nasata Iddio
Gli segnò come dimora.
Ora s'acqueta, in modesta sorte felice,
Poiché tutto che da lui fu voluto
80 Primo cerchio - Fiume e montagna
Di celeste, da sé abbraccia Spontaneamente l'audace,
Sorridendo ora ch'egli riposa.
Drum wohi ihm, welcher fand / Ein wohibeschiedene»
Schicksal, / Wo noch der Wanderungen / Und sub der Leiden Erinnerung /
Aufrauscht am sichern Gestade, / DaB da und dorthin gern / Er sehn mag
bis an die Gren. zen, / Die bei der Geburt ihm Gott / Zum Aufenthalte
gè. zeichnet. / Dann ruht er, seligbescheiden, / Denn alles was er
gewolit, / Das Himmlische, von selber umfàngt/ Es unbezwungen,
làcheind / Jetzt, da er ruhet, den Kùh-nen (il, pp. 145-146; tr. it.
dt, p. 201). «*|
I
in j
La seconda parte dell'inno parla del semidio urna no,
trovandolo in Rousseau. A prescindere dalla questione se il Rousseau
storico coincida con la figura có-m'è vista da Hólderlin, il suo nome
qui comunque designa la grande esistenza umana. Essa è costruita sul
modello del fiume. Così anch'essa deve decidere se abusare
dell'amicizia degli dèi o se rispettare il limite. A Rousseau è
riuscita la grande opera:
Semidei ora penso
E bisogna che conosca quei cari
Perché spesso la vita loro
L'ansioso petto così mi commuove.
Ma a chi, o Rousseau, come tè,
Si ebbe indomita l'anima,
Pertinace all'estremo
E senso infallibile
E la dolce dote d'udire
E di dire, così che da sacra piena,
Come Dio del vino, in celeste delirio
L'inno II Reno 81
La lingua senza leggi dei più puri dona,
Clic è intellegibile ai buoni, ma giustamente
Gl'irriverenti, i profani, i servili
Colpisce di cecità - che nome darò allo straniero?
H'ilbeótter denk ichjetzt/ Und kennen muB ich die Teuem,
/ Weil oft ihr Leben so / Die sehnende Brust mir bewe-eet. / Wenn aber,
wie, Rousseau, dir, / Unùberwindiich die Seele, / Die starkausdauemde,
ward, / Und sicherer Sinn / Und sùBe Gabe zu hóren, / Zu reden so, daB
er aus lieiliger Fulle, / Wie der Weingott, tórig góttlich / Und
eesetzios sie, die Sprache der Reinesten, gibt, / Verstànd-lich den
Guten, aber mit Recht / Die Achtungsiosen mit Ulindheit schiàgt, / Die
entweihenden Knechte, wie nenn ich den Fremden? (n, p. 146; tr. it. cit,
p. 201).
A Rousseau viene rivolta la parola. Ma la sua figura
evoca quella di un altro amico degli dèi che un tempo, messo alla più
dura prova, ha rispettato il limite: Eracle. Rousseau ha unito la
primordiale forza creativa alla misura più severa, la copiosità che
sgorga da se stessa ed è «senza legge» all'ordine, l'assolutezza di
quanto è più puro alla pazienza tenace, diventando in tal modo un
eroe:
I figli della terra, come la madre,
Amano il Tutto e il Tutto anche ricevono
Senza sforzo, i felici.
Perdo sorprende pure
E sgomenta l'uomo mortale,
Quando il delo
Che con innamorate bracda
Si è caricato sugli omeri
E il peso della gioia consideri;
II più gran bene allora gli sembra
In quasi totale oblio
Là dove il raggio non bruda
82 Primo cerchio - Fiume e montagna
Nell'ombra della foresta Sul lago di Bienna nel fresco
verde stare E, incurante se povero di suoni, Come i novizi, imparare
dagli usignoli.
Die Sóhne der Erde sind, wie die Mutter, / Alliebend,
so empfangen sie auch / Mùhlos, die Glùckiichen, alles. /. Drum
ùberraschet es auch / Und schróckt den sterbiichen Mann, / Wenn er den
Himmel, den / Er mit den lieben-den Armen / Sich auf die Schuitem
gehàuft, / Und die Last der Freude bedenket; / Dann scheint ihm oft das
Be-ste, / Fast ganz vergessen da, / Wo der Strani nicht brennt, / Im
Schatten des Walds / Am Bielersee in fri-scher Grùne zu sein, / Und
sorglosarm an Tónen, / An-fàngern gleicli, bei Nachtigallen zu lemen
(n, pp. 146-147;
tr. it. cit., p. 203). -?
Egli «ama il Tutto, come la madre», la Terra, e per,
questo tutto gli viene donato. L'enorme, il sovrappeso dei cicli viene a
gravare su di lui. Come Atlante, deve stare in piedi. Ma come
quest'ultimo, egli non viene schiacciato perclié sopporta con pazienza
- e nuovamente pensiamo ad Eracle che per una intera terribile ora ha
portato il peso della volta celeste. Ma l'esperienza è talmente
grandiosa da far nascere il desiderio di una quiete protetta, senza
pretese: così dalla vita di Rousseau si leva l'immagine del lago di
Biel [Bienne in francese] di una vita silenziosa in mezzo alla natura.
Nell'immagine si avverte la consapevolezza del paesaggio
circostante che nel frattempo è mutato. Il meriggio caldo, ardente è
passato, e si va verso l'ora dell'incantesimo, il tardo pomeriggio: |
• ^ Ed è stupendo dal sacro sonno allora <
Sorgere e da boschiva frescura 'i Destandosi, nella sera
,1
L'inno II Reno 83
Alla più 1™^ ^uce andare incontro,
Quando colui ch'edificato ha i mond
e 5egnato la strada dei fiumi,
Dopo che sorridendo egli pure
(.i vita operosa degli uomini
povera di respiro come vela
Con le sue brezze ha guidato,
Anche lui riposa e ora verso l'allieva
11 creatore, più bene
Che male trovando,
Verso l'odierna terra il giorno s'inclina.
Und herrlich ists, aus heiligem Schlafe dann / Erstehen
und aus Waldes Kùhle / Erwachend, abends nun / Dem milderen Ucht
entgegenzugehn, / Wenn, der die Berge eebaut / Und den Pfad der Streme
gezeichnet, / Nach-dem er làcheind auch / Der Menschen geschàftiges
Leben, / Das othemarme, wie Segei / Mit seinen Lùften gelenkt hat, /
Auch ruht und zu der Schùlerinjetzt, / Der Bildner, Gutes mehr / Denn
Bóses findend, / Zur heutigen Erde der Tag sich neiget (il, p. 147; tr.
it. cit., p. 203).
La visione diventa più dolce, allargandosi. Essa non è
più fissata sul grande destino individuale. Nella luce pomeridiana,
essa penetra attraverso l'intera natura, evocando quell'immagine in cui
si esprime l'ultima nostalgia di Hólderlin: l'unione di tutto l'essere
nella luce attenuata, il passaggio di ciò che è diviso nella presenza
pura, del chiuso nell'esistenza aperta:
Allora festeggiano nozze uomini e dèi,
Le festeggiano tutti i viventi
E appianato
È per breve ora il destino.
Cercano ricetto i fuggiaschi
E soave sopore i prodi,
Ma gli amanti sono
84 Primo cerchio - Fiume e montagna
Ciò che erano; sono
A loro agio, dove il fiore si allieta
D'innocente fuoco e gli alberi bui
Lo Spirito avvolge di murmuri, ma gl'incondiiad
Mutano animo e corrono
A darsi la mano prima
Che l'amorosa luce
Tramonti e venga la notte.
Dann feiem das Brautfest Menschen und Getter, / Es fé-'
iern die Lebenden ali, / Und ausgeglichen / Ist eine Weile das Schicksal.
/ Und die Flùchtiinge suchen die Herberg, /Und sùBen Schiummer die
Tapfern, / Die Liebenden aber / Sind, was sie waren, sie sind / Zu Hause,
wo die Blume sich freuet / Unschàdiicher Glut und die finsteren Bàume
/ Der Geist umsàuseit, aber die Unversóhnten / Sind umgewandeit und
eilen, / Die Hànde sich ehe zu rei-chen, / Bevor das freundiiche Licht
/ Hinuntergeht und ;
die Nacht kommt (il, pp. 147-148; tr. it. cit., pp.
203-205). 4
. .ìjH
. "I Adesso la visione è passata. Il vate ritoma
in sé. D:-|
venta consapevole del tremendo appena vissuto. Avverte
il peso del proprio destino:
Pure, ad alcuni dilegua subito
Questa luce, altri
Più a lungo la serbano.
Gli dèi eterni sono •
Ognisempre colmi di vita; ma fin nella morte
Anche l'uomo può
Serbare il più gran bene nella memoria,
E allora vive quanto ha di più alto.
Ve solo che ognuno ha la sua misura, i
Poiché grave peso .
È l'infelicità, ma la felicità più ancora. :
Peraltro ci fu un saggio
Che dal mezzodì alla mezzanotte ;
E finché il mattino splendesse, , ,'• Nel
convito seppe restare lucido.
L'inno II Reno 85
Doch einigen eilt / Dies schnell vorùber, andere /
Behal-ien es lànger. / Die ewigen Gótter sind / Voli Lebens all-zeit;
bis in den Tod / Kann aber ein Mensch auch / Im Gedachtnis doch das
Beste behalten, / Und dann eriebt er <Lis Hóchste. / Nur hat
einjeder sein Mafi. / Denn schwer ist zu tragen / Das Unglùck, aber
schwerer das Glùck. / Ein Weiser aber vermocht es, / Vom Mittag bis in
die Mit-tcrnacht, / Und bis der Morgen erglànzte, / Beim Gast-niahl
belle zu bleiben (II, p. 148; tr. it. dt., p. 205).
Di nuovo compare una figura dell'antichità, Socra-te.
Egli è riuscito ad avere in sé un'infinita ricchezza, pur restando
«lucido». A lui era dato di congiungere a guisa di anello gli estremi
dell'esistenza, il dionisiaco e l'apollineo. Gli altri invece hanno una
forza diversa. Per la maggior parte il compimento e la visione
dell'unità trascorrono velocemente; altri li conservano più a lungo.
Eterni sono solamente gli dèi. Per l'uomo è già molto mantener vivo
nella memoria questo dono, almeno fino alla morte.
IV
Nella storia finale il poeta si rivolge a Isaak von
Sinclair, l'amico fedele che lo ha assistito fino alla fine - vien
spontaneo pensare a quell'altro che pure ha assistito un poeta e vate
dionisiaco in procinto di crollare, Overbeck, l'amico di Nietzsche:
Se per ardente sentiero d'abeti
O nel buio quercete, celato
Nell'acciaio, o mio Sinclair! Iddio ti appaia
O nelle nubi, lo riconoscerai, che, giovanile,
Conosci la forza del bene e non ti è mai
86 Primo cerchio - Fiume e montagna
Ascoso il sorriso del Regnatore, -il Sia di giorno,
quando e Febbrile e incatenata t1 La vita appare, sia .»-1
Di notte quando tutto si mischia A Senz'ordine e torna 4
L'originario groviglio, f;
Dir mag auf heiBem Pfade unter Tannen oder / Im Dun-kel
des Eichwaids, gehùllt / In Stahi, mein Sinclair! Gott erscheinen oder
/ In Wolken, du kennst ihn, da du ken-nest, jugendiich, / Des Guten
Kraft, und nimmer ist dir / Verborgen das Làchein des Herrschers / Bei
Tage, wenn / Es fieberhait und angekettet das / Lebendige scheinet, oder
auch / Bei Nacht, wenn alles gemischt / Ist ordnungs-los und wiederkehrt
/ Uralte Verwirrung (il, p. 148; tr. it cit., p. 205).
L'amico riesce a riconoscere ciò che dev'essere
riconosciuto: l'incombente missione, la volontà dall'alto, quali che
siano la figura e il tempo in cui appaiono.
Ma in questo inno ch'è il puro giorno, la luce
trionfante, la chiarezza e la disciplina che si compiono, le ultime
righe racchiudono una minaccia misteriosa, quasi una espiazione per
placare le potenze delle tenebre. Essa risiede nella parola della notte,
«quando tutto si mischia senz'ordine e torna al groviglio originario»,
ma più ancora nel suono proprio al discorso sull'ordine stesso.
Talvolta, infatti, in mezzo alla luce «febbrile e incatenata la vita
appare» e il regno delle tenebre si spinge fin sotto alle forme che
ordinano. E lo stesso tono che colmerà i versi Maturi sono, tuffati
nel fuoco (IV, infra, p. 597). , < a
ALTRO SCORRERE
Dopo aver parlato di torrenti e fiumi e successivamente
dell'acqua che è principio e fine di ogni scorrere, il mare, bisogna
menzionare un altro scorrere privo d'alveo: la pioggia.
Ricordiamo lo splendido inizio di Stoccarda, dove
la natura ristorata respira la freschezza dell'aria purificata e il
temporale penetra in noi come «una gioia» - così grande che a noi
viene da chiederci di che cosa siamo tanto felici. Finalmente ci
accorgiamo di aver vissuto attraverso il lieto ristoro qualcosa di molto
più profondo, ossia il favore, la grazia del mondo e l'adempimento
dell'esistenza:
Stoccarda: .
Vissuto ancora ho una gioia. Guarita è l'arsura funesta
E della luce il rigore più non brucia le fioriture. Aperta or di nuovo
è una sala e risanato è il giardino E rianimata da piogge stormisce la
valle lucente, Dagli alti fogliami, son gonfi i torrenti e tutte le ali
Legate riprendono ardire nel regno del canto.
Wieder ein Glùck ist eriebt. Die gefahriiche Dùrre
geneset, / Und die Schàrfe des Uchts senget die Biute nicht mehr. /
Offen stehtjetzt wieder ein Saal, und gesund ist der Gar-
88 Primo cerchio - Fiume e montagna
ten, / Und von Regen erfrischt rauschet das glànzendet
Tal, / Hoch von Gewàchsen, es schwellen die Bàch' und alle gebundnen /
Fitdche wagen sich wieder ins Reich des;
Gesangs (il, p. 86; tr. it. dt., p. 127). |
Nel bellissimo frammento A Diotima la pioggia
di-1 venta uno scorrere in sovrabbondanza in cui sono dischiuse tutte le
profondità del rinnovamento e sciolte le potenze del risanamento. Il
lieto moto delle luci, dei colori e delle forme, dell'aria e dei profumi
diffusi dopo il temporale, domina l'inizio:
Vieni e guarda che gioia abbiamo d'intomo! In fresche
brezze ;, Aleggiano i rami del bosco, ' S Come i riccioli nella danza; e
come su armoniosa cetra ^ Uno spirito rallegrante, j Giucca con sole e
pioggia sulla terra il delo; "j Come in amorosa contesa '• '~ Sopra
le corde un infinito turbinio Di suoni fuggenti vibra,
Così ombra e luce alternandosi in dolce melodia Là sui
monti trascorrono.
Komm und siehe die Freude um uns; in kùhlenden Lùften
;
/ Fliegen die Zweige des Hains, / Wie die Locken im S
Tanz; und wie auf tónender Leier / Ein erfreulicher Geist i / Spieit
mit Regen und Sonnenschein auf der Erde der Himmel; / Wie in liebendem
Streit / Ùber dem Saiten-spiel ein tausendfàltig Gewimmel /
Flùchtiger Tóne sich regt, / Wandeit Schatten und Licht in
sùBmelodischen Wechsel/ Ùber die Berge dahin (i, p. 210; tr. it dt.,
p. 25). ;
Vediamo il movimento del pensiero: all'inizio della
poesia il temporale è passato; il sesto esametro ri- J prende il lieve
inizio di esso. Particolarmente attraente è qui il legame tra pioggia e
fiume:
Altro scorrere
89
II delo prima sfiorò con lieve stilla d'argento 11 suo
fratello, il fiume;
Vicino è ora, ora versa tutta la piena stupenda
Che portava nel cuore
Sul bosco e sul fiume, e [...]
Leise berùhrte der Himmel zuvor mit der silbemen
Trop-fe / Seinen Bruder, den Strom; / Nah ist er nun, nun schùttet er
ganz die kóstliche Fùlie, / Die er am Herzen trug, / Ùber den Hain
und den Strom, und [...] (i, p. 210;
tr. it. dt., p. 25).
Poi penetra il caos, la sfera del divenire vivente,
nella sua forma più amabile. Tutto si scioglie, cadono le barriere,
scorrono flutti infiniti e da essi nasce vita nuova:
E il verde del bosco e il delo riflesso nel fiume
Balugina e dilegua innanzi a noi
E il capo del monte solingo con le casette e le rupi
Che nel grembo nasconde,
E i colli che a lui intorno, come agnelli sdraiati,
E in boscaglia fiorita
Come in tenera lana avvolti si nutrono di chiare
Fresche sorgenti del monte,
E la valle vaporante con i suoi seminad e i suoi fiori,
E il giardino a noi innanzi,
II vidno e il lontano sfuma e si perde in lieto tumulto
E si spegne il sole.
Und das Grùnen des Hains, und des Himmeis Bild in dem
Streme / Dàmmert und schwindet vor uns, / Und des ein-samen Berges
Haupt mit den Hùtten und Felsen, / Die er im SchoBe verbirgt, / Und die
Hùgel, die um ihn her, wie Làmmer, gelagert / Und in blùhend
Gestràuch / Wie in zane Wolle gehùllt, sich nahren von klaren /
Kùhlenden Quellen des Bergs, / Und das dampfende Tal mit seinen
90 Primo cerchio - Fiume e montagna
Saaten und Blumen, / Und der Garten vor uns, / Nah und
Fernes entweicht, verliert si eh in froher Verwirrung/ .;
Und die Sonne verlischt (i, p. 210; tr. it. dt., pp.
25-27). *
f
-' \
Alla fine tutto è nuovo - e noi avvertiamo l'incan. !
to misterioso della parola: • |
* Ma ora han finito di scrosciare i flutti del delo, :
E purificata, più giovane |' Sorge coi figli beati dal
lavacro la terra, tj Più lieto, più vivo $ Splende nel bosco il verde,
più scintilla l'oro dei fiori, "
[...] * Bianchi come i greggi che il pastore ha
cacdato nel fiume, i [...]. . |
Aber vorùbergerauscht sind nun die Fluten des Himmeis /
Und gelàutert, verjùngt / Geht mit den seligen Kindem " hcrvor
die Erd aus dem Bade. / Froher, lebendiger / Glànzt im Haine das Grùn,
und goldner funkein die Blumen, / [...] / WeiB, wie die Herde, die in
den Strom der Schàfer geworfen, / [...] (i, pp. 210-211; tr. it. cit-,
p. 27).
Più brevemente, sotto forma di un rapido ampliamento
del motivo fluviale, il fenomeno della pioggia appare nella prima
versione di Voce del popolo: .
Così precipita il fiume in cerca di pace, lo strappa, t
Lo trae contro sua voglia, di scoglio • ,| In scoglio, giù, senza
alcun freno, ^ La brama meravigliosa d'inabissare, H E appena dalla
terra sorta, lo stesso di, ]' Torna piangendo al luogo della nascita T
Da purpurea altezza nuovamente la nuvola. ?
"~-
[...] so stùrzt / Der Strom hinab, er suchet die Ruh,
es :
reifit, / Es ziehet wider Willen ihn von / Klippe zu
Klippe
Altro scorrere 91
(jgn Steuerlosen // Das wunderbare Sehnen dem Ab-(rrund
zu, / Und kaum der Erd entstiegen, desselben Tags / Kehrt weinend zum
Geburtsort schon aus / Purpurner Hóhe die Wolke wieder (II, p. 49; tr.
it. dt., p. 65).
II
Del tutto assoluto, sciolto da ogni determinazione e da
ogni limite particolare, lo scorrere si presenta all'inizio della prima
versione di Patmo:
Vidno
E difficile ad afferrare è il Dio.
Ma dove è il pericolo, cresce
Anche dò che ti salva.
Nelle tenebre vivono
Le aquile e senza paura
Va la prole delle Alpi sopra l'abisso
Su lievemente costruiti ponti.
Ora, poi che ammassate in cerchio
Stanno le vette del tempo
E i più amati abitano vidno, languendo
Sui monti più separati,
Oh, dacci acqua innocente,
Dacci ali a varcare di là
Con fedelissimo animo e ritornare.
Nah ist / Und schwer zu fassen der Gott. / Wo aber
Ge-fahr ist, wàchst / Das Rettende auch. / Im Finstem woh-nen / Die
Adier und furchtios gehn / Die Sóhne der Al-pen ùber den Abgrund weg /
Auf leichtgebaueten Brùcken. / Drum, da gehàuft sind rings / Die
Gipfel der Zeit, und die Liebsten / Nah wohnen, ermattend auf/
Ge-trenntesten Bergen, / So gib unschuidig Wasser, / O Fitti-che gib uns,
treuesten Sinns / Hinùberzugehn und wieder-zukehren (il, p. 165; tr.
it. cit., pp. 217-219).
92 Primo cerchio - Fiume e montagna
Nel paesaggio dell'esistenza, costruito con le forme
della realtà, si elevano le «vette del tempo». «Tempo» qui
significa semplicemente esistere, essere esistente di passaggio. Le
«vette» vi significano la presenza degli esseri singoli nella
solitudine della loro figura particolare, descritta in Voce del
popolo dal verso «camminare ad occhi aperti lungo il suo
sentiero», L'esistenza individuale è vista eracliteamente nel suo
rapporto col tutto che scorre: da esso si rileva come figura propria,
ma, divenuta subito sola, anela anche subito a ritornare nel Tutto.
Essere singoli vuoi dire trovarsi su una vetta isolata. Tra le vette sta
l'abisso, e i viventi stanno «languendo sui monti più separati». In
questo contesto «acqua» significa ciò che collega e «salva». La
vetta attigua è così vicina, eppure la «più separata». Arrivarvi è
propriamente impossibile. Solo la gra- | zia da questa possibilità.
Pensiamo ai versi nell'/riro: s
[...] cercato a lungo abbiamo ;;
Ciò ch'era a noi destinato, | Ne senza ali si può |
Afferrare di slancio S Nemmeno quanto è più presso I E varcare
all'altra riva. -k
[...] lange haben / Das Schickiiche wir gesucht, / Nicht
oh- ;:
ne Schwingen mag / Zum Nàchsten einer greifèn / Gera-
| dezu / Und kommen auf die andere Seite (II, p. 190; tr. it. S dt.,pp.
239-241). |
':?
«L'altra riva» è un grande mistero - come «l'essere
, vicino» del «vicino Dio» in Riike, diviso solo da un < «muro
sottile»; oppure di quel mistero di cui parla :
Hans Carossa quando definisce una grande grazia ^
«poter vedere ciò che è». Solo la grazia lo concede. In ^
Altro scorrere
93
questo caso la grazia è l'acqua. Essa, infatti, è
«innocente», non spezzata, non profanata, in armonia. Essa è
l'elemento dell'esistenza che rende possibile ciò che non riesce alla
volontà chiusa in se stessa; ciò che permette agli eroi di compiere
l'impossibile, ai puri di superare tutte le tentazioni, e a coloro che
non se lo prefiggono intenzionalmente, di trovare ciò che è nascosto.
Chi ha «animo fedelissimo» può porre il piede su questa «acqua».
Egli può andare all'altra vetta e ritornare a se stesso. Anzi,
l'«acqua» improvvisamente diventa «aria»: colui che ha fiducia si
ritrova ad avere ali e può volare al di là come «le aquile».
In questo contesto, l'«acqua» è il mistero
dell'unione in quanto tale, che salva dall'angustia dell'isolamento.
MONTAGNE E ALTURE
All'acqua è opposta nel paesaggio di Hólderlin
la montagna: a ciò che scorre si contrappone il solido, il costruito,
ciò che si innalza; alla vastità dei piani solcati da fiumi l'altura e
- nel caso del vulcano - la profondità che si inabissa.
L'immagine della montagna non possiede connotazioni
così ricche come quella dell'acqua che scorre. Se la si analizza più
da vicino, diventa evidente che equivale a quest'ultima. Anche qui
abbiamo un fenomeno fondamentale che, partendo dal quotidianamente
percepibile, si sviluppa fino a ricomprendere la sfera
simbolico-spirituale e addirittura quella metafisica e mitica. Come il
fiume, anche la montagna attraversa tutti gli ambiti dell'esistenza.
Nella poesia di Hólderlin sono costantemente
riscontrabili diversi tipi di alture, dal colle fino alla montagna
ripida, dalla cima isolata fino alla catena montuosa.
Primeggiano le alture della sua terra: della Alb, dei
corsi del Danubio e del Neckar, della valle del Meno e del Reno ... Le
Alpi vengono ampiamente descritte nella poesia II cantone di Schwyz,
ma anche in altre liriche come Ritorno.
Nell'inno II Reno esse sono l'origine del Reno e
lo
96 Primo cerchio - Fiume e montagna |
scenario del suo primo tratto ... Per gli altri paesi
vengono annoverate soprattutto le catene montuose della Grecia.
UIperione descrive con una bellezza che tocca
l'eroico, i colli di Tino, i monti di Calàuria, le alture attorno ad
Atene e le catene montuose del Peloponne-so. Le grandi poesie
dell'Oriente e dell'Occidente parlano del Parnaso e del Citerone,
dell'Elicona e del Campidoglio. Rievocando il viaggio in Francia, si
nominano le alture della bassa valle del Rodano e della Dordogna; in Emilia
innanzi il giorno delle sue nozze le alture della Corsica, scenario
di coraggiose lotte per la libertà. Nella poesia // viandante si
erge imponente l'Atlante ... Un carattere particolare, di cui tratteremo
oltre in modo più preciso, rivestono i vulcani. In relazione alla
figura di Empedocle, si impone soprattutto l'immagine dell'Etna. Il
paesaggio di Hólderlin non è mai costituito dalla sola pianura; sempre
vi è il contrappunto della montagna. L'immagine della pianura e la
sensazione della vastità di quest'ultima sono collegate al fiume che
scorre; di questo fan però anche sempre parte il punto di origine, che
lo sprigiona e gli addita la dirczione decisiva, ossia la montagna.
Anche il moto dell'uomo, il viaggio, viene spesso associato alla
situazione in cui il viaggiatore guarda lontano dall'alto; dall'Atlante
il deserto, oppure dal Tauro l'Asia Minore. All'elemento orizzontale
della pianura si contrappone sempre quello verticale della montagna. Tra
i due si muovono il fiume e l'uomo:
l'esistenza che si compie nel passare.
Ma la descrizione di Hólderlin non si riferisce mai al
paesaggio in quanto tale; questo è anzi sempre lo
Montagne e alture
97
spazio della vita umana. Anche là dove la sua immagine
si sviluppa nel modo più pieno, essa è legata totalmente al divenire e
all'esperire dell'uomo, il cui destino è al centro. Questo legame
acquista un carattere particolare là dove si tratta di vita storica. I
monti del romanzo testimoniano del grande passato della Grecia,
monumenti del suo splendore, lamento sul suo tramonto, monito per
imprese future votate alla liberazione e al rinnovamento ...
Nella poesia Heidelberg l'altura sopra la città
appare espressione della portata storica del castello. Nella Morte
per la patria il colle diventa il punto di partenza del movimento,
col quale i giovani vanno in battaglia, quindi il luogo del coraggio e
della consacrazione e più tardi, visto dal campo di battaglia ai suoi
piedi, «il colle del sacrificio», dove scorre il sangue per la patria.
II
L'immagine della montagna acquista una significatività
più intensa quando si tratta di alture coinvolte nella mitologia. In Pane
e vino si legge:
Vieni dunque sull'Istmo! Dove scroscia l'aperto mare A
pie di Parnaso e la neve splende alle delfiche rupi, Nella terra
dell'Olimpo, sulle cime del Citerone, Sotto i pini e in mezzo alle viti,
lassù dove sale Di Tebe il murmurc e dell'Ismeno sulla terra di Cadmo,
Di là giunge e indietro fa segno il veniente dio.
Drum an den Isthmos komm! dorthin, wo das offene Meer
rauscht / Am ParnaB und der Schnee delphische Felsen umglànzt, / Dort
ins Land des Olymps, dort auf die Hóhe Kithàrons, / Unter die Fichten
dort, unter die Trauben,
98
Primo
cerchio - Fiume e montagna
von wo / Thebe drunten und Ismenos rauscht im
Lande des Kadmos, / Dorther kommt und zurùck deutet der kommende
Gott (il, p. 91; tr. it. dt., p. 137).
La poesia Ai tedeschi elenca le «montagne delle
Muse»: Pindo, Elicona e Parnaso (II, p. 10). In questo caso la montagna
è il luogo dove abita la divinità -una divinità che ha essa stessa le
connotazioni del sublime, di ciò che è sottratto all'abbassamento.
Dall'alto viene il messaggero degli dèi, l'aquila. In Germania si
legge in proposito:
E l'aquila, che dall'Indo viene
E dal Parnaso sopra
I nevosi picchi vola, alto sulle are dei monti
D'Italia, in cerca di allegra preda .
Per il padre, non più inesperta, ma provetta nel volo,
Finisce col varcare con grida di giubilo
Le Alpi e di là scorgere il molto variato paese.
La sacerdotessa, la più tacita figlia di Dio,
Che troppo ama il silenzio d'un'innocenza profonda,
Lei cerca l'aquila [...]
Und der Adier, der vom Indus kómmt / Und ùber des
Parnassos / Beschneite vom Gipfel fliegt, hoch ùber den Opferhùgein /
Italias, und frohe Beute sucht / Dem Vater, nicht wie sonst, geùbter i
m Fluge / Der AlteJauchzend ùber-schwingt er / Zuletzt die Alpen und
sieht die vielgearteten Lànder. / Die Priesterin, die stillste Tochter
Gottes, / Sie, die zu gem in tiefer Einfalt schweigt, / Sie suchet er
[...] (Il, p. 150; tr. it. dt., p. 209).
La montagna è il luogo e l'espressione del dominio
della divinità che, stendendo lo sguardo su paesi e tempi, delibera,
decide ed assegna a ciascuno il proprio destino; un luogo dove troneggia
«la potenza
Montagne e alture
99
dell'alto». L'immagine della montagna trapassa in
quella dell'altezza ancora più alta, quella dell'etere.
In un altro contesto, le montagne appaiono come il luogo
dove nascono le forme del significato, i versi di divina sapienza e
bellezza. Al fonte del Danubio:
[...] così giunse
La Parola da Oriente a noi,
E di Parnaso alle rupi e al Citerone,
O Asia, odo l'eco tua che si frange
Al Campidoglio e subito giù dalle Alpi
Straniera giunge
A noi la risvegliatrice
La voce che forma gli umani.
[...] so kam / Das Wort aus Osten zu uns, / Und an
Par-nassos Felsen und am Kitharon hór ich / O Asia, das Echo von dir
und es bricht sich / Am Kapitoi undjàhiings he-rab von den Alpen //
Kommt eine Fremdiingin sie / Zu uns, die Erweckerin. / Die
menschenbildende Stimine (il, p. 126; tr. it. dt., p. 163).
A queste montagne sono paragonate quelle su cui venne
ricevuta dai profeti la Parola proveniente «da Oriente», quella della
Rivelazione biblica:
E pensiamo anche a voi, valli del Caucaso, Tanto antiche
voi siete, a voi paradisi di là E ai tuoi patriarchi, ai tuoi profeti,
Asia, ai tuoi forti, o madre!
Che impavidi innanzi ai segni del mondo
Con sulle spalle il cielo e tutto il destino,
Interi giorni, radicati sui mond
Per primi seppero
Parlare soli
A Dio [...].
100 Primo cerchio - Fiume e montagna |
:3E
1.
Auch eurer denken wir, ihr Tale des Kaukasos, / So alt
ihr :
seid, ihr Paradiese dort / Und deiner Patriarchen und
dei-ner Propheten, // O Asia, deiner Starken, o Mutter! / Die furchtios
vor den Zeichen der Welt, / Und den Himmel auf Schuitern und alles
Schicksal, / Taglang auf Bergen gewurzeit, / Zuerst es verstanden, /
Allein zu reden / Zu •' Gott [...] (il, p. 128; tr. it. dt., p. 165).
;
La nostra analisi del fenomeno fluviale ha mostra- ' to
come, in un determinato momento, l'immagine del fiume si trasfiguri nel
mitico. Lo stesso avviene anche a proposito dell'immagine della
montagna. La coscienza mitica non vede il inondo come dato ogget- s
tivo, da pensare secondo i concetti scientifici di mate- ^ ria, forza e
legge, bensì come insieme di esseri viventi dai quali, attraverso
l'incontro e la fuga, la lotta e l'u- ^ nione, scaturiscono
costantemente gli enti. Questa | caratterizzazione del mitico non sembra
applicabile •t ad un fenomeno così massiccio come la
montagna;
eppure ciò viene fatto, e anche con grande
credibilità. La trasformazione riesce relativamente facile sul ^ piano
delle idee di spazio e luogo, come avviene nei versi addirittura magici
che introducono la quarta strofa di Pane e vino:
Greda felice! Casa di tutti i celesti
È dunque vero dò che da giovani abbiamo udito?
Sala di feste! II suolo è mare e sono mense i monti,
Per certo a quell'unico uso costruiti fin dall'antico!
Ma i troni ove sono? e i templi e dove i vasi,
Dove, pieno di nettare, per delizia degli dèi, il
canto?
Ove, ove splendono gli oracoli, adesso, che colgono
lungi?
Delfo è assopita e dove suona il grande destino?
Dov'è il veloce? dove, d'un bene universo ricolmo
Rompe sugli occhi, tonando dall'aria serena? ;!
Montagne e alture 101
Seliges Griechenland! du Haus der Himmlischen alle, /
Al-so ist wahr, was einst wir in derJugend gehórt? / Festli-cher Saal!
der Boden ist Meer! und Tische die Berge, / Wahriich zu einzigem Brauche
vor Alters gebaut! / Aber die Thronen, wo? die Tempel, und wo die
GefàB, / Wo mit Nektar gefùlit, Góttern zu Lust der Gesang? / Wo, wo
leuchten sie denn, die femhintreffenden Sprùche? / Del-phi schiummert,
und wo tónet das groBe Geschick? / Wo ist das schnelle? wo brichts,
allgegenwàrdgen Glùcks voli, / Donnernd aus heiterer Luft ùber die
Augen herein? (II, pp. 91-92; tr. it. dt., p. 137).
La terra dell'Ellade viene vista da un'altezza
visionaria ed appare come «casa di tutti i Celesti». Il piano
orizzontale della terra costituisce un'immensa sala, preparata per gli
esseri sovrumani. Il mare è il suolo sul quale camminano i Celesti; le
montagne sono le mense dove gli dèi pranzano, esse sono state costruite
nella notte dei tempi per questo scopo; i templi sono i troni, e lo
spazio vasto, pieno di misteri, è attraversato, come da fulmini, dagli
«oracoli, che colgono lungi». Questo è il vero senso del paese:
essere la sede degli dèi. Ogni altra visione è cecità e limitatezza
terrena. Tutto ciò non è che l'introduzione al vero e proprio mistero:
'Padre Etere!' ecco il grido che di labbro in labbro
volava In mille modi e nessuno sopportava la vita da solo. Compartito
l'allieta un tal bene e con estranei scambiato Diventa un giubilo,
cresce dormendo il potere della parola:
'Padre! Sereno!' e risuona da ogni distanza il segno
Originano, ereditato dagli avi e ove giunge crea. Così prendono stanza
i Celesti e spargendo un brivido fondo Fuori dalle ombre scende, fra gli
uomini, il loro giorno.
Vater Àther! so riefs und flog von Zunge zu Zunge /
Tau-sendfach, es ertrug keiner das Leben allein; / Ausgeteilet
102 Primo cerchio - Fiume e montagna
erfreut sokh Gut und getauschet, niit Fremden, / Wirds
einJubel, es wàchst schlafend des Wortes Gewalt/ Vater! heiter! und
hallt, soweit es gehet, das uralt / Zeichen, von Eltern geerbt, treffend
und schaffend hinab. / Denn so kehren die Himmlischen ein,
tiefschùttemd gelangt so / Aus den Schatten herab unter die Menschen
ihr Tag (il, p. 92; tr. it. cit., p. 137).
Sono incredibili la forza primordiale e la precisione
con cui un uomo che vive a cavallo fra Settecento e Ottocento riesce ad
evocare la sfera del mistero.
Ancora più grande è l'immagine delle montagne, dal
punto di vista del sentimento mitico, nella poesia dionisiaca Stoccarda.
Dopo aver descritto il fatto on-niinnovatore del temporale, dando al
lettore la sensazione di come le potenze primordiali attraversino cie-lo
e terra, continua:
Ma bene guidati sono pure i viandanti e hanno Ghirlande
bastevoli e canto, hanno il bastone sacro Bene adorno di grappoli e
frondi seco, e dei pini L'ombra: di borgo in borgo è un giubilo, da
giorno a giorno, E, quali carri tirati da libere belve, si mettono i
monti In cammino, così porta e vola il sentiero.
Aber die Wanderer auch sind wohigeleitet und haben /
Krànze genug und Gesang, haben den heiligen Stab, / Vollgeschmùckt mit
Trauben und Laub, bei sich und der Fichte / Schatten; von Dorfe zu
Dorfjauchzt es, von Tage zu Tag, / Und wie Wagen, bespannt mit freiem
Wilde, so ziehn die / Berge voran, und so tràget und eilet der Pfad
(II, p. 86; tr. it. cit., p. 126).
I viandanti escono dalla città con i bastoni adomi di
tralci di vite e rami di pino. All'improvviso questa gente della Svevia,
allegra e coinvolta dall'aspettativa del-
Montagne e alture
103
l'uva matura, si trasforma nel corteo di Dioniso che,
con il bordone in mano, abbandona le sedi di una vita regolata, muovendo
verso la natura. Questa natura ora si muta, raggiungendo essa stessa lo
stato dionisiaco. I monti si trasformano in carri sui quali viaggia il
Dio, trainati dalle belve dei loro boschi, «libere belve» che
ubbidiscono all'incantesimo. Il sentiero stesso diventa vivo, «porta e
vola», e nell'ebbra theoria [corteo] le montagne si mettono in
cammino rombando.
Ancora una volta la montagna muta carattere diventando
l'altezza nello spirito. Ciò accade, per esempio, nella prima parte
dell'inno Palmo in cui lo spirito trasporta il poeta in «Asia»,
sulle cime dei suolinomi la cui immagine rifulge in uno splendore di
gloria ultraterreno:
[...] Ma su nell'alta Luce l'argentea neve fiorisce:
Testimone di vita immortale,
Alle impervie pareti
Cresce antichissima l'edera e reggono
Colonne viventi di cedri
E d'allori i maestosi
Palagi, costruiti da dèi.
[...] aber im Uchte / Blùht hoch der silberne Schnee; /
Und, Zeug' unsterbiichen Lebens, / An unzugangbaren Wànden / Uralt der
Efeu wàchst und getragen sind / Von lebenden Sàulen, Zedern und
Lorbeern, / Die feierlichen, / Die gòtdichgebauten Palaste (il, p. 166;
tr. it. dt., p. 219).
Qui non sussiste più solo uno splendore d'altezza,
contemplato nella visione, ma in queste montagne si esprime l'altezza
intcriore o meglio visionaria stessa da cui la visione viene raggiunta,
così come accade
104 Primo cerchio - Fiume e montagna
nell'immagine di contrasto, nell'inizio cupamente
grandioso de II viandante:
Solo io stavo e per le aride distese
Africane guardavo; dall'Olimpo pioveva fuoco
Rapinoso! poco più mite di quando qui dirompendo
Con raggi la montagna, il Dio alture costruiva e abissi.
Ma su di esse nessun bosco che fresco verdeggi germoglia
Salendo nell'aere sonoro, rigoglioso e magnifico. '"•
Ne d'un serto è anta la fronte del monte ne ruscelli
loquaci
Esso conosce, rara la fonte perviene alla valle.
Nessun gregge passa alla polla zampillante nel meriggio,
Ne amico un tetto ospitale ha spiato tra gli alberi. .
Sotto un cespuglio stava serio un uccello senza canto, '
_g
Ma come viandanti s'affrettavano a involarsi le cicogne.
Einsam stand ich und sah in die afrikanischen dùrren /
Ebnen hinaus; vom Olymp regnete Feuer herab, / ReiBen-des! milder kaum
wie damais, da das Gebirg hier / Spal-tend mit Strahien der Gott Hóhen
und Tiefen gebaut. / Aber auf denen springt kein frischaufgrùnender
Wald nicht / In die tónende Luft ùppig und herrlich empor. /
Unbekrànzt ist die Stime des Bergs und beredtsame Bàche / Kennet er
kaum, es erreicht selten die Quelle das Tal. / Keiner Herde vergeht am
plàtschernden Brunnen der Mit-tag, / Freundiich aus Bàumen hervor
blickte kein gastli-ches Dach. / Unter dem Strauche sa6 ein ernster
Vogel ge-sanglos, / Aber wie Wanderer flohn eilend, die Stórche, vorbei
(il, p. 80).
Se qui l'altezza stava nell'atto della contemplazione
visionaria, nella poesia Alla principessa Augusta di Homburg essa
diventa un ambito dell'esistenza ogget-tiva nella sua totalità:
[...] e solitario, o principessa!, non è più Certo il
cuore di chi è nato libero
Montagne e alture
105
(slella propria felicità; che degnamente
5'accompagna a lui nel lauro l'eroe,
[^ui di matura bellezza, genuino; anche i saggi,
[ nostri, ne son degni; guardano
Calmi, dall'alto della vita, i vecchi gravi.
[...] und einsam, o Fùrstin! ist / Das Herz der
Freigebomen wohi nicht / Lànger im eigenen Glùck; denn wùrdig //
Gesellt im Lorbeer ihm der Heroe sich, / Der schóngereifte, echte; die
Weisen auch, / Die unsern, sind es wert: sie blic-ken / Sdii aus der
Hóhe des Lebens, die ernsten Alten (I, p.311).
Questo «alto della vita» non è un ambito soggettivo -
per esempio di un'esperienza vissuta - bensì quella zona di lontananza
in cui si trovano i grandi del passato, volti a questa esistenza terrena
e pronti a reinserirsi in essa (il, p. 156).
La rappresentazione è correlata a quella dell'Olimpo
nella misura in cui abbandona completamente l'immagine della montagna
empirica trasformandosi in una regione puramente metafìsica. Così nel Canto
del Destino di Iperione :
Voi andate lassù nella luce Su molle suolo, beati
genii!
Ihr wandeit droben im Ucht / Aufweichem Boden, selige
Genien! (i, p. 265; tr. it. dt., p. 37).
'NeìYIperione si parla addirittura espressamente
del-l'«01impo spirituale» che è dappertutto, per quanto accessibile
solo agli entusiasti.
Infine la montagna trascende ogni significato concreto,
diventando pura espressione - non a caso in relazione alla concezione
del tempo. Nella poesia
106 Primo cerchio - Fiume e montagna (
frammentaria e di difficile comprensione Alla madre
Terra si legge:
Molto egli ha da dire e con altro diritto E un solo
v'è, che non finisce nelle ore, E le epoche del Creante sono Come
catena di monti Che in alte ondate da mare a mare S'avanza sulla terra
[...].
Viel hat er zu sagen und anders Recht, / Und Einer ist,
der endet in Stunden nicht, / Und die Zeiten des Schaf-fenden sind / Wie
Gebirg, / Das hochaufwogend von Meer zu Meer / Hinziehet ùber die Erde
[...] (il, p. 125; tr. it. dt, p. 161).
Ora, poi che ammassate in cerchio
Stanno le vette del tempo
E i più amati abitano vicino, languendo
Sui monti più separati,
Oh, dacci acqua innocente,
Dacci ali a varcare di là
Con fedelissimo animo e ritornare.
Drum, da gehàuft sind rings / Die Gipfel der Zeit, und
die Liebsten / Nah wohnen, ermattend auf / Getrenntesten Bergen, / So
gib unschuidig Wasser, / O Fittiche gib uns, treuesten Sinns /
Hinùberzugehn und wiederzukehren (il, p. 165; tr. it. cit., p. 217).
In entrambi i testi le montagne si presentano come forme
del tempo: «le epoche del Creante», come una catena montuosa che
avanza sulla terra; l'esistenza di «più amati», di uomini vicinissimi
nel sentimento come «vette» divise da abissi invalicabili. La visione,
penetrando fino al fondo dell'essere, ne scopre, come sostanza ultima,
il tempo. L'esistenza, che è nel
Montagne e alture
107
.^passare, si compone di tempo. Essa si concreta in forme;
e queste forme sono ciò che è.
Qui i due fenomeni fondamentali dell'esistenza, fiume e
montagna, si identificano. Il tempo, che è la forma più intcriore
dello scorrere, anzi costituisce lo scorrere in quanto tale, diventa
montagna poiché di esso è fatta ogni cosa. La possanza sconfinata
delle cose, distesa per lo spazio come una catena montuo-sa18,
e l'esistenza degli uomini che nella sua solitudine individuale si eleva
all'invalicabile come vertici inaccessibili - entrambe sono fatte di
tempo.
LE ALPI E IL VULCANO
II terzo paragrafo della nostra analisi sul fiume ha
messo in luce che tutto ciò che può essere detto di esso si trova
riassunto nell'immagine del Reno. Allo stesso modo ogni particolare
sulla montagna e le montagne è presente nell'immagine delle Alpi che
per Hólderlin sono le montagne per eccellenza.
La già menzionata poesia Cantone di Schwyz
fornisce una descrizione realistica - per quanto si possa usare questo
termine nel caso di Hólderlin - delle Alpi e della loro grandiosità
... In La migrazione e Palmo esse sono presentate come il punto
di partenza della grande tensione tra Occidente e Oriente. Entrambe le
poesie suscitano all'inizio l'impressione dello stabile in sé, del
fermamente costruito, di quanto è immensamente elevato; da esso parte
il movimento. Nella prima la terza strofa (il, p. 138) inizia: «Ma io
voglio andarmene al Caucaso!», mentre nell'altra la seconda strofa si
apre con le parole:
Così parlavo quando
Più veloce ch'io non credessi e lontano
Dove mai sognato avevo
Di giungere, un Genio mi rapì
Dalla mia casa [...].
So sprach ich, da entfuhrte/ Mieli schneller, denn ich
ver-mutet, / Und weit, wohin ich nimmer / Zu kommen ge-
110 Primo cerchio - Fiume e montagna Ì
dacht, ein Genius mich / Vom eigenen Haus [...] (n, p '
165; tr. it. cit-, p. 186). |
Ma il movimento porta anche in Asia, allo Tmolo e al
Taigeto. In Germania le Alpi sono le ultime montagne sorvolate
dall'aquila, messaggera del ritorno della Grecia. Qui il movimento
percorre la dirczione inversa: «Dall'Indo» alla Germania, passando per
il Parnaso, le «are dei monti d'Italia» ed infine «le Alpi» (il, p.
150). E la stessa dirczione descritta in Al fonte del Danubio,
già citata (pp. 50-51):
La parola da Oriente a noi, E di Parnaso alle rupi e al
Cicerone, O Asia, odo l'eco tua che si frange Al Campidoglio e subito
giù dalle Alpi
Straniera giunge
A noi la risvegliatrice
La voce che forma gli umani.
[...] so kam / Das Wort aus Osten zu uns, / Und an
Par-nassos Felsen und am Kithàron hór ich, / O Asia, das Echo von dir
und es bricht sich/ Am Kapitoi, undjàhiings herab von den Alpen //
Kommt eine Fremdiingin sie / Zu uns, die Erweckerin, / Die
menschenbildende Stimme (il, p. 126; tr. it. cit., p. 163).
Anche nell'inno II Reno le Alpi sono punto di
partenza, in quell'occasione sono l'origine. Questa origine ha
un'importanza che va oltre il primo significato di sorgente fluviale: il
fiume, infatti, è la grande forma dell'esistenza in genere che,
scaturendo dalla profondità indifferenziata, acquista una forma,
avverte la legge della caduta e ritorna nel tutto indiviso. In tal modo
le Alpi diventano l'origine per eccellenza:
Le Alpi e il vulcano 111
pure mai se ne scorda.
prima perirà la casa
E le leggi e tornerà all'informe
(1 giorno degli uomini, che dimenticare
i)n pad suo possa l'origine
R la voce pura della gioventù.
Doch nimmer, nimmer vergiBt ers. / Denn eher mu6 die
Wohnung vergehn, / Und die Satzung, und zum Unbild werden / Der Tag der
Menschen, ehe vergessen / Ein sol-cher dùrfte den Ursprung/ Und die
reine Stimine derJu-gend (II, pp- 114-145; tr. it. dt., p. 199).
Così dice Hólderlin, dopo aver descritto come il
torrente, dapprima così sfrenato, scorra successivamente in modo pacato
e creativo.
In La migrazione, alla Svevia sono dedicate le
seguenti strofe: ,
[...] E per questo
T'è innata la fedeltà. Tristo abbandona
Chi abita accanto all'origine, il luogo.
E tue creature, le atta,
Sul lago che lungi barluma,
Sui paschi del Neckar, sul Reno,
Tutte pensano non vi sarebbe
Altrove da meglio abitare. ,
[...] Darum ist / Dir angeboren die Treue. Schwer
verlàBt, / Was nahe dem Ursprung wohnet, den Ort. / Und deine Kinder,
die Stàdte, / Am weithindàmmernden See, / An Neckars Weiden, am
Rheine, / Sie alle meinen, es wàre / Sonst nirgend besser zu wohnen (n,
p. 138; tr. it. dt., p. 189).
Da questa origine scaturisce anche un altro fiume,
l'ispirazione. Così nel magnifico esordio dell'inno II Reno per
esempio (già citato, p. SO): ;
112 Primo cerchio - Fiume e montagna
Nell'edera buia sedevo, alla porta
Della foresta, proprio quando il meriggio d'orò
Per visitare il fonte scendeva
Le scale dell'Alpe,
Che per me è la rocca dei numi,
Costruita da mano divina,
Secondo l'antica voce, ma donde
Più d'un segreto verdetto
Giunge ancora agli uomini: di lì
Imprevisto ebbi il senso
D'un destino [...] •
Im dunkein Efeu saB ich, an der Pforte / Des Waldes,S
eben, da der goldene Mittag, / Den Quell besuchend, her-1;-unterkam /
Von Treppen des Alpengebirgs, / Das mir diel gòttlichgebaute, / Die
Burg der Himmlischen heiBt / 4 Nach alter Meinung, wo aber / Geheim nodi
manches ent- ? schieden / Zu Menschen gelanget; von da / Vernham ich^
ohne Vermuten / Ein Schicksal ... (il, p. 142; tr. it. cit., p. ? 195).
^
In quanto origine del fiume, le Alpi sono «grembo ;
sacro» (il, p. 143), eruzione che viene dalla
profondità; in quanto origine dell'ispirazione, esse sono all'altezza
misteriosa, simile all'Olimpo o alle cime delle querce di Dodona. Esse
sono la dimora degli dèi «donde più d'un segreto verdetto giunge
ancora agli , uomini», come in questo caso la rivelazione del
«destino» celebrato dall'inno, il mistero del Reno. ' $
In termini più generali, la zona dell'origine si mani-
^ festa come caos creativo nella poesia Ritomo in patria:. I
Là in grembo alle Alpi è ancor notte chiara e la
nuvola Addensando gioia, ammanta If dentro lo squarcio della vallata.
Piomba qua e là fragoroso l'allegro vento montano, , A picco traverso
gli abeti un raggio balena e dilegua. Lento s'affretta e combatte, di
gioia con brividi il Caos
Le
Alpi e
il vulcano 113
«^ giovanile tempra, eppur forte, celebra amorosa gara,
Fra le r11?1' fermenta e vacilla entro l'eterne
barriere, poiché più bacchico sorge là in fondo il mattino nell'alto.
più infinito là cresce l'anno e le sacre Ofe, i giorni, son con
più audacia ordinate, commiste.
nrin in den Alpen ists noch helle Nacht und die Wolke, /
Freudiges dichtend, sie deckt drinnen das gàhnende Tal. / Dahin,
dorthin toset und stùrzt die scherzende Bergluft, / Schroff durch
Tannen herab glànzet und schwindet ein Strahi. / Langsam eilt und
kàmpft das freudigschauernde Chaos, / Jung an Gestalt, doch stark,
feiert es liebenden Streit / Unter den Felsen, es gàrt und wankt in den
ewi-gen Schranken, / Denn bacchantischer zieth drinnen der Morgen
herauf. / Denn es wàchst unendiicher dort das hhr und die heilgen /
Stunden, die Tage, sind kùhner ge-ordnet, gemischt (il, p. 96; tr. it.
dt., p. 143).
«Là in grembo alle Alpi» - le parole, apparentemente
senza un'intenzione particolare, pronunciate nel guardare in alto verso
le montagne avvolte dalla nebulosità del mattino, suscitano subito un
senso della sfera originaria.
La prima immagine, la nebbia fitta, nasconde, come
spesso accade in Hólderlin, il fenomeno più profondo, «di gioia con
brividi il Caos» e la sua «amorosa gara» di cui sono protagoniste le
forze dionisiache. Anche qui è centrale la connessione tra il concetto
di tempo e quello di essere: in montagna, nella zona del primo divenire,
«Più infinito là cresce l'inno e le sacre / Ore, i giorni, son con
più audacia ordinate, commiste». Il tempo è la materia originaria
dell'esistenza. Nella sfera delle forme chiare e decise, le «ore» e i
«giorni» sono ordinati secondo la matrice regolare, attendibile e fida
della quotidianità; là invece vige uno stato più primordiale, audace
e pericoloso.
114
Primo
cerchio - Fiumee montagna ^
Di esso gli ultimi versi dell'inno R Reno dicono
che: ;
[...] Tutto si mischia ;;
Senz'ordine e torna '•;' L'originario
groviglio. :
[...] alles gemischt / Ist ordnunglos und wiederkehrt /
Uralte Verwirrung (il, p. 148; tr. it. dt., p. 205).
Questo caos può irrompere, e la potenza dionisiaca è
in grado di mettere in movimento anche le rigide masse torreggiane delle
Alpi. Ciò è dimostrato dai versi contenuti nell'inno II Reno
che sono già stati analizzati (p. 75) e che verranno ripresi trattando
del dionisiaco: ,
Poiché dove prima le rive
A fianco gli strisciano, le sinuose, ?
E assetate si avvolgono a lui, ^
Incauto, di trascinarlo ?
E ben custodirlo cupide
Nel loro dente, ridendo ' ;
Schianta le serpi e giù piomba ;
Con la preda, e se in quella furia :;
Un più grande non lo ammansisse, ;
Se lo lasciasse crescere, come folgore
Fenderebbe la terra, e i boschi incantati ,
Dietro lui fuggirebbero e i monti frananti. ;
Denn wo die Ufer zuerst / An die Seit ihm schleichen,
die krummen, /Und durstig umwindend ihn, / Den Unbe-dachten, zu ziehn /
Und wohi zu behùten begehren / Im eigenen Zahne, lachend / ZerreiBt er
die Schlangen und stùrzt / Mit der Beut und wenn in der Eil / Ein
GróBerer ihn nicht zahmt, / Ihn wachsen làBt, wie der Blitz muB er /
Die Erde spalten, und wie Bezauberte fliehn / Die Wàl-der ihm nach und
zusammensinkend die Berge (il, p. 144;
tr.it. dt.,p. 197).
Le Alpi e il vulcano
115
Ciò che all'inizio della poesia Stoccarda appare
ancora in termini lieti e sopportabili, ossia il fatto che ogni cosa
fissa si metta in movimento, e che le montagne divengano esseri
sfreccianti, qui assume una forma tremenda, che prelude all'irruzione
delle forze distruttive.
Due immagini infine, contenute in testi già citati,
evocano con la loro semplicità la sfera mitica tutta. L'inizio
dell'inno II Reno suona così:
Nell'edera buia sedevo, alla porta
Della foresta, proprio quando il meriggio d'oro
per visitare il fonte scendeva
Le scale dell'Alpe,
Che per me è la rocca dei numi,
Costruita da mano divina,
Secondo l'antica voce [...]
Im dunkein Efeu saB idi, an der Pforte / Des Waldes,
eben, da der goldene Mittag, / Den Quell besuchend, her-unterkam / Von
Treppen des Alpengebirgs, / Das mir die góttlichgebaute, / Die Burg der
Himmlischen heiBt / Nach alter Meinung [...] (il, p. 142; tr. it. dt.,
p. 195).
Nella Migrazione:
E l'Alpe elvetica anche d ombreggia
Al confine: che presso al focolare di casa
Dimori e odi, come là dentro
Da argentei sacri calia
La sorgente scrosda, versata
Da mani pure, quando sfiorato
Da caldi raggi
II cristallino ghiacdo e, franando
Alla spinta leggera della luce,
116
Primo
cerchio - Fiume e montagna
II nevoso picco inonda la terra Con purissima acqua
[...].
Und Alpengebirg der Schweiz auch ùberschattet, /
Benach. bartes, dich; denn nah dem Herde des Hauses / Wohnst du, und
hórst, wie drinnen / Aus silbernen Opferschalen / Der Quell rauscht,
augeschùttet / Von reinen Hànden wenn berùhrt // Von warmen Strahien
/ Kristallenes eh und umgestùrzt / Vom leichtanregenden Lichte / Der
schneeige Gipfel ùbergieBt die Erde / Mit reinstem Was-1 ser [...] (II,
p. 138; tr. it. cit., p. 189). -|
Ci ritorna in niente l'immagine di Pane e vino inf
cui tutto un paese è soggetto alla trasformazione miti-% ca e
in cui l'Ellade appare come la «dimora dei Cele- s sti». Innanzi tutto
le Alpi sono la «rocca dei numi»;
Le diverse montagne formano i gradini della grande*
scala che partendo da essa scende nel piano ... In se-i condo luogo
tutto l'Occidente è «la casa» e le Alpi ne sono il centro: l'interno
segreto, dai giganteschi strati, la sede sacrificale dove vengono
versati i grandi do- ;
ni. Le «mani pure» che compiono ciò sono i raggi del
sole, che fondono la neve e il ghiaccio.
II
Una posizione particolare fra le montagne assume il
vulcano. Esso non racchiude solo la dimensione dell'altezza, ma anche
quella della profondità o, me-:
glio, dell'interiorità. Esso non forma solo un
massiccio saldamente ancorato che si eleva all'etere. È anche una porta
aperta al regno intcriore della terra. In esso sono congiunti il
carattere del costruito e quello dello scorrere. Il vulcano è l'origine
dello scorrere, la
Le Alpi e il vulcano
117
fonte della lava, ma ne è anche la fine, il mare, in
niianto il suo cratere accoglie ciò che ricade in esso.
Il vulcanico in sé è un'espressione per designare
il carattere caotico della profondità tellurica. Nell'Arci-belaK0
s1 ^lce {^>r^Lno citato a p.
57):
Tutte vivono ancora le isole madri d'eroi
D'anno in anno fiorendo, e se dall'abisso talora
Lo scatenato fuoco notturno, uragano inferiore,
Una delle soavi ghermì, che morente calò nel tuo seno,
Tu perdurasti sempre, o divino, che sopra le buie
Profondità molte cose ti sono già sorte e perite.
Alle leben sie noch, die Heroenmùtter, die Insein, /
Blù-hend vonJahr zuJahr, und wenn zu Zeiten, vom Abgrund / Losgelassen,
die Fiamme der Nacht, das untre Gewitter, / Eine der holden ergriff, und
die Sterbende dir in den SctioB sank, / Góttlicher! du, du dauertest
aus, denn ùber den dunkein / Tiefen ist manches schon dir auf- und
un-tergegangen (il, p. 103; tr. it. cit., p. 107).
Definizioni primeve del caos, come «abisso» e
«notte», vengono collegate qui ad altre connesse al fenomeno
dell'altezza: «fuoco» e «uragano». La loro congiunzione indica una
magnificenza cupa e tremenda. Una potenza della distruzione e della
morte, di una morte che consiste nella caduta in profondità e che
quindi corrisponde a quella collegata con lo scorrere. E perciò
conseguenziale che il vulcanico sia parte dell'ambito di potere del Dio
degli abissi marini, Posidone.
Appena il caotico si compenetra con la volontà di
ribellione, si trasforma nel titanico. Anche in quest'ultimo ci siamo
imbattuti nell'ambito del fiume, come si vede nell'inno II Reno.
118
Primo
cerchio - Fiume e montagna "
Così il luogo del vulcanico è allo stesso tempo quello
dei titani. La poesia Natura e arte dice:
Regni alto sul giorno e fiorisce la tua
Legge, in pugno hai la bilancia, figlio di Saturno!
E spartisci le sorti e lieto riposi
Nella gloria delle arti di dominio immortali.
Ma si dicono i cantori che nell'abisso II sacro padre,
una volta, il tuo proprio, Tu sbandisti e che si lamenta laggiù, Dove i
ribelli puniti stanno prima di tè,
L'innocente dio dell'età dell'oro, da tanto;
Esente da cure, una volta, e di tè più grande, Anche
se mai nessun comando espresse, Ne lo chiamò con nomi alcun mortale.
Du waltest hoch am Tag und es blùhet dein / Gesetz, du
hàltst die Wage, Saturnus' Sohn! / Und teiist die Los' und ruhest froh
im / Ruhm der unsterbiichen Herrscherkùn-ste. // Doch in den Abgrund,
sagen die Sànger sich, / Habst du den heilgen Vater, den eignen, einst
/ Verwie-sen und es jammre drunten, / Da, wo die Wilden vor dir mit
Recht sind, // Schuidlos der Gott der goldenen Zeit schon làngst: /
Einst mùhelos, und grófier wie du, wenn schon / Er kein Gebot
aussprach und ihn der / Sterbii-chen keiner mit Namen nannte (il, p. 37;
tr. it. dt., p. 76).
Nel terremoto si manifesta il furore delle potenze
dell'abisso oscuro che si ribellano contro l'ordine della luce e
dell'altezza. Ma questa protesta della profondità è sorretta da un
diritto originario, poiché prima del regno degli Olimpici vigeva quello
degli dèi ctoni-ci, positivo e legittimo quanto il primo; anzi, per il
fatto di essere più vicino all'origine, era persino migliore e fondato
su un diritto più puro. In tal modo,
Le Alpi e il vulcano
119
Saturno, il dio della prima indistinzione, è messo in
collegamento con il regno della terra. Nella profondità non sono solo
incatenate, secondo il loro operato, le potenze della ribellione, ma
anche lui, la cui colpa consisteva esclusivamente nel fatto che il suo
tempo fosse passato. Ma una delle condizioni per cui gli dèi della luce
sono legittimati a regnare, è che continuino a ricordare il tempo
anteriore e i diritti precedenti. Se essi invece dimenticano, perpetrano
un sacrilegio (III, infra, p. 431). La profondità della terra si
apre nel vulcano. Nell'opera poetica hólderliniana, la sua figura è
legata a quella di Empedocle. Una breve poesia ne porta il nome:
Cerchi la vita, cerchi, e ti sgorga splendido
Divino fuoco dal fondo della terra,
E tu, rabbrividendo di brama,
Ti scagli giù dell'Etna nelle fiamme.
Così struggeva perle nel vino lo sfarzo insolente Della
regina; eppure le amava! Oh, non avessi La tua ricchezza, o poeta, Nel
ribollente calice immolato!19
Ma sacro tu mi sei, come la potenza della terra, Che ti
rapi, o vittima temeraria! E lo vorrei seguire nella voragine, Se non mi
rattenesse l'amore, l'eroe.
Das Leben suchst du, suchst, und es quillt und glànzt /
Ein góttlich Feuer tief aus der Erde dir, / Und du in schaudemdem
Verlangen / Wirfst dich hinab, in des Àtna Flammen. // So schmelzt'
irci Weine Perlen der Ubermut / Der Kónigin; und mochte sie doch!
hàttst du / Nur dei-nen Reichtum nicht, o Dichter, / Hin in den
gàrenden Kelch geopfert! // Doch heilig bist du mir, wie der Erde
Macht, / Die dich hinwegnahm, kùhner Getóteter! / Und
120 Primo cerchio - Fiume e montagna ^
folgen mócht ich in die Tiefe, / Hielte die Uebe mich
nicht, dem Helden (i, p. 240; tr. it. cit-, p. 35).
Empedocle è d'essenza dionisiaca (IV, infra, p.
576). I drammi narrano della sua morte come espiazione di una colpa da
lui commessa. Ma dietro a questa fine si cela l'immagine di un'altra a
cui Empedocle avrebbe dovuto votarsi anche se non fosse diventato
colpevole. Questa fine è intrinseca alla sua natura dionisiaca,
incarnata da quella vita che culmina nella morte. Il fatto di non aver
seguito quel comandamento del sacrificio di se stesso costituisce la sua
colpa vera, occulta ma decisiva. Questa prima relazione con la morte si
esprime nella nostra poesia ora esaminata ... Anch'essa è legata
all'immagine dell'Etna. Esso è il «ribollente calice», la profondità
del caos in cui la «perla», l'individualità perfetta viene fatta
«struggere». E indicativo che in questa poesia vi siano gli stessi
temi che caratterizzano le poesie fluviali dionisiache Heidelberg e
Voce del popolo (i, supra, p. 33;III,m/ra,p.301).
La figura del vulcano trova il suo compimento pieno
nell'Etna della poesia Empedocle. Nella seconda parte del quarto
cerchio si tratterà più dettagliatamente di essa, e si parlerà anche
dell'Etna. Ci limitiamo quindi, in questa sede, alle cose essenziali. La
morte di Empedocle ed Empedocle sull'Etna non costituiscono
solo il dramma di un uomo, ma anche quello della natura, e precisamente
nella sua manifestazione dionisiaca.
In quanto tale, essa assume le sembianze dell'Etna,
così come ha assunto quelle del fiume. Empedocle e l'Etna sono parti
del medesimo fenomeno. In rapporto al destino dell'uomo la montagna muta
carattere. Fino a quando egli rimane attaccato al suo potere e
Le Alpi e il vulcano
121
avverte la sua detronizzazione come disgrazia, l'Etna è
l'espressione dell'esilio, in contraddizione alla città, basata
sull'ordinato lavoro dell'uomo, e al giardino attraverso cui la natura
si esprime avvicinandosi all'uomo amichevolmente; è simbolo di
desolazione desertica e d'estraneità. Nella misura in cui Empedocle
ritrova se stesso e i suoi dèi, al punto da essere pronto a morire per
espiare la sua colpa, l'Etna diventa il luogo della gloria divina, e il
suo cratere è l'entrata in quell'unità del Tutto che Empedocle non
seppe conservare nella forma dell'innocenza.
LO SPAZIO DELL'ESISTENZA
II paesaggio di Hólderlin si sviluppa per derivazione
dalla montagna e dal fiume. Il fatto che questi due elementi siano
talmente diversi, eppure correlati fra di loro, costituisce nello stesso
tempo la tensione e l'unità di questo paesaggio. La montagna dalle
«cime inaccessibili» scende sempre più in basso, avvicinandosi sempre
più all'uomo, fino a raggiungere i colli ameni del paesaggio del
Neckar. Essa è un titano isolato, come l'Etna, ma sa anche congiungersi
con altri per formare una catena mo ntuosa che, come le Alpi, copre un
intero paese. L'acqua sgorga dalla fonte, forma un ruscello, poi un
torrente, per diventare uno dei grandi fiumi del mondo, che dominano la
terra e creano spazio per l'uomo. Ma alla fine anch'esso sfocia in
qualcosa di più grande, il mare, che non è un'individualità, bensì
un ambito.
Le montagne sono fermamente ancorate, costruite in modo
irremovibile, forme che si innalzano pacate, «rocca» e «trono». Il
fiume è movimento, una forma che si dissolve nel passaggio, che cade
incontro alla sua fine. Ma queste realtà primordiali, così nettamente
distinte fra loro, si ritrovano entrambe in un'unità. Poiché anche la
montagna è fatta del trapassare
124
Primo
cerchio - Fiume e montagna •
in
senso puro e semplice, del tempo, e anche il fiume iscrive nella
fisionomia del piano il «segno», la runa permanente del suo corso.
Alla montagna sono correlate l'altezza, la dirczione
verso l'etere, la vicinanza del cielo e, in quanto vulcano, anche la
profondità, la dirczione verso il cuore della terra, il centro del
tutto.
AI fiume, invece, sono correlati il piano, la vastità
dello spazio che scorre, ed infine, sul mare, l'immensità. Ma nello
stesso tempo, questi ambiti sono collegati fra loro. Dalla montagna
scaturisce l'acqua, e ciò che scorre mette la montagna in movimento;
così la sua persistenza nella quiete ha qualcosa di transitorio che
dischiude la possibilità dell'ignoto. Allo stesso modo, anche per lo
sguardo che si distende, il piano diventa vasto solo dall'alto di una
montagna, ed il mare si trasforma in un'immensa distesa attraversata
dalle rotte della navigazione. Inversamente, la forma della montagna
appare all'occhio nella sua grandezza e nella sua calma solenne solo
quando la vede elevarsi sul piano, una situazione descritta in modo
partico-larmente bello nella poesia Ritomo.
Con tutti questi elementi Hólderlin costruisce il suo
paesaggio. Esso va dall'angustia del villaggio alla vastità
dell'ecumene, dalla terra natìa allo spazio. Esso comprende la valle,
il bosco, le montagne, il piano, le regioni inabitabili del deserto e
del ghiaccio; ma anche la città e lo Stato e il contesto complessivo
dell'abitare e del lavorare umano.
A questo paesaggio estemo corrisponde quello interno. Le
esperienze dell'animo si riflettono, all'esterno, nella forma oggettiva
e nel movimento. Qualsiasi
Lo spazio dell'esistenza 125
cosa accada ed avvenga nello spazio delle cose visibili
trova il suo corrispondente nel mondo intcriore. Ma non si stratta della
correlazione fra ciò che è autenticamente reale e la sua proiezione,
bensì del rapporto fra due ambiti reali e in sé uniti:
nell'interiorità dell'uomo e nel mondo esteriore, sussiste e si attua
la stessa cosa, la natura (IV, infra). Questo paesaggio non
contiene solo la molteplicità delle forme, ma anche quella degli ambiti
dell'essere e dei gradi di significato. Il presente lavoro ha
costantemente dimostrato - e nei prossimi cerchi si continuerà a farlo
- che la realtà hólderliniana non è semplice, ma costruita col
combinarsi di più strati. Ma questi non possono essere scissi e isolati
fra loro: sono attraversati tutti dall'unica e identica realtà
originaria. Il fiume è dapprima un fenomeno esteriore, geografico, poi
un fenomeno storico, che condiziona la cultura umana;
inoltre un essere, un semidio; ancora una volta, a
monte, realtà originaria, essere in movimento; infine, semplicemente
tempo. Lo stesso vale per la montagna. Essa è la massa minerale di cui
parlano i geologi. Essa è parte della superfìcie terrestre che
determina l'esistenza umana. Essa è la rocca dei celesti, il trono del
loro dominio, l'origine dell'ispirazione. Inoltre, semplicemente
l'altezza, ciò che è svettante e duraturo, permanente; infine
temporalità solidificata. Questo insieme di prospettive scompone ogni
elemento del paesaggio hólderliniano in una stratificazione molteplice
di significati. Costantemente, dietro un significato balena
l'altro.
126 Primo cerchio - Fiume e montagna f II
• ••• ' t '
Sopra questo paesaggio si apre la volta di quello E
spazio che è costituito dai paesi in quanto entità stori- ? che, dai
popoli e dalle loro culture. |
Qualsiasi descrizione di queste relazioni deve par- i
tire dal fatto che Hólderlin è legato connaturalmente Ì alla Germania
in modo incondizionato. In lui non c'è jl nulla di cosmopolitico; egli
è radicato interamente j nella famiglia, nel popolo e nella patria.
Testimonian- s za immediata ne sono le due grandi poesie II
canto del s tedesco con il suo grandioso avvio «O sacro
cuore dei , popoli, o patria, che tutto sopporti come la tacita ma- |
dre Terra», e l'ancor più impressionante Germania, i Bisogna
ritornare alle più grandi creazioni della poe- ^ sia storicamente
impegnata per ritrovare un tale radi- * camento nel cuore del proprio
paese, un tale amore per il proprio popolo, privo di sentimentalismo e
spiritualmente grande. Esso ricorda la passione di Pin-daro per la
grandezza della Grecia e l'amore di Dante per l'Italia, vigoroso nel
tendersi dal tempo all'eternità. Questa visione è talmente grande,
talmente inferiore che talvolta sembra comunicarsi nel sogno (il, infra,
p. 208). La profondità della sua visione è dimostrata dal fatto che in
entrambe le poesie l'immagine della patria si fonde con l'altra realtà
vicina al sentimento di Hólderlin: la madre Terra. Il proprio paese è
la madre Terra - là dove essa è data all'uomo.
In Germania è situata la patria più immediata, il
recesso più interno di questo «cuore dei popoli», la Svevia. Essa è
presente in tutte le parti della poesia hólderliniana. A volte viene
citata espressamente, come nel grande inizio de La migrazione:
«Svevia felice,
Lo spazio dell'esistenza
127
madre mia». Essa si innalza a presenza mistica in Stoc-carda.
È il contenuto profondo di ciò che nelle poesie sulla migrazione
significa «patria».
Ma questa patria non è chiusa in se stessa. La Svevia
è unita, in un contesto di vita, ad altre «patrie» all'interno della
Germania. La differenza tra il Wùrttem-berg e l'ambito del Reno e del
Meno vicino a Francoforte, ben noto e caro ad Hólderlin, è grande; ma
abbiamo già avuto modo di vedere come i fiumi uniscano tenitori diversi
a costituire un'unità di vita. Nell'idillio eroico Emilia innanzi il
giorno delle sue nozze, si passa dalle rive del Neckar al Meno, al
Reno e al territorio del Weser, fino a raggiungere la valle di Pu-blio
Quintilio Varo e la selva di Teutoburgo.
In modo particolarmente intenso sono avvertite le
tensioni che, emanate dalla Germania, «cuore dei popoli», percorrono
il mondo. Il fatto che Hólderlin nomini così spesso paesi e popoli
diversi, non è ne casuale ne esteriore - come, invero, la sua poesia è
in assoluto priva di esteriorità. La potenza di essa sta nel fatto di
radicarsi nella profondità. Non ha molti motivi. La dominano alcuni
pensieri o, meglio forse, alcune potenze, alcune forme e alcuni
sentimenti ricorrono continuamente. Se il termine non avesse una
connotazione negativa, verrebbe da dire che essa è pervasa da una
sublime monotonia. Ma anche se Hólderlin dice cento volte la stessa
cosa, questa riesce sempre nuova, poiché proviene da una profondità di
spirito e di cuore talmente grande, da una interiorità di mondo
talmente abissale.
Così non vi è niente di casuale. Ciò che è proferito
non è ne riflettuto ne voluto, bensì dovuto, emergendo in modo
«sacralmente costretto», da quella pro-
128 Primo cerchio - Fiume e montagna v
fondita ... Se continuano quindi a riapparire le figure
di terre e popoli lontani, ciò è pienamente coerente. Questi ambiti
geografici ed etnici sono correlati fra ? di loro, anzi, dati l'uno
insieme con l'altro in modo % tale che, quando viene presentata una
terra, un pae-1 se, di per sé interviene l'altro. Un'espressione quasi
? dolorosa di questo dovere per necessità intcriore si S trova in L'unico:
»
Che mai ^ Alle antiche beate rive • ^
M'incatena così che le amo i Più ancora della mia patria? | Come in
celeste ' | Prigionia venduto i Io sono, dove Apollo andò ^ In regale
figura ~ [...]. 1
. --'
•!,
Was ist es, das / An die alten seligen Kùsten / Mich
fes-seit, daB ich mehr noch / Sie liebe, als mein Vaterland? / Denn wie
in himmlische / Gefangenschaft verkauft / Dort bin ich, wo Apollo ging /
In Kónigsgestalt [...] (il, p. 131; " tr. it. cit., p. 213). i
È soprattutto una tensione a farsi costantemente
sentire: quella tra la Germania e l'ambito orientale.
Questo ambito orientale è a sua volta strutturato in se
stesso. Contiene la «Grecia» e l'«Asia». Questi due termini
esprimono innanzi tutto la contrapposizione che Nietzsche ha
caratterizzato parlando dell'apollineo e del dionisiaco. Il dionisiaco
allude al mondo delle forze primordiali, delle immagini misteriose,
della notte, della terra e della sua profondità, del caos,
dell'ebbrezza e della trasformazione; l'apollineo, inve-
Lo spazio dell'esistenza
129
^ al mondo dello spirito che da forma e domina, della
figura dai netti contorni, dell'opera responsabile, della luce del
giorno, del cielo, dell'altezza, della disciplina, dell'ordine e della
sobrietà spirituale. Questa contrapposizione si dispiega in modo
particolar-mente evidente nelle due coppie di poesie fra loro correlate,
Stoccarda, Pane e vino e II Reno, L'Arcipelago. Anzi, essa è
talmente importante da indurre Hólder-lin a spingerla fin su alle più
alte divinità - vedi la strana poesia Natura e arte ovvero Saturno e
Giove. Inoltre i due termini significano «la preziosa dottrina»
della Bibbia ed «i dolci canti» della Grecia che entrambi giungono a
noi come «la parola dall'Oriente», come si dice in Al fonte del
Danubio - un riferimento e allo stesso tempo una contraddizione che
negli inni di Cristo, O conciliante^0, L'unico e Palmo
si trasforma nella miseria più profonda (V, infra, pp. 651 ss.).
Ancora più ad oriente è l'India, il paese che fa parte
del mito di Dioniso. Ne parla l'inno L'unico. L 'Istro parla del
popolo che è venuto «lontano dall'Indo e dall'Alfeo».
Ma in Ricordo sono gli uomini, i navigatori a
salpare dal «promontorio tra le vigne» della Dordogna per le Indie.
Adesso l'arco comprende l'intero spazio della terra, l'ecumene.
Questo «Oriente» sta con la Germania in un rapporto di
unità essenzialissima. Abbiamo già visto che nelle poesie II Neckar
e II Meno le immagini della Grecia e della Germania si condizionano
mutuamente come poli di una totalità configurata in forma. Nella poesia
Germania già la seconda strofa racchiude l'evocazione degli dèi
e degli eroi greci. Particolarmente caratteristico è l'inno II Reno.
Esso non parla real-
130 Primo cerchio - Fiume e montagna f
mente della Grecia perché la configurazione comples-sa
cui allude va da Sud a Nord; ma quella occidentale-orientale è così
forte da imporsi con pochi tratti. Dapprima nel punto dove sprizza la
poesia, dove si compie il contatto visionario. Infatti, «il segreto»
perviene al vate nel momento in cui la sua anima se n'è andata
peregrinando dalla Svevia «alle coste di Mo-rea», ossia in Grecia. Poi
irrompe un'altra volta, in lotta con la dirczione Nord-Sud; precisamente
là dove si parla del giovane fiume che si separa dai «fratelli»,
Ticino e Rodano, «vago di errare, e impaziente, in Asia la regale anima
lo spingeva». Ma esso non può, gli è posto un altro fine. Ma per un
breve percorso la dirczione verso Oriente s'impone, ... e questo piccolo
vano movimento manifesta la sua potenza. Lo ritroviamo nelVIstro,
solo in dirczione opposta. In questo caso, un popolo migra «dall'Indo e
dall'Altee» in Germania. Sulla stessa strada e con impetuoso splendore,
in Al fonte del Danubio «giunse la parola da Oriente a noi»,
partendo dall'Asia e passando per il Parnaso, il Citerone, il
Campidoglio e le Alpi. In Pat-mo, il percorso visionario conduce
dalla patria in Asia, al Tauro e alle montagne di Mesogide [nella Lidia,
Asia Minore] ed infine all'isola di san Giovanni.
Nella poesia La migrazione che inizia con la
splendida invocazione alla «felice Svevia», accostando quest'ultima al
centro mitico dell'Europa, il «focolare di casa», le Alpi, la terza
strofa attacca: «Ma io voglio andarmene al Caucaso!». In modo
elementare, come l'impulso di un uccello migratore, irrompe la
necessità intcriore, espressione di una unità di forma indistruttibile
che attira le due parti, inarrestabilmente. Poi continua:
Lo spazio dell'esistenza
131
pure mi ha oltre a questo
Itegli armi primi confidato taluno
Che in età remota
I padri una volta, la stirpe tedesca,
Tratti dalle sileno onde del Danubio
Al di d'estate, quando essi
Cercavano ombra, s'incontrarono •
Con i figli del sole
Sulle rive del Mar Nero;
E non senza ragione è questo Chiamato ospitale21.
Poiché, appena guardarsi,
Si appressarono gli altri dapprima; e allora sedettero
Anche i nostri, curiosi, sotto l'ulivo.
Ma come si toccavano le vesti
E nessuno poteva intendere
L'eloquio dell'altro
Stava per sorgere lite, se giù dai rami
Discesa non fosse la frescura,
Che sorrisi sul volto
Dei contendenti talora spiana: e un poco
Alzaron muti gli occhi, poi si dettero
La mano con amore. E subito
Scambiarono armi e tutti
I cari beni della casa,
Scambiarono la parola anche. E niente augurarono
Gli amorevoli padri invano
Nel nuziale giubilo ai figli,
Poiché dai sacri sposati
Crebbe più bella, di tutto,
Che prima e dipoi
Si nominò da uomini, una stirpe [...]
Auch hat mir ohnedies / In jùngeren Tagen Eines
ver-traut, / Es seien vor alter Zeit / Die Eltern einst, das deut-sche
Geschlecht, / Stili fortgezogen von Wellen der Donau / Am Sommertage, da
diese / Sich Schatten suchten, zu-sammen / Am Schwarzen Meere gekommen;
/ Und nicht
132 Primo cerchio - Fiume e montagna
umsonst sei dies / Das gastfreundiiche genennet. / Denn,
als sie erst sich angesehen, / Da nahten die anderen erst; dann satzten
auch / Die Unseren sich neugierig unter J1 den Ólbaum. /
Doch als sich ihre Gewande berùhrt, / i. Und keiner
vernehmen konnte / Die eigene Rede des an-;
dern, wàre wohi / Entstanden ein Zwist, wenn nicht aus
Zweigen herunter / Gekommen wàre die Kùhiung, / Die Làchein ùber das
Angesicht / Der Streitenden ófters brei- 'i tet, und
eine Weile / Sahn stili sie auf, dann reichten sie sich / Die Hànde
liebend einander. Und baid / Vertauschten sie Waffen und ali / Die
lieben Gùter des Hauses, / Vertauschten das Wort auch und es wùnschten
/ Die freund-lichen Vàter umsonst nichts / Beim Hochzeitjubel den
Kindern. / Denn aus den heiligvermàhiten / Wuchs schó-ner, denn alles,
/ Was vor und nach / Von Menschen sich ' nannt, ein Geschlecht auf [...]
(il, pp. 139-140; tr. it. dt. pp. 189-191).
" %-L'avvenimento che, come spesso in
Hólderlin, è
accentrato sul contatto numinoso, è completamente
"" leggendario. Esso trova un'eco tenera, nostalgica nel- 's.
la settima strofa: 3
i ^
O
terra
d'Omero! .è
Sotto il purpureo ciliegio, o quando,
Da tè venuti, nel mio vigneto
I giovani peschi verdeggiano
E la rondine di lungi arriva e molto .narrando
Alle mie mura si fa la casa, nei
Giorni del maggio, anche sotto le stelle
Io penso, o Ionia, a tè! [...]
O Land des Homer! / Am purpumen Kirschbaum oder wenn /
Von dir gesandt ini Weinberg mir / Die Jungen Pfirsiche grùnen, / Und
die Schwalbe fernher kommt und vieles erzàhlend / An meinen Wànden ihr
Haus baut, in / Den Tagen des Mai's, auch unter den Sternen / Gedenk
ich, o Ionia, dein! [...] / (il, p. 140; tr. it. dt., pp. 191-193).
Lo spazio dell'esistenza
133
E poi l'aspirazione al movimento opposto:
[...] solo per invitarvi
Sono a voi, Grazie di Grecia,
Figlie del cielo, venuto. .
Clié, se il viaggio non è troppo lungo,
Da noi veniate, o soavi!
[...] euch einzuladen, / Bin ich zu euch, ihr Grazien
Grie-chenlands, / Ihr Himmelstóchter, gegangen, / DaB, wenn die Reise
zu weit nicht ist, / Zu uns ihr kommet, ihr Hol-den! (il, p. 141; tr.
it. dt., p. 193).
Ciò che la Grecia ha veramente rappresentato per
Hólderlin, sarà oggetto del prossimo capitolo. Essa non è per lui
solamente terra, popolo, cultura, famiglia degli dèi, ma un concetto in
cui hanno trovato compimento puro esistenza umana, natura e mondo. Ad
essa è opposta, come potenza in attesa, ancora inconsapevole e con lo
sguardo al futuro, la Germania. Evidentemente, Hólderlin quasi non ha
preso in considerazione il Medioevo; il periodo dal Rinascimento in poi
sembra essergli rimasto estraneo. La Germania da lui sentita ed amata
è, si potrebbe quasi dire, qualcosa di primordiale, ancora anteriore
alla sua storia, che è stata aduggiata da desolazione e tenebre, e
attende qualcosa che ha da venire. Questa attesa si rivolge verso la
Grecia. Appena ciò «giunge», hanno luogo «le nozze degli uomini e
degli dèi». In tal modo la tensione Oriente-Occidente assume un
carattere nuovo: quello del tempo e della storia, fatto di passato e di
futuro e vissuto nel presente. In un determinato senso, ancora da
chiarire, si tratta della tensione «escatologica», che dal passato
canonico punta al fu-
134 Primo cerchio - Fiume e montagna ^
turo assoluto e viene vissuta «nell'ora» per
eccellenza nell'«adesso» profetico (II, infra, p. 214). -
Nell'inno II Reno si manifesta, come abbiamo già
avuto modo d'osservare, un'altra connessione: quella tra Nord e Sud,
espressa attraverso il corso del fiume che in realtà è «un segno»,
un simbolo di qualcosa di valido. Questa dirczione va dalle Alpi, la
«rocca dei numi», al mare del Nord. In mezzo, ai lati delle rive, il
mondo e il lavoro degli uomini ... Anche nella poesia // mandante
il Reno costituisce la via dinamica. I poli da esso congiunti sono il
Sud rovente del deserto e il Nord glaciale dell'Artide. In entrambi i
mondi, apparentemente abbandonati dalla vita, il viandante sente
provenire, dalla profondità della terra, una promessa.
L'Italia è di scena nell'inno // Reno; ma anche
nella Migrazione, dove la Svevia viene posta in relazione alla
sua «sorella lombarda» con i suoi ruscelli scorrenti, nonché in Ritomo
in patria dove il poeta desidera prendere «la via di Como». Al/onte
del Danubio parla del Campidoglio attraverso cui passa la via della
voce forgiatrice di uomini dall'Oriente in Germania ... In Ricordo,
la relazione si estende fino alla Francia. In Svevia il poeta avverte il
vento da Nordest «propizio ai naviganti». Esso porta i suoi pensieri
nel Sud e nel tempo passato ... Anche in Emilia innanzi il giorno
delle sue nozze l'inarcarsi del cielo, che da spazio all'umano, va
dalla Svevia alla Corsica.
Ili
Infine, la tensione supera lo spazio terrestre, riunendo
l'alto ed il basso: il cielo e la terra. Entrambi
Lo spazio dell 'esistenza
135
sono intesi come forze primordiali e come ambiti del
inondo stesso. Anche la loro unione avviene per mezzo di ciò che
scorre. L'abbiamo constatato nelYIstro dove attraverso il
riverbero del fiume, il cielo «discende»; ugualmente nel frammento A Diotima,
dove ogni forma particolare, attraverso la cortina avvolgente delle
acque temporalesche, si immerge nel lieto caos che rigenera la vita.
Ritroviamo questo mito dello sposalizio di cielo e terra nell'inno II
Reno, come le «nozze degli uomini e degli dèi», introdotte dal
mistero della trasfigurante luce meridiana.
Anche là dove gli ambiti separati dell'esistenza,
giorno e notte, sole e luna si ritrovano coi loro numi nell'«anima del
fiume», nell'interiorità scorrevole dell'esistenza, un'unione a essi
altrimenti negata, il fenomeno si eleva fino alla dimensione cosmica e
mitica.
Infine, nel paesaggio eracliteo, evocato all'inizio di Palmo,
il tema entra del tutto nella sfera dell'assoluto. Qui «acqua»
significa semplicemente unione. Senza di essa vi è pericolo,
solitudine, «struggimento sui monti più separati»,
irrigidimento. L'acqua è l'elemento primo che sorregge, scioglie e crea
l'unità;
unità che scorre o che alita, respira, poiché qui
l'acqua si trasforma nell'altro elemento del movimento, l'aria. Essa è
correlata all'etere, allo spazio superiore. Tocchiamo quindi un'altra
grande connessione nel mondo di Hólderlin. L'aria è fiato22,
respiro del mondo. In questa prospettiva, gli elementi dell'aria e del
vento si fondono con quelli del moto terrestre in generale; il vento ed
il respiro con lo spirito, lo spirito a sua volta con il tempo e con la
storia. Ma tutto ciò è riferito all'etere, al cielo, come i fiumi alla
terra (ili, infra, p. 247).
136
Primo
cerchio - Fiume e montagna
Si è già parlato del tempo vivente, di quel passarci
che non è solo la forma astratta, sempre uguale della sequenza, ma
l'essere fluente intcriore della vita stessa che, a seconda della sua
dinamica, ha una misura assai differente: qui abbiamo ora lo spazio
vivente' non solo la possibilità esteriore del parallelismo, in cui si
trovano le figure dell'esistenza e in cui hanno luogo gli avvenimenti di
quest'ultima, bensì quello spazio, che sta nella vita stessa. L'atto di
vita stesso è spazioso, inarcato a formar vastità, costruito tra poli.
Questa spaziosità può essere di natura differente;
superficiale o profonda; stretta o ampia; attirata verso
il basso o tesa verso l'alto. Queste non sono immagini, ma qualità
esperibili dell'attuarsi della vita. L'atteggiamento dell'esistenza
hólderliniano, il suo senso dell'esistenza, la sua tendenza intcriore
sono incen- '' trati sulla realizzazione della vastità, sulla
volta dello spazio dominante dall'alto, costruita su opposti, s
Da ciò nasce la consapevolezza di una grande e assai
intensa unità dell'esistenza umana; un senso completamente primordiale
dell'ecumene, della terra permeata dalla vita dell'uomo; inoltre un
senso del contesto cosmico, della vita totale che pone Hólder-lin nel
contesto del sentimento del tempo idealistico e romantico. .
NOTE
1. Calàuria è un'isoletta del golfo Saronico, in cui
sorgeva il celebre tempio di Posidone, centro di un'antica 'anfirionia'
(odierna Poros). È luogo dove soggiorna Iperione (n.d.r.).
2. L'Autore qui si serve della diversità di significato
tra Korper- «corpo come organismo biologico» a prescindere
dall'animazione soggettiva,
Primo cerchio - Fiume e montagna
137
..dindi anche «cadavere» e Leib = «corpo
soggettivamente vivo», il «mio corpo». Qui si è risolta la
difficoltà di resa italiana con la traduzione «carne» per Korper
(n.d.r.).
3. Kulturwissenschaft: espressione che indica
evidentemente quanto ora noi chiamiamo «antropologia culturale» (n.d.r.}.
4. Vedi a proposito pp. 201 ss-, infra, nel
secondo cerchio del presente libro. All'interno di un lavoro più ampio
sulla Divina Commedia di Dante spero di poter dire di più sulla
poesia visionaria [Cfr. Studi su Dante, Morcelliana, Broscia 1986
- n.d.r.].
5. Seguiamo il testo usato da Guardini nel terzo verso
della penultima strofa [Bilder], variando di conseguenza la
traduzione di Vigolo, che sceglie un'altra versione [Watder],
n.d.t.).
6. La città di Xanto, nella Licia presso il fiume
omonimo (vicino all'odierno villaggio di Kinik), fu clistrutta e
incendiata dopo lunghi assedi da Arpago, generale di Ciro, e poi da
Marco Giunio Bruto nel 42 a.C., come narra Plutarco, Vita Bruti
(n.d.r.).
7. Oggi Sartcay, piccolo fiume della lidia, nascente dal
monte Tmolo, detto dagli antichi anche Xpuooppooc, perché sembrava vi
si trovassero sabbie aurifere {n.d.r.).
8. La poesia il Meno assomiglia a questa, con la
differenza che in esso il movimento unificante, creatore dello
spazio umano, percorre la dirczione inversa. All'inizio dell'ode esso
subito raggiunge la Grecia, ritornando da li in patria, sulla scorta
della sua stessa dinamica.
9. Una nota generale sull'interpretazione delle ultime
opere di Hól-derlin. Nella misura in cui le poesie sono
cronologicamente vicine alla pazzia, diventa naturalmente più difficile
accedervi. Le immagini appaiono improvvise. I pensieri spesso sembrano
nati dal nulla. Si avverte come in alcune frasi si siano condensati
contenuti di grande rilievo e che allo stesso tempo le forme
manifestantisi si sono distaccate dalla loro base empirica di partenza,
dando l'impressione d'essere sospese nel vuoto. Non solo è sparita la
«materia», per usare un concetto di Goethe, per diventare interamente
«contenuto». Anche il contenuto stesso si dissolve sempre più
diventando pura «forma».
La realtà immediata si dissolve assoggettandosi ad
un'egemone volontà espressiva. Mai le forme sono «libere» a priori,
puramente «formali»; dietro di loro vi sono sempre cose percepite dai
sensi. Ha sempre avuto luogo un genuino processo di trasformazione -
allo stesso modo in cui un vero disegnatore basa la figura espressa come
pura forma sulla corporeità colta fino nella struttura anatomica. Chi
intende quindi interpretare una frase di Hólderlin non deve assumerla
come se fosse conclusa in sé, adottando un punto di vista logico,
psicologico o estetico; egli deve invece risalire alla visione concreta
e al primo concreto impulso di sentimento che vi è dentro. Egli deve
sciogliere la visione ed il sentimento finché diventano liberamente
mobili, immettendoli successivamente nelle frasi date. Questi allora le
faranno procedere fino ai contenuti nascosto o sommersi, palesando la
precisione mirabile con cui Hólderlin lavora. Egli non è mai retorico,
mai decorativo, mai dedito a giocare fantasticamente con le for-
138 Primo cerchio - Fiume e montagna ^
me, ma sempre determinato, fin nel periodo della
decadenza estrema. E anche se le immagini e i pensieri sembrano perdere
alla fine qualsiasi connessione, ciò non significa che egli maneggiasse
forme vuote, ma che le intuizioni portanti sono sprofondate
nell'indefinito. '
10. Il fiume maggiore del Peloponneso, nasce
nell'Arcadia meridio- ' naie, tocca Olimpia, si getta nel mar
Ionio (n.d.r.).
11. «Quanto ci conveniva»: nell'originale das
Schickiiche, che ha riferimento alla «sorte» (Schicksal) o
«destino», a ciò che è «mandato», appunto «destinato» (n.d.r.).
12. Le note «fatiche» di Eracle avevano avuto come
teatro in prevalenza il Peloponneso; l'Istmo è quello di Corinto (n.d.r.).
13. Hertha, o Herda, dea germanica, che è stata in
certo modo inventata dagli studiosi più antichi, per una lettura errata
della Germania di Tacito (invece di Nerthus - n.d.r.).
14. Queste frasi e le seguenti sono adatte come poche a
dimostrare quanto si è affermato sopra circa la precisione di
Hólderlin.
15. Cfr. per esempio la prima strofa dell'elegia Stoccarda
(il, p. 86).
16. L'Autore si riferisce ai giochi istmici, sacri a
Posidone, che si tenevano sull'Istmo di Corinto, ogni due anni, a quelli
di Atene (il Cefiso è un fiumicello presso la città) e a quelli di
Sparta (il massiccio del Taigeto non ne è lontano - n.d.r.).
17. Sulla trasformazione subita qui dal concetto di
Rivelazione vedi il quinto cerchio.
18. Con quale precisione l'immagine di ciò che è più
rigido e duro trapassi in quella dello scorrere diventa evidente quando
delle montagne si dice che «ondeggiando alte valicano la terra».
19. Hólderlin allude all'episodio, narrato da Plutarco
nella Vita Anta-nii, di Cleopatra che, con gesto dimostrativo di
regale prodigalità, di fronte ad Antonio fa sciogliere perle
preziosissime in una coppa di vino (n.d.r.).
20. Purtroppo della versione definitiva di questo inno
dal titolo La festa della pace, scoperta solo ultimamente
(edizione a cura di F. Beissner, Stuttgart 1954) non si potè tener
conto in questa riedizione.
21. Riferimento al nome greco nóv-roc Eu'^eivoi; (poi
latino Pontus Euxinus - n.d.r.).
22. Nell'originale hólderliniano (e guardiniano) il
termine insolito Olhew, che Guardini esplicita aggiungendo Atem,
«respiro», «soffio» (affine al greco àT(i>'c o arui^ o cituo^,
ladno oni'CTa, ani'wius - n.Ar.).
Secondo cerchio
L'uomo e la storia
NOTA
INTRODUTTIVA
Nel sentimento poetico e nel pensiero di Hólder-lin la
natura è talmente presente che non ci si meravi-glierebbe se essa
rimovesse completamente l'esistenza storica. Nella sua immagine del
mondo, la realtà storica si distingue invece nettamente da una prima,
immediata realtà naturale, per poi essere ricompresa all'interno di una
nuova concezione di natura, intesa come il Tutto, l'intero
sovraordinato.
Ci sono diversi modi di vedere la storia. Quello
personalistico è tutto incentrato sul singolo, la sua decisione, la sua
azione e sulle conseguenze che ne derivano, soprattutto sul grande
singolo che ha la missione e la forza della realizzazione storica. Si
veda per esempio il sentimento storico di Friedrich Hebbel. La
concezione evoluzionistica pone l'accento sulle grandi strutture che
attraversano tutte le particolarità, ed è indifferente che queste
vengano rinvenute più nell'ambito spirituale e religioso come nel caso
delle immagini del mondo ideahstiche, oppure in quello empirico, come in
quelle positivistiche. Hólderlin non è ascrivibile, a rigore, a
nessuna delle due concezioni. Nella sua immagine della storia v'è il
singolo che agisce, ma è inserito nel popolo ed assoggettato alle
grandi potenze sovrapersonali dello spirito del tempo e del destino; i
grandi contesti, ma in modo tale da culminare nella figura e nell'opera
della personalità.
142 Secondo cerchio - L'uomo e la storia
Inoltre riscontriamo in lui una concezione peculi».*!
rè, legata alla sua intuizione circa i morti, i singoli de-s funti
come anche le formazioni complessive di popoli e culture passati. Questi
hanno per il presente storico relativo una importanza particolare, non
riassumibile attraverso i consueti concetti di tradizione persistente o
di passato fecondante, umanisticamente accolto. Essa può essere
spiegata nel miglior modo attraverso una concezione a prima vista
strana: quella di un ritorno reale. ^
II singolo, le potenze globali e il passato che urge
verso il suo ritomo - ecco gli elementi di cui si compone l'assetto
hólderliniano della storia. Questa è a ? sua volta
ricompresa nel tutto complessivo della «natura». In questo ultimo
senso, essa non è più in con- :
n'addiziono con la storia, ma rappresenta il compen-1
dio dell'esistenza, all'interno della quale vi sono sia la storia che la
natura nell'accezione stretta del termine.
L'AGIRE STORICO, LA LIBERTÀ E LO STATO
Storia in senso stretto si riferisce all'esistenza di
grandi gruppi di uomini, in particolar modo di popoli, animati dalla
volontà di crescita e di potenza e pervasi dal senso di responsabilità
per il genere umano connessi a tale grandezza. Nella loro configurazione
particolare e sulla base delle condizioni peculiari del loro ambito di
vita, essi si contrappongono ad altri gruppi e devono affermarsi di
fronte a loro. Essi sono organizzati secondo le più svariate leggi: le
necessità naturali, economiche e sociali nonché le norme di quanto è
giusto, onorato e generoso. Essi vogliono essere, prosperare, crescere,
sentendosi nel contempo obbligati a celebrare appunto in questa loro
esistenza i valori della nobiltà, della dignità e della gloria.
All'interno di queste totalità e, nel contempo, in tensione verso di
esse è posto il singolo. Egli ne è parte come membro ed elemento di
forza, pur costituendo una forma propria, in sé fondata, che si afferma
all'intemo di queste realtà collettive, plasmando la propria vita e
creando la propria opera. La compenetrazione di queste realtà
differenti costituisce l'esistenza storica. Essa scompare quando la
volontà di dare adempimento ai valori sovrautilitaristici di onore,
grandez-
144
Secondo
cerchio - L'uomo e la storia ^
za, splendore viene meno, ma anche quando vien meno il
loro rapporto con le condizioni immediate della è vita. Essa diventa un
processo generale meccanico o $ biologico, non appena la totalità trae
interamente il Jr singolo nella sfera del transitorio; essa
perde la sua ? forma di totalità quando il singolo se ne stacca. Que- f
sta è la concezione che Hólderlin ha della storia, y
Nel capitolo precedente abbiamo già discusso del s legame
che lo unisce al popolo e alla terra. Hólderlin ^ vive in uno stato
intcriore determinato dalla consapevolezza di contesti pre- e
sopraindividuali, ossia della stirpe e del popolo, della terra che gli
è madre, della ? natura che costituisce l'ultima unità. Man
mano che H la sua poesia acquista maturità, questo legame si am- se
plia senza dissolversi però mai nell'indeterminato. ;
Mai Hólderlin parla di una umanità astratta o di uno H
spazio terrestre universale. I popoli e i paesi rappre- Jg sentano per
lui sempre entità e forze. Quando enu- H mera la Svevia e la terra dei
Germani, la Lombardia e t l'Italia, la Grecia o l'Asia, non si
riferisce solo a rap- i presentazioni generali di tipo geografico o
storico, A bensì a grandi entità viventi, dotate di potere e di vo-
" lontà, a soggetti della realtà storica. H
-. ' 4
C'è ovviamente da attendersi che i momenti eco- S nomici
e sociali assumano una posizione di secondo 3 piano nel suo sentire. Ma
se ciò è vero, non lo è per- '§ che la vita si dissolva
nell'irreale; egli si riferisce sem- a pre all'esistenza incarnata del
popolo con tutta la sua | materia ed i suoi impulsi. Ma le forze
dell'anima e ^ dello spirito: onore, libertà e i valori dell'esistenza f
elevata, rappresentano realtà ancora più potenti. Ciò ^ diventa
particolarmente evidente nelle poesie collega- || tè direttamente
all'elemento storico, come YIperione e 5
L'agire storico, la libertà e lo Stato 145
l'opera gemella d'essa Emilia innanzi il giorno delle
sue nozze, nonché L'Arcipelago. Hólderlin vive al tempo
delle grandi guerre. La passione della libertà attraversa l'Europa, in
modo talmente prorompente che indipendenza di popolo e onore personale
si identificano completamente. Molto forte è stato anche l'influsso dei
sentimenti e dei pensieri della Rivoluzione francese su Hólderlin, pure
se li traspone ben presto - seguendo l'esempio del primo Schiller da lui
tanto venerato - nella sua spiritualità peculiare1.
In tal modo azione e lotta devono necessariamente avere
grande importanza nella poesia di Hólderlin - pur assumendo, in
conformità del carattere visionario e contemplativo di questo tipo di
poesia, più le connotazioni della grande dedizione che non quelle
dell'azione finalizzata.
L'Iperìone narra come un giovane, che vive alla
fine del diciottesimo secolo, tenti di raggiungere l'unità nel caos
della sua esistenza lacerata (IV, infra). Questa lotta si svolge
in rapporto all'immagine dell'antica Grecia e del suo splendore glorioso
scomparso e a quella della natura, vissuta in modo altrettanto
coinvolgente. Entrambi gli elementi si incontrano nella figura di
Diotima. Essa gli dona la fiducia che dalle forze della natura e del
passato sorgerà per il popolo dominato dagli stranieri e interiormente
devastato un nuovo futuro. La figura di Diotìma rappresenta la realtà
complessiva della «Grecia», in termini personali. L'amore per l'amica
e quello per la patria si muovono su tracce diverse, ma tendono in
ultima analisi allo stesso fine. Dall'unità e dalla tensione delle due
correnti di sentimento scaturiscono la vicenda intcriore e la tragicità
della poesia. La «Grecia» e la «natura» devo-
146 Secondo cerchio - L'uomo e la storia
no giungere ad un nuovo adempimento della loro realtà.
Diotima desidera che ciò avvenga attraverso un calmo lavoro di
formazione del popolo. Ma gli eventi e la propria impulsività
trascinano Iperione in una guerra imprudente contro gli oppressori del
paese, e tutto va in rovina. Nei limiti in cui lo consentono gli
strumenti poetici di Hólderlin, viene descritta la passione di questa
lotta; ma il fatto che questi strumenti falliscano alla fine davanti al
compito di dar forma all'azione conferisce un'evidenza ancora maggiore
all'amore per la patria, incapace di conseguire chiari risultati
politici.
I motivi ritornano nell'idillio eroico Emilia innanzi
il giorno delle sue nozze, solamente con tonalità e intreccio
diversi. Si tratta di una poesia delicata e nobile in cui una figura di
donna, simile a Diotima, che reca in sé «medietà e misura»,
garantisce la speranza della natura e della storia. Ma è tutto più
semplice e ha più vigore di realtà.
Il contrasto intcriore, che nel romanzo aveva ancora
distrutto tutto, si scompone qui in due destini. La lotta della Corsica
per la libertà diventa tragica nella misura in cui vi cade il fratello
di Emilia, Edoardo. Ma questo fratello e con lui la speranza per il
futuro le vengono restituiti nella persona dell'amato. In una lettera
del fratello si legge:
Quando col sole, cantando un canto sacro,
II colle risaliamo e le bandiere
Nella valle son mosse dal vento del mattino,
E lontano laggiù nella pianura,
Come elemento che fermenta, il popolo
Incontro a noi s'agita e muove
Sentiamo con giubilo più grande
Come splendidamente ci amiamo;
L'agire storico, la libertà e lo Stato
147
Che sotto le nostre tende e sulle onde
Della battaglia ci viene incontro il dio
Che ci unisce.
Noi compiamo quanto è giusto
E facciamo procedere la nobile opera.
poi voi badate ancora il suolo patrio,
Triste, e venite e vivete insieme a noi,
Emilia! - E come, al vecchio padre,
Piacerà ritrovarsi infine giovane
Ancora tra i viventi, e riposare
In terra non profanata, morendo.
Wenn mit der Sonne wir, mit heilgem Lied / Herufgehn
ùbern Hùgel, und die Fahnen / Ins Tal hinab im Morgen-winde wehn, /
Und drunten auf der Ebne fernher sich, / Ein gàrend Element, entgegen
uns / Die Menge regt und treibt, da fùhlen wir / Frohlockender, wie wir
herrlich lie-ben; / Denn unter unsern Zelten und auf Wogen / Der
Schlacht begegnet uns der Gott, der uns / Zusammenhàlt. // Wir tun, was
sich gebùhrt, / Und fùhren wohi das edie Werk hinaus. / Dann kùBt ihr
noch den heimatlichen Bo-den, / Den trauernden, und kommt und lebt mit
uns, / Emilie! - Wie wirds dem alten Vater / Gefallen, bei den Lebenden
noch einmal / ZumJungling aufzuleben und zu ruhn/ In unentweihter Erde,
wenn er stirbt (i, p. 280).
A prescindere da particolari contesti storici, la poesia
La morte per la patria esprime Vethos della lotta:
Tu giungi, battaglia: i giovani ondeggiano Dai loro
colli giù nella valle, dove Franchi s'addensano i carnefici, Sicuri
dell'arte e del braccio: ma più sicura
L'anima dei giovani che contro loro giungono, Perché i
giusti colpiscono come per magia E i loro canti patriottici Fiaccano le
ginocchia degli infami.
148 Secondo cerchio - L'uomo e la storia
Oh prendetemi con voi nei vostri ranghi, '!<ÌS
Perché un giorno la mia non sia morte comune! ^(p Morte vana non amo,
cadere ^j Amo sul colle sacrificale ^j|
Per la patria, versare per la patria ^t |;
II sangue del mio cuore - e presto avvenga! r*l Scendo
tra voi, o cari! a voi .-:;' Che a vivere e a morire m'insegnaste! •<
?:
Quante volte ebbi sete di vedervi
O eroi, poeti d'antico tempo! w
Ora di cuore accogliete questo povero
Straniero, e qui giù, tra voi, tutto è fraterno.
E giungono araldi di vittoria: il campo
È nostro! Vivi lassù, o patria, vivi .
E non contare i morti. Per tè, amata!
Non un solo caduto è di troppo!
Du kómmst, o Schlacht! schon wogen die Jùnglinge /
Hi-nab von ihren Hùgein, hinab ins Tal, / Wo keck herauf die Wùrger
dringen, / Sicher der Kunst und des Arms, doch sichrer // Kómmt ùber
sie die Seele der Jùnglinge, / Denn die Gerechten schlagen, wie
Zauberer, / Und ihre Vaterlandsgesànge / Làhmen die Kniee den
Ehrelosen. // O nimmt mich, nimmt mich mit in die Reihen auf, / Da-mit
ich einst nicht sterbe gemeinen Tods! / Umsonst zu sterben, lieb ich
nicht, doch / Lieb ich, zu fallen am Op-ferhùgel // Fùrs Vaterland, zu
bluten des Herzens Blut / Fùrs Vaterland - und baid ists geschehn! Zu
euch, / Ihr Teuem! komm ich, die mich leben / Lehrten und sterben, zu
euch hinunter! // Wie oft im Lichte dùrstet ich euch zu sehn, / Ihr
Helden und ihr Dichter aus alter Zeit! / Nun grùBt ihr freundiich den
geringen / Fremdiing und brùderlich ists hier unten; // Und Siegesboten
kommen herab: Die Schlacht / Ist unser! Lebe droben, o Vaterland, / Und
zàhle nicht die Toten! Dir ist, / Uebes! nicht einer zu viel
gefallen (i, p. 199).
L'agire storico, la libertà e lo Stato
149
In dimensione di vera grandezza l'immagine dell'agire
eroico, caratterizzato da un intreccio di lavoro pacifico e lotta che
tutto osa, appare nell'elegia L'Arcipelago- Ls descrizione della
battaglia di Salamina va annoverata fra i più begli esempi di poesia
storica.
L'elegia è incorniciata dalla invocazione del «mare
primo» (Erz-Meer, lett. «arci-mare»), del mare per eccellenza
che ondeggia attorno alla Grecia, dominato da Posidone. Il mare è
affine agli abissi tellurici, ma, a differenza dell'ambito materno della
«terra in lutto», è di carattere maschile, storico - soprattutto
questo mare che ha sostenuto lo svolgersi della storia greca. Per questo
è anche pieno di malinconia per il tramonto della Grecia. Nel mezzo del
lamento, si eleva nella terza strofa, l'immagine di Atene, la città di
cui YIperione dice che essa è stata benedetta da tutti i favori
dell'esistenza. L'Atene anteriore alle guerre persiane, con la sua
florida copiosità, in cui perfino il mercante «col cuore lontano» era
amato dagli dèi, «perché pareggiava i beni della terra, univa il
vicino al remoto».
«Come igneo sgorgo montano» irrompe l'esercito dei
Persiani, e «Atene, la splendida, cade». Questa è la sesta strofa. La
settima e l'ottava contengono la descrizione della battaglia della
salvezza:
Ma sulle sponde di Salamina, o giorno! sulle sue sponde
Stanno aspettando la fine leAteniesi, le vergini, Stanno le madri,
cullando in braccio il figliuolo salvato;
Ma a loro in ascolto tuona il dio del mare dal fondo
E salvezza predice, guardano gli dèi del ciclo
Librando l'equo giudizio dall'alto, che là sui lidi in
sussulto
Ondeggia incerta dall'alba, con lento avanzar di
tempesta,
Sulle acque schiumanti la mischia e già s'arroventa il
meriggio
150 Secondo cerchio - L'nomo e la storia
Che niuno sente in quell'ira, sul capo dei contendenti.
Ma i prodi del popolo, figli d'eroi, guidan ora gli eventi Con limpido
occhio, i diletti degli dèi si ricordano Del destinato favore, non
frenano più gli Ateniesi II Genio loro che sprezza la morte; ma come la
belva Nel deserto dal tumido sangue da un ultimo balzo Ergendosi
trasfigurata, pari alla forza più altera, E il cacciatore atterrisce,
così nel lampo dell'armi, All'ordin dei capi, tremenda e compatta in
quei bellicosi In mezzo alla strage l'anima esausta ancora ritorna. E
più la battaglia riavvampa; come coppie di lottatori Le navi
s'avvinghiano, nel flutto tentenna il timone, Sotto i guerrieri si
frange la plancia e cogli uomini affonda. '
Nel sogno vertiginoso cantato dal canto del giorno -,
Rotea il rè lo sguardo; delirando sulla vittoria,
Minaccia, supplica, esulta, invia come lampi i messi,
Ma invano li manda, nessuno indietro gli torna. ,
Araldi crudeli, soldati uccisi e navi squardate
Gli gitta l'onda innumeri, la vendicatrice, tonando,
A pie del trono ove siede il misero sul lido che balza;
Guarda la fuga e travolto via con la turba fuggiasca
S'affretta, il dio l'incalza, incalza la flotta sbandata Sui flutti il
dio che irridendo, i suoi fatui usberghi Fracassa e il fiacco raggiunge
nella feroce armatura.
Aber an Salamis Ufem, o Tag an Salamis Ufern! / Harrend
des Endes stehn die Athenerinnen, dieJungfraun,/ Stehn die Mùtter,
wiegend im Arm das gerettete Sóhniein, / Aber den Horchenden schallt
aus Tiefen die Stimme des Meergotts / Heilweissage herauf, es schauen
die Getter des Himmeis / Wàgend und richtend herab, denn dort an den
bebenden Ufer / Wankt seit Tagesbeginn, wie langsamwandeind Gewitter, /
Dort auf schàumenden Was-sern die Schlacht, und es glùhet der Mittag,
/ Unbemerket im Zorn, schon ùber dem Haupte den Kàmpfern. / Aber die
Mànner des Volks, die Heroenenkel, sie walten / Hel-leren Auges jetzt,
die Gótterliebiinge denken / Des be-
L'agire storico, la libertà e lo Stato
151
schiedenen Glùcks, es zàhmen die Kinder Athenes /
Ihren Genius, ihn, den todverachtenden, jetzt nicht. / Denn wie aus
rauchendem Blut das Wild der Wùste noch einmal / Sich zulezt verwandeit
erhebt, der edieren Kraft gleich, / Und den Jàger erschróckt, kehrt
jetzt im Glanze der Waf-fen, / Bei der Herrscher Gebot,
fùrchtbargesammeit den Wilden / Mitten im Untergang die ermattete Seele
nodi einmal. / Und entbrannter beginnts; wie Paare ringender Mànner /
Fassen die Schiffe sich an, in die Woge taumeit das Steuer, / Unter den
Streitem bricht der Boden, und Schiffer und Schiff sinkt. // Aber in
schwindeinden Traum vom Uede des Tages gesungen, / Rolit der Kórdg den
Blick; irrlàcheind ùber den Ausgang / Droht er, und fleht, und
frohlockt, und sendet, wie Blitze, die Boten. / Doch er sendet umsonst,
es kehret keiner ihm wieder. / Blutige Boten, Erschlagne des Heers, und
berstende Schiffe, / Wirft die Ràcherin ihm zahilos, die donnernde
Woge, / Vor den Thron, wo er sitzt am bebenden Ufer, der Arme, /
Schauend die Flucht, und fort in die fliehende Menge gerissen, / Eilt
er, ihn treibt der Gott, es treibt sein irrend Geschwader / Ùber die
Fluten der Gott, der spottend sein eitel Geschmeid ihm / Endiich
zerschlug und den Schwa-chen erreicht' in der drohenden Rùstung (II,
pp. 106-107;
tr. it. cit., pp. 107-109).
L'evento della lotta si eleva al metafìsico — non
attraverso una simbologia estrinseca o una trasfigurazione fantastica,
ma per il modo in cui è visto l'evento stesso. Davanti al rè persiano,
colpito dal destino, anche l'odio tace; è solo il «misero» e il dio
del mare '«irridendo, i suoi fatui usberghi fracassa». La lotta del
popolo è un evento che decide un brano di storia concreta, ma che allo
stesso tempo si spinge fin nelle profondità del mare ritenute divine.
Il mare ed il suo nume stessi si oppongono agli stranieri invasori.
Nella nona e decima strofa si dispiega un'infinita
attività creativa. La distruzione è stata come una ma-
152
Secondo
cerchio - L'uomo e la storia
lattia in cui la vita è ringiovanita, liberando tutta
la sua forza. Ritorna costantemente la parola «amore» JS intendendo
l'impulso creativo che scaturisce dalla in- 'ìk rima passione
della vita. Tutte le forze della terra, del & cielo e
dell'aria concorrono a quest'opera. E dal mo- H mento che questi uomini
hanno «mani pie» la loro $ opera ha la benedizione di quel favore che
fa nascere '••§ la perfezione. Così sorge la nuova Atene e la sua
vita. -as
Ma poi l'immagine splendente toma a dileguarsi * nel
lutto delle ultime strofe. Il fulgore è tramontato, * e chi la ama deve
vivere con i morti. Benché rimanga- E no le «forze del
cielo» sempre giovani, la luce e «l'ori- 5 data dolente del dio
marino», essi non vengono capi- ^ ti, poiché: <
[...] vaga ahimè nella notte, vive come nell'Ade
Senza il Divino la nostra progenie. Al suo agire
convulso
Incatenata e ognuno nel fragore dell'officina
Solo ode se stesso, e molto lavorano i bruti
Con poderoso braccio, insonni, ma ancora e sempre
Sterile come le Furie resta il sudore dei miseri.
[...] es wandeit in Nacht, es wohnt, wie im Orkus, /
Ohne Góttliches unser Geschlecht. Ans eigene Treiben / Sind sie
geschmiedet allein, und sich in der tosenden / Werk-statt /
Hóretjeglicher nur und viel arbeiten die Wilden / Mit gewaltigem Arm,
rastlos, doch immer und immer / Unfruchtbar, wie die Furien, bleibt die
Mùhe der Armen (II, p. 110; tr. it. cit., p. 115).
Ma il vate è chiamato ad annunciare quella profezia di
cui si parlerà ancora in termini più precisi:
Fino a che desta dal sogno d'angoscia l'anima umana Non
sgorga con giovane gioia e il santo soffio d'amore Come già un tempo
non tomi nei figli in fiore dell'Ellade
L'agire storico, la libertà e lo Stato
153
A spiare in nuova epoca e sopra più libera fronte Lo
spirito della natura, l'iddio, dopo tanto migrare, Calmo sostando tra
nuvole d'oro di nuovo d appaia.
Bis, erwacht vom àngstigen Traum, die Seele den
Men-schen / Aufgeht, jugendiich froh, und der Uebe segnen-der Othem /
Wieder, wie vormais oft, bei Hellas blùhen-den Kindem, / Wehet in neuer
Zeit und ùber freierer Surne / Uns der Geist der Natur, der
femherwandeinde, wieder / Stilleweilend der Gott in goldnen Wolken
er-scheinet (il, p. 110; tr. it. dt., p. 115).
Il compimento misterioso è vicino. Il passato
ritornerà. Fino ad allora l'iniziato deve persistere nel lutto che sale
dalle ceneri di Atene - la seconda - e dal lamento delle acque che
scendono a dirotto sui caduti di Cheronea. Ma gli ultimi versi
supplicano il Dio del mare che in questa storia ha dominato, di
«risuonare nell'anima» del poeta-vate affinchè li possa sopportare:
Ma tu, immortale, se anche l'inno dei Gred non più Ti
celebra come una volta, o dio del mare, risuonami Dai flutti sovente
nell'anima ancora, che sopra le acque Intrepido lo spirito, come
nuotatore, si addestri Nell'aspra gioia dei forti, e la lingua degli
dèi, l'Alternarsi E il Divenire, intenda: e quando la corrente del
tempo Troppo violenta il capo mi afferri, e lo stento e il vagare Fra
mortali il mio mortale vivere scrolli, Fa' che la pace allora nel tuo
profondo io ricordi.
Aber du, unsterbiich, wenn auch der Griechengesang schon
/ Dich nicht feiert, wie sonst, aus deinen Wogen, o Meergott! / Tóne
mir in die Seele noch oft, daB ùber den Wassern / Furchtiosrege der
Geist, dem Schwimmer gleich, in der Starken / Frischem Glùcke sich ùb,
und die Góttersprache, das Wechsein / Und das Werden versteh;
und wenn die reifiende Zeit mir / Zu gewaltig das Haupt
154 Secondo cerchio - L'uomo e la storia ^
ergreift und die Not und das Irrsal / Unter Sterbiichen
mir rnein sterbiich Leben erschùttert, / LaB der Stille mich dami in
deiner Tiefe gedenken (il, pp. 111-112; tr. it
dt.,p.ll7).
Il
L'Arcipelago narra come il popolo ateniese edificò
la sua repubblica, facendo il proprio lavoro e costruendosi un'esistenza
nella grandezza e nella dignità. Più profonda nell'interiorità è
l'immagine della città di Agrigento nella Morte di Empedocle.
Essa è incentrata sulla figura dominatrice del grande uomo che è genio
religioso, filosofo, legislatore, medico, quindi è dotato di sapere e
di potere allo stesso tempo. Il dramma è una specie di Politela
religiosa, raccontato nel momento in cui la polis inizia a
tramontare perché il popolo non ha più quei legami che rendono
possibile sperimentare e dar forma in senso religioso all'esistenza
totale e perché Empedocle non è più abbastanza creativo e sicuro per
realizzare la formazione (IV, infra, p. 643).
NelYIperione si preannuncia il concetto di una nuova
figura complessiva: la «nuova Chiesa». Viene fatto il tentativo di
trasportare nella sfera secolare, laica la «Chiesa», intesa come
espressione della esistenza religiosa strutturata complessiva, e di
trasformare d'altro canto lo Stato, inteso come esistenza
politico-culturale strutturata, nell'ambito spirituale; entrambe le
volte con l'obiettivo di contemplare nella totalità così costruita il
dispiegamento dell'ultima unità dell'esistenza, la natura (il, p. 122).
Si tratta di quella figura complessiva che nascerà poi, nelle elegie e
negli inni, senza nome parti-
L'agire storico, la libertà e lo Stato
155
colare, come il mondo trasformato divinamente dal
ritorno della Grecia. Anche qui, come costantemente accade in
Hólderlin, concetti cristiani - del «regno di Dio» venturo,
dell'«uomo nuovo», e della «nuova creazione», in cui tutto è
trasfigurato e unito ~ passano nella sfera mondano-mitologica.
Ciò mette anche in luce quanto questa immagine della
storia poggi sulla speranza. Ciò che qui si spera non scaturisce più
dalla propria prestazione, ma è un dono proveniente da un ambito
diverso. Il senso della storia di Hólderlin è «escatologico». VeìVIperione
Diotima dice:
È un tempo migliore questo che cerchi tu, un mondo più
bello, questo mondo abbracciasti tu nei tuoi amia, eri con loro questo
mondo ...
Perché tu hai tutto e hai nulla, perché il fantasma
dei giorni dorati che devono arrivare ti appartiene e, tuttavia, non è
ancora là, perché sei un cittadino nelle regioni della giustizia e
della bellezza, un dio fra gli dèi nei tuoi bei sogni che, di giorno,
si insinuano in tè e, quando ti desti, ti ritrovi sul suolo della
Grecia odierna (il, pp. 169-170; tr. it. cit, pp. 87-88).
La speranza di un mondo migliore attraversa tutta la
concezione della storia di Hólderlin.
LA NATURA,L'AMORE E LA CULTURA
Finora si è parlato di quell'elemento della storia che
si manifesta nell'azione, nella lotta e nel destino. Ma essa ne contiene
un altro: quello che si attua nel divenire, nel crescere e nell'operare.
Chiameremo, con una definizione approssimativa, la prima storia
«politica», la seconda storia «culturale». Esse non sono scindibili;
esse si intrecciano, anzi si compenetrano formando l'insieme
dell'esistenza complessiva che decorre nel tempo; eppure rappresentano
linee diverse di autorealizzazione umana. Partendo dalla seconda linea,
Hólderlin ha tentato un importante prospetto del decorso storico.
Soprattutto nélVIperìone, nel frammento di «Thalia»2
il maestro dice:
La semplicità e l'innocenza del primo periodo muoiono
perché ritornino nella formazione compiuta, e la pace sacra del
paradiso tramonta perché dò che era solo un dono della natura
rifiorisca come proprietà conquistata dall'umanità (il, p. 76).
L'introduzione al frammento esprime il pensiero in
termini concettuali:
Ci sono due ideali della nostra esistenza: uno stato di
suprema semplicità in cui i nostri bisogni sono adeguati a se
158 Secondo cerchio - L'uomo e la storia
stessi, alle nostre forze e a tutto ciò che ha
rapporti con noi, senza la nostra partecipazione, attraverso la
organizzazione della natura, e uno stato della suprema formazione
dove, con il supporto di bisogni e di forze infinitamente moltiplicati e
rafforzati, accadrebbe lo stesso attraverso una organizzazione che
noi stessi siamo in grado di darci. La parabola eccentrica che
l'uomo percorre in generale e in particolare da un punto (la semplicità
più o meno pura) all'altro (la formazione più o meno compiuta), nelle
sue direzioni essenziali sembra essere sempre la stessa (il, p. 53).
Il momento tragico di questo avvenimento risalta nella
versione definitiva (i, p. 2):
Gli uomini godettero, in principio, di una felicità
simile a quella delle piante e crebbero sino alla maturità; da allora
in poi, fermentarono senza posa, dentro e fuori, sino al tempo presente
dove la schiatta umana, simile a un caos, giace del tutto dissella così
che vertigine coglie chi ancora è capace di sentire e di vedere. La
bellezza però si rifugia dalla vita degli uomini su quella dello
spirito, ideale diventa dò che era natura e se anche l'albero è, in
basso, seccato e disfatto, un giovane germoglio è spuntato ancora da
esso e verdeggia nello splendore del sole come, un tempo, il tronco nei
giorni della giovinezza; ideale è ciò che era natura. In questo
ideale, in questa ringiovanita divinità si riconoscono quei pochi e
sono uno, perché v'è un Uno in essi, perché da questo, da questo
incomincia la seconda età del mondo (II, pp. 64-65; tr. it. cit., p.
84).
Adesso diventano chiari i singoli settori del contesto
complessivo: all'inizio uno stato di immediatezza;
poi l'interruzione del volere consapevole con le sue
crisi; infine il nuovo avvio e la visione del traguardo. È lo schema
dell'idealismo con i suoi periodi del processo storico, certo in una
forma particolare, propria a Hólderlin.
La natura, l'amore e la cultura
159 II
La poesia L'uomo racconta il mito sulla nascita
dell'uomo:
Quando a tè affioraron dall'acque, terra, Le dme dei
giovani monti, e profumarono, Gioia spirando, piene di boschi
sempreverdi, Nel grigio deserto dell'oceano
Le prime vaghe isole; e lieto vide L'occhio del dio Sole
le novelle Piante, della sua eterna giovinezza Creature sorridenti, da
tè nate;
Là sull'isola più bella dove sempre L'aria avvolse il
bosco in quiete soave, Giacque una volta sotto i tralci, dopo tepida Notte,
nella vaga ora mattutina
Nato, madre Terra, il tuo figlio più bello, E il padre
Elio guarda, e lo conosce, II fandullo, e si desta e sceglie, cercando,
I dolci chicchi, la sacra vite
A nutrice per sé [...]
Kaum sproBten aus den Wassern, o Erde, dir / Der jun-gen
Berge Gipfel und dufteten / Lustatmend, immergrù-ner Haine / Voli, in
des Ozeans grauer Wildnis //Die er-sten holden Insein; und freudig sah /
Des Sonnengottes Auge die Neulinge, / Die Pflanzen, seiner ewgenJugend/
Làcheinde Kinder, aus dir geboren; // Da auf der Insein schònster, wo
immerhin / Den Hain in zarter Ruhe die Luft umfloB, / Lag unter Trauben
einst, nach lauer / Nacht, in der dàmmernden Morgenstunde // Geboren,
Mutter Erde! dein schónstes Kind: - / Und auf zum Valer
160 Secondo cerchio - L'uomo e la storia
Helios sieht bekannt / Der Knab, und wacht und wàhit,
die sùssen / Beere versuchend, die heilge Rebe // Zur Amme sich [...]
(i, p. 263). ,
Egli è concepito dalla luce del dio Sole, nato dalla
terra, l'ultimo ed il più bello di tanti fratelli, le piante. Una
mattina presto «giacque una volta» - come il giovane giorno nel quadro
di Philipp Otto Runge3 - e «sua nutrice» era la vite.
All'inizio vi è quindi uno stato di non apertura; un'ingenuità ed
un'innocenza che non è ancora personale - «alle piante dice: una volta
ero come voi», si legge nelVIperione (il, p. 140). Nessun
impulso si stacca dal tutto, con una particolare pretesa; tutto rimane
organicamente connesso.
Niente è voluto che non sia già presente nell'ordine
naturale. Manca la consapevolezza critica. II pensiero procede sotto
forma istintiva o sognante, rispecchiando - come propria interiorità
immediata -l'essere della natura. Anche la libera scelta della volontà,
la sua dignità come il suo pericolo, manca. La volontà non ha ancora
assunto la forma della decisione, ma intanto solo quella di un impulso,
in cui si ripercuotono immediatamente le necessità della natura. Lo
stato dell'uomo è esso stesso «natura» ed il suo ordine scaturisce,
come dice il frammento di «Tha-lia», dalla «mera organizzazione» di
essa. In questa unità egli è perfetto. «Ma l'uomo è un dio appena è
uomo. E se è un dio, allora è bello» (il, p. 185). La perfezione
dell'uomo, in cui la natura stessa si manifesta in tutta la sua
chiarezza, è uno stato divino in senso assoluto. L'ultima espressione
di questa perfezione è «l'umana, la divina bellezza».
Lo stato originale ritorna in ogni bambino. Hól-derlin
parla spesso dell'infanzia, con una nostalgia
La natura, l'amore e la cultura
161
che lascia intrawedere le costanti minacce a cui la sua
era esposta. Nel già citato secondo libro del primo volume di Iperione
si legge:
La natura perfetta deve vivere nell'uomo prima che egli
vada a scuola, affinchè l'immagine della fanciullezza gli indichi la
via del ritorno dalla scuola verso la perfetta natura [...] chi non è
stato, un tempo, un perfetto bambino, quegli difficilmente sarà un uomo
perfetto [...] (n, p. 184; tr. it. dt.,p.98).
E ancora:
Lasciate l'uomo indisturbato sin dalla culla; non
strappatelo dal ben chiuso bocdolo del suo essere, non scacciatelo dalla
capannucda della sua infanzia! Non occupatevi troppo di lui, affinchè
non senta la vostra mancanza e così vi distìngua da sé, non fate
troppo affinchè egli non senta la vostra o la sua violenza e distingua
sé da voi, in breve, fate in modo che l'uomo soltanto tardi venga a
sapere che esistono uomini, che esiste, oltre a lui, qualcosa d'altro,
perché solamente così egli diventerà uomo. Ma l'uomo è un dio appena
è diventato uomo. E se è un dio, allora è bello (n, p. 185; tr. it.
dt., p. 99).
Nelle incantevoli descrizioni dedicate ai boschi di
Calàuria prima dell'incontro con Diotima:
L'aura materna penetrava in tutti i cuori, li levava
verso l'alto e li attirava a sé.
E gli uomini uscivano fuori dalle loro porte e sentivano
in modo meraviglioso come il soffio spirituale agitasse legger-mente i
delicati capelli sulla fronte e rinfrescasse il raggio di luce, ed essi
sceglievano lied le vesti per accoglierlo nel petto; respiravano più
dolcemente, sfioravano più delicatamente il mare chiaro, leggero,
allettante, nel quale vivevano e si muovevano.
162 Secondo cerchio - L'uomoe lastoria ^
Oh, sorella di quello spirito che domina e vive in noi
con 1 potente ardore, aura sacra: come è bello l'essere accompa- "
gnato da tè ovunque diriga i miei passi, onnipresente, iin- S mortale!
•;;. L'alto elemento giocava con i bambini nel modo più bello, i Uno
bisbigliava tranquillamente fra sé e sé, a un altro sgor- ? gava dal
labbro una canzondna senza ritmo, a un altro un ' canto di giubilo a
piena gola; uno se ne stava sdraiato, l'altro ? saltava in alto, un
altro si aggirava assorto nei suoi pensieri. ;
E tutto questo era l'espressione di un solo benessere ed
ì una sola risposta alle carezze delle aure
ammalianti (n, p. 147; tr. it. cit., p. 71). 5
II pensiero ritorna in una poesia, accompagnato ;
dal ricordo malinconico della propria infanzia. Essa
inizia così:
Quand'ero fanciullo, . . : j
Spesso un dio mi scampava
Dagli sgridi e le verghe degli uomini.
Giocavo sicuro e buono
Con i fiori del bosco,
E le aure del cielo
Giocavano con me. '
E come tu il cuore Delle piante consoli, Quando esse
aincontro Le tenere braccia ti tendono,
Così hai il mio cuore consolato, Padre Elio! e, come
Endimione, Io ero il tuo vago, :
Sacra Luna!
O tutù voi fidi, Amorevoli dèi!
La natura, l'amore e la cultura
163
Se poteste sapere Quanto vi ha la mia anima amato!
Certo allora io non vi invocavo ancora
Con nomi, e neanche voi
Mi chiamavate mai a nome, come uomini si chiamano
Quasi si conoscessero.
Pure conosciuto vi ho meglio Che mai abbia conosciuto
gli uomini:
Compresi il silenzio dell'etere, Le parole degli uomini
non le ho comprese mai.
Da ich ein Knabe war, / Rettet' ein Gott mich oft / Vom
Geschrei und der Rute der Menschen, / Da spieit ich si-cher und gut /
Mit den Blumen des Hains, / Und die Lùftchen des Himmeis / Spielten mit
mir. // Und wie du das Herz / Der Pflanzen erfreust, / Wenn sie entgegen
dir / Die zarten Arme strecken, / So hast du mein Herz er-freut, / Vater
Helios! und, wie Endymion, / War ich dein Liebiing, / Heilige Luna! // O
ihr treuen / Freundiichen Getter! / DaB ihr wùBtet, / Wie euch meine
Seele geliebt! // Zwar damais rief ich noch nicht / Euch mit Namen, auch
ihr / Nanntet mich nie, wie die Menschen sich nen-nen, / Als kennten sie
sich. // Doch kannt ich euch bes-ser, / Als ich je die Menschen gekannt,
/ Ich verstand die Stille des Àthers, / Der Menschen Worte verstand ich
me (I, pp. 266-267; tr. it. cit., pp. 31-33).
Ancora in un abbozzo per un inno Alla Madonna degli
ultimi anni trapela la preoccupazione per il regno dell'infanzia,
chiamata ora «la selva vergine» (il, p. 214). Questo termine diventa
più comprensibile quando si considera che le belve - le belve
«divine», le «belve terrene» - appaiono soprattutto nelle elegie
come il più puro prodotto della natura, particolar-mente aperte allo
«spirito» di questa, al soffio dioni-
164
Secondo
cerchio - L'uomo e la storia vr
siaco. Ma l'uomo un tempo era «felice come il cervo
;ì del bosco» (Iperione II, p. 228). .s
f La giovinezza di Iperione caratterizza lo stato origi-
" naie proprio con il concetto di «spirito»: ";
, -^i
Scambiammo il sentimento della vita, la chiara
consapevo. $ lezza per ottenere la quiete priva di sofferenza degli
dèi. ? Se è possibile, pensa lo spirito puro! Esso non si occupa -,
della materia; perdo nessun mondo vive per esso; per esso £ non si leva
e non tramonta alcun sole; esso è tutto e perdo nulla per sé. Esso non
è privo di nulla perché non può desiderare: non soffre perché non
vive (II, p. 506). y.
Questo «spirito» non significa incorporeità, bensì
semplicità, apertura, leggerezza di tutto l'essere, unio- fe ne con le
forze che reggono il mondo e la condizione ^ di chi è pervaso dalle
onde creatrici che provengono p dall'origine. A questo spirito l'uomo
era legato in '-a, un'esistenza ancora anteriore alla nascita.
Poi awen- & ne il passo verso la figura individuale, e
ora l'uomo si „. ritrovò nella storia. L'esordio della vita - sia per
il caso * particolare che per quello del genere umano nascita ed •%.
inizio della storia - non costituisce un inizio puro, ma dietro di
esso vi è qualcosa di più remoto: un'esistenza nell'ambito del mondo
sottratto a noi, nello stato di vita degli dèi, come viene descritto
spesso, in mo- ^
do particolarmente puro nel Canto del Destino:
<
•• - 'A
Senza destino, come lattante •••,$• Che dorma,
respirano i celesti;
Serbato casto ^ In umile bocdo A È in etemo fiorire
Per loro lo spirito • ^ E gli occhi beati -
La natura, l'amore e la cultura
165
Mirano in tacita Eterna chiarità.
Schicksallos, wie der schlafende / Sàugling, atmen die
Himmlischen; / Keusch bewahrt / In bescheidener Kno-spe, / Blùhet ewig
/ Ihnen der Geist, / Und die seligen Augen / Blicken in sdiler / Ewiger
Klarheit (i, p. 265; tr. it. dt., p. 37).
Una traccia di questo stato è ancora presente in quella
prima naturalezza di cui abbiamo parlato. Ma il fatto propriamente
decisivo, il passo verso la figura individuale - il «camminare ad occhi
aperti sui propri sentieri» (Voce del popolo, II, p. 51) è già
avvenuto. Lo spirito individuale a differenza dello spirito del Tutto e
della sua dinamica creativa; lo spirito intellettuale e critico con la
sua capacità di porsi mediante la riflessione fuori dal primo contesto,
è già all'opera. Il fatto che esso sia proprio questo, benché
apparentemente ancora partecipe dell'unità; il fatto di stare come
profondità onirica al di sotto delle espressioni istintive
dell'esistenza infantile, conferisce alla primizia della vita il suo
incanto presago. Ma presto ne emerge un alito di estraneità. Così,
nell'ode L'uomo, si legge:
[...] e presto è adulto; lo temono
Gli animali, poich'è diverso da loro
L'uomo; a tè non somiglia ne al padre
Poiché audace in lui e unica
Con la tua gioia l'anima alta del padre,
O terra! è da sempre alla tua tristezza unita.
[...] und baid ist er gro6; ihn scheun / Die Tiere, denn
ein anderer ist, wie sie, / Der Mensch; nicht dir und nicht dem Vater /
Gleicht er, denn kùhn ist in ihm und einzig // Des Vaters hohe Seele
mit deiner Lust, / O Erd! und deiner Trauer vonje vereint (i, p. 263).
166 Secondo cerchio- L'uomo e la storia III
L'armonia dura solo per breve tempo; poi s'impone lo
spirito individuale. Nella Giovinezza di Iperione si legge:
Ora percepiamo le barriere del nostro essere, e la forza
arginata si ribella impaziente ai propri vincoli e lo spirito anela a
ritornare al limpido etere. Tuttavia, in noi vi è anche qualcosa che
volentieri sopporta i vincoli; poiché se lo spirito non fosse limitato
da nessuna resistenza, non sentiremmo noi stessi e nemmeno gli altri. Ma
non sentirsi significa la morte. La povertà del finito è
indissolubilmente legata in noi con la ricchezza sovrabbondante del
divino. Non possiamo mai rinnegare l'impulso di espanderci, di
liberarci; dò sarebbe animalesco. Ma non possiamo nemmeno con superbia
ignorare l'impulso di essere limitati, di ricevere. Poiché non sarebbe
umano e uccideremmo noi stessi (n, p. 507).
Questa tensione tra l'impulso diretto al
sovraindi-viduale, all'infinito perfetto ed il fatto di essere inseriti
nell'esistenza individuale con i suoi condizionamenti terreni viene meno
nella forza più nobile dell'esistenza, l'amore. Rinnovando il mito del Symposion4,
Iperione dice:
II contrasto degli impulsi, da nessuno dei quali ci si
può esentare, è portato all'unione dall'amore, il figlio della
ricchezza e della povertà. L'amore insegue infinitamente il supremo o
l'ottimo, il suo sguardo è diretto verso l'alto, il suo obiettivo è il
perfetto, poiché suo padre, la ricchezza, è di stirpe divina. Tuttavia
raccoglie anche il frutto delle anime e le spighe dal campo di stoppie
della vita, e se un essere gentile, in una giornata afosa, gli porge una
bevanda, non rifiuta il vaso di terra, poiché sua madre è l'indigenza
(II, p. 507).
La natura, l'amore e la cultura
167
L'amore è l'anelito che scaturisce dallo spirito
individuale, non appena esso diventa consapevole di se stesso. Esso trae
l'uomo verso la perfezione, ma non intesa come norma o come idea, bensì
come qualcosa che percettibilmente domina dall'alto come l'etere. La
possente realtà contenuta in questo concetto dovrà essere descritta
per esteso successivamente (ili, infra, p. 245). Esso significa
la chiarezza e la potenza dell'altezza celeste, il suo azzurro visibile,
la capacità della sua luce e la sua forza di abbracciare sotto la sua
volta tutte le cose. Tutto ciò si prolunga diventando compendio di
validità, eternità, senso, anzi, in ultima istanza, dell'ambito a noi
sottratto verso l'alto, ed è percepito come divinità. Ad esso anela
l'eroe.
Esso è presente anche nella natura, poiché dappertutto
vi sono esseri individuali «che camminano su sentieri propri» e che
portano in sé la tensione fra la forma particolare ed il desiderio
dell'Unitutto. Ma solo nell'uomo essa si manifesta in forma consapevole.
L'amore è una potenza cosmica. Abbiamo già citato il passo in Iperione
dove il moto che urge per ogni dove, l'eros del Tutto prelude
all'incontro con Diotima. La dinamica verso l'alto di ogni cosa vivente
è descritta in modo particolarmente intenso nella poesia All'Etere:
Di cibo terreno non prosperan solo i viventi
Ma tu li alimenti tutti, col tuo nettare, o Padre!
Urge e trabocca fuori della tua etema pienezza.
L'animante aura per le vene di tutta la vita.
Perciò le creature ti amano e lottano e anelano in alto
Incessantemente verso tè in gioioso rigoglio.
O celeste, non cerca tè con i suoi occhi la pianta,
168 Secondo cerchio - L'uomo e la storia "?
Non è a tè che tende le bracda timide l'umile arbusto?
Per tè trovare il seme prigione rompe il suo guscio, Per bagnarsi, da
tè avvivato, nell'onda tua II bosco si scuote di dosso la neve, manto
troppo pesante. Anche i pesci salgono al sommo e guizzano desiderosi Sul
lucido piano del fiume quasi agognassero anch'essi A tè dalla loro
culla: anche alle nobili fiere terrestri Mutasi in volo il passo, quando
la brama violenta, L'occulto amore per tè li afferra, all'alto li tira.
Nicht von irdischer Kost gedeihen einzig die Wesen, /
Aber du nàhrst sie ali mit deinem Nektar, o Vater! / Und es dràngt
sich und rinnt aus deiner ewigen Fùlie / Die be-seelende Luft durch
alle Róhren des Lebens. / Darum lie-ben die Wesen dich auch und ringen
und streben / Unauf-hórlich hinauf nach dir in freudigem Wachstum. //
Himmlischer! sucht nicht dich mit ihren Augen die Pflan-ze, / Streckt
nach dir die schùchternen Arme der niedrige Strauch nicht? / Da6 dich
finde, zerbricht der gefangene Same die Hùlse, / DaB er belebt von dir
in deiner Welle sich bade, / Schùtteit der Wald den Schnee, wie ein
ùber-làstig Gewand ab. / Auch die Fische kommen herauf und hùpfen
verlangend / Ùber die glànzende Flàche des Stroms, als begehrten auch
diese / Aus der Wiege zu dir;
auch den edein Tieren der Erde / Wird zum Fluge der
Schritt, wenn oft das gewaidge Sehnen, / Die geheime Uebe zu dir
sie ergreift, sie hinaufzieth (i, p. 204; tr. it. dt., p. 17).
In questo amore dovrebbero liberarsi tutte le forze,
compiendo azioni e opere nobili. L'anelito infinito dovrebbe essere
domato dall'autolimitazione e dalla misura, la forza dell'abbondanza
dalla povertà. Questo pensiero ritoma costantemente nella poesia di
Hólderlin, L'espressione più chiara ne da l'inno II Reno. Nel
giovane fiume si scatena l'anelito al tutto, ma i Celesti lo arginano
per mezzo delle rive. Esso accetta i limiti, e dall'abbondanza e dalla
misura nasce
, La natura, l'amore e la cultura 169
la fecondità creativa del fiume ... Certamente esiste
anche la forma opposta dell'eroe: quella dionisiaca che, rompendo la
forma individuale, si precipita nel sovraindividuale. Si tratta di
quella culminazione dell'esistenza individuale, in cui la vita si
rovescia nella morte e in cui irrompe il Tutto, mentre la forma
particolare si disgrega. Anche questo eros fa parte del mondo e
ha il suo carattere divino e il suo diritto; ma solo in colui che ad
esso è chiamato. Le poesie Voce del popolo e La morte di Empedocle
lo rappresentano (i, supra, p. 38; IV, infra, p. 576).
Questo eros è «la voluttà di morire» dell'esistenza. Essa
«distrugge l'opera», «continuata di anno in anno», «l'arte lunga».
È la potenzialità oscura, minacciosa che fa sì che l'operato
dell'altro eros, quello conservatore, non diventi comodo e
arrogante.
Ma solo quest'ultimo è creativo. Da esso dovrebbe
nascere l'opera dell'uomo. Sotto gli occhi di Diotima, Iperione, in un
colloquio entusiasta, sviluppa questo pensiero. Dapprima nasce l'arte,
poi la religione, poi la filosofìa (il, p. 186).
In quel primo stato tutto era identico; l'uomo era
interamente «natura». Egli stesso era bello, quindi opera d'arte in
sé, senza necessitare dell'opera. Egli stesso era divino, quindi senza
la necessità di un culto transitivo rivolto a un oggetto, bensì
pervaso da una religiosità, che aveva il carattere d'uno stato, d'una
condizione, sospesa in se stessa. Egli aveva sapere, perché dominava
essendo, in lui, il senso del Tutto, e non conosceva quindi
l'irrequietezza del dubbio, la riflessione e la critica. Ma poi lo
spirito si agita. Esso si propone la bellezza nell'opera, e nasce
l'arte. Esso incontra la divinità sotto le spoglie di figure oggettive,
e
170 Secondo cerchio - L'uomo e la storia
nascono le immagini di divinità e gli ordinamenti dei
loro culti. Esso inizia a interrogarsi sul Tutto e sul particolare, sui
fatti e sul senso, e nasce, con il supporto della poesia contemplatrice
e formatrice, la filosofia. Dai differenti bisogni dell'esistenza
nascono i mestieri; dalle esigenze della vita storica la comunità con
le sue forme.
IV
Questo era il progetto contenuto nella natura delle
cose. Esso è stato realizzato però solo in un luogo della terra, in
Grecia, come dice Iperione in un lungo colloquio:
[...] era una vita divina e l'uomo era, allora, il
centro della natura. La primavera, quando fioriva intorno ad Atene era
come un modesto fiore sul seno della vergine e il sole, rosso per la
vergogna, sorgeva sulle magnificenze di quella terra.
Le rupi di marmo dell'Ime tto e del Pentelico balzavano
su dalla culla dov'erano assopite, come bambini dal grembo della madre e
prendevano forma e vita sotto le delicate mani degli Ateniesi.
La natura porgeva miele e le più belle viole e mirti e
olive. La natura era sacerdotessa e l'uomo il suo dio, e tutta la vita
in essa, e ogni aspetto, ogni nota di essa era soltanto un'unica eco
della magnifica creatura alla quale essa apparteneva. La natura
celebrava soltanto lui, sacrificava soltanto a lui.
E ne era anche degno; egli poteva sedere, con amore,
nella sacra officina e abbracciare le ginocchia della statua degli dèi
che egli aveva scolpito, oppure, sul promontorio, sulla verde cima del
Sunio, accampato in mezzo ai discepoli che lo ascoltavano, ingannare il
tempo con alti pensieri, oppu-
La natura, l'amore e la cultura
171
rè poteva correre nello stadio, o, dal podio, come un
dio delle tempeste, inviare pioggia, raggio di sole e lampi e dorate
nubi (II, pp. 192-193; tr. it. dt., pp. 104-105).
Dappertutto altrove riuscì solo parzialmente ed
approssimativamente, come mostra la critica ai popoli ed alle culture
nello stesso colloquio. Ma la Grecia stessa decadde ... I dialoganti
sono in viaggio per l'Attica, e Iperione è interrotto da Diotima:
«O guarda», esclamò improvvisamente Diodma,
rivolta verso di me.
Guardai, e mi senni quasi mancare di fronte
all'imponenza di quel panorama.
Come un immenso naufragio, dopo che gli uragani si sono
placati e i marinai fuggiti via e la carcassa della flotta frantumata
giace irriconoscibilmente sul banco di sabbia, così stava Atene davanti
a me, e le orfane colonne si levavano davanti a noi come nudi tronchi di
un bosco che, la sera prima, ancora verdeggiava e, durante la notte, fu
preda delle fiamme.
«Qui», disse Diodma, «s'impara a tacere sul proprio
destino, sia esso benigno o malvagio». «Qui s'impara a tacere su
tutto», continuai io (n, pp. 193;
tr. it. dt., p. 105).
E poi:
Anche questo spirito era già morto prima che i
distruttori percorressero l'Atdca. Solo quando i templi e le case sono
deserte, le fiere selvagge osano inoltrarsi oltre le porte e per le
strade (il, pp. 194; tr. it. cit, pp. 105-106).
La Grecia, e in Grecia soprattutto Atene, ecco la
grande, effìmera eccezione. Altrove l'impeto si liberò dalle leggi
sacre e divenne egoistico e distruttivo. Nella poesia L'uomo si
legge:
172 Secondo cerchio - L'uomo e la storia
Alla madre degli dèi, alla natura, Che tutto abbraccia,
vorrebbe somigliare!
Ah, per questo tè lo strappa dal cuore, terra, La sua
baldanza, e vani sono
I tuoi doni e i tuoi delicati legami;
Pure un meglio cerca, lui così selvaggio!
Via dalla sua riva di prato odoroso, Nell'acqua senza
fiori l'uomo deve gettarsi, Ed anche splende, come la notte stellata,
II suo bosco di frutti d'oro, ma lui si scava
Grotte nei monti e scruta negli abissi, Lungi dalla
limpida luce di suo padre, Infedele anche al Sole, che servi Non ama e
dell'affanno ride.
Più liberi respirano gli uccelli del bosco, Ma più
splendido pulsa il cuore umano, E vede l'oscuro futuro, ed anche deve La
morte vedere e solo lui temerla.
E l'armi l'uomo porta contro ogni vivente, Con orgoglio
sempre inquieto; nella lotta . Si consuma e brevemente fiorisce II
delicato fiore della sua pace.
Non è dunque egli di tutti i viventi II più felice? Ma
più a fondo e rapace II destino, che tutto eguaglia, afferra Anche il
petto infiammabile del forte.
Der Góttermutter, der Natur, der / Allesumfassenden
mócht er gleichen! // Ach! darum treibt ihn, Erde! vom Herzen dir/ Sein
Ubermut, und deine Geschenke sind / Umsonst und deine zarten Bande; /
Sucht er ein Besseres doch, der Wilde! // Von seines Ufers duftender
Wiese
La natura, l'amore e la cultura
173
muB / Ins blùtenlose Wasser hinaus der Mensch, / Und
glànzt auch, wie die Sternennacht, von / Goldenen Frù-chten sein Hain,
doch gràbt er // Sich Hóhlen in den Ber-gen und spàht im Schacht /
Von seines Vaters heiterem Uchte fern, / Dem Sonnengott auch ungetreu,
der / Kne-chte nicht liebt und der Sorge spottet. // Denn freier at-men
Vógel des Walds, wenn schon / Des Menschen Brust sich herrlicher hebt,
und der / Die dunkie Zukunft sieht, er muB auch / Sehen den Tod und
allein fùrchten. // Und Waffen wider alle, die atmen, tràgt / In
ewigbangem Stolze der Mensch; im Zwist / Verzehrt er sich und seines
Friedens / Blume, die zàrtiiche, blùht nicht lange. // Ist er von
allen Lebensgenossen nicht / Der seligste? Doch tiefer und reiBender /
Ergreift das Schicksal, allausglei-chend, / Auch die entzùndbare Brust
dem Starken (i, pp. 26S-264).
L'anelito primordiale si trasforma nel tentativo
«totale» di abbracciare il mondo: la ricerca distruttri-ce, il dominio
soverchiante, il lavoro irrequieto, spinto dalla rapacità e dalla
paura.
Questo male assume nella poesia di Hólderlin una forma
duplice. In primo luogo, quella del titanismo. In tal caso le dimensioni
diventano immense. In esso si coniugano la volontà propria dell'uomo e
quella del caos. Quest'ultimo di per sé costituisce un elemento
dell'esistenza in quanto tale: la parte notturna del mondo, ciò che è
tenebroso, magmatico, partoriente, la «copiosità sacra» infinitamente
traboccante, opposta alla parte divina dello stesso mondo: l'altezza, la
chiarezza, la forma, l'ordine. Esso ha un proprio senso all'interno del
tutto, ma ha bisogno d'essere domato. L'espressione mitica di questo
domare è costituita dall'eterno ritmo tra luce e oscurità. A ognuno
spetta il suo tempo: giorno e notte. Ognuno
174 Secondo cerchio - L'uomo e la storia
determina tutto il mondo, ma in una configurazione
particolare. Le stesse cose che di giorno sono ordinate e chiare, di
notte si mostrano «prive di leggi», oscure e impenetrabili. Oscurità
e luce, abbondanza e forma, profondità del grembo e spazio della forma
affrancata, eruzione e maturità sono speculari - così come sono
speculari terra e etere, Dioniso e Apollo ... L'inno II Reno,
verso la fine (in versi già citati, p. 86), descrive questo rapporto
come più gravido di rischio. La sfera della notte si accosta a quella
del giorno, ma non per sostituirsi ad essa, al tempo prestabilito,
recando sollievo, bensì minacciosamente:
Sia di giorno, quando
Febbrile e incatenata
La vita appare, sia
Di notte, quanto tutto si mischia
Senz'ordine e torna
L'originario groviglio.
Bei Tage, wenn / Es fieberhaft und angekettet das /
Le-bendige scheinet, oder auch / Bei Nacht, wenn alles ge-mischt / Ist
ordnungsios und wiederkehrt / Uralte Verwir-rung (il, p. 148; tr. it.
cit., p. 205).
Appena contro l'ordine si ribella egoisticamente
l'impeto primo, l'elemento del caos prorompe in esso, improbo e
distruttore. Nasce il titanismo. L'inno II Reno, per esempio,
dice dei grandi ribelli della preistoria (versi citati, p. 78):
Chi fu che per primo Corruppe i vincoli d'amore Per
farne corde? Allora hanno alla propria legge
La natura, l'amore e la cultura
175
E insino al fuoco celeste Irriso i superbi, da allora
Sprezzando la strada mortale protervia dessero E agli dèi farsi eguali
anelarono.
Wer war es, der zuerst / Die Uebesbande verderbt / Und
Stricke von ihnen gemacht hat? / Dann haben des eigenen Rechts / Und
gewifi des himmlischen Feuers / Gespottet die Trotzigen, dann erst, /
Die sterbiichen Pfade ver-achtend, / Verwegnes erwàhit / Und den
Góttern gleich zu werden getrachtet (n, p. 145; tr. it. dt, p. 199).
E dell'uomo dice:
Ma ahimè! vaga nella notte, abita come nell'Orco,
Senza il divino, la nostra stirpe. Al proprio fare
È forgiata soltanto, e ognuno ascolta sé solo
Nella folle officina; molto lavorano, i selvaggi,
Con braccio possente e senza posa; ma ancora e sempre,
Come le Furie, senza frutto rimane la pena dei miseri.
Aber weh! es wandeit in Nacht, es wohnt, wie im Orkus, /
Ohne Gótdiches unser Geschlecht. Ans eigene Treiben / Sind sie
geschmiedet allein, und sich in der tósenden Werk-statt/
Hóretjeglicher nur, und viel arbeiten die Wilden/ Mit gewaltigem Arm,
rastlos, doch immer und immer / Unfruchtbar, wie die Furien, bleibt die
Mùhe der Armen (II, p. 110; tr.it.dt-, p. 117).
Pur con tutta la sua colpa di sacrilegio, l'elemento
distruttivo nella storia appare qui in dimensioni di grandiosità. Esso
tuttavia può manifestarsi anche sotto spoglie piccole e misere, ma non
per questo meno deleterie: come funzionalità e calcolo che soggiogano
l'esistenza; come egoismo e utile proprio che la de-
176
Secondo
cerchio - L'uomo e la storia
gradano; come razionalismo che la inaridisce e la
corrode. E nasce lo spirito del «servo» e del «furbo», che
utilizzano il sacro, ciò che è sorto divinamente, per i propri piccoli
fini. È contro di essi che si rivolge Iperione:
Barbari, sin da antichi tempi, resi più barbari dalla
diligenza, dalla scienza, e persino dalla religione, profondamente
incapaci di qualsiasi senso divino, corrotti sino al midollo, per buona
sorte delle sacre Grazie, in ogni grado di esagerazione e di meschinità
offensivi per ogni anima delicata, sordi e disarmonici come i coca di un
vaso buttato via -tali, mio Bellarmino, erano i miei consolatori ...
Ti dico: non vi è nulla di sacro che non venga
profanato presso questo popolo, e non venga degradato a un miserabile
espediente, e quanto, persino presso i selvaggi, si mantiene per lo più
divinamente puro, questi barbari che sanno soltanto calcolare lo
esercitano come un mestiere. E non possono agire diversamente, perché
quando un essere umano ha subito un addestramento, esso serve al suo
scopo, cerca il suo utile, non sogna più, Dio ce ne guardi! e resta un
uomo posato. E quando celebra e quando ama e quando prega e persino
quando l'amena festa primaverile, quando l'ora della riconciliazione del
mondo scioglie tutti gli affanni e, come per incanto, evoca l'innocenza
in un cuore colpevole, quando, ammaliato dal caldo raggio del sole, lo
schiavo dimentica, lieto, le sue catene e, ammansiti dall'aura divina, i
nemici degli uomini diventano pacifici come bambini, persino quando il
bruco mette le ali e l'ape sdama, il Tedesco rimane chiuso entro il suo
scomparto e non si cura molto del tempo (II, p. 282; tr. it. dt, pp.
172-173).
Qui Iperione-Hólderlin menziona una perversione che gli
pare di vedere attorno a sé. Ciò che pensa del suo popolo in generale
costituisce oggetto di molte sue affermazioni valide.
La natura, l'amore età cultura
177
Questa tendenza a costruire sgraziatamente, a
distruggere è talmente forte che l'impeto primordiale non riesce a
svilupparsi in modo sostanziale nei ritmi prestabiliti. La storia si
arena, sia essa di tipo titanico o servile. Essa diventa piena di
confusione, senza senso, in modo talmente profondo da non trovare più
con le proprie forze una via d'uscita. Per superare il male, la
perdizione, vi è bisogno della «salvezza», di un avvenimento che
proviene da altrove. Se si considerano le linee che dappertutto corrono
dalla coscienza cristiana nell'interpretazione dell'esistenza di
Hólderlin, ci si accorge che vi è presente, completamente trasposto
nell'immanente-mondano, il pensiero cristiano della prigionia del mondo,
che abbisogna del Salvatore proveniente da una sfera al di sopra di essa
(V, infra, p. 725).
Questo elemento di salvezza potrebbe essere
un'ispirazione divina, come suggerisce l'inizio di Patino (già
ci tato, p. 91);
Vicino
E difficile ad afferrare è il Dio. Ma dove è il
pericolo, cresce Anche dò che ti salva.
Nah ist / Und schwer zu fassen der Gott. / Wo aber
Ge-fahr ist, wàchst / Dar Rettende auch (il, p. 165; tr. it. dt.,
P.217);
oppure come fa pensare l'entusiasmo che soccorre i
combattenti nella battaglia di Salamina che già è perduta:
... ma. come la belva Nel deserto dal fùmido
sangue da un ultimo balzo
178 Secondo cerchio - L'uomo e la storia
Ergendosi trasfigurata, pad alla forza più altera, E il
cacciatore atterrisce, così nel lampo dell'armi, AU'ordin dei capi,
tremenda e compatta in quei bellicosi In mezzo alla strage l'anima
esausta ancora ritorna. E più la battaglia riawampa [...]
Dènn wie aus rauchendem Blut das Wild der Wùste noch
einmal / Sich zuletzt verwandeit erhebt, der edieren Kraft gleich, / Und
den Jàger erschróckt, kehrt jetzt im Glanze der Waffen, / Bei der
Herrscher Gebot, furchtbargesam-meit den Wilden / Mitten im Untergang
die ermattete Seele / noch einmal. / Und entbrannter beginnts [...] (il,
p. 106; tr. it. dt., p. 107).
Ma è un altro elemento a dare alla concezione della
storia di Hólderlin - se non sbaglio - il suo carattere unico: il
ritorno dell'esistenza greca tramontata. Coloro che sanno, gli iniziati
di cui parla Iperione hanno atteso l'ora in cui esso si compie.
Hólderlin stesso si sente sotto il suo potere e chiamato ad
annunciarlo.
Ciò che prima era stato «natura», semplicemente dato
e ovvio; ciò che dopo divenne «ideale», conteiw piato e desiderato da
lontano, ora entra nella storia;
inizia la terza era della vita del mondo. L'esistenza
umana acquista una nuova naturalezza. Lo spirito, che con superbia ed
egoismo si era estromesso dall'ordine, vi viene nuovamente inserito.
Esso accoglie la legge della natura entro la sua libertà, e questa
appare trionfalmente ad un grado più alto. Nasce il nuovo accordo, e la
bellezza ritorna.
I MORTI E IL PASSATO
II concetto che regge il pensiero di Hólderlin è
quello della natura. Essa è il grande contesto in cui ogni ente singolo
si risolve nel tutto, ed il tutto si manifesta nella forma singola. Ogni
cosa direttamente percepita è espressione di significati innumeri, a
perdita di calcolo. Tutto scaturisce da un'origine misteriosa e ritorna
ad essa. La «natura» è per Hólderlin la realtà definitiva. Essa è
al di sopra della cosa singola con la sua caratteristica particolare, al
di sopra del singolo uomo dotato di una natura propria, ma anche al di
sopra delle potenze divine. Tutto ciò che può essere nominato si trova
all'interno di essa. Essa è l'autentico e l'essenziale, il sacro Tutto
al di là di cui non vi è più nulla. Una ricerca che indagasse oltre
la natura o un impulso che tendesse oltre i limiti di essa verrebbero
definiti da Hólderlin probabilmente sacrileghi. Ma questo significa
anche che l'uomo non costituisce un essere naturale nel comune senso -
ma nemmeno l'animale, l'albero o l'astro, poiché tutto proviene
dall'ambito del mistero e vi ritorna.
Entro questa concezione generale i due eventi che
incorniciano l'esistenza dell'uomo, nascita e morte, rivestono
un'importanza particolare.
L'avvenimento della nascita è anteriore al semplice
contesto della specie. In essa è avvertibile qualcosa che scende
dall'alto. L'elegia Stoccarda dice:
180 Secondo cerchio - L'uomo e la storia '
Sacro m'è il luogo, su ambo le rive, e anche la rupe
Che col giardino e la casa, dalle onde verde si leva. C'incontreremo
là, dove, o luce benigna!, per primo Uno dei raggi tuoi mi colse, da me
più sentito.
Heilig ist mir der Ort, an beiden Ufern, der Feis auch,
/ Der mit Garten und Haus grùn aus den Wellen sich hebt. / Dort
begegnen wir uns; o gùtiges Licht! wo zuerst mich / Deiner gefuhiteren
Strahien mich einer betraf (il, p. 87;
tr.it.dt.,p. 129).
In modo ancora più forte l'inno II Reno:
[...] Come cominci, tale resterai,
Per quanto agisca la costrizione
E il rigore, il più
Lo può la nascita
E il raggio di luce
Che al neonato va incontro.
[...] Denn / Wie du anfingst, wirst du bleiben, / So
viel auch wirket die Not, / Und die Zucht, das meiste nàmiich / Vermag
der Lichstrahi, der / Dem Neugebomen bege-gnet (II, p. 143; tr. it. dt.,
p. 197).
La luce è un messaggero dell'etere, luce vera e per
ciò stesso destinazione divina (III, infra, p. 248). Il primo
raggio di luce che cade negli occhi del neonato significa formazione e
assegnazione d'una sorte dall'alto. I diversi tipi di naturalismo hanno
una cosa in comune: livellano le differenze. Tutto scaturisce da tutto e
può giungere a tutto. A questo spirito Hólder-lin si oppone
strenuamente. Tra gli uomini ci sono differenze insuperabili, stabilite
dalla nascita. Questa non è solo un processo che da all'essere singolo
materia vivente e forma biologica, ma un accadimento
I morti e il passato
181
religioso, che determina il suo destino. Non è solo
cronologicamente il primo fatto a cui seguono tutti gli altri, ma
l'inizio dell'esistenza che stabilisce la dirczione, il compito e i
limiti. Esso passa attraverso ogni avvenimento successivo e ad esso ogni
avvenimento successivo si riferisce continuamente. Nella medesima poesia
si legge infatti subito dopo:
Pure mai se ne scorda.
Prima perirà la casa
E le leggi e tornerà all'informe
II giorno degli uomini, che dimenticare
Un pari suo possa l'origine
E la voce della gioventù.
Doch nimmer, nimmer vergiBt ers. / Denn eher muB die
Wohnung vergehn, / Und die Satzung und zum Unbild werden / Der Tag der
Menschen, ehe vergessen / Ein sol-cher dùrfte den Ursprung/ Und die
reine Stimme derJu-gend (II, pp. 144-145; tr. it. dt, p. 199).
Ma questa destinazione, oltre che dall'alto della
natura, può provenire anche dalla sua interiorità. Anzi, la
destinazione proviene sia dall'alto che dall'interiorità:
contemporaneamente da entrambi gli ambiti della sfera a noi sottratta,
che in ultima istanza sono identici. Dall'interiorità del tutto il
neonato riceve il nucleo della sua essenza; il relativo passo in Iperione
dice:
«E allora in questo caso sarebbe vano», risposi «e
nel senso più alto della parola, che, senza libertà, ogni cosa è
morta?». «Proprio così», rispose, «nemmeno un filo d'erba cresce se
non ha in sé un suo proprio germe di vita! e tanto più in me! Per
questo, mio caro, perché mi sento senza un principio, per questo credo
di essere senza una fine, indistruttibile. Se mi ha plasmato la mano di
un vasaio, allora
182 Secondo cerchio - L'uomo e la storia
egli può frantumare il suo vaso, come gli fa piacere.
Ma dò che vive là dentro, deve essere non generato, deve essere, nel
suo germe, di natura divina, elevato al di sopra di ogni potere e di
ogni arte, e, per questo, inviolabile ed eterno» (il, pp. 266-267; tr.
it. cit., pp. 160-161).
In ogni essere vivente vi è un «germe», un'interna
forza d'origine che è «senza inizio», che scaturisce dal centro del
mondo.
Indipendentemente da come viene concepita, da sopra o da
dentro, questa destinazione costituisce comunque l'unicità irripetibile
e la solitudine, erigendo tra uno e l'altro delle barriere
indistruttibili.
Ciò è espresso in modo mirabilmente incisivo da
Panthea nelVEmpedocle:
Non farmi
inorgoglire e non temere
per me come per lui! Non sono lui, •
ne il suo tramonto potrebbe mai essere il mio,
poiché dei grandi anche la morte è grande ...
E se vuoi lo scuoterò con l'eroe
Passar per una sola fiamma di destino, •
Deve l'uno come l'altro, osservi
Chiamato. Ciò che accade a quest'uomo
Accade, credimi, soltanto a lui,
E se anche avesse offeso tutti gli dèi
Sfidando il peso della loro collera
E volessi peccare quanto lui
Per condividerne la sorte, sarei simile
A chi s'immischia, estraneo, •
In una lite fra amanti. 'Cosa pretendi?', ;
Direbbero gli dèi, 'Non puoi, stolta, Offenderà come
fece lui'.
O mache mich / Nicht stolz, und furente, wie fùr ihn,
fur mich nicht! / Ich bin nicht er, und wenn er untergeht, /
I morti e il passato
183
So kann sein Untergang der meinige / Nicht sein, denn
gro6 ist auch der Tod der GroBen. / Und will der Waffen-tràger mit dem
Helden / Durch eine Schicksaisflamme gehn, so muB / Der eine, wie der
andere, dazu / Berufen sein. Was diesem Manne widerfàhrt, / Das, glaube
mir, das widerfàhrt nur ihm, / Und hàtt er gegen alle Getter sich /
Versùndiget und ihren Zom auf sich / Geladen, und ich wollte sùndigen,
/ Wie er, um gleiches Los mit ihm zu leiden, / So wars, wie wenn ein
Fremder in den Streit / Der Liebenden sich mischt - Was wilist du?
sprà-chen / Die Getter nur, du Tórin kannst uns nicht / Belei-digen,
wie er (il, p. 80).
Di conseguenza, anche la morte non costituisce solo la
fine del decorso biologico, ma un evento che si compie in riferimento al
centro del Tutto. La fine è intimamente collegata con l'inizio. La
morte riceve la sua impronta già attraverso la nascita. Nascita e morte
formano una configurazione complessiva: il limite, ma per questo anche
il carattere dell'esistenza individuale (vedi l'appena citato passo di Empedocle).
La morte non significa solo la dissoluzione dell'organismo in quanto
materia, ma il ritorno dell'essere in quell'ambito da cui è scaturito
con la nascita: la zona a noi sottratta della natura. Questa viene
definita in diversi modi: come l'altezza del cielo oppure come
l'interiorità della terra.
Per il contesto del motivo del fiume, essa è situata
nella zona interna del mondo. Ciò si esprime nel concetto di
inclinazione della vita: il fiume della vita scorre «all'ingiù». Il
punto finale del suo moto è la morte. Il traguardo del fiume è
costituito dal mare, o dallo stato di dissoluzione dell'organismo, o da
qualsiasi altra conclusione del movimento totale. Ma dietro a questo
traguardo appare un altro «dove», metafisico,
184
Secondo
cerchio - L'uomo e la storia
più precisamente religioso, ossia la zona intema a noi
sottratta del mondo. L'inno II Reno mostra chiaramente che il
traguardo-caduta del fiume allude da ultimo ad una profondità assoluta,
al centro del tutto:
[...] e se in quella fùria
Un più grande non lo ammansisse,
Se lo lasciasse crescere, come folgore
Fenderebbe la terra, e i boschi per incanto
Dietro lui ruggirebbero e i monti frananti.
[...] und wenn in der Eil / Ein GróBerer ihn nicht
zàhmt, / Ihn wachsen laBt, wie der Blitz muB er / Die Erde spalten, und
wie Bezauberte fliehn / Die Wàlder ihm nach und zu-sammensinkend die
Berge (II, p. 144; tr. it. dt., p. 197).
Quanto più la vita è potente, tanto più forte è
l'anelito verso quel centro del tutto e tanto più rapida è la corsa in
quella dirczione.
L'esistenza eroica vuole vivere incondizionatamente. In
tal modo essa possiede una relazione essenziale con la morte, poiché
tutte le forme dell'incondizionato sono modi del perire. L.'ethos
eroico è tragico poiché solo morendo ottiene quella perfezione ad esso
assegnata dalla nascita. La poesia già più volte menzionata, Voce
del popolo esprime questo contenuto in modo molto chiaro (i, supra,
p. 39). A partire dall'esperienza umana, esso è descritto nella Morte
di Empe-docle. Empedocle per un momento si è attribuito il favore
degli dèi, ma non con tutto il cuore, così può ritrovarsi e decidersi
alla espiazione. Nello stesso momento riottiene il favore divino. Certo,
sotto forma di luce che deve illuminare il suo ultimo cammino; ma questo
cammino era già prestabilito dal suo stesso essere. In tal modo quella
luce viene dalla stessa fonte
I morti e il passato
185
da cui scaturisce il «primo raggio» della nascita (IV,
infra,
p. 577).
È maturato il tempo. Palpita, o cuore mio, muovi le tue
onde, giacché lo spirito sta sopra di tè come astro luminoso, mentre
in ciclo trasmigrano le nubi senza patria, sempre in fuga. Che sento? Mi
stupisco come se la mia vita cominciasse, perché tutto è diverso e
solamente ora
10 sono. Sono ... e per questo dunque un desiderio
ardente
d assaliva mentre riposavi, ozioso, nella tua quiete
religiosa?
Per questo la vita d fu così lieve,
perché tu del vincitore infine le gioie tutte trovassi
in un'unica, ma perfetta azione?
Vengo. Morire? Un solo passo mi separa dalle tenebre,
ma tu, occhio mio, vorresti ancora vedere.
Concluso è il tuo servizio solerte!
Ora è necessario che la Notte per qualche tempo
copra di ombre la mia fronte.
Ma gioiosa ora si libera la fiamma
dal mio coraggio. Un brivido di desiderio!
Come? La morte infine infiamma
la mia vita? e tu, Natura, mi porgi
11 calice tremendo e spumeggiarne, affinchè il tuo
sacerdote possa berne ancora l'entusiasmo supremo!
Es wird! gereift ists! o nun schlage, Herz, / Und rege
dei-ne Wellen, ist der Geist / Doch ùber dir, wie leuchtendes Gestirn,
/ Indes des Himmeis heimados Gewólk, / Das im-merflùchtige,
vorùberwandeit / Wie ist mir? staunen mu6 ich noch, als fing / Ich erst
zu leben an, denn ali ists an-ders. / Und jetzt erst bin ich, bin - und
darum wars, / DaB in der frommen Ruhe dich so oft, / Du MùBiger, ein
Sehnen ùberfiel? / O darum ward das Leben dir so leicht, / Da6 du des
Ùberwinders Freuden ali / In einer vollen Tat am Ende fàndest?
/ Ich komme. Sterben? nur ins Dun-
186
Secondo
cerchio - L'uomo e la storia
kel ists / Ein Schritt. Und sehen móchtst du doch, mein
Auge! / Du hast mir ausgedient, dienstfertiges! / Es muB die Nacht itzt
eine Weile mir / Das Haupt umschatten. Aber freudig quillt / Aus mutger
Brust die Fiamme, Schauderndes / Verlangen! Was? am Tod entzùndet mir/
Das Leben sich zuletzt, und reichest du / Den Schreckens-becher mir, den
gàrenden, Natur! damit dein Priester nodi aus ihm / Die lezte der
Begeisterungen trinke! (m, pp. 162-163; tr. it. cit-, p. 153).
Ma la morte può anche significare l'essere assunti
nella sfera a noi sottratta dell'alto, come nella poesia
All'Etere:
[...] Anela il mio cuore •
Meravigliosamente d'ascendere a loro: una patria
amorevole
Di lassù mi sorride: e sovra i picchi dell'alpe
Vorrei valicare e dar voce di là all'aquila veloce,
Perché come già nelle braccia di Giove il fandullo
beato5
Fuori di prigionia mi tragga alla volta dell'Etere.
[...] es sehnt sich auch mein Herz / Wunderbar zu ihnen
hinauf: wie die freundiiche Heimat / Winkt es von oben herab und auf die
Gipfel der Alpen / Mócht ich wandern und rufen von da dem eilenden
Adier, / DaB er, wie einst in die Arme des Zeus den seligen Knaben, /
Aus der Ge-fangenschaft in des Athers Halle mich trage (i, p. 205; tr.
it. dt., p. 19).
Quest'altezza è dapprima quella spaziale, la chiara
vastità dell'aria; contemporaneamente però una zona a noi sottratta
del mondo. La zona della profondità era collegata a quella della vita
attraverso l'immagine del fiume e della sua discesa, l'amore divenne
«anelito misterioso verso l'abisso». Ciò che unisce la zona dell'alto
con la vita è la rappresentazione della crescita che si eleva verso
l'alto, nonché il desiderio di farsi lie-
I morti e il passato
187
vi, come si desume dalla poesia dedicata all'Etere. La
vita qui è superamento del peso; la sua dinamica interna è nostalgia
apollinea per la zona dell'ideale», dove valore ed essere, in quanto
costituiscono «l'alto», sono una cosa sola; l'accesso alla perfezione
è la morte.
Come l'uomo singolo fa esperienza della nascita,
dell'ascesa, del culmine e della fine, così anche il popolo e con esso
la sua opera, il suo tempo e la sua cultura (i, supra, p. 38). I
popoli sono grandi esseri viventi, «fiumi», in un senso ancora
maggiore del singolo - vedi nuovamente la poesia Voce del popolo.
Dopo aver parlato della diligenza nel lavoro si dice:
L'illimitato affascina e anche i popoli
Son presi dal gusto della morte, e le audad
Città, dopo aver cercato il meglio,
Di anno in anno continuando l'opera, Hanno incontrato
una fine sacra; verdeggia la terra, E quieta sotto le stelle giace la
lunga arte, come Gli oranti, gettata sulla sabbia del deserto,
Per suo volere vinta
Di fronte a quelle inimitabili; lui stesso, L'uomo, di
propria mano ha spezzato, Per onorare gli dèi, la sua opera d'artista.
Das Ungebundne reizet und Vólker auch / Ergreift die
Todeslust und kùhne / Stàdie, nachdem sie versucht das' Beste, // Von
Jahr zu Jahr forttreibend das Werk, sie hai / Ein heilig Ende troffen;
die Erde grùnt / Und stille vor den Sternen liegt, den / Betenden
gleich, in den Sand ge-worfen // Freiwillig ùberwunden die lange Kunst
/ Vor jenen Unnachahmbaren da; er selbst, / Der Mensch, mit eigner Hand
zerbrach; die / Hohen zu ehren, sein Werk der Kùnstler (II, pp. 51-52).
188 Secondo cerchio - L'uomo e la storia
Questo popolo è stato giovane, per poi «continuare la
sua opera», maturando e lavorando. Infine, al vertice della sua
esistenza, è stato colto dalla «sacra follia» compiendo il passo
dionisiaco verso la morte.
Tale fine è permessa al popolo - come anche al singolo
- solo in seguito ad una particolare destinazione; di regola deve
mantenersi entro gli argini dell'esistenza. ma anche qui sopraggiunge la
fine. L'essere collettivo d'un popolo con la sua vita e la sua
creazione, la cultura e gli dèi ad esso correlati, costituisce un tutto
unico. Esso entra nella storia, sviluppandosi e raggiungendo il proprio
culmine - L'Arcipelago descrive tale culmine - per poi declinare
verso la fine. Pur dalle costruzioni che ancor sussistono la vita, lo
spirito se ne va. L'interno perde la propria forza e non riesce più a
creare ulteriormente. Il tempo prestabilito, identico con la vita
stessa, è scaduto -a volte già prima della distruzione esteriore che
rende solo visibile ciò che all'intemo è già accaduto. Così dice Iperione:
Anche questo spirito era già morto prima che i
distruttori sopravvenissero sull'Attica. Solo quando i templi e le case
sono deserte, le fiere selvagge osano inoltrarsi oltre le porte e per le
strade (II, 194; tr. it. cit., pp. 105-106).
Empedocle sull'Etna
(seconda versione deìl'Empedocle):
Colsi con orrore il senso di tutto questo:
il dio si separava dal mio popolo!
L'udii allontanarsi e alzai lo sguardo all'astro
silenzioso
da cui era disceso. Andai allora per offrirmi a lui in
espiazione.
Dopo si ebbero ancora molti giorni splendidi.
Parve alla fine un rinnovamento, e ricordando
l'età dell'oro, in cui regnava sovrana
I morti e il passato
189
la fiducia, il mattino chiaro e forte,
il disgusto, tremendo, del popolo per me cedette
e stringemmo legami saldi e liberi.
Ma, se per gratitudine m'incoronava il popolo,
se a me si univa sempre più intimamente,
e solo a me, spesso ne provai turbamento:
quando un paese deve morire, alla fine
10 spirito si sceglie ancora un ultimo eletto in cui si
levi il suo canto di agno, l'estrema vita.
Da faBte mich die Deutung schaudernd an, / Es war der
scheidende Gott meines Volks! / Den hórt ich, und zum schweigenden
Gestim / Sah ich hinauf, wo er herabge-kommen. / Und ihn zu sùhnen,
ging ich hin. Noch wur-den uns / Der schónen Tage viel. Noch schien es
sich / Am Ende zu verjùngen; und es wich, - / Der goldnen Zeit, der
allvertrauenden, / Des hellen kràftgen Morgens einge-denk, - / Der
Unmut mir, der furchtbare, vom Volke, / Und freie feste Bande knùpften
wir. / Doch oft, wenn mich des Volkes Dank bekrànzte, / Wenn nàher
immer roir, und mir allein, / Des Volkes Seele kam, befiel es mich. /
Denn wo ein Land ersterben soli, da wàhit / Der Geist noch Einen sich
am End, durch den / Sein Schwa-nensang, das letzte Leben tónet (m, pp.
222-223; tr. it. cit., pp. 239-241).
Nel modo più bello Germania:
Dèi dileguati! e anche voi del presente, una volta Più
veri, aveste il vostro tempo! Niente io qui voglio negare e niente
implorare. Poiché se giunta è la fine e il giorno spento, Primo
colpito è il sacerdote, ma per amore lo segue
11 tempio e poi l'immagine e i suoi riti
Nel buio regno e nessuna luce può apparire più:
Solo, come da fiammate di sepolcro, un fumo d'oro, La
leggenda allora trapassa al di là, nell'alto
190 Secondo cerchio - L'uomo e la storia
E adesso balena, a noi dubbiosi, intorno al capo, E
nessuno sa più che gli accada [...]
Entflohene Getter! auch ihr, ihr gegenwàrtigen, damais
/ Wahrhaftiger, ihr hattet eure Zeiten! / Nichts leugnen will ich hier
und nichts erbitten. / Denn wenn es aus ist, und der Tag erioschen, /
Wohi triffts den Priester erst, doch liebend folgt / Der Tempel und das
Bild ihm auch und seine Sitte / Zum dunkein Land und keines mag noch
scheinen. / Nur als von Grabesflammen, ziehet dann / Ein goldner Rauch,
die Sage drob hinùber, / Und dàm-mert jetzt uns Zweifeinden um das
Haupt, / Und keiner weifi, wie ihm geschieht [...] (il, p. 149; tr. it.
dt, p. 206).
Ciò che muore non viene quindi distrutto, ma passa
dall'ambito dell'immediatamente dato a quello di ciò che a noi
sottratto. Così tra esso e ciò che è terreno non avviene una rottura
assoluta, esso rimane bensì nel mondo, del cui contesto generale fa
parte anche la storia. L'ambito a noi sottratto, come abbiamo già
visto, è collocato in una dirczione diversa: sopra, nello spazio della
vastità e della luce verso cui anela l'amore-luce; nel «cielo
azzurro» dove dimorano gli uomini-dèi, oppure al centro profondo,
nell'ambito intcriore del tutto verso cui scorre il fiume. Anche lo
stato in cui ci si trova viene caratterizzato in modo differente. Può
significare gloriosa magnificenza metafisica. In tal caso l'ambito è il
«paese dei beati» come nei versi Al genio; oppure il luogo in
cui «la gioia dello spirito divino rida giovinezza a chi invecchia, a
tutti coloro che muoiono», come in / dormienti. L'ambito può
anche essere determinato dalla separazione e dal lutto, come nel Lamento
di Menane per Diotima, ed allora esso è «orribile notte». Oppure
esso riveste il carattere di ciò che è abietto e riprovato:
«poiché aveva a cuore solo cose mortali, la turba
s'im-
I morti e il passato
191
nierse nell'Orco», come il poeta ha scritto
nell'abbozzo d'una più grande elegia rimasta incompiuta (I, p. 596). La
visione non rimane quindi identica; l'espressione oscilla. Comunque lo
stato si rapporta in qualche modo alla precedente esistenza terrena e al
carattere della condotta di vita. Evidentemente influisce anche la
dottrina cristiana della vita dopo la morte.
II
Ciò che una volta esisteva sotto spoglie nobili - gli
uomini puri nonché le culture ben formate - continua ad esistere
nell'ambito a noi sottratto del mondo, mantenendosi in relazione con
ciò che è adesso. Questo è affermato in modo molto efficace a
proposito dell'uomo singolo dalla poesia II ritratto dell'avo:
Placido avo! Tu pure vivesti e amasti così;
Perciò ora soggiorni, come immortale
Con i nipoti, e vita ,
Come dal silenzioso Etere scende
Sulla casa sovente, uomo tranquillo, da tè
E s'accresce, si matura più nobile d'anno in anno
In felicità modesta
Ciò che hai piantato con le speranze.
Quelli che con amore crescesti, verdeggiano Come allora
i tuoi alberi, cingon la casa con braccia Colme di doni riconoscenti,
Più sicuri si ergono i tronchi [...]
Ma sotto, nella casa riposa, da tè curato, Lo
stagionato vino. Caro è al figlio Che se lo tiene in serbo per la
festa,
192 Secondo cerchio - L'uomo e la storia
II vecchio fuoco pretto.
E al notturno convito, quando serio e faceto Molto avrà
del passato e del futuro Con gli amia discorso, Sull'echeggiare
dell'ultimo canto,
Alto leverà il calice al tuo ritratto e dirà:
Ti ricordiamo ora e così si conservi Con voi l'onor
della casa, Buoni Genii, adesso e sempre!
A ringraziarti squillano scintillando i cristalli;
E la madre, oggi, per la prima volta,
Perché lui pure sappia della festa, .
Al piccino porge il tuo sorso.
Stiller Vater! auch du lebtest und liebtest so; / Darum
wohnest du nun, als ein Unsterbiicher, / Bei den Kindern, und Leben, /
Wie vom schweigenden Àther, kommt // Òfters ùber das Haus, ruhiger
Mann! von dir, / Und es mehrt sich, es reift, edier von Jahr zu Jahr, /
In bescheide-nem Glùcke, / Was mit Hoffnungen du gepflanzt. // Die du
liebend erzogst, siehe! sie grùnen dir, / Deine Bàume, wie sonst,
breiten ums Haus den Ami, / Voli von danken-den Gaben, / Sichrer stehn
die Starnine schon; // [...] Aber unten im Haus ruhet, besorgt von dir,
/ Der gekel-terte Wein. Teuer ist der dem Sohn, / Und er sparet zum Fest
das / Alte, lautere Feuer sich. // Dann beim nàchtii-chen Mahi, wenn
er, in Lust und Ernst, / Von Vergange-nem viel, vieles von Kùnitigem /
Mit den Freunden gè-sprochen, / Und der letzte Gesang noch hallt, //
Hàlt er hóher den Kelch, siehet dein Bild und spricht: / Deiner denken
wir nun, dein, und so werd und bleib / Ihre Ehre des Hauses / Guten
Genien, hier und sonst! // Und es to-nen zum Dank hell die Kristall dir;
/ Und die Mutter, sie reicht, beute zum erstenmal, / DaB es wisse vom
Feste, / dem Kinde von deinem Trank (il, pp. 30-31; tr. it. dt, p. 59).
I morti e il passato
193
Nella poesia ci sono alcuni elementi importanti. In
primo luogo, il modo in cui vengono alla luce i diversi strati del
«ricordo»: il quadro è attaccato alla parete; ci si ricorda dell'uomo
ivi raffigurato; nella memoria e nel sentimento dei suoi, nella casa e
nella proprietà della famiglia egli continua a vivere ...
Ma poi, dietro queste relazioni di pensiero psicologiche
se ne impone un'altra. Alla fine, egli stesso è presente, in modo
talmente immediato e deciso da far diventare vita e opera quotidiana sua
ciò che continua nella vita e nel lavoro del figlio e del nipote ...
In termini nuovi questo riferimento si manifesta alla
fine, dove viene celebrata la «festa» (ili, infra, p. 402).
Ciò che accade è più di una festa di famiglia. Il significato
originario della cena commemorativa quale azione cultuale, a cui i
festeggiati invisibilmente partecipano, diventa evidente. Di qui
scopriamo anche nel rapporto con il quadro alla parete un contenuto che
trascende la spiritualità borghese moderna:
un'ultima traccia del culto per gli avi, celebrato
davanti alle loro immagini.
Questo contenuto ritoma sotto la forma dell'elegia,
melanconico e sospeso nell'indeterminato, nel
Lamento di Menane per Diotima:
Sì, non giova, o dèi di morte! una volta che voi
Lo tenete e lo avete in pugno l'uomo domato,
Quando, o malvagi, giù nell'orrida notte lo avete
preso,
Non giova tentare la fuga o adirarsi contro di voi,
O anche pazienti vivere nel pauroso confino
E con sorrisi ascoltare il vostro frigido canto.
Se così ha da essere, scorda il tuo bene, e assopisciti
zitto!
Ma pure su dal petto un suono di speranza tt sgorga.
194 Secondo cerchio - L'uomo e la storia
Non puoi, o anima mia, non puoi tu a questo per
sempre
Abituarti, e dentro al ferreo sonno tu sogni!
Per me non è festa, eppure vorrei mettermi in capo
ghirlande;
Non sono dunque solo? [...]
Ja! es frommet auch nicht, ihr Todesgótter! wenn einmal
/ Ihr ihn haltet, und fest habt den bezwungenen Mann, / Wenn ihr Bósen
hinab in die schaurige Nacht ihn genom-men, / Dann zu suchen, zu flehn,
oder zu zùmen mit euch, / Oder geduldig auch wohi im furchtsamen Banne
zu wohnen, / Und mit Làchein von euch hóren das nùchteme Lied. / Soli
es sein, so vergiB dein Heil, und schiummere klanglos! / Aber doch
quillt ein Laut hoffend im Busen dir auf, / Immer kannst du noch nicht,
o meine Seele! noch kannst du's / Nicht gewohnen, und tràumst mitten im
eisernen Schlaf! / Festzeit hab ich nicht, doch mócht ich die Locke
bekrànzen; / Bin ich allein denn nicht? [...] (il, p. 75; tr. it. cit.,
p. 119).
Nel pieno del lutto viene vissuta la vicinanza della
persona amata che è reale nonostante la separazione sopravvenuta poco
tempo prima. Essa culmina in questi versi mirabili:
[...] ma un che di amichevole deve
Da lontano vicino essermi, e sorridere debbo e stupire
Che tanto felice anche in mezzo al dolore io mi sento. ,
[...] aber ein Freundiiches muB/ Fernher nahe mir sein,
und làchein muB ich und staunen, / Wie so selig doch auch mitten im
Leide mir ist (II, pp. 75-76; tr. it. cit., p. 119).
Pur nella loro tenerezza sospesa, queste parole sono
assolutamente precise, dal momento che non provengono da un'esperienza
meditativa o lirico-emotiva, bensì da un'esperienza autenticamente
religiosa. Attraverso di essa colui che la compie sperimenta la
I morti e il passato
195
realtà di quanto è a noi sottratto. E vicino
nell'amore;
ma «da lontano», in modo tale da far sentire
l'inaccessibilità di quell'ambito. Questa inaccessibilità consiste
nello stato stesso di ciò che è a noi sottratto. E la lontananza
numinosa il cui alito fa tremare - allo stesso tempo suscita però lo
stupore beato poiché «in mezzo al dolore» viene percepita come grazia
pura ... La stessa esperienza vissuta chiude YIperione:
Un giorno sedevo lungi in un campo, accanto a una fonte,
all'ombra di rupi verdi di edera, sotto pendenti cespugli fioriti. Era
il più bei meriggio che io avessi conosduto. Spiravano dola aure e la
terra splendeva ancora nella luminosa freschezza del mattino e calma
sorrideva la luce nel suo etere nativo. Gli uomini si erano allontanati,
per riposare dal lavoro, al desco casalingo, il mio amore era solo con
la primavera e un'incomprensibile nostalgia era in me. «Dio-tima»,
esclamai, «dove sei, dove sei tu?». E mi pareva di udire la voce di
Diotima, quella voce che, un tempo, nei giorni della gioia, mi aveva
allietato. «Presso i miei», esclamò, «sono io, presso i tuoi che lo
smarrito spirito umano misconosce». Mi colse uno sgomento soave, e il
pensiero si oscurò in me. «O amata parola da una sacra bocca»,
esclamai, appena fui di nuovo desto, «amato enigma, ti afferro?» (il,
pp. 289-290; tr. it. dt., p. 177).
In dimensioni maggiori, quindi non a proposito di
singoli, nemmeno di una famiglia, ma di un popolo intero, l'esperienza
ritoma nell'elegia Stoccarda:
Ma mentre noi guardando passiamo attraverso gioie si
forti, La via s'invola e il giorno da noi, come dagli ebbri. E già
coronata di sacri tralci solleva splendendo La città lodata il suo capo
di sacerdotessa. Stupenda ella s'erge e tiene il suo tirso e l'abete -
196 Secondo cerchio - L'uomo e la storia
Alto nelle beate purpuree nubi levato. A noi sii
propizia! all'ospite e al figlio, principessa della patria
[...]
Ma Voi, Voi anche, o Grandi, Voi lied che in ogni tempo
Vivete e reggete, riconosciuti, o anche più vigorosi
Quando operate e create in sacra notte, soli regnando
E onnipotenti allevate un profetico popolo,
Finché dei padri lassù si ricordino gli adolescenti,
E maggiore in età, illuminato, vi stia innanzi l'uomo
di senno.
Angeli della patria! o Voi, dinanzi ai quali la vista
Anche se forte e il ginocchio cede all'uomo isolato, Così ch'egli deve
poggiarsi agli amia e i cari pregare Che portino insieme con lui tanto
peso di felidtà;
Io vi rendo, o Benigni, grazie per lui e per tutti gli
altri Che la mia vita, il mio bene fra i mortali sono.
Aber indes wir schaun und die màchtige Freude
durch-wandein, / Fliehet der Weg und der Tag uns, wie den Trunkcnen,
liln. / Denn mit heiligen Laub umkrànzt erhe-bet die Stadt schon, / Die
gepriesene, dort leuchtend ihr priesterlich Haupt. / Herrlich steht sie
und hàlt den Re-benstab und die Tanne / Hoch in die seligen purpurnen
Wolken empor. / Sei uns hold! dem Gast und dem Sohn, o Fùrstin der
Heimat! [...] Aber ihr, ihr GróBeren auch, ihr Frohen, die allzeit /
Leben und walten, erkannt, oder ge-waltiger auch, / Wenn ihr wirket und
schafft in heiliger Nacht und allein herrscht / Und allmàchtig empor
ziehet ein ahnendes Volk, / Bis die Jùnglinge sich der Vàter dro-ben
erinnern, / Mùndig und hell vor euch steht der be-sonnene Mensch - //
Engel des Vateriand! o ihr, vor de-nen das Auge, / Sei's auch stark, und
das Knie bricht dem vereinzelten Mann, / DaB er halten sich muB an die
Freund' und bitten die Teueren, / DaB sie tragen mit ihm ali die
beglùckende Last, / Habt, o Gùtige, Dank fùr den und alle die andern,
/ Die mein Leben, mein Gut unter den Sterbiichen sind (II, pp. 88-89;
tr. it. dt., p. 132).
I morti e il passato
197
L'intera poesia è permeata dall'incantesimo dionisiaco.
Non a caso nel corteo dei festeggiati emerge quello di Dioniso stesso.
Non è una singola famiglia a festeggiare, ma un gruppo di amici, a sua
volta completamente immerso nella vita del popolo. La festa ha luogo
precisamente in Svevia, al cospetto della capitale, come ricordo dei
«Grandi», «lieti». Le parole non sono di tipo profano, ma cultuale e
si riferiscono alla gloria olimpica degli eroi della patria ... Di un
periodo successivo è la poesia Lo scorcio di Hahrdt6:
Giù precipita il bosco,
Simili a gemme inclinano,
Involute, le foglie,
Che in basso, al fondo,
Fioriscono, e non senza voce.
Qui infatti
Camminò Ulrich; sul passo medita spesso
Un grande destino,
Pronto già a un altro luogo.
Hinunter sinket der Wald, / Und Knospen àhniich,
hàn-gen / Einwàrts die Blatter, denen / Blùht unten auf ein Grund, /
Nicht gar unmùndig. / Da namlich ist Ulrich / Gegangen; oft sinnt,
ùber den FuBtritt, / Ein gro6 Schick-sal/ Bereit, an ùbrigem Orte (n,
p. 116).
Si scende, davanti agli sguardi il bosco «precipita».
Anche le foglie sono inclinate; è primavera, sono ancora involute.
Tutto compie la discesa verso il «fondo»: il fondo alle radici
dell'albero, quello giù nella valle, ma anche quello che sta nella
profondità dell'esistenza, al di sotto questo luogo, lo «scorcio di
Hahrdt», dove una volta sono accadute grandi cose;
«qui», ma allo stesso tempo altrove. Questo fondo
198 Secondo cerchio - L'uomo e la storia
non è «senza voce», muto, ma capace di parlare
dell'esiliato signore della terra, «Ulrich», che un tempo vi
«camminò». Successivamente il dato di questo avvenimento si eleva
alla dimensione mitica. Al posto di «Ulrich» appare «un grande
destino». Esso stesso è un essere. Esso «sul passo medita», sul
luogo toccato dal piede di quest'uomo - affiora l'antico significato
magico della traccia. Inoltre, esso è «pronto», vigile, deciso, in
grado di immettersi in una nuova storia ... Questa concomitanza di
partenza e permanenza è presente anche nell'elegia qui analizzata. I
padri sono «antichi» e, perché circondati dal mistero, i «Grandi».
Essi se ne sono andati, eppure «vivono e regnano», quando vengono
riconosciuti, ma soprattutto quando nessuno sa di loro, e la loro opera
si compie nella «notte sacra», nell'occulto delle grandi potenze. Il
popolo li presagisce e ne è «allevato» fino al momento in cui si ha
la nuova consapevolezza, dando luogo al-l'«uomo sapiente» che,
pervenuto alla frónesis, conosce le cose del popolo e dello
Stato.
Quei «Grandi» vengono chiamati «angeli della
patria». Il concetto deriva certo da quello biblico, come lo
interpretano le lettere nella prima parte dell'Apocalisse (1, 4—3, 22)
che iniziano tutte con il titolo: «All'angelo della comunità ...».
Anche la concezione di angeli propria di determinati paesi dovrebbe
avervi il suo peso, vedi per esempio Dan 10, 13, ma anche quella
dell'«Angelo del Signore» che guida la storia sacra (Es 14, 19 e
altrove). Ma queste rappresentazioni si sono allargate a dimensioni
cosmico-mitologi-che, fondendosi con quelle sviluppate sopra. Gli
«angeli» rappresentano ora grandi personalità nella storia di un
paese, trasfigurate, divinizzate, ma pro-
I morti e il passato
199
prio in quanto tali volte all'amore ed alla protezione
del paese. Esse sono esseri di superiore potenza. L'«uomo singolo» non
regge la loro presenza. Vi riesce solo nel contesto vivente del suo
popolo: durante la festa, nella lotta o in qualche altra realizzazione
essenziale dell'esistenza collettiva. Anche sotto questo aspetto diventa
evidente che quegli esseri non sono concepiti in modo individualistico e
privatistico, ma storico, come potenze pubbliche e religiose ... Essi
riappaiono nella poesia Ritomo in patria:
Molto gli ho parlato, poiché quanto poeti meditano O
cantano, per lo più concerne gli angeli e Lui [...]
Vieles sprach ich zu ihm, denn, was auch Dichtende
sin-nen / Oder singen, es gilt meistens den Engein und ihm [...] (II, p.
97; tr. it. dt., p. 145).
«Lui», «l'Etere», che, come si dice prima, da vita,
gioia e nuova forza storica:
Solida fortuna alle ritta e alle case, e miti
Piogge a dischiudere i campi, e covanti nuvole, e voi,
Care brezze, voi, dola primavere, manda;
E con lenta mano i trisd di nuovo fa lieti
Quando innova i tempi, il creante, e i muti
Cuori dell'umanità vecchia ristora e scuote
E giù nel profondo opera e apre e rischiara,
Come egli ama; e adesso di nuovo una vita comincia,
La grazia rifiorisce come un tempo, toma presente lo
Spirito
Ed un allegro coraggio di nuovo le ali rigonfia.
Wohigediegenes Glùck den Stàdten und Hàusern und
mil-de / Regen, zu óffnen das Land, brùtende Wolken, und euch, /
Trauteste Lùfte dann, euch, sanfte Frùhiinge, sen-det, / Und mit
langsamer Hand Traurige wieder erfreut, /
200 Secondo cerchio - L'uomo e la storia
Wenn er der alternden Menschen erfrischt und ergreift, /
Und hinab in die Tiefe wirkt, und óffnet und aufhellt, / Wie ers
liebet, und jetzt wieder ein Leben beginnt, / An-mut blùhet, wie einst,
und gegenwàrtiger Geist kómmt, / Und ein freudiger Mut wieder die
Fittiche schwellt (il, p. 97: tr. it. dt, p. 145)7.
Come i grandi individui, anche l'insieme di un tempo
tramontato dev'essere considerato nel contesto della propria cultura.
'L'Iperione è permeato dalla consapevolezza che la
Grecia scomparsa esista ancora. Come un trapassato, essa continua ad
esistere: il suo popolo, i suoi eroi e le sue idealità, le sue città,
i templi e le immagini e, indissolubilmente legati a questi, i suoi
dèi. Anche L'Arcipelago ha questa concezione. Abbiamo pure già
esaminato il testo di Germania dove si parla del passare
d'un'esistenza collettiva: ciò che passa è la Grecia.
Questo grande essere è riferito alla storia ora in
atto. Nel romanzo il punto di riferimento è costituito dalla Grecia al
tempo di Hólderlin, ridotta in schiavitù e oltraggiata. Nelle poesie
degli ultimi anni, invece, non si parla più della Grecia contemporanea,
bensì della Germania. Ad essa si avvicina l'esistenza ellenica,
«vicina nella lontananza».
Germania:
Sente
L'ombre di coloro, che sono già stati,
Gli antichi, e che la terra tornano a visitare.
Poiché quelli che là debbono giungere, incalzano noi
E non può indugiare di uomini-dèi
La sacra schiera ancora nell'alto azzurro.
I morti e il passato
201
[...] Die Schatten derer, so gewesen sind, / Die Alten,
so die Erde neubesuchen. / Denn die da kommen sollen, dràngen uns, /
Und lànger sàumt von Góttermenschen / Die heilige Schar nicht mehr im
blauen Himmel (n, pp. 149-150; tr. it. dt., p. 207).
Ciò che è stato dimora in un ambito del mondo che, pur
a noi sottratto, fa parte del suo intero. Non si intende perciò dire
che la materia di ciò che fu un tempo si sia dissella nella totalità
del mondo o che continui a persistere nel contesto della storia come
causa. Non lo si interpreta nemmeno come immagine spirituale che,
situata nell'ambito ideale, generi nuove creazioni. Ma il rapporto non
si configura nemmeno secondo l'accezione cristiana dell'aldilà
autentico che lo considererebbe trasportato nel regno di ciò che è
riservato a Dio e quindi tolto al mondo. La zona sottratta a noi di cui
si tratta qui fa parte del mondo stesso, in quanto «altezza» o
«interiorità». L'unico intero del mondo è «qui», ma allo stesso
tempo anche «là». In questo «là» si trova il passato, influendo
sul nostro «qui» - fino all'irruzione di cui ancora si parlerà8.
Ili
È il vate a sapere di questi legami. D termine è
riferito dapprima al singolo chiamato che sente, vede, interpreta e
«fonda». Hólderlin parla spesso di lui, della grandezza a lui
destinata, ma anche della sorte tremenda che grava su di lui. Così in Vocazione
del poeta:
Eppure, o tutti voi, numi del Cielo, E voi sorgenti e
rive e boschi e alture
202 Secondo cerchio • L'uomo e la storia
Dove la prima volta il prodigioso, • Prendendoci ai
capelli, inobliabile,
II Genio creatore, all'improvviso, Su noi piombò
divino, e ne restammo Stupiti e muti, e come dalla folgore Colpite d
tremarono le ossa,
O gesta senza pace del vasto mondo, Giorni fatali e
travolgenti, in cui il dio Pensieroso ci guida ove ebbri d'ira Lo
portano i titanici cavalli,
Di voi dovremmo tacere? [...]
Und dennoch, o ihr Himmlischen ali, und ali / Ihr
Quel-len und ihr Ufer und Hain' und Hóhn, / Wo wunderbar zuerst, als du
die / Locken ergriffen, und unvergeBUch // Der unverhoffte Genius ùber
uns, / Der schópferische, góttliche kam, da6 stumm / Der Sinn uns ward
und, wie vom / Stranie gerùhrt, das Gebein erbebte, // Ihr ruhelo-sen
Taten in weiter Welt! / Ihr Schicksalstag', ihr reiBen-den, wenn der
Gott / Stillsinnend lenkt, wohin zorntrun-ken / Ihn die gigantischen
Rosse bringen, // Euch sollten wir verschweigen [...] (il, pp. 46-47;
tr. it. dt., p. 93).
La mia proprietà:
Ah, con troppo impeto mi aspirate, abissi Del delo; in
tempeste, nel giorno sereno, Passare divoranti nel mio petto Vi sento, o
alterne forze degli dèi.
Zu màchtig, ach! ihr himmlischen Hóhen, zieht / Ihr
mich empor; bei Stùrmen, am heitem Tag / Fùhl ich verzehrend euch im
Busen / Wechsein, ihr wandeinden Gótterkràfte (i, p. 307; tr. it. dt.,
p. 43).
I morti e il passato
203
Grandi cose si chiedono al vate;
Vocazione del poeta:
Ma, senza timore, quando deve, rimane solo L'uomo
davanti a Dio, difeso dal suo candore E non abbisogna di armi ne di
astuzie, Finché Dio lo aiuta, mancandogli.
Furchdos bleibt aber, so er es mu6, der Mann / Einsam
vor Gott, es schùtzet die Einfalt ihn, / Und keiner Waffen brauchts und
keiner / Usten, so lange, bis Gottes Fehi hiift (II, p- 48; tr. it. dt.,
p. 93).
I passi citati e molti altri mostrano che questo
contemplare non è diretto ne verso la vita individuale ne generali
circostanze cosmiche, ma sempre verso il corso della storia e il divino
che si esprime in esso. Nell''Arcipelago si dice:
Ma tu, immortale, se anche l'inno dei Greci non più Ti
celebra come una volta, o dio del mare, risuonami Dai flutti sovente
nell'anima ancora, che sopra le acque Intrepido lo spirito, come
nuotatore, si addestri Nell'aspra gioia dei forti, e la lingua degli
dèi, l'Alternarsi E il Divenire, intenda: e quando la corrente del
tempo Troppo violenta il capo mi afferri, e lo stento e il vagare Fra
mortali il mio mortale vivere scrolli, Fa' che la pace allora nel tuo
profondo io ricordi.
Aber du, unsterbiich, wenn auch der Griechengesang schon
/ Dich nicht feiert, wie sonst, aus deinen Wogen, o Meergott! / Tóne
mir in die Seele noch oft, da6 ùber den Wassern / Furchtiosrege der
Geist, dem Schwimmer gleich, in der Starken / Frischem Glùcke sich ùb,
und die Gòttersprache, das Wechsein / Und das Werden versteh;
und wenn die reiBende Zeit mir / Zu gewaltig das Haupt
ergreift und die Not und das Irrsal / Unter Sterbiichen mir mein
sterbiich Leben erschùttert, / LaB der Sulle
204 Secondo cerchio - L'uomo e la storia
mich dann in deiner Tiefe gedenken! (il, pp. 111-112;
tr. it-cit., p. 117).
Ma ciò che pervade il vate in modo da renderlo
«aperto» e capace di vedere, lo spirito, è la stessa potenza che
opera, «l'Alternarsi e il Divenire», la potenza della storia stessa.
Nel capitolo precedente il tempo è stato definito come una potenza
attiva nel vivente, come scorrere intcriore della vita stessa. Qui esso
appare sopra il fiume della vita, sospeso in un'altezza dominatrice
(ili, infra, p. 292).
Lo spirito del tempo:
Già da troppo tu domini sopra il mio capo. Tu nella
oscura nuvola, dio del Tempo! troppo furore è intorno e angoscia,
ovunque Io guardi, tutto va in frantumi o vacilla.
Ah!, come un fanciullo mi affiso al suolo sovente, Cerco
uno scampo da tè nella grotta e vorrei, Stolto, trovare un luogo Dove
non fossi tu che tutto sconvolgi!
Concedimi infine, o padre, d'affrontarti Con fermo
aglio! Non hai dunque, per primo, lo spirito Suscitato in me col tuo
raggio? non m'hai Splendidamente alla vita portato, o padre!
Zu lang schon waltest ùber dem Haupte mir / Du in der
dunkein Wolke, du Gott der Zeit! / Zu wild, zu bang ists ringsum, und es
/ Trùmmert und wanktja, wohin ich blic-ke. // Ach! wie ein Knabe, seh
ich zu Boden oft, / Such in der Hóle Rettung von dir, und mócht, / Ich
Bloder, eine Stelle finden, / Alleserschùtter! wo du nich wàrest. //
LaB endiich, Vater! offenen Augs mich dir / Begegnen! hast denn du nicht
zuerst den Geist / Mit deinem Strani aus
I morti e il passato
205
rnir geweckt? midi / Herrlich ans Leben
gebracht, o Va-
ter! - (i, p. 300).
Dietro la figura del «vate» appare quella del profeta
nell'Antico Testamento. Ciò si ricava da molti passi, in particolar
modo da Affante del Danubio (già citato, p.55):
E pensiamo anche a voi, valli del Caucaso, Antiche
quanto siete, a voi paradisi di là E ai tuoi patriarchi, ai tuoi
profeti,
Asia, ai tuoi forti, o madre!
Che impavidi innanzi ai segni del mondo
Con sulle spalle il cielo e tutto il destino,
Interi giorni, radicati sui monti,
Per primi seppero
Parlare soli
A Dio.
Auch eurer denken wir, ihr Tale des Kaukasos, / So alt
ihr seid, ihr Paradiese dort, / Und deiner Patriarchen und deiner
Propheten, // O Asia, deiner Starken, o Mutter! / Die furchdos vor den
Zeichen der Welt, / Und den Him-mel auf Schuitern und alles Schicksal, /
Taglang auf Ber-gen gewurzeit, / Zuerst es verstanden, / Allein zu
reden/ Zu Gott (il, p. 128; tr. k. dt., p. 165).
È il profeta a creare la consapevolezza sacra della
storia. Dio gli rivela che cosa significa l'avvenimento immediato per la
guida del popolo e per il venturo Regno di Dio. Il profeta ascolta e
annuncia la rivelazione al presente, trovando per lo più orecchi chiusi
e cuori ribelli. Così dallo Spirito Santo che rende il profeta
«aperto», ossia capace di ascoltare e di parlare, nasce la storia
sacra. Esso è il vero «signore del
206 Secondo cerchio - L'uomo e la storia
tempo», che nell'intreccio delle parole, dei fatti e
degli avvenimenti produce il «divenire nuovo», la meta-noia e
la trasformazione ... Tutto questo sta anche dietro alle parole di
Hólderlin, solo che in questo caso la realtà libera e ultraterrena del
Dio vivente è divenuta un elemento del mondo.
Anche il non-poeta, l'uomo comune ma religioso può
avvertire quella realtà 'altra'. In mezzo ai suoi amici, durante la
cena commemorativa, entro la comunità del popolo nell'eccitazione
festosa, essa diventa percettibile anche per lui. Non addirittura,
nell'immediatezza profana, attraverso magia o evocazione volontaria,
bensì attraverso il centro dell'esperienza vissuta dell'entusiasmo, e
trasformato in quell'azione che appunto allora si esige. Esempi ne sono
la poesia già citata II ritratto dell'avo, la grande poesia
dionisiaca Stoccarda - vedi il passo citato sopra - ed infine Pane
e vino (ili, infra, p. 312).
Anzi, un intero paese può essere coinvolto in questo
stato di disposizione visionaria - proprio in questo sta l'incanto
misterioso della poesia Germania:
La sacerdotessa, la più tacita figlia di Dio, Che
troppo ama il silenzio d'un'innocenza profonda, Lei cerca l'aquila, lei
che con fermo ciglio mirava Come del tutto ignara pur dianzi, allorché
una tempesta Minacciosa di morte le risuonò sul capo:
Presentì la fandulla un che di migliore,
E finalmente uno stupore avvenne vasto nel delo
Che alcuno fosse così grande in fede
Come ella stessa, la clemente potenza dell'Alto.
Perdo mandarono la messaggera che subito riconoscendola
Così pensa sorridendo: «Tè, ineversibile, deve
Un'altra parola mettere a prova», ed alto da voce,
I morti e il passato
207
La giovanile aquila, a Germania guardando:
«Ecco sei tu, eletta
Nel tuo universo amore e per portare un gran peso
Di felicità sei divenuta forte, ,
Da quando nascosta nella foresta e nel papavero in
fiore, Pieno di dolce sopore, o ebbra, di me Non ri curavi, da molto
prima che anche i più umili sentissero L'orgoglio della vergine e
stupissero di chi tu fossi e di dove, Ma tu stessa non lo sapevi.
Die Priesterin, die saliste Tochter Gottes, / Sie, die
zu gern in tiefer Einfalt schweigt, / Sie suchet er, die offnen Auges
schaute, / Als wùBte sie es nicht, jùngst, da ein Sturm / Toddrohend
ùber ihrem Haupt ertònte; / Es ah-nete das Kind ein Besseres, / Und
endiich ward ein Stau-nen weit im Himmel, / Weil eines gro6 an Glauben,
wie sie selbst, / Die segnende, die Macht der Hóhe sei; / Drum sandten
sie den Boten, der, sie schnell erkennend, / Denkt làcheind so: «Dich,
Unzerbrechiiche, mu6 / Ein an-der Wort erprùfen», und ruft es laut, /
Der Jugendiiché, nach Germania schauend: / «Du bist es, auserwàhit, /
Al-Uebend und ein schweres Glùck / Bist du zu tragen stark geworden, //
Seit damais, da im Walde versteckt und blù-hendem Mohn / Voli sùBen
Schiummers, Trunkene, mei-ner du / Nicht achtetest, lang, ehe noch auch
Geringere fùhiten / Der Jungfrau Stolz und staunten, wes du wàrst und
woher, / Doch du es selbst nicht wuBtest» (il, pp.
150-151;tr.it.dt.,p.207).
Le fonti sono la bocca del paese, i fiumi il loro
discorso. Avvertiamo la condensazione mitica. Questo insieme vivente, la
Germania, viene posto in relazione con la potenza cosmica femminile, la
grande Madre, la Terra:
[...] Come della Santa, Che è Madre di tutto,
208 Secondo cerchio - L'uomo e la storia
Dagli uomini detta l'Ascosa, Così è di amore e dolore,
E pieno di presagi, E pieno di pace il tuo seno.
[...] Demi fast wie der heiligen, / Die Mutter ist von
alleni, / Die Verborgene sonst genannt von Menschen, / So ist von Lieben
und Leiden / Und voli von Ahnungen dir / Und voli von Fri eden der Busen
(il, p. 151; tr. it. dt., pp. 209-211).
La Terra è colei che attende, che dal cielo riceve ciò
che feconda. E lei ad aspettare in Germania, ad aspettare ciò
che «dal cielo azzurro si avvicina» (II, p. 150). Segue il processo
del disporsi alla visione:
Oh bevi aure mattutine,
Finché dischiusa tu sia
E nomina ciò che hai innanzi agli occhi.
Più oltre non può mistero
L'inespresso restare
Da tanto ch'esso è nascosto:
Poiché ai mortali s'addice il ritegno
E con ritegno parlare, di solito,
È saggio, anche, degli dèi.
Ma quando, più traboccante che pure sorgenti,
L'oro, e severa diviene l'ira nel delo,
Deve fra giorno e notte
Finalmente un Vero apparire.
O trinke Morgeniùfte, / Bis daB du offen bist, / Und
nen-ne, was vor Augen dir ist. / Nicht lànger darf Geheimnis mehr / Das
Ungesprochene bleiben, / Nachdem es lange verhùllt ist; / Denn
Sterbiichen geziemet die Scham, / Und so zu reden die meiste Zeit, / Ist
weise auch von Gót-tern. / Wo aber ùberflùssiger, demi lautere
Quellen, / Das Gold und ernst geworden ist der Zorn an dem Himmel, /
/ morti e il passato 209
MuB zwischen Tag und Nacht / Einstmais ein Wahres
er-scheinen (II, pp. 151-152; tr. it. dt., p. 211).
Una grande descrizione del fenomeno del vaticinio. Vi è
soprattutto il fattore dell'«aprirsi»9. La Sibilla deve
prepararsi alla visione. Ella deve «bere aure mattutine».
Nell'immagine del mattino con la sua purezza scorre l'esperienza dello
«spirito che spira», che «passa nei capelli»: aria, fiato o alito e
purezza, potenza incontaminata che purifica ogni altra cosa (cfr. Ipe-rione
II, p. 146). Ciò che dev'essere rivelato si leverà davanti agli occhi
della Sibilla. Essa deve guardare, non le nuocerà.
Poi la chiamata misteriosa: ella deve «nominarlo».
Contemporaneamente persiste l'antica sensazione del segreto:
l'essenziale deve rimanere drrheton:
Dichiaralo tré volte:
Ma, sia pure inespresso come è ora, O innocente, ciò
resterà.
Dreifach umschreibe du es, / Dodi ungesprochen auch, wie
es da ist, / Unschuidige, muB es bleiben (n, p. 152; tr. it. dt.,
p. 211).
Il momento è arrivato, il «tempo supremo». Ciò che a
lungo è stato taciuto, deve estrinsecarsi: «dichiarato tré volte»,
espresso nella santa triplicità, e tuttavia in modo tale da non essere
esposto e svelato ma da rimanere racchiuso nel responso dell'oracolo ...
Anche l'«innocenza» di cui si parla non è un concetto familiare nel
suo senso moderno. Esso non significa ne purezza etica ne integrità
psicologica, bensì l'antica innocenza numinosa, l'essere vergine della
sacerdotessa, su cui la divinità ha posto la mano ... Ma il
210 Secondo cerchio - L'uomo e la storia
segreto, che dev'essere espresso, è identico a quello
dei misteri eleusini: quello della Madre Terra.
Oh! nomina, figlia della sacra Terra, Finalmente la
Madre. Crosdan le acque alla rupe E le tempeste nel bosco e al nome suo
Risuona su dall'antico il Divino che è tramontato. Come è diverso!
come splende giusto e si esprime Anche il futuro, lieto, dalle
lontananze.
O nenne, Tochter du der heiligen Erd, / Einmal die
Mut-ter. Es rauschen die Wasser am Feis / Und Welter im Wald und bei dem
Namen derselben / Tónt auf aus alter Zeit Vergangengóttliches wieder.
/ Wie anders ists! und rechuiin glànzt und spricht / Zukùnftiges auch
erfreulich aus den Fernen (il, p. 152).
Questo mistero della Terra è innanzitutto quello
dell'altezza, dell'etere che con la sua potenza fecon-datrice viene su
di essa affinchè dall'unione nascano l'anno nuovo, il tempo nuovo, il
raccolto nuovo e la nuova fase di vita (ili, infra, p. 269). Ma
qui esso si congiunge con quello della storia. Ciò che deve entrare
nella terra come semente della nuova esistenza è ora, siccome la terra
è la Germania, la Grecia:
[...] Sente
L'ombre di coloro, che sono già stati,
Gli antichi, e che la terra tornano a visitare.
Poiché quelli che là devono giungere, incalzano noi
E non può più indugiare di uomini-dèi
La sacra schiera ancora nell'alto azzurro.
[...] Die Schatten derer, so gewesen sind, / Die Alten,
so die Erde neubesuchen. / Denn die da kommen sollen, dràngen uns, /
Und lànger sàumt von Góttermenschen / Die heilige Schar nicht mehr im
blauen Himmel (il, p. 150;
tr. it. dt., p. 207).
I morti e il passato
211
Attraverso una compenetrazione di natura e storia,
primavera e Grecia, anche L'Arcipelago esprime lo stesso
contenuto:
Poiché colma di senso divino ogni vita s'è fatta,
E, quale un tempo, autrice di perfezione riappari ai
tuoi figli
Ovunque, o Natura, e come da monte ricco di polle
Fluiscono benedizioni nell'anima germogliante del
popolo.
Allora, allora, o gioie di Atene, o gesta di Sparta!
Splendida primavera di Greda, quando venuto
Sarà il nostro autunno e sarete maturi, o spiriti
antichi!
Voi tornerete, ed ecco il grande anno è prossimo a
compiersi!
Allora la festa riporti anche voi, giorni passati!
Verso l'Ellade il popolo guardi e con lagrime grate
Si addolcisca in ricordi l'altero di del trionfo.
Denn voli góttlichen Sinns ist alles Leben geworden, /
Und vollendend, wie sonst, erscheinst du wieder den Kin-dern / Oberali,
o Naturi und, wie vom Quellengebirg, rinnt / Segen von da und dort in
die keimende Seele den Volke. / Dann, dann, o ihr Freuden Athens! Ihr
Taten in Sparta! / Kóstliche Friihiingszeit im Griechenlande! wenn
unser / Herbst kómmt, wenn ihr gereift, ihr Geister alle der Vorweit! /
Wiederkehret und siehe! des Jahrs Vollen-dung ist nahe! / Dann erhalte
das Fest auch euch, vergan-gene Tage! / Hin nach Hellas schaue das Volk,
und wei-nend und dankend / Sànftige si eh in Erinnerungen der stolze
Triumphtag! (il, p. Ili; tr. it. dt., p. 117).
Qui si tratta di parlare del concetto dell'ora in
Hólderlin. Gli avvenimenti non si succedono in una sequenza uniforme,
ma con una potenza che varia da caso a caso, a seconda della forza della
vita e del senso che riveste l'avvenimento. L'evento singolo ha il suo
luogo prestabilito nella storia, determinato non solo dalle cause
anteriori, ma anche dallo spirito che tutto pervade. Questo luogo non
può essere sostitui-
212 Secondo cerchio - L'uomo e la storia
to o scambiato. Se l'ora è passata, essa lo è
veramente - si vedano nella Morte di Empedocle nel secondo atto i
dialoghi con i legati. Particolarmente gli eventi decisivi hanno la
propria ora. Si è già parlato di nascita e di morte. Nella Morte di
Empedocle si dice a proposito della grande opera:
O dèi benigni! Dèi del silenzio! La parola impaziente
precorre l'uomo e non lasda che maturi in pace l'ora della riuscita.
O stille! gute Gótter! immer eilt / Den Sterbiichen das
un-geduidge Wort / Voraus und làfit die Stunde des Gelin-gens / Nicht
unbetastet reifen (m, p. 114; tr. it. dt., p. 84).
'Nelì'Iperione prima del culmine della vita;
Che cosa è tutto quello che, nei millenni, gli uomini
hanno compiuto e pensato di fronte a un solo istante d'amore? Ed è
anche quanto di più perfetto, di più divinamente bello esista in
natura! Là conducono tutti i gradini, sulla soglia della vita. Di là
veniamo, colà andiamo! (il, p. 154; tr. it. dt, p. 76).
Nella Morte di Empedocle a proposito della natura
che si apre alla comprensibilità pura:
La divina Natura non richiede discorsi;
e una volta presente non vi lasda . mai soli, e il suo
attimo rimane incancellabile; e vittoriosa agisce in eterno la sua
fiamma celeste, rendendovi felid.
Die góttlichgegenwàrtige Natur / Bedarf der Rede
nicht;
und nimmer là6t / Sie einsam euch, wenn einmal sie
ge-naht, / Denn unausloschiich ist der Augenblick / Von ihr,
J morti e il passato 213
und siegend wirkt durch alle Zeiten / Beseligend hinab
sein himmlisch Feuer (ili, p. 150; tr. it. dt., p. 135).
Nella Morte di Empedocle a proposito di
quell'evento in cui l'esistenza raggiunge la coincidenza pura con se
stessa, l'euforia:
Non invano, caro,
con tè sono vissuto, e sotto un cielo clemente, fin dal
primo aureo istante, molteplici gioie inconsuete a noi si aprirono.
Ja! Liebster! nicht umsonst hab ich mit dir / Gelebt,
und unter mildem Himmel ist / Viel einzig Freudiges vom er-sten goldnen
/ Gelungnen Augenblick uns aufgegangen (IH, p. 160; tr. it. dt., p.
149).
Infine in Empedocle sull'Etna a proposito dei
massimi fatti che determinano le svolte dei tempi:
[...] Oh, consumazione
del mio tempo! Tu, Spirito, che d nutristi,
che regni in segreto alla luce del giorno e nella nube,
e tu. Luce, e tu, tu, madre Terra!
Qui rimango sereno, giacché mi si prepara
la nuova ora, da lungo tempo stabilita.
Non più in immagine, non, come sempre,
nella fortuna fugace dei mortali,
ma nella morte, io scopro il vivente,
e oggi stesso lo incontrerò, oggi
in cui il signore del Tempo per me e per sé,
come segni di festa, prepara un uragano.
Conosd questa calma? e il silenzio
del dio insonne? Attendilo qui!
A mezzanotte tutto ci sarà compiuto.
[...] O Ende meiner Zeit! / O Geist, der uns erzog, der
du
214 Secondo cerchio - L'uomo e la storia
geheim / Am hellen Tag und in der Wolke waltest, / Und
du, o Licht! und du, du Mutter Erde! / Hier bin ich ruhig, denn es
wartet mein / Die làngstbereitete, die neue Stun-de / Nun nicht im
Bilde mehr, und nicht, wie sonst, / Bei Sterbiichen im kurzen Glùck,
ich find, / Im Tode find ich den Lebendigen / Und heute noch begegn' ich
ihm; denn heute / Bereitet er, der Herr der Zeit, zur Feier / Zum
Zeichen ein Gewitter mir und sich. / Kennst du die Stille rings? kennst
du das Schweigen / Des schiummerlosen Gotts? erwart ihn hier! / Um
Mittemacht wird er es uns vollenden (ni, p. 223; tr. it. cit., pp.
239-241).
Ma l'ora per eccellenza alla quale Hólderlin stesso sa
di essere ordinato, è quella in cui ha luogo il ritorno del passato,
dei grandi che hanno vissuto un tempo, degli antichi, della Grecia10.
Essa viene presagita. Per esempio nel momento in cui,
ancora nel bei mezzo del deserto invernale, si annuncia la primavera -
legato a quell'altro in cui l'amore si desta per la prima volta in
un'anima ancora intatta. Nell'ode L'amore si legge:
Pure, come l'anno è sempre freddo e senza canti Per un
certo periodo, ma dal campo bianco Spuntano pure verdi steli, E spesso
canta un uccello solitario,
Se piano s'allarga la foresta
E il fiume si muove, già l'aria più serena
lieve spira da mezzogiorno ad ore determinate,
Così un segno del tempo più bello,
In cui crediamo, cresce bastante ancora a sé solo, Lui
solo nobile e pio sul suolo Prima selvaggio l'amore, Figlio di Dio, solo
da lui...
I morti e il passato
215
Cresci e diventa bosco, diventa un più animato Mondo,
in piena fioritura. Lingua sia di quanti Amano la lingua del paese,
L'anima loro la voce del popolo.
Doch, wie immer das Jahr kalt und gesanglos ist / Zur
be-schiedenen Zeit, aber aus weifiem Feld / Grùne Halme doch sprossen,
/ Oft ein einsamer Vogel singt, // Wenn sich màhiich der Wald dehnet,
der Strom sich regt, / Schon die mildere Luft leise von Mittag weht /
Zur eriese-nen Stunde, / So ein Zeichen der schónern Zeit, // Die wir
glauben, erwàchst einziggenùgsam noch, / Einzig edel und fromm ùber
dem ehernen, / Wilden Boden die Lie-be, / Gottes Tochter, von ihm allein
/ [...] Wachs' und werde zum Wald! eine beseeltere, / Vollentblùhende
Welt! Sprache der Uebenden / Sei die Sprache des Lan-des, / Ihre Seele
der Laut des Volks! (il, pp. 20-21).
Lo stesso accade dell'«ora alcionia», del crepuscolo
di giorni particolarmente chiari in cui tutto appare trasfigurato. Essa
era particolarmente cara a Hólder-lin, ed egli l'ha descritto nell'inno
II Reno e in Ritomo in patria con toni di intima bellezza.
L'ora in cui la storia compie una svolta ha i suoi
segni, i «segni del tempo» che il vate sa interpretare. Essa ha il
proprio messaggero, l'aquila. Nella poesia II cantone di Schwyz
essa appare in modo realistico, come l'uccello maestoso nel passo
magnifico:
[...] Portata dalla tempesta
Stridendo l'aquila precipitò per afferrare la preda
nella
valle.
[...] Vom Sturine getragen / Schrie und stùrzte der
Aar, die Beut im Tale zu haschen (il, p. 144).
216
Secondo
cerchio - L'uomo e la storia
In dimensioni maggiori e già riferito al concetto del
salvatore celeste, in Patino (brano già citato, p. 91):
Vicino
E difficile ad afferrare è il Dio.
Ma dove è il pericolo, cresce
Anche dò che d salva.
Nelle tenebre vivono
Le aquile e senza paura
Va la prole delle Alpi sopra l'abisso
Su lievemente costruiti pond.
Nah ist / Und schwer zu fassen der Gott. / Wo aber
Ge-fahr ist, wàchst / Das Rettende auch. / Im Finstem woh-nen / Die
Adier und furchdos gehn / Die Sóhne der Al-pen ùber den Abgrund weg /
Auf leichtgebaueten / Brùcken (II, p. 165; tr. it. cit., p. 217).
Nella Morte di Empedocle essa è il messaggero di
Zeus che deve salvare Panthea, «figlia degli Dèi»:
Che preghi e implori la desolata un'aquila, Che la salvi
da questi schiavi, in cielo.
So mag die Einsame den Adier bitten, / Da6 er hinweg von
diesen Knechten sie / Zum Àther rette! ... (m, p. 113;
tr. it. dt., p. 83).
Il passo rimanda a quello contenuto nell'ode All'Etere,
dove il poeta desidera di essere trasportato in alto dall'aquila, come
Ganimede. Infine l'aquila appare nel contesto dell'evento di cui
parliamo: che quanti un tempo sono morti ritornano.
Nel Lamento di Menane per Diotima:
... Buoni genii, che amate di stare vidno agli
amanti:
Restate ancora con noi fin quando in suolo comune,
I morti e il passato 217
Là dove i Beati tutti a tornare in terra son pronti,
Dove le aquile e gli astri, messi del Padre, Dove le Muse, donde gli
eroi e gli amanti sono, Là ci sia dato incontrarci oppur qui nell'isola
rorida Dove i Nostri dapprima, fiorendo in giardini saranno riuniti,
Dove i canti son veri e più a lungo belle le primavere E un anno
dell'anima nostra di nuovo comincerà!
[...] ali ihr / Guten Genien, die geme bei Uebenden
sind; -Bleibt so lange mit uns, bis wir auf gemeinsamem Boden/ Dort, wo
die Seligen ali niederzukehren bereit, / Dort, wo die Adier sind, die
Gestirne, die Boten des Vaters, / Dort, wo die Musen, woher Helden und
Liebende sind, / Dort uns, oder auch hier, auf tauender Insel begegnen,
/ Wo die Unsrigen erst, blùhend in Gàrten gesellt, / Wo die Ge-sànge
wahr, und lànger die Frùhiinge schón sind, / Und von neuem ein Jahr
unserer Seele beginnt! (Il, p. 79; tr. it. cit., p. 125).
Ciò risalta ancora di più nella poesia Rousseau:
I messaggeri hanno trovato il tuo cuore.
Tu li hai accolti, hai inteso il linguaggio degli
stranieri,
Spiegato la loro anima. A chi ardente desiderava
Un segno bastò, e segni sono
Fin dagli antichi tempi i detti degli Dèi.
E, meraviglia, quasi fin dall'inizio avesse
Lo spirito dell'uomo già esperito tutto il divenire e
l'agire,
I modi già del vivere [...]
Conosce già nel primo segno quanto è compiuto,
E vola, lo spirito temerario, come aquila
Che predica la bufera,
Profetando la venuta dei suoi dèi [...]
[...] Es / Haben die Boten dein Herz gefunden. //
Ver-nommen hast du sie, verstanden die Sprache der Fremd-
218 Secondo cerchio - L'uomo e la storia
Unge, / Gedeutet ihre Seele! Dem Sehnenden war / Der
Wink genug, und Winke sind / Von alters her die Sprache der Gótter. //
Und wunderbar, als bàtte von Anbeginn / Des Menschen Geist das Werden
und Wirken ali, / Des Lebens Weise schon erfahren [...] // Kennt er im
ersten Zeichen Vollendetes schon, / Und fliegt, der kùhne Geist, wie
Adier den / Gewittern, weissagend seinen / Kommen-den Góttern voraus
[...] (il, p. 13).
Tutto si raccoglie nella grande visione dell'aquila
nella Germania:
Già in preludio verdeggia di più aspra epoca
II campo lavorato per loro, pronto è il dono
Per l'agape, e valle e fiumi stanno
Aperti intorno a profetici monti,
Perché guardare possa fin nell'Oriente.
L'uomo, e di là molte vicende lo commuovano.
Ma dall'etere cade
L'immagine fedele e ne piovono oracoli di dèi
Innumeri, suonando nel più fitto del sacro bosco.
E l'aquila che dall'Indo viene
E del Parnaso sopra
I nevosi picchi vola, alto sulle are dei monti
D'Italia, in cerca di allegra preda
Per il padre, non più inesperta, ma provetta nel volo,
Finisce col varcare gioiosamente
Le Alpi e di là scorgere il molto variato paese.
La sacerdotessa, la più tadta figlia di Dio, Che troppo
ama il silenzio d'un'innocenza profonda, Lei cerca l'aquila, lei che con
fermo aglio mirava Come del tutto ignara pur dianzi, allorché una
tempesta Minacciosa di morte le risuonò sul capo:
Presentì la fandulla un che di migliore,
E finalmente uno stupore avvenne vasto nel cielo
Che alcuno fosse così grande in fede
Come ella stessa, la clemente potenza dell'Alto.
I morti e il passato
219
Perdo mandarono la messaggera che subito riconoscendola
Così pensa sorridendo: «Tè, ineversibile, deve Un'altra parola
mettere a prova», ed alto da voce, La giovanile aquila, a Germania
guardando:
«Ecco sei tu, eletta
Nel tuo universo amore e per portare un gran peso
Di felicità sei divenuta forte,
Da quando nascosta nella foresta e nel papavero in
fiore, Pieno di dolce sopore, o ebbra, di me Non d curavi, da molto
prima che anche i più umili sentissero L'orgoglio della vergine e
stupissero di chi tu fossi e di dove;
Ma tu stessa non lo sapevi.
Non d misconobbi, io,
E in segreto, mentre sognavi, d lasciai
Di mezzodì, nel dipardrmi, un segno amicale,
II fiore della bocca; e discorresti sola.
Schon grùnetja, im Vorspiel rauherer Zeit/ Fùr sie
erzo-gen, das Feld, bereitet ist die Gabe / Zum Opfermahi und Tal und
Strème sind / Weitoffen um prophetische Berge, / DaB schauen mag bis in
den Orient / Der Mann und ihn von dort der Wandiungen viele bewegen. /
Vom Àther aber fàlit / Das treue Bild und Góttersprùche regnen /
Unzàhibare von ihm, und es tónt im innersten Haine. / Und der Adier,
der vom Indus kòmmt, / Und ùber des Parnassos / Beschneite Gipfel
fliegt, hoch ùber den Opfer-hùgein / Italias, und frohe Beute sucht /
Dem Vater, nicht wie sonst, geùbter im Fluge / Der Alte, jauchzend
ùber-schwingt er / Zuletzt die Alpen und sieht die vielgearteten
Lànder. // Die Priesterin, die sdilste Tochter Gottes, / Sie, die zu
gern in defer Einfalt schweigt, / Sie suchet er, die offnen Auges
schaute, / Als wùfite sie es nicht, jùngst, da ein Sturm / Toddrohend
ùber ihrem Haupt ertónte; / Es ahnete das Kind ein Besseres, / Und
endiich ward ein Staunen weit im Himmel, / Weil eines gro6 an Glauben,
wie sie selbst, / Die segnende, die Macht der Hóhe sei; / Drum sandten
sie den Boten, der, sie schnell erkennend, /
220 Secondo cerchio - L'uomo e la storia
Denkt làcheind so: «Dich, Unzerbrechiiche, muB / Ein
an-der Wort erprùfen», und ruft es laut, / Der Jugendiiche, nach
Germania schauend: / «Du bist es, auserwàhit, / Al-liebend und ein
schweres Glùck / Bist du zu tragen stark geworden, // Seit damais, da
im Walde versteckt und blù-hendem Mohn / Voli sùBen Schiummers,
Trunkene, mei-ner du / Nicht achtetest, lang, ehe noch auch Geringere
fùhiten / Der Jungfrau Stolz, und staunten, wes du wàrst und woher, /
Doch du es selbst nicht wuBtest. Ich miBkann-te dich nicht, /Und
heimlich, da du tràumtest, lieB ich / Am Mittag scheidend dir ein
Freundeszeichen, / Die Blu-me des Mundes zurùck und du redetest einsam
(il, pp. 150-151; tr. it. cit., pp. 207-209).
Vediamo la condizione profetica, in cui il vate guarda
«fin nell'Oriente», nella dirczione, quindi, da cui si avvicina il
compimento. Dall'etere sono venute le rivelazioni: «l'immagine fedele»
e «oracoli di dèi». Dall'etere viene anche l'aquila istituendo
attraverso il suo volo la grande tensione Asia-Ellade-Germania. Ma ciò
che annuncia è il ritorno della Grecia; il «gran peso di felicità»
per portare il quale «la fanciulla» {das Kind), la Germania, è
«divenuta forte».
I testi hanno mostrato che l'evento atteso dalla storia
di Hólderlin è religioso, «escatologico». In esso tutte le cose sono
destinate ad essere trasformate. La fede cristiana è certa che a
un'ora, stabilita dal decreto inaccessibile del Padre, Cristo
ritornerà, trasformando attraverso la potenza dello Spirito Santo il
mondo nel «nuovo cielo» e nella «nuova terra». Questa dottrina è
applicata da Hólderlin al compimento che deve realizzarsi nel corso
della storia quando quest'ultima è giunta in un vicolo cieco. Ciò che
ritoma non è più Cristo, ma la Grecia. Colui che manda non è il
Padre, ma l'Etere, la forza operativa non è più il
I morti e il passato
221
«Pneuma
di Cristo», ma la pienezza dionisiaca dello spirito. Il nodo da
sciogliere non è il peccato dell'umanità, ma l'intrinseca mancanza di
sbocchi nella storia. Ad essere mandato non è l'angelo, ma l'aquila. Ad
aprirsi non è la Vergine Maria - e qui la prospettiva si sposta: prima
della parusia del Cristo che ritoma si pone la sua prima venuta,
l'incarnazione - che «attraverso lo Spirito Santo e la forza
dell'Altissimo» «deve concepire e partorire un figlio» (Le 1, 35;
31), ma la Germania. Questa accoglierà la Grecia ventura, e dalla loro
unione nascerà la nuova esistenza (V, infra, p. 725). A
proposito di questo evento stesso Pane e vino dice:
Inavvertiti giungono prima: gli anelano incontro
I pargoli: troppo lucente, troppo abbagliante arriva
La felicità: e l'uomo ne ha paura: appena un semidio
può dire
Con nomi chi siano quelli che gli si appressan coi doni.
Ma da essi l'animo ha forza: gli colmano il cuore le
loro
Gioie, e un tanto bene sa usare appena.
Crea, si prodiga e quasi gli diventa sacro il profano
Che, folle e pio, egli tocca con mano benedicente.
Al massimo indulgono a questo i celesti: ma poi,
veramente
Giungono loro stessi e alla felicità s'abituano gli
uomini
E al Giorno e a guardare gli dèi palesi, il cui volto,
Che già a lungo avevano chiamato Uno e Tutto,
Di libero contento il segreto petto ricolma
E solo adesso ogni anelito rende felice.
Unempfùnden kommen sie erst, es streben entgegen /
Ih-nen die Kinder, zu hell kommet, zu blendend das Glùck, / Und es
scheut sie der Mensch, kaum weiB zu sagen ein Halbgott, / Wer mit Namen
sie sind, die mit den Gaben ihm nahn. / Aber der Mut von ihnen ist groB,
es fullen das Herz ihm / Ihre Freuden und kaum wei6 er zu brau-chen das
Gut, / Schafft, verschwendet und fast ward ihm
222 Secondo cerchio - L'uomo e la storia
Unheiliges heilig, / Das er mit segnender Hand tórig
und gùdg berùhrt. / Móglichst dulden die Himmlischen dies;
dann aber in Wahrheit / Kommen sie selbst und gewohnt
werden die Menschen des Glùcks / Und des Tags und zu schaun die
Offenbaren, das Anditz / Derer, welche, schon làngst Eines und Alles
genannt, / Tief die verschwiegene Brust mit freier Genùge gefiillet, /
Und zuerst und allein alles Verìangen beglùckt (il, p. 92; tr. it.
cit., pp. 137-139).
Qui divengono visibili i numi greci in avvento. Se
ritornano, significa che il tempo a cui appartenevano ritoma.
IL SENSO DELLA CONCEZIONE HÓLDERLINIANA DELIA STORIA
Se ci si chiede, dopo aver letto attentamente i testi,
che cosa propriamente verrà, appena ritornerà la «Grecia» e che cosa
accadrà dell'esistenza storica quando questo evento si compirà, la
risposta non è facile. Il movimento intcriore che attraversa queste
poesie uniche al mondo è talmente grande, la nostalgia che si desta in
essa e la promessa che vi si manifesta sono talmente potenti che il
lettore è tentato d'immergervisi, senza domandare oltre. Il «presto»
e l'«ora», l'atmosfera «escatologica» del tempo d'attesa e l'ultima
ora incalzante prima della venuta costituiscono per lui un'esperienza
che si rinnova continuamente. Ma se egli resiste all'incantesimo che
vuole fissarlo a questo pre-tempo domandando con determinazione
deferente in che cosa consisterà l'essenziale, pare che non ottenga
nessuna risposta.
Ora, si potrebbe obiettare che domande di questo tipo si
possono rivolgere a un filosofo, non a un poeta. Ma Hólderlin non è un
«poeta» in questo senso. Le sue opere non sono espressione di
un'esperienza vissuta, o manifestazione di immagini esteticamente
sufficienti a se stesse. Egli non è poeta nell'accezione moderna, ma in
quella antica, come Pindaro, Eschilo e Dante. Egli sta usando la parola
nel suo significato universale nella tradizione della profezia
religiosa. Il
224 Secondo cerchio - L'uomo e la storia
lettore intcriormente preparato lo recepisce anche come
tale; per lui importa trarre dal suo sentire le relative conclusioni.
Egli non deve accontentarsi di un'impressione religiosa non meglio
determinata, dimenticando la serietà imposta dalla coscienza in tali
argomenti. Ancor meno deve assumere l'impressione religiosa e goderne in
termini estetici. Così facendo, commetterebbe un'ingiustizia nei
confronti di Hól-derlin, che questi stesso non gli perdonerebbe mai.
Egli deve bensì chiedere: Vate, tu pretendi fede - che cosa devo
credere?
Che cosa significa allora quella terza fase della storia?
Innanzitutto non significa un umanesimo. La concezione
circa il ritorno della Grecia non intende suggerire che se ne conoscerà
la cultura, comprendendone la profondità, vivendone la bellezza e
sviluppando appieno i genni in essa riposti. Non sarà la conoscenza o
l'esperienza vissuta della Grecia a venire, ma la Grecia stessa.
Ma come può avvenire questo? Assumiamo come
immaginabile che una creazione nobile debba essere in qualche modo
imperitura. Per questo gli uomini, le forze spirituali, la vivente
figura complessiva storica della Grecia esistono ancora. Come potenza
rivolta a noi, decisa e atta a rientrare nella nostra storia. Ma appena
ciò accade - che ne è di quest'ultima? Studiando i testi, ci si
imbatte in espressioni come: tutta la vita si ricolma di senso divino;
il terreno e il celeste si uniscono; uomini e dèi celebrano le loro
nozze; tutto viene pervaso dalla pace e dalla bellezza, tutto è
permeato dallo spirito ...
Queste affermazioni non scaturiscono da una
H senso della concezione holderliniana della storia
225
qualche esaltazione idealistica. In un romantico, si
potrebbe trattare di semplice nostalgia, espansione dell'eros,
senso del Tutto e cose simili. Qui, evidentemente, vi sono elementi
diversi. Viene avvertita una realtà numinosa che si eleva dietro al
futuro, cercando l'accesso al tempo. Il concetto di «futuro» qui non
è identico a quello che è sotteso a espressioni come:
il raccolto è futuro rispetto alla seminagione, l'età
matura rispetto alla giovinezza, l'effetto rispetto alla causa. 'Futuro'
qui allude a qualcosa di etemo, la cui sede però è «davanti», a
differenza di ciò che è situato «dietro», nell'allora assoluto,
nell'«età d'oro». L'«etemo» anteriore vuole entrare nel tempo, come
pienezza di senso misteriosa in cui ogni conflitto si risolve, ogni
interrogativo tace e ogni bisogno è appagato. Ma su tutto questo,
appunto per il fatto che sia così non si può dire niente di
particolare. La nostalgia che si leva da ogni luogo dell'esistenza può
essere espressa, la preparazione e l'avvicinamento pure; il compimento
non più.
Ma non è questo uno stato patologico, che nel caso di
Hólderlin ha poi veramente dato luogo alla pazzia, riscontrabile anche
in un uomo che per molti aspetti rappresenta una chiarificazione - ma
certamente anche una razionalizzazione - dell'esistenza di Hólderlin,
ossia Friedrich Nietzsche? Il desiderio di ciò che verrà e allo stesso
tempo la paura d'esso, la sensazione della catastrofe vicina, che
contemporaneamente porta il nuovo; il «dominio sopra il capo», il
«presto» e l'«ora» non sono semplicemente sintomi della
schizofrenia? La psicologia ci ha insegnato che processi che sembrano
senza senso per una coscienza normale, rivestono nondimeno un
significato positi-
226 Secondo cerchio - L'uomo e la storia
vo, di tipo etico-psichico nella misura in cui essi si
manifestano i problemi della personalità in questione; ma anche di tipo
storico, nella misura in cui i mutamenti nella grande personalità
indicano mutamenti nell'esistenza collettiva. Già gli antichi hanno
parlato della «sacra follia» in cui parlano gli dèi. Sembrano esserci
rotture nella coscienza che, importanti per l'esistenza collettiva,
diventano tuttavia possibili solo nel crollo del singolo. L'esperienza
vissuta di Hólderlin fa parte di questo contesto. Essa non è fantasia
poetica oppure semplicemente un fenomeno clinico, manifesta invece un
significato di serietà assoluta.
Non si tratta neppure di una delle tante aspettative
chiliastiche, così frequenti nella storia dell'Occidente, in questo
caso legata alla Grecia. Quelle aspettative si riferiscono sempre alla
fine reale della storia. Nella loro prospettiva l'eternità irromperà
annullando il tempo. Ciò può avvenire immediatamente, nella forma
della fine del mondo, oppure dopo l'intermezzo apocalittico dei mille
anni. Hólderlin allude ad altro. Tempo e storia devono continuare dopo
l'evento atteso. Una terza fase dell'esistenza deve iniziare,
conservando tuttavia quest'ultima nelle sue dimensioni senz'altro
terrene e reali.
Ma non nei termini in cui l'idealismo pensa la sintesi
delle precedenti antitesi storiche, non come superamento della prima
ingenuità, e della riflessione che ad essa segue, in una nuova
naturalezza spirituale. La portata, ma anche il genere dell'aspettativa,
è troppo importante per una tale operazione. Inoltre, le «sintesi»
scaturiscono sempre dal nucleo stesso che sta dietro alla tensione. È
sufficiente che la sua forza si liberi e trovi la strada giusta. Qui
nella storia però entra
Il senso della concezione holderliniana della storia
227
qualcosa che non proviene più da essa, ma dall'ambito a
noi sottratto. Ciò che avviene, non è solo un'inclusione dialettica su
un piano superiore, ma pur sempre scaturente dalle potenzialità interne
della storia stessa, bensì d'una provenienza da altra sfera. Questo
altro è di tipo numinoso, una realtà ultraterrena. E, anche se esso è
racchiuso alla fine, insieme all'immediatamente terreno, dall'unità
della natura nel suo complesso, all'inizio è alieno e diverso rispetto
ad essa. Non possiede il carattere della realtà storica, ma di quella
metafìsica, non del temporale, ma dell'etemo. E «eternità», ma in un
senso particolare. Questo non terreno entra nel terreno, questo etemo
nel temporale, ma in modo tale da mantenere il terreno terreno ed il
temporale temporale. Questo significa però che la storia e la
non-storia, la terra e il cielo, l'economia escatologica e il decorso
dell'esistenza si ritroveranno in uno.
Si tratta quindi del tentativo di elevare la storia al
di sopra si se stessa, pur conservandola come storia;
di compiere il superamento dell'esistenza, ma in modo da
mantenere intatta l'unione con la terra; di conquistare l'eternità, non
tuttavia come annullamento del tempo, bensì come carattere
dell'esistenza temporale stessa. Con ciò muta ovviamente il concetto
stesso di eternità. Essa, di per sé il modo di essere del Dio sovrano
e sacro, diventa il polo opposto dialettico al tempo e quindi un momento
dell'esistenza del mondo. Allo stesso modo muta anche il concetto di
tempo. Perché esso, che di per sé scorre al «cospetto
dell'eternità», dipendendo da essa e ricevendone il proprio senso,
diventa controparte paritaria di questa
228 Secondo cerchio - L'uomo e la storia
eternità, capace di entrare con essa nell'unità della
nuova forma esistenziale. In verità, sia l'eternità che il tempo
perdono il proprio carattere - inteso nel senso rigoroso della
univocità e affidabilità.
Il senso di tutto questo assomiglia a quello della
dottrina esistenziale di Nietzsche. Si tratta di fondare un mondo che
non ha alcuna realtà al di fuori di sé, una storia che non ha alcuna
eternità al di sopra di sé. Ma l'extraterreno e il sovrastorico non
vengono semplicemente cancellati, bensì inglobati nel mondo e nella
storia. Così come Dio deve diventare un elemento del mondo, l'eternità
deve diventare un elemento della storia. Il significato delle concezioni
cristiane sul ritorno di Cristo, sul giudizio universale, sul nuovo
cielo e sulla nuova terra, all'intemo di questo contesto, dovrà
costituire oggetto di considerazioni successive.
NOTE
1. Vedi l'inno Alla libertà del primo periodo.
I, p. 157.
2. In questa rivista, propriamente «Rheinische
Thalia», organo del Romanticismo tedesco, furono ospitati scritti di
Hólderlin, come anche, per es., le Letterejilosofiche di
Schiller (n.d.r.).
3. Philipp Otto Runge (1777-1810), pittore tedesco amico
di L. Tìeck e di F. Schlegel, influenzato da W. Blake, è considerato
l'iniziatore della pittura romantica tedesca. Guardini si riferisce alla
sua grande composizione ciclica, carica di simbolismi, delle Tageszeiten
(n.d.r.).
4. Il mito di Ilópoc («abbondanza», «ricchezza», di
genere maschile) e rievi'a («povertà», «bisogno») come genitori di
Époc: è narrato in Symp. 203 (n.d.r.}.
5. Il «fanciullo beato» è Ganimede, rapito
dall'aquila di Zeus nella versione del mito data da Virgilio (Aen.
v, 255), da Zeus stesso in forma di aquila, la leggenda è già in
Omero, II. v, 265 ss., XX, 23 ss.; poi ricorre in Teognide,
1345 ss.; Pindaro, 01. I, 43 ss. (n.d.r.)
6 Lo Hardt è una zona montuosa e boscosa, a ovest del
Reno, nel Pa-latinato Renano, non lungi da Heidelberg (n.d.r.).
Secondo cerchio - L'uomo e la storia 229
7. Nel corso della poesia la figura dell'angelo assume
dimensioni co-smiche, per poi tornare nella misticità della comune vita
umana:
«Molto ho udito dal grande Padre e tanto
Ho taciuto di lui che il tempo sempre in cammino
Lassù nell'alto rianima e regna sulle montagne:
Di lui che in breve ci accorderà i doni celesti
svegliando
Più limpido canto e inviando molti spiriti buoni.
Oh! senza indugio, venite, o custodi. Angeli dell'anno,
e voi,
Angeli della casa, venite! in tutte le vene della vita,
Tutte allietandole insieme, si compartisca il divino! Nobilita!
Ringiovanisci! Che nessun bene umano E nessuna ora del giorno sia senza
quei Genii felid E tale gioia d'amano, adesso che si sono ritrovati, Sia
santificata come le si conviene».
«Vieles hab ich gehòrt vom grofien Vater und habe /
Lange geschwiegen von ihm, welcher die wandernde Zeit / Droben in Hóhen
erfrischt, und waltet ùber Gebirgen, / Der gewàhret uns baid
himmlische Gaben und ruft / Hellern Gesang und schickt viel gute
Geister. O sàumt nicht, / Kommt, Erhaltenden ihr! Engel desJahres! und
ihr,// Engel des Hauses, kommt! in die Adern alle des Lebens, / Alle
freuend zugleich, teile das Himmlische sich! / Adie! verjùnge! damit
nichts Menschiichgutes, damit nicht / Eine Stunde des Tags ohne die
Frohen und auch / Solche Freude, wie jetzt, wenn Uebende wieder sich
finden, / Wie es gehòrt, fur sie, schickiich geheiliget sei» (il, pp.
98-99; tr. it. cit., p. 149).
Sarebbe importante vedere come l'angelo di Hólderlin si
rapporti a quello di R-M. Riike, per quale via passi la
reinterpretazione della figura biblica dell'angelo operata dalle due
rappresentazioni e quali specifiche esperienze religiose vi siano state
operanti. Di grande rilievo sarebbe soprattutto la questione in quale
misura in queste immagini di angelo si affermi la rappresentazione di
esseri divini in quanto quella biblica degli angeli rende più
ammissibili gli aspetti di primo acchito urtanti del concetto di 'dèi'.
Cfr. a proposito R. Guardini: Der Engel in Dantes Gottlicher Komodie
(1937), pp. 33 s. e 43 ss.; tr. it. L'angelo nella Divina Commedia,
in Studi su Dante. Morcelliana, Brescia 19792, pp. 32
s. e 43 ss.
8. Un rapporto peculiare che è stato sviluppato oltre
da R.M. Riike. In quel caso, esso ha troncato ogni legame storico
diventando una relazione generale con l'essere e con il mondo. Cito,
come esempio, da Sonetti a Or-feo il sesto della prima parte:
«È un essere terreno? No, di entrambi I regni si
compone la sua vasta natura. Sarebbe più esperto a piegare i rami dei
salici Chi ha visto le radici dei salici.
Se andate a letto, non lasciate sul tavolo Ne pane ne
latte; ne sono attratti i mord -. /
230 Secondo cerchio - L'uomo e la Storia
Ma lui, l'evocatore, sotto la dolcezza Della palpebra
aggiunga
La loro apparizione a ogni visione;
E l'incanto della fumaria e della ruta Sia per lui vero
come il riferimento più chiaro.
Nulla può peggiorargli la valida immagine;
Sia dalle tombe sia dalle camere Esalti l'anello, il
bracciale, la coppa».
«Ist ein Hiesiger? Nein, aus beiden / Reichen erwuchs
scine weite Natur. / Kundiger bóge die Zweige der Weiden, / wer die
Wurzein der Weiden erfuhr. // Geht ihr zu Bette, so laBt auf dem Tische
/ Brot nich und Milch nicht; die Toten aehts -. / Aber er, der
beschwórende, misene / unter der Milde des Augenlids // ihre
Erscheinung in alles Geschaute; / und der Zauber von Erdrauch und Raute
/ sei ihm so wahr wie der klar-ste Bezug. // Nichts kann das giiltige
Bild ihm verschiimmern; / sei es aus Grabern, sei es aus Zimmern, /
rùhme er Fingerring, Spange und Krug» (Ausgew. Werke i, p.
286).
L'unità dell'essere scaturisce da «entrambi i regni»,
quello dei vivi e quello dei morti. Il secondo regno preme per entrare
nel primo. Ma l'accesso non deve avvenire in modo immediato, come se i
morti venissero «attratti», attraverso l'incanto, in modo spurio,
bensì attraverso un legittimo elemento di congiunzione, un centro
trasformante. Questo è il ruolo di «Or-feo», il cantore. Nel quinto
sonetto della prima parte si dice:
«Poiché è Orfeo. La sua metamorfosi
in questo e in quello. Non dobbiamo sforzarci
a trovare altri nomi. Una volta per tutte
è Orfeo, quando canta. Egli viene e se ne va».
«Denn Orpheus ists. Scine Metamorphose / in dem und
dem. Wir sollen uns nicht mùhn / um andere Namen. Ein fur alle Male /
ists Orpheus, wenn es singt. Er kommt und geht» (ivi, p. 185).
Il fenomeno subisce una ulteriore trasformazione là
dove l'ascoltare, il «dormire nell'orecchio» di chi ascolta, nel
secondo Sonetto ad Orfeo, prende il posto del cantare. Ciò che
per Riike rappresenta Orfeo, la potenza trasformatrice dell'interiorità
musicale, per Hólderlin è il vate. Anche a questo proposito R.
Guardini, op. cit., pp. 43 ss.; tr. it. cit., pp. 43 ss. -
9. Affinchè diventi chiaro che non si tratta di una
scialba «locuzione poetica» accludo un passo da un testo
autobiografico del nostro tempo:
«Stavo troppo bene per rallegrarmi della proprietà di
qualcosa; il mio senso abituale dell'io si era addormentato come un
bambino nella sua carrozzella. Mi ricordo appunto ancora come il
fogliame gelato frusciava sotto i miei grandi stivali pesanti; per il
resto la mia coscienza non era molto attiva. Quando alzai lo sguardo per
orientarmi essa divenne confusa sul luogo e il tempo - poiché vidi
davanti a me un piccolo sentiero di
Secondo cerchio - L'uomo e la storia
231
bosco, talmente fresco, puro e fiabesco che poteva
trattarsi solo di un sentiero nel giardino del paradiso.
Non potevano esserci dubbi, anche la mia stessa gioia
davanti a questa visione faceva parte del paradiso. Questo durò forse
un secondo - misurato secondo l'orologio terreno. Ero ancora là a
guardare il sentiero - era il sentiero che conduceva alla casa in cui
abitavo. Aveva un aspetto logoro, insignificante e noioso. Ma nel
ricordo splendeva l'immagine del sentiero nel giardino del paradiso,
accompagnata dalla sensazione che esso fosse un vecchio conoscente. E
adesso me ne risowenni con precisione. È situato nel boschetto vicino
ad una scuola di paese a Langeland. Ma non vale la pena andarvi e
trovarlo; certamente esso ha un aspetto logoro, insignificante e noioso.
In una mattina d'inverno d sono andato con alcuni
compagni. Avevo sette anni. Forse più tardi ci sono andato ancora una o
due volte; questo è tutto. Fino a questo momento avevo completamente
dimenticato che questo sentiero esistesse; non si è mai trovato tra le
immagini natìe che erano solite visitarmi; si era trovato stivato
profondamente sotto la 'soglia della coscienza'. Presi a guardare più
da vicino il sentiero nel bosco di Geel per trovare la somiglianzà che
aveva richiamato l'altro dalla profondità dell'oblio. Mi fu impossibile
trovare un'altra somiglianzà se non quella che entrambi erano sentieri
di bosco. Mi arrestai, dominato da due sensazioni che solo difficilmente
si possono immaginare contemporanee:
da una profonda felicità che si dichiarò impossibile a
perdersi e da una condanna di tutta la mia vita come completamente
sbagliata.
Questa fu la prima piccola traccia del sentiero - verso
casa, come vorrei dire. Richiese tempo e attenzione andare oltre ...
All'inizio era conturbante. I due poliziotti, il tempo e
lo spazio, allentavano le manette, ma io non avevo il coraggio di
credervi veramente, perfino adesso che voglio tentare di parlarne, trovo
che a colui che non ne sa nulla deve sembrare il discorso di un pazzo.
Ma chiacchiera demente è tutto quanto ancora non conosciamo, e qui ndi
vado avanti tranquillo.
Quando, a Holte, camminavo per una strada, un po' di
volgare cerfoglio ai lad mi poteva far pensare alla strada di Henninge e
Rudkóbing che ho percorso non poche volte. Questo era un ricordo, e io
adesso ero completamente un altro e non più il piccolo monello che
camminava verso Rudkóbing; mi riusciva difficile credere che egli fosse
veramente me. Ero arrestato dal tempo e dallo spazio.
Ma potevo anche percorrere la stessa strada a Holte
contemplandola nella sua esistenza isolata, ed all'improvviso mi trovavo
sulla via da Henninge a Rudkóbing ed ero il piccolo monello che vi
camminava solo soletto. Adesso ciò accadeva veramente. Quando però
volevo protestare e dimostrare di essere in regola coi miei documenti,
con il numero degli anni ed i dati, il poliziotto tempo, tenendo le mani
in tasca, sorridendo da privato mi diceva: «Al momento non sono in
servizio». E non avevo migliore fortuna quando mi rivolgevo al suo
collega spazio: anch'egli era in vacanza;
quando guardavo a lungo la strada di Holte per accertare
la sua identità essa si apriva ed io vi vedevo la strada per
Rudkóbing. Se qualcuno ha
232
Secondo
cerchio - L'uomo e la storia
conseguito la certezza che questo 'veder chiaro' è
pazzia, devo aggiungere per divertirlo che la cosa non si ferma qui.
Ovviamente tutto questo aveva luogo nella mia interiorità. Ero davvero
ritornato e ridiventato bambino. Un modo dell'essere che sembrava morto
era risuscitato a nuova vita e assorbiva nutrimento attraverso i miei
sensi. E io stesso mi domandavo: 'Come si presenterà mai il mondo se a
questo essere bambino è dato di svilupparsi, diventando adulto come il
resto del mio io?'.
Siccome mi era diventato chiaro che uno stato intcriore,
trascurato dai miei educatori come da me stesso, ora si destava
reclamando il proprio diritto di vivere, mi proposi di dargli spazio,
qualora si fosse fatto vivo e qualora il mio lavoro lo avesse permesso.
Nel peggiore dei casi non poteva essere una perdita di tempo superiore a
quella di giocare a bridge. E così lentamente avvenne che le
cose in questo mondo si aprissero. Non mi è possibile adoperare
un'altra espressione, poiché mi sembra sempre una percezione sensitiva
il fatto che le cose si aprivano dischiudendomi tutta la loro realtà.
Non rinnegavano la loro vecchia figura chiusa, ma si limitavano a
dichiarare che questa non era tutta la realtà» (Anker Larsen, Rei
offener Tur, introdotto dal Prof. V. Grómbech,
Kopenhagen-Leipzig-Zùrich 1926, pp. 24 e 36).
Anche in Kilke si trova qualcosa di analogo, che anche
egli definisce «l'aperto». Lo incontriamo nel piccolo scordo Erietmis
nel secondo volume delle Opere scelte, sotto forma di
un'esperienza della natura di stampo religioso. Un uomo è appoggiato ad
un albero e a partire da esso, dal centro della natura, conosce una
trasformazione peculiare. Vede ogni cosa sotto un aspetto diverso:
«Comprendeva il soprannumero silenzioso della loro
forma: gli era familiare vedere adoperate le forme terrene in modo così
passeggero e assoluto; la connessione dei loro usi metteva da parte ogni
altra sua educazione; trasportato in mezzo a loro era sicuro di passare
inosservato ai loro occhi. Una pervinca vicino a lui, di cui già in
altre occasioni aveva incontrato lo sguardo azzurro, lo toccava ora da
una distanza più spirituale, ma con un significato così inesauribile
come se adesso non vi fosse più nulla da nascondere. Ma anche per il
resto poteva notare che tutti gli oggetti gli si mostravano più
distanti e allo stesso tempo in qualche modo più veri, cosa che poteva
essere dovuta al suo sguardo che non era più diretto in avanti,
assottigliandosi là, nell'aperto; guardava, quasi sopra le spalle,
indietro alle cose e alla loro esistenza, per lui chiusa, si aggiungeva
un gusto audace, dolce come se tutto fosse condito con una piccola dose
di fiore dell'addio» (a, p. 266).
Questa esperienza ritorna nelle Elegie duinesi,
interrogata più propriamente sul senso esistenziale. Per esempio
nell'ottava:
«Con tutti i suoi occhi la creatura vede l'aperto. I
nostri occhi soltanto come riversi, come trappole disposti in cerchio
intorno a lei, intorno alle sue libere porte.
Secondo cerchio - L'uomo e la storia
233
Capiamo dò che è fuori soltanto dal viso
dell'animale, il bambino appena nato
già lo giriamo ed obblighiamo a vedere la forma
all'indietro, non a vedere l'aperto,
così profondo nell'occhi dell'animale. Ubero da morte.
Noi soli vediamo la morte: il libero animale
ha sempre il suo tramonto dietro di sé
e Dio davanti a sé, e quando va, va cosi
nell'eternità, come vanno le fonti.
Noi non abbiamo mai, neppure un giorno
davanti a noi lo spazio puro, in cui i fiori
si schiudono all'infinito. È sempre mondo
e mai un 'nessun luogo' senza non: la cosa pura,
inosservata, che si respira e
si sa infinitamente e non si brama. Da bimbo
uno si perde in silenzio via dalle cose
e lo si scuote. O quello muore ed è.
Con la morte a un passo, non si vede più la morte,
sbarrati gli occhi si guarda/Mori, forse con lo sguardo
grande d'animale».
«Mit allen Augen sieht die Kreatur / Das Offene. Nur
unsre Augen sind / wie umgekehrt und ganz um sie gestellt / Als Fallen,
rings um ihren freien Ausgang. / Was drauBen ist, wir wissens aus
des Tiers / Antlitz al-lein; denn schon das frùhe Kind / Wenden wir und
zwingens, daC es ruckwàrts / Gestaltung sehe, nicht das Offne, das / im
Tiergesicht so tief ist. Frei von Tod. / Ihn sehen wir allein;
das freie Tier/ hat seinen Unter-gang stets hincer sich / und vor sich
Gott, und wenn es geht, so gehts / in Ewigkeit, so wie die Brunnen
gehen. / Wir haben nie, nicht einen ein-zigen Tag, / den reinen
Raum vor uns, in den die Blumen / unendiich aufgehn. Immer ist es Welt /
und niemais Nirgends ohne Nicht: das Rei-ne, / Unùberwachte, das man
atmet und / unendiich u/eijì und nicht be-gehrt. Als Kind /
verliert sich eins im Stilln an dies und wird / gerùttelt. Oderjener
stirbc und ists. / Denn nah am Tod sieht man den Tod nicht mehr/
und starrt hinavs, vielleicht mit grofiem Tierbiick» (i, p. 270;
tr. it. dt., pp. 347, 349, 351 s., 353).
n concetto sembra fare l'ultimo passo verso ciò che
Malte Laurids Brigge chiama alla fine delle Annotazioni il grado
estremo dell'amore: quello che non si aspetta più di essere
corrisposto, che non è più rivolto a un oggetto, così che i suoi
raggi si dispiegano diritti nell'infinito. Appena questo stato è
raggiunto. Dio diventa presente, perché Dio stesso è la dirczione
dell'apertura. Egli emerge nell'essere aperti, come l'essere diretta
all'infinito di questa condizione (il, p. 210).
Riike ha spiritualizzato questo fenomeno in una misura
ancora maggiore di quanto non abbia fatto Hólderlin - affermazione che
vale anche per altri aspetti: la concezione del dionisiaco, dell'angelo,
dei morti, degli animali ecc. Ma ciò è forse dovuto al fatto che il
senso intcriore determinante per lui non è stato l'occhio, bensì
l'udito, quindi il musicale, ma anche
234 Secondo cerchio - L'uomo e la storia
alla sua collocazione nel periodo finale
dell'età moderna. In tutto questo vi è un'analogia tra religione
naturale e Rivelazione bibli-co-profetica. Nel caso di quest'ultima, lo
Spirito Santo prende possesso della coscienza umana aprendola a ciò che
Dio vuole rendere noto; nell'esperienza universalmente religiosa
dell'essere aperti cadono le barriere della separazione temporale e
spaziale, e ciò che altrimenti è occulto diventa manifesto.
10. Di questo concetto del ritorno dovrebbe essere
studiato il senso psicologico ed esistenziale. Un primo approccio
potrebbe essere costituito dalla ricerca sul modo in cui viene pensato
dapprima da Hólderlin, poi da Kierkegaard ed infine da Nietzsche. Per
Hólderlin si tratta dell'evento che salva la storia. Per Kierkegaard
l'atto attraverso cui il Dasein, l'«Esse-re», una volta
abbandonato tramite il «salto» l'antico livello dell'esistenza e
raggiunto quello superiore, riottiene se stesso su questo piano. In
Nietzsche, infine, è il ritorno costante di ciò che è già accaduto,
quel mistero dell'esistenza davanti a cui la volontà si circoscrive
senza riserve in questo finito-esistente, provocando in tal modo
l'irruzione del superuomo [o «oltreuomo», come recentemente si è
proposto di tradurre - n.d.r.]. Probabilmente, in queste diverse
forme di pensiero si manifesterebbero diversi modi di far esperienza del
finito e di accettare l'esistenza, fornendo importanti contributi alla
conoscenza della situazione esistenziale postmoderna.
Terzo cerchio
Gli dèi e il riferimento religioso
GLI DÈI
NOTA INTRODUTTIVA
Le poesie di Hólderlin sono piene di esseri divini. Per
lo più si tratta di numi greci che si ricollegano a concezioni greche,
come per esempio il Padre degli dèi e degli uomini, la madre Terra,
Apollo, Posidone, Dioniso. Talvolta e solo con breve accenno le
divinità della mitologia germanica, come la dea della terra Herta
(Nerthus). Infine divinità che - come lo spirito del tempo - sembrano
scaturire da un'esperienza primordiale ... Dapprima si è tentati di
vedere in queste antiche divinità fenomeni paragonabili a quello
d'altri luoghi letterali dove si parla di Apollo o Dioniso. Ma basta
analizzare più da vicino il modo in cui Goe-the o Schiller parlano di
dèi, per cogliere la differenza. Per loro essi sono figure simboliche o
estetiche, per Hólderlin si tratta di autentica esperienza religiosa e
di significato esistenziale.
Le antiche figure degli dèi sono talmente legate alle
forze e al patrimonio culturale che hanno dato forma all'Occidente, essi
possiedono un carattere simbolico talmente chiaro e sono saturi di
valori così vivi da
238 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
costituire importanti veicoli per la comunicazione
culturale. Poter parlare di Apollo quando si affronta la produzione
culturale e in particolare artistica è altrettanto vantaggioso come il
disporre dell'immagine del fiume per esemplificare la vita umana.
«Apollo» è un simbolo che esprime strutture culturali di fondo,
riecheggiando i significati secondari più svariati e comunicandosi sia
al pensiero che al sentimento - per di più nella forma preziosa di una
bella figura. Esso stimola, esprime, formando una comunanza del capire e
del comunicare. A ciò si aggiunge l'impulso più o meno forte di
opporsi all'elemento cristiano, nonché il desiderio di collegarsi a
quelli «pagani» dell'esistenza. Il discorso sugli dèi ha perciò
diversi gradi di serietà. In un Pietro Aretino o in un Lorenzo Valla
esso ha più significato per la reale condotta di vita che non nel caso
di un poeta del Settecento. E quando Goethe parla di dèi greci la cosa
ha più peso che non in Racine o Corneille, per non parlare di Dante.
Tuttavia, per quanto ne so, non viene mai affermato seriamente che gli
dèi esistano davvero. Dove sembra che ciò avvenga, è la passione
artistica o la forza del desiderio di vita ad ingannare. L'entusiasmo
dell'Umanesimo per gli antichi, la dimestichezza del dotto Sei o
Settecento con la mitologia antica, la profonda devozione del
classicismo tedesco per l'intensità e la bellezza delle figure divine
greche non sono mai autentica convinzione religiosa. Per quanto riguarda
in particolare il classicismo, esso ha collegato l'elemento religioso a
valori culturali. L'affermazione di Goethe secondo cui chi non possiede
«scienza e arte» abbisogna della religione, mentre chi è colto in
esse vi possiede la sua religione, è eloquente. La religiosità
classica, per la maggior parte, era davvero arte e scienza:
Gli dèi - Nota introduttiva
239
la sensazione circa la forza dei valori spirituali,
poten-ziatrice di vita, la certezza circa la possibilità infinita
dell'operare umano. Tutto ciò, avvolto da un senso vivo del mistero,
era «religione» e trovava espressione gradita nelle figure profonde e
chiare delle divinità antiche. Ma nessuno vorrà dire che Zeus e Apollo
siano stati oggetti di vera fede.
Il rapporto di Hólderlin con i numi greci è diverso.
Per lui non si tratta di «scienza e arte». Naturalmente è venuto a
conoscenza degli dèi attraverso i suoi studi umanistici.
Ma questa conoscenza esteriore sembra avere solo il
carattere d'un'occasione che spiana la via alle attitudini intcriori in
attesa. Una poesia incompiuta (già citata, p. 162) recita:
Quand'ero fandullo,
Spesso un dio mi scampava
Dagli sgridi e le verghe degli uomini.
Giocavo sicuro e buono Con i fiori del bosco, E le aure
del cielo Giocavano con me.
E come tu il cuore Delle piante consoli, Quando esse
dincontro Le tenere braccia ti tendono,
Così hai il mio cuore consolato, Padre Elio! e, come
Endimione, Io ero il tuo vago, Sacra Luna.
O tutti voi fidi, Amorevoli dèi!
240 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
Se poteste sapere Quanto vi ha la mia anima amato!
Certo allora io non vi invocavo ancora
Con nomi, e neanche voi
Mi chiamavate mai a nome, come uomini si chiamano
Quasi si conoscessero.
Pure conosduto vi ho meglio Che mai abbia conosciuto gli
uomini:
Compresi il silenzio dell'etere, Le parole degli uomini
non le ho comprese mai.
M'educò il concento
Del bosco pieno di murmuri,
E amare appresi
In mezzo ai fiori.
In braccio degli dèi sono cresciuto.
Da ich ein Knabe war, / Rettet' ein Gott mich oft / Vom
Geschrei und der Rute der Menschen, / Da spieit ich si-cher und gut /
Mit den Blumen des Hains, / Und die Lùftchen des Himmeis / Spielten mit
mir. // Und wie du das Herz / Der Pflanzen erfreust,"/ Wenn sie
entgegen dir / Die zarten Arme streckten, // So hast du mein Herz
er-freut, / Vater Helios! und, wie Endymion / War ich dein Uebiing, /
Heilige Luna! // O ali ihr treuen / Freundii-chen Getter! / DaB ihr
wùBtet, / Wie euch meine Seele geliebt! // Zwar damais riefich noch
nicht/ Euch mit Na-men, auch ihr / Nanntet mich nie, wie die Menschen
sich nennen, / Als kennten sie sich. // Doch kannt ich euch besser, /
Als ich je die Menschen gekannt, / Ich verstand die Stille des Àthers,
/ Der Menschen Worte verstand ich nie. // Mich erzog der Wohllaut / Des
sàuseinden Hains / Und lieben lernt ich / Unter den Blumen. // Im Arme
der Getter wuchs ich gro6 (i, pp. 266-267; tr. it. dt., pp. 31-33).
Gli dèi - Nota introduttiva
241
Sarà certo impossibile controllare se l'esperienza
vissuta d'infanzia qui descritta sia biograficamente attendibile, se
proietti indietro un evento successivo oppure se colleghi una comune
nostalgia d'infanzia alle figure più tardi amate. Ma si può
sicuramente assumere per certo che si tratta di una esperienza vera.
Infatti, la poesia distingue espressamente tra l'esperienza stessa e
l'espressione che il poeta trova per essa nelle denominazioni fomite
dalla sua formazione. Questa esperienza è immediatamente religiosa e si
rivolge a divinità.
Quando Hólderlin s'imbattè nei Greci deve aver avuto
la sensazione di ricevere da loro l'interpretazio-ne delle sue
esperienze più personali. Il che non esclude che queste esperienze
siano state a loro volta stimolate e determinate da quelle figure. Era
stato educato religiosamente, ma non aveva avvertito le dottrine e le
figure cristiane come espressione immediata del suo esperire vissuto
religioso. Inoltre non gli erano parse abbastanza valide da poter loro
affidare questa esperienza perché la trasformassero. E la cristianità
che incontrava non era idonea a rappresentare la vera natura del
cristianesimo (v, infra, p. 630).
La facoltà religiosa era sviluppata in Hólderlin in
modo eccezionalmente puro e forte. Si può forse affermare che aveva la
guida della sua vita intcriore. Era l'esperienza religiosa, insieme ad
una forza poetica mirabilmente pura nel contemplare e nell'esprime-re, a
determinare in modo inappellabile il suo quadro di valori.
Ma l'atteggiamento religioso e poetico di Hólderlin si
distingueva nettamente da quello dell'età moderna: ad esso mancava la
soggettività. La sua co-
242 Teno cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
scienza religiosa non era rivolta a stati ed esaltazioni
personali, ma a potenze ed esseri oggettivi. L'interiorità che gli
stava a cuore non era una sfera soggettiva, ma l'ambito profondo
dell'essere reale, dell'uomo singolo come del popolo, del fiume e della
montagna, della pianta e dell'animale, del paese, della terra, del mare,
infine del mondo.
E la sua volontà artistica non chiedeva di comunicare
esperienze vissute personali, ma di celebrare altezze, di annunciare
potenze, di essere il portavoce di grandi avvenimenti e il messaggero di
rivendicazioni cosmiche. Congiungiamo l'elemento religioso e quello
artistico: egli era ciò che dopo Dante non era più stato nessuno,
veggente e voce che appella. Era una natura religiosa di primissimo
ordine - con questo non si vogliono giudicare le sue convinzioni, ma
dare una caratterizzazione della sua struttura. Quest'uomo incontrò un
cristianesimo, che aveva fondamentalmente perso il proprio carattere
religioso risolvendosi nella filosofia e nella morale - che era sfuggito
dal contesto del mondo e della storia, chiudendosi nell'isolamento
spirituale del pietismo.
In tal modo Hólderlin doveva ricavare l'impressione che
quanto egli unicamente poteva intendere come religione, quel potere che
si trasmette da essere a essere, comprendendo popolo e mondo, non
esisteva più - e ancor meno poteva diventargli evidente la realtà del
cristianesimo che abbatte e ricostruisce l'esistenza. Davanti ai criteri
di una simile esperienza religiosa la rivendicazione di questo
cristianesimo di essere la rivelazione della potenza vivente di Dio non
poteva reggere. Anche l'influsso di sua madre sembra abbia operato nella
stessa dirczione. Evidentemente,
Gli dèi - Nota introduttiva
243
non ha compreso il figlio a lei tanto superiore,
gravando con la sua indole gretta, ma allo stesso tempo forte, sul suo
animo sensibile. Ciò doveva sortire effetti anche in ambito religioso,
dove l'influsso dell'atmosfera materna è particolarmente importante,
provocando antipatìa contro quel tipo di religiosità. A questo si
aggiunge che egli ha scelto, da lei influenzato o comunque per poterla
aiutare, la non amata professione ecclesiastica. Non stupisce quindi che
la resistenza contro quest'ultima si sia estesa anche al suo contenuto,
il mondo delle immagini e della vita del cristianesimo. Hólderlin
prende le distanze dal messaggio cristiano, trovando l'adeguata
espressione della sua esperienza nell'antico mondo degli dèi o in numi
di creazione originale che però tradiscono l'influsso greco.
Contemporaneamente li trasporta, attraverso la forma d'esperienza,
l'atmosfera e lo stile, nell'ambito nordico. Lo stesso fece Nietzsche,
quando nella cornice della sua Engadina sintetizzò la forma
greco-meridionale e il senso nordico della vita o quando costituì il
paesaggio «europeo» dello Zarathwtra.
Ma gli dèi di Hólderlin hanno una profondità
metafisica e un'interiorità spirituale che non sono spiegabili
esclusivamente attraverso la fusione di Sud e Nord. Numerosi tratti
particolari, ma anche l'atteggiamento e l'atmosfera palesano un
ulteriore influsso: appunto dell'elemento cristiano che Hólderlin ha
abbandonato. Scaturendo da legami più profondi di quelli creati
dall'esperienza personale e dal giudizio individuale, l'interiorità
dell'anima che incontra Cristo, e l'amore del cuore toccato dallo
Spirito Santo, influiscono sulle rappresentazioni e gli ordinamenti. Di
qui la vitalità profondamente toccante, di qui la
244
Terzo
cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso
«intimità» degli dèi e della natura in Hólderlin.
Essi hanno una dimensione in più rispetto agli antichi dèi. Essi si
rapportano a questi come per esempio VIfige-nia di Goethe a
quella del mito greco.
Questo elemento segretamente cristiano che dapprima si
esprime solo come dimensione interna, come moto interno e calore
dell'essere e come possibilità della vicinanza, si manifesta poi
apertamente. Dopo aver omesso per un certo tempo tutte le immagini e
tutti i pensieri espressamente cristiani, comincia a destarsi in lui la
figura di Cristo. Essa acquista una forza sempre maggiore, ed il mondo
degli antichi numi entra con essa in un conflitto per la cui profondità
il concetto della sintesi idealistica è del tutto insufficiente. E una
lotta nello spirito, nel cuore e nel sangue, che però non entra nella
fase finale, spegnendosi invece in concomitanza col crollo psichico. Di
ciò si parlerà per esteso nel quinto cerchio. Le prossime pagine si
propongono di descrivere le diverse figure del divino, incontrate
nell'opera di Hólderlin, secondo i loro caratteri particolari e
all'interno del loro contesto.
L'ETERE
Alla fine della poesia II viandante troviamo la
seguente invocazione:
[...] Tu però, oltre le nubi,
Padre della Patria, possente Etere, e voi,
Terra e luce! Voi tré che soli regnate e amate,
Eterni dèi, con voi i miei legami mai si spezzeranno.
Usato da voi, con voi ho camminato,
A voi, o gioiosi, tomo, più ricco d'esperienza.
[...] Du aber, ùber den Wolken, / Vater des Vaterlands!
màchtiger Àther! und du, / Erd und Ucht! ihr einigen drei, die walten
und lieben, / Ewige Gótter! mit euch bre-chen die Bande mir me. /
Ausgegangen von euch, mit euch auch bin ich gewandert, / Euch, ihr
Freudigen, euch bring ich erfahrner zurùck (il, p. 83).
L'etere è la suprema delle divinità di Hólderlin. E
da esso, quindi, che inizierà il tentativo di descriverne l'essere ed
il contesto. Una delle elegie, All'Etere, è interamente dedicata
a lui:
Fido e amorevole come tè nessuno fra gli dèi e gli
uomini M'allevò, o Padre Etere! Prima ancora che la madre Nelle bracda
mi prendesse e mi nutrisse al suo seno Tu già mi reggevi teneramente e
un filtro celeste, Col sacro alito mi versavi nel germogliante petto.
246 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
Di cibo terreno non prosperan solo i viventi
Ma tu li alimenti tutti col tuo nettare, o Padre'
Urge e trabocca fuori della tua eterna pienezza
L'animante aura per le vene di tutta la vita.
Perciò le creature ti amano e lottano e anelano in
alto
Incessantemente verso tè in gioioso rigoglio.
O celeste, non cerca tè con i suoi occhi la pianta, Non
è a tè che tende le bracda Umide l'umile arbusto? Per tè trovare il
seme prigione rompe il suo guscio;
Per bagnarsi, da tè avvivato, nell'onda tua II bosco si
scuote di dosso la neve, manto troppo pesante.
Anche i pesci salgono al sommo e guizzano desiderosi Sul
lucido piano del fiume quasi agognassero anch'essi Tè dalla loro culla:
anche alle nobili fiere terrestri Mutasi in volo il passo, quando la
brama violenta, L'occulto amore per tè li afferra, all'alto li tira.
Treu und freundiich, wie du, erzog der Getter und
Men-schen / Keiner, o Vater Àther! mich auf; noch ehe die Mutter / In
die Arme mich nahm und ihre Brùste mich trànkten, / FaBtest du
zàrdich mich an und gossest him-mlischen Trank mir, / Mir den heiligen
Othem zuerst in den keimenden Busen // Nicht von irdischer K.ost
gedei-hen einzig die Wesen, / Aber du nàhrst sie ali mit deinem Nektar,
o Vater ! / Und es dràngt sich und rinnt aus dei-ner ewigen Fulle / Die
beseelende Luft durch alle Róhren des Lebens. / Darum lieben die Wesen
dich auch und rin-gen und streben / Unaufhórlich hinauf nach dir in
freudi-gem Wachstum. // Himmlischer! sucht nicht dich mit ihren Augen
die Pflanze, / Streckt nach dir die schùchter-nen Arme der niedrige
Strauch nicht? / Da£ er dich finde, zerbricht der gefangene Same die
Hùlse, / DaB er belebt von dir in deiner Welle sich bade, / Schùtteit
der Wald den Schnee, wie ein ùberlàsting Gewand ab. / Auch die Fi-sche
kommen herauf und hùpfen verlangend // Ùber die glànzende Flàche des
Stroms, als begehrten auch diese /
L'Etere
247
Aus der Wiege zu dir; auch den edein Tieren der Erde /
Wird zum Fluge der Schritt, wenn oft das gewaltige Seh-nen, / Die
geheime Uebe zu dir sie ergreift, sie hinauf-zieht (I, p. 204; tr. it.
dt., p. 17).
E ancora:
[...] anela il mio cuore
Meravigliosamente d'ascendere a loro: una patria
amorevole
Di lassù mi sorride: e sovra i picchi dell'alpe
Vorrei valicare e dar voce di là all'aquila veloce,
Perché come già nelle bracda di Giove il fanciullo
beato
Fuori di prigionia mi tragga alla volta dell'Etere.
[...] Und es sehnt si eh auch mein Herz / Wunderbar zu
ih-nen hinauf; wie die freundiiche Heimat, / Winkt es von oben herab und
auf die Gipfel der Alpen / Mócht ich wan-dern und rufen von da dem
eilenden Adier, / DaB er, wie einst in die Arme des Zeus den seligen
Knaben, / Aus der Gefangenschaft in des Àthers Halle mich trage (I, p.
205;
tr. it. dt., p. 19).
L'immagine dell'etere è ricca e fluente. Il suo
contenuto è forse riconducibile a tré linee. La prima, parte dall'aria
che scorre. Attraverso il soffio, la concezione dell'aria cosmica si
collega a quella della vita:
di una vita cosmica che attraverso il soffio entra nella
vita individuale trasformandosi in essa. Attraverso lo stesso concetto
del respiro-soffio, essa è altresì legata a quello dell'«anima»,
intesa come vitalità che trascende la materia, nonché a quello dello
«spirito», inteso come la corrente creativa e numinosa che coinvolge
l'uomo, elevandolo nel mistero. Dietro a queste concezioni sta lo
Spirito Santo della Scrittura, ridotto a pallida controfigura mondana.
Il secondo piano di significati prende le mosse dallo spazio, dalla
vastità
248 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
del mondo con la sua potenza che apre il cuore,
dall'altezza che costituisce il polo opposto vivente dell'interiorità,
chiamandola verso l'alto. Questa altezza può diventare un nuovo tipo di
«profondità», un'interiorità dell'altezza; vedi il passo nello Zarathwtra
dove Nietzsche parla dell'«abisso di luce» del cielo mattutino (Parte
terza, Vor Sonnenaufgang [Prima dell'aurora]). Dall'altezza e
dalla potenza che domina in essa si passa all'elemento metafisico: alla
maestà del senso, all'imporsi di ciò che vale. In quel caso la visione
significa l'espressione spaziale di quanto si impone e
contemporaneamente l'abissalità di ciò che è valido. Veniamo
rimandati al «luogo del senso» di Fiatone. Ma la maestà di senso del
regno delle idee in Hólder-lin si è trasposta completamente in
contemplabilità cosmica, e inoltre dev'essere pensata non come altezza
in stato di quiete, ma potenza che domina1. Anche questa
altezza chiama il vivente. L'anelito verso l'alto, già insito nella
struttura della vita organica, che, pur superandola, presuppone la
gravita, si unisce all'anelito spirituale destato dall'altezza in quanto
regione di valori. Nasce così un èros cosmico che spinge tutti
gli esseri «verso l'alto» ...
Entrambe le rappresentazioni: quella del vivente e di
ciò che dona vita come anche quella dell'altezza con la sua potenza di
senso sono infine collegate con l'impressione di stare sotto il dominio,
la protezione, la benedizione di una potenza divina. Vi confluiscono
anche, estenuati e volti in dimensione cosmica, i pensieri e gli
atteggiamenti intcriori legati alla dottrina cristiana della
Provvidenza...
Tutto ciò si condensa nel concetto di «Padre Etere».
Esso non deve essere concepito ne come un esse-
L'Etere
249
rè astratto dal mondo ne come idea o personificazione
delle connessioni fin qui sviluppate. Esso è al contrario il tutto che
si estende dall'aria empirica al «Pneuma del mondo», dallo
spazio cosmico a quello del senso, dal respiro biologico e dal suo
ordine al dominio divino onnipresente. Dietro a questo tutto vi è,
nella funzione di ciò che conferisce forma, l'immagine di Zeus, il
«padre degli dèi e degli uomini», ma anche, in termini ormai
indeterminati, quella del «Padre nei cieli» biblico. Essa è
responsabile di quell'unione di potenza e clemenza, di quella vicinanza
ed intimità di cuore con il mondo che non si riscontrano ne
nell'immediata esperienza della natura ne nelle rappresentazioni antiche
degli dèi.
Questo contesto appare, visto totalmente dal regno
dell'aria e declinato nell'amabilità, nel passo già citato dall'Iperione,
prima dell'incontro con Diotima:
Era ben visibile come ogni cosa che viva desideri più
del cibo abituale e come, sia l'uccello, sia la fiera, abbia il suo
giorno di festa.
Era uno spettacolo che rapiva! Come quando la madre
chiede, vezzeggiando, ove sia, intorno a lei, ciò che le è più caro e
tutte le sue creature le si precipitano in grembo e anche il più
piccolo tende, dalla culla, le braccia, così ogni essere vivente
volava, saltava e tendeva verso l'aurora divina, e insetti e rondini e
colombi e dcogne s'aggiravano in alto e in basso in giubilante
confusione, e dò che la terra attira a sé mutava il passo in volo, il
cavallo saltava d'impeto oltre i fossi, il capriolo oltre le siepi e, su
dal fondo del mare, salivano i pesci e saltellavano sulla superficie
delle acque. L'aura materna penetrava in tutti i cuori, li levava verso
l'alto e li attirava a sé.
E gli uomini usavano fuori dalle porte e sentivano in
modo meraviglioso come il soffio spirituale agitasse legger-mente i
delicati capelli sulla fronte e rinfrescasse il raggio
250 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
di luce, ed essi scioglievano lieti le vestì per
accoglierlo nel petto; respiravano più dolcemente, sfioravano più
delicatamente il mare chiaro, leggero e carezzevole, nel quale essi
vivevano e si muovevano.
Oh, sorella di quello spirito che domina e vive in noi
con potente ardore, sacra luce! come è bello l'essere guidato da tè
ovunque diriga i miei passi. Onnipresente, immortale! L'alto elemento
giocava con i bambini nel modo migliore. Uno bisbigliava piacevolmente
fra sé e sé, a un altro sgorgava dal labbro una canzone non legata a
un ritmo, a un altro un canto di giubilo a piena gola; uno se ne stava
sdraiato, l'altro saltava in alto, un altro passeggiava assorto nei suoi
pensieri.
E tutto questo era l'espressione di un solo benessere ed
una sola risposta alle carezze delle aure ammalianti. Ero tutto pervaso
da un indescrivibile desiderio e da un senso di pace. Una forza a me
ignota mi dominava. Spirito amico, dicevo tra me, verso dove mi chiami?
verso l'Eliso o verso dove? (II, pp. 146 ss.; tr. it. dt., pp. 70-71).
Il tono è adeguato all'atteggiamento lirico deìVIpe-rione,
ma non esprime ancora il senso ultimo di ciò che significa «Etere».
Nel senso più proprio esso è «padre», e l'aria è il suo alito.
L'immagine diurna dell'etere, finora descritta, viene
completata dalla poesia Alla speranza:
In verde valle ove la fresca polla Del monte mormora
perenne e il colchico Alla luce d'autunno apre il suo fiore, Là, in
quella pace, tè, benigna, io voglio
Cercare: o quando, nella colma notte D'invisibile vita
il bosco ferve E sul mio capo da corolle eterne Raggiano liete le stelle
sicure,
O dell'Etere figlia, appari allora
L'Etere
251
Dai giardini del Padre: e se non puoi Promettermi un
bene mortale, oh, sgomenta, Sgomenta almeno con altro il mio cuore.
Im grùnen Tale, dort, wo der frische Quell / Vom Berge
tàglich rauscht, und die liebiiche / Zeitlose mir am Herbst-tag
aufblùht, / Dort, in der Stille, du Holde, will ich // Dich suchen,
oder wenn in der Mitternacht / Das unsicht-bare Leben im Haine walit, /
Und ùber mir die immerfro-hen / Blumen, die blùhenden Steme, glànzen,
// O du des Àthers Tochter! erscheine dann / Aus deines Vaters Gàrten,
und darfst du nicht / Ein Geist der Erde kom-men, schróck, o /
Schrócke mit anderem nur das Herz mir (II, p. 59; tr. it. cit., pp.
91-93).
Ciò che queste strofe esprimono fa ugualmente parte
dell'etere. Non è la notte come potenza opposta alla luce perché
questa apparterrebbe alla terra, bensì l'ambito degli astri
caratterizzato dalla chiarezza immota e dal mistero splendente. Non
semplicemente «luce», ma mondo delle forme di luce, delle immagini
stellari, dei «fiori del cielo». La loro impressione si trasforma nel
senso di potenzialità e promesse infinite, e si leva un èros di
tipo nuovo: quello nato dall'angustia e stento e che ha nome speranza.
Anch'esso ha qualcosa del tipo del Pnéuma, del misterioso
perché è sicuro di ciò che, di fronte al puramente terreno, sembra
impossibile.
Nella poesia Ritomo in patria il dominio
dell'etere è descritto in modo particolarmente suggestivo:
Quiete risplendono intanto le argentee cime nell'alto E
già colma di rose è lassù la neve raggiante. Ancor più su ha sua
stanza, sopra la luce, il puro Beato Iddio, dal gioco dei sacri raggi
allietato. Tacito e solo dimora e chiaro riluce il suo viso:
252 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
Par che l'Eterico a dare vita s'inclini,
Gioia a creare, con noi: come quando, esperto della
misura,
E dei mortali esperto, con indugio e clemenza Iddio
Solida fortuna alle atta e alle case, e miri
Piogge a dischiudere i campi, e covanti nuvole, e voi,
Care brezze, voi, dola primavere, manda;
E con lenta mano i tristi di nuovo fa lied
Quando innova i tempi, il creante, e i muti
Cuori dell'umanità vecchia ristora e scuote
E giù nel profondo opera e apre e rischiara,
Come egli ama; e adesso di nuovo una vita comincia,
La grazia rifiorisce come un tempo, toma presente lo
Spirito
Ed un allegro coraggio di nuovo le ali rigonna.
Ruhig glànzen indes die silberner Hóhen darùber, /
Voli mit Rosen ist schon droben der leuchtende Schnee. / Und noch hóher
hinauf wohnt ùber dem Uchte der reine / Se-lige Gott vom Spiel heiliger
Strahien erfreut. / Stille wohnt er allein und hell erscheinet sein
Antlitz, / Der àtherische scheint Leben zu geben geneigt, / Freude zu
schaffen, mit uns, wie oft, wenn, kundig des MaBes, / Kun-dig der
Atmenden auch, zógernd und schonend der Gott / Wohigediegenes Glùck
den Stàdten und Hàusern und milde / Regen, zu óffnen das Land,
brùtende Wolken, und euch, / Trauteste Lùfte dann, euch, sanfte
Frùhiinge, sendet, / Und mit langsamer Hand Traurige wieder erfreut, /
Wenn er die Zeiten erneut, der Schópferische, die stillen / Herzen der
alternden Menschen erfrischt und er-greift, / Und hinab in die Tiefe
wirkt, und aufhellt, / Wie ers liebet, undjetzt wieder ein Leben
beginnt, / Anmut blùhet, wie einst, und gegenwàrtiger Geist kómmt, /
Und ein freudiger Mut wieder die Fitdche schwellt (il, pp. 96-97; tr.
it. cit., p. 145).
Qui la rappresentazione del dominare e del dotare
compie il trapasso nello storico, e l'etere si congiunge con la
divinità di quest'ultimo, lo «Spirito del tempo».
Il rapporto con la storia è ancora più profondo in
L'Etere
253
Germania.
Dapprima si dice che le figure temporali tramontano, e i loro dèi con
esse. Ma ciò che è morto è ancora presente: esso vive, infatti, nello
spazio dell'etere, pronto a rientrare nella storia. Ma il veggente
attende questo evento:
[...] Sente
L'ombre di coloro, che sono già stati,
Gli antichi, e che la terra tornano a visitare.
Poiché quelli che là debbono giungere, incalzano noi
E non può più indugiare di uomini-dèi
La sacra schiera ancora nell'alto azzurro.
[...] Er fùhit / Die Schatten derer, so gewesen sind, /
Die Alten, so die Erde neubesuchen. / Denn die da kommen sollen, drangen
uns, / Und lànger sàumt von Góttermen-schen / Die heilige Schar nicht
mehr im blauen Himmel (II, pp. 149-150; tr. it. cit-, p. 207).
Ora, l'etere è una delle due zone ultraterrene del
mondo in cui il passato vive, pronto a rientrare nella storia. Di questa
concezione abbiamo già parlato compiutamente (il, supra, p.
190).
In Pane e vino il ritorno si esprime quasi sotto
la forma di un mistero dionisiaco:
[...] e dove suona il grande destino?
Dov'è il veloce? Dove, d'un bene universo ricolmo
Rompe sugli occhi, tuonando dall'aria serena?
'Padre! Etere!' ecco il grido che di labbro in labbro
volava
In mille modi e nessuno sopportava la vita da solo.
Comparato rallieta un tal bene e con estranei scambiato
Diventa un giubilo, cresce dormendo il potere della
parola:
«Padre! Sereno!» e risuona da ogni distanza il segno
Originario, ereditato dagli avi e ove giunge crea. Così prendono stanza
i celesti e spargendo un brivido fondo Fuori dalle ombre scende, fra gli
uomini, il loro giorno.
254 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
[...] wo tónet das groBe Geschick? / Wo ist das
schnelle? Wo brichts, allgegenwàrtigen Glùcks voli, / Donnemd aus
heiterer Luft ùber die Augen herein? / Vater Àther! So riefs und flog
von Zunge zu Zunge / Tausendfach, es er-trug keiner das Leben allein; /
Ausgeteilet erfreut soich Gut und getauschet, mit Fremden, / Wirds ein
Jubel, es wàchst schlafend des Wortes Gewalt / Vater! Heiter! Und
hallt, so weit es gehet, das uralt / Zeichen, von Eltem ge-erbt,
treffend und schaffend hinab. / Denn so kehren die Himmlischen ein,
tiefschùttemd gelangt so / Aus deri Schatten herab unter die Menschen
ihr Tag (il, p. 92; tr. it. dt., p. 137).
Anche il dramma di Hólderlin è interamente permeato
dall'immagine dell'etere e dal rapporto connesso (IV, infra, p.
564). Empedocle è il confidente del dio supremo, sacerdote regale che
conosce l'ordine dell'esistenza e il segreto delle cose, legislatore,
saggio, guaritore. Ma la sua conoscenza non è immediata e forte
abbastanza, bensì qualcosa di secondario. Inoltre, egli non è
sufficientemente puro e fa cattivo uso della confidenza divina. In tal
modo il dramma diventa la tragedia dell'etere stesso, compiendosi
nell'uomo che non è all'altezza del rapporto con esso.
Questo insieme che dalla realtà empirico-biologica e
cosmica, passando per la sfera spirituale intcriore, si estende al
mistero, costituisce una divinità. Non si tratta - per dirlo ancora una
volta - della personificazione di un concetto, come quello dell'altezza,
oppure dell'ordine della vita. Non si tratta nemmeno della forma poetica
conferita a un elemento del mondo, per esempio del legame tra aria,
alito, anima, moto degli spiriti, ispirazione, trasformazione. L'etere
non è neppure un
L'Etere
255
simbolo di quanto è sempre valido, per esempio della
verità e della sapienza, correlata alla potenza di senso che da forma
alla storia. E non è, per finire, l'espressione metaforica per
designare un ambito di ciò che è a noi sottratto, in cui l'esistenza
trapassa, per rimanere comunque immanente al mondo. Si tratta invece di
qualcosa di primordiale, di un Uno e di un Tutto, che, racchiudendo
tutti i momenti e rapporti citati, viene sperimentato come nume.
LA TERRA
All'etere si contrappone la terra, all'altezza la
profondità o, meglio, l'interiorità, alla potenza del Padre la grande
Madre. Anche la figura di quest'ultima è riccamente sviluppata nella
poesia di Hólderlin. Essa si afferma in modo così vivo e immediato da
non poter essere frutto di escogitazione filosofica o di creazione
poetica, ma solo di un'esperienza vissuta primordiale.
L'immagine della terra appare incantevolmente bella
nella poesia Alla Primavera:
Tu che fai giovani i cuori, e i campi. Primavera sacra,
Prima nata nel grembo del tempo! Possente! Salve a tè!
Salve! Spezza le catene e ti leva canti di gioia,
Tanto che treman le rive, il fiume; noi giovani
inebriati
Esultiamo là, dove il fiume t'onora, scopriamo
Al tuo soffio d'amore, o benigna il petto ardente, e d
tuffiamo
Nel fiume giù, esultando con lui, chiamandoti sorella.
Sorella! Come bene danza, con mille espressioni di
gioia,
Oh, e mille d'amore, nell'Etere sorridente,
La tua terra, da che dalle valli d'Eliso tu
A lei ('accostasti, giovinetta celeste, con la magica
verga!
Der du Herzen verjùngst, und Fluren, heiliger
Frùhiing, / Erstgeborner im SchoBe der Zeit! Gewaltiger! Heil dir! /
Heil! Der Fessel zerriB, und tónt dir Feiergesànge, / DaB die Gestad'
erbeben, der Strom; wirJùnglinge taumein,/
258 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
Jauchzen hinaus, wo der Strom dich preist, wir
enthùllen, du Holder, / Deinem Uebeshauche die glùhende Brust, und
stùrzen hinunter / In den Strom, und jauchzen mit ihm, und nennen dich
Bruder. // Bruder! Wie tanzt so schón, mit tausendfaltiger Freude /
Ach! Und tausendfàlti-ger Ueb im làcheinden Àther / Deine Erde dahin,
seit aus Elysiums Talen / Du mit dem zauberstab ihr nahtest,
him-mlischerJùngling! (i, p. 202).
Qui essa viene vista come astro nello spazio: dall'alto
di questo spazio, cosmico e con un occhio che ne ha la vastità. Nel
corso della poesia l'amabilità cosmica trapassa in quella propriamente
«terrena», vicina all'uomo. Della prima giovinezza della terra parla
l'ode L'uomo:
Quando a tè affioraron dall'acqua, o Terra,
Le cime dei giovani monti, e profumarono,
Dolce esalando, piene di boschi sempreverdi,
Nel grigio deserto dell'oceano ;
Le prime vaghe isole; e lieto vide L'occhio del dio Sole
le novelle Piante, della sua eterna giovinezza creature sorridenti, da
tè nate.
Kaum sproBten aus den Wassern, o Erde, dir / Der jun-gen
Berge Gipfel und dufteren / Lustatmend, immergrù-ner Haine / Voli, in
des Ozeans grauer Wildnis. // Die er-sten holden Insein; und freudig sah
/ Des Sonnengottes Auge die Neulinge, / Die Pflanzen, seiner
ewgenJugend/ Làcheinde Kinder, aus dir geboren (i, p. 263).
Il tono si fa più serio néll'Empedocle. Nel
primo atto della prima versione il veggente dice alla luce:
Viveva in me la tua anima
La Terra
259
e, al pari tuo, il mio cuore apertamente
si donò alla Terra sofferente e solenne, e spesso,
nella notte sacra, fed il voto di amare sempre lei,
la Fatale, senza umore e in fede, e di non disprezzare
nessuno dei suoi misteri. Così strinsi con lei
il mio petto mortale. Allora nel bosco
si udiva uno stormire diverso e delicati
mormoravano i ruscelli dei suoi mond.
E con affocata dolcezza nell'alito dei fiori spira,
o Terra, a me la tua calma vita.
E tutte le tue gioie, Terra, non come
quelle che sorridendo porgi ai deboli,
stupende quali sono, e calde e vere,
maturate d'amore e di fatica, tutte mi donasti,
e spesso, stando su vette silenti, stupito
meditavo sul sacro fluire della vita,
in preda a commozione per le tue metamorfosi,
e presagendo il mio stesso destino, l'etere
bagnava con il suo respiro me come tè
per medicare il mio petto ferito d'amore
e come per magia nel suo profondo
si scioglievano i miei enigmi [...]
Denn deine Seele war in mir, und offen gab / Mein Herz,
wie du, der ernsten Erde sich, / Der leidenden, und oft in heilger Nacht
/ Gelobt ichs ihr, bis in den Tod / Die Schicksaisvolle furchtios treu
zu lieben / Und ihrer Ràtsel keines zu verschmahn. / So knùpft ich
meinen Todesbund mit ihr. / Da rauscht' es anders denn zuvor im Hain, /
Und zàrtiich tónten ihrer Berge Quellen / Und feurig mild im
Blumenothem weht', / O Erde! Mir dein stillers Leben zu. / Ali deine
Freuden, Erde! Nicht wie du / Sie làcheind reichst dem Schwàchern,
herrlich wie sie sind, / Und warm und groB aus Mùh und Lieb reifen - /
Sie alle gabst du mir, und wenn ich oft / Auf stiller Bergeshóhe sa6
und staunend / Des Lebens heilig Irrsal ùbersann, / Zu tief von deinen
Wandiungen bewegt / Und eignes Schicksal ahndend, / Dann atmete der
Ather, so wie dir, /
260
Terzo
cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso
Mir heilend um die liebeswunde Brust,/ Und zauberisch in
seiner Tiefe lósten / Sich meine Ràtsel auf [...] (in, pp. 91-92; tr.
it. cit., pp. 53-55).
Da queste parole emerge il carattere particolare della
Terra: essa ha un destino. L'Etere è senza destino. La sua sfera è
quella olimpica, intangibile a ciò che avviene. La Terra invece
attraversa le fasi del fiorire, portar frutto, morire, dell'irrigidirsi
nel gelo e del risveglio. Le stagioni della vita sono la forma
dell'esistenza che le è propria. Essa è madre ed ha anche un destino
materno, quello evocato dal mito di De-metra.
Un discorso ancora più potente su di lei si svolge in
Empedocle sull'Etna:
Se, come dia, sei il confidente
del Tonante e se vive in armonia
il tuo spirito con lui che di ogni cammino è esperto,
vieni con me ora che, troppo solo,
il mio cuore si lamenta della terra e,
memore dell'antica unità, l'oscura madre
tende le bracda di fuoco all'etere
e il Sovrano giunge nel suo raggio,
seguiamolo, in segno d'essergli
affini, giù nelle sacre fiamme.
Und wenn du, wie du sagst, des Donnerers / Vertrauter
bist, und eines Sinns mit ihm / Dein Geist mit ihm, der Pfade kundig,
wandeit, / So komm mit mir; wenn itzt, zu einsam sich, / Das Herz der
Erde klagt, und eingedenk / Der alten Einigkeit die dunkie Mutter / Zum
Àther aus die Feuerarme breitet, / Und itzt der Herrscher kómmt in
seinem Strani, / Dann folgen wir, zum Zeichen, daB wir ihm / Verwandte
sind, hinab in heilge Flammen (ili, pp. 223-224; tr. it. dt-, p. 241).
La Terra 261
La sua figura assume infine una cupa grandezza nel
seguente brano: :
Per Eracle divino, anche se tu scendessi
a visitare i Titani placando
i possenti laggiù, dall'alta vetta
fin nella valle senza fondo e se tu osassi
entrare nel sacrario dell'abisso
dove paziente si cela il cuore della Terra
prima che si levi il giorno,
e l'oscura madre ti rivela le sue pene, figlio della
Notte
e dell'Etere, è ceno, fin laggiù d seguirei!
Beim góttlichen Herakies! Sdegst du auch, / Um die
Ge-waltigen, die drunten sind, / Versóhnend, die Titanen heimzusucheri,
/ Ins bodenlose Tal, von jenem Gipfel dort, / Und wagtest dich ins
Heiligtum des Abgrunds, / Wo duldend vor dem Tage sich das Herz / Der
Erde birgt und ihre Schmerzen dir / Die dunkie Mutter sagt, - o du der
Nacht, / Des Àthers Sohn: ich foigte dir hinunter! (m, p. 213; tr. it.
dt-, pp. 225-227).
Negli ultimi due testi la Terra diventa l'ambito intemo
del mondo. Essa costituisce l'altra zona a noi sottratta, opposta a
quella dell'Etere. E il centro del tutto, verso cui si spinge
l'inclinazione della vita, è lo spazio dell'esistere preindividuale, da
cui tramite la nascita è scaturita ogni cosa viva e chiara in una forma
e a cui ritorna attraverso la morte - vedi ciò che è stato detto sopra
sul desiderio della vita, che tende alla profondità (i, supra,
p. 38) e sulla morte (II, supra, p.183).
L'Etere è chiaro e lieto; la Terra oscura e sofferente.
All'Etere è correlato l'aperto dispiegamento, nella luce e nella
vastità; alla Terra il silenzio e la chiusura, la radice e il grembo.
All'Etere appartengono la for-
262 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
tuna, il successo, la libertà: alla Terra la gioia, ma
anche la sofferenza della fecondità, ciò che è gettato in basso,
sceso al fondo. Ad esso spetta il privilegio, il trionfo del dominio; ad
essa la pienezza della vita, ma anche la crudeltà, che si accompagna al
nuovo formarsi e nascere.
Tellurici sono quindi anche i Titani, le antiche
divinità ctoniche vinte dagli Olimpici. Ma esse sono vinte solo di
fatto, non di diritto e per essenza. Esse devono servire l'ordine
attuale, ma non hanno accettato il loro destino, continuando a
rivendicare un mondo determinato da loro. Esse sono perciò una continua
fonte di pericolo, e la terra ne è il focolare. Qui il fermento del
grembo si trasforma in confusione e terrore, la primordialità del
divenire e nascere si muta in sedizione e distruzione.
La delicata poesia A Diotima ci mostra il caos in
concomitanza alla vita traboccante e alla letizia cosmica della terra:
II delo prima sfiorò con lieve stilla d'argento II suo
fratello, il fiume;
Vidno è ora, ora versa tutta la piena stupenda
Che portava nel cuore
Sul bosco e sul fiume, •
E il verde del bosco e il delo riflesso nel fiume
Balugina e dilegua innanzi a noi • ;
E il capo del monte solingo con le casette e le rupi
Che nel grembo nasconde,
E i colli che a lui intorno, come agnelli sdraiati,
E in boscaglia fiorita
Come in tenera lana avvolti si nutrono di chiare
Fresche sorgenti del monte,
E la valle vaporante con i suoi seminati e i suoi fiori,
E il giardino a noi innanzi,
La Terra
263
II vicino e il lontano sfuma e si perde in lieto
tumulto E si spegne il sole.
Leise berùhrte der Himmel zuvor mit der silbemen
Trop-fe / Seinen Bi-uder, den Strom; / Nah ist er nun, nun schùttet er
ganz die kóstliche Fùlie, / Die er am Herzen trug, / Ùber den Hain
und den Strom, / Und das Grùnen des Hains, und des Himmeis Bild in dem
Streme / Dàm-mert und schwindet vor uns, / Und des einsamen Berges
Haupt mit den Hùtten und Felsen, / Die er im SchoBe ver-birgt, / Und
die Hùgel, die um ihn her, wie Làmmer, gela-gert / Und in blùhend
Gestràuch / Wie in zarte Wolle ge-hùllt, sich nàhren von klaren /
Kùhlenden Quellen des Bergs, / Und das dampfende Tal mit seinen Saaten
und Blumen, / Und der Garten vor uns, / Nah und Fernes ent-weicht,
verliert sich in froher Verwirrung/ Und die Sonne verlischt (i, p. 210;
tr. it. dt, pp. 25-27).
Ma solo un piccolo passo separa il bei caos della
fecondità da quello malvagio della distruzione e del terrore, come
avverte l'ultima strofa dell'inno II Reno. L'intera poesia
annuncia il trionfo della forma vinci-trice, il superamento del caos. Ma
alla fine appare, come resto minaccioso o come monito alla prudenza
sempre necessaria oppure, concepito in termini dell'antichità, come
sacrificio riconciliante alle potenze superate, il vinto:
Se per ardente sentiero d'abeti
O nel buio quercete, celato
Nell'acciaio, o mio Sinclair! Iddio ti appaia
O nelle nubi, lo riconoscerai, che, giovanile,
Conosd la forza del bene e non ti è mai
Ascoso il sorriso del Regnatore,
Sia di giorno, quando
Febbrile e incatenata ,
La vita appare, sia
264 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
Di notte quando tutto si mischia Senz'ordine e torna
L'originario groviglio.
Dir mag auf heiBem Pfade unter Tannen oder / Im Dun-kel
des Eichwaids, gehùllt / In Stahi, mein Sinclair! Gott erscheinen oder
/ In Wólken, du kennst ihn, da du ken-nest, jugendiich, / Des Guten
Kraft, und nimmer ist dir / Verborgen das Làchein des Herrschers / Bei
Tage, wenn / Es fieberhaft und angekettet das / Lebendige scheinet, oder
auch / Bei Nacht, wenn alles gemischt / Ist ordnungs-los und wiederkehrt
/ Uralte Verwirrung (il, p. 148; tr. it. cit, p. 205). .
In modo simile un frammento tardo, Mnemosine:
Maturi sono, nel fuoco tuffati, cotti
I frutti e sulla terra provati; e v'ha una legge
Che tutto in dentro si volga, come serpenti
In profetico sogno sopra
I colli del delo. E molto,
Quale sugli omeri
Un peso di docchi
È da conservare. Ma sono cattivi
I sentieri. Poiché fuori strada
Come cavalli, vanno i prigionieri . •
Elementi e le vecchie
Leggi della terra. E sempre
Allo sfrenamento va una brama [...].
Reif sind, in Feuer getaucht, gekochet / Die Frùcht und
auf der Erde geprùfet und ein Gesetz ist, / DaB alles hi-neingeht,
Schlangen gleich, / Prophetisch, tràumend auf/ Den Hùgein des Himmels.
Und vieles, / Wie auf den Schuitern eine / Last von Scheitern, ist / Zu
behalten. Aber bós sind / Die Pfade. Namlich unrecht, / Wie Rosse, gehn
die gefangenen / Element' und alten / Gesetze der Erd. Und immer / Ins
Ungebundene gehet eine Sehn-sucht [...] (Il, p. 197; tr. it. dt., p.
243).
LaTerra
265
In Germania l'immagine della terra si eleva come
da misteri eleusini:
[...] Come della Santa,
Che è madre di tutto e porta l'abisso,
Dagli uomini detta l'Ascosa,
Così è di amore e di dolore,
E pieno di presagi,
E pieno di pace il tuo seno.
Oh bevi aure mattutine,
Finché dischiusa tu sia
E nomina ciò che hai innanzi agli occhi.
Più oltre non può mistero
L'inespresso restare
Da tanto ch'esso è nascosto:
Poiché ai mortali s'addice il ritegno
E con ritegno parlare, di solito,
È saggio, anche, degli dèi.
Ma quando, più traboccante che pure sorgenti,
L'oro, e severa diviene l'ira nel delo,
Deve fra giorno e notte
Finalmente un Vero apparire.
Dichiaralo tré volte:
Ma, sia pure inespresso come è ora, O innocente, dò
resterà.
Oh! Nomina, figlia della sacra terra,
Finalmente la Madre. Croscian le acque alla rupe
E le tempeste nel bosco e al nome suo
Risuona su dall'antico il Divino che è tramontato.
Come è diverso! Come splende giusto e si esprime
Anche il futuro, lieto, dalle lontananze.
Ma nel mezzo del tempo
Vive calmo con la consacrata
Virginea terra l'Etere,
E piace, per ricordo,
A loro, di nulla bisognevoli,
Essere amia ospiti delle tue feste
266 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
Che anch'esse di nulla abbisognano, Germania [...]
[...] Denn fast, wie der heiligen, / Die Mutter ist von
alleni, / Die Verborgene sonst genannt von Menschen, / So ist von Ueben
und Leiden / Und voli von Ahnungen dir / Und voli von Frieden der Busen.
// O trinke Morgeniùfte, / Bis daB du offen bist, / Und nenne, was vor
Augen dir ist. / Nicht lànger darf Geheimms mehr / Das Ungespro-chene
bleiben, / Nachdem es lange verhùllt ist; / Denn Sterbiichen geziemet
die Scham, / Und so zu reden die meiste Zeit, /Ist weise auch von
Góttern. / Wo aber ùber-flùssiger, denn lautere Quellen, / Das Gold
und ernst ge-worden ist der Zorn an dem Himmel, / MuB zwischen Tag und
Nacht, / Einsmais ein Wahres erscheinen. / Dreifach umschreibe du es, /
Doch ungesprochen auch, wie es da ist, / Unschuidige, muB es bleiben. //
O nenne, Tochter du der heiligen Erd', / Einmal die Mutter. Es rauschen
die Wasser am Feis / Und Welter im Wald und bei dem Na-men derselben /
Tónt auf aus alter Zeit VergangengóttU-ches wieder. / Wie anders ists!
und rechthin glànzt und spricht / Zukùnftiges auch erfreulich aus den
Fernen. / Doch in der Mitte der Zeit / Lebt ruhig mit geweihter /
Jungfràulicher Erde der Àther / Und geme, zur Erinne-rung, sind / Die
unbedùrftigen, sie / Gastfreundiich bei den unbedùrftgen, / Bei deinen
Feiertagen, / Germania [...] (il, pp. 151-152; tr. it. dt., pp.
209-211).
In questi versi la descrizione che Hólderlin da della
Terra raggiunge il suo limite estremo. Le immagini sono misteriosamente
profonde, e la loro profondità è autentica. Esse vengono da una
visione a cui partecipa l'intimo del cuore.
Per Hólderlin la Terra è dapprima realtà geologica.
Al di là di ciò essa ha un significato per l'uomo:
come spazio per il suo abitare e come patria della sua
La Terra
267
vita, come portatrice della crescita che nell'anno della
vita subisce essa stessa un destino. Tutto ciò si prolunga nell'ambito
della profondità, del grembo e dell'inconscio, per diventare infine
l'interiorità del mondo, il centro del tutto, l'interna zona a noi
sottratta dell'esistenza. Anche questo contesto complessivo viene
sperimentato in termini religiosi; e mentre colui che non è iniziato,
non percepisce che dati scientifici, economici o estetici, il toccato,
sia egli un veggente o un uomo religioso, vi scorge il nume che vi si
innalza.
IL MITO DEL CIELO E DELLA TERRA
Nelle pagine precedenti si è parlato di due divinità
che dominano il mondo di Hólderlin: l'Etere e la Terra. Esse sono le
potenze costitutive del mondo: il superiore e l'interno, il chiaro e
l'oscuro, ciò che signoreggia e ciò che sostiene e sopporta, ciò che
risveglia e da forma e ciò che riceve, conserva, partorisce;
quanto è lieto, olimpico e libero nella sua elevatezza
e ciò che è legato, ciò che subisce un destino, che è in lutto ...
Tra essi si svolge una vicenda interminabile. Costantemente essi
convergono toccandosi e unendosi, nuovamente sciogliendosi e
trasportandosi in una lontananza tragica, per convergere un'altra volta.
Da questo movimento scaturisce il costante nascere e
perire della vita; crescere, fiorire, portar frutto, appassire e morire,
rigidità invernale e ancora un nuovo risveglio. Ne da testimonianza il
mito del Cielo e della Terra, delle generazioni, della loro tensione e
della loro unità, della vita e dei suoi ritmi.
'Neìì'Iperione
si legge:
Parlammo infine della vita della Terra. Ad essa non
venne mai cantato un inno così ardente e così infantile.
Ci placava il poter rovesciare la piena straripante dei
nostri cuori nel grembo della buona madre. Ce ne sentivamo alleggeriti,
come gli alberi quando il ventò estivo scuote i rami carichi di frutti
e fa cadere sull'erba le dola mele.
270 Terzo cerchio • Gli dèi e il riferimento
religioso
Chiamavamo la Terra uno dei fiori del cielo, e il cielo
l'infinito giardino della vita. Come le rose si rallegrano del loro
polline d'oro, così l'eroica luce del sole rallegra, con i suoi strali,
la Terra; essa è una magnifica creatura vivente, dicevamo, sempre
divina, sia che il fuoco irato o dolci limpide acque sgorghino dal suo
cuore, sempre felice, sia che si nutra di gocce di rugiada o di nubi
temporalesche che essa si prepara per il suo godimento, con l'aiuto del
cielo. Essa è sempre la più fedele amante del dio del sole, in origine
congiunta con lui forse ancor più indmanente, ma, poi, separata da lui
da un onnipotente destino affinchè essa debba cercarlo, avvicinarsi e
allontanarsi e maturare la sua più alta bellezza fra gioie e dolori
(II, pp. 152-153; tr. it. dt.,p.75).
La forma più universale di questo contesto, ordinata
secondo una legge ben precisa, sono le stagioni dell'anno. Abbiamo già
visto la bella poesia Alla Primavera, in cui quel ritmo si
manifesta in modo così incantevole. In essa si legge:
Gote vidi sfiorire, e la forza delle braccia
invecchiare,
Ma tu, mio cuore, non ancora invecchi tu, no: e come
la
Luna l'amato,
La gioia, figlia del Cielo, ti ridestò dal sonno;
Perché si sveglia con me a nuova, ardente giovinezza,
La mia dolce sorella Natura e le mie amate
Valli e i miei più amari boschi,
Pieni di lied canti di uccelli e d'aurette scherzose,
In gioia selvaggia esultano salutandomi benigni.
Tu che fai giovani i cuori, e i campi. Primavera sacra,
Prima nata nel grembo del Tempo! Possente! Salve a tè!
...
Non vedemmo come più benigna salutò l'amato superbo,
II sacro Giorno, quando ardito per avere vinto le ombre Sui monti
fiammeggia; come lieve arrossendo, nel velo D'argentei incensi avvolta,
lo guarda in attesa dolce,
Il mito del Cielo e della Terra
271
Finch'arde di lui, e le sue mid creature Tutte, fiori e
bosco e messi e viti in germoglio [...]
Wangen sah ich verbiùhn, und die Kraft der Arme
veral-ten, / Du mein Herz! noch alterst du nicht; wie Luna den Uebiing,
/ Weckte des Himmeis Kind, die Freude, vom Schlafe dich wieder; / Denn
Sie erwacht mit mir zu neuer, glùhender Jugend, / Meine Schwester, die
sùBe Natur, und mei ne geliebten / Tale làchein mich an, und meine
geliebteren Haine, / Voli erfreulichen Vogelgesangs, und scherzender
Lùfte, / Jauchzen in wilder Lust den freundii-chen GruB mir entgegen. /
Der du Herzen verjùngst, und Fluren, heiliger Frùhiing, / Erstgeborner
im SchoBe der Zeit! Gewaltiger! Heil dir! ... // Sahn wir nicht, wie sie
freundiicher nun den stolzen Geliebten / GrùBt', den hei-ligen Tag,
wenn er kùhn vom Siege der Schatten / Ùber die Berge flammt! Wie sie
sanfterrótend, im Schleier / Sil-bemer Dùfte verhùllt, in sùBen
Erwartungen aufblickt, / Bis sie glùhet von ihm, und ihre friediichen
Kinder / Alle, Blumen und Hain', und Saaten und sprossende Reben [...]
(I, pp. 202-203).
Lo stesso avvenimento si manifesta tuttavia anche in
forme spontanee, per così dire entusiastiche. In tal caso non vengono
sentite la regola e l'armonia, ma l'irruzione imprevedibile della
potenza creatrice. Ciò accade nel temporale, come è descritto nella
poesia A Diotima:
II delo prima sfiorò con lieve stilla d'argento II suo
fratello, il fiume;
Vicino è ora, ora versa tutta la piena stupenda Che
portava nel cuore Sul bosco e sul fiume,
E il verde del bosco e il delo riflesso nel fiume
Balugina e dilegua innanzi a noi
272 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
E il capo del monte solingo con le casette e le rupi
Che nel grembo nasconde,
E i colli che a lui intorno, come agnelli sdraiati,
E in boscaglia fiorita
Come in tenera lana avvolti si nutrono di chiare
Fresche sorgenti del monte,
E la valle vaporante con i suoi seminati e i suoi fiori,
E il giardini a noi innanzi,
II vicino e il lontano sfuma e si perde in lieto tumulto
E si spegne il sole.
Ma ora han finito di scrosciare i flutti del delo,
E purificata, più giovane
Sorge coi figli beati dal lavacro la terra.
Più lieto, più vivo
Splende nel bosco il verde, più scintilla l'oro dei
fiori [.„].
Leise berùhrte der Himmel zuvor mit der silbemen
Trop-fe / Seinen Bruder, den Strom; / Nah ist er nun, nun schùttet er
ganz die kóstliche Fùlie, / Die er am Herzen trug, / Ùber den Hain
und den Strom, / Und das Grùnen des Hains, und des Himmeis Bild in dem
Strome / Dàm-mert und schwindet vor uns, / Und des einsamen Berges
Haupt mit den Hùtten und Felsen, / Die er im SchoBe ver-birgt, / Und
die Hùgel, die um ihn her, wie Làmmer, gela-gert / Und in blùhend
Gestràuch / Wie in zarte Wolle ge-hùllt, sich nàhren von klaren /
Kùhlenden Quellen des Bergs, / Und das dampfende Tal mit seinen Saaten
und Blumen, / Und der Garten vor uns, / Nah und Fernes ent-weicht,
verliert sich in froher Verwirrung / Und die Sonne verlischt. / Aber
vorùbergerauscht sind nun die Fluten des Himmeis /Und gelàutert,
verjùngt / Geht mit den seligen Kindern hervor die Erd aus dem Bade. /
Froher, lebendi-ger / Glanzt im Haine das Grùn, und goldner fùnkein
die Blumen [...] (I, pp. 210-211; tr. it. dt, pp. 25-27).
Non solo il primo nascere della vita nuova scaturisce
dall'incontro di cielo e terra, ma anche il ringiovanimento della vita
quando s'è fatta stanca. Ma mentre
Il mito del Ciclo e della Terra
273
il primo sottosta alla legge dell'anno, il secondo si
compie grazie alle tensioni dell'ora.
Sotto altra forma l'incontro si svolge nei pomeriggi
molto chiari. In quel caso cielo e terra sembrano compenetrarsi. Tutto
sembra perdere il proprio peso e diventare trasparente, e si annuncia un
mistero di metamorfosi.
È l'ora preferita di Hólderlin, quella «eletta»,
alcionia, prediletta anche da Friedrich Nietzsche - simbolo del fatto
che nell'esistenza non c'è solo la forza della necessità, ma anche
quella della grazia, vale a dire ciò che si compie in leggerezza e
libertà. Essa viene descritta soprattutto nell'inno // Reno:
Ed è stupendo dal sacro sonno allora
Sorgere e da boschiva frescura
Destandosi, nella sera
Alla più mite luce andare incontro,
Quando colui ch'edificato ha i mond
E segnato la strada dei fiumi,
Dopo che sorridendo egli pure
La vita operosa degli uomini
Povera di respiro come vela
Con le sue brezze ha guidato,
Anche lui riposa e ora verso l'allieva
II creatore, più bene
Che male trovando,
Verso l'odierna terra il Giorno s'inclina.
Allora festeggiano nozze uomini e dèi,
Le festeggiano tutti i viventi
E appianato
È per breve ora il destino.
Cercano ricetto i fuggiaschi
E soave sopore i prodi,
Ma gli amanti sono
Ciò che erano; sono
274 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
A loro agio, dove il fiore si allieta
D'innocente fuoco e gli alberi bui
Lo Spirito avvolge di murmuri, ma gl'incondiiati
Mutano animo e corrono
A darsi la mano prima
Che l'amorosa luce
Tramonti e venga la notte.
Und herrlich ists, aus heiligem Schlafe dann / Erstehen
und aus Waldes Kùhle / Erwachend, abends nun / Dem milderen Licht
entgegenzugehn, / Wenn, der die Berge gebaut / Und den Pfad der Strème
gezeichnet, / Nach-dem er làcheind auch / Der Menschen geschàftiges
Leben, / Das othemarme, wie Segei / Mit seinen Lùften gelenkt hat, /
Auch ruht und zu der Schùlerinjetzt, / Der Bildner, Gutes mehr / Denn
Bóses iindend, / Zur heutigen Erde der Tag sich neiget. // Dann feiern
das Braulfest Menschen und Getter, / Es feiern die Lebenden ali, / Und
aus-geglichen / Ist eine Weile das Schicksal. / Und die Flù-chtiinge
suchen die Herberg, / Und sùfien Schiummer die Tapfern, / Die Uebenden
aber / Sind, was sie waren, sie sind / Zu Hause, wo die Blume sich
freuet / Unschàdii-cher Glut und die finsteren Bàume / Der Geist
umsàuseit, aber die Unversóhnten / Sind umgewandeit und eilen / Die
Hànde sich ehe zu reichen, / Bevor das freundiiche Licht / Hinuntergeht
und die Nacht kommt (U, pp. 147-148; tr. it. cit., pp. 203-205).
L'ora del tardo pomeriggio ha la sua controparte in
quella del primo mattino - del «tempo lieve come piuma del primo
mattino», come dice Mórike. Anch'essa era cara a Nietzsche. Lo Zarathustra
parla delle montagne assorte in silenzio nella loro luce fredda. La
ritroviamo anche nella poesia di Hólderlin Ritorno in patria. In
essa si legge dapprima:
Là in grembo alle Alpi è ancor notte chiara e la
nuvola Addensando gioia, ammanta lì dentro lo squarcio della vallata.
Il
mito
del Cielo e della Terra 275
Piomba qua e là fragoroso l'allegro vento montano, A
picco traverso gli abeti un raggio balena e dilegua. Lento s'affretta e
combatte, di gioia rabbrividendo il Caos In giovanile tempra, eppur
forte, celebra amorosa gara, Fra le rupi, fermenta e vacilla entro
l'eterne barriere, Poiché più bacchico sorge là in fondo il mattino
nell'alto.
Drin in den Alpen ists noch nelle Nacht und die Wolke, /
Freudiges dichtend, sie deckt drinnen das gannendo Tal. / Dahin, dorthin
toset und stùrzt die scherzende Bergluft, / Schroff durch Tannen herab
glànzet und schwindet ein Strani. / Langsam eilt und kàmpft das
freudigschauernde Chaos, / Jung an Gestalt, doch stark, feiert es
liebenden Streit / Unter den Felsen, es gàrt und wankt in den ewi-gen
Schranken, / Denn bacchantischer zieht drinner der Morgen herauf(n, p.
96; tr. it. dt., p. 143).
Ma poi:
Quete risplendono intanto le argentee cime nell'alto E
già colma di rose è lassù la neve raggiante. Ancor più su ha sua
stanza, sopra la luce, il puro Beato Iddio, dal gioco dei sacri raggi
allietato. Tacito e solo dimora e chiaro riluce il suo viso:
Par che l'Eterico a dare vita s'inclini,
Gioia a creare, con noi: come quando, esperto della
misura,
E dei mortali esperto, con indugio e clemenza Iddio
Solida fortuna alle atta e alle case, e miti
Piogge a dischiudere i campi, e covanti nuvole, e voi,
Care brezze, voi, dola primavere, manda;
E con lenta mano i tristi di nuovo fa lieti
Quando innova i tempi, il creante, e i muti
Cuori dell'umanità vecchia ristora e scuote
E giù nel profondo opera e apre e rischiara,
Come egli ama; e adesso di nuovo una vita comincia,
La grazia rifiorisce come un tempo, toma presente lo
Spirito
Ed un allegro coraggio di nuovo le ali rigonna.
276 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
Ruhig glànzen indes die silbernen Hóhen darùber, /
Voli mit Rosen ist schon droben der leuchtende Schnee. / Und noch hóher
hinauf wohnt ùber dem Uchte der reine / Se-lige Gott, vom Spiel
heiliger Strahien erfreut. / Stille wohnt er allein und hell erscheinet
sein Antlitz, / Der àtherische scheint Leben zu geben geneigt, / Freude
zu schaffen, mit uns, wie oft, wenn, kundig des MaBes, / Kun-dig der
Atmenden auch zógernd und schonend der Gott / Wohigediegenes Glùck den
Stàdten und Hàusern und mil-de / Regen, zu óffnen das Land, brùtende
Wolken, und euch, / Trauteste Lùfte dann, euch, sanfte Frùhiinge,
sen-det, / Und mit langsamer Hand Traurige wieder erfreut, / Wenn er die
Zeiten erneut, der Schópferische, die stillen/ Herzen der alternden
Menschen erfrischt und ergreift, / Und hinab in die Tiefe wirkt, und
óffnet und aufhellt, / Wie ers liebet, und jetzt wieder ein Leben
Beginnt, / An-mut blùhet, wie einst, und gegenwàrtiger Geist kómmt, /
Und ein freudiger Mut wieder die Fittiche schwellt (il, pp. 96-97; tr.
it. cit., p. 145).
Anche qui il mito dell'incontro tra cielo e terra;
l'alta potenza opera giù in profondità, ringiovanisce
i cuori che invecchiano.
Il processo trapassa e continua nell'ambito spirituale
attraverso l'evento dell'ispirazione. L'inno incompiuto Come il
giorno di festa... ci fa rivivere l'esperienza di questo trapasso
dalla sfera della natura a quella dell'uomo. All'inizio echeggia ancora
il temporale:
Come il giorno di festa a vedere il campo
Va di mattina un contadino, quando
Da notte ardente i fulmini a dare frescura
Caddero senza tregua e tuona lontano ancora,
Nelle sue rive il fiume rimette piede
E il suolo ha un verde novello
E della lieta pioggia del cielo
Il mito del Ciclo e della Terra
277
Gronda la vite e splendenti Nel calmo sole si levan le
piante del bosco.
Wie wenn am Feiertage, das Feld zu sehn, / Der Land-mann
geht, des Morgens, wenn, / Aus heiBer Nacht die kùhlenden Blitze fielen
/ Die ganze Zeit und fern noch tó-net der Donner, / In sein Gestade
wieder tritt der Strom, / Und frisch der Boden grùnt / Und von des
Himmeis er-freuendem Regen / Der Weinstock trauft und glànzend / In
stiller Sonne stehn die Bàume des Haines (n, p. 118; tr. it. dt., p.
155).
Viene così ripreso il tema dei «flutti del cielo»,
dell'entusiastico esplodere della tensione fra cielo e terra. E ora il
primo passaggio: come gli alberi sono assorti ad aspettare,
ancora splendenti dopo la pioggia temporalesca, così anche i poeti:
Così vi levate sotto benigna temperie Voi che maestro
nessuno, ma con prodigio Onnipresente, in lieve abbraccio alleva Divina
di bellezza, la possente Natura. Quando in alcune stagioni sembra che
donna In delo o fra gli alberi o fra i popoli, S'attrista allora anche
ai poeti il volto:
Sembrano soli, ma sempre hanno presagi Poi ch'ella
stessa presagendo riposa.
So stehn sie unter gùnstiger Witterung, / Sie, die kein
Meister allein, die wunderbar / Allgegenwàrtig erzieht in leichtem
Umfangen / Die màchdge, die góttlichschóne Natur. / Drum wenn zu
schlafen sie schemi zu Zeiten des Jahrs / Am Himmel oder unter den
Pflanzen oder den Vólkern, / So trauert der Dichter Angesicht auch, /
Sie scheinen allein zu sein, doch ahnen sie immer. / Denn ahnend ruhet
sie selbst auch (il, p. 118; tr. it dt, p. 155).
278 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
La potenza la cui irruzione aspettano «presagendo»
scaturisce dalla stessa «natura» che da origine al temporale, anche se
da uno strato più profondo, la fecondità spirituale. I due aspetti
però costituiscono un tutto. Lo stesso riferimento presente nel ritmo
della vita, nell'irruzione del temporale e nell'incanto dell'ora si
manifesta anche nel contatto dello spirito:
Ma ora aggiorna! Ho atteso e l'ho visto venire
E ciò che ho veduto, il Sacro, sarà mia parola.
Ella, ella stessa, ch'è più antica del tempo
E sugli dèi d'occidente e d'oriente sta,
La Natura in clangore d'armi ora s'è desta,
E dall'alto Etere fino al fondo d'abisso
Per ferma legge e antica, gènito dal sacro Caos,
L'Entusiasmo ora torna a fremere
Che di tutto è il creatore. .
Jetzt aber tagts! Ich harrt und sah es kommen, / Und was
ich sah, das Heilige sei mein Wort. / Denn sie, sie selbst, die àlter
denn die Zeiten / Und ùber die Getter des Abends und Orients ist, / Die
Natur ist jetzt mit Waffen-klang erwacht, / Und hoch vom Àther bis zum
Abgrund nieder / Nach festem Gesetze, wie einst, aus heiligem Chaos
gezeugt, / Fùhit neu die Begeisterung sich, / Die Allerschaffende
wieder (il, p. 118; tr. it. dt, p. 155).
Il risultato di questo contatto che va «dall'alto Etere
fino al fondo d'abisso» è tuttavia l'opera, la creazione artistica - e
l'azione, la storia.
E come nell'occhio all'uomo splende un fuoco
Se alta impresa medita, così
Ai nuovi Segni, alle Gesta del secolo
S'è acceso un fuoco nell'anima dei poeti.
Ciò che innanzi accadeva, avvertito appena,
È ora la pnma volta manifestato:
Il mito del Ciclo e della Terra
279
E quelle che d lavoravano il campo in figura Di schiavi
sorridenti, noi le riconosciamo, Le forze degli dèi, le tutte vive.
Chiedi di loro? Nel canto ne soffia lo spirito,
Quando dal sole del giorno e dalla calda terra
Germoglia e da tempeste aeree o da altre
Che, predisposte nei recessi del tempo
E più pregnanti e sensibili a noi,
Fra delo e terra passano e fra i popoli.
Del comune spirito sono pensieri,
Che finiscono calmi nell'anima del poeta;
Che, subito colpita, essendo nota Da sempre
all'Infinito, balza al ricordo:
E a lei da sacro fulmine arsa Viene alla luce il portato
d'amore, L'opera degli dèi e degli uomini, il canto, Che d'entrambi
deve testimoniare.
Und wie im Aug ein Feuer dem Manne glànzt, / Wenn Hohes
er entwarf, so ist / Von neuem an den Zeichen, den Taten der Weltjetzt /
Ein Feuer angezùndet in Seelen der Dichter. / Und was zuvor geschah,
doch kaum gefùhit, / Ist offenbar erstjetzt, / Und die uns làcheind
den Acker gebauet, / In Knechtsgestalt, sie sind erkannt, / Die
Alle-bendigen, die Kràfte der Gótter. // Erfràgst du sie? im Liede
wehet ihr Geist, / Wenn es der Sonn des Tages und warmer Erd /
Entwàchst, und Wettern, die in der Luft, und andern, / Die
vorbereiteter in Tiefen der Zeit, / Und deutungsvoller, und
vernehmiicher uns / Hinwandein zwi-schen Himmel und Erd und unter den
Vólkern. / Des ge-meinsamen Geistes Gedanken sind, / Stili endend in
der Seele des Dichters, // DaB schnellbetroffen sie, Unendii-chem /
Bekannt seit langer Zeit, von Erinnerung / Er-bebt, und ihr, von heilgem
Strani entzùndet, / Die Frucht in liebe geboren, der Gótter und
Menschen Werk, / Der Gesang, damit er beiden zeuge, glùckt (n, p. 119;
tr. it. dt., pp. 155-157).
280 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
II mito di cielo e terra ricompare nelle leggende delle
fìglie dell'uomo che, visitate dai Celesti, diventano le madri degli
eroi. La poesia nomina Sémele che da Zeus concepì Dioniso. Anche
questo tema è legato al temporale, prolungandosi nel processo creativo,
il concepimento del canto:
Così cadde, narran poeti, quando Sémole volle Vedere
il dio in figura, la folgore sulla sua casa E dal nume colpita partorì
II frutto della tempesta. Bacco santo.
Di lì bevono adesso fuoco celeste
I figli della terra senza pencolo.
Ma a noi spetta ora, fra le tempeste d'Iddio,
Stare, o poeti, a denudata fronte,
E con la mano afferrare la folgore,
La folgore del Padre e al popolo il dono
Celeste porgere, avvolto nel canto.
Poiché se sono puri i nostri cuori
Come di pargoli e innocenti le mani,
II fulmine del Padre, il puro, non brucia:
E nel profondo scosso, i dolori del più forte
Condividendo resta, nei turbini d'alto piombano, Del Dio che s'appressi,
il cuore pur saldo.
So fiel, wie Dichter sagen, da sie sichtbar / Den Gott
zu se-hen begehrte, sein Blitz auf Semeles Haus / Und die
gót-tlichgetroffne gebar, / Die Frucht des Gewitters, den heili-gen
Bacchus. // Und daher trinken himmlisches Feuer jetzt / Die Erdensóhne
ohne Gefahr. / Doch uns gebùhrt es, unter Gottes Gewittern, / Ihr
Dichter! mit entblóBtem Haupte zu stehen, / Des Vaters Strani, ihn
selbst, mit ei-gner Hand / Zu fassen und dem Volk ins Lied / Gehùllt
die himmlische Gabe zu reichen. / Denn sind nur reinen Herzens, / Wie
Kinder, wir, sind schuidlos unsere Hànde,
Il mito del Cielo e della Terra
281
// Des Vaters Strahi, der reine, versengt es nicht / Und
tìeferschuttert, die Leiden des Stàrkeren / Mitleidend, bleibt in den
hoch herstùrzenden Stùrmen / Des Gottes, wenn er nahet, das Herz doch
fest (il, pp. 119-120; tr. it. dt., pp. 157-159, con modificazioni
corrispondenti alla versione diversa usata da Guardini).
Nella poesia di Hólderlin, la natura, il singolo e la
storia sono in stretta reciprocità d'azione. La natura si spinge entro
la storia e culmina in essa. La storia cerca la natura e ne estrae la
materia e la legge. Il singolo, invece, sperimenta questi legami,
realizzandosi in essi. Così anche il mito della natura si trasforma in
quello della storia. La trasformazione è evidente nella poesia Germania.
Ciò che un tempo ha vissuto e operato in modo nobile tramonta, ma non
perisce, trasportato in un luogo che ci è sottratto. Di là contìnua a
esercitare il proprio influsso sulla storia, anzi, anela a rientrare in
essa. Il compendio della nobiltà tramontata è la Grecia, il luogo
della sua esistenza a noi sottratta l'Etere, il ciclo, che in tal modo
viene caratterizzato in ragione di una determinata essenza storica. Lo
stesso avviene a proposito della Terra che riceve: essa è la Germania.
A nome di tutta la terra accoglie ciò che ritoma dal cielo. In tal
modo, il mito della natura è diventato mito della storia. Il
cielo-Ete-re, inteso come sfera del mondo, si concreta nella Grecia a
noi sottratta; la Terra, come sfera del mondo, nella Germania in attesa.
Il fatto che l'Etere scenda sulla Terra e che dalla loro
unione nasca la vita nuova si trasforma nella discesa di quella che fu
la Grecia sulla Germania e nel nascere della nuova umanità.
Anzi, il processo contiene ancora un altro strato di
282 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
cui si parlerà successivamente per esteso: esso
accoglie in sé il messaggio cristiano mitizzato. La Germania, la figlia
della madre Terra, in fin dei conti questa terra stessa, viene chiamata
«sacerdotessa» e «vergine» e si fa evidente che dietro di essa si
cela l'immagine della Vergine Maria, a cui l'angelo annuncia che ella
sarà la madre del Salvatore. Appare un messaggero, l'uccello del Padre
supremo, l'aquila, e dietro ad essa si scorge l'angelo del racconto
biblico. Ma Cristo è l'annunciatore della Grecia ventura, anzi, in un
certo senso, egli stesso è questa Grecia ventura (V, infra, p.726).
APOLLO E POSIDONE
L'Etere e la Terra costituiscono i poli del mondo degli
dèi in Hólderlin. Tra di loro si muove una serie di altre figure.
Alcune vengono solo sfiorate, come Teti (Achille, I, p. 271) e
gli dèi della morte (Lamento di Menane per Diotima, II, p. 75).
Gli dèi del sole e del mare hanno contorni più
precisi. Anch'essi formano un sopra e un sotto, più ristretti rispetto
alle sfere onnicomprensive di cui si è parlato in precedenza.
Apollo è l'eterno giovane, forte, splendido, bello,
lieto. Il tramonto lo chiama l'«incantevole giovane del sole»
che, quando cala l'astro, «suona il suo canto serale sulla cetra
celeste» (I, p. 259). Nella poesia L'uomo le piante sono «i
figli sorridenti della sua eterna giovinezza». La madre Terra le ha
ricevute da lui. Così egli appare una continuazione dell'Etere. Nella
stessa composizione, l'uomo è il più bello di tutù i figli della
terra, alzando lo sguardo verzo il «Padre Elio». In Gli dèi il
legame tra il dio del sole e l'Etere è ancora più evidente:
Etere silente! Sempre mi custodisti bella L'anima nel
dolore, e si fa nobile Alla forza dei tuoi raggi, Elio, Spesso il mio
cuore ribelle.
Du sdiler Àther! Immer bewahrst du schón / Die Seele
284 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
mir im Schmerz, und es adeit sich / Zur Tapferkeit vor
deinen Strahien,/ Helios! oft die empórte Brust mir (il, p. 16).
La seconda versione di Coraggio del poeta lo
collega all'ispirazione dei creativi: il dio del sole è il loro «avo»
(il, p. 64). E in Vocazione del poeta egli è definito, in
contrapposizione al Dioniso notturno, l'«Ange-lo del giorno». E si
parla dei suoi «titanici cavalli» e anche dei suoi «ardenti strali di
morte». Ma nonostante tutto Apollo è troppo vicino al «Tonante», al
«padre Etere» per potersi affermare come figura contro di lui.
L'immagine del dio del mare appare più netta. Ritorna
più spesso. Una sola poesia sarebbe sufficiente per assicurargli il suo
posto nello spazio del mondo hólderliniano: L'Arcipelago. Ne
abbiamo già parlato (il, supra, p. 149). Racconta di Atene, la
più bella città della Grecia, dello splendore dell'antica Ellade e
della sua lotta per la libertà, nello spazio e grazie alla potenza del
mare divino. Così Posidone è in rapporto con la storia. Gli antichi
eroi sono i suoi favoriti, i templi e le città hanno inghirlandato i
suoi litorali, annunciando la sua gloria. Atene, ora in rovina, gli era
la città più cara, ed egli è in lutto per essa. Ma la battaglia che
deciderà sulle sorti della Grecia, la battaglia di Salamina, è una
battaglia navale, ed il suo esito è opera sua:
Nel sogno vertiginoso cantato dal canto del giorno Rotea
il rè lo sguardo; delirando sulla vittoria, Minaccia, supplica, esulta,
invia come lampi i messi, Ma invano li manda, nessuno indietro gli
torna. Araldi cruenti, soldati uccisi e navi squarciate Gli gitta l'onda
innumeri, la vendicatrice, tuonando,
Apollo e Posidone
285
A pie del trono ove siede il misero sul lido che balza;
Guarda la fuga e travolto via con la turba fuggiasca
S'affretta, il dio l'incalza, incalza la flotta sbandata Sui flutti il
dio che, irridendo, i suoi fatui usberghi Fracassa e il fiacco raggiunge
nella feroce armatura.
Aber in schwindeinden Traum vom Uede des Tages
ge-sungen, / Rolit der Kónig den Blick; irrlàcheind ùber den Ausgang,
/ Droht er, und fleht, und frohlockt, und sen-det, wie Blitze, die
Boten. / Doch er sendet umsonst, es kehret keiner ihm wieder. / Blutige
Boten, Erschlagne des Heers, und berstende Schiffe / Wirft die Ràcherin
ihm zahi-los, die donnernde Woge, / Vor den Thron, wo er sitzt am
bebenden Ufer, der Anne, / Schauend die Flucht, und fort in die
fliehende Menge gerissen, / Eilt er, ihn treibt der Gott, es treibt sein
irrend Geschwader / Ùber die Flu-ten der Gott, der spottend sein eitel
Geschmeid ihm / En-diich zerschlug und den Schwachen erreicht' in der
dro-henden Rùstung (il, pp. 106-107; tr. it. dt., pp. 107-109).
Posidone è la grande potenza dell'abbraccio da
dominatore, che non è paragonabile a quello della Terra, copiosa e
indifesa nella sua femminilità. Per certi aspetti, egli è un'immagine
speculare dell'Etere vista dal basso. Nell''Arcipelago egli
appare, pienamente in linea con la tradizione dell'antica dottrina degli
dèi, come colui che scuote terra e mare; nelì'Empedo-cle come
signore dei vulcani e del terremoto, della «Fiamma notturna», del
«temporale infero». Questo significato si ripete nello spazio
dell'aria che di per sé spetta all'Etere.
In esso Posidone appare come signore delle nubi,
mandando il temporale. In tal modo, all'interno della sfera alta del
mondo, egli costituisce un ordine contrapposto all'Etere, che si eleva
dal centro della terra.
LO SPIRITO DEL TEMPO
Un significato infinitamente più grande di quello di
Posidone riveste quel nume che è immediatamente attivo nella storia
stessa: il dio del tempo, lo spirito del tempo. Per comprenderne
l'essenza, analizziamo le due componenti del suo nome che poi si
fonderanno da sole.
«Spirito» ha per Hólderlin un significato diverso da
quello dell'intelletto e del suo strumento, il concetto. Questi ultimi
sono spirito formalizzato, suscettibili di essere mezzi di ciò che
Hólderlin chiama la scaltrezza, la servilità, la malvagità
scellerata. Lo stesso vale a proposito dello spirito inteso solamente
come volontà che cattura e vince: anch'esso può perdere il proprio
legame con la vita, diventando lo strumento della distruzione. Per
Hólderlin lo spirito in se stesso è vita, e vita al più alto livello.
La sua essenza si manifesta nel modo più puro nella
creazione artistica, in particolare poetica. Ma analizzando più da
vicino le diverse affermazioni di Hólderlin in proposito, ci si accorge
che non si tratta solo di un atto estetico, ma di un processo in cui il
poeta è allo stesso tempo vate o veggente, l'opera artistica allo
stesso tempo annuncio del messaggio divino. Così lo spirito si
identifica con la potenza che rende manifesto ciò che è occulto e
sacro: l'afflato religioso.
288 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
Esso ha un doppio ambito d'azione. In primo luogo,
l'intemo dell'uomo: lo spirito lo tocca, eccitandolo, mettendolo in
movimento. Esso rende l'uomo in grado di presagire, sentire e vedere
realtà e contesti di senso che non possono essere percepiti
diversamente, di esprimere le esperienze in parole e traspor-le in
azioni. Poesie come Vocazione del poeta (il, p. 46) lo mostrano
come la potenza che agisce nell'uomo, che stimola all'opera. L'Iperione
lo presenta come l'afflato misterioso che riempie la donna la quale ama
e presagisce non nell'opera, ma nell'essere (IV, infra, p. 502).
Lo stesso spirito agisce anche nella sfera ogget-tiva del mondo, della
natura come della storia. Nei ritmi di giorno e di notte, di primavera,
estate, autunno ed inverno, di nascita, fiorire, maturare e morte;
più precisamente nella svolta di questi ritmi, nel
punto di irruzione delle nuove fasi e nel culmino dei loro archi; vedi
il passo già più volte citato delVIperione sull'esperienza
primaverile prima dell'incontro con Dio-tima (il, pp. 146 ss.). Inoltre,
esso è attivo nei fatti, nei destini e nelle opere della storia o, più
precisamente ancora, nelle ore della partenza e della decisione,
dell'ispirazione e dell'irruzione creativa. Alla fine del dramma La
morte di Empedocle si legge:
PAUSANIA
Così festoso scende l'astro ed ebbre splendono le valli
della sua luce?
PANTHEA
Oh, sì, festoso scende
e più gioia e chiarità nasce. ;
Perché allora m'attristo? Risplende, anima di
crepuscolo, pur anche
Lo spirito del tempo
289
colui che affonda,
l'austero tuo prediletto, o Natura!
il tuo fedele, la tua vittima!
Oh, coloro che temono la morte
non ti amano, l'affanno
ingannevole copre i loro occhi,
il loro cuore non batte contro il tuo,
separati da tè, inaridiscono - ... Oh, sacro Tutto
fervido, vivente, per dirti grazie,
per testimoniare di tè che sei immortale,
sorridendo l'audace getta le sue perle
nel mare da cui vennero.
Così deve accadere.
Così vuole lo spirito
e il tempo che matura.
Che a noi, dechi, un volta almeno
necessario era il prodigio.
Pausanias. So gehet festlich hinab, / Das Gestirai
und trunker / Von seinem Uchte glànzen die Tàler? / Panthea. Wohi
geht er festlich hinab - / Und freudiger wirds und heller auch. / Warum
denn traur' ich? leuchtet, / Dàm-mernde Seele! doch auch / Der
Untergehende dir, / Der Ernste, dein Liebster, Natur! / Dein Treuer,
dein Opfer! / O die Todesfùrchtigen lieben dich nicht, / Tàuschend
fes-seit ihnen die Sorge / Das Aug an deinem Herzen / Schlagt dann nicht
mehr ihr Herz, sie verdorren, / Ver-schieden von dir - o heilig Ali! /
Lebendiges! inniges! Dir zum Dank / Und daB er zeuge von dir, du
Todesloses! / Wirft làcheind scine Perlen ins Meer, / Aus dem sie
ka-men, der Kùhne. / So muB es geschehen. / So will es der Geist / Und
die reifende Zeit, / Denn Einmal bedurften / Wir Blinden des Wunders (m,
pp. 170-171; tr. it. cit., pp. 207-209).
Lo spirito è una potenza della natura quanto della
storia, esso è «spirito del mondo». Così come per la vita dell'uomo
esso non significa solamente intelli-
290 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
genza, volontà, giudizio, coraggio, forza artistica, ma
anche e soprattutto ciò che deriva dal religioso trasformando il
semplice intelletto in sapienza viva, la volontà in amore superante, il
giudizio ed il coraggio in decisione creativa, il creare d'arbitrio
proprio nel compimento dell'ora; anche nell'intero o totalità del mondo
lo spirito non si riferisce semplicemente al decorso del processo
naturale, inteso come ipostasi delle leggi naturali, oppure al decorso
della storia, inteso come compendio delle tendenze di quest'ultima. In
ultima analisi tende alla realizzazione di qualcosa di religioso
attraverso cui il senso immediato degli eventi naturali o storici si
compie e allo stesso tempo è superato. Introduce qualcosa che proviene
dalla zona a noi sottratta del mondo. Appena ciò avviene, l'immediato
è superato e non si vede più come il processo naturale ed il decorso
della storia debbono continuare. Poiché non si tratta di una semplice
esperienza vissuta, bensì di un processo nell'essere. All'ispirazione
soggettiva corrisponde nell'ambito og-gettivo della natura e della
storia qualcosa dello stesso genere e della stessa origine, una
compenetrazione degli avvenimenti nel mondo con lo spirito, qualcosa di
misterioso e ineffabile. Il decorso dell'esistenza è orientale
all'evenienza che qualcosa accada, riempiendola, compiendola e
superandola, ma facendola tuttavia sopravvivere sotto una forma nuova.
Ciò significa - nella misura in cui qualcosa di
misterioso può essere espresso in parole - nella natura
«trasformazione»: il peso e la limitatezza delle cose si dissolvono.
Tutto diventa leggero, libero, pieno di senso, permeato di luce, beato.
Un'oggettiva euforia dell'essere, per così dire, ha luogo. Nella storia
signi-
Lo spirito del tempo
291
fica «salvezza»: la perfezione passata ritorna, la
mitica Grecia rientra nuovamente nella storia; i regni dei morti e dei
vivi si uniscono; il religiosamente altro e questa realtà terrena
diventano un'unità. Sono le «nozze degli uomini e degli dèi», il
compimento di quanto è stato rappresentato come mito del cielo e della
terra (ili, supra, p. 269). Questo evento viene provocato dallo
spirito in quanto potenza del mondo, dal pnéuma del mondo. Il
concetto riunisce quindi elementi filosofico-culturali e religiosi
comuni. Contemporaneamente vi è tuttavia presente, come già è stato
dimostrato, la rappresentazione cristiana dello Spirito Santo inteso
come quella potenza che compie la rinascita trasformando la vecchia
esistenza nel «nuovo cielo» e nella «nuova terra» ... Nella memoria
dell'umanità è impresso, in modo indelebile, costantemente
riconfermato dall'esperienza spirituale del singolo e dei tempi,
l'evento della Pentecoste. Questa dottrina cristiana del Pnéuma
di Cristo è entrata a far parte, trasformata in veste cosmica, del
concetto di spirito di Hólderlin, conferendogli quella vivezza che
tocca profondamente il cuore. Percepire il dominio di questo spirito,
presagire la sua volontà, accorgersi dell'avvicinarsi dell'atteso -
questo è il contenuto dell'animazione visionaria e poetica.
L'altro aspetto del fenomeno nel suo insieme è
costituito dal tempo. Anche per esso l'interpretazione deve partire da
lontano. Infatti, Hólderlin lavora con pochi concetti, di cui però
ognuno è riferito al tutto, così che si accede da ognuno di essi al
contesto generale del suo pensiero. Egli non parla del tempo in senso
astratto, come semplice dato della successione e della sua
misurabilità. Per Hólderlin «tempo» signi-
292 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
fica il modo in cui vita è vita, lo scorrere
dell'esistenza sperimentato nell'interiorità. Questa concezione è
illustrata nel modo migliore dalla già analizzata poesia Heidelberg-.
Come l'uccello del bosco s'invola sopra le dme,
Si landa sul fiume che accanto ti corre splendendo,
Agile e forte il ponte
Che di carri e d'uomini suona.
Come mandato da dèi, una volta m'avvinse un incanto
Sopra quel ponte, mentre l'attraversavo
E di laggiù nello sfondo dei monti
Malioso m'appariva il lontano,
E il giovane fiume fuggiva, ilare e fosco, alla piana
Come il cuore che oppresso dalla sua troppa bellezza,
Per trapassare amando
Nei flutti del tempo si scaglia.
Wie der Vogel des Walds ùber die Gipfel fliegt, /
Schwingt sich ùber den Strom, wo er vorbei dir glànzt, / Leicht und
kràftig die Brùcke, / Die von Wagen und Men-schen tónt. // Wie von
Góttern gesandt, fessel't ein Zau-ber einst / Auf die Brùcke mich an,
da ich vorùber ging, / Und herein in die Berge / Mir die reizende Feme
schien, // Un der Jùngling, der Strom, fort in die Ebne zog, /
Traurigfroh, wie das Herz, wenn es, sich selbst zu schón, / Uebend
unterzugehen, / In die Fluten der Zeit sich wirft (II, p. 14; tr. it.
cit-, p. 49).
Nell'immagine contemplata, nel processo sentito
dell'acqua che scorre si fondono entrambi i momenti: la vita
all'interno, che vuole precipitare, perire per sovrabbondanza
intrinseca, e il tempo all'esterno, che costituisce esso medesimo la
realtà della vita oggetti-va in decorso. Come già si è avuto modo di
dire nel primo cerchio, il tema è uno degli elementi di fondo del mondo
hólderliniano, e trova espressione nel mi-
Lo spirito del tempo
293
to del fiume - vedi la poesia Voce del popolo
(II, p. 49). In quel caso il fiume è l'esistenza che ha assunto una
figura concreta, collocata sul «proprio sentiero», la vita individuale
che è nata ed ora persiste passando. Quanto più è forte la vita,
tanto più potente è la sua inclinazione verso la morte ... Così il
tempo significa lo scorrere dell'esistenza - ma anche la potenza che
governa questo scorrere facendone affiorare le forme, come risulta dalla
fine di L'Arcipelago:
Ma tu, immortale, se anche l'inno dei Gred non più Ti
celebra come una volta, o dio del mare, riusonami Dai flutti sovente
nell'anima ancora, che sopra le acque Intrepido lo spirito, come
nuotatore, si addestri Nell'aspra gioia dei foni, e la lingua degli
dèi, l'Alternarsi E il Divenire, intenda: e quando la corrente del
tempo Troppo violenta il capo mi afferri, e lo stento e il vagare Fra i
mortali il mio mortale vivere scrolli, Fa' che la pace allora nel tuo
profondo io ricordi.
Aber du, unsterbiich, wenn auch der Griechengesang schon
/ Dich nicht feiert, wie sonst, aus deinen Wogen, o Meergott! / Tóne
mir in die Seele noch oft, da6 ùber den Wassern / Furchtiosrege der
Geist, dem Schwimmer gleich, in der Starken / Frischem Glùcke sich ùb,
und die Góttersprache, das Wechsein / Und das Werden versteh;
und wenn die reiBende Zeit mir / Zu gewaldg das Haupt
ergreift und die Not und das Irrsal / Unter Sterbiichen mir mein
sterbiich Leben erschùttert, / LaB der Stille mich dann in deiner Tiefe
gedenken (il, pp. 111-112; tr. it. dt.,p.ll7).
Il tempo inteso come la vita che scorre, «l'Alternarsi
e il Divenire», la potenza che vi domina e il suo risultato, la storia,
nonché lo spirito, il realmente vivente che porta la natura alla
propria trasmutazione
294 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
dionisiaca attraverso l'irruzione del divino e la storia
al proprio innalzamento attraverso il ritomo della mitica Grecia,
costituiscono un tutt'uno.
Lo spirito del tempo:
Già da troppo tu domini sopra il mio capo, Tu nella
oscura nuvola, dio del Tempo! Troppo furore è intorno e angosda,
ovunque Io guardi tutto va in frantumi o vacilla.
Ah! come un fandullo mi affiso al suolo sovente, Cerco
uno scampo da tè nella grotta e vorrei, Stolto, trovare un luogo Dove
non fossi tu che tutto sconvolgi!
Concedimi infine, o padre, d'affrontarti Con fermo
aglio! Non hai dunque, per primo, lo spirito Suscitato in me col tuo
raggio, non m'hai Splendidamente alla vita portato, o padre! -
Ci germoglia da giovani viti sacro vigore;
In mite aura si fa incontro ai mortali, Quando silenti
errano nel boschetto, Rasserenante un dio; ma tu, più potente, ridesti
La pura anima nei giovinetti e insegni Sagge arti agli
anziani; solo il malvagio Si fa più malvagio, per finire più presto,
Quando tu, o Scuotitore, lo ghermisci.
Zu lang schon waltest ùber dem Haupte mir / Du in der
dunkein Wolke, du Gott der Zeit! / Zu wild, zu bang ists ringsum, und es
/ Trùmmert und wanktja, wohin ich blic-ke. // Ach! wie ein Knabe, seh
ich zu Boden oft, / Such in der Hóhle Rettung von dir, und mócht, /
Ich Bloder, eine Stelle finden, / Alleserschùttrer! wo du nicht
wàrest. // La6 endiich, Vater! offenen Augs mich dir / Begegnen! hast
denn du nicht zuerst den Geist / Mit deinem Strani
Lo spirito del tempo
295
aus mir geweckt? midi / Herrlich ans Leben gebracht, o
Vater! - // Wohi keimt aus jungen Reben uns heilge Kraft; / In milder
Luft begegnet den Sterbiichen, / Und wenn sie stili im Haine wandein, /
Heiternd ein Gott;
doch allmàchtger weckst du // Die reine
SeeleJùnglingen auf, und lehrst / Die Alten weise Kùnste; der Schiimme
nur / Wird schiimmer, daB er bàlder ende, / Wenn du, Erschùtterer! ihn
ergreifest (i, p. 300; tr. it. dt., p. 41).
Dominio oggettivo e coinvolgimento soggettivo si
uniscono. Ciò diventa evidente anche in Empedocle sull'Etna:
Quando un paese deve morire, alla Une
lo spirito si sceglie un estremo eletto
in cui si levi il suo canto di agno,
l'estrema vita. Questo presagivo, ma
volli servirlo. E ora tutto è compiuto. Ormai
non appartengo più ai mortali...
... Oh, consumazione
del mio tempo! Tu, Spirito, che d nutristi,
che regni in segreto alla luce del giorno e nella nube,
e tu, Luce, e tu, tu madre Terra!
Qui rimango, sereno, giacché mi si prepara
la nuova ora, da lungo tempo stabilita.
Non più in immagine, non come sempre,
presso i morti, in breve felidtà
ma nella morte, io scopro il vivente,
e oggi stesso lo incontrerò, oggi
che il signore del Tempo per me e per sé,
come segno di festa, prepara un uragano.
Conosd la calma attorno? e il silenzio
del dio insonne? Attendilo qui!
A mezzanotte tutto ci sarà compiuto.
Denn wo ein Land ersterben soli, da wàhit / Der Geist
noch Einen sich am End, durch den / Sein Schwanensang, das letzte Leben
tónet. / Wohi ahndet ichs, doch dient ich
296 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
willig ihm. / Es ist geschehn. Den Sterbiichen gehór
ich / Nun nimmer an ... / ... O Ende meiner Zeit! / O Geist, der uns
erzog, der du geheim / Am hellen Tag und in der Wolke waltest, / Und du,
o licht! und du, du Mutter Er-de! / Hier bin ich ruhig, denn es wartet
mein / Die làngst-bereitete, die neue Stunde / Nun nicht im Bilde mehr,
und nicht, wie sonst, / Bei Sterbiichen im kurzen Glùck, ich find, / Im
Tode find ich den Lebendigen / Und heute noch begegn* ich ihm, denn
heute / Bereitet er, der Render Zeit, zur Feier / Zum Zeichen ein
Gewitter mir und sich. / Kennst du die Sulle rings? kennst du das
Schweigen / Des schiummerlosen Gotts? erwart ihn hier! / Um Mit-temacht
wird er es uns vollenden (il, p. 223; tr. it. dt., pp. 239-241).
Dallo stesso spirito del tempo nasce anche l'elemento
selvaggio e distruttore, necessario nell'insieme dell'esistenza.
Gli ozi:
Ma nel lunare chiarore si levano le colonne spezzate
E le porte dei templi, cui un tempo colpì il tremendo,
l'occulto
Spirito di turbolenza, che in petto alla terra e agli
uomini
Fermenta iroso, l'incoercibile, l'antico eversore,
Che le atta come agnelli fa a brani, che una volta
l'Olimpo
Assalì, che ferve nei monti e fiamme ne scaglia,
Che le foreste sradica e attraverso l'oceano inoltra
Mandando in frantumi le navi, eppure nell'ordine eterno
Mai ti sommuove, o natura, ne muta una sillaba sola
Alle tavole di tue leggi; perché anch'esso è tuo
figlio,
Con lo spirito della quiete nato ad un unico grembo.
Aber ins Mondiicht steigen herauf die zerbrochenen
Sàu-len / Und die Tempeltore, die einst der Furchtbare traf, der
geheime / Geist der Unruh, der in der Brust der Erd und der Menschen /
Zùmet und gàrt, der Unbezwungne, der alte Erobrer, / Der die Stàdte,
wie Làmmer, zerreiflt,
Lo spirito del tempo
297
der einst den Olympus / Stùrmte, der in den Bergen sich
regt, und Flammen herauswirft, / Der die Wàlder entwur-zeit und durch
den Ozean hinfahrt / Und die Schiffe zer-schlagt, und doch in der ewigen
Ordnung / Niemais irre dich macht, auf der Tafel deiner Gesetze / Keine
Silbe verwischt, der auch dein Sohn, o Natur, ist, / Mit dem Geiste der
Ruh aus einem SchoB geboren. - (i, pp. 236-237; tr. it. dt., pp. 21-23).
Tutta questa realtà e potenza costituisce un nume. Ad
esso è correlato in modo particolare il poeta. Nell'ode Vocazione
del poeta si legge:
Eppure, o tutti voi, numi del Cielo, E voi sorgenti e
rive e boschi e alture Dove la prima volta il prodigioso, Prendendod ai
capelli, inobliabile,
II Genio creatore, all'improvviso, Su noi piombò
divino, e ne restammo Stupiti e muti, e come dalla folgore Colpite d
tremarono le ossa,
O gesta senza pace del vasto mondo, Giorni fatali e
travolgenti, in cui il dio Pensieroso d guida ove ebbri d'ira Lo portano
i titanid cavalli,
Di voi dovremmo tacere? E quando in calmi E fermi
accordi il tempo in noi risuona, La nostra musica dovrebbe essere quella
Di un fandullo ozioso, che del maestro
Osa toccare per celia le corde sacre e pure?
Und dennoch, o ihr Himmlischen ali, und ali / Ihr
Quel-len und ihr Ufer und Hain' und Hóhn, / Wo wunderbar
298 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
zuerst, als du die / Locken ergriffen, und unvergeBIich
// Der unverhoffte Genius ùber uns, / Der schópferische, góttliche
kam, da6 stumm / Der Sinn uns ward und, wie vom / Strahie gerùhrt, das
Gebein erbebte, // Ihr ruhelo-sen Taten in weiter Welt! / Ihr
Schicksalstag', ihr reifien-den, wenn der Gott / Stillsinnend lenkt,
wohin zorntrun-ken / Ihn die gigandschen Rosse bringen, // Euch sollten
wir verschweigen, und wenn in uns / Vom stetìgsdIlenJahre der Wohllaut
tónt, / So sollt es klingen, gleich als hàtte / Mutig und mùBig ein
Kind des Meisters // Geweihte, reine Saiten im Scherz gerùhrt? (il, pp.
46-47; tr. it. dt., pp. 93-95).
Delle difficoltà di questa vocazione parla La mia
proprietà:
Ah, con troppo impeto mi aspirate, abissi Del delo; in
tempeste, nel giorno sereno, Passare divoranti nel mio petto Vi sento, o
alterne forze degli dèi.
Ma oggi, queto, per fido sentiero Al boschetto, cui la
morente indora Fronda le dme, andare amo: oh, dngete Anche la fronte
mia, ricordi amati!
E perché a scampare il mio cuore mortale Abbia anch'io
come gli altri uno stabile luogo E, senza patria, non mi spasimi l'anima
Ansiosa di fuggire oltre la vita,
Sii tu, canto, per me, l'asilo amico, Sii la mia
felidtà, il giardino Curato con tanto amore, ove vagando Tra le fiorite
piante sempregiovani,
In sicura semplicità dimoro, mentre là fuori Con tutte
le sue onde il tempo impetuoso,
Lo spirito del tempo
299
II mutevole, scrosda lontano, e più calmo Sole il mio
operare seconda.
Zu màchtig, ach! ihr himmlischen Hóhen, zieht / Ihr
mich empor; bei Stùrmen, am heitern Tag / Fùhl ich verzehrend euch im
Busen / Wechsein, ihr wandeinden Gótterkràfte. // Doch heute laB mich
stille den trauten Pfad/ Zum Hai-ne gehn, dem golden die Wipfel
schmùckt / Sein sterbend Laub, und krànzt auch mir die / Stime, ihr
holden Erinne-rungen! // Und da6 mir auch zu retten mein sterbiich Herz,
/ Wie andern eine bleibende Stàtte sei, / Und hei-mados die Seele mir
nicht / Ober das Leben hinweg sich sehne, // Sei du, Gesang, mein
freundiich Asyl! sei du / Beglùckender! mit sorgender Liebe mir /
Gepflegt, der Garten, wo ich, wandeind / Unter den Blùten, den
immer-jungen, // In sichrer Einfalt wohne, wenn drauBen mir / Mit ihren
Wellen allen die màchtge Zeit, / Die wandelba-re, fem rauscht und die /
Saliere Sonne mein Wirken fór-dert (i, p. 307; tr. it. dt., pp. 4345).
Nell'esperienza dell'«ora» la consapevolezza circa il
dominio dello spirito del tempo raggiunge la sua intensità estrema.
Presto viene ciò ch'è atteso, e ora la potenza urge per entrare. Il
cantore cieco:
Dove? Dove? Ora qui, ora lì ti odo,
O stupendo! e il tuo suono intorno alla terra.
Dove hai la mèta? e che mai, che mai
C'è sopra le nuvole? E a me che avviene?
O giorno, o giorno! Su un crollo di nubi, tu sia II
benvenuto! Fiorisce a tè l'occhio mio, Luce di gioventù, o felice!
l'antica Ho di nuovo! ma più spirituale giù ti versi,
Sorgente d'oro da calice sacro! E tu, o verde suolo,
placida cuna!
300 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
E tu, casa dei padri! e voi, o cari Che m'incontraste un
tempo, avvicinatevi,
Venite, perché vostra la gioia sia, Perché tutti il
veggente vi benedica! Prendete, perché io regga tanto peso, La vita, il
Divino a me dal cuore.
Wohin? wohin? ich hóre dich da und dort, / Du
Herrli-cher! und rings um die Erde tónts. / Wo endest du? und was, was,
ist es / Uber den Wolken? und o wie wird mir! // Tag! Tag! du ùber
stùrzenden Wolken! sei / Wilikom-men mir! es blùhet mein Auge dir. / O
Jugendiicht! o Glùck! das alte / Wieder! doch geistiger rinnst du
nieder, // Du goldner Quell aus heiligem Kelch! und du, / Du grùner
Boden, friediiche Wieg! und du, / Haus meiner Vàter! und ihr Lieben, /
Die mir begegneten einst, o na-het, // O kommt, daB euer, euer die
Freude sei, / Ihr alle, daB euch segne der Sehende! / O nimmt, daB ichs
ertrage, mir das / Leben, das Góttliche mir vom Herzen! (il, p. 55;
tr. it. dt., p. 89).
La pressione, la speranza ansiosa, la gioia
soverchiante, l'effetto distruttivo dell'esperienza - di tutto ciò si
è già parlato. La psicologia constata che si tratta di sintomi
tipicamente patologici. Ma vi sono contenuti spirituali che solo nel
crollo giungono a concretarsi. E Hólderlin stesso direbbe probabilmente
che, quando il divino si riversa in tale misura estrema - soprattutto
questa divinità creatrice e distruttrice - il vaso deve rompersi.
DIONISO
In stretto rapporto con lo spirito del tempo sta
Dio-niso. Partendo dalla concezione di Hólderlin arca la culminazione
della vita, si accede più facilmente alla sua natura. Il punto di
partenza è quindi identico a quello da cui ha preso le mosse la nostra
analisi dello spirito del tempo. Prego pertanto il lettore di voler
rileggere la sopra citata poesia Heidelberg (i, supra, p.
33).
La poesia contiene movimenti forti: il veloce balzo del
ponte attraverso il fiume e la marea di gente che lo attraversa. AI di
sotto di essa, tuttavia, l'acqua che scorre verso la lontananza azzurra.
Il poeta sta attraversando il ponte, quando improvvisamente si ferma al
suo inizio, come pervaso dal soffio di un incantesimo. Evocata da questo
tocco, nel cuore affiora la sovrabbondanza della vita; il fiume che si
allontana appare come la realtà dell'esistenza che infinitamente scorre
via, come la vita in sé, e la vita individuale anela a precipitarvisi,
non perché sia misera e disperata, ma perché è troppo ricca e felice,
perché è «troppo bella per se stessa». La vita cresce tanto più
vigorosa quanto più è viva. Ma la medesima vita cade anche nella
profondità da cui è emersa con la nascita. E quanto è più forte,
tanto più ripida diventa la china.
Ad un certo punto giunge il momento dell'incanto».
Allora slancio e caduta raggiungono la loro massima potenza: elevandosi
alla sua suprema altezza, la vita
302 Terzo
cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso
si converte nella caduta mortale. Slancio e caduta, vita
e morte sono affratellati - questo è il dionisiaco.
La stessa dismisura della vita che passa, il cui massimo
culmino coincide con la caduta nella morte, si trova espressa nella
poesia, già più volte esaminata, Voce del popolo. Dapprima
viene evocato il mito del fiume:
Oblioso di sé, pronto sempre il desio Degli dèi a
compiere, troppo docile Ciò ch'è mortale, ad occhi aperti Correndo
rapido per il suo sentiero,
Prende la via più breve del ritorno nel tutto;
Così precipita il fiume in cerca di pace, lo strappa,
Lo trae contro sua voglia, di scoglio
In scoglio, giù, senza alcun freno,
La brama meravigliosa d'inabissare [...]
Denn selbstvergessen, allzubereit, den Wunsch / Der
Gót-ter zu erfullen, ergreift zu gern, / Was sterbiich ist, wenn offnen
Augs auf / Eigenen Pfaden es einmal wandeit, // Ins Ali zurùck die
kùrzeste Bahn; so stùrzt / Der Strom hi-nab, er suchet die Ruh, es
reiBt, / Es ziehet wider Willen ihn, von / Klippe zu Klippe den
Steuerlosen // Das wun-dersame Sehnen dem Abgrund zu [..]. (il, p. 51;
tr. it. cit., p.65).
Con questo è stabilito il progetto, il «desio degli
dèi». Poi il pensiero passa al popolo:
[...] L'illimitato affascina anche i popoli Sono presi
dal gusto della morte, e le audaci Città, dopo aver cercato il meglio,
Di anno in anno continuando l'opera, Hanno incontrato
una fine sacra; verdeggia la terra, E quieta sotto le stelle giace la
lunga arte, come Gli oranti, gettata sulla sabbia del deserto,
Dioniso
303
Per suo volere vinta
Di fronte a quelle inimitabili; lui stesso L'uomo, di
propria mano ha spezzato, Per onorare gli dèi, la sua opera d'artista.
[...] Das Ungebundne reizet und Vólker auch / Ergreift
die Todeslust und kùhne / Stàdie, nachdem sie versucht das Beste, //
Von Jahr zu Jahr forttreibend das Werk, sie hat / Ein heilig Ende
troffen; die Erde grùnt / Und stille vor den Sternen liegt, den /
Betenden gleich, in den Sand geworfen, // Freiwillig ùberwunden die
lange Kunst / Vor jenen Unnachahmbaren da; er selbst, / Der Mensch, mit
eigner Hand zerbrach, die / Hohen zu ehren, sein Werk der Kùnstler (il,
pp. 51-52; qui è data la seconda versione dell'ode).
Il popolo ha vissuto a lungo, producendo opere grandi e
durevoli. Adesso improvvisamente la vita balza in alto precipitando
nella distruzione. Così è accaduto alla città di Xanto, situata
presso il fiume omonimo:
Lungo lo Xanto si stendeva, in età greca, la città,
Ora però, come l'altre maggiori che laggiù riposano, Per un destino,
alla sacra Luce del giorno s'è sottratta.
Ma non nell'aperta battaglia perirono Di propria mano.
Spaventoso, quanto .Laggiù avvenne, nella mirabile saga Dall'oriente ci
è giunto.
Fu la bontà di Bruto ad eccitarli. Poiché Quando il
fuoco eruppe, egli si offrì Di aiutarli, lui stesso, il condottiero,
Sebbene di fronte a quelle porte li assediasse.
Pur dagli spalti i servi essi gettarono,
304 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
Che egli inviò. Più vivo ne fu
II fuoco ed essi ne gioirono, e a loro
Le mani Bruto tendeva
E tutti eran fuor di sé. Un urlo
Si levò, e giubilo. Giù nella fiamma si gettarono
Uomini e donne, e dei fanciulli l'uno Dal tetto, sulla spada paterna
l'altro.
[...]Ecase
E templi rapiva, al sacro Etere
Fuggendo, e uomini insieme, la fiamma.
Am Xanthos lag, in griechischer Zeit, die Stadt, / Jetzt
aber, gleich den gróBeren, die dort ruhn, / Ist durch ein Schicksal sie
dem Heilgen / Uchte des Tages hinwegge-kommen. // Sie kamen aber nicht
in der offnen Schlacht / Durch eigne Hand um. Fùrchterlich ist davon, /
Was dort geschehn, die wunderbare / Sage von Osten zu uns gelanget. //
Es reizte sie die Gùte von Brutus. Denn / Als Feuer ausgegangen, so bot
er sich / Zu helfen ihnen, ob er gleich, als Feldherr, / Stand in
Belagerung vor den Toren. // Doch von den Mauern warfen die Diener sie,
/ Die es gesandt. Lebendiger ward darauf / Das Feuer und sie freuten
sich und ihnen / Strecket' entgegen die Hànde Brutus // Und alle waren
auBer sich selbst. Geschrei / En-stand und Jauchzen. Drauf in die Fiamme
warf / Sich Mann und Weib, von Knaben stùrzt' auch / Der von dem Dach,
in der Vàter Schwert der. // ... Und Haus / Und Tempel nahm, zum
heilgen Àther / Fliegend, und Men-schen hinweg die Fiamme (il, pp.
52-53).
L'evento è descritto in modo eminentemente drammatico:
prorompe il fuoco fisico. Ad un tratto, «a lungo preparato»,
l'incendio scoppia nella stessa anima dell'uomo. Vi è una potenza che
domina dentro e fuori, che, fiamma visibile ed incendio intcriore,
Dimiiso
305
costituisce un elemento dell'esistenza stessa, una
divinità nel cui delirio tutto perisce.
Il dionisiaco è Io splendido e tremendo mistero della
vita stessa. La contiguità di vita e di morte nell'esistenza. La
possibilità che il piacere di vivere si tramuti nella gioia di morire,
l'anelito all'essere nella fine, che in questo su e giù si rompa la
forma individuale lasciando trapelare qualcosa di eccessivo, vissuto
però da chi perisce come compimento: il Tutto. Il dionisiaco è il
trionfo del tutto nella fine del singolo, quella fine che non è voluta
a partire dalla debolezza, ma dall'abbondanza della vita.
Una controprova di questo fenomeno è costituita dalla
poesia che rappresenta per eccellenza il canto sul superamento del
dionisiaco per mezzo della misura e della limitazione, l'inno II
Reno. Nella sesta strofa, subito dopo la decisione intcriore, si
legge:
Ma un Dio preserva ai figli
La vita fugace e sorride
Quando sfrenati, eppure coatti
Da sacre Alpi, verso di Lui
Nel profondo, com'esso, infuriano i fiumi.
In tale fucina viene allora
Anche temprato tutto dò ch'è puro.
Ed è bello vederlo come poi,
Dopo lasciati i monti,
Calmo vagando per la campagna tedesca
Si contenta e l'ansia acqueta
In traffici fruttuosi, quando coltiva i campi,
II padre Reno e cari figliuoli alleva
In città, che egli ha fondate.
Ein Gott will aber sparen den Sóhnen / Das eilende
Leben und làcheit, / Wenn unenthaltsam, aber gehemmt / Von
306 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
heiligen Alpen, ihm / In der Tiefe, wie jener, zùmen
die Stróme. / In solcher Esse wird dann / Auch alles Lautre
geschmiedet, / Und schón ists, wie er drauf, / Nachdem er die Berge
verlassen, / Stiliwandeind sich im deutschen Lande / Begnùget und das
Sehnen stilli / Im guten Ge-schàfte, wenn er das Land baut, / Der Valer
Rhein, und liebe Kinder nàhrt / In Stàdten, die gegrùndet (II, p.
144;
tr. it. cit., p. 199). .
Da una tale misura scaturisce il lavoro e la sua
fecondità. Se, benché voluta dagli dèi, non viene accettata, irrompe
il titanico:
Chi fu che per primo
Corruppe i vincoli d'amore
Per farne corde?
Allora hanno alla propria legge
E insino al fuoco celeste
Irriso i superbi, da allora
Sprezzando la strada mortale
Protervia dessero
E agli dèi farsi uguali anelarono.
Wer war es, der zuerst / Die Uebesbande verderbt / Und
Stricke von ihnen gemacht hat? / Dann haben des eigenen Rechts / Und
gewiB des himmlischen Feuers / Gespotten die Trotzigen, dann erst, / Die
sterbiichen Pfade ver-achtend, / Verwegnes erwàhit / Und den Góttern
gleich zu werden getrachtet (il, p. 145; tr. it. cit., p. 199).
Il titanico è dionisiaco, laddove non è lecito che
sia. In tal caso, la figura singola non si dissolve nel sacrificio
religiosamente devoto perché trionfi il tutto, ma il singolo si ribella
contro la frontiera e la traiettoria prestabilita, e non è il tutto, ma
il caos a irrompere.
L'inno II Reno mostra il passaggio del fenomeno
Dioniso
307
dalla sfera dell'uomo a quella del mondo. Non solo la
vita umana può culminare nel dionisiaco, ma anche la natura.
Immediatamente prima del passo che parla dell'autolimitazione, si legge:
Poiché dove prima le rive
A fianco gli strisciano, le sinuose,
E assetate si avvolgono a lui,
Incauto, di trascinarlo
E ben custodirlo cupide
Nel loro dente, ridendo
Schianta le serpi e giù piomba
Con la preda,
E se in quella fùria
Un più grande non lo ammansisse,
Se lo lasdasse crescere, come folgore
Fenderebbe la terra, e i boschi incantati
Dietro lui fuggirebbero e i mond frananti.
Denn wo die Ufer zuerst / An die Seit ihm schleichen,
die krummen, / Und durstig umwindend ihn, / Den Unbe-dachten, zu ziehn /
Und wohi zu behùten begehren / Im eigenen Zanne, lachend / ZerreiBt er
die Schlangen und wenn in der Eil / Ein Grófierer ihn nicht zàhmt, /
Ihn wachsen làBt, wie der Blitz muB er/ Die Erde spalten, und wie
Bezauberte fliehn / Die Wàlder ihm nach und zusam-mensinkend die Berge
(il, p. 144; tr. it. di., p. 197).
Il fiume è immensa, oggettiva vitalità cosmica. Le
rive sono fatte per legarlo, come le fasce il bambino. Ma
improvvisamente al posto del fiume vi è Eracle. Le rive sono i serpenti
che devono soffocare il semidio, e il figlio degli dèi li lacera.
Adesso: Eracle dilacera i serpenti, il fiume sta lacerando le sponde, i
limiti prestabiliti; tutte le figure si mettono in movimento;
la dirczione orizzontale del fiume improvvisamente
minaccia di trasformarsi in tutt'altra, in quella del ful-
308 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
mine che saetta verticalmente verso il basso,
spaccando la terra; essa punta verso il centro del tutto, all'interna
zona a noi sottratta dell'esistenza, all'ambito che sta oltre la vita e
la morte individuale ... Riaffiora la stessa parola già evocata in Heidelberg:
l'«incanto». Tutte le forme minacciano di rompersi, tutti i limiti di
dissolversi. Le leggi che danno garanzia sicura sono in procinto di
essere annullate. Le cose, boschi e «monti» si dispongono a «fuggire
dietro» al fulmine, verso ciò che non ha nome.
La potenza primordiale, la profondità della natura,
l'abisso del tutto urge per risalire in superficie. Il dionisiaco
nell'oggettivo2.
Mentre in questo caso l'eruzione dionisiaca sarebbe
illecita, costituendo la tentazione a cui l'esistenza eroica resiste ed
il cui superamento comporta la pienezza dell'operare, l'amore degli dèi
e la gratitudine degli uomini, nell'elegia Stoccarda pervasa da
alito dionisiaco, essa domina di diritto:
1. Vissuto ancora ho una gioia. Guarita è l'arsura
funesta E della luce il rigore più non brucia le fioriture. Aperta ora
è di nuovo una sala e risanato è il giardino E rianimata da piogge
stormisce la valle lucente Dagli airi fogliami, son gonfi i torrenti e
tutte le ali Legate riprendono ardire nel regno del canto. Piena è
l'aria di quei festosi e bosco e città Pullula intomo di contente
creature del delo. Con piacere s'incontrano e intrecciano un
andirivieni, Senza pensieri, e nessuno sembra sia troppo o sia poco;
Così li preordina il cuore, e respirare la grazia
Leggiadra e giusta concede loro un divino spirito. Ma bene guidati sono
pure i viandanti e hanno Ghirlande bastevoli e canto, hanno il bastone
sacro Bene adorno di grappoli e frondi seco, e dei pini L'ombra: di
borgo in borgo è un giubilo, da giorno a giorno,
Dioniso
309
E, quali carri tirati da libere belve, si mettono i
monti In cammino, così porta e vola il sentiero.
Wieder ein Glùck ist eriebt. Die gefahriiche
Dùrre geneset, / Und die Schàrfe des Lichts senget die Biute nicht
mehr. / Offen stehtjetzt wieder ein Saal, und gesund ist der Gar-ten, /
Und von Regen erfrischt rauschet das glànzende Tal, / Hoch von
Gewàchsen, es schwellen die Bàch und alle gebundnen / Fìttiche wagen
sich wieder ins Reich des Gesangs. / Voli ist die Luft von Fróhiichen
jetzt und die Stadt und der Hain ist / Rings von zufriedenen Kindern des
Himmeis erfùlit. / Geme begegnen sie sich, und irren untereinander, /
Sorgenlos, und es scheint keines zu we-nig, zu viel. / Denn so ordnet
das Herz es an, und zu at-men die An-mut, / Sie, die geschickiiche,
schenkt ihnen ein góttlicher Geist. / Aber die Wanderer auch sind
wohl-geleitet und haben / Krànze genug und Gesang, haben den heiligen
Stab, / Vollgeschmùckt mit Trauben und Laub, bei sich und der Fichte /
Schatten; von Dorfe zu Dorfjauchzt es, von Tage zu Tag, / Und wie Wagen,
be-spannt mit freiem Wilde, so ziehn die / Berge voran und so tràget
und eilet der Pfad (il, p. 86; tr. it. dt., p. 127).
Di nuovo l'incontro. Il temporale risveglia dappertutto
una vita infinita. Anche gli uomini ne sono toccati e, nuovi Bacchi, si
allontanavano dalle case, escono fuori con in mano il tirso sacro, adomo
d'uva, il frutto di Dioniso, e lasciando dietro di sé i pini, gli
alberi consacrati al dio. A un tratto tutto si trasforma. Alla loro
testa, il carro del dio cigola per il paese. Le montagne stesse un
attimo fa ancora levantisi all'orizzonte, azzurre e silenziose, sono il
carro che si muove verso la lontananza indicibile. Le belve - «libere
belve» in quest'ora della dissoluzione, in cui tutti i limiti sono
caduti e domina il tutto - sono in testa, e il sentiero stesso corre.
310 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
II testo dell'inno II Reno mostra come l'incanto
dionisiaco possa rovesciarsi nella sua forma cattiva, nell'assenza
d'ogni legge, che è propria del caos. Quando è chiesta la limitazione
ed il salto nell'abisso primordiale è vietato, Bacco si trasforma nel
titano, e la fine piena di significato diventa distruzione malvagia.
L'inno II Reno è il canto sull'assoggettamento del titanico alla
disciplina e alla fecondità apollinee. Questo moto sotterraneo è
sotteso però a tutta la poesia e conferisce il suo splendore alla
vittoria. Ma alla fine muove minacciosamente fin sotto alla superfìcie:
Se per ardente sentiero d'abeti
O nel buio quercete, celato
Nell'acciaio, o mio Sinclair! Iddio ti appaia
O nelle nubi, lo riconoscerai, che, giovanile,
Conosd la forza del bene e non ti è mai
Ascoso il sorriso del Regnatore,
Sia di giorno, quando
Febbrile e incatenata
La vita appare, sia
Di notte quando tutto si mischia
Senz'ordine e torna
L'originario groviglio.
Dir mag auf heiBem Pfade unter Tannen oder / Im Dun-kel
des Eichwaids, gehùllt / In Stahi, mein Sinclair! Goti erscheinen oder
/ In Wolken, du kennst ihn, da du ken-nest, jugendiich, / Des Guten
Kraft, und nimmer ist dir / Verborgen das Làchein des Herrschers / Bei
Tage, wenn / Es fieberhaft und angekettet das / Lebendige scheinet, oder
auch / Bei Nacht, wenn alles gemischt / Ist ordnungs-los und
wiedergekehrt / Uralte Verwirrung (il, p. 148; tr. it. dt., p. 205).
In modo simile una strofa degli ultimi anni:
Dioniso
311
Maturi sono, nel fuoco tuffati, cotti
I frutti e sulla terra provati; e v'ha una legge
Che tutto in dentro volge come serpenti
In profetico sogno sopra
I colli del delo. E molto,
Quale sugli omeri
Un peso di ciocchi
È da conservare. Ma sono cattivi
I sentieri. Poiché fuori strada
Come cavalli, vanno i prigionieri
Elementi e le vecchie
Leggi della terra. E sempre
Allo sfrenamento va una brama. Ma molto
È da conservare. E necessaria la fedeltà.
Ma ne avanti, ne indietro
Noi vogliamo vedere. Ci facciamo cullare
Come su dondolante barca del mare.
Reif sind, in Feuer getaucht, gekochet / Die Frùcht'
und auf der Erde geprùfet und ein Gesetz ist, / DaB alles hin-.
eingeht, Schlangen gleich, / Prophetisch, tràumend auf/ Den Hùgein des
Himmels. Und vieles, / Wie auf den Schuitern eine / Last von Scheitern,
ist / Zu behalten. Aber bós sind / Die Pfade. Namlich unrecht, / Wie
Rosse, gehn die gefangenen / Element' und alten / Gesetze der Erd. Und
immer / Ins Ungebundene gehet eine Sehn-sucht. Vieles aber ist / Zu
behalten. Und Not die Treue, / Vorwàrts aber und rùckwàrts wollen wir
/ Nicht sehn. Uns wiegen lassen, wie / Auf schwankem Kahne der See (il,
p. 197; tr. it. cit, p. 243).
È profondamente toccante, nella poesia, l'urgere del
pericolo sotterraneo verso la superfìcie. L'immagine in sé proviene
probabilmente dalla Francia meridionale: l'ardore del sole sopra i
frutteti e le vigne ed il silenzioso maturare dovunque.
Ma i processi naturali diventano il dominio di po-
312 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
tenze e di esseri finché non prorompe la sensazione che
l'ordine in cui è riposta l'esistenza quotidiana è solo apparente, un
vincolo provvisorio che il caos può rompere in qualsiasi momento -
fuori, nella natura, come l'innominabile dell'inno II Reno,
dentro, nel cuore, come una «nostalgia che va dove non sono ceppi».
Così il vate cerca il luogo estremo dove l'uomo può trovare riparo
quando avverte sciolto tutto attorno a sé e in se stesso, trovandolo
nel luogo «indivisibilmente piccolo», per dirla con Pascal,
dell'attesa immobile neìVhic et nunc (VI, infra, p. 603).
Tutto ciò è il dionisiaco nella sua potenza e nel suo
pericolo. Un elemento dell'esistenza, un aspetto sotto cui appare il
mondo ... Ma appena Dioniso viene nominato di persona, egli si presenta
sempre come il mite e munifico che unisce ciò che è diviso, riconcilia
ciò che è dissidente, che libera ciò che è imprigionato conducendolo
all'aperto. L'unico lo chiama Èvio.
Che al carro aggiogò
Le tigri e giù
Ordinando un rito di gioia
Piantò la vigna
E l'ira ammansi dei popoli.
An den Wagen spannte / Die Tiger und hinab / Bis an den
Indus / Gebietend freudigen Dienst / Den Weinberg stiftet' und / Den
Grimm bezàhmte der Vólker (il, p. 154;
tr. it. dt., p. 215; Èvio [Ed'ioc;] è un appellativo
di Dioniso -n.d.r.).
In Pane e vino la riconciliazione è più
profonda. Essa supera la divisione dell'esistenza che scaturisce dagli
ordinamenti stessi:
Dioniso
313
Per questo i cantori cantano severi il dio del vino E,
non mera fantasia, suona all'Antico la lode. Sì! essi dicono bene
ch'Egli concilia la Notte col Giorno E che in eterno le stelle di
sotto e su in alto conduce, In ogni tempo lieto come il sempreverde pino
Ch'Egli ama e la corona che d'edera si è scelto:
Perché Egli rimane e la traccia degli dèi fuggiti
Porta giù fra la tenebra ai senza dèi.
I figli d'Iddio, che il canto degli antichi predice Ecco
che siamo: frutto dell'Esperia è questo! Mirabilmente e in precisa
misura del limite umano, è adem-
[piuto Chi l'ha provato, lo creda! ma per quanto dò
accada, Nulla produce, che siamo scuorati, e saremo ombre, fin
[quanto
II padre Etere, riconosciuto, a ognuno e a tutti non
appartenga. Ma nel frattempo scende a scuoter la fiaccola il Figlio
Dell'Altìssimo, il Siriaco, in mezzo alle ombre, quaggiù. Savi felici
lo vedono: un riso s'irraggia dall'anima Imprigionata, alla luce si
disgela anche il loro occhio. Più dolce sogna e dorme in braccio alla
Terra il Titano, Anche l'invido, anche Cerbero beve e dorme.
Darum singen sie auch mit Ernst, die Sànger, den
Wein-gott, / Und nicht eitel erdacht tónet dem Alten das Lob. // Ja!
sie sagen mit Recht, er sóhne den Tag mit der Nacht aus, / Fùhre des
Himmeis Gestim ewig hinunter, hinauf, / Allzeit froh, wie das Laub der
immergrùnenden Fichte, / Das er liebt, und der Kranz, den er von Efeu
ge-wàhit, / Weil er bleibet und selbst die Spur der entflohnen Getter /
Gótterlosen hinab unter das Finstere bringt. / Was der Alten Gesang von
Kindem Gottes geweissagt, / Siehe! wir sind es, wir; Frucht von
Hesperien ists! / Wun-derbar und genau ists als an Menschen erfullet, /
Glaube, wer es geprùft! aber so vieles geschieht, / Keines wirket, denn
wir sind herzios, Schatten, bis unser / Vater Àther erkannt jeden und
allen gehórt. / Aber indessen kommt
314
Terzo
cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso
als Fackelschwinger des Hòchsten / Sohn, der Syrier,
un-ter die Schatten herab. / Selige Weise sehns; ein Làchein aus der
gefangnen / Seele leuchtet, dem Ucht tauet ihr Auge noch auf. / Sanfter
tràumet und schlaft in Armen der Erde der Titan. / Selbst der
neidische, selbst Cerberus trinket und schlaft (II, pp. 94-95; tr. it.
cit., p. 141-143).
La potenza di Dioniso evoca la lotta e crea la pace. I
limiti opprimenti si dissolvono, e il tutto, che si fa strada attraverso
l'incanto, è l'unità di quanto altrimenti è in tensione. Così nella
terza versione di L'unico di Bacco potrà essere detto che egli
è «spirito di comunione» per eccellenza3.
Anche questa figura divina è permeata da correnti che
provengono dall'ambito di pensiero e di sentimento cristiano. Ne è
prova eloquente il fatto che tutte le affermazioni più importanti su
Dioniso siano contenute negli inni su Cristo.
Ne abbiamo fatto conoscenza adesso. Nella visione di
Hólderlin, le figure di Dioniso e di Cristo sono strettamente legate
fra loro. Verrebbe quasi a dire che essi formano una unione, certo in
profonda tensione. Ciò significa da una pane che la figura di Cristo è
determinata a partire da quella di Dioniso, ma anche che la natura e
l'atteggiamento del Dioniso di Hólderlin sono modellati sulla figura di
Cristo.
Non a caso quindi, Dioniso viene messo espressamente in
rapporto con Cristo ed Eracle. Essi formano il gruppo delle divinità
salvifiche caratterizzate dal loro rapporto con «la necessità e
distretta» dell'uomo (V, infra, p. 672).
SATURNO
Un ruolo particolare nella poesia di Hólderlin è
occupato da una figura divina che, benché raramente nominata, non manca
di impressionare fortemente:
quella di Saturno.
Tra le poesie che seguono la metrica antica ve n'è una
intitolata Natura e arte, ovvero Saturno e Giove.
Regni alto sul giorno e fiorisce la tua
Legge, in pugno hai la bilancia, figlio di Saturno!
E spartisci le sorti e lieto riposi
Nella gloria delle arti di dominio immortali.
Ma si dicono i cantori che nell'abisso II sacro padre,
una volta, il tuo proprio, Tu sbandisti e che si lamenta laggiù, Dove i
ribelli puniti stanno prima di tè,
L'innocente dio dell'età dell'oro, da tanto;
Esente da cure, una volta, e di tè più grande, Anche
se mai nessun comando espresse, Ne lo chiamò con nomi alcun mortale.
Giù, dunque! o non vergognarti di ringraziare! E se
vuoi rimanere, ossequia il più antico, Accordagli che prima di tutti,
Dèi e uomini, il cantore lo nomini!
Che come dalla nuvola il tuo fulmine,
316 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
Viene da lui dò eh'è tuo, guarda! di lui Testimonia
ciò che legiferi, e dalla pace Di Saturno qualunque potenza è
cresciuta.
E non appena in cuore un che di vivente Sento e l'albore
di dò che creasti, Non appena nella sua culla l'instabile Tempo cede a
un voluttuoso sopore,
10 t'odo allora, o Cronio! e in tè conosco
11 savio maestro che come noi, figlio
Del tempo, da leggi e quanto
II santo crepuscolo asconde, annunzi.
Du waltest hoch am Tag und es blùhet dein / Gesetz, du
hàltst die Waage, Saturnus Sohn! / Und teiist die Los' und ruhest froh
im / Ruhm der unsterbiichen Herrscherkùn-ste. // Doch in den Abgrund,
sagen die Sànger sich, / Habst du den heilgen Vater, den eignen, einst
/ Verwié-sen und es jammre drunten, / Da, wo die Wilden vor dir mit
Recht sind, // Schuidlos der Gott der goldenen Zeit schon làngst: /
Einst mùhelos und gróBer, wie du, wenn schon / Er kein Gebot aussprach
und ihn der / Sterbii-chen keiner mit Namen nannte. // Herab denn! oder
schàme des Danks dich nicht! / Und wilist du bleiben, die-ne dem
Àlteren, / Und gónn es ihm, dafi ihn vor Allen, / Góttern und
Menschen, der Sànger nenne! // Denn, wie aus dem Gewólke dein Blitz,
so kómmt / Von ihm, was dein ist, siehe! so zeugt von ihm, / Was du
gebeutst, und aus Staturnus / Frieden istjegliche Macht erwachsen. //
Und hab ich erst am Herzen Lebendiges / Gefùhit und dàmmert, was du
gestaltetest, / Und war in ihrer Wiege mir in / Wonne die wechseinde
Zeit entschiummert, // Dann kenn ich dich, Kronion! dann hór ich dich,
/ Den weisen Meister, welcher, wie wir, ein Sohn / Der Zeit, Ge-setze
gibt und, was die / Heilige Dàmmerung birgt, ver-kùndet (il, pp.
37-38; tr. it- dt, pp. 77-79).
Saturno
317
Zeus è il dio della cultura: del dominio regale,
dell'operare saggio, della responsabilità spirituale nella luce chiara.
Ma il potere non è sempre stato suo. Prima di lui vi fu Saturno e fu
più grande di lui. Costui è il dio della natura o, meglio, della
natura secondo il suo stato primordiale, in cui tutte le cose erano
ancora concordemente unite. Egli è colui che è senza fatica, «esente
da cure», il dio di quella vita che segue i percorsi facili, identici
con se stessi dell'esistenza inconscia; Saturno non proclama nessun
comandamento. Nel suo regno è tutto ovvio - vedi la prima fase della
storia nella nostra analisi circa l'immagine della storia di Hólderlin
(II, supra, p. 160). Suo figlio lo ha detronizzato perché
l'esistenza non può rimanere allo stato primordiale, ma passa
dall'autoidentità della natura alla tensione dello spirito, alla lotta,
alla conquista, alla creazione e alla distruzione.
Saturno è il nume della «età d'oro», dell'inizio.
L'inizio è un mistero, un àrrèthon. Per questo il dio di essa
è colui che «nessun mortale mai chiamò per nome». Lo stato
primordiale deve scomparire perché la vita, abbandonando la sua
sicurezza, affronta l'audacia e la lotta; così questo dio è circondato
dal lutto dell'aver perduto. Allo stesso tempo tuttavia, attorno a lui
fiorisce una promessa, poiché il mistero dell'inizio è unito a quello
della fine. Lo splendore numino-so che avvolge il primo stato perduto,
riveste anche l'ultimo che sta nella speranza. Infatti, Saturno è anche
il dio che ritornerà. Empedocle predice che un tempo, quando gli
assalti e le sofferenze che gli uomini si infliggono saranno superate e
verrà la salvezza,
318 Temo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
subentrerà la terza realtà: la natura nuova,
l'esistenza riconciliata. Allora regnerà Saturno:
Quando poi giungeranno i felici giorni di Saturno,
Rinnovati e più virili, ricordate
II tempo perduto e all'ardore del genio
Riviva la leggenda dei padri!
Come canto dalla luce della primavera
Innalzato alla festa venga
Dal regno delle ombre l'obliato
Mondo degli eroi e insieme all'aurea
Nube della tristezza vi circondino,
Nella vostra letizia, le memorie.
\Venn dann die glùckiichen Saturnustage, / Die neuen,
mànniicheren, gekommen sind, / Dann denkt vergangner Zeit, dann leb,
erwàrmt / Am Genius, der Vàter Sage wie-der! / Zum Feste komme, wie
vom Frùhiingsiicht / Em-porgesungen, die vergessene / Heroenweit vom
Schatten-reich herauf, / Und mit der goldnen Trauerwolke lagre /
Erinnrung sich, ihr Freudigen, um euch! - (m, p. 150).
Contemporaneamente, in questa poesia, è
partico-larmente evidente l'ufficio del poeta. Saturno sta
«nell'abisso», nelle profondità della terra; là, dov'è ciò che
«doveva scendere nel suolo» affinchè altro potesse crescere. Ma egli
è laggiù «senza colpa» solo perché il decorso dell'esistenza così
vuole; a differenza «dei ribelli», dei Titani, che, «puniti» a
ragione, di diritto sono confinati negli abissi. Perciò egli ha diritto
a che si tenga in considerazione il suo significato. Il poeta però ha
il compito di preservare ogni diritto divino, quindi anche quello del
vecchio dio detronizzato verso il più giovane che ha assunto il potere.
Perciò, con il pathos di qualcuno mandato da una potenza
superiore, si rivolge al dio dominante:
Saturno
319
Giù, dunque! o non vergognarti di ringraziare. E se
vuoi rimanere, ossequia il più antico.
Herab denn! oder schàme des Danks dich nicht! / Und
wilist du bleiben, diene dem Àlteren (il, p. 37; tr. it. dt., p. 79).
Gratitudine per Hólderlin significa l'opposto di hybris.
Questa vige laddove il singolo si strappa dal contesto stabilendo la
propria autonomia. In verità, tutto vive da tutto. Ma la tentazione di
strapparsene è molto grande perché dappertutto vi sono separazioni;
giorno e notte, ciclo e terra, natura e cultura, le differenti stagioni
dell'anno, ogni figura singola accanto ad ogni altra. Sono le
separazioni su cui poggiano le forme dell'esistenza.
Poter dire: «il giorno è giorno» e: «la quercia che
sta qui è proprio questa» significa allo stesso tempo dover dire:
«quando viene il giorno, la notte deve cessare» e: «albero non è
animale, quercia non è betulla, e se mi rivolgo verso questa betulla,
devo lasciar perdere quella». La determinazione può avvenire solo
attraverso la scissione e la distinzione. Determinazione e carattere
significano anche un limite. Ciò comporta sofferenza poiché ogni
essere vorrebbe stare con tutti gli altri, ognuno essere tutti gli altri
e ognuno essere il tutto. L'impossibilità di ciò costituisce il dolore
mitico. La notte deve sparire quando giunge il giorno;
la primavera deve passare se si vuole che diventi
estate. Ma esiste la promessa che questo dolore verrà una volta sedato:
al culmine di ogni vita, nelle «nozze degli uomini e degli dèi». A
ciò si protende la speranza. La tentazione mitica invece significa che
la realtà singola dice: «Io sono ciò che sono, a partire da me stes-
320
Terzo
cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso
so soltanto, e così deve rimanere, e questo è il
tutto». Questa è la hybris, l'ingiustizia prima. La gratitudine
invece è la virtù prima che conosce la totalità, il proprio limite e
la propria collocazione nella totalità ... Il poeta è l'avvocato della
totalità. La protegge - perfino davanti a un'espressione così
imponente d'essere singolo, come Zeus - ricordandogli il dovere della
gratitudine.
Saturno è l'inizio delle cose, la pace, la sicurezza
nel senza nome, il sacro crepuscolo, la culla del tempo cangiante, il
primo sonno. Ciò che Cronio è e fa proviene da quell'inizio. Dal
mistero del sonno scaturisce il tempo che «cammina per i sentieri ad
occhio aperto», dalla pace la potenza, dal silenzio la parola. Ciò che
compie Cronio, la cultura, è grande, ma più piccolo di quello e si
può intenderlo solo a partire da esso.
Quando il poeta, attraverso il contatto visionario,
venne trasportato fuori dal tempo all'inizio, dove «l'instabile tempo
nella sua culla cede a un voluttuoso sopore», egli ha «sentito un che
di vivente». Le chiare opere quotidiane di Zeus gli sono «sovvenute»,
riemerse nell'inizio, e solo adesso ha «udito», «conosciuto» il loro
creatore, il «savio maestro». Poiché il dio del giorno non fa altro
che annunciare ciò che «il santo crepuscolo» da sempre
«custodisce».
Un singolare traduzione in termini umani di
quest'insieme si trova nella Morte di Empedocle:
Ah! Solo! Solo! Solo! .
Non più, miei dèi,
io vi ritrovo,
non più. Natura,
torno alla tua vita!
Da tè messo al bando! ahimè, anch'io
Saturno
321
non ti rispettai,
sopra di tè mi sollevai superbo, ma non fosti tu
ad abbracciarmi un giorno con le tue calde ali,
o tenera, a salvarmi dal sonno?
Il folle che rifiutava il nutrimento
tu, pietosa, ammaliante, l'hai attirato
al tuo nettare affinchè crescesse e fiorisse
e, divenuto ebbro e potente,
d schernisse ora impunito? O Spirito,
Spirito, tu che mi facesti grande,
è il tuo signore che allevasti:
vecchio Saturno, allevasti un nuovo Giove -ma più
debole e insolente.
Poiché, lingua ingiuriosa, egli non sa che insultard,
non esiste in qualche dove un vendicatore, e devo allora
[da me stesso invocare sulla mia anima scherno e
maledizione? Devo essere solo anche in questo?
Weh! einsam! einsam! einsam! / Und nimmer find ich /
Euch, meine Getter, / Und nimmer kehr' ich / Zu deinem Leben, Natur! /
Dein Geàchteter! weh! hab' ich doch auch / Dein nicht geachtet, dein /
Mich ùberhoben, hast du einst / Umfangend doch mit den warmen
Fittichen, / Du Zàrtiiche, mich vom Schlafe gerettet, / Den Tórigen?
ihn / Mitleidig schmeicheind zu deinem Nektar/ Gelockt, da-mit er trank
und wuchs / Und blùht', und màchtig gewor-den und trunken / Dir nun
ungestraft hóhnt - O Geist, / Geist, der mich groB gemacht! du hast /
Dir deinen Herrn, hast, alter Saturn! / Dir einen neuen Jupiter /
Gezogen, einen schwàchern nur und frechem. / Denn schmàhen kann die
bóse Zunge dich nur. / Ist nirgend ein Ràcher, und muB ich denn allein
/ Den Hohn und Fluch in meine Seele sagen? / MuB einsam sein? auch so?
(Seconda versione m, pp. 186-187; tr. it. cit., p. 187).
Sacrilego, presuntuoso, Empedocle ha abbandonato la
prima realtà in se stesso, il proprio spirito che
322 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
era in pace con sé e con la natura e quindi con
«Saturno» - «l'antica natura dell'uomo, la silenziosa e grande»,
come si dice in altro passo. Gli ha imposto «un nuovo Giove», un
signore «più debole e più insolente» che, spirito consapevole, si
impone dominando ciò che di grande era prima. Sotto questo aspetto il
dramma appare come il ripristino dell'elemento saturnino nell'esistenza
dell'eroe attraverso la fine di quanto è individuale e zeusico.
Se si analizzano le affermazioni di Saturno con
precisione, egli appare identico alla divinità della natura in assoluto
prima del suo dispiegamehto, che invero è anche necessariamente
lacerazione, e ancora identico con la divinità della medesima natura
quando, superate tutte le lacerazioni, essa entra nella nuova pace.
Così adesso, nella lacerazione, egli è il dio ignoto, senza nome la
cui venuta è promessa. A ciò si riferiranno probabilmente le parole
tratte dall'abbozzo della prefazione alVIperione:
Noi tutti descriviamo una parabola eccentrica, e non d
è possibile altra via che porti dall'infanzia alla perfezione.
L'unità beata, l'essere, nell'unico senso della parola,
è perso per noi, e dovevamo perderla se dovevamo perseguirla,
ottenerla. Ci stacchiamo dair'ev k(xi Tiav del mondo, che è in pace,
per realizzarlo da noi stessi. Siamo in disaccordo con la natura, e ciò
che un tempo, come si può credere, era Uno, ora si combatte, e dominio
e servaggio si alternano da entrambe le parti. Spesso abbiamo la
sensazione che il mondo sia tutto e noi nulla, ma altrettanto spesso che
noi siamo tutto e il mondo nulla. Anche Iperione era diviso da questi
due estremi.
Sopire tale contrasto esterno tra il nostro io e il
mondo, riportare la pace di ogni pace, superiore ad ogni ragione,
Saturno
323
unirà con la natura per formare una totalità una e
infinita, questo è l'obiettivo del nostro anelare, si concordi o non si
concordi su ciò.
Ma ne il nostro sapere ne il nostro agire giungono,
durante un qualsiasi periodo dell'esistenza, là dove tutto è uno;
la linea determinata si congiunge con quella
indeterminata solo in un'approssimazione infinita (il, pp.
545-546).
IL DIO IN NOI, IL DIO INNOMINATO E IL DIO NUOVO
Infine, nella poesia di Hólderlin si trovano ancora
alcune altre forme del divino che, per quanto nominate di sfuggita,
risalgono a un'esperienza vera e sembrano avere un fondo di significato
autentico: il «dio in noi», il «dio innominato» e il dio «nuovo».
Il frammento delYIperione di «Thalia» [scritto
nel 1794 a Waltershausen - n.d.r.] dice:
Ah! Il dio in noi è sempre solo e povero. Dove troverà
tutti i suoi affini? Quelli che un tempo furono e saranno? Quando verrà
il grande ritrovo degli spiriti? Poiché un tempo, io credo, eravamo
tutti insieme (n, p. 59).
L'addio:
Volemmo separarci? Credemmo far bene e da saggi?
Perché il fatto compiuto d dette orrore come
assassinio?
Ah! poco ci conosciamo.
Un dio comanda dentro di noi.
Tradirlo? Lui che sempre per noi, tutto,
Sensi e vita ha creato, l'animante
Dio tutelare del nostro amore,
Tutto potrò fare, ma questo mai.
Trennen wollten wir uns? wàhnten es gut und klug? / Da
wirs taten, warum schróckte, wie Mord, die Tat? / Ach! wir kennen uns
wenig, / Denn es waltet ein Gott in uns.
326
Terzo
cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso
// Den verraten? ach ihn, welcher uns alles erst, /
Sinn und Leben erschuf, ihn den beseelenden / Schutzgott un-serer Uebe,
/ Dies, dies Eine vermag idi nicht (il, p. 24; tr. it. dt., p. 53).
Lamento di Menone per Diotima:
Ma noi, compagni lied, come i cigni che si amano Quando
riposano in riva al lago, o, sulle onde cullati, Guardano giù
nell'acqua, ove argentei arri si specchiano E l'azzurro dell'etere
fluttua sotto il lor navigare, Così sulla terra andavamo. E minacciasse
anche Borea, Nemico degli amanti, foriero di lai, cadesse Dai rami la
fronda e nel vento volasse la pioggia, Sorridevamo calmi, il nostro dio
sentivamo Nel caro colloquio, nel canto all'unisono delle anime Stare
con noi solo in gran pace, fanciullesco e gioioso.
Aber wir, zufrieden gesellt, wie die liebenden Schwàne,
/ Wenn sie ruhen am See, oder, auf Wellen gewiegt, / Nie-dersehn in die
Wasser, wo silberne Wolken sich spiegein, / Und àtherisches Biau unter
den Schiffenden walit, / So auf Erden wandelten wir. Und drohte der Nord
auch, / Er, der Uebenden Feind, klagenbereitend, und fiel / Von den
Àsten das Laub, und flog im Winde der Regen, / Ruhig làchelten wir,
fùhiten den eigenen Gott / Unter trautem Gespràch; in einem
Seelengesange, / Ganz in Frieden mit uns kindiich und freudig allein
(II, p. 76; tr. it. dt., p. 121).
In questi testi si intrecciano momenti diversi. Come
dappertutto nella natura, anche all'interno dell'uomo vige il divino.
L'interiorità dell'uomo, il suo essere in sé, è esso
stesso un nume: «il dio in noi». Dapprima, egli non ha nome, poiché
ciò che è più di tutto proprio il nucleo dell'individualità non è
in grado di esprimersi.
Il dio in noi, il dio innominato e il dio nuovo
327
Esso è «sempre solo e povero». Ma la divinità stessa
vi è diventata solitària. La solitudine del singolo per la divinità
è un modo di essere divina. La realtà della figura particolare, il
«camminare su sentieri propri», lo «stare su monti divisi» è la
solitudine del dio in noi.
Appena l'altro che gli è correlato lo incontra, egli
riconosce quanto è solitario e proprio di chi cerca e lo nomina. Questo
è l'amore. Attraverso questo nominare religiosamente amoroso il dio
solitario diventa accessibile e si apre la via all'essere insieme. Il
«dio in noi» diventa il nume della comunità. Questo divenire aperto,
dopo una prigionia tormentosa, è descritto con grandezza metafisica in L'addio:
Sparire voglio! Forse in un giorno lontano Diotima qui
ti vedrò. Ma dissanguato Allora sarà il desiderio, estranei Sereni
saremo, simili ai beati,
E andremo uno a fianco dell'altra in un calmo colloquio,
Pensosi, sostando; ma il luogo in cui d lasciammo Farà trasalire i
dimentichi, Ardente tornerà il cuore.
Stupito d guarderò, voci e dolce canto Come dal tempo
andato udirò e accordi, E il giglio profumerà Dorato per noi sopra il
ruscello.
Hingehn will ich. Vielleicht seh ich in langer Zeit, /
Diotì-ma! dich hier. Aber verbiutet ist / Dann das Wùnschen und
friediich / Gleich den Seligen, fremde gehn // Wir umher, ein Gespràch
fùhret uns ab und auf, / Sinnend, zógernd, doch itzt mahnt die
Vergessenen / Hier die Stelle des Abschieds, / Es erwarmet ein Herz in
uns, // Stau-nend seh ich dich an, Stimmen und sùBen Sang, / Wie aus
328 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
voriger Zeit, hór ich und Saitenspiel, / Und die Ulie
duf-tet / Golden ùber dem Bach uns auf (seconda versione U, p. 27; tr.
it. dt., pp. 53-55)4.
Ma esiste anche un essere insieme che impedisce la
comunione e la rivelazione del suo nume. Nella Giovinezza di Iperione
si legge:
[...] impiegano tutto per essere insieme, ma poi, quando
sono insieme, fanno gli sforzi più impensabili per essere soli nel vero
senso della parola, aprono la porta e chiudono il cuore - sia reso
grazie al delo che me ne sono staccato! (il, p. 522).
Il vero essere insieme deve scaturire dal raccoglimento,
e i luoghi in cui si avvera formano una rete viva tesa sulla terra:
«Appunto questo mi incupisce, che sembra consigliabile
vivere da soli», contìnuo Diotima; «porto un'immagine della
socievolezza nel cuore; buon Dio! quanto è più bello, secondo questa
immagine, essere insieme invece che soli! Penso spesso che se si gioisse
solo di quelle cose che sono care ad ogni cuore umano, se il sacro che
è in tutù si manifestasse nel discorso, nell'immagine e nel canto, se
in una verità si unissero tutti gli animi, se in una bellezza si
riconoscessero tutti, ah! se, tenendosi per mano, d si precipitasse
nelle bracda dell'infinito -».
«O Diotima», esclamai, «se sapessi dove si trova
questa comunità divina ancora oggi prenderei il bordone da viaggio e
con l'impeto dell'aquila mi rifùgerei nella patria del nostro cuore!».
«Spesso vivo in mezzo ad essa nello spirito»,
continuò Diotima, «e mi sento come se fossi lontana in un altro mondo,
e rinundo così facilmente a quello presente, - cantiamo canzoni
diverse, celebriamo feste nuove, feste dei santi di tutti i tempi e
luoghi, degli eroi dell'oriente e dell'ocdden-te; ognuno sceglie uno
vidno al proprio cuore e alla pro-
Il dio in noi, il dio innominato e il dio nuovo
329
pria vita, e il morto splendido compare in mezzo a noi,
nella gloria delle sue gesta. Ma non dimentichiamo nemmeno chi,
industrioso al quieto focolare, con animo puro fa il suo dovere, e ci
sono corone per ogni virtù; e quando nei nostri prati risplende il
fiore dorato e il campo di spighe ci stormisce attorno nella sua
fioritura azzurra e sul monte caldo matura l'uva, allora gioiamo della
cara terra che vive ancora la sua vita bella nella pace, e coloro che la
colavano cantano di essa come di una lieta compagna di giochi; amiamo
tutti anche lei, eternamente giovane, madre della primavera, benvenuta
splendida sorella! esclamiamo con la pienezza del nostro cuore quando
sorge per nostra gioia, l'amata: il sole del delo; ma non è possibile
pensare a lei sola! L'etere che ci circonda, non è forse l'immagine del
nostro spirito, puro ed immortale? e lo spirito dell'acqua, quando
s'incontra coi nostri giovani nell'onda sacra, non suona forse la
melodia del loro cuore? È ben degna di una festa la pace beata con
tutto dò che v'esiste!» (il, pp. 522-523)5.
Diotima continua:
«Quell'uno che veneriamo non lo nominiamo; benché d
sia vidno allo stesso modo in cui noi siamo viarii a noi stessi, non lo
pronundamo. Nessun giorno Io festeggia; nessun tempio gli è adeguato,
lo celebrano solo la consonanza dei nostri spiriti e la loro cresdta
infinita» (il, p. 523).
Questa non nominabilità è evidentemente diversa da
quella di cui si parlava poco fa. Non si radica nell'incapacità
dell'individualmente irripetibile di esprimere se stesso, ma nel
carattere del numinoso in quanto tale, nel fatto di essere estraneo, non
esprimibile con nessuno dei termini noti, il non terreno per definizione
che tuttavia si manifesta nel mondo, nell'essere singolo come
nell'esistenza in genere. Nel frammento di «Thalia» Diotima dice:
330 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
«Potessi riportartela questa festa silenziosa, questa
quiete sacra nell'interiorità, dove è percettibile anche il minimo
suono che scaturisce dalla profondità dello spirito e il tocco più
leggero dall'esterno, dal delo, dai rami e dai fiori -non posso
esprimere come spesso mi sentivo quando stavo davanti alla natura divina
e ogni suono terreno ammutoliva in me - in quei momenti ci è così
vicino, l'invisibile!» (il, p. 69).
Appena questa esperienza si unisce a quella del presente
cattivo e della speranza circa il futuro, l'immagine del nume muta. Si
trasforma in quella divinità che ancora non c'è, che anzi deve ancora
imporsi nell'ambito dell'esistenza e nella coscienza dell'uomo. Iperione:
«Che tutto cambi dalle fondamenta! Germogli dalla
radice dell'umanità il nuovo mondo. Una nuova divinità domini su di
loro, un nuovo futuro si illumini innanzi a loro. Nell'officina, nelle
case, nelle riunioni, nei templi, ovun-que, muti tutto!» (il, p. 199;
tr. it. dt., p. 109).
Slmilmente, ma senza il pathos del
riformare tutto, in Ritorno in patria:
Quando benediremo la mensa, chi potrò invocare? e
quando Riposeremo dalla vita diurna, dite, come renderò grazie?
Nominerò il Superno? Non ama il disacconcio un dio E la nostra gioia è
troppo piccola per contenerlo. Spesso dobbiamo tacere: mancano nomi
sacri, Cuori battono, eppure il discorso non tiene dietro? Ma una cetra
presta i suoni ad ogni ora E forse allieta celesti esseri che si
avvicinano.
Wenn wir segnen das Mahi, wen darf ich nennen? und wenn
wir / Ruhn vom Leben des Tags, saget, wie bring ich
Il dio in noi, il dio innominato e il dio nuovo
331
den Dank? / Nenn ich den Hohen dabei? Unschickiiches
liebt ein Gott nicht, / Ihn zu fassen, ist fast unsere Freude zu klein.
/ Schweigen mùssen wir oft; es fehien heilige Na-men, / Herzen
schlagen, und doch bleibet die Rede zu-rùck? / Aber ein Saitenspiel
leihtjeder Stunde die Tóne, / Und erfreuet vielleicht Himmlische,
welche sich nahn (II, p. 99; tr. it. cit., p. 149).
Qui si vive il fatto dell'avvicinarsi di una realtà
nu-minosa che non è ancora riconosciuta ed è ancora senza nome.
IL DIO UNO
Le immagini delle divinità in Hólderlin scaturiscono
da un'esperienza talmente primordiale, esse sono talmente vere e capaci
di riempire in modo così possente lo spazio religioso della sua poesia
da far apparire solo tardivamente la questione che parrebbe ovvia: qual
è il significato che il Dio della fede cristiana riveste nel suo mondo.
Nelle sue poesie giovanili si parlava anche per esteso
dell'unico Dio che crea il mondo e dirige l'esistenza. La grande poesia I
miei (i, p. 15) parla del «signore dei mondi», del «padre sempre
caro», del «dio buono, amorevole», del «grande donatore» ed implora
la sua benedizione per le persone care. Il ricordare (i, p. 8) lo
chiama «giudice» e «padre della misericordia»; L'immortalità
dell'anima (i, p. 31) lo invoca «Je-hova» ecc. Le varie
rappresentazioni e denominazioni di Dio proprie della tradizione
cristiana ci sono dunque; ma colui che vi si esprime non vi prende parte
nella misura in cui un giovane dovrebbe essere partecipe di concezioni
ed immagini che sono ovvie nel suo ambiente d'origine, soprattutto per
la madre, ed essenziali per la sfera della professione alla quale si va
preparando. Di qui la retorica penosa, riscontrabile soprattutto nella
poesia la cui appartenenza all'opera di Hólderlin è così
diffìcilmente accettabile, i Libri dei tempi.
334 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
L'impressione viene confermata dalle lettere di
Hólderlin. Quelle scritte nel periodo di Mauibronn, se non sbaglio,
nominano Dio solo tré volte. Più importanti per la nostra questione
sono le lettere da Tu-binga. Hólderlin vi studia teologia, contando di
entrare nel ministero ecclesiastico; è quindi molto significativo
constatare la scarsa importanza che il pensiero di Dio, anzi
dell'elemento religioso in generale, ha nelle sue lettere. Quelle
scritte da Walters-hausen, dove dietro raccomandazione di Schiller tenta
di educare il figlio della signora, moglie del Maggiore von Kalb,
sottolineano ulteriormente questo fatto. Ciò da adito alla supposizione
che il giovane Hólderlin abbia coltivato in sé una vita religiosa di
tipo diverso, che non trovava espressione nelle concezioni tradizionali.
All'inizio deìl'Iperione, vi è un passo dove il narratore parla
al suo amico delle esperienze religiose fatte in gioventù:
... quando, sotto gli olmi e i salici sedevo nel grembo
del monte, dopo una pioggia ristoratrice, quando i rami tremavano ancora
delle carezze del delo e, al di sopra del bosco stillante, passavano
nubi dorate, o quando la stella della sera, colma d'un senso di pace, si
levava all'orizzonte, insieme con gli antichi adolescenti, gli altri
eroi del delo, e io osservavo come la vita si svolgesse in essi secondo
un ordine eterno senza affanno attraverso l'etere, e la calma del mondo
mi circondava e mi allietava così che osservavo e stavo in ascolto
senza sapere come mi avvenisse - 'mi ami, buon Padre celeste',
domandavo sommessamente, e sentivo, nel cuore, la sua risposta così
sicura e beatificante (II, p. 95; tr. it. dt., p. 32).
Subito dopo si legge:
O tu, che io invocavo Come se tu abitassi oltre le
stelle, tu,
Il Dio uno
335
che io chiamavo creatore del delo e della terra, amico
idolo della mia fanciullezza, non ti adirerai se ti ho dimenticato! -
Perché il mondo non è meschino abbastanza da indura a cercare ancora
Uno al di fuori di lui? (U, p. 95; tr. it. dt., p. 32).
A queste affermazioni non si potrà certo attribuire
senz'altro un valore biografico. Ma l'autore vi sembra essere più
profondamente coinvolto come dimostra la nota fatta a questo passo:
Non è certamente necessario ricordare che espressioni
del genere, quali puri fenomeni dell'animo umano, non dovrebbero, di
diritto, scandalizzare nessuno (il, p. 95; tr. it. dt., p. 32).
Hólderlin teme che le affermazioni di Iperione, che
intanto ha preso le distanze dalla sua religiosità giovanile, possano
destare scandalo. Ma questa stessa religiosità giovanile assume nel
romanzo connotazioni diverse da quelle delle poesie giovanili
tradizionalmente cristiane. Pur servendosi di parole tradizionali come
«buon Padre in cielo» e «mi ami» essa allude a qualcosa di diverso
rispetto al significato di queste ultime. L'atteggiamento religioso del
passo è piuttosto simile a quello della già citata poesia che culmina
nelle parole:
O tutti voi fidi,
Amorevoli dèi!
Se poteste sapere
Quanto vi ha la mia anima amato!
Ceno allora io non vi invocavo ancora
Con nomi, e neanche voi
Mi chiamavate mai a nome, come uomini si chiamano
Quasi si conoscessero.
336 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
Pure conosduto vi ho meglio Che mai abbia conosciuto gli
uomini:
Compresi il silenzio dell'etere, Le parole degli uomini
non le ho comprese mai.
O ali ihr treuen / Freundiichen Gótter! / DaB ihr
wùBtet, / Wie euch meine Seele geliebt! // Zwar damais rief idi nodi
nidit / Eudi mit Namen, audi ihr / Nanntet midi nie, wie die Mensdien
sich nennen, / Als kennten sie sich. // Doch kannt idi euch besser, /
Als idi je die Mensdien gekannt, / Ich verstand die Sulle des Àthers, /
Der Menschen Worte verstand ich nie (I, pp. 266-267; tr. it. dt, p. 33).
Il «Padre nel cielo» apparentemente biblico di cui
parla Iperione è già risolto interamente nel «Padre Etere».
Dobbiamo esaminare adesso le poesie degli ultimi anni
per stabilire se esse contengono, oltre alle concezioni di divinità,
anche quella dell'unico Dio. La questione può essere impostata su punti
diversi. Hól-derlin era un uomo di grandi, anzi creative doti
religiose: nella sua esperienza esiste il Dio uno che riempie e
determina ogni cosa? E Hólderlin era pensatore, soprattutto nelle sue
poesie che con forza inaudita contemplano, confessano e annunciano: si
trova in esse la rappresentazione di un Essere assoluto che unisce in
sé realtà in senso puro e semplice e validità incondizionata?
Inoltre: Hólderlin è cresciuto in un cristianesimo per metà
razionalistico, per l'altra metà pieti-stico, che ha poi cancellato.
Nel periodo della sua più potente produttività la figura di Cristo
ricompare, da una tale profondità e con una tale potenza da scatenare
una lotta che sconvolge l'intero uomo. Ma appena compare Cristo, egli
richiama necessariamente Colui il cui nome non può esserne separato: il
Padre. Come
Il Dio uno
337
ha visto Hólderlin questo Padre di Cristo? Ed infine:
nel periodo dopo il suo crollo, elementi un tempo
importanti si ripresentano in una configurazione che spesso è
apparentemente sconnessa, ma sempre viva: vi si trova forse la realtà
pura di «Dio», l'eredità teistica?
Il pensiero religioso di Hólderlin concepisce l'Essere
assoluto, uno ed unico? La poesia Consenso umano dice:
E crede nel divino Solo chi è divino.
An das Góttliche glauben / Die allein, die es selber
sind (i, p. 250).
Lamento di Menane per Dietimo:
Vorrei far festa, ma a che prò? e cantare con altri Ma,
così solo, nulla è più in me del divino.
Feiern mócht ich; aber wofùr? und singen mit andern, /
Aber so einsam fehitjegliches Góttliche mir (n, p. 77; tr. it. dt., p.
121).
Qui il concetto è espresso completamente in termini
generali. Ciò che descrive è il numinoso in genere, non una
determinata realtà di Dio.
All'inizio del secondo libro, Iperione narra
l'esperienza della vitalità spirituale che riempie tutta la natura,
dell'alito che spira in modo creativo:
Ero tutto pervaso da un indescrivibile desiderio e da un
senso di pace. Una forza a me ignota mi dominava. Spirito amico, dicevo
tra me, verso dove mi chiami? verso l'eliso o verso dove? (il, pp.
147-148; tr. it. dt., p. 71).
338 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
La descrizione è molto precisa: ciò che domina è
estraneo, eppure amico, desta desiderio, nostalgia pur donando pace, è
potente e attira lungi dal presente immediato. Abbiamo già visto in un
altro contesto che si tratta del nume dell'aria, dell'Etere. Più
ampiamente comprensive sembrano essere a prima vista espressioni come la
seguente tratta dalla poesia Come il giorno di festa...:
Del comune spirito sono pensieri, Che finiscono calmi
nell'anima del poeta;
Che, subito colpita, essendo nota Da sempre
all'Infinito, balza al ricordo:
E da lei da sacro fùlmine arsa Viene alla luce il
portato d'amore, L'opera degli dèi e degli uomini, il canto, Che
d'entrambi deve testimoniare.
Des gemeinsamen Geistes Gedanken sind, / Stili endend in
der Seele des Dichters, // DaB schnellbetroffen sie, Unendiichem /
Bekannt seit langer Zeit, von Erinnerung / Erbebt, und ihr, von heilgem
Strahi entzùndet, / Die Frucht in Uebe geboren, der Getter und Menschen
Werk, // Der Gesang, damit er beiden zeuge, glùckt (il, p. 119;
tr. it. cit., p. 157).
Anche qui l'esperienza religiosa è descritta con tratti
molto distinti. Il significato va oltre quello del testo di Iperione,
pur riferendosi in definitiva ad un essere divino fra altri, vale a dire
allo spirito della storia, allo spirito del tempo. Forse il seguente
passo del Canto dei fratelli Ottmar, Hom e Tetto potrebbe
descrivere una rappresentazione di divinità veramente comprensiva sotto
l'aspetto della dimensione creativa:
Il Dio uno
339
Chi pure ringrazierà, prima di ricevere E darà
risposta, prima che abbia udito? Ni[uno si attenta] mentre un più alto
parla Di interrompere il suono della parola. Molto egli ha da dire e con
altro diritto E un solo v'è, che non finisce nelle ore, E le epoche del
creante sono Come catena di monti Che in alte ondate da mare a mare S'avanza
sulla terra.
Wer will auch danken, eh er empfangt, / Und Antwort
ge-ben, eh er gehórt hat? / Ni indes ein Hóherer spricht, / Zu fallen
in die tónende Rede. / Viel hat er zu sagen und anders Recht, / Und
Einer ist, der endet in Stunden nicht, / Und die Zeiten des Schaffenden
sind, / Wie Gebirg, / Das hochaufwogend von Meer zu Meer / Hinziehet
ùber die Erde (il, p. 125; tr. it. dt., p. 161).
Ma nulla è individuabile con sicurezza. Spesso ricorre
l'espressione «il dio», come per esempio m Emilia innanzi il
giorno delle sue nozze:
[...] Questo siam noi,
Da gran tempo affini, che il Dio ha unito,
E durerà quanto lassù il sole.
[...] Wir sinds, / Die Làngstverwandten, die der Gott
getraut, / Und bleiben wird es, wie die Sonne droben (i, p. 291).
Alla Principessa Augusta di Homburg:
[...] Fui vocato
A celebrare quel ch'è più in alto, per questo
Mi diede il Dio la voce e il cuore grato.
[...] Berufist mirs, / Zu rùhmen Hóhers, darum gab
die/ Sprache der Gott und den Dank ins Herz mir (I, p. 312).
340 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
Elegia:
Così camminavamo sulla terra. E minacciava il Nord,
Lui, nemico degli amanti, che da timore, e se pure Dai rami cadevano le
foglie e la pioggia volava nel vento, Noi sorridevamo tranquilli, e
sentivamo il Dio e il cuore, Nell'intimo colloquio, nel chiaro canto
delle anime, Così in pace con noi, innocenti e beatamente soli.
So auf Erden wandelten wir. Und drohte der Nord auch, /
et, der Uebenden Feind, sorgenbereitend, und fiel / Von den Àsten das
Laub und flog im Winde der Regen, / Là-chelten ruhig wir, fuhiten den
Gott und das Herz / Unter trautem Gespràch, im hellen Seelengesange, /
So im Frie-den mit uns kindiich und selig allein (il, p. 72).
Stando al senso letterale della parola, non deve
trattarsi necessariamente di una divinità fra altre. «Il Dio»
potrebbe essere una formula derivata dal greco:
o ©eòe in realtà anche nel Nuovo Testamento significa
il Dio uno. Ma ciò a cui si allude è pronto per principio ad assumere
una forma particolare della divinità, a diventare il nume, come in Incitamento
(seconda versione):
E Quegli che in silenzio regge e ignoto II futuro
appronta. Iddio, lo Spirito Nella parola dell'uomo, un bei giorno, Come
una volta ai venienti anni si esprima.
Und er, der sprachlos waltet und unbekannt/ Zukùnftiges
bereitet, der Gott, der Geist/ Im Menschenwort, am schó-nen Tage /
KommendenJahren, wie einst, sich ausspricht (n, p. 36; tr. it. dt., p.
81).
Qui si passa al concetto di «spirito». Similmente,
Il Dio uno
341
in Ritomo in patria, il «puro beato Iddio»
viene assorbito dalla concezione dell'etere (II, p. 96; tr. it. cit., p.
145).
Lo stesso vale per l'espressione «la divinità». Anche
parole come il «dio senza nome» non si riferiscono necessariamente
all'inconcepibilità del Dio uno che trascende tutti i concetti. Possono
significare anche una divinità che urge, ancora ignota, per apparire, e
«nominarla» è compito del poeta; oppure un'autorivelazione del
creatore dio del tempo, come nel-l'appena citato Canto dei/rateili
Ottmar, Hom e Tetto:
Cupa echeggia bufera da settentrione nelle volte
profonde,
E la pioggia le fa pure
E musco cresce e tornano le rondini,
Nei giorni di primavera, ma è senza nome
In esse il Dio.
Woh! tónet des Nordsturms Echo tief in den Hallen, /
Und der Regen machet sie rein, / Und Moss wàchst und es kehren die
Schwalben, / In Tagen des Frùhiings, namlos aber ist/ In ihnen der
Gott... (il, p. 125; tr. it. dt., p.161).
Il fatto di essere «senza nome» è qui un attributo
del nume di cui si tratta, del tempo ancora tutto chiuso nelle gemme.
Costantemente ritoma la parola «padre», per esempio nel già citato
ricordo giovanile di Iperione (il, p. 95; tr. it. cit., p. 32).
Sentimento e rappresentazione sono in relazione con il
concetto neotestamentario di Padre, ma subito lo abbandonano. Il passo
è addirittura emblematico del modo in cui il concetto biblico del Padre
trapassa in quello di dio della vastità celeste, dell'Etere dominatore.
342 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
In Ritomo in patria si legge:
Molto ho udito dal grande Padre e tanto
Ho taciuto di lui che il tempo sempre in cammino
Lassù nell'alto rianima e regna sulle montagne:
Di lui che in breve d accorderà i doni celesti
svegliando Più limpido canto e inviando moiri spiriti buoni. Oh, senza
indugio, venite, o custodi. Angeli dell'anno, e voi Angeli della
casa, venite! in tutte le vene della vita, Tutte allietandole insieme,
si compartisca il divino!
Vieles hab ich gehórt vom groBen Vater und habe / Lange
geschwiegen von ihm, welcher die wandernde Zeit / Dro-ben in Hóhen
erfrischt, und waltet ùber Gebirgen, / Der gewàhret uns baid
himmlische Gaben und ruft / Hellem Gesang und schickt viel gute Geister.
O sàumt nicht, / Kommt, Erhaltenden ihr! Engel desJahres! und ihr//
En-gel des Hauses, kommt! in die Adern alle des Lebens, / Alle freuend
zugleich, teile das Himmlische si eh! (il, pp. 98-99; tr. it. cit., p.
149).
Anche qui è chiaro il nesso con il concetto
neotestamentario di Padre. Sono presenti anche gli angeli come
messaggeri del Padre. Ma la poesia nel suo insieme non lascia alcun
dubbio che si tratti dell'Etere. Lo stesso vale per la poesia Come il
giorno di festa...:
Ma a noi spetta ora, fra le tempeste d'Iddio,
Stare, o poeti, a denudata fronte, ,
E con la mano afferrare la folgore,
La folgore del Padre e al popolo il dono
Celeste porgere, avvolto nel canto.
Poiché se sono puri i nostri cuori
Come di pargoli e innocenti le mani,
II fulmine del Padre, il puro, non brucia:
E nel profondo scosso, i dolori del più forte
Condividendo, resta, nei turbini d'alto piombano Del Dio, che
s'appressa, pur saldo il cuore.
Il Dio uno
343
Doch uns gebùhrt es, unter Gottes Gewittem, / Ihr
Dichter! mit entblóBtem Haupte zu stehen, / Des Vaters Strahi, ihn
selbst, mit eigner Hand / Zu fassen und dem Volk ins Lied / Gehùllt die
himmlische Gabe zu reichen. / Denn sind nur reinen Herzens, / Wie
Kinder, wir, sind schuidlos unsere Hànde, // Des Vaters Strahi, der
reine, versengt es nicht, / Und tieferschùttert, die Leiden des
Stàrkeren / Mitleidend, bleibt in den hochherstùrzenden Stùrmen / Des
Gottes, wenn er nahet, das Herz doch fest (il, pp. 119-120; tr. it. dt.,
p. 157).
«Il Padre» è lo spirito dominatore, ispiratore. La
risposta alla questione sollevata è pertanto chiara: il concetto e la
rappresentazione dell'unico Dio che tutto determina non sono presenti in
forma chiara e discernibile là dove Hólderlin comunica una propria
esperienza vissuta.
Passiamo quindi con una certa tensione alla seconda
questione: come si configura la divinità legata a figure bibliche -
soprattutto quella con cui sa d'essere in rapporto Cristo e ch'egli
annuncia? Al fonte del Danubio:
E pensiamo anche a voi, valli del Caucaso, Tanto antiche
voi siete, a voi paradisi di là E ai tuoi patriarchi, ai tuoi profeti,
Asia, ai tuoi forti, o madre!
Che impavidi innanzi ai segni del mondo
Con sulle spalle il cielo e tutto il destino,
Intieri giorni, radicati suoi monti
Per primi seppero
Parlare soli
ADio[...]
Auch eurer denken wir, ihr Tale des Kaukasos, / So alt
ihr seid, ihr Paradiese dort, / Und deiner Patriarchen und
344 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
deiner Propheten, // O Asia, deiner Starken, o Mutter! /
Die fùrchtios vor den Zeichen der Welt, / Und den Him-mel auf Schuitern
und alles Schicksal, / Taglang auf Ber-gen gewurzeit, / Zuerst es
verstanden, / Allein zu reden / Zu Gott [...] (Il, p. 128; tr. it. dt.,
p. 165).
Qui evidentemente si tratta di figure ed episodi
biblici, soprattutto di Mosè sul Sinai. Il «Dio» a cui si rivolgono
questi «forti» sarebbe quindi quello della Rivelazione.
Ma poi la poesia contìnua:
[...] Ma se voi
E questo è a dire,
Voi antichi tutti, non diceste donde,
Noi ti nominiamo, per sacra necessità, nominiamo
Tè, o Natura: e nuovo, come dal lavacro, sorge
Da tè quanto nacque divino.
Und dies ist zu sagen, / Ihr Alten ali, nicht sagtet,
woher? / Wir nennen dich, heiliggenótiget, nennen, / Natur! dich wir,
und neu, wie dem Bad entsteigt / Dir alles Góttlichge-borne (il, p.
128; tr. it. dt., p. 165).
Il Dio della Scrittura perde il suo carattere
determinato, diventando una forza divina che si eleva dal grembo del
mondo, dalla natura. Nell'inno su Cristo O conciliante si legge:
E sempre maggiore del suo campo, come degli dèi Dio
Egli stesso, deve anche essere uno degli altri.
Ma quando l'ora suona,
Come il maestro s'allontana dalToffidna
Ne altra veste si mette
Che un abito di festa
Il Dio uno .
345
In segno che altro ancora
Gli è restato in lavoro.
Più umile e più grande appare.
Und immer gròBer, denn sein Feld, wie der Getter Gott /
Er selbst, muB einer der anderen auch sein. // Wenn aber die Stunde
schlagt, / Wie der Meister tritt er aus der Werk-statt, / Und ander
Gewand nicht, denn / Ein fesdiches, ziehet er an, / Zum Zeichen, daB
noch anderes auch / Im Werk ihm ùbrig gewesen. / Geringer und gròBer
er-scheint er (il, p. 132; tr. it. dt., p. 175).
L'interpretazione precisa di questo passo difficile
avrà luogo in altra sede (V, infra, p. 660). Qui basta osservare
che «il Dio degli dèi» entra nella schiera delle divinità a cui, nel
decorso della storia, viene assegnato il loro «campo», ossia lo spazio
dove si estende il loro potere. Anch'egli - chiamato altrove
«l'Altissimo», il «Padre degli dèi e degli uomini» — è quindi,
nonostante la sua altezza, solo uno fra altri ... Nell'inno L'unico
si legge:
Di alti pensieri
Molti ne sono
Scaturiti dal capo del Padre
E grandi anime
Da lui venute agli uomini.
Der hohen Gedanken / Sind namlich viel / Entsprungen des
Vaters Haupt / Und groBe Seelen / Von ihm zu Men-schen gekommen
(n, p. 153; tr. it. dt., p. 213).
Poi ancora:
[...] Perché troppo sono, O Cristo, legato a tè,
346 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
Sebben fratello d'Eracle.
E con audacia professo che sei
Fratello anche di Dioniso,
Che al carro aggiogò
Le tigri e giù
Fino all'Indo
Ordinando un rito di gioia
Piantò la vigna
E l'ira ammansi dei popoli.
[...] Denn zu sehr, / O Christus! hàng ich an dir, /
Wie-wohi Herakies Bruder, / Und kùhn bekenn ich, du / Bist Bruder auch
des Eviers, der / An den Wagen spannte / Die Tiger und hinab / Bis an
den Indus / Gebietend freu-digen Dienst / Den Weinberg stiftet' und /
Den Grimm bezàhmte der Vólker (il, p. 154; tr. it. dt., p. 215).
E ancora:
[...] E so per ceno
Che chi ti generò, il Padre tuo,
È il medesimo
Poi che mai governa da solo.
[...] Und freilich wei6 / Ich, der dich zeugte, dein
Vater, / Derselbe der, // Denn nimmer herrscht er allein (n, p. 155; tr.
it. cit., p. 215).
Questo «Padre» di Cristo è anche quello di Eracle e
Dioniso. Nella prima strofa dell'inno la sua immagine trapassa in quella
di Zeus o dell'Etere, a cui la Terra si contrappone come divinità di
pari rango.
Particolarmente significativo è l'inno Patmo.
Esso costituisce certo la rappresentazione più pura che Hólderlin
abbia dato della sua immagine di Cristo. Essa è importante per
l'interpretazione anche perché
Il Dio uno
347
indica il luogo neotestamentario da cui parte
Hólder-lin, ossia il Vangelo di Giovanni. L'inno parla del «vero
Dio», dell'«Altissimo» che «distoglie il suo volto», delT«etemo
Padre». Ma poi contìnua:
E se ora i celesti
Tanto, a mio credere, mi amano, Quanto più ameranno
tè, Poi che questo so certo:
Che il voler dell'etemo Padre
Molto a tè si rivolge.
Tacito è il suo segno
Al tuonare del delo. E alcuno vi sta sotto
L'intera vita. Che ancora vive Cristo.
Ma gli eroi, i suoi figli
Sono venuti tutti e sacre scritture
Da lui, e spiegano la folgore
I fatti della terra fino ad ora,
In emula corsa infrenabile. Ma egli è qui. Delle sue
opere
Tutte è conscio da sempre. .
Und wenn die Himmlischen jetzt / So, wie ich glaube,
mich lieben, / Wieviel mehr Dich, / Denn Eines wei6 ich, / Dafi namlich
der Wille / Des ewigen Vaters viel / Dir gilt. Stili ist sein Zeichen /
Am donnernden Himmel. Und Einer stehet darunter / Sein Leben lang. Denn
noch lebt Christus. / Es sind aber die Helden, seine Sóhne, / Ge-kommen
ali und heilige Schriften / Von ihm und den Blitz erkiàren / Die Taten
der Erde bis itzt, / Ein Wettlauf unaufhaltsam. Er ist aber dabei. Denn
seine Werke sind / Ihm alle bewuBt vonjeher (il, p. 171; tr. it. dt.,
pp. 227-229).
Qui egli è nuovamente il Padre «degli eroi», di
Eracle, di Dioniso e di Cristo, quindi Zeus, Etere, dio del cielo a cui
si contrappone la «madre Terra».
348 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
Gli inni su Cristo sono fra le più potenti poesie di
Hólderlin. La figura che in essi appare è piena di forza profondamente
commovente, immersa totalmente nel divino. Ma appena si tenta di
definire meglio la divinità da cui proviene e verso cui è diretta,
appare l'immagine del dio che domina nell'alto, dell'Etere, del ciclo.
Nei frammenti degli ultimi anni, il divino si impone con
una forza peculiare. In essi risulta allentato l'immediato, lineare
contesto logico e psicologico. Le fratture che sono caratteristiche
dello stile tardo di Hólderlin e obbligano il lettore a cercare un
punto di riferimento nella profondità, diventano sempre più ampie. Le
immagini e i pensieri non scaturiscono più in modo coerente l'uno
dall'altro, emergono bensì direttamente dal centro visionario. Sembrano
non curarsi l'uno dell'altro, ma svilupparsi ognuno per conto suo. Così
anche l'idea di Dio acquista una forza nuova, quasi incontrollata. Tra i
frammenti degli ultimi anni si trova il seguente:
Che è Dio? Ignoto, eppure
Ha molte proprietà il volto
Del ciclo da lui. I lampi infatti
Sono l'ira d'un Dio. Ma quanto più una cosa
È invisibile, tanto più s'adatta a quanto è estraneo.
Ma il tuono
È la gloria di Dio. L'amore dell'immortalità
È proprietà, com'è la nostra,
Anche di un Dio.
Was is Gott? unbekannt, dennoch / Voli Eigenschaften ist
das Angesicht / Des Himmeis von ihm. Die Blitze nàmiich / Der Zorn sind
eines Gottes. Je mehr ist eins / Un-sichtbar, schicket es sich in
Fremdes. Aber der Donner
Il Dio uno
349
/ Der Ruhm ist Gottes. Die Liebe zur Unsterbiichkeit /
Das Eigentum auch, wie das unsere, / Ist eines Gottes (n, p. 210).
Questi versi ricordano le frasi così sconvolgentemente
confuse ma allo stesso tempo così mirabili nella loro confusione che
Waiblinger6 ci ha tramandate nel suo romanzo Phaeton:
... Fin quando la gentilezza, la purezza durano nel
cuore, l'uomo non si misura infelicemente con la divinità. Dio è
ignoto? È manifesto come il cielo? questo mi è più facile credere. È
la misura dell'uomo. Con molto profitto, ma poeticamente l'uomo abita
questa terra. Ma l'ombra della notte stellata non è più pura, se così
posso dire, dell'uomo chiamato immagine della divinità (il, p. 372).
E ancora:
Bei ruscelletto, fai tenerezza nel fluire chiaro, come
l'occhio della divinità, attraverso la Via Lattea. Ti conosco bene, la
lacrime spuntano dall'occhio. Negli aspetti della creazione attorno a me
vedo fiorire una vita serena poiché non a torto la paragono alle
colombe solitàrie sul sagrato della chiesa. Ma sembra che il riso degli
uomini mi affligga, poiché ho un cuore (il, p. 373).
Un poesia brevissima, come un proverbio, dice:
Propria dei fanciulli è la bellezza, È forse vera
immagine di Dio. Sua proprietà è pace e silenzio Che toma anche a lode
degli angeli.
Die Schónheit ist den Kindem eigen, / Ist Gottes
Eben-bild vielleicht, - / Ihr Eigentum ist Ruh und Schweigen, / Das
Engein auch zum Lob gereicht (il, p. 264).
350 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
La seconda versione di Grecia contiene i seguenti
versi:
Ma come può esserd ballo
Alle nozze,
Anche il piccolo può
Avere un grande inizio.
Ma Dio tutti i giorni
Indossa uno splendido vestito.
Ed alla conoscenza si sottrae il suo volto,
E copre gli spazi ad arte.
E aria e tempo copre
II tremendo, se qualcosa troppo l'àma,
O, con preghiere, l'anima. ,,
Aber wie der Reigen / Zur Hochzeit, / Zu Geringem auch
kann kommen / GroBer Anfang. / Alltag aber wunderbar / Gott an hat ein
Gewand. / Und Erkenntnissen verberget sich sein Angesicht / Und deckt
die Lùfte mit Kunst. / Und Luft und Zeit deckt / Den Schròckiichen,
wenn zu sehr ihn / Eins liebet mit Gebeten oder / Die Seele (il, p.
256).
Nei testi citati la concezione di Dio presenta un
aspetto ricorrente: è connesso alla questione se Dio sia noto o ignoto.
La risposta è: egli è rivelato, ma allo stesso tempo nascosto. Pur
superando ogni figura concreta, cose e uomini, li riempie e si esplicita
in loro. Ma in quanto sono limitati essi lo velano, necessariamente,
perché altrimenti egli sarebbe insopportabile.
Il discorso su Dio assume connotati particolari
nell'abbozzo innico II Vaticano'.
Custodire Dio In purezza e discrezione:
Questo ci è assegnato.
Il Dio uno
351
Affinchè,
Molto infatti da questo dipende,
Non si formi giudizio di Dio
Sopra la penitenza,
Sopra una prova errata.
Gott rein und mit Unterscheidung / Bewahren, das ist uns
vertrauet, / Damit nicht, weil an diesem / Viel hàngt, ùber der
BùBung, ùber einem Fehier / Des Zeichens / Gottes gericht entstehet
(il, p. 252).
È singolare che una poesia di Hólderlin parli del
dovere di «custodire Dio in purezza e discrezione». Ma il pensiero non
viene sviluppato oltre.
Queste affermazioni tardissime sembrano essere più
vicine al concetto della realtà una di Dio. Ma esse sono troppo
sporadiche ed indeterminate perché se ne possa tentare
un'interpretazione.
IL RIFERIMENTO RELIGIOSO
NOTA INTRODUTTIVA
Trattando del problema degli dèi si è finora partiti
dalla questione della loro natura e della loro collocazione nel mondo.
Esso va ripreso ora in riferimento all'uomo. In che modo gli dèi si
manifestano all'uomo? Che cosa gli accade nell'incontro e come si
comporta in esso? I due momenti formano un insieme, il rapporto
religioso. In esso diventa manifesto che cos'è la divinità, che cos'è
l'uomo e che cosa l'esistenza.
L'analisi dovrà aver cura di non accostare preconcetti
ai fenomeni. Se per «età moderna» intendiamo quell'epoca che,
seguendo al tramonto del medioevo, è ora giunta al termine - grosso
modo quindi il periodo che va dal Rinascimento alle due guerre mondiali
- allora Hólderlin non faceva parte di essa.
Egli viene prima e allo stesso tempo dopo. Pur portando
in sé ancora elementi di antichità autentica, già annuncia eventi
futuri. Chi vuole comprenderlo, deve quindi tener conto della
possibilità che Hólderlin sappia di più rispetto all'uomo
dell'Ottocento. Ciò che Hólderlin dice, dev'essere assunto davvero
come
354
Terzo
cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso
«fonte», non come qualcosa da intepretare secondo la
modalità di pensiero del suo ambito storico o dell'epoca successiva.
Per il soggettivismo moderno il religioso è soprattutto
esperienza, oggetto della psicologia. Ma in Hól-derlin non vi è
nessuna «psicologia», come non vi è in Dante, Eschilo o Pindaro. Ciò
che intende dire è realtà: mondo esteriore ed intcriore, esseri e
potenze, incontri ed eventi, genesi e catastrofe. Tutto ciò è vissuto
in modo naturale, fornendo così anche l'occasione di un'indagine
psicologica. Ma quest'esperienza vissuta è l'eco e lo svolgimento, non
l'origine. Che si viva un'esperienza, è segno che v'è qualcosa che
può essere vissuto come esperienza. All'età moderna appartiene pure il
concetto di «assoluto». Esso costituisce il momento logico
contrapposto all'esperienza che significa il suo contenuto di validità.
«L'assoluto» da una parte e «l'esperienza» dall'altra, determinano
insieme la concezione del religioso. Ma gli dèi di Hól-derlin non sono
l'assoluto, bensì esseri che hanno iniziativa, che dominano ed
agiscono. Chi volesse perciò interpretarli secondo i canoni
tradizionali, si ritroverebbe in mano solo lirica religiosa o allegorie.
In verità dev'essere pronto ad imparare: guardare, ascoltare, indagare
il suono essenziale di dò che si desta, assumere l'impressione
dell'inconsueto come un probabile segno premonitore di qualcosa di
importante. Per quanto conceme il comportamento religioso dell'uomo, le
rappresentazioni di culture antiche aiuteranno a comprenderlo. È
sorprendente con quale primor-dialità fenomeni religiosi fondamentali
ampiamente dimenticati riemergano dalle parole di Hólderlin.
IL NON ESSER CONOSCIUTO, IL DIVENTARE MANIFESTO E
L'ASSEGNAZIONE DEL NOME
In Pane e vino si legge:
Inavvertiti giungono prima: gli anelano incontro
I pargoli: troppo lucente, troppo abbagliante arriva
La felicità: e l'uomo ne ha paura: appena un semidio
può dire
Con nomi chi siano quelli che gli si appressali coi
doni.
Ma da essi l'anima ha forza: gli colmano il cuore e le
loro
Gioie, un tanto bene sa usare appena,
Crea, si prodiga e quasi gli diventa sacro il profano
Che, folle e pio, egli tocca con mano benedicente.
Al massimo indulgono a questo i celesti: ma poi,
veramente
Giungono loro stessi e alla felicità s'abituano gli
uomini
E al giorno e a guardare gli dèi palesi, il cui volto,
Che già a lungo avevano chiamato Uno e Tutto,
Di libero contento il segreto petto ricolma
E solo adesso ogni anelito rende felice.
Così l'uomo: quando il Bene è lì e provvede con doni
Un dio in persona per lui, non lo conosce ne vede;
Sostenerlo deve dapprima: ma ora, da un nome a dò che
[più ama, Ora, ora debbon per questo parole come fiori
nascere.
Unempfùnden kommen sie erst, es streben entgegen /
Ih-nen die Kinder, zu hell kommet, zu blendend das Glùck, / Und es
scheut sie der Mensch, kaum weiB, zu sagen ein Halbgott, / Wer mit Namen
sie sind, die mit den Gaben ihm nahn. / Aber der Mut von ihnen ist gro6,
es fullen
356 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
das Herz ihm / Ihre Freuden und kaum weiB er zu
brau-chen das Gut, / Schafft, verschwendet und fast ward ihm Unheiliges
heilig, / Das er mit segnender Hand tórig und gùdg berùhrt. /
Móglichst dulden die Himmlischen dies;
dann aber in Wahrheit / Kommen sie selbst und gewohnt
werden die Menschen des Glùcks / Und des Tags und zu schaun die
Offenbaren, das Antlitz / Derer, welche, schon làngst Eines und Alles
genannt, / Tief die verschwiegene Brust mit freier Genùge gefullet, /
Und zuerst und allein alles Verlangen beglùckt; / So ist der Mensch;
wenn da ist das Gut, und es sorget mit Gaben / Selber ein Gott fùr ihn,
kennet und sieht er es nicht. / Tragen muB er, zuvor;
nun aber nennt er sein Liebstes, / Nun, nun mùssen
dafùr Worte, wie Blumen, entstehn (n, pp. 92-93; tr. it. dL, p. 131).
Dal testo si possono estrapolare due eventi religiosi
ben distinti: il giungere ed il denominare. Del giungere degli dèi, si
parlerà successivamente. Qui si tratterà dapprima del dar loro un nome
da parte dell'uomo.
Prima, riassuntivamente, il testo dice che i celesti
«giungono». Provenendo da un ambito dell'inaccessibilità, essi
entrano nel nunc umano. Là essi vengono avvertiti. «Poiché
scuote in profondità», la loro vicinanza diventa consapevole. Poi
l'evento si dissolve. Dapprima gli dèi giungono «inavvertiti»; essi
sono sì presenti, ma nessuno si accorge di loro. I bambini, innocenti
ed accoglienti, avvertono la loro presenza per primi. Poi gli esseri
celesti dispiegano tutta la loro divina ricchezza di vita. Essa è
beatificante e tremenda allo stesso tempo. Una sovrabbondanza misteriosa
trasforma tutto rendendo «sacro» perfino il «profano». Infine,
«essi stessi» entrano nella coscienza. Le loro figure essenziali
diventano manifeste. Il loro «volto» si scopre, il loro significato
risplende. Riem-
Il non esser conosciuto, il diventare manifesto
357
piono il cuore di «libero contento», quella esperienza
dal significato particolare che il religioso dona. E mentre prima l'uomo
non poteva far altro che «sostenere» il sentimento potente evocato
dalla loro presenza, adesso egli è in grado di «dar loro un nome», e
«nascono per questo parole come fiori».
Il nume è sempre reale, ma non sempre presente. Può
anche trovarsi «presso le ombre», nella sfera di ciò che è a noi
sottratto. Ma quando il tempo è giunto approda all'ambito degli uomini,
li tocca e da loro è avvertito. Dapprima si manifesta sólo come
vicinanza misteriosa, come potenza e dimensione nuova dell'esistenza.
Poi si impone la sua figura o forma essenziale, fino a diventare
evidente e a richiamare la parola che, crescendo bella e libera come un
fiore, la esprime: il nome.
L'evento appare ancora più grande nella poesia
Germania:
[...]
Come della Santa,
Che è madre di tutto e porta l'abisso,
Dagli uomini detta l'Ascosa,
Così è di amore e dolore,
E pieno di presagi,
E pieno di pace il tuo seno.
Oh bevi aure mattutine,
Finché dischiusa tu sia
E nomina dò che hai innanzi agli occhi.
Più oltre non può mistero
L'inespresso restare
Da tanto ch'esso è nascosto:
Poiché ai mortali s'addice il ritegno E con ritegno
parlare, di solito,
358 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
È saggio, anche, degli dèi.
Ma quando, più traboccante che pure sorgenti,
L'oro, e severa diviene l'ira nel delo,
Deve fra giorno e notte
Finalmente un Vero apparire.
Dichiaralo tré volte:
Ma, sia pure inespresso come è ora, O innocente, dò
resterà.
Oh! nomina, figlia della sacra terra,
Finalmente la madre. Crosdan le acque alla rupe
E le tempeste nel bosco e al nome suo
Risuona su dall'antico il Divino che è tramontato.
Come è diverso! come splende giusto e si esprime
Anche il futuro, lieto, dalle lontananze.
[...] Denn fast, wie der heiligen, / Die Mutter ist von
allem, / Die Verborgene sonst genannt von Menschen, / So ist von Lieben
und Leiden / Und voli von Ahnungen dir / Und voli von Frieden der Busen.
// O trinke Morgenlufte, / Bis daB du offen bist, / Und nenne, was vor
Augen dir ist. /Nicht lànger darf Geheimnis mehr / Das Ungespro-chene
bleiben, / Nachdem es lange verhùllt ist; / Denn Sterbiichen geziemet
die Scham, / Und so zu reden die meiste Zeit, / Ist weise auch von
Góttem. / Wo aber ùber-flùssiger, denn lautere Quellen, / Das Gold
und ernst ge-worden ist der Zorn an dem Himmel, / Mu6 zwischen Tag und
Nacht / Einsmais ein Wahres erscheinen. / Dreifach umschreibe du es, /
Dodi ungesprochen auch, wie es da ist, / Unschuidige, muB es bleiben. //
O nenne, Tochter du der heiligen Erd! / Einmal die Mutter. Es rauschen
die Wasser am Feis / Und Wetter im Wald und bei dem Na-men derselben /
Tónt auf aus alter Zeit Vergangengóttli-ches wieder. / Wie anders
ists! und rechthin glànzt und spricht / Zukùnftiges auch erfreulich
aus den Fernen (II, pp. 151-152; tr. it. dt., pp. 209-211).
Il non esser conosciuto, il diventare manifesto
359
Si apostrofa la Germania, la «fanciulla», la
«sacerdotessa», la «più tacita figlia di Dio», la «figlia»,
espressioni che descrivono lo stato immacolato ed incorrotto, privo di
scaltrezza e di servilismo, accogliente e consacrato, che è in grado di
vedere e d'udire. È l'atteggiamento che da parte dell'uomo corrisponde
all'atto dell'autorivelazione degli dèi - talmente grande che
[...] finalmente uno stupore avvenne vasto nel cielo
Che alcuno fosse così grande in fede
Come ella stessa, la clemente potenza dell'Alto.
[...] endiich ward ein Staunen weit im Himmel, / Weil
Ei-nes groB an Glauben, wie sie selbst, / Die segnende, die Macht der
Hóhe sei (il, p. 150; tr. it. dt., p. 209).
Questo stato acquista intensità fino a raggiungere
l'esaltazione profetica. La vergine deve bere «aure mattutine», ciò
che viene dall'Etere pervadendo il mattino, il «pnéuma» puro
della natura. Allora diventa «aperta». Ciò che altrimenti era
nascosto è «innanzi ai suoi occhi», ed ella ha la potenza di
«nominarlo».
Questo nominare è qualcosa d'immenso, l'ultimo evento
del mistero, compimento e pericolo allo stesso tempo. Pericolo per
l'uomo, ma anche per il divino. Poiché mentre prima era protetto
attraverso «il ritegno», il silenzio, adesso è destinato ad essere
espresso e quindi abbandonato in balla. Così viene aggiunta subito una
indicazione protettrice: il mistero dev'essere sì pronunciato, e
addirittura tré volte, con solenne completezza. Ma nonostante ciò deve
«essere inespresso», il che probabilmente significa: comprensibile
solo a chi è iniziato. Il contenuto del mistero è
360 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
però dato dalla «madre», la Terra che appare nel
paese natio.
Il nume, in questo caso, è la Terra. Ma quella è
sempre davanti agli occhi! Come può trovarsi dapprima nel regno delle
«ombre», lontana, nascosta, e poi apertamente e visibilmente «qui»?
In questo contesto diventa chiaro che cosa significhi per Hólderlin un
nume. E la terra o il ciclo, il mare, gli eventi della storia, ma non
solo come realtà empirica, bensì anche religiosa. Anche come empirica:
si allude alla terra reale che si estende davanti allo sguardo: ma essa
scaturisce dal mistero, pervasa da energia e ricchezza di significato
numinose, toccando l'interiorità religiosa, «il petto silenzioso».
Diventa nuovamente necessario il concetto più volte
addotto, quello di «spirito». La sacerdotessa vede solo quando è
«dischiusa», pervasa dal respiro del mattino, «ebbra». Allo stesso
modo - e questo è molto difficile da comprendere per il pensiero
moderno - anche la terra stessa si trasforma, attraverso la medesima
potenza, da una realtà puramente geologica nella «madre santa».
Finché non domina lo spirito, l'ambito dell'essere e del significato
che costituisce il mondo è solo un frammento di realtà empirica.
Appena viene, si compie invece un movimento: diventa evidente l'altro.
Lo spazio di ciò che è sottratto, il «regno delle ombre», o
l'«altezza» o la «profondità», si apre, ed appare l'immagine reale
dapprima puramente terrena, come qualcosa di diverso, solo adesso
definitivo, come una potenza misteriosa che si attesta da sé come
divinità. A questo movimento risponde il vedere e il nominare.
Il non esser conosciuto, il diventare manifesto
361
La poesia Come il giorno di festa ... contiene un
passo che esprime in modo molto elevato questo evento:
Ma ora aggiorna! Ho atteso e l'ho visto venire E dò che
ho veduto, il Sacro, sarà mia parola. Ella, ella stessa, ch'è più
antica del tempo E sugli dèi d'ocddente e d'oriente sta, La Natura in
clangore d'armi ora s'è desta, E dall'alto etere fino al fondo d'abisso
Per ferma legge e antica, gènito dal sacro Caos, L'Entusiasmo ora torna
a fremere Che di tutto è il creatore.
E come nell'occhio all'uomo splende un fuoco
Se alta impresa medita, così
Ai nuovi Segni, alle Gesta del secolo
S'è acceso un fuoco nell'anima dei poeti.
Ciò che innanzi accadeva, avvertito appena,
È ora la prima volta manifestato:
E quelle che d lavoravano il campo in figura Di schiavi
sorridenti, noi le riconosdamo, Le forze degli dèi, le tutte vive.
Jetzt aber tagts! Ich harrt und sah es kommen, / Und was
ich sah, das Heilige, sei mein Wort. / Denn sie, sie selbst, die àlter
denn die Zeiten / Und ùber die Getter des Abends und Orients ist, / Die
Natur ist jetzt mit Waffen-klang erwacht, / Und hoch vom Àther bis zum
Abgrund nieder / Nach festem Cesetze, wie einst, aus heiligem Chaos
gezeugt, / Fùhit neu die Begeisterung sich, / Die AUer-schaffende
wieder.// Und wie im Aug ein Feuer dem Manne glànzt, / Wenn Hohes er
entwarf, so ist / Von neuem an den Zeichen, den Taten der Welt jetzt /
Ein Feuer angezùndet in Seelen der Dichter. / Und was zuvor ge-schah,
doch kaum gefùhit, / Ist offenbar erst jetzt, / Und die uns làcheind
den Acker gebauet, / In Knechtsgestalt, sie sind erkannt, / Die
Allebendingen, die Kràfte der Gót-ter (II, p. 119; tr. it. dt., pp.
155-157).
362
Terzo
cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso
In questa vicenda si rivela la natura del mondo e,
correlata ad essa, quella dell'uomo. Il mondo è chiuso, ma vuole
aprirsi. Esso è muto, ma vuole pronunciare parole. Non è conosciuto,
ma vuole essere nominato ed evocato. Esso è modesto, ma desidera essere
glorioso e celebrato. È compito dell'uomo compiere questa denominazione
ed esaltazione.
LA LONTANANZA A NOI SOTTRATTA E LA REVERENZA
L'AVVICINAMENTO E L'ACCOGLIENZA
Gli dèi non solo esistono, ma agiscono. Questa azione
non significa solo potenza del significato o irradiazione dell'essere,
bensì iniziativa. Il numinoso è movimento, processo come già si è
manifestato nella vicenda della rivelazione. Gli dèi vogliono,
dominano, vengono e agiscono. Di ciò si parlerà per esteso
successivamente ... A questo volere ed agire è contrapposto un altro
modo del sussistere: la vita silenziosa, raccolta in se stessa.
Anch'essa è potenza, ma in stato di quiete. Tra il suo ambito,
l'«01impo», e lo spazio della storia vi è un particolare nesso
religioso.
Abbiamo già incontrato il concetto di dò che è
olimpico parlando dello stato a noi sottratto in cui può trovarsi il
nume. «Il cielo», per esempio, può configurarsi solamente come lo
spazio indagato dall'astronomia e dalla meteorologia. In tal caso il
nume non vi è presente, e non solo soggettivamente, come se solo l'uomo
ne sperimentasse, vivendola, la lontananza, bensì in sé. Alla
sensazione della chiusura, della dimensione puramente terrena delle cose
corrisponde una lontananza reale. Il nume si trova nell'ambito a noi
sottratto. Ma quando giunge l'ora esso si manifesta comunicandosi.
Adesso «il cielo» entra in un nuovo stato: diventa il «padre Etere».
Pane e vino:
364 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
[...] Vivono certo gli Dèi.
Ma là sul nostro capo, in un altro mondo.
Senza tregua lì agiscono e sembrano poco curare
Se noi viviamo, tanto d risparmiano i celesti.
Perché non sempre è capace un debole vaso di
contenerli:
Solo a periodi l'uomo sostiene pienezza divina.
Sogno di loro è, dopo, la vita. Pure l'errare
Giova come sopore: rende forti lo stento e la notte,
Finché eroi cresciuti in culla di bronzo,
Cuori, come una volta, ai celesti di forza sian pari.
Tuonando giungono allora.
[...] Zwar leben die Getter, / Aber ùber dem Haupt
dro-ben in anderer Welt. / Endlos wirken sie da und schei-nens wenig zu
achten, / Ob wir leben, so sehr schonen die Himmlischen uns. / Denn
nicht immer vermag ein schwa-ches GefàB sie zu fassen, / Nur zu Zeiten
ertràgt góttliche Fulle der Mensch. / Traum von ihnen ist drauf das
Leben. Aber das Irrsal / Hiift, wie Schiummer, und stark machet die Not
und die Nacht, / Bis daB Helden genug in der ehemen Wiege gewachsen, /
Herzen an Kraft, wie sonst, àhniich den Himmlischen sind. / Donnernd
kommen sie drauf... (II, pp. 93, 94; tr. it. cit., pp. 139-141).
Qui diventa del tutto evidente la tensione tra l'ambito
di quanto ci è sottratto e quello della storia. L'uomo non sempre
«sopporta» la presenza del dio. Perciò questi deve ritirarsi
nell'Olimpo.
L'inaccessibilità dell'«01impo» è espressa molto
bene dal Canto del Destino di Iperione:
Voi vagate lassù nella luce Su molle suolo, beati
genii! Splendenti brezze di dèi Vi sfiorano lievi Come dita d'arpista
Le sacre corde.
La lontananza a noi sottratta e la reverenda
365
Senza destino, come lattante Che dorma, respirano i
superi;
Serbato casto In umile bocdo È in eterno fiorire Per
loro lo spirito E gli occhi beati Brillano in tacita Eterna chiarità.
Ma a noi non è dato
In luogo nessuno posare,
Dileguando, cadono,
Soffrendo gli uomini
Alla deca, da una
Ora nell'altra,
Come acqua da scoglio
A scoglio gettata
Per anni nell'incerto giù.
Ihr wandeit droben im Ucht / Auf weichem Boden, selige
Genien! / Glànzende Gótterlùfte / Rùhren euch leicht, / Wie die
Finger der Kùnstlerin / Heilige Saiten. // Schick-sallos, wie der
schlafende / Sàugling, atmen die Himmli-schen; / Keusch bewahrt / In
bescheidener Knospe, / Blùhet ewig / Ihnen der Geist, / Und die seligen
Augen / Blicken in stiller / Ewiger Klarheit. / Doch uns ist gege-ben, /
Auf keiner Stàtte zu i-uhn, / Es schwinden, es fallen / Die leidenden
Menschen / Blindiings von einer / Stun-de zur andern, / Wie Klippe
geworfèn, / Jahriang ins Un-gewisse hinab (I, p. 265; tr. it. dt., pp.
37-39).
Gli dèi sono «lassù», nell'«altro mondo», lontano
dall'ambito del mondo umano che si trova sotto e anzi continuamente
«cade». Lassù l'esistenza non ha peso e fatica. Quaggiù è pesante e
fa cadere. Sulla sofferenza degli uomini si staglia la beatitudine degli
dèi,
366 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
sulla loro irrequietezza il quieto passeggiare, sulla
loro cecità il vedere chiaro ed eterno. Gli dèi sono «senza
destino». Nessuna potenza influisce su di loro. Non perché li protegga
un muro esterno o perché siano abbastanza forti da respingere il nemico
esterno, bensì per via del loro essere. Quest'ultimo è «eterno»,
immutabile e sicuramente custodito nel proprio significato.
Ma questo stato non significa un assoluto filosofi-co,
bensì una figura di significato concreto. Si parla quindi anche della
limitazione, quasi del ridimensionamento. Sicurezza e libertà dal
destino assomigliano alla forma di vita del bambino: nonostante ogni
chiarezza, essa è sonno, nonostante gli occhi aperti incoscienza,
l'«umile boccio» è sottratto non solo alle distruzioni, ma anche alla
fecondità.
All'essere olimpico degli dèi corrisponde, dalla parte
dell'uomo, la conservazione della distanza. Guai al terrestre che lo
dimentica e «vuoi essere uguale a loro», avverte l'inno II Reno
(il, p. 145). L'uomo deve avvertire ed onorare «l'ai di là» e l'«al
di sopra». Deve limitarsi al suo «al di qua» e al «sotto» poiché
è diverso dagli dèi. Non deve nemmeno esagerare nel manifestare il suo
desiderio buono, bensì «essere paziente». Nella Morte di Empedocle
Panthea dice:
[...] Ma non dovrei desiderare ancora, poiché sembra
che gli dèi non amino le preghiere impazienti dei mortali. Hanno
ragione.
[...] ich sollt / Der Wùnsche mich entwóhnen, denn es
scheint, / Als liebten unser ungeduldiges / Gebet die Gót-ter nicht,
sie haben recht! (m, p. 81; tr. it. dt., p. 39).
La lontananza a noi sottratta e la riverenza
367
E ancora: ,
[...] voglio essere paziente,
più non voglio, o dèi, vanamente aspirare
a quanto mi vietaste, e accetterò
tutto quello che vorrete donarmi.
[...] ja, geduldig will ich sein, / Ihr Getter! will
vergebens nun nicht mehr / erstreben, was ihr ferne mir gerùckt, / Und
was ihr geben mógt, das will ich nehmen (ni, p. 122;
tr. it. dt., p. 97).
Questo è l'atteggiamento correlato all'olimpico. In
esso è esperito un modo d'esistere dell'esistenza come valido e divino:
essa si dirime in lontananza e vicinanza essenziali; è distinta nel
così e altro non scambiabili; sussiste oltre frontiere fissate.
Ma questa tensione può essere superata. Negli dèi
stessi v'è qualcosa che li spinge fuori dalla loro sicura protezione e
dalla loro libertà rispetto al destino. Ciò diventa già evidente nel
carattere dell'inadeguatezza che all'olimpico è proprio nonostante ogni
esaltazione. Il suo splendore di perfezione è freddo. Viene scontato
con la mancanza di sentimento, col sonno, con una scarsezza e
infecondità di fondo. Ma il nume non può rassegnarsi a ciò. Perciò
si mette alla ricerca del diverso. Il bambino deve tentare di uscire dal
guscio amorevole della sua esistenza. In tal modo esso vive il destino,
ma anche la vita; affanno, ma anche amore; angustia e stento, ma anche
una prova del cuore da cui scaturisce beatitudine. Lo stesso vale per
gli dèi. Essi non sono esseri fantastici. In essi si esprime bensì
l'esistenza così com'è. In tal modo ubbidiscono alla legge di
quest'esistenza, secondo cui la vita
368 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
deve uscire dalla protezione dell'inizio. D'altra parte
il dio non cessa di essere un dio. L'uscita dalla sfera olimpica riveste
perciò connotati particolari. L'Arcipelago dice:
Sempre abbisognano come eroi di ghirlanda per aver
gloria I consacrati elementi del cuore dell'uomo che sente.
Immer bedùrfenja, wie Heroen den Kranz, die geweihten /
Elemente zum Ruhme da Herz der fùhlenden Menschen (II, p. 104, tr. it.
dt., p. 163).
E ancora:
[...] è grato agli dèi posare nei cuori sensibili.
[...] es ruhn die Himmlischen gern am fùhlenden Herzen
(n,p.ll0).
I celesti cercano l'uomo. Essi sono splendenti e beati,
ma mancano del cuore. La loro «felicità» non è il contenuto di
un'esperienza vissuta, ma uno stato dell'essere. È la bellezza luminosa
della forma compiuta, che però non avverte se stessa. Da questo stato
gli dèi vogliono allontanarsi per entrare nella sfera del cuore che,
per quanto precaria e vulnerabile, è calda e piena di sentimento.
Questa sfera è presente solo nell'uomo. Per questo gli dèi tendono
verso di lui. Con tutta chiarezza il pensiero si manifesta nell'inno
JZ^no:
Hanno però della loro
Immortalità gli dèi assai, e se mancano
I celesti di una cosa,
È di eroi e di uomini
O altrimenti mortali. Che mentre
La lontananza a noi sottratta e la riverenza
369
I beatissimi nulla sentono da sé soli,
Bisogna pure, se dirlo
È ledto, in nome degli dèi
Che un altro senta partecipando;
Di lui necessitano; ma è loro sentenza Che la sua casa
Quegli schianti e quanto ha più caro Ingiurii come
nemico, e padre e prole Seppellisca sotto macerie;
Se vuoi essere come loro e non Sopportare la disparità,
l'esaltato.
Es haben aber an eigner / Unsterbiichkeit die Getter
ge-nug, und bedùrfen / Die Himmlischen eines Dings, / So sinds Heroen
und Menschen / Und Sterbiiche sonst. Denn weil / Die Seligsten nichts
fùhlen von selbst, / Mu6 wohi, wenn solches zu sagen / Eriaubt ist, in
der Gótter Namen / Teilnehmend fùhlen ein andrer, / Den brau-chen sie;
jedoch ihr Gericht / Ist, dafi sein eigenes Haus / Zerbreche der und das
licbste / Wie den Feind scheit und sich Vater und Kind / Begrabe unter
den Trùmmern, / Wenn einer, wie sie, sein will und nicht / Ungleiches
dulden, der Schwàrmer (il, p. 145; tr. it. cit., p. 195).
Gli dèi non hanno bisogno dell'uomo per diventare più
di quello che sono già, più grandi, più potenti o più belli. A un
tale innalzamento l'uomo, debole e minacciato, non potrebbe certo
contribuire. Ma essi non aspirano neppure a questo, perché «hanno
[...] della loro immortalità gli dèi assai». Eppure «nulla sentono
da sé soli», ma si limitano semplicemente a essere, splendidi come le
idee di Fiatone che rifulgono suscitando amore benché esse stesse non
siano in grado di amare7. Per questo tendono verso l'ambito
del cuore umano che, per quanto certo imperfetto, minacciato dal destino
e mortale, è dotato però della
370 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
forza dell'interiorità. Se questo cuore umano si apre
agli dèi, allora, nel sentimento di quest'ultimo/essi stessi sentono.
Ma ciò presuppone che esista una possibilità di
partecipazione, un ponte che attraversi quella lontananza, un'unità che
perduri attraverso la divisione. Appunto ciò è opera dell'amore. Nel
senso hólderli-niano esso significa la realizzazione dell'unità.
Questo non significa che ciò che è diviso sia legato insieme -sarebbe
costrizione; oppure che il diverso sia ridotto a un comune denominatore
- si tratterebbe di commistione; l'unità è invece il risultato del
manifestarsi di una nuova dimensione, quella dell'interiorità. Essa. è
sottesa all'affermarsi delle figure distinte. Appena essa viene
raggiunta, allora dalle diversità nasce l'unità, e le particolarità
si rivelano un'espressione della totalità. Allora ciò che è dell'uno
può essere anche dell'altro. Da ciò appare chiaro che «amore» è un
altro termine per «spirito». L'esistenza dell'uomo chiamato dagli dèi
a questa comunione è stata descritta da Hólderlin nelVEmpedocle.
Egli dice di se stesso:
10 fui! Oh, potessi dire come fu, nominare
11 maturare e operar delle tue forze geniali,
splendide, mie compagne, o Natura!
Poterle far rivivere ancora una volta
affinchè il mio cuore, muto, squallido di morte,
nuovamente vibrasse di tutte le tue voci!
La mia vita? per me hanno risonato
tutti i tuoi canti alati, e ho sentito,
grande Natura, il tuo antico accordo?
Abbandonato da tutti, non sono forse
vissuto con questa Terra sacra, con questa luce,
con tè, Etere padre, da cui mai
si separa l'anima mia, e con tutti i viventi
nell'Olimpo d'etema presenza?
La
lontananza a noi sottratta e la reverenda 371
Ich wars! O kónnt ichs sagen, wie es war, / Es nennen
-das Wandein und Wirken deiner Geniuskràfte, / Der herr-lichen, deren
GenoB ich war, o Natur! / Kónnt ichs noch einmal vor die Seele rufen, /
DaB mir die stumme todesó-de Brusì / Von deinen Tónen allen
widerkiànge! / Bin ich es noch? o Leben! und rauschten sie mir, / Ali
deine geflù-gelten Melodien, und hórt / Ich deinen alten Einkiang,
grofie Natur? / Ach! ich, der allverlassene, lebt ich nicht / Mit dieser
heilgen Erd und diesem Licht / Und dir, von dem die Seele nimmer làBt,
/ O Vater Àther! und mit allen Lebenden / Im ewig gegenwàrtigen Olymp?8
(m, pp. 92-93; tr. it. dt., p. 55).
Quando tutto questo ancora esisteva poteva avvenire
questo:
[...] i geni del mondo amorosi in tè si obliarono [...]
[...] die Genien der Welt/ Voli Uebe sich in dir
vergaBen
[...] (m, p. 89).
I «geni del mondo» - ciò che viene detto di loro vale
anche per gli dèi - sono di per sé figure, in quanto tali determinate
dalla legge dell'individualità, secondo cui «essere» significa allo
stesso tempo «distinzione». In tal modo essi si affermano l'uno contro
l'altro, consci della loro distinzione e chiusi in se stessi. Ma nella
sfera dell'interiorità, nel cuore di chi li ama, essi si dimenticano.
L'uno si da all'altro.
Ognuno ha parte all'altro e tutti si risolvono
nell'unità - non nella prima, ontica, ma nella seconda, quella della
vita compiuta, dell'interiorità.
Ciò è evidente anche nelVIstro:
[...] Non vanno senza ragione Nel secco i fiumi. Ma
come? È ch'essi debbono
372 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
Fare da lingua. Un segno ci vuole,
Nient'altro, chiaro e netto, che Sole
E Luna porti nell'animo inseparabili,
E prosegua dì e notte, e i celesti
Al caldo d si sentano l'un l'altro.
Perdo quelli son pure
La gioia dell'Altìssimo. In che modo verrebbe,
Altrimenti, quaggiù? E, come Hertha verdi,
Sono essi i figliuoli del delo [...]
[...] Umsonst nicht gehn / Im Trocknen die Strème. Aber
wie? Sie sollen namlich / Zur Sprache sein. Ein Zeichen braucht es, /
Nichts anderes, schlecht und recht, damit es Sonn / Und Mond trag im
Gemùt, untrennbar, / Und fort-geh, Tag und Nacht auch, und / Die
Himmlischen warm sicli fùhlen aneinander. / Darum sind jene auch / Die
Freude des Hóchsten. Denn wie kàm er / Herunter? Und wie Hertha grùn,
/ Sind sie die Kinder des Himmeis [...] (II, p. 191;tr.it.dt.,p.241)
«Nell'animo» - qui non è quello dell'uomo, ma quello
del fiume. Ma nell'inno il fiume è un essere che fa affermazioni
esemplari per l'uomo. Nell'animo dell'essere terreno quindi «i celesti
si sentono l'un l'altro al caldo». Essi hanno ciò che altrimenti è
loro negato; e coloro che in sé sono divisi dalla loro forma, sanno di
essere uniti nell'interiorità dello spazio dell'animo. La totalità
della natura, già presente quanto all'essere, rinasce qui nella sfera
dell'interiorità9.
Il compito dell'uomo consiste quindi nel mettere a
disposizione degli dèi il suo cuore. Il dramma di Em-pedocle delinea
questo rapporto religioso e la sua tragedia.
Il fatto che gli dèi abbandonino l'Olimpo penetrando
nel cuore degli uomini per diventare partecipi della sua interiorità
nonché l'amore di questo cuore
La lontananza a noi sottratta e la reverenza
373
stesso che, aprendosi, è spazioso e più ricco degli
dèi nonostante la sua povertà: entrambi questi elementi costituiscono
un rapporto religioso generale in cui si manifesta la natura degli dèi,
degli uomini e, quindi, della stessa esistenza. Con una bellezza
senz'ombre questo rapporto è espresso dalle figure di Diotima nell'Iperione
e di Panthea nelYEmpedocle. Certo questo rapporto racchiude
anche un pericolo. Il cuore, il cui ambito qui si dischiude, è quello
dell'uomo, debole, confuso e incline alla presunzione. Su di esso
incombe il pericolo della hybris, alla quale soggiace Empe-docle
come prima di lui i grandi amici degli dèi di cui narra il mito, un
Tantalo, un Sisifo, un Prometeo. Ma vi è un pericolo per gli stessi
dèi. Non che essi rischi-no di venir intaccati nel loro essere che è
etemo e nato nell'Olimpo. Ma nella misura in cui si avvicinano
all'ambito del cuore, cercandovi il «sentire», la vicinanza e il
calore, essi si espongono rischiando di venir delusi e disonorati e
sperimentano un destino secondario. Questa è la parte metafìsica del
dramma di Empledocle: la tragedia degli dèi che cercano l'amore, nel
fallimento del loro amico umano: •
[...] È finita
e tu, non tè lo nascondere,
la colpa è tua, misero Tantalo.
Tu hai profanato il santuario,
con tracotante orgoglio hai rotto il bei patto.
Quando i geni del mondo, o sciagurato,
amorosi in tè s'obliarono, solo a tè pensasti
e vaneggiasti, folle meschino, che i Celesti,
i Benigni, si fossero venduti a tè
per servirti come stolidi schiavi.
Non mi è tra voi un vendicatore in qualche luogo,
e dovrò versare da solo nella mia anima '
374 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
maledizione e vergogna? C'è qualcuno migliore di me che
strappi dalla mia fronte la corona delfica e levi i miei capelli come si
conviene al vate calvo? o Dèi!
Es ist vorbei, / Und du, verbirg dirs nicht! Du hast /
Es selbst verschuidet, armer Tantalus! / Das Heiligtum hast du
geschàndet, hast / Mit frechem Stolz den schónen Bund entzweit, /
Elender! Als die Genien der Welt / Voli Uebe sich in dir vergaBen,
dachtest du / An dich und wàhntest, karger Tor, an dich / Die Gùtigen
verkauft, da6 sie dir, / Die Himmlischen, wie bióde Knechte, dienten! /
Ist nirgends mir ein Ràcher unter euch, / Und muB ich denn allein den
Hohn und Fluch / In meine Seele gieBen? Und cs reifit / Die delphische
Krone mir kein BeBrer, / Denn ich, vom Haupt und nimmt die Locken
hinweg, / Wie es dem kahien Seher gebùhn - o Gótter! (Ili, p. 89; tr.
it. cit., pp. 49-51).
L'uomo si è ribellato; non ha voluto «sopportare
l'ineguale». Ciò che era un libero dono d'amore egli
10 ha preteso come potere, ciò che poteva sussistere
solo nella modalità della grazia, come diritto immediato. Egli ha
voluto eliminare l'Olimpo - la colpa dei Titani, vedi anche il passo
sopra citato dall'inno II Reno (il, p. 145). In tal modo è stato
distrutto il mistero:
la totalità che può sussistere solo nell'amore,
l'unità dell'Olimpo, e della terra; le «nozze degli dèi e degli
uomini» di cui parla l'inno II Reno.
Lo fui. Oh, potessi dire come fu, nominare
11 maturare e operar delle tue forze gemali,
splendide, mie compagne, o Natura!
Poterle far rivivere ancora una volta
affinchè il mio cuore, muto e squallido di morte,
nuovamente vibrasse di tutte le tue vod!
La mia vita? Per me hanno risonato
La lontananza a noi sottratta e la reverenda
375
tutti i suoi cand alati, e ho sentito,
grande Natura, il tuo antico accordo?
Abbandonato da tutti, non sono forse
vissuto con questa Terra sacra, con questa luce,
con tè Etere padre, da cui mai
si separa l'anima mia, e con tutti i viventi
nell'Olimpo d'etema presenza?
Come un reietto, ora piango,
e in nessun luogo posso sostare
e anche tu mi sei strappato ... Non dire nulla!
L'amore s'estingue quando fuggon gli dèi,
tu lo sai bene, e ora lasciami, io non sarò
più me stesso e nulla hai più da spartire con me.
Ich wars! O kónnt ichs sagen, wie es war, / Es nennen
-Wandein und Wirken deiner Geniuskràfte, / Der herrli-chen, deren GenoB
ich war, o Natur! / Kónnt ichs noch einmal vor die Seele rufen, / DaB
mir die sturarne todesó-de Brust/ Von deinen Tónen allen widerkiànge!
/ Bin ich es noch? o Leben! und rauschten sie mir, / Ali deine
geflù-gelten Melodien, und hórt / Ich deinen alten Einkiang, groBe
Natur? / Ach! ich, der allverlassene, lebt ich nicht / Mit dieser
heilgen Erd diesem Ucht / Und dir, von dem die Seele nimmer làBt, / O
Vater Àther! und mit allen Le-benden / Im ewig gegenwàrtigen Olymp? -
/ Nun wein' ich, wie ein AusgestoBener, / Und nirgend mag ich blei-ben,
ach und du / Bist auch von mir genommen - sage nichts! / Die liebe
stirbt, sobaid die Gótter fliehn, / Das weiBt du wohi, verlaB mich nun,
ich bin / Es nimmer und ich hab an dir nichts mehr (ili, pp. 92-93, tr.
it. cit., p. 55).
Ma il fatto che ciò possa sussistere costituisce a sua
volta un'espressione per la essenza del mondo. Così è fatto e così è
messo in gioco.
IL DOMINIO E L'OBBEDIENZA
L'iniziativa degli dèi, già manifesta nel passaggio
dall'Olimpo al presente dell'aldiqua assume ancora altre figure. Essa si
trasforma soprattutto nel dominare e operare.
Abbiamo già incontrato questo fenomeno analizzando la
competenza dei diversi numi. Ciò che accade nell'ambito dell'altezza,
della luce, dell'aria e dell'alito fa parte dell'opera dell'Etere o del
cielo; ciò che accade nella profondità, nell'oscurità, nell'ambito
della vita che costantemente si riproduce, dell'opera della Terra. Tutto
questo costituisce una realtà immediata, empiricamente rilevabile e
scientificamente for-mulabile. Ma all'interno di essa anche gli dèi
dispiegano il loro essere compiendo la loro opera. Ciò vale anche per
lo spazio della vita umana.
L'Arcipelago è il grande canto di Hólderlin
sull'esistenza storica, esemplificata dalla città di Atene nell'ora
della sua grande prova eroicamente superata, la battaglia di Salamina.
Egli descrive il fiorire della città, l'invasione dei persiani, la
distruzione da loro seminata, la lotta per la vita o per la morte del
popolo ateniese, la vittoria e la costruzione della nuova città più
grande. Sia la lotta che la costruzione della comunità sono descritte
come lo fece Omero. Si tratta di opera umana immediata, del risultato di
coraggio e creatività; ma, pure svolgendosi in termini umani, è
378 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
allo stesso tempo l'opera di potenza divine, di
Posido-ne, dominatore del mare, e di Atena, la patrona della città.
L'accadere storico non implica che gli dèi pieghino un evento umano
autonomo rispetto a loro anche al loro scopo, ma il loro agire
costituisce la divinità di questo accadere stesso. Gli dèi consistono
nel fatto che ciò che accade nello spazio umano avvenga in termini
divini, d'altra parte la storia è realmente se stessa solo nella misura
in cui si svolge a partire dalle divinità, e si indirizza verso di
loro. Sono gli dèi a conservare l'essente nella pienezza dell'essere.
Essi fanno sì che il vivente viva; essi conferiscono a tutte le forme
la loro autenticità ed il loro senso; determinano il corso del destino,
conducono l'operato dell'uomo a un esito felice; fanno sì che il suo
agire, la sua opera, il suo tentativo audace, le sue gesta riescano.
Qualunque cosa sia, essa viene dal loro dominio e rimanda ad esso10.
Il concetto circa il dominio degli dèi nell'ambito
della storia diventa particolarmente potente se collegato alla
rappresentazione dello spirito o dello spirito del tempo (ili, supra,
p. 288). L'accadere storico vi appare come l'opera di una potenza che
medita ed opera nel mistero progettando e realizzando progressivamente
il futuro finché quest'ultimo raggiunge - in quanto azione, fondazione,
creazione - l'apertura della forma compiuta e della parola che si
esprime.
In Incitamento si legge a proposito:
E Quegli che in silenzio regge e ignoto II futuro
appronta. Iddio, lo Spirito Nella parola dell'uomo, un bei giorno, Come
una volta ai venienti anni si esprima.
Il dominio e l'òbbedienza
379
Und er, der sprachlos waltet und unbekannt /
Zukùnftìges bereitet, der Gott, der Geist / Im Menschenwort, am
schó-nen Tage / KommendenJahren, wie einst, sich ausspricht (II, p. 36;
tr. it. dt., p. 83)
Vocazione del poeta:
O
gesta
senza pace nel vasto mondo, Giorni fatali e travolgenti, in cui il dio
Pensoso e tacito guida ove ebbri d'ira Lo portano i titanici cavalli.
Ihr ruhelosen Taten in welter Welt! / Ihr Schicksaltag',
ihr reiBenden, wenn der Gott / Sdilsinnerid lenkt, wohin zorn-trunken /
Ihn die gigantischen Rosse bringen (il, p. 47; tr. it. dt., pp. 93-95).
Ciò che accade nella natura non è solo il risultato
delle forze e delle leggi immediate, ma anche del costante operare di
potenze divine. La materia e gli assetti in cui s'ordina la realtà
immediata costituiscono
10 strato superficiale di connessioni più vaste i cui
ambiti più profondi sono gli dèi e infine l'interiorità della natura
stessa. Il decorso della storia non è nemmeno determinato da semplici
energie «storiche», ma è il risultato di continue iniziative divine,
che lo dominano. Queste iniziative però non vengono esercitate accanto
o sopra a quelle energie; l'immediata realtà storica invece rappresenta
un aspetto di una totalità,
11 cui secondo aspetto sono gli esseri divini.
Ma lo «spirito» è il limite di dimensione e
contemporaneamente la forza per il continuo trapasso dal divino
all'immediatamente dato. Esso è il presupposto perché tutto sia
«qui», ma provenga da «là», perché in «questo» si manifesti
«l'altro» e da entrambi nasca ciò che è autentico, ciò che ha il
carattere del tutto. Lo spiri-
380 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
to è la condizione affinchè gli dèi possano entrare
in azione nella maniera descritta ed affinchè il mondo sussista nella
tensione tra il divino e l'empirico.
Questo dominio è immenso e permea tutto. Esso
scaturisce da un'origine inaccessibile, ritornando nell'imperscrutabile.
La strofa appena citata da Vocazione del poeta
esprime ciò parlando delle «gesta senza pace nel vasto mondo», dei
«giorni fatali e travolgenti». Un altro testo può essere addotto a
esprimere questa potenza soverchiante. Lo spirito del tempo:
Già da troppo tu domini sopra il mio capo, Tu nella
oscura nuvola, dio del Tempo! Troppo furore è intorno e angoscia,
ovunque Io guardi tutto va in frantumi o vacilla.
Ah! come un fanciullo mi affiso al suolo sovente, Cerco
uno scampo da tè nella grotta e vorrei, Stolto, trovare un luogo Dove
non fossi tu che tutto sconvolgi!
Zu lang schon waltest ùber dem Haupte mir / Du in der
dunkein Wolke, du Gott der Zeit! / Zu wild, zu bang ists ringsum, und es
/ Trùmmert und wanktja, wohin ich blic-ke. // Ach! wie ein Knabe, seh
ich zu Boden oft, / Such in der Hóhle Rettung von dir, und mócht, /
Ich Blòder, eine Stelle finden, / Alleserschùttrer! wo du nicht
wàrest (i, p. 300;tr.it.dt.,p.41).
L'uomo avverte questo dominio. Del poeta e vate, che
rappresenta l'umano nella sua forma più sublime ed insieme più
pericolosa, si dice in Vocazione del poeta:
[...] È all'Altissimo che apparteniamo, Perché più
accosto all'inumo, unico
Il dominio e l'obbedienza
381
Sentire ci sia, in sempre nuovo cantico.
Eppure, o tutti voi, numi del Gelo, E voi tutte sorgenti
e ripe e selve e alture Dove la prima volta il prodigioso, Prendendoci
ai capelli, inobliabile,
II Genio creatore, all'improvviso, Su noi piombò
divino, e ne restammo Stupiti e muti, e come dalla folgore Colpite ci
tremarono le ossa.
[...] Der Hóchste, der ists, dem wir geeignet sind, /
DaB naher, immerneu besungen, / Ihn die befreundete Brust vemehme. //
Und dennoch, o ihr Himmlischen ali, und ali / Ihr Quellen und ihr Ufer
und Hain* und Hóhn, / Wo wunderbar zuerst, als du die / Locken
ergriffen, und un-vergeBHch // Der unverhoffte Genius ùber uns, / Der
schópferische, gótdiche kam, daB stumm / Der Sinn uns ward und, wie
vom / Strahie gerùhrt, das Gebein erbebte (II, p. 46; tr. it. dt-, p.
93).
All'operare degli dèi è correlata la percezione
dell'uomo.
La sua pietà religiosa consiste nel capire nella sua
profondità ciò che è, nell'assumerlo non solo in modo superficiale,
come qualcosa di teoricamente comprensibile e di praticamente
utilizzabile, ma nel venerarlo come qualcosa di divino.
Infatti la stessa poesia continua:
Da troppo tutto il divino serve all'uso E di tutte le
forze celesti, le benefiche Fa scherno e abuso a suo piacere una razza
Furba e ingrata, che crede conoscere
L'ora in cui l'Eccelso prepara il campo, E la luce a
loro e il tonante iddio: e tutte investiga
382 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
Col suo cannocchiale e numera e chiama Con nomi le
stelle del delo.
Zu lang ist alles Góttliche dienstbar schon/ Und alle
Him-meiskràfte verscherzt, verbraucht, / Die gùtìgen, zur Lust,
danklos, ein / Schlaues Geschlecht und zu kennen wàhnt es, // Wenn
ihnen der Erhabne den Acker baut, / Das Tagsiicht und den Donnerer, und
es spàht / Das Sehrohr wohi sie ali und zàhit und / Nennet mit Namen
des Him-meis Sterne (il, p. 47; tr. it. dt., p. 95).
L'uomo deve vedere che tutto ciò che è scaturisce dal
mistero rivelando il divino, che si compie nel mistero, dando spazio al
divino. Egli deve consentire a tale venuta d'avvicinarsi al suo cuore e
vivere nel costante incontro con una realtà che solo così è completa.
Questo può diventare molto diffìcile, nella misura in
cui l'uomo è pronto a ricevere. Le opere degli dèi non sono immagini
miracolistiche al di sopra di ciò che comunque avviene, bensì vi si
sta appena ora compiendo l'essere di ciò che è operato fino in fondo
dagli dèi. L'autorivelazione degli dèi non si aggiunge come qualcosa
di trascurabile allo sguardo e al pensiero dell'uomo, costituisce il
mistero pieno del mondo nel suo stesso essere.
I passi che parlano di ciò sono alimentati
dall'esperienza vissuta più intima di Hólderlin. Egli era colpito
dalla possanza del reale; lo ha attraversato come una tempesta la
veemenza di significato di ciò che accadeva, fu scosso fino alla
distruzione dalla vicinanza di ciò che stava per venire. Così ciò che
viene preteso dall'uomo pio in quanto tale si eleva, nella sua bocca, a
grandezza eroico-profetica.
Il dominio e l'obbedienza
383
L'Arcipelago
dice:
Ma tu, immortale, se anche l'inno dei Gred non più Ti
celebra come una volta, o dio del mare, risuonami Dai flutti sovente
nell'anima ancora, che sopra le acque Intrepido lo spirito, come
nuotatore, si addestri Nell'aspra gioia dei forti, e la lingua degli
dèi, l'Alternarsi E il Divenire, intenda: e quando la corrente del
tempo Troppo violenta il capo mi afferri, e lo stento e il vagare Fra
mortali il mio mortale vivere scrolli, Fa' che la pace allora nel tuo
profondo io ricordi.
Aber du, unsterbiich, wenn auch der Griechengesang schon
/ Dich nicht feiert, wie sonst, aus deinen Wogen, o Meergott! / Tóne
mir in die Seele noch oft, daB ùber den Wassern / Furchtiosrege der
Geist, dem Schwimmer gleich, in der / Starken / Frischem Glùcke sich
ùb, und die Góttersprache, das / Wechsein / Und das Werden ver-steh;
und wenn die reiBende Zeit mir / Zu gewaltig das Haupt ergreift und die
Not und das Irrsal / Unter Sterbii-chen mir mein sterbiich Leben
erschùttert, / La6 der Stille mich dann in deiner Tiefe gedenken! (il,
pp. 111-112; tr. it.cit.,p. 117).
Avvertire l'Alternarsi e il Divenire», vivere la
corrente del tempo che «il capo afferra» scrolla «il vivere
mortale». Così il cuore di chi contempla si riferisce alla quiete del
mare, all'ambito di quanto è sottratto, in cui tutto è uno e unito.
E lo stesso ambito in cui si rifugia Achille, assillato
dall'ora del destino, quando viene da sua madre Teti. Vedi la poesia che
porta il suo nome:
Gemendo giù bramava scendere nel sacro abisso, Nel
silenzio, il tuo cuore, dove, lontano dallo strepito Delle navi, al
fondo sotto le onde, in grotta amica l'azzurra Ted viveva, la dea del
mare, che ti proteggeva.
384 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
Weheldagend hinab verlangt' in den heiligen Abgrund, /
In die Stille dein Herz, wo, von der Schiffe Gelàrm / Fem tief unter
den Wogen, in friediicher Grotte die blaue / Thetis wohnte, die dich
schùtzte, die Góttin des Meers (i, p. 271).
«Attivo senza paura» sopra profondità minacciosa,
«forte nuotatore» nella tempesta - l'atteggiamento richiesto appare
ancora più imponente in Al fonte del Danubio dove si parla dei
profeti:
Anche a voi pensiamo, a voi valli del Caucaso,
Tanto antiche voi siete, voi paradisi là,
E ai tuoi patriarchi e ai tuoi profeti
Asia, ai tuoi forti, o madre!
Che impavidi innanzi ai segni del mondo
Con sulle spalle il delo e tutto il destino,
Intieri giorni, radicati sui mond
Per primi seppero
Parlare soli
A Dio [...].
Auch eurer denken wir, ihr Tale des Kaukasos, / So alt
ihr seid, ihr Paradiese dort, / Und deiner Patriarchen und deiner
Propheten, // O Asia, deiner Starken, o Mutter! / Die fùrchdos vor den
Zeichen der Welt, / Und den Him-mel auf Schuitern und alles Schicksal, /
Taglang auf Ber-gen gewurzek, / Zuerst es verstanden, / Allein zu reden
/ Zu Gott [...] (Il, p. 128; tr. it. dt., p. 165).
I versi esprimono in modo possente la solitudine del
chiamato, la sua collocazione alle radici dell'esistenza, il suo stare a
cospetto del divino ... L'immagine raggiunge le sue dimensioni certo
più imponenti nella poesia Come il giorno di festa:
Ma a noi spetta ora, fra le tempeste d'Iddio,
Il dominio e l'obbedienza
385
Stare, o poeti, a denudata fronte, E con la mano
afferrare la folgore, La folgore del Padre e al popolo il dono Celeste
porgere, avvolto nel canto. Poiché se sono puri i nostri cuori Come di
pargoli e innocenti le mani, II fulmine del Padre, il puro, non bruda:
E nel profondo scosso, i dolori del più forte
Condividendo, resta, nei turbini d'alto piombanti Del Dio, che
s'appressa, pur saldo il cuore.
Doch uns gebùhrt es, unter Gottes Gewittem, / Ihr
Dichter! mit entblóBtem Haupte zu stehen, / Des Vaters Strani, ihn
selbst, mit eigner Hand / Zu fassen und dem Volk ins Lied / Gehùllt die
himmlische Gabe zu reichen. / Denn sind nur reinen Herzens, / Wie
Kinder, wir, sind schuidlos unsero Hànde, // Des Vaters Strahi, der
reine, versengt es nicht / Und tieferschùttert, die Leiden des
Stàrkeren / Mideidend, bleibt in den hochherstùrzenden Stùrmen / Des
Gottes, wenn er nahet, das Herz doch fest (II, pp. 119-120; tr. it. dt.,
p. 157).
Ciò che dappertutto si compie, il dominio delle
divinità, prorompe qui in modo terribile. Luce e senso, che pur tutto
sorreggono, si condensano a formare ciò che è insopportabile e
devastante: il fulmine. Ma il vate, per quanto senza protezione, «a
denudata fronte», è in grado di riceverlo, qualora sia puro di cuore.
La prorompente potenza di Dio è incontrata dalla sua controparte umana,
il cuore. Attraverso la sua capacità di sentire, di soffrire e di
accogliere in una profondità viva esso è grande quanto quella,
costituendo esso stesso «l'eterno cuore» come Io definisce
un'interpretazione. Tutto ciò va presupposto alla comprensione dei
seguenti versi, tratti dalla poesia Stoccarda:
386 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
Ma voi, voi anche, o Grandi, voi lied che in ogni tempo
Vivete e reggete, riconosciuti, o anche più vigorosi Quando operate e
create in sacra notte, soli regnando E onnipotenti allevate un profetico
popolo, Finché dei padri lassù si ricordino gli adolescenti, E
maggiore in età, illuminato, vi stia innanzi l'uomo di senno. Angeli
della patria! o voi, dinanzi ai quali la vista Anche se forte e il
ginocchio cede all'uomo isolato, Così ch'egli deve poggiarsi agli amici
e i cari pregare Che portino insieme con lui tanto peso di felicità;
Io vi rendo, o Benigni, grazie per lui e per tutti gli
altri Che la mia vita, il mio bene fra i mortali sono.
Aber ihr, ihr GróBeren auch, ihr Frohen, die allzeit /
Le-ben und walten, erkannt, oder gewaltiger auch, / Wenn ihr wirke; und
schafft in heiliger Nacht und allein / herrscht / Und allmàchtig empor
ziehet ein ahnendes Volk, / Bis dieJùnglinge sich der Vàter droben
erinnern, / Mùndig und hell vor euch steht der besonnene Mensch - /
Engel des Vaterlands! o ihr, vor denen das Auge, / Sei's auch stark, und
das Knie bricht dem vereinzelten Mann, / Da6 cr halten sich muB an die
Freund' und bitten die Teuern, / DaB sie tragen mit ihm ali die
beglùckende Last, / Habt, o Gùtige, Dank fùr den und alle die andern,
/ Die mein Leben, mein Gut unter den Sterbiichen sind (il, pp. 88-89;
tr. it. dt, p. 131).
L'uomo divenuto di senno «maggiore in età,
illuminato», che sta davanti agli dèi, è colui che ha imparato a
sopportare la loro potenza. Questo dominio degli dèi scaturisce da un
punto di partenza insondabile. Anche questo fatto pone l'uomo davanti a
una esigenza, quella di accettare quello che gli viene destinato. In Pane
e vino, rivolgendosi a Wilhelm Heinse11 cui è dedicata
l'elegia, Hólderlin dice:
Meraviglioso è il favore di quella Sublime e nessuno
Il dominio e l'obbedienza
387
Sa di dove e che cosa da lei gli accada.
Sebbene ella muova il mondo e la speranza delle anime,
Nemmeno i savi intendono ciò ch'ella prepara:
l'altissimo
Iddio così vuole che molto t'ama e per questo
Anche di lei più caro t'è il consapevole giorno.
Wunderbar ist die Gunst der Hocherhabnen und niemand /
WeiB von wannen und was einem geschiehet von ihr. / So bewegt sie die
Welt und die hoffende Seele der Men-schen, / Selbst kein Weiser
versteht, was sie bereitet, denn so / Will es der oberste Gott, der sehr
dich liebet, und da-rum / Ist noch lieber, wie sie, dir der besonnene
Tag (il, p. 90; tr. it. cit., p. 135).
Il Reno:
[...] E altro sperava, quando lassù dai fratelli,
Dal Ticino e dal Rodano
S'era diviso, vago di errare, e impaziente
In Asia la regale anima lo spingeva.
Irragionevole
È il desiderio di fronte al destino.
Ma i più ciechi
Sono i figli di dèi [...].
[...] anderes hoffte der, als droben von den Brùdem, /
Dem Tessin und dem Rhodanus, / Er schied und wandern wolit, und
ungeduldig ihn / Nach Asia trieb die kónigliche Seele- / Doch
unverstàndig ist / Das Wùnschen vor dem Schicksal. / Die Blindesten
aber / Sind Góttersóhne [...] (II, p. 143; tr. it. dt, pp. 195-197).
L'inno II Reno è il canto sull'obbedienza
all'assegnazione, al destino. Se essa viene esercitata, ne scaturisce la
fecondità dell'operare. L'intera esistenza diventa un servizio reso
davanti agli dèi, l'agire storico stesso diventa pietà religiosa. Ne
parla L'Arcipelago:
388 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
Ma della madre terra e del dio dei flutti in onore
La città rifiorisce ora, costellazione stupenda,
Opera del Genio, che, come legami d'amore
Si crea volentieri, così in grandi figure si serra,
Che costruisce a se stesso, restando in sé il
Sempremobile.
Guarda! e la selva serve al suo fare, gli porge con gli
altri
Mond a portata di mano marmo e bronzo il Pentèle,
Ma viva al pari di lui e lieta e magnifica sgorga
Dalle sue mani e facile, come al sole, l'opera riesce.
Fontane ascendono al sommo e sopra i colli in puri
Sentieri guidata raggiunge la polla il badno splendente;
E intorno ad essi rifulgono, come alla coppa comune
Eroi festeggiano, le case schierate; alta si estolle
La stanza dei Pritani e s'apron all'aria i Ginnasi,
Corgon degl'iddii i templi; come sacro audace pensiero
Sale fin su agl'immortali l'Olimpièo nell'etere
Dal bosco sacro; e tanti altri ancora atrii di numi!
O madre Atene, a tè anche crebbe il tuo spendido colle,
Fiorì per tè più superbo dal lutto ancora lunghi
anni,
O dio dei flutti, e i tuoi prediletti in lieto raduno
Sul promontorio col canto d ringraziarono ancora.
Aber der Muttererd und dem Gott der Woge zu Ehren /
Blùhet die Stadt itzt auf, ein herrlich Gebild, dem Gesdrn gleich /
Sichergegrùndet, des Genius Werk, denn Fessein der liebe / Schafft er
geme si eh so, so hàlt in groBen Ge-stalten, / Die er selbst sich
erbaut, der immerrege sich bleibend. / Sieh! und dem Schaffenden dienet
der Wald, ihm reicht mit den andern / Bergen nahe zur Hand der Pentèle
Marmor und Erze, / Aber lebend, wie er, und froh und herrlich entquillt
es / Seinen Hànden, und leicht, wie der Sonne, gedeiht das Geschàft
ihm. / Brun-nen steigen empor und ùber die Hùgel in reinen / Bah-nen
gelenkt, ereilt der Quell das glànzende Becken; / Und umher an ihnen
erglànzt, gleich fesuichen Helden / Am gemeinsamen Kelch, die Reihe der
Wohnungen, hoch ragt / Der Prytanen Gemach, es stehn Gymnasien offen, /
Gót-tertempel entstehn, ein heiligkùhner Gedanke / Steigt,
Il dominio e l'obbedienza
389
Unsterbiichen nah, das Olympion auf den Àther / Aus dem
seligen Hain; noch manche der himmlischen Hallen! / mutter Athene, dir
auch, dir wuchs dein herrlicher Hù-gel / Stolzer aus der Trauer empor
und blùhte noch lan-ge, / Gott der Wogen! und dir, und deine Uebiinge
san-gen / frohversammeit noch oft am Vorgebirge den Dank dir (II, pp.
108-109; tr. it. dt. pp. 111-113).
Lo stesso pensiero è espresso, con toni più profondi,
in Pane e vino:
Severamente onorare egli vuole ora gli dèi beati, Tutto
nel reale e nel vero annunzi la loro lode, Niente guardi la luce, se non
piace ai superni, Dinanzi all'Etere vana ricerca sconviene. Perdo a
stare degnamente in presenza dei celesti Con magnifid ordini i popoli si
dispongono Emulandosi, innalzano i bei templi, e le nobili Salde atta
sulle rive si vanno elevando.
Und nun denkt er zu ehren in Ernst die seligen Getter, /
Wirkiich und wahrhaft muB alles verkùnden ihr lob. / Nichts darf
schauen das Licht, was nicht den Hohen gefàl-let, / Vor den Àther
gebùhrt MùBigversuchendes nicht. / Drum in der Gegenwart der
Himmlischen wùrdig zu ste-hen, / Richten in herrlichen Ordnungen
Vólker sich auf/ untereinander und baun die schónen Tempel und Stàdie
/ Fest und edel, sie gehn ùber Gestaden empor (n, p. 93;
tr.it. dt.,p. 139).
LA LONTANANZA, LA
VENUTA E LA FESTA
Le iniziative degli dèi assumono tratti ancora più
precisi là dove si parla della loro venuta. Il riferimento che ne
scaturisce è particolarmente importante per il mondo di Hólderlin.
Appare nella sua più rilevante dimensione nel contesto
analizzato dal secondo capitolo del presente studio: il tramonto e il
ritomo dell'esistenza greca. In Germania si legge:
Dèi dileguati! e anche voi del presente, una volta
Più veri, aveste il vostro tempo!
Niente io qui voglio negare e niente implorare.
Poiché se giunta è la fine e il giorno spento,
Primo colpito è il sacerdote, ma per amore lo segue
II tempio e poi l'immagine e i suoi riti
Nel buio regno e nessuna luce può apparire più.
Entflohene Gótter! auch ihr gegenwàrtigen, damais /
Wahr-hafdger, ihr hattet eure Zeiten! / Nichts leugnen will ich hier und
nichts erbitten. / Denn wenn es aus ist, und der Tag erioschen, / Wohi
triffts den Priester erst, doch lie-bend folgt / Der Tempel und das Bild
ihm auch und seine Sitte / Zum dunkein Land und keines mag noch scheinen
(n, p. 149; tr. it. dt., p. 207)
Appena il tempo prestabilito è trascorso «e il giorno
è spento», la figura storica si dilegua. Dapprima gli dèi
«dileguano». Di conseguenza gli uomini votati al
392
Terzo
cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso
loro servizio perdono il loro significato. Quindi
decadono, non più curati, i templi, le immagini, il culto e le
costumanze (i «riti»). Adesso tutto è passato, e solo l'incerto
riverbero del mito ne conserva memoria. Ma il passato è ancora
presente, «nell'alto azzurro». Da là inizia qualcosa di nuovo:
[...] Sente
L'ombre di coloro, che sono già stati,
Gli antichi, e che la terra tornano a visitare.
Poiché quelli che là debbono giungere, incalzano noi
E non può più indugiare di uomini-dèi
La sacra schiera ancora nell'alto azzurro.
[...] Er fùhit / Die Schatten derer, so gewesen sind, /
Die Alten, so die Erde neubesuchen. / Denn die da kommen sollen,
dràngen uns, / Und lànger sàumt von Gòttermen-schen / Die heilige
Schar nicht mehr im blauen Himmel (II, pp. 149-150; tr. it. dt., p.
207).
Gli «antichi», gli «uomini-dèi», gli dèi
«dileguati» ritornano. Hólderlin non intende esprimersi in termini di
allegoria o di formazione culturale umanistica. Pensa veramente ciò che
dice. Gli antichi dèi stessi ritorneranno. Ma questo significa che il
loro rapporto con l'uomo è costituito dall'essere qui,
dall'allonta-narsi e dall'assenza, dal venire e dal diventare presenti.
Nelle parole introduttive, gli dèi vengono chiamati generalmente «voi
del presente». Pensiamo di interpretare questo termine correttamente se
assumiamo che significhi l'«adesso» in senso assoluto, l'etemo. Esso,
a differenza degli uomini mortali, spetta agli dèi immortali. Ma anche
questi hanno «il loro tempo»:
inizio, fine e futuro. Nella seconda versione dell'inno O
conciliante, o Tu non mai creduto si legge:
La lontanamo, la venuta e la festa
393
(...] Così trapassa veloce tutto dò che è celeste; ma
non senza ragione.
[...] So ist schnell / Vergànglich alles Himmlische;
aber umsonst nicht (il, p. 134; tr. it. cit., p. 173).
Esso è etemo in sé, ma transitorio nel suo apparire
fenomenico. Ma questa caducità «non è senza ragione», ha un senso
essenziale ... il fatto è espresso nel passo già analizzato, in modo
molto penetrante, da Pane e vino: gli dèi sono assenti, le loro
dimore sono abbandonate, i canti e i detti sacri sono ammutoliti (il, p.
92). Ma poi l'esaltazione di ciò che è stato trapassa nel presente:
Delfo è assopita e dove suona il grande destino? Dov'è
il veloce? dove, d'un bene universo ricolmo Rompe sugli occhi, tonando
dall'aria serena? 'Padre Etere!' ecco il grido che di labbro in labbro
volava In mille modi e nessuno sopportava la vita da solo. Compartito
l'allieta un tal bene e con estranei scambiato Diventa un giubilo,
cresce dormendo il potere della parola:
«Padre! Sereno!» e risuona da ogni distanza il segno
Originario, ereditato dagli avi e ove giunge crea.
Delphi schiummert und wo tónet das groBe Geschick? / Wo
ist das schnelle? / o brichts, allgegenwàrtigen Glùcks voli, / Donnemd
aus heiterer Luft ùber die Augen herein? / Vater Àther! so riefs und
flog von Zunge zu Zunge / Tausendfach, es ertrug keiner das Leben
allein; / Ausge-teilet erfreut soich Gut und getauschet, mit Fremden, /
Wirds ein Jubel, es wàchst schlafend des Wortes Gewalt / Vater! heiter!
und hallt, so weit es gehet, das uralt / Zei-chen, von Eltern geerbt,
treffend und schaffend hinab (n, p. 92; tr. it. dt., p. 137).
E adesso l'ora è giunta:
394 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
Così prendono stanza i celesti e spargendo un brivido
fondo Fuori dalle ombre scende, fra gli uomini, il loro giorno.
Denn so kehren die Himmlischen ein, tiefschùtternd
ge-langt so / Aus den Schatten herab unter die Menschen ihr Tag (il, p.
92; tr. it. dt., p. 137).
«Il giorno degli dèi» è giunto. Con «un brivido
fondo», sollevando tutto, si compie il loro avvicinarsi. Dapprima
vengono avvertiti dai bambini, poi, sebbene con timore, dagli adulti.
Infine, la pienezza dilaga e tutto si trasforma fino a
quando da ultimo:
Ma poi, veramente
Giungono loro stessi e alla felicità s'abituano gli
uomini E al Giorno e a guardare gli dèi palesi, il cui volto, Che già
a lungo avevano chiamato Uno e Tutto.
[...] in Wahrheit / Kommen sie selbst und gewohnt
wer-den die Menschen des Glùcks / Und des Tags und zu schaun die
Offenbaren, das Antlitz / Derer, welche schon làngst Eines und AUes
genannt (il, p. 92; tr. it. cit., p. 139).
Gli dèi stessi non possono trapassare poiché sono la
vitalità numinosa del mondo. Ma l'essere degli dèi in sé e la loro
permanenza ed il loro dominio nell'ambito dell'umano sono due cose
distinte. Ciò non si riferisce all'elemento soggettivo, al fatto che
uomini credano in loro, sentano il loro essere e pratichino il loro
culto, ma si tratta di qualcosa che è reale in sé. Gli dèi possono
esistere pur rimanendo lontani dagli uomini. Possono essere stati
presenti ed aver preso nuovamente le distanze. In tal caso, il cielo
continua ad esistere come realtà astronomica, ma non è più il «Padre
Etere». Questi ha abbandonato l'aldiqua della
La lontananza, la venuta e la festa
395
storia, ritirandosi nella sfera a noi sottratta.
L'azzurro continua ad essere percepito dagli occhi, ma in modo tale da
nascondere il dio, invece di rivelarlo. Finché non giunge «l'ora», e
gli dèi ritornano. Allora essi si ridestano, annunciandosi,
avvicinandosi fino ad essere presenti.
Ma gli dèi non sono presentì perché avvertiti dagli
uomini; la loro esperienza della presenza divina invece è possibile
solo quando i numi sono veramente arrivati. Ma il fatto di venire
dipende da loro soltanto. Nella prima versione della poesia O
conciliante, o Tu non mai creduto si legge:
Questo solo io so: niente sei di mortale, Poiché molto
può un savio o d'un amico L'occhio fedele illuminare, ma quando Appare
un dio, in delo, terra e mare Viene una tutto innovante chiarità.
Dies eine weiB ich, Sterbiiches bist du nichts, / Denn
man-ches mag ein Weiser oder / Der treuanblickenden Freun-de einer
erhellen, wenn aber / Ein Gott erscheint, auf Himmel und Erd und Meer /
Kómmt allerneuende Klar-heit (il, p. 130; tr. it. dt., p. 171).
Il legame col tempo, proprio dei celesti, si radica nel
fatto che il loro essere è limitato. Nella stessa poesia l'autore si
rivolge direttamente a Cristo:
E quando, nel perenne alimento delle generazioni,
Gli uomini fossero così colmi di bene
Che ognuno a sé bastasse, in superbo oblìo del delo,
Allora, egli disse, un che di nuovo deve iniziarsi,
E guarda! ciò che tu hai taduto,
Lo ha portato la pienezza dei tempi.
Lo sapevi bene: ma non a vivere, a morire fosti mandato,
396 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
E sempre maggiore del suo campo, come degli dèi Dio
Egli stesso, deve anche essere uno degli altri.
Ma quando l'ora suona,
Come il maestro, s'allontana dall'officina
Ne altra veste si mette
Che un abito di festa
In segno che altro ancora
Gli è restato in lavoro.
Und wenn, fortzehrend von Geschlecht zu Geschlecht, /
Die Menschen wàren des Segens zu voli, / DaB jeder sich genùgt und
ùbermùtig vergàBe des Himmeis, / Dann, sprach er, soli ein neues
beginnen, / Und siehe! was du verschwiegest, / Der Zeiten Vollendung hat
es gebracht. / Wohi wuBtest du es, aber nicht zu leben, zu sterben warst
du gesandt, / Und immer gróBer, denn sein Feld, wie der Getter Gott/ Er
selbst, mu6 einer der anderen auch sein. // Wenn aber die Stunde
schlagt, / Wie der Meister tritt er, aus der Werkstatt, / Und ander
Gewand nicht, denn/ Ein fesdiches, ziehet er an, / Zum Zeichen, daB noch
an-deres auch / Im Werk ihm ùbrig gewesen (il, p. 132; tr. it dt, p.
175).
Nella catena del dominio degli dèi vi è sempre un
nuovo inizio. In essa uno continua ciò che il precedente ha
«taciuto», taciuto perché ogni dio «è sempre maggiore del suo
campo». Lo spazio e l'opera assegnati a ciascuno nella storia non sono
mai all'altezza di ciò che in sé riuscirebbe a fare. Così deve
accontentarsi, lasciando ciò che «gli resta in lavoro» come eredità
a chi lo segue. Ma ciò significa che ognuno è un dio accanto ad altri
e che tutti sono legati fra di loro. Sempre Hólderlin avverte che,
celebrandone uno, non bisogna dimenticare l'altro. Tuttavia, quello che
è uno non è l'altro. «Un dio» non è niente di infinito, e ancor
meno qualcosa di assoluto. Nemmeno il «dio
La lontananza, la venuta e la festa
397
degli dèi», il Padre, lo è. Solo il mondo è essere
totale, ricolma ogni cosa e opera. Gli dèi invece sono delle essenze al
suo interno. La loro limitatezza non contraddice la loro divinità, ma
fa parte della loro natura. Per il fatto di essere limitato, un dio ha
anche il carattere del tempo e, meglio, è legato nel suo dominio al
tempo. All'ora assegnata, entra nel tempo e diventa presente nel corso
della storia. Appena il suo «giorno» è trascorso se ne va. Non è che
diventi incomprensibile alla nuova èra storica, e dimenticato, ma lo fa
in senso oggettivo. Se ne parte realmente, dalla sfera dell'aldiqua,
della storia, del tempo passa all'altra, nell'ambito che ci è sottratto
ed è etemo. Ciò che rimane qui è solo una realtà puramente empirica,
abbandonata dalla divinità.
A questo essere assenti, venire e divenire presenti
nell'uomo predisposto corrispondono determinate esperienze. Nel tempo
dell'assenza divina l'uomo religioso dev'essere fedele, aspettare e far
memoria (HI, infra, p. 425). Non deve volersi illudere di nulla.
Gli dèi se ne sono andati davvero. In Germania si dice:
[...] aveste il vostro tempo. Niente io qui voglio
negare e niente implorare.
[...] ihr hattet eure Zeiten! / Nichts leugnen will ich
hier und nichts erbitten (n, p. 149; tr. it. dt., p. 207).
L'uomo non deve neanche volere evocarli dalla loro
assenza. Ciò sarebbe sfrontato e pericoloso. Deve accettare l'ora e
aspettare:
[...] colmo d'attesa
II paese e, come in giorni torridi
Calato giù, d fa ombra oggi all'intorno,
398 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
O desiose! un delo di presagi.
Colmo è di promesse, e mi sembra
Anche minaccioso, eppure voglio con lui restare,
E indietro l'anima non mi deve fuggire
Verso di voi, passati! che troppo cari mi siete.
Poiché vedere la bellezza del vostro viso,
Quasi fosse come una volta, mi fa paura, è letale
E vietato ridestare i morti.
[...] voli Erwartung liegt / Das Land und als in heiBen
Ta-gen / Herabgesenkt, umschattet heut, / Ihr Sehnenden! uns ahnungsvoll
ein Himmel. / Voli ist er von VerheiBun-gen und scheint / Mir drohend
auch, doch will ich bei ihm bleiben, / Und rùckwàrts soli die Seele
mir nicht fliehn / Zu euch, Vergangene! die zu lieb mir sind. / Denn
euer schónes Angesicht zu sehn, / Als wàrs, wie sonst, ich furcht es,
tódiich ists, / und kaum eriaubt, Ge-storbene zu wecken (il, p. 149;
tr. it. dt., p. 207).
Hólderlin stesso ha vissuto oltre i limiti del
sopportabile questa svolta piena di promesse e minaccia nella storia
degli dèi. Qui bisogna parlare di una pietà religiosa della storia che
colloca ciò che per la fede cristiana è legato al ritorno del Signore
- vedi la speranza nella parusìa nelle lettere degli Apostoli e
nell'Apocalisse - nel mondo stesso, ponendo l'esistenza terrena sotto
un'aspettativa le cui categorie non provengono dalla storia delle idee,
ma da un'esperienza religiosa singolare che fino adesso, sembra, non si
è più ripetuta.
Ciò che qui è legato ad un'ora storica ritorna
successivamente all'intemo dell'esistenza universale. In termini di
grandezza eroica, nel dramma di Empedo-cle che descrive la tragedia del
rapporto con gli dèi. I numi si intrattengono presso l'eletto. Egli
commette
La lontananza, la venuta e la festa
399
un sacrilegio contro di loro ed essi lo abbandonano. Ma
essi ritornano certo solo per spingerlo a perire in espiazione
volontariamente.
Il fenomeno del giungere e andarsene, dell'essere
presentì ed assenti degli dèi è riscontrabile anche nell'esperienza
quotidiana.
Ne parla Ritomo in patria:
[...] Oh! senza indugio, venite o custodi. Angeli
dell'anno, e voi, Angeli della casa, venite! in tutte le vene della
vita, Tutte allietandole insieme, si compartisca il divino! Nobilita,
ringiovanisci! Che nessun bene umano E nessuna ora del giorno sia senza
quei Genii felid E tale gioia d'amanti, adesso che si sono ritrovati,
Sia santificata come le si conviene. Quando benediremo la mensa, chi
potrò invocare? e quando Riposeremo dalla vita diurna, dite, come
renderò grazie? Nominerò il Supremo? Non ama il disacconcio un dio E
la nostra gioia è troppo piccola per contenerlo. Spesso dobbiamo
tacere: mancano nomi sacri, Cuori battono, eppure il discorso non tiene
dietro?
[...] O sàumt nicht, / Kommt, Erhaltenden ihr! Engel
des Jahres! und ihr, // Engel des Hauses, kommt! in die Adern alle des
Lebens, / Alle freuend zugleich, teile das Himmlische sich! / Adie!
verjùnge! damit nichts Menschiich-gutes, damit nicht / Eine Stunde des
Tags ohne die Fro-hen und auch / Solche Freude, wie jetzt, wenn Uebende
wieder sich finden, / Wie es gehórt fùr sie, schickiich ge-heiliget
sei. / Wenn wir segnen das Mahi, wen darf ich. nennen? und wenn wir /
Ruhn vom Leben des Tags, sa-get, wie bring ich den Dank? / Nenn ich den
Hohen da-bei? Unschickiiches liebet ein Gott nicht, / Ihn zu fassen, ist
fast unsere Freude zu klein. / Schweigen mùssen wir oft; es fehien
heilige Namen, / Herzen schlagen und doch bleibet die Rede zurùck? (n,
p. 99; tr. it. dt, p. 149).
400 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
II passo è significativo anche per il fenomeno del
nominare.
La presenza degli dèi viene avvertita: l'essenza
luminosa diventa evidente; si tenta la denominazione, che però non
raggiunge il proprio oggetto ... L'ode A Diotima lamenta
l'assenza degli dèi e'si incoraggia ad aspettare (II, p. 28). Nel Lamento
di Menane si legge:
Vorrei far festa ma a che prò? e cantare con altri, Ma,
così solo, nulla è più in me del divino.
Feiern mócht ich; aber wofùr? und singen mit andem, /
Aber so einsam fehitjegliches Góttliche mir (il, p. 77; tr. it.
dt.,p.l21).
Eprima:
Per me non è festa eppure vorrei mettere in capo
ghirlande;
Non sono dunque solo? ma un che di amichevole deve Da
lontano vicino essermi, e sorridere debbo e stupire Che tanto felice
anche in mezzo al dolore io mi senta.
Festzeit hab ich nicht, doch mócht ich die Locke
bekràn-zen; / Bin ich allein denn nicht? aber ein Freundiiches mu6 /
Femher nahe mir sein, und làchein muB ich und staunen, / Wie so selig
doch auch mitten im Leide mir ist (il, pp. 75-76; tr. it. cit-, p. 119).
Il ritratto dell'avo descrive come il padre morto,
adesso «placido» è vicino ai suoi in modo nuovo:
Placido avo! Tu pure vivesti e amasti così;
Perdo ora soggiorni, come immortale,
Con i nipoti, e vita
Come dal silenzioso Etere scende
Sulla casa sovente, uomo tranquillo, da tè [...]
La lontananza, la venuta e la festa
401
Stiller Valeri auch du lebtest und liebtest so; / Darum
wohnest du nun, als ein Unsterbiicher, / Bei den Kindem, und Leben, /
Wie vom schweigenden Àther, kommt // Ófters ùber Haus, ruhiger Mann!
von dir [...] (n, pp. 30-31;
tr. it. dt., p. 61).
Le battute conclusive dell'Iperione sul ritorno
di Diotima (II, p. 290) vanno nella stessa dirczione.
La dimensione del significato religioso della festa è
correlata alla vicenda metafìsico-numinosa della venuta. Venuta e festa
costituiscono insieme un riferimento religioso.
L'Arcipelago dice:
Allora, allora, o gioie di Atene, o gesta di Sparta
Splendida primavera di Greda, quando venuto
Sarà il nostro autunno e sarete maturi, o spiriti
antichi!
Voi tornerete, ed ecco il grande anno è prossimo a
compiersi!
Allora la festa riporti anche voi, giorni passati!
Verso l'Ellade il popolo guardi e con lagrime grate
Si addoldsca in ricordi l'altero dì del trionfo.
Dann, dann, o ihr Freuden Athens! ihr Taten in Sparta! /
Kóstliche Frùhiingszeit im Griechenlande! wenn unser / Herbst kómmt,
wenn ihr gereift, ihr Geister alle der Vor-welt! / Wiederkehret und
siehe! des Jahrs Vollendung ist nahe! / Dann erhalte das Fest auch euch,
vergangene Ta-ge! / Hin nach Hellas schaue das Volk, und weinend und
dankend / Sànfuge sich in Erinnerungen der stolze Triumphtag! (il, p.
Ili; tr. it. dt., p. 117).
In forma più possente, quasi apocalittica come un
mistero, celebrato non soltanto dal popolo, ma anche dalla natura
intorno, la festa si mostra in Germania:
402 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
[...] Sente
L'ombre di coloro, che sono già stati,
Gli antichi, e che la terra tornano a visitare.
Poiché quelli che là debbono giungere, incalzano noi
E non può più indugiare di uomini-dèi
La sacra schiera ancora nell'alto azzurro.
Già in preludio verdeggia di più aspra epoca
II campo lavorato per loro, pronto è il dono
Per l'agape, e valle e fiumi stanno
Aperti intorno a profetici monti,
Perché guardare possa fin nell'Oriente
L'uomo, e di là molte vicende lo commuovano.
Ma dall'etere cade
L'immagine fedele e ne piovono oracoli di dèi
Innumeri, suonando nel più fitto del sacro bosco.
[...] Er fùhit / Die Schatten derer, so gewesen sind, /
Die Alten, so die Erde neubesuchen / Denn die da kommen sollen, dràngen
uns, / Und lànger sàumt von Góttermen-schen / Die heilige Schar nicht
mehr im blauen Himmel. // Schon grùnetja, im Vorspiel rauherer Zeit/
Fùr sie er-zogen das Feld, bereitet ist die Gabe / Zum Opfermahi und
Tal und Strème sind / Weitoffen um prophetische Berge, / DaB schauen
bis in den Orient / Der Mann und ihn von dort der Wandiungen viele
bewegen. / Vom Àther aber fallt / Das treue Bild und Góttersprùche
re-gnen / Unzàhibare von ihm, und es tónt im innersten Hai-ne (il, pp.
49-50; tr. it. dt., pp. 207-209).
Il concetto di festa in Hólderlin è connotato da
tratti che in età moderna sembrano essere andati in gran parte perduti.
È ovvio che una festa non possa essere escogitata
razionalmente. Più difficile è capire il fatto che anche un contenuto
importante, un'esperienza vera e la capacità di darvi forma non bastano
per produrla, ma che c'è bisogno di un'iniziativa dall'altra parte».
Una
La
lontananza, la venuta e la festa 403
«festa», nell'accezione holderliniana del termine, è
possibile solo quando è presente una divinità.
Essa costituisce l'espressione dell'incontro realizzata
sia dal nume che dall'uomo che lo sperimenta. Ai
tedeschi:
E il silenzio nel popolo, è già la celebrazione che
precede la festa? il timore che annuncia il Dio?
Und das Schweigen im Volk, ist es die Feier schon / Vor
dem Feste? die Furcht, welche den Gott ansagt? (il, p. 9).
I versi distinguono tra «celebrazione» {Feier)
e «festa» (Fest); quella è la preparazione nel presagio, la
preparazione della via per ciò che viene - la «veglia», direbbe la
liturgia - questa l'incontro con il presente. Se la venuta non c'è
nessuna festa è possibile. Nel Lamento di Menane vi è a
proposito il passo già citato:
Vorrei far festa, ma a che prò? e cantare con altri,
Ma, così solo, nulla è più in me del divino.
Feiern mócht ich; aber wofùr? und singen mit andem, /
Aber so einsam fehitjegliches Góttliche mir (il, p. 77; tr. it. dt., p.
121).
Ma quando accade ciò che l'uomo non può ottenere con
la forza, quando opera la «potenza del miracolo», allora la comunità,
la parola, il canto e lo svolgimento vengono permeati dal «sacro
fiato», dal pnéuma della celebrazione.
Si forma «la figura luminosa» della festa, entrando in
atto:
[...] fin quando La forza d'un miracolo gl'inabissati
costringa
404 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
A fare ritorno sul verdeggiante suolo.
Sacro fiato fluirà divino nella figura di luce
Quando la festa s'avviva e i flutti dell'amore si
muovono.
[...] bis dereinst sie / Eines Wunders Gewalt sie, die
Ver-sunkenen, zwingt, / Wiederzukehren, und neu auf grù-nendem Boden zu
wandein. / Heiliger Othem durch-strómt góttlich die lichte Gestalt, /
Wenn das Fest sich beseelt, und Fluten der Uebe sich regen (il, p. 77;
tr. it. dt., p. 123).
Nell'elegia Stoccarda la festa è dedicata agli
«angeli della patria» che cominciano a diventare presenti, alle grandi
figure della storia locale, festeggiati nel pieno dell'autunno:
Ora altro importa, vieni a festeggiare d'autunno
L'uso antico, che nobiltà fra noi ancora dura.
La patria sola conta quest'oggi, e del sacrificio
Getti alla fiamma festiva ciascuno quello che ha.
Però c'inghirlanda il dio comune d'un sussurro le
chiome
E il senso d'ognuno sdoglie, come le perle, il vino.
Jetzt ist anderes not, jetzt komm und feire des Herbstes
/ Alte Sitte, noch jetzt blùhet die edie mit uns. / Eins nur gilt fùr
den Tag, das Vaterland, und des Opfers / Fesdi-cher Fiamme wirft jeder
sein Eigenes zu. / Darum krànzt der gemeinsame Gott umsàuseind das
Haar uns, / Und den eigenen Sinn schmelzet, wie Perlen, der Wein (il, p.
87; tr. it. dt., pp. 127-129).
In un altro contesto - vedi il primo cerchio di questo
libro - il fenomeno del ritorno appare in Al fonte del Danubio:
Come d'accordi stupendi alto dall'organo Per le sacre
volte
La lontananza, la venuta e la festa
405
Sgorgando puro da inesauste canne
II preludio, destante, del mattino comincia
E in vasti cerchi di navata in navata
II refrigerio si versa della melodica piena
E fino nelle fredde ombre ricolma
D'entusiasmi le mura,
Ma ora si desta, ora sorgendo, al sole
Della festa risponde
II coro dei fedeli; così giunse
La parola da oriente a noi,
E di Parnaso alle rupi e al Citerone,
O Asia, odo l'eco tua che si frange
Al Campidoglio e subito giù dalle Alpi
Straniera giunge
A noi, la risvegliatrice,
La voce che forma gli umani.
Denn, wie wenn hoch von der herrlichgestimmten, der
Orgel / Im heiligen Saal, / Reinquillend aus den uner-schópflichen
Róhren, / Das Vorspiel, weckend, des Mor-gens beginnt / Und weitumher,
von Halle zu Halle, / Der erfrischende nun, der melodische Strom rinnt,
/ Bis in den kalten Schatten das Haus, / Von Begeisterungen er-fùlk, /
Nun aber erwacht ist, nun, aufsteigend ihr, / Der Sonne des Fests,
antwortet / Der Chor der Gemeinde; so kam / Das Wort aus Osten zu uns, /
Und an Parnassos Felsen und am Kithàron hór ich, / O Asia, das Echo
von dir und es bricht sich / Am Kapitoi, und jàhiings herab von den
Alpen // Kommt eine Fremdiingin sie / Zu uns, die Erweckerin, / Die
menschenbildende Stimine (il, p. 126; tr. it. cit-, p. 163).
La comunità raccolta in chiesa aspetta. Dapprima la
casa è piena di «fredde ombre». Poi dilagano i suoni dell'organo, si
«ricolmano d'entusiasmo le mura». Infine si leva «il sole della
festa», e il coro della comunità risponde. «Il sole della festa»
significa dapprima
406 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
il nucleo significante della festa stessa come emerge
nell'esperienza vissuta, in secondo luogo però ciò che solo, in
assoluto, rende possibile la festa, ossia la presenza del nume.
In questo caso è solo la «parola» sotto le cui
spoglie, confluendo dall'«Asia» e dal «Parnaso» Vangelo e sapienza
dell'antichità giungono per essere presenti al momento dell'annuncio
della predica. Senza volerlo ci si ricorda delle antiche
rappresentazioni cultuali della «parusìa» e dell'«epifanla»: la
divinità dalla lontananza della sfera a noi sottratta giunge alla sede
della festa, nel cerchio della comunità in attesa. Appena arriva,
diviene percettibile per quanti sono adunati. La sua presenza pervade
l'intera manifestazione conferendole una potenza nuova. Una sacra
animazione permea tutto. Si leva la parola di presagio e di lode, il
canto di festa, e si compie l'azione cultuale. L'inno O conciliante,
o Tu non mai creduto dice:
[...] ma quando
Appare un Dio, in cielo, terra e mare
Viene una tutto innovante chiarità.
[...] wenn aber / Ein Gott erscheint, auf Himmel und Erd
und Meer/ Kómmt allerneuende Klarheit (il, p. 130; tr. it. cit.,
p. 171).
E nella prima versione dello stesso inno si legge:
Perdo oggi ho la festa, e serale nel silenzio
Fiorisce intorno lo spirito: e, grige anche avessi le
tempie,
Vi esorterei, o amici, a provvedere con me
Per il banchetto, e cand e molte ghirlande e suoni,
In questo tempo uguali a giovinetti immortali [,..]
La lontananza, la venuta e la festa
407
Perdo, o divino, sii presente E più bello di una volta,
oh sii, Conciliante, ora riconciliato, che noi di sera Con gli
amia ti nominiamo e cantiamo Dei superni: e accanto a tè siano altri
ancora.
Drum hab ich heute das Fest, und abendiich in der Stille
/ Blùht rings der Geist, und wàr auch silbergrau mir die Locke, / Doch
wùrd ich raten, da6 wir sorgten, ihr Freun-de, / Fùr Gastmahi und
Gesang, und Krànze genug und Tóne / Bei solcher Zeit unsterbiichen
Jùnglingen gleich [...] // Darum, o Góttlicher! sei gegenwàrtig, /
Und schó-ner, wie sonst, o sei, / Versóhnender, nun versóhnt, daB wir
des Abends / Mit den Freunden dich nennen, und sin-gen / Von den Hohen,
und neben dir noch andere sei'n (il, p. 131; tr. it. cit., pp.
171.173-175).
Il fenomeno della venuta è presente anche in
concomitanza al mito del cielo e della terra. Nell'inno II Reno
la discesa del cielo si compie nell'ora festosa del tardo pomeriggio, e
la festa coinvolge l'intera natura:
Quando colui ch'edificato ha i monti
E segnato la strada dei fiumi,
Dopo che sorridendo egli pure
La vita operosa degli uomini
Povera di respiro, come vela,
Con le sue brezze ha guidato,
Anche lui riposa e ora verso l'allieva
II creatore, più bene
Che male trovando,
Verso l'odierna terra il Giorno s'inclina.
Allora festeggian le nozze uomini e dèi,
Le festeggiano tutti i viventi
E appianato
È per breve ora il destino.
408 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
Wenn, der die Berge gebaut / Und den Pfad der Stróme
gezeichnet, / Nachdem er làcheind auch / Der Menschen geschàftiges
Leben, / Das othemarme, wie Segei, / Mit sei-nen Lùften gelenkt hat, /
Auch ruht und zu der Schùlerin jetzt, / Der Bildner, Gutes mehr / Denn
Bóses findend, / Zur heutigen Erde der Tag sich neiget. - // Dann
feiern das Brautfest Menschen und Gótter, / Es feiern die Le-benden
ali, / Und ausgeglichen / Ist eine Weile das Schicksal (il, p. 147; tr.
it. cit-, p. 203).
Domina lo «Spirito» che «avvolge di murmuri gli
alberi bui».
La presenza del nume non è di tipo meccanico, come se
una cosa venisse portata in una camera; e nemmeno solo di tipo
psicologico, come se alcuni uomini, intrinsecamente legati fra di loro,
accogliessero uno nuovo nella loro cerchia. Il nume giunge invece come
«l'altro» e «dall'altro». Esso non può entrare nell'ambito
dell'uomo passando senza mediazione da un essere all'altro. Non può
aggiungersi all'aldiqua o inserirsi nelle sue forme di totalità. La sua
venuta può avvenire solo perché si da una nuova circostanza, perché
si apre una nuova dimensione e domina una nuova energia operante: lo
Spirito. Solo in quest'ultimo la festa si realizza. Il nume e gli uomini
eletti entrano in uno stato particolare, quello della festa, di cui le
forme esteriori, distinte dall'esistenza quotidiana e profana, sono il
segno e l'espressione.
La festa non è quindi una istituzione didattica o
edificante, bensì un evento di natura propria. In essa culmina quel
rapporto, che è basato sulla venuta degli dèi e sull'attesa
correlativa degli uomini. Gli dèi non solo sono e dominano, ma
giungono, sono pre-
La lontananza, la venuta e la festa
409
senti e permangono. Ma essi non sono nulla che stia
accanto alla realtà mondana, come già si è detto più volte, bensì
questa realtà stessa nella misura in cui è collegata con l'«altro».
Così il loro essere manifesta di volta in volta un rapporto essenziale
di questa realtà:
in questo caso il fatto che l'esistenza stessa è in
avvento. Che essa è in movimento; da una lontananza nella vicinanza;
dall'ambito a noi sottratto nello spazio dell'uomo; dall'altra parte a
questa. L'uomo, dal canto suo, attende quel movimento, esprimendo in tal
modo anch'egli un aspetto dell'esistenza: il fatto di attendere, andare
incontro e ricevere. Anzi di passare, a sua volta, «dall'altra parte»,
accolta da ciò che viene e trasportata nella sua sfera. La
condensazione massima di questo processo è data dall'atto dionisiaco;
vedi in proposito Voce del popolo:
Oblioso di sé, pronto sempre il desio Degli dèi a
compiere, troppo docile Ciò ch'è mortale, ad occhi aperti Correndo
rapido per il suo sentiero,
Prende la via più breve del ritorno nel tutto;
Così precipita il fiume in cerca di pace, lo strappa,
Lo trae contro sua voglia, di scoglio
In scoglio, giù, senza alcun freno,
La brama meravigliosa d'inabissare [...]
Denn selbstvergessen, allzubereit, den Wunsch / Der
Gót-ter zu erfullen, ergreift zu gem, / Was sterbiich ist, wenn offnen
Augs auf / Eigenen Pfaden es einmal wandeit, // Ins Ali zurùck die
kurzeste Bahn; so stùrzt / Der Strom hi-nab, er suchet die Ruh, es
reiBt, / Es ziehet wider Willen ihn, von / Klippe zu Klippe den
Steuerlosen // Das Wunderbare Sehnen dem Abgrund zu [...] (il, p. 51;
tr. it. dt., p. 65).
410
Terzo
cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso
II processo è particolarmente evidente nella figura di
Empedocle di cui si parlerà ancora più compiutamente. Anche il suo
passaggio nell'aldilà riveste il carattere della festa.
pausania. Così festoso scende
l'astro ed ebbre
della sua luce splendono le valli?
panthea. Oh, sì, festoso scende e più gioia e luce
anche ne nasce. Perché allora mi attristo? Splende anima di crepuscolo,
pur anche chi affonda a tè,
l'austero, il tuo prediletto, o Natura il tuo fedele, la
tua vittima! Oh, coloro che temono la morte non ti amano, l'affanno
ingannevole copre i loro occhi, il loro cuore non batte contro il tuo,
separati da tè, inaridiscono
... Oh, sacro Tutto
fervido, vivente, per dirti grazie,
per testimoniare in tè, che sei
immortale,
sorridendo l'audace getta le sue perle
nel mare da cui vennero.
Così doveva accadere.
Così vuole lo spirito
e il tempo che matura.
Poiché, ciechi, almeno una volta
necessario a noi era il prodigio.
Pausanias. So gehet fesdich hinab / Das Gestim! und
trun-ken / von seinem lichte glànzen die Tàler?
Panthea. Wohi geht er fesdich hinab - / Und
freudiger wirds und heller auch. // Warum denn traur' ich? Leuchtet,
La lontananza, la venuta e la festa
411
/ Dàmmernde Seele! doch auch / Der Untergehende
dir, / Der Emste, dein Uebster, Natur! / Dein Treuer, dein Opfer! // ...
o heilig Ali! / Lebendiges! inniges! Dir zum Dank / Und daB er zeuge von
dir, du Todesloses! / Wirft làcheind seine Perlen ins Meer, / Aus dem
sie kamen, der Kùhne. / So muBt es geschehen. / So will es der Geist /
Und die reifende Zeit, / Denn einmal bedurften / Wir Blinden des Wunders
(in, pp. 170-171; tr. it. dt., pp. 207-209).
In tal modo l'intera esistenza sta costantemente
scorrendo da una parte all'altra. Ma queste due parti - mutuamente «di
qua» e «di là» - sono situate nello stesso mondo, costituendo il
tutto medesimo. Attraverso la frontiera senza nome, l'esistenza
costantemente si divarica, dividendosi nella sfera lontana a noi
sottratta e nella presenza abbandonata.
Questo dividersi, partire e abbandonare è però
continuamente superato dal movimento opposto del venire, del farsi
presente, dal procurare vicinanza e unità.
E il respiro dell'esistenza, cui quella frontiera
costantemente appare, per poi di nuovo scomparire. Ma ciò non avviene
semplicemente, in modo meccanico, come per un apparecchio che si apre e
si chiude, ma attraverso un trapasso sempre nuovo.
Questo si prepara già all'interno del mondo. È già
presente nel respiro stesso: l'aria che entra e esce non penetra solo
nell'ambito spaziale dell'intimo corporeo, ma anche in quello biologico
della vitalità. Il trapasso si rinnova ulteriormente in quel respiro
che si compie nell'uscita e nel ritorno degli atti spirituali, nella
coscienza e nella volontà; esso conduce nell'interiorità
psichico-spirituale. Nell'ambito del religioso, il trapasso acquista un
carattere ancora diverso: di-
412
Terzo
cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso
venta il passo attraverso la frontiera tra qui e là,
tra l'aldiqua e l'aldilà. E ad esso che si riferisce Hólder-lin, ma
sempre nei termini di un evento all'intemo della totalità del mondo.
L'interiorità che qui si dischiude è quella religiosa, e il suo
movimento avviene tramite il respiro inteso in senso religioso come
«sacro fiato» o pnéuma. Anzi, quest'ultimo costituisce
l'intera sfera: sia la frontiera la quale divide i due ambiti, che
l'unità in cui di ritrovano attraverso il superamento d'essi. Sulla
frontiera del trapasso di questo respiro, sul punto dove si converte il
movimento dell'essere è situata la festa.
LA
DISTRETTA DELL'ESISTENZA E L'ATTESA PERSEVERANTE
Un ultimo aspetto del riferimento religioso si basa sul
fatto della distretta o necessità costrittiva (Not).
La distretta esteriore, come malattia fìsica e
indigenza economica, benché sperimentata da Hólderlin in larga misura,
non ha rilievo di qualche misura nella sua poesia. In compenso vi è
molto presente la distretta spirituale. Oltre alla sua creatività
poetica e all'esperienza religiosa ad essa intimamente connessa, la
melanconia costituisce l'adito più importante alla comprensione della
vita intcriore di Hólderlin. Essa pervade tutta la sua opera dando alle
sue poesie e al suo linguaggio il loro taglio più caratteristico.
È diffìcile dire che cosa sia la melanconia, in che
cosa consista il suo significato esistenziale, poiché le sue
espressioni sono molte eterogenee, ed essa è contigua tanto alla vita
quanto alla morte, alla creazione quanto alla distruzione. L'uomo
melanconico è intrinsecamente legato, a partire da un ambito che sta
prima dell'esistenza strutturata, operante e creativa. Ciò non
significa che egli abbia un rapporto con la vita più profondo degli
altri. Il suo sentimento è più forte e più delicato; le sue gioie
sono più luminose, e suoi dolori più affliggenti. Ma la sua
interiorità non gli consente di disporre in modo del tutto libero sul
proprio stato e sul proprio agire. Ha una sensibilità
414 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
per la forma e per l'evento maggiore di quella degli
altri, sperimenta il significato delle cose in modo più profondo. E
quando è dotato di creatività quel legame con le potenze primordiali
diventa appunto la fonte che alimenta la sua opera; ma egli stesso non
se ne rallegra perché, in ogni ora in cui l'uomo, altrimenti agendo e
soffrendo, vive se stesso, si insinuano le potenze e tornano a
riprendersi il malinconico. Egli sa più di altri, è dotato di quel
sapere che rappresenta un'iniziazione alla profondità; ma questo sapere
non lo aiuta poiché lungi dal diventare uno strumento ed un'arma, non
fa che conferire a tutte le cose una pesantezza ancora maggiore. Egli
anela a giungere a una forma chiara e a un agire libero, a superare il
procedere esitante, a tastoni e ad elevarsi nella regione luminosa. Ma
il tentativo riesce solo difficilmente e per breve tempo. Ma quando,
sostenuto dalle forze dello spirito e da un amore che vi tenda
disinteressatamente, superando costantemente se stesso, giunge alla
pacatezza serena e alla sapienza, allora appare un'umanità superiore a
quella di coloro che fin dall'inizio sono sciolti d'impaccio, pieni di
successo e fortunati.
Hólderlin era un uomo malinconico e il superamento di
questo stato gli rimase precluso. La sua malinconia è terminata nella
notte.
La sua opera ne è pervasa. È la malinconia a rendere
il suo sentire così delicato, ma allo stesso tempo così doloroso e
pericolosamente forte. Da essa scaturisce la profonda tristezza,
l'amabilità, ma anche l'indicibile fulgore di gioia delle sue frasi.
Essa conferisce alle sue rappresentazioni dominanti la loro vicinanza
peculiare, la forza penetrativa, anzi l'eccesso o sovrappiù di valenza,
per così dire.
La
distretta dell'esistenza e l'attesa perseverante 415
Di ciò fa parte soprattutto l'ambito di quanto fu un
tempo, del passato storico, soprattutto della storia greca, ma anche
della vita personale, della gioventù. Entrambi gli ambiti ritraggono in
se stesso, risucchiano chi costantemente ne ha memoria attraverso una
nostalgia soverchiante. A questa nostalgia corrisponde, rivolta in
avanti, la speranza per il futuro. Ma non si tratta di un futuro storico
naturale, raggiungibile tramite un costante progresso, bensì di un
futuro assoluto che in fondo è inaccessibile quanto il passato perduto.
Tra di essi vi è il momento, avvertito come assillante, in cui il
futuro assoluto, irrompendo, dovrebbe riportare il passato perduto.
Anche la rappresentazione stessa del ritomo, forte così da eccitare,
eppure messa in discussione da un senso dell'inutilità, è di tipo
melanconico poiché è intimamente connessa con l'esperienza della
perdita e della caducità:
la lontananza spaziale ha lo stesso carattere di quella
temporale. Di essa si è parlato a proposito della tensione propria allo
spazio di vita (I, supra, p. 42). Per avvertirlo basta ascoltare
il tono di certe parole, come all'inizio dell'inno L'unico:
Che mai
Alle antiche beate rive
M'incatena così che le amo
Più ancora della mia patria?
Come in celeste
Prigionia venduto
Io sono, dove Apollo andò
In regale figura [...]
Was ist es, das / An die alten seligen Kùsten / Mich
fes-seit, daB ich mehr noch / Sie liebe, als mein Vaterland? / Denn wie
in himmlische / Gefangenschaft verkauft / Dort
416 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
bin ich, wo Apollo ging / In Kònigsgestalt [...] (il,
p. 153;
tr.iLdt.,p-213).
Anche questa lontananza è irraggiungibile e rimarrebbe
tale pure se un destino favorevole trasportasse in Grecia chi prova
nostalgia, poiché essa è situata oltre quella terra empirica.
Altrettanto desiderata nostalgicamente e altrettanto irraggiungibile le
si oppone la vicinanza più vicina, la patria, poiché ciò che il
melanconico vi cerca, è la sicurezza assoluta, il «puro dentro», in
cui non potrà mai più ritornare da quando percorre «ad occhi aperti
il proprio sentiero». E la patria, per non essere soffocante, dovrebbe
racchiudere in sé la lontananza, per non diventare l'assenza di luogo,
dovrebbe essere piena di interiorità che protegga e nasconda.
Anche la sensazione che l'esistenza sia pesante ed
oscura è un'espressione immediata della malinconia. Essa sprigiona la
nostalgia dell'altezza, della leggerezza e della chiarezza. Di qui
l'etere acquista un significato nuovo: esso affranca dalla pressione e
dalla prigionia. Poesie come All'Etere e Ganimede solo ora
evidenziano il loro nucleo più vitale. Ma lo stesso uomo che anela
all'etere, tende poi nuovamente alla profondità, alla terra. Anche
l'immagine d'essa, luttuosa, sofferente, sottomessa al destino, è
attraversata da correnti oscure. Con essa il malinconico ha stipulato il
proprio «patto di morte». Così i fiumi precipitano nell'abisso del
tutto, ed Empedocle si butta nell'Etna ... Ma anche la terra e l'etere
sono dati al melanconico solo sotto la forma della nostalgia. Poiché
appena si avvicina a un elemento, si eleva l'altro e lo riprende. Di
nuovo l'aspirazione anela all'impossibile: a un'altezza e a una
vastità, che porti in sé l'oscu-
La distretta dell'esistenza e l'attesa perseverante
417
rità ed il dolore della profondità tellurica, a una
interiorità creativa, che sia esposta liberamente alla luce. Poesie
come le elegie All'Etere, pervasa da un senso d'intimità che
sgorga dal cuore, e Alla primavera, in cui la terra piena di
«mille gioie» «danza» nella luce, indicano la dirczione.
L'etere e la terra che reciprocamente si desiderano con
nostalgia e che tuttavia costantemente si devono separare, la cui unione
produce la vita destinata a sua volta a perire continuamente nella
morte, esprimono anche oggettivamente l'inanità della nostalgia
malinconica. Ma il mito dell'unione ventura, «le nozze degli uomini e
degli dèi», presagita nella trasfigurazione dell'ora pomeridiana,
nella promessa della primavera e nell'esperienza dell'amore, rivela la
speranza dell'anima melanconica in una possibilità oltre
l'impossibilità, diventando in tal modo un rapporto religioso.
Ma la malinconia si manifesta nella poesia di
Hól-derlin anche in modo concreto, come dolore puro, e semplice. A
Diotima parla per esempio dei «dolori più segreti, più profondi della
vita» inferri anche alla persona più amata (I, p. 244). Si vedano
anche i versi pieni di dolore in Fantasia serale:
Io, dove andrò? Di guadagno e lavoro Vivono gli uomini;
fatica alternando a riposo Tutto ha gioia; perché dunque a me solo Mai
non s'addorme nel petto l'assillo?
Wohin denn ich? Es leben die Sterbiichen / Von Lohn und
Arbeit; wechseind in Mùh und Ruh / Ist alles freudig;
warum schlaft denn / Nimmer nur mir in der Brust der
Stachel? (i, p. 301; tr. it dt., p. 39).
418 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
Nell'elegia Lamento di Menane per Diotima:
Evado ogni giorno e sempre d'altro io ricerco, Da tanto
ho interrogato del paese tutti i sentieri;
Lassù le fresche altitudini, e tutte visito le ombre E
le sorgenti: all'alto erra il mio spirito e al basso, Pace implorando;
così fugge la fiera colpita nei boschi Dove altra volta al meriggio
sicura posava nel buio;
Ma il cuore più non le allevia il suo verde giaciglio,
Gemente e insonne la spinge la punta infitta a vagare.
Calore di luce, frescura di notte non giova
E nei flutti della fiumana tuffa le ferite invano.
E come indarno la terra il suo dittamo lieto
Le porge e il sangue in fermento nessun degli zefiri
placa,
Così, o cari, pare che sia di me pure, e nessuno
Può dalla fronte levarmi il funebre sogno?
Tàglich geh ich heraus, und such ein anderes immer, /
Habe làngst sie befragt, alle die Pfade des Lands; / Dro-ben die
kùhlenden Hóhn, die Schatten alle besuch ich, / Ruh erbittend; so
flieht das getroffene Wild in die Wàlder, / Wo es um Mittag sonst
sicher im Dunkel geruht: / Aber nimmer erquickt sein grùnes Lager das
Herz ihm / Jam-mernd und schiummerlos treibt es der Stachel umher. /
Nicht die Wàrme des Uchts, und nicht die Kùhle der Nacht hiift / Und
in Wogen des Stroms taucht es die Wunden umsonst. / Und wie ihm
vergebens die Erd ihr fróhiiches Heiikraut / Reicht, und das gàrende
Blut keiner der Zephire stillt, / So, ihr Lieben! auch mir, so will es
scheinen, und niemand / Kann von der Stime mir neh-men den traurigen
Traum? (il, p. 75; tr. it. cit., p. 119).
Nell'inno O conciliante, o Tu non mai creduto ...
il lamento diviene ancora più amaro:
Un tempo anche ci allegravamo Di mattino quando taceva
l'officina Al dì di festa: e i fiori nel silenzio
La distretta dell'esistenza e l'attesa perseverante
419
Più belli fiorivano e chiare sgorgavano vive fontane.
Di lungi scrosciava dei fedeli rabbrividente canto,
In cui, come il sacro vino, invecchiate
Più arcane le sentenze, ma più potenti un giorno
Crebbero d'estate negli uragani del dio.
Eppure le ansie mi calmavano
E i dubbi; ma non seppi mai come fu,
Che, appena nato, già mi spargeste
Sopra gli occhi una notte,
Tanto che più la terra non vedevo e a fatica
Dovevo voi respirare, aure del delo.
Prestabilito era [...]
Einst freueten wir uns auch, / Zur Morgenstunde, wo
stille die Werkstatt war / Am Feiertag, und die Blumen in der Sdile, /
Wohi blùhten schóner auch sie und helle quillten lebendige Brunnen. /
Fem rauschte der Gemeinde schauer-licher Gesang, / Wo, heiligem \Vein
gleich, die geheime-ren Sprùche / Gealtert, aber gewaltiger einst, aus
Gottes / Gewittern im Sommer gewachsen, / Die Sorgen doch mir stillten /
Und die Zweifel; aber nimmer wuBt ich, wie mir geschah, / Denn kaum
geboren, warum breitetet / Ihr mir schon ùber die Augen eine Nacht, /
Da6 ich die Erde nicht sah und mùhsam / Euch atmen mu6t, ihr
himmli-schen Lùfte. // Zuvorbestimmt wars [...] (n, pp. 130-131;
tr.it. cit.,p. 171).
Nell'inno Alla Madonna si legge addirittura:
E più d'un canto che Di cantare all'Altissimo, al
Padre, Avevo pensato, me lo ha Divorato la malinconia.
Und manchen Gesang, den ich / Dem Hóchsten zu sin-gen,
dem Vater, / Gesonnen war, den hat / Mir wegge-zehret die Schwermut (n,
p. 211; tr. it. dt., p. 249).
420 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
Anche il concetto di cuore, così importante per
Hólderlin perché esprime la sfera dell'interiorità e l'origine
dell'amore, è pieno di malinconia. L'ode Incitamento inizia con
le parole:
Eco del delo! cuore sacro! perché, Perché ti sei
ammutolito in mezzo ai viventi? Tu, Ubero, dormii T'hanno sbandito in
eterno Gli uomini senza dèi, giù nella notte?
Echo des Himmeis! heiliges Herz! warum, / Warum
ver-stummst du unter den Lebenden, / Schlafst, freies! von den
Gótterlosen / Ewig hinab in die Nacht verwiesen? (II, p. 35; tr. it.
dt., p. 81).
Nell'elegia omonima il cuore di Achille addolorato anela
a scendere nella profondità materna:
Figlio glorioso degli dèi, quando perdesti l'amata
Andasti alla riva del mare, piangendo verso i flutti,
E il tuo cuore bramava gemendo di scendere nel sacro
abisso,
Nella pace, là dove, lontana dal suono delle navi,
In fondo alle onde, in una grotta amica, l'azzurra
Ted abitava, che d proteggeva, la dea del mare.
Herrlicher Góttersohn! da du die Geliebte verloren, /
Gingst du ans Meergestad, weintest hinaus in die Flut, / Weheldagend
hinab verlangt' in den heiligen Abgrund, / In die Sdile dein Herz, wo,
von der Schiffe Gelami / Fern, def unter den Wogen, in friediicher
Grotte die blaue / Theds wohnte, die dich schùtzte, die Gótdn des
Meers (I, p.271).
Poi continua:
Figlio degli dèi! fossi come tè, potrei confidare Ad
uno dei celesd il mio segreto dolore. A me non è dato, padre devo
l'offesa, come
La distretta dell'esistenza e l'attesa perseverante
421
Non più appartenessi a colei che mi pensa piangendo.
Pure, o buoni dèi, voi ascoltate ogni supplica degli
umani,
E tè, o Luce santa, io amai con pietà profonda,
Da che ho vita, e tè. Terra, le tue sorgenti e i
boschi,
E tè, padre Etere, sentì anelante e puro
Questo cuore - oh consolate, voi benigni, il mio dolore,
Che l'anima non mi diventi muta innanritempo,
Ch'io viva, e a voi, alte potenze celesti,
Nel giorno fuggente ancor renda grazie con devoto canto,
Per il passato bene, per le gioie della gioventù
trascorsa,
E accogliete poi benigni a voi presso quest'uomo solo.
Góttersohn! o wàr ich wie du, so kónnt ich
vertraulich / Einem der Himmlischen klagen mein heimliches Leid. / Sehen
soli ich es nicht, soli tragen die Schmach, als gehórt ich / Nimmer zu
ihr, die doch meiner mit Trànen ge-denkt. / Gute Getter! doch hórt
ihrjegliches Flehen des Menschen, / Ach! und innig und fromm liebt ich
dich, heiliges licht, / Seit ich lebe, dich Erd und deine Quellen und
Walder, / Valer Àther und dich fùhke zu sehnend und rein / Dieses Herz
- o sànftiget mir, ihr Guten, mein Leiden, / DaB die Seele mir nicht
allzu frùhe verstummt, / DaB ich lebe und euch, ihr hohen himmlischen
Màchie, / Noch am fliehenden Tag danke mit frommem Gesang, / Danke fùr
voriges Gut, fùr Freuden vergangener Jugend, / Und dann nehmet zu euch
gùtig den Einsamen auf (i, p. 271).
In Germania il dolore si riferisce agli dèi
perduti:
No, i Beati che un giorno apparvero, Di dèi le immagini
sulla terra antica, Più non m'è lecito evocarle, ma se O acque della
patria! ora con voi Geme l'amore del cuore, che altro vuole II sacro
lutto? sta colmo d'attesa II paese e, come in giorni torridi Calato
giù, ci fa ombra oggi all'intorno, O desiose! un delo colmo di presagi.
422 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
Nicht sie, die Seligen, die erschienen sind, / Die
Gótterbil-der in dem alten Lande, / Sie darfichja nicht rufen mehr;
wenn aber, / Ihr heimatlichen Wasser! jetzt mit euch /
Des Herzens Uebe klagt, was will es anders, // Das Heilig-trauernde?
Denn voli Erwartung liegt / Das Land und als in heiBen Tagen /
Herabgesenkt, umschattet heut, / Ihr Sehnenden! uns ahnungsvoll ein
Himmel (il, p. 149; tr. it. cit., p. 207).
Con profonda consapevolezza si dice nei versi di
Terra nativa:
[...] Ma io so, io so
Che del dolore d'amore non guarirò così presto,
Nessuna ninnananna consolatrice
Come i mortali cantano, me ne allevia il petto.
Quelli che d concedono il fuoco celeste, Gli dèi ci
donano anche sacro dolore, Perciò resti qual è. Un figlio della terra
Sembro io; per amare fatto, per soffrire.
[...] aber ich weiB, / Der Uebe Leid, dies heilet so
baid mir nicht, / Dies singt kein Wiegensang den tróstend / Sterbii-che
singen, mir aus dem Busen. // Denn sie, die uns das himmlische Feuer
leihn, / Die Gótter schenken heiliges Leid uns auch, / Drum bleibe
dies. Ein Sohn der Erde / Schein ich; zu lieben gemacht, zu leiden (il,
p. 19; tr. it. dt.,pp. 51-53).
Ma l'ode Lagrime proclama come una legge:
[...] Così ovunque è dell'amore:
Ingenuo e sempre ingannato.
[...] So muB ùbervorteilt, / Albern doch ùberall sein
die liebe (il, p. 58; tr. it. dt., p. 97).
La distretta dell'esistenza e l'attesa perseverante
423
Si potrebbe quasi dire che il cuore è sofferente per
natura poiché sente; ma ciò che esso può sentire, le cose,
l'esistenza, sono chiuse in un'aporia del dolore, dalla quale non si
può uscire. Questo carattere della sofferenza per così dire a
priori e proprio anche della potenza fondamentale del cuore,
l'amore. Per Hólder-lin esso è per natura tragico. Lui stesso l'ha
vissuto in quel modo, e in tali termini appare anche nella sua opera.
Solo la piccola poesia Emilia innanzi al giorno delle sue nozze
descrive l'amore appagato. In tutte le altre composizioni, esso è
destinato a rinunciare e a perire. Esso contiene ogni fecondità e
felicità. Tuttavia non si realizza, perché in esso la condizione
dell'esistenza giunge all'esperienza vissuta di se stessa.
La poesia Lamento di Menane per Diotima è
l'elegia dell'amore per definizione, in cui il dolore si manifesta
sempre nella gioia, e la felicità nel dolore. Amore può sussistere
solo là dove avviene un incontro; ma l'incontro significa la presenza
d'una dualità, e la dualità significa divisione.
Al/onte del Danubio chiude con i versi:
[...] Ma ora mi finisce in beate lagrime,
Come una leggenda d'amore,
II canto: e così pure,
Tra vampe e pallori, dal principio
M'è venuto. Ma tutto va così.
[...] Jetzt aber endiget, seligweinend, / Wie eine Sage
der Liebe, / Mir der Gesang, und so auch ist er / Mir, mit Er-róten,
Erbiassen, / Von Anfang her gegangen. Doch alles geht so (il, p. 129;
tr. it. dt., p. 167).
Da questa esperienza nasce sempre la preghiera rivolta
alle divinità perché aiutino. In fin dei conti non
424 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
si chiede loro di alleviare questa distretta o di mutare
quel destino, ma di illuminare e liberare l'esistenza attraverso la loro
vicinanza.
Per questo ogni divinità di Hólderlin ha un legame con
il dolore. Ma alcune gli sono particolarmente vicine, le divinità
salvatrici appunto, di cui si dirà per esteso nell'ultimo cerchio. Un
passo tratto dalla terza versione dell'inno L'unico dice di loro:
[...] ma così sono quei tré, Come cacciatori in cacda
Sotto il sole, o come
Un aratore che ansante per il lavoro
Si scopre il capo, o mendicano.
Non così sono altri eroi. Ma la questione
Che mi tormenta è questa, che per distretta quali figli
di Dio
Portano su di sé i segni. Poiché anche in altro modo
Ha provveduto, convenientemente, Giove tonante.
Cristo però si destina da solo.
Èrcole è come i prìncipi. Bacco è spirito di
comunione.
[Cristo però è La fine.
[...] Jene drei sind aber / Das, da6 sie unter der Sonne
/ WieJàger derJagd sind, oder // Ein Ackersmann, der at-mend von der
Arbeit / Sein Haupt entblóBet, oder Bet-tier. / Nicht so sind andere
Helden. Der Streit ist aber, der mich / Versuchet, dieser, daB aus Not
als Sóhne Gottes / Die Zeichen jene an sich haben. Denn es hat noch
anders, ràtiich, / Gesorget der Donnerer. Christus aber bescheidet sich
selbst. / Wie Fùrsten ist Herkules. Gemeingeist Bac-chus. Christus aber
ist/ Das Ende (u, pp. 752-753).
Le parole si trovano in una poesia dedicata a Cristo. Di
fatto egli è legato soprattutto alla «distretta» o
La distretta dell'esistenza e l'attesa perseverante
425
«necessità», a quella cioè della fine. Il grande
giorno universale dell'epoca greca in cui gli dèi erano vicini e
regnava la pietà, è giunto alla fine. Gli dèi hanno preso le
distanze, e sopra gli uomini è scesa la notte della lontananza di Dio.
In questa situazione sta Cristo. Le parole del racconto evangelico sul
viaggio a Emmaus: «Resta con noi perché si fa sera e il giorno già
volge al declino» (Le 24, 29), quelle sull'ora dell'ultima cena:
«Venuta la sera, si mise a mensa con i Dodici» (Mt 26, 20) e quelle a
proposito dell'allontanamento di Giuda: «Preso il boccone, egli subito
uscì. Ed era notte» (Gv 13, 30) si associano con il mito della storia
di Hólderlin. Cristo è mandato dal Padre supremo nella distretta di
questa notte che dura dalla fine della Grecia fino all'ora del suo
ritorno. «Consola» l'uomo e istituisce, perché egli possa sopportare
la notte, la celebrazione della memoria e del ringraziamento,
l'Eucaristia. Pane e vino:
Non è molto -ed sembra lontano - quando ascesero in
alto
Tutti quelle che avevano reso felice la vita,
Quando il Padre voltò la sua faccia dagli uomini
E luttuosa tristezza giustamente cominciò sulla terra,
Apparve per ultimo allora un placido genio, un divino
Consolatore, annunzio la fine del Giorno e sparì.
E allora per segno ch'Egli era venuto e che ancora
Ritornerebbe, il coro celeste lasdò alcuni doni
Dei quali, come una volta, godere potessimo in modo
umano,
Poiché per la gioia, con lo spirito, un dono più
grande era
[troppo Tra gli uomini e ancora, ancor mancano i forti
per le più alte Gioie: ma ancora tadta qualche gratitudine vive. Pane
è di terra il frutto seppur benedetto dalla luce E dal tonante iddio
viene la gioia del vino. Per questo d fanno pensare ai celesti, che qui
426 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
Sono già stati e che a tempo giusto ritorneranno. Per
questo, pur seri, i cantori cantano il dio del vino E, non vana
fantasia, suona all'Antico la lode.
Namlich, als vor einiger Zeit, uns dùnket sie lange, /
Auf-wàrts stiegen sie ali, welche das Leben beglùckt, / Als der Vater
gewandt sein Angesicht von den Menschen, / Und das Trauem mit Recht
ùber der Erde begann, / Als er-schienen zuletzt ein stiller Genius,
himmlisch / Tróstend, welcher des Tags Ende verkùndet' und schwand, /
UeB zum Zeichen, daB einst er da gewesen und wieder / Rame, der
himmlische Chor einige Gaben zurùck, / Derer men-schiich, wie sonst,
wir uns zu freuen vermóchten, / Denn zur Freude, mit Geist, wurde das
Grófire zu gro6 / Unter den Menschen und noch, noch fehien die Starken
zu hóchsten / Freuden, aber es lebt stille noch einiger Dank. / Brot
ist der Erde Frucht, doch ists vom Lichte gesegnet, / und vom donnernden
Gott kommet die Freude des Weins. / Darum denken wir auch dabei
Himmlischen, die sonst / Da gewesen und die kehren in richtiger Zeit, /
Darum singen sie auch mit Ernst, die Sànger, den Weingott / Und nicht
eitel erdacht tónet dem Alten das Lob (il, p. 94;
tr.it. dt.,p. 141).
Il significato che hanno gli atti del far memoria e del
ringraziare per Hólderlin diventa chiaro solo in questo contesto. La
«notte» reca il pericolo che gli uomini diventino inconsapevoli dei
loro legami esistenziali, ottusi e disorientati.
Esortata ad eseguire il suo compito, la memoria si
ricorda del passato anche se non è più, e fa ricordo di ciò che è a
noi sottratto anche se non è più visibile. Alla fine della seconda
strofa, l'elegia dice:
[...] il flutto del verbo, che come gli amanti
Sia senza sonno, e più colma coppa e più audace vita
E anche memoria sacra, da stare svegli la notte12.
La distretta dell'esistenza e l'attesa perseverante
427
[...] das strómende Wort, das, wie die liebenden, sei,
/ Schiummerlos, und vollem Pokal und kùhneres Leben, / Heilig
Gedàchtnis auch, wachend zu bleiben bei Nacht (n, p.91;tr.it. dt.,p.
135).
Così la memoria supera la dimenticanza ed il sonno. La
gratitudine però accetta tutto quanto è con tutta la sua terribilità,
sapendo che in tutto vi è comunque un senso. In tal modo supera il
rancore e la disperazione.
Alla distretta della fine si contrappone quella
dell'inizio. L'inizio è il passaggio dal caos alla forma. La sua
distretta consiste nel pericolo che il caos possa rivelarsi indomabile,
che la forma non riesca e che l'ordine non si costituisca. Anche in
questo caso vi è una divinità della salvezza, Eracle. Egli doma e
costringe il caos; i mostri che vince sono gli sfoghi e i parti d'esso.
Egli istituisce ordine. Fa sì che la vita umana possa svolgersi sicura
e fecenda. Egli è legislatore e signore.
Gli è correlato l'atto religioso dell'attesa e della
fedeltà. Questo riferimento compare nella poesia di Hólderlin quando
si comincia ad avvertire il caos nella sua forma pericolosa, come alla
fine dell'inno II Reno oppure nell'abbozzo Ma quando i Celesti
... Il riferimento a Eracle è perticolarmente evidente in Maturi
sono i frutti ...ls.
[...]Emolto,
Quale sugli omeri
Un peso di ciocchi
È da conservare. Ma sono cattivi
I sentieri. Poiché fuori strada
Come cavalli, vanno i prigionieri
Elementi e le antiche
Leggi della terra. E sempre
428 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
Allo sfrenamento va una brama. Ma molto È da
conservare. E necessaria la fedeltà.
[...] Und vieles, / Wie auf den Schuitern eine / Last
von Scheitem, ist / Zu behalten. Aber bós sind / Die Pfade. Namlich
unrecht, / Wie Rosse, gehn die gefangen / Ele-ment' und alten / Gesetze
der Erd. Und immer / Ins Un-gebundene gehet eine Sehnsucht. Vieles aber
ist / Zu behalten. Und not die Treue (II, p. 197; tr. it. dt., p. 243).
Poi, astraendo da Eracle e in senso puramente
og-gettivo:
Ma ne avanti, ne indietro
Noi vogliamo vedere. Ci facdamo cullare
Come su dondolante barca del mare.
Vorwàrts aber und rùckwàrts wollen wir / Nicht sehn.
Uns wiegen lassen, wie / Auf schwankem Kahne der See (n, p. 197; tr. it.
dt., p. 243).
Qui si tratta dell'attesa pura nel caos senza luogo,
sostenuta da nient'altro che dalla volontà di resistere.
Tra inizio e fine vi è il presente. Esso significa
un'esistenza in forma caratterizzata e un destino assegnato. E il
«camminare ad occhi aperti sui propri sentieri», di cui parla l'ode Voce
del popolo. Tutti gli enti consistono in questa determinatezza
assunta da forma e destino. In ciò sta il loro carattere e il loro
volere, ma anche il loro pericolo: contomo infatti significa limite,
carattere significa distinzione. Qui nasce una distretta nuova: il
pericolo che il limite diventi una divisione, la distinzione una
lacerazione. Questa distretta - anch'essa sentita dalla profondità
della malinconia - si desta nella coscienza di Hólderlin: che
La distretta dell'esistenza e l'attesa perseverante
429
l'essere è possibile, solo quando avviene una
distinzione; ma la forma che scaturisce dalla distinzione diventa in se
stessa una prigione e verso gli altri una lacerazione. Ciò appare con
grandezza particolare all'inizio dell'inno Palmo:
[...] Ora, poi che ammassate in cerchio Stanno le
vette del tempo E i più amati abitano vidno, languendo Sui monti più
separati [...]
[...] da gehàuft sind rings / Die Gipfel der Zeit, und
die Ijebsten / Nah wohnen, ermattend auf / Getrenntesten
Bergen[...](ll,p.l65).
Anche a essa è inviato un nume, Dioniso. Egli supera la
distretta che nasce dal rapporto tra singolo e tutto, forma e ambito
originario. Quando la sua potenza prorompe con la massima forza
raggiunge quel vertice di cui già si è parlato: la vita chiusa nella
forma è «oppressa dalla sua troppa bellezza» e si getta nella morte (Heidelberg);
il popolo è «afferrato dalla voluttà di morire», e rompe «la sua
opera d'arte» (Voce del popolo). Poi la forma s'infrange e
trionfalmente si erge il tutto.
Ma ciò che qui avviene in modo tragico può svolgersi
anche in modo tale che la forma resti, vale a dire nell'incantesimo
dionisiaco. Può assumere la modalità dell'ebbrezza, in cui la forma
dimentica se stessa risolvendosi per breve tempo nella vita totale, come
si proclama alla fine di Pane e vino. Ma può rivestirsi anche
della forma apollineamente spiritualizzata della trasfigurazione,
espressa dall'esperienza di luce visionaria alla fine dell'inno II
Reno.
430 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
II rapporto religioso significa qui l'ingresso nel
dominio dionisiaco: il rischio della caduta dionisiaca, sia a partire da
originaria innocenza (Voce del popolo) sia, attraversando la
colpa, come espiazione (i drammi di Empedocle) e nuovamente ricompare
l'immergersi religioso nel mistero della trasformazione (inno II
Reno).
Ma la distretta, di cui si è parlato, può anche
rovesciarsi: che il momento culminante dionisiaco urga là dove non gli
è lecito accadere. In tal caso ciò che vive deve attendere
nell'angustia della forma imposta, accettando i legami del destino
assegnato e diventare fecondo in essi. Questo aspetto del rapporto
descrive l'inno II Reno. L'atto religioso consiste ora nel
resistere alla violenza dionisiaca - una resistenza, attuata a sua volta
con forza divina, ossia attraverso l'obbedienza all'assegnazione
stabilita dai «genitori», Etere e Terra.
In termini potentemente accentuati, lo stesso pensiero
ritorna nella terza versione di L'unico. Vi si legge:
[...] il mondo esulta sempre Lontano da questa terra,
perché la mette a nudo;
Là dove l'umano non la regge, Resta però traoda d'una
parola;
Un uomo la ghermisce. Ma il luogo era il deserto [...]
[...] Namlich immerjauchzet die Welt/ Hinweg von dieser
Erde, daB sie die / EntblóBet; wo das Menschiiche sie nicht hàlt. Es
bleibet aber eine Spur / Doch eines Wortes;
die ein Mann erhaschet. Der Ort war aber // Die Wùste
[...] (il, p. 163).
Qui incombe il rischio di «lanciarsi lontano» dalla
terra, di precipitare dal mondo in quanto tale, dalla chiara realtà
«terrena» in ciò che non ha nome, dal-
La dùtretta dell'esistenza e l'attesa perseverante
431
l'aldiqua nell'aldilà ~ un'estasi dal mondo che
significherebbe la fine. Contro di essa ci si appella a Cristo che qui,
a cospetto del «corso della natura, eternamente avverso all'uomo»,
appare come il conservatore e protettore.
Il pensiero della distretta originaria, della
possibilità aperta alla colpa e alla lacerazione insita nella natura
dell'esistenza stessa è ripreso in un senso più generale dall'ode Natura
e arte ovvero Saturno e Giove (II, p. 37). Si tratta della
contrapposizione fra le epoche del mondo, che è contemporaneamente una
contrapposizione fra i loro numi, le generazioni degli dèi; più
precisamente fra Saturno e Giove. Quest'ultimo si è impossessato del
potere che un tempo è stato di Saturno. L'epoca dell'inizio primordiale
in cui tutto giaceva nell'unità dell'inconscio, nella «culla», è
stato seguito dalla storia e dalla sua consapevolezza. Come si evince
dalla prima parte del titolo, si allude contemporaneamente alla
differenza fra la natura e le creazione culturale sostenuta dallo
spirito individuale. Saturno ha avuto il suo tempo. Adesso egli è vinto
e «si lamenta laggiù», dove ci sono coloro che sono stari abbattuti,
discesi negli inferi, i Titani. E adesso la grande scena: il vate si
eleva davanti al dio supremo e lo interpella:
Giù, dunque! o non vergognarti di ringraziare! E se
vuoi rimanere, ossequia il più antico, Accordagli che prima di tutti,
Dèi e uomini, il cantore lo nomini!
Che come dalla nuvola il tuo fulmine, Viene da lui dò
ch'è tuo, guarda! di lui
432 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
Testimonia dò che legiferi, e dalla pace Di Saturno
qualunque potenza è cresciuta.
Herab denn! oder schàme des Danks dich nicht! / Und
wilist du bleiben, diene dem ÀIteren, / Und gónn es ihm, daB ihn vor
allen, / Góttern und Menschen, der Sànger nenne! // Denn, wie aus dem
Gewólke dein Blitz, so kommt / Von ihm, was dein ist, siehe! so zeugt
von ihm, / Was du gebeutst, und aus Saturnus / Frieden ist jegliche
Macht erwachsen (il, p. 37; tr. it. dt., p. 79).
Egli si sente avvocato della totalità dell'esistenza
che invero è un'entità superiore agli dèi. Egli sa, per premonizione
visionaria, che la premessa di ogni sussistere è in pericolo e che
incombe la lacerazione: tra le epoche del mondo, ciascuna dotata di un
senso proprio, tra le divinità determinate in se stesse, tra le potenze
della vita naturale e culturale. A ciò oppone l'esigenza del
«ringraziamento» che in questo caso, riferito agli dèi, assume un
significato ontologico in senso assoluto.
Il concetto appare declinato ancora una volta
diversamente là dove si dice che gli dèi non sentono, e urgono
pertanto per entrare nel cuore per riuscire colà a sentire la propria
gloriosa magnificenza (ili, su-pra, p. 369). Nell'inno L'Istro
il pensiero si manifesta nell'immagine del cielo che scende nel fiume
sentendosi vicino agli altri dèi nel «cuore», nell'«animo» {Ge-mùt)
di quest'ultimo (il, p. 191). Nella poesia Ricordo il ruolo del
fiume è occupato dal mare. Esso stabilisce il contesto, e i navigano
che su di esso viaggiano, lo compiono:
[...] Essi
Come pittori fanno accolta
Del bello sulla terra [...]
La distretta dell'esistenza e l'attesa perseverante
433
[...] Sie, / Wie Maler, bringen zusammen / Das Schóne der
Erd [...] (il, p. 189; tr. it. dt., p. 237).
Vedono i fenomeni fra un capo e l'altro del mondo e li
conservano, ricordandoli, nel loro spirito:
[...] Ma toglie e da
Memoria il mare
E l'amore affisa assidui occhi.
[...] Es nehmet aber / Und gibt Gedàchtnis die See, /
Und die Ueb auch heftet fleiBig die Augen (II, p. 189; tr. it. dt., p.
237).
In questo contesto acquista un nuovo significato anche
il concetto hólderliniano dell'amore. Nell'ode L'addio si legge:
Sì, lo sapevo prima. Da quando il radicato
Odio che tutto scinde separa gli dèi dagli uomini,
Deve con sangue placarli,
Deve il cuore degli amanti perire.
Wohi! ich wuBt es zuvor. Seit der gewurzelte /
Allent-zweiende HaB Getter und Menschen trennt, / MuB, mit Blut si e zu
sùhnen, / Mu6 der Liebenden Herz vergehn (n, p. 24; tr. it. dt., p.
53).
Colpa originaria e sofferenza originaria ricevono la
loro forma più aspra: si trasformano in odio. Ogni entità formata odia
l'altra, poiché affermandosi nella sua strutturazione pone tra sé e
l'altro Vaut-aut. Questo «odio» è conflitto che si decide nel
cuore degli amanti.
Essi lo avvertono quando devono lasciarsi. Forse il
pensiero dev'essere sviluppato oltre: avvertono l'odio
434 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
sempre, nell'impossibilità di diventare così identici
come vorrebbero. Ma sperimentato in tal modo, nel loro cuore viene
espiato, e per il mondo viene conquistata la possibilità di continuare
ad esistere. Adesso il rapporto tra attesa e resistenza si trasforma nel
sacrificio.
L'ESSENZA E L'UNITÀ DELLE DIVINITÀ
L'ESSENZA DEGLI DÈI
Dopo tutto ciò che è stato detto sul mondo degli dèi
nelle poesie di Hólderlin, si impone la questione seguente: che cosa
sono questi dèi? La risposta è difficile, ma. si vuole almeno
tentarla.
Gli dèi sono qualcosa di enigmatico. Non solo qualcosa
di misterioso; il mistero fa parte della natura di ogni fenomeno
religioso. Sono qualcosa di più, sono enigmatici. Lo spirito indagatore
non sa come affrontarli, e l'insicurezza aumenta nella misura in cui è
deciso a farsi una ragione del loro significato. In questo essi si
distinguono dal Dio vivente della Rivelazione, la cui natura diventa
chiara nella misura in cui è sincero Io spirito nella sua indagine e il
cuore è onesto nella sua decisione di amare e obbedire. Cresce certo il
suo mistero, ma gli enigmi si diradano. Si impone un'antinomia
beatificante: il mistero di Dio aumenta, ma allo stesso tempo anche la
sua evidenza. Lo stupore e l'adorazione della sua grandezza incon-
436 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
cepibile diventano sempre più profondi. Ma
contemporaneamente lo spirito che crede presagisce che Dio sia colui che
si comprende da sé. Gli enigmi sono dalla parte dell'uomo. Il primo di
essi è: come è possibile l'uomo con la sua libertà di fare il bene,
ma anche il male? Dio invece è Colui che è impossibile non esista, che
è fondato in se stesso e comprensibile a partire da Lui medesimo. Se si
riconosce ciò, si devono però rovesciare i punti di gravita e i
criteri di misura. In questa metànoia consiste forse l'essenza
più profonda da ciò che chiamiamo «fede» ... Con gli dèi è
diverso. Essi dapprima sembrano chiari, finché li si scorge
nell'approssimativo, ossia in modo estetico, simbolico o di mistica
cosmica. Ma quando ci si pone la questione: che cos'è un dio? che cosa
significa per me? che cosa mi chiede e che cosa trovo in lui? - se
questa questione è sollevata con la serietà adeguata al tema della
salvezza, allora la risposta diventa sempre più indeterminata. Si ha la
sensazione che il fenomeno in questione sia un qualcosa, ma viceversa,
anche un niente; sembra di poter intravedere che sussista in se stesso,
che esso venga incontro all'uomo di propria iniziativa e che dall'altra
parte scaturisca solo dall'animo di chi l'incontra, che per quanto si
fondi su un'essenzialità vera, sia creato soltanto dall'interesse
dell'uomo, come un'arma per l'autoaffermazione e come uno strumento
nella lotta per il dominio sull'essere.
II
Prima di tutto occorre dire che gli dèi non sono nulla
di arbitrario. Non vengono inventati o intellet-
L'essenza degli dèi ,
437
tualmente costruiti, ma incontrati. Non scaturiscono
dalla pura fantasia. Non sono allegorie o concentra-zioni artistiche di
sentimenti o contenuti di senso, ma qualcosa di obiettivo. È tuttavia
difficile stabilire di quale genere di obiettività si tratti. La
decisione definitiva circa il senso dell'esistenza è presa davanti alla
verità e alla maestà di Dio. Le figure ed i miti degli dèi contengono
esperienze profonde del mondo e del religioso. Ma, in ultima analisi,
sono espressione del fatto che l'uomo ha abbandonato il Dio vivente,
rivendicando la signoria sopra di sé ed il mondo. Ma poiché la natura
dell'uomo è conservata in Dio, la sua decisione nei confronti di Dio
diventa anche una decisione su se stesso. Gli dèi esprimono ciò che è
accaduto alla verità ed all'onore di Dio per opera dell'uomo. In questo
modo, essi parlano anche del destino più profondo dell'uomo, poiché,
abbandonato il Dio vivente, egli è in balia del mondo e di se stesso.
Così gli dèi rappresentano, nel più profondo, la non verità e
l'ingiustizia ma non sono prodotti della fantasia perché l'uomo non
può inventare dèi a suo piacimento. Essi significano gli ambiti di
senso dell'esistenza, nella misura in cui questa non è solamente
familiare e disponibile, ma anche satura di mistero e sospesa -ma in
modo tale da essere astratta dal Dio vivente e posta in se stessa. Ogni
ente è colmo di valenza religiosa. Il fatto che Dio abbia creato il
mondo e che esso persista in ragione della sua potenza non rimane, per
così dire, davanti alle porte di questo mondo. Questo fatto non può
essere aggiunto all'esistenza o sottratto da essa, lasciando che questa
rimanga qualcosa di compiuto e di determinato in sé. Esso costituisce
anzi la forma della sua realtà. L'essere creato è
438 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
iscritto in modo indelebile nella natura di ogni cosa.
Essere-cosà significa essere opera di Dio, essere vero significa essere
operato da Dio; avere senso significa essere dichiarato da Dio degno di
esistere. Questo fatto ed il carattere che ne deriva costituiscono
quell'elemento «numinoso» di ogni ente, percepito dall'organo
religioso dell'uomo, dalla cui esperienza scaturisce la vita religiosa
immediata. Ogni ente può essere vissuto sotto diversi punti di vista
«mondani», sotto l'aspetto della sua costituzione, della sua
utiliz-zabilità e della sua bellezza, formando in tal modo la base di
scienza, tecnica e arte. Ma ogni ente può dare consapevolezza di essere
stato creato da Dio, di essere sostenuto dalla sua potenza, pervaso dal
senso conferitegli e attirato dal suo amore. Allora diventa evidente una
nuova dimensione. Al «così» si aggiunge r«altro», all'«al di qua»
l'«al di là», al noto il mistero. Tutto ciò non è avvertito come
qualcosa da chiarire attraverso una ricerca corretta, da collocare con
un saldo approccio nel contesto quotidiano, bensì come carattere
stabile. È il «sacro» o il «numinoso» nell'accezione naturale del
termine, l'obiettivamente religioso a cui è correlato il soggettivo, la
relativa esperienza e la vita religiosa che ne scaturisce.
In primo luogo, questo fenomeno numinoso rappresenta il
carattere dell'essere in generale; il fatto dell'essere creato in quanto
tale, secondo cui il tutto esiste a partire da e in vista di Dio. Ma
esso si partico-larizza anche nei diversi contesti essenziali e negli
ambiti di senso dell'esistenza: per esempio nel ciclo come ambito
dell'altezza, della luce, dello spazio, che s'inarca a volta e domina.
La potenza religiosa della creazione nel suo insieme è onnicomprensiva
e allo
L'essenza degli dèi
439
stesso tempo semplice, chiaramente avvertibile, ma non
esprimibile a parole; la potenza religiosa nell'ambito particolare,
invece, è caratterizzata in se stessa e distinta dagli altri ambiti,
per esempio dalla terra come sede della profondità, dell'oscurità,
della fecondità e della morte. Per questo è anche più facile
comprenderla ed esprimerla in immagini ed affermazioni.
Sotto l'aspetto della verità di fede queste figure
saturate di senso e di potenza religiosi rappresentano le forme
particolari del fatto della creazione. Esse testimoniano l'originalità
della creazione divina che di volta in volta produce cose «nuove» e
«specifiche». Testimoniano la serietà di Dio che da alla sua opera la
profondità e la potenza dell'esistenza vera. Annunciano il suo amore
che permea il reale di senso. Da esse deve farsi incontro all'uomo la
potenza misteriosa del mondo, toccandolo ed indirizzandolo verso Dio. Un
ciclo vissuto in questi termini, una tale profondità della terra, un
tale evento nel tempo sarebbero pervasi dalla pienezza di senso divina,
ma non sarebbero mai «dèi». Diventano tali solo quando l'uomo
dichiara il mondo autonomo e se stesso il padrone di esso, staccando la
corrente sacra, che viene dal Creatore, dalla sua origine e gettandola
verso il mondo. Allora tenta di separare la parola da Colui che parla,
il cenno dalla mano che lo da, l'opera da Colui che la compie, la
proprietà dal suo Signore. Ora quelle figure dell'esistenza vengono
poste come forme di una divinità propria del mondo stesso - ma appunto
in tal modo l'uomo diventa schiavo di questo mondo.
Qui ci sarebbe ancora molto da interrogarsi: come sia
possibile un tale processo, che cosa significhi la volontà per la
conoscenza e il peccato per la volontà,
440 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
come l'inganno si rapporti alla verità e quale potenza
possa acquistare ... Non possiamo affrontare tutto questo ordine di
problemi. Rimane tuttavia evidente che «dèi» autentici, a differenza
delle figure inventate dalla tabulazione religiosa, non sono nulla di
arbitrario. L'esistenza stessa prefigura la loro possibilità. Essi sono
le modalità in cui una decisione posta da Dio nell'essenza del mondo
viene attuata contro Lui. Perfino quando trasforma le figure del mondo
in dèi, l'uomo obbedisce all'indicazione del Dio vivente, facendogli
onore anche se nella forma del rinnegamen-to. Allo stesso modo non è
nulla di arbitrario avvertire l'essenza di un dio, contemplarne
l'immagine e pronunciarne il messaggio. Presuppone una certa dote - di
cui si abusa, bisogna aggiungere dopo quanto si è detto - la dote
appunto dell'esperienza religiosa nella sua forma più originaria
dell'incontro e della denominazione. Incontrare un dio, confermandogli
il nome e la figura sotto cui poi verrà accettato e adorato da altri,
è l'opera del genio religioso creativo, del veggente. Questo
incontrare, nominare e conferire forma, si compie di volta in volta a
partire da una situazione umana ben precisa: il contesto del tempo, del
paese e del popolo, di eventi storici preminenti, di determinati compiti
e distrette. Così la divinità che appare diventa il dio di questi
uomini, di questo paese, di questo tempo.
Attraverso la loro nascita, gli dèi ricevono il
carattere «enigmatico» di cui si parlava prima. Essi sono reali nella
misura in cui significano gli ambiti di senso e di realtà
dell'esistenza permeata di valenza religiosa. Essi sono irreali nella
misura in cui pretendono di
L'essenza degli dèi
441
essere qualcosa di autonomo. Tuttavia, proprio anche in
questa pretesa essi sono qualcosa di reale, perché rappresentano una
determinata forma del volere umano, una posizione esistenziale. La
volontà che li pone nella storia è al di là del decidersi
individuale, è la volontà di fondo dell'umanità distaccatasi da Dio.
Gli dèi esprimono questa volontà; ma così facendo determinano la
situazione di questa umanità. Poiché un'esistenza, in cui vi sono
degli dèi, voluti ed adorati, è diversa da quella in cui il solo Dio
vivente viene onorato.
Queste figure di dèi ricevono i sacrifici di coloro che
credono in loro; ma per «sacrifici» non si intendono solo doni
esteriori, bensì anche e soprattutto doni intcriori. L'uomo non dona
loro solo frutti e animali, ma anche la sua anima, le forze del suo
cuore e del suo sangue. Ora queste forze non sono solo eccitazioni che
avvengono nell'ambito dell'interiorità, o addirittura semplici
contenuti della coscienza, bensì potenze vere. Secondo la concezione
moderna, esse rappresentano un elemento solo «soggettivo», seguendo il
dogma secondo cui ogni fenomeno psicologico è un processo della
coscienza e quest'ultimo solo un dato cosciente. Da qualche tempo ci
accorgiamo che la volontà è diversa dal sapere e che il conferimento
di una forma, la facoltà di coniare immagini, si distingue dalla
volontà. Contemporaneamente diventiamo consapevoli che queste forze
dell'anima non sono niente di intcriore ed irreale, di pensato e
efficace, bensì potenze reali. Ma anche gli affetti religiosi sono
potenze reali, e del genere più forte: l'adorazione, il fervore, il
legame con il mistero; il desiderio di essere accolto nella figura qui
visibile; l'anelito
442 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
di penetrare attraverso di essa nello spazio del
mistero; la volontà di divinizzare se stesso nell'adorazione del dio e
di diventare, al servizio del dio, signore dell'esistenza. Queste forze
si concentrano nell'immagine degli dèi. Attraverso di esse questa
diventa potente. Non solo esprimendo e riconfermando correttamente il
modo in cui l'esistenza interpreta qui se stessa, ma in un senso molto
più tangibile: le forze spirituali dell'adorazione, della dedizione,
della volontà religiosa di servizio, ma allo stesso tempo di potere, si
collocano in essa e la ricolmano. Ma in tale modo questa «realtà»
rimane pur ancora apparenza. Anzi, poiché il suo senso è contrario,
essa è inganno. A questo carattere si riferisce probabilmente la
singolare espressione secondo cui gli dèi sono «nullità», ma non
«nulla». Gli dèi sono immagini ambigue; figure dell'apparenza e
dell'inganno esistenziali nell'estrema conseguenzialità; in quanto tali
però sono obiettive e dotate di grande potenza.
Nonostante ciò s'instaura probabilmente la sensazione
che questa obiettività non sia ancora sufficientemente sostenuta; che
quanto è stato detto non faccia loro superare lo stato di immagini
soggettive, ponendo al contrario in luogo della soggettività
individuale quella dell'intera umanità. In tal caso non si coglierebbe
invero in tutta la sua importanza ciò che è stato detto sulla realtà
degli atti spirituali; tuttavia, l'obiezione sarebbe corretta, e una
sola risposta porterebbe oltre: il processo che forma dèi serve in
ultima analisi al mysterium iniquitatis, che vuole erigere il suo
regno contro Dio. Mi rendo conto quale effetto questa interpretazione
debba produrre in tutti coloro che avvertono lo splendore e la ricchezza
di senso
L'essenza degli dèi
443
delle figure divine. Ma la verità non lascia scelta;
inoltre credo che questa interpretazione prenda gli dèi maggiormente
sul serio di quanto potrebbe fare una qualsiasi dottrina della cultura o
teoria del mito. La serietà che ne assume la responsabilità non è
più quella estetica, sapienziale oppure religiosa in senso generale.
Scaturisce bensì dalla consapevolezza che qui è in gioco l'onore di
Dio e la salvezza dell'uomo.
Ili
E stato detto che gli dèi sono espressione del distacco
dal Dio vivente, manifestazioni e allo stesso tempo strumenti della
volontà di gettare l'impregnazione numinosa del mondo su quest'ultimo,
rendendolo in tal modo non solo definitivamente desiderabile, ma anche
definitivamente dominabile. Ma questa volontà è la volontà generale
dell'umanità, attiva attraverso il decorso della storia. In
particolare, nell'atteggiamento religioso dell'uomo singolo come anche
del gruppo minore o dell'ora storica, il loro senso può essere
determinato ancora in modo differente. Si tratta di stabilire, in questo
caso, se il movimento dell'intenzione individuale conduce al Dio vivente
o lontano da Lui. Questo intento può assumerli come autosuggellamento
religioso nel mondo, identificandosi in tal modo come la volontà prima
da cui sono nati - ma può anche presagire dietro di loro il Dio
vivente. Non solo un essere onnicomprensivo indistinto, che
continuamente si articola in divinità singole, ma Colui che tutto ha
creato e che nei confronti di ogni cosa creata è essenzialmente diverso
ed eleva-
444 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
to in quanto la signoreggia. Se, a partire da una
predisposizione intcriore, all'orecchio si dischiude questo senso, se il
cuore, toccato dalla grazia, si risolve a questa concezione, allora gli
dèi acquistano un carattere nuovo che per origine non è loro proprio:
entrano nell'avvento. Rinunciano alla loro pretesa di autonomia
trasformandosi in presagi del Dio vivente, che ricevono poi dalla Parola
rivelatrice la loro ultima in-terpretazione. Abbiamo motivo di credere
che questa grazia regni dovunque ed in qualsiasi epoca. L'uomo può
compiere sì il tentativo titanico ed allo stesso tempo stolto di
astrarre la potenza sacra che tutto pervade da Chi la possiede come sua
proprietà, tra-endola nel mondo; ma ciò non cambia il fatto che essa
rimanga proprietà di Dio e che il mistero del mondo continui a essere
ciò che è, ossia il fatto di essere creato da Lui. In ogni momento e
dovunque l'uomo può aprirsi a questo fatto. In tal caso rivolge, più o
meno consapevolmente, il volto degli dèi che adora al Dio vivente.
Questi ricevono di conseguenza un nuovo carattere. Entrano nell'avvento,
divenendo parte del contenuto del messaggio attraverso qualche servizio
di preparazione, di interpretazione o di dispiegamento. Ma l'uomo può
anche chiudersi davanti a quella grazia e identificare la sua volontà
personale con la volontà forgiatrice di dèi della creatura
distac-catasi da Dio. Allora i numi acquistano definitivamente il senso
«pagano». Il loro volto è staccato da Dio e rivolto entro il mondo,
ed essi, per così dire, sigillano entro il mondo chi li vuole fatti
così. Questo contrasto si rinnova continuamente nel corso della storia.
Continuamente viene riproposto l'aut-aut. E esso, la diversa
dirczione in cui punta la decisione, la chiarez-
L'essenza degli dèi
445
za
maggiore o minore con cui ciò accade, ad essere all'origine del
discorso plurisenso sopra gli dèi.
Partendo da queste premesse si potrà forse dire
qualcosa anche su Hólderlin stesso. Spero che l'intero libro dia
garanzia del rispetto con cui ciò avviene.
Nella misura in cui si prende sul serio questo grande e
religioso poeta si impone la questione che cosa intenda per gli dèi di
cui parla. Tenendo conto della decisione descritta, bisognerà
rispondere che essi stanno ancora in sospeso.
In essi si manifesta quella già menzionata
denominazione e strutturazione degli ambiti esistenziali, che ha come
oggetto del suo volere il mondo; allo stesso tempo, però, sono toccati
e permeati dall'elemento cristiano. Certo ora c'è da chiedersi se
questo nuovo carattere cristiano non significhi una nuova presa di
possesso; il fenomeno di mondanizzazione a cui sono soggetti i contenuti
della Rivelazione si è continuamente ripresentato nel corso di queste
analisi e sarà oggetto di uno studio più approfondito nel quinto
cerchio. Ma non si può decidere se si tratti davvero e definitivamente
di una mondanizzazione del cristianesimo o di una nuova preparazione
della via. Ogni giudizio sul rapporto di Hólderlin con il cristianesimo
deve rimaner consapevole che il confronto con esso si è interrotto
prima di essere deciso. Senza venir meno al rispetto per il segreto
dell'animo umano non si può dire se, continuando a vivere e a pensare,
avrebbe accolto i suoi dèi definitivamente come suggelli religiosi di
un mondo autonomo o invece li avrebbe collocati nell'avvento in modo
nuovo.
E qui va posto un problema insito nell'assetto reli-
446 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
gioso più profondo dell'ultima età moderna. La verità
del Dio uno e unico è il fondamento non oltre discutibile della fede
cristiana, frutto di un superamento spirituale e religioso la cui
grandezza comincia a diventarci di nuovo evidente dal momento che quella
verità si libera dell'apparenza dell'owietà. Ma il discorso sul Dio
uno contiene un significato duplice. Uno si riferisce alla realtà sacra
stessa che si dischiude nella parola della Rivelazione, l'altro
all'appropriazione di essa da parte dell'uomo. Il primo è puro e
inattaccabile, il secondo è sottoposto ad una legge che vale per
qualsiasi valore e sia pure il più grande:
che appena entra nel campo di forza della vita umana si
manifesta in esso anche il disvalore opposto. La verità in sé del Dio
uno è quindi qualcosa di diverso dalla verità, una volta che sia
pensata e vissuta dall'uomo. In quest'ultimo caso sorge infatti il
pericolo che il rapporto concreto di Dio con le cose, la pienezza delle
forme religiose di senso vadano persi. Appena ciò accade, si ripercuote
anche sulla concezione di Dio, e l'unità diventa astrazione, l'unicità
si trasforma in vacuità.
Che cosa significhi la conoscenza del Dio uno è forse
evidenziabile nel modo migliore nella forma di un racconto: l'uomo
incontra il mistero che ovunque stende la sua trama, apprendendo come
esso si manifesti nelle cose della natura, nelle forme fondamentali
della vita umana e negli eventi della storia. Mosso dalla volontà
d'autonomia, egli interpreta il mistero onnicomprensivo, nella trama che
va tessendo, come fondo sacro del mondo, le manifestazioni particolari
come «dèi». Ora avviene la Rivelazione del Dio uno. Essa significa
un'illuminazione, ma allo stesso tempo
L'essenza degli dèi
447
un comando: riconoscere, realizzare e diventare
consapevoli vivendo che tutto ciò che in qualsiasi tempo e luogo si
testimoni religiosamente, è Lui. La proposizione del primo
comandamento, secondo cui l'uomo non deve «avere altri dèi all'infuori
di Lui» è formulata in modo negativo. Assumendo forma positiva si
presenterebbe così: ogni elemento divino, in qualsiasi tempo e luogo
diventi percepibile, non sta accanto a Lui, ma rimanda alla ricchezza
infinita in Lui. Il compito posto dalla Rivelazione del Dio uno consiste
quindi innanzi tutto nel riconfermare continuamente di fronte alle
inclinazioni dell'esistenza alla divinizzazione, la fede nel Dio uno,
rendendo onore a Lui solo. Ma oltre a ciò si tratta di riconoscere le
forme del mistero che ovunque emergono come irradiazioni della sua
unicità e di includerle nella sua immagine. Credere nel Dio uno
significa quindi conquistare per lui costantemente la ricchezza numinosa
del mondo. Ora, nella misura in cui l'unicità di Dio diventa dominante,
nasce l'apparenza che essa sia ovvia. Il superamento e la conquista in
cui si sostanzia il carattere vero e proprio della Rivelazione sembrano
superflui. Quell'organo talmente vivo nell'ambito religioso precristiano
ed extracristiano, la sensibilità per il divino onnipresente e per
l'eterogeneità delle sue testimonianze, si atrofizza - lo spirito
dell'uomo prende possesso della verità rivelata che è un mistero ed un
superamento continuamente rinnovato nel mondo. La volontà d'unità
propria del pensiero, la volontà d'ordine insita nel sentimento etico,
la volontà religiosa di potere si ripercuotono sull'unicità di Dio e
inavvertitamente il Dio vivente della Rivelazione è sostituito dal Dio
uno del «monoteismo» ... È naturalmente dif-
448 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
ficile stabilire come il processo si sia svolto nei
particolari e fino a quel punto si sia spinto poiché queste cose sono
molto intricate e occulte. Ma talvolta è abbastanza evidente come quel monótheos
rimuova il Dio vivente. Il risultato ne è che non viene in assoluto
percepito più religiosamente. La religione diventa allora metafisica o
etica o ordinamento giuridico. Questo Dio non ha più il rapporto
esperibile con la ricchezza delle cose e degli eventi. Un assoluto
astratto sta di contro a un mondo sdivinizzato.
Nella misura in cui ciò accade, la Rivelazione stessa
svela un compito particolare da assolvere: quello di scoprire, al
cospetto di questa 'monomorfìa' religiosa che conduce alla monotonia,
all'indifferenza e all'impotenza, la perduta molteplicità del numinoso
... Ma non per erigere le figure di esso come «dèi» contro il Dio
vivente, bensì per creare nuovamente le premesse per la realizzazione
di quella proposizione secondo cui non vi sono «altri dèi all'infuori
di Lui», e ogni divinità anzi è Lui stesso. La fede nel Dio vivente
della Rivelazione si manifesta sempre solo nella forma della «vittoria
che supera il mondo» (1 Gv 5, 4). La scoperta di cui parlavamo deve
creare la premessa perché questa vittoria, che realizza il senso della
Rivelazione, venga ottenuta e Dio sia nuovamente riconosciuto dallo
spirito e dal cuore come vivente risposta religiosa a tutte le domande,
venga acquisito a partire dalle manifestazioni del mondo come Creatore e
Signore immediatamente presente in esse. Allora la concezione di Dio
diventa nuovamente così reale da includere la realtà della natura e
della storia, trasformandole in opere della sua potenza e in
testimonianze della sua gloria.
L'essenza degli dèi
449
È qui che si colloca, nell'ottica cristiana, la
questione ultima circa il senso della poesia e dell'esistenza di
Hólderlin; è forse stato il suo compito servire questo evento?
Annunciare la potenza religiosa e la ricchezza di forma del mondo
affinchè diventasse evidente che cosa fosse il Dio Vivente e Uno? Anche
questa questione deve rimanere senza risposta dal momento che Hólderlin
s'è chiuso nel silenzio prima che la sua lotta religiosa giungesse alla
fine. Il fatto che la sua opera si sia interrotta e che da allora
rimanga in sospeso costituisce l'enigma religioso della sua opera e
della sua figura.
L'UNITÀ DEGLI DÈI
II primo paragrafo di questo cerchio ha tentato di
distinguere più precisamente le molteplici figure hól-derliniane della
divinità e di precisare il luogo che ciascuna occupa nell'insieme
dell'esistenza. In tale processo è già risultato chiaro che esse
costituiscono un'unità.
I poli del loro contesto sono dati dall'Etere e dalla
Terra. Essi significano la divinità dell'altezza e dell'interiorità,
della luce e della tenebra, del dominio e della sopportazione, della
signoria e della fecondità, infine, come padre del mondo e grande
madre, dell'elemento maschile e femminile nell'esistenza.
Tra di loro, ma ancora vicini agli ambiti dei poli,
stanno le divinità del sole e del mare. Apollo e Posi-done. Talvolta
sono talmente vicini a quelle potenze estreme da confondersi con loro,
ma certo non senza dar loro un impronta particolare.
Nell'ambito medio stesso, nello spazio dell'uomo, vige
lo spirito del tempo, il nume del divenire e del perire, della storia.
Coesiste con esso e per diversi aspetti gli è simile Dioniso. In quanto
«spirito» an-ch'egli gioca tra la figura individuale e il tutto
determinandone la relazioni. Ma mentre lo spirito del tempo compie ciò
nello spazio della storia, dell'azione e
452 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
dell'opera, Dioniso agisce dalla e nella natura
immediata. Tuttavia, essi sono talmente vicini che le loro immagini si
compenetrano continuamente.
Poi sono stati nominati numi che in particolar modo
portano i tratti del mistero: il «Dio in noi» che si manifesta nel
fenomeno della solitudine e della comunità; il «Dio senza nome» che
certo significa l'ultimo carattere dell'esistenza; infine il «Dio
nuovo», termine con cui ci si riferisce ad una divinità non ancora
rivelatasi.
Saturno, infine, è prima di tutti quelli nominati in
precedenza. Rappresenta il nume della natura nel suo stato primordiale,
beato e unitario, la divinità dell'inizio come anche la divinità
dell'attesa, ventura ricapitolazione in unità.
In questo contesto hanno un ruolo particolare gli dèi
riferiti alla necessità e distretta: i grandi salvatori, Eracle, Cristo
e - ricomparendo a nuovo in questa funzione - Dioniso. Sono correlati al
pericolo del primo inizio e del caos, a quello della fine e della notte
seguente, infine a quello della figura caratterizzata.
È significativo constatare le divinità che mancano o
che sono nominate solo raramente, così per esempio Era, la sposa di
Zeus, dea della famiglia e della casa, Artemide, sorella di Apollo o
divinità della natura intatta ed estranea, Ermete, il nume degli ambiti
di passaggio, dell'ambiguità, dell'inganno ... proprio questa mancanza
testimonia l'originarietà dell'esperienza che Hólderlin ha degli dèi.
Se li conoscesse solo su di un piano nozionistico, ci sarebbero
certamente tutti. Soprattutto non mancherebbero figure che hanno un
ruolo così importante nel mondo delle rappresentazioni
tradizionali-umanistiche, come Era, e,
L'unità degli dèi
453
come Afrodite e Atene, non farebbero apparizioni così
fugaci.
La selezione deve quindi basarsi su un'esperienza di
divinità polimorfa che scaturisce da determinate premesse individuali
ed epocali. Così si potrebbe approfondire la questione quali premesse
si presentino o quale effetto abbiano in particolare. Ma ciò non può
essere fatto in questa sede.
II
I numi di Hólderlin sono figure reali. Ognuna ha un
particolare centro di senso, le sue proprietà caratteristiche, l'ambito
d'azione che le è ordinato, distinguendosi in tal modo da tutte le
altre. A ogni divinità corrisponde un particolare sentimento di pietà
religiosa nell'uomo. Quanto siano forti queste differenze lo si evince
dal fatto che il veggente vede nascere in loro il pericolo primordiale
della lacerazione. Nonostante ciò, gli dèi costituiscono un'unità.
Hólderlin la sottolinea continuamente, sentendosi investito del compito
di conservarla nonostante tutti gli impulsi alla dissoluzione. Dobbiamo
ora indagare in che cosa consista.
Già gli elementi atmosferici della sua poesia, per
così dire, rappresentano importanti forze d'unità, soprattutto la
commozione religiosa che si eleva continuamente all'esaltazione, alla
visione, nonché lo stile linguistico che costantemente raggiunge i toni
dell'inno. Così nasce una tonalità che unisce a priori tutte le
figure ancor prima che siano note le relazioni che intercorrono fra di
loro. Lo stesso effetto è raggiunto
454 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
dall'uso del termine «sacro». Un'analisi più
approfondita rileva che esso ricompare continuamente mutando significato
in modo infinitamente eterogeneo, attraversando come un elemento la
poesia di Hólderlin e stabilendo un'unione nonostante tutte le
divisioni.
Un ulteriore momento d'unità è dato da certe forme
anonime della divinità che continuamente ricompaiono e che Hólderlin
designa con i termini «geni», «forze divine», «forze dell'altezza»
e simili. Significano qualcosa che è emanato dalle grandi figure
divine, nitidamente spiccante, e che ritorna a loro, il fluire e tessere
che si svolge fra loro. Talvolta prendono il posto delle divinità
stesse in modo da apparire come preforme fluenti, come materiale primo
numinoso, per così dire, da cui possono scaturire dèi. Tutto ciò che
agisce nella natura può essere una tale forza geniale, e ci si ricorda
del maria dei primitivi che allo stesso modo vige ovunque,
determinandosi in ogni cosa. Nella stessa dirczione vanno le figure di
passaggio di cui si è fatta menzione già più volte, i semidei. Essi
stanno tra la divinità e l'uomo, discendendo dal divino, come Eracle,
oppure salendo dall'ambito umano, come, poniamo, Rousseau. Essi stanno
anche tra le divinità e le cose, come per esempio un fiume, il Reno.
Attraverso di loro, come anche attraverso i geni, viene stabilita una
continuità tra le diverse figure dell'esistenza e in tal modo si
costituisce un contesto che unisce fra loro anche gli dèi.
L'ipotesi che gli dèi stessi formino, nonostante i
precisi contomi della loro figura, un'unità è suggerita da diverse
circostanze.
Innanzi tutto dal fatto che un dio può surrogare
L'unità degli dèi
455
l'altro. Tali rapporti appaiono tra l'Etere e Apollo,
tra Posidone e la terra, addirittura tra Posidone e il ciclo, come anche
tra lo spirito del tempo e Dioniso e tra Dioniso e l'Etere.
A questo contesto per così dire costruttivo ne risponde
anche uno nel tempo. È già stato mostrato e verrà approfondito
ulteriormente nel quinto cerchio come le diverse divinità siano
correlate a tempi diversi, in modo che ognuna consegna, appena ha
termine il proprio tempo, il suo lavoro all'altra. In tal modo nascono
«campi» d'attribuzione che vengono di volta in volta dominati da una
divinità ben precisa, ma che sono uniti dal corso della storia che li
attraversa.
Ogni assegnazione viene dal Padre supremo. Ciò
costituisce un nuovo contesto: quello della generazione e della missione
patema. I diversi dèi sono inseriti nell'unità di un circolo di vita,
correlati fra di loro dalla comunanza d'un dominio riferito alla storia.
Un altro contesto diventa evidente là dove i figli non
emanano più dal Padre supremo e questo medesimo sta di fronte alla
Terra che gli è pari. Tra di loro vi è la tensione etema che
continuamente si risolve nell'unità e si dissolve nella lontananza. Di
essa, da cui nasce ogni vita, narra il mito del cielo e della terra che
trova una continuazione in quello della storia, del fiume e dello spazio
come in quello del ritorno di ciò che è stato.
Tutti questo contesti si riferiscono a uno primordiale,
che è alla base di essi, e che sarà oggetto del seguente cerchio: la
natura.
456 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
NOTE
1. Qui si può ricordare l'Empireo nella Divina
Commedia di Dante, che è al tempo stesso spazio cosmico oggettivo,
sfera di senso intellettuale e ambito d'interiorità religiosa, anzi
mistica e di grazia; vedi R. Guardi-ni, DerEngel in Dantes GSttlicher
Komodie, pp. 101 ss.; tr. it. in Studi su Dante, MorceUiana,
Brescia 19863, pp. 11-130.
2. II significato di quest'affermazione può essere
illustrato da paesaggi di El Greco e di Vincent van Gogh.
3. Il fenomeno del dionisiaco potrebbe essere descritto
in modo molto ricco e unitario anche a partire dalle poesie su
Empedocle. Queste rappresentano addirittura il dramma dell'uomo
dionisiaco, mettendo tuttavia in evidenza che il suo rapporto con
l'esistenza e con se stesso è determinato dalla colpa. Perciò la sua
fine non è solo puramente culminazione della vita, ma anche espiazione
(iv, infra, p. 576).
4. I due ultimi versi sono tradotti qui da G. Vigolo
dalla prima versione, quindi qui resi autonomamente (n.d.r.).
5. Si noti che la disarmonica traduzione «l'amata, il
sole del ciclo» è condizionata dal fatto che il sole in tedesco è die
Sonne, femminile (n.d.r.).
6. Wilhelm Waiblinger (1804-1830), poeta tedesco, autore
precoce di una commedia satìrica e di una tragedia, che dalla lettura
di Iperione e dalla conoscenza personale con Hólderlin fu spinto
a scrivere il romanzo Phaeton (1823); scrisse poi Holderlins
Leben, Dichtungund Wahrheit (n.d.r.}.
7. Considerando l'immagine complessiva che l'opera
di Hólderlin fornisce della divinità, ci si accorge presto che quanto
qui è detto non esaurisce la totalità del fenomeno. Esiste anche
l'amore degli stessi dèi, la loro stessa interiorità, il loro cuore.
Questo è un altro aspetto della realtà:
l'amore come potenza dell'essere, che sta di fronte allo
splendore della sua perfezione. Amando, gli dèi non sono olimpicamente
lontani, ma bisognosi di vicinanza e di comunicazione reciproca.
8. Qui il termine «Olimpo» viene usato in un'altra
accezione. Esso allude appunto alla sfera di comunione degli dèi con
gli uomini, certo a sua volta distìnta dall'esistenza immediata.
9. Il fenomeno conosce una sua rappresentazione
significativa nella poesia di Riike. Secondo lui, le cose sono date
dapprima sotto la forma dell'essere obiettivo. In quello stato esse sono
«visibili». Si trovano cioè -se la nostra interpretazione è corretta
- nella prima realtà che massicciamente si impone ai sensi, ma che
proprio per questo è chiusa e transitoria. Appena l'uomo le percepisce
amando e vivendo, esse giungono nel-l'«invisibile», nello spazio
intcriore del cuore e quindi dell'esistenza in quanto tale. Là esse
divengono autentiche e imperiture. Vivere l'espressione delle cose,
trasportandole cosi nello spazio dell'invisibilità, conferendo loro la
forma del cuore che le rende vere non solo più di prima, ma
propriamente appena ora - questo è il compito dell'uomo. Nella nona
delle Elegie duinesi si legge:
«Celebra all'angelo il mondo, non l'indicibile, a lui
davanti
Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso
457
grandeggiare non puoi di superbo sentire; nell'universo,
dove egli penetra con sensi ben più forti di tè,
un novizio tu sei. Mostragli dunque le semplici cose
che, come nostre, da
una generazione
vivono all'altra, accanto alle mani e agli occhi.
Digli le cose. S'arresterà stupefatto; come tu
t'arrestasti
presso il cordaio di Roma e il vasaio del Nilo.
Mostragli quanto felice può essere una cosa e quanto
innocente e nostra,
come perfino il dolore e il lamento si schiudono in pura
forma,
e come una cosa servono, o in una cosa muoiono -, e di
là
in gioia sfuggono al violino. - E queste cose che nel
passare
vivono capiscono che tu le glorifichi; caduche,
esse affidano a noi, i più caduchi di tutti, l'istanza
salvifica.
Vogliono che noi intere le muriamo nel cuore invisibile
in oh, all'infinito in noi! Chiunque alla fine noi
siamo.
Terra, ciò che vuoi non è questo: risorgere invisibile
in noi? - Non è questo il tuo sogno:
essere una volta invisibile? - Terra! Invisibile! Che
mai, se non metamorfosi, è il tuo imperativo incalzante?».
«Preise dem Engel die Welt, nicht die unsàgliche, ihm
/ kannst du nicht groBtun mit herrlich Erfùhitem; im Weltall, / wo
er fuhiender fuhit, bist du ein Neuling. Drum zeig / ihm das Einfache,
das, von Geschlecht zu Geschlechtern gestaltet, / als ein Unsriges lebt,
neben der Hand und im Blick. / Sag ihm die Dinge. Er wird staunender
stehn; wie du standest / bei dem Seiler in Rom, oder beim Tópfer am
Nil. / Zeig ihm, wie glùc-klich ein Ding sein kann, wie schuidlos und
unser, / wie selbst das kla-gende Leid rein zur Gestalt sich
entschlieBt, / dient als ein Ding, oder stirbt in ein Ding -,
undjenseits / selig der Geige entgeht. - Und diese, von Hingang/
lebenden Dinge verstehn, daB du sie rùhmst; vergànglich, / traun sie
ein Rettendes uns, den Vergànglichsten, zu. / Wollen, wir sol-len sie
ganz im unsichtbarn Herzen verwandein / in - o, unendiich in uns! wer
wir am Ende auch seien // Erde, ist es nicht dies, was du wilist:
unsichtbar / in uns erstehn? - Ist es dein Traum
nicht, / einmal unsichtbar zu sein? - Erde! unsichtbar! / Was, wenn
Verwandiung nicht, ist dein drangender Auftrag? (Atisgew. Werke,
i, pp. 74-75; tr. it cit, pp. 414,417,422). Lo spazio dell'interiorità
ha per Riike un particolare significato ontologico. Di per sé
l'esistenza è data dai due ambiti dell'aldilà e dell'aldiqua,
dell'ultraterreno e del terreno; entrambi sono tuttavia ambiti del mondo
e corrispondono alle zone hólderliniane della semplice terra e
dell'Olimpo a noi sottratto.
Là sono gli uomini, qui i morti. Lo spazio
dell'interiorità non coincide con nessuno di questi ambiti e non
costituisce nemmeno uno strato più profondo di essi, ma rappresenta una
modalità dell'essere che supera la distinzione di aldiqua e aldilà,
l'essere in quanto tale. Vedi a proposito la lettera di Riike a Witold
von Hulewicz:
458 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento
religioso
«Ciò che importa è non solo di non denigrare e di non
abbassare tutto ciò che esiste qui, ma precisamente, per amore della
loro fugacità che partecipano con noi, tutù questi fenomeni e queste
cose devono essere concepiti in un intelletto più intcriore e là
trasformati. Trasformati? Sì, giacché il compito nostro è di
imprimere in noi questa terra provvisoria e caduca in modo cosi
profondo, cosi sofferto e appassionato, che il suo essere risorga in noi
'invisibile'. Noi siamo le api dell'invisibile». E ancora:
«Le cose animate, le cose vissute che sanno insieme con
noi, sono in declino e non possono più essere sostituite. Noi siamo
forse gli ultimi che hanno ancora conosciuto simili cose. Su di noi sta
la responsabilità di conservare non soltanto la loro memoria
(questo sarebbe poco e malsicuro), ma il loro valore umano e larico
('larico' nel senso delle divinità della casa, i Lari). La terra non
possiede altra via d'uscita che quella di divenire invisibile: in
noi che partecipiamo con una parte del nostro essere all'invisibile,
siamo azionisti (almeno) dello spirito e possiamo accrescere la nostra
proprietà d'invisibile durante il nostro essere qui, in noi
soltanto può adempiersi questa intima e permanente trasfigurazione del
visibile nell'invisibile, non più dipendente da ciò che si vede e si
afferra, come anche il nostro proprio destino diviene in noi di continuo
insieme più presente e invisibile" {Briefe aus Muzot, p.
334; cfr. tr. it. Lettere da Mvnoi, Vallecchi, Firenze 1947).
Ecco cosa intende Hólderlin quando afferma che il dio
inizialmente olimpico avverte se stesso nel cuore dell'uòmo - detto
diversamente: che l'uomo è unito con il dio, altrimenti a lui
sottratto, nell'interiorità del suo animo religioso. In esso vi è
l'essere in quanto tale, che solo adesso è mondo, «natura».
10. W.F. Otto lia chiaramente fatto emergere il fenomeno
nel suo libro Die Getter Griechenlands, Bonn 1929 (tr. it. Gli
dèi della Grecia, Nuova Italia, Firenze 19682).
11. Johann Jakob Wilhelm Heinse (1746-1803), poeta e
romanziere tedesco, preromantico, autore di Sinngedichte (1771),
di una vita del Tasso, di romanzi (Ardinghello, 1787, e Hildegard
von Hohenlhol, 1795, di argomento legato in parte all'Italia - n.d.r.).
12. Vedi in proposito il significativo «vegliare» nel
racconto sugli avvenimenti nel Getsemani in Mt 26, 37-41.
13. Il titolo hólderliniano della poesia è Mnemosine,
ripreso da G. Vi-golo (n.d.t.).
14. Queste riflessioni dovrebbero trovare il supporto di
studi più approfonditi. La coscienza medievale si distingueva da quella
moderna, fra l'altro per il suo modo di sentire la realtà. Per l'età
moderna è reale, in senso stretto, solo il dato materiale; il dato
intellettuale e spirituale è contenuto di coscienza e in quanto tale
irreale. Per l'uomo di allora, invece, era l'anima a essere reale più
del corpo, e lo spirito più delle forze naturali. All'interno del
reale, in genere, distìngueva gradi di realtà, determinandoli a parure
dal conferimento di senso derivante dall'intenzione intcriore. La
dottrina agostiniana della realtà che attraversa tutto il medioevo ne
è
Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso
459
l'espressione più chiara (vedi in proposito R.
Guardini, Die Bekehrung dts Heiligen Aurelius Auguslinus Mùnchen
19502, pp. 132 ss; tr. it La conversione di Sant'Agostino,
Broscia 1957, pp. 128 s). Il medioevo era anche consapevole della
realtà delle immagini e dei simboli. Non rappresentavano, come in età
moderna, segni estetici o sociologico-convenzionali per ciò che è
inteso soggettivamente ma figure piene di potenza. La più intensa di
esse era il sacramento, seguita da tutta una serie di immagini
liturgi-che: riti, arredi, costruzioni ecc. Ad essi si opponevano
simboli illegittimi, immagini di una potenza ribelle, malvagia. Qui si
troverebbero le premesse d'esperienza vissuta e le possibilità di
concezione e di pensiero per discutere della natura degli dèi. Senza di
essi è molto difficile parlare validamente degli dèi, sia a favore che
contro di loro. Il fenomeno minaccia continuamente di scivolare nello
storico e nell'estetico-simbolico o, ultimamente, nello psicologico. Ma
gli strumenti intellettuali necessari alla trattazione di esso,
concetti, criteri di differenziazione ecc., sono disponibili solo in
misura del tutto insufficiente. Le riserve fatte all'inizio di questo
paragrafo devono quindi essere nuovamente sottolineate d'ora in poi con
la maggior forza.
ROMANO GUARDINI
HÓLDERLIN Immagine del mondo e religiosità
Postfazione di Giuseppe Beschin
Volume secondo
MORCELLIANA
Titolo originale dell'opera:
Holderlin. Weltbild und Fromnigkeit
© Kósel Verlag - Mùnchen 19803 © Tutti i
diritti d'autore sono della
Katholische Akademie in Bayern
Traduzione del testo di Guardini di Ludwig Tieck
Revisione di Giulio Colombi
© 1995 Editrice Morcelliana Via Gabriele Rosa 71 -
25121 Brescia
In copertina:
Caspar David Friedrich, Viandante sul mare di nebbia (Hamburg,
Kunsthalle)
Prima edizione: novembre 1995
ISBN 88-372-1584-3
Tipolitografia La Nuova Cartografica S.p.A. - Brescia
1995
Quarto cerchio La natura
NOTA INTRODUTTIVA
Parlare della natura significa parlare di tutto ciò che
è importante per Hólderlin. Essa per lui non significa solo il
contesto della realtà empirica indagabile scientificamente o l'insieme
delle cose e degli eventi abbracciato con il sentimento o con
l'intuizione, bensì qualcosa di divino, anzi qualcosa oltre ogni
realtà divina.
La rappresentazione che Hólderlin si fa della natura
non muta, ma si trasforma nel suo modo di apparire, acquistando una
profondità sempre maggiore. La nostra analisi segue questo mutamento dviVIperione
alle poesie tarde, passando per i drammi dedicati ad Empedocle.
IPERIONE
L'OPERA E IL SUO CONTENUTO
II romanzo epistolare è costituito da sessantadue
lettere, distribuite in misura disuguale in due volumi, che a loro volta
si articolano ciascuno in due libri. La maggior parte, quarantadue, sono
indirizzate da Ipe-rione, un giovane greco dell'isola di Tino1,
al suo amico Bellarmino che è italiano o almeno vive in Italia.
Inserite fra loro o riprodottevi, si trovano tredici lettere di Iperione
alla sua amica Diotima e quattro di quest'ulama indirizzate a lui;
infine un resoconto da parte di un amico della famiglia di Diotima sulla
sua morte.
Un istinto giusto ha fatto scegliere a Hólderlin questa
forma letteraria. Il racconto continuato, soprattutto quando si anima,
non fa per lui. La forma epistolare, invece, gli permette di scomporre
l'intera vicenda nella descrizione di situazioni e stati d'animo. Il
fatto che un simile procedimento renda solo in parte ragione ad un
contesto d'azione, da certo adito a critiche legittime.
466
Quarto
cerchio - La natura
Iperione ritoma nella sua patria greca da un viaggio in
Germania - ritroviamo la già analizzata tensione Occidente-Oriente - e
racconta ora delle esperienze fatte nel periodo precedente. Ha passato
la sua gioventù a contatto con la natura e nella scuola di un insigne
maestro, di nome Adamas. Questi gli ha insegnato a comprendere l'unità
tra natura e storia antica, e la storia eroica della sua patria.
Successivamente lascia il suo allievo; ha appreso che «nella
profondità dell'Asia» vive un popolo fuori dal comune, e spera di
poter realizzare là le proprie idee. La ricchezza della gioventù
spinge ora Iperione lontano. Suo padre lo manda a Smirne, ed impara a
conoscere l'Asia Minore, la sede delle antiche colonie greche. Quando
comincia a stancarsi di apprendere, sognare e fare progetti incontra
Alabanda, un giovane magnanimo, e tra loro nasce un'amicizia
appassionata che da luogo a «progetti colossali» di azioni future.
A poco a poco egli si accorge che il suo amico è in
disaccordo con se stesso e apprende che Alabanda fa parte di una
confraternita segreta, i cui mèmbri non hanno un livello morale molto
alto. Profondamente deluso, lo lascia ... Il secondo libro inizia in
modo più ottimistico. Con la primavera si dissolve lo scoraggia-mento
profondo in cui ha vissuto dopo la separazione dal suo amico. Seguendo
un invito, va sull'isola di Calàuria2, si aggira lungamente
per il paesaggio immerso nella luce primaverile ed incontra infine una
ragazza la cui madre vive colà sui suoi possedimenti, Diotima. Essa
diventa per Iperione l'incarnazione di tutto ciò che significano natura
ed esistenza greco-antica. Frequentandola, il suo essere inquieto si
calma e riconosce il suo compito di formare lo spirito e il
L'opera e il suo contenuto
467
cuore del proprio popolo, preparandolo in tal modo alla
liberazione dal dominio straniero. Un viaggio intrapreso con Diotima
alle rovine di Atene comporta insieme all'esperienza del passato immenso
anche il culmine della loro comunione. Così termina il secondo libro e
con esso il primo volume.
Il presagio della sventura che s'avvicina introduce il
secondo volume. Nella «traboccante vita eroica» di Iperione giunge
infatti una lettera di Alabanda che gli comunica la dichiarazione di
guerra della Russia alla Turchia, proclamando che è scoccata l'ora per
liberare la patria. Diotima mette l'amico in guardia. Gli rinfaccia di
volersi gettare in un'avventura invece di compiere un lavoro silenzioso.
Ma poiché egli persiste nella sua intenzione, lo lascia andare.
Iperione sa che anche suo padre sarebbe contrario all'impresa e la tenta
senza informarlo. Mentre per lui tutta l'esperienza vissuta si proietta
all'estemo, per Diotima essa si volge alla dimensione delle profondità.
Nella sua solitudine vive l'intera vicenda con una partecipazione
talmente forte da far presagire una crisi. Le lettere di Iperione
parlano dapprima di successi. Poi le sue azioni diventano precipitose.
Durante l'assedio di Misistra3, assiste a un saccheggio
accompagnato da un inutile spargimento di sangue. Il suo entusiasmo
crolla. L'impresa gli sembra disprezzabile; rinuncia a se stesso e prega
Diotima di lasciarlo. Il padre lo ha già abbandonato dopo aver appreso
dell'impresa precipitosa. Così egli si sente completamente solo ...
L'inizio dell'ultimo libro racconta una battaglia navale nello stretto
tra Chio e la costa dell'Asia Minore. Iperione spera di morire, ma viene
solo ferito. Quando riprende coscienza, dopo essere stato a lungo svenu-
468 Quarto cerchio - La natura
to, anche la pressione intema si allenta. Vivendo con
Alabanda, sente rinascere le forze e riconosce che la sua lettera a
Diotima è stata precipitosa. In questa situazione lo raggiunge la
risposta di lei, scritta sotto l'impressione di quella lettera. Ciò che
per lui rappresenta solo un frammento di un movimento di vita che
contìnua è stato interiorizzato da lei secondo la sua natura e preso
per definitivo. Ella ha veramente rinunciato a lui, perdendo in tal modo
però anche il contatto con la vita e gli dice ora addio. Iperione spera
di poterla riconquistare con una nuova lettera. Non vede che è accaduto
qualcosa di irrevocabile. Ancora un'altra separazione gli viene imposta.
Alabanda gli comunica che deve partire. Per via delle guerre di
liberazione sarebbe venuto meno agli obblighi che si era assunto nei
confronti di quella confraternita segreta. Ciò significherà la sua
morte. Inoltre gli fa capire di amare anch'egli Diotima e di temere per
la pace degli amici nel caso della sua permanenza. Iperione parte per
Calàuria e sosta in prossimità dell'isola. In quest'ora, la cui
gravita inferiore è espressa dal «canto del destino», giunge una
lettera di Diotima che gli svela l'irrevocabilità dell'accaduto. Il
poscritto di un amico gli comunica la sua morte. Il crollo di tutte le
possibilità di vita risospinge Iperione lontano. Viaggia verso la
Germania, trovandovi la controparte della sventura che tiene in
schiavitù il suo stesso paese: qui servitù e ottusità, là
illuminismo, utilitarismo e presunzione. Ma infine, dopo un lungo
periodo di scoraggiamento, si desta un futuro nuovo e durante un
«mezzogiorno bellissimo» di primavera sperimenta il ritomo di Diotima.
Ritrova il contatto con la vita e si prepara ad un nuovo inizio. Qui
cessa la trama.
L'opera e il suo contenuto
469 II
II veloce riassunto ha già lasciato intravedere la
trama della vicenda intcriore che attraversa il romanzo, i cui punti
focali sono dati dai due amanti; e per quanto il carattere epico
dell'opera nel suo complesso possa essere inadeguato, il modo in cui le
sue figure si sviluppano nel loro mutuo rapporto è molto bello.
La vicenda è vista in retrospettiva; così subentra
silenzio, e traspare il senso. Alla fine del racconto Ipe-rione ha
concluso la sua gioventù. È diventato un uomo e si prepara a iniziare
da capo. La dismisura del suo essere ha trovato limite e forma; è stato
raggiunto un nuovo punto fermo oltre la gioventù. Ciò è dimostrato
dalle osservazioni disseminate nelle lettere a Bellarmino e soprattutto
dall'esperienza visionaria alla fine.
Iperione cresce nella chiarezza e nella ricchezza di
forme della sua patria greca. La sua infanzia è legata all'espressione
più amena di quest'ultima, l'isola nel mare, quell'ambiente il cui mito
è raccontato dalla poesia L'uomo. La seconda lettera parla della
beata unità fra il bambino che cresce e la natura che lo circonda.
Infatti, per Hólderlin, in ogni bambino si ripete la situazione del
primo uomo che vive ancora nell'unità di tutto con tutto (II, supra,
p. 160). Retrospettivamente, il narratore esprime in parole ciò che
allora era inesprimibile:
O felice natura! Non mi so render conto di dò che
avviene in me quando levo lo sguardo verso la tua bellezza, ma tutto il
gaudio del delo è nelle lacrime che io verso per tè, come l'amante per
la sua amata. Tutto il mio essere ammutolisce e sta in ascolto quando le
470 Quarto cerchio - La natura
delicate onde del vento giocano intomo al mio petto.
Perduto nell'ampio azzurro del cielo, levo spesso lo sguardo su verso
l'etere e giù verso il mare sacro, e mi sembra che uno spirito fraterno
mi apra le braccia e che il dolore della solitudine si sdolga nella vita
della divinità. Essere uno con il tutto, questo è il vivere degli
dèi; questo è il delo dell'uomo.
Essere uno con tutto rio che vive e ritornare, in una
felice dimenticanza di se stessi, nel tutto della natura, questo è il
culmino dei pensieri e della gioia, è la sacra cima del monte, è il
luogo dell'eterna quiete, dove il meriggio perde la sua afa, il tuono la
sua voce e il mare che freme e spumeggia assomiglia all'onde di un campo
di grano (il, p. 91; tr. it. cit., p. 29).
Nelle diverse ore decisive della vita di Iperione:
l'incontro con Adamas, con Diotima e il momento del
ritorno di quest'ultima, l'esperienza dell'unità nella natura si
ripresenta ... In questa unità e ricchezza è cresciuto il bambino:
Sì, un essere divino è il fanciullo sino a che non si
mimetizza nei camaleontici colori degli uomini. Egli è totalmente
quello che è, per questo è tanto bello. La costrizione della legge e
del destino non lo ha ancora toccato; nel fanciullo non è che libertà.
In lui è pace; egli non è ancora entrato in conflitto con se stesso.
Ricchezza è in lui; egli conosce il suo cuore, non conosce l'indigenza
della vita. Egli è immortale, perché nulla sa della morte (il, p. 93;
tr. it. cit., p. 31).
Anche Dio viene implicato in quest'unità:
E quando spesso giacevo sotto i fiori e riflettevo alla
luce delicata della primavera, e guardavo in alto nell'azzurro sereno,
che avvolgeva la calda terra, quando, sotto gli olmi e i salici, sedevo
nel grembo del monte, dopo una pioggia ri-
L'opera e il suo contenuto
471
storatrice, quando i rami tremavano ancora sotto la
carezza del cielo e, al di sopra del bosco gocciolante, passavano nubi
dorate, o quando la stella della sera, spirando pace, si levava
all'orizzonte, con gli antichi adolescenti, gli altri eroi del delo, e
io osservavo come la vita si svolgesse in essi secondo un naturale,
spontaneo, etemo ordine attraverso l'etere, e la calma del mondo mi
circondava e mi allietava, così che osservavo e ascoltavo senza
rendermi conto di quanto accadeva in me - «mi ami, buon Padre
celeste», domandavo sommessamente, e sentivo, nel mio cuore, la sua
risposta così sicura e beatificante.
O tu, che io invocavo come se tu abitassi oltre le
stelle, tu, che io chiamavo creatore del delo e della terra, amico idolo
della mia fandullezza, non ti adirerai se ti ho dimenticato! - Perché
il mondo non è abbastanza misero, da indura a cercare ancora Uno al di
fuori d'esso? (il, pp. 94-95; tr. it. dt., p. 32).
Ma ben presto inizia la separazione:
Bello è anche il tempo del risveglio, pur che non ci
desd prima del tempo.
Oh, sacri sono i giorni nei quali il nostro cuore prova
per la prima volta le ali, quando noi, colmi della rapidità e
fo-cosità della cresdta, stiamo in mezzo al mondo magnifico, simili a
una giovane pianta che si apre al sole del mattino e tende le piccole
bracda verso il cielo infinito (il, p. 94; tr. it. dt., p. 31).
In questo stato agitato in cui si eleva l'infinito e si
profila il pericolo della lacerazione, compare la figura del maestro,
Adamas. Essa costituisce un abbozzo preliminare della figura di
Empedocle. Adamas è più piccolo di statura e privo delle possibilità
sovrumane del siciliano avvolto dall'aura del mito. In compenso, però,
è diventato saggio e capace di esercitare un influsso perdurante:
472 Quarto cerchici - La natura
Ero cresciuto simile a una vite senza sostegno, e i
tralci selvatici si allargavano al suolo senza una dirczione. Tu sai
come più di una nobile energia vada da noi in rovina, perché non viene
utilizzata. Andavo errando, come un fuoco fatuo, mi aggrappavo a tutto e
a mia volta ogni cosa mi si attaccava anche soltanto per quel momento e
le mie maldestre energie si spossavano inutilmente. Sentivo ovunque che
qualcosa mi mancava, e, tuttavia, non potevo raggiungere la mia mèta.
Così egli mi trovò.
Per lungo tempo aveva esercitato pazienza e arte intorno
alla sua materia, il così detto mondo colto, ma la sua materia era
pietra e legno e tale era rimasta, prendeva tutt'al più esteriormente
la nobile forma umana, ma dò non bastava al mio Adamas; egli voleva
uomini e, per crearli, aveva ritenuto troppo povera la sua arte. Un
tempo erano vissuti gli uomini che egli cercava, per creare i quali la
sua arte era troppo povera; egli lo riconosceva chiaramente. E sapeva
anche dove erano vissuti. Colà voleva andare e cercare, sotto le
macerie, il loro genio e accorciare, in tal modo, le sue solitàrie
giornate. E arrivò in Grecia. Così lo incontrai (il, p. 97; tr. it.
dt., p. 34).
Egli dischiude al ragazzo la ricchezza della natura:
Poco tempo dopo, il mio Adamas mi introdusse nel mondo
degli eroi di Plutarco e, quindi, nella terra incantata degli dèi gred,
poi diede ordine al mio giovanile impulso e lo placò con il senso del
numero e della misura; a volte, di giorno, saliva con me sui monti per
contemplare i fiori della brughiera, del bosco e i selvaggi muschi della
rupe e, di notte, al di sopra di noi, le stelle sacre, e comprenderle
secondo l'umana misura.
Uno squisito senso di benessere è in noi quando così
il nostro inumo si rafforza al contatto del suo oggetto, se ne distingue
e ad esso si congiunge con maggior fiduda e il nostro spirito
gradualmente si arma (II, pp. 9&-99; tr. it. dt., p. 35).
L'opera e il suo contenuto
473
Allo stesso modo gli fa conoscere la grandezza del
passato:
Ma io sentii lui assai fortemente e me stesso, quando
noi, simili ai Mani dei tempi antichi, con orgoglio e con gioia, con ira
e con lacrime, navigavamo su verso l'Athos e, di là, verso l'Ellesponto
e poi, oltre ancora, lungo le rive di Rodi e le gole del Tenaro4,
fra tutte le isole serene, quando, poi, la nostalgia ci spingeva al di
là delle rive, entro il fosco cuore dell'antico Ellesponto, alle
solitàrie rive dell'Eurota - ah! le morte valli di Elide e di Nemea e
di Olimpia, quando noi, appoggiati a una colonna del tempio del
dimenticato Giove, circondati da allori, da rose, da sempreverdi,
guardavamo giù verso il selvaggio letto del fiume, e la vitalità della
primavera e il sole eternamente giovane d rammentavano che, un tempo,
anche l'uomo aveva abitato colà, e che ora ne è scomparso, che ora la
splendida natura dell'uomo vi è ancora a stento presente, simile al
frammento di un tempio o, nella memoria, all'immagine di un morto (II,
p. 99; tr. it. cit., pp. 35-36).
Adamas indica al ragazzo l'obiettivo più alto.
Contemplando sul Cinto l'aurora:
Sii come questi, mi gridò Adamas; mi afferrò la mano e
la sollevò verso il dio e a me sembrava che le brezze del mattino d
trasdnassero via con sé e d conducessero entro il corteo dell'essere
sacro, che stava salendo verso la sommità del delo, amico e grande,
colmando in modo meraviglioso, con la sua forza e con il suo spirito, il
mondo e noi (II, p. 101; tr. it. dt., p. 37).
Ora il giovane è interamente pervaso dalla forza della
sua aspirazione entusiastica:
O felice natura, come animoso balzò il giovane fuori
dalla tua culla! Come si rallegrava nella sua armatura non prima
474 Quarto cerchio - La natura
saggiata! Il suo arco era teso e i suoi dardi
tintinnavano nella faretra e gli immortali, gli airi spiriti
dell'antichità lo guidavano, e il suo Adamas era in mezzo a loro.
Ovunque andassi o sostassi, quelle magnifiche immagini mi
accompagnavano; simili a fiamme, gli eventi di tutti i tempi si
fondevano nella mia mente e come si congiungono in un solo trionfante
temporale le forme gigantesche, le nubi del delo, così si riunivano in
me le cento e cento vittorie delle Olimpiadi e divenivano una sola
infinita vittoria (il, p. 104; tr. it. dt., p. 39).
L'impeto interiore e le immagini della natura che da
fuori rispondono e l'incalzare della storia passata sospingono al largo:
Chi resiste a tutto dò, e chi non viene schiantato
dalla terribile magnificenza dell'antichità, così come un uragano
schianta le giovani foreste, quando esso le afferra come ha afferrato me
e quando, come a me, anche a lui manca l'elemento ove poter attingere
una fortificante cosdenza di sé? Oh, a me, a me piegò il capo la
grandezza degli antichi, essa mi strappò il fiore dal volto e sovente
giacqui io là dove occhio alcuno non mi scorgeva, effondendomi in
lacrime, simile a un abete abbattuto, che giace presso il torrente e
cela nelle onde la sua chioma appassita ... Quanto volentieri avrei
pagato con il mio sangue un solo attimo della vita di un grande uomo!
Ma quale vantaggio ne ricavavo? Nessuno mi voleva! (il,
p. 104; tr. it. dt., p. 39).
Il mondo protettore dell'isola diventa troppo angusto;
così i genitori di Iperione lo mandano a girare il mondo:
«Anzitutto, recati a Smirne», disse mio padre,
«impara là le arti del mare e della guerra, impara la lingua dei
popoli colti e le loro costituzioni, le loro opinioni, i loro costumi
L'opera e il suo contenuto
475
e usi, esamina tutto e scegli quanto vi è di meglio.
Poi, per quanto sta in me, potrai andare altrove». «Impara anche un
po' di pazienza!», aggiunse mia madre, e io accolsi con gratitudine
queste parole (il, p. 106; tr. it. cit., p. 40).
Adesso appare un altro paesaggio caro a Hólder-lin: le
cime delle montagne e gli altopiani liberi dell'Asia Minore. Iperione
conosce la vastità del mondo, e l'energia che intcriormente lo incalza
viene liberata. Impara a conoscere anche gli uomini. Dapprima lo
affascina la novità delle figure, poi il suo animo impaziente trova
inciampo nella loro imperfezione. Si trova in questo stato quando
incontra Alabanda, circonfuso da tutto il fulgore dell'efebo eroico:
Lo splendido straniero si aggirava, simile a un giovane
titano, in mezzo a quella folla di nani, la quale si pasceva, con Umida
gioia, della bellezza di lui, ne misurava la statura e la forza e
godeva, contemplandolo con uno sguardo furavo, l'aspetto di
quell'ardente testa romana abbronzata, come un frutto proibito, ed era,
ogni volta, stupendo l'istante in cui l'occhio di quest'uomo, per lo
sguardo del quale il libero etere sembrava troppo angusto, vagava
ricercando con distaccato orgoglio finché non si ritrovava nel mio
occhio e noi arrossendo seguivamo l'un l'altro con gli sguardi e
passavamo oltre (il, p. 112; tr. it. cit., p. 45).
Imparano a conoscersi da vicino, e fra loro nasce
un'amicizia appassionata:
Le nostre anime dovettero accostarsi l'un l'altra con
tanto maggiore impeto in quanto, contro la loro volontà, erano rimaste
reciprocamente chiuse. Ci incontravamo così come confluiscono l'uno
nell'altro due torrenti che, rimbalzando giù dal monte, allontanano da
sé il fango, i sassi, il legno putrido e tutto il greve caos che li
trattiene per
476 Quarto cerchio - La natura
aprirsi il corso dell'uno verso l'altro e straripare fin
là dove, congiungendosi e fondendosi, uniti in una sola maestosa
corrente, si avviano verso l'ampio mare.
Egli, cacciato dalla propria casa qua e là fra
stranieri, dal destino e dalla barbarie degli uomini, sin dalla prima
giovinezza amareggiato e inselvatichito, e, tuttavia, con il cuore pieno
d'amore e del desiderio di spezzare la sua inuma ruvida scorza per
entrare in un accogliente elemento, io già nel mio inumo separato da
ogni cosa, io, con tutta la mia anima estraneo e solo fra gli uomini,
così beffardamente accompagnato nelle più care melodie del mio cuore
dallo strepito di sonagli del mondo, io, l'antipatia di tutti i ciechi e
di tutd gli storpi e, tuttavia, troppo storpio e troppo cieco, tanto
cordialmente molesto a me stesso in tutto quello che mi rende anche da
lungi affine ai prudenti, ai sofisti, ai barbari e agli spiritosi vacui
- e così pieno di speranza, così pieno di un'unica attesa di una vita
più bella (il, pp. 114-115; tr. it. cit., pp. 47-48).
In entrambi arde l'amore per la patria ridotta in
schiavitù. Durante lunghi viaggi si scambiano ricordi e progetti.
L'atmosfera diventa esaltata. Così cresce una tensione intcriore che
esplode quando incontrano amici di Alabanda, mèmbri di una società
politica segreta che, senza scrupoli, tenta di realizzare i propri
obiettivi. Alabanda ha qualcosa di ambiguo. Simile di carattere, in
fondo, a Iperione, è però cresciuto senza guida e si è legato al
luogo sbagliato. Così si trova in una situazione complicata,
dall'idealismo impaziente di Iperione si salva con l'ironia e la beffa,
provocando la catastrofe:
Allora anche la mia indignazione si scatenò pienamente
in me, ne ci concedemmo sosta sino a che un ritorno non fu quasi più
possibile. Devastammo con violenza il giardino del nostro amore.
L'opera e il suo contenuto
477
Sostavamo sovente e tacevamo, e d saremmo buttati le
braccia al collo così volentieri e con gioia infinita, ma l'infausto
orgoglio soffocava .ogni parola d'amore che saliva su dal cuore (il, p.
129; tr. it. dt., pp. 57-58).
Iperione è un uomo privo di equilibrio, smisurato nei
suoi sentimenti e nelle sue decisioni; necessiterebbe perciò di un
influsso che lo disciplinasse e fortificasse. Ma Alabanda stesso è
lacerato, e non fa che rafforzare lo stato d'animo dell'amico. Non può
dare il sano realismo che unicamente aiuterebbe Iperione;
il suo è mera contraffazione. Così l'ampliamento
dell'animo fallisce. Lo spirito ricade in sé e cerca asilo nella patria
abbandonata:
Esaminai con maggior calma il mio destino, la mia fede
nel mondo, le mie sconsolate esperienze, considerai l'uomo così come,
sin dalla prima giovinezza, l'avevo sentito e conosduto nella varietà
della sua educazione, trovai ovun-que dissonanze ottuse o stridenti e
trovai ancora melodie pure solamente nella semplice infantile
limitatezza. È meglio, mi dissi, diventare un'ape e costruirsi con
innocenza la propria casa che dominare insieme con i signori del mondo
e, simile ai lupi, ululare con loro, piuttosto che dominare sui popoli e
lordarsi le mani a una materia impura. Volevo tornare a Tino e vivere
per i miei giardini e i miei campi.
Non sorridere! Ci pensavo molto seriamente. Se la vita
del mondo consiste nell'altemarsi dello schiudersi e del chiudersi,
nell'usdre di sé e nel ritornare in sé, perché non può accadere la
medesima cosa al cuore dell'uomo? (il, p. 130; tr. it dt., p. 58).
Segue un periodo di «lunga, malata tristezza»:
Vivevo a Tino molto tranquillo e con pochissime pretese.
Lasdavo pure realmente che le apparenze del mondo mi
478 Quarto cerchio - La natura
passassero innanzi proprio come nebbie in autunno e, a
volte, ridevo anche, con occhi umidi, del mio cuore, quando si levava a
volo verso di esse per spilluzzicare come fa l'uccello con l'uva
dipinta: e me ne rimanevo calmo e sereno.
Lasciavo volentieri a ognuno la sua opinione, la sua
mala-grazia. Mi ero convcrtito, e non volevo più convenire nessuno; mi
addolorava soltanto il vedere che gli uomini credevano che io lasdassi
senza biasimo le loro buffonerie perché le stimassi molto, così come
essi facevano. Non volevo affatto sottomettermi alla loro stupidità,
tuttavia, là dove potevo, le usavo riguardo. Questa invero è la loro
gioia, pensavo; di ciò vivono essi!
Qualche volta mi compiacevo addirittura di accomunarmi a
comportamenti come i loro e, quando ero insieme a loro, così
indifferente, senza un mio impulso proprio, nessuno lo notava, nessuno
ne sentiva la mancanza e, se io avessi detto loro di scusarmene,
sarebbero rimasti là immobili, si sarebbero stupiti e avrebbero
domandato: Che cosa ci hai dunque fatto? Gli indulgenti! (il, pp.
133-134; tr. it. dt., p.61).
Ma poi si ridesta la forza della tensione intcriore:
Ma niente è più bello di quando, dopo una così lunga
morte, nuovamente albeggia in lui; e il dolore, come un fratello, va
incontro alla gioia che traluce di lontano. Oh, era un celeste presagio
quello con il quale ora salutai la primavera che stava ritornando! Come
quando ogni cosa dorme e da lontano pervengono, nell'aria silenziosa,
gli accordi della cetra dell'amata, così le sue sommesse melodie
avvolgevano delle loro note il mio petto, come se giungessero
dall'Elisio, presentivo il loro avvento quando i morti rami si muovevano
e un alito soave sfiorava la mia guancia. Amabile cielo della Jonia! mai
mi sono sentito così avvinto a tè, ma il mio cuore non era neppur mai
stato così simile a tè, come allora nei suoi giochi sereni e delicati.
Chi non sente nostalgia delle gioie dell'amore e di grandi gesta, quando
la primavera ritoma nell'occhio del delo e nel grembo della terra?
L'opera e il suo contenuto
479
Mi alzai in silenzio, dolcemente e lentamente, come un
malato dal suo letto, ma il petto mi trepidava così felice di
misteriose speranze, che dimenticai di domandare che cosa ciò
significasse (II, p. 137; tr. it. dt., pp. 63-64).
Dalla prima lettera del secondo libro traspare
un'atmosfera mutata nel narratore stesso. Egli si trova a Salamina
vivendo con la natura e i vecchi narratori della grande storia. Questa
presenza è la comice entro cui viene descritto il risveglio di un
tempo. Un conoscente, Notara, aveva invitato Iperione sull'isola di
Calàuria. La lettera che parla del viaggio è una autentica poesia:
E gli uomini usavano fuori dalle loro porte e sentivano
in modo meraviglioso come il soffio spirituale agitasse legger-mente i
delicati capelli sulle fronti e rinfrescasse il raggio di luce, ed essi
sdoglievano lied le vestì per accoglierlo nel petto; respiravano più
dolcemente, sfioravano più delicatamente il mare chiaro, leggero,
allettante, nel quale vivevano e si muovevano.
Oh, sorella di quello spirito che domina e vive in noi
con potente ardore, aura sacra! come è bello l'essere accompagnato da
tè ovunque diriga i miei passi, onnipresente, immortale!
L'alto elemento giocava con i bambini nel modo più
bello. Uno bisbigliava tranquillamente fra sé e sé, a un altro
sgorgava dal labbro una canzone senza ritmo, a un altro un canto di
giubilo a piena gola; uno se ne stava sdraiato, l'altro saltava in alto,
un altro si aggirava assorto nei suoi pensieri.
E tutto questo era l'espressione di un solo benessere
ed una sola risposta alle carezze delle aure ammalianti. Ero tutto
pervaso da un indescrivibile desiderio e da un senso di pace. Una forza
a me ignota mi dominava. Spiritò amico, dicevo tra me, verso dove mi
chiami? verso l'Elisio o verso dove? (il, pp. 147-148; tr. it. dt., p.
71).
480 Quarto cerchio - La natura
Tutte le possibilità per un rinnovamento ci sono.
Improvvisamente incontra Diotima:
[...] così levasti tu lo sguardo e ti alzasti in piedi
e stavi così là, in snella formosità, divinamente calma e il celeste
volto ancora raggiante di quella serena estasi nella quale d turbai! Oh,
colui che ha fissato la tranquillità di quello sguardo, colui per il
quale si sono aperte quelle dola labbra, di che cosa ancora può
parlare? (Il, p. 148; tr. it. dt., p. 72).
E ancora:
L'ho veduta una volta, l'unica, realtà che la mia anima
cercava e la perfezione che noi collochiamo lontano al di sopra delle
stelle, che noi proiettiamo fino alla fine del tempo, questa perfezione
l'ho sentita presente. Era là, questo essere supremo, là in questa
sfera della umana natura e delle cose esistenti (il, p. 150; tr. it.
cit., p. 73).
Questa è la prima decisiva impressione: la vita
tranquillamente raccolta, la quiete intcriore, il carattere della
perfezione e il diventar presente dell'intemporale.
Il tempo dell'irruzione sfrenata e della corrispondente
depressione è seguito da un nuovo inizio. Tutte le forze si destano e
si concentrano. Ciò che nell'adolescente ha provocato il maestro, nel
giovane lo provoca la donna amata. La sua forza più grande è la quiete
intcriore che si radica nell'interiorità del cuore e si manifesta in
una figura limpida. Ella è diversa dal silenzio ottuso dello spazio
illimitato (II, p. 214); diversa anche dalla quiete di Adamas che con
l'autodisciplina si è liberato dal caos della gioventù. La quiete di
Diotima è fin dall'inizio una qualità dell'essere, una perfezione
donatale per somma grazia. In lei si
L'opera e il suo contenuto 481
manifesta qualcosa che sta al di sopra dell'uomo: il
mistero del Tutto sacro.
Ella è l'entusiasta silenziosa' (II, p. 176).
L'esistenza di Diotima ha due poli. Uno è situato
nella natura:
II suo cuore era di casa fra i fiori, come se ella fosse
un fiore. Li chiamava tutti per nome, per amore ne creava, per essi, dei
nuovi e più belli; e conosceva con predsione, di ognuno, la stagione
più lieta.
Come una sorella, quando, da ogni angolo, le viene
incontro uno dei suoi cari e ognuno desidererebbe essere salutato per il
primo, così la silenziosa creatura, quando camminavamo sul prato o nel
bosco, era occupata con l'occhio e con la mano, felicemente distratta. E
ciò non era affatto cosa studiata o frutto di imitazione, bensì
cresciuta con lei (II, p. 155; tr. it. dt., p. 77).
Allo stesso tempo, tuttavia, vive anche nell'ambito
ristretto dell'esistenza domestica riempiendola tutta. Della sua casa si
dice:
Ah! tutto era consacrato, abbellito dalla sua presenza.
Ovunque volgessi lo sguardo, tutto dò che io sfioravo, il suo tappeto,
il suo cusdno, il suo tavolino, tutto era segretamente in unione con lei
(il, p. 152; tr. it. dt., pp. 74-75).
In mezzo sta, limpidamente presente, la sua figura. Il
suo potere è l'interiorità, l'unità dell'esistenza nella forza
amorosa del cuore.
La natura di Diotima è quindi l'esatto opposto del
continuo alternarsi in Iperione di riflessione autodi-struttrice ed
ebbrezza d'azione esteriore, in tal modo ella aiuta l'amico a
concentrarsi e a calmarsi:
Non ho conosduto nessuno così privo di bisogni, così
divinamente contento di sé.
482 Quarto cerchio - La natura
Come le onde dell'oceano, le rive delle sue isole felid,
così il mio inquieto cuore avvolgeva con le sue onde la calma della
celestiale fanciulla.
Nulla avevo da darle se non un'anima piena di selvaggi
contrasti, piena di sanguinosi ricordi, nulla avevo da darle se non il
mio amore sconfinato con i suoi mille affanni, le sue mille tumultuanti
speranze; ma ella stava innanzi a me nella sua immutabile bellezza,
spontanea, in una sorridente perfezione e ogni aspirazione, ogni sogno
della mia mortale esperienza, ah! tutto dò che, dalle più alte
regioni, il genio può presagire nelle dorate ore del mattino era tutto
colmo nella serenità di questa unica anima (II, p. 158; tr. it. dt.,
pp. 79-80).
Ella lo capisce interamente:
Quando ella, che tutto sapeva in modo meraviglioso,
scopriva a me stesso, quando si manifestavano, e ancor prima che io lo
notassi, ogni accordo e ogni dissonanza nel profondo del mio essere,
quando notava ogni ombra di una leggera nuvola sulla mia fronte, ogni
ombra di malinconia, di fierezza sul mio labbro, ogni scindila a me
nell'occhio, quando ella auscultava la bassa e l'alta marea del mio
cuore e, con preoccupazione, intuiva le ore torbide, quando il mio
spirito troppo intemperante e troppo prodigo di sé si consumava in
discorsi prolissi, quando l'amata creatura, più fedelmente di uno
specchio, denundava ogni mutare della mia guanda e, sovente, con
affettuosa solledtudine, mi ammoniva e mi puniva per la mia
irrequietezza, come se fossi stato un caro bambino [...] (il, pp.
162-163; tr. it. dt, p. 83).
Egli può dire:
Sotto l'impulso di Diotima, già da lungo tempo si era
stabilito, nella mia anima, un maggiore equilibrio; oggi lo sentivo tré
volte più puro, e le energie disperse ed esaltate erano radunate tutte
in un solo aureo mezzo (il, p. 183; tr. it. dt., p. 97).
L'opera e il suo contenuto
483
Vicino a lei, riconosce il suo compito. Assolverlo
significherebbe superare la smisuratezza del suo essere a partire
dall'autentico 'mezzo' - anzi in assoluto suscitare questo 'mezzo':
«Nell'officina, nelle case, nelle riunioni, nei templi,
ovun-que, muti tutto.
Ma io devo ancora andarmene per imparare. Sono un
artista, ma la mia mano è ancora inesperta. Nel mio spirito so creare
forme, ma non so ancora guidare, in ciò, la mia mano».
«Tu andrai in Italia», disse Diodma, «in Germania, in
Francia. Quanti anni d sono necessari a dò? tré, quattro, pensò che
tré possano bastare; tu non sei lento nel tuo agire e cerchi soltanto
quanto vi è di più grande e di più bello». «E poi»?
«Tu sarai l'educatore del nostro popolo, diventerai un
grande uomo; lo spero» (il, p. 199; tr. it. dt., p. 109).
Ma a cospetto dell'amico si sviluppa anche la
personalità di Diodma:
Dove è l'essere che, come il mio, l'abbia riconosduta?
In quale specchio confluivano, come in me, i raggi di questa luce? Non
si spaventò ella stessa gioiosamente innanzi alla propria splendida
grandezza, quando ella acquistò coscienza di sé nella mia gioia? (II,
p. 161; tr. it. dt., p. 82).
L'ultima lettera di lei narra come si è destata grazie
a lui:
Ti trovai così come sei. La prima curiosità della vita
mi sospinse verso il tuo essere meraviglioso. La tua delicata anima mi
attirò in modo indidbile e, nella mia ingenua, infantile mancanza di
paura, giocai intorno alla tua pericolosa fiamma (il, p. 250; tr. it.
dt., p. 149).
484 Quarto cerchio - La natura
Ella partecipa alla sua grandezza in cui spera:
E quando ti abbraccerò così, allora sognerò di essere
una parte dell'uomo magnifico, come se tu mi avessi donato la metà
della tua immortalità, come Polluce a Castore5, oh, sarò
un'orgogliosa fanciulla, Iperione! (il, p. 199; tr. it. dt., p. 109).
La loro comune esperienza culmina in un viaggio alle
rovine di Atene (II, pp. 182 ss.). Là il sentimento del passato si fa
altrettanto grande come l'esigenza posta dal futuro. I colloqui citati
sopra sul compito di Iperione si sono svolti in quelle ore. Durante quel
tempo diventa anche consapevole dell'unità ultima, di cui Hólderlin
sa:
Sacra natura! Tu sei sempre eguale in me e fuori di me.
Non deve essere cosi difficile congiungere dò che è fuori di me, con
il divino che è in me. All'ape riesce di costruire il suo piccolo
regno, perché non dovrei io poter piantare e costruire dò che è
necessario?
Che? L'arabo mercante seminò il suo Corano e ne crebbe,
per lui, un popolo di seguaci, simile a un bosco sconfinato, e non
dovrebbe essere ferule il campo dove la verità antica ritoma in
giovinezza di nuova vitalità? (II, pp. 198-199; tr. it. dt., p. 109).
Con questo culmino finisce il primo volume. All'inizio
del secondo l'unità si rompe. Nell'amore di Iperione e di Diotima vi è
fin dall'inizio qualcosa di tragico che scaturisce dalla dismisura del
giovane, ma anche dalla «perfezione» di Diotima. Il suo essere
possiede una tale purezza della sostanza e una tale profondità del
sentire da determinarla ad un destino assoluto. È la nobiltà a cui si
riferisce Nietzsche quando dice che per l'uomo nobile, che sta al limite
del
L'opera e il suo contenuto
485
trapasso, i valori alti provocano la fine. Ciò che di
distruttivo contiene l'essere di Iperione, per lei diventa mortale. Per
la sua natura si tratta dell'assolutezza dell'affetto, come in un
bambino completamente assorbito dall'ora: con essa spariscono anche gli
affetti e ne subentrano di nuovi. Diotima ama Iperione, e accoglie
perciò le esperienze di lui all'interno della sua esistenza molto più
nobile.
Ma nella quiete di quest'ultima, tutto assume un peso
completamente diverso. Dalla sfera della fantasia passa a quella della
serietà. Ciò che per Iperione significa solo un'esperienza vissuta
passeggera, che proprio grazie alla sua veemenza sortisce un enétto
liberatore, diventa per lei il destino. Iperione dimentica, la sua vita
contìnua lasciando il vissuto dietro di sé. Diotima non può
dimenticare. Ella invece deve sopportare tutto fino in fondo e ciò
conduce alla fine.
Nell'ora in cui l'amore dei due prorompe e pienamente
divampa, si desta anche la consapevolezza della dismisura ed il presagio
della sventura:
Ella si staccò da me. Tutto il mio essere si infiammò
in me, quando disparve alla mia vista, in tutta la sua luminosa
bellezza. «O tu», gridai e mi precipitai dietro di lei ed effusi con
infiniti bad la mia anima nella sua mano. «Dio!» esclamò ella, «che
avverrà in futuro di tutto dò!» (il, p. 178; tr. it. dt., p. 94).
II presentimento ritorna:
Mi pareva come se improvvisamente e in modo inspiegabile
il destino avesse giurato morte al nostro amore, e ogni vita in me e
fuori di me era spenta (il, p. 180; tr. it. dt., p. 95).
486 Quarto cerchio - La natura
Onde foriere della disgrazia ventura, illuminate dalle
espressioni di lutto e pentimento fatte dal narratore in retrospettiva.
L'evento lacerante viene da fuori, attraverso la lettera
di Alabanda che desta in Iperione tutto il suo desiderio di grandezza,
ma anche quanto v'è in lui di smisurato e selvaggio, accompagnati da
quella debolezza che spesso si cela dietro la passionalità.
Contemporaneamente si fa sentire la gelosia nei confronti dell'amico:
II volto mi bruciava per la vergogna, il cuore mi
ribolliva come una sorgente di acqua calda, e non potevo star fermo in
luogo alcuno. Mi addolorava l'essere stato scavalcato da Alabanda,
superato per sempre (II, p. 206; tr. it. dt., p.115).
La gelosia si riferisce in primo luogo alla grandezza e
alla gloria, inconsciamente però anche a Didima. Semplicemente per il
fatto di esserci, i due giovani devono combattere per la ragazza. Alla
fine Alabanda lo dirà infatti in tutta sincerità. Diotima avverte ciò
che di errato v'è nell'atteggiamento di Iperione. Ella sa che gli è
assegnato il lavoro tranquillo e che solo attraverso di esso può
maturare. Adesso, egli si sottrae alla destinazione, richiamando su di
sé così la fatalità. Ella lo avverte, «calma e grave»:
«Anche se ciò è giusto», disse ella, «tu non sei
nato per
questo» [...]
«Ciò altro non è che vana presuntuosità», replicò
Diotima,
«poco tempo fa eri più modesto quando dicevi che
dovevi
ancora andartene per imparare» [...]
«Conquisterai», esclamò Diotima, «e dimenticherai a
quale
scopo? E se tutto andrà bene, quando avrai ottenuto con
L'opera e il suo contenuto
487
la violenza un libero Stato, dirai a quale scopo lo hai
costruito? Ah! tutta la nobile vita che si doveva muovere in esso andrà
sciupata anche in tè stesso! La lotta selvaggia ti frantumerà, o
nobile anima, tu invecchierai, o beato spirito, e alla fine, stanco di
vivere, domanderai: dove siete, ora, ideali della giovinezza?» (il, pp.
207-208; tr. it. dt., pp. 11&-117).
Ma poi cede, e il colloquio si chiude tragicamente:
Piangeva amaramente e io stavo, come un criminale,
dinanzi a lei. «Perdonami, divina fanciulla!» esclamai sprofondando
dinanzi a lei, «io devo! Non scelgo, non rifletto. Una forza agisce in
me e io non so se sono ancora io stesso a spingermi verso questa
decisione». «Tutta la tua anima tè lo comanda», rispose ella. «Non
obbedirle conduce sovente a rovina, ma anche obbedirle, forse. La cosa
migliore è che tu vada, perché è dedsione più grande. Agisci tu; io
sopporterò» (il, pp. 208-209; tr. it. dt. pp. 117-118).
Così, la disgrazia getta fin dall'inizio la sua ombra
sull'impresa i cui sviluppi costituiscono solo il primo passo.
All'inizio tutto si precipita in avanti con audacia. Iperione vive con
Alabanda nella stessa intimità entusiasta come ai tempi di Smime e
parla all'amica della ricchezza delle orgogliose esperienze che sta
vivendo. Le lettere di Diotima, invece, rievocano continuamente l'ordine
a cui egli dovrebbe propriamente appartenere. Mettono in luce la
dismisura che lo sospinge, senza tuttavia poterla arrestare. In lei
tutto è come dovrebbe essere in Iperione, ed ella traduce ciò che fa e
vive nella schietta serietà del suo essere:
Ho ricevuto, mio Iperione, le lettere che mi hai scritte
durante i tuoi spostamenti. Tu mi afferri potentemente con
488 Quarto cerchio - La natura
quanto mi scrivi e, chiusa entro il mio amore,
sovente rabbrividisco a vedere mutato in questo essere gagliardo il
giovane mite che ha pianto ai miei piedi. Non disimparerai l'amore?
Prosegui tuttavia per il tuo cammino! Io ti seguo. Credo
che, anche se tu mi potessi odiare, se pure in dò addirittura io
provassi il tuo stesso sentimento, mi darebbe pena l'odiarti, e così le
nostre anime rimarrebbero uguali, e dò non è, o Iperione, una parola
vanamente esagerata (II, pp. 232-233; tr. it. dt., pp. 135-136).
Ella spera, sostenuta da una forza che egli stesso non
ha:
Addio! Porta a fondo l'opera tua, così come il tuo
spirito ti comanda e non far durare troppo la guerra, per amore della
pace, o Iperione per amore di quella nuova, bella, aurea pace, per la
quale, come tu dicevi, si scriveranno un giorno nel nostro codice le
leggi della natura, dove la vita stessa, dove essa, la divina natura che
non può venir scritta in nessun libro, sarà nel cuore della comunità.
Addio! (il, p.233; tr.it.dt.,p. 136).
Tanto più bruscamente irrompe la catastrofe. Iperione
la sente arrivare ed è debole abbastanza da attribuirne la
responsabilità, seppur con sommessa espressione, a Diotima:
O mia Diotima! tu avresti dovuto placarmi, avresti
dovuto dirmi di non avere troppa fretta, e di estorcere man mano la
vittoria al destino, come agli avari debitori. O fandulla, restare
inattivi è la cosa di tutte più diffidle. Mi si secca il sangue nelle
vene, tale è la mia sete di andare avanti, e devo rimanere qui in ozio,
devo continuare in questo assedio, un assedio in cui un giorno è uguale
all'altro. La nostra gente vuoi andare all'assalto, ma dò riscalderebbe
fino all'ebbrezza gli animi già ecdtati e guai alle nostre speran-
L'opera e il suo contenuto
489
ze se fermenta quanto v'è di selvaggio e infrange la
disciplina e l'amore (il, p. 234; tr. it. dt., pp. 136-137).
Ma poi si legge:
Tutto è finito, Diodma! La nostra gente si è data al
saccheggio, hanno assassinato senza distinzione, sono stati uc-dsi anche
i nostri fratelli, gli abitanti gred di Mistrà; gli innocenti ora
errano intorno senza protezione alcuna e i loro volti disperati,
cadaverid, invocano dalla terra e dal delo vendetta contro i barbari,
alla guida dei quali io mi trovavo.
Ora posso andar per il mondo e predicare la mia buona
causa. Oh! ora tutti i cuori volano verso di me! Ma sono stato anche
assennato. Ho conosduta la mia gente. In realtà era proprio uno
straordinario progetto quello di fondare il mio Elisio con una banda di
briganti. No! per la sacra Nemesi! me lo meritavo! e lo voglio
sopportare, sopportare voglio sino a che il dolore frantumi in me anche
l'ultimo barlume di cosdenza (il, pp. 234-235; tr. it. dt., p. 137).
La delusione, ingigantita dall'orgoglio e dalla vanità,
si impossessa, in modo altrettanto esclusivo quanto prima la fiducia, di
tutto l'essere di Iperione. Gli manca la riflessività che nel pathos
del momento prende in considerazione anche gli aspetti ulteriori della
questione, orientando il comportamento in rapporto all'insieme. Così,
invece, egli è consegnato al particolare staccato:
Ignoro quello che ora accadrà. Il destino mi predpita
nell'incertezza, e l'ho meritato; da tè mi bandisce la mia propria
vergogna, e chi sa per quanto? (n, p. 236; tr. it. dt., p. 138).
La passione penetra sempre più nel profondo,
490 Quarto cerchio - La natura
spinge a tutte le conseguenze, e rapisce via con sé
anche l'ultimo strato, il rapporto con Diotima:
Ho esitato, ho combattuto con me stesso. Alla fine però
deve essere così.
Vedo ciò che è necessario e, siccome lo vedo, deve
anche essere. Non fraintendermi! non condannarmi! devo consigliarti di
lasciarmi, mia Diotima.
Per tè, o dolce creatura, io non sono più nulla.
Questo cuore è inaridito, per tè, e i miei occhi non vedono più le
cose viventi. Oh, le mie labbra sono disseccate; il dolce palpito
dell'amore non mi sgorga più nel petto. Un solo giorno mi ha depredato
di tutta la mia giovinezza;
sulle rive dell'Eurota la mia vita s'è spossata
lacrimando, ahimè, di quell'Eurota che in una irredimibile vergogna si
lamenta scorrendo, con tutte le sue onde, lungo le rovine di Lacedemone.
Là mi ha mietuto il destino. Devo io possedere il tuo amore come
un'elemosina? Non sono proprio nulla, inglorioso come il più povero dei
servi. Sono messo al bando, maledetto come volgare ribelle, e più di un
Greco, in Morea, racconterà un giorno ai suoi pronipoti le nostre gesta
eroiche, come si racconta una storia di ladri. Ah! una cosa ti ho a
lungo taciuto. Mio padre mi ha solennemente cacciato, mi ha bandito,
senza possibilità di ritorno, dalla casa della mia giovinezza, non mi
vuole più vedere, ne in questa, ne nell'altra vita, come egli dice.
Tale è la risposta alla lettera nella quale gli avevo scritto della mia
intrapresa (il, pp. 237-238; tr. it. cit., pp. 139-140).
Così termina il primo libro. "!
i
•i
L'inizio del secondo racconta come Iperione si j getta
nella battaglia navale di Chio: |
E ora, pieno di bruciante tristezza, dato che nulla di
meglio sapevo, se non farmi uccidere in quella mischia di barbari, mi
buttai, con irate lacrime negli occhi, là dove la morte era certa per
me (il, p. 244; tr. it. cit., pp. 144-145).
L'opera e il suo contenuto
491
Egli ha cercato la morte, ma è colpito solo da una
grave ferita. Anche in questo si esprime una mancanza di serietà
intcriore. La morte diventa una espressione retorica. Iperione è un
egoista. L'inganno della sua natura fa uso della dismisura per sottrarsi
alle conseguenze delle sue stesse azioni. La sensazione di aver commesso
un'ingiustizia è tanto forte da perdere il contatto con la realtà,
diventando fantastica. Ma proprio in tal modo il suo nucleo intimo
sfugge alla fine. Il «movimento catastrofico» ha rotto gli argini -ma
verso l'estemo. È nato un vortice gigantesco che ha travolto tutto
quanto era scaturito dagli eventi precedenti. Iperione stesso, tuttavia,
ritoma a galla, pronto per nuove esperienze. Le conseguenze vere sono
sopportate da chi veramente lo ama più di se stessa. Ciò che egli vive
in modo fantastico e quindi, in ultima analisi, senza subire danni, è
causa reale di sofferenza per lei, dal momento che offre all'esperienza
vissuta una sostanza pura, incapace di elusio-ne. Ella gli scrive:
Chiunque, come tè, sia stato offeso in tutta la sua
anima, quegli non si appaga più in una sola gioia ... (il, p. 250; tr.
it. dt., p. 149).
In verità, egli è ben lungi dall'essere «offeso in
tutta la sua anima», incapace com'è di una tale serietà ...
Certamente si potrebbero a questo punto muovere critiche anche a
Diotima, osservando che, se il suo amore non coglie quello che di
inautentico vi è in lui, esso si rivela cieco e quindi egualmente
egoista. In tal modo, entrambi sarebbero rinchiusi nella loro
cecità, e ciò costituirebbe il loro destino.
Dopo la catastrofe e un lungo tempo passato privo
492 Quarto cerchio - La natura
di sensi - uno stato che rappresenta la controimmagi-ne
ludica alla morte cercata da Iperione certo nella fantasia, ma non in
realtà - rinviene, recuperando presto le sue forze grazie alle cure di
Alabanda:
Era un bei giorno d'autunno quello in cui, a metà
guarito dalla mia ferita, mi affacciai di nuovo, per la prima volta,
alla finestra. Ritornavo alla vita con sensi più tranquilli e la mia
anima si era fatta più attenta. Il delo mi alitava in volto con il suo
più delicato incanto, e i luminosi raggi del sole fluivano dolcemente
su di me, come una pioggia di fiori. Regnava in questa stagione
dell'anno uno spirito grande, placido, soave, e la calma del compimento,
il gaudio della maturazione fra i rami sussurranti mi avvolgeva come la
l'innovellata giovinezza così come la speravano gli antichi nel loro
Elisio ... (il, p. 246; tr. it. dt., pp. 146-147).
Iperione riconosce ciò che ha significato la sua
lettera a Diotima e, spaventandosi, la smentisce con una nuova.
Sopraggiunge invece la risposta dell'amica mostrandogli che cosa nacque
dalla sua esperienza quando la gettò in lei. Per Iperione il destino
consiste nell'irrevocabilità delle conseguenze esterne. L'agire stesso,
in ultima analisi, non possiede una struttura essenziale e può quindi
essere sempre in qualche modo riportato nell'ordine. Per Diotima, la
stessa esperienza vissuta ha carattere fatale, poiché si svolge nella
sfera della serietà. Ella ha un destino intcriore che è irrevocabile
anche quando le conseguenze esteme potessero essere attenuate. La
lettera che parla della decisione di Iperione di partire per la guerra
dice:
Da quel momento Diotima apparve mutata in modo
stupefacente. Avevo notato, con gioia, che da quando durava il nostro
L'opera e il suo contenuto 493
amore, la sua vita riservata era come sbocciata in
sguardi e tenere espressioni e che la sua calma geniale mi era, sovente,
venuta incontro con splendido entusiasmo.
Ma un'anima nobile ci diventa estranea quando essa, dopo
il suo primo sbocciare, dopo il mattino del suo primo tratto di vita,
deve salire su verso il culmino del meriggio. Non si riconosceva quasi
più la felice fandulla, tanto sublime e dolente era ella diventata...
Nei suoi occhi era una fiamma, levatasi su dal fondo del
suo cuore oppresso. Troppa angustia stringeva il suo seno di fronte alla
piena dei desideri e dei dolori e per questo i pensieri della fanciulla
erano così splendidi e audaci. Dominava in lei una nuova grandezza, una
visibile forza sovrana su tutto dò che le era dato di sentire. Era un
essere superiore. Non apparteneva più ai mortali (II, p. 209; tr. it.
dt.,p.ll8).
Tutto il suo destino si svela nella sua penultima
lettera:
Le gioie belle del nostro amore d ammansirono, o
cattivo, ma solamente per renderti più selvaggio. Esse placarono,
confortarono anche me, mi facevano dimenticare che tu, in fondo, eri
inconsolabile e che anch'io non era lontana dal diventarlo da quando
avevo gettato lo sguardo nel tuo cuore che amavo.
In Atene, fra le rovine dell'Olimpieo6,
questo pensiero mi assalì nuovamente. In un'ora più serena, avevo
anche pensato che la malinconia di questo giovane non fosse poi così
seria e così inesorabile. Accade tanto raramente che un uomo, già dal
suo primo passo verso la vita, intuisca, così d'un tratto, così nel
menomo punto, così rapidamente, così profondamente il destino del suo
tempo e che questa intuizione si radichi in lui in modo incancellabile,
perché egli non è abbastanza rude per gettarla via da sé, ne
abbastanza debole per allontanarla col pianto; dò, mio caro, è così
raro che d sembra quasi innaturale (il, pp. 250-251; tr. it. dt., pp.
149-150).
494 Quarto cerchio - La natura
Ma vi era speranza:
Colui al quale il destino parla così chiaramente,
quegli an-cor più chiaramente può parlare con il destino, mi dissi;
quanto più insondabilmente soffre, tanto più
insondabilmente è potente. Da tè, da tè soltanto speravo in ogni
guarigione. Ti vidi partire. Ti vidi agire. Oh, quale trasformazione!
Fondato da tè, rinverdì il bosco di Academo sui discepoli attenti ad
ascoltare e il platano dell'Ilisso udì nuovamente, come un tempo, sacri
colloqui (II, p. 251; tr. it. cit., p. 150).
Ma poi venne la catastrofe:
Silenzio, silenzio! Fu il mio sogno più bello, il primo
e l'ultimo. Tu sei troppo orgoglioso per occuparti più a lungo di
questa trista razza. E lo fai con ragione. Tu li guidasti vincitori alla
loro antica Lacedemone e questi mostri la saccheggiarono, e maledetto
sei tu da tuo padre, o grande figlio! e nessun luogo selvaggio, nessuna
caverna è sicuro asilo a tè su questa terra greca che hai venerato
come un santuario e hai amato più di quanto non amasti me (II, p. 253;
tr. it. cit., p. 151).
Ora tutto divenne destino:
O mio Iperione! da quando io so tutto questo, non sono
più la mite fanciulla di allora. L'indignazione mi spinge via di qua,
così che posso appena ancora guardare la terra e il mio cuore offeso
trema in me senza posa.
Noi ci vogliamo separare. Hai ragione. Non voglio
nemmeno avere figli per non concederli a questo mondo di schiavi, e le
povere piante mi appassirebbero in questa aridità davanti agli occhi.
Addio, tu, caro giovane! recati colà dove tu credi
valga far dono della tua anima. Il mondo avrà forse un campo di
battaglia, un'ara dove tu potrai liberarti di se stesso. Sarebbe peccato
se tutte le energie valide svanissero via come
L'opera e il suo contenuto
495
un sogno. Tuttavia, qualunque debba essere la tua fine,
tu ritorni ai tuoi dèi, ritorni nella sacra, libera, giovane vita della
natura, dalla quale sei usato; e questo è il tuo desiderio e anche il
mio (u, p. 253; tr. it. cit., pp. 151-152).
Qui riecheggia il tema di Empedocle: così sarebbe
dovuto essere, se Iperione fosse stato colui per il quale lo ha preso
Diotima. In verità è lei a patire il destino di Empedocle. L'ultima
lettera ne illustra il compimento:
Cominciò dopo la tua partenza e ancora nei giorni della
separazione. Una forza nello spirito, innanzi alla quale atterrii, una
vita dentro di me, innanzi alla quale la vita della terra impallidiva e
svaniva come una lampada notturna alla luce dell'aurora.
Devo dirlo? avrei voluto recarmi a Delfo ed edificare un
tempio al dio dell'entusiasmo, là sotto le rupi dell'antico Parnaso e,
novella Pizia, infiammare con oracoli divini i popoli pigri, e la mia
anima sa che la parola della vergine avrebbe aperto gli occhi e spianato
le cupe fronti a tutti quegli abbandonati da Dio, tanto potente era lo
spirito della vita in me! Ma le mie membra mortali si fecero sempre più
stanche e un'angosciante gravezza mi trasdnò giù, inesorabile. Oh!
sovente, sotto il mio tranquillo pergolato, ho pianto le rose della
giovinezza, e solamente il pianto arrossava le guance della tua
fanciulla (n, p. 271; tr. it. cit., pp. 163-164).
Ma il messaggio più profondo è racchiuso nei seguenti
passi:
Excoti quanto è accaduto alla tua fanciulla, Iperione.
Non domandare: come? non cercare di spiegare questa morte! Chi pensa di
indagare a fondo su questo destino, quegli maledice infine se stesso e
ogni cosa; eppure non ne ha colpa anima alcuna.
496 Quarto cerchio - La natura
Devo dire che mi ha ucciso il dolore che provavo per
tè? Oh no, no, questo dolore era per me benvenuto, dava figura e grazia
alla morte che portavo in me; potevo dirmi allora: tu muori in onore di
colui che ami.
Oppure la mia anima, in tutte le esaltazioni del nostro
amore, è diventata troppo matura e non può più trattenermi, come un
giovane baldanzoso, in una patria modesta! Parla! Fu l'esuberanza del
mio cuore a separarmi dalla vita terrena? o la natura in me, per mezzo
tuo, o magnifico, è diventata troppo superba per assoggettarsi a una
più lunga dimora su questa stella mediocre? Ma tu le hai insegnato a
volare, perché non insegni anche alla mia anima come ritornare da tè?
Se hai acceso la fiamma eterea, perché non me l'hai preservata? ...
Ti voglio dire francamente dò che credo. Il tuo fuoco
viveva in me, il tuo spirito era passato in me, ma ciò mi avrebbe
difficilmente nociuto, e solamente il tuo destino ha reso mortale a me
la mia nuova vita. La mia anima, per mezzo tuo, si era fatta potente, e,
per opera tua, sarebbe nuovamente tornata alla quiete. Tu strappasti la
mia vita alla terra, tu avresti chiusa la mia anima come in un cerchio
magico, nella stretta delle tue braccia, ah! uno solo degli sguardi del
tuo cuore, uno dei tuoi discorsi d'amore mi avrebbe trasformata di nuovo
in una lieta, sana bambina. Ma, siccome un tuo proprio destino ti ha
spinto nella solitudine spirituale, come un diluvio sulla cima del
monte, oh, soltanto quando fui fermamente convinta che la bufera della
battaglia avesse demolito il tuo carcere e che il mio Iperione fosse
volato via verso l'antica libertà, allora soltanto tutto si decise per
me, e presto sarà tutto finito (il, pp. 272 ss.; tr. it. di., pp.
164-165).
GLI UOMINI E LA NATURA
Nel racconto di questi destini trapela dappertutto la
natura. Essa si dispiega in ricche descrizioni di paesaggio. Vi è il
mare; non quello aperto, straniero, ma quello vicino all'uomo,
l'Arcipelago, con le sue «isole amene», soprattutto Tino e Calàuria.
Vi è l'Asia Minore con i suoi vasti spazi; visti soprattutto nella
prospettiva prediletta di Hólderlin: come veduta dall'altezza della
montagna sui vasti piani.
Vi è l'Attica con le rovine di Atene, teatro delle più
possenti memorie storiche e personali, e il Pelo-ponneso con i suoi
boschi e città come campo di lotta ... Ciò si manifesta nelle
differenti stagioni dell'anno, in modo particolarmente bello nella
primavera colma di speranze, nelle differenti ore del giorno fra cui
sono particolarmente significativi il primo mattino con la luce che
sorge, il pomeriggio con la sua trasfigurazione e la notte con il suo
mistero.
La trama si svolge in questi paesaggi. Nasce nella
solitudine dell'isola natia di Iperione, Tino. Questa diventa troppo
stretta per l'adolescente che, spinto dal suo impulso verso l'infinità,
cerca la vastità dello spazio dell'Asia Minore. Là avviene l'incontro
fatidico con Alabanda, la prima grande ascesa, ma anche la prima caduta.
Così Iperione ritorna in patria che gli
498 Quarto cerchio - La natura
fa da rifugio finché, recuperate le sue forze, approda
all'isola di Calàuria. Le isole costituiscono per Hól-derlin un
mistero particolare. Hanno qualcosa che ricorda l'inizio, la culla. In
modo più immediato che non altre forme di paesaggio, esse scaturiscono
dalla profondità della natura. Infatti, l'ode L'uomo fa nascere
quest'ultimo sull'«isola più bella». A Calàuria, Ipe-rione vive
l'incontro con l'amore. Là diventa più intrinsecamente consapevole
della ricchezza propria alla Grecia e riconosce il proprio compito. Là
si compie la seconda, decisiva catastrofe. Iperione ritorna a Calàuria,
condotto dalla speranza di pervenire di nuovo colà nella profondità
del rinnovamento. Ma, ancora prima di mettere piede sull'isola, apprende
la notizia della morte di Diotima. Nuovamente il movimento lo sospinge
fuori, ora al Nord, in Germania. Questa Germania appare dapprima come
espressione dell'assenza di un luogo, d'una patria. Ma successivamente
diventa il polo opposto vivente rispetto all'origine, perché colà, in
un giorno di primavera, ritoma Diotima.
La trama si svolge in rapporto alla natura; l'immagine
della natura a sua volta segue il decorso della trama. Essa costituisce
il punto di partenza del movimento, compare nei momenti culminanti e
promette alla fine un nuovo inizio.
Lo spazio del romanzo contiene quelle tensioni di cui si
è parlato nel primo capitolo di questo lavoro. Soprattutto quella tra
la Grecia e l'Asia, resa consapevole dal viaggio di Adamas presso il
popolo straniero, e dal viaggio di Iperione a Smirne. La Grecia e l'Asia
entrano insieme in rapporto con l'Italia, dal momento che le lettere
sono indirizzate a Bellarmino.
Gli uomini e la natura
499
La Grecia, l'Asia e l'Italia, dal canto loro, formano
un'unità e si rapportano alla Germania. Infatti, il terzo viaggio
conduce Iperione al Nord. Ed è proprio qui che si preannuncia il
superamento del problema esistenziale di Iperione poiché in Germania
Diotima, ('«ateniese», viene restituita all'amico.
In tutto ciò si dispiega l'altra tensione: quella fra
natura e cultura. Essa costituisce lo sfondo metafisico per il destino
degli uomini rappresentati dal romanzo. Il loro destino è determinato
dal modo in cui questi crescono nella natura, se ne discostano o
rimangono uniti ad essa, dal modo in cui costruiscono la loro opera a
partire dalla natura oppure ne abbandonano gli ordinamenti. Ma la misura
di ogni giudizio è quell'unità di natura e cultura rappresentata in
modo eternamente esemplare dall'antica Grecia, incarnatasi storicamente
nella città di Atene e umanamente in Diotima. Nella sua ultima lettera,
ella scrive:
Tu, o vivente, diventasti, per i Gred, un magnifico
modello e tutto dò che era in loro di umano, infiammato
dall'e-temamente giovane felidtà degli dèi, si trasformò in una
festa, come un tempo: e la luce di Elio, più bella di una musica di
guerra, guidava i giovani eroi (il, pp. 252-253; tr. it. dt., p. 151).
II
Attraverso gli uomini del romanzo, la natura viene
interpretata. Vi è soprattutto Adamas, l'uomo maturo, il saggio, il
maestro, il divino. Conosce la natura, la serve riverente e fedele e
come messo sacerdotale di essa tenta di condurvi il giovane ... Egli sta
alla de-
500 Quarto cerchio - La natura |
stra di Iperione. Alla sinistra è Alabanda che,
attraverso un amore non illuminato, torna a sconvolgere l'unità fondata
da Adamas e trascina l'amico nella sua caduta ... Ma è attraverso
Iperione stesso che la natura vive quel destino che, secondo la
filosofia della storia di Hólderlin, può vivere solo nell'uomo. Spinto
dall'irrequietezza dello spirito, il giovane si distacca ;
da essa. Nell'unità ed intimità di essa, egli porta il
dolore metafìsico della separazione, ed è Diotima a do- ! ver
patire questo dolore. Muore a causa della lacera- ' zione che produce la
dismisura dello spirito nella sua brama, ed in lei muore la natura
stessa. Ma ella muore espiando. Così, a Iperione è concesso quel nuovo
inizio precluso, per esempio, a Empedocle. t
Per parlare correttamente di Diotima, bisogna
innanzitutto precisare che ella non è la personificazione di un'idea,
ma una persona reale. Dapprima predomina l'impressione che la sua figura
si risolva in idealità pura; scrutando più profondamente, ci si
imbatte in una realtà umana, quantunque di rara configurazione.
In un altro contesto, ho cercato di descrivere quella
persona posta sin dall'inizio sotto la categoria della perfezione:
Nastàsja Filìppovna nel romanzo di Dosto-evskij L'idiota7.
Lei e Diotima sembrano essere lontane, senza che vi sia la possibilità
di stabilire una relazione fra loro, ma ciononostante si toccano.
Dostoevskij ha disegnato un animo di donna incapace di sentire o di
essere qualcosa a metà, bensì costretta a impegnare sempre l'intera
forza del suo cuore e l'intera serietà della sua interiorità. Il fatto
che Nastàsja esista sotto la categoria della perfezione non significa
quindi che ella sia buona. Può errare, mancare, nuocere e lo fa.
Tuttavia,
Gli uomini e la natura
501
è sempre determinata da una particolare purezza e
assolutezza del sentire e dell'agire. Questo è la «perfezione», ed è
appunto questa ad essere presente anche in Diotima. In una materia di
vita diversa, certo: ma che cosa c'è di più significativo che vedere
gli stessi fenomeni originali emergere nel distacco di differenze viste
in modo puro? Nastàsja vive nel mondo di Dosto-evskij, intricato e
scosso da tutte le potenze della profondità e dell'altezza. La sua
figura è molto complicata e segnata, come segnate sono tutte le sue
figure, completamente definite in termini psicologici, ma dotate di una
grandezza che supera ogni mera «psicologia». Diotima fa parte del
mondo di Hólderlin, costruito in modo completamente ontico. Ella è
semplice, chiara, e la sua delicatezza è disegnata in modo mirabile.
Eppure le due donne sono sorelle: vivono senza riserve. Ogni esperienza
vissuta tocca il fondo e realizza tutto il loro essere. Ma ciò
significa anche che vengono tratte tutte le conseguenze di essa.
Quanto più un uomo è ignobile, tanto meno è coinvolto
dai valori superiori, tanto più è abile nel sottrarsi a quanto essi
esigono. Nobiltà significa essere fatto in modo tale che questi valori
assumano potere immediato nell'esperienza. Quanto più la nobiltà di
una persona è pura, tanto meno riesce a eludere la loro esigenza e
tanto più esigenti sono i valori che si rivolgono a lui. Appena un uomo
è posto sotto la categoria della perfezione, essi diventano per lui
sen-z'altro un destino8. Persone di tale specie sono rare.
Incontrarle è un'esperienza grande e umiliante allo stesso tempo,
poiché attraverso di essi si è relegati nei limiti della
quotidianità. Ma esse esistono, e la Diotima di Hólderlin ne fa parte.
Alla questione fino
502 Quarto cerchio - La natura
a qual punto Susette Gontard9, a cui
Hólderlin si è ispirato con la sua Diotima, sia stata una tale persona
non può essere data una risposta definitiva. Basta che ella lo sia
stata di primo approccio - un approccio in cui esistono vari gradi di
grandezza. Ma anche le sue lettere sono belle e profonde e svelano
un'interiorità molto nobile. E se Hólderlin dichiara che ella sia
stata una tale persona, allora questa affermazione va presa molto sul
serio. Ma noi qui non abbiamo a che fare con la sua biografia, vogliamo
bensì cercare di comprendere una figura della sua opera. E in questo
contesto bisogna osservare che Diotima non è una costruzione, ma una
persona reale10. In Diotima vi è qualcosa, che di fatto
esiste: una potenza delicata, una profondità che brucia, una serietà
che ama, una disponibilità di vita e di morte nei confronti dei valori
e quindi una assoluta attitudine a subire un destino.
Diotima è fatta in modo tale da rendere chiaro e
presente il sacro-divino inteso nella sua accezione naturale e cosmica.
L'aspetto del suo essere che il lettore percepisce per primo e che
conserva nella memoria nel modo più puro è il silenzio di lei. Già la
prima lettera che la nomina parla della «tranquillità di quello
sguardo» (il, p. 148). Le sue ultime parole su se stessa sono: «La mia
vita fu silenziosa» (II, p. 274). Iperione parla di lei come
dell'«essere silenzioso», dell'«anima silenziosa». Parla della sua
pace che gli da quiete (II, p. 158), dei suoi pensieri silenziosi la cui
potenza si oppone vittoriosamente anche all'impressione lacerante delle
rovine di Atene (il, p. 195). Ciò significa dapprima che ella «così
malvolentieri si serve del linguaggio» (il, p. 154), che il suo essere
è con-
Gli uomini e la natura
503
centrato e il suo agire sommesso e riflessivo (II, pp.
153 e 156). Al di là di ciò ella dimostra una vitalità che non si
manifesta come attività esteriore, ma come vibrazione intcriore, come
presenza vigile - una «vita riservata», come dice l'indovinata parola
di Iperione (II, p. 209). Questo silenzio è pieno di forza, di
chiarezza e di misura (il, pp. 178-207). Ella è la «semplicità» (il,
p- 181), l'«innocenza» (II, p. 163) e la «serietà amichevole» (II,
p. 197). Ella vive seguendo gli impulsi del cuore, è sensibile ai
valori, ha interiorità e capacità d'appartenenza unica. Ella è
l'amore. Iperione chiama l'amica la «silenziosa amante». Ma l'amore
raggiunge tutte le altezze dello spirito. Più in avanti si dice infatti
che in Diotima vi è la «quiete geniale» (II, p. 209). È definita la
«entusiasta silenziosa» (II, p. 176), che avverte il mistero della
natura e dell'esistenza umana destando ciò che dorme nell'altra persona
e facendo vibrare ciò che è ottuso. Questo silenzio è la vita e reca
in sé tutte le possibilità della vita, anche quelle dionisiache. Da
essa può erompere qualcosa che supera la forza dell'essere individuale:
la vita del Tutto. Dopo che Diotima è diventata consapevole, in un
incontro decisivo con Iperione, della grandezza del suo amore, ella
diventa «più silenziosa, sempre più silenziosa», come dice il
romanzo. Avverte di «amare troppo» e di dare «addio a tutto ciò che
un tempo ha cullato nel cuore». Per Iperione è come se «in modo
inspiegabile il destino avesse giurato morte al nostro amore» (il, p.
180). In rapporto a questo modo di essere, si fa presente ciò che non
è terreno (il, p. 158). Iperione racconta del «cuore devoto» che
«non lasciava inascoltato nessun frusciare di foglia o gorgogliare di
fonte» (II, p. 157). Diotima è una
504 Quarto cerchio - La natura
«bambina lieta» (II, p. 209). Quando sono insieme,
l'amico sa che «il sacro gli cammina accanto senza pretese». Ella è
un «essere celeste» (II, p. 151), «porta in sé il cielo libero da
affanni» (II, p. 167), è «sacerdotessa» e «figlia degli dèi». Nel
decorso del suo destino il mistero cresce in lei così che «nell'intima
vicinanza diventa sempre più straniera ai suoi».
Ma tutto come pura grazia. «Stava innanzi [...]
spontanea» dice il passo già citato (II, p. 158; tr. it. cit., p. 80).
Ella non produce, ma è. Non da questo o quello, ma è ella stessa un
dono. Ella non compie azioni, il suo essere è potenza".
Tutto ciò si concentra nel concetto di perfezione.
Diotima appare «in perfezione splendente»; «Urania, che appare nel
caos sospirante» (II, p. 158). Questo compimento è bellezza. Il
termine non indica una determinazione estetica, ma esistenziale,
religiosa: il fatto che in lei fiorisca l'essere, si dischiuda il
mistero e diventi presente il Tutto (II, p. 158).
O voi, che cercate quanto vi è di più alto e di più
perfetto, nella profondità del sapere, nel tumulto dell'azione,
nell'oscurità del passato, nel labirinto del futuro, nelle tombe o al
di sopra delle stelle: conoscete il suo nome? il nome di ciò che è uno
e tutto? Il suo nome è bellezza.
Sapevate voi dò che volevate? Io non lo so ancora, ma
ne ho il presentimento; il presentimento del nuovo regno della nuova
divinità e mi affretto verso di esso e afferro gli altri e li conduco
con me come il fiume le correnti entro l'oceano. E tu, tu mi hai
indicato il cammino! Con tè ho incominda-to. Non sono degni di una
parola gli anni in cui non ti conoscevo ancora.
O Diotima, Diotima, celeste creatura! (il, p. 151; tr.
it dt., p. 74).
Gli uomini e la natura
505
L'affermazione: «questo è bello» non è quindi
un'affermazione accanto ad altre - meno che meno un'affermazione in cui
il sentimento si sottragga alla serietà della realtà - ma include
tutte le altre.
Ma il contenuto di questo mistero religioso è quella
sacra unità in cui erano uniti cielo e terra, in cui si risolvevano
natura e cultura e si celebravano le nozze degli dèi: la Grecia. Ciò
che un tempo si è realizzato nell'esistenza greca, ritoma in Diodma.
Ella è in termini umani ciò che la Grecia è stata come figura storica
complessiva. I fenomeni sono talmente paralleli che anche lei
«ritoma», come un tempo ritornerà la Grecia. Come la Grecia verrà
nella Germania irretita e si darà inizio, attraverso un rinnovamento
escatologico, a un terzo ambito, etemo, così Diotima appare nel Nord a
Iperione condannato al proprio destino elevandolo ad una nuova esistenza
(II, p. 290).
La controfigura di Diotima nello spazio nordico è dato
dalla «vergine Germania». Il secondo cerchio di questo libro ne ha
ampiamente illustrato il significato e il quinto riprenderà il tema.
Qui si anticiperà solo che essa è vitalmente unita a Diotima. In lei
soltanto la figura dell'amato essere femminile, che garantisce il senso
dell'esistenza, si compie nella sua totalità. Come «vergine
Germania», Diotima entra a far parte del mitico, ma in modo tale da
mantenere intatto il collegamento con le radici della realtà umana.
Anche qui non è allegoria, bensì una figura, un tempo terrena, posta
nel cielo. Ma forse dobbiamo tentare una nuova conclusione: non «posta
nel cielo», bensì «portata nella terra, nella «sfera mitica» di
questa che corrisponde a quella del cielo12,
nell'interiorità della terra,
506 Quarto cerchio - La natura
nel cuore profondo del paese. Ma sempre come realtà
umana, scoperta con uno sguardo amante e visionario, in quel primo
approccio che la donna incontrata portava in sé - come ciò che è
«avvolto dallo splendore dei raggi di un mondo che ancora non è».
Questa «vergine Germania» si rapporta a Diotima come
la Germania di Hólderlin alla sua Grecia. Questa è prefigurata in
quella, nella sua interiorità e nella sua profondità religiosa. Allo
stesso modo anche la Germania è prefigurata nella intimità e nella
dimensione del cuore proprie alla Grecia di Hólderlin. La «vergine
Germania» e «Diotima» sono le figure centrali delle due realtà
storiche, ognuna concepita in riferimento all'altra.
Il primo cerchio di questo libro ha visto nella
concezione hólderliniana del fiume il mito del vivente in cui diventa
manifesta la potenza della natura. Questo fiume appare in duplice
figura: da una parte accetta il legame, dando modo alla natura di
diventare feconda attraverso le opere e le figure - vedi l'inno II
Reno -;
dall'altra la sua esistenza cerca «la via più breve al
tutto» - vedi Voce del popolo. La figura di Diotima evidenzia la
stessa legge. Il «fiume» è «il giovane», il «semidio», lei «la
vergine», «la figlia degli dèi». Ciò che a lui accade nell'incendio
dionisiaco della guerra, ella lo patisce nell'amore. Sarebbe capace di
portare l'amore nei vincoli della misura e della fecondità tranquilla;
ma ciò non le è concesso. Iperione la trascina nella dismisura. Ella
possiede la purezza tragica, decisamente, di sperimentare in rapporto al
valore il destino e la possanza della vita, capace di culminazione
dionisiaca; in tal modo perisce.
Gli uomini e la natura
507
Nella forma apparentemente idealistica delle figure del
romanzo vi è una verità precisa:
Ti trovai così come sei. La prima curiosità della vita
mi sospinse verso il tuo essere meraviglioso. La tua delicata anima mi
attirò in modo indicibile e, nella mia ingenua, infantile mancanza di
paura, giocai alla tua pericolosa fiamma (n, p. 250; tr. it. dt., p.
149).
La vita silenziosa, che in modo infantile riposa nel
proprio centro, s'avventura fuori a tastoni e avverte il pericolo.
Iperione narra l'incontro alla fine del secondo libro in cui ella
diventa consapevole della potenza del proprio amore:
L'innocente! ancora non conosceva la possente pienezza
del suo cuore e, dolcemente terrorizzata da questa ricchezza in lei, la
seppelliva nella profondità del petto. E con quali accenti confessò
nella sua santa innocenza e lacrimando di amare troppo, e prese congedo
da tutto ciò che, prima, cullava nel suo cuore, oh! con quali accenti
esclamò: «Sono diventata infedele al maggio, all'estate e all'autunno
e non mi curo più, come un tempo, del giorno e della notte, non
appartengo più al delo e alla terra, appartengo a uno solo, a uno solo,
ma i fiori del maggio, l'ardore dell'estate e la maturità dell'autunno
e la terra e il delo sono riuniti in quest'unico solo; così amo io!»
(il, p. 181;
tr. it. dt., p. 96).
Diotima abbandona la sicurezza consegnandosi al rischio.
Vede Iperione preso dal suo dolore per la patria, diviso tra il passato
e il presente, tra natura e spirito, volontà ed essere. In lui ella
incontra il dolore mitico, e siccome ama l'uomo, lascia entrare il
dolore nel suo intimo:
508 Quarto cerchio - La natura
Le dola gioie del nostro amore ti ammansirono, o
cattivo, ma solamente per renderà più selvaggio. Esse placarono il mio
animo, mi confortarono anche, mi facevano dimenticare che tu, in fondo,
eri inconsolabile e che anch'io non ero lontana dal diventarlo da quando
avevo spinto il mio sguardo nel tuo cuore che amavo. In Atene, fra le
rovine dell'Olimpico, questo pensiero mi assalì nuovamente. In un'ora
più serena, avevo anche pensato che la malinconia di questo giovane non
fosse così seria e così inesorabile. Accade così raramente che un
uomo, già dal suo primo passo verso la vita, intuisca, così d'un
tratto, così nel menomo punto, così rapidamente, così profondamente
il destino del suo tempo e che questa intuizione si radichi in lui in
modo incancellabile, perché egli non è abbastanza rude per gettarla
via da sé, e non abbastanza debole per allontanarla col pianto; ciò,
mio caro, è così raro che ci sembra quasi innaturale (il, pp. 150-151;
tr. it. cit., pp. 149-150).
La «vita riservata» diventa sempre più forte in lei.
L'istinto del suo «essere puro» cerca la buona soluzione. Se Iperione
«diventasse più silenzioso», sottomettendosi alla misura e scegliendo
la strada della tranquilla attività creativa, la sua vita, privata
della sua prima sicurezza e minacciata dal pericolo della lacerazione,
verrebbe accolta in una sicurezza nuova, superiore. Mette l'amico in
guardia davanti all'impresa che riconosce come non a lui assegnata e
smisurata -l'inno II Reno lo definisce il pericolo di distruggere
gli argini e di precipitare nell'abisso -, ma Iperione non si lascia
distogliere. Commette sacrilegio contro la legge sacra dell'esistenza:
ma lei lo ama e si assume la sua colpa, e nella condizione inerme del
suo distacco, gli eventi diventano per lei un destino tragico.
Attraverso quest'esperienza, ascende a un'intensità che non è più
vivibile. Scocca la «folgore»; il «fiume» rompe i limiti terreni e
precipita «indietro nel tutto».
Gli iwmini e la natura
509
Ti voglio dire francamente dò che credo. Il tuo fuoco
viveva in me, il tuo spirito era passato in me, ma dò avrebbe
difficilmente nodulo, e solamente il tuo destino ha reso mortale a me la
mia nuova vita. La mia anima, per mezzo tuo, si era fatta potente, e,
per opera tua, sarebbe nuovamente tornata alla quiete. Tu strappasti la
mia vita alla terra, tu avresti chiusa la mia anima, come in un cerchio
magico, nella stretta delle tue bracda, ah! uno solo degli sguardi del
tuo cuore, uno solo dei tuoi discorsi d'amore mi avrebbe trasformata di
nuovo in una lieta, sana bambina. Ma, siccome un tuo proprio destino ti
ha spinto nella solitudine spirituale, come un diluvio sulla cima del
monte, oh, soltanto quando fui fermamente convinta che la bufera della
battaglia avesse demolito il tuo carcere e che il mio Iperione fosse
volato via verso l'antica libertà, allora soltanto tutto si dedse per
me, e presto sarà tutto finito (II, pp. 273-274; tr. it. dt-, p. 165).
L'elegia Lamento di Menane per Diotima presenta
la sua figura trasfigurata nel metafisico (il, p. 75). Ancora più pura
è la poesia, così mirabile perché inerme, appartenente al periodo
della pazzia Se da lontano ... (Il, p. 262; tr. it. cit., p.
196). Tragicità genuinamente dionisiaca - ma qui il sentimento si
arresta: Diotima è una figura dionisiaca? In verità non ha in sé
nulla che richiami le Baccanti. Il suo atteggiamento non abbandona mai
la misura. E una dismisura nell'atteggiamento dell'interiorità ad avere
qui luogo. È il dionisiaco, ma trasposto nei termini della chiarezza e
del silenzio. La fiamma che tutto brucia è completamente pura e
silenziosa - forse per questo consuma tutto fino alle fondamenta.
Ricordiamo che anche per il greco il mistero esistenziale ultimo
consisteva nell'ascesa dalla profondità primordiale dionisiaca alla
chiarezza delfica.
510 Quarto cerchio - La natura III
Se il romanzo è collocato nel contesto complessivo del
pensiero di Hólderlin, diventa chiaro che il suo senso ultimo non sta
nel destino di queste determinate persone, ma in ciò che avviene dietro
di loro e attraverso di loro. È la natura stessa che in loro vive un
destino. Certamente però l'essere di queste persone viene determinato
proprio dal fatto che la natura possa avere in loro un destino. Ma anche
stilizzate al massimo, esse permangono persone umane; questo determina
il valore di questo poema.
A noi, oggi, è facile riconoscere l'idealismo falso. Ma
forse bisogna limitarsi a dire: determinate forme dell'idealismo falso.
Probabilmente, per ogni epoca vi è una inautenticità idealistica, in
cui è rappresentata la fuga davanti alla realtà specificamente propria
ad essa, e che per questo non è facile da discernere. Comunque, ci
accorgiamo presto di una figura che si allontana dalla realtà per
«significare» soltanto. Tanto più ci è difficile riconoscere la
manifestazione vera dell'idea nella figura stilizzata e la scambiarne
spesso per un'allegoria o un simbolismo. Ma in tal modo ci viene
preclusa una sfera purissima tanto dell'arte quanto dell'esistenza
umana. L'arte idealistica e il relativo sentimento umano di fondo si
riferiscono direttamente al senso metafisico, radicalizzando l'idea e
riducendo la realtà immediata all'essenziale, ma in modo tale da
mantenere intatto il collegamento con la realtà concreta. In questo sta
il mistero della grande arte stilizzante. Essa scaturisce da un
determinato modo di vedere e di sentire che semplifica e allo stesso
tempo concentra, da una rigorosa selezione di
Gli uomini e la natura
511
grandi oggetti e da una limitazione del numero dei temi
costantemente variati finché abbiano sprigionato la loro ultima
possibilità di rendere visibile l'essere. In una simile operazione,
l'elemento direttamente psicologico sembra andare perduto. In verità è
solo la psicologia dell'umanità individuale ad andare perduta, e
un'altra ne prende il posto. L'essere dell'uomo diventa il centro
d'esperienza vissuta non dell'individuo, ma dell'esistenza, e la
psicologia della soggettività è rimpiazzata da quella dell'essere.
Anche le figure di un Eschilo e di un Dante, e non solo quelle di
Shake-speare e di Dostoevskij sono persone vere. Ma esse sono plasmate
tanto in profondità dalla forma da dar modo all'idea stessa di parlare.
Nella loro tradizione va collocato - con il dovuto distacco - il romanzo
di Hólderlin. Esso racconta la storia di due persone vere, fatte però
in modo tale che l'esistenza stessa, la natura diventi visibile in loro.
La natura è la grande unità dell'essere. NelVIperio-ne,
le sue manifestazioni sono disperse, per la molteplicità dell'essere e
per la distanza spaziale e cronologica. Ciononostante, costituiscono un
tutto.
La natura è il tutto. Non vi è niente al di fuori di
essa. Ovviamente vengono contìnuamente estrapolate delle realtà
singole e opposte ad essa: quest'albero e la natura, questo fiume e la
natura, questa stagione e la natura, ma la separazione è solo
transitoria. Una figura, un processo si distìnguono dal Tutto per poi
reinserirsi nel Tutto saturi della ricchezza data dalla determinazione
propria. Anche gli dèi vengono contrapposti alla natura, il dio del
sole per esempio (II, p. 276) o il Padre celeste (II, p. 95). Ma diventa
subito
512 Quarto cerchio - La natura
chiaro che essi sono rivelazioni numinose della natura
stessa e dei suoi differenti aspetti essenziali. In modo particolarmente
netto, si distingue l'uomo. In forza del suo impeto spirituale, egli
entra in una libertà pericolosa. Può rinnegare la natura, distruggere
se stesso e, nel proprio essere, la natura stessa, eppure anche questo
è solo un movimento all'intemo dell'unità complessiva nel cui sviluppo
il Tutto comunque trionfa.
Per Hólderlin, l'uomo rappresenta la possibilità della
natura di avere storia. Egli si distacca di volta in volta da essa, come
essere singolo, compiendo il tentativo rischioso dello spirito che
conosce, giudica, si decide, lotta e costruisce, come è descritto dai
colloqui filosofici del romanzo. Sembra che in ciò si realizzi la sua
storia individuale, e che la natura fornisca il fondamento portante e la
materia della vicenda. Ma un'analisi più approfondita dimostra che è
la natura stessa ad entrare in movimento attraverso l'uomo
hólderliniano e a sperimentare in tal modo storia. È essa a compiere
il passo audace verso l'essere individuale, a esperire l'archetipo della
separazione, a rischiare di soccombere alla catastrofe mitica della
lacerazione. Nell'Iperione questo pericolo diventa realtà.
L'esistenza individuale sbaglia. L'intelletto sfrenato e la volontà
arbitraria perdono la dirczione e l'unità. Tutto ciò accade alla
natura stessa, ma ad essa sono concessi anche la salvezza e il nuovo
inizio. Come era essa ad avere in Diotima la possibilità di una
tranquilla fecondità, era tuttavia poi colpita dal destino dell'amico,
è ancora essa stessa a entrare con Diotima nello spazio tragico del
sacrificio riconquistando, nel perire, la grande libertà. Ciò che nei
colloqui del ro-
Gli uomini e la natura
513
manzo è detto in termini teorici, si realizza nei suoi
personaggi come figure. Ognuno di loro conserva il suo senso ultimo in
riferimento alla natura. Attraverso ciascuno di loro, essa entra nello
spazio e nella caratterizzazione della storia, tentando il rischio dello
spirito individuale e riconquistando, su un piano superiore, la nuova
unità del Tutto trionfante. Ma appunto in tal modo è determinata anche
la natura: è quell'entità misteriosa che ha bisogno dell'uomo per
mettersi in movimento, per correre il pericolo di essere distrutta e per
riconfermarsi ciononostante, vittoriosamente, l'entità essenziale.
L'onni-unità della natura è divina. Ciò è evidente
già nel concetto di vitalità ad essa continuamente ascritto. Questa
onni-vitalità supera quella attribuita alla pianta e all'animale a
differenza del sasso. Anche il fiume è vivo, anche il mare, le isole,
le montagne, i paesi e le stelle lo sono. Detto più correttamente: in
essi è vivo il Tutto. E l'insieme a essere vivo. Nella sua ultima
lettera, Diotima dice:
[...] io mi sono innalzata al di sopra di questo
frammento che le mani degli uomini hanno creato, ho sentito il vivere
della natura, un vivere che sta al di sopra di ogni pensiero. Se anche
mi trasformassi in una pianta, sarebbe il danno così grande? Io sarò.
Come potrei perdermi fuori della sfe-ra della vita, là dove l'amore
etemo, che è in tutte le cose, tiene unite tutte le nature? come posso
staccarmi dal legame che annoda tutti gli esseri? Esso non si infrange
così facilmente come gli allentati vincoli di quest'epoca. Non è
simile a un giorno di mercato dove la folla si raduna, fa chiasso e si
disperde. No! per lo spirito che d unisce, per lo spirito divino che è
proprio a tutti e comune in tutti noi! no! no! nel vincolo della natura,
la fedeltà non è un
514 Quarto cerchio - La natura \
sogno. Ci separiamo solamente per essere più
intimamente uniti, più divinamente in armonia con tutti e con noi. Noi
moriamo per vivere (il, pp. 275-276; tr. it. dt., pp. 166-167).
In questa vitalità è tolta, risolta e superata anche
la morte. Di essa la vita particolare come anche la morte rappresentano
elementi diversi, ma risolti nel tutto. Prima della sua morte, Diotima
scrive:
Sarò; non indago su che cosa diventerò. Essere,
vivere, è sufficiente; è l'onore degli dèi, e, per questo, tutto dò
che vive è, nel mondo degli dèi, eguale in se stesso e non sono in
esso ne padroni, ne servi. Le nature vivono l'una con l'altra come
amanti; hanno tutto in comune, spirito, gioia ed eterna giovinezza. Le
stelle hanno scelto la durata; in silenziosa pienezza di vita, errano
eterne e non conoscono la vecchiaia. Noi rappresentiamo, nel nostro
mutard, dò che è compiuto; dividiamo in melodie svarianti i grandi
accordi della gioia. Come suonatori d'arpa intorno ai troni degli
antichi, viviamo, divini noi stessi, intomo ai sereni dèi del mondo;
mitighiamo, con il fuggevole canto della vita, la beata gravita del dio
del sole e degli altri dèi.
Leva lo sguardo verso il mondo! Non è esso come un
peregrinante corteo trionfale nel quale la natura celebra la sua eterna
vittoria su tutto dò che è corruttìbile? E la vita non trasdna con
sé, in auree catene, la morte, come un tempo il trionfatore conduceva
con sé i rè prigionieri? Noi siamo come le vergini e i giovinetti che
accompagnavano, con 6-gure e canti alterni, il maestoso corteo.
Ma ora devo tacere. Dire di più sarebbe troppo. Ci
incontreremo di nuovo, certamente (n, p. 276; tr. it. dt., p. 167).
La divinità della natura si esprime inoltre nei termini
sempre ricorrenti «innocente, lieto, sacro». E non compaiono solo i
termini e i concetti, il significato stesso diventa tangibile (II, pp.
95, 200, 290). In-
Gli uomini e la natura
515
contriamo soprattutto due forme di esistenza, sature di
mistero. Diotima dice:
Benvenuti, voi buoni e fidi! Voi di cui si sentiva
profondamente la mancanza, voi, misconosciuti, bambini e vecchissimi!
Sole e terra ed etere con tutte le viventi anime che vi giocano intorno,
cui voi giocate intomo, in eterno amore oh! accogliete di nuovo nella
famiglia degli dèi questi uomini che tutto tentano, questi fuggitivi
riaccoglieteli nella patria della natura dalla quale si sono
allontanati! (il, pp. 274-275; tr. it. dt., p. 166).
«I bambini» e «i vecchissimi» rivelano quanto è
sacro e beato: quelli sotto la forma dell'inizio ancora immacolato,
questi nella maturità compiuta. Ma è la natura ad essere innocente,
beata e sacra in loro. Essa viene continuamente sconvolta, distrutta,
eppure riemerge sempre nella sua integrità. In questo essa è creativa
e vittoriosa:
Voi avvilite, voi straziate la natura paziente e che vi
sopporta, ma essa continua a vivere nella sua giovinezza senza confini,
voi non potete cacdare il suo autunno e la sua primavera, non potete
corrompere il suo etere. O, divina essa deve essere, affinchè vi sia
concesso di distruggerla e, tuttavia, essa non invecchia e, malgrado
voi, la bellezza resta bella (il, p. 286; tr. it. dt., p. 174).
Il mondo è un mistero che deve essere amato. Nel
frammento di «Thalia» si legge:
D'ora in avanti non potei più pensare nulla di quanto
avevo pensato prima, il mondo mi era diventato più sacro, ma anche più
misterioso (il, p. 81).
Ma la divinità della natura viene affermata anche
516 Quarto cerchio - La natura i
espressamente (il, pp. 101, 275, 285). Essa è l'inizio,
la fine e il decorso. In essa vi è la misura di tutto; essa giudica
(II, p. 285). Vive in ogni ente. In ciascuno di essi nasce e perisce. Ma
essa sopravvive a ciascuno, rimane sempre se stessa e imperitura in sé.
Essa è il divino primordiale, che nel mutamento eternamente dura e che
trova la pace nel destino permanente.
Così per Hólderlin non vi è alcuna divinità
distaccata dal mondo, ma solo la divinità del mondo stesso. Gli dèi
sono nella natura. Essi sono le entità essenziali delle cose, le
particolarizzazioni in immagine dell'esistenza. Diotima, nel suo
testamento, parla degli «dèi silenziosi» e delle «forze silenziose
del mondo» (II, p. 276). «O natura con i tuoi dèi!» - con queste
parole Iperione si rivolge ad essa (il, p. 290). Il «Padre nel cielo»
è il padre della natura e allo stesso tempo il cuore di essa (II, p.
95). Senza nome, domina come l'«invisibile» in essa (il, p. 69),
diventando presente a chi è dotato di senso come «Io splendido,
segreto spirito del mondo» (II, p. 160).
Tutto ciò è determinato in ultima analisi dal già
discusso concetto di spirito (II, p. 168 e II, p. 231). Esso non è
inteso in termini intellettuali, ma come vitalità di tipo religioso. Il
suo campo è dato proprio dal rapporto fra il Tutto e le figure
particolari, dal passaggio che viene compiuto dall'unità alla
molteplicità e di nuovo dall'esigenza particolarizzata in figure
nell'unità.
Come «entusiasmo», esso diventa una potenza insita
nell'uomo stesso ... Lo eleva al di sopra dei limiti di spazio e tempo,
mettendolo in rapporto con il Tutto. Desta le sue forze creative e gli
da la spinta per su-
Gli uomini e la natura
517
perare l'orizzonte del vicino e dell'utile. Gli da la
sensazione del sacro, dell'infinito, del mistero. Questa potenza viene
dal centro dell'uomo, allo stesso tempo però dal Tutto. Iperione dice
infatti:
Diotima, fa' ch'io soffi in mezzo a loro l'alito di un
dio, fa' ch'io parli loro una parola che mi esca dal cuore. Diotima! Non
temere! Non saranno così selvaggi! Conosco le nature primitive. Si
fanno beffe della ragione, ma sono congiunte con l'entusiasmo. Soltanto
chi agisce con tutta l'anima, non erra mai. Non ha bisogno di
sottilizzare, perché nessuna forza è contro di lui (II, p. 218; tr.
it. cit., p. 125).
Forme prime dell'esistenza entusiastica sono il giovane
e la vergine. Essi camminano nel corteo trionfale della natura nella sua
unità vittoriosa, accompagnando «con danza e canto» la sua gloriosa
magnificenza (II, p. 276). Questa potenza domina in Diotima. Abbiamo
già visto i densi testi che ne parlano. Dietro alla figura di lei vi è
quella della sacerdotessa antica, della Pizia. Ella stessa è
l'aentusiasta silenziosa» in cui domina lo spirito e grazie a cui si
accende in altri.
Ma la stessa potenza domina anche nella natura
all'esterno. Meglio: dove essa domina, cade la differenza fra dentro e
fuori. Nello spirito tutto è uno. Abbiamo già citato il passo II, p.
218. È simile a esso l'altro:
Simili a zeffìri sulla superficie del mare, regnavano
al di sopra di noi benigni incanti della natura. Con gioiosa meraviglia
ci guardavamo senza pronunciare parola alcuna, ma gli sguardi dicevano:
così non ti ho mai veduto! Talmente esaltati eravamo dalle energie del
delo e della terra (II, p. 120;tr.it.cit.,p.51).
La potenza dello spirito è particolarmente palese
518 Quarto cerchio - La natura
nella primavera. Si veda il mirabile passo all'inizio
del secondo libro:
Ci ricordavamo del maggio precedente, come se non
avessimo mai veduto la terra così come allora pensavamo che fosse stata
mutata in una argentea nube di fiori, in una gioiosa fiamma di vita,
liberata da ogni materia più greve (II, pp. 203-204; tr. it. cit., p.
113).
La sensazione è approfondita in termini visionari:
«Ah, tutto era così pieno di gaudio e di speranza»,
esclamò Diotima, «così colmo d'una crescita senza interruzioni e,
tuttavia, così spontaneo, così celestialmente tranquillo come un
fanciullo, intento al suo gioco, e che non pensa ad altro». «In
questo», esclamai, «la riconosco, l'anima della natura, in questo
fuoco tranquillo, in questo indugiare nella sua fretta possente» (il,
p. 204; tr. it. cit., p. 113).
Altrettanto fortemente, ma sotto mutate spoglie, Io
spirito tesse all'ora del tardo pomeriggio con la sua luce
trasfigurante; si veda soprattutto l'incantevole racconto sulle prime
ore trascorse a Calàuria:
Finalmente, quando mi indicò, lontane, le vette
tranquille e mi disse che, fra poco, saremmo giunti a Calàuria, prestai
maggiore attenzione e tutto il mio essere si aperse alla meravigliosa
potenza che, improvvisamente, dolce e calma e inesplicabile giocava con
me [...]
E gli uomini usavano fuori dalle porte e sentivano in
modo meraviglioso come il soffio spirituale agitasse legger-mente i
delicati capelli sulla fronte e rinfrescasse il raggio di luce, ed essi
scioglievano lied le vesti per accoglierlo nel petto; respiravano più
dolcemente, sfioravano più delicatamente il mare chiaro, leggero,
allettante, nel quale essi vivevano e si muovevano.
Oh, sorella di quello spirito che domina e vive in noi
con
Gli uomini e la natura
519
potente ardore, aura sacra! come è bello l'essere
accompagnato da tè ovunque diriga i miei passi, onnipresente,
im-rnortale!
L'alto elemento giocava con i bambini nel modo più
bello. Uno bisbigliava tranquillamente fra sé e sé, a un altro
sgorgava dal labbro una canzone senza ritmo, a un altro un canto di
giubilo a piena gola; uno se ne stava sdraiato, l'altro saltava in alto,
un altro si aggirava assorto nei suoi pensieri. E tutto questa era
l'espressione di un solo benessere ed una sola risposta alle carezze
delle aure ammalianti. Ero tutto pervaso da un indescrivibile desiderio
e da un senso di pace. Una forza a me ignota mi dominava. Spirito amico,
dicevo tra me, verso dove mi chiami? verso l'Elisio o verso dove? (il,
pp. 146 ss.; tr. it. dt., pp. 70-71).
Il concetto del pnéuma è determinato in ambito
cristiano a partire dell'evento delle Pentecoste, come evento dello
Spirito Santo che Cristo manda dal Padre (Gv 15, 26). Quando, nel
contesto del pensiero di Hólderlin si parla dello «spirito» della
natura, del pnéuma della terra e del ciclo, si allude a qualcosa
di diverso da quanto si presenta nel Nuovo Testamento. È la corrente di
mistero nel mondo, quanto è non terreno allo stato puro, che diventa
tangibile in ciò che è terreno, il «sacro» quale potenza e
costituzione, come è colto nella libera esperienza religiosa13.
In esso, l'aria, intesa come ciò che respira ed è respirato, il
movimento fuori nello spazio cosmico e dentro l'organismo si identifica
con la forza della vita dell'anima e dello spirito e la potenza
religiosa che fluisce, creando vita e trasformando gli stati presenti
(II, supra, p. 247). Il contenuto è ulteriormente complicato per
il fatto che il concetto di Spirito Santo ha influito sul concetto di
spirito hólderliniano, conferendo ad esso valori e dimensioni che non
si trovano nell'esperien-
520 Quarto cerchio - La natura
za universale del pnéuma, per esempio quella del
mona o deìVorenda, dell'entusiasmo visionario o
dell'estasi dionisiaca.
Solo attraverso questo pnéuma, il meramente
naturale si trasforma nella «natura» di Hólderlin. Si rivela per
esempio nell'aria trasformandola nel respiro del mondo, nella luce,
dando ad essa profondità e mistero, nell'eccitazione della vitalità
risvegliata, facendo della semplice fecondità il mistero della vita.
Attraverso il pnéuma tutto diventa ricco e profondo, mosso dagli
impulsi provenienti dal centro. Esso supera il quotidiano e la
pesantezza, rende nuovo, potente e leggero. Attraverso il pnéuma
l'esistenza comincia a «fiorire», dando luogo all'«01impo nello
spirito», la sacra dimora degli dèi, il mistero dell'altezza:
Tu dovresti soccombere, dovresti disperare, ma il tuo
spirito ti salverà. Non alloro, non corona di mirto ti consoleranno; lo
farà l'Olimpo, vivente e presente, che d fiorisce eternamente giovane
in tutti i sensi. Il mondo bello è il tuo Olimpo, in questo vivrai, e
troverai la tua gioia nella sacra essenza del mondo, negli dèi della
natura (n, p. 274; tr. it. cit., p. 166).
Solo a partire dal pnéuma diventa del tutto
chiaro che cosa Hólderlin intenda per «silenzio». L'essere in sé è
mistero. È il mistero che qualcosa esista14. Ma quel
«silenzio» e quell'«interiorità», in cui soltanto l'ente diventa
veramente «essente»15, sono opera dello spirito. Sia
nell'uomo, come forza intcriore del cuore, come dimensione dell'amore,
che fuori, come quella condensazione e quell'approfondimento, attraverso
cui in ogni cosa nasce il Tutto. E lo spirito a dare all'ente la
preziosità viva, la dinamica dell'eroe onti-
Gli uomini e la natura
521
co, a cui risponde quella intcriore, la dinamica del
cuore. Nello spirito, la realtà diventa potente e le essenze
penetranti. Quando domina, una cosa può diventare reale fino alla
fecondità, un fenomeno assumere tale forza di significanza da essere
insostenibile. Il poeta nell'accezione hólderliniana, il vate, è
esposto a ciò, destinato a «porgere al popolo» «il fùlmine» insito
in ogni essere, il raggio della potenza di senso, «avviluppato nel
canto» (II, p. 120).
Lo spirito sdoglie la chiusura delle cose. Le rende
aperte così che l'una diventi consapevole dell'altra, senza attriti:
Le nature vivono l'una con l'altra come amanti; hanno
tutto in comune, spirito, gioia ed etema giovinezza (n, p. 276).
Nello spirito viene superato il dolore mitico, la
separazione. In esso si compie la trasformazione, in cui «il senso
divino» rompe il guscio dell'essere, in cui la realtà è illuminata
dal valore, la vita dall'amore. Allora l'amore diventa uno stato, una
condizione stabile. Il Tutto si eleva - il tutto e il suo polo opposto,
il centro. Questo centro non è presente senz'altro e facilmente
designabile. Esso è ovunque e da nessuna parte; deve prima emergere. Ma
dò accade quando la densità grezza dell'essere di forma individuale si
apre diventando il polo opposto vivente del Tutto. Il centro non è
niente di compiuto e fissato, ma uno stato dell'essere individuale. Esso
è l'essere individuale nella misura in cui quest'ultimo ama, diventando
così interiorità del Tutto. Solo a partire dal centro nasce il Tutto,
e solo in riferimento al Tutto si desta il centro. Ma tutto ciò è
operato dallo spirito.
Senza di esso vi sono solo «l'insieme», «l'essere
sin-
522 Quarto cerchio - La natura
golo» e la loro lotta. Lo spirito opera la nuova
dimensione, in cui nasce la presenza pura, «la natura». L'essere
oggettivo abbisogna del cuore sensibile, per accedere alla cosmicità
piena; la vita intcriore abbisogna delle cose, per giungere alla
libertà. Solo quando ciò accade, l'esistenza è compiuta.
Solo a partire dallo spirito diventa comprensibile che
cosa Hólderlin intenda con la parola «natura»: ne il fatto
scientifico della realtà fisica e psichica, ne il fatto filosofico
della totalità dell'esistenza. Essa è ciò che vive e domina, che si
trova dentro e fuori, che è presente tra centro e totalità, che è
dispiegato, e allo stesso tempo concentrato nell'interiorità, ma che
tuttavia nasce solo nello spirito. Con questo non ci si riferisce ad
un'esperienza vissuta soggettiva, bensì ad un processo tanto cosmico
quanto umano. Lo spirito è il numinoso inteso come potenza. Solo quando
questo appare, ciò che è presente, alla mano, diventa natura. E solo
chi è permeato da esso vede la natura, poiché ne diventa il centro, il
cuore sensibile.
Anche gli dèi di Hólderlin sono comprensibili solo a
partire da questo spirito. Essi non costituiscono semplicemente gli
ambiti differenti del mondo oppure le similitudini e le personificazioni
di essi. Ma non sono nemmeno esseri di ordine superiore, posti al di
sopra dell'uomo come questi è posto sopra gli animali. Gli dèi sono le
essenze del mondo nella misura in cui scaturiscono dal pnéuma.
Essi esistono nel pneu-ma. Esso è il loro elemento, la loro
forma d'esistenza. Per questo motivo, essi vengono avvertiti solo da chi
è toccato dal pnéuma. Solo il mondo coinvolto dal pnéuma è
mondo. Senza di esso, quest'ultimo costituisce solo l'insieme della
realtà empirica. Solo nel pnéu-
Gli uomini e la natura 523
rna
questo mondo ha degli dèi. Senza di esso, ha solo ambiti di senso
diversi, determinabili scientificamente o filosoficamente.
Tutto questo contesto di rappresentazioni contiene
elementi cristiani chiaramente riconoscibili. Il concetto di eccitazione
pneumatica, appartenente alla religiosità universale, si è unito al
concetto di Spirito Santo della Scrittura trasposto nel cosmico. Solo se
si tiene conto di questo collegamento, diventano comprensibili talune
qualità dell'interiorità e taluni valori del cuore che non si trovano
in quelle esperienze naturali dello spirito ... Ciò vale anche per il
concetto di natura hólderliniano. Il modo, in cui la sua natura
scaturisce dal religioso, l'empirico viene trasformato a partire dal
numinoso e a sua volta il misterioso si fa presente nell'immediato, la
chiusura in sé dell'essere individuale è annullata sia nei confronti
dell'altro essere individuale che nei confronti del Tutto, intemo ed
esterno si risolvono nella presenza pura - tutto ciò trova la sua
radice in primo luogo in esperienze del tipo della mistica nel suo senso
universale. In secondo luogo però è innegabile l'influsso della
dottrina biblica circa «l'uomo nuovo» e «il cielo nuovo e la nuova
terra», enunciata dalle lettere di Paolo, [di Pietro] e
dall'Apocalisse. Il mondo venturo a cui si rifa la speranza cristiana,
non esiste in termini empirico-cosmologici o spirituali-culturali, ma
solo in quanto domina lo Spirito Santo. Descrizioni come per esempio la
visione della città celeste alla fine dell'Apocalisse dimostrano come
ogni ente venga elevato per la potenza dello Spirito Santo a un nuovo
rapporto con Dio, e in tal modo a uno stato nuovo.
524 Quarto cerchio - La natura
Appunto con questo, è però anche esplicitata la
differenza fra il concetto cristiano dello Spirito Santo e il pnéuma
di Hólderlin. Per lui la categoria che domina su tutto è la natura.
Infatti, benché questa si elevi dallo spazio meramente empirico a
quello metafisico e religioso-mistico, l'atteggiamento portante e i
valori determinanti continuano ad essere quelli della natura. Così
anche la potenza dello spirito di cui si parla, nonostante la sua
ricchezza di mistero, la sua forza trasformatrice e la sua vicinanza al
cuore, rimane compresa nella categoria della natura. Lo Spirito della
Scrittura, invece, è posto in modo decisivo sotto la categoria della
persona, più precisamente: della Persona del Dio sovrano nei confronti
di ogni natura ... Per quanto riguarda la santità di questo Spirito,
essa non è quella che è percepita dalla esperienza religiosa
universale e che può senz'altro collegarsi con il concetto della
natura. Non è il «sacro» nel senso di «misterioso, diverso» e di
«numinoso», ma di tipo strettamente personale. Il Nuovo Testamento
determina lo Spirito come lo «Spirito di Gesù Cristo» (Rm 8, 9) o lo
Spirito «che Gesù manda dal Padre» (Gv 15, 26). Esso non viene ne dai
fondi primordiali dell'anima ne dalla profondità della natura, ma è
mandato dal Signore del mondo nella storia perché la conduca incontro
al Regno di Dio. La sua santità è la qualità prima di Dio che è
riservata soltanto a Lui, l'inawici-nabilità della sua purezza e bontà
che non è confondibile con nulla di creato e che per l'uomo, appena
giunge al cospetto di essa, diventa un giudizio, ma anche, dal momento
che Dio lo ama, la salvezza ...
Ma il fatto che lo Spirito della Scrittura venga, domini
e si comunichi è il frutto della pura grazia. Ciò
Gli uomini e la natura
525
non si colloca nell'orizzonte dell'esistenza, in cui,
accanto all'elemento della necessità, vi è anche quello del favore o
graziosita (Huid) e della originarietà pura, ma assume un senso
rigorosamente personale: il Dio non incluso in alcun contesto
dell'esistenza dona lo Spirito perché Egli lo vuole donare in pura
libertà.
L'esperienza vissuta che Hólderlin ha dello spirito
porta attraverso una ricca molteplicità delle forme d'esperienza fino
all'ebbrezza e all'estasi. Il suo pnéu-ma sfocia tanto
nell'etereo quanto nel dionisiaco perché è lo spirito della natura. A
differenza di ciò, il tocco dello Spirito di cui parla il Nuovo
Testamento è singolarmente dominato, misurato, anzi parsimonioso.
Certo, anche la Pentecoste è circonfusa di fiamme e di fragore, e la
forza del carisma pervade la vita dell'uomo che ne è coinvolto. Ma il
fenomeno si mantiene sempre nei limiti di una sobria ebrietas16,
dal momento che la categoria determinante è la persona. Lo Spirito
stesso è persona. La sua è una venuta personale. Il suo dominio
mantiene la distanza del rispetto davanti alla persona dell'uomo. Il suo
operato non è finalizzato alla trasformazione entusiastico-esta-tica
dell'ente nella autenticità propria della natura, ma alla metanolo
dello spirito e del cuore, al ritorno della persona a Dio e all'atto
dell'amore che contiene in sé tutto il rigore della purificazione e
santificazione morale.
EMPEDOCLE
IL CARATTERE DEI POEMI DI EMPEDOCLE
II tentativo di Hólderlin di affrontare in forma
drammatica la personalità dello statista e filosofo siciliano Empedocle
è immediatamente posteriore all'7-perione.
Per diversi aspetti, le due opere sono affini. Entrambe
intendono collegare il destino umano con la natura e con l'esistenza
greca. Inoltre, entrambe presentano un'inadeguatezza nei confronti della
forma prescelta che tuttavia, invece di disturbare, provoca una
commozione particolare. Così come YIperione non è un vero
«romanzo», ossia una rappresentazione epica di vite umane ed
avvenimenti mondani, ì'Empe-docle non è un vero «dramma»,
ossia uno sviluppo d'un carattere umano nel gioco contrapposto di
personalità agenti. Il romanzo si scompone in stati d'animo, e le sue
parti più belle sono poesie ed elegie. La tragedia, invece, costituisce
in fondo un inno drammatico, e se dovesse essere rappresentata come
richie-
528 Quarto cerchio - La natura i
i
i
de la sua natura, lo dovrebbe essere probabilmente nello
stile di un oratorio. ;
Sul tema di Empedocle possediamo cinque testi. Un breve
abbozzo dal titolo Empedocle, risalente al periodo di
Francoforte, che prevede cinque atti (ili, pp. 67-71). Poi due tentativi
di svolgimento dal titolo La morte di Empedocle. Il primo, che è
il più lungo e prevede due atti, inizia in prosa per poi continuare
già sulla seconda pagina in versi (ili, pp. 75-171). Il secondo prevede
cinque atti, è più drammatico nel carattere, ma rimane un breve
frammento (ili, pp. 172-195). Inoltre vi è uno schizzo dal titolo Empedocle
sull'Etna che si limita ad alcuni accenni (ili, pp. 199-202) nonché
un tentativo di svolgimento del medesimo che prevede cinque atti e di
cui esiste solo un frammento del primo atto (ili, pp. 203-224).
La tradizione fornisce di Empedocle un'immagine non
limpida. Da una parte egli appare come un uomo di imponente grandezza,
dotato di forze misteriose, dall'altra come un carattere dubbio e
vanitoso. Probabilmente, Hólderlin è rimasto colpito innanzi tutto
dalla leggenda secondo cui Empedocle si gettò nell'Etna ... Infatti, il
vulcano rappresenta nel pensiero di Hólderlin una grandezza mitica,
l'eruzione della profondità tellurica e la via al centro del tutto (I,
p. 98). Poi lo impressionarono le ricche espressioni di vita di questa
personalità, secondo la tradizione allo stesso tempo statista, medico,
taumaturgo, profeta e filosofo. In tal modo, egli apparve come
incarnazione dell'universalità umana, come controfigura umana rispetto
alla natura, capace di sperimentare un destino che esprimeva la natura
dell'esistenza umana e cosmica in quanto tale.
Il carattere dei poemi di Empedocle
529
La prima stesura de La morte di Empedocle inizia
nel momento in cui l'eroe ha superato il culmino della propria vita. Il
suo influsso è stato immenso, ma adesso si è ritirato da tutto. Il
popolo, ancora in soggezione davanti alla sua personalità imponente,
crede che egli sia asceso agli dèi; in verità, ha vissuto un crollo
intcriore. La radice della sua esistenza era stata una profonda unità
con il Tutto e con le divinità d'esso; ma ha abusato di questa unità.
Se ne è impossessato come di una potenza personale, perdendola perciò
e rifugiandosi successivamente nella solitudine. Subito le forze già a
lungo a lui avverse vanno all'attacco. Il sacerdote Ennocrate le
raccoglie. Egli confonde nel popolo le idee su colui che finora è stato
venerato come un dio, ottenendone la proscrizione. Empedocle chiude la
casa, dona agli schiavi la libertà e abbandona la città.
Durante questi eventi, Empedocle riconosce la sua colpa
e si decide all'espiazione. Si dirige verso l'Etna per morire nel
cratere di esso. Strada facendo, con il suo allievo Pausania passa
davanti ad una capanna e si ferma per riposare. L'ora è piena di pace,
perché Empedocle s'è fatto consapevole del perdono degli dèi. In quel
momento appare Ennocrate, accompagnato da Crizia, il padre di Panthea,
una giovane sacerdotessa che il grande medico ha salvato dalla morte, e
da una schiera di cittadini agrigentini. Gli annunciano che il verdetto
è stato annullato e lo pregano di ritornare, offrendogli perfino la
corona reale. Empedocle è lieto della riconciliazione, ma rifiuta la
loro proposta, rimanendo solo con il suo allievo. Presto si congeda
anche da quello e va incontro alla cima dell'Etna. Intanto è venuta
anche Panthea con un'amica,
530 Quarto cerchio - La natura J
e i colloqui dei tré giovani sono come un coro che
chiude la vicenda.
La seconda versione si ferma al primo atto dove vengono
descritti lo stato d'animo di colui che è caduto e la sua sopraffazione
da parte de nemici. Anche il frammento Empedocle sull'Etna non va
oltre il primo atto. Rappresenta la crisi intcriore, inquadrata già in
retrospettiva ed in procinto di risolversi nell'espiazione.
II
II poema Empedocle non mostra alcuno sviluppo, ma
mette semplicemente in luce un momento nella vita dell'uomo.
Quando la tragedia inizia, la crisi è già scoppiata.
Ciò che si compie successivamente è la decisione di questa. E già
dopo il primo monologo di Empedocle non vi può essere dubbio
sull'esito. Ma la situazione intema determina anche quella estema.
Empedocle sa di doversene andare. In tal modo, il poema si riduce
davvero alla «morte di Empedocle», ossia alla decisione
dell'espiazione e alla volontà di mantenerla ferma nonostante muti la
situazione esterna.
Per un altro motivo ancora il poema non è un vero
dramma: Empedocle non ha un avversario reale. Ennocrate è sì il suo
nemico. Raccoglie l'opposizione che si è levata contro l'odiato,
facendosene portavoce; confonde coloro che finora sono stati fedeli a
Empedocle ed impone il verdetto di proscrizione, e ancora quando la
città offre la pace all'esiliato, egli persiste nel suo odio.
Ciononostante, egli non è un
Il carattere dei poemi di Empedocle
531
reale avversario. Secondo l'impostazione della trama,
dovrebbe essere il nemico meschino dell'eletto nato libero, una specie
di grande inquisitore; ma per un simile ruolo gli manca la personalità.
Tutto il suo potere deriva dal fatto che Empedocle è diventato debole.
I^el momento in cui questi è di nuovo sicuro di sé, Ermocrate
invilisce miseramente. Ciò che in realtà avviene non è quindi la
lotta tra due avversar!, ma una crisi nell'animo di un singolo.
Anche nell'amicizia, nell'opera o nell'amore Empedocle
non ha un vero partner. Il poema è impostato in modo tale da
porre al centro una figura il cui destino non risulta dalle sue
relazioni con altri uomini, ma dal suo rapporto con le potenze assolute,
con la natura e la sua divinità. Le altre persone non fanno in fondo
altro che interpretare questo destino. Amando oppure odiando,
comprendendo o rimanendo chiusi nell'ottusità, essi vivono in rapporto
ad Empedocle. Perfino Ermocrate, che sembra ancora avere una
personalità propria, diventerebbe un nulla se il grande da lui
detestato scomparisse dalla sua vita.
Corrisponde quindi all'impostazione dell'opera che la
presente analisi passi in rassegna le figure di questa per fare luce
sulla personalità, il destino ed il senso dell'eroe.
LE FIGURE DEL DRAMMA
Iniziamo da quella che anche nel dramma parla per prima:
Panthea, sacerdotessa di Vesta., figlia di Crizia, un ricco cittadino di
Agrigento non favorevole ad Empedocle. È una reincarnazione di Diotima.
È dotata di una forza d'amare illimitata. Questo amore la rende capace
della comprensione pura e disposta a qualsiasi sacrificio. E silenziosa,
raccolta e di sostanza molto delicata. La sua vita intcriore deve quindi
necessariamente farsi il suo destino. Mentre Diotima si trova sullo
stesso piano di Iperione in termini d'età ma su un piano superiore per
quanto conceme il suo essere e il suo valore, Panthea è allo stesso
tempo discepola, amante e figlia. Essa è anche cara a Empedocle; prima
di separarsi, egli parla di lei con suo padre in modo molto intimo:
Non la conosci?
E tasti come un cieco il dono degli dèi? Nella tua casa
risplende invano l'amabil luce? Ascolta: l'anima pia non troverà pace
in questa terra, e rimarrà sola, lei così bella, e morirà senza
gioia, lei, la figlia degli dèi, così seria e delicata mai potrà
accettare
534 Quarto cerchio - La natura
di stringere al suo seno uno di questi barbari. Oh,
credimi! Chi sta per congedarsi dice il vero. E non stupirti del
consiglio! crizia. Cosa vuoi che ti risponda? empedocle. Parti con lei
verso qualche terra sacra, va' nell'Ellade o a Delo tra coloro ch'ella
amando cerca, dove tra i lauri sorgono, in silenziosa assemblea, le
statue degli eroi. Qui troverà pace, tra i taciti simulacri la sua
anima bella e delicata si sentirà appagata;
tra le nobili ombre svanirà
il dolore che in segreto alimenta
nel cuore pio ...
Kennest du sie nicht? / Und tastest wie ein Blinder an,
was dir / In deinem Haus umsonst das holde Licht? / Ich sag es dir, in
diesem Lande findet / Das fromme Leben seine Ruhe nicht / Und einsam
bleibt es dir, so schón es ist, / Und stirbt dir freudenlos, denn nie
begibt / Die zàrtiich-ernste Góttertochter sich, / Barbaren an das
Herz zu neh-men, glaub / Es mir! Es reden wahr die Scheidenden. / Und
wundere des Rats dich nicht! / Kritias. Was soli / Ich nun dir
sagen? / Empedokies. Gehe hin mit ihr / In heilges Land, nach
Elis oder Delos, / Wo jene wohnen, die sie lie-bend sucht, / Wo,
stillvereint, die Bilder der Heroen / Im Lorbeerwalde stehn. Dort wird
sie ruhn, / Dort bei den schweigenden Idolen wird / Der schóne, der
zartgenùgsa-me, / Sich stillen, bei den edein Schatten wird / Das Leid
entschiummern, das geheim sie hegt / In frommer Brust ... (m, pp.
111-112; tr. it. dt., pp. 79-81).
E preoccupato del destino di Panthea; ma il suo intimo
non è presso di lei, come non è presso alcu-n'altra persona. Ella
stessa descrive il proprio rapporto con lui raccontando della sua cura.
Poco tempo prima, è stata malata e sul punto di morire, quando
Le figure del dramma
535
suo padre, superando la sua ripugnanza, si è rivolto al
grande medico, e questi l'ha salvata:
E quando in rinnovata gioia l'essere mio
ancor si dispiegò al mondo da lungo tempo assente,
quando con giovanile curiosità il mio sguardo si
riaprì
al giorno, lui era lì, Empedocle, divino,
e quanto a me presente! Nel sorriso
dei suoi occhi mi rifiorì la vita,
come lieve nuvola al mattino il mio cuore
volò incontro alla sublime e dolce luce
e ne fui il tenero riflesso [...]
Vorrei sedere ai suoi piedi
per ore, discepola e figlia,
contemplare il suo etere ed esultare
in lui, finché la mia mente
si perdesse nelle sue celesti altezze.
Wie nun in frischer Lust mein Wesen sich zum ersten /
Male wieder der langentbehrten Welt entfaltete, mein / Auge sich
injugendiicher Neugier dem Tag erschloB, da/ Stand Empedokies! o wie
góttlich und wie gegenwàrtig / mir! am Làchein seiner Augen blùhte
mir das Leben wieder / Aufì ach wie ein Morgenwólkchen flo6 mein Herz
dem / hohen sùBen Licht entgegen und ich war der zarte Widerschein von
ihm ... / Zu seinen FùBen mócht ich sit-zen, stundenlang, als scine /
Schùlerin, sein Kind, in seinen Àther schaun und zu ihm /
auffrohlocken, bis in seinen Himmeishóhen sich mein Sinn verirrte (III,
p. 77; tr. it. cit., pp. 33-35).
Quando poi, nel corso del colloquio, esalta l'essere del
grande uomo, l'amica chiede:
rhea. Oracolo, come conosci tutto questo? panthea.
Costantemente penso a lui... oh, quanto mi ritmane
536 Quarto cerchio - La natura
da riflettere ancora su di lui? E se anche l'avessi
capito che mai sarebbe? Esser lui stesso: questa è la vita, e noi non
ne siamo che il sogno.
Rhea. O Sprecherin! wie weiBt du denn das alles? / Pan-thea.
Ich sinn ihm nach - wieviel ist ùber ihn / Mir noch zu sinnen? ach! und
hab ich ihn / GefaBt, was ists? et selbst zu sein, das ist/ Das Leben
und wir andern sind der Traum davon (m, p. 78; tr. it. dt., pp. 35-37).
Avvertiamo il tono pericoloso di un sentimento che va
oltre la misura del vivibile. Diventa ancora più chiaro quando l'amica
parla dal canto suo dell'uomo che si leva particolarmente splendido
davanti ai suoi occhi. Di Atene, è appena arrivata in Sicilia con suo
padre, ed è interamente colma della personalità di Sofocle. Ma il suo
entusiasmo ha qualcosa di naturale e lascia spazio per una vita propria:
rhea. Non posso biasimare dò che dia, cara, ma ne sono
stranamente rattristata:
vorrei e nello stesso tempo non vorrei
essere come tè. Siete dunque tutti uguali
in quest'isola? Anche noi proviamo gioia
nel possedere uomini illustri, come colui
che ora è il sole delle ateniesi,
quel Sofocle cui primo fra i mortali
splendida apparve la natura delle vergini
e nel cuore a memoria pura
l'accolse [...]
e ognuna vorrebbe
un pensiero essere di quel grande e,
prima di sfiorire, poter serbare la giovinezza
eternamente bella nel cuore del poeta,
e cerca e chiede quale delle vergini di Atene
sia la seria e delicata eroina
che la sua anima vagheggiò, cui nome diede Antigone;
Le figure del dramma
537
e d si illumina la fronte quando l'amico degli dèi
appare nel teatro in un giorno di festa, ma senza pena di lui ci
allietiamo e mai si perde il cuor nostro nell'omaggio che doloroso d
rapisce.
Rhea. Ich kann nicht tadein, Liebe, was du sagst, /
Doch, irauert meine Seele wunderbar / Darùber, und idi móchte sein wie
du, / Und mócht es wieder nicht. Seid ihr denn ali / Auf dieser Insel
so? Wir haben auch / An groBen Mànnem unsre Lust, und Einer / Ist itzt
die Sonne der Athenerinnen, / Sophokies! dem von allen Sterbiichen /
Zuerst der Jungfraun herrlichste Natur / Erschien und sich zu reinem
Angedenken / In seine Seele gab. / jede wùnscht sich, ein Gedanke / Des
Herrlichen zu sein, und móchte gern / Die immerschóne Jugend, eh sie
welkt, / Hinùber in des Dichters Seele retten, / Und fragt und sin-net,
welche von denJungfem / Der Stadt die zàruichemste Heroide sei, / Die
seiner Seele vorgeschwebt, die er / An-tigonà genannt; und helle wirds
/ Um unsre Stime, wenn der Góttefreund / Am heitem Festtag ins Theater
tritt, / Doch kummerlos ist unser Wohigefallen, / Und nie ver-liert das
liebe Herz sich so / In schmerziich fortgeriBner Huldigung (ili, p. 79;
tr. it. dt., p. 37).
La dismisura di questo sentimento che porta alla
catastrofe si avverte anche nelle seguenti parole:
Tu d sacrifichi - lo credo, è troppo grande perché tu
possa mantenere la tua pace, è illimitato e l'ami senza limiti;
ma che gli giova? Fandulla buona, tu stessa hai
presagito la sua fine:
dovrai forse morire insieme a lui?
Du opferst dich - ich glaub es wohi, er ist / Zu
ùbergroB, um ruhig dich zu lassen, / Den Unbegrenzten liebst du
538 Quarto cerchio - La natura
unbegrenzt, / Was hiift es ihm? Dir selbst, dir ahndete
/ Sein Untergang, du gutes Kind, und du / Solisi untergehn mit ihm? (m,
pp. 79-80; tr. it. dt., p. 37).
Infatti, Panthea già all'inizio del colloquio e del
dramma intero ha raccontato di aver visto Empedo-cle poco tempo prima:
L'ultima volta che lo vidi, all'ombra
dei suoi alberi, aveva certo - lui divino -
toccato il fondo del suo dolore.
Con grande struggimento, cercando triste,
come se molto avesse perduto, ora chinava
gli occhi al suolo, ora l'innalzava
oltre la penembra del boschetto, quasi la vita
verso l'azzurro lontano gli si fosse involata, e
l'umiltà
del suo aspetto regale commosse
il mio cuore restio - tu pure dovrai tramontare,
splendida stella, e tra non molto.
Fu il mio presentimento.
Ach! da ich ihn zum letzten Male dort / Im Schatten
sei-ner Bàume sah, da hatt er wohi / Sein eigen tiefes Leid -der
Góttliche. / Mit wunderbarem Sehnen, traurigfor-schend, / Wie wenn er
viel verloren, blickt* er baid / Zur Erd hinab, baid durch die
Dàmmerung / Des Hains her-auf, als wàr ins ferne Biau / Das Leben ihm
entflogen, und die Demut / Des kóniglichen Angesichts ergriff / mein
ringend Herz - auch du muBt untergehn, / Du schó-ner Stern! und lange
wàhrts nicht mehr. / Das ahnte mir (HI, p. 76; tr. it. cit., p. 33).
Ma all'amica, preoccupata che la fine dell'uomo amato
possa portare con sé anche la sua, risponde:
Non farmi inorgoglire e non temere per me come per lui!
Le figure del dramma
539
Non sono lui, ne il suo tramonto
potrebbe mai essere il mio,
poiché dei grandi anche la morte è grande.
Ciò che accade a quest'uomo
accade, credimi, soltanto a lui,
e se anche avesse contro tutti gli dèi
peccato sfidando della loro collera
il peso e io volessi peccare
come lui per condividerne la sorte,
tale sarei, qual chi, estraneo, s'immischia
in una lite fra amano. «Cosa pretendi?», direbbero
gli dèi, «soltanto tu stolta non puoi
offenderci come fece lui».
O mache mich / Nicht Stolz, und fùrchte, wie fùr ihn,
far mich nicht! / Ich bin nicht er, und wenn er untergeht, / So kann
sein Untergang der meinige / Nicht sein, denn groB ist auch der Tod der
GroBen. / Und will der Waffen-tràger mit dem Helden / Durch Eine
Schicksaisflamme gehn, so mu6 / Der eine, wie der andere, dazu / Berufen
sein. Was diesem Manne widerfahrt, / Das, glaube mir, das widerfahrt nur
ihm, / Und hàtt er gegen alle Gótter sich / Versùndiget und ihren Zom
auf sich / Geladen, und ich wollte sùndigen, / Wie er, um gleiches Los
mit ihm zu leiden, / So wàrs, wie wenn ein Fremder in den Streit / Der
Liebenden sich mischt' - Was wilist du? sprà-chen / Die Gótter nur, du
Tórin kannst uns nicht / Belei-digen, wie er (ni, p. 80 [nella Kleine
Stuttgarter Awgabe, rv, p. 8, mancano i versi 6, 7, 8, 9a]; tr. it.
cit., pp. 37-39).
Ma Rhea ha ragione quando risponde:
Forse sei simile
a lui più che tu creda, che altrimenti come
trovare
in lui di che compiacerti?
Du bist vielleicht / Ihm gleicher, als du denkst, wie
fàndst du sonst / An ihm ein Wohigefallen? (m, p. 80; tr. it. dt., p.
39).
540 Quarto cerchio - La natura 3|
La scena è stupenda, pervasa da un movimento Ì
profondo che ora si avvicina all'uomo amato e ora si ' ritira del tutto
nella lontananza, per essere, nello stes- f so momento, più vicino di
prima. ^
Empedocle qui appare come l'uomo regale e divi-no, come
il semidio nel senso prima esposto. Egli è i fatto della luce che viene
dall'alto. Se Panthea dice di i voler «sedere ai suoi piedi», e
«contemplare il suo § etere», allora vi si esprime una maestà
numinosa, 7, qualcosa di olimpico e signorile, di
zeusico. Ciò è espresso dai seguenti versi:
panthea. Non lo sa. Libero da bisogno, s'aggira
in un mondo soltanto suo; nella tacita quiete degli dèi
passeggia silente tra i suoi fiori, e temono
l'arie di disturbare la sua felicità,
gli tace il mondo e da lui stesso
con piacere crescente nasce e sale l'entusiasmo,
finché dalla notte del fecondo rapimento
come una sondila sprizza il pensiero
o luminose le immagini di future gesta
gli fan ressa nel cuore, e il mondo,
la vita fermentante dei mortali,
e più tacita la Natura
appaiono a lui: allora si sente,
come un dio, nel suo elemento e la sua gioia
è canto celeste; poi tra gli uomini
ritoma, quando della folla sormonta il mugghio
e nel tumulto irresoluto è necessario
un dominatore; e qui governa il grande
pilota e reca aiuto; e quando infine
l'hanno guardato bene e alla sua presenza,
sempre straniera, vorrebbero abituarsi,
prima che se n'avvedano, dilegua: e tra le sue ombre
l'atura il quieto mondo degli alberi, ove meglio si
trova,
e quella vita misteriosa, che a lui
è presente nelle sue forze tutte.
Le figure del dramma
541
panthea.
Er wei6 es nicht. Der Unbedùrftge wandeit / In seiner eignen Welt; in
leiser Gótterruhe geht / Er unter seinen Blumen und es scheun / Die
Lùfte sich, den Glùc-klichen zu stóren, / Ihm schweigt die Welt und
aus sich selber wàchst/ In steigendem Vergnùgen die Begeistrung / Ihm
auf, bis aus der Nacht des schópfrischen / Entzùc-kens, wie ein Funke,
der Gedanke springt / Und heiter sich die Geister kùnftger Taten / In
seine Seele dràngen, und die Welt, / Der Menschen gàrend Leben und der
sdi-lern / Natur, um ihn erscheint - hier fuhit er, wie ein Gott, / In
seinen Elementen sich, und seine Lust / Ist himmlischer Gesang, dann
tritt er auch / Heraus ins Volk an Tagen, wo die Menge / Sich
ùberbraust und eines Màchdgern / Der unentschlossene Tumuli bedarf. /
Da herrscht er dann, der herrliche Pilot, / Und hiift hinaus, und wenn
sie nun genug / Ihn sehn, des immerfremden Mannes sich / Gewóhnen
móchten, ehe sie's gewahren, / Ist er hinweg - ihn rieht in ihre
Schatten / Die sulle Pflan-zenweit, wo er sich schóner findet, / Und
ihr geheimnis-volles Leben, das vor ihm / In seinen Kràften allen
gegen-wàrdg ist (m, pp. 77-78; tr. it. dt., p. 35).
Qui diventa chiaro lo spazio della sua esistenza,
Empedocle vive nella solitudine. Da là scaturisce la scintilla
creativa. Poi va tra la gente, operando, agendo, guidando, per sottrarsi
di nuovo a essa e ritornare nel silenzio. Vi è un luogo che è
particolarmente correlato a Empedocle: il giardino.
La prima frase pronunciata da Panthea, con cui inizia il
dramma, è:
Ecco il suo giardino. Nell'ombra misteriosa ove la
sorgente scaturisce stava recentemente, quando passai di D.
Dies ist sein Garten! Dort im geheimen Dunkel, wo die /
Quelle springt, dort stand er jùngst, als ich vorùberging (III, p. 75;
tr. it. dt., p. 31).
542 Quarto cerchio - La natura
Si tratterà di analizzare ancora più a fondo cosa
significhi il giardino, come anche il pendant dell'immagine di
esso, le coste vuote della montagna e infine il luogo, al quale conduce
la dirczione che attraversa questo contrasto, il cratere del vulcano ...
Ma vi sono ancora alcune frasi importanti:
panthea. Dovresti vederlo ora! Ora! Si dice che le
piante al suo passaggio
10 scrutino attente, e le acque sotterranee
affiorino dove il suo bastone tocca il suolo.
Può darsi che tutto dò sia vero!
E se durante i temporali leva lo sguardo al delo, le
nuvole
si squardano e subito appare
11 giorno sereno.
Ma che importa? Devi vederlo, un solo istante, e poi
allontanarti! Io stessa lo evito poiché, tremendo, v'è in lui il
potere di trasformare tutto.
Panthea. Du rnufit ihnjetzt sehn!jetzt! Man sagt,
die Pflan-zen merkten auf ihn, wo er wandre, und die Wasser unter der
Erde strebten herauf, da wo sein Stab den Boden be-rùhre! Das ali mag
wahr sein! Und wenn er bei Gewittem in den Himmel blicke, teile die
Wolke sich und hervor-schimmere der heitere Tag. Doch was sagts? du
mufit ihn selbst sehn! Einen Augenblick! und dann hinweg! ich meid ihn
selbst, ein fùrchtbar allverwandeind Wesen ist in ihm (m, p. 75; tr.
it. dt, p. 31).
Qui si evidenzia il nucleo della figura: la sua
relazione con tutto. Empedocle è un uomo universale. L'abbozzo dice che
egli è:
[...] nemico mortale di ogni esistenza unilaterale e
perdo insoddisfatto, instabile, sofferente, anche in situazioni di vita
realmente belle, semplicemente perché si tratta di situazioni
particolari, che potrebbero soddisfarlo fino in fondo solo se vissute in
un grande accordo con tutto dò
Le figure del dramma
543
che vive; semplicemente perché egli non può, con il
cuore presente a ogni cosa, vivere e amare in esse con l'intimità
profonda di un dio, libero e aperto come un dio, semplicemente perché
è vincolato alla legge della successione non appena il suo cuore e il
suo pensiero abbracciano ciò che gli sta innanzi.
[...] ein Todfeind aller einseitigen Existenz und
deswegen auch in wirkiich schónen Verhàitnissen unbefriedigt, un-stet,
leidend, bloB weil sie besondere Verhàitnisse sind und, nur im groBen
Akkord mit allem Lebendigen em-pfunden, ganz ihn erfiillen, bloB weil er
nicht mit allgegen-wàrtìgem Herzen innig, wie ein Gott, und frei und
ausge-breitet, wie ein Gott, in ihnen leben und lieben kann, bloB weil
er, sobaid sein Herz und sein Gedanke das Vorhande-ne umfaBt, ans Gesetz
der Sukzession gebunden ist... (m, p. 67; tr. it. cit., p. 247).
Per natura, egli è correlato al tutto. Indirizza ogni
sua azione verso il tutto; e da ciascuna cosa tende al centro. Nella sua
figura si leva, inquietante e tremendo per gli altri, il tutto, e si fa
presente. Muovendo verso il tutto e ritornandovi, staccandosi dal centro
e ricollegandovisi, egli attraversa le situazioni della sua esistenza
quotidiana, toccandole, dando loro forma, eppure lasciandole, in fondo,
scosse dietro di sé. Un movimento profondo fluttua attraverso la
«tacita quiete degli dèi» di questa figura, un'eccitazione dionisiaca
da cui può erompere a ogni istante il brusco slancio verso l'alto, che
poi diventa la caduta nell'abisso. Ciò è particolarmente evidente
sullo sfondo di quell'altra figura che da Atene, con chiarezza
apollinea, appare dietro a Empedocle, Sofocle.
Ma non bisogna dimenticare che Empedocle è anche un
lottatore, un auriga, vincitore ad Olimpia. Subito all'inizio Rhea dice
di lui:
544
Quarto
cerchio - La natura
[...] un tempo, quand'ero ancora bambina, l'ho visto
ai giochi d'Olimpia
in gara sopra un cocchio.
Di lui si parlò molto, allora,
e sempre mi è rimasto il suo nome.
[...] ehmais, als ich noch ein Kind war, sah ich ihn die
Rosse lenken auf einem Kàmpferwagen bei den Spielen von Olympia. Sie
sprachen damais viel von ihm, und immer ist sein Name mir gebiieben (m,
p. 75; tr. it. dt., p. 31).
E, salutando la sua servitù, egli stesso si ricorda di
quelle ore circonfuse dell'alone di gloria:
Dove portate dunque, vie dei mortali? Molte
voi siete, ma qual è la mia? quale la più breve? dove?
la più veloce? Che indugiare è vergognoso.
Miei numi, nello stadio guidavo un tempo il cocchio,
spensierato, su fumanti ruote. Così voglio
presto a voi ritornare, benché la fretta sia rischio.
Wohin denn nun, ilir Pfade der Sterbiichen? viel / Sind
euer, wo ist der meine? der kùrzeste? wo? / Der schnell-ste? denn zu
zógern ist Schmach. / Ach meine Getter! im Stadium lenkt ich den Wagen
/ Einst unbekùmmert auf rauchendem Rad. So will / Ich baid zu euch
zurùck, ist gleich die Eile gefahriich (m, p. 118; tr. it. dt., p. 80).
Questo tratto della sua natura non appare
partico-larmente nel dramma stesso. Tuttavia è presente dietro le crisi
e decisioni religiose in questione conferendo ad esse la sua impronta.
Le parole di Panthea, chiaroveggente per amore, rivelano
anche che il movimento pericoloso ha già avuto inizio:
L'ultima volta che Io vidi, all'ombra dei suoi alberi,
aveva certo - lui, divino -
Le figure del dramma
545
toccato il fondo del suo dolore.
Con grande struggimento, cercando, triste,
come se molto avesse perduto, ora chinava
gli occhi al suolo, ora l'innalzava
oltre la penembra del boschetto, quasi la vita
verso l'azzurro lontano gli si fosse involata ...
Ach! da ich ihn zum letzten Male dort / Im Schatten
sei-ner Bàume sah, da hatt er wohi / Sein eigen tiefes Leid -der
Góttliche / Mit wunderbarem Sehnen, traurigfbr-schend, / Wie wenn er
viel verloren, blickt'er baid / Zur Erd hinab, baid durch die Dàmmerung
/ Des Hains her-auf, als wàr ins ferne Biau / Das Leben ihm entflogen
... (Ili, p. 76; tr. it. cit., p. 33).
Quando poi il verdetto è stato pronunciato ed
Em-pedocle ha abbandonato la città, ella esprime il tratto di fondo
tragico della sua figura:
[...] Lo so, è necessario
cada quanto è divino. Ma la sua caduta
una veggente di me ha fatto,
e quando incontro ancora un genio splendido,
si chiami egli uomo o dio,
so presagire l'ora per lui infausta.
[...] Ich wei6, es muB, / Was gótdich ist, hinab. Zur
Sehe-rin / Bin ich geworden ùber seinen Fall, / Und wo mir noch ein
schóner Genius / Begegnet, nenn er Mensch sich oder Gott, / Ich weiB
die Stunde, die ihm nich gefallt (ili, pp. 121-122; tr. it. cit., p.
95).
Ed è di nuovo lei a dire, dopo l'ultimo congedo, la
parola definitiva su di lui:
Non per nulla, o tu che tutto a lui donasti, Natura,
546 Quarto cerchio - La natura
sono più caduchi di ogni altro i tuoi prediletti. Lo so
bene:
vengono, e diventano possenti,
e nessuno sa dire come, e a loro volta poi ,
scompaiono i felici! Oh, lasciateli!
Umsonst nicht sind, o die du alles ihm / Gegeben, Naturi
/ Vergànglicher deine Uebsten, denn andre! / Ich wei6 es wohi! / Sie
kommen und werden groB, und keiner weiB, / Wie sie's geworden, so
entschwinden sie auch, / Die Glùc-klichen! wieder, ach! .und laBt sie
doch (ili, p. 163; tr. it. cit., p. 199).
E quando l'amica chiede:
Non è dunque bello
dimorare tra gli uomini? Altro
il mio cuor non conosce, si placa
in quest'uno, ma ai miei occhi
appare tristemente minacciosa
la fine dell'Incomprensibile, e anche tu,
Panthea, lo esorti a parure?
Ists denn nicht schón / Bei Menschen wohnen? Es wei6 /
Mein Herz von andrem nicht, es ruht / In diesem Einen, aber traurig
droht / Vor meinem Auge das Ende / Des Unbegreiflichen, und du heiBest
ihn auch / Hinweggehen, Panthea? (m, p. 164; tr. it. dt., p. 199).
Ella risponde:
Devo! Chi potrebbe legarlo? Dirgli: sei mio?
se della sua vita egli è l'unico padrone e legge a lui
solo è il suo spirito, e per salvare l'onore dei mortali, che gli hanno
fatto oltraggio dovrebbe rimanere,
•<§ è.
€
Le figure del dramma
547
quando il padre, l'Etere, gli apre le bracda?
Ich mu6! Wer will ihn binden? / Ihm sagen, mein bist du?
/ Ist doch sein eigen der Lebendige / Und nur sein Geist ihm Gesetz. /
Und soli er, die Ehre der Sterbiichen / Zu retten, die ihn geschmàht, /
Verweilen, wenn ihm / Der Valer die Arme, / Der Àther, óffnet? (ni, p.
164; tr. it. cit. p.199).
Qui diventa manifesto ciò che sta dietro il tramonto e
che cosa nella natura dell'uomo misterioso si dimostra un elemento
straniero.
II
Pausania, il discepolo di Empedocle, è un giovane. Ha
quindi l'età che per Hólderlin è posta in un rapporto particolarmente
immediato con il divino e l'inconsueto. Panthea dice di lui:
Già molto di lui mi ha narrato Pausania, il suo amico,
il giovane che lo vede ogni giorno, e l'aquila di Giove - io credo -non
è più orgogliosa di lui!
Sein Freund Pausanias hat auch von ihm / Schon manches
mir erzàhit - derJùngling sieht/ Ihn Tag vor Tag, undJo-vis Adier ist
/ Nicht stolzer, denn Pausanias - ich glaub es wohi (il, pp. 78-79; tr.
it. dt., p. 37).
Dell'operato politico di Empedocle Panthea dice:
A noi veniva come un nuovo sole splendido e
amichevolmente attraeva a sé
548 Quarto cerchio - La natura J
•? ^ i con fili d'oro i giovani immaturi. ».
Da tempo la Sicilia era in attesa di lui. ^ Sull'isola
non regnò mai mortale ;, che fosse pari a lui. Intuivano ] che dei geni
del mondo era alleato. ^ E tu con grande affetto li stringesti tutti i
al petto [...] , i
':! Wie eine neue Sonne kam er uns / Und
strahit' und zog Ì das ungereifte Leben / An goldnen Seilen freundiich
zu sich auf, / Und lange hatt auf ihn Sizilien / Gewartet. Nie-mais
herrscht' auf dieser Insel / Ein Sterbiicher, wie er, sie fùhitens
wohi, / Er lebe mit den Genien der Welt / Im Bunde. Seelenvoller! und du
nahmst / Sie ali ans Herz [...] (lll.p. 121;tr.it. dt.,p.95).
Pausania esprime la stessa opinione in termini virili,
ed è bello vedere la diversità delle prospettive:
[...] Pur ti conobbi,
nelle tue gesta, quando allo Stato selvaggio
conferisti forma e senso,
e nella sua potenza
sperimentai il tuo spirito e il suo mondo; quando spesso
una tua parola nell'istante
sacro creava in me la vita di molti anni
e allora un'età nuova e bella
s'apriva alla mia giovinezza [...]
[...] Doch sah ich dich / In deinen Taten, da der wilde
Staat / Von dir Gestalt und Sinn gewann, in seiner Macht / Er-fuhr ich
deinen Geist und seine Welt, wenn oft / Ein Wort von dir im heilgen
Augenblick / Das Leben vieler Jahre mir erschuf, / DaB eine neue schóne
Zeit von da / Dem Jùnglinge begann [...] (m, p. 94; tr. it. dt., p.
57).
Domina lo stesso tono quando Pausania descrive il
Le figure del dramma
549
sapere di Empedocle arca il mondo mitico, la sua
capacità di veggente e il suo potere sulla natura:
[...] Come ai cervi domati, che pensano
alla terra natale quando stormisce lontana la foresta,
così spesso mi palpitava il cuore se parlavi
della felicità del mondo primevo, e innanzi a me
non disegnavi forse a grandi linee gli anni futuri,
come il sicuro sguardo dell'artista nell'immagine intera
inserisce un elemento a colmar una lacuna?
Non è forse chiaro per tè il destino umano?
E non conosci tu le energie della natura
che confidente, come nessun altro mortale,
guidi, come tu vuoi, con signoria tranquilla?
[...] Wie zahmen Hirschen, / Wenn ferne rauscht der Wald
und sie der Heimat denken, / So schlug mir oft das Herz, wenn du vom
Glùck / Der alten Urweit sprachst;
und zeichnetest / Du nicht der Zukunft groBe Linien /
Vor mir, so wie des Kùnstler sichrer Blick / Ein fehiend Glied zum
ganzen Bilde reiht? / Uegt nicht vor dir der Menschen Schicksal offen? /
Und kennst du nicht die Kràfte der Natur, / Da6 du vertraulich, wie
kein Sterbii-cher, / Sie, wie du wilist, in stiller Herrschaft
lenkst? (Ili, p. 94; tr. it. dt., p. 57).
Ma questo dominio è esercitato allo stesso tempo con
una peculiare mitezza. Non è più contraddistinto dalla potenza
primordiale di un Tantalo o anche di un Cadmo. Pausania lo rinfaccia
agli awersarì quando questi portano al suo maestro il verdetto di
proscrizione:
[...] Osservatelo:
si affligge e vi tace quello spirito suo a cui, quando
non sarà più, gli adolescenti
550 Quarto cerchio - La natura
di un'era senza eroi aspireranno; ,
e ora gli strisciate intorno sibilando.
Vi sembra giusto? e siete così ottusi '
da non sentirvi ammoniti dal suo sguardo?
Lui che, essendo mite, è bersaglio
dei codardi [...]
J
[...] Da stehet er / Und trauert und verschweigt den
Geist, wonach / In heldenarmer Zeit dieJùnglinge / Sich sehnen werden,
wenn er nimmer ist, / Und ihr, ihr kriecht und zi- ? schet um ihn her, /
Ihr dùrft es? und ihr seid so sinnen-grob, / DaB euch das Auge dieses
Manns nicht wamt? / Und weil er sanft ist, wagen sich an ihn / Die
Feigen [...] (Ili, p. 100; tr. it. cit., p. 65).
Qui si radica la tragicità psicologica di Empedocle. Di
per sé, egli è un «semidio», un essere mitico, e ne ha il compito:
plasmare l'esistenza umana tramite forze creative. Ma gli manca
l'integrità degli eroi mitici. Questi si compongono solo, per così
dire, di potenze, non hanno interiorità. L'anima di Empedocle, invece,
è molto delicata e profonda. Anzi, la sua interiorità e di tipo
particolare, poiché la sua figura - peculiarmente tramutata come sarà
messo in luce nel prossimo cerchio - ha assimilato quella di Cristo. Il
parallelismo tra Empedocle e Cristo attraversa l'intero dramma
esercitando un influsso permanente. Ne deriva la mitezza propria
all'Empedocle hólderliniano, che è così poco greca quanto lo è,
poniamo, la coscienziosità deU'Ifìgenia di Goethe.
Pausania sperimenta, vincendolo con lui, il mutamento
del suo maestro dopo che questi si è deciso al sacrificio
dell'espiazione (m, pp. 128 ss.). Ed è lui ad esplicitare nei confronti
di Ermocrate, nei termini assoluti della giovinezza, ciò che Empedocle
pensa (III,
Le figure del dramma
551
p. 139). In un colloquio in cui aleggia la più profonda
familiarità, egli da testimonianza di sé al suo maestro:
pAUSANIA. Comprendo il mio cuore
che, fedele e orgoglioso, batte e freme per il tuo.
empedocle. Allora concedi almeno il suo onore, al mio.
pAUSANIA. Solo nella morte c'è onore?
EMPEDOCLE. Mi hai inteso.
E l'anima tua lo attesta: non v'è
altro per me.
PAUSANIA. Ahimè, è dunque vero?
EMPEDOCLE. Chi riconosci in me?
pausania (affettuoso). Figlio d'Urania,
come puoi dubitarne?
empedocle. E tu vuoi che sopravviva,
come uno schiavo, al giorno del mio disonore?
pausania. No!
Non voglio, per il tuo spirito d'incantatore,
fard oltraggio, neppur se l'angustia
d'amore me l'ordinasse, caro. Muori dunque, e rendi
testimonianza di tè stesso! Se è necessario.
Pausanias. Mein Herz versteh ich, / Das treu und
stolz fùr deines zùmt und schlagt. / Empedokies. So gónn ihm
seine Ehre doch, dem meinen. / Pausanias. Ist Ehre nur im Tod? / Empedokies.
Du hasts gehórt, / Und deine Seele zeugt es mir, fùr mich / Gibts
andre nicht. / Pausanias. Ach! ists denn wahr? / Empedokies.
Wofùr? / Erkennst du mich? / Pausanias (innig). Sohn Uraniens! /
Wie kannst du fragen? / Empedokies. Dennoch soli ich Knechten
gleich / Den Tag der Unehr ùberleben? / Pausanias. Nein! / Bei
deinem Zaubergeiste, Mann, ich will nicht, / Will nicht dich schmàhn,
gebót es auch die Not / Der Liebe mir, du Lieber! sdrb denn nur / Und
zeuge so von dir. Wenns sein muB (m, pp. 158-159; tr. it. dt., p. 149).
Egli contribuisce a formare anche, nella scena finale,
con Panthea e la sua amica, che qui si chiama
552 Quarto cerchio - La natura
Delia, il coro giovanile dalle cui parole l'immagine di
colui che è già tramontato si leva trasfigurata. Pausa-nia e Panthea
coincidono nel loro entusiasmo assoluto. Delia invece prende le difese
della vita e vorrebbe che potesse proseguire. Gli altri due esaltano la
vita descritta nella poesia Voce del popolo: un culmino
dionisiaco che precipita nella morte! E l'atteggiamento già espresso
nell'inno II Reno, nell''Arcipelago e nella figura di
Sofocle. La consonanza diventa ancora più forte quando l'inno
dionisiaco trascina anche loro. Pausania dice:
[...] Non condannare
il Sublime cui così la fortuna si mutò in sventura,
che deve morire, perché la sua vita fu troppo bella,
perché troppo fu amato dagli dèi.
Se si oltraggia un altro che non sia lui,
è perdonabile, ma lui, se a lui
... che può il figlio degli dèi?
Sopra di lui, infinito, il colpo è senza fine.
[...] Verdamme nicht/ Den Herrlichen, dem so sein Glùck
zum Unglùck ward, / Der sterben mu6, weil er zu schón gelebt, / Weil
ihn zu sehr die Getter alle liebten. / Denn wird ein anderer, denn er,
geschmàht, / So ists zu tilgen, aber er, wenn ihm / ... was kann der
Góttersohn? / Unen-diich trifft es den Unendiichen (m, p. 534; tr. it.
cit., p. 161).
E Panthea:
Non nel fiore e nell'uva purpurea soltanto è sacra
energia; si nutre la vita di dolore, sorella, e beve, come il mio eroe,
pur anche la gioia dal calice di morte.
Le figure del dramma
553
Micht in der Blùt und Purpurtraub / Ist heilige Kraft
al-lein, es nàhrt / Das Leben vom Leide sich, Schwester! / (Jnd trinkt,
wie mein Held, doch auch / Am Todeskelche sich glùckiich! (m, p. 169;
tr. it. dt., p. 207).
Delia invece a Pausania:
Ti accende, anima generosa, la morte
dei grandi, ma godono
i cuori dei mortali anche
alla mite luce del sole
scaldarsi e fissano
lo sguardo su ciò che non muore. Oh, dimmi,
che può ancora vivere e durare? Il destino
sradica gli uomini più quieti, e se, a lui fidi,
pieni di presagi, s'avventurarono,
subito li respinge, e perisce
con le loro speranze la giovinezza.
Nel suo fiore non rimane
niente di mortale - e, anche i migliori,
passano dalla parte degli annientatori
dèi della morte, anche loro, e vanno
con gioia, e ci fanno vergognare
di indugiare tra i mortali.
Dich entzùndet, groBe Seele! der Tod / Des GroBen, aber
es sonnen / Die Herzen der Sterbiichen auch / An mil-dem Uchte sich gern
und heften / Die Augen an Bleiben-des. O sage, was soli / Noch leben und
dauern? Die Still-sten reiBt / Das Schicksal doch hinaus, und haben /
Sie ahnend sich gewagt, verstóBt / Es baid die Trauten wieder und es
stirbt / An ihren Hoffnungen die Jugend. / In sei-ner Blùt bleibt /
Kein Lebendes - ach! und die Besten, / Noch treten zur Seite der
tilgenden / Todesgótter auch sic, und gehen dahin / Mit Lust und machen
zur Schmach es uns, / Bei Sterbiichen zu weilen! (n, pp. 167-168; tr.
it. dt., pp. 203-205).
554 Quarto cerchio - La natura 3
Ma è la sorella di Diotima a chiudere la scena:
Oh, sì, festoso scende
e più gioia e più chiarità nasce.
Perché allora m'attristo? Risplende
anima di crepuscolo, pur anche
colui che affonda,
l'austero, il tuo prediletto, o Natura!
il tuo fedele, la tua vittima!
[...] Oh, sacro Tutto :
fervido, vivente, per dird grazie,
per tesdmoniare di tè che sei immortale,
sorridendo l'audace getta le sue perle
nel mare da cui vennero.
Così doveva accadere.
Così vuole lo spirito
e il tempo che matura.
che a noi, ciechi, una volta almeno
necessario era il prodigio.
Wohi geht er festlich hinab - / Und freudiger wirds und
heller auch. / Warum denn traur ich? leuchtet, / Dàm-mernde Seele! doch
auch / Der Untergehende dir, / Der Ernste, dein Uebster, Natur! / Dein
Treuer, dein Opfer! / [...] o heilig Ali! / Lebendiges! inniges! Dir zum
Dank / Und daB er zeuge von dir, du Todesloses! / Wirft làcheind seine
Perlen ins Meer, / Aus dem sic kamen, der Kùhne. / So muBt es
geschehen. / So will es der Geist / Und die rei-fende Zeit, / Denn
einmal bedurften / Wir Blinden des Wunders (m, pp. 170-171; tr. it. dt.,
pp. 207-209).
Sulla radiosa immagine che dipingono i giovani
ammiratori del loro maestro getta ombre Ermocrate. Ciò che questi dice
contro Empedocle in modo consapevole e per principio è condiviso da
Crizia istintivamente. Egli è un uomo che vive nei limiti del buon
senso quotidiano e come tale diffida di tutto ciò che
Le figure del dramma
555
è entusiastico e inconsueto. Avverte il pericolo che
deriva dal modo di essere di Empedocle. È lui a formulare il primo
giudizio negativo:
[...] Oh, lontano fosse tra i boschi o nei deserti,
oltre il mare o giù, sotto la terra, ovunque illimite lo spirito possa
spingerlo!
[...] wàr er hinweg / In Wàlder oder Wùsten, oder
ùbers Meer / Hinuber oder in die Erde hinab, wohin / Der un-begrenzte
Sinn ihn treiben mag! (m, p. 82; tr. it. dt-, p. 41).
Lo «spirito illimite» esprime il pericolo di cui è
causa ciò che in termini positivi si chiama «relazione col Tutto».
Quando Ermocrate definisce l'amore del popolo per Empedocle «folle
illusione», Crizia sottolinea l'espressione:
II popolo è ebbro, come lui stesso.
Non hanno più leggi, ne giudici,
ne doveri, sui loro costumi
come su placide spiagge tutte schiumanti
crosciano indistinti frastuoni.
Ogni giorno s'è fatto una festa selvaggia,
è sempre festa, e le modeste ricorrenze
consacrate agli dèi si sono tutte
fuse insieme. Ricoprendo tutto di tenebre,
l'incantatore avvolge delo e terra
nella tempesta, che ci ha scatenato,
e lui guarda e gioisce del suo spirito
e della sua silenziosa dimora.
Das Volk ist trunken, wie er selbst ist. / Sie hóren
kein Ge-setz und keine Not / Und keinen Richter; die Geb ràuche sind /
Von unverstàndiichem Gebrause ganz / Gleich
556 Quarto cerchio - La natura
friediichen Gestaden ùberschàumt, / Ein wildes Fest
sind T alle Tage worden, / Ein Fest fùr alle Feste und der
Gótter / Bescheidne Feiertage haben sich / In Eins verloren. Ali.
verdunkeind hùllt / Der Zauberer den Himmel und die Erd / Ins
Ungewitter, das er uns gemacht, / Und siehet zu3 und freut
sich seines Geists / Und seiner stillen Halle (m, p. 83; tr. it. cit.,
pp. 41-43). ;
Le frasi rivelano la potenza dionisiaca dell'uomo.fc
Egli opera ciò che gli awersari del dionisismo gli rinfacciano
già nel mito: di rompere l'ordine dell'osi- ', stenza, di
distruggere la disciplina e il pudore, di annullare le differenze tra
uomo e uomo, tra uomo e bestia e dio, sospingendo tutto nel caos.
Empedocle annulla davvero le differenze tra gli dèi. Fa che le lo-1 ro
immagini celebrative e i loro attributi si fondano ' poiché li
concepisce come elementi nella totalità della natura. Questa volontà
è avvertita da Crizia come pericolosa per la forma e l'ordine
dell'esistenza. ^
Entrambi riconoscono che Empedocle è potente: |
sacerdote della religione tradizionale, supremo giudi- S ce della città
e custode dell'ordine civile. Crizia deve persino ammettere che
quell'uomo pericoloso gli ha ? salvato la figlia (ili, p. 83; tr. it.
cit., p. 43). Ma essi ri-1 conoscono anche la crisi, in cui egli si
trova, e il peri-1 colo che essa può significare per altri. Infatti,
quando I Crizia domanda ad Ermocrate che cosa pensi di Em- ^ pedocle,
questi risponde: ^
Gli dèi lo hanno molto amato. ' ". \ Ma non
è il primo che abbiano respinto, 3 più tardi, giù nella
notte dell'insensatezza I dalla vetta della loro benigna intimità, i
perché nell'eccesso della sua fortuna
troppo dimenticò le distanze ^
Le figure del dramma
557
e si ritenne unico; così è stato punito
con una solitudine infinita.
Ma per lui non è ancora sonata l'ora estrema:
che a lungo viziato, più nell'animo non tollera,
;o temo, l'ignominia, e il suo
spirito assopito si accende
di nuovo all'esca della sua vendetta,
e in dormiveglia, tremendo sognatore,
afferma, come i vecchi altezzosi
che con la canna peregrinano nell'Asia,
che dalla sua parola un tempo ebbero origine
gli dèi. Allora il mondo immenso, ricco
di vita, sta di fronte a lui come una sua
perduta proprietà, e immense voglie
gli s'agitan nel petto, e questa fiamma,
dovunque si getti, apre un varco.
Egli rovescia tutto dò che benigno il tempo
prima di lui maturò - leggi
e arti e costumi e sacre saghe -
e mai può tollerare tra i viventi
ne pace, ne serenità.
Es haben ihn die Getter sehr geliebt, / Doch nicht ist
der erste, den sie drauf/ Hinab in sinnenlose Nacht verstoBen / Vom
Gipfel ihres gùtigen Vertrauns, / Weil er des Un-terschieds zu sehr
vergaB / Im ùbergroBen Glùck, und si eh allein / Nur fuhite; so erging
es ihm, er ist / Mit gren-zenloser Òde nun gestraft. - / Doch ist die
letzte Stunde noch fur ihn / Nicht da; denn noch ertràgt der
Langver-wóhnte / Die Schmach in seiner Seele nicht, sorg ich, / Und
sein entschlafher Geist / Entzùndet neu an seiner Ra-che sich, / Und
halberwacht, ein fùrchterlicher Tràumer, spricht / Er, gleich den
alten Ùbermùtigen, / Die mit dem Schilfrohr Asien durchwandem, / Durch
sein Wort sei'n die Gótter einst geworden. / Dann steht die weite
lebens-reiche Welt / Wie sein verlornes Eigentum vor ihm, / Und
ungeheure Wùnsche regen sich / In seiner Brust, und wo sie hin sich
wirft, / Die Fiamme, macht sie eine
558 Quarto cerchio - La natura
freie Bahn. / Und was vor ihm die gute Zeit gereift, /
Gè- s setz und Kunst und Sitt' und heilge Sage, / Das
stùrzt er I um und Lust und Frieden kann / Er nimmer dulden bei I den
Lebenden (m, p. 84; tr. it. cit., pp. 4S-45). |
In Empedocle si ripetono, come lui stesso dirà, J opera
e destino di un Tantalo e di un Sisifo. Gli dèi s lo hanno
«amato» e tratto a sé, ma egli ha «dimentì- | cato la distanza».
Adesso è espulso dalla comunità ce- H leste. Fino a qui Ermocrate ha
ragione. Ma poi inizia 8 la cattiva interpretazione dettata dall'odio:
l'elemento ? dionisiaco si tramuterà in quello distruttivo-titanico, e
1 travolgerà tutto quanto si chiama forma e ordine - ? «leggi e arti e
costumi e sacre saghe». La possibilità > che la verità possa
essere più profonda, più delicata, ? dolorosa ed intricata, che il
colpevole possa ricono- | scere la sua colpa e magnanimamente superarla
non è nemmeno presa in considerazione. Ermocrate fa della colpa di
Empedocle una colpa mitica, come quella di Tantalo. La natura d'essa
consiste nel fatto | che l'attore sia identico con la sua azione. La
colpa j mitica non prevede una conversione, ma solo conse- I guenza
e destino. Ma Empedocle, per quanto colloca- ' to nel mitico, è un vero
uomo, per giunta toccato dal ^ cristianesimo. Questo Ermocrate non lo
vede. Egli
vuole esclusivamente giudicare, punire, maledire: ,|
'.^• La sentenza degli dèi lo colpirà prima che
l'opera ;
inizi. Raduna solo il popolo, affinchè 1^ mostri loro
il volto dell'uomo ? che, a quanto dicono , è già salito y all'etere.
Devon esser testimoni 1 dell'anatema che sto per scagliargli contro. Ig
Verrà scacciato nel deserto selvaggio, S da cui non potrà più fare
ritorno '.;
Le figure del dramma
559
per espiarvi l'ora trista in cui si fece dio.
Der Spruch der Gótter trifft ihn, eh sein Werk /
Beginnt Versammle nur das Volk, damit ich / Das Angesicht des Mannes
ihnen zeige, / Von dem sie sagen, daB er aufge-flohn / Zum Àther sei.
Sie sollen Zeugen sein / Des Flu-ches, den ich ihm verkùndige, / Und
ihn verstoBen in die ode Wildnis, / Damit er nimmerwiederkehrend dort/
Die bóse Stunde bùfie, da er sich / Zum Gott gemacht (III, p. 85; tr.
it. dt., p. 45).
Dopo aver imposto la proscrizione di Empedocle, il
sacerdote gli comunica il verdetto, e dalla bocca di lui riceve il
proprio:
[...] conosco tè e la tua mala congrega,
e a lungo mi sono chiesto come nel suo cerchio
la Natura vi tolleri. Sin da ragazzo fuggiva
il mio animo pio da voi, corruttori di tutto,
e con amore incorruttibile si volgeva al sole,
all'etere e a tutti i messaggeri
della grande Natura, cui lontano presagio tendeva.
Poiché nel mio umore bene ho avvertito
che il mio libero amore per gli dèi
denigrar volevate al volgare servigio,
e che io lo prestassi come voi.
Via di qui! via! non posso vedermi di fronte
chi delle cose sacre fa un mestiere.
Il tuo volto è falso e freddo e morto
come lo sono i tuoi dèi.
Ich kenne dich und deine schiimme Zunft, / Und lange
wars ein Ràtsel mir, wie euch / In ihrem Runde duldet die Natur. / Ach!
als ich noch ein Knabe war, da mied / Euch Allverderber schon mein
frommes Herz, / Das unbestech-bar innigliebend hing / An Sonn und Àdier
und den Bo-ten allen / Der groBen ferngeahndeten Natur. / Denn
560 Quarto cerchio - La natura
wohi hab ichs gefùhit, in meiner Furcht, / DaB ihr des
Herzens freie Gótterliebe / Bereden móchtet zum gemei-nen Dienst, /
Und da6 ichs treiben solite, so wie ihr. / Hinweg! Ich kann vor mir den
Mann nicht sehn, / Der Heiliges wie ein Gewerbe treibt, / Dein Angesicht
ist falsch und kalt und tot, / Wie deine Getter sind (II, p. 98;
tr. it. dt., p. 63).
Ma Pausania, mosso da sdegno giovanile, esclama:
[...] Hai fatto molto, Ermocrate,
da quando vivi: molte care gioie
ai mortali col terrore hai strappate,
numerosi figli d'eroi nella culla,
hai soffocato e, come il fiore del campo, cadde
giovane e forte la Natura sotto i colpi
della tua falce. Molto io stesso vidi,
altro mi fu narrato. Se un popolo deve perire,
basta che le Furie mandino un uomo
che con l'inganno dovunque convinca del misfatto
ogni uomo che sia esuberante di vita.
Infine, appresa l'arte, lo strangolatore
attaccò con sacra astuzia l'uomo unico
e riuscì, movendo a sdegno i cuori, nell'intento
che il pari agli dèi cada per mano del più volgare.
[...] Viel hast du getan, Hermokrates, / Solang du
lebst, hast manche liebe Lust/ Den Sterbiichen hinweggeàngsd-get, /
Hast manches Heldenkind in seiner Wieg' / Er-stickt, und gleich der
Blumenwiese fiel / Und starb die ju-gendkràftige Natur / Vor deiner
Sense. Manches sah ich selbst / Und manches hórt. Soli ein Volk
vergehn, / So schicken nur die Furien einen Mann, / Der tàuschend
liberali der Missetat / Die lebensreichen Menschen ùber-fùhre. /
Zuletzt, der Kunst erfahren, machte sich / An einen Mann der heilig
schlaue Wùrger / Und herzempó-rend glùckt' es ihm, damit / Das
Góttergleiche durch Gemeinstes falle (ili, p. 139; tr. it. dt., p.
121).
Le figure del dramma
561
Qui si manifesta una contrapposizione che domina
nell'esistenza religiosa come in tutti gli altri ambiti della vita: la
contrapposizione tra il geniale e il corretto, tra chi è creativo e chi
sostiene l'ordine, tra chi apre nuovi varchi e il conservatore, tra chi
è proiettato verso il futuro e chi è rivolto al passato.
Ciascuno vede nell'altro solo il pericolo e l'immagine
distorta di lui. Ermocrate scorge nel suo avversario il distruttore
superbo della tradizione, l'uomo che infrange l'ordine. Per Empedocle il
suo antagonista rappresenta lo zelante inflessibile, il nemico della
vita, la guardia carceraria della libertà. La situazione drammatica
però è costruita in modo sbagliato, e questo errore si vendica
mettendo in dubbio la credibilità della figura di Ermocrate, ma con
questo anche, retroattivamente, quella di Empedocle. Perché il primo,
nonostante tutto, persegue un obiettivo legittimo: quello dell'ordine e
della possibilità di vita di fronte all'eruzione dionisiaca. Per quanto
arido, egli sostiene tuttavia le stesse cose già proferite da Delia
sotto la spinta del suo sentimento puro; e il sacrilegio di Empedocle
dimostra che aveva di fatto motivo di preoccuparsi. In tal modo, sia
psicologicamente che drammaticamente, Ermocrate subisce un torto.
Diventa una pura figura dell'odio, la figura del sacerdote oscurantista,
quindi in ultima analisi debole. Ermocrate sarebbe un avversario
pericoloso e il suo superamento sarebbe una vera vittoria se si
presentasse come un superbo custode di valori autentici;
ma, così com'è, costituisce solo qualcosa di tristo e
in fondo è impotente. Ed infatti il popolo, senza una ragione evidente
- probabilmente solo per via della debolezza intcriore del personaggio e
della sua azione -
562 Quarto cerchio - La natura H
rinuncia a seguirlo passando di nuovo dalla parte
dell'esiliato (ili, p. 140). ,.^
' --'*:^ -:"
iv . .„' I
;
'•" '.
Gli occhi dell'amore e dell'odio sono acuti, ma in
questo caso non riescono a intrawedere l'ultima venta. Pausania e
Panthea sono troppo giovani per capire che cosa è avvenuto in
Empedocle. Così non vedono lai? sua colpa, ma solo il suo dolore.
Ermocrate, invece, | non riconosce l'uomo che lotta e soffre, ma solo il
t profanatore e il distruttore. In questo contrasto di va- | lutazioni
si inserisce il giudizio di Empedocle stesso. ^ Già il primo monologo
svela il suo stato intcriore: ^
Nel mio silenzio sei giunto con passo lieve,
giorno splendido, e mi hai trovato, u
amico, nel buio della grotta, ma non venivi insperato '
e da lontano, su sopra la terra, sentii ; *
con chiarezza il tuo ritomo, ' }
e il vostro, mie fide, agili e operose s
forze dell'altezza, e vicini mi siete , ;.
di nuovo come un tempo, voi felici
alberi fedeli del mio bosco! ,; ,'ì
Siete intanto cresciuti, e giorno dopo giorno
umili, la fonte del delo vi abbeverava
di luce e l'etere ha seminato sondile
di vita a fecondare i vostri fiori.
O intima Natura che mi stai dinanzi,
conosci ancora tu l'amico,
il tuo diletto, più non riconosci
il sacerdote, che il canto vivo
t'offriva come sangue
riversato con gioia in sacrificio?
Oh, presso i sacri alberi,
Le figure del dramma
563
ove si raccolgono acque
come da vene della terra, nei giorni torridi agli
assetati dan refrigerio - un tempo anche in me confluivate, sorgenti di
vita, dalle viscere del mondo, e a me venivano gli assetati... Com'è
ora? Intristito? Son io del tutto solo? E anche di giorno quassù è
notte? Ahimè, colui che alto più d'ogni mortale occhio mirò, ora
brancola accecato ... Miei numi, dove siete? M'abbandonate ora come un
mendicante? E perché giù gettate questo cuore che amoroso vi aveva
presagiti? l'avete chiuso in ceppi ignobilmente stretti?
In meine Stille kamst du leisewandeind, / Fandest
drunten in der Grotte Dunkel mich aus, / Du Freundiicher! Du kamst nicht
unverhofft, / Und fernher, oben ùber der Er-de, vernahm / Ich wohi dein
Wiederkehren, schóner Tag! / Und meine Vertrauten, euch, ihr
schnellgeschàftgen / Krafte der Hóh! und nahe seid ihr / Mir wieder,
seid wie sonst, ihr Glùckiichen, / Ihr irrelosen Bàume meines Hains! /
Ihr wuchst indessen fort, und tàglich trànkte / Des Himmeis Quelle die
Bescheidenen / Mit Licht, und Lebensfunken sàt' der Àther /
Befruchtend auf die Blù-henden aus. - / O innige Natur! ich habe dich /
Vor Au-gen, kennest du den Freund noch, / Den Hochgeliebten, kennest du
mich nimmer, / Den Priester, der lebendingen Gesang, / Wie frohvergoBnes
Opferbiut, dir brachte? / O bei den heilgen Bàumen, / Wo Wasser aus
Adern der Er-de / Sich sammein, am heiBen Tage / Die Dùrstenden
er-quicken - auch in mir, / In mir, ihr Quellen des Lebens, stròmtet /
Aus Tiefen der Welt ihr einst / Zusammen, und es kamen / Die Dùrstenden
zu mir, - wie ists denn nun? / Vertrauert? bin ich ganz allein? / Und
ist es Nacht hier auBen auch am Tage? / Der hóher, denn ein sterbiich
Auge, sah, / Der Blindgeschlagne tastet nun umher - / Wo seid ihr, meine
Getter? / Weh, lafìt ihr nun / Wie ei-
564 Quarto cerchio - La natura
nen Bettler mich, / Und diese Brust, die liebend euch
gè. ahndet, / Was stoBt ihr sie hinab, die freigebome, / Und schloBt
sie mir in schmàhiich enge Bande? (Ili, pp. 87-88-tr. it. cit., pp.
46-48). ?'
I versi seguenti scavano ancora più a fondo:
[...] Io fui amato, amato da voi, o dèi,
ah, intimamente. Come vivete l'uno accanto all'altro,
vi avvertivo, vi conoscevo, operavo con voi '^
quando il mio spirito da voi era mosso, \-
così vi conoscevo, così in me vivevate - oh no, non
era '*
in sogno, con il cuore ti sentivo - ' T;
Etere silenzioso, quando l'errore umano '•' mi
stringeva l'anima e tu, onniconciliante ,s sanando del tuo respiro, ' ;
m'avvolgevi il petto ferito dall'amore
e i miei occhi, luce che tutto dispieghi,
quante volte spiaron con pio senso la tua divina azione,
e tutte voi, potenze eterne!
Ich war geliebt, geliebt von euch, ihr Getter, / Ach
innig;
wie ihr umeinander lebt, / Ich erfuhr euch, ich kannt
euch, wie ihr / Die Seele mir bewegt, so kannt ich euch / So bebtet ihr
in mir - o nein! es war / Kein Traum, an diesem Herzen fùhit ich dich /
Du stiller Àther! wenn der Sterbiichen Irrsal / Mir an die Seele ging
und heilend dù / Die liebeswunde Brust umatmetest, / Du AUversóhner!
und dieses Auge sah / Dein góttlich Wirken, allentfaltend Licht, / Wie
oft hab ich mit frommem Sinne dich belauscht, / Und euch, ihr andern
Ewigmàchtigen! (ni, pp. 88-89; tr. it. cit., p. 49). s%
Empedocle ha vissuto in comunanza con il Tutto? { con le
forze della natura, attive e percepite come ge-^ ni; con gli alberi e le
piante, descritte in modo simile
Le figure del dramma
565
yì\'Iperione
dove allo stesso modo costituiscono l'ambiente e i compagni di una
persona eletta, con le fonti che successivamente diventano le «fonti
della vita» che scaturiscono dalle «profondità del mondo», con la
«natura intima» che non solo è, ma «vive». Gli è stato concesso di
far esperienza della sovrabbondante pienezza, della ricchezza spirituale
che pervade tutte le forme della terra, della più profonda
interiorità. Gli dèi che vivono nell'apertura e nella vicinanza
pneumatica «l'uno accanto all'altro» erano anche in lui, ed egli era
in loro. Ciò vale soprattutto per i due numi che rappresentano i poli
del mondo degli dèi liólderliniani: l'Etere, la luce, il Padre e, come
si dirà subito dopo, la madre Terra, gli sono stati propizi. Ha
partecipato alla loro vita, anzi, ha «operato con loro». È stato
coinvolto nell'iniziativa del divino ed innalzato a condominatore.
Grazie a questa consapevolezza di vastità, ricchezza di sapere e
potenza divina egli stesso ha potuto nominare «Dio». Perché essere
Dio significa, nell'accezione hólderliniana, essere in riferimento con
il Tutto e realizzare l'intero a partire da una particolare modalità
d'essenza. Questa stessa esperienza vissuta lo ha indotto a opporsi alla
concezione di esseri divini separati, che devono essere pensati e
adorati secondo leggi prestabilite, e ad annunciare invece quel Tutto in
cui ogni nume esprime a modo suo quell'uno e medesimo, vale a dire la
natura. Ma nelle parole di Empedocle è presente ancora un altro
elemento che abbiamo già incontrato nell'Z-perione: lo spirito,
la potenza che spira, domina e crea, l'elemento misterioso che viene
dall'aldilà e aiuta a superare i limiti dell'esistenza angusta,
l'elemento innovatore e trasformatore che rende presente il
566 Quarto cerchio - La natura i
Tutto elevandovi il singolo. Nel colloquio con Pausa.
nia che segue il monologo, Empedocle dice: j
< Era in me la tua armila e apertamente si donò, '
al pari tuo, il mio cuore ;
alla Terra sofferente e solenne, e spesso, nella notte
sacra, feci voto di amare sempre lei, la Fatale, senza timore e in fede,
e di non disprezzare f nessuno dei suoi misteri. Così strinsi con lei 5
il patto mortale. Allora nel bosco . j si udiva uno stormire diverso e
delicad , mormoravano i ruscelli dei suoi monti. ,;{;' E con affocata
dolcezza nell'alito dei fiori spirava, i o Terra, a me la calma tua
vita. .f E tutte le tue gioie. Terra, escluse ;
quelle che sorridendo porgi ai deboli, '„
stupende come sono, e calde e grandi ^
maturano d'amore e di fadca, tutte mi donasti,
e spesso, stando su mond lontani, stupito • i
meditavo sul sacro fluire della vita, • -
in profondo commosso per le tue metamorfosi, a
e presagendo il mio stesso destino, ,s
allora spirava l'etere, come a tè, ! •
a me, a sanare il petto ferito d'amore
e come per incanto nel suo fondo • •
si scioglievano i miei enigmi - «;;
,%
Denn deine Seele war in mir, und offen gab / Mein Herz,
< wie du, der ernsten Erde sich, / Der leidenden, und oft in heilger
Nacht / Gelobt ichs ihr, bis in den Tod, / Die Schicksaisvolle furchdos
treu zu lieben / Und ihrer Ràtsel keines zu verschmahn. / So knùpft
ich meinen Todesbund mit ihr. / Da rauscht' es anders denn zuvor im
Hain, / Und zàrdich tónten ihrer Berge Quellen / Und feurig mild im
Blumenothem weht', / O Erde! mir dein stillers Leben zu. / Ali deine
Freuden, Erde! nicht wie du / Sie là-cheind reichst dem Schwàchern,
herrlich wie sie sind, / ? Und warm und gro6 aus Mùh und Uebe reifen -
/ Sie alle ;
Le figure del dramma
567
gabst du mir, und wenn ich oft / Auf femen Bergeshóhen
^iB und staunend / Des Lebens heilig Irrsal ùbersann, / Zii tief von
deinen Wandiungen bewegt / Und eignes Scliicksal ahndend, / Dann atmete
der Àther, so wie dir, / Mir heilend um die liebeswunde Brust, / Und
zauberisch in seiner Tiefe lósten/ Sich meine Ràtsel auf- (ili, pp.
91-92; tr. it. dt., pp. 53-55).
Qui sorge la controfigura al padre Etere: la madre
Terra, descritta con toni vivi che ricordano l'inno Germania.
Contemporaneamente Hólderlin allude al fenomeno dello spirito in tutta
la sua pienezza, che dallo spirare del vento nel bosco, passando per la
vita che respira, si estende fino alla profondità del pnéu-ma
della natura. Diventa manifesta la potenza di questo spirito attraverso
cui tutto s'eleva a un altro stato, diventando «aperto». Fedele a
questo spirito, Empe-docle ha propagato un culto degli dèi improntato
alla libertà e all'entusiasmo, che doveva rompere i vincoli della
tradizione e della legge.
Ma poi è accaduto qualcosa di tremendo. Egli stesso
dice:
È finita
e tu, non lo nascondere,
la colpa è tua, misero Tantalo,
Tu hai profanato il santuario,
con orgoglio sfacciato rotto il bei patto.
Quando i geni del mondo, o sciagurato,
in tè si obliarono amorosi, solo a tè pensasti
e vaneggiasti, folle meschino, che i Benigni,
i Celesti, si fossero venduti a tè
per servirò come stolidi schiavi.
Es ist vorbei, / Und du, verbirg dirs nicht! Du hast /
Es selbst verschuidet, armer Tantalus! / Das Heiligtum hast
568 Quarto cerchio - La natura
da geschàndet, hast / Mit frechem Stolz den
schónea Bund entzweit, / Elender! Als die Genien der Welt / Voli Uebe
sich in dir vergaBen, dachtest du / An dich und wàhntest, karger Tor,
an dich / Die Gùtigen verkauft, daB sie dir, / Die Himmlischen, wie
blode Knechte, dienteni (m, p. 89; tr. it. dt., pp. 49-51). .t
•?'.
E, rispondendo a Pausania che avvicinandosi umorosamente
chiede chi abbia parlato in modo cosi sconvolgente:
Era la voce di colui che si era vantato d'essere '{.
più che un mortale, perché benigna la Natura 'di. l'aveva colmato di
eccessiva felicità. }
Es war des Mannes Stimme, der sich mehr / Denn
Sterbii-che gerùhmt, weil ihn zu viel / Beglùckt die gùdge Natur
(III, p. 90; tr. it. dt., p. 53).
Empedocle ha avuto esperienza di ciò che rappresenta
nel mondo di Hólderlin la conquista massima:
essere una figura singola, ma portare in sé il Tutto,
stare al proprio posto, eppure vivere nel Tutto. Ma ciò non avviene
attraverso il pensiero progrediente o l'azione raccoglitrice, ma in modo
immediato, «nello spirito», nella forza «che rende aperti»,
nell'interiorità. È lo stato del «fiorire», di cui l'ora del tardo
pomeriggio con la sua luce silenziosa è una similitudine, i
L'equilibrio tra il singolo e il Tutto; l'unità di
interno ed esterno; la «riconciliazione» data dal fatto che ogni cosa
è data insieme ad ogni altra; la costituzione dell'esistenza, non solo
celebrata nell'inno H Reno e in Arcipelago a parole ed
immagini, ma anche realizzata attraverso l'impostazione della poesia
stessa. L'«01impo eternamente presente» (III, p. 93) in
Le figure del dramma
569
cui soltanto si da la «natura» ed in cui gli dèi
hanno contemporaneamente la loro importanza particolare e la loro
unità, in cui ognuno vive per se stesso, eppure come parte del Tutto17.
Un'esperienza di mistica cosmica quindi che avrebbe preteso dal favorito
che si mantenesse puro e non volesse nulla per se stesso. E invece egli
ha desiderato di essere particolare. Ha detto «io» e «mio» dove
sarebbe dovuto essere solo lo spazio vivente del cuore in cui «i geni
del mondo si obliarono amorosi» (II, p. 89).
L'equilibrio si rompe. Il peccato originale della
lacerazione è avvenuto. L'interiorità è andata persa. Tutto è
diventato esteriore, e tutte le cose sono diventate dure e isolate fra
di loro. Alla fiorente ricchezza è seguita l'aridità, alla patria
l'esilio, alla ricchezza di senso la stoltezza, alla vita nel suo fluire
il vuoto senz'anima18.
Lo fui. Oh, potessi dire come fu, nominare
il maturare e l'operare delle forze geniali,
mirabili, mie compagne, o Natura!
Poterle far rivivere ancora una volta
sì che il mio cuore, muto e mortalmente devastato,
di nuovo vibrasse di tutte le tue vod!
Lo sono ancora, o vita, e per me risonaron
tutte le tue alate melodie, e sentii
grande Natura, il tuo antico accordo?
Abbandonato da tutti, non vissi forse
con questa Terra sacra, con questa luce,
con tè, o Padre Etere, da cui mai
si separa l'anima mia, e con tutti i viventi
nell'Olimpo d'eterna presenza?
Come un reietto, ora piango,
e in nessun luogo posso sostare
e anche tu mi sei strappato ... Non dire nulla!
L'amore s'estingue quando fùggon gli dèi,
570 Quarto cerchio - La natura
tu lo sai bene, e ora lasciami, io non sarò più me
stesso e nulla hai più da spartire con me.
Ich wars! O kónnt ichs sagen, wie es war, / Es nennen
-das Wandein und Wirken deiner Geniuskràfte, / Der Herr-lichen, deren
GenoB ich war, o Naturi / Kónnt ichs noch einmal vor die Seele rufen, /
DaB mir die stumme todesó-de Brust / Von deinen Tónen allen
widerkiànge! / Bin ich es noch? o Leben! und rauschten sie mir, / Ali
deine geflù-gelten Melodien, und hórt / Ich deinen alten Einkiang,
groBe Natur? / Ach! ich, der allverlassene, lebt ich nicht / Mit dieser
heilgen Erd und diesem Licht / Und dir, von dem die Seele nimmer làBt,
/ O Vater Àther! und mit allen Lebenden / Im ewig gegenwàrtigen Olymp?
- / Nun wein' ich, wie ein AusgestoBener, / Und nirgend mag ich bleiben,
ach und du / Bist auch von mir genommen - sage nichts! / Die Liebe
stirbt, sobaid die Gótter fliehn, / Das weiBt du wohi, verlaB mich nun,
ich bin / Es nimmer und ich hab an dir nichts mehr (m, pp. 92-93; tr.
it. dt., p. 55).
E ancora:
Come preferirei che tu non sapessi
di me e di tutte le mie tristezze!
No, sacra Natura, non dovrei dirlo!
Tu fuggi, verginale, le menu rozze.
Io ti ho disprezzata, io
mi proclamai signore, un altezzoso
barbaro! Alla vostra semplicità vi tenni,
potenze pure, in eterno giovani, voi che m'educaste
nella gioia, che mi nutriste di delizie,
e poiché sempre uguali a me ritornavate,
non onorai, benigne, il vostro spirito.
Io ben la conobbi la vita
della Natura: come potrebbe a me amarla
ancora sacro esser, come un tempo. Gli dèi s'erano
posti
al mio servizio, io solo ero dio,
e nell'orgoglio arrogante lo proclamai.
Le figure del dramma
571
Ach! lieber wàre mir, du wùfitest nicht / Von mir und
al-ler meiner Trauer. Nein! / Ich sollt es nicht aussprechen, heilge
Natur! / Jungfràuliche, die dem rohen Sinn ent-flieht! / Verachtet hab
ich dich und mich allein / Zum Herrn gesetzt, ein ùbermùtiger /
Barbar! an eurer Einfalt hièlt ich euch, / Ihr reinen immerjugendiichen
Màchie! / Die mich mit Freud erzogen, mich mit Wonne / Ge-nàhrt19.
Ich kannt es ja, / Das Leben der Natur, wie sollt es mir / Noch heilig
sein, wie einst! Die Getter waren / Mir dienstbar nun geworden, ich
allein / War Gott und sprachs im frechen Stolz heraus (m, p. 95; tr. it.
dt., pp. 57-59).
La rivelazione di quella colpa era l'affermazione di
Empedocle di essere dio. Stiamo attenti al senso: il sacrilegio non era
costituito dal fatto che avesse detto di essere dio - perché secondo la
teologia di Hólder-lin lo era - ma dalla dichiarazione di esserlo per
se stesso e di avere gli altri numi a proprio servizio. L'accusa di
Ermocrate fa da eco al sacrilegio:
Anche lui! v'era noto, il subdolo
seduttore che traviò il popolo
e si fece beffa delle leggi patrie.
E mai rispettò gli antichi dèi
di Agrigento e i loro sacerdoti.
Ne celato a voi era
finché egli tacque il suo intento mostruoso.
L'ha fatto. Vaneggiavi, o scellerato,
che dovessero esultare perché al loro cospetto
recentemente ti proclamasti dio?
Avresti poi regnato in Agrigento,
come unico tiranno onnipotente,
e tuo sarebbe stato, tuo soltanto,
il popolo buono e questa bella terra.
Auch den! ihr kanntet ihn, den heimlichen / Verfùhrer,
der die Sinne nahm dem Volk / Und mit dem Vaterlands-gesetze spieit' /
Und sie, die alten Getter Agrigents, /
572 Quarto cerchio • La natura
Und ihre Priester niemais achtete. / Und nicht verborgen
war vor euch, / Solang er schwieg, der ungeheure Sinn. / Er hats
volibracht! Verruchter! wàhntest du, / Sie mùBtens nachfrohlocken, da
dujùngst/ Vor ihnen einen Gott dich selbst genannt? / Dann hàttest du
geherrscht in Agrigent, / Ein einziger allmàchdger Tyrann, / Und dein
gewesen wàre, dein allein, / Das gute Volk und dieses schóne Land (UI,
p. 102; tr. it. dt., p. 66).
Empedocle non riesce a reggere questa situazione:
E questo dovrei sopportare, il lungo malo vezzo,
come i deboli che nello spaventoso Tartaro
stanno inchiodati, giorno dopo giorno, alla pena antica?
Ho conosciuto me stesso; io lo voglio! Voglio darmi
respiro, e che spunti il giorno! Via di qui!
Per il mio orgoglio! Non bacerò la polvere
di questa strada ove un tempo camminai
perduto in un bei sogno - è finito.
E devo congedarmi -
Und dulden soli ich das, das Langverwóhnte, / Wie die
Schwàchiinge, die im scheuen Tartarus / Geschmiedet sind ans alte
Tagewerk? / Ich habe mich erkannt; ich will es! Luft will ich / Mir
schaffen, ha! und tagen solls! Hin-weg! / Bei meinem Stolz! ich werde
nicht den Staub / Der Pfade kùssen, wo ich einst / In einem schònen
Traume ging - es ist vorbei! / Und Abschied mu6 ich nehmen -(ni, p. 88;
tr. it. dt., p. 49).
E ancora:
Non v'è per me tra voi un vendicatore, e dovrò versare
da solo sulla mia anima scherno e maledizione? C'è qualcuno miglior di
me che levi dal mio capo la corona delfica e mi strappi la chioma come
si conviene al vate calvo? O dèi!
Le figure del dramma
573
Ist nirgends mir ein Ràcher unter euch, / Und mu6 ich
denn allein den Hohn und Fluch / In meine Seele giefien? (Jnd es reifit
/ Die delphische Krone mir kein Bessrer, / Denn ich, vom Haupt und nimmt
die Locken hinweg, / \Vie es dem kahien Seher gebùhrt - O Gótter!
(Ili, p. 89;
tr.it.dt.,p.51).
Queste parole anzitutto esprimono solo disperazione, il
desiderio di cancellarsi. Ma poi inizia il mutamento. Già Pausania vi
allude dicendo:
[...] e per questo anche proferisti la parola audace tu
solo, per questo tu soltanto senti come una sillaba orgogliosa t'ha
strappato al cuore degli dèi e per amore verso loro ti sacrifichi, o
Empedocle!
[...] Und darum sprachst das kùhne Wort / Auch du
allein, und darum fùhist du auch / So sehr, wie du mit einer stolzen
Silbe / Vom Herzen aller Gótter dich gerissen, / Und opferst liebend
ihnen dich dahin, / O Empedokies! -(HI, p. 96; tr. it. dt-, p. 59).
Empedocle supera la disperazione - certo, l'atto stesso
non è rappresentato nel dramma. Solo il risultato viene alla luce, per
esempio nel tono delle parole in cui raccomanda a Crizia il destino di
sua figlia:
Non la conosd?
E tratti come un deco il dono degli dèi? E ti risplende
invano in casa la benigna luce?
Ti dico: in questa terra pace
non troverà, l'anima pia, e rimarrà sola,
pur così bella, e morirà senza gioia.
La figlia degli dèi, a un tempo severa
e delicata, mai potrà accettare
574 Quarto cerchio - La natura
di stringere al suo seno uno di questi barbari, oh,
credimi! Chi sta per congedarsi dice il vero. E non stupirti del
consiglio!
Kennest du sie nicht? / Und tastest wie ein Blinder an,
was dir / Die Gótter gaben? und es leuchtet dir / In deinem Haus
umsonst das holde Ucht? / Ich sag es dir, in dieseni Lande findet / Das
fromme Leben seine Ruhe nicht / Und einsam bleibt es dir, so schón es
ist, / Und stirbt dir freudenlos, denn nie begibt / Die zàrtiichernste
Gótter-tochter sich, / Barbaren an das Herz zu nehmen, glaub / Es mir!
Es reden wahr die Scheidenden. / Und wundere des Rats dich nicht! (ili,
p. Ili; tr. it. dt., pp. 79-81).
E subito dopo:
crizia. Ancora ti restano tante parole d'oro nella tua
miseria? empedocle. Lasda lo scherno! Chi si congeda ringiovanire
amerebbe ancora una volta. E questo il lampo estremo della luce che un
giorno in tutta la sua forza gioiosamente rifulse tra di noi. Lasda che
si spenga serenamente, e se pur v'ho maledetti, abbia tua figlia se
benedir m'è dato, la mia benedizione.
Kritias. Has du der goldnen Worte noch so viel / In
deinem Elend ùbrig? / Empedokies. Spotte nicht! / Die
Scheidenden verjùngen alle sich / Noch einmal gem. Der Ster-bebiick
ists/ Des Uchts, das freudig einst in seiner Kraft/ Geleuchtet unter
euch. Es lósche freundiich / Und hab ich euch geflucht, so mag dein
Kind / Den Segen haben, wenn ich segnen kann (in, p. 112; tr. it. dt.,
pp. 81-83).
Il suo animo è di nuovo fermo. E deciso al sacrificio.
Grazie a questa unità riconquistata, riesce anche a prevalere su
Crizia:
Le figure del dramma
575
crizia. Oh, smetti, e non trattarmi da fanciullo.
empedocle. Prometti che farai come ti dico,
e lascia questa terra; se rifiuti,
possa implorar la desolata l'aquila,
che via da questi schiavi,
nell'etere la salvi. Migliore sorte non so.
crizia. Oh, dimmi, non abbiamo agito giustamente
verso di tè?
empedocle. E me lo domandi? Tè l'ho già
perdonato ...
Kritias. O laB, und mache mich zum Knaben nicht. / Empe-dokies.
Versprich es mir und tue, was ich riet, / Und geh aus diesem Land;
verweigerst du's, / So mag die Einsame den Adier bitten, / DaB er hinweg
von diesen Knechten sie / Zum Àther rette! Bessers weiB ich nicht. / Kritias.
O sage, haben wir nicht recht an dir / Getan? / Empedokies. Was
fragst du nun? Ich hab es dir / Vergeben [...] (m, p.
113;tr.it.cit.,p.83).
Adesso sa cosa deve fare:
Sì!
Vado per il mio cammino, Crizia,
e so dove conduce. E debbo vergognarmi
per avere esitato fino all'ultimo.
Perché mai dovetti attendere tanto a lungo,
finché felicità e spirito e giovinezza sparvero, e
nulla
se non follia e miseria mi rimase.
Quanto, quanto spesso tè n'ammonì! Allora
sarebbe stato bello. Ma ora è necessario!
Ja! / Ich gehe meines Weges, Kritias, / Und weiB, wohin.
Und schàmen muB ich mich, / DaB ich gezógert bis zum àuBersten. / Was
muBt ich auch so lange warten, / Bis Glùck und Geist und Jugend wich
und nichts / Wie Tor-heit ùberbiieb und Elend. / Wie oft, wie oft hat
dichs ge-mahnt! Da wàr / Es schón gewesen. Aber nun ists not! (in, p.
114; tr.it.cit.,pp. 83-85).
576 Quarto cerchio - La natura
Qui diventa, evidente che Empedocle è una figura
profondamente dionisiaca. Il suo equilibrio non era apollineo, capace di
fare della potenza della vita un possesso sicuro e fruttuoso. Non era
solo delicato e sensibile, ma anche continuamente pronto al colpo.
L'essere di Empedocle è simile al fiume e alla città di Xanto in Voce
del popolo.
Ma emerge qualcos'altro: già «per lungo tempo» e
«spesso» ha avvertito il monito di dare spazio al mistero dionisiaco.
Il «desiderio degli dèi» lo ha spinto da sempre al sacrificio.
Seguendo la sua coscienza religiosa, avrebbe dovuto abbandonarsi al
tramonto, al declino, per elevarsi al Tutto, ma evidentemente non ne ha
avuto il coraggio. Avrebbe dovuto riconsegnare la sua figura singola
all'intero del mondo perché trionfasse, ma vi si è opposto. Non
sbagliamo certo se individuiamo qui il punto decisivo più profondo nel
destino di Empedocle. Alcune frasi nel suo primo colloquio con Pausania
lo testimoniano:
[...] il mio cuore apertamente
si donò alla Terra sofferente e solenne, e spesso,
nella notte sacra, fed il voto di amare sempre lei,
la Fatale, senza umore e in fede, e di non disprezzare
nessuno dei suoi misteri. Così strinsi con lei
il patto mortale. Allora nel bosco
si udiva uno stormire diverso e delicati
mormoravano i ruscelli dei suoi monti
e con affocata dolcezza nell'alito dei fiori spirava,
o Terra, a me la tua calma vita.
[...] offen gab / Mein Herz, wie du, der ernsten Erde
sich, / Der leidenden, und oft in heilger Nacht / Gelobt ichs ihr, bis
in den Tod / Die Schicksalvolle furchdos treu zu lieben / Und ihrer
Ràtsel keines zu verschmàhn. / So
Le figure del dramma
577
knùpft ich meinen Todesbund mit ihr. / Da rauscht' es
an-ders denn zuvor im Hain, / Und zàrtiich tónten ihrer Ber-ge Quellen
/ Und feurig mild im Blumenothem weht', / O Erde! mir dein stillers
Leben zu (m, pp. 91-92; tr. it. dt., p.53).
Era stato chiamato e si era dichiarato pronto. Aveva
stretto il patto con la terra. Ma poiché essa è severa, sofferente,
fatale, continuamente in atto di morire e di resuscitare, questo patto
doveva divenire il patto «mortale». Questo Empedocle lo aveva saputo.
Poi era giunto il monito di realizzare il voto. Non aveva dovuto farlo
necessariamente, poiché era libero. Ma una tale libertà non è
arbitrarietà; chi è chiamato, deve. Se non ubbidisce alla chiamata,
non è che tutto resti come prima, ma qualcosa si chiude e si distrugge;
ciò però prepara il passo per entrare nell'espres-samente malvagio,
nella hybris. Il fatto che Empedocle rompa l'equilibrio
affermando il suo essere proprio e tentando di assoggettarvi il Tutto si
preannuncia già nel suo rifiuto di sacrificare il suo equilibrio nella
dedizione dionisiaca e di lasciare che il Tutto si faccia davvero ogni
cosa. Se l'interpretazione è esatta, allora il più grande difetto del
dramma sta nell'incapacità di svolgere questa connessione in tutta la
sua chiarezza. Solo su questo sfondo, la figura avrebbe acquistato la
sua vita piena. Ma così l'accenno avviene di sfuggita, sottraendosi
facilmente all'attenzione.
Che Empedocle riconosca questa connessione, ma questa
consapevolezza non lo conduca alla disperazione, bensì alla espiazione
facendogli accettare ciò che un tempo «sarebbe stato bello» come
«necessità», in questo consiste la grazia concessagli. Ma il fatto di
poterlo compiere ormai solo nei termini della «neces-
578 Quarto cerchio - La natura
sita» e non in quelli della libera bellezza,
costituisce la1 sua tragedia. —.». Presa la decisione,
ritoma l'unità:
Ma non lo vedi dunque? Ritorna
il tempo bello della mia vita oggi
una volta ancora e grande è quanto verrà.
Su, figlio, saliremo fino alla ama
dell'Etna antico e sacro, y.
poiché gli dèi sono più presentì sulle altezze.
Con questi occhi, oggi ancora
voglio vedere i fiumi e l'isole e il mare;
e mentre indugia sopra le acque d'oro,
mi benedica il sole al suo declino,
di gioventù glorioso, che un tempo
amai per primo. Allora brilleranno intorno a noi silenti
gli astri perenni, e frattanto
dagli abissi del monte la vampa della terra '
scaturirà, e ci accarezzerà chi tutto muove,
lo spirito, allora.
Siehest du denn nicht? es kehrt / Die schóne Zeit von
mei-nen Leben heute / Noeti einmal wieder und das GroBe steht / Bevor;
hinauf, o Sohn, zum Gipfel / Des alten hei-ligen Àtna wollen wir! /
Denn gegenwàrtger sind die Gót-ter auf den Hóhn. / Da will ich heute
noch mit diesen Au-gen / Die Strème sehn und Insein und das Meer. / Da
segne zógernd ùber goldenen / Gewàssem mich das Son-nenlicht beim
Scheiden, / Das herrlichjugendiiche, das ich einst/ Zuerst geliebt. Dann
glànzt um uns und schweigt/ Das ewige Gestirn, indes herauf / Der Erde
Glut aus Ber-gestiefen quillt, / Und zàrtiich i-ùhrt der Allbewegende,
/ Der Geist uns an, o dann! (m, pp. 131-132; tr. it. cit., pp. 109-111).
.;
Ma questa unità poggia su un fondamento instabile.
Allorché Pausania fraintende, Empedocle si irrita fortemente:
Le figure del dramma
579
O dèi, anche costui mi deve infine togliere la calma e
turbarmi lo spirito con rozze parole? Se questo vuoi, va' pure! Per
la vita e la morte, non è questa più l'ora di moltipllcare le parole
su ciò ch'io vivo e dò che sono. Ci si è pensato; non voglio più
saperne. Via, non sono i dolori che, sorridenti, piamente nutriti su
seno triste e lieto come bimbi posano - sono morsi di vipere, e
immedicabili m'infuriano nel sangue.
O Getter, làBt auch der / Zuletzt die Ruh mir nicht und
regt den Sinn / Mir auf mit roher Rede? wilist du das, / So geh! Bei Tod
und Leben! Nicht ist dies / Die Stunde mehr, viel Worte noch davon / Zu
machen was ich leid' und was ich bin. / Besorgt ist das; ich will es
nimmer wis-sen. / Hinweg! es sind die Schmerzen nicht, die làcheind, /
Die fromm genàhrt an traurigfroher Brust / Wie Kinder Uegen -
Natterbisse sinds / Und wùten ohne Rettung mir im Blut! (IH, p. 132;
tr. it. dt., p. 111).
Il giovane pensa che il passato possa ritornare, mentre
Empedocle sa che l'unità ridonata presuppone la disponibilità alla
morte:
Pausania! questo solo hai obliato:
gratuitamente nulla è concesso ai mortali? Mav'è un
solo rimedio ...
Pausanias! nur hast du dies vergessen: / Umsonst wird
nichts den Sterbiichen gewàhrt. / Und Eines hiift... (Ili, p. 134; tr.
it. dt., p. 113).
Anche gli agrigentini, che intanto sono ritornati in
sé, la pensano così e arrivano perfino ad offrire all'esiliato la
corona regale. Ma egli la rifiuta, e diventa manifesta la distanza che
li divide:
580 Quarto cerchio - La natura
secondo. Ritorna e vivi
in Agrigento! Ha detto un romano
che al loro Numa tanta loro grandezza
era dovuta. Vieni, o divino!
Sii il nostro Numa! Già pensavamo
che saresti dovuto essere rè. Siilo dunque!
Per primo così ti saluto, e tutti lo vogliono.
empedocle. Questa non è più un'epoca di rè.
I CITTADINI (allibiti). Uomo, chi sei?
pausania. Così si rifiutan le corone
o cittadini!
Zweiter. Komm und leb / In Agrigent; es hats ein
Ròmer/ Gesagt, durch ihren Numa wàren sie / So gro6 geworden. Komme,
Góttlicher! / Sei unser Numa! Lange dachten wirs, / Du solltest Kónig
sein. O sei es! sei's! / Ich grùBe dich zuerst, und alle wollens. / Empedokies.
Dies ist die Zeit der Kónige nicht mehr. / Die Bùrger (
erschrocken). Wer bist du, Mann? / Pausanias. So lehnt man
Kronen ab, / Ihr Bùrger! (m, pp. 142-143; tr. it. cit, p. 125).
Per Empedocle le idee degli uomini e le possibilità che
essi gli offrono non significano più nulla. Costituiscono al massimo
una pericolosa tentazione di compiere una svolta radicale rispetto alla
sua strada. Ma egli si afferma, perdonando ciò che gli è stato fatto e
lasciando il suo testamento:
Mi offriste,
una corona, cittadini! Prendetemi
in cambio quanto ho di sacro. Da tempo lo tenevo in
serbo.
Molte volte nelle notti serene, quando in alto
si apriva il mondo bello, e sacro l'aere
con tutti gli astri come uno spirito
... mi avvolgeva
sentivo spesso in me più possente la vita;
con il nascere del giorno vi avrei detto
Le figure del dramma
581
la parola severa, a lungo contenuta.
E con lieta impazienza già evocavo
dall'Oriente l'aurea nube mattutina
per la nuova festa, quando il mio canto
solitario con voi lassù formasse il coro gioioso.
Ma sempre il cuore mi si richiudeva
e attendevo che l'ora maturasse.
Oggi è il mio dì d'autunno e cade il frutto
da solo.
Ihr botet/ Mir eine Kron', ihr Mànner! nimmt von mir/
Dafùr mein Heiligtum. Ich spart es lang. / In heitern Nàchten oft,
wenn ùber mir / Die schóne Welt óffnet' und die heilge Luft / Mit
ihren Sternen allen als ein Geist / ... mich umfing, / Da wurd es oft
lebendiger in mir; / Mit Tagesanbruch dacht ich euch das Wort, / Das
ernste langverhaltene, zu sagen. / Und freudig ungeduldig rief ich schon
/ Vom Orient die goldne Morgenwolke / Zum neuen Fest, an dem mein einsam
Lied / Mit euch zum Freudenchore wùrd, herauf. / Doch immer schlofi
mein Herz sich wieder, hofft' / Auf seine Zeit und reifen solite mirs. /
Heut ist mein Herbsttag und es falli die Frucht / Von selbst (m, p. 145;
tr. it. dt., p. 129).
E ancora:
Da tempo voi avete sete dell'insolito:
e come da corpo malato, l'anima di Agrigento
brama usare dall'antico solco.
Osate dunque! I vostri retaggi, le vostre conquiste,
quanto i padri v'hanno narrato e insegnato,
leggi e costumi, i nomi degli antichi dèi,
tutto audaci obliate e levate, come neonati,
gli occhi lassù alla Natura divina!
E quando alla luce del cielo lo spirito
s'infiamma, e un dolce soffio di vita
vi gonfia il petto come al primo giorno,
[...], quando la vita del cosmo,
582 Quarto cerchio - La natura
il suo spirito di pace, v'afferra e come sacra
ninnananna la vostra anima calma,
allora, come dal gaudio di un'alba bella,
di nuovo a voi della terra il verde rifulgerà
e monte, e mare, e nubi, e stelle,
le nobili energie, simili a fraterna schiera d'eroi
dinanzi a voi verranno, sì che il petto,
come di chi l'armi indossa
palpiterà, aspirando alle gesta,
a un mondo bello e vostro. Allora di nuovo
stringetevi le mani, la parola datevi, i beni dividete,
oh, allora, o cari, dividete gesta e gloria,
come Dioscuri fidi; sian tutti
uguali, come su snelle colonne, poggi sopra giuste norme
la nuova vita e la vostra unione renda salda la Legge.
E allora, o voi geni della cangiante
Natura, voi invita, sereni,
il popolo libero alle sue feste, :
ospitale e devoto [...]
Ihr dùrstet làngst nach Ungewòhniichem, / Und wie aus
krankem Kórper, sehnt der Geist / Von Agrigent sich aus dem alten
Gleis. / So wagts! was ihr geerbt, was ihr erwor-ben, / Was euch der
Vàter Mund erzàhit, gelehrt, / Gesetz' und Bràuch', der alten Getter
Namen, / VergeBt es kùhn, und hebt, wie Neugeborne, / Die Augen auf zur
góttli-chen Natur! / Wenn dann der Geist sich an des Himmeis Licht /
Entzùndet, suBer Lebensothem euch / Den Busen, wie zum erstenmale,
trànkt, / [...] wenn euch das Leben / Der Welt ergreift, ihr
Friedensgeist, und euchs / Wie Heil-ger Wiegensang die Seele stillet; /
Dann aus der Wonne schóner Dàmmerung / Der Erde Grùn von neuem euch
erglànzt, / Und Berg und Meer und Wolken und Gestirn, / Die edein
Kràfte, Heldenbrùdern gleich, / Vor euer Auge kommen, daB die Brust, /
Wie Waffentràgern, euch nach Taten klopft, / Und eigner schóner Welt,
dann reicht die Hànde / Euch wieder, gebt das Wort und teilt das Gut, /
O dann, ihr Ueben! teilet Tat und Ruhm, / Wie treue Dioskuren: jeder sei
/ Wie alle, wie auf schlan-
Le figure del dramma
583
ken Sàulen ruh / Auf richtgen Ordnungen das neue Le-ben
/ Und euem Bund befestge das Gesetz. / Dann, o ihr Genien der wandeinden
/ Natur! dann ladet euch, ihr hei-tem, / Das freie Volk zu seinen Festen
ein, / Gastfreund-lich! fromm! ... (m, pp. 146-147; tr. it. dt., p.
131).
È l'immagine dell'esistenza già descritta dalle grandi
poesie dell'equilibrio, l'inno II Reno e L'Arcipelago:
Quando sarò lontano, parleranno per me
i fiori del cielo, le costellazioni fiorenti,
e quelli che dalla terra germinano a migliala.
La Natura, che è divina presenza
non richiede discorso, e mai lasda
voi soli, non appena sia presso,
che incancellabile è l'attimo
suo; e vittorioso per ogni tempo opera
il suo fuoco celeste, rendendovi beati.
Quando poi i felici giorni di Saturno,
rinnovati e più maschi, verranno,
ricordate il tempo trascorso e riviva, al calore
del genio, la leggenda dei padri!
Alla festa salga come dalla primaverile luce
inno levato, il dimenticato
mondo degli eroi dal regno delle ombre
e con l'aurea nube della tristezza
vi circondino, nella vostra letizia, le memorie!
Es sprechen, wenn ich feme bin, statt meiner / Des
Him-meis Blumen, blùhendes Gestirn, / Und die der Ende tau-sendfach
entkeimen. / Die góttlichgegenwàrtige Natur / Bedarf der Rede nicht;
und nimmer là6t / Sie einsam euch, wenn einmal sie genaht, / Denn
unauslòschiich ist der Augenblick / Von ihr, und siegend wirkt durch
alle Zeiten / Beseligend hinab sein himmlisch Feuer. / Wenn dann, die
glùckiichen Saturnustage, / Die neuen, mànn-lichem, gekommen sind, /
Dann denkt vergangner Zeit, dann leb, erwàrmt / Am Genius, der Vàter
Sage wieder! / Zum Feste komme, wie vom Frùhiingsiicht / Emporgesun-
584 Quarto cerchio - La natura Ìs.
gen, die vergessene / Heroenweit vom Schattenreich he. 5
rauf, / Und mit der goldnen Trauerwolke lagre / Erinn.v:
rung sich, ihr Freudigen, um euch! (ffl, pp. 149-150;
tr. ìl dt, p. 135). , |
I «giorni di Saturno» sono il regno di quel dio che ^
ha regnato prima di Crono e di Zeus, il regno della i prima unità. ; y
Come frutto della divisione superata, esso è desti- ?
nato a ritornare. :^w
LA NATURA
L'immagine della natura nell'Empedocle appare in
modo diverso che non nelYIperione. Nel romanzo, essa è il grande
ambito dell'esistenza umana, l'insieme delle cose, delle forze, degli
ordini e delle immagini in cui l'uomo vive. Essa rappresenta anche ciò
che in se stesso è essenziale e pregno di significato; ma in primo
piano propriamente vi è l'uomo. Nel dramma, invece, la natura stessa
compie un passo avanti. Mentre nel romanzo sono gli uomini, soprattutto
Iperio-ne e Diotima, a sorreggere la trama, nel dramma la natura stessa
entra in azione.
Empedocle non ha un partner umano, ciò con cui
si confronta è la natura. Così nel dramma essa è meno sviluppata e
più povera di figure, in compenso però più intensa in termini di
presenza e di potenza.
Alcune delle sue figure sono particolarmente suggestive.
Soprattutto il giardino. Esso appartiene al-l'Empedocle felice e
rappresenta la natura nel suo rapporto di intima consonanza con l'uomo e
la sfera della sicurezza, della protezione. Come giardino l'ambito dove
dimora l'uomo si inoltra nella natura - ma solo fin dove questi può
influirvi con la sua vita: fino al muro. E la natura si spinge fino alla
casa dell'uomo; ma non come la foresta vergine, che tutto soffoca,
bensì con l'atteggiamento dell'amicizia e del dono. Nel giardino, la
natura si dona. Rinuncia alla
586 Quarto cerchio - La natura f
propria illimitatezza inserendosi nella vita dell'uomo i
ubbidendo alla sua mano che mette ordine e cura. I Nella forma limitata,
il Tutto si fa presente, guardando l'uomo amichevolmente ... L'opposto
del giardino ? è dato dalla vastità del mondo, la contraddizione di I
esso dallo squallore dell'esilio. Empedocle deve la- | sciare il
giardino, e l'Etna con i suoi pendii deserti di- ^ venta il luogo di
quell'esilio. Ma poi il carattere del I paesaggio muta. Nella misura in
cui Empedocle ritro-1 va se stesso, l'Etna diventa la montagna sacra.
Nel t paesaggio di Hólderlin, la montagna è l'elemento solido e
strutturato, emergente ed elevato, la contropotenza rispetto al fiume e
al mare.
Così l'Etna, per colui che è riammesso all'unità, è il
luogo dal quale getta lo sguardo sul mondo e sull'e- k sistenza; certo
solo per dire addio. Infatti, questa montagna è di tipo particolare: un
vulcano, un'eruzione della profondità interna e appunto in tal modo la
via al centro del Tutto. Colui che ha perso il giardino, non può
ritornare in esso. Se Empedocle vuole sfuggire allo squallore desertico,
allora gli rimane solo la via verso il centro che passa per la morte.
Empedocle era chiamato a stare al cospetto della natura
stessa; ad avere il suo destino in rapporto ad essa:
Non vi è nota la voce degli dèi? Ancora prima
d'apprendere, ascoltando, la lingua degli avi
al mio primo respiro, al primo sguardo,
già quella colsi, e sempre
la considerai superiore alla parola umana.
M'appellavano: In alto! e ogni spirare di brezza
eccita più possente l'ansiosa nostalgia.
La natura
587
E se pur volessi indugiare qui, ancora sarebbe
come se, goffo, l'adolescente, sollazzo
avesse nei giochi degli anni d'infanzia.
Ah, senz'anima vivrei, come gli schiavi,
in notte ed onta avanti a voi e ai miei numi.
Ho vissuto; e come dalla vetta degli alberi
si stacca il fiore e l'aureo frutto,
come dall'oscuro suolo spunta fiore e grano,
così da fatiche e da pene a me la gioia venne
e scesero dal cielo forze amiche.
Nelle profonde valli, a tè, o Natura,
si raccolgono le fonti delle alture, e le tue gioie
tutte vennero nel mio petto a riposare
e ne nacque un unico gaudio [...]
Kennt ihr der Getter Stimine nicht? noch eh / Als ich
der Eltern Sprache lauschend lernt, / Im ersten Othemzug, im ersten
Blick / Vernahm ichjene schon, und immer hab / Ich hóher sie, denn
Menschenwort, geachtet. / Hinauf! sie riefen mich undjedes Lùftchen/
Regt màchtiger die ban-ge Sehnsucht auf. / Und wolit ich hier noch
lànger weilen, wàrs, / Wie wenn der Jùngling unbeholfen sich / Am
Spiele seiner Kinderjahre letzte. / Ha! seellos, wie die Knechte,
wandeit ich / In Nacht und Schmach vor euch und meinen Góttern. /
Gelebt hab ich; wie aus der Bàume Wipfel / Die Biute regnet und die
goldne Frucht, / Und Blum und Korn aus dunklem Boden quillt, / So kam
aus Mùh und Not die Freude mir / Und freundiich stiegen Himmeiskràfte
nieder; / Es sammein in der Tiefe sich, Na-tur, / Die Quellen deiner
Hóhn, und deine Freuden, / Sie kamen ali, in meiner Brust zu ruhn, /
Sie waren Eine Wonne [...] (m, p. 151; tr. it. cit., p. 137).
Egli doveva essere lo spazio del cuore in cui «i geni
del mondo si obliarono amorosi» - un mistero espresso in toni più
forti da L'Arcipelago:
588 Quarto cerchio - La natura
Sempre abbisognano come eroi di ghirlanda per aver
gloria I consacrati elementi del cuore dell'uomo che sente.
Immer bedùrfenja, wie Heroen den Kranz, die geweihten /
Elemento zum Ruhme das Herz der fùhlenden Men-schen (n, p. 104; tr. it.
dt., p. 103).
E ancora:
Che ai celesti è caro posare su un cuore che senta.
Denn es ruhn die Himmlischen gern am fùhlenden Her-zen
(II, p. 110; tr. it. dt., p. 115).
Questo rapporto era in pericolo, ed Empedocle stesso lo
ha avvertito:
[...] E quando consideravo la bellezza della vita,
pregavo d'una cosa soltanto, di cuore, gli dèi:
se un giorno non avessi più sopportato
la mia sacra felidtà, nella giovane forza, senza
vertigine,
e se la ricchezza dello spirito, come agli antichi
beniamini dei numi, in stoltezza si fosse mutata,
mi ammonissero, solo rapidi
mi mandassero nel cuore un destino inatteso,
in segno che il tempo di purificarmi
fosse venuto, perché nell'ora giusta
ancor potessi salvarmi in rinnovata giovinezza
e, amico degli dèi, non divenissi tra gli uomini
lo zimbello e lo scherno e lo scandalo.
[...] wenn ich dann / Das schóne Leben ùbersann, da
bat/ Ich herziich oft um eines nur die Getter: / Sobaid ich einst mein
heilig Glùck nicht mehr/ In Jugendstàrke tau-mellos ertrùg / Und wie
des Himmeis alten Uebiingen / Zur Torheit mir des Geistes Fulle wùrde,
/ Dann mich zu mahnen, dann nur schnell ins Herz / Ein unerwartet
Schicksal mir zu senden, / Zum Zeichen, daB die Zeit der
La natura
589
Làuterung / Gekommen sei, damit bei guter Stund / Ich
fort zu neuerJugend noch micht rettet/ Und unter Men-schen der
Gótterfreund/ Zum Spiel und Spott und Àrger-nisse wùrde (m, pp.
151-152; tr. it. dt., p. 138).
Veramente, gli si chiedeva qualcosa di più grande. La
natura gli si era rivelata dionisiacamente dapprima a indicargli la
strada nel fatto che il suo stesso essere fosse strutturato in termini
dionisiaci. In tal modo, il senso più profondo della sua esistenza - e
della natura in lui - non mirava a realizzare la misura,
quell'atteggiamento espresso dall'amica di Panthea, Delia e da Sofocle
da essa venerato. E non puntava nemmeno alla consonanza assicurata, alla
costanza feconda. Anche questo sarebbe stato un modo autentico di
realizzare la natura, peraltro esaltato dall'inno II Reno e dall'Arcipelago.
Ma non era attribuita ad Empe-docle, sotto questa forma. In lui, la
natura voleva essere colei che precipitava nell'abisso. Egli doveva
assumere l'atteggiamento esplicitato dalle odi Heidelberg e Voce del
popolo, in cui il fiume e l'uomo «seguendo il desiderio degli dèi
cercano la via più breve al Tutto», «perché il cuore diventa troppo
bello per se stesso». Questi erano i termini in cui Empedocle avrebbe
dovuto realizzare la natura e allo stesso tempo il suo stesso essere
profondo; ma non lo ha osato. Da questo fallimento è scaturita la
possibilità della hybris; egli le è soggiaciuto, e ora l'unica
via d'uscita è l'espiazione:
In dò, m'hanno esaudito; un potente monito
mi fu bensì inviato, solo una volta, ma una volta
allo spirito libero basta.
Se non lo intendessi, sarei quale
il ronzino che non obbedisce allo sprone,
e ancora attende, a costringerlo, la sferza.
590 Quarto cerchio - La natura
Sie haben mirs gehalten; màchtig warn't / Es mich zwar
einmal nur, doch einmal ists / Dem freien Geiste gnug! / Und so ichs
nicht verstànde, wàr ich gleich / Gemeinem Rosse, das den Sporn nicht
ehrt, / Und noch der nótigen-den GeiBel wartet (ili, p. 152; tr. it.
cit., p. 139).
Adesso è ora. Anzi, c'è fretta. Solo la «via più
breve» è ancora percorribile:
Dove portate, dunque, vie dei mortali? Molte
voi siete, ma qual è la mia? quale la più breve? dove?
la più veloce? Che indugiare è vergognoso.
Miei numi, nello stadio guidavo un tempo il cocchio,
spensierato, su fumanti ruote. Così voglio
presto a voi ritornare, benché la fretta sia rischio.
Wohin denn nun, ihr Pfade der Sterbiichen? viel / Sind
euer, wo ist der meine? der kùrzeste? wo? / Der schnell-ste? denn zu
zógern ist Schmach. / Ach meine Getter! im Stadium lenkt ich den Wagen
/ Einst unbekùmmert auf rauchendem Rad. So will / Ich baid zu euch
zurùck, ist gleich die Eile gefahriich (m, p. 188; tr. it. cit., p.
89).
Siamo di fronte al dramma dell'esistenza dionisiaca,
meglio, della sua tragedia poiché passa per la colpa. Ma proprio per
questo è anche la tragedia della natura dionisiaca stessa:
[...] A voi è permesso
vivere finché avete respiro; a me no. Deve
per tempo congedarsi colui, dalla cui bocca lo spirito
parlò.
La Natura divina si rivela
spesso divinamente mediante uomini, così la riconosce
la stirpe loro, nelle sue molte ricerche.
Ma quando il mortale, a cui del suo gaudio _
il cuore colmò, l'ha annunciata,
fate che allora infranga il vaso,
perché a usi diversi non serva
La natura
591
e il divino in opera umana non si mud. Lasciate che
questi eletti pur muoiano, lasciate che gli spiriti liberi, al tempo
giusto con amore agli dèi si sacrifichino, prima che in arbitrio e
superbia e onta periscano. Mia è questa sorte.
[...] Ihr dùrft leben, / Solang ihr Othem habt; ich
nicht. Es muB / Bei Zeiten weg, durch wen der Geist geredet. / Es
offenbart die góttliche Natur / Sich góttlich oft durch Menschen, so
erkennt / Das vielversuchende Geschlecht sie wieder. / Doch hat der
Scerbitene, dem sie das Herz / Mit ihrer Wonne fullte, sie verkùndet, /
O laBt sie dann zerbrechen das GefàB, / Damit es nicht zu anderm
Brau-che dien' / Und Gótdiches zum Menschenwerke werde. / LaBt diese
Glùcidichen doch sterben, laBt, / Eh sie in Ei-genmacht und Tand und
Schmach / Vergehn, die Freien sich bei guter Zeit / Den Góttern liebend
opfern. Mein ist dies (HI, pp. 154-155; tr. it. dt. pp. 141-143).
Così era la volontà della natura. L'aspirazione d'essa
era di arrivare a se stessa nel cuore e nello spirito del consacrato.
Doveva annunciarla per poi sacrificarsi sul culmino della sua vita, e
lasciare erompere la sua totalità. Il sacerdote della natura si è
rifiutato ad essa. L'ha tradita. Ora, essa realizza comunque la propria
volontà, ma in modo tale da farla passare per la colpa; il sacrificio
non ha più il carattere di ciò che puramente attinge il culmine, ma
della espiazione. D tutto è un mistero. Crizia lo dice:
Tu m'hai sopraffatto, uomo santo! Voglio rendere onore a
quanto t'avviene e non intendo dargli un nome.
Du hast mich ùberwunden, heilger Mann! / Ich will es
ehren, was mit dir geschieht, / Und einen Namen will ich ihm nicht geben
(ni, p. 156; tr. it. dt., p. 145).
592
Quarto
cerchio - La natura
II dramma Empedocle vuole rappresentare il
mistero dell'uomo votato alla natura, posto davanti alla totalità e al
mistero di essa, del semidio, del «santo» nell'accezione di
Hólderlin, ossia di colui che è fatto in modo tale che la natura
stessa, il Tutto diventi per lui il destino. (Di nuovo si fa chiaro come
la sua figura rievochi, sotto mutate spoglie, l'atteggiamento del
Salvatore improntato all'amore.) In tal modo appunto, il dramma da forma
al mistero di questa stessa natura.
Oh, sì, festoso scende
e più gioia e più chiarità nasce.
Perché allora m'attristo? Risplende
anima di crepuscolo, pur anche
colui che affonda,
l'austero, il tuo prediletto, o Natura!
Il tuo fedele, la tua vittima!
[...] Oh, sacro Tutto
fervido, vivente, per dirti grazie,
per testimoniare di tè che sei immortale,
sorridendo l'audace getta le sue perle •
nel mare da cui vennero.
Così doveva accadere.
Così vuole lo spirito
e il tempo che matura.
Che a noi, ciechi, una volta almeno
necessario era il prodigio.
Wohi geht er festlich hinab - / Und freudiger wirds und
heller auch. / Warum denn traur' ich? leuchtet, / Dàm-mernde Seele!
doch auch / Der Untergehende dir, / Der ernste, dein Uebster, Natur! /
Dein Treuer, dein Opfer! / ... o heilig Ali! / Lebendiges! inniges! Dir
zum Dank/ Und da6 er zeuge von dir, du Todesloses! / Wirft làcheind
scine Perlen ins Meer, / Aus dem sie kamen, der Kùhne. / So muBt es
geschehen. / So will es der Geist / Und die rei-fende Zeit, / Denn
einmal bedurften / Wir Blinden des Wunders (m, pp. 170-171; tr. it. dt.,
pp. 207-209).
La natura
593
La natura è il Tutto, presa la parola nel suo senso
definitivo e assoluto. Ciò significa che non esiste niente al di fuori
di essa, nemmeno Dio. Esistono sì divinità. Empedocle stesso nomina il
padre Etere e la madre Terra; lo Spirito del tempo che domina fra le due
divinità primordiali; il dio del sole e quello del mare. Nomina le
potenze della natura, gli elementi, le forze prime, i geni, parole che
stanno per il misterioso elemento tessitore che fa del molteplice
un'unità. Ma tutto questo rimane all'interno della natura. Essa stessa
è di più. E l'intero in quanto tale.
Le parole «Tutto», «natura», «mondo», non si
riferiscono all'oggetto dell'esperienza di vita e della conoscenza del
mondo, oppure della scienza e della filosofia. Alludono invece a
qualcosa che esiste solo come realtà numinosa e che diventa fattuale
nell'esperienza religiosa. Ciò è espresso in tutti i passi che parlano
dello «spirito». Di esso trattano soprattutto gli ultimi discorsi
dell'Empedocle. Egli stesso dice:
[...] Ritorna
il tempo bello della mia vita oggi,
una volta ancora e grande è quanto verrà.
Su, figlio, saliremo fino alla cima
dell'Etna antico e sacro,
poiché gli dèi sono più presentì sulle altezze.
Con quesd occhi, oggi ancora
voglio vedere i fiumi e l'isole e il mare;
e mentre indugia sopra le acque d'oro,
mi benedica al suo declino il sole
di gioventù glorioso, che un tempo
amai per primo. Allora brilleranno intorno a noi silenti
gli astri perenni e frattanto
dagli abissi del monte la vampa della terra
scaturirà, e d accarezzerà chi tutto muove,
lo spirito, allora.
594 Quarto cerchio - La natura
[...] Es kehrt/ Die schóne Zeitvon meinem Leben heute/
Noch einmal wieder und das GroBe steht / Bevor; hinauf, o Sohn, zum
Gipfel / Des alten heilgen Àtna wollen wir! / Denn gegenwàrtger sind
die Gótter auf den Hóhn. // Da will ich heute noch mit diesen Augen /
Die Strème sehn und Insein und das Meer. / Da segne zógernd ùber
goldnen / Gewàssem mich das Sonnenlicht beim Scheiden, / Das
herrlichjugendiiche, das ich einst / Zuerst geliebt. Dann glànzt urn
uns und schweigt / Das ewige Gesdrn, indes he-rauf / Der Erde Glut aus
Bergestiefen quillt, / Und zàrt-lich rùhrt der Allbewegende, / Der
Geist uns an, o danni (HI, pp. 131-132; tr. it. cit-, pp. 109-111).
E ancora:
[...] perché null'altro a lui si addice; a lui dinanzi
nell'ora lieta della morte al sacro tempo
il divino ha gettato il suo velo -
colui che luce e terra amavano, quegli in cui lo
spirito,
lo spirito del mondo destava lo spirito suo stesso,
in cui esse sono, ed al quale, morendo io ritomo.
Denn anders ziemt es nicht fùr ihn, vor dem / In Todes
froher Stund am heilgen Tage / Das Góttliche den Schleier abgeworfen -
/ Den Licht und Erde liebten, dem der Geist, / Der Geist der Welt den
eignen Geist erweckte, / In dem sie sind, zu dem ich sterbend kehre (m,
p. 155; tr. it. dt., p. 143).
«Luce e terra» - ciclo e terra quindi e ciò che essi
abbracciano - «sono nello spirito». Il tutto non è ne la somma delle
particolarità di volta in volta esperibili ne il loro contrario,
l'insieme ovunque esperibile. Esso sta in una dimensione propria, quella
pneumatica. Per questo, esso può anche essere compreso solo attraverso
il tocco pneumatico.
Solo a partire da esso l'evangelo della natura an-
La natura
595
nunciato da Hólderlin consegue in assoluto un senso. Se
i lettori o uditori non avvertono questo elemento, tutto il suo mondo
trapassa nel registro lirico. Chi accoglie il testamento di Empedocle
solo in termini poetici o filosofici non può che essere deluso. Ma se
egli avverte la corrente misteriosa, allora ciò che è autenticamente
inteso emerge da essa: la natura nella sua grandezza, bellezza e forza
inclusiva immense. Allora essa è il mistero simpliciter, da cui
vengono un appello al sacrificio e una promessa che toccano l'intimo.
Solo su questo sfondo diventa chiaro l'assillo della decisione che
Hólderlin avverte davanti alla figura di Cristo e di cui si parlerà
nel prossimo cerchio.
ABBOZZI INNICI DEGLI ULTIMI ANNI
«MATURI SONO, TUFFATI NEL FUOCO»
È stato già detto che la concezione della natura
propria di Hólderlin subisce un mutamento. In retrospettiva diventa
evidente che la sostanza resta, ma che l'apparenza e il carattere
mutano. 'NelVIperione la natura è presente con le immagini più
svariate che rappresentano le stagioni e le ore del giorno, le cose e
gli eventi. Nell''Empedocle tutto diventa più semplice, ma anche
più grande. Questo è già dovuto alla struttura del dramma diversa da
quella del romanzo. Ma al di là di dò, vi sono cause molto più
profonde di questa diversità. Nel romanzo, la natura era il mondo in
cui gli uomini vivono ed agiscono. Nel dramma essa diventa l'immediata
controparte del personaggio principale. Anche il destino dei due amanti
ubbidiva ad un suo senso più profondo per il fatto ch'era la natura
stessa a subire, per mezzo di loro, un destino. Tuttavia, essa rimaneva
nascosta dietro alle loro figure, esplicita e velata allo stesso tempo.
Nel dramma
598 Quarto cerchio - La natura
invece, essa si presenta come essenza e come potenza,
agendo e soffrendo in prima persona.
La differenza potrebbe essere espressa anche in questi
termini: nell'Iperione la natura ha carattere lirico-romantico, nelVEmpedocle,
invece, carattere dionisiaco. Ma il primo concetto mancherebbe di
precisione. Infatti, il tipo di potenzialità presente nel dramma si
preannuncia già nel romanzo. Tuttavia, in quel caso, essa è attenuata
dal carattere sentimentale che domina l'opera. La forma d'esperienza del
romanzo è propria di persone molto giovani, sostenute dall'anelito
all'infinito e da ideali. In tal modo, una certa irresponsabilità è
sottesa al tutto, ancora rafforzata dal fatto che la volontà spirituale
si presenta come nostalgia per una bellezza tramontata molto tempo fa e
allo stesso tempo come speranza di un rinnovamento venturo, per il quale
la situazione attuale non offre alcuna garanzia. Tutto questo determina
anche l'immagine della natura. Nel dramma, l'impostazione cambia. La
personalità portante è ora un uomo all'apice della sua forza. Le
esperienze, le crisi e le decisioni sono quelle della maturità.
L'esistenza collettiva si costituisce nella forma della pòlis.
Lavoro e creatività si orientano verso un compito ancorato nel
presente, ma fondato sulla tradizione e aperto al futuro. Si tratta
quindi di cose durevoli: di governo, legge e ordine, dell'esistenza
storica. Empedocle è statista, medico, filosofo, vate, guerriero, ossia
un signore o dominatore nell'accezione platonica. L'opera a cui si
dedica, lo Stato di Agrigento, scaturisce da una volontà che - fino al
momento del sacrilegio - non si è staccata dalla natura, ma che da essa
costantemente trae le sue forze e i suoi criteri, affinchè l'opera
diventi una natura
«Maturi sono, tuffati nel fuoco»
599
di ordine superiore. Ma la prima natura non è entrata a
far parte dell'opera come garanzia sicura - è quanto accade invece
nell'Atene di L'Arcipelago -bensì, dotata di potenzialità
misteriosa, sta invece dietro ad essa. Lo spirito, tramite cui Empedocle
crea, è lo spirito della natura, ma nella sua modalità dionisiaca. In
tal modo, la stessa vita infinita della natura si accosta a quella di
lui. Questa Agrigento può subire in qualsiasi momento la stessa sorte
toccata alla città di Xanto in Voce del popolo. Questa
possibilità si annuncia anche in quella chiamata intcriore che esorta
Empedocle a compiere il grande sacrificio. È una natura dionisiaca,
tesa verso il mistero del culmino e del tramonto, che qui domina.
Questo carattere subisce un ulteriore mutamento nelle
poesie degli ultimi anni. In esse, la natura si eleva alla dimensione
del mitico.
II
Prendiamo le mosse dall'isolata strofa tarda che
Friedrich Beissner20 ritiene essere la strofa introdutti-va
alla terza versione dell'inno Mmemosine. Per metterne in luce il
carattere peculiare, anteponiamo ad essa le prime strofe di un'ode
profondamente affine che reca il titolo La mia proprietà:
In sua dovizia riposa il giorno d'autunno, Purificato è
il grappolo e rosseggia la selva Di frutta, sebbene dei cari fiori Tand
ne sian caduti in dono alla terra. Nei campi intorno dove per un
tranquillo Sentiero io vago, è agli uomini contenti
600 Quarto cerchio - La natura
Maturato il raccolto e per la lieta Fatica la ricchezza
assai li premia,
Dal del sorride mite agli operosi Fra i loro alberi la
luce e discende Dividendo la gioia, che non crebbe Per la sola mano
degli uomini il frutto.
Riluci, o Aurea, per me pure e spiri Anche tu, o brezza,
quasi a benedirmi Come un tempo una gioia e mi erri intorno Al petto,
come agli esseri felici?
In seiner Fulle ruhet der Herbsttag nun, / Gelàutert
ist die Traub und der Hain ist rot / Vom Obst, wenn schon der Holden
Blùten / Manche der Erde zum Danke fielen. // Und rings im Felde, wo
ich den Pfad hinaus, / Den stillen, wandle, ist den Zufriedenen / Ihr
Gut gereift und vici der Frohen / Mùhe gewàhret der Reichtum ihnen. //
Vom Himmel làcheit zu den Geschàftigen / Durch ihre Bàume milde das
Licht herab, / Die Freude teilend, denn es wuchs durch / Hànde der
Menschen allein die Frucht nicht. // Und leuchtest du, o Goldnes, auch
mir, und wehst / Auch du mir wieder, Lùftchen, als segnetest / Du eine
Freude mir, wie einst, und / Irrst, wie um Glùckiiche, mir am Busen?
(i, p. 306; tr. it. dt., pp. 41-43).
E adesso la strofa tratta da
Mnemosine:
Maturi sono, nel fuoco tuffati, cotti
I frutti e sulla terra provati; e v'ha una legge
Che tutto in dentro volge come serpenti
In profetico sogno sopra
I colli del delo. E molto,
Quale sugli omeri
Un peso di docchi
È da conservare. Ma sono cattivi
I sentieri. Poiché fuori strada
«Maturi sono, tuffati nel fuoco»
601
Come cavalli, vanno i prigionieri
Elementi e le vecchie
Leggi della terra. E sempre
Allo sfrenamento va una brama. Ma molto
È da conservare. E necessaria la fedeltà.
Ma ne avanti, ne indietro
Noi vogliamo vedere. Ci facciamo cullare
Come su dondolante barca del mare.
Reif sind, in Feuer getaucht, gekochet / Die Frùcht und
auf der Erde geprùfet, und ein Gesetz ist, / DaB alles hineingeht,
Schlangen gleich, / Prophetisch, tràumend auf / Den Hùgein des
Himmels. Und vieles, / Wie auf den Schuitern eine / Last von Scheitern,
ist / Zu behalten. Aber bós sind / Die Pfade. Namlich unrecht, / Wie
Rosse, gehn die gefangenen / Element' und alten / Gesetze der Erd. Und
immer / Ins Ungebundene gehet eine Sehn-sucht. Vieles aber ist / Zu
behalten. Und not die Treue. / Vorwàrts aber und rùckwàrts wollen wir
/ Nicht sehn. Uns wiegen lassen, wie / Auf schwankem Kahne der See (II,
p. 197; tr. it. dt., p. 243).
La differenza si impone subito. Entrambe le poesie
parlano dell'autunno, della terra feconda, della ricchezza matura.
Entrambe sono plasmate da una grande esperienza e un'arte sicura.
Eppure, la prima, a differenza della seconda, può essere definita
realistica. Ovviamente anch'essa non offre una diretta descrizione della
realtà. Sono alcune grandi forme e movimenti a dominare a scena.
Eppure, vi è un rapporto prossimo con il mondo dell'esperienza
quotidiana, e ogni uomo ben disposto a cui un'ora propizia apre gli
occhi, può incontrare questo paesaggio autunnale. In Mnemosine
invece, tutto è estraneo, quasi minaccioso. Le forme di questo mondo
sono diverse da quelle comuni. E sono diversi il contesto in cui sono
collocati e l'atmosfera che tutto circonda.
602 Quarto cerchio - La natura
Sono gli ultimi giorni prima della vendemmia. I
«frutti» sono grappoli, «nel fuoco tuffati» dall'ardore della tarda
estate meridionale. Sono «sulla terra provati», hanno un peso pieno
nella misura della realtà primordiale e dell'esistenza umana. Ma la
maturità significa allo stesso tempo il periodo di passaggio da uno
stato d'animo all'altro, dall'ambito di vita precedente a quello nuovo.
Perché così vanno probabilmente interpretati i versi introduttivi,
pubblicati nelle loro versioni complete per la prima volta da Beissner
«Profetico sogno sopra i colli del ciclo», sussiste una legge secondo
cui entra nell'altro mondo con la facilità mirabile dei serpenti, un
mondo in cui tutto ciò che è maturo entra trasformandosi. Ma
nonostante questo amichevole invito di ritornare alle «dimore e alle
porte del cielo», ai «colli del cielo» come dice un «canto funebre»
di Simon Dach21, nonostante questa legge l'uomo ha il compito
di «conservare molto» e di reggere l'esistenza, quasi portasse legna
sulle spalle, così come Eracle un tempo ha retto sotto il peso della
volta celeste, come i «forti» dell'inno Al fonte del Danubio, i
profeti che
[...] impavidi innanzi ai segni del mondo Con sulle
spalle il cielo e tutto il destino, Interi giorni, radicali sui monti ;
[...] furchtios vor den Zeichen der Welt, / Und den
Him-mel auf Schuitern und alles Schicksal, / Taglang auf Ber-gen
gewurzeit (n, pp. 128; tr. it. dt., p. 165),
sopportavano il peso della rivelazione. Questa è
l'unica cosa da fare in un'esistenza che ha perso qualsiasi
affidabilità: resistere e sopportare.
«Maturi sono, tuffati nel fuoco»
603
Ma è difficile, perché «sono cattivi i sentieri».
Veramente, i sentieri dovrebbero essere buoni. Che cosa può esserci di
meglio di un sentiero e di una via? Il fatto di poter andare, lasciare
il punto di partenza, misurare lo spazio intermedio e giungere al
traguardo? Si tratta di uno dei fatti fondamentali dell'esistenza,
altrettanto ovvio e misterioso del fatto che ci siano la stabilità, la
saldezza della terra, il soffio, l'aria che spira, l'occhio, la luce, la
forma e il colore. Ma qui l'owietà è eliminata: «sono cattivi i
sentieri». Tutto d'un tratto, essi hanno un volto diverso. Hanno
l'apparenza di essere ingannevoli. Minacciano di scomparire. L'esistenza
minaccia di diventare senza sentieri. Anzi, sembra che essi diventino
sbagliati, che vogliano sviare: «sono cattivi». L'uomo comincia a
sentire che i sentieri sono qualcosa di posteriore, una costrizione
imposta all'antico inizio, alle libere potenze primordiali. Il
«sentiero» è il primo modo di costringere il caos, l'inizio
dell'ordine. Ci si accorge che quest'ordine non è sicuro come quello
della vita quotidiana, ma che i sentieri, sopportati contro voglia,
passano al di sopra di potenze selvagge, e sono suscettibili di
trasformarsi in forme di sviamento, d'errore, appena un minimo
particolare cambia.
Dappertutto il dominio dello spirito che stabilisce
l'ordine si allenta. Gli elementi della terra sono «prigionieri»,
condotti per le redini come cavalli appena domati. Sono soggetti alla
volontà altrui, ma contro voglia, e le redini non danno sicurezza. In
ogni momento la possono disarcionare. Dappertutto vi sono le leggi
dell'ordine, ma non vengono accettate dall'antica sostanza della
realtà. Sono nuove, appena imposte dagli olimpici. Prima era diverso.
Anche allora
604 Quarto cerchio - La natura
vi erano leggi. Ma queste scaturivano dalla terra, dal
sangue, dai fondi dell'anima e si oppongono a ciò che viene più tardi.
Tutto ciò si agita, avanzando la propria pretesa. Vi risponde qualcosa
nell'uomo stesso, apparentemente così spirituale e ordinato a partire
dall'altezza: la profondità tellurica intcriore, quanto è
primordialmente antico nell'animo, manifestandosi come nostalgia che
sempre «va all'infinito». Anche ciò è una fonte di pericolo: questa
interiorità potrebbe sentire la chiamata, arrendervisi ed essere
trascinata nel caos. Allora tutto sprofonderebbe.
Così si fa risentire il monito a resistere. Il mondo;
il mondo minacciato dell'ordine e del giorno è
consegnato nelle nostre mani. Esseme consapevoli e resistere in mezzo
all'estraneità minacciosa è «la fedeltà». Ritornano parole di
oscura sapienza: «Molto è da conservare», e il medesimo monito di
fare l'unica cosa possibile: resistere. Prima il monito rivolto all'uomo
oppresso era quello di stare in piedi, addossandosi la legna
dell'esistenza. Adesso egli è esortato a rimanere seduto nella barca
fragile, quasi perduta «sulle onde del mare», a non guardare ne avanti
ne indietro, a non progettare e a non ricercare e paragonare. Egli deve
fare una sola cosa: resistere nell'attimo incomprensibile. La barca è
l'esistenza individuale e il suo ordine, ciò che oscilla al di sopra
del caos domandolo solo con la sua fragile forma. Quest'esistenza è in
balìa della tremenda estraneità delle potenze primordiali, non
giustificata da un senso anteriore a loro e non protetta da un ordine
affidabile. Essa può affermarsi solo in se stessa. Ma nel fatto che non
abbia «altro che questo» è la radice di una spe-
«Maturi sono, tuffati nel fuoco»
605
ranza che non si può confermare, ma che è anche
inconfutabile: quella di poter essere.
È un'immagine della realtà completamente diversa da
quella presentataci in La mia proprietà, una realtà estranea,
pericolosa, che viene dagli ambiti dell'origine, della profondità, del
primordiale. La ricchezza dei tratti pittorici e plastici è scomparsa.
Sono solo pochi, posti uno accanto all'altro, senza che vi siano
connessioni fra di loro. Ciò vale per tutte le poesie tarde,
soprattutto per quelle degli ultimissimi tempi. Si veda per esempio la
poesia, così commovente nel suo abbandono eppure così grande che
inizia con le parole Nell'azzurro leggiadro (II, p. 372).
Di qui il pericolo che la connessione e l'unità vadano
perse, che si decomponga la logica dell'esistenza secondo cui un
pensiero non può essere espresso senza una ragione e un'immagine deve
ricollegarsi a quella precedente ed essere ripresa da quella successiva,
appunto perché l'essere stesso è strutturato secondo tale logica.
Questa connessione è minacciata, e alla fine vi è la distruzione. In
termini psichiatrici: il decorso della vita psichica e spirituale si
dissolve, i pensieri e le visioni non sono più tenuti insieme dal senso
e dalla volontà, i singoli elementi non costituiscono più una figura.
In termini metafìsici: irrompe il caos, «i sentieri» non conducono
più da nessuna parte, le «leggi» sono annullate, trionfa ciò che non
«ha freni», e il cosmo perisce. Ma lungo questa via, prima del
tramonto, appare un'immagine del mondo a lungo dimenticata, quella
mitica, espressa da una forma poetica particolare, l'inno. Questa forma
poetica non richiede uno svolgimento conseguenziale del conte-
606 Quarto cerchio - La natura
sto, come il poema epico o la poesia lirica. Il tratto
singolo è evocato con una tale sicurezza visionaria e dotato di una
tale forza espressiva da attestarsi per se stesso. Non ci si interroga
sul dove e perché, lo si accetta in quanto tale. E quando un tratto si
accosta all'altro, allora essi, pur derivando da una grande distanza
logica, figurativa ed emotiva, coincidono in modo talmente preciso da
rendere presente l'intero, la totalità.
Ili
Questa forma di coscienza e il mondo che ne è risultato
sono da noi definiti mitici. Il termine non è scelto a caso. Le
testimonianze offerte da antiche civiltà e dalla vita psichica di
popoli primitivi lo avallano. La natura non vi appare come un contesto
scientificamente formulabile di cose ed eventi oppure come un insieme
figurativo estetico-simbolico che riveli all'occhio contemplante un
senso sviluppabile in termini precisi. Non si presenta nemmeno come un
ordine descrivibile attraverso una teoria etica del dover essere. La
«natura» è invece un immane alternarsi continuo di giochi e di lotte
fra essenze e potenze. Niente è reso sicuro e calcolabile dalla legge.
Le cose come gli eventi scaturiscono sempre dall'iniziativa di entità
potenti. L'uomo condensa questa immagine drammatica in forme, detti e
atti che a loro volta hanno potere, opponendoli alle forze esterne e
tentando in tal modo di domare questi fenomeni immani al punto da
potervi vivere in mezzo. Tutto è permeato da una corrente misteriosa
che, per quanto non pos-
«Maturi sono, tuffati nel fuoco»
607
sa essere nominata direttamente, viene determinata dagli
eventi e dalle figure. D'altra parte è essa stessa a rendere possibili
l'essere e gli eventi e a connettere il singolo con il singolo ... Ma
questo stato di coscienza e l'immagine del mondo ad esso correlata si
riscontra anche in bambini veramente tali. Si osservi in proposito il
modo in cui vedono e disegnano le cose appena possono agire di propria
iniziativa. Inoltre, la psicologia ci insegna che lo stesso modo di
sentire e di vedere sarebbe, insieme con le forme espressive ad esso
correlate, uno strato rimosso nel sottofondo della coscienza
dell'adulto. Esso influirebbe sul comportamento quotidiano
condeterminando in maniera strana, incomprensibile e a volte pericolosa
il nostro destino. Esso si annuncerebbe nell'impressione che fanno le
favole, le figure delle leggende, e si esprimerebbe per mezzo di sogni e
fenomeni patologici... Infine, questa esperienza del mondo può però
manifestarsi anche nella coscienza; non solo presso popoli primitivi o
bambini, ma anche in personalità mature di altissimo livello. Ne sono
prova Hólderlin e ogni altro poeta innico, appena si adopera il
concetto con il rigore che richiede, ma che solo raramente si trova
realizzato. All'ultimo livello della sua poesia, la natura è quel
contesto dell'esistenza che si da e viene percepito nei termini di
questa modalità mitica. Esso viene però contemplato al sommo livello
culturale, vissuto nell'ambito storico ad esso attribuito, ossia quello
moderno. Nell'ottica di queste poesie, la natura è un'opera di talune
potenze, che continuamente viene attuata di nuovo. Mai si riesce a
cogliere simultaneamente una totalità. Ciò che appare sono tratti che
emergono dal profondo, gesti che vengono da lonta-
608 Quarto cerchio - La natura
no, eventi che scaturiscono da un'origine inaccessibile
- sempre, tuttavia, nel senso che l'insieme diventa presente nel
singolare.
Questa immagine del mondo si esprime nella forma
dell'inno. Come già è stato osservato, l'inno, a differenza del poema
epico che sviluppa il suo contenuto secondo la sequenza temporale della
trama, è sotto il dominio di un potere apparentemente arbitrario,
quello dell'ispirazione. Questa induce l'oratore a cogliere ed a
estrarre un elemento da qualche parte entro l'oggetto considerato, a
lasciarlo ricadere e a iniziare da un'altra parte; per poi magari
ritornare al primo o per scegliere di nuovo un'altra possibilità. In
tal modo, senza una ragione apparente, egli accosta un elemento singolo
all'altro. Ma quando domina un'ispirazione autentica e opera
un'autentica abilità artistica nasce un'immagine d'insieme dotata di
un'immediatezza tortissima. Questa forma del contemplare e del parlare
è in grado di esprimere l'immagine mitica in termini poetici.
L'ispirazione innica è un movimento intcriore, che corrisponde a quello
estemo prodotto dalle potenze dell'essere.
Ma in tal modo si da anche il pericolo di cui già si è
parlato: che il tutto si disintegri. L'iniziativa da cui nascono le
parole e le frasi può inabissarsi a tali profondità da non essere più
svolta in modo convincente. Può darsi il caso che il prodotto che
scaturisce da essa si limiti ad attraversare lo spazio del vedere e del
sentire come una meteora, sfuggendo a qualsiasi collocazione
contestuale; che la distanza tra i singoli elementi diventi troppo
grande e che tutto rimanga un frammento (il pericolo dei «monti più
divisi» di cui parla l'inizio dell'inno Patmo). L'esistenza
mitica non
«Maturi sono, tuffati nel fuoco»
609
possiede un ordine prestabilito, ne teoretico ne
teologico ne estetico. Essa nasce continuamente, senza premesse
sistematiche, dal movimento sovrano delle potenze. Si veda in proposito
l'esaltazione del caso da parte del pensatore che ha rivendicato questa
immagine del mondo, Friedrich Nietzsche. Ciò che stabilisce l'unità,
connettendo momento a momento, punto dello sviluppo ad altro punto,
forma a forma è la grande corrente, il moto eracliteo. Se esso manca,
tutto si disintegra.
Questo è probabilmente anche il motivo psicologico di
ciò che Hólderlin ha avvertito come colpa e pericolo dell'esistenza in
quanto tale e di cui si è già parlato più volte in queste ricerche.
Sull'esistenza incombe continuamente il pericolo della lacerazione. Una
figura coincide con una limitazione, ogni proprietà pone una
distinzione. L'affermazione fatta in un luogo diventa una negazione
nell'altro; tanto più quanto più la vita diventa forte. Dalla forza
stessa dell'essere nasce quindi il pericolo della fine. Perciò è
necessario esortare sempre: alla «riconciliazione», alla «fedeltà»,
a «portare la legna sulle spalle», a «resistere nella barca che
oscilla». Nel corso dello sviluppo umano e poetico di Hólderlin il
pericolo della lacerazione cresce sempre più. L'unità si inabissa
sempre più, l'elemento singolo diventa sempre più potente, più
magico, si potrebbe quasi dire, e tenta di diventare autonomo. Per il
Tutto diventa sempre più difficile far breccia e apparire. Eppure è
presente, presagito ancora nelle poesie più frammentarie degli ultimi
tempi.
«MA QUANDO I CELESTI HANNO COSTRUITO ...»
Un esempio di come il carattere mitico possa
accompagnarsi ad un'atmosfera completamente diversa, quella della
quiete, è costituito dai seguenti versi, tratti da uno degli ultimi
frammenti:
Ma quando i Celesti hanno
Costruito, un silenzio
Si fa sulla terra e in bei rilievo sorgono
I monti stupiti. Segnate sono Le loro fronti. Poiché li
colpì Quando la diritta figlia Trattenne rude il Tonante, La fremente
saetta del dio E bene odora spenta Dall'alto la ribellione. Dove sta
calmo, sedato, qua E là, il fuoco. Che trabocca gioia
II Tonante e avrebbe quasi
II cielo scordato
Allora nell'ira, se non lo avesse
La saggezza ammonito.
Ma adesso fiorisce
II povero luogo.
E a maraviglia grande vuole
612 Quarto cerchio - La natura
Stare.
Montagna pende mare,
Caldo profondità ma rinfrescano l'aure
Isole e penisole,
Grotte per pregare [...]
Wenn aber die Himmlischen haben / Gebaut, sdii ist es /
Auf Erden, und wohigestalt stehn / Die betroffenen Ber-ge. Gezeichnet /
Sind ihre Stimen. Denn es traf / Sie, da den Donnerer hieit / Unzàrdich
die gerade Tochter, / Des Gottes bebender Strani/ Und wohi duftet
gelóscht/ Von oben der Aufruhr. / Wo inne stehet, beruhiget, da/ Und
dort, das Feuer. / Denn Freude schùttet / Der Donnerer aus und hàtte
fast / Des Himmeis vergessen / Damais im Zorne, hàtt ihn nicht / Das
Weise gewarnet. / Jetzt aber blùht es / Am armen Ort. / Und wunderbar
groB will / Es stehen. / Gebirg hànget See, / Warme Tiefe es kùhlen
aber die Lùfte / Insein und Halbinsein, / Grotten zu beten [...] (il,
p. 222; tr. it. dt., p. 263).
Qui il mitico sta nell'enorme intensità della forma,
nel «coinvolgimento» obiettivo delle cose, segnato dal fulmine -
quello del temporale, ma anche quello della potenza di senso che saetta
fuori dall'origine creativa. «Il senso» è ciò che fa sì che un ente
sia degno di essere, fermamente ancorato e collocato nell'ordine. Questo
senso viene dal «cielo», l'ambito dell'etere, il mistero creativo
della luce. Ma quando questo senso diventa troppo potente, l'ente non è
in grado di reggerlo ed esso si trasforma in un fulmine bruciante - il
ritorno dell'evento dionisiaco in cui la vita, diventata troppo potente,
precipita nell'abisso. La cosa perisce a motivo della potenza di senso
che prorompe in essa ... Questo coinvolgimento oggetti' vo viene
sperimentato in termini soggettivi, per mezzo di quell'esperienza
vissuta in cui l'occhio contem-
«Ma quando i Celesti hanno costruito...»
613
piante è talmente abbagliato dalla strapotenza della
forma, lo spirito che percepisce talmente travolto dall'impeto di
quell'essere, l'anima che sente talmente scossa dalla magnificenza del
senso che l'uomo rischia di soccombere. Solo la medesima potenza in cui
si manifesta il senso, l'ispirazione visionaria, gli da la forza di non
perirvi22.
Qui il mitico sta nella potenza di senso, scaturita
dall'ambito primordiale dell'altezza, manifesta nella forma singola e
domata per mezzo della quiete e della grandezza luminosa. Ma poi, dal
basso, irrompe di nuovo la potenza oscura scuotendo gli ordinamenti che
rendono possibile la vita:
Così vuole sembrare divina. Ma
Paurosamente inospite si torce
Attraverso il giardino l'errore,
Senza occhi, poiché l'uscita
Con pure mani a stento
Trova un uomo. Egli va, mandato,
E cerca, come animale, il
Necessario. Invero con le bracda,
Pieno del presentimento, può uno toccare
La mèta. Dove infatti
I Celesti di una siepe e di un segnale
Che la loro via
Indichi, o di un bagno
Abbisognano, si agita come un fuoco
Nel petto degli uomini.
So will es gótdich scheinen. Aber / Furchtbar ungasuich
windet / Sich durch den Garten die Irre, / Die augenlose, da den Ausgang
/ Mit reinen Hànden kaum / Erfindet ein Mensch. Der gehet, gesandt, /
Und suchet, dem Tier gleich, das / Notwendige. Zwar mit Armen, / Der
Ahnung voli, mag einer treffen / Das Ziel. Wo namlich / Die Him-
614 Quarto cerchio - La natura
mlischen eines Zaunes oder Merkmais, / Das ihren Weg /
Anzeige, oder eines Bades / Bedùrfen, reget es wie Feuer / In der Brust
der Mànner sich (il, p. 223; tr. it. dt., p 265).
È di grande immediatezza l'immagine dell'«errore senza
occhi» che, come il serpente dell'abisso, striscia per il giardino - un
ricordo remoto del racconto biblico - tenendo l'uomo prigioniero nella
natura selvaggia, cosicché egli persegue come l'animale semplicemente i
bisogni naturali. Ma quando lo tocca il presagio del divino, allora nel
suo cuore si desta la forza creativa per preparare ai celesti la via
mediante una siepe o un segno, per predisporre un lavacro per loro
rendendo, attraverso la civiltà, la natura selvaggia degna degli dèi.
i
II
La natura è unità, anche nella sua forma mitica. Anche
quando le forme emergono dall'irriconoscibile e ricadono in esso; anche
quando tra immagine ed immagine, fra tratto e tratto l'abisso
primordiale si apre in modo sempre più minaccioso; anche quando
l'accadere scaturisce, colpo dopo colpo, da un principio che non è
collocabile in nessun ordine - sempre, vi è un insieme: un'origine
ultima e un ritomo ultimo; un tutto in cui si inserisce ogni elemento
singolo e che in esso si da. Non si identifica con l'ordine logicamente
analizzarle, fondato dalle leggi della natura, della storia,
dell'esistenza sociale. Per il mondo primi-, tivo, esse non ci sono
ancora. Per il mondo degli ulti-, mi inni di Hólderlin esse
costituiscono appunto anco-
«Ma quando i Celesti hanno costruito...»
615
ra, in superficie, una rete fine distesa
sull'imperscrutabile e indomabile. L'unità della natura deve quindi
risiedere nel modo in cui sono presentì gli elementi singoli, si
manifestano le forme e si compiono gli avvenimenti.
Dapprima si pensa di poterle individuare nell'intensità
e nella forza di presenza immediata della singola forma stessa, di cui
si è già parlato. Ma questa da sola forse non basta. Deve esserci
qualcosa che rende ciascun elemento aperto al tutto, orientando il
singolo verso l'intero e facendo emergere l'intero nel singolo. Nel
mondo deìVIperione e deWEmpedocle era il pnéuma che
spira, il soffio della vita totale: che cosa ne è divenuto negli inni?
NeU'Zrfro si dice:
Lo chiamano l'Istro
Ha bella dimora. Arde delle colonne
La fronda e tremola. Dal folto diritte
Sorgono alla rinfusa: su esse,
Secondo ordine, sporge
II tetto di rupi. E non
Mi stupisce ch'egli abbia
Èrcole come ospite invitato,
Di lungi splendendogli, alle falde d'Olimpo,
Quando per cercarsi ombra
Venne dall'Istmo ardente,
Che là grande cuore
Avevano, ma abbisogna, per gli spiriti,
Anche la frescura. Perdo quegli preferì migrare
Qui, alle sorgenti e alle ripe gialle
Alto odoranti nell'aria e nere
D'abetaie, ove nel fitto
II cacciatore ama vagare
Di meriggio e udibile è la crescita
Nei resinosi alberi dell'Istro [...]
616 Quarto cerchio - La natura
Mann nennet aber diesen den Ister. / Schón wohnt er. Es
brennet der Sàulen Laub, / Und reget sich. Wild stehn / Sie
aufgerichtet, untereinander; darob / Ein zweites MaB springt vor / Von
Felsen das Dach. So wundert / Mich nicht, daB er / Den Herkules zu Gaste
geladen, / Fern-glànzend, am Olympos drunten, / Da der, sich Schatten
zu suchen, / Vom heifien Isthmos kam, / Denn voli des Mutes waren /
Daselbst sie, es bedarf aber, der Geister we-gen, / Der Kùhiung auch.
Darum zog jener lieber / An die Wasserquellen hieher und gelben Ufer, /
Hoch duftend oben, und schwarz / Von Fichtenwaid, wo in den Tiefen / Ein
Jàger gem lustwandeit / Mittags, und Wachstum hór-bar ist / An
harzigen Bàumen des Isters [...] (il, pp. 190-191; tr. dt. dt., pp.
239-241).
Il paesaggio è rievocato in modo splendido. Chi ha
visto l'alta valle del Danubio in autunno, quando gli olmi sono dorati e
vi si stagliano le rocce calcaree bianche contro il ciclo azzurro fondo;
o chi si è aggirato nel silenzio dei suoi grandi boschi, quando il
piede affonda nel muschio, quando le cime gigantesche sono oscure e i
tronchi rossi come il rame, è partecipe di questa visione. Eppure, ci
viene detto pochissimo! Alcune grandi forme sono messe in evidenza e
contrapposte con audacia inaudita. L'ambito mitico non c'è ancora
veramente, ma già lo si sente vicino. Basta una scossa intcriore
perché la trasformazione si compia. La strofa successiva dice: ', II
II quale, però, sembra quasi ,.' '
Che vada a ritroso
E io penso debba venire
Da oriente. • 'f\,
Molto d sarebbe 'i
Da dirne. E perché
Sta così addosso ai monti? L'altro,
«Ma quando i Celesti hanno costruito...»
617
II Reno, se n'è andato
Da parte. Non vanno senza ragione
Nel secco i fiumi. Ma come? È ch'essi debbono
Fare da lingua. Un segno d vuole,
Nient'altro, chiaro e netto, che Sole
E Luna porti nell'animo inseparabili,
E prosegua dì e notte, e i celesti
Al caldo d si sentano l'un l'altro.
perdo quelli son pure
La gioia dell'Altìssimo. In che modo verrebbe,
Altrimenti, quaggiù? E, come Hertha verdi,
Sono essi i figliuoli del delo.
Der scheinet aber fast / Rùckwàrts zu gehen und / Ich
mein', er mùsse kommen / Von Osten. / Vieles wàre // Zu sagen davon.
Und warum hàngt er / An den Bergen ge-rad? Der andre, / Der Rhein, ist
seitwàrts /Hinweggegan-gen. / Umsonst nicht gehn / Im Trocknen die
Strème. Aber wie? Sie sollen nàmiich / Zur Sprache sein. Ein Zei-chen
braucht es, / Nichts anderes, schlecht und recht, da-mit es Sonn / Und
Mond trag im Gemùt, untrennbar, / Und fortgeh, Tag und Nacht auch, und
/ Die Himmli-schen warm sich fùhlen aneinander. / Darum sind jene auch
/ Die Freude des Hóchsten. Denn wie kàm er / Her-unter? Und wie Hertha
griin, / Sind sie die Kinder des Himmeis ... (il, p. 191; tr. it. dt.,
p. 241).
Ora il fiume non è più il fenomeno geograficamente
noto, ma un essere. Già all'inizio della strofa precedente c'era una
parola che richiamava l'attenzione:
Lo chiamavano l'Istro Ha bella dimora ...
Il fiume «ha dimora», come anche l'isola di Patino:
Poiché, non come Cipro,
618 Quarto cerchio - La natura
La ricca di sorgenti, o come
Una delle altre,
Ha Patmo sontuosa dimora,
Ma è accogliente
In così povera casa
Ella nondimeno,
E se da naufragio o piangendo
La terra natale
O il dipartito amico,
Le si appressi uno
Straniero, ama ascoltarlo [...]
Denn nicht, wie Cypros, / Die quellenreiche, oder / Der
anderen eine, / Wohnt herrlich Patmos, // Gastfreund-lich aber ist / Im
àrmeren Hause / Sie dennoch, / Und wenn vom Schiffbruch, oder klagend /
Um die Heimat oder / Den abgeschiedenen Freund, / Ihr nahet einer /. Der
Fremden, hórt sie es gern [...] (il, pp. 166-167; tr. it. cit., p.
221).
L'isola e il fiume sono esseri. Ma non vengono
rappresentati in modo allegoricamente didascalico, come nel caso delle
solenni figure femminili e di quelle maschili incoronate di canne sui
monumenti del secolo passato. Essi non hanno forma antropomorfa, ma sono
immediatamente presenti. L'isola dimora. Il fiume dimora. Chi avverte
ciò, si trova di fronte a una realtà. Questo è misticismo ...
Anche l'Istro ed il Reno nella nostra strofa sono
esseri. Essi «camminano», condotti da una volontà misteriosa, e hanno
un significato che va al di là del-l'immediatamente percepibile. Essi
«camminano nel secco». Il «secco» non è solo la terra come
identità geologica, ma l'elemento, così come appare nella filosofia
ionica della natura o, meglio, nelle esperienze
«Ma quando i Celesti hanno costruito...»
619
vissute primordiali su cui si basano i concetti di essa.
I fiumi camminano in questo elemento secco, asciutto. Essi sono
«linguaggio» e «segno». Le parole significano qualcosa di simile a
quanto il frammento sopra citato ha detto a proposito del coinvolgimento
dei pendii montuosi. Il pensiero ritoma anche in altre parti dell'opera
di Hólderlin. Le forme della natura, come una boscaglia ai piedi di un
monte lontano o i contomi di certe montagne dopo il temporale, ma anche
la sagoma di una rovina sullo sfondo del ciclo sono innanzi tutto ciò
che empiricamente sono: il fatto che il limite del bosco si delinea in
quel modo, che il monte ha tali cime e tali pendii e che del muro sono
rimasti appunto quei resti. Ma poi viene la scossa interna e
improvvisamente tutte le forme sono nuove. Esse si avvicinano e
annunciano. Per colui che ne è toccato si tratta di saperle
interpretare.
La poesia, unica tra le altre a motivo della sua
metrica, dal titolo Cantato a pie delle Alpi, dice:
Così restare soli con i celesti, e, se fugge La luce, e
fiumi e vento, se il tempo Si affretta verso la foce, a loro con fermo
Occhio guardare,
Nulla di più beato io so e desidero; fin quando Me pure
come il salice il flutto non porterà via, Che in buona custodia
dormendo io dovrò Andare nelle onde;
Ma ama restare nella casa, chi in fedele Petto serba il
divino, e libero voglio, finché mi sarà Concesso, voi tutte, o lingue
del delo! Intendere e cantare.
So mit den Himmlischen allein zu sein, und / Geht vorù-
620 Quarto cerchio - La natura
ber das Ucht, und Strom und Wind, und / Zeit eilt hin
zum Ort, vor ihnen ein stetes / Auge zu haben, // Seliger weiB und
wùnsch ich nichts, so lange / Nicht auch mich, wie die Weide, fort die
Flut nimmt, / DaB wohlaufgeho-ben, schlafend dahin ich / Mu6 in den
Wogen; // Aber es bleibt daheim gern, wer in treuem / Busen Góttliches
hàlt. und frei will ich, so / Lang ich darf, euch ali, ihr Sprachen des
Himmeis! / Deuten und singen (il, pp. 44-45; tr. it. dt p. 85).
Anche qui il fiume diviene così la possente figura del
suo percorso inscritta nello spazio, ossia un segno, una runa. Ora il
paesaggio compie il passo per entrare nel mitico. Nella strofa
precedente era già stato ridotto a poche forme potenti. Ma queste, pur
condensate tanto da rendere un massimo di forza espressiva, descrivevano
direttamente un paesaggio. Ora la forma familiare è divenuta un
«segno», una runa del mondo, manifesta e leggibile solo a chi ha
l'occhio adeguato. In questo trapasso sta l'elemento pneumatico.
L'emergere del segno si compie nello spirito, nello stesso spirito il
leggere e il comprendere. La natura mitica è nel pnéuma, ed
essa viene vista alla luce del tocco pneumatico.
Ma il segno non è presente solo per «essere
linguaggio», per annunciare. In esso accade qualcosa che decide il
destino del mondo. Esso ha il potere di «portare nell'animo,
inseparabili. Sole e Luna» che sono separati. Sole e luna, giorno e
notte sono separati. Quando viene uno, l'altro se ne deve andare. Ciò
è e sembra a prima vista ovvio. L'ordine poggia sul fatto che vi siano
differenze e che l'essere e l'agire dell'uno si differenzino da quello
dell'altro. Ma qui ciò smette di essere ovvio, e il timore più
profondo di
«Ma quando i Celesti hanno costruito...»
621
Hólderlin si fa largo: che la realtà calata in una
forma possa esistere solo a patto che venga sacrificato l'intero.
Ma, per superare questo pericolo, non è sufficiente
l'ordine stesso? Ossia il fatto che ogni essere singolo sia inserito
nell'intero e che la storia sussista fin dall'inizio in rapporto ad un
contesto? Ma ciò è sufficiente solo per la coscienza comune, non per
la coscienza di mistica della natura qui descritta. Questa chiede
piuttosto l'unità piena. Ogni cosa deve essere completamente
nell'altra, e ogni cosa completamente nel Tutto, e il Tutto in ogni
forma singolare. La molteplicità dev'essere completamente ricompresa
nell'unità, e la sobrietà deve comprendere allo stesso tempo la
ricchezza delle forme. È la volontà che sta dietro al concetto
neoplatonico dell'Uno supremo ed è interpretata mediante la figura
dell'emanazione e del ritomo. Questo stato si manifesta nel «cuore»
del fiume. A un tratto si apre un'interiorità. Ciò che scorre
assimila, una dopo l'altra, le figure divise dell'esistenza, «Sole e
Luna», conservandole insieme nella sua intimità. Il fenomeno parte dal
fatto che nello specchio del fiume che scorre si riverberano di giorno
il sole e di notte la luna, per passare poi nella dimensione
metafìsico-mistica. Il fiume, la forma prima dell'esistenza
interpretata in termini eraclitei, sta al di là della separazione; esso
è animo vivo, ciò che altrimenti è diviso si identifica in esso.
Questo stato non può essere concepito in modo teoretico
o allegorico, ma solo vissuto attraverso la contemplazione, come uno
stato di trasformazione, in cui l'«altro» penetra in quanto sta «al
di qua» provocandone il trapasso. Qui si fa chiaro un'altra volta il pnéuma.
622 Quarto cerchio - La natura
Esso riunifica la natura vista in termini mitici e
drammaticamente esposta al pericolo della separazione. Ma, a differenza
delle prime poesie, lo spirito non viene più definito espressamente una
potenza, costituisce bensì lo stato dell'intero. La natura mitica si
trova in una condizione di movimento e di apertura grazie a cui ciò che
è separato diventa identico nel momento successivo, o meglio, nello
stesso momento; ciò che è fuori, è allo stesso tempo dentro.
L'immagine del fiume non ha la ricchezza radiosa che lo contraddistingue
nelle prime poesie. Le sue forme sono povere e rigorose, ma in compenso
potenti, ardenti e circonfuse dal soffio primordiale.
Ili
II sole e la luna, il giorno e la notte sono potenze
miriche - ma sono anche dèi. Il testo segue la linea che porta da loro
al «Supremo»: al Padre, il Cielo, l'Etere che unisce in sé l'immagine
di Zeus e quella sbiadita del Padre della Bibbia nei cieli. I fiumi sono
«la gioia dell'Altissimo» perché fanno sì che egli possa «venire
quaggiù». Il riflettersi del cielo nel fiume è a sua volta il primo
strato di un fenomeno complesso:
il cielo scende sulla terra e i due, che pure sono
divisi, si uniscono nel cuore del fiume.
Gli dèi non sono esseri accanto alla natura, ma le
realtà di fondo di questa natura stessa. Essi si manifestano certo
anche in figure dai contomi precisi, condeterminati dalle opere
dell'arte antica. Ma queste tornano a trapassare ben presto nel mondo
stesso. Ciò è particolarmente evidente negli inni tardi. Le
«Ma quando i Celesti hanno costruito...»
623
potenze della natura sono il primo aspetto di essi. Essi
si prolungano inoltre nel metafisico e nello psichico o, ancora più in
là, nel numinoso. Appena giunge il momento del rivelarsi e lo sguardo
acquista capacità visionarie, diventa chiaro che sono dèi. «Il dio»
è l'ultimo rivelarsi di un elemento del mondo. Ma l'unità che
raccoglie insieme tutti gli dèi è «la natura» -quella natura che nel
pnéuma ha raggiunto la sua dimensione ultima, più esattamente,
che scaturisce costantemente dal pnéuma e sussiste in esso.
DalYIperione agli inni tardi ha luogo, a velocità
spaventosa, una grande evoluzione. Ma è un'evoluzione all'interno della
stessa impostazione. La natura è l'insieme. Ma l'insieme è un mistero.
L'espressione di questo mistero è il pnéuma del mondo. Tutto
ciò che è nominabile sta in questo intero, le cose, gli uomini e anche
gli dèi. Questo intero è l'istanza ultima a cui tutto è riferito. In
esso, gli dèi sono uniti fra loro. Essi scaturiscono dall'intero e vi
ritornano. Essi sono gli dèi del mondo, gli dèi della natura. La
natura stessa non è un dio: essa non è meno, ma più di quanto possa
esprimere questo concetto nell'accezione hólderlinia-na. Essa è ciò
che è, in quanto tale; inizio, decorso e fine. Gli dèi sono elementi
entro questo tutto.
NOTE
1. Isola delle Cicladi, detta in antico anche Ofiussa e
Idrussa (n.d.r.).
2. Vedi la nota 1 a p. 136 supra.
3. Città della Laconia, sulle propaggini del Taigeto,
oggi villaggio, Mi-strà (n.d.r.).
4. Cosi era chiamata nell'antichità l'estremità
meridionale del Pelo-ponneso, ora Capo Matapan (n.d.r.).
5. Nel mito greco, Polluce figlio di Zeus e di Leda, era
immortale, Ca-
624 Quarto cerchio - La natura
store figlio di Tindaro e Leda, mortale; ucciso
quest'ultimo da Ida, Pollu-ce voleva che Zeus facesse morire lui pure,
ma Zeus gli concesse di rinunciare a metà della propria immortalità a
favore del fratello; così i due <». melli continuarono a vivere
insieme alternativamente un giorno nell'Olimpo e un giorno nell'Ade (n.d.r.).
6. Tempio di Zeus Olimpio ad Atene, fondato da
Pisistrato, compiuto sotto Adriano (n.d.r.).
7. Religiose Gestalten ire Dostojewskijs Werk,
Mùnchen 19514, pp. 374 sx tr. it II mondo
religioso di Dostojevskij. Sliidi sulla fede. Broscia 19803,
pp, 300 ss.
8. Con ciò non si vuole naturalmente intendere che
l'uomo siffatto sia esposto a qualsiasi valore; ciò sarebbe mancanza di
carattere e genererebbe il caos. Della nobiltà fa parte la capacità
della distinzione e il senso dell'ora giusta - anche se l'uomo a cui ci
riferiamo trova difficoltà pure in questo, dal momento che per lui il
punto di vista decisivo non è dato dalla questione del come
sopravvivere in un simile frangente, ma da una forma ultima di verità,
tutt'una con l'onore ed il destino. In tal modo, possono presentarsi
anche valori inconciliabili di fatto con la vita e che arrecano la
catastrofe.
9. Susette Gontard, moglie di un banchiere, che a
Francoforte dal 1795 accolse il poeta nella casa come precettore dei
suoi figli; Hólderlin se ne innamorò, ricambiato; vedi la Cronologia
della vita di Hólderlin, pp. 731 ss. (n.d.r.}.
10. Una simile constatazione si impone nuovamente a
cospetto del più grande poema sull'umanità: la Divina Commedia
di Dante. Spero di poter dimostrare che Beatrice non è, come viene
sempre sostenuto, una personificazione di contenuti di senso ideali o
spirituali, ma una persona umana vera. Qui non si tratta di particolari
biografici, ma del senso rivestito dalla figura poetica come anche
dell'autointerpretazione di Dante in quanto tale. Appena si trasforma
Beatrice in un'allegoria, tutto crolla. Il suo essere consiste proprio
nel fatto che la realtà terrena diventi manifesta nell'eterno<eleste
(cfr. R. Guardini, Der Engel in Dantes Gottlicher Ko-madie, pp.
71 s. e 99; tr. it. L'angelo nella Divina Commedia, in Studi
su Dante, Broscia 19863, pp. 68 s. e 97). Dante dice di
aver visto e vissuto nella Beatrice terrena qualcosa che era capace di
quella trasposizione nell'eterno e, anzi, la esigeva. Abbiamo quindi il
dovere di credergli. Ciò non rappresenta solo un punto di vista dettato
dal rispetto spirituale, ma anche qualcosa di metodologicamente
decisivo: se cioè lo studio nel tentativo di interpretare grandi uomini
ed opere assume come metro di misura la propria esperienza, oppure se
riconosce che ci sono delle possibilità di esistenza a essa superiori,
riuscendo in assoluto in tal modo a coglierli. (Vedi a proposito anche l'excursus
a pp. 281 ss. del mio libro Die Beìleh-rungdes Aurelius Augustinvs,
Mùnchen 1950; tr. it. La conversione di sant'Agostino, Brescia
1957, pp. 273-276).
11. Anche qui simile alla Beatrice di Dante che nella
sua esistenza viva è espressione dello stato di grazia puro.
12. Non allo spazio scientifico dell'astronomia, in cui
sono posti i pu-
Quarto cerchio - La natura
625
ri e semplid corpi cosmici, ma all'ambito a noi
sottratto verso l'alto in cui vi sono le «immagini stellari».
13. Si veda a proposito Guardini: Unterscheidung des
Chrisllichen, 1935, i saggi: Religiose Erfahrung und Glaube
und Der Heiland, tr. it. rispettivamente in Esperienza
religiosa e fede, in Fede - Religione - Esperienza, Brescia
1984, pp. 57-108, e in II Salvatore, in Natura - Cultura -
Cristianesimo, Bre-scial 983, pp. 251-295.
14. A partire da questo punto di vista ci sarebbe certo
da fare alcune considerazioni di significato ultimo sulla «natura
morta» nell'arte.
15. In tedesco entrambe le volte ricorre il termine das
Seiende, e se-iend; in italiano si è ricorsi, per dare il
senso participiale, a «essente» -per altro ora talvolta usato (n.d.r.).
16. Nota espressione dell'inno da cantare all'aurora Splender
patemi luminis, di S. Ambrogio (v. 24) - (n.d.r,).
17. È lo stato espresso dal giardino - se ne parlerà
più avanti.
18. Anche ciò trova la sua espressione nell'ambiente:
nell'assenza d'una patria, subita nel bando, nel vuoto del pendio
dell'Etna.
19. Nel brano tedesco riportato qui, mancano due versi
tradotti da Pocar, evidentemente tratti da una edizione di Hólderlin
diversa da quella utilizzata da Guardini (n.d.t.).
20. Il curatore di HSIderlins Samtliche Werke,
Stuttgart 1946 ss, la Grafie Stuttgarter Ausgabe (n.d.r.}.
21. Simon Dach (1605-1659), poeta tedesco della Prussia
Orientale, autore di composizioni di carattere occasionale, per nozze,
funerali; la sua ispirazione è serena e pacata (n.d.r.).
22. La prima Elegia duinese di R.M. Riike esprime
un pensiero analogo: «Chi, se io gridassi, mi udirebbe poi dagli ordini
/ degli angeli? e posto pure che uno d'un tratto / mi attirasse al suo
cuore, io sparirei a causa della sua / troppo forte esistenza. Perché
il bello non è / che il principio del terribile, che noi ancora
sopportiamo / ed ammiriamo appunto perché esso disdegna placidamente di
distruggerci» (Wer, wenn idi schriee, hórte mich denn aus der Engel /
Ordnungen? und gesetzt selbst, es nàhme / einer mich plotziich ans
Herz: ich verginge von seinem / stàrkeren Dasein. Denn das Schóne ist
nicht / als des Schreckiichen Anfang, den wir noch grade ertragen, / und
wir bewundern es so, weil es gelassen verschmàht, / uns zu zerstóren
... [Awgew. Werke I, p. 245; tr. it. de., pp. 27-28, 32]).
Quinto cerchio Cristo e il cristianesimo
NOTA
INTRODUTTIVA
II cristianesimo si manifesta nell'opera poetica di
Hólderlin in modo particolare. Dopo un certo periodo di estraneità,
forse di rifiuto consapevole, la figura di Cristo riaffiora assumendo un
carattere peculiare. Si distingue nettamente da quella del razionalismo,
che vede Cristo come un saggio, o da quella dello storicismo, che lo
classifica come genio religioso. Nel mondo di Hólderlin, Cristo è
chiamato senz'altro «divino», anzi «Dio». D'altra parte in questo
mondo manca, come abbiamo già visto, il nome di Dio, di quel Dio che
non significa ne il singolare del plurale «dèi», ne il «Padre degli
dèi e degli uomini», e nemmeno l'essere universale mondo, bensì il
Dio vivente della Rivelazione. Così si pone la questione di chi sia
questo Cristo e in quale senso Hólderlin lo chiami divino e Dio.
La questione ha particolare importanza nel contesto
della sua opera, dal momento che egli parla con la serietà del vate
consapevole di annunciare la verità. Inoltre, è stato teologo. Con
ciò non si vuole certo affermare che questo studio conferisca una
competenza autentica per tali questioni. Può anzi sortire l'effetto
contrario, danneggiando l'organo, per così dire, della sensibilità
religiosa. Non si vuole nemmeno sostenere che Hólderlin sia stato un
teologo profondo o anche solo preciso, perché probabilmente non lo
630 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo f
era. Ma, anche per questo motivo, le sue affermazioni
hanno un peso maggiore di quello che avrebbero se scaturissero
semplicemente dalle idee sulla formazione culturale generalmente diffuse
a quel tempo.
Hólderlin ha fatto esperienza della sostanza e
dell'atmosfera cristiana sotto diversi aspetti. Ha conosciuto
soprattutto quell'intreccio d'illuminismo e pietismo caratteristico
della fine del Settecento. Ma si è imbattuto anche in concezioni
mistiche influenzate da Jakob Bóhme nonché nelle sintesi
idealistico-panteistì-che del suo circolo d'amici a Tubinga, a cui
appartenevano il giovane Hegel e poco più tardi Schelling, Ma non
sembra aver conosciuto una interpretazione speculativa della figura di
Cristo e una incarnazione viva del suo spirito, capace di conservarne
intatto il contenuto e di rappresentarlo ad un alto livello spirituale
umano - circostanza ricorrente per molte personalità del periodo
classico: pochi di loro hanno conosciuto un'esistenza cristiana
autentica, in una forma che avesse grandezza. Per questo le loro idee
sul cristianesimo sono spesso così inadeguate e a volte addirittura
penose. Di conseguenza, la figura tradizionale di Cristo perse ben
presto ogni importanza per Hólderlin. Vi ebbe una parte considerevole
la riluttanza verso la professione ecclesiastica scelta per ragioni
economiche e sotto l'insistenza della madre, una riluttanza che aumentò
di fronte a varie sorta di inadeguatezza nel piano di studi teologici in
vigore a Tubinga1. Questa resistenza intcriore non poteva non
ripercuotersi sul contenuto dell'odiata professione, la dottrina
cristiana e le sue strutture.
Il tentativo di formulare un giudizio approfondito sulla
posizione di Hólderlin nei confronti del cristia-
Nota introduttiva
631
nesimo è intralciato da un grande ostacolo. Il periodo
del suo sviluppo personale è molto breve. La sua vita e la sua opera si
interrompono in modo precoce e brusco. Si è preso atto puramente e
semplicemente di questo fatto, si è persino stilizzata la sua immagine
in corrispondenza, e si è fatto di lui un giovane poetavate che è
crollato, vinto dalla sovrapotenza dell'ora stessa che era chiamato ad
annunciare. Ma questa immagine non tiene conto della sua esistenza
drammatica. Hólderlin nacque il 20 marzo 1770 e morì il 7 luglio 1843.
Dopo il crollo definitivo, visse quindi per altri trentotto anni. Questi
anni esistono, ed è arbitrario cancellarli: stanno a dimostrare che non
ha concluso il confronto che aveva iniziato, ne nella propria esistenza
ne nell'opera. Nel periodo in cui Hólderlin è in possesso delle sue
facoltà mentali ed intento a produrre, egli è «giovane» in tutti i
sensi. Il concetto del «giovane» costituisce per lui addirittura una
categoria esistenziale che trova la sua realizzazione piena nel divino.
Ma egli ha saputo cogliere anche l'uomo maturo: ne sono prova i
personaggi di Adamas, Em-pedocle e del padre nella poesia Emilia
innanzi il giorno delle sue nozze, ed è quindi sbagliato fissarlo
nel ruolo di giovane. Egli sarebbe stato capace di vivere e di
descrivere l'umano in tutta la sua ricchezza. Il fatto che una vita duri
poco e si interrompa bruscamente può forse rendere l'opera che ne è
scaturita artisticamente più attraente, conferendo ad essa uno
splendore prezioso per la tragicità, ma per la portata religiosa
dell'opera questo fatto costituisce un difetto assoluto. Un giudizio
sulle realtà ultime, che voglia essere competente, deve basarsi
sull'esperienza conferita solo da una vita vissuta per intero. Nessuna
genia-
632 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo
lità può supplire alle conoscenze che scaturiscono dal
maturare e invecchiare. Le figure e i pensieri di Hól-derlin non hanno
ancora questa esperienza, avrebbero però potuto conseguirla. E
impossibile prevedere come avrebbe pensato, a mente lucida, anche solo
all'età di quarant'anni. Tanto meno si può affermare che i pensieri
fatti all'età di trentacinque esprimano tutte le possibilità di lui.
Hólderlin è ammutolito prima di dire la sua ultima parola. Di questo
bisogna tener conto quando si vuole valutare la sua opera.
Analizzato a livello delle sue poesie, il rapporto di
Hólderlin con il cristianesimo presenta approssimativamente tré fasi.
Dapprima vi è un periodo di religiosità giovanile, che percepisce le
idee del suo ambiente tentando di farle sue. Presto inizia la crisi;
Hólderlin perde qualsiasi rapporto con le dottrine cristiane
tradizionali e si dedica interamente alle divinità descritte nel corso
di questo lavoro. Ma nel periodo della maggiore intensità poetica la
figura di Cristo acquista una nuova vita e un carattere nuovo che si
discosta dalla tradizione. Essa diventa una vera potenza nello spazio
più specifico della personalità hólderliniana. Ma prima che il suo
senso e il proprio rapporto verso le divinità antiche, sperimentate
spontaneamente, possano chiarirsi, il confronto si interrompe.
LA GIOVENTÙ E IL PERIODO INTERMEDIO
Un valido esempio per la primissima concezione di Cristo
è costituito dalla lunga poesia innica I libri dei tempi. Essa
inizia con invocazioni a Dio, per poi affrontare ciò che accade nel
corso del tempo del mondo e infine la venuta del Redentore:
Sta scritto -
Morte in croce di Gesù Cristo!
Morte in croce del Figlio di Dio!
Morte in croce dell'Agnello sul Trono!
Per fare beato il mondo intero
Per dare gioia angelica
Ai suoi fedeli. Dei serafini, dei cherubini,
Silenzio attonito
Tutt'attorno nella vastità dei deli -
Tacere del suono delle arpe,
Appena respira il corteo intomo al sacro tempio,
Adorazione - adorazione -
Per opera del Figlio
Che redime
Una stirpe malvagia caduta.
Sta scritto -
Colui che è morto. Gesù Cristo,
Vincendo nella rocda la morte!
Uscendone nell'onnipotenza della virtù divina!
634 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo
E vivendo - vivendo Per gridare una volta alla polvere:
Ritornate, figli dell'uomo!
Ora risuona la tromba
Per l'infinita schiera di gente
Su, al seggio del giudizio! Al seggio del giudizio!
Al Figlio che instaura
L'equilibrio della giustizia.
Da steht geschrieben - / Jesus Christus Kreuzestod! /
Des Sohnes Gottes Kreuzestod! / Des Lamms auf dem Throne Kreuzestod! /
Selig zu machen alle Welt, / Engelswonne zu geben / Seinen Glaubigen - /
Der Seraphim, Cherubini / Staunende Sdii / Weit in den Himmeisgefilden
um-her - / Des Harfenkiangs Verstummen, / Kaum atmend der Strom ums
Heiligtum. / Anbetung - Anbetung - / Uber des Sohnes Werk, / Welcher
erióst / Ein gefallen Greuelgeschlecht. // Da steht geschrieben - / Der
gestor-ben ist, / Jesus Christus, / Abschùtteind im Felsen den Tod! /
Heraus in der Gotteskraft Allgewalt! / Und lebend - lebend ~ / Zu rufen
dereinst dem Staub: / Kommet wie-der, Menschenkinder! / Jetzt tónt die
Posaun / Ins unab-sehiiche Menschengewimmel / Zum Richtstuhi hinani Zum
Richtstuhi! // Zum Sohn, der aufstellt / Der Ge-rechtigkeit
Gleichgewicht! (i, p. 73)
L'inautenticità dei sentimenti e dei pensieri è
evidente, soprattutto se il linguaggio e la qualità di pensiero della
poesia sono messi a confronto con un altro inno giovanile, Al genio
della Grecia. Già i primi mostrano una diversa partecipazione ed
autenticità:
Giubilo! giubilo A tè sulla nube! Primogenito Dell'alta
natura! Dall'aula di Crono
La gioventù e il periodo intermedio
635
Giù d libri
Maestoso e benigno
A nuove, venerate creazioni ...
A lungo soggiornasti tra gli dèi E pensasti ai miracoli
venturi. Passarono librate come nubi d'argento Davanti al tuo sguardo
amoroso Tutte le stirpi! Le stirpi dei beati.
Al cospetto degli dèi
La tua bocca decise
Di fondare il tuo regno sull'amore.
Si stupirono tutù i celesti,
Giove tonante inclinò verso tè
II suo capo regale
In abbraccio fraterno.
Tu fondi sull'amore il tuo regno. Tu vieni e l'amore
d'Orfeo Ascende agli occhi del mondo, E l'amore d'Orfeo Discende verso
l'Acheronte, Tu scuoti la magica verga Ed il Meonio ebbro2 Vede
il dnto d'Afrodite.
Jubel! Jubel / Dir auf der Wolke! / Erstegebomer / Der
hohen Natur! / Aus Kronos Halle / Schwebst du herab, / Zu neuen,
geheiligten Schópfungen / Hold und majestà-tisch herab ... // Lange
sàumtest du unter den Góttern / Und dachtest der kommenden Wunder. /
Vorùber schwebten, wie silbern Gewólk, / Am liebenden Auge dir / Die
Geschlechter alle! / Die seligen Geschlechter. // Im Angesichte der
Gótter / BeschloB dein Mund, / Auf liebe dein Reich zu grùnden. / Da
staunten die Himmlischen alle. / Zu brùderlicher Umarmung / Neigte sein
kóniglich
636 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo
Haupt / Der Donnerer nieder zu dir. / Du grùndest auf
Uebe dein Reich. // Du kommst und Orpheus Liebe / Schwebet empor zum
Auge der Welt, / Und Orpheus Uebe / Wallet nieder zum Acheron. / Du
schwingest den Zauberstab, / Und Aphroditàs Gùrtel ersieht / Der
trun-kene Màonide (i, pp. 125-26).
II
Al secondo periodo, più precisamente al periodo in
cui Hólderlin soggiornava in casa Gontard, appartiene la poesia Alla
mia venerata nonna nel suo settanta-duesimo compleanno. Essa è
talmente importante per la nostra questione che conviene riportarla
tutta:
Molte cose hai vissuto, cara ava, e ora sei calma
E felice, da lontani e vicini amorosamente chiamata a
nome,
Da me anche cordialmente onorata nell'argentea corona
[della vecchiezza, Fra i pargoli che a tè maturano e
crescono in fiore. Lunga vita ti ha la soave anima ottenuto E la
speranza che amica ti guidò fra i dolori. Contenta sei e pia, come la
Madre che un tempo II migliore degli uomini, l'amico della nostra terra,
partorì. Ah! essi non sanno come l'Eccelso camminò tra il popolo E
quasi si è dimenticato dò che il Vivente fu. Pochi lo conoscono e
spesso, serenando, a loro apparisce ;. In mezzo a un'epoca tempestosa
l'immagine celeste. Tutto conciliando, calmo, fra i miseri mortali
Quil'uomo unico, divino nello spirito, trapassò. Nessuno dei viventi
era escluso dall'anima sua E i dolori del mondo portò sull'amoroso
petto. Con la morte si fece amico, nel nome degli altri Tornò, da
dolori e travaglio, trionfatore al Padre. E anche tu conosci, o cara
madre, e procedi Credente e paziente e placida, dietro di Lui, il
Sublime.
La gioventù e il periodo intermedio
637
Vedi, hanno perfino me ringiovanito le innocenti
parole
E sgorgano come un tempo lagrime dal mio occhio.
E mi rimembro dei giorni da tanto tempo passati
E il paese nativo rallegra di nuovo il mio animo
solitario
E la casa ove un giorno crescevo alle tue benedizioni,
Dove, nutrito di amore, più presto il fanciullo
prosperò.
Ah, quante volte pensai che ti saresti di me rallegrata,
Quando mi vedevo, nel futuro, operare nel vasto mondo.
Molto ho tentato e sognato, e mi sono piagato il petto
A forza di lottare, ma voi me lo guarirete
O cari! e a vivere a lungo, come tè, o Madre,
Io imparerò; è calma la vecchiezza e pia.
Verrò da tè: benedici allora anche una volta il
nipote,
Perché l'uomo d mantenga dò che, fanciullo, ha
promesso.
Vieles hast du eriebt, du teure Mutter! und ruhst nun /
Gluckiich, von Femen und Nahn liebend beim Namen ge-nannt, / Mir auch
herziich geehrt in des Alters silbemer Krone, / Unter den Kindem, die
dir reifen und wachsen und blùhn. / Langes Leben hat dir die sanfte
Seele gewon-nen / Und die Hoffnung, die dich freundiich in Leiden
gefùhrt. / Denn zufrieden bist du und fromm, wie die Mutter, die einst
den / Besten der Menschen, den Freund unserer Erde, gebar. - / Ach! sie
wissen es nicht, wie der Hohe wandeit' im Volke, / Und vergessen ist
fast, was der Lebendige war. / Wenige kennen ihn doch und oft
er-scheinet erheitemd / Mitten in stùrmischer Zeit ihnen das himmlische
Bild. / Allversóhnend und sdii mit den armen Sterbiichen ging er, /
Dieser einzige Mann, gótdich im Geiste, dahin. / Keines der Lebenden
war aus seiner Seele geschlossen, / Und die Leiden der Welt trug er an
lieben-der Brust. / Mit dem Tode befreundet'er sich, im Namen der andem
/ Ging er aus Schmerzen und Mùh siegend zum Valer zurùck. / Und du
kennest ihn auch, du teure Mutter! und wandeist / Glaubend und duldend
und sdii ihm, dem Erhabenen, nach. / Sieh! es haben mich selbst
verjùngt die kindiichen Worte, / Und es rinnen, wie einst, Trànen vom
Auge mir noch; / Und ich denke zurùck an
638 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo
làngst vergangene Tage, / und die Heimat erfreut wieder
mein einsam Gemùt, / Und das Haus, wo ich einst bei dei-nen Segnungen
aufwuchs, / Wo, von Liebe genàhrt, schneller der Knabe gedieh. / Ach!
wie dacht ich dann oft, du solltest meiner dich freuen, / Wann ich feme
mich sah wirkend in offener Welt. / Manches hab ich versucht und
getràumt und habe die Brust mir / Wund gerungen indes, aber ihr heilet
sie mir, / O ihr lieben! und lange, wie du, o Mutter! zu leben, / Will
ich lemen; es ist ruhig das Alter und fromm. / Kommen will ich zu dir;
dann segne den Enkel noch einmal, / Da6 dir halle der Mann, was er als
Knabe gelobt (I, pp. 172-173; tr. it. dt., pp. 149-151).
La poesia è bella, nel senso accentuato della parola,
sentita nel silenzio, nella verità, nell'intimo. Tuttavia, si avverte
che il rapporto del poeta con il suo oggetto non è originario. Esso
passa per il ricordo. L'io *• poetico rivive ciò che la venerata
vecchia ha vissuto e che un tempo è stato venerabile anche per lui. E
la fé- f, de della sua giovinezza, che non lo coinvolge più, ma
|, viene considerata con pietà obiettiva. ||
Per il resto, la figura di Cristo evocata dalla fede K
scompare dal mondo della sua poesia. Questo è dominato completamente
dai numi dell'antichità greca e da concezioni spontanee della
divinità. Ma il legame non si interrompe del tutto, meglio: la figura
di Empedocle prelude alla figura di Cristo negli scritti più tardi.
Ili
Se leggiamo i testi dei drammi senza pensare a questo
contesto una serie di particolari concreti, e an-cor più
l'atteggiamento e il tono della figura di Empe-
La gioventù e il periodo intermedio
639
docle ci ricordano qualcosa, finché ci accorgiamo che
ciò era dovuto ad una somiglianzà latente con Cristo, ma anche insieme
ad un'estraneità a Lui. Non si tratta però di un'estraneità in quanto
tale cioè dell'assenza di rapporti, bensì di una trasformazione
straniante di ciò che comunemente è ritenuto cristiano. È un dato di
fatto particolare che coinvolge anche il lettore dello Zarathwtra
di Nietzsche. Quest'impressione è dovuta a molti particolari di
quest'opera, peraltro strutturata come antivangelo, ma ancor più a
tutto l'atteggiamento e il tono della figura dominante. Essa è un
Cristo trasposto nell'elemento non-cristiano, dionisiaco oppure un
essere dionisiaco caratterizzato antiteticamente a partire dall'elemento
cristiano. Qualcosa di simile si trova neIV Empedocle.
Ciò è determinato innanzi tutto dal modo di descrivere
la figura principale e gli altri personaggi. Nella sua saggezza, nella
sua forza soccorritrice, nella sua mitezza pronta al perdono, nella sua
potente tenerezza ed inoltre fìsionomicamente, per così dire, nella
statura e nei gesti Empedocle ricorda Cristo. Panthea rammenta la
figlioletta di Giairo, che in qualche modo viene fusa con Maria di
Magdala. Pausania ricorda Giovanni ed Ermocrate i rappresentanti della
gerarchla ... Il parallelismo sta inoltre nel fatto che la figura di
Empedocle domina in modo così assoluto. È stato già detto che è
priva di un degno avversario. Il dramma vero si compie in solitudine,
tra essa e la divinità. Gli altri personaggi sono determinati nel loro
carattere dal rapporto con il profeta e maestro ... Inoltre vi sono
alcune circostanze nella vita di Empedocle che ricordano Cristo. Si veda
per esempio la scena dove il popolo gli offre la corona regale ed egli
la
640 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo
rifiuta; la domanda rivolta al suo discepolo Pausania;
«Per chi mi riconosci?»; il tentativo di distoglierlo
dal suo cammino verso la morte; la cena che il maestro vuole fare
insieme ai suoi fidati, e altre cose ancora.
Ma è la consapevolezza di assolvere ad una missione a
costituire l'analogia più profonda. Empedocle sa di esercitare una
mediazione generale che supera le lacerazioni dell'esistenza,
soprattutto il divario tra il divino e l'umano. Così nella seconda
stesura si legge:
Ricordo un suo discorso arrogante
che pronunciò quando da ultimo
nell'agorà si trovava. Non so
cosa il popolo prima gli avesse detto; giungevo
appunto allora, di lontano stavo; «Voi m'onorate,
rispose egli, e fate cosa giusta;
poiché muta è la Natura,
estranei vivono l'uno all'altro,
il sole e l'aria e la terra e i loro figli,
solitari, come non s'appartenessero.
Con energia perpetua certo ruotano
degli dèi nello spirito le libere e immortali forze del
cosmo
tutt'attomo all'altrui
peritura vita.
Ma selvatiche piante
su selvatico suolo,
nel grembo degli dèi, son
tutti i mortali seminati
che scarso dbo nutre, e morto
apparirebbe il suolo, se uno
non lo curasse, vita suscitando,
E mio è il campo. In me scambiando
la forza e l'anima, in uno si fondono
i mortali e gli dèi.
E più fervide abbracciano le potenze eteme
il cuore che agogna, e più forti crescono
dallo spirito libero i sensibili mortali,
La
gioventù e il periodo intermedio 641
e tutto è desto! Poiché io assodo quanto è diverso,
la mia parola da nome all'ignoto;
e l'amore dei viventi governo, elevo e abbasso; quanto a
uno manca, io prendo dall'altro, e congiungo animando, e trasformo
ringiovanendo il mondo esitante e a nessuno somiglio e a tutti». Così
parlava l'arrogante.
Ein ùbermùtiges Gerede fàlit/ Mir bei, das er
gemacht, da er zuletzt / Auf der Agorà war. Ich weifi es nicht, / Was
ihm das Volk zuvor gesagt; ich kam / Nur eben, stand von fern; ihr ehret
mich, / Antwortet'er, und tuet recht daran;
/ Denn stumm ist die Natur, / Es leben Sonn und Luft und
Erd und ihre Kinder / Fremd umeinander, / Die Ein-samen, als gehórten
sie sich nicht. / Wohi wandein immer-kràftig / Im Góttergeiste die
freien / Unsterbiichen Màchie der Welt / Rings um der andern /
Vergànglich Leben, / Doch wilde Pflanzen / Aufwilden Grund, / Sind in
den SchoB der Getter / Die Sterbiichen alle gesàet, / Die
Kàrglichgenàhrten, und tot / Erschiene der Boden, wenn Einer nicht /
Des wartete, lebenerweckend, / Und mein ist das Feld. Mir tauschen / Die
Kraft und Seele zu Einem / Die Sterbiichen und die Getter. / Und wàrmer
umfangen die ewigen Màchie / Das strebende Herz und kràftger gedeihn /
Vom Geiste der freien die fùhlenden Menschen, / Und wach ists! denn ich
/ Geselle das Frem-de, / Das Unbekannte nennet mein Wort, / Und die
Ue-be der Lebenden trag / Ich auf und nieder; was einem ge-bricht, / Ich
bring es vom andern, und binde / Beseelend, und wandle / Verjùngend die
zògernde Welt, / Und glei-che keinem und allen. / So sprach der
Ùbermùtige (ni, pp. 177-178; cfr. tr. it. dt., pp. 173-175).
A parlare è un nemico. Ma nelle sue parole si rivela lo
spirito dell'accusato. Questa mediazione totale
642 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo
acquista un significato particolare tramite la
consapevolezza del sacrifìcio di sé ch'egli compie, di una morte che
riconduce la propria vita nel grembo divino da cui è nato, ristabilendo
in tal modo il senso infranto dell'esistenza.
Empedocle è colui che conosce entrambi gli aspetti del
mondo, quello divino e quello umano. In una ispirazione dionisiaca
continua, egli non solo unisce il divino all'umano, ma, spingendosi
oltre, anche il divino al divino. Si è già più volte parlato della
concezione della sofferenza mitica, più volte ricorrente in Hólderlin.
L'unità prima deve dividersi perché le cose e gli eventi possano
essere. Ogni ente è diviso dall'altro: il giorno dalla notte, il cielo
dalla terra, l'uomo dall'animale e dall'albero, quest'essere singolo da
quello. Solo in questo modo può darsi essere concreto. Eppure, l'ente
singolo desidera ritornare da tutti gli altri e nell'unità. Questo
stato significa sofferenza, ma anche colpa perché un'ultima esigenza di
questo sentimento del mondo non permette ad esso di esistere - una colpa
e una sofferenza continuamente risuggellate poi dall'egoismo, dalla
superbia, dall'interesse proprio e dalla codardia dell'uomo. Empedocle
sa tutto questo. Sente come ogni ente si avvicini per accedere per mezzo
di lui all'unità. E il suo cuore è ciò che conserva e unisce, lo
spazio dell'amore in cui «i celesti al caldo ci si sentano l'un
l'altro» (L 'Istro, II, p. 191; tr. it. cit., p. 241). Ma la sua
colpa in certo modo mette in luce la colpa dell'esistenza, e la sua
espiazione la supera. L'atteggiamento e il destino di Empedocle qui
analizzati ricordano l'opera redentrice di Cristo del cui desiderio che
«tutti diventino una cosa sola» parla in modo così penetrante il
Vangelo di
La gioventù e il periodo intermedio
643
Giovanni, soprattutto i discorsi di commiato e l'ultima
preghiera (capp. 13-17).
Ma vi è dell'altro. Empedocle, per quanto possieda
forze miriche, è lui stesso alla fine della serie mitica. Benché
strutturato ancora in modo «preistorico», egli si trova già nella
storia. La differenza diventa evidente se la sua figura è messa a
confronto con altri che si sono addossati una colpa simile, come Tantalo
per esempio, o Sisifo o Prometeo. Questi sono costruiti interamente in
modo mitico; sono solo figure simboliche o potenze. Per questo, in essi
non vi è sviluppo, crisi e, soprattutto, ne pentimento ne conversione.
Essi sono completamente identici con la loro azione, Empedocle, invece,
è già individuale; egli ha una storia intcriore. Per questo è in
grado di riconoscere, di pentirsi e di convenirsi. Di qui anche il suo
rapporto particolare con la pòlis. Un Cadmo fonda e governa a
partire dalla sicurezza non minata da dubbi dell'avo che crea e regna e
a cui ubbidisce la realtà. Empedocle invece vive in una sfera che già
necessiterebbe di politica realistica e di pedagogia. Egli è
consapevole di ciò e tenta di praticarle, ma quella sua scissione
intcriore lo spezza. Così fallisce ... Forse non è troppo azzardato
vedere in questo intreccio di struttura mitica e storica un mezzo per
percepire che un'esistenza è nell'aldilà come nell'aldiqua a un tempo,
metafisica e terrena. Anche questo sarebbe una rimaneggiamento della
forma d'esistenza di Cristo, così come è presentata soprattutto da
Giovanni - infatti, il Vangelo di Giovanni ha un'importanza decisiva per
Hólder-lin3. L'unità giovannea di lògos e uomo
sembra trasparire qui attraverso una somiglianzà lontana e in molti
modi spezzata, preparando il Cristo degli inni tardi.
644 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo
Ad ogni modo, nell'essere, nel sentimento e nella
convinzione, nell'agire e nel destino della figura di Empedocle vi è
qualcosa che trascende le possibilità dell'antico eroe come anche
quelle del genio religioso sviluppato esclusivamente a partire da avvii
immanenti al mondo.
LA MATURITÀ
L'elegia Pane e vino è una delle grandi poesie
dio-nisiache di Hólderlin. Di quale incanto sono pieni i versi della
prima strofa:
Adesso che viene un alito e fremono le cime degli
alberi, Guarda! e l'ombra della nostra terra, la Luna, Giunge anch'olla,
in segreto: la folle di sogni, la notte Colma di stelle viene e di noi
poco si cura. In uno stupito chiarore sorge l'estrania fra gli uomini
Sopra vette di monti, triste e fulgente, lassù.
Jetzt auch kommet ein Wehn und regt die Gipfel des Hains
auf, / Sieh! und das Schattenbild unserer Erde, der Mond / Kommet geheim
nun auch; die Schwàrmerische, die Nacht kommt, / Voli mit Sternen und
wohi wenig be-kùmmert um uns, / Glànzt die Erstaunende dort, die
Fremdiingin unter den Menschen, / Ùber Gebirgeshóhn traurig und
pràchtig herauf (II, p. 90; tr. it. cit., pp. 133-135).
Qui è la patria, la Germania. Poi si eleva nella quarta
strofa, allo stesso modo trasformata dionisiacamente, la contro-immagine
nell'Oriente:
Grecia felice! Casa di tutti i celesti È dunque vero
dò che da giovani abbiamo udito?
646 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo
Sala di feste! Il suolo è mare e sono mense i monti,
Per certo a quell'unico uso costruiti fin dall'antico!
Seliges Griechenland! du Haus der Himmlischen alle, /
Al- ^ so ist wahr, was einst wir in der Jugend gehórt? / Festli- .|
cher Saal! der Boden ist Meer! und Tische die Berge, / S Wahriich zu
einzigem Brauche vor Alters gebaut! (il, pp t 91-92; tr. it. dt., p.
137). ' |
''4'i-
i1
In seguito, la quarta e la quinta strofa parlano del- (
l'evento a cui si ricollega il sentimento della storia di J Hólderlin:
del ritorno della Grecia mitica nel segno ? di Dioniso. J
Così prendono stanza i celesti e spargendo un brivido
fondo Fuori dalle ombre scende, fra gli uomini, il loro giorno. ;x
- .'^ Inavvertiti giungono prima: gli tendono incontro I
pargoli: troppo lucente, troppo abbagliante arriva La felicità: e
l'uomo ne ha paura: appena un semidio può dire r Con nomi
chi siano quelli che gli si appressan coi doni. ., ^ Ma da essi l'anima
ha forza: gli colmano il cuore e le loro -v. Gioie, un tanto bene
sa usare appena. ,r- ^ Crea, si prodiga e quasi gli diventa sacro il
profano . Che, folle e pio, egli tocca con mano benedicente. Al massimo
indulgono a questo i celesti: ma poi, veramente Giungono loro stessi e
alla felicità s'abituano gli uomini , ;:;
E al giorno e a guardare gli dèi palesi [...] la
'•i? Denn so kehren die Himmlischen ein,
tiefschùtternd gè- S
langt so / Aus den Schatten herab unter die Menschen ihr
^ Tag. // Unempfunden kommen sie erst, es streben entge- ? gen / Ihnen
die Kinder, zu hell kommet, zu blendend das • Glùck, / Und es scheut
sie der Mensch, kaum wei6 zu sa- r;
gen ein Halbgott, / Wer mit Namen sie sind, die mit den
;
Gaben ihm nahn. / Aber der Mut von ihnen ist groB, es zu
S brauchen das Gut, / Schafft, verschwendet und fast ward f ihm
Unheiliges heilig, / Das er mit segnender Hand tórig
La maturità
647
und gùtig berùhrt. / Móglichst dulden die Himmlischen
dies; dann aber in Wahrheit / Kommen sie selbst und ge-wohnt werden die
Menschen des Glùcks, / Und des Tags und zu schaun die Offenbaren [...]
(U, p. 92; tr. it. dt., pp. 137-139).
Nell'ottava strofa si legge poi:
Non è molto -ed sembra lontano - quando ascesero in
alto
Tutti quelli che avevano reso felice la vita,
Quando il Padre voltò la sua facda dagli uomini
E luttuosa tristezza giustamente comindò sulla terra,
Apparve per ultimo allora un pladdo genio, un divino
Consolatore, annunzio la fine del Giorno e sparì.
E allora per segno ch'Egli era venuto e che ancora
Ritornerebbe, il coro celeste lasdò alcuni doni
Dei quali, come una volta, godere potessimo in modo
umano,
Poiché per la gioia, con lo spirito, un dono più
grande era
[troppo Tra gli uomini e ancora, ancora mancano i ford
per le più alte Gioie: ma ancora tadta qualche gratitudine vive. Pane
è di terra il frutto, seppure benedetto dalla luce E dal tonante iddio
viene la gioia del divino. Per questo d fanno pensare ai celesti, che
qui Sono già stati e che a tempo giusto ritorneranno. Per questo essi,
i cantori, cantano seri il dio del vino E, non vana fantasia, suona
all'Antico la lode.
Namlich, als vor einiger Zeit, uns dùnket sie lange, /
Auf-wàrts stiegen sie ali, welche das Leben beglùckt, / Als der Valer
gewandt sein Angesicht von den Menschen, / Und das Trauem mit Recht
ùber der Erde begann, / Als er-schienen zuletzt ein stiller Genius,
himmlisch / Tróstend, welcher des Tags Ende verkùndet' und schwand, /
LieB zum Zeichen, daB einst er da gewesen und wieder / Kàme, der
himmlische Chor einige Gaben zurùck, / Derer men-schiich, wie sonst,
wir uns zu freuen vermóchten, / Denn zur Freude, mit Geist, wurde das
GròBre zu groB // Unter
648 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo
den Menschen und noch fehien die Starken zu hóchsten /
Freuden, aber es lebt stille noch einiger Dank. / Brot i$t der Erde
Frucht, doch ists vom Lichte gesegnet, / Und vom donnernden Gott kommet
die Freude des Weins. / Darum denken wir auch dabei der Himmlischen, die
sonst / Da gewesen und die kehren in richtiger Zeit, / Darum singen sie
auch mit Ernst, die Sànger, den Weingott / Und nicht eitel erdacht
tónet dem Alten das Lob (n, p. 94;
tr.it. cit. p. 141).
Nella nona:
Sì! Essi dicono bene ch'Egli concilia la Notte col
Giorno E che in eterno le stelle di sotto e su in alto conduce, In ogni
tempo lieto come il sempreverde pino Ch'Egli ama e la corona che d'edera
si è scelto:
Perché Egli rimane e la traccia degli dèi fuggiti
Porta giù fra la tenebra ai senza dèi.
I figli d'Iddio, che il canto degli antichi predice,
Ecco che siamo: frutto dell'Esperia è questo! Mirabilmente e in predsa
misura del limite umano, è adempiuto Chi l'ha provato, lo creda! ma per
quanto dò accada Nulla produce che siamo scorati, e saremo ombre, fin
quando
II padre Etere, riconosciuto, a ognuno e a tutti non
appar-
[tenga. Ma nel frattempo scende a scuoter la fiaccola il
Figlio Dell'Altissimo, il Siriaco, in mezzo alle ombre, quaggiù. Savi
felici lo vedono: un riso s'irraggia dall'anima Imprigionata, alla luce
si disgela anche il loro occhio. Più dolce sogna e dorme in bracdo alla
terra il Titano, Anche l'invido, anche Cerbero beve e dorme.
Ja! sie sagen mit Recht, er sóhne den Tag mit der Nacht
aus, / Fùhre des Himmeis Gestim ewig hinunter, hinauf, / Allzeit froh,
wie das Laub der immergrùnenden Fichte, / Das er liebt, und der Kranz,
den er von Efeu gewàhit, / Weil er bleibet und selbst die Spur der
entflohenen Gótter
La maturità
649
/ Gótterlosen hinab unter das Finstere bringt. / Was
der Alten Gesang von Kindern Gottes geweissagt, / Siehe! wir sind es,
wir; Frucht von Hesperien ists! / Wunderbar und genau ists als an
Menschen erfùliet, / Glaube, wer es ge-prùft! aber so vieles
geschieht, / Keines wirket, denn wir sind herzios, Schatten, bis unser/
Vater Àther erkanntje-den und allen gehórt. / Aber indessen kommt als
Fackel-schwinger des Hóchsten / Sohn, der Syrier, unter die Schatten
herab. / Selige Weise sehns; ein Làchein aus der gefangnen / Seele
leuchtet, dem Ucht tauet ihr Auge noch auf. / Sanfter tràumet und
schlaft in Armen der Er-de der Titan, / Selbst der neidische, selbst
Cerberus trin-ket und schlaft (il, pp. 94-95; tr. it. dt., p. 143).
I passi citati necessitano di un interpretazione
accurata.
«Coloro che rende lied la vita», le divinità che
dimorano presso gli uomini, sono «ascesi», andati lontani, allorché,
giunta la fine del mondo greco, «il Padre» distolse irato il viso
dagli uomini. Ma infine, immediatamente prima che irrompesse il tempo
della lontananza degli dèi, è apparso Cristo.
Egli è «un placido genio, un divino Consolatorc». Il
suo messaggio annuncia «la fine del Giorno». Evidentemente riecheggia
l'episodio di Emmaus: «Resta con noi perché si fa sera e il giorno
già volge al declino» (Le 24, 29). Termina un giorno del mondo, quello
di cui la Grecia è stata il momento culminante, giorno della luce,
della vicinanza degli dèi, della pietà. Ora, la storia si ingarbuglia,
ed inizia una lunga notte (II, p. 146). Tutto diventa senza uscita,
oscuro, lontano da Dio, rimanendo in questo stato fino all'ora presente
che Hólderlin sa di essere stato mandato ad interpretare. Per quell'ora
deve avvenire il grande ritorno. Ma come «segno» di essere stari
presenti un tempo, e di ritornare in un futuro lontano, gli dèi
650 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo
hanno «lasciato alcuni doni»: pane e vino. Di essi p\[
uomini devono gioire. È il gradino più basso della gioia adesso
ancora possibile, «in modo umano come una volta». Al di sopra di essa
vi è la «gioia con lo spi. rito», la riproduzione vissuta del divino
nell'ispirazione dionisiaca, concessa soltanto a pochi. Agli eletti «ai
forti» sono riservate «le gioie supreme». Forse il poeta pensa a
esperienze come quelle regalate agli amici degli dèi, a Cadmo per
esempio. Dopo che è calato quel giorno, gli uomini sono in grado di
sopportare in genere solo il grado più basso, la cui espressione è il
ringraziamento (III, supra, p. 425). E ciò stesso è ancora
raro. Con dolorosa modestia si dice: «ancora tacita qualche gratitudine
vive». Da tutto ciò appare chiaro che i «doni» del pane e del vino e
la «gratitudine tacita» si riferiscono evidentemente all'Eucaristia,
al memoriale della passione del Signore nella cena, che per Paolo è
allo stesso tempo un annuncio anticipato del ritorno di Cristo (1 Cor
11, 26).
Con questo memoriale vengono però subito ricollegati
gli altri numi: il pane è «frutto della terra», «benedetto dalla
luce», il vino viene da Zeus, il «tonante Dio», ed è proprio dì
Dioniso. In tal modo, Cristo viene inserito nel «coro celeste», non
senza sottolineare che durante il festeggiamento della sua istituzione
si devono commemorare anche gli altri dèi.
L'ultima strofa dell'elegia festeggia Dioniso come il
conciliatore, che opera l'unità di ciò che è diviso, di ciò che è
sopra e di ciò che è sotto, della chiarezza e dell'oscurità. Questa
sua proprietà lo accomuna a Cristo, il «Siriaco», il «Figlio
dell'Altissimo» che nella notte del mondo, dopo che si è spento il
giorno della Grecia, scende tra le ombre «scuotendo la fiaccola».
Così come Dioniso, adorato spesso come divinità cto-
La maturità
651
nia - nei misteri eleusini per esempio - nella sua
discesa all'Ade incontra le ombre del regno dei morti e i titani della
profondità tellurica, facendo bere perfino dalla sua coppa il selvaggio
Cerbero, che in seguito si addormenta mansueto, così anche Cristo venne
da noi senza cuore, gente senza dèi, dalle ombre prigioniere di
quest'epoca del mondo. Bacco e Cristo qui sono quasi inscindibili; la
discesa agli inferi di quest'ultimo è identificata con il viaggio
nell'Ade del dio del vino.
II
Nel periodo di Bad Homburg - probabilmente nel tempo che
separa la composizione di Pane e vino da quella della poesia II Reno
- nasce il primo degli inni direttamente dedicati a Cristo. Non ha
titolo. Lo citiamo con le parole d'apertura O conciliante; si
struttura in due parti: la prima, fino alla prima lacuna testuale, si
rivolge alla pace, la seconda a Cristo. Sia il tono che il contenuto
essenziale li rendono molto simili4.
L'inno inizia descrivendo l'evento di quella
conciliazione e trasformazione dell'esistenza che ha luogo nel tardo
pomeriggio di giorni completamente chiari, nell'«ora alcionia»:
O conciliante, o Tu non mai creduto,
Ora sei qui, mi prendi figura
D'amico, o immortale, sebbene
Io intenda che è l'alto
A piegarmi i ginocchi,
E quasi un deco non so tenermi
Dal chiederti, nunzio celeste, a che tu mi giunga,
652 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo
Donde tu sii, beata pace! Questo solo io so: niente sei
di mortale, Poiché molto può un savio o d'un amico II fido sguardo
illuminare, ma quando Appare un dio, in delo, terra e mare Viene una
tutto innovante chiarità.
Versòhnender, der du nimmergeglaubt / Nun da bist,
Freundesgestalt mir / Annimmst, Unsterbiicher, aber wohi / Erkenn ich
das Hohe, / Das mir die Knie beugt, / Und fast wie ein Blinder mu6 ich /
Dich, himmlischer, fragen, wozu du mir, / Woher du seiest, seliger
Frìede! Dies eine wei6 ich, Sterbiiches bist du nichts, /Denn man-ches
mag ein Weiser oder / Der treuanblickenden Freun-de einer erhellen, wenn
aber / Ein Gott erscheint, auf Himmel und Erd und Meer / Kómmt
allerneuende Klar-heit (II, p. 130; tr, it. dt., p. 171).
Questa «pace» è una divinità, intesa nella forma del
venire proprio ad essa sola: il nume della conciliazione è come tale un
prototipo della figura di Cristo. Movendo dall'esperienza vissuta della
pace concilia-trice, il pensiero poi risale all'infanzia:
Un tempo d allegravamo
Di mattino quando taceva l'offidna
Al dì di festa: e i fiori nel silenzio
Più belli fiorivano e chiare sgorgavano vive fontane.
Di lungi scrosdava dei fedeli rabbrividente canto,
In cui come sacro vino erano invecchiate , ,•'
Più arcane le sentenze, ma più potend un giorno
Crebbero d'estate negli uragani del dio. •
Eppure le ansie mi calmavano
E i dubbi; ma non seppi mai come fu,
Che, appena nato, già mi spargeste,
Sopra gli occhi una notte,
Tanto che più la terra non vedevo e a fatica
Dovevo voi respirare, aure del delo.
La
maturità 653
Einst freueten wir uns auch, / Zur Morgenstunde, wo
stille die Werkstatt war / Am Feiertag, und die Blumen in der Stille, /
Wohi blùhten schóner auch sie und quillten leben-dige Brunnen. / Fern
rauschte der Gemeinde schauerli-cher Gesang, / Wo, heiligem Wein gleich,
die geheimeren Sprùche / Gealtert, aber gevvaltiger einst, aus Gottes /
Ge-wittem im Sommer gewachsen, / Die Sorgen doch mir stillten / Und die
Zweifel; aber nimmer wuBt ich, wie mir geschah, / Denn kaum geboren,
warum breitetet / Ihr mir schon ùber die Augen eine Nacht, / DaB ich
die Erde nicht sah und mùhsam / Euch atmen mu6t, ihr himmli-schen
Lùfte (n, p. 130; tr. it. dt, p. 171).
Ed è una intera esperienza di vita del tutto
particolare ad emergere da ricordi dell'infanzia: la domenica. Esso
diventa completamente presente: la sua quiete, la sua solennità estiva,
la celebrazione religiosa con il «canto rabbrividente» - un termine
che non esprime nessun senso di rifiuto, bensì il tremendum, il
timore sacro - e la Parola di Dio che scioglie i dubbi che già si
agitano nell'interno, dando loro pace. Già da giovanissimo, Hólderlin
ha conosciuto la sofferenza intcriore, la melanconia, lo spaesamento del
cuore e il tormento religioso. Al cristianesimo, che esigeva la sua
fede, non potè aderire intimamente. Ne rimase estraneo, dubitando,
sforzandosi, calmandosi temporaneamente per poi ricadere sempre sotto
l'oscura oppressione. Ma anche questa distretta era una missione divina:
Prestabilito era. E sorride Dio
Quando infrenabili ma inibiti dai suoi monti
Contro lui furiosi, nelle bronzee ripe, ruggono i fiumi,
Là in fondo ove mai giorno chiama i sepolti.
E tu che moderi il Tutto, poiché me pure
Rattieni e l'anima facile a volar via mi risparmi [...]
654 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo 3
Zuvorbestimmt wars. Und es làcheit Gott, / Wenn unauf-
E haltsam, aber von seinen Bergen gehemmt, / Ihm zùr- 1 nend in den
ehernen Ufern brausen die Stróme, / Tief ;
wo kein Tag die begrabenen nennC. / Und o, daB immer '':'
Allerhaltender, du auch mich / So haltest und leichtent- ^ fliehende
Seele inir sparest [...] (il, p. 131; tr. it. dt., p. 171).
Essa ha un significato per la sua esistenza parago- |
nabile a quello degli argini per il fiume (i, snpra, p. S 75).
Questi gli impediscono di disperdersi nell'infini-to, obbligandolo alla
limitazione e alla fecondità. In egual modo, il peso dell'esperienza
doveva legare alla terra «l'anima facile a volar via».
Tutto ciò il poeta vede adesso che si avvicina l'ora
benedetta in cui ogni sofferenza sarà alleviata. Divina è la pace che
viene, ed inizia «la festa».
Perciò oggi ho la festa, e serale nel silenzio
Fiorisce intorno lo spirito: e grige anche avessi le
tempie,
Vi esorterei, o amici a provvedere con me
Per il banchetto, e canti e molte ghirlande e suoni,
In questo tempo uguali a giovinetti mortali [...]
Perciò, o divino, sii presente
E più bello che mai, oh sii
Conciliante, ora conciliato, che a sera
Con gli amia ti nominiamo e cantiamo
Dei superni, e accanto a tè siano altri ancora.
Drum hab ich heute das Fest, und abendiich in der Stille
/ Blùht rings der Geist; und wàr auch silbergrau mir die Locke, / Doch
wùrd ich raten, daB wir sorgten, ihr Freun-de, / Fùr Gastmahi und
Gesang, und Krànze genug und Tóne, / Bei solcher Zeit
unsterbUchenJùnglingen gleich [...] / Darum, o Góttlicher! sei
gegenwàrtig, / Und schóner, wie sonst, o sei, / Versóhnender, nun
versóhnt, daB wir des Abends / Mit den Freunden dich nennen, und singen
La
maturità 655
/ Von den Hohen, und neben dir noch andere sei'n (il, p.
131; tr. it. de., pp. 173-175).
La festa per Hólderlin non è una semplice
occasione per rallegrarsi oppure una commemorazione. Presuppone che
«fiorisca lo spirito», che giunga l'ispirazione trasformatrice che
renda aperti alla venuta della divinità. Questa venuta è il vero
nucleo della festa. Vivere tale esperienza consiste nel fatto di
divenire consapevoli della venuta di Dio. Le parole e i riti ne
rappresentano il compimento: l'invocazione, l'accoglienza, la
denominazione, l'adorazione, la conciliazione e la partecipazione.
La divinità qui è ancora la pace, quella potenza cioè
che sana la lacerazione. Ma già si intrawede un'altra figura: quella
del «sereno spirito, divino consolatorc». E subito Hólderlin fa la
sua constatazione timorosa, obbligata quasi, caratteristica del suo
rapporto con Cristo, secondo cui quest'ultimo non sarebbe, come sostiene
la tradizione cristiana, il Figlio uno ed unico del Padre che si rivela,
e la fede in lui non escluderebbe quella degli «altri».
L'inesorabilità di questo aut-ant è stata probabilmente
responsabile della sua melanconia giovanile. Aveva voluto avere il
cristianesimo ma anche l'antichità e la natura; ma una cosa non aveva
tollerato l'altra. Adesso crede che la contraddizione sia superata:
oltre al «conciliante» viene invitato «più d'uno».
La seconda versione riprende poi nella quarta strofa lo
stesso pensiero, accentuandolo, dal momento che intanto il posto della
«pace» è stato preso dal giovane «in sua dolcezza severa,
affezionato agli uomini», Cristo:
656 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo *
E più d'uno vorrei invitare, ma tu,
In tua dolcezza severa, affezionato agli uomini
Che là, sotto siriaca palma,
Vidno alla atta, amavi sostare alla fonte,
II frumento ondeggiava intorno, fresca alitava una
brezza
Dal cupo della sacra montagna,
E i cari amia, densa nube fedele,
Anche d facevano ombra d'attorno, perché il puro,
l'audace
Raggio, mitigato nel folto, di su giungesse, o Giovane!
Ahi! ma ombra più cupa ti gettava, mentre
parlavi,
Con terribile sentenza un destino di morte. Così
trapassa
Veloce tutto dò che è celeste: ma non senza ragione.
Und manchen mócht ich laden, aber o du, / Der
freund-lichemst den Menschen zugetan / Dort unter syrischer Palme, / Wo
nahe lag die Stadt, am Brunnen geme weil-test, / Das Kornfeld rauschte
rings, stili atmete die Kùhiung / Vom Dunkel des geweiheten Gebirgs, /
Und die lieben Freunde, das treue Gewólk, / Umschatteten dich auch,
damit der reine, kùhne, / Durch Wildnis mild der Strani von oben kam,
oJùngling! / Ach! aber dunkler um-schattete, mitten im Wort, dich /
Furchtbar entscheidend ein tódiich Verhàngnis. So ist schnell /
Vergànglich alles Himmlische; aber umsonst nicht (II, p. 134; tr. it.
dt., p. 173; nella quart'ultima riga, la tr. di Vigolo si basava su una
versione diversa da quella usata da Guardini).
Egli è colpito dal «puro, audace raggio di su»: la
luce divina, l'irrompere dell'alto. Ma il raggio è attenuato dalla
«nube fedele» degli amici: gli uomini che amano e circondano Cristo lo
aiutano a portare dò che è soverchiante. Questa nube è buona. Ma ce
n'è anche un'altra tremenda: un decreto mortale lo strappa, ancor
giovane, «mente parlava» [letter. «in mezzo alla parola»],
dall'opera incompiuta. Ma la necessità della dipartita precoce è
essenziale per Cristo. Egli non è venuto per vivere, ma per morire,
come si dice
La maturità
657
in L'unico', egli è la «fine» anche in tutto
il suo essere. Il fatto che fosse solo per breve tempo fra noi, solo
«sfiorando cauto» viene poi interpretato come un gesto divino per
risparmiare gli uomini. Una permanenza più lunga non sarebbe stata
sopportata:
Che cauto sfiora, sempre conscio della misura,
Le dimore degli uomini per un attimo solo
Un dio, improvviso, e niuno sa che sia.
E in quel mentre tutto il protervo può calpestarlo
E deve avventarsi al sacro luogo il ferino
Da remoti confini e cieco brancolando insanisce
Sul divino, e un destino vi incontra.
Ne gratitudine pronta mai segue a tal dono.
Troppo è arduo afferrarlo,
Giacché se il donatore non risparmiasse,
Da gran tempo la benedizione del focolare
Arso d avrebbe tetto e suolo.
Denn schonend rùhrt, des MaBes allzeit kundig, / Nur
ei-nen Augenblick die Wohnungen der Menschen / Ein Gott an, unversehn,
und keiner weiB es, wer? / Und drùber hin darf alles Freche gehn, / Und
kommen mu6 zum heilgen Ort das Wilde / Von Enden fem, und blindbetastend
ùbt den Wahn / Am Góttlichen, und trifft ein Schicksal darin. Dank /
Folgt nimmer auf dem FuBe solchem Geschenke. / Zu schwer istjenes zu
fàssen, / Denn wàre, der es gibt, nicht sparsam, / Làngst wàre vom
Segen des Herds / Uns Gipfel und Boden entzùndet (II, pp. 134-135; tr.
it. dt., p. 173).
La presenza della divinità già per i buoni e gli
aperti è difficile da sopportare. Se durasse a lungo, la «benedizione
del focolare», la fiamma, brucerebbe «tetto e suolo», ossia tutto,
fastìgio e fondamenta. Ma questa presenza attira anche «il ferino»,
inteso nella sua accezione negativa, ossia nell'aspetto di grandezza,
come il titanico, o in quello di viltà e bassezza, co-
658 Quinto cerchio - Cristo e il
cristianesimo
me lo scaltro e il servile. Entrambi sono aspetti di un
fenomeno che per Hólderlin costituisce peccato, distruzione
dell'unità, della pietà, dell'amore (II, supra, p. 173). La
manifestazione della divinità provoca questa ferinità, che fa violenza
al divino, trovando però in tal modo la propria fine. Anche qui un
elemento biblico è trasposto nel mitologico: lo scandalo5.
Nella terza stesura si legge:
Del divino però ricevemmo Già molto. Ci fu data la
fiamma Nelle mani, e suolo e marino flutto. Che solo in modo umano
familiari Mai sono con noi quelle ignote potenze. E tè lo insegna
quell'astro che innanzi Agli occhi ti sta: mai puoi somigliare Al
Tuttovivo, dal quale Molte gioie sono e canti.
Des Góttlichen aber empfingen wir / Doch viel. Es ward
die Flamm uns / In die Hànde gegeben, und Boden und Meersflut. / Denn
nur auf menschiiche Weise, nimmer-mehr / Sind jene mit uns, die fremden
Kràfte, vertraut / Und es lehret das Gestirn dich, das / Vor Augen dir
ist, denn nimmer kannst du ihm gleichen, / Dem Allebendi-gen, von dem /
Viel Freuden sind und Gesànge (il, p. 137;
tr. it. dt. p. 173).
Ma nonostante questo intrico, vi sono sempre stati doni
divini: la fiamma, la terra e il mare. Certo, il divino per mezzo di
questi elementi non era direttamente presso l'uomo - cosa che sarebbe
insopportabile - era bensì avvolto in veli, ammonendo proprio in tal
modo alla modestia. Anche il sole, il quarto dei doni, ammonisce in tal
senso. Poiché non si può «so-
La
maturità 659
migliare» ad esso, non si può guardarlo direttamente e
nemmeno avvicinarlo. Eppure dalla sua luce scaturisce ogni bene.
Ritorniamo alla prima stesura: la penultima strofa paria
della discesa di Cristo e del tempo successivo alla sua morte, quando
l'umanità dimentica il cielo. Questi sono temi che vengono sviluppati
più compiutamente nell'inno Patmo:
Quando, consunto quasi dall'are nelle vampe
Era spirato tutto il fuoco celeste,
Riaccese il Padre una subita fiamma
E mandò in terra quel che più caro aveva
Con esso ardendo,
E quando, d'una in altra generazione nutriti,
Gli uomini fossero così colmi di bene
Che ognuno si bastasse, in superbo oblìo del delo,
Allora, egli disse, un che di nuovo deve iniziarsi,
E guarda! ciò che tu hai taciuto,
Lo ha portato la pienezza dei tempi.
Lo sapevi bene: ma non a vivere, a morire fosd mandato,
E sempre maggiore del suo campo, come degli dèi dio
Egli stesso, deve anche essere uno degli altri.
Denn versiegt fast, ali in Opferflammen / War ausgeatmet
das heilige Feuer, / Da schickte schnellentflammend der Vater / Das
Uebendste, was er hatte, herab, / Damit ent-brennend, / Und wenn,
fortzehrend von Geschlecht zu Geschlecht, / Die Menschen wàren des
Segens zu voli, / DaB jeder sich genùgt' und ùbermùdg vergàBe des
Him-meis, / Dann, sprach er, soli ein Neues beginnen, / Und siehe!, was
du verschwiegest, / Der Zeiten Vollendung hat es gebracht. / Wohi
wuBtest du es, aber nicht zu leben, zu sterben warst du gesandt, / Und
immer gróBer, denn sein Feld, wie der Gótter Gott / Er selbst, muB
einer der ande-ren auch sein (il, p. 132; tr. it. cit., p. 175)
Alla dipartita di Cristo ha fatto seguito un lungo
660 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo
periodo di tenebre. Ma ora inizierà un tempo «nuovo»
in cui sarà rivelato anche tutto ciò che Cristo ha taciuto6.
Egli non era venuto per manifestarsi nella sua pienezza e per parlare,
ma per restare brevemente, lasciare taciute le cose più grandi e
morire. La sua missione era di annunciare la «sera» del primo grande
giorno del mondo e di consolare rimandando al tempo venturo. Questo
venturo ora è vicino.
A Cristo è attribuita la «sera dei tempi». Non la
«pienezza dei tempi», come avviene nel Nuovo Testamento (Me 1, 15), ma
l'ora del tramonto. Il compimento ha ancora da venire, rivelando ciò
che egli doveva «tacere». Adesso è scoccata la sua ora: quella forza
irrompente, soverchiante cui Hólderiin si sente sottomesso.
Ma la limitatezza per cui Cristo non poteva dire
l'ultima verità grava su tutti gli dèi. Ognuno deve «essere più
grande» della sua possibilità. Ognuno potrebbe fare più di quanto gli
è consentito dal suo «campo», dall'assegnazione concreta
dell'esistenza. In tal modo, ognuno è correlato «agli altri». Di
nuovo si manifesta quella preoccupazione per l'intero di cui si è già
parlato. Ogni divinità si riferisce all'altra ricevendo l'opera da
quella precedente e passandola a quella successiva - in modo analogo si
comporta il «dio degli dèi», il Padre, che continua a mandare
messaggeri, perché nessuno esaurisce le sue possibilità.
Così il Padre si appresta a nuovo agire. Riaffiora
l'immagine del silenzio domenicale:
Ma quando l'ora suona,
Come il maestro s'allontana dall'officina
Ne altra veste si mette
Che un abito di festa
La maturità
661
In segno che altro ancora Gli è restato in lavoro, Più
umile e più grande appare. Così tu pure:
E concedi a noi figli dell'amante terra
Che quante feste sono venute crescendo
Le celebriamo tutte, senza
Contare gli dèi. Uno è sempre per tutti.
Sii pari alla luce del sole! Con più divino senso
Siano i tuoi giorni salutati alla sera
E che noi ora si possa restare.
Wenn aber die Stunde schlagt, / Wie der Meister tritt er
aus der Werkstatt, / Und ander Gewand nicht, denn / Ein festliches,
ziehet er an, / Zum Zeichen, da£ noch anderes auch / Im Werk ihrn
ùbrig gewesen. / Geringer und gróBer erscheint er. / Und so auch du /
Und gónnest uns, den Sóhnen der liebenden Erde, / Da6 wir, so viel
herange-wachsen / Der Feste sind, sie alle feiem und nicht / Die Getter
zàhlen. Einer ist immer fùr alle. / Mir gleich dem Sonnenlichte!
góttlicher sei / Am Abend deiner Tage gegrùBet, / Und mógen bleiben
wir nun (il, p. 132; tr. it. dt., p. 175).
Adesso avverrà la grande metamorfosi, il mistero del
compimento. In esso il Padre appare «più umile», più silenzioso che
non nelle grandi lotte e catastrofi;
così come la domenica il maestro d'officina sembra più
debole di quando siede a battere il ferro sull'incudine - eppure più
grande nel suo silenzio e nella sua mitezza ... Anche Cristo ha questo
carattere. Gli è estranea l'invidia per gli altri dèi. Concede agli
uomini di «festeggiarli tutti», perché «Uno è sempre per tutti».
Ognuno, a partire da una prospettiva diversa, costituisce infatti un
aspetto della grande totalità. Egli è «conciliante».
L'inno finisce con l'invocazione cultuale.
662 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo III
L'inno O conciliante è della primavera del 1801.
I suoi temi sono ripresi dalla seconda grande poesia dedicata a cristo,
L'unico. Se ne hanno stesure e frammenti diversi, che
probabilmente risalgono per la maggior parte all'autunno 1802, ossia al
periodo che segue il ritorno da Bordeaux. Anche questa poesia è
interamente ispirata dall'esperienza della sofferenza e della colpa
primordiali. Essa si manifesta in questo caso nell'ambito
dell'esistenza, come gelosia fra gli dèi stessi. La gelosia dei numi
costituisce l'apparire oggettivo di quella lacerazione che Hólderlin
avverte nella sua stessa interiorità, dominata da elementi concomitanti
e contrastanti, il cristiano e l'antico; in altre parole, la gelosia dei
numi è espressione del fatto che Hólderlin, dopo essersi abbandonato
completamente alla sfera greca e pagana, deve ora rendersi conto che la
figura di Cristo si desta in lui, iniziando a lottare con «gli altri».
La prima strofa tradisce il profondo legame con la
Grecia. Erompe un autentico grido primordiale:
Che mai ? Alle antiche beate rive M'incanta così che le
amo
Più ancora della mia patria? "! Come in
celeste -il Prigionia venduto • .•') Io sono, dove Apollo
andò .,( In regale figura ,;
E a giovinetti innocenti
Si lasciò discendere Giove e figli in sacro modo
E figlie procreò
II Supero fra gli umani.
La maturità
663
Was ist es, das / An die alten seligen K-ùsten / Mich
fes-seit, daB ich mehr noch / Sie liebe, als mein Vaterland? / Denn wie
in himmlische / Gefangenschaft verkauft / Dort bin ich, wo Apollo ging /
In Kónigsgestalt, / Und zu un-schuIdigenJùnglingen sich / HerablieB
Zeus und Sóhne in heiliger Art / Und Tóchter zeugte / Der Hohe unter
den Menschen (il, p. 153; tr. it. cit., p. 213)
Successivamente, il poeta si trova a grande altezza
guardando giù, sulla molteplicità di forme del mondo:
Di alti pensieri
Molti ne sono
Scaturiti dal capo del Padre
E grandi anime
Da lui venute agli uomini.
Udito ho
Dell'Elide e di Olimpia, sono
Stato sul Parnaso
E sopra monti dell'Istmo
E anche oltre
A Smirne e giù
Fino a Efeso sono andato:
Molta ho veduto bellezza E cantato del Dio L'immagine
che vive Fra gli uomini. Ma pure, O numi antichi e voi tutti Strenui
figli degli dèi, Uno ancora io cerco Che amo, fra voi L'ultimo di
vostra stirpe, Della casa il gioiello, che a me, Straniero ospite,
nascondete.
Der hohen Gedanken / Sind namlich viel / Entsprungen des
Vaters Haupt / Und grofie Seelen / Von ihm zu Men-
664 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo
schen gekommen. / Gehóret hab ich / Von Elis und
Olympia, bin / Gestanden oben auf dem PamaB, / Und ùber Bergen des
Isthmus, / Und drùben auch / Bei Smyr-na und hinab / Bei Ephesos bin
ich gegangen; // Viel hab ich Schónes gesehn, / und gesungen Gottes
Bild / Hab ich, das lebet unter / Den Menschen; aber dennoch, / Ihr
alten Gótter und ali / Ihr tapfem Sóhne der Gótter, / Noch Einen such
ich, den / Ich liebe unter euch, / Wo ihr den Letzten eures Geschlechts,
/ Des Hauses Kleinod, mir, / Dem fremden Gaste, verbergt (il, pp.
153-154; tr. it dt.,p.213).
Egli abbraccia con lo sguardo i paesi, i tanti «alti
pensieri del Padre», ossia le opere e gli eventi della storia, le
«grandi anime», gli dèi dei diversi tempi ... Tra tutti questi gli
manca Uno «che ama». Questi, «della casa il gioiello», viene
«nascosto». In tal modo, diventa qualcosa di particolare, di delicato,
di sacro. È Cristo. Nella strofa successiva avviene la seconda eruzione
del sentimento - di quello opposto, quella volta - il secondo grido
originario:
Mio Maestro e Signore!
O tu, istruttore mio!
Perché lontano
Mi sei rimasto? E quando
Io ti cercavo fra gli antichi,
Gli eroi,
E gli dèi, perché
Non sei venuto? [...]
i . Mein Meister und Herr! / O du, mein Lehrer! / Was
bist du terne / Gebiieben? und da / Ich fragte unter den Alten, / Die
Helden und / Die Getter, warum bliebest / Du aus? [...] (il, p. 154; tr.
it. dt., p. 215).
Quale differenza rispetto all'atteggiamento di pa-
La maturità
665
cato riserbo manifestato nella poesia dedicata alla
nonna! Quali sconvolgimenti interiori devono essere avvenuti nel
frattempo ... E adesso la tensione:
Ora è colma
Di lutto la mia anima
Quasi voi celesti rivaleggiaste
Così che, se io adoro l'uno,
L'altro mi manca.
Undjetzt ist voli / Von Trauem meine Seele, / Als
eifertet ihr Himmlischen selbst, / DaB, oien ich einem, mir / Das andere
fehiet (il, p. 154; tr. it. dt., p. 215).
Il rapporto tra Cristo e gli altri che sono stati
mandati è come sussistesse tra loro gelosia. Ogni ente è se stesso
solo nella separazione del singolo dal tutto e dagli altri singoli. In
ogni esistenza separata vi è il dolore, la nostalgia che risospinge
verso l'unità. Ma la via che conduce ad essa passa per la mòrte della
figura individuale (I, supra, p. 38; IV, supra, p. 576).
Qui il tema è ripreso all'intemo della sfera degli dèi. Hól-derlin
vuole avere contemporaneamente tutte le manifestazioni del divino.
Cristo e agli altri numi, ma in cuor suo avverte la contraddizione.
Forse avverte addirittura che qui è in gioco qualcos'altro oltre la
sofferenza mitica, un aut-aut assoluto. Ma egli sovraccentua
l'ammonimento, stabilendo e chiarendo il dogma della sua nostalgia: deve
esserci l'unità degli dèi. A ciò si oppone solo l'inadeguatezza
dell'essere singolo.
La quinta strofa contiene la frase inaudita:
Ma lo so che è colpa Mia! Perché troppo sono,
666 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo
O Cristo, legato a tè, Sebben fratello d'Eracle.
Ich weiB es aber, eigene Schuid / Ists! Demi zu sehr, / Q
Christus! bang ich an dir, / Wiewohi Herakies Bi-uder (n p.
154;tr.it.cit.,p.215).
Non credo sia stato formulata una seconda volta, questa
accusa rivolta al proprio cuore da uno che ami Cristo, di amare Lui,
Cristo, troppo e gli «altri dèi» troppo poco! Se è autentica - e non
dobbiamo confidare che Hólderlin anche qui non si limiti a «fare della
poesia» - allora vi si manifesta un sovvertimento del cristianesimo
molto più profondo del semplice rifiuto. Si manifesta una coscienza
religiosa che si pone di fronte, in modo obiettivo, all'amore per Cristo
sentito dal proprio cuore limitandolo e collocandolo in contesti che
ritiene più grandi... Così Hólderlin eleva al di sopra del suo stesso
sentimento la seguente confessione:
E con audacia professo che sei
Fratello anche dell'Evie '
Che al carro aggiogò ?a
Le tigri e giù
'-i'K
Fino all'Indo ^ *Si
Ordinando un rito di gioia ^
Piantò la vigna
E l'ira ammansi dei popoli.
..a»I •^Ì
. ' s*v '\ìr-
Und kùhn bekenn ich, du / Bist Bruder auch des Eviers,
der / An den Wagen spannte / Die Tiger und hinab / Bis an den Indus /
Gebietend freudigen Dienst / Den Wein-berg stiftet' und / Den Grimm
bezahmte der Vólker (il, p. 154;tr.it.dt.,p.215).
La maturità
667
Ma poi si fa nuovamente sentire una resistenza contro
questo accostamento:
Pure un pudore mi vieta
Di comparare a tè
Gli uomini del secolo. E so per certo
Che chi ti generò, il Padre tuo,
È il medesimo
Poi che mai governa da solo.
Es hindert aber eine Scham / Mich, dir zu
vergleichen / Die weltiichen Mànner. Und freilich wei6 / Ich, der dich
zeugte, dein Vater, / Derselbe, der // Denn nimmer herrscht er allein
(n, p. 135; tr. it. cit., p. 215).
Per gli altri «uomini» {Mànner) si intendono
probabilmente Bacco, l'«Évio», ed Eracle. Essi sono «profani»,
«del secolo». Cristo è «spirituale» - una differenza significativa
se si pensa che essa è operata all'interno del religioso e si riferisce
ad un dio e a un eroe divinizzato. Questi sono entrambi figure
«numi-nose». Ma all'intemo della divinità comune a tutti gli dèi la
maggior parte di loro è vista come profana, correlata alle cose, alla
potenza, alla gioia e allo splendore della vita. Cristo invece appare
consacrato in un senso particolare, rivolto alla sfera intcriore, alla
salvezza dell'anima, e desta una reverenza particolare. Questo aspetto
particolare di Cristo è descritto più da vicino nella terza stesura
dell'inno:
[...] Certo anche Cristo restò solo Sotto il cielo
visibile e il firmamento Che, visibilmente, sovrano domina, Su quanto
stabilito, col consenso di Dio,
668 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo %
E sui peccati del mondo -
Ovvero sull'incomprensibilità delle conoscenze -
Quando su dò ch'è perenne prevarica l'agitarsi degli
ucna-
[ni,e II favore del firmamento era sopra di lui.
Il mondo invero esulta sempre
Lontano da questa terra, perché la
Mette a nudo, là dove l'umano non la regge. Resta però
tracda
D'una parola. Un uomo cerca di ghermirla. Ma il luogo
era .£
Il deserto [...] , ..il
'L K -t'à
[...] Namlich Christus istja auch allein / Gestanden
unter sichtbarem Himmel und Gestìm, sichtbar / Freiwaltendem ùber das
Eingesetzte, mit Eriaubnis von Gott, / Und die Sùnden der Welt, die
Unverstàndiichkeit / Der Kenntnisse namlich, wenn Bestàndiges das
Geschàftige ùberwàchst / Der Menschen, und der Mut des Gestirns war
ob ihm. / Namlich immer jauchzet die Welt / Hinweg von dieser Erde, daB
sie die / EntblóBet; wo das Menschiiche sie nicht hàlt. Es bleibet
aber eine Spur / Doch eines Wortes;
die ein Mann erhaschet. Der Ort war / Die Wùste [...]
(n, p.163).
Che cosa sono «i peccati del mondo» per i quali Cristo
si assume la responsabilità davanti a Dio? Che cosa viene espiato sotto
l'ardore del sole nel deserto? Quale pericolo viene scongiurato? Il
pericolo di fondo dell'ente individuale che consiste nel concedersi
illegittimamente alla nostalgia per l'Uno, nel precipitarsi attraverso
la morte nel Tutto abbandonando in tal modo il luogo della conferma, lo
spazio della limitatezza e della moderazione, la terra e la sua storia.
L'inno II Reno, cronologicamente non lontano, esalta la vittoria
su quel pericolo. Esso insegna come il dionisiaco viene arginato e
trasformato in fecondità, quello stesso dionisiaco che in Voce del
popolo e in Em-
La maturità 669
pedocle
a ragione, perché per eccezione, prorompe e precipita. Qui ritorna lo
stesso impeto, ma sotto una forma audace, accessibile non più al
pensiero, ma ormai solo al presagio metafisico: «II mondo esulta sempre
lontano da questa terra»: sempre l'esistenza minaccia di saltare
dall'aldiqua nell'aldilà, dalla sfera della distinzione e della
conferma in quella dell'unificazione del Tutto e dell'annullamento, nel
sovra-uno e nell'ineffabile. Questo movimento vuole compiersi
direttamente, titanicamente. Ma ciò sarebbe la fine di tutte le cose,
la fine dionisiaca del mondo. La storia deve invece rimanere possibile:
l'esistenza calata in una forma, l'ordine, il lavoro e la fecondità. È
quindi compito delT«umano» (Menschiich) - echeggia in
concomitanza il concetto di «umano» (Humane) con l'implicazione
della misura apollinea - mantenere il «mondo» sulla «terra»,
congiungere gli ambiti divergenti dell'esistenza, conciliare ciò che si
vuole separare.
Cristo ha fatto appunto questo. Nel superare la
sofferenza e la colpa originarie, ossia la frattura dell'esistenza, ma
anche il contrario di essa, l'ebrezza del mondo, la caduta a precipizio
nella morte del mondo, i numi annoverati nell'inno. Eracle, Dioniso e
Cristo, sono uguali. Essi sono tutti «salvatori», rivolti alla
distretta dell'esistenza, ed insieme formano lo «splendido trifoglio»:
[...] Così essi sono uguali. Pienezza di gioia,
copiosa. Splen-
[dido verdeggia Un trifoglio. Vergogna sarebbe che, per
amore dello spirito, Di loro non potessi dire, dotto nella scienza d'una
cattiva
[preghiera, Che sono per me come condottieri, eroi ...
... Sono celesti
670
Quinto
cerchio - Cristo e il cristianesimo
E uomini al tempo stesso, sempre. Un grande
Uomo, e similmente una grande anima,
Sia pure in delo,
Anela ad uno sulla terra. In eterno
Questo rimane, che sempre in catene ogni giorno è
intero
II mondo [...]
[...] So sindjene sich gleich. Voli Freuden, reichiich.
Herr-lich grùnet / Ein Kleebiatt. Ungestalt wàr, um des Geistes
willen, dieses, dùrfte von solchen / Nicht sagen, gelehrt im Wissen
eines schlechten Gebets, daB sie / Wie Feldherm mir, Heroen sind ... /
Und Menschen beieinander die ganze Zeit. Ein groBer / Mann, und àhniich
eine grofie Seele, / Wenngleich im Himmel, // Begehrt zu einem auf
Erden. Immerdar / Bleibt dies, daB immergekettet alltag ganz ist/ Die
Welt [...] (il, pp. 163-164).
Ad ogni contestazione va sempre opposta la convinzione
che essi, pur nella molteplicità delle figure e delle funzioni, fanno
parte di un insieme «in eterno Questo rimane, che sempre in catene ogni
giorno è intero il mondo», ossia è, in qualunque momento, «un
intero».
Sembra quasi che le grandi figure non possano stare
l'una accanto all'altra:
[...] Ma spesso sembra
Che un grande non s'accordi con un grande. ,
Stanno l'uno accanto all'altro, ogni giorno,
Come in fianco a un abisso.
[...] Oft aber scheint / Ein GroBer nicht
zusammenzutau-gen / Zu GroBem. Alle Tage stehn die aber, als an einem
Abgrund, einer/ Neben dem andem ... (il, p. 164).
Pensiamo alle parole circa «i monti più separati» in Palmo
e comprendiamo che l'«abisso» si riferisce a
La maturità
671
quel pericolo che minaccia perfino gli dèi: che la
forma, in cui risiedono il senso e la giustificazione dell'esistenza,
diventi una barriera che impedisca l'essere insieme, la comunanza, e
consenta solo una giustapposizione. Ma questi tré sono certamente parti
di una totalità:
Ma così sono quei tré,
Come cacciatori in cacda
Sotto il sole, o come
Un aratore che ansante per il lavoro
Si scopre il capo, o mendicanti. Bello
E gradito è confrontarli ...
[...]Jene drei sind aber/ Das, daB sie unter der Sonne /
Wie Jàger der Jagd sind oder / Ein Ackersmann, der atmend von der
Arbeit / Sein Haupt entblóBet, oder Betder. Schón / Und liebiich ist
es, zu vergleichen [...] (n, p. 164).
Ciò che li rende simili è il loro riferimento alla
necessità e distretta dell'esistenza. Così come i cacciatori sono
uniti dal comune pericolo, gli agricoltori dalla fatica imposta a tutti
loro e i mendicanti dalla loro condizione di derelitti, questi tré numi
sono uniti dalla loro vocazione di salvatori. Una stesura precedente
dello stesso passo sviluppa maggiormente questo pensiero:
[...] Mala questione
Che mi tormenta è questa, che per distretta, dei figU
di Dio Essi portano su di sé i segni. Poiché anche in altro
modo Ha provveduto, convenientemente. Giove tonante. Cristo invece
si destina da solo.
[...] Der Streit ist aber, der mich / Versuchet, dieser,
daB aus Not als Sóhne Gottes / Die Zeichen jene an sich ha-
672 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo
ben. Denn es hat noch anders, ratlich, / Gesorget der
Donnerer. Christus aber bescheidet sich selbst (il, pp. 759. 753).
Gli altri dèi non si curano della distretta degli
uomini. Essi sono olimpicamente sereni e lasciano al di sotto di loro la
sofferenza della terra. Ma questi tré sono correlati al dolore
dell'uomo, essi stessi si espongono al pericolo, alla fatica, alla
privazione, come il cacciatore, l'agricoltore e il mendicante. Così,
Cristo è mandato dal Padre supremo. Egli si è immesso nella necessità
e distretta, vi si è destinato. In tal modo egli è un salvatore
insieme con Eracle e Dioniso. Essi sono tutti salvatori. E adesso
vengono caratterizzati:
Èrcole è come i prìncipi. Bacco spirito di comunione.
Cristo però è la fine. Certo egli è anche d'altra natura; ma
[compie Quel che ancora al presente Manca agli altri
Celesti [...]
Wie Fùrsten ist Herkules. Gemeingeist Bacchus. Christus
aber ist / Das Ende. Wohi ist der noch andrer Natur; er-fullet aber /
Was noch an Gegenwart / Den Himmlischen gefehiet an den andem [...] (il,
p. 753). i
Nonostante ogni sofferenza, Eracle è regale e
stabilisce l'ordine fra gli uomini. Dioniso è il conciliatore
universale, il dio della trasformazione e della comunione. Cristo invece
è la fine. Egli, il mite, affettuoso, destinato a una morte precoce,
chiude il giorno universale del tempo antico. Egli è anche «d'altra
natura», ha possibilità maggiori rispetto a quello che ha fatto;
ma è questo a conferirgli la sua identità particolare
e a collocarlo in tal modo nel contesto.
Ritorniamo alla prima stesura:
La maturità
673
Ma ad Uno solo si avvince
L'amore. Questa volta
Troppo dal cuore
Mi è sgorgato il canto.
Ma voglio al fallo rimediare
Quando altri canterò ancora.
Mai colgo, come vorrei,
La misura. Ma un dio sa
Quando viene, dò che bramo, U bene sommo.
Es hànget aber an Einem / Die liebe. Diese Mal / Ist
namlich vom eigenen Herzen / Zu sehr gegangen der Ge-sang, / Gut machen
will ich den Fehi, /Wenn ich noch an-dere singe. / Nie treff ich, wie
ich wùnsche, / Das MaB. Ein Gott weiB aber / Wenn kommet, was ich
wùnsche, das Beste (II, p. 155; tr. it. dt., pp. 215-217).
La lode dell'insieme degli dèi sarebbe il vero compito
del poeta. Ma l'amore per quell'Uno lo ha travolto. Ha parlato tanto di
Cristo da commettere una colpa verso gli altri. Per questo ritenterà il
canto in un secondo momento. Allora, forse, gli verrà donato «il bene
sommo», la forza per presentare quell'unità.
Alla fine dell'inno la figura di Cristo si eleva in
tutta la sua potenza:
Poi che quando il Maestro
Passò sulla terra
Come aquila prigioniera,
Molti che lo videro
Si spaventarono,
Mentre fatto aveva il suo estremo
II Padre e il suo meglio
Fra gli uomini effettuato.
E assai triste era pure
II Figlio fino a quando egli
674 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo
Al delo salì nell'aure:
Cui pad è prigione l'anima degli Eroi.
I poeti debbono, anche
Gli spirituali, essere del secolo.
Denn wie der Meister/ Gewandeit aufErden, / Ein
gefan-gener Aar, // Und viele, die / Ihn sahen, fùrchteten sich /
Dieweil sein ÀuBerstes tat / Der Vater und sein Bestes unter / Den
Menschen wirkete wirkiich, / Und sehr be-trùbt war auch / Der Sohn so
lange, bis er / Gen Himmel fuhr in den Lùften: / Dem gleich ist
gefangen die Seele der Helden. / Die Dichter mùssen auch / Die
geistigen weltiich sein (II, p. 156; tr. it. cit., p. 217).
Per quanto «spirituale», Cristo era prigioniero della
terrestrità. Era oppresso, angustiato e si fece lieto solo quando la
morte lo liberò - si veda lo «sguardo gioioso», espressione per la
morte in Palmo. Ciò vale anche per il poeta. Anch'egli è
«spirituale» e vive nell'elemento non innominabile dell'uomo sacro.
Ciononostante, deve essere «profano» e permanere tra le differenze e
le frontiere terrene7.
Ancora una volta va sottolineata la tensione profonda
espressa dall'inno: l'anima «che è venduta» per la Grecia e allo
stesso tempo è intrinsecamente legata a Cristo; la convinzione che gli
dèi fanno parte di un insieme e la sensazione che Cristo sia qualcosa
d'altro da loro; il presagio di un tremendo aut-aut, della scelta
cristiana, ma anche il tentativo di porla sotto la categoria della
lacerazione mitica che dev'essere superata attraverso la forza
dell'«umano» in Cristo e nel poeta, ossia attraverso la conciliazione.
Ma dietro a tutto questo si intrawede un pericolo.
La maturità
675
IV
La figura hólderliniana di Cristo trova la sua
espressione più forte nell'inno Palmo. La prima stesura risale
probabilmente al periodo immediatamente anteriore al viaggio a Bordeaux.
Tré abbozzi e frammenti per una stesura successiva sono venuti dopo: la
nostra interpretazione si rifa alla prima versione. L'inno si divide in
tré parti intrinsecamente connesse fra loro. La prima contiene
l'esperienza iniziale e il percorso visionario verso l'isola di Patmo
(str. 1-5). La parte centrale parla di Cristo e dei suoi discepoli
(6-13). La parte conclusiva è talmente legata a quelle precedenti da
non distinguersi affatto da loro, ed è rivolta al langravio di Homburg,
cui la poesia è dedicata (14-15).
La poesia inizia con l'esperienza vissuta del pericolo e
della promessa:
Vidno
E difficile ad afferrare è il Dio.
Ma dove è il pericolo, cresce
Anche dò che ti salva.
Nelle tenebre vivono
Le aquile e senza paura
Va la prole delle Alpi sopra l'abisso
Su lievemente costruiti ponti.
Ora, poi che ammassate in cerchio
Stanno le vette del tempo
E i più amati abitano vidno, languendo
Sui monti più separati,
Oh, dacd acqua innocente,
Dacd ali a varcare di là
Con fedelissimo animo e ritornare.
676 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo
Nah ist / Und schwer zu fassen der Gott / Wo aber
Ge-fahr ist, wàchst / Das Rettende auch. / Im Finstem woh-nen / Die
Adier und furchdos gehn / Die Sóhne der Al-pen ùber den Abgrund weg /
Auf leichtgebauten Brùcken. / Drum, da gehàuft sind rings / Die Gipfel
der Zeit, und die liebsten/ Nah wohnen, ermattend auf/ Gè. trenntesten
Bergen, / So gib unschuidig Wasser, / O Fitti-che gib uns, treuesten
Sinns / Hinùberzugehn und wieder-zukehren (il, p. 161; tr. it. cit., p.
217).
Il dio è vicino - ci ricordiamo della poesia dello Stundenbuch
(Libro d'ore) di Riike, in cui l'espressione di questa vicinanza è
così forte da esprimersi nell'invocazione: «Tu, Dio vicino» ripresa
nella prima e all'inizio della strofa successiva:
Solo una parete sottile è fra noi, per caso; perché
potrebbe essere:
un chiamare della tua bocca o della mia
ed essa cade
senza alcun suono e rumore.
Delle tue immagini è costruita.
Nur eine schmale Wand ist zwischen uns, / durch Zufall;
denn es kónnte sein: / ein Rufen deines oder meines
Munds / und sie bricht ein / ganz ohne Làmi und LauL // Aus deinen
Bildem ist sie aufgebaut {Ausgew. Werke I, p.ll).
La parete è talmente sottile da dare l'impressione di
poter essere abbattuta con un soffio. Eppure divide impietosamente,
poiché il suo materiale sono il mondo finito e le sue «immagini». In
Hólderlin è la forma individuale a dividere la vita particolare dal
tutto. Ma appena il pericolo della separazione diventa troppo grande
«cresce ciò che ti salva» e si percepisce la promessa dell'unità
ventura.
La maturità
677
La distanza che c'è tra gli uomini e la divinità v'è
anche di volta in volta tra i singoli uomini e le forme del mondo.
Questa conoscenza acquisita è introdotta da un'immagine appartenente a
quell'ambito che costituisce, accanto al fiume e al mare, la metafora
delle grandi cose dell'esistenza, ovvero da quella dei monti, meglio,
delle Alpi. Vi sono cime e fra di loro abissi. Ma le aquile in volo li
attraversano, e uomini audaci li superano su ponti pericolosi.
Ora l'immagine muta, diventando metafisicamente
trasparente. Ad elevarsi è l'esistenza stessa. In essa ogni uomo è una
cima. Il tempo è la transitorietà. Ciò che sta attorno è il
paesaggio dell'esistenza; ogni cima è un «cumulo» di tempo, plasmata
da esso. Ogni singolo, appunto per il fatto di essere singolo, è diviso
dagli altri, e siano pure i «più amati» e quindi più vicini. È
diviso anche «dal dio» che può essere così vicino. «Divisi»,
perciò «languendo», perché la vita all'interno di questa
singolarità ha sete della vita nell'aldilà e nel Tutto. Espressione
imponente per il pathos della sofferenza mitica, il sentire come
l'esistenza stia nella separazione; ogni essere è separato dall'altro,
e ognuno dal Tutto.
Così viene invocata la divinità perché dia ciò che
supera la separazione: «acqua innocente». Non si allude a un'innocenza
spirituale o morale, ma oggetti-va: alla purezza dell'elemento
incontaminato, prossimo a Dio, e alla sua forza di purificazione. Anche
come elemento che scorre e rifugge da ogni forma solida e da ogni
divisione, l'acqua è vicina all'ambito primordiale dell'unità. Essa è
addirittura l'elemento della connessione che supera le separazioni. Su
di esso, il navigatore giunge «all'altra riva», da sponda a
678 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo
sponda (L'Istro II, p. 190). All'acqua è simile
l'aria. Circola nello spazio aperto e allo stesso tempo, come respiro,
nella vita individuale. Anch'essa supera la separazione - ciò vale per
l'aria, ma anche per l'ala dell'uccello che si affida ad essa e dimostra
confidando e persistendo, di avere «fedelissimo animo».
Poi l'esperienza vissuta visionaria che affranca; il
viaggio nella lontananza che unisce gli spazi, e la restituzione entro
il passato, che fa emergere un tempo dall'altro. Ma la via che conduce
nello spazio remoto e riporta il tempo passato segue la dirczione che
per Hólderlin segna la tensione dell'esistenza in assoluto:
Occidente-Oriente, Germania-Grecia:
Così parlavo quando
Più veloce ch'io non credessi e lontano
Dove mai sognato avevo
Di giungere, un Genio mi rapì
Dalla mia casa. Balenavano appena
Nel dubbio lume ove andavo ;
L'ombrosa foresta
E i rivi desiderosi
Della mia terra; non più conoscevo i paesi.
Quand'ecco, in fresco bagliore,
Misteriosissima
Nel fumo d'oro sbocciò •
Crescendo rapida
Coi passi del sole
Con gl'incensi di mille vette :
L'Asia ai miei occhi: e abbagliato cercavo Qualche luogo
a me noto, io straniero A quelle strade larghe, Ove dal Tmolo scende II
Fattóio ornato d'oro
La maturità
679
E il Tauro si leva e il Messogi E, pieno di fiori, il
giardino, Fuoco silenzioso. Ma su nell'alta Luce l'argentea neve
fiorisce:
Testimone di vita immortale,
Alle impervie pareti
Cresce antichissima l'edera e reggono
Colonne viventi di cedri
E d'allori i maestosi
Palagi, costruiti da dèi.
So sprach ich, da entfiihrte / Mich schneller, denn ich
ver-mutet, / Und weit, wohin ich nimmer / Zu kommen ge-dacht, ein Genius
mich / Vom eigenen Haus. Es dàmmer-ten / Im Zwielicht, da ich ging, /
Der schattige Wald / Und die sehnsùchtigen Bàche / Der Heimat; nimmer
kannt ich die Lànder; / Doch baid, in frischem Glanze, / Geheimnisvoll
/ Im goldenen Rauche, blùhte / Schnell aufgewachsen, / Mit Schritten
der Sonne, / Mit tausend Gipfein duftend, // Mir Asia auf, und gebiendet
sucht / Ich eines, das ich kennete, denn ungewohnt / War ich der breiten
Gassen, wo herab / Vom Tmolus fàhrt / Der gold-geschmùckte Paktoi /
Und Taurus stehet und Messogis, / Und voli von Blumen der Garten, / Ein
stilles Feuer; aber im Uchte / Blùht hoch der silbeme Schnee; / Und,
Zeug' unsterbiichen Lebens, / An unzugangbaren Wànden / Uralt der Efeu
wàchst und getragen sind / Von lebenden Sàulen, Zedern und Lorbeeren,
/ Die feierlichen, / Die góttlichgebauten Palaste (II, pp. 165-66; tr.
it. dt., p. 219).
Il movimento è rappresentato in modo splendido:
nel mattino che è «entusiasta» e il cui alito
«dischiude», come dice il monito rivolto alla vergine in Germania - ci
si spinge fuori dalla terra natta, la Svevia, entrando nell'«ombrosa
foresta» e attraversando i «rivi desiderosi». Ma i ruscelli sono il
discorso della terra, il suono originario della sua vita intcriore, come
680 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo
dice ancora Germania. Si passa per terre ignote,
il «centro» è ignoto, conosciuti solo l'«inizio e il traguardo».
Alla fine però, diverso dall'inizio, eppure ad esso intrinsecamente
correlato, si eleva l'altro polo dell'esistenza: l'«Asia». Essa si
presenta «misteriosissima nel fumo d'oro». Questo termine, anch'esso
riscontrabile in Germania, esprime lo spazio della leggenda. Allo
stesso tempo ci accorgiamo con quanta velocità è stata percorsa la
via, grazie all'immediatezza della visione. Il tempo impiegato va dal
«dubbio lume» del primo mattino al «fresco bagliore» del pieno
giorno. L
La via celeste è stata percorsa «coi passi del sole».
Queste parole si ispirano forse al Salmo 18 nella numerazione della
Vulgata i cui versi 5-7 cantano dell'ascesa dell'astro visto come eroe
del ciclo. Ora il vate guarda giù dall'alto; è la situazione amata da
Hólder-lin che attraverso l'altezza spaziale fa presagire quella
visionaria. Le terre dell'Oriente si stendono sotto il suo sguardo, in
una gloria di colori e di profumi. Cerca di orientarsi in esse. La
possibilità di farlo è offerta da queste vastità stesse, vicine
all'uomo, poiché dappertutto vi sono le «strade larghe». Lo spazio
non è caotico, ma spazio di vita, il luogo del dimorare e del
peregrinare umano. Le forme della terra sono vie della vita. js
Movimenti e forme contrapposti compongono l'immagine. Si
ergono le montagne del Tmolo e da esse scopre giù il Fattóio che porta
l'oro. Poi ancora alto si leva il Tauro, e sotto di esso va estendendosi
un «giardino» nell'ardere soave dei fulgidi colori. Nuovamente lo
sguardo si spinge verso l'alto, verso le cime la cui «argentea neve»
fiorisce nella luce del primo mattino. Da esse scorre giù, lungo
inaccessibili
La maturità
681
pareti a cui aggrappandosi sale però la pianta di
Dioniso, l'edera che d'inverno non muore. Sorvola infine i boschi che
con le loro colonne vive sono come palazzi.
Si va oltre, alla costa e sul mare:
Crosciano intorno alle porte D'Asia, dirette qua e là,
Sull'infida pianura del mare, Tante strade senz'ombra:
Ma le isole sa il navigante.
Es rauschen aber um Asias Tore / Hinriehend da und dort
/ In ungewisser Meeresebene / Der schattenlosen StraBen genug, / Doch
kennt die Insein der Schiffer (il, p. 166; tr. it. dt., pp. 219-221).
Di nuovo la natura è lo spazio della vita umana. Anche
il mare è attraversato da «strade». Sono senza ombra, poiché gli
alberi che vi si trovano, quelli delle navi, sono «schiomate antenne»
come si dice in Ricordo; ma i navigatori conoscono le isole
dell'Arcipelago e la loro rotta è pertanto sicura. E ora il vate arriva
a Patmo:
Io, quando intesi
Che delle prossime una
Era Patmo,
Mi struggevo
D'approdarvi.
E appressarmi allo speco buio.
Poiché, non come Cipro,
La ricca di sorgenti, o come
Una delle altre,
Ha Patmo sontuosa dimora,
682 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo
Ma è accogliente
In così povera casa
Ella nondimeno
E se da naufragio o piangendo
La terra natale
O il dipartito amico,
Le si appressi uno
Straniero, ama ascoltarlo e, sua prole,
Le vod del bosco riarso,
E dove la sabbia cade e si spacca
La superficie del campo, i suoni,
Tutti lo ascoltano e fanno amorosa eco
Al pianto dell'uomo [...]
Und da ich hórte, / Der nahegelegenen eine / Sei
Patmos, / Verlangte mich sehr, / Dort einzukehren und dort / Der dunkein
Grotte zu nahn. / Denn nicht, wie Cypros, / Die quellenreiche, oder /
Der anderen eine, / Wohnt herr-lich Patmos, // Gastfreundiich aber ist /
Im àrmeren Hause / Sie dennoch, / Und wenn vom Schiffbruch, oder
klagend / Um die Heimat oder / Den abgeschiedenen Freund, / Ihr nahet
einer / Der Fremden, hórt sie es gern; und ihre Kinder, / Die Stimmen
des heiBen Hains, / Und wo der Sand fallt und sich spaltet / Des Feldes
Flà-che, die Laute, / Sie hóren ihn und liebend tónt / Es wi-der von
den Klagen des Manns [...] (II, pp. 166-167; tr. it cit., p. 221). •
L'isola non è «situata» in un certo punto del mare,
ma vi «dimora». L'espressione era già stata usata in L'Istro a
proposito del fiume. Essa non è qualcosa di morto, ma presente, padrona
della sua esistenza, esercita il suo influsso vivo. Già queste parole
indicano ciò che i versi successivi esprimeranno in forma compiuta.
L'isola è un essere, una delle graziose figlio di Posidone, come si
legge m L'Arcipelago.
La maturità 683
Patmo «dimora», ma non è «ricca di sorgenti»,
copiosa come per esempio Cipro, l'isola di Afrodite, bensì povera. Vi
si esprime l'elemento aspro, roccioso, il carattere dell'esilio, ma
anche l'elemento spirituale, affine al vate, profetico. Tuttavia,
l'isola accoglie l'ospite straniero, e la sua ospitalità è espressa
dall'eco. Non ha niente da dare fuorché la sua compassione, ma essa
risponde al lamento che giunge alla riva dell'isola. Vale la pena di
ripercorrere il passo che parla dell'eco, perché è un esempio di come
la visione rimanga ancorata alla realtà veduta.
Spontaneamente, si erge la figura dell'apostolo
Giovanni. Anch'egli un tempo è giunto all'isola pieno di dolore come
esiliato, perseguitato da Domiziano, vi è vissuto e ha contemplato le
visioni da cui è nata l'Apocalisse.
[...] Così ebbe cura
Ella, una volta, dell'amato da Dio,
Del veggente che in gioventù beata,
Era andato col figlio
Dell'Aids si mo, inseparabile, perché
II portator di tempeste amava il candore
Del discepolo: e l'uomo attento vide
La faccia del Dio predsa
Quando al mistero della vite
Sedeano insieme all'ora della cena
E nella grande anima, in placido presagio, la morte
Pronunziò il Signore e l'ultimo amore: bastanti
Per dire della bontà mai ebbe
Parole e per serenare quando
La vide, l'ira del mondo.
Poiché tutto è bene. Su questo, morì. Molto sarebbe
Da dirne. E gli amia lo videro un'ultima volta
Come guardava trionfante e pieno di gioia.
684 Quinto cerchio • Cristo e il cristianesimo
[...] So pflegte / Sie einst des gottgeliebten, /
Des Seehrs der in seligerJugend war // Gegangen mit / Dem Sohne des
Hóchsten, unzertrenniich; denn / Es liebte der Gewit-tertragende die
Einfalt / Des Jùngers und es sahe der achtsame Mann / Das Angesicht des
Gottes genau / Das beim Geheimnisse des Weinstocks, sie / ZusammensaBen
zu der Stunde des Gastmahis, / Und in der groBen Seele ruhigahnend, den
Tod / Aussprach der Herr und die letzte Uebe, denn nie genug / Hatt er
von Gùte zu sagen / Der Worte, damais, und zu erheitern, da / Ers sahe,
das Zùr-nen der Welt. / Denn alles ist gut. Drauf starb er. Vieles
wàre / Zu sagen davon. Und es sahn ihn, wie er siegend blickte, / Den
Freudigsten die Freunde noch zuletzt (il, p. 167;tr.it.dt.,pp.221-223).
Giovanni è colui che è «amato da Dio». Il passo si
riferisce al versetto evangelico che parla del «discepolo che Gesù
amava» (Gv 13, 23). Inoltre è colui che «inseparabile» ha
accompagnato Cristo dappertutto, perfino sul monte della trasfigurazione
e nel giardino degli ulivi, a breve distanza da lui (Me 14, 33 e Le 22,
41) ... Successivamente si parla del «candore», della semplicità del
discepolo. Questo passo risente dell'immagine tradizionale che descrive
Giovanni come un giovane delicato e affettuoso, mentre invece il suo
carattere era grande e ardente ... Più in là è definito «l'uomo
attento» che «vide la faccia del Dio precisa». Forse non sbagliamo se
colleghiamo queste parole all'inizio della prima Lettera di Giovanni: T
•-i «Ciò che era fin da principio, dò che noi
abbiamo udito, dò che abbiamo veduto con i nostri occhi, dò che noi
abbiamo contemplato e dò che le nostre mani hanno toccato, ossia il
Verbo della vita». '
Questa deve essere «l'attenzione» di Giovanni. An-
La maturità
685
cora una volta abbiamo occasione di notare che pure le
affermazioni apparentemente visionarie di Hólder-lin si riferiscono
alla realtà.
Il poeta ora vuole parlare di Cristo e della sua
convivenza con i discepoli. Ma la sua poesia è inno, non epos.
Questo segue l'ordine cronologico dei fatti, dall'inizio alla fine.
L'inno invece - abbiamo già avuto modo di dirlo - è sotto la
suggestione dello «spirito», che ubbidisce solo alla propria legge.
Afferma una parte dell'oggetto, poi l'abbandona e si getta con nuovo
slancio su un'altra, precedente, per interrompere ancora e cogliere un
elemento nuovo. Ma se lo spirito e l'arte sono autentici, ogni mossa è
giusta e l'intelligenza, analizzando, trova un contenuto preciso e una
forma comprensibile. Il pregio mirabile della poesia visionaria
autentica sta nel suo reggere davanti all'indagine dell'intelletto. La
mera poesia sentimentale lo teme, ma la visione autentica e la passione
vera lo rivendicano perché sanno che li legittima e li libera8.
Il piacere dell'interpretazione consiste nell'incontrare testi in cui
ogni frase può essere presa in considerazione e analizzata, in cui ogni
immagine riporta all'oggetto genuino e in cui ogni movimento dello
sguardo e del pensiero è forte di una logica che presiede all'insieme.
Tutto ciò è possibile in Hólder-lin. Ma in questo contesto va fatta
ancora un'altra osservazione. Alcuni passi oscuri degli inni tardi si
fanno chiari se si adduce il concetto della teologia cristiana o il
testo biblico a cui si riferiscono. Tale testo subisce una
trasformazione, poiché passa dall'ambito della Rivelazione a quello del
mondo e delle rappresentazioni mitologiche, ma ancora dall'ultima forma
che assume nella poesia, il collegamento toma al suo
686 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo
tenore testuale originale ... Riprendiamo il discorso di
prima. L'inno intende parlare di Cristo e dei suoi. Ma non racconta lo
svolgimento della sua storia. Si li. mita bensì a quell'avvenimento
particolare in cui si rivela quella che per Hólderlin è la natura vera
di Cristo: quella di essere colui che annuncia «la sera», l'ultimo, il
quale si congeda lasciando «doni» che hanno lo scopo di consolare e di
aiutare a sopportare la notte che sta per venire. È il trovarsi con i
discepoli durante l'ultima cena. Di uno di loro si dirà che uscì nella
notte (Gv 13, 30).
Le parole e il tono sono significativi: il discepolo
«vide la faccia del Dio precisa» ... «E nella grande anima in placido
presagio la morte pronunziò il Signore», una differenza sostanziale
rispetto al racconto del Nuovo Testamento e alle parole che Cristo
proferisce realmente. La figura e l'evento trapassano dal loro carattere
originario a quello mitologico, nell'esistenza «del Dio».
Cristo esprime «l'ultimo amore». Nel vangelo di
Giovanni si legge:
Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era
giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i
suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine (13, 1).
Il racconto prosegue narrando come lavò i piedie
istituì la celebrazione dell'Eucaristia, il mistero della morte
redentrice nella forma del pane e del vino9.
Poi di nuovo il passaggio nel mitologico. Nell'evangelo
di Matteo Gesù dice:
prendete e mangiate, questo è il mio corpo.
La maturità
687
In Luca seguono ancora le parole
che viene dato per voi - bevetene tutti, perché questo
è il mio sangue dell'alleanza, versato per molti, in remissione dei
peccati (26, 26-28).
Il mondo è colpevole davanti alla giustizia di Dio. Su
di esso grava l'ira. Attraverso la morte di Cristo viene espiata. Anche
in Hólderlin si parla di un'ira;
ma qui è il mondo stesso ad essere irato. Esso è
l'ultima istanza. L'esistenza è irata e minaccia la lacerazione. Essa
vuole andare «via dalla terra» come si legge in L'unico. Ma
Cristo «rasserena», tempera quest'ira. Egli indica il fondamento più
profondo in cui tutto è uno, e l'ira si dissolve. «Niente è, il
male» dice l'inno incompiuto Alla Madonna.
«Lo sguardo trionfante» allude quasi certamente
all'esclamazione «Tutto è compiuto» riferita dal racconto evangelico
della Passione (Gv 19, 30). Questa interpretazione è avallata dalla
frase immediatamente successiva: «Ma s'attristarono ...». Di per sé
sarebbe plausibile riferire la parola «trionfo» alla Risurrezione o
all'ascensione al ciclo, avvenimenti che hanno il carattere della
vittoria; non sono però luttuosi.
Ma s'attristarono, perché ora S'era fatta sera,
esterrefatti:
Gran partito avevano nell'anima Quegli uomini, ma
amavano sotto il sole La vita e separarsi non volevano Dal volto
del Signore
Ne della terra nativa. Esso stava confitto Come fuoco
nel ferro, e a loro accanto Andava l'ombra di quel caro. Per questo
mandò loro lo Spirito
688 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo
E invero ne tremò
La casa, le procelle di Dio rombarono
Con lontano tuono
Sui capi presaghi, ora che con animo grave
Accolti stavano gli eroi della morte,
Ed ecco, che dipartendosi, Un'altra volta loro apparì.
Doch trauerten sie, da nun / Es Abend worden, erstaunt,
/ Denn GroBentschiedenes hatten in der Seele / Die Màn-ner, aber sie
liebten unter der Sonne / Das Leben und las-sen wollten sie nicht / Vom
Angesichte des Herm / Und der Heimat. Eingetrieben war, / Wie Feuer im
Eisen, das, und ihnen ging / Zur Seite der Schatte des Ueben. / Drum
sandt er ihnen / Den Geist, und freilich bebte / Das Haus und die Welter
Gottes rollten / Ferndonnernd ùber / Die ahnenden Hàupter, da,
schwersinnend, / Ver-sammeit waren die Todeshelden, // Itzt, da er
scheidend / Noch einmal ihnen erschien (II, pp. 167-168; tr. it. dt., p.
223).
Dapprima l'immagine del cammino verso Emmaus (Le 24,
13-32). Il racconto biblico riecheggia persino nelle parole secondo cui
i discepoli «s'attristarono» e «s'era fatta sera». Ma tutto è
trasposto nel mitologico:
«Gran partito avevano nell'anima quegli uomini» e il
Risorto che cammina accanto a loro è «l'ombra di quel caro». Poi
segue la Pentecoste. Successivamente, ritornando indietro, l'Ascensione.
La frase biblica
Tutti questi erano assidui e concordi nella preghiera
(Atri 1, 14)
viene trasposta nelle parole: «con animo grave accolti
stavano gli eroi della morte». Ma la «morte», a cui resistono, è il
tempo dell'oscurità che ora inizia.
La
maturità 689
Nell'evento dell'Ascensione Cristo entrò nella gloria
del Padre, ma al tempo stesso nello spazio dell'interiorità cristiana,
del singolo e della Chiesa. In tal modo, il messaggio cominciò ad
operare nella storia. Per Hólderlin invece l'Ascensione significa che
l'ultimo inviato da Dio se ne va dal mondo, ora completamente
abbandonato da ogni divinità. Il mondo quindi non è redento, la sua
redenzione consisterebbe nell'essere preservato dalla caduta dionisiaca,
come dice L'unico; al contrario, solo adesso è consegnato alla
colpa e alla morte. Precedentemente vi è stato il periodo della luce e
della religiosità, il grande giorno universale che culmina
nell'esistenza greca. Adesso è finito. Cristo ha annunciato la sua
sera, in cui il sole stesso spezza «lo scettro dai raggi diritti» e
disperde all'orizzonte i suoi lunghi raggi regali. Ora segue la lunga
notte. Il compito di Cristo non era quello di liberare da quella notte,
ma di donare forza per resistervi:
Allora si spense il giorno del sole,
II regale, e fece in pezzi,
Da sé, lo scettro dai raggi diritti,
Soffrendo qual dio,
Perché tornare doveva,
Al giusto tempo. Bene non sarebbe
Stato, più tardi, infedelmente troncando
L'opera degli uomini: e fu gioia
Dopo di allora
Vivere in amante notte e serbare
Imperturbati in fondo ad occhi ingenui
Gli abissi della sapienza. E verdeggiano
Anche al piede dei mond forme viventi.
Denn itzt eriosch der Sonne Tag, / Der kónigliche, und
zerbrach / Den geradestrahienden, / Den Zepter, góttlich-leidend, von
selbst, / Denn wiederkommen sollt es / Zu
690
Quinto
cerchio - Cristo e il cristianesimo
rechter Zeit. Nicht wàr es gut / Gewesen, spàter, und
schroffabbrechend, untreu, / Der Menschen Werk, und Freude war es / Von
nun an, / Zu wohnen in Uebender Nacht, und bewahren / In einfàltigen
Augen, unverwandt, / Abgrùnde der Weisheit. Und es grùnen / Tief an
den Bergen auch lebendige Bilder (il, p. 168; tr. it. dt., p. 223).
Per essere precisi, il Cristo di Hòlderlin non
«redime» affatto. La salvezza che egli porta è una consolazione:
tutto «deve tornare». L'attesa del ritomo di Cristo alla fine dei
tempi, del giudizio e dell'eternità influisce su questa concezione; ma
a dover ritornare, in questo caso, non è lui, bensì la Grecia mitica,
il regno di Dio di Hòlderlin (II, supra, p. 220). Ma il fatto
che il giorno degli dèi greci cessi, si interrompa, è una sofferenza
volontaria del divino stesso che si addossa questo sacrificio al momento
opportuno perché sa che ciò che è perduto un giorno ritornerà.
Questa fine dovrebbe essere opera divina, perché come «opera
mortale», dice un abbozzo, sarebbe stata «bruscamente interrotta,
infedele». Il «dio inesausto, che tutto pervade» invece, di cui parla
un altro passo dell'abbozzo, conserva una «fedeltà viva». Con questa
fine «la gioia degli occhi», la visione della luce si spense. Ma agli
uomini, in compenso, è concessa un'altra, nuova gioia, quella di
abitare «in amante notte». A essa vengono iniziati per guardare e
conservare «imperturbati in fondo ad occhi ingenui gli abissi della
sapienza». Viene spontaneo pensare agli Inni alla notte di
Novalis, agli «occhi infiniti che la notte ha aperto in noi ... senza
bisogno di luce penetrano le profondità di un cuore che ama. Non era
più la luce soggiorno degli dèi e segno celeste - gettarono su di sé
il velo della notte. La notte divenne il possente
La maturità
691
grembo delle rivelazioni». Raramente l'essenza della
contemplazione cristiana nel Medioevo, possibile solo alYoculus
simplex, all'occhio ingenuo, è stata descritta da un poeta moderno
in modo così efficace come da Hólderlin:
[...] E serbare
Imperturbad in fondo ad occhi ingenui
gli abissi della sapienza.
[...] Und bewahren / In einfaltigen Augen, unverwandt, /
Abgrùnde der Weisheit.
E se nell'abbozzo ancora si diceva: «Anche
nell'oscurità splendono immagini fiorenti», ora tutto è concepito in
modo più organico: la formulazione «al piede dei monti» si riallaccia
ai «vertici del tempo» nella strofa d'apertura. Gli «abissi della
sapienza» si dischiudono solo davanti agli sguardi dell'umiliato, del-Yhumilis,
cui appaiono, nell'immersione mistica, le visioni del divino come
«immagini splendenti».
Ora la mancanza di salvezza del tempo viene
reinterpretata e rapportata al congedo, all'Ascensione di Cristo.
Dapprima l'esclamazione: «Ma è terribile ...». Poi un crescendo
possente che inizia con le parole «Già è molto» e attraversa la nona
strofa, riprendendo nella decima con le parole «Ma quando», finisce
nelle ultime parole di essa: «questo che è ?». Nell'un-dicesima
strofa, infine, si assopisce con la risposta solenne che va da «È il
gettito del seminatore» a «Ma al termine arriva il grano».
Ma è terribile come qua e là All'infinito ha disperso
la vita, Dio:
692 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo
Terribile invero il viso
Dei cari amia lasciare
E andare di là dai monti
Da soli, dove due volte
Riconosciuto all'unisono
Fu il celeste spirito: e non in profezia, ma
Presente li prese ai capelli
Quando a loro, improvviso,
Allontanandosi, guardò indietro
II Dio, e scongiurandolo
Di restare, come con corde d'oro
Ormai legato,
Nominando il male, si davano la mano.
Ma quando poi si muore
Quegli cui sommamente
La bellezza appartenne (un miracolo
Era nella figura e i celesti se lo mostravano
A dito); quando in reciproco eterno enigma
Non possono più intendersi
Quelli che insieme vivevano nel ricordo;
E non solo la sabbia o i salid
Sono travolti e sradicati
I templi, quando la gloria
Del semidio e dei suoi dilegua
E perfino l'Altìssimo
Lassù volta la faccia
Poi che nulla più d'immortale
Ve da scorgere in delo o sulla verde
Terra, - questo che è?
È il gettito del seminatore, quando prende
Con la pala il frumento
E lo getta al chiaro, lanciandolo sull'aia.
Pula gli cade ai piedi, ma al termine
Arriva il grano.
E non è male che alcuna cosa
Vada perduta e della parola
La maturità
693
Si
spenga il vivente suono:
L'opera divina anche somiglia alla nostra. Non vuole
tutto in una volta, l'Alassimo.
Doch furchtbar ist, wie da und dort / Unendiich hin
zer-streut das Lebende Gott. / Denn schon das Angesicht / Der teuem
Freunde zu lassen / Und fernhin ùber die Ber-ge zu gehn / Allein, wo
zweifach / Erkannt, einstimmig / War himmlischer Geist; und nicht
geweissagt war es, son-dern / Die Locken ergriff es, gegenwàrrig, /
Wenn ihnen plotziich / Ferneilend zurùck blickte / Der Gott und
schwórend, / Damit er halte, wie an Seilen golden / Ge-bunden hinfort /
Das Bóse nennend, sie die Hànde sich reichten - // Wenn aber sdrbt
aisdenn / An dem am mei-sten / Die Schónheit hing, da6 an der Gestalt /
Ein \Vun-der war und die Himmlischen gedeutet / Auf ihn, und wenn, ein
Ràtsel ewig fùreinander, / Sie sich nicht fàssen kónnen / Einander,
die zusammenlebten / Im Gedàchtnis, und nicht den Sand nur oder / Die
Weiden es hinwe-gnimmt und die Tempel / Ergreift, wenn die Ehre / Des
Halbgotts und der Seinen / Verweht und selber sein Angesicht / Der
Hóchste wendet / Darob, daB nirgend ein / Unsterbiiches mehr am Himmel
zu sehn ist oder / Auf grùner Erde, was ist dies? // Es ist der Wurf
des Sàe-manns, wenn er faBt / Mit der Schaufel den Weizen, / Und wirft,
dem Klaren zu, ihn schwingend ùber die Tenne. / Ihm fallt die Schale
vor den FùBen, aber / Ans Ende kommet das Korn, / Und nicht ein Ubel
ists, wenn einiges / Verloren gehet und von der Rede / Verhallet der
leben-dige Laut, / Denn góttliches Werk auch gleichet dem un-sem, /
Nicht alles will der Hóchste zumai (n, pp. 169-170;
tr. it. dt., pp. 223-225).
«Il terribile» è la dispersione, la sofferenza
mitica. Qui si manifesta nelle persecuzioni che sconvolgono la prima
comunità e di cui parlano gli Atti degli Apostoli (8, 1 ss.). Il passo
successivo va probabilmente interpretato così: già è difficile
separarsi dagli amici,
694 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo
in particolare quando deve accadere improvvisamente. Ma
quando muore Colui in cui tutti erano uniti fra loro, e con lui muoiono
la sua opera, la sua gloria, anzi tutta l'era luminosa, il «giorno»
del mondo, di cui era la fine - che significherà questo? Significa il
giudizio su ciò che è autentico e non autentico nell'esistenza, e la
preparazione a ciò che deve venire.
In particolare: è difficile dover andare da solo nella
lontananza, magari attraversando i monti, mentre un tempo in ognuno di
coloro che erano uniti vigeva lo «spirito» (l'esempio addotto è
quello di due viandanti, forse un riferimento all'episodio di Emmaus).
In quanto riconosciuto da due, egli «era stato esperito due volte»,
fondando in tal modo un'intrinseca comunità. Ma ora tutto è diverso.
E non più solo profetato fu questo spirito che li
separò e li mandò nel mondo, ma presente li afferrò per i capelli,
come Atena il Pelide10 nelVIliade di Omero. Anche
Ezechiele racconta che il Signore tese la mano [Ez 8, 3]:
e mi afferrò per i capelli del capo. Allora un vento
tra delo e terra mi rapì.
Allontanandosi veloce, il Dio si volse ancora una* volta
ed essi, nominando il male, si erano tesi la mano giurando, e
supplicando il fuggitivo di fermarsi e, di restare tra loro come legato
da corde d'oro.
Poi il pensiero riprende la morte di Cristo che
«annuncia» la fine del giorno del mondo, anzi, la compie. Cristo era
la parte più bella di questo giorno, una bellezza delicata votata alla
morte. Una bellezza che era una gioia per tutti e un tempo «i celesti
se lo mostravano a dito». Ci vengono in mente le parole
La
maturità 695
del Padre quando sopra Cristo, usato dal Giordano dopo
il battesimo si aprirono i cieli:
Questo è il mio figlio diletto in cui mi sono
compiaciuto,
e quelle simili pronunciate in occasione della
trasfigurazione (Mt 3, 17 e 17,5).
Ora che egli si è allontanato, l'unità fra i suoi
presto scompare. Hanno «vissuto insieme nel ricordo» -si vedano Atti
degli Apostoli 2, 42-47 - comprendendosi l'un l'altro in questo, tramite
il suo Spirito e la sua immagine. Ma poi anche l'immagine si sbiadisce.
Il tempo successivo dimentica chi è stato e che cosa ha voluto. Il
senso della sua figura viene falsificato. Così si dissolve la comunità
che si basava sulla conoscenza per fede del suo essere. Quelli che
ancora si chiamano col suo nome non lo conoscono. Per questo non si
«intendono», non si comprendono fra di loro, diventano un «enigma»
uno per l'altro. Tutto viene strappato via: «la sabbia o i salici e il
tempio» -l'immagine di un'alluvione che sommerge tutto - anche «la
gloria del semidio». E l'Altissimo distoglie il suo cospetto dalla
terra non più divina. Con grande tensione tutto culmina nella domanda:
Se tutto ciò accade, cosa sarà? È il tempo della decadenza, ma anche
della prova. È il «gettito del seminatore», la separazione del grano
dalla pula. Si veda quello che dice il Battista sul primo giudizio,
sull'effetto immediato del Messia sui contemporanei (Le 3, 17). Di nuovo
ci troviamo davanti all'inserimento nella terrestrità di ciò che era
inteso in modo totalmente diverso. Il giudizio annunciato dalla
Rivelazione non significa che ciò che non resiste cada al di fuori del
cammino di quell'opera che è il mondo; e ancor meno che, quan-
696 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo
do un'opera si compie, qualcosa vada perduto e che
l'opera divina in questo sia simile a quella umana. £ infine non indica
che dò che è rimasto incompiuto nella prima fase verrà ripreso nella
seconda. Significa bensì il giudizio di tutto quanto si chiami mondo
secondo il santo criterio di misura di Dio, davanti a cui se Egli per
pura grazia non avesse misericordia, niente potrebbe salvarsi.
Ora l'immagine di Cristo dev'essere preservata
dall'empietà del tempo:
La numera da ferro E ardenti resine l'Etna:
Così io avrei ricchezza . Per formare un'immagine e tal
quale j Vederlo, com'egli è stato. Cristo, ,,
Ma se uno spronasse se stesso
E discorrendo triste, per via mi sorprendesse
Alla sprovvista, per farmi stupire che del dio
L'immagine imitare possa un servo ... '
Visibilmente irati ho visto una volta :
I signori del ciclo, non perché io sia nulla,
Ma per apprendere. Benigni sono: ma odiosissimo è a
loro, .
Finché regnano, il falso e più non conta , ^
Allora l'umano fra gli uomini.
Non governano essi: governa .
Destino d'immortali e l'opera loro cammina M"
'
Da sé e rapida va al suo termine. u,
Zwar Eisen tràget der Schacht, / Und glùhende Harze
der Àtna, / So hàtt ich Reichtum, / Ein Bild zu bilden, und àhniich /
Zu schaun, wie er gewesen, den Christ, // Wenn aber einer spornte sich
selbst, / Und traurig redend, un-terweges, da ich wehrios wàre, /Mich
ùberfiele, da6 ich staunt und von dem Gotte / Das Bild nachahmen mócht
ein Knecht - / Im Zome sichtbar sah ich einmal / Des
La maturità
697
Himmeis Herm, nicht, daB ich sein sollt etwas, sondern /
Zu lernen. Gùtig sind sie, ihr VerhaBtestes aber ist, / So lange sie
herrschen, das Falsche, und es gilt / Dann Men-schiiches unter Menschen
nicht mehr. / Denn sie nicht walten, es waltet aber / Unsterbiicher
Schicksal und es wandeit ihrWerk/ Von selbst, und eilend geht es zu Ende
(II, p. 170; tr. it. dt., pp. 225-227).
Il vate potrebbe delineare questa immagine. Così come
la terra reca i propri metalli e l'Etna la sua lava, egli possiede i
tesori dell'esperienza, della visione, dell'arte di formare immagini in
misura abbastanza grande nel suo intimo da poterle dar forma. Ciò prova
che la figura di Cristo lo ha coinvolto in modo molto intenso. Ma non
gli è lecito. Il sacro adesso dev'essere tenuto segreto perché - e qui
vi è un'altra grande tensione - posto che egli sia colto dal dominare
dello spirito e quindi indifeso, ma uno del novero degli «scaltri»,
dei «servi», gli uomini del tempo perduto, ora corrente, che non
ubbidiscono all'ispirazione, ma che «spronano se stessi», possono
cioè volere e fare secondo il loro arbitrio, lo sorprendesse
all'improvviso, gli si rivolgesse «triste», pieno di falsa
partecipazione così che il vate fosse stupito, impressionato, e
rivelasse ciò che va tenuto segreto, comunicasse esplicitamente ciò
che è riservato agli iniziati; posto però che l'altro prendesse questa
immagine, «la imitasse», la tradisse per la malvagità dei tempi - la
frase si interrompe bruscamente. Le parole conclusive sono interrotte
dall'orrore.
Egli ha sì visto una volta i signori del ciclo, ma deve
tener protetta la visione. È probabile il riferimento alle visioni di
Cristo dell'Apocalisse - non per niente la poesia si intitola Patino.
Ma questa visione non implica che sia permesso parlare, perché su tutto
domi-
698 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo
na il comandamento di tacere del sacro in un tempo
estraniato da Dio. Tali comandamenti sono assoluti;
essi sono sottratti perfino al volere degli dèi. È il
destino che domina, esso assegna anche a loro la loro parte. Per questo
motivo il grande giorno degli dèi e la sua sera, l'ora di Cristo sono
passati. Adesso di lui non è più lecito parlare apertamente.
Ma poi inizia qualcosa di nuovo:
Quando anzi più alto salirà il celeste Trionfo, sarà
nominato simile al sole Dai forti il giubilante figlio dell'Altìssimo,
Una parola d'ordine, ed ecco lo scettro Del canto far
cenno che scendano, Poi che nulla è vile [...]
Wenn namlich hòher gehet himmlischer / Triumphgang,
wird genennet, der Sonne gleich, / Von Starken der froh-lockende Sohn
des Hóchsten, // Ein Losungszeichen, und hier ist der Stab / Des
Gesanges, niederwinkend, / Denn nichts ist gemein [...] (il, p. 170, tr.
it. dt., p. 227).
«Quando più alto salirà il celeste trionfo», e
giungerà l'ora di una nuova opera e rivelazione divina -, forse un
riferimento al mito del Fedro - allora Cristo ricomparirà.
Allora appare in forza, «giubilante» e i «forti», i credenti, lo
«nominano» «simile al sole» (ili, supra, p. 360). La
concezione della parusìa traspare dietro a questa visione. Accadrà
qualcosa di inaudito, e i forti lo annunceranno come «una parola
d'ordine» a chi «ha orecchi per udire». «Lo scettro del canto» fa
cenno ai celesti di scendere sulla terra affinchè si mostrino nella
loro figura. Così appare ora, come
La maturità
699
in Pane e vino. Cristo, «il giubilante figlio
dell'Altissimo» e discende, come il sol invictus tra i morti, i
prigionieri, che nella notte universale attendono la nuova rivelazione
della luce. E di nuovo si dice di loro, in chiaro riferimento alla contemplatio
del Medioevo:
[...] I morti ridesta
Che ancora prigioni non sono
Della bruta materia. Ma attendono
Tanti pavidi occhi
Di guardare la luce: temono
Di fiorire all'acuto raggio,
Per quanto il freno d'oro moderi l'animo.
Ma quando, come
Dai turgidi sopraccigli,
Del mondo dimentica, una forza
Che calma illumina, cade dal sacro scritto,
Possono, della grazia gioendo,
Esercitarsi al tranquillo sguardo.
[...] Die Toten wecket/ Er auf, die noch gefangen nicht/
Vom Rohen sind. Es warten aber / Der scheuen Augen viele, / Zu schauen
das Ucht. Nicht wollen / Am scharfen Strahie sie blùhn, / Wiewohi den
Mut der goldene Zaum hàlt. / Wenn aber, als // Von schwellenden
Augenbraunen / Der Welt vergessen / Stilleuchtende Kraft aus heiliger
Schrift fallt, mógen, / Der Gnade sich freuend, sie / Am stillen Blicke
sich ùben (il, pp. 170-171, tr. it. dt., p. 227).
La prima frase si riferisce forse alla visione contenuta
nella prima lettera ai Tessalo nicesi (4, 13 ss.) Ma anche il
significato di questa ha subito un mutamento. Perché i «morti» in
questo caso sono coloro che, per quanto legati al proprio tempo, sono
liberi nel loro intimo e non hanno ceduto alla «bruta materia», a ciò
ch'è «servile». Di questi ve ne sono molti; «pavidi occhi» che
vogliono conoscere, ma hanno paura della
700 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo
chiarezza piena, di «fiorire all'acuto raggio». Ma
quando viene l'illuminazione, la luce dalla Scrittura, simile alla
chiarezza sacra che risplende come in un volto entusiasta attorno alle
sopracciglia inarcate di chi sia commosso, rapito, «dimentico del
mondo», distaccato dalle cose esteriori e rivolto all'interiorità,
allo spirituale - quando ciò accade, allora gli occhi timidi devono
«esercitarsi» a cogliere questa luce e a resistere.
Le ultime due strofe si rivolgono al langravio di
Homburg cui è dedicata la poesia:
E se ora i celesti
Tanto, a mio credere, mi amano, Quanto più ameranno
tè, Poi che questo so certo:
Che il voler dell'etemo Padre
Molto a tè si rivolge.
Tacito è il suo segno
Al tuonare del cielo. Ed uno vi sta sotto
L'intiera vita. Che ancora vive Cristo.
Ma gli eroi, i suoi figli
Sono venuti tutti e sacre scritture
Da lui, e spiegano la folgore
I fatti della terra fino ad ora,
Corsa in gara infrenabile. Ma egli è qui. Delle sue
opere
Tutte è conscio da sempre.
Und wenn die Himmlischen jetzt / So, wie ich glaube,
mich lieben, / Wie viel mehr Dich, / Denn Eines weiB ich, / DaB namlich
der Wille / Des ewigen Vaters viel / Dir gilt. Sdii ist sein Zeichen /
Am donnernden Himmel. Und Einer stehet darunter / Sein Leben lang. Denn
noch lebt Christus. / Es sind aber die Helden, scine Sóhne, / Ge-kommen
ali und heilige Schriften / Von ihm und den
La maturità
701
Blitz erkiàren / Die Taten der Erde bis itzt, / Ein
Wettlauf unaufhaltsam. Er ist aber dabei. Demi seine Werke sind / Ihm
alle bewuBt vonjeher (il, pp. 171-172, tr. it. dt., pp.
227-229).
Il vate cerca il consenso del langravio. Egli sa che i
celesti amano lui stesso. A maggior ragione doneranno il loro favore al
principe. Questi fa parte dei «morti», interiormente vivi, che
attendono la risurrezione.
Il segno dell'Altissimo è «tacito al tuonare del
cie-lo». Si allude al fulmine che come rivelazione del Padre balena in
cielo sopra la testa di Cristo. Se questa contraddizione peculiare fra
silenzio e rumore, adatta certo a caratterizzare il numinoso, è
trasposta nello spirituale, si può anche pensare che colui il quale è
interiormente vigile - appunto Cristo - è in grado di sentire la
volontà «tacita» del Padre rimbombante dal tuono e di interpretarla -
o che, in mezzo al temporale si conlincia ad avvertire qualcosa di
«tacito», qualcosa che misteriosamente si distingue dal rimbombo, uno
spazio separato di sacra quiete.
«Che ancora vive Cristo»: benché abbia subito una
morte precoce e se ne sia andato presto. Cristo è ancora qui,
nell'ambito a noi sottratto, dove ci sono anche gli altri che prima di
lui erano sulla terra. Uno dopo l'altro gli «eroi», figli del Padre
supremo, sono stati mandati, e sacre scritture sono state scritte.
Cristo e le scritture che testimoniano di lui sono state le ultime della
serie. Ma il messaggio degli eroi e il contenuto delle scritture era la
«folgore», la verità divina che splende e accende, quella folgore che
il vate, rice-vutala dall'ispirazione, «porge al popolo avvolta nel
canto», come si legge nell'inno Come il giorno di festa ... (il,
p. 120; tr. it. cit., p. 157).
702 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo
Di questa folgore parlano anche «i fatti della terra»,
la storia nel suo impeto inarrestabile, in una «corsa in gara» per
svelame il significato. «L'etemo Padre» però è sempre presente, e a
lui - e qui il poeta segue quasi testualmente la traduzione degli Atti
degli Apostoli fatta da Luterò (15, 18) - di «tutte le sue opere
[egli] è conscio a partire dal mondo»".
Di nuovo riaffiora il lamento sull'epoca oscura in cui
nessuno conosce gli dèi, in cui nessuno trova la via, e il cuore
dell'uomo è tratto in inganno:
Da troppo, da troppo ormai
La gloria dei celesti è invisibile.
Quasi guidare le dita
Ci devono e con onta
Una violenza d strappa il cuore.
Sacrificio vuole ogni celeste,
Ma se uno fu trascurato,
Non ha portato mai bene.
Abbiamo adorato la madre
Terra e testé la luce del sole,
Inconsapevoli; ma il Padre che su tutti
Regge, ama al sommo
Che si coltivi la ferma lettera
E quanto permane bene s'interpreti,
Al che risponde canto tedesco.
Zu lang, zu lang schon ist / Die Ehre der Himmlischen
un-sichtbar. / Denn fast die Finger mùssen sie / Uns fùhren und
schmàhiich / EntreiBt das Herz uns eine Gewalt../ Denn Opfer will der
Himmlischen jedes, / Wenn aber ei-nes versàumt ward, / Nie hat es Gutes
gebracht. / Wir ha-ben gedienet der Mutter Erd / Und haben jùngst dem
Sonnenlichte gedient, / Unwissend, der Vater aber liebt, / Der ùber
allen waltet, / Am meisten, daB gepfleget werde / Der feste Buchstab,
und Bestehendes gut / Gedeutet. Dem folgt deutscher Gesang (il, pp.
171-172, tr. it. dt., p. 225).
La maturità
703
Ancora una volta il poeta, ricorda il grande
intento che nell'[/meo non si è fatto valere compiutamente:
che tutti i celesti ricevano sacrifici, che tutti
vengano riconosciuti e onorati. Tralasciarne anche uno solo sarebbe
fatale. Un tempo abbiamo offerto servizio cultuale alla madre Terra e
alla luce del sole. Adesso ci sono compiti nuovi. Ma ciò non deve
essere annunciato in modo da interrompere l'antico ed introdurre il
nuovo sotto la forma della ribellione. Bisogna invece «coltivare» la
«ferma lettera» e conservare quanto è tramandato. Niente deve essere
escluso dalla grande implicazione; si deve provare la consonanza e ciò
che persiste e permane dev'essere bene interpretato. È questo appunto
il compito della poesia tedesca.
L'INNO
ALLA
MADONNA
Nelle pagine precedenti è stato illustrata l'immagine
che Hólderlin fornisce di Cristo nelle grandi poesie Pane e vino, O
conciliante. L'unico e Palmo. Essa si arricchisce di altri
tratti e sfumature se vengono presi in considerazione anche i frammenti
e gli abbozzi che risalgono al periodo di Homburg e a quello della
decadenza psichica.
Fra questi va annoverato soprattutto l'inno Alla
Madonna. L'abbozzo presenta grosse lacune, ma il testo è talmente
vigoroso nella visione e nella lingua da dare il senso di una immagine
completa. Inizia con la confessione della sofferenza che Cristo e sua
Madre hanno prodotto nel poeta:
Molto ho di tè E del tuo Figlio a cagione Sofferto, o
Madonna, Da quando udito ho di lui In gioventù dolce;
Che non il veggente12 soltanto, Ma stanno
sotto un destino Anche i serventi. Poiché mentre io
E più d'un canto che Di cantare all'Altissimo, al
Padre, Avevo pensato, me lo ha Divorato la tristezza.
706 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo
Viel hab ich dein / Und deines Sohnes wegen / Gelitten o
Madonna, / Seit ich gehóret von ihm / In sùBerJugend;
/ Denn nicht der Sohn allein, / Es stehen unter eineni
Schicksal / Die Dienenden auch. Denn weil ich / ... / Und manchen
Gesang, den ich / Dem hóchsten zu singen, deni Vater / Gesonnen war,
den hat / Mir weggezehret die Schwermut (il, p. 211; tr. it. dt., p.
249).
Possiamo senz'altro riferire questa sofferenza a quella
di cui parla L'unico:
[...] Ora è colma
Di lutto la mia anima
Quasi voi celesti rivaleggiaste
Così che, se io adoro l'uno,
L'altro mi manca.
Ma lo so che è colpa
Mia!
Perché troppo sono,
O Cristo legato a tè [...]
[...] Undjetzt ist voli / Von Trauern meine Seele, / Als
ei-fertet ihr Himmlischen selbst, / DaB, dien ich einem, mir / Das
andere fehiet. // Ich wei6 es aber, eigene Schuid / Ists! Denn zu sehr /
O Christus! hang ich an dir [...] (il, p. 154; tr.it. cit., p. 215).
È II doloroso conflitto tra il suo profondo e peculiare
legame con Cristo e quello altrettanto profondo, ma più nostalgico con
gli antichi dèi. Il poeta vuole avere entrambi, ma non ci riesce. Il
fatto che ad entrambe le poesie sia sottesa la stessa sofferenza è
dimostrato dal calore particolare dell'affetto: qui lutto e senso di
colpa, là malinconia.
Questo dolore si riversa in quello più generale in cui
il vate condivide la sofferenza dei suoi dèi. Se al fi-
L'inno alla Madonna
707
glio del padrone accade una disgrazia, essa coinvolge
anche il servo fedele. Quando per il dio viene l'ora di andarsene, essa
suona anche per il suo vate. Germania parla della melanconia di
questo finire e doversene andare. Essa ha assillato il poeta,
«consumando» non pochi canti che voleva dedicare al Padre Supremo che
è al di sopra di ogni giungere e andarsene.
Il dolore persiste, ma il vate non vi cede. Resiste a
chi gli procura dolore:
Pure, o Celeste, pure io voglio
Tè celebrare e non temo
Che il mio senso naufraghi
Nella tua beata potestà
E debbo vegliare,
Alla sacra lampada uguale, che fu
Custodita da
Ubbidienti servi, la gioia
Del tempio, da quando [...]
Doch Himmlische, doch will ich / Dich feiern und ich
fùrcht es nicht, / Da6 mir der Sinn vergehe / In deiner se-ligen Macht,
/ Und wachen soli / Der heiligen Lampe gleich, die war / Bewahret von /
Gehorchenden Dienern, die Freude / Des Tempeis, seit [...] (II, 843-844;
tr. it. cit., p.251)
[...] E dominato sopra
Gli uomini ha, invece di altra deità,
L'onniobliante amore.
[...] und gewaltet ùber / Den Menschen hat, statt
anderer Gottheit, sie, / Die allvergessende Uebe (II, pp. 211).
La strofa è caratterizzata dall'immagine della not-
708 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo
tè. Gli dèi hanno dovuto andarsene. Cristo ha
annunciato la sera, e ora è giunto il tempo «delle tenebre». Vi gioca
anche l'immagine di un oscuro interno di chiesa con la luce accesa
davanti all'altare, curata da mani premurose. La luce del lume è
debole, ma fedele, e lotta strenuamente contro il buio che incalza
d'attorno. Allo stesso modo, il poeta vuole mantenere intatte la gioia e
la speranza fiduciosa.
Alla figura della Madonna è conferito un attributo
caratteristico: «la beata potestà» che minaccia di far «naufragare
il senso», quindi un intreccio di sacralità, bellezza e amore. Si
potrebbe dire che il rapporto intrinseco con la Madre del Signore e la
Regina Celeste, che contraddistingue il cattolicesimo, è stato
trasposto nell'immagine di una dea antica. La peculiarità della figura
hólderliniana di Cristo ritorna in versione femminile.
Quel servizio cultuale, quella fede e quell'attesa
iniziarono quando il posto degli dèi precedenti venne preso non «da
altre deità», ma «dall'onniobliante amore», ossia quando arrivò
Cristo il cui carattere per Hól-derlin consiste appunto in
quell'atteggiamento.
«Esso», il tempo di Cristo, doveva iniziare con la sua
nascita:
Perché allora dovette cominciare
Quando ...
Nato a tè nel grembo
II divino pargolo e attorno a lui
II figlio dell'amica, chiamato Giovanni
Dal muto padre, l'audace
Al quale fu dato
II vigore della lingua
A interpretare
L'inno alla Madonna
709
E la paura dei popoli e
I tuoni e
Le precipiti acque del Signore.
Denn damais sollt es beginnen / Als ... / Geboren dir im
SchoBe / Der gótdiche Knabe und um ihn / Der Freundin Sohn, Johannes
genannt/ Vom stummen Vater, der kùhne, / Dem war gegeben/ Der Zunge
Gewalt, / Zu deuten/ ... / Und die Furcht der Vólker und / Die Donner
und / Die stùrzenden Wasser des Herrn (il, p. 212; tr. it. cit., p.
251).
Seguendo l'esempio dell'arte figurativa, insieme col
bambino divino si presenta il figlio di Elisabetta, Giovanni. Viene
chiamato «audace», forse in riferimento al suo comportamento impavido
nei confronti di Erode. Vengono sfiorati alcuni dati della sua vita e
dal suo messaggio sono tratti gli elementi per caratterizzare la sua
missione: egli è l'interprete del tempo e del giudizio incombente. «Le
precipiti acque del Signore» rievocano il linguaggio dei Salmi e dei
profeti e costituiscono un'immagine per il destino che scaturisce
dall'ira divina.
Cristo e Giovanni Battista - in Palmo Cristo e
Giovanni l'apostolo - sono congiunti. Il loro compito era quello di
interpretare le «istituzioni», ossia ciò che già sussiste:
Poiché buone sono le istituzioni, ma
Come dend di drago tagliano
E ucddono la vita, se nell'ira le aguzza
Un minimo o un rè.
Sereno animo però è dato
Agli amati da Dio. Così allora morirono quelli.
Entrambi, così anche li vedesti
Tu divinamente triste nella forte anima morire.
E dimori perdo [...]
710 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo
Denn gut sind Satzungen, aber / Wie Drachenzàhne
schneiden sie / Und tóten das Leben, wenn Zome sie scharft / Ein
Geringer oder ein Kónig. / Gleichmut ist aber gegeben / Den Liebsten
Gottes. So dann starben je-ne. / Die Beiden, so auch sahst / Du
góttlichtrauernd in der starken Seele sie sterben. / Und wohnst
deswegen [...] (Il, p. 212; tr. it. dt., p. 251).
Essi hanno il compito di recuperare il passato,
comprendendolo correttamente, e di collegarlo con il presente - si veda
la conclusione di Patmo. Forse è legittimo pensare alla frase di
Cristo secondo cui
non passera neppure un iota e un segno della Legge (Mt
5, 18).
Nell'esercizio di questa diffìcile attività, entrambi,
Cristo e il suo precursore, sono morti, «con sereno animo»,
fortificati a conseguire un'inconcussa fermezza. La Madre li ha visti
morire. Veramente, ella ha assistito solo alla morte di Gesù - vedi Gv
19, 25 ss. Ma il fatto che sia vissuta nel periodo in cui morì il
Battista, e abbia avuto profondi legami con lui, viene interpretato
egualmente come un «aver visto». Ha sopportato questo e «dimora
perciò» «nell'altezza» -così ci sembra di poter completare la frase
interrotta.
E adesso è lei a proteggere la vita che continua in un
tempo di sconforto e di oscurità:
E se in sacra notte
Uno pensa al futuro e affanno
Per i dormienti senza affanni sopporta,
Per le creature in fresco fiore,
Sorridendo tu giungi e domandi che mai,
Dove tu sei la Regina, egli paventi.
L'inno alla Madonna 711
Und wenn in heiliger Nacht / Der Zukunft einer gedenkt
und Sorge fùr / Die sorglosschlafenden tràgt, / Die
frischaufblùhenden Kinder, / Kómmst làcheind du, und fragst, was er,
wo du / Die Kónigin seiest, befùrchte (II, p. 212; tr.it.dt.,pp.
251-253).
Ella assiste chiunque, come Hòlderlin, si preoccupa per
il futuro. Esso si incarna nel bambino; Ella, la madre regina, è
propizia soprattutto al bambino. Anche qui si avverte la trasposizione
dell'immagine cristiana di Maria nel mitologico.
La sua essenza consiste nel fatto di essere madre:
Mai tu potrai
I germinanti giorni invidiare,
Che caro ti è, da sempre
Se più grandi i figli sono
Della loro madre. E mai ti piacque
Che guardando all'indietro
Un più vecchio ridesse del più giovane.
Chi non ama pensare ai cari padri
E narrare
Dei loro fatti,
Mai quando temerità accadde
E ingrati hanno
Lo scandalo dato
Troppo volentieri guarda
Allora al ...
E pavido di agire
Infinito rimorso, e odia la vecchiaia gl'infanti.
Denn nimmer vermagst du es, / Die keimenden Tage zu
neiden, / Denn lieb ist dirs, von je, / Wenn gróBer die Sóhne sind, /
Denn ihre Mutter. Und nimmer gefàllt es dir, / Wenn rùckwàrtsblickend
/ Ein Alteres spottet des Jùngem. / Wer denkt der teuern Vàter / Nicht
gern und
712 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo
erzàhlet / Von ihren Taten, // wenn aber Verwegnes
ge-schah, / Und Undankbare haben / Das Àrgernis gege-ben / Zu geme
blickt / Dann zum / Und tatenscheu / Unendiiche Reue, und es ha6t das
Alte die Kinder (il, pp 212-213;tr.it.dt.,p.253).
Maria ama eia che deve venire, il bambino. Vuole che
cresca e diventi più grande di quello precedente. Così diventa colei
che supera la colpa mitica presente tra gli dèi: la «gelosia
reciproca». Ella interviene nel punto in cui si scontrano le
generazioni, le sequenze degli dèi: dove i più vecchi disprezzano i
più giovani e i più giovani si ribellano contro i più vecchi.
Riecheggiano la lotta di Zeus contro Crono, e quella di Crono contro
Saturno, la caduta delle divinità ctonie provocata da quelle olimpiche,
l'odio dei Titani. Ella, la madre ama; anche il suo essere, come quello
di Cristo, è l'amore dimentico di se stesso. Supera quel periodo
gioendo di ciò che cresce nel suo bambino e che sarà più grande di
lei. Così si leva l'invocazione:
Perdo proteggile
O Celeste,
Le giovani piante e quando
II rovaio viene o venefica brina soma
O troppo a lungo dura la siccità
E quando lussureggianti
Procombono sotto la falce,
La troppo affilata, da' rinnovato germoglio.
E che giammai
Moldplicata, in debole ramaglia
La forza per molto tentare
Mi dissipi la fresca genitura, ma sia vigorosa
Per eleggere dal molto l'ottimo.
Darum beschùtze, / Du Himmlische, sie, / Die jungen
Pflanzen, und wenn / Der Nord kómmt oder giftiger Tau
L'inno alla Madonna
713
weht oder / Zu lange dauert die Dùrre / Und wenn sie
ùppigbiùhend / Versinken unter der Sense, / Der allzu-scharfen, gib
emeuertes Wachstum. / Und da6 nur nie-mais nicht / Vielfaltig, in
schwachem Gezweige / Die Kraft mir vielversuchend / Zerstreue das
frische Ge-schlecht, stark aber sei, / Zu wàhlen aus vielem das Beste
(u,p.213;tr.it.dt.,p.253).
Riappare la preoccupazione che ci possa essere frattura
fra le generazioni. Questa frattura potrebbe provocare l'inaridimento di
ciò che viene dopo o fare sì che, nel caso di una disgrazia, non
cresca più niente; potrebbe infine far sì che una vita giovane, pur
crescendo, sprechi se stessa nella molteplicità degli allettamenti
dell'esistenza.
La preoccupazione di fondo di Hólderlin si collega
quindi con l'intento pedagogico ... Ciò è ancora più evidente nelle
due prossime strofe:
Niente è, il male. Questo mi deve,
Come l'aquila la preda,
Uno afferrare.
Gli altri insieme. Affinchè
La nutrice che
Partorisce il Giorno
Non conturbino, rabbiosamente attaccati
Alla patria e ad onta del loro peso,
Alla madre in etemo non siedano
Sul grembo. Che è grande
Colui da cui ereditano la ricchezza
Anzitutto, si abbia cura
Della selva vergine, coltivata dagli dèi.
Nella pura legge, donde
L'hanno le creature
D'Iddio, dilettoso di vagare
Fra le rupi.
714 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo
Nichts ists, das Bóse. Das soli, / Wie der Adier den
Raub, / Mir Eines begreifen. / Die andern dabei. Damit sie nicht / Die
Amme, die / Den Tag gebieret, / Verwirren, falsch anklebend / Der Heimat
und der Schwere spottend / Der Mutter ewig sitzen/ Im SchoBe. Denn groB
ist/ Von dem sie erben den Reichtum. / .... / Vor allem, da6 man schone
/ Der Wildnis góttlichgebaut / Im reinen Gesetze, woher / Es haben die
Kinder / Des Gotts, lustwandeind unter / Den Felsen [...] (il, pp.
213-214; tr. it. cit., pp. 253-255).
Il vate ammonisce che la gioventù che cresce non deve
essere bloccata da quella precedente. Non deve diventare dipendente, ne
nei confronti della madre umana ne nei confronti di quella più grande,
ne nei confronti della patria ... L'altro pericolo consiste nel fatto
che i bambini perdano la «selva vergine», lo spazio della naturalezza
intatta, lo strato preculturale dell'esistenza. Devono conservare la
possibilità di crescere uscendo puri e liberi dalla profondità della
natura, ossia dal divino. Tutto questo deve custodire la Madonna. Deve
aver cura del fatto che la prossima generazione conservi un vasto spazio
attorno a sé perché possa accedere alla esistenza propria, e l'ambito
primordiale sotto di sé, per poter ricevere il flusso del fondamento
del mondo.
Dipende da questa libertà se l'uomo possiede la forza
per moderarsi ed essere fecondo o se si fa coinvolgere dal male, nella
sua forma titanica o in quella servile. L'essenza del male consiste nel
rifiutare agli dèi ciò che loro appartiene, cadendo per ciò stesso
nella sventura. La Madonna deve fare in modo che la giovane generazione
dia sia a lei che a suo Figlio e agli altri dèi ciò che loro spetta,
pietà, riconoscimento e gratitudine, crescendo così in modo puro.
L'inno alla Madonna 715
[...] e brughiere purpuree fioriscono
.E cupe sorgenti
A tè, o Madonna e
Al Figlio, ma agli altri anche
Perché, come da schiavi,
Con violenza il loro non si prendano
Gli dèi.
[...] und Heiden purpum blùhn / Und dunkie Quellen /
Dir, o Madonna und / Dem Sohne, aber den anderen auch, / Damit nicht,
als von Knechten, / Mit Gewalt das ihre nehmen / Die Getter (il, p. 214;
tr. it. dt., p. 255).
Il resto del testo può essere trascurato13.
IL SENSO DELLA FIGURA DI CRISTO IN HÒLDERLIN
Dopo aver analizzato i testi decisivi possiamo porre la
questione di chi sia questo Cristo. Abbiamo già visto che Hólderlin
non fu mai tentato di vedervi semplicemente un uomo, ma che lo definisce
chiaramente e senza indugi «divino» e «Dio». Resta però da vedere
che cosa significhi questa affermazione. Ma un'obiezione è ancora
possibile. In Patmo Cristo viene chiamato «semidio». Per
Hólderlin, tuttavia, anche Rousseau e Napoleone son semidei. Il
concetto di «dio» non è forse correlato a quello dell'uomo con tale
connessione che il terzo concetto dell'uomo grandissimo costituisca un
passaggio tra i due precedenti? Non sfocia dunque tutto in una mera
umanizzazione? Se teniamo presente il contesto generale, la risposta
sarà senz'altro negativa. Rousseau è chiamato sì un semidio, ma
nell'inno II Reno dove anche il fiume porta questo nome. Entrambe
le figure esprimono quindi la grande esistenza in cui ciò che realmente
è e domina, la Natura, può manifestarsi in modo puro. Ma se Cristo è
chiamato «semidio» nell'inno Patmo, lo scopo è quello di
differenziarlo in quanto Figlio del sommo Padre nei confronti dei suoi
discepoli e degli altri uomini. Ben difficilmente Hólderlin lo ac-
718 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo
comunerebbe a Rousseau e Napoleone sotto la categoria
della semidivinità. Lo colloca invece in un contesto molto diverso,
quello del «coro celeste», che egli costituisce insieme con Eracle e
Dioniso.
Abbiamo già constatato che il mondo degli dèi di
Hólderlin è strutturato da due poli: uno superiore situato nell'etere,
la divinità dell'altezza dominatrice, della luce, della legge chiara, e
uno inferiore situato nella terra, la divinità della profondità
feconda, dell'oscurità, della lava rigurgitante, del caos pieno di
tutte le possibilità, del divenire e perire perenni. Questi ambiti e
potenze trovano la loro espressione nelle concezioni del sommo Padre, di
cui gli altri dèi sono figli, e della antica Madre di cui sono figli
tutte le cose che crescono, le piante, gli animali, gli uomini ... Tra
di essi si estende lo spazio del mondo, della vita umana, della storia.
In esso domina lo spirito del tempo o del mondo. È esso a operare ciò
che avviene, il «divenire e mutare», il «linguaggio degli dèi». In
passi particolarmente intensi, esso è il tempo stesso, e il tempo è la
vita. Strettamente legata allo spirito del tempo è l'altra divinità
del divenire e mutare, Dioniso. E la divinità di quel processo in cui
le forme si dissolvono fondendosi fra di loro, in cui la vita culmina
gettandosi nella morte, in cui il Tutto si eleva trionfando sulla
lacerazione. Dioniso è quindi il dio dell'ebrezza, della
trasformazione, dell'estasi nella natura. Nell'ordine degli altri dèi
assume una posizione particolare, perché supera la divisione,
sciogliendo così la distretta. Il Padre supremo lo manda per conciliare
l'esistenza.
Di questo abbiamo già osservato che è identico con
l'Etere. La sua figura nasce perché l'Etere, in sé
Il senso della figura di Cristo in Holderlin
719
qualcosa di inafferrabile che tutto afferra e comprende,
acquista contorni più netti, assimilando l'immagine di Zeus, ma anche
quella mondanizzata del Padre celeste biblico, Dioniso è mandato dal
Padre supremo. Ne è figlio come Eracle, anche lui una divinità della
salvezza. In questa schiera di figli mandati dal Padre supremo tra gli
uomini con una missione da compiere sta anche Cristo. Eracle, Dioniso e
Cristo formano lo «splendido trifoglio» di cui parla L'unico. Ciò
che li accomuna è «la distretta». La loro essenza si riferisce alla
lacerazione dell'esistenza e all'intrico in cui s'irretisce la storia.
Essi sono divinità salvifìche, che aiutano e redimono14.
Cristo, in questa schiera, ricopre un ruolo particolare:
Èrcole è come i prìncipi. Bacco è spirito di
comunione. Cristo però è La fine [...]
Wie Fùrsten ist Herkules. Gemeingeist Bacchus. Christus
/ aber ist/ Das Ende [...] (il, p. 753).
Non è esclusivamente questo, possiede anzi «anche
un'altra natura»; ma il fatto di essere la fine lo distingue dai due
fratelli. Eracle è nel tempo primo; è lottatore, vincitore di potenze
avverse, ordinatore del caos, fondatore, sofferente e dominatore allo
stesso tempo. Dioniso supera le divisioni dell'esistenza attraverso la
potenza che tutto unifica dell'ebrezza e della trasformazione. Cristo,
invece, viene quando il giorno del mondo volge al termine e «si fa
sera». Indica la notte che incombe e vi istituisce una «promessa»:
la celebrazione della «gratitudine», l'Eucaristìa,
affin-
720 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo
che dia forza ai disposti a credere, li induca ad
attendere finché viene la soluzione. Questa soluzione ventura è la
mondanizzazione del Regno di Dio biblico e anche del nuovo cielo e della
nuova terra dell'Apocalisse: la Grecia mistica. Cristo è il benigno, il
conciliatore che nel suo amore «onniobliante» salva il mondo dal
pericolo e dalla colpa della disgregazione e lo consola indicandogli una
soluzione ventura.
È quindi un dio pari agli altri. Eppure tra lui e loro
vi sono diffemze profonde. Innanzi tutto quella di cui parla l'inno L'unico:
Pure un pudore mi vieta
Di comparare a tè
Gli uomini del secolo [...]
Es hindert aber eine Scham / Mich, dir zu vergleichen /
Die weltiichen Mànner [...] (II, p. 155; tr. it. dt., p. 215).
La differenza è quindi tra colui che come salvatore
appartiene alla distretta e gli Olimpici spensierati, soprattutto Apollo
... Ma poi nell'animo di Hólderlin emerge una differenza più profonda:
quella che divide Cristo anche dagli altri dèi della salvezza, facendo
sì che «i numi antichi e gli strenui figli degli dèi» nascondano
lui, «l'ultimo della loro stirpe», «della casa il gioiello» e che
egli «rimanga lontano» quando tutti gli altri ci sono. Questa
differenza è talmente lacerante che il vate avverte il pericolo. È
vero che egli la interpreta come la distretta mitica in generale, ossia
come la «gelosia tra i celesti». Ma sembra che questa formula non
esprima tutto il suo sentimento e che sotto si celi qualcosa di più
profondo. Non è solo un più d'amore a fare sì che egli sia «troppo
legato a Cri-
Il senso della figura di Cristo in Holderlin
721
sto», a costringerlo a ripetersi il dogma che Cristo è
il «fratello anche di Dioniso», «generato dallo stesso padre», a
ricordargli il dovere di «commemorare anche gli altri» tutte le volte
che onora Cristo. Ciò non sarebbe necessario se quell'allineamento
venisse approvato dal suo sentimento intrinseco. In verità avverte una
differenza, la quale va oltre il fatto che Cristo sia il salvatore
dell'età presente e che quindi egli, il poeta, sia legato a lui in modo
più profondo. Vi è una pretesa essenzialmente diversa che non negli
altri «dèi», di origine, di genere e di motivazione diversi. In
Cristo vi è qualcosa che si afferma persino nell'immagine di Cristo di
Holderlin, e che resiste alla sua volontà mitologizzante: l'elemento
autenticamente cristiano.
II
I numi di Holderlin sono figure reali. Ognuna di esse ha
il proprio centro di senso, i suoi attributi ca-ratteristici e il suo
correlato campo d'azione. Ad ogni divinità corrisponde anche un
particolare affetto di pietà religiosa dell'uomo. Il sentimento e
l'atteggiamento di quest'ultimo si rapportano all'Etere in modo diverso
che non alla Terra o a Dioniso. Tuttavia costituiscono un'unità.
L'istanza ultima a cui si riferiscono le diverse figure di divinità e
quindi i diversi affetti di pietà di chi li onora, l'avvenimento
nell'ordine del cui decorso è inserita la loro ora e in cui trasmettono
fra di loro la loro opera, l'Uno e il Tutto che traspare in ogni loro
peculiarità caratteristica è la natura, chiamata più raramente, per
esempio nella terza versione di L'unico, il mondo. Da nessuna
parte e in
722
Quinto
cerchio - Cristo e il cristianesimo
nessun modo si può giungere in qualcosa di diverso che
non sia la natura: non si può andare oltre di essa, verso l'alto o
verso l'estemo, e nemmeno attraverso di essa, verso il basso e verso
l'interno. E non vi sono nemmeno un'altezza, una profondità o una
libertà oggettiva su cui potrebbe basarsi una potenza autonoma in grado
di lanciare alla natura una chiamata.
Questa natura è il Tutto divino. Anzi, è forse più
corretto non identificare semplicemente il concetto del divino con la
natura, non perché, nell'accezione di Hólderlin, significhi più, ma
perché significa meno di essa. Il divino è un momento nella natura, il
suo «altro lato» onnipresente, il non terreno ovunque manifesto che
pure fa completamente parte del mondo. Ma gli dèi sono forme di questo
non terreno cosmico. Figure e potenze all'interno della natura quindi,
aspetti di essa. Ognuna significa qualcosa di caratteri-stico: se stessa
ma dietro ad ognuna vi è il Tutto e parla attraverso di essi.
Appartenendo alla schiera degli dèi, anche Cristo è
riferito a questa natura, ma in modo particolare. Egli si distingue
rispetto agli uomini del secolo per il fatto di essere correlato,
insieme con Eracle e Dioni-so, alla distretta umana, di essere quindi un
dio della salvezza. All'intemo del loro novero il suo ruolo è di nuovo
particolare: egli è correlato alla distretta della sera, della tenebra
incombente, del giorno del mondo che tramonta, della fine. In tal modo,
egli è il mite, colui che consola. Eracle è correlato alla distretta
dell'inizio: egli lotta contro il caos, mettendo al sicuro, fondando,
ordinando, Dioniso supera la distretta dell'individualità: opera
l'incanto e la trasformazione.
Il senso della figura di Cristo in Holderlin
723
Cristo è colui che dona la forza per resistere nella
notte del mondo, il tempo che va dalla dipartita degli dèi fino ad
oggi. A tale scopo introduce l'azione sacra del ringraziamento,
l'Eucaristia. Egli è il conciliatore che esorcizza la scissione
dell'esistenza abbandonata dagli dèi, che seda l'ira del mondo
assillato dalle potenze ribelli, che respinge il pericolo del
travalicare titanico come di quello dionisiaco.
Holderlin avverte la profondità della differenza. Di
questo si è già parlato. Cerca di superarla attraverso due pensieri o
movimenti: dapprima distingue Cristo dagli altri uomini «profani» e
gli conferisce una particolare «spiritualità» accomunandolo agli dèi
della salvezza. Ma poi avverte che la figura resiste a questa
collocazione, che è diversa anche da Eracle e Dio-niso. Di conseguenza,
si richiama al suo «amore onniobliante», egli chiede di non porre
alcun aut-aut.
Così Cristo ha il suo carattere, il suo effetto nel
mondo e la sua collocazione particolare nel corso dei tempi.
Ciononostante, fa parte della natura. Anch'e-gli è un «aspetto» di
essa, la divinità di un momento che fa parte del suo essere totale e si
realizza al tempo opportuno. È il nume della sera e della fine. Ma
questa fine non è assoluta, comporta anzi un ritomo e un nuovo inizio
all'intemo della stessa natura.
In tal modo, la persona di Cristo e i particolari della
sua vita vengono attirati nel mondo. Vengono mitologizzati, rivelano,
interpretano, denominano cioè qualcosa nel mondo, nella natura.
Chi racconta la vita di Cristo, racconta la natura. Non
è Dio, nell'accezione biblica del termine, a rivelarsi in Cristo, ma la
natura. Cristo non è il Salvatore
724 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo
mandato dal Creatore e Signore del mondo per liberarla,
ma anche perciò per svelarla e chiamarla alla penitenza, ma è il
servitore di essa.
Nella poesia di Hòlderlin, il «Padre nei cicli» del
Nuovo Testamento diventa il «dio degli dèi», che è Etere e Zeus.
Detto in altre parole: laddove, nella coscienza cristiana, sta il Padre
di Cristo, appare il «Padre Etere», la cui immagine è tuttavia
determinata in concomitanza da quella del Padre biblico.
Allo stesso modo, lo Spirito Santo attraverso cui Cristo
entra nel mondo, da cui trae la vita e che manda ai suoi, diventa lo
spirito universale, lo spirito del tempo, lo spirito dell'ispirazione
veggente e dell'estasi dionisiaca, il «pnéuma della natura».
Il luogo di Cristo nella storia, vale a dire la
«pienezza dei tempi» del Vangelo, viene trasposto dal momento della
sua nascita al futuro. L'ora in cui sta egli stesso costituisce invece
la sera del primo giorno del mondo.
Il cielo e l'inferno - posto che il concetto di Orco
hólderliniano vada preso sul serio - non sono ambiti assolutamente
sottratti a noi, che siano posti in essere dalla sovranità di Dio,
bensì l'ambito ultraterreno, «l'altro lato» del mondo stesso.
Infatti, questo si estende dal «qui» dello spazio storico al «là»
dell'ultraterreno. Ma i morti che vi dimorano spingono nuovamente per
entrare nella storia, ed è il vate a collegare i due ambiti.
La realtà e l'ordine che Cristo è stato mandato ad
annunciare, il Regno di Dio, è visto dapprima in modo del tutto
escatologico: come ciò che deve venire. Ma ciò che «un tempo sarà»,
questo «ultimo» a sua volta è entro la storia, costituendone
«l'altro lato» al-
Il
senso
della figura di Cristo in Holderlin 725
l'interno dell'intero temporale-eterno. Allo stesso modo
il cielo è un «aldilà» all'interno dell'intero
spa-ziale-sovraspaziale del mondo. Ma ciò che verrà quando verrà dò
che è atteso non è il Regno della grazia del Dio vivente, bensì la
mitica Grecia.
L'istituzione di Cristo, l'Eucaristia, diventa una
celebrazione del ringraziamento e della pietà che resiste nelle
tenebre. In tal modo, essa è una parte del culto in genere, che
consiste nella celebrazione, nella commemorazione e nell'invocazione
degli esseri divini, nella gratitudine e nella realizzazione della loro
unità e dell'unità di tutta l'esistenza. Ogni celebrazione si rivolge
a tutti gli dèi. Pure quando si riferisce di volta in volta ad una
divinità particolare, «anche le altre sono invitate». Ma la grazia
della celebrazione in cui si vive, la venuta e la presenza della
divinità, è di volta in volta una forma del sempre uguale determinata
dalla loro figura caratteristica: una forma della corrente numinosa che
giunge dall'altezza del mondo o dall'interno del mondo nel luogo e
nell'ora. Ciò è anche il caso dell'Eucaristìa.
Dal peccato, di cui l'uomo e il mondo sono colpevoli
davanti al Dio Santo, scaturisce il pericolo intrinseco della
lacerazione. Il tempo della reale lontananza di Dio non è più
anteriore a Cristo, ma lo segue. Prima gli uomini erano pii e gli dèi
vicini. Poi, questi se ne sono andati ed ha avuto inizio il regno della
notte. Esso dura fino alla grande ora del ritomo, fino all'«oggi» che
Holderlin sa di essere stato mandato ad annunciare. Il nuovo cielo e la
nuova terra dell'Apocalisse diventano la rinascita che l'esistenza umana
vivrà grazie al ritomo della mitica Grecia, la discesa della «sposa»
e le sue nozze con l'Agnello, «le nozze
726 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo
degli uomini e degli dèi». L'amore invece, di cui sono
pieni tutti i testi di Giovanni, diventa Véros totale della
potenza dominatrice dell'Etere che a sua volta si identifica con
l'eruzione della vita totale dionisiaca e con il pnéuma del
mondo.
A un secondo grado, per così dire, arriva il processo
della mitizzazione del cristianesimo nella poesia Germania. In
quel caso la mitica Grecia prende il posto di Cristo, anzi questa Grecia
è forse in qualche modo «Cristo» stesso. La «Vergine Maria» del
racconto biblico diventa la «vergine Germania». Al posto dell'angelo
che annuncia compare l'aquila del Padre supremo. Ma la nascita che viene
annunciata è quella del nuovo tempo trasformato, dell'Ellade rinata
dalla Germania.
Non vi è certo bisogno di osservare che in tal modo la
vera sostanza del cristianesimo si dissolve. Il suo significato
scompare. La decisione da esso posta è annullata.
Il fenomeno è reso ancora più intenso dal fatto che i
contenuti cristiani non cedono semplicemente il loro posto a concetti
antichi o nuovi, che i termini e le realtà cristiane invece
riecheggiano rievocando in chi ascolta le esperienze di un tempo, che le
figure conservano una dinamica e una profondità intcriore che derivano
dalla fede abbandonata, non facendo però che rendere ancora più grande
la distanza. Il modo in cui il fenomeno viene generalmente interpretato
- che qui una sintesi idealistica tenti di conciliare i due aspetti -
non rende giustizia ad esso. Il peso della questione è un altro, come
dimostrano la natura del fenomeno, la potenza religiosa della perso-
Il senso della figura di Cristo in Holderlin
727
naiità che parla e l'impeto veemente della sua
esperienza, che penetra fino al nucleo.
Ma ciò significa anche che esso è pieno di questioni
profonde e intricate. Come sottolinea la prefazione, il presente lavoro
non è riuscito a porle in modo esaustivo e tanto meno a risolverle.
Irrisolta - e irrisolvibile - è soprattutto la
questione di quale sia il senso cristiano di questa concezione di
Cristo. Gli inni sono espressione di un conflitto tra la figura di
Cristo e le divinità antiche ed in genere quelle che scaturiscono dal
mondo. L'alternativa che era in gioco è collegata a quella di cui
abbiamo parlato nel terzo «cerchio» ossia: la figura di Cristo sarebbe
stata definitivamente accomunata a quelle divinità e collocata nel loro
contesto, diventando l'ultimo suggello della divinità autonoma del
mondo oppure avrebbe spezzato i vincoli di quella identificazione
subordinando a sé gli «altri figli del Padre supremo», come
interprete della loro propria sovrana ricchezza di senso? La figura di
Cristo si sarebbe definitivamente determinata in termini non cristiani
oppure avrebbe alla fine ritrovato il senso cristiano per
reinterpretarlo alla luce del cammino percorso? Il fatto che la prima
possibilità fosse aperta è dimostrato dalla figura e dall'intenzione
di Holderlin, così come si manifestano nella sua opera. Ma il fatto che
anche la seconda possibilità fosse reale diventa evidente se si
considera con quanta tenacia l'essere di Cristo si affermi nel
sentimento di Holderlin come qualcosa di proprio, distinto dagli altri
numi e quali sforzi debba compiere per includerlo nella loro schiera.
Holderlin non ha risolto il conflitto. È rimasto in
sospeso. Il carattere della sua figura di Cristo e il mo-
728 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo
do in cui si affermò in lui dimostrano che non si
trattò ne di una creazione meramente poetica ne di una concezione
filosofica, ma di qualcos'altro - qualcosa che si impose attraverso
un'iniziativa sovrana rispetto allo stesso desiderio di Hólderlin.
Dove fosse diretta in ultima istanza questa iniziativa e
quale decisione definitiva Hólderlin avrebbe adottato davanti ad essa,
rimane non chiarito.
NOTE
1. Cfr.
W. Bóhm, Hólderlin I, 1928, pp. 21 ss.
2. Omero fu detto per antonomasia «il Meonio cantore»,
dal nome della Meonia, regione orientale della Lidia (Asia Minore - n.d.r.).
3. Cfr. R. Guardini, Dos Bild vonjesus dem Christvs
im Neuen Testammt, Wùrzburg 1939, pp. 63 ss.; tr. it. La figura
di Gesù Cristo nel Nuovo Testamento, Morcelliana, Broscia 19643,
pp. 56 ss.
4. Cfr. nota 19 a p. 138.
5. Cfr. Mt 11, 6 e Le 4, 28 s. tra gli altri passi.
6. Cfr. Gv 16, 22: «Molte cose ha ancora da dirvi, ma
per il momento non siete capaci di portarne il peso».
7. Questo mi sembra essere il significato dei versi
spesso citati. Non è che il poeta religioso debba essere anche
«profano», ma il poeta spirituale, veggente, condivide bensì con il
Cristo il medesimo destino: quello di doversi addossare il giogo di
quanto è del mondo e di dover resistere nella prova, benché anch'egli
voglia tornare nel tutto, come l'aquila prigioniera in libertà.
8. Si veda quello che dice Pascal sul cuore ed il suo
rapporto con lo spirito: R. Guardini, Christliches Bewusstsein,
il ed., pp. 165 ss.; tr. it. Pascal, Morcelliana, Brescia 19924,
pp. 151 ss.
9. Come è noto però, l'istituzione dell'Eucaristìa è
narrata da Matteo, Marco, Luca (e riferita da Paolo), ma non da Giovanni
{n.d.r.).
10. Si rizzano i capelli quando il Non nominabile si fa
presente: l'esperienza religiosa dell'horrendum [Nella traduzione
della CEI Ez 8, 3 suona: «mi afferrò per i capelli; uno spirito mi
sollevò tra terra e delo» (n.d.r.)}.
11. Nella tr. CEI: «dice il Signore che fa queste cose
da lui conosciute dall'eternità» (che è citazione da Am 9, 12 - n.d.r.).
12. La versione che aveva sott'occhio Vigolo
evidentemente si differenzia da quella su cui lavorò Guardini: invece
di der Seher, «il veggente», nella seconda si trova derSohn,
«il Figlio» (n.d.r.).
Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo 729
13. Un momento particolare è introdotto in questo
insieme di problemi dall'abbozzo di un inno incentrato sull'immagine del
Vaticano e risalente agli ultimissimi tempi (n, p. 252). Qui il problema
del cristianesimo viene colto nel suo culmine più esteriore, come
concrezione storicamente determinata, come Chiesa. L'analisi dovrebbe
tener conto delle idee di Hólderlin sulla Riforma, soprattutto in
riferimento al rapporto che egli stabilisce tra la Chiesa e le tenebre,
che si instaurano dopo la dipartita di Cristo, la «dispersione» del
suo «onore», ossia tra il rinne-gamento della figura di Cristo nel suo
senso autentico e il messaggio di essa. Bisognerebbe tener conto anche
del concetto di una «nuova Chiesa» espresso nell7/wi<»K e della
concezione di un'identificazione fra religione, cultura. Chiesa e Stato
nella nuova esistenza trasformata (n, supra, p. 154). Ma questo
non può essere sviluppato oltre in questa sede.
14. Sul concetto del salvatore, vedi R. Guardini, Unterscheidung
des Christlichen (1955), pp. 361 ss.; tr. it. in Natura - cultura
• cristianesimo, Morcelliana, Bresda 1983, pp. 251-295.
CRONOLOGIA DELLA VITA
1770, 20 marzo: Johann Christian Friedrich Hólderlin
nasce a Laufein am Neckar. I suoi genitori: il Klosterhofmei-ster
(amministratore ecclesiastico di monastero) Hein-rich Friedrich
Hólderlin e la moglie Johanna Christiane nata Heyn, figlia d'un
pastore.
1772, 5 luglio: il padre di Hólderlin muore all'età di
trenta-sei anni.
15 agosto: nasce la sorella di Hólderlin Heinrike (essa
sposerà Christian Brauniin, professore alla Klosterschuie [scuola
di monastero] di Blaubeuren).
1774: la madre di Hólderlin sposa in seconde nozze il
consigliere camerale e sindaco Gock a Nùrtingen.
1776, 29 ottobre: nasce il fratellastro di Hólderlin
Cari Gock (Cari è l'unico dei quattro figli di questo matrimonio a
restare in vita).
1779, 8 marzo: il patrigno di Hólderlin muore di
polmonite. Hólderlin comincia a frequentare la Lateinschuie (ginnasio)
a Nùrtingen.
1784: Hólderlin passa alla Klosterschuie
inferiore di Den-kendorf. In questo periodo nascono i suoi primi
tentativi poetici.
1786: Hólderlin passa alla Klosterschuie
superiore a Maul-bronn. Inizia la corrispondenza con Immanuel Nast e
Franz Karl Heiner. Lettore di Schubart, Klopstock,
732 Cronologia
Schiller, anche dalVOssian di Macpherson; ne trae
stimoli per la creazione personale. Hólderlin incontra Luisa Nasi,
figlia dell'amministratore del monastero di Mauibronn (ella è parente
dell'amico Immanuel Nast).
1787: Hólderlin si fidanza con Luise Nast, la
«Stella» delle sue prime poesie.
1788: Hólderlin lascia Mauibronn e si immatricola alla
facoltà teologica dell'Università di Tubinga. Abita nello Stift
(fondazione), dove deve sottomettersi a un regolamento rigoroso. Con
Christian Ludwig Neuffer e Ru-dolf Magenau stringe la lega degli Aldermannsfreunde.
1789: nelle vacanze pasquali Hólderlin visita Stoccarda
e & la conoscenza di Schubart e dell'avvocato Gotthold Friedrich
Stàudiin (Questi, a modvo dei suoi numerosi almanacchi, è chiamato
anche «Arciprete delle muse sveve»). Hegel viene allo Stift
come studente. Hegel e Schiller esercitano un forte influsso su
Hólderlin. Nascono gli Inni di Tubinga.
1790: Hólderlin rompe il fidanzamento con Luise Nast.
Schelling comincia il curriculum universitario allo Slift. Hólderlin
riceve il titolo di Magister in filosofia; la sua dissertazione
ha il titolo Eine Geschichte der Kunst unter der Griechen (Storia
dell'arte tra i Greci). Un breve viaggio in Svizzera, nel quale
Hólderlin fa anche la conoscenza di Johann Raspar Lavater, costituisce
la conclusione della prima parte dei suoi studi. Il mondo della montagna
lo impressiona fortemente. In autunno di quest'anno Hólderlin fa la
conoscenza di Elise Lebret, la «Lyda» delle sue poesie.
1791: Nel «Musenalmanach» di Stàudiin per l'anno 1792
appaiono le prime poesie di Hólderlin.
1792: Hólderlin da inizio al lavoro per VIperione.
Cronologia 733
1793: dopo la fine dei suoi studi Hólderlin ritorna a
Nùr-
dngen.
Schiller è pregato dalla sua amica Charlotte von Kalb
di proporle un precettore adatto per suo figlio. Attraverso la
mediazione di Stàudiin la scelta cade su Hólderlin. Il 6 dicembre
Hólderlin supera l'esame di Stato in teologia (Konsistorialexamen}.
In queste settimane cade anche la sua conoscenza più stretta con Isaak
von Sinclair, uno studente di giurisprudenza, che più tardi entrerà al
servizio del Langravio di Hessen-Hamburg e parteciperà al Congresso di
Vienna come inviato di quel nobile. 20 dicembre: viaggio di Hólderlin a
Waltershausen presso Jena, dove giunge una settimana dopo e assume
l'incarico di precettore presso la signora von Kalb.
1794: in novembre Hólderlin col suo allievo, Fritz von
Kalb, che ha ora undid anni, va a Jena, per conferire maggiore efficacia
alle sue sollecitudini pedagogiche anche con questo trasferimento.
Frequenta Schiller, fa la conoscenza di Goethe e di Herder e ascolta le
lezioni di Fichte.
Il Frammento dell'Iperione appare nella rivista
«Thalia» di Schiller.
1795, 16 gennaio: il rapporto di servizio con Charlotte
von Kalb è sciolto, poiché gli sforzi di Hólderlin risultano privi di
successo. Tuttavia egli rimane a Jena, per cond-nuare a svolgere i suoi
lavori letterari. La diceria di una (presunta) vicenda amorosa con
Sophie Mercau lo spinge a fuggire da Jena.
Hólderlin trascorre l'estate a Nùrtmgen. Il nuovo
incarico di precettore presso la famiglia del banchiere francoforte-se
Gontard gli viene assegnato per la mediazione del medico di famiglia dei
Gontard Johann Gottfried Ebel. Hólderlin giunge a Francoforte il 28
dicembre.
734 Cronologia
1796: Hólderlin inizia il suo servizio al principio di
gennaio. Mentre il padrone di casa, Jakob Friedrich Gontard, lo
considera e lo tratta come un dipendente qualsiasi, che solo per
rispetto alle convenzioni ha il permesso di partecipare alla vita di
società della famiglia, Hólderlin presto è legato da un'intima
attrazione alla moglie del banchiere, Susette («Diotima» nelVIperione).
10 luglio: poiché la guerra minaccia di estendersi a Francoforte,
Gontard manda la moglie con i figli dapprima a Kassel e poi a Bad
Driburg in Vestfalia, accompagnati da Hólderlin e da Wilhelm Heinse (il
poeta del-l'Ardinghello). In settembre ritorno a Francoforte. In
quest'anno Hólderlin comincia una rielaborazione dell'Iperione.
1797: Hegel assume un incarico di precettore a
Francoforte per la mediazione di Hólderlin. Hólderlin frequenta
inoltre il medico Samuel Thomas von Sómmering, un amico della famiglia
Gontard, e Sinclair, che è a corte ad Homburg.
Per Pasqua esce presso l'editore Cotta il primo volume delVIperione.
Oltre a numerose poesie nasce anche il progetto della
tragedia La morte di Empedocle.
22 agosto: Hólderlin visita Goethe, che si ferma a
Francoforte nel corso di un viaggio.
1798: la relazione di Hólderlin con Susette non rimane
nascosta; ma solo dopo un'esitazione piuttosto lunga e incresciose scene
con il padrone egli in settembre va ad Homburg dove prende in affitto
un'abitazione. Sinclair lo fa conoscere alla famiglia del Langravio.
Hólderlin cominda a lavorare per 1''Empedocle. In novembre
Hólderlin accompagna Sinclair al Congresso di Rastatt.
Cronologia
735
1799: i mezzi finanziari di Hòlderlin sono esauriti,
perdo deve prendere un prestito da sua madre. Lascia cadere per
consiglio di Schiller il progetto di assicurarsi un introito fisso con
una rivista mensile di poesia («Iduna»). Appare presso Cotta il
secondo volume deìl'Iperione.
1800: in maggio Hòlderlin lascia Homburg e dopo una
breve visita alla casa dei genitori giunge in giugno a Stoccarda.
Mediante la protezione di un amico, il com-merdante Christian Landauer,
può assicurarsi un esiguo introito con ore d'insegnamento privato
(«lezioni di filosofia»). Poiché il guadagno è insufficiente, dopo
alcune esitazioni Hòlderlin dedde di assumere un nuovo incarico di
precettore.
1801: a metà gennaio Hòlderlin prende il suo posto
nella casa di Anton von Gonzenbach, un commerdante di Hauptwill presso
San Gallo. Già in aprile questo rapporto di dipendenza è sciolto da
Gonzenbach. Hòlderlin ritorna a Nùrtingen e di là si adopera per
trovare la possibilità di tenere lezioni a Jena. Chiede consiglio a
Schiller, ma sembra non abbia ricevuto alcuna risposta, e accoglie
quindi la proposta di un incarico di precettore presso il console di
Amburgo a Bordeaux, Daniel Christoph Meyer.
1802: dopo un penoso viaggio Hòlderlin giunge a
Bordeaux il 28 gennaio. A metà giugno senza preavviso arriva di nuovo a
Nùrtingen con chiari segni di obnubilamento psichico.
22 giugno: Susette Gontard muore a Francoforte all'età
di trentatré anni.
In autunno Hòlderlin si reca in viaggio con Sinclair al
Fùrstentag (dieta dei prindpi) a Regensburg.
736 Cronologia
1803: Hólderlin vive a Nùrtingen, sotto la tutela
della madre. Lavora alla traduzione delle tragedie di Sofocle.
1804, aprile: le traduzioni di Hólderlin dell'Edipo
e dell'An-tigone appaiono presso l'editore Friedrich Wilmans
a Francoforte.
In giugno Hólderlin segue ad Homburg un invito di
Sinclair, che gli ha procurato un posto di bibliotecario;
per altro Sinclair stesso deve provvedere a pagare lo stipendio
a Hólderlin.
1806: lo stato di salute di Hólderlin è peggiorato a
tal punto che anche Sinclair, con tutta la sua buona volontà, non ha
più speranze e in settembre porta l'amico alla Cllnica del dott.
Autenriet.
1807: poiché il suo stato non migliora, Hólderlin
viene affidato come ospite alle cure del mobiliere - persona colta,
comunque - Ernst Zimmer. Il malato vive fino alla morte in quella che
oggi è la cosiddetta «Torre di Hólderlin».
1815: Sinclair muore a Vienna.
1826: Gustav Schwab, Ludwig Uhiand e Justinus Kemer
curano una prima edizione delle poesie di Hólderlin.
1828: morte della madre. 1843, 7 giugno: Hólderlin
muore a Tubinga.
INDICE DELLE OPERE DI HÒLDERLJN CITATE*
Achille,
283, 420
AtóM (Z/), 325, 327, 433
Amore (L"),
214
Arcipelago (L'), 37, 56, 58, 70, 129, 145, 149,
154, 188, 200, 203, 211, 284, 285, 293, 368, 377, 383, 387, 401, 552,
568, 583, 587, 589,599,682
«Bellezza è... (La)», 349
Cantato a pie delle Alpi,
619 Canto dei fratelli Ottmar,
Hom e Tello, 338, 341 Canto del tedesco (II),
126 Canto del Destino di Iperio-
ne (II), 36, 49, 105, 164 Cantone di Schuyz (II),
95,
109,215
Cantore cieco (II),
299 «Chi è Dio?», 348 «Come il giorno di festa ...»,
276, 338, 342,361, 701
«Conciliante, o Tu non mai creduto (O)»,
(prima versione), 129, 344, 395,406, 651, 662, 705
«Conciliante, o Tu non mai creduto (O)», (seconda
versione), 392, 406, 418,655
«Conciliante, o Tu non mai creduto (O)», (terza
versione), 647,667
Coraggio del poeta, (seconda versione), 284
Dèi (Gli), 283 Diotima (A), 88, 135, 262,
271 Dormienti (I), 190
Elegia, 340
Emilia innanzi il giorno delle sue nozze, 96, 127,
134, 144, 146, 339, 423,631
Empedocle, 120
* I numeri in corsivo indicano passi in cui il testo è
trattato in modo più esteso.
738
Indice delle opere di Holderlin citate
Empedocle {La morte di)
(prima
versione), 527-595, inoltre 183, 184, 212, 213, 216, 258, 260, 285, 317,
366, 367, 370, 373, 374, 410, 527, 528, 530, 585, 592, 593, 597,
598,615,639, 668s.
Empedocle (La morte di) (seconda versione), 320,640
Empedocle sull'Etna, 120, 213,260,295,528,530
Etere (Ali'), 167, 186, 216, 245,250,416,417
Fantasia serale, 417 Festa della pace (La),
138 Fiume incatenato (II), 65 Fonte del Danubio (Al), 51,
99, 110, 129, 130, 134, 343, 384, 404, 423,602
Ganimede, 416
Genio (Al), 190
Genio della Creda (Al), inno, 634
Germania, 98, 110, 126, 129, 189, 200, 206, 208,
265, 281, 357, 391, 397, 401, 421, 567,680, 707, 726
Grecia,
328
Heidelberg, 33,
97, 120, 292,301,308,429,589
Immortalità dell'anima (L'), 333
Incitamento (seconda versione), 340,378,420
Iperione, 465-525, inoltre 56, 57, 61, 96, 144, 145,
149, 154, 155, 160, 161, 164, 167, 181, 188, 195, 200, 209, 212, 249,
250, 269, 288, 322, 334, 373, 401, 463, 585, 597,598,615,623,729
Iperione (abbozzo di una prefazione), 322
Iperione (il Frammento di «Thalia»), 157,
160, 325,329,515
Iperione (II canto del Destino di), 36, 49, 105,
164, 364
Iperione (La giovinezza di), 164,166,328
Istro (L'), 43, 47, 79, 92, 129, 130, 135, 371, 432,
615, 642,678,682
Lagrime, 422
Lamento di Menane per Diotima, 190, 193, 216, 283,
326, 337, 403, 418,423,509
Libertà (Alla), 228
Libri dei tempi,
333, 633
Indice delle opere di Holderlin citate
739
Madonna (Alla)
(abbozzo
di un inno), 163, 419,
705
Madre Terra (Alla), 106 «Ma quando i Celesti
hanno
costruito. ..»,427, 677 «Maturi sono i frutti
...»,
vedi Mnemosine Meno (II), 129, 137 Mia
proprietà (La), 202,
298,599,605 Mia venerata nonna nel
suo settantaduesimo compleanno (Alla), 636 Miei
(I), 333 Migrazione (La), 43, 109,
111,115,126,130, 134 Mneinosine (terza versione),
311,428,599,600,601 Morte per la patria, 97,
147
Natura e arte ovvero Saturno e Giove,
129, 315,
431
Neckar (II),
40,
129 «Nell 'azzurro leggiadro»,
605
Ozi (Gli), 296
Pane e vino,
70, 97, 100, 116, 129, 206, 221, 312, 354, 363, 386, 389, 393, 425, 429,
645, 651,699, 705
Palmo (prima versione), 91, 103, 129, 130, 135, 210,
346, 429, 608, 617, 659, 670, 674, 675, 697, 705, 709, 710,717
Primavera (Alla), 257, 270,417
Principessa Augusta di Homburg (Alla),
104, 339
«Quand'ero fanciullo», 162, 239,335
Reno (II),
56, 65, 70, 95, 110, 111, 114, 115, 117, 129, 134, 135, 168, 175,
184, 215, 263, 273, 305, 306, 310, 312, 366, 368, 374, 387, 407, 427,
429, 430, 506, 508, 552, 568, 583, 589, 651-654, 658, 688, 717
Ricordare (II),
333
Ricordo, 56, 59, 129, 432, 681
Ritomo, 95, 124
Ritorno in patria, 112, 134, 199, 215, 251,
274,330,340,342, 399
Ritratto dell'avo (II), 191, 206
Rousseau, 217
740
Indice delle opere di Holderlin citate
Scorcio di Hardt (Lo), 197
Se da lontano..., 509
Speranza (Alla), 250
Spirito del tempo (Lo), 204, 294,380
Stoccarda,
87, 102, 115, 127, 129, 179, 195, 206,308,385,405
Tedeschi (Ai),
98,403 Terra nativa, 422 Tramonto (II), 283
Unico (L'),
128, 129, 312, 314, 345, 415, 657, 662, 689, 703, 705, 706,720,721
Unico (L'},
(terza versione), 424,430, 667, 719
Uomo (L'),
159, 165, 171, 283,469, 498
Vaticano (II),
350
Viaggio (II), 68
Viandante (II),
47, 96, 104,134,245
Vocazione del poeta, 201, 203, 284, 288, 297,
379,380
«Voce del popolo» (prima versione), 90
«Voce del popolo» (seconda versione), 39,
91, 165, 169, 184, 293, 302, 303, 409, 428, 429, 430, 552, 576, 589,
599,668
POSTFAZIONE
Qualche mese fa molti studiosi hanno salutato con
gioia la traduzione italiana dell'opera di M. Heideg-ger su Nietzsche,
che è stata pubblicata nel 1961 e la cui stesura risale agli anni
1936-46. Ma sembra che ci siano dei buoni motivi per accogliere con vivo
interesse anche la traduzione di quest'opera di R. Guardi-ni su
Hòlderlin. La prima edizione risale al 1939 e la stesura di essa è
avvenuta negli stessi anni in cui Hei-degger preparava i suoi corsi
universitari ed i suoi saggi su Nietzsche.
Forse nemmeno tutti coloro che conoscono e apprezzano
gli altri scritti di Guardini sono a conoscenza del contributo che egli
ha dato all'interpretazione della poesia di Hòlderlin. E che sia un
contributo di grande valore lo dimostra l'apprezzamento altamente
positivo che ne da un germanista di prestigio, A. Pellegrini, il quale
in un volume di storia della critica, tradotto anche in tedesco, ritiene
questo volume un'«opera [...] tra le maggiori della critica
hólderlinia-na», sottolinea come sia stata accolta con grande
considerazione dagli studiosi tedeschi, tra i quali basti ricordare P.
Bóckmann e W.F. Otto; mette in luce anzi come essa sia divenuta per
molti ben presto un punto di riferimento; ricorda anche che l'influsso
di quest'opera è presente nelle pagine che a Hòlderlin ha dedi-
742 Postfazione
cato un pensatore di grande rilievo, come H.G. Gada-mer1.
Inoltre L. Mittner, nella sua Storia della
Letteratura tedesca, che costituisce una delle tappe fondamentali
degli studi più recenti di germanistica in Italia, quando indica la
bibliografia su Hólderlin, oltre agli autori degli studi in lingua
italiana, ricorda quattro studiosi e tra questi c'è Guardini2.
Gli scritti su Hólderlin sono da molti considerati uno
dei vertici dell'opera di Heidegger, ma alcuni ritengono che in essi
spesso il pensatore tedesco spieghi «forse la propria filosofia, non
certo la poesia di Hólderlin»3, mentre altri sono convinti
che egli colga i temi fondamentali della poesia di Hólderlin,
presentandone una nuova dimensione4. Ebbene, in questo senso,
sembra che, al di là delle innegabili e profondissime differenze, vi
sia tra Heidegger e Guardini una vicinanza nell'insistere su determinati
temi. Per entrambi si tratta di instaurare con Hólderlin un «colloquio
pensante», non di dare un contributo «alla ricerca storico-letteraria
o all'estetica»5. La storia letteraria studia le ascendenze
dell'opera, il suo sviluppo interno e la sua fortuna; l'estetica tende a
considerare la bellezza nella sua autonomia dalla verità; invece
Heidegger e Guardini sottolineano che la poesia e la bellezza sono in
rapporto essenziale con la verità.
1. Cfr. A. Pellegrini, Hólderlin. Storia della
critica, Firenze 1956, pp. 285,206-208,274.
2. L. Mittner, Storio della letteratura tedesca. Dal
Pietismo al Romanticismo, Torino 1964, par. 342 n. 1, pp. 707-708.
3. Id., op. cit., par. 352 n. 8, p. 736.
4. Cfr. A. Pellegrini, op. cit., pp. 235-258.
5. M. Heidegger, La poesia di Hólderlin, tr. it.
di L. Amoroso, Milano 1988, p.3.
Postfazione
743
Entrambi mettono in luce l'importanza del tempo e della
storia, del sacro nel suo rapporto con la natura, del valore profetico
della poesia strettamente collegato con la convinzione di Hólderlin di
essere il poeta del tempo della privazione. Certo, questi temi vengono
poi sviluppati in modo diverso dai due pensatori, ma questi sviluppi
sembrano potersi illuminare vicendevolmente proprio per la loro
diversità. Per questo la lettura delle due opere può essere molto
proficua.
Ma, come fa rilevare X. Tilliette, l'interpretazione di
Heidegger sembra pressoché ignorare l'importanza che assume la figura
di Cristo nella poesia di Hólderlin, soprattutto in quella degli anni
della maturità6. L. Mittner, autore di un'importante
monografia sul poeta tedesco, osserva che Hólderlin rimase
disperatamente legato alla «dolce e sublime figura di Cristo, maestro e
amico dell'anima»7. Guardini giustamente attribuisce molta
importanza alla cristologia del poeta, il quale avverte un dissidio nel
suo intimo:
il suo cuore affascinato da Cristo lo spinge a dargli
maggiore importanza rispetto agli altri dèi, ma la sua coscienza glielo
impedisce. Infatti Hólderlin è, secondo Guardini, un poeta epocale,
perché esprime la tendenza a considerare il mondo come autonomo. Così
Dio è sostituito dalla natura, che assume gli attributi classici di
Dio. In questa prospettiva Cristo non può venir considerato come
superiore agli altri dèi, i quali sono espressione del numinoso che
c'è nella na-
6. Cfr. X. Tilliette, Filosofi davanti a Cristo,
Broscia 1989, pp. 406-413.
7. L. Mittner, op. di., par. 349, p. 725.
744 Postfazione
tura. Di qui il dissidio tra il cuore e la mente, la
crisi drammatica non ancora superata nemmeno oggi8.
Ma un altro aspetto che va posto in rilievo è la
capacità di ascolto che caratterizza l'ermeneutica di Guardini. Egli
ritiene che l'interprete debba esercitarsi in un'ascosi costante per
aprirsi all'altro, per coglierne la ricchezza inesauribile, per
intendere le parole per quello che dicono senza attenuarne il
significato. Per tale motivo egli prende sul serio il poeta anche quando
afferma l'esistenza degli dèi. Anche per tale ragione questo volume
sembra essere ancora attualissimo e molte sue pagine restano tra le più
illuminanti per aiutare a cogliere la straordinaria ricchezza della
poesia di Hólderlin. Oggi, anche sulla scia di Heidegger, si sottolinea
la necessità di un dialogo tra pensiero e poesia; quest'opera sembra
essere di questo dialogo una delle espressioni più alte finora
realizzate.
Essa potrà costituire un arricchimento per tutta la
cultura italiana e sembra particolarmente utile come strumento per gli
studi universitari, in quanto può interessare, offrendo sempre stimoli
e suggestioni illuminanti, la germanistica e la storia della letteratura
in generale, la filosofia, la fenomenologia della religione, la
teologia. In ogni caso sarà preziosa per chi voglia incominciare a
capire il senso di alcune domande che tutti oggi, più o meno
esplicitamente, ci poniamo.
giuseppe BESCHIN
8. Tutti questi temi sono illustrati egregiamente da S.
Zucal, Romano Guardimi e la metamorfosi del «religioso» tra moderno
e post-modemo. Un approccio ermeneutico a Hólderlin, Dostoevskij e
Nietzsche, Urbi no 1990.
Opere di Romano Guardini presso la Morcelliana
Accettare se stessi,
2 ed., pp. 80 L'Angelo. Cinque meditazioni, pp. 80 Ansia per
l'uomo, 2 voli. (in ristampa) Appunti per un'autobiografìa,
pp. 168 La conversione di S.Agostino (in ristampa) La
coscienza (in ristampa) Diario. Appunti e testi dal '42 al '64,
pp. 256 Dostojewskij. Il mondo religioso, 4 ed., pp. 336 Elogio
del libro, 2 ed., pp. 56 L'esistenza e la fede (in ristampa) L'essenza
del cristianesimo, 8 ed., pp. 96 Fede - Religione - Esperienza,
2 ed., pp. 200
La figura di Gesù Cristo nel Nuovo Testamento (in
ristampa)
La fine dell'epoca moderna -II potere, 8 ed., pp.
232 Holderlin. Immagine del mondo e religiosità, pp. 752 Introduzione
alla preghiera, 8 ed., pp. 224