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ROMANO GUARDINI

HÒLDERLIN Immagine del mondo e religiosità

Postfazione di Giuseppe Beschin Volume primo

MORCELUANA

Titolo originale dell'opera:

Holderlin. Weltbild und Frommigkeit

© Kósel Verlag - Mùnchen 19803 © Tutti i diritti d'autore sono della

Katholische Akademie in Bayern

Traduzione del testo di Guardini di Ludwig Tieck Revisione di Giulio Colombi

© 1995 Editrice Morcelliana Via Gabriele Rosa 71 - 25121 Broscia

In copertina:

Caspar David Friedrich, Viandante sul mare di nebbia (Hamburg, Kunsthalle)

Prima edizione: novembre 1995

ISBN 88-372-1584-3

Tipolitografia La Nuova Cartografica S.p.A. - Bresda 1995

PREFAZIONE DELL'AUTORE ALLA PRIMA EDIZIONE

(1939)

II presente lavoro parte dalla convinzione che la poesia di Hólderlin sia diversa da quella sviluppatasi in età moderna. Il processo creativo di quest'ultima si basa - più o meno consciamente - sulla concezione dell'opera d'arte autonoma che scaturisce dall'impulso della predisposizione creativa. La validità dell'opera d'arte è determinata dall'autenticità dell'esperienza, dalla purezza dell'occhio, dalla forza formativa e dalla precisione con cui esperienza ed immagine sono collegati a priori al relativo corpo verbale. Questa accezione non è valida per l'opera di Friedrich Hólderlin, poiché essa non nasce dal processo creativo deH'«artista», bensì dalla visione e dalla commozione del vate. Ciò non toglie che Hólderlin sia un'artista nel senso più puro della parola, se per «arte» si intende capacità.

Con questo non si vuole dire che la poesia moderna scaturisca dall'arbitrio dell'intelletto o della volontà. Anche in essa è presente l'esperienza che non è ottenibile con la forza, ma è quella immediata della personalità ancorata a se stessa. Anche in essa si compie il costituirsi della forma che occupa lo spirito e i sentimenti del poeta, quasi non appartenesse più a se stesso. Ma ciò che qui accade, per quanto veemente

8 Prefazione dell'Autore alla prima edizione

l'esperienza possa essere, non è altro che il processo di creazione dell'opera stessa. Ma l'origine da cui deriva la poesia di Hólderlin è situata oltre, d'un intero ordine di cose più all'interno o al di sopra, a seconda di come si voglia definire la dirczione di una lontananza che non appartiene più all'ambito soggettivo. Il suo processo creativo è al servizio di una chiamata. Sottrarsi ad essa non significherebbe solo mancare alla propria opera, ma opporsi ad una potenza che trascende l'essere e il volere individuale - senza descrivere oltre in questi termini l'essenza di questa potenza e il senso della sua chiamata. Ciò che è presente qui occupa l'occhio e la bocca del poeta in modo diverso rispetto all'impulso artistico. Non solo in modo più forte, più appassionante o più profondamente inconscio, bensì in modo essenzialmente diverso. Il modello a cui si rifa un tale processo creativo non è quello dell'artista-poeta autonomo, bensì quello del vate chiamato al servizio religioso, nella cui sfe-ra intcriore avviene il «contatto», si eleva la visione e viene conferito il mandato del messaggio. Hólderlin fa parte di una schiera composta da nomi come Dante, Eschilo e Pindaro.

Non solo la sua parola, ma anche la sua vita è testimonianza del fatto che egli contempla e parla da vate. Il destino esteriore di Hólderlin rivela lo sradicamento di un uomo che non sa dove andare; ma la sua interiorità si manifesta nelle parole scritte il 2 dicembre 1802 a Bóhlendorff, in seguito alla sua esperienza nella Francia meridionale:

«L'elemento possente, il fuoco del delo e il silenzio degli uomini, la loro vita nella natura, la loro misuratezza e con-

Prefazione dell'Autore alla prima edizione 9

lentezza mi hanno toccato costantemente, e, come si ripete degli eroi, posso ben dire di essere stato colpito da Apollo» (Sàmtliche WerkeV, p. 327).

La mirabile purezza della sua figura, conservata finanche nella confusione mentale, deriva da questa unità di opera e vita. Certamente chiunque sia veramente votato alla sua opera mostra una intrinseca connessione di processo creativo e vita, ma in Hól-derlin ciò è particolarmente evidente. Il concetto di opera d'arte di cui abbiamo trattato non rivendica solo l'autonomia del processo creativo nei confronti di qualsiasi criterio non immanente ad esso, ma anche -con le dovute riserve, certo, ma in linea di massima -quella dell'opera nei confronti della vita di chi la produce. Anche in questo si differenzia il poeta-vate. Dante non poteva avere per la propria esistenza personale la libertà concessa invece a Shakespeare per natura, ed -Eschilo non quella che Goethe possedeva a partire dalla sua disposizione intcriore. Queste affermazioni non esprimono nessun giudizio di valore, si riferiscono esclusivamente al rapporto tra processo creativo e vita. Hólderlin non poteva scrivere gli inni che portano il suo nome, ed essere allo stesso tempo un uomo la cui vita assumesse questa o quell'altra piega: c'era invece in questo un'unità indissolubile, beata e tragica. E questa unità che noi avvertiamo in lui - insieme ad una prima dote, non oltre analizzabi-le, nel suo essere - come purezza.

Questa convinzione ha determinato l'impostazione e il metodo di chi scrive, che doveva soprattutto ascoltare ed apprendere. Molti punti di vista, di solito decisivi, erano inutilizzabili in questo contesto. Decisioni preliminari come: «questo non può essere il si-

10 Prefazione dell'Autore alla prima edizione

gnifìcato, perché questo non esiste ... questo pensiero deve essere inteso cosi, perché questo principio psicologico o fìlosofico lo esige ...» non avevano senso. Si trattava di ascoltare che cosa dice Hólderlin, ma veramente lui e solo lui e totalmente lui. Non si trattava neppure di analizzare «un poeta visionario» o «la forma d'esperienza vissuta della poesia visionaria», rinunciando a prendere sul serio il contenuto di questa esistenza e di questa poesia in quanto tali e limitandosi ad apprendere ciò che qui veniva vissuto ed annunciato. L'elemento visionario non andava inteso come «fenomeno psicologico» bensì come «processo di donazione», attraverso cui possono emergere fenomeni e connessioni altrimenti nascosti. Ciò che Hólderlin voleva dire, come dovesse essere inteso, che cosa fosse importante e che cosa trascurabile nella sua opera, poteva essere dedotto solo dalle sue stesse parole, dal contesto dei suoi pensieri e delle sue immagini, dalla forma e dall'atmosfera della sua poesia. Norma e garanzia perché ciò veramente avvenisse erano costituiti dal primo assioma di ogni vera interp relazione: che fino alla prova del contrario la parola di un uomo onesto significa ciò che dice - tanto più quando è un grande a parlare; che quindi l'interprete rischia, appena si discosta da questa proposizione, non solo di diventare presuntuoso, ma anche di applicare al grande i metri di misura della propria figura e di perderlo in tal modo di vista. Quanti lavori apparentemente scientifici sono per così dire un tristo trafficare attorno ad un oggetto scomparso! L'interpretazione doveva tener conto di tutta l'ampiezza dei testi, sempre pronta a vedere ampliato, ridotto, sfumato o mutato, attraverso un nuovo contesto, ciò che già sembrava

Prefazione dell'Autore alla prima edizione 11

chiaro e definito. Anche la comparazione con la vita spirituale anteriore e contemporanea, praticata dal metodo storico in modo così magistrale, ma spesso anche fatale, sembrava in questo caso meno utilizzabile di altre volte. Comportava infatti il rischio di trasformare la figura solitària del vate-poeta in una specie di espressione della situazione spirituale del tempo.

In molti anni di lavoro interpretativo ho tentato di comprendere e descrivere come gli appaiono il mondo, l'uomo e il divino, e non so di che cosa mi sono stupito di più: se della splendida decisione di questa parola che non solo non poneva fuori questione l'intelletto, ma ne esigeva l'applicazione; o della profondità contemplativa da cui venivano le visioni di Hól-derlin; oppure dalla coerenza con cui le sue idee fondamentali si imponevano in qualunque passo del testo che l'analisi si trovasse ad affrontare. Al lavoro di interpretazione dovrebbe ora far seguito quello del filosofo e teologo, e il compito di questo lavoro darebbe frutti molto importanti. Nel corso degli anni è stato anche prodotto qualcosa che potrebbe servire a questo fine; ritenni tuttavia di dovervi rinunciare. Mi sembrava sufficiente aver descritto i fenomeni nel modo più puro possibile. Ma solo entro questo limite - sottolineo la riserva. Poiché il compito è molto difficile; considerandone l'oggetto, verrebbe spontaneo dire che non vi è soluzione. Ed infatti non pubblico questo libro a cuor leggero. Ma un lavoro più lungo difficilmente apporterebbe progressi essenziali per quanto riguarda gli aspetti che a me interessano. Così posso solamente sperare che il lavoro qui presentato possa costituire un contributo reale alla comprensio-

12 Prefazione dell'Autore alla prima edizione

ne di questa figura che è misteriosa in un senso molto preciso.

Qui non si tratta di ricostruire le connessioni di storia letteraria o di storia della cultura; di queste si occupa una ricerca sempre più differenziata a cui non mi sento autorizzato a collaborare. Per me non si trattava di ciò che era, ma di ciò che è. Volevo chiedere a Hólderlin cose che egli sembra sapere e che altrimenti nessun altro facilmente sa. Ora, il mondo intellettuale di Hólderlin non ha molti motivi. Alcune esperienze, immagini, riflessioni ritornano continuamente; ma ogni volta in modo tale da contenere tutta l'esistenza. Così non era possibile estrapolare i diversi momenti singoli e svilupparli in un contesto sistematico. Il lavoro è stato invece strutturato per contesti di senso che, per quanto caratterizzati in se stessi, contengono però sempre l'intero. Per delineare questo carattere, le cinque parti del libro sono state denominate «cerchi». Il primo analizza i fenomeni del fiume e della montagna nella poesia di Hólderlin, così come la rappresentazione dello spazio vitale da essi determinata. Il secondo cerchio indaga l'essenza dell'uomo e della storia. Il terzo cerchio affronta quelle figure del religioso che costantemente riappaiono nella poesia di Hólderlin, gli dèi - una questione molto importante, dal momento che egli sembra essere l'unico poeta dopo l'antichità, a cui poter credere quando dice di credere negli dèi. Il quarto è dedicato al concetto che contiene quanto ha valore di primo e ultimo per Hólderlin, ovvero la natura. Il quinto, infine, cerca di stabilire che cosa significano le figure della fede cristiana, in particolare Cristo stesso, che compaiono nella sua poesia tarda e in quale rapporto si

Prefazione dell'Autore alla prima edizione 13

pongono sia verso gli dèi che verso la natura. Ognuno di questi punti di vista dischiude un'immagine di tutta l'esistenza, determinata in modo particolare. Ma se ogni «cerchio» contiene il tutto, allora in ciascuno devono ripresentarsi le stesse realtà. Ho cercato di limitare queste ripetizioni. Ma ciò è stato possibile solo fino a un certo punto; spero pertanto che esso sia anche quel punto a partire dal quale le ripetizioni non sono solo ineluttabili, ma anche sensate. Come i miei lavori su Dostoevskij, Pascal, Agostino e Dante, pubblicati dallo stesso editore, anche questo contiene molti testi originali poiché mi premeva di far parlare la parola di Hólderlin nel modo più ricco e pieno possibile. Ringrazio l'editore per aver approvato l'incremento della mole dovuto a questa decisione.

Per quanto conceme la letteratura esistente ho adottato i criteri già praticati nei precedenti lavori menzionati. Ho cercato di entrare nel rapporto il più stretto possibile coi testi stessi; ho ritenuto perciò di poter ridurre la letteratura sull'argomento al minimo necessario per essere informato sui fatti. Non ho letto nemmeno scritti importanti come quello di Bóck-mann (Hólderlin una seine Gotter, Monaco 1935) e di Hildebrandt (Hólderlin. Philosophie und Dichtung, Stoccarda 1939). Dico questo per chiarire il motivo per cui il mio lavoro non si riferisce alla letteratura esistente. Una simile mancanza è molto grave dal punto di vista della precisione scientifica; sono costretto a dar ragione ai critici che l'hanno condannata nei miei scritti precedenti. E non sarebbe nemmeno facile replicare qualora questo mio metodo venisse definito come presuntuoso. Ma per svariate ragioni non sono in grado di ovviare alla mancanza; credo

14 Prefazione dell'Autore alla prima edizione

addirittura che, considerando la peculiare intenzione di questo libro, ciò non abbia un peso così grave. Permane tuttavia la possibilità che io dica cose già dette o sostenga errori già confutati. Per l'informazione sui dati di fatto sono debitore al libro di Wilhelm Bóhm {Holderlin I e II, Halle 1928 e 1929), per il rapporto generale con la personalità e l'opera di Holderlin ai lavori di Norbert von Hellingrath e Ludwig von Pigenot'.

1. In italiano ricordiamo: A. Pellegrini, Holderlin. Storia della critica, Sansoni, Firenze 1956, pp. 654 (n.d.r.).

PREFAZIONE DELL'EDITORE ALLA SECONDA EDIZIONE (1955)

Da quando questo lavoro venne pubblicato per la prima volta più di quindici anni fa, la ricerca ha prodotto una quantità di testi, modi di lettura ed inter-pretazioni che renderebbe necessario correggere le esposizioni che seguono in alcuni punti. L'autore si rammarica perciò che altri impegni gli impediscano di tener conto di questa esigenza. Questa rinuncia gli pesa in particolar modo per quanto riguarda l'inter-pretazione del dionisiaco, dato che il «dio del vino» in Hólderlin è concepito, nonostante gli aspetti dell'ebbra distruttività e dell'«orgiastico», in primo luogo come una potenza che libera dall'ottusità, che anima ed esalta e che è all'origine di ordine e unità. D'altro canto anche la figura e il significato dell'esistenza di Apollo richiederebbero una nuova interpre-tazione. Si tratterebbe in particolare di mostrare che Hólderlin, rispetto all'elemento «apollineo» tradizionale, vi scopre potenze attive ben più primordiali. Lo svolgimento di questi aspetti implicherebbe tuttavia una ristesura di parti essenziali di questo libro. Abbiamo però motivi di ritenere che la monografia di Guardini rappresenti una tappa importante nell'inter-pretazione della poesia di Hólderlin. Una ristampa che lascia sostanzialmente immutato il testo prece-

16 Prefazione dell'Editore alla seconda edizione

dente ha quindi una sua giustificazione. Nonostante avesse delle perplessità, l'autore ha acconsentito a questa operazione. In alcune parti sono state operate piccole correzioni. Le citazioni dall'opera di Hólder-lin sono state adeguate alle nuove edizioni. Per questo e per proposte e suggerimenti ulteriori ringrazia-mo qui Friedhelm Kemp.

In questa riedizione i testi delle poesie vengono riportati dalla Grosse Stuttgarter Azisgabe (a cura di Friedrich Beissner; voi. I 1946, voi. II 1951); gli altri testi sono citati dalla edizione dei Sàmtliche Werke (voli. I-VI, 2' ed., Monaco 1933; voli. I-IV, 3' ed., Berlino 1943 - la 1' ed. di quest'Opera è in 6 voli., Berlino 1913-1923) a cura di Norbert von Hellingrath, Friedrich Seebass e Ludwig von Pigenot. A queste due edizioni si riferiscono quindi i numeri delle pagine accanto ai passi riportati nonché le indicazioni contenute nel testo stesso. Una cifra romana isolata o correlata ad una «p» e alle indicazioni infra o supra si riferisce al «cerchio» e alla pagina del presente lavoro. La grafia è stata adeguata alle esigenze moderne; la punteggiatura, spesso lacunosa e causa di fraintendimenti per il lettore di oggi, è stata opportunamente semplificata.

nota del traduttore E della redazione. Nella traduzione si è ricorsi alla versione di Giorgio Vigolo, per le poesie, le odi e altre forme, le elegie, gli inni, la produzione dell'ultimo periodo di Friedrich Hólderlin (Mondadori, Milano 1971); quanto non rientra in tale versione, è statò tradotto da Giovanna Fozzer; per La morte di Empedocle, la tr. è a cura di Ervino Pocar, Guanda, Parma 1983; quella di Iperione è a cura di G.V. Amoretti, Feltrinelli, Milano 1980; per altro, soprattutto in queste due ultime versioni, sono state fatte modificazioni, specialmente per armonizzarle con l'interpretazione di Guardini.

Primo cerchio

Fiume e montagna

NOTA INTRODUTTIVA

Da qualsiasi parte si entri nella poesia di Hólderiin ci si imbatte nell'acqua che scorre. Certi fiumi sono costantemente ricorrenti, in particolar modo quelli della sua terra, il Neckar e il Danubio. Poi quelli che ha conosciuto durante il suo soggiorno a Bad Hom-burg, Meno e Reno. Dal viaggio in Francia vengono nominati la Garonna e il Rodano. Dai paesi della sua nostalgia, Grecia e Asia Minore, l'Ilisso, l'Eurota e i ruscelli di Calàuria1; il Caistro e il Fattóio che scendono dallo Tmolo, il Meandro. Dall'Egitto il Nilo, dal lontano Oriente l'Indo.

L'acqua appare nelle più svariate forme. Le fonti zampillano e i ruscelli scorrono, soprattutto nelle descrizioni di paesaggio deìVIperione. Nelle poesie delle Alpi e dei fiumi scroscia la giovane acqua di montagna. Attraverso i ruscelli che si riversano in essa cresce diventando un torrente, per poi farsi un fiume che attraversa lento e maestoso i paesi. Nel Ritomo risalta. nella sua bellezza il lago vicino alle Alpi, pieno di vita silenziosa. Anche il mare risplende. Soprattutto quello greco, l'Arcipelago; la poesia che porta questo nome è tra le più splendide descrizioni mai dedicate al mare che è vicino all'uomo e collega gli uomini. Poi l'oceano in generale che dal Mediterraneo si estende nel mondo, come in Ricordo. Dei «flutti del cielo», della pioggia parla una lirica incompiuta,

20 Primo cerchio - Fiume e montagna

A Diotima. Infine, all'inizio di Patmo, l'acqua sciolta da qualsiasi forma, l'acqua divenuta per così dire assoluta, l'elemento che scorre in sé.

Presso il fiume e il mare si dispiegano il paesaggio di Hólderlin e lo spazio dell'esistenza umana. Il fiume nasce in montagna. Le valli lo rinserrano e gli additano la dirczione. Il suo corso sempre più lento e potente attraversa i paesi. Al suo fianco sorgono le città, i suoi «figli». Attraverso il suo movimento i luoghi distanti della terra e le loro popolazioni vengono raggnippati a formare una unità. Ma il mare con le sue coste e le sue isole apre l'ampiezza dello spazio terreno in quanto tale. Chi Io attraversa apprende l'unità del tutto nella dimensione di storia nello spazio.

In termini poetici, il fiume riveste svariate forme che esprimono allo stesso tempo differenti forme di esperienza vissuta del mondo. Esse si confondono fra loro, in tal modo non è sempre possibile discemerle chiaramente; alcune comunque risaltano in modo più netto. Vi è innanzitutto l'acqua vista realisticamente - per quanto abbia senso questo concetto in Hólderlin. Pensiamo soprattutto al romanzo, ai fiumi dell'Asia Minore attraversata da Iperione, oppure alle fonti e ai ruscelli del paesaggio in cui vive Diotima. Anche il Meno ed il Neckar nelle liriche omonime e i fiumi dell'idillio eroico Emilia innanzi il giorno delle sue nozze ne fanno parte. Ciò che qui appare è il determinato corso d'acqua nel suo paesaggio egualmente determinato. Quantunque la sua immagine sia attraversata da forti sentimenti e da un movimento metafisico che trascende la realtà immediata, il fenomeno geografico rimane senz'altro riconoscibile. In altri testi il fiume diventa un'essenza. La realtà empi-

Nota introduttiva 21

rica non si dissolve, però muta. Dietro all'immediata-mente esperibile una realtà nascosta si spinge avanti, ponendo il fenomeno al proprio servizio; per esempio nelle liriche II fiume incatenato. Voce del popolo, e II Reno. In altre occasioni, infine, il fiume diventa figura e movimento puri; così nell'inno L 'Istro verso la metà, dove ormai si avverte solo lo scorrere nella sua profondità, oppure alla fine, dove il percorso del fiume appare come una runa tracciata nella terra.

Un simile passaggio dall'immediato-oggettivo al «significato» - un passaggio che coincide con la maturità poetica di Hólderlin - sembra avvenire anche nella figura del mare. Si ha questa impressione confrontando per esempio la sua apparizione nelYIperione con quella nell'Arcipelago o ancora in Ricordo. Tuttavia queste figure sono inserite in un contesto fluente e, spesso all'interno della stessa poesia, si confondono fra loro.

Quest'acqua che scorre diventa portatrice di diversi significati. In Heidelberg con il suo movimento si fonde quello della vita e del tempo. Nell'inno II Reno, nel fiume si manifesta la legge dell'esistenza secondo cui la volontà tesa all'incondizionato deve attenersi a limiti e forme, se non vuole perire. Alcune poesie presentano il fiume come traiettoria di un movimento allo stesso tempo spirituale-simbolico e storico che unisce gli spazi distanti del mondo nel vivente spazio degli uomini, nell'oikouméne; così per esempio II Meno e II Neckar. Nell'inno Al fonte del Danubio, esso diventa infine una metafora musicale della figura sonora, che si sviluppa nel suo passare, come anche del linguaggio peregrinante che chiama l'uomo non ancora sviluppato all'esistenza spirituale.

IL FENOMENO E LO SGUARDO CORRELATO

II fiume sarebbe allora un simbolo?

Un simbolo nasce appena la forma diventa capace di esprimere qualcosa che trascende il suo dato immediato. Esso sembra avere due punti di origine. II primo risiede nel rapporto tra spirito e corpo. Nella misura in cui lo spirito compenetra efficacemente la carne2 trasformandola in corpo, ne fa anche un simbolo. Le sue forme e i suoi movimenti rivelano ciò che è al di là dell'immediatamente corporeo. In un movimento degli occhi, in un gesto divengono evidenti la vita spirituale ed il senso personale. Essi non sono solo additati da segni oppure richiamati alla memoria attraverso mezzi di comunicazione, bensì resi presenti in modo da poter essere contemplati. Il corpo è l'interiorità che diventa manifesta, l'anima che diventa visibile, lo spirito che diventa contemplabile. L'altra fonte del simbolo sono le immagini della natura presenti nella forma e nel movimento degli astri, negli elementi terra, acqua, aria e fuoco, oppure nella crescita, con le sue vicende e i suoi tempi sempre uguali. L'efficacia semantica di queste forme primordiali conquista la contemplazione, tocca il sentimento, si coniuga con sensazioni fondamentali e con esperienze costantemente ricorrenti dell'uomo. E non solo per abitudine o attraverso la contemplazione estetica,

24 Primo cerchio - Fiume e montagna

bensì per via di impressioni religiose precocissime e profondissime - «precoci» nella misura in cui sono percepite all'inizio dello sviluppo individuale e di quello generale, e «profonde» nella misura in cui si sono impresse negli strati primordiali del mondo intcriore - in modo tale da far penetrare il loro effetto, anche inconsciamente, in tutta la vita futura. Questo rapporto simbolico emerge dappertutto, nella vita individuale come in quella comunitaria. Soprattutto laddove quest'ultima acquista un significato particolare: nelle forme tradizionali del comportamento, nel modo in cui vengono espressi importanti avvenimenti della vita oppure celebrate feste religiose.

Oltre a ciò esistono però anche simboli che sono in un certo qual modo di secondo grado. Figure che già di per sé, come espressione immediata di essenza del mondo ed interiorità, significano qualcosa, che al di là di questo vengono ricolmate di significati più lontani, dalla forza contemplativa e formativa dei singoli, dalla consuetudine storica e dalla tradizione. Così, poniamo, il viaggio diventa il simbolo della vita umana: una concezione di antichità primordiale, segnata da tratti che illuminano, che interpretano l'esistenza, come quello della partenza e quello della fine; della dirczione, con la possibilità di trovarla e di perderla;

del pericolo e del compagno di strada; della stanchezza, del riposo e dell'impossibilità di rimanere per sempre ecc. In questo senso anche il fiume è un simbolo simile a quello della via. È un simbolo di immediata familiarità, e la poesia l'ha usato spesso - anche la poesia di Hólderlin. Ma con questo non si è ancora detta la cosa centrale circa il ruolo del fiume in essa. , Un grande esempio per un tale svolgimento simbolico del motivo 'fiume' è costituito dal Canto di

Il fenomeno e lo sguardo correlato 25

Maometto di Goethe. Esso si sviluppa magnificamente, dalla «fonte nella roccia» fino al fiume del corso successivo che, come Atlante il cielo, sosteneva sulle spalle la ricca vita che s'esprime nella navigazione, ha suscitato sulle sue rive il mondo creativo degli uomini e lo mantiene alimentandolo, per porgere infine «fremente di gioia, tutto al cuore del Genitore in attesa». Leggendo la poesia, si ha dapprima l'impressione di trovarsi davanti a qualcosa di simile a quanto si trova, per esempio, nell'inno II Reno, ossia al «fiume» come immagine dell'esistenza. Presto però ci si accorge che si tratta di qualcosa di diverso. La poesia di Goethe, parlando in forme pure e grandi all'intuito sensitivo di chiunque abbia recettività, forma realmente il simbolo del fiume; Hólderlin invece intende dire di più.

Per capirlo dobbiamo rifarci più indietro, per esempio alla favola. Essa non scaturisce dallo sguardo simbolico universale e dalla fantasia artistica che gli da spessore. Ma anche questo accade; almeno nel caso della favola come oggi la recepiamo e come noi, gente di oggi, la ascoltiamo o, meglio, la leggiamo. Ci riferiamo quindi più precisamente alla favola che ascolta un vero bambino quando gli viene raccontata. Questo sembra essere già più vicino al fenomeno dell'inno II Reno, senza però raggiungere ancora la grande serietà dell'intenzione hólderliniana, poiché ciò che essa significa è la massima maturità. Ora, la favola non nasce da una fonte propria, ma da qualcosa di più primordiale: da quell'esperiènza che l'uomo fece agli inizi, nel suo incontro con la natura e con gli avvenimenti dell'esistenza. Nella favola tali esperienze originarie sono scivolate nell'ambito del favoloso-fantastico; ma le prime impressioni vi sono ancora riecheggiate.

26 Primo cerchio - Fiume e montagna

Quando l'uomo primitivo si imbatteva nel fiume, vedeva dapprima l'acqua reale: sorgente, corso, affluente, sbocco nel mare. Ma l'insieme era più di quanto noi intendiamo con il concetto geografico;

era un essere. Con questo non si vuole alludere a nessun «antropomorfismo» che, scaturito da una deficienza di conoscenza scientifica, si sostituirebbe a precisi concetti; nemmeno alla «personificazione» di un oggetto in sé astratto da parte di un pensiero ancora assorbito dalla fantasia. Ciò che avveniva qui era un'autentica visione. Essa si riferiva a ciò che scorreva, che gelava nell'inverno e si rimetteva in movimento in primavera, che straripava minacciando pericolo, ma. che permetteva anche la navigazione e la pesca. Appunto questo era un essere: una realtà misteriosa, terrificante e allo stesso tempo invitante; un qualcuno, che aveva una volontà. Questo qualcuno lo si poteva improvvisamente incontrare, sotto le spoglie d'un toro ad esempio, oppure di un uomo o d'una donna. Queste figure non erano un'«allegoria» del fiume, e nemmeno la sua «anima», bensì il fiume stesso; una realtà di carattere religioso e misterioso, e allo stesso tempo empirica. Il fiume reale aveva questa forma e quella - e forse anche altre. Da questa visione scaturivano dapprima il mito ed il culto. A partire da questi, l'esperienza, dissimulandosi, assottigliandosi e mutando, veniva trasmessa attraverso leggende e fàvole, per essere tuttavia riattualizzata in esse ancora oggi, da chi è ricettivo.

In Hólderlin essa irrompe in modo primordiale. Del fiume egli conserva ancora l'antica esperienza nu-minosa. Lo contempla con lo sguardo dell'uomo primitivo - che però, dal momento che egli appartiene

Il fenomeno e lo sguardo correlato 27

ad un'epoca successiva, ha avuto un'evoluzione propria. Ma siccome egli è uno spirito elevato e un grande maestro della parola, e si sente mandato per resistere al male accumulato dalla storia e per annunciare ciò che veramente è autentico, tale esperienza assume in lui una particolare potenza: diventa visionaria. A questa esperienza è votata la sua poesia. Hólderlin non è un poeta nell'accezione moderna della parola. Forse lo è ancora ne\V Iperione; non lo è quasi più nelì'Empe-docle. Nei suoi grandi inni e nelle elegie supera comunque di gran lunga i confini del poetico. Il poetico in Hólderlin non è legato alla concezione di autonomia estetica sviluppatasi nel Rinascimento; esso è bensì - come in Dante, Eschilo o Pindaro - legato alla consapevolezza d'una missione religiosa. Non si muove nell'arbitrarietà della creazione artistica determinata esclusivamente dalle leggi intrinseche del processo creativo stesso, ma si sottomette al comando di una realtà misteriosa di cui vive l'esperienza. Detto questo, l'orecchio dovrebbe essere affinato per percepire la profonda differenza di visione intcriore, d'atmosfera e di carattere verbale tra le due poesie. Il canto di Maometto così suona:

Mirate l'acqua di rocda

Splendere gioiosa,

Come sguardo di stella!

D'oltre le nubi

Spiriti buoni

Nutrirono la sua giovinezza

Tra le rupi, nel bosco.

Giovanilmente fresco Danza, fuor dalla nube Giù, sulle rocce marmoree;

28 Primo cerchio • Fiume e montagna

E ancora grida d'esultanza Verso il delo.

Per sentieri di vetta

Insegue i ciottoli variopinti,

E, precedendoli con passo di guida

I fonti fraterni

Trae con sé.

Laggiù nella valle nascono Sotto il suo passo i fiori E la prateria Vive del suo respiro.

Ma non lo arresta ombrosa valle, Non i fiori

Che le ginocchia gli avvinghiano E con occhi d'amore lo lusingano. Verso il piano il suo corso Dirige serpeggiando.

Ruscelli a lui si uniscono

E l'accompagnano. Ora esso va

D'argento fulgido per il piano

Ed il piano con lui brilla

Ed i fiumi del piano

Ed i rivi del monte

Lo acclamano e gridan: Fratello!

Fratello, prendici con tè,

Portaci al tuo padre antico

All'eterno Oceano

Che, spalancate le braccia

Ci attende [...]

«Venite tutti!»

Ed ecco s'ingrossa

Più maestoso, un'intera progenie

Eleva in alto il principe!

E nel suo fluire trionfale

Il fenomeno e lo sguardo correlato 29

Da i nomi alle contrade, Sotto il piede gli nascono atta.

Irrefrenato procede mormorando, Lascia le dme a fiamma delle torri, I marmorei palazzi, creazione Della sua dovizia, dietro di sé.

Case di cedro porta l'Atlante, Sulle gigantesche spalle; stormendo Garriscono sul suo capo Mille bandiere nel vento, Insegne della sua signoria.

E così il fiume porta i fratelli,

I suoi tesori, i suoi figli •

Al Padre che attende ;

Fremendo di gioia nel cuore.

Seht den Felsenquell, / Freudehell, / Wie ein Sternen-blick! / Ùber Wolken / Nahrten seine Jugend / Gute Gei-ster / Zwischen Klippen irci Gebùsch. // Jùnglingfrisch / Tanzt er aus der Wolke / Auf die Marmorfelsen nieder, / Jauchzet wieder / Nach dem Himmel. // Durch die Gip-felgànge /Jagt er bunten Kiesein nach, / Und mit frùhem Fùhrertritt / ReiBt er seine Bruderquellen / Mit sich fort. // Drunten werden in dem Tal / Unter seinem FuBtritt Blumen, / Und die Wiese / Lebt von seinem Hauch. // Doch ihn hàlt kein Schattental, / Keine Blumen, / Die ihm seine Knie umschiingen, / Ihm mit Uebes-Augen schmeichein: / Nach der Ebne dringt sein Lauf/ Schlan-genwandeind. // Bàche schmiegen/ Sich gesellig an. Nun tritt er / In die Ebne silberprangend, / Und die Ebne prangt mit ihm, / Und die Flùsse von der Ebne / Und die Bàche von den Bergen /Jauchzen ihm und rufen: Bruder! / Bruder, nimm die Bruder mit, / Mit zu deinem alten Va-ter, / Zum dem ew'gen Ozean [...] // Und nun schwilit er / Herrlicher; ein ganz Geschlechte / Tragt den Fùrsten hoch empor! / Und im rollenden Triumphe / Gibt er

30 Primo cerchio - Fiume e montagna

Làndern Namen, Stàdie / Werden unter seinem FuB. // Unaufhaltsam rauscht er welter, / Làfit der Tùrme Flam-mengipfel, / Marmorhàuser, eine Schópfung / Seiner Fùl-le, hinter sich. // Zedernhàuser tràgt der Atlas / Auf den Riesenschuitem; sausend / Wehen ùber seinem Haupte / Tausend Flaggen durch die Lùfte, / Zeugen seiner Herr-lichkeit. // Und so tràgt er scine Brùder, / Seine Schàtze, seine Kinder / Dem erwartenden Erzeuger / Freudebrau-send an das Herz (Inselausgabe, Gedichte I, p. 119; cfr. tr. it. in Poesie liriche, tr. di O. Ferrari, Riccardo Ricciardi, Mi-lano-Napoli 1951, pp. 59-61).

Le prime due strofe dell'inno di Hólderlin II Reno, invece:

Nell'edera buia sedevo, alla porta

Della foresta, proprio quando il meriggio d'oro

Per visitare il fonte scendeva

Le scale dell'Alpe,

Che per me è la rocca dei numi,

Costruita da mano divina, '

Secondo l'antica voce, ma donde

Più d'un segreto verdetto

Giunge ancora agli uomini: di lì

Imprevisto ebbi il senso

D'un destino, che appena poc'anzi

Mi si era, in calda ombra

Molto seco conversando, l'anima

Allontanata verso l'Italia

E più oltre alle coste di Morea.

Ma ora, là dentro ai monti,

Nel profondo sotto le argentee dme

E fra il verde lieto,

Dove i boschi rabbrividendo

E le teste delle rupi s'affollano

A guardarlo per giorni,

Là nel più gelido abisso udii

Gemere a liberazione l'adolescente: e lo udivano furente

Il fenomeno e lo sguardo correlato 31

Accusare la Madre Terra

E il Tonante che l'ha generato,

I genitori, mossi a pietà,

Ma i mortali fuggivano il luogo,

Che metteva paura, quando al buio

Nelle catene si voltolava

La collera del Semidio.

Im dunkein Efeu saB ich, an der Pforte / Des Waldes, eben, da der goldene Mittag, / Den Quell besuchend, he-runterkam / Von Treppen des Alpengebirgs, / Das mir die góttlichgebaute, / Die Burg der Himmlischen heiBt / Nach alter Meinung, wo aber / Geheim noch manches ent-schieden / Zu Menschen gelanget; von da / Vernahm ich ohne Vermuten / Ein Schicksal, denn noch kaum / War mir im warmen Schatten / Sich manches beredend, die Seele / Italia zu geschweift / Und fernhin an die Kùsten Moreas. // Jezt aber, drin im Gebirg, / Tief unter den sil-bemen Gipfein / Und unter fróhiichem Grùn, / Wo die Wàlder schauernd zu ihm, / Und der Felsen Hàupter ùbe-reinander/ Hinabschaun, taglang, dort/ Im kàltesten Ab-grund hórt/Ich um Eriósungjammern/ DenJùngling, es hórten ihn, wie er tobt', / Un die Mutter Erd ankiagt', / Und den Donnerer, der ihn gezeuget, / Erbarmend die El-tern, doch / Die Sterbiichen flohn von dem Ort, / Denn furchtbar war, da lichtios er / In den Fessein sich wàlzte, / Das Rasen des Halbgotts (Grafie Stuttgarter Ansgabe II, pp. 142-143; tr. it. cit. [cfr. qui p. 16], p. 195).

Ciò che Hólderlin vede nel fiume supera evidentemente ciò che è accessibile allo sguardo moderno -perfino a quello di Goethe. Si tratta di una realtà nu-minosa; di una «semidivinità», per usare il suo stesso concetto. Essa non è sospesa al di sopra dell'imme-diatamente esperibile e non ne costituisce nemmeno la personalizzazione poetica, bensì è la cosa naturale stessa. Il fiume reale è per lui fin dall'inizio qualcosa

32 Primo cerchio - Fiume e montagna

che trascende il significato che la geografia o anche la scienza della cultura3 attribuiscono a questa parola. Da esso emerge un viso, una figura, qualcuno rivolto a chi è capace di vedere. Nel suo scaturire e nel suo trasformarsi si compie un destino. Ma per il fatto di vedere, il vate stesso è preso. Egli non riesce più a staccarsi. Non è più in grado di assumere nel loro senso banale le cose che incontra, come colui che è assorbito, ma anche protetto dal consueto. Egli deve rimanere un visionario, annunciando ciò che ha visto e partecipandovi in qualche modo. La sua vita perso-n?;e viene implicata entro ciò che è contemplato. Anzi, solo per il fatto di essere votato e segnato fin dalla nascita, egli ha potuto diventare un vate.

In tal modo la poesia di Hólderlin scaturisce nel modo più profondo dalla visione4. Ciò che la visione vede è ogni volta una figura in sé conclusa, che tuttavia interpreta l'intera esistenza. Così il fiume intende ciò che è costituito dallo scorrere; ciò che viene da un'origine e si precipita verso una fine; verso un compimento che allo stesso tempo è tramonto. Esso intende l'impeto che viene fratto dall'ostacolo, ma che grazie a questo acquista la sua forma; ciò che minaccia di dissolversi e che deve essere spinto in una dirczione chiara attraverso la costrizione. Da ciò che scorre via via emergono le forme definite dell'esistenza:

abitazioni, ordini, opere, simboli, maschere. Essi vengono da ciò che scorre, si consolidano e sussistono, pronti per essere subito travolti dallo stesso scorrere per nuovamente perire ... Tutto questo esprime il fiume; ma come realtà misteriosa, percepita da un'esperienza di tipo religioso ad essa correlata, appunto da una visione. ;

FIUMI E MARI

II fenomeno è stato finora descritto in termini generali; adesso si tratta di analizzarlo partendo da alcune forme caratteristiche. Iniziarne con Heidelberg-.

Come l'uccello del bosco s'invola sopra le cime, Si landa sul fiume che accanto d corre splendendo, Agile e forte il ponte Che di carri e d'uomini suona.

Come mandato da dèi, una volta m'avvinse un incanto Sopra quel ponte, mentre l'attraversavo, E di laggiù nello sfondo dei monti Malioso m'appariva il lontano,

E il giovane fiume fuggiva, ilare e fosco, alla piana Come il cuore che oppresso dalla sua troppa bellezza, Per trapassare amando Nei flutti del tempo si scaglia.

Sorgenti avevi, avevi al fuggitivo Fresche ombre donato e lo seguivan le rive Tutte coi loro sguardi, ne tremava Sulle onde l'immagine amabile.

Ma sulla valle cadeva a piombo il titanico Castello, provato dal fato, ai fondamenti Arato dalle folgori; -Pur versava l'eterno sole •

34 Primo cerchio - Fiume e montagna |

I Ringiovanente luce sul decrepito i Gigante e la virente edera i cespi; S Amorose immagini I Sussurravano giù sulla rocca, :j

•i E arbusti in fiore fino alla valle serena t

''€

Dove appoggiate al colle o inclini alla riva i Le tue stradette gaie 5 In un profumo di giardini dormono.

Wie der Vogel des Walds ùber die Gipfel fliegt, / Schwingt sich ùber den Strom, wo er vorbei dir glànzt, / Leicht und kràftig die Brùcke, / Die von Wagen und Menschen tónt. i // Wie von Góttern gesandt, fesseit' ein Zauber einst / Auf die Brùcke mich an, da ich vorùber ging, / Und herein in die Berge / Mir die reizende Ferne schien, // Und der " Jùngling, der Strom, fort in die Ebne zog, / Traurigfroh, * wie das Herz, wenn es, sich selbst zu schón, / Uebend un- :

terzugehen, / In die Fluten der Zeit sich wirft. // Quellen ? hattest du ihm, hattest dem Flùchtigen / Kùhle Schatten * geschenkt, und die Gestade sahn / Ali im nach, und es --bebte / Aus den Wellen ihr liebiich Bild. // Aber schwer in das Tal hing die gigantische, /Schicksaiskundige Burg nieder bis auf den Grund, / Von den Wettern zerrissen; / Doch die ewige Sonne goB// Ihr verjùngendes Ucht ùber das alternde / Riesenbild, und umher grùnte lebendiger / Efeu; freundiiche Bilder / Rauschten ùber die Burg herab. // Stràuche blùhten herab, bis wo im heitern Tal, / An den Hùgel gelehnt, oder dem Ufer hold, / Deine fróhii-chen Gassen / Unter duftenden Gàrten ruhn (il, pp. 14-15; tr. it. dt., p. 49)5.

Tutto è pieno di movimento. L'uccello vola sopra i le cime; il ponte si lancia sul fiume; sul pónte stesso passano i carri in viaggio e la strada dell'uomo. Per i questa strada viene il poeta. Si sofferma alla testa del ponte e guarda lontano. In quella dirczione, sotto di lui, scorre anche il fiume; anche lui va lontano. Il mo-

Fiumi e mari 35

vimento dello sguardo come quello del fiume vengono accolti dalle rive: esse «lo seguono coi loro sguardi», nel riflesso cioè che rimane sul posto, pur dando l'illusione di scorrere via. Anche la città, questa struttura solidamente fondata e massiccia, è mossa. Per via del suo peso «titanico», su cui poggia una storia molto antica, «il castello» cade sulla valle «a piombo». Sulla rocca «amorose immagini sussurravano»: tutte le forme del rinverdire e fiorire; cespugli, prati, fiori, tutto quello che cresce lungo il pendio della montagna e con amena copiosità discende fin giù nella città che «gaia» dorme, s

In questo movimento è entrato colui che guarda. Ha attraversato il ponte - in quel momento «un incanto mandato come dagli Dèi m'avvinse sopra quel ponte mentre l'attraversavo»: il tocco visionario attraverso cui tutto cambia. A partire da esso, il castello viene visto come «provato dal fato», come «decrepito gigante»; a partire da esso le «immagini» discendono in un «sussurrare» e le vie «gaie [...] dormono». Dal castello scaturisce tutto il movimento della poesia. Esso non viene proiettato esteticamente su ciò che è obiettivamente dato o sentito liricamente; si manifesta bensì all'occhio visionario come un mistero che domina ovunque. Il medesimo tocco eleva anche la vita personale a un momento culminante: il fiume è «ilare e fosco» a un tempo, come il cuore che «oppresso dalla sua troppa bellezza / Per trapassare amando / Nei flutti del tempo si scaglia». E l'istante dionisiaco in cui il senso dell'esistenza e l'esperienza del bello giungono al limite intcriore ed in cui la vita, superandoli, si spinge verso il Tutto, ma ciò vuoi dire:

verso la fine. Tutto ciò è «il fiume»: dismisura della ricchezza che desidera donarsi; sovrabbondanza della

36 Primo cerchio - Fiume e montagna

felicità da cui si leva la tristezza; un uscire dalla forma d'esistenza, sicura del suo esser presente, del paesaggio e della patria intcriore e tendere verso la lontananza infinita, dove aspetta la fine; vita che si compie nello scorrere e che perisce nella misura in cui diventa potente ... Eppoi è il tempo: poiché «tempo» significa per Hólderlin non una semplice successione di ciò che avviene, ma la fluidità dell'esistenza stessa. Tempo intcriore quindi, che scorre più o meno veloce, a seconda dell'intensità della vita (II, infra).

Dapprima vi è il moto intcriore, raccolto nell'immagine che lo sguardo domina; poi il movimento mirato, che tende ad un obiettivo lontano - lo stesso avviene nel Canto del Destino di Iperione; solo che il 1 secondo movimento non scaturisce dal primo, ma si * compie in contraddizione ad esso.

All'inizio della poesia vi è presente puro, esistenza compiuta, pienezza mossa nella quiete:

Senza destino, come lattante ;

Che donna, respirano i superi;

Serbato casto

In umile bocdo

È in etemo fiorire

Per loro lo spirito

E gli occhi beati

Brillano in tadta '

Eterna chiarità. ,

Schicksallos, wie der schlafende / Sàugling, atmen die Himmlischen; /. Keusch bewahrt / In bescheidener Kno-spe, / Blùhet ewig / Ihnen der Geist, / Und die seligen Augen / Blicken in stiller / Ewiger Klarheit (i, p. 265; tr. it.dt.,p.37).

Poi il movimento mirato - non verso la lontanan-

Fiumi e mari 37

za, ma precipitando in profondità; in una profondità fatale, inconsapevolmente sotto costrizione:

Ma a noi non è dato

In luogo nessuno posare,

Dileguano, cadono,

Soffrendo gli uomini

Alla cieca, da una

Ora nell'altra,

Come acqua da scoglio

A scoglio gettata

Per anni nell'incerto giù.

Doch uns ist gegeben, / Auf keiner Stàtte zu ruhn, / Es schwinden, es fallen / Die leidenden Menschen / Blind-lings von einer / Stunde zur andern, / Wie Wasser von Klippe / Zu Klippe geworfen, /Jahriang ins Ungewisse hi-nab (I, p. 265; tr. it. dt., p. 39).

E di nuovo l'acqua; ma non il fiume che cresce pazientemente, bensì lo scrosciante torrente di montagna. Anche in esso si manifesta la vita, la cui natura consiste nel tendere in profondità, verso la fine; ma ora non sotto la forma dell'abbondanza dionisiaca, ma sotto la costrizione del destino. È caduta che ricorre alla fine dell'Arcipelago:

... là in quei monti

Mandate ogni dì un lamento alla valle della battaglia

Dai picchi dell'Età, o erranti acque mandate giù il canto

del fato.

... dort, dort von den Bergen / Klagt ins Schlachttal tàglich herab, dort singet von Oetas / Gipfein das SchicksalsUed, ihr wandeinden Wasser, herunter! (n, p. Ili; tr. it. dt, p. 117).

Raggiungendo il massimo vertice del dionisiaco, lo

38 Primo cerchio - Fiume e montagna

stesso contenuto ricorre nella Poesia Voce del popolo (seconda versione). Dapprima il mito del fiume stesso: '

Indifferenti alla nostra saggezza scrosciano ben anche i fiumi, e tuttavia

Chi non li ama? E sempre mi commuovono II cuore, quando li sento lontanare, Carichi di presagi, non per la mia strada, Ma la sicura che li guida al mare.

Oblioso di sé, pronto sempre il desio Degli dèi a compiere, troppo dodle Ciò ch'è mortale, ad occhi aperti Correndo rapido per il suo sentiero,

Prende la via più breve del ritomo nel tutto;

Così precipita il fiume in cerca di pace, lo strappa, Lo trae contro sua voglia, di scoglio In scoglio, giù, senza alcun freno,

La brama meravigliosa d'inabissare [...].

Um unsre Weisheit unbekùmmert / Rauschen die Strème doch auch, und dennoch, // Wer liebt sie nicht? und im-mer bewegen sie / Das Herz mir, hór ich ferne die Schwindenden, / Die Ahnungsvollen, meine Bahn nicht, / Aber gewisser ins Meer hin eilen. // Denn selbstverges-sen, allzubereit den Wunsch / Der Getter zu erfullen, er-greift zu gern / Was sterbiich ist, wenn offnen Augs auf/ Eigenen Pfaden es einmal wandeit, //Ins Ali zurùck die kùrzeste Bahn; so stùrzt / Der Strom hinab, er suchet die Ruh, es reiBt, / Es ziehet wider Willen ihn, von / Klippe zu Klippe den Steuerlosen //Das wunderbare Sehnen dem Abgrund zu [...] (il, p. 51; tr. it. cit-, p. 65).

Ciò che è nato e confinato entro un'esistenza particolare brama di ritornare al tutto. Con questo non

Fiumi e mari 39

si allude alla connessione sperimentabile delle cose, dei processi, delle materie e delle forze, bensì all'unità assoluta che sta dietro ad ogni essere particolare. Questo tutto è il grembo dell'esistenza, dal quale si è elevata la vita e al quale ritorna quando muore. Più l'essere è grande, più la sua vitalità è pura, tanto più è potente la sua spinta verso la fine. Quando la vita sale, cresce la sua inclinazione verso la morte.

Ciò vale anche per il popolo. «Popolo» è vita d'un contesto più grande; è una vita che attraversa tempi più lunghi e svolge contenuti più vasti che non quella del singolo. Siccome non è sostenuta da un unico essere, è più esposta a scosse incessanti, di esaltazione come di distruzione; essa è «fiume» in un senso più alto che non l'essere individuale. Tanto più fortemente in esso la vita tende a ritornare verso la profondità. Così arriva infine il momento sublime e tremendo del culmino, quando l'impeto «sacro» prorompe:

L'illimitato affascina e anche i popoli

Son presi dal gusto della morte, e le audad ,

Città, dopo aver cercato il meglio,

Di anno in anno continuando l'opera,

Hanno incontrato una fine sacra [...].

Das Ungebundne reizet und Vólker auch / Ergreift die Todeslust und kùhne / Stàdie, nachdem sie versucht das Beste, / VonJahr zuJahr forttreibend das Werk, sie hat/ Ein heilig Ende troffen [...] (n, p. 51).

Così è accaduto alla città di Xanto6 in Asia Minore, situata presso il fiume omonimo, quando venne assediata dall'esercito di Bruto. In quel momento è stata assalita dal «gusto della morte»:

40 Primo cerchio -Fiume e montagna

Fu la bontà di Bruto ad eccitarli. Poiché Quando il fuoco eruppe, egli si offrì Di aiutarli, lui stesso, il condottiero, Sebbene di fronte a quelle porte li assediasse.

Pur dagli spalti i servi essi gettarono, Che egli inviò. Più vivo ne fu II fuoco ed essi ne gioirono, e a loro Le mani Bruto tendeva

E tutti eran fuori di sé. Un urlo

Si levò, e giubilo. Giù nella fiamma si gettarono

Uomini e donne, e dei fanciulli l'uno

Dal tetto, sulla spada paterna l'altro.

Es reizte sie die Gùte von Brutus. Denh / Als Feuer ausge-gangen, so bot er sich / Zu helfen ihnen, ob er gleich, als Feldherr, / Stand in Belagerung vor den Toren.// Doch von den Mauem warfen die Diener sie, / Die er gesandt. Lebendiger ward darauf/ Das Feuer und sie freuten sich und ihnen/ Strecket' entgegen die Hànde Brutus // Und alle waren auBer sich selbst. Geschrei / Entstand und Jauchzen. Drauf in die Fiamme warf / Sich Mann und Weib, von Knaben stùrzt' auch / Der von dem Dach, in der Vàter Schwert der (il, pp. 52-53).

II

Finora il fiume era una forma della vita, il fenomeno del tempo vivente. Adesso diventa espressione della tensione dello spazio in cui si compie questa vita. L'esempio più semplice è la poesia II Neckar.

Nelle tue valli il cuore mi si destò Alla vita: mi giocavano intorno le tue onde E dei leggiadri colli che ti conoscono. Viandante, non m'è estraneo nessuno. [...]

Fiumi e mari 41

Le fonti montane correvano a tè, E con loro anche il mio cuore, e d rapivi Giù verso il Reno maestoso, verso . Le sue atta e le isole liete.

E ancor bello mi pare il mondo, e l'occhio

Con desiderio mi corre alle attrattive della terra,

All'oro del Fattóio7, alle riviere

Di Smirne, al bosco d'Ilio. Anche vorrei

Spesso al Sunio sbarcare, sul tadto Sentiero ricercare le tue colonne. Olimpio, Avanti che la bufera e gli anni Anche tè seppelliscano col tempio

D'Alena e con le sue statue degli dèi, Che già da gran tempo, orgoglio del mondo Che non è più, d levi solitario. E voi, O belle isole di Ionia, dove l'aria marina

Le rive ardenti affresca e nel laureto spira Quando il sole da calore alla vite [...]

E forse a voi, isole di Ionia, a voi Mi porterà il mio nume tutelare; ma là pure Avrò in cuore fedelmente il mio Neckar Con i suoi prati ameni e i salid alle sponde.

In deinen Talem wachte mein Herz mir auf/ Zum Leben, deine Wellen umspielten mieti, / Und ali der holden Hù-gel, die dich, / Wanderer! kennen, ist keiner fremd mir // [...] Der Berge Quellen eilten hinab zu dir, / Mit ihnen auch mein Herz und du nahmst uns mit, / Zum stiller-habnen Rhein, zu seinen / Stàdten hinunter und lustgen Insein. // Noch dùnkt die Welt mir schón, und das Aug entflieht / Verlangend nach den Reizen der Erde mir, / Zum goldenen Paktoi, zu Smymas / Ufer, zu Ilions Wald. Auch mócht ich // Bei Sunium oft landen, den stummen

42 Primo cerchio - Fiume e montagna

Pfad / Nach deinen Sàulen fragen, Olympion! / Noch eh der Sturmwind und das Alter / Hin in den Schutt der Athenertempel // Und ihrer Gottesbilder auch dich be-gràbt, / Denn lang schon einsam stehst du, o Stolz der Welt, / Die nicht mehr ist. Und o ihr schónen / Insein lo-niens! wo die Meerluft // Die heiBen Ufer kùhit und den Lorbeerwaid / Durchsàuseit, wenn die Sonne den Wein-stock wàrmt // [...] Zu euch, ihr Insein! bringt mich viel-leicht, zu euch / Mein Schutzgott einst; doch weicht mir aus treuem Sinn / Auch da mein Neckar nicht mit seinen / Uebiichen Wiesen und Uferweiden (il, pp. 17-18).

Qui il fiume è un «viandante». L'inizio del cammino è prestabilito: la sorgente. Anche il traguardo è , prestabilito: per il Neckar il Reno, per il Reno il ma- ;

rè. Il letto del fiume costituisce la via, egualmente 1 predeterminata. Anche l'uomo è un viandante. An- | ch'egli parte da fatti prestabiliti: dalla nascita e dalla

sua destinazione che non deve mai dimenticare, allo a stesso modo come il fiume non dimentica la propria origine; il grembo, infatti rimane una zona profonda che passa al di sotto del corso seguito dalla vita e da f cui la vita, costantemente reimmergendovisi, trae la ? propria norma. Anche l'uomo deve staccarsi dalla i propria origine e partire, ma anch'egli non deve ten- I dere verso l'arbitrario, ma verso un obiettivo determi- i nato. Egli deve cercare il polo opposto alla sicurezza j e protezione del grembo: la vastità del mondo. Egli * deve tendere l'arco dell'esistenza, fino a raggiunger- j ne la terra straniera; ma non una qualsiasi, bensì , quella assegnatagli, la controreplica della patria. Tale » èperHólderlinlaGrecia. I

La Germania e la Grecia sono per lui tutt'uno, co- | me i punti focali di un'ellisse la cui tensione da luogo s

?si

Fiumi e mari 43

al delinearsi della curva. Essi sono talmente correlati che non appena viene menzionato uno dei due nella sua poesia, anche l'altro appare/sia pure con un breve riferimento. Ciò che lo attira non è una connessione esteriore, ma una compresenza vivente: i due formano insieme un tutt'uno.

Anzi, la relazione è ancora più determinata. Essa non comprende semplicemente «la Germania»; questo sarebbe troppo grande, non sarebbe abbastanza terra natia, sorgente, grembo; bensì la «Svevia». Sve-via-Grecia, ecco la tensione. Stoccarda è posta addirittura in relazione ad Atene. Ma non sotto forma di denominazioni composte dal suono ingrato come «Atene del Neckar», bensì in modo intcriore, essenziale, come per esempio nella grande poesia che porta il nome della capitale sveva.

Ma ciò che unisce i paesi è il fiume. Esso è la via del pellegrinaggio e allo stesso tempo il viandante, il pellegrino stesso. Esso è lo scorrere vivente che collega gli spazi della partenza e dell'arrivo. Costeggiandolo, l'uomo viaggia dalla Svevia-Germania alla Grecia. Anzi, quando è sveglio, anticipa già in patria la lontananza, ritrovando nella lontananza la patria, come nelle strofe della poesia La •migrazione3.

In una forma del tutto visionaria lo stesso senso si manifesta nell'inno tardo L 'Istro. Esso è diffìcile da interpretare nel dettaglio ed ogni sua frase richiede un'analisi accurata9. Analogamente a La migrazione, incontriamo dapprima un popolo nomade partito dall'Asia:

Vieni ora, fuoco!

Ansiosi siamo ,

Di guardare il giorno.

44 Primo cerchio - Fiume e montagna

E quando la prova

È passata per le ginocchia,

Piace sentire il boschivo grido.

Ma noi cantiamo, dall'Indo

Venuti qui di lontano

E dall'Alfeo10; cercato a lungo abbiamo

Ciò ch'era a noi destinato11,

Ne senza ali si può

Afferrare di slancio

Nemmeno quanto è più presso

E varcare all'altra riva.

Ma qui vogliamo stabilirci,

Che fiumi fanno ferace

II paese. Dove alta è l'erba

E vanno d'eslate

Gli animali a bere,

Vi vanno gli uomini pure.

Jetzt komme, Feuer! / Begierig sind wir / Zu schauen den Tag, / Und wenn die Prùfung / Ist durch die Knie gegan-gen, / Mag einer spùren das Waldgeschrei. / Wir singen aber vom Indus her / Fernangekommen und / Vom Al-pheus, lange haben / Das Schickiiche wir gesucht, / Nicht ohne Schwingen mag / Zum Nàchsten einer greifen / Geradezu / Und kommen auf die andere Seite. / Hier aber wollen wir bauen. / Denn Strème machen urbar / Das Land. Wenn namlich Kràuter wachsen / Und an den-selben gehn / Im Sommer zu trinken die Tiere, / So gehn auch Menschen daran (il, p. 190; tr. it. dt., p. 239).

Il popolo è stato in cammino durante la notte e adesso chiama «il fuoco», il sole. È stanco; la prova è passata per le ginocchia, nelle «ginocchia» si avverte la fatica del camminare, ma anche la commozione dell'anima. Esso vuole sentire «il boschivo grido», l'allegro canto mattutino degli uccelli, che viene «dall'Indo», dalla lontana Asia, dalla patria di Dioniso e ha

Fiumi e mari 45

attraversato, costeggiando l'«Alfeo», la Grecia e si è diretto verso nord.

Cerca «ciò ch'era [...] destinato». L'«Asia» è abbondanza dionisiaca; questa dev'essere contenuta per dar modo alla vita di prosperare - il tema verrà sviluppato ampiamente nell'inno II Reno. Questo contenimento è «ciò ch'era [...] destinato», il «dovuto», e si trova nel nord più aspro. I fiumi indicano la strada:

l'Indo, l'Alleo, il Danubio. Il fiume unisce, ma allo stesso tempo divide: una riva dall'altra. In tal modo la sua immagine diventa espressione della distanza esistenziale tra il momento dionisiaco della partenza e il freno di «ciò ch'è destinato», anche se questo freno è assai «vicino» - vedi la vicinanza delle montagne divise all'inizio dell'inno Palmo. È quindi difficile superare questa distanza, e vi è bisogno delle «ali» per «varcare all'altra riva»: della forza del salto, del volo, del superamento.

Sono di nuovo i fiumi a fare «ferace il paese», a creare uno spazio di vita per le piante, gli animali e gli uomini. Così il cammino arriva alla destinazione:

«Ma qui vogliamo stabilirci». Poi appare l'Istro stesso, ossia il corso inferiore del Danubio:

Lo chiamano l'Istro

Ha bella dimora. Arde delle colonne

La fronda e tremola. Dal folto diritte

Sorgono alla rinfusa: su esse,

Secondo ordine, sporge

II tetto di rupi. E non

Mi stupisce ch'egli abbia

Èrcole come ospite invitato,

Di lungi splendendogli, alle falde d'Olimpo,

Quando per cercarsi ombra

Venne dall'Istmo ardente12,

46 Primo cerchio - Fiume e.montagna

Che là grande cuore -

Avevano, ma abbisogna, per gli spiriti, ..,

Anche la frescura. Perdo quegli preferì migrare

Qui, alle sorgenti e alle ripe gialle

Alto odoranti nell'aria e nere

D'abetaie, ove nel fitto

II cacciatore ama vagare

Di meriggio e udibile è la crescita

Nei resinosi alberi dell'Istro.

Man nennet aber diesen den Ister. / Schón wohnt er. Es brennet der Sàulen Laub, / Und reget sich. Wild stehn / Sie aufgerichtet, untereinander; darob / Ein zweites MaB, springt vor / Von Felsen das Dach. So wundert / Mich nicht, da6 er / Den Herkules zu Gaste geladen, / Fern-glànzend, am Olympos drunten, / Da der, sich Schatten zu suchen, / Vom heiBen Isthmos kam, / Denn voli des Mutes waren / Daselbst sie, es bedarf aber, der Geister we-gen, / Der Kùhiung auch. Darum zog jener lieber / An die Wasserquellen hieher und gelben Ufer, / Hoch duft-end oben, und schwarz / Vom Fichtenwaid, wo in den Tie-fen/ EinJàger gern lustwandeit/ Mittags, und Wachstum hórbar ist / An harzigen Bàumen des Isters (il, pp. 190-191; tr. it. cit., pp. 240-241).

Il modo di descrivere qui il paesaggio dovrà ancora essere discusso (IV, infra, p. 597). Nella forma par-ticolarmente ciclica prediletta dalla poesia di Hólder-lin, i temi della prima strofa ritornano: il mistero del porre freno, espresso dal refrigerio che, Eracle, aggravato dalla dismisura delle sue fatiche, vi ha trovato. Poi continua:

II quale, però, sembra quasi

Che vada a ritroso ,

E io penso debba venire , ,

Da oriente. ' , ••.'•••

Fiumi e mari •• . " 47

Molto d sarebbe

Da dirne. E perché

Sta così addosso ai monti? L'altro,

II Reno, se n'è andato

Da parte [...].

Der scheinet aber fast / Rùckwàrts zu gehen und / Ich mein', er mùsse kommen/ Von Osten. / Vieles wàre/ Zu sagen davon. Und warum hàngt er / An den Bergen ge-rad? Der andre, / Der Rhein, ist seitwàrts / Hinweggegan-gen [...] (n, p. 191; tr. it. dt., p. 241).

Il fiume va «avanti» e «a ritroso». D movimento che giunge dalle lontananze dell'Indo, termina qui: l'altro, che parte dalla patria tedesca, l'ha captato. Essi si compenetrano. Questo è un mistero: «Molto ci sarebbe da dirne» Diventa evidente un'unità che comprende l'«Asia insieme alla Grecia» e «la Germania».

Nell'Zrtro già si accenna al fatto che il Reno «se n'è andato da parte». La dirczione dello spazio di movimento da esso creato va da Nord a Sud. Essa emerge chiaramente nella poesia II viandante.

In Hólderiin non viene tematizzato lo spazio esteriore, la giustapposizione astratta dei corpi, bensì lo spazio vivente. Esso si trova allo stesso tempo fuori e dentro. Esso costituisce non solo la possibilità di estendersi per il movimento fisico, ma anche quella intcriore, dando luogo, a seconda del suo potere di inarcarsi, a differenti spazi della vita stessa. Ma nell'J-stro diventa evidente ancora un'altra tensione di spazio evita:

[...] Non vanno senza ragione '"

Nel secco i fiumi. Ma come? È ch'essi debbono

Fare da lingua. Un segno d vuole, '

48 Primo cerchio - Fiume e montagna

Nient'altro, chiaro e netto, che Sole

E Luna porti nell'animo inseparabili,

E prosegua di e notte, e i Celesti .

Al caldo ci si sentano l'un l'altro.

Perdo quelli son pure

La gioia dell'Altissimo. In che modo verrebbe,

Altrimenti, quaggiù? E, come Hertha13 verdi,

Sono essi i figliuoli del cielo [...].

[...] Umsonst nicht gehn / Im Trocknen die Strème. Aber wie? Sie sollen namlich / Zur Sprache sein. Ein Zeichen braucht es / Nichts anderes, schlecht und recht, damit es Sonn / Und Mond trag im Gemut, untrennbar, / Und fort-geh, Tag und Nacht auch, und / Die Himmlischen warm , sich fùhlen aneinander. / Darum sind jene auch / Die S Freude des Hóchsten. Denn wie kàm er / Herunter? Und wie Hertha grùn, / Sind sie die Kinder des Himmeis [...] (Il, p. 191; tr. it. cit., p. 239).

I fiumi non scorrono «senza ragione», senza senso. Essi devono «fare da lingua», essere «segni» che parlano. Ma di che cosa? Della tensione degli ambiti dell'esistenza in generale. Ma si tratta di analizzare ogni « parola. I fiumi scorrono «nel secco»: vengono intro- * dotti gli antichi concetti elementari del «secco» e del-l'«umido». Essi, che sono opposti, vengono conciliati dal corso del fiume. Poi: il «segno» porta nell'animo «Sole e Luna [...]». Con questo si intende dire che entrambi i corpi celesti, l'uno durante il giorno, l'altro di notte, vengono riflessi dal suo specchio. Solitamente separati - quando sopravviene uno, l'altro deve an- J darsene - si trovano uniti in esso. Ogni separazione significa condizione critica, nostalgia, dolore; qui essa è superata. Ciò vale anche per la separazione di «di e notte», di quegli ambiti dell'essere determinati dal sole e dalla luna, dalla chiarezza e dalle tenebre, dall'or-

Fiumi e mari 49

dine e dal caos, dall'altezza dei cieli e dal grembo della terra- Nel fiume che, scorrendo costantemente e coerentemente, «se ne va», essi vengono riuniti.

I fiumi sono «la gioia dell'Altissimo». «In che modo verrebbe altrimenti quaggiù»14. «L'Altissimo» è il ciclo. Come «viene quaggiù»? Innanzi tutto attraverso l'immediatamente percepibile: attraverso il riflesso nell'acqua. Allo stesso tempo però si abbassa anche l'etere dominante stesso, la regione dell'altezza regnante e feconda, immergendosi come potenza divina in profondità, nella vita della terra che attende, e nasce l'unità di sopra e sotto, di cielo e terra, in un susseguirsi di nascite. In tal modo il fiume è l'«ani-mo» vivente della terra stessa, la sua interiorità piena di amore che compie l'unità, la sua «intimità».

Tutto ciò accade perché «i Celesti al caldo ci si sentano l'un l'altro». Gli dèi non sentono; abbiamo udito cosa dice II canto del Destino di loro. Essi non provano sentimenti, essi sono soltanto; non provano amore, lo suscitano soltanto. Di questo hanno bisogno; è questa l'unica cosa necessaria a loro, ricchi e privi di bisogni. Essi si spingono verso gli esseri terreni che, per quanto effimeri, hanno un cuore sensibile. Quando questi sentono gli dèi, allora gli dèi sentono se stessi nel loro intimo (ili, infra, p. 367). Qui il fiume è un essere terreno tale che in esso gli dèi possano sentirsi. Ma questi dèi sono divisi; Essi sono la forma numinosa di ambiti dell'esistenza che per loro natura sono separati (III, infra, p. 453). Giorno e notte non possono stare insieme; quando viene uno, l'altro se ne deve andare. Questo è dolore; il dolore di per se stesso, la sofferenza mitica. Qui, nell'«animo» del fiume che riflette prima questo, poi quello, e che

50 Primo cerchio - Fiume e montagna

scorrendo - ricordando - li conserva entrambi, essi possono stare insieme. Così nell'intimità della vita che scorre nasce l'unità degli ambiti del mondo tra loro separati e delle regioni dell'esistenza: il mondo |, che si realizza nella pace. "

III ,

, '

L'immagine del fiume si presenta in termini nuovi all'interno della poesia Al fonte del Danubio. Essa inizia in modo possente:

Come d'accordi stupendi alto dall'organo , ; ! Per le sacre volte

Sgorgando puro da inesauste canne § II preludio, destante, del mattino comincia '• E in vasti cerclii di navata in navata ? Il refrigerio si versa della melodica piena 1 E fino nelle fredde ombre ricolma | D'entusiasmi le mura, s Ma ora si desta, ora sorgendo al sole :: | Della festa risponde ',: * II coro dei fedeli; così giunse "" f La parola da Oriente a noi, 5 E di Parnaso alle rupi e al Citerone, 3 O Asia, odo l'eco tua che si frange ' ' j Al Campidoglio e subito giù dalle Alpi 3

'•M:

' .. ' ^

Straniera giunge ,1 A noi la risvegliatrice, I La voce che forma gli umani. ^ |

I Denn, wie wenn hoch von der herrlichgestimmten, der Or- »

gel / Im heiligen Saal, / Reinquillend aus den unerschóp- " flichen Róhren, / Das Vorspiel, weckend, des Morgens be- i

Fiumi e mari 51

ginnt / Und weitumher, von Halle zu Halle, /Der erfri-schende nun, der melodische Strom rinnt, / Bis in den kalten Schatten das Haus / Von Begeisterungen eriùllt, / Nun aber erwacht ist, nun, aufsteigend ihr, / Der Sonne des Fests, antwortet / Der Chor der Gemeinde; so kam / Das Wort aus Osten zu uns, / Und an Pamassos Felsen und am Kidiàron hór ich, / O Asia, das Echo von dir und es bricht sich / Am Kapitoi undjàhiings herab von den Al-pen // Kommt eine Fremdiingin sie / Zu uns, die Erwec-kerin, / Die menschenbildende Stimine (il, p. 126; tr. it. dt., p. 163).

La comunità si è radunata in chiesa. Dapprima tutto è assorto nel silenzio. Poi attacca l'organo, scorre il fiume dei suoni, ed in esso traluce il «sole della festa». La realtà numinosa si avvicina; levandosi nel canto, lo spirito della comunità risponde e tutto è pervaso di vita (m, infra, p. 402). Così, fluendo come scorre il fiume dei suoni, continua la riflessione, viene «la Parola», «la voce che forma gli umani». E, come dimostra il brano successivo, non si tratta del linguaggio in generale, ma di una parola particolare, proferita da una voce particolare, attraverso cui soltanto però l'uomo diventa un uomo vero. Questa parola non è un semplice segno semantico oppure uno strumento di intesa, bensì una potenza, un essere. Esso non è nato originariamente in un luogo qualsiasi, dal linguaggio comune degli uomini, bensì in un luogo preciso, là dove si è manifestato in assoluto ciò che è valido e sacro, in «Oriente». Nuovamente appare la grande tensione, l'inarcarsi dello spazio cosmico: dair«0riente» «a noi», daU'«Asia» alla comunità del villaggio svevo radunata nel giorno di festa. Questa tensione è nuovamente costituita da un «fiume», che possente scroscia: la parola, la voce. Il suo corso

52 Primo cerchio - Fiume e montagna

è segnato da grandi nomi: Asia, Parnaso e Citerone, Campidoglio, Alpi e Germania. Per questa strada esso viene potente, improvviso, non come qualcosa di terreno e noto, ma come «straniero» che porta in sé il mistero del divino, l'estraneità numinosa.

La «voce» e la «parola» a cui qui si accenna sono essenziali. Esse formano l'uomo, elevandolo in assoluto alla sua esistenza autentica. A che cosa alludono quindi? La chiesa e la festa nonché il nome «Asia» indicano che si tratta innanzitutto della parola manife-statasi nel messaggio di fede, connessa però con un'altra, come emerge dai grandi nomi dell'ambito culturale greco e romano.

Si tratta comunque di una parola piena di potenza, il mistero d'una divinità che risveglia. Ciò diventa evidente nei suoi effetti: '

Stupore invase allora l'anime tutte '

Dei colpiti e notte

Fu sopra gli occhi dei migliori. ;

Poi che grande ha potere,

E flutto e rupe e infino la forza del fuoco -

Con arte l'uomo astringe

E più spada non cura

II nobile cuore, ma innanzi al divino

II forte resta annientato, '

E quasi somiglia alla fiera ' .' Che da soave gioventù sospinta, :;• Vaga senza requie i monti E sente la sua forza ;

Nell'ardente meriggio. Ma quando

S'è dipartita fra zefiri ilari ;

La sacra luce e, con più fresco raggio,

Gioioso spirito arriva ;

Alla terra felice, cade affranta, non usa !

Fiumi e mari 53

A tanta bellezza e in dormiveglia s'assonna prima che stelle si appressino:

Così anche noi: a molti s'è spenta

La luce degli occhi prima dei doni divini,

Degli amorevoli doni che di Ionia

Che d'Arabia ci vennero: ne s'allegrarono

Mai di cara dottrina, mai di soavi cand

La anime di quegli addormentati.

Pure vegliavano alcuni [...].

Da faBt* ein Staunen die Seele / Der Getroffenen ali und Nacht / War ùber den Augen der Besten. / Denn vieles vennag / Und die Flut und den Feis und Feuersgewalt auch / Bezwinget mit Kunst der Mensch / Und achtet, der Hochgesinnte, das Schwert / Nicht, aber es steht / Vor Góttlichem der Starke niedergeschlagen, // Und gleichet dem Wild fast; das, / Von sùBer Jugend getrieben, / Schweift rasdos ùber die Berg' / Und fuhiet die eigene Kraft / In der Mittagshitze. Wenn aber / Herabgefuhrt, in spielenden Lùften, / Das heilige Licht, und mit dem kùhl-eren Strahi / Der freudige Geist kommt zu / Der seligen Erde, dann eriiegt es, ungewohnt / Des Schónsten, und schiummert wachenden Schlaf, / Noch ehe Gestirn naht. So auch wir. Denn manchen eriosch / Das Augenlicht schon vor den góttlichgesendeten Gaben, // Den Freund-lichen, die aus lonien uns, / Auch aus Arabia kamen, und froh ward / Der teueren Lehr und auch der holden Ge-sànge / Die Seele jener Entschlafenen nie, / Doch einige wachten [...] (Il, p. 127; tr. it. dt., pp. 163-165).

Questa parola viene dallo «spirito gioioso». Questo concetto abbisognerà di ulteriore chiarimento (il, infra, p. 204; IV, infra, p. 516 e altrove). Non si tratta del fattore logico-concettuale, e nemmeno di quello culturale-creativo, bensì di una potenza religiosa che prende, scuote, solleva al di sopra dello stato abituale, trasforma. Esperienze religiose universali di tipo

54 Primo cerchio - Fiume e montagna

mistico-dionisiaco e concetti cristiani dello Spirito' Santo qui si compenetrano. Ciò diventa evidente nei versi che descrivono come la parola nata dallo spirito investa coloro che non ne sono ancora stati toccati. L'uomo tiene testa alla pura forza della natura e alla potenza del nemico, ma l'elemento «pneumatico» lo scuote - allo stesso modo come scuote «le fiere» che per Hólderlin sono riferite allo spirito, sacre a Dioni-so e di natura dionisiaca esse stesse15. Così come queste, pur superando gli sforzi fisici, soccombono al soffio del respiro terrestre, alla «bellezza» suprema, così l'uomo quando lo tocca ciò che in sé è più delicato di qualsiasi. forza fisica, ciò ch'è alitato dallo spirito, la parola sacra con la sua varietà di forme e la potenza del suo significato. Per molti si è già oscurata in questo modo la sicura luce intcriore. -1

Le ultime frasi mettono maggiormente in evidenza le due forme di «doni divini», contessuti nella copia di quel fiume spirituale. Una è la «cara dottrina» e viene dall'Arabia; l'altra sono i «soavi canti» che provengono «di Ionia». Nel seguito verranno sviluppati più riccamente. Dapprima le parole provenienti

dalla Grecia: ;

! ; *

' i . •• ' 'i A

[...] E migravano spesso contenti , . , ,£ Fra voi, cittadini di belle atta, •: , | Alle gare ove, un tempo, in segreto l'eroe accanto ai poeti ;

Sedeva invisibile, mirava i campioni e ridente | Lodava, il lodato, i fanciulli nell'ozio serii. . J Un indefettìbile amore era quello ed è ancora. ( E benché separati, proprio perdo d pensiamo, ! Gli uni gli altri, o voi lieti sull'Istmo, I Sul Cefiso, sul Taigeto. |

" "•' [...] Und sie wandelten oft / Zùfrieden unter euch, ihr |

Fiumi e mari 55

Bùrger schóner Stàdte, / Beim Kampfspiel, wo sonst unsichtbar der Heros / Geheim bei Dichtem saB, die Ringer schaut' und làcheind / Pries, der gepriesene, die mùBigem-sten Kinder. / Ein unaufhórlich Ueben wars und ists. / Und wohigeschieden, aber darum denken / Wir aneinander doch, ihr Fróhiichen am Isthmos, / Und am CephyB und am Taygetos (il, pp. 127-128; tr. it. dt., p. 165)16.

Questa parola è nata presso i «fanciulli nell'ozio seri», i Greci, l'altra viene dalla Palestina, proferita dai messaggeri dell'ambito biblico, i patriarchi e i profeti:

E pensiamo anche a voi, valli del Caucaso, Antiche quanto siete, a voi paradisi di là E ai tuoi patriarchi, ai tuoi profeti,

Asia, ai tuoi forti, o madre!

Che impavidi innanzi ai segni del mondo

Con sulle spalle il cielo e tutto il destino,

Interi giorni, radicati sui mond

Per primi seppero

Parlare soli

A Dio.

Auch eurer denken wir, ihr Tale des Kaukasos, / So alt ihr seid, ihr Paradiese dort, / Und deiner Patriarchen und dei-ner Propheten, / O Asia, deiner Starken, o Mutter! / Die furchtios vor den Zeichen der Welt, / Und den Himmel auf Schuitem und alles Schicksal, / Taglang auf Bergen gewurzeit, / Zuerst es verstanden, / AUein zu reden / Zu Gott (n, p. 128; tr. it. dt., p. 165).

Queste due forme della parola: il messaggio dell'Asia nella Bibbia e il messaggio della Grecia nella sua poesia costituiscono per Hòlderlin un'unità indissolubile. Esse formano quella potenza che, scaturen-

56 Primo cerchio - Fiume e montagna

do dalla «Rivelazione», ha destato lo spirito dell'Occidente e plasmato l'umanità. Ma la fonte di entrambe le parole, l'origine profonda di entrambe le forme dello spirito, il mistero non nominato ne dai profeti ne dagli antichi aedi è ora proferito dal poeta. Egli lo «nomina», «per sacra necessità», anch'esso afferrato dallo spirito: è la natura.17.

[...] Riposano ora. Ma se voi,

E questo è a dire,

Voi antichi tutti, non diceste donde,

Noi ti nominiamo, per sacra necessità, nominiamo

Tè, o Natura: e nuovo, come dal lavacro, sorge

Da tè quanto nacque divino.

[...] Die ruhn nun. Aber wenn ihr, / Und dies ist zu sagen, / Ihr Alten ali, nicht sagtet, woher? / Wir nennen dich, heiliggenótiget, nennen, / Natur! dich wir, und neu, wie dem Bad entsteigt/ Dir alles Góttlichgeborne (il, p. 128;

tr.it. dt., p. 165).

IV

La potenza che costituisce davvero propriamente lo spazio d'esistenza dell'uomo nel suo contesto generale, ovvero la oikouméne, è il mare; origine e mèta del ritomo di ogni cosa che scorre. Hólderlin l'ha descritto spesso. Esso riempie con la sua bellezza nostalgica YIperione. Nelle poesie su Empedocle esso circonda la Sicilia, più avvertito che espressamente presente. In prima persona esso appare nell'Arcipelago e più tardi nel Ricordo.

La poesia L'Arcipelago ha nell'opera di Hólderlin un significato analogo a quello dell'inno // Reno. Essa

Fiumi e mari 57

scaturisce dalla pura pienezza, mantenendo un equilibrio stupendo. La sua forma è una felice via di mezzo tra la ricca descrizione deWIperione e il grande stile degli i""1 tardi. Essa rappresenta l'espressione più radiosa di ciò che per Hólderlin significa la Grecia. Ma è il mare a costituire quell'ampiezza, quello spazio aperto, colmo di bellezza, in cui sta la Grecia.

Tornano a tè le gru? e cercan di nuovo la rotta

Verso i tuoi lidi le navi? Spirano desiderate

Brezze a tè sul flutto pacato e soleggia il delfino

Attratto dal fondo, col dorso alla nuova luce?

Fiorisce laJonia? È questo il tempo? Che in primavera

Quando ai viventi rinasce il cuore ed il primo

Amore si desta negli uomini e le epoche d'oro ricordano,

A tè vengo e saluto il tuo silenzio, o antico!

Sempre, o possente! tu vivi e riposi nell'ombra

Dei tuoi monti ancora; con bracda d'adolescente

Avvinci l'amabile terra; e delle tue figlie, o padre!

Delle tue isole in fiore nessuna s'è ancora perduta.

Creta è lì, Salamina verdeggia, in un vespro d'allori,

Fiorita intomo di raggi, innalza al sole nascente

Delo il suo capo ispirato, e Tino e Chio

Hanno purpurei frutti in copia, da ebbre colline

Sgorga il filtro di Cipro e da Calàuria torrenti

D'argento si gettano ancora nelle acque antiche del padre.

Tutte vivono ancora le isole madri d'eroi

D'anno in anno fiorendo, e se dall'abisso talora

Lo scatenato fuoco notturno, uragano inferiore,

Una delle soavi ghermì, che morente calò nel tuo seno,

Tu perdurasti sempre, o divino!, che sopra le buie

Profondità molte cose ti sono già sorte e perite.

Kehren die Kraniche wieder zu dir, und suchen zu deinen / Ufern wieder die Schiffe den Lauf? umatmen erwùn-schte / Lùfte dir die beruhigte Flut, und Sonnet der Del-

58 Primo cerchio - Fiume e montagna

phin, / Aus der Tiefe gelockt, am neuen Lichte den Rùc-' ken? / Blùht lonien? ists die Zeit? denn immer im Frùh-ling, / Wenn den Lebenden sich das Herz erneut und die i erste / Uebe den Menschen erwacht und goldner Zeiten Erinnrung, / Komm ich zu dir und grùB in deiner Sulle dich, Alter! // Immer, Gewaltiger! lebst du noch und ruhest im Schatten / Deiner Berge, wie sonst; mitJùnglings- ^ armen umfàngst du / Noch dein liebiiches Land, und deiner Tóchter, o Valer! / Deiner Insein ist noch, der blùhen-den, keine verloren. / Kreta steht und Salamis grùnt, :

umdàmmert von Lorbeem, / Rings von Strahien umblùht, erhebt zur Stunde des Aufgangs / Delos ihr begeistertes Haupt, und Tenos und Chios / Haben der purpurnen Frùchte genug, von trunkenen Hùgein / Quillt der Cy-priertrank, und von Kalauria fallen / Silberne Bàche, wie ;

einst, in die alten Wasser des Vaters. / Alle leben sie noch, die Heroenmùtter, die Insein, / Blùhend vonJahr zuJahr, und wenn zu Zeiten, vom Abgrund / Losgelassen, die ^ Fiamme der Nacht, das untre Gewitter, / Eine der Holden T ergriff, und die Sterbende dir in den SchoB sank, / Góttli- ' cher! du, du dauertest aus, denn ùber den dunkein / Tie- ;• fen ist manches schon dir auf- und untergegangen (il, p. 103; tr. it. cit., p. 101). :,

Anche il mare è un essere. Si tratterà più avanti dell'affinità che lo lega all'altro regno della profondità, all'interno della terra (ili, infra, p. 285). Il mare è più attivo, più maschile e possiede un carattere storico. Esso non è la sfera della fecondità, ma lo spazio di un avvenimento; il campo per l'impresa e l'azione. Così esso appare ne\V Arcipelago. Circondata dal do- , minio di Posidone, Atene cresce. Sul mare, vicino a • Salamina, viene deciso il destino della Grecia ed inizia un nuovo periodo di splendore. Davanti alla bellezza di questo «mare per eccellenza» il poeta è testi- ;

mone del tramonto della magnificenza greca, del lamento e della speranza di un risorgimento.

Fiumi e mari 59

Diverso è il carattere che il mare assume nella poesia tarda Ricordo, quanto di più bello abbia la lingua tedesca. Essa si situa al limite del possibile - un passo oltre, e tutto sprofonda. Ma qui, prima di quell'ultimo passo, quale sospesa lievità, quale interiorità!

Soffia il nord-est

A me fra i venti il più caro,

Perché focoso spirito

E buona rotta ai naviganti promette.

Ma ora va' e saluta

La bella Garonna

E i giardini di Bordeaux

Là, dove rasente alla riva

Ripida va il sentiero e nel fiume

Precipita a fondo il torrente, ma di lassù

Guarda una nobile coppia

Di querce e di argentei pioppi.

Ancora me ne ricordo bene, e come

Le larghe vette inclina

L'olmeto, sopra il mulino,

Mentre nel corrile cresce il fico.

Nei di festivi là vanno

Le brune donne

Su serico suolo

Al tempo di marzo,

Quando uguale è notte e giorno,

E su lenti sentieri,

Carichi di sogni d'oro

Cullanti zefiri spirano.

Der Nordost wehet, / Der liebste unter den Winden / Mir, weil er feurigen Geist / Und gute Fahrt erheiBet den Schiffern. / Geh aber nun und grùBe / Die schóne Garon-ne, / Und die Gàrten von Bordeaux / Dort, wo am schar-fen Ufer / Hingehet der Steg und den Strom / Tief fàlit

60 Primo cerchio - Fiume e montagna 1

der Bach, darùber aber / Hinschauet ein edel Paar /• Von Eichen und Silberpappein; // Noch denket das mir wohi und wie / Die breiten Gipfel neiget / Der Ulmwaid, ùber die Mùhl, / Im Hofe aber wàchset ein Feigenbaum. / An Feiertagen gehn / Die braunen Frauen daselbst / Aus seidnen Boden, / Zur Màrzenzeit, / Wenn gleich ist Nacht und Tag, / Und ùber langsamen Stegen, / Von goldenen Tràumen schwer, / Einwiegende Lùfte riehen (il, p. 188;

tr. it. cit., p. 235).

Subito la sensazione di uno spazio vasto: vento, pieno di «spirito focoso», lieto e chiaro - il fenomeno complesso, percepito da Hólderlin nella sua origina-rietà, che va dal vento empirico all'anima del sentimento e al religioso dell'entusiasmo, dell'ispirazione divina. Un soffiare calmo dello spirito e prontezza vogliosa di navigare: navigatori coraggiosi che si affidano alla forza che scorre. Il vento trasporta il poeta insieme al suo ricordo in quella terra ove ha percepito l'esistenza dell'antichità, nel sudovest della Francia -ed è difficile ridescrivere tutto ciò che si trova espresso in un paio di frasi brevi, in poche forme, in pochi profumi e movimenti. Le immagini sembrano interamente risolte nella memoria, anzi come dissolte in atmosfera di sogno. Molti particolari sono omessi. Da un punto di vista realistico mancano cose molto importanti. Sono rimaste solo alcune forme che allora hanno coinvolto il suo sentimento e che ora sono piene della dolcezza e della tristezza del ricordo. Ma da esse si eleva un intero paesaggio; un mondo in cui si coniugano la presenzialità pura del Sud con l'interiorità profonda del Nord ... Poi il momento dionisiaco:

Mi porga, però, D'oscura luce pieno,

Fiumi e mari 61

Qualcuno, il bicchiere odoroso,

perché m'addorma, che dolce

Sarebbe all'ombra assopirsi.

Non è bene

Senz'anima di mortali

Pensieri restare, ma bene

È un colloquio e dire

L'avviso del cuore, ascoltare molto

Dei giorni dell'amore

E di fatti, che sono accaduti.

Ma dove sono gli amia? Bellarmino Con il compagno? [...].

Es reiche aber, / Des dunkein Uchtes voli, / Mir einer den duftenden Becher, / Damit ich ruhen móge; den sù6 / Wàr unter Schatten der Schiummer. / Nicht ist es gut, / Seellos von sterbiichen / Gedanken zu sein. Doch gut / Ist ein Gespràch und zu sagen / Des Herzens Meinung, zu hóren viel / Von Tagen der Ueb, / Und Taten, welche ge-schehen. // Wo aber sind die Freunde? Bellarmin / Mit dem Gefahrten? [...] (n, pp. 188-189; tr. it. dt-, pp. 235-237).

Lo sprofondare nel ricordo e allo stesso tempo nella visione trasfbrmatrice è espresso nel bicchiere, «d'oscura luce pieno». Il poeta cerca la quiete, l'unità nel tormento della divisione. Egli vuole staccarsi dai «mortali pensieri» gravidi di morte; non vuole rimanere «senz'anima», senza vita creativa, ma anela ad un parlare vivo che porti ad un'unità comprendente il presente e il passato, il qui ed il lontano. Manca però l'altro, «Bellarmino con il compagno»; l'amico con cui è stato condotto il grande colloquio rìeìVIperione, e gli altri fidi del mondo beato in cui è vissuta Dioti-ma. Ora tutto si fonde in uno: il presente con la sua solitudine, dal momento che Diotima è morta ed egli

62 Primo cerchio - Fiume e montagna

stesso vive, abbattuto di spirito, al Nord; il mondo di Iperione con i «giorni dell'amore e dei fatti che sono accaduti», il Sud con la sua luce ed il suo mare aperti al mondo. Bellarmino è partito con gli uomini sul I mare - più avanti si dirà «per le Indie». Un dionisiaco ! desiderio di spazio totale erompe da quella parola, j poiché l'Indo fa parte del mito di Dioniso: |

[...] Più d'uno Ì Porta Umore di andare alla sorgente; | Certo comincia la ricchezza s Sul mare. Essi, : , i Come pittori fanno accolta ^ Del bello sulla terra e non disdegnano | L'alata guerra, e it Vivere soli, per anni, sotto ; , La schiomata antenna dove di notte non giungono | I bagliori della atta in festa, ,1

Ne accordi, ne del paese la danza, i

••^

[...] Mancher/ Tràgt Scheue, an die Quelle zu gehn; / Es " beginnet namlich der Reichtum / Im Meere. Sie, / Wie Maler, bringen zusammen / Das Schóne der Erd und ver- i schmahn / Den geflùgelten Krieg nicht, und / Zu wohnen ;

einsam, jahriang, unter / Dem entlaubten Mast, wo nicht die Nacht durchglànzen / Die Feiertage der Stadt, / Und ;

Saitenspiel und eingeborener Tanz nicht (II, p. 189; tr. it. dt., p. 237). ^

Non tutti osano misurarsi col mare. È circondato :

dal terrore che incutono le cose primordiali. Esso è ? «la sorgente», l'inizio, quindi un tremendum. In esso è f riposto l'inizio della «ricchezza», delle figure e delle ^ vicende del mondo. Quelli che osano affrontarlo sono gli audaci, coloro che sono legati alla forma grande della vita, i naviganti... E adesso un'immagine po-

Fiumi e mari 63

lente: i navigatori sono «pittori» che ritraggono il bello della terra riconducendolo all'unità dell'essere visto - come giorno e notte che si trovano nell'unità dello spirito fluviale in cui «i celesti al caldo ci si sentano l'un l'altro». Qui si manifesta la consapevolezza ecumenica, lo spirituale fiume totale della vita umana. I naviganti sono «guerrieri» che combattono con nemici mitici, le potenze della lacerazione, della lontananza, del tempo, dei venti e delle onde, facendo ['«alata guerra» delle vele. Ma la grandiosa solitudine di questa attività risalta nelle poche frasi che descrivono ciò che manca: il fogliame sull'albero morto, il movimento e l'abbondanza di luci della città e la gaiezza della campagna in mezzo al monotono ritmo della vita di nave.

Gli «uomini», Bellarmino e i compagni, hanno scelto una tale vita. Essi sono partiti dalla Francia del Sud - e ora tutto il paesaggio si mette in moto:

Ma ora sono per le Indie •

Gli uomini partiti,

Là sull'arioso promontorio

Fra le vigne, di dove giù

La Dordogna scende

E insieme con la magnifica

Garonna larga qual mare

La fiumana sfocia [...].

Nun aber sind zu Indiem / Die Mànner gegangen, / Dort an der luftìgen Spitz' / An Traubenbergen, wo herab / Die Dordogne kommt, / Und zusammen mit der pràcht'-gen / Garonne meerbreit / Ausgehet der Strom [...] (il, p. 189; tr. it. cit., p. 237).

Il movimento del paesaggio costituisce in un certo

64 Primo cerchio - Fiume e montagna

qual modo l'origine ed il propulsore del movimento umano. Dalla cima dei monti «fra le vigne», da cui scende la Dordogna, «larga qual mare», si va lontano, I «per le Indie». Tutto è colmo del mare - una vastità ;

in cui tutto è uno. Eppoi, in modo completamente vi- £ sionario, la conclusione improvvisa: t

^ t [...] Ma toglie e da Memoria il mare,

E l'amore anche affisa assidui occhi. Ma ciò che resta fondano i poeti.

[...] Es nehmet aber / Und gibt Gedàchtnis die See, / Und die LJeb auch heftet fleiBig die Augen, / Was bleibet aber, . stiften die Dichter (il, p. 189; tr. it. rit., p. 237). -

II mare «toglie la memoria» e la «dona». La sua grandezza infinita e la monotonia maestosa del lungo viaggio cancellano dalla coscienza le piccole cose. Allo ? stesso tempo però esso produce la memoria del mon- | do; sensazioni vive sul mondo nella sua connessione. |

Questa coscienza viene elevata dall'amore. Esso è riesce ad «affisare assidui occhi», a comprendere e a conservare. Poiché esso stesso è il mare, infinito nel ;

suo scorrere, concepire e divorare. Ma esso da solo ;

non basta; vi è bisogno di colui che ha potenza, che I interpreta, istituisce, «fonda» di diritto. È ciò che fa il ;

poeta, a cui sono dati lo sguardo e la missione per trasportare la realtà mitica, dalla sua consistenza so- ;

spesa, nello spazio della storia.

L'INNO IL RENO

II fenomeno del fiume si manifesta in tutta la sua pienezza nell'inno II Reno. n fiume vi è rappresentato come la grande vitalità in sé, come essere eroico, semidivino.

L'inno ha un preludio nella poesia II fiume incatenato e una specie di commento nell'ode già citata Voce del popolo. La prima parte di quest'ulama sviluppa il mito del fiume. Sarà quindi opportuno ricordare ancora una volta i versi, dal momento che il loro contenuto ricorre successivamente nell'inno R Reno.

Indifferenti alla nostra saggezza Scroscian ben anche i fiumi, e tuttavia

Chi non li ama? E sempre mi commuovono II cuore, quando li sento lontanare, Carichi di presagi, non per la mia strada, Ma la sicura che li guida al mare.

Oblioso di sé, pronto sempre il desio

Degli dèi a compiere, troppo docile .

Ciò ch'è mortale, ad occhi aperti

Correndo rapido per il suo sonderò,

Prende la via più breve del ritorno nel tutto;

Così precipita il fiume in cerca di pace, lo strappa, Lo trae contro sua voglia, di scoglio In scoglio, giù, senza alcun freno,

La brama meravigliosa d'inabissare [...].

66 Primo cerchio - Fiume e montagna

Um unsre Weisheit unbekùmmert / Rauschen die Stróme ' dodi auch, und dennoch, // Wer liebt sie nicht? und im-mer bewegen sie / Das Herz mir, hór ich ferne die Schwindenden, / Die Ahnungsvollen, meine Bahn nicht, / Aber gewisser ins Meer hin eilen. // Denn selbstverges-sen, allzubereit den Wunsch / Der Gòtter zu erfullen, er-greift zu gern / Was sterbiich ist, wenn offnen Augs auf/ Eigenen Pfaden es einmal wandeit, // Ins Ali zurùck die kùrzeste Bahn; so stùrzt / Der Strom hinab, er suchet die Ruh, es reiBt, / Es ziehet wider Willen ihn, von / Klippe zu Klippe den Steuerlosen // Das wunderbare Sehnen dem Abgrund zu [...] (II, p. 51; tr. it. cit., p. 65).

Il fiume è una parte della natura, un essere scaturito dal suo grembo. Per Hólderlin tutta la natura vive, anche ciò che in essa è apparentemente senza vita. Di questa vitalità i fiumi sono, insieme alle altre cose che sgorgano e scorrono, l'interno dei vulcani e il moto infinito dell'aria, l'espressione più forte. Essi vengono dalla profondità, obbedendo alla legge del dovervi ritornare. Questa profondità è l'interno empirico della terra, allo stesso tempo tuttavia la sfera dell'origine, del non essere nati, come pure del ritorno, dell'entrare nel Tutto; di tutto ciò quindi che sta prima e dopo la morte. L'acqua è un elemento di purezza - l'antica concezione greca dell'acqua come sostanza prima che costituiva non solo una teoria fisica o fìlosofica, ma anche una visione mitica. Così il fiume è puro per essenza. La legge dell'esistenza che nel fiume si compie, il «desio degli dèi» per cui ogni essere che corre rapido «ad occhi aperti [...] per il suo sentiero», che arriva cioè all'individualità, deve ritornare nel Tutto, si esprime in esso senza riserve. Più un essere è puro, più questa legge, come bramosia, destino, felicità, è tremenda allo stesso tempo. La legge della grande

L'mnoHReno 67

esistenza è tragica. Essa deve volere ciò che è sublime, nobile, inaudito, non benché, ma proprio perché cosi facendo va incontro alla sua fine. Nessuno come Hólderlin ha rappresentato in modo tanto puro la concezione di Nietzsche, secondo cui i valori nobili arrecano la fine, ma una fine in cui si compie anche il senso della vita.

L'immagine del fiume si trasforma poi in quella del popolo:

Lungo lo Xanto si stendeva, in età greca, la città, Ora però, come l'altre maggiori che laggiù riposano, Per un destino, alla sacra Luce del giorno s'è'sottratta.

Ma non nell'aperta battaglia perirono Di propria mano. Spaventoso, quanto Laggiù avvenne, nella mirabile saga Dall'Oriente ci è giunto.

Fu la bontà di Bruto ad eccitarli. Poiché Quando il fuoco eruppe, egli si offrì Di aiutarli, lui stesso, il condottiero, Sebbene di fronte a quelle porte li assediasse.

Pur dagli spalti i servi essi gettarono, Che egli inviò. Più vivo ne fu II fuoco ed essi ne gioirono, e a loro Le mani Bruto tendeva

E tutti eran fuor di sé. Un urlo

Si levò, e giubilo. Giù nella fiamma si gettarono

Uomini e donne, e dei fanciulli l'uno

Dal tetto, sulla spada paterna l'altro.

Am Xanthos lag, in griechischer Zeit, die Stadt, / Jetzt aber, gleich den gróBeren, die dort ruhn, / Ist durch ein

68 Primo cerchio - fiume e montagna

Schicksal sie dem heilgen / Udite des Tages hinwegge-kommen. // Sie kamen aber nicht in der offnen Schlacht / Durch eigne Hand um. Fùrchterlich ist davon, / Was dort geschehn, die wunderbare / Sage von Osten zu uns gelanget. // Es reizte sie die Gùte von Brutus. Denn / Als Feuer ausgegangen, so bot er sich / Zu helfen ihnen, ob er gleich, als Feldherr, / Stand in Belagerung vor den Toren. // Doch von den Mauern warfen die Diener sie, / Die er gesandt. Lebendiger ward darauf / Das Feuer und sie freuten sich und ihnen / Strecket' entgegen die Hànde Brutus // Und alle waren auBer sich selbst. Geschrei / Ent-stand und Jauchzen. Drauf in die Fiamme warf / Sich Mann und Weib, von Knaben stùrzt' auch / Der von dem Dach, in der Vàter Schwert der (il, pp. 52-53). .,:,

La poesia è un contributo alla concezione della storia di Hólderlin (II, infra). Anche il popolo è un fiume. L'abbiamo visto in movimento, quando è salito lungo l'Istro. Lo incontreremo nel Viaggio dove esso collega Oriente e Occidente, Germania ed Asia, Svevia e Caucaso, come per altro fa il Danubio ... Qui il popolo significa il fiume della vita stessa, visto nell'attimo in cui esso è impetuosamente assoggettato alla legge della profondità secondo cui la volontà di morte scaturisce dalla pienezza della vita stessa. Il popolo della città di Xanto, situata in Asia Minore, pres- '| so il fiume omonimo, è assediato dall'esercito roma- | no comandato da Bruto. I nemici si accorgono che è | scoppiato un incendio nella città. Il generale, cavalierescamente, offre aiuto. Questa bontà li «eccita»: il termine allude a quel tocco misterioso che suscita l'estasi della vita. La chiamata visionaria - pensiamo a ciò che precede il gesto della Sibilla delfica di Miche- j| langelo: il suono intcriore che fa voltare la testa - rapisce nello stato del contemplare e dell'udire; da esso

L'innoll Reno 69

nasce la trasformazione strutturale delle cose che divengono ora «aperte», trasparenti al senso nascosto. Il tocco dionisiaco solleva a un agire che trascende tanto l'attività quotidiana quanto il guardare ed il comprendere universali sono trascesi dalla contemplazione visionaria. Nella misura in cui il vate è sottoposto alle leggi di una nuova conoscenza, anche chi è colto dal tocco dionisiaco segue la legge di una nuova attività estatica, gravida di morte. L'attimo è preparato:

L'illimitato affascina e anche i popoli

Son presi dal gusto della morte, e le audad

Città, dopo aver cercato il meglio,

Di anno in anno continuando l'opera, Hanno incontrato una fine sacra; verdeggia la terra, E quieta sotto le stelle giace la lunga arte, come Gli oranti, gettata sulla sabbia del deserto,

Per suo volere vinta

Di fronte a quelle inimitabili; lui stesso, L'uomo, di propria mano ha spezzato, Per onorare gli dèi, la sua opera d'artista.

Das Ungebundne reizet und Vólker auch / Ergreift die Todeslust und kùhne / Stàdie, nachdem sie versucht das Beste, // Von Jahr zu Jahr forttreibend das Werk, sie hat / Ein heilig Ende troffen; die Erde grùnt / Und stille vor den Sternen liegt, den / Betenden gleich, in den Sand ge-worfen // Freiwillig ùberwunden die lange Kunst / Vor jenen Unnachahmbaren da; er selbst, / Der Mensch, mit eigner Hand zerbrach, die / Hohen zu ehren, sein Werk der Kùnstler (il, pp. 51-52).

Per un lungo periodo «i popoli continuano l'opera», vivendo, lavorando, costruendo. Poi viene un

70 Primo cerchio - Fiume e montagna

momento in cui si sentono travolti e rompono - co me atto di devozione rivolto all'ainimitabile», alla realtà della vita, della natura soverchiante nella sua potenza - la forma di opera ed esistenza, prostrandosi come il fedele che, gettatesi col volto a terra, ha sacrificato così l'altezza della sua figura. Questa possibilità era presente nell'interiorità; adesso il gesto di Bruto l'ha liberata. Scocca la scintilla dionisiaca, accendendo nell'anima del popolo la fiamma che tutto consuma. «Fuor di sé», essi l'alimentano fino al limite estremo, e tutto «perisce». Questo è il complesso di significati racchiuso - ma domato - nell'inno II Reno. Ma di per se stesso l'inno costituisce il grande canto di Hólderlin sullo sforzo di domare il dionisiaco, formando insieme a L'Arcipelago la possente coppia delle sue poesie sulla luce e sul giorno. Ad esse sono opposte le poesie sulla notte, sulla profondità, sulla piena dionisiaca, soprattutto Pane e vino.

II

All'inizio dell'inno viviamo il momento del tocco visionario. Abbiamo già commentato il passo parlando del carattere mitico della simbologia hólderliniana: j

Nell'edera buia sedevo, alla porta Ì Della foresta, proprio quando il meriggio d'oro | Per visitare il fonte scendeva ' % Le scale dell'Alpe, 4 Che per me è la rocca dei numi, . : s Costruita da mano divina, Secondo l'antica voce, ma donde Più d'un segreto verdetto '

L'inno II Reno : v 71

Giunge ancora agli uomini: di lì

Imprevisto ebbi il senso

D'un destino, che appena poc'anzi

Mi si era in calda ombra

Molto seco conversando, l'anima

Allontanata verso l'Italia

E più oltre alle coste di Morea.

Ma ora, là dentro ai monti,

Nel profondo sotto le argentee cime

E fra il verde lieto,

Dove i boschi rabbrividendo

E le teste delle rupi s'affollano

A guardarlo per giorni,

Là nel più gelido abisso udii

Gemere a liberazione

L'adolescente; e lo udivano furente

Accusare la Madre Terra

E il Tonante che l'ha generato,

I genitori movendo a pietà,

Ma i mortali fuggivano il luogo,

Che metteva paura, quando al buio

Nelle catene si voltolava

La collera del Semidio.

Im dunkein Efeu SaB ich, an der Pforte / Des Waldes, eben, da der goldene Mittag, / Den Quell besuchend, he-runterkam / Von Treppen des Alpengebirgs, / Das mir die gótuichgebaute, / Die Burg der Himmlischen heiBt / Nach alter Meinung, wo aber / Geheim noch manches ent-schieden / Zu Menschen gelanget; von da / Vernahm ich ohne Vermuten / Ein Schicksal, denn noch kaum / War mir im warmen Schatten / Sich manches beredend, die Seele / Italia zu geschweift / Und férnhin an die Kùsten Moreas. // Jetzt aber, di-in im Gebirg, / Tief unter den sil-bemen Gipfein / Und unter fróhiichem Grùn, / Wo die Wàlder schauemd zu ihm, / Und der Felsen Hàupter ùber-einander / Hinabschaun, taglang, dort / Im kàltesten Ab-

72 Primo cerchio -Fiume e montagna

grund hórt / Ich um Eriósung jammern / Den Junglinsr es hórten ihn, wie er tobt', / Und die Mutter Erd ankiagt', / Und den Donnerer, der ihn gezeuget, / Erbarmend die'1 Eltern, doch / Die Sterbiichen flohn von dem Ort, / Denn1 furchtbar war, da lichdos er / In den Fessein sich wàlzte, /| Das Rasen des Halbgotts (II, pp. 142-143; tr. it. dt., p. 195). J •a

In questo stato di apertura e di ascolto, il vate percepisce un «destino», quello del fiume. Per mostrare l'indissolubilità dei temi nel mondo delle immagini è delle idee di Hólderlin, va sottolineato che il tocco visionario ha luogo quando egli è nel pieno del suo mondo, ai piedi delle «Alpi». Poiché è appunto là che si trova «la rocca dei numi», sede della gloria che domina e del mistero nel suo rivelarsi, come Delfi o Do-dona (cfr. infra, p. 109). Da là spira il soffio, e appunto nel momento in cui «molto seco conversando», l'anima vagò verso l'Italia e più lungi, alle coste dij Morea. È lo spirito dunque che, toccato al centro, si, protende da Nord a Sud, da Ovest a Est, descrivendo in tal modo la volta che s'inarca sullo spazio storico. Improvvisamente sente il «giovane». L'età giovanile è per Hólderlin l'età dell'esistenza pura, in obbediente ascolto della legge intcriore e pronta all'assoluto. Egli sente il giovane fiume imperversare contro la costrizione che gli impongono l'alveo stretto, la gola rocciosa. Essi però sono voluti dalla sapienza dei genitóri, dalla madre Terra e dal padre Zeus.

È nuovamente un piccolo particolare a svelarci che i temi dell'opera hólderliniana, lungi dall'essere invenzioni fantastiche o ludiche, scaturiscono da una visione molto precisa:

Era la voce del più nobile fiume, Del nato libero Reno,

L'ireraoIIReno 73

e altro sperava, quando lassù dai fratelli,

Dal Ticino e dal Rodano

S'era diviso, vago di errare, e impaziente

In Asia la regale anima lo spingeva.

Irragionevole

È il desiderio di fronte al destino.

Ma i più ciechi

Sono i figli di dèi. L'uomo conosce

La sua casa e all'animale fu

Assegnato ove costruirla, ma a quelli

L'errore di non sapere dove,

Nell'anima inesperta è dato.

Die Stimine wars des edelsten der Strème, / Des freigebo-renen Rheins, / Und anderes hoffte der, als droben von den Brùdern, / Dem Tessin und dem Rhodanus, / Er schied und wandem wolit, und ungeduldig ihn / Nach Asia trieb die kónigliche Seele. / Doch unverstàndig ist / Das Wùnschen vor dem Schicksal. / Die Blindesten aber / Sind Góttersóhne. Denn es kennet der Mensch / Sein Haus und dem Tier ward, wo / Es bauen solle, dochjenen ist / Der Fehi, daB sie nicht wissen wohin? / In die uner-fahrne Seele gegeben (n, p. 143; tr. it. di., pp. 195-197).

Appena nato, nel momento cioè in cui è completamente determinato dalla legge primordiale, compie nel modo più puro il suo movimento essenziale, «la regale anima impaziente» spinge il fiume «in Asia»: in dirczione orientale, verso i paesi del mistero e della chiarezza. Si allude a quel breve tratto in cui il Reno, scendendo dal San Gottardo, dirige il suo corso verso Est per poi scartare bruscamente verso Nord. Si tratta di precise realtà geografiche, trasfigurate tuttavia in una luce mitica: la grande esistenza deve cercare la dirczione essenziale verso il bello e il valido assoluti.

Questa esistenza è «inesperta», stolta. E quella stoi-

74 Primo cerchio - Fiume e montagna

tezzache avvolge Parsifal, il giovane di nobile origini l'opporsi alla prudenza che anzi, in questa prospetti va, già si accosta in modo sospetto alla scaltrezza e a] la bassezza. ']

Con venerazione visionaria, la prossima strofa sofferma sul mistero della nascita:

Enigma è il puro scaturire. Anche II canto può appena svelarlo;

Come comind, lale resterai,

Per quanto agisca la costrizione

E il rigore, il più

Lo può la nascita

E il raggio di luce

Che al neonato va incontro.

Ma dov'è un altro

Che per restare libero

Tutta la vita e i voti del cuore

Adempiere solo,

Da così fauste altezze come il Reno

E così da grembo sacro sia

Nato felicemente come lui?

Ein Ràtsel ist Reinentsprungenes. Auch / Der Gesang kaum darf es enthùllen. Denn / Wie du anfingst, wirst du ;

bleiben, / Soviet auch wirket die Not, /und die Zucht, das meiste namlich / Vermag die Geburt, / Und der lichtstrahi, der/ Dem Neugebornen begegnet. / Wo aber ist einer, / Um frei zu bleiben / Sein Leben lang, und des Herzens Wunsch / Allein zu erfullen, so / Aus gùnstigen Hóhn, wie der Rhein, / Und so aus heiligem SchoBe / Glùckiich geboren, wiejener? (il, p. 143; tr. it. cit., p. 197). ^

Nessuna grandezza viene dall'arbitrio. All'inizio non vi è un movimento universale suscettibile di arrivare dovunque, nessuna sostanza universale che possa assumere qualsiasi forma, bensì la determinazione.

L'inno II Reno 75

Essa viene dalla profondità, sorge nell'essere come nucleo e s'afferma nell'agire. Inoltre essa viene dall'altezza, scende dal destino dominante. Le due cose diventano qui una sola: «la nascita» e «il raggio di luce che al neonato va incontro».

Questa destinazione si impone fin dall'inizio. Essa comanda al Reno di trattenersi dal compiere subito la caduta a precipizio nel Tutto. La culminazione dionisiaca e il suo declino gli sono vietati. Lo costringono certe resistenze che prescrivono il corso e gli assegnano in compito l'opera. Ma esso rasenta la caduta, come descrive la strofa successiva:

Perciò è un grido di gioia la sua parola. Non gli piace come altri nati Piangere in fasce;

Poiché dove prima le rive

A fianco gli strisciano, le sinuose,

E assetate si avvolgono a lui,

Incauto, di trascinarlo

E ben custodirlo cupide

Nel loro dente, ridendo

Schianta le serpi e giù piomba

Con la preda, e se in quella furia •

Un più grande non lo ammansisse,

Se lo lasciasse crescere, come folgore

Fenderebbe la terra, e i boschi incantati

Dietro di lui fuggirebbero e i monti frananti.

Drum ist ein Jauchzen sein Wort. / Nicht liebt er, wie an-dere Kinder, / In Wickelbanden zu weinen; / Denn, wo die Ufer zuerst / An die Seit ihm schleichen, die krum-men, / Und durstig umwindend ihn, / Den Unbedachten, zu ziehn / Und wohi zu behùten begehren / Im eigenen Zahne, lachend / ZerreiBt er die Schlangen und stùrzt / Mit der Beut und wenn in der Eil / Ein Grófierer ihn

76 Primo cerchio - Fiume è montagna

nicht zàhmt, / Ihn wachsen làBt, wie der Blitz mu6 ery Die Erde spalten, und wie Bezauberte fliehn / Die Wàldec ihm nach und zusammensinkend die Berge (il, p. 144; tr, it.dt.,p. 197). -

Questo passo è un grande esempio per quanto conceme la forza trasformatrice dell'occhio hólderli-J niano. Il dionisiaco, che supera gli ostacoli e rompe B le forme, è arrivato fin sotto la superfìcie. Ancora un i momento, e rompe la crosta. Già le rive sono «serpi»;4 già il fiume le «schianta», come un tempo fece Eracle con i mostri che avvolgevano la sua culla; già «piom- ;

ba giù». Le rive si mettono in movimento ed esso le i porta con sé. Ancora un attimo, e il fiume diventa il} fulmine, il precipitare si fa un folgorare, l'acqua il fuoco: la terra si spacca, le montagne perdono il loro S peso, e tutto naufraga nell'indistinto. Ma ecco che si a impone la legge del raggio di luce: «Un più grande» ^ ammansisce l'impetuoso e lo trattiene affinchè riman-1 ga, cresca e compia delle opere.

Al Reno non è posto il compito di salire a pienezza mortale e di perire, ma quello di essere limitato e disciplinato:

Ma un Dio preserva ai figli ;' La vita fugace e sorride •;

Quando sfrenati, eppure coatti ' , '

Da sacre Alpi, verso di lui '

Nel profondo, com'esso, infuriano i fiumi. ^.

In tale fucina viene allora

Anche temprato tutto dò ch'è puro. i,

Ed è bello vederlo come poi,

Dopo lasdati i monti,

Calmo vagando per la campagna tedesca .1

Si contenta e l'ansia acqueta. ^ .'• , ••;'. '-^•;1- ,,t

L'inno II Reno 77

Tn traffici fruttuosi, quando coltiva i campi, II padre Reno e cari figliuoli alleva In città, che egli ha fondate.

Ein Gott will aber sparen den Sóhnen / Das eilende Leben und làcheit, / Wenn unenthaltsam, aber gehemmt / Von heiligen Alpen, ihm / In der Tiefe, wie jener, zùrnen die Stróme. / In solcher Esse wird dann / Auch alles Lautre peschmiedet, / Und schón ists, wie er drauf, / nachdem er die Berge verlassen, / Stiliwandeind sich im deutschen Lande / Begnùget und das Sehnen stillt / Im guten Ge-schàfte, wenn er das Land baut, / Der Vater Rhein, und liebe Kinder nàhrt / In Stàdten, die er gegrùndet (il, p. 144; tr. it. dt., p. 199).

Qui sta la decisione che l'esistenza grande deve prendere: accettare la misura, schiettamente, limpidamente lasciarsi «temprare nella fucina» dalla necessità del destino, oppure carpire l'assoluto che non le è assegnato ed erompere nel titanico. Il Reno accetta la legge; così la sua forza diventa fecondità pura.

Ma il mistero dell'origine continua a scorrervi sotto:

Pure mai se ne scorda.

Prima perirà la casa

E le leggi e tornerà all'informe

II giorno degli uomini, che dimenticare

Un pari suo possa l'origine

E la voce pura della gioventù.

Doch nimmer, nimmer vergiBt ers. / Denn eher mu6 die Wohnung vergehn, / Und die Satzung und zum Unbild werden / Der Tag der Menschen, ehe vergessen / Ein solcher dùrfte den Ursprung / Und die reine Stimme derJu-gend (II, pp. 144-145; tr. it. dt, p. 199).

78 Primo cerchio - Fiume e montagna

Ciò è dovuto ad un'altra separazione sempre rin?' novata. Il costante ricordo, la costante presenza del dovere separano la fecondità, che ha nobile origine plasmata dalla rinuncia che è legge divina, dal benessere e dalla contentezza della quotidianità. In quei momenti il pensiero ritorna alla possibilità di un titanismo malvagio:

Chi fu che per primo ^à Corruppe i vincoli d'amore ' J, Per farne corde? I Allora hanno la propria legge -s E insino al fuoco celeste ' s Irriso i superbi, da allora "I Sprezzando la strada mortale t Protervia dessero "i E agli dèi farsi uguali anelarono. '1

,.;. n

Hanno però della loro , s Immortalità gli dèi assai, e se mancano | I celesti di una cosa, ^ È di eroi e di uomini i| O altrimenti mortali. Che mentre ;S I beatissimi nulla sentono da sé soli, a Bisogna pure, se dirlo | È ledto, in nome degli dèi ^f Che un altro senta partedpando; | Di lui necessitano; ma è loro sentenza : t Che la sua casa j Quegli schianti e quanto ha più caro S Ingiurii come nemico, e padre e prole | Seppellisca sotto macerie, j| Se vuoi essere come loro e non ? Sopportare la disparità, l'esaltato. »

Wer war es, der zuerst / Die Liebesbande verderbt / Und Stricke von ihnen gemacht hat?/ Dann haben des eigenen Rechts / Und gewiB des himmlischen Feuers / Gespottet

-L'mnoIIReno 79

die trotzigen, dann erst / Die sterbiichen Pfade ver-achtend / Verwegnes erwàhit / Und den Góttern gleich 7ii werden getrachtet. // Es haben aber eigner / Unster-blichkeit die Gótter genug, und bedùrfen / Die Himmli-schen eines Dings, / So sinds Heroen und Menschen / (Jnd Sterbiiche sonst. Denn weil / Die Seligsten nichts fùhlen von selbst, / Mu6 wohi, wenn solches zu sagen / Eriaubt ist, in der Gótter Namen / Teilnehmend fùhlen ein andrer, / Den brauchen sie; jedoch ihr Geiicht / Ist, (la6 sein eigenes Haus / Zerbreche der und das Uebste / VVie den Feind scheit und sich Vater und Kind / Begrabe unter den Trùmmem, / Wenn einer wie sie sein will und nicht / Ungleiches dulden, der Schwàrmer (il, p. 145; tr. it.dt.,pp. 199-201).

Gli dèi vivono nell'eterna gloria, ma non l'avvertono; così essi hanno bisogno del calore dei cuori umani - ne abbiamo già parlato a proposito dell'Istro. Essi cercano la vicinanza dell'essere terreno per partecipare al rapimento che suscita in lui la loro gloria olimpica, per avvertire il loro stesso splendore. Ma ciò comporta che i compagni mortali non rispettino il limite:

quella tentazione a cui ha ceduto un tempo Tantalo, e poi anche Empedocle. Beato perciò colui che onora ciò che è istituito:

Perdo buon per lui che ha trovato Un ben assegnato destino Dove ancora del molto vagare E dei duoli la rimembranza Mormora dolce alla riva sicura;

Egli ama allora guardare

Da ogni lato fino ai confini

Che dalla nasata Iddio

Gli segnò come dimora.

Ora s'acqueta, in modesta sorte felice,

Poiché tutto che da lui fu voluto

80 Primo cerchio - Fiume e montagna

Di celeste, da sé abbraccia Spontaneamente l'audace, Sorridendo ora ch'egli riposa.

Drum wohi ihm, welcher fand / Ein wohibeschiedene» Schicksal, / Wo noch der Wanderungen / Und sub der Leiden Erinnerung / Aufrauscht am sichern Gestade, / DaB da und dorthin gern / Er sehn mag bis an die Gren. zen, / Die bei der Geburt ihm Gott / Zum Aufenthalte gè. zeichnet. / Dann ruht er, seligbescheiden, / Denn alles was er gewolit, / Das Himmlische, von selber umfàngt/ Es unbezwungen, làcheind / Jetzt, da er ruhet, den Kùh-nen (il, pp. 145-146; tr. it. dt, p. 201). «*|

I

in j

La seconda parte dell'inno parla del semidio urna no, trovandolo in Rousseau. A prescindere dalla questione se il Rousseau storico coincida con la figura có-m'è vista da Hólderlin, il suo nome qui comunque designa la grande esistenza umana. Essa è costruita sul modello del fiume. Così anch'essa deve decidere se abusare dell'amicizia degli dèi o se rispettare il limite. A Rousseau è riuscita la grande opera:

Semidei ora penso

E bisogna che conosca quei cari

Perché spesso la vita loro

L'ansioso petto così mi commuove.

Ma a chi, o Rousseau, come tè,

Si ebbe indomita l'anima,

Pertinace all'estremo

E senso infallibile

E la dolce dote d'udire

E di dire, così che da sacra piena,

Come Dio del vino, in celeste delirio

L'inno II Reno 81

La lingua senza leggi dei più puri dona,

Clic è intellegibile ai buoni, ma giustamente

Gl'irriverenti, i profani, i servili

Colpisce di cecità - che nome darò allo straniero?

H'ilbeótter denk ichjetzt/ Und kennen muB ich die Teuem, / Weil oft ihr Leben so / Die sehnende Brust mir bewe-eet. / Wenn aber, wie, Rousseau, dir, / Unùberwindiich die Seele, / Die starkausdauemde, ward, / Und sicherer Sinn / Und sùBe Gabe zu hóren, / Zu reden so, daB er aus lieiliger Fulle, / Wie der Weingott, tórig góttlich / Und eesetzios sie, die Sprache der Reinesten, gibt, / Verstànd-lich den Guten, aber mit Recht / Die Achtungsiosen mit Ulindheit schiàgt, / Die entweihenden Knechte, wie nenn ich den Fremden? (n, p. 146; tr. it. cit, p. 201).

A Rousseau viene rivolta la parola. Ma la sua figura evoca quella di un altro amico degli dèi che un tempo, messo alla più dura prova, ha rispettato il limite: Eracle. Rousseau ha unito la primordiale forza creativa alla misura più severa, la copiosità che sgorga da se stessa ed è «senza legge» all'ordine, l'assolutezza di quanto è più puro alla pazienza tenace, diventando in tal modo un eroe:

I figli della terra, come la madre,

Amano il Tutto e il Tutto anche ricevono

Senza sforzo, i felici.

Perdo sorprende pure

E sgomenta l'uomo mortale,

Quando il delo

Che con innamorate bracda

Si è caricato sugli omeri

E il peso della gioia consideri;

II più gran bene allora gli sembra

In quasi totale oblio

Là dove il raggio non bruda

82 Primo cerchio - Fiume e montagna

Nell'ombra della foresta Sul lago di Bienna nel fresco verde stare E, incurante se povero di suoni, Come i novizi, imparare dagli usignoli.

Die Sóhne der Erde sind, wie die Mutter, / Alliebend, so empfangen sie auch / Mùhlos, die Glùckiichen, alles. /. Drum ùberraschet es auch / Und schróckt den sterbiichen Mann, / Wenn er den Himmel, den / Er mit den lieben-den Armen / Sich auf die Schuitem gehàuft, / Und die Last der Freude bedenket; / Dann scheint ihm oft das Be-ste, / Fast ganz vergessen da, / Wo der Strani nicht brennt, / Im Schatten des Walds / Am Bielersee in fri-scher Grùne zu sein, / Und sorglosarm an Tónen, / An-fàngern gleicli, bei Nachtigallen zu lemen (n, pp. 146-147;

tr. it. cit., p. 203). -?

Egli «ama il Tutto, come la madre», la Terra, e per, questo tutto gli viene donato. L'enorme, il sovrappeso dei cicli viene a gravare su di lui. Come Atlante, deve stare in piedi. Ma come quest'ultimo, egli non viene schiacciato perclié sopporta con pazienza - e nuovamente pensiamo ad Eracle che per una intera terribile ora ha portato il peso della volta celeste. Ma l'esperienza è talmente grandiosa da far nascere il desiderio di una quiete protetta, senza pretese: così dalla vita di Rousseau si leva l'immagine del lago di Biel [Bienne in francese] di una vita silenziosa in mezzo alla natura.

Nell'immagine si avverte la consapevolezza del paesaggio circostante che nel frattempo è mutato. Il meriggio caldo, ardente è passato, e si va verso l'ora dell'incantesimo, il tardo pomeriggio: |

• ^ Ed è stupendo dal sacro sonno allora <

Sorgere e da boschiva frescura 'i Destandosi, nella sera ,1

L'inno II Reno 83

Alla più 1™^ ^uce andare incontro,

Quando colui ch'edificato ha i mond

e 5egnato la strada dei fiumi,

Dopo che sorridendo egli pure

(.i vita operosa degli uomini

povera di respiro come vela

Con le sue brezze ha guidato,

Anche lui riposa e ora verso l'allieva

11 creatore, più bene

Che male trovando,

Verso l'odierna terra il giorno s'inclina.

Und herrlich ists, aus heiligem Schlafe dann / Erstehen und aus Waldes Kùhle / Erwachend, abends nun / Dem milderen Ucht entgegenzugehn, / Wenn, der die Berge eebaut / Und den Pfad der Streme gezeichnet, / Nach-dem er làcheind auch / Der Menschen geschàftiges Leben, / Das othemarme, wie Segei / Mit seinen Lùften gelenkt hat, / Auch ruht und zu der Schùlerinjetzt, / Der Bildner, Gutes mehr / Denn Bóses findend, / Zur heutigen Erde der Tag sich neiget (il, p. 147; tr. it. cit., p. 203).

La visione diventa più dolce, allargandosi. Essa non è più fissata sul grande destino individuale. Nella luce pomeridiana, essa penetra attraverso l'intera natura, evocando quell'immagine in cui si esprime l'ultima nostalgia di Hólderlin: l'unione di tutto l'essere nella luce attenuata, il passaggio di ciò che è diviso nella presenza pura, del chiuso nell'esistenza aperta:

Allora festeggiano nozze uomini e dèi,

Le festeggiano tutti i viventi

E appianato

È per breve ora il destino.

Cercano ricetto i fuggiaschi

E soave sopore i prodi,

Ma gli amanti sono

84 Primo cerchio - Fiume e montagna

Ciò che erano; sono

A loro agio, dove il fiore si allieta

D'innocente fuoco e gli alberi bui

Lo Spirito avvolge di murmuri, ma gl'incondiiad

Mutano animo e corrono

A darsi la mano prima

Che l'amorosa luce

Tramonti e venga la notte.

Dann feiem das Brautfest Menschen und Getter, / Es fé-' iern die Lebenden ali, / Und ausgeglichen / Ist eine Weile das Schicksal. / Und die Flùchtiinge suchen die Herberg, /Und sùBen Schiummer die Tapfern, / Die Liebenden aber / Sind, was sie waren, sie sind / Zu Hause, wo die Blume sich freuet / Unschàdiicher Glut und die finsteren Bàume / Der Geist umsàuseit, aber die Unversóhnten / Sind umgewandeit und eilen, / Die Hànde sich ehe zu rei-chen, / Bevor das freundiiche Licht / Hinuntergeht und ;

die Nacht kommt (il, pp. 147-148; tr. it. cit., pp. 203-205). 4

. .ìjH

. "I Adesso la visione è passata. Il vate ritoma in sé. D:-|

venta consapevole del tremendo appena vissuto. Avverte il peso del proprio destino:

Pure, ad alcuni dilegua subito

Questa luce, altri

Più a lungo la serbano.

Gli dèi eterni sono •

Ognisempre colmi di vita; ma fin nella morte

Anche l'uomo può

Serbare il più gran bene nella memoria,

E allora vive quanto ha di più alto.

Ve solo che ognuno ha la sua misura, i

Poiché grave peso .

È l'infelicità, ma la felicità più ancora. :

Peraltro ci fu un saggio

Che dal mezzodì alla mezzanotte ;

E finché il mattino splendesse, , ,'• Nel convito seppe restare lucido.

L'inno II Reno 85

Doch einigen eilt / Dies schnell vorùber, andere / Behal-ien es lànger. / Die ewigen Gótter sind / Voli Lebens all-zeit; bis in den Tod / Kann aber ein Mensch auch / Im Gedachtnis doch das Beste behalten, / Und dann eriebt er <Lis Hóchste. / Nur hat einjeder sein Mafi. / Denn schwer ist zu tragen / Das Unglùck, aber schwerer das Glùck. / Ein Weiser aber vermocht es, / Vom Mittag bis in die Mit-tcrnacht, / Und bis der Morgen erglànzte, / Beim Gast-niahl belle zu bleiben (II, p. 148; tr. it. dt., p. 205).

Di nuovo compare una figura dell'antichità, Socra-te. Egli è riuscito ad avere in sé un'infinita ricchezza, pur restando «lucido». A lui era dato di congiungere a guisa di anello gli estremi dell'esistenza, il dionisiaco e l'apollineo. Gli altri invece hanno una forza diversa. Per la maggior parte il compimento e la visione dell'unità trascorrono velocemente; altri li conservano più a lungo. Eterni sono solamente gli dèi. Per l'uomo è già molto mantener vivo nella memoria questo dono, almeno fino alla morte.

IV

Nella storia finale il poeta si rivolge a Isaak von Sinclair, l'amico fedele che lo ha assistito fino alla fine - vien spontaneo pensare a quell'altro che pure ha assistito un poeta e vate dionisiaco in procinto di crollare, Overbeck, l'amico di Nietzsche:

Se per ardente sentiero d'abeti

O nel buio quercete, celato

Nell'acciaio, o mio Sinclair! Iddio ti appaia

O nelle nubi, lo riconoscerai, che, giovanile,

Conosci la forza del bene e non ti è mai

86 Primo cerchio - Fiume e montagna

Ascoso il sorriso del Regnatore, -il Sia di giorno, quando e Febbrile e incatenata t1 La vita appare, sia .»-1 Di notte quando tutto si mischia A Senz'ordine e torna 4 L'originario groviglio, f;

Dir mag auf heiBem Pfade unter Tannen oder / Im Dun-kel des Eichwaids, gehùllt / In Stahi, mein Sinclair! Gott erscheinen oder / In Wolken, du kennst ihn, da du ken-nest, jugendiich, / Des Guten Kraft, und nimmer ist dir / Verborgen das Làchein des Herrschers / Bei Tage, wenn / Es fieberhait und angekettet das / Lebendige scheinet, oder auch / Bei Nacht, wenn alles gemischt / Ist ordnungs-los und wiederkehrt / Uralte Verwirrung (il, p. 148; tr. it cit., p. 205).

L'amico riesce a riconoscere ciò che dev'essere riconosciuto: l'incombente missione, la volontà dall'alto, quali che siano la figura e il tempo in cui appaiono.

Ma in questo inno ch'è il puro giorno, la luce trionfante, la chiarezza e la disciplina che si compiono, le ultime righe racchiudono una minaccia misteriosa, quasi una espiazione per placare le potenze delle tenebre. Essa risiede nella parola della notte, «quando tutto si mischia senz'ordine e torna al groviglio originario», ma più ancora nel suono proprio al discorso sull'ordine stesso. Talvolta, infatti, in mezzo alla luce «febbrile e incatenata la vita appare» e il regno delle tenebre si spinge fin sotto alle forme che ordinano. E lo stesso tono che colmerà i versi Maturi sono, tuffati nel fuoco (IV, infra, p. 597). , < a

ALTRO SCORRERE

Dopo aver parlato di torrenti e fiumi e successivamente dell'acqua che è principio e fine di ogni scorrere, il mare, bisogna menzionare un altro scorrere privo d'alveo: la pioggia.

Ricordiamo lo splendido inizio di Stoccarda, dove la natura ristorata respira la freschezza dell'aria purificata e il temporale penetra in noi come «una gioia» - così grande che a noi viene da chiederci di che cosa siamo tanto felici. Finalmente ci accorgiamo di aver vissuto attraverso il lieto ristoro qualcosa di molto più profondo, ossia il favore, la grazia del mondo e l'adempimento dell'esistenza:

Stoccarda: .

Vissuto ancora ho una gioia. Guarita è l'arsura funesta E della luce il rigore più non brucia le fioriture. Aperta or di nuovo è una sala e risanato è il giardino E rianimata da piogge stormisce la valle lucente, Dagli alti fogliami, son gonfi i torrenti e tutte le ali Legate riprendono ardire nel regno del canto.

Wieder ein Glùck ist eriebt. Die gefahriiche Dùrre geneset, / Und die Schàrfe des Uchts senget die Biute nicht mehr. / Offen stehtjetzt wieder ein Saal, und gesund ist der Gar-

88 Primo cerchio - Fiume e montagna

ten, / Und von Regen erfrischt rauschet das glànzendet Tal, / Hoch von Gewàchsen, es schwellen die Bàch' und alle gebundnen / Fitdche wagen sich wieder ins Reich des;

Gesangs (il, p. 86; tr. it. dt., p. 127). |

Nel bellissimo frammento A Diotima la pioggia di-1 venta uno scorrere in sovrabbondanza in cui sono dischiuse tutte le profondità del rinnovamento e sciolte le potenze del risanamento. Il lieto moto delle luci, dei colori e delle forme, dell'aria e dei profumi diffusi dopo il temporale, domina l'inizio:

Vieni e guarda che gioia abbiamo d'intomo! In fresche brezze ;, Aleggiano i rami del bosco, ' S Come i riccioli nella danza; e come su armoniosa cetra ^ Uno spirito rallegrante, j Giucca con sole e pioggia sulla terra il delo; "j Come in amorosa contesa '• '~ Sopra le corde un infinito turbinio Di suoni fuggenti vibra,

Così ombra e luce alternandosi in dolce melodia Là sui monti trascorrono.

Komm und siehe die Freude um uns; in kùhlenden Lùften ;

/ Fliegen die Zweige des Hains, / Wie die Locken im S Tanz; und wie auf tónender Leier / Ein erfreulicher Geist i / Spieit mit Regen und Sonnenschein auf der Erde der Himmel; / Wie in liebendem Streit / Ùber dem Saiten-spiel ein tausendfàltig Gewimmel / Flùchtiger Tóne sich regt, / Wandeit Schatten und Licht in sùBmelodischen Wechsel/ Ùber die Berge dahin (i, p. 210; tr. it dt., p. 25). ;

Vediamo il movimento del pensiero: all'inizio della poesia il temporale è passato; il sesto esametro ri- J prende il lieve inizio di esso. Particolarmente attraente è qui il legame tra pioggia e fiume:

Altro scorrere 89

II delo prima sfiorò con lieve stilla d'argento 11 suo fratello, il fiume;

Vicino è ora, ora versa tutta la piena stupenda

Che portava nel cuore

Sul bosco e sul fiume, e [...]

Leise berùhrte der Himmel zuvor mit der silbemen Trop-fe / Seinen Bruder, den Strom; / Nah ist er nun, nun schùttet er ganz die kóstliche Fùlie, / Die er am Herzen trug, / Ùber den Hain und den Strom, und [...] (i, p. 210;

tr. it. dt., p. 25).

Poi penetra il caos, la sfera del divenire vivente, nella sua forma più amabile. Tutto si scioglie, cadono le barriere, scorrono flutti infiniti e da essi nasce vita nuova:

E il verde del bosco e il delo riflesso nel fiume

Balugina e dilegua innanzi a noi

E il capo del monte solingo con le casette e le rupi

Che nel grembo nasconde,

E i colli che a lui intorno, come agnelli sdraiati,

E in boscaglia fiorita

Come in tenera lana avvolti si nutrono di chiare

Fresche sorgenti del monte,

E la valle vaporante con i suoi seminad e i suoi fiori,

E il giardino a noi innanzi,

II vidno e il lontano sfuma e si perde in lieto tumulto

E si spegne il sole.

Und das Grùnen des Hains, und des Himmeis Bild in dem Streme / Dàmmert und schwindet vor uns, / Und des ein-samen Berges Haupt mit den Hùtten und Felsen, / Die er im SchoBe verbirgt, / Und die Hùgel, die um ihn her, wie Làmmer, gelagert / Und in blùhend Gestràuch / Wie in zane Wolle gehùllt, sich nahren von klaren / Kùhlenden Quellen des Bergs, / Und das dampfende Tal mit seinen

90 Primo cerchio - Fiume e montagna

Saaten und Blumen, / Und der Garten vor uns, / Nah und Fernes entweicht, verliert si eh in froher Verwirrung/ .;

Und die Sonne verlischt (i, p. 210; tr. it. dt., pp. 25-27). *

f-' \

Alla fine tutto è nuovo - e noi avvertiamo l'incan. ! to misterioso della parola: • |

* Ma ora han finito di scrosciare i flutti del delo, :

E purificata, più giovane |' Sorge coi figli beati dal lavacro la terra, tj Più lieto, più vivo $ Splende nel bosco il verde, più scintilla l'oro dei fiori, "

[...] * Bianchi come i greggi che il pastore ha cacdato nel fiume, i [...]. . |

Aber vorùbergerauscht sind nun die Fluten des Himmeis / Und gelàutert, verjùngt / Geht mit den seligen Kindem " hcrvor die Erd aus dem Bade. / Froher, lebendiger / Glànzt im Haine das Grùn, und goldner funkein die Blumen, / [...] / WeiB, wie die Herde, die in den Strom der Schàfer geworfen, / [...] (i, pp. 210-211; tr. it. cit-, p. 27).

Più brevemente, sotto forma di un rapido ampliamento del motivo fluviale, il fenomeno della pioggia appare nella prima versione di Voce del popolo: .

Così precipita il fiume in cerca di pace, lo strappa, t Lo trae contro sua voglia, di scoglio • ,| In scoglio, giù, senza alcun freno, ^ La brama meravigliosa d'inabissare, H E appena dalla terra sorta, lo stesso di, ]' Torna piangendo al luogo della nascita T Da purpurea altezza nuovamente la nuvola. ?

"~-

[...] so stùrzt / Der Strom hinab, er suchet die Ruh, es :

reifit, / Es ziehet wider Willen ihn von / Klippe zu Klippe

Altro scorrere 91

(jgn Steuerlosen // Das wunderbare Sehnen dem Ab-(rrund zu, / Und kaum der Erd entstiegen, desselben Tags / Kehrt weinend zum Geburtsort schon aus / Purpurner Hóhe die Wolke wieder (II, p. 49; tr. it. dt., p. 65).

II

Del tutto assoluto, sciolto da ogni determinazione e da ogni limite particolare, lo scorrere si presenta all'inizio della prima versione di Patmo:

Vidno

E difficile ad afferrare è il Dio.

Ma dove è il pericolo, cresce

Anche dò che ti salva.

Nelle tenebre vivono

Le aquile e senza paura

Va la prole delle Alpi sopra l'abisso

Su lievemente costruiti ponti.

Ora, poi che ammassate in cerchio

Stanno le vette del tempo

E i più amati abitano vidno, languendo

Sui monti più separati,

Oh, dacci acqua innocente,

Dacci ali a varcare di là

Con fedelissimo animo e ritornare.

Nah ist / Und schwer zu fassen der Gott. / Wo aber Ge-fahr ist, wàchst / Das Rettende auch. / Im Finstem woh-nen / Die Adier und furchtios gehn / Die Sóhne der Al-pen ùber den Abgrund weg / Auf leichtgebaueten Brùcken. / Drum, da gehàuft sind rings / Die Gipfel der Zeit, und die Liebsten / Nah wohnen, ermattend auf/ Ge-trenntesten Bergen, / So gib unschuidig Wasser, / O Fitti-che gib uns, treuesten Sinns / Hinùberzugehn und wieder-zukehren (il, p. 165; tr. it. cit., pp. 217-219).

92 Primo cerchio - Fiume e montagna

Nel paesaggio dell'esistenza, costruito con le forme della realtà, si elevano le «vette del tempo». «Tempo» qui significa semplicemente esistere, essere esistente di passaggio. Le «vette» vi significano la presenza degli esseri singoli nella solitudine della loro figura particolare, descritta in Voce del popolo dal verso «camminare ad occhi aperti lungo il suo sentiero», L'esistenza individuale è vista eracliteamente nel suo rapporto col tutto che scorre: da esso si rileva come figura propria, ma, divenuta subito sola, anela anche subito a ritornare nel Tutto. Essere singoli vuoi dire trovarsi su una vetta isolata. Tra le vette sta l'abisso, e i viventi stanno «languendo sui monti più separati». In questo contesto «acqua» significa ciò che collega e «salva». La vetta attigua è così vicina, eppure la «più separata». Arrivarvi è propriamente impossibile. Solo la gra- | zia da questa possibilità. Pensiamo ai versi nell'/riro: s

[...] cercato a lungo abbiamo ;;

Ciò ch'era a noi destinato, | Ne senza ali si può | Afferrare di slancio S Nemmeno quanto è più presso I E varcare all'altra riva. -k

[...] lange haben / Das Schickiiche wir gesucht, / Nicht oh- ;:

ne Schwingen mag / Zum Nàchsten einer greifèn / Gera- | dezu / Und kommen auf die andere Seite (II, p. 190; tr. it. S dt.,pp. 239-241). |

':?

«L'altra riva» è un grande mistero - come «l'essere , vicino» del «vicino Dio» in Riike, diviso solo da un < «muro sottile»; oppure di quel mistero di cui parla :

Hans Carossa quando definisce una grande grazia ^ «poter vedere ciò che è». Solo la grazia lo concede. In ^

Altro scorrere 93

questo caso la grazia è l'acqua. Essa, infatti, è «innocente», non spezzata, non profanata, in armonia. Essa è l'elemento dell'esistenza che rende possibile ciò che non riesce alla volontà chiusa in se stessa; ciò che permette agli eroi di compiere l'impossibile, ai puri di superare tutte le tentazioni, e a coloro che non se lo prefiggono intenzionalmente, di trovare ciò che è nascosto. Chi ha «animo fedelissimo» può porre il piede su questa «acqua». Egli può andare all'altra vetta e ritornare a se stesso. Anzi, l'«acqua» improvvisamente diventa «aria»: colui che ha fiducia si ritrova ad avere ali e può volare al di là come «le aquile».

In questo contesto, l'«acqua» è il mistero dell'unione in quanto tale, che salva dall'angustia dell'isolamento.

MONTAGNE E ALTURE

All'acqua è opposta nel paesaggio di Hólderlin la montagna: a ciò che scorre si contrappone il solido, il costruito, ciò che si innalza; alla vastità dei piani solcati da fiumi l'altura e - nel caso del vulcano - la profondità che si inabissa.

L'immagine della montagna non possiede connotazioni così ricche come quella dell'acqua che scorre. Se la si analizza più da vicino, diventa evidente che equivale a quest'ultima. Anche qui abbiamo un fenomeno fondamentale che, partendo dal quotidianamente percepibile, si sviluppa fino a ricomprendere la sfera simbolico-spirituale e addirittura quella metafisica e mitica. Come il fiume, anche la montagna attraversa tutti gli ambiti dell'esistenza.

Nella poesia di Hólderlin sono costantemente riscontrabili diversi tipi di alture, dal colle fino alla montagna ripida, dalla cima isolata fino alla catena montuosa.

Primeggiano le alture della sua terra: della Alb, dei corsi del Danubio e del Neckar, della valle del Meno e del Reno ... Le Alpi vengono ampiamente descritte nella poesia II cantone di Schwyz, ma anche in altre liriche come Ritorno.

Nell'inno II Reno esse sono l'origine del Reno e lo

96 Primo cerchio - Fiume e montagna |

scenario del suo primo tratto ... Per gli altri paesi vengono annoverate soprattutto le catene montuose della Grecia.

UIperione descrive con una bellezza che tocca l'eroico, i colli di Tino, i monti di Calàuria, le alture attorno ad Atene e le catene montuose del Peloponne-so. Le grandi poesie dell'Oriente e dell'Occidente parlano del Parnaso e del Citerone, dell'Elicona e del Campidoglio. Rievocando il viaggio in Francia, si nominano le alture della bassa valle del Rodano e della Dordogna; in Emilia innanzi il giorno delle sue nozze le alture della Corsica, scenario di coraggiose lotte per la libertà. Nella poesia // viandante si erge imponente l'Atlante ... Un carattere particolare, di cui tratteremo oltre in modo più preciso, rivestono i vulcani. In relazione alla figura di Empedocle, si impone soprattutto l'immagine dell'Etna. Il paesaggio di Hólderlin non è mai costituito dalla sola pianura; sempre vi è il contrappunto della montagna. L'immagine della pianura e la sensazione della vastità di quest'ultima sono collegate al fiume che scorre; di questo fan però anche sempre parte il punto di origine, che lo sprigiona e gli addita la dirczione decisiva, ossia la montagna. Anche il moto dell'uomo, il viaggio, viene spesso associato alla situazione in cui il viaggiatore guarda lontano dall'alto; dall'Atlante il deserto, oppure dal Tauro l'Asia Minore. All'elemento orizzontale della pianura si contrappone sempre quello verticale della montagna. Tra i due si muovono il fiume e l'uomo:

l'esistenza che si compie nel passare.

Ma la descrizione di Hólderlin non si riferisce mai al paesaggio in quanto tale; questo è anzi sempre lo

Montagne e alture 97

spazio della vita umana. Anche là dove la sua immagine si sviluppa nel modo più pieno, essa è legata totalmente al divenire e all'esperire dell'uomo, il cui destino è al centro. Questo legame acquista un carattere particolare là dove si tratta di vita storica. I monti del romanzo testimoniano del grande passato della Grecia, monumenti del suo splendore, lamento sul suo tramonto, monito per imprese future votate alla liberazione e al rinnovamento ...

Nella poesia Heidelberg l'altura sopra la città appare espressione della portata storica del castello. Nella Morte per la patria il colle diventa il punto di partenza del movimento, col quale i giovani vanno in battaglia, quindi il luogo del coraggio e della consacrazione e più tardi, visto dal campo di battaglia ai suoi piedi, «il colle del sacrificio», dove scorre il sangue per la patria.

II

L'immagine della montagna acquista una significatività più intensa quando si tratta di alture coinvolte nella mitologia. In Pane e vino si legge:

Vieni dunque sull'Istmo! Dove scroscia l'aperto mare A pie di Parnaso e la neve splende alle delfiche rupi, Nella terra dell'Olimpo, sulle cime del Citerone, Sotto i pini e in mezzo alle viti, lassù dove sale Di Tebe il murmurc e dell'Ismeno sulla terra di Cadmo, Di là giunge e indietro fa segno il veniente dio.

Drum an den Isthmos komm! dorthin, wo das offene Meer rauscht / Am ParnaB und der Schnee delphische Felsen umglànzt, / Dort ins Land des Olymps, dort auf die Hóhe Kithàrons, / Unter die Fichten dort, unter die Trauben,

98 Primo cerchio - Fiume e montagna

von wo / Thebe drunten und Ismenos rauscht im Lande des Kadmos, / Dorther kommt und zurùck deutet der kommende Gott (il, p. 91; tr. it. dt., p. 137).

La poesia Ai tedeschi elenca le «montagne delle Muse»: Pindo, Elicona e Parnaso (II, p. 10). In questo caso la montagna è il luogo dove abita la divinità -una divinità che ha essa stessa le connotazioni del sublime, di ciò che è sottratto all'abbassamento. Dall'alto viene il messaggero degli dèi, l'aquila. In Germania si legge in proposito:

E l'aquila, che dall'Indo viene

E dal Parnaso sopra

I nevosi picchi vola, alto sulle are dei monti

D'Italia, in cerca di allegra preda .

Per il padre, non più inesperta, ma provetta nel volo,

Finisce col varcare con grida di giubilo

Le Alpi e di là scorgere il molto variato paese.

La sacerdotessa, la più tacita figlia di Dio,

Che troppo ama il silenzio d'un'innocenza profonda,

Lei cerca l'aquila [...]

Und der Adier, der vom Indus kómmt / Und ùber des Parnassos / Beschneite vom Gipfel fliegt, hoch ùber den Opferhùgein / Italias, und frohe Beute sucht / Dem Vater, nicht wie sonst, geùbter i m Fluge / Der AlteJauchzend ùber-schwingt er / Zuletzt die Alpen und sieht die vielgearteten Lànder. / Die Priesterin, die stillste Tochter Gottes, / Sie, die zu gem in tiefer Einfalt schweigt, / Sie suchet er [...] (Il, p. 150; tr. it. dt., p. 209).

La montagna è il luogo e l'espressione del dominio della divinità che, stendendo lo sguardo su paesi e tempi, delibera, decide ed assegna a ciascuno il proprio destino; un luogo dove troneggia «la potenza

Montagne e alture 99

dell'alto». L'immagine della montagna trapassa in quella dell'altezza ancora più alta, quella dell'etere.

In un altro contesto, le montagne appaiono come il luogo dove nascono le forme del significato, i versi di divina sapienza e bellezza. Al fonte del Danubio:

[...] così giunse

La Parola da Oriente a noi,

E di Parnaso alle rupi e al Citerone,

O Asia, odo l'eco tua che si frange

Al Campidoglio e subito giù dalle Alpi

Straniera giunge

A noi la risvegliatrice

La voce che forma gli umani.

[...] so kam / Das Wort aus Osten zu uns, / Und an Par-nassos Felsen und am Kitharon hór ich / O Asia, das Echo von dir und es bricht sich / Am Kapitoi undjàhiings he-rab von den Alpen // Kommt eine Fremdiingin sie / Zu uns, die Erweckerin. / Die menschenbildende Stimine (il, p. 126; tr. it. dt., p. 163).

A queste montagne sono paragonate quelle su cui venne ricevuta dai profeti la Parola proveniente «da Oriente», quella della Rivelazione biblica:

E pensiamo anche a voi, valli del Caucaso, Tanto antiche voi siete, a voi paradisi di là E ai tuoi patriarchi, ai tuoi profeti,

Asia, ai tuoi forti, o madre!

Che impavidi innanzi ai segni del mondo

Con sulle spalle il cielo e tutto il destino,

Interi giorni, radicati sui mond

Per primi seppero

Parlare soli

A Dio [...].

100 Primo cerchio - Fiume e montagna |

:3E

1.

Auch eurer denken wir, ihr Tale des Kaukasos, / So alt ihr :

seid, ihr Paradiese dort / Und deiner Patriarchen und dei-ner Propheten, // O Asia, deiner Starken, o Mutter! / Die furchtios vor den Zeichen der Welt, / Und den Himmel auf Schuitern und alles Schicksal, / Taglang auf Bergen gewurzeit, / Zuerst es verstanden, / Allein zu reden / Zu •' Gott [...] (il, p. 128; tr. it. dt., p. 165). ;

La nostra analisi del fenomeno fluviale ha mostra- ' to come, in un determinato momento, l'immagine del fiume si trasfiguri nel mitico. Lo stesso avviene anche a proposito dell'immagine della montagna. La coscienza mitica non vede il inondo come dato ogget- s tivo, da pensare secondo i concetti scientifici di mate- ^ ria, forza e legge, bensì come insieme di esseri viventi dai quali, attraverso l'incontro e la fuga, la lotta e l'u- ^ nione, scaturiscono costantemente gli enti. Questa | caratterizzazione del mitico non sembra applicabile •t ad un fenomeno così massiccio come la montagna;

eppure ciò viene fatto, e anche con grande credibilità. La trasformazione riesce relativamente facile sul ^ piano delle idee di spazio e luogo, come avviene nei versi addirittura magici che introducono la quarta strofa di Pane e vino:

Greda felice! Casa di tutti i celesti

È dunque vero dò che da giovani abbiamo udito?

Sala di feste! II suolo è mare e sono mense i monti,

Per certo a quell'unico uso costruiti fin dall'antico!

Ma i troni ove sono? e i templi e dove i vasi,

Dove, pieno di nettare, per delizia degli dèi, il canto?

Ove, ove splendono gli oracoli, adesso, che colgono lungi?

Delfo è assopita e dove suona il grande destino?

Dov'è il veloce? dove, d'un bene universo ricolmo

Rompe sugli occhi, tonando dall'aria serena? ;!

Montagne e alture 101

Seliges Griechenland! du Haus der Himmlischen alle, / Al-so ist wahr, was einst wir in derJugend gehórt? / Festli-cher Saal! der Boden ist Meer! und Tische die Berge, / Wahriich zu einzigem Brauche vor Alters gebaut! / Aber die Thronen, wo? die Tempel, und wo die GefàB, / Wo mit Nektar gefùlit, Góttern zu Lust der Gesang? / Wo, wo leuchten sie denn, die femhintreffenden Sprùche? / Del-phi schiummert, und wo tónet das groBe Geschick? / Wo ist das schnelle? wo brichts, allgegenwàrdgen Glùcks voli, / Donnernd aus heiterer Luft ùber die Augen herein? (II, pp. 91-92; tr. it. dt., p. 137).

La terra dell'Ellade viene vista da un'altezza visionaria ed appare come «casa di tutti i Celesti». Il piano orizzontale della terra costituisce un'immensa sala, preparata per gli esseri sovrumani. Il mare è il suolo sul quale camminano i Celesti; le montagne sono le mense dove gli dèi pranzano, esse sono state costruite nella notte dei tempi per questo scopo; i templi sono i troni, e lo spazio vasto, pieno di misteri, è attraversato, come da fulmini, dagli «oracoli, che colgono lungi». Questo è il vero senso del paese: essere la sede degli dèi. Ogni altra visione è cecità e limitatezza terrena. Tutto ciò non è che l'introduzione al vero e proprio mistero:

'Padre Etere!' ecco il grido che di labbro in labbro volava In mille modi e nessuno sopportava la vita da solo. Compartito l'allieta un tal bene e con estranei scambiato Diventa un giubilo, cresce dormendo il potere della parola:

'Padre! Sereno!' e risuona da ogni distanza il segno Originano, ereditato dagli avi e ove giunge crea. Così prendono stanza i Celesti e spargendo un brivido fondo Fuori dalle ombre scende, fra gli uomini, il loro giorno.

Vater Àther! so riefs und flog von Zunge zu Zunge / Tau-sendfach, es ertrug keiner das Leben allein; / Ausgeteilet

102 Primo cerchio - Fiume e montagna

erfreut sokh Gut und getauschet, niit Fremden, / Wirds einJubel, es wàchst schlafend des Wortes Gewalt/ Vater! heiter! und hallt, soweit es gehet, das uralt / Zeichen, von Eltern geerbt, treffend und schaffend hinab. / Denn so kehren die Himmlischen ein, tiefschùttemd gelangt so / Aus den Schatten herab unter die Menschen ihr Tag (il, p. 92; tr. it. cit., p. 137).

Sono incredibili la forza primordiale e la precisione con cui un uomo che vive a cavallo fra Settecento e Ottocento riesce ad evocare la sfera del mistero.

Ancora più grande è l'immagine delle montagne, dal punto di vista del sentimento mitico, nella poesia dionisiaca Stoccarda. Dopo aver descritto il fatto on-niinnovatore del temporale, dando al lettore la sensazione di come le potenze primordiali attraversino cie-lo e terra, continua:

Ma bene guidati sono pure i viandanti e hanno Ghirlande bastevoli e canto, hanno il bastone sacro Bene adorno di grappoli e frondi seco, e dei pini L'ombra: di borgo in borgo è un giubilo, da giorno a giorno, E, quali carri tirati da libere belve, si mettono i monti In cammino, così porta e vola il sentiero.

Aber die Wanderer auch sind wohigeleitet und haben / Krànze genug und Gesang, haben den heiligen Stab, / Vollgeschmùckt mit Trauben und Laub, bei sich und der Fichte / Schatten; von Dorfe zu Dorfjauchzt es, von Tage zu Tag, / Und wie Wagen, bespannt mit freiem Wilde, so ziehn die / Berge voran, und so tràget und eilet der Pfad (II, p. 86; tr. it. cit., p. 126).

I viandanti escono dalla città con i bastoni adomi di tralci di vite e rami di pino. All'improvviso questa gente della Svevia, allegra e coinvolta dall'aspettativa del-

Montagne e alture 103

l'uva matura, si trasforma nel corteo di Dioniso che, con il bordone in mano, abbandona le sedi di una vita regolata, muovendo verso la natura. Questa natura ora si muta, raggiungendo essa stessa lo stato dionisiaco. I monti si trasformano in carri sui quali viaggia il Dio, trainati dalle belve dei loro boschi, «libere belve» che ubbidiscono all'incantesimo. Il sentiero stesso diventa vivo, «porta e vola», e nell'ebbra theoria [corteo] le montagne si mettono in cammino rombando.

Ancora una volta la montagna muta carattere diventando l'altezza nello spirito. Ciò accade, per esempio, nella prima parte dell'inno Palmo in cui lo spirito trasporta il poeta in «Asia», sulle cime dei suolinomi la cui immagine rifulge in uno splendore di gloria ultraterreno:

[...] Ma su nell'alta Luce l'argentea neve fiorisce:

Testimone di vita immortale,

Alle impervie pareti

Cresce antichissima l'edera e reggono

Colonne viventi di cedri

E d'allori i maestosi

Palagi, costruiti da dèi.

[...] aber im Uchte / Blùht hoch der silberne Schnee; / Und, Zeug' unsterbiichen Lebens, / An unzugangbaren Wànden / Uralt der Efeu wàchst und getragen sind / Von lebenden Sàulen, Zedern und Lorbeern, / Die feierlichen, / Die gòtdichgebauten Palaste (il, p. 166; tr. it. dt., p. 219).

Qui non sussiste più solo uno splendore d'altezza, contemplato nella visione, ma in queste montagne si esprime l'altezza intcriore o meglio visionaria stessa da cui la visione viene raggiunta, così come accade

104 Primo cerchio - Fiume e montagna

nell'immagine di contrasto, nell'inizio cupamente grandioso de II viandante:

Solo io stavo e per le aride distese

Africane guardavo; dall'Olimpo pioveva fuoco

Rapinoso! poco più mite di quando qui dirompendo

Con raggi la montagna, il Dio alture costruiva e abissi.

Ma su di esse nessun bosco che fresco verdeggi germoglia

Salendo nell'aere sonoro, rigoglioso e magnifico. '"•

Ne d'un serto è anta la fronte del monte ne ruscelli loquaci

Esso conosce, rara la fonte perviene alla valle.

Nessun gregge passa alla polla zampillante nel meriggio,

Ne amico un tetto ospitale ha spiato tra gli alberi. .

Sotto un cespuglio stava serio un uccello senza canto, ' _g

Ma come viandanti s'affrettavano a involarsi le cicogne.

Einsam stand ich und sah in die afrikanischen dùrren / Ebnen hinaus; vom Olymp regnete Feuer herab, / ReiBen-des! milder kaum wie damais, da das Gebirg hier / Spal-tend mit Strahien der Gott Hóhen und Tiefen gebaut. / Aber auf denen springt kein frischaufgrùnender Wald nicht / In die tónende Luft ùppig und herrlich empor. / Unbekrànzt ist die Stime des Bergs und beredtsame Bàche / Kennet er kaum, es erreicht selten die Quelle das Tal. / Keiner Herde vergeht am plàtschernden Brunnen der Mit-tag, / Freundiich aus Bàumen hervor blickte kein gastli-ches Dach. / Unter dem Strauche sa6 ein ernster Vogel ge-sanglos, / Aber wie Wanderer flohn eilend, die Stórche, vorbei (il, p. 80).

Se qui l'altezza stava nell'atto della contemplazione visionaria, nella poesia Alla principessa Augusta di Homburg essa diventa un ambito dell'esistenza ogget-tiva nella sua totalità:

[...] e solitario, o principessa!, non è più Certo il cuore di chi è nato libero

Montagne e alture 105

(slella propria felicità; che degnamente

5'accompagna a lui nel lauro l'eroe,

[^ui di matura bellezza, genuino; anche i saggi,

[ nostri, ne son degni; guardano

Calmi, dall'alto della vita, i vecchi gravi.

[...] und einsam, o Fùrstin! ist / Das Herz der Freigebomen wohi nicht / Lànger im eigenen Glùck; denn wùrdig // Gesellt im Lorbeer ihm der Heroe sich, / Der schóngereifte, echte; die Weisen auch, / Die unsern, sind es wert: sie blic-ken / Sdii aus der Hóhe des Lebens, die ernsten Alten (I, p.311).

Questo «alto della vita» non è un ambito soggettivo - per esempio di un'esperienza vissuta - bensì quella zona di lontananza in cui si trovano i grandi del passato, volti a questa esistenza terrena e pronti a reinserirsi in essa (il, p. 156).

La rappresentazione è correlata a quella dell'Olimpo nella misura in cui abbandona completamente l'immagine della montagna empirica trasformandosi in una regione puramente metafìsica. Così nel Canto del Destino di Iperione :

Voi andate lassù nella luce Su molle suolo, beati genii!

Ihr wandeit droben im Ucht / Aufweichem Boden, selige Genien! (i, p. 265; tr. it. dt., p. 37).

'NeìYIperione si parla addirittura espressamente del-l'«01impo spirituale» che è dappertutto, per quanto accessibile solo agli entusiasti.

Infine la montagna trascende ogni significato concreto, diventando pura espressione - non a caso in relazione alla concezione del tempo. Nella poesia

106 Primo cerchio - Fiume e montagna (

frammentaria e di difficile comprensione Alla madre Terra si legge:

Molto egli ha da dire e con altro diritto E un solo v'è, che non finisce nelle ore, E le epoche del Creante sono Come catena di monti Che in alte ondate da mare a mare S'avanza sulla terra [...].

Viel hat er zu sagen und anders Recht, / Und Einer ist, der endet in Stunden nicht, / Und die Zeiten des Schaf-fenden sind / Wie Gebirg, / Das hochaufwogend von Meer zu Meer / Hinziehet ùber die Erde [...] (il, p. 125; tr. it. dt, p. 161).

Ora, poi che ammassate in cerchio

Stanno le vette del tempo

E i più amati abitano vicino, languendo

Sui monti più separati,

Oh, dacci acqua innocente,

Dacci ali a varcare di là

Con fedelissimo animo e ritornare.

Drum, da gehàuft sind rings / Die Gipfel der Zeit, und die Liebsten / Nah wohnen, ermattend auf / Getrenntesten Bergen, / So gib unschuidig Wasser, / O Fittiche gib uns, treuesten Sinns / Hinùberzugehn und wiederzukehren (il, p. 165; tr. it. cit., p. 217).

In entrambi i testi le montagne si presentano come forme del tempo: «le epoche del Creante», come una catena montuosa che avanza sulla terra; l'esistenza di «più amati», di uomini vicinissimi nel sentimento come «vette» divise da abissi invalicabili. La visione, penetrando fino al fondo dell'essere, ne scopre, come sostanza ultima, il tempo. L'esistenza, che è nel

Montagne e alture 107

.^passare, si compone di tempo. Essa si concreta in forme; e queste forme sono ciò che è.

Qui i due fenomeni fondamentali dell'esistenza, fiume e montagna, si identificano. Il tempo, che è la forma più intcriore dello scorrere, anzi costituisce lo scorrere in quanto tale, diventa montagna poiché di esso è fatta ogni cosa. La possanza sconfinata delle cose, distesa per lo spazio come una catena montuo-sa18, e l'esistenza degli uomini che nella sua solitudine individuale si eleva all'invalicabile come vertici inaccessibili - entrambe sono fatte di tempo.

LE ALPI E IL VULCANO

II terzo paragrafo della nostra analisi sul fiume ha messo in luce che tutto ciò che può essere detto di esso si trova riassunto nell'immagine del Reno. Allo stesso modo ogni particolare sulla montagna e le montagne è presente nell'immagine delle Alpi che per Hólderlin sono le montagne per eccellenza.

La già menzionata poesia Cantone di Schwyz fornisce una descrizione realistica - per quanto si possa usare questo termine nel caso di Hólderlin - delle Alpi e della loro grandiosità ... In La migrazione e Palmo esse sono presentate come il punto di partenza della grande tensione tra Occidente e Oriente. Entrambe le poesie suscitano all'inizio l'impressione dello stabile in sé, del fermamente costruito, di quanto è immensamente elevato; da esso parte il movimento. Nella prima la terza strofa (il, p. 138) inizia: «Ma io voglio andarmene al Caucaso!», mentre nell'altra la seconda strofa si apre con le parole:

Così parlavo quando

Più veloce ch'io non credessi e lontano

Dove mai sognato avevo

Di giungere, un Genio mi rapì

Dalla mia casa [...].

So sprach ich, da entfuhrte/ Mieli schneller, denn ich ver-mutet, / Und weit, wohin ich nimmer / Zu kommen ge-

110 Primo cerchio - Fiume e montagna Ì

dacht, ein Genius mich / Vom eigenen Haus [...] (n, p ' 165; tr. it. cit-, p. 186). |

Ma il movimento porta anche in Asia, allo Tmolo e al Taigeto. In Germania le Alpi sono le ultime montagne sorvolate dall'aquila, messaggera del ritorno della Grecia. Qui il movimento percorre la dirczione inversa: «Dall'Indo» alla Germania, passando per il Parnaso, le «are dei monti d'Italia» ed infine «le Alpi» (il, p. 150). E la stessa dirczione descritta in Al fonte del Danubio, già citata (pp. 50-51):

La parola da Oriente a noi, E di Parnaso alle rupi e al Cicerone, O Asia, odo l'eco tua che si frange Al Campidoglio e subito giù dalle Alpi

Straniera giunge

A noi la risvegliatrice

La voce che forma gli umani.

[...] so kam / Das Wort aus Osten zu uns, / Und an Par-nassos Felsen und am Kithàron hór ich, / O Asia, das Echo von dir und es bricht sich/ Am Kapitoi, undjàhiings herab von den Alpen // Kommt eine Fremdiingin sie / Zu uns, die Erweckerin, / Die menschenbildende Stimme (il, p. 126; tr. it. cit., p. 163).

Anche nell'inno II Reno le Alpi sono punto di partenza, in quell'occasione sono l'origine. Questa origine ha un'importanza che va oltre il primo significato di sorgente fluviale: il fiume, infatti, è la grande forma dell'esistenza in genere che, scaturendo dalla profondità indifferenziata, acquista una forma, avverte la legge della caduta e ritorna nel tutto indiviso. In tal modo le Alpi diventano l'origine per eccellenza:

Le Alpi e il vulcano 111

pure mai se ne scorda.

prima perirà la casa

E le leggi e tornerà all'informe

(1 giorno degli uomini, che dimenticare

i)n pad suo possa l'origine

R la voce pura della gioventù.

Doch nimmer, nimmer vergiBt ers. / Denn eher mu6 die Wohnung vergehn, / Und die Satzung, und zum Unbild werden / Der Tag der Menschen, ehe vergessen / Ein sol-cher dùrfte den Ursprung/ Und die reine Stimine derJu-gend (II, pp- 114-145; tr. it. dt., p. 199).

Così dice Hólderlin, dopo aver descritto come il torrente, dapprima così sfrenato, scorra successivamente in modo pacato e creativo.

In La migrazione, alla Svevia sono dedicate le seguenti strofe: ,

[...] E per questo

T'è innata la fedeltà. Tristo abbandona

Chi abita accanto all'origine, il luogo.

E tue creature, le atta,

Sul lago che lungi barluma,

Sui paschi del Neckar, sul Reno,

Tutte pensano non vi sarebbe

Altrove da meglio abitare. ,

[...] Darum ist / Dir angeboren die Treue. Schwer verlàBt, / Was nahe dem Ursprung wohnet, den Ort. / Und deine Kinder, die Stàdte, / Am weithindàmmernden See, / An Neckars Weiden, am Rheine, / Sie alle meinen, es wàre / Sonst nirgend besser zu wohnen (n, p. 138; tr. it. dt., p. 189).

Da questa origine scaturisce anche un altro fiume, l'ispirazione. Così nel magnifico esordio dell'inno II Reno per esempio (già citato, p. SO): ;

112 Primo cerchio - Fiume e montagna

Nell'edera buia sedevo, alla porta

Della foresta, proprio quando il meriggio d'orò

Per visitare il fonte scendeva

Le scale dell'Alpe,

Che per me è la rocca dei numi,

Costruita da mano divina,

Secondo l'antica voce, ma donde

Più d'un segreto verdetto

Giunge ancora agli uomini: di lì

Imprevisto ebbi il senso

D'un destino [...] •

Im dunkein Efeu saB ich, an der Pforte / Des Waldes,S eben, da der goldene Mittag, / Den Quell besuchend, her-1;-unterkam / Von Treppen des Alpengebirgs, / Das mir diel gòttlichgebaute, / Die Burg der Himmlischen heiBt / 4 Nach alter Meinung, wo aber / Geheim nodi manches ent- ? schieden / Zu Menschen gelanget; von da / Vernham ich^ ohne Vermuten / Ein Schicksal ... (il, p. 142; tr. it. cit., p. ? 195). ^

In quanto origine del fiume, le Alpi sono «grembo ;

sacro» (il, p. 143), eruzione che viene dalla profondità; in quanto origine dell'ispirazione, esse sono all'altezza misteriosa, simile all'Olimpo o alle cime delle querce di Dodona. Esse sono la dimora degli dèi «donde più d'un segreto verdetto giunge ancora agli , uomini», come in questo caso la rivelazione del «destino» celebrato dall'inno, il mistero del Reno. ' $

In termini più generali, la zona dell'origine si mani- ^ festa come caos creativo nella poesia Ritomo in patria:. I

Là in grembo alle Alpi è ancor notte chiara e la nuvola Addensando gioia, ammanta If dentro lo squarcio della vallata. Piomba qua e là fragoroso l'allegro vento montano, , A picco traverso gli abeti un raggio balena e dilegua. Lento s'affretta e combatte, di gioia con brividi il Caos

Le Alpi e il vulcano 113

«^ giovanile tempra, eppur forte, celebra amorosa gara, Fra le r11?1' fermenta e vacilla entro l'eterne barriere, poiché più bacchico sorge là in fondo il mattino nell'alto. più infinito là cresce l'anno e le sacre Ofe, i giorni, son con più audacia ordinate, commiste.

nrin in den Alpen ists noch helle Nacht und die Wolke, / Freudiges dichtend, sie deckt drinnen das gàhnende Tal. / Dahin, dorthin toset und stùrzt die scherzende Bergluft, / Schroff durch Tannen herab glànzet und schwindet ein Strahi. / Langsam eilt und kàmpft das freudigschauernde Chaos, / Jung an Gestalt, doch stark, feiert es liebenden Streit / Unter den Felsen, es gàrt und wankt in den ewi-gen Schranken, / Denn bacchantischer zieth drinnen der Morgen herauf. / Denn es wàchst unendiicher dort das hhr und die heilgen / Stunden, die Tage, sind kùhner ge-ordnet, gemischt (il, p. 96; tr. it. dt., p. 143).

«Là in grembo alle Alpi» - le parole, apparentemente senza un'intenzione particolare, pronunciate nel guardare in alto verso le montagne avvolte dalla nebulosità del mattino, suscitano subito un senso della sfera originaria.

La prima immagine, la nebbia fitta, nasconde, come spesso accade in Hólderlin, il fenomeno più profondo, «di gioia con brividi il Caos» e la sua «amorosa gara» di cui sono protagoniste le forze dionisiache. Anche qui è centrale la connessione tra il concetto di tempo e quello di essere: in montagna, nella zona del primo divenire, «Più infinito là cresce l'inno e le sacre / Ore, i giorni, son con più audacia ordinate, commiste». Il tempo è la materia originaria dell'esistenza. Nella sfera delle forme chiare e decise, le «ore» e i «giorni» sono ordinati secondo la matrice regolare, attendibile e fida della quotidianità; là invece vige uno stato più primordiale, audace e pericoloso.

114 Primo cerchio - Fiumee montagna ^

Di esso gli ultimi versi dell'inno R Reno dicono che: ;

[...] Tutto si mischia ;;

Senz'ordine e torna '•;' L'originario groviglio. :

[...] alles gemischt / Ist ordnunglos und wiederkehrt / Uralte Verwirrung (il, p. 148; tr. it. dt., p. 205).

Questo caos può irrompere, e la potenza dionisiaca è in grado di mettere in movimento anche le rigide masse torreggiane delle Alpi. Ciò è dimostrato dai versi contenuti nell'inno II Reno che sono già stati analizzati (p. 75) e che verranno ripresi trattando del dionisiaco: ,

Poiché dove prima le rive

A fianco gli strisciano, le sinuose, ?

E assetate si avvolgono a lui, ^

Incauto, di trascinarlo ?

E ben custodirlo cupide

Nel loro dente, ridendo ' ;

Schianta le serpi e giù piomba ;

Con la preda, e se in quella furia :;

Un più grande non lo ammansisse, ;

Se lo lasciasse crescere, come folgore

Fenderebbe la terra, e i boschi incantati ,

Dietro lui fuggirebbero e i monti frananti. ;

Denn wo die Ufer zuerst / An die Seit ihm schleichen, die krummen, /Und durstig umwindend ihn, / Den Unbe-dachten, zu ziehn / Und wohi zu behùten begehren / Im eigenen Zahne, lachend / ZerreiBt er die Schlangen und stùrzt / Mit der Beut und wenn in der Eil / Ein GróBerer ihn nicht zahmt, / Ihn wachsen làBt, wie der Blitz muB er / Die Erde spalten, und wie Bezauberte fliehn / Die Wàl-der ihm nach und zusammensinkend die Berge (il, p. 144;

tr.it. dt.,p. 197).

Le Alpi e il vulcano 115

Ciò che all'inizio della poesia Stoccarda appare ancora in termini lieti e sopportabili, ossia il fatto che ogni cosa fissa si metta in movimento, e che le montagne divengano esseri sfreccianti, qui assume una forma tremenda, che prelude all'irruzione delle forze distruttive.

Due immagini infine, contenute in testi già citati, evocano con la loro semplicità la sfera mitica tutta. L'inizio dell'inno II Reno suona così:

Nell'edera buia sedevo, alla porta

Della foresta, proprio quando il meriggio d'oro

per visitare il fonte scendeva

Le scale dell'Alpe,

Che per me è la rocca dei numi,

Costruita da mano divina,

Secondo l'antica voce [...]

Im dunkein Efeu saB idi, an der Pforte / Des Waldes, eben, da der goldene Mittag, / Den Quell besuchend, her-unterkam / Von Treppen des Alpengebirgs, / Das mir die góttlichgebaute, / Die Burg der Himmlischen heiBt / Nach alter Meinung [...] (il, p. 142; tr. it. dt., p. 195).

Nella Migrazione:

E l'Alpe elvetica anche d ombreggia

Al confine: che presso al focolare di casa

Dimori e odi, come là dentro

Da argentei sacri calia

La sorgente scrosda, versata

Da mani pure, quando sfiorato

Da caldi raggi

II cristallino ghiacdo e, franando

Alla spinta leggera della luce,

116 Primo cerchio - Fiume e montagna

II nevoso picco inonda la terra Con purissima acqua [...].

Und Alpengebirg der Schweiz auch ùberschattet, / Benach. bartes, dich; denn nah dem Herde des Hauses / Wohnst du, und hórst, wie drinnen / Aus silbernen Opferschalen / Der Quell rauscht, augeschùttet / Von reinen Hànden wenn berùhrt // Von warmen Strahien / Kristallenes eh und umgestùrzt / Vom leichtanregenden Lichte / Der schneeige Gipfel ùbergieBt die Erde / Mit reinstem Was-1 ser [...] (II, p. 138; tr. it. cit., p. 189). -|

Ci ritorna in niente l'immagine di Pane e vino inf cui tutto un paese è soggetto alla trasformazione miti-% ca e in cui l'Ellade appare come la «dimora dei Cele- s sti». Innanzi tutto le Alpi sono la «rocca dei numi»;

Le diverse montagne formano i gradini della grande* scala che partendo da essa scende nel piano ... In se-i condo luogo tutto l'Occidente è «la casa» e le Alpi ne sono il centro: l'interno segreto, dai giganteschi strati, la sede sacrificale dove vengono versati i grandi do- ;

ni. Le «mani pure» che compiono ciò sono i raggi del sole, che fondono la neve e il ghiaccio.

II

Una posizione particolare fra le montagne assume il vulcano. Esso non racchiude solo la dimensione dell'altezza, ma anche quella della profondità o, me-:

glio, dell'interiorità. Esso non forma solo un massiccio saldamente ancorato che si eleva all'etere. È anche una porta aperta al regno intcriore della terra. In esso sono congiunti il carattere del costruito e quello dello scorrere. Il vulcano è l'origine dello scorrere, la

Le Alpi e il vulcano 117

fonte della lava, ma ne è anche la fine, il mare, in niianto il suo cratere accoglie ciò che ricade in esso.

Il vulcanico in sé è un'espressione per designare il carattere caotico della profondità tellurica. Nell'Arci-belaK0 s1 ^lce {^>r^Lno citato a p. 57):

Tutte vivono ancora le isole madri d'eroi

D'anno in anno fiorendo, e se dall'abisso talora

Lo scatenato fuoco notturno, uragano inferiore,

Una delle soavi ghermì, che morente calò nel tuo seno,

Tu perdurasti sempre, o divino, che sopra le buie

Profondità molte cose ti sono già sorte e perite.

Alle leben sie noch, die Heroenmùtter, die Insein, / Blù-hend vonJahr zuJahr, und wenn zu Zeiten, vom Abgrund / Losgelassen, die Fiamme der Nacht, das untre Gewitter, / Eine der holden ergriff, und die Sterbende dir in den SctioB sank, / Góttlicher! du, du dauertest aus, denn ùber den dunkein / Tiefen ist manches schon dir auf- und un-tergegangen (il, p. 103; tr. it. cit., p. 107).

Definizioni primeve del caos, come «abisso» e «notte», vengono collegate qui ad altre connesse al fenomeno dell'altezza: «fuoco» e «uragano». La loro congiunzione indica una magnificenza cupa e tremenda. Una potenza della distruzione e della morte, di una morte che consiste nella caduta in profondità e che quindi corrisponde a quella collegata con lo scorrere. E perciò conseguenziale che il vulcanico sia parte dell'ambito di potere del Dio degli abissi marini, Posidone.

Appena il caotico si compenetra con la volontà di ribellione, si trasforma nel titanico. Anche in quest'ultimo ci siamo imbattuti nell'ambito del fiume, come si vede nell'inno II Reno.

118 Primo cerchio - Fiume e montagna "

Così il luogo del vulcanico è allo stesso tempo quello dei titani. La poesia Natura e arte dice:

Regni alto sul giorno e fiorisce la tua

Legge, in pugno hai la bilancia, figlio di Saturno!

E spartisci le sorti e lieto riposi

Nella gloria delle arti di dominio immortali.

Ma si dicono i cantori che nell'abisso II sacro padre, una volta, il tuo proprio, Tu sbandisti e che si lamenta laggiù, Dove i ribelli puniti stanno prima di tè,

L'innocente dio dell'età dell'oro, da tanto;

Esente da cure, una volta, e di tè più grande, Anche se mai nessun comando espresse, Ne lo chiamò con nomi alcun mortale.

Du waltest hoch am Tag und es blùhet dein / Gesetz, du hàltst die Wage, Saturnus' Sohn! / Und teiist die Los' und ruhest froh im / Ruhm der unsterbiichen Herrscherkùn-ste. // Doch in den Abgrund, sagen die Sànger sich, / Habst du den heilgen Vater, den eignen, einst / Verwie-sen und es jammre drunten, / Da, wo die Wilden vor dir mit Recht sind, // Schuidlos der Gott der goldenen Zeit schon làngst: / Einst mùhelos, und grófier wie du, wenn schon / Er kein Gebot aussprach und ihn der / Sterbii-chen keiner mit Namen nannte (il, p. 37; tr. it. dt., p. 76).

Nel terremoto si manifesta il furore delle potenze dell'abisso oscuro che si ribellano contro l'ordine della luce e dell'altezza. Ma questa protesta della profondità è sorretta da un diritto originario, poiché prima del regno degli Olimpici vigeva quello degli dèi ctoni-ci, positivo e legittimo quanto il primo; anzi, per il fatto di essere più vicino all'origine, era persino migliore e fondato su un diritto più puro. In tal modo,

Le Alpi e il vulcano 119

Saturno, il dio della prima indistinzione, è messo in collegamento con il regno della terra. Nella profondità non sono solo incatenate, secondo il loro operato, le potenze della ribellione, ma anche lui, la cui colpa consisteva esclusivamente nel fatto che il suo tempo fosse passato. Ma una delle condizioni per cui gli dèi della luce sono legittimati a regnare, è che continuino a ricordare il tempo anteriore e i diritti precedenti. Se essi invece dimenticano, perpetrano un sacrilegio (III, infra, p. 431). La profondità della terra si apre nel vulcano. Nell'opera poetica hólderliniana, la sua figura è legata a quella di Empedocle. Una breve poesia ne porta il nome:

Cerchi la vita, cerchi, e ti sgorga splendido

Divino fuoco dal fondo della terra,

E tu, rabbrividendo di brama,

Ti scagli giù dell'Etna nelle fiamme.

Così struggeva perle nel vino lo sfarzo insolente Della regina; eppure le amava! Oh, non avessi La tua ricchezza, o poeta, Nel ribollente calice immolato!19

Ma sacro tu mi sei, come la potenza della terra, Che ti rapi, o vittima temeraria! E lo vorrei seguire nella voragine, Se non mi rattenesse l'amore, l'eroe.

Das Leben suchst du, suchst, und es quillt und glànzt / Ein góttlich Feuer tief aus der Erde dir, / Und du in schaudemdem Verlangen / Wirfst dich hinab, in des Àtna Flammen. // So schmelzt' irci Weine Perlen der Ubermut / Der Kónigin; und mochte sie doch! hàttst du / Nur dei-nen Reichtum nicht, o Dichter, / Hin in den gàrenden Kelch geopfert! // Doch heilig bist du mir, wie der Erde Macht, / Die dich hinwegnahm, kùhner Getóteter! / Und

120 Primo cerchio - Fiume e montagna ^

folgen mócht ich in die Tiefe, / Hielte die Uebe mich nicht, dem Helden (i, p. 240; tr. it. cit-, p. 35).

Empedocle è d'essenza dionisiaca (IV, infra, p. 576). I drammi narrano della sua morte come espiazione di una colpa da lui commessa. Ma dietro a questa fine si cela l'immagine di un'altra a cui Empedocle avrebbe dovuto votarsi anche se non fosse diventato colpevole. Questa fine è intrinseca alla sua natura dionisiaca, incarnata da quella vita che culmina nella morte. Il fatto di non aver seguito quel comandamento del sacrificio di se stesso costituisce la sua colpa vera, occulta ma decisiva. Questa prima relazione con la morte si esprime nella nostra poesia ora esaminata ... Anch'essa è legata all'immagine dell'Etna. Esso è il «ribollente calice», la profondità del caos in cui la «perla», l'individualità perfetta viene fatta «struggere». E indicativo che in questa poesia vi siano gli stessi temi che caratterizzano le poesie fluviali dionisiache Heidelberg e Voce del popolo (i, supra, p. 33;III,m/ra,p.301).

La figura del vulcano trova il suo compimento pieno nell'Etna della poesia Empedocle. Nella seconda parte del quarto cerchio si tratterà più dettagliatamente di essa, e si parlerà anche dell'Etna. Ci limitiamo quindi, in questa sede, alle cose essenziali. La morte di Empedocle ed Empedocle sull'Etna non costituiscono solo il dramma di un uomo, ma anche quello della natura, e precisamente nella sua manifestazione dionisiaca.

In quanto tale, essa assume le sembianze dell'Etna, così come ha assunto quelle del fiume. Empedocle e l'Etna sono parti del medesimo fenomeno. In rapporto al destino dell'uomo la montagna muta carattere. Fino a quando egli rimane attaccato al suo potere e

Le Alpi e il vulcano 121

avverte la sua detronizzazione come disgrazia, l'Etna è l'espressione dell'esilio, in contraddizione alla città, basata sull'ordinato lavoro dell'uomo, e al giardino attraverso cui la natura si esprime avvicinandosi all'uomo amichevolmente; è simbolo di desolazione desertica e d'estraneità. Nella misura in cui Empedocle ritrova se stesso e i suoi dèi, al punto da essere pronto a morire per espiare la sua colpa, l'Etna diventa il luogo della gloria divina, e il suo cratere è l'entrata in quell'unità del Tutto che Empedocle non seppe conservare nella forma dell'innocenza.

LO SPAZIO DELL'ESISTENZA

II paesaggio di Hólderlin si sviluppa per derivazione dalla montagna e dal fiume. Il fatto che questi due elementi siano talmente diversi, eppure correlati fra di loro, costituisce nello stesso tempo la tensione e l'unità di questo paesaggio. La montagna dalle «cime inaccessibili» scende sempre più in basso, avvicinandosi sempre più all'uomo, fino a raggiungere i colli ameni del paesaggio del Neckar. Essa è un titano isolato, come l'Etna, ma sa anche congiungersi con altri per formare una catena mo ntuosa che, come le Alpi, copre un intero paese. L'acqua sgorga dalla fonte, forma un ruscello, poi un torrente, per diventare uno dei grandi fiumi del mondo, che dominano la terra e creano spazio per l'uomo. Ma alla fine anch'esso sfocia in qualcosa di più grande, il mare, che non è un'individualità, bensì un ambito.

Le montagne sono fermamente ancorate, costruite in modo irremovibile, forme che si innalzano pacate, «rocca» e «trono». Il fiume è movimento, una forma che si dissolve nel passaggio, che cade incontro alla sua fine. Ma queste realtà primordiali, così nettamente distinte fra loro, si ritrovano entrambe in un'unità. Poiché anche la montagna è fatta del trapassare

124 Primo cerchio - Fiume e montagna

in senso puro e semplice, del tempo, e anche il fiume iscrive nella fisionomia del piano il «segno», la runa permanente del suo corso.

Alla montagna sono correlate l'altezza, la dirczione verso l'etere, la vicinanza del cielo e, in quanto vulcano, anche la profondità, la dirczione verso il cuore della terra, il centro del tutto.

AI fiume, invece, sono correlati il piano, la vastità dello spazio che scorre, ed infine, sul mare, l'immensità. Ma nello stesso tempo, questi ambiti sono collegati fra loro. Dalla montagna scaturisce l'acqua, e ciò che scorre mette la montagna in movimento; così la sua persistenza nella quiete ha qualcosa di transitorio che dischiude la possibilità dell'ignoto. Allo stesso modo, anche per lo sguardo che si distende, il piano diventa vasto solo dall'alto di una montagna, ed il mare si trasforma in un'immensa distesa attraversata dalle rotte della navigazione. Inversamente, la forma della montagna appare all'occhio nella sua grandezza e nella sua calma solenne solo quando la vede elevarsi sul piano, una situazione descritta in modo partico-larmente bello nella poesia Ritomo.

Con tutti questi elementi Hólderlin costruisce il suo paesaggio. Esso va dall'angustia del villaggio alla vastità dell'ecumene, dalla terra natìa allo spazio. Esso comprende la valle, il bosco, le montagne, il piano, le regioni inabitabili del deserto e del ghiaccio; ma anche la città e lo Stato e il contesto complessivo dell'abitare e del lavorare umano.

A questo paesaggio estemo corrisponde quello interno. Le esperienze dell'animo si riflettono, all'esterno, nella forma oggettiva e nel movimento. Qualsiasi

Lo spazio dell'esistenza 125

cosa accada ed avvenga nello spazio delle cose visibili trova il suo corrispondente nel mondo intcriore. Ma non si stratta della correlazione fra ciò che è autenticamente reale e la sua proiezione, bensì del rapporto fra due ambiti reali e in sé uniti: nell'interiorità dell'uomo e nel mondo esteriore, sussiste e si attua la stessa cosa, la natura (IV, infra). Questo paesaggio non contiene solo la molteplicità delle forme, ma anche quella degli ambiti dell'essere e dei gradi di significato. Il presente lavoro ha costantemente dimostrato - e nei prossimi cerchi si continuerà a farlo - che la realtà hólderliniana non è semplice, ma costruita col combinarsi di più strati. Ma questi non possono essere scissi e isolati fra loro: sono attraversati tutti dall'unica e identica realtà originaria. Il fiume è dapprima un fenomeno esteriore, geografico, poi un fenomeno storico, che condiziona la cultura umana;

inoltre un essere, un semidio; ancora una volta, a monte, realtà originaria, essere in movimento; infine, semplicemente tempo. Lo stesso vale per la montagna. Essa è la massa minerale di cui parlano i geologi. Essa è parte della superfìcie terrestre che determina l'esistenza umana. Essa è la rocca dei celesti, il trono del loro dominio, l'origine dell'ispirazione. Inoltre, semplicemente l'altezza, ciò che è svettante e duraturo, permanente; infine temporalità solidificata. Questo insieme di prospettive scompone ogni elemento del paesaggio hólderliniano in una stratificazione molteplice di significati. Costantemente, dietro un significato balena l'altro.

126 Primo cerchio - Fiume e montagna f II

• ••• ' t '

Sopra questo paesaggio si apre la volta di quello E spazio che è costituito dai paesi in quanto entità stori- ? che, dai popoli e dalle loro culture. |

Qualsiasi descrizione di queste relazioni deve par- i tire dal fatto che Hólderlin è legato connaturalmente Ì alla Germania in modo incondizionato. In lui non c'è jl nulla di cosmopolitico; egli è radicato interamente j nella famiglia, nel popolo e nella patria. Testimonian- s za immediata ne sono le due grandi poesie II canto del s tedesco con il suo grandioso avvio «O sacro cuore dei , popoli, o patria, che tutto sopporti come la tacita ma- | dre Terra», e l'ancor più impressionante Germania, i Bisogna ritornare alle più grandi creazioni della poe- ^ sia storicamente impegnata per ritrovare un tale radi- * camento nel cuore del proprio paese, un tale amore per il proprio popolo, privo di sentimentalismo e spiritualmente grande. Esso ricorda la passione di Pin-daro per la grandezza della Grecia e l'amore di Dante per l'Italia, vigoroso nel tendersi dal tempo all'eternità. Questa visione è talmente grande, talmente inferiore che talvolta sembra comunicarsi nel sogno (il, infra, p. 208). La profondità della sua visione è dimostrata dal fatto che in entrambe le poesie l'immagine della patria si fonde con l'altra realtà vicina al sentimento di Hólderlin: la madre Terra. Il proprio paese è la madre Terra - là dove essa è data all'uomo.

In Germania è situata la patria più immediata, il recesso più interno di questo «cuore dei popoli», la Svevia. Essa è presente in tutte le parti della poesia hólderliniana. A volte viene citata espressamente, come nel grande inizio de La migrazione: «Svevia felice,

Lo spazio dell'esistenza 127

madre mia». Essa si innalza a presenza mistica in Stoc-carda. È il contenuto profondo di ciò che nelle poesie sulla migrazione significa «patria».

Ma questa patria non è chiusa in se stessa. La Svevia è unita, in un contesto di vita, ad altre «patrie» all'interno della Germania. La differenza tra il Wùrttem-berg e l'ambito del Reno e del Meno vicino a Francoforte, ben noto e caro ad Hólderlin, è grande; ma abbiamo già avuto modo di vedere come i fiumi uniscano tenitori diversi a costituire un'unità di vita. Nell'idillio eroico Emilia innanzi il giorno delle sue nozze, si passa dalle rive del Neckar al Meno, al Reno e al territorio del Weser, fino a raggiungere la valle di Pu-blio Quintilio Varo e la selva di Teutoburgo.

In modo particolarmente intenso sono avvertite le tensioni che, emanate dalla Germania, «cuore dei popoli», percorrono il mondo. Il fatto che Hólderlin nomini così spesso paesi e popoli diversi, non è ne casuale ne esteriore - come, invero, la sua poesia è in assoluto priva di esteriorità. La potenza di essa sta nel fatto di radicarsi nella profondità. Non ha molti motivi. La dominano alcuni pensieri o, meglio forse, alcune potenze, alcune forme e alcuni sentimenti ricorrono continuamente. Se il termine non avesse una connotazione negativa, verrebbe da dire che essa è pervasa da una sublime monotonia. Ma anche se Hólderlin dice cento volte la stessa cosa, questa riesce sempre nuova, poiché proviene da una profondità di spirito e di cuore talmente grande, da una interiorità di mondo talmente abissale.

Così non vi è niente di casuale. Ciò che è proferito non è ne riflettuto ne voluto, bensì dovuto, emergendo in modo «sacralmente costretto», da quella pro-

128 Primo cerchio - Fiume e montagna v

fondita ... Se continuano quindi a riapparire le figure di terre e popoli lontani, ciò è pienamente coerente. Questi ambiti geografici ed etnici sono correlati fra ? di loro, anzi, dati l'uno insieme con l'altro in modo % tale che, quando viene presentata una terra, un pae-1 se, di per sé interviene l'altro. Un'espressione quasi ? dolorosa di questo dovere per necessità intcriore si S trova in L'unico: »

Che mai ^ Alle antiche beate rive • ^ M'incatena così che le amo i Più ancora della mia patria? | Come in celeste ' | Prigionia venduto i Io sono, dove Apollo andò ^ In regale figura ~ [...]. 1

. --'

•!,

Was ist es, das / An die alten seligen Kùsten / Mich fes-seit, daB ich mehr noch / Sie liebe, als mein Vaterland? / Denn wie in himmlische / Gefangenschaft verkauft / Dort bin ich, wo Apollo ging / In Kónigsgestalt [...] (il, p. 131; " tr. it. cit., p. 213). i

È soprattutto una tensione a farsi costantemente sentire: quella tra la Germania e l'ambito orientale.

Questo ambito orientale è a sua volta strutturato in se stesso. Contiene la «Grecia» e l'«Asia». Questi due termini esprimono innanzi tutto la contrapposizione che Nietzsche ha caratterizzato parlando dell'apollineo e del dionisiaco. Il dionisiaco allude al mondo delle forze primordiali, delle immagini misteriose, della notte, della terra e della sua profondità, del caos, dell'ebbrezza e della trasformazione; l'apollineo, inve-

Lo spazio dell'esistenza 129

^ al mondo dello spirito che da forma e domina, della figura dai netti contorni, dell'opera responsabile, della luce del giorno, del cielo, dell'altezza, della disciplina, dell'ordine e della sobrietà spirituale. Questa contrapposizione si dispiega in modo particolar-mente evidente nelle due coppie di poesie fra loro correlate, Stoccarda, Pane e vino e II Reno, L'Arcipelago. Anzi, essa è talmente importante da indurre Hólder-lin a spingerla fin su alle più alte divinità - vedi la strana poesia Natura e arte ovvero Saturno e Giove. Inoltre i due termini significano «la preziosa dottrina» della Bibbia ed «i dolci canti» della Grecia che entrambi giungono a noi come «la parola dall'Oriente», come si dice in Al fonte del Danubio - un riferimento e allo stesso tempo una contraddizione che negli inni di Cristo, O conciliante^0, L'unico e Palmo si trasforma nella miseria più profonda (V, infra, pp. 651 ss.).

Ancora più ad oriente è l'India, il paese che fa parte del mito di Dioniso. Ne parla l'inno L'unico. L 'Istro parla del popolo che è venuto «lontano dall'Indo e dall'Alfeo».

Ma in Ricordo sono gli uomini, i navigatori a salpare dal «promontorio tra le vigne» della Dordogna per le Indie. Adesso l'arco comprende l'intero spazio della terra, l'ecumene.

Questo «Oriente» sta con la Germania in un rapporto di unità essenzialissima. Abbiamo già visto che nelle poesie II Neckar e II Meno le immagini della Grecia e della Germania si condizionano mutuamente come poli di una totalità configurata in forma. Nella poesia Germania già la seconda strofa racchiude l'evocazione degli dèi e degli eroi greci. Particolarmente caratteristico è l'inno II Reno. Esso non parla real-

130 Primo cerchio - Fiume e montagna f

mente della Grecia perché la configurazione comples-sa cui allude va da Sud a Nord; ma quella occidentale-orientale è così forte da imporsi con pochi tratti. Dapprima nel punto dove sprizza la poesia, dove si compie il contatto visionario. Infatti, «il segreto» perviene al vate nel momento in cui la sua anima se n'è andata peregrinando dalla Svevia «alle coste di Mo-rea», ossia in Grecia. Poi irrompe un'altra volta, in lotta con la dirczione Nord-Sud; precisamente là dove si parla del giovane fiume che si separa dai «fratelli», Ticino e Rodano, «vago di errare, e impaziente, in Asia la regale anima lo spingeva». Ma esso non può, gli è posto un altro fine. Ma per un breve percorso la dirczione verso Oriente s'impone, ... e questo piccolo vano movimento manifesta la sua potenza. Lo ritroviamo nelVIstro, solo in dirczione opposta. In questo caso, un popolo migra «dall'Indo e dall'Altee» in Germania. Sulla stessa strada e con impetuoso splendore, in Al fonte del Danubio «giunse la parola da Oriente a noi», partendo dall'Asia e passando per il Parnaso, il Citerone, il Campidoglio e le Alpi. In Pat-mo, il percorso visionario conduce dalla patria in Asia, al Tauro e alle montagne di Mesogide [nella Lidia, Asia Minore] ed infine all'isola di san Giovanni.

Nella poesia La migrazione che inizia con la splendida invocazione alla «felice Svevia», accostando quest'ultima al centro mitico dell'Europa, il «focolare di casa», le Alpi, la terza strofa attacca: «Ma io voglio andarmene al Caucaso!». In modo elementare, come l'impulso di un uccello migratore, irrompe la necessità intcriore, espressione di una unità di forma indistruttibile che attira le due parti, inarrestabilmente. Poi continua:

Lo spazio dell'esistenza 131

pure mi ha oltre a questo

Itegli armi primi confidato taluno

Che in età remota

I padri una volta, la stirpe tedesca,

Tratti dalle sileno onde del Danubio

Al di d'estate, quando essi

Cercavano ombra, s'incontrarono •

Con i figli del sole

Sulle rive del Mar Nero;

E non senza ragione è questo Chiamato ospitale21.

Poiché, appena guardarsi,

Si appressarono gli altri dapprima; e allora sedettero

Anche i nostri, curiosi, sotto l'ulivo.

Ma come si toccavano le vesti

E nessuno poteva intendere

L'eloquio dell'altro

Stava per sorgere lite, se giù dai rami

Discesa non fosse la frescura,

Che sorrisi sul volto

Dei contendenti talora spiana: e un poco

Alzaron muti gli occhi, poi si dettero

La mano con amore. E subito

Scambiarono armi e tutti

I cari beni della casa,

Scambiarono la parola anche. E niente augurarono

Gli amorevoli padri invano

Nel nuziale giubilo ai figli,

Poiché dai sacri sposati

Crebbe più bella, di tutto,

Che prima e dipoi

Si nominò da uomini, una stirpe [...]

Auch hat mir ohnedies / In jùngeren Tagen Eines ver-traut, / Es seien vor alter Zeit / Die Eltern einst, das deut-sche Geschlecht, / Stili fortgezogen von Wellen der Donau / Am Sommertage, da diese / Sich Schatten suchten, zu-sammen / Am Schwarzen Meere gekommen; / Und nicht

132 Primo cerchio - Fiume e montagna

umsonst sei dies / Das gastfreundiiche genennet. / Denn, als sie erst sich angesehen, / Da nahten die anderen erst; dann satzten auch / Die Unseren sich neugierig unter J1 den Ólbaum. / Doch als sich ihre Gewande berùhrt, / i. Und keiner vernehmen konnte / Die eigene Rede des an-;

dern, wàre wohi / Entstanden ein Zwist, wenn nicht aus Zweigen herunter / Gekommen wàre die Kùhiung, / Die Làchein ùber das Angesicht / Der Streitenden ófters brei- 'i tet, und eine Weile / Sahn stili sie auf, dann reichten sie sich / Die Hànde liebend einander. Und baid / Vertauschten sie Waffen und ali / Die lieben Gùter des Hauses, / Vertauschten das Wort auch und es wùnschten / Die freund-lichen Vàter umsonst nichts / Beim Hochzeitjubel den Kindern. / Denn aus den heiligvermàhiten / Wuchs schó-ner, denn alles, / Was vor und nach / Von Menschen sich ' nannt, ein Geschlecht auf [...] (il, pp. 139-140; tr. it. dt. pp. 189-191).

" %-L'avvenimento che, come spesso in Hólderlin, è

accentrato sul contatto numinoso, è completamente "" leggendario. Esso trova un'eco tenera, nostalgica nel- 's.

la settima strofa: 3

i ^

O terra d'Omero! .è

Sotto il purpureo ciliegio, o quando,

Da tè venuti, nel mio vigneto

I giovani peschi verdeggiano

E la rondine di lungi arriva e molto .narrando

Alle mie mura si fa la casa, nei

Giorni del maggio, anche sotto le stelle

Io penso, o Ionia, a tè! [...]

O Land des Homer! / Am purpumen Kirschbaum oder wenn / Von dir gesandt ini Weinberg mir / Die Jungen Pfirsiche grùnen, / Und die Schwalbe fernher kommt und vieles erzàhlend / An meinen Wànden ihr Haus baut, in / Den Tagen des Mai's, auch unter den Sternen / Gedenk ich, o Ionia, dein! [...] / (il, p. 140; tr. it. dt., pp. 191-193).

Lo spazio dell'esistenza 133

E poi l'aspirazione al movimento opposto:

[...] solo per invitarvi

Sono a voi, Grazie di Grecia,

Figlie del cielo, venuto. .

Clié, se il viaggio non è troppo lungo,

Da noi veniate, o soavi!

[...] euch einzuladen, / Bin ich zu euch, ihr Grazien Grie-chenlands, / Ihr Himmelstóchter, gegangen, / DaB, wenn die Reise zu weit nicht ist, / Zu uns ihr kommet, ihr Hol-den! (il, p. 141; tr. it. dt., p. 193).

Ciò che la Grecia ha veramente rappresentato per Hólderlin, sarà oggetto del prossimo capitolo. Essa non è per lui solamente terra, popolo, cultura, famiglia degli dèi, ma un concetto in cui hanno trovato compimento puro esistenza umana, natura e mondo. Ad essa è opposta, come potenza in attesa, ancora inconsapevole e con lo sguardo al futuro, la Germania. Evidentemente, Hólderlin quasi non ha preso in considerazione il Medioevo; il periodo dal Rinascimento in poi sembra essergli rimasto estraneo. La Germania da lui sentita ed amata è, si potrebbe quasi dire, qualcosa di primordiale, ancora anteriore alla sua storia, che è stata aduggiata da desolazione e tenebre, e attende qualcosa che ha da venire. Questa attesa si rivolge verso la Grecia. Appena ciò «giunge», hanno luogo «le nozze degli uomini e degli dèi». In tal modo la tensione Oriente-Occidente assume un carattere nuovo: quello del tempo e della storia, fatto di passato e di futuro e vissuto nel presente. In un determinato senso, ancora da chiarire, si tratta della tensione «escatologica», che dal passato canonico punta al fu-

134 Primo cerchio - Fiume e montagna ^

turo assoluto e viene vissuta «nell'ora» per eccellenza nell'«adesso» profetico (II, infra, p. 214). -

Nell'inno II Reno si manifesta, come abbiamo già avuto modo d'osservare, un'altra connessione: quella tra Nord e Sud, espressa attraverso il corso del fiume che in realtà è «un segno», un simbolo di qualcosa di valido. Questa dirczione va dalle Alpi, la «rocca dei numi», al mare del Nord. In mezzo, ai lati delle rive, il mondo e il lavoro degli uomini ... Anche nella poesia // mandante il Reno costituisce la via dinamica. I poli da esso congiunti sono il Sud rovente del deserto e il Nord glaciale dell'Artide. In entrambi i mondi, apparentemente abbandonati dalla vita, il viandante sente provenire, dalla profondità della terra, una promessa.

L'Italia è di scena nell'inno // Reno; ma anche nella Migrazione, dove la Svevia viene posta in relazione alla sua «sorella lombarda» con i suoi ruscelli scorrenti, nonché in Ritomo in patria dove il poeta desidera prendere «la via di Como». Al/onte del Danubio parla del Campidoglio attraverso cui passa la via della voce forgiatrice di uomini dall'Oriente in Germania ... In Ricordo, la relazione si estende fino alla Francia. In Svevia il poeta avverte il vento da Nordest «propizio ai naviganti». Esso porta i suoi pensieri nel Sud e nel tempo passato ... Anche in Emilia innanzi il giorno delle sue nozze l'inarcarsi del cielo, che da spazio all'umano, va dalla Svevia alla Corsica.

Ili

Infine, la tensione supera lo spazio terrestre, riunendo l'alto ed il basso: il cielo e la terra. Entrambi

Lo spazio dell 'esistenza 135

sono intesi come forze primordiali e come ambiti del inondo stesso. Anche la loro unione avviene per mezzo di ciò che scorre. L'abbiamo constatato nelYIstro dove attraverso il riverbero del fiume, il cielo «discende»; ugualmente nel frammento A Diotima, dove ogni forma particolare, attraverso la cortina avvolgente delle acque temporalesche, si immerge nel lieto caos che rigenera la vita. Ritroviamo questo mito dello sposalizio di cielo e terra nell'inno II Reno, come le «nozze degli uomini e degli dèi», introdotte dal mistero della trasfigurante luce meridiana.

Anche là dove gli ambiti separati dell'esistenza, giorno e notte, sole e luna si ritrovano coi loro numi nell'«anima del fiume», nell'interiorità scorrevole dell'esistenza, un'unione a essi altrimenti negata, il fenomeno si eleva fino alla dimensione cosmica e mitica.

Infine, nel paesaggio eracliteo, evocato all'inizio di Palmo, il tema entra del tutto nella sfera dell'assoluto. Qui «acqua» significa semplicemente unione. Senza di essa vi è pericolo, solitudine, «struggimento sui monti più separati», irrigidimento. L'acqua è l'elemento primo che sorregge, scioglie e crea l'unità;

unità che scorre o che alita, respira, poiché qui l'acqua si trasforma nell'altro elemento del movimento, l'aria. Essa è correlata all'etere, allo spazio superiore. Tocchiamo quindi un'altra grande connessione nel mondo di Hólderlin. L'aria è fiato22, respiro del mondo. In questa prospettiva, gli elementi dell'aria e del vento si fondono con quelli del moto terrestre in generale; il vento ed il respiro con lo spirito, lo spirito a sua volta con il tempo e con la storia. Ma tutto ciò è riferito all'etere, al cielo, come i fiumi alla terra (ili, infra, p. 247).

136 Primo cerchio - Fiume e montagna

Si è già parlato del tempo vivente, di quel passarci che non è solo la forma astratta, sempre uguale della sequenza, ma l'essere fluente intcriore della vita stessa che, a seconda della sua dinamica, ha una misura assai differente: qui abbiamo ora lo spazio vivente' non solo la possibilità esteriore del parallelismo, in cui si trovano le figure dell'esistenza e in cui hanno luogo gli avvenimenti di quest'ultima, bensì quello spazio, che sta nella vita stessa. L'atto di vita stesso è spazioso, inarcato a formar vastità, costruito tra poli.

Questa spaziosità può essere di natura differente;

superficiale o profonda; stretta o ampia; attirata verso il basso o tesa verso l'alto. Queste non sono immagini, ma qualità esperibili dell'attuarsi della vita. L'atteggiamento dell'esistenza hólderliniano, il suo senso dell'esistenza, la sua tendenza intcriore sono incen- '' trati sulla realizzazione della vastità, sulla volta dello spazio dominante dall'alto, costruita su opposti, s

Da ciò nasce la consapevolezza di una grande e assai intensa unità dell'esistenza umana; un senso completamente primordiale dell'ecumene, della terra permeata dalla vita dell'uomo; inoltre un senso del contesto cosmico, della vita totale che pone Hólder-lin nel contesto del sentimento del tempo idealistico e romantico. .

NOTE

1. Calàuria è un'isoletta del golfo Saronico, in cui sorgeva il celebre tempio di Posidone, centro di un'antica 'anfirionia' (odierna Poros). È luogo dove soggiorna Iperione (n.d.r.).

2. L'Autore qui si serve della diversità di significato tra Korper- «corpo come organismo biologico» a prescindere dall'animazione soggettiva,

Primo cerchio - Fiume e montagna 137

..dindi anche «cadavere» e Leib = «corpo soggettivamente vivo», il «mio corpo». Qui si è risolta la difficoltà di resa italiana con la traduzione «carne» per Korper (n.d.r.).

3. Kulturwissenschaft: espressione che indica evidentemente quanto ora noi chiamiamo «antropologia culturale» (n.d.r.}.

4. Vedi a proposito pp. 201 ss-, infra, nel secondo cerchio del presente libro. All'interno di un lavoro più ampio sulla Divina Commedia di Dante spero di poter dire di più sulla poesia visionaria [Cfr. Studi su Dante, Morcelliana, Broscia 1986 - n.d.r.].

5. Seguiamo il testo usato da Guardini nel terzo verso della penultima strofa [Bilder], variando di conseguenza la traduzione di Vigolo, che sceglie un'altra versione [Watder], n.d.t.).

6. La città di Xanto, nella Licia presso il fiume omonimo (vicino all'odierno villaggio di Kinik), fu clistrutta e incendiata dopo lunghi assedi da Arpago, generale di Ciro, e poi da Marco Giunio Bruto nel 42 a.C., come narra Plutarco, Vita Bruti (n.d.r.).

7. Oggi Sartcay, piccolo fiume della lidia, nascente dal monte Tmolo, detto dagli antichi anche Xpuooppooc, perché sembrava vi si trovassero sabbie aurifere {n.d.r.).

8. La poesia il Meno assomiglia a questa, con la differenza che in esso il movimento unificante, creatore dello spazio umano, percorre la dirczione inversa. All'inizio dell'ode esso subito raggiunge la Grecia, ritornando da li in patria, sulla scorta della sua stessa dinamica.

9. Una nota generale sull'interpretazione delle ultime opere di Hól-derlin. Nella misura in cui le poesie sono cronologicamente vicine alla pazzia, diventa naturalmente più difficile accedervi. Le immagini appaiono improvvise. I pensieri spesso sembrano nati dal nulla. Si avverte come in alcune frasi si siano condensati contenuti di grande rilievo e che allo stesso tempo le forme manifestantisi si sono distaccate dalla loro base empirica di partenza, dando l'impressione d'essere sospese nel vuoto. Non solo è sparita la «materia», per usare un concetto di Goethe, per diventare interamente «contenuto». Anche il contenuto stesso si dissolve sempre più diventando pura «forma».

La realtà immediata si dissolve assoggettandosi ad un'egemone volontà espressiva. Mai le forme sono «libere» a priori, puramente «formali»; dietro di loro vi sono sempre cose percepite dai sensi. Ha sempre avuto luogo un genuino processo di trasformazione - allo stesso modo in cui un vero disegnatore basa la figura espressa come pura forma sulla corporeità colta fino nella struttura anatomica. Chi intende quindi interpretare una frase di Hólderlin non deve assumerla come se fosse conclusa in sé, adottando un punto di vista logico, psicologico o estetico; egli deve invece risalire alla visione concreta e al primo concreto impulso di sentimento che vi è dentro. Egli deve sciogliere la visione ed il sentimento finché diventano liberamente mobili, immettendoli successivamente nelle frasi date. Questi allora le faranno procedere fino ai contenuti nascosto o sommersi, palesando la precisione mirabile con cui Hólderlin lavora. Egli non è mai retorico, mai decorativo, mai dedito a giocare fantasticamente con le for-

138 Primo cerchio - Fiume e montagna ^

me, ma sempre determinato, fin nel periodo della decadenza estrema. E anche se le immagini e i pensieri sembrano perdere alla fine qualsiasi connessione, ciò non significa che egli maneggiasse forme vuote, ma che le intuizioni portanti sono sprofondate nell'indefinito. '

10. Il fiume maggiore del Peloponneso, nasce nell'Arcadia meridio- ' naie, tocca Olimpia, si getta nel mar Ionio (n.d.r.).

11. «Quanto ci conveniva»: nell'originale das Schickiiche, che ha riferimento alla «sorte» (Schicksal) o «destino», a ciò che è «mandato», appunto «destinato» (n.d.r.).

12. Le note «fatiche» di Eracle avevano avuto come teatro in prevalenza il Peloponneso; l'Istmo è quello di Corinto (n.d.r.).

13. Hertha, o Herda, dea germanica, che è stata in certo modo inventata dagli studiosi più antichi, per una lettura errata della Germania di Tacito (invece di Nerthus - n.d.r.).

14. Queste frasi e le seguenti sono adatte come poche a dimostrare quanto si è affermato sopra circa la precisione di Hólderlin.

15. Cfr. per esempio la prima strofa dell'elegia Stoccarda (il, p. 86).

16. L'Autore si riferisce ai giochi istmici, sacri a Posidone, che si tenevano sull'Istmo di Corinto, ogni due anni, a quelli di Atene (il Cefiso è un fiumicello presso la città) e a quelli di Sparta (il massiccio del Taigeto non ne è lontano - n.d.r.).

17. Sulla trasformazione subita qui dal concetto di Rivelazione vedi il quinto cerchio.

18. Con quale precisione l'immagine di ciò che è più rigido e duro trapassi in quella dello scorrere diventa evidente quando delle montagne si dice che «ondeggiando alte valicano la terra».

19. Hólderlin allude all'episodio, narrato da Plutarco nella Vita Anta-nii, di Cleopatra che, con gesto dimostrativo di regale prodigalità, di fronte ad Antonio fa sciogliere perle preziosissime in una coppa di vino (n.d.r.).

20. Purtroppo della versione definitiva di questo inno dal titolo La festa della pace, scoperta solo ultimamente (edizione a cura di F. Beissner, Stuttgart 1954) non si potè tener conto in questa riedizione.

21. Riferimento al nome greco nóv-roc Eu'^eivoi; (poi latino Pontus Euxinus - n.d.r.).

22. Nell'originale hólderliniano (e guardiniano) il termine insolito Olhew, che Guardini esplicita aggiungendo Atem, «respiro», «soffio» (affine al greco àT(i>'c o arui^ o cituo^, ladno oni'CTa, ani'wius - n.Ar.).

Secondo cerchio

L'uomo e la storia

NOTA INTRODUTTIVA

Nel sentimento poetico e nel pensiero di Hólder-lin la natura è talmente presente che non ci si meravi-glierebbe se essa rimovesse completamente l'esistenza storica. Nella sua immagine del mondo, la realtà storica si distingue invece nettamente da una prima, immediata realtà naturale, per poi essere ricompresa all'interno di una nuova concezione di natura, intesa come il Tutto, l'intero sovraordinato.

Ci sono diversi modi di vedere la storia. Quello personalistico è tutto incentrato sul singolo, la sua decisione, la sua azione e sulle conseguenze che ne derivano, soprattutto sul grande singolo che ha la missione e la forza della realizzazione storica. Si veda per esempio il sentimento storico di Friedrich Hebbel. La concezione evoluzionistica pone l'accento sulle grandi strutture che attraversano tutte le particolarità, ed è indifferente che queste vengano rinvenute più nell'ambito spirituale e religioso come nel caso delle immagini del mondo ideahstiche, oppure in quello empirico, come in quelle positivistiche. Hólderlin non è ascrivibile, a rigore, a nessuna delle due concezioni. Nella sua immagine della storia v'è il singolo che agisce, ma è inserito nel popolo ed assoggettato alle grandi potenze sovrapersonali dello spirito del tempo e del destino; i grandi contesti, ma in modo tale da culminare nella figura e nell'opera della personalità.

142 Secondo cerchio - L'uomo e la storia

Inoltre riscontriamo in lui una concezione peculi».*! rè, legata alla sua intuizione circa i morti, i singoli de-s funti come anche le formazioni complessive di popoli e culture passati. Questi hanno per il presente storico relativo una importanza particolare, non riassumibile attraverso i consueti concetti di tradizione persistente o di passato fecondante, umanisticamente accolto. Essa può essere spiegata nel miglior modo attraverso una concezione a prima vista strana: quella di un ritorno reale. ^

II singolo, le potenze globali e il passato che urge verso il suo ritomo - ecco gli elementi di cui si compone l'assetto hólderliniano della storia. Questa è a ? sua volta ricompresa nel tutto complessivo della «natura». In questo ultimo senso, essa non è più in con- :

n'addiziono con la storia, ma rappresenta il compen-1 dio dell'esistenza, all'interno della quale vi sono sia la storia che la natura nell'accezione stretta del termine.

L'AGIRE STORICO, LA LIBERTÀ E LO STATO

Storia in senso stretto si riferisce all'esistenza di grandi gruppi di uomini, in particolar modo di popoli, animati dalla volontà di crescita e di potenza e pervasi dal senso di responsabilità per il genere umano connessi a tale grandezza. Nella loro configurazione particolare e sulla base delle condizioni peculiari del loro ambito di vita, essi si contrappongono ad altri gruppi e devono affermarsi di fronte a loro. Essi sono organizzati secondo le più svariate leggi: le necessità naturali, economiche e sociali nonché le norme di quanto è giusto, onorato e generoso. Essi vogliono essere, prosperare, crescere, sentendosi nel contempo obbligati a celebrare appunto in questa loro esistenza i valori della nobiltà, della dignità e della gloria. All'interno di queste totalità e, nel contempo, in tensione verso di esse è posto il singolo. Egli ne è parte come membro ed elemento di forza, pur costituendo una forma propria, in sé fondata, che si afferma all'intemo di queste realtà collettive, plasmando la propria vita e creando la propria opera. La compenetrazione di queste realtà differenti costituisce l'esistenza storica. Essa scompare quando la volontà di dare adempimento ai valori sovrautilitaristici di onore, grandez-

144 Secondo cerchio - L'uomo e la storia ^

za, splendore viene meno, ma anche quando vien meno il loro rapporto con le condizioni immediate della è vita. Essa diventa un processo generale meccanico o $ biologico, non appena la totalità trae interamente il Jr singolo nella sfera del transitorio; essa perde la sua ? forma di totalità quando il singolo se ne stacca. Que- f sta è la concezione che Hólderlin ha della storia, y

Nel capitolo precedente abbiamo già discusso del s legame che lo unisce al popolo e alla terra. Hólderlin ^ vive in uno stato intcriore determinato dalla consapevolezza di contesti pre- e sopraindividuali, ossia della stirpe e del popolo, della terra che gli è madre, della ? natura che costituisce l'ultima unità. Man mano che H la sua poesia acquista maturità, questo legame si am- se plia senza dissolversi però mai nell'indeterminato. ;

Mai Hólderlin parla di una umanità astratta o di uno H spazio terrestre universale. I popoli e i paesi rappre- Jg sentano per lui sempre entità e forze. Quando enu- H mera la Svevia e la terra dei Germani, la Lombardia e t l'Italia, la Grecia o l'Asia, non si riferisce solo a rap- i presentazioni generali di tipo geografico o storico, A bensì a grandi entità viventi, dotate di potere e di vo- " lontà, a soggetti della realtà storica. H

-. ' 4

C'è ovviamente da attendersi che i momenti eco- S nomici e sociali assumano una posizione di secondo 3 piano nel suo sentire. Ma se ciò è vero, non lo è per- che la vita si dissolva nell'irreale; egli si riferisce sem- a pre all'esistenza incarnata del popolo con tutta la sua | materia ed i suoi impulsi. Ma le forze dell'anima e ^ dello spirito: onore, libertà e i valori dell'esistenza f elevata, rappresentano realtà ancora più potenti. Ciò ^ diventa particolarmente evidente nelle poesie collega- || tè direttamente all'elemento storico, come YIperione e 5

L'agire storico, la libertà e lo Stato 145

l'opera gemella d'essa Emilia innanzi il giorno delle sue nozze, nonché L'Arcipelago. Hólderlin vive al tempo delle grandi guerre. La passione della libertà attraversa l'Europa, in modo talmente prorompente che indipendenza di popolo e onore personale si identificano completamente. Molto forte è stato anche l'influsso dei sentimenti e dei pensieri della Rivoluzione francese su Hólderlin, pure se li traspone ben presto - seguendo l'esempio del primo Schiller da lui tanto venerato - nella sua spiritualità peculiare1.

In tal modo azione e lotta devono necessariamente avere grande importanza nella poesia di Hólderlin - pur assumendo, in conformità del carattere visionario e contemplativo di questo tipo di poesia, più le connotazioni della grande dedizione che non quelle dell'azione finalizzata.

L'Iperìone narra come un giovane, che vive alla fine del diciottesimo secolo, tenti di raggiungere l'unità nel caos della sua esistenza lacerata (IV, infra). Questa lotta si svolge in rapporto all'immagine dell'antica Grecia e del suo splendore glorioso scomparso e a quella della natura, vissuta in modo altrettanto coinvolgente. Entrambi gli elementi si incontrano nella figura di Diotima. Essa gli dona la fiducia che dalle forze della natura e del passato sorgerà per il popolo dominato dagli stranieri e interiormente devastato un nuovo futuro. La figura di Diotìma rappresenta la realtà complessiva della «Grecia», in termini personali. L'amore per l'amica e quello per la patria si muovono su tracce diverse, ma tendono in ultima analisi allo stesso fine. Dall'unità e dalla tensione delle due correnti di sentimento scaturiscono la vicenda intcriore e la tragicità della poesia. La «Grecia» e la «natura» devo-

146 Secondo cerchio - L'uomo e la storia

no giungere ad un nuovo adempimento della loro realtà. Diotima desidera che ciò avvenga attraverso un calmo lavoro di formazione del popolo. Ma gli eventi e la propria impulsività trascinano Iperione in una guerra imprudente contro gli oppressori del paese, e tutto va in rovina. Nei limiti in cui lo consentono gli strumenti poetici di Hólderlin, viene descritta la passione di questa lotta; ma il fatto che questi strumenti falliscano alla fine davanti al compito di dar forma all'azione conferisce un'evidenza ancora maggiore all'amore per la patria, incapace di conseguire chiari risultati politici.

I motivi ritornano nell'idillio eroico Emilia innanzi il giorno delle sue nozze, solamente con tonalità e intreccio diversi. Si tratta di una poesia delicata e nobile in cui una figura di donna, simile a Diotima, che reca in sé «medietà e misura», garantisce la speranza della natura e della storia. Ma è tutto più semplice e ha più vigore di realtà.

Il contrasto intcriore, che nel romanzo aveva ancora distrutto tutto, si scompone qui in due destini. La lotta della Corsica per la libertà diventa tragica nella misura in cui vi cade il fratello di Emilia, Edoardo. Ma questo fratello e con lui la speranza per il futuro le vengono restituiti nella persona dell'amato. In una lettera del fratello si legge:

Quando col sole, cantando un canto sacro,

II colle risaliamo e le bandiere

Nella valle son mosse dal vento del mattino,

E lontano laggiù nella pianura,

Come elemento che fermenta, il popolo

Incontro a noi s'agita e muove

Sentiamo con giubilo più grande

Come splendidamente ci amiamo;

L'agire storico, la libertà e lo Stato 147

Che sotto le nostre tende e sulle onde

Della battaglia ci viene incontro il dio

Che ci unisce.

Noi compiamo quanto è giusto

E facciamo procedere la nobile opera.

poi voi badate ancora il suolo patrio,

Triste, e venite e vivete insieme a noi,

Emilia! - E come, al vecchio padre,

Piacerà ritrovarsi infine giovane

Ancora tra i viventi, e riposare

In terra non profanata, morendo.

Wenn mit der Sonne wir, mit heilgem Lied / Herufgehn ùbern Hùgel, und die Fahnen / Ins Tal hinab im Morgen-winde wehn, / Und drunten auf der Ebne fernher sich, / Ein gàrend Element, entgegen uns / Die Menge regt und treibt, da fùhlen wir / Frohlockender, wie wir herrlich lie-ben; / Denn unter unsern Zelten und auf Wogen / Der Schlacht begegnet uns der Gott, der uns / Zusammenhàlt. // Wir tun, was sich gebùhrt, / Und fùhren wohi das edie Werk hinaus. / Dann kùBt ihr noch den heimatlichen Bo-den, / Den trauernden, und kommt und lebt mit uns, / Emilie! - Wie wirds dem alten Vater / Gefallen, bei den Lebenden noch einmal / ZumJungling aufzuleben und zu ruhn/ In unentweihter Erde, wenn er stirbt (i, p. 280).

A prescindere da particolari contesti storici, la poesia La morte per la patria esprime Vethos della lotta:

Tu giungi, battaglia: i giovani ondeggiano Dai loro colli giù nella valle, dove Franchi s'addensano i carnefici, Sicuri dell'arte e del braccio: ma più sicura

L'anima dei giovani che contro loro giungono, Perché i giusti colpiscono come per magia E i loro canti patriottici Fiaccano le ginocchia degli infami.

148 Secondo cerchio - L'uomo e la storia

Oh prendetemi con voi nei vostri ranghi, '!<ÌS Perché un giorno la mia non sia morte comune! ^(p Morte vana non amo, cadere ^j Amo sul colle sacrificale ^j|

Per la patria, versare per la patria ^t |;

II sangue del mio cuore - e presto avvenga! r*l Scendo tra voi, o cari! a voi .-:;' Che a vivere e a morire m'insegnaste! •< ?:

Quante volte ebbi sete di vedervi

O eroi, poeti d'antico tempo! w

Ora di cuore accogliete questo povero

Straniero, e qui giù, tra voi, tutto è fraterno.

E giungono araldi di vittoria: il campo

È nostro! Vivi lassù, o patria, vivi .

E non contare i morti. Per tè, amata!

Non un solo caduto è di troppo!

Du kómmst, o Schlacht! schon wogen die Jùnglinge / Hi-nab von ihren Hùgein, hinab ins Tal, / Wo keck herauf die Wùrger dringen, / Sicher der Kunst und des Arms, doch sichrer // Kómmt ùber sie die Seele der Jùnglinge, / Denn die Gerechten schlagen, wie Zauberer, / Und ihre Vaterlandsgesànge / Làhmen die Kniee den Ehrelosen. // O nimmt mich, nimmt mich mit in die Reihen auf, / Da-mit ich einst nicht sterbe gemeinen Tods! / Umsonst zu sterben, lieb ich nicht, doch / Lieb ich, zu fallen am Op-ferhùgel // Fùrs Vaterland, zu bluten des Herzens Blut / Fùrs Vaterland - und baid ists geschehn! Zu euch, / Ihr Teuem! komm ich, die mich leben / Lehrten und sterben, zu euch hinunter! // Wie oft im Lichte dùrstet ich euch zu sehn, / Ihr Helden und ihr Dichter aus alter Zeit! / Nun grùBt ihr freundiich den geringen / Fremdiing und brùderlich ists hier unten; // Und Siegesboten kommen herab: Die Schlacht / Ist unser! Lebe droben, o Vaterland, / Und zàhle nicht die Toten! Dir ist, / Uebes! nicht einer zu viel gefallen (i, p. 199).

L'agire storico, la libertà e lo Stato 149

In dimensione di vera grandezza l'immagine dell'agire eroico, caratterizzato da un intreccio di lavoro pacifico e lotta che tutto osa, appare nell'elegia L'Arcipelago- Ls descrizione della battaglia di Salamina va annoverata fra i più begli esempi di poesia storica.

L'elegia è incorniciata dalla invocazione del «mare primo» (Erz-Meer, lett. «arci-mare»), del mare per eccellenza che ondeggia attorno alla Grecia, dominato da Posidone. Il mare è affine agli abissi tellurici, ma, a differenza dell'ambito materno della «terra in lutto», è di carattere maschile, storico - soprattutto questo mare che ha sostenuto lo svolgersi della storia greca. Per questo è anche pieno di malinconia per il tramonto della Grecia. Nel mezzo del lamento, si eleva nella terza strofa, l'immagine di Atene, la città di cui YIperione dice che essa è stata benedetta da tutti i favori dell'esistenza. L'Atene anteriore alle guerre persiane, con la sua florida copiosità, in cui perfino il mercante «col cuore lontano» era amato dagli dèi, «perché pareggiava i beni della terra, univa il vicino al remoto».

«Come igneo sgorgo montano» irrompe l'esercito dei Persiani, e «Atene, la splendida, cade». Questa è la sesta strofa. La settima e l'ottava contengono la descrizione della battaglia della salvezza:

Ma sulle sponde di Salamina, o giorno! sulle sue sponde Stanno aspettando la fine leAteniesi, le vergini, Stanno le madri, cullando in braccio il figliuolo salvato;

Ma a loro in ascolto tuona il dio del mare dal fondo

E salvezza predice, guardano gli dèi del ciclo

Librando l'equo giudizio dall'alto, che là sui lidi in sussulto

Ondeggia incerta dall'alba, con lento avanzar di tempesta,

Sulle acque schiumanti la mischia e già s'arroventa il meriggio

150 Secondo cerchio - L'nomo e la storia

Che niuno sente in quell'ira, sul capo dei contendenti. Ma i prodi del popolo, figli d'eroi, guidan ora gli eventi Con limpido occhio, i diletti degli dèi si ricordano Del destinato favore, non frenano più gli Ateniesi II Genio loro che sprezza la morte; ma come la belva Nel deserto dal tumido sangue da un ultimo balzo Ergendosi trasfigurata, pari alla forza più altera, E il cacciatore atterrisce, così nel lampo dell'armi, All'ordin dei capi, tremenda e compatta in quei bellicosi In mezzo alla strage l'anima esausta ancora ritorna. E più la battaglia riavvampa; come coppie di lottatori Le navi s'avvinghiano, nel flutto tentenna il timone, Sotto i guerrieri si frange la plancia e cogli uomini affonda. '

Nel sogno vertiginoso cantato dal canto del giorno -,

Rotea il rè lo sguardo; delirando sulla vittoria,

Minaccia, supplica, esulta, invia come lampi i messi,

Ma invano li manda, nessuno indietro gli torna. ,

Araldi crudeli, soldati uccisi e navi squardate

Gli gitta l'onda innumeri, la vendicatrice, tonando,

A pie del trono ove siede il misero sul lido che balza;

Guarda la fuga e travolto via con la turba fuggiasca S'affretta, il dio l'incalza, incalza la flotta sbandata Sui flutti il dio che irridendo, i suoi fatui usberghi Fracassa e il fiacco raggiunge nella feroce armatura.

Aber an Salamis Ufem, o Tag an Salamis Ufern! / Harrend des Endes stehn die Athenerinnen, dieJungfraun,/ Stehn die Mùtter, wiegend im Arm das gerettete Sóhniein, / Aber den Horchenden schallt aus Tiefen die Stimme des Meergotts / Heilweissage herauf, es schauen die Getter des Himmeis / Wàgend und richtend herab, denn dort an den bebenden Ufer / Wankt seit Tagesbeginn, wie langsamwandeind Gewitter, / Dort auf schàumenden Was-sern die Schlacht, und es glùhet der Mittag, / Unbemerket im Zorn, schon ùber dem Haupte den Kàmpfern. / Aber die Mànner des Volks, die Heroenenkel, sie walten / Hel-leren Auges jetzt, die Gótterliebiinge denken / Des be-

L'agire storico, la libertà e lo Stato 151

schiedenen Glùcks, es zàhmen die Kinder Athenes / Ihren Genius, ihn, den todverachtenden, jetzt nicht. / Denn wie aus rauchendem Blut das Wild der Wùste noch einmal / Sich zulezt verwandeit erhebt, der edieren Kraft gleich, / Und den Jàger erschróckt, kehrt jetzt im Glanze der Waf-fen, / Bei der Herrscher Gebot, fùrchtbargesammeit den Wilden / Mitten im Untergang die ermattete Seele nodi einmal. / Und entbrannter beginnts; wie Paare ringender Mànner / Fassen die Schiffe sich an, in die Woge taumeit das Steuer, / Unter den Streitem bricht der Boden, und Schiffer und Schiff sinkt. // Aber in schwindeinden Traum vom Uede des Tages gesungen, / Rolit der Kórdg den Blick; irrlàcheind ùber den Ausgang / Droht er, und fleht, und frohlockt, und sendet, wie Blitze, die Boten. / Doch er sendet umsonst, es kehret keiner ihm wieder. / Blutige Boten, Erschlagne des Heers, und berstende Schiffe, / Wirft die Ràcherin ihm zahilos, die donnernde Woge, / Vor den Thron, wo er sitzt am bebenden Ufer, der Arme, / Schauend die Flucht, und fort in die fliehende Menge gerissen, / Eilt er, ihn treibt der Gott, es treibt sein irrend Geschwader / Ùber die Fluten der Gott, der spottend sein eitel Geschmeid ihm / Endiich zerschlug und den Schwa-chen erreicht' in der drohenden Rùstung (II, pp. 106-107;

tr. it. cit., pp. 107-109).

L'evento della lotta si eleva al metafìsico — non attraverso una simbologia estrinseca o una trasfigurazione fantastica, ma per il modo in cui è visto l'evento stesso. Davanti al rè persiano, colpito dal destino, anche l'odio tace; è solo il «misero» e il dio del mare '«irridendo, i suoi fatui usberghi fracassa». La lotta del popolo è un evento che decide un brano di storia concreta, ma che allo stesso tempo si spinge fin nelle profondità del mare ritenute divine. Il mare ed il suo nume stessi si oppongono agli stranieri invasori.

Nella nona e decima strofa si dispiega un'infinita attività creativa. La distruzione è stata come una ma-

152 Secondo cerchio - L'uomo e la storia

lattia in cui la vita è ringiovanita, liberando tutta la sua forza. Ritorna costantemente la parola «amore» JS intendendo l'impulso creativo che scaturisce dalla in- 'ìk rima passione della vita. Tutte le forze della terra, del & cielo e dell'aria concorrono a quest'opera. E dal mo- H mento che questi uomini hanno «mani pie» la loro $ opera ha la benedizione di quel favore che fa nascere '••§ la perfezione. Così sorge la nuova Atene e la sua vita. -as

Ma poi l'immagine splendente toma a dileguarsi * nel lutto delle ultime strofe. Il fulgore è tramontato, * e chi la ama deve vivere con i morti. Benché rimanga- E no le «forze del cielo» sempre giovani, la luce e «l'ori- 5 data dolente del dio marino», essi non vengono capi- ^ ti, poiché: <

[...] vaga ahimè nella notte, vive come nell'Ade

Senza il Divino la nostra progenie. Al suo agire convulso

Incatenata e ognuno nel fragore dell'officina

Solo ode se stesso, e molto lavorano i bruti

Con poderoso braccio, insonni, ma ancora e sempre

Sterile come le Furie resta il sudore dei miseri.

[...] es wandeit in Nacht, es wohnt, wie im Orkus, / Ohne Góttliches unser Geschlecht. Ans eigene Treiben / Sind sie geschmiedet allein, und sich in der tosenden / Werk-statt / Hóretjeglicher nur und viel arbeiten die Wilden / Mit gewaltigem Arm, rastlos, doch immer und immer / Unfruchtbar, wie die Furien, bleibt die Mùhe der Armen (II, p. 110; tr. it. cit., p. 115).

Ma il vate è chiamato ad annunciare quella profezia di cui si parlerà ancora in termini più precisi:

Fino a che desta dal sogno d'angoscia l'anima umana Non sgorga con giovane gioia e il santo soffio d'amore Come già un tempo non tomi nei figli in fiore dell'Ellade

L'agire storico, la libertà e lo Stato 153

A spiare in nuova epoca e sopra più libera fronte Lo spirito della natura, l'iddio, dopo tanto migrare, Calmo sostando tra nuvole d'oro di nuovo d appaia.

Bis, erwacht vom àngstigen Traum, die Seele den Men-schen / Aufgeht, jugendiich froh, und der Uebe segnen-der Othem / Wieder, wie vormais oft, bei Hellas blùhen-den Kindem, / Wehet in neuer Zeit und ùber freierer Surne / Uns der Geist der Natur, der femherwandeinde, wieder / Stilleweilend der Gott in goldnen Wolken er-scheinet (il, p. 110; tr. it. dt., p. 115).

Il compimento misterioso è vicino. Il passato ritornerà. Fino ad allora l'iniziato deve persistere nel lutto che sale dalle ceneri di Atene - la seconda - e dal lamento delle acque che scendono a dirotto sui caduti di Cheronea. Ma gli ultimi versi supplicano il Dio del mare che in questa storia ha dominato, di «risuonare nell'anima» del poeta-vate affinchè li possa sopportare:

Ma tu, immortale, se anche l'inno dei Gred non più Ti celebra come una volta, o dio del mare, risuonami Dai flutti sovente nell'anima ancora, che sopra le acque Intrepido lo spirito, come nuotatore, si addestri Nell'aspra gioia dei forti, e la lingua degli dèi, l'Alternarsi E il Divenire, intenda: e quando la corrente del tempo Troppo violenta il capo mi afferri, e lo stento e il vagare Fra mortali il mio mortale vivere scrolli, Fa' che la pace allora nel tuo profondo io ricordi.

Aber du, unsterbiich, wenn auch der Griechengesang schon / Dich nicht feiert, wie sonst, aus deinen Wogen, o Meergott! / Tóne mir in die Seele noch oft, daB ùber den Wassern / Furchtiosrege der Geist, dem Schwimmer gleich, in der Starken / Frischem Glùcke sich ùb, und die Góttersprache, das Wechsein / Und das Werden versteh;

und wenn die reifiende Zeit mir / Zu gewaltig das Haupt

154 Secondo cerchio - L'uomo e la storia ^

ergreift und die Not und das Irrsal / Unter Sterbiichen mir rnein sterbiich Leben erschùttert, / LaB der Stille mich dami in deiner Tiefe gedenken (il, pp. 111-112; tr. it

dt.,p.ll7).

Il

L'Arcipelago narra come il popolo ateniese edificò la sua repubblica, facendo il proprio lavoro e costruendosi un'esistenza nella grandezza e nella dignità. Più profonda nell'interiorità è l'immagine della città di Agrigento nella Morte di Empedocle. Essa è incentrata sulla figura dominatrice del grande uomo che è genio religioso, filosofo, legislatore, medico, quindi è dotato di sapere e di potere allo stesso tempo. Il dramma è una specie di Politela religiosa, raccontato nel momento in cui la polis inizia a tramontare perché il popolo non ha più quei legami che rendono possibile sperimentare e dar forma in senso religioso all'esistenza totale e perché Empedocle non è più abbastanza creativo e sicuro per realizzare la formazione (IV, infra, p. 643).

NelYIperione si preannuncia il concetto di una nuova figura complessiva: la «nuova Chiesa». Viene fatto il tentativo di trasportare nella sfera secolare, laica la «Chiesa», intesa come espressione della esistenza religiosa strutturata complessiva, e di trasformare d'altro canto lo Stato, inteso come esistenza politico-culturale strutturata, nell'ambito spirituale; entrambe le volte con l'obiettivo di contemplare nella totalità così costruita il dispiegamento dell'ultima unità dell'esistenza, la natura (il, p. 122). Si tratta di quella figura complessiva che nascerà poi, nelle elegie e negli inni, senza nome parti-

L'agire storico, la libertà e lo Stato 155

colare, come il mondo trasformato divinamente dal ritorno della Grecia. Anche qui, come costantemente accade in Hólderlin, concetti cristiani - del «regno di Dio» venturo, dell'«uomo nuovo», e della «nuova creazione», in cui tutto è trasfigurato e unito ~ passano nella sfera mondano-mitologica.

Ciò mette anche in luce quanto questa immagine della storia poggi sulla speranza. Ciò che qui si spera non scaturisce più dalla propria prestazione, ma è un dono proveniente da un ambito diverso. Il senso della storia di Hólderlin è «escatologico». VeìVIperione Diotima dice:

È un tempo migliore questo che cerchi tu, un mondo più bello, questo mondo abbracciasti tu nei tuoi amia, eri con loro questo mondo ...

Perché tu hai tutto e hai nulla, perché il fantasma dei giorni dorati che devono arrivare ti appartiene e, tuttavia, non è ancora là, perché sei un cittadino nelle regioni della giustizia e della bellezza, un dio fra gli dèi nei tuoi bei sogni che, di giorno, si insinuano in tè e, quando ti desti, ti ritrovi sul suolo della Grecia odierna (il, pp. 169-170; tr. it. cit, pp. 87-88).

La speranza di un mondo migliore attraversa tutta la concezione della storia di Hólderlin.

LA NATURA,L'AMORE E LA CULTURA

Finora si è parlato di quell'elemento della storia che si manifesta nell'azione, nella lotta e nel destino. Ma essa ne contiene un altro: quello che si attua nel divenire, nel crescere e nell'operare. Chiameremo, con una definizione approssimativa, la prima storia «politica», la seconda storia «culturale». Esse non sono scindibili; esse si intrecciano, anzi si compenetrano formando l'insieme dell'esistenza complessiva che decorre nel tempo; eppure rappresentano linee diverse di autorealizzazione umana. Partendo dalla seconda linea, Hólderlin ha tentato un importante prospetto del decorso storico. Soprattutto nélVIperìone, nel frammento di «Thalia»2 il maestro dice:

La semplicità e l'innocenza del primo periodo muoiono perché ritornino nella formazione compiuta, e la pace sacra del paradiso tramonta perché dò che era solo un dono della natura rifiorisca come proprietà conquistata dall'umanità (il, p. 76).

L'introduzione al frammento esprime il pensiero in termini concettuali:

Ci sono due ideali della nostra esistenza: uno stato di suprema semplicità in cui i nostri bisogni sono adeguati a se

158 Secondo cerchio - L'uomo e la storia

stessi, alle nostre forze e a tutto ciò che ha rapporti con noi, senza la nostra partecipazione, attraverso la organizzazione della natura, e uno stato della suprema formazione dove, con il supporto di bisogni e di forze infinitamente moltiplicati e rafforzati, accadrebbe lo stesso attraverso una organizzazione che noi stessi siamo in grado di darci. La parabola eccentrica che l'uomo percorre in generale e in particolare da un punto (la semplicità più o meno pura) all'altro (la formazione più o meno compiuta), nelle sue direzioni essenziali sembra essere sempre la stessa (il, p. 53).

Il momento tragico di questo avvenimento risalta nella versione definitiva (i, p. 2):

Gli uomini godettero, in principio, di una felicità simile a quella delle piante e crebbero sino alla maturità; da allora in poi, fermentarono senza posa, dentro e fuori, sino al tempo presente dove la schiatta umana, simile a un caos, giace del tutto dissella così che vertigine coglie chi ancora è capace di sentire e di vedere. La bellezza però si rifugia dalla vita degli uomini su quella dello spirito, ideale diventa dò che era natura e se anche l'albero è, in basso, seccato e disfatto, un giovane germoglio è spuntato ancora da esso e verdeggia nello splendore del sole come, un tempo, il tronco nei giorni della giovinezza; ideale è ciò che era natura. In questo ideale, in questa ringiovanita divinità si riconoscono quei pochi e sono uno, perché v'è un Uno in essi, perché da questo, da questo incomincia la seconda età del mondo (II, pp. 64-65; tr. it. cit., p. 84).

Adesso diventano chiari i singoli settori del contesto complessivo: all'inizio uno stato di immediatezza;

poi l'interruzione del volere consapevole con le sue crisi; infine il nuovo avvio e la visione del traguardo. È lo schema dell'idealismo con i suoi periodi del processo storico, certo in una forma particolare, propria a Hólderlin.

La natura, l'amore e la cultura 159 II

La poesia L'uomo racconta il mito sulla nascita dell'uomo:

Quando a tè affioraron dall'acque, terra, Le dme dei giovani monti, e profumarono, Gioia spirando, piene di boschi sempreverdi, Nel grigio deserto dell'oceano

Le prime vaghe isole; e lieto vide L'occhio del dio Sole le novelle Piante, della sua eterna giovinezza Creature sorridenti, da tè nate;

Là sull'isola più bella dove sempre L'aria avvolse il bosco in quiete soave, Giacque una volta sotto i tralci, dopo tepida Notte, nella vaga ora mattutina

Nato, madre Terra, il tuo figlio più bello, E il padre Elio guarda, e lo conosce, II fandullo, e si desta e sceglie, cercando, I dolci chicchi, la sacra vite

A nutrice per sé [...]

Kaum sproBten aus den Wassern, o Erde, dir / Der jun-gen Berge Gipfel und dufteten / Lustatmend, immergrù-ner Haine / Voli, in des Ozeans grauer Wildnis //Die er-sten holden Insein; und freudig sah / Des Sonnengottes Auge die Neulinge, / Die Pflanzen, seiner ewgenJugend/ Làcheinde Kinder, aus dir geboren; // Da auf der Insein schònster, wo immerhin / Den Hain in zarter Ruhe die Luft umfloB, / Lag unter Trauben einst, nach lauer / Nacht, in der dàmmernden Morgenstunde // Geboren, Mutter Erde! dein schónstes Kind: - / Und auf zum Valer

160 Secondo cerchio - L'uomo e la storia

Helios sieht bekannt / Der Knab, und wacht und wàhit, die sùssen / Beere versuchend, die heilge Rebe // Zur Amme sich [...] (i, p. 263). ,

Egli è concepito dalla luce del dio Sole, nato dalla terra, l'ultimo ed il più bello di tanti fratelli, le piante. Una mattina presto «giacque una volta» - come il giovane giorno nel quadro di Philipp Otto Runge3 - e «sua nutrice» era la vite. All'inizio vi è quindi uno stato di non apertura; un'ingenuità ed un'innocenza che non è ancora personale - «alle piante dice: una volta ero come voi», si legge nelVIperione (il, p. 140). Nessun impulso si stacca dal tutto, con una particolare pretesa; tutto rimane organicamente connesso.

Niente è voluto che non sia già presente nell'ordine naturale. Manca la consapevolezza critica. II pensiero procede sotto forma istintiva o sognante, rispecchiando - come propria interiorità immediata -l'essere della natura. Anche la libera scelta della volontà, la sua dignità come il suo pericolo, manca. La volontà non ha ancora assunto la forma della decisione, ma intanto solo quella di un impulso, in cui si ripercuotono immediatamente le necessità della natura. Lo stato dell'uomo è esso stesso «natura» ed il suo ordine scaturisce, come dice il frammento di «Tha-lia», dalla «mera organizzazione» di essa. In questa unità egli è perfetto. «Ma l'uomo è un dio appena è uomo. E se è un dio, allora è bello» (il, p. 185). La perfezione dell'uomo, in cui la natura stessa si manifesta in tutta la sua chiarezza, è uno stato divino in senso assoluto. L'ultima espressione di questa perfezione è «l'umana, la divina bellezza».

Lo stato originale ritorna in ogni bambino. Hól-derlin parla spesso dell'infanzia, con una nostalgia

La natura, l'amore e la cultura 161

che lascia intrawedere le costanti minacce a cui la sua era esposta. Nel già citato secondo libro del primo volume di Iperione si legge:

La natura perfetta deve vivere nell'uomo prima che egli vada a scuola, affinchè l'immagine della fanciullezza gli indichi la via del ritorno dalla scuola verso la perfetta natura [...] chi non è stato, un tempo, un perfetto bambino, quegli difficilmente sarà un uomo perfetto [...] (n, p. 184; tr. it. dt.,p.98).

E ancora:

Lasciate l'uomo indisturbato sin dalla culla; non strappatelo dal ben chiuso bocdolo del suo essere, non scacciatelo dalla capannucda della sua infanzia! Non occupatevi troppo di lui, affinchè non senta la vostra mancanza e così vi distìngua da sé, non fate troppo affinchè egli non senta la vostra o la sua violenza e distingua sé da voi, in breve, fate in modo che l'uomo soltanto tardi venga a sapere che esistono uomini, che esiste, oltre a lui, qualcosa d'altro, perché solamente così egli diventerà uomo. Ma l'uomo è un dio appena è diventato uomo. E se è un dio, allora è bello (n, p. 185; tr. it. dt., p. 99).

Nelle incantevoli descrizioni dedicate ai boschi di Calàuria prima dell'incontro con Diotima:

L'aura materna penetrava in tutti i cuori, li levava verso l'alto e li attirava a sé.

E gli uomini uscivano fuori dalle loro porte e sentivano in modo meraviglioso come il soffio spirituale agitasse legger-mente i delicati capelli sulla fronte e rinfrescasse il raggio di luce, ed essi sceglievano lied le vesti per accoglierlo nel petto; respiravano più dolcemente, sfioravano più delicatamente il mare chiaro, leggero, allettante, nel quale vivevano e si muovevano.

162 Secondo cerchio - L'uomoe lastoria ^

Oh, sorella di quello spirito che domina e vive in noi con 1 potente ardore, aura sacra: come è bello l'essere accompa- " gnato da tè ovunque diriga i miei passi, onnipresente, iin- S mortale! •;;. L'alto elemento giocava con i bambini nel modo più bello, i Uno bisbigliava tranquillamente fra sé e sé, a un altro sgor- ? gava dal labbro una canzondna senza ritmo, a un altro un ' canto di giubilo a piena gola; uno se ne stava sdraiato, l'altro ? saltava in alto, un altro si aggirava assorto nei suoi pensieri. ;

E tutto questo era l'espressione di un solo benessere ed ì una sola risposta alle carezze delle aure ammalianti (n, p. 147; tr. it. cit., p. 71). 5

II pensiero ritorna in una poesia, accompagnato ;

dal ricordo malinconico della propria infanzia. Essa inizia così:

Quand'ero fanciullo, . . : j

Spesso un dio mi scampava

Dagli sgridi e le verghe degli uomini.

Giocavo sicuro e buono

Con i fiori del bosco,

E le aure del cielo

Giocavano con me. '

E come tu il cuore Delle piante consoli, Quando esse aincontro Le tenere braccia ti tendono,

Così hai il mio cuore consolato, Padre Elio! e, come Endimione, Io ero il tuo vago, :

Sacra Luna!

O tutù voi fidi, Amorevoli dèi!

La natura, l'amore e la cultura 163

Se poteste sapere Quanto vi ha la mia anima amato!

Certo allora io non vi invocavo ancora

Con nomi, e neanche voi

Mi chiamavate mai a nome, come uomini si chiamano

Quasi si conoscessero.

Pure conosciuto vi ho meglio Che mai abbia conosciuto gli uomini:

Compresi il silenzio dell'etere, Le parole degli uomini non le ho comprese mai.

Da ich ein Knabe war, / Rettet' ein Gott mich oft / Vom Geschrei und der Rute der Menschen, / Da spieit ich si-cher und gut / Mit den Blumen des Hains, / Und die Lùftchen des Himmeis / Spielten mit mir. // Und wie du das Herz / Der Pflanzen erfreust, / Wenn sie entgegen dir / Die zarten Arme strecken, / So hast du mein Herz er-freut, / Vater Helios! und, wie Endymion, / War ich dein Liebiing, / Heilige Luna! // O ihr treuen / Freundiichen Getter! / DaB ihr wùBtet, / Wie euch meine Seele geliebt! // Zwar damais rief ich noch nicht / Euch mit Namen, auch ihr / Nanntet mich nie, wie die Menschen sich nen-nen, / Als kennten sie sich. // Doch kannt ich euch bes-ser, / Als ich je die Menschen gekannt, / Ich verstand die Stille des Àthers, / Der Menschen Worte verstand ich me (I, pp. 266-267; tr. it. cit., pp. 31-33).

Ancora in un abbozzo per un inno Alla Madonna degli ultimi anni trapela la preoccupazione per il regno dell'infanzia, chiamata ora «la selva vergine» (il, p. 214). Questo termine diventa più comprensibile quando si considera che le belve - le belve «divine», le «belve terrene» - appaiono soprattutto nelle elegie come il più puro prodotto della natura, particolar-mente aperte allo «spirito» di questa, al soffio dioni-

164 Secondo cerchio - L'uomo e la storia vr

siaco. Ma l'uomo un tempo era «felice come il cervo del bosco» (Iperione II, p. 228). .s f La giovinezza di Iperione caratterizza lo stato origi- " naie proprio con il concetto di «spirito»: ";

, -^i

Scambiammo il sentimento della vita, la chiara consapevo. $ lezza per ottenere la quiete priva di sofferenza degli dèi. ? Se è possibile, pensa lo spirito puro! Esso non si occupa -, della materia; perdo nessun mondo vive per esso; per esso £ non si leva e non tramonta alcun sole; esso è tutto e perdo nulla per sé. Esso non è privo di nulla perché non può desiderare: non soffre perché non vive (II, p. 506). y.

Questo «spirito» non significa incorporeità, bensì semplicità, apertura, leggerezza di tutto l'essere, unio- fe ne con le forze che reggono il mondo e la condizione ^ di chi è pervaso dalle onde creatrici che provengono p dall'origine. A questo spirito l'uomo era legato in '-a, un'esistenza ancora anteriore alla nascita. Poi awen- & ne il passo verso la figura individuale, e ora l'uomo si „. ritrovò nella storia. L'esordio della vita - sia per il caso * particolare che per quello del genere umano nascita ed •%. inizio della storia - non costituisce un inizio puro, ma dietro di esso vi è qualcosa di più remoto: un'esistenza nell'ambito del mondo sottratto a noi, nello stato di vita degli dèi, come viene descritto spesso, in mo- ^

do particolarmente puro nel Canto del Destino: <

•• - 'A

Senza destino, come lattante •••,$• Che dorma, respirano i celesti;

Serbato casto ^ In umile bocdo A È in etemo fiorire

Per loro lo spirito • ^ E gli occhi beati -

La natura, l'amore e la cultura 165

Mirano in tacita Eterna chiarità.

Schicksallos, wie der schlafende / Sàugling, atmen die Himmlischen; / Keusch bewahrt / In bescheidener Kno-spe, / Blùhet ewig / Ihnen der Geist, / Und die seligen Augen / Blicken in sdiler / Ewiger Klarheit (i, p. 265; tr. it. dt., p. 37).

Una traccia di questo stato è ancora presente in quella prima naturalezza di cui abbiamo parlato. Ma il fatto propriamente decisivo, il passo verso la figura individuale - il «camminare ad occhi aperti sui propri sentieri» (Voce del popolo, II, p. 51) è già avvenuto. Lo spirito individuale a differenza dello spirito del Tutto e della sua dinamica creativa; lo spirito intellettuale e critico con la sua capacità di porsi mediante la riflessione fuori dal primo contesto, è già all'opera. Il fatto che esso sia proprio questo, benché apparentemente ancora partecipe dell'unità; il fatto di stare come profondità onirica al di sotto delle espressioni istintive dell'esistenza infantile, conferisce alla primizia della vita il suo incanto presago. Ma presto ne emerge un alito di estraneità. Così, nell'ode L'uomo, si legge:

[...] e presto è adulto; lo temono

Gli animali, poich'è diverso da loro

L'uomo; a tè non somiglia ne al padre

Poiché audace in lui e unica

Con la tua gioia l'anima alta del padre,

O terra! è da sempre alla tua tristezza unita.

[...] und baid ist er gro6; ihn scheun / Die Tiere, denn ein anderer ist, wie sie, / Der Mensch; nicht dir und nicht dem Vater / Gleicht er, denn kùhn ist in ihm und einzig // Des Vaters hohe Seele mit deiner Lust, / O Erd! und deiner Trauer vonje vereint (i, p. 263).

166 Secondo cerchio- L'uomo e la storia III

L'armonia dura solo per breve tempo; poi s'impone lo spirito individuale. Nella Giovinezza di Iperione si legge:

Ora percepiamo le barriere del nostro essere, e la forza arginata si ribella impaziente ai propri vincoli e lo spirito anela a ritornare al limpido etere. Tuttavia, in noi vi è anche qualcosa che volentieri sopporta i vincoli; poiché se lo spirito non fosse limitato da nessuna resistenza, non sentiremmo noi stessi e nemmeno gli altri. Ma non sentirsi significa la morte. La povertà del finito è indissolubilmente legata in noi con la ricchezza sovrabbondante del divino. Non possiamo mai rinnegare l'impulso di espanderci, di liberarci; dò sarebbe animalesco. Ma non possiamo nemmeno con superbia ignorare l'impulso di essere limitati, di ricevere. Poiché non sarebbe umano e uccideremmo noi stessi (n, p. 507).

Questa tensione tra l'impulso diretto al sovraindi-viduale, all'infinito perfetto ed il fatto di essere inseriti nell'esistenza individuale con i suoi condizionamenti terreni viene meno nella forza più nobile dell'esistenza, l'amore. Rinnovando il mito del Symposion4, Iperione dice:

II contrasto degli impulsi, da nessuno dei quali ci si può esentare, è portato all'unione dall'amore, il figlio della ricchezza e della povertà. L'amore insegue infinitamente il supremo o l'ottimo, il suo sguardo è diretto verso l'alto, il suo obiettivo è il perfetto, poiché suo padre, la ricchezza, è di stirpe divina. Tuttavia raccoglie anche il frutto delle anime e le spighe dal campo di stoppie della vita, e se un essere gentile, in una giornata afosa, gli porge una bevanda, non rifiuta il vaso di terra, poiché sua madre è l'indigenza (II, p. 507).

La natura, l'amore e la cultura 167

L'amore è l'anelito che scaturisce dallo spirito individuale, non appena esso diventa consapevole di se stesso. Esso trae l'uomo verso la perfezione, ma non intesa come norma o come idea, bensì come qualcosa che percettibilmente domina dall'alto come l'etere. La possente realtà contenuta in questo concetto dovrà essere descritta per esteso successivamente (ili, infra, p. 245). Esso significa la chiarezza e la potenza dell'altezza celeste, il suo azzurro visibile, la capacità della sua luce e la sua forza di abbracciare sotto la sua volta tutte le cose. Tutto ciò si prolunga diventando compendio di validità, eternità, senso, anzi, in ultima istanza, dell'ambito a noi sottratto verso l'alto, ed è percepito come divinità. Ad esso anela l'eroe.

Esso è presente anche nella natura, poiché dappertutto vi sono esseri individuali «che camminano su sentieri propri» e che portano in sé la tensione fra la forma particolare ed il desiderio dell'Unitutto. Ma solo nell'uomo essa si manifesta in forma consapevole. L'amore è una potenza cosmica. Abbiamo già citato il passo in Iperione dove il moto che urge per ogni dove, l'eros del Tutto prelude all'incontro con Diotima. La dinamica verso l'alto di ogni cosa vivente è descritta in modo particolarmente intenso nella poesia All'Etere:

Di cibo terreno non prosperan solo i viventi

Ma tu li alimenti tutti, col tuo nettare, o Padre!

Urge e trabocca fuori della tua etema pienezza.

L'animante aura per le vene di tutta la vita.

Perciò le creature ti amano e lottano e anelano in alto

Incessantemente verso tè in gioioso rigoglio.

O celeste, non cerca tè con i suoi occhi la pianta,

168 Secondo cerchio - L'uomo e la storia "?

Non è a tè che tende le bracda timide l'umile arbusto? Per tè trovare il seme prigione rompe il suo guscio, Per bagnarsi, da tè avvivato, nell'onda tua II bosco si scuote di dosso la neve, manto troppo pesante. Anche i pesci salgono al sommo e guizzano desiderosi Sul lucido piano del fiume quasi agognassero anch'essi A tè dalla loro culla: anche alle nobili fiere terrestri Mutasi in volo il passo, quando la brama violenta, L'occulto amore per tè li afferra, all'alto li tira.

Nicht von irdischer Kost gedeihen einzig die Wesen, / Aber du nàhrst sie ali mit deinem Nektar, o Vater! / Und es dràngt sich und rinnt aus deiner ewigen Fùlie / Die be-seelende Luft durch alle Róhren des Lebens. / Darum lie-ben die Wesen dich auch und ringen und streben / Unauf-hórlich hinauf nach dir in freudigem Wachstum. // Himmlischer! sucht nicht dich mit ihren Augen die Pflan-ze, / Streckt nach dir die schùchternen Arme der niedrige Strauch nicht? / Da6 dich finde, zerbricht der gefangene Same die Hùlse, / DaB er belebt von dir in deiner Welle sich bade, / Schùtteit der Wald den Schnee, wie ein ùber-làstig Gewand ab. / Auch die Fische kommen herauf und hùpfen verlangend / Ùber die glànzende Flàche des Stroms, als begehrten auch diese / Aus der Wiege zu dir;

auch den edein Tieren der Erde / Wird zum Fluge der Schritt, wenn oft das gewaidge Sehnen, / Die geheime Uebe zu dir sie ergreift, sie hinaufzieth (i, p. 204; tr. it. dt., p. 17).

In questo amore dovrebbero liberarsi tutte le forze, compiendo azioni e opere nobili. L'anelito infinito dovrebbe essere domato dall'autolimitazione e dalla misura, la forza dell'abbondanza dalla povertà. Questo pensiero ritoma costantemente nella poesia di Hólderlin, L'espressione più chiara ne da l'inno II Reno. Nel giovane fiume si scatena l'anelito al tutto, ma i Celesti lo arginano per mezzo delle rive. Esso accetta i limiti, e dall'abbondanza e dalla misura nasce

, La natura, l'amore e la cultura 169

la fecondità creativa del fiume ... Certamente esiste anche la forma opposta dell'eroe: quella dionisiaca che, rompendo la forma individuale, si precipita nel sovraindividuale. Si tratta di quella culminazione dell'esistenza individuale, in cui la vita si rovescia nella morte e in cui irrompe il Tutto, mentre la forma particolare si disgrega. Anche questo eros fa parte del mondo e ha il suo carattere divino e il suo diritto; ma solo in colui che ad esso è chiamato. Le poesie Voce del popolo e La morte di Empedocle lo rappresentano (i, supra, p. 38; IV, infra, p. 576). Questo eros è «la voluttà di morire» dell'esistenza. Essa «distrugge l'opera», «continuata di anno in anno», «l'arte lunga». È la potenzialità oscura, minacciosa che fa sì che l'operato dell'altro eros, quello conservatore, non diventi comodo e arrogante.

Ma solo quest'ultimo è creativo. Da esso dovrebbe nascere l'opera dell'uomo. Sotto gli occhi di Diotima, Iperione, in un colloquio entusiasta, sviluppa questo pensiero. Dapprima nasce l'arte, poi la religione, poi la filosofìa (il, p. 186).

In quel primo stato tutto era identico; l'uomo era interamente «natura». Egli stesso era bello, quindi opera d'arte in sé, senza necessitare dell'opera. Egli stesso era divino, quindi senza la necessità di un culto transitivo rivolto a un oggetto, bensì pervaso da una religiosità, che aveva il carattere d'uno stato, d'una condizione, sospesa in se stessa. Egli aveva sapere, perché dominava essendo, in lui, il senso del Tutto, e non conosceva quindi l'irrequietezza del dubbio, la riflessione e la critica. Ma poi lo spirito si agita. Esso si propone la bellezza nell'opera, e nasce l'arte. Esso incontra la divinità sotto le spoglie di figure oggettive, e

170 Secondo cerchio - L'uomo e la storia

nascono le immagini di divinità e gli ordinamenti dei loro culti. Esso inizia a interrogarsi sul Tutto e sul particolare, sui fatti e sul senso, e nasce, con il supporto della poesia contemplatrice e formatrice, la filosofia. Dai differenti bisogni dell'esistenza nascono i mestieri; dalle esigenze della vita storica la comunità con le sue forme.

IV

Questo era il progetto contenuto nella natura delle cose. Esso è stato realizzato però solo in un luogo della terra, in Grecia, come dice Iperione in un lungo colloquio:

[...] era una vita divina e l'uomo era, allora, il centro della natura. La primavera, quando fioriva intorno ad Atene era come un modesto fiore sul seno della vergine e il sole, rosso per la vergogna, sorgeva sulle magnificenze di quella terra.

Le rupi di marmo dell'Ime tto e del Pentelico balzavano su dalla culla dov'erano assopite, come bambini dal grembo della madre e prendevano forma e vita sotto le delicate mani degli Ateniesi.

La natura porgeva miele e le più belle viole e mirti e olive. La natura era sacerdotessa e l'uomo il suo dio, e tutta la vita in essa, e ogni aspetto, ogni nota di essa era soltanto un'unica eco della magnifica creatura alla quale essa apparteneva. La natura celebrava soltanto lui, sacrificava soltanto a lui.

E ne era anche degno; egli poteva sedere, con amore, nella sacra officina e abbracciare le ginocchia della statua degli dèi che egli aveva scolpito, oppure, sul promontorio, sulla verde cima del Sunio, accampato in mezzo ai discepoli che lo ascoltavano, ingannare il tempo con alti pensieri, oppu-

La natura, l'amore e la cultura 171

rè poteva correre nello stadio, o, dal podio, come un dio delle tempeste, inviare pioggia, raggio di sole e lampi e dorate nubi (II, pp. 192-193; tr. it. dt., pp. 104-105).

Dappertutto altrove riuscì solo parzialmente ed approssimativamente, come mostra la critica ai popoli ed alle culture nello stesso colloquio. Ma la Grecia stessa decadde ... I dialoganti sono in viaggio per l'Attica, e Iperione è interrotto da Diotima:

«O guarda», esclamò improvvisamente Diodma, rivolta verso di me.

Guardai, e mi senni quasi mancare di fronte all'imponenza di quel panorama.

Come un immenso naufragio, dopo che gli uragani si sono placati e i marinai fuggiti via e la carcassa della flotta frantumata giace irriconoscibilmente sul banco di sabbia, così stava Atene davanti a me, e le orfane colonne si levavano davanti a noi come nudi tronchi di un bosco che, la sera prima, ancora verdeggiava e, durante la notte, fu preda delle fiamme.

«Qui», disse Diodma, «s'impara a tacere sul proprio destino, sia esso benigno o malvagio». «Qui s'impara a tacere su tutto», continuai io (n, pp. 193;

tr. it. dt., p. 105).

E poi:

Anche questo spirito era già morto prima che i distruttori percorressero l'Atdca. Solo quando i templi e le case sono deserte, le fiere selvagge osano inoltrarsi oltre le porte e per le strade (il, pp. 194; tr. it. cit, pp. 105-106).

La Grecia, e in Grecia soprattutto Atene, ecco la grande, effìmera eccezione. Altrove l'impeto si liberò dalle leggi sacre e divenne egoistico e distruttivo. Nella poesia L'uomo si legge:

172 Secondo cerchio - L'uomo e la storia

Alla madre degli dèi, alla natura, Che tutto abbraccia, vorrebbe somigliare!

Ah, per questo tè lo strappa dal cuore, terra, La sua baldanza, e vani sono

I tuoi doni e i tuoi delicati legami;

Pure un meglio cerca, lui così selvaggio!

Via dalla sua riva di prato odoroso, Nell'acqua senza fiori l'uomo deve gettarsi, Ed anche splende, come la notte stellata,

II suo bosco di frutti d'oro, ma lui si scava

Grotte nei monti e scruta negli abissi, Lungi dalla limpida luce di suo padre, Infedele anche al Sole, che servi Non ama e dell'affanno ride.

Più liberi respirano gli uccelli del bosco, Ma più splendido pulsa il cuore umano, E vede l'oscuro futuro, ed anche deve La morte vedere e solo lui temerla.

E l'armi l'uomo porta contro ogni vivente, Con orgoglio sempre inquieto; nella lotta . Si consuma e brevemente fiorisce II delicato fiore della sua pace.

Non è dunque egli di tutti i viventi II più felice? Ma più a fondo e rapace II destino, che tutto eguaglia, afferra Anche il petto infiammabile del forte.

Der Góttermutter, der Natur, der / Allesumfassenden mócht er gleichen! // Ach! darum treibt ihn, Erde! vom Herzen dir/ Sein Ubermut, und deine Geschenke sind / Umsonst und deine zarten Bande; / Sucht er ein Besseres doch, der Wilde! // Von seines Ufers duftender Wiese

La natura, l'amore e la cultura 173

muB / Ins blùtenlose Wasser hinaus der Mensch, / Und glànzt auch, wie die Sternennacht, von / Goldenen Frù-chten sein Hain, doch gràbt er // Sich Hóhlen in den Ber-gen und spàht im Schacht / Von seines Vaters heiterem Uchte fern, / Dem Sonnengott auch ungetreu, der / Kne-chte nicht liebt und der Sorge spottet. // Denn freier at-men Vógel des Walds, wenn schon / Des Menschen Brust sich herrlicher hebt, und der / Die dunkie Zukunft sieht, er muB auch / Sehen den Tod und allein fùrchten. // Und Waffen wider alle, die atmen, tràgt / In ewigbangem Stolze der Mensch; im Zwist / Verzehrt er sich und seines Friedens / Blume, die zàrtiiche, blùht nicht lange. // Ist er von allen Lebensgenossen nicht / Der seligste? Doch tiefer und reiBender / Ergreift das Schicksal, allausglei-chend, / Auch die entzùndbare Brust dem Starken (i, pp. 26S-264).

L'anelito primordiale si trasforma nel tentativo «totale» di abbracciare il mondo: la ricerca distruttri-ce, il dominio soverchiante, il lavoro irrequieto, spinto dalla rapacità e dalla paura.

Questo male assume nella poesia di Hólderlin una forma duplice. In primo luogo, quella del titanismo. In tal caso le dimensioni diventano immense. In esso si coniugano la volontà propria dell'uomo e quella del caos. Quest'ultimo di per sé costituisce un elemento dell'esistenza in quanto tale: la parte notturna del mondo, ciò che è tenebroso, magmatico, partoriente, la «copiosità sacra» infinitamente traboccante, opposta alla parte divina dello stesso mondo: l'altezza, la chiarezza, la forma, l'ordine. Esso ha un proprio senso all'interno del tutto, ma ha bisogno d'essere domato. L'espressione mitica di questo domare è costituita dall'eterno ritmo tra luce e oscurità. A ognuno spetta il suo tempo: giorno e notte. Ognuno

174 Secondo cerchio - L'uomo e la storia

determina tutto il mondo, ma in una configurazione particolare. Le stesse cose che di giorno sono ordinate e chiare, di notte si mostrano «prive di leggi», oscure e impenetrabili. Oscurità e luce, abbondanza e forma, profondità del grembo e spazio della forma affrancata, eruzione e maturità sono speculari - così come sono speculari terra e etere, Dioniso e Apollo ... L'inno II Reno, verso la fine (in versi già citati, p. 86), descrive questo rapporto come più gravido di rischio. La sfera della notte si accosta a quella del giorno, ma non per sostituirsi ad essa, al tempo prestabilito, recando sollievo, bensì minacciosamente:

Sia di giorno, quando

Febbrile e incatenata

La vita appare, sia

Di notte, quanto tutto si mischia

Senz'ordine e torna

L'originario groviglio.

Bei Tage, wenn / Es fieberhaft und angekettet das / Le-bendige scheinet, oder auch / Bei Nacht, wenn alles ge-mischt / Ist ordnungsios und wiederkehrt / Uralte Verwir-rung (il, p. 148; tr. it. cit., p. 205).

Appena contro l'ordine si ribella egoisticamente l'impeto primo, l'elemento del caos prorompe in esso, improbo e distruttore. Nasce il titanismo. L'inno II Reno, per esempio, dice dei grandi ribelli della preistoria (versi citati, p. 78):

Chi fu che per primo Corruppe i vincoli d'amore Per farne corde? Allora hanno alla propria legge

La natura, l'amore e la cultura 175

E insino al fuoco celeste Irriso i superbi, da allora Sprezzando la strada mortale protervia dessero E agli dèi farsi eguali anelarono.

Wer war es, der zuerst / Die Uebesbande verderbt / Und Stricke von ihnen gemacht hat? / Dann haben des eigenen Rechts / Und gewifi des himmlischen Feuers / Gespottet die Trotzigen, dann erst, / Die sterbiichen Pfade ver-achtend, / Verwegnes erwàhit / Und den Góttern gleich zu werden getrachtet (n, p. 145; tr. it. dt, p. 199).

E dell'uomo dice:

Ma ahimè! vaga nella notte, abita come nell'Orco,

Senza il divino, la nostra stirpe. Al proprio fare

È forgiata soltanto, e ognuno ascolta sé solo

Nella folle officina; molto lavorano, i selvaggi,

Con braccio possente e senza posa; ma ancora e sempre,

Come le Furie, senza frutto rimane la pena dei miseri.

Aber weh! es wandeit in Nacht, es wohnt, wie im Orkus, / Ohne Gótdiches unser Geschlecht. Ans eigene Treiben / Sind sie geschmiedet allein, und sich in der tósenden Werk-statt/ Hóretjeglicher nur, und viel arbeiten die Wilden/ Mit gewaltigem Arm, rastlos, doch immer und immer / Unfruchtbar, wie die Furien, bleibt die Mùhe der Armen (II, p. 110; tr.it.dt-, p. 117).

Pur con tutta la sua colpa di sacrilegio, l'elemento distruttivo nella storia appare qui in dimensioni di grandiosità. Esso tuttavia può manifestarsi anche sotto spoglie piccole e misere, ma non per questo meno deleterie: come funzionalità e calcolo che soggiogano l'esistenza; come egoismo e utile proprio che la de-

176 Secondo cerchio - L'uomo e la storia

gradano; come razionalismo che la inaridisce e la corrode. E nasce lo spirito del «servo» e del «furbo», che utilizzano il sacro, ciò che è sorto divinamente, per i propri piccoli fini. È contro di essi che si rivolge Iperione:

Barbari, sin da antichi tempi, resi più barbari dalla diligenza, dalla scienza, e persino dalla religione, profondamente incapaci di qualsiasi senso divino, corrotti sino al midollo, per buona sorte delle sacre Grazie, in ogni grado di esagerazione e di meschinità offensivi per ogni anima delicata, sordi e disarmonici come i coca di un vaso buttato via -tali, mio Bellarmino, erano i miei consolatori ...

Ti dico: non vi è nulla di sacro che non venga profanato presso questo popolo, e non venga degradato a un miserabile espediente, e quanto, persino presso i selvaggi, si mantiene per lo più divinamente puro, questi barbari che sanno soltanto calcolare lo esercitano come un mestiere. E non possono agire diversamente, perché quando un essere umano ha subito un addestramento, esso serve al suo scopo, cerca il suo utile, non sogna più, Dio ce ne guardi! e resta un uomo posato. E quando celebra e quando ama e quando prega e persino quando l'amena festa primaverile, quando l'ora della riconciliazione del mondo scioglie tutti gli affanni e, come per incanto, evoca l'innocenza in un cuore colpevole, quando, ammaliato dal caldo raggio del sole, lo schiavo dimentica, lieto, le sue catene e, ammansiti dall'aura divina, i nemici degli uomini diventano pacifici come bambini, persino quando il bruco mette le ali e l'ape sdama, il Tedesco rimane chiuso entro il suo scomparto e non si cura molto del tempo (II, p. 282; tr. it. dt, pp. 172-173).

Qui Iperione-Hólderlin menziona una perversione che gli pare di vedere attorno a sé. Ciò che pensa del suo popolo in generale costituisce oggetto di molte sue affermazioni valide.

La natura, l'amore età cultura 177

Questa tendenza a costruire sgraziatamente, a distruggere è talmente forte che l'impeto primordiale non riesce a svilupparsi in modo sostanziale nei ritmi prestabiliti. La storia si arena, sia essa di tipo titanico o servile. Essa diventa piena di confusione, senza senso, in modo talmente profondo da non trovare più con le proprie forze una via d'uscita. Per superare il male, la perdizione, vi è bisogno della «salvezza», di un avvenimento che proviene da altrove. Se si considerano le linee che dappertutto corrono dalla coscienza cristiana nell'interpretazione dell'esistenza di Hólderlin, ci si accorge che vi è presente, completamente trasposto nell'immanente-mondano, il pensiero cristiano della prigionia del mondo, che abbisogna del Salvatore proveniente da una sfera al di sopra di essa (V, infra, p. 725).

Questo elemento di salvezza potrebbe essere un'ispirazione divina, come suggerisce l'inizio di Patino (già ci tato, p. 91);

Vicino

E difficile ad afferrare è il Dio. Ma dove è il pericolo, cresce Anche dò che ti salva.

Nah ist / Und schwer zu fassen der Gott. / Wo aber Ge-fahr ist, wàchst / Dar Rettende auch (il, p. 165; tr. it. dt.,

P.217);

oppure come fa pensare l'entusiasmo che soccorre i combattenti nella battaglia di Salamina che già è perduta:

... ma. come la belva Nel deserto dal fùmido sangue da un ultimo balzo

178 Secondo cerchio - L'uomo e la storia

Ergendosi trasfigurata, pad alla forza più altera, E il cacciatore atterrisce, così nel lampo dell'armi, AU'ordin dei capi, tremenda e compatta in quei bellicosi In mezzo alla strage l'anima esausta ancora ritorna. E più la battaglia riawampa [...]

Dènn wie aus rauchendem Blut das Wild der Wùste noch einmal / Sich zuletzt verwandeit erhebt, der edieren Kraft gleich, / Und den Jàger erschróckt, kehrt jetzt im Glanze der Waffen, / Bei der Herrscher Gebot, furchtbargesam-meit den Wilden / Mitten im Untergang die ermattete Seele / noch einmal. / Und entbrannter beginnts [...] (il, p. 106; tr. it. dt., p. 107).

Ma è un altro elemento a dare alla concezione della storia di Hólderlin - se non sbaglio - il suo carattere unico: il ritorno dell'esistenza greca tramontata. Coloro che sanno, gli iniziati di cui parla Iperione hanno atteso l'ora in cui esso si compie. Hólderlin stesso si sente sotto il suo potere e chiamato ad annunciarlo.

Ciò che prima era stato «natura», semplicemente dato e ovvio; ciò che dopo divenne «ideale», conteiw piato e desiderato da lontano, ora entra nella storia;

inizia la terza era della vita del mondo. L'esistenza umana acquista una nuova naturalezza. Lo spirito, che con superbia ed egoismo si era estromesso dall'ordine, vi viene nuovamente inserito. Esso accoglie la legge della natura entro la sua libertà, e questa appare trionfalmente ad un grado più alto. Nasce il nuovo accordo, e la bellezza ritorna.

I MORTI E IL PASSATO

II concetto che regge il pensiero di Hólderlin è quello della natura. Essa è il grande contesto in cui ogni ente singolo si risolve nel tutto, ed il tutto si manifesta nella forma singola. Ogni cosa direttamente percepita è espressione di significati innumeri, a perdita di calcolo. Tutto scaturisce da un'origine misteriosa e ritorna ad essa. La «natura» è per Hólderlin la realtà definitiva. Essa è al di sopra della cosa singola con la sua caratteristica particolare, al di sopra del singolo uomo dotato di una natura propria, ma anche al di sopra delle potenze divine. Tutto ciò che può essere nominato si trova all'interno di essa. Essa è l'autentico e l'essenziale, il sacro Tutto al di là di cui non vi è più nulla. Una ricerca che indagasse oltre la natura o un impulso che tendesse oltre i limiti di essa verrebbero definiti da Hólderlin probabilmente sacrileghi. Ma questo significa anche che l'uomo non costituisce un essere naturale nel comune senso - ma nemmeno l'animale, l'albero o l'astro, poiché tutto proviene dall'ambito del mistero e vi ritorna.

Entro questa concezione generale i due eventi che incorniciano l'esistenza dell'uomo, nascita e morte, rivestono un'importanza particolare.

L'avvenimento della nascita è anteriore al semplice contesto della specie. In essa è avvertibile qualcosa che scende dall'alto. L'elegia Stoccarda dice:

180 Secondo cerchio - L'uomo e la storia '

Sacro m'è il luogo, su ambo le rive, e anche la rupe Che col giardino e la casa, dalle onde verde si leva. C'incontreremo là, dove, o luce benigna!, per primo Uno dei raggi tuoi mi colse, da me più sentito.

Heilig ist mir der Ort, an beiden Ufern, der Feis auch, / Der mit Garten und Haus grùn aus den Wellen sich hebt. / Dort begegnen wir uns; o gùtiges Licht! wo zuerst mich / Deiner gefuhiteren Strahien mich einer betraf (il, p. 87;

tr.it.dt.,p. 129).

In modo ancora più forte l'inno II Reno:

[...] Come cominci, tale resterai,

Per quanto agisca la costrizione

E il rigore, il più

Lo può la nascita

E il raggio di luce

Che al neonato va incontro.

[...] Denn / Wie du anfingst, wirst du bleiben, / So viel auch wirket die Not, / Und die Zucht, das meiste nàmiich / Vermag der Lichstrahi, der / Dem Neugebomen bege-gnet (II, p. 143; tr. it. dt., p. 197).

La luce è un messaggero dell'etere, luce vera e per ciò stesso destinazione divina (III, infra, p. 248). Il primo raggio di luce che cade negli occhi del neonato significa formazione e assegnazione d'una sorte dall'alto. I diversi tipi di naturalismo hanno una cosa in comune: livellano le differenze. Tutto scaturisce da tutto e può giungere a tutto. A questo spirito Hólder-lin si oppone strenuamente. Tra gli uomini ci sono differenze insuperabili, stabilite dalla nascita. Questa non è solo un processo che da all'essere singolo materia vivente e forma biologica, ma un accadimento

I morti e il passato 181

religioso, che determina il suo destino. Non è solo cronologicamente il primo fatto a cui seguono tutti gli altri, ma l'inizio dell'esistenza che stabilisce la dirczione, il compito e i limiti. Esso passa attraverso ogni avvenimento successivo e ad esso ogni avvenimento successivo si riferisce continuamente. Nella medesima poesia si legge infatti subito dopo:

Pure mai se ne scorda.

Prima perirà la casa

E le leggi e tornerà all'informe

II giorno degli uomini, che dimenticare

Un pari suo possa l'origine

E la voce della gioventù.

Doch nimmer, nimmer vergiBt ers. / Denn eher muB die Wohnung vergehn, / Und die Satzung und zum Unbild werden / Der Tag der Menschen, ehe vergessen / Ein sol-cher dùrfte den Ursprung/ Und die reine Stimme derJu-gend (II, pp. 144-145; tr. it. dt, p. 199).

Ma questa destinazione, oltre che dall'alto della natura, può provenire anche dalla sua interiorità. Anzi, la destinazione proviene sia dall'alto che dall'interiorità: contemporaneamente da entrambi gli ambiti della sfera a noi sottratta, che in ultima istanza sono identici. Dall'interiorità del tutto il neonato riceve il nucleo della sua essenza; il relativo passo in Iperione dice:

«E allora in questo caso sarebbe vano», risposi «e nel senso più alto della parola, che, senza libertà, ogni cosa è morta?». «Proprio così», rispose, «nemmeno un filo d'erba cresce se non ha in sé un suo proprio germe di vita! e tanto più in me! Per questo, mio caro, perché mi sento senza un principio, per questo credo di essere senza una fine, indistruttibile. Se mi ha plasmato la mano di un vasaio, allora

182 Secondo cerchio - L'uomo e la storia

egli può frantumare il suo vaso, come gli fa piacere. Ma dò che vive là dentro, deve essere non generato, deve essere, nel suo germe, di natura divina, elevato al di sopra di ogni potere e di ogni arte, e, per questo, inviolabile ed eterno» (il, pp. 266-267; tr. it. cit., pp. 160-161).

In ogni essere vivente vi è un «germe», un'interna forza d'origine che è «senza inizio», che scaturisce dal centro del mondo.

Indipendentemente da come viene concepita, da sopra o da dentro, questa destinazione costituisce comunque l'unicità irripetibile e la solitudine, erigendo tra uno e l'altro delle barriere indistruttibili.

Ciò è espresso in modo mirabilmente incisivo da Panthea nelVEmpedocle:

Non farmi

inorgoglire e non temere

per me come per lui! Non sono lui, •

ne il suo tramonto potrebbe mai essere il mio,

poiché dei grandi anche la morte è grande ...

E se vuoi lo scuoterò con l'eroe

Passar per una sola fiamma di destino, •

Deve l'uno come l'altro, osservi

Chiamato. Ciò che accade a quest'uomo

Accade, credimi, soltanto a lui,

E se anche avesse offeso tutti gli dèi

Sfidando il peso della loro collera

E volessi peccare quanto lui

Per condividerne la sorte, sarei simile

A chi s'immischia, estraneo, •

In una lite fra amanti. 'Cosa pretendi?', ;

Direbbero gli dèi, 'Non puoi, stolta, Offenderà come fece lui'.

O mache mich / Nicht stolz, und furente, wie fùr ihn, fur mich nicht! / Ich bin nicht er, und wenn er untergeht, /

I morti e il passato 183

So kann sein Untergang der meinige / Nicht sein, denn gro6 ist auch der Tod der GroBen. / Und will der Waffen-tràger mit dem Helden / Durch eine Schicksaisflamme gehn, so muB / Der eine, wie der andere, dazu / Berufen sein. Was diesem Manne widerfàhrt, / Das, glaube mir, das widerfàhrt nur ihm, / Und hàtt er gegen alle Getter sich / Versùndiget und ihren Zom auf sich / Geladen, und ich wollte sùndigen, / Wie er, um gleiches Los mit ihm zu leiden, / So wars, wie wenn ein Fremder in den Streit / Der Liebenden sich mischt - Was wilist du? sprà-chen / Die Getter nur, du Tórin kannst uns nicht / Belei-digen, wie er (il, p. 80).

Di conseguenza, anche la morte non costituisce solo la fine del decorso biologico, ma un evento che si compie in riferimento al centro del Tutto. La fine è intimamente collegata con l'inizio. La morte riceve la sua impronta già attraverso la nascita. Nascita e morte formano una configurazione complessiva: il limite, ma per questo anche il carattere dell'esistenza individuale (vedi l'appena citato passo di Empedocle). La morte non significa solo la dissoluzione dell'organismo in quanto materia, ma il ritorno dell'essere in quell'ambito da cui è scaturito con la nascita: la zona a noi sottratta della natura. Questa viene definita in diversi modi: come l'altezza del cielo oppure come l'interiorità della terra.

Per il contesto del motivo del fiume, essa è situata nella zona interna del mondo. Ciò si esprime nel concetto di inclinazione della vita: il fiume della vita scorre «all'ingiù». Il punto finale del suo moto è la morte. Il traguardo del fiume è costituito dal mare, o dallo stato di dissoluzione dell'organismo, o da qualsiasi altra conclusione del movimento totale. Ma dietro a questo traguardo appare un altro «dove», metafisico,

184 Secondo cerchio - L'uomo e la storia

più precisamente religioso, ossia la zona intema a noi sottratta del mondo. L'inno II Reno mostra chiaramente che il traguardo-caduta del fiume allude da ultimo ad una profondità assoluta, al centro del tutto:

[...] e se in quella fùria

Un più grande non lo ammansisse,

Se lo lasciasse crescere, come folgore

Fenderebbe la terra, e i boschi per incanto

Dietro lui ruggirebbero e i monti frananti.

[...] und wenn in der Eil / Ein GróBerer ihn nicht zàhmt, / Ihn wachsen laBt, wie der Blitz muB er / Die Erde spalten, und wie Bezauberte fliehn / Die Wàlder ihm nach und zu-sammensinkend die Berge (II, p. 144; tr. it. dt., p. 197).

Quanto più la vita è potente, tanto più forte è l'anelito verso quel centro del tutto e tanto più rapida è la corsa in quella dirczione.

L'esistenza eroica vuole vivere incondizionatamente. In tal modo essa possiede una relazione essenziale con la morte, poiché tutte le forme dell'incondizionato sono modi del perire. L.'ethos eroico è tragico poiché solo morendo ottiene quella perfezione ad esso assegnata dalla nascita. La poesia già più volte menzionata, Voce del popolo esprime questo contenuto in modo molto chiaro (i, supra, p. 39). A partire dall'esperienza umana, esso è descritto nella Morte di Empe-docle. Empedocle per un momento si è attribuito il favore degli dèi, ma non con tutto il cuore, così può ritrovarsi e decidersi alla espiazione. Nello stesso momento riottiene il favore divino. Certo, sotto forma di luce che deve illuminare il suo ultimo cammino; ma questo cammino era già prestabilito dal suo stesso essere. In tal modo quella luce viene dalla stessa fonte

I morti e il passato 185

da cui scaturisce il «primo raggio» della nascita (IV,

infra, p. 577).

È maturato il tempo. Palpita, o cuore mio, muovi le tue onde, giacché lo spirito sta sopra di tè come astro luminoso, mentre in ciclo trasmigrano le nubi senza patria, sempre in fuga. Che sento? Mi stupisco come se la mia vita cominciasse, perché tutto è diverso e solamente ora

10 sono. Sono ... e per questo dunque un desiderio ardente

d assaliva mentre riposavi, ozioso, nella tua quiete religiosa?

Per questo la vita d fu così lieve,

perché tu del vincitore infine le gioie tutte trovassi

in un'unica, ma perfetta azione?

Vengo. Morire? Un solo passo mi separa dalle tenebre,

ma tu, occhio mio, vorresti ancora vedere.

Concluso è il tuo servizio solerte!

Ora è necessario che la Notte per qualche tempo

copra di ombre la mia fronte.

Ma gioiosa ora si libera la fiamma

dal mio coraggio. Un brivido di desiderio!

Come? La morte infine infiamma

la mia vita? e tu, Natura, mi porgi

11 calice tremendo e spumeggiarne, affinchè il tuo sacerdote possa berne ancora l'entusiasmo supremo!

Es wird! gereift ists! o nun schlage, Herz, / Und rege dei-ne Wellen, ist der Geist / Doch ùber dir, wie leuchtendes Gestirn, / Indes des Himmeis heimados Gewólk, / Das im-merflùchtige, vorùberwandeit / Wie ist mir? staunen mu6 ich noch, als fing / Ich erst zu leben an, denn ali ists an-ders. / Und jetzt erst bin ich, bin - und darum wars, / DaB in der frommen Ruhe dich so oft, / Du MùBiger, ein Sehnen ùberfiel? / O darum ward das Leben dir so leicht, / Da6 du des Ùberwinders Freuden ali / In einer vollen Tat am Ende fàndest? / Ich komme. Sterben? nur ins Dun-

186 Secondo cerchio - L'uomo e la storia

kel ists / Ein Schritt. Und sehen móchtst du doch, mein Auge! / Du hast mir ausgedient, dienstfertiges! / Es muB die Nacht itzt eine Weile mir / Das Haupt umschatten. Aber freudig quillt / Aus mutger Brust die Fiamme, Schauderndes / Verlangen! Was? am Tod entzùndet mir/ Das Leben sich zuletzt, und reichest du / Den Schreckens-becher mir, den gàrenden, Natur! damit dein Priester nodi aus ihm / Die lezte der Begeisterungen trinke! (m, pp. 162-163; tr. it. cit-, p. 153).

Ma la morte può anche significare l'essere assunti nella sfera a noi sottratta dell'alto, come nella poesia

All'Etere:

[...] Anela il mio cuore •

Meravigliosamente d'ascendere a loro: una patria amorevole

Di lassù mi sorride: e sovra i picchi dell'alpe

Vorrei valicare e dar voce di là all'aquila veloce,

Perché come già nelle braccia di Giove il fandullo beato5

Fuori di prigionia mi tragga alla volta dell'Etere.

[...] es sehnt sich auch mein Herz / Wunderbar zu ihnen hinauf: wie die freundiiche Heimat / Winkt es von oben herab und auf die Gipfel der Alpen / Mócht ich wandern und rufen von da dem eilenden Adier, / DaB er, wie einst in die Arme des Zeus den seligen Knaben, / Aus der Ge-fangenschaft in des Athers Halle mich trage (i, p. 205; tr. it. dt., p. 19).

Quest'altezza è dapprima quella spaziale, la chiara vastità dell'aria; contemporaneamente però una zona a noi sottratta del mondo. La zona della profondità era collegata a quella della vita attraverso l'immagine del fiume e della sua discesa, l'amore divenne «anelito misterioso verso l'abisso». Ciò che unisce la zona dell'alto con la vita è la rappresentazione della crescita che si eleva verso l'alto, nonché il desiderio di farsi lie-

I morti e il passato 187

vi, come si desume dalla poesia dedicata all'Etere. La vita qui è superamento del peso; la sua dinamica interna è nostalgia apollinea per la zona dell'ideale», dove valore ed essere, in quanto costituiscono «l'alto», sono una cosa sola; l'accesso alla perfezione è la morte.

Come l'uomo singolo fa esperienza della nascita, dell'ascesa, del culmine e della fine, così anche il popolo e con esso la sua opera, il suo tempo e la sua cultura (i, supra, p. 38). I popoli sono grandi esseri viventi, «fiumi», in un senso ancora maggiore del singolo - vedi nuovamente la poesia Voce del popolo.

Dopo aver parlato della diligenza nel lavoro si dice:

L'illimitato affascina e anche i popoli

Son presi dal gusto della morte, e le audad

Città, dopo aver cercato il meglio,

Di anno in anno continuando l'opera, Hanno incontrato una fine sacra; verdeggia la terra, E quieta sotto le stelle giace la lunga arte, come Gli oranti, gettata sulla sabbia del deserto,

Per suo volere vinta

Di fronte a quelle inimitabili; lui stesso, L'uomo, di propria mano ha spezzato, Per onorare gli dèi, la sua opera d'artista.

Das Ungebundne reizet und Vólker auch / Ergreift die Todeslust und kùhne / Stàdie, nachdem sie versucht das' Beste, // Von Jahr zu Jahr forttreibend das Werk, sie hai / Ein heilig Ende troffen; die Erde grùnt / Und stille vor den Sternen liegt, den / Betenden gleich, in den Sand ge-worfen // Freiwillig ùberwunden die lange Kunst / Vor jenen Unnachahmbaren da; er selbst, / Der Mensch, mit eigner Hand zerbrach; die / Hohen zu ehren, sein Werk der Kùnstler (II, pp. 51-52).

188 Secondo cerchio - L'uomo e la storia

Questo popolo è stato giovane, per poi «continuare la sua opera», maturando e lavorando. Infine, al vertice della sua esistenza, è stato colto dalla «sacra follia» compiendo il passo dionisiaco verso la morte.

Tale fine è permessa al popolo - come anche al singolo - solo in seguito ad una particolare destinazione; di regola deve mantenersi entro gli argini dell'esistenza. ma anche qui sopraggiunge la fine. L'essere collettivo d'un popolo con la sua vita e la sua creazione, la cultura e gli dèi ad esso correlati, costituisce un tutto unico. Esso entra nella storia, sviluppandosi e raggiungendo il proprio culmine - L'Arcipelago descrive tale culmine - per poi declinare verso la fine. Pur dalle costruzioni che ancor sussistono la vita, lo spirito se ne va. L'interno perde la propria forza e non riesce più a creare ulteriormente. Il tempo prestabilito, identico con la vita stessa, è scaduto -a volte già prima della distruzione esteriore che rende solo visibile ciò che all'intemo è già accaduto. Così dice Iperione:

Anche questo spirito era già morto prima che i distruttori sopravvenissero sull'Attica. Solo quando i templi e le case sono deserte, le fiere selvagge osano inoltrarsi oltre le porte e per le strade (II, 194; tr. it. cit., pp. 105-106).

Empedocle sull'Etna (seconda versione deìl'Empedocle):

Colsi con orrore il senso di tutto questo:

il dio si separava dal mio popolo!

L'udii allontanarsi e alzai lo sguardo all'astro silenzioso

da cui era disceso. Andai allora per offrirmi a lui in espiazione.

Dopo si ebbero ancora molti giorni splendidi.

Parve alla fine un rinnovamento, e ricordando

l'età dell'oro, in cui regnava sovrana

I morti e il passato 189

la fiducia, il mattino chiaro e forte,

il disgusto, tremendo, del popolo per me cedette

e stringemmo legami saldi e liberi.

Ma, se per gratitudine m'incoronava il popolo,

se a me si univa sempre più intimamente,

e solo a me, spesso ne provai turbamento:

quando un paese deve morire, alla fine

10 spirito si sceglie ancora un ultimo eletto in cui si levi il suo canto di agno, l'estrema vita.

Da faBte mich die Deutung schaudernd an, / Es war der scheidende Gott meines Volks! / Den hórt ich, und zum schweigenden Gestim / Sah ich hinauf, wo er herabge-kommen. / Und ihn zu sùhnen, ging ich hin. Noch wur-den uns / Der schónen Tage viel. Noch schien es sich / Am Ende zu verjùngen; und es wich, - / Der goldnen Zeit, der allvertrauenden, / Des hellen kràftgen Morgens einge-denk, - / Der Unmut mir, der furchtbare, vom Volke, / Und freie feste Bande knùpften wir. / Doch oft, wenn mich des Volkes Dank bekrànzte, / Wenn nàher immer roir, und mir allein, / Des Volkes Seele kam, befiel es mich. / Denn wo ein Land ersterben soli, da wàhit / Der Geist noch Einen sich am End, durch den / Sein Schwa-nensang, das letzte Leben tónet (m, pp. 222-223; tr. it. cit., pp. 239-241).

Nel modo più bello Germania:

Dèi dileguati! e anche voi del presente, una volta Più veri, aveste il vostro tempo! Niente io qui voglio negare e niente implorare. Poiché se giunta è la fine e il giorno spento, Primo colpito è il sacerdote, ma per amore lo segue

11 tempio e poi l'immagine e i suoi riti

Nel buio regno e nessuna luce può apparire più:

Solo, come da fiammate di sepolcro, un fumo d'oro, La leggenda allora trapassa al di là, nell'alto

190 Secondo cerchio - L'uomo e la storia

E adesso balena, a noi dubbiosi, intorno al capo, E nessuno sa più che gli accada [...]

Entflohene Getter! auch ihr, ihr gegenwàrtigen, damais / Wahrhaftiger, ihr hattet eure Zeiten! / Nichts leugnen will ich hier und nichts erbitten. / Denn wenn es aus ist, und der Tag erioschen, / Wohi triffts den Priester erst, doch liebend folgt / Der Tempel und das Bild ihm auch und seine Sitte / Zum dunkein Land und keines mag noch scheinen. / Nur als von Grabesflammen, ziehet dann / Ein goldner Rauch, die Sage drob hinùber, / Und dàm-mert jetzt uns Zweifeinden um das Haupt, / Und keiner weifi, wie ihm geschieht [...] (il, p. 149; tr. it. dt, p. 206).

Ciò che muore non viene quindi distrutto, ma passa dall'ambito dell'immediatamente dato a quello di ciò che a noi sottratto. Così tra esso e ciò che è terreno non avviene una rottura assoluta, esso rimane bensì nel mondo, del cui contesto generale fa parte anche la storia. L'ambito a noi sottratto, come abbiamo già visto, è collocato in una dirczione diversa: sopra, nello spazio della vastità e della luce verso cui anela l'amore-luce; nel «cielo azzurro» dove dimorano gli uomini-dèi, oppure al centro profondo, nell'ambito intcriore del tutto verso cui scorre il fiume. Anche lo stato in cui ci si trova viene caratterizzato in modo differente. Può significare gloriosa magnificenza metafisica. In tal caso l'ambito è il «paese dei beati» come nei versi Al genio; oppure il luogo in cui «la gioia dello spirito divino rida giovinezza a chi invecchia, a tutti coloro che muoiono», come in / dormienti. L'ambito può anche essere determinato dalla separazione e dal lutto, come nel Lamento di Menane per Diotima, ed allora esso è «orribile notte». Oppure esso riveste il carattere di ciò che è abietto e riprovato:

«poiché aveva a cuore solo cose mortali, la turba s'im-

I morti e il passato 191

nierse nell'Orco», come il poeta ha scritto nell'abbozzo d'una più grande elegia rimasta incompiuta (I, p. 596). La visione non rimane quindi identica; l'espressione oscilla. Comunque lo stato si rapporta in qualche modo alla precedente esistenza terrena e al carattere della condotta di vita. Evidentemente influisce anche la dottrina cristiana della vita dopo la morte.

II

Ciò che una volta esisteva sotto spoglie nobili - gli uomini puri nonché le culture ben formate - continua ad esistere nell'ambito a noi sottratto del mondo, mantenendosi in relazione con ciò che è adesso. Questo è affermato in modo molto efficace a proposito dell'uomo singolo dalla poesia II ritratto dell'avo:

Placido avo! Tu pure vivesti e amasti così;

Perciò ora soggiorni, come immortale

Con i nipoti, e vita ,

Come dal silenzioso Etere scende

Sulla casa sovente, uomo tranquillo, da tè

E s'accresce, si matura più nobile d'anno in anno

In felicità modesta

Ciò che hai piantato con le speranze.

Quelli che con amore crescesti, verdeggiano Come allora i tuoi alberi, cingon la casa con braccia Colme di doni riconoscenti, Più sicuri si ergono i tronchi [...]

Ma sotto, nella casa riposa, da tè curato, Lo stagionato vino. Caro è al figlio Che se lo tiene in serbo per la festa,

192 Secondo cerchio - L'uomo e la storia

II vecchio fuoco pretto.

E al notturno convito, quando serio e faceto Molto avrà del passato e del futuro Con gli amia discorso, Sull'echeggiare dell'ultimo canto,

Alto leverà il calice al tuo ritratto e dirà:

Ti ricordiamo ora e così si conservi Con voi l'onor della casa, Buoni Genii, adesso e sempre!

A ringraziarti squillano scintillando i cristalli;

E la madre, oggi, per la prima volta,

Perché lui pure sappia della festa, .

Al piccino porge il tuo sorso.

Stiller Vater! auch du lebtest und liebtest so; / Darum wohnest du nun, als ein Unsterbiicher, / Bei den Kindern, und Leben, / Wie vom schweigenden Àther, kommt // Òfters ùber das Haus, ruhiger Mann! von dir, / Und es mehrt sich, es reift, edier von Jahr zu Jahr, / In bescheide-nem Glùcke, / Was mit Hoffnungen du gepflanzt. // Die du liebend erzogst, siehe! sie grùnen dir, / Deine Bàume, wie sonst, breiten ums Haus den Ami, / Voli von danken-den Gaben, / Sichrer stehn die Starnine schon; // [...] Aber unten im Haus ruhet, besorgt von dir, / Der gekel-terte Wein. Teuer ist der dem Sohn, / Und er sparet zum Fest das / Alte, lautere Feuer sich. // Dann beim nàchtii-chen Mahi, wenn er, in Lust und Ernst, / Von Vergange-nem viel, vieles von Kùnitigem / Mit den Freunden gè-sprochen, / Und der letzte Gesang noch hallt, // Hàlt er hóher den Kelch, siehet dein Bild und spricht: / Deiner denken wir nun, dein, und so werd und bleib / Ihre Ehre des Hauses / Guten Genien, hier und sonst! // Und es to-nen zum Dank hell die Kristall dir; / Und die Mutter, sie reicht, beute zum erstenmal, / DaB es wisse vom Feste, / dem Kinde von deinem Trank (il, pp. 30-31; tr. it. dt, p. 59).

I morti e il passato 193

Nella poesia ci sono alcuni elementi importanti. In primo luogo, il modo in cui vengono alla luce i diversi strati del «ricordo»: il quadro è attaccato alla parete; ci si ricorda dell'uomo ivi raffigurato; nella memoria e nel sentimento dei suoi, nella casa e nella proprietà della famiglia egli continua a vivere ...

Ma poi, dietro queste relazioni di pensiero psicologiche se ne impone un'altra. Alla fine, egli stesso è presente, in modo talmente immediato e deciso da far diventare vita e opera quotidiana sua ciò che continua nella vita e nel lavoro del figlio e del nipote ...

In termini nuovi questo riferimento si manifesta alla fine, dove viene celebrata la «festa» (ili, infra, p. 402). Ciò che accade è più di una festa di famiglia. Il significato originario della cena commemorativa quale azione cultuale, a cui i festeggiati invisibilmente partecipano, diventa evidente. Di qui scopriamo anche nel rapporto con il quadro alla parete un contenuto che trascende la spiritualità borghese moderna:

un'ultima traccia del culto per gli avi, celebrato davanti alle loro immagini.

Questo contenuto ritoma sotto la forma dell'elegia, melanconico e sospeso nell'indeterminato, nel

Lamento di Menane per Diotima:

Sì, non giova, o dèi di morte! una volta che voi

Lo tenete e lo avete in pugno l'uomo domato,

Quando, o malvagi, giù nell'orrida notte lo avete preso,

Non giova tentare la fuga o adirarsi contro di voi,

O anche pazienti vivere nel pauroso confino

E con sorrisi ascoltare il vostro frigido canto.

Se così ha da essere, scorda il tuo bene, e assopisciti zitto!

Ma pure su dal petto un suono di speranza tt sgorga.

194 Secondo cerchio - L'uomo e la storia

Non puoi, o anima mia, non puoi tu a questo per sempre

Abituarti, e dentro al ferreo sonno tu sogni!

Per me non è festa, eppure vorrei mettermi in capo ghirlande;

Non sono dunque solo? [...]

Ja! es frommet auch nicht, ihr Todesgótter! wenn einmal / Ihr ihn haltet, und fest habt den bezwungenen Mann, / Wenn ihr Bósen hinab in die schaurige Nacht ihn genom-men, / Dann zu suchen, zu flehn, oder zu zùmen mit euch, / Oder geduldig auch wohi im furchtsamen Banne zu wohnen, / Und mit Làchein von euch hóren das nùchteme Lied. / Soli es sein, so vergiB dein Heil, und schiummere klanglos! / Aber doch quillt ein Laut hoffend im Busen dir auf, / Immer kannst du noch nicht, o meine Seele! noch kannst du's / Nicht gewohnen, und tràumst mitten im eisernen Schlaf! / Festzeit hab ich nicht, doch mócht ich die Locke bekrànzen; / Bin ich allein denn nicht? [...] (il, p. 75; tr. it. cit., p. 119).

Nel pieno del lutto viene vissuta la vicinanza della persona amata che è reale nonostante la separazione sopravvenuta poco tempo prima. Essa culmina in questi versi mirabili:

[...] ma un che di amichevole deve

Da lontano vicino essermi, e sorridere debbo e stupire

Che tanto felice anche in mezzo al dolore io mi sento. ,

[...] aber ein Freundiiches muB/ Fernher nahe mir sein, und làchein muB ich und staunen, / Wie so selig doch auch mitten im Leide mir ist (II, pp. 75-76; tr. it. cit., p. 119).

Pur nella loro tenerezza sospesa, queste parole sono assolutamente precise, dal momento che non provengono da un'esperienza meditativa o lirico-emotiva, bensì da un'esperienza autenticamente religiosa. Attraverso di essa colui che la compie sperimenta la

I morti e il passato 195

realtà di quanto è a noi sottratto. E vicino nell'amore;

ma «da lontano», in modo tale da far sentire l'inaccessibilità di quell'ambito. Questa inaccessibilità consiste nello stato stesso di ciò che è a noi sottratto. E la lontananza numinosa il cui alito fa tremare - allo stesso tempo suscita però lo stupore beato poiché «in mezzo al dolore» viene percepita come grazia pura ... La stessa esperienza vissuta chiude YIperione:

Un giorno sedevo lungi in un campo, accanto a una fonte, all'ombra di rupi verdi di edera, sotto pendenti cespugli fioriti. Era il più bei meriggio che io avessi conosduto. Spiravano dola aure e la terra splendeva ancora nella luminosa freschezza del mattino e calma sorrideva la luce nel suo etere nativo. Gli uomini si erano allontanati, per riposare dal lavoro, al desco casalingo, il mio amore era solo con la primavera e un'incomprensibile nostalgia era in me. «Dio-tima», esclamai, «dove sei, dove sei tu?». E mi pareva di udire la voce di Diotima, quella voce che, un tempo, nei giorni della gioia, mi aveva allietato. «Presso i miei», esclamò, «sono io, presso i tuoi che lo smarrito spirito umano misconosce». Mi colse uno sgomento soave, e il pensiero si oscurò in me. «O amata parola da una sacra bocca», esclamai, appena fui di nuovo desto, «amato enigma, ti afferro?» (il, pp. 289-290; tr. it. dt., p. 177).

In dimensioni maggiori, quindi non a proposito di singoli, nemmeno di una famiglia, ma di un popolo intero, l'esperienza ritoma nell'elegia Stoccarda:

Ma mentre noi guardando passiamo attraverso gioie si forti, La via s'invola e il giorno da noi, come dagli ebbri. E già coronata di sacri tralci solleva splendendo La città lodata il suo capo di sacerdotessa. Stupenda ella s'erge e tiene il suo tirso e l'abete -

196 Secondo cerchio - L'uomo e la storia

Alto nelle beate purpuree nubi levato. A noi sii propizia! all'ospite e al figlio, principessa della patria

[...]

Ma Voi, Voi anche, o Grandi, Voi lied che in ogni tempo

Vivete e reggete, riconosciuti, o anche più vigorosi

Quando operate e create in sacra notte, soli regnando

E onnipotenti allevate un profetico popolo,

Finché dei padri lassù si ricordino gli adolescenti,

E maggiore in età, illuminato, vi stia innanzi l'uomo di senno.

Angeli della patria! o Voi, dinanzi ai quali la vista Anche se forte e il ginocchio cede all'uomo isolato, Così ch'egli deve poggiarsi agli amia e i cari pregare Che portino insieme con lui tanto peso di felidtà;

Io vi rendo, o Benigni, grazie per lui e per tutti gli altri Che la mia vita, il mio bene fra i mortali sono.

Aber indes wir schaun und die màchtige Freude durch-wandein, / Fliehet der Weg und der Tag uns, wie den Trunkcnen, liln. / Denn mit heiligen Laub umkrànzt erhe-bet die Stadt schon, / Die gepriesene, dort leuchtend ihr priesterlich Haupt. / Herrlich steht sie und hàlt den Re-benstab und die Tanne / Hoch in die seligen purpurnen Wolken empor. / Sei uns hold! dem Gast und dem Sohn, o Fùrstin der Heimat! [...] Aber ihr, ihr GróBeren auch, ihr Frohen, die allzeit / Leben und walten, erkannt, oder ge-waltiger auch, / Wenn ihr wirket und schafft in heiliger Nacht und allein herrscht / Und allmàchtig empor ziehet ein ahnendes Volk, / Bis die Jùnglinge sich der Vàter dro-ben erinnern, / Mùndig und hell vor euch steht der be-sonnene Mensch - // Engel des Vateriand! o ihr, vor de-nen das Auge, / Sei's auch stark, und das Knie bricht dem vereinzelten Mann, / DaB er halten sich muB an die Freund' und bitten die Teueren, / DaB sie tragen mit ihm ali die beglùckende Last, / Habt, o Gùtige, Dank fùr den und alle die andern, / Die mein Leben, mein Gut unter den Sterbiichen sind (II, pp. 88-89; tr. it. dt., p. 132).

I morti e il passato 197

L'intera poesia è permeata dall'incantesimo dionisiaco. Non a caso nel corteo dei festeggiati emerge quello di Dioniso stesso. Non è una singola famiglia a festeggiare, ma un gruppo di amici, a sua volta completamente immerso nella vita del popolo. La festa ha luogo precisamente in Svevia, al cospetto della capitale, come ricordo dei «Grandi», «lieti». Le parole non sono di tipo profano, ma cultuale e si riferiscono alla gloria olimpica degli eroi della patria ... Di un periodo successivo è la poesia Lo scorcio di Hahrdt6:

Giù precipita il bosco,

Simili a gemme inclinano,

Involute, le foglie,

Che in basso, al fondo,

Fioriscono, e non senza voce.

Qui infatti

Camminò Ulrich; sul passo medita spesso

Un grande destino,

Pronto già a un altro luogo.

Hinunter sinket der Wald, / Und Knospen àhniich, hàn-gen / Einwàrts die Blatter, denen / Blùht unten auf ein Grund, / Nicht gar unmùndig. / Da namlich ist Ulrich / Gegangen; oft sinnt, ùber den FuBtritt, / Ein gro6 Schick-sal/ Bereit, an ùbrigem Orte (n, p. 116).

Si scende, davanti agli sguardi il bosco «precipita». Anche le foglie sono inclinate; è primavera, sono ancora involute. Tutto compie la discesa verso il «fondo»: il fondo alle radici dell'albero, quello giù nella valle, ma anche quello che sta nella profondità dell'esistenza, al di sotto questo luogo, lo «scorcio di Hahrdt», dove una volta sono accadute grandi cose;

«qui», ma allo stesso tempo altrove. Questo fondo

198 Secondo cerchio - L'uomo e la storia

non è «senza voce», muto, ma capace di parlare dell'esiliato signore della terra, «Ulrich», che un tempo vi «camminò». Successivamente il dato di questo avvenimento si eleva alla dimensione mitica. Al posto di «Ulrich» appare «un grande destino». Esso stesso è un essere. Esso «sul passo medita», sul luogo toccato dal piede di quest'uomo - affiora l'antico significato magico della traccia. Inoltre, esso è «pronto», vigile, deciso, in grado di immettersi in una nuova storia ... Questa concomitanza di partenza e permanenza è presente anche nell'elegia qui analizzata. I padri sono «antichi» e, perché circondati dal mistero, i «Grandi». Essi se ne sono andati, eppure «vivono e regnano», quando vengono riconosciuti, ma soprattutto quando nessuno sa di loro, e la loro opera si compie nella «notte sacra», nell'occulto delle grandi potenze. Il popolo li presagisce e ne è «allevato» fino al momento in cui si ha la nuova consapevolezza, dando luogo al-l'«uomo sapiente» che, pervenuto alla frónesis, conosce le cose del popolo e dello Stato.

Quei «Grandi» vengono chiamati «angeli della patria». Il concetto deriva certo da quello biblico, come lo interpretano le lettere nella prima parte dell'Apocalisse (1, 4—3, 22) che iniziano tutte con il titolo: «All'angelo della comunità ...». Anche la concezione di angeli propria di determinati paesi dovrebbe avervi il suo peso, vedi per esempio Dan 10, 13, ma anche quella dell'«Angelo del Signore» che guida la storia sacra (Es 14, 19 e altrove). Ma queste rappresentazioni si sono allargate a dimensioni cosmico-mitologi-che, fondendosi con quelle sviluppate sopra. Gli «angeli» rappresentano ora grandi personalità nella storia di un paese, trasfigurate, divinizzate, ma pro-

I morti e il passato 199

prio in quanto tali volte all'amore ed alla protezione del paese. Esse sono esseri di superiore potenza. L'«uomo singolo» non regge la loro presenza. Vi riesce solo nel contesto vivente del suo popolo: durante la festa, nella lotta o in qualche altra realizzazione essenziale dell'esistenza collettiva. Anche sotto questo aspetto diventa evidente che quegli esseri non sono concepiti in modo individualistico e privatistico, ma storico, come potenze pubbliche e religiose ... Essi riappaiono nella poesia Ritomo in patria:

Molto gli ho parlato, poiché quanto poeti meditano O cantano, per lo più concerne gli angeli e Lui [...]

Vieles sprach ich zu ihm, denn, was auch Dichtende sin-nen / Oder singen, es gilt meistens den Engein und ihm [...] (II, p. 97; tr. it. dt., p. 145).

«Lui», «l'Etere», che, come si dice prima, da vita, gioia e nuova forza storica:

Solida fortuna alle ritta e alle case, e miti

Piogge a dischiudere i campi, e covanti nuvole, e voi,

Care brezze, voi, dola primavere, manda;

E con lenta mano i trisd di nuovo fa lieti

Quando innova i tempi, il creante, e i muti

Cuori dell'umanità vecchia ristora e scuote

E giù nel profondo opera e apre e rischiara,

Come egli ama; e adesso di nuovo una vita comincia,

La grazia rifiorisce come un tempo, toma presente lo Spirito

Ed un allegro coraggio di nuovo le ali rigonfia.

Wohigediegenes Glùck den Stàdten und Hàusern und mil-de / Regen, zu óffnen das Land, brùtende Wolken, und euch, / Trauteste Lùfte dann, euch, sanfte Frùhiinge, sen-det, / Und mit langsamer Hand Traurige wieder erfreut, /

200 Secondo cerchio - L'uomo e la storia

Wenn er der alternden Menschen erfrischt und ergreift, / Und hinab in die Tiefe wirkt, und óffnet und aufhellt, / Wie ers liebet, und jetzt wieder ein Leben beginnt, / An-mut blùhet, wie einst, und gegenwàrtiger Geist kómmt, / Und ein freudiger Mut wieder die Fittiche schwellt (il, p. 97: tr. it. dt, p. 145)7.

Come i grandi individui, anche l'insieme di un tempo tramontato dev'essere considerato nel contesto della propria cultura.

'L'Iperione è permeato dalla consapevolezza che la Grecia scomparsa esista ancora. Come un trapassato, essa continua ad esistere: il suo popolo, i suoi eroi e le sue idealità, le sue città, i templi e le immagini e, indissolubilmente legati a questi, i suoi dèi. Anche L'Arcipelago ha questa concezione. Abbiamo pure già esaminato il testo di Germania dove si parla del passare d'un'esistenza collettiva: ciò che passa è la Grecia.

Questo grande essere è riferito alla storia ora in atto. Nel romanzo il punto di riferimento è costituito dalla Grecia al tempo di Hólderlin, ridotta in schiavitù e oltraggiata. Nelle poesie degli ultimi anni, invece, non si parla più della Grecia contemporanea, bensì della Germania. Ad essa si avvicina l'esistenza ellenica, «vicina nella lontananza».

Germania:

Sente

L'ombre di coloro, che sono già stati,

Gli antichi, e che la terra tornano a visitare.

Poiché quelli che là debbono giungere, incalzano noi

E non può indugiare di uomini-dèi

La sacra schiera ancora nell'alto azzurro.

I morti e il passato 201

[...] Die Schatten derer, so gewesen sind, / Die Alten, so die Erde neubesuchen. / Denn die da kommen sollen, dràngen uns, / Und lànger sàumt von Góttermenschen / Die heilige Schar nicht mehr im blauen Himmel (n, pp. 149-150; tr. it. dt., p. 207).

Ciò che è stato dimora in un ambito del mondo che, pur a noi sottratto, fa parte del suo intero. Non si intende perciò dire che la materia di ciò che fu un tempo si sia dissella nella totalità del mondo o che continui a persistere nel contesto della storia come causa. Non lo si interpreta nemmeno come immagine spirituale che, situata nell'ambito ideale, generi nuove creazioni. Ma il rapporto non si configura nemmeno secondo l'accezione cristiana dell'aldilà autentico che lo considererebbe trasportato nel regno di ciò che è riservato a Dio e quindi tolto al mondo. La zona sottratta a noi di cui si tratta qui fa parte del mondo stesso, in quanto «altezza» o «interiorità». L'unico intero del mondo è «qui», ma allo stesso tempo anche «là». In questo «là» si trova il passato, influendo sul nostro «qui» - fino all'irruzione di cui ancora si parlerà8.

Ili

È il vate a sapere di questi legami. D termine è riferito dapprima al singolo chiamato che sente, vede, interpreta e «fonda». Hólderlin parla spesso di lui, della grandezza a lui destinata, ma anche della sorte tremenda che grava su di lui. Così in Vocazione del poeta:

Eppure, o tutti voi, numi del Cielo, E voi sorgenti e rive e boschi e alture

202 Secondo cerchio • L'uomo e la storia

Dove la prima volta il prodigioso, • Prendendoci ai capelli, inobliabile,

II Genio creatore, all'improvviso, Su noi piombò divino, e ne restammo Stupiti e muti, e come dalla folgore Colpite d tremarono le ossa,

O gesta senza pace del vasto mondo, Giorni fatali e travolgenti, in cui il dio Pensieroso ci guida ove ebbri d'ira Lo portano i titanici cavalli,

Di voi dovremmo tacere? [...]

Und dennoch, o ihr Himmlischen ali, und ali / Ihr Quel-len und ihr Ufer und Hain' und Hóhn, / Wo wunderbar zuerst, als du die / Locken ergriffen, und unvergeBUch // Der unverhoffte Genius ùber uns, / Der schópferische, góttliche kam, da6 stumm / Der Sinn uns ward und, wie vom / Stranie gerùhrt, das Gebein erbebte, // Ihr ruhelo-sen Taten in weiter Welt! / Ihr Schicksalstag', ihr reiBen-den, wenn der Gott / Stillsinnend lenkt, wohin zorntrun-ken / Ihn die gigantischen Rosse bringen, // Euch sollten wir verschweigen [...] (il, pp. 46-47; tr. it. dt., p. 93).

La mia proprietà:

Ah, con troppo impeto mi aspirate, abissi Del delo; in tempeste, nel giorno sereno, Passare divoranti nel mio petto Vi sento, o alterne forze degli dèi.

Zu màchtig, ach! ihr himmlischen Hóhen, zieht / Ihr mich empor; bei Stùrmen, am heitem Tag / Fùhl ich verzehrend euch im Busen / Wechsein, ihr wandeinden Gótterkràfte (i, p. 307; tr. it. dt., p. 43).

I morti e il passato 203

Grandi cose si chiedono al vate; Vocazione del poeta:

Ma, senza timore, quando deve, rimane solo L'uomo davanti a Dio, difeso dal suo candore E non abbisogna di armi ne di astuzie, Finché Dio lo aiuta, mancandogli.

Furchdos bleibt aber, so er es mu6, der Mann / Einsam vor Gott, es schùtzet die Einfalt ihn, / Und keiner Waffen brauchts und keiner / Usten, so lange, bis Gottes Fehi hiift (II, p- 48; tr. it. dt., p. 93).

I passi citati e molti altri mostrano che questo contemplare non è diretto ne verso la vita individuale ne generali circostanze cosmiche, ma sempre verso il corso della storia e il divino che si esprime in esso. Nell''Arcipelago si dice:

Ma tu, immortale, se anche l'inno dei Greci non più Ti celebra come una volta, o dio del mare, risuonami Dai flutti sovente nell'anima ancora, che sopra le acque Intrepido lo spirito, come nuotatore, si addestri Nell'aspra gioia dei forti, e la lingua degli dèi, l'Alternarsi E il Divenire, intenda: e quando la corrente del tempo Troppo violenta il capo mi afferri, e lo stento e il vagare Fra mortali il mio mortale vivere scrolli, Fa' che la pace allora nel tuo profondo io ricordi.

Aber du, unsterbiich, wenn auch der Griechengesang schon / Dich nicht feiert, wie sonst, aus deinen Wogen, o Meergott! / Tóne mir in die Seele noch oft, da6 ùber den Wassern / Furchtiosrege der Geist, dem Schwimmer gleich, in der Starken / Frischem Glùcke sich ùb, und die Gòttersprache, das Wechsein / Und das Werden versteh;

und wenn die reiBende Zeit mir / Zu gewaltig das Haupt ergreift und die Not und das Irrsal / Unter Sterbiichen mir mein sterbiich Leben erschùttert, / LaB der Sulle

204 Secondo cerchio - L'uomo e la storia

mich dann in deiner Tiefe gedenken! (il, pp. 111-112; tr. it-cit., p. 117).

Ma ciò che pervade il vate in modo da renderlo «aperto» e capace di vedere, lo spirito, è la stessa potenza che opera, «l'Alternarsi e il Divenire», la potenza della storia stessa. Nel capitolo precedente il tempo è stato definito come una potenza attiva nel vivente, come scorrere intcriore della vita stessa. Qui esso appare sopra il fiume della vita, sospeso in un'altezza dominatrice (ili, infra, p. 292).

Lo spirito del tempo:

Già da troppo tu domini sopra il mio capo. Tu nella oscura nuvola, dio del Tempo! troppo furore è intorno e angoscia, ovunque Io guardi, tutto va in frantumi o vacilla.

Ah!, come un fanciullo mi affiso al suolo sovente, Cerco uno scampo da tè nella grotta e vorrei, Stolto, trovare un luogo Dove non fossi tu che tutto sconvolgi!

Concedimi infine, o padre, d'affrontarti Con fermo aglio! Non hai dunque, per primo, lo spirito Suscitato in me col tuo raggio? non m'hai Splendidamente alla vita portato, o padre!

Zu lang schon waltest ùber dem Haupte mir / Du in der dunkein Wolke, du Gott der Zeit! / Zu wild, zu bang ists ringsum, und es / Trùmmert und wanktja, wohin ich blic-ke. // Ach! wie ein Knabe, seh ich zu Boden oft, / Such in der Hóle Rettung von dir, und mócht, / Ich Bloder, eine Stelle finden, / Alleserschùtter! wo du nich wàrest. // LaB endiich, Vater! offenen Augs mich dir / Begegnen! hast denn du nicht zuerst den Geist / Mit deinem Strani aus

I morti e il passato 205

rnir geweckt? midi / Herrlich ans Leben gebracht, o Va-

ter! - (i, p. 300).

Dietro la figura del «vate» appare quella del profeta nell'Antico Testamento. Ciò si ricava da molti passi, in particolar modo da Affante del Danubio (già citato, p.55):

E pensiamo anche a voi, valli del Caucaso, Antiche quanto siete, a voi paradisi di là E ai tuoi patriarchi, ai tuoi profeti,

Asia, ai tuoi forti, o madre!

Che impavidi innanzi ai segni del mondo

Con sulle spalle il cielo e tutto il destino,

Interi giorni, radicati sui monti,

Per primi seppero

Parlare soli

A Dio.

Auch eurer denken wir, ihr Tale des Kaukasos, / So alt ihr seid, ihr Paradiese dort, / Und deiner Patriarchen und deiner Propheten, // O Asia, deiner Starken, o Mutter! / Die furchdos vor den Zeichen der Welt, / Und den Him-mel auf Schuitern und alles Schicksal, / Taglang auf Ber-gen gewurzeit, / Zuerst es verstanden, / Allein zu reden/ Zu Gott (il, p. 128; tr. k. dt., p. 165).

È il profeta a creare la consapevolezza sacra della storia. Dio gli rivela che cosa significa l'avvenimento immediato per la guida del popolo e per il venturo Regno di Dio. Il profeta ascolta e annuncia la rivelazione al presente, trovando per lo più orecchi chiusi e cuori ribelli. Così dallo Spirito Santo che rende il profeta «aperto», ossia capace di ascoltare e di parlare, nasce la storia sacra. Esso è il vero «signore del

206 Secondo cerchio - L'uomo e la storia

tempo», che nell'intreccio delle parole, dei fatti e degli avvenimenti produce il «divenire nuovo», la meta-noia e la trasformazione ... Tutto questo sta anche dietro alle parole di Hólderlin, solo che in questo caso la realtà libera e ultraterrena del Dio vivente è divenuta un elemento del mondo.

Anche il non-poeta, l'uomo comune ma religioso può avvertire quella realtà 'altra'. In mezzo ai suoi amici, durante la cena commemorativa, entro la comunità del popolo nell'eccitazione festosa, essa diventa percettibile anche per lui. Non addirittura, nell'immediatezza profana, attraverso magia o evocazione volontaria, bensì attraverso il centro dell'esperienza vissuta dell'entusiasmo, e trasformato in quell'azione che appunto allora si esige. Esempi ne sono la poesia già citata II ritratto dell'avo, la grande poesia dionisiaca Stoccarda - vedi il passo citato sopra - ed infine Pane e vino (ili, infra, p. 312).

Anzi, un intero paese può essere coinvolto in questo stato di disposizione visionaria - proprio in questo sta l'incanto misterioso della poesia Germania:

La sacerdotessa, la più tacita figlia di Dio, Che troppo ama il silenzio d'un'innocenza profonda, Lei cerca l'aquila, lei che con fermo ciglio mirava Come del tutto ignara pur dianzi, allorché una tempesta Minacciosa di morte le risuonò sul capo:

Presentì la fandulla un che di migliore,

E finalmente uno stupore avvenne vasto nel delo

Che alcuno fosse così grande in fede

Come ella stessa, la clemente potenza dell'Alto.

Perdo mandarono la messaggera che subito riconoscendola

Così pensa sorridendo: «Tè, ineversibile, deve

Un'altra parola mettere a prova», ed alto da voce,

I morti e il passato 207

La giovanile aquila, a Germania guardando:

«Ecco sei tu, eletta

Nel tuo universo amore e per portare un gran peso

Di felicità sei divenuta forte, ,

Da quando nascosta nella foresta e nel papavero in fiore, Pieno di dolce sopore, o ebbra, di me Non ri curavi, da molto prima che anche i più umili sentissero L'orgoglio della vergine e stupissero di chi tu fossi e di dove, Ma tu stessa non lo sapevi.

Die Priesterin, die saliste Tochter Gottes, / Sie, die zu gern in tiefer Einfalt schweigt, / Sie suchet er, die offnen Auges schaute, / Als wùBte sie es nicht, jùngst, da ein Sturm / Toddrohend ùber ihrem Haupt ertònte; / Es ah-nete das Kind ein Besseres, / Und endiich ward ein Stau-nen weit im Himmel, / Weil eines gro6 an Glauben, wie sie selbst, / Die segnende, die Macht der Hóhe sei; / Drum sandten sie den Boten, der, sie schnell erkennend, / Denkt làcheind so: «Dich, Unzerbrechiiche, mu6 / Ein an-der Wort erprùfen», und ruft es laut, / Der Jugendiiché, nach Germania schauend: / «Du bist es, auserwàhit, / Al-Uebend und ein schweres Glùck / Bist du zu tragen stark geworden, // Seit damais, da im Walde versteckt und blù-hendem Mohn / Voli sùBen Schiummers, Trunkene, mei-ner du / Nicht achtetest, lang, ehe noch auch Geringere fùhiten / Der Jungfrau Stolz und staunten, wes du wàrst und woher, / Doch du es selbst nicht wuBtest» (il, pp. 150-151;tr.it.dt.,p.207).

Le fonti sono la bocca del paese, i fiumi il loro discorso. Avvertiamo la condensazione mitica. Questo insieme vivente, la Germania, viene posto in relazione con la potenza cosmica femminile, la grande Madre, la Terra:

[...] Come della Santa, Che è Madre di tutto,

208 Secondo cerchio - L'uomo e la storia

Dagli uomini detta l'Ascosa, Così è di amore e dolore, E pieno di presagi, E pieno di pace il tuo seno.

[...] Demi fast wie der heiligen, / Die Mutter ist von alleni, / Die Verborgene sonst genannt von Menschen, / So ist von Lieben und Leiden / Und voli von Ahnungen dir / Und voli von Fri eden der Busen (il, p. 151; tr. it. dt., pp. 209-211).

La Terra è colei che attende, che dal cielo riceve ciò che feconda. E lei ad aspettare in Germania, ad aspettare ciò che «dal cielo azzurro si avvicina» (II, p. 150). Segue il processo del disporsi alla visione:

Oh bevi aure mattutine,

Finché dischiusa tu sia

E nomina ciò che hai innanzi agli occhi.

Più oltre non può mistero

L'inespresso restare

Da tanto ch'esso è nascosto:

Poiché ai mortali s'addice il ritegno

E con ritegno parlare, di solito,

È saggio, anche, degli dèi.

Ma quando, più traboccante che pure sorgenti,

L'oro, e severa diviene l'ira nel delo,

Deve fra giorno e notte

Finalmente un Vero apparire.

O trinke Morgeniùfte, / Bis daB du offen bist, / Und nen-ne, was vor Augen dir ist. / Nicht lànger darf Geheimnis mehr / Das Ungesprochene bleiben, / Nachdem es lange verhùllt ist; / Denn Sterbiichen geziemet die Scham, / Und so zu reden die meiste Zeit, / Ist weise auch von Gót-tern. / Wo aber ùberflùssiger, demi lautere Quellen, / Das Gold und ernst geworden ist der Zorn an dem Himmel, /

/ morti e il passato 209

MuB zwischen Tag und Nacht / Einstmais ein Wahres er-scheinen (II, pp. 151-152; tr. it. dt., p. 211).

Una grande descrizione del fenomeno del vaticinio. Vi è soprattutto il fattore dell'«aprirsi»9. La Sibilla deve prepararsi alla visione. Ella deve «bere aure mattutine». Nell'immagine del mattino con la sua purezza scorre l'esperienza dello «spirito che spira», che «passa nei capelli»: aria, fiato o alito e purezza, potenza incontaminata che purifica ogni altra cosa (cfr. Ipe-rione II, p. 146). Ciò che dev'essere rivelato si leverà davanti agli occhi della Sibilla. Essa deve guardare, non le nuocerà.

Poi la chiamata misteriosa: ella deve «nominarlo». Contemporaneamente persiste l'antica sensazione del segreto: l'essenziale deve rimanere drrheton:

Dichiaralo tré volte:

Ma, sia pure inespresso come è ora, O innocente, ciò resterà.

Dreifach umschreibe du es, / Dodi ungesprochen auch, wie es da ist, / Unschuidige, muB es bleiben (n, p. 152; tr. it. dt., p. 211).

Il momento è arrivato, il «tempo supremo». Ciò che a lungo è stato taciuto, deve estrinsecarsi: «dichiarato tré volte», espresso nella santa triplicità, e tuttavia in modo tale da non essere esposto e svelato ma da rimanere racchiuso nel responso dell'oracolo ... Anche l'«innocenza» di cui si parla non è un concetto familiare nel suo senso moderno. Esso non significa ne purezza etica ne integrità psicologica, bensì l'antica innocenza numinosa, l'essere vergine della sacerdotessa, su cui la divinità ha posto la mano ... Ma il

210 Secondo cerchio - L'uomo e la storia

segreto, che dev'essere espresso, è identico a quello dei misteri eleusini: quello della Madre Terra.

Oh! nomina, figlia della sacra Terra, Finalmente la Madre. Crosdan le acque alla rupe E le tempeste nel bosco e al nome suo Risuona su dall'antico il Divino che è tramontato. Come è diverso! come splende giusto e si esprime Anche il futuro, lieto, dalle lontananze.

O nenne, Tochter du der heiligen Erd, / Einmal die Mut-ter. Es rauschen die Wasser am Feis / Und Welter im Wald und bei dem Namen derselben / Tónt auf aus alter Zeit Vergangengóttliches wieder. / Wie anders ists! und rechuiin glànzt und spricht / Zukùnftiges auch erfreulich aus den Fernen (il, p. 152).

Questo mistero della Terra è innanzitutto quello dell'altezza, dell'etere che con la sua potenza fecon-datrice viene su di essa affinchè dall'unione nascano l'anno nuovo, il tempo nuovo, il raccolto nuovo e la nuova fase di vita (ili, infra, p. 269). Ma qui esso si congiunge con quello della storia. Ciò che deve entrare nella terra come semente della nuova esistenza è ora, siccome la terra è la Germania, la Grecia:

[...] Sente

L'ombre di coloro, che sono già stati,

Gli antichi, e che la terra tornano a visitare.

Poiché quelli che là devono giungere, incalzano noi

E non può più indugiare di uomini-dèi

La sacra schiera ancora nell'alto azzurro.

[...] Die Schatten derer, so gewesen sind, / Die Alten, so die Erde neubesuchen. / Denn die da kommen sollen, dràngen uns, / Und lànger sàumt von Góttermenschen / Die heilige Schar nicht mehr im blauen Himmel (il, p. 150;

tr. it. dt., p. 207).

I morti e il passato 211

Attraverso una compenetrazione di natura e storia, primavera e Grecia, anche L'Arcipelago esprime lo stesso contenuto:

Poiché colma di senso divino ogni vita s'è fatta,

E, quale un tempo, autrice di perfezione riappari ai tuoi figli

Ovunque, o Natura, e come da monte ricco di polle

Fluiscono benedizioni nell'anima germogliante del popolo.

Allora, allora, o gioie di Atene, o gesta di Sparta!

Splendida primavera di Greda, quando venuto

Sarà il nostro autunno e sarete maturi, o spiriti antichi!

Voi tornerete, ed ecco il grande anno è prossimo a compiersi!

Allora la festa riporti anche voi, giorni passati!

Verso l'Ellade il popolo guardi e con lagrime grate

Si addolcisca in ricordi l'altero di del trionfo.

Denn voli góttlichen Sinns ist alles Leben geworden, / Und vollendend, wie sonst, erscheinst du wieder den Kin-dern / Oberali, o Naturi und, wie vom Quellengebirg, rinnt / Segen von da und dort in die keimende Seele den Volke. / Dann, dann, o ihr Freuden Athens! Ihr Taten in Sparta! / Kóstliche Friihiingszeit im Griechenlande! wenn unser / Herbst kómmt, wenn ihr gereift, ihr Geister alle der Vorweit! / Wiederkehret und siehe! des Jahrs Vollen-dung ist nahe! / Dann erhalte das Fest auch euch, vergan-gene Tage! / Hin nach Hellas schaue das Volk, und wei-nend und dankend / Sànftige si eh in Erinnerungen der stolze Triumphtag! (il, p. Ili; tr. it. dt., p. 117).

Qui si tratta di parlare del concetto dell'ora in Hólderlin. Gli avvenimenti non si succedono in una sequenza uniforme, ma con una potenza che varia da caso a caso, a seconda della forza della vita e del senso che riveste l'avvenimento. L'evento singolo ha il suo luogo prestabilito nella storia, determinato non solo dalle cause anteriori, ma anche dallo spirito che tutto pervade. Questo luogo non può essere sostitui-

212 Secondo cerchio - L'uomo e la storia

to o scambiato. Se l'ora è passata, essa lo è veramente - si vedano nella Morte di Empedocle nel secondo atto i dialoghi con i legati. Particolarmente gli eventi decisivi hanno la propria ora. Si è già parlato di nascita e di morte. Nella Morte di Empedocle si dice a proposito della grande opera:

O dèi benigni! Dèi del silenzio! La parola impaziente precorre l'uomo e non lasda che maturi in pace l'ora della riuscita.

O stille! gute Gótter! immer eilt / Den Sterbiichen das un-geduidge Wort / Voraus und làfit die Stunde des Gelin-gens / Nicht unbetastet reifen (m, p. 114; tr. it. dt., p. 84).

'Nelì'Iperione prima del culmine della vita;

Che cosa è tutto quello che, nei millenni, gli uomini hanno compiuto e pensato di fronte a un solo istante d'amore? Ed è anche quanto di più perfetto, di più divinamente bello esista in natura! Là conducono tutti i gradini, sulla soglia della vita. Di là veniamo, colà andiamo! (il, p. 154; tr. it. dt, p. 76).

Nella Morte di Empedocle a proposito della natura che si apre alla comprensibilità pura:

La divina Natura non richiede discorsi;

e una volta presente non vi lasda . mai soli, e il suo attimo rimane incancellabile; e vittoriosa agisce in eterno la sua fiamma celeste, rendendovi felid.

Die góttlichgegenwàrtige Natur / Bedarf der Rede nicht;

und nimmer là6t / Sie einsam euch, wenn einmal sie ge-naht, / Denn unausloschiich ist der Augenblick / Von ihr,

J morti e il passato 213

und siegend wirkt durch alle Zeiten / Beseligend hinab sein himmlisch Feuer (ili, p. 150; tr. it. dt., p. 135).

Nella Morte di Empedocle a proposito di quell'evento in cui l'esistenza raggiunge la coincidenza pura con se stessa, l'euforia:

Non invano, caro,

con tè sono vissuto, e sotto un cielo clemente, fin dal primo aureo istante, molteplici gioie inconsuete a noi si aprirono.

Ja! Liebster! nicht umsonst hab ich mit dir / Gelebt, und unter mildem Himmel ist / Viel einzig Freudiges vom er-sten goldnen / Gelungnen Augenblick uns aufgegangen (IH, p. 160; tr. it. dt., p. 149).

Infine in Empedocle sull'Etna a proposito dei massimi fatti che determinano le svolte dei tempi:

[...] Oh, consumazione

del mio tempo! Tu, Spirito, che d nutristi,

che regni in segreto alla luce del giorno e nella nube,

e tu. Luce, e tu, tu, madre Terra!

Qui rimango sereno, giacché mi si prepara

la nuova ora, da lungo tempo stabilita.

Non più in immagine, non, come sempre,

nella fortuna fugace dei mortali,

ma nella morte, io scopro il vivente,

e oggi stesso lo incontrerò, oggi

in cui il signore del Tempo per me e per sé,

come segni di festa, prepara un uragano.

Conosd questa calma? e il silenzio

del dio insonne? Attendilo qui!

A mezzanotte tutto ci sarà compiuto.

[...] O Ende meiner Zeit! / O Geist, der uns erzog, der du

214 Secondo cerchio - L'uomo e la storia

geheim / Am hellen Tag und in der Wolke waltest, / Und du, o Licht! und du, du Mutter Erde! / Hier bin ich ruhig, denn es wartet mein / Die làngstbereitete, die neue Stun-de / Nun nicht im Bilde mehr, und nicht, wie sonst, / Bei Sterbiichen im kurzen Glùck, ich find, / Im Tode find ich den Lebendigen / Und heute noch begegn' ich ihm; denn heute / Bereitet er, der Herr der Zeit, zur Feier / Zum Zeichen ein Gewitter mir und sich. / Kennst du die Stille rings? kennst du das Schweigen / Des schiummerlosen Gotts? erwart ihn hier! / Um Mittemacht wird er es uns vollenden (ni, p. 223; tr. it. cit., pp. 239-241).

Ma l'ora per eccellenza alla quale Hólderlin stesso sa di essere ordinato, è quella in cui ha luogo il ritorno del passato, dei grandi che hanno vissuto un tempo, degli antichi, della Grecia10.

Essa viene presagita. Per esempio nel momento in cui, ancora nel bei mezzo del deserto invernale, si annuncia la primavera - legato a quell'altro in cui l'amore si desta per la prima volta in un'anima ancora intatta. Nell'ode L'amore si legge:

Pure, come l'anno è sempre freddo e senza canti Per un certo periodo, ma dal campo bianco Spuntano pure verdi steli, E spesso canta un uccello solitario,

Se piano s'allarga la foresta

E il fiume si muove, già l'aria più serena

lieve spira da mezzogiorno ad ore determinate,

Così un segno del tempo più bello,

In cui crediamo, cresce bastante ancora a sé solo, Lui solo nobile e pio sul suolo Prima selvaggio l'amore, Figlio di Dio, solo da lui...

I morti e il passato 215

Cresci e diventa bosco, diventa un più animato Mondo, in piena fioritura. Lingua sia di quanti Amano la lingua del paese, L'anima loro la voce del popolo.

Doch, wie immer das Jahr kalt und gesanglos ist / Zur be-schiedenen Zeit, aber aus weifiem Feld / Grùne Halme doch sprossen, / Oft ein einsamer Vogel singt, // Wenn sich màhiich der Wald dehnet, der Strom sich regt, / Schon die mildere Luft leise von Mittag weht / Zur eriese-nen Stunde, / So ein Zeichen der schónern Zeit, // Die wir glauben, erwàchst einziggenùgsam noch, / Einzig edel und fromm ùber dem ehernen, / Wilden Boden die Lie-be, / Gottes Tochter, von ihm allein / [...] Wachs' und werde zum Wald! eine beseeltere, / Vollentblùhende Welt! Sprache der Uebenden / Sei die Sprache des Lan-des, / Ihre Seele der Laut des Volks! (il, pp. 20-21).

Lo stesso accade dell'«ora alcionia», del crepuscolo di giorni particolarmente chiari in cui tutto appare trasfigurato. Essa era particolarmente cara a Hólder-lin, ed egli l'ha descritto nell'inno II Reno e in Ritomo in patria con toni di intima bellezza.

L'ora in cui la storia compie una svolta ha i suoi segni, i «segni del tempo» che il vate sa interpretare. Essa ha il proprio messaggero, l'aquila. Nella poesia II cantone di Schwyz essa appare in modo realistico, come l'uccello maestoso nel passo magnifico:

[...] Portata dalla tempesta

Stridendo l'aquila precipitò per afferrare la preda nella

valle.

[...] Vom Sturine getragen / Schrie und stùrzte der Aar, die Beut im Tale zu haschen (il, p. 144).

216 Secondo cerchio - L'uomo e la storia

In dimensioni maggiori e già riferito al concetto del salvatore celeste, in Patino (brano già citato, p. 91):

Vicino

E difficile ad afferrare è il Dio.

Ma dove è il pericolo, cresce

Anche dò che d salva.

Nelle tenebre vivono

Le aquile e senza paura

Va la prole delle Alpi sopra l'abisso

Su lievemente costruiti pond.

Nah ist / Und schwer zu fassen der Gott. / Wo aber Ge-fahr ist, wàchst / Das Rettende auch. / Im Finstem woh-nen / Die Adier und furchdos gehn / Die Sóhne der Al-pen ùber den Abgrund weg / Auf leichtgebaueten / Brùcken (II, p. 165; tr. it. cit., p. 217).

Nella Morte di Empedocle essa è il messaggero di Zeus che deve salvare Panthea, «figlia degli Dèi»:

Che preghi e implori la desolata un'aquila, Che la salvi da questi schiavi, in cielo.

So mag die Einsame den Adier bitten, / Da6 er hinweg von diesen Knechten sie / Zum Àther rette! ... (m, p. 113;

tr. it. dt., p. 83).

Il passo rimanda a quello contenuto nell'ode All'Etere, dove il poeta desidera di essere trasportato in alto dall'aquila, come Ganimede. Infine l'aquila appare nel contesto dell'evento di cui parliamo: che quanti un tempo sono morti ritornano.

Nel Lamento di Menane per Diotima:

... Buoni genii, che amate di stare vidno agli amanti:

Restate ancora con noi fin quando in suolo comune,

I morti e il passato 217

Là dove i Beati tutti a tornare in terra son pronti, Dove le aquile e gli astri, messi del Padre, Dove le Muse, donde gli eroi e gli amanti sono, Là ci sia dato incontrarci oppur qui nell'isola rorida Dove i Nostri dapprima, fiorendo in giardini saranno riuniti, Dove i canti son veri e più a lungo belle le primavere E un anno dell'anima nostra di nuovo comincerà!

[...] ali ihr / Guten Genien, die geme bei Uebenden sind; -Bleibt so lange mit uns, bis wir auf gemeinsamem Boden/ Dort, wo die Seligen ali niederzukehren bereit, / Dort, wo die Adier sind, die Gestirne, die Boten des Vaters, / Dort, wo die Musen, woher Helden und Liebende sind, / Dort uns, oder auch hier, auf tauender Insel begegnen, / Wo die Unsrigen erst, blùhend in Gàrten gesellt, / Wo die Ge-sànge wahr, und lànger die Frùhiinge schón sind, / Und von neuem ein Jahr unserer Seele beginnt! (Il, p. 79; tr. it. cit., p. 125).

Ciò risalta ancora di più nella poesia Rousseau:

I messaggeri hanno trovato il tuo cuore.

Tu li hai accolti, hai inteso il linguaggio degli stranieri,

Spiegato la loro anima. A chi ardente desiderava

Un segno bastò, e segni sono

Fin dagli antichi tempi i detti degli Dèi.

E, meraviglia, quasi fin dall'inizio avesse

Lo spirito dell'uomo già esperito tutto il divenire e l'agire,

I modi già del vivere [...]

Conosce già nel primo segno quanto è compiuto,

E vola, lo spirito temerario, come aquila

Che predica la bufera,

Profetando la venuta dei suoi dèi [...]

[...] Es / Haben die Boten dein Herz gefunden. // Ver-nommen hast du sie, verstanden die Sprache der Fremd-

218 Secondo cerchio - L'uomo e la storia

Unge, / Gedeutet ihre Seele! Dem Sehnenden war / Der Wink genug, und Winke sind / Von alters her die Sprache der Gótter. // Und wunderbar, als bàtte von Anbeginn / Des Menschen Geist das Werden und Wirken ali, / Des Lebens Weise schon erfahren [...] // Kennt er im ersten Zeichen Vollendetes schon, / Und fliegt, der kùhne Geist, wie Adier den / Gewittern, weissagend seinen / Kommen-den Góttern voraus [...] (il, p. 13).

Tutto si raccoglie nella grande visione dell'aquila nella Germania:

Già in preludio verdeggia di più aspra epoca

II campo lavorato per loro, pronto è il dono

Per l'agape, e valle e fiumi stanno

Aperti intorno a profetici monti,

Perché guardare possa fin nell'Oriente.

L'uomo, e di là molte vicende lo commuovano.

Ma dall'etere cade

L'immagine fedele e ne piovono oracoli di dèi

Innumeri, suonando nel più fitto del sacro bosco.

E l'aquila che dall'Indo viene

E del Parnaso sopra

I nevosi picchi vola, alto sulle are dei monti

D'Italia, in cerca di allegra preda

Per il padre, non più inesperta, ma provetta nel volo,

Finisce col varcare gioiosamente

Le Alpi e di là scorgere il molto variato paese.

La sacerdotessa, la più tadta figlia di Dio, Che troppo ama il silenzio d'un'innocenza profonda, Lei cerca l'aquila, lei che con fermo aglio mirava Come del tutto ignara pur dianzi, allorché una tempesta Minacciosa di morte le risuonò sul capo:

Presentì la fandulla un che di migliore,

E finalmente uno stupore avvenne vasto nel cielo

Che alcuno fosse così grande in fede

Come ella stessa, la clemente potenza dell'Alto.

I morti e il passato 219

Perdo mandarono la messaggera che subito riconoscendola Così pensa sorridendo: «Tè, ineversibile, deve Un'altra parola mettere a prova», ed alto da voce, La giovanile aquila, a Germania guardando:

«Ecco sei tu, eletta

Nel tuo universo amore e per portare un gran peso

Di felicità sei divenuta forte,

Da quando nascosta nella foresta e nel papavero in fiore, Pieno di dolce sopore, o ebbra, di me Non d curavi, da molto prima che anche i più umili sentissero L'orgoglio della vergine e stupissero di chi tu fossi e di dove;

Ma tu stessa non lo sapevi.

Non d misconobbi, io,

E in segreto, mentre sognavi, d lasciai

Di mezzodì, nel dipardrmi, un segno amicale,

II fiore della bocca; e discorresti sola.

Schon grùnetja, im Vorspiel rauherer Zeit/ Fùr sie erzo-gen, das Feld, bereitet ist die Gabe / Zum Opfermahi und Tal und Strème sind / Weitoffen um prophetische Berge, / DaB schauen mag bis in den Orient / Der Mann und ihn von dort der Wandiungen viele bewegen. / Vom Àther aber fàlit / Das treue Bild und Góttersprùche regnen / Unzàhibare von ihm, und es tónt im innersten Haine. / Und der Adier, der vom Indus kòmmt, / Und ùber des Parnassos / Beschneite Gipfel fliegt, hoch ùber den Opfer-hùgein / Italias, und frohe Beute sucht / Dem Vater, nicht wie sonst, geùbter im Fluge / Der Alte, jauchzend ùber-schwingt er / Zuletzt die Alpen und sieht die vielgearteten Lànder. // Die Priesterin, die sdilste Tochter Gottes, / Sie, die zu gern in defer Einfalt schweigt, / Sie suchet er, die offnen Auges schaute, / Als wùfite sie es nicht, jùngst, da ein Sturm / Toddrohend ùber ihrem Haupt ertónte; / Es ahnete das Kind ein Besseres, / Und endiich ward ein Staunen weit im Himmel, / Weil eines gro6 an Glauben, wie sie selbst, / Die segnende, die Macht der Hóhe sei; / Drum sandten sie den Boten, der, sie schnell erkennend, /

220 Secondo cerchio - L'uomo e la storia

Denkt làcheind so: «Dich, Unzerbrechiiche, muB / Ein an-der Wort erprùfen», und ruft es laut, / Der Jugendiiche, nach Germania schauend: / «Du bist es, auserwàhit, / Al-liebend und ein schweres Glùck / Bist du zu tragen stark geworden, // Seit damais, da im Walde versteckt und blù-hendem Mohn / Voli sùBen Schiummers, Trunkene, mei-ner du / Nicht achtetest, lang, ehe noch auch Geringere fùhiten / Der Jungfrau Stolz, und staunten, wes du wàrst und woher, / Doch du es selbst nicht wuBtest. Ich miBkann-te dich nicht, /Und heimlich, da du tràumtest, lieB ich / Am Mittag scheidend dir ein Freundeszeichen, / Die Blu-me des Mundes zurùck und du redetest einsam (il, pp. 150-151; tr. it. cit., pp. 207-209).

Vediamo la condizione profetica, in cui il vate guarda «fin nell'Oriente», nella dirczione, quindi, da cui si avvicina il compimento. Dall'etere sono venute le rivelazioni: «l'immagine fedele» e «oracoli di dèi». Dall'etere viene anche l'aquila istituendo attraverso il suo volo la grande tensione Asia-Ellade-Germania. Ma ciò che annuncia è il ritorno della Grecia; il «gran peso di felicità» per portare il quale «la fanciulla» {das Kind), la Germania, è «divenuta forte».

I testi hanno mostrato che l'evento atteso dalla storia di Hólderlin è religioso, «escatologico». In esso tutte le cose sono destinate ad essere trasformate. La fede cristiana è certa che a un'ora, stabilita dal decreto inaccessibile del Padre, Cristo ritornerà, trasformando attraverso la potenza dello Spirito Santo il mondo nel «nuovo cielo» e nella «nuova terra». Questa dottrina è applicata da Hólderlin al compimento che deve realizzarsi nel corso della storia quando quest'ultima è giunta in un vicolo cieco. Ciò che ritoma non è più Cristo, ma la Grecia. Colui che manda non è il Padre, ma l'Etere, la forza operativa non è più il

I morti e il passato 221

«Pneuma di Cristo», ma la pienezza dionisiaca dello spirito. Il nodo da sciogliere non è il peccato dell'umanità, ma l'intrinseca mancanza di sbocchi nella storia. Ad essere mandato non è l'angelo, ma l'aquila. Ad aprirsi non è la Vergine Maria - e qui la prospettiva si sposta: prima della parusia del Cristo che ritoma si pone la sua prima venuta, l'incarnazione - che «attraverso lo Spirito Santo e la forza dell'Altissimo» «deve concepire e partorire un figlio» (Le 1, 35; 31), ma la Germania. Questa accoglierà la Grecia ventura, e dalla loro unione nascerà la nuova esistenza (V, infra, p. 725). A proposito di questo evento stesso Pane e vino dice:

Inavvertiti giungono prima: gli anelano incontro

I pargoli: troppo lucente, troppo abbagliante arriva

La felicità: e l'uomo ne ha paura: appena un semidio può dire

Con nomi chi siano quelli che gli si appressan coi doni.

Ma da essi l'animo ha forza: gli colmano il cuore le loro

Gioie, e un tanto bene sa usare appena.

Crea, si prodiga e quasi gli diventa sacro il profano

Che, folle e pio, egli tocca con mano benedicente.

Al massimo indulgono a questo i celesti: ma poi, veramente

Giungono loro stessi e alla felicità s'abituano gli uomini

E al Giorno e a guardare gli dèi palesi, il cui volto,

Che già a lungo avevano chiamato Uno e Tutto,

Di libero contento il segreto petto ricolma

E solo adesso ogni anelito rende felice.

Unempfùnden kommen sie erst, es streben entgegen / Ih-nen die Kinder, zu hell kommet, zu blendend das Glùck, / Und es scheut sie der Mensch, kaum weiB zu sagen ein Halbgott, / Wer mit Namen sie sind, die mit den Gaben ihm nahn. / Aber der Mut von ihnen ist groB, es fullen das Herz ihm / Ihre Freuden und kaum wei6 er zu brau-chen das Gut, / Schafft, verschwendet und fast ward ihm

222 Secondo cerchio - L'uomo e la storia

Unheiliges heilig, / Das er mit segnender Hand tórig und gùdg berùhrt. / Móglichst dulden die Himmlischen dies;

dann aber in Wahrheit / Kommen sie selbst und gewohnt werden die Menschen des Glùcks / Und des Tags und zu schaun die Offenbaren, das Anditz / Derer, welche, schon làngst Eines und Alles genannt, / Tief die verschwiegene Brust mit freier Genùge gefiillet, / Und zuerst und allein alles Verìangen beglùckt (il, p. 92; tr. it. cit., pp. 137-139).

Qui divengono visibili i numi greci in avvento. Se ritornano, significa che il tempo a cui appartenevano ritoma.

IL SENSO DELLA CONCEZIONE HÓLDERLINIANA DELIA STORIA

Se ci si chiede, dopo aver letto attentamente i testi, che cosa propriamente verrà, appena ritornerà la «Grecia» e che cosa accadrà dell'esistenza storica quando questo evento si compirà, la risposta non è facile. Il movimento intcriore che attraversa queste poesie uniche al mondo è talmente grande, la nostalgia che si desta in essa e la promessa che vi si manifesta sono talmente potenti che il lettore è tentato d'immergervisi, senza domandare oltre. Il «presto» e l'«ora», l'atmosfera «escatologica» del tempo d'attesa e l'ultima ora incalzante prima della venuta costituiscono per lui un'esperienza che si rinnova continuamente. Ma se egli resiste all'incantesimo che vuole fissarlo a questo pre-tempo domandando con determinazione deferente in che cosa consisterà l'essenziale, pare che non ottenga nessuna risposta.

Ora, si potrebbe obiettare che domande di questo tipo si possono rivolgere a un filosofo, non a un poeta. Ma Hólderlin non è un «poeta» in questo senso. Le sue opere non sono espressione di un'esperienza vissuta, o manifestazione di immagini esteticamente sufficienti a se stesse. Egli non è poeta nell'accezione moderna, ma in quella antica, come Pindaro, Eschilo e Dante. Egli sta usando la parola nel suo significato universale nella tradizione della profezia religiosa. Il

224 Secondo cerchio - L'uomo e la storia

lettore intcriormente preparato lo recepisce anche come tale; per lui importa trarre dal suo sentire le relative conclusioni. Egli non deve accontentarsi di un'impressione religiosa non meglio determinata, dimenticando la serietà imposta dalla coscienza in tali argomenti. Ancor meno deve assumere l'impressione religiosa e goderne in termini estetici. Così facendo, commetterebbe un'ingiustizia nei confronti di Hól-derlin, che questi stesso non gli perdonerebbe mai. Egli deve bensì chiedere: Vate, tu pretendi fede - che cosa devo credere?

Che cosa significa allora quella terza fase della storia?

Innanzitutto non significa un umanesimo. La concezione circa il ritorno della Grecia non intende suggerire che se ne conoscerà la cultura, comprendendone la profondità, vivendone la bellezza e sviluppando appieno i genni in essa riposti. Non sarà la conoscenza o l'esperienza vissuta della Grecia a venire, ma la Grecia stessa.

Ma come può avvenire questo? Assumiamo come immaginabile che una creazione nobile debba essere in qualche modo imperitura. Per questo gli uomini, le forze spirituali, la vivente figura complessiva storica della Grecia esistono ancora. Come potenza rivolta a noi, decisa e atta a rientrare nella nostra storia. Ma appena ciò accade - che ne è di quest'ultima? Studiando i testi, ci si imbatte in espressioni come: tutta la vita si ricolma di senso divino; il terreno e il celeste si uniscono; uomini e dèi celebrano le loro nozze; tutto viene pervaso dalla pace e dalla bellezza, tutto è permeato dallo spirito ...

Queste affermazioni non scaturiscono da una

H senso della concezione holderliniana della storia 225

qualche esaltazione idealistica. In un romantico, si potrebbe trattare di semplice nostalgia, espansione dell'eros, senso del Tutto e cose simili. Qui, evidentemente, vi sono elementi diversi. Viene avvertita una realtà numinosa che si eleva dietro al futuro, cercando l'accesso al tempo. Il concetto di «futuro» qui non è identico a quello che è sotteso a espressioni come:

il raccolto è futuro rispetto alla seminagione, l'età matura rispetto alla giovinezza, l'effetto rispetto alla causa. 'Futuro' qui allude a qualcosa di etemo, la cui sede però è «davanti», a differenza di ciò che è situato «dietro», nell'allora assoluto, nell'«età d'oro». L'«etemo» anteriore vuole entrare nel tempo, come pienezza di senso misteriosa in cui ogni conflitto si risolve, ogni interrogativo tace e ogni bisogno è appagato. Ma su tutto questo, appunto per il fatto che sia così non si può dire niente di particolare. La nostalgia che si leva da ogni luogo dell'esistenza può essere espressa, la preparazione e l'avvicinamento pure; il compimento non più.

Ma non è questo uno stato patologico, che nel caso di Hólderlin ha poi veramente dato luogo alla pazzia, riscontrabile anche in un uomo che per molti aspetti rappresenta una chiarificazione - ma certamente anche una razionalizzazione - dell'esistenza di Hólderlin, ossia Friedrich Nietzsche? Il desiderio di ciò che verrà e allo stesso tempo la paura d'esso, la sensazione della catastrofe vicina, che contemporaneamente porta il nuovo; il «dominio sopra il capo», il «presto» e l'«ora» non sono semplicemente sintomi della schizofrenia? La psicologia ci ha insegnato che processi che sembrano senza senso per una coscienza normale, rivestono nondimeno un significato positi-

226 Secondo cerchio - L'uomo e la storia

vo, di tipo etico-psichico nella misura in cui essi si manifestano i problemi della personalità in questione; ma anche di tipo storico, nella misura in cui i mutamenti nella grande personalità indicano mutamenti nell'esistenza collettiva. Già gli antichi hanno parlato della «sacra follia» in cui parlano gli dèi. Sembrano esserci rotture nella coscienza che, importanti per l'esistenza collettiva, diventano tuttavia possibili solo nel crollo del singolo. L'esperienza vissuta di Hólderlin fa parte di questo contesto. Essa non è fantasia poetica oppure semplicemente un fenomeno clinico, manifesta invece un significato di serietà assoluta.

Non si tratta neppure di una delle tante aspettative chiliastiche, così frequenti nella storia dell'Occidente, in questo caso legata alla Grecia. Quelle aspettative si riferiscono sempre alla fine reale della storia. Nella loro prospettiva l'eternità irromperà annullando il tempo. Ciò può avvenire immediatamente, nella forma della fine del mondo, oppure dopo l'intermezzo apocalittico dei mille anni. Hólderlin allude ad altro. Tempo e storia devono continuare dopo l'evento atteso. Una terza fase dell'esistenza deve iniziare, conservando tuttavia quest'ultima nelle sue dimensioni senz'altro terrene e reali.

Ma non nei termini in cui l'idealismo pensa la sintesi delle precedenti antitesi storiche, non come superamento della prima ingenuità, e della riflessione che ad essa segue, in una nuova naturalezza spirituale. La portata, ma anche il genere dell'aspettativa, è troppo importante per una tale operazione. Inoltre, le «sintesi» scaturiscono sempre dal nucleo stesso che sta dietro alla tensione. È sufficiente che la sua forza si liberi e trovi la strada giusta. Qui nella storia però entra

Il senso della concezione holderliniana della storia 227

qualcosa che non proviene più da essa, ma dall'ambito a noi sottratto. Ciò che avviene, non è solo un'inclusione dialettica su un piano superiore, ma pur sempre scaturente dalle potenzialità interne della storia stessa, bensì d'una provenienza da altra sfera. Questo altro è di tipo numinoso, una realtà ultraterrena. E, anche se esso è racchiuso alla fine, insieme all'immediatamente terreno, dall'unità della natura nel suo complesso, all'inizio è alieno e diverso rispetto ad essa. Non possiede il carattere della realtà storica, ma di quella metafìsica, non del temporale, ma dell'etemo. E «eternità», ma in un senso particolare. Questo non terreno entra nel terreno, questo etemo nel temporale, ma in modo tale da mantenere il terreno terreno ed il temporale temporale. Questo significa però che la storia e la non-storia, la terra e il cielo, l'economia escatologica e il decorso dell'esistenza si ritroveranno in uno.

Si tratta quindi del tentativo di elevare la storia al di sopra si se stessa, pur conservandola come storia;

di compiere il superamento dell'esistenza, ma in modo da mantenere intatta l'unione con la terra; di conquistare l'eternità, non tuttavia come annullamento del tempo, bensì come carattere dell'esistenza temporale stessa. Con ciò muta ovviamente il concetto stesso di eternità. Essa, di per sé il modo di essere del Dio sovrano e sacro, diventa il polo opposto dialettico al tempo e quindi un momento dell'esistenza del mondo. Allo stesso modo muta anche il concetto di tempo. Perché esso, che di per sé scorre al «cospetto dell'eternità», dipendendo da essa e ricevendone il proprio senso, diventa controparte paritaria di questa

228 Secondo cerchio - L'uomo e la storia

eternità, capace di entrare con essa nell'unità della nuova forma esistenziale. In verità, sia l'eternità che il tempo perdono il proprio carattere - inteso nel senso rigoroso della univocità e affidabilità.

Il senso di tutto questo assomiglia a quello della dottrina esistenziale di Nietzsche. Si tratta di fondare un mondo che non ha alcuna realtà al di fuori di sé, una storia che non ha alcuna eternità al di sopra di sé. Ma l'extraterreno e il sovrastorico non vengono semplicemente cancellati, bensì inglobati nel mondo e nella storia. Così come Dio deve diventare un elemento del mondo, l'eternità deve diventare un elemento della storia. Il significato delle concezioni cristiane sul ritorno di Cristo, sul giudizio universale, sul nuovo cielo e sulla nuova terra, all'intemo di questo contesto, dovrà costituire oggetto di considerazioni successive.

NOTE

1. Vedi l'inno Alla libertà del primo periodo. I, p. 157.

2. In questa rivista, propriamente «Rheinische Thalia», organo del Romanticismo tedesco, furono ospitati scritti di Hólderlin, come anche, per es., le Letterejilosofiche di Schiller (n.d.r.).

3. Philipp Otto Runge (1777-1810), pittore tedesco amico di L. Tìeck e di F. Schlegel, influenzato da W. Blake, è considerato l'iniziatore della pittura romantica tedesca. Guardini si riferisce alla sua grande composizione ciclica, carica di simbolismi, delle Tageszeiten (n.d.r.).

4. Il mito di Ilópoc («abbondanza», «ricchezza», di genere maschile) e rievi'a («povertà», «bisogno») come genitori di Époc: è narrato in Symp. 203 (n.d.r.}.

5. Il «fanciullo beato» è Ganimede, rapito dall'aquila di Zeus nella versione del mito data da Virgilio (Aen. v, 255), da Zeus stesso in forma di aquila, la leggenda è già in Omero, II. v, 265 ss., XX, 23 ss.; poi ricorre in Teognide, 1345 ss.; Pindaro, 01. I, 43 ss. (n.d.r.)

6 Lo Hardt è una zona montuosa e boscosa, a ovest del Reno, nel Pa-latinato Renano, non lungi da Heidelberg (n.d.r.).

Secondo cerchio - L'uomo e la storia 229

7. Nel corso della poesia la figura dell'angelo assume dimensioni co-smiche, per poi tornare nella misticità della comune vita umana:

«Molto ho udito dal grande Padre e tanto

Ho taciuto di lui che il tempo sempre in cammino

Lassù nell'alto rianima e regna sulle montagne:

Di lui che in breve ci accorderà i doni celesti svegliando

Più limpido canto e inviando molti spiriti buoni.

Oh! senza indugio, venite, o custodi. Angeli dell'anno, e voi,

Angeli della casa, venite! in tutte le vene della vita, Tutte allietandole insieme, si compartisca il divino! Nobilita! Ringiovanisci! Che nessun bene umano E nessuna ora del giorno sia senza quei Genii felid E tale gioia d'amano, adesso che si sono ritrovati, Sia santificata come le si conviene».

«Vieles hab ich gehòrt vom grofien Vater und habe / Lange geschwiegen von ihm, welcher die wandernde Zeit / Droben in Hóhen erfrischt, und waltet ùber Gebirgen, / Der gewàhret uns baid himmlische Gaben und ruft / Hellern Gesang und schickt viel gute Geister. O sàumt nicht, / Kommt, Erhaltenden ihr! Engel desJahres! und ihr,// Engel des Hauses, kommt! in die Adern alle des Lebens, / Alle freuend zugleich, teile das Himmlische sich! / Adie! verjùnge! damit nichts Menschiichgutes, damit nicht / Eine Stunde des Tags ohne die Frohen und auch / Solche Freude, wie jetzt, wenn Uebende wieder sich finden, / Wie es gehòrt, fur sie, schickiich geheiliget sei» (il, pp. 98-99; tr. it. cit., p. 149).

Sarebbe importante vedere come l'angelo di Hólderlin si rapporti a quello di R-M. Riike, per quale via passi la reinterpretazione della figura biblica dell'angelo operata dalle due rappresentazioni e quali specifiche esperienze religiose vi siano state operanti. Di grande rilievo sarebbe soprattutto la questione in quale misura in queste immagini di angelo si affermi la rappresentazione di esseri divini in quanto quella biblica degli angeli rende più ammissibili gli aspetti di primo acchito urtanti del concetto di 'dèi'. Cfr. a proposito R. Guardini: Der Engel in Dantes Gottlicher Komodie (1937), pp. 33 s. e 43 ss.; tr. it. L'angelo nella Divina Commedia, in Studi su Dante. Morcelliana, Brescia 19792, pp. 32 s. e 43 ss.

8. Un rapporto peculiare che è stato sviluppato oltre da R.M. Riike. In quel caso, esso ha troncato ogni legame storico diventando una relazione generale con l'essere e con il mondo. Cito, come esempio, da Sonetti a Or-feo il sesto della prima parte:

«È un essere terreno? No, di entrambi I regni si compone la sua vasta natura. Sarebbe più esperto a piegare i rami dei salici Chi ha visto le radici dei salici.

Se andate a letto, non lasciate sul tavolo Ne pane ne latte; ne sono attratti i mord -. /

230 Secondo cerchio - L'uomo e la Storia

Ma lui, l'evocatore, sotto la dolcezza Della palpebra aggiunga

La loro apparizione a ogni visione;

E l'incanto della fumaria e della ruta Sia per lui vero come il riferimento più chiaro.

Nulla può peggiorargli la valida immagine;

Sia dalle tombe sia dalle camere Esalti l'anello, il bracciale, la coppa».

«Ist ein Hiesiger? Nein, aus beiden / Reichen erwuchs scine weite Natur. / Kundiger bóge die Zweige der Weiden, / wer die Wurzein der Weiden erfuhr. // Geht ihr zu Bette, so laBt auf dem Tische / Brot nich und Milch nicht; die Toten aehts -. / Aber er, der beschwórende, misene / unter der Milde des Augenlids // ihre Erscheinung in alles Geschaute; / und der Zauber von Erdrauch und Raute / sei ihm so wahr wie der klar-ste Bezug. // Nichts kann das giiltige Bild ihm verschiimmern; / sei es aus Grabern, sei es aus Zimmern, / rùhme er Fingerring, Spange und Krug» (Ausgew. Werke i, p. 286).

L'unità dell'essere scaturisce da «entrambi i regni», quello dei vivi e quello dei morti. Il secondo regno preme per entrare nel primo. Ma l'accesso non deve avvenire in modo immediato, come se i morti venissero «attratti», attraverso l'incanto, in modo spurio, bensì attraverso un legittimo elemento di congiunzione, un centro trasformante. Questo è il ruolo di «Or-feo», il cantore. Nel quinto sonetto della prima parte si dice:

«Poiché è Orfeo. La sua metamorfosi

in questo e in quello. Non dobbiamo sforzarci

a trovare altri nomi. Una volta per tutte

è Orfeo, quando canta. Egli viene e se ne va».

«Denn Orpheus ists. Scine Metamorphose / in dem und dem. Wir sollen uns nicht mùhn / um andere Namen. Ein fur alle Male / ists Orpheus, wenn es singt. Er kommt und geht» (ivi, p. 185).

Il fenomeno subisce una ulteriore trasformazione là dove l'ascoltare, il «dormire nell'orecchio» di chi ascolta, nel secondo Sonetto ad Orfeo, prende il posto del cantare. Ciò che per Riike rappresenta Orfeo, la potenza trasformatrice dell'interiorità musicale, per Hólderlin è il vate. Anche a questo proposito R. Guardini, op. cit., pp. 43 ss.; tr. it. cit., pp. 43 ss. -

9. Affinchè diventi chiaro che non si tratta di una scialba «locuzione poetica» accludo un passo da un testo autobiografico del nostro tempo:

«Stavo troppo bene per rallegrarmi della proprietà di qualcosa; il mio senso abituale dell'io si era addormentato come un bambino nella sua carrozzella. Mi ricordo appunto ancora come il fogliame gelato frusciava sotto i miei grandi stivali pesanti; per il resto la mia coscienza non era molto attiva. Quando alzai lo sguardo per orientarmi essa divenne confusa sul luogo e il tempo - poiché vidi davanti a me un piccolo sentiero di

Secondo cerchio - L'uomo e la storia 231

bosco, talmente fresco, puro e fiabesco che poteva trattarsi solo di un sentiero nel giardino del paradiso.

Non potevano esserci dubbi, anche la mia stessa gioia davanti a questa visione faceva parte del paradiso. Questo durò forse un secondo - misurato secondo l'orologio terreno. Ero ancora là a guardare il sentiero - era il sentiero che conduceva alla casa in cui abitavo. Aveva un aspetto logoro, insignificante e noioso. Ma nel ricordo splendeva l'immagine del sentiero nel giardino del paradiso, accompagnata dalla sensazione che esso fosse un vecchio conoscente. E adesso me ne risowenni con precisione. È situato nel boschetto vicino ad una scuola di paese a Langeland. Ma non vale la pena andarvi e trovarlo; certamente esso ha un aspetto logoro, insignificante e noioso.

In una mattina d'inverno d sono andato con alcuni compagni. Avevo sette anni. Forse più tardi ci sono andato ancora una o due volte; questo è tutto. Fino a questo momento avevo completamente dimenticato che questo sentiero esistesse; non si è mai trovato tra le immagini natìe che erano solite visitarmi; si era trovato stivato profondamente sotto la 'soglia della coscienza'. Presi a guardare più da vicino il sentiero nel bosco di Geel per trovare la somiglianzà che aveva richiamato l'altro dalla profondità dell'oblio. Mi fu impossibile trovare un'altra somiglianzà se non quella che entrambi erano sentieri di bosco. Mi arrestai, dominato da due sensazioni che solo difficilmente si possono immaginare contemporanee:

da una profonda felicità che si dichiarò impossibile a perdersi e da una condanna di tutta la mia vita come completamente sbagliata.

Questa fu la prima piccola traccia del sentiero - verso casa, come vorrei dire. Richiese tempo e attenzione andare oltre ...

All'inizio era conturbante. I due poliziotti, il tempo e lo spazio, allentavano le manette, ma io non avevo il coraggio di credervi veramente, perfino adesso che voglio tentare di parlarne, trovo che a colui che non ne sa nulla deve sembrare il discorso di un pazzo. Ma chiacchiera demente è tutto quanto ancora non conosciamo, e qui ndi vado avanti tranquillo.

Quando, a Holte, camminavo per una strada, un po' di volgare cerfoglio ai lad mi poteva far pensare alla strada di Henninge e Rudkóbing che ho percorso non poche volte. Questo era un ricordo, e io adesso ero completamente un altro e non più il piccolo monello che camminava verso Rudkóbing; mi riusciva difficile credere che egli fosse veramente me. Ero arrestato dal tempo e dallo spazio.

Ma potevo anche percorrere la stessa strada a Holte contemplandola nella sua esistenza isolata, ed all'improvviso mi trovavo sulla via da Henninge a Rudkóbing ed ero il piccolo monello che vi camminava solo soletto. Adesso ciò accadeva veramente. Quando però volevo protestare e dimostrare di essere in regola coi miei documenti, con il numero degli anni ed i dati, il poliziotto tempo, tenendo le mani in tasca, sorridendo da privato mi diceva: «Al momento non sono in servizio». E non avevo migliore fortuna quando mi rivolgevo al suo collega spazio: anch'egli era in vacanza;

quando guardavo a lungo la strada di Holte per accertare la sua identità essa si apriva ed io vi vedevo la strada per Rudkóbing. Se qualcuno ha

232 Secondo cerchio - L'uomo e la storia

conseguito la certezza che questo 'veder chiaro' è pazzia, devo aggiungere per divertirlo che la cosa non si ferma qui. Ovviamente tutto questo aveva luogo nella mia interiorità. Ero davvero ritornato e ridiventato bambino. Un modo dell'essere che sembrava morto era risuscitato a nuova vita e assorbiva nutrimento attraverso i miei sensi. E io stesso mi domandavo: 'Come si presenterà mai il mondo se a questo essere bambino è dato di svilupparsi, diventando adulto come il resto del mio io?'.

Siccome mi era diventato chiaro che uno stato intcriore, trascurato dai miei educatori come da me stesso, ora si destava reclamando il proprio diritto di vivere, mi proposi di dargli spazio, qualora si fosse fatto vivo e qualora il mio lavoro lo avesse permesso. Nel peggiore dei casi non poteva essere una perdita di tempo superiore a quella di giocare a bridge. E così lentamente avvenne che le cose in questo mondo si aprissero. Non mi è possibile adoperare un'altra espressione, poiché mi sembra sempre una percezione sensitiva il fatto che le cose si aprivano dischiudendomi tutta la loro realtà. Non rinnegavano la loro vecchia figura chiusa, ma si limitavano a dichiarare che questa non era tutta la realtà» (Anker Larsen, Rei offener Tur, introdotto dal Prof. V. Grómbech, Kopenhagen-Leipzig-Zùrich 1926, pp. 24 e 36).

Anche in Kilke si trova qualcosa di analogo, che anche egli definisce «l'aperto». Lo incontriamo nel piccolo scordo Erietmis nel secondo volume delle Opere scelte, sotto forma di un'esperienza della natura di stampo religioso. Un uomo è appoggiato ad un albero e a partire da esso, dal centro della natura, conosce una trasformazione peculiare. Vede ogni cosa sotto un aspetto diverso:

«Comprendeva il soprannumero silenzioso della loro forma: gli era familiare vedere adoperate le forme terrene in modo così passeggero e assoluto; la connessione dei loro usi metteva da parte ogni altra sua educazione; trasportato in mezzo a loro era sicuro di passare inosservato ai loro occhi. Una pervinca vicino a lui, di cui già in altre occasioni aveva incontrato lo sguardo azzurro, lo toccava ora da una distanza più spirituale, ma con un significato così inesauribile come se adesso non vi fosse più nulla da nascondere. Ma anche per il resto poteva notare che tutti gli oggetti gli si mostravano più distanti e allo stesso tempo in qualche modo più veri, cosa che poteva essere dovuta al suo sguardo che non era più diretto in avanti, assottigliandosi là, nell'aperto; guardava, quasi sopra le spalle, indietro alle cose e alla loro esistenza, per lui chiusa, si aggiungeva un gusto audace, dolce come se tutto fosse condito con una piccola dose di fiore dell'addio» (a, p. 266).

Questa esperienza ritorna nelle Elegie duinesi, interrogata più propriamente sul senso esistenziale. Per esempio nell'ottava:

«Con tutti i suoi occhi la creatura vede l'aperto. I nostri occhi soltanto come riversi, come trappole disposti in cerchio intorno a lei, intorno alle sue libere porte.

Secondo cerchio - L'uomo e la storia 233

Capiamo dò che è fuori soltanto dal viso

dell'animale, il bambino appena nato

già lo giriamo ed obblighiamo a vedere la forma

all'indietro, non a vedere l'aperto,

così profondo nell'occhi dell'animale. Ubero da morte.

Noi soli vediamo la morte: il libero animale

ha sempre il suo tramonto dietro di sé

e Dio davanti a sé, e quando va, va cosi

nell'eternità, come vanno le fonti.

Noi non abbiamo mai, neppure un giorno

davanti a noi lo spazio puro, in cui i fiori

si schiudono all'infinito. È sempre mondo

e mai un 'nessun luogo' senza non: la cosa pura,

inosservata, che si respira e

si sa infinitamente e non si brama. Da bimbo

uno si perde in silenzio via dalle cose

e lo si scuote. O quello muore ed è.

Con la morte a un passo, non si vede più la morte,

sbarrati gli occhi si guarda/Mori, forse con lo sguardo grande d'animale».

«Mit allen Augen sieht die Kreatur / Das Offene. Nur unsre Augen sind / wie umgekehrt und ganz um sie gestellt / Als Fallen, rings um ihren freien Ausgang. / Was drauBen ist, wir wissens aus des Tiers / Antlitz al-lein; denn schon das frùhe Kind / Wenden wir und zwingens, daC es ruckwàrts / Gestaltung sehe, nicht das Offne, das / im Tiergesicht so tief ist. Frei von Tod. / Ihn sehen wir allein; das freie Tier/ hat seinen Unter-gang stets hincer sich / und vor sich Gott, und wenn es geht, so gehts / in Ewigkeit, so wie die Brunnen gehen. / Wir haben nie, nicht einen ein-zigen Tag, / den reinen Raum vor uns, in den die Blumen / unendiich aufgehn. Immer ist es Welt / und niemais Nirgends ohne Nicht: das Rei-ne, / Unùberwachte, das man atmet und / unendiich u/eijì und nicht be-gehrt. Als Kind / verliert sich eins im Stilln an dies und wird / gerùttelt. Oderjener stirbc und ists. / Denn nah am Tod sieht man den Tod nicht mehr/ und starrt hinavs, vielleicht mit grofiem Tierbiick» (i, p. 270; tr. it. dt., pp. 347, 349, 351 s., 353).

n concetto sembra fare l'ultimo passo verso ciò che Malte Laurids Brigge chiama alla fine delle Annotazioni il grado estremo dell'amore: quello che non si aspetta più di essere corrisposto, che non è più rivolto a un oggetto, così che i suoi raggi si dispiegano diritti nell'infinito. Appena questo stato è raggiunto. Dio diventa presente, perché Dio stesso è la dirczione dell'apertura. Egli emerge nell'essere aperti, come l'essere diretta all'infinito di questa condizione (il, p. 210).

Riike ha spiritualizzato questo fenomeno in una misura ancora maggiore di quanto non abbia fatto Hólderlin - affermazione che vale anche per altri aspetti: la concezione del dionisiaco, dell'angelo, dei morti, degli animali ecc. Ma ciò è forse dovuto al fatto che il senso intcriore determinante per lui non è stato l'occhio, bensì l'udito, quindi il musicale, ma anche

234 Secondo cerchio - L'uomo e la storia

alla sua collocazione nel periodo finale dell'età moderna. In tutto questo vi è un'analogia tra religione naturale e Rivelazione bibli-co-profetica. Nel caso di quest'ultima, lo Spirito Santo prende possesso della coscienza umana aprendola a ciò che Dio vuole rendere noto; nell'esperienza universalmente religiosa dell'essere aperti cadono le barriere della separazione temporale e spaziale, e ciò che altrimenti è occulto diventa manifesto.

10. Di questo concetto del ritorno dovrebbe essere studiato il senso psicologico ed esistenziale. Un primo approccio potrebbe essere costituito dalla ricerca sul modo in cui viene pensato dapprima da Hólderlin, poi da Kierkegaard ed infine da Nietzsche. Per Hólderlin si tratta dell'evento che salva la storia. Per Kierkegaard l'atto attraverso cui il Dasein, l'«Esse-re», una volta abbandonato tramite il «salto» l'antico livello dell'esistenza e raggiunto quello superiore, riottiene se stesso su questo piano. In Nietzsche, infine, è il ritorno costante di ciò che è già accaduto, quel mistero dell'esistenza davanti a cui la volontà si circoscrive senza riserve in questo finito-esistente, provocando in tal modo l'irruzione del superuomo [o «oltreuomo», come recentemente si è proposto di tradurre - n.d.r.]. Probabilmente, in queste diverse forme di pensiero si manifesterebbero diversi modi di far esperienza del finito e di accettare l'esistenza, fornendo importanti contributi alla conoscenza della situazione esistenziale postmoderna.

Terzo cerchio

Gli dèi e il riferimento religioso

GLI DÈI

NOTA INTRODUTTIVA

Le poesie di Hólderlin sono piene di esseri divini. Per lo più si tratta di numi greci che si ricollegano a concezioni greche, come per esempio il Padre degli dèi e degli uomini, la madre Terra, Apollo, Posidone, Dioniso. Talvolta e solo con breve accenno le divinità della mitologia germanica, come la dea della terra Herta (Nerthus). Infine divinità che - come lo spirito del tempo - sembrano scaturire da un'esperienza primordiale ... Dapprima si è tentati di vedere in queste antiche divinità fenomeni paragonabili a quello d'altri luoghi letterali dove si parla di Apollo o Dioniso. Ma basta analizzare più da vicino il modo in cui Goe-the o Schiller parlano di dèi, per cogliere la differenza. Per loro essi sono figure simboliche o estetiche, per Hólderlin si tratta di autentica esperienza religiosa e di significato esistenziale.

Le antiche figure degli dèi sono talmente legate alle forze e al patrimonio culturale che hanno dato forma all'Occidente, essi possiedono un carattere simbolico talmente chiaro e sono saturi di valori così vivi da

238 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

costituire importanti veicoli per la comunicazione culturale. Poter parlare di Apollo quando si affronta la produzione culturale e in particolare artistica è altrettanto vantaggioso come il disporre dell'immagine del fiume per esemplificare la vita umana. «Apollo» è un simbolo che esprime strutture culturali di fondo, riecheggiando i significati secondari più svariati e comunicandosi sia al pensiero che al sentimento - per di più nella forma preziosa di una bella figura. Esso stimola, esprime, formando una comunanza del capire e del comunicare. A ciò si aggiunge l'impulso più o meno forte di opporsi all'elemento cristiano, nonché il desiderio di collegarsi a quelli «pagani» dell'esistenza. Il discorso sugli dèi ha perciò diversi gradi di serietà. In un Pietro Aretino o in un Lorenzo Valla esso ha più significato per la reale condotta di vita che non nel caso di un poeta del Settecento. E quando Goethe parla di dèi greci la cosa ha più peso che non in Racine o Corneille, per non parlare di Dante. Tuttavia, per quanto ne so, non viene mai affermato seriamente che gli dèi esistano davvero. Dove sembra che ciò avvenga, è la passione artistica o la forza del desiderio di vita ad ingannare. L'entusiasmo dell'Umanesimo per gli antichi, la dimestichezza del dotto Sei o Settecento con la mitologia antica, la profonda devozione del classicismo tedesco per l'intensità e la bellezza delle figure divine greche non sono mai autentica convinzione religiosa. Per quanto riguarda in particolare il classicismo, esso ha collegato l'elemento religioso a valori culturali. L'affermazione di Goethe secondo cui chi non possiede «scienza e arte» abbisogna della religione, mentre chi è colto in esse vi possiede la sua religione, è eloquente. La religiosità classica, per la maggior parte, era davvero arte e scienza:

Gli dèi - Nota introduttiva 239

la sensazione circa la forza dei valori spirituali, poten-ziatrice di vita, la certezza circa la possibilità infinita dell'operare umano. Tutto ciò, avvolto da un senso vivo del mistero, era «religione» e trovava espressione gradita nelle figure profonde e chiare delle divinità antiche. Ma nessuno vorrà dire che Zeus e Apollo siano stati oggetti di vera fede.

Il rapporto di Hólderlin con i numi greci è diverso. Per lui non si tratta di «scienza e arte». Naturalmente è venuto a conoscenza degli dèi attraverso i suoi studi umanistici.

Ma questa conoscenza esteriore sembra avere solo il carattere d'un'occasione che spiana la via alle attitudini intcriori in attesa. Una poesia incompiuta (già citata, p. 162) recita:

Quand'ero fandullo,

Spesso un dio mi scampava

Dagli sgridi e le verghe degli uomini.

Giocavo sicuro e buono Con i fiori del bosco, E le aure del cielo Giocavano con me.

E come tu il cuore Delle piante consoli, Quando esse dincontro Le tenere braccia ti tendono,

Così hai il mio cuore consolato, Padre Elio! e, come Endimione, Io ero il tuo vago, Sacra Luna.

O tutti voi fidi, Amorevoli dèi!

240 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

Se poteste sapere Quanto vi ha la mia anima amato!

Certo allora io non vi invocavo ancora

Con nomi, e neanche voi

Mi chiamavate mai a nome, come uomini si chiamano

Quasi si conoscessero.

Pure conosduto vi ho meglio Che mai abbia conosciuto gli uomini:

Compresi il silenzio dell'etere, Le parole degli uomini non le ho comprese mai.

M'educò il concento

Del bosco pieno di murmuri,

E amare appresi

In mezzo ai fiori.

In braccio degli dèi sono cresciuto.

Da ich ein Knabe war, / Rettet' ein Gott mich oft / Vom Geschrei und der Rute der Menschen, / Da spieit ich si-cher und gut / Mit den Blumen des Hains, / Und die Lùftchen des Himmeis / Spielten mit mir. // Und wie du das Herz / Der Pflanzen erfreust,"/ Wenn sie entgegen dir / Die zarten Arme streckten, // So hast du mein Herz er-freut, / Vater Helios! und, wie Endymion / War ich dein Uebiing, / Heilige Luna! // O ali ihr treuen / Freundii-chen Getter! / DaB ihr wùBtet, / Wie euch meine Seele geliebt! // Zwar damais riefich noch nicht/ Euch mit Na-men, auch ihr / Nanntet mich nie, wie die Menschen sich nennen, / Als kennten sie sich. // Doch kannt ich euch besser, / Als ich je die Menschen gekannt, / Ich verstand die Stille des Àthers, / Der Menschen Worte verstand ich nie. // Mich erzog der Wohllaut / Des sàuseinden Hains / Und lieben lernt ich / Unter den Blumen. // Im Arme der Getter wuchs ich gro6 (i, pp. 266-267; tr. it. dt., pp. 31-33).

Gli dèi - Nota introduttiva 241

Sarà certo impossibile controllare se l'esperienza vissuta d'infanzia qui descritta sia biograficamente attendibile, se proietti indietro un evento successivo oppure se colleghi una comune nostalgia d'infanzia alle figure più tardi amate. Ma si può sicuramente assumere per certo che si tratta di una esperienza vera. Infatti, la poesia distingue espressamente tra l'esperienza stessa e l'espressione che il poeta trova per essa nelle denominazioni fomite dalla sua formazione. Questa esperienza è immediatamente religiosa e si rivolge a divinità.

Quando Hólderlin s'imbattè nei Greci deve aver avuto la sensazione di ricevere da loro l'interpretazio-ne delle sue esperienze più personali. Il che non esclude che queste esperienze siano state a loro volta stimolate e determinate da quelle figure. Era stato educato religiosamente, ma non aveva avvertito le dottrine e le figure cristiane come espressione immediata del suo esperire vissuto religioso. Inoltre non gli erano parse abbastanza valide da poter loro affidare questa esperienza perché la trasformassero. E la cristianità che incontrava non era idonea a rappresentare la vera natura del cristianesimo (v, infra, p. 630).

La facoltà religiosa era sviluppata in Hólderlin in modo eccezionalmente puro e forte. Si può forse affermare che aveva la guida della sua vita intcriore. Era l'esperienza religiosa, insieme ad una forza poetica mirabilmente pura nel contemplare e nell'esprime-re, a determinare in modo inappellabile il suo quadro di valori.

Ma l'atteggiamento religioso e poetico di Hólderlin si distingueva nettamente da quello dell'età moderna: ad esso mancava la soggettività. La sua co-

242 Teno cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

scienza religiosa non era rivolta a stati ed esaltazioni personali, ma a potenze ed esseri oggettivi. L'interiorità che gli stava a cuore non era una sfera soggettiva, ma l'ambito profondo dell'essere reale, dell'uomo singolo come del popolo, del fiume e della montagna, della pianta e dell'animale, del paese, della terra, del mare, infine del mondo.

E la sua volontà artistica non chiedeva di comunicare esperienze vissute personali, ma di celebrare altezze, di annunciare potenze, di essere il portavoce di grandi avvenimenti e il messaggero di rivendicazioni cosmiche. Congiungiamo l'elemento religioso e quello artistico: egli era ciò che dopo Dante non era più stato nessuno, veggente e voce che appella. Era una natura religiosa di primissimo ordine - con questo non si vogliono giudicare le sue convinzioni, ma dare una caratterizzazione della sua struttura. Quest'uomo incontrò un cristianesimo, che aveva fondamentalmente perso il proprio carattere religioso risolvendosi nella filosofia e nella morale - che era sfuggito dal contesto del mondo e della storia, chiudendosi nell'isolamento spirituale del pietismo.

In tal modo Hólderlin doveva ricavare l'impressione che quanto egli unicamente poteva intendere come religione, quel potere che si trasmette da essere a essere, comprendendo popolo e mondo, non esisteva più - e ancor meno poteva diventargli evidente la realtà del cristianesimo che abbatte e ricostruisce l'esistenza. Davanti ai criteri di una simile esperienza religiosa la rivendicazione di questo cristianesimo di essere la rivelazione della potenza vivente di Dio non poteva reggere. Anche l'influsso di sua madre sembra abbia operato nella stessa dirczione. Evidentemente,

Gli dèi - Nota introduttiva 243

non ha compreso il figlio a lei tanto superiore, gravando con la sua indole gretta, ma allo stesso tempo forte, sul suo animo sensibile. Ciò doveva sortire effetti anche in ambito religioso, dove l'influsso dell'atmosfera materna è particolarmente importante, provocando antipatìa contro quel tipo di religiosità. A questo si aggiunge che egli ha scelto, da lei influenzato o comunque per poterla aiutare, la non amata professione ecclesiastica. Non stupisce quindi che la resistenza contro quest'ultima si sia estesa anche al suo contenuto, il mondo delle immagini e della vita del cristianesimo. Hólderlin prende le distanze dal messaggio cristiano, trovando l'adeguata espressione della sua esperienza nell'antico mondo degli dèi o in numi di creazione originale che però tradiscono l'influsso greco. Contemporaneamente li trasporta, attraverso la forma d'esperienza, l'atmosfera e lo stile, nell'ambito nordico. Lo stesso fece Nietzsche, quando nella cornice della sua Engadina sintetizzò la forma greco-meridionale e il senso nordico della vita o quando costituì il paesaggio «europeo» dello Zarathwtra.

Ma gli dèi di Hólderlin hanno una profondità metafisica e un'interiorità spirituale che non sono spiegabili esclusivamente attraverso la fusione di Sud e Nord. Numerosi tratti particolari, ma anche l'atteggiamento e l'atmosfera palesano un ulteriore influsso: appunto dell'elemento cristiano che Hólderlin ha abbandonato. Scaturendo da legami più profondi di quelli creati dall'esperienza personale e dal giudizio individuale, l'interiorità dell'anima che incontra Cristo, e l'amore del cuore toccato dallo Spirito Santo, influiscono sulle rappresentazioni e gli ordinamenti. Di qui la vitalità profondamente toccante, di qui la

244 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

«intimità» degli dèi e della natura in Hólderlin. Essi hanno una dimensione in più rispetto agli antichi dèi. Essi si rapportano a questi come per esempio VIfige-nia di Goethe a quella del mito greco.

Questo elemento segretamente cristiano che dapprima si esprime solo come dimensione interna, come moto interno e calore dell'essere e come possibilità della vicinanza, si manifesta poi apertamente. Dopo aver omesso per un certo tempo tutte le immagini e tutti i pensieri espressamente cristiani, comincia a destarsi in lui la figura di Cristo. Essa acquista una forza sempre maggiore, ed il mondo degli antichi numi entra con essa in un conflitto per la cui profondità il concetto della sintesi idealistica è del tutto insufficiente. E una lotta nello spirito, nel cuore e nel sangue, che però non entra nella fase finale, spegnendosi invece in concomitanza col crollo psichico. Di ciò si parlerà per esteso nel quinto cerchio. Le prossime pagine si propongono di descrivere le diverse figure del divino, incontrate nell'opera di Hólderlin, secondo i loro caratteri particolari e all'interno del loro contesto.

L'ETERE

Alla fine della poesia II viandante troviamo la seguente invocazione:

[...] Tu però, oltre le nubi,

Padre della Patria, possente Etere, e voi,

Terra e luce! Voi tré che soli regnate e amate,

Eterni dèi, con voi i miei legami mai si spezzeranno.

Usato da voi, con voi ho camminato,

A voi, o gioiosi, tomo, più ricco d'esperienza.

[...] Du aber, ùber den Wolken, / Vater des Vaterlands! màchtiger Àther! und du, / Erd und Ucht! ihr einigen drei, die walten und lieben, / Ewige Gótter! mit euch bre-chen die Bande mir me. / Ausgegangen von euch, mit euch auch bin ich gewandert, / Euch, ihr Freudigen, euch bring ich erfahrner zurùck (il, p. 83).

L'etere è la suprema delle divinità di Hólderlin. E da esso, quindi, che inizierà il tentativo di descriverne l'essere ed il contesto. Una delle elegie, All'Etere, è interamente dedicata a lui:

Fido e amorevole come tè nessuno fra gli dèi e gli uomini M'allevò, o Padre Etere! Prima ancora che la madre Nelle bracda mi prendesse e mi nutrisse al suo seno Tu già mi reggevi teneramente e un filtro celeste, Col sacro alito mi versavi nel germogliante petto.

246 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

Di cibo terreno non prosperan solo i viventi

Ma tu li alimenti tutti col tuo nettare, o Padre'

Urge e trabocca fuori della tua eterna pienezza

L'animante aura per le vene di tutta la vita.

Perciò le creature ti amano e lottano e anelano in alto

Incessantemente verso tè in gioioso rigoglio.

O celeste, non cerca tè con i suoi occhi la pianta, Non è a tè che tende le bracda Umide l'umile arbusto? Per tè trovare il seme prigione rompe il suo guscio;

Per bagnarsi, da tè avvivato, nell'onda tua II bosco si scuote di dosso la neve, manto troppo pesante.

Anche i pesci salgono al sommo e guizzano desiderosi Sul lucido piano del fiume quasi agognassero anch'essi Tè dalla loro culla: anche alle nobili fiere terrestri Mutasi in volo il passo, quando la brama violenta, L'occulto amore per tè li afferra, all'alto li tira.

Treu und freundiich, wie du, erzog der Getter und Men-schen / Keiner, o Vater Àther! mich auf; noch ehe die Mutter / In die Arme mich nahm und ihre Brùste mich trànkten, / FaBtest du zàrdich mich an und gossest him-mlischen Trank mir, / Mir den heiligen Othem zuerst in den keimenden Busen // Nicht von irdischer K.ost gedei-hen einzig die Wesen, / Aber du nàhrst sie ali mit deinem Nektar, o Vater ! / Und es dràngt sich und rinnt aus dei-ner ewigen Fulle / Die beseelende Luft durch alle Róhren des Lebens. / Darum lieben die Wesen dich auch und rin-gen und streben / Unaufhórlich hinauf nach dir in freudi-gem Wachstum. // Himmlischer! sucht nicht dich mit ihren Augen die Pflanze, / Streckt nach dir die schùchter-nen Arme der niedrige Strauch nicht? / Da£ er dich finde, zerbricht der gefangene Same die Hùlse, / DaB er belebt von dir in deiner Welle sich bade, / Schùtteit der Wald den Schnee, wie ein ùberlàsting Gewand ab. / Auch die Fi-sche kommen herauf und hùpfen verlangend // Ùber die glànzende Flàche des Stroms, als begehrten auch diese /

L'Etere 247

Aus der Wiege zu dir; auch den edein Tieren der Erde / Wird zum Fluge der Schritt, wenn oft das gewaltige Seh-nen, / Die geheime Uebe zu dir sie ergreift, sie hinauf-zieht (I, p. 204; tr. it. dt., p. 17).

E ancora:

[...] anela il mio cuore

Meravigliosamente d'ascendere a loro: una patria amorevole

Di lassù mi sorride: e sovra i picchi dell'alpe

Vorrei valicare e dar voce di là all'aquila veloce,

Perché come già nelle bracda di Giove il fanciullo beato

Fuori di prigionia mi tragga alla volta dell'Etere.

[...] Und es sehnt si eh auch mein Herz / Wunderbar zu ih-nen hinauf; wie die freundiiche Heimat, / Winkt es von oben herab und auf die Gipfel der Alpen / Mócht ich wan-dern und rufen von da dem eilenden Adier, / DaB er, wie einst in die Arme des Zeus den seligen Knaben, / Aus der Gefangenschaft in des Àthers Halle mich trage (I, p. 205;

tr. it. dt., p. 19).

L'immagine dell'etere è ricca e fluente. Il suo contenuto è forse riconducibile a tré linee. La prima, parte dall'aria che scorre. Attraverso il soffio, la concezione dell'aria cosmica si collega a quella della vita:

di una vita cosmica che attraverso il soffio entra nella vita individuale trasformandosi in essa. Attraverso lo stesso concetto del respiro-soffio, essa è altresì legata a quello dell'«anima», intesa come vitalità che trascende la materia, nonché a quello dello «spirito», inteso come la corrente creativa e numinosa che coinvolge l'uomo, elevandolo nel mistero. Dietro a queste concezioni sta lo Spirito Santo della Scrittura, ridotto a pallida controfigura mondana. Il secondo piano di significati prende le mosse dallo spazio, dalla vastità

248 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

del mondo con la sua potenza che apre il cuore, dall'altezza che costituisce il polo opposto vivente dell'interiorità, chiamandola verso l'alto. Questa altezza può diventare un nuovo tipo di «profondità», un'interiorità dell'altezza; vedi il passo nello Zarathwtra dove Nietzsche parla dell'«abisso di luce» del cielo mattutino (Parte terza, Vor Sonnenaufgang [Prima dell'aurora]). Dall'altezza e dalla potenza che domina in essa si passa all'elemento metafisico: alla maestà del senso, all'imporsi di ciò che vale. In quel caso la visione significa l'espressione spaziale di quanto si impone e contemporaneamente l'abissalità di ciò che è valido. Veniamo rimandati al «luogo del senso» di Fiatone. Ma la maestà di senso del regno delle idee in Hólder-lin si è trasposta completamente in contemplabilità cosmica, e inoltre dev'essere pensata non come altezza in stato di quiete, ma potenza che domina1. Anche questa altezza chiama il vivente. L'anelito verso l'alto, già insito nella struttura della vita organica, che, pur superandola, presuppone la gravita, si unisce all'anelito spirituale destato dall'altezza in quanto regione di valori. Nasce così un èros cosmico che spinge tutti gli esseri «verso l'alto» ...

Entrambe le rappresentazioni: quella del vivente e di ciò che dona vita come anche quella dell'altezza con la sua potenza di senso sono infine collegate con l'impressione di stare sotto il dominio, la protezione, la benedizione di una potenza divina. Vi confluiscono anche, estenuati e volti in dimensione cosmica, i pensieri e gli atteggiamenti intcriori legati alla dottrina cristiana della Provvidenza...

Tutto ciò si condensa nel concetto di «Padre Etere». Esso non deve essere concepito ne come un esse-

L'Etere 249

rè astratto dal mondo ne come idea o personificazione delle connessioni fin qui sviluppate. Esso è al contrario il tutto che si estende dall'aria empirica al «Pneuma del mondo», dallo spazio cosmico a quello del senso, dal respiro biologico e dal suo ordine al dominio divino onnipresente. Dietro a questo tutto vi è, nella funzione di ciò che conferisce forma, l'immagine di Zeus, il «padre degli dèi e degli uomini», ma anche, in termini ormai indeterminati, quella del «Padre nei cieli» biblico. Essa è responsabile di quell'unione di potenza e clemenza, di quella vicinanza ed intimità di cuore con il mondo che non si riscontrano ne nell'immediata esperienza della natura ne nelle rappresentazioni antiche degli dèi.

Questo contesto appare, visto totalmente dal regno dell'aria e declinato nell'amabilità, nel passo già citato dall'Iperione, prima dell'incontro con Diotima:

Era ben visibile come ogni cosa che viva desideri più del cibo abituale e come, sia l'uccello, sia la fiera, abbia il suo giorno di festa.

Era uno spettacolo che rapiva! Come quando la madre chiede, vezzeggiando, ove sia, intorno a lei, ciò che le è più caro e tutte le sue creature le si precipitano in grembo e anche il più piccolo tende, dalla culla, le braccia, così ogni essere vivente volava, saltava e tendeva verso l'aurora divina, e insetti e rondini e colombi e dcogne s'aggiravano in alto e in basso in giubilante confusione, e dò che la terra attira a sé mutava il passo in volo, il cavallo saltava d'impeto oltre i fossi, il capriolo oltre le siepi e, su dal fondo del mare, salivano i pesci e saltellavano sulla superficie delle acque. L'aura materna penetrava in tutti i cuori, li levava verso l'alto e li attirava a sé.

E gli uomini usavano fuori dalle porte e sentivano in modo meraviglioso come il soffio spirituale agitasse legger-mente i delicati capelli sulla fronte e rinfrescasse il raggio

250 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

di luce, ed essi scioglievano lieti le vestì per accoglierlo nel petto; respiravano più dolcemente, sfioravano più delicatamente il mare chiaro, leggero e carezzevole, nel quale essi vivevano e si muovevano.

Oh, sorella di quello spirito che domina e vive in noi con potente ardore, sacra luce! come è bello l'essere guidato da tè ovunque diriga i miei passi. Onnipresente, immortale! L'alto elemento giocava con i bambini nel modo migliore. Uno bisbigliava piacevolmente fra sé e sé, a un altro sgorgava dal labbro una canzone non legata a un ritmo, a un altro un canto di giubilo a piena gola; uno se ne stava sdraiato, l'altro saltava in alto, un altro passeggiava assorto nei suoi pensieri.

E tutto questo era l'espressione di un solo benessere ed una sola risposta alle carezze delle aure ammalianti. Ero tutto pervaso da un indescrivibile desiderio e da un senso di pace. Una forza a me ignota mi dominava. Spirito amico, dicevo tra me, verso dove mi chiami? verso l'Eliso o verso dove? (II, pp. 146 ss.; tr. it. dt., pp. 70-71).

Il tono è adeguato all'atteggiamento lirico deìVIpe-rione, ma non esprime ancora il senso ultimo di ciò che significa «Etere». Nel senso più proprio esso è «padre», e l'aria è il suo alito.

L'immagine diurna dell'etere, finora descritta, viene completata dalla poesia Alla speranza:

In verde valle ove la fresca polla Del monte mormora perenne e il colchico Alla luce d'autunno apre il suo fiore, Là, in quella pace, tè, benigna, io voglio

Cercare: o quando, nella colma notte D'invisibile vita il bosco ferve E sul mio capo da corolle eterne Raggiano liete le stelle sicure,

O dell'Etere figlia, appari allora

L'Etere 251

Dai giardini del Padre: e se non puoi Promettermi un bene mortale, oh, sgomenta, Sgomenta almeno con altro il mio cuore.

Im grùnen Tale, dort, wo der frische Quell / Vom Berge tàglich rauscht, und die liebiiche / Zeitlose mir am Herbst-tag aufblùht, / Dort, in der Stille, du Holde, will ich // Dich suchen, oder wenn in der Mitternacht / Das unsicht-bare Leben im Haine walit, / Und ùber mir die immerfro-hen / Blumen, die blùhenden Steme, glànzen, // O du des Àthers Tochter! erscheine dann / Aus deines Vaters Gàrten, und darfst du nicht / Ein Geist der Erde kom-men, schróck, o / Schrócke mit anderem nur das Herz mir (II, p. 59; tr. it. cit., pp. 91-93).

Ciò che queste strofe esprimono fa ugualmente parte dell'etere. Non è la notte come potenza opposta alla luce perché questa apparterrebbe alla terra, bensì l'ambito degli astri caratterizzato dalla chiarezza immota e dal mistero splendente. Non semplicemente «luce», ma mondo delle forme di luce, delle immagini stellari, dei «fiori del cielo». La loro impressione si trasforma nel senso di potenzialità e promesse infinite, e si leva un èros di tipo nuovo: quello nato dall'angustia e stento e che ha nome speranza. Anch'esso ha qualcosa del tipo del Pnéuma, del misterioso perché è sicuro di ciò che, di fronte al puramente terreno, sembra impossibile.

Nella poesia Ritomo in patria il dominio dell'etere è descritto in modo particolarmente suggestivo:

Quiete risplendono intanto le argentee cime nell'alto E già colma di rose è lassù la neve raggiante. Ancor più su ha sua stanza, sopra la luce, il puro Beato Iddio, dal gioco dei sacri raggi allietato. Tacito e solo dimora e chiaro riluce il suo viso:

252 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

Par che l'Eterico a dare vita s'inclini,

Gioia a creare, con noi: come quando, esperto della misura,

E dei mortali esperto, con indugio e clemenza Iddio

Solida fortuna alle atta e alle case, e miri

Piogge a dischiudere i campi, e covanti nuvole, e voi,

Care brezze, voi, dola primavere, manda;

E con lenta mano i tristi di nuovo fa lied

Quando innova i tempi, il creante, e i muti

Cuori dell'umanità vecchia ristora e scuote

E giù nel profondo opera e apre e rischiara,

Come egli ama; e adesso di nuovo una vita comincia,

La grazia rifiorisce come un tempo, toma presente lo Spirito

Ed un allegro coraggio di nuovo le ali rigonna.

Ruhig glànzen indes die silberner Hóhen darùber, / Voli mit Rosen ist schon droben der leuchtende Schnee. / Und noch hóher hinauf wohnt ùber dem Uchte der reine / Se-lige Gott vom Spiel heiliger Strahien erfreut. / Stille wohnt er allein und hell erscheinet sein Antlitz, / Der àtherische scheint Leben zu geben geneigt, / Freude zu schaffen, mit uns, wie oft, wenn, kundig des MaBes, / Kun-dig der Atmenden auch, zógernd und schonend der Gott / Wohigediegenes Glùck den Stàdten und Hàusern und milde / Regen, zu óffnen das Land, brùtende Wolken, und euch, / Trauteste Lùfte dann, euch, sanfte Frùhiinge, sendet, / Und mit langsamer Hand Traurige wieder erfreut, / Wenn er die Zeiten erneut, der Schópferische, die stillen / Herzen der alternden Menschen erfrischt und er-greift, / Und hinab in die Tiefe wirkt, und aufhellt, / Wie ers liebet, undjetzt wieder ein Leben beginnt, / Anmut blùhet, wie einst, und gegenwàrtiger Geist kómmt, / Und ein freudiger Mut wieder die Fitdche schwellt (il, pp. 96-97; tr. it. cit., p. 145).

Qui la rappresentazione del dominare e del dotare compie il trapasso nello storico, e l'etere si congiunge con la divinità di quest'ultimo, lo «Spirito del tempo».

Il rapporto con la storia è ancora più profondo in

L'Etere 253

Germania. Dapprima si dice che le figure temporali tramontano, e i loro dèi con esse. Ma ciò che è morto è ancora presente: esso vive, infatti, nello spazio dell'etere, pronto a rientrare nella storia. Ma il veggente attende questo evento:

[...] Sente

L'ombre di coloro, che sono già stati,

Gli antichi, e che la terra tornano a visitare.

Poiché quelli che là debbono giungere, incalzano noi

E non può più indugiare di uomini-dèi

La sacra schiera ancora nell'alto azzurro.

[...] Er fùhit / Die Schatten derer, so gewesen sind, / Die Alten, so die Erde neubesuchen. / Denn die da kommen sollen, drangen uns, / Und lànger sàumt von Góttermen-schen / Die heilige Schar nicht mehr im blauen Himmel (II, pp. 149-150; tr. it. cit-, p. 207).

Ora, l'etere è una delle due zone ultraterrene del mondo in cui il passato vive, pronto a rientrare nella storia. Di questa concezione abbiamo già parlato compiutamente (il, supra, p. 190).

In Pane e vino il ritorno si esprime quasi sotto la forma di un mistero dionisiaco:

[...] e dove suona il grande destino?

Dov'è il veloce? Dove, d'un bene universo ricolmo

Rompe sugli occhi, tuonando dall'aria serena?

'Padre! Etere!' ecco il grido che di labbro in labbro volava

In mille modi e nessuno sopportava la vita da solo.

Comparato rallieta un tal bene e con estranei scambiato

Diventa un giubilo, cresce dormendo il potere della parola:

«Padre! Sereno!» e risuona da ogni distanza il segno Originario, ereditato dagli avi e ove giunge crea. Così prendono stanza i celesti e spargendo un brivido fondo Fuori dalle ombre scende, fra gli uomini, il loro giorno.

254 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

[...] wo tónet das groBe Geschick? / Wo ist das schnelle? Wo brichts, allgegenwàrtigen Glùcks voli, / Donnemd aus heiterer Luft ùber die Augen herein? / Vater Àther! So riefs und flog von Zunge zu Zunge / Tausendfach, es er-trug keiner das Leben allein; / Ausgeteilet erfreut soich Gut und getauschet, mit Fremden, / Wirds ein Jubel, es wàchst schlafend des Wortes Gewalt / Vater! Heiter! Und hallt, so weit es gehet, das uralt / Zeichen, von Eltem ge-erbt, treffend und schaffend hinab. / Denn so kehren die Himmlischen ein, tiefschùttemd gelangt so / Aus deri Schatten herab unter die Menschen ihr Tag (il, p. 92; tr. it. dt., p. 137).

Anche il dramma di Hólderlin è interamente permeato dall'immagine dell'etere e dal rapporto connesso (IV, infra, p. 564). Empedocle è il confidente del dio supremo, sacerdote regale che conosce l'ordine dell'esistenza e il segreto delle cose, legislatore, saggio, guaritore. Ma la sua conoscenza non è immediata e forte abbastanza, bensì qualcosa di secondario. Inoltre, egli non è sufficientemente puro e fa cattivo uso della confidenza divina. In tal modo il dramma diventa la tragedia dell'etere stesso, compiendosi nell'uomo che non è all'altezza del rapporto con esso.

Questo insieme che dalla realtà empirico-biologica e cosmica, passando per la sfera spirituale intcriore, si estende al mistero, costituisce una divinità. Non si tratta - per dirlo ancora una volta - della personificazione di un concetto, come quello dell'altezza, oppure dell'ordine della vita. Non si tratta nemmeno della forma poetica conferita a un elemento del mondo, per esempio del legame tra aria, alito, anima, moto degli spiriti, ispirazione, trasformazione. L'etere non è neppure un

L'Etere 255

simbolo di quanto è sempre valido, per esempio della verità e della sapienza, correlata alla potenza di senso che da forma alla storia. E non è, per finire, l'espressione metaforica per designare un ambito di ciò che è a noi sottratto, in cui l'esistenza trapassa, per rimanere comunque immanente al mondo. Si tratta invece di qualcosa di primordiale, di un Uno e di un Tutto, che, racchiudendo tutti i momenti e rapporti citati, viene sperimentato come nume.

LA TERRA

All'etere si contrappone la terra, all'altezza la profondità o, meglio, l'interiorità, alla potenza del Padre la grande Madre. Anche la figura di quest'ultima è riccamente sviluppata nella poesia di Hólderlin. Essa si afferma in modo così vivo e immediato da non poter essere frutto di escogitazione filosofica o di creazione poetica, ma solo di un'esperienza vissuta primordiale.

L'immagine della terra appare incantevolmente bella nella poesia Alla Primavera:

Tu che fai giovani i cuori, e i campi. Primavera sacra,

Prima nata nel grembo del tempo! Possente! Salve a tè!

Salve! Spezza le catene e ti leva canti di gioia,

Tanto che treman le rive, il fiume; noi giovani inebriati

Esultiamo là, dove il fiume t'onora, scopriamo

Al tuo soffio d'amore, o benigna il petto ardente, e d tuffiamo

Nel fiume giù, esultando con lui, chiamandoti sorella.

Sorella! Come bene danza, con mille espressioni di gioia,

Oh, e mille d'amore, nell'Etere sorridente,

La tua terra, da che dalle valli d'Eliso tu

A lei ('accostasti, giovinetta celeste, con la magica verga!

Der du Herzen verjùngst, und Fluren, heiliger Frùhiing, / Erstgeborner im SchoBe der Zeit! Gewaltiger! Heil dir! / Heil! Der Fessel zerriB, und tónt dir Feiergesànge, / DaB die Gestad' erbeben, der Strom; wirJùnglinge taumein,/

258 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

Jauchzen hinaus, wo der Strom dich preist, wir enthùllen, du Holder, / Deinem Uebeshauche die glùhende Brust, und stùrzen hinunter / In den Strom, und jauchzen mit ihm, und nennen dich Bruder. // Bruder! Wie tanzt so schón, mit tausendfaltiger Freude / Ach! Und tausendfàlti-ger Ueb im làcheinden Àther / Deine Erde dahin, seit aus Elysiums Talen / Du mit dem zauberstab ihr nahtest, him-mlischerJùngling! (i, p. 202).

Qui essa viene vista come astro nello spazio: dall'alto di questo spazio, cosmico e con un occhio che ne ha la vastità. Nel corso della poesia l'amabilità cosmica trapassa in quella propriamente «terrena», vicina all'uomo. Della prima giovinezza della terra parla l'ode L'uomo:

Quando a tè affioraron dall'acqua, o Terra,

Le cime dei giovani monti, e profumarono,

Dolce esalando, piene di boschi sempreverdi,

Nel grigio deserto dell'oceano ;

Le prime vaghe isole; e lieto vide L'occhio del dio Sole le novelle Piante, della sua eterna giovinezza creature sorridenti, da tè nate.

Kaum sproBten aus den Wassern, o Erde, dir / Der jun-gen Berge Gipfel und dufteren / Lustatmend, immergrù-ner Haine / Voli, in des Ozeans grauer Wildnis. // Die er-sten holden Insein; und freudig sah / Des Sonnengottes Auge die Neulinge, / Die Pflanzen, seiner ewgenJugend/ Làcheinde Kinder, aus dir geboren (i, p. 263).

Il tono si fa più serio néll'Empedocle. Nel primo atto della prima versione il veggente dice alla luce:

Viveva in me la tua anima

La Terra 259

e, al pari tuo, il mio cuore apertamente

si donò alla Terra sofferente e solenne, e spesso,

nella notte sacra, fed il voto di amare sempre lei,

la Fatale, senza umore e in fede, e di non disprezzare

nessuno dei suoi misteri. Così strinsi con lei

il mio petto mortale. Allora nel bosco

si udiva uno stormire diverso e delicati

mormoravano i ruscelli dei suoi mond.

E con affocata dolcezza nell'alito dei fiori spira,

o Terra, a me la tua calma vita.

E tutte le tue gioie, Terra, non come

quelle che sorridendo porgi ai deboli,

stupende quali sono, e calde e vere,

maturate d'amore e di fatica, tutte mi donasti,

e spesso, stando su vette silenti, stupito

meditavo sul sacro fluire della vita,

in preda a commozione per le tue metamorfosi,

e presagendo il mio stesso destino, l'etere

bagnava con il suo respiro me come tè

per medicare il mio petto ferito d'amore

e come per magia nel suo profondo

si scioglievano i miei enigmi [...]

Denn deine Seele war in mir, und offen gab / Mein Herz, wie du, der ernsten Erde sich, / Der leidenden, und oft in heilger Nacht / Gelobt ichs ihr, bis in den Tod / Die Schicksaisvolle furchtios treu zu lieben / Und ihrer Ràtsel keines zu verschmahn. / So knùpft ich meinen Todesbund mit ihr. / Da rauscht' es anders denn zuvor im Hain, / Und zàrtiich tónten ihrer Berge Quellen / Und feurig mild im Blumenothem weht', / O Erde! Mir dein stillers Leben zu. / Ali deine Freuden, Erde! Nicht wie du / Sie làcheind reichst dem Schwàchern, herrlich wie sie sind, / Und warm und groB aus Mùh und Lieb reifen - / Sie alle gabst du mir, und wenn ich oft / Auf stiller Bergeshóhe sa6 und staunend / Des Lebens heilig Irrsal ùbersann, / Zu tief von deinen Wandiungen bewegt / Und eignes Schicksal ahndend, / Dann atmete der Ather, so wie dir, /

260 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

Mir heilend um die liebeswunde Brust,/ Und zauberisch in seiner Tiefe lósten / Sich meine Ràtsel auf [...] (in, pp. 91-92; tr. it. cit., pp. 53-55).

Da queste parole emerge il carattere particolare della Terra: essa ha un destino. L'Etere è senza destino. La sua sfera è quella olimpica, intangibile a ciò che avviene. La Terra invece attraversa le fasi del fiorire, portar frutto, morire, dell'irrigidirsi nel gelo e del risveglio. Le stagioni della vita sono la forma dell'esistenza che le è propria. Essa è madre ed ha anche un destino materno, quello evocato dal mito di De-metra.

Un discorso ancora più potente su di lei si svolge in Empedocle sull'Etna:

Se, come dia, sei il confidente

del Tonante e se vive in armonia

il tuo spirito con lui che di ogni cammino è esperto,

vieni con me ora che, troppo solo,

il mio cuore si lamenta della terra e,

memore dell'antica unità, l'oscura madre

tende le bracda di fuoco all'etere

e il Sovrano giunge nel suo raggio,

seguiamolo, in segno d'essergli

affini, giù nelle sacre fiamme.

Und wenn du, wie du sagst, des Donnerers / Vertrauter bist, und eines Sinns mit ihm / Dein Geist mit ihm, der Pfade kundig, wandeit, / So komm mit mir; wenn itzt, zu einsam sich, / Das Herz der Erde klagt, und eingedenk / Der alten Einigkeit die dunkie Mutter / Zum Àther aus die Feuerarme breitet, / Und itzt der Herrscher kómmt in seinem Strani, / Dann folgen wir, zum Zeichen, daB wir ihm / Verwandte sind, hinab in heilge Flammen (ili, pp. 223-224; tr. it. dt-, p. 241).

La Terra 261

La sua figura assume infine una cupa grandezza nel seguente brano: :

Per Eracle divino, anche se tu scendessi

a visitare i Titani placando

i possenti laggiù, dall'alta vetta

fin nella valle senza fondo e se tu osassi

entrare nel sacrario dell'abisso

dove paziente si cela il cuore della Terra

prima che si levi il giorno,

e l'oscura madre ti rivela le sue pene, figlio della Notte

e dell'Etere, è ceno, fin laggiù d seguirei!

Beim góttlichen Herakies! Sdegst du auch, / Um die Ge-waltigen, die drunten sind, / Versóhnend, die Titanen heimzusucheri, / Ins bodenlose Tal, von jenem Gipfel dort, / Und wagtest dich ins Heiligtum des Abgrunds, / Wo duldend vor dem Tage sich das Herz / Der Erde birgt und ihre Schmerzen dir / Die dunkie Mutter sagt, - o du der Nacht, / Des Àthers Sohn: ich foigte dir hinunter! (m, p. 213; tr. it. dt-, pp. 225-227).

Negli ultimi due testi la Terra diventa l'ambito intemo del mondo. Essa costituisce l'altra zona a noi sottratta, opposta a quella dell'Etere. E il centro del tutto, verso cui si spinge l'inclinazione della vita, è lo spazio dell'esistere preindividuale, da cui tramite la nascita è scaturita ogni cosa viva e chiara in una forma e a cui ritorna attraverso la morte - vedi ciò che è stato detto sopra sul desiderio della vita, che tende alla profondità (i, supra, p. 38) e sulla morte (II, supra, p.183).

L'Etere è chiaro e lieto; la Terra oscura e sofferente. All'Etere è correlato l'aperto dispiegamento, nella luce e nella vastità; alla Terra il silenzio e la chiusura, la radice e il grembo. All'Etere appartengono la for-

262 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

tuna, il successo, la libertà: alla Terra la gioia, ma anche la sofferenza della fecondità, ciò che è gettato in basso, sceso al fondo. Ad esso spetta il privilegio, il trionfo del dominio; ad essa la pienezza della vita, ma anche la crudeltà, che si accompagna al nuovo formarsi e nascere.

Tellurici sono quindi anche i Titani, le antiche divinità ctoniche vinte dagli Olimpici. Ma esse sono vinte solo di fatto, non di diritto e per essenza. Esse devono servire l'ordine attuale, ma non hanno accettato il loro destino, continuando a rivendicare un mondo determinato da loro. Esse sono perciò una continua fonte di pericolo, e la terra ne è il focolare. Qui il fermento del grembo si trasforma in confusione e terrore, la primordialità del divenire e nascere si muta in sedizione e distruzione.

La delicata poesia A Diotima ci mostra il caos in concomitanza alla vita traboccante e alla letizia cosmica della terra:

II delo prima sfiorò con lieve stilla d'argento II suo fratello, il fiume;

Vidno è ora, ora versa tutta la piena stupenda

Che portava nel cuore

Sul bosco e sul fiume, •

E il verde del bosco e il delo riflesso nel fiume

Balugina e dilegua innanzi a noi • ;

E il capo del monte solingo con le casette e le rupi

Che nel grembo nasconde,

E i colli che a lui intorno, come agnelli sdraiati,

E in boscaglia fiorita

Come in tenera lana avvolti si nutrono di chiare

Fresche sorgenti del monte,

E la valle vaporante con i suoi seminati e i suoi fiori,

E il giardino a noi innanzi,

La Terra 263

II vicino e il lontano sfuma e si perde in lieto tumulto E si spegne il sole.

Leise berùhrte der Himmel zuvor mit der silbemen Trop-fe / Seinen Bi-uder, den Strom; / Nah ist er nun, nun schùttet er ganz die kóstliche Fùlie, / Die er am Herzen trug, / Ùber den Hain und den Strom, / Und das Grùnen des Hains, und des Himmeis Bild in dem Streme / Dàm-mert und schwindet vor uns, / Und des einsamen Berges Haupt mit den Hùtten und Felsen, / Die er im SchoBe ver-birgt, / Und die Hùgel, die um ihn her, wie Làmmer, gela-gert / Und in blùhend Gestràuch / Wie in zarte Wolle ge-hùllt, sich nàhren von klaren / Kùhlenden Quellen des Bergs, / Und das dampfende Tal mit seinen Saaten und Blumen, / Und der Garten vor uns, / Nah und Fernes ent-weicht, verliert sich in froher Verwirrung/ Und die Sonne verlischt (i, p. 210; tr. it. dt, pp. 25-27).

Ma solo un piccolo passo separa il bei caos della fecondità da quello malvagio della distruzione e del terrore, come avverte l'ultima strofa dell'inno II Reno. L'intera poesia annuncia il trionfo della forma vinci-trice, il superamento del caos. Ma alla fine appare, come resto minaccioso o come monito alla prudenza sempre necessaria oppure, concepito in termini dell'antichità, come sacrificio riconciliante alle potenze superate, il vinto:

Se per ardente sentiero d'abeti

O nel buio quercete, celato

Nell'acciaio, o mio Sinclair! Iddio ti appaia

O nelle nubi, lo riconoscerai, che, giovanile,

Conosd la forza del bene e non ti è mai

Ascoso il sorriso del Regnatore,

Sia di giorno, quando

Febbrile e incatenata ,

La vita appare, sia

264 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

Di notte quando tutto si mischia Senz'ordine e torna L'originario groviglio.

Dir mag auf heiBem Pfade unter Tannen oder / Im Dun-kel des Eichwaids, gehùllt / In Stahi, mein Sinclair! Gott erscheinen oder / In Wólken, du kennst ihn, da du ken-nest, jugendiich, / Des Guten Kraft, und nimmer ist dir / Verborgen das Làchein des Herrschers / Bei Tage, wenn / Es fieberhaft und angekettet das / Lebendige scheinet, oder auch / Bei Nacht, wenn alles gemischt / Ist ordnungs-los und wiederkehrt / Uralte Verwirrung (il, p. 148; tr. it. cit, p. 205). .

In modo simile un frammento tardo, Mnemosine:

Maturi sono, nel fuoco tuffati, cotti

I frutti e sulla terra provati; e v'ha una legge

Che tutto in dentro si volga, come serpenti

In profetico sogno sopra

I colli del delo. E molto,

Quale sugli omeri

Un peso di docchi

È da conservare. Ma sono cattivi

I sentieri. Poiché fuori strada

Come cavalli, vanno i prigionieri . •

Elementi e le vecchie

Leggi della terra. E sempre

Allo sfrenamento va una brama [...].

Reif sind, in Feuer getaucht, gekochet / Die Frùcht und auf der Erde geprùfet und ein Gesetz ist, / DaB alles hi-neingeht, Schlangen gleich, / Prophetisch, tràumend auf/ Den Hùgein des Himmels. Und vieles, / Wie auf den Schuitern eine / Last von Scheitern, ist / Zu behalten. Aber bós sind / Die Pfade. Namlich unrecht, / Wie Rosse, gehn die gefangenen / Element' und alten / Gesetze der Erd. Und immer / Ins Ungebundene gehet eine Sehn-sucht [...] (Il, p. 197; tr. it. dt., p. 243).

LaTerra 265

In Germania l'immagine della terra si eleva come da misteri eleusini:

[...] Come della Santa,

Che è madre di tutto e porta l'abisso,

Dagli uomini detta l'Ascosa,

Così è di amore e di dolore,

E pieno di presagi,

E pieno di pace il tuo seno.

Oh bevi aure mattutine,

Finché dischiusa tu sia

E nomina ciò che hai innanzi agli occhi.

Più oltre non può mistero

L'inespresso restare

Da tanto ch'esso è nascosto:

Poiché ai mortali s'addice il ritegno

E con ritegno parlare, di solito,

È saggio, anche, degli dèi.

Ma quando, più traboccante che pure sorgenti,

L'oro, e severa diviene l'ira nel delo,

Deve fra giorno e notte

Finalmente un Vero apparire.

Dichiaralo tré volte:

Ma, sia pure inespresso come è ora, O innocente, dò resterà.

Oh! Nomina, figlia della sacra terra,

Finalmente la Madre. Croscian le acque alla rupe

E le tempeste nel bosco e al nome suo

Risuona su dall'antico il Divino che è tramontato.

Come è diverso! Come splende giusto e si esprime

Anche il futuro, lieto, dalle lontananze.

Ma nel mezzo del tempo

Vive calmo con la consacrata

Virginea terra l'Etere,

E piace, per ricordo,

A loro, di nulla bisognevoli,

Essere amia ospiti delle tue feste

266 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

Che anch'esse di nulla abbisognano, Germania [...]

[...] Denn fast, wie der heiligen, / Die Mutter ist von alleni, / Die Verborgene sonst genannt von Menschen, / So ist von Ueben und Leiden / Und voli von Ahnungen dir / Und voli von Frieden der Busen. // O trinke Morgeniùfte, / Bis daB du offen bist, / Und nenne, was vor Augen dir ist. / Nicht lànger darf Geheimms mehr / Das Ungespro-chene bleiben, / Nachdem es lange verhùllt ist; / Denn Sterbiichen geziemet die Scham, / Und so zu reden die meiste Zeit, /Ist weise auch von Góttern. / Wo aber ùber-flùssiger, denn lautere Quellen, / Das Gold und ernst ge-worden ist der Zorn an dem Himmel, / MuB zwischen Tag und Nacht, / Einsmais ein Wahres erscheinen. / Dreifach umschreibe du es, / Doch ungesprochen auch, wie es da ist, / Unschuidige, muB es bleiben. // O nenne, Tochter du der heiligen Erd', / Einmal die Mutter. Es rauschen die Wasser am Feis / Und Welter im Wald und bei dem Na-men derselben / Tónt auf aus alter Zeit VergangengóttU-ches wieder. / Wie anders ists! und rechthin glànzt und spricht / Zukùnftiges auch erfreulich aus den Fernen. / Doch in der Mitte der Zeit / Lebt ruhig mit geweihter / Jungfràulicher Erde der Àther / Und geme, zur Erinne-rung, sind / Die unbedùrftigen, sie / Gastfreundiich bei den unbedùrftgen, / Bei deinen Feiertagen, / Germania [...] (il, pp. 151-152; tr. it. dt., pp. 209-211).

In questi versi la descrizione che Hólderlin da della Terra raggiunge il suo limite estremo. Le immagini sono misteriosamente profonde, e la loro profondità è autentica. Esse vengono da una visione a cui partecipa l'intimo del cuore.

Per Hólderlin la Terra è dapprima realtà geologica. Al di là di ciò essa ha un significato per l'uomo:

come spazio per il suo abitare e come patria della sua

La Terra 267

vita, come portatrice della crescita che nell'anno della vita subisce essa stessa un destino. Tutto ciò si prolunga nell'ambito della profondità, del grembo e dell'inconscio, per diventare infine l'interiorità del mondo, il centro del tutto, l'interna zona a noi sottratta dell'esistenza. Anche questo contesto complessivo viene sperimentato in termini religiosi; e mentre colui che non è iniziato, non percepisce che dati scientifici, economici o estetici, il toccato, sia egli un veggente o un uomo religioso, vi scorge il nume che vi si innalza.

IL MITO DEL CIELO E DELLA TERRA

Nelle pagine precedenti si è parlato di due divinità che dominano il mondo di Hólderlin: l'Etere e la Terra. Esse sono le potenze costitutive del mondo: il superiore e l'interno, il chiaro e l'oscuro, ciò che signoreggia e ciò che sostiene e sopporta, ciò che risveglia e da forma e ciò che riceve, conserva, partorisce;

quanto è lieto, olimpico e libero nella sua elevatezza e ciò che è legato, ciò che subisce un destino, che è in lutto ... Tra essi si svolge una vicenda interminabile. Costantemente essi convergono toccandosi e unendosi, nuovamente sciogliendosi e trasportandosi in una lontananza tragica, per convergere un'altra volta.

Da questo movimento scaturisce il costante nascere e perire della vita; crescere, fiorire, portar frutto, appassire e morire, rigidità invernale e ancora un nuovo risveglio. Ne da testimonianza il mito del Cielo e della Terra, delle generazioni, della loro tensione e della loro unità, della vita e dei suoi ritmi.

'Neìì'Iperione si legge:

Parlammo infine della vita della Terra. Ad essa non venne mai cantato un inno così ardente e così infantile.

Ci placava il poter rovesciare la piena straripante dei nostri cuori nel grembo della buona madre. Ce ne sentivamo alleggeriti, come gli alberi quando il ventò estivo scuote i rami carichi di frutti e fa cadere sull'erba le dola mele.

270 Terzo cerchio • Gli dèi e il riferimento religioso

Chiamavamo la Terra uno dei fiori del cielo, e il cielo l'infinito giardino della vita. Come le rose si rallegrano del loro polline d'oro, così l'eroica luce del sole rallegra, con i suoi strali, la Terra; essa è una magnifica creatura vivente, dicevamo, sempre divina, sia che il fuoco irato o dolci limpide acque sgorghino dal suo cuore, sempre felice, sia che si nutra di gocce di rugiada o di nubi temporalesche che essa si prepara per il suo godimento, con l'aiuto del cielo. Essa è sempre la più fedele amante del dio del sole, in origine congiunta con lui forse ancor più indmanente, ma, poi, separata da lui da un onnipotente destino affinchè essa debba cercarlo, avvicinarsi e allontanarsi e maturare la sua più alta bellezza fra gioie e dolori (II, pp. 152-153; tr. it. dt.,p.75).

La forma più universale di questo contesto, ordinata secondo una legge ben precisa, sono le stagioni dell'anno. Abbiamo già visto la bella poesia Alla Primavera, in cui quel ritmo si manifesta in modo così incantevole. In essa si legge:

Gote vidi sfiorire, e la forza delle braccia invecchiare,

Ma tu, mio cuore, non ancora invecchi tu, no: e come la

Luna l'amato,

La gioia, figlia del Cielo, ti ridestò dal sonno;

Perché si sveglia con me a nuova, ardente giovinezza,

La mia dolce sorella Natura e le mie amate

Valli e i miei più amari boschi,

Pieni di lied canti di uccelli e d'aurette scherzose,

In gioia selvaggia esultano salutandomi benigni.

Tu che fai giovani i cuori, e i campi. Primavera sacra,

Prima nata nel grembo del Tempo! Possente! Salve a tè! ...

Non vedemmo come più benigna salutò l'amato superbo, II sacro Giorno, quando ardito per avere vinto le ombre Sui monti fiammeggia; come lieve arrossendo, nel velo D'argentei incensi avvolta, lo guarda in attesa dolce,

Il mito del Cielo e della Terra 271

Finch'arde di lui, e le sue mid creature Tutte, fiori e bosco e messi e viti in germoglio [...]

Wangen sah ich verbiùhn, und die Kraft der Arme veral-ten, / Du mein Herz! noch alterst du nicht; wie Luna den Uebiing, / Weckte des Himmeis Kind, die Freude, vom Schlafe dich wieder; / Denn Sie erwacht mit mir zu neuer, glùhender Jugend, / Meine Schwester, die sùBe Natur, und mei ne geliebten / Tale làchein mich an, und meine geliebteren Haine, / Voli erfreulichen Vogelgesangs, und scherzender Lùfte, / Jauchzen in wilder Lust den freundii-chen GruB mir entgegen. / Der du Herzen verjùngst, und Fluren, heiliger Frùhiing, / Erstgeborner im SchoBe der Zeit! Gewaltiger! Heil dir! ... // Sahn wir nicht, wie sie freundiicher nun den stolzen Geliebten / GrùBt', den hei-ligen Tag, wenn er kùhn vom Siege der Schatten / Ùber die Berge flammt! Wie sie sanfterrótend, im Schleier / Sil-bemer Dùfte verhùllt, in sùBen Erwartungen aufblickt, / Bis sie glùhet von ihm, und ihre friediichen Kinder / Alle, Blumen und Hain', und Saaten und sprossende Reben [...] (I, pp. 202-203).

Lo stesso avvenimento si manifesta tuttavia anche in forme spontanee, per così dire entusiastiche. In tal caso non vengono sentite la regola e l'armonia, ma l'irruzione imprevedibile della potenza creatrice. Ciò accade nel temporale, come è descritto nella poesia A Diotima:

II delo prima sfiorò con lieve stilla d'argento II suo fratello, il fiume;

Vicino è ora, ora versa tutta la piena stupenda Che portava nel cuore Sul bosco e sul fiume,

E il verde del bosco e il delo riflesso nel fiume Balugina e dilegua innanzi a noi

272 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

E il capo del monte solingo con le casette e le rupi

Che nel grembo nasconde,

E i colli che a lui intorno, come agnelli sdraiati,

E in boscaglia fiorita

Come in tenera lana avvolti si nutrono di chiare

Fresche sorgenti del monte,

E la valle vaporante con i suoi seminati e i suoi fiori,

E il giardini a noi innanzi,

II vicino e il lontano sfuma e si perde in lieto tumulto

E si spegne il sole.

Ma ora han finito di scrosciare i flutti del delo,

E purificata, più giovane

Sorge coi figli beati dal lavacro la terra.

Più lieto, più vivo

Splende nel bosco il verde, più scintilla l'oro dei fiori [.„].

Leise berùhrte der Himmel zuvor mit der silbemen Trop-fe / Seinen Bruder, den Strom; / Nah ist er nun, nun schùttet er ganz die kóstliche Fùlie, / Die er am Herzen trug, / Ùber den Hain und den Strom, / Und das Grùnen des Hains, und des Himmeis Bild in dem Strome / Dàm-mert und schwindet vor uns, / Und des einsamen Berges Haupt mit den Hùtten und Felsen, / Die er im SchoBe ver-birgt, / Und die Hùgel, die um ihn her, wie Làmmer, gela-gert / Und in blùhend Gestràuch / Wie in zarte Wolle ge-hùllt, sich nàhren von klaren / Kùhlenden Quellen des Bergs, / Und das dampfende Tal mit seinen Saaten und Blumen, / Und der Garten vor uns, / Nah und Fernes ent-weicht, verliert sich in froher Verwirrung / Und die Sonne verlischt. / Aber vorùbergerauscht sind nun die Fluten des Himmeis /Und gelàutert, verjùngt / Geht mit den seligen Kindern hervor die Erd aus dem Bade. / Froher, lebendi-ger / Glanzt im Haine das Grùn, und goldner fùnkein die Blumen [...] (I, pp. 210-211; tr. it. dt, pp. 25-27).

Non solo il primo nascere della vita nuova scaturisce dall'incontro di cielo e terra, ma anche il ringiovanimento della vita quando s'è fatta stanca. Ma mentre

Il mito del Ciclo e della Terra 273

il primo sottosta alla legge dell'anno, il secondo si compie grazie alle tensioni dell'ora.

Sotto altra forma l'incontro si svolge nei pomeriggi molto chiari. In quel caso cielo e terra sembrano compenetrarsi. Tutto sembra perdere il proprio peso e diventare trasparente, e si annuncia un mistero di metamorfosi.

È l'ora preferita di Hólderlin, quella «eletta», alcionia, prediletta anche da Friedrich Nietzsche - simbolo del fatto che nell'esistenza non c'è solo la forza della necessità, ma anche quella della grazia, vale a dire ciò che si compie in leggerezza e libertà. Essa viene descritta soprattutto nell'inno // Reno:

Ed è stupendo dal sacro sonno allora

Sorgere e da boschiva frescura

Destandosi, nella sera

Alla più mite luce andare incontro,

Quando colui ch'edificato ha i mond

E segnato la strada dei fiumi,

Dopo che sorridendo egli pure

La vita operosa degli uomini

Povera di respiro come vela

Con le sue brezze ha guidato,

Anche lui riposa e ora verso l'allieva

II creatore, più bene

Che male trovando,

Verso l'odierna terra il Giorno s'inclina.

Allora festeggiano nozze uomini e dèi,

Le festeggiano tutti i viventi

E appianato

È per breve ora il destino.

Cercano ricetto i fuggiaschi

E soave sopore i prodi,

Ma gli amanti sono

Ciò che erano; sono

274 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

A loro agio, dove il fiore si allieta

D'innocente fuoco e gli alberi bui

Lo Spirito avvolge di murmuri, ma gl'incondiiati

Mutano animo e corrono

A darsi la mano prima

Che l'amorosa luce

Tramonti e venga la notte.

Und herrlich ists, aus heiligem Schlafe dann / Erstehen und aus Waldes Kùhle / Erwachend, abends nun / Dem milderen Licht entgegenzugehn, / Wenn, der die Berge gebaut / Und den Pfad der Strème gezeichnet, / Nach-dem er làcheind auch / Der Menschen geschàftiges Leben, / Das othemarme, wie Segei / Mit seinen Lùften gelenkt hat, / Auch ruht und zu der Schùlerinjetzt, / Der Bildner, Gutes mehr / Denn Bóses iindend, / Zur heutigen Erde der Tag sich neiget. // Dann feiern das Braulfest Menschen und Getter, / Es feiern die Lebenden ali, / Und aus-geglichen / Ist eine Weile das Schicksal. / Und die Flù-chtiinge suchen die Herberg, / Und sùfien Schiummer die Tapfern, / Die Uebenden aber / Sind, was sie waren, sie sind / Zu Hause, wo die Blume sich freuet / Unschàdii-cher Glut und die finsteren Bàume / Der Geist umsàuseit, aber die Unversóhnten / Sind umgewandeit und eilen / Die Hànde sich ehe zu reichen, / Bevor das freundiiche Licht / Hinuntergeht und die Nacht kommt (U, pp. 147-148; tr. it. cit., pp. 203-205).

L'ora del tardo pomeriggio ha la sua controparte in quella del primo mattino - del «tempo lieve come piuma del primo mattino», come dice Mórike. Anch'essa era cara a Nietzsche. Lo Zarathustra parla delle montagne assorte in silenzio nella loro luce fredda. La ritroviamo anche nella poesia di Hólderlin Ritorno in patria. In essa si legge dapprima:

Là in grembo alle Alpi è ancor notte chiara e la nuvola Addensando gioia, ammanta lì dentro lo squarcio della vallata.

Il mito del Cielo e della Terra 275

Piomba qua e là fragoroso l'allegro vento montano, A picco traverso gli abeti un raggio balena e dilegua. Lento s'affretta e combatte, di gioia rabbrividendo il Caos In giovanile tempra, eppur forte, celebra amorosa gara, Fra le rupi, fermenta e vacilla entro l'eterne barriere, Poiché più bacchico sorge là in fondo il mattino nell'alto.

Drin in den Alpen ists noch nelle Nacht und die Wolke, / Freudiges dichtend, sie deckt drinnen das gannendo Tal. / Dahin, dorthin toset und stùrzt die scherzende Bergluft, / Schroff durch Tannen herab glànzet und schwindet ein Strani. / Langsam eilt und kàmpft das freudigschauernde Chaos, / Jung an Gestalt, doch stark, feiert es liebenden Streit / Unter den Felsen, es gàrt und wankt in den ewi-gen Schranken, / Denn bacchantischer zieht drinner der Morgen herauf(n, p. 96; tr. it. dt., p. 143).

Ma poi:

Quete risplendono intanto le argentee cime nell'alto E già colma di rose è lassù la neve raggiante. Ancor più su ha sua stanza, sopra la luce, il puro Beato Iddio, dal gioco dei sacri raggi allietato. Tacito e solo dimora e chiaro riluce il suo viso:

Par che l'Eterico a dare vita s'inclini,

Gioia a creare, con noi: come quando, esperto della misura,

E dei mortali esperto, con indugio e clemenza Iddio

Solida fortuna alle atta e alle case, e miti

Piogge a dischiudere i campi, e covanti nuvole, e voi,

Care brezze, voi, dola primavere, manda;

E con lenta mano i tristi di nuovo fa lieti

Quando innova i tempi, il creante, e i muti

Cuori dell'umanità vecchia ristora e scuote

E giù nel profondo opera e apre e rischiara,

Come egli ama; e adesso di nuovo una vita comincia,

La grazia rifiorisce come un tempo, toma presente lo Spirito

Ed un allegro coraggio di nuovo le ali rigonna.

276 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

Ruhig glànzen indes die silbernen Hóhen darùber, / Voli mit Rosen ist schon droben der leuchtende Schnee. / Und noch hóher hinauf wohnt ùber dem Uchte der reine / Se-lige Gott, vom Spiel heiliger Strahien erfreut. / Stille wohnt er allein und hell erscheinet sein Antlitz, / Der àtherische scheint Leben zu geben geneigt, / Freude zu schaffen, mit uns, wie oft, wenn, kundig des MaBes, / Kun-dig der Atmenden auch zógernd und schonend der Gott / Wohigediegenes Glùck den Stàdten und Hàusern und mil-de / Regen, zu óffnen das Land, brùtende Wolken, und euch, / Trauteste Lùfte dann, euch, sanfte Frùhiinge, sen-det, / Und mit langsamer Hand Traurige wieder erfreut, / Wenn er die Zeiten erneut, der Schópferische, die stillen/ Herzen der alternden Menschen erfrischt und ergreift, / Und hinab in die Tiefe wirkt, und óffnet und aufhellt, / Wie ers liebet, und jetzt wieder ein Leben Beginnt, / An-mut blùhet, wie einst, und gegenwàrtiger Geist kómmt, / Und ein freudiger Mut wieder die Fittiche schwellt (il, pp. 96-97; tr. it. cit., p. 145).

Anche qui il mito dell'incontro tra cielo e terra;

l'alta potenza opera giù in profondità, ringiovanisce i cuori che invecchiano.

Il processo trapassa e continua nell'ambito spirituale attraverso l'evento dell'ispirazione. L'inno incompiuto Come il giorno di festa... ci fa rivivere l'esperienza di questo trapasso dalla sfera della natura a quella dell'uomo. All'inizio echeggia ancora il temporale:

Come il giorno di festa a vedere il campo

Va di mattina un contadino, quando

Da notte ardente i fulmini a dare frescura

Caddero senza tregua e tuona lontano ancora,

Nelle sue rive il fiume rimette piede

E il suolo ha un verde novello

E della lieta pioggia del cielo

Il mito del Ciclo e della Terra 277

Gronda la vite e splendenti Nel calmo sole si levan le piante del bosco.

Wie wenn am Feiertage, das Feld zu sehn, / Der Land-mann geht, des Morgens, wenn, / Aus heiBer Nacht die kùhlenden Blitze fielen / Die ganze Zeit und fern noch tó-net der Donner, / In sein Gestade wieder tritt der Strom, / Und frisch der Boden grùnt / Und von des Himmeis er-freuendem Regen / Der Weinstock trauft und glànzend / In stiller Sonne stehn die Bàume des Haines (n, p. 118; tr. it. dt., p. 155).

Viene così ripreso il tema dei «flutti del cielo», dell'entusiastico esplodere della tensione fra cielo e terra. E ora il primo passaggio: come gli alberi sono assorti ad aspettare, ancora splendenti dopo la pioggia temporalesca, così anche i poeti:

Così vi levate sotto benigna temperie Voi che maestro nessuno, ma con prodigio Onnipresente, in lieve abbraccio alleva Divina di bellezza, la possente Natura. Quando in alcune stagioni sembra che donna In delo o fra gli alberi o fra i popoli, S'attrista allora anche ai poeti il volto:

Sembrano soli, ma sempre hanno presagi Poi ch'ella stessa presagendo riposa.

So stehn sie unter gùnstiger Witterung, / Sie, die kein Meister allein, die wunderbar / Allgegenwàrtig erzieht in leichtem Umfangen / Die màchdge, die góttlichschóne Natur. / Drum wenn zu schlafen sie schemi zu Zeiten des Jahrs / Am Himmel oder unter den Pflanzen oder den Vólkern, / So trauert der Dichter Angesicht auch, / Sie scheinen allein zu sein, doch ahnen sie immer. / Denn ahnend ruhet sie selbst auch (il, p. 118; tr. it dt, p. 155).

278 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

La potenza la cui irruzione aspettano «presagendo» scaturisce dalla stessa «natura» che da origine al temporale, anche se da uno strato più profondo, la fecondità spirituale. I due aspetti però costituiscono un tutto. Lo stesso riferimento presente nel ritmo della vita, nell'irruzione del temporale e nell'incanto dell'ora si manifesta anche nel contatto dello spirito:

Ma ora aggiorna! Ho atteso e l'ho visto venire

E ciò che ho veduto, il Sacro, sarà mia parola.

Ella, ella stessa, ch'è più antica del tempo

E sugli dèi d'occidente e d'oriente sta,

La Natura in clangore d'armi ora s'è desta,

E dall'alto Etere fino al fondo d'abisso

Per ferma legge e antica, gènito dal sacro Caos,

L'Entusiasmo ora torna a fremere

Che di tutto è il creatore. .

Jetzt aber tagts! Ich harrt und sah es kommen, / Und was ich sah, das Heilige sei mein Wort. / Denn sie, sie selbst, die àlter denn die Zeiten / Und ùber die Getter des Abends und Orients ist, / Die Natur ist jetzt mit Waffen-klang erwacht, / Und hoch vom Àther bis zum Abgrund nieder / Nach festem Gesetze, wie einst, aus heiligem Chaos gezeugt, / Fùhit neu die Begeisterung sich, / Die Allerschaffende wieder (il, p. 118; tr. it. dt, p. 155).

Il risultato di questo contatto che va «dall'alto Etere fino al fondo d'abisso» è tuttavia l'opera, la creazione artistica - e l'azione, la storia.

E come nell'occhio all'uomo splende un fuoco

Se alta impresa medita, così

Ai nuovi Segni, alle Gesta del secolo

S'è acceso un fuoco nell'anima dei poeti.

Ciò che innanzi accadeva, avvertito appena,

È ora la pnma volta manifestato:

Il mito del Ciclo e della Terra 279

E quelle che d lavoravano il campo in figura Di schiavi sorridenti, noi le riconosciamo, Le forze degli dèi, le tutte vive.

Chiedi di loro? Nel canto ne soffia lo spirito,

Quando dal sole del giorno e dalla calda terra

Germoglia e da tempeste aeree o da altre

Che, predisposte nei recessi del tempo

E più pregnanti e sensibili a noi,

Fra delo e terra passano e fra i popoli.

Del comune spirito sono pensieri,

Che finiscono calmi nell'anima del poeta;

Che, subito colpita, essendo nota Da sempre all'Infinito, balza al ricordo:

E a lei da sacro fulmine arsa Viene alla luce il portato d'amore, L'opera degli dèi e degli uomini, il canto, Che d'entrambi deve testimoniare.

Und wie im Aug ein Feuer dem Manne glànzt, / Wenn Hohes er entwarf, so ist / Von neuem an den Zeichen, den Taten der Weltjetzt / Ein Feuer angezùndet in Seelen der Dichter. / Und was zuvor geschah, doch kaum gefùhit, / Ist offenbar erstjetzt, / Und die uns làcheind den Acker gebauet, / In Knechtsgestalt, sie sind erkannt, / Die Alle-bendigen, die Kràfte der Gótter. // Erfràgst du sie? im Liede wehet ihr Geist, / Wenn es der Sonn des Tages und warmer Erd / Entwàchst, und Wettern, die in der Luft, und andern, / Die vorbereiteter in Tiefen der Zeit, / Und deutungsvoller, und vernehmiicher uns / Hinwandein zwi-schen Himmel und Erd und unter den Vólkern. / Des ge-meinsamen Geistes Gedanken sind, / Stili endend in der Seele des Dichters, // DaB schnellbetroffen sie, Unendii-chem / Bekannt seit langer Zeit, von Erinnerung / Er-bebt, und ihr, von heilgem Strani entzùndet, / Die Frucht in liebe geboren, der Gótter und Menschen Werk, / Der Gesang, damit er beiden zeuge, glùckt (n, p. 119; tr. it. dt., pp. 155-157).

280 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

II mito di cielo e terra ricompare nelle leggende delle fìglie dell'uomo che, visitate dai Celesti, diventano le madri degli eroi. La poesia nomina Sémele che da Zeus concepì Dioniso. Anche questo tema è legato al temporale, prolungandosi nel processo creativo, il concepimento del canto:

Così cadde, narran poeti, quando Sémole volle Vedere il dio in figura, la folgore sulla sua casa E dal nume colpita partorì II frutto della tempesta. Bacco santo.

Di lì bevono adesso fuoco celeste

I figli della terra senza pencolo.

Ma a noi spetta ora, fra le tempeste d'Iddio,

Stare, o poeti, a denudata fronte,

E con la mano afferrare la folgore,

La folgore del Padre e al popolo il dono

Celeste porgere, avvolto nel canto.

Poiché se sono puri i nostri cuori

Come di pargoli e innocenti le mani,

II fulmine del Padre, il puro, non brucia:

E nel profondo scosso, i dolori del più forte Condividendo resta, nei turbini d'alto piombano, Del Dio che s'appressi, il cuore pur saldo.

So fiel, wie Dichter sagen, da sie sichtbar / Den Gott zu se-hen begehrte, sein Blitz auf Semeles Haus / Und die gót-tlichgetroffne gebar, / Die Frucht des Gewitters, den heili-gen Bacchus. // Und daher trinken himmlisches Feuer jetzt / Die Erdensóhne ohne Gefahr. / Doch uns gebùhrt es, unter Gottes Gewittern, / Ihr Dichter! mit entblóBtem Haupte zu stehen, / Des Vaters Strani, ihn selbst, mit ei-gner Hand / Zu fassen und dem Volk ins Lied / Gehùllt die himmlische Gabe zu reichen. / Denn sind nur reinen Herzens, / Wie Kinder, wir, sind schuidlos unsere Hànde,

Il mito del Cielo e della Terra 281

// Des Vaters Strahi, der reine, versengt es nicht / Und tìeferschuttert, die Leiden des Stàrkeren / Mitleidend, bleibt in den hoch herstùrzenden Stùrmen / Des Gottes, wenn er nahet, das Herz doch fest (il, pp. 119-120; tr. it. dt., pp. 157-159, con modificazioni corrispondenti alla versione diversa usata da Guardini).

Nella poesia di Hólderlin, la natura, il singolo e la storia sono in stretta reciprocità d'azione. La natura si spinge entro la storia e culmina in essa. La storia cerca la natura e ne estrae la materia e la legge. Il singolo, invece, sperimenta questi legami, realizzandosi in essi. Così anche il mito della natura si trasforma in quello della storia. La trasformazione è evidente nella poesia Germania. Ciò che un tempo ha vissuto e operato in modo nobile tramonta, ma non perisce, trasportato in un luogo che ci è sottratto. Di là contìnua a esercitare il proprio influsso sulla storia, anzi, anela a rientrare in essa. Il compendio della nobiltà tramontata è la Grecia, il luogo della sua esistenza a noi sottratta l'Etere, il ciclo, che in tal modo viene caratterizzato in ragione di una determinata essenza storica. Lo stesso avviene a proposito della Terra che riceve: essa è la Germania. A nome di tutta la terra accoglie ciò che ritoma dal cielo. In tal modo, il mito della natura è diventato mito della storia. Il cielo-Ete-re, inteso come sfera del mondo, si concreta nella Grecia a noi sottratta; la Terra, come sfera del mondo, nella Germania in attesa.

Il fatto che l'Etere scenda sulla Terra e che dalla loro unione nasca la vita nuova si trasforma nella discesa di quella che fu la Grecia sulla Germania e nel nascere della nuova umanità.

Anzi, il processo contiene ancora un altro strato di

282 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

cui si parlerà successivamente per esteso: esso accoglie in sé il messaggio cristiano mitizzato. La Germania, la figlia della madre Terra, in fin dei conti questa terra stessa, viene chiamata «sacerdotessa» e «vergine» e si fa evidente che dietro di essa si cela l'immagine della Vergine Maria, a cui l'angelo annuncia che ella sarà la madre del Salvatore. Appare un messaggero, l'uccello del Padre supremo, l'aquila, e dietro ad essa si scorge l'angelo del racconto biblico. Ma Cristo è l'annunciatore della Grecia ventura, anzi, in un certo senso, egli stesso è questa Grecia ventura (V, infra, p.726).

APOLLO E POSIDONE

L'Etere e la Terra costituiscono i poli del mondo degli dèi in Hólderlin. Tra di loro si muove una serie di altre figure. Alcune vengono solo sfiorate, come Teti (Achille, I, p. 271) e gli dèi della morte (Lamento di Menane per Diotima, II, p. 75).

Gli dèi del sole e del mare hanno contorni più precisi. Anch'essi formano un sopra e un sotto, più ristretti rispetto alle sfere onnicomprensive di cui si è parlato in precedenza.

Apollo è l'eterno giovane, forte, splendido, bello, lieto. Il tramonto lo chiama l'«incantevole giovane del sole» che, quando cala l'astro, «suona il suo canto serale sulla cetra celeste» (I, p. 259). Nella poesia L'uomo le piante sono «i figli sorridenti della sua eterna giovinezza». La madre Terra le ha ricevute da lui. Così egli appare una continuazione dell'Etere. Nella stessa composizione, l'uomo è il più bello di tutù i figli della terra, alzando lo sguardo verzo il «Padre Elio». In Gli dèi il legame tra il dio del sole e l'Etere è ancora più evidente:

Etere silente! Sempre mi custodisti bella L'anima nel dolore, e si fa nobile Alla forza dei tuoi raggi, Elio, Spesso il mio cuore ribelle.

Du sdiler Àther! Immer bewahrst du schón / Die Seele

284 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

mir im Schmerz, und es adeit sich / Zur Tapferkeit vor deinen Strahien,/ Helios! oft die empórte Brust mir (il, p. 16).

La seconda versione di Coraggio del poeta lo collega all'ispirazione dei creativi: il dio del sole è il loro «avo» (il, p. 64). E in Vocazione del poeta egli è definito, in contrapposizione al Dioniso notturno, l'«Ange-lo del giorno». E si parla dei suoi «titanici cavalli» e anche dei suoi «ardenti strali di morte». Ma nonostante tutto Apollo è troppo vicino al «Tonante», al «padre Etere» per potersi affermare come figura contro di lui.

L'immagine del dio del mare appare più netta. Ritorna più spesso. Una sola poesia sarebbe sufficiente per assicurargli il suo posto nello spazio del mondo hólderliniano: L'Arcipelago. Ne abbiamo già parlato (il, supra, p. 149). Racconta di Atene, la più bella città della Grecia, dello splendore dell'antica Ellade e della sua lotta per la libertà, nello spazio e grazie alla potenza del mare divino. Così Posidone è in rapporto con la storia. Gli antichi eroi sono i suoi favoriti, i templi e le città hanno inghirlandato i suoi litorali, annunciando la sua gloria. Atene, ora in rovina, gli era la città più cara, ed egli è in lutto per essa. Ma la battaglia che deciderà sulle sorti della Grecia, la battaglia di Salamina, è una battaglia navale, ed il suo esito è opera sua:

Nel sogno vertiginoso cantato dal canto del giorno Rotea il rè lo sguardo; delirando sulla vittoria, Minaccia, supplica, esulta, invia come lampi i messi, Ma invano li manda, nessuno indietro gli torna. Araldi cruenti, soldati uccisi e navi squarciate Gli gitta l'onda innumeri, la vendicatrice, tuonando,

Apollo e Posidone 285

A pie del trono ove siede il misero sul lido che balza;

Guarda la fuga e travolto via con la turba fuggiasca S'affretta, il dio l'incalza, incalza la flotta sbandata Sui flutti il dio che, irridendo, i suoi fatui usberghi Fracassa e il fiacco raggiunge nella feroce armatura.

Aber in schwindeinden Traum vom Uede des Tages ge-sungen, / Rolit der Kónig den Blick; irrlàcheind ùber den Ausgang, / Droht er, und fleht, und frohlockt, und sen-det, wie Blitze, die Boten. / Doch er sendet umsonst, es kehret keiner ihm wieder. / Blutige Boten, Erschlagne des Heers, und berstende Schiffe / Wirft die Ràcherin ihm zahi-los, die donnernde Woge, / Vor den Thron, wo er sitzt am bebenden Ufer, der Anne, / Schauend die Flucht, und fort in die fliehende Menge gerissen, / Eilt er, ihn treibt der Gott, es treibt sein irrend Geschwader / Ùber die Flu-ten der Gott, der spottend sein eitel Geschmeid ihm / En-diich zerschlug und den Schwachen erreicht' in der dro-henden Rùstung (il, pp. 106-107; tr. it. dt., pp. 107-109).

Posidone è la grande potenza dell'abbraccio da dominatore, che non è paragonabile a quello della Terra, copiosa e indifesa nella sua femminilità. Per certi aspetti, egli è un'immagine speculare dell'Etere vista dal basso. Nell''Arcipelago egli appare, pienamente in linea con la tradizione dell'antica dottrina degli dèi, come colui che scuote terra e mare; nelì'Empedo-cle come signore dei vulcani e del terremoto, della «Fiamma notturna», del «temporale infero». Questo significato si ripete nello spazio dell'aria che di per sé spetta all'Etere.

In esso Posidone appare come signore delle nubi, mandando il temporale. In tal modo, all'interno della sfera alta del mondo, egli costituisce un ordine contrapposto all'Etere, che si eleva dal centro della terra.

LO SPIRITO DEL TEMPO

Un significato infinitamente più grande di quello di Posidone riveste quel nume che è immediatamente attivo nella storia stessa: il dio del tempo, lo spirito del tempo. Per comprenderne l'essenza, analizziamo le due componenti del suo nome che poi si fonderanno da sole.

«Spirito» ha per Hólderlin un significato diverso da quello dell'intelletto e del suo strumento, il concetto. Questi ultimi sono spirito formalizzato, suscettibili di essere mezzi di ciò che Hólderlin chiama la scaltrezza, la servilità, la malvagità scellerata. Lo stesso vale a proposito dello spirito inteso solamente come volontà che cattura e vince: anch'esso può perdere il proprio legame con la vita, diventando lo strumento della distruzione. Per Hólderlin lo spirito in se stesso è vita, e vita al più alto livello.

La sua essenza si manifesta nel modo più puro nella creazione artistica, in particolare poetica. Ma analizzando più da vicino le diverse affermazioni di Hólderlin in proposito, ci si accorge che non si tratta solo di un atto estetico, ma di un processo in cui il poeta è allo stesso tempo vate o veggente, l'opera artistica allo stesso tempo annuncio del messaggio divino. Così lo spirito si identifica con la potenza che rende manifesto ciò che è occulto e sacro: l'afflato religioso.

288 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

Esso ha un doppio ambito d'azione. In primo luogo, l'intemo dell'uomo: lo spirito lo tocca, eccitandolo, mettendolo in movimento. Esso rende l'uomo in grado di presagire, sentire e vedere realtà e contesti di senso che non possono essere percepiti diversamente, di esprimere le esperienze in parole e traspor-le in azioni. Poesie come Vocazione del poeta (il, p. 46) lo mostrano come la potenza che agisce nell'uomo, che stimola all'opera. L'Iperione lo presenta come l'afflato misterioso che riempie la donna la quale ama e presagisce non nell'opera, ma nell'essere (IV, infra, p. 502). Lo stesso spirito agisce anche nella sfera ogget-tiva del mondo, della natura come della storia. Nei ritmi di giorno e di notte, di primavera, estate, autunno ed inverno, di nascita, fiorire, maturare e morte;

più precisamente nella svolta di questi ritmi, nel punto di irruzione delle nuove fasi e nel culmino dei loro archi; vedi il passo già più volte citato delVIperione sull'esperienza primaverile prima dell'incontro con Dio-tima (il, pp. 146 ss.). Inoltre, esso è attivo nei fatti, nei destini e nelle opere della storia o, più precisamente ancora, nelle ore della partenza e della decisione, dell'ispirazione e dell'irruzione creativa. Alla fine del dramma La morte di Empedocle si legge:

PAUSANIA

Così festoso scende l'astro ed ebbre splendono le valli della sua luce?

PANTHEA

Oh, sì, festoso scende

e più gioia e chiarità nasce. ;

Perché allora m'attristo? Risplende, anima di crepuscolo, pur anche

Lo spirito del tempo 289

colui che affonda,

l'austero tuo prediletto, o Natura!

il tuo fedele, la tua vittima!

Oh, coloro che temono la morte

non ti amano, l'affanno

ingannevole copre i loro occhi,

il loro cuore non batte contro il tuo,

separati da tè, inaridiscono - ... Oh, sacro Tutto

fervido, vivente, per dirti grazie,

per testimoniare di tè che sei immortale,

sorridendo l'audace getta le sue perle

nel mare da cui vennero.

Così deve accadere.

Così vuole lo spirito

e il tempo che matura.

Che a noi, dechi, un volta almeno

necessario era il prodigio.

Pausanias. So gehet festlich hinab, / Das Gestirai und trunker / Von seinem Uchte glànzen die Tàler? / Panthea. Wohi geht er festlich hinab - / Und freudiger wirds und heller auch. / Warum denn traur' ich? leuchtet, / Dàm-mernde Seele! doch auch / Der Untergehende dir, / Der Ernste, dein Liebster, Natur! / Dein Treuer, dein Opfer! / O die Todesfùrchtigen lieben dich nicht, / Tàuschend fes-seit ihnen die Sorge / Das Aug an deinem Herzen / Schlagt dann nicht mehr ihr Herz, sie verdorren, / Ver-schieden von dir - o heilig Ali! / Lebendiges! inniges! Dir zum Dank / Und daB er zeuge von dir, du Todesloses! / Wirft làcheind scine Perlen ins Meer, / Aus dem sie ka-men, der Kùhne. / So muB es geschehen. / So will es der Geist / Und die reifende Zeit, / Denn Einmal bedurften / Wir Blinden des Wunders (m, pp. 170-171; tr. it. cit., pp. 207-209).

Lo spirito è una potenza della natura quanto della storia, esso è «spirito del mondo». Così come per la vita dell'uomo esso non significa solamente intelli-

290 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

genza, volontà, giudizio, coraggio, forza artistica, ma anche e soprattutto ciò che deriva dal religioso trasformando il semplice intelletto in sapienza viva, la volontà in amore superante, il giudizio ed il coraggio in decisione creativa, il creare d'arbitrio proprio nel compimento dell'ora; anche nell'intero o totalità del mondo lo spirito non si riferisce semplicemente al decorso del processo naturale, inteso come ipostasi delle leggi naturali, oppure al decorso della storia, inteso come compendio delle tendenze di quest'ultima. In ultima analisi tende alla realizzazione di qualcosa di religioso attraverso cui il senso immediato degli eventi naturali o storici si compie e allo stesso tempo è superato. Introduce qualcosa che proviene dalla zona a noi sottratta del mondo. Appena ciò avviene, l'immediato è superato e non si vede più come il processo naturale ed il decorso della storia debbono continuare. Poiché non si tratta di una semplice esperienza vissuta, bensì di un processo nell'essere. All'ispirazione soggettiva corrisponde nell'ambito og-gettivo della natura e della storia qualcosa dello stesso genere e della stessa origine, una compenetrazione degli avvenimenti nel mondo con lo spirito, qualcosa di misterioso e ineffabile. Il decorso dell'esistenza è orientale all'evenienza che qualcosa accada, riempiendola, compiendola e superandola, ma facendola tuttavia sopravvivere sotto una forma nuova.

Ciò significa - nella misura in cui qualcosa di misterioso può essere espresso in parole - nella natura «trasformazione»: il peso e la limitatezza delle cose si dissolvono. Tutto diventa leggero, libero, pieno di senso, permeato di luce, beato. Un'oggettiva euforia dell'essere, per così dire, ha luogo. Nella storia signi-

Lo spirito del tempo 291

fica «salvezza»: la perfezione passata ritorna, la mitica Grecia rientra nuovamente nella storia; i regni dei morti e dei vivi si uniscono; il religiosamente altro e questa realtà terrena diventano un'unità. Sono le «nozze degli uomini e degli dèi», il compimento di quanto è stato rappresentato come mito del cielo e della terra (ili, supra, p. 269). Questo evento viene provocato dallo spirito in quanto potenza del mondo, dal pnéuma del mondo. Il concetto riunisce quindi elementi filosofico-culturali e religiosi comuni. Contemporaneamente vi è tuttavia presente, come già è stato dimostrato, la rappresentazione cristiana dello Spirito Santo inteso come quella potenza che compie la rinascita trasformando la vecchia esistenza nel «nuovo cielo» e nella «nuova terra» ... Nella memoria dell'umanità è impresso, in modo indelebile, costantemente riconfermato dall'esperienza spirituale del singolo e dei tempi, l'evento della Pentecoste. Questa dottrina cristiana del Pnéuma di Cristo è entrata a far parte, trasformata in veste cosmica, del concetto di spirito di Hólderlin, conferendogli quella vivezza che tocca profondamente il cuore. Percepire il dominio di questo spirito, presagire la sua volontà, accorgersi dell'avvicinarsi dell'atteso - questo è il contenuto dell'animazione visionaria e poetica.

L'altro aspetto del fenomeno nel suo insieme è costituito dal tempo. Anche per esso l'interpretazione deve partire da lontano. Infatti, Hólderlin lavora con pochi concetti, di cui però ognuno è riferito al tutto, così che si accede da ognuno di essi al contesto generale del suo pensiero. Egli non parla del tempo in senso astratto, come semplice dato della successione e della sua misurabilità. Per Hólderlin «tempo» signi-

292 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

fica il modo in cui vita è vita, lo scorrere dell'esistenza sperimentato nell'interiorità. Questa concezione è illustrata nel modo migliore dalla già analizzata poesia Heidelberg-.

Come l'uccello del bosco s'invola sopra le dme,

Si landa sul fiume che accanto ti corre splendendo,

Agile e forte il ponte

Che di carri e d'uomini suona.

Come mandato da dèi, una volta m'avvinse un incanto

Sopra quel ponte, mentre l'attraversavo

E di laggiù nello sfondo dei monti

Malioso m'appariva il lontano,

E il giovane fiume fuggiva, ilare e fosco, alla piana

Come il cuore che oppresso dalla sua troppa bellezza,

Per trapassare amando

Nei flutti del tempo si scaglia.

Wie der Vogel des Walds ùber die Gipfel fliegt, / Schwingt sich ùber den Strom, wo er vorbei dir glànzt, / Leicht und kràftig die Brùcke, / Die von Wagen und Men-schen tónt. // Wie von Góttern gesandt, fessel't ein Zau-ber einst / Auf die Brùcke mich an, da ich vorùber ging, / Und herein in die Berge / Mir die reizende Feme schien, // Un der Jùngling, der Strom, fort in die Ebne zog, / Traurigfroh, wie das Herz, wenn es, sich selbst zu schón, / Uebend unterzugehen, / In die Fluten der Zeit sich wirft (II, p. 14; tr. it. cit-, p. 49).

Nell'immagine contemplata, nel processo sentito dell'acqua che scorre si fondono entrambi i momenti: la vita all'interno, che vuole precipitare, perire per sovrabbondanza intrinseca, e il tempo all'esterno, che costituisce esso medesimo la realtà della vita oggetti-va in decorso. Come già si è avuto modo di dire nel primo cerchio, il tema è uno degli elementi di fondo del mondo hólderliniano, e trova espressione nel mi-

Lo spirito del tempo 293

to del fiume - vedi la poesia Voce del popolo (II, p. 49). In quel caso il fiume è l'esistenza che ha assunto una figura concreta, collocata sul «proprio sentiero», la vita individuale che è nata ed ora persiste passando. Quanto più è forte la vita, tanto più potente è la sua inclinazione verso la morte ... Così il tempo significa lo scorrere dell'esistenza - ma anche la potenza che governa questo scorrere facendone affiorare le forme, come risulta dalla fine di L'Arcipelago:

Ma tu, immortale, se anche l'inno dei Gred non più Ti celebra come una volta, o dio del mare, riusonami Dai flutti sovente nell'anima ancora, che sopra le acque Intrepido lo spirito, come nuotatore, si addestri Nell'aspra gioia dei foni, e la lingua degli dèi, l'Alternarsi E il Divenire, intenda: e quando la corrente del tempo Troppo violenta il capo mi afferri, e lo stento e il vagare Fra i mortali il mio mortale vivere scrolli, Fa' che la pace allora nel tuo profondo io ricordi.

Aber du, unsterbiich, wenn auch der Griechengesang schon / Dich nicht feiert, wie sonst, aus deinen Wogen, o Meergott! / Tóne mir in die Seele noch oft, da6 ùber den Wassern / Furchtiosrege der Geist, dem Schwimmer gleich, in der Starken / Frischem Glùcke sich ùb, und die Góttersprache, das Wechsein / Und das Werden versteh;

und wenn die reiBende Zeit mir / Zu gewaldg das Haupt ergreift und die Not und das Irrsal / Unter Sterbiichen mir mein sterbiich Leben erschùttert, / LaB der Stille mich dann in deiner Tiefe gedenken (il, pp. 111-112; tr. it. dt.,p.ll7).

Il tempo inteso come la vita che scorre, «l'Alternarsi e il Divenire», la potenza che vi domina e il suo risultato, la storia, nonché lo spirito, il realmente vivente che porta la natura alla propria trasmutazione

294 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

dionisiaca attraverso l'irruzione del divino e la storia al proprio innalzamento attraverso il ritomo della mitica Grecia, costituiscono un tutt'uno.

Lo spirito del tempo:

Già da troppo tu domini sopra il mio capo, Tu nella oscura nuvola, dio del Tempo! Troppo furore è intorno e angosda, ovunque Io guardi tutto va in frantumi o vacilla.

Ah! come un fandullo mi affiso al suolo sovente, Cerco uno scampo da tè nella grotta e vorrei, Stolto, trovare un luogo Dove non fossi tu che tutto sconvolgi!

Concedimi infine, o padre, d'affrontarti Con fermo aglio! Non hai dunque, per primo, lo spirito Suscitato in me col tuo raggio, non m'hai Splendidamente alla vita portato, o padre! -

Ci germoglia da giovani viti sacro vigore;

In mite aura si fa incontro ai mortali, Quando silenti errano nel boschetto, Rasserenante un dio; ma tu, più potente, ridesti

La pura anima nei giovinetti e insegni Sagge arti agli anziani; solo il malvagio Si fa più malvagio, per finire più presto, Quando tu, o Scuotitore, lo ghermisci.

Zu lang schon waltest ùber dem Haupte mir / Du in der dunkein Wolke, du Gott der Zeit! / Zu wild, zu bang ists ringsum, und es / Trùmmert und wanktja, wohin ich blic-ke. // Ach! wie ein Knabe, seh ich zu Boden oft, / Such in der Hóhle Rettung von dir, und mócht, / Ich Bloder, eine Stelle finden, / Alleserschùttrer! wo du nicht wàrest. // La6 endiich, Vater! offenen Augs mich dir / Begegnen! hast denn du nicht zuerst den Geist / Mit deinem Strani

Lo spirito del tempo 295

aus mir geweckt? midi / Herrlich ans Leben gebracht, o Vater! - // Wohi keimt aus jungen Reben uns heilge Kraft; / In milder Luft begegnet den Sterbiichen, / Und wenn sie stili im Haine wandein, / Heiternd ein Gott;

doch allmàchtger weckst du // Die reine SeeleJùnglingen auf, und lehrst / Die Alten weise Kùnste; der Schiimme nur / Wird schiimmer, daB er bàlder ende, / Wenn du, Erschùtterer! ihn ergreifest (i, p. 300; tr. it. dt., p. 41).

Dominio oggettivo e coinvolgimento soggettivo si uniscono. Ciò diventa evidente anche in Empedocle sull'Etna:

Quando un paese deve morire, alla Une

lo spirito si sceglie un estremo eletto

in cui si levi il suo canto di agno,

l'estrema vita. Questo presagivo, ma

volli servirlo. E ora tutto è compiuto. Ormai

non appartengo più ai mortali...

... Oh, consumazione

del mio tempo! Tu, Spirito, che d nutristi,

che regni in segreto alla luce del giorno e nella nube,

e tu, Luce, e tu, tu madre Terra!

Qui rimango, sereno, giacché mi si prepara

la nuova ora, da lungo tempo stabilita.

Non più in immagine, non come sempre,

presso i morti, in breve felidtà

ma nella morte, io scopro il vivente,

e oggi stesso lo incontrerò, oggi

che il signore del Tempo per me e per sé,

come segno di festa, prepara un uragano.

Conosd la calma attorno? e il silenzio

del dio insonne? Attendilo qui!

A mezzanotte tutto ci sarà compiuto.

Denn wo ein Land ersterben soli, da wàhit / Der Geist noch Einen sich am End, durch den / Sein Schwanensang, das letzte Leben tónet. / Wohi ahndet ichs, doch dient ich

296 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

willig ihm. / Es ist geschehn. Den Sterbiichen gehór ich / Nun nimmer an ... / ... O Ende meiner Zeit! / O Geist, der uns erzog, der du geheim / Am hellen Tag und in der Wolke waltest, / Und du, o licht! und du, du Mutter Er-de! / Hier bin ich ruhig, denn es wartet mein / Die làngst-bereitete, die neue Stunde / Nun nicht im Bilde mehr, und nicht, wie sonst, / Bei Sterbiichen im kurzen Glùck, ich find, / Im Tode find ich den Lebendigen / Und heute noch begegn* ich ihm, denn heute / Bereitet er, der Render Zeit, zur Feier / Zum Zeichen ein Gewitter mir und sich. / Kennst du die Sulle rings? kennst du das Schweigen / Des schiummerlosen Gotts? erwart ihn hier! / Um Mit-temacht wird er es uns vollenden (il, p. 223; tr. it. dt., pp. 239-241).

Dallo stesso spirito del tempo nasce anche l'elemento selvaggio e distruttore, necessario nell'insieme dell'esistenza.

Gli ozi:

Ma nel lunare chiarore si levano le colonne spezzate

E le porte dei templi, cui un tempo colpì il tremendo, l'occulto

Spirito di turbolenza, che in petto alla terra e agli uomini

Fermenta iroso, l'incoercibile, l'antico eversore,

Che le atta come agnelli fa a brani, che una volta l'Olimpo

Assalì, che ferve nei monti e fiamme ne scaglia,

Che le foreste sradica e attraverso l'oceano inoltra

Mandando in frantumi le navi, eppure nell'ordine eterno

Mai ti sommuove, o natura, ne muta una sillaba sola

Alle tavole di tue leggi; perché anch'esso è tuo figlio,

Con lo spirito della quiete nato ad un unico grembo.

Aber ins Mondiicht steigen herauf die zerbrochenen Sàu-len / Und die Tempeltore, die einst der Furchtbare traf, der geheime / Geist der Unruh, der in der Brust der Erd und der Menschen / Zùmet und gàrt, der Unbezwungne, der alte Erobrer, / Der die Stàdte, wie Làmmer, zerreiflt,

Lo spirito del tempo 297

der einst den Olympus / Stùrmte, der in den Bergen sich regt, und Flammen herauswirft, / Der die Wàlder entwur-zeit und durch den Ozean hinfahrt / Und die Schiffe zer-schlagt, und doch in der ewigen Ordnung / Niemais irre dich macht, auf der Tafel deiner Gesetze / Keine Silbe verwischt, der auch dein Sohn, o Natur, ist, / Mit dem Geiste der Ruh aus einem SchoB geboren. - (i, pp. 236-237; tr. it. dt., pp. 21-23).

Tutta questa realtà e potenza costituisce un nume. Ad esso è correlato in modo particolare il poeta. Nell'ode Vocazione del poeta si legge:

Eppure, o tutti voi, numi del Cielo, E voi sorgenti e rive e boschi e alture Dove la prima volta il prodigioso, Prendendod ai capelli, inobliabile,

II Genio creatore, all'improvviso, Su noi piombò divino, e ne restammo Stupiti e muti, e come dalla folgore Colpite d tremarono le ossa,

O gesta senza pace del vasto mondo, Giorni fatali e travolgenti, in cui il dio Pensieroso d guida ove ebbri d'ira Lo portano i titanid cavalli,

Di voi dovremmo tacere? E quando in calmi E fermi accordi il tempo in noi risuona, La nostra musica dovrebbe essere quella Di un fandullo ozioso, che del maestro

Osa toccare per celia le corde sacre e pure?

Und dennoch, o ihr Himmlischen ali, und ali / Ihr Quel-len und ihr Ufer und Hain' und Hóhn, / Wo wunderbar

298 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

zuerst, als du die / Locken ergriffen, und unvergeBIich // Der unverhoffte Genius ùber uns, / Der schópferische, góttliche kam, da6 stumm / Der Sinn uns ward und, wie vom / Strahie gerùhrt, das Gebein erbebte, // Ihr ruhelo-sen Taten in weiter Welt! / Ihr Schicksalstag', ihr reifien-den, wenn der Gott / Stillsinnend lenkt, wohin zorntrun-ken / Ihn die gigandschen Rosse bringen, // Euch sollten wir verschweigen, und wenn in uns / Vom stetìgsdIlenJahre der Wohllaut tónt, / So sollt es klingen, gleich als hàtte / Mutig und mùBig ein Kind des Meisters // Geweihte, reine Saiten im Scherz gerùhrt? (il, pp. 46-47; tr. it. dt., pp. 93-95).

Delle difficoltà di questa vocazione parla La mia

proprietà:

Ah, con troppo impeto mi aspirate, abissi Del delo; in tempeste, nel giorno sereno, Passare divoranti nel mio petto Vi sento, o alterne forze degli dèi.

Ma oggi, queto, per fido sentiero Al boschetto, cui la morente indora Fronda le dme, andare amo: oh, dngete Anche la fronte mia, ricordi amati!

E perché a scampare il mio cuore mortale Abbia anch'io come gli altri uno stabile luogo E, senza patria, non mi spasimi l'anima Ansiosa di fuggire oltre la vita,

Sii tu, canto, per me, l'asilo amico, Sii la mia felidtà, il giardino Curato con tanto amore, ove vagando Tra le fiorite piante sempregiovani,

In sicura semplicità dimoro, mentre là fuori Con tutte le sue onde il tempo impetuoso,

Lo spirito del tempo 299

II mutevole, scrosda lontano, e più calmo Sole il mio operare seconda.

Zu màchtig, ach! ihr himmlischen Hóhen, zieht / Ihr mich empor; bei Stùrmen, am heitern Tag / Fùhl ich verzehrend euch im Busen / Wechsein, ihr wandeinden Gótterkràfte. // Doch heute laB mich stille den trauten Pfad/ Zum Hai-ne gehn, dem golden die Wipfel schmùckt / Sein sterbend Laub, und krànzt auch mir die / Stime, ihr holden Erinne-rungen! // Und da6 mir auch zu retten mein sterbiich Herz, / Wie andern eine bleibende Stàtte sei, / Und hei-mados die Seele mir nicht / Ober das Leben hinweg sich sehne, // Sei du, Gesang, mein freundiich Asyl! sei du / Beglùckender! mit sorgender Liebe mir / Gepflegt, der Garten, wo ich, wandeind / Unter den Blùten, den immer-jungen, // In sichrer Einfalt wohne, wenn drauBen mir / Mit ihren Wellen allen die màchtge Zeit, / Die wandelba-re, fem rauscht und die / Saliere Sonne mein Wirken fór-dert (i, p. 307; tr. it. dt., pp. 4345).

Nell'esperienza dell'«ora» la consapevolezza circa il dominio dello spirito del tempo raggiunge la sua intensità estrema. Presto viene ciò ch'è atteso, e ora la potenza urge per entrare. Il cantore cieco:

Dove? Dove? Ora qui, ora lì ti odo,

O stupendo! e il tuo suono intorno alla terra.

Dove hai la mèta? e che mai, che mai

C'è sopra le nuvole? E a me che avviene?

O giorno, o giorno! Su un crollo di nubi, tu sia II benvenuto! Fiorisce a tè l'occhio mio, Luce di gioventù, o felice! l'antica Ho di nuovo! ma più spirituale giù ti versi,

Sorgente d'oro da calice sacro! E tu, o verde suolo, placida cuna!

300 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

E tu, casa dei padri! e voi, o cari Che m'incontraste un tempo, avvicinatevi,

Venite, perché vostra la gioia sia, Perché tutti il veggente vi benedica! Prendete, perché io regga tanto peso, La vita, il Divino a me dal cuore.

Wohin? wohin? ich hóre dich da und dort, / Du Herrli-cher! und rings um die Erde tónts. / Wo endest du? und was, was, ist es / Uber den Wolken? und o wie wird mir! // Tag! Tag! du ùber stùrzenden Wolken! sei / Wilikom-men mir! es blùhet mein Auge dir. / O Jugendiicht! o Glùck! das alte / Wieder! doch geistiger rinnst du nieder, // Du goldner Quell aus heiligem Kelch! und du, / Du grùner Boden, friediiche Wieg! und du, / Haus meiner Vàter! und ihr Lieben, / Die mir begegneten einst, o na-het, // O kommt, daB euer, euer die Freude sei, / Ihr alle, daB euch segne der Sehende! / O nimmt, daB ichs ertrage, mir das / Leben, das Góttliche mir vom Herzen! (il, p. 55;

tr. it. dt., p. 89).

La pressione, la speranza ansiosa, la gioia soverchiante, l'effetto distruttivo dell'esperienza - di tutto ciò si è già parlato. La psicologia constata che si tratta di sintomi tipicamente patologici. Ma vi sono contenuti spirituali che solo nel crollo giungono a concretarsi. E Hólderlin stesso direbbe probabilmente che, quando il divino si riversa in tale misura estrema - soprattutto questa divinità creatrice e distruttrice - il vaso deve rompersi.

DIONISO

In stretto rapporto con lo spirito del tempo sta Dio-niso. Partendo dalla concezione di Hólderlin arca la culminazione della vita, si accede più facilmente alla sua natura. Il punto di partenza è quindi identico a quello da cui ha preso le mosse la nostra analisi dello spirito del tempo. Prego pertanto il lettore di voler rileggere la sopra citata poesia Heidelberg (i, supra, p. 33).

La poesia contiene movimenti forti: il veloce balzo del ponte attraverso il fiume e la marea di gente che lo attraversa. AI di sotto di essa, tuttavia, l'acqua che scorre verso la lontananza azzurra. Il poeta sta attraversando il ponte, quando improvvisamente si ferma al suo inizio, come pervaso dal soffio di un incantesimo. Evocata da questo tocco, nel cuore affiora la sovrabbondanza della vita; il fiume che si allontana appare come la realtà dell'esistenza che infinitamente scorre via, come la vita in sé, e la vita individuale anela a precipitarvisi, non perché sia misera e disperata, ma perché è troppo ricca e felice, perché è «troppo bella per se stessa». La vita cresce tanto più vigorosa quanto più è viva. Ma la medesima vita cade anche nella profondità da cui è emersa con la nascita. E quanto è più forte, tanto più ripida diventa la china.

Ad un certo punto giunge il momento dell'incanto». Allora slancio e caduta raggiungono la loro massima potenza: elevandosi alla sua suprema altezza, la vita

302 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

si converte nella caduta mortale. Slancio e caduta, vita e morte sono affratellati - questo è il dionisiaco.

La stessa dismisura della vita che passa, il cui massimo culmino coincide con la caduta nella morte, si trova espressa nella poesia, già più volte esaminata, Voce del popolo. Dapprima viene evocato il mito del fiume:

Oblioso di sé, pronto sempre il desio Degli dèi a compiere, troppo docile Ciò ch'è mortale, ad occhi aperti Correndo rapido per il suo sentiero,

Prende la via più breve del ritorno nel tutto;

Così precipita il fiume in cerca di pace, lo strappa,

Lo trae contro sua voglia, di scoglio

In scoglio, giù, senza alcun freno,

La brama meravigliosa d'inabissare [...]

Denn selbstvergessen, allzubereit, den Wunsch / Der Gót-ter zu erfullen, ergreift zu gern, / Was sterbiich ist, wenn offnen Augs auf / Eigenen Pfaden es einmal wandeit, // Ins Ali zurùck die kùrzeste Bahn; so stùrzt / Der Strom hi-nab, er suchet die Ruh, es reiBt, / Es ziehet wider Willen ihn, von / Klippe zu Klippe den Steuerlosen // Das wun-dersame Sehnen dem Abgrund zu [..]. (il, p. 51; tr. it. cit., p.65).

Con questo è stabilito il progetto, il «desio degli dèi». Poi il pensiero passa al popolo:

[...] L'illimitato affascina anche i popoli Sono presi dal gusto della morte, e le audaci Città, dopo aver cercato il meglio,

Di anno in anno continuando l'opera, Hanno incontrato una fine sacra; verdeggia la terra, E quieta sotto le stelle giace la lunga arte, come Gli oranti, gettata sulla sabbia del deserto,

Dioniso 303

Per suo volere vinta

Di fronte a quelle inimitabili; lui stesso L'uomo, di propria mano ha spezzato, Per onorare gli dèi, la sua opera d'artista.

[...] Das Ungebundne reizet und Vólker auch / Ergreift die Todeslust und kùhne / Stàdie, nachdem sie versucht das Beste, // Von Jahr zu Jahr forttreibend das Werk, sie hat / Ein heilig Ende troffen; die Erde grùnt / Und stille vor den Sternen liegt, den / Betenden gleich, in den Sand geworfen, // Freiwillig ùberwunden die lange Kunst / Vor jenen Unnachahmbaren da; er selbst, / Der Mensch, mit eigner Hand zerbrach, die / Hohen zu ehren, sein Werk der Kùnstler (il, pp. 51-52; qui è data la seconda versione dell'ode).

Il popolo ha vissuto a lungo, producendo opere grandi e durevoli. Adesso improvvisamente la vita balza in alto precipitando nella distruzione. Così è accaduto alla città di Xanto, situata presso il fiume omonimo:

Lungo lo Xanto si stendeva, in età greca, la città, Ora però, come l'altre maggiori che laggiù riposano, Per un destino, alla sacra Luce del giorno s'è sottratta.

Ma non nell'aperta battaglia perirono Di propria mano. Spaventoso, quanto .Laggiù avvenne, nella mirabile saga Dall'oriente ci è giunto.

Fu la bontà di Bruto ad eccitarli. Poiché Quando il fuoco eruppe, egli si offrì Di aiutarli, lui stesso, il condottiero, Sebbene di fronte a quelle porte li assediasse.

Pur dagli spalti i servi essi gettarono,

304 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

Che egli inviò. Più vivo ne fu

II fuoco ed essi ne gioirono, e a loro

Le mani Bruto tendeva

E tutti eran fuor di sé. Un urlo

Si levò, e giubilo. Giù nella fiamma si gettarono Uomini e donne, e dei fanciulli l'uno Dal tetto, sulla spada paterna l'altro.

[...]Ecase

E templi rapiva, al sacro Etere

Fuggendo, e uomini insieme, la fiamma.

Am Xanthos lag, in griechischer Zeit, die Stadt, / Jetzt aber, gleich den gróBeren, die dort ruhn, / Ist durch ein Schicksal sie dem Heilgen / Uchte des Tages hinwegge-kommen. // Sie kamen aber nicht in der offnen Schlacht / Durch eigne Hand um. Fùrchterlich ist davon, / Was dort geschehn, die wunderbare / Sage von Osten zu uns gelanget. // Es reizte sie die Gùte von Brutus. Denn / Als Feuer ausgegangen, so bot er sich / Zu helfen ihnen, ob er gleich, als Feldherr, / Stand in Belagerung vor den Toren. // Doch von den Mauern warfen die Diener sie, / Die es gesandt. Lebendiger ward darauf / Das Feuer und sie freuten sich und ihnen / Strecket' entgegen die Hànde Brutus // Und alle waren auBer sich selbst. Geschrei / En-stand und Jauchzen. Drauf in die Fiamme warf / Sich Mann und Weib, von Knaben stùrzt' auch / Der von dem Dach, in der Vàter Schwert der. // ... Und Haus / Und Tempel nahm, zum heilgen Àther / Fliegend, und Men-schen hinweg die Fiamme (il, pp. 52-53).

L'evento è descritto in modo eminentemente drammatico: prorompe il fuoco fisico. Ad un tratto, «a lungo preparato», l'incendio scoppia nella stessa anima dell'uomo. Vi è una potenza che domina dentro e fuori, che, fiamma visibile ed incendio intcriore,

Dimiiso 305

costituisce un elemento dell'esistenza stessa, una divinità nel cui delirio tutto perisce.

Il dionisiaco è Io splendido e tremendo mistero della vita stessa. La contiguità di vita e di morte nell'esistenza. La possibilità che il piacere di vivere si tramuti nella gioia di morire, l'anelito all'essere nella fine, che in questo su e giù si rompa la forma individuale lasciando trapelare qualcosa di eccessivo, vissuto però da chi perisce come compimento: il Tutto. Il dionisiaco è il trionfo del tutto nella fine del singolo, quella fine che non è voluta a partire dalla debolezza, ma dall'abbondanza della vita.

Una controprova di questo fenomeno è costituita dalla poesia che rappresenta per eccellenza il canto sul superamento del dionisiaco per mezzo della misura e della limitazione, l'inno II Reno. Nella sesta strofa, subito dopo la decisione intcriore, si legge:

Ma un Dio preserva ai figli

La vita fugace e sorride

Quando sfrenati, eppure coatti

Da sacre Alpi, verso di Lui

Nel profondo, com'esso, infuriano i fiumi.

In tale fucina viene allora

Anche temprato tutto dò ch'è puro.

Ed è bello vederlo come poi,

Dopo lasciati i monti,

Calmo vagando per la campagna tedesca

Si contenta e l'ansia acqueta

In traffici fruttuosi, quando coltiva i campi,

II padre Reno e cari figliuoli alleva

In città, che egli ha fondate.

Ein Gott will aber sparen den Sóhnen / Das eilende Leben und làcheit, / Wenn unenthaltsam, aber gehemmt / Von

306 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

heiligen Alpen, ihm / In der Tiefe, wie jener, zùmen die Stróme. / In solcher Esse wird dann / Auch alles Lautre geschmiedet, / Und schón ists, wie er drauf, / Nachdem er die Berge verlassen, / Stiliwandeind sich im deutschen Lande / Begnùget und das Sehnen stilli / Im guten Ge-schàfte, wenn er das Land baut, / Der Valer Rhein, und liebe Kinder nàhrt / In Stàdten, die gegrùndet (II, p. 144;

tr. it. cit., p. 199). .

Da una tale misura scaturisce il lavoro e la sua fecondità. Se, benché voluta dagli dèi, non viene accettata, irrompe il titanico:

Chi fu che per primo

Corruppe i vincoli d'amore

Per farne corde?

Allora hanno alla propria legge

E insino al fuoco celeste

Irriso i superbi, da allora

Sprezzando la strada mortale

Protervia dessero

E agli dèi farsi uguali anelarono.

Wer war es, der zuerst / Die Uebesbande verderbt / Und Stricke von ihnen gemacht hat? / Dann haben des eigenen Rechts / Und gewiB des himmlischen Feuers / Gespotten die Trotzigen, dann erst, / Die sterbiichen Pfade ver-achtend, / Verwegnes erwàhit / Und den Góttern gleich zu werden getrachtet (il, p. 145; tr. it. cit., p. 199).

Il titanico è dionisiaco, laddove non è lecito che sia. In tal caso, la figura singola non si dissolve nel sacrificio religiosamente devoto perché trionfi il tutto, ma il singolo si ribella contro la frontiera e la traiettoria prestabilita, e non è il tutto, ma il caos a irrompere.

L'inno II Reno mostra il passaggio del fenomeno

Dioniso 307

dalla sfera dell'uomo a quella del mondo. Non solo la vita umana può culminare nel dionisiaco, ma anche la natura. Immediatamente prima del passo che parla dell'autolimitazione, si legge:

Poiché dove prima le rive

A fianco gli strisciano, le sinuose,

E assetate si avvolgono a lui,

Incauto, di trascinarlo

E ben custodirlo cupide

Nel loro dente, ridendo

Schianta le serpi e giù piomba

Con la preda,

E se in quella fùria

Un più grande non lo ammansisse,

Se lo lasdasse crescere, come folgore

Fenderebbe la terra, e i boschi incantati

Dietro lui fuggirebbero e i mond frananti.

Denn wo die Ufer zuerst / An die Seit ihm schleichen, die krummen, / Und durstig umwindend ihn, / Den Unbe-dachten, zu ziehn / Und wohi zu behùten begehren / Im eigenen Zanne, lachend / ZerreiBt er die Schlangen und wenn in der Eil / Ein Grófierer ihn nicht zàhmt, / Ihn wachsen làBt, wie der Blitz muB er/ Die Erde spalten, und wie Bezauberte fliehn / Die Wàlder ihm nach und zusam-mensinkend die Berge (il, p. 144; tr. it. di., p. 197).

Il fiume è immensa, oggettiva vitalità cosmica. Le rive sono fatte per legarlo, come le fasce il bambino. Ma improvvisamente al posto del fiume vi è Eracle. Le rive sono i serpenti che devono soffocare il semidio, e il figlio degli dèi li lacera. Adesso: Eracle dilacera i serpenti, il fiume sta lacerando le sponde, i limiti prestabiliti; tutte le figure si mettono in movimento;

la dirczione orizzontale del fiume improvvisamente minaccia di trasformarsi in tutt'altra, in quella del ful-

308 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

mine che saetta verticalmente verso il basso, spaccando la terra; essa punta verso il centro del tutto, all'interna zona a noi sottratta dell'esistenza, all'ambito che sta oltre la vita e la morte individuale ... Riaffiora la stessa parola già evocata in Heidelberg: l'«incanto». Tutte le forme minacciano di rompersi, tutti i limiti di dissolversi. Le leggi che danno garanzia sicura sono in procinto di essere annullate. Le cose, boschi e «monti» si dispongono a «fuggire dietro» al fulmine, verso ciò che non ha nome.

La potenza primordiale, la profondità della natura, l'abisso del tutto urge per risalire in superficie. Il dionisiaco nell'oggettivo2.

Mentre in questo caso l'eruzione dionisiaca sarebbe illecita, costituendo la tentazione a cui l'esistenza eroica resiste ed il cui superamento comporta la pienezza dell'operare, l'amore degli dèi e la gratitudine degli uomini, nell'elegia Stoccarda pervasa da alito dionisiaco, essa domina di diritto:

1. Vissuto ancora ho una gioia. Guarita è l'arsura funesta E della luce il rigore più non brucia le fioriture. Aperta ora è di nuovo una sala e risanato è il giardino E rianimata da piogge stormisce la valle lucente Dagli airi fogliami, son gonfi i torrenti e tutte le ali Legate riprendono ardire nel regno del canto. Piena è l'aria di quei festosi e bosco e città Pullula intomo di contente creature del delo. Con piacere s'incontrano e intrecciano un andirivieni, Senza pensieri, e nessuno sembra sia troppo o sia poco;

Così li preordina il cuore, e respirare la grazia Leggiadra e giusta concede loro un divino spirito. Ma bene guidati sono pure i viandanti e hanno Ghirlande bastevoli e canto, hanno il bastone sacro Bene adorno di grappoli e frondi seco, e dei pini L'ombra: di borgo in borgo è un giubilo, da giorno a giorno,

Dioniso 309

E, quali carri tirati da libere belve, si mettono i monti In cammino, così porta e vola il sentiero.

Wieder ein Glùck ist eriebt. Die gefahriiche Dùrre geneset, / Und die Schàrfe des Lichts senget die Biute nicht mehr. / Offen stehtjetzt wieder ein Saal, und gesund ist der Gar-ten, / Und von Regen erfrischt rauschet das glànzende Tal, / Hoch von Gewàchsen, es schwellen die Bàch und alle gebundnen / Fìttiche wagen sich wieder ins Reich des Gesangs. / Voli ist die Luft von Fróhiichen jetzt und die Stadt und der Hain ist / Rings von zufriedenen Kindern des Himmeis erfùlit. / Geme begegnen sie sich, und irren untereinander, / Sorgenlos, und es scheint keines zu we-nig, zu viel. / Denn so ordnet das Herz es an, und zu at-men die An-mut, / Sie, die geschickiiche, schenkt ihnen ein góttlicher Geist. / Aber die Wanderer auch sind wohl-geleitet und haben / Krànze genug und Gesang, haben den heiligen Stab, / Vollgeschmùckt mit Trauben und Laub, bei sich und der Fichte / Schatten; von Dorfe zu Dorfjauchzt es, von Tage zu Tag, / Und wie Wagen, be-spannt mit freiem Wilde, so ziehn die / Berge voran und so tràget und eilet der Pfad (il, p. 86; tr. it. dt., p. 127).

Di nuovo l'incontro. Il temporale risveglia dappertutto una vita infinita. Anche gli uomini ne sono toccati e, nuovi Bacchi, si allontanavano dalle case, escono fuori con in mano il tirso sacro, adomo d'uva, il frutto di Dioniso, e lasciando dietro di sé i pini, gli alberi consacrati al dio. A un tratto tutto si trasforma. Alla loro testa, il carro del dio cigola per il paese. Le montagne stesse un attimo fa ancora levantisi all'orizzonte, azzurre e silenziose, sono il carro che si muove verso la lontananza indicibile. Le belve - «libere belve» in quest'ora della dissoluzione, in cui tutti i limiti sono caduti e domina il tutto - sono in testa, e il sentiero stesso corre.

310 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

II testo dell'inno II Reno mostra come l'incanto dionisiaco possa rovesciarsi nella sua forma cattiva, nell'assenza d'ogni legge, che è propria del caos. Quando è chiesta la limitazione ed il salto nell'abisso primordiale è vietato, Bacco si trasforma nel titano, e la fine piena di significato diventa distruzione malvagia. L'inno II Reno è il canto sull'assoggettamento del titanico alla disciplina e alla fecondità apollinee. Questo moto sotterraneo è sotteso però a tutta la poesia e conferisce il suo splendore alla vittoria. Ma alla fine muove minacciosamente fin sotto alla superfìcie:

Se per ardente sentiero d'abeti

O nel buio quercete, celato

Nell'acciaio, o mio Sinclair! Iddio ti appaia

O nelle nubi, lo riconoscerai, che, giovanile,

Conosd la forza del bene e non ti è mai

Ascoso il sorriso del Regnatore,

Sia di giorno, quando

Febbrile e incatenata

La vita appare, sia

Di notte quando tutto si mischia

Senz'ordine e torna

L'originario groviglio.

Dir mag auf heiBem Pfade unter Tannen oder / Im Dun-kel des Eichwaids, gehùllt / In Stahi, mein Sinclair! Goti erscheinen oder / In Wolken, du kennst ihn, da du ken-nest, jugendiich, / Des Guten Kraft, und nimmer ist dir / Verborgen das Làchein des Herrschers / Bei Tage, wenn / Es fieberhaft und angekettet das / Lebendige scheinet, oder auch / Bei Nacht, wenn alles gemischt / Ist ordnungs-los und wiedergekehrt / Uralte Verwirrung (il, p. 148; tr. it. dt., p. 205).

In modo simile una strofa degli ultimi anni:

Dioniso 311

Maturi sono, nel fuoco tuffati, cotti

I frutti e sulla terra provati; e v'ha una legge

Che tutto in dentro volge come serpenti

In profetico sogno sopra

I colli del delo. E molto,

Quale sugli omeri

Un peso di ciocchi

È da conservare. Ma sono cattivi

I sentieri. Poiché fuori strada

Come cavalli, vanno i prigionieri

Elementi e le vecchie

Leggi della terra. E sempre

Allo sfrenamento va una brama. Ma molto

È da conservare. E necessaria la fedeltà.

Ma ne avanti, ne indietro

Noi vogliamo vedere. Ci facciamo cullare

Come su dondolante barca del mare.

Reif sind, in Feuer getaucht, gekochet / Die Frùcht' und auf der Erde geprùfet und ein Gesetz ist, / DaB alles hin-. eingeht, Schlangen gleich, / Prophetisch, tràumend auf/ Den Hùgein des Himmels. Und vieles, / Wie auf den Schuitern eine / Last von Scheitern, ist / Zu behalten. Aber bós sind / Die Pfade. Namlich unrecht, / Wie Rosse, gehn die gefangenen / Element' und alten / Gesetze der Erd. Und immer / Ins Ungebundene gehet eine Sehn-sucht. Vieles aber ist / Zu behalten. Und Not die Treue, / Vorwàrts aber und rùckwàrts wollen wir / Nicht sehn. Uns wiegen lassen, wie / Auf schwankem Kahne der See (il, p. 197; tr. it. cit, p. 243).

È profondamente toccante, nella poesia, l'urgere del pericolo sotterraneo verso la superfìcie. L'immagine in sé proviene probabilmente dalla Francia meridionale: l'ardore del sole sopra i frutteti e le vigne ed il silenzioso maturare dovunque.

Ma i processi naturali diventano il dominio di po-

312 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

tenze e di esseri finché non prorompe la sensazione che l'ordine in cui è riposta l'esistenza quotidiana è solo apparente, un vincolo provvisorio che il caos può rompere in qualsiasi momento - fuori, nella natura, come l'innominabile dell'inno II Reno, dentro, nel cuore, come una «nostalgia che va dove non sono ceppi». Così il vate cerca il luogo estremo dove l'uomo può trovare riparo quando avverte sciolto tutto attorno a sé e in se stesso, trovandolo nel luogo «indivisibilmente piccolo», per dirla con Pascal, dell'attesa immobile neìVhic et nunc (VI, infra, p. 603).

Tutto ciò è il dionisiaco nella sua potenza e nel suo pericolo. Un elemento dell'esistenza, un aspetto sotto cui appare il mondo ... Ma appena Dioniso viene nominato di persona, egli si presenta sempre come il mite e munifico che unisce ciò che è diviso, riconcilia ciò che è dissidente, che libera ciò che è imprigionato conducendolo all'aperto. L'unico lo chiama Èvio.

Che al carro aggiogò

Le tigri e giù

Ordinando un rito di gioia

Piantò la vigna

E l'ira ammansi dei popoli.

An den Wagen spannte / Die Tiger und hinab / Bis an den Indus / Gebietend freudigen Dienst / Den Weinberg stiftet' und / Den Grimm bezàhmte der Vólker (il, p. 154;

tr. it. dt., p. 215; Èvio [Ed'ioc;] è un appellativo di Dioniso -n.d.r.).

In Pane e vino la riconciliazione è più profonda. Essa supera la divisione dell'esistenza che scaturisce dagli ordinamenti stessi:

Dioniso 313

Per questo i cantori cantano severi il dio del vino E, non mera fantasia, suona all'Antico la lode. Sì! essi dicono bene ch'Egli concilia la Notte col Giorno E che in eterno le stelle di sotto e su in alto conduce, In ogni tempo lieto come il sempreverde pino Ch'Egli ama e la corona che d'edera si è scelto:

Perché Egli rimane e la traccia degli dèi fuggiti Porta giù fra la tenebra ai senza dèi.

I figli d'Iddio, che il canto degli antichi predice Ecco che siamo: frutto dell'Esperia è questo! Mirabilmente e in precisa misura del limite umano, è adem-

[piuto Chi l'ha provato, lo creda! ma per quanto dò accada, Nulla produce, che siamo scuorati, e saremo ombre, fin

[quanto

II padre Etere, riconosciuto, a ognuno e a tutti non appartenga. Ma nel frattempo scende a scuoter la fiaccola il Figlio Dell'Altìssimo, il Siriaco, in mezzo alle ombre, quaggiù. Savi felici lo vedono: un riso s'irraggia dall'anima Imprigionata, alla luce si disgela anche il loro occhio. Più dolce sogna e dorme in braccio alla Terra il Titano, Anche l'invido, anche Cerbero beve e dorme.

Darum singen sie auch mit Ernst, die Sànger, den Wein-gott, / Und nicht eitel erdacht tónet dem Alten das Lob. // Ja! sie sagen mit Recht, er sóhne den Tag mit der Nacht aus, / Fùhre des Himmeis Gestim ewig hinunter, hinauf, / Allzeit froh, wie das Laub der immergrùnenden Fichte, / Das er liebt, und der Kranz, den er von Efeu ge-wàhit, / Weil er bleibet und selbst die Spur der entflohnen Getter / Gótterlosen hinab unter das Finstere bringt. / Was der Alten Gesang von Kindem Gottes geweissagt, / Siehe! wir sind es, wir; Frucht von Hesperien ists! / Wun-derbar und genau ists als an Menschen erfullet, / Glaube, wer es geprùft! aber so vieles geschieht, / Keines wirket, denn wir sind herzios, Schatten, bis unser / Vater Àther erkannt jeden und allen gehórt. / Aber indessen kommt

314 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

als Fackelschwinger des Hòchsten / Sohn, der Syrier, un-ter die Schatten herab. / Selige Weise sehns; ein Làchein aus der gefangnen / Seele leuchtet, dem Ucht tauet ihr Auge noch auf. / Sanfter tràumet und schlaft in Armen der Erde der Titan. / Selbst der neidische, selbst Cerberus trinket und schlaft (II, pp. 94-95; tr. it. cit., p. 141-143).

La potenza di Dioniso evoca la lotta e crea la pace. I limiti opprimenti si dissolvono, e il tutto, che si fa strada attraverso l'incanto, è l'unità di quanto altrimenti è in tensione. Così nella terza versione di L'unico di Bacco potrà essere detto che egli è «spirito di comunione» per eccellenza3.

Anche questa figura divina è permeata da correnti che provengono dall'ambito di pensiero e di sentimento cristiano. Ne è prova eloquente il fatto che tutte le affermazioni più importanti su Dioniso siano contenute negli inni su Cristo.

Ne abbiamo fatto conoscenza adesso. Nella visione di Hólderlin, le figure di Dioniso e di Cristo sono strettamente legate fra loro. Verrebbe quasi a dire che essi formano una unione, certo in profonda tensione. Ciò significa da una pane che la figura di Cristo è determinata a partire da quella di Dioniso, ma anche che la natura e l'atteggiamento del Dioniso di Hólderlin sono modellati sulla figura di Cristo.

Non a caso quindi, Dioniso viene messo espressamente in rapporto con Cristo ed Eracle. Essi formano il gruppo delle divinità salvifiche caratterizzate dal loro rapporto con «la necessità e distretta» dell'uomo (V, infra, p. 672).

SATURNO

Un ruolo particolare nella poesia di Hólderlin è occupato da una figura divina che, benché raramente nominata, non manca di impressionare fortemente:

quella di Saturno.

Tra le poesie che seguono la metrica antica ve n'è una intitolata Natura e arte, ovvero Saturno e Giove.

Regni alto sul giorno e fiorisce la tua

Legge, in pugno hai la bilancia, figlio di Saturno!

E spartisci le sorti e lieto riposi

Nella gloria delle arti di dominio immortali.

Ma si dicono i cantori che nell'abisso II sacro padre, una volta, il tuo proprio, Tu sbandisti e che si lamenta laggiù, Dove i ribelli puniti stanno prima di tè,

L'innocente dio dell'età dell'oro, da tanto;

Esente da cure, una volta, e di tè più grande, Anche se mai nessun comando espresse, Ne lo chiamò con nomi alcun mortale.

Giù, dunque! o non vergognarti di ringraziare! E se vuoi rimanere, ossequia il più antico, Accordagli che prima di tutti, Dèi e uomini, il cantore lo nomini!

Che come dalla nuvola il tuo fulmine,

316 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

Viene da lui dò eh'è tuo, guarda! di lui Testimonia ciò che legiferi, e dalla pace Di Saturno qualunque potenza è cresciuta.

E non appena in cuore un che di vivente Sento e l'albore di dò che creasti, Non appena nella sua culla l'instabile Tempo cede a un voluttuoso sopore,

10 t'odo allora, o Cronio! e in tè conosco

11 savio maestro che come noi, figlio

Del tempo, da leggi e quanto

II santo crepuscolo asconde, annunzi.

Du waltest hoch am Tag und es blùhet dein / Gesetz, du hàltst die Waage, Saturnus Sohn! / Und teiist die Los' und ruhest froh im / Ruhm der unsterbiichen Herrscherkùn-ste. // Doch in den Abgrund, sagen die Sànger sich, / Habst du den heilgen Vater, den eignen, einst / Verwié-sen und es jammre drunten, / Da, wo die Wilden vor dir mit Recht sind, // Schuidlos der Gott der goldenen Zeit schon làngst: / Einst mùhelos und gróBer, wie du, wenn schon / Er kein Gebot aussprach und ihn der / Sterbii-chen keiner mit Namen nannte. // Herab denn! oder schàme des Danks dich nicht! / Und wilist du bleiben, die-ne dem Àlteren, / Und gónn es ihm, dafi ihn vor Allen, / Góttern und Menschen, der Sànger nenne! // Denn, wie aus dem Gewólke dein Blitz, so kómmt / Von ihm, was dein ist, siehe! so zeugt von ihm, / Was du gebeutst, und aus Staturnus / Frieden istjegliche Macht erwachsen. // Und hab ich erst am Herzen Lebendiges / Gefùhit und dàmmert, was du gestaltetest, / Und war in ihrer Wiege mir in / Wonne die wechseinde Zeit entschiummert, // Dann kenn ich dich, Kronion! dann hór ich dich, / Den weisen Meister, welcher, wie wir, ein Sohn / Der Zeit, Ge-setze gibt und, was die / Heilige Dàmmerung birgt, ver-kùndet (il, pp. 37-38; tr. it- dt, pp. 77-79).

Saturno 317

Zeus è il dio della cultura: del dominio regale, dell'operare saggio, della responsabilità spirituale nella luce chiara. Ma il potere non è sempre stato suo. Prima di lui vi fu Saturno e fu più grande di lui. Costui è il dio della natura o, meglio, della natura secondo il suo stato primordiale, in cui tutte le cose erano ancora concordemente unite. Egli è colui che è senza fatica, «esente da cure», il dio di quella vita che segue i percorsi facili, identici con se stessi dell'esistenza inconscia; Saturno non proclama nessun comandamento. Nel suo regno è tutto ovvio - vedi la prima fase della storia nella nostra analisi circa l'immagine della storia di Hólderlin (II, supra, p. 160). Suo figlio lo ha detronizzato perché l'esistenza non può rimanere allo stato primordiale, ma passa dall'autoidentità della natura alla tensione dello spirito, alla lotta, alla conquista, alla creazione e alla distruzione.

Saturno è il nume della «età d'oro», dell'inizio. L'inizio è un mistero, un àrrèthon. Per questo il dio di essa è colui che «nessun mortale mai chiamò per nome». Lo stato primordiale deve scomparire perché la vita, abbandonando la sua sicurezza, affronta l'audacia e la lotta; così questo dio è circondato dal lutto dell'aver perduto. Allo stesso tempo tuttavia, attorno a lui fiorisce una promessa, poiché il mistero dell'inizio è unito a quello della fine. Lo splendore numino-so che avvolge il primo stato perduto, riveste anche l'ultimo che sta nella speranza. Infatti, Saturno è anche il dio che ritornerà. Empedocle predice che un tempo, quando gli assalti e le sofferenze che gli uomini si infliggono saranno superate e verrà la salvezza,

318 Temo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

subentrerà la terza realtà: la natura nuova, l'esistenza riconciliata. Allora regnerà Saturno:

Quando poi giungeranno i felici giorni di Saturno,

Rinnovati e più virili, ricordate

II tempo perduto e all'ardore del genio

Riviva la leggenda dei padri!

Come canto dalla luce della primavera

Innalzato alla festa venga

Dal regno delle ombre l'obliato

Mondo degli eroi e insieme all'aurea

Nube della tristezza vi circondino,

Nella vostra letizia, le memorie.

\Venn dann die glùckiichen Saturnustage, / Die neuen, mànniicheren, gekommen sind, / Dann denkt vergangner Zeit, dann leb, erwàrmt / Am Genius, der Vàter Sage wie-der! / Zum Feste komme, wie vom Frùhiingsiicht / Em-porgesungen, die vergessene / Heroenweit vom Schatten-reich herauf, / Und mit der goldnen Trauerwolke lagre / Erinnrung sich, ihr Freudigen, um euch! - (m, p. 150).

Contemporaneamente, in questa poesia, è partico-larmente evidente l'ufficio del poeta. Saturno sta «nell'abisso», nelle profondità della terra; là, dov'è ciò che «doveva scendere nel suolo» affinchè altro potesse crescere. Ma egli è laggiù «senza colpa» solo perché il decorso dell'esistenza così vuole; a differenza «dei ribelli», dei Titani, che, «puniti» a ragione, di diritto sono confinati negli abissi. Perciò egli ha diritto a che si tenga in considerazione il suo significato. Il poeta però ha il compito di preservare ogni diritto divino, quindi anche quello del vecchio dio detronizzato verso il più giovane che ha assunto il potere. Perciò, con il pathos di qualcuno mandato da una potenza superiore, si rivolge al dio dominante:

Saturno 319

Giù, dunque! o non vergognarti di ringraziare. E se vuoi rimanere, ossequia il più antico.

Herab denn! oder schàme des Danks dich nicht! / Und wilist du bleiben, diene dem Àlteren (il, p. 37; tr. it. dt., p. 79).

Gratitudine per Hólderlin significa l'opposto di hybris. Questa vige laddove il singolo si strappa dal contesto stabilendo la propria autonomia. In verità, tutto vive da tutto. Ma la tentazione di strapparsene è molto grande perché dappertutto vi sono separazioni; giorno e notte, ciclo e terra, natura e cultura, le differenti stagioni dell'anno, ogni figura singola accanto ad ogni altra. Sono le separazioni su cui poggiano le forme dell'esistenza.

Poter dire: «il giorno è giorno» e: «la quercia che sta qui è proprio questa» significa allo stesso tempo dover dire: «quando viene il giorno, la notte deve cessare» e: «albero non è animale, quercia non è betulla, e se mi rivolgo verso questa betulla, devo lasciar perdere quella». La determinazione può avvenire solo attraverso la scissione e la distinzione. Determinazione e carattere significano anche un limite. Ciò comporta sofferenza poiché ogni essere vorrebbe stare con tutti gli altri, ognuno essere tutti gli altri e ognuno essere il tutto. L'impossibilità di ciò costituisce il dolore mitico. La notte deve sparire quando giunge il giorno;

la primavera deve passare se si vuole che diventi estate. Ma esiste la promessa che questo dolore verrà una volta sedato: al culmine di ogni vita, nelle «nozze degli uomini e degli dèi». A ciò si protende la speranza. La tentazione mitica invece significa che la realtà singola dice: «Io sono ciò che sono, a partire da me stes-

320 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

so soltanto, e così deve rimanere, e questo è il tutto». Questa è la hybris, l'ingiustizia prima. La gratitudine invece è la virtù prima che conosce la totalità, il proprio limite e la propria collocazione nella totalità ... Il poeta è l'avvocato della totalità. La protegge - perfino davanti a un'espressione così imponente d'essere singolo, come Zeus - ricordandogli il dovere della gratitudine.

Saturno è l'inizio delle cose, la pace, la sicurezza nel senza nome, il sacro crepuscolo, la culla del tempo cangiante, il primo sonno. Ciò che Cronio è e fa proviene da quell'inizio. Dal mistero del sonno scaturisce il tempo che «cammina per i sentieri ad occhio aperto», dalla pace la potenza, dal silenzio la parola. Ciò che compie Cronio, la cultura, è grande, ma più piccolo di quello e si può intenderlo solo a partire da esso.

Quando il poeta, attraverso il contatto visionario, venne trasportato fuori dal tempo all'inizio, dove «l'instabile tempo nella sua culla cede a un voluttuoso sopore», egli ha «sentito un che di vivente». Le chiare opere quotidiane di Zeus gli sono «sovvenute», riemerse nell'inizio, e solo adesso ha «udito», «conosciuto» il loro creatore, il «savio maestro». Poiché il dio del giorno non fa altro che annunciare ciò che «il santo crepuscolo» da sempre «custodisce».

Un singolare traduzione in termini umani di quest'insieme si trova nella Morte di Empedocle:

Ah! Solo! Solo! Solo! .

Non più, miei dèi,

io vi ritrovo,

non più. Natura,

torno alla tua vita!

Da tè messo al bando! ahimè, anch'io

Saturno 321

non ti rispettai,

sopra di tè mi sollevai superbo, ma non fosti tu

ad abbracciarmi un giorno con le tue calde ali,

o tenera, a salvarmi dal sonno?

Il folle che rifiutava il nutrimento

tu, pietosa, ammaliante, l'hai attirato

al tuo nettare affinchè crescesse e fiorisse

e, divenuto ebbro e potente,

d schernisse ora impunito? O Spirito,

Spirito, tu che mi facesti grande,

è il tuo signore che allevasti:

vecchio Saturno, allevasti un nuovo Giove -ma più debole e insolente.

Poiché, lingua ingiuriosa, egli non sa che insultard, non esiste in qualche dove un vendicatore, e devo allora

[da me stesso invocare sulla mia anima scherno e maledizione? Devo essere solo anche in questo?

Weh! einsam! einsam! einsam! / Und nimmer find ich / Euch, meine Getter, / Und nimmer kehr' ich / Zu deinem Leben, Natur! / Dein Geàchteter! weh! hab' ich doch auch / Dein nicht geachtet, dein / Mich ùberhoben, hast du einst / Umfangend doch mit den warmen Fittichen, / Du Zàrtiiche, mich vom Schlafe gerettet, / Den Tórigen? ihn / Mitleidig schmeicheind zu deinem Nektar/ Gelockt, da-mit er trank und wuchs / Und blùht', und màchtig gewor-den und trunken / Dir nun ungestraft hóhnt - O Geist, / Geist, der mich groB gemacht! du hast / Dir deinen Herrn, hast, alter Saturn! / Dir einen neuen Jupiter / Gezogen, einen schwàchern nur und frechem. / Denn schmàhen kann die bóse Zunge dich nur. / Ist nirgend ein Ràcher, und muB ich denn allein / Den Hohn und Fluch in meine Seele sagen? / MuB einsam sein? auch so? (Seconda versione m, pp. 186-187; tr. it. cit., p. 187).

Sacrilego, presuntuoso, Empedocle ha abbandonato la prima realtà in se stesso, il proprio spirito che

322 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

era in pace con sé e con la natura e quindi con «Saturno» - «l'antica natura dell'uomo, la silenziosa e grande», come si dice in altro passo. Gli ha imposto «un nuovo Giove», un signore «più debole e più insolente» che, spirito consapevole, si impone dominando ciò che di grande era prima. Sotto questo aspetto il dramma appare come il ripristino dell'elemento saturnino nell'esistenza dell'eroe attraverso la fine di quanto è individuale e zeusico.

Se si analizzano le affermazioni di Saturno con precisione, egli appare identico alla divinità della natura in assoluto prima del suo dispiegamehto, che invero è anche necessariamente lacerazione, e ancora identico con la divinità della medesima natura quando, superate tutte le lacerazioni, essa entra nella nuova pace. Così adesso, nella lacerazione, egli è il dio ignoto, senza nome la cui venuta è promessa. A ciò si riferiranno probabilmente le parole tratte dall'abbozzo della prefazione alVIperione:

Noi tutti descriviamo una parabola eccentrica, e non d è possibile altra via che porti dall'infanzia alla perfezione.

L'unità beata, l'essere, nell'unico senso della parola, è perso per noi, e dovevamo perderla se dovevamo perseguirla, ottenerla. Ci stacchiamo dair'ev k(xi Tiav del mondo, che è in pace, per realizzarlo da noi stessi. Siamo in disaccordo con la natura, e ciò che un tempo, come si può credere, era Uno, ora si combatte, e dominio e servaggio si alternano da entrambe le parti. Spesso abbiamo la sensazione che il mondo sia tutto e noi nulla, ma altrettanto spesso che noi siamo tutto e il mondo nulla. Anche Iperione era diviso da questi due estremi.

Sopire tale contrasto esterno tra il nostro io e il mondo, riportare la pace di ogni pace, superiore ad ogni ragione,

Saturno 323

unirà con la natura per formare una totalità una e infinita, questo è l'obiettivo del nostro anelare, si concordi o non si concordi su ciò.

Ma ne il nostro sapere ne il nostro agire giungono, durante un qualsiasi periodo dell'esistenza, là dove tutto è uno;

la linea determinata si congiunge con quella indeterminata solo in un'approssimazione infinita (il, pp. 545-546).

IL DIO IN NOI, IL DIO INNOMINATO E IL DIO NUOVO

Infine, nella poesia di Hólderlin si trovano ancora alcune altre forme del divino che, per quanto nominate di sfuggita, risalgono a un'esperienza vera e sembrano avere un fondo di significato autentico: il «dio in noi», il «dio innominato» e il dio «nuovo».

Il frammento delYIperione di «Thalia» [scritto nel 1794 a Waltershausen - n.d.r.] dice:

Ah! Il dio in noi è sempre solo e povero. Dove troverà tutti i suoi affini? Quelli che un tempo furono e saranno? Quando verrà il grande ritrovo degli spiriti? Poiché un tempo, io credo, eravamo tutti insieme (n, p. 59).

L'addio:

Volemmo separarci? Credemmo far bene e da saggi?

Perché il fatto compiuto d dette orrore come assassinio?

Ah! poco ci conosciamo.

Un dio comanda dentro di noi.

Tradirlo? Lui che sempre per noi, tutto,

Sensi e vita ha creato, l'animante

Dio tutelare del nostro amore,

Tutto potrò fare, ma questo mai.

Trennen wollten wir uns? wàhnten es gut und klug? / Da wirs taten, warum schróckte, wie Mord, die Tat? / Ach! wir kennen uns wenig, / Denn es waltet ein Gott in uns.

326 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

// Den verraten? ach ihn, welcher uns alles erst, / Sinn und Leben erschuf, ihn den beseelenden / Schutzgott un-serer Uebe, / Dies, dies Eine vermag idi nicht (il, p. 24; tr. it. dt., p. 53).

Lamento di Menone per Diotima:

Ma noi, compagni lied, come i cigni che si amano Quando riposano in riva al lago, o, sulle onde cullati, Guardano giù nell'acqua, ove argentei arri si specchiano E l'azzurro dell'etere fluttua sotto il lor navigare, Così sulla terra andavamo. E minacciasse anche Borea, Nemico degli amanti, foriero di lai, cadesse Dai rami la fronda e nel vento volasse la pioggia, Sorridevamo calmi, il nostro dio sentivamo Nel caro colloquio, nel canto all'unisono delle anime Stare con noi solo in gran pace, fanciullesco e gioioso.

Aber wir, zufrieden gesellt, wie die liebenden Schwàne, / Wenn sie ruhen am See, oder, auf Wellen gewiegt, / Nie-dersehn in die Wasser, wo silberne Wolken sich spiegein, / Und àtherisches Biau unter den Schiffenden walit, / So auf Erden wandelten wir. Und drohte der Nord auch, / Er, der Uebenden Feind, klagenbereitend, und fiel / Von den Àsten das Laub, und flog im Winde der Regen, / Ruhig làchelten wir, fùhiten den eigenen Gott / Unter trautem Gespràch; in einem Seelengesange, / Ganz in Frieden mit uns kindiich und freudig allein (II, p. 76; tr. it. dt., p. 121).

In questi testi si intrecciano momenti diversi. Come dappertutto nella natura, anche all'interno dell'uomo vige il divino.

L'interiorità dell'uomo, il suo essere in sé, è esso stesso un nume: «il dio in noi». Dapprima, egli non ha nome, poiché ciò che è più di tutto proprio il nucleo dell'individualità non è in grado di esprimersi.

Il dio in noi, il dio innominato e il dio nuovo 327

Esso è «sempre solo e povero». Ma la divinità stessa vi è diventata solitària. La solitudine del singolo per la divinità è un modo di essere divina. La realtà della figura particolare, il «camminare su sentieri propri», lo «stare su monti divisi» è la solitudine del dio in noi.

Appena l'altro che gli è correlato lo incontra, egli riconosce quanto è solitario e proprio di chi cerca e lo nomina. Questo è l'amore. Attraverso questo nominare religiosamente amoroso il dio solitario diventa accessibile e si apre la via all'essere insieme. Il «dio in noi» diventa il nume della comunità. Questo divenire aperto, dopo una prigionia tormentosa, è descritto con grandezza metafisica in L'addio:

Sparire voglio! Forse in un giorno lontano Diotima qui ti vedrò. Ma dissanguato Allora sarà il desiderio, estranei Sereni saremo, simili ai beati,

E andremo uno a fianco dell'altra in un calmo colloquio, Pensosi, sostando; ma il luogo in cui d lasciammo Farà trasalire i dimentichi, Ardente tornerà il cuore.

Stupito d guarderò, voci e dolce canto Come dal tempo andato udirò e accordi, E il giglio profumerà Dorato per noi sopra il ruscello.

Hingehn will ich. Vielleicht seh ich in langer Zeit, / Diotì-ma! dich hier. Aber verbiutet ist / Dann das Wùnschen und friediich / Gleich den Seligen, fremde gehn // Wir umher, ein Gespràch fùhret uns ab und auf, / Sinnend, zógernd, doch itzt mahnt die Vergessenen / Hier die Stelle des Abschieds, / Es erwarmet ein Herz in uns, // Stau-nend seh ich dich an, Stimmen und sùBen Sang, / Wie aus

328 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

voriger Zeit, hór ich und Saitenspiel, / Und die Ulie duf-tet / Golden ùber dem Bach uns auf (seconda versione U, p. 27; tr. it. dt., pp. 53-55)4.

Ma esiste anche un essere insieme che impedisce la comunione e la rivelazione del suo nume. Nella Giovinezza di Iperione si legge:

[...] impiegano tutto per essere insieme, ma poi, quando sono insieme, fanno gli sforzi più impensabili per essere soli nel vero senso della parola, aprono la porta e chiudono il cuore - sia reso grazie al delo che me ne sono staccato! (il, p. 522).

Il vero essere insieme deve scaturire dal raccoglimento, e i luoghi in cui si avvera formano una rete viva tesa sulla terra:

«Appunto questo mi incupisce, che sembra consigliabile vivere da soli», contìnuo Diotima; «porto un'immagine della socievolezza nel cuore; buon Dio! quanto è più bello, secondo questa immagine, essere insieme invece che soli! Penso spesso che se si gioisse solo di quelle cose che sono care ad ogni cuore umano, se il sacro che è in tutù si manifestasse nel discorso, nell'immagine e nel canto, se in una verità si unissero tutti gli animi, se in una bellezza si riconoscessero tutti, ah! se, tenendosi per mano, d si precipitasse nelle bracda dell'infinito -».

«O Diotima», esclamai, «se sapessi dove si trova questa comunità divina ancora oggi prenderei il bordone da viaggio e con l'impeto dell'aquila mi rifùgerei nella patria del nostro cuore!».

«Spesso vivo in mezzo ad essa nello spirito», continuò Diotima, «e mi sento come se fossi lontana in un altro mondo, e rinundo così facilmente a quello presente, - cantiamo canzoni diverse, celebriamo feste nuove, feste dei santi di tutti i tempi e luoghi, degli eroi dell'oriente e dell'ocdden-te; ognuno sceglie uno vidno al proprio cuore e alla pro-

Il dio in noi, il dio innominato e il dio nuovo 329

pria vita, e il morto splendido compare in mezzo a noi, nella gloria delle sue gesta. Ma non dimentichiamo nemmeno chi, industrioso al quieto focolare, con animo puro fa il suo dovere, e ci sono corone per ogni virtù; e quando nei nostri prati risplende il fiore dorato e il campo di spighe ci stormisce attorno nella sua fioritura azzurra e sul monte caldo matura l'uva, allora gioiamo della cara terra che vive ancora la sua vita bella nella pace, e coloro che la colavano cantano di essa come di una lieta compagna di giochi; amiamo tutti anche lei, eternamente giovane, madre della primavera, benvenuta splendida sorella! esclamiamo con la pienezza del nostro cuore quando sorge per nostra gioia, l'amata: il sole del delo; ma non è possibile pensare a lei sola! L'etere che ci circonda, non è forse l'immagine del nostro spirito, puro ed immortale? e lo spirito dell'acqua, quando s'incontra coi nostri giovani nell'onda sacra, non suona forse la melodia del loro cuore? È ben degna di una festa la pace beata con tutto dò che v'esiste!» (il, pp. 522-523)5.

Diotima continua:

«Quell'uno che veneriamo non lo nominiamo; benché d sia vidno allo stesso modo in cui noi siamo viarii a noi stessi, non lo pronundamo. Nessun giorno Io festeggia; nessun tempio gli è adeguato, lo celebrano solo la consonanza dei nostri spiriti e la loro cresdta infinita» (il, p. 523).

Questa non nominabilità è evidentemente diversa da quella di cui si parlava poco fa. Non si radica nell'incapacità dell'individualmente irripetibile di esprimere se stesso, ma nel carattere del numinoso in quanto tale, nel fatto di essere estraneo, non esprimibile con nessuno dei termini noti, il non terreno per definizione che tuttavia si manifesta nel mondo, nell'essere singolo come nell'esistenza in genere. Nel frammento di «Thalia» Diotima dice:

330 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

«Potessi riportartela questa festa silenziosa, questa quiete sacra nell'interiorità, dove è percettibile anche il minimo suono che scaturisce dalla profondità dello spirito e il tocco più leggero dall'esterno, dal delo, dai rami e dai fiori -non posso esprimere come spesso mi sentivo quando stavo davanti alla natura divina e ogni suono terreno ammutoliva in me - in quei momenti ci è così vicino, l'invisibile!» (il, p. 69).

Appena questa esperienza si unisce a quella del presente cattivo e della speranza circa il futuro, l'immagine del nume muta. Si trasforma in quella divinità che ancora non c'è, che anzi deve ancora imporsi nell'ambito dell'esistenza e nella coscienza dell'uomo. Iperione:

«Che tutto cambi dalle fondamenta! Germogli dalla radice dell'umanità il nuovo mondo. Una nuova divinità domini su di loro, un nuovo futuro si illumini innanzi a loro. Nell'officina, nelle case, nelle riunioni, nei templi, ovun-que, muti tutto!» (il, p. 199; tr. it. dt., p. 109).

Slmilmente, ma senza il pathos del riformare tutto, in Ritorno in patria:

Quando benediremo la mensa, chi potrò invocare? e quando Riposeremo dalla vita diurna, dite, come renderò grazie? Nominerò il Superno? Non ama il disacconcio un dio E la nostra gioia è troppo piccola per contenerlo. Spesso dobbiamo tacere: mancano nomi sacri, Cuori battono, eppure il discorso non tiene dietro? Ma una cetra presta i suoni ad ogni ora E forse allieta celesti esseri che si avvicinano.

Wenn wir segnen das Mahi, wen darf ich nennen? und wenn wir / Ruhn vom Leben des Tags, saget, wie bring ich

Il dio in noi, il dio innominato e il dio nuovo 331

den Dank? / Nenn ich den Hohen dabei? Unschickiiches liebt ein Gott nicht, / Ihn zu fassen, ist fast unsere Freude zu klein. / Schweigen mùssen wir oft; es fehien heilige Na-men, / Herzen schlagen, und doch bleibet die Rede zu-rùck? / Aber ein Saitenspiel leihtjeder Stunde die Tóne, / Und erfreuet vielleicht Himmlische, welche sich nahn (II, p. 99; tr. it. cit., p. 149).

Qui si vive il fatto dell'avvicinarsi di una realtà nu-minosa che non è ancora riconosciuta ed è ancora senza nome.

IL DIO UNO

Le immagini delle divinità in Hólderlin scaturiscono da un'esperienza talmente primordiale, esse sono talmente vere e capaci di riempire in modo così possente lo spazio religioso della sua poesia da far apparire solo tardivamente la questione che parrebbe ovvia: qual è il significato che il Dio della fede cristiana riveste nel suo mondo.

Nelle sue poesie giovanili si parlava anche per esteso dell'unico Dio che crea il mondo e dirige l'esistenza. La grande poesia I miei (i, p. 15) parla del «signore dei mondi», del «padre sempre caro», del «dio buono, amorevole», del «grande donatore» ed implora la sua benedizione per le persone care. Il ricordare (i, p. 8) lo chiama «giudice» e «padre della misericordia»; L'immortalità dell'anima (i, p. 31) lo invoca «Je-hova» ecc. Le varie rappresentazioni e denominazioni di Dio proprie della tradizione cristiana ci sono dunque; ma colui che vi si esprime non vi prende parte nella misura in cui un giovane dovrebbe essere partecipe di concezioni ed immagini che sono ovvie nel suo ambiente d'origine, soprattutto per la madre, ed essenziali per la sfera della professione alla quale si va preparando. Di qui la retorica penosa, riscontrabile soprattutto nella poesia la cui appartenenza all'opera di Hólderlin è così diffìcilmente accettabile, i Libri dei tempi.

334 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

L'impressione viene confermata dalle lettere di Hólderlin. Quelle scritte nel periodo di Mauibronn, se non sbaglio, nominano Dio solo tré volte. Più importanti per la nostra questione sono le lettere da Tu-binga. Hólderlin vi studia teologia, contando di entrare nel ministero ecclesiastico; è quindi molto significativo constatare la scarsa importanza che il pensiero di Dio, anzi dell'elemento religioso in generale, ha nelle sue lettere. Quelle scritte da Walters-hausen, dove dietro raccomandazione di Schiller tenta di educare il figlio della signora, moglie del Maggiore von Kalb, sottolineano ulteriormente questo fatto. Ciò da adito alla supposizione che il giovane Hólderlin abbia coltivato in sé una vita religiosa di tipo diverso, che non trovava espressione nelle concezioni tradizionali. All'inizio deìl'Iperione, vi è un passo dove il narratore parla al suo amico delle esperienze religiose fatte in gioventù:

... quando, sotto gli olmi e i salici sedevo nel grembo del monte, dopo una pioggia ristoratrice, quando i rami tremavano ancora delle carezze del delo e, al di sopra del bosco stillante, passavano nubi dorate, o quando la stella della sera, colma d'un senso di pace, si levava all'orizzonte, insieme con gli antichi adolescenti, gli altri eroi del delo, e io osservavo come la vita si svolgesse in essi secondo un ordine eterno senza affanno attraverso l'etere, e la calma del mondo mi circondava e mi allietava così che osservavo e stavo in ascolto senza sapere come mi avvenisse - 'mi ami, buon Padre celeste', domandavo sommessamente, e sentivo, nel cuore, la sua risposta così sicura e beatificante (II, p. 95; tr. it. dt., p. 32).

Subito dopo si legge:

O tu, che io invocavo Come se tu abitassi oltre le stelle, tu,

Il Dio uno 335

che io chiamavo creatore del delo e della terra, amico idolo della mia fanciullezza, non ti adirerai se ti ho dimenticato! - Perché il mondo non è meschino abbastanza da indura a cercare ancora Uno al di fuori di lui? (U, p. 95; tr. it. dt., p. 32).

A queste affermazioni non si potrà certo attribuire senz'altro un valore biografico. Ma l'autore vi sembra essere più profondamente coinvolto come dimostra la nota fatta a questo passo:

Non è certamente necessario ricordare che espressioni del genere, quali puri fenomeni dell'animo umano, non dovrebbero, di diritto, scandalizzare nessuno (il, p. 95; tr. it. dt., p. 32).

Hólderlin teme che le affermazioni di Iperione, che intanto ha preso le distanze dalla sua religiosità giovanile, possano destare scandalo. Ma questa stessa religiosità giovanile assume nel romanzo connotazioni diverse da quelle delle poesie giovanili tradizionalmente cristiane. Pur servendosi di parole tradizionali come «buon Padre in cielo» e «mi ami» essa allude a qualcosa di diverso rispetto al significato di queste ultime. L'atteggiamento religioso del passo è piuttosto simile a quello della già citata poesia che culmina nelle parole:

O tutti voi fidi,

Amorevoli dèi!

Se poteste sapere

Quanto vi ha la mia anima amato!

Ceno allora io non vi invocavo ancora

Con nomi, e neanche voi

Mi chiamavate mai a nome, come uomini si chiamano

Quasi si conoscessero.

336 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

Pure conosduto vi ho meglio Che mai abbia conosciuto gli uomini:

Compresi il silenzio dell'etere, Le parole degli uomini non le ho comprese mai.

O ali ihr treuen / Freundiichen Gótter! / DaB ihr wùBtet, / Wie euch meine Seele geliebt! // Zwar damais rief idi nodi nidit / Eudi mit Namen, audi ihr / Nanntet midi nie, wie die Mensdien sich nennen, / Als kennten sie sich. // Doch kannt idi euch besser, / Als idi je die Mensdien gekannt, / Ich verstand die Sulle des Àthers, / Der Menschen Worte verstand ich nie (I, pp. 266-267; tr. it. dt, p. 33).

Il «Padre nel cielo» apparentemente biblico di cui parla Iperione è già risolto interamente nel «Padre Etere».

Dobbiamo esaminare adesso le poesie degli ultimi anni per stabilire se esse contengono, oltre alle concezioni di divinità, anche quella dell'unico Dio. La questione può essere impostata su punti diversi. Hól-derlin era un uomo di grandi, anzi creative doti religiose: nella sua esperienza esiste il Dio uno che riempie e determina ogni cosa? E Hólderlin era pensatore, soprattutto nelle sue poesie che con forza inaudita contemplano, confessano e annunciano: si trova in esse la rappresentazione di un Essere assoluto che unisce in sé realtà in senso puro e semplice e validità incondizionata? Inoltre: Hólderlin è cresciuto in un cristianesimo per metà razionalistico, per l'altra metà pieti-stico, che ha poi cancellato. Nel periodo della sua più potente produttività la figura di Cristo ricompare, da una tale profondità e con una tale potenza da scatenare una lotta che sconvolge l'intero uomo. Ma appena compare Cristo, egli richiama necessariamente Colui il cui nome non può esserne separato: il Padre. Come

Il Dio uno 337

ha visto Hólderlin questo Padre di Cristo? Ed infine:

nel periodo dopo il suo crollo, elementi un tempo importanti si ripresentano in una configurazione che spesso è apparentemente sconnessa, ma sempre viva: vi si trova forse la realtà pura di «Dio», l'eredità teistica?

Il pensiero religioso di Hólderlin concepisce l'Essere assoluto, uno ed unico? La poesia Consenso umano dice:

E crede nel divino Solo chi è divino.

An das Góttliche glauben / Die allein, die es selber sind (i, p. 250).

Lamento di Menane per Dietimo:

Vorrei far festa, ma a che prò? e cantare con altri Ma, così solo, nulla è più in me del divino.

Feiern mócht ich; aber wofùr? und singen mit andern, / Aber so einsam fehitjegliches Góttliche mir (n, p. 77; tr. it. dt., p. 121).

Qui il concetto è espresso completamente in termini generali. Ciò che descrive è il numinoso in genere, non una determinata realtà di Dio.

All'inizio del secondo libro, Iperione narra l'esperienza della vitalità spirituale che riempie tutta la natura, dell'alito che spira in modo creativo:

Ero tutto pervaso da un indescrivibile desiderio e da un senso di pace. Una forza a me ignota mi dominava. Spirito amico, dicevo tra me, verso dove mi chiami? verso l'eliso o verso dove? (il, pp. 147-148; tr. it. dt., p. 71).

338 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

La descrizione è molto precisa: ciò che domina è estraneo, eppure amico, desta desiderio, nostalgia pur donando pace, è potente e attira lungi dal presente immediato. Abbiamo già visto in un altro contesto che si tratta del nume dell'aria, dell'Etere. Più ampiamente comprensive sembrano essere a prima vista espressioni come la seguente tratta dalla poesia Come il giorno di festa...:

Del comune spirito sono pensieri, Che finiscono calmi nell'anima del poeta;

Che, subito colpita, essendo nota Da sempre all'Infinito, balza al ricordo:

E da lei da sacro fùlmine arsa Viene alla luce il portato d'amore, L'opera degli dèi e degli uomini, il canto, Che d'entrambi deve testimoniare.

Des gemeinsamen Geistes Gedanken sind, / Stili endend in der Seele des Dichters, // DaB schnellbetroffen sie, Unendiichem / Bekannt seit langer Zeit, von Erinnerung / Erbebt, und ihr, von heilgem Strahi entzùndet, / Die Frucht in Uebe geboren, der Getter und Menschen Werk, // Der Gesang, damit er beiden zeuge, glùckt (il, p. 119;

tr. it. cit., p. 157).

Anche qui l'esperienza religiosa è descritta con tratti molto distinti. Il significato va oltre quello del testo di Iperione, pur riferendosi in definitiva ad un essere divino fra altri, vale a dire allo spirito della storia, allo spirito del tempo. Forse il seguente passo del Canto dei fratelli Ottmar, Hom e Tetto potrebbe descrivere una rappresentazione di divinità veramente comprensiva sotto l'aspetto della dimensione creativa:

Il Dio uno 339

Chi pure ringrazierà, prima di ricevere E darà risposta, prima che abbia udito? Ni[uno si attenta] mentre un più alto parla Di interrompere il suono della parola. Molto egli ha da dire e con altro diritto E un solo v'è, che non finisce nelle ore, E le epoche del creante sono Come catena di monti Che in alte ondate da mare a mare S'avanza sulla terra.

Wer will auch danken, eh er empfangt, / Und Antwort ge-ben, eh er gehórt hat? / Ni indes ein Hóherer spricht, / Zu fallen in die tónende Rede. / Viel hat er zu sagen und anders Recht, / Und Einer ist, der endet in Stunden nicht, / Und die Zeiten des Schaffenden sind, / Wie Gebirg, / Das hochaufwogend von Meer zu Meer / Hinziehet ùber die Erde (il, p. 125; tr. it. dt., p. 161).

Ma nulla è individuabile con sicurezza. Spesso ricorre l'espressione «il dio», come per esempio m Emilia innanzi il giorno delle sue nozze:

[...] Questo siam noi,

Da gran tempo affini, che il Dio ha unito,

E durerà quanto lassù il sole.

[...] Wir sinds, / Die Làngstverwandten, die der Gott getraut, / Und bleiben wird es, wie die Sonne droben (i, p. 291).

Alla Principessa Augusta di Homburg:

[...] Fui vocato

A celebrare quel ch'è più in alto, per questo

Mi diede il Dio la voce e il cuore grato.

[...] Berufist mirs, / Zu rùhmen Hóhers, darum gab die/ Sprache der Gott und den Dank ins Herz mir (I, p. 312).

340 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

Elegia:

Così camminavamo sulla terra. E minacciava il Nord, Lui, nemico degli amanti, che da timore, e se pure Dai rami cadevano le foglie e la pioggia volava nel vento, Noi sorridevamo tranquilli, e sentivamo il Dio e il cuore, Nell'intimo colloquio, nel chiaro canto delle anime, Così in pace con noi, innocenti e beatamente soli.

So auf Erden wandelten wir. Und drohte der Nord auch, / et, der Uebenden Feind, sorgenbereitend, und fiel / Von den Àsten das Laub und flog im Winde der Regen, / Là-chelten ruhig wir, fuhiten den Gott und das Herz / Unter trautem Gespràch, im hellen Seelengesange, / So im Frie-den mit uns kindiich und selig allein (il, p. 72).

Stando al senso letterale della parola, non deve trattarsi necessariamente di una divinità fra altre. «Il Dio» potrebbe essere una formula derivata dal greco:

o ©eòe in realtà anche nel Nuovo Testamento significa il Dio uno. Ma ciò a cui si allude è pronto per principio ad assumere una forma particolare della divinità, a diventare il nume, come in Incitamento (seconda versione):

E Quegli che in silenzio regge e ignoto II futuro appronta. Iddio, lo Spirito Nella parola dell'uomo, un bei giorno, Come una volta ai venienti anni si esprima.

Und er, der sprachlos waltet und unbekannt/ Zukùnftiges bereitet, der Gott, der Geist/ Im Menschenwort, am schó-nen Tage / KommendenJahren, wie einst, sich ausspricht (n, p. 36; tr. it. dt., p. 81).

Qui si passa al concetto di «spirito». Similmente,

Il Dio uno 341

in Ritomo in patria, il «puro beato Iddio» viene assorbito dalla concezione dell'etere (II, p. 96; tr. it. cit., p. 145).

Lo stesso vale per l'espressione «la divinità». Anche parole come il «dio senza nome» non si riferiscono necessariamente all'inconcepibilità del Dio uno che trascende tutti i concetti. Possono significare anche una divinità che urge, ancora ignota, per apparire, e «nominarla» è compito del poeta; oppure un'autorivelazione del creatore dio del tempo, come nel-l'appena citato Canto dei/rateili Ottmar, Hom e Tetto:

Cupa echeggia bufera da settentrione nelle volte profonde,

E la pioggia le fa pure

E musco cresce e tornano le rondini,

Nei giorni di primavera, ma è senza nome

In esse il Dio.

Woh! tónet des Nordsturms Echo tief in den Hallen, / Und der Regen machet sie rein, / Und Moss wàchst und es kehren die Schwalben, / In Tagen des Frùhiings, namlos aber ist/ In ihnen der Gott... (il, p. 125; tr. it. dt., p.161).

Il fatto di essere «senza nome» è qui un attributo del nume di cui si tratta, del tempo ancora tutto chiuso nelle gemme. Costantemente ritoma la parola «padre», per esempio nel già citato ricordo giovanile di Iperione (il, p. 95; tr. it. cit., p. 32).

Sentimento e rappresentazione sono in relazione con il concetto neotestamentario di Padre, ma subito lo abbandonano. Il passo è addirittura emblematico del modo in cui il concetto biblico del Padre trapassa in quello di dio della vastità celeste, dell'Etere dominatore.

342 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

In Ritomo in patria si legge:

Molto ho udito dal grande Padre e tanto

Ho taciuto di lui che il tempo sempre in cammino

Lassù nell'alto rianima e regna sulle montagne:

Di lui che in breve d accorderà i doni celesti svegliando Più limpido canto e inviando moiri spiriti buoni. Oh, senza indugio, venite, o custodi. Angeli dell'anno, e voi Angeli della casa, venite! in tutte le vene della vita, Tutte allietandole insieme, si compartisca il divino!

Vieles hab ich gehórt vom groBen Vater und habe / Lange geschwiegen von ihm, welcher die wandernde Zeit / Dro-ben in Hóhen erfrischt, und waltet ùber Gebirgen, / Der gewàhret uns baid himmlische Gaben und ruft / Hellem Gesang und schickt viel gute Geister. O sàumt nicht, / Kommt, Erhaltenden ihr! Engel desJahres! und ihr// En-gel des Hauses, kommt! in die Adern alle des Lebens, / Alle freuend zugleich, teile das Himmlische si eh! (il, pp. 98-99; tr. it. cit., p. 149).

Anche qui è chiaro il nesso con il concetto neotestamentario di Padre. Sono presenti anche gli angeli come messaggeri del Padre. Ma la poesia nel suo insieme non lascia alcun dubbio che si tratti dell'Etere. Lo stesso vale per la poesia Come il giorno di festa...:

Ma a noi spetta ora, fra le tempeste d'Iddio,

Stare, o poeti, a denudata fronte, ,

E con la mano afferrare la folgore,

La folgore del Padre e al popolo il dono

Celeste porgere, avvolto nel canto.

Poiché se sono puri i nostri cuori

Come di pargoli e innocenti le mani,

II fulmine del Padre, il puro, non brucia:

E nel profondo scosso, i dolori del più forte Condividendo, resta, nei turbini d'alto piombano Del Dio, che s'appressa, pur saldo il cuore.

Il Dio uno 343

Doch uns gebùhrt es, unter Gottes Gewittem, / Ihr Dichter! mit entblóBtem Haupte zu stehen, / Des Vaters Strahi, ihn selbst, mit eigner Hand / Zu fassen und dem Volk ins Lied / Gehùllt die himmlische Gabe zu reichen. / Denn sind nur reinen Herzens, / Wie Kinder, wir, sind schuidlos unsere Hànde, // Des Vaters Strahi, der reine, versengt es nicht, / Und tieferschùttert, die Leiden des Stàrkeren / Mitleidend, bleibt in den hochherstùrzenden Stùrmen / Des Gottes, wenn er nahet, das Herz doch fest (il, pp. 119-120; tr. it. dt., p. 157).

«Il Padre» è lo spirito dominatore, ispiratore. La risposta alla questione sollevata è pertanto chiara: il concetto e la rappresentazione dell'unico Dio che tutto determina non sono presenti in forma chiara e discernibile là dove Hólderlin comunica una propria esperienza vissuta.

Passiamo quindi con una certa tensione alla seconda questione: come si configura la divinità legata a figure bibliche - soprattutto quella con cui sa d'essere in rapporto Cristo e ch'egli annuncia? Al fonte del Danubio:

E pensiamo anche a voi, valli del Caucaso, Tanto antiche voi siete, a voi paradisi di là E ai tuoi patriarchi, ai tuoi profeti,

Asia, ai tuoi forti, o madre!

Che impavidi innanzi ai segni del mondo

Con sulle spalle il cielo e tutto il destino,

Intieri giorni, radicati suoi monti

Per primi seppero

Parlare soli

ADio[...]

Auch eurer denken wir, ihr Tale des Kaukasos, / So alt ihr seid, ihr Paradiese dort, / Und deiner Patriarchen und

344 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

deiner Propheten, // O Asia, deiner Starken, o Mutter! / Die fùrchtios vor den Zeichen der Welt, / Und den Him-mel auf Schuitern und alles Schicksal, / Taglang auf Ber-gen gewurzeit, / Zuerst es verstanden, / Allein zu reden / Zu Gott [...] (Il, p. 128; tr. it. dt., p. 165).

Qui evidentemente si tratta di figure ed episodi biblici, soprattutto di Mosè sul Sinai. Il «Dio» a cui si rivolgono questi «forti» sarebbe quindi quello della Rivelazione.

Ma poi la poesia contìnua:

[...] Ma se voi

E questo è a dire,

Voi antichi tutti, non diceste donde,

Noi ti nominiamo, per sacra necessità, nominiamo

Tè, o Natura: e nuovo, come dal lavacro, sorge

Da tè quanto nacque divino.

Und dies ist zu sagen, / Ihr Alten ali, nicht sagtet, woher? / Wir nennen dich, heiliggenótiget, nennen, / Natur! dich wir, und neu, wie dem Bad entsteigt / Dir alles Góttlichge-borne (il, p. 128; tr. it. dt., p. 165).

Il Dio della Scrittura perde il suo carattere determinato, diventando una forza divina che si eleva dal grembo del mondo, dalla natura. Nell'inno su Cristo O conciliante si legge:

E sempre maggiore del suo campo, come degli dèi Dio Egli stesso, deve anche essere uno degli altri.

Ma quando l'ora suona,

Come il maestro s'allontana dalToffidna

Ne altra veste si mette

Che un abito di festa

Il Dio uno . 345

In segno che altro ancora

Gli è restato in lavoro.

Più umile e più grande appare.

Und immer gròBer, denn sein Feld, wie der Getter Gott / Er selbst, muB einer der anderen auch sein. // Wenn aber die Stunde schlagt, / Wie der Meister tritt er aus der Werk-statt, / Und ander Gewand nicht, denn / Ein fesdiches, ziehet er an, / Zum Zeichen, daB noch anderes auch / Im Werk ihm ùbrig gewesen. / Geringer und gròBer er-scheint er (il, p. 132; tr. it. dt., p. 175).

L'interpretazione precisa di questo passo difficile avrà luogo in altra sede (V, infra, p. 660). Qui basta osservare che «il Dio degli dèi» entra nella schiera delle divinità a cui, nel decorso della storia, viene assegnato il loro «campo», ossia lo spazio dove si estende il loro potere. Anch'egli - chiamato altrove «l'Altissimo», il «Padre degli dèi e degli uomini» — è quindi, nonostante la sua altezza, solo uno fra altri ... Nell'inno L'unico si legge:

Di alti pensieri

Molti ne sono

Scaturiti dal capo del Padre

E grandi anime

Da lui venute agli uomini.

Der hohen Gedanken / Sind namlich viel / Entsprungen des Vaters Haupt / Und groBe Seelen / Von ihm zu Men-schen gekommen (n, p. 153; tr. it. dt., p. 213).

Poi ancora:

[...] Perché troppo sono, O Cristo, legato a tè,

346 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

Sebben fratello d'Eracle.

E con audacia professo che sei

Fratello anche di Dioniso,

Che al carro aggiogò

Le tigri e giù

Fino all'Indo

Ordinando un rito di gioia

Piantò la vigna

E l'ira ammansi dei popoli.

[...] Denn zu sehr, / O Christus! hàng ich an dir, / Wie-wohi Herakies Bruder, / Und kùhn bekenn ich, du / Bist Bruder auch des Eviers, der / An den Wagen spannte / Die Tiger und hinab / Bis an den Indus / Gebietend freu-digen Dienst / Den Weinberg stiftet' und / Den Grimm bezàhmte der Vólker (il, p. 154; tr. it. dt., p. 215).

E ancora:

[...] E so per ceno

Che chi ti generò, il Padre tuo,

È il medesimo

Poi che mai governa da solo.

[...] Und freilich wei6 / Ich, der dich zeugte, dein Vater, / Derselbe der, // Denn nimmer herrscht er allein (n, p. 155; tr. it. cit., p. 215).

Questo «Padre» di Cristo è anche quello di Eracle e Dioniso. Nella prima strofa dell'inno la sua immagine trapassa in quella di Zeus o dell'Etere, a cui la Terra si contrappone come divinità di pari rango.

Particolarmente significativo è l'inno Patmo. Esso costituisce certo la rappresentazione più pura che Hólderlin abbia dato della sua immagine di Cristo. Essa è importante per l'interpretazione anche perché

Il Dio uno 347

indica il luogo neotestamentario da cui parte Hólder-lin, ossia il Vangelo di Giovanni. L'inno parla del «vero Dio», dell'«Altissimo» che «distoglie il suo volto», delT«etemo Padre». Ma poi contìnua:

E se ora i celesti

Tanto, a mio credere, mi amano, Quanto più ameranno tè, Poi che questo so certo:

Che il voler dell'etemo Padre

Molto a tè si rivolge.

Tacito è il suo segno

Al tuonare del delo. E alcuno vi sta sotto

L'intera vita. Che ancora vive Cristo.

Ma gli eroi, i suoi figli

Sono venuti tutti e sacre scritture

Da lui, e spiegano la folgore

I fatti della terra fino ad ora,

In emula corsa infrenabile. Ma egli è qui. Delle sue opere

Tutte è conscio da sempre. .

Und wenn die Himmlischen jetzt / So, wie ich glaube, mich lieben, / Wieviel mehr Dich, / Denn Eines wei6 ich, / Dafi namlich der Wille / Des ewigen Vaters viel / Dir gilt. Stili ist sein Zeichen / Am donnernden Himmel. Und Einer stehet darunter / Sein Leben lang. Denn noch lebt Christus. / Es sind aber die Helden, seine Sóhne, / Ge-kommen ali und heilige Schriften / Von ihm und den Blitz erkiàren / Die Taten der Erde bis itzt, / Ein Wettlauf unaufhaltsam. Er ist aber dabei. Denn seine Werke sind / Ihm alle bewuBt vonjeher (il, p. 171; tr. it. dt., pp. 227-229).

Qui egli è nuovamente il Padre «degli eroi», di Eracle, di Dioniso e di Cristo, quindi Zeus, Etere, dio del cielo a cui si contrappone la «madre Terra».

348 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

Gli inni su Cristo sono fra le più potenti poesie di Hólderlin. La figura che in essi appare è piena di forza profondamente commovente, immersa totalmente nel divino. Ma appena si tenta di definire meglio la divinità da cui proviene e verso cui è diretta, appare l'immagine del dio che domina nell'alto, dell'Etere, del ciclo.

Nei frammenti degli ultimi anni, il divino si impone con una forza peculiare. In essi risulta allentato l'immediato, lineare contesto logico e psicologico. Le fratture che sono caratteristiche dello stile tardo di Hólderlin e obbligano il lettore a cercare un punto di riferimento nella profondità, diventano sempre più ampie. Le immagini e i pensieri non scaturiscono più in modo coerente l'uno dall'altro, emergono bensì direttamente dal centro visionario. Sembrano non curarsi l'uno dell'altro, ma svilupparsi ognuno per conto suo. Così anche l'idea di Dio acquista una forza nuova, quasi incontrollata. Tra i frammenti degli ultimi anni si trova il seguente:

Che è Dio? Ignoto, eppure

Ha molte proprietà il volto

Del ciclo da lui. I lampi infatti

Sono l'ira d'un Dio. Ma quanto più una cosa

È invisibile, tanto più s'adatta a quanto è estraneo.

Ma il tuono

È la gloria di Dio. L'amore dell'immortalità

È proprietà, com'è la nostra,

Anche di un Dio.

Was is Gott? unbekannt, dennoch / Voli Eigenschaften ist das Angesicht / Des Himmeis von ihm. Die Blitze nàmiich / Der Zorn sind eines Gottes. Je mehr ist eins / Un-sichtbar, schicket es sich in Fremdes. Aber der Donner

Il Dio uno 349

/ Der Ruhm ist Gottes. Die Liebe zur Unsterbiichkeit / Das Eigentum auch, wie das unsere, / Ist eines Gottes (n, p. 210).

Questi versi ricordano le frasi così sconvolgentemente confuse ma allo stesso tempo così mirabili nella loro confusione che Waiblinger6 ci ha tramandate nel suo romanzo Phaeton:

... Fin quando la gentilezza, la purezza durano nel cuore, l'uomo non si misura infelicemente con la divinità. Dio è ignoto? È manifesto come il cielo? questo mi è più facile credere. È la misura dell'uomo. Con molto profitto, ma poeticamente l'uomo abita questa terra. Ma l'ombra della notte stellata non è più pura, se così posso dire, dell'uomo chiamato immagine della divinità (il, p. 372).

E ancora:

Bei ruscelletto, fai tenerezza nel fluire chiaro, come l'occhio della divinità, attraverso la Via Lattea. Ti conosco bene, la lacrime spuntano dall'occhio. Negli aspetti della creazione attorno a me vedo fiorire una vita serena poiché non a torto la paragono alle colombe solitàrie sul sagrato della chiesa. Ma sembra che il riso degli uomini mi affligga, poiché ho un cuore (il, p. 373).

Un poesia brevissima, come un proverbio, dice:

Propria dei fanciulli è la bellezza, È forse vera immagine di Dio. Sua proprietà è pace e silenzio Che toma anche a lode degli angeli.

Die Schónheit ist den Kindem eigen, / Ist Gottes Eben-bild vielleicht, - / Ihr Eigentum ist Ruh und Schweigen, / Das Engein auch zum Lob gereicht (il, p. 264).

350 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

La seconda versione di Grecia contiene i seguenti versi:

Ma come può esserd ballo

Alle nozze,

Anche il piccolo può

Avere un grande inizio.

Ma Dio tutti i giorni

Indossa uno splendido vestito.

Ed alla conoscenza si sottrae il suo volto,

E copre gli spazi ad arte.

E aria e tempo copre

II tremendo, se qualcosa troppo l'àma,

O, con preghiere, l'anima. ,,

Aber wie der Reigen / Zur Hochzeit, / Zu Geringem auch kann kommen / GroBer Anfang. / Alltag aber wunderbar / Gott an hat ein Gewand. / Und Erkenntnissen verberget sich sein Angesicht / Und deckt die Lùfte mit Kunst. / Und Luft und Zeit deckt / Den Schròckiichen, wenn zu sehr ihn / Eins liebet mit Gebeten oder / Die Seele (il, p. 256).

Nei testi citati la concezione di Dio presenta un aspetto ricorrente: è connesso alla questione se Dio sia noto o ignoto. La risposta è: egli è rivelato, ma allo stesso tempo nascosto. Pur superando ogni figura concreta, cose e uomini, li riempie e si esplicita in loro. Ma in quanto sono limitati essi lo velano, necessariamente, perché altrimenti egli sarebbe insopportabile.

Il discorso su Dio assume connotati particolari nell'abbozzo innico II Vaticano'.

Custodire Dio In purezza e discrezione:

Questo ci è assegnato.

Il Dio uno 351

Affinchè,

Molto infatti da questo dipende,

Non si formi giudizio di Dio

Sopra la penitenza,

Sopra una prova errata.

Gott rein und mit Unterscheidung / Bewahren, das ist uns vertrauet, / Damit nicht, weil an diesem / Viel hàngt, ùber der BùBung, ùber einem Fehier / Des Zeichens / Gottes gericht entstehet (il, p. 252).

È singolare che una poesia di Hólderlin parli del dovere di «custodire Dio in purezza e discrezione». Ma il pensiero non viene sviluppato oltre.

Queste affermazioni tardissime sembrano essere più vicine al concetto della realtà una di Dio. Ma esse sono troppo sporadiche ed indeterminate perché se ne possa tentare un'interpretazione.

IL RIFERIMENTO RELIGIOSO

NOTA INTRODUTTIVA

Trattando del problema degli dèi si è finora partiti dalla questione della loro natura e della loro collocazione nel mondo. Esso va ripreso ora in riferimento all'uomo. In che modo gli dèi si manifestano all'uomo? Che cosa gli accade nell'incontro e come si comporta in esso? I due momenti formano un insieme, il rapporto religioso. In esso diventa manifesto che cos'è la divinità, che cos'è l'uomo e che cosa l'esistenza.

L'analisi dovrà aver cura di non accostare preconcetti ai fenomeni. Se per «età moderna» intendiamo quell'epoca che, seguendo al tramonto del medioevo, è ora giunta al termine - grosso modo quindi il periodo che va dal Rinascimento alle due guerre mondiali - allora Hólderlin non faceva parte di essa.

Egli viene prima e allo stesso tempo dopo. Pur portando in sé ancora elementi di antichità autentica, già annuncia eventi futuri. Chi vuole comprenderlo, deve quindi tener conto della possibilità che Hólderlin sappia di più rispetto all'uomo dell'Ottocento. Ciò che Hólderlin dice, dev'essere assunto davvero come

354 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

«fonte», non come qualcosa da intepretare secondo la modalità di pensiero del suo ambito storico o dell'epoca successiva.

Per il soggettivismo moderno il religioso è soprattutto esperienza, oggetto della psicologia. Ma in Hól-derlin non vi è nessuna «psicologia», come non vi è in Dante, Eschilo o Pindaro. Ciò che intende dire è realtà: mondo esteriore ed intcriore, esseri e potenze, incontri ed eventi, genesi e catastrofe. Tutto ciò è vissuto in modo naturale, fornendo così anche l'occasione di un'indagine psicologica. Ma quest'esperienza vissuta è l'eco e lo svolgimento, non l'origine. Che si viva un'esperienza, è segno che v'è qualcosa che può essere vissuto come esperienza. All'età moderna appartiene pure il concetto di «assoluto». Esso costituisce il momento logico contrapposto all'esperienza che significa il suo contenuto di validità. «L'assoluto» da una parte e «l'esperienza» dall'altra, determinano insieme la concezione del religioso. Ma gli dèi di Hól-derlin non sono l'assoluto, bensì esseri che hanno iniziativa, che dominano ed agiscono. Chi volesse perciò interpretarli secondo i canoni tradizionali, si ritroverebbe in mano solo lirica religiosa o allegorie. In verità dev'essere pronto ad imparare: guardare, ascoltare, indagare il suono essenziale di dò che si desta, assumere l'impressione dell'inconsueto come un probabile segno premonitore di qualcosa di importante. Per quanto conceme il comportamento religioso dell'uomo, le rappresentazioni di culture antiche aiuteranno a comprenderlo. È sorprendente con quale primor-dialità fenomeni religiosi fondamentali ampiamente dimenticati riemergano dalle parole di Hólderlin.

IL NON ESSER CONOSCIUTO, IL DIVENTARE MANIFESTO E L'ASSEGNAZIONE DEL NOME

In Pane e vino si legge:

Inavvertiti giungono prima: gli anelano incontro

I pargoli: troppo lucente, troppo abbagliante arriva

La felicità: e l'uomo ne ha paura: appena un semidio può dire

Con nomi chi siano quelli che gli si appressali coi doni.

Ma da essi l'anima ha forza: gli colmano il cuore e le loro

Gioie, un tanto bene sa usare appena,

Crea, si prodiga e quasi gli diventa sacro il profano

Che, folle e pio, egli tocca con mano benedicente.

Al massimo indulgono a questo i celesti: ma poi, veramente

Giungono loro stessi e alla felicità s'abituano gli uomini

E al giorno e a guardare gli dèi palesi, il cui volto,

Che già a lungo avevano chiamato Uno e Tutto,

Di libero contento il segreto petto ricolma

E solo adesso ogni anelito rende felice.

Così l'uomo: quando il Bene è lì e provvede con doni

Un dio in persona per lui, non lo conosce ne vede;

Sostenerlo deve dapprima: ma ora, da un nome a dò che

[più ama, Ora, ora debbon per questo parole come fiori nascere.

Unempfùnden kommen sie erst, es streben entgegen / Ih-nen die Kinder, zu hell kommet, zu blendend das Glùck, / Und es scheut sie der Mensch, kaum weiB, zu sagen ein Halbgott, / Wer mit Namen sie sind, die mit den Gaben ihm nahn. / Aber der Mut von ihnen ist gro6, es fullen

356 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

das Herz ihm / Ihre Freuden und kaum weiB er zu brau-chen das Gut, / Schafft, verschwendet und fast ward ihm Unheiliges heilig, / Das er mit segnender Hand tórig und gùdg berùhrt. / Móglichst dulden die Himmlischen dies;

dann aber in Wahrheit / Kommen sie selbst und gewohnt werden die Menschen des Glùcks / Und des Tags und zu schaun die Offenbaren, das Antlitz / Derer, welche, schon làngst Eines und Alles genannt, / Tief die verschwiegene Brust mit freier Genùge gefullet, / Und zuerst und allein alles Verlangen beglùckt; / So ist der Mensch; wenn da ist das Gut, und es sorget mit Gaben / Selber ein Gott fùr ihn, kennet und sieht er es nicht. / Tragen muB er, zuvor;

nun aber nennt er sein Liebstes, / Nun, nun mùssen dafùr Worte, wie Blumen, entstehn (n, pp. 92-93; tr. it. dL, p. 131).

Dal testo si possono estrapolare due eventi religiosi ben distinti: il giungere ed il denominare. Del giungere degli dèi, si parlerà successivamente. Qui si tratterà dapprima del dar loro un nome da parte dell'uomo.

Prima, riassuntivamente, il testo dice che i celesti «giungono». Provenendo da un ambito dell'inaccessibilità, essi entrano nel nunc umano. Là essi vengono avvertiti. «Poiché scuote in profondità», la loro vicinanza diventa consapevole. Poi l'evento si dissolve. Dapprima gli dèi giungono «inavvertiti»; essi sono sì presenti, ma nessuno si accorge di loro. I bambini, innocenti ed accoglienti, avvertono la loro presenza per primi. Poi gli esseri celesti dispiegano tutta la loro divina ricchezza di vita. Essa è beatificante e tremenda allo stesso tempo. Una sovrabbondanza misteriosa trasforma tutto rendendo «sacro» perfino il «profano». Infine, «essi stessi» entrano nella coscienza. Le loro figure essenziali diventano manifeste. Il loro «volto» si scopre, il loro significato risplende. Riem-

Il non esser conosciuto, il diventare manifesto 357

piono il cuore di «libero contento», quella esperienza dal significato particolare che il religioso dona. E mentre prima l'uomo non poteva far altro che «sostenere» il sentimento potente evocato dalla loro presenza, adesso egli è in grado di «dar loro un nome», e «nascono per questo parole come fiori».

Il nume è sempre reale, ma non sempre presente. Può anche trovarsi «presso le ombre», nella sfera di ciò che è a noi sottratto. Ma quando il tempo è giunto approda all'ambito degli uomini, li tocca e da loro è avvertito. Dapprima si manifesta sólo come vicinanza misteriosa, come potenza e dimensione nuova dell'esistenza. Poi si impone la sua figura o forma essenziale, fino a diventare evidente e a richiamare la parola che, crescendo bella e libera come un fiore, la esprime: il nome.

L'evento appare ancora più grande nella poesia

Germania:

[...] Come della Santa,

Che è madre di tutto e porta l'abisso,

Dagli uomini detta l'Ascosa,

Così è di amore e dolore,

E pieno di presagi,

E pieno di pace il tuo seno.

Oh bevi aure mattutine,

Finché dischiusa tu sia

E nomina dò che hai innanzi agli occhi.

Più oltre non può mistero

L'inespresso restare

Da tanto ch'esso è nascosto:

Poiché ai mortali s'addice il ritegno E con ritegno parlare, di solito,

358 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

È saggio, anche, degli dèi.

Ma quando, più traboccante che pure sorgenti,

L'oro, e severa diviene l'ira nel delo,

Deve fra giorno e notte

Finalmente un Vero apparire.

Dichiaralo tré volte:

Ma, sia pure inespresso come è ora, O innocente, dò resterà.

Oh! nomina, figlia della sacra terra,

Finalmente la madre. Crosdan le acque alla rupe

E le tempeste nel bosco e al nome suo

Risuona su dall'antico il Divino che è tramontato.

Come è diverso! come splende giusto e si esprime

Anche il futuro, lieto, dalle lontananze.

[...] Denn fast, wie der heiligen, / Die Mutter ist von allem, / Die Verborgene sonst genannt von Menschen, / So ist von Lieben und Leiden / Und voli von Ahnungen dir / Und voli von Frieden der Busen. // O trinke Morgenlufte, / Bis daB du offen bist, / Und nenne, was vor Augen dir ist. /Nicht lànger darf Geheimnis mehr / Das Ungespro-chene bleiben, / Nachdem es lange verhùllt ist; / Denn Sterbiichen geziemet die Scham, / Und so zu reden die meiste Zeit, / Ist weise auch von Góttem. / Wo aber ùber-flùssiger, denn lautere Quellen, / Das Gold und ernst ge-worden ist der Zorn an dem Himmel, / Mu6 zwischen Tag und Nacht / Einsmais ein Wahres erscheinen. / Dreifach umschreibe du es, / Dodi ungesprochen auch, wie es da ist, / Unschuidige, muB es bleiben. // O nenne, Tochter du der heiligen Erd! / Einmal die Mutter. Es rauschen die Wasser am Feis / Und Wetter im Wald und bei dem Na-men derselben / Tónt auf aus alter Zeit Vergangengóttli-ches wieder. / Wie anders ists! und rechthin glànzt und spricht / Zukùnftiges auch erfreulich aus den Fernen (II, pp. 151-152; tr. it. dt., pp. 209-211).

Il non esser conosciuto, il diventare manifesto 359

Si apostrofa la Germania, la «fanciulla», la «sacerdotessa», la «più tacita figlia di Dio», la «figlia», espressioni che descrivono lo stato immacolato ed incorrotto, privo di scaltrezza e di servilismo, accogliente e consacrato, che è in grado di vedere e d'udire. È l'atteggiamento che da parte dell'uomo corrisponde all'atto dell'autorivelazione degli dèi - talmente grande che

[...] finalmente uno stupore avvenne vasto nel cielo

Che alcuno fosse così grande in fede

Come ella stessa, la clemente potenza dell'Alto.

[...] endiich ward ein Staunen weit im Himmel, / Weil Ei-nes groB an Glauben, wie sie selbst, / Die segnende, die Macht der Hóhe sei (il, p. 150; tr. it. dt., p. 209).

Questo stato acquista intensità fino a raggiungere l'esaltazione profetica. La vergine deve bere «aure mattutine», ciò che viene dall'Etere pervadendo il mattino, il «pnéuma» puro della natura. Allora diventa «aperta». Ciò che altrimenti era nascosto è «innanzi ai suoi occhi», ed ella ha la potenza di «nominarlo».

Questo nominare è qualcosa d'immenso, l'ultimo evento del mistero, compimento e pericolo allo stesso tempo. Pericolo per l'uomo, ma anche per il divino. Poiché mentre prima era protetto attraverso «il ritegno», il silenzio, adesso è destinato ad essere espresso e quindi abbandonato in balla. Così viene aggiunta subito una indicazione protettrice: il mistero dev'essere sì pronunciato, e addirittura tré volte, con solenne completezza. Ma nonostante ciò deve «essere inespresso», il che probabilmente significa: comprensibile solo a chi è iniziato. Il contenuto del mistero è

360 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

però dato dalla «madre», la Terra che appare nel paese natio.

Il nume, in questo caso, è la Terra. Ma quella è sempre davanti agli occhi! Come può trovarsi dapprima nel regno delle «ombre», lontana, nascosta, e poi apertamente e visibilmente «qui»? In questo contesto diventa chiaro che cosa significhi per Hólderlin un nume. E la terra o il ciclo, il mare, gli eventi della storia, ma non solo come realtà empirica, bensì anche religiosa. Anche come empirica: si allude alla terra reale che si estende davanti allo sguardo: ma essa scaturisce dal mistero, pervasa da energia e ricchezza di significato numinose, toccando l'interiorità religiosa, «il petto silenzioso».

Diventa nuovamente necessario il concetto più volte addotto, quello di «spirito». La sacerdotessa vede solo quando è «dischiusa», pervasa dal respiro del mattino, «ebbra». Allo stesso modo - e questo è molto difficile da comprendere per il pensiero moderno - anche la terra stessa si trasforma, attraverso la medesima potenza, da una realtà puramente geologica nella «madre santa». Finché non domina lo spirito, l'ambito dell'essere e del significato che costituisce il mondo è solo un frammento di realtà empirica. Appena viene, si compie invece un movimento: diventa evidente l'altro. Lo spazio di ciò che è sottratto, il «regno delle ombre», o l'«altezza» o la «profondità», si apre, ed appare l'immagine reale dapprima puramente terrena, come qualcosa di diverso, solo adesso definitivo, come una potenza misteriosa che si attesta da sé come divinità. A questo movimento risponde il vedere e il nominare.

Il non esser conosciuto, il diventare manifesto 361

La poesia Come il giorno di festa ... contiene un passo che esprime in modo molto elevato questo evento:

Ma ora aggiorna! Ho atteso e l'ho visto venire E dò che ho veduto, il Sacro, sarà mia parola. Ella, ella stessa, ch'è più antica del tempo E sugli dèi d'ocddente e d'oriente sta, La Natura in clangore d'armi ora s'è desta, E dall'alto etere fino al fondo d'abisso Per ferma legge e antica, gènito dal sacro Caos, L'Entusiasmo ora torna a fremere Che di tutto è il creatore.

E come nell'occhio all'uomo splende un fuoco

Se alta impresa medita, così

Ai nuovi Segni, alle Gesta del secolo

S'è acceso un fuoco nell'anima dei poeti.

Ciò che innanzi accadeva, avvertito appena,

È ora la prima volta manifestato:

E quelle che d lavoravano il campo in figura Di schiavi sorridenti, noi le riconosdamo, Le forze degli dèi, le tutte vive.

Jetzt aber tagts! Ich harrt und sah es kommen, / Und was ich sah, das Heilige, sei mein Wort. / Denn sie, sie selbst, die àlter denn die Zeiten / Und ùber die Getter des Abends und Orients ist, / Die Natur ist jetzt mit Waffen-klang erwacht, / Und hoch vom Àther bis zum Abgrund nieder / Nach festem Cesetze, wie einst, aus heiligem Chaos gezeugt, / Fùhit neu die Begeisterung sich, / Die AUer-schaffende wieder.// Und wie im Aug ein Feuer dem Manne glànzt, / Wenn Hohes er entwarf, so ist / Von neuem an den Zeichen, den Taten der Welt jetzt / Ein Feuer angezùndet in Seelen der Dichter. / Und was zuvor ge-schah, doch kaum gefùhit, / Ist offenbar erst jetzt, / Und die uns làcheind den Acker gebauet, / In Knechtsgestalt, sie sind erkannt, / Die Allebendingen, die Kràfte der Gót-ter (II, p. 119; tr. it. dt., pp. 155-157).

362 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

In questa vicenda si rivela la natura del mondo e, correlata ad essa, quella dell'uomo. Il mondo è chiuso, ma vuole aprirsi. Esso è muto, ma vuole pronunciare parole. Non è conosciuto, ma vuole essere nominato ed evocato. Esso è modesto, ma desidera essere glorioso e celebrato. È compito dell'uomo compiere questa denominazione ed esaltazione.

LA LONTANANZA A NOI SOTTRATTA E LA REVERENZA L'AVVICINAMENTO E L'ACCOGLIENZA

Gli dèi non solo esistono, ma agiscono. Questa azione non significa solo potenza del significato o irradiazione dell'essere, bensì iniziativa. Il numinoso è movimento, processo come già si è manifestato nella vicenda della rivelazione. Gli dèi vogliono, dominano, vengono e agiscono. Di ciò si parlerà per esteso successivamente ... A questo volere ed agire è contrapposto un altro modo del sussistere: la vita silenziosa, raccolta in se stessa. Anch'essa è potenza, ma in stato di quiete. Tra il suo ambito, l'«01impo», e lo spazio della storia vi è un particolare nesso religioso.

Abbiamo già incontrato il concetto di dò che è olimpico parlando dello stato a noi sottratto in cui può trovarsi il nume. «Il cielo», per esempio, può configurarsi solamente come lo spazio indagato dall'astronomia e dalla meteorologia. In tal caso il nume non vi è presente, e non solo soggettivamente, come se solo l'uomo ne sperimentasse, vivendola, la lontananza, bensì in sé. Alla sensazione della chiusura, della dimensione puramente terrena delle cose corrisponde una lontananza reale. Il nume si trova nell'ambito a noi sottratto. Ma quando giunge l'ora esso si manifesta comunicandosi. Adesso «il cielo» entra in un nuovo stato: diventa il «padre Etere». Pane e vino:

364 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

[...] Vivono certo gli Dèi.

Ma là sul nostro capo, in un altro mondo.

Senza tregua lì agiscono e sembrano poco curare

Se noi viviamo, tanto d risparmiano i celesti.

Perché non sempre è capace un debole vaso di contenerli:

Solo a periodi l'uomo sostiene pienezza divina.

Sogno di loro è, dopo, la vita. Pure l'errare

Giova come sopore: rende forti lo stento e la notte,

Finché eroi cresciuti in culla di bronzo,

Cuori, come una volta, ai celesti di forza sian pari.

Tuonando giungono allora.

[...] Zwar leben die Getter, / Aber ùber dem Haupt dro-ben in anderer Welt. / Endlos wirken sie da und schei-nens wenig zu achten, / Ob wir leben, so sehr schonen die Himmlischen uns. / Denn nicht immer vermag ein schwa-ches GefàB sie zu fassen, / Nur zu Zeiten ertràgt góttliche Fulle der Mensch. / Traum von ihnen ist drauf das Leben. Aber das Irrsal / Hiift, wie Schiummer, und stark machet die Not und die Nacht, / Bis daB Helden genug in der ehemen Wiege gewachsen, / Herzen an Kraft, wie sonst, àhniich den Himmlischen sind. / Donnernd kommen sie drauf... (II, pp. 93, 94; tr. it. cit., pp. 139-141).

Qui diventa del tutto evidente la tensione tra l'ambito di quanto ci è sottratto e quello della storia. L'uomo non sempre «sopporta» la presenza del dio. Perciò questi deve ritirarsi nell'Olimpo.

L'inaccessibilità dell'«01impo» è espressa molto bene dal Canto del Destino di Iperione:

Voi vagate lassù nella luce Su molle suolo, beati genii! Splendenti brezze di dèi Vi sfiorano lievi Come dita d'arpista Le sacre corde.

La lontananza a noi sottratta e la reverenda 365

Senza destino, come lattante Che dorma, respirano i superi;

Serbato casto In umile bocdo È in eterno fiorire Per loro lo spirito E gli occhi beati Brillano in tacita Eterna chiarità.

Ma a noi non è dato

In luogo nessuno posare,

Dileguando, cadono,

Soffrendo gli uomini

Alla deca, da una

Ora nell'altra,

Come acqua da scoglio

A scoglio gettata

Per anni nell'incerto giù.

Ihr wandeit droben im Ucht / Auf weichem Boden, selige Genien! / Glànzende Gótterlùfte / Rùhren euch leicht, / Wie die Finger der Kùnstlerin / Heilige Saiten. // Schick-sallos, wie der schlafende / Sàugling, atmen die Himmli-schen; / Keusch bewahrt / In bescheidener Knospe, / Blùhet ewig / Ihnen der Geist, / Und die seligen Augen / Blicken in stiller / Ewiger Klarheit. / Doch uns ist gege-ben, / Auf keiner Stàtte zu i-uhn, / Es schwinden, es fallen / Die leidenden Menschen / Blindiings von einer / Stun-de zur andern, / Wie Klippe geworfèn, / Jahriang ins Un-gewisse hinab (I, p. 265; tr. it. dt., pp. 37-39).

Gli dèi sono «lassù», nell'«altro mondo», lontano dall'ambito del mondo umano che si trova sotto e anzi continuamente «cade». Lassù l'esistenza non ha peso e fatica. Quaggiù è pesante e fa cadere. Sulla sofferenza degli uomini si staglia la beatitudine degli dèi,

366 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

sulla loro irrequietezza il quieto passeggiare, sulla loro cecità il vedere chiaro ed eterno. Gli dèi sono «senza destino». Nessuna potenza influisce su di loro. Non perché li protegga un muro esterno o perché siano abbastanza forti da respingere il nemico esterno, bensì per via del loro essere. Quest'ultimo è «eterno», immutabile e sicuramente custodito nel proprio significato.

Ma questo stato non significa un assoluto filosofi-co, bensì una figura di significato concreto. Si parla quindi anche della limitazione, quasi del ridimensionamento. Sicurezza e libertà dal destino assomigliano alla forma di vita del bambino: nonostante ogni chiarezza, essa è sonno, nonostante gli occhi aperti incoscienza, l'«umile boccio» è sottratto non solo alle distruzioni, ma anche alla fecondità.

All'essere olimpico degli dèi corrisponde, dalla parte dell'uomo, la conservazione della distanza. Guai al terrestre che lo dimentica e «vuoi essere uguale a loro», avverte l'inno II Reno (il, p. 145). L'uomo deve avvertire ed onorare «l'ai di là» e l'«al di sopra». Deve limitarsi al suo «al di qua» e al «sotto» poiché è diverso dagli dèi. Non deve nemmeno esagerare nel manifestare il suo desiderio buono, bensì «essere paziente». Nella Morte di Empedocle Panthea dice:

[...] Ma non dovrei desiderare ancora, poiché sembra che gli dèi non amino le preghiere impazienti dei mortali. Hanno ragione.

[...] ich sollt / Der Wùnsche mich entwóhnen, denn es scheint, / Als liebten unser ungeduldiges / Gebet die Gót-ter nicht, sie haben recht! (m, p. 81; tr. it. dt., p. 39).

La lontananza a noi sottratta e la riverenza 367

E ancora: ,

[...] voglio essere paziente,

più non voglio, o dèi, vanamente aspirare

a quanto mi vietaste, e accetterò

tutto quello che vorrete donarmi.

[...] ja, geduldig will ich sein, / Ihr Getter! will vergebens nun nicht mehr / erstreben, was ihr ferne mir gerùckt, / Und was ihr geben mógt, das will ich nehmen (ni, p. 122;

tr. it. dt., p. 97).

Questo è l'atteggiamento correlato all'olimpico. In esso è esperito un modo d'esistere dell'esistenza come valido e divino: essa si dirime in lontananza e vicinanza essenziali; è distinta nel così e altro non scambiabili; sussiste oltre frontiere fissate.

Ma questa tensione può essere superata. Negli dèi stessi v'è qualcosa che li spinge fuori dalla loro sicura protezione e dalla loro libertà rispetto al destino. Ciò diventa già evidente nel carattere dell'inadeguatezza che all'olimpico è proprio nonostante ogni esaltazione. Il suo splendore di perfezione è freddo. Viene scontato con la mancanza di sentimento, col sonno, con una scarsezza e infecondità di fondo. Ma il nume non può rassegnarsi a ciò. Perciò si mette alla ricerca del diverso. Il bambino deve tentare di uscire dal guscio amorevole della sua esistenza. In tal modo esso vive il destino, ma anche la vita; affanno, ma anche amore; angustia e stento, ma anche una prova del cuore da cui scaturisce beatitudine. Lo stesso vale per gli dèi. Essi non sono esseri fantastici. In essi si esprime bensì l'esistenza così com'è. In tal modo ubbidiscono alla legge di quest'esistenza, secondo cui la vita

368 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

deve uscire dalla protezione dell'inizio. D'altra parte il dio non cessa di essere un dio. L'uscita dalla sfera olimpica riveste perciò connotati particolari. L'Arcipelago dice:

Sempre abbisognano come eroi di ghirlanda per aver gloria I consacrati elementi del cuore dell'uomo che sente.

Immer bedùrfenja, wie Heroen den Kranz, die geweihten / Elemente zum Ruhme da Herz der fùhlenden Menschen (II, p. 104, tr. it. dt., p. 163).

E ancora:

[...] è grato agli dèi posare nei cuori sensibili.

[...] es ruhn die Himmlischen gern am fùhlenden Herzen (n,p.ll0).

I celesti cercano l'uomo. Essi sono splendenti e beati, ma mancano del cuore. La loro «felicità» non è il contenuto di un'esperienza vissuta, ma uno stato dell'essere. È la bellezza luminosa della forma compiuta, che però non avverte se stessa. Da questo stato gli dèi vogliono allontanarsi per entrare nella sfera del cuore che, per quanto precaria e vulnerabile, è calda e piena di sentimento. Questa sfera è presente solo nell'uomo. Per questo gli dèi tendono verso di lui. Con tutta chiarezza il pensiero si manifesta nell'inno JZ^no:

Hanno però della loro

Immortalità gli dèi assai, e se mancano

I celesti di una cosa,

È di eroi e di uomini

O altrimenti mortali. Che mentre

La lontananza a noi sottratta e la riverenza 369

I beatissimi nulla sentono da sé soli,

Bisogna pure, se dirlo

È ledto, in nome degli dèi

Che un altro senta partecipando;

Di lui necessitano; ma è loro sentenza Che la sua casa

Quegli schianti e quanto ha più caro Ingiurii come nemico, e padre e prole Seppellisca sotto macerie;

Se vuoi essere come loro e non Sopportare la disparità, l'esaltato.

Es haben aber an eigner / Unsterbiichkeit die Getter ge-nug, und bedùrfen / Die Himmlischen eines Dings, / So sinds Heroen und Menschen / Und Sterbiiche sonst. Denn weil / Die Seligsten nichts fùhlen von selbst, / Mu6 wohi, wenn solches zu sagen / Eriaubt ist, in der Gótter Namen / Teilnehmend fùhlen ein andrer, / Den brau-chen sie; jedoch ihr Gericht / Ist, dafi sein eigenes Haus / Zerbreche der und das licbste / Wie den Feind scheit und sich Vater und Kind / Begrabe unter den Trùmmern, / Wenn einer, wie sie, sein will und nicht / Ungleiches dulden, der Schwàrmer (il, p. 145; tr. it. cit., p. 195).

Gli dèi non hanno bisogno dell'uomo per diventare più di quello che sono già, più grandi, più potenti o più belli. A un tale innalzamento l'uomo, debole e minacciato, non potrebbe certo contribuire. Ma essi non aspirano neppure a questo, perché «hanno [...] della loro immortalità gli dèi assai». Eppure «nulla sentono da sé soli», ma si limitano semplicemente a essere, splendidi come le idee di Fiatone che rifulgono suscitando amore benché esse stesse non siano in grado di amare7. Per questo tendono verso l'ambito del cuore umano che, per quanto certo imperfetto, minacciato dal destino e mortale, è dotato però della

370 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

forza dell'interiorità. Se questo cuore umano si apre agli dèi, allora, nel sentimento di quest'ultimo/essi stessi sentono.

Ma ciò presuppone che esista una possibilità di partecipazione, un ponte che attraversi quella lontananza, un'unità che perduri attraverso la divisione. Appunto ciò è opera dell'amore. Nel senso hólderli-niano esso significa la realizzazione dell'unità. Questo non significa che ciò che è diviso sia legato insieme -sarebbe costrizione; oppure che il diverso sia ridotto a un comune denominatore - si tratterebbe di commistione; l'unità è invece il risultato del manifestarsi di una nuova dimensione, quella dell'interiorità. Essa. è sottesa all'affermarsi delle figure distinte. Appena essa viene raggiunta, allora dalle diversità nasce l'unità, e le particolarità si rivelano un'espressione della totalità. Allora ciò che è dell'uno può essere anche dell'altro. Da ciò appare chiaro che «amore» è un altro termine per «spirito». L'esistenza dell'uomo chiamato dagli dèi a questa comunione è stata descritta da Hólderlin nelVEmpedocle. Egli dice di se stesso:

10 fui! Oh, potessi dire come fu, nominare

11 maturare e operar delle tue forze geniali,

splendide, mie compagne, o Natura!

Poterle far rivivere ancora una volta

affinchè il mio cuore, muto, squallido di morte,

nuovamente vibrasse di tutte le tue voci!

La mia vita? per me hanno risonato

tutti i tuoi canti alati, e ho sentito,

grande Natura, il tuo antico accordo?

Abbandonato da tutti, non sono forse

vissuto con questa Terra sacra, con questa luce,

con tè, Etere padre, da cui mai

si separa l'anima mia, e con tutti i viventi

nell'Olimpo d'etema presenza?

La lontananza a noi sottratta e la reverenda 371

Ich wars! O kónnt ichs sagen, wie es war, / Es nennen -das Wandein und Wirken deiner Geniuskràfte, / Der herr-lichen, deren GenoB ich war, o Natur! / Kónnt ichs noch einmal vor die Seele rufen, / DaB mir die stumme todesó-de Brusì / Von deinen Tónen allen widerkiànge! / Bin ich es noch? o Leben! und rauschten sie mir, / Ali deine geflù-gelten Melodien, und hórt / Ich deinen alten Einkiang, grofie Natur? / Ach! ich, der allverlassene, lebt ich nicht / Mit dieser heilgen Erd und diesem Licht / Und dir, von dem die Seele nimmer làBt, / O Vater Àther! und mit allen Lebenden / Im ewig gegenwàrtigen Olymp?8 (m, pp. 92-93; tr. it. dt., p. 55).

Quando tutto questo ancora esisteva poteva avvenire questo:

[...] i geni del mondo amorosi in tè si obliarono [...]

[...] die Genien der Welt/ Voli Uebe sich in dir vergaBen

[...] (m, p. 89).

I «geni del mondo» - ciò che viene detto di loro vale anche per gli dèi - sono di per sé figure, in quanto tali determinate dalla legge dell'individualità, secondo cui «essere» significa allo stesso tempo «distinzione». In tal modo essi si affermano l'uno contro l'altro, consci della loro distinzione e chiusi in se stessi. Ma nella sfera dell'interiorità, nel cuore di chi li ama, essi si dimenticano. L'uno si da all'altro.

Ognuno ha parte all'altro e tutti si risolvono nell'unità - non nella prima, ontica, ma nella seconda, quella della vita compiuta, dell'interiorità.

Ciò è evidente anche nelVIstro:

[...] Non vanno senza ragione Nel secco i fiumi. Ma come? È ch'essi debbono

372 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

Fare da lingua. Un segno ci vuole,

Nient'altro, chiaro e netto, che Sole

E Luna porti nell'animo inseparabili,

E prosegua dì e notte, e i celesti

Al caldo d si sentano l'un l'altro.

Perdo quelli son pure

La gioia dell'Altìssimo. In che modo verrebbe,

Altrimenti, quaggiù? E, come Hertha verdi,

Sono essi i figliuoli del delo [...]

[...] Umsonst nicht gehn / Im Trocknen die Strème. Aber wie? Sie sollen namlich / Zur Sprache sein. Ein Zeichen braucht es, / Nichts anderes, schlecht und recht, damit es Sonn / Und Mond trag im Gemùt, untrennbar, / Und fort-geh, Tag und Nacht auch, und / Die Himmlischen warm sicli fùhlen aneinander. / Darum sind jene auch / Die Freude des Hóchsten. Denn wie kàm er / Herunter? Und wie Hertha grùn, / Sind sie die Kinder des Himmeis [...] (II, p. 191;tr.it.dt.,p.241)

«Nell'animo» - qui non è quello dell'uomo, ma quello del fiume. Ma nell'inno il fiume è un essere che fa affermazioni esemplari per l'uomo. Nell'animo dell'essere terreno quindi «i celesti si sentono l'un l'altro al caldo». Essi hanno ciò che altrimenti è loro negato; e coloro che in sé sono divisi dalla loro forma, sanno di essere uniti nell'interiorità dello spazio dell'animo. La totalità della natura, già presente quanto all'essere, rinasce qui nella sfera dell'interiorità9.

Il compito dell'uomo consiste quindi nel mettere a disposizione degli dèi il suo cuore. Il dramma di Em-pedocle delinea questo rapporto religioso e la sua tragedia.

Il fatto che gli dèi abbandonino l'Olimpo penetrando nel cuore degli uomini per diventare partecipi della sua interiorità nonché l'amore di questo cuore

La lontananza a noi sottratta e la reverenza 373

stesso che, aprendosi, è spazioso e più ricco degli dèi nonostante la sua povertà: entrambi questi elementi costituiscono un rapporto religioso generale in cui si manifesta la natura degli dèi, degli uomini e, quindi, della stessa esistenza. Con una bellezza senz'ombre questo rapporto è espresso dalle figure di Diotima nell'Iperione e di Panthea nelYEmpedocle. Certo questo rapporto racchiude anche un pericolo. Il cuore, il cui ambito qui si dischiude, è quello dell'uomo, debole, confuso e incline alla presunzione. Su di esso incombe il pericolo della hybris, alla quale soggiace Empe-docle come prima di lui i grandi amici degli dèi di cui narra il mito, un Tantalo, un Sisifo, un Prometeo. Ma vi è un pericolo per gli stessi dèi. Non che essi rischi-no di venir intaccati nel loro essere che è etemo e nato nell'Olimpo. Ma nella misura in cui si avvicinano all'ambito del cuore, cercandovi il «sentire», la vicinanza e il calore, essi si espongono rischiando di venir delusi e disonorati e sperimentano un destino secondario. Questa è la parte metafìsica del dramma di Empledocle: la tragedia degli dèi che cercano l'amore, nel fallimento del loro amico umano: •

[...] È finita

e tu, non tè lo nascondere,

la colpa è tua, misero Tantalo.

Tu hai profanato il santuario,

con tracotante orgoglio hai rotto il bei patto.

Quando i geni del mondo, o sciagurato,

amorosi in tè s'obliarono, solo a tè pensasti

e vaneggiasti, folle meschino, che i Celesti,

i Benigni, si fossero venduti a tè

per servirti come stolidi schiavi.

Non mi è tra voi un vendicatore in qualche luogo,

e dovrò versare da solo nella mia anima '

374 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

maledizione e vergogna? C'è qualcuno migliore di me che strappi dalla mia fronte la corona delfica e levi i miei capelli come si conviene al vate calvo? o Dèi!

Es ist vorbei, / Und du, verbirg dirs nicht! Du hast / Es selbst verschuidet, armer Tantalus! / Das Heiligtum hast du geschàndet, hast / Mit frechem Stolz den schónen Bund entzweit, / Elender! Als die Genien der Welt / Voli Uebe sich in dir vergaBen, dachtest du / An dich und wàhntest, karger Tor, an dich / Die Gùtigen verkauft, da6 sie dir, / Die Himmlischen, wie bióde Knechte, dienten! / Ist nirgends mir ein Ràcher unter euch, / Und muB ich denn allein den Hohn und Fluch / In meine Seele gieBen? Und cs reifit / Die delphische Krone mir kein BeBrer, / Denn ich, vom Haupt und nimmt die Locken hinweg, / Wie es dem kahien Seher gebùhn - o Gótter! (Ili, p. 89; tr. it. cit., pp. 49-51).

L'uomo si è ribellato; non ha voluto «sopportare l'ineguale». Ciò che era un libero dono d'amore egli

10 ha preteso come potere, ciò che poteva sussistere solo nella modalità della grazia, come diritto immediato. Egli ha voluto eliminare l'Olimpo - la colpa dei Titani, vedi anche il passo sopra citato dall'inno II Reno (il, p. 145). In tal modo è stato distrutto il mistero:

la totalità che può sussistere solo nell'amore, l'unità dell'Olimpo, e della terra; le «nozze degli dèi e degli uomini» di cui parla l'inno II Reno.

Lo fui. Oh, potessi dire come fu, nominare

11 maturare e operar delle tue forze gemali,

splendide, mie compagne, o Natura!

Poterle far rivivere ancora una volta

affinchè il mio cuore, muto e squallido di morte,

nuovamente vibrasse di tutte le tue vod!

La mia vita? Per me hanno risonato

La lontananza a noi sottratta e la reverenda 375

tutti i suoi cand alati, e ho sentito,

grande Natura, il tuo antico accordo?

Abbandonato da tutti, non sono forse

vissuto con questa Terra sacra, con questa luce,

con tè Etere padre, da cui mai

si separa l'anima mia, e con tutti i viventi

nell'Olimpo d'etema presenza?

Come un reietto, ora piango,

e in nessun luogo posso sostare

e anche tu mi sei strappato ... Non dire nulla!

L'amore s'estingue quando fuggon gli dèi,

tu lo sai bene, e ora lasciami, io non sarò

più me stesso e nulla hai più da spartire con me.

Ich wars! O kónnt ichs sagen, wie es war, / Es nennen -Wandein und Wirken deiner Geniuskràfte, / Der herrli-chen, deren GenoB ich war, o Natur! / Kónnt ichs noch einmal vor die Seele rufen, / DaB mir die sturarne todesó-de Brust/ Von deinen Tónen allen widerkiànge! / Bin ich es noch? o Leben! und rauschten sie mir, / Ali deine geflù-gelten Melodien, und hórt / Ich deinen alten Einkiang, groBe Natur? / Ach! ich, der allverlassene, lebt ich nicht / Mit dieser heilgen Erd diesem Ucht / Und dir, von dem die Seele nimmer làBt, / O Vater Àther! und mit allen Le-benden / Im ewig gegenwàrtigen Olymp? - / Nun wein' ich, wie ein AusgestoBener, / Und nirgend mag ich blei-ben, ach und du / Bist auch von mir genommen - sage nichts! / Die liebe stirbt, sobaid die Gótter fliehn, / Das weiBt du wohi, verlaB mich nun, ich bin / Es nimmer und ich hab an dir nichts mehr (ili, pp. 92-93, tr. it. cit., p. 55).

Ma il fatto che ciò possa sussistere costituisce a sua volta un'espressione per la essenza del mondo. Così è fatto e così è messo in gioco.

IL DOMINIO E L'OBBEDIENZA

L'iniziativa degli dèi, già manifesta nel passaggio dall'Olimpo al presente dell'aldiqua assume ancora altre figure. Essa si trasforma soprattutto nel dominare e operare.

Abbiamo già incontrato questo fenomeno analizzando la competenza dei diversi numi. Ciò che accade nell'ambito dell'altezza, della luce, dell'aria e dell'alito fa parte dell'opera dell'Etere o del cielo; ciò che accade nella profondità, nell'oscurità, nell'ambito della vita che costantemente si riproduce, dell'opera della Terra. Tutto questo costituisce una realtà immediata, empiricamente rilevabile e scientificamente for-mulabile. Ma all'interno di essa anche gli dèi dispiegano il loro essere compiendo la loro opera. Ciò vale anche per lo spazio della vita umana.

L'Arcipelago è il grande canto di Hólderlin sull'esistenza storica, esemplificata dalla città di Atene nell'ora della sua grande prova eroicamente superata, la battaglia di Salamina. Egli descrive il fiorire della città, l'invasione dei persiani, la distruzione da loro seminata, la lotta per la vita o per la morte del popolo ateniese, la vittoria e la costruzione della nuova città più grande. Sia la lotta che la costruzione della comunità sono descritte come lo fece Omero. Si tratta di opera umana immediata, del risultato di coraggio e creatività; ma, pure svolgendosi in termini umani, è

378 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

allo stesso tempo l'opera di potenza divine, di Posido-ne, dominatore del mare, e di Atena, la patrona della città. L'accadere storico non implica che gli dèi pieghino un evento umano autonomo rispetto a loro anche al loro scopo, ma il loro agire costituisce la divinità di questo accadere stesso. Gli dèi consistono nel fatto che ciò che accade nello spazio umano avvenga in termini divini, d'altra parte la storia è realmente se stessa solo nella misura in cui si svolge a partire dalle divinità, e si indirizza verso di loro. Sono gli dèi a conservare l'essente nella pienezza dell'essere. Essi fanno sì che il vivente viva; essi conferiscono a tutte le forme la loro autenticità ed il loro senso; determinano il corso del destino, conducono l'operato dell'uomo a un esito felice; fanno sì che il suo agire, la sua opera, il suo tentativo audace, le sue gesta riescano. Qualunque cosa sia, essa viene dal loro dominio e rimanda ad esso10.

Il concetto circa il dominio degli dèi nell'ambito della storia diventa particolarmente potente se collegato alla rappresentazione dello spirito o dello spirito del tempo (ili, supra, p. 288). L'accadere storico vi appare come l'opera di una potenza che medita ed opera nel mistero progettando e realizzando progressivamente il futuro finché quest'ultimo raggiunge - in quanto azione, fondazione, creazione - l'apertura della forma compiuta e della parola che si esprime.

In Incitamento si legge a proposito:

E Quegli che in silenzio regge e ignoto II futuro appronta. Iddio, lo Spirito Nella parola dell'uomo, un bei giorno, Come una volta ai venienti anni si esprima.

Il dominio e l'òbbedienza 379

Und er, der sprachlos waltet und unbekannt / Zukùnftìges bereitet, der Gott, der Geist / Im Menschenwort, am schó-nen Tage / KommendenJahren, wie einst, sich ausspricht (II, p. 36; tr. it. dt., p. 83)

Vocazione del poeta:

O gesta senza pace nel vasto mondo, Giorni fatali e travolgenti, in cui il dio Pensoso e tacito guida ove ebbri d'ira Lo portano i titanici cavalli.

Ihr ruhelosen Taten in welter Welt! / Ihr Schicksaltag', ihr reiBenden, wenn der Gott / Sdilsinnerid lenkt, wohin zorn-trunken / Ihn die gigantischen Rosse bringen (il, p. 47; tr. it. dt., pp. 93-95).

Ciò che accade nella natura non è solo il risultato delle forze e delle leggi immediate, ma anche del costante operare di potenze divine. La materia e gli assetti in cui s'ordina la realtà immediata costituiscono

10 strato superficiale di connessioni più vaste i cui ambiti più profondi sono gli dèi e infine l'interiorità della natura stessa. Il decorso della storia non è nemmeno determinato da semplici energie «storiche», ma è il risultato di continue iniziative divine, che lo dominano. Queste iniziative però non vengono esercitate accanto o sopra a quelle energie; l'immediata realtà storica invece rappresenta un aspetto di una totalità,

11 cui secondo aspetto sono gli esseri divini.

Ma lo «spirito» è il limite di dimensione e contemporaneamente la forza per il continuo trapasso dal divino all'immediatamente dato. Esso è il presupposto perché tutto sia «qui», ma provenga da «là», perché in «questo» si manifesti «l'altro» e da entrambi nasca ciò che è autentico, ciò che ha il carattere del tutto. Lo spiri-

380 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

to è la condizione affinchè gli dèi possano entrare in azione nella maniera descritta ed affinchè il mondo sussista nella tensione tra il divino e l'empirico.

Questo dominio è immenso e permea tutto. Esso scaturisce da un'origine inaccessibile, ritornando nell'imperscrutabile.

La strofa appena citata da Vocazione del poeta esprime ciò parlando delle «gesta senza pace nel vasto mondo», dei «giorni fatali e travolgenti». Un altro testo può essere addotto a esprimere questa potenza soverchiante. Lo spirito del tempo:

Già da troppo tu domini sopra il mio capo, Tu nella oscura nuvola, dio del Tempo! Troppo furore è intorno e angoscia, ovunque Io guardi tutto va in frantumi o vacilla.

Ah! come un fanciullo mi affiso al suolo sovente, Cerco uno scampo da tè nella grotta e vorrei, Stolto, trovare un luogo Dove non fossi tu che tutto sconvolgi!

Zu lang schon waltest ùber dem Haupte mir / Du in der dunkein Wolke, du Gott der Zeit! / Zu wild, zu bang ists ringsum, und es / Trùmmert und wanktja, wohin ich blic-ke. // Ach! wie ein Knabe, seh ich zu Boden oft, / Such in der Hóhle Rettung von dir, und mócht, / Ich Blòder, eine Stelle finden, / Alleserschùttrer! wo du nicht wàrest (i, p. 300;tr.it.dt.,p.41).

L'uomo avverte questo dominio. Del poeta e vate, che rappresenta l'umano nella sua forma più sublime ed insieme più pericolosa, si dice in Vocazione del poeta:

[...] È all'Altissimo che apparteniamo, Perché più accosto all'inumo, unico

Il dominio e l'obbedienza 381

Sentire ci sia, in sempre nuovo cantico.

Eppure, o tutti voi, numi del Gelo, E voi tutte sorgenti e ripe e selve e alture Dove la prima volta il prodigioso, Prendendoci ai capelli, inobliabile,

II Genio creatore, all'improvviso, Su noi piombò divino, e ne restammo Stupiti e muti, e come dalla folgore Colpite ci tremarono le ossa.

[...] Der Hóchste, der ists, dem wir geeignet sind, / DaB naher, immerneu besungen, / Ihn die befreundete Brust vemehme. // Und dennoch, o ihr Himmlischen ali, und ali / Ihr Quellen und ihr Ufer und Hain* und Hóhn, / Wo wunderbar zuerst, als du die / Locken ergriffen, und un-vergeBHch // Der unverhoffte Genius ùber uns, / Der schópferische, gótdiche kam, daB stumm / Der Sinn uns ward und, wie vom / Strahie gerùhrt, das Gebein erbebte (II, p. 46; tr. it. dt-, p. 93).

All'operare degli dèi è correlata la percezione dell'uomo.

La sua pietà religiosa consiste nel capire nella sua profondità ciò che è, nell'assumerlo non solo in modo superficiale, come qualcosa di teoricamente comprensibile e di praticamente utilizzabile, ma nel venerarlo come qualcosa di divino.

Infatti la stessa poesia continua:

Da troppo tutto il divino serve all'uso E di tutte le forze celesti, le benefiche Fa scherno e abuso a suo piacere una razza Furba e ingrata, che crede conoscere

L'ora in cui l'Eccelso prepara il campo, E la luce a loro e il tonante iddio: e tutte investiga

382 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

Col suo cannocchiale e numera e chiama Con nomi le stelle del delo.

Zu lang ist alles Góttliche dienstbar schon/ Und alle Him-meiskràfte verscherzt, verbraucht, / Die gùtìgen, zur Lust, danklos, ein / Schlaues Geschlecht und zu kennen wàhnt es, // Wenn ihnen der Erhabne den Acker baut, / Das Tagsiicht und den Donnerer, und es spàht / Das Sehrohr wohi sie ali und zàhit und / Nennet mit Namen des Him-meis Sterne (il, p. 47; tr. it. dt., p. 95).

L'uomo deve vedere che tutto ciò che è scaturisce dal mistero rivelando il divino, che si compie nel mistero, dando spazio al divino. Egli deve consentire a tale venuta d'avvicinarsi al suo cuore e vivere nel costante incontro con una realtà che solo così è completa.

Questo può diventare molto diffìcile, nella misura in cui l'uomo è pronto a ricevere. Le opere degli dèi non sono immagini miracolistiche al di sopra di ciò che comunque avviene, bensì vi si sta appena ora compiendo l'essere di ciò che è operato fino in fondo dagli dèi. L'autorivelazione degli dèi non si aggiunge come qualcosa di trascurabile allo sguardo e al pensiero dell'uomo, costituisce il mistero pieno del mondo nel suo stesso essere.

I passi che parlano di ciò sono alimentati dall'esperienza vissuta più intima di Hólderlin. Egli era colpito dalla possanza del reale; lo ha attraversato come una tempesta la veemenza di significato di ciò che accadeva, fu scosso fino alla distruzione dalla vicinanza di ciò che stava per venire. Così ciò che viene preteso dall'uomo pio in quanto tale si eleva, nella sua bocca, a grandezza eroico-profetica.

Il dominio e l'obbedienza 383

L'Arcipelago dice:

Ma tu, immortale, se anche l'inno dei Gred non più Ti celebra come una volta, o dio del mare, risuonami Dai flutti sovente nell'anima ancora, che sopra le acque Intrepido lo spirito, come nuotatore, si addestri Nell'aspra gioia dei forti, e la lingua degli dèi, l'Alternarsi E il Divenire, intenda: e quando la corrente del tempo Troppo violenta il capo mi afferri, e lo stento e il vagare Fra mortali il mio mortale vivere scrolli, Fa' che la pace allora nel tuo profondo io ricordi.

Aber du, unsterbiich, wenn auch der Griechengesang schon / Dich nicht feiert, wie sonst, aus deinen Wogen, o Meergott! / Tóne mir in die Seele noch oft, daB ùber den Wassern / Furchtiosrege der Geist, dem Schwimmer gleich, in der / Starken / Frischem Glùcke sich ùb, und die Góttersprache, das / Wechsein / Und das Werden ver-steh; und wenn die reiBende Zeit mir / Zu gewaltig das Haupt ergreift und die Not und das Irrsal / Unter Sterbii-chen mir mein sterbiich Leben erschùttert, / La6 der Stille mich dann in deiner Tiefe gedenken! (il, pp. 111-112; tr. it.cit.,p. 117).

Avvertire l'Alternarsi e il Divenire», vivere la corrente del tempo che «il capo afferra» scrolla «il vivere mortale». Così il cuore di chi contempla si riferisce alla quiete del mare, all'ambito di quanto è sottratto, in cui tutto è uno e unito.

E lo stesso ambito in cui si rifugia Achille, assillato dall'ora del destino, quando viene da sua madre Teti. Vedi la poesia che porta il suo nome:

Gemendo giù bramava scendere nel sacro abisso, Nel silenzio, il tuo cuore, dove, lontano dallo strepito Delle navi, al fondo sotto le onde, in grotta amica l'azzurra Ted viveva, la dea del mare, che ti proteggeva.

384 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

Weheldagend hinab verlangt' in den heiligen Abgrund, / In die Stille dein Herz, wo, von der Schiffe Gelàrm / Fem tief unter den Wogen, in friediicher Grotte die blaue / Thetis wohnte, die dich schùtzte, die Góttin des Meers (i, p. 271).

«Attivo senza paura» sopra profondità minacciosa, «forte nuotatore» nella tempesta - l'atteggiamento richiesto appare ancora più imponente in Al fonte del Danubio dove si parla dei profeti:

Anche a voi pensiamo, a voi valli del Caucaso,

Tanto antiche voi siete, voi paradisi là,

E ai tuoi patriarchi e ai tuoi profeti

Asia, ai tuoi forti, o madre!

Che impavidi innanzi ai segni del mondo

Con sulle spalle il delo e tutto il destino,

Intieri giorni, radicati sui mond

Per primi seppero

Parlare soli

A Dio [...].

Auch eurer denken wir, ihr Tale des Kaukasos, / So alt ihr seid, ihr Paradiese dort, / Und deiner Patriarchen und deiner Propheten, // O Asia, deiner Starken, o Mutter! / Die fùrchdos vor den Zeichen der Welt, / Und den Him-mel auf Schuitern und alles Schicksal, / Taglang auf Ber-gen gewurzek, / Zuerst es verstanden, / Allein zu reden / Zu Gott [...] (Il, p. 128; tr. it. dt., p. 165).

I versi esprimono in modo possente la solitudine del chiamato, la sua collocazione alle radici dell'esistenza, il suo stare a cospetto del divino ... L'immagine raggiunge le sue dimensioni certo più imponenti nella poesia Come il giorno di festa:

Ma a noi spetta ora, fra le tempeste d'Iddio,

Il dominio e l'obbedienza 385

Stare, o poeti, a denudata fronte, E con la mano afferrare la folgore, La folgore del Padre e al popolo il dono Celeste porgere, avvolto nel canto. Poiché se sono puri i nostri cuori Come di pargoli e innocenti le mani, II fulmine del Padre, il puro, non bruda:

E nel profondo scosso, i dolori del più forte Condividendo, resta, nei turbini d'alto piombanti Del Dio, che s'appressa, pur saldo il cuore.

Doch uns gebùhrt es, unter Gottes Gewittem, / Ihr Dichter! mit entblóBtem Haupte zu stehen, / Des Vaters Strani, ihn selbst, mit eigner Hand / Zu fassen und dem Volk ins Lied / Gehùllt die himmlische Gabe zu reichen. / Denn sind nur reinen Herzens, / Wie Kinder, wir, sind schuidlos unsero Hànde, // Des Vaters Strahi, der reine, versengt es nicht / Und tieferschùttert, die Leiden des Stàrkeren / Mideidend, bleibt in den hochherstùrzenden Stùrmen / Des Gottes, wenn er nahet, das Herz doch fest (II, pp. 119-120; tr. it. dt., p. 157).

Ciò che dappertutto si compie, il dominio delle divinità, prorompe qui in modo terribile. Luce e senso, che pur tutto sorreggono, si condensano a formare ciò che è insopportabile e devastante: il fulmine. Ma il vate, per quanto senza protezione, «a denudata fronte», è in grado di riceverlo, qualora sia puro di cuore. La prorompente potenza di Dio è incontrata dalla sua controparte umana, il cuore. Attraverso la sua capacità di sentire, di soffrire e di accogliere in una profondità viva esso è grande quanto quella, costituendo esso stesso «l'eterno cuore» come Io definisce un'interpretazione. Tutto ciò va presupposto alla comprensione dei seguenti versi, tratti dalla poesia Stoccarda:

386 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

Ma voi, voi anche, o Grandi, voi lied che in ogni tempo Vivete e reggete, riconosciuti, o anche più vigorosi Quando operate e create in sacra notte, soli regnando E onnipotenti allevate un profetico popolo, Finché dei padri lassù si ricordino gli adolescenti, E maggiore in età, illuminato, vi stia innanzi l'uomo di senno. Angeli della patria! o voi, dinanzi ai quali la vista Anche se forte e il ginocchio cede all'uomo isolato, Così ch'egli deve poggiarsi agli amici e i cari pregare Che portino insieme con lui tanto peso di felicità;

Io vi rendo, o Benigni, grazie per lui e per tutti gli altri Che la mia vita, il mio bene fra i mortali sono.

Aber ihr, ihr GróBeren auch, ihr Frohen, die allzeit / Le-ben und walten, erkannt, oder gewaltiger auch, / Wenn ihr wirke; und schafft in heiliger Nacht und allein / herrscht / Und allmàchtig empor ziehet ein ahnendes Volk, / Bis dieJùnglinge sich der Vàter droben erinnern, / Mùndig und hell vor euch steht der besonnene Mensch - / Engel des Vaterlands! o ihr, vor denen das Auge, / Sei's auch stark, und das Knie bricht dem vereinzelten Mann, / Da6 cr halten sich muB an die Freund' und bitten die Teuern, / DaB sie tragen mit ihm ali die beglùckende Last, / Habt, o Gùtige, Dank fùr den und alle die andern, / Die mein Leben, mein Gut unter den Sterbiichen sind (il, pp. 88-89; tr. it. dt, p. 131).

L'uomo divenuto di senno «maggiore in età, illuminato», che sta davanti agli dèi, è colui che ha imparato a sopportare la loro potenza. Questo dominio degli dèi scaturisce da un punto di partenza insondabile. Anche questo fatto pone l'uomo davanti a una esigenza, quella di accettare quello che gli viene destinato. In Pane e vino, rivolgendosi a Wilhelm Heinse11 cui è dedicata l'elegia, Hólderlin dice:

Meraviglioso è il favore di quella Sublime e nessuno

Il dominio e l'obbedienza 387

Sa di dove e che cosa da lei gli accada.

Sebbene ella muova il mondo e la speranza delle anime,

Nemmeno i savi intendono ciò ch'ella prepara: l'altissimo

Iddio così vuole che molto t'ama e per questo

Anche di lei più caro t'è il consapevole giorno.

Wunderbar ist die Gunst der Hocherhabnen und niemand / WeiB von wannen und was einem geschiehet von ihr. / So bewegt sie die Welt und die hoffende Seele der Men-schen, / Selbst kein Weiser versteht, was sie bereitet, denn so / Will es der oberste Gott, der sehr dich liebet, und da-rum / Ist noch lieber, wie sie, dir der besonnene Tag (il, p. 90; tr. it. cit., p. 135).

Il Reno:

[...] E altro sperava, quando lassù dai fratelli,

Dal Ticino e dal Rodano

S'era diviso, vago di errare, e impaziente

In Asia la regale anima lo spingeva.

Irragionevole

È il desiderio di fronte al destino.

Ma i più ciechi

Sono i figli di dèi [...].

[...] anderes hoffte der, als droben von den Brùdem, / Dem Tessin und dem Rhodanus, / Er schied und wandern wolit, und ungeduldig ihn / Nach Asia trieb die kónigliche Seele- / Doch unverstàndig ist / Das Wùnschen vor dem Schicksal. / Die Blindesten aber / Sind Góttersóhne [...] (II, p. 143; tr. it. dt, pp. 195-197).

L'inno II Reno è il canto sull'obbedienza all'assegnazione, al destino. Se essa viene esercitata, ne scaturisce la fecondità dell'operare. L'intera esistenza diventa un servizio reso davanti agli dèi, l'agire storico stesso diventa pietà religiosa. Ne parla L'Arcipelago:

388 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

Ma della madre terra e del dio dei flutti in onore

La città rifiorisce ora, costellazione stupenda,

Opera del Genio, che, come legami d'amore

Si crea volentieri, così in grandi figure si serra,

Che costruisce a se stesso, restando in sé il Sempremobile.

Guarda! e la selva serve al suo fare, gli porge con gli altri

Mond a portata di mano marmo e bronzo il Pentèle,

Ma viva al pari di lui e lieta e magnifica sgorga

Dalle sue mani e facile, come al sole, l'opera riesce.

Fontane ascendono al sommo e sopra i colli in puri

Sentieri guidata raggiunge la polla il badno splendente;

E intorno ad essi rifulgono, come alla coppa comune

Eroi festeggiano, le case schierate; alta si estolle

La stanza dei Pritani e s'apron all'aria i Ginnasi,

Corgon degl'iddii i templi; come sacro audace pensiero

Sale fin su agl'immortali l'Olimpièo nell'etere

Dal bosco sacro; e tanti altri ancora atrii di numi!

O madre Atene, a tè anche crebbe il tuo spendido colle,

Fiorì per tè più superbo dal lutto ancora lunghi anni,

O dio dei flutti, e i tuoi prediletti in lieto raduno

Sul promontorio col canto d ringraziarono ancora.

Aber der Muttererd und dem Gott der Woge zu Ehren / Blùhet die Stadt itzt auf, ein herrlich Gebild, dem Gesdrn gleich / Sichergegrùndet, des Genius Werk, denn Fessein der liebe / Schafft er geme si eh so, so hàlt in groBen Ge-stalten, / Die er selbst sich erbaut, der immerrege sich bleibend. / Sieh! und dem Schaffenden dienet der Wald, ihm reicht mit den andern / Bergen nahe zur Hand der Pentèle Marmor und Erze, / Aber lebend, wie er, und froh und herrlich entquillt es / Seinen Hànden, und leicht, wie der Sonne, gedeiht das Geschàft ihm. / Brun-nen steigen empor und ùber die Hùgel in reinen / Bah-nen gelenkt, ereilt der Quell das glànzende Becken; / Und umher an ihnen erglànzt, gleich fesuichen Helden / Am gemeinsamen Kelch, die Reihe der Wohnungen, hoch ragt / Der Prytanen Gemach, es stehn Gymnasien offen, / Gót-tertempel entstehn, ein heiligkùhner Gedanke / Steigt,

Il dominio e l'obbedienza 389

Unsterbiichen nah, das Olympion auf den Àther / Aus dem seligen Hain; noch manche der himmlischen Hallen! / mutter Athene, dir auch, dir wuchs dein herrlicher Hù-gel / Stolzer aus der Trauer empor und blùhte noch lan-ge, / Gott der Wogen! und dir, und deine Uebiinge san-gen / frohversammeit noch oft am Vorgebirge den Dank dir (II, pp. 108-109; tr. it. dt. pp. 111-113).

Lo stesso pensiero è espresso, con toni più profondi, in Pane e vino:

Severamente onorare egli vuole ora gli dèi beati, Tutto nel reale e nel vero annunzi la loro lode, Niente guardi la luce, se non piace ai superni, Dinanzi all'Etere vana ricerca sconviene. Perdo a stare degnamente in presenza dei celesti Con magnifid ordini i popoli si dispongono Emulandosi, innalzano i bei templi, e le nobili Salde atta sulle rive si vanno elevando.

Und nun denkt er zu ehren in Ernst die seligen Getter, / Wirkiich und wahrhaft muB alles verkùnden ihr lob. / Nichts darf schauen das Licht, was nicht den Hohen gefàl-let, / Vor den Àther gebùhrt MùBigversuchendes nicht. / Drum in der Gegenwart der Himmlischen wùrdig zu ste-hen, / Richten in herrlichen Ordnungen Vólker sich auf/ untereinander und baun die schónen Tempel und Stàdie / Fest und edel, sie gehn ùber Gestaden empor (n, p. 93;

tr.it. dt.,p. 139).

LA LONTANANZA, LA VENUTA E LA FESTA

Le iniziative degli dèi assumono tratti ancora più precisi là dove si parla della loro venuta. Il riferimento che ne scaturisce è particolarmente importante per il mondo di Hólderlin.

Appare nella sua più rilevante dimensione nel contesto analizzato dal secondo capitolo del presente studio: il tramonto e il ritomo dell'esistenza greca. In Germania si legge:

Dèi dileguati! e anche voi del presente, una volta

Più veri, aveste il vostro tempo!

Niente io qui voglio negare e niente implorare.

Poiché se giunta è la fine e il giorno spento,

Primo colpito è il sacerdote, ma per amore lo segue

II tempio e poi l'immagine e i suoi riti

Nel buio regno e nessuna luce può apparire più.

Entflohene Gótter! auch ihr gegenwàrtigen, damais / Wahr-hafdger, ihr hattet eure Zeiten! / Nichts leugnen will ich hier und nichts erbitten. / Denn wenn es aus ist, und der Tag erioschen, / Wohi triffts den Priester erst, doch lie-bend folgt / Der Tempel und das Bild ihm auch und seine Sitte / Zum dunkein Land und keines mag noch scheinen (n, p. 149; tr. it. dt., p. 207)

Appena il tempo prestabilito è trascorso «e il giorno è spento», la figura storica si dilegua. Dapprima gli dèi «dileguano». Di conseguenza gli uomini votati al

392 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

loro servizio perdono il loro significato. Quindi decadono, non più curati, i templi, le immagini, il culto e le costumanze (i «riti»). Adesso tutto è passato, e solo l'incerto riverbero del mito ne conserva memoria. Ma il passato è ancora presente, «nell'alto azzurro». Da là inizia qualcosa di nuovo:

[...] Sente

L'ombre di coloro, che sono già stati,

Gli antichi, e che la terra tornano a visitare.

Poiché quelli che là debbono giungere, incalzano noi

E non può più indugiare di uomini-dèi

La sacra schiera ancora nell'alto azzurro.

[...] Er fùhit / Die Schatten derer, so gewesen sind, / Die Alten, so die Erde neubesuchen. / Denn die da kommen sollen, dràngen uns, / Und lànger sàumt von Gòttermen-schen / Die heilige Schar nicht mehr im blauen Himmel (II, pp. 149-150; tr. it. dt., p. 207).

Gli «antichi», gli «uomini-dèi», gli dèi «dileguati» ritornano. Hólderlin non intende esprimersi in termini di allegoria o di formazione culturale umanistica. Pensa veramente ciò che dice. Gli antichi dèi stessi ritorneranno. Ma questo significa che il loro rapporto con l'uomo è costituito dall'essere qui, dall'allonta-narsi e dall'assenza, dal venire e dal diventare presenti. Nelle parole introduttive, gli dèi vengono chiamati generalmente «voi del presente». Pensiamo di interpretare questo termine correttamente se assumiamo che significhi l'«adesso» in senso assoluto, l'etemo. Esso, a differenza degli uomini mortali, spetta agli dèi immortali. Ma anche questi hanno «il loro tempo»:

inizio, fine e futuro. Nella seconda versione dell'inno O conciliante, o Tu non mai creduto si legge:

La lontanamo, la venuta e la festa 393

(...] Così trapassa veloce tutto dò che è celeste; ma non senza ragione.

[...] So ist schnell / Vergànglich alles Himmlische; aber umsonst nicht (il, p. 134; tr. it. cit., p. 173).

Esso è etemo in sé, ma transitorio nel suo apparire fenomenico. Ma questa caducità «non è senza ragione», ha un senso essenziale ... il fatto è espresso nel passo già analizzato, in modo molto penetrante, da Pane e vino: gli dèi sono assenti, le loro dimore sono abbandonate, i canti e i detti sacri sono ammutoliti (il, p. 92). Ma poi l'esaltazione di ciò che è stato trapassa nel presente:

Delfo è assopita e dove suona il grande destino? Dov'è il veloce? dove, d'un bene universo ricolmo Rompe sugli occhi, tonando dall'aria serena? 'Padre Etere!' ecco il grido che di labbro in labbro volava In mille modi e nessuno sopportava la vita da solo. Compartito l'allieta un tal bene e con estranei scambiato Diventa un giubilo, cresce dormendo il potere della parola:

«Padre! Sereno!» e risuona da ogni distanza il segno Originario, ereditato dagli avi e ove giunge crea.

Delphi schiummert und wo tónet das groBe Geschick? / Wo ist das schnelle? / o brichts, allgegenwàrtigen Glùcks voli, / Donnemd aus heiterer Luft ùber die Augen herein? / Vater Àther! so riefs und flog von Zunge zu Zunge / Tausendfach, es ertrug keiner das Leben allein; / Ausge-teilet erfreut soich Gut und getauschet, mit Fremden, / Wirds ein Jubel, es wàchst schlafend des Wortes Gewalt / Vater! heiter! und hallt, so weit es gehet, das uralt / Zei-chen, von Eltern geerbt, treffend und schaffend hinab (n, p. 92; tr. it. dt., p. 137).

E adesso l'ora è giunta:

394 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

Così prendono stanza i celesti e spargendo un brivido fondo Fuori dalle ombre scende, fra gli uomini, il loro giorno.

Denn so kehren die Himmlischen ein, tiefschùtternd ge-langt so / Aus den Schatten herab unter die Menschen ihr Tag (il, p. 92; tr. it. dt., p. 137).

«Il giorno degli dèi» è giunto. Con «un brivido fondo», sollevando tutto, si compie il loro avvicinarsi. Dapprima vengono avvertiti dai bambini, poi, sebbene con timore, dagli adulti.

Infine, la pienezza dilaga e tutto si trasforma fino a quando da ultimo:

Ma poi, veramente

Giungono loro stessi e alla felicità s'abituano gli uomini E al Giorno e a guardare gli dèi palesi, il cui volto, Che già a lungo avevano chiamato Uno e Tutto.

[...] in Wahrheit / Kommen sie selbst und gewohnt wer-den die Menschen des Glùcks / Und des Tags und zu schaun die Offenbaren, das Antlitz / Derer, welche schon làngst Eines und AUes genannt (il, p. 92; tr. it. cit., p. 139).

Gli dèi stessi non possono trapassare poiché sono la vitalità numinosa del mondo. Ma l'essere degli dèi in sé e la loro permanenza ed il loro dominio nell'ambito dell'umano sono due cose distinte. Ciò non si riferisce all'elemento soggettivo, al fatto che uomini credano in loro, sentano il loro essere e pratichino il loro culto, ma si tratta di qualcosa che è reale in sé. Gli dèi possono esistere pur rimanendo lontani dagli uomini. Possono essere stati presenti ed aver preso nuovamente le distanze. In tal caso, il cielo continua ad esistere come realtà astronomica, ma non è più il «Padre Etere». Questi ha abbandonato l'aldiqua della

La lontananza, la venuta e la festa 395

storia, ritirandosi nella sfera a noi sottratta. L'azzurro continua ad essere percepito dagli occhi, ma in modo tale da nascondere il dio, invece di rivelarlo. Finché non giunge «l'ora», e gli dèi ritornano. Allora essi si ridestano, annunciandosi, avvicinandosi fino ad essere presenti.

Ma gli dèi non sono presentì perché avvertiti dagli uomini; la loro esperienza della presenza divina invece è possibile solo quando i numi sono veramente arrivati. Ma il fatto di venire dipende da loro soltanto. Nella prima versione della poesia O conciliante, o Tu non mai creduto si legge:

Questo solo io so: niente sei di mortale, Poiché molto può un savio o d'un amico L'occhio fedele illuminare, ma quando Appare un dio, in delo, terra e mare Viene una tutto innovante chiarità.

Dies eine weiB ich, Sterbiiches bist du nichts, / Denn man-ches mag ein Weiser oder / Der treuanblickenden Freun-de einer erhellen, wenn aber / Ein Gott erscheint, auf Himmel und Erd und Meer / Kómmt allerneuende Klar-heit (il, p. 130; tr. it. dt., p. 171).

Il legame col tempo, proprio dei celesti, si radica nel fatto che il loro essere è limitato. Nella stessa poesia l'autore si rivolge direttamente a Cristo:

E quando, nel perenne alimento delle generazioni,

Gli uomini fossero così colmi di bene

Che ognuno a sé bastasse, in superbo oblìo del delo,

Allora, egli disse, un che di nuovo deve iniziarsi,

E guarda! ciò che tu hai taduto,

Lo ha portato la pienezza dei tempi.

Lo sapevi bene: ma non a vivere, a morire fosti mandato,

396 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

E sempre maggiore del suo campo, come degli dèi Dio Egli stesso, deve anche essere uno degli altri.

Ma quando l'ora suona,

Come il maestro, s'allontana dall'officina

Ne altra veste si mette

Che un abito di festa

In segno che altro ancora

Gli è restato in lavoro.

Und wenn, fortzehrend von Geschlecht zu Geschlecht, / Die Menschen wàren des Segens zu voli, / DaB jeder sich genùgt und ùbermùtig vergàBe des Himmeis, / Dann, sprach er, soli ein neues beginnen, / Und siehe! was du verschwiegest, / Der Zeiten Vollendung hat es gebracht. / Wohi wuBtest du es, aber nicht zu leben, zu sterben warst du gesandt, / Und immer gróBer, denn sein Feld, wie der Getter Gott/ Er selbst, mu6 einer der anderen auch sein. // Wenn aber die Stunde schlagt, / Wie der Meister tritt er, aus der Werkstatt, / Und ander Gewand nicht, denn/ Ein fesdiches, ziehet er an, / Zum Zeichen, daB noch an-deres auch / Im Werk ihm ùbrig gewesen (il, p. 132; tr. it dt, p. 175).

Nella catena del dominio degli dèi vi è sempre un nuovo inizio. In essa uno continua ciò che il precedente ha «taciuto», taciuto perché ogni dio «è sempre maggiore del suo campo». Lo spazio e l'opera assegnati a ciascuno nella storia non sono mai all'altezza di ciò che in sé riuscirebbe a fare. Così deve accontentarsi, lasciando ciò che «gli resta in lavoro» come eredità a chi lo segue. Ma ciò significa che ognuno è un dio accanto ad altri e che tutti sono legati fra di loro. Sempre Hólderlin avverte che, celebrandone uno, non bisogna dimenticare l'altro. Tuttavia, quello che è uno non è l'altro. «Un dio» non è niente di infinito, e ancor meno qualcosa di assoluto. Nemmeno il «dio

La lontananza, la venuta e la festa 397

degli dèi», il Padre, lo è. Solo il mondo è essere totale, ricolma ogni cosa e opera. Gli dèi invece sono delle essenze al suo interno. La loro limitatezza non contraddice la loro divinità, ma fa parte della loro natura. Per il fatto di essere limitato, un dio ha anche il carattere del tempo e, meglio, è legato nel suo dominio al tempo. All'ora assegnata, entra nel tempo e diventa presente nel corso della storia. Appena il suo «giorno» è trascorso se ne va. Non è che diventi incomprensibile alla nuova èra storica, e dimenticato, ma lo fa in senso oggettivo. Se ne parte realmente, dalla sfera dell'aldiqua, della storia, del tempo passa all'altra, nell'ambito che ci è sottratto ed è etemo. Ciò che rimane qui è solo una realtà puramente empirica, abbandonata dalla divinità.

A questo essere assenti, venire e divenire presenti nell'uomo predisposto corrispondono determinate esperienze. Nel tempo dell'assenza divina l'uomo religioso dev'essere fedele, aspettare e far memoria (HI, infra, p. 425). Non deve volersi illudere di nulla. Gli dèi se ne sono andati davvero. In Germania si dice:

[...] aveste il vostro tempo. Niente io qui voglio negare e niente implorare.

[...] ihr hattet eure Zeiten! / Nichts leugnen will ich hier und nichts erbitten (n, p. 149; tr. it. dt., p. 207).

L'uomo non deve neanche volere evocarli dalla loro assenza. Ciò sarebbe sfrontato e pericoloso. Deve accettare l'ora e aspettare:

[...] colmo d'attesa

II paese e, come in giorni torridi

Calato giù, d fa ombra oggi all'intorno,

398 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

O desiose! un delo di presagi.

Colmo è di promesse, e mi sembra

Anche minaccioso, eppure voglio con lui restare,

E indietro l'anima non mi deve fuggire

Verso di voi, passati! che troppo cari mi siete.

Poiché vedere la bellezza del vostro viso,

Quasi fosse come una volta, mi fa paura, è letale

E vietato ridestare i morti.

[...] voli Erwartung liegt / Das Land und als in heiBen Ta-gen / Herabgesenkt, umschattet heut, / Ihr Sehnenden! uns ahnungsvoll ein Himmel. / Voli ist er von VerheiBun-gen und scheint / Mir drohend auch, doch will ich bei ihm bleiben, / Und rùckwàrts soli die Seele mir nicht fliehn / Zu euch, Vergangene! die zu lieb mir sind. / Denn euer schónes Angesicht zu sehn, / Als wàrs, wie sonst, ich furcht es, tódiich ists, / und kaum eriaubt, Ge-storbene zu wecken (il, p. 149; tr. it. dt., p. 207).

Hólderlin stesso ha vissuto oltre i limiti del sopportabile questa svolta piena di promesse e minaccia nella storia degli dèi. Qui bisogna parlare di una pietà religiosa della storia che colloca ciò che per la fede cristiana è legato al ritorno del Signore - vedi la speranza nella parusìa nelle lettere degli Apostoli e nell'Apocalisse - nel mondo stesso, ponendo l'esistenza terrena sotto un'aspettativa le cui categorie non provengono dalla storia delle idee, ma da un'esperienza religiosa singolare che fino adesso, sembra, non si è più ripetuta.

Ciò che qui è legato ad un'ora storica ritorna successivamente all'intemo dell'esistenza universale. In termini di grandezza eroica, nel dramma di Empedo-cle che descrive la tragedia del rapporto con gli dèi. I numi si intrattengono presso l'eletto. Egli commette

La lontananza, la venuta e la festa 399

un sacrilegio contro di loro ed essi lo abbandonano. Ma essi ritornano certo solo per spingerlo a perire in espiazione volontariamente.

Il fenomeno del giungere e andarsene, dell'essere presentì ed assenti degli dèi è riscontrabile anche nell'esperienza quotidiana.

Ne parla Ritomo in patria:

[...] Oh! senza indugio, venite o custodi. Angeli dell'anno, e voi, Angeli della casa, venite! in tutte le vene della vita, Tutte allietandole insieme, si compartisca il divino! Nobilita, ringiovanisci! Che nessun bene umano E nessuna ora del giorno sia senza quei Genii felid E tale gioia d'amanti, adesso che si sono ritrovati, Sia santificata come le si conviene. Quando benediremo la mensa, chi potrò invocare? e quando Riposeremo dalla vita diurna, dite, come renderò grazie? Nominerò il Supremo? Non ama il disacconcio un dio E la nostra gioia è troppo piccola per contenerlo. Spesso dobbiamo tacere: mancano nomi sacri, Cuori battono, eppure il discorso non tiene dietro?

[...] O sàumt nicht, / Kommt, Erhaltenden ihr! Engel des Jahres! und ihr, // Engel des Hauses, kommt! in die Adern alle des Lebens, / Alle freuend zugleich, teile das Himmlische sich! / Adie! verjùnge! damit nichts Menschiich-gutes, damit nicht / Eine Stunde des Tags ohne die Fro-hen und auch / Solche Freude, wie jetzt, wenn Uebende wieder sich finden, / Wie es gehórt fùr sie, schickiich ge-heiliget sei. / Wenn wir segnen das Mahi, wen darf ich. nennen? und wenn wir / Ruhn vom Leben des Tags, sa-get, wie bring ich den Dank? / Nenn ich den Hohen da-bei? Unschickiiches liebet ein Gott nicht, / Ihn zu fassen, ist fast unsere Freude zu klein. / Schweigen mùssen wir oft; es fehien heilige Namen, / Herzen schlagen und doch bleibet die Rede zurùck? (n, p. 99; tr. it. dt, p. 149).

400 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

II passo è significativo anche per il fenomeno del nominare.

La presenza degli dèi viene avvertita: l'essenza luminosa diventa evidente; si tenta la denominazione, che però non raggiunge il proprio oggetto ... L'ode A Diotima lamenta l'assenza degli dèi e'si incoraggia ad aspettare (II, p. 28). Nel Lamento di Menane si legge:

Vorrei far festa ma a che prò? e cantare con altri, Ma, così solo, nulla è più in me del divino.

Feiern mócht ich; aber wofùr? und singen mit andem, / Aber so einsam fehitjegliches Góttliche mir (il, p. 77; tr. it. dt.,p.l21).

Eprima:

Per me non è festa eppure vorrei mettere in capo ghirlande;

Non sono dunque solo? ma un che di amichevole deve Da lontano vicino essermi, e sorridere debbo e stupire Che tanto felice anche in mezzo al dolore io mi senta.

Festzeit hab ich nicht, doch mócht ich die Locke bekràn-zen; / Bin ich allein denn nicht? aber ein Freundiiches mu6 / Femher nahe mir sein, und làchein muB ich und staunen, / Wie so selig doch auch mitten im Leide mir ist (il, pp. 75-76; tr. it. cit-, p. 119).

Il ritratto dell'avo descrive come il padre morto, adesso «placido» è vicino ai suoi in modo nuovo:

Placido avo! Tu pure vivesti e amasti così;

Perdo ora soggiorni, come immortale,

Con i nipoti, e vita

Come dal silenzioso Etere scende

Sulla casa sovente, uomo tranquillo, da tè [...]

La lontananza, la venuta e la festa 401

Stiller Valeri auch du lebtest und liebtest so; / Darum wohnest du nun, als ein Unsterbiicher, / Bei den Kindem, und Leben, / Wie vom schweigenden Àther, kommt // Ófters ùber Haus, ruhiger Mann! von dir [...] (n, pp. 30-31;

tr. it. dt., p. 61).

Le battute conclusive dell'Iperione sul ritorno di Diotima (II, p. 290) vanno nella stessa dirczione.

La dimensione del significato religioso della festa è correlata alla vicenda metafìsico-numinosa della venuta. Venuta e festa costituiscono insieme un riferimento religioso.

L'Arcipelago dice:

Allora, allora, o gioie di Atene, o gesta di Sparta

Splendida primavera di Greda, quando venuto

Sarà il nostro autunno e sarete maturi, o spiriti antichi!

Voi tornerete, ed ecco il grande anno è prossimo a compiersi!

Allora la festa riporti anche voi, giorni passati!

Verso l'Ellade il popolo guardi e con lagrime grate

Si addoldsca in ricordi l'altero dì del trionfo.

Dann, dann, o ihr Freuden Athens! ihr Taten in Sparta! / Kóstliche Frùhiingszeit im Griechenlande! wenn unser / Herbst kómmt, wenn ihr gereift, ihr Geister alle der Vor-welt! / Wiederkehret und siehe! des Jahrs Vollendung ist nahe! / Dann erhalte das Fest auch euch, vergangene Ta-ge! / Hin nach Hellas schaue das Volk, und weinend und dankend / Sànfuge sich in Erinnerungen der stolze Triumphtag! (il, p. Ili; tr. it. dt., p. 117).

In forma più possente, quasi apocalittica come un mistero, celebrato non soltanto dal popolo, ma anche dalla natura intorno, la festa si mostra in Germania:

402 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

[...] Sente

L'ombre di coloro, che sono già stati,

Gli antichi, e che la terra tornano a visitare.

Poiché quelli che là debbono giungere, incalzano noi

E non può più indugiare di uomini-dèi

La sacra schiera ancora nell'alto azzurro.

Già in preludio verdeggia di più aspra epoca

II campo lavorato per loro, pronto è il dono

Per l'agape, e valle e fiumi stanno

Aperti intorno a profetici monti,

Perché guardare possa fin nell'Oriente

L'uomo, e di là molte vicende lo commuovano.

Ma dall'etere cade

L'immagine fedele e ne piovono oracoli di dèi

Innumeri, suonando nel più fitto del sacro bosco.

[...] Er fùhit / Die Schatten derer, so gewesen sind, / Die Alten, so die Erde neubesuchen / Denn die da kommen sollen, dràngen uns, / Und lànger sàumt von Góttermen-schen / Die heilige Schar nicht mehr im blauen Himmel. // Schon grùnetja, im Vorspiel rauherer Zeit/ Fùr sie er-zogen das Feld, bereitet ist die Gabe / Zum Opfermahi und Tal und Strème sind / Weitoffen um prophetische Berge, / DaB schauen bis in den Orient / Der Mann und ihn von dort der Wandiungen viele bewegen. / Vom Àther aber fallt / Das treue Bild und Góttersprùche re-gnen / Unzàhibare von ihm, und es tónt im innersten Hai-ne (il, pp. 49-50; tr. it. dt., pp. 207-209).

Il concetto di festa in Hólderlin è connotato da tratti che in età moderna sembrano essere andati in gran parte perduti.

È ovvio che una festa non possa essere escogitata razionalmente. Più difficile è capire il fatto che anche un contenuto importante, un'esperienza vera e la capacità di darvi forma non bastano per produrla, ma che c'è bisogno di un'iniziativa dall'altra parte». Una

La lontananza, la venuta e la festa 403

«festa», nell'accezione holderliniana del termine, è possibile solo quando è presente una divinità.

Essa costituisce l'espressione dell'incontro realizzata sia dal nume che dall'uomo che lo sperimenta. Ai

tedeschi:

E il silenzio nel popolo, è già la celebrazione che precede la festa? il timore che annuncia il Dio?

Und das Schweigen im Volk, ist es die Feier schon / Vor dem Feste? die Furcht, welche den Gott ansagt? (il, p. 9).

I versi distinguono tra «celebrazione» {Feier) e «festa» (Fest); quella è la preparazione nel presagio, la preparazione della via per ciò che viene - la «veglia», direbbe la liturgia - questa l'incontro con il presente. Se la venuta non c'è nessuna festa è possibile. Nel Lamento di Menane vi è a proposito il passo già citato:

Vorrei far festa, ma a che prò? e cantare con altri, Ma, così solo, nulla è più in me del divino.

Feiern mócht ich; aber wofùr? und singen mit andem, / Aber so einsam fehitjegliches Góttliche mir (il, p. 77; tr. it. dt., p. 121).

Ma quando accade ciò che l'uomo non può ottenere con la forza, quando opera la «potenza del miracolo», allora la comunità, la parola, il canto e lo svolgimento vengono permeati dal «sacro fiato», dal pnéuma della celebrazione.

Si forma «la figura luminosa» della festa, entrando in atto:

[...] fin quando La forza d'un miracolo gl'inabissati costringa

404 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

A fare ritorno sul verdeggiante suolo.

Sacro fiato fluirà divino nella figura di luce

Quando la festa s'avviva e i flutti dell'amore si muovono.

[...] bis dereinst sie / Eines Wunders Gewalt sie, die Ver-sunkenen, zwingt, / Wiederzukehren, und neu auf grù-nendem Boden zu wandein. / Heiliger Othem durch-strómt góttlich die lichte Gestalt, / Wenn das Fest sich beseelt, und Fluten der Uebe sich regen (il, p. 77; tr. it. dt., p. 123).

Nell'elegia Stoccarda la festa è dedicata agli «angeli della patria» che cominciano a diventare presenti, alle grandi figure della storia locale, festeggiati nel pieno dell'autunno:

Ora altro importa, vieni a festeggiare d'autunno

L'uso antico, che nobiltà fra noi ancora dura.

La patria sola conta quest'oggi, e del sacrificio

Getti alla fiamma festiva ciascuno quello che ha.

Però c'inghirlanda il dio comune d'un sussurro le chiome

E il senso d'ognuno sdoglie, come le perle, il vino.

Jetzt ist anderes not, jetzt komm und feire des Herbstes / Alte Sitte, noch jetzt blùhet die edie mit uns. / Eins nur gilt fùr den Tag, das Vaterland, und des Opfers / Fesdi-cher Fiamme wirft jeder sein Eigenes zu. / Darum krànzt der gemeinsame Gott umsàuseind das Haar uns, / Und den eigenen Sinn schmelzet, wie Perlen, der Wein (il, p. 87; tr. it. dt., pp. 127-129).

In un altro contesto - vedi il primo cerchio di questo libro - il fenomeno del ritorno appare in Al fonte del Danubio:

Come d'accordi stupendi alto dall'organo Per le sacre volte

La lontananza, la venuta e la festa 405

Sgorgando puro da inesauste canne

II preludio, destante, del mattino comincia

E in vasti cerchi di navata in navata

II refrigerio si versa della melodica piena

E fino nelle fredde ombre ricolma

D'entusiasmi le mura,

Ma ora si desta, ora sorgendo, al sole

Della festa risponde

II coro dei fedeli; così giunse

La parola da oriente a noi,

E di Parnaso alle rupi e al Citerone,

O Asia, odo l'eco tua che si frange

Al Campidoglio e subito giù dalle Alpi

Straniera giunge

A noi, la risvegliatrice,

La voce che forma gli umani.

Denn, wie wenn hoch von der herrlichgestimmten, der Orgel / Im heiligen Saal, / Reinquillend aus den uner-schópflichen Róhren, / Das Vorspiel, weckend, des Mor-gens beginnt / Und weitumher, von Halle zu Halle, / Der erfrischende nun, der melodische Strom rinnt, / Bis in den kalten Schatten das Haus, / Von Begeisterungen er-fùlk, / Nun aber erwacht ist, nun, aufsteigend ihr, / Der Sonne des Fests, antwortet / Der Chor der Gemeinde; so kam / Das Wort aus Osten zu uns, / Und an Parnassos Felsen und am Kithàron hór ich, / O Asia, das Echo von dir und es bricht sich / Am Kapitoi, und jàhiings herab von den Alpen // Kommt eine Fremdiingin sie / Zu uns, die Erweckerin, / Die menschenbildende Stimine (il, p. 126; tr. it. cit-, p. 163).

La comunità raccolta in chiesa aspetta. Dapprima la casa è piena di «fredde ombre». Poi dilagano i suoni dell'organo, si «ricolmano d'entusiasmo le mura». Infine si leva «il sole della festa», e il coro della comunità risponde. «Il sole della festa» significa dapprima

406 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

il nucleo significante della festa stessa come emerge nell'esperienza vissuta, in secondo luogo però ciò che solo, in assoluto, rende possibile la festa, ossia la presenza del nume.

In questo caso è solo la «parola» sotto le cui spoglie, confluendo dall'«Asia» e dal «Parnaso» Vangelo e sapienza dell'antichità giungono per essere presenti al momento dell'annuncio della predica. Senza volerlo ci si ricorda delle antiche rappresentazioni cultuali della «parusìa» e dell'«epifanla»: la divinità dalla lontananza della sfera a noi sottratta giunge alla sede della festa, nel cerchio della comunità in attesa. Appena arriva, diviene percettibile per quanti sono adunati. La sua presenza pervade l'intera manifestazione conferendole una potenza nuova. Una sacra animazione permea tutto. Si leva la parola di presagio e di lode, il canto di festa, e si compie l'azione cultuale. L'inno O conciliante, o Tu non mai creduto dice:

[...] ma quando

Appare un Dio, in cielo, terra e mare

Viene una tutto innovante chiarità.

[...] wenn aber / Ein Gott erscheint, auf Himmel und Erd und Meer/ Kómmt allerneuende Klarheit (il, p. 130; tr. it. cit., p. 171).

E nella prima versione dello stesso inno si legge:

Perdo oggi ho la festa, e serale nel silenzio

Fiorisce intorno lo spirito: e, grige anche avessi le tempie,

Vi esorterei, o amici, a provvedere con me

Per il banchetto, e cand e molte ghirlande e suoni,

In questo tempo uguali a giovinetti immortali [,..]

La lontananza, la venuta e la festa 407

Perdo, o divino, sii presente E più bello di una volta, oh sii, Conciliante, ora riconciliato, che noi di sera Con gli amia ti nominiamo e cantiamo Dei superni: e accanto a tè siano altri ancora.

Drum hab ich heute das Fest, und abendiich in der Stille / Blùht rings der Geist, und wàr auch silbergrau mir die Locke, / Doch wùrd ich raten, da6 wir sorgten, ihr Freun-de, / Fùr Gastmahi und Gesang, und Krànze genug und Tóne / Bei solcher Zeit unsterbiichen Jùnglingen gleich [...] // Darum, o Góttlicher! sei gegenwàrtig, / Und schó-ner, wie sonst, o sei, / Versóhnender, nun versóhnt, daB wir des Abends / Mit den Freunden dich nennen, und sin-gen / Von den Hohen, und neben dir noch andere sei'n (il, p. 131; tr. it. cit., pp. 171.173-175).

Il fenomeno della venuta è presente anche in concomitanza al mito del cielo e della terra. Nell'inno II Reno la discesa del cielo si compie nell'ora festosa del tardo pomeriggio, e la festa coinvolge l'intera natura:

Quando colui ch'edificato ha i monti

E segnato la strada dei fiumi,

Dopo che sorridendo egli pure

La vita operosa degli uomini

Povera di respiro, come vela,

Con le sue brezze ha guidato,

Anche lui riposa e ora verso l'allieva

II creatore, più bene

Che male trovando,

Verso l'odierna terra il Giorno s'inclina.

Allora festeggian le nozze uomini e dèi,

Le festeggiano tutti i viventi

E appianato

È per breve ora il destino.

408 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

Wenn, der die Berge gebaut / Und den Pfad der Stróme gezeichnet, / Nachdem er làcheind auch / Der Menschen geschàftiges Leben, / Das othemarme, wie Segei, / Mit sei-nen Lùften gelenkt hat, / Auch ruht und zu der Schùlerin jetzt, / Der Bildner, Gutes mehr / Denn Bóses findend, / Zur heutigen Erde der Tag sich neiget. - // Dann feiern das Brautfest Menschen und Gótter, / Es feiern die Le-benden ali, / Und ausgeglichen / Ist eine Weile das Schicksal (il, p. 147; tr. it. cit-, p. 203).

Domina lo «Spirito» che «avvolge di murmuri gli alberi bui».

La presenza del nume non è di tipo meccanico, come se una cosa venisse portata in una camera; e nemmeno solo di tipo psicologico, come se alcuni uomini, intrinsecamente legati fra di loro, accogliessero uno nuovo nella loro cerchia. Il nume giunge invece come «l'altro» e «dall'altro». Esso non può entrare nell'ambito dell'uomo passando senza mediazione da un essere all'altro. Non può aggiungersi all'aldiqua o inserirsi nelle sue forme di totalità. La sua venuta può avvenire solo perché si da una nuova circostanza, perché si apre una nuova dimensione e domina una nuova energia operante: lo Spirito. Solo in quest'ultimo la festa si realizza. Il nume e gli uomini eletti entrano in uno stato particolare, quello della festa, di cui le forme esteriori, distinte dall'esistenza quotidiana e profana, sono il segno e l'espressione.

La festa non è quindi una istituzione didattica o edificante, bensì un evento di natura propria. In essa culmina quel rapporto, che è basato sulla venuta degli dèi e sull'attesa correlativa degli uomini. Gli dèi non solo sono e dominano, ma giungono, sono pre-

La lontananza, la venuta e la festa 409

senti e permangono. Ma essi non sono nulla che stia accanto alla realtà mondana, come già si è detto più volte, bensì questa realtà stessa nella misura in cui è collegata con l'«altro». Così il loro essere manifesta di volta in volta un rapporto essenziale di questa realtà:

in questo caso il fatto che l'esistenza stessa è in avvento. Che essa è in movimento; da una lontananza nella vicinanza; dall'ambito a noi sottratto nello spazio dell'uomo; dall'altra parte a questa. L'uomo, dal canto suo, attende quel movimento, esprimendo in tal modo anch'egli un aspetto dell'esistenza: il fatto di attendere, andare incontro e ricevere. Anzi di passare, a sua volta, «dall'altra parte», accolta da ciò che viene e trasportata nella sua sfera. La condensazione massima di questo processo è data dall'atto dionisiaco; vedi in proposito Voce del popolo:

Oblioso di sé, pronto sempre il desio Degli dèi a compiere, troppo docile Ciò ch'è mortale, ad occhi aperti Correndo rapido per il suo sentiero,

Prende la via più breve del ritorno nel tutto;

Così precipita il fiume in cerca di pace, lo strappa,

Lo trae contro sua voglia, di scoglio

In scoglio, giù, senza alcun freno,

La brama meravigliosa d'inabissare [...]

Denn selbstvergessen, allzubereit, den Wunsch / Der Gót-ter zu erfullen, ergreift zu gem, / Was sterbiich ist, wenn offnen Augs auf / Eigenen Pfaden es einmal wandeit, // Ins Ali zurùck die kurzeste Bahn; so stùrzt / Der Strom hi-nab, er suchet die Ruh, es reiBt, / Es ziehet wider Willen ihn, von / Klippe zu Klippe den Steuerlosen // Das Wunderbare Sehnen dem Abgrund zu [...] (il, p. 51; tr. it. dt., p. 65).

410 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

II processo è particolarmente evidente nella figura di Empedocle di cui si parlerà ancora più compiutamente. Anche il suo passaggio nell'aldilà riveste il carattere della festa.

pausania. Così festoso scende

l'astro ed ebbre

della sua luce splendono le valli?

panthea. Oh, sì, festoso scende e più gioia e luce anche ne nasce. Perché allora mi attristo? Splende anima di crepuscolo, pur anche chi affonda a tè,

l'austero, il tuo prediletto, o Natura il tuo fedele, la tua vittima! Oh, coloro che temono la morte non ti amano, l'affanno ingannevole copre i loro occhi, il loro cuore non batte contro il tuo, separati da tè, inaridiscono

... Oh, sacro Tutto

fervido, vivente, per dirti grazie,

per testimoniare in tè, che sei immortale,

sorridendo l'audace getta le sue perle

nel mare da cui vennero.

Così doveva accadere.

Così vuole lo spirito

e il tempo che matura.

Poiché, ciechi, almeno una volta

necessario a noi era il prodigio.

Pausanias. So gehet fesdich hinab / Das Gestim! und trun-ken / von seinem lichte glànzen die Tàler?

Panthea. Wohi geht er fesdich hinab - / Und freudiger wirds und heller auch. // Warum denn traur' ich? Leuchtet,

La lontananza, la venuta e la festa 411

/ Dàmmernde Seele! doch auch / Der Untergehende dir, / Der Emste, dein Uebster, Natur! / Dein Treuer, dein Opfer! // ... o heilig Ali! / Lebendiges! inniges! Dir zum Dank / Und daB er zeuge von dir, du Todesloses! / Wirft làcheind seine Perlen ins Meer, / Aus dem sie kamen, der Kùhne. / So muBt es geschehen. / So will es der Geist / Und die reifende Zeit, / Denn einmal bedurften / Wir Blinden des Wunders (in, pp. 170-171; tr. it. dt., pp. 207-209).

In tal modo l'intera esistenza sta costantemente scorrendo da una parte all'altra. Ma queste due parti - mutuamente «di qua» e «di là» - sono situate nello stesso mondo, costituendo il tutto medesimo. Attraverso la frontiera senza nome, l'esistenza costantemente si divarica, dividendosi nella sfera lontana a noi sottratta e nella presenza abbandonata.

Questo dividersi, partire e abbandonare è però continuamente superato dal movimento opposto del venire, del farsi presente, dal procurare vicinanza e unità.

E il respiro dell'esistenza, cui quella frontiera costantemente appare, per poi di nuovo scomparire. Ma ciò non avviene semplicemente, in modo meccanico, come per un apparecchio che si apre e si chiude, ma attraverso un trapasso sempre nuovo.

Questo si prepara già all'interno del mondo. È già presente nel respiro stesso: l'aria che entra e esce non penetra solo nell'ambito spaziale dell'intimo corporeo, ma anche in quello biologico della vitalità. Il trapasso si rinnova ulteriormente in quel respiro che si compie nell'uscita e nel ritorno degli atti spirituali, nella coscienza e nella volontà; esso conduce nell'interiorità psichico-spirituale. Nell'ambito del religioso, il trapasso acquista un carattere ancora diverso: di-

412 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

venta il passo attraverso la frontiera tra qui e là, tra l'aldiqua e l'aldilà. E ad esso che si riferisce Hólder-lin, ma sempre nei termini di un evento all'intemo della totalità del mondo. L'interiorità che qui si dischiude è quella religiosa, e il suo movimento avviene tramite il respiro inteso in senso religioso come «sacro fiato» o pnéuma. Anzi, quest'ultimo costituisce l'intera sfera: sia la frontiera la quale divide i due ambiti, che l'unità in cui di ritrovano attraverso il superamento d'essi. Sulla frontiera del trapasso di questo respiro, sul punto dove si converte il movimento dell'essere è situata la festa.

LA DISTRETTA DELL'ESISTENZA E L'ATTESA PERSEVERANTE

Un ultimo aspetto del riferimento religioso si basa sul fatto della distretta o necessità costrittiva (Not).

La distretta esteriore, come malattia fìsica e indigenza economica, benché sperimentata da Hólderlin in larga misura, non ha rilievo di qualche misura nella sua poesia. In compenso vi è molto presente la distretta spirituale. Oltre alla sua creatività poetica e all'esperienza religiosa ad essa intimamente connessa, la melanconia costituisce l'adito più importante alla comprensione della vita intcriore di Hólderlin. Essa pervade tutta la sua opera dando alle sue poesie e al suo linguaggio il loro taglio più caratteristico.

È diffìcile dire che cosa sia la melanconia, in che cosa consista il suo significato esistenziale, poiché le sue espressioni sono molte eterogenee, ed essa è contigua tanto alla vita quanto alla morte, alla creazione quanto alla distruzione. L'uomo melanconico è intrinsecamente legato, a partire da un ambito che sta prima dell'esistenza strutturata, operante e creativa. Ciò non significa che egli abbia un rapporto con la vita più profondo degli altri. Il suo sentimento è più forte e più delicato; le sue gioie sono più luminose, e suoi dolori più affliggenti. Ma la sua interiorità non gli consente di disporre in modo del tutto libero sul proprio stato e sul proprio agire. Ha una sensibilità

414 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

per la forma e per l'evento maggiore di quella degli altri, sperimenta il significato delle cose in modo più profondo. E quando è dotato di creatività quel legame con le potenze primordiali diventa appunto la fonte che alimenta la sua opera; ma egli stesso non se ne rallegra perché, in ogni ora in cui l'uomo, altrimenti agendo e soffrendo, vive se stesso, si insinuano le potenze e tornano a riprendersi il malinconico. Egli sa più di altri, è dotato di quel sapere che rappresenta un'iniziazione alla profondità; ma questo sapere non lo aiuta poiché lungi dal diventare uno strumento ed un'arma, non fa che conferire a tutte le cose una pesantezza ancora maggiore. Egli anela a giungere a una forma chiara e a un agire libero, a superare il procedere esitante, a tastoni e ad elevarsi nella regione luminosa. Ma il tentativo riesce solo difficilmente e per breve tempo. Ma quando, sostenuto dalle forze dello spirito e da un amore che vi tenda disinteressatamente, superando costantemente se stesso, giunge alla pacatezza serena e alla sapienza, allora appare un'umanità superiore a quella di coloro che fin dall'inizio sono sciolti d'impaccio, pieni di successo e fortunati.

Hólderlin era un uomo malinconico e il superamento di questo stato gli rimase precluso. La sua malinconia è terminata nella notte.

La sua opera ne è pervasa. È la malinconia a rendere il suo sentire così delicato, ma allo stesso tempo così doloroso e pericolosamente forte. Da essa scaturisce la profonda tristezza, l'amabilità, ma anche l'indicibile fulgore di gioia delle sue frasi. Essa conferisce alle sue rappresentazioni dominanti la loro vicinanza peculiare, la forza penetrativa, anzi l'eccesso o sovrappiù di valenza, per così dire.

La distretta dell'esistenza e l'attesa perseverante 415

Di ciò fa parte soprattutto l'ambito di quanto fu un tempo, del passato storico, soprattutto della storia greca, ma anche della vita personale, della gioventù. Entrambi gli ambiti ritraggono in se stesso, risucchiano chi costantemente ne ha memoria attraverso una nostalgia soverchiante. A questa nostalgia corrisponde, rivolta in avanti, la speranza per il futuro. Ma non si tratta di un futuro storico naturale, raggiungibile tramite un costante progresso, bensì di un futuro assoluto che in fondo è inaccessibile quanto il passato perduto. Tra di essi vi è il momento, avvertito come assillante, in cui il futuro assoluto, irrompendo, dovrebbe riportare il passato perduto. Anche la rappresentazione stessa del ritomo, forte così da eccitare, eppure messa in discussione da un senso dell'inutilità, è di tipo melanconico poiché è intimamente connessa con l'esperienza della perdita e della caducità:

la lontananza spaziale ha lo stesso carattere di quella temporale. Di essa si è parlato a proposito della tensione propria allo spazio di vita (I, supra, p. 42). Per avvertirlo basta ascoltare il tono di certe parole, come all'inizio dell'inno L'unico:

Che mai

Alle antiche beate rive

M'incatena così che le amo

Più ancora della mia patria?

Come in celeste

Prigionia venduto

Io sono, dove Apollo andò

In regale figura [...]

Was ist es, das / An die alten seligen Kùsten / Mich fes-seit, daB ich mehr noch / Sie liebe, als mein Vaterland? / Denn wie in himmlische / Gefangenschaft verkauft / Dort

416 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

bin ich, wo Apollo ging / In Kònigsgestalt [...] (il, p. 153;

tr.iLdt.,p-213).

Anche questa lontananza è irraggiungibile e rimarrebbe tale pure se un destino favorevole trasportasse in Grecia chi prova nostalgia, poiché essa è situata oltre quella terra empirica. Altrettanto desiderata nostalgicamente e altrettanto irraggiungibile le si oppone la vicinanza più vicina, la patria, poiché ciò che il melanconico vi cerca, è la sicurezza assoluta, il «puro dentro», in cui non potrà mai più ritornare da quando percorre «ad occhi aperti il proprio sentiero». E la patria, per non essere soffocante, dovrebbe racchiudere in sé la lontananza, per non diventare l'assenza di luogo, dovrebbe essere piena di interiorità che protegga e nasconda.

Anche la sensazione che l'esistenza sia pesante ed oscura è un'espressione immediata della malinconia. Essa sprigiona la nostalgia dell'altezza, della leggerezza e della chiarezza. Di qui l'etere acquista un significato nuovo: esso affranca dalla pressione e dalla prigionia. Poesie come All'Etere e Ganimede solo ora evidenziano il loro nucleo più vitale. Ma lo stesso uomo che anela all'etere, tende poi nuovamente alla profondità, alla terra. Anche l'immagine d'essa, luttuosa, sofferente, sottomessa al destino, è attraversata da correnti oscure. Con essa il malinconico ha stipulato il proprio «patto di morte». Così i fiumi precipitano nell'abisso del tutto, ed Empedocle si butta nell'Etna ... Ma anche la terra e l'etere sono dati al melanconico solo sotto la forma della nostalgia. Poiché appena si avvicina a un elemento, si eleva l'altro e lo riprende. Di nuovo l'aspirazione anela all'impossibile: a un'altezza e a una vastità, che porti in sé l'oscu-

La distretta dell'esistenza e l'attesa perseverante 417

rità ed il dolore della profondità tellurica, a una interiorità creativa, che sia esposta liberamente alla luce. Poesie come le elegie All'Etere, pervasa da un senso d'intimità che sgorga dal cuore, e Alla primavera, in cui la terra piena di «mille gioie» «danza» nella luce, indicano la dirczione.

L'etere e la terra che reciprocamente si desiderano con nostalgia e che tuttavia costantemente si devono separare, la cui unione produce la vita destinata a sua volta a perire continuamente nella morte, esprimono anche oggettivamente l'inanità della nostalgia malinconica. Ma il mito dell'unione ventura, «le nozze degli uomini e degli dèi», presagita nella trasfigurazione dell'ora pomeridiana, nella promessa della primavera e nell'esperienza dell'amore, rivela la speranza dell'anima melanconica in una possibilità oltre l'impossibilità, diventando in tal modo un rapporto religioso.

Ma la malinconia si manifesta nella poesia di Hól-derlin anche in modo concreto, come dolore puro, e semplice. A Diotima parla per esempio dei «dolori più segreti, più profondi della vita» inferri anche alla persona più amata (I, p. 244). Si vedano anche i versi pieni di dolore in Fantasia serale:

Io, dove andrò? Di guadagno e lavoro Vivono gli uomini; fatica alternando a riposo Tutto ha gioia; perché dunque a me solo Mai non s'addorme nel petto l'assillo?

Wohin denn ich? Es leben die Sterbiichen / Von Lohn und Arbeit; wechseind in Mùh und Ruh / Ist alles freudig;

warum schlaft denn / Nimmer nur mir in der Brust der Stachel? (i, p. 301; tr. it dt., p. 39).

418 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

Nell'elegia Lamento di Menane per Diotima:

Evado ogni giorno e sempre d'altro io ricerco, Da tanto ho interrogato del paese tutti i sentieri;

Lassù le fresche altitudini, e tutte visito le ombre E le sorgenti: all'alto erra il mio spirito e al basso, Pace implorando; così fugge la fiera colpita nei boschi Dove altra volta al meriggio sicura posava nel buio;

Ma il cuore più non le allevia il suo verde giaciglio,

Gemente e insonne la spinge la punta infitta a vagare.

Calore di luce, frescura di notte non giova

E nei flutti della fiumana tuffa le ferite invano.

E come indarno la terra il suo dittamo lieto

Le porge e il sangue in fermento nessun degli zefiri placa,

Così, o cari, pare che sia di me pure, e nessuno

Può dalla fronte levarmi il funebre sogno?

Tàglich geh ich heraus, und such ein anderes immer, / Habe làngst sie befragt, alle die Pfade des Lands; / Dro-ben die kùhlenden Hóhn, die Schatten alle besuch ich, / Ruh erbittend; so flieht das getroffene Wild in die Wàlder, / Wo es um Mittag sonst sicher im Dunkel geruht: / Aber nimmer erquickt sein grùnes Lager das Herz ihm / Jam-mernd und schiummerlos treibt es der Stachel umher. / Nicht die Wàrme des Uchts, und nicht die Kùhle der Nacht hiift / Und in Wogen des Stroms taucht es die Wunden umsonst. / Und wie ihm vergebens die Erd ihr fróhiiches Heiikraut / Reicht, und das gàrende Blut keiner der Zephire stillt, / So, ihr Lieben! auch mir, so will es scheinen, und niemand / Kann von der Stime mir neh-men den traurigen Traum? (il, p. 75; tr. it. cit., p. 119).

Nell'inno O conciliante, o Tu non mai creduto ... il lamento diviene ancora più amaro:

Un tempo anche ci allegravamo Di mattino quando taceva l'officina Al dì di festa: e i fiori nel silenzio

La distretta dell'esistenza e l'attesa perseverante 419

Più belli fiorivano e chiare sgorgavano vive fontane.

Di lungi scrosciava dei fedeli rabbrividente canto,

In cui, come il sacro vino, invecchiate

Più arcane le sentenze, ma più potenti un giorno

Crebbero d'estate negli uragani del dio.

Eppure le ansie mi calmavano

E i dubbi; ma non seppi mai come fu,

Che, appena nato, già mi spargeste

Sopra gli occhi una notte,

Tanto che più la terra non vedevo e a fatica

Dovevo voi respirare, aure del delo.

Prestabilito era [...]

Einst freueten wir uns auch, / Zur Morgenstunde, wo stille die Werkstatt war / Am Feiertag, und die Blumen in der Sdile, / Wohi blùhten schóner auch sie und helle quillten lebendige Brunnen. / Fem rauschte der Gemeinde schauer-licher Gesang, / Wo, heiligem \Vein gleich, die geheime-ren Sprùche / Gealtert, aber gewaltiger einst, aus Gottes / Gewittern im Sommer gewachsen, / Die Sorgen doch mir stillten / Und die Zweifel; aber nimmer wuBt ich, wie mir geschah, / Denn kaum geboren, warum breitetet / Ihr mir schon ùber die Augen eine Nacht, / Da6 ich die Erde nicht sah und mùhsam / Euch atmen mu6t, ihr himmli-schen Lùfte. // Zuvorbestimmt wars [...] (n, pp. 130-131;

tr.it. cit.,p. 171).

Nell'inno Alla Madonna si legge addirittura:

E più d'un canto che Di cantare all'Altissimo, al Padre, Avevo pensato, me lo ha Divorato la malinconia.

Und manchen Gesang, den ich / Dem Hóchsten zu sin-gen, dem Vater, / Gesonnen war, den hat / Mir wegge-zehret die Schwermut (n, p. 211; tr. it. dt., p. 249).

420 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

Anche il concetto di cuore, così importante per Hólderlin perché esprime la sfera dell'interiorità e l'origine dell'amore, è pieno di malinconia. L'ode Incitamento inizia con le parole:

Eco del delo! cuore sacro! perché, Perché ti sei ammutolito in mezzo ai viventi? Tu, Ubero, dormii T'hanno sbandito in eterno Gli uomini senza dèi, giù nella notte?

Echo des Himmeis! heiliges Herz! warum, / Warum ver-stummst du unter den Lebenden, / Schlafst, freies! von den Gótterlosen / Ewig hinab in die Nacht verwiesen? (II, p. 35; tr. it. dt., p. 81).

Nell'elegia omonima il cuore di Achille addolorato anela a scendere nella profondità materna:

Figlio glorioso degli dèi, quando perdesti l'amata

Andasti alla riva del mare, piangendo verso i flutti,

E il tuo cuore bramava gemendo di scendere nel sacro abisso,

Nella pace, là dove, lontana dal suono delle navi,

In fondo alle onde, in una grotta amica, l'azzurra

Ted abitava, che d proteggeva, la dea del mare.

Herrlicher Góttersohn! da du die Geliebte verloren, / Gingst du ans Meergestad, weintest hinaus in die Flut, / Weheldagend hinab verlangt' in den heiligen Abgrund, / In die Sdile dein Herz, wo, von der Schiffe Gelami / Fern, def unter den Wogen, in friediicher Grotte die blaue / Theds wohnte, die dich schùtzte, die Gótdn des Meers (I, p.271).

Poi continua:

Figlio degli dèi! fossi come tè, potrei confidare Ad uno dei celesd il mio segreto dolore. A me non è dato, padre devo l'offesa, come

La distretta dell'esistenza e l'attesa perseverante 421

Non più appartenessi a colei che mi pensa piangendo.

Pure, o buoni dèi, voi ascoltate ogni supplica degli umani,

E tè, o Luce santa, io amai con pietà profonda,

Da che ho vita, e tè. Terra, le tue sorgenti e i boschi,

E tè, padre Etere, sentì anelante e puro

Questo cuore - oh consolate, voi benigni, il mio dolore,

Che l'anima non mi diventi muta innanritempo,

Ch'io viva, e a voi, alte potenze celesti,

Nel giorno fuggente ancor renda grazie con devoto canto,

Per il passato bene, per le gioie della gioventù trascorsa,

E accogliete poi benigni a voi presso quest'uomo solo.

Góttersohn! o wàr ich wie du, so kónnt ich vertraulich / Einem der Himmlischen klagen mein heimliches Leid. / Sehen soli ich es nicht, soli tragen die Schmach, als gehórt ich / Nimmer zu ihr, die doch meiner mit Trànen ge-denkt. / Gute Getter! doch hórt ihrjegliches Flehen des Menschen, / Ach! und innig und fromm liebt ich dich, heiliges licht, / Seit ich lebe, dich Erd und deine Quellen und Walder, / Valer Àther und dich fùhke zu sehnend und rein / Dieses Herz - o sànftiget mir, ihr Guten, mein Leiden, / DaB die Seele mir nicht allzu frùhe verstummt, / DaB ich lebe und euch, ihr hohen himmlischen Màchie, / Noch am fliehenden Tag danke mit frommem Gesang, / Danke fùr voriges Gut, fùr Freuden vergangener Jugend, / Und dann nehmet zu euch gùtig den Einsamen auf (i, p. 271).

In Germania il dolore si riferisce agli dèi perduti:

No, i Beati che un giorno apparvero, Di dèi le immagini sulla terra antica, Più non m'è lecito evocarle, ma se O acque della patria! ora con voi Geme l'amore del cuore, che altro vuole II sacro lutto? sta colmo d'attesa II paese e, come in giorni torridi Calato giù, ci fa ombra oggi all'intorno, O desiose! un delo colmo di presagi.

422 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

Nicht sie, die Seligen, die erschienen sind, / Die Gótterbil-der in dem alten Lande, / Sie darfichja nicht rufen mehr;

wenn aber, / Ihr heimatlichen Wasser! jetzt mit euch / Des Herzens Uebe klagt, was will es anders, // Das Heilig-trauernde? Denn voli Erwartung liegt / Das Land und als in heiBen Tagen / Herabgesenkt, umschattet heut, / Ihr Sehnenden! uns ahnungsvoll ein Himmel (il, p. 149; tr. it. cit., p. 207).

Con profonda consapevolezza si dice nei versi di

Terra nativa:

[...] Ma io so, io so

Che del dolore d'amore non guarirò così presto,

Nessuna ninnananna consolatrice

Come i mortali cantano, me ne allevia il petto.

Quelli che d concedono il fuoco celeste, Gli dèi ci donano anche sacro dolore, Perciò resti qual è. Un figlio della terra Sembro io; per amare fatto, per soffrire.

[...] aber ich weiB, / Der Uebe Leid, dies heilet so baid mir nicht, / Dies singt kein Wiegensang den tróstend / Sterbii-che singen, mir aus dem Busen. // Denn sie, die uns das himmlische Feuer leihn, / Die Gótter schenken heiliges Leid uns auch, / Drum bleibe dies. Ein Sohn der Erde / Schein ich; zu lieben gemacht, zu leiden (il, p. 19; tr. it. dt.,pp. 51-53).

Ma l'ode Lagrime proclama come una legge:

[...] Così ovunque è dell'amore:

Ingenuo e sempre ingannato.

[...] So muB ùbervorteilt, / Albern doch ùberall sein die liebe (il, p. 58; tr. it. dt., p. 97).

La distretta dell'esistenza e l'attesa perseverante 423

Si potrebbe quasi dire che il cuore è sofferente per natura poiché sente; ma ciò che esso può sentire, le cose, l'esistenza, sono chiuse in un'aporia del dolore, dalla quale non si può uscire. Questo carattere della sofferenza per così dire a priori e proprio anche della potenza fondamentale del cuore, l'amore. Per Hólder-lin esso è per natura tragico. Lui stesso l'ha vissuto in quel modo, e in tali termini appare anche nella sua opera. Solo la piccola poesia Emilia innanzi al giorno delle sue nozze descrive l'amore appagato. In tutte le altre composizioni, esso è destinato a rinunciare e a perire. Esso contiene ogni fecondità e felicità. Tuttavia non si realizza, perché in esso la condizione dell'esistenza giunge all'esperienza vissuta di se stessa.

La poesia Lamento di Menane per Diotima è l'elegia dell'amore per definizione, in cui il dolore si manifesta sempre nella gioia, e la felicità nel dolore. Amore può sussistere solo là dove avviene un incontro; ma l'incontro significa la presenza d'una dualità, e la dualità significa divisione.

Al/onte del Danubio chiude con i versi:

[...] Ma ora mi finisce in beate lagrime,

Come una leggenda d'amore,

II canto: e così pure,

Tra vampe e pallori, dal principio

M'è venuto. Ma tutto va così.

[...] Jetzt aber endiget, seligweinend, / Wie eine Sage der Liebe, / Mir der Gesang, und so auch ist er / Mir, mit Er-róten, Erbiassen, / Von Anfang her gegangen. Doch alles geht so (il, p. 129; tr. it. dt., p. 167).

Da questa esperienza nasce sempre la preghiera rivolta alle divinità perché aiutino. In fin dei conti non

424 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

si chiede loro di alleviare questa distretta o di mutare quel destino, ma di illuminare e liberare l'esistenza attraverso la loro vicinanza.

Per questo ogni divinità di Hólderlin ha un legame con il dolore. Ma alcune gli sono particolarmente vicine, le divinità salvatrici appunto, di cui si dirà per esteso nell'ultimo cerchio. Un passo tratto dalla terza versione dell'inno L'unico dice di loro:

[...] ma così sono quei tré, Come cacciatori in cacda Sotto il sole, o come

Un aratore che ansante per il lavoro

Si scopre il capo, o mendicano.

Non così sono altri eroi. Ma la questione

Che mi tormenta è questa, che per distretta quali figli di Dio

Portano su di sé i segni. Poiché anche in altro modo

Ha provveduto, convenientemente, Giove tonante.

Cristo però si destina da solo.

Èrcole è come i prìncipi. Bacco è spirito di comunione.

[Cristo però è La fine.

[...] Jene drei sind aber / Das, da6 sie unter der Sonne / WieJàger derJagd sind, oder // Ein Ackersmann, der at-mend von der Arbeit / Sein Haupt entblóBet, oder Bet-tier. / Nicht so sind andere Helden. Der Streit ist aber, der mich / Versuchet, dieser, daB aus Not als Sóhne Gottes / Die Zeichen jene an sich haben. Denn es hat noch anders, ràtiich, / Gesorget der Donnerer. Christus aber bescheidet sich selbst. / Wie Fùrsten ist Herkules. Gemeingeist Bac-chus. Christus aber ist/ Das Ende (u, pp. 752-753).

Le parole si trovano in una poesia dedicata a Cristo. Di fatto egli è legato soprattutto alla «distretta» o

La distretta dell'esistenza e l'attesa perseverante 425

«necessità», a quella cioè della fine. Il grande giorno universale dell'epoca greca in cui gli dèi erano vicini e regnava la pietà, è giunto alla fine. Gli dèi hanno preso le distanze, e sopra gli uomini è scesa la notte della lontananza di Dio. In questa situazione sta Cristo. Le parole del racconto evangelico sul viaggio a Emmaus: «Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino» (Le 24, 29), quelle sull'ora dell'ultima cena: «Venuta la sera, si mise a mensa con i Dodici» (Mt 26, 20) e quelle a proposito dell'allontanamento di Giuda: «Preso il boccone, egli subito uscì. Ed era notte» (Gv 13, 30) si associano con il mito della storia di Hólderlin. Cristo è mandato dal Padre supremo nella distretta di questa notte che dura dalla fine della Grecia fino all'ora del suo ritorno. «Consola» l'uomo e istituisce, perché egli possa sopportare la notte, la celebrazione della memoria e del ringraziamento, l'Eucaristia. Pane e vino:

Non è molto -ed sembra lontano - quando ascesero in alto

Tutti quelle che avevano reso felice la vita,

Quando il Padre voltò la sua faccia dagli uomini

E luttuosa tristezza giustamente cominciò sulla terra,

Apparve per ultimo allora un placido genio, un divino

Consolatore, annunzio la fine del Giorno e sparì.

E allora per segno ch'Egli era venuto e che ancora

Ritornerebbe, il coro celeste lasdò alcuni doni

Dei quali, come una volta, godere potessimo in modo umano,

Poiché per la gioia, con lo spirito, un dono più grande era

[troppo Tra gli uomini e ancora, ancor mancano i forti per le più alte Gioie: ma ancora tadta qualche gratitudine vive. Pane è di terra il frutto seppur benedetto dalla luce E dal tonante iddio viene la gioia del vino. Per questo d fanno pensare ai celesti, che qui

426 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

Sono già stati e che a tempo giusto ritorneranno. Per questo, pur seri, i cantori cantano il dio del vino E, non vana fantasia, suona all'Antico la lode.

Namlich, als vor einiger Zeit, uns dùnket sie lange, / Auf-wàrts stiegen sie ali, welche das Leben beglùckt, / Als der Vater gewandt sein Angesicht von den Menschen, / Und das Trauem mit Recht ùber der Erde begann, / Als er-schienen zuletzt ein stiller Genius, himmlisch / Tróstend, welcher des Tags Ende verkùndet' und schwand, / UeB zum Zeichen, daB einst er da gewesen und wieder / Rame, der himmlische Chor einige Gaben zurùck, / Derer men-schiich, wie sonst, wir uns zu freuen vermóchten, / Denn zur Freude, mit Geist, wurde das Grófire zu gro6 / Unter den Menschen und noch, noch fehien die Starken zu hóchsten / Freuden, aber es lebt stille noch einiger Dank. / Brot ist der Erde Frucht, doch ists vom Lichte gesegnet, / und vom donnernden Gott kommet die Freude des Weins. / Darum denken wir auch dabei Himmlischen, die sonst / Da gewesen und die kehren in richtiger Zeit, / Darum singen sie auch mit Ernst, die Sànger, den Weingott / Und nicht eitel erdacht tónet dem Alten das Lob (il, p. 94;

tr.it. dt.,p. 141).

Il significato che hanno gli atti del far memoria e del ringraziare per Hólderlin diventa chiaro solo in questo contesto. La «notte» reca il pericolo che gli uomini diventino inconsapevoli dei loro legami esistenziali, ottusi e disorientati.

Esortata ad eseguire il suo compito, la memoria si ricorda del passato anche se non è più, e fa ricordo di ciò che è a noi sottratto anche se non è più visibile. Alla fine della seconda strofa, l'elegia dice:

[...] il flutto del verbo, che come gli amanti

Sia senza sonno, e più colma coppa e più audace vita

E anche memoria sacra, da stare svegli la notte12.

La distretta dell'esistenza e l'attesa perseverante 427

[...] das strómende Wort, das, wie die liebenden, sei, / Schiummerlos, und vollem Pokal und kùhneres Leben, / Heilig Gedàchtnis auch, wachend zu bleiben bei Nacht (n, p.91;tr.it. dt.,p. 135).

Così la memoria supera la dimenticanza ed il sonno. La gratitudine però accetta tutto quanto è con tutta la sua terribilità, sapendo che in tutto vi è comunque un senso. In tal modo supera il rancore e la disperazione.

Alla distretta della fine si contrappone quella dell'inizio. L'inizio è il passaggio dal caos alla forma. La sua distretta consiste nel pericolo che il caos possa rivelarsi indomabile, che la forma non riesca e che l'ordine non si costituisca. Anche in questo caso vi è una divinità della salvezza, Eracle. Egli doma e costringe il caos; i mostri che vince sono gli sfoghi e i parti d'esso. Egli istituisce ordine. Fa sì che la vita umana possa svolgersi sicura e fecenda. Egli è legislatore e signore.

Gli è correlato l'atto religioso dell'attesa e della fedeltà. Questo riferimento compare nella poesia di Hólderlin quando si comincia ad avvertire il caos nella sua forma pericolosa, come alla fine dell'inno II Reno oppure nell'abbozzo Ma quando i Celesti ... Il riferimento a Eracle è perticolarmente evidente in Maturi sono i frutti ...ls.

[...]Emolto,

Quale sugli omeri

Un peso di ciocchi

È da conservare. Ma sono cattivi

I sentieri. Poiché fuori strada

Come cavalli, vanno i prigionieri

Elementi e le antiche

Leggi della terra. E sempre

428 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

Allo sfrenamento va una brama. Ma molto È da conservare. E necessaria la fedeltà.

[...] Und vieles, / Wie auf den Schuitern eine / Last von Scheitem, ist / Zu behalten. Aber bós sind / Die Pfade. Namlich unrecht, / Wie Rosse, gehn die gefangen / Ele-ment' und alten / Gesetze der Erd. Und immer / Ins Un-gebundene gehet eine Sehnsucht. Vieles aber ist / Zu behalten. Und not die Treue (II, p. 197; tr. it. dt., p. 243).

Poi, astraendo da Eracle e in senso puramente og-gettivo:

Ma ne avanti, ne indietro

Noi vogliamo vedere. Ci facdamo cullare

Come su dondolante barca del mare.

Vorwàrts aber und rùckwàrts wollen wir / Nicht sehn. Uns wiegen lassen, wie / Auf schwankem Kahne der See (n, p. 197; tr. it. dt., p. 243).

Qui si tratta dell'attesa pura nel caos senza luogo, sostenuta da nient'altro che dalla volontà di resistere.

Tra inizio e fine vi è il presente. Esso significa un'esistenza in forma caratterizzata e un destino assegnato. E il «camminare ad occhi aperti sui propri sentieri», di cui parla l'ode Voce del popolo. Tutti gli enti consistono in questa determinatezza assunta da forma e destino. In ciò sta il loro carattere e il loro volere, ma anche il loro pericolo: contomo infatti significa limite, carattere significa distinzione. Qui nasce una distretta nuova: il pericolo che il limite diventi una divisione, la distinzione una lacerazione. Questa distretta - anch'essa sentita dalla profondità della malinconia - si desta nella coscienza di Hólderlin: che

La distretta dell'esistenza e l'attesa perseverante 429

l'essere è possibile, solo quando avviene una distinzione; ma la forma che scaturisce dalla distinzione diventa in se stessa una prigione e verso gli altri una lacerazione. Ciò appare con grandezza particolare all'inizio dell'inno Palmo:

[...] Ora, poi che ammassate in cerchio Stanno le vette del tempo E i più amati abitano vidno, languendo Sui monti più separati [...]

[...] da gehàuft sind rings / Die Gipfel der Zeit, und die Ijebsten / Nah wohnen, ermattend auf / Getrenntesten Bergen[...](ll,p.l65).

Anche a essa è inviato un nume, Dioniso. Egli supera la distretta che nasce dal rapporto tra singolo e tutto, forma e ambito originario. Quando la sua potenza prorompe con la massima forza raggiunge quel vertice di cui già si è parlato: la vita chiusa nella forma è «oppressa dalla sua troppa bellezza» e si getta nella morte (Heidelberg); il popolo è «afferrato dalla voluttà di morire», e rompe «la sua opera d'arte» (Voce del popolo). Poi la forma s'infrange e trionfalmente si erge il tutto.

Ma ciò che qui avviene in modo tragico può svolgersi anche in modo tale che la forma resti, vale a dire nell'incantesimo dionisiaco. Può assumere la modalità dell'ebbrezza, in cui la forma dimentica se stessa risolvendosi per breve tempo nella vita totale, come si proclama alla fine di Pane e vino. Ma può rivestirsi anche della forma apollineamente spiritualizzata della trasfigurazione, espressa dall'esperienza di luce visionaria alla fine dell'inno II Reno.

430 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

II rapporto religioso significa qui l'ingresso nel dominio dionisiaco: il rischio della caduta dionisiaca, sia a partire da originaria innocenza (Voce del popolo) sia, attraversando la colpa, come espiazione (i drammi di Empedocle) e nuovamente ricompare l'immergersi religioso nel mistero della trasformazione (inno II Reno).

Ma la distretta, di cui si è parlato, può anche rovesciarsi: che il momento culminante dionisiaco urga là dove non gli è lecito accadere. In tal caso ciò che vive deve attendere nell'angustia della forma imposta, accettando i legami del destino assegnato e diventare fecondo in essi. Questo aspetto del rapporto descrive l'inno II Reno. L'atto religioso consiste ora nel resistere alla violenza dionisiaca - una resistenza, attuata a sua volta con forza divina, ossia attraverso l'obbedienza all'assegnazione stabilita dai «genitori», Etere e Terra.

In termini potentemente accentuati, lo stesso pensiero ritorna nella terza versione di L'unico. Vi si legge:

[...] il mondo esulta sempre Lontano da questa terra, perché la mette a nudo;

Là dove l'umano non la regge, Resta però traoda d'una parola;

Un uomo la ghermisce. Ma il luogo era il deserto [...]

[...] Namlich immerjauchzet die Welt/ Hinweg von dieser Erde, daB sie die / EntblóBet; wo das Menschiiche sie nicht hàlt. Es bleibet aber eine Spur / Doch eines Wortes;

die ein Mann erhaschet. Der Ort war aber // Die Wùste [...] (il, p. 163).

Qui incombe il rischio di «lanciarsi lontano» dalla terra, di precipitare dal mondo in quanto tale, dalla chiara realtà «terrena» in ciò che non ha nome, dal-

La dùtretta dell'esistenza e l'attesa perseverante 431

l'aldiqua nell'aldilà ~ un'estasi dal mondo che significherebbe la fine. Contro di essa ci si appella a Cristo che qui, a cospetto del «corso della natura, eternamente avverso all'uomo», appare come il conservatore e protettore.

Il pensiero della distretta originaria, della possibilità aperta alla colpa e alla lacerazione insita nella natura dell'esistenza stessa è ripreso in un senso più generale dall'ode Natura e arte ovvero Saturno e Giove (II, p. 37). Si tratta della contrapposizione fra le epoche del mondo, che è contemporaneamente una contrapposizione fra i loro numi, le generazioni degli dèi; più precisamente fra Saturno e Giove. Quest'ultimo si è impossessato del potere che un tempo è stato di Saturno. L'epoca dell'inizio primordiale in cui tutto giaceva nell'unità dell'inconscio, nella «culla», è stato seguito dalla storia e dalla sua consapevolezza. Come si evince dalla prima parte del titolo, si allude contemporaneamente alla differenza fra la natura e le creazione culturale sostenuta dallo spirito individuale. Saturno ha avuto il suo tempo. Adesso egli è vinto e «si lamenta laggiù», dove ci sono coloro che sono stari abbattuti, discesi negli inferi, i Titani. E adesso la grande scena: il vate si eleva davanti al dio supremo e lo interpella:

Giù, dunque! o non vergognarti di ringraziare! E se vuoi rimanere, ossequia il più antico, Accordagli che prima di tutti, Dèi e uomini, il cantore lo nomini!

Che come dalla nuvola il tuo fulmine, Viene da lui dò ch'è tuo, guarda! di lui

432 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

Testimonia dò che legiferi, e dalla pace Di Saturno qualunque potenza è cresciuta.

Herab denn! oder schàme des Danks dich nicht! / Und wilist du bleiben, diene dem ÀIteren, / Und gónn es ihm, daB ihn vor allen, / Góttern und Menschen, der Sànger nenne! // Denn, wie aus dem Gewólke dein Blitz, so kommt / Von ihm, was dein ist, siehe! so zeugt von ihm, / Was du gebeutst, und aus Saturnus / Frieden ist jegliche Macht erwachsen (il, p. 37; tr. it. dt., p. 79).

Egli si sente avvocato della totalità dell'esistenza che invero è un'entità superiore agli dèi. Egli sa, per premonizione visionaria, che la premessa di ogni sussistere è in pericolo e che incombe la lacerazione: tra le epoche del mondo, ciascuna dotata di un senso proprio, tra le divinità determinate in se stesse, tra le potenze della vita naturale e culturale. A ciò oppone l'esigenza del «ringraziamento» che in questo caso, riferito agli dèi, assume un significato ontologico in senso assoluto.

Il concetto appare declinato ancora una volta diversamente là dove si dice che gli dèi non sentono, e urgono pertanto per entrare nel cuore per riuscire colà a sentire la propria gloriosa magnificenza (ili, su-pra, p. 369). Nell'inno L'Istro il pensiero si manifesta nell'immagine del cielo che scende nel fiume sentendosi vicino agli altri dèi nel «cuore», nell'«animo» {Ge-mùt) di quest'ultimo (il, p. 191). Nella poesia Ricordo il ruolo del fiume è occupato dal mare. Esso stabilisce il contesto, e i navigano che su di esso viaggiano, lo compiono:

[...] Essi

Come pittori fanno accolta

Del bello sulla terra [...]

La distretta dell'esistenza e l'attesa perseverante 433

[...] Sie, / Wie Maler, bringen zusammen / Das Schóne der Erd [...] (il, p. 189; tr. it. dt., p. 237).

Vedono i fenomeni fra un capo e l'altro del mondo e li conservano, ricordandoli, nel loro spirito:

[...] Ma toglie e da

Memoria il mare

E l'amore affisa assidui occhi.

[...] Es nehmet aber / Und gibt Gedàchtnis die See, / Und die Ueb auch heftet fleiBig die Augen (II, p. 189; tr. it. dt., p. 237).

In questo contesto acquista un nuovo significato anche il concetto hólderliniano dell'amore. Nell'ode L'addio si legge:

Sì, lo sapevo prima. Da quando il radicato

Odio che tutto scinde separa gli dèi dagli uomini,

Deve con sangue placarli,

Deve il cuore degli amanti perire.

Wohi! ich wuBt es zuvor. Seit der gewurzelte / Allent-zweiende HaB Getter und Menschen trennt, / MuB, mit Blut si e zu sùhnen, / Mu6 der Liebenden Herz vergehn (n, p. 24; tr. it. dt., p. 53).

Colpa originaria e sofferenza originaria ricevono la loro forma più aspra: si trasformano in odio. Ogni entità formata odia l'altra, poiché affermandosi nella sua strutturazione pone tra sé e l'altro Vaut-aut. Questo «odio» è conflitto che si decide nel cuore degli amanti.

Essi lo avvertono quando devono lasciarsi. Forse il pensiero dev'essere sviluppato oltre: avvertono l'odio

434 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

sempre, nell'impossibilità di diventare così identici come vorrebbero. Ma sperimentato in tal modo, nel loro cuore viene espiato, e per il mondo viene conquistata la possibilità di continuare ad esistere. Adesso il rapporto tra attesa e resistenza si trasforma nel sacrificio.

L'ESSENZA E L'UNITÀ DELLE DIVINITÀ

L'ESSENZA DEGLI DÈI

Dopo tutto ciò che è stato detto sul mondo degli dèi nelle poesie di Hólderlin, si impone la questione seguente: che cosa sono questi dèi? La risposta è difficile, ma. si vuole almeno tentarla.

Gli dèi sono qualcosa di enigmatico. Non solo qualcosa di misterioso; il mistero fa parte della natura di ogni fenomeno religioso. Sono qualcosa di più, sono enigmatici. Lo spirito indagatore non sa come affrontarli, e l'insicurezza aumenta nella misura in cui è deciso a farsi una ragione del loro significato. In questo essi si distinguono dal Dio vivente della Rivelazione, la cui natura diventa chiara nella misura in cui è sincero Io spirito nella sua indagine e il cuore è onesto nella sua decisione di amare e obbedire. Cresce certo il suo mistero, ma gli enigmi si diradano. Si impone un'antinomia beatificante: il mistero di Dio aumenta, ma allo stesso tempo anche la sua evidenza. Lo stupore e l'adorazione della sua grandezza incon-

436 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

cepibile diventano sempre più profondi. Ma contemporaneamente lo spirito che crede presagisce che Dio sia colui che si comprende da sé. Gli enigmi sono dalla parte dell'uomo. Il primo di essi è: come è possibile l'uomo con la sua libertà di fare il bene, ma anche il male? Dio invece è Colui che è impossibile non esista, che è fondato in se stesso e comprensibile a partire da Lui medesimo. Se si riconosce ciò, si devono però rovesciare i punti di gravita e i criteri di misura. In questa metànoia consiste forse l'essenza più profonda da ciò che chiamiamo «fede» ... Con gli dèi è diverso. Essi dapprima sembrano chiari, finché li si scorge nell'approssimativo, ossia in modo estetico, simbolico o di mistica cosmica. Ma quando ci si pone la questione: che cos'è un dio? che cosa significa per me? che cosa mi chiede e che cosa trovo in lui? - se questa questione è sollevata con la serietà adeguata al tema della salvezza, allora la risposta diventa sempre più indeterminata. Si ha la sensazione che il fenomeno in questione sia un qualcosa, ma viceversa, anche un niente; sembra di poter intravedere che sussista in se stesso, che esso venga incontro all'uomo di propria iniziativa e che dall'altra parte scaturisca solo dall'animo di chi l'incontra, che per quanto si fondi su un'essenzialità vera, sia creato soltanto dall'interesse dell'uomo, come un'arma per l'autoaffermazione e come uno strumento nella lotta per il dominio sull'essere.

II

Prima di tutto occorre dire che gli dèi non sono nulla di arbitrario. Non vengono inventati o intellet-

L'essenza degli dèi , 437

tualmente costruiti, ma incontrati. Non scaturiscono dalla pura fantasia. Non sono allegorie o concentra-zioni artistiche di sentimenti o contenuti di senso, ma qualcosa di obiettivo. È tuttavia difficile stabilire di quale genere di obiettività si tratti. La decisione definitiva circa il senso dell'esistenza è presa davanti alla verità e alla maestà di Dio. Le figure ed i miti degli dèi contengono esperienze profonde del mondo e del religioso. Ma, in ultima analisi, sono espressione del fatto che l'uomo ha abbandonato il Dio vivente, rivendicando la signoria sopra di sé ed il mondo. Ma poiché la natura dell'uomo è conservata in Dio, la sua decisione nei confronti di Dio diventa anche una decisione su se stesso. Gli dèi esprimono ciò che è accaduto alla verità ed all'onore di Dio per opera dell'uomo. In questo modo, essi parlano anche del destino più profondo dell'uomo, poiché, abbandonato il Dio vivente, egli è in balia del mondo e di se stesso. Così gli dèi rappresentano, nel più profondo, la non verità e l'ingiustizia ma non sono prodotti della fantasia perché l'uomo non può inventare dèi a suo piacimento. Essi significano gli ambiti di senso dell'esistenza, nella misura in cui questa non è solamente familiare e disponibile, ma anche satura di mistero e sospesa -ma in modo tale da essere astratta dal Dio vivente e posta in se stessa. Ogni ente è colmo di valenza religiosa. Il fatto che Dio abbia creato il mondo e che esso persista in ragione della sua potenza non rimane, per così dire, davanti alle porte di questo mondo. Questo fatto non può essere aggiunto all'esistenza o sottratto da essa, lasciando che questa rimanga qualcosa di compiuto e di determinato in sé. Esso costituisce anzi la forma della sua realtà. L'essere creato è

438 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

iscritto in modo indelebile nella natura di ogni cosa. Essere-cosà significa essere opera di Dio, essere vero significa essere operato da Dio; avere senso significa essere dichiarato da Dio degno di esistere. Questo fatto ed il carattere che ne deriva costituiscono quell'elemento «numinoso» di ogni ente, percepito dall'organo religioso dell'uomo, dalla cui esperienza scaturisce la vita religiosa immediata. Ogni ente può essere vissuto sotto diversi punti di vista «mondani», sotto l'aspetto della sua costituzione, della sua utiliz-zabilità e della sua bellezza, formando in tal modo la base di scienza, tecnica e arte. Ma ogni ente può dare consapevolezza di essere stato creato da Dio, di essere sostenuto dalla sua potenza, pervaso dal senso conferitegli e attirato dal suo amore. Allora diventa evidente una nuova dimensione. Al «così» si aggiunge r«altro», all'«al di qua» l'«al di là», al noto il mistero. Tutto ciò non è avvertito come qualcosa da chiarire attraverso una ricerca corretta, da collocare con un saldo approccio nel contesto quotidiano, bensì come carattere stabile. È il «sacro» o il «numinoso» nell'accezione naturale del termine, l'obiettivamente religioso a cui è correlato il soggettivo, la relativa esperienza e la vita religiosa che ne scaturisce.

In primo luogo, questo fenomeno numinoso rappresenta il carattere dell'essere in generale; il fatto dell'essere creato in quanto tale, secondo cui il tutto esiste a partire da e in vista di Dio. Ma esso si partico-larizza anche nei diversi contesti essenziali e negli ambiti di senso dell'esistenza: per esempio nel ciclo come ambito dell'altezza, della luce, dello spazio, che s'inarca a volta e domina. La potenza religiosa della creazione nel suo insieme è onnicomprensiva e allo

L'essenza degli dèi 439

stesso tempo semplice, chiaramente avvertibile, ma non esprimibile a parole; la potenza religiosa nell'ambito particolare, invece, è caratterizzata in se stessa e distinta dagli altri ambiti, per esempio dalla terra come sede della profondità, dell'oscurità, della fecondità e della morte. Per questo è anche più facile comprenderla ed esprimerla in immagini ed affermazioni.

Sotto l'aspetto della verità di fede queste figure saturate di senso e di potenza religiosi rappresentano le forme particolari del fatto della creazione. Esse testimoniano l'originalità della creazione divina che di volta in volta produce cose «nuove» e «specifiche». Testimoniano la serietà di Dio che da alla sua opera la profondità e la potenza dell'esistenza vera. Annunciano il suo amore che permea il reale di senso. Da esse deve farsi incontro all'uomo la potenza misteriosa del mondo, toccandolo ed indirizzandolo verso Dio. Un ciclo vissuto in questi termini, una tale profondità della terra, un tale evento nel tempo sarebbero pervasi dalla pienezza di senso divina, ma non sarebbero mai «dèi». Diventano tali solo quando l'uomo dichiara il mondo autonomo e se stesso il padrone di esso, staccando la corrente sacra, che viene dal Creatore, dalla sua origine e gettandola verso il mondo. Allora tenta di separare la parola da Colui che parla, il cenno dalla mano che lo da, l'opera da Colui che la compie, la proprietà dal suo Signore. Ora quelle figure dell'esistenza vengono poste come forme di una divinità propria del mondo stesso - ma appunto in tal modo l'uomo diventa schiavo di questo mondo.

Qui ci sarebbe ancora molto da interrogarsi: come sia possibile un tale processo, che cosa significhi la volontà per la conoscenza e il peccato per la volontà,

440 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

come l'inganno si rapporti alla verità e quale potenza possa acquistare ... Non possiamo affrontare tutto questo ordine di problemi. Rimane tuttavia evidente che «dèi» autentici, a differenza delle figure inventate dalla tabulazione religiosa, non sono nulla di arbitrario. L'esistenza stessa prefigura la loro possibilità. Essi sono le modalità in cui una decisione posta da Dio nell'essenza del mondo viene attuata contro Lui. Perfino quando trasforma le figure del mondo in dèi, l'uomo obbedisce all'indicazione del Dio vivente, facendogli onore anche se nella forma del rinnegamen-to. Allo stesso modo non è nulla di arbitrario avvertire l'essenza di un dio, contemplarne l'immagine e pronunciarne il messaggio. Presuppone una certa dote - di cui si abusa, bisogna aggiungere dopo quanto si è detto - la dote appunto dell'esperienza religiosa nella sua forma più originaria dell'incontro e della denominazione. Incontrare un dio, confermandogli il nome e la figura sotto cui poi verrà accettato e adorato da altri, è l'opera del genio religioso creativo, del veggente. Questo incontrare, nominare e conferire forma, si compie di volta in volta a partire da una situazione umana ben precisa: il contesto del tempo, del paese e del popolo, di eventi storici preminenti, di determinati compiti e distrette. Così la divinità che appare diventa il dio di questi uomini, di questo paese, di questo tempo.

Attraverso la loro nascita, gli dèi ricevono il carattere «enigmatico» di cui si parlava prima. Essi sono reali nella misura in cui significano gli ambiti di senso e di realtà dell'esistenza permeata di valenza religiosa. Essi sono irreali nella misura in cui pretendono di

L'essenza degli dèi 441

essere qualcosa di autonomo. Tuttavia, proprio anche in questa pretesa essi sono qualcosa di reale, perché rappresentano una determinata forma del volere umano, una posizione esistenziale. La volontà che li pone nella storia è al di là del decidersi individuale, è la volontà di fondo dell'umanità distaccatasi da Dio. Gli dèi esprimono questa volontà; ma così facendo determinano la situazione di questa umanità. Poiché un'esistenza, in cui vi sono degli dèi, voluti ed adorati, è diversa da quella in cui il solo Dio vivente viene onorato.

Queste figure di dèi ricevono i sacrifici di coloro che credono in loro; ma per «sacrifici» non si intendono solo doni esteriori, bensì anche e soprattutto doni intcriori. L'uomo non dona loro solo frutti e animali, ma anche la sua anima, le forze del suo cuore e del suo sangue. Ora queste forze non sono solo eccitazioni che avvengono nell'ambito dell'interiorità, o addirittura semplici contenuti della coscienza, bensì potenze vere. Secondo la concezione moderna, esse rappresentano un elemento solo «soggettivo», seguendo il dogma secondo cui ogni fenomeno psicologico è un processo della coscienza e quest'ultimo solo un dato cosciente. Da qualche tempo ci accorgiamo che la volontà è diversa dal sapere e che il conferimento di una forma, la facoltà di coniare immagini, si distingue dalla volontà. Contemporaneamente diventiamo consapevoli che queste forze dell'anima non sono niente di intcriore ed irreale, di pensato e efficace, bensì potenze reali. Ma anche gli affetti religiosi sono potenze reali, e del genere più forte: l'adorazione, il fervore, il legame con il mistero; il desiderio di essere accolto nella figura qui visibile; l'anelito

442 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

di penetrare attraverso di essa nello spazio del mistero; la volontà di divinizzare se stesso nell'adorazione del dio e di diventare, al servizio del dio, signore dell'esistenza. Queste forze si concentrano nell'immagine degli dèi. Attraverso di esse questa diventa potente. Non solo esprimendo e riconfermando correttamente il modo in cui l'esistenza interpreta qui se stessa, ma in un senso molto più tangibile: le forze spirituali dell'adorazione, della dedizione, della volontà religiosa di servizio, ma allo stesso tempo di potere, si collocano in essa e la ricolmano. Ma in tale modo questa «realtà» rimane pur ancora apparenza. Anzi, poiché il suo senso è contrario, essa è inganno. A questo carattere si riferisce probabilmente la singolare espressione secondo cui gli dèi sono «nullità», ma non «nulla». Gli dèi sono immagini ambigue; figure dell'apparenza e dell'inganno esistenziali nell'estrema conseguenzialità; in quanto tali però sono obiettive e dotate di grande potenza.

Nonostante ciò s'instaura probabilmente la sensazione che questa obiettività non sia ancora sufficientemente sostenuta; che quanto è stato detto non faccia loro superare lo stato di immagini soggettive, ponendo al contrario in luogo della soggettività individuale quella dell'intera umanità. In tal caso non si coglierebbe invero in tutta la sua importanza ciò che è stato detto sulla realtà degli atti spirituali; tuttavia, l'obiezione sarebbe corretta, e una sola risposta porterebbe oltre: il processo che forma dèi serve in ultima analisi al mysterium iniquitatis, che vuole erigere il suo regno contro Dio. Mi rendo conto quale effetto questa interpretazione debba produrre in tutti coloro che avvertono lo splendore e la ricchezza di senso

L'essenza degli dèi 443

delle figure divine. Ma la verità non lascia scelta; inoltre credo che questa interpretazione prenda gli dèi maggiormente sul serio di quanto potrebbe fare una qualsiasi dottrina della cultura o teoria del mito. La serietà che ne assume la responsabilità non è più quella estetica, sapienziale oppure religiosa in senso generale. Scaturisce bensì dalla consapevolezza che qui è in gioco l'onore di Dio e la salvezza dell'uomo.

Ili

E stato detto che gli dèi sono espressione del distacco dal Dio vivente, manifestazioni e allo stesso tempo strumenti della volontà di gettare l'impregnazione numinosa del mondo su quest'ultimo, rendendolo in tal modo non solo definitivamente desiderabile, ma anche definitivamente dominabile. Ma questa volontà è la volontà generale dell'umanità, attiva attraverso il decorso della storia. In particolare, nell'atteggiamento religioso dell'uomo singolo come anche del gruppo minore o dell'ora storica, il loro senso può essere determinato ancora in modo differente. Si tratta di stabilire, in questo caso, se il movimento dell'intenzione individuale conduce al Dio vivente o lontano da Lui. Questo intento può assumerli come autosuggellamento religioso nel mondo, identificandosi in tal modo come la volontà prima da cui sono nati - ma può anche presagire dietro di loro il Dio vivente. Non solo un essere onnicomprensivo indistinto, che continuamente si articola in divinità singole, ma Colui che tutto ha creato e che nei confronti di ogni cosa creata è essenzialmente diverso ed eleva-

444 Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso

to in quanto la signoreggia. Se, a partire da una predisposizione intcriore, all'orecchio si dischiude questo senso, se il cuore, toccato dalla grazia, si risolve a questa concezione, allora gli dèi acquistano un carattere nuovo che per origine non è loro proprio: entrano nell'avvento. Rinunciano alla loro pretesa di autonomia trasformandosi in presagi del Dio vivente, che ricevono poi dalla Parola rivelatrice la loro ultima in-terpretazione. Abbiamo motivo di credere che questa grazia regni dovunque ed in qualsiasi epoca. L'uomo può compiere sì il tentativo titanico ed allo stesso tempo stolto di astrarre la potenza sacra che tutto pervade da Chi la possiede come sua proprietà, tra-endola nel mondo; ma ciò non cambia il fatto che essa rimanga proprietà di Dio e che il mistero del mondo continui a essere ciò che è, ossia il fatto di essere creato da Lui. In ogni momento e dovunque l'uomo può aprirsi a questo fatto. In tal caso rivolge, più o meno consapevolmente, il volto degli dèi che adora al Dio vivente. Questi ricevono di conseguenza un nuovo carattere. Entrano nell'avvento, divenendo parte del contenuto del messaggio attraverso qualche servizio di preparazione, di interpretazione o di dispiegamento. Ma l'uomo può anche chiudersi davanti a quella grazia e identificare la sua volontà personale con la volontà forgiatrice di dèi della creatura distac-catasi da Dio. Allora i numi acquistano definitivamente il senso «pagano». Il loro volto è staccato da Dio e rivolto entro il mondo, ed essi, per così dire, sigillano entro il mondo chi li vuole fatti così. Questo contrasto si rinnova continuamente nel corso della storia. Continuamente viene riproposto l'aut-aut. E esso, la diversa dirczione in cui punta la decisione, la chiarez-

L'essenza degli dèi 445

za maggiore o minore con cui ciò accade, ad essere all'origine del discorso plurisenso sopra gli dèi.

Partendo da queste premesse si potrà forse dire qualcosa anche su Hólderlin stesso. Spero che l'intero libro dia garanzia del rispetto con cui ciò avviene.

Nella misura in cui si prende sul serio questo grande e religioso poeta si impone la questione che cosa intenda per gli dèi di cui parla. Tenendo conto della decisione descritta, bisognerà rispondere che essi stanno ancora in sospeso.

In essi si manifesta quella già menzionata denominazione e strutturazione degli ambiti esistenziali, che ha come oggetto del suo volere il mondo; allo stesso tempo, però, sono toccati e permeati dall'elemento cristiano. Certo ora c'è da chiedersi se questo nuovo carattere cristiano non significhi una nuova presa di possesso; il fenomeno di mondanizzazione a cui sono soggetti i contenuti della Rivelazione si è continuamente ripresentato nel corso di queste analisi e sarà oggetto di uno studio più approfondito nel quinto cerchio. Ma non si può decidere se si tratti davvero e definitivamente di una mondanizzazione del cristianesimo o di una nuova preparazione della via. Ogni giudizio sul rapporto di Hólderlin con il cristianesimo deve rimaner consapevole che il confronto con esso si è interrotto prima di essere deciso. Senza venir meno al rispetto per il segreto dell'animo umano non si può dire se, continuando a vivere e a pensare, avrebbe accolto i suoi dèi definitivamente come suggelli religiosi di un mondo autonomo o invece li avrebbe collocati nell'avvento in modo nuovo.

E qui va posto un problema insito nell'assetto reli-

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gioso più profondo dell'ultima età moderna. La verità del Dio uno e unico è il fondamento non oltre discutibile della fede cristiana, frutto di un superamento spirituale e religioso la cui grandezza comincia a diventarci di nuovo evidente dal momento che quella verità si libera dell'apparenza dell'owietà. Ma il discorso sul Dio uno contiene un significato duplice. Uno si riferisce alla realtà sacra stessa che si dischiude nella parola della Rivelazione, l'altro all'appropriazione di essa da parte dell'uomo. Il primo è puro e inattaccabile, il secondo è sottoposto ad una legge che vale per qualsiasi valore e sia pure il più grande:

che appena entra nel campo di forza della vita umana si manifesta in esso anche il disvalore opposto. La verità in sé del Dio uno è quindi qualcosa di diverso dalla verità, una volta che sia pensata e vissuta dall'uomo. In quest'ultimo caso sorge infatti il pericolo che il rapporto concreto di Dio con le cose, la pienezza delle forme religiose di senso vadano persi. Appena ciò accade, si ripercuote anche sulla concezione di Dio, e l'unità diventa astrazione, l'unicità si trasforma in vacuità.

Che cosa significhi la conoscenza del Dio uno è forse evidenziabile nel modo migliore nella forma di un racconto: l'uomo incontra il mistero che ovunque stende la sua trama, apprendendo come esso si manifesti nelle cose della natura, nelle forme fondamentali della vita umana e negli eventi della storia. Mosso dalla volontà d'autonomia, egli interpreta il mistero onnicomprensivo, nella trama che va tessendo, come fondo sacro del mondo, le manifestazioni particolari come «dèi». Ora avviene la Rivelazione del Dio uno. Essa significa un'illuminazione, ma allo stesso tempo

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un comando: riconoscere, realizzare e diventare consapevoli vivendo che tutto ciò che in qualsiasi tempo e luogo si testimoni religiosamente, è Lui. La proposizione del primo comandamento, secondo cui l'uomo non deve «avere altri dèi all'infuori di Lui» è formulata in modo negativo. Assumendo forma positiva si presenterebbe così: ogni elemento divino, in qualsiasi tempo e luogo diventi percepibile, non sta accanto a Lui, ma rimanda alla ricchezza infinita in Lui. Il compito posto dalla Rivelazione del Dio uno consiste quindi innanzi tutto nel riconfermare continuamente di fronte alle inclinazioni dell'esistenza alla divinizzazione, la fede nel Dio uno, rendendo onore a Lui solo. Ma oltre a ciò si tratta di riconoscere le forme del mistero che ovunque emergono come irradiazioni della sua unicità e di includerle nella sua immagine. Credere nel Dio uno significa quindi conquistare per lui costantemente la ricchezza numinosa del mondo. Ora, nella misura in cui l'unicità di Dio diventa dominante, nasce l'apparenza che essa sia ovvia. Il superamento e la conquista in cui si sostanzia il carattere vero e proprio della Rivelazione sembrano superflui. Quell'organo talmente vivo nell'ambito religioso precristiano ed extracristiano, la sensibilità per il divino onnipresente e per l'eterogeneità delle sue testimonianze, si atrofizza - lo spirito dell'uomo prende possesso della verità rivelata che è un mistero ed un superamento continuamente rinnovato nel mondo. La volontà d'unità propria del pensiero, la volontà d'ordine insita nel sentimento etico, la volontà religiosa di potere si ripercuotono sull'unicità di Dio e inavvertitamente il Dio vivente della Rivelazione è sostituito dal Dio uno del «monoteismo» ... È naturalmente dif-

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ficile stabilire come il processo si sia svolto nei particolari e fino a quel punto si sia spinto poiché queste cose sono molto intricate e occulte. Ma talvolta è abbastanza evidente come quel monótheos rimuova il Dio vivente. Il risultato ne è che non viene in assoluto percepito più religiosamente. La religione diventa allora metafisica o etica o ordinamento giuridico. Questo Dio non ha più il rapporto esperibile con la ricchezza delle cose e degli eventi. Un assoluto astratto sta di contro a un mondo sdivinizzato.

Nella misura in cui ciò accade, la Rivelazione stessa svela un compito particolare da assolvere: quello di scoprire, al cospetto di questa 'monomorfìa' religiosa che conduce alla monotonia, all'indifferenza e all'impotenza, la perduta molteplicità del numinoso ... Ma non per erigere le figure di esso come «dèi» contro il Dio vivente, bensì per creare nuovamente le premesse per la realizzazione di quella proposizione secondo cui non vi sono «altri dèi all'infuori di Lui», e ogni divinità anzi è Lui stesso. La fede nel Dio vivente della Rivelazione si manifesta sempre solo nella forma della «vittoria che supera il mondo» (1 Gv 5, 4). La scoperta di cui parlavamo deve creare la premessa perché questa vittoria, che realizza il senso della Rivelazione, venga ottenuta e Dio sia nuovamente riconosciuto dallo spirito e dal cuore come vivente risposta religiosa a tutte le domande, venga acquisito a partire dalle manifestazioni del mondo come Creatore e Signore immediatamente presente in esse. Allora la concezione di Dio diventa nuovamente così reale da includere la realtà della natura e della storia, trasformandole in opere della sua potenza e in testimonianze della sua gloria.

L'essenza degli dèi 449

È qui che si colloca, nell'ottica cristiana, la questione ultima circa il senso della poesia e dell'esistenza di Hólderlin; è forse stato il suo compito servire questo evento? Annunciare la potenza religiosa e la ricchezza di forma del mondo affinchè diventasse evidente che cosa fosse il Dio Vivente e Uno? Anche questa questione deve rimanere senza risposta dal momento che Hólderlin s'è chiuso nel silenzio prima che la sua lotta religiosa giungesse alla fine. Il fatto che la sua opera si sia interrotta e che da allora rimanga in sospeso costituisce l'enigma religioso della sua opera e della sua figura.

L'UNITÀ DEGLI DÈI

II primo paragrafo di questo cerchio ha tentato di distinguere più precisamente le molteplici figure hól-derliniane della divinità e di precisare il luogo che ciascuna occupa nell'insieme dell'esistenza. In tale processo è già risultato chiaro che esse costituiscono un'unità.

I poli del loro contesto sono dati dall'Etere e dalla Terra. Essi significano la divinità dell'altezza e dell'interiorità, della luce e della tenebra, del dominio e della sopportazione, della signoria e della fecondità, infine, come padre del mondo e grande madre, dell'elemento maschile e femminile nell'esistenza.

Tra di loro, ma ancora vicini agli ambiti dei poli, stanno le divinità del sole e del mare. Apollo e Posi-done. Talvolta sono talmente vicini a quelle potenze estreme da confondersi con loro, ma certo non senza dar loro un impronta particolare.

Nell'ambito medio stesso, nello spazio dell'uomo, vige lo spirito del tempo, il nume del divenire e del perire, della storia. Coesiste con esso e per diversi aspetti gli è simile Dioniso. In quanto «spirito» an-ch'egli gioca tra la figura individuale e il tutto determinandone la relazioni. Ma mentre lo spirito del tempo compie ciò nello spazio della storia, dell'azione e

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dell'opera, Dioniso agisce dalla e nella natura immediata. Tuttavia, essi sono talmente vicini che le loro immagini si compenetrano continuamente.

Poi sono stati nominati numi che in particolar modo portano i tratti del mistero: il «Dio in noi» che si manifesta nel fenomeno della solitudine e della comunità; il «Dio senza nome» che certo significa l'ultimo carattere dell'esistenza; infine il «Dio nuovo», termine con cui ci si riferisce ad una divinità non ancora rivelatasi.

Saturno, infine, è prima di tutti quelli nominati in precedenza. Rappresenta il nume della natura nel suo stato primordiale, beato e unitario, la divinità dell'inizio come anche la divinità dell'attesa, ventura ricapitolazione in unità.

In questo contesto hanno un ruolo particolare gli dèi riferiti alla necessità e distretta: i grandi salvatori, Eracle, Cristo e - ricomparendo a nuovo in questa funzione - Dioniso. Sono correlati al pericolo del primo inizio e del caos, a quello della fine e della notte seguente, infine a quello della figura caratterizzata.

È significativo constatare le divinità che mancano o che sono nominate solo raramente, così per esempio Era, la sposa di Zeus, dea della famiglia e della casa, Artemide, sorella di Apollo o divinità della natura intatta ed estranea, Ermete, il nume degli ambiti di passaggio, dell'ambiguità, dell'inganno ... proprio questa mancanza testimonia l'originarietà dell'esperienza che Hólderlin ha degli dèi. Se li conoscesse solo su di un piano nozionistico, ci sarebbero certamente tutti. Soprattutto non mancherebbero figure che hanno un ruolo così importante nel mondo delle rappresentazioni tradizionali-umanistiche, come Era, e,

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come Afrodite e Atene, non farebbero apparizioni così fugaci.

La selezione deve quindi basarsi su un'esperienza di divinità polimorfa che scaturisce da determinate premesse individuali ed epocali. Così si potrebbe approfondire la questione quali premesse si presentino o quale effetto abbiano in particolare. Ma ciò non può essere fatto in questa sede.

II

I numi di Hólderlin sono figure reali. Ognuna ha un particolare centro di senso, le sue proprietà caratteristiche, l'ambito d'azione che le è ordinato, distinguendosi in tal modo da tutte le altre. A ogni divinità corrisponde un particolare sentimento di pietà religiosa nell'uomo. Quanto siano forti queste differenze lo si evince dal fatto che il veggente vede nascere in loro il pericolo primordiale della lacerazione. Nonostante ciò, gli dèi costituiscono un'unità. Hólderlin la sottolinea continuamente, sentendosi investito del compito di conservarla nonostante tutti gli impulsi alla dissoluzione. Dobbiamo ora indagare in che cosa consista.

Già gli elementi atmosferici della sua poesia, per così dire, rappresentano importanti forze d'unità, soprattutto la commozione religiosa che si eleva continuamente all'esaltazione, alla visione, nonché lo stile linguistico che costantemente raggiunge i toni dell'inno. Così nasce una tonalità che unisce a priori tutte le figure ancor prima che siano note le relazioni che intercorrono fra di loro. Lo stesso effetto è raggiunto

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dall'uso del termine «sacro». Un'analisi più approfondita rileva che esso ricompare continuamente mutando significato in modo infinitamente eterogeneo, attraversando come un elemento la poesia di Hólderlin e stabilendo un'unione nonostante tutte le divisioni.

Un ulteriore momento d'unità è dato da certe forme anonime della divinità che continuamente ricompaiono e che Hólderlin designa con i termini «geni», «forze divine», «forze dell'altezza» e simili. Significano qualcosa che è emanato dalle grandi figure divine, nitidamente spiccante, e che ritorna a loro, il fluire e tessere che si svolge fra loro. Talvolta prendono il posto delle divinità stesse in modo da apparire come preforme fluenti, come materiale primo numinoso, per così dire, da cui possono scaturire dèi. Tutto ciò che agisce nella natura può essere una tale forza geniale, e ci si ricorda del maria dei primitivi che allo stesso modo vige ovunque, determinandosi in ogni cosa. Nella stessa dirczione vanno le figure di passaggio di cui si è fatta menzione già più volte, i semidei. Essi stanno tra la divinità e l'uomo, discendendo dal divino, come Eracle, oppure salendo dall'ambito umano, come, poniamo, Rousseau. Essi stanno anche tra le divinità e le cose, come per esempio un fiume, il Reno. Attraverso di loro, come anche attraverso i geni, viene stabilita una continuità tra le diverse figure dell'esistenza e in tal modo si costituisce un contesto che unisce fra loro anche gli dèi.

L'ipotesi che gli dèi stessi formino, nonostante i precisi contomi della loro figura, un'unità è suggerita da diverse circostanze.

Innanzi tutto dal fatto che un dio può surrogare

L'unità degli dèi 455

l'altro. Tali rapporti appaiono tra l'Etere e Apollo, tra Posidone e la terra, addirittura tra Posidone e il ciclo, come anche tra lo spirito del tempo e Dioniso e tra Dioniso e l'Etere.

A questo contesto per così dire costruttivo ne risponde anche uno nel tempo. È già stato mostrato e verrà approfondito ulteriormente nel quinto cerchio come le diverse divinità siano correlate a tempi diversi, in modo che ognuna consegna, appena ha termine il proprio tempo, il suo lavoro all'altra. In tal modo nascono «campi» d'attribuzione che vengono di volta in volta dominati da una divinità ben precisa, ma che sono uniti dal corso della storia che li attraversa.

Ogni assegnazione viene dal Padre supremo. Ciò costituisce un nuovo contesto: quello della generazione e della missione patema. I diversi dèi sono inseriti nell'unità di un circolo di vita, correlati fra di loro dalla comunanza d'un dominio riferito alla storia.

Un altro contesto diventa evidente là dove i figli non emanano più dal Padre supremo e questo medesimo sta di fronte alla Terra che gli è pari. Tra di loro vi è la tensione etema che continuamente si risolve nell'unità e si dissolve nella lontananza. Di essa, da cui nasce ogni vita, narra il mito del cielo e della terra che trova una continuazione in quello della storia, del fiume e dello spazio come in quello del ritorno di ciò che è stato.

Tutti questo contesti si riferiscono a uno primordiale, che è alla base di essi, e che sarà oggetto del seguente cerchio: la natura.

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NOTE

1. Qui si può ricordare l'Empireo nella Divina Commedia di Dante, che è al tempo stesso spazio cosmico oggettivo, sfera di senso intellettuale e ambito d'interiorità religiosa, anzi mistica e di grazia; vedi R. Guardi-ni, DerEngel in Dantes GSttlicher Komodie, pp. 101 ss.; tr. it. in Studi su Dante, MorceUiana, Brescia 19863, pp. 11-130.

2. II significato di quest'affermazione può essere illustrato da paesaggi di El Greco e di Vincent van Gogh.

3. Il fenomeno del dionisiaco potrebbe essere descritto in modo molto ricco e unitario anche a partire dalle poesie su Empedocle. Queste rappresentano addirittura il dramma dell'uomo dionisiaco, mettendo tuttavia in evidenza che il suo rapporto con l'esistenza e con se stesso è determinato dalla colpa. Perciò la sua fine non è solo puramente culminazione della vita, ma anche espiazione (iv, infra, p. 576).

4. I due ultimi versi sono tradotti qui da G. Vigolo dalla prima versione, quindi qui resi autonomamente (n.d.r.).

5. Si noti che la disarmonica traduzione «l'amata, il sole del ciclo» è condizionata dal fatto che il sole in tedesco è die Sonne, femminile (n.d.r.).

6. Wilhelm Waiblinger (1804-1830), poeta tedesco, autore precoce di una commedia satìrica e di una tragedia, che dalla lettura di Iperione e dalla conoscenza personale con Hólderlin fu spinto a scrivere il romanzo Phaeton (1823); scrisse poi Holderlins Leben, Dichtungund Wahrheit (n.d.r.}.

7. Considerando l'immagine complessiva che l'opera di Hólderlin fornisce della divinità, ci si accorge presto che quanto qui è detto non esaurisce la totalità del fenomeno. Esiste anche l'amore degli stessi dèi, la loro stessa interiorità, il loro cuore. Questo è un altro aspetto della realtà:

l'amore come potenza dell'essere, che sta di fronte allo splendore della sua perfezione. Amando, gli dèi non sono olimpicamente lontani, ma bisognosi di vicinanza e di comunicazione reciproca.

8. Qui il termine «Olimpo» viene usato in un'altra accezione. Esso allude appunto alla sfera di comunione degli dèi con gli uomini, certo a sua volta distìnta dall'esistenza immediata.

9. Il fenomeno conosce una sua rappresentazione significativa nella poesia di Riike. Secondo lui, le cose sono date dapprima sotto la forma dell'essere obiettivo. In quello stato esse sono «visibili». Si trovano cioè -se la nostra interpretazione è corretta - nella prima realtà che massicciamente si impone ai sensi, ma che proprio per questo è chiusa e transitoria. Appena l'uomo le percepisce amando e vivendo, esse giungono nel-l'«invisibile», nello spazio intcriore del cuore e quindi dell'esistenza in quanto tale. Là esse divengono autentiche e imperiture. Vivere l'espressione delle cose, trasportandole cosi nello spazio dell'invisibilità, conferendo loro la forma del cuore che le rende vere non solo più di prima, ma propriamente appena ora - questo è il compito dell'uomo. Nella nona delle Elegie duinesi si legge:

«Celebra all'angelo il mondo, non l'indicibile, a lui davanti

Terzo cerchio - Gli dèi e il riferimento religioso 457

grandeggiare non puoi di superbo sentire; nell'universo,

dove egli penetra con sensi ben più forti di tè,

un novizio tu sei. Mostragli dunque le semplici cose che, come nostre, da

una generazione

vivono all'altra, accanto alle mani e agli occhi.

Digli le cose. S'arresterà stupefatto; come tu t'arrestasti

presso il cordaio di Roma e il vasaio del Nilo.

Mostragli quanto felice può essere una cosa e quanto innocente e nostra,

come perfino il dolore e il lamento si schiudono in pura forma,

e come una cosa servono, o in una cosa muoiono -, e di là

in gioia sfuggono al violino. - E queste cose che nel passare

vivono capiscono che tu le glorifichi; caduche,

esse affidano a noi, i più caduchi di tutti, l'istanza salvifica.

Vogliono che noi intere le muriamo nel cuore invisibile

in oh, all'infinito in noi! Chiunque alla fine noi siamo.

Terra, ciò che vuoi non è questo: risorgere invisibile in noi? - Non è questo il tuo sogno:

essere una volta invisibile? - Terra! Invisibile! Che mai, se non metamorfosi, è il tuo imperativo incalzante?».

«Preise dem Engel die Welt, nicht die unsàgliche, ihm / kannst du nicht groBtun mit herrlich Erfùhitem; im Weltall, / wo er fuhiender fuhit, bist du ein Neuling. Drum zeig / ihm das Einfache, das, von Geschlecht zu Geschlechtern gestaltet, / als ein Unsriges lebt, neben der Hand und im Blick. / Sag ihm die Dinge. Er wird staunender stehn; wie du standest / bei dem Seiler in Rom, oder beim Tópfer am Nil. / Zeig ihm, wie glùc-klich ein Ding sein kann, wie schuidlos und unser, / wie selbst das kla-gende Leid rein zur Gestalt sich entschlieBt, / dient als ein Ding, oder stirbt in ein Ding -, undjenseits / selig der Geige entgeht. - Und diese, von Hingang/ lebenden Dinge verstehn, daB du sie rùhmst; vergànglich, / traun sie ein Rettendes uns, den Vergànglichsten, zu. / Wollen, wir sol-len sie ganz im unsichtbarn Herzen verwandein / in - o, unendiich in uns! wer wir am Ende auch seien // Erde, ist es nicht dies, was du wilist:

unsichtbar / in uns erstehn? - Ist es dein Traum nicht, / einmal unsichtbar zu sein? - Erde! unsichtbar! / Was, wenn Verwandiung nicht, ist dein drangender Auftrag? (Atisgew. Werke, i, pp. 74-75; tr. it cit, pp. 414,417,422). Lo spazio dell'interiorità ha per Riike un particolare significato ontologico. Di per sé l'esistenza è data dai due ambiti dell'aldilà e dell'aldiqua, dell'ultraterreno e del terreno; entrambi sono tuttavia ambiti del mondo e corrispondono alle zone hólderliniane della semplice terra e dell'Olimpo a noi sottratto.

Là sono gli uomini, qui i morti. Lo spazio dell'interiorità non coincide con nessuno di questi ambiti e non costituisce nemmeno uno strato più profondo di essi, ma rappresenta una modalità dell'essere che supera la distinzione di aldiqua e aldilà, l'essere in quanto tale. Vedi a proposito la lettera di Riike a Witold von Hulewicz:

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«Ciò che importa è non solo di non denigrare e di non abbassare tutto ciò che esiste qui, ma precisamente, per amore della loro fugacità che partecipano con noi, tutù questi fenomeni e queste cose devono essere concepiti in un intelletto più intcriore e là trasformati. Trasformati? Sì, giacché il compito nostro è di imprimere in noi questa terra provvisoria e caduca in modo cosi profondo, cosi sofferto e appassionato, che il suo essere risorga in noi 'invisibile'. Noi siamo le api dell'invisibile». E ancora:

«Le cose animate, le cose vissute che sanno insieme con noi, sono in declino e non possono più essere sostituite. Noi siamo forse gli ultimi che hanno ancora conosciuto simili cose. Su di noi sta la responsabilità di conservare non soltanto la loro memoria (questo sarebbe poco e malsicuro), ma il loro valore umano e larico ('larico' nel senso delle divinità della casa, i Lari). La terra non possiede altra via d'uscita che quella di divenire invisibile: in noi che partecipiamo con una parte del nostro essere all'invisibile, siamo azionisti (almeno) dello spirito e possiamo accrescere la nostra proprietà d'invisibile durante il nostro essere qui, in noi soltanto può adempiersi questa intima e permanente trasfigurazione del visibile nell'invisibile, non più dipendente da ciò che si vede e si afferra, come anche il nostro proprio destino diviene in noi di continuo insieme più presente e invisibile" {Briefe aus Muzot, p. 334; cfr. tr. it. Lettere da Mvnoi, Vallecchi, Firenze 1947).

Ecco cosa intende Hólderlin quando afferma che il dio inizialmente olimpico avverte se stesso nel cuore dell'uòmo - detto diversamente: che l'uomo è unito con il dio, altrimenti a lui sottratto, nell'interiorità del suo animo religioso. In esso vi è l'essere in quanto tale, che solo adesso è mondo, «natura».

10. W.F. Otto lia chiaramente fatto emergere il fenomeno nel suo libro Die Getter Griechenlands, Bonn 1929 (tr. it. Gli dèi della Grecia, Nuova Italia, Firenze 19682).

11. Johann Jakob Wilhelm Heinse (1746-1803), poeta e romanziere tedesco, preromantico, autore di Sinngedichte (1771), di una vita del Tasso, di romanzi (Ardinghello, 1787, e Hildegard von Hohenlhol, 1795, di argomento legato in parte all'Italia - n.d.r.).

12. Vedi in proposito il significativo «vegliare» nel racconto sugli avvenimenti nel Getsemani in Mt 26, 37-41.

13. Il titolo hólderliniano della poesia è Mnemosine, ripreso da G. Vi-golo (n.d.t.).

14. Queste riflessioni dovrebbero trovare il supporto di studi più approfonditi. La coscienza medievale si distingueva da quella moderna, fra l'altro per il suo modo di sentire la realtà. Per l'età moderna è reale, in senso stretto, solo il dato materiale; il dato intellettuale e spirituale è contenuto di coscienza e in quanto tale irreale. Per l'uomo di allora, invece, era l'anima a essere reale più del corpo, e lo spirito più delle forze naturali. All'interno del reale, in genere, distìngueva gradi di realtà, determinandoli a parure dal conferimento di senso derivante dall'intenzione intcriore. La dottrina agostiniana della realtà che attraversa tutto il medioevo ne è

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l'espressione più chiara (vedi in proposito R. Guardini, Die Bekehrung dts Heiligen Aurelius Auguslinus Mùnchen 19502, pp. 132 ss; tr. it La conversione di Sant'Agostino, Broscia 1957, pp. 128 s). Il medioevo era anche consapevole della realtà delle immagini e dei simboli. Non rappresentavano, come in età moderna, segni estetici o sociologico-convenzionali per ciò che è inteso soggettivamente ma figure piene di potenza. La più intensa di esse era il sacramento, seguita da tutta una serie di immagini liturgi-che: riti, arredi, costruzioni ecc. Ad essi si opponevano simboli illegittimi, immagini di una potenza ribelle, malvagia. Qui si troverebbero le premesse d'esperienza vissuta e le possibilità di concezione e di pensiero per discutere della natura degli dèi. Senza di essi è molto difficile parlare validamente degli dèi, sia a favore che contro di loro. Il fenomeno minaccia continuamente di scivolare nello storico e nell'estetico-simbolico o, ultimamente, nello psicologico. Ma gli strumenti intellettuali necessari alla trattazione di esso, concetti, criteri di differenziazione ecc., sono disponibili solo in misura del tutto insufficiente. Le riserve fatte all'inizio di questo paragrafo devono quindi essere nuovamente sottolineate d'ora in poi con la maggior forza.

ROMANO GUARDINI

HÓLDERLIN Immagine del mondo e religiosità

Postfazione di Giuseppe Beschin

Volume secondo

MORCELLIANA

Titolo originale dell'opera:

Holderlin. Weltbild und Fromnigkeit

© Kósel Verlag - Mùnchen 19803 © Tutti i diritti d'autore sono della

Katholische Akademie in Bayern

Traduzione del testo di Guardini di Ludwig Tieck Revisione di Giulio Colombi

© 1995 Editrice Morcelliana Via Gabriele Rosa 71 - 25121 Brescia

In copertina:

Caspar David Friedrich, Viandante sul mare di nebbia (Hamburg, Kunsthalle)

Prima edizione: novembre 1995

ISBN 88-372-1584-3

Tipolitografia La Nuova Cartografica S.p.A. - Brescia 1995

Quarto cerchio La natura

NOTA INTRODUTTIVA

Parlare della natura significa parlare di tutto ciò che è importante per Hólderlin. Essa per lui non significa solo il contesto della realtà empirica indagabile scientificamente o l'insieme delle cose e degli eventi abbracciato con il sentimento o con l'intuizione, bensì qualcosa di divino, anzi qualcosa oltre ogni realtà divina.

La rappresentazione che Hólderlin si fa della natura non muta, ma si trasforma nel suo modo di apparire, acquistando una profondità sempre maggiore. La nostra analisi segue questo mutamento dviVIperione alle poesie tarde, passando per i drammi dedicati ad Empedocle.

IPERIONE

L'OPERA E IL SUO CONTENUTO

II romanzo epistolare è costituito da sessantadue lettere, distribuite in misura disuguale in due volumi, che a loro volta si articolano ciascuno in due libri. La maggior parte, quarantadue, sono indirizzate da Ipe-rione, un giovane greco dell'isola di Tino1, al suo amico Bellarmino che è italiano o almeno vive in Italia. Inserite fra loro o riprodottevi, si trovano tredici lettere di Iperione alla sua amica Diotima e quattro di quest'ulama indirizzate a lui; infine un resoconto da parte di un amico della famiglia di Diotima sulla sua morte.

Un istinto giusto ha fatto scegliere a Hólderlin questa forma letteraria. Il racconto continuato, soprattutto quando si anima, non fa per lui. La forma epistolare, invece, gli permette di scomporre l'intera vicenda nella descrizione di situazioni e stati d'animo. Il fatto che un simile procedimento renda solo in parte ragione ad un contesto d'azione, da certo adito a critiche legittime.

466 Quarto cerchio - La natura

Iperione ritoma nella sua patria greca da un viaggio in Germania - ritroviamo la già analizzata tensione Occidente-Oriente - e racconta ora delle esperienze fatte nel periodo precedente. Ha passato la sua gioventù a contatto con la natura e nella scuola di un insigne maestro, di nome Adamas. Questi gli ha insegnato a comprendere l'unità tra natura e storia antica, e la storia eroica della sua patria. Successivamente lascia il suo allievo; ha appreso che «nella profondità dell'Asia» vive un popolo fuori dal comune, e spera di poter realizzare là le proprie idee. La ricchezza della gioventù spinge ora Iperione lontano. Suo padre lo manda a Smirne, ed impara a conoscere l'Asia Minore, la sede delle antiche colonie greche. Quando comincia a stancarsi di apprendere, sognare e fare progetti incontra Alabanda, un giovane magnanimo, e tra loro nasce un'amicizia appassionata che da luogo a «progetti colossali» di azioni future.

A poco a poco egli si accorge che il suo amico è in disaccordo con se stesso e apprende che Alabanda fa parte di una confraternita segreta, i cui mèmbri non hanno un livello morale molto alto. Profondamente deluso, lo lascia ... Il secondo libro inizia in modo più ottimistico. Con la primavera si dissolve lo scoraggia-mento profondo in cui ha vissuto dopo la separazione dal suo amico. Seguendo un invito, va sull'isola di Calàuria2, si aggira lungamente per il paesaggio immerso nella luce primaverile ed incontra infine una ragazza la cui madre vive colà sui suoi possedimenti, Diotima. Essa diventa per Iperione l'incarnazione di tutto ciò che significano natura ed esistenza greco-antica. Frequentandola, il suo essere inquieto si calma e riconosce il suo compito di formare lo spirito e il

L'opera e il suo contenuto 467

cuore del proprio popolo, preparandolo in tal modo alla liberazione dal dominio straniero. Un viaggio intrapreso con Diotima alle rovine di Atene comporta insieme all'esperienza del passato immenso anche il culmine della loro comunione. Così termina il secondo libro e con esso il primo volume.

Il presagio della sventura che s'avvicina introduce il secondo volume. Nella «traboccante vita eroica» di Iperione giunge infatti una lettera di Alabanda che gli comunica la dichiarazione di guerra della Russia alla Turchia, proclamando che è scoccata l'ora per liberare la patria. Diotima mette l'amico in guardia. Gli rinfaccia di volersi gettare in un'avventura invece di compiere un lavoro silenzioso. Ma poiché egli persiste nella sua intenzione, lo lascia andare. Iperione sa che anche suo padre sarebbe contrario all'impresa e la tenta senza informarlo. Mentre per lui tutta l'esperienza vissuta si proietta all'estemo, per Diotima essa si volge alla dimensione delle profondità. Nella sua solitudine vive l'intera vicenda con una partecipazione talmente forte da far presagire una crisi. Le lettere di Iperione parlano dapprima di successi. Poi le sue azioni diventano precipitose. Durante l'assedio di Misistra3, assiste a un saccheggio accompagnato da un inutile spargimento di sangue. Il suo entusiasmo crolla. L'impresa gli sembra disprezzabile; rinuncia a se stesso e prega Diotima di lasciarlo. Il padre lo ha già abbandonato dopo aver appreso dell'impresa precipitosa. Così egli si sente completamente solo ... L'inizio dell'ultimo libro racconta una battaglia navale nello stretto tra Chio e la costa dell'Asia Minore. Iperione spera di morire, ma viene solo ferito. Quando riprende coscienza, dopo essere stato a lungo svenu-

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to, anche la pressione intema si allenta. Vivendo con Alabanda, sente rinascere le forze e riconosce che la sua lettera a Diotima è stata precipitosa. In questa situazione lo raggiunge la risposta di lei, scritta sotto l'impressione di quella lettera. Ciò che per lui rappresenta solo un frammento di un movimento di vita che contìnua è stato interiorizzato da lei secondo la sua natura e preso per definitivo. Ella ha veramente rinunciato a lui, perdendo in tal modo però anche il contatto con la vita e gli dice ora addio. Iperione spera di poterla riconquistare con una nuova lettera. Non vede che è accaduto qualcosa di irrevocabile. Ancora un'altra separazione gli viene imposta. Alabanda gli comunica che deve partire. Per via delle guerre di liberazione sarebbe venuto meno agli obblighi che si era assunto nei confronti di quella confraternita segreta. Ciò significherà la sua morte. Inoltre gli fa capire di amare anch'egli Diotima e di temere per la pace degli amici nel caso della sua permanenza. Iperione parte per Calàuria e sosta in prossimità dell'isola. In quest'ora, la cui gravita inferiore è espressa dal «canto del destino», giunge una lettera di Diotima che gli svela l'irrevocabilità dell'accaduto. Il poscritto di un amico gli comunica la sua morte. Il crollo di tutte le possibilità di vita risospinge Iperione lontano. Viaggia verso la Germania, trovandovi la controparte della sventura che tiene in schiavitù il suo stesso paese: qui servitù e ottusità, là illuminismo, utilitarismo e presunzione. Ma infine, dopo un lungo periodo di scoraggiamento, si desta un futuro nuovo e durante un «mezzogiorno bellissimo» di primavera sperimenta il ritomo di Diotima. Ritrova il contatto con la vita e si prepara ad un nuovo inizio. Qui cessa la trama.

L'opera e il suo contenuto 469 II

II veloce riassunto ha già lasciato intravedere la trama della vicenda intcriore che attraversa il romanzo, i cui punti focali sono dati dai due amanti; e per quanto il carattere epico dell'opera nel suo complesso possa essere inadeguato, il modo in cui le sue figure si sviluppano nel loro mutuo rapporto è molto bello.

La vicenda è vista in retrospettiva; così subentra silenzio, e traspare il senso. Alla fine del racconto Ipe-rione ha concluso la sua gioventù. È diventato un uomo e si prepara a iniziare da capo. La dismisura del suo essere ha trovato limite e forma; è stato raggiunto un nuovo punto fermo oltre la gioventù. Ciò è dimostrato dalle osservazioni disseminate nelle lettere a Bellarmino e soprattutto dall'esperienza visionaria alla fine.

Iperione cresce nella chiarezza e nella ricchezza di forme della sua patria greca. La sua infanzia è legata all'espressione più amena di quest'ultima, l'isola nel mare, quell'ambiente il cui mito è raccontato dalla poesia L'uomo. La seconda lettera parla della beata unità fra il bambino che cresce e la natura che lo circonda. Infatti, per Hólderlin, in ogni bambino si ripete la situazione del primo uomo che vive ancora nell'unità di tutto con tutto (II, supra, p. 160). Retrospettivamente, il narratore esprime in parole ciò che allora era inesprimibile:

O felice natura! Non mi so render conto di dò che avviene in me quando levo lo sguardo verso la tua bellezza, ma tutto il gaudio del delo è nelle lacrime che io verso per tè, come l'amante per la sua amata. Tutto il mio essere ammutolisce e sta in ascolto quando le

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delicate onde del vento giocano intomo al mio petto. Perduto nell'ampio azzurro del cielo, levo spesso lo sguardo su verso l'etere e giù verso il mare sacro, e mi sembra che uno spirito fraterno mi apra le braccia e che il dolore della solitudine si sdolga nella vita della divinità. Essere uno con il tutto, questo è il vivere degli dèi; questo è il delo dell'uomo.

Essere uno con tutto rio che vive e ritornare, in una felice dimenticanza di se stessi, nel tutto della natura, questo è il culmino dei pensieri e della gioia, è la sacra cima del monte, è il luogo dell'eterna quiete, dove il meriggio perde la sua afa, il tuono la sua voce e il mare che freme e spumeggia assomiglia all'onde di un campo di grano (il, p. 91; tr. it. cit., p. 29).

Nelle diverse ore decisive della vita di Iperione:

l'incontro con Adamas, con Diotima e il momento del ritorno di quest'ultima, l'esperienza dell'unità nella natura si ripresenta ... In questa unità e ricchezza è cresciuto il bambino:

Sì, un essere divino è il fanciullo sino a che non si mimetizza nei camaleontici colori degli uomini. Egli è totalmente quello che è, per questo è tanto bello. La costrizione della legge e del destino non lo ha ancora toccato; nel fanciullo non è che libertà. In lui è pace; egli non è ancora entrato in conflitto con se stesso. Ricchezza è in lui; egli conosce il suo cuore, non conosce l'indigenza della vita. Egli è immortale, perché nulla sa della morte (il, p. 93; tr. it. cit., p. 31).

Anche Dio viene implicato in quest'unità:

E quando spesso giacevo sotto i fiori e riflettevo alla luce delicata della primavera, e guardavo in alto nell'azzurro sereno, che avvolgeva la calda terra, quando, sotto gli olmi e i salici, sedevo nel grembo del monte, dopo una pioggia ri-

L'opera e il suo contenuto 471

storatrice, quando i rami tremavano ancora sotto la carezza del cielo e, al di sopra del bosco gocciolante, passavano nubi dorate, o quando la stella della sera, spirando pace, si levava all'orizzonte, con gli antichi adolescenti, gli altri eroi del delo, e io osservavo come la vita si svolgesse in essi secondo un naturale, spontaneo, etemo ordine attraverso l'etere, e la calma del mondo mi circondava e mi allietava, così che osservavo e ascoltavo senza rendermi conto di quanto accadeva in me - «mi ami, buon Padre celeste», domandavo sommessamente, e sentivo, nel mio cuore, la sua risposta così sicura e beatificante.

O tu, che io invocavo come se tu abitassi oltre le stelle, tu, che io chiamavo creatore del delo e della terra, amico idolo della mia fandullezza, non ti adirerai se ti ho dimenticato! - Perché il mondo non è abbastanza misero, da indura a cercare ancora Uno al di fuori d'esso? (il, pp. 94-95; tr. it. dt., p. 32).

Ma ben presto inizia la separazione:

Bello è anche il tempo del risveglio, pur che non ci desd prima del tempo.

Oh, sacri sono i giorni nei quali il nostro cuore prova per la prima volta le ali, quando noi, colmi della rapidità e fo-cosità della cresdta, stiamo in mezzo al mondo magnifico, simili a una giovane pianta che si apre al sole del mattino e tende le piccole bracda verso il cielo infinito (il, p. 94; tr. it. dt., p. 31).

In questo stato agitato in cui si eleva l'infinito e si profila il pericolo della lacerazione, compare la figura del maestro, Adamas. Essa costituisce un abbozzo preliminare della figura di Empedocle. Adamas è più piccolo di statura e privo delle possibilità sovrumane del siciliano avvolto dall'aura del mito. In compenso, però, è diventato saggio e capace di esercitare un influsso perdurante:

472 Quarto cerchici - La natura

Ero cresciuto simile a una vite senza sostegno, e i tralci selvatici si allargavano al suolo senza una dirczione. Tu sai come più di una nobile energia vada da noi in rovina, perché non viene utilizzata. Andavo errando, come un fuoco fatuo, mi aggrappavo a tutto e a mia volta ogni cosa mi si attaccava anche soltanto per quel momento e le mie maldestre energie si spossavano inutilmente. Sentivo ovunque che qualcosa mi mancava, e, tuttavia, non potevo raggiungere la mia mèta. Così egli mi trovò.

Per lungo tempo aveva esercitato pazienza e arte intorno alla sua materia, il così detto mondo colto, ma la sua materia era pietra e legno e tale era rimasta, prendeva tutt'al più esteriormente la nobile forma umana, ma dò non bastava al mio Adamas; egli voleva uomini e, per crearli, aveva ritenuto troppo povera la sua arte. Un tempo erano vissuti gli uomini che egli cercava, per creare i quali la sua arte era troppo povera; egli lo riconosceva chiaramente. E sapeva anche dove erano vissuti. Colà voleva andare e cercare, sotto le macerie, il loro genio e accorciare, in tal modo, le sue solitàrie giornate. E arrivò in Grecia. Così lo incontrai (il, p. 97; tr. it. dt., p. 34).

Egli dischiude al ragazzo la ricchezza della natura:

Poco tempo dopo, il mio Adamas mi introdusse nel mondo degli eroi di Plutarco e, quindi, nella terra incantata degli dèi gred, poi diede ordine al mio giovanile impulso e lo placò con il senso del numero e della misura; a volte, di giorno, saliva con me sui monti per contemplare i fiori della brughiera, del bosco e i selvaggi muschi della rupe e, di notte, al di sopra di noi, le stelle sacre, e comprenderle secondo l'umana misura.

Uno squisito senso di benessere è in noi quando così il nostro inumo si rafforza al contatto del suo oggetto, se ne distingue e ad esso si congiunge con maggior fiduda e il nostro spirito gradualmente si arma (II, pp. 9&-99; tr. it. dt., p. 35).

L'opera e il suo contenuto 473

Allo stesso modo gli fa conoscere la grandezza del passato:

Ma io sentii lui assai fortemente e me stesso, quando noi, simili ai Mani dei tempi antichi, con orgoglio e con gioia, con ira e con lacrime, navigavamo su verso l'Athos e, di là, verso l'Ellesponto e poi, oltre ancora, lungo le rive di Rodi e le gole del Tenaro4, fra tutte le isole serene, quando, poi, la nostalgia ci spingeva al di là delle rive, entro il fosco cuore dell'antico Ellesponto, alle solitàrie rive dell'Eurota - ah! le morte valli di Elide e di Nemea e di Olimpia, quando noi, appoggiati a una colonna del tempio del dimenticato Giove, circondati da allori, da rose, da sempreverdi, guardavamo giù verso il selvaggio letto del fiume, e la vitalità della primavera e il sole eternamente giovane d rammentavano che, un tempo, anche l'uomo aveva abitato colà, e che ora ne è scomparso, che ora la splendida natura dell'uomo vi è ancora a stento presente, simile al frammento di un tempio o, nella memoria, all'immagine di un morto (II, p. 99; tr. it. cit., pp. 35-36).

Adamas indica al ragazzo l'obiettivo più alto. Contemplando sul Cinto l'aurora:

Sii come questi, mi gridò Adamas; mi afferrò la mano e la sollevò verso il dio e a me sembrava che le brezze del mattino d trasdnassero via con sé e d conducessero entro il corteo dell'essere sacro, che stava salendo verso la sommità del delo, amico e grande, colmando in modo meraviglioso, con la sua forza e con il suo spirito, il mondo e noi (II, p. 101; tr. it. dt., p. 37).

Ora il giovane è interamente pervaso dalla forza della sua aspirazione entusiastica:

O felice natura, come animoso balzò il giovane fuori dalla tua culla! Come si rallegrava nella sua armatura non prima

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saggiata! Il suo arco era teso e i suoi dardi tintinnavano nella faretra e gli immortali, gli airi spiriti dell'antichità lo guidavano, e il suo Adamas era in mezzo a loro. Ovunque andassi o sostassi, quelle magnifiche immagini mi accompagnavano; simili a fiamme, gli eventi di tutti i tempi si fondevano nella mia mente e come si congiungono in un solo trionfante temporale le forme gigantesche, le nubi del delo, così si riunivano in me le cento e cento vittorie delle Olimpiadi e divenivano una sola infinita vittoria (il, p. 104; tr. it. dt., p. 39).

L'impeto interiore e le immagini della natura che da fuori rispondono e l'incalzare della storia passata sospingono al largo:

Chi resiste a tutto dò, e chi non viene schiantato dalla terribile magnificenza dell'antichità, così come un uragano schianta le giovani foreste, quando esso le afferra come ha afferrato me e quando, come a me, anche a lui manca l'elemento ove poter attingere una fortificante cosdenza di sé? Oh, a me, a me piegò il capo la grandezza degli antichi, essa mi strappò il fiore dal volto e sovente giacqui io là dove occhio alcuno non mi scorgeva, effondendomi in lacrime, simile a un abete abbattuto, che giace presso il torrente e cela nelle onde la sua chioma appassita ... Quanto volentieri avrei pagato con il mio sangue un solo attimo della vita di un grande uomo!

Ma quale vantaggio ne ricavavo? Nessuno mi voleva! (il, p. 104; tr. it. dt., p. 39).

Il mondo protettore dell'isola diventa troppo angusto; così i genitori di Iperione lo mandano a girare il mondo:

«Anzitutto, recati a Smirne», disse mio padre, «impara là le arti del mare e della guerra, impara la lingua dei popoli colti e le loro costituzioni, le loro opinioni, i loro costumi

L'opera e il suo contenuto 475

e usi, esamina tutto e scegli quanto vi è di meglio. Poi, per quanto sta in me, potrai andare altrove». «Impara anche un po' di pazienza!», aggiunse mia madre, e io accolsi con gratitudine queste parole (il, p. 106; tr. it. cit., p. 40).

Adesso appare un altro paesaggio caro a Hólder-lin: le cime delle montagne e gli altopiani liberi dell'Asia Minore. Iperione conosce la vastità del mondo, e l'energia che intcriormente lo incalza viene liberata. Impara a conoscere anche gli uomini. Dapprima lo affascina la novità delle figure, poi il suo animo impaziente trova inciampo nella loro imperfezione. Si trova in questo stato quando incontra Alabanda, circonfuso da tutto il fulgore dell'efebo eroico:

Lo splendido straniero si aggirava, simile a un giovane titano, in mezzo a quella folla di nani, la quale si pasceva, con Umida gioia, della bellezza di lui, ne misurava la statura e la forza e godeva, contemplandolo con uno sguardo furavo, l'aspetto di quell'ardente testa romana abbronzata, come un frutto proibito, ed era, ogni volta, stupendo l'istante in cui l'occhio di quest'uomo, per lo sguardo del quale il libero etere sembrava troppo angusto, vagava ricercando con distaccato orgoglio finché non si ritrovava nel mio occhio e noi arrossendo seguivamo l'un l'altro con gli sguardi e passavamo oltre (il, p. 112; tr. it. cit., p. 45).

Imparano a conoscersi da vicino, e fra loro nasce un'amicizia appassionata:

Le nostre anime dovettero accostarsi l'un l'altra con tanto maggiore impeto in quanto, contro la loro volontà, erano rimaste reciprocamente chiuse. Ci incontravamo così come confluiscono l'uno nell'altro due torrenti che, rimbalzando giù dal monte, allontanano da sé il fango, i sassi, il legno putrido e tutto il greve caos che li trattiene per

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aprirsi il corso dell'uno verso l'altro e straripare fin là dove, congiungendosi e fondendosi, uniti in una sola maestosa corrente, si avviano verso l'ampio mare.

Egli, cacciato dalla propria casa qua e là fra stranieri, dal destino e dalla barbarie degli uomini, sin dalla prima giovinezza amareggiato e inselvatichito, e, tuttavia, con il cuore pieno d'amore e del desiderio di spezzare la sua inuma ruvida scorza per entrare in un accogliente elemento, io già nel mio inumo separato da ogni cosa, io, con tutta la mia anima estraneo e solo fra gli uomini, così beffardamente accompagnato nelle più care melodie del mio cuore dallo strepito di sonagli del mondo, io, l'antipatia di tutti i ciechi e di tutd gli storpi e, tuttavia, troppo storpio e troppo cieco, tanto cordialmente molesto a me stesso in tutto quello che mi rende anche da lungi affine ai prudenti, ai sofisti, ai barbari e agli spiritosi vacui - e così pieno di speranza, così pieno di un'unica attesa di una vita più bella (il, pp. 114-115; tr. it. cit., pp. 47-48).

In entrambi arde l'amore per la patria ridotta in schiavitù. Durante lunghi viaggi si scambiano ricordi e progetti. L'atmosfera diventa esaltata. Così cresce una tensione intcriore che esplode quando incontrano amici di Alabanda, mèmbri di una società politica segreta che, senza scrupoli, tenta di realizzare i propri obiettivi. Alabanda ha qualcosa di ambiguo. Simile di carattere, in fondo, a Iperione, è però cresciuto senza guida e si è legato al luogo sbagliato. Così si trova in una situazione complicata, dall'idealismo impaziente di Iperione si salva con l'ironia e la beffa, provocando la catastrofe:

Allora anche la mia indignazione si scatenò pienamente in me, ne ci concedemmo sosta sino a che un ritorno non fu quasi più possibile. Devastammo con violenza il giardino del nostro amore.

L'opera e il suo contenuto 477

Sostavamo sovente e tacevamo, e d saremmo buttati le braccia al collo così volentieri e con gioia infinita, ma l'infausto orgoglio soffocava .ogni parola d'amore che saliva su dal cuore (il, p. 129; tr. it. dt., pp. 57-58).

Iperione è un uomo privo di equilibrio, smisurato nei suoi sentimenti e nelle sue decisioni; necessiterebbe perciò di un influsso che lo disciplinasse e fortificasse. Ma Alabanda stesso è lacerato, e non fa che rafforzare lo stato d'animo dell'amico. Non può dare il sano realismo che unicamente aiuterebbe Iperione;

il suo è mera contraffazione. Così l'ampliamento dell'animo fallisce. Lo spirito ricade in sé e cerca asilo nella patria abbandonata:

Esaminai con maggior calma il mio destino, la mia fede nel mondo, le mie sconsolate esperienze, considerai l'uomo così come, sin dalla prima giovinezza, l'avevo sentito e conosduto nella varietà della sua educazione, trovai ovun-que dissonanze ottuse o stridenti e trovai ancora melodie pure solamente nella semplice infantile limitatezza. È meglio, mi dissi, diventare un'ape e costruirsi con innocenza la propria casa che dominare insieme con i signori del mondo e, simile ai lupi, ululare con loro, piuttosto che dominare sui popoli e lordarsi le mani a una materia impura. Volevo tornare a Tino e vivere per i miei giardini e i miei campi.

Non sorridere! Ci pensavo molto seriamente. Se la vita del mondo consiste nell'altemarsi dello schiudersi e del chiudersi, nell'usdre di sé e nel ritornare in sé, perché non può accadere la medesima cosa al cuore dell'uomo? (il, p. 130; tr. it dt., p. 58).

Segue un periodo di «lunga, malata tristezza»:

Vivevo a Tino molto tranquillo e con pochissime pretese. Lasdavo pure realmente che le apparenze del mondo mi

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passassero innanzi proprio come nebbie in autunno e, a volte, ridevo anche, con occhi umidi, del mio cuore, quando si levava a volo verso di esse per spilluzzicare come fa l'uccello con l'uva dipinta: e me ne rimanevo calmo e sereno.

Lasciavo volentieri a ognuno la sua opinione, la sua mala-grazia. Mi ero convcrtito, e non volevo più convenire nessuno; mi addolorava soltanto il vedere che gli uomini credevano che io lasdassi senza biasimo le loro buffonerie perché le stimassi molto, così come essi facevano. Non volevo affatto sottomettermi alla loro stupidità, tuttavia, là dove potevo, le usavo riguardo. Questa invero è la loro gioia, pensavo; di ciò vivono essi!

Qualche volta mi compiacevo addirittura di accomunarmi a comportamenti come i loro e, quando ero insieme a loro, così indifferente, senza un mio impulso proprio, nessuno lo notava, nessuno ne sentiva la mancanza e, se io avessi detto loro di scusarmene, sarebbero rimasti là immobili, si sarebbero stupiti e avrebbero domandato: Che cosa ci hai dunque fatto? Gli indulgenti! (il, pp. 133-134; tr. it. dt., p.61).

Ma poi si ridesta la forza della tensione intcriore:

Ma niente è più bello di quando, dopo una così lunga morte, nuovamente albeggia in lui; e il dolore, come un fratello, va incontro alla gioia che traluce di lontano. Oh, era un celeste presagio quello con il quale ora salutai la primavera che stava ritornando! Come quando ogni cosa dorme e da lontano pervengono, nell'aria silenziosa, gli accordi della cetra dell'amata, così le sue sommesse melodie avvolgevano delle loro note il mio petto, come se giungessero dall'Elisio, presentivo il loro avvento quando i morti rami si muovevano e un alito soave sfiorava la mia guancia. Amabile cielo della Jonia! mai mi sono sentito così avvinto a tè, ma il mio cuore non era neppur mai stato così simile a tè, come allora nei suoi giochi sereni e delicati. Chi non sente nostalgia delle gioie dell'amore e di grandi gesta, quando la primavera ritoma nell'occhio del delo e nel grembo della terra?

L'opera e il suo contenuto 479

Mi alzai in silenzio, dolcemente e lentamente, come un malato dal suo letto, ma il petto mi trepidava così felice di misteriose speranze, che dimenticai di domandare che cosa ciò significasse (II, p. 137; tr. it. dt., pp. 63-64).

Dalla prima lettera del secondo libro traspare un'atmosfera mutata nel narratore stesso. Egli si trova a Salamina vivendo con la natura e i vecchi narratori della grande storia. Questa presenza è la comice entro cui viene descritto il risveglio di un tempo. Un conoscente, Notara, aveva invitato Iperione sull'isola di Calàuria. La lettera che parla del viaggio è una autentica poesia:

E gli uomini usavano fuori dalle loro porte e sentivano in modo meraviglioso come il soffio spirituale agitasse legger-mente i delicati capelli sulle fronti e rinfrescasse il raggio di luce, ed essi sdoglievano lied le vestì per accoglierlo nel petto; respiravano più dolcemente, sfioravano più delicatamente il mare chiaro, leggero, allettante, nel quale vivevano e si muovevano.

Oh, sorella di quello spirito che domina e vive in noi con potente ardore, aura sacra! come è bello l'essere accompagnato da tè ovunque diriga i miei passi, onnipresente, immortale!

L'alto elemento giocava con i bambini nel modo più bello. Uno bisbigliava tranquillamente fra sé e sé, a un altro sgorgava dal labbro una canzone senza ritmo, a un altro un canto di giubilo a piena gola; uno se ne stava sdraiato, l'altro saltava in alto, un altro si aggirava assorto nei suoi pensieri.

E tutto questo era l'espressione di un solo benessere ed una sola risposta alle carezze delle aure ammalianti. Ero tutto pervaso da un indescrivibile desiderio e da un senso di pace. Una forza a me ignota mi dominava. Spiritò amico, dicevo tra me, verso dove mi chiami? verso l'Elisio o verso dove? (il, pp. 147-148; tr. it. dt., p. 71).

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Tutte le possibilità per un rinnovamento ci sono. Improvvisamente incontra Diotima:

[...] così levasti tu lo sguardo e ti alzasti in piedi e stavi così là, in snella formosità, divinamente calma e il celeste volto ancora raggiante di quella serena estasi nella quale d turbai! Oh, colui che ha fissato la tranquillità di quello sguardo, colui per il quale si sono aperte quelle dola labbra, di che cosa ancora può parlare? (Il, p. 148; tr. it. dt., p. 72).

E ancora:

L'ho veduta una volta, l'unica, realtà che la mia anima cercava e la perfezione che noi collochiamo lontano al di sopra delle stelle, che noi proiettiamo fino alla fine del tempo, questa perfezione l'ho sentita presente. Era là, questo essere supremo, là in questa sfera della umana natura e delle cose esistenti (il, p. 150; tr. it. cit., p. 73).

Questa è la prima decisiva impressione: la vita tranquillamente raccolta, la quiete intcriore, il carattere della perfezione e il diventar presente dell'intemporale.

Il tempo dell'irruzione sfrenata e della corrispondente depressione è seguito da un nuovo inizio. Tutte le forze si destano e si concentrano. Ciò che nell'adolescente ha provocato il maestro, nel giovane lo provoca la donna amata. La sua forza più grande è la quiete intcriore che si radica nell'interiorità del cuore e si manifesta in una figura limpida. Ella è diversa dal silenzio ottuso dello spazio illimitato (II, p. 214); diversa anche dalla quiete di Adamas che con l'autodisciplina si è liberato dal caos della gioventù. La quiete di Diotima è fin dall'inizio una qualità dell'essere, una perfezione donatale per somma grazia. In lei si

L'opera e il suo contenuto 481

manifesta qualcosa che sta al di sopra dell'uomo: il

mistero del Tutto sacro.

Ella è l'entusiasta silenziosa' (II, p. 176). L'esistenza di Diotima ha due poli. Uno è situato

nella natura:

II suo cuore era di casa fra i fiori, come se ella fosse un fiore. Li chiamava tutti per nome, per amore ne creava, per essi, dei nuovi e più belli; e conosceva con predsione, di ognuno, la stagione più lieta.

Come una sorella, quando, da ogni angolo, le viene incontro uno dei suoi cari e ognuno desidererebbe essere salutato per il primo, così la silenziosa creatura, quando camminavamo sul prato o nel bosco, era occupata con l'occhio e con la mano, felicemente distratta. E ciò non era affatto cosa studiata o frutto di imitazione, bensì cresciuta con lei (II, p. 155; tr. it. dt., p. 77).

Allo stesso tempo, tuttavia, vive anche nell'ambito ristretto dell'esistenza domestica riempiendola tutta. Della sua casa si dice:

Ah! tutto era consacrato, abbellito dalla sua presenza. Ovunque volgessi lo sguardo, tutto dò che io sfioravo, il suo tappeto, il suo cusdno, il suo tavolino, tutto era segretamente in unione con lei (il, p. 152; tr. it. dt., pp. 74-75).

In mezzo sta, limpidamente presente, la sua figura. Il suo potere è l'interiorità, l'unità dell'esistenza nella forza amorosa del cuore.

La natura di Diotima è quindi l'esatto opposto del continuo alternarsi in Iperione di riflessione autodi-struttrice ed ebbrezza d'azione esteriore, in tal modo ella aiuta l'amico a concentrarsi e a calmarsi:

Non ho conosduto nessuno così privo di bisogni, così divinamente contento di sé.

482 Quarto cerchio - La natura

Come le onde dell'oceano, le rive delle sue isole felid, così il mio inquieto cuore avvolgeva con le sue onde la calma della celestiale fanciulla.

Nulla avevo da darle se non un'anima piena di selvaggi contrasti, piena di sanguinosi ricordi, nulla avevo da darle se non il mio amore sconfinato con i suoi mille affanni, le sue mille tumultuanti speranze; ma ella stava innanzi a me nella sua immutabile bellezza, spontanea, in una sorridente perfezione e ogni aspirazione, ogni sogno della mia mortale esperienza, ah! tutto dò che, dalle più alte regioni, il genio può presagire nelle dorate ore del mattino era tutto colmo nella serenità di questa unica anima (II, p. 158; tr. it. dt., pp. 79-80).

Ella lo capisce interamente:

Quando ella, che tutto sapeva in modo meraviglioso, scopriva a me stesso, quando si manifestavano, e ancor prima che io lo notassi, ogni accordo e ogni dissonanza nel profondo del mio essere, quando notava ogni ombra di una leggera nuvola sulla mia fronte, ogni ombra di malinconia, di fierezza sul mio labbro, ogni scindila a me nell'occhio, quando ella auscultava la bassa e l'alta marea del mio cuore e, con preoccupazione, intuiva le ore torbide, quando il mio spirito troppo intemperante e troppo prodigo di sé si consumava in discorsi prolissi, quando l'amata creatura, più fedelmente di uno specchio, denundava ogni mutare della mia guanda e, sovente, con affettuosa solledtudine, mi ammoniva e mi puniva per la mia irrequietezza, come se fossi stato un caro bambino [...] (il, pp. 162-163; tr. it. dt, p. 83).

Egli può dire:

Sotto l'impulso di Diotima, già da lungo tempo si era stabilito, nella mia anima, un maggiore equilibrio; oggi lo sentivo tré volte più puro, e le energie disperse ed esaltate erano radunate tutte in un solo aureo mezzo (il, p. 183; tr. it. dt., p. 97).

L'opera e il suo contenuto 483

Vicino a lei, riconosce il suo compito. Assolverlo significherebbe superare la smisuratezza del suo essere a partire dall'autentico 'mezzo' - anzi in assoluto suscitare questo 'mezzo':

«Nell'officina, nelle case, nelle riunioni, nei templi, ovun-que, muti tutto.

Ma io devo ancora andarmene per imparare. Sono un artista, ma la mia mano è ancora inesperta. Nel mio spirito so creare forme, ma non so ancora guidare, in ciò, la mia mano».

«Tu andrai in Italia», disse Diodma, «in Germania, in Francia. Quanti anni d sono necessari a dò? tré, quattro, pensò che tré possano bastare; tu non sei lento nel tuo agire e cerchi soltanto quanto vi è di più grande e di più bello». «E poi»?

«Tu sarai l'educatore del nostro popolo, diventerai un grande uomo; lo spero» (il, p. 199; tr. it. dt., p. 109).

Ma a cospetto dell'amico si sviluppa anche la personalità di Diodma:

Dove è l'essere che, come il mio, l'abbia riconosduta? In quale specchio confluivano, come in me, i raggi di questa luce? Non si spaventò ella stessa gioiosamente innanzi alla propria splendida grandezza, quando ella acquistò coscienza di sé nella mia gioia? (II, p. 161; tr. it. dt., p. 82).

L'ultima lettera di lei narra come si è destata grazie a lui:

Ti trovai così come sei. La prima curiosità della vita mi sospinse verso il tuo essere meraviglioso. La tua delicata anima mi attirò in modo indidbile e, nella mia ingenua, infantile mancanza di paura, giocai intorno alla tua pericolosa fiamma (il, p. 250; tr. it. dt., p. 149).

484 Quarto cerchio - La natura

Ella partecipa alla sua grandezza in cui spera:

E quando ti abbraccerò così, allora sognerò di essere una parte dell'uomo magnifico, come se tu mi avessi donato la metà della tua immortalità, come Polluce a Castore5, oh, sarò un'orgogliosa fanciulla, Iperione! (il, p. 199; tr. it. dt., p. 109).

La loro comune esperienza culmina in un viaggio alle rovine di Atene (II, pp. 182 ss.). Là il sentimento del passato si fa altrettanto grande come l'esigenza posta dal futuro. I colloqui citati sopra sul compito di Iperione si sono svolti in quelle ore. Durante quel tempo diventa anche consapevole dell'unità ultima, di cui Hólderlin sa:

Sacra natura! Tu sei sempre eguale in me e fuori di me. Non deve essere cosi difficile congiungere dò che è fuori di me, con il divino che è in me. All'ape riesce di costruire il suo piccolo regno, perché non dovrei io poter piantare e costruire dò che è necessario?

Che? L'arabo mercante seminò il suo Corano e ne crebbe, per lui, un popolo di seguaci, simile a un bosco sconfinato, e non dovrebbe essere ferule il campo dove la verità antica ritoma in giovinezza di nuova vitalità? (II, pp. 198-199; tr. it. dt., p. 109).

Con questo culmino finisce il primo volume. All'inizio del secondo l'unità si rompe. Nell'amore di Iperione e di Diotima vi è fin dall'inizio qualcosa di tragico che scaturisce dalla dismisura del giovane, ma anche dalla «perfezione» di Diotima. Il suo essere possiede una tale purezza della sostanza e una tale profondità del sentire da determinarla ad un destino assoluto. È la nobiltà a cui si riferisce Nietzsche quando dice che per l'uomo nobile, che sta al limite del

L'opera e il suo contenuto 485

trapasso, i valori alti provocano la fine. Ciò che di distruttivo contiene l'essere di Iperione, per lei diventa mortale. Per la sua natura si tratta dell'assolutezza dell'affetto, come in un bambino completamente assorbito dall'ora: con essa spariscono anche gli affetti e ne subentrano di nuovi. Diotima ama Iperione, e accoglie perciò le esperienze di lui all'interno della sua esistenza molto più nobile.

Ma nella quiete di quest'ultima, tutto assume un peso completamente diverso. Dalla sfera della fantasia passa a quella della serietà. Ciò che per Iperione significa solo un'esperienza vissuta passeggera, che proprio grazie alla sua veemenza sortisce un enétto liberatore, diventa per lei il destino. Iperione dimentica, la sua vita contìnua lasciando il vissuto dietro di sé. Diotima non può dimenticare. Ella invece deve sopportare tutto fino in fondo e ciò conduce alla fine.

Nell'ora in cui l'amore dei due prorompe e pienamente divampa, si desta anche la consapevolezza della dismisura ed il presagio della sventura:

Ella si staccò da me. Tutto il mio essere si infiammò in me, quando disparve alla mia vista, in tutta la sua luminosa bellezza. «O tu», gridai e mi precipitai dietro di lei ed effusi con infiniti bad la mia anima nella sua mano. «Dio!» esclamò ella, «che avverrà in futuro di tutto dò!» (il, p. 178; tr. it. dt., p. 94).

II presentimento ritorna:

Mi pareva come se improvvisamente e in modo inspiegabile il destino avesse giurato morte al nostro amore, e ogni vita in me e fuori di me era spenta (il, p. 180; tr. it. dt., p. 95).

486 Quarto cerchio - La natura

Onde foriere della disgrazia ventura, illuminate dalle espressioni di lutto e pentimento fatte dal narratore in retrospettiva.

L'evento lacerante viene da fuori, attraverso la lettera di Alabanda che desta in Iperione tutto il suo desiderio di grandezza, ma anche quanto v'è in lui di smisurato e selvaggio, accompagnati da quella debolezza che spesso si cela dietro la passionalità. Contemporaneamente si fa sentire la gelosia nei confronti dell'amico:

II volto mi bruciava per la vergogna, il cuore mi ribolliva come una sorgente di acqua calda, e non potevo star fermo in luogo alcuno. Mi addolorava l'essere stato scavalcato da Alabanda, superato per sempre (II, p. 206; tr. it. dt., p.115).

La gelosia si riferisce in primo luogo alla grandezza e alla gloria, inconsciamente però anche a Didima. Semplicemente per il fatto di esserci, i due giovani devono combattere per la ragazza. Alla fine Alabanda lo dirà infatti in tutta sincerità. Diotima avverte ciò che di errato v'è nell'atteggiamento di Iperione. Ella sa che gli è assegnato il lavoro tranquillo e che solo attraverso di esso può maturare. Adesso, egli si sottrae alla destinazione, richiamando su di sé così la fatalità. Ella lo avverte, «calma e grave»:

«Anche se ciò è giusto», disse ella, «tu non sei nato per

questo» [...]

«Ciò altro non è che vana presuntuosità», replicò Diotima,

«poco tempo fa eri più modesto quando dicevi che dovevi

ancora andartene per imparare» [...]

«Conquisterai», esclamò Diotima, «e dimenticherai a quale

scopo? E se tutto andrà bene, quando avrai ottenuto con

L'opera e il suo contenuto 487

la violenza un libero Stato, dirai a quale scopo lo hai costruito? Ah! tutta la nobile vita che si doveva muovere in esso andrà sciupata anche in tè stesso! La lotta selvaggia ti frantumerà, o nobile anima, tu invecchierai, o beato spirito, e alla fine, stanco di vivere, domanderai: dove siete, ora, ideali della giovinezza?» (il, pp. 207-208; tr. it. dt., pp. 11&-117).

Ma poi cede, e il colloquio si chiude tragicamente:

Piangeva amaramente e io stavo, come un criminale, dinanzi a lei. «Perdonami, divina fanciulla!» esclamai sprofondando dinanzi a lei, «io devo! Non scelgo, non rifletto. Una forza agisce in me e io non so se sono ancora io stesso a spingermi verso questa decisione». «Tutta la tua anima tè lo comanda», rispose ella. «Non obbedirle conduce sovente a rovina, ma anche obbedirle, forse. La cosa migliore è che tu vada, perché è dedsione più grande. Agisci tu; io sopporterò» (il, pp. 208-209; tr. it. dt. pp. 117-118).

Così, la disgrazia getta fin dall'inizio la sua ombra sull'impresa i cui sviluppi costituiscono solo il primo passo. All'inizio tutto si precipita in avanti con audacia. Iperione vive con Alabanda nella stessa intimità entusiasta come ai tempi di Smime e parla all'amica della ricchezza delle orgogliose esperienze che sta vivendo. Le lettere di Diotima, invece, rievocano continuamente l'ordine a cui egli dovrebbe propriamente appartenere. Mettono in luce la dismisura che lo sospinge, senza tuttavia poterla arrestare. In lei tutto è come dovrebbe essere in Iperione, ed ella traduce ciò che fa e vive nella schietta serietà del suo essere:

Ho ricevuto, mio Iperione, le lettere che mi hai scritte durante i tuoi spostamenti. Tu mi afferri potentemente con

488 Quarto cerchio - La natura

quanto mi scrivi e, chiusa entro il mio amore, sovente rabbrividisco a vedere mutato in questo essere gagliardo il giovane mite che ha pianto ai miei piedi. Non disimparerai l'amore?

Prosegui tuttavia per il tuo cammino! Io ti seguo. Credo che, anche se tu mi potessi odiare, se pure in dò addirittura io provassi il tuo stesso sentimento, mi darebbe pena l'odiarti, e così le nostre anime rimarrebbero uguali, e dò non è, o Iperione, una parola vanamente esagerata (II, pp. 232-233; tr. it. dt., pp. 135-136).

Ella spera, sostenuta da una forza che egli stesso non ha:

Addio! Porta a fondo l'opera tua, così come il tuo spirito ti comanda e non far durare troppo la guerra, per amore della pace, o Iperione per amore di quella nuova, bella, aurea pace, per la quale, come tu dicevi, si scriveranno un giorno nel nostro codice le leggi della natura, dove la vita stessa, dove essa, la divina natura che non può venir scritta in nessun libro, sarà nel cuore della comunità. Addio! (il, p.233; tr.it.dt.,p. 136).

Tanto più bruscamente irrompe la catastrofe. Iperione la sente arrivare ed è debole abbastanza da attribuirne la responsabilità, seppur con sommessa espressione, a Diotima:

O mia Diotima! tu avresti dovuto placarmi, avresti dovuto dirmi di non avere troppa fretta, e di estorcere man mano la vittoria al destino, come agli avari debitori. O fandulla, restare inattivi è la cosa di tutte più diffidle. Mi si secca il sangue nelle vene, tale è la mia sete di andare avanti, e devo rimanere qui in ozio, devo continuare in questo assedio, un assedio in cui un giorno è uguale all'altro. La nostra gente vuoi andare all'assalto, ma dò riscalderebbe fino all'ebbrezza gli animi già ecdtati e guai alle nostre speran-

L'opera e il suo contenuto 489

ze se fermenta quanto v'è di selvaggio e infrange la disciplina e l'amore (il, p. 234; tr. it. dt., pp. 136-137).

Ma poi si legge:

Tutto è finito, Diodma! La nostra gente si è data al saccheggio, hanno assassinato senza distinzione, sono stati uc-dsi anche i nostri fratelli, gli abitanti gred di Mistrà; gli innocenti ora errano intorno senza protezione alcuna e i loro volti disperati, cadaverid, invocano dalla terra e dal delo vendetta contro i barbari, alla guida dei quali io mi trovavo.

Ora posso andar per il mondo e predicare la mia buona causa. Oh! ora tutti i cuori volano verso di me! Ma sono stato anche assennato. Ho conosduta la mia gente. In realtà era proprio uno straordinario progetto quello di fondare il mio Elisio con una banda di briganti. No! per la sacra Nemesi! me lo meritavo! e lo voglio sopportare, sopportare voglio sino a che il dolore frantumi in me anche l'ultimo barlume di cosdenza (il, pp. 234-235; tr. it. dt., p. 137).

La delusione, ingigantita dall'orgoglio e dalla vanità, si impossessa, in modo altrettanto esclusivo quanto prima la fiducia, di tutto l'essere di Iperione. Gli manca la riflessività che nel pathos del momento prende in considerazione anche gli aspetti ulteriori della questione, orientando il comportamento in rapporto all'insieme. Così, invece, egli è consegnato al particolare staccato:

Ignoro quello che ora accadrà. Il destino mi predpita nell'incertezza, e l'ho meritato; da tè mi bandisce la mia propria vergogna, e chi sa per quanto? (n, p. 236; tr. it. dt., p. 138).

La passione penetra sempre più nel profondo,

490 Quarto cerchio - La natura

spinge a tutte le conseguenze, e rapisce via con sé anche l'ultimo strato, il rapporto con Diotima:

Ho esitato, ho combattuto con me stesso. Alla fine però deve essere così.

Vedo ciò che è necessario e, siccome lo vedo, deve anche essere. Non fraintendermi! non condannarmi! devo consigliarti di lasciarmi, mia Diotima.

Per tè, o dolce creatura, io non sono più nulla. Questo cuore è inaridito, per tè, e i miei occhi non vedono più le cose viventi. Oh, le mie labbra sono disseccate; il dolce palpito dell'amore non mi sgorga più nel petto. Un solo giorno mi ha depredato di tutta la mia giovinezza;

sulle rive dell'Eurota la mia vita s'è spossata lacrimando, ahimè, di quell'Eurota che in una irredimibile vergogna si lamenta scorrendo, con tutte le sue onde, lungo le rovine di Lacedemone. Là mi ha mietuto il destino. Devo io possedere il tuo amore come un'elemosina? Non sono proprio nulla, inglorioso come il più povero dei servi. Sono messo al bando, maledetto come volgare ribelle, e più di un Greco, in Morea, racconterà un giorno ai suoi pronipoti le nostre gesta eroiche, come si racconta una storia di ladri. Ah! una cosa ti ho a lungo taciuto. Mio padre mi ha solennemente cacciato, mi ha bandito, senza possibilità di ritorno, dalla casa della mia giovinezza, non mi vuole più vedere, ne in questa, ne nell'altra vita, come egli dice. Tale è la risposta alla lettera nella quale gli avevo scritto della mia intrapresa (il, pp. 237-238; tr. it. cit., pp. 139-140).

Così termina il primo libro. "!

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L'inizio del secondo racconta come Iperione si j getta nella battaglia navale di Chio: |

E ora, pieno di bruciante tristezza, dato che nulla di meglio sapevo, se non farmi uccidere in quella mischia di barbari, mi buttai, con irate lacrime negli occhi, là dove la morte era certa per me (il, p. 244; tr. it. cit., pp. 144-145).

L'opera e il suo contenuto 491

Egli ha cercato la morte, ma è colpito solo da una grave ferita. Anche in questo si esprime una mancanza di serietà intcriore. La morte diventa una espressione retorica. Iperione è un egoista. L'inganno della sua natura fa uso della dismisura per sottrarsi alle conseguenze delle sue stesse azioni. La sensazione di aver commesso un'ingiustizia è tanto forte da perdere il contatto con la realtà, diventando fantastica. Ma proprio in tal modo il suo nucleo intimo sfugge alla fine. Il «movimento catastrofico» ha rotto gli argini -ma verso l'estemo. È nato un vortice gigantesco che ha travolto tutto quanto era scaturito dagli eventi precedenti. Iperione stesso, tuttavia, ritoma a galla, pronto per nuove esperienze. Le conseguenze vere sono sopportate da chi veramente lo ama più di se stessa. Ciò che egli vive in modo fantastico e quindi, in ultima analisi, senza subire danni, è causa reale di sofferenza per lei, dal momento che offre all'esperienza vissuta una sostanza pura, incapace di elusio-ne. Ella gli scrive:

Chiunque, come tè, sia stato offeso in tutta la sua anima, quegli non si appaga più in una sola gioia ... (il, p. 250; tr. it. dt., p. 149).

In verità, egli è ben lungi dall'essere «offeso in tutta la sua anima», incapace com'è di una tale serietà ... Certamente si potrebbero a questo punto muovere critiche anche a Diotima, osservando che, se il suo amore non coglie quello che di inautentico vi è in lui, esso si rivela cieco e quindi egualmente egoista. In tal modo, entrambi sarebbero rinchiusi nella loro cecità, e ciò costituirebbe il loro destino.

Dopo la catastrofe e un lungo tempo passato privo

492 Quarto cerchio - La natura

di sensi - uno stato che rappresenta la controimmagi-ne ludica alla morte cercata da Iperione certo nella fantasia, ma non in realtà - rinviene, recuperando presto le sue forze grazie alle cure di Alabanda:

Era un bei giorno d'autunno quello in cui, a metà guarito dalla mia ferita, mi affacciai di nuovo, per la prima volta, alla finestra. Ritornavo alla vita con sensi più tranquilli e la mia anima si era fatta più attenta. Il delo mi alitava in volto con il suo più delicato incanto, e i luminosi raggi del sole fluivano dolcemente su di me, come una pioggia di fiori. Regnava in questa stagione dell'anno uno spirito grande, placido, soave, e la calma del compimento, il gaudio della maturazione fra i rami sussurranti mi avvolgeva come la l'innovellata giovinezza così come la speravano gli antichi nel loro Elisio ... (il, p. 246; tr. it. dt., pp. 146-147).

Iperione riconosce ciò che ha significato la sua lettera a Diotima e, spaventandosi, la smentisce con una nuova. Sopraggiunge invece la risposta dell'amica mostrandogli che cosa nacque dalla sua esperienza quando la gettò in lei. Per Iperione il destino consiste nell'irrevocabilità delle conseguenze esterne. L'agire stesso, in ultima analisi, non possiede una struttura essenziale e può quindi essere sempre in qualche modo riportato nell'ordine. Per Diotima, la stessa esperienza vissuta ha carattere fatale, poiché si svolge nella sfera della serietà. Ella ha un destino intcriore che è irrevocabile anche quando le conseguenze esteme potessero essere attenuate. La lettera che parla della decisione di Iperione di partire per la guerra dice:

Da quel momento Diotima apparve mutata in modo stupefacente. Avevo notato, con gioia, che da quando durava il nostro

L'opera e il suo contenuto 493

amore, la sua vita riservata era come sbocciata in sguardi e tenere espressioni e che la sua calma geniale mi era, sovente, venuta incontro con splendido entusiasmo.

Ma un'anima nobile ci diventa estranea quando essa, dopo il suo primo sbocciare, dopo il mattino del suo primo tratto di vita, deve salire su verso il culmino del meriggio. Non si riconosceva quasi più la felice fandulla, tanto sublime e dolente era ella diventata...

Nei suoi occhi era una fiamma, levatasi su dal fondo del suo cuore oppresso. Troppa angustia stringeva il suo seno di fronte alla piena dei desideri e dei dolori e per questo i pensieri della fanciulla erano così splendidi e audaci. Dominava in lei una nuova grandezza, una visibile forza sovrana su tutto dò che le era dato di sentire. Era un essere superiore. Non apparteneva più ai mortali (II, p. 209; tr. it. dt.,p.ll8).

Tutto il suo destino si svela nella sua penultima lettera:

Le gioie belle del nostro amore d ammansirono, o cattivo, ma solamente per renderti più selvaggio. Esse placarono, confortarono anche me, mi facevano dimenticare che tu, in fondo, eri inconsolabile e che anch'io non era lontana dal diventarlo da quando avevo gettato lo sguardo nel tuo cuore che amavo.

In Atene, fra le rovine dell'Olimpieo6, questo pensiero mi assalì nuovamente. In un'ora più serena, avevo anche pensato che la malinconia di questo giovane non fosse poi così seria e così inesorabile. Accade tanto raramente che un uomo, già dal suo primo passo verso la vita, intuisca, così d'un tratto, così nel menomo punto, così rapidamente, così profondamente il destino del suo tempo e che questa intuizione si radichi in lui in modo incancellabile, perché egli non è abbastanza rude per gettarla via da sé, ne abbastanza debole per allontanarla col pianto; dò, mio caro, è così raro che d sembra quasi innaturale (il, pp. 250-251; tr. it. dt., pp. 149-150).

494 Quarto cerchio - La natura

Ma vi era speranza:

Colui al quale il destino parla così chiaramente, quegli an-cor più chiaramente può parlare con il destino, mi dissi;

quanto più insondabilmente soffre, tanto più insondabilmente è potente. Da tè, da tè soltanto speravo in ogni guarigione. Ti vidi partire. Ti vidi agire. Oh, quale trasformazione! Fondato da tè, rinverdì il bosco di Academo sui discepoli attenti ad ascoltare e il platano dell'Ilisso udì nuovamente, come un tempo, sacri colloqui (II, p. 251; tr. it. cit., p. 150).

Ma poi venne la catastrofe:

Silenzio, silenzio! Fu il mio sogno più bello, il primo e l'ultimo. Tu sei troppo orgoglioso per occuparti più a lungo di questa trista razza. E lo fai con ragione. Tu li guidasti vincitori alla loro antica Lacedemone e questi mostri la saccheggiarono, e maledetto sei tu da tuo padre, o grande figlio! e nessun luogo selvaggio, nessuna caverna è sicuro asilo a tè su questa terra greca che hai venerato come un santuario e hai amato più di quanto non amasti me (II, p. 253; tr. it. cit., p. 151).

Ora tutto divenne destino:

O mio Iperione! da quando io so tutto questo, non sono più la mite fanciulla di allora. L'indignazione mi spinge via di qua, così che posso appena ancora guardare la terra e il mio cuore offeso trema in me senza posa.

Noi ci vogliamo separare. Hai ragione. Non voglio nemmeno avere figli per non concederli a questo mondo di schiavi, e le povere piante mi appassirebbero in questa aridità davanti agli occhi.

Addio, tu, caro giovane! recati colà dove tu credi valga far dono della tua anima. Il mondo avrà forse un campo di battaglia, un'ara dove tu potrai liberarti di se stesso. Sarebbe peccato se tutte le energie valide svanissero via come

L'opera e il suo contenuto 495

un sogno. Tuttavia, qualunque debba essere la tua fine, tu ritorni ai tuoi dèi, ritorni nella sacra, libera, giovane vita della natura, dalla quale sei usato; e questo è il tuo desiderio e anche il mio (u, p. 253; tr. it. cit., pp. 151-152).

Qui riecheggia il tema di Empedocle: così sarebbe dovuto essere, se Iperione fosse stato colui per il quale lo ha preso Diotima. In verità è lei a patire il destino di Empedocle. L'ultima lettera ne illustra il compimento:

Cominciò dopo la tua partenza e ancora nei giorni della separazione. Una forza nello spirito, innanzi alla quale atterrii, una vita dentro di me, innanzi alla quale la vita della terra impallidiva e svaniva come una lampada notturna alla luce dell'aurora.

Devo dirlo? avrei voluto recarmi a Delfo ed edificare un tempio al dio dell'entusiasmo, là sotto le rupi dell'antico Parnaso e, novella Pizia, infiammare con oracoli divini i popoli pigri, e la mia anima sa che la parola della vergine avrebbe aperto gli occhi e spianato le cupe fronti a tutti quegli abbandonati da Dio, tanto potente era lo spirito della vita in me! Ma le mie membra mortali si fecero sempre più stanche e un'angosciante gravezza mi trasdnò giù, inesorabile. Oh! sovente, sotto il mio tranquillo pergolato, ho pianto le rose della giovinezza, e solamente il pianto arrossava le guance della tua fanciulla (n, p. 271; tr. it. cit., pp. 163-164).

Ma il messaggio più profondo è racchiuso nei seguenti passi:

Excoti quanto è accaduto alla tua fanciulla, Iperione. Non domandare: come? non cercare di spiegare questa morte! Chi pensa di indagare a fondo su questo destino, quegli maledice infine se stesso e ogni cosa; eppure non ne ha colpa anima alcuna.

496 Quarto cerchio - La natura

Devo dire che mi ha ucciso il dolore che provavo per tè? Oh no, no, questo dolore era per me benvenuto, dava figura e grazia alla morte che portavo in me; potevo dirmi allora: tu muori in onore di colui che ami.

Oppure la mia anima, in tutte le esaltazioni del nostro amore, è diventata troppo matura e non può più trattenermi, come un giovane baldanzoso, in una patria modesta! Parla! Fu l'esuberanza del mio cuore a separarmi dalla vita terrena? o la natura in me, per mezzo tuo, o magnifico, è diventata troppo superba per assoggettarsi a una più lunga dimora su questa stella mediocre? Ma tu le hai insegnato a volare, perché non insegni anche alla mia anima come ritornare da tè? Se hai acceso la fiamma eterea, perché non me l'hai preservata? ...

Ti voglio dire francamente dò che credo. Il tuo fuoco viveva in me, il tuo spirito era passato in me, ma ciò mi avrebbe difficilmente nociuto, e solamente il tuo destino ha reso mortale a me la mia nuova vita. La mia anima, per mezzo tuo, si era fatta potente, e, per opera tua, sarebbe nuovamente tornata alla quiete. Tu strappasti la mia vita alla terra, tu avresti chiusa la mia anima come in un cerchio magico, nella stretta delle tue braccia, ah! uno solo degli sguardi del tuo cuore, uno dei tuoi discorsi d'amore mi avrebbe trasformata di nuovo in una lieta, sana bambina. Ma, siccome un tuo proprio destino ti ha spinto nella solitudine spirituale, come un diluvio sulla cima del monte, oh, soltanto quando fui fermamente convinta che la bufera della battaglia avesse demolito il tuo carcere e che il mio Iperione fosse volato via verso l'antica libertà, allora soltanto tutto si decise per me, e presto sarà tutto finito (il, pp. 272 ss.; tr. it. di., pp. 164-165).

GLI UOMINI E LA NATURA

Nel racconto di questi destini trapela dappertutto la natura. Essa si dispiega in ricche descrizioni di paesaggio. Vi è il mare; non quello aperto, straniero, ma quello vicino all'uomo, l'Arcipelago, con le sue «isole amene», soprattutto Tino e Calàuria. Vi è l'Asia Minore con i suoi vasti spazi; visti soprattutto nella prospettiva prediletta di Hólderlin: come veduta dall'altezza della montagna sui vasti piani.

Vi è l'Attica con le rovine di Atene, teatro delle più possenti memorie storiche e personali, e il Pelo-ponneso con i suoi boschi e città come campo di lotta ... Ciò si manifesta nelle differenti stagioni dell'anno, in modo particolarmente bello nella primavera colma di speranze, nelle differenti ore del giorno fra cui sono particolarmente significativi il primo mattino con la luce che sorge, il pomeriggio con la sua trasfigurazione e la notte con il suo mistero.

La trama si svolge in questi paesaggi. Nasce nella solitudine dell'isola natia di Iperione, Tino. Questa diventa troppo stretta per l'adolescente che, spinto dal suo impulso verso l'infinità, cerca la vastità dello spazio dell'Asia Minore. Là avviene l'incontro fatidico con Alabanda, la prima grande ascesa, ma anche la prima caduta. Così Iperione ritorna in patria che gli

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fa da rifugio finché, recuperate le sue forze, approda all'isola di Calàuria. Le isole costituiscono per Hól-derlin un mistero particolare. Hanno qualcosa che ricorda l'inizio, la culla. In modo più immediato che non altre forme di paesaggio, esse scaturiscono dalla profondità della natura. Infatti, l'ode L'uomo fa nascere quest'ultimo sull'«isola più bella». A Calàuria, Ipe-rione vive l'incontro con l'amore. Là diventa più intrinsecamente consapevole della ricchezza propria alla Grecia e riconosce il proprio compito. Là si compie la seconda, decisiva catastrofe. Iperione ritorna a Calàuria, condotto dalla speranza di pervenire di nuovo colà nella profondità del rinnovamento. Ma, ancora prima di mettere piede sull'isola, apprende la notizia della morte di Diotima. Nuovamente il movimento lo sospinge fuori, ora al Nord, in Germania. Questa Germania appare dapprima come espressione dell'assenza di un luogo, d'una patria. Ma successivamente diventa il polo opposto vivente rispetto all'origine, perché colà, in un giorno di primavera, ritoma Diotima.

La trama si svolge in rapporto alla natura; l'immagine della natura a sua volta segue il decorso della trama. Essa costituisce il punto di partenza del movimento, compare nei momenti culminanti e promette alla fine un nuovo inizio.

Lo spazio del romanzo contiene quelle tensioni di cui si è parlato nel primo capitolo di questo lavoro. Soprattutto quella tra la Grecia e l'Asia, resa consapevole dal viaggio di Adamas presso il popolo straniero, e dal viaggio di Iperione a Smirne. La Grecia e l'Asia entrano insieme in rapporto con l'Italia, dal momento che le lettere sono indirizzate a Bellarmino.

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La Grecia, l'Asia e l'Italia, dal canto loro, formano un'unità e si rapportano alla Germania. Infatti, il terzo viaggio conduce Iperione al Nord. Ed è proprio qui che si preannuncia il superamento del problema esistenziale di Iperione poiché in Germania Diotima, ('«ateniese», viene restituita all'amico.

In tutto ciò si dispiega l'altra tensione: quella fra natura e cultura. Essa costituisce lo sfondo metafisico per il destino degli uomini rappresentati dal romanzo. Il loro destino è determinato dal modo in cui questi crescono nella natura, se ne discostano o rimangono uniti ad essa, dal modo in cui costruiscono la loro opera a partire dalla natura oppure ne abbandonano gli ordinamenti. Ma la misura di ogni giudizio è quell'unità di natura e cultura rappresentata in modo eternamente esemplare dall'antica Grecia, incarnatasi storicamente nella città di Atene e umanamente in Diotima. Nella sua ultima lettera, ella scrive:

Tu, o vivente, diventasti, per i Gred, un magnifico modello e tutto dò che era in loro di umano, infiammato dall'e-temamente giovane felidtà degli dèi, si trasformò in una festa, come un tempo: e la luce di Elio, più bella di una musica di guerra, guidava i giovani eroi (il, pp. 252-253; tr. it. dt., p. 151).

II

Attraverso gli uomini del romanzo, la natura viene interpretata. Vi è soprattutto Adamas, l'uomo maturo, il saggio, il maestro, il divino. Conosce la natura, la serve riverente e fedele e come messo sacerdotale di essa tenta di condurvi il giovane ... Egli sta alla de-

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stra di Iperione. Alla sinistra è Alabanda che, attraverso un amore non illuminato, torna a sconvolgere l'unità fondata da Adamas e trascina l'amico nella sua caduta ... Ma è attraverso Iperione stesso che la natura vive quel destino che, secondo la filosofia della storia di Hólderlin, può vivere solo nell'uomo. Spinto dall'irrequietezza dello spirito, il giovane si distacca ;

da essa. Nell'unità ed intimità di essa, egli porta il dolore metafìsico della separazione, ed è Diotima a do- ! ver patire questo dolore. Muore a causa della lacera- ' zione che produce la dismisura dello spirito nella sua brama, ed in lei muore la natura stessa. Ma ella muore espiando. Così, a Iperione è concesso quel nuovo inizio precluso, per esempio, a Empedocle. t

Per parlare correttamente di Diotima, bisogna innanzitutto precisare che ella non è la personificazione di un'idea, ma una persona reale. Dapprima predomina l'impressione che la sua figura si risolva in idealità pura; scrutando più profondamente, ci si imbatte in una realtà umana, quantunque di rara configurazione.

In un altro contesto, ho cercato di descrivere quella persona posta sin dall'inizio sotto la categoria della perfezione: Nastàsja Filìppovna nel romanzo di Dosto-evskij L'idiota7. Lei e Diotima sembrano essere lontane, senza che vi sia la possibilità di stabilire una relazione fra loro, ma ciononostante si toccano. Dostoevskij ha disegnato un animo di donna incapace di sentire o di essere qualcosa a metà, bensì costretta a impegnare sempre l'intera forza del suo cuore e l'intera serietà della sua interiorità. Il fatto che Nastàsja esista sotto la categoria della perfezione non significa quindi che ella sia buona. Può errare, mancare, nuocere e lo fa. Tuttavia,

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è sempre determinata da una particolare purezza e assolutezza del sentire e dell'agire. Questo è la «perfezione», ed è appunto questa ad essere presente anche in Diotima. In una materia di vita diversa, certo: ma che cosa c'è di più significativo che vedere gli stessi fenomeni originali emergere nel distacco di differenze viste in modo puro? Nastàsja vive nel mondo di Dosto-evskij, intricato e scosso da tutte le potenze della profondità e dell'altezza. La sua figura è molto complicata e segnata, come segnate sono tutte le sue figure, completamente definite in termini psicologici, ma dotate di una grandezza che supera ogni mera «psicologia». Diotima fa parte del mondo di Hólderlin, costruito in modo completamente ontico. Ella è semplice, chiara, e la sua delicatezza è disegnata in modo mirabile. Eppure le due donne sono sorelle: vivono senza riserve. Ogni esperienza vissuta tocca il fondo e realizza tutto il loro essere. Ma ciò significa anche che vengono tratte tutte le conseguenze di essa.

Quanto più un uomo è ignobile, tanto meno è coinvolto dai valori superiori, tanto più è abile nel sottrarsi a quanto essi esigono. Nobiltà significa essere fatto in modo tale che questi valori assumano potere immediato nell'esperienza. Quanto più la nobiltà di una persona è pura, tanto meno riesce a eludere la loro esigenza e tanto più esigenti sono i valori che si rivolgono a lui. Appena un uomo è posto sotto la categoria della perfezione, essi diventano per lui sen-z'altro un destino8. Persone di tale specie sono rare. Incontrarle è un'esperienza grande e umiliante allo stesso tempo, poiché attraverso di essi si è relegati nei limiti della quotidianità. Ma esse esistono, e la Diotima di Hólderlin ne fa parte. Alla questione fino

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a qual punto Susette Gontard9, a cui Hólderlin si è ispirato con la sua Diotima, sia stata una tale persona non può essere data una risposta definitiva. Basta che ella lo sia stata di primo approccio - un approccio in cui esistono vari gradi di grandezza. Ma anche le sue lettere sono belle e profonde e svelano un'interiorità molto nobile. E se Hólderlin dichiara che ella sia stata una tale persona, allora questa affermazione va presa molto sul serio. Ma noi qui non abbiamo a che fare con la sua biografia, vogliamo bensì cercare di comprendere una figura della sua opera. E in questo contesto bisogna osservare che Diotima non è una costruzione, ma una persona reale10. In Diotima vi è qualcosa, che di fatto esiste: una potenza delicata, una profondità che brucia, una serietà che ama, una disponibilità di vita e di morte nei confronti dei valori e quindi una assoluta attitudine a subire un destino.

Diotima è fatta in modo tale da rendere chiaro e presente il sacro-divino inteso nella sua accezione naturale e cosmica. L'aspetto del suo essere che il lettore percepisce per primo e che conserva nella memoria nel modo più puro è il silenzio di lei. Già la prima lettera che la nomina parla della «tranquillità di quello sguardo» (il, p. 148). Le sue ultime parole su se stessa sono: «La mia vita fu silenziosa» (II, p. 274). Iperione parla di lei come dell'«essere silenzioso», dell'«anima silenziosa». Parla della sua pace che gli da quiete (II, p. 158), dei suoi pensieri silenziosi la cui potenza si oppone vittoriosamente anche all'impressione lacerante delle rovine di Atene (il, p. 195). Ciò significa dapprima che ella «così malvolentieri si serve del linguaggio» (il, p. 154), che il suo essere è con-

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centrato e il suo agire sommesso e riflessivo (II, pp. 153 e 156). Al di là di ciò ella dimostra una vitalità che non si manifesta come attività esteriore, ma come vibrazione intcriore, come presenza vigile - una «vita riservata», come dice l'indovinata parola di Iperione (II, p. 209). Questo silenzio è pieno di forza, di chiarezza e di misura (il, pp. 178-207). Ella è la «semplicità» (il, p- 181), l'«innocenza» (II, p. 163) e la «serietà amichevole» (II, p. 197). Ella vive seguendo gli impulsi del cuore, è sensibile ai valori, ha interiorità e capacità d'appartenenza unica. Ella è l'amore. Iperione chiama l'amica la «silenziosa amante». Ma l'amore raggiunge tutte le altezze dello spirito. Più in avanti si dice infatti che in Diotima vi è la «quiete geniale» (II, p. 209). È definita la «entusiasta silenziosa» (II, p. 176), che avverte il mistero della natura e dell'esistenza umana destando ciò che dorme nell'altra persona e facendo vibrare ciò che è ottuso. Questo silenzio è la vita e reca in sé tutte le possibilità della vita, anche quelle dionisiache. Da essa può erompere qualcosa che supera la forza dell'essere individuale: la vita del Tutto. Dopo che Diotima è diventata consapevole, in un incontro decisivo con Iperione, della grandezza del suo amore, ella diventa «più silenziosa, sempre più silenziosa», come dice il romanzo. Avverte di «amare troppo» e di dare «addio a tutto ciò che un tempo ha cullato nel cuore». Per Iperione è come se «in modo inspiegabile il destino avesse giurato morte al nostro amore» (il, p. 180). In rapporto a questo modo di essere, si fa presente ciò che non è terreno (il, p. 158). Iperione racconta del «cuore devoto» che «non lasciava inascoltato nessun frusciare di foglia o gorgogliare di fonte» (II, p. 157). Diotima è una

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«bambina lieta» (II, p. 209). Quando sono insieme, l'amico sa che «il sacro gli cammina accanto senza pretese». Ella è un «essere celeste» (II, p. 151), «porta in sé il cielo libero da affanni» (II, p. 167), è «sacerdotessa» e «figlia degli dèi». Nel decorso del suo destino il mistero cresce in lei così che «nell'intima vicinanza diventa sempre più straniera ai suoi».

Ma tutto come pura grazia. «Stava innanzi [...] spontanea» dice il passo già citato (II, p. 158; tr. it. cit., p. 80). Ella non produce, ma è. Non da questo o quello, ma è ella stessa un dono. Ella non compie azioni, il suo essere è potenza".

Tutto ciò si concentra nel concetto di perfezione. Diotima appare «in perfezione splendente»; «Urania, che appare nel caos sospirante» (II, p. 158). Questo compimento è bellezza. Il termine non indica una determinazione estetica, ma esistenziale, religiosa: il fatto che in lei fiorisca l'essere, si dischiuda il mistero e diventi presente il Tutto (II, p. 158).

O voi, che cercate quanto vi è di più alto e di più perfetto, nella profondità del sapere, nel tumulto dell'azione, nell'oscurità del passato, nel labirinto del futuro, nelle tombe o al di sopra delle stelle: conoscete il suo nome? il nome di ciò che è uno e tutto? Il suo nome è bellezza.

Sapevate voi dò che volevate? Io non lo so ancora, ma ne ho il presentimento; il presentimento del nuovo regno della nuova divinità e mi affretto verso di esso e afferro gli altri e li conduco con me come il fiume le correnti entro l'oceano. E tu, tu mi hai indicato il cammino! Con tè ho incominda-to. Non sono degni di una parola gli anni in cui non ti conoscevo ancora.

O Diotima, Diotima, celeste creatura! (il, p. 151; tr. it dt., p. 74).

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L'affermazione: «questo è bello» non è quindi un'affermazione accanto ad altre - meno che meno un'affermazione in cui il sentimento si sottragga alla serietà della realtà - ma include tutte le altre.

Ma il contenuto di questo mistero religioso è quella sacra unità in cui erano uniti cielo e terra, in cui si risolvevano natura e cultura e si celebravano le nozze degli dèi: la Grecia. Ciò che un tempo si è realizzato nell'esistenza greca, ritoma in Diodma. Ella è in termini umani ciò che la Grecia è stata come figura storica complessiva. I fenomeni sono talmente paralleli che anche lei «ritoma», come un tempo ritornerà la Grecia. Come la Grecia verrà nella Germania irretita e si darà inizio, attraverso un rinnovamento escatologico, a un terzo ambito, etemo, così Diotima appare nel Nord a Iperione condannato al proprio destino elevandolo ad una nuova esistenza (II, p. 290).

La controfigura di Diotima nello spazio nordico è dato dalla «vergine Germania». Il secondo cerchio di questo libro ne ha ampiamente illustrato il significato e il quinto riprenderà il tema. Qui si anticiperà solo che essa è vitalmente unita a Diotima. In lei soltanto la figura dell'amato essere femminile, che garantisce il senso dell'esistenza, si compie nella sua totalità. Come «vergine Germania», Diotima entra a far parte del mitico, ma in modo tale da mantenere intatto il collegamento con le radici della realtà umana. Anche qui non è allegoria, bensì una figura, un tempo terrena, posta nel cielo. Ma forse dobbiamo tentare una nuova conclusione: non «posta nel cielo», bensì «portata nella terra, nella «sfera mitica» di questa che corrisponde a quella del cielo12, nell'interiorità della terra,

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nel cuore profondo del paese. Ma sempre come realtà umana, scoperta con uno sguardo amante e visionario, in quel primo approccio che la donna incontrata portava in sé - come ciò che è «avvolto dallo splendore dei raggi di un mondo che ancora non è».

Questa «vergine Germania» si rapporta a Diotima come la Germania di Hólderlin alla sua Grecia. Questa è prefigurata in quella, nella sua interiorità e nella sua profondità religiosa. Allo stesso modo anche la Germania è prefigurata nella intimità e nella dimensione del cuore proprie alla Grecia di Hólderlin. La «vergine Germania» e «Diotima» sono le figure centrali delle due realtà storiche, ognuna concepita in riferimento all'altra.

Il primo cerchio di questo libro ha visto nella concezione hólderliniana del fiume il mito del vivente in cui diventa manifesta la potenza della natura. Questo fiume appare in duplice figura: da una parte accetta il legame, dando modo alla natura di diventare feconda attraverso le opere e le figure - vedi l'inno II Reno -;

dall'altra la sua esistenza cerca «la via più breve al tutto» - vedi Voce del popolo. La figura di Diotima evidenzia la stessa legge. Il «fiume» è «il giovane», il «semidio», lei «la vergine», «la figlia degli dèi». Ciò che a lui accade nell'incendio dionisiaco della guerra, ella lo patisce nell'amore. Sarebbe capace di portare l'amore nei vincoli della misura e della fecondità tranquilla; ma ciò non le è concesso. Iperione la trascina nella dismisura. Ella possiede la purezza tragica, decisamente, di sperimentare in rapporto al valore il destino e la possanza della vita, capace di culminazione dionisiaca; in tal modo perisce.

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Nella forma apparentemente idealistica delle figure del romanzo vi è una verità precisa:

Ti trovai così come sei. La prima curiosità della vita mi sospinse verso il tuo essere meraviglioso. La tua delicata anima mi attirò in modo indicibile e, nella mia ingenua, infantile mancanza di paura, giocai alla tua pericolosa fiamma (n, p. 250; tr. it. dt., p. 149).

La vita silenziosa, che in modo infantile riposa nel proprio centro, s'avventura fuori a tastoni e avverte il pericolo. Iperione narra l'incontro alla fine del secondo libro in cui ella diventa consapevole della potenza del proprio amore:

L'innocente! ancora non conosceva la possente pienezza del suo cuore e, dolcemente terrorizzata da questa ricchezza in lei, la seppelliva nella profondità del petto. E con quali accenti confessò nella sua santa innocenza e lacrimando di amare troppo, e prese congedo da tutto ciò che, prima, cullava nel suo cuore, oh! con quali accenti esclamò: «Sono diventata infedele al maggio, all'estate e all'autunno e non mi curo più, come un tempo, del giorno e della notte, non appartengo più al delo e alla terra, appartengo a uno solo, a uno solo, ma i fiori del maggio, l'ardore dell'estate e la maturità dell'autunno e la terra e il delo sono riuniti in quest'unico solo; così amo io!» (il, p. 181;

tr. it. dt., p. 96).

Diotima abbandona la sicurezza consegnandosi al rischio. Vede Iperione preso dal suo dolore per la patria, diviso tra il passato e il presente, tra natura e spirito, volontà ed essere. In lui ella incontra il dolore mitico, e siccome ama l'uomo, lascia entrare il dolore nel suo intimo:

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Le dola gioie del nostro amore ti ammansirono, o cattivo, ma solamente per renderà più selvaggio. Esse placarono il mio animo, mi confortarono anche, mi facevano dimenticare che tu, in fondo, eri inconsolabile e che anch'io non ero lontana dal diventarlo da quando avevo spinto il mio sguardo nel tuo cuore che amavo. In Atene, fra le rovine dell'Olimpico, questo pensiero mi assalì nuovamente. In un'ora più serena, avevo anche pensato che la malinconia di questo giovane non fosse così seria e così inesorabile. Accade così raramente che un uomo, già dal suo primo passo verso la vita, intuisca, così d'un tratto, così nel menomo punto, così rapidamente, così profondamente il destino del suo tempo e che questa intuizione si radichi in lui in modo incancellabile, perché egli non è abbastanza rude per gettarla via da sé, e non abbastanza debole per allontanarla col pianto; ciò, mio caro, è così raro che ci sembra quasi innaturale (il, pp. 150-151; tr. it. cit., pp. 149-150).

La «vita riservata» diventa sempre più forte in lei. L'istinto del suo «essere puro» cerca la buona soluzione. Se Iperione «diventasse più silenzioso», sottomettendosi alla misura e scegliendo la strada della tranquilla attività creativa, la sua vita, privata della sua prima sicurezza e minacciata dal pericolo della lacerazione, verrebbe accolta in una sicurezza nuova, superiore. Mette l'amico in guardia davanti all'impresa che riconosce come non a lui assegnata e smisurata -l'inno II Reno lo definisce il pericolo di distruggere gli argini e di precipitare nell'abisso -, ma Iperione non si lascia distogliere. Commette sacrilegio contro la legge sacra dell'esistenza: ma lei lo ama e si assume la sua colpa, e nella condizione inerme del suo distacco, gli eventi diventano per lei un destino tragico. Attraverso quest'esperienza, ascende a un'intensità che non è più vivibile. Scocca la «folgore»; il «fiume» rompe i limiti terreni e precipita «indietro nel tutto».

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Ti voglio dire francamente dò che credo. Il tuo fuoco viveva in me, il tuo spirito era passato in me, ma dò avrebbe difficilmente nodulo, e solamente il tuo destino ha reso mortale a me la mia nuova vita. La mia anima, per mezzo tuo, si era fatta potente, e, per opera tua, sarebbe nuovamente tornata alla quiete. Tu strappasti la mia vita alla terra, tu avresti chiusa la mia anima, come in un cerchio magico, nella stretta delle tue bracda, ah! uno solo degli sguardi del tuo cuore, uno solo dei tuoi discorsi d'amore mi avrebbe trasformata di nuovo in una lieta, sana bambina. Ma, siccome un tuo proprio destino ti ha spinto nella solitudine spirituale, come un diluvio sulla cima del monte, oh, soltanto quando fui fermamente convinta che la bufera della battaglia avesse demolito il tuo carcere e che il mio Iperione fosse volato via verso l'antica libertà, allora soltanto tutto si dedse per me, e presto sarà tutto finito (II, pp. 273-274; tr. it. dt-, p. 165).

L'elegia Lamento di Menane per Diotima presenta la sua figura trasfigurata nel metafisico (il, p. 75). Ancora più pura è la poesia, così mirabile perché inerme, appartenente al periodo della pazzia Se da lontano ... (Il, p. 262; tr. it. cit., p. 196). Tragicità genuinamente dionisiaca - ma qui il sentimento si arresta: Diotima è una figura dionisiaca? In verità non ha in sé nulla che richiami le Baccanti. Il suo atteggiamento non abbandona mai la misura. E una dismisura nell'atteggiamento dell'interiorità ad avere qui luogo. È il dionisiaco, ma trasposto nei termini della chiarezza e del silenzio. La fiamma che tutto brucia è completamente pura e silenziosa - forse per questo consuma tutto fino alle fondamenta. Ricordiamo che anche per il greco il mistero esistenziale ultimo consisteva nell'ascesa dalla profondità primordiale dionisiaca alla chiarezza delfica.

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Se il romanzo è collocato nel contesto complessivo del pensiero di Hólderlin, diventa chiaro che il suo senso ultimo non sta nel destino di queste determinate persone, ma in ciò che avviene dietro di loro e attraverso di loro. È la natura stessa che in loro vive un destino. Certamente però l'essere di queste persone viene determinato proprio dal fatto che la natura possa avere in loro un destino. Ma anche stilizzate al massimo, esse permangono persone umane; questo determina il valore di questo poema.

A noi, oggi, è facile riconoscere l'idealismo falso. Ma forse bisogna limitarsi a dire: determinate forme dell'idealismo falso. Probabilmente, per ogni epoca vi è una inautenticità idealistica, in cui è rappresentata la fuga davanti alla realtà specificamente propria ad essa, e che per questo non è facile da discernere. Comunque, ci accorgiamo presto di una figura che si allontana dalla realtà per «significare» soltanto. Tanto più ci è difficile riconoscere la manifestazione vera dell'idea nella figura stilizzata e la scambiarne spesso per un'allegoria o un simbolismo. Ma in tal modo ci viene preclusa una sfera purissima tanto dell'arte quanto dell'esistenza umana. L'arte idealistica e il relativo sentimento umano di fondo si riferiscono direttamente al senso metafisico, radicalizzando l'idea e riducendo la realtà immediata all'essenziale, ma in modo tale da mantenere intatto il collegamento con la realtà concreta. In questo sta il mistero della grande arte stilizzante. Essa scaturisce da un determinato modo di vedere e di sentire che semplifica e allo stesso tempo concentra, da una rigorosa selezione di

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grandi oggetti e da una limitazione del numero dei temi costantemente variati finché abbiano sprigionato la loro ultima possibilità di rendere visibile l'essere. In una simile operazione, l'elemento direttamente psicologico sembra andare perduto. In verità è solo la psicologia dell'umanità individuale ad andare perduta, e un'altra ne prende il posto. L'essere dell'uomo diventa il centro d'esperienza vissuta non dell'individuo, ma dell'esistenza, e la psicologia della soggettività è rimpiazzata da quella dell'essere. Anche le figure di un Eschilo e di un Dante, e non solo quelle di Shake-speare e di Dostoevskij sono persone vere. Ma esse sono plasmate tanto in profondità dalla forma da dar modo all'idea stessa di parlare. Nella loro tradizione va collocato - con il dovuto distacco - il romanzo di Hólderlin. Esso racconta la storia di due persone vere, fatte però in modo tale che l'esistenza stessa, la natura diventi visibile in loro.

La natura è la grande unità dell'essere. NelVIperio-ne, le sue manifestazioni sono disperse, per la molteplicità dell'essere e per la distanza spaziale e cronologica. Ciononostante, costituiscono un tutto.

La natura è il tutto. Non vi è niente al di fuori di essa. Ovviamente vengono contìnuamente estrapolate delle realtà singole e opposte ad essa: quest'albero e la natura, questo fiume e la natura, questa stagione e la natura, ma la separazione è solo transitoria. Una figura, un processo si distìnguono dal Tutto per poi reinserirsi nel Tutto saturi della ricchezza data dalla determinazione propria. Anche gli dèi vengono contrapposti alla natura, il dio del sole per esempio (II, p. 276) o il Padre celeste (II, p. 95). Ma diventa subito

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chiaro che essi sono rivelazioni numinose della natura stessa e dei suoi differenti aspetti essenziali. In modo particolarmente netto, si distingue l'uomo. In forza del suo impeto spirituale, egli entra in una libertà pericolosa. Può rinnegare la natura, distruggere se stesso e, nel proprio essere, la natura stessa, eppure anche questo è solo un movimento all'intemo dell'unità complessiva nel cui sviluppo il Tutto comunque trionfa.

Per Hólderlin, l'uomo rappresenta la possibilità della natura di avere storia. Egli si distacca di volta in volta da essa, come essere singolo, compiendo il tentativo rischioso dello spirito che conosce, giudica, si decide, lotta e costruisce, come è descritto dai colloqui filosofici del romanzo. Sembra che in ciò si realizzi la sua storia individuale, e che la natura fornisca il fondamento portante e la materia della vicenda. Ma un'analisi più approfondita dimostra che è la natura stessa ad entrare in movimento attraverso l'uomo hólderliniano e a sperimentare in tal modo storia. È essa a compiere il passo audace verso l'essere individuale, a esperire l'archetipo della separazione, a rischiare di soccombere alla catastrofe mitica della lacerazione. Nell'Iperione questo pericolo diventa realtà. L'esistenza individuale sbaglia. L'intelletto sfrenato e la volontà arbitraria perdono la dirczione e l'unità. Tutto ciò accade alla natura stessa, ma ad essa sono concessi anche la salvezza e il nuovo inizio. Come era essa ad avere in Diotima la possibilità di una tranquilla fecondità, era tuttavia poi colpita dal destino dell'amico, è ancora essa stessa a entrare con Diotima nello spazio tragico del sacrificio riconquistando, nel perire, la grande libertà. Ciò che nei colloqui del ro-

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manzo è detto in termini teorici, si realizza nei suoi personaggi come figure. Ognuno di loro conserva il suo senso ultimo in riferimento alla natura. Attraverso ciascuno di loro, essa entra nello spazio e nella caratterizzazione della storia, tentando il rischio dello spirito individuale e riconquistando, su un piano superiore, la nuova unità del Tutto trionfante. Ma appunto in tal modo è determinata anche la natura: è quell'entità misteriosa che ha bisogno dell'uomo per mettersi in movimento, per correre il pericolo di essere distrutta e per riconfermarsi ciononostante, vittoriosamente, l'entità essenziale.

L'onni-unità della natura è divina. Ciò è evidente già nel concetto di vitalità ad essa continuamente ascritto. Questa onni-vitalità supera quella attribuita alla pianta e all'animale a differenza del sasso. Anche il fiume è vivo, anche il mare, le isole, le montagne, i paesi e le stelle lo sono. Detto più correttamente: in essi è vivo il Tutto. E l'insieme a essere vivo. Nella sua ultima lettera, Diotima dice:

[...] io mi sono innalzata al di sopra di questo frammento che le mani degli uomini hanno creato, ho sentito il vivere della natura, un vivere che sta al di sopra di ogni pensiero. Se anche mi trasformassi in una pianta, sarebbe il danno così grande? Io sarò. Come potrei perdermi fuori della sfe-ra della vita, là dove l'amore etemo, che è in tutte le cose, tiene unite tutte le nature? come posso staccarmi dal legame che annoda tutti gli esseri? Esso non si infrange così facilmente come gli allentati vincoli di quest'epoca. Non è simile a un giorno di mercato dove la folla si raduna, fa chiasso e si disperde. No! per lo spirito che d unisce, per lo spirito divino che è proprio a tutti e comune in tutti noi! no! no! nel vincolo della natura, la fedeltà non è un

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sogno. Ci separiamo solamente per essere più intimamente uniti, più divinamente in armonia con tutti e con noi. Noi moriamo per vivere (il, pp. 275-276; tr. it. dt., pp. 166-167).

In questa vitalità è tolta, risolta e superata anche la morte. Di essa la vita particolare come anche la morte rappresentano elementi diversi, ma risolti nel tutto. Prima della sua morte, Diotima scrive:

Sarò; non indago su che cosa diventerò. Essere, vivere, è sufficiente; è l'onore degli dèi, e, per questo, tutto dò che vive è, nel mondo degli dèi, eguale in se stesso e non sono in esso ne padroni, ne servi. Le nature vivono l'una con l'altra come amanti; hanno tutto in comune, spirito, gioia ed eterna giovinezza. Le stelle hanno scelto la durata; in silenziosa pienezza di vita, errano eterne e non conoscono la vecchiaia. Noi rappresentiamo, nel nostro mutard, dò che è compiuto; dividiamo in melodie svarianti i grandi accordi della gioia. Come suonatori d'arpa intorno ai troni degli antichi, viviamo, divini noi stessi, intomo ai sereni dèi del mondo; mitighiamo, con il fuggevole canto della vita, la beata gravita del dio del sole e degli altri dèi.

Leva lo sguardo verso il mondo! Non è esso come un peregrinante corteo trionfale nel quale la natura celebra la sua eterna vittoria su tutto dò che è corruttìbile? E la vita non trasdna con sé, in auree catene, la morte, come un tempo il trionfatore conduceva con sé i rè prigionieri? Noi siamo come le vergini e i giovinetti che accompagnavano, con 6-gure e canti alterni, il maestoso corteo.

Ma ora devo tacere. Dire di più sarebbe troppo. Ci incontreremo di nuovo, certamente (n, p. 276; tr. it. dt., p. 167).

La divinità della natura si esprime inoltre nei termini sempre ricorrenti «innocente, lieto, sacro». E non compaiono solo i termini e i concetti, il significato stesso diventa tangibile (II, pp. 95, 200, 290). In-

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contriamo soprattutto due forme di esistenza, sature di mistero. Diotima dice:

Benvenuti, voi buoni e fidi! Voi di cui si sentiva profondamente la mancanza, voi, misconosciuti, bambini e vecchissimi! Sole e terra ed etere con tutte le viventi anime che vi giocano intorno, cui voi giocate intomo, in eterno amore oh! accogliete di nuovo nella famiglia degli dèi questi uomini che tutto tentano, questi fuggitivi riaccoglieteli nella patria della natura dalla quale si sono allontanati! (il, pp. 274-275; tr. it. dt., p. 166).

«I bambini» e «i vecchissimi» rivelano quanto è sacro e beato: quelli sotto la forma dell'inizio ancora immacolato, questi nella maturità compiuta. Ma è la natura ad essere innocente, beata e sacra in loro. Essa viene continuamente sconvolta, distrutta, eppure riemerge sempre nella sua integrità. In questo essa è creativa e vittoriosa:

Voi avvilite, voi straziate la natura paziente e che vi sopporta, ma essa continua a vivere nella sua giovinezza senza confini, voi non potete cacdare il suo autunno e la sua primavera, non potete corrompere il suo etere. O, divina essa deve essere, affinchè vi sia concesso di distruggerla e, tuttavia, essa non invecchia e, malgrado voi, la bellezza resta bella (il, p. 286; tr. it. dt., p. 174).

Il mondo è un mistero che deve essere amato. Nel frammento di «Thalia» si legge:

D'ora in avanti non potei più pensare nulla di quanto avevo pensato prima, il mondo mi era diventato più sacro, ma anche più misterioso (il, p. 81).

Ma la divinità della natura viene affermata anche

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espressamente (il, pp. 101, 275, 285). Essa è l'inizio, la fine e il decorso. In essa vi è la misura di tutto; essa giudica (II, p. 285). Vive in ogni ente. In ciascuno di essi nasce e perisce. Ma essa sopravvive a ciascuno, rimane sempre se stessa e imperitura in sé. Essa è il divino primordiale, che nel mutamento eternamente dura e che trova la pace nel destino permanente.

Così per Hólderlin non vi è alcuna divinità distaccata dal mondo, ma solo la divinità del mondo stesso. Gli dèi sono nella natura. Essi sono le entità essenziali delle cose, le particolarizzazioni in immagine dell'esistenza. Diotima, nel suo testamento, parla degli «dèi silenziosi» e delle «forze silenziose del mondo» (II, p. 276). «O natura con i tuoi dèi!» - con queste parole Iperione si rivolge ad essa (il, p. 290). Il «Padre nel cielo» è il padre della natura e allo stesso tempo il cuore di essa (II, p. 95). Senza nome, domina come l'«invisibile» in essa (il, p. 69), diventando presente a chi è dotato di senso come «Io splendido, segreto spirito del mondo» (II, p. 160).

Tutto ciò è determinato in ultima analisi dal già discusso concetto di spirito (II, p. 168 e II, p. 231). Esso non è inteso in termini intellettuali, ma come vitalità di tipo religioso. Il suo campo è dato proprio dal rapporto fra il Tutto e le figure particolari, dal passaggio che viene compiuto dall'unità alla molteplicità e di nuovo dall'esigenza particolarizzata in figure nell'unità.

Come «entusiasmo», esso diventa una potenza insita nell'uomo stesso ... Lo eleva al di sopra dei limiti di spazio e tempo, mettendolo in rapporto con il Tutto. Desta le sue forze creative e gli da la spinta per su-

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perare l'orizzonte del vicino e dell'utile. Gli da la sensazione del sacro, dell'infinito, del mistero. Questa potenza viene dal centro dell'uomo, allo stesso tempo però dal Tutto. Iperione dice infatti:

Diotima, fa' ch'io soffi in mezzo a loro l'alito di un dio, fa' ch'io parli loro una parola che mi esca dal cuore. Diotima! Non temere! Non saranno così selvaggi! Conosco le nature primitive. Si fanno beffe della ragione, ma sono congiunte con l'entusiasmo. Soltanto chi agisce con tutta l'anima, non erra mai. Non ha bisogno di sottilizzare, perché nessuna forza è contro di lui (II, p. 218; tr. it. cit., p. 125).

Forme prime dell'esistenza entusiastica sono il giovane e la vergine. Essi camminano nel corteo trionfale della natura nella sua unità vittoriosa, accompagnando «con danza e canto» la sua gloriosa magnificenza (II, p. 276). Questa potenza domina in Diotima. Abbiamo già visto i densi testi che ne parlano. Dietro alla figura di lei vi è quella della sacerdotessa antica, della Pizia. Ella stessa è l'aentusiasta silenziosa» in cui domina lo spirito e grazie a cui si accende in altri.

Ma la stessa potenza domina anche nella natura all'esterno. Meglio: dove essa domina, cade la differenza fra dentro e fuori. Nello spirito tutto è uno. Abbiamo già citato il passo II, p. 218. È simile a esso l'altro:

Simili a zeffìri sulla superficie del mare, regnavano al di sopra di noi benigni incanti della natura. Con gioiosa meraviglia ci guardavamo senza pronunciare parola alcuna, ma gli sguardi dicevano: così non ti ho mai veduto! Talmente esaltati eravamo dalle energie del delo e della terra (II, p. 120;tr.it.cit.,p.51).

La potenza dello spirito è particolarmente palese

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nella primavera. Si veda il mirabile passo all'inizio del secondo libro:

Ci ricordavamo del maggio precedente, come se non avessimo mai veduto la terra così come allora pensavamo che fosse stata mutata in una argentea nube di fiori, in una gioiosa fiamma di vita, liberata da ogni materia più greve (II, pp. 203-204; tr. it. cit., p. 113).

La sensazione è approfondita in termini visionari:

«Ah, tutto era così pieno di gaudio e di speranza», esclamò Diotima, «così colmo d'una crescita senza interruzioni e, tuttavia, così spontaneo, così celestialmente tranquillo come un fanciullo, intento al suo gioco, e che non pensa ad altro». «In questo», esclamai, «la riconosco, l'anima della natura, in questo fuoco tranquillo, in questo indugiare nella sua fretta possente» (il, p. 204; tr. it. cit., p. 113).

Altrettanto fortemente, ma sotto mutate spoglie, Io spirito tesse all'ora del tardo pomeriggio con la sua luce trasfigurante; si veda soprattutto l'incantevole racconto sulle prime ore trascorse a Calàuria:

Finalmente, quando mi indicò, lontane, le vette tranquille e mi disse che, fra poco, saremmo giunti a Calàuria, prestai maggiore attenzione e tutto il mio essere si aperse alla meravigliosa potenza che, improvvisamente, dolce e calma e inesplicabile giocava con me [...]

E gli uomini usavano fuori dalle porte e sentivano in modo meraviglioso come il soffio spirituale agitasse legger-mente i delicati capelli sulla fronte e rinfrescasse il raggio di luce, ed essi scioglievano lied le vesti per accoglierlo nel petto; respiravano più dolcemente, sfioravano più delicatamente il mare chiaro, leggero, allettante, nel quale essi vivevano e si muovevano.

Oh, sorella di quello spirito che domina e vive in noi con

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potente ardore, aura sacra! come è bello l'essere accompagnato da tè ovunque diriga i miei passi, onnipresente, im-rnortale!

L'alto elemento giocava con i bambini nel modo più bello. Uno bisbigliava tranquillamente fra sé e sé, a un altro sgorgava dal labbro una canzone senza ritmo, a un altro un canto di giubilo a piena gola; uno se ne stava sdraiato, l'altro saltava in alto, un altro si aggirava assorto nei suoi pensieri. E tutto questa era l'espressione di un solo benessere ed una sola risposta alle carezze delle aure ammalianti. Ero tutto pervaso da un indescrivibile desiderio e da un senso di pace. Una forza a me ignota mi dominava. Spirito amico, dicevo tra me, verso dove mi chiami? verso l'Elisio o verso dove? (il, pp. 146 ss.; tr. it. dt., pp. 70-71).

Il concetto del pnéuma è determinato in ambito cristiano a partire dell'evento delle Pentecoste, come evento dello Spirito Santo che Cristo manda dal Padre (Gv 15, 26). Quando, nel contesto del pensiero di Hólderlin si parla dello «spirito» della natura, del pnéuma della terra e del ciclo, si allude a qualcosa di diverso da quanto si presenta nel Nuovo Testamento. È la corrente di mistero nel mondo, quanto è non terreno allo stato puro, che diventa tangibile in ciò che è terreno, il «sacro» quale potenza e costituzione, come è colto nella libera esperienza religiosa13. In esso, l'aria, intesa come ciò che respira ed è respirato, il movimento fuori nello spazio cosmico e dentro l'organismo si identifica con la forza della vita dell'anima e dello spirito e la potenza religiosa che fluisce, creando vita e trasformando gli stati presenti (II, supra, p. 247). Il contenuto è ulteriormente complicato per il fatto che il concetto di Spirito Santo ha influito sul concetto di spirito hólderliniano, conferendo ad esso valori e dimensioni che non si trovano nell'esperien-

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za universale del pnéuma, per esempio quella del mona o deìVorenda, dell'entusiasmo visionario o dell'estasi dionisiaca.

Solo attraverso questo pnéuma, il meramente naturale si trasforma nella «natura» di Hólderlin. Si rivela per esempio nell'aria trasformandola nel respiro del mondo, nella luce, dando ad essa profondità e mistero, nell'eccitazione della vitalità risvegliata, facendo della semplice fecondità il mistero della vita. Attraverso il pnéuma tutto diventa ricco e profondo, mosso dagli impulsi provenienti dal centro. Esso supera il quotidiano e la pesantezza, rende nuovo, potente e leggero. Attraverso il pnéuma l'esistenza comincia a «fiorire», dando luogo all'«01impo nello spirito», la sacra dimora degli dèi, il mistero dell'altezza:

Tu dovresti soccombere, dovresti disperare, ma il tuo spirito ti salverà. Non alloro, non corona di mirto ti consoleranno; lo farà l'Olimpo, vivente e presente, che d fiorisce eternamente giovane in tutti i sensi. Il mondo bello è il tuo Olimpo, in questo vivrai, e troverai la tua gioia nella sacra essenza del mondo, negli dèi della natura (n, p. 274; tr. it. cit., p. 166).

Solo a partire dal pnéuma diventa del tutto chiaro che cosa Hólderlin intenda per «silenzio». L'essere in sé è mistero. È il mistero che qualcosa esista14. Ma quel «silenzio» e quell'«interiorità», in cui soltanto l'ente diventa veramente «essente»15, sono opera dello spirito. Sia nell'uomo, come forza intcriore del cuore, come dimensione dell'amore, che fuori, come quella condensazione e quell'approfondimento, attraverso cui in ogni cosa nasce il Tutto. E lo spirito a dare all'ente la preziosità viva, la dinamica dell'eroe onti-

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co, a cui risponde quella intcriore, la dinamica del cuore. Nello spirito, la realtà diventa potente e le essenze penetranti. Quando domina, una cosa può diventare reale fino alla fecondità, un fenomeno assumere tale forza di significanza da essere insostenibile. Il poeta nell'accezione hólderliniana, il vate, è esposto a ciò, destinato a «porgere al popolo» «il fùlmine» insito in ogni essere, il raggio della potenza di senso, «avviluppato nel canto» (II, p. 120).

Lo spirito sdoglie la chiusura delle cose. Le rende aperte così che l'una diventi consapevole dell'altra, senza attriti:

Le nature vivono l'una con l'altra come amanti; hanno tutto in comune, spirito, gioia ed etema giovinezza (n, p. 276).

Nello spirito viene superato il dolore mitico, la separazione. In esso si compie la trasformazione, in cui «il senso divino» rompe il guscio dell'essere, in cui la realtà è illuminata dal valore, la vita dall'amore. Allora l'amore diventa uno stato, una condizione stabile. Il Tutto si eleva - il tutto e il suo polo opposto, il centro. Questo centro non è presente senz'altro e facilmente designabile. Esso è ovunque e da nessuna parte; deve prima emergere. Ma dò accade quando la densità grezza dell'essere di forma individuale si apre diventando il polo opposto vivente del Tutto. Il centro non è niente di compiuto e fissato, ma uno stato dell'essere individuale. Esso è l'essere individuale nella misura in cui quest'ultimo ama, diventando così interiorità del Tutto. Solo a partire dal centro nasce il Tutto, e solo in riferimento al Tutto si desta il centro. Ma tutto ciò è operato dallo spirito.

Senza di esso vi sono solo «l'insieme», «l'essere sin-

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golo» e la loro lotta. Lo spirito opera la nuova dimensione, in cui nasce la presenza pura, «la natura». L'essere oggettivo abbisogna del cuore sensibile, per accedere alla cosmicità piena; la vita intcriore abbisogna delle cose, per giungere alla libertà. Solo quando ciò accade, l'esistenza è compiuta.

Solo a partire dallo spirito diventa comprensibile che cosa Hólderlin intenda con la parola «natura»: ne il fatto scientifico della realtà fisica e psichica, ne il fatto filosofico della totalità dell'esistenza. Essa è ciò che vive e domina, che si trova dentro e fuori, che è presente tra centro e totalità, che è dispiegato, e allo stesso tempo concentrato nell'interiorità, ma che tuttavia nasce solo nello spirito. Con questo non ci si riferisce ad un'esperienza vissuta soggettiva, bensì ad un processo tanto cosmico quanto umano. Lo spirito è il numinoso inteso come potenza. Solo quando questo appare, ciò che è presente, alla mano, diventa natura. E solo chi è permeato da esso vede la natura, poiché ne diventa il centro, il cuore sensibile.

Anche gli dèi di Hólderlin sono comprensibili solo a partire da questo spirito. Essi non costituiscono semplicemente gli ambiti differenti del mondo oppure le similitudini e le personificazioni di essi. Ma non sono nemmeno esseri di ordine superiore, posti al di sopra dell'uomo come questi è posto sopra gli animali. Gli dèi sono le essenze del mondo nella misura in cui scaturiscono dal pnéuma. Essi esistono nel pneu-ma. Esso è il loro elemento, la loro forma d'esistenza. Per questo motivo, essi vengono avvertiti solo da chi è toccato dal pnéuma. Solo il mondo coinvolto dal pnéuma è mondo. Senza di esso, quest'ultimo costituisce solo l'insieme della realtà empirica. Solo nel pnéu-

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rna questo mondo ha degli dèi. Senza di esso, ha solo ambiti di senso diversi, determinabili scientificamente o filosoficamente.

Tutto questo contesto di rappresentazioni contiene elementi cristiani chiaramente riconoscibili. Il concetto di eccitazione pneumatica, appartenente alla religiosità universale, si è unito al concetto di Spirito Santo della Scrittura trasposto nel cosmico. Solo se si tiene conto di questo collegamento, diventano comprensibili talune qualità dell'interiorità e taluni valori del cuore che non si trovano in quelle esperienze naturali dello spirito ... Ciò vale anche per il concetto di natura hólderliniano. Il modo, in cui la sua natura scaturisce dal religioso, l'empirico viene trasformato a partire dal numinoso e a sua volta il misterioso si fa presente nell'immediato, la chiusura in sé dell'essere individuale è annullata sia nei confronti dell'altro essere individuale che nei confronti del Tutto, intemo ed esterno si risolvono nella presenza pura - tutto ciò trova la sua radice in primo luogo in esperienze del tipo della mistica nel suo senso universale. In secondo luogo però è innegabile l'influsso della dottrina biblica circa «l'uomo nuovo» e «il cielo nuovo e la nuova terra», enunciata dalle lettere di Paolo, [di Pietro] e dall'Apocalisse. Il mondo venturo a cui si rifa la speranza cristiana, non esiste in termini empirico-cosmologici o spirituali-culturali, ma solo in quanto domina lo Spirito Santo. Descrizioni come per esempio la visione della città celeste alla fine dell'Apocalisse dimostrano come ogni ente venga elevato per la potenza dello Spirito Santo a un nuovo rapporto con Dio, e in tal modo a uno stato nuovo.

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Appunto con questo, è però anche esplicitata la differenza fra il concetto cristiano dello Spirito Santo e il pnéuma di Hólderlin. Per lui la categoria che domina su tutto è la natura. Infatti, benché questa si elevi dallo spazio meramente empirico a quello metafisico e religioso-mistico, l'atteggiamento portante e i valori determinanti continuano ad essere quelli della natura. Così anche la potenza dello spirito di cui si parla, nonostante la sua ricchezza di mistero, la sua forza trasformatrice e la sua vicinanza al cuore, rimane compresa nella categoria della natura. Lo Spirito della Scrittura, invece, è posto in modo decisivo sotto la categoria della persona, più precisamente: della Persona del Dio sovrano nei confronti di ogni natura ... Per quanto riguarda la santità di questo Spirito, essa non è quella che è percepita dalla esperienza religiosa universale e che può senz'altro collegarsi con il concetto della natura. Non è il «sacro» nel senso di «misterioso, diverso» e di «numinoso», ma di tipo strettamente personale. Il Nuovo Testamento determina lo Spirito come lo «Spirito di Gesù Cristo» (Rm 8, 9) o lo Spirito «che Gesù manda dal Padre» (Gv 15, 26). Esso non viene ne dai fondi primordiali dell'anima ne dalla profondità della natura, ma è mandato dal Signore del mondo nella storia perché la conduca incontro al Regno di Dio. La sua santità è la qualità prima di Dio che è riservata soltanto a Lui, l'inawici-nabilità della sua purezza e bontà che non è confondibile con nulla di creato e che per l'uomo, appena giunge al cospetto di essa, diventa un giudizio, ma anche, dal momento che Dio lo ama, la salvezza ...

Ma il fatto che lo Spirito della Scrittura venga, domini e si comunichi è il frutto della pura grazia. Ciò

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non si colloca nell'orizzonte dell'esistenza, in cui, accanto all'elemento della necessità, vi è anche quello del favore o graziosita (Huid) e della originarietà pura, ma assume un senso rigorosamente personale: il Dio non incluso in alcun contesto dell'esistenza dona lo Spirito perché Egli lo vuole donare in pura libertà.

L'esperienza vissuta che Hólderlin ha dello spirito porta attraverso una ricca molteplicità delle forme d'esperienza fino all'ebbrezza e all'estasi. Il suo pnéu-ma sfocia tanto nell'etereo quanto nel dionisiaco perché è lo spirito della natura. A differenza di ciò, il tocco dello Spirito di cui parla il Nuovo Testamento è singolarmente dominato, misurato, anzi parsimonioso. Certo, anche la Pentecoste è circonfusa di fiamme e di fragore, e la forza del carisma pervade la vita dell'uomo che ne è coinvolto. Ma il fenomeno si mantiene sempre nei limiti di una sobria ebrietas16, dal momento che la categoria determinante è la persona. Lo Spirito stesso è persona. La sua è una venuta personale. Il suo dominio mantiene la distanza del rispetto davanti alla persona dell'uomo. Il suo operato non è finalizzato alla trasformazione entusiastico-esta-tica dell'ente nella autenticità propria della natura, ma alla metanolo dello spirito e del cuore, al ritorno della persona a Dio e all'atto dell'amore che contiene in sé tutto il rigore della purificazione e santificazione morale.

EMPEDOCLE

IL CARATTERE DEI POEMI DI EMPEDOCLE

II tentativo di Hólderlin di affrontare in forma drammatica la personalità dello statista e filosofo siciliano Empedocle è immediatamente posteriore all'7-perione.

Per diversi aspetti, le due opere sono affini. Entrambe intendono collegare il destino umano con la natura e con l'esistenza greca. Inoltre, entrambe presentano un'inadeguatezza nei confronti della forma prescelta che tuttavia, invece di disturbare, provoca una commozione particolare. Così come YIperione non è un vero «romanzo», ossia una rappresentazione epica di vite umane ed avvenimenti mondani, ì'Empe-docle non è un vero «dramma», ossia uno sviluppo d'un carattere umano nel gioco contrapposto di personalità agenti. Il romanzo si scompone in stati d'animo, e le sue parti più belle sono poesie ed elegie. La tragedia, invece, costituisce in fondo un inno drammatico, e se dovesse essere rappresentata come richie-

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de la sua natura, lo dovrebbe essere probabilmente nello stile di un oratorio. ;

Sul tema di Empedocle possediamo cinque testi. Un breve abbozzo dal titolo Empedocle, risalente al periodo di Francoforte, che prevede cinque atti (ili, pp. 67-71). Poi due tentativi di svolgimento dal titolo La morte di Empedocle. Il primo, che è il più lungo e prevede due atti, inizia in prosa per poi continuare già sulla seconda pagina in versi (ili, pp. 75-171). Il secondo prevede cinque atti, è più drammatico nel carattere, ma rimane un breve frammento (ili, pp. 172-195). Inoltre vi è uno schizzo dal titolo Empedocle sull'Etna che si limita ad alcuni accenni (ili, pp. 199-202) nonché un tentativo di svolgimento del medesimo che prevede cinque atti e di cui esiste solo un frammento del primo atto (ili, pp. 203-224).

La tradizione fornisce di Empedocle un'immagine non limpida. Da una parte egli appare come un uomo di imponente grandezza, dotato di forze misteriose, dall'altra come un carattere dubbio e vanitoso. Probabilmente, Hólderlin è rimasto colpito innanzi tutto dalla leggenda secondo cui Empedocle si gettò nell'Etna ... Infatti, il vulcano rappresenta nel pensiero di Hólderlin una grandezza mitica, l'eruzione della profondità tellurica e la via al centro del tutto (I, p. 98). Poi lo impressionarono le ricche espressioni di vita di questa personalità, secondo la tradizione allo stesso tempo statista, medico, taumaturgo, profeta e filosofo. In tal modo, egli apparve come incarnazione dell'universalità umana, come controfigura umana rispetto alla natura, capace di sperimentare un destino che esprimeva la natura dell'esistenza umana e cosmica in quanto tale.

Il carattere dei poemi di Empedocle 529

La prima stesura de La morte di Empedocle inizia nel momento in cui l'eroe ha superato il culmino della propria vita. Il suo influsso è stato immenso, ma adesso si è ritirato da tutto. Il popolo, ancora in soggezione davanti alla sua personalità imponente, crede che egli sia asceso agli dèi; in verità, ha vissuto un crollo intcriore. La radice della sua esistenza era stata una profonda unità con il Tutto e con le divinità d'esso; ma ha abusato di questa unità. Se ne è impossessato come di una potenza personale, perdendola perciò e rifugiandosi successivamente nella solitudine. Subito le forze già a lungo a lui avverse vanno all'attacco. Il sacerdote Ennocrate le raccoglie. Egli confonde nel popolo le idee su colui che finora è stato venerato come un dio, ottenendone la proscrizione. Empedocle chiude la casa, dona agli schiavi la libertà e abbandona la città.

Durante questi eventi, Empedocle riconosce la sua colpa e si decide all'espiazione. Si dirige verso l'Etna per morire nel cratere di esso. Strada facendo, con il suo allievo Pausania passa davanti ad una capanna e si ferma per riposare. L'ora è piena di pace, perché Empedocle s'è fatto consapevole del perdono degli dèi. In quel momento appare Ennocrate, accompagnato da Crizia, il padre di Panthea, una giovane sacerdotessa che il grande medico ha salvato dalla morte, e da una schiera di cittadini agrigentini. Gli annunciano che il verdetto è stato annullato e lo pregano di ritornare, offrendogli perfino la corona reale. Empedocle è lieto della riconciliazione, ma rifiuta la loro proposta, rimanendo solo con il suo allievo. Presto si congeda anche da quello e va incontro alla cima dell'Etna. Intanto è venuta anche Panthea con un'amica,

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e i colloqui dei tré giovani sono come un coro che chiude la vicenda.

La seconda versione si ferma al primo atto dove vengono descritti lo stato d'animo di colui che è caduto e la sua sopraffazione da parte de nemici. Anche il frammento Empedocle sull'Etna non va oltre il primo atto. Rappresenta la crisi intcriore, inquadrata già in retrospettiva ed in procinto di risolversi nell'espiazione.

II

II poema Empedocle non mostra alcuno sviluppo, ma mette semplicemente in luce un momento nella vita dell'uomo.

Quando la tragedia inizia, la crisi è già scoppiata. Ciò che si compie successivamente è la decisione di questa. E già dopo il primo monologo di Empedocle non vi può essere dubbio sull'esito. Ma la situazione intema determina anche quella estema. Empedocle sa di doversene andare. In tal modo, il poema si riduce davvero alla «morte di Empedocle», ossia alla decisione dell'espiazione e alla volontà di mantenerla ferma nonostante muti la situazione esterna.

Per un altro motivo ancora il poema non è un vero dramma: Empedocle non ha un avversario reale. Ennocrate è sì il suo nemico. Raccoglie l'opposizione che si è levata contro l'odiato, facendosene portavoce; confonde coloro che finora sono stati fedeli a Empedocle ed impone il verdetto di proscrizione, e ancora quando la città offre la pace all'esiliato, egli persiste nel suo odio. Ciononostante, egli non è un

Il carattere dei poemi di Empedocle 531

reale avversario. Secondo l'impostazione della trama, dovrebbe essere il nemico meschino dell'eletto nato libero, una specie di grande inquisitore; ma per un simile ruolo gli manca la personalità. Tutto il suo potere deriva dal fatto che Empedocle è diventato debole. I^el momento in cui questi è di nuovo sicuro di sé, Ermocrate invilisce miseramente. Ciò che in realtà avviene non è quindi la lotta tra due avversar!, ma una crisi nell'animo di un singolo.

Anche nell'amicizia, nell'opera o nell'amore Empedocle non ha un vero partner. Il poema è impostato in modo tale da porre al centro una figura il cui destino non risulta dalle sue relazioni con altri uomini, ma dal suo rapporto con le potenze assolute, con la natura e la sua divinità. Le altre persone non fanno in fondo altro che interpretare questo destino. Amando oppure odiando, comprendendo o rimanendo chiusi nell'ottusità, essi vivono in rapporto ad Empedocle. Perfino Ermocrate, che sembra ancora avere una personalità propria, diventerebbe un nulla se il grande da lui detestato scomparisse dalla sua vita.

Corrisponde quindi all'impostazione dell'opera che la presente analisi passi in rassegna le figure di questa per fare luce sulla personalità, il destino ed il senso dell'eroe.

LE FIGURE DEL DRAMMA

Iniziamo da quella che anche nel dramma parla per prima: Panthea, sacerdotessa di Vesta., figlia di Crizia, un ricco cittadino di Agrigento non favorevole ad Empedocle. È una reincarnazione di Diotima. È dotata di una forza d'amare illimitata. Questo amore la rende capace della comprensione pura e disposta a qualsiasi sacrificio. E silenziosa, raccolta e di sostanza molto delicata. La sua vita intcriore deve quindi necessariamente farsi il suo destino. Mentre Diotima si trova sullo stesso piano di Iperione in termini d'età ma su un piano superiore per quanto conceme il suo essere e il suo valore, Panthea è allo stesso tempo discepola, amante e figlia. Essa è anche cara a Empedocle; prima di separarsi, egli parla di lei con suo padre in modo molto intimo:

Non la conosci?

E tasti come un cieco il dono degli dèi? Nella tua casa risplende invano l'amabil luce? Ascolta: l'anima pia non troverà pace in questa terra, e rimarrà sola, lei così bella, e morirà senza gioia, lei, la figlia degli dèi, così seria e delicata mai potrà accettare

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di stringere al suo seno uno di questi barbari. Oh, credimi! Chi sta per congedarsi dice il vero. E non stupirti del consiglio! crizia. Cosa vuoi che ti risponda? empedocle. Parti con lei verso qualche terra sacra, va' nell'Ellade o a Delo tra coloro ch'ella amando cerca, dove tra i lauri sorgono, in silenziosa assemblea, le statue degli eroi. Qui troverà pace, tra i taciti simulacri la sua anima bella e delicata si sentirà appagata;

tra le nobili ombre svanirà

il dolore che in segreto alimenta

nel cuore pio ...

Kennest du sie nicht? / Und tastest wie ein Blinder an, was dir / In deinem Haus umsonst das holde Licht? / Ich sag es dir, in diesem Lande findet / Das fromme Leben seine Ruhe nicht / Und einsam bleibt es dir, so schón es ist, / Und stirbt dir freudenlos, denn nie begibt / Die zàrtiich-ernste Góttertochter sich, / Barbaren an das Herz zu neh-men, glaub / Es mir! Es reden wahr die Scheidenden. / Und wundere des Rats dich nicht! / Kritias. Was soli / Ich nun dir sagen? / Empedokies. Gehe hin mit ihr / In heilges Land, nach Elis oder Delos, / Wo jene wohnen, die sie lie-bend sucht, / Wo, stillvereint, die Bilder der Heroen / Im Lorbeerwalde stehn. Dort wird sie ruhn, / Dort bei den schweigenden Idolen wird / Der schóne, der zartgenùgsa-me, / Sich stillen, bei den edein Schatten wird / Das Leid entschiummern, das geheim sie hegt / In frommer Brust ... (m, pp. 111-112; tr. it. dt., pp. 79-81).

E preoccupato del destino di Panthea; ma il suo intimo non è presso di lei, come non è presso alcu-n'altra persona. Ella stessa descrive il proprio rapporto con lui raccontando della sua cura. Poco tempo prima, è stata malata e sul punto di morire, quando

Le figure del dramma 535

suo padre, superando la sua ripugnanza, si è rivolto al grande medico, e questi l'ha salvata:

E quando in rinnovata gioia l'essere mio

ancor si dispiegò al mondo da lungo tempo assente,

quando con giovanile curiosità il mio sguardo si riaprì

al giorno, lui era lì, Empedocle, divino,

e quanto a me presente! Nel sorriso

dei suoi occhi mi rifiorì la vita,

come lieve nuvola al mattino il mio cuore

volò incontro alla sublime e dolce luce

e ne fui il tenero riflesso [...]

Vorrei sedere ai suoi piedi

per ore, discepola e figlia,

contemplare il suo etere ed esultare

in lui, finché la mia mente

si perdesse nelle sue celesti altezze.

Wie nun in frischer Lust mein Wesen sich zum ersten / Male wieder der langentbehrten Welt entfaltete, mein / Auge sich injugendiicher Neugier dem Tag erschloB, da/ Stand Empedokies! o wie góttlich und wie gegenwàrtig / mir! am Làchein seiner Augen blùhte mir das Leben wieder / Aufì ach wie ein Morgenwólkchen flo6 mein Herz dem / hohen sùBen Licht entgegen und ich war der zarte Widerschein von ihm ... / Zu seinen FùBen mócht ich sit-zen, stundenlang, als scine / Schùlerin, sein Kind, in seinen Àther schaun und zu ihm / auffrohlocken, bis in seinen Himmeishóhen sich mein Sinn verirrte (III, p. 77; tr. it. cit., pp. 33-35).

Quando poi, nel corso del colloquio, esalta l'essere del grande uomo, l'amica chiede:

rhea. Oracolo, come conosci tutto questo? panthea. Costantemente penso a lui... oh, quanto mi ritmane

536 Quarto cerchio - La natura

da riflettere ancora su di lui? E se anche l'avessi capito che mai sarebbe? Esser lui stesso: questa è la vita, e noi non ne siamo che il sogno.

Rhea. O Sprecherin! wie weiBt du denn das alles? / Pan-thea. Ich sinn ihm nach - wieviel ist ùber ihn / Mir noch zu sinnen? ach! und hab ich ihn / GefaBt, was ists? et selbst zu sein, das ist/ Das Leben und wir andern sind der Traum davon (m, p. 78; tr. it. dt., pp. 35-37).

Avvertiamo il tono pericoloso di un sentimento che va oltre la misura del vivibile. Diventa ancora più chiaro quando l'amica parla dal canto suo dell'uomo che si leva particolarmente splendido davanti ai suoi occhi. Di Atene, è appena arrivata in Sicilia con suo padre, ed è interamente colma della personalità di Sofocle. Ma il suo entusiasmo ha qualcosa di naturale e lascia spazio per una vita propria:

rhea. Non posso biasimare dò che dia, cara, ma ne sono stranamente rattristata:

vorrei e nello stesso tempo non vorrei

essere come tè. Siete dunque tutti uguali

in quest'isola? Anche noi proviamo gioia

nel possedere uomini illustri, come colui

che ora è il sole delle ateniesi,

quel Sofocle cui primo fra i mortali

splendida apparve la natura delle vergini

e nel cuore a memoria pura

l'accolse [...]

e ognuna vorrebbe

un pensiero essere di quel grande e,

prima di sfiorire, poter serbare la giovinezza

eternamente bella nel cuore del poeta,

e cerca e chiede quale delle vergini di Atene

sia la seria e delicata eroina

che la sua anima vagheggiò, cui nome diede Antigone;

Le figure del dramma 537

e d si illumina la fronte quando l'amico degli dèi appare nel teatro in un giorno di festa, ma senza pena di lui ci allietiamo e mai si perde il cuor nostro nell'omaggio che doloroso d rapisce.

Rhea. Ich kann nicht tadein, Liebe, was du sagst, / Doch, irauert meine Seele wunderbar / Darùber, und idi móchte sein wie du, / Und mócht es wieder nicht. Seid ihr denn ali / Auf dieser Insel so? Wir haben auch / An groBen Mànnem unsre Lust, und Einer / Ist itzt die Sonne der Athenerinnen, / Sophokies! dem von allen Sterbiichen / Zuerst der Jungfraun herrlichste Natur / Erschien und sich zu reinem Angedenken / In seine Seele gab. / jede wùnscht sich, ein Gedanke / Des Herrlichen zu sein, und móchte gern / Die immerschóne Jugend, eh sie welkt, / Hinùber in des Dichters Seele retten, / Und fragt und sin-net, welche von denJungfem / Der Stadt die zàruichemste Heroide sei, / Die seiner Seele vorgeschwebt, die er / An-tigonà genannt; und helle wirds / Um unsre Stime, wenn der Góttefreund / Am heitem Festtag ins Theater tritt, / Doch kummerlos ist unser Wohigefallen, / Und nie ver-liert das liebe Herz sich so / In schmerziich fortgeriBner Huldigung (ili, p. 79; tr. it. dt., p. 37).

La dismisura di questo sentimento che porta alla catastrofe si avverte anche nelle seguenti parole:

Tu d sacrifichi - lo credo, è troppo grande perché tu possa mantenere la tua pace, è illimitato e l'ami senza limiti;

ma che gli giova? Fandulla buona, tu stessa hai presagito la sua fine:

dovrai forse morire insieme a lui?

Du opferst dich - ich glaub es wohi, er ist / Zu ùbergroB, um ruhig dich zu lassen, / Den Unbegrenzten liebst du

538 Quarto cerchio - La natura

unbegrenzt, / Was hiift es ihm? Dir selbst, dir ahndete / Sein Untergang, du gutes Kind, und du / Solisi untergehn mit ihm? (m, pp. 79-80; tr. it. dt., p. 37).

Infatti, Panthea già all'inizio del colloquio e del dramma intero ha raccontato di aver visto Empedo-cle poco tempo prima:

L'ultima volta che lo vidi, all'ombra

dei suoi alberi, aveva certo - lui divino -

toccato il fondo del suo dolore.

Con grande struggimento, cercando triste,

come se molto avesse perduto, ora chinava

gli occhi al suolo, ora l'innalzava

oltre la penembra del boschetto, quasi la vita

verso l'azzurro lontano gli si fosse involata, e l'umiltà

del suo aspetto regale commosse

il mio cuore restio - tu pure dovrai tramontare,

splendida stella, e tra non molto.

Fu il mio presentimento.

Ach! da ich ihn zum letzten Male dort / Im Schatten sei-ner Bàume sah, da hatt er wohi / Sein eigen tiefes Leid -der Góttliche. / Mit wunderbarem Sehnen, traurigfor-schend, / Wie wenn er viel verloren, blickt* er baid / Zur Erd hinab, baid durch die Dàmmerung / Des Hains her-auf, als wàr ins ferne Biau / Das Leben ihm entflogen, und die Demut / Des kóniglichen Angesichts ergriff / mein ringend Herz - auch du muBt untergehn, / Du schó-ner Stern! und lange wàhrts nicht mehr. / Das ahnte mir (HI, p. 76; tr. it. cit., p. 33).

Ma all'amica, preoccupata che la fine dell'uomo amato possa portare con sé anche la sua, risponde:

Non farmi inorgoglire e non temere per me come per lui!

Le figure del dramma 539

Non sono lui, ne il suo tramonto

potrebbe mai essere il mio,

poiché dei grandi anche la morte è grande.

Ciò che accade a quest'uomo

accade, credimi, soltanto a lui,

e se anche avesse contro tutti gli dèi

peccato sfidando della loro collera

il peso e io volessi peccare

come lui per condividerne la sorte,

tale sarei, qual chi, estraneo, s'immischia

in una lite fra amano. «Cosa pretendi?», direbbero

gli dèi, «soltanto tu stolta non puoi

offenderci come fece lui».

O mache mich / Nicht Stolz, und fùrchte, wie fùr ihn, far mich nicht! / Ich bin nicht er, und wenn er untergeht, / So kann sein Untergang der meinige / Nicht sein, denn groB ist auch der Tod der GroBen. / Und will der Waffen-tràger mit dem Helden / Durch Eine Schicksaisflamme gehn, so mu6 / Der eine, wie der andere, dazu / Berufen sein. Was diesem Manne widerfahrt, / Das, glaube mir, das widerfahrt nur ihm, / Und hàtt er gegen alle Gótter sich / Versùndiget und ihren Zom auf sich / Geladen, und ich wollte sùndigen, / Wie er, um gleiches Los mit ihm zu leiden, / So wàrs, wie wenn ein Fremder in den Streit / Der Liebenden sich mischt' - Was wilist du? sprà-chen / Die Gótter nur, du Tórin kannst uns nicht / Belei-digen, wie er (ni, p. 80 [nella Kleine Stuttgarter Awgabe, rv, p. 8, mancano i versi 6, 7, 8, 9a]; tr. it. cit., pp. 37-39).

Ma Rhea ha ragione quando risponde:

Forse sei simile

a lui più che tu creda, che altrimenti come trovare

in lui di che compiacerti?

Du bist vielleicht / Ihm gleicher, als du denkst, wie fàndst du sonst / An ihm ein Wohigefallen? (m, p. 80; tr. it. dt., p. 39).

540 Quarto cerchio - La natura 3|

La scena è stupenda, pervasa da un movimento Ì profondo che ora si avvicina all'uomo amato e ora si ' ritira del tutto nella lontananza, per essere, nello stes- f so momento, più vicino di prima. ^

Empedocle qui appare come l'uomo regale e divi-no, come il semidio nel senso prima esposto. Egli è i fatto della luce che viene dall'alto. Se Panthea dice di i voler «sedere ai suoi piedi», e «contemplare il suo § etere», allora vi si esprime una maestà numinosa, 7, qualcosa di olimpico e signorile, di zeusico. Ciò è espresso dai seguenti versi:

panthea. Non lo sa. Libero da bisogno, s'aggira

in un mondo soltanto suo; nella tacita quiete degli dèi

passeggia silente tra i suoi fiori, e temono

l'arie di disturbare la sua felicità,

gli tace il mondo e da lui stesso

con piacere crescente nasce e sale l'entusiasmo,

finché dalla notte del fecondo rapimento

come una sondila sprizza il pensiero

o luminose le immagini di future gesta

gli fan ressa nel cuore, e il mondo,

la vita fermentante dei mortali,

e più tacita la Natura

appaiono a lui: allora si sente,

come un dio, nel suo elemento e la sua gioia

è canto celeste; poi tra gli uomini

ritoma, quando della folla sormonta il mugghio

e nel tumulto irresoluto è necessario

un dominatore; e qui governa il grande

pilota e reca aiuto; e quando infine

l'hanno guardato bene e alla sua presenza,

sempre straniera, vorrebbero abituarsi,

prima che se n'avvedano, dilegua: e tra le sue ombre

l'atura il quieto mondo degli alberi, ove meglio si trova,

e quella vita misteriosa, che a lui

è presente nelle sue forze tutte.

Le figure del dramma 541

panthea. Er wei6 es nicht. Der Unbedùrftge wandeit / In seiner eignen Welt; in leiser Gótterruhe geht / Er unter seinen Blumen und es scheun / Die Lùfte sich, den Glùc-klichen zu stóren, / Ihm schweigt die Welt und aus sich selber wàchst/ In steigendem Vergnùgen die Begeistrung / Ihm auf, bis aus der Nacht des schópfrischen / Entzùc-kens, wie ein Funke, der Gedanke springt / Und heiter sich die Geister kùnftger Taten / In seine Seele dràngen, und die Welt, / Der Menschen gàrend Leben und der sdi-lern / Natur, um ihn erscheint - hier fuhit er, wie ein Gott, / In seinen Elementen sich, und seine Lust / Ist himmlischer Gesang, dann tritt er auch / Heraus ins Volk an Tagen, wo die Menge / Sich ùberbraust und eines Màchdgern / Der unentschlossene Tumuli bedarf. / Da herrscht er dann, der herrliche Pilot, / Und hiift hinaus, und wenn sie nun genug / Ihn sehn, des immerfremden Mannes sich / Gewóhnen móchten, ehe sie's gewahren, / Ist er hinweg - ihn rieht in ihre Schatten / Die sulle Pflan-zenweit, wo er sich schóner findet, / Und ihr geheimnis-volles Leben, das vor ihm / In seinen Kràften allen gegen-wàrdg ist (m, pp. 77-78; tr. it. dt., p. 35).

Qui diventa chiaro lo spazio della sua esistenza, Empedocle vive nella solitudine. Da là scaturisce la scintilla creativa. Poi va tra la gente, operando, agendo, guidando, per sottrarsi di nuovo a essa e ritornare nel silenzio. Vi è un luogo che è particolarmente correlato a Empedocle: il giardino.

La prima frase pronunciata da Panthea, con cui inizia il dramma, è:

Ecco il suo giardino. Nell'ombra misteriosa ove la sorgente scaturisce stava recentemente, quando passai di D.

Dies ist sein Garten! Dort im geheimen Dunkel, wo die / Quelle springt, dort stand er jùngst, als ich vorùberging (III, p. 75; tr. it. dt., p. 31).

542 Quarto cerchio - La natura

Si tratterà di analizzare ancora più a fondo cosa significhi il giardino, come anche il pendant dell'immagine di esso, le coste vuote della montagna e infine il luogo, al quale conduce la dirczione che attraversa questo contrasto, il cratere del vulcano ... Ma vi sono ancora alcune frasi importanti:

panthea. Dovresti vederlo ora! Ora! Si dice che le piante al suo passaggio

10 scrutino attente, e le acque sotterranee

affiorino dove il suo bastone tocca il suolo.

Può darsi che tutto dò sia vero!

E se durante i temporali leva lo sguardo al delo, le nuvole

si squardano e subito appare

11 giorno sereno.

Ma che importa? Devi vederlo, un solo istante, e poi allontanarti! Io stessa lo evito poiché, tremendo, v'è in lui il potere di trasformare tutto.

Panthea. Du rnufit ihnjetzt sehn!jetzt! Man sagt, die Pflan-zen merkten auf ihn, wo er wandre, und die Wasser unter der Erde strebten herauf, da wo sein Stab den Boden be-rùhre! Das ali mag wahr sein! Und wenn er bei Gewittem in den Himmel blicke, teile die Wolke sich und hervor-schimmere der heitere Tag. Doch was sagts? du mufit ihn selbst sehn! Einen Augenblick! und dann hinweg! ich meid ihn selbst, ein fùrchtbar allverwandeind Wesen ist in ihm (m, p. 75; tr. it. dt, p. 31).

Qui si evidenzia il nucleo della figura: la sua relazione con tutto. Empedocle è un uomo universale. L'abbozzo dice che egli è:

[...] nemico mortale di ogni esistenza unilaterale e perdo insoddisfatto, instabile, sofferente, anche in situazioni di vita realmente belle, semplicemente perché si tratta di situazioni particolari, che potrebbero soddisfarlo fino in fondo solo se vissute in un grande accordo con tutto dò

Le figure del dramma 543

che vive; semplicemente perché egli non può, con il cuore presente a ogni cosa, vivere e amare in esse con l'intimità profonda di un dio, libero e aperto come un dio, semplicemente perché è vincolato alla legge della successione non appena il suo cuore e il suo pensiero abbracciano ciò che gli sta innanzi.

[...] ein Todfeind aller einseitigen Existenz und deswegen auch in wirkiich schónen Verhàitnissen unbefriedigt, un-stet, leidend, bloB weil sie besondere Verhàitnisse sind und, nur im groBen Akkord mit allem Lebendigen em-pfunden, ganz ihn erfiillen, bloB weil er nicht mit allgegen-wàrtìgem Herzen innig, wie ein Gott, und frei und ausge-breitet, wie ein Gott, in ihnen leben und lieben kann, bloB weil er, sobaid sein Herz und sein Gedanke das Vorhande-ne umfaBt, ans Gesetz der Sukzession gebunden ist... (m, p. 67; tr. it. cit., p. 247).

Per natura, egli è correlato al tutto. Indirizza ogni sua azione verso il tutto; e da ciascuna cosa tende al centro. Nella sua figura si leva, inquietante e tremendo per gli altri, il tutto, e si fa presente. Muovendo verso il tutto e ritornandovi, staccandosi dal centro e ricollegandovisi, egli attraversa le situazioni della sua esistenza quotidiana, toccandole, dando loro forma, eppure lasciandole, in fondo, scosse dietro di sé. Un movimento profondo fluttua attraverso la «tacita quiete degli dèi» di questa figura, un'eccitazione dionisiaca da cui può erompere a ogni istante il brusco slancio verso l'alto, che poi diventa la caduta nell'abisso. Ciò è particolarmente evidente sullo sfondo di quell'altra figura che da Atene, con chiarezza apollinea, appare dietro a Empedocle, Sofocle.

Ma non bisogna dimenticare che Empedocle è anche un lottatore, un auriga, vincitore ad Olimpia. Subito all'inizio Rhea dice di lui:

544 Quarto cerchio - La natura

[...] un tempo, quand'ero ancora bambina, l'ho visto

ai giochi d'Olimpia

in gara sopra un cocchio.

Di lui si parlò molto, allora,

e sempre mi è rimasto il suo nome.

[...] ehmais, als ich noch ein Kind war, sah ich ihn die Rosse lenken auf einem Kàmpferwagen bei den Spielen von Olympia. Sie sprachen damais viel von ihm, und immer ist sein Name mir gebiieben (m, p. 75; tr. it. dt., p. 31).

E, salutando la sua servitù, egli stesso si ricorda di quelle ore circonfuse dell'alone di gloria:

Dove portate dunque, vie dei mortali? Molte

voi siete, ma qual è la mia? quale la più breve? dove?

la più veloce? Che indugiare è vergognoso.

Miei numi, nello stadio guidavo un tempo il cocchio,

spensierato, su fumanti ruote. Così voglio

presto a voi ritornare, benché la fretta sia rischio.

Wohin denn nun, ilir Pfade der Sterbiichen? viel / Sind euer, wo ist der meine? der kùrzeste? wo? / Der schnell-ste? denn zu zógern ist Schmach. / Ach meine Getter! im Stadium lenkt ich den Wagen / Einst unbekùmmert auf rauchendem Rad. So will / Ich baid zu euch zurùck, ist gleich die Eile gefahriich (m, p. 118; tr. it. dt., p. 80).

Questo tratto della sua natura non appare partico-larmente nel dramma stesso. Tuttavia è presente dietro le crisi e decisioni religiose in questione conferendo ad esse la sua impronta.

Le parole di Panthea, chiaroveggente per amore, rivelano anche che il movimento pericoloso ha già avuto inizio:

L'ultima volta che Io vidi, all'ombra dei suoi alberi, aveva certo - lui, divino -

Le figure del dramma 545

toccato il fondo del suo dolore.

Con grande struggimento, cercando, triste,

come se molto avesse perduto, ora chinava

gli occhi al suolo, ora l'innalzava

oltre la penembra del boschetto, quasi la vita

verso l'azzurro lontano gli si fosse involata ...

Ach! da ich ihn zum letzten Male dort / Im Schatten sei-ner Bàume sah, da hatt er wohi / Sein eigen tiefes Leid -der Góttliche / Mit wunderbarem Sehnen, traurigfbr-schend, / Wie wenn er viel verloren, blickt'er baid / Zur Erd hinab, baid durch die Dàmmerung / Des Hains her-auf, als wàr ins ferne Biau / Das Leben ihm entflogen ... (Ili, p. 76; tr. it. cit., p. 33).

Quando poi il verdetto è stato pronunciato ed Em-pedocle ha abbandonato la città, ella esprime il tratto di fondo tragico della sua figura:

[...] Lo so, è necessario

cada quanto è divino. Ma la sua caduta

una veggente di me ha fatto,

e quando incontro ancora un genio splendido,

si chiami egli uomo o dio,

so presagire l'ora per lui infausta.

[...] Ich wei6, es muB, / Was gótdich ist, hinab. Zur Sehe-rin / Bin ich geworden ùber seinen Fall, / Und wo mir noch ein schóner Genius / Begegnet, nenn er Mensch sich oder Gott, / Ich weiB die Stunde, die ihm nich gefallt (ili, pp. 121-122; tr. it. cit., p. 95).

Ed è di nuovo lei a dire, dopo l'ultimo congedo, la parola definitiva su di lui:

Non per nulla, o tu che tutto a lui donasti, Natura,

546 Quarto cerchio - La natura

sono più caduchi di ogni altro i tuoi prediletti. Lo so bene:

vengono, e diventano possenti,

e nessuno sa dire come, e a loro volta poi ,

scompaiono i felici! Oh, lasciateli!

Umsonst nicht sind, o die du alles ihm / Gegeben, Naturi / Vergànglicher deine Uebsten, denn andre! / Ich wei6 es wohi! / Sie kommen und werden groB, und keiner weiB, / Wie sie's geworden, so entschwinden sie auch, / Die Glùc-klichen! wieder, ach! .und laBt sie doch (ili, p. 163; tr. it. cit., p. 199).

E quando l'amica chiede:

Non è dunque bello

dimorare tra gli uomini? Altro

il mio cuor non conosce, si placa

in quest'uno, ma ai miei occhi

appare tristemente minacciosa

la fine dell'Incomprensibile, e anche tu,

Panthea, lo esorti a parure?

Ists denn nicht schón / Bei Menschen wohnen? Es wei6 / Mein Herz von andrem nicht, es ruht / In diesem Einen, aber traurig droht / Vor meinem Auge das Ende / Des Unbegreiflichen, und du heiBest ihn auch / Hinweggehen, Panthea? (m, p. 164; tr. it. dt., p. 199).

Ella risponde:

Devo! Chi potrebbe legarlo? Dirgli: sei mio?

se della sua vita egli è l'unico padrone e legge a lui solo è il suo spirito, e per salvare l'onore dei mortali, che gli hanno fatto oltraggio dovrebbe rimanere,

•<§ è.

Le figure del dramma 547

quando il padre, l'Etere, gli apre le bracda?

Ich mu6! Wer will ihn binden? / Ihm sagen, mein bist du? / Ist doch sein eigen der Lebendige / Und nur sein Geist ihm Gesetz. / Und soli er, die Ehre der Sterbiichen / Zu retten, die ihn geschmàht, / Verweilen, wenn ihm / Der Valer die Arme, / Der Àther, óffnet? (ni, p. 164; tr. it. cit. p.199).

Qui diventa manifesto ciò che sta dietro il tramonto e che cosa nella natura dell'uomo misterioso si dimostra un elemento straniero.

II

Pausania, il discepolo di Empedocle, è un giovane. Ha quindi l'età che per Hólderlin è posta in un rapporto particolarmente immediato con il divino e l'inconsueto. Panthea dice di lui:

Già molto di lui mi ha narrato Pausania, il suo amico, il giovane che lo vede ogni giorno, e l'aquila di Giove - io credo -non è più orgogliosa di lui!

Sein Freund Pausanias hat auch von ihm / Schon manches mir erzàhit - derJùngling sieht/ Ihn Tag vor Tag, undJo-vis Adier ist / Nicht stolzer, denn Pausanias - ich glaub es wohi (il, pp. 78-79; tr. it. dt., p. 37).

Dell'operato politico di Empedocle Panthea dice:

A noi veniva come un nuovo sole splendido e amichevolmente attraeva a sé

548 Quarto cerchio - La natura J

•? ^ i con fili d'oro i giovani immaturi. ».

Da tempo la Sicilia era in attesa di lui. ^ Sull'isola non regnò mai mortale ;, che fosse pari a lui. Intuivano ] che dei geni del mondo era alleato. ^ E tu con grande affetto li stringesti tutti i al petto [...] , i

':! Wie eine neue Sonne kam er uns / Und strahit' und zog Ì das ungereifte Leben / An goldnen Seilen freundiich zu sich auf, / Und lange hatt auf ihn Sizilien / Gewartet. Nie-mais herrscht' auf dieser Insel / Ein Sterbiicher, wie er, sie fùhitens wohi, / Er lebe mit den Genien der Welt / Im Bunde. Seelenvoller! und du nahmst / Sie ali ans Herz [...] (lll.p. 121;tr.it. dt.,p.95).

Pausania esprime la stessa opinione in termini virili, ed è bello vedere la diversità delle prospettive:

[...] Pur ti conobbi,

nelle tue gesta, quando allo Stato selvaggio

conferisti forma e senso,

e nella sua potenza

sperimentai il tuo spirito e il suo mondo; quando spesso

una tua parola nell'istante

sacro creava in me la vita di molti anni

e allora un'età nuova e bella

s'apriva alla mia giovinezza [...]

[...] Doch sah ich dich / In deinen Taten, da der wilde Staat / Von dir Gestalt und Sinn gewann, in seiner Macht / Er-fuhr ich deinen Geist und seine Welt, wenn oft / Ein Wort von dir im heilgen Augenblick / Das Leben vieler Jahre mir erschuf, / DaB eine neue schóne Zeit von da / Dem Jùnglinge begann [...] (m, p. 94; tr. it. dt., p. 57).

Domina lo stesso tono quando Pausania descrive il

Le figure del dramma 549

sapere di Empedocle arca il mondo mitico, la sua capacità di veggente e il suo potere sulla natura:

[...] Come ai cervi domati, che pensano

alla terra natale quando stormisce lontana la foresta,

così spesso mi palpitava il cuore se parlavi

della felicità del mondo primevo, e innanzi a me

non disegnavi forse a grandi linee gli anni futuri,

come il sicuro sguardo dell'artista nell'immagine intera

inserisce un elemento a colmar una lacuna?

Non è forse chiaro per tè il destino umano?

E non conosci tu le energie della natura

che confidente, come nessun altro mortale,

guidi, come tu vuoi, con signoria tranquilla?

[...] Wie zahmen Hirschen, / Wenn ferne rauscht der Wald und sie der Heimat denken, / So schlug mir oft das Herz, wenn du vom Glùck / Der alten Urweit sprachst;

und zeichnetest / Du nicht der Zukunft groBe Linien / Vor mir, so wie des Kùnstler sichrer Blick / Ein fehiend Glied zum ganzen Bilde reiht? / Uegt nicht vor dir der Menschen Schicksal offen? / Und kennst du nicht die Kràfte der Natur, / Da6 du vertraulich, wie kein Sterbii-cher, / Sie, wie du wilist, in stiller Herrschaft lenkst? (Ili, p. 94; tr. it. dt., p. 57).

Ma questo dominio è esercitato allo stesso tempo con una peculiare mitezza. Non è più contraddistinto dalla potenza primordiale di un Tantalo o anche di un Cadmo. Pausania lo rinfaccia agli awersarì quando questi portano al suo maestro il verdetto di proscrizione:

[...] Osservatelo:

si affligge e vi tace quello spirito suo a cui, quando non sarà più, gli adolescenti

550 Quarto cerchio - La natura

di un'era senza eroi aspireranno; ,

e ora gli strisciate intorno sibilando.

Vi sembra giusto? e siete così ottusi '

da non sentirvi ammoniti dal suo sguardo?

Lui che, essendo mite, è bersaglio

dei codardi [...]

J

[...] Da stehet er / Und trauert und verschweigt den Geist, wonach / In heldenarmer Zeit dieJùnglinge / Sich sehnen werden, wenn er nimmer ist, / Und ihr, ihr kriecht und zi- ? schet um ihn her, / Ihr dùrft es? und ihr seid so sinnen-grob, / DaB euch das Auge dieses Manns nicht wamt? / Und weil er sanft ist, wagen sich an ihn / Die Feigen [...] (Ili, p. 100; tr. it. cit., p. 65).

Qui si radica la tragicità psicologica di Empedocle. Di per sé, egli è un «semidio», un essere mitico, e ne ha il compito: plasmare l'esistenza umana tramite forze creative. Ma gli manca l'integrità degli eroi mitici. Questi si compongono solo, per così dire, di potenze, non hanno interiorità. L'anima di Empedocle, invece, è molto delicata e profonda. Anzi, la sua interiorità e di tipo particolare, poiché la sua figura - peculiarmente tramutata come sarà messo in luce nel prossimo cerchio - ha assimilato quella di Cristo. Il parallelismo tra Empedocle e Cristo attraversa l'intero dramma esercitando un influsso permanente. Ne deriva la mitezza propria all'Empedocle hólderliniano, che è così poco greca quanto lo è, poniamo, la coscienziosità deU'Ifìgenia di Goethe.

Pausania sperimenta, vincendolo con lui, il mutamento del suo maestro dopo che questi si è deciso al sacrificio dell'espiazione (m, pp. 128 ss.). Ed è lui ad esplicitare nei confronti di Ermocrate, nei termini assoluti della giovinezza, ciò che Empedocle pensa (III,

Le figure del dramma 551

p. 139). In un colloquio in cui aleggia la più profonda familiarità, egli da testimonianza di sé al suo maestro:

pAUSANIA. Comprendo il mio cuore

che, fedele e orgoglioso, batte e freme per il tuo.

empedocle. Allora concedi almeno il suo onore, al mio.

pAUSANIA. Solo nella morte c'è onore?

EMPEDOCLE. Mi hai inteso.

E l'anima tua lo attesta: non v'è

altro per me.

PAUSANIA. Ahimè, è dunque vero?

EMPEDOCLE. Chi riconosci in me?

pausania (affettuoso). Figlio d'Urania,

come puoi dubitarne?

empedocle. E tu vuoi che sopravviva,

come uno schiavo, al giorno del mio disonore?

pausania. No!

Non voglio, per il tuo spirito d'incantatore,

fard oltraggio, neppur se l'angustia

d'amore me l'ordinasse, caro. Muori dunque, e rendi

testimonianza di tè stesso! Se è necessario.

Pausanias. Mein Herz versteh ich, / Das treu und stolz fùr deines zùmt und schlagt. / Empedokies. So gónn ihm seine Ehre doch, dem meinen. / Pausanias. Ist Ehre nur im Tod? / Empedokies. Du hasts gehórt, / Und deine Seele zeugt es mir, fùr mich / Gibts andre nicht. / Pausanias. Ach! ists denn wahr? / Empedokies. Wofùr? / Erkennst du mich? / Pausanias (innig). Sohn Uraniens! / Wie kannst du fragen? / Empedokies. Dennoch soli ich Knechten gleich / Den Tag der Unehr ùberleben? / Pausanias. Nein! / Bei deinem Zaubergeiste, Mann, ich will nicht, / Will nicht dich schmàhn, gebót es auch die Not / Der Liebe mir, du Lieber! sdrb denn nur / Und zeuge so von dir. Wenns sein muB (m, pp. 158-159; tr. it. dt., p. 149).

Egli contribuisce a formare anche, nella scena finale, con Panthea e la sua amica, che qui si chiama

552 Quarto cerchio - La natura

Delia, il coro giovanile dalle cui parole l'immagine di colui che è già tramontato si leva trasfigurata. Pausa-nia e Panthea coincidono nel loro entusiasmo assoluto. Delia invece prende le difese della vita e vorrebbe che potesse proseguire. Gli altri due esaltano la vita descritta nella poesia Voce del popolo: un culmino dionisiaco che precipita nella morte! E l'atteggiamento già espresso nell'inno II Reno, nell''Arcipelago e nella figura di Sofocle. La consonanza diventa ancora più forte quando l'inno dionisiaco trascina anche loro. Pausania dice:

[...] Non condannare

il Sublime cui così la fortuna si mutò in sventura,

che deve morire, perché la sua vita fu troppo bella,

perché troppo fu amato dagli dèi.

Se si oltraggia un altro che non sia lui,

è perdonabile, ma lui, se a lui

... che può il figlio degli dèi?

Sopra di lui, infinito, il colpo è senza fine.

[...] Verdamme nicht/ Den Herrlichen, dem so sein Glùck zum Unglùck ward, / Der sterben mu6, weil er zu schón gelebt, / Weil ihn zu sehr die Getter alle liebten. / Denn wird ein anderer, denn er, geschmàht, / So ists zu tilgen, aber er, wenn ihm / ... was kann der Góttersohn? / Unen-diich trifft es den Unendiichen (m, p. 534; tr. it. cit., p. 161).

E Panthea:

Non nel fiore e nell'uva purpurea soltanto è sacra energia; si nutre la vita di dolore, sorella, e beve, come il mio eroe, pur anche la gioia dal calice di morte.

Le figure del dramma 553

Micht in der Blùt und Purpurtraub / Ist heilige Kraft al-lein, es nàhrt / Das Leben vom Leide sich, Schwester! / (Jnd trinkt, wie mein Held, doch auch / Am Todeskelche sich glùckiich! (m, p. 169; tr. it. dt., p. 207).

Delia invece a Pausania:

Ti accende, anima generosa, la morte

dei grandi, ma godono

i cuori dei mortali anche

alla mite luce del sole

scaldarsi e fissano

lo sguardo su ciò che non muore. Oh, dimmi,

che può ancora vivere e durare? Il destino

sradica gli uomini più quieti, e se, a lui fidi,

pieni di presagi, s'avventurarono,

subito li respinge, e perisce

con le loro speranze la giovinezza.

Nel suo fiore non rimane

niente di mortale - e, anche i migliori,

passano dalla parte degli annientatori

dèi della morte, anche loro, e vanno

con gioia, e ci fanno vergognare

di indugiare tra i mortali.

Dich entzùndet, groBe Seele! der Tod / Des GroBen, aber es sonnen / Die Herzen der Sterbiichen auch / An mil-dem Uchte sich gern und heften / Die Augen an Bleiben-des. O sage, was soli / Noch leben und dauern? Die Still-sten reiBt / Das Schicksal doch hinaus, und haben / Sie ahnend sich gewagt, verstóBt / Es baid die Trauten wieder und es stirbt / An ihren Hoffnungen die Jugend. / In sei-ner Blùt bleibt / Kein Lebendes - ach! und die Besten, / Noch treten zur Seite der tilgenden / Todesgótter auch sic, und gehen dahin / Mit Lust und machen zur Schmach es uns, / Bei Sterbiichen zu weilen! (n, pp. 167-168; tr. it. dt., pp. 203-205).

554 Quarto cerchio - La natura 3

Ma è la sorella di Diotima a chiudere la scena:

Oh, sì, festoso scende

e più gioia e più chiarità nasce.

Perché allora m'attristo? Risplende

anima di crepuscolo, pur anche

colui che affonda,

l'austero, il tuo prediletto, o Natura!

il tuo fedele, la tua vittima!

[...] Oh, sacro Tutto :

fervido, vivente, per dird grazie,

per tesdmoniare di tè che sei immortale,

sorridendo l'audace getta le sue perle

nel mare da cui vennero.

Così doveva accadere.

Così vuole lo spirito

e il tempo che matura.

che a noi, ciechi, una volta almeno

necessario era il prodigio.

Wohi geht er festlich hinab - / Und freudiger wirds und heller auch. / Warum denn traur ich? leuchtet, / Dàm-mernde Seele! doch auch / Der Untergehende dir, / Der Ernste, dein Uebster, Natur! / Dein Treuer, dein Opfer! / [...] o heilig Ali! / Lebendiges! inniges! Dir zum Dank / Und daB er zeuge von dir, du Todesloses! / Wirft làcheind seine Perlen ins Meer, / Aus dem sic kamen, der Kùhne. / So muBt es geschehen. / So will es der Geist / Und die rei-fende Zeit, / Denn einmal bedurften / Wir Blinden des Wunders (m, pp. 170-171; tr. it. dt., pp. 207-209).

Sulla radiosa immagine che dipingono i giovani ammiratori del loro maestro getta ombre Ermocrate. Ciò che questi dice contro Empedocle in modo consapevole e per principio è condiviso da Crizia istintivamente. Egli è un uomo che vive nei limiti del buon senso quotidiano e come tale diffida di tutto ciò che

Le figure del dramma 555

è entusiastico e inconsueto. Avverte il pericolo che deriva dal modo di essere di Empedocle. È lui a formulare il primo giudizio negativo:

[...] Oh, lontano fosse tra i boschi o nei deserti, oltre il mare o giù, sotto la terra, ovunque illimite lo spirito possa spingerlo!

[...] wàr er hinweg / In Wàlder oder Wùsten, oder ùbers Meer / Hinuber oder in die Erde hinab, wohin / Der un-begrenzte Sinn ihn treiben mag! (m, p. 82; tr. it. dt-, p. 41).

Lo «spirito illimite» esprime il pericolo di cui è causa ciò che in termini positivi si chiama «relazione col Tutto». Quando Ermocrate definisce l'amore del popolo per Empedocle «folle illusione», Crizia sottolinea l'espressione:

II popolo è ebbro, come lui stesso.

Non hanno più leggi, ne giudici,

ne doveri, sui loro costumi

come su placide spiagge tutte schiumanti

crosciano indistinti frastuoni.

Ogni giorno s'è fatto una festa selvaggia,

è sempre festa, e le modeste ricorrenze

consacrate agli dèi si sono tutte

fuse insieme. Ricoprendo tutto di tenebre,

l'incantatore avvolge delo e terra

nella tempesta, che ci ha scatenato,

e lui guarda e gioisce del suo spirito

e della sua silenziosa dimora.

Das Volk ist trunken, wie er selbst ist. / Sie hóren kein Ge-setz und keine Not / Und keinen Richter; die Geb ràuche sind / Von unverstàndiichem Gebrause ganz / Gleich

556 Quarto cerchio - La natura

friediichen Gestaden ùberschàumt, / Ein wildes Fest sind T alle Tage worden, / Ein Fest fùr alle Feste und der Gótter / Bescheidne Feiertage haben sich / In Eins verloren. Ali. verdunkeind hùllt / Der Zauberer den Himmel und die Erd / Ins Ungewitter, das er uns gemacht, / Und siehet zu3 und freut sich seines Geists / Und seiner stillen Halle (m, p. 83; tr. it. cit., pp. 41-43). ;

Le frasi rivelano la potenza dionisiaca dell'uomo.fc Egli opera ciò che gli awersari del dionisismo gli rinfacciano già nel mito: di rompere l'ordine dell'osi- ', stenza, di distruggere la disciplina e il pudore, di annullare le differenze tra uomo e uomo, tra uomo e bestia e dio, sospingendo tutto nel caos. Empedocle annulla davvero le differenze tra gli dèi. Fa che le lo-1 ro immagini celebrative e i loro attributi si fondano ' poiché li concepisce come elementi nella totalità della natura. Questa volontà è avvertita da Crizia come pericolosa per la forma e l'ordine dell'esistenza. ^

Entrambi riconoscono che Empedocle è potente: | sacerdote della religione tradizionale, supremo giudi- S ce della città e custode dell'ordine civile. Crizia deve persino ammettere che quell'uomo pericoloso gli ha ? salvato la figlia (ili, p. 83; tr. it. cit., p. 43). Ma essi ri-1 conoscono anche la crisi, in cui egli si trova, e il peri-1 colo che essa può significare per altri. Infatti, quando I Crizia domanda ad Ermocrate che cosa pensi di Em- ^ pedocle, questi risponde: ^

Gli dèi lo hanno molto amato. ' ". \ Ma non è il primo che abbiano respinto, 3 più tardi, giù nella notte dell'insensatezza I dalla vetta della loro benigna intimità, i perché nell'eccesso della sua fortuna

troppo dimenticò le distanze ^

Le figure del dramma 557

e si ritenne unico; così è stato punito

con una solitudine infinita.

Ma per lui non è ancora sonata l'ora estrema:

che a lungo viziato, più nell'animo non tollera,

;o temo, l'ignominia, e il suo

spirito assopito si accende

di nuovo all'esca della sua vendetta,

e in dormiveglia, tremendo sognatore,

afferma, come i vecchi altezzosi

che con la canna peregrinano nell'Asia,

che dalla sua parola un tempo ebbero origine

gli dèi. Allora il mondo immenso, ricco

di vita, sta di fronte a lui come una sua

perduta proprietà, e immense voglie

gli s'agitan nel petto, e questa fiamma,

dovunque si getti, apre un varco.

Egli rovescia tutto dò che benigno il tempo

prima di lui maturò - leggi

e arti e costumi e sacre saghe -

e mai può tollerare tra i viventi

ne pace, ne serenità.

Es haben ihn die Getter sehr geliebt, / Doch nicht ist der erste, den sie drauf/ Hinab in sinnenlose Nacht verstoBen / Vom Gipfel ihres gùtigen Vertrauns, / Weil er des Un-terschieds zu sehr vergaB / Im ùbergroBen Glùck, und si eh allein / Nur fuhite; so erging es ihm, er ist / Mit gren-zenloser Òde nun gestraft. - / Doch ist die letzte Stunde noch fur ihn / Nicht da; denn noch ertràgt der Langver-wóhnte / Die Schmach in seiner Seele nicht, sorg ich, / Und sein entschlafher Geist / Entzùndet neu an seiner Ra-che sich, / Und halberwacht, ein fùrchterlicher Tràumer, spricht / Er, gleich den alten Ùbermùtigen, / Die mit dem Schilfrohr Asien durchwandem, / Durch sein Wort sei'n die Gótter einst geworden. / Dann steht die weite lebens-reiche Welt / Wie sein verlornes Eigentum vor ihm, / Und ungeheure Wùnsche regen sich / In seiner Brust, und wo sie hin sich wirft, / Die Fiamme, macht sie eine

558 Quarto cerchio - La natura

freie Bahn. / Und was vor ihm die gute Zeit gereift, / Gè- s setz und Kunst und Sitt' und heilge Sage, / Das stùrzt er I um und Lust und Frieden kann / Er nimmer dulden bei I den Lebenden (m, p. 84; tr. it. cit., pp. 4S-45). |

In Empedocle si ripetono, come lui stesso dirà, J opera e destino di un Tantalo e di un Sisifo. Gli dèi s lo hanno «amato» e tratto a sé, ma egli ha «dimentì- | cato la distanza». Adesso è espulso dalla comunità ce- H leste. Fino a qui Ermocrate ha ragione. Ma poi inizia 8 la cattiva interpretazione dettata dall'odio: l'elemento ? dionisiaco si tramuterà in quello distruttivo-titanico, e 1 travolgerà tutto quanto si chiama forma e ordine - ? «leggi e arti e costumi e sacre saghe». La possibilità > che la verità possa essere più profonda, più delicata, ? dolorosa ed intricata, che il colpevole possa ricono- | scere la sua colpa e magnanimamente superarla non è nemmeno presa in considerazione. Ermocrate fa della colpa di Empedocle una colpa mitica, come quella di Tantalo. La natura d'essa consiste nel fatto | che l'attore sia identico con la sua azione. La colpa j mitica non prevede una conversione, ma solo conse- I guenza e destino. Ma Empedocle, per quanto colloca- ' to nel mitico, è un vero uomo, per giunta toccato dal ^ cristianesimo. Questo Ermocrate non lo vede. Egli

vuole esclusivamente giudicare, punire, maledire: ,|

'.^• La sentenza degli dèi lo colpirà prima che l'opera ;

inizi. Raduna solo il popolo, affinchè 1^ mostri loro il volto dell'uomo ? che, a quanto dicono , è già salito y all'etere. Devon esser testimoni 1 dell'anatema che sto per scagliargli contro. Ig Verrà scacciato nel deserto selvaggio, S da cui non potrà più fare ritorno '.;

Le figure del dramma 559

per espiarvi l'ora trista in cui si fece dio.

Der Spruch der Gótter trifft ihn, eh sein Werk / Beginnt Versammle nur das Volk, damit ich / Das Angesicht des Mannes ihnen zeige, / Von dem sie sagen, daB er aufge-flohn / Zum Àther sei. Sie sollen Zeugen sein / Des Flu-ches, den ich ihm verkùndige, / Und ihn verstoBen in die ode Wildnis, / Damit er nimmerwiederkehrend dort/ Die bóse Stunde bùfie, da er sich / Zum Gott gemacht (III, p. 85; tr. it. dt., p. 45).

Dopo aver imposto la proscrizione di Empedocle, il sacerdote gli comunica il verdetto, e dalla bocca di lui riceve il proprio:

[...] conosco tè e la tua mala congrega,

e a lungo mi sono chiesto come nel suo cerchio

la Natura vi tolleri. Sin da ragazzo fuggiva

il mio animo pio da voi, corruttori di tutto,

e con amore incorruttibile si volgeva al sole,

all'etere e a tutti i messaggeri

della grande Natura, cui lontano presagio tendeva.

Poiché nel mio umore bene ho avvertito

che il mio libero amore per gli dèi

denigrar volevate al volgare servigio,

e che io lo prestassi come voi.

Via di qui! via! non posso vedermi di fronte

chi delle cose sacre fa un mestiere.

Il tuo volto è falso e freddo e morto

come lo sono i tuoi dèi.

Ich kenne dich und deine schiimme Zunft, / Und lange wars ein Ràtsel mir, wie euch / In ihrem Runde duldet die Natur. / Ach! als ich noch ein Knabe war, da mied / Euch Allverderber schon mein frommes Herz, / Das unbestech-bar innigliebend hing / An Sonn und Àdier und den Bo-ten allen / Der groBen ferngeahndeten Natur. / Denn

560 Quarto cerchio - La natura

wohi hab ichs gefùhit, in meiner Furcht, / DaB ihr des Herzens freie Gótterliebe / Bereden móchtet zum gemei-nen Dienst, / Und da6 ichs treiben solite, so wie ihr. / Hinweg! Ich kann vor mir den Mann nicht sehn, / Der Heiliges wie ein Gewerbe treibt, / Dein Angesicht ist falsch und kalt und tot, / Wie deine Getter sind (II, p. 98;

tr. it. dt., p. 63).

Ma Pausania, mosso da sdegno giovanile, esclama:

[...] Hai fatto molto, Ermocrate,

da quando vivi: molte care gioie

ai mortali col terrore hai strappate,

numerosi figli d'eroi nella culla,

hai soffocato e, come il fiore del campo, cadde

giovane e forte la Natura sotto i colpi

della tua falce. Molto io stesso vidi,

altro mi fu narrato. Se un popolo deve perire,

basta che le Furie mandino un uomo

che con l'inganno dovunque convinca del misfatto

ogni uomo che sia esuberante di vita.

Infine, appresa l'arte, lo strangolatore

attaccò con sacra astuzia l'uomo unico

e riuscì, movendo a sdegno i cuori, nell'intento

che il pari agli dèi cada per mano del più volgare.

[...] Viel hast du getan, Hermokrates, / Solang du lebst, hast manche liebe Lust/ Den Sterbiichen hinweggeàngsd-get, / Hast manches Heldenkind in seiner Wieg' / Er-stickt, und gleich der Blumenwiese fiel / Und starb die ju-gendkràftige Natur / Vor deiner Sense. Manches sah ich selbst / Und manches hórt. Soli ein Volk vergehn, / So schicken nur die Furien einen Mann, / Der tàuschend liberali der Missetat / Die lebensreichen Menschen ùber-fùhre. / Zuletzt, der Kunst erfahren, machte sich / An einen Mann der heilig schlaue Wùrger / Und herzempó-rend glùckt' es ihm, damit / Das Góttergleiche durch Gemeinstes falle (ili, p. 139; tr. it. dt., p. 121).

Le figure del dramma 561

Qui si manifesta una contrapposizione che domina nell'esistenza religiosa come in tutti gli altri ambiti della vita: la contrapposizione tra il geniale e il corretto, tra chi è creativo e chi sostiene l'ordine, tra chi apre nuovi varchi e il conservatore, tra chi è proiettato verso il futuro e chi è rivolto al passato.

Ciascuno vede nell'altro solo il pericolo e l'immagine distorta di lui. Ermocrate scorge nel suo avversario il distruttore superbo della tradizione, l'uomo che infrange l'ordine. Per Empedocle il suo antagonista rappresenta lo zelante inflessibile, il nemico della vita, la guardia carceraria della libertà. La situazione drammatica però è costruita in modo sbagliato, e questo errore si vendica mettendo in dubbio la credibilità della figura di Ermocrate, ma con questo anche, retroattivamente, quella di Empedocle. Perché il primo, nonostante tutto, persegue un obiettivo legittimo: quello dell'ordine e della possibilità di vita di fronte all'eruzione dionisiaca. Per quanto arido, egli sostiene tuttavia le stesse cose già proferite da Delia sotto la spinta del suo sentimento puro; e il sacrilegio di Empedocle dimostra che aveva di fatto motivo di preoccuparsi. In tal modo, sia psicologicamente che drammaticamente, Ermocrate subisce un torto. Diventa una pura figura dell'odio, la figura del sacerdote oscurantista, quindi in ultima analisi debole. Ermocrate sarebbe un avversario pericoloso e il suo superamento sarebbe una vera vittoria se si presentasse come un superbo custode di valori autentici;

ma, così com'è, costituisce solo qualcosa di tristo e in fondo è impotente. Ed infatti il popolo, senza una ragione evidente - probabilmente solo per via della debolezza intcriore del personaggio e della sua azione -

562 Quarto cerchio - La natura H

rinuncia a seguirlo passando di nuovo dalla parte dell'esiliato (ili, p. 140). ,.^

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Gli occhi dell'amore e dell'odio sono acuti, ma in questo caso non riescono a intrawedere l'ultima venta. Pausania e Panthea sono troppo giovani per capire che cosa è avvenuto in Empedocle. Così non vedono lai? sua colpa, ma solo il suo dolore. Ermocrate, invece, | non riconosce l'uomo che lotta e soffre, ma solo il t profanatore e il distruttore. In questo contrasto di va- | lutazioni si inserisce il giudizio di Empedocle stesso. ^ Già il primo monologo svela il suo stato intcriore: ^

Nel mio silenzio sei giunto con passo lieve,

giorno splendido, e mi hai trovato, u

amico, nel buio della grotta, ma non venivi insperato '

e da lontano, su sopra la terra, sentii ; *

con chiarezza il tuo ritomo, ' }

e il vostro, mie fide, agili e operose s

forze dell'altezza, e vicini mi siete , ;.

di nuovo come un tempo, voi felici

alberi fedeli del mio bosco! ,; ,'ì

Siete intanto cresciuti, e giorno dopo giorno

umili, la fonte del delo vi abbeverava

di luce e l'etere ha seminato sondile

di vita a fecondare i vostri fiori.

O intima Natura che mi stai dinanzi,

conosci ancora tu l'amico,

il tuo diletto, più non riconosci

il sacerdote, che il canto vivo

t'offriva come sangue

riversato con gioia in sacrificio?

Oh, presso i sacri alberi,

Le figure del dramma 563

ove si raccolgono acque

come da vene della terra, nei giorni torridi agli assetati dan refrigerio - un tempo anche in me confluivate, sorgenti di vita, dalle viscere del mondo, e a me venivano gli assetati... Com'è ora? Intristito? Son io del tutto solo? E anche di giorno quassù è notte? Ahimè, colui che alto più d'ogni mortale occhio mirò, ora brancola accecato ... Miei numi, dove siete? M'abbandonate ora come un mendicante? E perché giù gettate questo cuore che amoroso vi aveva presagiti? l'avete chiuso in ceppi ignobilmente stretti?

In meine Stille kamst du leisewandeind, / Fandest drunten in der Grotte Dunkel mich aus, / Du Freundiicher! Du kamst nicht unverhofft, / Und fernher, oben ùber der Er-de, vernahm / Ich wohi dein Wiederkehren, schóner Tag! / Und meine Vertrauten, euch, ihr schnellgeschàftgen / Krafte der Hóh! und nahe seid ihr / Mir wieder, seid wie sonst, ihr Glùckiichen, / Ihr irrelosen Bàume meines Hains! / Ihr wuchst indessen fort, und tàglich trànkte / Des Himmeis Quelle die Bescheidenen / Mit Licht, und Lebensfunken sàt' der Àther / Befruchtend auf die Blù-henden aus. - / O innige Natur! ich habe dich / Vor Au-gen, kennest du den Freund noch, / Den Hochgeliebten, kennest du mich nimmer, / Den Priester, der lebendingen Gesang, / Wie frohvergoBnes Opferbiut, dir brachte? / O bei den heilgen Bàumen, / Wo Wasser aus Adern der Er-de / Sich sammein, am heiBen Tage / Die Dùrstenden er-quicken - auch in mir, / In mir, ihr Quellen des Lebens, stròmtet / Aus Tiefen der Welt ihr einst / Zusammen, und es kamen / Die Dùrstenden zu mir, - wie ists denn nun? / Vertrauert? bin ich ganz allein? / Und ist es Nacht hier auBen auch am Tage? / Der hóher, denn ein sterbiich Auge, sah, / Der Blindgeschlagne tastet nun umher - / Wo seid ihr, meine Getter? / Weh, lafìt ihr nun / Wie ei-

564 Quarto cerchio - La natura

nen Bettler mich, / Und diese Brust, die liebend euch gè. ahndet, / Was stoBt ihr sie hinab, die freigebome, / Und schloBt sie mir in schmàhiich enge Bande? (Ili, pp. 87-88-tr. it. cit., pp. 46-48). ?'

I versi seguenti scavano ancora più a fondo:

[...] Io fui amato, amato da voi, o dèi,

ah, intimamente. Come vivete l'uno accanto all'altro,

vi avvertivo, vi conoscevo, operavo con voi '^

quando il mio spirito da voi era mosso, \-

così vi conoscevo, così in me vivevate - oh no, non era '*

in sogno, con il cuore ti sentivo - ' T;

Etere silenzioso, quando l'errore umano '•' mi stringeva l'anima e tu, onniconciliante ,s sanando del tuo respiro, ' ;

m'avvolgevi il petto ferito dall'amore

e i miei occhi, luce che tutto dispieghi,

quante volte spiaron con pio senso la tua divina azione,

e tutte voi, potenze eterne!

Ich war geliebt, geliebt von euch, ihr Getter, / Ach innig;

wie ihr umeinander lebt, / Ich erfuhr euch, ich kannt euch, wie ihr / Die Seele mir bewegt, so kannt ich euch / So bebtet ihr in mir - o nein! es war / Kein Traum, an diesem Herzen fùhit ich dich / Du stiller Àther! wenn der Sterbiichen Irrsal / Mir an die Seele ging und heilend dù / Die liebeswunde Brust umatmetest, / Du AUversóhner! und dieses Auge sah / Dein góttlich Wirken, allentfaltend Licht, / Wie oft hab ich mit frommem Sinne dich belauscht, / Und euch, ihr andern Ewigmàchtigen! (ni, pp. 88-89; tr. it. cit., p. 49). s%

Empedocle ha vissuto in comunanza con il Tutto? { con le forze della natura, attive e percepite come ge-^ ni; con gli alberi e le piante, descritte in modo simile

Le figure del dramma 565

yì\'Iperione dove allo stesso modo costituiscono l'ambiente e i compagni di una persona eletta, con le fonti che successivamente diventano le «fonti della vita» che scaturiscono dalle «profondità del mondo», con la «natura intima» che non solo è, ma «vive». Gli è stato concesso di far esperienza della sovrabbondante pienezza, della ricchezza spirituale che pervade tutte le forme della terra, della più profonda interiorità. Gli dèi che vivono nell'apertura e nella vicinanza pneumatica «l'uno accanto all'altro» erano anche in lui, ed egli era in loro. Ciò vale soprattutto per i due numi che rappresentano i poli del mondo degli dèi liólderliniani: l'Etere, la luce, il Padre e, come si dirà subito dopo, la madre Terra, gli sono stati propizi. Ha partecipato alla loro vita, anzi, ha «operato con loro». È stato coinvolto nell'iniziativa del divino ed innalzato a condominatore. Grazie a questa consapevolezza di vastità, ricchezza di sapere e potenza divina egli stesso ha potuto nominare «Dio». Perché essere Dio significa, nell'accezione hólderliniana, essere in riferimento con il Tutto e realizzare l'intero a partire da una particolare modalità d'essenza. Questa stessa esperienza vissuta lo ha indotto a opporsi alla concezione di esseri divini separati, che devono essere pensati e adorati secondo leggi prestabilite, e ad annunciare invece quel Tutto in cui ogni nume esprime a modo suo quell'uno e medesimo, vale a dire la natura. Ma nelle parole di Empedocle è presente ancora un altro elemento che abbiamo già incontrato nell'Z-perione: lo spirito, la potenza che spira, domina e crea, l'elemento misterioso che viene dall'aldilà e aiuta a superare i limiti dell'esistenza angusta, l'elemento innovatore e trasformatore che rende presente il

566 Quarto cerchio - La natura i

Tutto elevandovi il singolo. Nel colloquio con Pausa. nia che segue il monologo, Empedocle dice: j

< Era in me la tua armila e apertamente si donò, ' al pari tuo, il mio cuore ;

alla Terra sofferente e solenne, e spesso, nella notte sacra, feci voto di amare sempre lei, la Fatale, senza timore e in fede, e di non disprezzare f nessuno dei suoi misteri. Così strinsi con lei 5 il patto mortale. Allora nel bosco . j si udiva uno stormire diverso e delicad , mormoravano i ruscelli dei suoi monti. ,;{;' E con affocata dolcezza nell'alito dei fiori spirava, i o Terra, a me la calma tua vita. .f E tutte le tue gioie. Terra, escluse ;

quelle che sorridendo porgi ai deboli, '„

stupende come sono, e calde e grandi ^

maturano d'amore e di fadca, tutte mi donasti,

e spesso, stando su mond lontani, stupito • i

meditavo sul sacro fluire della vita, • -

in profondo commosso per le tue metamorfosi, a

e presagendo il mio stesso destino, ,s

allora spirava l'etere, come a tè, !

a me, a sanare il petto ferito d'amore

e come per incanto nel suo fondo • •

si scioglievano i miei enigmi - «;;

,%

Denn deine Seele war in mir, und offen gab / Mein Herz, < wie du, der ernsten Erde sich, / Der leidenden, und oft in heilger Nacht / Gelobt ichs ihr, bis in den Tod, / Die Schicksaisvolle furchdos treu zu lieben / Und ihrer Ràtsel keines zu verschmahn. / So knùpft ich meinen Todesbund mit ihr. / Da rauscht' es anders denn zuvor im Hain, / Und zàrdich tónten ihrer Berge Quellen / Und feurig mild im Blumenothem weht', / O Erde! mir dein stillers Leben zu. / Ali deine Freuden, Erde! nicht wie du / Sie là-cheind reichst dem Schwàchern, herrlich wie sie sind, / ? Und warm und gro6 aus Mùh und Uebe reifen - / Sie alle ;

Le figure del dramma 567

gabst du mir, und wenn ich oft / Auf femen Bergeshóhen ^iB und staunend / Des Lebens heilig Irrsal ùbersann, / Zii tief von deinen Wandiungen bewegt / Und eignes Scliicksal ahndend, / Dann atmete der Àther, so wie dir, / Mir heilend um die liebeswunde Brust, / Und zauberisch in seiner Tiefe lósten/ Sich meine Ràtsel auf- (ili, pp. 91-92; tr. it. dt., pp. 53-55).

Qui sorge la controfigura al padre Etere: la madre Terra, descritta con toni vivi che ricordano l'inno Germania. Contemporaneamente Hólderlin allude al fenomeno dello spirito in tutta la sua pienezza, che dallo spirare del vento nel bosco, passando per la vita che respira, si estende fino alla profondità del pnéu-ma della natura. Diventa manifesta la potenza di questo spirito attraverso cui tutto s'eleva a un altro stato, diventando «aperto». Fedele a questo spirito, Empe-docle ha propagato un culto degli dèi improntato alla libertà e all'entusiasmo, che doveva rompere i vincoli della tradizione e della legge.

Ma poi è accaduto qualcosa di tremendo. Egli stesso dice:

È finita

e tu, non lo nascondere,

la colpa è tua, misero Tantalo,

Tu hai profanato il santuario,

con orgoglio sfacciato rotto il bei patto.

Quando i geni del mondo, o sciagurato,

in tè si obliarono amorosi, solo a tè pensasti

e vaneggiasti, folle meschino, che i Benigni,

i Celesti, si fossero venduti a tè

per servirò come stolidi schiavi.

Es ist vorbei, / Und du, verbirg dirs nicht! Du hast / Es selbst verschuidet, armer Tantalus! / Das Heiligtum hast

568 Quarto cerchio - La natura

da geschàndet, hast / Mit frechem Stolz den schónea Bund entzweit, / Elender! Als die Genien der Welt / Voli Uebe sich in dir vergaBen, dachtest du / An dich und wàhntest, karger Tor, an dich / Die Gùtigen verkauft, daB sie dir, / Die Himmlischen, wie blode Knechte, dienteni (m, p. 89; tr. it. dt., pp. 49-51). .t

•?'.

E, rispondendo a Pausania che avvicinandosi umorosamente chiede chi abbia parlato in modo cosi sconvolgente:

Era la voce di colui che si era vantato d'essere '{. più che un mortale, perché benigna la Natura 'di. l'aveva colmato di eccessiva felicità. }

Es war des Mannes Stimme, der sich mehr / Denn Sterbii-che gerùhmt, weil ihn zu viel / Beglùckt die gùdge Natur (III, p. 90; tr. it. dt., p. 53).

Empedocle ha avuto esperienza di ciò che rappresenta nel mondo di Hólderlin la conquista massima:

essere una figura singola, ma portare in sé il Tutto, stare al proprio posto, eppure vivere nel Tutto. Ma ciò non avviene attraverso il pensiero progrediente o l'azione raccoglitrice, ma in modo immediato, «nello spirito», nella forza «che rende aperti», nell'interiorità. È lo stato del «fiorire», di cui l'ora del tardo pomeriggio con la sua luce silenziosa è una similitudine, i

L'equilibrio tra il singolo e il Tutto; l'unità di interno ed esterno; la «riconciliazione» data dal fatto che ogni cosa è data insieme ad ogni altra; la costituzione dell'esistenza, non solo celebrata nell'inno H Reno e in Arcipelago a parole ed immagini, ma anche realizzata attraverso l'impostazione della poesia stessa. L'«01impo eternamente presente» (III, p. 93) in

Le figure del dramma 569

cui soltanto si da la «natura» ed in cui gli dèi hanno contemporaneamente la loro importanza particolare e la loro unità, in cui ognuno vive per se stesso, eppure come parte del Tutto17. Un'esperienza di mistica cosmica quindi che avrebbe preteso dal favorito che si mantenesse puro e non volesse nulla per se stesso. E invece egli ha desiderato di essere particolare. Ha detto «io» e «mio» dove sarebbe dovuto essere solo lo spazio vivente del cuore in cui «i geni del mondo si obliarono amorosi» (II, p. 89).

L'equilibrio si rompe. Il peccato originale della lacerazione è avvenuto. L'interiorità è andata persa. Tutto è diventato esteriore, e tutte le cose sono diventate dure e isolate fra di loro. Alla fiorente ricchezza è seguita l'aridità, alla patria l'esilio, alla ricchezza di senso la stoltezza, alla vita nel suo fluire il vuoto senz'anima18.

Lo fui. Oh, potessi dire come fu, nominare

il maturare e l'operare delle forze geniali,

mirabili, mie compagne, o Natura!

Poterle far rivivere ancora una volta

sì che il mio cuore, muto e mortalmente devastato,

di nuovo vibrasse di tutte le tue vod!

Lo sono ancora, o vita, e per me risonaron

tutte le tue alate melodie, e sentii

grande Natura, il tuo antico accordo?

Abbandonato da tutti, non vissi forse

con questa Terra sacra, con questa luce,

con tè, o Padre Etere, da cui mai

si separa l'anima mia, e con tutti i viventi

nell'Olimpo d'eterna presenza?

Come un reietto, ora piango,

e in nessun luogo posso sostare

e anche tu mi sei strappato ... Non dire nulla!

L'amore s'estingue quando fùggon gli dèi,

570 Quarto cerchio - La natura

tu lo sai bene, e ora lasciami, io non sarò più me stesso e nulla hai più da spartire con me.

Ich wars! O kónnt ichs sagen, wie es war, / Es nennen -das Wandein und Wirken deiner Geniuskràfte, / Der Herr-lichen, deren GenoB ich war, o Naturi / Kónnt ichs noch einmal vor die Seele rufen, / DaB mir die stumme todesó-de Brust / Von deinen Tónen allen widerkiànge! / Bin ich es noch? o Leben! und rauschten sie mir, / Ali deine geflù-gelten Melodien, und hórt / Ich deinen alten Einkiang, groBe Natur? / Ach! ich, der allverlassene, lebt ich nicht / Mit dieser heilgen Erd und diesem Licht / Und dir, von dem die Seele nimmer làBt, / O Vater Àther! und mit allen Lebenden / Im ewig gegenwàrtigen Olymp? - / Nun wein' ich, wie ein AusgestoBener, / Und nirgend mag ich bleiben, ach und du / Bist auch von mir genommen - sage nichts! / Die Liebe stirbt, sobaid die Gótter fliehn, / Das weiBt du wohi, verlaB mich nun, ich bin / Es nimmer und ich hab an dir nichts mehr (m, pp. 92-93; tr. it. dt., p. 55).

E ancora:

Come preferirei che tu non sapessi

di me e di tutte le mie tristezze!

No, sacra Natura, non dovrei dirlo!

Tu fuggi, verginale, le menu rozze.

Io ti ho disprezzata, io

mi proclamai signore, un altezzoso

barbaro! Alla vostra semplicità vi tenni,

potenze pure, in eterno giovani, voi che m'educaste

nella gioia, che mi nutriste di delizie,

e poiché sempre uguali a me ritornavate,

non onorai, benigne, il vostro spirito.

Io ben la conobbi la vita

della Natura: come potrebbe a me amarla

ancora sacro esser, come un tempo. Gli dèi s'erano posti

al mio servizio, io solo ero dio,

e nell'orgoglio arrogante lo proclamai.

Le figure del dramma 571

Ach! lieber wàre mir, du wùfitest nicht / Von mir und al-ler meiner Trauer. Nein! / Ich sollt es nicht aussprechen, heilge Natur! / Jungfràuliche, die dem rohen Sinn ent-flieht! / Verachtet hab ich dich und mich allein / Zum Herrn gesetzt, ein ùbermùtiger / Barbar! an eurer Einfalt hièlt ich euch, / Ihr reinen immerjugendiichen Màchie! / Die mich mit Freud erzogen, mich mit Wonne / Ge-nàhrt19. Ich kannt es ja, / Das Leben der Natur, wie sollt es mir / Noch heilig sein, wie einst! Die Getter waren / Mir dienstbar nun geworden, ich allein / War Gott und sprachs im frechen Stolz heraus (m, p. 95; tr. it. dt., pp. 57-59).

La rivelazione di quella colpa era l'affermazione di Empedocle di essere dio. Stiamo attenti al senso: il sacrilegio non era costituito dal fatto che avesse detto di essere dio - perché secondo la teologia di Hólder-lin lo era - ma dalla dichiarazione di esserlo per se stesso e di avere gli altri numi a proprio servizio. L'accusa di Ermocrate fa da eco al sacrilegio:

Anche lui! v'era noto, il subdolo

seduttore che traviò il popolo

e si fece beffa delle leggi patrie.

E mai rispettò gli antichi dèi

di Agrigento e i loro sacerdoti.

Ne celato a voi era

finché egli tacque il suo intento mostruoso.

L'ha fatto. Vaneggiavi, o scellerato,

che dovessero esultare perché al loro cospetto

recentemente ti proclamasti dio?

Avresti poi regnato in Agrigento,

come unico tiranno onnipotente,

e tuo sarebbe stato, tuo soltanto,

il popolo buono e questa bella terra.

Auch den! ihr kanntet ihn, den heimlichen / Verfùhrer, der die Sinne nahm dem Volk / Und mit dem Vaterlands-gesetze spieit' / Und sie, die alten Getter Agrigents, /

572 Quarto cerchio • La natura

Und ihre Priester niemais achtete. / Und nicht verborgen war vor euch, / Solang er schwieg, der ungeheure Sinn. / Er hats volibracht! Verruchter! wàhntest du, / Sie mùBtens nachfrohlocken, da dujùngst/ Vor ihnen einen Gott dich selbst genannt? / Dann hàttest du geherrscht in Agrigent, / Ein einziger allmàchdger Tyrann, / Und dein gewesen wàre, dein allein, / Das gute Volk und dieses schóne Land (UI, p. 102; tr. it. dt., p. 66).

Empedocle non riesce a reggere questa situazione:

E questo dovrei sopportare, il lungo malo vezzo,

come i deboli che nello spaventoso Tartaro

stanno inchiodati, giorno dopo giorno, alla pena antica?

Ho conosciuto me stesso; io lo voglio! Voglio darmi

respiro, e che spunti il giorno! Via di qui!

Per il mio orgoglio! Non bacerò la polvere

di questa strada ove un tempo camminai

perduto in un bei sogno - è finito.

E devo congedarmi -

Und dulden soli ich das, das Langverwóhnte, / Wie die Schwàchiinge, die im scheuen Tartarus / Geschmiedet sind ans alte Tagewerk? / Ich habe mich erkannt; ich will es! Luft will ich / Mir schaffen, ha! und tagen solls! Hin-weg! / Bei meinem Stolz! ich werde nicht den Staub / Der Pfade kùssen, wo ich einst / In einem schònen Traume ging - es ist vorbei! / Und Abschied mu6 ich nehmen -(ni, p. 88; tr. it. dt., p. 49).

E ancora:

Non v'è per me tra voi un vendicatore, e dovrò versare da solo sulla mia anima scherno e maledizione? C'è qualcuno miglior di me che levi dal mio capo la corona delfica e mi strappi la chioma come si conviene al vate calvo? O dèi!

Le figure del dramma 573

Ist nirgends mir ein Ràcher unter euch, / Und mu6 ich denn allein den Hohn und Fluch / In meine Seele giefien? (Jnd es reifit / Die delphische Krone mir kein Bessrer, / Denn ich, vom Haupt und nimmt die Locken hinweg, / \Vie es dem kahien Seher gebùhrt - O Gótter! (Ili, p. 89;

tr.it.dt.,p.51).

Queste parole anzitutto esprimono solo disperazione, il desiderio di cancellarsi. Ma poi inizia il mutamento. Già Pausania vi allude dicendo:

[...] e per questo anche proferisti la parola audace tu solo, per questo tu soltanto senti come una sillaba orgogliosa t'ha strappato al cuore degli dèi e per amore verso loro ti sacrifichi, o Empedocle!

[...] Und darum sprachst das kùhne Wort / Auch du allein, und darum fùhist du auch / So sehr, wie du mit einer stolzen Silbe / Vom Herzen aller Gótter dich gerissen, / Und opferst liebend ihnen dich dahin, / O Empedokies! -(HI, p. 96; tr. it. dt-, p. 59).

Empedocle supera la disperazione - certo, l'atto stesso non è rappresentato nel dramma. Solo il risultato viene alla luce, per esempio nel tono delle parole in cui raccomanda a Crizia il destino di sua figlia:

Non la conosd?

E tratti come un deco il dono degli dèi? E ti risplende

invano in casa la benigna luce?

Ti dico: in questa terra pace

non troverà, l'anima pia, e rimarrà sola,

pur così bella, e morirà senza gioia.

La figlia degli dèi, a un tempo severa

e delicata, mai potrà accettare

574 Quarto cerchio - La natura

di stringere al suo seno uno di questi barbari, oh, credimi! Chi sta per congedarsi dice il vero. E non stupirti del consiglio!

Kennest du sie nicht? / Und tastest wie ein Blinder an, was dir / Die Gótter gaben? und es leuchtet dir / In deinem Haus umsonst das holde Ucht? / Ich sag es dir, in dieseni Lande findet / Das fromme Leben seine Ruhe nicht / Und einsam bleibt es dir, so schón es ist, / Und stirbt dir freudenlos, denn nie begibt / Die zàrtiichernste Gótter-tochter sich, / Barbaren an das Herz zu nehmen, glaub / Es mir! Es reden wahr die Scheidenden. / Und wundere des Rats dich nicht! (ili, p. Ili; tr. it. dt., pp. 79-81).

E subito dopo:

crizia. Ancora ti restano tante parole d'oro nella tua miseria? empedocle. Lasda lo scherno! Chi si congeda ringiovanire amerebbe ancora una volta. E questo il lampo estremo della luce che un giorno in tutta la sua forza gioiosamente rifulse tra di noi. Lasda che si spenga serenamente, e se pur v'ho maledetti, abbia tua figlia se benedir m'è dato, la mia benedizione.

Kritias. Has du der goldnen Worte noch so viel / In deinem Elend ùbrig? / Empedokies. Spotte nicht! / Die Scheidenden verjùngen alle sich / Noch einmal gem. Der Ster-bebiick ists/ Des Uchts, das freudig einst in seiner Kraft/ Geleuchtet unter euch. Es lósche freundiich / Und hab ich euch geflucht, so mag dein Kind / Den Segen haben, wenn ich segnen kann (in, p. 112; tr. it. dt., pp. 81-83).

Il suo animo è di nuovo fermo. E deciso al sacrificio. Grazie a questa unità riconquistata, riesce anche a prevalere su Crizia:

Le figure del dramma 575

crizia. Oh, smetti, e non trattarmi da fanciullo.

empedocle. Prometti che farai come ti dico,

e lascia questa terra; se rifiuti,

possa implorar la desolata l'aquila,

che via da questi schiavi,

nell'etere la salvi. Migliore sorte non so.

crizia. Oh, dimmi, non abbiamo agito giustamente

verso di tè?

empedocle. E me lo domandi? Tè l'ho già

perdonato ...

Kritias. O laB, und mache mich zum Knaben nicht. / Empe-dokies. Versprich es mir und tue, was ich riet, / Und geh aus diesem Land; verweigerst du's, / So mag die Einsame den Adier bitten, / DaB er hinweg von diesen Knechten sie / Zum Àther rette! Bessers weiB ich nicht. / Kritias. O sage, haben wir nicht recht an dir / Getan? / Empedokies. Was fragst du nun? Ich hab es dir / Vergeben [...] (m, p. 113;tr.it.cit.,p.83).

Adesso sa cosa deve fare:

Sì!

Vado per il mio cammino, Crizia,

e so dove conduce. E debbo vergognarmi

per avere esitato fino all'ultimo.

Perché mai dovetti attendere tanto a lungo,

finché felicità e spirito e giovinezza sparvero, e nulla

se non follia e miseria mi rimase.

Quanto, quanto spesso tè n'ammonì! Allora

sarebbe stato bello. Ma ora è necessario!

Ja! / Ich gehe meines Weges, Kritias, / Und weiB, wohin. Und schàmen muB ich mich, / DaB ich gezógert bis zum àuBersten. / Was muBt ich auch so lange warten, / Bis Glùck und Geist und Jugend wich und nichts / Wie Tor-heit ùberbiieb und Elend. / Wie oft, wie oft hat dichs ge-mahnt! Da wàr / Es schón gewesen. Aber nun ists not! (in, p. 114; tr.it.cit.,pp. 83-85).

576 Quarto cerchio - La natura

Qui diventa, evidente che Empedocle è una figura profondamente dionisiaca. Il suo equilibrio non era apollineo, capace di fare della potenza della vita un possesso sicuro e fruttuoso. Non era solo delicato e sensibile, ma anche continuamente pronto al colpo. L'essere di Empedocle è simile al fiume e alla città di Xanto in Voce del popolo.

Ma emerge qualcos'altro: già «per lungo tempo» e «spesso» ha avvertito il monito di dare spazio al mistero dionisiaco. Il «desiderio degli dèi» lo ha spinto da sempre al sacrificio. Seguendo la sua coscienza religiosa, avrebbe dovuto abbandonarsi al tramonto, al declino, per elevarsi al Tutto, ma evidentemente non ne ha avuto il coraggio. Avrebbe dovuto riconsegnare la sua figura singola all'intero del mondo perché trionfasse, ma vi si è opposto. Non sbagliamo certo se individuiamo qui il punto decisivo più profondo nel destino di Empedocle. Alcune frasi nel suo primo colloquio con Pausania lo testimoniano:

[...] il mio cuore apertamente

si donò alla Terra sofferente e solenne, e spesso,

nella notte sacra, fed il voto di amare sempre lei,

la Fatale, senza umore e in fede, e di non disprezzare

nessuno dei suoi misteri. Così strinsi con lei

il patto mortale. Allora nel bosco

si udiva uno stormire diverso e delicati

mormoravano i ruscelli dei suoi monti

e con affocata dolcezza nell'alito dei fiori spirava,

o Terra, a me la tua calma vita.

[...] offen gab / Mein Herz, wie du, der ernsten Erde sich, / Der leidenden, und oft in heilger Nacht / Gelobt ichs ihr, bis in den Tod / Die Schicksalvolle furchdos treu zu lieben / Und ihrer Ràtsel keines zu verschmàhn. / So

Le figure del dramma 577

knùpft ich meinen Todesbund mit ihr. / Da rauscht' es an-ders denn zuvor im Hain, / Und zàrtiich tónten ihrer Ber-ge Quellen / Und feurig mild im Blumenothem weht', / O Erde! mir dein stillers Leben zu (m, pp. 91-92; tr. it. dt., p.53).

Era stato chiamato e si era dichiarato pronto. Aveva stretto il patto con la terra. Ma poiché essa è severa, sofferente, fatale, continuamente in atto di morire e di resuscitare, questo patto doveva divenire il patto «mortale». Questo Empedocle lo aveva saputo. Poi era giunto il monito di realizzare il voto. Non aveva dovuto farlo necessariamente, poiché era libero. Ma una tale libertà non è arbitrarietà; chi è chiamato, deve. Se non ubbidisce alla chiamata, non è che tutto resti come prima, ma qualcosa si chiude e si distrugge; ciò però prepara il passo per entrare nell'espres-samente malvagio, nella hybris. Il fatto che Empedocle rompa l'equilibrio affermando il suo essere proprio e tentando di assoggettarvi il Tutto si preannuncia già nel suo rifiuto di sacrificare il suo equilibrio nella dedizione dionisiaca e di lasciare che il Tutto si faccia davvero ogni cosa. Se l'interpretazione è esatta, allora il più grande difetto del dramma sta nell'incapacità di svolgere questa connessione in tutta la sua chiarezza. Solo su questo sfondo, la figura avrebbe acquistato la sua vita piena. Ma così l'accenno avviene di sfuggita, sottraendosi facilmente all'attenzione.

Che Empedocle riconosca questa connessione, ma questa consapevolezza non lo conduca alla disperazione, bensì alla espiazione facendogli accettare ciò che un tempo «sarebbe stato bello» come «necessità», in questo consiste la grazia concessagli. Ma il fatto di poterlo compiere ormai solo nei termini della «neces-

578 Quarto cerchio - La natura

sita» e non in quelli della libera bellezza, costituisce la1 sua tragedia. —.». Presa la decisione, ritoma l'unità:

Ma non lo vedi dunque? Ritorna

il tempo bello della mia vita oggi

una volta ancora e grande è quanto verrà.

Su, figlio, saliremo fino alla ama

dell'Etna antico e sacro, y.

poiché gli dèi sono più presentì sulle altezze.

Con questi occhi, oggi ancora

voglio vedere i fiumi e l'isole e il mare;

e mentre indugia sopra le acque d'oro,

mi benedica il sole al suo declino,

di gioventù glorioso, che un tempo

amai per primo. Allora brilleranno intorno a noi silenti

gli astri perenni, e frattanto

dagli abissi del monte la vampa della terra '

scaturirà, e ci accarezzerà chi tutto muove,

lo spirito, allora.

Siehest du denn nicht? es kehrt / Die schóne Zeit von mei-nen Leben heute / Noeti einmal wieder und das GroBe steht / Bevor; hinauf, o Sohn, zum Gipfel / Des alten hei-ligen Àtna wollen wir! / Denn gegenwàrtger sind die Gót-ter auf den Hóhn. / Da will ich heute noch mit diesen Au-gen / Die Strème sehn und Insein und das Meer. / Da segne zógernd ùber goldenen / Gewàssem mich das Son-nenlicht beim Scheiden, / Das herrlichjugendiiche, das ich einst/ Zuerst geliebt. Dann glànzt um uns und schweigt/ Das ewige Gestirn, indes herauf / Der Erde Glut aus Ber-gestiefen quillt, / Und zàrtiich i-ùhrt der Allbewegende, / Der Geist uns an, o dann! (m, pp. 131-132; tr. it. cit., pp. 109-111). .;

Ma questa unità poggia su un fondamento instabile. Allorché Pausania fraintende, Empedocle si irrita fortemente:

Le figure del dramma 579

O dèi, anche costui mi deve infine togliere la calma e turbarmi lo spirito con rozze parole? Se questo vuoi, va' pure! Per la vita e la morte, non è questa più l'ora di moltipllcare le parole su ciò ch'io vivo e dò che sono. Ci si è pensato; non voglio più saperne. Via, non sono i dolori che, sorridenti, piamente nutriti su seno triste e lieto come bimbi posano - sono morsi di vipere, e immedicabili m'infuriano nel sangue.

O Getter, làBt auch der / Zuletzt die Ruh mir nicht und regt den Sinn / Mir auf mit roher Rede? wilist du das, / So geh! Bei Tod und Leben! Nicht ist dies / Die Stunde mehr, viel Worte noch davon / Zu machen was ich leid' und was ich bin. / Besorgt ist das; ich will es nimmer wis-sen. / Hinweg! es sind die Schmerzen nicht, die làcheind, / Die fromm genàhrt an traurigfroher Brust / Wie Kinder Uegen - Natterbisse sinds / Und wùten ohne Rettung mir im Blut! (IH, p. 132; tr. it. dt., p. 111).

Il giovane pensa che il passato possa ritornare, mentre Empedocle sa che l'unità ridonata presuppone la disponibilità alla morte:

Pausania! questo solo hai obliato:

gratuitamente nulla è concesso ai mortali? Mav'è un solo rimedio ...

Pausanias! nur hast du dies vergessen: / Umsonst wird nichts den Sterbiichen gewàhrt. / Und Eines hiift... (Ili, p. 134; tr. it. dt., p. 113).

Anche gli agrigentini, che intanto sono ritornati in sé, la pensano così e arrivano perfino ad offrire all'esiliato la corona regale. Ma egli la rifiuta, e diventa manifesta la distanza che li divide:

580 Quarto cerchio - La natura

secondo. Ritorna e vivi

in Agrigento! Ha detto un romano

che al loro Numa tanta loro grandezza

era dovuta. Vieni, o divino!

Sii il nostro Numa! Già pensavamo

che saresti dovuto essere rè. Siilo dunque!

Per primo così ti saluto, e tutti lo vogliono.

empedocle. Questa non è più un'epoca di rè.

I CITTADINI (allibiti). Uomo, chi sei?

pausania. Così si rifiutan le corone

o cittadini!

Zweiter. Komm und leb / In Agrigent; es hats ein Ròmer/ Gesagt, durch ihren Numa wàren sie / So gro6 geworden. Komme, Góttlicher! / Sei unser Numa! Lange dachten wirs, / Du solltest Kónig sein. O sei es! sei's! / Ich grùBe dich zuerst, und alle wollens. / Empedokies. Dies ist die Zeit der Kónige nicht mehr. / Die Bùrger ( erschrocken). Wer bist du, Mann? / Pausanias. So lehnt man Kronen ab, / Ihr Bùrger! (m, pp. 142-143; tr. it. cit, p. 125).

Per Empedocle le idee degli uomini e le possibilità che essi gli offrono non significano più nulla. Costituiscono al massimo una pericolosa tentazione di compiere una svolta radicale rispetto alla sua strada. Ma egli si afferma, perdonando ciò che gli è stato fatto e lasciando il suo testamento:

Mi offriste,

una corona, cittadini! Prendetemi

in cambio quanto ho di sacro. Da tempo lo tenevo in serbo.

Molte volte nelle notti serene, quando in alto

si apriva il mondo bello, e sacro l'aere

con tutti gli astri come uno spirito

... mi avvolgeva

sentivo spesso in me più possente la vita;

con il nascere del giorno vi avrei detto

Le figure del dramma 581

la parola severa, a lungo contenuta.

E con lieta impazienza già evocavo

dall'Oriente l'aurea nube mattutina

per la nuova festa, quando il mio canto

solitario con voi lassù formasse il coro gioioso.

Ma sempre il cuore mi si richiudeva

e attendevo che l'ora maturasse.

Oggi è il mio dì d'autunno e cade il frutto

da solo.

Ihr botet/ Mir eine Kron', ihr Mànner! nimmt von mir/ Dafùr mein Heiligtum. Ich spart es lang. / In heitern Nàchten oft, wenn ùber mir / Die schóne Welt óffnet' und die heilge Luft / Mit ihren Sternen allen als ein Geist / ... mich umfing, / Da wurd es oft lebendiger in mir; / Mit Tagesanbruch dacht ich euch das Wort, / Das ernste langverhaltene, zu sagen. / Und freudig ungeduldig rief ich schon / Vom Orient die goldne Morgenwolke / Zum neuen Fest, an dem mein einsam Lied / Mit euch zum Freudenchore wùrd, herauf. / Doch immer schlofi mein Herz sich wieder, hofft' / Auf seine Zeit und reifen solite mirs. / Heut ist mein Herbsttag und es falli die Frucht / Von selbst (m, p. 145; tr. it. dt., p. 129).

E ancora:

Da tempo voi avete sete dell'insolito:

e come da corpo malato, l'anima di Agrigento

brama usare dall'antico solco.

Osate dunque! I vostri retaggi, le vostre conquiste,

quanto i padri v'hanno narrato e insegnato,

leggi e costumi, i nomi degli antichi dèi,

tutto audaci obliate e levate, come neonati,

gli occhi lassù alla Natura divina!

E quando alla luce del cielo lo spirito

s'infiamma, e un dolce soffio di vita

vi gonfia il petto come al primo giorno,

[...], quando la vita del cosmo,

582 Quarto cerchio - La natura

il suo spirito di pace, v'afferra e come sacra

ninnananna la vostra anima calma,

allora, come dal gaudio di un'alba bella,

di nuovo a voi della terra il verde rifulgerà

e monte, e mare, e nubi, e stelle,

le nobili energie, simili a fraterna schiera d'eroi

dinanzi a voi verranno, sì che il petto,

come di chi l'armi indossa

palpiterà, aspirando alle gesta,

a un mondo bello e vostro. Allora di nuovo

stringetevi le mani, la parola datevi, i beni dividete,

oh, allora, o cari, dividete gesta e gloria,

come Dioscuri fidi; sian tutti

uguali, come su snelle colonne, poggi sopra giuste norme

la nuova vita e la vostra unione renda salda la Legge.

E allora, o voi geni della cangiante

Natura, voi invita, sereni,

il popolo libero alle sue feste, :

ospitale e devoto [...]

Ihr dùrstet làngst nach Ungewòhniichem, / Und wie aus krankem Kórper, sehnt der Geist / Von Agrigent sich aus dem alten Gleis. / So wagts! was ihr geerbt, was ihr erwor-ben, / Was euch der Vàter Mund erzàhit, gelehrt, / Gesetz' und Bràuch', der alten Getter Namen, / VergeBt es kùhn, und hebt, wie Neugeborne, / Die Augen auf zur góttli-chen Natur! / Wenn dann der Geist sich an des Himmeis Licht / Entzùndet, suBer Lebensothem euch / Den Busen, wie zum erstenmale, trànkt, / [...] wenn euch das Leben / Der Welt ergreift, ihr Friedensgeist, und euchs / Wie Heil-ger Wiegensang die Seele stillet; / Dann aus der Wonne schóner Dàmmerung / Der Erde Grùn von neuem euch erglànzt, / Und Berg und Meer und Wolken und Gestirn, / Die edein Kràfte, Heldenbrùdern gleich, / Vor euer Auge kommen, daB die Brust, / Wie Waffentràgern, euch nach Taten klopft, / Und eigner schóner Welt, dann reicht die Hànde / Euch wieder, gebt das Wort und teilt das Gut, / O dann, ihr Ueben! teilet Tat und Ruhm, / Wie treue Dioskuren: jeder sei / Wie alle, wie auf schlan-

Le figure del dramma 583

ken Sàulen ruh / Auf richtgen Ordnungen das neue Le-ben / Und euem Bund befestge das Gesetz. / Dann, o ihr Genien der wandeinden / Natur! dann ladet euch, ihr hei-tem, / Das freie Volk zu seinen Festen ein, / Gastfreund-lich! fromm! ... (m, pp. 146-147; tr. it. dt., p. 131).

È l'immagine dell'esistenza già descritta dalle grandi poesie dell'equilibrio, l'inno II Reno e L'Arcipelago:

Quando sarò lontano, parleranno per me

i fiori del cielo, le costellazioni fiorenti,

e quelli che dalla terra germinano a migliala.

La Natura, che è divina presenza

non richiede discorso, e mai lasda

voi soli, non appena sia presso,

che incancellabile è l'attimo

suo; e vittorioso per ogni tempo opera

il suo fuoco celeste, rendendovi beati.

Quando poi i felici giorni di Saturno,

rinnovati e più maschi, verranno,

ricordate il tempo trascorso e riviva, al calore

del genio, la leggenda dei padri!

Alla festa salga come dalla primaverile luce

inno levato, il dimenticato

mondo degli eroi dal regno delle ombre

e con l'aurea nube della tristezza

vi circondino, nella vostra letizia, le memorie!

Es sprechen, wenn ich feme bin, statt meiner / Des Him-meis Blumen, blùhendes Gestirn, / Und die der Ende tau-sendfach entkeimen. / Die góttlichgegenwàrtige Natur / Bedarf der Rede nicht; und nimmer là6t / Sie einsam euch, wenn einmal sie genaht, / Denn unauslòschiich ist der Augenblick / Von ihr, und siegend wirkt durch alle Zeiten / Beseligend hinab sein himmlisch Feuer. / Wenn dann, die glùckiichen Saturnustage, / Die neuen, mànn-lichem, gekommen sind, / Dann denkt vergangner Zeit, dann leb, erwàrmt / Am Genius, der Vàter Sage wieder! / Zum Feste komme, wie vom Frùhiingsiicht / Emporgesun-

584 Quarto cerchio - La natura Ìs.

gen, die vergessene / Heroenweit vom Schattenreich he. 5 rauf, / Und mit der goldnen Trauerwolke lagre / Erinn.v:

rung sich, ihr Freudigen, um euch! (ffl, pp. 149-150; tr. ìl dt, p. 135). , |

I «giorni di Saturno» sono il regno di quel dio che ^ ha regnato prima di Crono e di Zeus, il regno della i prima unità. ; y

Come frutto della divisione superata, esso è desti- ? nato a ritornare. :^w

LA NATURA

L'immagine della natura nell'Empedocle appare in modo diverso che non nelYIperione. Nel romanzo, essa è il grande ambito dell'esistenza umana, l'insieme delle cose, delle forze, degli ordini e delle immagini in cui l'uomo vive. Essa rappresenta anche ciò che in se stesso è essenziale e pregno di significato; ma in primo piano propriamente vi è l'uomo. Nel dramma, invece, la natura stessa compie un passo avanti. Mentre nel romanzo sono gli uomini, soprattutto Iperio-ne e Diotima, a sorreggere la trama, nel dramma la natura stessa entra in azione.

Empedocle non ha un partner umano, ciò con cui si confronta è la natura. Così nel dramma essa è meno sviluppata e più povera di figure, in compenso però più intensa in termini di presenza e di potenza.

Alcune delle sue figure sono particolarmente suggestive. Soprattutto il giardino. Esso appartiene al-l'Empedocle felice e rappresenta la natura nel suo rapporto di intima consonanza con l'uomo e la sfera della sicurezza, della protezione. Come giardino l'ambito dove dimora l'uomo si inoltra nella natura - ma solo fin dove questi può influirvi con la sua vita: fino al muro. E la natura si spinge fino alla casa dell'uomo; ma non come la foresta vergine, che tutto soffoca, bensì con l'atteggiamento dell'amicizia e del dono. Nel giardino, la natura si dona. Rinuncia alla

586 Quarto cerchio - La natura f

propria illimitatezza inserendosi nella vita dell'uomo i ubbidendo alla sua mano che mette ordine e cura. I Nella forma limitata, il Tutto si fa presente, guardando l'uomo amichevolmente ... L'opposto del giardino ? è dato dalla vastità del mondo, la contraddizione di I esso dallo squallore dell'esilio. Empedocle deve la- | sciare il giardino, e l'Etna con i suoi pendii deserti di- ^ venta il luogo di quell'esilio. Ma poi il carattere del I paesaggio muta. Nella misura in cui Empedocle ritro-1 va se stesso, l'Etna diventa la montagna sacra. Nel t paesaggio di Hólderlin, la montagna è l'elemento solido e strutturato, emergente ed elevato, la contropotenza rispetto al fiume e al mare.

Così l'Etna, per colui che è riammesso all'unità, è il luogo dal quale getta lo sguardo sul mondo e sull'e- k sistenza; certo solo per dire addio. Infatti, questa montagna è di tipo particolare: un vulcano, un'eruzione della profondità interna e appunto in tal modo la via al centro del Tutto. Colui che ha perso il giardino, non può ritornare in esso. Se Empedocle vuole sfuggire allo squallore desertico, allora gli rimane solo la via verso il centro che passa per la morte.

Empedocle era chiamato a stare al cospetto della natura stessa; ad avere il suo destino in rapporto ad essa:

Non vi è nota la voce degli dèi? Ancora prima

d'apprendere, ascoltando, la lingua degli avi

al mio primo respiro, al primo sguardo,

già quella colsi, e sempre

la considerai superiore alla parola umana.

M'appellavano: In alto! e ogni spirare di brezza

eccita più possente l'ansiosa nostalgia.

La natura 587

E se pur volessi indugiare qui, ancora sarebbe

come se, goffo, l'adolescente, sollazzo

avesse nei giochi degli anni d'infanzia.

Ah, senz'anima vivrei, come gli schiavi,

in notte ed onta avanti a voi e ai miei numi.

Ho vissuto; e come dalla vetta degli alberi

si stacca il fiore e l'aureo frutto,

come dall'oscuro suolo spunta fiore e grano,

così da fatiche e da pene a me la gioia venne

e scesero dal cielo forze amiche.

Nelle profonde valli, a tè, o Natura,

si raccolgono le fonti delle alture, e le tue gioie

tutte vennero nel mio petto a riposare

e ne nacque un unico gaudio [...]

Kennt ihr der Getter Stimine nicht? noch eh / Als ich der Eltern Sprache lauschend lernt, / Im ersten Othemzug, im ersten Blick / Vernahm ichjene schon, und immer hab / Ich hóher sie, denn Menschenwort, geachtet. / Hinauf! sie riefen mich undjedes Lùftchen/ Regt màchtiger die ban-ge Sehnsucht auf. / Und wolit ich hier noch lànger weilen, wàrs, / Wie wenn der Jùngling unbeholfen sich / Am Spiele seiner Kinderjahre letzte. / Ha! seellos, wie die Knechte, wandeit ich / In Nacht und Schmach vor euch und meinen Góttern. / Gelebt hab ich; wie aus der Bàume Wipfel / Die Biute regnet und die goldne Frucht, / Und Blum und Korn aus dunklem Boden quillt, / So kam aus Mùh und Not die Freude mir / Und freundiich stiegen Himmeiskràfte nieder; / Es sammein in der Tiefe sich, Na-tur, / Die Quellen deiner Hóhn, und deine Freuden, / Sie kamen ali, in meiner Brust zu ruhn, / Sie waren Eine Wonne [...] (m, p. 151; tr. it. cit., p. 137).

Egli doveva essere lo spazio del cuore in cui «i geni del mondo si obliarono amorosi» - un mistero espresso in toni più forti da L'Arcipelago:

588 Quarto cerchio - La natura

Sempre abbisognano come eroi di ghirlanda per aver gloria I consacrati elementi del cuore dell'uomo che sente.

Immer bedùrfenja, wie Heroen den Kranz, die geweihten / Elemento zum Ruhme das Herz der fùhlenden Men-schen (n, p. 104; tr. it. dt., p. 103).

E ancora:

Che ai celesti è caro posare su un cuore che senta.

Denn es ruhn die Himmlischen gern am fùhlenden Her-zen (II, p. 110; tr. it. dt., p. 115).

Questo rapporto era in pericolo, ed Empedocle stesso lo ha avvertito:

[...] E quando consideravo la bellezza della vita, pregavo d'una cosa soltanto, di cuore, gli dèi:

se un giorno non avessi più sopportato

la mia sacra felidtà, nella giovane forza, senza vertigine,

e se la ricchezza dello spirito, come agli antichi

beniamini dei numi, in stoltezza si fosse mutata,

mi ammonissero, solo rapidi

mi mandassero nel cuore un destino inatteso,

in segno che il tempo di purificarmi

fosse venuto, perché nell'ora giusta

ancor potessi salvarmi in rinnovata giovinezza

e, amico degli dèi, non divenissi tra gli uomini

lo zimbello e lo scherno e lo scandalo.

[...] wenn ich dann / Das schóne Leben ùbersann, da bat/ Ich herziich oft um eines nur die Getter: / Sobaid ich einst mein heilig Glùck nicht mehr/ In Jugendstàrke tau-mellos ertrùg / Und wie des Himmeis alten Uebiingen / Zur Torheit mir des Geistes Fulle wùrde, / Dann mich zu mahnen, dann nur schnell ins Herz / Ein unerwartet Schicksal mir zu senden, / Zum Zeichen, daB die Zeit der

La natura 589

Làuterung / Gekommen sei, damit bei guter Stund / Ich fort zu neuerJugend noch micht rettet/ Und unter Men-schen der Gótterfreund/ Zum Spiel und Spott und Àrger-nisse wùrde (m, pp. 151-152; tr. it. dt., p. 138).

Veramente, gli si chiedeva qualcosa di più grande. La natura gli si era rivelata dionisiacamente dapprima a indicargli la strada nel fatto che il suo stesso essere fosse strutturato in termini dionisiaci. In tal modo, il senso più profondo della sua esistenza - e della natura in lui - non mirava a realizzare la misura, quell'atteggiamento espresso dall'amica di Panthea, Delia e da Sofocle da essa venerato. E non puntava nemmeno alla consonanza assicurata, alla costanza feconda. Anche questo sarebbe stato un modo autentico di realizzare la natura, peraltro esaltato dall'inno II Reno e dall'Arcipelago. Ma non era attribuita ad Empe-docle, sotto questa forma. In lui, la natura voleva essere colei che precipitava nell'abisso. Egli doveva assumere l'atteggiamento esplicitato dalle odi Heidelberg e Voce del popolo, in cui il fiume e l'uomo «seguendo il desiderio degli dèi cercano la via più breve al Tutto», «perché il cuore diventa troppo bello per se stesso». Questi erano i termini in cui Empedocle avrebbe dovuto realizzare la natura e allo stesso tempo il suo stesso essere profondo; ma non lo ha osato. Da questo fallimento è scaturita la possibilità della hybris; egli le è soggiaciuto, e ora l'unica via d'uscita è l'espiazione:

In dò, m'hanno esaudito; un potente monito

mi fu bensì inviato, solo una volta, ma una volta

allo spirito libero basta.

Se non lo intendessi, sarei quale

il ronzino che non obbedisce allo sprone,

e ancora attende, a costringerlo, la sferza.

590 Quarto cerchio - La natura

Sie haben mirs gehalten; màchtig warn't / Es mich zwar einmal nur, doch einmal ists / Dem freien Geiste gnug! / Und so ichs nicht verstànde, wàr ich gleich / Gemeinem Rosse, das den Sporn nicht ehrt, / Und noch der nótigen-den GeiBel wartet (ili, p. 152; tr. it. cit., p. 139).

Adesso è ora. Anzi, c'è fretta. Solo la «via più breve» è ancora percorribile:

Dove portate, dunque, vie dei mortali? Molte

voi siete, ma qual è la mia? quale la più breve? dove?

la più veloce? Che indugiare è vergognoso.

Miei numi, nello stadio guidavo un tempo il cocchio,

spensierato, su fumanti ruote. Così voglio

presto a voi ritornare, benché la fretta sia rischio.

Wohin denn nun, ihr Pfade der Sterbiichen? viel / Sind euer, wo ist der meine? der kùrzeste? wo? / Der schnell-ste? denn zu zógern ist Schmach. / Ach meine Getter! im Stadium lenkt ich den Wagen / Einst unbekùmmert auf rauchendem Rad. So will / Ich baid zu euch zurùck, ist gleich die Eile gefahriich (m, p. 188; tr. it. cit., p. 89).

Siamo di fronte al dramma dell'esistenza dionisiaca, meglio, della sua tragedia poiché passa per la colpa. Ma proprio per questo è anche la tragedia della natura dionisiaca stessa:

[...] A voi è permesso

vivere finché avete respiro; a me no. Deve

per tempo congedarsi colui, dalla cui bocca lo spirito parlò.

La Natura divina si rivela

spesso divinamente mediante uomini, così la riconosce

la stirpe loro, nelle sue molte ricerche.

Ma quando il mortale, a cui del suo gaudio _

il cuore colmò, l'ha annunciata,

fate che allora infranga il vaso,

perché a usi diversi non serva

La natura 591

e il divino in opera umana non si mud. Lasciate che questi eletti pur muoiano, lasciate che gli spiriti liberi, al tempo giusto con amore agli dèi si sacrifichino, prima che in arbitrio e superbia e onta periscano. Mia è questa sorte.

[...] Ihr dùrft leben, / Solang ihr Othem habt; ich nicht. Es muB / Bei Zeiten weg, durch wen der Geist geredet. / Es offenbart die góttliche Natur / Sich góttlich oft durch Menschen, so erkennt / Das vielversuchende Geschlecht sie wieder. / Doch hat der Scerbitene, dem sie das Herz / Mit ihrer Wonne fullte, sie verkùndet, / O laBt sie dann zerbrechen das GefàB, / Damit es nicht zu anderm Brau-che dien' / Und Gótdiches zum Menschenwerke werde. / LaBt diese Glùcidichen doch sterben, laBt, / Eh sie in Ei-genmacht und Tand und Schmach / Vergehn, die Freien sich bei guter Zeit / Den Góttern liebend opfern. Mein ist dies (HI, pp. 154-155; tr. it. dt. pp. 141-143).

Così era la volontà della natura. L'aspirazione d'essa era di arrivare a se stessa nel cuore e nello spirito del consacrato. Doveva annunciarla per poi sacrificarsi sul culmino della sua vita, e lasciare erompere la sua totalità. Il sacerdote della natura si è rifiutato ad essa. L'ha tradita. Ora, essa realizza comunque la propria volontà, ma in modo tale da farla passare per la colpa; il sacrificio non ha più il carattere di ciò che puramente attinge il culmine, ma della espiazione. D tutto è un mistero. Crizia lo dice:

Tu m'hai sopraffatto, uomo santo! Voglio rendere onore a quanto t'avviene e non intendo dargli un nome.

Du hast mich ùberwunden, heilger Mann! / Ich will es ehren, was mit dir geschieht, / Und einen Namen will ich ihm nicht geben (ni, p. 156; tr. it. dt., p. 145).

592 Quarto cerchio - La natura

II dramma Empedocle vuole rappresentare il mistero dell'uomo votato alla natura, posto davanti alla totalità e al mistero di essa, del semidio, del «santo» nell'accezione di Hólderlin, ossia di colui che è fatto in modo tale che la natura stessa, il Tutto diventi per lui il destino. (Di nuovo si fa chiaro come la sua figura rievochi, sotto mutate spoglie, l'atteggiamento del Salvatore improntato all'amore.) In tal modo appunto, il dramma da forma al mistero di questa stessa natura.

Oh, sì, festoso scende

e più gioia e più chiarità nasce.

Perché allora m'attristo? Risplende

anima di crepuscolo, pur anche

colui che affonda,

l'austero, il tuo prediletto, o Natura!

Il tuo fedele, la tua vittima!

[...] Oh, sacro Tutto

fervido, vivente, per dirti grazie,

per testimoniare di tè che sei immortale,

sorridendo l'audace getta le sue perle •

nel mare da cui vennero.

Così doveva accadere.

Così vuole lo spirito

e il tempo che matura.

Che a noi, ciechi, una volta almeno

necessario era il prodigio.

Wohi geht er festlich hinab - / Und freudiger wirds und heller auch. / Warum denn traur' ich? leuchtet, / Dàm-mernde Seele! doch auch / Der Untergehende dir, / Der ernste, dein Uebster, Natur! / Dein Treuer, dein Opfer! / ... o heilig Ali! / Lebendiges! inniges! Dir zum Dank/ Und da6 er zeuge von dir, du Todesloses! / Wirft làcheind scine Perlen ins Meer, / Aus dem sie kamen, der Kùhne. / So muBt es geschehen. / So will es der Geist / Und die rei-fende Zeit, / Denn einmal bedurften / Wir Blinden des Wunders (m, pp. 170-171; tr. it. dt., pp. 207-209).

La natura 593

La natura è il Tutto, presa la parola nel suo senso definitivo e assoluto. Ciò significa che non esiste niente al di fuori di essa, nemmeno Dio. Esistono sì divinità. Empedocle stesso nomina il padre Etere e la madre Terra; lo Spirito del tempo che domina fra le due divinità primordiali; il dio del sole e quello del mare. Nomina le potenze della natura, gli elementi, le forze prime, i geni, parole che stanno per il misterioso elemento tessitore che fa del molteplice un'unità. Ma tutto questo rimane all'interno della natura. Essa stessa è di più. E l'intero in quanto tale.

Le parole «Tutto», «natura», «mondo», non si riferiscono all'oggetto dell'esperienza di vita e della conoscenza del mondo, oppure della scienza e della filosofia. Alludono invece a qualcosa che esiste solo come realtà numinosa e che diventa fattuale nell'esperienza religiosa. Ciò è espresso in tutti i passi che parlano dello «spirito». Di esso trattano soprattutto gli ultimi discorsi dell'Empedocle. Egli stesso dice:

[...] Ritorna

il tempo bello della mia vita oggi,

una volta ancora e grande è quanto verrà.

Su, figlio, saliremo fino alla cima

dell'Etna antico e sacro,

poiché gli dèi sono più presentì sulle altezze.

Con quesd occhi, oggi ancora

voglio vedere i fiumi e l'isole e il mare;

e mentre indugia sopra le acque d'oro,

mi benedica al suo declino il sole

di gioventù glorioso, che un tempo

amai per primo. Allora brilleranno intorno a noi silenti

gli astri perenni e frattanto

dagli abissi del monte la vampa della terra

scaturirà, e d accarezzerà chi tutto muove,

lo spirito, allora.

594 Quarto cerchio - La natura

[...] Es kehrt/ Die schóne Zeitvon meinem Leben heute/ Noch einmal wieder und das GroBe steht / Bevor; hinauf, o Sohn, zum Gipfel / Des alten heilgen Àtna wollen wir! / Denn gegenwàrtger sind die Gótter auf den Hóhn. // Da will ich heute noch mit diesen Augen / Die Strème sehn und Insein und das Meer. / Da segne zógernd ùber goldnen / Gewàssem mich das Sonnenlicht beim Scheiden, / Das herrlichjugendiiche, das ich einst / Zuerst geliebt. Dann glànzt urn uns und schweigt / Das ewige Gesdrn, indes he-rauf / Der Erde Glut aus Bergestiefen quillt, / Und zàrt-lich rùhrt der Allbewegende, / Der Geist uns an, o danni (HI, pp. 131-132; tr. it. cit-, pp. 109-111).

E ancora:

[...] perché null'altro a lui si addice; a lui dinanzi

nell'ora lieta della morte al sacro tempo

il divino ha gettato il suo velo -

colui che luce e terra amavano, quegli in cui lo spirito,

lo spirito del mondo destava lo spirito suo stesso,

in cui esse sono, ed al quale, morendo io ritomo.

Denn anders ziemt es nicht fùr ihn, vor dem / In Todes froher Stund am heilgen Tage / Das Góttliche den Schleier abgeworfen - / Den Licht und Erde liebten, dem der Geist, / Der Geist der Welt den eignen Geist erweckte, / In dem sie sind, zu dem ich sterbend kehre (m, p. 155; tr. it. dt., p. 143).

«Luce e terra» - ciclo e terra quindi e ciò che essi abbracciano - «sono nello spirito». Il tutto non è ne la somma delle particolarità di volta in volta esperibili ne il loro contrario, l'insieme ovunque esperibile. Esso sta in una dimensione propria, quella pneumatica. Per questo, esso può anche essere compreso solo attraverso il tocco pneumatico.

Solo a partire da esso l'evangelo della natura an-

La natura 595

nunciato da Hólderlin consegue in assoluto un senso. Se i lettori o uditori non avvertono questo elemento, tutto il suo mondo trapassa nel registro lirico. Chi accoglie il testamento di Empedocle solo in termini poetici o filosofici non può che essere deluso. Ma se egli avverte la corrente misteriosa, allora ciò che è autenticamente inteso emerge da essa: la natura nella sua grandezza, bellezza e forza inclusiva immense. Allora essa è il mistero simpliciter, da cui vengono un appello al sacrificio e una promessa che toccano l'intimo. Solo su questo sfondo diventa chiaro l'assillo della decisione che Hólderlin avverte davanti alla figura di Cristo e di cui si parlerà nel prossimo cerchio.

ABBOZZI INNICI DEGLI ULTIMI ANNI

«MATURI SONO, TUFFATI NEL FUOCO»

È stato già detto che la concezione della natura propria di Hólderlin subisce un mutamento. In retrospettiva diventa evidente che la sostanza resta, ma che l'apparenza e il carattere mutano. 'NelVIperione la natura è presente con le immagini più svariate che rappresentano le stagioni e le ore del giorno, le cose e gli eventi. Nell''Empedocle tutto diventa più semplice, ma anche più grande. Questo è già dovuto alla struttura del dramma diversa da quella del romanzo. Ma al di là di dò, vi sono cause molto più profonde di questa diversità. Nel romanzo, la natura era il mondo in cui gli uomini vivono ed agiscono. Nel dramma essa diventa l'immediata controparte del personaggio principale. Anche il destino dei due amanti ubbidiva ad un suo senso più profondo per il fatto ch'era la natura stessa a subire, per mezzo di loro, un destino. Tuttavia, essa rimaneva nascosta dietro alle loro figure, esplicita e velata allo stesso tempo. Nel dramma

598 Quarto cerchio - La natura

invece, essa si presenta come essenza e come potenza, agendo e soffrendo in prima persona.

La differenza potrebbe essere espressa anche in questi termini: nell'Iperione la natura ha carattere lirico-romantico, nelVEmpedocle, invece, carattere dionisiaco. Ma il primo concetto mancherebbe di precisione. Infatti, il tipo di potenzialità presente nel dramma si preannuncia già nel romanzo. Tuttavia, in quel caso, essa è attenuata dal carattere sentimentale che domina l'opera. La forma d'esperienza del romanzo è propria di persone molto giovani, sostenute dall'anelito all'infinito e da ideali. In tal modo, una certa irresponsabilità è sottesa al tutto, ancora rafforzata dal fatto che la volontà spirituale si presenta come nostalgia per una bellezza tramontata molto tempo fa e allo stesso tempo come speranza di un rinnovamento venturo, per il quale la situazione attuale non offre alcuna garanzia. Tutto questo determina anche l'immagine della natura. Nel dramma, l'impostazione cambia. La personalità portante è ora un uomo all'apice della sua forza. Le esperienze, le crisi e le decisioni sono quelle della maturità. L'esistenza collettiva si costituisce nella forma della pòlis. Lavoro e creatività si orientano verso un compito ancorato nel presente, ma fondato sulla tradizione e aperto al futuro. Si tratta quindi di cose durevoli: di governo, legge e ordine, dell'esistenza storica. Empedocle è statista, medico, filosofo, vate, guerriero, ossia un signore o dominatore nell'accezione platonica. L'opera a cui si dedica, lo Stato di Agrigento, scaturisce da una volontà che - fino al momento del sacrilegio - non si è staccata dalla natura, ma che da essa costantemente trae le sue forze e i suoi criteri, affinchè l'opera diventi una natura

«Maturi sono, tuffati nel fuoco» 599

di ordine superiore. Ma la prima natura non è entrata a far parte dell'opera come garanzia sicura - è quanto accade invece nell'Atene di L'Arcipelago -bensì, dotata di potenzialità misteriosa, sta invece dietro ad essa. Lo spirito, tramite cui Empedocle crea, è lo spirito della natura, ma nella sua modalità dionisiaca. In tal modo, la stessa vita infinita della natura si accosta a quella di lui. Questa Agrigento può subire in qualsiasi momento la stessa sorte toccata alla città di Xanto in Voce del popolo. Questa possibilità si annuncia anche in quella chiamata intcriore che esorta Empedocle a compiere il grande sacrificio. È una natura dionisiaca, tesa verso il mistero del culmino e del tramonto, che qui domina.

Questo carattere subisce un ulteriore mutamento nelle poesie degli ultimi anni. In esse, la natura si eleva alla dimensione del mitico.

II

Prendiamo le mosse dall'isolata strofa tarda che Friedrich Beissner20 ritiene essere la strofa introdutti-va alla terza versione dell'inno Mmemosine. Per metterne in luce il carattere peculiare, anteponiamo ad essa le prime strofe di un'ode profondamente affine che reca il titolo La mia proprietà:

In sua dovizia riposa il giorno d'autunno, Purificato è il grappolo e rosseggia la selva Di frutta, sebbene dei cari fiori Tand ne sian caduti in dono alla terra. Nei campi intorno dove per un tranquillo Sentiero io vago, è agli uomini contenti

600 Quarto cerchio - La natura

Maturato il raccolto e per la lieta Fatica la ricchezza assai li premia,

Dal del sorride mite agli operosi Fra i loro alberi la luce e discende Dividendo la gioia, che non crebbe Per la sola mano degli uomini il frutto.

Riluci, o Aurea, per me pure e spiri Anche tu, o brezza, quasi a benedirmi Come un tempo una gioia e mi erri intorno Al petto, come agli esseri felici?

In seiner Fulle ruhet der Herbsttag nun, / Gelàutert ist die Traub und der Hain ist rot / Vom Obst, wenn schon der Holden Blùten / Manche der Erde zum Danke fielen. // Und rings im Felde, wo ich den Pfad hinaus, / Den stillen, wandle, ist den Zufriedenen / Ihr Gut gereift und vici der Frohen / Mùhe gewàhret der Reichtum ihnen. // Vom Himmel làcheit zu den Geschàftigen / Durch ihre Bàume milde das Licht herab, / Die Freude teilend, denn es wuchs durch / Hànde der Menschen allein die Frucht nicht. // Und leuchtest du, o Goldnes, auch mir, und wehst / Auch du mir wieder, Lùftchen, als segnetest / Du eine Freude mir, wie einst, und / Irrst, wie um Glùckiiche, mir am Busen? (i, p. 306; tr. it. dt., pp. 41-43).

E adesso la strofa tratta da Mnemosine:

Maturi sono, nel fuoco tuffati, cotti

I frutti e sulla terra provati; e v'ha una legge

Che tutto in dentro volge come serpenti

In profetico sogno sopra

I colli del delo. E molto,

Quale sugli omeri

Un peso di docchi

È da conservare. Ma sono cattivi

I sentieri. Poiché fuori strada

«Maturi sono, tuffati nel fuoco» 601

Come cavalli, vanno i prigionieri

Elementi e le vecchie

Leggi della terra. E sempre

Allo sfrenamento va una brama. Ma molto

È da conservare. E necessaria la fedeltà.

Ma ne avanti, ne indietro

Noi vogliamo vedere. Ci facciamo cullare

Come su dondolante barca del mare.

Reif sind, in Feuer getaucht, gekochet / Die Frùcht und auf der Erde geprùfet, und ein Gesetz ist, / DaB alles hineingeht, Schlangen gleich, / Prophetisch, tràumend auf / Den Hùgein des Himmels. Und vieles, / Wie auf den Schuitern eine / Last von Scheitern, ist / Zu behalten. Aber bós sind / Die Pfade. Namlich unrecht, / Wie Rosse, gehn die gefangenen / Element' und alten / Gesetze der Erd. Und immer / Ins Ungebundene gehet eine Sehn-sucht. Vieles aber ist / Zu behalten. Und not die Treue. / Vorwàrts aber und rùckwàrts wollen wir / Nicht sehn. Uns wiegen lassen, wie / Auf schwankem Kahne der See (II, p. 197; tr. it. dt., p. 243).

La differenza si impone subito. Entrambe le poesie parlano dell'autunno, della terra feconda, della ricchezza matura. Entrambe sono plasmate da una grande esperienza e un'arte sicura. Eppure, la prima, a differenza della seconda, può essere definita realistica. Ovviamente anch'essa non offre una diretta descrizione della realtà. Sono alcune grandi forme e movimenti a dominare a scena. Eppure, vi è un rapporto prossimo con il mondo dell'esperienza quotidiana, e ogni uomo ben disposto a cui un'ora propizia apre gli occhi, può incontrare questo paesaggio autunnale. In Mnemosine invece, tutto è estraneo, quasi minaccioso. Le forme di questo mondo sono diverse da quelle comuni. E sono diversi il contesto in cui sono collocati e l'atmosfera che tutto circonda.

602 Quarto cerchio - La natura

Sono gli ultimi giorni prima della vendemmia. I «frutti» sono grappoli, «nel fuoco tuffati» dall'ardore della tarda estate meridionale. Sono «sulla terra provati», hanno un peso pieno nella misura della realtà primordiale e dell'esistenza umana. Ma la maturità significa allo stesso tempo il periodo di passaggio da uno stato d'animo all'altro, dall'ambito di vita precedente a quello nuovo. Perché così vanno probabilmente interpretati i versi introduttivi, pubblicati nelle loro versioni complete per la prima volta da Beissner «Profetico sogno sopra i colli del ciclo», sussiste una legge secondo cui entra nell'altro mondo con la facilità mirabile dei serpenti, un mondo in cui tutto ciò che è maturo entra trasformandosi. Ma nonostante questo amichevole invito di ritornare alle «dimore e alle porte del cielo», ai «colli del cielo» come dice un «canto funebre» di Simon Dach21, nonostante questa legge l'uomo ha il compito di «conservare molto» e di reggere l'esistenza, quasi portasse legna sulle spalle, così come Eracle un tempo ha retto sotto il peso della volta celeste, come i «forti» dell'inno Al fonte del Danubio, i profeti che

[...] impavidi innanzi ai segni del mondo Con sulle spalle il cielo e tutto il destino, Interi giorni, radicali sui monti ;

[...] furchtios vor den Zeichen der Welt, / Und den Him-mel auf Schuitern und alles Schicksal, / Taglang auf Ber-gen gewurzeit (n, pp. 128; tr. it. dt., p. 165),

sopportavano il peso della rivelazione. Questa è l'unica cosa da fare in un'esistenza che ha perso qualsiasi affidabilità: resistere e sopportare.

«Maturi sono, tuffati nel fuoco» 603

Ma è difficile, perché «sono cattivi i sentieri». Veramente, i sentieri dovrebbero essere buoni. Che cosa può esserci di meglio di un sentiero e di una via? Il fatto di poter andare, lasciare il punto di partenza, misurare lo spazio intermedio e giungere al traguardo? Si tratta di uno dei fatti fondamentali dell'esistenza, altrettanto ovvio e misterioso del fatto che ci siano la stabilità, la saldezza della terra, il soffio, l'aria che spira, l'occhio, la luce, la forma e il colore. Ma qui l'owietà è eliminata: «sono cattivi i sentieri». Tutto d'un tratto, essi hanno un volto diverso. Hanno l'apparenza di essere ingannevoli. Minacciano di scomparire. L'esistenza minaccia di diventare senza sentieri. Anzi, sembra che essi diventino sbagliati, che vogliano sviare: «sono cattivi». L'uomo comincia a sentire che i sentieri sono qualcosa di posteriore, una costrizione imposta all'antico inizio, alle libere potenze primordiali. Il «sentiero» è il primo modo di costringere il caos, l'inizio dell'ordine. Ci si accorge che quest'ordine non è sicuro come quello della vita quotidiana, ma che i sentieri, sopportati contro voglia, passano al di sopra di potenze selvagge, e sono suscettibili di trasformarsi in forme di sviamento, d'errore, appena un minimo particolare cambia.

Dappertutto il dominio dello spirito che stabilisce l'ordine si allenta. Gli elementi della terra sono «prigionieri», condotti per le redini come cavalli appena domati. Sono soggetti alla volontà altrui, ma contro voglia, e le redini non danno sicurezza. In ogni momento la possono disarcionare. Dappertutto vi sono le leggi dell'ordine, ma non vengono accettate dall'antica sostanza della realtà. Sono nuove, appena imposte dagli olimpici. Prima era diverso. Anche allora

604 Quarto cerchio - La natura

vi erano leggi. Ma queste scaturivano dalla terra, dal sangue, dai fondi dell'anima e si oppongono a ciò che viene più tardi. Tutto ciò si agita, avanzando la propria pretesa. Vi risponde qualcosa nell'uomo stesso, apparentemente così spirituale e ordinato a partire dall'altezza: la profondità tellurica intcriore, quanto è primordialmente antico nell'animo, manifestandosi come nostalgia che sempre «va all'infinito». Anche ciò è una fonte di pericolo: questa interiorità potrebbe sentire la chiamata, arrendervisi ed essere trascinata nel caos. Allora tutto sprofonderebbe.

Così si fa risentire il monito a resistere. Il mondo;

il mondo minacciato dell'ordine e del giorno è consegnato nelle nostre mani. Esseme consapevoli e resistere in mezzo all'estraneità minacciosa è «la fedeltà». Ritornano parole di oscura sapienza: «Molto è da conservare», e il medesimo monito di fare l'unica cosa possibile: resistere. Prima il monito rivolto all'uomo oppresso era quello di stare in piedi, addossandosi la legna dell'esistenza. Adesso egli è esortato a rimanere seduto nella barca fragile, quasi perduta «sulle onde del mare», a non guardare ne avanti ne indietro, a non progettare e a non ricercare e paragonare. Egli deve fare una sola cosa: resistere nell'attimo incomprensibile. La barca è l'esistenza individuale e il suo ordine, ciò che oscilla al di sopra del caos domandolo solo con la sua fragile forma. Quest'esistenza è in balìa della tremenda estraneità delle potenze primordiali, non giustificata da un senso anteriore a loro e non protetta da un ordine affidabile. Essa può affermarsi solo in se stessa. Ma nel fatto che non abbia «altro che questo» è la radice di una spe-

«Maturi sono, tuffati nel fuoco» 605

ranza che non si può confermare, ma che è anche inconfutabile: quella di poter essere.

È un'immagine della realtà completamente diversa da quella presentataci in La mia proprietà, una realtà estranea, pericolosa, che viene dagli ambiti dell'origine, della profondità, del primordiale. La ricchezza dei tratti pittorici e plastici è scomparsa. Sono solo pochi, posti uno accanto all'altro, senza che vi siano connessioni fra di loro. Ciò vale per tutte le poesie tarde, soprattutto per quelle degli ultimissimi tempi. Si veda per esempio la poesia, così commovente nel suo abbandono eppure così grande che inizia con le parole Nell'azzurro leggiadro (II, p. 372).

Di qui il pericolo che la connessione e l'unità vadano perse, che si decomponga la logica dell'esistenza secondo cui un pensiero non può essere espresso senza una ragione e un'immagine deve ricollegarsi a quella precedente ed essere ripresa da quella successiva, appunto perché l'essere stesso è strutturato secondo tale logica. Questa connessione è minacciata, e alla fine vi è la distruzione. In termini psichiatrici: il decorso della vita psichica e spirituale si dissolve, i pensieri e le visioni non sono più tenuti insieme dal senso e dalla volontà, i singoli elementi non costituiscono più una figura. In termini metafìsici: irrompe il caos, «i sentieri» non conducono più da nessuna parte, le «leggi» sono annullate, trionfa ciò che non «ha freni», e il cosmo perisce. Ma lungo questa via, prima del tramonto, appare un'immagine del mondo a lungo dimenticata, quella mitica, espressa da una forma poetica particolare, l'inno. Questa forma poetica non richiede uno svolgimento conseguenziale del conte-

606 Quarto cerchio - La natura

sto, come il poema epico o la poesia lirica. Il tratto singolo è evocato con una tale sicurezza visionaria e dotato di una tale forza espressiva da attestarsi per se stesso. Non ci si interroga sul dove e perché, lo si accetta in quanto tale. E quando un tratto si accosta all'altro, allora essi, pur derivando da una grande distanza logica, figurativa ed emotiva, coincidono in modo talmente preciso da rendere presente l'intero, la totalità.

Ili

Questa forma di coscienza e il mondo che ne è risultato sono da noi definiti mitici. Il termine non è scelto a caso. Le testimonianze offerte da antiche civiltà e dalla vita psichica di popoli primitivi lo avallano. La natura non vi appare come un contesto scientificamente formulabile di cose ed eventi oppure come un insieme figurativo estetico-simbolico che riveli all'occhio contemplante un senso sviluppabile in termini precisi. Non si presenta nemmeno come un ordine descrivibile attraverso una teoria etica del dover essere. La «natura» è invece un immane alternarsi continuo di giochi e di lotte fra essenze e potenze. Niente è reso sicuro e calcolabile dalla legge. Le cose come gli eventi scaturiscono sempre dall'iniziativa di entità potenti. L'uomo condensa questa immagine drammatica in forme, detti e atti che a loro volta hanno potere, opponendoli alle forze esterne e tentando in tal modo di domare questi fenomeni immani al punto da potervi vivere in mezzo. Tutto è permeato da una corrente misteriosa che, per quanto non pos-

«Maturi sono, tuffati nel fuoco» 607

sa essere nominata direttamente, viene determinata dagli eventi e dalle figure. D'altra parte è essa stessa a rendere possibili l'essere e gli eventi e a connettere il singolo con il singolo ... Ma questo stato di coscienza e l'immagine del mondo ad esso correlata si riscontra anche in bambini veramente tali. Si osservi in proposito il modo in cui vedono e disegnano le cose appena possono agire di propria iniziativa. Inoltre, la psicologia ci insegna che lo stesso modo di sentire e di vedere sarebbe, insieme con le forme espressive ad esso correlate, uno strato rimosso nel sottofondo della coscienza dell'adulto. Esso influirebbe sul comportamento quotidiano condeterminando in maniera strana, incomprensibile e a volte pericolosa il nostro destino. Esso si annuncerebbe nell'impressione che fanno le favole, le figure delle leggende, e si esprimerebbe per mezzo di sogni e fenomeni patologici... Infine, questa esperienza del mondo può però manifestarsi anche nella coscienza; non solo presso popoli primitivi o bambini, ma anche in personalità mature di altissimo livello. Ne sono prova Hólderlin e ogni altro poeta innico, appena si adopera il concetto con il rigore che richiede, ma che solo raramente si trova realizzato. All'ultimo livello della sua poesia, la natura è quel contesto dell'esistenza che si da e viene percepito nei termini di questa modalità mitica. Esso viene però contemplato al sommo livello culturale, vissuto nell'ambito storico ad esso attribuito, ossia quello moderno. Nell'ottica di queste poesie, la natura è un'opera di talune potenze, che continuamente viene attuata di nuovo. Mai si riesce a cogliere simultaneamente una totalità. Ciò che appare sono tratti che emergono dal profondo, gesti che vengono da lonta-

608 Quarto cerchio - La natura

no, eventi che scaturiscono da un'origine inaccessibile - sempre, tuttavia, nel senso che l'insieme diventa presente nel singolare.

Questa immagine del mondo si esprime nella forma dell'inno. Come già è stato osservato, l'inno, a differenza del poema epico che sviluppa il suo contenuto secondo la sequenza temporale della trama, è sotto il dominio di un potere apparentemente arbitrario, quello dell'ispirazione. Questa induce l'oratore a cogliere ed a estrarre un elemento da qualche parte entro l'oggetto considerato, a lasciarlo ricadere e a iniziare da un'altra parte; per poi magari ritornare al primo o per scegliere di nuovo un'altra possibilità. In tal modo, senza una ragione apparente, egli accosta un elemento singolo all'altro. Ma quando domina un'ispirazione autentica e opera un'autentica abilità artistica nasce un'immagine d'insieme dotata di un'immediatezza tortissima. Questa forma del contemplare e del parlare è in grado di esprimere l'immagine mitica in termini poetici. L'ispirazione innica è un movimento intcriore, che corrisponde a quello estemo prodotto dalle potenze dell'essere.

Ma in tal modo si da anche il pericolo di cui già si è parlato: che il tutto si disintegri. L'iniziativa da cui nascono le parole e le frasi può inabissarsi a tali profondità da non essere più svolta in modo convincente. Può darsi il caso che il prodotto che scaturisce da essa si limiti ad attraversare lo spazio del vedere e del sentire come una meteora, sfuggendo a qualsiasi collocazione contestuale; che la distanza tra i singoli elementi diventi troppo grande e che tutto rimanga un frammento (il pericolo dei «monti più divisi» di cui parla l'inizio dell'inno Patmo). L'esistenza mitica non

«Maturi sono, tuffati nel fuoco» 609

possiede un ordine prestabilito, ne teoretico ne teologico ne estetico. Essa nasce continuamente, senza premesse sistematiche, dal movimento sovrano delle potenze. Si veda in proposito l'esaltazione del caso da parte del pensatore che ha rivendicato questa immagine del mondo, Friedrich Nietzsche. Ciò che stabilisce l'unità, connettendo momento a momento, punto dello sviluppo ad altro punto, forma a forma è la grande corrente, il moto eracliteo. Se esso manca, tutto si disintegra.

Questo è probabilmente anche il motivo psicologico di ciò che Hólderlin ha avvertito come colpa e pericolo dell'esistenza in quanto tale e di cui si è già parlato più volte in queste ricerche. Sull'esistenza incombe continuamente il pericolo della lacerazione. Una figura coincide con una limitazione, ogni proprietà pone una distinzione. L'affermazione fatta in un luogo diventa una negazione nell'altro; tanto più quanto più la vita diventa forte. Dalla forza stessa dell'essere nasce quindi il pericolo della fine. Perciò è necessario esortare sempre: alla «riconciliazione», alla «fedeltà», a «portare la legna sulle spalle», a «resistere nella barca che oscilla». Nel corso dello sviluppo umano e poetico di Hólderlin il pericolo della lacerazione cresce sempre più. L'unità si inabissa sempre più, l'elemento singolo diventa sempre più potente, più magico, si potrebbe quasi dire, e tenta di diventare autonomo. Per il Tutto diventa sempre più difficile far breccia e apparire. Eppure è presente, presagito ancora nelle poesie più frammentarie degli ultimi tempi.

«MA QUANDO I CELESTI HANNO COSTRUITO ...»

Un esempio di come il carattere mitico possa accompagnarsi ad un'atmosfera completamente diversa, quella della quiete, è costituito dai seguenti versi, tratti da uno degli ultimi frammenti:

Ma quando i Celesti hanno

Costruito, un silenzio

Si fa sulla terra e in bei rilievo sorgono

I monti stupiti. Segnate sono Le loro fronti. Poiché li colpì Quando la diritta figlia Trattenne rude il Tonante, La fremente saetta del dio E bene odora spenta Dall'alto la ribellione. Dove sta calmo, sedato, qua E là, il fuoco. Che trabocca gioia

II Tonante e avrebbe quasi

II cielo scordato

Allora nell'ira, se non lo avesse

La saggezza ammonito.

Ma adesso fiorisce

II povero luogo.

E a maraviglia grande vuole

612 Quarto cerchio - La natura

Stare.

Montagna pende mare,

Caldo profondità ma rinfrescano l'aure

Isole e penisole,

Grotte per pregare [...]

Wenn aber die Himmlischen haben / Gebaut, sdii ist es / Auf Erden, und wohigestalt stehn / Die betroffenen Ber-ge. Gezeichnet / Sind ihre Stimen. Denn es traf / Sie, da den Donnerer hieit / Unzàrdich die gerade Tochter, / Des Gottes bebender Strani/ Und wohi duftet gelóscht/ Von oben der Aufruhr. / Wo inne stehet, beruhiget, da/ Und dort, das Feuer. / Denn Freude schùttet / Der Donnerer aus und hàtte fast / Des Himmeis vergessen / Damais im Zorne, hàtt ihn nicht / Das Weise gewarnet. / Jetzt aber blùht es / Am armen Ort. / Und wunderbar groB will / Es stehen. / Gebirg hànget See, / Warme Tiefe es kùhlen aber die Lùfte / Insein und Halbinsein, / Grotten zu beten [...] (il, p. 222; tr. it. dt., p. 263).

Qui il mitico sta nell'enorme intensità della forma, nel «coinvolgimento» obiettivo delle cose, segnato dal fulmine - quello del temporale, ma anche quello della potenza di senso che saetta fuori dall'origine creativa. «Il senso» è ciò che fa sì che un ente sia degno di essere, fermamente ancorato e collocato nell'ordine. Questo senso viene dal «cielo», l'ambito dell'etere, il mistero creativo della luce. Ma quando questo senso diventa troppo potente, l'ente non è in grado di reggerlo ed esso si trasforma in un fulmine bruciante - il ritorno dell'evento dionisiaco in cui la vita, diventata troppo potente, precipita nell'abisso. La cosa perisce a motivo della potenza di senso che prorompe in essa ... Questo coinvolgimento oggetti' vo viene sperimentato in termini soggettivi, per mezzo di quell'esperienza vissuta in cui l'occhio contem-

«Ma quando i Celesti hanno costruito...» 613

piante è talmente abbagliato dalla strapotenza della forma, lo spirito che percepisce talmente travolto dall'impeto di quell'essere, l'anima che sente talmente scossa dalla magnificenza del senso che l'uomo rischia di soccombere. Solo la medesima potenza in cui si manifesta il senso, l'ispirazione visionaria, gli da la forza di non perirvi22.

Qui il mitico sta nella potenza di senso, scaturita dall'ambito primordiale dell'altezza, manifesta nella forma singola e domata per mezzo della quiete e della grandezza luminosa. Ma poi, dal basso, irrompe di nuovo la potenza oscura scuotendo gli ordinamenti che rendono possibile la vita:

Così vuole sembrare divina. Ma

Paurosamente inospite si torce

Attraverso il giardino l'errore,

Senza occhi, poiché l'uscita

Con pure mani a stento

Trova un uomo. Egli va, mandato,

E cerca, come animale, il

Necessario. Invero con le bracda,

Pieno del presentimento, può uno toccare

La mèta. Dove infatti

I Celesti di una siepe e di un segnale

Che la loro via

Indichi, o di un bagno

Abbisognano, si agita come un fuoco

Nel petto degli uomini.

So will es gótdich scheinen. Aber / Furchtbar ungasuich windet / Sich durch den Garten die Irre, / Die augenlose, da den Ausgang / Mit reinen Hànden kaum / Erfindet ein Mensch. Der gehet, gesandt, / Und suchet, dem Tier gleich, das / Notwendige. Zwar mit Armen, / Der Ahnung voli, mag einer treffen / Das Ziel. Wo namlich / Die Him-

614 Quarto cerchio - La natura

mlischen eines Zaunes oder Merkmais, / Das ihren Weg / Anzeige, oder eines Bades / Bedùrfen, reget es wie Feuer / In der Brust der Mànner sich (il, p. 223; tr. it. dt., p 265).

È di grande immediatezza l'immagine dell'«errore senza occhi» che, come il serpente dell'abisso, striscia per il giardino - un ricordo remoto del racconto biblico - tenendo l'uomo prigioniero nella natura selvaggia, cosicché egli persegue come l'animale semplicemente i bisogni naturali. Ma quando lo tocca il presagio del divino, allora nel suo cuore si desta la forza creativa per preparare ai celesti la via mediante una siepe o un segno, per predisporre un lavacro per loro rendendo, attraverso la civiltà, la natura selvaggia degna degli dèi. i

II

La natura è unità, anche nella sua forma mitica. Anche quando le forme emergono dall'irriconoscibile e ricadono in esso; anche quando tra immagine ed immagine, fra tratto e tratto l'abisso primordiale si apre in modo sempre più minaccioso; anche quando l'accadere scaturisce, colpo dopo colpo, da un principio che non è collocabile in nessun ordine - sempre, vi è un insieme: un'origine ultima e un ritomo ultimo; un tutto in cui si inserisce ogni elemento singolo e che in esso si da. Non si identifica con l'ordine logicamente analizzarle, fondato dalle leggi della natura, della storia, dell'esistenza sociale. Per il mondo primi-, tivo, esse non ci sono ancora. Per il mondo degli ulti-, mi inni di Hólderlin esse costituiscono appunto anco-

«Ma quando i Celesti hanno costruito...» 615

ra, in superficie, una rete fine distesa sull'imperscrutabile e indomabile. L'unità della natura deve quindi risiedere nel modo in cui sono presentì gli elementi singoli, si manifestano le forme e si compiono gli avvenimenti.

Dapprima si pensa di poterle individuare nell'intensità e nella forza di presenza immediata della singola forma stessa, di cui si è già parlato. Ma questa da sola forse non basta. Deve esserci qualcosa che rende ciascun elemento aperto al tutto, orientando il singolo verso l'intero e facendo emergere l'intero nel singolo. Nel mondo deìVIperione e deWEmpedocle era il pnéuma che spira, il soffio della vita totale: che cosa ne è divenuto negli inni?

NeU'Zrfro si dice:

Lo chiamano l'Istro

Ha bella dimora. Arde delle colonne

La fronda e tremola. Dal folto diritte

Sorgono alla rinfusa: su esse,

Secondo ordine, sporge

II tetto di rupi. E non

Mi stupisce ch'egli abbia

Èrcole come ospite invitato,

Di lungi splendendogli, alle falde d'Olimpo,

Quando per cercarsi ombra

Venne dall'Istmo ardente,

Che là grande cuore

Avevano, ma abbisogna, per gli spiriti,

Anche la frescura. Perdo quegli preferì migrare

Qui, alle sorgenti e alle ripe gialle

Alto odoranti nell'aria e nere

D'abetaie, ove nel fitto

II cacciatore ama vagare

Di meriggio e udibile è la crescita

Nei resinosi alberi dell'Istro [...]

616 Quarto cerchio - La natura

Mann nennet aber diesen den Ister. / Schón wohnt er. Es brennet der Sàulen Laub, / Und reget sich. Wild stehn / Sie aufgerichtet, untereinander; darob / Ein zweites MaB springt vor / Von Felsen das Dach. So wundert / Mich nicht, daB er / Den Herkules zu Gaste geladen, / Fern-glànzend, am Olympos drunten, / Da der, sich Schatten zu suchen, / Vom heifien Isthmos kam, / Denn voli des Mutes waren / Daselbst sie, es bedarf aber, der Geister we-gen, / Der Kùhiung auch. Darum zog jener lieber / An die Wasserquellen hieher und gelben Ufer, / Hoch duftend oben, und schwarz / Von Fichtenwaid, wo in den Tiefen / Ein Jàger gem lustwandeit / Mittags, und Wachstum hór-bar ist / An harzigen Bàumen des Isters [...] (il, pp. 190-191; tr. dt. dt., pp. 239-241).

Il paesaggio è rievocato in modo splendido. Chi ha visto l'alta valle del Danubio in autunno, quando gli olmi sono dorati e vi si stagliano le rocce calcaree bianche contro il ciclo azzurro fondo; o chi si è aggirato nel silenzio dei suoi grandi boschi, quando il piede affonda nel muschio, quando le cime gigantesche sono oscure e i tronchi rossi come il rame, è partecipe di questa visione. Eppure, ci viene detto pochissimo! Alcune grandi forme sono messe in evidenza e contrapposte con audacia inaudita. L'ambito mitico non c'è ancora veramente, ma già lo si sente vicino. Basta una scossa intcriore perché la trasformazione si compia. La strofa successiva dice: ', II

II quale, però, sembra quasi ,.' '

Che vada a ritroso

E io penso debba venire

Da oriente. • 'f\,

Molto d sarebbe 'i

Da dirne. E perché

Sta così addosso ai monti? L'altro,

«Ma quando i Celesti hanno costruito...» 617

II Reno, se n'è andato

Da parte. Non vanno senza ragione

Nel secco i fiumi. Ma come? È ch'essi debbono

Fare da lingua. Un segno d vuole,

Nient'altro, chiaro e netto, che Sole

E Luna porti nell'animo inseparabili,

E prosegua dì e notte, e i celesti

Al caldo d si sentano l'un l'altro.

perdo quelli son pure

La gioia dell'Altìssimo. In che modo verrebbe,

Altrimenti, quaggiù? E, come Hertha verdi,

Sono essi i figliuoli del delo.

Der scheinet aber fast / Rùckwàrts zu gehen und / Ich mein', er mùsse kommen / Von Osten. / Vieles wàre // Zu sagen davon. Und warum hàngt er / An den Bergen ge-rad? Der andre, / Der Rhein, ist seitwàrts /Hinweggegan-gen. / Umsonst nicht gehn / Im Trocknen die Strème. Aber wie? Sie sollen nàmiich / Zur Sprache sein. Ein Zei-chen braucht es, / Nichts anderes, schlecht und recht, da-mit es Sonn / Und Mond trag im Gemùt, untrennbar, / Und fortgeh, Tag und Nacht auch, und / Die Himmli-schen warm sich fùhlen aneinander. / Darum sind jene auch / Die Freude des Hóchsten. Denn wie kàm er / Her-unter? Und wie Hertha griin, / Sind sie die Kinder des Himmeis ... (il, p. 191; tr. it. dt., p. 241).

Ora il fiume non è più il fenomeno geograficamente noto, ma un essere. Già all'inizio della strofa precedente c'era una parola che richiamava l'attenzione:

Lo chiamavano l'Istro Ha bella dimora ...

Il fiume «ha dimora», come anche l'isola di Patino:

Poiché, non come Cipro,

618 Quarto cerchio - La natura

La ricca di sorgenti, o come

Una delle altre,

Ha Patmo sontuosa dimora,

Ma è accogliente

In così povera casa

Ella nondimeno,

E se da naufragio o piangendo

La terra natale

O il dipartito amico,

Le si appressi uno

Straniero, ama ascoltarlo [...]

Denn nicht, wie Cypros, / Die quellenreiche, oder / Der anderen eine, / Wohnt herrlich Patmos, // Gastfreund-lich aber ist / Im àrmeren Hause / Sie dennoch, / Und wenn vom Schiffbruch, oder klagend / Um die Heimat oder / Den abgeschiedenen Freund, / Ihr nahet einer /. Der Fremden, hórt sie es gern [...] (il, pp. 166-167; tr. it. cit., p. 221).

L'isola e il fiume sono esseri. Ma non vengono rappresentati in modo allegoricamente didascalico, come nel caso delle solenni figure femminili e di quelle maschili incoronate di canne sui monumenti del secolo passato. Essi non hanno forma antropomorfa, ma sono immediatamente presenti. L'isola dimora. Il fiume dimora. Chi avverte ciò, si trova di fronte a una realtà. Questo è misticismo ...

Anche l'Istro ed il Reno nella nostra strofa sono esseri. Essi «camminano», condotti da una volontà misteriosa, e hanno un significato che va al di là del-l'immediatamente percepibile. Essi «camminano nel secco». Il «secco» non è solo la terra come identità geologica, ma l'elemento, così come appare nella filosofia ionica della natura o, meglio, nelle esperienze

«Ma quando i Celesti hanno costruito...» 619

vissute primordiali su cui si basano i concetti di essa. I fiumi camminano in questo elemento secco, asciutto. Essi sono «linguaggio» e «segno». Le parole significano qualcosa di simile a quanto il frammento sopra citato ha detto a proposito del coinvolgimento dei pendii montuosi. Il pensiero ritoma anche in altre parti dell'opera di Hólderlin. Le forme della natura, come una boscaglia ai piedi di un monte lontano o i contomi di certe montagne dopo il temporale, ma anche la sagoma di una rovina sullo sfondo del ciclo sono innanzi tutto ciò che empiricamente sono: il fatto che il limite del bosco si delinea in quel modo, che il monte ha tali cime e tali pendii e che del muro sono rimasti appunto quei resti. Ma poi viene la scossa interna e improvvisamente tutte le forme sono nuove. Esse si avvicinano e annunciano. Per colui che ne è toccato si tratta di saperle interpretare.

La poesia, unica tra le altre a motivo della sua metrica, dal titolo Cantato a pie delle Alpi, dice:

Così restare soli con i celesti, e, se fugge La luce, e fiumi e vento, se il tempo Si affretta verso la foce, a loro con fermo Occhio guardare,

Nulla di più beato io so e desidero; fin quando Me pure come il salice il flutto non porterà via, Che in buona custodia dormendo io dovrò Andare nelle onde;

Ma ama restare nella casa, chi in fedele Petto serba il divino, e libero voglio, finché mi sarà Concesso, voi tutte, o lingue del delo! Intendere e cantare.

So mit den Himmlischen allein zu sein, und / Geht vorù-

620 Quarto cerchio - La natura

ber das Ucht, und Strom und Wind, und / Zeit eilt hin zum Ort, vor ihnen ein stetes / Auge zu haben, // Seliger weiB und wùnsch ich nichts, so lange / Nicht auch mich, wie die Weide, fort die Flut nimmt, / DaB wohlaufgeho-ben, schlafend dahin ich / Mu6 in den Wogen; // Aber es bleibt daheim gern, wer in treuem / Busen Góttliches hàlt. und frei will ich, so / Lang ich darf, euch ali, ihr Sprachen des Himmeis! / Deuten und singen (il, pp. 44-45; tr. it. dt p. 85).

Anche qui il fiume diviene così la possente figura del suo percorso inscritta nello spazio, ossia un segno, una runa. Ora il paesaggio compie il passo per entrare nel mitico. Nella strofa precedente era già stato ridotto a poche forme potenti. Ma queste, pur condensate tanto da rendere un massimo di forza espressiva, descrivevano direttamente un paesaggio. Ora la forma familiare è divenuta un «segno», una runa del mondo, manifesta e leggibile solo a chi ha l'occhio adeguato. In questo trapasso sta l'elemento pneumatico. L'emergere del segno si compie nello spirito, nello stesso spirito il leggere e il comprendere. La natura mitica è nel pnéuma, ed essa viene vista alla luce del tocco pneumatico.

Ma il segno non è presente solo per «essere linguaggio», per annunciare. In esso accade qualcosa che decide il destino del mondo. Esso ha il potere di «portare nell'animo, inseparabili. Sole e Luna» che sono separati. Sole e luna, giorno e notte sono separati. Quando viene uno, l'altro se ne deve andare. Ciò è e sembra a prima vista ovvio. L'ordine poggia sul fatto che vi siano differenze e che l'essere e l'agire dell'uno si differenzino da quello dell'altro. Ma qui ciò smette di essere ovvio, e il timore più profondo di

«Ma quando i Celesti hanno costruito...» 621

Hólderlin si fa largo: che la realtà calata in una forma possa esistere solo a patto che venga sacrificato l'intero.

Ma, per superare questo pericolo, non è sufficiente l'ordine stesso? Ossia il fatto che ogni essere singolo sia inserito nell'intero e che la storia sussista fin dall'inizio in rapporto ad un contesto? Ma ciò è sufficiente solo per la coscienza comune, non per la coscienza di mistica della natura qui descritta. Questa chiede piuttosto l'unità piena. Ogni cosa deve essere completamente nell'altra, e ogni cosa completamente nel Tutto, e il Tutto in ogni forma singolare. La molteplicità dev'essere completamente ricompresa nell'unità, e la sobrietà deve comprendere allo stesso tempo la ricchezza delle forme. È la volontà che sta dietro al concetto neoplatonico dell'Uno supremo ed è interpretata mediante la figura dell'emanazione e del ritomo. Questo stato si manifesta nel «cuore» del fiume. A un tratto si apre un'interiorità. Ciò che scorre assimila, una dopo l'altra, le figure divise dell'esistenza, «Sole e Luna», conservandole insieme nella sua intimità. Il fenomeno parte dal fatto che nello specchio del fiume che scorre si riverberano di giorno il sole e di notte la luna, per passare poi nella dimensione metafìsico-mistica. Il fiume, la forma prima dell'esistenza interpretata in termini eraclitei, sta al di là della separazione; esso è animo vivo, ciò che altrimenti è diviso si identifica in esso.

Questo stato non può essere concepito in modo teoretico o allegorico, ma solo vissuto attraverso la contemplazione, come uno stato di trasformazione, in cui l'«altro» penetra in quanto sta «al di qua» provocandone il trapasso. Qui si fa chiaro un'altra volta il pnéuma.

622 Quarto cerchio - La natura

Esso riunifica la natura vista in termini mitici e drammaticamente esposta al pericolo della separazione. Ma, a differenza delle prime poesie, lo spirito non viene più definito espressamente una potenza, costituisce bensì lo stato dell'intero. La natura mitica si trova in una condizione di movimento e di apertura grazie a cui ciò che è separato diventa identico nel momento successivo, o meglio, nello stesso momento; ciò che è fuori, è allo stesso tempo dentro. L'immagine del fiume non ha la ricchezza radiosa che lo contraddistingue nelle prime poesie. Le sue forme sono povere e rigorose, ma in compenso potenti, ardenti e circonfuse dal soffio primordiale.

Ili

II sole e la luna, il giorno e la notte sono potenze miriche - ma sono anche dèi. Il testo segue la linea che porta da loro al «Supremo»: al Padre, il Cielo, l'Etere che unisce in sé l'immagine di Zeus e quella sbiadita del Padre della Bibbia nei cieli. I fiumi sono «la gioia dell'Altissimo» perché fanno sì che egli possa «venire quaggiù». Il riflettersi del cielo nel fiume è a sua volta il primo strato di un fenomeno complesso:

il cielo scende sulla terra e i due, che pure sono divisi, si uniscono nel cuore del fiume.

Gli dèi non sono esseri accanto alla natura, ma le realtà di fondo di questa natura stessa. Essi si manifestano certo anche in figure dai contomi precisi, condeterminati dalle opere dell'arte antica. Ma queste tornano a trapassare ben presto nel mondo stesso. Ciò è particolarmente evidente negli inni tardi. Le

«Ma quando i Celesti hanno costruito...» 623

potenze della natura sono il primo aspetto di essi. Essi si prolungano inoltre nel metafisico e nello psichico o, ancora più in là, nel numinoso. Appena giunge il momento del rivelarsi e lo sguardo acquista capacità visionarie, diventa chiaro che sono dèi. «Il dio» è l'ultimo rivelarsi di un elemento del mondo. Ma l'unità che raccoglie insieme tutti gli dèi è «la natura» -quella natura che nel pnéuma ha raggiunto la sua dimensione ultima, più esattamente, che scaturisce costantemente dal pnéuma e sussiste in esso.

DalYIperione agli inni tardi ha luogo, a velocità spaventosa, una grande evoluzione. Ma è un'evoluzione all'interno della stessa impostazione. La natura è l'insieme. Ma l'insieme è un mistero. L'espressione di questo mistero è il pnéuma del mondo. Tutto ciò che è nominabile sta in questo intero, le cose, gli uomini e anche gli dèi. Questo intero è l'istanza ultima a cui tutto è riferito. In esso, gli dèi sono uniti fra loro. Essi scaturiscono dall'intero e vi ritornano. Essi sono gli dèi del mondo, gli dèi della natura. La natura stessa non è un dio: essa non è meno, ma più di quanto possa esprimere questo concetto nell'accezione hólderlinia-na. Essa è ciò che è, in quanto tale; inizio, decorso e fine. Gli dèi sono elementi entro questo tutto.

NOTE

1. Isola delle Cicladi, detta in antico anche Ofiussa e Idrussa (n.d.r.).

2. Vedi la nota 1 a p. 136 supra.

3. Città della Laconia, sulle propaggini del Taigeto, oggi villaggio, Mi-strà (n.d.r.).

4. Cosi era chiamata nell'antichità l'estremità meridionale del Pelo-ponneso, ora Capo Matapan (n.d.r.).

5. Nel mito greco, Polluce figlio di Zeus e di Leda, era immortale, Ca-

624 Quarto cerchio - La natura

store figlio di Tindaro e Leda, mortale; ucciso quest'ultimo da Ida, Pollu-ce voleva che Zeus facesse morire lui pure, ma Zeus gli concesse di rinunciare a metà della propria immortalità a favore del fratello; così i due <». melli continuarono a vivere insieme alternativamente un giorno nell'Olimpo e un giorno nell'Ade (n.d.r.).

6. Tempio di Zeus Olimpio ad Atene, fondato da Pisistrato, compiuto sotto Adriano (n.d.r.).

7. Religiose Gestalten ire Dostojewskijs Werk, Mùnchen 19514, pp. 374 sx tr. it II mondo religioso di Dostojevskij. Sliidi sulla fede. Broscia 19803, pp, 300 ss.

8. Con ciò non si vuole naturalmente intendere che l'uomo siffatto sia esposto a qualsiasi valore; ciò sarebbe mancanza di carattere e genererebbe il caos. Della nobiltà fa parte la capacità della distinzione e il senso dell'ora giusta - anche se l'uomo a cui ci riferiamo trova difficoltà pure in questo, dal momento che per lui il punto di vista decisivo non è dato dalla questione del come sopravvivere in un simile frangente, ma da una forma ultima di verità, tutt'una con l'onore ed il destino. In tal modo, possono presentarsi anche valori inconciliabili di fatto con la vita e che arrecano la catastrofe.

9. Susette Gontard, moglie di un banchiere, che a Francoforte dal 1795 accolse il poeta nella casa come precettore dei suoi figli; Hólderlin se ne innamorò, ricambiato; vedi la Cronologia della vita di Hólderlin, pp. 731 ss. (n.d.r.}.

10. Una simile constatazione si impone nuovamente a cospetto del più grande poema sull'umanità: la Divina Commedia di Dante. Spero di poter dimostrare che Beatrice non è, come viene sempre sostenuto, una personificazione di contenuti di senso ideali o spirituali, ma una persona umana vera. Qui non si tratta di particolari biografici, ma del senso rivestito dalla figura poetica come anche dell'autointerpretazione di Dante in quanto tale. Appena si trasforma Beatrice in un'allegoria, tutto crolla. Il suo essere consiste proprio nel fatto che la realtà terrena diventi manifesta nell'eterno<eleste (cfr. R. Guardini, Der Engel in Dantes Gottlicher Ko-madie, pp. 71 s. e 99; tr. it. L'angelo nella Divina Commedia, in Studi su Dante, Broscia 19863, pp. 68 s. e 97). Dante dice di aver visto e vissuto nella Beatrice terrena qualcosa che era capace di quella trasposizione nell'eterno e, anzi, la esigeva. Abbiamo quindi il dovere di credergli. Ciò non rappresenta solo un punto di vista dettato dal rispetto spirituale, ma anche qualcosa di metodologicamente decisivo: se cioè lo studio nel tentativo di interpretare grandi uomini ed opere assume come metro di misura la propria esperienza, oppure se riconosce che ci sono delle possibilità di esistenza a essa superiori, riuscendo in assoluto in tal modo a coglierli. (Vedi a proposito anche l'excursus a pp. 281 ss. del mio libro Die Beìleh-rungdes Aurelius Augustinvs, Mùnchen 1950; tr. it. La conversione di sant'Agostino, Brescia 1957, pp. 273-276).

11. Anche qui simile alla Beatrice di Dante che nella sua esistenza viva è espressione dello stato di grazia puro.

12. Non allo spazio scientifico dell'astronomia, in cui sono posti i pu-

Quarto cerchio - La natura 625

ri e semplid corpi cosmici, ma all'ambito a noi sottratto verso l'alto in cui vi sono le «immagini stellari».

13. Si veda a proposito Guardini: Unterscheidung des Chrisllichen, 1935, i saggi: Religiose Erfahrung und Glaube und Der Heiland, tr. it. rispettivamente in Esperienza religiosa e fede, in Fede - Religione - Esperienza, Brescia 1984, pp. 57-108, e in II Salvatore, in Natura - Cultura - Cristianesimo, Bre-scial 983, pp. 251-295.

14. A partire da questo punto di vista ci sarebbe certo da fare alcune considerazioni di significato ultimo sulla «natura morta» nell'arte.

15. In tedesco entrambe le volte ricorre il termine das Seiende, e se-iend; in italiano si è ricorsi, per dare il senso participiale, a «essente» -per altro ora talvolta usato (n.d.r.).

16. Nota espressione dell'inno da cantare all'aurora Splender patemi luminis, di S. Ambrogio (v. 24) - (n.d.r,).

17. È lo stato espresso dal giardino - se ne parlerà più avanti.

18. Anche ciò trova la sua espressione nell'ambiente: nell'assenza d'una patria, subita nel bando, nel vuoto del pendio dell'Etna.

19. Nel brano tedesco riportato qui, mancano due versi tradotti da Pocar, evidentemente tratti da una edizione di Hólderlin diversa da quella utilizzata da Guardini (n.d.t.).

20. Il curatore di HSIderlins Samtliche Werke, Stuttgart 1946 ss, la Grafie Stuttgarter Ausgabe (n.d.r.}.

21. Simon Dach (1605-1659), poeta tedesco della Prussia Orientale, autore di composizioni di carattere occasionale, per nozze, funerali; la sua ispirazione è serena e pacata (n.d.r.).

22. La prima Elegia duinese di R.M. Riike esprime un pensiero analogo: «Chi, se io gridassi, mi udirebbe poi dagli ordini / degli angeli? e posto pure che uno d'un tratto / mi attirasse al suo cuore, io sparirei a causa della sua / troppo forte esistenza. Perché il bello non è / che il principio del terribile, che noi ancora sopportiamo / ed ammiriamo appunto perché esso disdegna placidamente di distruggerci» (Wer, wenn idi schriee, hórte mich denn aus der Engel / Ordnungen? und gesetzt selbst, es nàhme / einer mich plotziich ans Herz: ich verginge von seinem / stàrkeren Dasein. Denn das Schóne ist nicht / als des Schreckiichen Anfang, den wir noch grade ertragen, / und wir bewundern es so, weil es gelassen verschmàht, / uns zu zerstóren ... [Awgew. Werke I, p. 245; tr. it. de., pp. 27-28, 32]).

Quinto cerchio Cristo e il cristianesimo

NOTA INTRODUTTIVA

II cristianesimo si manifesta nell'opera poetica di Hólderlin in modo particolare. Dopo un certo periodo di estraneità, forse di rifiuto consapevole, la figura di Cristo riaffiora assumendo un carattere peculiare. Si distingue nettamente da quella del razionalismo, che vede Cristo come un saggio, o da quella dello storicismo, che lo classifica come genio religioso. Nel mondo di Hólderlin, Cristo è chiamato senz'altro «divino», anzi «Dio». D'altra parte in questo mondo manca, come abbiamo già visto, il nome di Dio, di quel Dio che non significa ne il singolare del plurale «dèi», ne il «Padre degli dèi e degli uomini», e nemmeno l'essere universale mondo, bensì il Dio vivente della Rivelazione. Così si pone la questione di chi sia questo Cristo e in quale senso Hólderlin lo chiami divino e Dio.

La questione ha particolare importanza nel contesto della sua opera, dal momento che egli parla con la serietà del vate consapevole di annunciare la verità. Inoltre, è stato teologo. Con ciò non si vuole certo affermare che questo studio conferisca una competenza autentica per tali questioni. Può anzi sortire l'effetto contrario, danneggiando l'organo, per così dire, della sensibilità religiosa. Non si vuole nemmeno sostenere che Hólderlin sia stato un teologo profondo o anche solo preciso, perché probabilmente non lo

630 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo f

era. Ma, anche per questo motivo, le sue affermazioni hanno un peso maggiore di quello che avrebbero se scaturissero semplicemente dalle idee sulla formazione culturale generalmente diffuse a quel tempo.

Hólderlin ha fatto esperienza della sostanza e dell'atmosfera cristiana sotto diversi aspetti. Ha conosciuto soprattutto quell'intreccio d'illuminismo e pietismo caratteristico della fine del Settecento. Ma si è imbattuto anche in concezioni mistiche influenzate da Jakob Bóhme nonché nelle sintesi idealistico-panteistì-che del suo circolo d'amici a Tubinga, a cui appartenevano il giovane Hegel e poco più tardi Schelling, Ma non sembra aver conosciuto una interpretazione speculativa della figura di Cristo e una incarnazione viva del suo spirito, capace di conservarne intatto il contenuto e di rappresentarlo ad un alto livello spirituale umano - circostanza ricorrente per molte personalità del periodo classico: pochi di loro hanno conosciuto un'esistenza cristiana autentica, in una forma che avesse grandezza. Per questo le loro idee sul cristianesimo sono spesso così inadeguate e a volte addirittura penose. Di conseguenza, la figura tradizionale di Cristo perse ben presto ogni importanza per Hólderlin. Vi ebbe una parte considerevole la riluttanza verso la professione ecclesiastica scelta per ragioni economiche e sotto l'insistenza della madre, una riluttanza che aumentò di fronte a varie sorta di inadeguatezza nel piano di studi teologici in vigore a Tubinga1. Questa resistenza intcriore non poteva non ripercuotersi sul contenuto dell'odiata professione, la dottrina cristiana e le sue strutture.

Il tentativo di formulare un giudizio approfondito sulla posizione di Hólderlin nei confronti del cristia-

Nota introduttiva 631

nesimo è intralciato da un grande ostacolo. Il periodo del suo sviluppo personale è molto breve. La sua vita e la sua opera si interrompono in modo precoce e brusco. Si è preso atto puramente e semplicemente di questo fatto, si è persino stilizzata la sua immagine in corrispondenza, e si è fatto di lui un giovane poetavate che è crollato, vinto dalla sovrapotenza dell'ora stessa che era chiamato ad annunciare. Ma questa immagine non tiene conto della sua esistenza drammatica. Hólderlin nacque il 20 marzo 1770 e morì il 7 luglio 1843. Dopo il crollo definitivo, visse quindi per altri trentotto anni. Questi anni esistono, ed è arbitrario cancellarli: stanno a dimostrare che non ha concluso il confronto che aveva iniziato, ne nella propria esistenza ne nell'opera. Nel periodo in cui Hólderlin è in possesso delle sue facoltà mentali ed intento a produrre, egli è «giovane» in tutti i sensi. Il concetto del «giovane» costituisce per lui addirittura una categoria esistenziale che trova la sua realizzazione piena nel divino. Ma egli ha saputo cogliere anche l'uomo maturo: ne sono prova i personaggi di Adamas, Em-pedocle e del padre nella poesia Emilia innanzi il giorno delle sue nozze, ed è quindi sbagliato fissarlo nel ruolo di giovane. Egli sarebbe stato capace di vivere e di descrivere l'umano in tutta la sua ricchezza. Il fatto che una vita duri poco e si interrompa bruscamente può forse rendere l'opera che ne è scaturita artisticamente più attraente, conferendo ad essa uno splendore prezioso per la tragicità, ma per la portata religiosa dell'opera questo fatto costituisce un difetto assoluto. Un giudizio sulle realtà ultime, che voglia essere competente, deve basarsi sull'esperienza conferita solo da una vita vissuta per intero. Nessuna genia-

632 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo

lità può supplire alle conoscenze che scaturiscono dal maturare e invecchiare. Le figure e i pensieri di Hól-derlin non hanno ancora questa esperienza, avrebbero però potuto conseguirla. E impossibile prevedere come avrebbe pensato, a mente lucida, anche solo all'età di quarant'anni. Tanto meno si può affermare che i pensieri fatti all'età di trentacinque esprimano tutte le possibilità di lui. Hólderlin è ammutolito prima di dire la sua ultima parola. Di questo bisogna tener conto quando si vuole valutare la sua opera.

Analizzato a livello delle sue poesie, il rapporto di Hólderlin con il cristianesimo presenta approssimativamente tré fasi. Dapprima vi è un periodo di religiosità giovanile, che percepisce le idee del suo ambiente tentando di farle sue. Presto inizia la crisi; Hólderlin perde qualsiasi rapporto con le dottrine cristiane tradizionali e si dedica interamente alle divinità descritte nel corso di questo lavoro. Ma nel periodo della maggiore intensità poetica la figura di Cristo acquista una nuova vita e un carattere nuovo che si discosta dalla tradizione. Essa diventa una vera potenza nello spazio più specifico della personalità hólderliniana. Ma prima che il suo senso e il proprio rapporto verso le divinità antiche, sperimentate spontaneamente, possano chiarirsi, il confronto si interrompe.

LA GIOVENTÙ E IL PERIODO INTERMEDIO

Un valido esempio per la primissima concezione di Cristo è costituito dalla lunga poesia innica I libri dei tempi. Essa inizia con invocazioni a Dio, per poi affrontare ciò che accade nel corso del tempo del mondo e infine la venuta del Redentore:

Sta scritto -

Morte in croce di Gesù Cristo!

Morte in croce del Figlio di Dio!

Morte in croce dell'Agnello sul Trono!

Per fare beato il mondo intero

Per dare gioia angelica

Ai suoi fedeli. Dei serafini, dei cherubini,

Silenzio attonito

Tutt'attorno nella vastità dei deli -

Tacere del suono delle arpe,

Appena respira il corteo intomo al sacro tempio,

Adorazione - adorazione -

Per opera del Figlio

Che redime

Una stirpe malvagia caduta.

Sta scritto -

Colui che è morto. Gesù Cristo,

Vincendo nella rocda la morte!

Uscendone nell'onnipotenza della virtù divina!

634 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo

E vivendo - vivendo Per gridare una volta alla polvere:

Ritornate, figli dell'uomo!

Ora risuona la tromba

Per l'infinita schiera di gente

Su, al seggio del giudizio! Al seggio del giudizio!

Al Figlio che instaura

L'equilibrio della giustizia.

Da steht geschrieben - / Jesus Christus Kreuzestod! / Des Sohnes Gottes Kreuzestod! / Des Lamms auf dem Throne Kreuzestod! / Selig zu machen alle Welt, / Engelswonne zu geben / Seinen Glaubigen - / Der Seraphim, Cherubini / Staunende Sdii / Weit in den Himmeisgefilden um-her - / Des Harfenkiangs Verstummen, / Kaum atmend der Strom ums Heiligtum. / Anbetung - Anbetung - / Uber des Sohnes Werk, / Welcher erióst / Ein gefallen Greuelgeschlecht. // Da steht geschrieben - / Der gestor-ben ist, / Jesus Christus, / Abschùtteind im Felsen den Tod! / Heraus in der Gotteskraft Allgewalt! / Und lebend - lebend ~ / Zu rufen dereinst dem Staub: / Kommet wie-der, Menschenkinder! / Jetzt tónt die Posaun / Ins unab-sehiiche Menschengewimmel / Zum Richtstuhi hinani Zum Richtstuhi! // Zum Sohn, der aufstellt / Der Ge-rechtigkeit Gleichgewicht! (i, p. 73)

L'inautenticità dei sentimenti e dei pensieri è evidente, soprattutto se il linguaggio e la qualità di pensiero della poesia sono messi a confronto con un altro inno giovanile, Al genio della Grecia. Già i primi mostrano una diversa partecipazione ed autenticità:

Giubilo! giubilo A tè sulla nube! Primogenito Dell'alta natura! Dall'aula di Crono

La gioventù e il periodo intermedio 635

Giù d libri

Maestoso e benigno

A nuove, venerate creazioni ...

A lungo soggiornasti tra gli dèi E pensasti ai miracoli venturi. Passarono librate come nubi d'argento Davanti al tuo sguardo amoroso Tutte le stirpi! Le stirpi dei beati.

Al cospetto degli dèi

La tua bocca decise

Di fondare il tuo regno sull'amore.

Si stupirono tutù i celesti,

Giove tonante inclinò verso tè

II suo capo regale

In abbraccio fraterno.

Tu fondi sull'amore il tuo regno. Tu vieni e l'amore d'Orfeo Ascende agli occhi del mondo, E l'amore d'Orfeo Discende verso l'Acheronte, Tu scuoti la magica verga Ed il Meonio ebbro2 Vede il dnto d'Afrodite.

Jubel! Jubel / Dir auf der Wolke! / Erstegebomer / Der hohen Natur! / Aus Kronos Halle / Schwebst du herab, / Zu neuen, geheiligten Schópfungen / Hold und majestà-tisch herab ... // Lange sàumtest du unter den Góttern / Und dachtest der kommenden Wunder. / Vorùber schwebten, wie silbern Gewólk, / Am liebenden Auge dir / Die Geschlechter alle! / Die seligen Geschlechter. // Im Angesichte der Gótter / BeschloB dein Mund, / Auf liebe dein Reich zu grùnden. / Da staunten die Himmlischen alle. / Zu brùderlicher Umarmung / Neigte sein kóniglich

636 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo

Haupt / Der Donnerer nieder zu dir. / Du grùndest auf Uebe dein Reich. // Du kommst und Orpheus Liebe / Schwebet empor zum Auge der Welt, / Und Orpheus Uebe / Wallet nieder zum Acheron. / Du schwingest den Zauberstab, / Und Aphroditàs Gùrtel ersieht / Der trun-kene Màonide (i, pp. 125-26).

II

Al secondo periodo, più precisamente al periodo in cui Hólderlin soggiornava in casa Gontard, appartiene la poesia Alla mia venerata nonna nel suo settanta-duesimo compleanno. Essa è talmente importante per la nostra questione che conviene riportarla tutta:

Molte cose hai vissuto, cara ava, e ora sei calma

E felice, da lontani e vicini amorosamente chiamata a nome,

Da me anche cordialmente onorata nell'argentea corona

[della vecchiezza, Fra i pargoli che a tè maturano e crescono in fiore. Lunga vita ti ha la soave anima ottenuto E la speranza che amica ti guidò fra i dolori. Contenta sei e pia, come la Madre che un tempo II migliore degli uomini, l'amico della nostra terra, partorì. Ah! essi non sanno come l'Eccelso camminò tra il popolo E quasi si è dimenticato dò che il Vivente fu. Pochi lo conoscono e spesso, serenando, a loro apparisce ;. In mezzo a un'epoca tempestosa l'immagine celeste. Tutto conciliando, calmo, fra i miseri mortali Quil'uomo unico, divino nello spirito, trapassò. Nessuno dei viventi era escluso dall'anima sua E i dolori del mondo portò sull'amoroso petto. Con la morte si fece amico, nel nome degli altri Tornò, da dolori e travaglio, trionfatore al Padre. E anche tu conosci, o cara madre, e procedi Credente e paziente e placida, dietro di Lui, il Sublime.

La gioventù e il periodo intermedio 637

Vedi, hanno perfino me ringiovanito le innocenti parole

E sgorgano come un tempo lagrime dal mio occhio.

E mi rimembro dei giorni da tanto tempo passati

E il paese nativo rallegra di nuovo il mio animo solitario

E la casa ove un giorno crescevo alle tue benedizioni,

Dove, nutrito di amore, più presto il fanciullo prosperò.

Ah, quante volte pensai che ti saresti di me rallegrata,

Quando mi vedevo, nel futuro, operare nel vasto mondo.

Molto ho tentato e sognato, e mi sono piagato il petto

A forza di lottare, ma voi me lo guarirete

O cari! e a vivere a lungo, come tè, o Madre,

Io imparerò; è calma la vecchiezza e pia.

Verrò da tè: benedici allora anche una volta il nipote,

Perché l'uomo d mantenga dò che, fanciullo, ha promesso.

Vieles hast du eriebt, du teure Mutter! und ruhst nun / Gluckiich, von Femen und Nahn liebend beim Namen ge-nannt, / Mir auch herziich geehrt in des Alters silbemer Krone, / Unter den Kindem, die dir reifen und wachsen und blùhn. / Langes Leben hat dir die sanfte Seele gewon-nen / Und die Hoffnung, die dich freundiich in Leiden gefùhrt. / Denn zufrieden bist du und fromm, wie die Mutter, die einst den / Besten der Menschen, den Freund unserer Erde, gebar. - / Ach! sie wissen es nicht, wie der Hohe wandeit' im Volke, / Und vergessen ist fast, was der Lebendige war. / Wenige kennen ihn doch und oft er-scheinet erheitemd / Mitten in stùrmischer Zeit ihnen das himmlische Bild. / Allversóhnend und sdii mit den armen Sterbiichen ging er, / Dieser einzige Mann, gótdich im Geiste, dahin. / Keines der Lebenden war aus seiner Seele geschlossen, / Und die Leiden der Welt trug er an lieben-der Brust. / Mit dem Tode befreundet'er sich, im Namen der andem / Ging er aus Schmerzen und Mùh siegend zum Valer zurùck. / Und du kennest ihn auch, du teure Mutter! und wandeist / Glaubend und duldend und sdii ihm, dem Erhabenen, nach. / Sieh! es haben mich selbst verjùngt die kindiichen Worte, / Und es rinnen, wie einst, Trànen vom Auge mir noch; / Und ich denke zurùck an

638 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo

làngst vergangene Tage, / und die Heimat erfreut wieder mein einsam Gemùt, / Und das Haus, wo ich einst bei dei-nen Segnungen aufwuchs, / Wo, von Liebe genàhrt, schneller der Knabe gedieh. / Ach! wie dacht ich dann oft, du solltest meiner dich freuen, / Wann ich feme mich sah wirkend in offener Welt. / Manches hab ich versucht und getràumt und habe die Brust mir / Wund gerungen indes, aber ihr heilet sie mir, / O ihr lieben! und lange, wie du, o Mutter! zu leben, / Will ich lemen; es ist ruhig das Alter und fromm. / Kommen will ich zu dir; dann segne den Enkel noch einmal, / Da6 dir halle der Mann, was er als Knabe gelobt (I, pp. 172-173; tr. it. dt., pp. 149-151).

La poesia è bella, nel senso accentuato della parola, sentita nel silenzio, nella verità, nell'intimo. Tuttavia, si avverte che il rapporto del poeta con il suo oggetto non è originario. Esso passa per il ricordo. L'io *• poetico rivive ciò che la venerata vecchia ha vissuto e che un tempo è stato venerabile anche per lui. E la fé- f, de della sua giovinezza, che non lo coinvolge più, ma |, viene considerata con pietà obiettiva. ||

Per il resto, la figura di Cristo evocata dalla fede K scompare dal mondo della sua poesia. Questo è dominato completamente dai numi dell'antichità greca e da concezioni spontanee della divinità. Ma il legame non si interrompe del tutto, meglio: la figura di Empedocle prelude alla figura di Cristo negli scritti più tardi.

Ili

Se leggiamo i testi dei drammi senza pensare a questo contesto una serie di particolari concreti, e an-cor più l'atteggiamento e il tono della figura di Empe-

La gioventù e il periodo intermedio 639

docle ci ricordano qualcosa, finché ci accorgiamo che ciò era dovuto ad una somiglianzà latente con Cristo, ma anche insieme ad un'estraneità a Lui. Non si tratta però di un'estraneità in quanto tale cioè dell'assenza di rapporti, bensì di una trasformazione straniante di ciò che comunemente è ritenuto cristiano. È un dato di fatto particolare che coinvolge anche il lettore dello Zarathwtra di Nietzsche. Quest'impressione è dovuta a molti particolari di quest'opera, peraltro strutturata come antivangelo, ma ancor più a tutto l'atteggiamento e il tono della figura dominante. Essa è un Cristo trasposto nell'elemento non-cristiano, dionisiaco oppure un essere dionisiaco caratterizzato antiteticamente a partire dall'elemento cristiano. Qualcosa di simile si trova neIV Empedocle.

Ciò è determinato innanzi tutto dal modo di descrivere la figura principale e gli altri personaggi. Nella sua saggezza, nella sua forza soccorritrice, nella sua mitezza pronta al perdono, nella sua potente tenerezza ed inoltre fìsionomicamente, per così dire, nella statura e nei gesti Empedocle ricorda Cristo. Panthea rammenta la figlioletta di Giairo, che in qualche modo viene fusa con Maria di Magdala. Pausania ricorda Giovanni ed Ermocrate i rappresentanti della gerarchla ... Il parallelismo sta inoltre nel fatto che la figura di Empedocle domina in modo così assoluto. È stato già detto che è priva di un degno avversario. Il dramma vero si compie in solitudine, tra essa e la divinità. Gli altri personaggi sono determinati nel loro carattere dal rapporto con il profeta e maestro ... Inoltre vi sono alcune circostanze nella vita di Empedocle che ricordano Cristo. Si veda per esempio la scena dove il popolo gli offre la corona regale ed egli la

640 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo

rifiuta; la domanda rivolta al suo discepolo Pausania;

«Per chi mi riconosci?»; il tentativo di distoglierlo dal suo cammino verso la morte; la cena che il maestro vuole fare insieme ai suoi fidati, e altre cose ancora.

Ma è la consapevolezza di assolvere ad una missione a costituire l'analogia più profonda. Empedocle sa di esercitare una mediazione generale che supera le lacerazioni dell'esistenza, soprattutto il divario tra il divino e l'umano. Così nella seconda stesura si legge:

Ricordo un suo discorso arrogante

che pronunciò quando da ultimo

nell'agorà si trovava. Non so

cosa il popolo prima gli avesse detto; giungevo

appunto allora, di lontano stavo; «Voi m'onorate,

rispose egli, e fate cosa giusta;

poiché muta è la Natura,

estranei vivono l'uno all'altro,

il sole e l'aria e la terra e i loro figli,

solitari, come non s'appartenessero.

Con energia perpetua certo ruotano

degli dèi nello spirito le libere e immortali forze del cosmo

tutt'attomo all'altrui

peritura vita.

Ma selvatiche piante

su selvatico suolo,

nel grembo degli dèi, son

tutti i mortali seminati

che scarso dbo nutre, e morto

apparirebbe il suolo, se uno

non lo curasse, vita suscitando,

E mio è il campo. In me scambiando

la forza e l'anima, in uno si fondono

i mortali e gli dèi.

E più fervide abbracciano le potenze eteme

il cuore che agogna, e più forti crescono

dallo spirito libero i sensibili mortali,

La gioventù e il periodo intermedio 641

e tutto è desto! Poiché io assodo quanto è diverso, la mia parola da nome all'ignoto;

e l'amore dei viventi governo, elevo e abbasso; quanto a uno manca, io prendo dall'altro, e congiungo animando, e trasformo ringiovanendo il mondo esitante e a nessuno somiglio e a tutti». Così parlava l'arrogante.

Ein ùbermùtiges Gerede fàlit/ Mir bei, das er gemacht, da er zuletzt / Auf der Agorà war. Ich weifi es nicht, / Was ihm das Volk zuvor gesagt; ich kam / Nur eben, stand von fern; ihr ehret mich, / Antwortet'er, und tuet recht daran;

/ Denn stumm ist die Natur, / Es leben Sonn und Luft und Erd und ihre Kinder / Fremd umeinander, / Die Ein-samen, als gehórten sie sich nicht. / Wohi wandein immer-kràftig / Im Góttergeiste die freien / Unsterbiichen Màchie der Welt / Rings um der andern / Vergànglich Leben, / Doch wilde Pflanzen / Aufwilden Grund, / Sind in den SchoB der Getter / Die Sterbiichen alle gesàet, / Die Kàrglichgenàhrten, und tot / Erschiene der Boden, wenn Einer nicht / Des wartete, lebenerweckend, / Und mein ist das Feld. Mir tauschen / Die Kraft und Seele zu Einem / Die Sterbiichen und die Getter. / Und wàrmer umfangen die ewigen Màchie / Das strebende Herz und kràftger gedeihn / Vom Geiste der freien die fùhlenden Menschen, / Und wach ists! denn ich / Geselle das Frem-de, / Das Unbekannte nennet mein Wort, / Und die Ue-be der Lebenden trag / Ich auf und nieder; was einem ge-bricht, / Ich bring es vom andern, und binde / Beseelend, und wandle / Verjùngend die zògernde Welt, / Und glei-che keinem und allen. / So sprach der Ùbermùtige (ni, pp. 177-178; cfr. tr. it. dt., pp. 173-175).

A parlare è un nemico. Ma nelle sue parole si rivela lo spirito dell'accusato. Questa mediazione totale

642 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo

acquista un significato particolare tramite la consapevolezza del sacrifìcio di sé ch'egli compie, di una morte che riconduce la propria vita nel grembo divino da cui è nato, ristabilendo in tal modo il senso infranto dell'esistenza.

Empedocle è colui che conosce entrambi gli aspetti del mondo, quello divino e quello umano. In una ispirazione dionisiaca continua, egli non solo unisce il divino all'umano, ma, spingendosi oltre, anche il divino al divino. Si è già più volte parlato della concezione della sofferenza mitica, più volte ricorrente in Hólderlin. L'unità prima deve dividersi perché le cose e gli eventi possano essere. Ogni ente è diviso dall'altro: il giorno dalla notte, il cielo dalla terra, l'uomo dall'animale e dall'albero, quest'essere singolo da quello. Solo in questo modo può darsi essere concreto. Eppure, l'ente singolo desidera ritornare da tutti gli altri e nell'unità. Questo stato significa sofferenza, ma anche colpa perché un'ultima esigenza di questo sentimento del mondo non permette ad esso di esistere - una colpa e una sofferenza continuamente risuggellate poi dall'egoismo, dalla superbia, dall'interesse proprio e dalla codardia dell'uomo. Empedocle sa tutto questo. Sente come ogni ente si avvicini per accedere per mezzo di lui all'unità. E il suo cuore è ciò che conserva e unisce, lo spazio dell'amore in cui «i celesti al caldo ci si sentano l'un l'altro» (L 'Istro, II, p. 191; tr. it. cit., p. 241). Ma la sua colpa in certo modo mette in luce la colpa dell'esistenza, e la sua espiazione la supera. L'atteggiamento e il destino di Empedocle qui analizzati ricordano l'opera redentrice di Cristo del cui desiderio che «tutti diventino una cosa sola» parla in modo così penetrante il Vangelo di

La gioventù e il periodo intermedio 643

Giovanni, soprattutto i discorsi di commiato e l'ultima preghiera (capp. 13-17).

Ma vi è dell'altro. Empedocle, per quanto possieda forze miriche, è lui stesso alla fine della serie mitica. Benché strutturato ancora in modo «preistorico», egli si trova già nella storia. La differenza diventa evidente se la sua figura è messa a confronto con altri che si sono addossati una colpa simile, come Tantalo per esempio, o Sisifo o Prometeo. Questi sono costruiti interamente in modo mitico; sono solo figure simboliche o potenze. Per questo, in essi non vi è sviluppo, crisi e, soprattutto, ne pentimento ne conversione. Essi sono completamente identici con la loro azione, Empedocle, invece, è già individuale; egli ha una storia intcriore. Per questo è in grado di riconoscere, di pentirsi e di convenirsi. Di qui anche il suo rapporto particolare con la pòlis. Un Cadmo fonda e governa a partire dalla sicurezza non minata da dubbi dell'avo che crea e regna e a cui ubbidisce la realtà. Empedocle invece vive in una sfera che già necessiterebbe di politica realistica e di pedagogia. Egli è consapevole di ciò e tenta di praticarle, ma quella sua scissione intcriore lo spezza. Così fallisce ... Forse non è troppo azzardato vedere in questo intreccio di struttura mitica e storica un mezzo per percepire che un'esistenza è nell'aldilà come nell'aldiqua a un tempo, metafisica e terrena. Anche questo sarebbe una rimaneggiamento della forma d'esistenza di Cristo, così come è presentata soprattutto da Giovanni - infatti, il Vangelo di Giovanni ha un'importanza decisiva per Hólder-lin3. L'unità giovannea di lògos e uomo sembra trasparire qui attraverso una somiglianzà lontana e in molti modi spezzata, preparando il Cristo degli inni tardi.

644 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo

Ad ogni modo, nell'essere, nel sentimento e nella convinzione, nell'agire e nel destino della figura di Empedocle vi è qualcosa che trascende le possibilità dell'antico eroe come anche quelle del genio religioso sviluppato esclusivamente a partire da avvii immanenti al mondo.

LA MATURITÀ

L'elegia Pane e vino è una delle grandi poesie dio-nisiache di Hólderlin. Di quale incanto sono pieni i versi della prima strofa:

Adesso che viene un alito e fremono le cime degli alberi, Guarda! e l'ombra della nostra terra, la Luna, Giunge anch'olla, in segreto: la folle di sogni, la notte Colma di stelle viene e di noi poco si cura. In uno stupito chiarore sorge l'estrania fra gli uomini Sopra vette di monti, triste e fulgente, lassù.

Jetzt auch kommet ein Wehn und regt die Gipfel des Hains auf, / Sieh! und das Schattenbild unserer Erde, der Mond / Kommet geheim nun auch; die Schwàrmerische, die Nacht kommt, / Voli mit Sternen und wohi wenig be-kùmmert um uns, / Glànzt die Erstaunende dort, die Fremdiingin unter den Menschen, / Ùber Gebirgeshóhn traurig und pràchtig herauf (II, p. 90; tr. it. cit., pp. 133-135).

Qui è la patria, la Germania. Poi si eleva nella quarta strofa, allo stesso modo trasformata dionisiacamente, la contro-immagine nell'Oriente:

Grecia felice! Casa di tutti i celesti È dunque vero dò che da giovani abbiamo udito?

646 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo

Sala di feste! Il suolo è mare e sono mense i monti, Per certo a quell'unico uso costruiti fin dall'antico!

Seliges Griechenland! du Haus der Himmlischen alle, / Al- ^ so ist wahr, was einst wir in der Jugend gehórt? / Festli- .| cher Saal! der Boden ist Meer! und Tische die Berge, / S Wahriich zu einzigem Brauche vor Alters gebaut! (il, pp t 91-92; tr. it. dt., p. 137). ' |

''4'i-i1

In seguito, la quarta e la quinta strofa parlano del- ( l'evento a cui si ricollega il sentimento della storia di J Hólderlin: del ritorno della Grecia mitica nel segno ? di Dioniso. J

Così prendono stanza i celesti e spargendo un brivido fondo Fuori dalle ombre scende, fra gli uomini, il loro giorno. ;x

- .'^ Inavvertiti giungono prima: gli tendono incontro I pargoli: troppo lucente, troppo abbagliante arriva La felicità: e l'uomo ne ha paura: appena un semidio può dire r Con nomi chi siano quelli che gli si appressan coi doni. ., ^ Ma da essi l'anima ha forza: gli colmano il cuore e le loro -v. Gioie, un tanto bene sa usare appena. ,r- ^ Crea, si prodiga e quasi gli diventa sacro il profano . Che, folle e pio, egli tocca con mano benedicente. Al massimo indulgono a questo i celesti: ma poi, veramente Giungono loro stessi e alla felicità s'abituano gli uomini , ;:;

E al giorno e a guardare gli dèi palesi [...] la

'•i? Denn so kehren die Himmlischen ein, tiefschùtternd gè- S

langt so / Aus den Schatten herab unter die Menschen ihr ^ Tag. // Unempfunden kommen sie erst, es streben entge- ? gen / Ihnen die Kinder, zu hell kommet, zu blendend das • Glùck, / Und es scheut sie der Mensch, kaum wei6 zu sa- r;

gen ein Halbgott, / Wer mit Namen sie sind, die mit den ;

Gaben ihm nahn. / Aber der Mut von ihnen ist groB, es zu S brauchen das Gut, / Schafft, verschwendet und fast ward f ihm Unheiliges heilig, / Das er mit segnender Hand tórig

La maturità 647

und gùtig berùhrt. / Móglichst dulden die Himmlischen dies; dann aber in Wahrheit / Kommen sie selbst und ge-wohnt werden die Menschen des Glùcks, / Und des Tags und zu schaun die Offenbaren [...] (U, p. 92; tr. it. dt., pp. 137-139).

Nell'ottava strofa si legge poi:

Non è molto -ed sembra lontano - quando ascesero in alto

Tutti quelli che avevano reso felice la vita,

Quando il Padre voltò la sua facda dagli uomini

E luttuosa tristezza giustamente comindò sulla terra,

Apparve per ultimo allora un pladdo genio, un divino

Consolatore, annunzio la fine del Giorno e sparì.

E allora per segno ch'Egli era venuto e che ancora

Ritornerebbe, il coro celeste lasdò alcuni doni

Dei quali, come una volta, godere potessimo in modo umano,

Poiché per la gioia, con lo spirito, un dono più grande era

[troppo Tra gli uomini e ancora, ancora mancano i ford per le più alte Gioie: ma ancora tadta qualche gratitudine vive. Pane è di terra il frutto, seppure benedetto dalla luce E dal tonante iddio viene la gioia del divino. Per questo d fanno pensare ai celesti, che qui Sono già stati e che a tempo giusto ritorneranno. Per questo essi, i cantori, cantano seri il dio del vino E, non vana fantasia, suona all'Antico la lode.

Namlich, als vor einiger Zeit, uns dùnket sie lange, / Auf-wàrts stiegen sie ali, welche das Leben beglùckt, / Als der Valer gewandt sein Angesicht von den Menschen, / Und das Trauem mit Recht ùber der Erde begann, / Als er-schienen zuletzt ein stiller Genius, himmlisch / Tróstend, welcher des Tags Ende verkùndet' und schwand, / LieB zum Zeichen, daB einst er da gewesen und wieder / Kàme, der himmlische Chor einige Gaben zurùck, / Derer men-schiich, wie sonst, wir uns zu freuen vermóchten, / Denn zur Freude, mit Geist, wurde das GròBre zu groB // Unter

648 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo

den Menschen und noch fehien die Starken zu hóchsten / Freuden, aber es lebt stille noch einiger Dank. / Brot i$t der Erde Frucht, doch ists vom Lichte gesegnet, / Und vom donnernden Gott kommet die Freude des Weins. / Darum denken wir auch dabei der Himmlischen, die sonst / Da gewesen und die kehren in richtiger Zeit, / Darum singen sie auch mit Ernst, die Sànger, den Weingott / Und nicht eitel erdacht tónet dem Alten das Lob (n, p. 94;

tr.it. cit. p. 141).

Nella nona:

Sì! Essi dicono bene ch'Egli concilia la Notte col Giorno E che in eterno le stelle di sotto e su in alto conduce, In ogni tempo lieto come il sempreverde pino Ch'Egli ama e la corona che d'edera si è scelto:

Perché Egli rimane e la traccia degli dèi fuggiti Porta giù fra la tenebra ai senza dèi.

I figli d'Iddio, che il canto degli antichi predice, Ecco che siamo: frutto dell'Esperia è questo! Mirabilmente e in predsa misura del limite umano, è adempiuto Chi l'ha provato, lo creda! ma per quanto dò accada Nulla produce che siamo scorati, e saremo ombre, fin quando

II padre Etere, riconosciuto, a ognuno e a tutti non appar-

[tenga. Ma nel frattempo scende a scuoter la fiaccola il Figlio Dell'Altissimo, il Siriaco, in mezzo alle ombre, quaggiù. Savi felici lo vedono: un riso s'irraggia dall'anima Imprigionata, alla luce si disgela anche il loro occhio. Più dolce sogna e dorme in bracdo alla terra il Titano, Anche l'invido, anche Cerbero beve e dorme.

Ja! sie sagen mit Recht, er sóhne den Tag mit der Nacht aus, / Fùhre des Himmeis Gestim ewig hinunter, hinauf, / Allzeit froh, wie das Laub der immergrùnenden Fichte, / Das er liebt, und der Kranz, den er von Efeu gewàhit, / Weil er bleibet und selbst die Spur der entflohenen Gótter

La maturità 649

/ Gótterlosen hinab unter das Finstere bringt. / Was der Alten Gesang von Kindern Gottes geweissagt, / Siehe! wir sind es, wir; Frucht von Hesperien ists! / Wunderbar und genau ists als an Menschen erfùliet, / Glaube, wer es ge-prùft! aber so vieles geschieht, / Keines wirket, denn wir sind herzios, Schatten, bis unser/ Vater Àther erkanntje-den und allen gehórt. / Aber indessen kommt als Fackel-schwinger des Hóchsten / Sohn, der Syrier, unter die Schatten herab. / Selige Weise sehns; ein Làchein aus der gefangnen / Seele leuchtet, dem Ucht tauet ihr Auge noch auf. / Sanfter tràumet und schlaft in Armen der Er-de der Titan, / Selbst der neidische, selbst Cerberus trin-ket und schlaft (il, pp. 94-95; tr. it. dt., p. 143).

I passi citati necessitano di un interpretazione accurata.

«Coloro che rende lied la vita», le divinità che dimorano presso gli uomini, sono «ascesi», andati lontani, allorché, giunta la fine del mondo greco, «il Padre» distolse irato il viso dagli uomini. Ma infine, immediatamente prima che irrompesse il tempo della lontananza degli dèi, è apparso Cristo.

Egli è «un placido genio, un divino Consolatorc». Il suo messaggio annuncia «la fine del Giorno». Evidentemente riecheggia l'episodio di Emmaus: «Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino» (Le 24, 29). Termina un giorno del mondo, quello di cui la Grecia è stata il momento culminante, giorno della luce, della vicinanza degli dèi, della pietà. Ora, la storia si ingarbuglia, ed inizia una lunga notte (II, p. 146). Tutto diventa senza uscita, oscuro, lontano da Dio, rimanendo in questo stato fino all'ora presente che Hólderlin sa di essere stato mandato ad interpretare. Per quell'ora deve avvenire il grande ritorno. Ma come «segno» di essere stari presenti un tempo, e di ritornare in un futuro lontano, gli dèi

650 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo

hanno «lasciato alcuni doni»: pane e vino. Di essi p\[ uomini devono gioire. È il gradino più basso della gioia adesso ancora possibile, «in modo umano come una volta». Al di sopra di essa vi è la «gioia con lo spi. rito», la riproduzione vissuta del divino nell'ispirazione dionisiaca, concessa soltanto a pochi. Agli eletti «ai forti» sono riservate «le gioie supreme». Forse il poeta pensa a esperienze come quelle regalate agli amici degli dèi, a Cadmo per esempio. Dopo che è calato quel giorno, gli uomini sono in grado di sopportare in genere solo il grado più basso, la cui espressione è il ringraziamento (III, supra, p. 425). E ciò stesso è ancora raro. Con dolorosa modestia si dice: «ancora tacita qualche gratitudine vive». Da tutto ciò appare chiaro che i «doni» del pane e del vino e la «gratitudine tacita» si riferiscono evidentemente all'Eucaristia, al memoriale della passione del Signore nella cena, che per Paolo è allo stesso tempo un annuncio anticipato del ritorno di Cristo (1 Cor 11, 26).

Con questo memoriale vengono però subito ricollegati gli altri numi: il pane è «frutto della terra», «benedetto dalla luce», il vino viene da Zeus, il «tonante Dio», ed è proprio dì Dioniso. In tal modo, Cristo viene inserito nel «coro celeste», non senza sottolineare che durante il festeggiamento della sua istituzione si devono commemorare anche gli altri dèi.

L'ultima strofa dell'elegia festeggia Dioniso come il conciliatore, che opera l'unità di ciò che è diviso, di ciò che è sopra e di ciò che è sotto, della chiarezza e dell'oscurità. Questa sua proprietà lo accomuna a Cristo, il «Siriaco», il «Figlio dell'Altissimo» che nella notte del mondo, dopo che si è spento il giorno della Grecia, scende tra le ombre «scuotendo la fiaccola». Così come Dioniso, adorato spesso come divinità cto-

La maturità 651

nia - nei misteri eleusini per esempio - nella sua discesa all'Ade incontra le ombre del regno dei morti e i titani della profondità tellurica, facendo bere perfino dalla sua coppa il selvaggio Cerbero, che in seguito si addormenta mansueto, così anche Cristo venne da noi senza cuore, gente senza dèi, dalle ombre prigioniere di quest'epoca del mondo. Bacco e Cristo qui sono quasi inscindibili; la discesa agli inferi di quest'ultimo è identificata con il viaggio nell'Ade del dio del vino.

II

Nel periodo di Bad Homburg - probabilmente nel tempo che separa la composizione di Pane e vino da quella della poesia II Reno - nasce il primo degli inni direttamente dedicati a Cristo. Non ha titolo. Lo citiamo con le parole d'apertura O conciliante; si struttura in due parti: la prima, fino alla prima lacuna testuale, si rivolge alla pace, la seconda a Cristo. Sia il tono che il contenuto essenziale li rendono molto simili4.

L'inno inizia descrivendo l'evento di quella conciliazione e trasformazione dell'esistenza che ha luogo nel tardo pomeriggio di giorni completamente chiari, nell'«ora alcionia»:

O conciliante, o Tu non mai creduto,

Ora sei qui, mi prendi figura

D'amico, o immortale, sebbene

Io intenda che è l'alto

A piegarmi i ginocchi,

E quasi un deco non so tenermi

Dal chiederti, nunzio celeste, a che tu mi giunga,

652 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo

Donde tu sii, beata pace! Questo solo io so: niente sei di mortale, Poiché molto può un savio o d'un amico II fido sguardo illuminare, ma quando Appare un dio, in delo, terra e mare Viene una tutto innovante chiarità.

Versòhnender, der du nimmergeglaubt / Nun da bist, Freundesgestalt mir / Annimmst, Unsterbiicher, aber wohi / Erkenn ich das Hohe, / Das mir die Knie beugt, / Und fast wie ein Blinder mu6 ich / Dich, himmlischer, fragen, wozu du mir, / Woher du seiest, seliger Frìede! Dies eine wei6 ich, Sterbiiches bist du nichts, /Denn man-ches mag ein Weiser oder / Der treuanblickenden Freun-de einer erhellen, wenn aber / Ein Gott erscheint, auf Himmel und Erd und Meer / Kómmt allerneuende Klar-heit (II, p. 130; tr, it. dt., p. 171).

Questa «pace» è una divinità, intesa nella forma del venire proprio ad essa sola: il nume della conciliazione è come tale un prototipo della figura di Cristo. Movendo dall'esperienza vissuta della pace concilia-trice, il pensiero poi risale all'infanzia:

Un tempo d allegravamo

Di mattino quando taceva l'offidna

Al dì di festa: e i fiori nel silenzio

Più belli fiorivano e chiare sgorgavano vive fontane.

Di lungi scrosdava dei fedeli rabbrividente canto,

In cui come sacro vino erano invecchiate , ,•'

Più arcane le sentenze, ma più potend un giorno

Crebbero d'estate negli uragani del dio. •

Eppure le ansie mi calmavano

E i dubbi; ma non seppi mai come fu,

Che, appena nato, già mi spargeste,

Sopra gli occhi una notte,

Tanto che più la terra non vedevo e a fatica

Dovevo voi respirare, aure del delo.

La maturità 653

Einst freueten wir uns auch, / Zur Morgenstunde, wo stille die Werkstatt war / Am Feiertag, und die Blumen in der Stille, / Wohi blùhten schóner auch sie und quillten leben-dige Brunnen. / Fern rauschte der Gemeinde schauerli-cher Gesang, / Wo, heiligem Wein gleich, die geheimeren Sprùche / Gealtert, aber gevvaltiger einst, aus Gottes / Ge-wittem im Sommer gewachsen, / Die Sorgen doch mir stillten / Und die Zweifel; aber nimmer wuBt ich, wie mir geschah, / Denn kaum geboren, warum breitetet / Ihr mir schon ùber die Augen eine Nacht, / DaB ich die Erde nicht sah und mùhsam / Euch atmen mu6t, ihr himmli-schen Lùfte (n, p. 130; tr. it. dt, p. 171).

Ed è una intera esperienza di vita del tutto particolare ad emergere da ricordi dell'infanzia: la domenica. Esso diventa completamente presente: la sua quiete, la sua solennità estiva, la celebrazione religiosa con il «canto rabbrividente» - un termine che non esprime nessun senso di rifiuto, bensì il tremendum, il timore sacro - e la Parola di Dio che scioglie i dubbi che già si agitano nell'interno, dando loro pace. Già da giovanissimo, Hólderlin ha conosciuto la sofferenza intcriore, la melanconia, lo spaesamento del cuore e il tormento religioso. Al cristianesimo, che esigeva la sua fede, non potè aderire intimamente. Ne rimase estraneo, dubitando, sforzandosi, calmandosi temporaneamente per poi ricadere sempre sotto l'oscura oppressione. Ma anche questa distretta era una missione divina:

Prestabilito era. E sorride Dio

Quando infrenabili ma inibiti dai suoi monti

Contro lui furiosi, nelle bronzee ripe, ruggono i fiumi,

Là in fondo ove mai giorno chiama i sepolti.

E tu che moderi il Tutto, poiché me pure

Rattieni e l'anima facile a volar via mi risparmi [...]

654 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo 3

Zuvorbestimmt wars. Und es làcheit Gott, / Wenn unauf- E haltsam, aber von seinen Bergen gehemmt, / Ihm zùr- 1 nend in den ehernen Ufern brausen die Stróme, / Tief ;

wo kein Tag die begrabenen nennC. / Und o, daB immer '':' Allerhaltender, du auch mich / So haltest und leichtent- ^ fliehende Seele inir sparest [...] (il, p. 131; tr. it. dt., p. 171).

Essa ha un significato per la sua esistenza parago- | nabile a quello degli argini per il fiume (i, snpra, p. S 75). Questi gli impediscono di disperdersi nell'infini-to, obbligandolo alla limitazione e alla fecondità. In egual modo, il peso dell'esperienza doveva legare alla terra «l'anima facile a volar via».

Tutto ciò il poeta vede adesso che si avvicina l'ora benedetta in cui ogni sofferenza sarà alleviata. Divina è la pace che viene, ed inizia «la festa».

Perciò oggi ho la festa, e serale nel silenzio

Fiorisce intorno lo spirito: e grige anche avessi le tempie,

Vi esorterei, o amici a provvedere con me

Per il banchetto, e canti e molte ghirlande e suoni,

In questo tempo uguali a giovinetti mortali [...]

Perciò, o divino, sii presente

E più bello che mai, oh sii

Conciliante, ora conciliato, che a sera

Con gli amia ti nominiamo e cantiamo

Dei superni, e accanto a tè siano altri ancora.

Drum hab ich heute das Fest, und abendiich in der Stille / Blùht rings der Geist; und wàr auch silbergrau mir die Locke, / Doch wùrd ich raten, daB wir sorgten, ihr Freun-de, / Fùr Gastmahi und Gesang, und Krànze genug und Tóne, / Bei solcher Zeit unsterbUchenJùnglingen gleich [...] / Darum, o Góttlicher! sei gegenwàrtig, / Und schóner, wie sonst, o sei, / Versóhnender, nun versóhnt, daB wir des Abends / Mit den Freunden dich nennen, und singen

La maturità 655

/ Von den Hohen, und neben dir noch andere sei'n (il, p. 131; tr. it. de., pp. 173-175).

La festa per Hólderlin non è una semplice occasione per rallegrarsi oppure una commemorazione. Presuppone che «fiorisca lo spirito», che giunga l'ispirazione trasformatrice che renda aperti alla venuta della divinità. Questa venuta è il vero nucleo della festa. Vivere tale esperienza consiste nel fatto di divenire consapevoli della venuta di Dio. Le parole e i riti ne rappresentano il compimento: l'invocazione, l'accoglienza, la denominazione, l'adorazione, la conciliazione e la partecipazione.

La divinità qui è ancora la pace, quella potenza cioè che sana la lacerazione. Ma già si intrawede un'altra figura: quella del «sereno spirito, divino consolatorc». E subito Hólderlin fa la sua constatazione timorosa, obbligata quasi, caratteristica del suo rapporto con Cristo, secondo cui quest'ultimo non sarebbe, come sostiene la tradizione cristiana, il Figlio uno ed unico del Padre che si rivela, e la fede in lui non escluderebbe quella degli «altri». L'inesorabilità di questo aut-ant è stata probabilmente responsabile della sua melanconia giovanile. Aveva voluto avere il cristianesimo ma anche l'antichità e la natura; ma una cosa non aveva tollerato l'altra. Adesso crede che la contraddizione sia superata: oltre al «conciliante» viene invitato «più d'uno».

La seconda versione riprende poi nella quarta strofa lo stesso pensiero, accentuandolo, dal momento che intanto il posto della «pace» è stato preso dal giovane «in sua dolcezza severa, affezionato agli uomini», Cristo:

656 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo *

E più d'uno vorrei invitare, ma tu,

In tua dolcezza severa, affezionato agli uomini

Che là, sotto siriaca palma,

Vidno alla atta, amavi sostare alla fonte,

II frumento ondeggiava intorno, fresca alitava una brezza

Dal cupo della sacra montagna,

E i cari amia, densa nube fedele,

Anche d facevano ombra d'attorno, perché il puro, l'audace

Raggio, mitigato nel folto, di su giungesse, o Giovane!

Ahi! ma ombra più cupa ti gettava, mentre parlavi,

Con terribile sentenza un destino di morte. Così trapassa

Veloce tutto dò che è celeste: ma non senza ragione.

Und manchen mócht ich laden, aber o du, / Der freund-lichemst den Menschen zugetan / Dort unter syrischer Palme, / Wo nahe lag die Stadt, am Brunnen geme weil-test, / Das Kornfeld rauschte rings, stili atmete die Kùhiung / Vom Dunkel des geweiheten Gebirgs, / Und die lieben Freunde, das treue Gewólk, / Umschatteten dich auch, damit der reine, kùhne, / Durch Wildnis mild der Strani von oben kam, oJùngling! / Ach! aber dunkler um-schattete, mitten im Wort, dich / Furchtbar entscheidend ein tódiich Verhàngnis. So ist schnell / Vergànglich alles Himmlische; aber umsonst nicht (II, p. 134; tr. it. dt., p. 173; nella quart'ultima riga, la tr. di Vigolo si basava su una versione diversa da quella usata da Guardini).

Egli è colpito dal «puro, audace raggio di su»: la luce divina, l'irrompere dell'alto. Ma il raggio è attenuato dalla «nube fedele» degli amici: gli uomini che amano e circondano Cristo lo aiutano a portare dò che è soverchiante. Questa nube è buona. Ma ce n'è anche un'altra tremenda: un decreto mortale lo strappa, ancor giovane, «mente parlava» [letter. «in mezzo alla parola»], dall'opera incompiuta. Ma la necessità della dipartita precoce è essenziale per Cristo. Egli non è venuto per vivere, ma per morire, come si dice

La maturità 657

in L'unico', egli è la «fine» anche in tutto il suo essere. Il fatto che fosse solo per breve tempo fra noi, solo «sfiorando cauto» viene poi interpretato come un gesto divino per risparmiare gli uomini. Una permanenza più lunga non sarebbe stata sopportata:

Che cauto sfiora, sempre conscio della misura,

Le dimore degli uomini per un attimo solo

Un dio, improvviso, e niuno sa che sia.

E in quel mentre tutto il protervo può calpestarlo

E deve avventarsi al sacro luogo il ferino

Da remoti confini e cieco brancolando insanisce

Sul divino, e un destino vi incontra.

Ne gratitudine pronta mai segue a tal dono.

Troppo è arduo afferrarlo,

Giacché se il donatore non risparmiasse,

Da gran tempo la benedizione del focolare

Arso d avrebbe tetto e suolo.

Denn schonend rùhrt, des MaBes allzeit kundig, / Nur ei-nen Augenblick die Wohnungen der Menschen / Ein Gott an, unversehn, und keiner weiB es, wer? / Und drùber hin darf alles Freche gehn, / Und kommen mu6 zum heilgen Ort das Wilde / Von Enden fem, und blindbetastend ùbt den Wahn / Am Góttlichen, und trifft ein Schicksal darin. Dank / Folgt nimmer auf dem FuBe solchem Geschenke. / Zu schwer istjenes zu fàssen, / Denn wàre, der es gibt, nicht sparsam, / Làngst wàre vom Segen des Herds / Uns Gipfel und Boden entzùndet (II, pp. 134-135; tr. it. dt., p. 173).

La presenza della divinità già per i buoni e gli aperti è difficile da sopportare. Se durasse a lungo, la «benedizione del focolare», la fiamma, brucerebbe «tetto e suolo», ossia tutto, fastìgio e fondamenta. Ma questa presenza attira anche «il ferino», inteso nella sua accezione negativa, ossia nell'aspetto di grandezza, come il titanico, o in quello di viltà e bassezza, co-

658 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo

me lo scaltro e il servile. Entrambi sono aspetti di un fenomeno che per Hólderlin costituisce peccato, distruzione dell'unità, della pietà, dell'amore (II, supra, p. 173). La manifestazione della divinità provoca questa ferinità, che fa violenza al divino, trovando però in tal modo la propria fine. Anche qui un elemento biblico è trasposto nel mitologico: lo scandalo5.

Nella terza stesura si legge:

Del divino però ricevemmo Già molto. Ci fu data la fiamma Nelle mani, e suolo e marino flutto. Che solo in modo umano familiari Mai sono con noi quelle ignote potenze. E tè lo insegna quell'astro che innanzi Agli occhi ti sta: mai puoi somigliare Al Tuttovivo, dal quale Molte gioie sono e canti.

Des Góttlichen aber empfingen wir / Doch viel. Es ward die Flamm uns / In die Hànde gegeben, und Boden und Meersflut. / Denn nur auf menschiiche Weise, nimmer-mehr / Sind jene mit uns, die fremden Kràfte, vertraut / Und es lehret das Gestirn dich, das / Vor Augen dir ist, denn nimmer kannst du ihm gleichen, / Dem Allebendi-gen, von dem / Viel Freuden sind und Gesànge (il, p. 137;

tr. it. dt. p. 173).

Ma nonostante questo intrico, vi sono sempre stati doni divini: la fiamma, la terra e il mare. Certo, il divino per mezzo di questi elementi non era direttamente presso l'uomo - cosa che sarebbe insopportabile - era bensì avvolto in veli, ammonendo proprio in tal modo alla modestia. Anche il sole, il quarto dei doni, ammonisce in tal senso. Poiché non si può «so-

La maturità 659

migliare» ad esso, non si può guardarlo direttamente e nemmeno avvicinarlo. Eppure dalla sua luce scaturisce ogni bene.

Ritorniamo alla prima stesura: la penultima strofa paria della discesa di Cristo e del tempo successivo alla sua morte, quando l'umanità dimentica il cielo. Questi sono temi che vengono sviluppati più compiutamente nell'inno Patmo:

Quando, consunto quasi dall'are nelle vampe

Era spirato tutto il fuoco celeste,

Riaccese il Padre una subita fiamma

E mandò in terra quel che più caro aveva

Con esso ardendo,

E quando, d'una in altra generazione nutriti,

Gli uomini fossero così colmi di bene

Che ognuno si bastasse, in superbo oblìo del delo,

Allora, egli disse, un che di nuovo deve iniziarsi,

E guarda! ciò che tu hai taciuto,

Lo ha portato la pienezza dei tempi.

Lo sapevi bene: ma non a vivere, a morire fosd mandato,

E sempre maggiore del suo campo, come degli dèi dio

Egli stesso, deve anche essere uno degli altri.

Denn versiegt fast, ali in Opferflammen / War ausgeatmet das heilige Feuer, / Da schickte schnellentflammend der Vater / Das Uebendste, was er hatte, herab, / Damit ent-brennend, / Und wenn, fortzehrend von Geschlecht zu Geschlecht, / Die Menschen wàren des Segens zu voli, / DaB jeder sich genùgt' und ùbermùdg vergàBe des Him-meis, / Dann, sprach er, soli ein Neues beginnen, / Und siehe!, was du verschwiegest, / Der Zeiten Vollendung hat es gebracht. / Wohi wuBtest du es, aber nicht zu leben, zu sterben warst du gesandt, / Und immer gróBer, denn sein Feld, wie der Gótter Gott / Er selbst, muB einer der ande-ren auch sein (il, p. 132; tr. it. cit., p. 175)

Alla dipartita di Cristo ha fatto seguito un lungo

660 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo

periodo di tenebre. Ma ora inizierà un tempo «nuovo» in cui sarà rivelato anche tutto ciò che Cristo ha taciuto6. Egli non era venuto per manifestarsi nella sua pienezza e per parlare, ma per restare brevemente, lasciare taciute le cose più grandi e morire. La sua missione era di annunciare la «sera» del primo grande giorno del mondo e di consolare rimandando al tempo venturo. Questo venturo ora è vicino.

A Cristo è attribuita la «sera dei tempi». Non la «pienezza dei tempi», come avviene nel Nuovo Testamento (Me 1, 15), ma l'ora del tramonto. Il compimento ha ancora da venire, rivelando ciò che egli doveva «tacere». Adesso è scoccata la sua ora: quella forza irrompente, soverchiante cui Hólderiin si sente sottomesso.

Ma la limitatezza per cui Cristo non poteva dire l'ultima verità grava su tutti gli dèi. Ognuno deve «essere più grande» della sua possibilità. Ognuno potrebbe fare più di quanto gli è consentito dal suo «campo», dall'assegnazione concreta dell'esistenza. In tal modo, ognuno è correlato «agli altri». Di nuovo si manifesta quella preoccupazione per l'intero di cui si è già parlato. Ogni divinità si riferisce all'altra ricevendo l'opera da quella precedente e passandola a quella successiva - in modo analogo si comporta il «dio degli dèi», il Padre, che continua a mandare messaggeri, perché nessuno esaurisce le sue possibilità.

Così il Padre si appresta a nuovo agire. Riaffiora l'immagine del silenzio domenicale:

Ma quando l'ora suona,

Come il maestro s'allontana dall'officina

Ne altra veste si mette

Che un abito di festa

La maturità 661

In segno che altro ancora Gli è restato in lavoro, Più umile e più grande appare. Così tu pure:

E concedi a noi figli dell'amante terra

Che quante feste sono venute crescendo

Le celebriamo tutte, senza

Contare gli dèi. Uno è sempre per tutti.

Sii pari alla luce del sole! Con più divino senso

Siano i tuoi giorni salutati alla sera

E che noi ora si possa restare.

Wenn aber die Stunde schlagt, / Wie der Meister tritt er aus der Werkstatt, / Und ander Gewand nicht, denn / Ein festliches, ziehet er an, / Zum Zeichen, da£ noch anderes auch / Im Werk ihrn ùbrig gewesen. / Geringer und gróBer erscheint er. / Und so auch du / Und gónnest uns, den Sóhnen der liebenden Erde, / Da6 wir, so viel herange-wachsen / Der Feste sind, sie alle feiem und nicht / Die Getter zàhlen. Einer ist immer fùr alle. / Mir gleich dem Sonnenlichte! góttlicher sei / Am Abend deiner Tage gegrùBet, / Und mógen bleiben wir nun (il, p. 132; tr. it. dt., p. 175).

Adesso avverrà la grande metamorfosi, il mistero del compimento. In esso il Padre appare «più umile», più silenzioso che non nelle grandi lotte e catastrofi;

così come la domenica il maestro d'officina sembra più debole di quando siede a battere il ferro sull'incudine - eppure più grande nel suo silenzio e nella sua mitezza ... Anche Cristo ha questo carattere. Gli è estranea l'invidia per gli altri dèi. Concede agli uomini di «festeggiarli tutti», perché «Uno è sempre per tutti». Ognuno, a partire da una prospettiva diversa, costituisce infatti un aspetto della grande totalità. Egli è «conciliante».

L'inno finisce con l'invocazione cultuale.

662 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo III

L'inno O conciliante è della primavera del 1801. I suoi temi sono ripresi dalla seconda grande poesia dedicata a cristo, L'unico. Se ne hanno stesure e frammenti diversi, che probabilmente risalgono per la maggior parte all'autunno 1802, ossia al periodo che segue il ritorno da Bordeaux. Anche questa poesia è interamente ispirata dall'esperienza della sofferenza e della colpa primordiali. Essa si manifesta in questo caso nell'ambito dell'esistenza, come gelosia fra gli dèi stessi. La gelosia dei numi costituisce l'apparire oggettivo di quella lacerazione che Hólderlin avverte nella sua stessa interiorità, dominata da elementi concomitanti e contrastanti, il cristiano e l'antico; in altre parole, la gelosia dei numi è espressione del fatto che Hólderlin, dopo essersi abbandonato completamente alla sfera greca e pagana, deve ora rendersi conto che la figura di Cristo si desta in lui, iniziando a lottare con «gli altri».

La prima strofa tradisce il profondo legame con la Grecia. Erompe un autentico grido primordiale:

Che mai ? Alle antiche beate rive M'incanta così che le amo

Più ancora della mia patria? "! Come in celeste -il Prigionia venduto • .•') Io sono, dove Apollo andò .,( In regale figura ,;

E a giovinetti innocenti

Si lasciò discendere Giove e figli in sacro modo

E figlie procreò

II Supero fra gli umani.

La maturità 663

Was ist es, das / An die alten seligen K-ùsten / Mich fes-seit, daB ich mehr noch / Sie liebe, als mein Vaterland? / Denn wie in himmlische / Gefangenschaft verkauft / Dort bin ich, wo Apollo ging / In Kónigsgestalt, / Und zu un-schuIdigenJùnglingen sich / HerablieB Zeus und Sóhne in heiliger Art / Und Tóchter zeugte / Der Hohe unter den Menschen (il, p. 153; tr. it. cit., p. 213)

Successivamente, il poeta si trova a grande altezza guardando giù, sulla molteplicità di forme del mondo:

Di alti pensieri

Molti ne sono

Scaturiti dal capo del Padre

E grandi anime

Da lui venute agli uomini.

Udito ho

Dell'Elide e di Olimpia, sono

Stato sul Parnaso

E sopra monti dell'Istmo

E anche oltre

A Smirne e giù

Fino a Efeso sono andato:

Molta ho veduto bellezza E cantato del Dio L'immagine che vive Fra gli uomini. Ma pure, O numi antichi e voi tutti Strenui figli degli dèi, Uno ancora io cerco Che amo, fra voi L'ultimo di vostra stirpe, Della casa il gioiello, che a me, Straniero ospite, nascondete.

Der hohen Gedanken / Sind namlich viel / Entsprungen des Vaters Haupt / Und grofie Seelen / Von ihm zu Men-

664 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo

schen gekommen. / Gehóret hab ich / Von Elis und Olympia, bin / Gestanden oben auf dem PamaB, / Und ùber Bergen des Isthmus, / Und drùben auch / Bei Smyr-na und hinab / Bei Ephesos bin ich gegangen; // Viel hab ich Schónes gesehn, / und gesungen Gottes Bild / Hab ich, das lebet unter / Den Menschen; aber dennoch, / Ihr alten Gótter und ali / Ihr tapfem Sóhne der Gótter, / Noch Einen such ich, den / Ich liebe unter euch, / Wo ihr den Letzten eures Geschlechts, / Des Hauses Kleinod, mir, / Dem fremden Gaste, verbergt (il, pp. 153-154; tr. it dt.,p.213).

Egli abbraccia con lo sguardo i paesi, i tanti «alti pensieri del Padre», ossia le opere e gli eventi della storia, le «grandi anime», gli dèi dei diversi tempi ... Tra tutti questi gli manca Uno «che ama». Questi, «della casa il gioiello», viene «nascosto». In tal modo, diventa qualcosa di particolare, di delicato, di sacro. È Cristo. Nella strofa successiva avviene la seconda eruzione del sentimento - di quello opposto, quella volta - il secondo grido originario:

Mio Maestro e Signore!

O tu, istruttore mio!

Perché lontano

Mi sei rimasto? E quando

Io ti cercavo fra gli antichi,

Gli eroi,

E gli dèi, perché

Non sei venuto? [...]

i . Mein Meister und Herr! / O du, mein Lehrer! / Was bist du terne / Gebiieben? und da / Ich fragte unter den Alten, / Die Helden und / Die Getter, warum bliebest / Du aus? [...] (il, p. 154; tr. it. dt., p. 215).

Quale differenza rispetto all'atteggiamento di pa-

La maturità 665

cato riserbo manifestato nella poesia dedicata alla nonna! Quali sconvolgimenti interiori devono essere avvenuti nel frattempo ... E adesso la tensione:

Ora è colma

Di lutto la mia anima

Quasi voi celesti rivaleggiaste

Così che, se io adoro l'uno,

L'altro mi manca.

Undjetzt ist voli / Von Trauem meine Seele, / Als eifertet ihr Himmlischen selbst, / DaB, oien ich einem, mir / Das andere fehiet (il, p. 154; tr. it. dt., p. 215).

Il rapporto tra Cristo e gli altri che sono stati mandati è come sussistesse tra loro gelosia. Ogni ente è se stesso solo nella separazione del singolo dal tutto e dagli altri singoli. In ogni esistenza separata vi è il dolore, la nostalgia che risospinge verso l'unità. Ma la via che conduce ad essa passa per la mòrte della figura individuale (I, supra, p. 38; IV, supra, p. 576). Qui il tema è ripreso all'intemo della sfera degli dèi. Hól-derlin vuole avere contemporaneamente tutte le manifestazioni del divino. Cristo e agli altri numi, ma in cuor suo avverte la contraddizione. Forse avverte addirittura che qui è in gioco qualcos'altro oltre la sofferenza mitica, un aut-aut assoluto. Ma egli sovraccentua l'ammonimento, stabilendo e chiarendo il dogma della sua nostalgia: deve esserci l'unità degli dèi. A ciò si oppone solo l'inadeguatezza dell'essere singolo.

La quinta strofa contiene la frase inaudita:

Ma lo so che è colpa Mia! Perché troppo sono,

666 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo

O Cristo, legato a tè, Sebben fratello d'Eracle.

Ich weiB es aber, eigene Schuid / Ists! Demi zu sehr, / Q Christus! bang ich an dir, / Wiewohi Herakies Bi-uder (n p. 154;tr.it.cit.,p.215).

Non credo sia stato formulata una seconda volta, questa accusa rivolta al proprio cuore da uno che ami Cristo, di amare Lui, Cristo, troppo e gli «altri dèi» troppo poco! Se è autentica - e non dobbiamo confidare che Hólderlin anche qui non si limiti a «fare della poesia» - allora vi si manifesta un sovvertimento del cristianesimo molto più profondo del semplice rifiuto. Si manifesta una coscienza religiosa che si pone di fronte, in modo obiettivo, all'amore per Cristo sentito dal proprio cuore limitandolo e collocandolo in contesti che ritiene più grandi... Così Hólderlin eleva al di sopra del suo stesso sentimento la seguente confessione:

E con audacia professo che sei

Fratello anche dell'Evie '

Che al carro aggiogò ?a

Le tigri e giù '-i'K

Fino all'Indo ^ *Si

Ordinando un rito di gioia ^

Piantò la vigna

E l'ira ammansi dei popoli.

..a»I •^Ì

. ' s*v '\ìr-

Und kùhn bekenn ich, du / Bist Bruder auch des Eviers, der / An den Wagen spannte / Die Tiger und hinab / Bis an den Indus / Gebietend freudigen Dienst / Den Wein-berg stiftet' und / Den Grimm bezahmte der Vólker (il, p. 154;tr.it.dt.,p.215).

La maturità 667

Ma poi si fa nuovamente sentire una resistenza contro questo accostamento:

Pure un pudore mi vieta

Di comparare a tè

Gli uomini del secolo. E so per certo

Che chi ti generò, il Padre tuo,

È il medesimo

Poi che mai governa da solo.

Es hindert aber eine Scham / Mich, dir zu vergleichen / Die weltiichen Mànner. Und freilich wei6 / Ich, der dich zeugte, dein Vater, / Derselbe, der // Denn nimmer herrscht er allein (n, p. 135; tr. it. cit., p. 215).

Per gli altri «uomini» {Mànner) si intendono probabilmente Bacco, l'«Évio», ed Eracle. Essi sono «profani», «del secolo». Cristo è «spirituale» - una differenza significativa se si pensa che essa è operata all'interno del religioso e si riferisce ad un dio e a un eroe divinizzato. Questi sono entrambi figure «numi-nose». Ma all'intemo della divinità comune a tutti gli dèi la maggior parte di loro è vista come profana, correlata alle cose, alla potenza, alla gioia e allo splendore della vita. Cristo invece appare consacrato in un senso particolare, rivolto alla sfera intcriore, alla salvezza dell'anima, e desta una reverenza particolare. Questo aspetto particolare di Cristo è descritto più da vicino nella terza stesura dell'inno:

[...] Certo anche Cristo restò solo Sotto il cielo visibile e il firmamento Che, visibilmente, sovrano domina, Su quanto stabilito, col consenso di Dio,

668 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo %

E sui peccati del mondo -

Ovvero sull'incomprensibilità delle conoscenze -

Quando su dò ch'è perenne prevarica l'agitarsi degli ucna-

[ni,e II favore del firmamento era sopra di lui.

Il mondo invero esulta sempre

Lontano da questa terra, perché la

Mette a nudo, là dove l'umano non la regge. Resta però tracda

D'una parola. Un uomo cerca di ghermirla. Ma il luogo era .£

Il deserto [...] , ..il

'L K -t'à

[...] Namlich Christus istja auch allein / Gestanden unter sichtbarem Himmel und Gestìm, sichtbar / Freiwaltendem ùber das Eingesetzte, mit Eriaubnis von Gott, / Und die Sùnden der Welt, die Unverstàndiichkeit / Der Kenntnisse namlich, wenn Bestàndiges das Geschàftige ùberwàchst / Der Menschen, und der Mut des Gestirns war ob ihm. / Namlich immer jauchzet die Welt / Hinweg von dieser Erde, daB sie die / EntblóBet; wo das Menschiiche sie nicht hàlt. Es bleibet aber eine Spur / Doch eines Wortes;

die ein Mann erhaschet. Der Ort war / Die Wùste [...] (n, p.163).

Che cosa sono «i peccati del mondo» per i quali Cristo si assume la responsabilità davanti a Dio? Che cosa viene espiato sotto l'ardore del sole nel deserto? Quale pericolo viene scongiurato? Il pericolo di fondo dell'ente individuale che consiste nel concedersi illegittimamente alla nostalgia per l'Uno, nel precipitarsi attraverso la morte nel Tutto abbandonando in tal modo il luogo della conferma, lo spazio della limitatezza e della moderazione, la terra e la sua storia. L'inno II Reno, cronologicamente non lontano, esalta la vittoria su quel pericolo. Esso insegna come il dionisiaco viene arginato e trasformato in fecondità, quello stesso dionisiaco che in Voce del popolo e in Em-

La maturità 669

pedocle a ragione, perché per eccezione, prorompe e precipita. Qui ritorna lo stesso impeto, ma sotto una forma audace, accessibile non più al pensiero, ma ormai solo al presagio metafisico: «II mondo esulta sempre lontano da questa terra»: sempre l'esistenza minaccia di saltare dall'aldiqua nell'aldilà, dalla sfera della distinzione e della conferma in quella dell'unificazione del Tutto e dell'annullamento, nel sovra-uno e nell'ineffabile. Questo movimento vuole compiersi direttamente, titanicamente. Ma ciò sarebbe la fine di tutte le cose, la fine dionisiaca del mondo. La storia deve invece rimanere possibile: l'esistenza calata in una forma, l'ordine, il lavoro e la fecondità. È quindi compito delT«umano» (Menschiich) - echeggia in concomitanza il concetto di «umano» (Humane) con l'implicazione della misura apollinea - mantenere il «mondo» sulla «terra», congiungere gli ambiti divergenti dell'esistenza, conciliare ciò che si vuole separare.

Cristo ha fatto appunto questo. Nel superare la sofferenza e la colpa originarie, ossia la frattura dell'esistenza, ma anche il contrario di essa, l'ebrezza del mondo, la caduta a precipizio nella morte del mondo, i numi annoverati nell'inno. Eracle, Dioniso e Cristo, sono uguali. Essi sono tutti «salvatori», rivolti alla distretta dell'esistenza, ed insieme formano lo «splendido trifoglio»:

[...] Così essi sono uguali. Pienezza di gioia, copiosa. Splen-

[dido verdeggia Un trifoglio. Vergogna sarebbe che, per amore dello spirito, Di loro non potessi dire, dotto nella scienza d'una cattiva

[preghiera, Che sono per me come condottieri, eroi ... ... Sono celesti

670 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo

E uomini al tempo stesso, sempre. Un grande

Uomo, e similmente una grande anima,

Sia pure in delo,

Anela ad uno sulla terra. In eterno

Questo rimane, che sempre in catene ogni giorno è intero

II mondo [...]

[...] So sindjene sich gleich. Voli Freuden, reichiich. Herr-lich grùnet / Ein Kleebiatt. Ungestalt wàr, um des Geistes willen, dieses, dùrfte von solchen / Nicht sagen, gelehrt im Wissen eines schlechten Gebets, daB sie / Wie Feldherm mir, Heroen sind ... / Und Menschen beieinander die ganze Zeit. Ein groBer / Mann, und àhniich eine grofie Seele, / Wenngleich im Himmel, // Begehrt zu einem auf Erden. Immerdar / Bleibt dies, daB immergekettet alltag ganz ist/ Die Welt [...] (il, pp. 163-164).

Ad ogni contestazione va sempre opposta la convinzione che essi, pur nella molteplicità delle figure e delle funzioni, fanno parte di un insieme «in eterno Questo rimane, che sempre in catene ogni giorno è intero il mondo», ossia è, in qualunque momento, «un intero».

Sembra quasi che le grandi figure non possano stare l'una accanto all'altra:

[...] Ma spesso sembra

Che un grande non s'accordi con un grande. ,

Stanno l'uno accanto all'altro, ogni giorno,

Come in fianco a un abisso.

[...] Oft aber scheint / Ein GroBer nicht zusammenzutau-gen / Zu GroBem. Alle Tage stehn die aber, als an einem Abgrund, einer/ Neben dem andem ... (il, p. 164).

Pensiamo alle parole circa «i monti più separati» in Palmo e comprendiamo che l'«abisso» si riferisce a

La maturità 671

quel pericolo che minaccia perfino gli dèi: che la forma, in cui risiedono il senso e la giustificazione dell'esistenza, diventi una barriera che impedisca l'essere insieme, la comunanza, e consenta solo una giustapposizione. Ma questi tré sono certamente parti di una totalità:

Ma così sono quei tré,

Come cacciatori in cacda

Sotto il sole, o come

Un aratore che ansante per il lavoro

Si scopre il capo, o mendicanti. Bello

E gradito è confrontarli ...

[...]Jene drei sind aber/ Das, daB sie unter der Sonne / Wie Jàger der Jagd sind oder / Ein Ackersmann, der atmend von der Arbeit / Sein Haupt entblóBet, oder Betder. Schón / Und liebiich ist es, zu vergleichen [...] (n, p. 164).

Ciò che li rende simili è il loro riferimento alla necessità e distretta dell'esistenza. Così come i cacciatori sono uniti dal comune pericolo, gli agricoltori dalla fatica imposta a tutti loro e i mendicanti dalla loro condizione di derelitti, questi tré numi sono uniti dalla loro vocazione di salvatori. Una stesura precedente dello stesso passo sviluppa maggiormente questo pensiero:

[...] Mala questione

Che mi tormenta è questa, che per distretta, dei figU di Dio Essi portano su di sé i segni. Poiché anche in altro modo Ha provveduto, convenientemente. Giove tonante. Cristo invece si destina da solo.

[...] Der Streit ist aber, der mich / Versuchet, dieser, daB aus Not als Sóhne Gottes / Die Zeichen jene an sich ha-

672 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo

ben. Denn es hat noch anders, ratlich, / Gesorget der Donnerer. Christus aber bescheidet sich selbst (il, pp. 759. 753).

Gli altri dèi non si curano della distretta degli uomini. Essi sono olimpicamente sereni e lasciano al di sotto di loro la sofferenza della terra. Ma questi tré sono correlati al dolore dell'uomo, essi stessi si espongono al pericolo, alla fatica, alla privazione, come il cacciatore, l'agricoltore e il mendicante. Così, Cristo è mandato dal Padre supremo. Egli si è immesso nella necessità e distretta, vi si è destinato. In tal modo egli è un salvatore insieme con Eracle e Dioniso. Essi sono tutti salvatori. E adesso vengono caratterizzati:

Èrcole è come i prìncipi. Bacco spirito di comunione. Cristo però è la fine. Certo egli è anche d'altra natura; ma

[compie Quel che ancora al presente Manca agli altri Celesti [...]

Wie Fùrsten ist Herkules. Gemeingeist Bacchus. Christus aber ist / Das Ende. Wohi ist der noch andrer Natur; er-fullet aber / Was noch an Gegenwart / Den Himmlischen gefehiet an den andem [...] (il, p. 753). i

Nonostante ogni sofferenza, Eracle è regale e stabilisce l'ordine fra gli uomini. Dioniso è il conciliatore universale, il dio della trasformazione e della comunione. Cristo invece è la fine. Egli, il mite, affettuoso, destinato a una morte precoce, chiude il giorno universale del tempo antico. Egli è anche «d'altra natura», ha possibilità maggiori rispetto a quello che ha fatto;

ma è questo a conferirgli la sua identità particolare e a collocarlo in tal modo nel contesto.

Ritorniamo alla prima stesura:

La maturità 673

Ma ad Uno solo si avvince

L'amore. Questa volta

Troppo dal cuore

Mi è sgorgato il canto.

Ma voglio al fallo rimediare

Quando altri canterò ancora.

Mai colgo, come vorrei,

La misura. Ma un dio sa

Quando viene, dò che bramo, U bene sommo.

Es hànget aber an Einem / Die liebe. Diese Mal / Ist namlich vom eigenen Herzen / Zu sehr gegangen der Ge-sang, / Gut machen will ich den Fehi, /Wenn ich noch an-dere singe. / Nie treff ich, wie ich wùnsche, / Das MaB. Ein Gott weiB aber / Wenn kommet, was ich wùnsche, das Beste (II, p. 155; tr. it. dt., pp. 215-217).

La lode dell'insieme degli dèi sarebbe il vero compito del poeta. Ma l'amore per quell'Uno lo ha travolto. Ha parlato tanto di Cristo da commettere una colpa verso gli altri. Per questo ritenterà il canto in un secondo momento. Allora, forse, gli verrà donato «il bene sommo», la forza per presentare quell'unità.

Alla fine dell'inno la figura di Cristo si eleva in tutta la sua potenza:

Poi che quando il Maestro

Passò sulla terra

Come aquila prigioniera,

Molti che lo videro

Si spaventarono,

Mentre fatto aveva il suo estremo

II Padre e il suo meglio

Fra gli uomini effettuato.

E assai triste era pure

II Figlio fino a quando egli

674 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo

Al delo salì nell'aure:

Cui pad è prigione l'anima degli Eroi.

I poeti debbono, anche

Gli spirituali, essere del secolo.

Denn wie der Meister/ Gewandeit aufErden, / Ein gefan-gener Aar, // Und viele, die / Ihn sahen, fùrchteten sich / Dieweil sein ÀuBerstes tat / Der Vater und sein Bestes unter / Den Menschen wirkete wirkiich, / Und sehr be-trùbt war auch / Der Sohn so lange, bis er / Gen Himmel fuhr in den Lùften: / Dem gleich ist gefangen die Seele der Helden. / Die Dichter mùssen auch / Die geistigen weltiich sein (II, p. 156; tr. it. cit., p. 217).

Per quanto «spirituale», Cristo era prigioniero della terrestrità. Era oppresso, angustiato e si fece lieto solo quando la morte lo liberò - si veda lo «sguardo gioioso», espressione per la morte in Palmo. Ciò vale anche per il poeta. Anch'egli è «spirituale» e vive nell'elemento non innominabile dell'uomo sacro. Ciononostante, deve essere «profano» e permanere tra le differenze e le frontiere terrene7.

Ancora una volta va sottolineata la tensione profonda espressa dall'inno: l'anima «che è venduta» per la Grecia e allo stesso tempo è intrinsecamente legata a Cristo; la convinzione che gli dèi fanno parte di un insieme e la sensazione che Cristo sia qualcosa d'altro da loro; il presagio di un tremendo aut-aut, della scelta cristiana, ma anche il tentativo di porla sotto la categoria della lacerazione mitica che dev'essere superata attraverso la forza dell'«umano» in Cristo e nel poeta, ossia attraverso la conciliazione. Ma dietro a tutto questo si intrawede un pericolo.

La maturità 675 IV

La figura hólderliniana di Cristo trova la sua espressione più forte nell'inno Palmo. La prima stesura risale probabilmente al periodo immediatamente anteriore al viaggio a Bordeaux. Tré abbozzi e frammenti per una stesura successiva sono venuti dopo: la nostra interpretazione si rifa alla prima versione. L'inno si divide in tré parti intrinsecamente connesse fra loro. La prima contiene l'esperienza iniziale e il percorso visionario verso l'isola di Patmo (str. 1-5). La parte centrale parla di Cristo e dei suoi discepoli (6-13). La parte conclusiva è talmente legata a quelle precedenti da non distinguersi affatto da loro, ed è rivolta al langravio di Homburg, cui la poesia è dedicata (14-15).

La poesia inizia con l'esperienza vissuta del pericolo e della promessa:

Vidno

E difficile ad afferrare è il Dio.

Ma dove è il pericolo, cresce

Anche dò che ti salva.

Nelle tenebre vivono

Le aquile e senza paura

Va la prole delle Alpi sopra l'abisso

Su lievemente costruiti ponti.

Ora, poi che ammassate in cerchio

Stanno le vette del tempo

E i più amati abitano vidno, languendo

Sui monti più separati,

Oh, dacd acqua innocente,

Dacd ali a varcare di là

Con fedelissimo animo e ritornare.

676 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo

Nah ist / Und schwer zu fassen der Gott / Wo aber Ge-fahr ist, wàchst / Das Rettende auch. / Im Finstem woh-nen / Die Adier und furchdos gehn / Die Sóhne der Al-pen ùber den Abgrund weg / Auf leichtgebauten Brùcken. / Drum, da gehàuft sind rings / Die Gipfel der Zeit, und die liebsten/ Nah wohnen, ermattend auf/ Gè. trenntesten Bergen, / So gib unschuidig Wasser, / O Fitti-che gib uns, treuesten Sinns / Hinùberzugehn und wieder-zukehren (il, p. 161; tr. it. cit., p. 217).

Il dio è vicino - ci ricordiamo della poesia dello Stundenbuch (Libro d'ore) di Riike, in cui l'espressione di questa vicinanza è così forte da esprimersi nell'invocazione: «Tu, Dio vicino» ripresa nella prima e all'inizio della strofa successiva:

Solo una parete sottile è fra noi, per caso; perché potrebbe essere:

un chiamare della tua bocca o della mia

ed essa cade

senza alcun suono e rumore.

Delle tue immagini è costruita.

Nur eine schmale Wand ist zwischen uns, / durch Zufall;

denn es kónnte sein: / ein Rufen deines oder meines Munds / und sie bricht ein / ganz ohne Làmi und LauL // Aus deinen Bildem ist sie aufgebaut {Ausgew. Werke I, p.ll).

La parete è talmente sottile da dare l'impressione di poter essere abbattuta con un soffio. Eppure divide impietosamente, poiché il suo materiale sono il mondo finito e le sue «immagini». In Hólderlin è la forma individuale a dividere la vita particolare dal tutto. Ma appena il pericolo della separazione diventa troppo grande «cresce ciò che ti salva» e si percepisce la promessa dell'unità ventura.

La maturità 677

La distanza che c'è tra gli uomini e la divinità v'è anche di volta in volta tra i singoli uomini e le forme del mondo. Questa conoscenza acquisita è introdotta da un'immagine appartenente a quell'ambito che costituisce, accanto al fiume e al mare, la metafora delle grandi cose dell'esistenza, ovvero da quella dei monti, meglio, delle Alpi. Vi sono cime e fra di loro abissi. Ma le aquile in volo li attraversano, e uomini audaci li superano su ponti pericolosi.

Ora l'immagine muta, diventando metafisicamente trasparente. Ad elevarsi è l'esistenza stessa. In essa ogni uomo è una cima. Il tempo è la transitorietà. Ciò che sta attorno è il paesaggio dell'esistenza; ogni cima è un «cumulo» di tempo, plasmata da esso. Ogni singolo, appunto per il fatto di essere singolo, è diviso dagli altri, e siano pure i «più amati» e quindi più vicini. È diviso anche «dal dio» che può essere così vicino. «Divisi», perciò «languendo», perché la vita all'interno di questa singolarità ha sete della vita nell'aldilà e nel Tutto. Espressione imponente per il pathos della sofferenza mitica, il sentire come l'esistenza stia nella separazione; ogni essere è separato dall'altro, e ognuno dal Tutto.

Così viene invocata la divinità perché dia ciò che supera la separazione: «acqua innocente». Non si allude a un'innocenza spirituale o morale, ma oggetti-va: alla purezza dell'elemento incontaminato, prossimo a Dio, e alla sua forza di purificazione. Anche come elemento che scorre e rifugge da ogni forma solida e da ogni divisione, l'acqua è vicina all'ambito primordiale dell'unità. Essa è addirittura l'elemento della connessione che supera le separazioni. Su di esso, il navigatore giunge «all'altra riva», da sponda a

678 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo

sponda (L'Istro II, p. 190). All'acqua è simile l'aria. Circola nello spazio aperto e allo stesso tempo, come respiro, nella vita individuale. Anch'essa supera la separazione - ciò vale per l'aria, ma anche per l'ala dell'uccello che si affida ad essa e dimostra confidando e persistendo, di avere «fedelissimo animo».

Poi l'esperienza vissuta visionaria che affranca; il viaggio nella lontananza che unisce gli spazi, e la restituzione entro il passato, che fa emergere un tempo dall'altro. Ma la via che conduce nello spazio remoto e riporta il tempo passato segue la dirczione che per Hólderlin segna la tensione dell'esistenza in assoluto:

Occidente-Oriente, Germania-Grecia:

Così parlavo quando

Più veloce ch'io non credessi e lontano

Dove mai sognato avevo

Di giungere, un Genio mi rapì

Dalla mia casa. Balenavano appena

Nel dubbio lume ove andavo ;

L'ombrosa foresta

E i rivi desiderosi

Della mia terra; non più conoscevo i paesi.

Quand'ecco, in fresco bagliore,

Misteriosissima

Nel fumo d'oro sbocciò •

Crescendo rapida

Coi passi del sole

Con gl'incensi di mille vette :

L'Asia ai miei occhi: e abbagliato cercavo Qualche luogo a me noto, io straniero A quelle strade larghe, Ove dal Tmolo scende II Fattóio ornato d'oro

La maturità 679

E il Tauro si leva e il Messogi E, pieno di fiori, il giardino, Fuoco silenzioso. Ma su nell'alta Luce l'argentea neve fiorisce:

Testimone di vita immortale,

Alle impervie pareti

Cresce antichissima l'edera e reggono

Colonne viventi di cedri

E d'allori i maestosi

Palagi, costruiti da dèi.

So sprach ich, da entfiihrte / Mich schneller, denn ich ver-mutet, / Und weit, wohin ich nimmer / Zu kommen ge-dacht, ein Genius mich / Vom eigenen Haus. Es dàmmer-ten / Im Zwielicht, da ich ging, / Der schattige Wald / Und die sehnsùchtigen Bàche / Der Heimat; nimmer kannt ich die Lànder; / Doch baid, in frischem Glanze, / Geheimnisvoll / Im goldenen Rauche, blùhte / Schnell aufgewachsen, / Mit Schritten der Sonne, / Mit tausend Gipfein duftend, // Mir Asia auf, und gebiendet sucht / Ich eines, das ich kennete, denn ungewohnt / War ich der breiten Gassen, wo herab / Vom Tmolus fàhrt / Der gold-geschmùckte Paktoi / Und Taurus stehet und Messogis, / Und voli von Blumen der Garten, / Ein stilles Feuer; aber im Uchte / Blùht hoch der silbeme Schnee; / Und, Zeug' unsterbiichen Lebens, / An unzugangbaren Wànden / Uralt der Efeu wàchst und getragen sind / Von lebenden Sàulen, Zedern und Lorbeeren, / Die feierlichen, / Die góttlichgebauten Palaste (II, pp. 165-66; tr. it. dt., p. 219).

Il movimento è rappresentato in modo splendido:

nel mattino che è «entusiasta» e il cui alito «dischiude», come dice il monito rivolto alla vergine in Germania - ci si spinge fuori dalla terra natta, la Svevia, entrando nell'«ombrosa foresta» e attraversando i «rivi desiderosi». Ma i ruscelli sono il discorso della terra, il suono originario della sua vita intcriore, come

680 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo

dice ancora Germania. Si passa per terre ignote, il «centro» è ignoto, conosciuti solo l'«inizio e il traguardo». Alla fine però, diverso dall'inizio, eppure ad esso intrinsecamente correlato, si eleva l'altro polo dell'esistenza: l'«Asia». Essa si presenta «misteriosissima nel fumo d'oro». Questo termine, anch'esso riscontrabile in Germania, esprime lo spazio della leggenda. Allo stesso tempo ci accorgiamo con quanta velocità è stata percorsa la via, grazie all'immediatezza della visione. Il tempo impiegato va dal «dubbio lume» del primo mattino al «fresco bagliore» del pieno giorno. L

La via celeste è stata percorsa «coi passi del sole». Queste parole si ispirano forse al Salmo 18 nella numerazione della Vulgata i cui versi 5-7 cantano dell'ascesa dell'astro visto come eroe del ciclo. Ora il vate guarda giù dall'alto; è la situazione amata da Hólder-lin che attraverso l'altezza spaziale fa presagire quella visionaria. Le terre dell'Oriente si stendono sotto il suo sguardo, in una gloria di colori e di profumi. Cerca di orientarsi in esse. La possibilità di farlo è offerta da queste vastità stesse, vicine all'uomo, poiché dappertutto vi sono le «strade larghe». Lo spazio non è caotico, ma spazio di vita, il luogo del dimorare e del peregrinare umano. Le forme della terra sono vie della vita. js

Movimenti e forme contrapposti compongono l'immagine. Si ergono le montagne del Tmolo e da esse scopre giù il Fattóio che porta l'oro. Poi ancora alto si leva il Tauro, e sotto di esso va estendendosi un «giardino» nell'ardere soave dei fulgidi colori. Nuovamente lo sguardo si spinge verso l'alto, verso le cime la cui «argentea neve» fiorisce nella luce del primo mattino. Da esse scorre giù, lungo inaccessibili

La maturità 681

pareti a cui aggrappandosi sale però la pianta di Dioniso, l'edera che d'inverno non muore. Sorvola infine i boschi che con le loro colonne vive sono come palazzi.

Si va oltre, alla costa e sul mare:

Crosciano intorno alle porte D'Asia, dirette qua e là, Sull'infida pianura del mare, Tante strade senz'ombra:

Ma le isole sa il navigante.

Es rauschen aber um Asias Tore / Hinriehend da und dort / In ungewisser Meeresebene / Der schattenlosen StraBen genug, / Doch kennt die Insein der Schiffer (il, p. 166; tr. it. dt., pp. 219-221).

Di nuovo la natura è lo spazio della vita umana. Anche il mare è attraversato da «strade». Sono senza ombra, poiché gli alberi che vi si trovano, quelli delle navi, sono «schiomate antenne» come si dice in Ricordo; ma i navigatori conoscono le isole dell'Arcipelago e la loro rotta è pertanto sicura. E ora il vate arriva a Patmo:

Io, quando intesi

Che delle prossime una

Era Patmo,

Mi struggevo

D'approdarvi.

E appressarmi allo speco buio.

Poiché, non come Cipro,

La ricca di sorgenti, o come

Una delle altre,

Ha Patmo sontuosa dimora,

682 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo

Ma è accogliente

In così povera casa

Ella nondimeno

E se da naufragio o piangendo

La terra natale

O il dipartito amico,

Le si appressi uno

Straniero, ama ascoltarlo e, sua prole,

Le vod del bosco riarso,

E dove la sabbia cade e si spacca

La superficie del campo, i suoni,

Tutti lo ascoltano e fanno amorosa eco

Al pianto dell'uomo [...]

Und da ich hórte, / Der nahegelegenen eine / Sei Patmos, / Verlangte mich sehr, / Dort einzukehren und dort / Der dunkein Grotte zu nahn. / Denn nicht, wie Cypros, / Die quellenreiche, oder / Der anderen eine, / Wohnt herr-lich Patmos, // Gastfreundiich aber ist / Im àrmeren Hause / Sie dennoch, / Und wenn vom Schiffbruch, oder klagend / Um die Heimat oder / Den abgeschiedenen Freund, / Ihr nahet einer / Der Fremden, hórt sie es gern; und ihre Kinder, / Die Stimmen des heiBen Hains, / Und wo der Sand fallt und sich spaltet / Des Feldes Flà-che, die Laute, / Sie hóren ihn und liebend tónt / Es wi-der von den Klagen des Manns [...] (II, pp. 166-167; tr. it cit., p. 221). •

L'isola non è «situata» in un certo punto del mare, ma vi «dimora». L'espressione era già stata usata in L'Istro a proposito del fiume. Essa non è qualcosa di morto, ma presente, padrona della sua esistenza, esercita il suo influsso vivo. Già queste parole indicano ciò che i versi successivi esprimeranno in forma compiuta. L'isola è un essere, una delle graziose figlio di Posidone, come si legge m L'Arcipelago.

La maturità 683

Patmo «dimora», ma non è «ricca di sorgenti», copiosa come per esempio Cipro, l'isola di Afrodite, bensì povera. Vi si esprime l'elemento aspro, roccioso, il carattere dell'esilio, ma anche l'elemento spirituale, affine al vate, profetico. Tuttavia, l'isola accoglie l'ospite straniero, e la sua ospitalità è espressa dall'eco. Non ha niente da dare fuorché la sua compassione, ma essa risponde al lamento che giunge alla riva dell'isola. Vale la pena di ripercorrere il passo che parla dell'eco, perché è un esempio di come la visione rimanga ancorata alla realtà veduta.

Spontaneamente, si erge la figura dell'apostolo Giovanni. Anch'egli un tempo è giunto all'isola pieno di dolore come esiliato, perseguitato da Domiziano, vi è vissuto e ha contemplato le visioni da cui è nata l'Apocalisse.

[...] Così ebbe cura

Ella, una volta, dell'amato da Dio,

Del veggente che in gioventù beata,

Era andato col figlio

Dell'Aids si mo, inseparabile, perché

II portator di tempeste amava il candore

Del discepolo: e l'uomo attento vide

La faccia del Dio predsa

Quando al mistero della vite

Sedeano insieme all'ora della cena

E nella grande anima, in placido presagio, la morte

Pronunziò il Signore e l'ultimo amore: bastanti

Per dire della bontà mai ebbe

Parole e per serenare quando

La vide, l'ira del mondo.

Poiché tutto è bene. Su questo, morì. Molto sarebbe

Da dirne. E gli amia lo videro un'ultima volta

Come guardava trionfante e pieno di gioia.

684 Quinto cerchio • Cristo e il cristianesimo

[...] So pflegte / Sie einst des gottgeliebten, / Des Seehrs der in seligerJugend war // Gegangen mit / Dem Sohne des Hóchsten, unzertrenniich; denn / Es liebte der Gewit-tertragende die Einfalt / Des Jùngers und es sahe der achtsame Mann / Das Angesicht des Gottes genau / Das beim Geheimnisse des Weinstocks, sie / ZusammensaBen zu der Stunde des Gastmahis, / Und in der groBen Seele ruhigahnend, den Tod / Aussprach der Herr und die letzte Uebe, denn nie genug / Hatt er von Gùte zu sagen / Der Worte, damais, und zu erheitern, da / Ers sahe, das Zùr-nen der Welt. / Denn alles ist gut. Drauf starb er. Vieles wàre / Zu sagen davon. Und es sahn ihn, wie er siegend blickte, / Den Freudigsten die Freunde noch zuletzt (il, p. 167;tr.it.dt.,pp.221-223).

Giovanni è colui che è «amato da Dio». Il passo si riferisce al versetto evangelico che parla del «discepolo che Gesù amava» (Gv 13, 23). Inoltre è colui che «inseparabile» ha accompagnato Cristo dappertutto, perfino sul monte della trasfigurazione e nel giardino degli ulivi, a breve distanza da lui (Me 14, 33 e Le 22, 41) ... Successivamente si parla del «candore», della semplicità del discepolo. Questo passo risente dell'immagine tradizionale che descrive Giovanni come un giovane delicato e affettuoso, mentre invece il suo carattere era grande e ardente ... Più in là è definito «l'uomo attento» che «vide la faccia del Dio precisa». Forse non sbagliamo se colleghiamo queste parole all'inizio della prima Lettera di Giovanni: T

•-i «Ciò che era fin da principio, dò che noi abbiamo udito, dò che abbiamo veduto con i nostri occhi, dò che noi abbiamo contemplato e dò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita». '

Questa deve essere «l'attenzione» di Giovanni. An-

La maturità 685

cora una volta abbiamo occasione di notare che pure le affermazioni apparentemente visionarie di Hólder-lin si riferiscono alla realtà.

Il poeta ora vuole parlare di Cristo e della sua convivenza con i discepoli. Ma la sua poesia è inno, non epos. Questo segue l'ordine cronologico dei fatti, dall'inizio alla fine. L'inno invece - abbiamo già avuto modo di dirlo - è sotto la suggestione dello «spirito», che ubbidisce solo alla propria legge. Afferma una parte dell'oggetto, poi l'abbandona e si getta con nuovo slancio su un'altra, precedente, per interrompere ancora e cogliere un elemento nuovo. Ma se lo spirito e l'arte sono autentici, ogni mossa è giusta e l'intelligenza, analizzando, trova un contenuto preciso e una forma comprensibile. Il pregio mirabile della poesia visionaria autentica sta nel suo reggere davanti all'indagine dell'intelletto. La mera poesia sentimentale lo teme, ma la visione autentica e la passione vera lo rivendicano perché sanno che li legittima e li libera8. Il piacere dell'interpretazione consiste nell'incontrare testi in cui ogni frase può essere presa in considerazione e analizzata, in cui ogni immagine riporta all'oggetto genuino e in cui ogni movimento dello sguardo e del pensiero è forte di una logica che presiede all'insieme. Tutto ciò è possibile in Hólder-lin. Ma in questo contesto va fatta ancora un'altra osservazione. Alcuni passi oscuri degli inni tardi si fanno chiari se si adduce il concetto della teologia cristiana o il testo biblico a cui si riferiscono. Tale testo subisce una trasformazione, poiché passa dall'ambito della Rivelazione a quello del mondo e delle rappresentazioni mitologiche, ma ancora dall'ultima forma che assume nella poesia, il collegamento toma al suo

686 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo

tenore testuale originale ... Riprendiamo il discorso di prima. L'inno intende parlare di Cristo e dei suoi. Ma non racconta lo svolgimento della sua storia. Si li. mita bensì a quell'avvenimento particolare in cui si rivela quella che per Hólderlin è la natura vera di Cristo: quella di essere colui che annuncia «la sera», l'ultimo, il quale si congeda lasciando «doni» che hanno lo scopo di consolare e di aiutare a sopportare la notte che sta per venire. È il trovarsi con i discepoli durante l'ultima cena. Di uno di loro si dirà che uscì nella notte (Gv 13, 30).

Le parole e il tono sono significativi: il discepolo «vide la faccia del Dio precisa» ... «E nella grande anima in placido presagio la morte pronunziò il Signore», una differenza sostanziale rispetto al racconto del Nuovo Testamento e alle parole che Cristo proferisce realmente. La figura e l'evento trapassano dal loro carattere originario a quello mitologico, nell'esistenza «del Dio».

Cristo esprime «l'ultimo amore». Nel vangelo di Giovanni si legge:

Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine (13, 1).

Il racconto prosegue narrando come lavò i piedie istituì la celebrazione dell'Eucaristia, il mistero della morte redentrice nella forma del pane e del vino9.

Poi di nuovo il passaggio nel mitologico. Nell'evangelo di Matteo Gesù dice:

prendete e mangiate, questo è il mio corpo.

La maturità 687

In Luca seguono ancora le parole

che viene dato per voi - bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell'alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati (26, 26-28).

Il mondo è colpevole davanti alla giustizia di Dio. Su di esso grava l'ira. Attraverso la morte di Cristo viene espiata. Anche in Hólderlin si parla di un'ira;

ma qui è il mondo stesso ad essere irato. Esso è l'ultima istanza. L'esistenza è irata e minaccia la lacerazione. Essa vuole andare «via dalla terra» come si legge in L'unico. Ma Cristo «rasserena», tempera quest'ira. Egli indica il fondamento più profondo in cui tutto è uno, e l'ira si dissolve. «Niente è, il male» dice l'inno incompiuto Alla Madonna.

«Lo sguardo trionfante» allude quasi certamente all'esclamazione «Tutto è compiuto» riferita dal racconto evangelico della Passione (Gv 19, 30). Questa interpretazione è avallata dalla frase immediatamente successiva: «Ma s'attristarono ...». Di per sé sarebbe plausibile riferire la parola «trionfo» alla Risurrezione o all'ascensione al ciclo, avvenimenti che hanno il carattere della vittoria; non sono però luttuosi.

Ma s'attristarono, perché ora S'era fatta sera, esterrefatti:

Gran partito avevano nell'anima Quegli uomini, ma amavano sotto il sole La vita e separarsi non volevano Dal volto del Signore

Ne della terra nativa. Esso stava confitto Come fuoco nel ferro, e a loro accanto Andava l'ombra di quel caro. Per questo mandò loro lo Spirito

688 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo

E invero ne tremò

La casa, le procelle di Dio rombarono

Con lontano tuono

Sui capi presaghi, ora che con animo grave

Accolti stavano gli eroi della morte,

Ed ecco, che dipartendosi, Un'altra volta loro apparì.

Doch trauerten sie, da nun / Es Abend worden, erstaunt, / Denn GroBentschiedenes hatten in der Seele / Die Màn-ner, aber sie liebten unter der Sonne / Das Leben und las-sen wollten sie nicht / Vom Angesichte des Herm / Und der Heimat. Eingetrieben war, / Wie Feuer im Eisen, das, und ihnen ging / Zur Seite der Schatte des Ueben. / Drum sandt er ihnen / Den Geist, und freilich bebte / Das Haus und die Welter Gottes rollten / Ferndonnernd ùber / Die ahnenden Hàupter, da, schwersinnend, / Ver-sammeit waren die Todeshelden, // Itzt, da er scheidend / Noch einmal ihnen erschien (II, pp. 167-168; tr. it. dt., p. 223).

Dapprima l'immagine del cammino verso Emmaus (Le 24, 13-32). Il racconto biblico riecheggia persino nelle parole secondo cui i discepoli «s'attristarono» e «s'era fatta sera». Ma tutto è trasposto nel mitologico:

«Gran partito avevano nell'anima quegli uomini» e il Risorto che cammina accanto a loro è «l'ombra di quel caro». Poi segue la Pentecoste. Successivamente, ritornando indietro, l'Ascensione. La frase biblica

Tutti questi erano assidui e concordi nella preghiera (Atri 1, 14)

viene trasposta nelle parole: «con animo grave accolti stavano gli eroi della morte». Ma la «morte», a cui resistono, è il tempo dell'oscurità che ora inizia.

La maturità 689

Nell'evento dell'Ascensione Cristo entrò nella gloria del Padre, ma al tempo stesso nello spazio dell'interiorità cristiana, del singolo e della Chiesa. In tal modo, il messaggio cominciò ad operare nella storia. Per Hólderlin invece l'Ascensione significa che l'ultimo inviato da Dio se ne va dal mondo, ora completamente abbandonato da ogni divinità. Il mondo quindi non è redento, la sua redenzione consisterebbe nell'essere preservato dalla caduta dionisiaca, come dice L'unico; al contrario, solo adesso è consegnato alla colpa e alla morte. Precedentemente vi è stato il periodo della luce e della religiosità, il grande giorno universale che culmina nell'esistenza greca. Adesso è finito. Cristo ha annunciato la sua sera, in cui il sole stesso spezza «lo scettro dai raggi diritti» e disperde all'orizzonte i suoi lunghi raggi regali. Ora segue la lunga notte. Il compito di Cristo non era quello di liberare da quella notte, ma di donare forza per resistervi:

Allora si spense il giorno del sole,

II regale, e fece in pezzi,

Da sé, lo scettro dai raggi diritti,

Soffrendo qual dio,

Perché tornare doveva,

Al giusto tempo. Bene non sarebbe

Stato, più tardi, infedelmente troncando

L'opera degli uomini: e fu gioia

Dopo di allora

Vivere in amante notte e serbare

Imperturbati in fondo ad occhi ingenui

Gli abissi della sapienza. E verdeggiano

Anche al piede dei mond forme viventi.

Denn itzt eriosch der Sonne Tag, / Der kónigliche, und zerbrach / Den geradestrahienden, / Den Zepter, góttlich-leidend, von selbst, / Denn wiederkommen sollt es / Zu

690 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo

rechter Zeit. Nicht wàr es gut / Gewesen, spàter, und schroffabbrechend, untreu, / Der Menschen Werk, und Freude war es / Von nun an, / Zu wohnen in Uebender Nacht, und bewahren / In einfàltigen Augen, unverwandt, / Abgrùnde der Weisheit. Und es grùnen / Tief an den Bergen auch lebendige Bilder (il, p. 168; tr. it. dt., p. 223).

Per essere precisi, il Cristo di Hòlderlin non «redime» affatto. La salvezza che egli porta è una consolazione: tutto «deve tornare». L'attesa del ritomo di Cristo alla fine dei tempi, del giudizio e dell'eternità influisce su questa concezione; ma a dover ritornare, in questo caso, non è lui, bensì la Grecia mitica, il regno di Dio di Hòlderlin (II, supra, p. 220). Ma il fatto che il giorno degli dèi greci cessi, si interrompa, è una sofferenza volontaria del divino stesso che si addossa questo sacrificio al momento opportuno perché sa che ciò che è perduto un giorno ritornerà. Questa fine dovrebbe essere opera divina, perché come «opera mortale», dice un abbozzo, sarebbe stata «bruscamente interrotta, infedele». Il «dio inesausto, che tutto pervade» invece, di cui parla un altro passo dell'abbozzo, conserva una «fedeltà viva». Con questa fine «la gioia degli occhi», la visione della luce si spense. Ma agli uomini, in compenso, è concessa un'altra, nuova gioia, quella di abitare «in amante notte». A essa vengono iniziati per guardare e conservare «imperturbati in fondo ad occhi ingenui gli abissi della sapienza». Viene spontaneo pensare agli Inni alla notte di Novalis, agli «occhi infiniti che la notte ha aperto in noi ... senza bisogno di luce penetrano le profondità di un cuore che ama. Non era più la luce soggiorno degli dèi e segno celeste - gettarono su di sé il velo della notte. La notte divenne il possente

La maturità 691

grembo delle rivelazioni». Raramente l'essenza della contemplazione cristiana nel Medioevo, possibile solo alYoculus simplex, all'occhio ingenuo, è stata descritta da un poeta moderno in modo così efficace come da Hólderlin:

[...] E serbare

Imperturbad in fondo ad occhi ingenui

gli abissi della sapienza.

[...] Und bewahren / In einfaltigen Augen, unverwandt, / Abgrùnde der Weisheit.

E se nell'abbozzo ancora si diceva: «Anche nell'oscurità splendono immagini fiorenti», ora tutto è concepito in modo più organico: la formulazione «al piede dei monti» si riallaccia ai «vertici del tempo» nella strofa d'apertura. Gli «abissi della sapienza» si dischiudono solo davanti agli sguardi dell'umiliato, del-Yhumilis, cui appaiono, nell'immersione mistica, le visioni del divino come «immagini splendenti».

Ora la mancanza di salvezza del tempo viene reinterpretata e rapportata al congedo, all'Ascensione di Cristo. Dapprima l'esclamazione: «Ma è terribile ...». Poi un crescendo possente che inizia con le parole «Già è molto» e attraversa la nona strofa, riprendendo nella decima con le parole «Ma quando», finisce nelle ultime parole di essa: «questo che è ?». Nell'un-dicesima strofa, infine, si assopisce con la risposta solenne che va da «È il gettito del seminatore» a «Ma al termine arriva il grano».

Ma è terribile come qua e là All'infinito ha disperso la vita, Dio:

692 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo

Terribile invero il viso

Dei cari amia lasciare

E andare di là dai monti

Da soli, dove due volte

Riconosciuto all'unisono

Fu il celeste spirito: e non in profezia, ma

Presente li prese ai capelli

Quando a loro, improvviso,

Allontanandosi, guardò indietro

II Dio, e scongiurandolo

Di restare, come con corde d'oro

Ormai legato,

Nominando il male, si davano la mano.

Ma quando poi si muore

Quegli cui sommamente

La bellezza appartenne (un miracolo

Era nella figura e i celesti se lo mostravano

A dito); quando in reciproco eterno enigma

Non possono più intendersi

Quelli che insieme vivevano nel ricordo;

E non solo la sabbia o i salid

Sono travolti e sradicati

I templi, quando la gloria

Del semidio e dei suoi dilegua

E perfino l'Altìssimo

Lassù volta la faccia

Poi che nulla più d'immortale

Ve da scorgere in delo o sulla verde

Terra, - questo che è?

È il gettito del seminatore, quando prende

Con la pala il frumento

E lo getta al chiaro, lanciandolo sull'aia.

Pula gli cade ai piedi, ma al termine

Arriva il grano.

E non è male che alcuna cosa

Vada perduta e della parola

La maturità 693

Si spenga il vivente suono:

L'opera divina anche somiglia alla nostra. Non vuole tutto in una volta, l'Alassimo.

Doch furchtbar ist, wie da und dort / Unendiich hin zer-streut das Lebende Gott. / Denn schon das Angesicht / Der teuem Freunde zu lassen / Und fernhin ùber die Ber-ge zu gehn / Allein, wo zweifach / Erkannt, einstimmig / War himmlischer Geist; und nicht geweissagt war es, son-dern / Die Locken ergriff es, gegenwàrrig, / Wenn ihnen plotziich / Ferneilend zurùck blickte / Der Gott und schwórend, / Damit er halte, wie an Seilen golden / Ge-bunden hinfort / Das Bóse nennend, sie die Hànde sich reichten - // Wenn aber sdrbt aisdenn / An dem am mei-sten / Die Schónheit hing, da6 an der Gestalt / Ein \Vun-der war und die Himmlischen gedeutet / Auf ihn, und wenn, ein Ràtsel ewig fùreinander, / Sie sich nicht fàssen kónnen / Einander, die zusammenlebten / Im Gedàchtnis, und nicht den Sand nur oder / Die Weiden es hinwe-gnimmt und die Tempel / Ergreift, wenn die Ehre / Des Halbgotts und der Seinen / Verweht und selber sein Angesicht / Der Hóchste wendet / Darob, daB nirgend ein / Unsterbiiches mehr am Himmel zu sehn ist oder / Auf grùner Erde, was ist dies? // Es ist der Wurf des Sàe-manns, wenn er faBt / Mit der Schaufel den Weizen, / Und wirft, dem Klaren zu, ihn schwingend ùber die Tenne. / Ihm fallt die Schale vor den FùBen, aber / Ans Ende kommet das Korn, / Und nicht ein Ubel ists, wenn einiges / Verloren gehet und von der Rede / Verhallet der leben-dige Laut, / Denn góttliches Werk auch gleichet dem un-sem, / Nicht alles will der Hóchste zumai (n, pp. 169-170;

tr. it. dt., pp. 223-225).

«Il terribile» è la dispersione, la sofferenza mitica. Qui si manifesta nelle persecuzioni che sconvolgono la prima comunità e di cui parlano gli Atti degli Apostoli (8, 1 ss.). Il passo successivo va probabilmente interpretato così: già è difficile separarsi dagli amici,

694 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo

in particolare quando deve accadere improvvisamente. Ma quando muore Colui in cui tutti erano uniti fra loro, e con lui muoiono la sua opera, la sua gloria, anzi tutta l'era luminosa, il «giorno» del mondo, di cui era la fine - che significherà questo? Significa il giudizio su ciò che è autentico e non autentico nell'esistenza, e la preparazione a ciò che deve venire.

In particolare: è difficile dover andare da solo nella lontananza, magari attraversando i monti, mentre un tempo in ognuno di coloro che erano uniti vigeva lo «spirito» (l'esempio addotto è quello di due viandanti, forse un riferimento all'episodio di Emmaus). In quanto riconosciuto da due, egli «era stato esperito due volte», fondando in tal modo un'intrinseca comunità. Ma ora tutto è diverso.

E non più solo profetato fu questo spirito che li separò e li mandò nel mondo, ma presente li afferrò per i capelli, come Atena il Pelide10 nelVIliade di Omero. Anche Ezechiele racconta che il Signore tese la mano [Ez 8, 3]:

e mi afferrò per i capelli del capo. Allora un vento tra delo e terra mi rapì.

Allontanandosi veloce, il Dio si volse ancora una* volta ed essi, nominando il male, si erano tesi la mano giurando, e supplicando il fuggitivo di fermarsi e, di restare tra loro come legato da corde d'oro.

Poi il pensiero riprende la morte di Cristo che «annuncia» la fine del giorno del mondo, anzi, la compie. Cristo era la parte più bella di questo giorno, una bellezza delicata votata alla morte. Una bellezza che era una gioia per tutti e un tempo «i celesti se lo mostravano a dito». Ci vengono in mente le parole

La maturità 695

del Padre quando sopra Cristo, usato dal Giordano dopo il battesimo si aprirono i cieli:

Questo è il mio figlio diletto in cui mi sono compiaciuto,

e quelle simili pronunciate in occasione della trasfigurazione (Mt 3, 17 e 17,5).

Ora che egli si è allontanato, l'unità fra i suoi presto scompare. Hanno «vissuto insieme nel ricordo» -si vedano Atti degli Apostoli 2, 42-47 - comprendendosi l'un l'altro in questo, tramite il suo Spirito e la sua immagine. Ma poi anche l'immagine si sbiadisce. Il tempo successivo dimentica chi è stato e che cosa ha voluto. Il senso della sua figura viene falsificato. Così si dissolve la comunità che si basava sulla conoscenza per fede del suo essere. Quelli che ancora si chiamano col suo nome non lo conoscono. Per questo non si «intendono», non si comprendono fra di loro, diventano un «enigma» uno per l'altro. Tutto viene strappato via: «la sabbia o i salici e il tempio» -l'immagine di un'alluvione che sommerge tutto - anche «la gloria del semidio». E l'Altissimo distoglie il suo cospetto dalla terra non più divina. Con grande tensione tutto culmina nella domanda: Se tutto ciò accade, cosa sarà? È il tempo della decadenza, ma anche della prova. È il «gettito del seminatore», la separazione del grano dalla pula. Si veda quello che dice il Battista sul primo giudizio, sull'effetto immediato del Messia sui contemporanei (Le 3, 17). Di nuovo ci troviamo davanti all'inserimento nella terrestrità di ciò che era inteso in modo totalmente diverso. Il giudizio annunciato dalla Rivelazione non significa che ciò che non resiste cada al di fuori del cammino di quell'opera che è il mondo; e ancor meno che, quan-

696 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo

do un'opera si compie, qualcosa vada perduto e che l'opera divina in questo sia simile a quella umana. £ infine non indica che dò che è rimasto incompiuto nella prima fase verrà ripreso nella seconda. Significa bensì il giudizio di tutto quanto si chiami mondo secondo il santo criterio di misura di Dio, davanti a cui se Egli per pura grazia non avesse misericordia, niente potrebbe salvarsi.

Ora l'immagine di Cristo dev'essere preservata dall'empietà del tempo:

La numera da ferro E ardenti resine l'Etna:

Così io avrei ricchezza . Per formare un'immagine e tal quale j Vederlo, com'egli è stato. Cristo, ,,

Ma se uno spronasse se stesso

E discorrendo triste, per via mi sorprendesse

Alla sprovvista, per farmi stupire che del dio

L'immagine imitare possa un servo ... '

Visibilmente irati ho visto una volta :

I signori del ciclo, non perché io sia nulla,

Ma per apprendere. Benigni sono: ma odiosissimo è a loro, .

Finché regnano, il falso e più non conta , ^

Allora l'umano fra gli uomini.

Non governano essi: governa .

Destino d'immortali e l'opera loro cammina M" '

Da sé e rapida va al suo termine. u,

Zwar Eisen tràget der Schacht, / Und glùhende Harze der Àtna, / So hàtt ich Reichtum, / Ein Bild zu bilden, und àhniich / Zu schaun, wie er gewesen, den Christ, // Wenn aber einer spornte sich selbst, / Und traurig redend, un-terweges, da ich wehrios wàre, /Mich ùberfiele, da6 ich staunt und von dem Gotte / Das Bild nachahmen mócht ein Knecht - / Im Zome sichtbar sah ich einmal / Des

La maturità 697

Himmeis Herm, nicht, daB ich sein sollt etwas, sondern / Zu lernen. Gùtig sind sie, ihr VerhaBtestes aber ist, / So lange sie herrschen, das Falsche, und es gilt / Dann Men-schiiches unter Menschen nicht mehr. / Denn sie nicht walten, es waltet aber / Unsterbiicher Schicksal und es wandeit ihrWerk/ Von selbst, und eilend geht es zu Ende (II, p. 170; tr. it. dt., pp. 225-227).

Il vate potrebbe delineare questa immagine. Così come la terra reca i propri metalli e l'Etna la sua lava, egli possiede i tesori dell'esperienza, della visione, dell'arte di formare immagini in misura abbastanza grande nel suo intimo da poterle dar forma. Ciò prova che la figura di Cristo lo ha coinvolto in modo molto intenso. Ma non gli è lecito. Il sacro adesso dev'essere tenuto segreto perché - e qui vi è un'altra grande tensione - posto che egli sia colto dal dominare dello spirito e quindi indifeso, ma uno del novero degli «scaltri», dei «servi», gli uomini del tempo perduto, ora corrente, che non ubbidiscono all'ispirazione, ma che «spronano se stessi», possono cioè volere e fare secondo il loro arbitrio, lo sorprendesse all'improvviso, gli si rivolgesse «triste», pieno di falsa partecipazione così che il vate fosse stupito, impressionato, e rivelasse ciò che va tenuto segreto, comunicasse esplicitamente ciò che è riservato agli iniziati; posto però che l'altro prendesse questa immagine, «la imitasse», la tradisse per la malvagità dei tempi - la frase si interrompe bruscamente. Le parole conclusive sono interrotte dall'orrore.

Egli ha sì visto una volta i signori del ciclo, ma deve tener protetta la visione. È probabile il riferimento alle visioni di Cristo dell'Apocalisse - non per niente la poesia si intitola Patino. Ma questa visione non implica che sia permesso parlare, perché su tutto domi-

698 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo

na il comandamento di tacere del sacro in un tempo estraniato da Dio. Tali comandamenti sono assoluti;

essi sono sottratti perfino al volere degli dèi. È il destino che domina, esso assegna anche a loro la loro parte. Per questo motivo il grande giorno degli dèi e la sua sera, l'ora di Cristo sono passati. Adesso di lui non è più lecito parlare apertamente.

Ma poi inizia qualcosa di nuovo:

Quando anzi più alto salirà il celeste Trionfo, sarà nominato simile al sole Dai forti il giubilante figlio dell'Altìssimo,

Una parola d'ordine, ed ecco lo scettro Del canto far cenno che scendano, Poi che nulla è vile [...]

Wenn namlich hòher gehet himmlischer / Triumphgang, wird genennet, der Sonne gleich, / Von Starken der froh-lockende Sohn des Hóchsten, // Ein Losungszeichen, und hier ist der Stab / Des Gesanges, niederwinkend, / Denn nichts ist gemein [...] (il, p. 170, tr. it. dt., p. 227).

«Quando più alto salirà il celeste trionfo», e giungerà l'ora di una nuova opera e rivelazione divina -, forse un riferimento al mito del Fedro - allora Cristo ricomparirà. Allora appare in forza, «giubilante» e i «forti», i credenti, lo «nominano» «simile al sole» (ili, supra, p. 360). La concezione della parusìa traspare dietro a questa visione. Accadrà qualcosa di inaudito, e i forti lo annunceranno come «una parola d'ordine» a chi «ha orecchi per udire». «Lo scettro del canto» fa cenno ai celesti di scendere sulla terra affinchè si mostrino nella loro figura. Così appare ora, come

La maturità 699

in Pane e vino. Cristo, «il giubilante figlio dell'Altissimo» e discende, come il sol invictus tra i morti, i prigionieri, che nella notte universale attendono la nuova rivelazione della luce. E di nuovo si dice di loro, in chiaro riferimento alla contemplatio del Medioevo:

[...] I morti ridesta

Che ancora prigioni non sono

Della bruta materia. Ma attendono

Tanti pavidi occhi

Di guardare la luce: temono

Di fiorire all'acuto raggio,

Per quanto il freno d'oro moderi l'animo.

Ma quando, come

Dai turgidi sopraccigli,

Del mondo dimentica, una forza

Che calma illumina, cade dal sacro scritto,

Possono, della grazia gioendo,

Esercitarsi al tranquillo sguardo.

[...] Die Toten wecket/ Er auf, die noch gefangen nicht/ Vom Rohen sind. Es warten aber / Der scheuen Augen viele, / Zu schauen das Ucht. Nicht wollen / Am scharfen Strahie sie blùhn, / Wiewohi den Mut der goldene Zaum hàlt. / Wenn aber, als // Von schwellenden Augenbraunen / Der Welt vergessen / Stilleuchtende Kraft aus heiliger Schrift fallt, mógen, / Der Gnade sich freuend, sie / Am stillen Blicke sich ùben (il, pp. 170-171, tr. it. dt., p. 227).

La prima frase si riferisce forse alla visione contenuta nella prima lettera ai Tessalo nicesi (4, 13 ss.) Ma anche il significato di questa ha subito un mutamento. Perché i «morti» in questo caso sono coloro che, per quanto legati al proprio tempo, sono liberi nel loro intimo e non hanno ceduto alla «bruta materia», a ciò ch'è «servile». Di questi ve ne sono molti; «pavidi occhi» che vogliono conoscere, ma hanno paura della

700 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo

chiarezza piena, di «fiorire all'acuto raggio». Ma quando viene l'illuminazione, la luce dalla Scrittura, simile alla chiarezza sacra che risplende come in un volto entusiasta attorno alle sopracciglia inarcate di chi sia commosso, rapito, «dimentico del mondo», distaccato dalle cose esteriori e rivolto all'interiorità, allo spirituale - quando ciò accade, allora gli occhi timidi devono «esercitarsi» a cogliere questa luce e a resistere.

Le ultime due strofe si rivolgono al langravio di Homburg cui è dedicata la poesia:

E se ora i celesti

Tanto, a mio credere, mi amano, Quanto più ameranno tè, Poi che questo so certo:

Che il voler dell'etemo Padre

Molto a tè si rivolge.

Tacito è il suo segno

Al tuonare del cielo. Ed uno vi sta sotto

L'intiera vita. Che ancora vive Cristo.

Ma gli eroi, i suoi figli

Sono venuti tutti e sacre scritture

Da lui, e spiegano la folgore

I fatti della terra fino ad ora,

Corsa in gara infrenabile. Ma egli è qui. Delle sue opere

Tutte è conscio da sempre.

Und wenn die Himmlischen jetzt / So, wie ich glaube, mich lieben, / Wie viel mehr Dich, / Denn Eines weiB ich, / DaB namlich der Wille / Des ewigen Vaters viel / Dir gilt. Sdii ist sein Zeichen / Am donnernden Himmel. Und Einer stehet darunter / Sein Leben lang. Denn noch lebt Christus. / Es sind aber die Helden, scine Sóhne, / Ge-kommen ali und heilige Schriften / Von ihm und den

La maturità 701

Blitz erkiàren / Die Taten der Erde bis itzt, / Ein Wettlauf unaufhaltsam. Er ist aber dabei. Demi seine Werke sind / Ihm alle bewuBt vonjeher (il, pp. 171-172, tr. it. dt., pp.

227-229).

Il vate cerca il consenso del langravio. Egli sa che i celesti amano lui stesso. A maggior ragione doneranno il loro favore al principe. Questi fa parte dei «morti», interiormente vivi, che attendono la risurrezione.

Il segno dell'Altissimo è «tacito al tuonare del cie-lo». Si allude al fulmine che come rivelazione del Padre balena in cielo sopra la testa di Cristo. Se questa contraddizione peculiare fra silenzio e rumore, adatta certo a caratterizzare il numinoso, è trasposta nello spirituale, si può anche pensare che colui il quale è interiormente vigile - appunto Cristo - è in grado di sentire la volontà «tacita» del Padre rimbombante dal tuono e di interpretarla - o che, in mezzo al temporale si conlincia ad avvertire qualcosa di «tacito», qualcosa che misteriosamente si distingue dal rimbombo, uno spazio separato di sacra quiete.

«Che ancora vive Cristo»: benché abbia subito una morte precoce e se ne sia andato presto. Cristo è ancora qui, nell'ambito a noi sottratto, dove ci sono anche gli altri che prima di lui erano sulla terra. Uno dopo l'altro gli «eroi», figli del Padre supremo, sono stati mandati, e sacre scritture sono state scritte. Cristo e le scritture che testimoniano di lui sono state le ultime della serie. Ma il messaggio degli eroi e il contenuto delle scritture era la «folgore», la verità divina che splende e accende, quella folgore che il vate, rice-vutala dall'ispirazione, «porge al popolo avvolta nel canto», come si legge nell'inno Come il giorno di festa ... (il, p. 120; tr. it. cit., p. 157).

702 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo

Di questa folgore parlano anche «i fatti della terra», la storia nel suo impeto inarrestabile, in una «corsa in gara» per svelame il significato. «L'etemo Padre» però è sempre presente, e a lui - e qui il poeta segue quasi testualmente la traduzione degli Atti degli Apostoli fatta da Luterò (15, 18) - di «tutte le sue opere [egli] è conscio a partire dal mondo»".

Di nuovo riaffiora il lamento sull'epoca oscura in cui nessuno conosce gli dèi, in cui nessuno trova la via, e il cuore dell'uomo è tratto in inganno:

Da troppo, da troppo ormai

La gloria dei celesti è invisibile.

Quasi guidare le dita

Ci devono e con onta

Una violenza d strappa il cuore.

Sacrificio vuole ogni celeste,

Ma se uno fu trascurato,

Non ha portato mai bene.

Abbiamo adorato la madre

Terra e testé la luce del sole,

Inconsapevoli; ma il Padre che su tutti

Regge, ama al sommo

Che si coltivi la ferma lettera

E quanto permane bene s'interpreti,

Al che risponde canto tedesco.

Zu lang, zu lang schon ist / Die Ehre der Himmlischen un-sichtbar. / Denn fast die Finger mùssen sie / Uns fùhren und schmàhiich / EntreiBt das Herz uns eine Gewalt../ Denn Opfer will der Himmlischen jedes, / Wenn aber ei-nes versàumt ward, / Nie hat es Gutes gebracht. / Wir ha-ben gedienet der Mutter Erd / Und haben jùngst dem Sonnenlichte gedient, / Unwissend, der Vater aber liebt, / Der ùber allen waltet, / Am meisten, daB gepfleget werde / Der feste Buchstab, und Bestehendes gut / Gedeutet. Dem folgt deutscher Gesang (il, pp. 171-172, tr. it. dt., p. 225).

La maturità 703

Ancora una volta il poeta, ricorda il grande intento che nell'[/meo non si è fatto valere compiutamente:

che tutti i celesti ricevano sacrifici, che tutti vengano riconosciuti e onorati. Tralasciarne anche uno solo sarebbe fatale. Un tempo abbiamo offerto servizio cultuale alla madre Terra e alla luce del sole. Adesso ci sono compiti nuovi. Ma ciò non deve essere annunciato in modo da interrompere l'antico ed introdurre il nuovo sotto la forma della ribellione. Bisogna invece «coltivare» la «ferma lettera» e conservare quanto è tramandato. Niente deve essere escluso dalla grande implicazione; si deve provare la consonanza e ciò che persiste e permane dev'essere bene interpretato. È questo appunto il compito della poesia tedesca.

L'INNO ALLA MADONNA

Nelle pagine precedenti è stato illustrata l'immagine che Hólderlin fornisce di Cristo nelle grandi poesie Pane e vino, O conciliante. L'unico e Palmo. Essa si arricchisce di altri tratti e sfumature se vengono presi in considerazione anche i frammenti e gli abbozzi che risalgono al periodo di Homburg e a quello della decadenza psichica.

Fra questi va annoverato soprattutto l'inno Alla Madonna. L'abbozzo presenta grosse lacune, ma il testo è talmente vigoroso nella visione e nella lingua da dare il senso di una immagine completa. Inizia con la confessione della sofferenza che Cristo e sua Madre hanno prodotto nel poeta:

Molto ho di tè E del tuo Figlio a cagione Sofferto, o Madonna, Da quando udito ho di lui In gioventù dolce;

Che non il veggente12 soltanto, Ma stanno sotto un destino Anche i serventi. Poiché mentre io

E più d'un canto che Di cantare all'Altissimo, al Padre, Avevo pensato, me lo ha Divorato la tristezza.

706 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo

Viel hab ich dein / Und deines Sohnes wegen / Gelitten o Madonna, / Seit ich gehóret von ihm / In sùBerJugend;

/ Denn nicht der Sohn allein, / Es stehen unter eineni Schicksal / Die Dienenden auch. Denn weil ich / ... / Und manchen Gesang, den ich / Dem hóchsten zu singen, deni Vater / Gesonnen war, den hat / Mir weggezehret die Schwermut (il, p. 211; tr. it. dt., p. 249).

Possiamo senz'altro riferire questa sofferenza a quella di cui parla L'unico:

[...] Ora è colma

Di lutto la mia anima

Quasi voi celesti rivaleggiaste

Così che, se io adoro l'uno,

L'altro mi manca.

Ma lo so che è colpa

Mia!

Perché troppo sono,

O Cristo legato a tè [...]

[...] Undjetzt ist voli / Von Trauern meine Seele, / Als ei-fertet ihr Himmlischen selbst, / DaB, dien ich einem, mir / Das andere fehiet. // Ich wei6 es aber, eigene Schuid / Ists! Denn zu sehr / O Christus! hang ich an dir [...] (il, p. 154; tr.it. cit., p. 215).

È II doloroso conflitto tra il suo profondo e peculiare legame con Cristo e quello altrettanto profondo, ma più nostalgico con gli antichi dèi. Il poeta vuole avere entrambi, ma non ci riesce. Il fatto che ad entrambe le poesie sia sottesa la stessa sofferenza è dimostrato dal calore particolare dell'affetto: qui lutto e senso di colpa, là malinconia.

Questo dolore si riversa in quello più generale in cui il vate condivide la sofferenza dei suoi dèi. Se al fi-

L'inno alla Madonna 707

glio del padrone accade una disgrazia, essa coinvolge anche il servo fedele. Quando per il dio viene l'ora di andarsene, essa suona anche per il suo vate. Germania parla della melanconia di questo finire e doversene andare. Essa ha assillato il poeta, «consumando» non pochi canti che voleva dedicare al Padre Supremo che è al di sopra di ogni giungere e andarsene.

Il dolore persiste, ma il vate non vi cede. Resiste a chi gli procura dolore:

Pure, o Celeste, pure io voglio

Tè celebrare e non temo

Che il mio senso naufraghi

Nella tua beata potestà

E debbo vegliare,

Alla sacra lampada uguale, che fu

Custodita da

Ubbidienti servi, la gioia

Del tempio, da quando [...]

Doch Himmlische, doch will ich / Dich feiern und ich fùrcht es nicht, / Da6 mir der Sinn vergehe / In deiner se-ligen Macht, / Und wachen soli / Der heiligen Lampe gleich, die war / Bewahret von / Gehorchenden Dienern, die Freude / Des Tempeis, seit [...] (II, 843-844; tr. it. cit., p.251)

[...] E dominato sopra

Gli uomini ha, invece di altra deità,

L'onniobliante amore.

[...] und gewaltet ùber / Den Menschen hat, statt anderer Gottheit, sie, / Die allvergessende Uebe (II, pp. 211).

La strofa è caratterizzata dall'immagine della not-

708 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo

tè. Gli dèi hanno dovuto andarsene. Cristo ha annunciato la sera, e ora è giunto il tempo «delle tenebre». Vi gioca anche l'immagine di un oscuro interno di chiesa con la luce accesa davanti all'altare, curata da mani premurose. La luce del lume è debole, ma fedele, e lotta strenuamente contro il buio che incalza d'attorno. Allo stesso modo, il poeta vuole mantenere intatte la gioia e la speranza fiduciosa.

Alla figura della Madonna è conferito un attributo caratteristico: «la beata potestà» che minaccia di far «naufragare il senso», quindi un intreccio di sacralità, bellezza e amore. Si potrebbe dire che il rapporto intrinseco con la Madre del Signore e la Regina Celeste, che contraddistingue il cattolicesimo, è stato trasposto nell'immagine di una dea antica. La peculiarità della figura hólderliniana di Cristo ritorna in versione femminile.

Quel servizio cultuale, quella fede e quell'attesa iniziarono quando il posto degli dèi precedenti venne preso non «da altre deità», ma «dall'onniobliante amore», ossia quando arrivò Cristo il cui carattere per Hól-derlin consiste appunto in quell'atteggiamento.

«Esso», il tempo di Cristo, doveva iniziare con la sua nascita:

Perché allora dovette cominciare

Quando ...

Nato a tè nel grembo

II divino pargolo e attorno a lui

II figlio dell'amica, chiamato Giovanni

Dal muto padre, l'audace

Al quale fu dato

II vigore della lingua

A interpretare

L'inno alla Madonna 709

E la paura dei popoli e

I tuoni e

Le precipiti acque del Signore.

Denn damais sollt es beginnen / Als ... / Geboren dir im SchoBe / Der gótdiche Knabe und um ihn / Der Freundin Sohn, Johannes genannt/ Vom stummen Vater, der kùhne, / Dem war gegeben/ Der Zunge Gewalt, / Zu deuten/ ... / Und die Furcht der Vólker und / Die Donner und / Die stùrzenden Wasser des Herrn (il, p. 212; tr. it. cit., p. 251).

Seguendo l'esempio dell'arte figurativa, insieme col bambino divino si presenta il figlio di Elisabetta, Giovanni. Viene chiamato «audace», forse in riferimento al suo comportamento impavido nei confronti di Erode. Vengono sfiorati alcuni dati della sua vita e dal suo messaggio sono tratti gli elementi per caratterizzare la sua missione: egli è l'interprete del tempo e del giudizio incombente. «Le precipiti acque del Signore» rievocano il linguaggio dei Salmi e dei profeti e costituiscono un'immagine per il destino che scaturisce dall'ira divina.

Cristo e Giovanni Battista - in Palmo Cristo e Giovanni l'apostolo - sono congiunti. Il loro compito era quello di interpretare le «istituzioni», ossia ciò che già sussiste:

Poiché buone sono le istituzioni, ma

Come dend di drago tagliano

E ucddono la vita, se nell'ira le aguzza

Un minimo o un rè.

Sereno animo però è dato

Agli amati da Dio. Così allora morirono quelli.

Entrambi, così anche li vedesti

Tu divinamente triste nella forte anima morire.

E dimori perdo [...]

710 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo

Denn gut sind Satzungen, aber / Wie Drachenzàhne schneiden sie / Und tóten das Leben, wenn Zome sie scharft / Ein Geringer oder ein Kónig. / Gleichmut ist aber gegeben / Den Liebsten Gottes. So dann starben je-ne. / Die Beiden, so auch sahst / Du góttlichtrauernd in der starken Seele sie sterben. / Und wohnst deswegen [...] (Il, p. 212; tr. it. dt., p. 251).

Essi hanno il compito di recuperare il passato, comprendendolo correttamente, e di collegarlo con il presente - si veda la conclusione di Patmo. Forse è legittimo pensare alla frase di Cristo secondo cui

non passera neppure un iota e un segno della Legge (Mt 5, 18).

Nell'esercizio di questa diffìcile attività, entrambi, Cristo e il suo precursore, sono morti, «con sereno animo», fortificati a conseguire un'inconcussa fermezza. La Madre li ha visti morire. Veramente, ella ha assistito solo alla morte di Gesù - vedi Gv 19, 25 ss. Ma il fatto che sia vissuta nel periodo in cui morì il Battista, e abbia avuto profondi legami con lui, viene interpretato egualmente come un «aver visto». Ha sopportato questo e «dimora perciò» «nell'altezza» -così ci sembra di poter completare la frase interrotta.

E adesso è lei a proteggere la vita che continua in un tempo di sconforto e di oscurità:

E se in sacra notte

Uno pensa al futuro e affanno

Per i dormienti senza affanni sopporta,

Per le creature in fresco fiore,

Sorridendo tu giungi e domandi che mai,

Dove tu sei la Regina, egli paventi.

L'inno alla Madonna 711

Und wenn in heiliger Nacht / Der Zukunft einer gedenkt und Sorge fùr / Die sorglosschlafenden tràgt, / Die frischaufblùhenden Kinder, / Kómmst làcheind du, und fragst, was er, wo du / Die Kónigin seiest, befùrchte (II, p. 212; tr.it.dt.,pp. 251-253).

Ella assiste chiunque, come Hòlderlin, si preoccupa per il futuro. Esso si incarna nel bambino; Ella, la madre regina, è propizia soprattutto al bambino. Anche qui si avverte la trasposizione dell'immagine cristiana di Maria nel mitologico.

La sua essenza consiste nel fatto di essere madre:

Mai tu potrai

I germinanti giorni invidiare,

Che caro ti è, da sempre

Se più grandi i figli sono

Della loro madre. E mai ti piacque

Che guardando all'indietro

Un più vecchio ridesse del più giovane.

Chi non ama pensare ai cari padri

E narrare

Dei loro fatti,

Mai quando temerità accadde

E ingrati hanno

Lo scandalo dato

Troppo volentieri guarda

Allora al ...

E pavido di agire

Infinito rimorso, e odia la vecchiaia gl'infanti.

Denn nimmer vermagst du es, / Die keimenden Tage zu neiden, / Denn lieb ist dirs, von je, / Wenn gróBer die Sóhne sind, / Denn ihre Mutter. Und nimmer gefàllt es dir, / Wenn rùckwàrtsblickend / Ein Alteres spottet des Jùngem. / Wer denkt der teuern Vàter / Nicht gern und

712 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo

erzàhlet / Von ihren Taten, // wenn aber Verwegnes ge-schah, / Und Undankbare haben / Das Àrgernis gege-ben / Zu geme blickt / Dann zum / Und tatenscheu / Unendiiche Reue, und es ha6t das Alte die Kinder (il, pp 212-213;tr.it.dt.,p.253).

Maria ama eia che deve venire, il bambino. Vuole che cresca e diventi più grande di quello precedente. Così diventa colei che supera la colpa mitica presente tra gli dèi: la «gelosia reciproca». Ella interviene nel punto in cui si scontrano le generazioni, le sequenze degli dèi: dove i più vecchi disprezzano i più giovani e i più giovani si ribellano contro i più vecchi. Riecheggiano la lotta di Zeus contro Crono, e quella di Crono contro Saturno, la caduta delle divinità ctonie provocata da quelle olimpiche, l'odio dei Titani. Ella, la madre ama; anche il suo essere, come quello di Cristo, è l'amore dimentico di se stesso. Supera quel periodo gioendo di ciò che cresce nel suo bambino e che sarà più grande di lei. Così si leva l'invocazione:

Perdo proteggile

O Celeste,

Le giovani piante e quando

II rovaio viene o venefica brina soma

O troppo a lungo dura la siccità

E quando lussureggianti

Procombono sotto la falce,

La troppo affilata, da' rinnovato germoglio.

E che giammai

Moldplicata, in debole ramaglia

La forza per molto tentare

Mi dissipi la fresca genitura, ma sia vigorosa

Per eleggere dal molto l'ottimo.

Darum beschùtze, / Du Himmlische, sie, / Die jungen Pflanzen, und wenn / Der Nord kómmt oder giftiger Tau

L'inno alla Madonna 713

weht oder / Zu lange dauert die Dùrre / Und wenn sie ùppigbiùhend / Versinken unter der Sense, / Der allzu-scharfen, gib emeuertes Wachstum. / Und da6 nur nie-mais nicht / Vielfaltig, in schwachem Gezweige / Die Kraft mir vielversuchend / Zerstreue das frische Ge-schlecht, stark aber sei, / Zu wàhlen aus vielem das Beste (u,p.213;tr.it.dt.,p.253).

Riappare la preoccupazione che ci possa essere frattura fra le generazioni. Questa frattura potrebbe provocare l'inaridimento di ciò che viene dopo o fare sì che, nel caso di una disgrazia, non cresca più niente; potrebbe infine far sì che una vita giovane, pur crescendo, sprechi se stessa nella molteplicità degli allettamenti dell'esistenza.

La preoccupazione di fondo di Hólderlin si collega quindi con l'intento pedagogico ... Ciò è ancora più evidente nelle due prossime strofe:

Niente è, il male. Questo mi deve,

Come l'aquila la preda,

Uno afferrare.

Gli altri insieme. Affinchè

La nutrice che

Partorisce il Giorno

Non conturbino, rabbiosamente attaccati

Alla patria e ad onta del loro peso,

Alla madre in etemo non siedano

Sul grembo. Che è grande

Colui da cui ereditano la ricchezza

Anzitutto, si abbia cura

Della selva vergine, coltivata dagli dèi.

Nella pura legge, donde

L'hanno le creature

D'Iddio, dilettoso di vagare

Fra le rupi.

714 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo

Nichts ists, das Bóse. Das soli, / Wie der Adier den Raub, / Mir Eines begreifen. / Die andern dabei. Damit sie nicht / Die Amme, die / Den Tag gebieret, / Verwirren, falsch anklebend / Der Heimat und der Schwere spottend / Der Mutter ewig sitzen/ Im SchoBe. Denn groB ist/ Von dem sie erben den Reichtum. / .... / Vor allem, da6 man schone / Der Wildnis góttlichgebaut / Im reinen Gesetze, woher / Es haben die Kinder / Des Gotts, lustwandeind unter / Den Felsen [...] (il, pp. 213-214; tr. it. cit., pp. 253-255).

Il vate ammonisce che la gioventù che cresce non deve essere bloccata da quella precedente. Non deve diventare dipendente, ne nei confronti della madre umana ne nei confronti di quella più grande, ne nei confronti della patria ... L'altro pericolo consiste nel fatto che i bambini perdano la «selva vergine», lo spazio della naturalezza intatta, lo strato preculturale dell'esistenza. Devono conservare la possibilità di crescere uscendo puri e liberi dalla profondità della natura, ossia dal divino. Tutto questo deve custodire la Madonna. Deve aver cura del fatto che la prossima generazione conservi un vasto spazio attorno a sé perché possa accedere alla esistenza propria, e l'ambito primordiale sotto di sé, per poter ricevere il flusso del fondamento del mondo.

Dipende da questa libertà se l'uomo possiede la forza per moderarsi ed essere fecondo o se si fa coinvolgere dal male, nella sua forma titanica o in quella servile. L'essenza del male consiste nel rifiutare agli dèi ciò che loro appartiene, cadendo per ciò stesso nella sventura. La Madonna deve fare in modo che la giovane generazione dia sia a lei che a suo Figlio e agli altri dèi ciò che loro spetta, pietà, riconoscimento e gratitudine, crescendo così in modo puro.

L'inno alla Madonna 715

[...] e brughiere purpuree fioriscono

.E cupe sorgenti

A tè, o Madonna e

Al Figlio, ma agli altri anche

Perché, come da schiavi,

Con violenza il loro non si prendano

Gli dèi.

[...] und Heiden purpum blùhn / Und dunkie Quellen / Dir, o Madonna und / Dem Sohne, aber den anderen auch, / Damit nicht, als von Knechten, / Mit Gewalt das ihre nehmen / Die Getter (il, p. 214; tr. it. dt., p. 255).

Il resto del testo può essere trascurato13.

IL SENSO DELLA FIGURA DI CRISTO IN HÒLDERLIN

Dopo aver analizzato i testi decisivi possiamo porre la questione di chi sia questo Cristo. Abbiamo già visto che Hólderlin non fu mai tentato di vedervi semplicemente un uomo, ma che lo definisce chiaramente e senza indugi «divino» e «Dio». Resta però da vedere che cosa significhi questa affermazione. Ma un'obiezione è ancora possibile. In Patmo Cristo viene chiamato «semidio». Per Hólderlin, tuttavia, anche Rousseau e Napoleone son semidei. Il concetto di «dio» non è forse correlato a quello dell'uomo con tale connessione che il terzo concetto dell'uomo grandissimo costituisca un passaggio tra i due precedenti? Non sfocia dunque tutto in una mera umanizzazione? Se teniamo presente il contesto generale, la risposta sarà senz'altro negativa. Rousseau è chiamato sì un semidio, ma nell'inno II Reno dove anche il fiume porta questo nome. Entrambe le figure esprimono quindi la grande esistenza in cui ciò che realmente è e domina, la Natura, può manifestarsi in modo puro. Ma se Cristo è chiamato «semidio» nell'inno Patmo, lo scopo è quello di differenziarlo in quanto Figlio del sommo Padre nei confronti dei suoi discepoli e degli altri uomini. Ben difficilmente Hólderlin lo ac-

718 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo

comunerebbe a Rousseau e Napoleone sotto la categoria della semidivinità. Lo colloca invece in un contesto molto diverso, quello del «coro celeste», che egli costituisce insieme con Eracle e Dioniso.

Abbiamo già constatato che il mondo degli dèi di Hólderlin è strutturato da due poli: uno superiore situato nell'etere, la divinità dell'altezza dominatrice, della luce, della legge chiara, e uno inferiore situato nella terra, la divinità della profondità feconda, dell'oscurità, della lava rigurgitante, del caos pieno di tutte le possibilità, del divenire e perire perenni. Questi ambiti e potenze trovano la loro espressione nelle concezioni del sommo Padre, di cui gli altri dèi sono figli, e della antica Madre di cui sono figli tutte le cose che crescono, le piante, gli animali, gli uomini ... Tra di essi si estende lo spazio del mondo, della vita umana, della storia. In esso domina lo spirito del tempo o del mondo. È esso a operare ciò che avviene, il «divenire e mutare», il «linguaggio degli dèi». In passi particolarmente intensi, esso è il tempo stesso, e il tempo è la vita. Strettamente legata allo spirito del tempo è l'altra divinità del divenire e mutare, Dioniso. E la divinità di quel processo in cui le forme si dissolvono fondendosi fra di loro, in cui la vita culmina gettandosi nella morte, in cui il Tutto si eleva trionfando sulla lacerazione. Dioniso è quindi il dio dell'ebrezza, della trasformazione, dell'estasi nella natura. Nell'ordine degli altri dèi assume una posizione particolare, perché supera la divisione, sciogliendo così la distretta. Il Padre supremo lo manda per conciliare l'esistenza.

Di questo abbiamo già osservato che è identico con l'Etere. La sua figura nasce perché l'Etere, in sé

Il senso della figura di Cristo in Holderlin 719

qualcosa di inafferrabile che tutto afferra e comprende, acquista contorni più netti, assimilando l'immagine di Zeus, ma anche quella mondanizzata del Padre celeste biblico, Dioniso è mandato dal Padre supremo. Ne è figlio come Eracle, anche lui una divinità della salvezza. In questa schiera di figli mandati dal Padre supremo tra gli uomini con una missione da compiere sta anche Cristo. Eracle, Dioniso e Cristo formano lo «splendido trifoglio» di cui parla L'unico. Ciò che li accomuna è «la distretta». La loro essenza si riferisce alla lacerazione dell'esistenza e all'intrico in cui s'irretisce la storia. Essi sono divinità salvifìche, che aiutano e redimono14.

Cristo, in questa schiera, ricopre un ruolo particolare:

Èrcole è come i prìncipi. Bacco è spirito di comunione. Cristo però è La fine [...]

Wie Fùrsten ist Herkules. Gemeingeist Bacchus. Christus / aber ist/ Das Ende [...] (il, p. 753).

Non è esclusivamente questo, possiede anzi «anche un'altra natura»; ma il fatto di essere la fine lo distingue dai due fratelli. Eracle è nel tempo primo; è lottatore, vincitore di potenze avverse, ordinatore del caos, fondatore, sofferente e dominatore allo stesso tempo. Dioniso supera le divisioni dell'esistenza attraverso la potenza che tutto unifica dell'ebrezza e della trasformazione. Cristo, invece, viene quando il giorno del mondo volge al termine e «si fa sera». Indica la notte che incombe e vi istituisce una «promessa»:

la celebrazione della «gratitudine», l'Eucaristìa, affin-

720 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo

che dia forza ai disposti a credere, li induca ad attendere finché viene la soluzione. Questa soluzione ventura è la mondanizzazione del Regno di Dio biblico e anche del nuovo cielo e della nuova terra dell'Apocalisse: la Grecia mistica. Cristo è il benigno, il conciliatore che nel suo amore «onniobliante» salva il mondo dal pericolo e dalla colpa della disgregazione e lo consola indicandogli una soluzione ventura.

È quindi un dio pari agli altri. Eppure tra lui e loro vi sono diffemze profonde. Innanzi tutto quella di cui parla l'inno L'unico:

Pure un pudore mi vieta

Di comparare a tè

Gli uomini del secolo [...]

Es hindert aber eine Scham / Mich, dir zu vergleichen / Die weltiichen Mànner [...] (II, p. 155; tr. it. dt., p. 215).

La differenza è quindi tra colui che come salvatore appartiene alla distretta e gli Olimpici spensierati, soprattutto Apollo ... Ma poi nell'animo di Hólderlin emerge una differenza più profonda: quella che divide Cristo anche dagli altri dèi della salvezza, facendo sì che «i numi antichi e gli strenui figli degli dèi» nascondano lui, «l'ultimo della loro stirpe», «della casa il gioiello» e che egli «rimanga lontano» quando tutti gli altri ci sono. Questa differenza è talmente lacerante che il vate avverte il pericolo. È vero che egli la interpreta come la distretta mitica in generale, ossia come la «gelosia tra i celesti». Ma sembra che questa formula non esprima tutto il suo sentimento e che sotto si celi qualcosa di più profondo. Non è solo un più d'amore a fare sì che egli sia «troppo legato a Cri-

Il senso della figura di Cristo in Holderlin 721

sto», a costringerlo a ripetersi il dogma che Cristo è il «fratello anche di Dioniso», «generato dallo stesso padre», a ricordargli il dovere di «commemorare anche gli altri» tutte le volte che onora Cristo. Ciò non sarebbe necessario se quell'allineamento venisse approvato dal suo sentimento intrinseco. In verità avverte una differenza, la quale va oltre il fatto che Cristo sia il salvatore dell'età presente e che quindi egli, il poeta, sia legato a lui in modo più profondo. Vi è una pretesa essenzialmente diversa che non negli altri «dèi», di origine, di genere e di motivazione diversi. In Cristo vi è qualcosa che si afferma persino nell'immagine di Cristo di Holderlin, e che resiste alla sua volontà mitologizzante: l'elemento autenticamente cristiano.

II

I numi di Holderlin sono figure reali. Ognuna di esse ha il proprio centro di senso, i suoi attributi ca-ratteristici e il suo correlato campo d'azione. Ad ogni divinità corrisponde anche un particolare affetto di pietà religiosa dell'uomo. Il sentimento e l'atteggiamento di quest'ultimo si rapportano all'Etere in modo diverso che non alla Terra o a Dioniso. Tuttavia costituiscono un'unità. L'istanza ultima a cui si riferiscono le diverse figure di divinità e quindi i diversi affetti di pietà di chi li onora, l'avvenimento nell'ordine del cui decorso è inserita la loro ora e in cui trasmettono fra di loro la loro opera, l'Uno e il Tutto che traspare in ogni loro peculiarità caratteristica è la natura, chiamata più raramente, per esempio nella terza versione di L'unico, il mondo. Da nessuna parte e in

722 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo

nessun modo si può giungere in qualcosa di diverso che non sia la natura: non si può andare oltre di essa, verso l'alto o verso l'estemo, e nemmeno attraverso di essa, verso il basso e verso l'interno. E non vi sono nemmeno un'altezza, una profondità o una libertà oggettiva su cui potrebbe basarsi una potenza autonoma in grado di lanciare alla natura una chiamata.

Questa natura è il Tutto divino. Anzi, è forse più corretto non identificare semplicemente il concetto del divino con la natura, non perché, nell'accezione di Hólderlin, significhi più, ma perché significa meno di essa. Il divino è un momento nella natura, il suo «altro lato» onnipresente, il non terreno ovunque manifesto che pure fa completamente parte del mondo. Ma gli dèi sono forme di questo non terreno cosmico. Figure e potenze all'interno della natura quindi, aspetti di essa. Ognuna significa qualcosa di caratteri-stico: se stessa ma dietro ad ognuna vi è il Tutto e parla attraverso di essi.

Appartenendo alla schiera degli dèi, anche Cristo è riferito a questa natura, ma in modo particolare. Egli si distingue rispetto agli uomini del secolo per il fatto di essere correlato, insieme con Eracle e Dioni-so, alla distretta umana, di essere quindi un dio della salvezza. All'intemo del loro novero il suo ruolo è di nuovo particolare: egli è correlato alla distretta della sera, della tenebra incombente, del giorno del mondo che tramonta, della fine. In tal modo, egli è il mite, colui che consola. Eracle è correlato alla distretta dell'inizio: egli lotta contro il caos, mettendo al sicuro, fondando, ordinando, Dioniso supera la distretta dell'individualità: opera l'incanto e la trasformazione.

Il senso della figura di Cristo in Holderlin 723

Cristo è colui che dona la forza per resistere nella notte del mondo, il tempo che va dalla dipartita degli dèi fino ad oggi. A tale scopo introduce l'azione sacra del ringraziamento, l'Eucaristia. Egli è il conciliatore che esorcizza la scissione dell'esistenza abbandonata dagli dèi, che seda l'ira del mondo assillato dalle potenze ribelli, che respinge il pericolo del travalicare titanico come di quello dionisiaco.

Holderlin avverte la profondità della differenza. Di questo si è già parlato. Cerca di superarla attraverso due pensieri o movimenti: dapprima distingue Cristo dagli altri uomini «profani» e gli conferisce una particolare «spiritualità» accomunandolo agli dèi della salvezza. Ma poi avverte che la figura resiste a questa collocazione, che è diversa anche da Eracle e Dio-niso. Di conseguenza, si richiama al suo «amore onniobliante», egli chiede di non porre alcun aut-aut.

Così Cristo ha il suo carattere, il suo effetto nel mondo e la sua collocazione particolare nel corso dei tempi. Ciononostante, fa parte della natura. Anch'e-gli è un «aspetto» di essa, la divinità di un momento che fa parte del suo essere totale e si realizza al tempo opportuno. È il nume della sera e della fine. Ma questa fine non è assoluta, comporta anzi un ritomo e un nuovo inizio all'intemo della stessa natura.

In tal modo, la persona di Cristo e i particolari della sua vita vengono attirati nel mondo. Vengono mitologizzati, rivelano, interpretano, denominano cioè qualcosa nel mondo, nella natura.

Chi racconta la vita di Cristo, racconta la natura. Non è Dio, nell'accezione biblica del termine, a rivelarsi in Cristo, ma la natura. Cristo non è il Salvatore

724 Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo

mandato dal Creatore e Signore del mondo per liberarla, ma anche perciò per svelarla e chiamarla alla penitenza, ma è il servitore di essa.

Nella poesia di Hòlderlin, il «Padre nei cicli» del Nuovo Testamento diventa il «dio degli dèi», che è Etere e Zeus. Detto in altre parole: laddove, nella coscienza cristiana, sta il Padre di Cristo, appare il «Padre Etere», la cui immagine è tuttavia determinata in concomitanza da quella del Padre biblico.

Allo stesso modo, lo Spirito Santo attraverso cui Cristo entra nel mondo, da cui trae la vita e che manda ai suoi, diventa lo spirito universale, lo spirito del tempo, lo spirito dell'ispirazione veggente e dell'estasi dionisiaca, il «pnéuma della natura».

Il luogo di Cristo nella storia, vale a dire la «pienezza dei tempi» del Vangelo, viene trasposto dal momento della sua nascita al futuro. L'ora in cui sta egli stesso costituisce invece la sera del primo giorno del mondo.

Il cielo e l'inferno - posto che il concetto di Orco hólderliniano vada preso sul serio - non sono ambiti assolutamente sottratti a noi, che siano posti in essere dalla sovranità di Dio, bensì l'ambito ultraterreno, «l'altro lato» del mondo stesso. Infatti, questo si estende dal «qui» dello spazio storico al «là» dell'ultraterreno. Ma i morti che vi dimorano spingono nuovamente per entrare nella storia, ed è il vate a collegare i due ambiti.

La realtà e l'ordine che Cristo è stato mandato ad annunciare, il Regno di Dio, è visto dapprima in modo del tutto escatologico: come ciò che deve venire. Ma ciò che «un tempo sarà», questo «ultimo» a sua volta è entro la storia, costituendone «l'altro lato» al-

Il senso della figura di Cristo in Holderlin 725

l'interno dell'intero temporale-eterno. Allo stesso modo il cielo è un «aldilà» all'interno dell'intero spa-ziale-sovraspaziale del mondo. Ma ciò che verrà quando verrà dò che è atteso non è il Regno della grazia del Dio vivente, bensì la mitica Grecia.

L'istituzione di Cristo, l'Eucaristia, diventa una celebrazione del ringraziamento e della pietà che resiste nelle tenebre. In tal modo, essa è una parte del culto in genere, che consiste nella celebrazione, nella commemorazione e nell'invocazione degli esseri divini, nella gratitudine e nella realizzazione della loro unità e dell'unità di tutta l'esistenza. Ogni celebrazione si rivolge a tutti gli dèi. Pure quando si riferisce di volta in volta ad una divinità particolare, «anche le altre sono invitate». Ma la grazia della celebrazione in cui si vive, la venuta e la presenza della divinità, è di volta in volta una forma del sempre uguale determinata dalla loro figura caratteristica: una forma della corrente numinosa che giunge dall'altezza del mondo o dall'interno del mondo nel luogo e nell'ora. Ciò è anche il caso dell'Eucaristìa.

Dal peccato, di cui l'uomo e il mondo sono colpevoli davanti al Dio Santo, scaturisce il pericolo intrinseco della lacerazione. Il tempo della reale lontananza di Dio non è più anteriore a Cristo, ma lo segue. Prima gli uomini erano pii e gli dèi vicini. Poi, questi se ne sono andati ed ha avuto inizio il regno della notte. Esso dura fino alla grande ora del ritomo, fino all'«oggi» che Holderlin sa di essere stato mandato ad annunciare. Il nuovo cielo e la nuova terra dell'Apocalisse diventano la rinascita che l'esistenza umana vivrà grazie al ritomo della mitica Grecia, la discesa della «sposa» e le sue nozze con l'Agnello, «le nozze

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degli uomini e degli dèi». L'amore invece, di cui sono pieni tutti i testi di Giovanni, diventa Véros totale della potenza dominatrice dell'Etere che a sua volta si identifica con l'eruzione della vita totale dionisiaca e con il pnéuma del mondo.

A un secondo grado, per così dire, arriva il processo della mitizzazione del cristianesimo nella poesia Germania. In quel caso la mitica Grecia prende il posto di Cristo, anzi questa Grecia è forse in qualche modo «Cristo» stesso. La «Vergine Maria» del racconto biblico diventa la «vergine Germania». Al posto dell'angelo che annuncia compare l'aquila del Padre supremo. Ma la nascita che viene annunciata è quella del nuovo tempo trasformato, dell'Ellade rinata dalla Germania.

Non vi è certo bisogno di osservare che in tal modo la vera sostanza del cristianesimo si dissolve. Il suo significato scompare. La decisione da esso posta è annullata.

Il fenomeno è reso ancora più intenso dal fatto che i contenuti cristiani non cedono semplicemente il loro posto a concetti antichi o nuovi, che i termini e le realtà cristiane invece riecheggiano rievocando in chi ascolta le esperienze di un tempo, che le figure conservano una dinamica e una profondità intcriore che derivano dalla fede abbandonata, non facendo però che rendere ancora più grande la distanza. Il modo in cui il fenomeno viene generalmente interpretato - che qui una sintesi idealistica tenti di conciliare i due aspetti - non rende giustizia ad esso. Il peso della questione è un altro, come dimostrano la natura del fenomeno, la potenza religiosa della perso-

Il senso della figura di Cristo in Holderlin 727

naiità che parla e l'impeto veemente della sua esperienza, che penetra fino al nucleo.

Ma ciò significa anche che esso è pieno di questioni profonde e intricate. Come sottolinea la prefazione, il presente lavoro non è riuscito a porle in modo esaustivo e tanto meno a risolverle.

Irrisolta - e irrisolvibile - è soprattutto la questione di quale sia il senso cristiano di questa concezione di Cristo. Gli inni sono espressione di un conflitto tra la figura di Cristo e le divinità antiche ed in genere quelle che scaturiscono dal mondo. L'alternativa che era in gioco è collegata a quella di cui abbiamo parlato nel terzo «cerchio» ossia: la figura di Cristo sarebbe stata definitivamente accomunata a quelle divinità e collocata nel loro contesto, diventando l'ultimo suggello della divinità autonoma del mondo oppure avrebbe spezzato i vincoli di quella identificazione subordinando a sé gli «altri figli del Padre supremo», come interprete della loro propria sovrana ricchezza di senso? La figura di Cristo si sarebbe definitivamente determinata in termini non cristiani oppure avrebbe alla fine ritrovato il senso cristiano per reinterpretarlo alla luce del cammino percorso? Il fatto che la prima possibilità fosse aperta è dimostrato dalla figura e dall'intenzione di Holderlin, così come si manifestano nella sua opera. Ma il fatto che anche la seconda possibilità fosse reale diventa evidente se si considera con quanta tenacia l'essere di Cristo si affermi nel sentimento di Holderlin come qualcosa di proprio, distinto dagli altri numi e quali sforzi debba compiere per includerlo nella loro schiera.

Holderlin non ha risolto il conflitto. È rimasto in sospeso. Il carattere della sua figura di Cristo e il mo-

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do in cui si affermò in lui dimostrano che non si trattò ne di una creazione meramente poetica ne di una concezione filosofica, ma di qualcos'altro - qualcosa che si impose attraverso un'iniziativa sovrana rispetto allo stesso desiderio di Hólderlin.

Dove fosse diretta in ultima istanza questa iniziativa e quale decisione definitiva Hólderlin avrebbe adottato davanti ad essa, rimane non chiarito.

NOTE

1. Cfr. W. Bóhm, Hólderlin I, 1928, pp. 21 ss.

2. Omero fu detto per antonomasia «il Meonio cantore», dal nome della Meonia, regione orientale della Lidia (Asia Minore - n.d.r.).

3. Cfr. R. Guardini, Dos Bild vonjesus dem Christvs im Neuen Testammt, Wùrzburg 1939, pp. 63 ss.; tr. it. La figura di Gesù Cristo nel Nuovo Testamento, Morcelliana, Broscia 19643, pp. 56 ss.

4. Cfr. nota 19 a p. 138.

5. Cfr. Mt 11, 6 e Le 4, 28 s. tra gli altri passi.

6. Cfr. Gv 16, 22: «Molte cose ha ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso».

7. Questo mi sembra essere il significato dei versi spesso citati. Non è che il poeta religioso debba essere anche «profano», ma il poeta spirituale, veggente, condivide bensì con il Cristo il medesimo destino: quello di doversi addossare il giogo di quanto è del mondo e di dover resistere nella prova, benché anch'egli voglia tornare nel tutto, come l'aquila prigioniera in libertà.

8. Si veda quello che dice Pascal sul cuore ed il suo rapporto con lo spirito: R. Guardini, Christliches Bewusstsein, il ed., pp. 165 ss.; tr. it. Pascal, Morcelliana, Brescia 19924, pp. 151 ss.

9. Come è noto però, l'istituzione dell'Eucaristìa è narrata da Matteo, Marco, Luca (e riferita da Paolo), ma non da Giovanni {n.d.r.).

10. Si rizzano i capelli quando il Non nominabile si fa presente: l'esperienza religiosa dell'horrendum [Nella traduzione della CEI Ez 8, 3 suona: «mi afferrò per i capelli; uno spirito mi sollevò tra terra e delo» (n.d.r.)}.

11. Nella tr. CEI: «dice il Signore che fa queste cose da lui conosciute dall'eternità» (che è citazione da Am 9, 12 - n.d.r.).

12. La versione che aveva sott'occhio Vigolo evidentemente si differenzia da quella su cui lavorò Guardini: invece di der Seher, «il veggente», nella seconda si trova derSohn, «il Figlio» (n.d.r.).

Quinto cerchio - Cristo e il cristianesimo 729

13. Un momento particolare è introdotto in questo insieme di problemi dall'abbozzo di un inno incentrato sull'immagine del Vaticano e risalente agli ultimissimi tempi (n, p. 252). Qui il problema del cristianesimo viene colto nel suo culmine più esteriore, come concrezione storicamente determinata, come Chiesa. L'analisi dovrebbe tener conto delle idee di Hólderlin sulla Riforma, soprattutto in riferimento al rapporto che egli stabilisce tra la Chiesa e le tenebre, che si instaurano dopo la dipartita di Cristo, la «dispersione» del suo «onore», ossia tra il rinne-gamento della figura di Cristo nel suo senso autentico e il messaggio di essa. Bisognerebbe tener conto anche del concetto di una «nuova Chiesa» espresso nell7/wi<»K e della concezione di un'identificazione fra religione, cultura. Chiesa e Stato nella nuova esistenza trasformata (n, supra, p. 154). Ma questo non può essere sviluppato oltre in questa sede.

14. Sul concetto del salvatore, vedi R. Guardini, Unterscheidung des Christlichen (1955), pp. 361 ss.; tr. it. in Natura - cultura • cristianesimo, Morcelliana, Bresda 1983, pp. 251-295.

CRONOLOGIA DELLA VITA

1770, 20 marzo: Johann Christian Friedrich Hólderlin nasce a Laufein am Neckar. I suoi genitori: il Klosterhofmei-ster (amministratore ecclesiastico di monastero) Hein-rich Friedrich Hólderlin e la moglie Johanna Christiane nata Heyn, figlia d'un pastore.

1772, 5 luglio: il padre di Hólderlin muore all'età di trenta-sei anni.

15 agosto: nasce la sorella di Hólderlin Heinrike (essa sposerà Christian Brauniin, professore alla Klosterschuie [scuola di monastero] di Blaubeuren).

1774: la madre di Hólderlin sposa in seconde nozze il consigliere camerale e sindaco Gock a Nùrtingen.

1776, 29 ottobre: nasce il fratellastro di Hólderlin Cari Gock (Cari è l'unico dei quattro figli di questo matrimonio a restare in vita).

1779, 8 marzo: il patrigno di Hólderlin muore di polmonite. Hólderlin comincia a frequentare la Lateinschuie (ginnasio) a Nùrtingen.

1784: Hólderlin passa alla Klosterschuie inferiore di Den-kendorf. In questo periodo nascono i suoi primi tentativi poetici.

1786: Hólderlin passa alla Klosterschuie superiore a Maul-bronn. Inizia la corrispondenza con Immanuel Nast e Franz Karl Heiner. Lettore di Schubart, Klopstock,

732 Cronologia

Schiller, anche dalVOssian di Macpherson; ne trae stimoli per la creazione personale. Hólderlin incontra Luisa Nasi, figlia dell'amministratore del monastero di Mauibronn (ella è parente dell'amico Immanuel Nast).

1787: Hólderlin si fidanza con Luise Nast, la «Stella» delle sue prime poesie.

1788: Hólderlin lascia Mauibronn e si immatricola alla facoltà teologica dell'Università di Tubinga. Abita nello Stift (fondazione), dove deve sottomettersi a un regolamento rigoroso. Con Christian Ludwig Neuffer e Ru-dolf Magenau stringe la lega degli Aldermannsfreunde.

1789: nelle vacanze pasquali Hólderlin visita Stoccarda e & la conoscenza di Schubart e dell'avvocato Gotthold Friedrich Stàudiin (Questi, a modvo dei suoi numerosi almanacchi, è chiamato anche «Arciprete delle muse sveve»). Hegel viene allo Stift come studente. Hegel e Schiller esercitano un forte influsso su Hólderlin. Nascono gli Inni di Tubinga.

1790: Hólderlin rompe il fidanzamento con Luise Nast. Schelling comincia il curriculum universitario allo Slift. Hólderlin riceve il titolo di Magister in filosofia; la sua dissertazione ha il titolo Eine Geschichte der Kunst unter der Griechen (Storia dell'arte tra i Greci). Un breve viaggio in Svizzera, nel quale Hólderlin fa anche la conoscenza di Johann Raspar Lavater, costituisce la conclusione della prima parte dei suoi studi. Il mondo della montagna lo impressiona fortemente. In autunno di quest'anno Hólderlin fa la conoscenza di Elise Lebret, la «Lyda» delle sue poesie.

1791: Nel «Musenalmanach» di Stàudiin per l'anno 1792 appaiono le prime poesie di Hólderlin.

1792: Hólderlin da inizio al lavoro per VIperione.

Cronologia 733

1793: dopo la fine dei suoi studi Hólderlin ritorna a Nùr-

dngen.

Schiller è pregato dalla sua amica Charlotte von Kalb di proporle un precettore adatto per suo figlio. Attraverso la mediazione di Stàudiin la scelta cade su Hólderlin. Il 6 dicembre Hólderlin supera l'esame di Stato in teologia (Konsistorialexamen}. In queste settimane cade anche la sua conoscenza più stretta con Isaak von Sinclair, uno studente di giurisprudenza, che più tardi entrerà al servizio del Langravio di Hessen-Hamburg e parteciperà al Congresso di Vienna come inviato di quel nobile. 20 dicembre: viaggio di Hólderlin a Waltershausen presso Jena, dove giunge una settimana dopo e assume l'incarico di precettore presso la signora von Kalb.

1794: in novembre Hólderlin col suo allievo, Fritz von Kalb, che ha ora undid anni, va a Jena, per conferire maggiore efficacia alle sue sollecitudini pedagogiche anche con questo trasferimento. Frequenta Schiller, fa la conoscenza di Goethe e di Herder e ascolta le lezioni di Fichte.

Il Frammento dell'Iperione appare nella rivista «Thalia» di Schiller.

1795, 16 gennaio: il rapporto di servizio con Charlotte von Kalb è sciolto, poiché gli sforzi di Hólderlin risultano privi di successo. Tuttavia egli rimane a Jena, per cond-nuare a svolgere i suoi lavori letterari. La diceria di una (presunta) vicenda amorosa con Sophie Mercau lo spinge a fuggire da Jena.

Hólderlin trascorre l'estate a Nùrtmgen. Il nuovo incarico di precettore presso la famiglia del banchiere francoforte-se Gontard gli viene assegnato per la mediazione del medico di famiglia dei Gontard Johann Gottfried Ebel. Hólderlin giunge a Francoforte il 28 dicembre.

734 Cronologia

1796: Hólderlin inizia il suo servizio al principio di gennaio. Mentre il padrone di casa, Jakob Friedrich Gontard, lo considera e lo tratta come un dipendente qualsiasi, che solo per rispetto alle convenzioni ha il permesso di partecipare alla vita di società della famiglia, Hólderlin presto è legato da un'intima attrazione alla moglie del banchiere, Susette («Diotima» nelVIperione). 10 luglio: poiché la guerra minaccia di estendersi a Francoforte, Gontard manda la moglie con i figli dapprima a Kassel e poi a Bad Driburg in Vestfalia, accompagnati da Hólderlin e da Wilhelm Heinse (il poeta del-l'Ardinghello). In settembre ritorno a Francoforte. In quest'anno Hólderlin comincia una rielaborazione dell'Iperione.

1797: Hegel assume un incarico di precettore a Francoforte per la mediazione di Hólderlin. Hólderlin frequenta inoltre il medico Samuel Thomas von Sómmering, un amico della famiglia Gontard, e Sinclair, che è a corte ad Homburg.

Per Pasqua esce presso l'editore Cotta il primo volume delVIperione.

Oltre a numerose poesie nasce anche il progetto della tragedia La morte di Empedocle.

22 agosto: Hólderlin visita Goethe, che si ferma a Francoforte nel corso di un viaggio.

1798: la relazione di Hólderlin con Susette non rimane nascosta; ma solo dopo un'esitazione piuttosto lunga e incresciose scene con il padrone egli in settembre va ad Homburg dove prende in affitto un'abitazione. Sinclair lo fa conoscere alla famiglia del Langravio. Hólderlin cominda a lavorare per 1''Empedocle. In novembre Hólderlin accompagna Sinclair al Congresso di Rastatt.

Cronologia 735

1799: i mezzi finanziari di Hòlderlin sono esauriti, perdo deve prendere un prestito da sua madre. Lascia cadere per consiglio di Schiller il progetto di assicurarsi un introito fisso con una rivista mensile di poesia («Iduna»). Appare presso Cotta il secondo volume deìl'Iperione.

1800: in maggio Hòlderlin lascia Homburg e dopo una breve visita alla casa dei genitori giunge in giugno a Stoccarda. Mediante la protezione di un amico, il com-merdante Christian Landauer, può assicurarsi un esiguo introito con ore d'insegnamento privato («lezioni di filosofia»). Poiché il guadagno è insufficiente, dopo alcune esitazioni Hòlderlin dedde di assumere un nuovo incarico di precettore.

1801: a metà gennaio Hòlderlin prende il suo posto nella casa di Anton von Gonzenbach, un commerdante di Hauptwill presso San Gallo. Già in aprile questo rapporto di dipendenza è sciolto da Gonzenbach. Hòlderlin ritorna a Nùrtingen e di là si adopera per trovare la possibilità di tenere lezioni a Jena. Chiede consiglio a Schiller, ma sembra non abbia ricevuto alcuna risposta, e accoglie quindi la proposta di un incarico di precettore presso il console di Amburgo a Bordeaux, Daniel Christoph Meyer.

1802: dopo un penoso viaggio Hòlderlin giunge a Bordeaux il 28 gennaio. A metà giugno senza preavviso arriva di nuovo a Nùrtingen con chiari segni di obnubilamento psichico.

22 giugno: Susette Gontard muore a Francoforte all'età di trentatré anni.

In autunno Hòlderlin si reca in viaggio con Sinclair al Fùrstentag (dieta dei prindpi) a Regensburg.

736 Cronologia

1803: Hólderlin vive a Nùrtingen, sotto la tutela della madre. Lavora alla traduzione delle tragedie di Sofocle.

1804, aprile: le traduzioni di Hólderlin dell'Edipo e dell'An-tigone appaiono presso l'editore Friedrich Wilmans a Francoforte.

In giugno Hólderlin segue ad Homburg un invito di Sinclair, che gli ha procurato un posto di bibliotecario;

per altro Sinclair stesso deve provvedere a pagare lo stipendio a Hólderlin.

1806: lo stato di salute di Hólderlin è peggiorato a tal punto che anche Sinclair, con tutta la sua buona volontà, non ha più speranze e in settembre porta l'amico alla Cllnica del dott. Autenriet.

1807: poiché il suo stato non migliora, Hólderlin viene affidato come ospite alle cure del mobiliere - persona colta, comunque - Ernst Zimmer. Il malato vive fino alla morte in quella che oggi è la cosiddetta «Torre di Hólderlin».

1815: Sinclair muore a Vienna.

1826: Gustav Schwab, Ludwig Uhiand e Justinus Kemer curano una prima edizione delle poesie di Hólderlin.

1828: morte della madre. 1843, 7 giugno: Hólderlin muore a Tubinga.

INDICE DELLE OPERE DI HÒLDERLJN CITATE*

Achille, 283, 420

AtóM (Z/), 325, 327, 433

Amore (L"), 214

Arcipelago (L'), 37, 56, 58, 70, 129, 145, 149, 154, 188, 200, 203, 211, 284, 285, 293, 368, 377, 383, 387, 401, 552, 568, 583, 587, 589,599,682

«Bellezza è... (La)», 349

Cantato a pie delle Alpi, 619 Canto dei fratelli Ottmar,

Hom e Tello, 338, 341 Canto del tedesco (II), 126 Canto del Destino di Iperio-

ne (II), 36, 49, 105, 164 Cantone di Schuyz (II), 95,

109,215

Cantore cieco (II), 299 «Chi è Dio?», 348 «Come il giorno di festa ...»,

276, 338, 342,361, 701

«Conciliante, o Tu non mai creduto (O)», (prima versione), 129, 344, 395,406, 651, 662, 705

«Conciliante, o Tu non mai creduto (O)», (seconda versione), 392, 406, 418,655

«Conciliante, o Tu non mai creduto (O)», (terza versione), 647,667

Coraggio del poeta, (seconda versione), 284

Dèi (Gli), 283 Diotima (A), 88, 135, 262,

271 Dormienti (I), 190

Elegia, 340

Emilia innanzi il giorno delle sue nozze, 96, 127, 134, 144, 146, 339, 423,631

Empedocle, 120

* I numeri in corsivo indicano passi in cui il testo è trattato in modo più esteso.

738

Indice delle opere di Holderlin citate

Empedocle {La morte di) (prima versione), 527-595, inoltre 183, 184, 212, 213, 216, 258, 260, 285, 317, 366, 367, 370, 373, 374, 410, 527, 528, 530, 585, 592, 593, 597, 598,615,639, 668s.

Empedocle (La morte di) (seconda versione), 320,640

Empedocle sull'Etna, 120, 213,260,295,528,530

Etere (Ali'), 167, 186, 216, 245,250,416,417

Fantasia serale, 417 Festa della pace (La), 138 Fiume incatenato (II), 65 Fonte del Danubio (Al), 51, 99, 110, 129, 130, 134, 343, 384, 404, 423,602

Ganimede, 416

Genio (Al), 190

Genio della Creda (Al), inno, 634

Germania, 98, 110, 126, 129, 189, 200, 206, 208, 265, 281, 357, 391, 397, 401, 421, 567,680, 707, 726

Grecia, 328

Heidelberg, 33, 97, 120, 292,301,308,429,589

Immortalità dell'anima (L'), 333

Incitamento (seconda versione), 340,378,420

Iperione, 465-525, inoltre 56, 57, 61, 96, 144, 145, 149, 154, 155, 160, 161, 164, 167, 181, 188, 195, 200, 209, 212, 249, 250, 269, 288, 322, 334, 373, 401, 463, 585, 597,598,615,623,729

Iperione (abbozzo di una prefazione), 322

Iperione (il Frammento di «Thalia»), 157, 160, 325,329,515

Iperione (II canto del Destino di), 36, 49, 105, 164, 364

Iperione (La giovinezza di), 164,166,328

Istro (L'), 43, 47, 79, 92, 129, 130, 135, 371, 432, 615, 642,678,682

Lagrime, 422

Lamento di Menane per Diotima, 190, 193, 216, 283, 326, 337, 403, 418,423,509

Libertà (Alla), 228

Libri dei tempi, 333, 633

Indice delle opere di Holderlin citate

739

Madonna (Alla) (abbozzo

di un inno), 163, 419,

705

Madre Terra (Alla), 106 «Ma quando i Celesti hanno

costruito. ..»,427, 677 «Maturi sono i frutti ...»,

vedi Mnemosine Meno (II), 129, 137 Mia proprietà (La), 202,

298,599,605 Mia venerata nonna nel

suo settantaduesimo compleanno (Alla), 636 Miei (I), 333 Migrazione (La), 43, 109,

111,115,126,130, 134 Mneinosine (terza versione),

311,428,599,600,601 Morte per la patria, 97,

147

Natura e arte ovvero Saturno e Giove, 129, 315,

431

Neckar (II), 40, 129 «Nell 'azzurro leggiadro»,

605

Ozi (Gli), 296

Pane e vino, 70, 97, 100, 116, 129, 206, 221, 312, 354, 363, 386, 389, 393, 425, 429, 645, 651,699, 705

Palmo (prima versione), 91, 103, 129, 130, 135, 210, 346, 429, 608, 617, 659, 670, 674, 675, 697, 705, 709, 710,717

Primavera (Alla), 257, 270,417

Principessa Augusta di Homburg (Alla), 104, 339

«Quand'ero fanciullo», 162, 239,335

Reno (II), 56, 65, 70, 95, 110, 111, 114, 115, 117, 129, 134, 135, 168, 175, 184, 215, 263, 273, 305, 306, 310, 312, 366, 368, 374, 387, 407, 427, 429, 430, 506, 508, 552, 568, 583, 589, 651-654, 658, 688, 717

Ricordare (II), 333

Ricordo, 56, 59, 129, 432, 681

Ritomo, 95, 124

Ritorno in patria, 112, 134, 199, 215, 251, 274,330,340,342, 399

Ritratto dell'avo (II), 191, 206

Rousseau, 217

740

Indice delle opere di Holderlin citate

Scorcio di Hardt (Lo), 197

Se da lontano..., 509

Speranza (Alla), 250

Spirito del tempo (Lo), 204, 294,380

Stoccarda, 87, 102, 115, 127, 129, 179, 195, 206,308,385,405

Tedeschi (Ai), 98,403 Terra nativa, 422 Tramonto (II), 283

Unico (L'), 128, 129, 312, 314, 345, 415, 657, 662, 689, 703, 705, 706,720,721

Unico (L'}, (terza versione), 424,430, 667, 719

Uomo (L'), 159, 165, 171, 283,469, 498

Vaticano (II), 350

Viaggio (II), 68

Viandante (II), 47, 96, 104,134,245

Vocazione del poeta, 201, 203, 284, 288, 297, 379,380

«Voce del popolo» (prima versione), 90

«Voce del popolo» (seconda versione), 39, 91, 165, 169, 184, 293, 302, 303, 409, 428, 429, 430, 552, 576, 589, 599,668

POSTFAZIONE

Qualche mese fa molti studiosi hanno salutato con gioia la traduzione italiana dell'opera di M. Heideg-ger su Nietzsche, che è stata pubblicata nel 1961 e la cui stesura risale agli anni 1936-46. Ma sembra che ci siano dei buoni motivi per accogliere con vivo interesse anche la traduzione di quest'opera di R. Guardi-ni su Hòlderlin. La prima edizione risale al 1939 e la stesura di essa è avvenuta negli stessi anni in cui Hei-degger preparava i suoi corsi universitari ed i suoi saggi su Nietzsche.

Forse nemmeno tutti coloro che conoscono e apprezzano gli altri scritti di Guardini sono a conoscenza del contributo che egli ha dato all'interpretazione della poesia di Hòlderlin. E che sia un contributo di grande valore lo dimostra l'apprezzamento altamente positivo che ne da un germanista di prestigio, A. Pellegrini, il quale in un volume di storia della critica, tradotto anche in tedesco, ritiene questo volume un'«opera [...] tra le maggiori della critica hólderlinia-na», sottolinea come sia stata accolta con grande considerazione dagli studiosi tedeschi, tra i quali basti ricordare P. Bóckmann e W.F. Otto; mette in luce anzi come essa sia divenuta per molti ben presto un punto di riferimento; ricorda anche che l'influsso di quest'opera è presente nelle pagine che a Hòlderlin ha dedi-

742 Postfazione

cato un pensatore di grande rilievo, come H.G. Gada-mer1.

Inoltre L. Mittner, nella sua Storia della Letteratura tedesca, che costituisce una delle tappe fondamentali degli studi più recenti di germanistica in Italia, quando indica la bibliografia su Hólderlin, oltre agli autori degli studi in lingua italiana, ricorda quattro studiosi e tra questi c'è Guardini2.

Gli scritti su Hólderlin sono da molti considerati uno dei vertici dell'opera di Heidegger, ma alcuni ritengono che in essi spesso il pensatore tedesco spieghi «forse la propria filosofia, non certo la poesia di Hólderlin»3, mentre altri sono convinti che egli colga i temi fondamentali della poesia di Hólderlin, presentandone una nuova dimensione4. Ebbene, in questo senso, sembra che, al di là delle innegabili e profondissime differenze, vi sia tra Heidegger e Guardini una vicinanza nell'insistere su determinati temi. Per entrambi si tratta di instaurare con Hólderlin un «colloquio pensante», non di dare un contributo «alla ricerca storico-letteraria o all'estetica»5. La storia letteraria studia le ascendenze dell'opera, il suo sviluppo interno e la sua fortuna; l'estetica tende a considerare la bellezza nella sua autonomia dalla verità; invece Heidegger e Guardini sottolineano che la poesia e la bellezza sono in rapporto essenziale con la verità.

1. Cfr. A. Pellegrini, Hólderlin. Storia della critica, Firenze 1956, pp. 285,206-208,274.

2. L. Mittner, Storio della letteratura tedesca. Dal Pietismo al Romanticismo, Torino 1964, par. 342 n. 1, pp. 707-708.

3. Id., op. cit., par. 352 n. 8, p. 736.

4. Cfr. A. Pellegrini, op. cit., pp. 235-258.

5. M. Heidegger, La poesia di Hólderlin, tr. it. di L. Amoroso, Milano 1988, p.3.

Postfazione 743

Entrambi mettono in luce l'importanza del tempo e della storia, del sacro nel suo rapporto con la natura, del valore profetico della poesia strettamente collegato con la convinzione di Hólderlin di essere il poeta del tempo della privazione. Certo, questi temi vengono poi sviluppati in modo diverso dai due pensatori, ma questi sviluppi sembrano potersi illuminare vicendevolmente proprio per la loro diversità. Per questo la lettura delle due opere può essere molto proficua.

Ma, come fa rilevare X. Tilliette, l'interpretazione di Heidegger sembra pressoché ignorare l'importanza che assume la figura di Cristo nella poesia di Hólderlin, soprattutto in quella degli anni della maturità6. L. Mittner, autore di un'importante monografia sul poeta tedesco, osserva che Hólderlin rimase disperatamente legato alla «dolce e sublime figura di Cristo, maestro e amico dell'anima»7. Guardini giustamente attribuisce molta importanza alla cristologia del poeta, il quale avverte un dissidio nel suo intimo:

il suo cuore affascinato da Cristo lo spinge a dargli maggiore importanza rispetto agli altri dèi, ma la sua coscienza glielo impedisce. Infatti Hólderlin è, secondo Guardini, un poeta epocale, perché esprime la tendenza a considerare il mondo come autonomo. Così Dio è sostituito dalla natura, che assume gli attributi classici di Dio. In questa prospettiva Cristo non può venir considerato come superiore agli altri dèi, i quali sono espressione del numinoso che c'è nella na-

6. Cfr. X. Tilliette, Filosofi davanti a Cristo, Broscia 1989, pp. 406-413.

7. L. Mittner, op. di., par. 349, p. 725.

744 Postfazione

tura. Di qui il dissidio tra il cuore e la mente, la crisi drammatica non ancora superata nemmeno oggi8.

Ma un altro aspetto che va posto in rilievo è la capacità di ascolto che caratterizza l'ermeneutica di Guardini. Egli ritiene che l'interprete debba esercitarsi in un'ascosi costante per aprirsi all'altro, per coglierne la ricchezza inesauribile, per intendere le parole per quello che dicono senza attenuarne il significato. Per tale motivo egli prende sul serio il poeta anche quando afferma l'esistenza degli dèi. Anche per tale ragione questo volume sembra essere ancora attualissimo e molte sue pagine restano tra le più illuminanti per aiutare a cogliere la straordinaria ricchezza della poesia di Hólderlin. Oggi, anche sulla scia di Heidegger, si sottolinea la necessità di un dialogo tra pensiero e poesia; quest'opera sembra essere di questo dialogo una delle espressioni più alte finora realizzate.

Essa potrà costituire un arricchimento per tutta la cultura italiana e sembra particolarmente utile come strumento per gli studi universitari, in quanto può interessare, offrendo sempre stimoli e suggestioni illuminanti, la germanistica e la storia della letteratura in generale, la filosofia, la fenomenologia della religione, la teologia. In ogni caso sarà preziosa per chi voglia incominciare a capire il senso di alcune domande che tutti oggi, più o meno esplicitamente, ci poniamo.

giuseppe BESCHIN

8. Tutti questi temi sono illustrati egregiamente da S. Zucal, Romano Guardimi e la metamorfosi del «religioso» tra moderno e post-modemo. Un approccio ermeneutico a Hólderlin, Dostoevskij e Nietzsche, Urbi no 1990.

Opere di Romano Guardini presso la Morcelliana

Accettare se stessi, 2 ed., pp. 80 L'Angelo. Cinque meditazioni, pp. 80 Ansia per l'uomo, 2 voli. (in ristampa) Appunti per un'autobiografìa, pp. 168 La conversione di S.Agostino (in ristampa) La coscienza (in ristampa) Diario. Appunti e testi dal '42 al '64, pp. 256 Dostojewskij. Il mondo religioso, 4 ed., pp. 336 Elogio del libro, 2 ed., pp. 56 L'esistenza e la fede (in ristampa) L'essenza del cristianesimo, 8 ed., pp. 96 Fede - Religione - Esperienza, 2 ed., pp. 200

La figura di Gesù Cristo nel Nuovo Testamento (in ristampa)

La fine dell'epoca moderna -II potere, 8 ed., pp. 232 Holderlin. Immagine del mondo e religiosità, pp. 752 Introduzione alla preghiera, 8 ed., pp. 224

 

INDICE

Volume primo

Prefazione dell'Autore alla prima edizione (1939) . 7 Prefazione dell'Editore alla seconda edizione (1955) 15

Primo cerchio

Fiume e montagna

Nota introduttiva . . . . . . . .19

II fenomeno e lo sguardo correlato . . . . .23

Fiumi e mari . . . . . . . . . . .33

L'inno II Reno ......... 65

Altro scorrere .......... 87

Montagne e alture ........ 95

Le Alpi e il vulcano ....... .109

Lo spazio dell'esistenza ...... .123

Secondo cerchio L'uomo e la storia .

Nota introduttiva . . . . . . . .141

746 Indice

L'agire storico, la libertà e lo Stato . . . .143 La natura, l'amore e la cultura . . . . .155

I morti e il passato ........ 179

II senso della concezione holderliniana della storia 223

Terzo cerchio Gli dèi e il riferimento religioso

GLI DÈI

Nota introduttiva . . . . . . . .237

L'Etere ........... 245

La Terra . . . . . . . . . .257

II mito del Cielo e della Terra ..... 269

Apollo e Posidone ........ 283

Lo spirito del tempo ........ 287

Dioniso .......... 301

Saturno ... . . . . . . . 315

II Dio in noi, il Dio innominato e il Dio nuovo . 325 II Dio uno .......... 333

IL RIFERIMENTO RELIGIOSO

Nota introduttiva ........ 353

II non esser conosciuto, il diventare manifesto e l'assegnazione del nome . . . . . . . . 355

Indice 747

La lontananza a noi sottratta e la riverenza. L'avvicinamento e l'accoglienza ...... .363

II dominio e l'obbedienza ...... .377

La lontananza, la venuta e la festa . . . .391

La distretta dell'esistenza e l'attesa perseverante .413

L'ESSENZA E L'UNITÀ DELLE DIVINITÀ

L'essenza degli dèi ....... .435

L'unità degli dèi . . . . . . . . .451

Volume secondo

Quarto cerchio

La natura

Nota introduttiva ....... .463

iperione

L'opera e il suo contenuto ..... .465

Gli uomini e la natura ...... .497

EMPEDOCLE

II carattere dei poemi di Empedocle . . . .527

Le figure del dramma ...... .533

La natura ......... .585

748 Indice

ABBOZZI INMCI DEGÙ ULTIMI ANNI

«Maturi sono, tuffati nel fuoco» ..... 597 «Ma quando i Celesti hanno costruito ...» . .611

Quinto cerchio Cristo e il cristianesimo

Nota introduttiva . . . . . . . . 629

La gioventù e il periodo intermedio . . . . 633

La maturità ......... 645

L'Inno alla Madonna ....... 705

II senso della figura di Cristo in Holderlin . .717

Cronologia della vita . . . . . . .731

Indice delle opere di Holderlin citate . . 737 Postfazione di giuseppe beschin . . . .741

 

 

 

 

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