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ROMANO GUARDINI
I NOVISSIMI
VITA E PENSIERO
PROPRIETÀ
LETTERARIA RISERVATA
traduzione di RAFFAELE FORNI
*
Titola originale dell'opera
: DIE LETZTEN DINGE
CAN.
CAROLUS PIGIMI - CENSOR ECCLES. NIHIL OBSTAT QOOMINUS IMPRIMATUR
IMPRIMATUR
IN CURIA ARCH. MEDIOL. DIE 30-4-1951 t DOMINICI; 3
BERNAHEGGI - VIC. GEN.
STAMPATO IN ITALIA - PRMTED IN ITALY 001
TIPI BELLA TIPOGRAFIA EDITRICE A. K P.LLI CATTANEO - BERQAMO
PRESENTAZIONE
f\ fel licenziare
alle stampe « J Novissimi
» di Romano Guar-•i » dini (1) a conchiude
un trittico che ha come precedenti « II Signore » (2) e
« JZ testamento di Gesù » (3).
Questi tré lavori si sarebbero anche potuti presentare
rispettivamente così'. «Il Signore », «II Signore con noi »
e «II nostro ritorno al Signore». Il proposito iniziale di farlo fu
poi scartato' per il timore di ingenerare confusioni tra l'uno e l'altro
dei tré studi. Se lo si ricorda qui, è unicamente allo scopo di
fornire al lettore la ragione per cui, volendo far conoscere Romano
Guar-dini al popolo di lingua italiana che è il suo, sono state scelte
— tra le sue molte opere — le tré sopra nominate', per offrire,
cioè, nella descrizione del ciclo completo da Dio a Dio — donde
veniamo, dove siamo e dove andiamo —, un ordine di riflessioni
unitario intorno ai problemi filosofico-teologici che stanno alla base
della nostra vita.
r. f.
(1) « Die letzten Dinge » : Die christliche Lehre vom
Tode, der Lauterung nach dem Tode, Auferstehung, Gericht und Ewigkeit,
1949, Werkbund - Verlag, Wùrzburg, Abteilung die Burg.
(2) « Der Herr », Betrachtungen ùber die Person und
das Leben Jesu Christi, 1940, Werkbund-Verlag, Wiirzburg, Abteilung die
Burg - Tradotto in italiano per i tipi di Vita e Pensiero, Milano 1949,
sotto il titolo « II Signore ».
(3) « Besinnung vor .der Feier der hi. Messe », 1949,
Frankische Gesellschafts druckerei, Wurzburg - Tradotto in italiano per
i, tipi di Vita e Pensiero, Milano 1950, sotto il titolo <; II
testamento di Gesù ».
SOMMARIO
Presentazione Sigle
Prefazione .
LA MORTE ..........
L'affermazione del Cristianesimo .....
Il fenomeno della morte e il suo significato naturale .
La morte e il peccato .......
La morte e la redenzione .......
Il senso cristiano della morte . . . . . ' .
IL PURGATORIO . . . .
JLKl UVLL11114J. UCUÌ1. V^iJUCSa .......
L'intenzione . . . . . .
L'azione e l'essere ........
Le sofferenze del purgatorio . . . . .
LA RESURREZIONE . .
La dottrina rivelata ........
Il messaggio cristiano e l'uomo .....
-Il corpo glorioso ........
L'importanza dell'insegnamento cristiano riguardo al
corpo
IL GIUDIZIO . . . . ...
L'essenza della storicità .......
Varie interpretazioni del giudizio finale ....
L'insegnamento della rivelazione . . . .
L'ETERNITÀ' .........
' Tempo ed eternità ........
La rivelazione dell'eternità ......
L'entrata dell'uomo nell'eternità .....
Indice per materie . . . . . . • .
SIGLE
A Apocalisse. .
I G Prima lettera di San Giovanni.
G Vangelo secondo San Giovanni
I C Prima lettera di San Paolo ai Corinti.
Gn Genesi.
L Vangelo secondo San Luca.
Me Vangelo secondo San Marco.
Mt Vangelo secondo San Matteo.
K Lettera di San Paolo ai Romani.
PREFAZIONE
l'esistenza si attua nel tempo. Da questa
temporaneità emergono — non solo chiaramente, ma decisamente— tré
determinazioni: l'inizio, il fine e l'attimo transeunte. Inizio e fine
limitano la figura dell'esistenza nel suo complesso; nell'attimo essa si
compendia, compenetra il vivente e gli si da in mano, ' ricavando
dalla sua libertà un significato stabile.
Da un'interpretazione evangelica di questi tré elementi
(inizio, transito e fine) risaltano i concetti fondamentali di una
dottrina cristiana del tempo vitale.
Dell'inizio: come principia l'individuo, e come
principiò il mondo in cui l'individuo vive e che nell'individuo si
attua. ,
Del fine: come finisce la vita del singolo, e come sarà
la fine del mondo.
Finalmente, dell'attimo: come, adesso, il tempo nel suo
andare, e con esso la vita nella sua catena di irrevocabili istanti,
sono confidati all'uomo; di nuovo, la vita del singolo e quella del
mondo che su di lui riposa.
A voler introdurre e conservare qui la terminologia
tradizionale, i tré aspetti della dottrina cristiana del tempo vitale
si chiamano archeologia, escatologia e cairologia.
Il presente studio parla de J Novissimi; tenta di
fornire uno schema della dottrina circa il fine e ciò che al fine
succede:
morte, giudizio, purificazione dopo la morte,
resurrezione ed ~7t eternità... Uno schema, ma, a vero
dire, neppure tanto: infatti questo studio non abbraccia tutto il
complesso dei rapporti, ma unicamente alcuni punti di vista sotto i
quali l'oggetto si fa più chiaro ed intelligibile. L'escatologia
cristiana parla di cose che sono, in parte almeno, molto remote
dall'animo contemporaneo:
il mutarsi della scena del mondo e del senso della vita,
dei cri-teri umani ha suscitato soprattutto a questo riguardo molti
problemi e molte opposizioni. Così questo studio non poteva prendere in
esame il tutto, ma unicamente le linee generali, vale a dire il rapporto
tra la dottrina rivelata, che è al disopra del tempo, e la nostra
posizione spirituale.
LA MORTE
L AFFERMAZIONE DEL CRISTIANESIMO
nel breve spazio di questo primo capitolo si parlerà
della dottrina cristiana intomo alla morte: argomento grave e non
facilmente esauribile, per cui sarà bene mettere subito in evidenza
ciò che distingue nel modo più radicale il concetto cristiano della
morte dalle interpretazioni abituali.
uomo il peccato entrò nel mondo e, per il peccato, la
morte, così a tutti gli uomini trapassò la morte, dacché tutti (in
quel primo) peccarono » (V 12). Il lettore d'oggi inclina anzitutto a
interpretare questo passo in un senso molto vago: da un punto di vista
etico, come .a dire: Adamo, commettendo ingiustizia, finì per recare
intimo danno a sé ed ai suoi discendenti ; o da un punto di vista
vagamente religioso: andando lontano da Dio, turbò la vita dell'anima
... Ma l'affermazione riferita sopra va invece intesa con precisione
assoluta.
La cosa appare in tutta la sua chiarezza specialmente se
la si confronta con l'altro passo importante circa la morte, che si
legge nel secondo capitolo del Genesi : « II Signore Iddio prese l'uomo
e lo collocò nel paradiso di delizie, affinchè lo coltivasse e lo
custodisse, e gli intimò : Mangia di ogni albero del paradiso, ma non
mangiare del frutto dell'albero della scienza del bene e del male,
poiché in qualunque giorno ne mangerai, indubbiamente morrai »
(15-17).
Nella parola dell'apostolo è tramandata quella del
Genesi, ed entrambe esprimono la stessa cosa: che, originariamente e
secondo la mente del Creatore, l'uomo non sarebbe dovuto morire.
Al lettore moderno quest'affermazione appare anzitutto
sem-
plicemente un nonsenso. La scienza gli ha insegnato a
riguardare la morte come una necessità di natura, e così egli sente il
morire come qualche cosa che appartiene all'essenza della vita. Anzi in
questi ultimi decenni abbiamo assistito a tali e tante cose intorno alle
quali vi sarebbe parecchio da dire, e che appunto potrebbero essere
qualificate come una capitolazione di fronte alla morte... Questa
obbiezione dell'uomo moderno deve essere esaminata, poiché ciò che la
rivelazione contiene è bensì un mistero, ma non una fiaba. E' verità
divina che trascende, sì, la nostra ragione, ma è verità. La
coscienza non è mai lecito lasciarla nell'impressione che la facoltà
naturale di conoscere sia costretta per autorità divina ad affermare un
nonsenso; anzi deve sentirsi sopraelevata a un intendimento più alto e
genuino, per quanto arcano.
La morte è l'ultimo della vita umana, ma nel
vivente l'ultimo è sostanziale. La nostra esistenza rappresenta
una struttura in cui la fine appartiene al tutto. Questa fine non è del
genere delle ultime gocce che stillano da un recipiente : il proprio di
queste sta unicamente nel fatto che dopo di esse non ne vien più nulla;
quell'ultimo invece decide di quanto precede. Tutto è bene, dice
un proverbio, ciò che finisce bene. Inteso superficialmente vuoi dire
che, quando almeno la fine va bene, tutto in certo qual modo si
raggiusta. Inteso seriamente vuoi dire che, quando la fine riesce bene,
è in forza del tutto che riesce bene, e nella retta fine il tutto
acquista valore definitivo. Sono le ultime note di una melodia
che le conferiscono il suo carattere; è l'epilogo di un dramma che
mette in piena luce la personalità del protagonista; così è la morte
che guida la vita dell'uomo al suo pieno compimento (Voll-Endung) nel
bene o nel male.
E allora come può dire Paolo che senza il peccato non
vi sarebbe stata morte? Rispondiamo anzitutto che una fine certamente vi
sarebbe stata; la grafica della vita avrebbe avuto il suo scioglimento e
di qui la sua definitiva valutazione; questa fine però non sarebbe
stata la morte che noi oggi conosciamo.
IL FENOMENO DELLA MORTE E IL SUO SIGNIFICATO NATURALE
Come sarà mai? Detto ancora una volta: la morte non è
soltanto connessa con la vita come la conclusione di un dramma insipido
che può conchiudersi in qualunque modo, ma sorge dalla sua intima
struttura e dal suo sviluppo. Anzi, veduta esattamente, la morte non sta
affatto solo al termine della vita, ma la pervade in tutta la sua
estensione, tant'è vero che si è definito la vita quel
movimento che mette capo alla morte.
E come ammettere allora che la morte non sia una
necessità?
Per dare alla risposta il suo pieno valore
rendiamoci esattamente conto di tutta la portata di ciò che si chiama morte.
La morte ha il suo primo fondamento in ciò che, con una
espressione impropria, si potrebbe chiamare la morte fisica. Tutto,
anche il mondo inanimato, consiste in figure, poiché non si danno da
nessuna parte puri complessi di facoltà o di atti. Ma ogni figura si
sfalda : alcune, come la forma di un'onda nell'acqua, sono del tutto
fluttuanti; altre, come quelle di un cristallo o di un monte o di un
corpo naturale, durano molto a lungo; tutte però, presto o tardi, si
sciolgono.
Il termine morte non assume il suo vero senso che
dinnanzi al vivente. La morte biologica significa che nella
realtà dell'essere vitale in .questione le energie della sua struttura
e della sua autoconservazione cedono, gli elementi soggetti alla
caducità non possono più essere normalmente segregati, ne i nemici
tenuti efficacemente a distanza. Così la morte è il resultato finale
di una trasformazione nell'economia interna del vivente, che principiò
già nello stato iniziale.
Si può parlare anche di una morte psicologica,
per significare che un uomo si difende, sì, contro il morire, come
nell'essere vitale non è possibile diversamente, ma questa sua
resistenza non procede più dall'intimo. In fondo costui non ha più
voglia di vivere. Non prova più nessuna soddisfazione a vivere. Non gli
rende più... Anche questa conseguenza estrema si è venuta preparando
fin dall'inizio, poiché ogni minuto l'animo si frustra, Quel tutto
vitale, poniamo, che si chiama infanzia, passa per
far posto all'età giovanile; questa, a sua volta,
tramonta mentre l'uomo matura. Il tutto della vita non consiste in un
tratto uniforme, ma ih diverse figure, in se stesse compite, una delle
quali è incessantemente in atto di declinare affinchè l'altra trovi il
suo posto. Così avviene che non di rado noi ci scopriamo a non
raccapezzarci più nel nostro stesso passato. Cerchiamo di rintracciare
qualchecosa che ci era caro — un paesaggio, un libro, un uomo — e ci
avvediamo che non ci dice più nulla. Pure là qualchecosa è morto.
Un'idea che ci entusiasmava può perdere la sua luminosità; un motivo
che una volta era forte può estinguersi. Anzi, a più attento esame,
noi vediamo che il rapporto dell'uomo alla vita presenta un carattere
addirittura contradditorio, e non implica unicamente il desiderio della
conservazione, ma anche quello del disfacimento. Quest'ultimo è sempre
in opera e si manifesta nella curiosa, tendenza a provocare dolore a se
stesso; a straniarsi dagli altri uomini; a compromettere il Dronrin
lavoro • a tnf-tn im /'r>n-ii->l<»c.o^. ^4; -i*.,.;
n**»^-":-—„—..-;
del genere. £ tutto un morire al mondo psicologico,
tanto più penetrante quanto più debole è la forza intcriore della
difesa.
Vi è finalmente ciò che si potrebbe chiamare la
morte biografica. Ogni vita umana è costrutta su determinati
motivi. Ora può darsi che questi si estinguano senza che ne vengano
trovati degli altri... Quella donna ha messo su la sua casa e dato vita
a molti bambini; questi sono cresciuti, lasciano la casa patema e
fondano la loro propria. Ammettiamo così che quella donna non sia
indispensabile alla sua casa, ma d'altro lato neppure in grado di
crearsi una nuova cerchia d'azione, ne di compensare l'inazione estema
con un'attività ulteriore: la sua vita allora, dal punto di vista
biografico, è al termine. La sua linea si è chiusa; ciò che ora segue
non è che una resa dei •conti con la realtà... Oppure quell'uomo: ha
investito nella sua azienda tutto il suo — se stesso e i suoi averi
— ma un giorno è costretto a riconoscere che, proprio per fedeltà a
questa azienda, deve ritirarsi, poiché un altro può giovarle di più.
Se ora egli non trova più nulla che valga il merito di un nuovo inizio
o conferisca al suo ozio un senso spirituale umano, la sua vita, dal
punto di vista biografico, è parimenti conchiusa, per quanto longeva
possa ancora protrarsi.
... E quante altre cose ci sarebbero da dire intorno
alla morte ! Ma quel che si è detto fin qui dimostra già chiaro quale
peso essa abbia sul complesso dell'esistenza, e come s'insinui in ogni
parte di questa esistenza stessa.
Come ce ne tiriamo d'affare?
Vi sono varie risposte.
La risposta del positivismo. S'incontra specialmente
presso alcuni cosidetti realisti, e si è foggiata la sua espressione
soprattutto in quelle raffigurazioni del mondo che sono determinate
dalle scienze naturali e dalla tecnica. Per essa il morire è
qual-checosa di naturale. L'uomo è un essere vivente ne più ne meno di
tutti gli altri viventi, con l'unica differenza di essere organizzato in
forma più elevata. Ora, ogni vivente essendo soggetto alla caducità,
la morte rientra perfettamente nell'ordine delle cose. L'uomo deve
persuadersi che è così e prendere posizione di
frnntf aH'inpvitahilf" rnmp mpo-Kn rmn •
/'<-in erpeti-» l-n-nrn <-I; wi»m-»_
nimità o di eroismo o di rassegnazione, per lo meno con
decoro.
A questa risposta si oppone quella dell'idealismo. Ciò
che essa intende è più un sentimento che un pensiero, e a parole non
è facile esprimerlo. Si trova anzitutto nelle tragedie dei nostri
classici, dove l'eroe, dopo di aver vissuto lottato sofferto e commesso
errori, finalmente tramonta con il segnacolo della gloria. Ora
sopravvive il sentimento che in questo tramonto aureolato di gloria sia
stata espiata la colpa. Un orizzonte si dischiude, ed è pieno di luce.
Quello che doveva cadere è caduto, ma l'essenziale rifulge in una
specie di immortalità. Non è lecito, certo, investigare troppo da
vicino, che la gloria non lo consente, ma bisogna lasciarlo
nell'indeterminato. La cultura classica ritiene che una realtà
nobilmente vissuta e creata non' può perire, ma a chi gliene chiedesse
le ragioni non fornirebbe che una risposta approssimativa, con
riferimento a una fede a proposito della quale è lecito domandarsi se
essa stessa la prenda del tutto sul serio.
Tra queste due risposte ve n'è una terza che insegna:
tutto finisce, anche la vita, ed è giusto che sia così : pretendere di
vivere oltre la fine non è solo stolto, ma da vile, e sleale. È
appunto l'austerità della fine che rende luminoso e grande ciò
8 ^
che le sta di fronte. Anzi la morte è la stessa vita,
il rovescio della medaglia, il contromoto, il coronamento, il
superamento della vita. Così, mentre viene recisa, essa è dominata,
anzi assunta con dionisiaco fervore e vissuta come suprema
attuazione della vita stessa.
A un modo di sentire spassionato e verace tutte queste
risposte si rivelano false come quelle che non corrispondono all'intera
realtà, ma sempre solo ad alcuni suoi aspetti determinati;
e a paro con la sostanza di cui si tratta non reggono,
ma deviano in una parvente austerità o in una falsa spiritualità o in
una boriosa e vuota esaltazione della vita. La verità è qualchecosa
d'altro. Non la morte, ma la vita è l'ultimo.
Questa consapevolezza permea le risposte che sono state
date attraverso. i secoli dalle religioni dei diversi popoli. Ad
esclusióne di una sola — la religione buddistica nella sua forma
meridionale — tutte accennano a rispondere al problema della morte con
la rappresentazione dell'eternità. Esaminando poi con maggiore
attenzione le cose, si constata che questa « eternità » intende dire
che ciò che prima era circoscritto nel tempo procede ora
indefinitamente. Molto, nell'uomo, esse dicono, è transitorio, cioè
tutto ciò che è connesso alla sua compagine fisica (der Leib) e alla
immediata realtà delle cose. Questo cade ... Vi è però anche
dell'eterno: la configurazione essenziale, l'io nascosto, l'anima.
L'anima, altrimenti dal corpo e dalle cose palpabili, è semplice,
indistruttibile, misteriosamente vibrante di energie. Lasciato lo spazio
dell'esistenza terrena, essa entra in un ambito di valori essenziali
inesorabilmente rigorosi (in eine Sphare schauervoller Eigentlichkeit),
dove riceve una vita nuova, sottratta alla morte, destinata a non mai
perire.
Questa risposta ha una portata completamente diversa
dalle precedenti, per quanto esse amino sentirsi superiori; corrisponde
assai di più all'intima consapevolezza dell'uomo ed è ben altrimenti
all'altezza di ciò che l'esistenza realmente è. A un esame più
attento la si riscontra perfino, in una forma indeterminata, dietro le
varie risposte scientifiche o filosofiche, e vi apporta il contributo
del suo suffragio. Ciò infatti che può lasciare tranquillo nella sua
convinzione il positivista, l'idealista, il tragico
della vita — presupposto che in questi casi si tratti
realmente di una convinzione di cui non soltanto si parli o scriva, ma a
cui si sia votati per la vita e per la morte — è l'occulta speranza
di una vita misteriosamente duratura.
La risposta religiosa viene data in diversi modi e con
diverse rappresentazioni di carattere metafisico e mitologico. Guardando
però attentamente, queste rappresentazioni sembrano avere un elemento
in comune: fanno getto della compagine caduca dell'uomo (der Leib) per
mettere invece allo stesso livello la vittoria sulla morte e
l'immortalità dell'anima... A uno stadio molto anteriore non è
probabilmente ancora così, e quelle indicazioni che noi propendiamo a
rendere con la parola anima intendono in realtà qualche cosa
d'altro: un duplice aspetto dell'essere umano nella sua integrità,
unitamente a corpo, averi e posizione nel mondo; un curioso rovescio
dell'essere. Comunque, col tempo questa rappresentazione si muta
mettendo in risalto proprio ciò che l'anima spirituale intende in
opposizione al corpo. È l'anima che vince la morte e reca il senso
dell'eterno.
Il Cristianesimo non pensa così. Per lui anche le
interpre-tazioni « spiritualizzanti » o « interiorizzanti » dei
tempi nuovi non mutano nulla. Ciò che a lui preme non è l'anima, non
è lo spirito, ma l'uomo. Il vero problema .della morte non
sta nel vedere se l'anima soccomba o viva eternamente, ma nel
vedere come entri la morte nella vita dell'uomo concreto: se a guisa di
una necessità di natura o di un puro fatto, e in quest'ultimo caso tale
da poter essere superato. A questo problema il messaggio cristiano da
quella risposta strana, inquietante, provocante perfino, e tuttavia
commovente con quella speranza così piena di mistero, di cui si parlava
al principio. •
10 ^
LA MORTE E BL PECCATO
La dottrina cristiana insegna che la morte non è di
immediata evidenza per l'uomo ne tale da sgorgare necessariamente dal
suo modo di essere, e che si poteva evitare. Questa dottrina ricorre nei
brani già citati della lettera ai Romani e del Genesi. Volendo dame nel
modo più conciso il tratto essenziale, possiamo dire: la morte
dell'uomo è soltanto la conseguenza di un fatto. In altri termini: essa
non ha un carattere naturale, ma un carattere storico.
Questa dottrina presuppone una idea dell'uomo, il cui
essere non può esprimersi unicamente con l'ausilio di concetti
naturali. Nel bruto, sì, lo si può: ogni bruto ha una natura la
quale racchiude tutto ciò che appartiene al suo essere, e a norma della
quale crescita maturità decadenza e morte si avvicendano secondo una
forma che raooresenta un tutto ben definito in sé. Non così nell'uomo:
l'esistenza umana non si esaurisce nello sviluppo e nel compimento di
una natura, ma nell'effettuarsi di una storia. Così
l'uomo incontra l'Essere, al di fuori di sé; prende posizione, lancia
iniziative, traffica ed opera. In questo incontro si determina a volte
il suo proprio essere. La natura umana è risultato e insieme
presupposto dell'incontro. Il suo tutto non sta al principio, ma alla
fine. La forma dell'esistenza umana non cresce da sé per poi, mettendo
fine, ritornare in se stessa; la linea che esprime graficamente il suo
carattere non è il cerchio che si chiude in se stesso, ma l'arco
proteso, al di là, verso Uno che gli viene incontro. Non peraltro solo
così (questo infatti si verifica anche nel bruto il quale, pure lui,
vive in rapporto scambievole con gli oggetti che gli stanno intomo), ma
con vero e proprio potere di iniziativa. Per il bruto gli oggetti che
gli stanno intomo sono soltanto il suo ambiente, la proiezione del suo
profilo singolo, seppure non va detto che quella figura, di cui in fondo
si tratta, sia un tutto risultante dal singolo essere e dall'ambiente.
In ogni caso questo tutto, determinato fin da principio, si risolve
nella natura. L'uomo, al contrario, come si diceva sopra, ha vero e
proprio potere di iniziativa. Egli è signore delle sue azioni e
orientato verso il suo mondo estemo
11
m un modo impossibile altrimenti che a lui. Egli solo è
capace di incontro, anzi dai suoi incontri rientra sempre con aumento di
perfezione.
Ma l'incontro decisivo è rincontro con Dio, poiché Dio
è il reale per definizione e il valore per essenza. In questo incontro
soltanto, e solo a patto di viverlo rettamente, l'uomo diviene quel tale
essere quale lo ha voluto il Creatore.
Secondo la dottrina che ci viene dalla Sacra Scrittura
l'uomo, creato in un alto grado di perfezione, fu posto con questa
perfezione a una prova. Il paradiso, di cui parla la Scrittura, esprime
quella perfezione; l'albero nel paradiso è la figura della prova. Dal
divieto di cibarsi dei suoi frutti si doveva decidere se l'uomo era
pronto a protendere oltre l'arco della sua esistenza, in obbedienza e
fortezza, fino a Dio. Se avesse sostenuto la prova, se avesse fondato la
sua vita nell'ai di là, in base al precetto
rti,nnr> r.o11'^kk^^l;™~~ - --11- ---^___.___;.
L^^v- JdIL» i\-uc,
la
morte non avrebbe turbato la sua esistenza.
Questa dottrina è come una pietra di paragone: per
rapporto ad essa si decide che atteggiamento assume l'uomo rispetto alla
rivelazione: se vi scorge soltanto qualchecosa d'indeterminato, di
confortevole per la religione e di edificante per la morale, o se invece
ne riconosce tutta la serietà rivoluzionaria. Le prime parole del
messaggio cristiano dicono: «Fate penitenza, poiché il regno dei cieli
è vicino » (Mt IV 17). Il monito alla penitenza, alla conversione, è
inteso — e dapprincipio a buon diritto — in senso morale: chi lo
ascolta deve abbandonare il male e volgersi al bene, rinunciare alla
propria volontà perversa e assecondare la santa volontà di Dio... Ma
questo non è che l'inizio della conversione. Di lì essa deve
estendersi a tutta la vita, anche alla vita dell'intelligenza. Questa
pure deve convertirsi, capovolgere la sua forma mentale. L'uomo deve
riconoscere di essersi costruito, in base alla sua propria volontà,
l'immagine del mondo e quella di se stesso. Deve stimare la rivelazione
per quello che è : pensare che in essa Iddio, che è più grande del
mondo, anzi in realtà Colui che unicamente è e vale, si
rivolge all'uomo invitandolo a stabilire con Sé un rapporto superiore a
tutte le possibilità escogitabili da lui stesso o dal mondo. La
12 -
fede consiste appunto in questo riconoscimento e in
quest'accet-tazione. Di lì poi sorge una impostazione nuova
dell'esistenza, e il rendersela familiare porta appunto alla conversione
dello spirito.
A quel rapporto appartiene ancora una nuova valutazione
dell'uomo, che non è più un essere vitale come tutti gli altri,
piantato e limitato nella sua natura, ma ha un'esistenza di carattere
particolare che si attua con riferimento a Dio e da Dio. E siccome una
realtà è tanto più in pericolo quanto più sale di grado, questa
esistenza dell'uomo versava particolar-mente in pericolo.
L'uomo cedette alla prova. Non volle lanciare l'arco al
di là. Volle essere come Dio, vale a dire volle fare da sé e
per sé. Così l'arco s'infranse, e l'espressione di questa frattura fu
la morte.
Anche se l'uomo non avesse peccato, la sua vita, per il
fatto stesso di appartenere al tempo, avrebbe toccato la sua fine, ma
questa fine non sarebbe stata la morte quale noi conosciamo. Non
essendosi praticamente attuata, noi non siamo in grado di dire che forma
avrebbe assunto. Tutto quello che possiamo dire è che ci sarebbe stata
una fine, la quale sarebbe stata a un tempo inizio passaggio e
mutazione.
Il fatto poi che il primo uomo cadde, perdendo le grandi
promesse insite alla sua esistenza, fece stato per tutti. In questo —
contrariamente a quanto l'idealismo pensa — non vi è nessuna
ingiustizia. Oggigiomo, che incominciamo a sentire più profondamente i
rapporti nei quali l'individuo si trova nel quadro sociale, lo vediamo
meglio. Quel primo non era soltanto la cifra iniziale della serie
degli uomini, ma il capostipite della stirpe; così egli coinvolse con
sé il tutto, e la sua decisione personale segnò il destino di tutti.
Con questo primo atto ebbe inizio la storia dell'umanità, la quale —
come dice Paolo — soggiace alla colpa e alla morte : « Come per un
sol uomo il peccato entrò nel mondo e, per il peccato, la morte, così
a tutti gli uomini trapassò la morte, dacché tutti (in quel primo)
peccarono » (RV12).
13
IA MORTE E LA REDENZIONE
Tale, dunque, è la risposta del Cristianesimo al
problema della morte: audace, inquietante, provocante. Per ammetterla ci
vuole proprio una conversione dello spirito; quando però questa
soccorre, quando lo spirito l'accetta, anche la stessa esistenza terrena
ne è illuminata. La rivelazione viene da Dio e dev'essere accolta in
ispirilo di fede, ma allora appunto essa chiarifica pure l'ambiente.
Esperienze che non venivano a fuoco;
cognizioni che non riuscivano a farsi strada nemmanco
sul terreno dei valori puramente umani, ora trovano il loro diritto.
All'affermazione che non vi dovrebb'essere morte la mente educata allo
spirito moderno reagisce dapprima con stupore e di-.sprezzo. Non è
però che la prima reazione, poiché se il suo senso 'di verità è
vigilante riconosce di aver già avuto esso stesso analoghe sensazioni.
Infatti l'uomo porta in sé la ribellione contro la
morte, il che non significa unicamente quello star sul chi vive che si
riscontra anche nel bruto sollecito di difendere la propria esistenza,
ma la ribellione dello spirito che, non potendo afferrare il
senso della morte, non può neppure ammetterne il fatto. Questa
ribellione non significa nemmeno che l'uomo si faccia delle illusioni
sulle asserite necessità biologiche o di altra specie, ma che per lui
tutta quella disposizione di cose per cui con la morte vanno fatti i
conti non è che un disordine. Tanto meno questa protesta indica viltà
d'animo o mancanza di preparazione, se necessaria, a impostare la
propria vita. L'uomo può essere valoroso e pronto ad ogni sacrificio,
fino al sacrificio della vita, ma questo senso di ribellione contro la
morte come tale deve sopportarlo.
Si sente dire, sì, e si legge in poesia che un tale ha
affrontato la morte calmo, ebbro, intrepido o sublime, sempre a ogni
modo intimamente convinto, con intimo moto di spontaneità, ma chi sa
qualche cosa effettivamente di vita e morte si rifiuta di crederlo. Vi
è, senza dubbio, una morte rassegnata, una morte coraggiosa, una morte
serena, una morte entusiasta: basti riflettere che andare dignitosamente
incontro alla morte è uno dei compiti
14
più importanti che siano assegnati all'uomo, e
sacrificare la propria vita per una grande impresa o per una persona
amata è segno di un animo sovranamente nobile, ma ciò di cui si tratta
qui — se cioè la morte si possa affermare con serena ponderazione e
con giudizio maturo come avente in sé la sua ragion d'essere — è
tutt'altra cosa. Tant'è vero che la risposta non è affermativa. Il
pane, la luce, la verità, l'amore hanno in sé la loro ragion d'essere,
ma la morte dell'uomo no.
Il Cristianesimo sa che la morte, in sé e come tale,
— non la fine, una fine, nel senso indicato sopra — non ha una
spiegazione sua propria, e giustifica l'opposizione che sorge contro di
lei. Nello stesso tempo però riconosce anche la sua realtà e le
conferisce tutta la sua asperità, respingendo ogni tentativo di velare
quest'asperità mediante un'interpretazione dionisiaca della vita o
mediante la prospettiva della elevatezza dei valori per i quali la vita
può venire immolata. La morte non è ne la fidata involuzione della
terra di R. M. Riike (« der trauliche Einfall der Erde ») ne il
culminare della vita intrawisto da Holderlin ne qualche altra cosa del
genere, ma la dura fine. Non procede dall'intima necessità
dell'esistenza umana, ma dalla colpa — dalla colpa di tutti che è
pure colpa del singolo — e morir bene significa mettersi in linea
dinnanzi a questa realtà e sborsarne il debito fino all'ultimo.
Prima cosa. Ma poi .il Cristianesimo sa ancora
qualchecosa d'altro. La lettera ai Romani dice nel medesimo
capitolo citato sopra : « Se con il fallo di quel solo la morte regnò
per colpa di quel solo, molto più quelli che ricevono l'abbondanza
della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per virtù
del solo Gesù Cristo. Sicché dunque, come il fallo d'un solo su tutti
gli uomini a condanna, così anche la giustizia d'un solo su tutti gli
uomini a giustificazione di vita. Come cioè per la disobbe-dienza d'un
sol uomo peccatori costituiti furono i molti, così anche per
l'obbedienza d'un solo giusti costituiti saranno i molti » (R V 17-19).
Un che di nuovo avvenne della morte, quando Cristo vi si
abbandonò. Egli morì di una morte così dura e così reale come quella
di nessun altro, poiché la morte diviene tanto più morte
15
quanto più alta è la vita alla quale essa mette fine.
Essendo vissuto in un grado di vitalità e di nitóre al quale a nessuno
tra gli umani è mai dato arrivare, Cristo morì come nessun uomo mai.
D'altro lato è però anche vero che Gesù non fa mai parola della sua
morte senza aggiungere che risorgerà. Così nell'ultimo viaggio a
Gerusalemme : « Gesù cominciò ad indicare ai suoi discepoli come
dovesse andare a Gerusalemme ed ivi molto soffrire dagli anziani e
scribi e gran sacerdoti, ed essere ucciso, e risuscitare il terzo giorno
» (Mt XVI 21). Quella morte che doveva tener dietro al peccato, in
quanto appunto sequela del peccato, vale a dire la nuda morte, nella
consapevolezza che Gesù ha della vita, non c'è. La sua morte non fu
che il transito per cui la sua vita passò dal tempo all'eternità. E
non soltanto la sua anima, ma, dacché risorse da morte, tutto il suo
essere umano.
Il termine di resurrezione non toma meno estraneo
ai tempi moderni di quello di morte, nel senso che la morte non fosse
necessaria. Esso si riscontra bensì nelle nostre lingue come eredi di
una credenza di tempi andati, ma ha preso un altro senso. Parlando di
resurrezione, il linguaggio corrente intende indicare il fenomeno che si
compie quando, a primavera, dopo i rigori invernali, erompe dappertutto
la vita, o quando in un uomo, dopo una pausa intcriore, si ridesta uno
stimolo nuovo. Resurrezione, in altre parole, rappresenterebbe uno dei
tanti momenti della vita in genere, una pulsione di diastole dopo una
precedente di sistole ... Ora la dottrina cristiana circa la
resurrezione di Cristo e, per Cristo, dell'uomo redento, non ha nulla a
che vedere con queste cose. Ha un senso radicalmente' diverso, assai
più preciso e tutto nuovo. Essa insegna che Cristo, dopo esser morto,
è risorto nella onnipotenza sovrana del Dio vivente, a nuova vita, e
precisamente a una nuova vita d'uomo. Non soltanto che la sua anima
fosse immortale e avesse ricevuto nell'eternità uno splendore divino;
neppure soltanto che la sua immagine e il suo messaggio siano divenuti
forza generatrice di vita nei cuori di coloro che credevano in lui, ma
che il suo corpo, dopo esser morto, tomo a nuova vita, e in modo ancor
più elevato; che la sua anima, per virtù dello Spirito Santo, ne
investì, trasformandolo, il corpo; che Lui, nella plenitudine
16
del suo
essere umano-divino, fece il suo ingresso negli splendori eterni.
Questa dottrina poi non è affatto l'eco di una leggenda
destinata a esaltare chicchessia, ne la mitica edificazione postuma di
una vita trascorsa in modo puramente umano, ma originale in tutto e per
tutto. L'annunzio della resurrezione di Cristo pervade sostanzialmente
tutto il vangelo come quello della sua morte liberatrice; il fatto che
egli è risorto, non meno essenzialmente di quello, puro e semplice, che
egli è vissuto. A questo riguardo Paolo dissipa, se ce ne fossero, ogni
e qualsiasi dubbio:
« Se Cristo non è risorto, vuota è dunque la
predicazione nostra, vuota anche la fede vostra; e ci troviamo anche
testimoni falsi di Dio, perché testimoniammo contro Dio che Egli
risuscitò Cristo, mentre non lo risuscitava, se veramente dunque i
morti non risorgono. Se infatti i morti non risorgono, nemmeno Cristo è
risorto. Ora se Cristo non è risorto, vana è la fede vostra:
tuttora siete nei peccati vostri. Dunque anche quelli
che si addormentarono in Cristo perirono. Se in questa vita solo riposto
abbiamo la speranza in Cristo, i più miseri siamo tutti » (I C XV
14-19). Non vi è Cristianesimo senza la resurrezione di Cristo. Ovvero
senza resurrezione il Cristianesimo sarebbe tale cosa da rendere chi
abbia seriamente il culto della conseguenza « più miserabile di tutti
gli uomini ».
Con la morte e la resurrezione di Cristo si è operato
realmente nella morte una radicale trasformazione: cessò, la pura
morte, di essere la pura esecuzione della giustizia divina, la dura
fine, oltre la quale non vi sarebbe più altro di un'«
indistruttibilità dell'anima ». La morte di Cristo ha conferito alla
morte un altro carattere che, a sua volta, ne fa, non già secondo la
forma, ma secondo'il senso, ciò che avrebbe dovuto essere la fine del
primo uomo : il passaggio a una nuova eterna vita d'uomo.
La morte di Cristo fu sopportata per noi e sta, da
allora, nel mondo, lo voglia o no il mondo, come un fatto; anzi, con la
incarnazione e con la resurrezione, come i7 fatto per eccellenza.
A questo fatto, che tutto intende, l'uomo può credere, vale a dire ha
facoltà di attingere. È la sua redenzione :
«Dov'è, morte — chiede animatamente Paolo — la tua
vit-
I7
//
tona? Dov'è, morte, il tuo pungiglione?» (I C XV
55). Il pungiglione è il carattere che la morte ha quando
non è altro che la conseguenza del peccato, la nuda fine. Questo
carattere, oggettivamente, e intenzionalmente per tutti, è tolto; e
può essere tolto per ogni singolo non appena il singolo entri nel corpo
mistico, la comunità — con Cristo — di coloro che credono in lui.
La medesima lettera dice ancora : « Ma ecco, Cristo è risorto da
morte, primizia dei dormienti. Poiché infatti per un uomo la morte,
anche per un uomo risurrezione da morte. Perché come in Adamo tutti
muoiono, così anche in Cristo tutti rivivranno» (I C XV 20-22). E la
lettera ai Romani, penetrando ancora più profondamente nel mistero : «
O ignorate che quanti battezzati fummo in Cristo Gesù, nella morte sua
fummo battezzati? Consepolti dunque fummo con lui per il battesimo nella
morte, perché come ridestato Cristo da morte fu dalla gloria del Padre,
così anche noi in novità di vita si cammini » (R VI 3-4)... già ora
nella misura in cui si è risvegliata in noi attraverso la fede e il
battesimo, la nuova vita che investe corpo ed anima; un giorno poi in
piena ed aperta misura, quando essa, nella resurrezione, penetrerà,
trionfando, i cieli.
Abbiamo assistito qui a un capovolgimento radicale. Ma
con questo non si vuoi dire che si sia trovato un rimedio contro la
morte (sarebbero sortilegi) ne, tanto meno, che sia stata scoperta una
nuova etica della morte (sarebbe solo un avanzamento verso un più
nobile valore umano) : la realtà della morte rimane, ma — stando
ormai, anche al di là della nostra morte, la resurrezione — la morte
è entrata in un nuovo rapporto con la vita e s'è risolta in un
transito a una vita nuova, divinamente piena, eternamente umana.
18
• IL SENSO CRISTIANO DELLA MORTE
Che cosa è dunque, veduta cristianamente, la
morte?
Chi muore sperimenta la suprema conseguenza del peccato;
s'incurva sotto la piena responsabilità per
l'agire dell'uomo;
assume per sé verità e giudizio. Non però disperato e
indifeso, ma assunto egli stesso nella redenzione operata dall'amore di
Dio. Ora la morte non è più soltanto l'incubo tenebroso che il peccato
porta alla sua conseguenza estrema, ma fa piuttosto partecipare l'uomo
al rinnovamento per cui la munificenza di Dio ha tratto dalla fine un
nuovo principio, transito a vita nuova.
L'arco di cui parlavamo riappare. Il rapporto
dell'essere umano, al di là, a Dio e, dall'ai di là, da Dio, è
ripristinato in Cristo. Ne soltanto ripristinato, ma in forma nuova,
portentosa, corrispondentemente all'incarnazione del Figlio di Dio. A
questa forma, nella fede, dobbiamo prendere parte pure noi; non da noi,
quasi ne potessimo vantare un diritto, ma per grazia. Sempre, a ogni
modo, in realtà, che l'esistenza cristiana — come Paolo non si stanca
di ricordare — è precisamente un vivere di Cristo nell'uomo e
dell'uomo in Cristo. In Lui si ripristina anche per ognuno di noi l'arco
proteso al di là; la morte sono le tenebre che quell'arco squarcia.
La nuova vita a cui la morte introduce non è la pura
persistenza dell'anima che, spirituale, è per ciò stesso
indistruttibile. In questa ipotesi la morte sarebbe ciò che Piatene
pensava di lei : l'uscire alfine dalle limitazioni e dai gravami del
corpo alla libertà di un'esistenza puramente spirituale... Ciò che
Cristo ha conquistato e annunziato significa qualche cosa d'altro, di
proporzioni divine, e nello stesso tempo sommamente familiare al più
profondo del nostro animo: la salvazione non soltanto dell'anima, ma
dell'uomo; il suo rinnovamento in virtù della potenza creatrice di Dio.
La morte è là a prestar garanzia della verità sacrosanta di questa
salvazione e di questo rinnovamento. Senza di lei il contenuto del
messaggio non sarebbe che fantasia. La morte di Cristo è la base da lui
stabilita per un effettivo rinnovamento dell'essere umano; la nostra
morte è la base della lealtà con cui noi vi prendiamo parte.
19
La nuova vita, che ha da venire dopo la morte, non è la
pura proiezione della vita terrena nel regno dell'ai di là; non un puro
appagamento della volontà primigenia di vivere. In tal caso la morte
non sarebbe che il passaggio da una forma di vita ad un'altra, una
mutazione dovuta alle leggi determinanti dell'essere, un po' come il
processo, poniamo, per cui la farfalla si sprigiona dalla crisalide. che
si disfa. Ciò che Cristo ha operato e annun-ziato non è affatto una
necessità ontologica dell'uomo, ma grazia. La nuova esistenza procede
come dono dalla libera azione crea-trice di Dio, e con ciò stesso anche
come perfezionamento dell'uomo, il cui mistero è appunto nel fatto di
sussistere, in fondo, non in virtù di una legge, ma dell'incontro con
Dio e con la sua amorevole libertà. La morte è la rigida barriera che
tien separata questa libertà di amore da ogni arbitrio giocoso. La
morte di Cristo è l'espressione della serietà di un Dio che ama;
la nostra morte, l'espressione della serietà dell'uomo
amato da Dio.
La nuova vita, che ha da venire dopo la morte, getta le
sue radici nel rapporto personale a Cristo. La differenza è difficile a
cogliersi, molto più che concetti e parole devono essere applicati ad
un nuovo carattere. Ciò che sta al di là della morte non
rappresenta punto una superstruttura di ciò che è al di qua o
un semplice riflesso di pensiero etemo o un aprirsi e un offrirsi della
profondità divina o altro del genere, ma è tutto portato dalla persona
di Cristo. La vita etema è una compartecipazione alla Sua vita, alla
quale Egli ebbe accesso attraverso la Sua morte. Se la vita etema è
possibile anche per noi, lo è perché Egli ci ama e ci comprende nel
suo amore. Se poi quella vita ci è realmente elargita e conservata, lo
è perché Egli ci dona la comunanza del suo amore. Per amore di
redenzione egli prese sopra di sé il nostro destino; per lo stesso
amore egli ci fa compartecipi del suo; e nel mistero della fede e della
rinascita noi compiamo ciò che manca alla vita morte e resurrezione di
Cristo.
Così la morte è l'ultima prova di coraggio che ci si
chiede per salire, per mano di Cristo, su verso la grande promessa. In
tutte le ansie e i tormenti, in tutto l'abbandono e il dolore che il
morire può comportare è contenuto il morire di Cristo, ma questo non
è che il rovescio, a noi rivolto, di quel tutto di cui il diritto si
chiama resurrezione. •
IL PURGATORIO
LA DOTTRINA DELLA CHIESA
la
morte mette fine al tempo del volere e dell'agire quaggiù. La vita
vissuta porta con se la decisione in atto e tutto ciò che da questa
decisione è proceduto via via in azioni ed opere. L'uomo esce dal
chiuso dell'esistenza terrena e si costituisce al cospetto di Dio per
assistere al Suo giudizio.
Dio è buono. Anzi è il Bene per essenza. Il Bene non
è una misura di valori che sovrasti a tutto, e quindi anche a Dio, ma
soltanto un nome per Lui. Quando il giovane ricco si presenta a Gesù e
lo chiama maestro buono. Gesù risponde : « Perché mi chiami buono?
Nessuno è buono tranne Dio solo » (Me X 18). Il Bene è semplicemente
Dio, e la richiesta del Bene la Sua volontà vitale. Questa volontà si
rivolge a noi, e domanda di venire eseguita.
È eseguita anche dalla muta natura, ma con necessità,
poiché per essa la volontà di Dio si esprime in precetti, i precetti
che sono la legge della sua consistenza. Per quello che l'uomo ha di
natura, questo avviene anche in lui, ma oltre a ciò l'uomo è persona
e, volgendosi alla persona, la volontà benigna di Dio postula di venire
attuata liberamente. Così la volontà di Dio non può sapere di
coercizione rispetto alla persona. Vale, sen-x'altro, ma lascia campo
alla scelta. Impegna, ma non costringe. È curioso come la buona
volontà di Dio se ne sta nel mondo. Egli è l'Altissimo, il Santo,
l'Uno e il Tutto, e tutto il mondo ha senso a seconda che quella
volontà si adempie o no. Dio vuole che si adempia; lo vuole con
eterna serietà, ed è onnipotente. Nondimeno Egli non può rendere
necessaria quest'attuazione, poiché essa deve compiersi in modo del
tutto Ubero. Così il
21
Signore del mondo, entro lo spazio della sua storia, è
misteriosamente debole. Egli può unicamente ordinare, chiedere,
ammonire, fare dolce insistenza affinchè l'uomo conosca ed operi la
verità da cui dipende il suo salvamento; quanto al resto Egli deve
far posto alla libertà.
Dopo la morte non sarà più così. Quella specie di
siepe, entro la quale la storia del mondo si preclude, cadrà. Cesserà
la possibilità del sì e del no. Avvenimenti ed azioni
non saranno più. Dio si presenterà all'uomo nel suo sacro Io di
un tempo... La elevatezza del bene, in Lui, si immedesima con la
irresisti-bilità dell'onnipotenza. Egli vuole con serietà divina che
il bene si compia: così il suo sguardo sull'uomo diviene giudizio, e il
giudizio condiziona il suo modo di essere e forma il suo destino etemo.
Ecco che cosa vuoi dire: II Signore giudica.
La sentenza di questo giudizio è definitiva, perché è
verità, ed ha, in fondo, due sole forme: acccttazione o riprovazione.
I nostri antenati lo comprendevano subito : essi avevano
il tatto di discriminare ciò che ha valore definitivo da ciò che
non l'ha. A noi moderni invece questa dottrina toma estranea e dura. Ci
siamo abituati a prendere molto sul serio il mondo e a basare sui più
rigorosi criteri l'ordinamento delle cose terrene: così eternità e
destino etemo sono divenuti sempre meno importanti per noi e confinati
in una penembra che noi stessi indichiamo volentieri come espressione di
venerazione quando, più esattamente, non preferiamo chiamarla
indifferenza e viltà. C'è da rimanere sconcertati quando, a
un'occasione qualunque, si vede improvvisamente cos'è che l'uomo d'oggi
prende sul serio, e cosa invece neghittosamente. A volte si ha
l'impressione che le cose, per lui, pesino tanto meno quanto più da
vicino toccano il nerbo della sua esistenza. La rivelazione dice: la
nostra vita, per noi così inetta, ha un senso assoluto, e le azioni
compiute quaggiù decidono della sua esistenza etema. Questo trova la
sua espressione nella dottrina secondo cui la sentenza del giudizio
porta inequivocabilmente o sul premio o sulla dannazione etema.
Ma è detto tutto, con questo, ciò che ci aspetta dopo
la morte? Lo sarebbe se la vita dell'interessato fosse fissata, appunto,
22-
senz'altro nel bene e nel male, ciò che non è. Ogni
uomo rappresenta un mondo assai complesso in cui bene e male vanno di
pari passo; ha da percorrere un lungo cammino, e su questo diritto e
torto s'incalzano.
Questi valori poi — bene e male, diritto e torto —
non possono essere nettamente distinti, ma s'intersecano l'un l'altro in
ogni punto e fino alle radici più intime dell'esistenza. Ben lungi
dall'attuarsi ordinatamente, di tratto in tratto, in tempi bene
determinati, quello che è ora porta in sé il passato e sopravvive in
ciò che verrà domani. Così pure il bene l'uomo non lo compie in modo
perfetto una volta per sempre, ma così che vi si avvicina e poi
indietreggia da capo; lotta, vince, soccombe per principiare di nuovo.
La sua azione ha un carattere ondeggiante e pieno di contraddizioni —
e come mai, allora, potrà cadere sotto un sì o un no con
valore etemo? Dio è l'Assoluto, ma anche il Giusto, e giusto non di
fronte a principi, ma di fronte all'uomo vivo. La sua verità ne
uscirebbe offesa se egli lasciasse sfuggire impunito un male segreto
come se rifiutasse a un'azione buona parimenti nascosta e tutta irretita
di pregiudizi il suo diritto. Quello che vi è di portentoso nel
giudizio di Dio è appunto che esso renda effettivamente giustizia —
ora come conciliarle le cose se la sua sentenza avvinghiasse tutto il
ginepraio della vita umana sotto un sì o un no con valore
definitivo?
. La Chiesa insegna che il giudizio di Dio è bensì
irrevocabile nella sua decisione fondamentale, ma darà all'esistenza
umana, tutta lacunosa e aggrovigliata com'è, la possibilità di
rendersi pura. Il tempo, se così si può dire, si prolungherà ancora
tanto nell'eterno quanto sarà necessario per dare soddisfazione a vera
e genuina giustizia. L'uomo cioè, i cui sentimenti furono accetti a
Dio, ma la cui vita, nel suo complesso, contiene ancora del male, sarà
purificata fino a trovarsi in uno stato che sia degno di una eternità
beata.
La Chiesa fonda questo suo insegnamento su espressioni
della scrittura: così, per esempio, sul secondo libro dei Maccabei (XII
43-45) dove si parla di preci e di sacrifici per i caduti, affinchè
siano liberati dalle loro colpe; sulla parola di Gesù che accenna a un
perdono in questo e nell'altro mondo (Mt XII
23
31-32); sulla parabola dei servi e dei debitori che
vengono consegnati ai manigoldi fino a che tutto il debito sia pagato (Mt
XVIII 34); sul brano della prima lettera ai Corinti (III 11-15) dove si
dice che l'uomo, il quale sulla terra ha lavorato a base di falsità, si
salverà, ma soltanto « così come attraverso il fuoco ». Infine, la
radice principale dell'insegnamento della Chiesa è riposta nel modo
più naturale ed evidente di essere della stessa esistenza cristiana. È
chiaro infatti, se Dio è tale quale egli stesso si è rivelato e se
l'uomo è tale quale si mostra di giorno in giorno, è chiaro che alla
confusionedi questa compagine umana non può venire data giustizia.
La fede nel purgatorio che ci aspetta dopo morte trova
la sua speciale espressione nella vita della pietà cristiana. Già
molto presto nella storia della Chiesa si principia, nella santa messa,
a far memoria dei fedeli defunti e a pregare Dio che si degni assumerli
nella sua comunione. Questa preghiera, come tante espressioni di
sollecitudine per i morti, presuppone che i morti siano bensì
favorevolmente accolti dal Giudice divino, ma che si trovino ancora in
uno stato di transizione.
Il popolo fedele — intendendo con questo termine
coloro che per la irrequietezza del pensiero e per le angustie della
volontà non si sono lasciati andare alla deriva — si sente
profondamente unito ai suoi morti. La stessa parola con cui li designa
abitualmente, i poveri morti, è tutta colma di un'intima
propinquità e di una vigile cura. Questa si apre nella sua pietà un
ampio spazio e, se mai dovesse eclissarsi, succederebbe qualche cosa di
analogo al triste spettacolo dell'agricoltore che, dato addio ai suoi
campi, se ne va a stare in città. L'uomo della città, per l'appunto,
o, se volete, l'intellettuale — questa parola è ben lungi
dall'indurre anche solo intenzionalmente una svalutazione; essa esprime
semplicemente una realtà — ha perduto quella cura per i morti, e
così molte idee e molte tradizioni popolari gli sembrano strane. Non è
lecito uscirne con la semplice osservazione che l'intellettuale non
abbia più una fede profonda: il pregare del popolo per i poveri
morti non è esclusivamente fede in senso cristiano, ma in esso si
perpetua pure il legame dell'uomo, che è ancora sulla terra, con il
regno dei morti. Serbare viva la coscienza di questo legame non dipende
dalla volontà del singolo, ma
24
dall'intensità in cui egli ancor vive i rapporti
ancestrali della società umana. D'altro lato non è neppure lecito
dimenticare che questo conferisce bensì all'esistenza una grande
profondità, ma nel contempo una minaccia: nessuno ignora come vi siano
state delle epoche nelle quali i morti erano più potenti per la
coscienza umana di quanto non lo fossero gli stessi viventi...
L'intellettuale, comunque, non ha più quei legami; così i morti, per
il suo modo di sentire, non appartengono più per immediata evidenza al
mondo della realtà. Il morire è diventato per lui un fenomeno
biologico che riguarda il singolo, per conto proprio, e che ha perso da
tempo il suo mistero; a questo modo il suo rapporto coi morti non è
più determinato dalle profondità dell'anima, ma da motivi riflessi o
sentimentali, e di qui al concepire il culto dei morti con gli ausilii
corrispondenti (immagini, tradizioni, ecc.) come qualchecosa di estraneo
il passo è facile e breve.
Il rapporto coi morti dette pur sempre occasione,
peraltro, a certi movimenti di indole piuttosto discussa e a volte
addirittura macabra. Il motivo va ricercato nel fatto che la morte non
solo edifica, ma anche turba; non concilia soltanto maturità di
riflessione, ma pure dubbi, e al compatimento che suole rispondere alla
notizia circa le pene del purgatorio si accompagna frequentemente anche
del meno buono. Basti, a questo riguardo, stabilire un confronto tra il
modo con cui parlava dei morti il Cristianesimo primitivo e il modo con
cui dello stesso argomento trattava, poniamo, il tardo Medio Evo. Le
rappresentazioni del Cristianesimo primitivo sono tutto trascendenza e
spiritualità: pace e luce, rinascita e vita etema, vittoria di Cristo
su la morte e su l'inferno, e infine giudizio del Dio di verità ...
Più tardi irrompono le immagini della sofferenza, ma di una sofferenza
descritta con tutte le risorse della fantasia per destare la
compassione, e da questa estensione del contradditorio che si cela
nell'animo umano tra bene e male, tutta una serie di inter-pretazioni a
base di sentimentalismo e di sensazioni... Se mai l'errore potesse
generare qualsivoglia giustificazione, qui il nostro intellettuale
avrebbe trovato la sua: infatti è troppo naturale che chi ha smarrito
ogni rapporto immediato con l'ai di là sia maggiormente colpito da
queste aberrazioni, riportando nel suo
25
mondo intellettuale e in quello del sentimento una
instabilità ancora più accentuata... Ma la sua giustificazione non
vale:
il culto dei morti è ormai divenuto uno degli elementi
più importanti della vita liturgica in ispecie e della vita cristiana
in genere, e il suo assenteismo non è più scusabile. Non foss'altro
che per onorare i suoi morti, egli pure deve sforzarsi di cercare un
avvicinamento.
I/INTENZIONE
Riprendiamo una volta ancora e da un nuovo punto di
vista l'ordine di riflessioni contenute nel primo capitolo.
La rivelazione promette che l'uomo redento entrerà un
giorno in comunione con Dio. Per l'incontro con Cristo, per grazia e per
fede, sorge in lui la nuova vita, nascosta fin che il tempo dura,
destinata invece ad erompere non appena sopravviene la morte. Eterna
per natura essa era fin da principio per il semplice fatto di esser da
Dio; poi diviene etema anche per il suo modo di attuarsi, vale a dire
libera dal tempo, puro presente. Ora, se Dio è la stessa Santità, ne
soltanto la purità e la giustizia e il fondamento di ogni bene, ma
Colui che odia e ripudia la cattiveria, la corruzione e la volgarità,
— nulla di inquinato può entrare in contatto con Lui. E allora come
sarà mai possibile che l'uomo sia fatto partecipe di quella nuova vita
di santità?
Alla scuola della fede egli ha imparato a conoscere,
dopo attento esame» la sufficienza dell'uomo per bene o virtuoso o
soddisfatto, sufficienza tanto più artefatta quanto più altezzosa
e che fa tanto più chiasso quanto meno è profonda. Ora ha il coraggio
di voler effettivamente vedere come stanno le cose, non solo in ciò che
è palese, ma anche al di là e al di sotto di queste, nel nascondimento
e giù nel profondo. Ha imparato ad esaminare non soltanto l'azione, ma
anche i moventi dell'azione stessa, e di questi ancora non soltanto ciò
che si può afferrare subito, ma anche le loro ragioni e qualità
fondamentali. Faticose lotte per superarsi e ricadute piene di amarezza,
tante vendette umi-
26 '
liate dinnanzi a Dio, e sopra ogni cosa la voce della
coscienza, suadente e tacita, gli hanno infranto le illusioni proprio
mediante le quali molti cosidetti buoni e stimati mortali
fanno volentieri schermo alla verità. E giunto ormai, a questa quota, a
metter da parte la superficiale albagia contenta di sé e sicura che tutto
andrà bene, egli sente l'impossibilità, così com'è, di giungere
a Dio.
Certo — come ne insegna la fede — è per grazia che
l'uomo può giungere a Dio, non per propria virtù; ma la grazia gli è
assicurata dall'opera redentrice di Cristo. È quindi il perdóno che
lo eleva a novità di vita, ossia quell'atto per cui Dio non riguarda,
nell'uomo, il bene, ma precisamente il male; il volgersi di Dio a noi,
perdonando, con amore regale. In Lui, nella Sua intenzione, è riposto
il nuovo ordine dell'uomo. Verissimo, ma questo perdono e questa
giustificazione devono indicare una realtà, non un sogno. La giustizia
non dev'essere unicamente imputata all'uomo, ma fatta sua; non gli dev'essere
puramente attribuita, ma divenire una cosa sola con lui, con il suo
essere e con la sua più intima volontà. Così il problema rinasce
sotto una nuova forma: è così sua, questa giustizia, e così nuova la
sua vita di grazia da render possibile un'eterna e piena comunione con
Dio?
Ciò che da l'ultima determinazione all'essere-buono o
-cattivo di un uomo è la sua intenzione. Essa emana dalla libertà,
quell'arcana agilità 'dell'uomo in virtù della quale egli, esordendo
da sé, ha potere di determinare un orientamento spirituale. Intenzione
è appunto questo orientamento ulteriore dell'uomo, il modo suo di
pensare, per non dire lo stesso appetito razionale di questo
orientamento, in base al quale appetito la libertà si determina; il
motivo (der Sinn), buono o cattivo, da Dio o da sé, verso Dio o
lontano da Dio, con cui si afferma quel principio che si chiama libertà.
Se l'intenzione è buona, l'uomo è unito a Dio. Non meno giusto, anzi
più giusto, ma « difficile a intendersi » : se l'uomo è unito a Dio,
la sua intenzione è buona. .Così anche il gloria degli angeli a
Betlemme proclama «pace" agli uomini di buona volontà» (L II
14): buona volontà è dono gratuito, grazia, e la pace è
annunziata a coloro che dalla grazia sono toccati; d'altro lato è pure
buon volere, e la lode va a.
27
coloro, l'intenzione dei quali si rivolge a Dio, e che
per questo sono accetti a Dio. Le due affermazioni si integrano
misteriosamente e inscindibilmente (1).
Ora com'è, colta nella sua intima vitalità,
l'intenzione umana? Come si presenta la forza motrice in cui la sua
azione assume un orientamento di valore? Dapprincipio essa ha una forma
che possiamo cogliere immediatamente in noi stessi, vale a dire il fatto
che quell'azione noi la intendiamo riflessamente così o così. Quel
dato di fatto lo possiamo senz'altro giudicare, assumendone
responsabilità. Ma con questo non si esaurisce ancora il tutto. Poniamo
il caso che noi giudichiamo la nostra intenzione: quando,
poniamo, in un'occasione qualunque, tocchiamo con mano che molte cose
nella nostra vita non vanno. Ci esaminiamo, giudichiamo il nostro falso
operato, ci decidiamo per il bene, ma forse nello stesso tempo portiamo
in noi il sentimento molesto: ... «eppure vi ricadrò» ... Fino a che
l'intenzione è in nostro potere, è buona; nondimeno ci stanno sotto
manifestamente delle riserve che noi, per il momento, no, non siamo in
grado di elaborare, ma delle quali ci sentiamo tuttavia responsabili. In
quel tutto che si chiama intenzione si distinguono dunque diversi
strati, e l'attività morale consiste nel conseguire il sopravvento su
quanto vi è di contrario in base a quanto vi è di ordinato e composto.
Cioè, non appena intenzione è presa nella sua interezza vitale,
essa è tutt'altra che penetrabile e governabile a primo incontro: vi
sono degli strati che sfuggono, giù nel profondo e verso l'interno, nel
subcosciente e nell'incosciente. A chi sarà lecito dire di essere bene
intenzionato? La bontà per la quale noi possiamo farci garanti va fino
ai confini della nostra coscienza, non oltre. Oltre si va nell'ignoto.
(1) Questo sia detto per tutto ciò che segue. D'ora in
poi, cioè, non presteremo più soverchia attenzione al fatto per cui
ciò che è « maturo per il regno di Dio » vien dalla grazia e
nello stesso tempo e proprio per questo rappresenta l'azione mediante la
quale l'uomo si costituisce davanti a Dio in tutta la sua propria
personalità, quanto piuttosto baderemo al tutto, quale si offre alla
nostra intima esperienza, per prendere in considerazione in questo tutto
vitale (che comporta giustificazione, santificazione, vita nuova}
un momento, il momento umano: che cosa vuoi dire, visto da parte
dell'uomo, diventar buono ? « Perfetto come è perfetto il Padre
dei cicli », secondo l'esigenza del discorso della montagna? Dove
risiede esattamente la gravita di questo diventare perfetti?
28
II nostro impegno e la nostra lotta di ogni giorno
devono aprire la via a questa rettitudine di intenzione, sempre più
avanti verso l'interno, ma quale impresa a rettificare radicalmente la
volontà !
Ora, quando l'uomo muore e compare dinnanzi a Dio, che
ne è della sua intenzione?
Pensiamo, per esempio, ad uno che dapprima aveva immesso
una falsa rotta, non preoccupandosi affatto di Dio, e solo dopo, molto
tardi, ritornò sui suoi passi. Dio t.occò il suo cuore e, secondo
l'espressione della Scrittura, egli fece sì che gli angeli in cielo
sono tutt'in festa: la conversione. Afferrò cioè la propria intenzione
là dov'era afferrabile, vale a dire nello spazio della sua illuminata
libertà, e la capovolse, e divenne buona. E che dire di ciò che va nel
profondo?
Corrispondentemente la cosa vale per ogni uomo, anche
per « i novantanove giusti che non hanno bisogno di penitenza » (L XV
7). Vale per colui che ricade continuamente, ma non perde l'intima
volontà del bene, e vale per colui che attende senza mai stancarsi alla
sua formazione, con la differenza che questi giunge evidentemente più
in alto...
L AZIONE E L ESSERE
L'uomo dev'essere buono; anzi, secondo il monito delle
beatitudini, dev'esser perfetto: deve cioè, al suo punto
decisivo, là dove prende le mosse la libertà, innestare il buon
volere, la volontà di Dio ; avere rettitudine d'intenzione. Non basta :
pensar bene, decidersi per il bene significa soltanto l'inizio. Non solo
l'intenzione dev'essere buona, ma anche l'azione, anzi l'essere. Importa
che l'intenzione si svincoli da quel campo in cui l'uomo si fissa con
sinistra disinvoltura, per spaziare sotto l'orizzonte delle realtà e
delle forze, irretito bensì di confusione e di contraddizioni; ma dove
l'uomo agisce, incontra uomini e cose e, in questo suo divenire, si
rinforza e tende alla sua 'perfezione. Così, per esempio, io non debbo
unicamente decidermi per la verità, ma dirla.
<r
29
E che significa dire la verità?
Prima di tutto significa che la stessa formulazione
della verità, in sè> sia retta, il che vuoi già dire molto...
Siamo tanto ^ facili a travisare o a dimezzare la verità! Qui dunque vi
è già (/^ molto da fare...
Appresso: la formulazione può essere impeccabile nella
sua struttura grammaticale o fonetica, ma così impostata da orientare
insensibilmente chi ascolta su di un cammino falso. La volontà di
servire il vero avrà quindi cura che l'uditore possa abbandonarsi con
fiducia a quanto è stato detto, come uno che va per via segue con
fiducia un sentiero nettamente tracciato ed aperto. Nei riguardi
dell'interlocutore una dichiarazione può essere pienamente vera, e
nello stesso tempo può essere un mezzo con cui chi parla mette le mani
avanti per impedire, poniamo, che una nozione in atto di maturare
intcriormente gli si riveli, o la sua tendenza recondita alla falsità
segua impunemente le sue vie. In altri termini, la sete della verità
deve farsi sentire per mettere ordine, e così di seguito, in una serie
non interrotta.
Volendo tradurre effettivamente in atto l'intenzione
posta al servizio della verità, bisogna procedere da uno strato
esteriore, facile a dominarsi, e penetrare sempre più in profondità e
interiorità. Questo lavoro non dovrebbe aver termine se non quando
l'intera forza vitale si fosse consacrata a quell'intenzione e la
veridicità avesse dominato i più reconditi impulsi: non soltanto i
riflessi, ma anche gl'involontari ; non soltanto quelli che sono aperti,
ma anche quelli che sono subdoli, incerti, sub- ed in-co-scienti; tutta
la profondità dell'animo umano con ciò che esso cela di oscuro,
contradditorio, sedizioso e malsano, dove il nostro sguardo,
direttamente, non potrà mai giungere... A chi sarà lecito dire, in
questo campo, di esser sincero? E in morte come si disvela agli occhi di
Dio?...
Ma riprendiamo un'altra volta il nostro problema. Non si
richiede esclusivamente che l'uomo compia il bene, ma che egli stesso
sia buono. Lui, l'uomo, deve diventar buono. La stoffa, per così dire,
intomo alla quale si esplicherà questo suo lavoro, è tutto ciò che
l'uomo è: anima e corpo; intelligenza, volontà e cuore; carattere e
temperamento; forze e debolezze; averi ed
30
ambiente; tutto il suo io e i suoi rapporti con
gli altri. L'agire si tradurrà in una disposizione vitale per cui ogni
azione singola ne proceda sicura. A sua volta, quella disposizione
diventerà la forma ulteriore che forgia tutto quanto l'essere, e ciò
che prima era soggetto di un dovere imposto riveste ora quella spigliata
naturalezza caratteristica di ciò che si è immedesimato con noi. A
questo punto si tocca all'unità suprema : l'uomo veramente buono,
l'uomo perfetto nel senso evangelico, « come è perfetto il
Padre dei cieli ».
Ma questa stoffa o materia intomo alla quale ha da
esercitarsi l'intenzione umana non la si trova semplicemente allo stato
grezzo, ma sempre pronta a reagire. Si adira ed ha molto, in sé, di
intricato e corrotto, cosicché l'intenzione vi deve attendere con un
lavoro assiduo e paziente: come principio normativo interno, ordinare
tutto; come fucina di valori, prendere conoscenza di tutto e dominare
tutto; come pensiero, esprimersi in tutto ... Per poco che vi ci
mettiamo, notiamo subito che dal nostro essere vitale soltanto uno
strato esiguo è stato dominato ; il resto soggiace come terra vergine
dove il vomere non arriva... Fatica di Sisifo, questa di diventar buoni
! Che sarà allora ciò che i santi portano a compimento? Un santo è un
uomo di cui tutto l'essere si è posto in moto, in cui la luce di Dio
illumina e trasforma strato per strato: e noi che diremo?
Eppure non è ancora il termine. Esser-buono nella
pienezza del significato indica ancora sempre di più. Noi sappiamo che
la Provvidenza di Dio ci guida. Giorno per giorno ci segnala i compiti
che Egli ci assegna. Lavoro, lotte, vittorie, sacrifici domandano di
esser compiuti. È un'esigenza vasta, grave, senza fine, e basta essere
uomo per sapere quanto di rado noi ne siamo all'altezza. Vero
esser-buoni comporterebbe attuare ora per ora ciò che ogni ora adduce,
permettendo così alla vita di assurgere alla plenitudine di quella
misura segnalale da Dio. Ciò che in questo momento è stato disperso
non potrà essere guadagnato o ripreso più tardi, poiché ogni ora
passa e non toma, mentre quella che verrà dopo avrà la sua esigenza da
mettere avanti.
31
E allora che ne sarà delle lacune e dei vuoti in questa
vita che passa?
E che cosa di ciò che è stato compiuto, ma falsamente?
Vi possiamo riflettere; possiamo tentar di far meglio, ma quel che è
fatto è fatto, e sta. Sta, come?
LE
SOFFERENZE DEL PURGATORIO
Quando l'uomo, dopo morte, svincolato dai legami della
storia e della sua limitazione, compare alla vista di Dio : nella luce
della Sua verità che rende manifesto tutto, nella potenza della sua
santità che rifugge da ogni inquinamento, che avviene?
La fede insegna che se colui che si presenta fu un uomo di
buona volontà, investito dalla grazia e animato per l'appunto da
buon volere, è accolto da Dio : l'amore del Padre lo introduce nel
consorzio della giustizia di Cristo, non per diritto e per propria
attività, ma per grazia.
Ora che significa questo? Dio non opera in modo che
sotto la giustificazione elargita persista ciò che è cattivo e
deforme, come un manto che copra delle immondizie.
Si risponde: Dio perdona la colpa.
Ma di nuovo: che vuoi dire perdonare? Forse ciò
che un uomo compie nei confronti di un altro uomo quando gli condona un'offesa?
No. Infatti, prima e dopo il condono, l'essere dell'altro rimane
sempre tale e quale. Questo condono dice soltanto:
Non ho più nulla contro di tè. Il perdono di Dio
invece deve significare di più. Nell'uomo, con il perdono di Dio, deve
compiersi qualchecosa. Perdono non può voler dire che l'uomo rimane
peccatore, ma che Dio non lo sgrida più. Perdono non è
unicamente una trasformazione nel cuore e nello sguardo di Dio, da,
parte di Dio, che lasci immutato l'animo umano; ma l'uomo stesso deve
diventare così che Dio possa porre in lui le sue compiacenze.
Si obbietta ancora dicendo che l'amor di Dio trasforma
radicalmente l'uomo.
Certo, in ultima analisi è così; ma dobbiamo procedere
con prudenza. Dio è onnipotente; non è però affatto un incan-
32
tatore. L'amor di Dio crea, ma crea nella verità.
Dicendo che Dio da all'uomo un cuor nuovo e una vita nuova
non s'intende punto significare che le azioni compiute siano come non
fossero. Le lacune ci sono e qualchecosa ha da compiersi : un
mutamento, una purificazione, un ricupero, ed ora eccoci al punto a cui
dovevamo venire.
Morendo, l'uomo esce dal tempo; il giorno in cui
egli può operare (G IX 4) non è più. Ora egli non può più
operare, ma unicamente essere. Non interviene allora più nessuna
mutazione in lui?
In colui che entra in porto in perfetto ordine con Dio,
no:
egli sta, ratificato dal giudizio di Dio, nel puro
presente della vita etema.
Tanto meno in colui che lascia dietro di sé una vita di
volontà riottosa: costui è respinto da Dio e irrigidito nella
perdizione della morte etema.
E che ne è di colui che fu, bensì, uomo di buona
volontà, ma di una volontà che non è ancora riuscita, o non ancora
abbastanza, ad afferrare l'essere; che ne è di un'intenzione retta,
sì, ma superficiale, mentre subito oltre la scorza stava in agguato
l'opposizione e l'intimo era colmo di cattiveria e d'impurità; di una
vita che recava in ogni parte le tracce dell'incompiuto e i guasti della
falsità?
Si potrebbe osservare che questi sono pensieri troppo
umani;
che, una volta comparso dinnanzi a Dio, tutta la parte
terrena e temporale dell'uomo non è più; che — abbia omesso questo
nella insufficienza e nel disordine della vita, fatto di quello un
oggetto di torto, compiuto falsamente quest'altra cosa; siano pure in
lui errori, mancanze, contraddizioni, lacune — tutto ciò perderà
d'importanza di fronte all'onnipotenza della santità, all'amore e alla
grazia di Dio, le quali sole hanno un valore essenziale; che ove
soccorra i'unica cosa necessaria, l'armonia cioè tra grazia e
libertà nel beneplacito divino, con quello vi è tutto, e di là
sorge la libertà gloriosa dei figliuoli di Dio (R Vili
21) come pura creazione dall'onnipotenza propria dell'amore di Dio.
Questo pensiero è così grande e pio che a tutta prima
riporta semplicemente vittoria: eppure non è giusto. Il grande è
falsamente inteso se induce la scomparsa del piccolo, poiché anche
33
il piccolo è verità. La redenzione non è frutto di
entusiasmo, ma di un amore che è verità. La grazia di Dio è tutto;
non però in modo che azione terrena, lacune nella trama della vita,
curve e nodi nell'essere umano siano per ciò esinaniti. Sono
qualchecosa, e lo sono precisamente dinnanzi a Dio che è verità. E il
suo amore non consiste nell'eliminare le ultime mancanze, ma nel porle
al confronto con la verità per redimerle: nessuna eccettuata, nemmeno
le più piccole; e ognuna nella sua integrità, fino alla più recondita
piega e al punto più impercettibile.
Ma come ha da compiersi tutto questo, se il tempo non è
più e se l'uomo non può più operare? Può soffrire, risponde la
Chiesa. E proprio da questo suo stato (di non aver di che soffrire)
viene la sua sofferenza che è nel contempo il superamento di quello
stato.
Quando dunque un uomo siffatto entra nella luce di Dio
vede se stesso con gli occhi di Dio. Ama la santità di Dio e odia se
stesso perché il suo io e in quanto il suo io contrasta a
quella santità. Prende coscienza del suo stato. Nel passato, ciò che
egli era forse lo intrawedeva. Ora lo vive: rivive la sua vita così
com'è al cospetto di Dio, e dev'essere un dolore senza misura, ma un
dolore che opera: l'intenzione si purifica e tira le sue conseguenze
fino a che la sua misura di buona volontà sia ricolma ;
penetra le forze vitali e le imbeve fino a dominarle e
ad averne tratto una preparazione totale; assiste l'essere,
misteriosamente operando, fino a che l'uomo non soltanto rottamente
voglia, ma si sia impossessato del bene come forma della sua realtà. In
questa gara morire e risorgere convengono in un mistero di meraviglia e
di sacrosanto timore. È un continuo morire e un continuo crescere di
vita nuova.
Quest'operazione si estende perfino là dove le
omissioni hanno lasciato le loro tracce, non certo nel senso di fare in
modo che il non-compiuto sia ora compiuto (questo sarebbe magia), ma nel
senso che per la dedizione della creatura alla volontà rigenera-trice
di Dio ciò che è perduto viene compensato, altrimenti perché rimane
in fondo abbandono o disperazione. La sofferenza non durata dev'essere
durata; la verità non riconosciuta dev'essere riconosciuta; l'amore non
amato dev'essere amato: non a mo'
34
di sostituzione (non è sostituibile ciò che avviene
una volta per sempre), ma in un senso per il quale, a questo mistero del
risarcimento, non possiamo addurre che delle indicazioni vaghe...
. y . Prima di tutto il pentimento.
Genuino pentimento non è
un mero dolore per le mancanze commesse (un tale dolore
non farebbe che mettere in risalto la mancanza), e neppure una mera
volontà di far meglio la prossima volta: il passato se ne starebbe allo
stato di prima. Nel pentimento l'uomo riassume il passato; lo medita,
riconoscendo e condannando i suoi falli, con intelligenza e volontà e
rettitudine d'intenzione, ma din-nanzi a Dio, il Vivente e il Santo.
Tutto questo è ben lungi da una semplice presa di posizione di fronte
al passato. Il passato è nuovamente assunto nella libertà che lo
trasforma dalle radici, è immesso nel principio della nuova creazione
che si compie per opera dello Spirito Santo e lo ricrea...
Un'altra indicazione preziosa ce l'offre la
psicoterapia. Se un uomo — essa insegna — nella sua prima giovinezza
o in un altro momento particolarmente delicato della sua esistenza è
stato inferiore alla sua vocazione, l'accaduto sfugge al controllo
aperto della coscienza e, fissatesi nell'incosciente, di là continua a
turbare tutta quanta la vita. Allora non vale più nessun mezzo e
nessuna misura : ciò che è stato falsamente vissuto dovrebbe essere
vissuto un'altra volta; l'uomo lo dovrebbe tirar fuori di nuovo,
prenderne consapevolezza, affrontarlo dignitosamente e compiere con
decoro quell'ammenda che è ancora viabile. Allora le cose
rientrerebbero in ordine.
Tutto questo, che si diceva, ci fornisce delle
indicazioni. Unicamente delle indicazioni; nient'altro. A dimostrazioni
o a disegni completi sarebbe stolto pensare per il semplice fatto che
siamo di fronte al mistero della grazia in atto di perdonare e di rifare
a nuovo.
Giudizio vuoi dire che l'uomo si vede in tutta la
sua entità nella luce sacra di Dio: le circostanze e le cause;
l'accessorio e l'essenziale; l'esterno, l'intemo e l'intimo; il già
noto e ciò che invece stava ancora celato, sia semplicemente perché
troppo profondo, obliato, represso o negletto, tutto. E lo vede senza
protezione di sorta. Ciò che di solito rende insensibili : orgoglio,
vanità,
35
dissipazioni, indifferenza, tutto è caduto. L'uomo se
ne sta tutto manifesto, tutto sensibilità, tutto raccoglimento. E
vuole. Si schiera da parte della verità contro se stesso, deciso a
tener fronte alla sua stessa vita, a tutte le negligenze, a tutte le
indecisioni, a tutti gli errori. In un misterioso soffrire il cuore si
mette a disposizione del pentimento, e così nelle mani della sacra
potenza dello spirito creatore. A questo modo quel che fu omesso viene
donato un'altra volta. Le vie storte sono raddrizzate. Il male,
rivissuto e trasferito al bene. Non un miglioramento esteriore, ma tale
che tutto, penetrando nel mistero della grazia rinnovatrice che opera
nel pentimento, ritoma a una vita nuova.
Ecco il purgatorio, di cui parla la Chiesa. Nessun cuore
bennato potrà dire di non avervi nessun rapporto. E ciò che di
più profondo vi è in noi risponde con gratitudine a una tale garanzia,
troppo lieto se la potesse già possedere.
Appare chiaramente di qui quante deviazioni si siano
infiltrate nell'idea che ci si fa dei morti. Il modo di dire le
povere anime del purgatorio è tutto grondante di amorevoli cure, ma
contiene nello stesso tempo il pericolo di molte grettezze. I morti nelle
mani di Dio non hanno nulla, in sé, che desti commiserazione.
Attraversano un impensabile dolore, ma un dolore dignitoso, grande...
Poniamo il caso di un uomo da noi intensamente amato, e che si sia messo
su di una falsa strada. Noi vediamo il suo profondo bisogno di
riabilitazione. Ora, ecco, un giorno la luce lo tocca. Ne avremmo
compassione? No. Saremmo trepidanti per timore di una ricaduta (ciò che
al di là del tempo non è più possibile); faremmo nostro il suo
travaglio spirituale, ma avremmo sempre la visione netta di qualchecosa
di grandioso, in atto di compiersi in lui, degno del più alto rispetto.
Analogamente qui: dal ricordo dei trapassati, coloro che sono tornati
a casa, noi dobbiamo bandire tutto ciò che è piccino, tutto ciò
che è espressione del recondito desiderio umano di vedere gli altri
soffrire; ogni impetuosità di soccorso, ogni indiscrezione di
compatimento. Pensiamo al concetto scritturale dell'uomo : sono figli e
figlie di Dio che si trovano nel bisogno, ma nel contempo «nel trionfo
della libertà gloriosa dei figlioli di Dio » (RVIII 21).
La cura per essi è buona, a patto di serbarle intatto
il suo
36
genuino carattere. Se ci trovassimo accanto all'essere
amato, di cui si parlava or ora, in atto di ritornare, lottando, al
bene, vorremmo certo aiutarlo, ma non con sentenze e raggiri.
Cercheremmo di comprenderlo, di indurlo a sentire la nostra presenza
spirituale, e portargli tutti quei soccorsi che fossero in nostro
potere; sempre con senso di profonda venerazione. Non altrimenti dev'essere
qui: i nostri cari che sono nelle pene del purgatorio li dobbiamo e li
vogliamo aiutare non quasi fossero dei mendicanti ai quali dar
l'elemosina, ma pensare ad essi in ispirito di fede, star loro vicini in
ispirilo di carità, invocare lo Spirito Santo che li introduca nel
principio vitale della purificazione per guidarli alla santità. E chi
è già più esperto nelle cose dell'amor cristiano e più familiare ai
misteri di Cristo non tarderà a ricordare che quella sofferenza
riparatrice procede dalla redenzione, e cercherà di unire il suo
proprio amore e il suo proprio dolore alla stessa volontà redentrice di
Cristo.
LA RESURREZIONE
LA DOTTRINA RIVELATA
fra i problemi che travagliano lo spirito umano ve ne
sono di quelli che sorgono da motivi speciali, e perciò stesso possono
essere tralasciati; altri invece non possono non essere posti a meno di
lasciare nella oscurità e nel dubbio elementi fondamentali
dell'esistenza. ,
A questo secondo ordine di problemi appartengono i
novissimi: Che cosa sarà alla fine? C'è o non c'è qualchecosa di
definitivo che sia ragione della mia esistenza, o tutto finisce con la
morte? Se c'è qualchecosa di definitivo, come si configurerà ciò
ch'io fui, compii e sperimentai?
La fede risponde che primo tra i novissimi viene la
morte;
la prospetta in tutta la sua importanza e richiede che
la si accetti e la si affronti. Nello stesso tempo però la fede dice
che la morte è solo un lato di una più vasta realtà : l'altro lato è
la resurrezione.
Nell'ultimo libro della Sacra Scrittura, l'Apocalisse,
si legge verso la fine : « E vidi un trono grande, candido, ed Uno che
vi sedeva: dal suo cospetto fuggì terra e ciclo, ne più si trovò
luogo per loro. E vidi i morti, grandi e piccoli, ritti dinnanzi al
trono;
e furono aperti dei libri. E un altro libro fu aperto
che è della vita; e furono giudicati i morti da quello che era scritto
nei libri, secondo le opere loro. E il mare rese i suoi morti, e la
morte e l'inferno resero i loro; e fu giudicato ciascuno secondo le
opere sue» (XX 11-13).
La prima lettera ai Tessalonicesi dice : « Perché se
crediamo che Gesù morì e resuscitò, così anche Iddio quei che s'addor-
38
mentarono, per Gesù li riunirà con lui. Questo infatti
vi diciamo su parola del Signore: noi — chi vivrà, chi resterà alla
venuta del Signore — non arriveremo, no, prima di quei che
s'addormentarono, che Lui, il Signore, a un grido, a una voce
d'arcangelo e allo squillo della tromba di Dio, discenderà dal ciclo, e
i morti in Cristo risorgeranno dapprima » (IV 14-16).
A sua volta, la prima ai Corinti : « Se infatti i morti
non risorgono, nemmeno Cristo è risorto. Ora se Cristo non è risorto,
vana è la vostra fede: tuttora siete nei vostri peccati. Dunque anche
quelli che si addormentarono in Cristo, perirono. Se solo in questa vita
abbiamo riposto la speranza in Cristo, i più miseri siamo di tutti» (XV
16-19).
Ma questi passi spiegano unicamente un messaggio che
Gesù stesso ha annunziato. I Sadducei, negatori della resurre-, zione,
gli chiedono di quale dei sette mariti avuti sulla terra e perduti l'uno
appresso all'altro per morte sarà moglie nella resurrezione la vedova,
ed egli risponde : « V'ingannate, non intendendo le Scritture ne il
potere di Dio. Alla resurrezione infatti ne s'ammoglieranno ne si
mariteranno, ma saranno come angeli di Dio nel ciclo. Circa poi alla
resurrezione dei morti, non leggeste quel che vi fu detto da Dio? Io
sono il Dio d'Abramo, il Dio d'Isacco, il Dio di Giacobbe? Non è il Dio
dei morti, ma dei vivi» (Mt XXII 29-32). E se anche Gesù, nei discorsi
intomo ai novissimi (Mt XXIV-XXV), non fa espressamente parola della
resurrezione, nondimeno questo mistero ferve dietro tutto ciò che egli
dice, e conferisce a ciò che egli dice il suo vero e proprio
significato.
Dunque la rivelazione insegna che la morte non è
qual-checosa di definitivo; ma che l'uomo, morto, risorgerà a vita
nuova. Anche di questa parola si può dire ciò che dicevano gli
ascoltatori dell'annunzio eucaristico : « Questo linguaggio è duro, e
chi lo può ascoltare?» (G VI 61). Non sono infatti mancati dei
tentativi per liquidare lo scandalo.
Si è detto che la dottrina circa la resurrezione non è
parte essenziale del messaggio di Gesù, e che risponde invece solo al
normale bisogno della umanità incapace di rassegnarsi a morire:
cose che non meritano neppure di essere prese in
considerazione.
39
La
resurrezione è come la pietra fondamentale del messaggio cristiano:
oggetto di fede fin dall'inizio; fermo attraverso tutti i secoli e —
dove la fede cristiana rimase viva — baluardo contro ogni forma di
inquinamento.
Si è detto ancora che questa dottrina emana da un
antico sentire, per cui tutto veniva riferito al corpo. In altri
termini, l'uomo di allora non avrebbe saputo concepire forma di vita ad
eccezione della vita del corpo, per cui, dicendo di credere a una vita
etema, non si sarebbe potuto intendere altro che una vita etema del
corpo; così sarebbe stato necessario parlare anche di una resurrezione.
Al Cristianesimo invece starebbe a cuore una cosa sola: la immortalità
dell'anima e il suo ritorno a Dio, -fantasie ancora meno degne di essere
anche semplicemente accennate. Prima di tutto, infatti, è inesatto
affermare che anticamente l'uomo non sapesse pensare forma di vita al di
fuori della vita del corpo, tant'è vero che — per citare un esempio
solo — tutta la storia del pensiero greco è solcata da una corrente
che trovò incomparabilmente la sua più potente espressione nel
pensiero platonico, insegnando che vera vita è possibile unicamente
nello spirito puro. Questa corrente invase anche il campo cristiano,
tanto che fino dal primo secolo la chiesa si trovò a dover combattere
contro la gnosi, negatrice di tutto ciò che dice corporeità, e quella
lotta continuò per secoli, rendendo sempre maggiormente vissuta e
profonda la fede nella resurrezione. Ciò che Paolo tratta in lungo e in
largo, lui che con tanta insistenza annuncia la resurrezione dai morti,
non lo tratta certo in base ad antiche interpretazioni materialistiche
dell'uomo. Se vi era uomo da sentirsi incline e capace di basarsi
unicamente sulla realtà spirituale-religiosa, questi era proprio lui
che scrive ai Romani:
«Infelice uomo! Chi mi libererà da questo corpo di
morte?» (R VII 24).
Se ne andasse solo dell'immortalità dell'anima, manco
vi sarebbe stato bisogno di rivelazione cristiana: Pitagora, Scorate,
Fiatone ne avevano già parlato. Ne va piuttosto della resurrezione da
morte e della vita etema dell'uomo, e sradicare questa dottrina dalla
coscienza cristiana è impossibile.
40
IL MESSAGGIO CRISTIANO E I/UOMO
L'uomo, non abituato a riflettere, è turbato da questa
dottrina. Già nella prima lettera ai Corinti Paolo sente il bisogno di
chiedere : « Se di Cristo si predica che è risorto da morte, come
dicono alcuni fra voi che non c'è resurrezione di morti? » (XV 12). Di
questa gente ve n'era allora e ve ne sarà sempre. Ve n'era già ai
tempi di Gesù, opposti a Lui che sotto i loro . occhi aveva dato prova
della resurrezione (Mt XXII 23-33) ... Ve n'era nel Medioevo, mentre la
gnosi procedeva a vari e potenti sviluppi ... Ve ne sono ancor oggi,
particolarmente tronfi della loro protesta, perché per l'uomo moderno
il pensiero che i morti debbano tornare nuovamente a vita è
semplicemente un nonsenso. È bensì vero infatti che il suo istinto di
conservazione cerca di dare alla morte una soluzione positiva, per
gettarsi senza freno nella corrente della vita puramente terrena, in cui
nascita e morte non dovrebbero essere che diverse onde in eterno fluire,
ma dalle scienze naturali egli sa che in campo sperimentale non vi è
nessuna forza capace di ridonare vita a un organismo disfatto.
Prima di andare avanti dobbiamo quindi chiarire ancora
una volta qualchecosa di fondamentale, di cui si parlava già nel primo
capitolo di questo studio.
La conoscenza vuole verità, e la verità è quella sola
che tutto comprende. La verità significa che ciò che è sorge allo
spirito nella luce delle realtà eterne. Però, perché sia così, lo
spirito ha da venire a contatto con le diverse sfere di ciò che è loro
corrispondente. Se voglio conoscere la verità del vivente, non
assumerò nei suoi confronti quell'atteggiamento che conviene alle cose
inanimate. Se voglio afferrare la verità dello spirito, mi ci devo
prendere diversamente da ciò che farei qualora si trattasse di
conoscere invece una macchina. Verità non risplende se non quando
l'uomo va incontro alla realtà come essa stessa richiede. Quanto più
alto il reale tanto più grande l'esigenza che esso pone allo spirito in
atto di conoscere; tanto più grande però anche la tentazione di
avvilirla giù al piano di realtà infe-
. 41
riori per maggiore comodità. Così, per esempio, è
molto allettante pensare il vivente in funzione dei processi chimici, o
lo spirito in funzione delle norme biologiche, perché a questo modo si
risparmia lavoro e ci si da la parvenza di rigorosi scienziati, mentre
in realtà si è spiritualmente dei codardi numero uno, facendo violenza
alle norme consuete del processo conoscitivo, a detrimento del valore
caratteristico dell'oggetto. Questo vale già sul semplice terreno del
pensiero umano e dell'oggetto che gli è proprio, il mondo... Ma poi,
con la rivelazione, quel Dio che governa tutto ciò che è del mondo,
parla la sua parola nel mondo; e così, con la rivelazione, si fa
innanzi all'uomo una realtà tutta nuova. Il carattere discriminante di
autentica rivelazione consisterà dunque nel fatto di non poter venire
ridotto a immagini e forme del possibile dedotte puramente dal mondo, ma
di essere autonomo nei loro confronti; anzi di infrangerle. La
verità rivelata sarà pertanto riconoscibile esclusivamente da colui
che, rinunciato a giudicare la nuova realtà in base a criteri di mondo,
sia pronto a ricavarla integralmente tale quale è nella rivelazione...
Ecco ciò che conta ed è decisivo.
Dopo di ciò, a ogni modo, vi sarà ancora una seconda
cosa da tener presente, ossia: quel Dio che si rivela è il medesimo che
ha creato il mondo. Se quindi la sua parola entra nel mondo, non entra
in campo straniero, ma nella sua proprietà (Gì 11). In un primo
tempo, certo, questa parola dev'esser presa com'è, senza chiedere al
mondo di giustificarla; puramente quale è in se stessa. D'altra parte
essa versa immediatamente la sua luce appunto in questo mondo; ne
solleva i problemi che gli sono propri, e fornisce loro una risposta che
solo dal mondo si sarebbe sempre attesa invano.
Ma affinchè il modo nostro di pensare sia un modo di
pensare cristiano, e il contenuto della rivelazione sia compreso secondo
il modo di essere che gli è proprio, occorre che intervenga un
mutamento. L'invito di Gesù alla conversione (Mt IV 17) non
impegna soltanto la volontà, impegna anche il pensiero. Ora,
naturalmente reale è per noi ciò che troviamo pronto in noi e intomo a
noi; naturalmente vero è il delinearsi chiaro di questa realtà
nell'idea corrispondente; naturalmente possibile è ciò che è
possibile in base alle cose del mondo. Invece :
42
cristianamente reale è ciò che si manifesta reale
nella rivelazione;
cristianamente vero è ciò che ci si mostra nello
spirito e nella parola di Dio; cristianamente possibile, ciò che si
rivela possibile in Cristo. Presto detto, ma difficilmente attuato, e
dal fatto che uno abbia dato il suo assenso alla fede non segue ancora
che vi confermi realmente il suo pensiero. Affinchè il nostro modo di
pensare alla stregua del mondo, adagiatesi sempre più profondamente nel
mondo lungo il corso di parecchi secoli, traduca in atto il contenuto
della rivelazione, bisogna che esso realizzi un vero e proprio
rifacimento; e soltanto nella misura in cui questo rifacimento si
opererà, esso comprenderà ciò che Cristo dice della resurrezione.
Al Cristianesimo — ci si perdoni l'insistenza —•
non è lo spirito, semplicemente, che sta a cuore; sta a cuore l'uomo.
Quando si legge quel che fu detto da filosofi e personalità religiose
intomo all'immortalità dell'anima e a una vita spirituale etema, vi si
sente a tutta prima una espressione di forza e di entusiasmo. Quando poi
si viene alle strette, e si vuoi sapere come sia questa vita etema, e
come assuma in sé il frutto dell'esistenza terrena — ciò che diciamo
storia, esercizio di volontà, azione, destino — tutto svanisce: con
un semplice atto di fede nella immortalità dell'anima si rinuncia alla
storia, e la realtà dell'esistenza si perde nella retorica ... Ben
altro sta a cuore al Cristianesimo: sta a cuore la redenzione della
concretezza, il destino eterno della persona e della sua storia. Il
Cristianesimo non è soltanto una metafisica, ma è l'autotestimonianza
del Dio vivente; l'annunzio ch'Egli ha posto mano alla realtà di
quaggiù per introdurla in una nuova esistenza, dove non va perduto
nulla, anzi ogni cosa riceverà il suo coronamento supremo. Ora tutto
questo è connesso col corpo. Per quanto possa suonare strano, l'ultima
chiarificazione relativamente a tutto ciò che si chiama persona ed
esistenza personale, storia del singolo e del tutto, si verifica
unicamente in una presa di posizione rispetto al corpo. Se questo non
risorge, rimane più solo una immortalità dello spirito che ci
lascerebbe davvero, per dirla in breve, assai indifferenti.
Per il Cristianesimo non si tratta semplicemente
dell'idea,
43
ne della essenza, ma della realtà dell'uomo: della sua
responsabilità, della sua dignità, delle sue azioni e di quello che
Dio gli riserva. In una parola, della sua storia: tutto, ancora una
volta, inscindibilmente connesso col corpo. La resurrezione del corpo
salva i diritti del carattere personale e storico dell'uomo, e distingue
l'esistenza cristiana tanto dalla semplice natura, quanto dal mito e
dalla metafisica pura.
IL CORPO GLORIOSO
Ma bisogna fissare subito qualchecosa d'altro : il
fondamento della nostra esistenza fisico-umana è Cristo. La
resurrezione non significa una fase ulteriore nel proseguimento della
vita, quasi che dalle interne possibilità della vita si sviluppi, dopo
la morte, una forma nuova, ma la risposta a un appello che procede dalla
sovranità di Dio. Dio ha voluto l'uomo come uomo, e uomo è lo spirito
che si esprime e in quanto si esprime ed agisce nel corpo; è
l'organismo corporeo in quanto consiste" nella sfera d'azione dello
spirito personale, e mediante questo è plasmato in una figura e per
un'attività che da sé non potrebbe mai raggiungere; costituito
ricettacolo dove lo spirito, con la sua dignità e responsabilità, sta
nella storia. Resurrezione significa dunque che l'anima spirituale è
ripristinata in quello stato che le compete in ragione della sua natura,
vale a dire anima di un corpo, anzi che solo allora è resa tutta libera
e idonea al compito specifico della forma corporea, significando che la
materia disanimata diviene nuovamente corporeità vivificata, questa
corporeità, ossia corpo d'uomo; il quale corpo, si capisce, non è più
vincolato alle condizioni di spazio e tempo, ma, come dice Paolo, è in
uno stato nuovo, spirituale, pneumatico.
Come questo risulti, ignoriamo. Ma, per poco che
meditiamo le diverse espressioni delle lettere paoline e
dell'Apocalisse, appare appunto — unitamente alle raffigurazioni del nuovo
ciclo e della nuova terra — come compimento del mondo
redento. Al capo ottavo della lettera ai Romani, dove è parola del
contenuto della nostra speranza cristiana. Paolo dice : « Ritengo
44
infatti non adeguati i patimenti del momento presente
rispetto / alla ventura gloria da rivelarsi in noi. Che la vigile attesa
della natura sospira la manifestazione dei figli di Dio. Alla caducità
infatti la natura fu sottomessa, repugnante, ma obbediente a Chi ve la
sottomise, su speranza che anch'essa natura sarà dalla servitù della
corruzione vendicata alla libertà gloriosa dei figliuoli di Dio.
Sappiamo infatti che tutta la natura è in gemito e nel travaglio del
parto sino ad ora. E non solo, ma anche noi che le primizie abbiamo
dello Spirito, anche noi in noi stessi gemiamo, sospirando l'adozione,
la redenzione del nostro corpo» (18-23).
Questo compimento salutare è grazia, e proviene dalla
pura libertà di Dio. Non è quindi possibile giudicarlo alla stregua
del mondo ne dedurlo dalle premesse che il mondo impone. Eppure questo
mondo vi trova il suo compimento: per ogni dove tu vi intrawedi nel
mondo dei riferimenti, e appunto per questo ciò che viene da Dio nel
mondo non viene in terra straniera. E dunque lecito porre questo
problema: In ciò che noi chiamiamo corpo non vi sono per caso
delle indicazioni o degli accenni trascendenti le pure possibilità
intrinseche del mondo stesso?
Se ci facciamo ad esaminare dapprima un oggetto
inanimato e poi un albero, vi scorgiamo una differenza essenziale. Un
cristallo, poniamo, ha una corporeità intensiva : terso, preciso e
prezioso; ma è pesante, duro, immobile... Ben altrimenti quest'albero:
cresce su dalla terra, dispiega la sua figura in una gamma di aspetti e
di mutazioni sempre nuove, fiorisce, fruttifica, in una parola: vive.
Esso pure è corpo, ma di un genere diverso. Vince il pesantore,
sale in alto, si edifica da sé, per risorse proprie... Una nuova
differenza balza evidente nei confronti con il regno animale. Un cavallo
o un uccello sono ugualmente corpo; non però a guisa di una
pietra o di un albero. Spaziano in libertà, hanno capacità di
percezione e forza di azione, sanno affermarsi e difendersi,
costruiscono la loro casa, sono atti alla procreazione e si prendono
cura della loro prole... Ancora un'altra differenza intercede tra il
bruto e • l'uomo. Il bruto è legato a determinate possibilità e si
muove incontrollato nel suo mondo. L'uomo invece detiene un inizio
creatore, la cui estensione, in
45
linea di principio, non può essere limitata ; egli è
capace di verità e di decisione morale ed ha potere di agire e creare e
perfino di annichilire, con la sua stoltezza, la propria esistenza
terrena. Da tutto questo emerge una forma di corporeità di nuovo
genere, che non è solo più fine o più sviluppata delle forme nominate
finora, ma gode di qualità che la mettono in relazione con il tutto del
mondo vivente, conferendole una specie di universalità.
In questi diversi enti ci viene incontro sempre da capo il
corpo: nel cristallo, nell'albero, nel cavallo, nell'uomo che mi sta
qui dinnanzi : ma di quali differenze segnato ! Ogni volta la
corporeità è posta al servizio di un nuovo principio e guadagna con
questo non soltanto altre qualità ed altri modi di essere, ma perfino
un carattere nuovo. Sempre di più essa vince i gravami, le catene, le
asperità, il tedio. Si fa più sciolta, spazia sotto orizzonti più
larghi e più liberi. Più vasto, il dominio della realtà con il quale
essa viene a contatto. Più elevati i valori che in essa si attuano.
L'ora dello spirito creatore, il dominio del possibile cresce. La
materia diviene sempre più oggetto e strumento dello spirito. Nell'uomo
poi il corpo ha un'importanza del tutto universale: non appare soltanto
come strato supremo, ma come compendio della corporeità.
Ora ecco un altro quesito: Questa linea è forse
destinata a terminare con l'uomo quale lo conosciamo noi? A un sentire
immediato superficiale appare di no : questa umanità non è un termine;
la possibilità di quello che si chiama corpo non vi si può ancora
estinguere. Si aggiunga per di più il plausibile suffragio che viene
dalla gradazione della corporeità dell'uomo stesso.
Il corpo umano non è qualchecosa di finito e di
stabile. Esso è- in continuo divenire. È evidente che un corpo sano
esercitato e attorniato di cure è più corpo di uno negletto. Ma
dove risiede più intensa e più pregevole corporeità : nello sguardo
nella figura e nell'atteggiamento di un uomo intento ad alte cose e
preoccupato di condurre una vita di profonda interiorità, oppure in uno
che è bensì sano e sportivo, ma superficiale e chiuso ai problemi
dello spirito? A prima vista questa domanda ci colpisce, unicamente
però in forza della nostra abitudine a
46
vedere la corporeità dell'uomo poco diversamente da
quella del bruto, cioè come pura natura.
In realtà il corpo umano è decisamente improntato
dallo spirito. Lo sguardo sagace di un uomo che lotta per la verità non
è soltanto più spirituale, ma semplicemente più sguardo
(Antliz-hafter) di quello di un povero materialone: il che induce però
anche corporeità più sana, più penetrante. Lo stesso dicasi
dell'atteggiamento di un uomo dal cuore magnanimo e largo per tutti:
non vi è soltanto più di animo che non in un
uomo egoista ed interiormente rozzo, ma più vitale corporeità.
Si profila qui tutta una nuova serie di piani nell'ordine
dell'attuazione. Il corpo, come tale, diviene tanto più vitale e
pregevole quanto più profonda è l'interiorità, più intensa la vita
del cuore, più nobile la spiritualità che in esso si elabora.
L'epoca contemporanea ha creduto di poter lanciare il
dogma secondo cui il Medioevo cristiano avrebbe trasandato il corpo:
dogma non soltanto falso, ma semplicemente cieco. Per poco che ci si
emancipi dal convenzionalismo, non si può non vedere quale ricchezza di
vita traspaia dai volti e dalle figure della statuaria medievale: una
concretezza che vince l'antica superiorità del cuore fatto libero, dove
la causa è per l'appunto l'esperienza cristiana, la vita in rapporto
con Dio e in comunione con Cristo. Nonché non esser distrutto —
secondo le stolte pretese di un luogo comune — il corpo ha conseguito
una forza, una profondità, una musicalità tutta nuova, e ancor oggi
esso si nutre delle conseguenze di quella forza perfino là,
inconsapevolmente, donde il pensiero cristiano è ostracizzato da lungo
tempo. La ragione va ricercata nel fatto che il corpo è bensì
tributario della natura, ma non solo della natura; in parte, e forse in
parte preponderante, si edifica sullo spirito. Sono gli ardimenti dello
spirito che lo forgiano; sono le vittorie del cuore che lo temprano, non
di rado attraverso scosse profonde e perfino, a volte, attraverso
apparenti rovine. Sacrifici e rinunzie che uno sguardo spento reputa
distruzioni si rivelano invece a un occhio più sereno come avviamento
sicuro a più alte forme di corporeità. Un Rembrandt, un Roger van der
Weyden, un Mattia Grùnewaid non avrebbero mai saputo rubare al loro
pennello quelle meraviglie di volti e di
47
figure, se i santi raffigurati nella loro lotta per
l'ascesa a Dio non avessero gettato il loro corpo in preda alle fiamme
del sacrificio. Bisogna vedere le cose come sono. Nulla di grande
procede da sola natura, ma da sacrificio e da superamento di sé.
Ora, che sarà mai quando lo spirito, nell'estuare
dell'eternità, alla onnipotente presenza della sacrosanta forza divina,
sarà introdotto nel possesso della sua perfetta purità e potenza?
Risponde Paolo nella prima ai Corinti, parlando della
resurrezione :
«Ma dirà qualcuno: come risorgono i morti? e con qual
corpo tornano? Insensato! Quel che tu semini (nel campo) non rigermina
se prima non muore. E quel che semini, non il fusto che ha da nascere
semini, ma un nudo granello di frumento, per esempio, o d'altro. Iddio
poi gli da un fusto com'Egli volle, e a ciascuna delle semenze un
proprio fusto. Non ogni carne è la stessa carne, ma altra è (la carne)
d'uomini, altra è carne di bestie, altra carne d'uccelli, altra di
pesci. E vi sono corpi celesti e corpi terrestri ; ma diversa la
vaghezza dei celesti, diversa quella dei terrestri. Altro è splendore
di sole, ed altro splendore di luna, ed altro splendore di stelle; che
astro da astro differisce di splendore. Così appunto la resurrezione
dei morti. (Il corpo umano) vien seminato a imputridire, risorge
incorruttibile; vien seminato in abbiezione, risorge in gloria; vien
seminato in fiacchezza, risorge in vigore; vien seminato corpo animale,
risorge corpo spirituale... Il primo uomo (Adamo), dalla terra,
terrestre;
il secondo uomo (Cristo), dal ciclo, celeste. Quale il
terrestre, tali anche i terrestri; e quale il celeste, tali anche i
celesti. E come noi portammo (in noi) l'immagine del terrestre,
porteremo anche l'immagine del celeste » (XV 35-49).
Prescindendo completamente dalla dignità che gli
conviene come parola rivelata; preso com'è, quale oggetto di
considerazione speculativa, il testo riferito è di una elevatezza che
si impone. In qualche tratto non è pienamente chiaro, ma pure là si
sente l'opera arcana della potenza delle cose sperimentate, che investe
ogni espressione di Paolo. Qualchecosa di fondamentale, a ogni modo, è
posto qui con grandiosità e chiarezza di linee: l'essenza del dato
corporeo. Questo dato è di varia specie. Paolo si esprime
48
senza nessuna preoccupazione di metodo scientifico, per
pura intuizione immediata. Vi è la corporeità delle piante e,
nell'orbita del regno vegetale, la corporeità dei diversi vegetali; vi
è la corporeità degli animali e, di nuovo, quella di ogni specie
animale, l'una diversa dall'altra; vi è la corporeità dei corpi
celesti che agli occhi dell'antichità erano qualchecosa di misterioso,
di quasi divino ; e anche tra i corpi celesti una diversità tra stella
e stella. Così si apre tutta una fuga di gradazioni secondo il genere e
l'ordine, a non finire : oltre le possibilità del creato, al di
là del dominio terrestre, nello spirituale-celeste, di cui sarà parola
tra poco.
Tuttavia, tra le diverse forme di corporeità intercede
uno iato. Questo è talvolta di tale natura che nulla conduce da una
parte all'altra, da una forma all'altra. Da una pietra non verrà mai un
ruscello. Altre forme corporee, al contrario, conservano, con tutte le
differenze specifiche, un rapporto vitale reciproco, costituendo
altrettante fasi di uno sviluppo immediato: come, per esempio, un germe
e l'albero che da lui è sorto. Lo iato, qui, è vinto dal mistero della
germinazione e del germoglio. Vinto, ma sempre rivendicato da ciò che
Paolo chiama il morire. Il granello di frumento deve essere
seminato nella terra, e morirvi, vale a dire perdere la sua forma,
perché possa germogliare la nuova pianta.
Ed ora il passaggio: altrettanto accade nell'uomo. Pure
in lui vi sono due forme di corporeità : il corpo terrestre e il corpo
celeste, e il primo è il germe del secondo. Anche tra di loro intercede
la morte: il corpo (terrestre) deve essere consegnato alla terra e nella
terra scomporsi; allora soltanto germina il nuovo corpo (celeste). Ma
ecco la differenza: la pianta cestisce realmente dal
germe, in virtù delle sue proprie funzioni e disposizioni specifiche;
il corpo celeste, al contrario, non procede così dal corpo terrestre.
Del germe si può dire che si fa vivente, — per forza d'identità con
quest'essere che è chiamato, poniamo, frumento, — senza mediazione,
per il suo stesso disfacimento, nella pianta novella; del corpo umano
bisogna dire che risorge da morte. Qui domina arcanamente un'altra
potenza: non dall'interno della costituzione umana, ma dall'alto, dal
regno della libertà di Dio. ^
49
Quale potenza sia questa, lo si è visto nella
resurrezione:
è la potenza per la quale un giorno Cristo uscì dal
sepolcro. Con questa stessa potenza egli ridesta i suoi dalla morte, e
li rende atti a una vita nuova, celeste. Però il carattere di questa
nuova vita, lo spirituale e celeste, non significa semplicemente
un grado più alto nell'essere — come è il caso, invece, dell'animale
su la pianta e dell'uomo sul bruto — ma esprime parimenti il nuovo,
come elargito dalla sovrana munificenza di Dio: è la virtù dello
Spirito Santo, venuto alla Pentecoste nel mondo, che da quel momento
regge e governa il mondo.
Una parentela nuova si manifesta: l'uomo terrestre è
così come fu il suo capostipite terrestre, Adamo. Poi venne il Cristo,
il celeste, inaugurando una nuova serie di parentele che riceve da Lui
la sua propria figura sostanziale e la sua propria vitalità :
« Cristo è risorto da morte — dice Paolo —
primizia dei dormienti. Poiché infatti per un uomo (è entrata nel
mondo) la morte, anche per un uomo resurrezione da morte. Perché come
in Adamo tutti muoiono, così anche in Cristo tutti rivivranno. Ciascuno
però a suo luogo: primizia Cristo; poi quei di Cristo, al suo ritomo.
Poi la fine, quando rimetterà il regno a Dio e Padre, dopo aver
prostrato ogni signoria e ogni potestà e possanza... Ultimo nemico, è
prostrata la morte » (I ^C XV 20-26).
Si tratta dunque della restaurazione dell'uomo. La
biologia? Se si attiene a ciò che essa realmente conosce, e non
pretende, dopo aver rifiutato il dogma della Chiesa, di instaurarne di
suo piacimento uno dei più discutibili, deve ammettere, semplicemente,
di non poter dire nulla in materia. Da sé, essa non può stabilire la
possibilità della resurrezione, ma certissimamente nemmanco il
contrario. E quando si sente ciò che la fisica dei nostri giorni
insegna a proposito dell'importanza della forma nella elaborazione della
materia, e ciò che la medicina dice intorno al potere dello spirituale
sulla vita del corpo, il corporeo si mostra dato in mano allo spirito in
una misura che non si sarebbe mai potuta prevedere.
Con questo non è detto tutto del corpo risorto. Corpo
non è soltanto qualchecosa di saldo che mi sta qui dinnanzi, figura
50
spaziale; ma ha pure storia. Nel corso dal suo
costituirsi iniziale fino al disfacimento supremo esso attraversa una
serie non calcolabile di forme. Quale di esse è la sua propria forma?
Da bambino, da adulto, da vecchio? La risposta non può essere che
questa : ognuna è essenziale, poiché ogni singola fase non è
unicamente al servizio di quella che segue (il che equivarrebbe a dire
che tutte insieme queste forme disimpegnano soltanto una funzione
strumentale al servizio dell'ultima forma, quella della morte, ma ognuna
di esse è l'uomo, e ognuna indispensabilmente nell'integrità della sua
vita. Il corpo dell'uomo è pertanto in verità una catena di
forme, le quali tutte devono riscontrarsi nel corpo risorto. Dovrà
avere una nuova dimensione, quella del tempo ; bene inteso, del tempo
quale è assunto nell'eternità, così che nel suo presente, dell'uomo,
sia implicita la sua storia, e nel suo puro adesso tutta
l'alterna sequela di forme.
Ma questo non ha valore unicamente per il suo immediato
sviluppo; ha valore anche per ciò che egli ha fatto e per quello che
gli è accaduto: gioie e dolori, intralci e rivendicazioni, vittorie e
sconfitte, amore ed odio; tutto ciò che l'anima ha sperimentato, senza
misura, si è espresso nel corpo, è penetrato nel suo essere, lo ha
sviluppato o coartato o distrutto. Così vi è pure conservato, e si
trova nel corpo risorto. Ugualmente dicasi degli eventi ed incontri, e
la resurrezione del corpo implica la resurrezione di tutta la vita che
fu, bene e male.
E dove termina il corpo dell'uomo? Vi fa parte l'abito
che lo circonda? In un certo modo sì, per il semplice fatto di avere
una funzione nella sua vita : di protezione o di manifestazione.
L'ornamento che porta, gli strumenti di lavoro, le cose ambientali, la
casa della sua dimora, il giardino amato, tutto lo spazio vitale da lui
improntato? Non vogliamo fantasticare; una cosa, a ogni modo, è certa :
che il corpo dell'uomo comporta assai di più della nuda corporeità
anatomicamente descrivibile. Comporta, in fondo, un che di sconfinato :
il compendio, fatto visibile, della sua esistenza terrena. Resurrezione
intende perciò che non soltanto la forma, ma anche la storia; non
soltanto la sostanza risorge, ma anche la vita dell'uomo. Nulla di ciò
che fu va perduto. Il contenuto delle azioni e degli eventi umani rimane
in lui, e un giorno, svincolato dalla limitazione del tempo, starà
51
nell'eterno: non per forza propria, come fase ultima di
uno sviluppo ulteriore, ma su la chiamata del Signore, l'Onnipotente, e
per virtù del Suo spirito.
Ancora: per sua salvazione o per sua rovina. Vi sarà
il corpo beato e il corpo dannato. Come sta allora il corpo in quel
rapporto che è stato descritto nel secondo capitolo? Se l'uomo, cioè,
dopo la sua morte, ha bisogno di essere purificato, questo deve valere
anche per il suo corpo, e come si compirà la purificazione del corpo se
questo non risorgerà che alla fine del mondo, dopo la quale non si
darà più che beatitudine o dannazione etema ?
Anima e corpo non sono grandezze che si possano separare
in modo assoluto. Il corpo è oggetto di costante edificazione da parte
dell'anima spirituale; anzi quel che si chiama corpo, ad ogni
passo e in ogni atto della struttura che gli è propria, implica
l'anima, così vero che, se gliela si potesse disgiungere, non ne
rimarrebbe più corpo, ma una mera configurazione biologica, anzi forse
unicamente un certo conglomerato di composti chimici in disgregazione. A
sua volta, l'anima non vive per conto proprio, ma opera nel corpo e per
il corpo, tanto da essere lecito chiedere se si dia, semplicemente,
nella esistenza umana, un atto che sia puramente spirituale; e
non siano invece tutte le nostre azioni spirituali-corporee, vale a dire
per l'appunto umane. Si suoi dire che l'anima è nel corpo,
intendendo con questo che l'anima è il principio della vita del corpo,
il contenuto della sua manifestazione, il significato storico del suo
persistere e del suo muoversi, ma si potrebbe anche dire altrettanto
bene che il corpo è nell'anima, intendendo con questo che
l'anima lo possiede come strumentò del suo operare, rivelazione del suo
nascondimento; sito, posizione e materia della sua esistenza storica,
della sua figura, della sua azione. Forma e destino del corpo sono
compenetrati con la vitalità dell'anima. Perciò, quando l'anima, in
morte, si separa dal corpo, non è, il suo, un semplice respingere
lontano da sé il dominio del corpo. Essa non diviene un angelo, ma
rimane anima umana, e come tale comporta il corpo, fermo restando che
essa è il presupposto della vita del corpo, nel quale si sono venute
compiendo le sue azioni. Come dice la filosofia medievale,
52
l'anima è forma del corpo, e non di un corpo qualunque,
generico, ma di questo corpo particolare; ne della sua struttura
soltanto, ma anche della sua storia; e ancora non solo così che essa
operava nel corpo, ma pure che vi si è attuata, essa stessa, per cui
ciò che vi si compì essa lo assunse nella sua propria realtà. Così
nella resurrezione dei morti Dio conferirà alla virtù, che è propria
dell'anima, di forma del corpo, le possibilità di rifarsi il suo corpo
come dev'essere corrispondentemente alla sua realtà e alla sua verità.
(1)
Se così è e se l'anima, dopo morte, attraversa la
purificazione di cui si parlava sopra, pure il corpo latente in essa,
per così dire, avrà parte a questa purificazione. Così, quando poi il
morto risorgerà, il nuovo corpo sarà degno dell'anima restituita dalla
purificazione alla sua sincerità e verità.
Ma il costituirsi del nuovo corpo non è un puro ed
improvviso dato di fatto, quasi che l'uomo, fino alla sua morte, sia
unicamente terreno e poi, al ritomo del Signore, introdotto d'un tratto
nello spirituale-celeste. Nella lettera ai Romani Paolo sviluppa
quest'altro aspetto dottrinale su la resurrezione. Come risulta in
potenti tratti dai capitoli sesto, settimo e ottavo di quell'epistola,
il mistero della resurrezione e della morte ha già inizio in questa
vita : « O ignorate che quanti battezzati fummo in Cristo Gesù, nella
morte sua fummo battezzati? Consepolti dunque fummo con lui per il
battesimo nella morte, perché come Cristo fu ridestato da morte dalla
gloria del Padre, così anche noi si cammini in novità di vita. Se
infatti siamo diventati un solo germoglio con Lui per la somiglianzà
della sua morte, lo saremo pure per quella della sua resurrezione;
ponendo mente a questo: che il vecchio nostro uomo fu crocefisso con
lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato, da non più servire
noi al pec-
(1) Su l'importanza del corpo per l'anima e su la virtù
propria dell'anima di plasmare il corpo si trovano delle cose ammirevoli
in Dante, il poeta dell'ai di là. E' molto significativo, per una
genuina intcrpretazionc del Cristianesimo a questo riguardo, che la più
elevata produzione poetica cristiana, rappresentante nel contempo la
più potente espressione dell'anima medievale, sia pervasa da un senso
del concreto cosi ricco vitale e fattivo. (Nota dell'A.)
Guardini attende ora a uno studio su Dante. (Nota del T.)
53
cato. Infatti chi morì è fatto libero dal peccato.
Ora, se morimmo con Cristo, noi confidiamo che vivremo anche con lui »
(VI 3-8). Il battesimo, a mo' di inizio, è già morte e resurrezione a
un tempo. Generato nel lavacro battesimale, l'uomo nuovo continua a
vivere da quel momento — sempre adombrato dal vecchio, beninteso —
nella intimità del credente. Da quel momento è tutta una catena non
interrotta di disfacimenti e di attuazioni. Ogni azione ed ogni evento
porta sempre di nuovo a un morire del vecchio e a un risorgere dell'uomo
nuovo : un morire che si risolve in un costante ritomo a Dio, fatto di
obbedienza, mortificazione, rinuncia, tenacia e combattimento, di tutto
ciò che è imitazione di Cristo. Da questa consapevolezza si sprigiona
il mirabile inno che termina il capitolo ottavo ai Romani : « Sono
certo infatti che ne morte ne vita, ne angeli ne principati, ne presente
ne futuro, ne possanze ne altezza ne profondità ne altra creatura
alcuna potrà separarci dall'amore di Dio, che è in Cristo Gesù il
Signore nostro ».
L IMPORTANZA DELL INSEGNAMENTO CRISTIANO RIG-UARDO
AL CORPO
Tutto quest'ordine di considerazioni è di una enorme
portata. Il fatto che esso è sentito e sperimentato in modo
nuovo, mentre accosta il problema al cuore della coscienza cristiana,
segna una svolta nella storia intema del Cristianesimo.
Dame •S. parole la sostanza è molto difficile.
Il periodo che esordisce con il tramonto del Medioevo sembra
contraddistinto dal fatto che sul campo del pensiero stiano come due
poli opposti :
da una parte la materia nuda e cruda, dall'altra il puro
spirito (materialismo e razionalismo). Da questa tensione poi sono
procedute conseguenze di colossale importanza: sono uscite la tecnica e
la scienza moderna, ma è anche andato perduto quel senso di concretezza
vitale, animata e spiritualmente, per l'appunto, concreta, visibile,
immagine e simbolo. Anzi, è andato perduto l'uomo, — l'uomo e, con
lui, l'oggetto. Nel turbinio degli affari e dei successi mondani questa
perdita passò a lungo inosservata, ma un po' alla volta essa penetra
nelle coscienze. Noi ne sopportiamo
54 -•• '
le conseguenze, e ciò che è andato perduto si armunzia
di nuovo, sia pure in un primo tempo sotto un velame di miseria e di
nostalgia.
Quel che si è detto vale anche per l'intelligenza del
Cristianesimo. Certo, l'essenza del Cristianesimo è riposta al di là
delle incertezze caratteristiche della nostra storia che è nel tempo
(è custodita dalla protezione della fede, della disciplina e della
carità), ma i suoi sviluppi sono esposti al corso delle vicende
storiche. Così anche la vita cristiana ha finito per indulgere un po'
da una parte al mondo delle astrazioni e dall'altra a quello della
materia e dell'organizzazione; e l'uomo, la figura vitale, immagine e
simbolo si sono sbiaditi... Qui sembra peraltro annunziarsi un
passaggio. Noi sappiamo che chi forgia decisamente la coscienza
cristiana non è Dio in sé, ma il Dio umanato, Gesù
Cristo. Questo noi lo sentiamo, come sentiamo che non è la salvezza
dello spirito o dell'anima che è in gioco, ma la salvezza dell'uomo
vivente e, con l'uomo, del mondo: dell'uomo nuovo (R VI 4-6), del nuovo
cielo e della nuova terra (A XXI 1) (1).
Per quanto poi riguarda Iddio cerchiamo una buona volta
di renderci conto che cosa significa questo fatto: che Dio si fa uomo;
che, dopo la morte e resurrezione di Cristo, rimane uomo;
che l'umanità di Cristo in Dio siede per tutti i secoli
« alla destra del Padre », sul trono della gloria etema... Chi è Dio,
se Egli è il vero, anzi la Verità, la Verità per eccellenza, che
redime, santifica, rinnova? Certamente non è lo spirito assoluto
del pensiero contemporaneo... Non vogliamo indagare oltre questi
problemi cruciali: vi ci vorrebbe una ben altra preparazione di quella
che non si possa dare qui. A ogni modo rimane acquisita una cosa : il
Dio vivente è tale che in lui possa trovare la patria eterna non
soltanto l'anima nostra, ma tutto il nostro essere umano risorto.
(1) Una piccola nota: Me Vili 36 viene quasi sempre
tradotto: «Che giova • all'uomo acquistare il mondo intero se poi
reca danno all'anima sua? » Ora non e cosi, ma: «se poi reca
danno alla sua vita? » II greco <; psyche » implica infatti
il concetto di anima come principio della vita, e insieme il concetto di
questa stessa vita. Lungi da noi il fare delle preziosità filologiche.
Vogliamo semplicemente sottolineare che Gesù non è un puro
spiritualista. Non è l'anima, ma l'uomo che gli sta a
cuore. La sollecitudine per l'anima . a sé è una importazione degli
gnostici nell'antichità e / degli spiritualisti nell'epoca
contemporanea.
55
Da tutto questo la nostra esistenza cristiana ricava un
altro carattere: desume una concretezza e una vitalità tutta nuova
rispetto all'uomo e alle cose; diviene realtà; acquista un calore
impensato. Dacché l'uomo, materia e spirito, cadde, la facoltà
normativa non è più lo spirito, ma il cuore, dove cuore
significa, si capisce, una realtà radicalmente diversa da puro
sentimento o, peggio ancora, sentimentalismo. Così inteso, il cuore è
l'unità vitale di materia e spirito, ciò che l'uomo è in realtà, il
suo centro più intimo, il campo di ogni decisione, la sorgente del
divenire, la fonte di ogni mutazione.
I Sacramenti e in modo speciale l'Eucaristia derivano di
qui un'importanza parimenti del tutto nuova. Per esempio, che cosa
intende Gesù quando dice : « Se non mangerete la carne del Fi-gliuoi
dell'uomo e non berrete il suo sangue, non avrete in voi la vita? » (G
VI 54) Perché non dire: « Se non unirete il vostro spirito al mio, la
vostra volontà alla mia ... ». Perché non si tratta dello spirito, ma
della vivente umanata realtà di Cristo, che ha il suo punto
discriminante precisamente in ciò che ogni pretesa spiritualizzatrice
suole lasciar cadere per primo, cioè il corpo o, con espressione più
rude, usata da Giovanni, la carne. Perché dicendo uomo non si
intende unicamente lo spirito, ma il tutto vitale che, di nuovo, di
fronte a ogni volatilizzazione, ha il suo punto discriminante nel
corporale, cibo e bevanda. Il frutto poi di questo cibo e di
questa bevanda divina è la risurrezione « nell'ultimo giorno » (ib.
55).
Certo, questo linguaggio riesce duro, ma ne va
dell'esigenza suprema della vita cristiana.
Tutto questo, dunque, è garantito dalla dottrina della
resurrezione.
Chi volesse sintetizzare in una sola parola il contenuto
della fede cristiana, salva beninteso la consapevolezza delle premesse e
delle conseguenze che sono in gioco, potrebbe benissimo dire:
« Credo nella resurrezione della carne e nella vita
etema » o, ancora più esattamente : « Credo nella resurrezione dei
morti e nella loro etema vita ». È peraltro anche l'ultimo articolo
del Credo, e dopo di ciò vi è più soltanto l'Amen, a
buon diritto, poiché in esso sta ogni conclusione ed ogni compendio.
IL GIUDIZIO
I/ESSENZA DELLA STORICITÀ
per comprendere che cos'è il giudizio dobbiamo chiarire
dapprima come è plasmata la nostra esistenza terrena, la storia.
Storicità significa prima di tutto che la nostra
esistenza non è trasparente ed aperta.
Le ragioni sono diverse.
Anzitutto la trama delle cause e degli efletti non è
tale da consentire una introspezione o un'indagine. In ogni azione
s'intrecciano innumerevoli premesse. L'azione compiuta, a sua volta,
prosegue il suo lavoro attraverso una rete di vie tortuose e nascoste,
alcune soltanto delle quali possono essere individuate. Ogni avvenimento
è vincolato a molti altri; anzi, al trar dei ( conti, a tutti gli
altri, cosicché comprendere esattamente un fatto è possibile soltanto
a condizione di dominare nesso e connesso di quel fatto; ma questo,
perdendosi nell'infinito, sfugge ad ogni controllo. Tanto meno lo si
potrà perseguire nel profondo, poiché oltre ogni strato giace sempre
uno strato ulteriore, e siccome un avvenimento lo si può capire
unicamente esaminandolo dalle radici, esso rimane in gran parte
incompreso.
Altra ragione : ogni forma di vita è moto, quindi
espressione. L'interno si mette sempre costantemente in evidenza,
traducendo in un dato sensitivo l'oggetto che era prima nascosto.
Questo, peraltro, non è che un aspetto del rapporto : il medesimo
vivente si cela anche in se stesso, nasconde la sua vera sostanza. \
Nella pianta ,e nel bruto quest'alterna vicenda di manifestazioni e di
riserve è regolata dalla natura stessa, così da comporre una
57
stupenda armonia. Nell'uomo vi si aggiunge la volontà
cosciente, ma questa è piena di contraddizioni: l'intemo rimane sovente
celato mentre dovrebb'essere aperto; l'espressione non adegua il senso,
per quanto la situazione lo richiederebbe ; l'intenzione si offusca, e
tutto cade nel problematico. Il tono dell'espressione può capovolgere
tutto il senso e tradursi in inganno. L'uomo può giungere al punto da
celare a se stesso il suo intemo e adombrare di sé le sue proprie
intenzioni. Si propaga così uno stato di sfiducia che lo sguardo non
riesce a dissipare; anzi uno stato di seduzione e di ambiguità a cui il
giudizio non può prestar fede. Da tutto questo deriva alla storia
qualchecosa di refrattario, di pervicace, perfino d'insidioso e
dissimulato. E pensare che la storia avrebbe come sua missione di
annunziare Dio! Quel che Paolo afferma circa le cose di Dio, che cioè
« dalla creazione del mondo si vedono negli effetti con la mente »,
dovrebbe valere anche per il mondo umano, per le azioni e gli
avvenimenti umani;
anzi per essi ancora di più che per le cose della
natura dovrebbe essere chiara « l'eterna possanza e divinità » del
Creatore. Al contrario, la volontà umana guasta tutto in un modo tale
da domandarsi se la storia, anziché autrice e maestra, non rechi
piuttosto in sé il carattere per eccellenza dell'inconcludente e
dell'insensato. Così essa può tanto condurre a Dio il cuore non
illuminato, quanto allontanarlo da Lui.
Storicità significa in terzo luogo che la volontà
dell'uomo è libera, e libera non soltanto per ciò che è indifferente
e abbandonato al suo beneplacito, ma anche per ciò che è
importante," anzi perfino per ciò che ha valore di decisione circa
il senso supremo dell'esistenza. L'uomo sottosta all'appello del bene.
Lo deve compiere in base alla sua libertà, il che presuppone che lo
può anche omettere, anzi addirittura opporsi, - presuppone cioè la
possibilità di decidersi per Dio o contro Dio. Questa libertà,
veramente, non è che transeunte e discutibile in sé; deve però
essere, affinchè sia possibile conquistare la vera libertà, quella in
cui lo spirito scorge così nettamente il bene, e il cuore ne è così
pienamente ricolmo che l'uomo ormai non sa più volere altro. .
Questo fatto, che vi sia libertà, caratterizza
l'essenza della
58 -
storia. La libertà è lo stato nel quale l'uomo ha da
volere il bene, ma anche la condizione nella quale l'uomo può
volere il male. Volere il male denota per lo più volere
qualchecosa di buono in sé, ma in un momento in cui non è a proposito,
in una situazione in cui quel bene è fuori di posto, in una misura che
l'ordine non approva. La possibilità di vedere e di agire falsamente in
questo modo appartiene alla storia. Anzi alla storia appartiene pure la
possibilità ancora più perversa di erigersi contro lo stesso bene, di
compiacersi del male, di volere la rovina per la rovina.
Il bene è in ultima analisi la stessa santità di Dio.
L'esigenza che è propria del bene, di essere compiuto, è la volontà
per cui Dio vuole che il mondo sia il Suo regno. Così la storia, come
concatenazione delle attività umane, dev'essere il compimento del bene,
l'instaurazione del regno di Dio. In questo senso l'essere umano si deve
completare, e dall'opera dell'uomo deve succrescere il vero mondo. Ora
tutto questo è affidato alla libertà e per ciò stesso è posto in
gioco. È verissimo, sì, che la volontà divina non può essere
frustrata. Ma Dio rispetta la libertà delle sue creature; così egli
immette il suo volere nella possibilità di essere frustrato, e questa
possibilità non fa che attuarsi continuamente. Siccome però la
volontà di Dio è Egli stesso, è da ritenere che Dio non se ne sta in
un'olimpica indifferenza din-nanzi al corso della storia, ma — per
così dire — vi prende seriamente parte, anche se a noi non riesce
facile dire come. Quando poi Egli stesso ci si rivela e dice che è
carità, la cosa va ancora maggiormente in profondo. Allora l'amore di
Dio assurge a norma di destini umani.
Nella storia rientra infine un fatto che, a prima vista,
sembra il più naturale; ma poi, a mano a mano che lo si accosta, ci
toma strano: che cioè valore e potere sono ben lungi dal
procedere di pari passo.
Valore di una persona o di una cosa è ciò per cui
quella persona o quella cosa ha diritto ad esistere; valore di
un'azione, ciò per cui si giustifica che quella determinata azione si
compia. Così Fazione del mangiare è giustificata dal dovere di
conservare la vita; la sollecitudine che ci si prende per un amico è
59
giustificata dalla sua fedeltà; la tensione della vita
intellettuale, dalla verità. Quando questi valori si attuano
ordinatamente e secondo giustizia, mette corpo in essi il bene: il bene
è qual-checosa di proprio e come il contenuto, insieme, di tutti i
valori singoli; è per l'appunto, detto nel modo più semplice e piano,
il vero valore. Così ciò che vi è di più nobile dovrebbe pure avere,
pare a noi, la forza immediata di imporsi. È così? No. La semplice
affermazione che, in fondo, dovrebb'essere così, è tanto contraddetta
dalla realtà da parere ingenua. Quanto più nobile il valore di cui si
tratta (quanto più importante, dunque, il bene che s'incorpora in
esso), tanto meno evidente è che si compia. Il valore della
conservazione dell'esistenza è senz'altro tutelato dall'istinto; il
valore della salute e della bellezza fisica esige già le sue cure;
fedeltà poi non si attua che a prezzo di sacrificio. Cioè: quanto più
si sale nella scala dei valori, tanto meno il bene ha efficacia
immediata.
La storia è quella fase della vita umana in cui il bene
ha tanto minor potere quanto più è elevato. Affinchè l'uomo scenda in
campo per ciò che realmente vale, in ragione del suo pregio morale,
bisogna sempre appellare da capo alla sua magnanimità. Per questo la
fantasia ha dovuto ricavare la fiaba di un'esistenza in cui bene e
potere si adeguano. Il bambino, il bambino d'anni, come quello che si
cela nell'interno più recondito di ogni creatura umana, ci crede,
mentre crescere vuoi dire prendere consapevolezza dell'amaro- inganno di
ciò che è la realtà. Il buono dovrebbe, sì, essere il forte; il
puro, parimenti sano; l'uomo onesto, in ragione della sua onestà, anche
ricco e stimato; colui che lotta per il bene dovrebb'essere il favorito
dalla fortuna - ma non è così. L'essere non è plasmato immediatamente
dal suo valore reale; la prosperità non è necessariamente segno di
intenzione retta ; la felicità è così spesso totalmente disgiunta dal
merito; la bellezza può conseguire una pericolosa indipendenza dal bene
- è il tormentato mistero per cui, fin che sarà storia, l'ordine
ideato non coinciderà mai col reale.
Ma questo, in ultima analisi, denota che lo stesso
Iddio, nella storia, in un senso immediato, è debole: appunto
per aver voluto libero l'uomo, Egli rispetta questa libertà. La verità
e la santità di Dio dirigono arcanamente la storia - è però pos-
60
sibile che l'uomo se ne stia indifferente, fino a dire
che Dio non gli va, fino a proclamare che Dio non c'è.
Tutto questo può avvenire senza che l'uomo sia colpito dal fulmine,
senza che il mondo perda i suoi diritti. Anche Dio ha voluto aver
bisogno della magnanimità dell'uomo. E l'aspetto più nobile della fede
è appunto nella dignità sacra per cui si scende in campo per Uno che,
almeno per il momento, è debole.
Queste tré realtà determinano la natura della storia.
Ne segue però anche di conseguenza che la storia non ha potere di
compiersi da sé, ma accenna a qualchecosa di trascendente, al di fuori
di sé. Voglia o no, l'uomo non può non aver bisogno che sui suoi
segreti e sulle falsità che essi tramano si faccia luce;
che la possibilità di volgersi al male sfoci una buona
volta nella libertà vera; che il bene ideato si traduca in realtà,
e il male si riveli per ciò che è : assurdità, rovina e zero
o, in altri termini, clami al giudizio.
L'uomo porta in sé, incoercibile e innata, la sete di
giustizia, non soltanto nel senso gretto che riceverà quel che ha
versato e vedrà espiato il torto patito, ma, assai più profondamente,
come sete che si compia giustizia per la giustizia: con lui
personalmente, e con tutti, e col tutto. L'esistenza medesima deve
entrare nella giustizia, e il mondo diventare giusto - di questo egli ha
sete, pur sapendo che questa sete si volge contro di lui, non essendo
egli unicamente vittima, ma autore egli stesso di ingiustizia. Invocando
giustizia, la invoca dunque contro se stesso, eppure la deve invocare,
perché non può non volere che giustizia si compia, a costo della sua
vita.
VARIE INTERPRETAZIUNI DEL GIUDIZIO FINALE
Alla fine del mondo bisogna che vi sia il giudizio. Con
esso avrà fine pure la storia; e non soltanto fine, ma compimento.
Questa consapevolezza è di tutti i popoli, in tutti i tempi. Così
rimane ora da vedere che cosa intende per giudizio il messaggio
cristiano.
Nel giudizio l'essere si rivela qual è, e ogni inganno
cade.
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Tutto ciò che si cela dentro di noi, fino ai meandri
più reconditi, così nel bene come nel male, si manifesta. Viene in
chiaro quali furono le intenzioni, e risalta quale è la realtà. Ogni
essere è ciò che è.
Parimenti non vi è più nessuna possibilità di volere
i! male. Il bene viene posto da Dio in tanta luce che l'uomo non gli
può più negare il suo assenso: il suo sguardo è saziato, l'animo ne
è investito; ed egli ormai, l'uomo, non può più non vedere che solo
il bene ha diritto assoluto di essere. Del male, al contrario, apparirà
chiaro che non è ne necessario ne esperto del mondo, ne vitale, ne
eroico o che altro mai, ma, etimologicamente, super-fluo.
Ogni cosa creata sarà reale, vitale, bella, beata
esattamente nella misura in cui avrà di vero e di buono. La verità ed
il bene eromperanno; la loro efficacia adeguerà l'essere; domineranno
tutto, arcanamente operando. La falsità e la malizia non saranno
solamente punite, ma dall'onnipotenza della santità di Dio saranno
ostracizzate dall'essere, senza per questo potersi inabissare nel nulla,
e tale sarà la loro condanna.
In che modo? Come si compie il processo di questa
rettificazione della vita? Tra le varie risposte che si sogliono dare,
ne emergono soprattutto tré.
Secondo la prima di queste tré interpretazioni la
storia è un'assidua ricerca di maggior chiarezza, e per ciò stesso
finisce per costituirsi in autogiudizio. Ogni azione ha le sue
conseguenze, e queste ne inducono altre; si crea così una catena di
influssi attraverso i quali l'interno, a grado a grado, si rivela, e il
bene si disceme dal male. Nella lotta tra i motivi di questa cernita la
vittoria finale arride costantemente ai motivi buoni, perché più
capaci di essere che non i cattivi. E data questa tendenza. della
vita al bene, si delinea in fondo un corso progressivo in senso unico,
ascensionale. In cima è la luce piena nella quale ogni precedente trova
il suo proprio giudizio. E quand'anche questa mèta non si avverasse mai
del tutto, e tutte le fila della storia non dovessero segnare altro che
un approssimarsi all'irraggiungibile, lo scopo, come tale,
rappresenterebbe pur sempre una forza operante ad ogni tempo e in ogni
luogo.
62
Questa interpretazione ha un che di potente, che ispira
fiducia; ma non coincide con la realtà. La storia non è così fatta
che in essa i motivi delle azioni umane convergano in senso unico verso
l'attuazione del fine proposto. Se, per esempio,
10 dico qualchecosa di giusto, che sia giusto in se
stesso (non perché lo dico io), questo, a seconda delle disposizioni e
delle intenzioni dei singoli ascoltatori, può influire bene in uno e
male nell'altro: e allora come discriminare il valore della cosa detta?
Ne giovano le previsioni più ottimistiche se chi mi ascoltò riferirà
ad altri, e questi ancora a terzi, la cosa udita. O diviene forse la
vita necessariamente più chiara per il fatto di essere longeva? Non è
forse possibile che una persona anziana sia tanto cieca e ostinata sul
suo punto di vista quanto un giovane, se non ancora più fatalmente
cieca e più amaramente ostinata? Le conseguenze delle azioni umane non
hanno solamente efficacia rivelatrice, ma, a volte, sono anche velo, e
sovente in modo tale da rendere addirittura impossibile ogni e qualsiasi
giudizio. Poiché in esse il rapporto tra causa ed effetto non va da
cosa a cosa, ma da uomo a uomo. Se andasse unicamente da cosa a cosa,
sarebbe un semplice rapporto di causalità, e le cause sarebbero
realmente manifeste negli enetti; ma, andando pure da uomo a uomo,
subentra nei, gioco un fattore nuovo, la libertà, in cui tutti i
calcoli fatti in base al principio di causalità si confondono.
Veramente la storia principia da capo con ogni uomo... Di più,
l'efficacia della volontà perversa, alle volte, sembra tale che l'uomo
rottamente intenzionato fa figura di Stolto... Dato anche e non concesso
che la storia, al termine del suo moto, venga in luce, non sarebbe punto
soddisfatta per questo l'esigenza di una giustizia, poiché ciò che la
giustizia esige è che ad ognuno venga attribuito il suo diritto, e ad
ogni epoca
11 suo, e ad ogni popolo il suo, ognuno in se stesso, e
non già nel rapporto del tutto.
Dire verso quale termine si muova la storia non è
possibile, come non è possibile neppure dire se abbia, per se stessa,
sem-. plicemente un termine. Si può infatti affermare con altrettanto
buone ragioni che si espande verso orizzonti sempre più vasti, o che
s'irretisce sempre di più, o che procede oltre senza nemmanco una
ragione d'insieme che si possa determinare; e quanto si
63
afferma non dipende forse punto, in ultima analisi, da
veri e propri motivi, ma dal fatto di possedere l'ottimismo del giovane
o lo sguardo maturo del vecchio; dall'essere sano od infermo, in buone
condizioni di agire o inchiodato nell'inazione. Così ricorre sempre da
capo l'interpretazione riferita sopra; un vero e proprio giudizio
intorno ai valori ed alle intenzioni umane non è forse più facile
darlo di quanto sia facile trovare una misura valevole per il bene e per
il male, non c'è. Bene è ciò che miete successo;
di valore è ciò che si fa strada; e ciò che fallisce,
per ciò stesso che fallisce, dimostra che non aveva nessun diritto di
essere. Ma a questa stregua la vita è destituita di ogni valore morale.
Nella storia — dice una seconda teoria — le cose
seguono regolarmente il loro corso: il più forte vince il più debole;
il più destro vince l'ingenuo; chi ha più di inventiva la vince sul
semplice. Di bene e male, oggettivamente, non si può nemmeno fare
parola, poiché questa discriminazione rientra nel campo delle pure
intenzioni, al di dentro di noi. Per giudizio allora s'intende
che l'uomo giudica se stesso, vedendo com'è che la pensa e cos'è che
egli conta sul piano spirituale interiore accennato sopra. Del resto,
questa interpretazione non manca di invocare ordine sugli errori della
storia, sul rigore e il dispregio che il mondo ostenta, sulle fatalità
dell'esistenza. Questa — essi dicono — è determinata unicamente
dallo spirito e dalla verità, e in essa il cuore umano riceve quanto
gli conviene. Quell'ordine poi è unito al concetto di eternità e posto
in un modo vago al di sopra dell'uomo e al di là della morte.
Intanto però l'unità della vera vita è sacrificata, e
l'esistenza è disputata da due domini contrastanti : l'uno abbandonato
in preda alle necessità della natura e dell'agire umano, del fatalismo
tra causa ed effetto; l'altro, determinato dai criteri del vero e del
bene, da precisamente al cuore quanto gli spetta. Nessun rapporto tra di
loro, ed entrare nel campo della verità significa lasciare dietro di
sé l'esistenza terrena con i suoi errori in una parvenza inconsistente,
dunque una capitolazione. Se poi si pone con maggiore esattezza il
problema, dove sia riposto realmente questo campo della verità e della
libertà, com'è che l'uomo ne prende possesso, e attraverso che cosa è
instaurata la
64
giustizia o non se .ne riceve addirittura nessuna
risposta, o vengono fuori inconsistenti concetti di spirito, di
Essere Supremo, di giustizia eterna, nei quali non è
difficile intrawedere altrettante deviazioni di pensieri cristiani.
Una terza risposta è finalmente quella che è solita
darsi comunemente dalle diverse religioni, cioè : per ogni singoio uomo
il giudizio segue immediatamente la morte; per il mondo in funzione di
un tutto appena il tempo si è compiuto. Allora si presentano al
cospetto di Dio. Questi sta dalla parte della verità e del bene, scruta
gli intrighi e gli errori di ogni mortale, e pronuncia un giudizio che
retribuisce a ciascuno ciò che a ciascuno spetta.
Che cosa realmente significhi questa interpretazione non
è facile dire. Lo sviluppo che essa prese nel corso dei tempi; il modo
suo di passare a rappresentazioni di carattere filosofico e, in genere,
etico, mostra che non è, in gran parte, se non la persuasione che
l'esistenza soggiace a un ordine morale destinato un giorno o l'altro a
imporsi in modo definitivo. In altre parole:
al trar dei conti la verità sarà trionfatrice,
assegnando a tutto il suo vero valore. Soltanto, l'avvenimento si
compirà in due tempi :
prima e dopo la morte del singolo; prima e dopo la fine
del mondo. Questa interpretazione contiene però insieme un altro
elemento che trova la sua propria attuazione unicamente nella
rivelazione : che cioè la vita non può giungere da se stessa a una
chiarificazione; ma la deve afferrare dall'alto, per così dire, una
potenza superiore ad essa, per sottoporla al giudizio; e che quella
chiarificazione, quell'esame, quell'apprezzamento che si chiama giudizio
non procede da un dato esclusivamente spirituale, ma religioso.
La potenza che giudica il mondo non è dunque
semplicemente il vero e il moralmente buono, ma il santo;
e il valore definitivo del giudizio non proviene in ultima analisi dal
fatto che il senso della vita e della storia umana sia visto e giudicato
rottamente, ma dal fatto che la virtù della santità di Dio prende
liberamente e apertamente possesso su la vita.
65
L INSEGNAMENTO DELIA RIVELAZIONE
Verso il termine della sua vita terrena e durante
l'ultimo suo soggiorno in Gerusalemme, Gesù dice : « Subito dopo la
tribolazione di quei giorni si oscurerà il spìe, e la luna non darà
più la sua luce, e cadranno dal cielo le stelle, e le potenze dei cicli
si scuoteranno. Allora il segno del Figlio dell'uomo comparirà nel
ciclo; e allora piangeranno tutte le nazioni della terra, e vedranno il
Figlio dell'uomo venire sulle nubi del cielo con grande potenza e
maestà » (Mt XXIV 29-31).
E di nuovo : « Quando poi verrà il Figlio dell'uomo
nella sua gloria, e con lui tutti gli angeli, allora siederà sul trono
della sua gloria. E si raduneranno dinnanzi a lui tutte le nazioni, e
separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai
capretti; e metterà le pecore alla sua destra e i capretti alla
sinistra. Allora il rè dirà a quei della sua destra: Venite, benedetti
dal Padre mio, possedete il regno preparatevi fin dalla fondazione del
mondo. Poiché ebbi fame, e mi deste da mangiare; ebbi sete, e mi deste
da bere; fui pellegrino, e mi ricettaste; ignudo, e mi copriste;
infermo, e mi visitaste; carcerato, e veniste da me. Allora gli
risponderanno i giusti: Signore, quando mai ti vedemmo affamato, e ti
demmo da mangiare;
assetato, e ti demmo da bere? Quando ti vedemmo
pellegrino, e ti ricettammo; ignudo, e ti coprimmo? Quando mai ti
vedemmo infermo e carcerato, e venimmo a visitarti? E il rè risponderà
loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto qualcosa a uno di
questi dei minimi miei fratelli, l'avete fatto a me. E a coloro della
sinistra dirà: Via da me, maledetti, al fuoco etemo preparato per il
diavolo e per i suoi angeli. Perché ebbi fame, e non mi deste da
mangiare; ebbi sete, e non mi deste da bere; fui pellegrino, e non mi
ricettaste; ignudo, e non mi copriste; infermo e carcerato, e non mi
visitaste. Allora gli risponderanno anche questi: Signore, quando mai
t'abbiamo visto affamato o sitibondo o pellegrino o ignudo o infermo o
carcerato, e non ti abbiamo assistito? Ed egli risponderà loro:
In verità vi dico: Ogni volta che non l'avete fatto a
uno di
66 •.-
questi più piccoli, non l'avete fatto a me. E questi
andranno all'etemo supplizio; e i giusti alla vita etema » (Mt XXV
31-46).
Se, scorrendo questi testi, cerchiamo di eliminare quel
senso dell'abitudine che suoi creare una parvenza di familiarità, essi
ci appaiono d'un tratto strani: contrastano al nostro modo consueto di
sentire; esordiscono da premesse che ignoriamo se poter condividere o
no.
Ma se abbiamo appena un po' di familiarità con la
rivelazione e per poco che, conversando con l'uomo, abbiamo potuto
imparare a conoscere il suo scetticismo nel prendere posizione così
alla leggera di fronte ai vari problemi dell'esistenza, — il che
rappresenta il principio di tutto il sapere cristiano, — proprio
quella nota di estraneo ci farà chiedere se mai la sostanza non si
trovi precisamente in quelle parole.
Quello infatti che ci colpisce sta appunto nel dato
concreto, anzi personale dell'avvenimento. L'uomo moderno è abituato a
prendere sul serio soltanto quel modo di pensare che ha come suo
fondamento per l'intelligenza delle cose le necessità di natura o la
legittimità dello spirito. Egli considera la vita come un sistema di
materie e di forze, di leggi e di ordinamenti. In quello si risolve ogni
avvenimento. I bambini e il popolino possono vedere le cose come se vi
agissero degli esseri reali, concreti, a mo' delle fiabe e delle
leggende; gli uomini grandi e gli adulti no, non lo possono. Essi
credono di pensare rottamente solo quando derivano ogni conoscenza da un
vasto intreccio di leggi di natura e dello spirito, anche gli uomini,
anche il loro destino, anche la storia e il suo corso. Per ammettere,
dunque, anche un giudizio, vale a dire un fatto, dove vita ed
azioni umane siano indagate e scrutate, e sia loro assegnato un valore
eterno, non lo si può intendere, sembra loro, se non in questo senso:
che l'uomo o, più esattamente, il suo spirito si
presenta al cospetto di Dio onnipresente, e in quello la sua vita si fa
limpida, e chiaro il suo valore autentico.
Ma nel discorso di Gesù sul giudizio l'avvenimento ha
un aspetto completamente diverso. Gesù non parla di Dio in sé, dello
Spirito onnisciente e giustissimo, ma del Figlio di Dio fatto uomo, di
Cristo. .E l'avvenimento non succede in modo
67
tale che l'uomo per il semplice fatto della sua morte, e
la storia per il semplice fatto di avere toccato il suo fine, si
presentino al cospetto di Dio, ma Cristo viene di nuovo sulla
terra e la scuote dalla posizione che le è naturale quaggiù e che le
rende possibili i ripieghi della storia. È insomma una resa dei conti
suprema, che raduna tutti gli esseri alla presenza di Cristo:
anche gli uomini; non soltanto il loro spirito, ma la
loro realtà concreta (materia e spirito); non soltanto gli elementi
singoli della storia, ma tutta la storia. Ora, affinchè ciò si avveri,
il corpo morto e decomposto risorge, non in base a qualsivoglia
necessità immanente all'essere, ma per comando di Cristo. E lo stesso
compimento del giudizio non è una semplice chiarificazione nella luce
di Dio dinnanzi alla Sua santità, ma avviene così che Gesù Cristo, il
quale un giorno era quaggiù sulla terra e regna ora nella sua gloria,
scruta e giudica tutta la storia come ogni singolo uomo, assegnandogli
quella forma di vita, unica valida, che gli conviene dinnanzi a Dio.
Per l'uomo moderno tutto questo non è altro che
fantasia o, al più, simbolo. Così la pensano, per lui, i fanciulli o i
popoli primitivi. I loro miti, le loro leggende, le loro favole
rappresentano gli avvenimenti divini antropomorficamente, vale a dire
come l'uomo vive ed agisce. Non appena il bambino è cresciuto e i
popoli primitivi si sono culturalmente sviluppati, comprendono che in
realtà tutto risponde a delle leggi inderogabili e va pensato alla
stregua di concetti scientifici o filosofici. Così anche l'insegnamento
cristiano del giudizio è uno di quei miti, che per conseguenza una
considerazione più seria non potrà che respingere.
Qui ci si trova un'altra volta a decidere intorno al
senso della rivelazione; un'altra volta di fronte alla scelta: se far
della fede una pura questione di sentimento e orientare i nostri
pensieri secondo un'interpretazione delle più generali, o se invece
vogliamo essere cristiani anche nel modo di pensare, poiché ciò che i
moderni sogliono presentare come primitivo, ingenuo, antropomorfico, è
precisamente essenziale. La determinazione ultima del mondo e della
storia non viene ne dalle leggi generali della natura e dello spirito,
ne dall'entrare in presenza della realtà di Dio, ma da una azione
divina. Beninteso: da una
68
azione, non da un semplice influsso; da una operazione,
non da una mera specie di protezione, precisamente come tutta quanta
l'economia della salute non è riposta in un più alto ordine naturale,
ma in un operoso intervento di Dio nella storia che si attua entro lo
spazio della natura e attraverso i suoi avvenimenti; a quel modo in cui
il mondo non sorge come realtà naturale da cause naturali, ma come
opera di Dio chiamata all'essere dal Suo essere libero e dalla Sua
parola onnipotente. Se vogliamo esser cristiani anche nel pensiero, non
ci è possibile, in ultima analisi, esprimere il rapporto di Dio con il
mondo, con l'uomo e con la vita qual è nella sua integrità, in
concetti fomiti dalla metafìsica o dalle scienze naturali, ma
unicamente in concetti che siano dedotti dal dominio della persona, vale
a dire appunto dagli « interdetti » concetti antropomorfici di
uno che agisce, prende le sue decisioni, segue il corso del suo destino,
esercita la sua libertà. Tutta la Sacra Scrittura parla a questo modo,
e se ci si è dati seriamente premura bastevole, e soprattutto riflessa,
di servire la verità — così pacatamente riflessa per cui le
riflessioni false abbiano avuto tempo di sfarsi e le cose, pure loro,
sufficiente spazio di tempo per mostrarsi quali sono in realtà —
allora si vede pure come quei concetti cosiddetti antropomorfici siano i
soli che hanno effettivamente un valore definitivo.
Il giudizio è, in ordine di successione, l'ultima delle
azioni di Dio, procedente dalla libertà del suo sovrano consiglio e
condotta da Colui al cui apparire sulla terra gli uomini hanno respinto
il provvido intervento di Dio nella storia, ma il cui sacrificio
nonpertanto — che Dio non si pente dei suoi doni — frutta in
redenzione; da Colui che, a partire da quel momento, rimane come segno,
attraverso tutta quanta la storia, a cui non si può contraddire;
termine di riferimento per il singolo e per i popoli. È Lui che conduce
il giudizio. E ha potere di farlo, perché è il Figlio di Dio, il
Logos, « senza del quale non è stato fatto nulla di quanto si fece »
(G I 3) e del quale il mondo, lo voglia o no, rimane pur sempre la casa.
Ma ciò che colpisce stranamente i nostri schemi mentali
filosofico-scientifici e li capovolge, scende ancora maggiormente
69
in profondità. Come si compie questo atto del
giudicare? Su ' quale base e secondo quale criterio esso determina il
valore dell'uomo?
A primo aspetto propenderemmo ad ammettere come materia
del giudizio le azioni od omissioni dell'uomo, il suo carattere, i
particolari e il tutto, a seconda della molteplicità delle relative
norme e dei relativi valori che vi sono impegnati. Invece vediamo tutto
fuso in una cosa sola, l'amore, e precisamente in quell'amore che si
rivela dinnanzi ai bisogni degli altri... Sta bene, diciamo noi : si
tratta evidentemente « del primo e più grande precetto, e dell'altro,
che è uguale al primo », dei quali Gesù fa parola nel Vangelo; di
quella realtà di cui paria l'Apostolo quando scrive che con il precetto
della carità « si compie tutta la legge ». Si parla unicamente
dell'amore di fronte alle miserie altrui, ma in realtà è inteso tutto
il dominio del precetto caritativo; si paria unicamente dell'amore, ma
compendiata in esso tutta la rettitudine: di azione, attuazione,
ed essere.'
Ma come viene descritto e applicato il criterio
dell'amore? Il giudice — si pensa — potrebbe dire : « Tu hai
esercitato la carità : sii dunque premiato ; tu invece no : sii dunque
reietto ». Nulla di tutto questo. Il giudice dice : « Tu sei approvato
perché esercitasti la carità verso di me; sei reietto perché mi
negasti» la carità ». ... Anche questo — si potrebbe rispondere —
è comprensibile: la carità soprawanza tutto e dev'essere esercitata
verso di tutti; Cristo poi, che ha annunziato questo precetto e l'ha
messo in pratica egli stesso fino alla perfezione, si mette al posto
di ogni uomo, per amore della sua persona, per dare l'apprezzamento
supremo.
Per sé, non sarebbe impossibile. Se però esaminiamo
spregiudicatamente il tutto, vediamo che l'intenzione non è questa. Il
massimo non è la carità; non è la norma annunziata da Cristo,
alla quale tutti sarebbero obbligati, a incominciare da Cristo; ma la
norma della carità è Lui stesso. Essa incomincia con Lui e consiste
per Lui. Senza di Lui questa norma non esisterebbe, e quel che si
afferma in base a premesse di carattere filosofico-umano non ha rapporto
con la carità intesa qui più di quanto ne -abbia, poniamo, la
divinità dello spazio celeste con il Padre
70
del Nuovo Testamento, o la pura catena degli avvenimenti
con la Sua provvidenza.
Si dischiude ora tutta la caratteristica, anzi la
grandiosità dell'annunzio cristiano del giudizio: l'unità di misura
alla stregua della quale saremo giudicati sarà il nostro rapporto a
Cristo. Sincerità, giustizia, fedeltà al dovere, purezza e tutti gli
altri valori morali sono, in ultima analisi, buona condotta dinnanzi a
Cristo. Parlando di verità, noi intendiamo abitualmente un
concetto generale, il fatto cioè di conoscere qualchecosa nella luce
dell'Essere supremo. Ma Giovanni ci ammonisce nel prologo:
Questo (della verità) non è un pensiero accessorio che
abbia valore soltanto condizionatamente. In fondo, la Verità è Lui, il
Logos; e conoscere, in fondo, significa riconoscere il Logos, Cristo e,
in Lui tutte le cose... Così qui, parlando di bene, intendiamo
il valore supremo, e per azione buona intendiamo la sua attuazione.
Invece il discorso del giudizio dice: In fondo il Bene è Lui,
Cristo, e agire bene significa amare Cristo.
La verità ed il bene non sono punto, in
definitiva, dei valori o delle idee puramente astratte, ma qualcuno.
Gesù Cristo... Reciprocamente si può dire che ove appena sia dato
rintracciare qualchecosa di vero, là è un conoscimento, sia pure
soltanto iniziale, di Cristo; ed ove appena sia dato compiere
qualchecosa di bene, là in fondo è un avanzamento verso Cristo e un
bene che Gli si offre. Parallelamente, ogni cattiva azione, qualunque
sia il motivo che la può aver suggerita o il fine atteso, rappresenta
in ultima analisi un attacco contro di Lui. Il bene ha potere di
risplendere in diversa guisa nell'uomo, in un oggetto, in un
avvenimento, ma in ultima analisi rappresenta sempre Lui, Gesù Cristo.
Chi agisce, mentre agisce, può anche non pensare affatto a Cristo, ed
avere a che fare inizialmente anche solo con un uomo, nondimeno la sua
azione mette capo a Cristo. Anzi, può anche non saper nulla di Cristo,
perfino non aver mai sentito parlare di Lui, — la sua azione mette
capo a Cristo.
Indagare tutto questo, attraverso tutto il mondo quanto
è vasto, lungo il corso dei secoli, e giudicarlo, e fissare per sempre
il suo valore effettivo, nella vita di ogni singolo uomo come nei
rapporti dell'intero corpo sociale, è l'atto divino del giudizio.
71
Cristo verrà a compierlo, e la sua sentenza sarà
irrevocabilmente l'espressione impeccabile e definitiva della verità di
ogni uomo e di ogni rapporto. Questo per due ragioni: prima di tutto
perché vera e poi perché efficace; tanto di efficacia quanto di
verità, vale a dire una misura assoluta, cui non potrà resistere
nulla. Il verdetto segnerà il fondamento della esistenza dell'uomo e
dell'umanità intera, dinnanzi a Dio e per sempre.
Cristo, peraltro, non è solo giudice; è pure
liberatore. Ed è appunto come giudice che è liberatore: il giudizio
non è espressione di risentimento da parte del Figlio di Dio; non è il
trionfo personale sui suoi nemici. Se la verità ed il bene — come
s'è detto — sono persona (Lui, il Cristo), non per questo essi hanno
perduto o ridotto comunque il loro valore essenziale per cadere nel personale,
ma il giudizio rimane perfetta giustizia. Giustizia però che non sta
per sé, ma è vitale intenzione di Cristo, vincolata con il Suo amore.
Nel giudizio si compie definitivamente la redenzione.
Il modo contemporaneo di concepire le cose, traducendo
tutta la vita in formule naturali o in sistemi filosofici, è capovolto.
Non leggi od idee sono la sostanza, ma realtà. Ora, la più reale di
tutte le realtà è una persona determinata, il Figlio di Dio
fatto uomo. Egli è quello che era, Gesù di Nazareth; e tornerà in
grande maestà e gloria, come Signore, più potente del mondo, più
grande della storia, più capace e più comprensivo di tutto ciò che si
chiama idee, valori, leggi morali. Tutto questo è essenziale; in ultima
analisi però non è che un riflesso di Lui.
La dottrina relativa al giudizio è dunque, in fondo,
una rivelazione del Cristo, nella quale noi riconosciamo il compito che
ci è imposto dal divenire cristiano : di vedere cioè come Egli è
l'anima di tutto; di portare in cuore la sua figura così potente,
cosicché Egli soprawanzi mondo storia ed opera umana fino a penetrare e
pesare tutto, per assegnare a tutto il suo valore 'eterno; in una
parola: per giudicare.
L'ETERNITÀ'
TEMPO ED ETERNITÀ
la parola eterno fa parte di quelle che hanno
più profondamente turbato il nostro linguaggio abituale contemporaneo.
È venuta a significare tutto il possibile, fino ad esprimere
semplicemente l'idea di qualchecosa di importante o di misterioso. È
peccato, perché una parola non è soltanto un segno di reciproca
comprensione, ma una formazione vitale, materia e spirito. Insieme con
le altre parole, ognuna concorre a creare il linguaggio e, come tale, lo
spazio entro cui l'uomo vive; il mondo delle figure concettuali, onde la
verità gli riflette senza posa la sua luce. Così, quando una parola
cade in disuso non è affatto lo stesso fenomeno di quando più persone,
in conversazione tra di loro, non afferrano bene ciò che un altro dice;
ma cade una di quelle figure che compongono l'ordito entro cui l'uomo
vive;
si ottenebra una di quelle segnalazioni concettuali di
cui egli ha bisogno per procedere bene; si spegne una luce, e il suo
giorno spirituale è un po' più tetro di prima.
È quindi un servizio reso alla vita umana ripristinare
nella sua luce genuina una parola che la noncuranza dell'uso quotidiano
ha condannato a morire.
Cos'è dunque, qui, eternità^
A prima impressione — impressione che si riflette
anche nell'uso della parola — eternità sembra denotare incessante
durata. Così, per esempio, si parla di astri eterni, di nevi eteme,
della eterna sofferenza umana o del ricorso etemo delle cose. Un
significato analogo lo si riscontra pure in rappresentazioni di
carattere religioso, come nei miti relativi all'esistenza di oltretomba.
In questo senso si sentiranno popoli cacciatori o pastori narrare che un
giorno il morto sarà introdotto rispettivamente
73
nelle riserve o nei pascoli eterni, per continuare,
senza fine, intensificata e piena di meraviglie, la vita vissuta in
terra... Altri avranno cura di mettere a fianco al defunto, nella tomba,
tutto ciò che sulla terra può avere avuto importanza per lui:
oggetti preziosi, suppellettili casalinghe, piccoli
bastimenti, figure di schiavi od altri oggetti consimili : un segno,
insomma, che l'eternità è pensata come prosecuzione della vita di
quaggiù, senza fine.
Ma questa pretesa eternità denota solo tempo
che procede sempre; ossia, piuttosto di un concetto, un
non-concetto, di cui, a ogni modo, nella nostra economia spirituale, non
sappiamo fare a meno. Sappiamo benissimo, cioè, che ogni misura di
tempo è circoscritta; calcolata in ore, giorni ed anni, per cui —
salgano, queste misure, fino alle stelle o scendano al livello infimo
— il tempo rimane sempre limitato in sé. Ciononostante non sappiamo
raffigurarci che la misura del moto del mondo, il tempo, debba avere una
buona volta una fine, come non sappiamo raffigurarci che abbia avuto un
inizio. Inizio e fine del tempo sono segreti coi quali noi, da noi, non
ne usciremmo mai. Per il nostro modo di sentire si va sempre oltre, nel
passato e nel futuro; i miti poi provvedono a tradurre in figura questo
andare oltre nell'arcano, e velano la contraddizione mediante il
sentimento religioso.
Secondo il suo senso genuino, eternità significa cessazione
(Aufhebung) del tempo. Il che è presto detto, ma solo in base al
concetto stesso di tempo, come per esempio il matematico ricava dalla
conseguenza dei suoi numeri una conclusione senza che ce la si possa
poi, per questo, nemmanco rappresentare. È realizzabile un essere privo
del tempo, fuori del tempo, senza il tempo? Una vita sottratta al tempo?
Una realtà che ne si pone ne passa; non si muta, ma semplicemente è -
e tuttavia non è immota, ma ferace e vitale?
Forse sì. Pare infatti che vi siano delle esperienze in
base alle quali è possibile accogliere la cosa detta almeno nel nostro
modo di sentire.
Vi è il tempo meccanico, che consiste nella semplice
successione, senza alcun rapporto a ciò che avviene, una specie
74
di letto di fiume per il corso degli avvenimenti umani.
Espressione tipica, l'orologio, con la sua indifferenza a tutto ciò che
succede; la sua fredda mancanza di vita, che a volte però, proprio in
ragione della sua aridità tanto lontana dal nostro cuore suscettibile a
gioia e dolore, può acquistare una così inconsueta potenza.
Tutt'altra è l'esperienza del tempo in cui noi stessi
versiamo, il tempo animato. Propriamente noi non ne conosciamo altro al
di fuori di questo: anche il gelido avanzare dell'orologio desume
infatti la sua potenza, per noi, dal fatto di misurarci la vita, dove il
tempo, appunto, non è già più una semplice misura esterna del moto,
ma s'innesta, per così dire, in margine al corso della vita.
Ma appunto qui noi parliamo dell'esperienza immediata
del nostro proprio passare, e su questo terreno il tempo ha un carattere
totalmente diverso: un'ora colma di forti emozioni ha la sua misura;
un'ora intcriormente vuota, la sua; l'una ha lo spazio di un attimo,
l'altra non sa mai finire. Se, al contrario, gettiamo uno sguardo al
passato, la nostra impressione si rovescia :
le ore sbadigliate nel tedio appaiono come un nulla ;
quelle invece intensamente vissute come un lampo si stagliano quadrate
sullo sfondo delle nostre memorie. In altri termini, non appena entra in
gioco la nostra propria vita, il tempo riveste un carattere tutto nuovo.
Segna bensì il succedersi degli avvenimenti; non però una successione
uniforme come nel moto delle sfere di un orologio dove tutto si riduce a
un monotono prima e poi; ma vitale, m^ mutevole con il
mutare del senso, della profondità e dell'intensità, con riferimento
alla nostra propria esistenza che si vive una volta sola; sopportato,
etimologicamente, dalla dignità e responsabilità della persona. La sua
misura non è determinata unicamente dallo scatto dell'ago indicatore,
ma anche dalla natura del fatto che vi si compie.
Ora quali possibilità presenta questo che potremmo
chiamare tempo esistenziale?
Un giorno — racconta una fiaba — uno stregone disse
a un califfo di immergere il suo volto in un catino d'acqua. Il
califfo obbedì, e visse tutta una lunga vita, ed ancora molte altre
vite (era uomo, donna, portatore d'acqua, guida e tante
75
altre figure insieme), quando, d'un tratto, un
avvenimento lo scosse, ed egli si avvide che proprio in quel momento
stava levando il suo viso dall'acqua. Cioè, nel brevissimo spazio di
tempo consentitegli di star sott'acqua trattenendo il respiro, egli
aveva percorso tutto un mondo di esperienze... Solo una fiaba, ma dice
molto. Immaginiamoci, in base a quel rapporto tra contenuto e misura,
tra peso e transito del tempo, di poter intensificare la velocità in
modo da sintetizzare la sua importanza fino a colmare sempre di più lo
spazio vitale; questa linea non raggiungerebbe allora più nessun
limite, ma sarebbe tutto un accennare a ciò che ha valore per sé,
all'eternità: condizione di vita in cui non vi sarebbe più nessun
transito, ma solo presente; nessun incalzare, ma un puro convenire di
avvenimenti, e questo in base a un contenuto la cui grandezza, e in base
a un'attuazione la cui forza sarebbe tale da bandire anche solo l'ombra
di tedio.
Un'altra esperienza: la vita comporta l'impulso alla
velocità: sia come evasione da un pericolo, sia come spinta verso un'optabile
conquista. Comporta però anche l'impulso contrario:
alla distensione, alla tregua di ogni proposito, alla
quiete. Noi conosciamo — assai di rado, per vero — dei momenti nei
quali cala nel nostro interno un silenzio sempre più vasto: ambizioni e
timori non sono più; non si comprende più come mai, dietro alle cose,
ci si dovrebbe appostare in vedetta, o di che aver paura. Si ha come una
sensazione : ancora un momento e poi l'infaticabile corsa del tempo sta
nell'attimo compiuto, perché pienamente completo, non da questa o da
quell'altra cosa che sempre inganna, ma dall'esistenza pura e semplice
che, nella sua semplicità, comprende tutto... Pure questo è un anelito
di vita, di soggiogare il tempo per evadere nel puro presente. Non
riesce mai: quegli attimi sono continuamente strappati via da
qualchecosa che succede al di fuori o da un sussulto intcriore ;
tuttavia essi forniscono un orientamento, e il punto al
quale questo accenna è l'eternità... L'utile, conseguito lo scopo, si
eclissa; il bene rimane. E non solo a lungo — per giorni od anni o fin
che il ricordo sopravvivrà — ma rimane, incondizionatamente. Ora,
nella misura in cui l'uomo si affeziona a questo assoluto, e lo vuole,
prende egli stesso parte al suo carattere.
7è
Quanto più decisamente e più fortemente egli aspira al
bene, tanto più fortemente matura in lui questo che di assoluto, tanto
che — possiamo seguitare con il pensiero — se ad uno venisse fatto
di volere un bene perfetto, e di volerlo con un'intensità attingente il
più profondo del cuore, e di innestare tutte le sue forze in questo
volere e in questo agire, avverrebbe qualchecosa di non mai visto: se è
permesso ricorrere a un termine di cui tanto abusiamo, sarebbe eternato.
In base a queste esperienze ci si può fare un'idea di
ciò che dovrebb'essere eternità: il puro presente di una vita
perfetta. Divenire e passare vi sarebbero esclusi. Il vivente
realizzerebbe in un puro atto tutto il suo essere. La sua forma e le sue
forze sarebbero tutte in rilievo. L'essere sarebbe giustificato in ogni
punto dal suo valore effettivo: non soltanto sarebbe, ma avrebbe diritto
di essere.
Da se solo, l'uomo non è tale da conseguire una simile
eternità. Di virtù sua propria egli non attinge mai la presenza che è
tutto vita, nella quale il bene si realizza senz'ombre. Ma se ci fosse
un essere il cui contenuto fosse il bene per definizione, cosicché
valore ed essere sarebbero pienamente adeguati (un essere perfettamente
buono e infinitamente grande), la vita di quest'essere escluderebbe
ormai ogni sorta di aspirazione e di divenire. Colma di significato, e
il senso della sua esistenza sarebbe tutto reale. Il momento transito
non sarebbe più, e il solo presente avrebbe valore. Ora, quest'essere
c'è: è Dio. Il suo modo di vivere è l'eternità. Tempo non è
qualchecosa di intorno a noi, come sarebbe, per esempio, un canale
attraverso il quale fosse dato di passare al di là. Noi stessi, il
nostro essere finito, pone il tempo, mentre appunto l'eternità è il
modo di vivere proprio di Dio.
Da noi non potrebbe mai risultare nulla di etemo;
soltanto ravviamento verso l'eterno, la nostalgia dell'etemo. Affinchè
sia dato di prendervi parte in realtà, bisogna che sia dato da Dio. Ma
come?
77
LA RIVELAZIONE DELL ETERNITÀ
La mistica pantelstica, indiana o persiana o
neoplatonica, asserisce che l'uomo, attraverso purificazione, rinuncia,
conoscimento, dedizione, superamento di sé, può arrivare tanto in
là da divenire una cosa sola con il divino; f crinalmente divino;
quindi sottratto al tempo, etemo come Dio.
La rivelazione cristiana ha un altro linguaggio.
Anche qui il Nuovo Testamento compie un passo curioso dal generale nel
personale, dalla metafisica alla storicità, di fronte a cui il modo di
pensare del contemporaneo prova un senso di angòre, quasi che le cose
di Dio venissero angustiate entro misure umane, come fanno il popolo, il
bambino, il primitivo.
In realtà si tratta di qualchecosa del tutto diverso.
Può infatti apparire pieno di maestà e profondo di significato il
pensare i Novissimi come se, ecco, la vita infinita di Dio stesse nella
presenza tacita dell'assoluto, e lo spirito umano che ha vissuto
lealmente i suoi giorni, lasciata dietro di sé la spoglia della sua
individualità, s'immergesse nell'ineffabile di quella vita. Ma, se
così fosse, la realtà della nostra vita, secondo cui Dio solo è Dio e
l'uomo, in tutto, creatura Sua, sarebbe scalzata dalle fondamenta.
Appunto per questo il Vangelo parla in modo del tutto diverso
dell'eternità e del nostro essere nell'eternità: ne parla per
similitudini che presuppongono questa verità-base esposta or ora. La
vita eterna della creatura è un inno di lode; un servizio reso a Dio e
insieme un dominio (A IV 5, XXII 3-5);
un andare di Cristo all'uomo, un dimorare presso di lui
e cenare con lui (G XIV 23, A III 20); una festa di nozze, alla
quale è convitato tutto quanto il mondo (A XXI 1). Che significa tutto
questo?
Si potrebbe rispondere che il senso di queste
similitudini è riposto appunto in quel concetto metafisico-mistico di
eternità, di cui si parlava or ora. Vi sono anche di fatto, in campo
religioso, dei pensatori di gran nome che sono di questo avviso, ma in
realtà non fanno che confondere il senso. Naturalmente;
78
in
quelle descrizioni vi è pure dell'immaginario (nella eternità non si
canta nessun inno e non vi è nessuna mensa alla quale prendere parte),
senza però nessuna intenzione di immaginario, ma unicamente allo scopo
di mettere a fuoco ciò che l'eterno realmente è : non è un rapporto
tra concetti astratti (essere, vita, verità e simili), ma un rapporto
di persone. Ecco l'essenziale.
Cerchiamo così un'altra volta di elaborare su
l'esperienza quotidiana un complesso di indicazioni che ci
orienti verso il nostro fine.
In una sala vi è un tavolo, con delle sedie; alle
pareti, un armadio ; nel centro piove una lampada. È lo spazio
fisico '. i diversi oggetti hanno reciprocamente un accanto^
un sopra, un sotto.
Un'altra ipotesi: io me ne sto seduto all'aperto, su di
una panca. Intorno a me è silenzio, in modo che io sono tutto sereno e
tranquillo. I miei pensieri seguono vie d'oro, e fluisce in me il
sentimento dei larghi orizzonti. Questa vastità non è solo intorno a
me, nella campagna; ma anche in me, nel mio spirito. Ecco di nuovo uno spazio
entro il quale vi è qualche cosa: l'intimità della vita e, in quella,
i moti dell'animo, i sentimenti, ecc.
Un'altra ancora: io sto riflettendo a un problema; mi ci
arrovello; vi penetro; stabilisco confronti, distinzioni e rapporti. A
un tratto ecco la verità con la sua inconfondibile potenza concettuale
tarmisi presente come ciò che ha valore per sé, senza seconde
intenzioni e secondi fini, solo perché è verità. È, da capo,
uno spazio di nuovo genere, entro il quale è pari-menti qualchecosa : lo
spazio dello spirito e. in quello i miei pensieri; più esattamente,
la mia conoscenza concreta; più esattamente ancora, io stesso come un
essere che si nutre della verità.
Finalmente, un'ultima situazione: due persone si
conoscono già da un pezzo; hanno posto mano insieme ai lavori più
disparati e condiviso ogni genere di esperienza. Improvvisamente uno dei
due prende a parlare, dice qualchecosa. L'altro ne è colpito e pensa
tra sé: «sì! quello è fedele! tutto lui!» Ecco, l'ha
dinnanzi a sé. Non all'esterno (all'esterno l'ha sempre avuto
din-nanzi), ne solo dinnanzi allo sguardo del sapere o dello stimare,
che era ugualmente già un dato di fatto; ma a quello sguardo
79
che dall'Jo va al Tu, rapporto conoscitivo di
persona a persona. Qui si apre nuovamente uno spazio, entro il quale
questi due amici si trovano insieme secondo un nuovo modo di essere:
10 spazio personale del conoscimento reciproco, del
timore, della fedeltà, dell'affetto, dell'amicizia.
L'uomo può trovarsi in tutti questi spazi: nello spazio
fisico, perché è dotato di un corpo; nello spazio della vita, perché
è dotato di un animo; nello spazio del vero e del bello, essendo
spirito; nello spazio della persona, essendo Io con potere di attingere
il Tu di un altro.
Ora la Sacra Scrittura dice cose come queste : « In
principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio.
Questo era nel principio presso Dio» (G I 1-2). Non dice:
prima era il Verbo, o semplicemente: una volta
era il Verbo (sarebbero tutte determinazioni di tempo), ma: in
principio. Questo principio non è il primo nella serie degli
istanti di tempo, ma il principio semplicemente, il dominio primordiale
di Dio. È il modo di essere di Dio, l'eternità. Ma come viene
determinato questo essere-eterno? Di che natura è lo spazio proprio di
questa forma di esistere? Non lo spazio fisico, ne quello della vita
immediata o dell'animo, è senz'altro chiaro. Ma neppure semplicemente
lo spazio dello spirito. Non si dice : « In principio Iddio viveva
nella sua pura verità ». Giovanni avrebbe potuto dirlo benissimo, lui
che chiama così frequentemente Dio la verità, l'amore, la luce. Invece
no, ma — così è descritto l'esistere di Dio — «II Verbo era
presso Dio», più esattamente: «II Verbo era rivolto a Dio, verso Dio
» (wphi; -rov S-sóv), dove Dio indica
11 Padre, e Verbo il Figlio. Di Questo si dice
che « è rivolto verso Dio » ; ma poi, affinchè l'espressione non si
perda nel metafisico, dopo il prologo si aggiunge : « Nessuno ha mai
veduto Iddio; l'Unigenito Figlio, che è nel seno del Padre, Egli lo ha
rivelato» (I 18). Vediamo — per usare un linguaggio umano — come
Due sono rivolti reciprocamente l'Uno all'Altro nell'armonia di un
sapere infinito e di un infinito amore. Di quel sapere che non dice
soltanto: Io ti conosco, ma: Io so di tè; di quell'amore in cui Ognuno
dei Due deve all'Altro il tutto, ed è,
nonostante ciò, perfettamente distinto. Questa perfetta
unità in distinzione perfetta è sola possibile per lo Spirito Santo.
Solo per Lui il Figlio è realmente Egli-stesso, e parimenti Egli-stesso
anche il Padre, poiché l'onnipotente fecondità della generazione
divina è per opera dello Spirito Santo. Solo per lo Spirito Santo Padre
e Figlio sono un solo Dio, poiché è per lo Spirito che il Generato non
si separa, ma si rivolge al Padre e rimane in Lui. ... Ora, questo che
è tra il Padre e il Figlio — lo spazio entro cui Padre e Figlio sono
così rivolti l'Uno a l'Altro, — questa è l'eternità vera e sovrana.
L'identico spazio si dischiude di nuovo là dove nel
Vangelo si dice : « Gesù, battezzato, uscì subito dall'acqua ; ed
ecco gli s'aprirono i cieli; e vide lo spirito di Dio scendere siccome
colomba, e venire sopra di lui. Ed ecco una voce dal cielo che disse:
Questo è il mio Figlio diletto, nel quale mi son
compiaciuto ». (Mt III 16-17). I cieli si aprono; lo spazio
serbato all'arcano, la luce inaccessibile in cui Dio è solo con Sé, si
apre. In quella luce il Padre posa il suo sguardo sul Figlio e
pronuncia le parole del conoscimento e dell'amore. In quella luce il
Figlio è rivolto al Padre, sa la sua volontà e si costituisce
responsabile per l'onore del Padre: ecco di nuovo l'eterno lo-Tu
della vita intima di Dio. Lo spazio che ne sorge, la sua intimità, il
suo silenzio, la sua plenitudine è l'eternità.
L'eternità, centro di tutto. Di là tutto
procede; là tutto ritorna.
VENTRATA DELL UOMO NELL ETERNITÀ
Tutto ciò che Giovanni e Paolo dicono della vita
cristiana poggia sul rapporto noi in Cristo - Cristo in noi.
Questo significa prima di tutto che il credente è
illuminato e sorretto dall'immagine e dall'intenzione del Signore. Non
solo: Cristo, per la sua morte e resurrezione, è assurto a uno stato
nuovo: «II Signore — dice Paolo — è lo spirito». Così — senza
alcun bisogno di annullare la corporeità; senza punto infirmare
l'interiorità della vita umana ne toccare la dignità
81
della persona — Egli può benissimo essere nel
credente: come figura che lo informa; come potenza che, operando, lo
assiste;
come sostegno e rifugio entro cui egli vive. In ogni
cristiano, a seconda dei presupposti e del modo di essere della sua
personalità, si rinnova la vita di Cristo : appunto in Cristo l'uomo è
finalmente così libero da poter essere all'altezza della propria
misura. Ma, ancora una volta, chi stabilisce questo rapporto è lo
Spirito Santo: la prima volta nella Pentecoste, quando da discepoli
incerti e chiusi trae degli apostoli; da quel momento, continuamente,
attraverso la fede e il battesimo.
Così — e di questo si potrebbe parlare senza fine —
la vitale realtà di Cristo s'immedesima con il credente che, in atto di
entrare in questa comunione con Dio, è ammesso, per Cristo, nel
rapporto che Egli ha con il Padre : « Nessuno conosce il Figlio tranne
il Padre, e nessuno conosce il Padre tranne il Figlio e colui al quale
il Figlio lo avrà voluto rivelare » (Mt XI 27). «Nessuno può venire
a me, se non lo attiri il Padre che mi ha mandato » (G VI 44). « Io
sono la via, la verità e la vita ; nessuno va al Padre se non per me »
(G XIV 6). La méta di ogni andare umano è il Padre; non ve n'è altra,
ed appaga tutto. Ma la via per arrivare al Padre non è aperta,
evidente. Poiché il Padre non è soltanto la più alta potenza
creatrice o la sapienza che a tutto presiede e tutto governa, come
permette la naturale esperienza religiosa di intrawedere, ma il Padre,
nelle sue proprietà personali, è nascosto. Egli è il Dio ignoto, del
Quale veniamo in certo modo a conoscenza quando Egli stesso ci si
rivela, ciò che avviene in Cristo. Attraverso Cristo noi veniamo a
conoscenza del Padre, quando Egli viene rivelato come Suo Figlio:
«Chiunque nega il Figlio, non ha nemmeno il Padre;
chi confessa il Figlio, ha pure il Padre » (I G II 23).
Figlio di Dio : — diciamolo marcando l'accento
dell'importanza corrispondente a questa espressione: — essere figlio
di Dio non significa unicamente stare a Dio in un rapporto tutto
confidenza e fiducia, amarlo e sapersi protetti da lui, ma significa
qualchecosa dove la precisione e l'inaudito fanno il paio : significa
essere assunto, per grazia, nel rapporto al Padre, in cui il Suo Figlio
umanato sta a Lui per natura.
82
Fede
poi, per usare la vigorosa espressione paolina, significa essere come
presi in mano da Cristo: non solo psicologicamente, corne il discepolo
dal maestro, ma realmente; essere da Lui introdotti nella sua propria
vita e fatti partecipi del Suo etemo volgersi al Padre; convogliati
cioè nel rapporto lo-Tu che intercede tra Padre e Figlio. È
ciò che trova la sua espressione suprema nelle parole di Cristo : « Io
sono la via ». Non solamente : « Io segnalo la via », oppure : «
Precedo », ma : « Io sono la via » {•/i óSó<).
Dal mondo al Padre, nell'ordine delle cose o nella natura dell'uomo, non
sarebbe possibile nessuna via, senza Cristo, poiché non è un rapporto
di cose che si pone, ma una relazione personale. L'Incarnazione, per la
quale, ecco, Uno è qui, detto Gesù Cristo; uomo come noi, e quindi
tale da poter fare la nostra vita; Dio come nessun altro mai, e quindi
tale da potersi introdurre nell'arcano, l'Incarnazione solo ha dischiuso
la via.
Tutto questo appare su la terra in forma di inizio, di
prova e di lotta. È velato. Bisogna fare atto di fede e saper
respingere l'accusa che pretende l'evidenza concreta. Ma quell'inizio è
reale;
la via c'è, e va in su. Quell'eternità di cui
parlavamo, riposta nella proprietà delle Persone e nell'unità
dell'essenza, nella dedizione e nell'amore reciproco tra il Padre e il
Figlio; quella latitudine, quella profondità, quell'intimità
sacra,'quel sapere l'Uno dell'Altro ed essere l'Uno per l'Altro, è la
patria promessa. È il termine ultimo di tutte le aspirazioni umane. È
l'eternità.
Il giudizio e ciò che lo precede mette fine alla
storia. Disrompe i misteri del tempo e li disperde per introdurre il
figlio di predilezione in quella eternità che è nella processione
dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio. ... Vi accennano l'entrar
per la porta, il conversare, il dimorare, il convito nuziale, l'inno di
lode, il servizio sacro e le promesse piene di mistero che le sette
lettere dell'Apocalisse indirizzano a chi sarà stato fedele e
vittorioso... Così ancora le parole del « Figlio unigenito che è nel
seno del Padre » (G I 18), accennanti discretamente anche alla
intimità di Gesù con il discepolo « che aveva caro » (G XIII 23),
sono pegno e anticipazione insieme.
' Parlando della resurrezione si ebbe occasione di dire
cos'è che viene assunto nell'eterno: non soltanto l'anima o lo
spirito,
83
ma l'uomo, il vivente, corpo ed anima, con il
prezzo del suo destino, con la tela delle sue azioni in quanto, al
giudizio, si sono rivelate consistenti, così da poter venire approvate.
Quest'asserzione è di una portata enorme, ma non è che
l'ultimo anello di una catena lungo tutto il messaggio cristiano.
Di portata enorme, prima di tutto, il semplice fatto di
ammettere che un essere limitato possa convenire, comunque, nella
comunione con Dio. Enorme per tutti coloro che, svinco-latisi dalla
confusione del panteismo, videro chiaramente il presupposto di ogni
spirituale purezza nell'umile riconoscimento che Dio solo è Dio; e
l'uomo creatura, e solo creatura; e, di mezzo, l'abisso della
distinzione, semplicemente... Solo, infatti, l'intervento operoso ed
arcano di qualchecosa del tutto nuovo
— ed è la grazia nel suo puro e pieno significato —
può assegnare a queste promesse una base di possibilità.
Di portata ancora più enorme — almeno per la
struttura mentale di noi moderni — che questo essere limitato debba
essere l'uomo. Diciamo anzitutto che non è lecito applicare il termine spirito,
sullo stesso piano, a l'uomo e a Dio: se l'uomo è spirito, allora Dio
lo è in un modo così diverso e così incomprensibile che non è più
possibile nessun confronto... Fissato questo (che cioè sarebbe un
inganno parlare di spirito univocamente riguardo all'uomo e
riguardo a Dio), immaginiamo, per ipotesi assurda, che soltanto lo
spirito sia assunto al consorzio della natura divina :
... ci parrebbe, via, meno, assurdo... Ma anche il corpo
dell'uomo
— si dice a questo proposito —, anche la sua storia
che è per l'appunto storia d'uomini, anche le sue azioni ed opere che
si sono svolte nello spazio e nel tempo, saranno assunte nella intimità
di Dio.
Non è per caso una favola? Se lo è, anche la
resurrezione di Gesù è una favola, e così pure la sua ascensione,
poiché Colui che siede eternamente alla destra del Padre non è il puro
Logos, ma Cristo Gesù, vero Dio e vero uomo, nella pienezza della sua
vita redentrice. Si è cercato di eliminare questo presunto scandalo,
non potendo sopportare l'idea che il corpo umano di Cristo debba essere
assunto nella purità di un Dio tutto spirito; ma la stessa vigilanza di
coscienza e la stessa tenacia di forze con cui la Chiesa ha condotto, la
sua difesa su questo terreno sta a dimo-^
84 •-- -
strare che ciò che è in gioco è la stessa essenza del
Cristianesimo. Tutto, infatti, dipende da qui : la reale resurrezione di
Cristo ;
la sua umanità ascesa, come tale, unitamente alla
divinità, negli splendori etemi; la vita, non soltanto del Logos, nella
intimità di Dio, ma anche del corpo glorioso di Gesù di Nazareth. Dio
volle e creò l'uomo così com'è e, volendolo Dio cosi, non potrebbe
essere diversamente. Questo Dio non è il dio dei filosofi o di .certi
adoratori dello spirito puro, ma Uno tutt'altro: già sconosciuto
all'uomo, e rivelato in Cristo; come pure sconosciuto era il mistero
dell'uomo, e solo Cristo ce lo ha fatto conoscere.
Al capo ottavo dell'epistola ai Romani, nonché
all'inizio di ^quelle destinate ai fedeli di Efeso e di Colesse, si
afferma che, nel rapporto di cui cercammo di adombrare qualchecosa, non
sarà assunto soltanto l'uomo, ma ogni creatura. Non si tratta cioè
semplicemente della redenzione dell'uomo, ma anche del mondo;
non si tratta unicamente dell'uomo nuovo, ma anche «
del nuovo ciclo e della nuova terra ». Non immediatamente — sarebbe
mito e magia — ma attraverso l'uomo. A noi non è dato di intrawedere
fin dove si estenda questo nesso: si delinea già nella dottrina su la
provvidenza... La provvidenza non annunzia semplicemente un più alto
grado nell'ordine del mondo, ma insegna che se l'uomo, credendo, entra
in contatto con la volontà del Padre, le cose intomo a lui assumono un
ordinamento del tutto nuovo; e dappertutto dove questo avvenga si
dischiude un nuovo principio e si attua la nuova creazione, «che la
vigile attesa della natura sospira la manifestazione dei figli di Dio.
Alla caducità infatti la natura fu sottomessa, repugnante, ma
obbediente a Chi ve la sottomise, su speranza che anch'essa natura sarà
vendicata dalla servitù della corruzione alla libertà gloriosa dei
figliuoli di Dio. Sappiamo infatti che tutta la natura è nel travaglio
del parto sino ad ora » (R Vili 19-22). È tutto un estuare di cose, da
ogni parte, in questo nuovo illuminante principio, ma questo principio,
a sua volta, non è altro al di fuori del rapporto a Dio in cui Cristo
introduce l'uomo. Così la lettera agli Efesini parla del proposito di
Dio di « ordinare la pienezza dei tempi a stringere in un capo tutte le
cose, in Cristo, quelle nei cieli e quelle sulla terra » (I 9-10), dove
ammi-
85
riamo come non soltanto l'uomo sia conquiso dalla
potente figura di Cristo, ma tutto il mondo; e la lettera ai Colossesi
descrive il regno del Figlio di Dio, «nel quale abbiamo la redenzione,
la remissione dei peccati: lui che è immagine dell'invisibile Iddio,
generato prima d'ogni creatura, poiché in lui furono create tutte le
cose nei cieli e sulla terra, le visibili e le invisibili, troni
dominazioni principati e potestà, tutto per lui ed a lui è creato,
egli è prima di ogni cosa, e ogni cosa in lui sussiste. Ed Egli è il
capo del corpo, cioè della Chiesa; lui che è primizia, primonato dai
morti, onde abbia in tutto lui il primato; poiché in lui si compiacque
di abitare tutta la pienezza, e per lui riconciliare tutte le cose in
lui, pacificando per il sangue della croce sua, per lui, tanto quelle
sulla terra quanto quelle nei cieli » (I 14-20). E una specie di marcia
trionfale : tutta la creazione prende le mosse verso quella eternità
arcana di cui parlavamo. Non immediatamente — come, per esempio,
secondo la mente dei platonici, l'Ente supremo anela a tornare,
attraverso l'Eros che tutto involge, al suo principio —, ma attraverso
l'uomo, attraverso il suo cuore redento e mutato.
... Abbiamo cercato di sviluppare parecchi pensieri;
abbiamo fatto ricorso a molte parole per parlare dell'eternità
cristiana, e tutto rimane ancora nel vago e nell'imperfetto... In
realtà è qualchecosa di sommamente semplice.
Intanto ricorre, senza mai stancarsi, l'accusa che il
Cristianesimo intristisce l'uomo, disprezza'il corpo, disanima il mondo,
confina il credente da un terreno di operosità in un isolamento
spirituale e religioso... Soltanto la falsità potrebbe dare origine e
offrire difesa a un dogma di questa fatta... Nessuno ha mai descritto
all'uomo orizzonti così vasti come il messaggio cristiano;
in nessun sistema mai, come in esso, il mondo fu inteso
così seriamente; e la creatura, che pur si trascina nel tempo, non fu
mai così decisamente esaltata ed approssimata a Dio come lo fu da
Cristo. E tutto questo in un modo da cui rifugge anche solo l'ombra di
un mito o di una fiaba, ma con una serietà di proposito che non patisce
nessun confronto umano, e per la quale è garante il destino di Cristo.
FINITO DI STAMPARE 20 LUGLIO 1951 COI TIPI DELLA
TIPOGRAFIA EDITRICE A. E F.LLI CATTANEO BERGAMO
|
|
INDICE PER MATERIE (1)
amore - del prossimo come unità di misura
nel giudizio: 69. archeologia - 1. azione - L' - e
l'essere: 28.
cairologia - 1.
golfa - v. Peccato.
corpo - il - glorioso: 43; gradi di corporeità
nel creato: 44; vita del -: 45-47;
divenire e storia del - : 49-50 ; - ed ambiente: ib.;
interferenze tra anima e -:
51-52; importanza dell'insegnamento cristiano riguardo
al -: 53.
creazione - la nuova -: 84.
cristo - la verità: 70; il bene: ib.; - giudice e
liberatore: 71; - in noi: 80; - e i .suoi rapporti con il Padre: 81.
culto - dei morti, e sue deviazioni: 35-3 6.
escatologia: !..
essere - il dovere di - perfetti: 28; fare il bene ed -
buoni : 29.
eternità - P - nella storia delle religioni:
8; tempo ed -: 73; la rivelazione dell'-:
T?; - e spazio: 79-80; l'entrata dell'uomo nell'- : 80.
fede - cosa significa: 82.
giudizio - carattere definitivo della sua sentenza: 21;
oggetto del -: 34-35, 69; essenza della storicità in rapporto al
giudizio: 56; varie interpretazioni del - finale: 60; insegnamento della
rivelazione circa il -: 65; amore del prossimo come unità di misura nel
-: 69; quindi carattere personale del -: ib.
giustizia - aspirazione naturale dell'uomo alla
-: 60.
idealismo - sua risposta al problema della morte
: 7.
intenzione - 25; cos'è: 26; genesi dell'-:
27.
morte - l'affermazione del Cristianesimo:
3, 9; significato naturale della -: 5; -
fisica: 5; - biologica: 5; - psicologica: 5;
- biografica : 6 ; risposta del positivismo al
problema della - : 7 ; risposta dell'idealismo : 7 ; la - nella storia
delle religioni :
8 ; - e peccato : 10-11 ; - e redenzione : 13 ;
senso cristiano della -: 18; t poveri morti:
23.
beccato - morte e -: 10-11; - e sofferenza: 33.
pentimento - cos'è: 34. perdóno - e intenzione
: 26 ; perdonare e
condonare: 31.
perfezione - il dovere di tendere alla - : 28. pietà -
cristiana e fede nel purgatorio : 23.
(1) I numeri in grassetto indicano la pagina di un
intero capitolo consacrato al relativo argomento.
INDICE PBR
MATERIE
PosmviSMo - sua risposta al problema della morte : 7.
potere - valore e -: 58-60.
provvidenza - di Dio su l'uomo: 30; - e nuova creazione
: 84.
purgatorio - dottrina della Chiesa: 20;
false rappresentazioni del -: 24; sofferenze del-:
31.
redenzione - morte e -: 13. resurrezione -
dottrina cristiana circa la -:
15-16,37; presunti argomenti contro la - :
38-39. rivelazione - e sua conoscenza: 40-41; -
e giudizio: 65.
santità - che cosa comporta: 30. sofferenza - le - del
purgatorio: 31. spazio - fisico: 78; - dell'animo: ib.; - dello
spirito: ib.; -personale: 79. storia - carattere storico
della morte: 10;
essenza della storicità: 56.
tempo - ed eternità: 72; - meccanico: 73;
- animato : 74.
uomo - il messaggio cristiano e 1'-: 40.
valore - e potere: 58-60. verità - dire la - : 29. vita
- eterna: 18-19.
INDICE PER MATERIE (1)
amore - del prossimo come unità di misura
nel giudizio: 69. archeologia - 1. azione - L' - e
l'essere: 28.
cairologia - 1.
golfa - v. Peccato.
corpo - il - glorioso: 43; gradi di corporeità
nel creato: 44; vita del -: 45-47;
divenire e storia del - : 49-50 ; - ed ambiente: ib.;
interferenze tra anima e -:
51-52; importanza dell'insegnamento cristiano riguardo
al -: 53.
creazione - la nuova -: 84.
cristo - la verità: 70; il bene: ib.; - giudice e
liberatore: 71; - in noi: 80; - e i .suoi rapporti con il Padre: 81.
culto - dei morti, e sue deviazioni: 35-3 6.
escatologia: !..
essere - il dovere di - perfetti: 28; fare il bene ed -
buoni : 29.
eternità - P - nella storia delle religioni:
8; tempo ed -: 73; la rivelazione dell'-:
T?; - e spazio: 79-80; l'entrata dell'uomo nell'- : 80.
fede - cosa significa: 82.
giudizio - carattere definitivo della sua sentenza: 21;
oggetto del -: 34-35, 69; essenza della storicità in rapporto al
giudizio: 56; varie interpretazioni del - finale: 60; insegnamento della
rivelazione circa il -: 65; amore del prossimo come unità di misura nel
-: 69; quindi carattere personale del -: ib.
giustizia - aspirazione naturale dell'uomo alla
-: 60.
idealismo - sua risposta al problema della morte
: 7.
intenzione - 25; cos'è: 26; genesi dell'-:
27.
morte - l'affermazione del Cristianesimo:
3, 9; significato naturale della -: 5; -
fisica: 5; - biologica: 5; - psicologica: 5;
- biografica : 6 ; risposta del positivismo al
problema della - : 7 ; risposta dell'idealismo : 7 ; la - nella storia
delle religioni :
8 ; - e peccato : 10-11 ; - e redenzione : 13 ;
senso cristiano della -: 18; t poveri morti:
23.
beccato - morte e -: 10-11; - e sofferenza: 33.
pentimento - cos'è: 34. perdóno - e intenzione
: 26 ; perdonare e
condonare: 31.
perfezione - il dovere di tendere alla - : 28. pietà -
cristiana e fede nel purgatorio : 23.
(1) I numeri in grassetto indicano la pagina di un
intero capitolo consacrato al relativo argomento.
INDICE PBR
MATERIE
PosmviSMo - sua risposta al problema della morte : 7.
potere - valore e -: 58-60.
provvidenza - di Dio su l'uomo: 30; - e nuova creazione
: 84.
purgatorio - dottrina della Chiesa: 20;
false rappresentazioni del -: 24; sofferenze del-:
31.
redenzione - morte e -: 13. resurrezione -
dottrina cristiana circa la -:
15-16,37; presunti argomenti contro la - :
38-39. rivelazione - e sua conoscenza: 40-41; -
e giudizio: 65.
santità - che cosa comporta: 30. sofferenza - le - del
purgatorio: 31. spazio - fisico: 78; - dell'animo: ib.; - dello
spirito: ib.; -personale: 79. storia - carattere storico
della morte: 10;
essenza della storicità: 56.
tempo - ed eternità: 72; - meccanico: 73;
- animato : 74.
uomo - il messaggio cristiano e 1'-: 40.
valore - e potere: 58-60. verità - dire la - : 29. vita
- eterna: 18-19.
INDICE PER MATERIE (1)
amore - del prossimo come unità di misura
nel giudizio: 69. archeologia - 1. azione - L' - e
l'essere: 28.
cairologia - 1.
golfa - v. Peccato.
corpo - il - glorioso: 43; gradi di corporeità
nel creato: 44; vita del -: 45-47;
divenire e storia del - : 49-50 ; - ed ambiente: ib.;
interferenze tra anima e -:
51-52; importanza dell'insegnamento cristiano riguardo
al -: 53.
creazione - la nuova -: 84.
cristo - la verità: 70; il bene: ib.; - giudice e
liberatore: 71; - in noi: 80; - e i .suoi rapporti con il Padre: 81.
culto - dei morti, e sue deviazioni: 35-3 6.
escatologia: !..
essere - il dovere di - perfetti: 28; fare il bene ed -
buoni : 29.
eternità - P - nella storia delle religioni:
8; tempo ed -: 73; la rivelazione dell'-:
T?; - e spazio: 79-80; l'entrata dell'uomo nell'- : 80.
fede - cosa significa: 82.
giudizio - carattere definitivo della sua sentenza: 21;
oggetto del -: 34-35, 69; essenza della storicità in rapporto al
giudizio: 56; varie interpretazioni del - finale: 60; insegnamento della
rivelazione circa il -: 65; amore del prossimo come unità di misura nel
-: 69; quindi carattere personale del -: ib.
giustizia - aspirazione naturale dell'uomo alla
-: 60.
idealismo - sua risposta al problema della morte
: 7.
intenzione - 25; cos'è: 26; genesi dell'-:
27.
morte - l'affermazione del Cristianesimo:
3, 9; significato naturale della -: 5; -
fisica: 5; - biologica: 5; - psicologica: 5;
- biografica : 6 ; risposta del positivismo al
problema della - : 7 ; risposta dell'idealismo : 7 ; la - nella storia
delle religioni :
8 ; - e peccato : 10-11 ; - e redenzione : 13 ;
senso cristiano della -: 18; t poveri morti:
23.
beccato - morte e -: 10-11; - e sofferenza: 33.
pentimento - cos'è: 34. perdóno - e intenzione
: 26 ; perdonare e
condonare: 31.
perfezione - il dovere di tendere alla - : 28. pietà -
cristiana e fede nel purgatorio : 23.
(1) I numeri in grassetto indicano la pagina di un
intero capitolo consacrato al relativo argomento.
INDICE PBR
MATERIE
PosmviSMo - sua risposta al problema della morte : 7.
potere - valore e -: 58-60.
provvidenza - di Dio su l'uomo: 30; - e nuova creazione
: 84.
purgatorio - dottrina della Chiesa: 20;
false rappresentazioni del -: 24; sofferenze del-:
31.
redenzione - morte e -: 13. resurrezione -
dottrina cristiana circa la -:
15-16,37; presunti argomenti contro la - :
38-39. rivelazione - e sua conoscenza: 40-41; -
e giudizio: 65.
santità - che cosa comporta: 30. sofferenza - le - del
purgatorio: 31. spazio - fisico: 78; - dell'animo: ib.; - dello
spirito: ib.; -personale: 79. storia - carattere storico
della morte: 10;
essenza della storicità: 56.
tempo - ed eternità: 72; - meccanico: 73;
- animato : 74.
uomo - il messaggio cristiano e 1'-: 40.
valore - e potere: 58-60. verità - dire la - : 29. vita
- eterna: 18-19.
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