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ROMANO GUARDINI

I NOVISSIMI

VITA E PENSIERO

PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA

traduzione di RAFFAELE FORNI

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Titola originale dell'opera : DIE LETZTEN DINGE

CAN. CAROLUS PIGIMI - CENSOR ECCLES. NIHIL OBSTAT QOOMINUS IMPRIMATUR

IMPRIMATUR

IN CURIA ARCH. MEDIOL. DIE 30-4-1951 t DOMINICI; 3 BERNAHEGGI - VIC. GEN.

STAMPATO IN ITALIA - PRMTED IN ITALY 001 TIPI BELLA TIPOGRAFIA EDITRICE A. K P.LLI CATTANEO - BERQAMO

PRESENTAZIONE

f\ fel licenziare alle stampe « J Novissimi » di Romano Guar-•i » dini (1) a conchiude un trittico che ha come precedenti « II Signore » (2) e « JZ testamento di Gesù » (3).

Questi tré lavori si sarebbero anche potuti presentare rispettivamente così'. «Il Signore », «II Signore con noi » e «II nostro ritorno al Signore». Il proposito iniziale di farlo fu poi scartato' per il timore di ingenerare confusioni tra l'uno e l'altro dei tré studi. Se lo si ricorda qui, è unicamente allo scopo di fornire al lettore la ragione per cui, volendo far conoscere Romano Guar-dini al popolo di lingua italiana che è il suo, sono state scelte — tra le sue molte opere — le tré sopra nominate', per offrire, cioè, nella descrizione del ciclo completo da Dio a Dio — donde veniamo, dove siamo e dove andiamo —, un ordine di riflessioni unitario intorno ai problemi filosofico-teologici che stanno alla base della nostra vita.

r. f.

(1) « Die letzten Dinge » : Die christliche Lehre vom Tode, der Lauterung nach dem Tode, Auferstehung, Gericht und Ewigkeit, 1949, Werkbund - Verlag, Wùrzburg, Abteilung die Burg.

(2) « Der Herr », Betrachtungen ùber die Person und das Leben Jesu Christi, 1940, Werkbund-Verlag, Wiirzburg, Abteilung die Burg - Tradotto in italiano per i tipi di Vita e Pensiero, Milano 1949, sotto il titolo « II Signore ».

(3) « Besinnung vor .der Feier der hi. Messe », 1949, Frankische Gesellschafts druckerei, Wurzburg - Tradotto in italiano per i, tipi di Vita e Pensiero, Milano 1950, sotto il titolo <; II testamento di Gesù ».

SOMMARIO

Presentazione Sigle Prefazione .

LA MORTE ..........

L'affermazione del Cristianesimo .....

Il fenomeno della morte e il suo significato naturale . La morte e il peccato .......

La morte e la redenzione .......

Il senso cristiano della morte . . . . . ' .

IL PURGATORIO . . . .

JLKl UVLL11114J. UCUÌ1. V^iJUCSa .......

L'intenzione . . . . . .

L'azione e l'essere ........

Le sofferenze del purgatorio . . . . .

LA RESURREZIONE . .

La dottrina rivelata ........

Il messaggio cristiano e l'uomo .....

-Il corpo glorioso ........

L'importanza dell'insegnamento cristiano riguardo al corpo

IL GIUDIZIO . . . . ...

L'essenza della storicità .......

Varie interpretazioni del giudizio finale ....

L'insegnamento della rivelazione . . . .

L'ETERNITÀ' .........

' Tempo ed eternità ........

La rivelazione dell'eternità ......

L'entrata dell'uomo nell'eternità .....

Indice per materie . . . . . . • .

SIGLE

A Apocalisse. .

I G Prima lettera di San Giovanni.

G Vangelo secondo San Giovanni

I C Prima lettera di San Paolo ai Corinti.

Gn Genesi.

L Vangelo secondo San Luca.

Me Vangelo secondo San Marco.

Mt Vangelo secondo San Matteo.

K Lettera di San Paolo ai Romani.

PREFAZIONE

l'esistenza si attua nel tempo. Da questa temporaneità emergono — non solo chiaramente, ma decisamente— tré determinazioni: l'inizio, il fine e l'attimo transeunte. Inizio e fine limitano la figura dell'esistenza nel suo complesso; nell'attimo essa si compendia, compenetra il vivente e gli si da in mano, ' ricavando dalla sua libertà un significato stabile.

Da un'interpretazione evangelica di questi tré elementi (inizio, transito e fine) risaltano i concetti fondamentali di una dottrina cristiana del tempo vitale.

Dell'inizio: come principia l'individuo, e come principiò il mondo in cui l'individuo vive e che nell'individuo si attua. ,

Del fine: come finisce la vita del singolo, e come sarà la fine del mondo.

Finalmente, dell'attimo: come, adesso, il tempo nel suo andare, e con esso la vita nella sua catena di irrevocabili istanti, sono confidati all'uomo; di nuovo, la vita del singolo e quella del mondo che su di lui riposa.

A voler introdurre e conservare qui la terminologia tradizionale, i tré aspetti della dottrina cristiana del tempo vitale si chiamano archeologia, escatologia e cairologia.

Il presente studio parla de J Novissimi; tenta di fornire uno schema della dottrina circa il fine e ciò che al fine succede:

morte, giudizio, purificazione dopo la morte, resurrezione ed ~7t eternità... Uno schema, ma, a vero dire, neppure tanto: infatti questo studio non abbraccia tutto il complesso dei rapporti, ma unicamente alcuni punti di vista sotto i quali l'oggetto si fa più chiaro ed intelligibile. L'escatologia cristiana parla di cose che sono, in parte almeno, molto remote dall'animo contemporaneo:

il mutarsi della scena del mondo e del senso della vita, dei cri-teri umani ha suscitato soprattutto a questo riguardo molti problemi e molte opposizioni. Così questo studio non poteva prendere in esame il tutto, ma unicamente le linee generali, vale a dire il rapporto tra la dottrina rivelata, che è al disopra del tempo, e la nostra posizione spirituale.

LA MORTE

L AFFERMAZIONE DEL CRISTIANESIMO

nel breve spazio di questo primo capitolo si parlerà della dottrina cristiana intomo alla morte: argomento grave e non facilmente esauribile, per cui sarà bene mettere subito in evidenza ciò che distingue nel modo più radicale il concetto cristiano della morte dalle interpretazioni abituali.

uomo il peccato entrò nel mondo e, per il peccato, la morte, così a tutti gli uomini trapassò la morte, dacché tutti (in quel primo) peccarono » (V 12). Il lettore d'oggi inclina anzitutto a interpretare questo passo in un senso molto vago: da un punto di vista etico, come .a dire: Adamo, commettendo ingiustizia, finì per recare intimo danno a sé ed ai suoi discendenti ; o da un punto di vista vagamente religioso: andando lontano da Dio, turbò la vita dell'anima ... Ma l'affermazione riferita sopra va invece intesa con precisione assoluta.

La cosa appare in tutta la sua chiarezza specialmente se la si confronta con l'altro passo importante circa la morte, che si legge nel secondo capitolo del Genesi : « II Signore Iddio prese l'uomo e lo collocò nel paradiso di delizie, affinchè lo coltivasse e lo custodisse, e gli intimò : Mangia di ogni albero del paradiso, ma non mangiare del frutto dell'albero della scienza del bene e del male, poiché in qualunque giorno ne mangerai, indubbiamente morrai » (15-17).

Nella parola dell'apostolo è tramandata quella del Genesi, ed entrambe esprimono la stessa cosa: che, originariamente e secondo la mente del Creatore, l'uomo non sarebbe dovuto morire.

Al lettore moderno quest'affermazione appare anzitutto sem-

plicemente un nonsenso. La scienza gli ha insegnato a riguardare la morte come una necessità di natura, e così egli sente il morire come qualche cosa che appartiene all'essenza della vita. Anzi in questi ultimi decenni abbiamo assistito a tali e tante cose intorno alle quali vi sarebbe parecchio da dire, e che appunto potrebbero essere qualificate come una capitolazione di fronte alla morte... Questa obbiezione dell'uomo moderno deve essere esaminata, poiché ciò che la rivelazione contiene è bensì un mistero, ma non una fiaba. E' verità divina che trascende, sì, la nostra ragione, ma è verità. La coscienza non è mai lecito lasciarla nell'impressione che la facoltà naturale di conoscere sia costretta per autorità divina ad affermare un nonsenso; anzi deve sentirsi sopraelevata a un intendimento più alto e genuino, per quanto arcano.

La morte è l'ultimo della vita umana, ma nel vivente l'ultimo è sostanziale. La nostra esistenza rappresenta una struttura in cui la fine appartiene al tutto. Questa fine non è del genere delle ultime gocce che stillano da un recipiente : il proprio di queste sta unicamente nel fatto che dopo di esse non ne vien più nulla; quell'ultimo invece decide di quanto precede. Tutto è bene, dice un proverbio, ciò che finisce bene. Inteso superficialmente vuoi dire che, quando almeno la fine va bene, tutto in certo qual modo si raggiusta. Inteso seriamente vuoi dire che, quando la fine riesce bene, è in forza del tutto che riesce bene, e nella retta fine il tutto acquista valore definitivo. Sono le ultime note di una melodia che le conferiscono il suo carattere; è l'epilogo di un dramma che mette in piena luce la personalità del protagonista; così è la morte che guida la vita dell'uomo al suo pieno compimento (Voll-Endung) nel bene o nel male.

E allora come può dire Paolo che senza il peccato non vi sarebbe stata morte? Rispondiamo anzitutto che una fine certamente vi sarebbe stata; la grafica della vita avrebbe avuto il suo scioglimento e di qui la sua definitiva valutazione; questa fine però non sarebbe stata la morte che noi oggi conosciamo.

IL FENOMENO DELLA MORTE E IL SUO SIGNIFICATO NATURALE

Come sarà mai? Detto ancora una volta: la morte non è soltanto connessa con la vita come la conclusione di un dramma insipido che può conchiudersi in qualunque modo, ma sorge dalla sua intima struttura e dal suo sviluppo. Anzi, veduta esattamente, la morte non sta affatto solo al termine della vita, ma la pervade in tutta la sua estensione, tant'è vero che si è definito la vita quel movimento che mette capo alla morte.

E come ammettere allora che la morte non sia una necessità?

Per dare alla risposta il suo pieno valore rendiamoci esattamente conto di tutta la portata di ciò che si chiama morte.

La morte ha il suo primo fondamento in ciò che, con una espressione impropria, si potrebbe chiamare la morte fisica. Tutto, anche il mondo inanimato, consiste in figure, poiché non si danno da nessuna parte puri complessi di facoltà o di atti. Ma ogni figura si sfalda : alcune, come la forma di un'onda nell'acqua, sono del tutto fluttuanti; altre, come quelle di un cristallo o di un monte o di un corpo naturale, durano molto a lungo; tutte però, presto o tardi, si sciolgono.

Il termine morte non assume il suo vero senso che dinnanzi al vivente. La morte biologica significa che nella realtà dell'essere vitale in .questione le energie della sua struttura e della sua autoconservazione cedono, gli elementi soggetti alla caducità non possono più essere normalmente segregati, ne i nemici tenuti efficacemente a distanza. Così la morte è il resultato finale di una trasformazione nell'economia interna del vivente, che principiò già nello stato iniziale.

Si può parlare anche di una morte psicologica, per significare che un uomo si difende, sì, contro il morire, come nell'essere vitale non è possibile diversamente, ma questa sua resistenza non procede più dall'intimo. In fondo costui non ha più voglia di vivere. Non prova più nessuna soddisfazione a vivere. Non gli rende più... Anche questa conseguenza estrema si è venuta preparando fin dall'inizio, poiché ogni minuto l'animo si frustra, Quel tutto vitale, poniamo, che si chiama infanzia, passa per

far posto all'età giovanile; questa, a sua volta, tramonta mentre l'uomo matura. Il tutto della vita non consiste in un tratto uniforme, ma ih diverse figure, in se stesse compite, una delle quali è incessantemente in atto di declinare affinchè l'altra trovi il suo posto. Così avviene che non di rado noi ci scopriamo a non raccapezzarci più nel nostro stesso passato. Cerchiamo di rintracciare qualchecosa che ci era caro — un paesaggio, un libro, un uomo — e ci avvediamo che non ci dice più nulla. Pure là qualchecosa è morto. Un'idea che ci entusiasmava può perdere la sua luminosità; un motivo che una volta era forte può estinguersi. Anzi, a più attento esame, noi vediamo che il rapporto dell'uomo alla vita presenta un carattere addirittura contradditorio, e non implica unicamente il desiderio della conservazione, ma anche quello del disfacimento. Quest'ultimo è sempre in opera e si manifesta nella curiosa, tendenza a provocare dolore a se stesso; a straniarsi dagli altri uomini; a compromettere il Dronrin lavoro • a tnf-tn im /'r>n-ii->l<»c.o^. ^4; -i*.,.; n**»^-":-—„—..-;

del genere. £ tutto un morire al mondo psicologico, tanto più penetrante quanto più debole è la forza intcriore della difesa.

Vi è finalmente ciò che si potrebbe chiamare la morte biografica. Ogni vita umana è costrutta su determinati motivi. Ora può darsi che questi si estinguano senza che ne vengano trovati degli altri... Quella donna ha messo su la sua casa e dato vita a molti bambini; questi sono cresciuti, lasciano la casa patema e fondano la loro propria. Ammettiamo così che quella donna non sia indispensabile alla sua casa, ma d'altro lato neppure in grado di crearsi una nuova cerchia d'azione, ne di compensare l'inazione estema con un'attività ulteriore: la sua vita allora, dal punto di vista biografico, è al termine. La sua linea si è chiusa; ciò che ora segue non è che una resa dei •conti con la realtà... Oppure quell'uomo: ha investito nella sua azienda tutto il suo — se stesso e i suoi averi — ma un giorno è costretto a riconoscere che, proprio per fedeltà a questa azienda, deve ritirarsi, poiché un altro può giovarle di più. Se ora egli non trova più nulla che valga il merito di un nuovo inizio o conferisca al suo ozio un senso spirituale umano, la sua vita, dal punto di vista biografico, è parimenti conchiusa, per quanto longeva possa ancora protrarsi.

... E quante altre cose ci sarebbero da dire intorno alla morte ! Ma quel che si è detto fin qui dimostra già chiaro quale peso essa abbia sul complesso dell'esistenza, e come s'insinui in ogni parte di questa esistenza stessa.

Come ce ne tiriamo d'affare?

Vi sono varie risposte.

La risposta del positivismo. S'incontra specialmente presso alcuni cosidetti realisti, e si è foggiata la sua espressione soprattutto in quelle raffigurazioni del mondo che sono determinate dalle scienze naturali e dalla tecnica. Per essa il morire è qual-checosa di naturale. L'uomo è un essere vivente ne più ne meno di tutti gli altri viventi, con l'unica differenza di essere organizzato in forma più elevata. Ora, ogni vivente essendo soggetto alla caducità, la morte rientra perfettamente nell'ordine delle cose. L'uomo deve persuadersi che è così e prendere posizione di

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nimità o di eroismo o di rassegnazione, per lo meno con decoro.

A questa risposta si oppone quella dell'idealismo. Ciò che essa intende è più un sentimento che un pensiero, e a parole non è facile esprimerlo. Si trova anzitutto nelle tragedie dei nostri classici, dove l'eroe, dopo di aver vissuto lottato sofferto e commesso errori, finalmente tramonta con il segnacolo della gloria. Ora sopravvive il sentimento che in questo tramonto aureolato di gloria sia stata espiata la colpa. Un orizzonte si dischiude, ed è pieno di luce. Quello che doveva cadere è caduto, ma l'essenziale rifulge in una specie di immortalità. Non è lecito, certo, investigare troppo da vicino, che la gloria non lo consente, ma bisogna lasciarlo nell'indeterminato. La cultura classica ritiene che una realtà nobilmente vissuta e creata non' può perire, ma a chi gliene chiedesse le ragioni non fornirebbe che una risposta approssimativa, con riferimento a una fede a proposito della quale è lecito domandarsi se essa stessa la prenda del tutto sul serio.

Tra queste due risposte ve n'è una terza che insegna: tutto finisce, anche la vita, ed è giusto che sia così : pretendere di vivere oltre la fine non è solo stolto, ma da vile, e sleale. È appunto l'austerità della fine che rende luminoso e grande ciò

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che le sta di fronte. Anzi la morte è la stessa vita, il rovescio della medaglia, il contromoto, il coronamento, il superamento della vita. Così, mentre viene recisa, essa è dominata, anzi assunta con dionisiaco fervore e vissuta come suprema attuazione della vita stessa.

A un modo di sentire spassionato e verace tutte queste risposte si rivelano false come quelle che non corrispondono all'intera realtà, ma sempre solo ad alcuni suoi aspetti determinati;

e a paro con la sostanza di cui si tratta non reggono, ma deviano in una parvente austerità o in una falsa spiritualità o in una boriosa e vuota esaltazione della vita. La verità è qualchecosa d'altro. Non la morte, ma la vita è l'ultimo.

Questa consapevolezza permea le risposte che sono state date attraverso. i secoli dalle religioni dei diversi popoli. Ad esclusióne di una sola — la religione buddistica nella sua forma meridionale — tutte accennano a rispondere al problema della morte con la rappresentazione dell'eternità. Esaminando poi con maggiore attenzione le cose, si constata che questa « eternità » intende dire che ciò che prima era circoscritto nel tempo procede ora indefinitamente. Molto, nell'uomo, esse dicono, è transitorio, cioè tutto ciò che è connesso alla sua compagine fisica (der Leib) e alla immediata realtà delle cose. Questo cade ... Vi è però anche dell'eterno: la configurazione essenziale, l'io nascosto, l'anima. L'anima, altrimenti dal corpo e dalle cose palpabili, è semplice, indistruttibile, misteriosamente vibrante di energie. Lasciato lo spazio dell'esistenza terrena, essa entra in un ambito di valori essenziali inesorabilmente rigorosi (in eine Sphare schauervoller Eigentlichkeit), dove riceve una vita nuova, sottratta alla morte, destinata a non mai perire.

Questa risposta ha una portata completamente diversa dalle precedenti, per quanto esse amino sentirsi superiori; corrisponde assai di più all'intima consapevolezza dell'uomo ed è ben altrimenti all'altezza di ciò che l'esistenza realmente è. A un esame più attento la si riscontra perfino, in una forma indeterminata, dietro le varie risposte scientifiche o filosofiche, e vi apporta il contributo del suo suffragio. Ciò infatti che può lasciare tranquillo nella sua convinzione il positivista, l'idealista, il tragico

della vita — presupposto che in questi casi si tratti realmente di una convinzione di cui non soltanto si parli o scriva, ma a cui si sia votati per la vita e per la morte — è l'occulta speranza di una vita misteriosamente duratura.

La risposta religiosa viene data in diversi modi e con diverse rappresentazioni di carattere metafisico e mitologico. Guardando però attentamente, queste rappresentazioni sembrano avere un elemento in comune: fanno getto della compagine caduca dell'uomo (der Leib) per mettere invece allo stesso livello la vittoria sulla morte e l'immortalità dell'anima... A uno stadio molto anteriore non è probabilmente ancora così, e quelle indicazioni che noi propendiamo a rendere con la parola anima intendono in realtà qualche cosa d'altro: un duplice aspetto dell'essere umano nella sua integrità, unitamente a corpo, averi e posizione nel mondo; un curioso rovescio dell'essere. Comunque, col tempo questa rappresentazione si muta mettendo in risalto proprio ciò che l'anima spirituale intende in opposizione al corpo. È l'anima che vince la morte e reca il senso dell'eterno.

Il Cristianesimo non pensa così. Per lui anche le interpre-tazioni « spiritualizzanti » o « interiorizzanti » dei tempi nuovi non mutano nulla. Ciò che a lui preme non è l'anima, non è lo spirito, ma l'uomo. Il vero problema .della morte non sta nel vedere se l'anima soccomba o viva eternamente, ma nel vedere come entri la morte nella vita dell'uomo concreto: se a guisa di una necessità di natura o di un puro fatto, e in quest'ultimo caso tale da poter essere superato. A questo problema il messaggio cristiano da quella risposta strana, inquietante, provocante perfino, e tuttavia commovente con quella speranza così piena di mistero, di cui si parlava al principio. •

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LA MORTE E BL PECCATO

La dottrina cristiana insegna che la morte non è di immediata evidenza per l'uomo ne tale da sgorgare necessariamente dal suo modo di essere, e che si poteva evitare. Questa dottrina ricorre nei brani già citati della lettera ai Romani e del Genesi. Volendo dame nel modo più conciso il tratto essenziale, possiamo dire: la morte dell'uomo è soltanto la conseguenza di un fatto. In altri termini: essa non ha un carattere naturale, ma un carattere storico.

Questa dottrina presuppone una idea dell'uomo, il cui essere non può esprimersi unicamente con l'ausilio di concetti naturali. Nel bruto, sì, lo si può: ogni bruto ha una natura la quale racchiude tutto ciò che appartiene al suo essere, e a norma della quale crescita maturità decadenza e morte si avvicendano secondo una forma che raooresenta un tutto ben definito in sé. Non così nell'uomo: l'esistenza umana non si esaurisce nello sviluppo e nel compimento di una natura, ma nell'effettuarsi di una storia. Così l'uomo incontra l'Essere, al di fuori di sé; prende posizione, lancia iniziative, traffica ed opera. In questo incontro si determina a volte il suo proprio essere. La natura umana è risultato e insieme presupposto dell'incontro. Il suo tutto non sta al principio, ma alla fine. La forma dell'esistenza umana non cresce da sé per poi, mettendo fine, ritornare in se stessa; la linea che esprime graficamente il suo carattere non è il cerchio che si chiude in se stesso, ma l'arco proteso, al di là, verso Uno che gli viene incontro. Non peraltro solo così (questo infatti si verifica anche nel bruto il quale, pure lui, vive in rapporto scambievole con gli oggetti che gli stanno intomo), ma con vero e proprio potere di iniziativa. Per il bruto gli oggetti che gli stanno intomo sono soltanto il suo ambiente, la proiezione del suo profilo singolo, seppure non va detto che quella figura, di cui in fondo si tratta, sia un tutto risultante dal singolo essere e dall'ambiente. In ogni caso questo tutto, determinato fin da principio, si risolve nella natura. L'uomo, al contrario, come si diceva sopra, ha vero e proprio potere di iniziativa. Egli è signore delle sue azioni e orientato verso il suo mondo estemo

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m un modo impossibile altrimenti che a lui. Egli solo è capace di incontro, anzi dai suoi incontri rientra sempre con aumento di perfezione.

Ma l'incontro decisivo è rincontro con Dio, poiché Dio è il reale per definizione e il valore per essenza. In questo incontro soltanto, e solo a patto di viverlo rettamente, l'uomo diviene quel tale essere quale lo ha voluto il Creatore.

Secondo la dottrina che ci viene dalla Sacra Scrittura l'uomo, creato in un alto grado di perfezione, fu posto con questa perfezione a una prova. Il paradiso, di cui parla la Scrittura, esprime quella perfezione; l'albero nel paradiso è la figura della prova. Dal divieto di cibarsi dei suoi frutti si doveva decidere se l'uomo era pronto a protendere oltre l'arco della sua esistenza, in obbedienza e fortezza, fino a Dio. Se avesse sostenuto la prova, se avesse fondato la sua vita nell'ai di là, in base al precetto

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la morte non avrebbe turbato la sua esistenza.

Questa dottrina è come una pietra di paragone: per rapporto ad essa si decide che atteggiamento assume l'uomo rispetto alla rivelazione: se vi scorge soltanto qualchecosa d'indeterminato, di confortevole per la religione e di edificante per la morale, o se invece ne riconosce tutta la serietà rivoluzionaria. Le prime parole del messaggio cristiano dicono: «Fate penitenza, poiché il regno dei cieli è vicino » (Mt IV 17). Il monito alla penitenza, alla conversione, è inteso — e dapprincipio a buon diritto — in senso morale: chi lo ascolta deve abbandonare il male e volgersi al bene, rinunciare alla propria volontà perversa e assecondare la santa volontà di Dio... Ma questo non è che l'inizio della conversione. Di lì essa deve estendersi a tutta la vita, anche alla vita dell'intelligenza. Questa pure deve convertirsi, capovolgere la sua forma mentale. L'uomo deve riconoscere di essersi costruito, in base alla sua propria volontà, l'immagine del mondo e quella di se stesso. Deve stimare la rivelazione per quello che è : pensare che in essa Iddio, che è più grande del mondo, anzi in realtà Colui che unicamente è e vale, si rivolge all'uomo invitandolo a stabilire con Sé un rapporto superiore a tutte le possibilità escogitabili da lui stesso o dal mondo. La

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fede consiste appunto in questo riconoscimento e in quest'accet-tazione. Di lì poi sorge una impostazione nuova dell'esistenza, e il rendersela familiare porta appunto alla conversione dello spirito.

A quel rapporto appartiene ancora una nuova valutazione dell'uomo, che non è più un essere vitale come tutti gli altri, piantato e limitato nella sua natura, ma ha un'esistenza di carattere particolare che si attua con riferimento a Dio e da Dio. E siccome una realtà è tanto più in pericolo quanto più sale di grado, questa esistenza dell'uomo versava particolar-mente in pericolo.

L'uomo cedette alla prova. Non volle lanciare l'arco al di là. Volle essere come Dio, vale a dire volle fare da sé e per sé. Così l'arco s'infranse, e l'espressione di questa frattura fu la morte.

Anche se l'uomo non avesse peccato, la sua vita, per il fatto stesso di appartenere al tempo, avrebbe toccato la sua fine, ma questa fine non sarebbe stata la morte quale noi conosciamo. Non essendosi praticamente attuata, noi non siamo in grado di dire che forma avrebbe assunto. Tutto quello che possiamo dire è che ci sarebbe stata una fine, la quale sarebbe stata a un tempo inizio passaggio e mutazione.

Il fatto poi che il primo uomo cadde, perdendo le grandi promesse insite alla sua esistenza, fece stato per tutti. In questo — contrariamente a quanto l'idealismo pensa — non vi è nessuna ingiustizia. Oggigiomo, che incominciamo a sentire più profondamente i rapporti nei quali l'individuo si trova nel quadro sociale, lo vediamo meglio. Quel primo non era soltanto la cifra iniziale della serie degli uomini, ma il capostipite della stirpe; così egli coinvolse con sé il tutto, e la sua decisione personale segnò il destino di tutti. Con questo primo atto ebbe inizio la storia dell'umanità, la quale — come dice Paolo — soggiace alla colpa e alla morte : « Come per un sol uomo il peccato entrò nel mondo e, per il peccato, la morte, così a tutti gli uomini trapassò la morte, dacché tutti (in quel primo) peccarono » (RV12).

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IA MORTE E LA REDENZIONE

Tale, dunque, è la risposta del Cristianesimo al problema della morte: audace, inquietante, provocante. Per ammetterla ci vuole proprio una conversione dello spirito; quando però questa soccorre, quando lo spirito l'accetta, anche la stessa esistenza terrena ne è illuminata. La rivelazione viene da Dio e dev'essere accolta in ispirilo di fede, ma allora appunto essa chiarifica pure l'ambiente. Esperienze che non venivano a fuoco;

cognizioni che non riuscivano a farsi strada nemmanco sul terreno dei valori puramente umani, ora trovano il loro diritto. All'affermazione che non vi dovrebb'essere morte la mente educata allo spirito moderno reagisce dapprima con stupore e di-.sprezzo. Non è però che la prima reazione, poiché se il suo senso 'di verità è vigilante riconosce di aver già avuto esso stesso analoghe sensazioni.

Infatti l'uomo porta in sé la ribellione contro la morte, il che non significa unicamente quello star sul chi vive che si riscontra anche nel bruto sollecito di difendere la propria esistenza, ma la ribellione dello spirito che, non potendo afferrare il senso della morte, non può neppure ammetterne il fatto. Questa ribellione non significa nemmeno che l'uomo si faccia delle illusioni sulle asserite necessità biologiche o di altra specie, ma che per lui tutta quella disposizione di cose per cui con la morte vanno fatti i conti non è che un disordine. Tanto meno questa protesta indica viltà d'animo o mancanza di preparazione, se necessaria, a impostare la propria vita. L'uomo può essere valoroso e pronto ad ogni sacrificio, fino al sacrificio della vita, ma questo senso di ribellione contro la morte come tale deve sopportarlo.

Si sente dire, sì, e si legge in poesia che un tale ha affrontato la morte calmo, ebbro, intrepido o sublime, sempre a ogni modo intimamente convinto, con intimo moto di spontaneità, ma chi sa qualche cosa effettivamente di vita e morte si rifiuta di crederlo. Vi è, senza dubbio, una morte rassegnata, una morte coraggiosa, una morte serena, una morte entusiasta: basti riflettere che andare dignitosamente incontro alla morte è uno dei compiti

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più importanti che siano assegnati all'uomo, e sacrificare la propria vita per una grande impresa o per una persona amata è segno di un animo sovranamente nobile, ma ciò di cui si tratta qui — se cioè la morte si possa affermare con serena ponderazione e con giudizio maturo come avente in sé la sua ragion d'essere — è tutt'altra cosa. Tant'è vero che la risposta non è affermativa. Il pane, la luce, la verità, l'amore hanno in sé la loro ragion d'essere, ma la morte dell'uomo no.

Il Cristianesimo sa che la morte, in sé e come tale, — non la fine, una fine, nel senso indicato sopra — non ha una spiegazione sua propria, e giustifica l'opposizione che sorge contro di lei. Nello stesso tempo però riconosce anche la sua realtà e le conferisce tutta la sua asperità, respingendo ogni tentativo di velare quest'asperità mediante un'interpretazione dionisiaca della vita o mediante la prospettiva della elevatezza dei valori per i quali la vita può venire immolata. La morte non è ne la fidata involuzione della terra di R. M. Riike (« der trauliche Einfall der Erde ») ne il culminare della vita intrawisto da Holderlin ne qualche altra cosa del genere, ma la dura fine. Non procede dall'intima necessità dell'esistenza umana, ma dalla colpa — dalla colpa di tutti che è pure colpa del singolo — e morir bene significa mettersi in linea dinnanzi a questa realtà e sborsarne il debito fino all'ultimo.

Prima cosa. Ma poi .il Cristianesimo sa ancora qualchecosa d'altro. La lettera ai Romani dice nel medesimo capitolo citato sopra : « Se con il fallo di quel solo la morte regnò per colpa di quel solo, molto più quelli che ricevono l'abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per virtù del solo Gesù Cristo. Sicché dunque, come il fallo d'un solo su tutti gli uomini a condanna, così anche la giustizia d'un solo su tutti gli uomini a giustificazione di vita. Come cioè per la disobbe-dienza d'un sol uomo peccatori costituiti furono i molti, così anche per l'obbedienza d'un solo giusti costituiti saranno i molti » (R V 17-19).

Un che di nuovo avvenne della morte, quando Cristo vi si abbandonò. Egli morì di una morte così dura e così reale come quella di nessun altro, poiché la morte diviene tanto più morte

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quanto più alta è la vita alla quale essa mette fine. Essendo vissuto in un grado di vitalità e di nitóre al quale a nessuno tra gli umani è mai dato arrivare, Cristo morì come nessun uomo mai. D'altro lato è però anche vero che Gesù non fa mai parola della sua morte senza aggiungere che risorgerà. Così nell'ultimo viaggio a Gerusalemme : « Gesù cominciò ad indicare ai suoi discepoli come dovesse andare a Gerusalemme ed ivi molto soffrire dagli anziani e scribi e gran sacerdoti, ed essere ucciso, e risuscitare il terzo giorno » (Mt XVI 21). Quella morte che doveva tener dietro al peccato, in quanto appunto sequela del peccato, vale a dire la nuda morte, nella consapevolezza che Gesù ha della vita, non c'è. La sua morte non fu che il transito per cui la sua vita passò dal tempo all'eternità. E non soltanto la sua anima, ma, dacché risorse da morte, tutto il suo essere umano.

Il termine di resurrezione non toma meno estraneo ai tempi moderni di quello di morte, nel senso che la morte non fosse necessaria. Esso si riscontra bensì nelle nostre lingue come eredi di una credenza di tempi andati, ma ha preso un altro senso. Parlando di resurrezione, il linguaggio corrente intende indicare il fenomeno che si compie quando, a primavera, dopo i rigori invernali, erompe dappertutto la vita, o quando in un uomo, dopo una pausa intcriore, si ridesta uno stimolo nuovo. Resurrezione, in altre parole, rappresenterebbe uno dei tanti momenti della vita in genere, una pulsione di diastole dopo una precedente di sistole ... Ora la dottrina cristiana circa la resurrezione di Cristo e, per Cristo, dell'uomo redento, non ha nulla a che vedere con queste cose. Ha un senso radicalmente' diverso, assai più preciso e tutto nuovo. Essa insegna che Cristo, dopo esser morto, è risorto nella onnipotenza sovrana del Dio vivente, a nuova vita, e precisamente a una nuova vita d'uomo. Non soltanto che la sua anima fosse immortale e avesse ricevuto nell'eternità uno splendore divino; neppure soltanto che la sua immagine e il suo messaggio siano divenuti forza generatrice di vita nei cuori di coloro che credevano in lui, ma che il suo corpo, dopo esser morto, tomo a nuova vita, e in modo ancor più elevato; che la sua anima, per virtù dello Spirito Santo, ne investì, trasformandolo, il corpo; che Lui, nella plenitudine

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del suo essere umano-divino, fece il suo ingresso negli splendori eterni.

Questa dottrina poi non è affatto l'eco di una leggenda destinata a esaltare chicchessia, ne la mitica edificazione postuma di una vita trascorsa in modo puramente umano, ma originale in tutto e per tutto. L'annunzio della resurrezione di Cristo pervade sostanzialmente tutto il vangelo come quello della sua morte liberatrice; il fatto che egli è risorto, non meno essenzialmente di quello, puro e semplice, che egli è vissuto. A questo riguardo Paolo dissipa, se ce ne fossero, ogni e qualsiasi dubbio:

« Se Cristo non è risorto, vuota è dunque la predicazione nostra, vuota anche la fede vostra; e ci troviamo anche testimoni falsi di Dio, perché testimoniammo contro Dio che Egli risuscitò Cristo, mentre non lo risuscitava, se veramente dunque i morti non risorgono. Se infatti i morti non risorgono, nemmeno Cristo è risorto. Ora se Cristo non è risorto, vana è la fede vostra:

tuttora siete nei peccati vostri. Dunque anche quelli che si addormentarono in Cristo perirono. Se in questa vita solo riposto abbiamo la speranza in Cristo, i più miseri siamo tutti » (I C XV 14-19). Non vi è Cristianesimo senza la resurrezione di Cristo. Ovvero senza resurrezione il Cristianesimo sarebbe tale cosa da rendere chi abbia seriamente il culto della conseguenza « più miserabile di tutti gli uomini ».

Con la morte e la resurrezione di Cristo si è operato realmente nella morte una radicale trasformazione: cessò, la pura morte, di essere la pura esecuzione della giustizia divina, la dura fine, oltre la quale non vi sarebbe più altro di un'« indistruttibilità dell'anima ». La morte di Cristo ha conferito alla morte un altro carattere che, a sua volta, ne fa, non già secondo la forma, ma secondo'il senso, ciò che avrebbe dovuto essere la fine del primo uomo : il passaggio a una nuova eterna vita d'uomo.

La morte di Cristo fu sopportata per noi e sta, da allora, nel mondo, lo voglia o no il mondo, come un fatto; anzi, con la incarnazione e con la resurrezione, come i7 fatto per eccellenza. A questo fatto, che tutto intende, l'uomo può credere, vale a dire ha facoltà di attingere. È la sua redenzione :

«Dov'è, morte — chiede animatamente Paolo — la tua vit-

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tona? Dov'è, morte, il tuo pungiglione?» (I C XV 55). Il pungiglione è il carattere che la morte ha quando non è altro che la conseguenza del peccato, la nuda fine. Questo carattere, oggettivamente, e intenzionalmente per tutti, è tolto; e può essere tolto per ogni singolo non appena il singolo entri nel corpo mistico, la comunità — con Cristo — di coloro che credono in lui. La medesima lettera dice ancora : « Ma ecco, Cristo è risorto da morte, primizia dei dormienti. Poiché infatti per un uomo la morte, anche per un uomo risurrezione da morte. Perché come in Adamo tutti muoiono, così anche in Cristo tutti rivivranno» (I C XV 20-22). E la lettera ai Romani, penetrando ancora più profondamente nel mistero : « O ignorate che quanti battezzati fummo in Cristo Gesù, nella morte sua fummo battezzati? Consepolti dunque fummo con lui per il battesimo nella morte, perché come ridestato Cristo da morte fu dalla gloria del Padre, così anche noi in novità di vita si cammini » (R VI 3-4)... già ora nella misura in cui si è risvegliata in noi attraverso la fede e il battesimo, la nuova vita che investe corpo ed anima; un giorno poi in piena ed aperta misura, quando essa, nella resurrezione, penetrerà, trionfando, i cieli.

Abbiamo assistito qui a un capovolgimento radicale. Ma con questo non si vuoi dire che si sia trovato un rimedio contro la morte (sarebbero sortilegi) ne, tanto meno, che sia stata scoperta una nuova etica della morte (sarebbe solo un avanzamento verso un più nobile valore umano) : la realtà della morte rimane, ma — stando ormai, anche al di là della nostra morte, la resurrezione — la morte è entrata in un nuovo rapporto con la vita e s'è risolta in un transito a una vita nuova, divinamente piena, eternamente umana.

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• IL SENSO CRISTIANO DELLA MORTE

Che cosa è dunque, veduta cristianamente, la morte?

Chi muore sperimenta la suprema conseguenza del peccato;

s'incurva sotto la piena responsabilità per l'agire dell'uomo;

assume per sé verità e giudizio. Non però disperato e indifeso, ma assunto egli stesso nella redenzione operata dall'amore di Dio. Ora la morte non è più soltanto l'incubo tenebroso che il peccato porta alla sua conseguenza estrema, ma fa piuttosto partecipare l'uomo al rinnovamento per cui la munificenza di Dio ha tratto dalla fine un nuovo principio, transito a vita nuova.

L'arco di cui parlavamo riappare. Il rapporto dell'essere umano, al di là, a Dio e, dall'ai di là, da Dio, è ripristinato in Cristo. Ne soltanto ripristinato, ma in forma nuova, portentosa, corrispondentemente all'incarnazione del Figlio di Dio. A questa forma, nella fede, dobbiamo prendere parte pure noi; non da noi, quasi ne potessimo vantare un diritto, ma per grazia. Sempre, a ogni modo, in realtà, che l'esistenza cristiana — come Paolo non si stanca di ricordare — è precisamente un vivere di Cristo nell'uomo e dell'uomo in Cristo. In Lui si ripristina anche per ognuno di noi l'arco proteso al di là; la morte sono le tenebre che quell'arco squarcia.

La nuova vita a cui la morte introduce non è la pura persistenza dell'anima che, spirituale, è per ciò stesso indistruttibile. In questa ipotesi la morte sarebbe ciò che Piatene pensava di lei : l'uscire alfine dalle limitazioni e dai gravami del corpo alla libertà di un'esistenza puramente spirituale... Ciò che Cristo ha conquistato e annunziato significa qualche cosa d'altro, di proporzioni divine, e nello stesso tempo sommamente familiare al più profondo del nostro animo: la salvazione non soltanto dell'anima, ma dell'uomo; il suo rinnovamento in virtù della potenza creatrice di Dio. La morte è là a prestar garanzia della verità sacrosanta di questa salvazione e di questo rinnovamento. Senza di lei il contenuto del messaggio non sarebbe che fantasia. La morte di Cristo è la base da lui stabilita per un effettivo rinnovamento dell'essere umano; la nostra morte è la base della lealtà con cui noi vi prendiamo parte.

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La nuova vita, che ha da venire dopo la morte, non è la pura proiezione della vita terrena nel regno dell'ai di là; non un puro appagamento della volontà primigenia di vivere. In tal caso la morte non sarebbe che il passaggio da una forma di vita ad un'altra, una mutazione dovuta alle leggi determinanti dell'essere, un po' come il processo, poniamo, per cui la farfalla si sprigiona dalla crisalide. che si disfa. Ciò che Cristo ha operato e annun-ziato non è affatto una necessità ontologica dell'uomo, ma grazia. La nuova esistenza procede come dono dalla libera azione crea-trice di Dio, e con ciò stesso anche come perfezionamento dell'uomo, il cui mistero è appunto nel fatto di sussistere, in fondo, non in virtù di una legge, ma dell'incontro con Dio e con la sua amorevole libertà. La morte è la rigida barriera che tien separata questa libertà di amore da ogni arbitrio giocoso. La morte di Cristo è l'espressione della serietà di un Dio che ama;

la nostra morte, l'espressione della serietà dell'uomo amato da Dio.

La nuova vita, che ha da venire dopo la morte, getta le sue radici nel rapporto personale a Cristo. La differenza è difficile a cogliersi, molto più che concetti e parole devono essere applicati ad un nuovo carattere. Ciò che sta al di là della morte non rappresenta punto una superstruttura di ciò che è al di qua o un semplice riflesso di pensiero etemo o un aprirsi e un offrirsi della profondità divina o altro del genere, ma è tutto portato dalla persona di Cristo. La vita etema è una compartecipazione alla Sua vita, alla quale Egli ebbe accesso attraverso la Sua morte. Se la vita etema è possibile anche per noi, lo è perché Egli ci ama e ci comprende nel suo amore. Se poi quella vita ci è realmente elargita e conservata, lo è perché Egli ci dona la comunanza del suo amore. Per amore di redenzione egli prese sopra di sé il nostro destino; per lo stesso amore egli ci fa compartecipi del suo; e nel mistero della fede e della rinascita noi compiamo ciò che manca alla vita morte e resurrezione di Cristo.

Così la morte è l'ultima prova di coraggio che ci si chiede per salire, per mano di Cristo, su verso la grande promessa. In tutte le ansie e i tormenti, in tutto l'abbandono e il dolore che il morire può comportare è contenuto il morire di Cristo, ma questo non è che il rovescio, a noi rivolto, di quel tutto di cui il diritto si chiama resurrezione. •

IL PURGATORIO

LA DOTTRINA DELLA CHIESA

la morte mette fine al tempo del volere e dell'agire quaggiù. La vita vissuta porta con se la decisione in atto e tutto ciò che da questa decisione è proceduto via via in azioni ed opere. L'uomo esce dal chiuso dell'esistenza terrena e si costituisce al cospetto di Dio per assistere al Suo giudizio.

Dio è buono. Anzi è il Bene per essenza. Il Bene non è una misura di valori che sovrasti a tutto, e quindi anche a Dio, ma soltanto un nome per Lui. Quando il giovane ricco si presenta a Gesù e lo chiama maestro buono. Gesù risponde : « Perché mi chiami buono? Nessuno è buono tranne Dio solo » (Me X 18). Il Bene è semplicemente Dio, e la richiesta del Bene la Sua volontà vitale. Questa volontà si rivolge a noi, e domanda di venire eseguita.

È eseguita anche dalla muta natura, ma con necessità, poiché per essa la volontà di Dio si esprime in precetti, i precetti che sono la legge della sua consistenza. Per quello che l'uomo ha di natura, questo avviene anche in lui, ma oltre a ciò l'uomo è persona e, volgendosi alla persona, la volontà benigna di Dio postula di venire attuata liberamente. Così la volontà di Dio non può sapere di coercizione rispetto alla persona. Vale, sen-x'altro, ma lascia campo alla scelta. Impegna, ma non costringe. È curioso come la buona volontà di Dio se ne sta nel mondo. Egli è l'Altissimo, il Santo, l'Uno e il Tutto, e tutto il mondo ha senso a seconda che quella volontà si adempie o no. Dio vuole che si adempia; lo vuole con eterna serietà, ed è onnipotente. Nondimeno Egli non può rendere necessaria quest'attuazione, poiché essa deve compiersi in modo del tutto Ubero. Così il

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Signore del mondo, entro lo spazio della sua storia, è misteriosamente debole. Egli può unicamente ordinare, chiedere, ammonire, fare dolce insistenza affinchè l'uomo conosca ed operi la verità da cui dipende il suo salvamento; quanto al resto Egli deve far posto alla libertà.

Dopo la morte non sarà più così. Quella specie di siepe, entro la quale la storia del mondo si preclude, cadrà. Cesserà la possibilità del e del no. Avvenimenti ed azioni non saranno più. Dio si presenterà all'uomo nel suo sacro Io di un tempo... La elevatezza del bene, in Lui, si immedesima con la irresisti-bilità dell'onnipotenza. Egli vuole con serietà divina che il bene si compia: così il suo sguardo sull'uomo diviene giudizio, e il giudizio condiziona il suo modo di essere e forma il suo destino etemo. Ecco che cosa vuoi dire: II Signore giudica.

La sentenza di questo giudizio è definitiva, perché è verità, ed ha, in fondo, due sole forme: acccttazione o riprovazione.

I nostri antenati lo comprendevano subito : essi avevano il tatto di discriminare ciò che ha valore definitivo da ciò che non l'ha. A noi moderni invece questa dottrina toma estranea e dura. Ci siamo abituati a prendere molto sul serio il mondo e a basare sui più rigorosi criteri l'ordinamento delle cose terrene: così eternità e destino etemo sono divenuti sempre meno importanti per noi e confinati in una penembra che noi stessi indichiamo volentieri come espressione di venerazione quando, più esattamente, non preferiamo chiamarla indifferenza e viltà. C'è da rimanere sconcertati quando, a un'occasione qualunque, si vede improvvisamente cos'è che l'uomo d'oggi prende sul serio, e cosa invece neghittosamente. A volte si ha l'impressione che le cose, per lui, pesino tanto meno quanto più da vicino toccano il nerbo della sua esistenza. La rivelazione dice: la nostra vita, per noi così inetta, ha un senso assoluto, e le azioni compiute quaggiù decidono della sua esistenza etema. Questo trova la sua espressione nella dottrina secondo cui la sentenza del giudizio porta inequivocabilmente o sul premio o sulla dannazione etema.

Ma è detto tutto, con questo, ciò che ci aspetta dopo la morte? Lo sarebbe se la vita dell'interessato fosse fissata, appunto,

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senz'altro nel bene e nel male, ciò che non è. Ogni uomo rappresenta un mondo assai complesso in cui bene e male vanno di pari passo; ha da percorrere un lungo cammino, e su questo diritto e torto s'incalzano.

Questi valori poi — bene e male, diritto e torto — non possono essere nettamente distinti, ma s'intersecano l'un l'altro in ogni punto e fino alle radici più intime dell'esistenza. Ben lungi dall'attuarsi ordinatamente, di tratto in tratto, in tempi bene determinati, quello che è ora porta in sé il passato e sopravvive in ciò che verrà domani. Così pure il bene l'uomo non lo compie in modo perfetto una volta per sempre, ma così che vi si avvicina e poi indietreggia da capo; lotta, vince, soccombe per principiare di nuovo. La sua azione ha un carattere ondeggiante e pieno di contraddizioni — e come mai, allora, potrà cadere sotto un sì o un no con valore etemo? Dio è l'Assoluto, ma anche il Giusto, e giusto non di fronte a principi, ma di fronte all'uomo vivo. La sua verità ne uscirebbe offesa se egli lasciasse sfuggire impunito un male segreto come se rifiutasse a un'azione buona parimenti nascosta e tutta irretita di pregiudizi il suo diritto. Quello che vi è di portentoso nel giudizio di Dio è appunto che esso renda effettivamente giustizia — ora come conciliarle le cose se la sua sentenza avvinghiasse tutto il ginepraio della vita umana sotto un sì o un no con valore definitivo?

. La Chiesa insegna che il giudizio di Dio è bensì irrevocabile nella sua decisione fondamentale, ma darà all'esistenza umana, tutta lacunosa e aggrovigliata com'è, la possibilità di rendersi pura. Il tempo, se così si può dire, si prolungherà ancora tanto nell'eterno quanto sarà necessario per dare soddisfazione a vera e genuina giustizia. L'uomo cioè, i cui sentimenti furono accetti a Dio, ma la cui vita, nel suo complesso, contiene ancora del male, sarà purificata fino a trovarsi in uno stato che sia degno di una eternità beata.

La Chiesa fonda questo suo insegnamento su espressioni della scrittura: così, per esempio, sul secondo libro dei Maccabei (XII 43-45) dove si parla di preci e di sacrifici per i caduti, affinchè siano liberati dalle loro colpe; sulla parola di Gesù che accenna a un perdono in questo e nell'altro mondo (Mt XII

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31-32); sulla parabola dei servi e dei debitori che vengono consegnati ai manigoldi fino a che tutto il debito sia pagato (Mt XVIII 34); sul brano della prima lettera ai Corinti (III 11-15) dove si dice che l'uomo, il quale sulla terra ha lavorato a base di falsità, si salverà, ma soltanto « così come attraverso il fuoco ». Infine, la radice principale dell'insegnamento della Chiesa è riposta nel modo più naturale ed evidente di essere della stessa esistenza cristiana. È chiaro infatti, se Dio è tale quale egli stesso si è rivelato e se l'uomo è tale quale si mostra di giorno in giorno, è chiaro che alla confusionedi questa compagine umana non può venire data giustizia.

La fede nel purgatorio che ci aspetta dopo morte trova la sua speciale espressione nella vita della pietà cristiana. Già molto presto nella storia della Chiesa si principia, nella santa messa, a far memoria dei fedeli defunti e a pregare Dio che si degni assumerli nella sua comunione. Questa preghiera, come tante espressioni di sollecitudine per i morti, presuppone che i morti siano bensì favorevolmente accolti dal Giudice divino, ma che si trovino ancora in uno stato di transizione.

Il popolo fedele — intendendo con questo termine coloro che per la irrequietezza del pensiero e per le angustie della volontà non si sono lasciati andare alla deriva — si sente profondamente unito ai suoi morti. La stessa parola con cui li designa abitualmente, i poveri morti, è tutta colma di un'intima propinquità e di una vigile cura. Questa si apre nella sua pietà un ampio spazio e, se mai dovesse eclissarsi, succederebbe qualche cosa di analogo al triste spettacolo dell'agricoltore che, dato addio ai suoi campi, se ne va a stare in città. L'uomo della città, per l'appunto, o, se volete, l'intellettuale — questa parola è ben lungi dall'indurre anche solo intenzionalmente una svalutazione; essa esprime semplicemente una realtà — ha perduto quella cura per i morti, e così molte idee e molte tradizioni popolari gli sembrano strane. Non è lecito uscirne con la semplice osservazione che l'intellettuale non abbia più una fede profonda: il pregare del popolo per i poveri morti non è esclusivamente fede in senso cristiano, ma in esso si perpetua pure il legame dell'uomo, che è ancora sulla terra, con il regno dei morti. Serbare viva la coscienza di questo legame non dipende dalla volontà del singolo, ma

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dall'intensità in cui egli ancor vive i rapporti ancestrali della società umana. D'altro lato non è neppure lecito dimenticare che questo conferisce bensì all'esistenza una grande profondità, ma nel contempo una minaccia: nessuno ignora come vi siano state delle epoche nelle quali i morti erano più potenti per la coscienza umana di quanto non lo fossero gli stessi viventi... L'intellettuale, comunque, non ha più quei legami; così i morti, per il suo modo di sentire, non appartengono più per immediata evidenza al mondo della realtà. Il morire è diventato per lui un fenomeno biologico che riguarda il singolo, per conto proprio, e che ha perso da tempo il suo mistero; a questo modo il suo rapporto coi morti non è più determinato dalle profondità dell'anima, ma da motivi riflessi o sentimentali, e di qui al concepire il culto dei morti con gli ausilii corrispondenti (immagini, tradizioni, ecc.) come qualchecosa di estraneo il passo è facile e breve.

Il rapporto coi morti dette pur sempre occasione, peraltro, a certi movimenti di indole piuttosto discussa e a volte addirittura macabra. Il motivo va ricercato nel fatto che la morte non solo edifica, ma anche turba; non concilia soltanto maturità di riflessione, ma pure dubbi, e al compatimento che suole rispondere alla notizia circa le pene del purgatorio si accompagna frequentemente anche del meno buono. Basti, a questo riguardo, stabilire un confronto tra il modo con cui parlava dei morti il Cristianesimo primitivo e il modo con cui dello stesso argomento trattava, poniamo, il tardo Medio Evo. Le rappresentazioni del Cristianesimo primitivo sono tutto trascendenza e spiritualità: pace e luce, rinascita e vita etema, vittoria di Cristo su la morte e su l'inferno, e infine giudizio del Dio di verità ... Più tardi irrompono le immagini della sofferenza, ma di una sofferenza descritta con tutte le risorse della fantasia per destare la compassione, e da questa estensione del contradditorio che si cela nell'animo umano tra bene e male, tutta una serie di inter-pretazioni a base di sentimentalismo e di sensazioni... Se mai l'errore potesse generare qualsivoglia giustificazione, qui il nostro intellettuale avrebbe trovato la sua: infatti è troppo naturale che chi ha smarrito ogni rapporto immediato con l'ai di là sia maggiormente colpito da queste aberrazioni, riportando nel suo

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mondo intellettuale e in quello del sentimento una instabilità ancora più accentuata... Ma la sua giustificazione non vale:

il culto dei morti è ormai divenuto uno degli elementi più importanti della vita liturgica in ispecie e della vita cristiana in genere, e il suo assenteismo non è più scusabile. Non foss'altro che per onorare i suoi morti, egli pure deve sforzarsi di cercare un avvicinamento.

I/INTENZIONE

Riprendiamo una volta ancora e da un nuovo punto di vista l'ordine di riflessioni contenute nel primo capitolo.

La rivelazione promette che l'uomo redento entrerà un giorno in comunione con Dio. Per l'incontro con Cristo, per grazia e per fede, sorge in lui la nuova vita, nascosta fin che il tempo dura, destinata invece ad erompere non appena sopravviene la morte. Eterna per natura essa era fin da principio per il semplice fatto di esser da Dio; poi diviene etema anche per il suo modo di attuarsi, vale a dire libera dal tempo, puro presente. Ora, se Dio è la stessa Santità, ne soltanto la purità e la giustizia e il fondamento di ogni bene, ma Colui che odia e ripudia la cattiveria, la corruzione e la volgarità, — nulla di inquinato può entrare in contatto con Lui. E allora come sarà mai possibile che l'uomo sia fatto partecipe di quella nuova vita di santità?

Alla scuola della fede egli ha imparato a conoscere, dopo attento esame» la sufficienza dell'uomo per bene o virtuoso o soddisfatto, sufficienza tanto più artefatta quanto più altezzosa e che fa tanto più chiasso quanto meno è profonda. Ora ha il coraggio di voler effettivamente vedere come stanno le cose, non solo in ciò che è palese, ma anche al di là e al di sotto di queste, nel nascondimento e giù nel profondo. Ha imparato ad esaminare non soltanto l'azione, ma anche i moventi dell'azione stessa, e di questi ancora non soltanto ciò che si può afferrare subito, ma anche le loro ragioni e qualità fondamentali. Faticose lotte per superarsi e ricadute piene di amarezza, tante vendette umi-

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liate dinnanzi a Dio, e sopra ogni cosa la voce della coscienza, suadente e tacita, gli hanno infranto le illusioni proprio mediante le quali molti cosidetti buoni e stimati mortali fanno volentieri schermo alla verità. E giunto ormai, a questa quota, a metter da parte la superficiale albagia contenta di sé e sicura che tutto andrà bene, egli sente l'impossibilità, così com'è, di giungere a Dio.

Certo — come ne insegna la fede — è per grazia che l'uomo può giungere a Dio, non per propria virtù; ma la grazia gli è assicurata dall'opera redentrice di Cristo. È quindi il perdóno che lo eleva a novità di vita, ossia quell'atto per cui Dio non riguarda, nell'uomo, il bene, ma precisamente il male; il volgersi di Dio a noi, perdonando, con amore regale. In Lui, nella Sua intenzione, è riposto il nuovo ordine dell'uomo. Verissimo, ma questo perdono e questa giustificazione devono indicare una realtà, non un sogno. La giustizia non dev'essere unicamente imputata all'uomo, ma fatta sua; non gli dev'essere puramente attribuita, ma divenire una cosa sola con lui, con il suo essere e con la sua più intima volontà. Così il problema rinasce sotto una nuova forma: è così sua, questa giustizia, e così nuova la sua vita di grazia da render possibile un'eterna e piena comunione con Dio?

Ciò che da l'ultima determinazione all'essere-buono o -cattivo di un uomo è la sua intenzione. Essa emana dalla libertà, quell'arcana agilità 'dell'uomo in virtù della quale egli, esordendo da sé, ha potere di determinare un orientamento spirituale. Intenzione è appunto questo orientamento ulteriore dell'uomo, il modo suo di pensare, per non dire lo stesso appetito razionale di questo orientamento, in base al quale appetito la libertà si determina; il motivo (der Sinn), buono o cattivo, da Dio o da sé, verso Dio o lontano da Dio, con cui si afferma quel principio che si chiama libertà. Se l'intenzione è buona, l'uomo è unito a Dio. Non meno giusto, anzi più giusto, ma « difficile a intendersi » : se l'uomo è unito a Dio, la sua intenzione è buona. .Così anche il gloria degli angeli a Betlemme proclama «pace" agli uomini di buona volontà» (L II 14): buona volontà è dono gratuito, grazia, e la pace è annunziata a coloro che dalla grazia sono toccati; d'altro lato è pure buon volere, e la lode va a.

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coloro, l'intenzione dei quali si rivolge a Dio, e che per questo sono accetti a Dio. Le due affermazioni si integrano misteriosamente e inscindibilmente (1).

Ora com'è, colta nella sua intima vitalità, l'intenzione umana? Come si presenta la forza motrice in cui la sua azione assume un orientamento di valore? Dapprincipio essa ha una forma che possiamo cogliere immediatamente in noi stessi, vale a dire il fatto che quell'azione noi la intendiamo riflessamente così o così. Quel dato di fatto lo possiamo senz'altro giudicare, assumendone responsabilità. Ma con questo non si esaurisce ancora il tutto. Poniamo il caso che noi giudichiamo la nostra intenzione: quando, poniamo, in un'occasione qualunque, tocchiamo con mano che molte cose nella nostra vita non vanno. Ci esaminiamo, giudichiamo il nostro falso operato, ci decidiamo per il bene, ma forse nello stesso tempo portiamo in noi il sentimento molesto: ... «eppure vi ricadrò» ... Fino a che l'intenzione è in nostro potere, è buona; nondimeno ci stanno sotto manifestamente delle riserve che noi, per il momento, no, non siamo in grado di elaborare, ma delle quali ci sentiamo tuttavia responsabili. In quel tutto che si chiama intenzione si distinguono dunque diversi strati, e l'attività morale consiste nel conseguire il sopravvento su quanto vi è di contrario in base a quanto vi è di ordinato e composto. Cioè, non appena intenzione è presa nella sua interezza vitale, essa è tutt'altra che penetrabile e governabile a primo incontro: vi sono degli strati che sfuggono, giù nel profondo e verso l'interno, nel subcosciente e nell'incosciente. A chi sarà lecito dire di essere bene intenzionato? La bontà per la quale noi possiamo farci garanti va fino ai confini della nostra coscienza, non oltre. Oltre si va nell'ignoto.

(1) Questo sia detto per tutto ciò che segue. D'ora in poi, cioè, non presteremo più soverchia attenzione al fatto per cui ciò che è « maturo per il regno di Dio » vien dalla grazia e nello stesso tempo e proprio per questo rappresenta l'azione mediante la quale l'uomo si costituisce davanti a Dio in tutta la sua propria personalità, quanto piuttosto baderemo al tutto, quale si offre alla nostra intima esperienza, per prendere in considerazione in questo tutto vitale (che comporta giustificazione, santificazione, vita nuova} un momento, il momento umano: che cosa vuoi dire, visto da parte dell'uomo, diventar buono ? « Perfetto come è perfetto il Padre dei cicli », secondo l'esigenza del discorso della montagna? Dove risiede esattamente la gravita di questo diventare perfetti?

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II nostro impegno e la nostra lotta di ogni giorno devono aprire la via a questa rettitudine di intenzione, sempre più avanti verso l'interno, ma quale impresa a rettificare radicalmente la volontà !

Ora, quando l'uomo muore e compare dinnanzi a Dio, che ne è della sua intenzione?

Pensiamo, per esempio, ad uno che dapprima aveva immesso una falsa rotta, non preoccupandosi affatto di Dio, e solo dopo, molto tardi, ritornò sui suoi passi. Dio t.occò il suo cuore e, secondo l'espressione della Scrittura, egli fece sì che gli angeli in cielo sono tutt'in festa: la conversione. Afferrò cioè la propria intenzione là dov'era afferrabile, vale a dire nello spazio della sua illuminata libertà, e la capovolse, e divenne buona. E che dire di ciò che va nel profondo?

Corrispondentemente la cosa vale per ogni uomo, anche per « i novantanove giusti che non hanno bisogno di penitenza » (L XV 7). Vale per colui che ricade continuamente, ma non perde l'intima volontà del bene, e vale per colui che attende senza mai stancarsi alla sua formazione, con la differenza che questi giunge evidentemente più in alto...

L AZIONE E L ESSERE

L'uomo dev'essere buono; anzi, secondo il monito delle beatitudini, dev'esser perfetto: deve cioè, al suo punto decisivo, là dove prende le mosse la libertà, innestare il buon volere, la volontà di Dio ; avere rettitudine d'intenzione. Non basta : pensar bene, decidersi per il bene significa soltanto l'inizio. Non solo l'intenzione dev'essere buona, ma anche l'azione, anzi l'essere. Importa che l'intenzione si svincoli da quel campo in cui l'uomo si fissa con sinistra disinvoltura, per spaziare sotto l'orizzonte delle realtà e delle forze, irretito bensì di confusione e di contraddizioni; ma dove l'uomo agisce, incontra uomini e cose e, in questo suo divenire, si rinforza e tende alla sua 'perfezione. Così, per esempio, io non debbo unicamente decidermi per la verità, ma dirla.

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E che significa dire la verità?

Prima di tutto significa che la stessa formulazione della verità, in sè> sia retta, il che vuoi già dire molto... Siamo tanto ^ facili a travisare o a dimezzare la verità! Qui dunque vi è già (/^ molto da fare...

Appresso: la formulazione può essere impeccabile nella sua struttura grammaticale o fonetica, ma così impostata da orientare insensibilmente chi ascolta su di un cammino falso. La volontà di servire il vero avrà quindi cura che l'uditore possa abbandonarsi con fiducia a quanto è stato detto, come uno che va per via segue con fiducia un sentiero nettamente tracciato ed aperto. Nei riguardi dell'interlocutore una dichiarazione può essere pienamente vera, e nello stesso tempo può essere un mezzo con cui chi parla mette le mani avanti per impedire, poniamo, che una nozione in atto di maturare intcriormente gli si riveli, o la sua tendenza recondita alla falsità segua impunemente le sue vie. In altri termini, la sete della verità deve farsi sentire per mettere ordine, e così di seguito, in una serie non interrotta.

Volendo tradurre effettivamente in atto l'intenzione posta al servizio della verità, bisogna procedere da uno strato esteriore, facile a dominarsi, e penetrare sempre più in profondità e interiorità. Questo lavoro non dovrebbe aver termine se non quando l'intera forza vitale si fosse consacrata a quell'intenzione e la veridicità avesse dominato i più reconditi impulsi: non soltanto i riflessi, ma anche gl'involontari ; non soltanto quelli che sono aperti, ma anche quelli che sono subdoli, incerti, sub- ed in-co-scienti; tutta la profondità dell'animo umano con ciò che esso cela di oscuro, contradditorio, sedizioso e malsano, dove il nostro sguardo, direttamente, non potrà mai giungere... A chi sarà lecito dire, in questo campo, di esser sincero? E in morte come si disvela agli occhi di Dio?...

Ma riprendiamo un'altra volta il nostro problema. Non si richiede esclusivamente che l'uomo compia il bene, ma che egli stesso sia buono. Lui, l'uomo, deve diventar buono. La stoffa, per così dire, intomo alla quale si esplicherà questo suo lavoro, è tutto ciò che l'uomo è: anima e corpo; intelligenza, volontà e cuore; carattere e temperamento; forze e debolezze; averi ed

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ambiente; tutto il suo io e i suoi rapporti con gli altri. L'agire si tradurrà in una disposizione vitale per cui ogni azione singola ne proceda sicura. A sua volta, quella disposizione diventerà la forma ulteriore che forgia tutto quanto l'essere, e ciò che prima era soggetto di un dovere imposto riveste ora quella spigliata naturalezza caratteristica di ciò che si è immedesimato con noi. A questo punto si tocca all'unità suprema : l'uomo veramente buono, l'uomo perfetto nel senso evangelico, « come è perfetto il Padre dei cieli ».

Ma questa stoffa o materia intomo alla quale ha da esercitarsi l'intenzione umana non la si trova semplicemente allo stato grezzo, ma sempre pronta a reagire. Si adira ed ha molto, in sé, di intricato e corrotto, cosicché l'intenzione vi deve attendere con un lavoro assiduo e paziente: come principio normativo interno, ordinare tutto; come fucina di valori, prendere conoscenza di tutto e dominare tutto; come pensiero, esprimersi in tutto ... Per poco che vi ci mettiamo, notiamo subito che dal nostro essere vitale soltanto uno strato esiguo è stato dominato ; il resto soggiace come terra vergine dove il vomere non arriva... Fatica di Sisifo, questa di diventar buoni ! Che sarà allora ciò che i santi portano a compimento? Un santo è un uomo di cui tutto l'essere si è posto in moto, in cui la luce di Dio illumina e trasforma strato per strato: e noi che diremo?

Eppure non è ancora il termine. Esser-buono nella pienezza del significato indica ancora sempre di più. Noi sappiamo che la Provvidenza di Dio ci guida. Giorno per giorno ci segnala i compiti che Egli ci assegna. Lavoro, lotte, vittorie, sacrifici domandano di esser compiuti. È un'esigenza vasta, grave, senza fine, e basta essere uomo per sapere quanto di rado noi ne siamo all'altezza. Vero esser-buoni comporterebbe attuare ora per ora ciò che ogni ora adduce, permettendo così alla vita di assurgere alla plenitudine di quella misura segnalale da Dio. Ciò che in questo momento è stato disperso non potrà essere guadagnato o ripreso più tardi, poiché ogni ora passa e non toma, mentre quella che verrà dopo avrà la sua esigenza da mettere avanti.

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E allora che ne sarà delle lacune e dei vuoti in questa vita che passa?

E che cosa di ciò che è stato compiuto, ma falsamente? Vi possiamo riflettere; possiamo tentar di far meglio, ma quel che è fatto è fatto, e sta. Sta, come?

LE SOFFERENZE DEL PURGATORIO

Quando l'uomo, dopo morte, svincolato dai legami della storia e della sua limitazione, compare alla vista di Dio : nella luce della Sua verità che rende manifesto tutto, nella potenza della sua santità che rifugge da ogni inquinamento, che avviene?

La fede insegna che se colui che si presenta fu un uomo di buona volontà, investito dalla grazia e animato per l'appunto da buon volere, è accolto da Dio : l'amore del Padre lo introduce nel consorzio della giustizia di Cristo, non per diritto e per propria attività, ma per grazia.

Ora che significa questo? Dio non opera in modo che sotto la giustificazione elargita persista ciò che è cattivo e deforme, come un manto che copra delle immondizie.

Si risponde: Dio perdona la colpa.

Ma di nuovo: che vuoi dire perdonare? Forse ciò che un uomo compie nei confronti di un altro uomo quando gli condona un'offesa? No. Infatti, prima e dopo il condono, l'essere dell'altro rimane sempre tale e quale. Questo condono dice soltanto:

Non ho più nulla contro di tè. Il perdono di Dio invece deve significare di più. Nell'uomo, con il perdono di Dio, deve compiersi qualchecosa. Perdono non può voler dire che l'uomo rimane peccatore, ma che Dio non lo sgrida più. Perdono non è unicamente una trasformazione nel cuore e nello sguardo di Dio, da, parte di Dio, che lasci immutato l'animo umano; ma l'uomo stesso deve diventare così che Dio possa porre in lui le sue compiacenze.

Si obbietta ancora dicendo che l'amor di Dio trasforma radicalmente l'uomo.

Certo, in ultima analisi è così; ma dobbiamo procedere con prudenza. Dio è onnipotente; non è però affatto un incan-

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tatore. L'amor di Dio crea, ma crea nella verità. Dicendo che Dio da all'uomo un cuor nuovo e una vita nuova non s'intende punto significare che le azioni compiute siano come non fossero. Le lacune ci sono e qualchecosa ha da compiersi : un mutamento, una purificazione, un ricupero, ed ora eccoci al punto a cui dovevamo venire.

Morendo, l'uomo esce dal tempo; il giorno in cui egli può operare (G IX 4) non è più. Ora egli non può più operare, ma unicamente essere. Non interviene allora più nessuna mutazione in lui?

In colui che entra in porto in perfetto ordine con Dio, no:

egli sta, ratificato dal giudizio di Dio, nel puro presente della vita etema.

Tanto meno in colui che lascia dietro di sé una vita di volontà riottosa: costui è respinto da Dio e irrigidito nella perdizione della morte etema.

E che ne è di colui che fu, bensì, uomo di buona volontà, ma di una volontà che non è ancora riuscita, o non ancora abbastanza, ad afferrare l'essere; che ne è di un'intenzione retta, sì, ma superficiale, mentre subito oltre la scorza stava in agguato l'opposizione e l'intimo era colmo di cattiveria e d'impurità; di una vita che recava in ogni parte le tracce dell'incompiuto e i guasti della falsità?

Si potrebbe osservare che questi sono pensieri troppo umani;

che, una volta comparso dinnanzi a Dio, tutta la parte terrena e temporale dell'uomo non è più; che — abbia omesso questo nella insufficienza e nel disordine della vita, fatto di quello un oggetto di torto, compiuto falsamente quest'altra cosa; siano pure in lui errori, mancanze, contraddizioni, lacune — tutto ciò perderà d'importanza di fronte all'onnipotenza della santità, all'amore e alla grazia di Dio, le quali sole hanno un valore essenziale; che ove soccorra i'unica cosa necessaria, l'armonia cioè tra grazia e libertà nel beneplacito divino, con quello vi è tutto, e di là sorge la libertà gloriosa dei figliuoli di Dio (R Vili 21) come pura creazione dall'onnipotenza propria dell'amore di Dio.

Questo pensiero è così grande e pio che a tutta prima riporta semplicemente vittoria: eppure non è giusto. Il grande è falsamente inteso se induce la scomparsa del piccolo, poiché anche

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il piccolo è verità. La redenzione non è frutto di entusiasmo, ma di un amore che è verità. La grazia di Dio è tutto; non però in modo che azione terrena, lacune nella trama della vita, curve e nodi nell'essere umano siano per ciò esinaniti. Sono qualchecosa, e lo sono precisamente dinnanzi a Dio che è verità. E il suo amore non consiste nell'eliminare le ultime mancanze, ma nel porle al confronto con la verità per redimerle: nessuna eccettuata, nemmeno le più piccole; e ognuna nella sua integrità, fino alla più recondita piega e al punto più impercettibile.

Ma come ha da compiersi tutto questo, se il tempo non è più e se l'uomo non può più operare? Può soffrire, risponde la Chiesa. E proprio da questo suo stato (di non aver di che soffrire) viene la sua sofferenza che è nel contempo il superamento di quello stato.

Quando dunque un uomo siffatto entra nella luce di Dio vede se stesso con gli occhi di Dio. Ama la santità di Dio e odia se stesso perché il suo io e in quanto il suo io contrasta a quella santità. Prende coscienza del suo stato. Nel passato, ciò che egli era forse lo intrawedeva. Ora lo vive: rivive la sua vita così com'è al cospetto di Dio, e dev'essere un dolore senza misura, ma un dolore che opera: l'intenzione si purifica e tira le sue conseguenze fino a che la sua misura di buona volontà sia ricolma ;

penetra le forze vitali e le imbeve fino a dominarle e ad averne tratto una preparazione totale; assiste l'essere, misteriosamente operando, fino a che l'uomo non soltanto rottamente voglia, ma si sia impossessato del bene come forma della sua realtà. In questa gara morire e risorgere convengono in un mistero di meraviglia e di sacrosanto timore. È un continuo morire e un continuo crescere di vita nuova.

Quest'operazione si estende perfino là dove le omissioni hanno lasciato le loro tracce, non certo nel senso di fare in modo che il non-compiuto sia ora compiuto (questo sarebbe magia), ma nel senso che per la dedizione della creatura alla volontà rigenera-trice di Dio ciò che è perduto viene compensato, altrimenti perché rimane in fondo abbandono o disperazione. La sofferenza non durata dev'essere durata; la verità non riconosciuta dev'essere riconosciuta; l'amore non amato dev'essere amato: non a mo'

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di sostituzione (non è sostituibile ciò che avviene una volta per sempre), ma in un senso per il quale, a questo mistero del risarcimento, non possiamo addurre che delle indicazioni vaghe...

. y . Prima di tutto il pentimento. Genuino pentimento non è

un mero dolore per le mancanze commesse (un tale dolore non farebbe che mettere in risalto la mancanza), e neppure una mera volontà di far meglio la prossima volta: il passato se ne starebbe allo stato di prima. Nel pentimento l'uomo riassume il passato; lo medita, riconoscendo e condannando i suoi falli, con intelligenza e volontà e rettitudine d'intenzione, ma din-nanzi a Dio, il Vivente e il Santo. Tutto questo è ben lungi da una semplice presa di posizione di fronte al passato. Il passato è nuovamente assunto nella libertà che lo trasforma dalle radici, è immesso nel principio della nuova creazione che si compie per opera dello Spirito Santo e lo ricrea...

Un'altra indicazione preziosa ce l'offre la psicoterapia. Se un uomo — essa insegna — nella sua prima giovinezza o in un altro momento particolarmente delicato della sua esistenza è stato inferiore alla sua vocazione, l'accaduto sfugge al controllo aperto della coscienza e, fissatesi nell'incosciente, di là continua a turbare tutta quanta la vita. Allora non vale più nessun mezzo e nessuna misura : ciò che è stato falsamente vissuto dovrebbe essere vissuto un'altra volta; l'uomo lo dovrebbe tirar fuori di nuovo, prenderne consapevolezza, affrontarlo dignitosamente e compiere con decoro quell'ammenda che è ancora viabile. Allora le cose rientrerebbero in ordine.

Tutto questo, che si diceva, ci fornisce delle indicazioni. Unicamente delle indicazioni; nient'altro. A dimostrazioni o a disegni completi sarebbe stolto pensare per il semplice fatto che siamo di fronte al mistero della grazia in atto di perdonare e di rifare a nuovo.

Giudizio vuoi dire che l'uomo si vede in tutta la sua entità nella luce sacra di Dio: le circostanze e le cause; l'accessorio e l'essenziale; l'esterno, l'intemo e l'intimo; il già noto e ciò che invece stava ancora celato, sia semplicemente perché troppo profondo, obliato, represso o negletto, tutto. E lo vede senza protezione di sorta. Ciò che di solito rende insensibili : orgoglio, vanità,

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dissipazioni, indifferenza, tutto è caduto. L'uomo se ne sta tutto manifesto, tutto sensibilità, tutto raccoglimento. E vuole. Si schiera da parte della verità contro se stesso, deciso a tener fronte alla sua stessa vita, a tutte le negligenze, a tutte le indecisioni, a tutti gli errori. In un misterioso soffrire il cuore si mette a disposizione del pentimento, e così nelle mani della sacra potenza dello spirito creatore. A questo modo quel che fu omesso viene donato un'altra volta. Le vie storte sono raddrizzate. Il male, rivissuto e trasferito al bene. Non un miglioramento esteriore, ma tale che tutto, penetrando nel mistero della grazia rinnovatrice che opera nel pentimento, ritoma a una vita nuova.

Ecco il purgatorio, di cui parla la Chiesa. Nessun cuore bennato potrà dire di non avervi nessun rapporto. E ciò che di più profondo vi è in noi risponde con gratitudine a una tale garanzia, troppo lieto se la potesse già possedere.

Appare chiaramente di qui quante deviazioni si siano infiltrate nell'idea che ci si fa dei morti. Il modo di dire le povere anime del purgatorio è tutto grondante di amorevoli cure, ma contiene nello stesso tempo il pericolo di molte grettezze. I morti nelle mani di Dio non hanno nulla, in sé, che desti commiserazione. Attraversano un impensabile dolore, ma un dolore dignitoso, grande... Poniamo il caso di un uomo da noi intensamente amato, e che si sia messo su di una falsa strada. Noi vediamo il suo profondo bisogno di riabilitazione. Ora, ecco, un giorno la luce lo tocca. Ne avremmo compassione? No. Saremmo trepidanti per timore di una ricaduta (ciò che al di là del tempo non è più possibile); faremmo nostro il suo travaglio spirituale, ma avremmo sempre la visione netta di qualchecosa di grandioso, in atto di compiersi in lui, degno del più alto rispetto. Analogamente qui: dal ricordo dei trapassati, coloro che sono tornati a casa, noi dobbiamo bandire tutto ciò che è piccino, tutto ciò che è espressione del recondito desiderio umano di vedere gli altri soffrire; ogni impetuosità di soccorso, ogni indiscrezione di compatimento. Pensiamo al concetto scritturale dell'uomo : sono figli e figlie di Dio che si trovano nel bisogno, ma nel contempo «nel trionfo della libertà gloriosa dei figlioli di Dio » (RVIII 21).

La cura per essi è buona, a patto di serbarle intatto il suo

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genuino carattere. Se ci trovassimo accanto all'essere amato, di cui si parlava or ora, in atto di ritornare, lottando, al bene, vorremmo certo aiutarlo, ma non con sentenze e raggiri. Cercheremmo di comprenderlo, di indurlo a sentire la nostra presenza spirituale, e portargli tutti quei soccorsi che fossero in nostro potere; sempre con senso di profonda venerazione. Non altrimenti dev'essere qui: i nostri cari che sono nelle pene del purgatorio li dobbiamo e li vogliamo aiutare non quasi fossero dei mendicanti ai quali dar l'elemosina, ma pensare ad essi in ispirito di fede, star loro vicini in ispirilo di carità, invocare lo Spirito Santo che li introduca nel principio vitale della purificazione per guidarli alla santità. E chi è già più esperto nelle cose dell'amor cristiano e più familiare ai misteri di Cristo non tarderà a ricordare che quella sofferenza riparatrice procede dalla redenzione, e cercherà di unire il suo proprio amore e il suo proprio dolore alla stessa volontà redentrice di Cristo.

LA RESURREZIONE

LA DOTTRINA RIVELATA

fra i problemi che travagliano lo spirito umano ve ne sono di quelli che sorgono da motivi speciali, e perciò stesso possono essere tralasciati; altri invece non possono non essere posti a meno di lasciare nella oscurità e nel dubbio elementi fondamentali dell'esistenza. ,

A questo secondo ordine di problemi appartengono i novissimi: Che cosa sarà alla fine? C'è o non c'è qualchecosa di definitivo che sia ragione della mia esistenza, o tutto finisce con la morte? Se c'è qualchecosa di definitivo, come si configurerà ciò ch'io fui, compii e sperimentai?

La fede risponde che primo tra i novissimi viene la morte;

la prospetta in tutta la sua importanza e richiede che la si accetti e la si affronti. Nello stesso tempo però la fede dice che la morte è solo un lato di una più vasta realtà : l'altro lato è la resurrezione.

Nell'ultimo libro della Sacra Scrittura, l'Apocalisse, si legge verso la fine : « E vidi un trono grande, candido, ed Uno che vi sedeva: dal suo cospetto fuggì terra e ciclo, ne più si trovò luogo per loro. E vidi i morti, grandi e piccoli, ritti dinnanzi al trono;

e furono aperti dei libri. E un altro libro fu aperto che è della vita; e furono giudicati i morti da quello che era scritto nei libri, secondo le opere loro. E il mare rese i suoi morti, e la morte e l'inferno resero i loro; e fu giudicato ciascuno secondo le opere sue» (XX 11-13).

La prima lettera ai Tessalonicesi dice : « Perché se crediamo che Gesù morì e resuscitò, così anche Iddio quei che s'addor-

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mentarono, per Gesù li riunirà con lui. Questo infatti vi diciamo su parola del Signore: noi — chi vivrà, chi resterà alla venuta del Signore — non arriveremo, no, prima di quei che s'addormentarono, che Lui, il Signore, a un grido, a una voce d'arcangelo e allo squillo della tromba di Dio, discenderà dal ciclo, e i morti in Cristo risorgeranno dapprima » (IV 14-16).

A sua volta, la prima ai Corinti : « Se infatti i morti non risorgono, nemmeno Cristo è risorto. Ora se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede: tuttora siete nei vostri peccati. Dunque anche quelli che si addormentarono in Cristo, perirono. Se solo in questa vita abbiamo riposto la speranza in Cristo, i più miseri siamo di tutti» (XV 16-19).

Ma questi passi spiegano unicamente un messaggio che Gesù stesso ha annunziato. I Sadducei, negatori della resurre-, zione, gli chiedono di quale dei sette mariti avuti sulla terra e perduti l'uno appresso all'altro per morte sarà moglie nella resurrezione la vedova, ed egli risponde : « V'ingannate, non intendendo le Scritture ne il potere di Dio. Alla resurrezione infatti ne s'ammoglieranno ne si mariteranno, ma saranno come angeli di Dio nel ciclo. Circa poi alla resurrezione dei morti, non leggeste quel che vi fu detto da Dio? Io sono il Dio d'Abramo, il Dio d'Isacco, il Dio di Giacobbe? Non è il Dio dei morti, ma dei vivi» (Mt XXII 29-32). E se anche Gesù, nei discorsi intomo ai novissimi (Mt XXIV-XXV), non fa espressamente parola della resurrezione, nondimeno questo mistero ferve dietro tutto ciò che egli dice, e conferisce a ciò che egli dice il suo vero e proprio significato.

Dunque la rivelazione insegna che la morte non è qual-checosa di definitivo; ma che l'uomo, morto, risorgerà a vita nuova. Anche di questa parola si può dire ciò che dicevano gli ascoltatori dell'annunzio eucaristico : « Questo linguaggio è duro, e chi lo può ascoltare?» (G VI 61). Non sono infatti mancati dei tentativi per liquidare lo scandalo.

Si è detto che la dottrina circa la resurrezione non è parte essenziale del messaggio di Gesù, e che risponde invece solo al normale bisogno della umanità incapace di rassegnarsi a morire:

cose che non meritano neppure di essere prese in considerazione.

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La resurrezione è come la pietra fondamentale del messaggio cristiano: oggetto di fede fin dall'inizio; fermo attraverso tutti i secoli e — dove la fede cristiana rimase viva — baluardo contro ogni forma di inquinamento.

Si è detto ancora che questa dottrina emana da un antico sentire, per cui tutto veniva riferito al corpo. In altri termini, l'uomo di allora non avrebbe saputo concepire forma di vita ad eccezione della vita del corpo, per cui, dicendo di credere a una vita etema, non si sarebbe potuto intendere altro che una vita etema del corpo; così sarebbe stato necessario parlare anche di una resurrezione. Al Cristianesimo invece starebbe a cuore una cosa sola: la immortalità dell'anima e il suo ritorno a Dio, -fantasie ancora meno degne di essere anche semplicemente accennate. Prima di tutto, infatti, è inesatto affermare che anticamente l'uomo non sapesse pensare forma di vita al di fuori della vita del corpo, tant'è vero che — per citare un esempio solo — tutta la storia del pensiero greco è solcata da una corrente che trovò incomparabilmente la sua più potente espressione nel pensiero platonico, insegnando che vera vita è possibile unicamente nello spirito puro. Questa corrente invase anche il campo cristiano, tanto che fino dal primo secolo la chiesa si trovò a dover combattere contro la gnosi, negatrice di tutto ciò che dice corporeità, e quella lotta continuò per secoli, rendendo sempre maggiormente vissuta e profonda la fede nella resurrezione. Ciò che Paolo tratta in lungo e in largo, lui che con tanta insistenza annuncia la resurrezione dai morti, non lo tratta certo in base ad antiche interpretazioni materialistiche dell'uomo. Se vi era uomo da sentirsi incline e capace di basarsi unicamente sulla realtà spirituale-religiosa, questi era proprio lui che scrive ai Romani:

«Infelice uomo! Chi mi libererà da questo corpo di morte?» (R VII 24).

Se ne andasse solo dell'immortalità dell'anima, manco vi sarebbe stato bisogno di rivelazione cristiana: Pitagora, Scorate, Fiatone ne avevano già parlato. Ne va piuttosto della resurrezione da morte e della vita etema dell'uomo, e sradicare questa dottrina dalla coscienza cristiana è impossibile.

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IL MESSAGGIO CRISTIANO E I/UOMO

L'uomo, non abituato a riflettere, è turbato da questa dottrina. Già nella prima lettera ai Corinti Paolo sente il bisogno di chiedere : « Se di Cristo si predica che è risorto da morte, come dicono alcuni fra voi che non c'è resurrezione di morti? » (XV 12). Di questa gente ve n'era allora e ve ne sarà sempre. Ve n'era già ai tempi di Gesù, opposti a Lui che sotto i loro . occhi aveva dato prova della resurrezione (Mt XXII 23-33) ... Ve n'era nel Medioevo, mentre la gnosi procedeva a vari e potenti sviluppi ... Ve ne sono ancor oggi, particolarmente tronfi della loro protesta, perché per l'uomo moderno il pensiero che i morti debbano tornare nuovamente a vita è semplicemente un nonsenso. È bensì vero infatti che il suo istinto di conservazione cerca di dare alla morte una soluzione positiva, per gettarsi senza freno nella corrente della vita puramente terrena, in cui nascita e morte non dovrebbero essere che diverse onde in eterno fluire, ma dalle scienze naturali egli sa che in campo sperimentale non vi è nessuna forza capace di ridonare vita a un organismo disfatto.

Prima di andare avanti dobbiamo quindi chiarire ancora una volta qualchecosa di fondamentale, di cui si parlava già nel primo capitolo di questo studio.

La conoscenza vuole verità, e la verità è quella sola che tutto comprende. La verità significa che ciò che è sorge allo spirito nella luce delle realtà eterne. Però, perché sia così, lo spirito ha da venire a contatto con le diverse sfere di ciò che è loro corrispondente. Se voglio conoscere la verità del vivente, non assumerò nei suoi confronti quell'atteggiamento che conviene alle cose inanimate. Se voglio afferrare la verità dello spirito, mi ci devo prendere diversamente da ciò che farei qualora si trattasse di conoscere invece una macchina. Verità non risplende se non quando l'uomo va incontro alla realtà come essa stessa richiede. Quanto più alto il reale tanto più grande l'esigenza che esso pone allo spirito in atto di conoscere; tanto più grande però anche la tentazione di avvilirla giù al piano di realtà infe-

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riori per maggiore comodità. Così, per esempio, è molto allettante pensare il vivente in funzione dei processi chimici, o lo spirito in funzione delle norme biologiche, perché a questo modo si risparmia lavoro e ci si da la parvenza di rigorosi scienziati, mentre in realtà si è spiritualmente dei codardi numero uno, facendo violenza alle norme consuete del processo conoscitivo, a detrimento del valore caratteristico dell'oggetto. Questo vale già sul semplice terreno del pensiero umano e dell'oggetto che gli è proprio, il mondo... Ma poi, con la rivelazione, quel Dio che governa tutto ciò che è del mondo, parla la sua parola nel mondo; e così, con la rivelazione, si fa innanzi all'uomo una realtà tutta nuova. Il carattere discriminante di autentica rivelazione consisterà dunque nel fatto di non poter venire ridotto a immagini e forme del possibile dedotte puramente dal mondo, ma di essere autonomo nei loro confronti; anzi di infrangerle. La verità rivelata sarà pertanto riconoscibile esclusivamente da colui che, rinunciato a giudicare la nuova realtà in base a criteri di mondo, sia pronto a ricavarla integralmente tale quale è nella rivelazione... Ecco ciò che conta ed è decisivo.

Dopo di ciò, a ogni modo, vi sarà ancora una seconda cosa da tener presente, ossia: quel Dio che si rivela è il medesimo che ha creato il mondo. Se quindi la sua parola entra nel mondo, non entra in campo straniero, ma nella sua proprietà (Gì 11). In un primo tempo, certo, questa parola dev'esser presa com'è, senza chiedere al mondo di giustificarla; puramente quale è in se stessa. D'altra parte essa versa immediatamente la sua luce appunto in questo mondo; ne solleva i problemi che gli sono propri, e fornisce loro una risposta che solo dal mondo si sarebbe sempre attesa invano.

Ma affinchè il modo nostro di pensare sia un modo di pensare cristiano, e il contenuto della rivelazione sia compreso secondo il modo di essere che gli è proprio, occorre che intervenga un mutamento. L'invito di Gesù alla conversione (Mt IV 17) non impegna soltanto la volontà, impegna anche il pensiero. Ora, naturalmente reale è per noi ciò che troviamo pronto in noi e intomo a noi; naturalmente vero è il delinearsi chiaro di questa realtà nell'idea corrispondente; naturalmente possibile è ciò che è possibile in base alle cose del mondo. Invece :

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cristianamente reale è ciò che si manifesta reale nella rivelazione;

cristianamente vero è ciò che ci si mostra nello spirito e nella parola di Dio; cristianamente possibile, ciò che si rivela possibile in Cristo. Presto detto, ma difficilmente attuato, e dal fatto che uno abbia dato il suo assenso alla fede non segue ancora che vi confermi realmente il suo pensiero. Affinchè il nostro modo di pensare alla stregua del mondo, adagiatesi sempre più profondamente nel mondo lungo il corso di parecchi secoli, traduca in atto il contenuto della rivelazione, bisogna che esso realizzi un vero e proprio rifacimento; e soltanto nella misura in cui questo rifacimento si opererà, esso comprenderà ciò che Cristo dice della resurrezione.

Al Cristianesimo — ci si perdoni l'insistenza — non è lo spirito, semplicemente, che sta a cuore; sta a cuore l'uomo. Quando si legge quel che fu detto da filosofi e personalità religiose intomo all'immortalità dell'anima e a una vita spirituale etema, vi si sente a tutta prima una espressione di forza e di entusiasmo. Quando poi si viene alle strette, e si vuoi sapere come sia questa vita etema, e come assuma in sé il frutto dell'esistenza terrena — ciò che diciamo storia, esercizio di volontà, azione, destino — tutto svanisce: con un semplice atto di fede nella immortalità dell'anima si rinuncia alla storia, e la realtà dell'esistenza si perde nella retorica ... Ben altro sta a cuore al Cristianesimo: sta a cuore la redenzione della concretezza, il destino eterno della persona e della sua storia. Il Cristianesimo non è soltanto una metafisica, ma è l'autotestimonianza del Dio vivente; l'annunzio ch'Egli ha posto mano alla realtà di quaggiù per introdurla in una nuova esistenza, dove non va perduto nulla, anzi ogni cosa riceverà il suo coronamento supremo. Ora tutto questo è connesso col corpo. Per quanto possa suonare strano, l'ultima chiarificazione relativamente a tutto ciò che si chiama persona ed esistenza personale, storia del singolo e del tutto, si verifica unicamente in una presa di posizione rispetto al corpo. Se questo non risorge, rimane più solo una immortalità dello spirito che ci lascerebbe davvero, per dirla in breve, assai indifferenti.

Per il Cristianesimo non si tratta semplicemente dell'idea,

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ne della essenza, ma della realtà dell'uomo: della sua responsabilità, della sua dignità, delle sue azioni e di quello che Dio gli riserva. In una parola, della sua storia: tutto, ancora una volta, inscindibilmente connesso col corpo. La resurrezione del corpo salva i diritti del carattere personale e storico dell'uomo, e distingue l'esistenza cristiana tanto dalla semplice natura, quanto dal mito e dalla metafisica pura.

IL CORPO GLORIOSO

Ma bisogna fissare subito qualchecosa d'altro : il fondamento della nostra esistenza fisico-umana è Cristo. La resurrezione non significa una fase ulteriore nel proseguimento della vita, quasi che dalle interne possibilità della vita si sviluppi, dopo la morte, una forma nuova, ma la risposta a un appello che procede dalla sovranità di Dio. Dio ha voluto l'uomo come uomo, e uomo è lo spirito che si esprime e in quanto si esprime ed agisce nel corpo; è l'organismo corporeo in quanto consiste" nella sfera d'azione dello spirito personale, e mediante questo è plasmato in una figura e per un'attività che da sé non potrebbe mai raggiungere; costituito ricettacolo dove lo spirito, con la sua dignità e responsabilità, sta nella storia. Resurrezione significa dunque che l'anima spirituale è ripristinata in quello stato che le compete in ragione della sua natura, vale a dire anima di un corpo, anzi che solo allora è resa tutta libera e idonea al compito specifico della forma corporea, significando che la materia disanimata diviene nuovamente corporeità vivificata, questa corporeità, ossia corpo d'uomo; il quale corpo, si capisce, non è più vincolato alle condizioni di spazio e tempo, ma, come dice Paolo, è in uno stato nuovo, spirituale, pneumatico.

Come questo risulti, ignoriamo. Ma, per poco che meditiamo le diverse espressioni delle lettere paoline e dell'Apocalisse, appare appunto — unitamente alle raffigurazioni del nuovo ciclo e della nuova terra — come compimento del mondo redento. Al capo ottavo della lettera ai Romani, dove è parola del contenuto della nostra speranza cristiana. Paolo dice : « Ritengo

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infatti non adeguati i patimenti del momento presente rispetto / alla ventura gloria da rivelarsi in noi. Che la vigile attesa della natura sospira la manifestazione dei figli di Dio. Alla caducità infatti la natura fu sottomessa, repugnante, ma obbediente a Chi ve la sottomise, su speranza che anch'essa natura sarà dalla servitù della corruzione vendicata alla libertà gloriosa dei figliuoli di Dio. Sappiamo infatti che tutta la natura è in gemito e nel travaglio del parto sino ad ora. E non solo, ma anche noi che le primizie abbiamo dello Spirito, anche noi in noi stessi gemiamo, sospirando l'adozione, la redenzione del nostro corpo» (18-23).

Questo compimento salutare è grazia, e proviene dalla pura libertà di Dio. Non è quindi possibile giudicarlo alla stregua del mondo ne dedurlo dalle premesse che il mondo impone. Eppure questo mondo vi trova il suo compimento: per ogni dove tu vi intrawedi nel mondo dei riferimenti, e appunto per questo ciò che viene da Dio nel mondo non viene in terra straniera. E dunque lecito porre questo problema: In ciò che noi chiamiamo corpo non vi sono per caso delle indicazioni o degli accenni trascendenti le pure possibilità intrinseche del mondo stesso?

Se ci facciamo ad esaminare dapprima un oggetto inanimato e poi un albero, vi scorgiamo una differenza essenziale. Un cristallo, poniamo, ha una corporeità intensiva : terso, preciso e prezioso; ma è pesante, duro, immobile... Ben altrimenti quest'albero: cresce su dalla terra, dispiega la sua figura in una gamma di aspetti e di mutazioni sempre nuove, fiorisce, fruttifica, in una parola: vive. Esso pure è corpo, ma di un genere diverso. Vince il pesantore, sale in alto, si edifica da sé, per risorse proprie... Una nuova differenza balza evidente nei confronti con il regno animale. Un cavallo o un uccello sono ugualmente corpo; non però a guisa di una pietra o di un albero. Spaziano in libertà, hanno capacità di percezione e forza di azione, sanno affermarsi e difendersi, costruiscono la loro casa, sono atti alla procreazione e si prendono cura della loro prole... Ancora un'altra differenza intercede tra il bruto e • l'uomo. Il bruto è legato a determinate possibilità e si muove incontrollato nel suo mondo. L'uomo invece detiene un inizio creatore, la cui estensione, in

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linea di principio, non può essere limitata ; egli è capace di verità e di decisione morale ed ha potere di agire e creare e perfino di annichilire, con la sua stoltezza, la propria esistenza terrena. Da tutto questo emerge una forma di corporeità di nuovo genere, che non è solo più fine o più sviluppata delle forme nominate finora, ma gode di qualità che la mettono in relazione con il tutto del mondo vivente, conferendole una specie di universalità.

In questi diversi enti ci viene incontro sempre da capo il corpo: nel cristallo, nell'albero, nel cavallo, nell'uomo che mi sta qui dinnanzi : ma di quali differenze segnato ! Ogni volta la corporeità è posta al servizio di un nuovo principio e guadagna con questo non soltanto altre qualità ed altri modi di essere, ma perfino un carattere nuovo. Sempre di più essa vince i gravami, le catene, le asperità, il tedio. Si fa più sciolta, spazia sotto orizzonti più larghi e più liberi. Più vasto, il dominio della realtà con il quale essa viene a contatto. Più elevati i valori che in essa si attuano. L'ora dello spirito creatore, il dominio del possibile cresce. La materia diviene sempre più oggetto e strumento dello spirito. Nell'uomo poi il corpo ha un'importanza del tutto universale: non appare soltanto come strato supremo, ma come compendio della corporeità.

Ora ecco un altro quesito: Questa linea è forse destinata a terminare con l'uomo quale lo conosciamo noi? A un sentire immediato superficiale appare di no : questa umanità non è un termine; la possibilità di quello che si chiama corpo non vi si può ancora estinguere. Si aggiunga per di più il plausibile suffragio che viene dalla gradazione della corporeità dell'uomo stesso.

Il corpo umano non è qualchecosa di finito e di stabile. Esso è- in continuo divenire. È evidente che un corpo sano esercitato e attorniato di cure è più corpo di uno negletto. Ma dove risiede più intensa e più pregevole corporeità : nello sguardo nella figura e nell'atteggiamento di un uomo intento ad alte cose e preoccupato di condurre una vita di profonda interiorità, oppure in uno che è bensì sano e sportivo, ma superficiale e chiuso ai problemi dello spirito? A prima vista questa domanda ci colpisce, unicamente però in forza della nostra abitudine a

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vedere la corporeità dell'uomo poco diversamente da quella del bruto, cioè come pura natura.

In realtà il corpo umano è decisamente improntato dallo spirito. Lo sguardo sagace di un uomo che lotta per la verità non è soltanto più spirituale, ma semplicemente più sguardo (Antliz-hafter) di quello di un povero materialone: il che induce però anche corporeità più sana, più penetrante. Lo stesso dicasi dell'atteggiamento di un uomo dal cuore magnanimo e largo per tutti:

non vi è soltanto più di animo che non in un uomo egoista ed interiormente rozzo, ma più vitale corporeità. Si profila qui tutta una nuova serie di piani nell'ordine dell'attuazione. Il corpo, come tale, diviene tanto più vitale e pregevole quanto più profonda è l'interiorità, più intensa la vita del cuore, più nobile la spiritualità che in esso si elabora.

L'epoca contemporanea ha creduto di poter lanciare il dogma secondo cui il Medioevo cristiano avrebbe trasandato il corpo: dogma non soltanto falso, ma semplicemente cieco. Per poco che ci si emancipi dal convenzionalismo, non si può non vedere quale ricchezza di vita traspaia dai volti e dalle figure della statuaria medievale: una concretezza che vince l'antica superiorità del cuore fatto libero, dove la causa è per l'appunto l'esperienza cristiana, la vita in rapporto con Dio e in comunione con Cristo. Nonché non esser distrutto — secondo le stolte pretese di un luogo comune — il corpo ha conseguito una forza, una profondità, una musicalità tutta nuova, e ancor oggi esso si nutre delle conseguenze di quella forza perfino là, inconsapevolmente, donde il pensiero cristiano è ostracizzato da lungo tempo. La ragione va ricercata nel fatto che il corpo è bensì tributario della natura, ma non solo della natura; in parte, e forse in parte preponderante, si edifica sullo spirito. Sono gli ardimenti dello spirito che lo forgiano; sono le vittorie del cuore che lo temprano, non di rado attraverso scosse profonde e perfino, a volte, attraverso apparenti rovine. Sacrifici e rinunzie che uno sguardo spento reputa distruzioni si rivelano invece a un occhio più sereno come avviamento sicuro a più alte forme di corporeità. Un Rembrandt, un Roger van der Weyden, un Mattia Grùnewaid non avrebbero mai saputo rubare al loro pennello quelle meraviglie di volti e di

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figure, se i santi raffigurati nella loro lotta per l'ascesa a Dio non avessero gettato il loro corpo in preda alle fiamme del sacrificio. Bisogna vedere le cose come sono. Nulla di grande procede da sola natura, ma da sacrificio e da superamento di sé.

Ora, che sarà mai quando lo spirito, nell'estuare dell'eternità, alla onnipotente presenza della sacrosanta forza divina, sarà introdotto nel possesso della sua perfetta purità e potenza?

Risponde Paolo nella prima ai Corinti, parlando della resurrezione :

«Ma dirà qualcuno: come risorgono i morti? e con qual corpo tornano? Insensato! Quel che tu semini (nel campo) non rigermina se prima non muore. E quel che semini, non il fusto che ha da nascere semini, ma un nudo granello di frumento, per esempio, o d'altro. Iddio poi gli da un fusto com'Egli volle, e a ciascuna delle semenze un proprio fusto. Non ogni carne è la stessa carne, ma altra è (la carne) d'uomini, altra è carne di bestie, altra carne d'uccelli, altra di pesci. E vi sono corpi celesti e corpi terrestri ; ma diversa la vaghezza dei celesti, diversa quella dei terrestri. Altro è splendore di sole, ed altro splendore di luna, ed altro splendore di stelle; che astro da astro differisce di splendore. Così appunto la resurrezione dei morti. (Il corpo umano) vien seminato a imputridire, risorge incorruttibile; vien seminato in abbiezione, risorge in gloria; vien seminato in fiacchezza, risorge in vigore; vien seminato corpo animale, risorge corpo spirituale... Il primo uomo (Adamo), dalla terra, terrestre;

il secondo uomo (Cristo), dal ciclo, celeste. Quale il terrestre, tali anche i terrestri; e quale il celeste, tali anche i celesti. E come noi portammo (in noi) l'immagine del terrestre, porteremo anche l'immagine del celeste » (XV 35-49).

Prescindendo completamente dalla dignità che gli conviene come parola rivelata; preso com'è, quale oggetto di considerazione speculativa, il testo riferito è di una elevatezza che si impone. In qualche tratto non è pienamente chiaro, ma pure là si sente l'opera arcana della potenza delle cose sperimentate, che investe ogni espressione di Paolo. Qualchecosa di fondamentale, a ogni modo, è posto qui con grandiosità e chiarezza di linee: l'essenza del dato corporeo. Questo dato è di varia specie. Paolo si esprime

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senza nessuna preoccupazione di metodo scientifico, per pura intuizione immediata. Vi è la corporeità delle piante e, nell'orbita del regno vegetale, la corporeità dei diversi vegetali; vi è la corporeità degli animali e, di nuovo, quella di ogni specie animale, l'una diversa dall'altra; vi è la corporeità dei corpi celesti che agli occhi dell'antichità erano qualchecosa di misterioso, di quasi divino ; e anche tra i corpi celesti una diversità tra stella e stella. Così si apre tutta una fuga di gradazioni secondo il genere e l'ordine, a non finire : oltre le possibilità del creato, al di là del dominio terrestre, nello spirituale-celeste, di cui sarà parola tra poco.

Tuttavia, tra le diverse forme di corporeità intercede uno iato. Questo è talvolta di tale natura che nulla conduce da una parte all'altra, da una forma all'altra. Da una pietra non verrà mai un ruscello. Altre forme corporee, al contrario, conservano, con tutte le differenze specifiche, un rapporto vitale reciproco, costituendo altrettante fasi di uno sviluppo immediato: come, per esempio, un germe e l'albero che da lui è sorto. Lo iato, qui, è vinto dal mistero della germinazione e del germoglio. Vinto, ma sempre rivendicato da ciò che Paolo chiama il morire. Il granello di frumento deve essere seminato nella terra, e morirvi, vale a dire perdere la sua forma, perché possa germogliare la nuova pianta.

Ed ora il passaggio: altrettanto accade nell'uomo. Pure in lui vi sono due forme di corporeità : il corpo terrestre e il corpo celeste, e il primo è il germe del secondo. Anche tra di loro intercede la morte: il corpo (terrestre) deve essere consegnato alla terra e nella terra scomporsi; allora soltanto germina il nuovo corpo (celeste). Ma ecco la differenza: la pianta cestisce realmente dal germe, in virtù delle sue proprie funzioni e disposizioni specifiche; il corpo celeste, al contrario, non procede così dal corpo terrestre. Del germe si può dire che si fa vivente, — per forza d'identità con quest'essere che è chiamato, poniamo, frumento, — senza mediazione, per il suo stesso disfacimento, nella pianta novella; del corpo umano bisogna dire che risorge da morte. Qui domina arcanamente un'altra potenza: non dall'interno della costituzione umana, ma dall'alto, dal regno della libertà di Dio. ^

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Quale potenza sia questa, lo si è visto nella resurrezione:

è la potenza per la quale un giorno Cristo uscì dal sepolcro. Con questa stessa potenza egli ridesta i suoi dalla morte, e li rende atti a una vita nuova, celeste. Però il carattere di questa nuova vita, lo spirituale e celeste, non significa semplicemente un grado più alto nell'essere — come è il caso, invece, dell'animale su la pianta e dell'uomo sul bruto — ma esprime parimenti il nuovo, come elargito dalla sovrana munificenza di Dio: è la virtù dello Spirito Santo, venuto alla Pentecoste nel mondo, che da quel momento regge e governa il mondo.

Una parentela nuova si manifesta: l'uomo terrestre è così come fu il suo capostipite terrestre, Adamo. Poi venne il Cristo, il celeste, inaugurando una nuova serie di parentele che riceve da Lui la sua propria figura sostanziale e la sua propria vitalità :

« Cristo è risorto da morte — dice Paolo — primizia dei dormienti. Poiché infatti per un uomo (è entrata nel mondo) la morte, anche per un uomo resurrezione da morte. Perché come in Adamo tutti muoiono, così anche in Cristo tutti rivivranno. Ciascuno però a suo luogo: primizia Cristo; poi quei di Cristo, al suo ritomo. Poi la fine, quando rimetterà il regno a Dio e Padre, dopo aver prostrato ogni signoria e ogni potestà e possanza... Ultimo nemico, è prostrata la morte » (I ^C XV 20-26).

Si tratta dunque della restaurazione dell'uomo. La biologia? Se si attiene a ciò che essa realmente conosce, e non pretende, dopo aver rifiutato il dogma della Chiesa, di instaurarne di suo piacimento uno dei più discutibili, deve ammettere, semplicemente, di non poter dire nulla in materia. Da sé, essa non può stabilire la possibilità della resurrezione, ma certissimamente nemmanco il contrario. E quando si sente ciò che la fisica dei nostri giorni insegna a proposito dell'importanza della forma nella elaborazione della materia, e ciò che la medicina dice intorno al potere dello spirituale sulla vita del corpo, il corporeo si mostra dato in mano allo spirito in una misura che non si sarebbe mai potuta prevedere.

Con questo non è detto tutto del corpo risorto. Corpo non è soltanto qualchecosa di saldo che mi sta qui dinnanzi, figura

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spaziale; ma ha pure storia. Nel corso dal suo costituirsi iniziale fino al disfacimento supremo esso attraversa una serie non calcolabile di forme. Quale di esse è la sua propria forma? Da bambino, da adulto, da vecchio? La risposta non può essere che questa : ognuna è essenziale, poiché ogni singola fase non è unicamente al servizio di quella che segue (il che equivarrebbe a dire che tutte insieme queste forme disimpegnano soltanto una funzione strumentale al servizio dell'ultima forma, quella della morte, ma ognuna di esse è l'uomo, e ognuna indispensabilmente nell'integrità della sua vita. Il corpo dell'uomo è pertanto in verità una catena di forme, le quali tutte devono riscontrarsi nel corpo risorto. Dovrà avere una nuova dimensione, quella del tempo ; bene inteso, del tempo quale è assunto nell'eternità, così che nel suo presente, dell'uomo, sia implicita la sua storia, e nel suo puro adesso tutta l'alterna sequela di forme.

Ma questo non ha valore unicamente per il suo immediato sviluppo; ha valore anche per ciò che egli ha fatto e per quello che gli è accaduto: gioie e dolori, intralci e rivendicazioni, vittorie e sconfitte, amore ed odio; tutto ciò che l'anima ha sperimentato, senza misura, si è espresso nel corpo, è penetrato nel suo essere, lo ha sviluppato o coartato o distrutto. Così vi è pure conservato, e si trova nel corpo risorto. Ugualmente dicasi degli eventi ed incontri, e la resurrezione del corpo implica la resurrezione di tutta la vita che fu, bene e male.

E dove termina il corpo dell'uomo? Vi fa parte l'abito che lo circonda? In un certo modo sì, per il semplice fatto di avere una funzione nella sua vita : di protezione o di manifestazione. L'ornamento che porta, gli strumenti di lavoro, le cose ambientali, la casa della sua dimora, il giardino amato, tutto lo spazio vitale da lui improntato? Non vogliamo fantasticare; una cosa, a ogni modo, è certa : che il corpo dell'uomo comporta assai di più della nuda corporeità anatomicamente descrivibile. Comporta, in fondo, un che di sconfinato : il compendio, fatto visibile, della sua esistenza terrena. Resurrezione intende perciò che non soltanto la forma, ma anche la storia; non soltanto la sostanza risorge, ma anche la vita dell'uomo. Nulla di ciò che fu va perduto. Il contenuto delle azioni e degli eventi umani rimane in lui, e un giorno, svincolato dalla limitazione del tempo, starà

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nell'eterno: non per forza propria, come fase ultima di uno sviluppo ulteriore, ma su la chiamata del Signore, l'Onnipotente, e per virtù del Suo spirito.

Ancora: per sua salvazione o per sua rovina. Vi sarà il corpo beato e il corpo dannato. Come sta allora il corpo in quel rapporto che è stato descritto nel secondo capitolo? Se l'uomo, cioè, dopo la sua morte, ha bisogno di essere purificato, questo deve valere anche per il suo corpo, e come si compirà la purificazione del corpo se questo non risorgerà che alla fine del mondo, dopo la quale non si darà più che beatitudine o dannazione etema ?

Anima e corpo non sono grandezze che si possano separare in modo assoluto. Il corpo è oggetto di costante edificazione da parte dell'anima spirituale; anzi quel che si chiama corpo, ad ogni passo e in ogni atto della struttura che gli è propria, implica l'anima, così vero che, se gliela si potesse disgiungere, non ne rimarrebbe più corpo, ma una mera configurazione biologica, anzi forse unicamente un certo conglomerato di composti chimici in disgregazione. A sua volta, l'anima non vive per conto proprio, ma opera nel corpo e per il corpo, tanto da essere lecito chiedere se si dia, semplicemente, nella esistenza umana, un atto che sia puramente spirituale; e non siano invece tutte le nostre azioni spirituali-corporee, vale a dire per l'appunto umane. Si suoi dire che l'anima è nel corpo, intendendo con questo che l'anima è il principio della vita del corpo, il contenuto della sua manifestazione, il significato storico del suo persistere e del suo muoversi, ma si potrebbe anche dire altrettanto bene che il corpo è nell'anima, intendendo con questo che l'anima lo possiede come strumentò del suo operare, rivelazione del suo nascondimento; sito, posizione e materia della sua esistenza storica, della sua figura, della sua azione. Forma e destino del corpo sono compenetrati con la vitalità dell'anima. Perciò, quando l'anima, in morte, si separa dal corpo, non è, il suo, un semplice respingere lontano da sé il dominio del corpo. Essa non diviene un angelo, ma rimane anima umana, e come tale comporta il corpo, fermo restando che essa è il presupposto della vita del corpo, nel quale si sono venute compiendo le sue azioni. Come dice la filosofia medievale,

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l'anima è forma del corpo, e non di un corpo qualunque, generico, ma di questo corpo particolare; ne della sua struttura soltanto, ma anche della sua storia; e ancora non solo così che essa operava nel corpo, ma pure che vi si è attuata, essa stessa, per cui ciò che vi si compì essa lo assunse nella sua propria realtà. Così nella resurrezione dei morti Dio conferirà alla virtù, che è propria dell'anima, di forma del corpo, le possibilità di rifarsi il suo corpo come dev'essere corrispondentemente alla sua realtà e alla sua verità. (1)

Se così è e se l'anima, dopo morte, attraversa la purificazione di cui si parlava sopra, pure il corpo latente in essa, per così dire, avrà parte a questa purificazione. Così, quando poi il morto risorgerà, il nuovo corpo sarà degno dell'anima restituita dalla purificazione alla sua sincerità e verità.

Ma il costituirsi del nuovo corpo non è un puro ed improvviso dato di fatto, quasi che l'uomo, fino alla sua morte, sia unicamente terreno e poi, al ritomo del Signore, introdotto d'un tratto nello spirituale-celeste. Nella lettera ai Romani Paolo sviluppa quest'altro aspetto dottrinale su la resurrezione. Come risulta in potenti tratti dai capitoli sesto, settimo e ottavo di quell'epistola, il mistero della resurrezione e della morte ha già inizio in questa vita : « O ignorate che quanti battezzati fummo in Cristo Gesù, nella morte sua fummo battezzati? Consepolti dunque fummo con lui per il battesimo nella morte, perché come Cristo fu ridestato da morte dalla gloria del Padre, così anche noi si cammini in novità di vita. Se infatti siamo diventati un solo germoglio con Lui per la somiglianzà della sua morte, lo saremo pure per quella della sua resurrezione; ponendo mente a questo: che il vecchio nostro uomo fu crocefisso con lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato, da non più servire noi al pec-

(1) Su l'importanza del corpo per l'anima e su la virtù propria dell'anima di plasmare il corpo si trovano delle cose ammirevoli in Dante, il poeta dell'ai di là. E' molto significativo, per una genuina intcrpretazionc del Cristianesimo a questo riguardo, che la più elevata produzione poetica cristiana, rappresentante nel contempo la più potente espressione dell'anima medievale, sia pervasa da un senso del concreto cosi ricco vitale e fattivo. (Nota dell'A.)

Guardini attende ora a uno studio su Dante. (Nota del T.)

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cato. Infatti chi morì è fatto libero dal peccato. Ora, se morimmo con Cristo, noi confidiamo che vivremo anche con lui » (VI 3-8). Il battesimo, a mo' di inizio, è già morte e resurrezione a un tempo. Generato nel lavacro battesimale, l'uomo nuovo continua a vivere da quel momento — sempre adombrato dal vecchio, beninteso — nella intimità del credente. Da quel momento è tutta una catena non interrotta di disfacimenti e di attuazioni. Ogni azione ed ogni evento porta sempre di nuovo a un morire del vecchio e a un risorgere dell'uomo nuovo : un morire che si risolve in un costante ritomo a Dio, fatto di obbedienza, mortificazione, rinuncia, tenacia e combattimento, di tutto ciò che è imitazione di Cristo. Da questa consapevolezza si sprigiona il mirabile inno che termina il capitolo ottavo ai Romani : « Sono certo infatti che ne morte ne vita, ne angeli ne principati, ne presente ne futuro, ne possanze ne altezza ne profondità ne altra creatura alcuna potrà separarci dall'amore di Dio, che è in Cristo Gesù il Signore nostro ».

L IMPORTANZA DELL INSEGNAMENTO CRISTIANO RIG-UARDO AL CORPO

Tutto quest'ordine di considerazioni è di una enorme portata. Il fatto che esso è sentito e sperimentato in modo nuovo, mentre accosta il problema al cuore della coscienza cristiana, segna una svolta nella storia intema del Cristianesimo.

Dame •S. parole la sostanza è molto difficile. Il periodo che esordisce con il tramonto del Medioevo sembra contraddistinto dal fatto che sul campo del pensiero stiano come due poli opposti :

da una parte la materia nuda e cruda, dall'altra il puro spirito (materialismo e razionalismo). Da questa tensione poi sono procedute conseguenze di colossale importanza: sono uscite la tecnica e la scienza moderna, ma è anche andato perduto quel senso di concretezza vitale, animata e spiritualmente, per l'appunto, concreta, visibile, immagine e simbolo. Anzi, è andato perduto l'uomo, — l'uomo e, con lui, l'oggetto. Nel turbinio degli affari e dei successi mondani questa perdita passò a lungo inosservata, ma un po' alla volta essa penetra nelle coscienze. Noi ne sopportiamo

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le conseguenze, e ciò che è andato perduto si armunzia di nuovo, sia pure in un primo tempo sotto un velame di miseria e di

nostalgia.

Quel che si è detto vale anche per l'intelligenza del Cristianesimo. Certo, l'essenza del Cristianesimo è riposta al di là delle incertezze caratteristiche della nostra storia che è nel tempo (è custodita dalla protezione della fede, della disciplina e della carità), ma i suoi sviluppi sono esposti al corso delle vicende storiche. Così anche la vita cristiana ha finito per indulgere un po' da una parte al mondo delle astrazioni e dall'altra a quello della materia e dell'organizzazione; e l'uomo, la figura vitale, immagine e simbolo si sono sbiaditi... Qui sembra peraltro annunziarsi un passaggio. Noi sappiamo che chi forgia decisamente la coscienza cristiana non è Dio in sé, ma il Dio umanato, Gesù Cristo. Questo noi lo sentiamo, come sentiamo che non è la salvezza dello spirito o dell'anima che è in gioco, ma la salvezza dell'uomo vivente e, con l'uomo, del mondo: dell'uomo nuovo (R VI 4-6), del nuovo cielo e della nuova terra (A XXI 1) (1).

Per quanto poi riguarda Iddio cerchiamo una buona volta di renderci conto che cosa significa questo fatto: che Dio si fa uomo; che, dopo la morte e resurrezione di Cristo, rimane uomo;

che l'umanità di Cristo in Dio siede per tutti i secoli « alla destra del Padre », sul trono della gloria etema... Chi è Dio, se Egli è il vero, anzi la Verità, la Verità per eccellenza, che redime, santifica, rinnova? Certamente non è lo spirito assoluto del pensiero contemporaneo... Non vogliamo indagare oltre questi problemi cruciali: vi ci vorrebbe una ben altra preparazione di quella che non si possa dare qui. A ogni modo rimane acquisita una cosa : il Dio vivente è tale che in lui possa trovare la patria eterna non soltanto l'anima nostra, ma tutto il nostro essere umano risorto.

(1) Una piccola nota: Me Vili 36 viene quasi sempre tradotto: «Che giova • all'uomo acquistare il mondo intero se poi reca danno all'anima sua? » Ora non e cosi, ma: «se poi reca danno alla sua vita? » II greco <; psyche » implica infatti il concetto di anima come principio della vita, e insieme il concetto di questa stessa vita. Lungi da noi il fare delle preziosità filologiche. Vogliamo semplicemente sottolineare che Gesù non è un puro spiritualista. Non è l'anima, ma l'uomo che gli sta a cuore. La sollecitudine per l'anima . a sé è una importazione degli gnostici nell'antichità e / degli spiritualisti nell'epoca contemporanea.

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Da tutto questo la nostra esistenza cristiana ricava un altro carattere: desume una concretezza e una vitalità tutta nuova rispetto all'uomo e alle cose; diviene realtà; acquista un calore impensato. Dacché l'uomo, materia e spirito, cadde, la facoltà normativa non è più lo spirito, ma il cuore, dove cuore significa, si capisce, una realtà radicalmente diversa da puro sentimento o, peggio ancora, sentimentalismo. Così inteso, il cuore è l'unità vitale di materia e spirito, ciò che l'uomo è in realtà, il suo centro più intimo, il campo di ogni decisione, la sorgente del divenire, la fonte di ogni mutazione.

I Sacramenti e in modo speciale l'Eucaristia derivano di qui un'importanza parimenti del tutto nuova. Per esempio, che cosa intende Gesù quando dice : « Se non mangerete la carne del Fi-gliuoi dell'uomo e non berrete il suo sangue, non avrete in voi la vita? » (G VI 54) Perché non dire: « Se non unirete il vostro spirito al mio, la vostra volontà alla mia ... ». Perché non si tratta dello spirito, ma della vivente umanata realtà di Cristo, che ha il suo punto discriminante precisamente in ciò che ogni pretesa spiritualizzatrice suole lasciar cadere per primo, cioè il corpo o, con espressione più rude, usata da Giovanni, la carne. Perché dicendo uomo non si intende unicamente lo spirito, ma il tutto vitale che, di nuovo, di fronte a ogni volatilizzazione, ha il suo punto discriminante nel corporale, cibo e bevanda. Il frutto poi di questo cibo e di questa bevanda divina è la risurrezione « nell'ultimo giorno » (ib. 55).

Certo, questo linguaggio riesce duro, ma ne va dell'esigenza suprema della vita cristiana.

Tutto questo, dunque, è garantito dalla dottrina della resurrezione.

Chi volesse sintetizzare in una sola parola il contenuto della fede cristiana, salva beninteso la consapevolezza delle premesse e delle conseguenze che sono in gioco, potrebbe benissimo dire:

« Credo nella resurrezione della carne e nella vita etema » o, ancora più esattamente : « Credo nella resurrezione dei morti e nella loro etema vita ». È peraltro anche l'ultimo articolo del Credo, e dopo di ciò vi è più soltanto l'Amen, a buon diritto, poiché in esso sta ogni conclusione ed ogni compendio.

IL GIUDIZIO

I/ESSENZA DELLA STORICITÀ

per comprendere che cos'è il giudizio dobbiamo chiarire dapprima come è plasmata la nostra esistenza terrena, la storia.

Storicità significa prima di tutto che la nostra esistenza non è trasparente ed aperta.

Le ragioni sono diverse.

Anzitutto la trama delle cause e degli efletti non è tale da consentire una introspezione o un'indagine. In ogni azione s'intrecciano innumerevoli premesse. L'azione compiuta, a sua volta, prosegue il suo lavoro attraverso una rete di vie tortuose e nascoste, alcune soltanto delle quali possono essere individuate. Ogni avvenimento è vincolato a molti altri; anzi, al trar dei ( conti, a tutti gli altri, cosicché comprendere esattamente un fatto è possibile soltanto a condizione di dominare nesso e connesso di quel fatto; ma questo, perdendosi nell'infinito, sfugge ad ogni controllo. Tanto meno lo si potrà perseguire nel profondo, poiché oltre ogni strato giace sempre uno strato ulteriore, e siccome un avvenimento lo si può capire unicamente esaminandolo dalle radici, esso rimane in gran parte incompreso.

Altra ragione : ogni forma di vita è moto, quindi espressione. L'interno si mette sempre costantemente in evidenza, traducendo in un dato sensitivo l'oggetto che era prima nascosto. Questo, peraltro, non è che un aspetto del rapporto : il medesimo vivente si cela anche in se stesso, nasconde la sua vera sostanza. \ Nella pianta ,e nel bruto quest'alterna vicenda di manifestazioni e di riserve è regolata dalla natura stessa, così da comporre una

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stupenda armonia. Nell'uomo vi si aggiunge la volontà cosciente, ma questa è piena di contraddizioni: l'intemo rimane sovente celato mentre dovrebb'essere aperto; l'espressione non adegua il senso, per quanto la situazione lo richiederebbe ; l'intenzione si offusca, e tutto cade nel problematico. Il tono dell'espressione può capovolgere tutto il senso e tradursi in inganno. L'uomo può giungere al punto da celare a se stesso il suo intemo e adombrare di sé le sue proprie intenzioni. Si propaga così uno stato di sfiducia che lo sguardo non riesce a dissipare; anzi uno stato di seduzione e di ambiguità a cui il giudizio non può prestar fede. Da tutto questo deriva alla storia qualchecosa di refrattario, di pervicace, perfino d'insidioso e dissimulato. E pensare che la storia avrebbe come sua missione di annunziare Dio! Quel che Paolo afferma circa le cose di Dio, che cioè « dalla creazione del mondo si vedono negli effetti con la mente », dovrebbe valere anche per il mondo umano, per le azioni e gli avvenimenti umani;

anzi per essi ancora di più che per le cose della natura dovrebbe essere chiara « l'eterna possanza e divinità » del Creatore. Al contrario, la volontà umana guasta tutto in un modo tale da domandarsi se la storia, anziché autrice e maestra, non rechi piuttosto in sé il carattere per eccellenza dell'inconcludente e dell'insensato. Così essa può tanto condurre a Dio il cuore non illuminato, quanto allontanarlo da Lui.

Storicità significa in terzo luogo che la volontà dell'uomo è libera, e libera non soltanto per ciò che è indifferente e abbandonato al suo beneplacito, ma anche per ciò che è importante," anzi perfino per ciò che ha valore di decisione circa il senso supremo dell'esistenza. L'uomo sottosta all'appello del bene. Lo deve compiere in base alla sua libertà, il che presuppone che lo può anche omettere, anzi addirittura opporsi, - presuppone cioè la possibilità di decidersi per Dio o contro Dio. Questa libertà, veramente, non è che transeunte e discutibile in sé; deve però essere, affinchè sia possibile conquistare la vera libertà, quella in cui lo spirito scorge così nettamente il bene, e il cuore ne è così pienamente ricolmo che l'uomo ormai non sa più volere altro. .

Questo fatto, che vi sia libertà, caratterizza l'essenza della

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storia. La libertà è lo stato nel quale l'uomo ha da volere il bene, ma anche la condizione nella quale l'uomo può volere il male. Volere il male denota per lo più volere qualchecosa di buono in sé, ma in un momento in cui non è a proposito, in una situazione in cui quel bene è fuori di posto, in una misura che l'ordine non approva. La possibilità di vedere e di agire falsamente in questo modo appartiene alla storia. Anzi alla storia appartiene pure la possibilità ancora più perversa di erigersi contro lo stesso bene, di compiacersi del male, di volere la rovina per la rovina.

Il bene è in ultima analisi la stessa santità di Dio. L'esigenza che è propria del bene, di essere compiuto, è la volontà per cui Dio vuole che il mondo sia il Suo regno. Così la storia, come concatenazione delle attività umane, dev'essere il compimento del bene, l'instaurazione del regno di Dio. In questo senso l'essere umano si deve completare, e dall'opera dell'uomo deve succrescere il vero mondo. Ora tutto questo è affidato alla libertà e per ciò stesso è posto in gioco. È verissimo, sì, che la volontà divina non può essere frustrata. Ma Dio rispetta la libertà delle sue creature; così egli immette il suo volere nella possibilità di essere frustrato, e questa possibilità non fa che attuarsi continuamente. Siccome però la volontà di Dio è Egli stesso, è da ritenere che Dio non se ne sta in un'olimpica indifferenza din-nanzi al corso della storia, ma — per così dire — vi prende seriamente parte, anche se a noi non riesce facile dire come. Quando poi Egli stesso ci si rivela e dice che è carità, la cosa va ancora maggiormente in profondo. Allora l'amore di Dio assurge a norma di destini umani.

Nella storia rientra infine un fatto che, a prima vista, sembra il più naturale; ma poi, a mano a mano che lo si accosta, ci toma strano: che cioè valore e potere sono ben lungi dal procedere di pari passo.

Valore di una persona o di una cosa è ciò per cui quella persona o quella cosa ha diritto ad esistere; valore di un'azione, ciò per cui si giustifica che quella determinata azione si compia. Così Fazione del mangiare è giustificata dal dovere di conservare la vita; la sollecitudine che ci si prende per un amico è

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giustificata dalla sua fedeltà; la tensione della vita intellettuale, dalla verità. Quando questi valori si attuano ordinatamente e secondo giustizia, mette corpo in essi il bene: il bene è qual-checosa di proprio e come il contenuto, insieme, di tutti i valori singoli; è per l'appunto, detto nel modo più semplice e piano, il vero valore. Così ciò che vi è di più nobile dovrebbe pure avere, pare a noi, la forza immediata di imporsi. È così? No. La semplice affermazione che, in fondo, dovrebb'essere così, è tanto contraddetta dalla realtà da parere ingenua. Quanto più nobile il valore di cui si tratta (quanto più importante, dunque, il bene che s'incorpora in esso), tanto meno evidente è che si compia. Il valore della conservazione dell'esistenza è senz'altro tutelato dall'istinto; il valore della salute e della bellezza fisica esige già le sue cure; fedeltà poi non si attua che a prezzo di sacrificio. Cioè: quanto più si sale nella scala dei valori, tanto meno il bene ha efficacia immediata.

La storia è quella fase della vita umana in cui il bene ha tanto minor potere quanto più è elevato. Affinchè l'uomo scenda in campo per ciò che realmente vale, in ragione del suo pregio morale, bisogna sempre appellare da capo alla sua magnanimità. Per questo la fantasia ha dovuto ricavare la fiaba di un'esistenza in cui bene e potere si adeguano. Il bambino, il bambino d'anni, come quello che si cela nell'interno più recondito di ogni creatura umana, ci crede, mentre crescere vuoi dire prendere consapevolezza dell'amaro- inganno di ciò che è la realtà. Il buono dovrebbe, sì, essere il forte; il puro, parimenti sano; l'uomo onesto, in ragione della sua onestà, anche ricco e stimato; colui che lotta per il bene dovrebb'essere il favorito dalla fortuna - ma non è così. L'essere non è plasmato immediatamente dal suo valore reale; la prosperità non è necessariamente segno di intenzione retta ; la felicità è così spesso totalmente disgiunta dal merito; la bellezza può conseguire una pericolosa indipendenza dal bene - è il tormentato mistero per cui, fin che sarà storia, l'ordine ideato non coinciderà mai col reale.

Ma questo, in ultima analisi, denota che lo stesso Iddio, nella storia, in un senso immediato, è debole: appunto per aver voluto libero l'uomo, Egli rispetta questa libertà. La verità e la santità di Dio dirigono arcanamente la storia - è però pos-

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sibile che l'uomo se ne stia indifferente, fino a dire che Dio non gli va, fino a proclamare che Dio non c'è. Tutto questo può avvenire senza che l'uomo sia colpito dal fulmine, senza che il mondo perda i suoi diritti. Anche Dio ha voluto aver bisogno della magnanimità dell'uomo. E l'aspetto più nobile della fede è appunto nella dignità sacra per cui si scende in campo per Uno che, almeno per il momento, è debole.

Queste tré realtà determinano la natura della storia. Ne segue però anche di conseguenza che la storia non ha potere di compiersi da sé, ma accenna a qualchecosa di trascendente, al di fuori di sé. Voglia o no, l'uomo non può non aver bisogno che sui suoi segreti e sulle falsità che essi tramano si faccia luce;

che la possibilità di volgersi al male sfoci una buona volta nella libertà vera; che il bene ideato si traduca in realtà, e il male si riveli per ciò che è : assurdità, rovina e zero o, in altri termini, clami al giudizio.

L'uomo porta in sé, incoercibile e innata, la sete di giustizia, non soltanto nel senso gretto che riceverà quel che ha versato e vedrà espiato il torto patito, ma, assai più profondamente, come sete che si compia giustizia per la giustizia: con lui personalmente, e con tutti, e col tutto. L'esistenza medesima deve entrare nella giustizia, e il mondo diventare giusto - di questo egli ha sete, pur sapendo che questa sete si volge contro di lui, non essendo egli unicamente vittima, ma autore egli stesso di ingiustizia. Invocando giustizia, la invoca dunque contro se stesso, eppure la deve invocare, perché non può non volere che giustizia si compia, a costo della sua vita.

VARIE INTERPRETAZIUNI DEL GIUDIZIO FINALE

Alla fine del mondo bisogna che vi sia il giudizio. Con esso avrà fine pure la storia; e non soltanto fine, ma compimento. Questa consapevolezza è di tutti i popoli, in tutti i tempi. Così rimane ora da vedere che cosa intende per giudizio il messaggio cristiano.

Nel giudizio l'essere si rivela qual è, e ogni inganno cade.

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Tutto ciò che si cela dentro di noi, fino ai meandri più reconditi, così nel bene come nel male, si manifesta. Viene in chiaro quali furono le intenzioni, e risalta quale è la realtà. Ogni essere è ciò che è.

Parimenti non vi è più nessuna possibilità di volere i! male. Il bene viene posto da Dio in tanta luce che l'uomo non gli può più negare il suo assenso: il suo sguardo è saziato, l'animo ne è investito; ed egli ormai, l'uomo, non può più non vedere che solo il bene ha diritto assoluto di essere. Del male, al contrario, apparirà chiaro che non è ne necessario ne esperto del mondo, ne vitale, ne eroico o che altro mai, ma, etimologicamente, super-fluo.

Ogni cosa creata sarà reale, vitale, bella, beata esattamente nella misura in cui avrà di vero e di buono. La verità ed il bene eromperanno; la loro efficacia adeguerà l'essere; domineranno tutto, arcanamente operando. La falsità e la malizia non saranno solamente punite, ma dall'onnipotenza della santità di Dio saranno ostracizzate dall'essere, senza per questo potersi inabissare nel nulla, e tale sarà la loro condanna.

In che modo? Come si compie il processo di questa rettificazione della vita? Tra le varie risposte che si sogliono dare, ne emergono soprattutto tré.

Secondo la prima di queste tré interpretazioni la storia è un'assidua ricerca di maggior chiarezza, e per ciò stesso finisce per costituirsi in autogiudizio. Ogni azione ha le sue conseguenze, e queste ne inducono altre; si crea così una catena di influssi attraverso i quali l'interno, a grado a grado, si rivela, e il bene si disceme dal male. Nella lotta tra i motivi di questa cernita la vittoria finale arride costantemente ai motivi buoni, perché più capaci di essere che non i cattivi. E data questa tendenza. della vita al bene, si delinea in fondo un corso progressivo in senso unico, ascensionale. In cima è la luce piena nella quale ogni precedente trova il suo proprio giudizio. E quand'anche questa mèta non si avverasse mai del tutto, e tutte le fila della storia non dovessero segnare altro che un approssimarsi all'irraggiungibile, lo scopo, come tale, rappresenterebbe pur sempre una forza operante ad ogni tempo e in ogni luogo.

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Questa interpretazione ha un che di potente, che ispira fiducia; ma non coincide con la realtà. La storia non è così fatta che in essa i motivi delle azioni umane convergano in senso unico verso l'attuazione del fine proposto. Se, per esempio,

10 dico qualchecosa di giusto, che sia giusto in se stesso (non perché lo dico io), questo, a seconda delle disposizioni e delle intenzioni dei singoli ascoltatori, può influire bene in uno e male nell'altro: e allora come discriminare il valore della cosa detta? Ne giovano le previsioni più ottimistiche se chi mi ascoltò riferirà ad altri, e questi ancora a terzi, la cosa udita. O diviene forse la vita necessariamente più chiara per il fatto di essere longeva? Non è forse possibile che una persona anziana sia tanto cieca e ostinata sul suo punto di vista quanto un giovane, se non ancora più fatalmente cieca e più amaramente ostinata? Le conseguenze delle azioni umane non hanno solamente efficacia rivelatrice, ma, a volte, sono anche velo, e sovente in modo tale da rendere addirittura impossibile ogni e qualsiasi giudizio. Poiché in esse il rapporto tra causa ed effetto non va da cosa a cosa, ma da uomo a uomo. Se andasse unicamente da cosa a cosa, sarebbe un semplice rapporto di causalità, e le cause sarebbero realmente manifeste negli enetti; ma, andando pure da uomo a uomo, subentra nei, gioco un fattore nuovo, la libertà, in cui tutti i calcoli fatti in base al principio di causalità si confondono. Veramente la storia principia da capo con ogni uomo... Di più, l'efficacia della volontà perversa, alle volte, sembra tale che l'uomo rottamente intenzionato fa figura di Stolto... Dato anche e non concesso che la storia, al termine del suo moto, venga in luce, non sarebbe punto soddisfatta per questo l'esigenza di una giustizia, poiché ciò che la giustizia esige è che ad ognuno venga attribuito il suo diritto, e ad ogni epoca

11 suo, e ad ogni popolo il suo, ognuno in se stesso, e non già nel rapporto del tutto.

Dire verso quale termine si muova la storia non è possibile, come non è possibile neppure dire se abbia, per se stessa, sem-. plicemente un termine. Si può infatti affermare con altrettanto buone ragioni che si espande verso orizzonti sempre più vasti, o che s'irretisce sempre di più, o che procede oltre senza nemmanco una ragione d'insieme che si possa determinare; e quanto si

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afferma non dipende forse punto, in ultima analisi, da veri e propri motivi, ma dal fatto di possedere l'ottimismo del giovane o lo sguardo maturo del vecchio; dall'essere sano od infermo, in buone condizioni di agire o inchiodato nell'inazione. Così ricorre sempre da capo l'interpretazione riferita sopra; un vero e proprio giudizio intorno ai valori ed alle intenzioni umane non è forse più facile darlo di quanto sia facile trovare una misura valevole per il bene e per il male, non c'è. Bene è ciò che miete successo;

di valore è ciò che si fa strada; e ciò che fallisce, per ciò stesso che fallisce, dimostra che non aveva nessun diritto di essere. Ma a questa stregua la vita è destituita di ogni valore morale.

Nella storia — dice una seconda teoria — le cose seguono regolarmente il loro corso: il più forte vince il più debole; il più destro vince l'ingenuo; chi ha più di inventiva la vince sul semplice. Di bene e male, oggettivamente, non si può nemmeno fare parola, poiché questa discriminazione rientra nel campo delle pure intenzioni, al di dentro di noi. Per giudizio allora s'intende che l'uomo giudica se stesso, vedendo com'è che la pensa e cos'è che egli conta sul piano spirituale interiore accennato sopra. Del resto, questa interpretazione non manca di invocare ordine sugli errori della storia, sul rigore e il dispregio che il mondo ostenta, sulle fatalità dell'esistenza. Questa — essi dicono — è determinata unicamente dallo spirito e dalla verità, e in essa il cuore umano riceve quanto gli conviene. Quell'ordine poi è unito al concetto di eternità e posto in un modo vago al di sopra dell'uomo e al di là della morte.

Intanto però l'unità della vera vita è sacrificata, e l'esistenza è disputata da due domini contrastanti : l'uno abbandonato in preda alle necessità della natura e dell'agire umano, del fatalismo tra causa ed effetto; l'altro, determinato dai criteri del vero e del bene, da precisamente al cuore quanto gli spetta. Nessun rapporto tra di loro, ed entrare nel campo della verità significa lasciare dietro di sé l'esistenza terrena con i suoi errori in una parvenza inconsistente, dunque una capitolazione. Se poi si pone con maggiore esattezza il problema, dove sia riposto realmente questo campo della verità e della libertà, com'è che l'uomo ne prende possesso, e attraverso che cosa è instaurata la

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giustizia o non se .ne riceve addirittura nessuna risposta, o vengono fuori inconsistenti concetti di spirito, di Essere Supremo, di giustizia eterna, nei quali non è difficile intrawedere altrettante deviazioni di pensieri cristiani.

Una terza risposta è finalmente quella che è solita darsi comunemente dalle diverse religioni, cioè : per ogni singoio uomo il giudizio segue immediatamente la morte; per il mondo in funzione di un tutto appena il tempo si è compiuto. Allora si presentano al cospetto di Dio. Questi sta dalla parte della verità e del bene, scruta gli intrighi e gli errori di ogni mortale, e pronuncia un giudizio che retribuisce a ciascuno ciò che a ciascuno spetta.

Che cosa realmente significhi questa interpretazione non è facile dire. Lo sviluppo che essa prese nel corso dei tempi; il modo suo di passare a rappresentazioni di carattere filosofico e, in genere, etico, mostra che non è, in gran parte, se non la persuasione che l'esistenza soggiace a un ordine morale destinato un giorno o l'altro a imporsi in modo definitivo. In altre parole:

al trar dei conti la verità sarà trionfatrice, assegnando a tutto il suo vero valore. Soltanto, l'avvenimento si compirà in due tempi :

prima e dopo la morte del singolo; prima e dopo la fine del mondo. Questa interpretazione contiene però insieme un altro elemento che trova la sua propria attuazione unicamente nella rivelazione : che cioè la vita non può giungere da se stessa a una chiarificazione; ma la deve afferrare dall'alto, per così dire, una potenza superiore ad essa, per sottoporla al giudizio; e che quella chiarificazione, quell'esame, quell'apprezzamento che si chiama giudizio non procede da un dato esclusivamente spirituale, ma religioso.

La potenza che giudica il mondo non è dunque semplicemente il vero e il moralmente buono, ma il santo; e il valore definitivo del giudizio non proviene in ultima analisi dal fatto che il senso della vita e della storia umana sia visto e giudicato rottamente, ma dal fatto che la virtù della santità di Dio prende liberamente e apertamente possesso su la vita.

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L INSEGNAMENTO DELIA RIVELAZIONE

Verso il termine della sua vita terrena e durante l'ultimo suo soggiorno in Gerusalemme, Gesù dice : « Subito dopo la tribolazione di quei giorni si oscurerà il spìe, e la luna non darà più la sua luce, e cadranno dal cielo le stelle, e le potenze dei cicli si scuoteranno. Allora il segno del Figlio dell'uomo comparirà nel ciclo; e allora piangeranno tutte le nazioni della terra, e vedranno il Figlio dell'uomo venire sulle nubi del cielo con grande potenza e maestà » (Mt XXIV 29-31).

E di nuovo : « Quando poi verrà il Figlio dell'uomo nella sua gloria, e con lui tutti gli angeli, allora siederà sul trono della sua gloria. E si raduneranno dinnanzi a lui tutte le nazioni, e separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capretti; e metterà le pecore alla sua destra e i capretti alla sinistra. Allora il rè dirà a quei della sua destra: Venite, benedetti dal Padre mio, possedete il regno preparatevi fin dalla fondazione del mondo. Poiché ebbi fame, e mi deste da mangiare; ebbi sete, e mi deste da bere; fui pellegrino, e mi ricettaste; ignudo, e mi copriste; infermo, e mi visitaste; carcerato, e veniste da me. Allora gli risponderanno i giusti: Signore, quando mai ti vedemmo affamato, e ti demmo da mangiare;

assetato, e ti demmo da bere? Quando ti vedemmo pellegrino, e ti ricettammo; ignudo, e ti coprimmo? Quando mai ti vedemmo infermo e carcerato, e venimmo a visitarti? E il rè risponderà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto qualcosa a uno di questi dei minimi miei fratelli, l'avete fatto a me. E a coloro della sinistra dirà: Via da me, maledetti, al fuoco etemo preparato per il diavolo e per i suoi angeli. Perché ebbi fame, e non mi deste da mangiare; ebbi sete, e non mi deste da bere; fui pellegrino, e non mi ricettaste; ignudo, e non mi copriste; infermo e carcerato, e non mi visitaste. Allora gli risponderanno anche questi: Signore, quando mai t'abbiamo visto affamato o sitibondo o pellegrino o ignudo o infermo o carcerato, e non ti abbiamo assistito? Ed egli risponderà loro:

In verità vi dico: Ogni volta che non l'avete fatto a uno di

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questi più piccoli, non l'avete fatto a me. E questi andranno all'etemo supplizio; e i giusti alla vita etema » (Mt XXV 31-46).

Se, scorrendo questi testi, cerchiamo di eliminare quel senso dell'abitudine che suoi creare una parvenza di familiarità, essi ci appaiono d'un tratto strani: contrastano al nostro modo consueto di sentire; esordiscono da premesse che ignoriamo se poter condividere o no.

Ma se abbiamo appena un po' di familiarità con la rivelazione e per poco che, conversando con l'uomo, abbiamo potuto imparare a conoscere il suo scetticismo nel prendere posizione così alla leggera di fronte ai vari problemi dell'esistenza, — il che rappresenta il principio di tutto il sapere cristiano, — proprio quella nota di estraneo ci farà chiedere se mai la sostanza non si trovi precisamente in quelle parole.

Quello infatti che ci colpisce sta appunto nel dato concreto, anzi personale dell'avvenimento. L'uomo moderno è abituato a prendere sul serio soltanto quel modo di pensare che ha come suo fondamento per l'intelligenza delle cose le necessità di natura o la legittimità dello spirito. Egli considera la vita come un sistema di materie e di forze, di leggi e di ordinamenti. In quello si risolve ogni avvenimento. I bambini e il popolino possono vedere le cose come se vi agissero degli esseri reali, concreti, a mo' delle fiabe e delle leggende; gli uomini grandi e gli adulti no, non lo possono. Essi credono di pensare rottamente solo quando derivano ogni conoscenza da un vasto intreccio di leggi di natura e dello spirito, anche gli uomini, anche il loro destino, anche la storia e il suo corso. Per ammettere, dunque, anche un giudizio, vale a dire un fatto, dove vita ed azioni umane siano indagate e scrutate, e sia loro assegnato un valore eterno, non lo si può intendere, sembra loro, se non in questo senso:

che l'uomo o, più esattamente, il suo spirito si presenta al cospetto di Dio onnipresente, e in quello la sua vita si fa limpida, e chiaro il suo valore autentico.

Ma nel discorso di Gesù sul giudizio l'avvenimento ha un aspetto completamente diverso. Gesù non parla di Dio in sé, dello Spirito onnisciente e giustissimo, ma del Figlio di Dio fatto uomo, di Cristo. .E l'avvenimento non succede in modo

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tale che l'uomo per il semplice fatto della sua morte, e la storia per il semplice fatto di avere toccato il suo fine, si presentino al cospetto di Dio, ma Cristo viene di nuovo sulla terra e la scuote dalla posizione che le è naturale quaggiù e che le rende possibili i ripieghi della storia. È insomma una resa dei conti suprema, che raduna tutti gli esseri alla presenza di Cristo:

anche gli uomini; non soltanto il loro spirito, ma la loro realtà concreta (materia e spirito); non soltanto gli elementi singoli della storia, ma tutta la storia. Ora, affinchè ciò si avveri, il corpo morto e decomposto risorge, non in base a qualsivoglia necessità immanente all'essere, ma per comando di Cristo. E lo stesso compimento del giudizio non è una semplice chiarificazione nella luce di Dio dinnanzi alla Sua santità, ma avviene così che Gesù Cristo, il quale un giorno era quaggiù sulla terra e regna ora nella sua gloria, scruta e giudica tutta la storia come ogni singolo uomo, assegnandogli quella forma di vita, unica valida, che gli conviene dinnanzi a Dio.

Per l'uomo moderno tutto questo non è altro che fantasia o, al più, simbolo. Così la pensano, per lui, i fanciulli o i popoli primitivi. I loro miti, le loro leggende, le loro favole rappresentano gli avvenimenti divini antropomorficamente, vale a dire come l'uomo vive ed agisce. Non appena il bambino è cresciuto e i popoli primitivi si sono culturalmente sviluppati, comprendono che in realtà tutto risponde a delle leggi inderogabili e va pensato alla stregua di concetti scientifici o filosofici. Così anche l'insegnamento cristiano del giudizio è uno di quei miti, che per conseguenza una considerazione più seria non potrà che respingere.

Qui ci si trova un'altra volta a decidere intorno al senso della rivelazione; un'altra volta di fronte alla scelta: se far della fede una pura questione di sentimento e orientare i nostri pensieri secondo un'interpretazione delle più generali, o se invece vogliamo essere cristiani anche nel modo di pensare, poiché ciò che i moderni sogliono presentare come primitivo, ingenuo, antropomorfico, è precisamente essenziale. La determinazione ultima del mondo e della storia non viene ne dalle leggi generali della natura e dello spirito, ne dall'entrare in presenza della realtà di Dio, ma da una azione divina. Beninteso: da una

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azione, non da un semplice influsso; da una operazione, non da una mera specie di protezione, precisamente come tutta quanta l'economia della salute non è riposta in un più alto ordine naturale, ma in un operoso intervento di Dio nella storia che si attua entro lo spazio della natura e attraverso i suoi avvenimenti; a quel modo in cui il mondo non sorge come realtà naturale da cause naturali, ma come opera di Dio chiamata all'essere dal Suo essere libero e dalla Sua parola onnipotente. Se vogliamo esser cristiani anche nel pensiero, non ci è possibile, in ultima analisi, esprimere il rapporto di Dio con il mondo, con l'uomo e con la vita qual è nella sua integrità, in concetti fomiti dalla metafìsica o dalle scienze naturali, ma unicamente in concetti che siano dedotti dal dominio della persona, vale a dire appunto dagli « interdetti » concetti antropomorfici di uno che agisce, prende le sue decisioni, segue il corso del suo destino, esercita la sua libertà. Tutta la Sacra Scrittura parla a questo modo, e se ci si è dati seriamente premura bastevole, e soprattutto riflessa, di servire la verità — così pacatamente riflessa per cui le riflessioni false abbiano avuto tempo di sfarsi e le cose, pure loro, sufficiente spazio di tempo per mostrarsi quali sono in realtà — allora si vede pure come quei concetti cosiddetti antropomorfici siano i soli che hanno effettivamente un valore definitivo.

Il giudizio è, in ordine di successione, l'ultima delle azioni di Dio, procedente dalla libertà del suo sovrano consiglio e condotta da Colui al cui apparire sulla terra gli uomini hanno respinto il provvido intervento di Dio nella storia, ma il cui sacrificio nonpertanto — che Dio non si pente dei suoi doni — frutta in redenzione; da Colui che, a partire da quel momento, rimane come segno, attraverso tutta quanta la storia, a cui non si può contraddire; termine di riferimento per il singolo e per i popoli. È Lui che conduce il giudizio. E ha potere di farlo, perché è il Figlio di Dio, il Logos, « senza del quale non è stato fatto nulla di quanto si fece » (G I 3) e del quale il mondo, lo voglia o no, rimane pur sempre la casa.

Ma ciò che colpisce stranamente i nostri schemi mentali filosofico-scientifici e li capovolge, scende ancora maggiormente

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in profondità. Come si compie questo atto del giudicare? Su ' quale base e secondo quale criterio esso determina il valore dell'uomo?

A primo aspetto propenderemmo ad ammettere come materia del giudizio le azioni od omissioni dell'uomo, il suo carattere, i particolari e il tutto, a seconda della molteplicità delle relative norme e dei relativi valori che vi sono impegnati. Invece vediamo tutto fuso in una cosa sola, l'amore, e precisamente in quell'amore che si rivela dinnanzi ai bisogni degli altri... Sta bene, diciamo noi : si tratta evidentemente « del primo e più grande precetto, e dell'altro, che è uguale al primo », dei quali Gesù fa parola nel Vangelo; di quella realtà di cui paria l'Apostolo quando scrive che con il precetto della carità « si compie tutta la legge ». Si parla unicamente dell'amore di fronte alle miserie altrui, ma in realtà è inteso tutto il dominio del precetto caritativo; si paria unicamente dell'amore, ma compendiata in esso tutta la rettitudine: di azione, attuazione, ed essere.'

Ma come viene descritto e applicato il criterio dell'amore? Il giudice — si pensa — potrebbe dire : « Tu hai esercitato la carità : sii dunque premiato ; tu invece no : sii dunque reietto ». Nulla di tutto questo. Il giudice dice : « Tu sei approvato perché esercitasti la carità verso di me; sei reietto perché mi negasti» la carità ». ... Anche questo — si potrebbe rispondere — è comprensibile: la carità soprawanza tutto e dev'essere esercitata verso di tutti; Cristo poi, che ha annunziato questo precetto e l'ha messo in pratica egli stesso fino alla perfezione, si mette al posto di ogni uomo, per amore della sua persona, per dare l'apprezzamento supremo.

Per sé, non sarebbe impossibile. Se però esaminiamo spregiudicatamente il tutto, vediamo che l'intenzione non è questa. Il massimo non è la carità; non è la norma annunziata da Cristo, alla quale tutti sarebbero obbligati, a incominciare da Cristo; ma la norma della carità è Lui stesso. Essa incomincia con Lui e consiste per Lui. Senza di Lui questa norma non esisterebbe, e quel che si afferma in base a premesse di carattere filosofico-umano non ha rapporto con la carità intesa qui più di quanto ne -abbia, poniamo, la divinità dello spazio celeste con il Padre

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del Nuovo Testamento, o la pura catena degli avvenimenti con la Sua provvidenza.

Si dischiude ora tutta la caratteristica, anzi la grandiosità dell'annunzio cristiano del giudizio: l'unità di misura alla stregua della quale saremo giudicati sarà il nostro rapporto a Cristo. Sincerità, giustizia, fedeltà al dovere, purezza e tutti gli altri valori morali sono, in ultima analisi, buona condotta dinnanzi a Cristo. Parlando di verità, noi intendiamo abitualmente un concetto generale, il fatto cioè di conoscere qualchecosa nella luce dell'Essere supremo. Ma Giovanni ci ammonisce nel prologo:

Questo (della verità) non è un pensiero accessorio che abbia valore soltanto condizionatamente. In fondo, la Verità è Lui, il Logos; e conoscere, in fondo, significa riconoscere il Logos, Cristo e, in Lui tutte le cose... Così qui, parlando di bene, intendiamo il valore supremo, e per azione buona intendiamo la sua attuazione. Invece il discorso del giudizio dice: In fondo il Bene è Lui, Cristo, e agire bene significa amare Cristo.

La verità ed il bene non sono punto, in definitiva, dei valori o delle idee puramente astratte, ma qualcuno. Gesù Cristo... Reciprocamente si può dire che ove appena sia dato rintracciare qualchecosa di vero, là è un conoscimento, sia pure soltanto iniziale, di Cristo; ed ove appena sia dato compiere qualchecosa di bene, là in fondo è un avanzamento verso Cristo e un bene che Gli si offre. Parallelamente, ogni cattiva azione, qualunque sia il motivo che la può aver suggerita o il fine atteso, rappresenta in ultima analisi un attacco contro di Lui. Il bene ha potere di risplendere in diversa guisa nell'uomo, in un oggetto, in un avvenimento, ma in ultima analisi rappresenta sempre Lui, Gesù Cristo. Chi agisce, mentre agisce, può anche non pensare affatto a Cristo, ed avere a che fare inizialmente anche solo con un uomo, nondimeno la sua azione mette capo a Cristo. Anzi, può anche non saper nulla di Cristo, perfino non aver mai sentito parlare di Lui, — la sua azione mette capo a Cristo.

Indagare tutto questo, attraverso tutto il mondo quanto è vasto, lungo il corso dei secoli, e giudicarlo, e fissare per sempre il suo valore effettivo, nella vita di ogni singolo uomo come nei rapporti dell'intero corpo sociale, è l'atto divino del giudizio.

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Cristo verrà a compierlo, e la sua sentenza sarà irrevocabilmente l'espressione impeccabile e definitiva della verità di ogni uomo e di ogni rapporto. Questo per due ragioni: prima di tutto perché vera e poi perché efficace; tanto di efficacia quanto di verità, vale a dire una misura assoluta, cui non potrà resistere nulla. Il verdetto segnerà il fondamento della esistenza dell'uomo e dell'umanità intera, dinnanzi a Dio e per sempre.

Cristo, peraltro, non è solo giudice; è pure liberatore. Ed è appunto come giudice che è liberatore: il giudizio non è espressione di risentimento da parte del Figlio di Dio; non è il trionfo personale sui suoi nemici. Se la verità ed il bene — come s'è detto — sono persona (Lui, il Cristo), non per questo essi hanno perduto o ridotto comunque il loro valore essenziale per cadere nel personale, ma il giudizio rimane perfetta giustizia. Giustizia però che non sta per sé, ma è vitale intenzione di Cristo, vincolata con il Suo amore. Nel giudizio si compie definitivamente la redenzione.

Il modo contemporaneo di concepire le cose, traducendo tutta la vita in formule naturali o in sistemi filosofici, è capovolto. Non leggi od idee sono la sostanza, ma realtà. Ora, la più reale di tutte le realtà è una persona determinata, il Figlio di Dio fatto uomo. Egli è quello che era, Gesù di Nazareth; e tornerà in grande maestà e gloria, come Signore, più potente del mondo, più grande della storia, più capace e più comprensivo di tutto ciò che si chiama idee, valori, leggi morali. Tutto questo è essenziale; in ultima analisi però non è che un riflesso di Lui.

La dottrina relativa al giudizio è dunque, in fondo, una rivelazione del Cristo, nella quale noi riconosciamo il compito che ci è imposto dal divenire cristiano : di vedere cioè come Egli è l'anima di tutto; di portare in cuore la sua figura così potente, cosicché Egli soprawanzi mondo storia ed opera umana fino a penetrare e pesare tutto, per assegnare a tutto il suo valore 'eterno; in una parola: per giudicare.

L'ETERNITÀ'

TEMPO ED ETERNITÀ

la parola eterno fa parte di quelle che hanno più profondamente turbato il nostro linguaggio abituale contemporaneo. È venuta a significare tutto il possibile, fino ad esprimere semplicemente l'idea di qualchecosa di importante o di misterioso. È peccato, perché una parola non è soltanto un segno di reciproca comprensione, ma una formazione vitale, materia e spirito. Insieme con le altre parole, ognuna concorre a creare il linguaggio e, come tale, lo spazio entro cui l'uomo vive; il mondo delle figure concettuali, onde la verità gli riflette senza posa la sua luce. Così, quando una parola cade in disuso non è affatto lo stesso fenomeno di quando più persone, in conversazione tra di loro, non afferrano bene ciò che un altro dice; ma cade una di quelle figure che compongono l'ordito entro cui l'uomo vive;

si ottenebra una di quelle segnalazioni concettuali di cui egli ha bisogno per procedere bene; si spegne una luce, e il suo giorno spirituale è un po' più tetro di prima.

È quindi un servizio reso alla vita umana ripristinare nella sua luce genuina una parola che la noncuranza dell'uso quotidiano ha condannato a morire.

Cos'è dunque, qui, eternità^

A prima impressione — impressione che si riflette anche nell'uso della parola — eternità sembra denotare incessante durata. Così, per esempio, si parla di astri eterni, di nevi eteme, della eterna sofferenza umana o del ricorso etemo delle cose. Un significato analogo lo si riscontra pure in rappresentazioni di carattere religioso, come nei miti relativi all'esistenza di oltretomba. In questo senso si sentiranno popoli cacciatori o pastori narrare che un giorno il morto sarà introdotto rispettivamente

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nelle riserve o nei pascoli eterni, per continuare, senza fine, intensificata e piena di meraviglie, la vita vissuta in terra... Altri avranno cura di mettere a fianco al defunto, nella tomba, tutto ciò che sulla terra può avere avuto importanza per lui:

oggetti preziosi, suppellettili casalinghe, piccoli bastimenti, figure di schiavi od altri oggetti consimili : un segno, insomma, che l'eternità è pensata come prosecuzione della vita di quaggiù, senza fine.

Ma questa pretesa eternità denota solo tempo che procede sempre; ossia, piuttosto di un concetto, un non-concetto, di cui, a ogni modo, nella nostra economia spirituale, non sappiamo fare a meno. Sappiamo benissimo, cioè, che ogni misura di tempo è circoscritta; calcolata in ore, giorni ed anni, per cui — salgano, queste misure, fino alle stelle o scendano al livello infimo — il tempo rimane sempre limitato in sé. Ciononostante non sappiamo raffigurarci che la misura del moto del mondo, il tempo, debba avere una buona volta una fine, come non sappiamo raffigurarci che abbia avuto un inizio. Inizio e fine del tempo sono segreti coi quali noi, da noi, non ne usciremmo mai. Per il nostro modo di sentire si va sempre oltre, nel passato e nel futuro; i miti poi provvedono a tradurre in figura questo andare oltre nell'arcano, e velano la contraddizione mediante il sentimento religioso.

Secondo il suo senso genuino, eternità significa cessazione (Aufhebung) del tempo. Il che è presto detto, ma solo in base al concetto stesso di tempo, come per esempio il matematico ricava dalla conseguenza dei suoi numeri una conclusione senza che ce la si possa poi, per questo, nemmanco rappresentare. È realizzabile un essere privo del tempo, fuori del tempo, senza il tempo? Una vita sottratta al tempo? Una realtà che ne si pone ne passa; non si muta, ma semplicemente è - e tuttavia non è immota, ma ferace e vitale?

Forse sì. Pare infatti che vi siano delle esperienze in base alle quali è possibile accogliere la cosa detta almeno nel nostro modo di sentire.

Vi è il tempo meccanico, che consiste nella semplice successione, senza alcun rapporto a ciò che avviene, una specie

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di letto di fiume per il corso degli avvenimenti umani. Espressione tipica, l'orologio, con la sua indifferenza a tutto ciò che succede; la sua fredda mancanza di vita, che a volte però, proprio in ragione della sua aridità tanto lontana dal nostro cuore suscettibile a gioia e dolore, può acquistare una così inconsueta potenza.

Tutt'altra è l'esperienza del tempo in cui noi stessi versiamo, il tempo animato. Propriamente noi non ne conosciamo altro al di fuori di questo: anche il gelido avanzare dell'orologio desume infatti la sua potenza, per noi, dal fatto di misurarci la vita, dove il tempo, appunto, non è già più una semplice misura esterna del moto, ma s'innesta, per così dire, in margine al corso della vita.

Ma appunto qui noi parliamo dell'esperienza immediata del nostro proprio passare, e su questo terreno il tempo ha un carattere totalmente diverso: un'ora colma di forti emozioni ha la sua misura; un'ora intcriormente vuota, la sua; l'una ha lo spazio di un attimo, l'altra non sa mai finire. Se, al contrario, gettiamo uno sguardo al passato, la nostra impressione si rovescia :

le ore sbadigliate nel tedio appaiono come un nulla ; quelle invece intensamente vissute come un lampo si stagliano quadrate sullo sfondo delle nostre memorie. In altri termini, non appena entra in gioco la nostra propria vita, il tempo riveste un carattere tutto nuovo. Segna bensì il succedersi degli avvenimenti; non però una successione uniforme come nel moto delle sfere di un orologio dove tutto si riduce a un monotono prima e poi; ma vitale, m^ mutevole con il mutare del senso, della profondità e dell'intensità, con riferimento alla nostra propria esistenza che si vive una volta sola; sopportato, etimologicamente, dalla dignità e responsabilità della persona. La sua misura non è determinata unicamente dallo scatto dell'ago indicatore, ma anche dalla natura del fatto che vi si compie.

Ora quali possibilità presenta questo che potremmo chiamare tempo esistenziale?

Un giorno — racconta una fiaba — uno stregone disse a un califfo di immergere il suo volto in un catino d'acqua. Il califfo obbedì, e visse tutta una lunga vita, ed ancora molte altre vite (era uomo, donna, portatore d'acqua, guida e tante

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altre figure insieme), quando, d'un tratto, un avvenimento lo scosse, ed egli si avvide che proprio in quel momento stava levando il suo viso dall'acqua. Cioè, nel brevissimo spazio di tempo consentitegli di star sott'acqua trattenendo il respiro, egli aveva percorso tutto un mondo di esperienze... Solo una fiaba, ma dice molto. Immaginiamoci, in base a quel rapporto tra contenuto e misura, tra peso e transito del tempo, di poter intensificare la velocità in modo da sintetizzare la sua importanza fino a colmare sempre di più lo spazio vitale; questa linea non raggiungerebbe allora più nessun limite, ma sarebbe tutto un accennare a ciò che ha valore per sé, all'eternità: condizione di vita in cui non vi sarebbe più nessun transito, ma solo presente; nessun incalzare, ma un puro convenire di avvenimenti, e questo in base a un contenuto la cui grandezza, e in base a un'attuazione la cui forza sarebbe tale da bandire anche solo l'ombra di tedio.

Un'altra esperienza: la vita comporta l'impulso alla velocità: sia come evasione da un pericolo, sia come spinta verso un'optabile conquista. Comporta però anche l'impulso contrario:

alla distensione, alla tregua di ogni proposito, alla quiete. Noi conosciamo — assai di rado, per vero — dei momenti nei quali cala nel nostro interno un silenzio sempre più vasto: ambizioni e timori non sono più; non si comprende più come mai, dietro alle cose, ci si dovrebbe appostare in vedetta, o di che aver paura. Si ha come una sensazione : ancora un momento e poi l'infaticabile corsa del tempo sta nell'attimo compiuto, perché pienamente completo, non da questa o da quell'altra cosa che sempre inganna, ma dall'esistenza pura e semplice che, nella sua semplicità, comprende tutto... Pure questo è un anelito di vita, di soggiogare il tempo per evadere nel puro presente. Non riesce mai: quegli attimi sono continuamente strappati via da qualchecosa che succede al di fuori o da un sussulto intcriore ;

tuttavia essi forniscono un orientamento, e il punto al quale questo accenna è l'eternità... L'utile, conseguito lo scopo, si eclissa; il bene rimane. E non solo a lungo — per giorni od anni o fin che il ricordo sopravvivrà — ma rimane, incondizionatamente. Ora, nella misura in cui l'uomo si affeziona a questo assoluto, e lo vuole, prende egli stesso parte al suo carattere.

Quanto più decisamente e più fortemente egli aspira al bene, tanto più fortemente matura in lui questo che di assoluto, tanto che — possiamo seguitare con il pensiero — se ad uno venisse fatto di volere un bene perfetto, e di volerlo con un'intensità attingente il più profondo del cuore, e di innestare tutte le sue forze in questo volere e in questo agire, avverrebbe qualchecosa di non mai visto: se è permesso ricorrere a un termine di cui tanto abusiamo, sarebbe eternato.

In base a queste esperienze ci si può fare un'idea di ciò che dovrebb'essere eternità: il puro presente di una vita perfetta. Divenire e passare vi sarebbero esclusi. Il vivente realizzerebbe in un puro atto tutto il suo essere. La sua forma e le sue forze sarebbero tutte in rilievo. L'essere sarebbe giustificato in ogni punto dal suo valore effettivo: non soltanto sarebbe, ma avrebbe diritto di essere.

Da se solo, l'uomo non è tale da conseguire una simile eternità. Di virtù sua propria egli non attinge mai la presenza che è tutto vita, nella quale il bene si realizza senz'ombre. Ma se ci fosse un essere il cui contenuto fosse il bene per definizione, cosicché valore ed essere sarebbero pienamente adeguati (un essere perfettamente buono e infinitamente grande), la vita di quest'essere escluderebbe ormai ogni sorta di aspirazione e di divenire. Colma di significato, e il senso della sua esistenza sarebbe tutto reale. Il momento transito non sarebbe più, e il solo presente avrebbe valore. Ora, quest'essere c'è: è Dio. Il suo modo di vivere è l'eternità. Tempo non è qualchecosa di intorno a noi, come sarebbe, per esempio, un canale attraverso il quale fosse dato di passare al di là. Noi stessi, il nostro essere finito, pone il tempo, mentre appunto l'eternità è il modo di vivere proprio di Dio.

Da noi non potrebbe mai risultare nulla di etemo; soltanto ravviamento verso l'eterno, la nostalgia dell'etemo. Affinchè sia dato di prendervi parte in realtà, bisogna che sia dato da Dio. Ma come?

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LA RIVELAZIONE DELL ETERNITÀ

La mistica pantelstica, indiana o persiana o neoplatonica, asserisce che l'uomo, attraverso purificazione, rinuncia, conoscimento, dedizione, superamento di sé, può arrivare tanto inda divenire una cosa sola con il divino; f crinalmente divino;

quindi sottratto al tempo, etemo come Dio.

La rivelazione cristiana ha un altro linguaggio. Anche qui il Nuovo Testamento compie un passo curioso dal generale nel personale, dalla metafisica alla storicità, di fronte a cui il modo di pensare del contemporaneo prova un senso di angòre, quasi che le cose di Dio venissero angustiate entro misure umane, come fanno il popolo, il bambino, il primitivo.

In realtà si tratta di qualchecosa del tutto diverso. Può infatti apparire pieno di maestà e profondo di significato il pensare i Novissimi come se, ecco, la vita infinita di Dio stesse nella presenza tacita dell'assoluto, e lo spirito umano che ha vissuto lealmente i suoi giorni, lasciata dietro di sé la spoglia della sua individualità, s'immergesse nell'ineffabile di quella vita. Ma, se così fosse, la realtà della nostra vita, secondo cui Dio solo è Dio e l'uomo, in tutto, creatura Sua, sarebbe scalzata dalle fondamenta. Appunto per questo il Vangelo parla in modo del tutto diverso dell'eternità e del nostro essere nell'eternità: ne parla per similitudini che presuppongono questa verità-base esposta or ora. La vita eterna della creatura è un inno di lode; un servizio reso a Dio e insieme un dominio (A IV 5, XXII 3-5);

un andare di Cristo all'uomo, un dimorare presso di lui e cenare con lui (G XIV 23, A III 20); una festa di nozze, alla quale è convitato tutto quanto il mondo (A XXI 1). Che significa tutto questo?

Si potrebbe rispondere che il senso di queste similitudini è riposto appunto in quel concetto metafisico-mistico di eternità, di cui si parlava or ora. Vi sono anche di fatto, in campo religioso, dei pensatori di gran nome che sono di questo avviso, ma in realtà non fanno che confondere il senso. Naturalmente;

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in quelle descrizioni vi è pure dell'immaginario (nella eternità non si canta nessun inno e non vi è nessuna mensa alla quale prendere parte), senza però nessuna intenzione di immaginario, ma unicamente allo scopo di mettere a fuoco ciò che l'eterno realmente è : non è un rapporto tra concetti astratti (essere, vita, verità e simili), ma un rapporto di persone. Ecco l'essenziale.

Cerchiamo così un'altra volta di elaborare su l'esperienza quotidiana un complesso di indicazioni che ci orienti verso il nostro fine.

In una sala vi è un tavolo, con delle sedie; alle pareti, un armadio ; nel centro piove una lampada. È lo spazio fisico '. i diversi oggetti hanno reciprocamente un accanto^ un sopra, un sotto.

Un'altra ipotesi: io me ne sto seduto all'aperto, su di una panca. Intorno a me è silenzio, in modo che io sono tutto sereno e tranquillo. I miei pensieri seguono vie d'oro, e fluisce in me il sentimento dei larghi orizzonti. Questa vastità non è solo intorno a me, nella campagna; ma anche in me, nel mio spirito. Ecco di nuovo uno spazio entro il quale vi è qualche cosa: l'intimità della vita e, in quella, i moti dell'animo, i sentimenti, ecc.

Un'altra ancora: io sto riflettendo a un problema; mi ci arrovello; vi penetro; stabilisco confronti, distinzioni e rapporti. A un tratto ecco la verità con la sua inconfondibile potenza concettuale tarmisi presente come ciò che ha valore per sé, senza seconde intenzioni e secondi fini, solo perché è verità. È, da capo, uno spazio di nuovo genere, entro il quale è pari-menti qualchecosa : lo spazio dello spirito e. in quello i miei pensieri; più esattamente, la mia conoscenza concreta; più esattamente ancora, io stesso come un essere che si nutre della verità.

Finalmente, un'ultima situazione: due persone si conoscono già da un pezzo; hanno posto mano insieme ai lavori più disparati e condiviso ogni genere di esperienza. Improvvisamente uno dei due prende a parlare, dice qualchecosa. L'altro ne è colpito e pensa tra sé: «sì! quello è fedele! tutto lui!» Ecco, l'ha dinnanzi a sé. Non all'esterno (all'esterno l'ha sempre avuto din-nanzi), ne solo dinnanzi allo sguardo del sapere o dello stimare, che era ugualmente già un dato di fatto; ma a quello sguardo

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che dall'Jo va al Tu, rapporto conoscitivo di persona a persona. Qui si apre nuovamente uno spazio, entro il quale questi due amici si trovano insieme secondo un nuovo modo di essere:

10 spazio personale del conoscimento reciproco, del timore, della fedeltà, dell'affetto, dell'amicizia.

L'uomo può trovarsi in tutti questi spazi: nello spazio fisico, perché è dotato di un corpo; nello spazio della vita, perché è dotato di un animo; nello spazio del vero e del bello, essendo spirito; nello spazio della persona, essendo Io con potere di attingere il Tu di un altro.

Ora la Sacra Scrittura dice cose come queste : « In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. Questo era nel principio presso Dio» (G I 1-2). Non dice:

prima era il Verbo, o semplicemente: una volta era il Verbo (sarebbero tutte determinazioni di tempo), ma: in principio. Questo principio non è il primo nella serie degli istanti di tempo, ma il principio semplicemente, il dominio primordiale di Dio. È il modo di essere di Dio, l'eternità. Ma come viene determinato questo essere-eterno? Di che natura è lo spazio proprio di questa forma di esistere? Non lo spazio fisico, ne quello della vita immediata o dell'animo, è senz'altro chiaro. Ma neppure semplicemente lo spazio dello spirito. Non si dice : « In principio Iddio viveva nella sua pura verità ». Giovanni avrebbe potuto dirlo benissimo, lui che chiama così frequentemente Dio la verità, l'amore, la luce. Invece no, ma — così è descritto l'esistere di Dio — «II Verbo era presso Dio», più esattamente: «II Verbo era rivolto a Dio, verso Dio » (wphi; -rov S-sóv), dove Dio indica

11 Padre, e Verbo il Figlio. Di Questo si dice che « è rivolto verso Dio » ; ma poi, affinchè l'espressione non si perda nel metafisico, dopo il prologo si aggiunge : « Nessuno ha mai veduto Iddio; l'Unigenito Figlio, che è nel seno del Padre, Egli lo ha rivelato» (I 18). Vediamo — per usare un linguaggio umano — come Due sono rivolti reciprocamente l'Uno all'Altro nell'armonia di un sapere infinito e di un infinito amore. Di quel sapere che non dice soltanto: Io ti conosco, ma: Io so di tè; di quell'amore in cui Ognuno dei Due deve all'Altro il tutto, ed è,

nonostante ciò, perfettamente distinto. Questa perfetta unità in distinzione perfetta è sola possibile per lo Spirito Santo. Solo per Lui il Figlio è realmente Egli-stesso, e parimenti Egli-stesso anche il Padre, poiché l'onnipotente fecondità della generazione divina è per opera dello Spirito Santo. Solo per lo Spirito Santo Padre e Figlio sono un solo Dio, poiché è per lo Spirito che il Generato non si separa, ma si rivolge al Padre e rimane in Lui. ... Ora, questo che è tra il Padre e il Figlio — lo spazio entro cui Padre e Figlio sono così rivolti l'Uno a l'Altro, — questa è l'eternità vera e sovrana.

L'identico spazio si dischiude di nuovo là dove nel Vangelo si dice : « Gesù, battezzato, uscì subito dall'acqua ; ed ecco gli s'aprirono i cieli; e vide lo spirito di Dio scendere siccome colomba, e venire sopra di lui. Ed ecco una voce dal cielo che disse:

Questo è il mio Figlio diletto, nel quale mi son compiaciuto ». (Mt III 16-17). I cieli si aprono; lo spazio serbato all'arcano, la luce inaccessibile in cui Dio è solo con Sé, si apre. In quella luce il Padre posa il suo sguardo sul Figlio e pronuncia le parole del conoscimento e dell'amore. In quella luce il Figlio è rivolto al Padre, sa la sua volontà e si costituisce responsabile per l'onore del Padre: ecco di nuovo l'eterno lo-Tu della vita intima di Dio. Lo spazio che ne sorge, la sua intimità, il suo silenzio, la sua plenitudine è l'eternità.

L'eternità, centro di tutto. Di là tutto procede; tutto ritorna.

VENTRATA DELL UOMO NELL ETERNITÀ

Tutto ciò che Giovanni e Paolo dicono della vita cristiana poggia sul rapporto noi in Cristo - Cristo in noi.

Questo significa prima di tutto che il credente è illuminato e sorretto dall'immagine e dall'intenzione del Signore. Non solo: Cristo, per la sua morte e resurrezione, è assurto a uno stato nuovo: «II Signore — dice Paolo — è lo spirito». Così — senza alcun bisogno di annullare la corporeità; senza punto infirmare l'interiorità della vita umana ne toccare la dignità

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della persona — Egli può benissimo essere nel credente: come figura che lo informa; come potenza che, operando, lo assiste;

come sostegno e rifugio entro cui egli vive. In ogni cristiano, a seconda dei presupposti e del modo di essere della sua personalità, si rinnova la vita di Cristo : appunto in Cristo l'uomo è finalmente così libero da poter essere all'altezza della propria misura. Ma, ancora una volta, chi stabilisce questo rapporto è lo Spirito Santo: la prima volta nella Pentecoste, quando da discepoli incerti e chiusi trae degli apostoli; da quel momento, continuamente, attraverso la fede e il battesimo.

Così — e di questo si potrebbe parlare senza fine — la vitale realtà di Cristo s'immedesima con il credente che, in atto di entrare in questa comunione con Dio, è ammesso, per Cristo, nel rapporto che Egli ha con il Padre : « Nessuno conosce il Figlio tranne il Padre, e nessuno conosce il Padre tranne il Figlio e colui al quale il Figlio lo avrà voluto rivelare » (Mt XI 27). «Nessuno può venire a me, se non lo attiri il Padre che mi ha mandato » (G VI 44). « Io sono la via, la verità e la vita ; nessuno va al Padre se non per me » (G XIV 6). La méta di ogni andare umano è il Padre; non ve n'è altra, ed appaga tutto. Ma la via per arrivare al Padre non è aperta, evidente. Poiché il Padre non è soltanto la più alta potenza creatrice o la sapienza che a tutto presiede e tutto governa, come permette la naturale esperienza religiosa di intrawedere, ma il Padre, nelle sue proprietà personali, è nascosto. Egli è il Dio ignoto, del Quale veniamo in certo modo a conoscenza quando Egli stesso ci si rivela, ciò che avviene in Cristo. Attraverso Cristo noi veniamo a conoscenza del Padre, quando Egli viene rivelato come Suo Figlio: «Chiunque nega il Figlio, non ha nemmeno il Padre;

chi confessa il Figlio, ha pure il Padre » (I G II 23).

Figlio di Dio : — diciamolo marcando l'accento dell'importanza corrispondente a questa espressione: — essere figlio di Dio non significa unicamente stare a Dio in un rapporto tutto confidenza e fiducia, amarlo e sapersi protetti da lui, ma significa qualchecosa dove la precisione e l'inaudito fanno il paio : significa essere assunto, per grazia, nel rapporto al Padre, in cui il Suo Figlio umanato sta a Lui per natura.

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Fede poi, per usare la vigorosa espressione paolina, significa essere come presi in mano da Cristo: non solo psicologicamente, corne il discepolo dal maestro, ma realmente; essere da Lui introdotti nella sua propria vita e fatti partecipi del Suo etemo volgersi al Padre; convogliati cioè nel rapporto lo-Tu che intercede tra Padre e Figlio. È ciò che trova la sua espressione suprema nelle parole di Cristo : « Io sono la via ». Non solamente : « Io segnalo la via », oppure : « Precedo », ma : « Io sono la via » {•/i óSó<). Dal mondo al Padre, nell'ordine delle cose o nella natura dell'uomo, non sarebbe possibile nessuna via, senza Cristo, poiché non è un rapporto di cose che si pone, ma una relazione personale. L'Incarnazione, per la quale, ecco, Uno è qui, detto Gesù Cristo; uomo come noi, e quindi tale da poter fare la nostra vita; Dio come nessun altro mai, e quindi tale da potersi introdurre nell'arcano, l'Incarnazione solo ha dischiuso la via.

Tutto questo appare su la terra in forma di inizio, di prova e di lotta. È velato. Bisogna fare atto di fede e saper respingere l'accusa che pretende l'evidenza concreta. Ma quell'inizio è reale;

la via c'è, e va in su. Quell'eternità di cui parlavamo, riposta nella proprietà delle Persone e nell'unità dell'essenza, nella dedizione e nell'amore reciproco tra il Padre e il Figlio; quella latitudine, quella profondità, quell'intimità sacra,'quel sapere l'Uno dell'Altro ed essere l'Uno per l'Altro, è la patria promessa. È il termine ultimo di tutte le aspirazioni umane. È l'eternità.

Il giudizio e ciò che lo precede mette fine alla storia. Disrompe i misteri del tempo e li disperde per introdurre il figlio di predilezione in quella eternità che è nella processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio. ... Vi accennano l'entrar per la porta, il conversare, il dimorare, il convito nuziale, l'inno di lode, il servizio sacro e le promesse piene di mistero che le sette lettere dell'Apocalisse indirizzano a chi sarà stato fedele e vittorioso... Così ancora le parole del « Figlio unigenito che è nel seno del Padre » (G I 18), accennanti discretamente anche alla intimità di Gesù con il discepolo « che aveva caro » (G XIII 23), sono pegno e anticipazione insieme.

' Parlando della resurrezione si ebbe occasione di dire cos'è che viene assunto nell'eterno: non soltanto l'anima o lo spirito,

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ma l'uomo, il vivente, corpo ed anima, con il prezzo del suo destino, con la tela delle sue azioni in quanto, al giudizio, si sono rivelate consistenti, così da poter venire approvate.

Quest'asserzione è di una portata enorme, ma non è che l'ultimo anello di una catena lungo tutto il messaggio cristiano.

Di portata enorme, prima di tutto, il semplice fatto di ammettere che un essere limitato possa convenire, comunque, nella comunione con Dio. Enorme per tutti coloro che, svinco-latisi dalla confusione del panteismo, videro chiaramente il presupposto di ogni spirituale purezza nell'umile riconoscimento che Dio solo è Dio; e l'uomo creatura, e solo creatura; e, di mezzo, l'abisso della distinzione, semplicemente... Solo, infatti, l'intervento operoso ed arcano di qualchecosa del tutto nuovo

— ed è la grazia nel suo puro e pieno significato — può assegnare a queste promesse una base di possibilità.

Di portata ancora più enorme — almeno per la struttura mentale di noi moderni — che questo essere limitato debba essere l'uomo. Diciamo anzitutto che non è lecito applicare il termine spirito, sullo stesso piano, a l'uomo e a Dio: se l'uomo è spirito, allora Dio lo è in un modo così diverso e così incomprensibile che non è più possibile nessun confronto... Fissato questo (che cioè sarebbe un inganno parlare di spirito univocamente riguardo all'uomo e riguardo a Dio), immaginiamo, per ipotesi assurda, che soltanto lo spirito sia assunto al consorzio della natura divina :

... ci parrebbe, via, meno, assurdo... Ma anche il corpo dell'uomo

— si dice a questo proposito —, anche la sua storia che è per l'appunto storia d'uomini, anche le sue azioni ed opere che si sono svolte nello spazio e nel tempo, saranno assunte nella intimità di Dio.

Non è per caso una favola? Se lo è, anche la resurrezione di Gesù è una favola, e così pure la sua ascensione, poiché Colui che siede eternamente alla destra del Padre non è il puro Logos, ma Cristo Gesù, vero Dio e vero uomo, nella pienezza della sua vita redentrice. Si è cercato di eliminare questo presunto scandalo, non potendo sopportare l'idea che il corpo umano di Cristo debba essere assunto nella purità di un Dio tutto spirito; ma la stessa vigilanza di coscienza e la stessa tenacia di forze con cui la Chiesa ha condotto, la sua difesa su questo terreno sta a dimo-^

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strare che ciò che è in gioco è la stessa essenza del Cristianesimo. Tutto, infatti, dipende da qui : la reale resurrezione di Cristo ;

la sua umanità ascesa, come tale, unitamente alla divinità, negli splendori etemi; la vita, non soltanto del Logos, nella intimità di Dio, ma anche del corpo glorioso di Gesù di Nazareth. Dio volle e creò l'uomo così com'è e, volendolo Dio cosi, non potrebbe essere diversamente. Questo Dio non è il dio dei filosofi o di .certi adoratori dello spirito puro, ma Uno tutt'altro: già sconosciuto all'uomo, e rivelato in Cristo; come pure sconosciuto era il mistero dell'uomo, e solo Cristo ce lo ha fatto conoscere.

Al capo ottavo dell'epistola ai Romani, nonché all'inizio di ^quelle destinate ai fedeli di Efeso e di Colesse, si afferma che, nel rapporto di cui cercammo di adombrare qualchecosa, non sarà assunto soltanto l'uomo, ma ogni creatura. Non si tratta cioè semplicemente della redenzione dell'uomo, ma anche del mondo;

non si tratta unicamente dell'uomo nuovo, ma anche « del nuovo ciclo e della nuova terra ». Non immediatamente — sarebbe mito e magia — ma attraverso l'uomo. A noi non è dato di intrawedere fin dove si estenda questo nesso: si delinea già nella dottrina su la provvidenza... La provvidenza non annunzia semplicemente un più alto grado nell'ordine del mondo, ma insegna che se l'uomo, credendo, entra in contatto con la volontà del Padre, le cose intomo a lui assumono un ordinamento del tutto nuovo; e dappertutto dove questo avvenga si dischiude un nuovo principio e si attua la nuova creazione, «che la vigile attesa della natura sospira la manifestazione dei figli di Dio. Alla caducità infatti la natura fu sottomessa, repugnante, ma obbediente a Chi ve la sottomise, su speranza che anch'essa natura sarà vendicata dalla servitù della corruzione alla libertà gloriosa dei figliuoli di Dio. Sappiamo infatti che tutta la natura è nel travaglio del parto sino ad ora » (R Vili 19-22). È tutto un estuare di cose, da ogni parte, in questo nuovo illuminante principio, ma questo principio, a sua volta, non è altro al di fuori del rapporto a Dio in cui Cristo introduce l'uomo. Così la lettera agli Efesini parla del proposito di Dio di « ordinare la pienezza dei tempi a stringere in un capo tutte le cose, in Cristo, quelle nei cieli e quelle sulla terra » (I 9-10), dove ammi-

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riamo come non soltanto l'uomo sia conquiso dalla potente figura di Cristo, ma tutto il mondo; e la lettera ai Colossesi descrive il regno del Figlio di Dio, «nel quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati: lui che è immagine dell'invisibile Iddio, generato prima d'ogni creatura, poiché in lui furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra, le visibili e le invisibili, troni dominazioni principati e potestà, tutto per lui ed a lui è creato, egli è prima di ogni cosa, e ogni cosa in lui sussiste. Ed Egli è il capo del corpo, cioè della Chiesa; lui che è primizia, primonato dai morti, onde abbia in tutto lui il primato; poiché in lui si compiacque di abitare tutta la pienezza, e per lui riconciliare tutte le cose in lui, pacificando per il sangue della croce sua, per lui, tanto quelle sulla terra quanto quelle nei cieli » (I 14-20). E una specie di marcia trionfale : tutta la creazione prende le mosse verso quella eternità arcana di cui parlavamo. Non immediatamente — come, per esempio, secondo la mente dei platonici, l'Ente supremo anela a tornare, attraverso l'Eros che tutto involge, al suo principio —, ma attraverso l'uomo, attraverso il suo cuore redento e mutato.

... Abbiamo cercato di sviluppare parecchi pensieri; abbiamo fatto ricorso a molte parole per parlare dell'eternità cristiana, e tutto rimane ancora nel vago e nell'imperfetto... In realtà è qualchecosa di sommamente semplice.

Intanto ricorre, senza mai stancarsi, l'accusa che il Cristianesimo intristisce l'uomo, disprezza'il corpo, disanima il mondo, confina il credente da un terreno di operosità in un isolamento spirituale e religioso... Soltanto la falsità potrebbe dare origine e offrire difesa a un dogma di questa fatta... Nessuno ha mai descritto all'uomo orizzonti così vasti come il messaggio cristiano;

in nessun sistema mai, come in esso, il mondo fu inteso così seriamente; e la creatura, che pur si trascina nel tempo, non fu mai così decisamente esaltata ed approssimata a Dio come lo fu da Cristo. E tutto questo in un modo da cui rifugge anche solo l'ombra di un mito o di una fiaba, ma con una serietà di proposito che non patisce nessun confronto umano, e per la quale è garante il destino di Cristo.

FINITO DI STAMPARE 20 LUGLIO 1951 COI TIPI DELLA TIPOGRAFIA EDITRICE A. E F.LLI CATTANEO BERGAMO

 

INDICE PER MATERIE (1)

amore - del prossimo come unità di misura

nel giudizio: 69. archeologia - 1. azione - L' - e l'essere: 28.

cairologia - 1.

golfa - v. Peccato.

corpo - il - glorioso: 43; gradi di corporeità nel creato: 44; vita del -: 45-47;

divenire e storia del - : 49-50 ; - ed ambiente: ib.; interferenze tra anima e -:

51-52; importanza dell'insegnamento cristiano riguardo al -: 53.

creazione - la nuova -: 84.

cristo - la verità: 70; il bene: ib.; - giudice e liberatore: 71; - in noi: 80; - e i .suoi rapporti con il Padre: 81.

culto - dei morti, e sue deviazioni: 35-3 6.

escatologia: !..

essere - il dovere di - perfetti: 28; fare il bene ed - buoni : 29.

eternità - P - nella storia delle religioni:

8; tempo ed -: 73; la rivelazione dell'-:

T?; - e spazio: 79-80; l'entrata dell'uomo nell'- : 80.

fede - cosa significa: 82.

giudizio - carattere definitivo della sua sentenza: 21; oggetto del -: 34-35, 69; essenza della storicità in rapporto al giudizio: 56; varie interpretazioni del - finale: 60; insegnamento della rivelazione circa il -: 65; amore del prossimo come unità di misura nel -: 69; quindi carattere personale del -: ib.

giustizia - aspirazione naturale dell'uomo alla -: 60.

idealismo - sua risposta al problema della morte : 7.

intenzione - 25; cos'è: 26; genesi dell'-:

27.

morte - l'affermazione del Cristianesimo:

3, 9; significato naturale della -: 5; - fisica: 5; - biologica: 5; - psicologica: 5;

- biografica : 6 ; risposta del positivismo al problema della - : 7 ; risposta dell'idealismo : 7 ; la - nella storia delle religioni :

8 ; - e peccato : 10-11 ; - e redenzione : 13 ;

senso cristiano della -: 18; t poveri morti: 23.

beccato - morte e -: 10-11; - e sofferenza: 33.

pentimento - cos'è: 34. perdóno - e intenzione : 26 ; perdonare e

condonare: 31.

perfezione - il dovere di tendere alla - : 28. pietà - cristiana e fede nel purgatorio : 23.

(1) I numeri in grassetto indicano la pagina di un intero capitolo consacrato al relativo argomento.

INDICE PBR MATERIE

PosmviSMo - sua risposta al problema della morte : 7.

potere - valore e -: 58-60.

provvidenza - di Dio su l'uomo: 30; - e nuova creazione : 84.

purgatorio - dottrina della Chiesa: 20;

false rappresentazioni del -: 24; sofferenze del-: 31.

redenzione - morte e -: 13. resurrezione - dottrina cristiana circa la -:

15-16,37; presunti argomenti contro la - :

38-39. rivelazione - e sua conoscenza: 40-41; -

e giudizio: 65.

santità - che cosa comporta: 30. sofferenza - le - del purgatorio: 31. spazio - fisico: 78; - dell'animo: ib.; - dello

spirito: ib.; -personale: 79. storia - carattere storico della morte: 10;

essenza della storicità: 56.

tempo - ed eternità: 72; - meccanico: 73;

- animato : 74.

uomo - il messaggio cristiano e 1'-: 40.

valore - e potere: 58-60. verità - dire la - : 29. vita - eterna: 18-19.

INDICE PER MATERIE (1)

amore - del prossimo come unità di misura

nel giudizio: 69. archeologia - 1. azione - L' - e l'essere: 28.

cairologia - 1.

golfa - v. Peccato.

corpo - il - glorioso: 43; gradi di corporeità nel creato: 44; vita del -: 45-47;

divenire e storia del - : 49-50 ; - ed ambiente: ib.; interferenze tra anima e -:

51-52; importanza dell'insegnamento cristiano riguardo al -: 53.

creazione - la nuova -: 84.

cristo - la verità: 70; il bene: ib.; - giudice e liberatore: 71; - in noi: 80; - e i .suoi rapporti con il Padre: 81.

culto - dei morti, e sue deviazioni: 35-3 6.

escatologia: !..

essere - il dovere di - perfetti: 28; fare il bene ed - buoni : 29.

eternità - P - nella storia delle religioni:

8; tempo ed -: 73; la rivelazione dell'-:

T?; - e spazio: 79-80; l'entrata dell'uomo nell'- : 80.

fede - cosa significa: 82.

giudizio - carattere definitivo della sua sentenza: 21; oggetto del -: 34-35, 69; essenza della storicità in rapporto al giudizio: 56; varie interpretazioni del - finale: 60; insegnamento della rivelazione circa il -: 65; amore del prossimo come unità di misura nel -: 69; quindi carattere personale del -: ib.

giustizia - aspirazione naturale dell'uomo alla -: 60.

idealismo - sua risposta al problema della morte : 7.

intenzione - 25; cos'è: 26; genesi dell'-:

27.

morte - l'affermazione del Cristianesimo:

3, 9; significato naturale della -: 5; - fisica: 5; - biologica: 5; - psicologica: 5;

- biografica : 6 ; risposta del positivismo al problema della - : 7 ; risposta dell'idealismo : 7 ; la - nella storia delle religioni :

8 ; - e peccato : 10-11 ; - e redenzione : 13 ;

senso cristiano della -: 18; t poveri morti: 23.

beccato - morte e -: 10-11; - e sofferenza: 33.

pentimento - cos'è: 34. perdóno - e intenzione : 26 ; perdonare e

condonare: 31.

perfezione - il dovere di tendere alla - : 28. pietà - cristiana e fede nel purgatorio : 23.

(1) I numeri in grassetto indicano la pagina di un intero capitolo consacrato al relativo argomento.

INDICE PBR MATERIE

PosmviSMo - sua risposta al problema della morte : 7.

potere - valore e -: 58-60.

provvidenza - di Dio su l'uomo: 30; - e nuova creazione : 84.

purgatorio - dottrina della Chiesa: 20;

false rappresentazioni del -: 24; sofferenze del-: 31.

redenzione - morte e -: 13. resurrezione - dottrina cristiana circa la -:

15-16,37; presunti argomenti contro la - :

38-39. rivelazione - e sua conoscenza: 40-41; -

e giudizio: 65.

santità - che cosa comporta: 30. sofferenza - le - del purgatorio: 31. spazio - fisico: 78; - dell'animo: ib.; - dello

spirito: ib.; -personale: 79. storia - carattere storico della morte: 10;

essenza della storicità: 56.

tempo - ed eternità: 72; - meccanico: 73;

- animato : 74.

uomo - il messaggio cristiano e 1'-: 40.

valore - e potere: 58-60. verità - dire la - : 29. vita - eterna: 18-19.

INDICE PER MATERIE (1)

amore - del prossimo come unità di misura

nel giudizio: 69. archeologia - 1. azione - L' - e l'essere: 28.

cairologia - 1.

golfa - v. Peccato.

corpo - il - glorioso: 43; gradi di corporeità nel creato: 44; vita del -: 45-47;

divenire e storia del - : 49-50 ; - ed ambiente: ib.; interferenze tra anima e -:

51-52; importanza dell'insegnamento cristiano riguardo al -: 53.

creazione - la nuova -: 84.

cristo - la verità: 70; il bene: ib.; - giudice e liberatore: 71; - in noi: 80; - e i .suoi rapporti con il Padre: 81.

culto - dei morti, e sue deviazioni: 35-3 6.

escatologia: !..

essere - il dovere di - perfetti: 28; fare il bene ed - buoni : 29.

eternità - P - nella storia delle religioni:

8; tempo ed -: 73; la rivelazione dell'-:

T?; - e spazio: 79-80; l'entrata dell'uomo nell'- : 80.

fede - cosa significa: 82.

giudizio - carattere definitivo della sua sentenza: 21; oggetto del -: 34-35, 69; essenza della storicità in rapporto al giudizio: 56; varie interpretazioni del - finale: 60; insegnamento della rivelazione circa il -: 65; amore del prossimo come unità di misura nel -: 69; quindi carattere personale del -: ib.

giustizia - aspirazione naturale dell'uomo alla -: 60.

idealismo - sua risposta al problema della morte : 7.

intenzione - 25; cos'è: 26; genesi dell'-:

27.

morte - l'affermazione del Cristianesimo:

3, 9; significato naturale della -: 5; - fisica: 5; - biologica: 5; - psicologica: 5;

- biografica : 6 ; risposta del positivismo al problema della - : 7 ; risposta dell'idealismo : 7 ; la - nella storia delle religioni :

8 ; - e peccato : 10-11 ; - e redenzione : 13 ;

senso cristiano della -: 18; t poveri morti: 23.

beccato - morte e -: 10-11; - e sofferenza: 33.

pentimento - cos'è: 34. perdóno - e intenzione : 26 ; perdonare e

condonare: 31.

perfezione - il dovere di tendere alla - : 28. pietà - cristiana e fede nel purgatorio : 23.

(1) I numeri in grassetto indicano la pagina di un intero capitolo consacrato al relativo argomento.

INDICE PBR MATERIE

PosmviSMo - sua risposta al problema della morte : 7.

potere - valore e -: 58-60.

provvidenza - di Dio su l'uomo: 30; - e nuova creazione : 84.

purgatorio - dottrina della Chiesa: 20;

false rappresentazioni del -: 24; sofferenze del-: 31.

redenzione - morte e -: 13. resurrezione - dottrina cristiana circa la -:

15-16,37; presunti argomenti contro la - :

38-39. rivelazione - e sua conoscenza: 40-41; -

e giudizio: 65.

santità - che cosa comporta: 30. sofferenza - le - del purgatorio: 31. spazio - fisico: 78; - dell'animo: ib.; - dello

spirito: ib.; -personale: 79. storia - carattere storico della morte: 10;

essenza della storicità: 56.

tempo - ed eternità: 72; - meccanico: 73;

- animato : 74.

uomo - il messaggio cristiano e 1'-: 40.

valore - e potere: 58-60. verità - dire la - : 29. vita - eterna: 18-19.

 

 

 

 

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