ROMANO GUARDINI
IL ROSARIO DELLA MADONNA
MORCELLIANA
Titolo originale dell'opera:
Der Rosenkranz unserer Lichen Frau © Matthias
Grànewaid Verlag - Mainz 19887 © Tutti i diritti d'autore
sono della Katholische Akademie in Bayern
traduzione di BiceJahn Rusconi
© 1945 Editrice Morcelliana Via Gabriele Rosa 71 -
25121 Brescia
Quinta edizione: aprile 1994
ISBN 88-372-1529-0
Tipolitografia La Nuova Cartografica S.p.A. - Brescia
1994
PREMESSA
Questo delicato volume di Romano Guardini si affianca
per la stretta parentela del tono e del soggetto non solo all'opuscolo
su la
Via Crucis, ma pure a
quelli già da noi pubblicati su Lo spirito della liturgia ed i
Santi Segni, partecipando dei caratteri dell'uno e degli altri. Esso
infatti illustra tale pratica della devozione popolare con tutte le
risorse combinate d'un pensiero teologico saldamente ancorato nella
Parola di Dio e di una viva sensibilità religiosa che possiede il
segreto di analizzare fatti e processi religiosi sema distruggerne la
vitale fragranza.
Ciò facendo Guardini, che non è stato soltanto
professore di Weltanschauung cattolica alla università di
Berlino, ma pure animatore religioso di vaste cerehie giovanili, non
rinuncia al suo principio del primato della preghiera della Chiesa ne al
suo programma di una devozione cristo-centrica. Mantenendo e lodando la
pratica del Rosario della Madonna, cercando anzi di fame intendere
valore e bellezza a chi le è estraneo, a chi la guarda con diffidenza o
addirittura con disdegno, mira insieme a inserirla organicamente nel
motivo centrale della nostra religione, a mostrarla imperniata sul fatto
centrale della Redenzione, quale meditazione feconda di quell'evento.
Così questo libro s'indirizza tanto ai devoti del
Rosario, che vogliano scoprirvi sempre nuove ricchezze di spirituale
edificazione ed apprendere a vivificare la loro
consuetudi-ne con una meditazione più personale, quanto agli apologisti
della preghiera mariana, desiderosi di conoscere nuove maniere
d'intenderla e di giustificarla, quanto infine agli studiosi di
psicologia della religione, che amano ed apprezzano il Guardini dei
Santi Segni, l'interprete di Pascal e di Dostoewskij.
La Morcelliana
AVVERTENZA
II pensiero fondamentale di questo scritto è sorto più
di trent'anni fa*: da allora, per la metà di un'esistenza, mi ha sempre
accompagnato.
Ho tentato spesso di esperio, ma senza successo, e i
vari abbozzi sono rimasti incompiuti. Questo l'ho portato a termine, non
so se sia riuscito.
Più si vive, e più si vede chiaro che le cose semplici
sono veramente le più grandi e, quindi, anche le più diffìcili da
dominare. Lo scopo più alto della letteratura spirituale sarebbe certo
di parlare di Dio in modo che il cuore umano potesse comprendere
senz'al-tro. Ma chi lo sa fare? ... Il Rosario è qualcosa di molto
semplice: perciò bisognerebbe pure parlarne con semplicità. Il lettore
dovrebbe avere l'impressione di esser preso per mano e condotto in un
mondo di vita silenziosa, dove gli vengano incontro, serie, affettuose,
soccorrevoli le sacre figure della fede. Non ne sono capace: perciò ho
provato a farlo con pensieri. Possano essi almeno essere veri ed utili.
R.G.
* Si ricordi che la prima pubblicazione tedesca
dell'opera è del 1940.
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Parte prima Natura e significato del Rosario
CAPITOLO PRIMO MALINTESI
La gravita degli eventi del nostro tempo colpisce
ognuno. Il cuore e lo spirito sono preoccupati per il destino proprio,
per quello delle persone care e soprattutto per il destino della
umanità. Tutto ciò influisce variamente sulla vita religiosa: v'è chi
non riesce più a pregare, perché si sente scosso, quasi esausto, e
deve cercare di ritrovarsi: accanto alle voci risonanti deve ascoltare
anche quelle sommesse e riconoscere che Dio rimane sempre Dio, per
quanto si facciano potenti le cose della terra ... Altri al contrario
dalle emozioni dell'esistenza sono richiamati alle cose eterne. Essi
sentono che gli eventi non devono essere dominati solo da ciò che è
terreno, ma ricondotti a Dio, e tanto più quanto più sono gravi. Così
anelano a un rifugio tranquillo dove poter riposare e fortificarsi, per
poi tornare con nuova fiducia ai loro compiti; hanno bisogno di una
preghiera che ristori l'anima, d'un intimo raccoglimento che rinnovi le
forze. Una forma di preghiera che ha già reso a molti questo beneficio
è appunto il Rosario.
Questo libro andrà in molte mani. Anzitutto di persone
alle quali il Rosario è già familiare; non ho bisogno d'intendermi con
loro sul suo valore e significato; potrei dire semplicemente ciò che a
me pare più rilevante. Ma può anche arrivare a gente cui il
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Rosario è estraneo e persino antipatico. Per costoro
vorrei mettere in chiaro alcune cose fìn dal principio.
Anzitutto che questo scritto non vuoi convincere
nessuno. Il Rosario è una devozione antica che ha esercitato influssi
incalcolabili; è caro soprattutto al popolo credente e appartiene alla
sua vita come il lavoro e il pane; ma appena l'uomo cade
nell'inquietudine del ragionamento o nell'agitata vita moderna, ne perde
generalmente l'abitudine. Questa preghiera non ha più nulla da dirgli e
sarebbe vano insistere con lui.
Al Rosario si sono venuti connettendo malintesi ed
abusi. Il Discorso della montagna dice:
«Nel pregare poi non abbondate di parole come fanno i
pagani che credono di essere esauditi mediante il loro parlare. Non
imitateli perché il Padre vostro sa ciò che vi occorre anche prima che
glielo domandiate» (Mt 6, 7-8).
Queste parole sono la premessa di ogni concezione
cristiana della preghiera; si potrebbe pensare che il Rosario sia
proprio l'opposto, poiché consiste in una continua ripetizione, ed
invero talvolta viene recitato in maniera così affrettata ed esteriore
da far pensare alle parole del Profeta:
«Questo popolo si avvicina a me con le parole e mi
onora con le labbra, ma col cuore è lontano da me» (Is 29, 13).
A ciò si aggiungono le molte esagerazioni di coloro che
raccomandano il Rosario. Sembra a volte che chi ne fa l'elogio perda
ogni misura. Finalmente si sente dire che simili forme di preghiera si
incontrano anche fuori del cristianesimo, per esempio, nel bud-
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dhismo, ed ecco spiegata la repulsione o, almeno, la
diffidenza.
Tutto questo non va preso alla leggera, ma non ha nulla
a che fare con l'essenza e col valore del Rosario. Per cominciare
dall'ultima osservazione: la preghiera è atto spontaneo dell'uomo,
basato su leggi essenziali che si ripetono ovunque: il fatto che una
forma di preghiera simile sotto alcuni punti di vista, si trovi in una
religione così seria com'è il buddhismo, sorta seicento anni prima di
Cristo, non parla in sfavore del Rosario, ma piuttosto in suo favore. Le
esagerazioni degli apologisti non illuminati sono un guaio, ma non
devono turbare la nostra visione delle cose e non è il caso di reagire
ad esse con una repulsione altrettanto poco intelligente. Per quanto
riguarda l'abuso, non vorremo certo difenderlo; ma l'abuso ha forse mai
potuto costituire una obiezione fondata contro l'uso? C'è qualcosa di
buono e di nobile che si salvi dall'abuso? Se vi fosse una tal cosa,
temo che avrebbe in realtà poco valore. L'uomo ha sempre bistrattato
quanto gli sta a cuore, perché il suo amore non ha la mano leggera.
D'altra parte dobbiamo tener conto del fatto che questa
preghiera è in uso nella cristianità da quasi sei secoli. Innumerevoli
anime se ne sono servite, l'hanno amata: saranno stati tutti sciocchi o
cattivi cristiani? Sarebbe cristiano questo giudizio? Sarebbe riverente
verso la vita religiosa degli altri che pur credono in Cristo? Quando si
conoscono tante persone della cui serietà cristiana non si può
dubitare e si vede quale importanza ha preso nella loro vita il Rosario,
si diventa prudenti nel giudicarlo.
Sotto ogni riguardo può essere bene che ci do-
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mandiamo che cosa significa il Rosario. Per alcuni si
tratterà di approfondire ciò che già conoscono ed amano; altri
vedranno sotto la giusta luce ciò che finora vedevano in luce falsa;
altri ancora comprenderanno almeno che si tratta di cosa seria, e che il
giudicarla con leggerezza è ingiusto verso la verità e verso gli
uomini che l'apprezzano.
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CAPITOLO SECONDO LA CORONA E LE RIPETIZIONI
Incominciamo da quello che nel Rosario più colpisce.
Per questa preghiera si usa una corda o catenella di grani, alcuni dei
quali più grossi ovvero distinti dagli altri per la loro distanza.
Dieci piccoli e uno grosso costituiscono una «posta». In una corona le
poste sono cinque, precedute da una specie d'introduzione costituita da
una piccola croce, seguita da un grano grosso e da tré piccoli. Per
amore dell'esattezza e per coloro cui tutto ciò è nuovo, aggiungeremo
che vi sono sottospecie del Rosario con ripartizioni diverse, usate
esclusivamente in certe regioni; inoltre che al Rosario è stata data,
talvolta, anche esteriormente, una forma bella e accurata, come avviene
per cose tenute in gran conto e molto amate. Vi può ben essere qualcosa
di venerando e insieme di delicato in un Rosario del genere, antico e
prezioso, di cui si sa ch'è stato usato e tramandato da varie
generazioni.
Pregando, si fa scorrere la corona tra le dita. Sulla
crocetta, all'inizio, si recita il Credo\. Su ogni
piccolo, un'Avo Maria. Sui grossi, che precedono ogni decina dei
piccoli, il Padre Nostro. Dopo ogni posta, la lode Gloria al
Padre, al Figliuolo ed allo Spirito Santo, co
li.
È questa l'abitudine di un tempo; ora in genere trascurata, poiché la
recitazione di solito comincia col segno della Croce, cui segue
l'enunciazione del «mistero» (n.d.r.).
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m'era al principio e ora e sempre, per tutti i
secoli dei secoli. Così sia.
Così tutto s'inizia e si chiude col segno della Croce.
Che significa questo? Questa catena di preghiere, come la chiamano i
critici, non dice da sé che si tratta di una forma di pietà materiale,
di una forma che contrasta col mònito di Gesù:
«Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono
adorarlo in spirito e verità» (Gv 4, 24)?
Pregare vuoi dire comunicare con Dio e questa
comunicazione è vita. Le manifestazioni della vita hanno però forme
diverse: non vi sono precetti sul modo di pregare. La Rivelazione dice
chi è Dio, chi siamo noi, con quale spirito dobbiamo avvicinarci a Lui;
non dice però in qual modo debba avvenire questo
presentarsi e indugiare presso di Lui. Non ce lo dicono nemmeno le
parole «in spirito e verità», senza contare che vengono spesso
fraintese; che «spirito e verità» non sono in antitesi con l'aspetto
e l'ordine esteriore. «Spirito» non vuoi dire pensiero, bensì lo
Spirito Santo, che ha governato la vita di Cristo e, dal momento della
Pentecoste, ha assunto la guida della storia cristiana; e «Verità»
non vuoi dire interiorità senza corpo, bensì l'ordine vivente nel
quale Cristo ci ha posti dinanzi a Dio. Anche nella forma di preghiera
apparentemente più materiale può essere conservato quest'ordine e può
governare questo spirito, così come essi possono andare perduti anche
in quelle forme che appaiono più spirituali e più intime.
Ve un genere di preghiera in cui l'uomo esprime a Dio un
bisogno, un sentimento: la petizione, il ringraziamento, il pentimento.
Questa va fatta con sin-
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cerità e con chiarezza e le sue parole devono essere
quelle che detta il cuore. Qui va ricordato il mònito di Cristo contro
le troppe parole. Se qualcuno s'immagina di venire più sicuramente
esaudito, ripetendo dieci volte la sua richiesta, allora fa, secondo il
detto del Signore, «come i pagani»; se però il dolore che lo preme
cerca una via di espressione, egli può tranquillamente ripeterle dieci
e cento volte. Quando è il cuore che parla, la preghiera è sempre
buona; solo le parole vuote di sentimento sono male. Anzi è male tutto
ciò che non si rivolge a Dio nel modo giusto:
non sono solamente le ripetizioni che fanno «la
preghiera dei pagani», ma il sentimento stesso, se è rivolto, anziché
al Creatore e Signore della terra, a un «Dio» cui, nonostante tutta la
sua grandezza, tentiamo di far violenza come se fosse un uomo perché
faccia quello che vogliamo noi.
C'è però un'altra preghiera in cui non si tratta solo
di dire «ciò che si ha nel cuore», ma d'intrattenersi alla presenza
di Dio. Questa preghiera tende ad usare sempre meno parole, non perché
si esaurisca, ma perché in fondo non ne trova di adeguate al
sentimento. Forse dirà un'unica cosa: pensiamo a san Francesco che
trascorreva notti intere, invocando:
«Mio Dio e mio tutto!». Alla fine anche queste ultime
parole cadranno e l'anima entrerà, come dicono i maestri dello spirito,
nell'«Infìnito». In questa preghiera la parola ha il compito di
aiutare l'impulso intcriore a trovare la sua via e scompare non appena
ha reso il suo servizio.
Finalmente v'è una terza forma di preghiera. Anche in
questa si tratta di un intrattenersi con Dio, di un atto
d'omaggio al suo cospetto, di un ritrovarsi e
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placarsi interiormente, in modo che la parola
costituisca quasi il letto del fiume sul quale scorre la preghiera, e la
forza che la tiene in moto. In questo caso non appariranno sempre nuove
parole, ma torneranno le stesse. La ripetizione sarà solo la forma
esteriore della preghiera e non avrà che lo scopo di rendere il
movimento intcriore sempre più calmo e pieno. Una preghiera di questo
genere sono per esempio le litanie con le loro lodi e i loro richiami,
fra i quali il pensiero si muove appena: è antichissima, la si conosce
nel cristianesimo primitivo. Una maniera simile si ritrova nell'uso dei
salmi, allorché tra i singoli versetti viene interposto un richiamo
ripetuto, l'«antifona». Anch'essa appare già nei primi tempi. A
questa forma di preghiera appartiene pure il Rosario.
Si potrebbe obiettare che queste ripetizioni debbono
finire col rendere la preghiera affatto esteriore;
ciò può accadere, ma allora vuoi dire che è stata
intesa male, e che siamo nell'abuso. Però non è detto che accada,
perché la ripetizione ha pure il suo significato vitale. Non è forse
un elemento della vita? Che cos'è il battito del cuore se non
ripetizione? Sempre lo stesso contrarsi e distendersi, ma è per esso
che il sangue circola nel corpo. Che cos'è il respiro se non
ripetizione? Sempre lo stesso inspirare ed espirare, ma è la nostra
vita. Tutta la nostra esistenza non è forse ordinata e sostenuta da un
ritmo di scambio e ritomo? Ogni giorno il sole si alza e tramonta; ogni
anno la vita si rinnova in primavera, raggiunge il culmine e decade. Che
cosa possiamo obiettare contro queste ed altre ripetizioni? Sono
l'ordine in cui ci muoviamo, in cui l'intimo germe si sviluppa e prende
corpo. Tutto
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ciò che vive si attua nei ritmi delle circostanze
esteriori e dell'attuazione intcriore; perché non dovrebbe avere il suo
posto anche nella vita religiosa ciò che è legittimo in tutte le altre
forme di vita?
Il Rosario rappresenta una forma particolare di vita
religiosa. Qualcuno può dichiarare di non sapersene servire; è affar
suo; non ha però il diritto di dire che questa preghiera non abbia
senso e che non sia cristiana, perché così darebbe solo a vedere che
non sa di che si tratta.
Per quanto riguarda la corona dei grani, essa ha
evidentemente il compito di facilitare il raccoglimento dello spirito.
Da un grano si passa all'altro; il loro numero mantiene le ripetizioni
in una misura riconosciuta conveniente dalla lunga esperienza. Se non ci
fossero, chi prega dovrebbe badare a non esagerare nel molto o nel poco
e la sua attenzione sarebbe così sviata dall'essenziale. I grani
contano per lui ... E dunque qualcosa di meccanico? Sicuro, ma non c'è
forse una parte di meccanica in ogni cosa? Si dice che per tutto occorre
una preparazione - tutto va imparato;
imparare vuoi dire esercitarsi e l'esercizio è appunto
il formarsi di un «meccanismo», per mezzo del quale l'azione proceda
«da sé»; o meglio, la forza e l'attenzione rimangano libere per ciò
che più importa. Finché non si è imparato a fare una cosa, bisogna
sorvegliare ogni singolo atto, e l'essenziale vien trascurato;
quando invece si è imparato, ossia quando si è
acquistata una tecnica, la mente è più libera. Ecco tutto il
significato della corona nel Rosario.
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CAPITOLO TERZO LA PAROLA
Ad ogni grano si pronuncia una preghiera: parole che
derivano dalla Sacra Scrittura o dalla tradizione cristiana.
La parola è qualcosa di ricco, di vivo e di misterioso.
È una formazione di suoni per mezzo dei quali chi parla comunica a chi
ascolta ciò che è in lui. Fino a un certo punto questo potrebbe
avvenire con un semplice grido - di spavento, di gioia, ovvero di
affetto -ma non sarebbe ancora parola. La parola nasce quando, più che
un semplice sentimento, si giunge ad esprimere un senso, una verità.
Quando parlo, ciò che prima era rinchiuso in me, s'apre ed entra
nell'ambiente. Tutti quelli che ascoltano la mia parola possono
afferrare ciò ch'io voglio dire; il suono si perde, ma il significato
è già penetrato negli altri, mentre prima era solo dentro di me.
In questo modo è avvenuto un mutamento: ciò che
pensavo è diventato parola e rimane; prima era un contenuto d'essere e
di vita; in ogni caso parola inferiore che l'uomo dice a se stesso:
perché senza parola non c'è vita spirituale; ma ora è pronunciata e
resa manifesta una volta per sempre. Certo il suo luogo, dopo che il
discorso s'è spento, non è più l'udibilità esteriore, ma la memoria
di coloro che l'hanno udita; questa memoria è però un ambiente genuino
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nel quale la parola può essere cercata, ponderata e dal
quale può sempre tornare all'aperto. Ancora: finché taccio, porto il
mio pensiero in me; ne sono padrone; anche se altri l'indovina, io non
l'ho detto ancora. Ma se io lo dico, dalla sfera del mio riserbo lo
immetto in quella dell'esistenza altrui; ho osato mandarlo fuori e cioè
nel pericolo; non posso più cancellarlo; quel che è detto è detto.
Così le parole rappresentano il principio della storia, di quel che
avviene e di quel che avverrà.
Si dice che la parola è spirituale, ma non è proprio
così: la parola è umana, ha corpo come l'uomo: il significato che si
manifesta in ciò ch'è udibile; ed ha come l'uomo un cuore: il palpito
dell'anima che le da la vita. La parola è l'uomo stesso: la sua
espressione più raffinata e più mobile, ed è perciò che ha una tale
potenza. Non solo per il suono esteriore; per questo riguardo sarebbe
più potente il rumoreggiare delle onde o il fischio di una sirena; e
nemmeno per il solo senso spirituale, che si potrebbe tentar di scindere
dalle parole - la maniera di leggere dell'uomo contemporaneo tende a
questo - e nemmeno per il sentimento: un atteggiamento del volto o un
semplice grido possono dire assai di più, in talune circostanze. No, la
potenza della parola sta nel fatto ch'essa è come l'uomo e perciò
entra nella vita più intensa. Ognuno ha sperimentato come una buona
parola non gli sia più uscita dalla mente; come la sua verità gli
abbia occupato lo spirito, come la sua bellezza abbia rallegrato
l'anima, come la sua dolcezza abbia potuto quasi essere assaporata dal
gusto; e d'altra parte abbiamo tutti provato come una parola cattiva sia
penetrata nell'intimo quale una spina, al punto da dole-
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rè dopo molti anni. La parola è più di una semplice
comunicazione: è potenza, essere, realtà determinata.
E ciò non solamente quando viene pronunciata, ma anche
in seguito, quando permane nella memoria. La parola non rappresenta
solamente l'espressione dell'anima di chi parla, il presupposto per cui
uno possa comunque parlare: è il linguaggio. Nel corso del tempo le
parole e le loro strutture sintattiche si sono sviluppate fino a
costituire un mondo di forme significative nelle quali il singolo si
sviluppa spiritualmente. La lingua che uno parla è un mondo nel quale
egli vive e crea; un mondo che gli appartiene in maniera più profonda e
più essenziale che non la terra e le cose ch'egli chiama patria. Questo
mondo del linguaggio non consta però solo di parole, bensì anche di
frasi significative, proverbi per esempio, pensieri di uomini saggi e
nobili o canzoni e poesie. Esse sono sempre a disposizione del singolo,
pronte ad esercitare il loro potere.
Questo vale per ogni parola di saggezza, di amore e di
bellezza. Vale per le parole religiose che derivano dall'esperienza
delle persone pie e vale in modo particolare per quelle parole che
contengono la rivelazione di Dio nel linguaggio umano, ossia per le
parole della Sacra Scrittura. Tali parole sono più che una verità o un
insegnamento: sono una forza che agisce su chi le ascolta, sono un mondo
in cui è dato penetrare, una guida che conduce. Maria Egiziaca era una
etèra di Alessandria, conosciuta per la sua bellezza come per la
passionalità. Un giorno ebbe un'ispirazione, andò da un santo e gli
chiese se avrebbe potuto salvarsi. Quegli rispose:
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«Lascia ogni cosa. Va' nella solitudine e ripeti solo
queste parole: 'O Tu che mi hai creata, abbi pietà di me'».
Così fece; pregò senza posa; sempre la stessa
preghiera. Dopo molti anni, si racconta, essa divenne pura come la
fiamma e gli angeli la portarono a Dio. Quelle parole non furono
solamente una preghiera o un ammonimento, bensì una forza; nella sua
grandezza d'animo questa donna diede loro la possibilità di agire su di
lei stessa e di trasformarla.
Il Rosario consta di parole sacre: soprattutto di Ave
Maria. La prima parte dell'Ave deriva dal Nuovo Testamento:
incomincia col saluto dell'Angelo a Na-zareth:
«Dio ti salvi o Maria! Tu sei piena di grazia, il
Signore è con tè»;
seguono le parole con le quali Elisabetta la salutò
quando venne a lei attraverso i monti:
«Tu sei benedetta fra tutte le donne e benedetto è il
frutto del tuo seno» (Le 1, 28.42).
La seconda parte è un antico appello all'intercessione
di Maria. Il Padre Nostro ci è stato dato dal Signore stesso
come modello e contenuto di ogni preghiera cristiana ... Il Credo
costituisce la più antica espressione della credenza cristiana ... Il Gloria
è la lode alla Trinità di Dio nella sua forma più semplice ...
Con le parole del segno della croce che iniziano e chiudono il Rosario
«In nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo», i cristiani fin
dagli inizi si sono posti nel nome di Dio sotto il segno della
redenzione.
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Queste parole si ripetono di continuo: costituiscono il
mondo in cui si dispiega la preghiera: mondo aperto, commosso,
compenetrato di forze, ordinato da un'idea. Chi prega, nel momento in
cui pronuncia le parole, evoca attorno a sé quasi la 'patria' del suo
linguaggio; la storia del suo linguaggio personale e della sua vita
insieme si fa una realtà vivente, e dietro di essa, la storia del suo
popolo inserita in quella dell'umanità. Come parole della Scrittura,
esse fanno da volta al sacro spazio della Rivelazione nella quale il Dio
vivente si è fatto nostra verità.
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CAPITOLO QUARTO MARIA
Nell'ambiente, che le sacre parole vengono costituendo,
la figura di Maria si presenta come l'oggetto immediato della preghiera
del Rosario.
Maria fu cara al cuore cristiano fin dal principio e
già i discepoli di Gesù l'hanno circondata di particolare amore e
rispetto: lo si sente nei brani occasionali, ma non scarsi, del Vangelo
e degli Atti degli Apostoli in cui si parla di Lei. Il popolo cristiano
ha sempre amato Maria in maniera tutta speciale, e non fu un momento
felice quello in cui alcuni cristiani credettero, per onorare il Figlio,
di dover sciogliere gli antichi legami con la Madre sua.
Chi è Maria? Diciamolo nel modo più semplice che ci è
possibile: è Colei per la quale Gesù Cristo, Figlio di Dio e nostro
Redentore, assurse a sostanza della sua vita di donna; questo è un
fatto così chiaro e che pure supera di tanto ogni umana grandezza, di
quanto la supera la stessa incarnazione di Dio.
Si può essere più grandi in due modi: di per sé, come
un creatore, un eroe, un precursore, un uomo di singolare destino;
oppure amando questo grande:
il secondo modo è nobile quanto il primo, poiché per
comprendere e contenere in sé l'esistenza di un altro occorre una forza
d'animo pari alla figura e al destino della persona amata ... Che cosa
significa dunque
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che Gesù Cristo è stato il contenuto della vita di
Maria? Certo, ci sentiamo ammoniti alla circospczione:
un cuore umano, foss'anche il più profondo, non potrà
mai entrare col Cristo in un rapporto uguale a quello che lo unisce ad
un altro uomo; il limite dell'incomparabilità li divide, perché,
sebbene nostro fratello, Egli ha tuttavia le più profonde radici del
suo essere dal lato della divinità. Quanto abbiamo detto or ora sulla
misura delle grandezze in questo caso diventa errato e qui va messo da
parte; pure rimane il fatto che Maria fu sua madre; e dovunque il
Vangelo parla di Lei, Essa appare non solo come la donna che partorì e
allevò il Bimbo redentore, in maniera indispensabile e pur tuttavia non
corrispondente alla natura specifica di Lui, ma anche come Colei che sta
in questa santissima missione con tutta la sua vita, la sua coscienza,
il suo amore.
Per intender ciò basta che un credente legga con
attenzione il racconto dell'annuncio dell'Angelo, che non è la
comunicazione del decreto divino che doveva adempiersi in Lei, ma è la
richiesta del suo consenso. Quell'istante è un abisso dinanzi al quale
potremmo provare le vertigini, poiché vediamo Maria nell'uso della sua
piena libertà dinanzi al mistero che si chiama la Redenzione. Che
significa la coincidenza di queste due domande: «Vuoi servire alla
venuta del Redentore?» e «Vuoi diventar madre?». Che significa
ch'essa abbia concepito, portato e partorito il Figlio di Dio e
Salvatore del mondo? Ch'essa abbia tremato per Lui e per Lui sia stata
in esilio? Ch'Egli sia cresciuto accanto a Lei nel silenzio della casa
di Naza-reth? Che si sia poi allontanato da Lei per la sua missione,
nella quale però, come vediamo nella Scrittura,
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Essa lo segue col suo amore fino a trovarsi sotto la
croce? Ch'Essa abbia avuto notizia della sua resurrezione? Che, dopo
l'ascensione, abbia atteso coi discepoli la discesa dello Spirito Santo
e sia stata investita della sua potenza? Che abbia poi vissuto sotto la
protezione dell'apostolo «che Gesù ha amato», al quale Egli stesso
l'ha affidata, fino al giorno in cui è stata chiamata dal suo Figlio e
suo Signore? La Scrittura non dice molto, eppure è esplicita per chi
vuoi comprendere, tanto più che in fondo è la voce di Maria stessa che
ascoltiamo: perché da chi altro avrebbero potuto conoscere gli
Evangelisti il mistero dell'incarnazione, i primi eventi dell'infanzia,
il pellegrinaggio a Gerusalemme, se non da Lei?
Se non siamo tra coloro che considerano leggenda i primi
capitoli del Vangelo, - e questi devono rendersi conto che così facendo
si attribuiscono la capacità di giudicare quali parole della Scrittura
siano di Dio venendo così, in fondo, a sopprimere la Rivelazione -
dobbiamo capire che i suoi ricordi, la vita da Lei vissuta, il suo
essere stanno sul fondo di quei capitoli. E non solo di quelli, perché
non può essere che Colei che visse trent'anni col Signore non abbia
parlato di Lui dopo la sua dipartita. Non si può determinare quale
influsso abbiano avuto i suoi racconti e, con questi, la sua stessa
esperienza sulla comprensione e la predicazione del Cristo.
La sua esistenza non ha nulla di fantastico o di
leggendario, è tutta semplice, è tutta reale; ma di quale realtà! La
leggenda è talvolta pia e profonda, tal altra poco seria e anche fatua;
ma anch'essa ov'essa è pia può rappresentare un pericolo: racconta
cose meravigliose, ma indebolisce così il senso di ciò che è più
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bello, più pio, più meraviglioso di qualsiasi
leggenda, ossia della realtà. La vita di Maria, come è narrata nella
Scrittura, è così umanamente vera come può es-serlo sempre; ma questa
umanità è piena del mistero della comunione con Dio e dell'amore di
Lui, della cui profondità noi non possiamo farci un'idea. A questa si
ispira la preghiera del Rosario.
Gesù è in tal modo la sostanza della vita di Maria
come il figlio è la sostanza della vita della madre, per la quale egli
è tutto. È però al tempo stesso il suo Redentore, ciò che nessun
figlio può mai essere per sua madre. Quando si parla in questa maniera
di madre e di figlio naturale, lo si fa per lo più per chiacchiera, e,
se poi si parla seriamente, si bestemmia. Nel suo rapporto con Gesù non
si compie solo la sua maternità, ma anche la sua redenzione: mentre
diventa madre, diventa cristiana; mentre vive con suo Figlio, vive con
quel Dio di cui Egli è la vivente manifestazione; mentre cresce
umanamente col suo figliuolo, come fa ogni madre che ama davvero; mentre
gli apre la via all'esistenza accettando le rinunce e i dolori che ciò
comporta, Essa stessa diventa umanamente libera e cresce nella grazia e
nella verità di Dio. Perciò Maria non è solo una grande cristiana, ne
una fra le tante sante, ma è Sola ed Unica. Nessuna è come Lei,
perché in nessuna creatura avvenne ciò che avvenne in Lei. Qui
troviamo la radice di ogni esagerazione: se tanti non finiscono di
lodare Maria, se talvolta dicono di Lei cose sproporzionate e strane, in
un certo senso hanno ragione: cercano di esprimere, anche se con mezzi
falsi, una realtà la cui profondità non può non commuovere chiunque
ci pensi. Ma le esagerazioni
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sono superflue e dannose, perché quella realtà si fa
più augusta e più intima insieme quanto più la parola rimane vera.
La preghiera del Rosario è diretta a Maria e la
contempla da tutti i punti di vista. Nel Rosario noi viviamo nella sfera
della vita di Maria il cui contenuto fu Cristo.
Così, in ultima analisi il Rosario è una preghiera al
Cristo. La prima parte dell'Are si chiude col suo nome:
«e benedetto il frutto del tuo seno, Gesù».
A questo nome viene aggiunto il cosiddetto mistero, per
esempio
«che tu o Vergine hai concepito per opera dello Spirito
Santo ...», «che hai portato a Elisabetta ...», «che hai partorito a
Bedemme ...»1.
Ogni posta del Rosario contiene uno di questi misteri.
Il tutto comprende cinque poste e costituisce un gruppo di cinque
misteri: di questi gruppi ce ne sono tré. Il primo è il Rosario
gaudioso: i suoi misteri sono quelli dell'amabile fanciullezza di Gesù,
già tutta piena di presentimenti; il secondo, il Rosario doloroso,
comprende la sua passione dal momento dell'agonia nell'Orto degli ulivi,
fino alla sua morte in croce;
il terzo, glorioso, tratta della gloria della sua
resurre-
1. Questo veramente è l'uso in Germania; da noi il
mistero che «si contempla» è enunciato all'inizio di ogni «posta»,
prima del Padre Nostro (n.d.r.).
33
zione ed ascensione, della discesa dello Spirito Santo e
dell'esaltazione di Maria stessa.
In questa preghiera si contempla dunque la figura e la
vita di Gesù, non però, come per esempio nella Via Crucis, in
modo diretto, ma attraverso Maria: come contenuto della sua vita da Lei
veduto, da Lei sentito e
«serbato in cuore» (Le 2, 51).
Un soffio di santa simpatia pervade tutto il Rosario.
Quando una persona ci sta molto a cuore, ci rallegriamo d'incontrarne
un'altra che a lei sia legata. Troviamo la sua immagine rispecchiata in
un'altra esistenza e la vediamo per così dire con nuovi occhi;
il nostro sguardo s'incontra con uno sguardo che
ugualmente la contempla con amore e acquista perciò una maggior forza
di penetrazione; la nostra visione si allarga e noi vediamo da ogni lato
la figura amata che prima vedevamo da un punto solo. Le gioie provate
dall'altra persona, i dolori da essa sofferti, diventano altrettante
corde nuove le cui vibrazioni portano nel nostro cuore nuova risonanza,
nuova comprensione, nuova rispondenza. L'essenza della simpatia consiste
proprio nel fatto, che l'altra persona pone la sua vita a disposizione
della nostra, così che noi diventiamo capaci di vedere e d'amare anche
coi suoi occhi e col suo cuore. Qualche cosa di simile, ma in sfera
totalmente diversa, avviene nel Rosario.
34
CAPITOLO QUINTO CRISTO IN NOI
Sostando nell'ambito di queste figure respiriamo
santità e grandezza. Nelle cose più nobili non si cerca l'utilità,
perché hanno in se stesse il valore. Così è di un valore infinito
respirare in questa purezza, rifugiandosi nella pace di questa intimità
con Dio.
Ed eccoci tornati a quanto dicevamo in principio. L'uomo
ha bisogno di ristorarsi in un santo riposo dove giunga a lui l'alito
divino, dove gli vengano incontro le grandi figure della fede.
Questo luogo è, in fondo, la inaccessibilità di Dio
stesso, che in Cristo si è rivelato all'uomo. Ogni preghiera incomincia
col silenzio intcriore, col raccoglimento dei propri pensieri, col
pentimento del proprio peccato e col volgersi dell'anima a Dio. Così si
apre a noi il mondo sacro, non solo il regno della pace dell'anima e del
raccoglimento spirituale, ma veramente il regno di Dio.
Abbiamo sempre bisogno di questo: ma in particolare
quando lo sconvolgimento dei tempi ci manifesta una cosa che è sempre
vera, ma viene spesso dimenticata in tempi di prosperità e di
tranquillità: la nostra condizione di senza-patria. Allora si richiede
a noi un coraggio speciale: ci si richiede non solo di essere preparati
a perder tutto e a vivere con maggior grandezza d'animo, ma di
continuare a sopportare questo
35
esilio di cui in altri tempi non ci accorgiamo. E così
abbiamo bisogno più che mai di quel riposo di cui parlavamo, non per
accomodarvici pigramente, ma per ritrovare il centro delle cose, per
ridiventare calmi e fiduciosi. Perciò è tanto importante il Rosario in
un tempo come il nostro, purché naturalmente si metta da parte ogni
esagerazione e ogni sdolcinatura e lo si intenda nella sua chiara forza
originaria; tanto più importante in quanto esso non richiede una
speciale preparazione: chi prega non è obbligato a richiamare pensieri
di cui in genere o, almeno, sul momento non si sente capace. Egli entra
in un mondo ordinato, incontra figure che gli sono familiari e vi trova
le vie che lo conducono all'essenziale.
Recitare il Rosario è trattenersi, raccolti, in un
mondo silenzioso e santo, il che appare più chiaro s6 lo si confronta
con la Via Crucis. Questa si presenta appunto come una via' e chi
prega dopo avere seguito il Signore da una «stazione» all'altra, alla
fine ha la sensazione di essere giunto alla mèta. Il Rosario invece non
è una via, ma un ambiente e non ha mèta, ma profondità. Sostarvi, fa
bene all'anima.
In questo ambiente, chi prega può richiamare anche i
propri bisogni. La seconda parte dell'Ave Maria è una preghiera
impetratoria, che si può riempire di tutto di ciò che si ha sul cuore.
La Madre del Signore invero non è una dea che viva nella sua gloria al
di sopra degli uomini senza curarsi di loro: ciò che le avvenne lo
accettò per amore degli uomini, Colui che fu suo Figlio è il nostro
Salvatore; Ella è una di noi,
1. Cfr. R. Guardini, La Via Crucis di N.S. Gesù
Cristo, tr. it. di Bice Jahn Rusconi, Edizioni di Vita Cristiana,
Firenze 1940 (ora Queriniana, Brescia 1976).
36
sebbene il destino comune a noi tutti sia stato da Lei
conosciuto in modo tutto particolare. Il cuore cristiano ha sempre
sentito in Lei l'amore misericordioso a cui gli uomini possono
rivolgersi con confidenza illimitata, e questo sentimento ha espresso
nel nome affettuoso di «Madre» datoLe fin dai primi tempi del
cristianesimo. Fin da allora il cuore cristiano ha compreso che Maria,
perché Madre di Cristo, è anche nostra Madre. Lo stesso mistero della
sua maternità include con Cristo,
«primogenito fra molti fratelli» (Rm 8, 29),
anche noi: perciò i cristiani hanno sempre chiesto il
soccorso di Maria, sicuri di far bene.
Ed è bello il modo con cui nell'Ave Maria si
esprime la somma dei bisogni umani: ch'Ella interceda per noi con le sue
preghiere «adesso e nell'ora della nostra morte». Senza entrare nel
particolare, vi si comprendono tutte le miserie dell'umanità, di tutti
e di ognuno, raggnippate nei due momenti che decidono della nostra
esistenza: 1'«adesso», quello dunque in cui dobbiamo compiere la
volontà di Dio, scegliere tra bene e male e decidere così il modo
della nostra vita eterna; l'altro, «l'ora della nostra morte», che
chiude la vita e da a tutto il passato il carattere che importa per
l'eternità.
C'è dell'altro, che non è facile dire; prego quindi il
lettore di non fermarsi alle singole parole, ma di cercare di coglierne
l'esatto senso generale.
L'apostolo Paolo, nelle sue lettere, parla sempre di un
ultimo mistero della esistenza cristiana: del Cristo «in noi».
37
«Non già io vivo, ma Cristo vive in me»,
dice nella lettera ai Galati (2, 20).
Ci ammonisce di essere fedeli e vigilanti
«fino a quando non sia formato in noi Cristo» (Gai 4,
19). Vede l'essenza della vita cristiana nel pervenire tutti
«alla maturità dell'uomo perfetto secondo la piena
età di Cristo» (Ef 4, 13)
e nel nostro essere
«predestinati a divenire conformi all'immagine del
Figlio»
(Rm 8, 29).
Questa è anzitutto un'espressione del vincolo della
fede e della comunione della grazia, come chi dicesse di un uomo che
dentro di lui vive un modello venerato; ma vuoi significare qualche cosa
di più: significa da parte nostra non solo una comunione di grazia, di
pensiero, di fedeltà, ma una partecipazione alla realtà di Cristo, che
non può mai essere penetrata abbastanza; significa di più anche da
parte di Dio, e noi non apprezziamo tutto il valore di quelle parole se
non cercando di comprendere ciò che significano per Dio stesso.
Dio ama l'uomo. Verità sempre ripetuta, ma, sembra, mai
compresa in tutta la sua importanza. Non significa invero soltanto che
ci vuoi bene, che perdona i nostri peccati, che ci da forza a ben fare e
ci conduce a quella somiglianzà con Lui ch'è il vero scopo della
creazione; tutto questo deve essere tenuto nel giusto conto; sarebbe
abbastanza e più che abbastanza e
38
del resto non ha senso il parlare qui di misura. Ma non
è abbastanza se ci riferiamo a quella misura che Egli stesso ci ha
data: ciò che ha fatto per amor nostro. Egli si è assunto la
responsabilità della nostra colpa, si è fatto uomo, e uomo rimane
nell'eternità;
ha vissuto in mezzo a noi, ha accettato il suo destino
particolare per espiare così il nostro peccato: - tutto ciò non deve
essere considerato come qualcosa di naturale e di ovvio, come suona
all'udirlo tanto spesso. E in verità una cosa enorme; anzi, commisurata
a ciò che l'uomo da sé solo può pensare di se stesso e di Dio,
assurda. Dal nostro punto di vista si direbbe che a Dio «non si
addica» quello che ha fatto. È più assai di una pura e semplice
benignità.
Qui deve aver agito un motivo che riguarda Dio stesso e
non sapremmo esprimerlo se non dicendo che l'amore con cui Dio ci ha
amati è stato per Lui «destino». L'espressione è inusitata,
d'altronde non ne trovo un'altra: e prego il lettore di cercar di capire
ciò che intendo dire. Certo nulla che sia contrario all'onore di Dio;
piuttosto qualche cosa che ci insegni ad adorarlo più profondamente.
Chi ama rinuncia alla libertà del suo cuore e si lega alla persona
amata, non per violenza o per calcolo, ma proprio per amore. Non può
più dire: «Egli è un altro, non sono io;
questo riguarda lui, non me». Nella misura in cui
l'amore è veramente amore, diminuisce la possibilità di simili
distinzioni. È per questo che fin dal primo istante l'amore è
«destino». Qualche cosa di simile è avvenuto in Dio, o meglio, ciò
che avviene nell'uomo deve essere un riflesso di quanto avviene in Dio
stesso con una forza che noi non possiamo immaginare.
Si potrebbe obiettare che con questo modo di
39
pensare si attenta alla libertà di Dio e si pone Lui,
il Signore di tutto, in condizione di dipendenza. Se così fosse,
erreremmo senz'altro, perché a fondamento e garanzia della nostra
salvezza sta il fatto che Dio è il Signore, da nulla dipendente,
sufficiente a se stesso e per così dire padrone di sé. Questo stesso
Dio ha però amato l'uomo fin dal principio nella verità divina.
Perciò le azioni dell'uomo non gli sono state indifferenti, ne ci ha
solo seguito col suo sguardo benevolo, quasi cosa che non lo
riguardasse. Il destino dell'uomo gli stava a cuore; Egli legò il suo
onore -l'onore del Dio che ci ha creati con un atto di amore - così
strettamente alla salvezza dell'uomo che quanto avveniva all'uomo doveva
costituire il destino anche di Dio.
Si potrebbe obiettare ancora che nessuna creatura ha di
per sé un valore dinanzi a Dio e meno di ogni altra l'uomo, che col
peccato si è messo in opposizione a Lui. L'amore di Dio non trova un
oggetto degno di sé, è un amore che ha il suo movente in se stesso.
Questo è vero: nessuna creatura di per sé è capace di attirare su di
sé l'amore di Dio, ma proprio per questa ragione, che non ha nulla di
suo. Tutto quello che ha, tutto quello che è, gli viene da Lui: appunto
perciò ha un valore dinanzi a Lui. Altrimenti che cosa significherebbe
quella ripetuta dichiarazione di Dio davanti alla realtà della
creazione: che «era buona»? Ed era veramente «buona» e «molto
buona», e proprio ai suoi occhi (Gn 1, 4-31). Da questo momento
incomincia l'impegno diretto dell'onore di Dio che crea ed ama; si
riafferma dove è detto che l'uomo fu creato a immagine e somiglianzà
di Dio; onore, questo, fatto all'uomo per amore, sì che si può dire
che Dio è
40
ormai legato a quest'uomo come nessun uomo può esser
legato ad un altro uomo. L'impegno si farà sempre più profondo e
sempre più agirà sul destino umano con l'intervento di Dio attraverso
la storia sacra, nel patto da Lui stretto con l'uomo, nella rivelazione
della sua verità e della sua legge fino all'atto dell'incarnazione,
superiore ad ogni terrena misura.
Nel suo amore per l'uomo, Dio ha cominciato col
concedergli di possedere davanti a Lui un vero valore. Dev'essere! stato
in Dio un misterioso desiderio dell'uomo. Per l'Eterno e l'Infinito, per
il Signore che tutto è e tutto possiede, l'uomo dev'essere ben
prezioso, se Egli vuoi partecipare della sua natura.
E il mistero a cui alludono i maestri spirituali quando
parlano della nascita di Dio nell'uomo. Dio non si limita a governarlo e
proteggerlo, come fa con le altre creature viventi, ma prende
addirittura parte alla sua esistenza, diventa il Figlio dell'uomo.
Questo è avvenuto una volta per sempre nell'incarnazione di Cristo, la
cui esistenza è il vero ed essenziale compimento dell'amore di Dio. In
Cristo, Dio si è donato all'uomo, partecipando così alla sua sorte; si
è fatto uno con l'uomo a tal punto che
«chi ha visto me», dice Gesù, «ha visto il Padre» (Gv
14, 9).
E non solo nel senso che ci è stato concesso per grazia
di poter riconoscere Dio nel Cristo, ma anche a significare la gioia di
Dio nell'esistere in Lui come uomo. Ciò che è avvenuto una volta in
Cristo - dice san Paolo - deve ripetersi continuamente. Non in modo
identico, che la vera e propria incarnazione di Dio è un evento in cui
è impegnato Dio come Persona, in modo intangibilmente unico, - ma
spiritual-
41
mente; così può aver luogo in ciascuno, proprio in
ciascuno. Nessuno è superfluo, perché ognuno esiste una sola volta e
Dio ama l'uomo a tal punto che vuoi rinnovare in tutti il mistero
dell'incarnazione. Credere significa accogliere in sé il Cristo
risuscitato, vivere da cristiani significa far posto a Dio perché si
esprima e si affermi nella nostra propria esistenza. La fede è perfetta
quando Cristo penetra nell'esistenza dell'uomo e vi diventa l'Unico, il
Tutto: la vita del Cristo è il tema che, proposto sempre di nuovo, dev'essere
sviluppato in ognuno di noi. Nella nostra vita riappare di continuo il
Cristo e nel Cristo Dio; di continuo l'uomo può trasformarsi in Cristo
e, per suo mezzo, in Dio. Così cresce l'uomo nuovo, nel quale Cristo
rivive la sua vita e Dio da compimento al suo amore. Così l'uomo
diventa ciò che dev'essere secondo l'intenzione di Dio.
Appunto a questo mistero si riferisce il Rosario. Ciò
che accadde in Maria non è avvenuto in lontananza da noi, bensì è
l'esempio tipico - sebbene unico e irraggiungibile, - di ciò che deve
avvenire in ogni vita cristiana: il fatto che l'eterno Figlio di Dio
«prende forma» nell'esistenza del credente. Contemplando le figure che
animano il Rosario, il credente si avvicina alla santa forma originaria
di questo processo e l'evento arcano viene promosso in lui medesimo. Non
è detto che ne abbia coscienza, ma quando contempla e indugia e loda e
prega nell'alone dell'esistenza di Maria, è come se incominciasse a
svegliargli-si il mistero dell'esistenza di Cristo: viene evocato,
respira, si sviluppa.
42
CAPITOLO SESTO NORME PRATICHE
E adesso ancora alcune parole sul modo di recitare il
Rosario. La forma è semplice, grande e profondo però ne è il
contenuto. Questo duplice carattere lo rende al tempo stesso facile da
recitare: facile per chi, dotato di viva forza di immaginazione e di
pronta sensibilità, è capace di tener presente l'immagine nello
scorrere delle parole, e di ritrovare la propria esistenza nella figura
sacra contemplata, - difficile invece per chi ha perduto nella
irrequietudine della vita contemporanea la capacità di contemplare le
realtà intcriori. Chi appartiene alla seconda categoria e pur vuole
recitare il Rosario ha da essere pronto a superare difficoltà. Deve
esercitarsi a imparare gradatamen-te ciò che per altri è spontaneo.
Anzitutto deve combattere l'avversione per la
ripetizione, poiché questa appartiene all'essenza del Rosario: la sua
forma è il ritmo tranquillo delle parole sempre uguali.
Deve ancora superare l'inquietudine, che ha così
profonde radici nell'uomo contemporaneo. Chi non ne è capace lasci
piuttosto da parte il Rosario; non vi troverà che delusioni e
rischierà di stimare poco una cosa bella. Il Rosario è una preghiera
che ha bisogno di calma: per essa bisogna prender tempo, non solo
43
nel senso esteriore dei minuti che occorrono, ma anche
nell'intimo. Chi vuoi recitarlo bene deve metter da parte la fretta,
trovare un'intima tranquillità. Questo è necessario, sia che egli
abbia dieci minuti a sua disposizione, sia che ne abbia trenta. Non deve
proporsi troppo, non ha importanza ch'egli reciti il Rosario intero:
meglio accontentarsi di due o tré poste recitate bene.
Che egli vi porti tutta la sua vita con le sue gioie, i
suoi dolori, gli uomini e le cose - tutto, ma nel modo stesso come le
porterebbe ad una persona la cui presenza dia la calma: non per
ascoltare com'egli possa meglio intraprendere qualcosa, ma perché tutto
si possa vedere nella giusta luce.
La meditazione si compie propriamente nell'Ave Maria.
La prima parte della preghiera è una contemplazione e
una meditazione, una comprensione e una lode di quel mistero che viene
poi espresso nelle parole che seguono il nome di «Gesù», dopo le
quali ci si ferma un momento in silenzio ... Nella seconda parte ci si
rivolge a Maria, qual Ella è e prega nell'evento considerato da codesto
mistero, e si chiede la sua intercessione «adesso e nell'ora della
nostra morte». Qui vanno compresi tutti i bisogni propri e degli altri,
del corpo e dell'anima, dell'esistenza personale e universale. Ma
anzitutto il bisogno per se stesso di partecipare al mistero di Cristo.
A chi è data per la prima volta, questa traccia
sembrerà forse complicata e difficile; questa impressione aumenterà
quando si cerchi di metterla in pratica, e può essere che ci si senta
scoraggiati e inquieti. Bisogna capire che c'è qualcosa da imparare, e
cioè il mo-
44
do di collegare le parole della preghiera con la
rappresentazione del mistero e coi bisogni del proprio cuore.
Un paragone forse potrà esserci di aiuto. Quando parlo
con qualcuno, può darsi ch'io voglia dirgli qualcosa di determinato.
Sarà mia cura allora di esporre chiaramente ciò che ho in mente
perché l'altro mi capisca bene: le mie parole correranno per così dire
su un'unica linea. Possiamo tenere invece un colloquio tranquillo in cui
le parole, anziché seguire una via preordinata, corrono qua e là.
Parlo quindi all'altro e bado se mi comprende; però contemporaneamente
seguo anche la espressione del suo volto, sento i suoi motivi,
percepisco tutta intera la sua vita; colgo l'ambiente; vi entrano figure
di altre persone, affiorano eventi del passato, s'annunciano
presentimenti del futuro. L'attenzione si è quindi allargata. Non ha
più la forma di una linea, ma di uno spazio; segue, per così dire, una
modalità sinfonica, vede dietro il primo piano o sfondo,
nell'espressione il sentimento, nel momento attuale il passato e
l'avvenire. Così avviene nel Rosario: l'atto per cui esso si recita non
mira ad uno scopo definito, ma è comprensivo; non è orientato
rigidamente, ma in modo allentato. Le parole non sono ristrette ad un
particolare significato, ma libere, aperte, così che nel loro spazio
possono affiorare anche immagini che da esse non sono direttamente
richiamate. E chi prega non solo le vede, queste immagini, ma si muove
con esse, le sente, parla con esse, confonde la sua propria vita con
loro. Si forma così tutto un mondo silenziosamente animato, nel quale
la preghiera si muove in una libertà legata solo dal numero delle
ripetizioni e dal tema del mistero.
45
Tutto questo ha da essere imparato, e per imparare
occorre pazienza: una pazienza amorosa, per cosi dire, come quella con
cui uno assedia una bellezza vivente e non desiste fino a che essa non
gli si dischiude.
Il Padre Nostro che precede ogni posta non dev'essere
recitato come YAve Maria; in esso ogni parola deve avere
unicamente il significato suo proprio. È la preghiera del Signore, e
dobbiamo rispettarla; tuttavia anch'essa potrà avere una particolare
risonanza per il suo collegamento coi misteri. Principio e fine di ogni
moto spirituale è il Padre; perciò la preghiera sale a Lui prima di
ogni posta, per chiedergli le cose essenziali; al cospetto del Padre si
svolgerà poi la successiva meditazione, al modo stesso con cui nella
Apocalisse di Giovanni i vari eventi, che il veggente contempla, si
svolgono sotto gli occhi di
«Colui che siede sul trono e vive in eterno» (4, 9).
Il Credo costituisce l'introduzione del tutto,
poiché tratta della nostra fede nella sua pienezza.
Infine nella lode «Gloria al Padre, al Figliuolo e allo
Spirito Santo», chi prega, dopo ogni posta s'inchina al Dio Uno e Trino
dal quale tutto procede e al quale tutto ritorna.
46
Parte seconda
Breve esposizione dei Misteri
SIGNIFICATO DEL MISTERO NEL ROSARIO
Ogni posta del Rosario contiene, come già abbiamo
detto, un Mistero: un evento della vita di Gesù, a cui è
rivolta in modo speciale la contemplazione. Esso viene enunciato nella
breve frase che nell'Are Maria segue il nome di Gesù1.
Questi misteri sono quindici, ordinati in tré gruppi
che si chiamano, secondo il loro carattere, rosario gaudioso, doloroso e
glorioso. Il primo evoca i misteri dell'infanzia di Gesù; il secondo
quelli della sua passione e della sua morte; il terzo quelli della sua
glorificazione; così comprendono tutta la sua vita e, unita alla sua,
anche la vita di Maria.
Quando penetriamo in essi, tanto più chiaramente
vediamo che contengono anche la legge fondamentale della perfezione
cristiana, quella santa nascita di cui abbiamo parlato.
Cercheremo di farne una breve esposizione: non saranno
che pochi cenni ed anche questi entro i limiti nei quali all'autore
riesce di vedere le sante verità. Non si vuole dunque dare una regola,
al contrario quanto più personalmente chi prega saprà intenderli e
riviverli, tanto meglio sarà.
Si tratta però di fatti della Storia Sacra; perciò
sarà bene ch'egli tenga presente il Nuovo Testamento, do-
1. Sempre, si ricordi, nel modo di
recitazione tedesco (n.Ar.).
49
ve parla dell'annuncio dell'Angelo, della visita di
Maria ad Elisabetta, della nascita del Divino Bambino, e così via.
Proprio chi recita spesso il Rosario incorre nel pericolo di fermarsi
sempre alle stesse immagini e agli stessi pensieri, e perciò di
immiserirli. Quanto più viva diventa la preghiera se, invece di
recitare il Rosario intero, ci limitiamo a una o due poste, avendo però
prima riletto il sacro testo, così da essere imbevuti della sua
ricchezza e freschezza!2.
2. Poiché le sue diverse parole sono distribuite nei
Vangeli e negli Atti degli Apostoli, vorrei suggerire un buon ausilio e
precisamente una cosiddetta «armonia dei Vangeli», in cui le notizie
bibliche sono combinate così da costituire un discorso continuato:
August Verin, Das Evangelium Jesu Christi, Herder, Freiburg i.B.
(ora /( Vangelo unificato, a cura di Enrico Galbiati, ipl, Milano
1978). Forse anche il libro dell'autore: // Signore - riflessioni
sulla vita e la persona di Gesù Cristo (tr. it. presso Vita e
Pensiero, Milano 19923), può rendere un utile servizio.
50
CAPITOLO PRIMO
INTRODUZIONE AL ROSARIO
IN GENERALE
La corona di cinque poste è ogni volta preceduta da un
esordio in cui il fedele si prepara. Esso consta del Credo, del Padre
Nostro e dì tré Ave Maria, ognuna delle quali contiene una
specie di mistero, e precisamente in forma di una preghiera per ottenere
quelle forze fondamentali dell'esistenza cristiana che la Chiesa chiama
virtù teologali. Paolo ne parla nella prima lettera ai Corinti dove
egli le contrappone, come ciò che è propriamente importante, alle
manifestazioni straordinarie dello Spirito Santo.
«Ora rimangono queste tré cose, la fede, la speranza,
la carità, ma la più grande di esse è la carità» (1 Cor 13, 13).
In esse si esplica la più grande forza allo spirito e
del cuore umano, ma la loro più profonda radice è in Dio. Sono maniere
in cui si esprime nell'uomo la «virtù» ossia la perfezione vivente di
Dio: la sua santa veracità si fa fede, la sua volontà realizzante
speranza; quanto alla carità, a cui Paolo da la preminenza, essa è il
modo con cui il cuore umano risponde a Colui
«che ci ha amati per primo» (1 Gv 4, 19).
51
La prima virtù: «... che aumenti in noi la fede». Quando
Maria attraversò i monti andò da Elisabet-ta in cerca di una persona a
cui poter parlare, questa, ripiena di Spirito Santo, ricevette la
giovane cugina con parole di amore e di venerazione:
«Tè beata che hai creduto, perché si compiranno le
cose dette a tè dal Signore» (Le 1, 45).
Il fatto unico avvenuto in Maria ci porta a credere che
tutta la sua vita sia intessuta di miracoli e con ciò si distrugge il
meglio della sua realtà. La parola di Eli-sabetta ci chiarisce questa
realtà con l'elogio alla sua fede. Questa fu la sua grandezza: l'aver
creduto e l'esser rimasta nella fede fino al termine della sua vita ...
La fede è veramente una cosa straordinaria, quando si sa quello che
sapeva Lei? Sì, certamente. Non è, infatti, senza intenzione che il
Vangelo racconta come lo stesso Angelo che portò l'annunzio a Maria,
andò anche da Zaccaria, il quale udì sì come quegli fosse il messo di
Dio, pure non accolse il suo messaggio, così che l'angelo lo castigo
«perché non aveva creduto alle sue parole» (Le 1,
20).
Maria ha creduto: si è inchinata dinanzi a Dio, Signore
della creazione, sicura ch'Egli avrebbe mantenuto la sua parola,
superando ogni possibilità della natura; ha percorso la via ignota per
la quale Egli la chiamava. Questa via l'ha condotta sempre più
attraverso il mistero; perciò essa ha potuto percorrerla solo con la
fede. La frase del Vangelo:
«ma essi non compresero dò che aveva loro detto» (Le
2, 50) 52
vale per tutta la sua vita. Essa ha «compreso»
soltanto nella pienezza della grazia della Pentecoste; prima dovette
aver fiducia e obbedire. La fede è il fondamento della nostra esistenza
cristiana; si desta dinanzi alla Rivelazione di Dio, deriva dalla stessa
origine, poiché la stessa forza nella quale Dio si manifesta a noi ci
rende anche capaci di ascoltare la sua parola e di restargli fedeli. Da
questo incomincia la nuova vita; non dalla ragione e dalla forza
dell'uomo, bensì dalla parola e dalla grazia di Dio. Non appena la fede
vacilla, accade a noi ciò che accadde a Pietro sulle acque: affondiamo.
Della fede abbiamo sempre, sempre più bisogno. Infatti quanto più si
avanza nella vita, tanto più occorre la fede, perché sempre più ci
rendiamo conto della umana limitatezza. Perciò chiediamo al Signore
«che aumenti in noi la fede».
La seconda virtù: «... che
fortifichi in noi la speranza».
Elisabetta chiama beata la Vergine perché ha creduto,
in quanto si sarebbero compiute le cose a lei dette dal Signore. Sarebbe
diventata Madre del Salvatore per forza dello Spirito Santo e in ciò
avrebbe trovato il compimento della sua salvezza. Non le fu sempre
facile sentirsene sicura: quando la Scrittura parla di Maria e di suo
Figlio si sente sempre un grande amore, ma anche una certa distanza. La
risposta del fanciullo dodicenne nel tempio (Le 2, 49), le parole
rivolte da Gesù alla Madre alle nozze di Cana (Gv 2, 4) e quelle con le
quali risponde a coloro che gli riferiscono che la Madre è alla porta a
cercare di Lui (Me 3, 33), quello che dice alla donna che proclama beata
sua Madre (Le 2, 28) e la sua ultima volontà con la
53
quale la affida al discepolo (Gv 19, 26), tutto questo
lascia intendere qualche cosa che Lo allontana da Lei, e ogni volta si
intrawede la possibilità ch'Ella si senta disorientata dalla condotta
di Dio. Invece la sua fiducia cresce sempre più, Ella si lascia guidare
dal Signore; Maria ha vissuto fidando interamente nella potenza di Dio,
che è capace di portar tutto a buon fine attraverso ogni oscurità e
contraddizione.
La speranza è fiducia nella potenza di Dio: Egli ci ha
promesso che diventeremo uomini nuovi e che la creazione diverrà
«un nuovo cielo ed una nuova terra» (Ap 21, 1).
A ciò sembrano contraddire l'apparenza delle cose di
questo mondo, le circostanze della vita, le opinioni della gente che ci
sta intorno, le quotidiane esperienze della nostra limitatezza e del
nostro peccato, tutto. La speranza è il perseverare della fede contro
l'evidenza; nonostante tutte le contraddizioni la nuova vita è in noi e
Dio la porterà a compimento per quante difficoltà le si oppongono,
purché noi confidiamo in Lui. Questo però è difficile, talvolta quasi
impossibile. E perciò dobbiamo continuare a pregare che Dio
«fortifichi in noi la speranza».
La terza virtù: «che accenda in noi la carità». Quando
la Sacra Scrittura parla della carità, non dobbiamo mai dimenticare che
le sue parole sono la Rivelazione. Non solamente essa ci ammaestra su
ciò che è già familiare alla nostra natura, ma ci da notizia di
quanto non potremmo sapere da noi: la carità di cui parla ha origine in
Dio. L'apostolo lo dice chiaramente:
54
«in dò sta la carità: non nel nostro amore per Dio,
ma nell'amore che Egli ha avuto per noi, fino a mandarci il suo
Figliuolo come vittima di espiazione per i nostri peccati» (Gv 4, 10).
Queste parole ci sono così familiari, che non ci
rendiamo più conto della loro grandezza. E facile capire che Dio
desideri il nostro bene, ma che ci ami fino a darci suo Figlio, dunque
se stesso, questo è pura Rivelazione. L'amore di Dio lo porta a
sacrificarsi; e non per una oscura necessità, ma nell'assoluta libertà
della sua eterna sovranità:
«Dio ha talmente amato il mondo da dare il suo Figlio
unigenito» (Gv 3, 16).
Il messaggio dell'Angelo a Maria era l'ordine di
accogliere questo amore nel suo cuore e vivere di esso. In quell'ora è
incominciato sulla terra l'amore cristiano. La risposta ch'Ella diede al
messaggio fu un tra-scendimento di se stessa, fu disposizione
all'obbe-dienza; di qui è sorta la sua felicità - vedi il gaudioso
canto di lode che le sale alle labbra al saluto di Elisa-betta (Le 1,
46-55) - ma di qui è sorto anche il suo sacrifìcio permanente. Sempre
di nuovo Ella doveva dar compimento, in Colui che per Lei era l'uno e il
tutto, della dedizione spontanea di Dio. Il Figlio le fu di continuo,
secondo la volontà del Padre, strappato in quella lontananza di cui
abbiamo parlato, fino all'ultima ora in cui non le fu più concesso
nemmeno d'essere sua madre, allorché Egli le disse:
«Ecco tuo figlio» (Gv 19, 26-27).
55
Il senso della sua vita fu in questa acccttazione, nel
continuo persistere, nel crescere sempre più nell'amore.
Quando ci si parla dell'amore per Dio, noi tendiamo
inconsciamente a comprenderlo a modo nostro, come compimento e
santificazione del nostro amore;
in realtà è
«il compimento dell'amore di Dio, nell'osservare i suoi
comandamenti» (1 Gv 5, 3).
L'amore rimane poi sempre obbedienza, che da principio
era penosa, si fa sempre più libera e lieta. Di qui sorge il vero
significato della nostra esistenza:
che in essa la volontà di Dio conti più della nostra
propria. Queste parole della Lettera ai Romani ci fanno intrawedere come
ciò sia da intendere:
«Io sono persuaso che ne morte ne vita, ne angeli ne
principati, ne virtù, ne cose attuali ne future, ne potestà, ne
altezza ne profondità, ne alcun'altra creatura potrà separarci
dall'amore di Dio in Cristo Gesù Signor Nostro» (8, 38-39).
56
CAPITOLO SECONDO I MISTERI GAUDIOSI
II primo mistero: «... che tu, o Vergine, hai
concepito per opera dello Spirito Santo».
Parla dell'ora veramente solenne che mutò il destino
del mondo; parla dell'anelito della creazione, perduta nel peccato,
lontana da Dio; della decisione dell'Eterno Padre di accoglierla in un
nuovo inizio della grazia; del primo istante della dedizione del Figlio;
parla del messaggio dell'angelo che è ad un tempo
appello e domanda:
«Ecco tu concepirai nel tuo seno e darai alla luce un
Figlio, a cui porrai nome Gesù ...».
Parla ancora dell'assoluta prontezza con cui la più
pura di tutte le donne accettò di essere quella che avrebbe dato la
nostra natura umana al Figlio di Dio:
«Ecco, io sono l'ancèlla del Signore, si faccia di me
un secondo la tua parola» (Le 1, 31.38).
Nessun altro evento si compì mai con tanta semplicità,
eppure la decisione, che fu presa in quell'ora, congiunge la terra al
ciclo. Questo evento si ripete spiritualmente nella vita di ogni fedele.
Soprattutto quando uno per la prima volta, attraverso una parola viva,
un libro o un'esperienza intcriore, è commosso dalla figura e dalla
parola di Cristo in modo da awer-
57
tire che quella è la verità e ad essa si volge con
spirito pronto. Il Signore entra in lui come realtà e forza viva ed
incomincia quell'azione di cui già abbiamo parlato: Cristo penetra in
lui e vi si sviluppa; l'uomo nuovo si forma su di Lui. Da quell'ora
l'appello si ripete continuamente: ogni volta che ascoltiamo una sua
verità; ogni volta ch'Egli ci appare, ci comanda o ci ammonisce, si
rinnova l'esigenza di accoglierlo in noi più profondamente e di
mettergli a disposizione il nostro proprio essere con più pronta
volontà.
Il secondo mistero: «... che tu, o Vergine, hai
portato a Elisabetta».
E il tempo che segue al messaggio dell'Angelo, che fu
per Maria al tempo stesso pieno di beatitudine e d'angoscia. Nessuna
donna ha conosciuto una felicità pari alla sua, ma nessuna ebbe a
rinchiudersi in un tale silenzio; come può riferire l'accaduto in modo
che le si creda? Non la capirà nemmeno colui cui s'è promessa per la
vita - anzi lui meno di ogni altro poiché il fatto lo tocca più da
vicino. Qui veramente incomincia la sua dedizione. Il suo onore e il suo
disonore, la sua vita e la sua morte sono nelle mani di Dio. In questo
frangente Ella lascia la sua casa per recarsi al di là dei monti, da
Elisabetta, la donna materna cui è legata evidentemente da antica
confidenza. Ella, così spera Maria angosciata, capirà quel che è
avvenuto:
così è infatti, poiché lo stesso Spirito che ha
operato in Maria, opera anche in Elisabetta che conosce la verità prima
ancora che le venga comunicata:
«Benedetta tu sei tra le donne e benedetto il frutto
del tuo seno!» (Le 1, 42).
58
Tutto il mistero è pieno della ineffabile intimità con
cui Maria porta in sé la vita divina del Cristo e gli dona la vita sua
mentre da Lui la riceve.
In ogni esistenza cristiana vi è una zona sacra in cui
vive Cristo in una intimità più profonda di quella che noi possiamo
avere con noi stessi. Egli vi opera e vi cresce: investe il nostro
essere, attrae a sé le nostre forze, penetra nel nostro pensiero e
nella nostra volontà, governa i nostri sentimenti, affinchè si compia
la parola dell'Apostolo:
«Non più io vivo, ma Cristo vive in me» (Gai 2, 20).
Il terzo mistero: «... che tu, o Vergine, hai dato
alla luce...».
È l'ora della notte santa in cui il Bimbo divino entra
nel nostro mondo, diventa nostro fratello e prende su di sé il destino
del Salvatore ...
«Venne per lei il momento del parto. E diede alla
luce il suo Figliuolo primogenito» (Le 2, 6-7).
Questo è avvenuto per noi tutti e il cantico di gioia
per questo felice evento non avrà mai fine sulla terra. Nella stessa
ora avviene anche una cosa che riguarda solamente Maria: Cristo si
manifesta apertamente nella esistenza personale di Lei. Egli nasce nel
suo spirito e nel suo cuore. La situazione di attesa diventa ora una
comunione di vita faccia a faccia. Ineffabile realtà: Colui ch'è suo
Figlio è anche il suo Redentore! Quando lo guarda, vede Colui che è la
«manifestazione del Dio vivente». Quando il suo cuore si gonfia, il
suo impeto d'affetto va a Colui che è venuto nell'a-
59
more del Redentore. Quando assiste la sua tenera
creatura, serve il Signore stesso che le si presenta sotto l'aspetto
della debolezza umana.
Questo avviene spiritualmente in ogni cristiano tutte le
volte che la vita intcriore, intuita nella fede, entra nella chiarezza
dell'intelligenza, nella evidenza dell'azione, nella decisione della
testimonianza. In ognuno di noi nasce il Cristo tutte le volte ch'Egli
compenetra in modo essenziale e decisivo un'azione o un sentimento. In
un caso però ciò avviene con particolare significato: quando il Cristo
ci appare in maniera tutta luminosa e forte, al punto da diventare la
realtà dominante della nostra vita intcriore.
Il quarto mistero: «... che tu, o
Vergine, hai presentato nel tempio».
E il momento in cui Maria, quaranta giorni dopo il
parto, presenta a Dio il suo Bambino nel tempio, com'era prescritto
dalla Legge. Ogni primogenito appartiene a Dio, questo però in un modo
che supera ogni possibilità della parola. Piena di dignità nella sua
povertà, Ella pone il Bambino fra le braccia del sacerdote e lo riceve
di ritorno dietro la modesta offerta. Simeone predice al Bimbo il
destino di Salvatore e a Lei il dolore che l'attende:
«Questo bambino è destinato ad essere causa di rovina
e di resurrezione di molti in Israele e a diventare un segno di
contraddizione; a tè poi una spada trapasserà l'anima e così saranno
rivelati i pensieri di molti cuori» (Le 2, 34-35).
Nella dolcezza della prima festa risuona già l'accento
amaro della Passione. Maria ha ricevuto il suo Bambino da Dio e gli ha
messo a disposizione tutto il
60
suo essere; Egli è tutto, per Lei; pure non le
appartiene in proprio: il primo atto solenne della sua maternità è un
sacrifìcio.
Quello che ci viene dato da Dio, quando noi crediamo e
obbediamo, non appartiene alla nostra natura. La vita nuova non è
nostra come un'inclinazione o un tratto del nostro carattere o un evento
qualsiasi della nostra esistenza; è un dono, e tale rimane. È sotto la
volontà e la guida di Dio e dobbiamo essere sempre pronti a seguire la
voce che ci distoglie dal nostro «io» e ci chiama a un dovere, a una
rinuncia, a un destino che hanno un senso soltanto nella volontà di
Dio.
Il quinto mistero: «...
che tu, o Vergine, hai ritrovato nel tempio».
Dall'evento precedente a questo sono passati dodici anni
e altri diciotto ne passeranno fino al prossimo. Nella Sacra Scrittura
il silenzio avvolge l'infanzia, l'adolescenza e la giovinezza di Gesù e
nulla noi sappiamo di questi trent'anni all'infuori di quello che i
Vangeli narrano dei primi tempi. In trent'anni, un solo episodio emerge:
a dodici anni Gesù adempie al precetto della Legge, recandosi per la
prima volta in pellegrinaggio a Gerusalemme. Quivi si trattiene nel
tempio, senza che i suoi lo sappiano, e Maria è in ansia per il Figlio.
Quando finalmente lo ritrova «nel tempio, seduto in mezzo ai dottori,
in atto di ascoltarli e interrogarli» l'aspetta un'angoscia anche più
grande, perché alla sua domanda inquieta:
«Figlio, perché ci hai fatto questo?». Gesù
risponde: «Perché mi cercavate? non sapete che io devo attendere a
ciò che riguarda il Padre mio?».
61
Nell'intima unione fra Madre e Figlio è penetrata una
forza che le porta via il Fanciullo: la potenza del Padre. Come ciò sia
penoso per Lei, e quanto sia grande la tristezza che sconvolge il suo
cuore ce lo dice la frase che segue:
«Ma essi non compresero la sua risposta» (Le 2,
46-50).
Ciò si ripete spiritualmente nella vita d'ogni
credente. Cristo le appartiene: l'anima è sicura di Lui nella fede e
amando ne partecipa. Ma poi Egli sparisce, talvolta in modo improvviso e
senza una ragione evidente. Sopravviene una distanza, si forma un vuoto:
l'anima si sente abbandonata, la fede le sembra pazzia, deve tener viva
la speranza
«contro ogni speranza» (Rm 4, 18).
Tutto diventa difficile, faticoso, privo di senso. Deve
procedere e cercare da sola. Ma un giorno ritrova il Cristo e comprende
la potenza della volontà del Padre, a cui appartiene.
62
CAPITOLO TERZO I MISTERI DOLOROSI
La seconda serie comprende gli eventi degli ultimi
giorni, dalla sera del giovedì alla notte di Pasqua. Ciò che precede:
Gesù che abbandona la sua patria ed entra nella vita pubblica, che
istruisce, opera e lotta senza trovar favore tra gli uomini, che
persevera in una solitudine indicibile, mentre il regno di Dio non
viene, come avrebbe potuto venire:
«se i suoi lo avessero accolto» (Gv 1, 11),
l'odio che lo ha circondato e il concentrarsi di tutto
ciò che ha resistito a Dio in una lunghissima storia, nella suprema
ribellione - tutto questo non è espressamente menzionato, ma è
racchiuso negli ultimi eventi.
Gli eventi dei misteri gaudiosi potrebbero, presi per
sé soli, scivolare verso l'idillico o il sentimentale, se un oscuro
presentimento non risonasse già nel quarto mistero. In realtà sono
rivelazioni, non di quella profondità d'affetto e di quella amabilità
che reggono il rapporto abituale fra madre e figlio, bensì
manifestazione di quanto importi a Dio la nostra salvezza - tanto che
non solamente Egli la garantisce e la opera, ma per essa accetta
l'esistenza terrena e diviene Figlio di questa Madre.
Di questa serietà sono compenetrati potentemente
63
i misteri della seconda parte del rosario: anch'essi
rivelano l'amore di Dio, ma nell'orrore del peccato. Con le nostre sole
forze noi non possiamo spiegarci che cosa sia il peccato, perché i
nostri occhi sono ciechi, e anche questa è una conseguenza di esso. Che
cosa sia il peccato, lo comprendiamo soltanto quando riconosciamo ciò
che Dio ha fatto per vincerlo. È quella terribile offesa, che Dio,
nella sua sapienza e nella sua giustizia ha giudicato riparabile solo da
Cristo in quel modo.
Il primo mistero: «... contempla Gesù
che per noi ha sudato sangue».
L'ora del Getsemani è inesauribile. Ognuno deve trame
tutto ciò di cui il suo cuore è capace. Vogliamo attenerci a quanto
dicono le parole:
«incominciò a tremare e ad angustiarsi» e «il sudore
divenne come gocce di sangue che cadevan per terra» (Me 14, 34 e Le 22,
44).
E il turbarsi del Redentore dinanzi al peccato; non
solamente dinanzi al dolore a alla morte come tali, ma per il fatto che
essa doveva aver luogo quale espiazione del peccato. Egli doveva
assumerne tutto il peso e farsene garante. Quanto sia stato terribile ce
lo dicono le altre parole della sua preghiera:
«Padre, a tè tutto è possibile: allontana da me
questo calice!» (Me 14, 36).
Ciò che sta per avvenire ripugna a tutto il suo essere;
non solamente come la morte che va contro la vo-
64
lontà di vivere, ma come il peccato che va contro Dio.
Ma la terza parola suona:
«tuttavia non come io voglio, ma come vuoi Tu» (Me 14,
36).
La cosa peggiore del peccato è la sua natura subdola:
si nasconde dappertutto sotto false apparenze, ci fa credere d'essere
una cosa naturale, o da non potersi evitare, o che sia in esso la forza
della vita, o la sua serietà, o la sua drammaticità, o che altro si
voglia dire. Se cerchiamo di vivere quest'ora con Cristo, allora
incominciamo a comprendere: è un momento importante nella vita del
cristiano quello in cui per la prima volta sente orrore davanti alla
realtà del peccato. Noi incontriamo dappertutto l'angoscia della
creatura; di che si angustia non lo sa neppur lei, ma è il peccato che
domina tutta la sua esistenza, e nell'angoscia di Cristo ciò perviene
all'estrema, tremenda chiarezza. E per causa del peccato che il Figlio
di Dio soffre l'orrore di quest'ora. Noi però dobbiamo riconoscer-lo,
ognuno deve farlo nel suo intimo: è il mio peccato che si rivela
qui in tutto il suo orrore.
I tré misteri che seguono parlano delle sofferenze che
ha patite il Signore prima della sua morte. Tra essi sta ciò che
narrano i Vangeli intorno alla sua cattura, al suo processo, alla sua
condanna: di tutto questo v'è in essi la risonanza.
È difficile dire qualche cosa su questi misteri. Essi
riguardano la nostra perdizione e il modo in cui il Signore l'ha sentita
e l'ha sopportata: il loro contenuto è infinito. Non possiamo trattarne
che a frammenti e chi prega deve veder di completare il nostro pensiero.
65
Il secondo mistero riguarda Cristo «che per
noi è stato flagellato».
«Allora Filato prese Gesù e lo fece flagellare» (Gv
19, 1).
La battitura è un avvenimento di tremenda chiarezza:
l'atto originario dell'odio contro la vita e la sensibilità
dell'odiato.
L'odio del peccato contro Dio colpisce con queste
percosse il Redentore. Vuole fargli male. Il suo corpo deve divenirgli
dolore. La sua santa vita deve essere distrutta. Ed è proprio un
peccato speciale che si volge qui contro di Lui, quello dei sensi. La
sua voglia si muta per il Signore nella sofferenza.
Il cristianesimo non dice che il corpo sia cattivo e che
le sue brame istintive siano peccato; bensì, che nella voglia c'è
anche il peccato e che il male opera anche nel corpo. Divenire cristiano
non significa disprezzare o distruggere il corpo, bensì deporre la
cecità e imparare a vedere il male che è in opera nella natura; a
condurre la lotta per la purezza del corpo e del senso; e ad accogliere
lo stesso dolore corporale come mezzo di purificazione. Se il cristiano
fa così, è la stessa purezza di Cristo che penetra in lui.
Il terzo mistero:
«... Gesù che per noi è stato incoronato di spine».
«E i soldati ... intrecciata una corona di spine gliela
misero in capo e gli posero una canna nella destra; poi piegando il
ginocchio davanti a Lui lo schernivano» (Mt 27, 27-29).
Nel capo si manifesta la dignità dell'uomo; la corona
è il segno della regalità che viene da Dio. Qui lo
66
spregio si rivolge contro il capo del Signore che porta
invisibilmente la corona del «Rè dei rè». I soldati fanno di Lui un
rè da burla. Sotto la loro ottusa crudeltà si nasconde un'altra
volontà che vuole fare di Lui un uomo da burla e - oseremo dirlo? - un
dio da burla. Tutto lo scherno del mondo si accumula qui per distruggere
la dignità di Dio - e con essa anche la dignità dell'uomo che da Lui
deriva ... L'esistenza umana è impregnata di orgoglio, di disdegno, di
vanità, talvolta apertamente, più spesso nascostamente; ne occhio
umano ne umana volontà giunge alle loro radici. Il Signore svela questa
potenza nel darle modo di agire contro di Lui. L'orgoglio per cui ci
innalziamo, la vanità per cui godiamo di noi stessi assumono per Lui
l'aspetto dell'umiliazione: la sua sofferenza è in proporzione del
nostro peccato.
Ecco un altro momento decisivo nella vita del cristiano:
quello in cui egli penetra l'inganno che si nasconde in tutto ciò che
si chiama grandezza, potenza, attività, bellezza, prestigio. Tutto ciò
non è male di per sé, ma il male vi si annida. Qui bisogna guardarlo
in faccia, sopportare questa vista, riconoscere se stessi in quel che
avviene. E poi lottare per l'umiltà: l'umiltà non è che il
riconoscimento della verità che Dio è Dio — Lui solo - e che l'uomo
è uomo. Veramente uomo.
Il quarto mistero: «... Gesù che per noi ha preso
su di sé la pesante croce.
Il Vangelo dice che Gesù
«portando la sua croce si avviò vero il luogo detto
del Golgota» (Gv 19, 17).
67
Era un peso che superava le sue forze e quando non ne
potè più
«fermarono un certo Simone di Cirene che veniva dai
campi e gli misero addosso la croce perché la portasse dietro a Gesù»
(Le 23, 26).
Tutto quel che ci pesa nella nostra esistenza raggiunge
qui il massimo del suo orrore: la fatica, le miserie, i dolori, le
persone che ci circondano, il nostro essere, la pesantezza dell'animo,
l'intimo vuoto, l'insopportabilità di tutte le cose. In fine dei conti
tutto è «peso»; non perché la vita sia dolorosa anziché lieta, ma
perché il peccato vi ha portato la maledizione della pena. L'uomo cerca
di sottrarvisi; non vuole accettarla, non vuole sopportarla: ignavia,
viltà, resistenza contro il peso della vita, tutto ciò diventa qui per
Cristo la sofferenza di dover portare ciò che supera le sue forze.
L'antica dottrina della vita spirituale addita
l'accidia, l'ignavia come la prima e più dannosa delle debolezze umane.
Qui possiamo comprenderne la ragione; possiamo capire meglio noi stessi,
quale sia il nostro posto, quale il peso che abbiamo da portare,
la fatica da sostenere, il compito in cui dobbiamo perseverare - la
nostra pena personale in cui s'aduna, per così dire, la pena
dell'esistenza umana.
L'ultimo mistero riassume di nuovo tutto. È
inesauribile come il primo: dobbiamo avvicinarlo, aprendo bene gli occhi
e il cuore, lasciando penetrare in noi ciò che qui avviene, e
persistervi nella coscienza che si tratta di cose che ci riguardano
intimamente.
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Il quinto mistero: «... Gesù
che per noi è stato messo in croce».
Prima della fine il Signore pronuncia le parole:
«Tutto è consumato» (Gv 19, 30).
Di ciò parla tutto questo mistero: come tutto «sia
consumato». Quello che accade qui ha il suo preludio nella creazione
del mondo: allora è venuto all'essere. Poi il peccato ha portato ogni
cosa in perdizione, ora il Signore riprende tutto su di sé, soffrendo
dolori che Lui solo conosce. Così facendo raggiunge l'ultima
profondità della grazia e la dischiude a noi. Da Lui procede la nuova
creazione, il nuovo inizio che ci è dato: la forza per opera della
quale l'uomo nuovo deve crescere e salire nell'eternità; il nuovo ciclo
e la nuova terra che solo con Lui debbono sorgere. Tutto ciò deriva da
quest'ora.
Questo dobbiamo sapere. E saremo tanto più veri
cristiani quanto più crescerà in noi e progredirà la coscienza di
vivere della passione di Cristo. Col destarsi in noi di questa coscienza
si trasforma anche il nostro dolore personale: mentre prima non era che
la conseguenza del peccato e della sua perdizione, ora si collega col
mistero della croce, viene a partecipare della forza che trasforma la
vecchia esistenza nella nuova. Coi mezzi terreni le nostre sofferenze
rimangono inconsolabili, sono senza rimedio; a volte non ce ne
accorgiamo perché non durano o perché siamo distratti, ma quando il
dolore aumenta e non possiamo che tenerlo davanti agli occhi, allora ci
accorgiamo che c'è un soccorso al dolore, solo quando esso si presenta
nello stesso dolore. È così da quando c'è stata la
69
passione di Cristo. Qui s'è aperta la sede tremenda e
beata dove noi possiamo posare; qui ci è data la forza mediante la
quale, se noi soffriamo insieme con Cristo, la nostra vecchia esistenza
vien trasformata in una esistenza nuova. Quando l'uomo comprende questo
mistero e gli si abbandona, arriva al centro delle cose e tutto gli si
risolve in bene.
Dove rimane intanto Maria? Non abbiamo parlato di Lei,
perché neppure la Scrittura la nomina nel suo racconto degli ultimi
giorni di Gesù. Solo alla fine Ella riappare, quando è detto di Lei
che
«stava sotto la croce» (Gv 19, 25).
Questa parola vale anche per quanto precede: Ella è
stata sempre «sotto la croce», non si è mai allontanata dalla zona
santa e terrificante della passione di Cristo. È naturale ch'Ella sia
stata sempre presente, dovunque le fu possibile; è naturale che abbia
avuto notizia di tutto: ogni respiro del suo Signore passava nel suo
petto, ogni battito del cuore di Lui era pure suo proprio, e nulla
colpiva Lui senza che «una spada le trapassasse il cuore», come
Simeone un giorno aveva profetizzato. Così dobbiamo vederla sempre
accanto a Gesù.
Ed è Lei che ci avvince alla passione di Cristo: è per
opera sua che non se siamo semplici, indifferenti spettatori, ma vi
siamo interessati. Personalmente, ognuno di noi, io stesso ... Ch'io non
cerchi di sfuggire al mio peso, se esso appare troppo grave per la
viltà del mio cuore, ch'io rimanga fermo; Ella è rimasta «finché
tutto fu consumato»: così devo fare anch'io.
70
CAPITOLO QUARTO I MISTERI GLORIOSI
La terza serie è quella dei Misteri gloriosi. Parla del
compimento dei santi eventi; narra come ciò die parve una disfatta in
realtà fu una vittoria. Non nel senso umano, sebbene anche umanamente
non vinca colui che riduce una testimonianza al silenzio, ma colui che
la sostiene fino all'ultimo, poiché in qualche modo essa continuerà ad
operare. Qui però non si tratta di ciò, bensì del fatto che il Dio
che ha creato il mondo lo ha accolto nel suo amore e, divenuto uomo, ha
espiato la colpa e il destino di questo, mutandone le condizioni: una
volta per sempre. E sorta una nuova creazione: tale che nessuna forza
può ormai più distruggerla, quale vitale inizio del mondo, e ogni uomo
che sia di buona volontà può pervenire al santo principio. L'ultima
corona del Rosario parla insomma dello splendore di gloria che s'è
levato dopo l'oscurità della morte di Gesù.
Il primo mistero: «... Gesù che è risorto». La
morte del Signore è misteriosa. Egli ne ha sofferto più di quanto ne
possano soffrire gli uomini, perché Egli era più vivo di qualunque
altro uomo. Eppure Egli ha sempre parlato della sua morte collegandola
con la risurrezione:
«da quell'ora Gesù cominciò a dire apertamente ai
suoi di-71
scepoli che Egli doveva andare a Gerusalemme a soffrire
molte cose da parte degli Anziani, degli Scribi e dei sommi sacerdoti,
ed essere ucciso e risuscitare il terzo giorno» (Mt 16,21).
I discepoli non compresero queste parole, lo dimostra
tutto il loro modo di comportarsi alla sua morte; chi invece deve averne
intuito la verità è Maria. Ella gli aveva dato la sua vita umana; per
trent'an-ni il suo respiro, il suo crescere, il suo agire erano stati
sotto gli occhi di Lei e nel suo cuore. Ella stette sotto la croce, e lo
vide morire - aveva dunque saputo che la sua vita era una vita tutta
speciale. Allorché le pie donne e Pietro e Giovanni le dettero notizia
della tomba vuota e delle parole dell'Angelo, dovette avere
l'impressione di aver già atteso tutto questo. Ed Ella, il cui cuore
era stato chiuso nella tomba col cadavere del Figlio, è risorta con Lui
nella luce della sua divina vittoria.
Paolo dice nella Lettera ai Romani che «l'uomo
vecchio» deve «essere crocifisso» e «morire» ed «essere sepolto
con Cristo». Se questo avviene,
«come Cristo risuscitò dai morti per la gloria del
Padre, così camminiamo anche noi verso la nuova vita» (6, 4-5).
Di continuo si avvera in noi questo morire e questo
esser sepolto dell'uomo vecchio: in ogni lotta contro il male, in ogni
vittoria su noi stessi, in ogni peso sopportata con coraggio, in ogni
sacrificio fatto per amore generoso. E in questo modo si compie anche la
risurrezione dell'uomo nuovo. A volte, quando siamo sommersi dalle pene
e dall'insufficienza del vivere terreno, abbiamo la percezione del
sorgere misterioso di questa nuova vita nella santità e nella eternità
della
72
«gloria dei figli di Dio» (Rm 8, 21).
Per il resto siamo costretti a credervi.
Il secondo mistero: «Gesù che è asceso al ciclo».
Dopo la sua risurrezione il Signore si trattenne fra i suoi per quei
quaranta giorni di cui parlano i Vangeli. Dallo stesso Monte degli Ulivi
sul quale era incominciata la sua passione, «si levò in alto» (At 1,
9) e scomparve nella inaccessibilità di Dio. Maria non era con loro
quando ciò avvenne; probabilmente vi erano solo gli stessi che vi si
erano trovati allora. Non sappiamo se il Signore le abbia detto quando
«sarebbe andato dal Padre»; ma fra Lui e sua madre doveva essere! una
tale intimità che non avevano bisogno di esprimersi in parole: Ella
sentiva ciò che sentiva Lui ... Poi fu sola. Quando però Paolo dice:
«se dunque siete stati risuscitati con Cristo cercate
le cose di lassù dove Cristo è, seduto alla destra di Dio; pensate le
cose di lassù e non quelle della terra» (Col 3, 1-2)
ciò vale soprattutto per Lei. Suo Figlio era «lassù»
e il suo cuore era con Lui e tutto il suo essere si stringeva a Lui.
Quando il Signore si staccò dalla terra, incominciò
l'attesa
«finché Egli venga» (1 Cor 11, 26).
Tutto quello che avviene sulla terra da allora in poi è
tutta un'attesa: credere vuoi dire perseverare in quest'attesa. Per
colui che non crede, gli eventi si compiono come se avessero il loro
significato in se
73
stessi: le cose ordinarie e le straordinarie, le grandi
e le piccole, le terribili e le belle, tutti gli eventi di cui è
intessuta la storia, avvengono come se fossero l'unica realtà, e come
se al di là non ci fosse nient'altro. In realtà, la dipartita del
Signore è stata come il risuonare di un accordo potente che sta sospeso
nell'aria e dura fino a die nel suo esaurirsi si rifa la quiete del
silenzio. Solamente col ritorno di Cristo tutte le cose saranno
compiute.
Il terzo mistero: «Gesù che ci ha mandato lo
Spirito Santo».
La sera prima della sua Passione, il Signore aveva detto
ai suoi:
«Io non vi lascerò orfani» (Gv 14, 18).
Quando partì, furono veramente orfani, poiché Dio non
era più presso di loro nella maniera in cui lo era nella persona del
Cristo. Però, nel giorno della Pentecoste, Dio tornò nella persona
dello Spirito Santo da Lui mandato. Adesso non erano più orfani:
l'amico, «l'appoggio», la celeste guida era con loro. La sua opera era
di
«introdurli in ogni verità» e «dar loro Cristo» (cfr.
Gv 16, 13-14).
Fra coloro sui quali discese lo Spirito Santo era anche
Maria; la Scrittura lo dice espressamente e noi possiamo forse intuire
quel che dovettero significare per Lei il soffio soprannaturale e le
divine fiammelle. Tutte le volte che il Vangelo parla di Maria si sente la
distanza che separa la madre umana dalla incom-
74
prensibilità del suo Figliuolo. Ce lo dice soprattutto
la frase:
«ed essi non compresero le sue parole» (Le 2, 50).
Quando viene lo Spirito Santo, introduce anche Lei «in
ogni verità»; «riceve ciò ch'è di Cristo e glielo da». Ora gli
enigmi si risolvono. Ella riconosce l'opera di Dio e ogni evento trova
il suo significato.
A noi pure è mandato lo Spirito Santo e perciò non
siamo orfani. Egli è con noi, purché noi vogliamo rimanere con Lui.
Egli conclude la nostra vita attraverso tutto quello che ha di
incomprensibile; noi però dobbiamo lasciarci guidare: quando lo
supplichiamo e ci apriamo a Lui con intelligenza ed amore, Egli ci
insegna a comprendere Cristo, ed in Cristo la nostra stessa esistenza.
Quando poi l'oscurità rimane impenetrabile, poiché la vita terrena è
sigillata, Egli ci da in un divino «ciononostante», come dice Paolo,
testimonianza che siamo «figli di Dio» e la certezza che
«tutto ci serve per il meglio, quando amiamo Dio» (Rm
8,
16 e 28).
I due misteri che seguono non derivano da Scrittura, ma
dalla tradizione cristiana. Sorgente della nostra fede è la parola di
Dio; non dobbiamo però dimenticare che «parola di Dio» non è solo
quella scritta, ma anche quella che è stata pronunciata da coloro che
hanno avuto incarico di
«ammaestrare tutte le genti [...] sino alla fine del
mondo» (Mt 28, 19.20).
75
Da questa fonte la Chiesa trae il racconto della vita di
Maria fino alla sua morte.
Dopo la dipartita del Figlio questa vita deve aver avuto
qualcosa d'ineffabile nel suo silenzio, nella sua presenza insieme e nel
suo rapimento. Non sappiamo quanto sia durata; forse molto a lungo,
poiché alla morte del Signore Ella aveva appena cinquant'anni. Come
potremo esprimere il mistero del tempo ch'Ella ha passato sotto la
protezione del
«discepolo che Gesù amava»? (Gv 19, 26 e 27).
Forse diremo ch'Ella non ha più voluto niente;
nulla desiderato, nulla temuto, di nulla sentito la
mancanza perché tutto era compiuto. Lo Spirito Santo scendendo sugli
apostoli li ha preparati alla loro grande opera; quando, nella stessa
ora, scese su Maria, Ella aveva già adempiuto il suo compito. Così in
Lei non avrà fatto altro che sollevare tutto ad una chiarezza luminosa:
da quel momento Maria deve aver vissuto in una luce ineffabile, e in una
ineffabile pace. Avrà sicuramente atteso l'ora in cui il Figlio
l'avrebbe chiamata, ma certo in modo che la sua attesa era già conscia
del compimento. In tale pace avrebbe potuto attendere cent'anni come un
giorno. Da questa serenità le sue parole devono essere penetrate come
stille di luce nei cuori di coloro che vennero a Lei per chiederle di
Gesù, e nessuno potrà stabilire di quanto si sia arricchito per suo
mezzo il sacro messaggio.
L'esempio degli ultimi anni di Maria è per noi pegno e
promessa. Ci insegna che non dobbiamo prendere troppo sul serio il
tempo, perché, se crediamo,
76
l'eternità è già in noi; che non dobbiamo dare troppa
importanza alle miserie terrene perché
«le sofferenze del tempo presente non hanno nulla a che
fare con la gioia che deve essere manifestata in noi» (Rm
7,18)
e che dobbiamo pregare Dio che ci faccia comprendere
come l'eternità sia già nel tempo.
Il quarto mistero: «Gesù che Tè, o Vergine, ha
assunta in cielo»1.
Gli anni della serena attesa sono trascorsi: il Signore
è venuto ed ha chiamato la Madre sua. Ella è morta, come
«è destino dell'uomo morire» (Eb 9, 27),
ma poi, - dice la Chiesa - Egli ha risuscitato il suo
corpo puro ed immacolato. L'efficacia della sua risurrezione si è
compiuta in Lei, ed Egli l'ha accolta nell'eternità. È un mistero di
gioia infinita: quando la Chiesa ne parla, quando i poeti religiosi lo
cantano, quando i pittori ce lo raffigurano, è come se volesse erompere
qualcosa che altrimenti nell'esistenza terrena rimane nascosto. Non per
nulla la festa dell'Assunzione di Maria si celebra nella pienezza
dell'estate.
Questo mistero ci è dato perché possiamo presentire
che cosa significhi la gioia del cristiano, l'essere accolto nella
gloria del Signore, l'infinito elevarsi del-
1. Si noti che quando scriveva l'Autore il dogma
dell'Assunzione di Maria Vergine non era stato ancora proclamato da Pio
xil il l-ix-1950, con la CosL Ap. Munifìcentissimus Deus (n.d.t.).
77
la creazione; ci è dato perché anche nel nostro
trapasso risplenda una luce divina. Il Signore, morendo e risorgendo, ha
trasformato la nostra morte. La morte era conseguenza della colpa: ad
esprimerlo, non sono bastate le parole, per quanto forti. In virtù
della morte del Cristo però essa ha perso
«il suo pungiglione» (1 Cor 15, 55):
è diventata un'altra cosa. Non si compie più ora
soltanto in noi e da noi, come una fine nel buio, ma anche dalla parte
di Cristo. Adesso morire significa che viene il Cristo e ci chiama. La
vita si spezza, ma proprio per questo s'apre una porta, e dall'altra
parte c'è Lui.
Il quinto mistero: «... che Tè, o Vergine, ha
coronata in ciclo».
Questo mistero è il compimento del precedente. Quello
ha parlato del trapasso di Maria nell'eternità, questo celebra il suo
premio con tutta la ricchezza celeste. Paolo ha detto che
«quelli che ricevono l'abbondanza della grazia e del
dono della giustizia, regneranno nella vita (eterna) per l'unico Gesù
Cristo» (Rm 5, 17).
Ora colei che con Cristo è passata attraverso
l'oscurità della terra, vien fatta partecipe della sua sovranità. Di
ciò è simbolo la corona; ora Ella è la «Regina del cielo». Creatura
di Dio come noi tutti e sottomessa a Lui in una umiltà che uguaglia la
sua purezza, ma al tempo stesso elevata da Lui ad una santa sovranità
che non ha in sé nessuna ambizione o pretensio-
78
ne egoistica, ma è la personificazione della
beatitudine dispensatrice di grazie.
L'atteggiamento intcriore del cristiano deve essere
l'umiltà: egli sa che di proprio non ha nulla, che tutto vien da Dio,
che nulla può da sé solo e tutto può per la grazia. L'umiltà è il
riconoscimento di questa verità, è anzi la gioia di questa verità: è
la felicità che ne deriva; in definitiva non è che amore. In questa
stessa umiltà si ritrova però anche una silenziosa consapevolezza di
un'altezza arcana: non propria, ma donata, e donata in maniera tale che
finisce con l'appartenerci più profondamente di quanto ci viene dalle
esigenze del nostro essere. Questo è quello che intende Paolo quando
parla della
«gloria che dev'essere manifestata in noi» (Rm 8, 18).
E la gloria di Dio, che risplende nel Cristo risorto e
di cui verrà data parte anche a noi.
79
CAPITOLO QUINTO UNA PROPOSTA
Abbiamo seguito i Misteri come li presenta il Rosario
nella forma generalmente usata. In un bei libro che porta il titolo Maria,
Madre della fede, Josef Wei-ger1 parla della grandezza
della Madre di Gesù come persona e nella storia della redenzione. Verso
la fine di questo libro egli tratta anche del Rosario ed espone un
pensiero che vogliamo far nostro.
Quando si considerano le tré parti del Rosario, si
sente il desiderio che quella verità che determina la nostra attuale
esistenza, cioè l'attesa del ritorno di Cristo, possa più chiaramente
risaltare di quanto non le riesca nei misteri, finora considerati, del
terzo gruppo. Perciò Josef Weiger propone di sostituire i due misteri:
«che Tè, o Vergine, ha assunta in cielo» e «che Tè, o Vergine ha
coronato in cielo» coi due seguenti: «che tornerà nella gloria» e
«il cui regno non avrà mai fine». I due ultimi Misteri della vita di
Maria verrebbero poi come una conclusione finale. Vogliamo dunque
fermarci su questi due nuovi Misteri e farli così conoscere al lettore.
Il quarto Mistero del Rosario glorioso: «... che
tornerà nella gloria». Dice la Rivelazione:
l.J. Weiger, Maria, die Mutter des Glaubens,
Werkbund-Verlag, Wlirz-burg,
81
«quando il Figliuolo dell'uomo verrà nella sua gloria
[...] allora sederà sul trono della sua gloria e tutte le genti saranno
adunate innanzi a Lui» (Mt 25, 31-32).
I primi tempi del cristianesimo furono pieni dell'attesa
di questo evento. Più tardi s'è perduta; tuttavia la notizia del
ritorno di Cristo fa parte del patrimonio della fede, ed è sentita nel
profondo del cuore cristiano. Una volta - nessuno sa quando - Egli
verrà; non come prima, quale messaggero «in figura di servo», in
attesa che si accogliesse la sua parola, ma come il Signore e nella
possanza. Allora Egli porrà fine al tempo.
Porterà al tramonto il mondo, nella cui figura e storia
è penetrato il peccato; chiamerà gli uomini alla risurrezione e
dinanzi al suo tribunale onnisciente;
esprimerà loro il suo giudizio e li condurrà
nell'eternità così come sono nella loro verità dinanzi a Dio.
Noi viviamo nel tempo, e il tempo è pieno dell'inganno
della durata. Le cose decadono e si ricostituiscono; così il mondo nel
suo complesso sembra imperituro. L'essere vivente passa, ma da ciò che
muore altro rinasce; così nel suo insieme pare che la vita debba
continuare sempre. L'attività dell'uomo singolo finisce, le sue opere
vanno in rovina, ma chi vien dopo ricomincia da capo e così sembra che
la lotta e l'azione non cessino mai. Quando venne il Redentore e non fu
riconosciuto, tutto rimase oscuro e senza via di uscita; ma un giorno
tornerà; svelerà allora l'inganno, porterà la chiarezza e compirà
l'opera ... Fino allora dobbiamo essere fedeli e aspettare. Tutto sembra
essere in contraddizione: credere che il Signore venga a metter fine a
ogni cosa e a pronunciare il suo giudizio pare una favola da bambini. Ma
il perseverare in questa credenza è
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«la vittoria che ha trionfato sul mondo» (1 Gv 5, 3).
Il giudizio sarà terribile, ma sia esso lodato! Noi
«persistiamo nella beata speranza che è l'apparizione
glorios del gran Dio e Salvatore nostro Gesù Cristo» (Tt 2, 13).
Nessuno reggerà dinanzi al suo giudizio, pure ess<
è «la beata speranza», perché in esso la verità di Di( diverrà
potenza e porterà giustizia in tutto.
Il quinto Mistero: «... il cui regno non avrà mai
fi ne».
Allora sarà il regno di Dio. Tutto sarà regno di Dio;
non per una costrizione esteriore, ma per una condizione intcriore.
Finché dura l'epoca terrena, non c'è regno di Dio, perché il bene
può soccombere e il male può imperare, e così avviene infatti tante
volte. Solo nell'eternità invece ogni cosa sarà reale in quanto è
vera e sarà potente nella misura in cui è buona. E in questo modo Dio,
che è santità e giustizia per essenza, sarà il Signore di tutto: chi
s'è messo contro di Lui sarà condannato nel Giudizio e cadrà in una
perdizione di cui non possiamo farci un'idea;
chi si sarà sostenuto nel Giudizio, respirerà libero e
sarà beato nella signoria di Dio, poiché essa è libertà e vita.
«Ecco», dice il Signore, «che facdo nuove tutte le
cose». Sarà «un nuovo cielo e una nuova terra», pieni della «luce
del suo volto»; «e i suoi servi lo serviranno» (Ap 21, 5 e 22, 4).
E questo che aspettiamo. La fede ci dice però che di
questo regno abbiamo già i presagi: esso è già in
83
noi, se pur solo come promessa e come principio. Nella
misura in cui, nella cupezza dell'esistenza, crediamo al sacro
messaggio, nella misura in cui in mezzo alla freddezza e allo scherno
del mondo amiamo Dio, e perseveriamo fra la contraddizione di tutte le
cose, nella stessa misura il regno di Dio è in atto tra noi. Viviamo in
questa condizione, sperando di giungere a quell'altra, ove non vi
saranno più errori ne perdite, perché è pura realtà: quando poi il
regno di Dio si avvererà, non vi saremo solo sudditi, ma vi regneremo
col Signore. Che le cose in Dio divengano libere: ecco che cosa è il
regno; e che noi stessi diveniamo liberi in Lui, è «la gloria dei
figli di Dio» nella quale siamo fatti partecipi della sua sovranità.
In tutto ciò non si è parlato di Maria, ma Ella vi era
sottintesa. Ella aspetta l'ora
«che il Padre ha stabilito nella sua potestà
(At 1, 7),
quando tutto ciò dovrà accadere, il giudizio di suo
Figlio giustificherà la sua vita dinanzi al mondo e nel regno di Lui
risplenderà la sua regalità, com'è annun-ziata dall'Apocalisse, dove
appare la donna
«circonfusa dal sole, con la luna sotto i suoi piedi e
sul capo una corona di dodici stelle» (Ap 12, 1).
A queste tré corone del Rosario si aggiungerebbero qui
i due Misteri della Assunzione e dell'Incoronazione di Maria,
conclusione finale della sua vita e anticipazione del futuro compimento
di tutto.
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Opere di Romano Guardini
presso la Morcelliana
Accettare se stessi,
2 ed., pp. 80 Ansia per l'uomo, 2 voli. (in ristampa) Appunti
per un 'autobiografìa, pp. 168 La conversione di S. Agostino
(in ristampa) La coscienza (in ristampa) Diario. Appunti e
testi dal '42 al '64, pp. 256 Elogio del libro, 2 ed., pp. 56
L'esistenza e la fede (in ristampa) L'essenza del
cristianesimo, 8 ed., pp. 96 Fede - Religione - Esperienza,
pp. 232
La figura di Gesù Cristo nel Nuovo Testamento (in
ristampa)