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ROMANO GUARDINI

IL ROSARIO DELLA MADONNA

MORCELLIANA

Titolo originale dell'opera:

Der Rosenkranz unserer Lichen Frau © Matthias Grànewaid Verlag - Mainz 19887 © Tutti i diritti d'autore sono della Katholische Akademie in Bayern

traduzione di BiceJahn Rusconi

© 1945 Editrice Morcelliana Via Gabriele Rosa 71 - 25121 Brescia

Quinta edizione: aprile 1994

ISBN 88-372-1529-0

Tipolitografia La Nuova Cartografica S.p.A. - Brescia 1994

PREMESSA

Questo delicato volume di Romano Guardini si affianca per la stretta parentela del tono e del soggetto non solo all'opuscolo su la Via Crucis, ma pure a quelli già da noi pubblicati su Lo spirito della liturgia ed i Santi Segni, partecipando dei caratteri dell'uno e degli altri. Esso infatti illustra tale pratica della devozione popolare con tutte le risorse combinate d'un pensiero teologico saldamente ancorato nella Parola di Dio e di una viva sensibilità religiosa che possiede il segreto di analizzare fatti e processi religiosi sema distruggerne la vitale fragranza.

Ciò facendo Guardini, che non è stato soltanto professore di Weltanschauung cattolica alla università di Berlino, ma pure animatore religioso di vaste cerehie giovanili, non rinuncia al suo principio del primato della preghiera della Chiesa ne al suo programma di una devozione cristo-centrica. Mantenendo e lodando la pratica del Rosario della Madonna, cercando anzi di fame intendere valore e bellezza a chi le è estraneo, a chi la guarda con diffidenza o addirittura con disdegno, mira insieme a inserirla organicamente nel motivo centrale della nostra religione, a mostrarla imperniata sul fatto centrale della Redenzione, quale meditazione feconda di quell'evento.

Così questo libro s'indirizza tanto ai devoti del Rosario, che vogliano scoprirvi sempre nuove ricchezze di spirituale

edificazione ed apprendere a vivificare la loro consuetudi-ne con una meditazione più personale, quanto agli apologisti della preghiera mariana, desiderosi di conoscere nuove maniere d'intenderla e di giustificarla, quanto infine agli studiosi di psicologia della religione, che amano ed apprezzano il Guardini dei Santi Segni, l'interprete di Pascal e di Dostoewskij.

La Morcelliana

AVVERTENZA

II pensiero fondamentale di questo scritto è sorto più di trent'anni fa*: da allora, per la metà di un'esistenza, mi ha sempre accompagnato.

Ho tentato spesso di esperio, ma senza successo, e i vari abbozzi sono rimasti incompiuti. Questo l'ho portato a termine, non so se sia riuscito.

Più si vive, e più si vede chiaro che le cose semplici sono veramente le più grandi e, quindi, anche le più diffìcili da dominare. Lo scopo più alto della letteratura spirituale sarebbe certo di parlare di Dio in modo che il cuore umano potesse comprendere senz'al-tro. Ma chi lo sa fare? ... Il Rosario è qualcosa di molto semplice: perciò bisognerebbe pure parlarne con semplicità. Il lettore dovrebbe avere l'impressione di esser preso per mano e condotto in un mondo di vita silenziosa, dove gli vengano incontro, serie, affettuose, soccorrevoli le sacre figure della fede. Non ne sono capace: perciò ho provato a farlo con pensieri. Possano essi almeno essere veri ed utili.

R.G.

* Si ricordi che la prima pubblicazione tedesca dell'opera è del 1940.

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Parte prima Natura e significato del Rosario

CAPITOLO PRIMO MALINTESI

La gravita degli eventi del nostro tempo colpisce ognuno. Il cuore e lo spirito sono preoccupati per il destino proprio, per quello delle persone care e soprattutto per il destino della umanità. Tutto ciò influisce variamente sulla vita religiosa: v'è chi non riesce più a pregare, perché si sente scosso, quasi esausto, e deve cercare di ritrovarsi: accanto alle voci risonanti deve ascoltare anche quelle sommesse e riconoscere che Dio rimane sempre Dio, per quanto si facciano potenti le cose della terra ... Altri al contrario dalle emozioni dell'esistenza sono richiamati alle cose eterne. Essi sentono che gli eventi non devono essere dominati solo da ciò che è terreno, ma ricondotti a Dio, e tanto più quanto più sono gravi. Così anelano a un rifugio tranquillo dove poter riposare e fortificarsi, per poi tornare con nuova fiducia ai loro compiti; hanno bisogno di una preghiera che ristori l'anima, d'un intimo raccoglimento che rinnovi le forze. Una forma di preghiera che ha già reso a molti questo beneficio è appunto il Rosario.

Questo libro andrà in molte mani. Anzitutto di persone alle quali il Rosario è già familiare; non ho bisogno d'intendermi con loro sul suo valore e significato; potrei dire semplicemente ciò che a me pare più rilevante. Ma può anche arrivare a gente cui il

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Rosario è estraneo e persino antipatico. Per costoro vorrei mettere in chiaro alcune cose fìn dal principio.

Anzitutto che questo scritto non vuoi convincere nessuno. Il Rosario è una devozione antica che ha esercitato influssi incalcolabili; è caro soprattutto al popolo credente e appartiene alla sua vita come il lavoro e il pane; ma appena l'uomo cade nell'inquietudine del ragionamento o nell'agitata vita moderna, ne perde generalmente l'abitudine. Questa preghiera non ha più nulla da dirgli e sarebbe vano insistere con lui.

Al Rosario si sono venuti connettendo malintesi ed abusi. Il Discorso della montagna dice:

«Nel pregare poi non abbondate di parole come fanno i pagani che credono di essere esauditi mediante il loro parlare. Non imitateli perché il Padre vostro sa ciò che vi occorre anche prima che glielo domandiate» (Mt 6, 7-8).

Queste parole sono la premessa di ogni concezione cristiana della preghiera; si potrebbe pensare che il Rosario sia proprio l'opposto, poiché consiste in una continua ripetizione, ed invero talvolta viene recitato in maniera così affrettata ed esteriore da far pensare alle parole del Profeta:

«Questo popolo si avvicina a me con le parole e mi onora con le labbra, ma col cuore è lontano da me» (Is 29, 13).

A ciò si aggiungono le molte esagerazioni di coloro che raccomandano il Rosario. Sembra a volte che chi ne fa l'elogio perda ogni misura. Finalmente si sente dire che simili forme di preghiera si incontrano anche fuori del cristianesimo, per esempio, nel bud-

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dhismo, ed ecco spiegata la repulsione o, almeno, la diffidenza.

Tutto questo non va preso alla leggera, ma non ha nulla a che fare con l'essenza e col valore del Rosario. Per cominciare dall'ultima osservazione: la preghiera è atto spontaneo dell'uomo, basato su leggi essenziali che si ripetono ovunque: il fatto che una forma di preghiera simile sotto alcuni punti di vista, si trovi in una religione così seria com'è il buddhismo, sorta seicento anni prima di Cristo, non parla in sfavore del Rosario, ma piuttosto in suo favore. Le esagerazioni degli apologisti non illuminati sono un guaio, ma non devono turbare la nostra visione delle cose e non è il caso di reagire ad esse con una repulsione altrettanto poco intelligente. Per quanto riguarda l'abuso, non vorremo certo difenderlo; ma l'abuso ha forse mai potuto costituire una obiezione fondata contro l'uso? C'è qualcosa di buono e di nobile che si salvi dall'abuso? Se vi fosse una tal cosa, temo che avrebbe in realtà poco valore. L'uomo ha sempre bistrattato quanto gli sta a cuore, perché il suo amore non ha la mano leggera.

D'altra parte dobbiamo tener conto del fatto che questa preghiera è in uso nella cristianità da quasi sei secoli. Innumerevoli anime se ne sono servite, l'hanno amata: saranno stati tutti sciocchi o cattivi cristiani? Sarebbe cristiano questo giudizio? Sarebbe riverente verso la vita religiosa degli altri che pur credono in Cristo? Quando si conoscono tante persone della cui serietà cristiana non si può dubitare e si vede quale importanza ha preso nella loro vita il Rosario, si diventa prudenti nel giudicarlo.

Sotto ogni riguardo può essere bene che ci do-

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mandiamo che cosa significa il Rosario. Per alcuni si tratterà di approfondire ciò che già conoscono ed amano; altri vedranno sotto la giusta luce ciò che finora vedevano in luce falsa; altri ancora comprenderanno almeno che si tratta di cosa seria, e che il giudicarla con leggerezza è ingiusto verso la verità e verso gli uomini che l'apprezzano.

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CAPITOLO SECONDO LA CORONA E LE RIPETIZIONI

Incominciamo da quello che nel Rosario più colpisce. Per questa preghiera si usa una corda o catenella di grani, alcuni dei quali più grossi ovvero distinti dagli altri per la loro distanza. Dieci piccoli e uno grosso costituiscono una «posta». In una corona le poste sono cinque, precedute da una specie d'introduzione costituita da una piccola croce, seguita da un grano grosso e da tré piccoli. Per amore dell'esattezza e per coloro cui tutto ciò è nuovo, aggiungeremo che vi sono sottospecie del Rosario con ripartizioni diverse, usate esclusivamente in certe regioni; inoltre che al Rosario è stata data, talvolta, anche esteriormente, una forma bella e accurata, come avviene per cose tenute in gran conto e molto amate. Vi può ben essere qualcosa di venerando e insieme di delicato in un Rosario del genere, antico e prezioso, di cui si sa ch'è stato usato e tramandato da varie generazioni.

Pregando, si fa scorrere la corona tra le dita. Sulla crocetta, all'inizio, si recita il Credo\. Su ogni piccolo, un'Avo Maria. Sui grossi, che precedono ogni decina dei piccoli, il Padre Nostro. Dopo ogni posta, la lode Gloria al Padre, al Figliuolo ed allo Spirito Santo, coli. È questa l'abitudine di un tempo; ora in genere trascurata, poiché la recitazione di solito comincia col segno della Croce, cui segue l'enunciazione del «mistero» (n.d.r.).

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m'era al principio e ora e sempre, per tutti i secoli dei secoli. Così sia.

Così tutto s'inizia e si chiude col segno della Croce. Che significa questo? Questa catena di preghiere, come la chiamano i critici, non dice da sé che si tratta di una forma di pietà materiale, di una forma che contrasta col mònito di Gesù:

«Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità» (Gv 4, 24)?

Pregare vuoi dire comunicare con Dio e questa comunicazione è vita. Le manifestazioni della vita hanno però forme diverse: non vi sono precetti sul modo di pregare. La Rivelazione dice chi è Dio, chi siamo noi, con quale spirito dobbiamo avvicinarci a Lui;

non dice però in qual modo debba avvenire questo presentarsi e indugiare presso di Lui. Non ce lo dicono nemmeno le parole «in spirito e verità», senza contare che vengono spesso fraintese; che «spirito e verità» non sono in antitesi con l'aspetto e l'ordine esteriore. «Spirito» non vuoi dire pensiero, bensì lo Spirito Santo, che ha governato la vita di Cristo e, dal momento della Pentecoste, ha assunto la guida della storia cristiana; e «Verità» non vuoi dire interiorità senza corpo, bensì l'ordine vivente nel quale Cristo ci ha posti dinanzi a Dio. Anche nella forma di preghiera apparentemente più materiale può essere conservato quest'ordine e può governare questo spirito, così come essi possono andare perduti anche in quelle forme che appaiono più spirituali e più intime.

Ve un genere di preghiera in cui l'uomo esprime a Dio un bisogno, un sentimento: la petizione, il ringraziamento, il pentimento. Questa va fatta con sin-

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cerità e con chiarezza e le sue parole devono essere quelle che detta il cuore. Qui va ricordato il mònito di Cristo contro le troppe parole. Se qualcuno s'immagina di venire più sicuramente esaudito, ripetendo dieci volte la sua richiesta, allora fa, secondo il detto del Signore, «come i pagani»; se però il dolore che lo preme cerca una via di espressione, egli può tranquillamente ripeterle dieci e cento volte. Quando è il cuore che parla, la preghiera è sempre buona; solo le parole vuote di sentimento sono male. Anzi è male tutto ciò che non si rivolge a Dio nel modo giusto:

non sono solamente le ripetizioni che fanno «la preghiera dei pagani», ma il sentimento stesso, se è rivolto, anziché al Creatore e Signore della terra, a un «Dio» cui, nonostante tutta la sua grandezza, tentiamo di far violenza come se fosse un uomo perché faccia quello che vogliamo noi.

C'è però un'altra preghiera in cui non si tratta solo di dire «ciò che si ha nel cuore», ma d'intrattenersi alla presenza di Dio. Questa preghiera tende ad usare sempre meno parole, non perché si esaurisca, ma perché in fondo non ne trova di adeguate al sentimento. Forse dirà un'unica cosa: pensiamo a san Francesco che trascorreva notti intere, invocando:

«Mio Dio e mio tutto!». Alla fine anche queste ultime parole cadranno e l'anima entrerà, come dicono i maestri dello spirito, nell'«Infìnito». In questa preghiera la parola ha il compito di aiutare l'impulso intcriore a trovare la sua via e scompare non appena ha reso il suo servizio.

Finalmente v'è una terza forma di preghiera. Anche in questa si tratta di un intrattenersi con Dio, di un atto d'omaggio al suo cospetto, di un ritrovarsi e

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placarsi interiormente, in modo che la parola costituisca quasi il letto del fiume sul quale scorre la preghiera, e la forza che la tiene in moto. In questo caso non appariranno sempre nuove parole, ma torneranno le stesse. La ripetizione sarà solo la forma esteriore della preghiera e non avrà che lo scopo di rendere il movimento intcriore sempre più calmo e pieno. Una preghiera di questo genere sono per esempio le litanie con le loro lodi e i loro richiami, fra i quali il pensiero si muove appena: è antichissima, la si conosce nel cristianesimo primitivo. Una maniera simile si ritrova nell'uso dei salmi, allorché tra i singoli versetti viene interposto un richiamo ripetuto, l'«antifona». Anch'essa appare già nei primi tempi. A questa forma di preghiera appartiene pure il Rosario.

Si potrebbe obiettare che queste ripetizioni debbono finire col rendere la preghiera affatto esteriore;

ciò può accadere, ma allora vuoi dire che è stata intesa male, e che siamo nell'abuso. Però non è detto che accada, perché la ripetizione ha pure il suo significato vitale. Non è forse un elemento della vita? Che cos'è il battito del cuore se non ripetizione? Sempre lo stesso contrarsi e distendersi, ma è per esso che il sangue circola nel corpo. Che cos'è il respiro se non ripetizione? Sempre lo stesso inspirare ed espirare, ma è la nostra vita. Tutta la nostra esistenza non è forse ordinata e sostenuta da un ritmo di scambio e ritomo? Ogni giorno il sole si alza e tramonta; ogni anno la vita si rinnova in primavera, raggiunge il culmine e decade. Che cosa possiamo obiettare contro queste ed altre ripetizioni? Sono l'ordine in cui ci muoviamo, in cui l'intimo germe si sviluppa e prende corpo. Tutto

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ciò che vive si attua nei ritmi delle circostanze esteriori e dell'attuazione intcriore; perché non dovrebbe avere il suo posto anche nella vita religiosa ciò che è legittimo in tutte le altre forme di vita?

Il Rosario rappresenta una forma particolare di vita religiosa. Qualcuno può dichiarare di non sapersene servire; è affar suo; non ha però il diritto di dire che questa preghiera non abbia senso e che non sia cristiana, perché così darebbe solo a vedere che non sa di che si tratta.

Per quanto riguarda la corona dei grani, essa ha evidentemente il compito di facilitare il raccoglimento dello spirito. Da un grano si passa all'altro; il loro numero mantiene le ripetizioni in una misura riconosciuta conveniente dalla lunga esperienza. Se non ci fossero, chi prega dovrebbe badare a non esagerare nel molto o nel poco e la sua attenzione sarebbe così sviata dall'essenziale. I grani contano per lui ... E dunque qualcosa di meccanico? Sicuro, ma non c'è forse una parte di meccanica in ogni cosa? Si dice che per tutto occorre una preparazione - tutto va imparato;

imparare vuoi dire esercitarsi e l'esercizio è appunto il formarsi di un «meccanismo», per mezzo del quale l'azione proceda «da sé»; o meglio, la forza e l'attenzione rimangano libere per ciò che più importa. Finché non si è imparato a fare una cosa, bisogna sorvegliare ogni singolo atto, e l'essenziale vien trascurato;

quando invece si è imparato, ossia quando si è acquistata una tecnica, la mente è più libera. Ecco tutto il significato della corona nel Rosario.

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CAPITOLO TERZO LA PAROLA

Ad ogni grano si pronuncia una preghiera: parole che derivano dalla Sacra Scrittura o dalla tradizione cristiana.

La parola è qualcosa di ricco, di vivo e di misterioso. È una formazione di suoni per mezzo dei quali chi parla comunica a chi ascolta ciò che è in lui. Fino a un certo punto questo potrebbe avvenire con un semplice grido - di spavento, di gioia, ovvero di affetto -ma non sarebbe ancora parola. La parola nasce quando, più che un semplice sentimento, si giunge ad esprimere un senso, una verità. Quando parlo, ciò che prima era rinchiuso in me, s'apre ed entra nell'ambiente. Tutti quelli che ascoltano la mia parola possono afferrare ciò ch'io voglio dire; il suono si perde, ma il significato è già penetrato negli altri, mentre prima era solo dentro di me.

In questo modo è avvenuto un mutamento: ciò che pensavo è diventato parola e rimane; prima era un contenuto d'essere e di vita; in ogni caso parola inferiore che l'uomo dice a se stesso: perché senza parola non c'è vita spirituale; ma ora è pronunciata e resa manifesta una volta per sempre. Certo il suo luogo, dopo che il discorso s'è spento, non è più l'udibilità esteriore, ma la memoria di coloro che l'hanno udita; questa memoria è però un ambiente genuino

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nel quale la parola può essere cercata, ponderata e dal quale può sempre tornare all'aperto. Ancora: finché taccio, porto il mio pensiero in me; ne sono padrone; anche se altri l'indovina, io non l'ho detto ancora. Ma se io lo dico, dalla sfera del mio riserbo lo immetto in quella dell'esistenza altrui; ho osato mandarlo fuori e cioè nel pericolo; non posso più cancellarlo; quel che è detto è detto. Così le parole rappresentano il principio della storia, di quel che avviene e di quel che avverrà.

Si dice che la parola è spirituale, ma non è proprio così: la parola è umana, ha corpo come l'uomo: il significato che si manifesta in ciò ch'è udibile; ed ha come l'uomo un cuore: il palpito dell'anima che le da la vita. La parola è l'uomo stesso: la sua espressione più raffinata e più mobile, ed è perciò che ha una tale potenza. Non solo per il suono esteriore; per questo riguardo sarebbe più potente il rumoreggiare delle onde o il fischio di una sirena; e nemmeno per il solo senso spirituale, che si potrebbe tentar di scindere dalle parole - la maniera di leggere dell'uomo contemporaneo tende a questo - e nemmeno per il sentimento: un atteggiamento del volto o un semplice grido possono dire assai di più, in talune circostanze. No, la potenza della parola sta nel fatto ch'essa è come l'uomo e perciò entra nella vita più intensa. Ognuno ha sperimentato come una buona parola non gli sia più uscita dalla mente; come la sua verità gli abbia occupato lo spirito, come la sua bellezza abbia rallegrato l'anima, come la sua dolcezza abbia potuto quasi essere assaporata dal gusto; e d'altra parte abbiamo tutti provato come una parola cattiva sia penetrata nell'intimo quale una spina, al punto da dole-

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rè dopo molti anni. La parola è più di una semplice comunicazione: è potenza, essere, realtà determinata.

E ciò non solamente quando viene pronunciata, ma anche in seguito, quando permane nella memoria. La parola non rappresenta solamente l'espressione dell'anima di chi parla, il presupposto per cui uno possa comunque parlare: è il linguaggio. Nel corso del tempo le parole e le loro strutture sintattiche si sono sviluppate fino a costituire un mondo di forme significative nelle quali il singolo si sviluppa spiritualmente. La lingua che uno parla è un mondo nel quale egli vive e crea; un mondo che gli appartiene in maniera più profonda e più essenziale che non la terra e le cose ch'egli chiama patria. Questo mondo del linguaggio non consta però solo di parole, bensì anche di frasi significative, proverbi per esempio, pensieri di uomini saggi e nobili o canzoni e poesie. Esse sono sempre a disposizione del singolo, pronte ad esercitare il loro potere.

Questo vale per ogni parola di saggezza, di amore e di bellezza. Vale per le parole religiose che derivano dall'esperienza delle persone pie e vale in modo particolare per quelle parole che contengono la rivelazione di Dio nel linguaggio umano, ossia per le parole della Sacra Scrittura. Tali parole sono più che una verità o un insegnamento: sono una forza che agisce su chi le ascolta, sono un mondo in cui è dato penetrare, una guida che conduce. Maria Egiziaca era una etèra di Alessandria, conosciuta per la sua bellezza come per la passionalità. Un giorno ebbe un'ispirazione, andò da un santo e gli chiese se avrebbe potuto salvarsi. Quegli rispose:

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«Lascia ogni cosa. Va' nella solitudine e ripeti solo queste parole: 'O Tu che mi hai creata, abbi pietà di me'».

Così fece; pregò senza posa; sempre la stessa preghiera. Dopo molti anni, si racconta, essa divenne pura come la fiamma e gli angeli la portarono a Dio. Quelle parole non furono solamente una preghiera o un ammonimento, bensì una forza; nella sua grandezza d'animo questa donna diede loro la possibilità di agire su di lei stessa e di trasformarla.

Il Rosario consta di parole sacre: soprattutto di Ave Maria. La prima parte dell'Ave deriva dal Nuovo Testamento: incomincia col saluto dell'Angelo a Na-zareth:

«Dio ti salvi o Maria! Tu sei piena di grazia, il Signore è con tè»;

seguono le parole con le quali Elisabetta la salutò quando venne a lei attraverso i monti:

«Tu sei benedetta fra tutte le donne e benedetto è il frutto del tuo seno» (Le 1, 28.42).

La seconda parte è un antico appello all'intercessione di Maria. Il Padre Nostro ci è stato dato dal Signore stesso come modello e contenuto di ogni preghiera cristiana ... Il Credo costituisce la più antica espressione della credenza cristiana ... Il Gloria è la lode alla Trinità di Dio nella sua forma più semplice ... Con le parole del segno della croce che iniziano e chiudono il Rosario «In nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo», i cristiani fin dagli inizi si sono posti nel nome di Dio sotto il segno della redenzione.

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Queste parole si ripetono di continuo: costituiscono il mondo in cui si dispiega la preghiera: mondo aperto, commosso, compenetrato di forze, ordinato da un'idea. Chi prega, nel momento in cui pronuncia le parole, evoca attorno a sé quasi la 'patria' del suo linguaggio; la storia del suo linguaggio personale e della sua vita insieme si fa una realtà vivente, e dietro di essa, la storia del suo popolo inserita in quella dell'umanità. Come parole della Scrittura, esse fanno da volta al sacro spazio della Rivelazione nella quale il Dio vivente si è fatto nostra verità.

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CAPITOLO QUARTO MARIA

Nell'ambiente, che le sacre parole vengono costituendo, la figura di Maria si presenta come l'oggetto immediato della preghiera del Rosario.

Maria fu cara al cuore cristiano fin dal principio e già i discepoli di Gesù l'hanno circondata di particolare amore e rispetto: lo si sente nei brani occasionali, ma non scarsi, del Vangelo e degli Atti degli Apostoli in cui si parla di Lei. Il popolo cristiano ha sempre amato Maria in maniera tutta speciale, e non fu un momento felice quello in cui alcuni cristiani credettero, per onorare il Figlio, di dover sciogliere gli antichi legami con la Madre sua.

Chi è Maria? Diciamolo nel modo più semplice che ci è possibile: è Colei per la quale Gesù Cristo, Figlio di Dio e nostro Redentore, assurse a sostanza della sua vita di donna; questo è un fatto così chiaro e che pure supera di tanto ogni umana grandezza, di quanto la supera la stessa incarnazione di Dio.

Si può essere più grandi in due modi: di per sé, come un creatore, un eroe, un precursore, un uomo di singolare destino; oppure amando questo grande:

il secondo modo è nobile quanto il primo, poiché per comprendere e contenere in sé l'esistenza di un altro occorre una forza d'animo pari alla figura e al destino della persona amata ... Che cosa significa dunque

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che Gesù Cristo è stato il contenuto della vita di Maria? Certo, ci sentiamo ammoniti alla circospczione:

un cuore umano, foss'anche il più profondo, non potrà mai entrare col Cristo in un rapporto uguale a quello che lo unisce ad un altro uomo; il limite dell'incomparabilità li divide, perché, sebbene nostro fratello, Egli ha tuttavia le più profonde radici del suo essere dal lato della divinità. Quanto abbiamo detto or ora sulla misura delle grandezze in questo caso diventa errato e qui va messo da parte; pure rimane il fatto che Maria fu sua madre; e dovunque il Vangelo parla di Lei, Essa appare non solo come la donna che partorì e allevò il Bimbo redentore, in maniera indispensabile e pur tuttavia non corrispondente alla natura specifica di Lui, ma anche come Colei che sta in questa santissima missione con tutta la sua vita, la sua coscienza, il suo amore.

Per intender ciò basta che un credente legga con attenzione il racconto dell'annuncio dell'Angelo, che non è la comunicazione del decreto divino che doveva adempiersi in Lei, ma è la richiesta del suo consenso. Quell'istante è un abisso dinanzi al quale potremmo provare le vertigini, poiché vediamo Maria nell'uso della sua piena libertà dinanzi al mistero che si chiama la Redenzione. Che significa la coincidenza di queste due domande: «Vuoi servire alla venuta del Redentore?» e «Vuoi diventar madre?». Che significa ch'essa abbia concepito, portato e partorito il Figlio di Dio e Salvatore del mondo? Ch'essa abbia tremato per Lui e per Lui sia stata in esilio? Ch'Egli sia cresciuto accanto a Lei nel silenzio della casa di Naza-reth? Che si sia poi allontanato da Lei per la sua missione, nella quale però, come vediamo nella Scrittura,

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Essa lo segue col suo amore fino a trovarsi sotto la croce? Ch'Essa abbia avuto notizia della sua resurrezione? Che, dopo l'ascensione, abbia atteso coi discepoli la discesa dello Spirito Santo e sia stata investita della sua potenza? Che abbia poi vissuto sotto la protezione dell'apostolo «che Gesù ha amato», al quale Egli stesso l'ha affidata, fino al giorno in cui è stata chiamata dal suo Figlio e suo Signore? La Scrittura non dice molto, eppure è esplicita per chi vuoi comprendere, tanto più che in fondo è la voce di Maria stessa che ascoltiamo: perché da chi altro avrebbero potuto conoscere gli Evangelisti il mistero dell'incarnazione, i primi eventi dell'infanzia, il pellegrinaggio a Gerusalemme, se non da Lei?

Se non siamo tra coloro che considerano leggenda i primi capitoli del Vangelo, - e questi devono rendersi conto che così facendo si attribuiscono la capacità di giudicare quali parole della Scrittura siano di Dio venendo così, in fondo, a sopprimere la Rivelazione - dobbiamo capire che i suoi ricordi, la vita da Lei vissuta, il suo essere stanno sul fondo di quei capitoli. E non solo di quelli, perché non può essere che Colei che visse trent'anni col Signore non abbia parlato di Lui dopo la sua dipartita. Non si può determinare quale influsso abbiano avuto i suoi racconti e, con questi, la sua stessa esperienza sulla comprensione e la predicazione del Cristo.

La sua esistenza non ha nulla di fantastico o di leggendario, è tutta semplice, è tutta reale; ma di quale realtà! La leggenda è talvolta pia e profonda, tal altra poco seria e anche fatua; ma anch'essa ov'essa è pia può rappresentare un pericolo: racconta cose meravigliose, ma indebolisce così il senso di ciò che è più

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bello, più pio, più meraviglioso di qualsiasi leggenda, ossia della realtà. La vita di Maria, come è narrata nella Scrittura, è così umanamente vera come può es-serlo sempre; ma questa umanità è piena del mistero della comunione con Dio e dell'amore di Lui, della cui profondità noi non possiamo farci un'idea. A questa si ispira la preghiera del Rosario.

Gesù è in tal modo la sostanza della vita di Maria come il figlio è la sostanza della vita della madre, per la quale egli è tutto. È però al tempo stesso il suo Redentore, ciò che nessun figlio può mai essere per sua madre. Quando si parla in questa maniera di madre e di figlio naturale, lo si fa per lo più per chiacchiera, e, se poi si parla seriamente, si bestemmia. Nel suo rapporto con Gesù non si compie solo la sua maternità, ma anche la sua redenzione: mentre diventa madre, diventa cristiana; mentre vive con suo Figlio, vive con quel Dio di cui Egli è la vivente manifestazione; mentre cresce umanamente col suo figliuolo, come fa ogni madre che ama davvero; mentre gli apre la via all'esistenza accettando le rinunce e i dolori che ciò comporta, Essa stessa diventa umanamente libera e cresce nella grazia e nella verità di Dio. Perciò Maria non è solo una grande cristiana, ne una fra le tante sante, ma è Sola ed Unica. Nessuna è come Lei, perché in nessuna creatura avvenne ciò che avvenne in Lei. Qui troviamo la radice di ogni esagerazione: se tanti non finiscono di lodare Maria, se talvolta dicono di Lei cose sproporzionate e strane, in un certo senso hanno ragione: cercano di esprimere, anche se con mezzi falsi, una realtà la cui profondità non può non commuovere chiunque ci pensi. Ma le esagerazioni

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sono superflue e dannose, perché quella realtà si fa più augusta e più intima insieme quanto più la parola rimane vera.

La preghiera del Rosario è diretta a Maria e la contempla da tutti i punti di vista. Nel Rosario noi viviamo nella sfera della vita di Maria il cui contenuto fu Cristo.

Così, in ultima analisi il Rosario è una preghiera al Cristo. La prima parte dell'Are si chiude col suo nome:

«e benedetto il frutto del tuo seno, Gesù».

A questo nome viene aggiunto il cosiddetto mistero, per esempio

«che tu o Vergine hai concepito per opera dello Spirito Santo ...», «che hai portato a Elisabetta ...», «che hai partorito a Bedemme ...»1.

Ogni posta del Rosario contiene uno di questi misteri. Il tutto comprende cinque poste e costituisce un gruppo di cinque misteri: di questi gruppi ce ne sono tré. Il primo è il Rosario gaudioso: i suoi misteri sono quelli dell'amabile fanciullezza di Gesù, già tutta piena di presentimenti; il secondo, il Rosario doloroso, comprende la sua passione dal momento dell'agonia nell'Orto degli ulivi, fino alla sua morte in croce;

il terzo, glorioso, tratta della gloria della sua resurre-

1. Questo veramente è l'uso in Germania; da noi il mistero che «si contempla» è enunciato all'inizio di ogni «posta», prima del Padre Nostro (n.d.r.).

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zione ed ascensione, della discesa dello Spirito Santo e dell'esaltazione di Maria stessa.

In questa preghiera si contempla dunque la figura e la vita di Gesù, non però, come per esempio nella Via Crucis, in modo diretto, ma attraverso Maria: come contenuto della sua vita da Lei veduto, da Lei sentito e

«serbato in cuore» (Le 2, 51).

Un soffio di santa simpatia pervade tutto il Rosario. Quando una persona ci sta molto a cuore, ci rallegriamo d'incontrarne un'altra che a lei sia legata. Troviamo la sua immagine rispecchiata in un'altra esistenza e la vediamo per così dire con nuovi occhi;

il nostro sguardo s'incontra con uno sguardo che ugualmente la contempla con amore e acquista perciò una maggior forza di penetrazione; la nostra visione si allarga e noi vediamo da ogni lato la figura amata che prima vedevamo da un punto solo. Le gioie provate dall'altra persona, i dolori da essa sofferti, diventano altrettante corde nuove le cui vibrazioni portano nel nostro cuore nuova risonanza, nuova comprensione, nuova rispondenza. L'essenza della simpatia consiste proprio nel fatto, che l'altra persona pone la sua vita a disposizione della nostra, così che noi diventiamo capaci di vedere e d'amare anche coi suoi occhi e col suo cuore. Qualche cosa di simile, ma in sfera totalmente diversa, avviene nel Rosario.

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CAPITOLO QUINTO CRISTO IN NOI

Sostando nell'ambito di queste figure respiriamo santità e grandezza. Nelle cose più nobili non si cerca l'utilità, perché hanno in se stesse il valore. Così è di un valore infinito respirare in questa purezza, rifugiandosi nella pace di questa intimità con Dio.

Ed eccoci tornati a quanto dicevamo in principio. L'uomo ha bisogno di ristorarsi in un santo riposo dove giunga a lui l'alito divino, dove gli vengano incontro le grandi figure della fede.

Questo luogo è, in fondo, la inaccessibilità di Dio stesso, che in Cristo si è rivelato all'uomo. Ogni preghiera incomincia col silenzio intcriore, col raccoglimento dei propri pensieri, col pentimento del proprio peccato e col volgersi dell'anima a Dio. Così si apre a noi il mondo sacro, non solo il regno della pace dell'anima e del raccoglimento spirituale, ma veramente il regno di Dio.

Abbiamo sempre bisogno di questo: ma in particolare quando lo sconvolgimento dei tempi ci manifesta una cosa che è sempre vera, ma viene spesso dimenticata in tempi di prosperità e di tranquillità: la nostra condizione di senza-patria. Allora si richiede a noi un coraggio speciale: ci si richiede non solo di essere preparati a perder tutto e a vivere con maggior grandezza d'animo, ma di continuare a sopportare questo

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esilio di cui in altri tempi non ci accorgiamo. E così abbiamo bisogno più che mai di quel riposo di cui parlavamo, non per accomodarvici pigramente, ma per ritrovare il centro delle cose, per ridiventare calmi e fiduciosi. Perciò è tanto importante il Rosario in un tempo come il nostro, purché naturalmente si metta da parte ogni esagerazione e ogni sdolcinatura e lo si intenda nella sua chiara forza originaria; tanto più importante in quanto esso non richiede una speciale preparazione: chi prega non è obbligato a richiamare pensieri di cui in genere o, almeno, sul momento non si sente capace. Egli entra in un mondo ordinato, incontra figure che gli sono familiari e vi trova le vie che lo conducono all'essenziale.

Recitare il Rosario è trattenersi, raccolti, in un mondo silenzioso e santo, il che appare più chiaro s6 lo si confronta con la Via Crucis. Questa si presenta appunto come una via' e chi prega dopo avere seguito il Signore da una «stazione» all'altra, alla fine ha la sensazione di essere giunto alla mèta. Il Rosario invece non è una via, ma un ambiente e non ha mèta, ma profondità. Sostarvi, fa bene all'anima.

In questo ambiente, chi prega può richiamare anche i propri bisogni. La seconda parte dell'Ave Maria è una preghiera impetratoria, che si può riempire di tutto di ciò che si ha sul cuore. La Madre del Signore invero non è una dea che viva nella sua gloria al di sopra degli uomini senza curarsi di loro: ciò che le avvenne lo accettò per amore degli uomini, Colui che fu suo Figlio è il nostro Salvatore; Ella è una di noi,

1. Cfr. R. Guardini, La Via Crucis di N.S. Gesù Cristo, tr. it. di Bice Jahn Rusconi, Edizioni di Vita Cristiana, Firenze 1940 (ora Queriniana, Brescia 1976).

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sebbene il destino comune a noi tutti sia stato da Lei conosciuto in modo tutto particolare. Il cuore cristiano ha sempre sentito in Lei l'amore misericordioso a cui gli uomini possono rivolgersi con confidenza illimitata, e questo sentimento ha espresso nel nome affettuoso di «Madre» datoLe fin dai primi tempi del cristianesimo. Fin da allora il cuore cristiano ha compreso che Maria, perché Madre di Cristo, è anche nostra Madre. Lo stesso mistero della sua maternità include con Cristo,

«primogenito fra molti fratelli» (Rm 8, 29),

anche noi: perciò i cristiani hanno sempre chiesto il soccorso di Maria, sicuri di far bene.

Ed è bello il modo con cui nell'Ave Maria si esprime la somma dei bisogni umani: ch'Ella interceda per noi con le sue preghiere «adesso e nell'ora della nostra morte». Senza entrare nel particolare, vi si comprendono tutte le miserie dell'umanità, di tutti e di ognuno, raggnippate nei due momenti che decidono della nostra esistenza: 1'«adesso», quello dunque in cui dobbiamo compiere la volontà di Dio, scegliere tra bene e male e decidere così il modo della nostra vita eterna; l'altro, «l'ora della nostra morte», che chiude la vita e da a tutto il passato il carattere che importa per l'eternità.

C'è dell'altro, che non è facile dire; prego quindi il lettore di non fermarsi alle singole parole, ma di cercare di coglierne l'esatto senso generale.

L'apostolo Paolo, nelle sue lettere, parla sempre di un ultimo mistero della esistenza cristiana: del Cristo «in noi».

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«Non già io vivo, ma Cristo vive in me»,

dice nella lettera ai Galati (2, 20).

Ci ammonisce di essere fedeli e vigilanti

«fino a quando non sia formato in noi Cristo» (Gai 4, 19). Vede l'essenza della vita cristiana nel pervenire tutti

«alla maturità dell'uomo perfetto secondo la piena età di Cristo» (Ef 4, 13)

e nel nostro essere

«predestinati a divenire conformi all'immagine del Figlio»

(Rm 8, 29).

Questa è anzitutto un'espressione del vincolo della fede e della comunione della grazia, come chi dicesse di un uomo che dentro di lui vive un modello venerato; ma vuoi significare qualche cosa di più: significa da parte nostra non solo una comunione di grazia, di pensiero, di fedeltà, ma una partecipazione alla realtà di Cristo, che non può mai essere penetrata abbastanza; significa di più anche da parte di Dio, e noi non apprezziamo tutto il valore di quelle parole se non cercando di comprendere ciò che significano per Dio stesso.

Dio ama l'uomo. Verità sempre ripetuta, ma, sembra, mai compresa in tutta la sua importanza. Non significa invero soltanto che ci vuoi bene, che perdona i nostri peccati, che ci da forza a ben fare e ci conduce a quella somiglianzà con Lui ch'è il vero scopo della creazione; tutto questo deve essere tenuto nel giusto conto; sarebbe abbastanza e più che abbastanza e

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del resto non ha senso il parlare qui di misura. Ma non è abbastanza se ci riferiamo a quella misura che Egli stesso ci ha data: ciò che ha fatto per amor nostro. Egli si è assunto la responsabilità della nostra colpa, si è fatto uomo, e uomo rimane nell'eternità;

ha vissuto in mezzo a noi, ha accettato il suo destino particolare per espiare così il nostro peccato: - tutto ciò non deve essere considerato come qualcosa di naturale e di ovvio, come suona all'udirlo tanto spesso. E in verità una cosa enorme; anzi, commisurata a ciò che l'uomo da sé solo può pensare di se stesso e di Dio, assurda. Dal nostro punto di vista si direbbe che a Dio «non si addica» quello che ha fatto. È più assai di una pura e semplice benignità.

Qui deve aver agito un motivo che riguarda Dio stesso e non sapremmo esprimerlo se non dicendo che l'amore con cui Dio ci ha amati è stato per Lui «destino». L'espressione è inusitata, d'altronde non ne trovo un'altra: e prego il lettore di cercar di capire ciò che intendo dire. Certo nulla che sia contrario all'onore di Dio; piuttosto qualche cosa che ci insegni ad adorarlo più profondamente. Chi ama rinuncia alla libertà del suo cuore e si lega alla persona amata, non per violenza o per calcolo, ma proprio per amore. Non può più dire: «Egli è un altro, non sono io;

questo riguarda lui, non me». Nella misura in cui l'amore è veramente amore, diminuisce la possibilità di simili distinzioni. È per questo che fin dal primo istante l'amore è «destino». Qualche cosa di simile è avvenuto in Dio, o meglio, ciò che avviene nell'uomo deve essere un riflesso di quanto avviene in Dio stesso con una forza che noi non possiamo immaginare.

Si potrebbe obiettare che con questo modo di

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pensare si attenta alla libertà di Dio e si pone Lui, il Signore di tutto, in condizione di dipendenza. Se così fosse, erreremmo senz'altro, perché a fondamento e garanzia della nostra salvezza sta il fatto che Dio è il Signore, da nulla dipendente, sufficiente a se stesso e per così dire padrone di sé. Questo stesso Dio ha però amato l'uomo fin dal principio nella verità divina. Perciò le azioni dell'uomo non gli sono state indifferenti, ne ci ha solo seguito col suo sguardo benevolo, quasi cosa che non lo riguardasse. Il destino dell'uomo gli stava a cuore; Egli legò il suo onore -l'onore del Dio che ci ha creati con un atto di amore - così strettamente alla salvezza dell'uomo che quanto avveniva all'uomo doveva costituire il destino anche di Dio.

Si potrebbe obiettare ancora che nessuna creatura ha di per sé un valore dinanzi a Dio e meno di ogni altra l'uomo, che col peccato si è messo in opposizione a Lui. L'amore di Dio non trova un oggetto degno di sé, è un amore che ha il suo movente in se stesso. Questo è vero: nessuna creatura di per sé è capace di attirare su di sé l'amore di Dio, ma proprio per questa ragione, che non ha nulla di suo. Tutto quello che ha, tutto quello che è, gli viene da Lui: appunto perciò ha un valore dinanzi a Lui. Altrimenti che cosa significherebbe quella ripetuta dichiarazione di Dio davanti alla realtà della creazione: che «era buona»? Ed era veramente «buona» e «molto buona», e proprio ai suoi occhi (Gn 1, 4-31). Da questo momento incomincia l'impegno diretto dell'onore di Dio che crea ed ama; si riafferma dove è detto che l'uomo fu creato a immagine e somiglianzà di Dio; onore, questo, fatto all'uomo per amore, sì che si può dire che Dio è

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ormai legato a quest'uomo come nessun uomo può esser legato ad un altro uomo. L'impegno si farà sempre più profondo e sempre più agirà sul destino umano con l'intervento di Dio attraverso la storia sacra, nel patto da Lui stretto con l'uomo, nella rivelazione della sua verità e della sua legge fino all'atto dell'incarnazione, superiore ad ogni terrena misura.

Nel suo amore per l'uomo, Dio ha cominciato col concedergli di possedere davanti a Lui un vero valore. Dev'essere! stato in Dio un misterioso desiderio dell'uomo. Per l'Eterno e l'Infinito, per il Signore che tutto è e tutto possiede, l'uomo dev'essere ben prezioso, se Egli vuoi partecipare della sua natura.

E il mistero a cui alludono i maestri spirituali quando parlano della nascita di Dio nell'uomo. Dio non si limita a governarlo e proteggerlo, come fa con le altre creature viventi, ma prende addirittura parte alla sua esistenza, diventa il Figlio dell'uomo. Questo è avvenuto una volta per sempre nell'incarnazione di Cristo, la cui esistenza è il vero ed essenziale compimento dell'amore di Dio. In Cristo, Dio si è donato all'uomo, partecipando così alla sua sorte; si è fatto uno con l'uomo a tal punto che

«chi ha visto me», dice Gesù, «ha visto il Padre» (Gv 14, 9).

E non solo nel senso che ci è stato concesso per grazia di poter riconoscere Dio nel Cristo, ma anche a significare la gioia di Dio nell'esistere in Lui come uomo. Ciò che è avvenuto una volta in Cristo - dice san Paolo - deve ripetersi continuamente. Non in modo identico, che la vera e propria incarnazione di Dio è un evento in cui è impegnato Dio come Persona, in modo intangibilmente unico, - ma spiritual-

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mente; così può aver luogo in ciascuno, proprio in ciascuno. Nessuno è superfluo, perché ognuno esiste una sola volta e Dio ama l'uomo a tal punto che vuoi rinnovare in tutti il mistero dell'incarnazione. Credere significa accogliere in sé il Cristo risuscitato, vivere da cristiani significa far posto a Dio perché si esprima e si affermi nella nostra propria esistenza. La fede è perfetta quando Cristo penetra nell'esistenza dell'uomo e vi diventa l'Unico, il Tutto: la vita del Cristo è il tema che, proposto sempre di nuovo, dev'essere sviluppato in ognuno di noi. Nella nostra vita riappare di continuo il Cristo e nel Cristo Dio; di continuo l'uomo può trasformarsi in Cristo e, per suo mezzo, in Dio. Così cresce l'uomo nuovo, nel quale Cristo rivive la sua vita e Dio da compimento al suo amore. Così l'uomo diventa ciò che dev'essere secondo l'intenzione di Dio.

Appunto a questo mistero si riferisce il Rosario. Ciò che accadde in Maria non è avvenuto in lontananza da noi, bensì è l'esempio tipico - sebbene unico e irraggiungibile, - di ciò che deve avvenire in ogni vita cristiana: il fatto che l'eterno Figlio di Dio «prende forma» nell'esistenza del credente. Contemplando le figure che animano il Rosario, il credente si avvicina alla santa forma originaria di questo processo e l'evento arcano viene promosso in lui medesimo. Non è detto che ne abbia coscienza, ma quando contempla e indugia e loda e prega nell'alone dell'esistenza di Maria, è come se incominciasse a svegliargli-si il mistero dell'esistenza di Cristo: viene evocato, respira, si sviluppa.

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CAPITOLO SESTO NORME PRATICHE

E adesso ancora alcune parole sul modo di recitare il Rosario. La forma è semplice, grande e profondo però ne è il contenuto. Questo duplice carattere lo rende al tempo stesso facile da recitare: facile per chi, dotato di viva forza di immaginazione e di pronta sensibilità, è capace di tener presente l'immagine nello scorrere delle parole, e di ritrovare la propria esistenza nella figura sacra contemplata, - difficile invece per chi ha perduto nella irrequietudine della vita contemporanea la capacità di contemplare le realtà intcriori. Chi appartiene alla seconda categoria e pur vuole recitare il Rosario ha da essere pronto a superare difficoltà. Deve esercitarsi a imparare gradatamen-te ciò che per altri è spontaneo.

Anzitutto deve combattere l'avversione per la ripetizione, poiché questa appartiene all'essenza del Rosario: la sua forma è il ritmo tranquillo delle parole sempre uguali.

Deve ancora superare l'inquietudine, che ha così profonde radici nell'uomo contemporaneo. Chi non ne è capace lasci piuttosto da parte il Rosario; non vi troverà che delusioni e rischierà di stimare poco una cosa bella. Il Rosario è una preghiera che ha bisogno di calma: per essa bisogna prender tempo, non solo

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nel senso esteriore dei minuti che occorrono, ma anche nell'intimo. Chi vuoi recitarlo bene deve metter da parte la fretta, trovare un'intima tranquillità. Questo è necessario, sia che egli abbia dieci minuti a sua disposizione, sia che ne abbia trenta. Non deve proporsi troppo, non ha importanza ch'egli reciti il Rosario intero: meglio accontentarsi di due o tré poste recitate bene.

Che egli vi porti tutta la sua vita con le sue gioie, i suoi dolori, gli uomini e le cose - tutto, ma nel modo stesso come le porterebbe ad una persona la cui presenza dia la calma: non per ascoltare com'egli possa meglio intraprendere qualcosa, ma perché tutto si possa vedere nella giusta luce.

La meditazione si compie propriamente nell'Ave Maria.

La prima parte della preghiera è una contemplazione e una meditazione, una comprensione e una lode di quel mistero che viene poi espresso nelle parole che seguono il nome di «Gesù», dopo le quali ci si ferma un momento in silenzio ... Nella seconda parte ci si rivolge a Maria, qual Ella è e prega nell'evento considerato da codesto mistero, e si chiede la sua intercessione «adesso e nell'ora della nostra morte». Qui vanno compresi tutti i bisogni propri e degli altri, del corpo e dell'anima, dell'esistenza personale e universale. Ma anzitutto il bisogno per se stesso di partecipare al mistero di Cristo.

A chi è data per la prima volta, questa traccia sembrerà forse complicata e difficile; questa impressione aumenterà quando si cerchi di metterla in pratica, e può essere che ci si senta scoraggiati e inquieti. Bisogna capire che c'è qualcosa da imparare, e cioè il mo-

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do di collegare le parole della preghiera con la rappresentazione del mistero e coi bisogni del proprio cuore.

Un paragone forse potrà esserci di aiuto. Quando parlo con qualcuno, può darsi ch'io voglia dirgli qualcosa di determinato. Sarà mia cura allora di esporre chiaramente ciò che ho in mente perché l'altro mi capisca bene: le mie parole correranno per così dire su un'unica linea. Possiamo tenere invece un colloquio tranquillo in cui le parole, anziché seguire una via preordinata, corrono qua e là. Parlo quindi all'altro e bado se mi comprende; però contemporaneamente seguo anche la espressione del suo volto, sento i suoi motivi, percepisco tutta intera la sua vita; colgo l'ambiente; vi entrano figure di altre persone, affiorano eventi del passato, s'annunciano presentimenti del futuro. L'attenzione si è quindi allargata. Non ha più la forma di una linea, ma di uno spazio; segue, per così dire, una modalità sinfonica, vede dietro il primo piano o sfondo, nell'espressione il sentimento, nel momento attuale il passato e l'avvenire. Così avviene nel Rosario: l'atto per cui esso si recita non mira ad uno scopo definito, ma è comprensivo; non è orientato rigidamente, ma in modo allentato. Le parole non sono ristrette ad un particolare significato, ma libere, aperte, così che nel loro spazio possono affiorare anche immagini che da esse non sono direttamente richiamate. E chi prega non solo le vede, queste immagini, ma si muove con esse, le sente, parla con esse, confonde la sua propria vita con loro. Si forma così tutto un mondo silenziosamente animato, nel quale la preghiera si muove in una libertà legata solo dal numero delle ripetizioni e dal tema del mistero.

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Tutto questo ha da essere imparato, e per imparare occorre pazienza: una pazienza amorosa, per cosi dire, come quella con cui uno assedia una bellezza vivente e non desiste fino a che essa non gli si dischiude.

Il Padre Nostro che precede ogni posta non dev'essere recitato come YAve Maria; in esso ogni parola deve avere unicamente il significato suo proprio. È la preghiera del Signore, e dobbiamo rispettarla; tuttavia anch'essa potrà avere una particolare risonanza per il suo collegamento coi misteri. Principio e fine di ogni moto spirituale è il Padre; perciò la preghiera sale a Lui prima di ogni posta, per chiedergli le cose essenziali; al cospetto del Padre si svolgerà poi la successiva meditazione, al modo stesso con cui nella Apocalisse di Giovanni i vari eventi, che il veggente contempla, si svolgono sotto gli occhi di

«Colui che siede sul trono e vive in eterno» (4, 9).

Il Credo costituisce l'introduzione del tutto, poiché tratta della nostra fede nella sua pienezza.

Infine nella lode «Gloria al Padre, al Figliuolo e allo Spirito Santo», chi prega, dopo ogni posta s'inchina al Dio Uno e Trino dal quale tutto procede e al quale tutto ritorna.

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Parte seconda

Breve esposizione dei Misteri

SIGNIFICATO DEL MISTERO NEL ROSARIO

Ogni posta del Rosario contiene, come già abbiamo detto, un Mistero: un evento della vita di Gesù, a cui è rivolta in modo speciale la contemplazione. Esso viene enunciato nella breve frase che nell'Are Maria segue il nome di Gesù1.

Questi misteri sono quindici, ordinati in tré gruppi che si chiamano, secondo il loro carattere, rosario gaudioso, doloroso e glorioso. Il primo evoca i misteri dell'infanzia di Gesù; il secondo quelli della sua passione e della sua morte; il terzo quelli della sua glorificazione; così comprendono tutta la sua vita e, unita alla sua, anche la vita di Maria.

Quando penetriamo in essi, tanto più chiaramente vediamo che contengono anche la legge fondamentale della perfezione cristiana, quella santa nascita di cui abbiamo parlato.

Cercheremo di farne una breve esposizione: non saranno che pochi cenni ed anche questi entro i limiti nei quali all'autore riesce di vedere le sante verità. Non si vuole dunque dare una regola, al contrario quanto più personalmente chi prega saprà intenderli e riviverli, tanto meglio sarà.

Si tratta però di fatti della Storia Sacra; perciò sarà bene ch'egli tenga presente il Nuovo Testamento, do-

1. Sempre, si ricordi, nel modo di recitazione tedesco (n.Ar.).

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ve parla dell'annuncio dell'Angelo, della visita di Maria ad Elisabetta, della nascita del Divino Bambino, e così via. Proprio chi recita spesso il Rosario incorre nel pericolo di fermarsi sempre alle stesse immagini e agli stessi pensieri, e perciò di immiserirli. Quanto più viva diventa la preghiera se, invece di recitare il Rosario intero, ci limitiamo a una o due poste, avendo però prima riletto il sacro testo, così da essere imbevuti della sua ricchezza e freschezza!2.

2. Poiché le sue diverse parole sono distribuite nei Vangeli e negli Atti degli Apostoli, vorrei suggerire un buon ausilio e precisamente una cosiddetta «armonia dei Vangeli», in cui le notizie bibliche sono combinate così da costituire un discorso continuato: August Verin, Das Evangelium Jesu Christi, Herder, Freiburg i.B. (ora /( Vangelo unificato, a cura di Enrico Galbiati, ipl, Milano 1978). Forse anche il libro dell'autore: // Signore - riflessioni sulla vita e la persona di Gesù Cristo (tr. it. presso Vita e Pensiero, Milano 19923), può rendere un utile servizio.

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CAPITOLO PRIMO

INTRODUZIONE AL ROSARIO

IN GENERALE

La corona di cinque poste è ogni volta preceduta da un esordio in cui il fedele si prepara. Esso consta del Credo, del Padre Nostro e dì tré Ave Maria, ognuna delle quali contiene una specie di mistero, e precisamente in forma di una preghiera per ottenere quelle forze fondamentali dell'esistenza cristiana che la Chiesa chiama virtù teologali. Paolo ne parla nella prima lettera ai Corinti dove egli le contrappone, come ciò che è propriamente importante, alle manifestazioni straordinarie dello Spirito Santo.

«Ora rimangono queste tré cose, la fede, la speranza, la carità, ma la più grande di esse è la carità» (1 Cor 13, 13).

In esse si esplica la più grande forza allo spirito e del cuore umano, ma la loro più profonda radice è in Dio. Sono maniere in cui si esprime nell'uomo la «virtù» ossia la perfezione vivente di Dio: la sua santa veracità si fa fede, la sua volontà realizzante speranza; quanto alla carità, a cui Paolo da la preminenza, essa è il modo con cui il cuore umano risponde a Colui

«che ci ha amati per primo» (1 Gv 4, 19).

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La prima virtù: «... che aumenti in noi la fede». Quando Maria attraversò i monti andò da Elisabet-ta in cerca di una persona a cui poter parlare, questa, ripiena di Spirito Santo, ricevette la giovane cugina con parole di amore e di venerazione:

«Tè beata che hai creduto, perché si compiranno le cose dette a tè dal Signore» (Le 1, 45).

Il fatto unico avvenuto in Maria ci porta a credere che tutta la sua vita sia intessuta di miracoli e con ciò si distrugge il meglio della sua realtà. La parola di Eli-sabetta ci chiarisce questa realtà con l'elogio alla sua fede. Questa fu la sua grandezza: l'aver creduto e l'esser rimasta nella fede fino al termine della sua vita ... La fede è veramente una cosa straordinaria, quando si sa quello che sapeva Lei? Sì, certamente. Non è, infatti, senza intenzione che il Vangelo racconta come lo stesso Angelo che portò l'annunzio a Maria, andò anche da Zaccaria, il quale udì sì come quegli fosse il messo di Dio, pure non accolse il suo messaggio, così che l'angelo lo castigo

«perché non aveva creduto alle sue parole» (Le 1, 20).

Maria ha creduto: si è inchinata dinanzi a Dio, Signore della creazione, sicura ch'Egli avrebbe mantenuto la sua parola, superando ogni possibilità della natura; ha percorso la via ignota per la quale Egli la chiamava. Questa via l'ha condotta sempre più attraverso il mistero; perciò essa ha potuto percorrerla solo con la fede. La frase del Vangelo:

«ma essi non compresero dò che aveva loro detto» (Le 2, 50) 52

vale per tutta la sua vita. Essa ha «compreso» soltanto nella pienezza della grazia della Pentecoste; prima dovette aver fiducia e obbedire. La fede è il fondamento della nostra esistenza cristiana; si desta dinanzi alla Rivelazione di Dio, deriva dalla stessa origine, poiché la stessa forza nella quale Dio si manifesta a noi ci rende anche capaci di ascoltare la sua parola e di restargli fedeli. Da questo incomincia la nuova vita; non dalla ragione e dalla forza dell'uomo, bensì dalla parola e dalla grazia di Dio. Non appena la fede vacilla, accade a noi ciò che accadde a Pietro sulle acque: affondiamo. Della fede abbiamo sempre, sempre più bisogno. Infatti quanto più si avanza nella vita, tanto più occorre la fede, perché sempre più ci rendiamo conto della umana limitatezza. Perciò chiediamo al Signore «che aumenti in noi la fede».

La seconda virtù: «... che fortifichi in noi la speranza».

Elisabetta chiama beata la Vergine perché ha creduto, in quanto si sarebbero compiute le cose a lei dette dal Signore. Sarebbe diventata Madre del Salvatore per forza dello Spirito Santo e in ciò avrebbe trovato il compimento della sua salvezza. Non le fu sempre facile sentirsene sicura: quando la Scrittura parla di Maria e di suo Figlio si sente sempre un grande amore, ma anche una certa distanza. La risposta del fanciullo dodicenne nel tempio (Le 2, 49), le parole rivolte da Gesù alla Madre alle nozze di Cana (Gv 2, 4) e quelle con le quali risponde a coloro che gli riferiscono che la Madre è alla porta a cercare di Lui (Me 3, 33), quello che dice alla donna che proclama beata sua Madre (Le 2, 28) e la sua ultima volontà con la

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quale la affida al discepolo (Gv 19, 26), tutto questo lascia intendere qualche cosa che Lo allontana da Lei, e ogni volta si intrawede la possibilità ch'Ella si senta disorientata dalla condotta di Dio. Invece la sua fiducia cresce sempre più, Ella si lascia guidare dal Signore; Maria ha vissuto fidando interamente nella potenza di Dio, che è capace di portar tutto a buon fine attraverso ogni oscurità e contraddizione.

La speranza è fiducia nella potenza di Dio: Egli ci ha promesso che diventeremo uomini nuovi e che la creazione diverrà

«un nuovo cielo ed una nuova terra» (Ap 21, 1).

A ciò sembrano contraddire l'apparenza delle cose di questo mondo, le circostanze della vita, le opinioni della gente che ci sta intorno, le quotidiane esperienze della nostra limitatezza e del nostro peccato, tutto. La speranza è il perseverare della fede contro l'evidenza; nonostante tutte le contraddizioni la nuova vita è in noi e Dio la porterà a compimento per quante difficoltà le si oppongono, purché noi confidiamo in Lui. Questo però è difficile, talvolta quasi impossibile. E perciò dobbiamo continuare a pregare che Dio «fortifichi in noi la speranza».

La terza virtù: «che accenda in noi la carità». Quando la Sacra Scrittura parla della carità, non dobbiamo mai dimenticare che le sue parole sono la Rivelazione. Non solamente essa ci ammaestra su ciò che è già familiare alla nostra natura, ma ci da notizia di quanto non potremmo sapere da noi: la carità di cui parla ha origine in Dio. L'apostolo lo dice chiaramente:

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«in dò sta la carità: non nel nostro amore per Dio, ma nell'amore che Egli ha avuto per noi, fino a mandarci il suo Figliuolo come vittima di espiazione per i nostri peccati» (Gv 4, 10).

Queste parole ci sono così familiari, che non ci rendiamo più conto della loro grandezza. E facile capire che Dio desideri il nostro bene, ma che ci ami fino a darci suo Figlio, dunque se stesso, questo è pura Rivelazione. L'amore di Dio lo porta a sacrificarsi; e non per una oscura necessità, ma nell'assoluta libertà della sua eterna sovranità:

«Dio ha talmente amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Gv 3, 16).

Il messaggio dell'Angelo a Maria era l'ordine di accogliere questo amore nel suo cuore e vivere di esso. In quell'ora è incominciato sulla terra l'amore cristiano. La risposta ch'Ella diede al messaggio fu un tra-scendimento di se stessa, fu disposizione all'obbe-dienza; di qui è sorta la sua felicità - vedi il gaudioso canto di lode che le sale alle labbra al saluto di Elisa-betta (Le 1, 46-55) - ma di qui è sorto anche il suo sacrifìcio permanente. Sempre di nuovo Ella doveva dar compimento, in Colui che per Lei era l'uno e il tutto, della dedizione spontanea di Dio. Il Figlio le fu di continuo, secondo la volontà del Padre, strappato in quella lontananza di cui abbiamo parlato, fino all'ultima ora in cui non le fu più concesso nemmeno d'essere sua madre, allorché Egli le disse:

«Ecco tuo figlio» (Gv 19, 26-27).

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Il senso della sua vita fu in questa acccttazione, nel continuo persistere, nel crescere sempre più nell'amore.

Quando ci si parla dell'amore per Dio, noi tendiamo inconsciamente a comprenderlo a modo nostro, come compimento e santificazione del nostro amore;

in realtà è

«il compimento dell'amore di Dio, nell'osservare i suoi comandamenti» (1 Gv 5, 3).

L'amore rimane poi sempre obbedienza, che da principio era penosa, si fa sempre più libera e lieta. Di qui sorge il vero significato della nostra esistenza:

che in essa la volontà di Dio conti più della nostra propria. Queste parole della Lettera ai Romani ci fanno intrawedere come ciò sia da intendere:

«Io sono persuaso che ne morte ne vita, ne angeli ne principati, ne virtù, ne cose attuali ne future, ne potestà, ne altezza ne profondità, ne alcun'altra creatura potrà separarci dall'amore di Dio in Cristo Gesù Signor Nostro» (8, 38-39).

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CAPITOLO SECONDO I MISTERI GAUDIOSI

II primo mistero: «... che tu, o Vergine, hai concepito per opera dello Spirito Santo».

Parla dell'ora veramente solenne che mutò il destino del mondo; parla dell'anelito della creazione, perduta nel peccato, lontana da Dio; della decisione dell'Eterno Padre di accoglierla in un nuovo inizio della grazia; del primo istante della dedizione del Figlio;

parla del messaggio dell'angelo che è ad un tempo appello e domanda:

«Ecco tu concepirai nel tuo seno e darai alla luce un Figlio, a cui porrai nome Gesù ...».

Parla ancora dell'assoluta prontezza con cui la più pura di tutte le donne accettò di essere quella che avrebbe dato la nostra natura umana al Figlio di Dio:

«Ecco, io sono l'ancèlla del Signore, si faccia di me un secondo la tua parola» (Le 1, 31.38).

Nessun altro evento si compì mai con tanta semplicità, eppure la decisione, che fu presa in quell'ora, congiunge la terra al ciclo. Questo evento si ripete spiritualmente nella vita di ogni fedele. Soprattutto quando uno per la prima volta, attraverso una parola viva, un libro o un'esperienza intcriore, è commosso dalla figura e dalla parola di Cristo in modo da awer-

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tire che quella è la verità e ad essa si volge con spirito pronto. Il Signore entra in lui come realtà e forza viva ed incomincia quell'azione di cui già abbiamo parlato: Cristo penetra in lui e vi si sviluppa; l'uomo nuovo si forma su di Lui. Da quell'ora l'appello si ripete continuamente: ogni volta che ascoltiamo una sua verità; ogni volta ch'Egli ci appare, ci comanda o ci ammonisce, si rinnova l'esigenza di accoglierlo in noi più profondamente e di mettergli a disposizione il nostro proprio essere con più pronta volontà.

Il secondo mistero: «... che tu, o Vergine, hai portato a Elisabetta».

E il tempo che segue al messaggio dell'Angelo, che fu per Maria al tempo stesso pieno di beatitudine e d'angoscia. Nessuna donna ha conosciuto una felicità pari alla sua, ma nessuna ebbe a rinchiudersi in un tale silenzio; come può riferire l'accaduto in modo che le si creda? Non la capirà nemmeno colui cui s'è promessa per la vita - anzi lui meno di ogni altro poiché il fatto lo tocca più da vicino. Qui veramente incomincia la sua dedizione. Il suo onore e il suo disonore, la sua vita e la sua morte sono nelle mani di Dio. In questo frangente Ella lascia la sua casa per recarsi al di là dei monti, da Elisabetta, la donna materna cui è legata evidentemente da antica confidenza. Ella, così spera Maria angosciata, capirà quel che è avvenuto:

così è infatti, poiché lo stesso Spirito che ha operato in Maria, opera anche in Elisabetta che conosce la verità prima ancora che le venga comunicata:

«Benedetta tu sei tra le donne e benedetto il frutto del tuo seno!» (Le 1, 42).

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Tutto il mistero è pieno della ineffabile intimità con cui Maria porta in sé la vita divina del Cristo e gli dona la vita sua mentre da Lui la riceve.

In ogni esistenza cristiana vi è una zona sacra in cui vive Cristo in una intimità più profonda di quella che noi possiamo avere con noi stessi. Egli vi opera e vi cresce: investe il nostro essere, attrae a sé le nostre forze, penetra nel nostro pensiero e nella nostra volontà, governa i nostri sentimenti, affinchè si compia la parola dell'Apostolo:

«Non più io vivo, ma Cristo vive in me» (Gai 2, 20).

Il terzo mistero: «... che tu, o Vergine, hai dato alla luce...».

È l'ora della notte santa in cui il Bimbo divino entra nel nostro mondo, diventa nostro fratello e prende su di sé il destino del Salvatore ...

«Venne per lei il momento del parto. E diede alla luce il suo Figliuolo primogenito» (Le 2, 6-7).

Questo è avvenuto per noi tutti e il cantico di gioia per questo felice evento non avrà mai fine sulla terra. Nella stessa ora avviene anche una cosa che riguarda solamente Maria: Cristo si manifesta apertamente nella esistenza personale di Lei. Egli nasce nel suo spirito e nel suo cuore. La situazione di attesa diventa ora una comunione di vita faccia a faccia. Ineffabile realtà: Colui ch'è suo Figlio è anche il suo Redentore! Quando lo guarda, vede Colui che è la «manifestazione del Dio vivente». Quando il suo cuore si gonfia, il suo impeto d'affetto va a Colui che è venuto nell'a-

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more del Redentore. Quando assiste la sua tenera creatura, serve il Signore stesso che le si presenta sotto l'aspetto della debolezza umana.

Questo avviene spiritualmente in ogni cristiano tutte le volte che la vita intcriore, intuita nella fede, entra nella chiarezza dell'intelligenza, nella evidenza dell'azione, nella decisione della testimonianza. In ognuno di noi nasce il Cristo tutte le volte ch'Egli compenetra in modo essenziale e decisivo un'azione o un sentimento. In un caso però ciò avviene con particolare significato: quando il Cristo ci appare in maniera tutta luminosa e forte, al punto da diventare la realtà dominante della nostra vita intcriore.

Il quarto mistero: «... che tu, o Vergine, hai presentato nel tempio».

E il momento in cui Maria, quaranta giorni dopo il parto, presenta a Dio il suo Bambino nel tempio, com'era prescritto dalla Legge. Ogni primogenito appartiene a Dio, questo però in un modo che supera ogni possibilità della parola. Piena di dignità nella sua povertà, Ella pone il Bambino fra le braccia del sacerdote e lo riceve di ritorno dietro la modesta offerta. Simeone predice al Bimbo il destino di Salvatore e a Lei il dolore che l'attende:

«Questo bambino è destinato ad essere causa di rovina e di resurrezione di molti in Israele e a diventare un segno di contraddizione; a tè poi una spada trapasserà l'anima e così saranno rivelati i pensieri di molti cuori» (Le 2, 34-35).

Nella dolcezza della prima festa risuona già l'accento amaro della Passione. Maria ha ricevuto il suo Bambino da Dio e gli ha messo a disposizione tutto il

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suo essere; Egli è tutto, per Lei; pure non le appartiene in proprio: il primo atto solenne della sua maternità è un sacrifìcio.

Quello che ci viene dato da Dio, quando noi crediamo e obbediamo, non appartiene alla nostra natura. La vita nuova non è nostra come un'inclinazione o un tratto del nostro carattere o un evento qualsiasi della nostra esistenza; è un dono, e tale rimane. È sotto la volontà e la guida di Dio e dobbiamo essere sempre pronti a seguire la voce che ci distoglie dal nostro «io» e ci chiama a un dovere, a una rinuncia, a un destino che hanno un senso soltanto nella volontà di Dio.

Il quinto mistero: «... che tu, o Vergine, hai ritrovato nel tempio».

Dall'evento precedente a questo sono passati dodici anni e altri diciotto ne passeranno fino al prossimo. Nella Sacra Scrittura il silenzio avvolge l'infanzia, l'adolescenza e la giovinezza di Gesù e nulla noi sappiamo di questi trent'anni all'infuori di quello che i Vangeli narrano dei primi tempi. In trent'anni, un solo episodio emerge: a dodici anni Gesù adempie al precetto della Legge, recandosi per la prima volta in pellegrinaggio a Gerusalemme. Quivi si trattiene nel tempio, senza che i suoi lo sappiano, e Maria è in ansia per il Figlio. Quando finalmente lo ritrova «nel tempio, seduto in mezzo ai dottori, in atto di ascoltarli e interrogarli» l'aspetta un'angoscia anche più grande, perché alla sua domanda inquieta:

«Figlio, perché ci hai fatto questo?». Gesù risponde: «Perché mi cercavate? non sapete che io devo attendere a ciò che riguarda il Padre mio?».

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Nell'intima unione fra Madre e Figlio è penetrata una forza che le porta via il Fanciullo: la potenza del Padre. Come ciò sia penoso per Lei, e quanto sia grande la tristezza che sconvolge il suo cuore ce lo dice la frase che segue:

«Ma essi non compresero la sua risposta» (Le 2, 46-50).

Ciò si ripete spiritualmente nella vita d'ogni credente. Cristo le appartiene: l'anima è sicura di Lui nella fede e amando ne partecipa. Ma poi Egli sparisce, talvolta in modo improvviso e senza una ragione evidente. Sopravviene una distanza, si forma un vuoto: l'anima si sente abbandonata, la fede le sembra pazzia, deve tener viva la speranza

«contro ogni speranza» (Rm 4, 18).

Tutto diventa difficile, faticoso, privo di senso. Deve procedere e cercare da sola. Ma un giorno ritrova il Cristo e comprende la potenza della volontà del Padre, a cui appartiene.

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CAPITOLO TERZO I MISTERI DOLOROSI

La seconda serie comprende gli eventi degli ultimi giorni, dalla sera del giovedì alla notte di Pasqua. Ciò che precede: Gesù che abbandona la sua patria ed entra nella vita pubblica, che istruisce, opera e lotta senza trovar favore tra gli uomini, che persevera in una solitudine indicibile, mentre il regno di Dio non viene, come avrebbe potuto venire:

«se i suoi lo avessero accolto» (Gv 1, 11),

l'odio che lo ha circondato e il concentrarsi di tutto ciò che ha resistito a Dio in una lunghissima storia, nella suprema ribellione - tutto questo non è espressamente menzionato, ma è racchiuso negli ultimi eventi.

Gli eventi dei misteri gaudiosi potrebbero, presi per sé soli, scivolare verso l'idillico o il sentimentale, se un oscuro presentimento non risonasse già nel quarto mistero. In realtà sono rivelazioni, non di quella profondità d'affetto e di quella amabilità che reggono il rapporto abituale fra madre e figlio, bensì manifestazione di quanto importi a Dio la nostra salvezza - tanto che non solamente Egli la garantisce e la opera, ma per essa accetta l'esistenza terrena e diviene Figlio di questa Madre.

Di questa serietà sono compenetrati potentemente

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i misteri della seconda parte del rosario: anch'essi rivelano l'amore di Dio, ma nell'orrore del peccato. Con le nostre sole forze noi non possiamo spiegarci che cosa sia il peccato, perché i nostri occhi sono ciechi, e anche questa è una conseguenza di esso. Che cosa sia il peccato, lo comprendiamo soltanto quando riconosciamo ciò che Dio ha fatto per vincerlo. È quella terribile offesa, che Dio, nella sua sapienza e nella sua giustizia ha giudicato riparabile solo da Cristo in quel modo.

Il primo mistero: «... contempla Gesù che per noi ha sudato sangue».

L'ora del Getsemani è inesauribile. Ognuno deve trame tutto ciò di cui il suo cuore è capace. Vogliamo attenerci a quanto dicono le parole:

«incominciò a tremare e ad angustiarsi» e «il sudore divenne come gocce di sangue che cadevan per terra» (Me 14, 34 e Le 22, 44).

E il turbarsi del Redentore dinanzi al peccato; non solamente dinanzi al dolore a alla morte come tali, ma per il fatto che essa doveva aver luogo quale espiazione del peccato. Egli doveva assumerne tutto il peso e farsene garante. Quanto sia stato terribile ce lo dicono le altre parole della sua preghiera:

«Padre, a tè tutto è possibile: allontana da me questo calice!» (Me 14, 36).

Ciò che sta per avvenire ripugna a tutto il suo essere; non solamente come la morte che va contro la vo-

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lontà di vivere, ma come il peccato che va contro Dio. Ma la terza parola suona:

«tuttavia non come io voglio, ma come vuoi Tu» (Me 14,

36).

La cosa peggiore del peccato è la sua natura subdola: si nasconde dappertutto sotto false apparenze, ci fa credere d'essere una cosa naturale, o da non potersi evitare, o che sia in esso la forza della vita, o la sua serietà, o la sua drammaticità, o che altro si voglia dire. Se cerchiamo di vivere quest'ora con Cristo, allora incominciamo a comprendere: è un momento importante nella vita del cristiano quello in cui per la prima volta sente orrore davanti alla realtà del peccato. Noi incontriamo dappertutto l'angoscia della creatura; di che si angustia non lo sa neppur lei, ma è il peccato che domina tutta la sua esistenza, e nell'angoscia di Cristo ciò perviene all'estrema, tremenda chiarezza. E per causa del peccato che il Figlio di Dio soffre l'orrore di quest'ora. Noi però dobbiamo riconoscer-lo, ognuno deve farlo nel suo intimo: è il mio peccato che si rivela qui in tutto il suo orrore.

I tré misteri che seguono parlano delle sofferenze che ha patite il Signore prima della sua morte. Tra essi sta ciò che narrano i Vangeli intorno alla sua cattura, al suo processo, alla sua condanna: di tutto questo v'è in essi la risonanza.

È difficile dire qualche cosa su questi misteri. Essi riguardano la nostra perdizione e il modo in cui il Signore l'ha sentita e l'ha sopportata: il loro contenuto è infinito. Non possiamo trattarne che a frammenti e chi prega deve veder di completare il nostro pensiero.

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Il secondo mistero riguarda Cristo «che per noi è stato flagellato».

«Allora Filato prese Gesù e lo fece flagellare» (Gv 19, 1).

La battitura è un avvenimento di tremenda chiarezza: l'atto originario dell'odio contro la vita e la sensibilità dell'odiato.

L'odio del peccato contro Dio colpisce con queste percosse il Redentore. Vuole fargli male. Il suo corpo deve divenirgli dolore. La sua santa vita deve essere distrutta. Ed è proprio un peccato speciale che si volge qui contro di Lui, quello dei sensi. La sua voglia si muta per il Signore nella sofferenza.

Il cristianesimo non dice che il corpo sia cattivo e che le sue brame istintive siano peccato; bensì, che nella voglia c'è anche il peccato e che il male opera anche nel corpo. Divenire cristiano non significa disprezzare o distruggere il corpo, bensì deporre la cecità e imparare a vedere il male che è in opera nella natura; a condurre la lotta per la purezza del corpo e del senso; e ad accogliere lo stesso dolore corporale come mezzo di purificazione. Se il cristiano fa così, è la stessa purezza di Cristo che penetra in lui.

Il terzo mistero: «... Gesù che per noi è stato incoronato di spine».

«E i soldati ... intrecciata una corona di spine gliela misero in capo e gli posero una canna nella destra; poi piegando il ginocchio davanti a Lui lo schernivano» (Mt 27, 27-29).

Nel capo si manifesta la dignità dell'uomo; la corona è il segno della regalità che viene da Dio. Qui lo

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spregio si rivolge contro il capo del Signore che porta invisibilmente la corona del «Rè dei rè». I soldati fanno di Lui un rè da burla. Sotto la loro ottusa crudeltà si nasconde un'altra volontà che vuole fare di Lui un uomo da burla e - oseremo dirlo? - un dio da burla. Tutto lo scherno del mondo si accumula qui per distruggere la dignità di Dio - e con essa anche la dignità dell'uomo che da Lui deriva ... L'esistenza umana è impregnata di orgoglio, di disdegno, di vanità, talvolta apertamente, più spesso nascostamente; ne occhio umano ne umana volontà giunge alle loro radici. Il Signore svela questa potenza nel darle modo di agire contro di Lui. L'orgoglio per cui ci innalziamo, la vanità per cui godiamo di noi stessi assumono per Lui l'aspetto dell'umiliazione: la sua sofferenza è in proporzione del nostro peccato.

Ecco un altro momento decisivo nella vita del cristiano: quello in cui egli penetra l'inganno che si nasconde in tutto ciò che si chiama grandezza, potenza, attività, bellezza, prestigio. Tutto ciò non è male di per sé, ma il male vi si annida. Qui bisogna guardarlo in faccia, sopportare questa vista, riconoscere se stessi in quel che avviene. E poi lottare per l'umiltà: l'umiltà non è che il riconoscimento della verità che Dio è Dio — Lui solo - e che l'uomo è uomo. Veramente uomo.

Il quarto mistero: «... Gesù che per noi ha preso su di sé la pesante croce.

Il Vangelo dice che Gesù

«portando la sua croce si avviò vero il luogo detto del Golgota» (Gv 19, 17).

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Era un peso che superava le sue forze e quando non ne potè più

«fermarono un certo Simone di Cirene che veniva dai campi e gli misero addosso la croce perché la portasse dietro a Gesù» (Le 23, 26).

Tutto quel che ci pesa nella nostra esistenza raggiunge qui il massimo del suo orrore: la fatica, le miserie, i dolori, le persone che ci circondano, il nostro essere, la pesantezza dell'animo, l'intimo vuoto, l'insopportabilità di tutte le cose. In fine dei conti tutto è «peso»; non perché la vita sia dolorosa anziché lieta, ma perché il peccato vi ha portato la maledizione della pena. L'uomo cerca di sottrarvisi; non vuole accettarla, non vuole sopportarla: ignavia, viltà, resistenza contro il peso della vita, tutto ciò diventa qui per Cristo la sofferenza di dover portare ciò che supera le sue forze.

L'antica dottrina della vita spirituale addita l'accidia, l'ignavia come la prima e più dannosa delle debolezze umane. Qui possiamo comprenderne la ragione; possiamo capire meglio noi stessi, quale sia il nostro posto, quale il peso che abbiamo da portare, la fatica da sostenere, il compito in cui dobbiamo perseverare - la nostra pena personale in cui s'aduna, per così dire, la pena dell'esistenza umana.

L'ultimo mistero riassume di nuovo tutto. È inesauribile come il primo: dobbiamo avvicinarlo, aprendo bene gli occhi e il cuore, lasciando penetrare in noi ciò che qui avviene, e persistervi nella coscienza che si tratta di cose che ci riguardano intimamente.

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Il quinto mistero: «... Gesù che per noi è stato messo in croce».

Prima della fine il Signore pronuncia le parole:

«Tutto è consumato» (Gv 19, 30).

Di ciò parla tutto questo mistero: come tutto «sia consumato». Quello che accade qui ha il suo preludio nella creazione del mondo: allora è venuto all'essere. Poi il peccato ha portato ogni cosa in perdizione, ora il Signore riprende tutto su di sé, soffrendo dolori che Lui solo conosce. Così facendo raggiunge l'ultima profondità della grazia e la dischiude a noi. Da Lui procede la nuova creazione, il nuovo inizio che ci è dato: la forza per opera della quale l'uomo nuovo deve crescere e salire nell'eternità; il nuovo ciclo e la nuova terra che solo con Lui debbono sorgere. Tutto ciò deriva da quest'ora.

Questo dobbiamo sapere. E saremo tanto più veri cristiani quanto più crescerà in noi e progredirà la coscienza di vivere della passione di Cristo. Col destarsi in noi di questa coscienza si trasforma anche il nostro dolore personale: mentre prima non era che la conseguenza del peccato e della sua perdizione, ora si collega col mistero della croce, viene a partecipare della forza che trasforma la vecchia esistenza nella nuova. Coi mezzi terreni le nostre sofferenze rimangono inconsolabili, sono senza rimedio; a volte non ce ne accorgiamo perché non durano o perché siamo distratti, ma quando il dolore aumenta e non possiamo che tenerlo davanti agli occhi, allora ci accorgiamo che c'è un soccorso al dolore, solo quando esso si presenta nello stesso dolore. È così da quando c'è stata la

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passione di Cristo. Qui s'è aperta la sede tremenda e beata dove noi possiamo posare; qui ci è data la forza mediante la quale, se noi soffriamo insieme con Cristo, la nostra vecchia esistenza vien trasformata in una esistenza nuova. Quando l'uomo comprende questo mistero e gli si abbandona, arriva al centro delle cose e tutto gli si risolve in bene.

Dove rimane intanto Maria? Non abbiamo parlato di Lei, perché neppure la Scrittura la nomina nel suo racconto degli ultimi giorni di Gesù. Solo alla fine Ella riappare, quando è detto di Lei che

«stava sotto la croce» (Gv 19, 25).

Questa parola vale anche per quanto precede: Ella è stata sempre «sotto la croce», non si è mai allontanata dalla zona santa e terrificante della passione di Cristo. È naturale ch'Ella sia stata sempre presente, dovunque le fu possibile; è naturale che abbia avuto notizia di tutto: ogni respiro del suo Signore passava nel suo petto, ogni battito del cuore di Lui era pure suo proprio, e nulla colpiva Lui senza che «una spada le trapassasse il cuore», come Simeone un giorno aveva profetizzato. Così dobbiamo vederla sempre accanto a Gesù.

Ed è Lei che ci avvince alla passione di Cristo: è per opera sua che non se siamo semplici, indifferenti spettatori, ma vi siamo interessati. Personalmente, ognuno di noi, io stesso ... Ch'io non cerchi di sfuggire al mio peso, se esso appare troppo grave per la viltà del mio cuore, ch'io rimanga fermo; Ella è rimasta «finché tutto fu consumato»: così devo fare anch'io.

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CAPITOLO QUARTO I MISTERI GLORIOSI

La terza serie è quella dei Misteri gloriosi. Parla del compimento dei santi eventi; narra come ciò die parve una disfatta in realtà fu una vittoria. Non nel senso umano, sebbene anche umanamente non vinca colui che riduce una testimonianza al silenzio, ma colui che la sostiene fino all'ultimo, poiché in qualche modo essa continuerà ad operare. Qui però non si tratta di ciò, bensì del fatto che il Dio che ha creato il mondo lo ha accolto nel suo amore e, divenuto uomo, ha espiato la colpa e il destino di questo, mutandone le condizioni: una volta per sempre. E sorta una nuova creazione: tale che nessuna forza può ormai più distruggerla, quale vitale inizio del mondo, e ogni uomo che sia di buona volontà può pervenire al santo principio. L'ultima corona del Rosario parla insomma dello splendore di gloria che s'è levato dopo l'oscurità della morte di Gesù.

Il primo mistero: «... Gesù che è risorto». La morte del Signore è misteriosa. Egli ne ha sofferto più di quanto ne possano soffrire gli uomini, perché Egli era più vivo di qualunque altro uomo. Eppure Egli ha sempre parlato della sua morte collegandola con la risurrezione:

«da quell'ora Gesù cominciò a dire apertamente ai suoi di-71

scepoli che Egli doveva andare a Gerusalemme a soffrire molte cose da parte degli Anziani, degli Scribi e dei sommi sacerdoti, ed essere ucciso e risuscitare il terzo giorno» (Mt 16,21).

I discepoli non compresero queste parole, lo dimostra tutto il loro modo di comportarsi alla sua morte; chi invece deve averne intuito la verità è Maria. Ella gli aveva dato la sua vita umana; per trent'an-ni il suo respiro, il suo crescere, il suo agire erano stati sotto gli occhi di Lei e nel suo cuore. Ella stette sotto la croce, e lo vide morire - aveva dunque saputo che la sua vita era una vita tutta speciale. Allorché le pie donne e Pietro e Giovanni le dettero notizia della tomba vuota e delle parole dell'Angelo, dovette avere l'impressione di aver già atteso tutto questo. Ed Ella, il cui cuore era stato chiuso nella tomba col cadavere del Figlio, è risorta con Lui nella luce della sua divina vittoria.

Paolo dice nella Lettera ai Romani che «l'uomo vecchio» deve «essere crocifisso» e «morire» ed «essere sepolto con Cristo». Se questo avviene,

«come Cristo risuscitò dai morti per la gloria del Padre, così camminiamo anche noi verso la nuova vita» (6, 4-5).

Di continuo si avvera in noi questo morire e questo esser sepolto dell'uomo vecchio: in ogni lotta contro il male, in ogni vittoria su noi stessi, in ogni peso sopportata con coraggio, in ogni sacrificio fatto per amore generoso. E in questo modo si compie anche la risurrezione dell'uomo nuovo. A volte, quando siamo sommersi dalle pene e dall'insufficienza del vivere terreno, abbiamo la percezione del sorgere misterioso di questa nuova vita nella santità e nella eternità della

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«gloria dei figli di Dio» (Rm 8, 21).

Per il resto siamo costretti a credervi.

Il secondo mistero: «Gesù che è asceso al ciclo». Dopo la sua risurrezione il Signore si trattenne fra i suoi per quei quaranta giorni di cui parlano i Vangeli. Dallo stesso Monte degli Ulivi sul quale era incominciata la sua passione, «si levò in alto» (At 1, 9) e scomparve nella inaccessibilità di Dio. Maria non era con loro quando ciò avvenne; probabilmente vi erano solo gli stessi che vi si erano trovati allora. Non sappiamo se il Signore le abbia detto quando «sarebbe andato dal Padre»; ma fra Lui e sua madre doveva essere! una tale intimità che non avevano bisogno di esprimersi in parole: Ella sentiva ciò che sentiva Lui ... Poi fu sola. Quando però Paolo dice:

«se dunque siete stati risuscitati con Cristo cercate le cose di lassù dove Cristo è, seduto alla destra di Dio; pensate le cose di lassù e non quelle della terra» (Col 3, 1-2)

ciò vale soprattutto per Lei. Suo Figlio era «lassù» e il suo cuore era con Lui e tutto il suo essere si stringeva a Lui.

Quando il Signore si staccò dalla terra, incominciò l'attesa

«finché Egli venga» (1 Cor 11, 26).

Tutto quello che avviene sulla terra da allora in poi è tutta un'attesa: credere vuoi dire perseverare in quest'attesa. Per colui che non crede, gli eventi si compiono come se avessero il loro significato in se

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stessi: le cose ordinarie e le straordinarie, le grandi e le piccole, le terribili e le belle, tutti gli eventi di cui è intessuta la storia, avvengono come se fossero l'unica realtà, e come se al di là non ci fosse nient'altro. In realtà, la dipartita del Signore è stata come il risuonare di un accordo potente che sta sospeso nell'aria e dura fino a die nel suo esaurirsi si rifa la quiete del silenzio. Solamente col ritorno di Cristo tutte le cose saranno compiute.

Il terzo mistero: «Gesù che ci ha mandato lo Spirito Santo».

La sera prima della sua Passione, il Signore aveva detto ai suoi:

«Io non vi lascerò orfani» (Gv 14, 18).

Quando partì, furono veramente orfani, poiché Dio non era più presso di loro nella maniera in cui lo era nella persona del Cristo. Però, nel giorno della Pentecoste, Dio tornò nella persona dello Spirito Santo da Lui mandato. Adesso non erano più orfani: l'amico, «l'appoggio», la celeste guida era con loro. La sua opera era di

«introdurli in ogni verità» e «dar loro Cristo» (cfr. Gv 16, 13-14).

Fra coloro sui quali discese lo Spirito Santo era anche Maria; la Scrittura lo dice espressamente e noi possiamo forse intuire quel che dovettero significare per Lei il soffio soprannaturale e le divine fiammelle. Tutte le volte che il Vangelo parla di Maria si sente la distanza che separa la madre umana dalla incom-

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prensibilità del suo Figliuolo. Ce lo dice soprattutto la frase:

«ed essi non compresero le sue parole» (Le 2, 50).

Quando viene lo Spirito Santo, introduce anche Lei «in ogni verità»; «riceve ciò ch'è di Cristo e glielo da». Ora gli enigmi si risolvono. Ella riconosce l'opera di Dio e ogni evento trova il suo significato.

A noi pure è mandato lo Spirito Santo e perciò non siamo orfani. Egli è con noi, purché noi vogliamo rimanere con Lui. Egli conclude la nostra vita attraverso tutto quello che ha di incomprensibile; noi però dobbiamo lasciarci guidare: quando lo supplichiamo e ci apriamo a Lui con intelligenza ed amore, Egli ci insegna a comprendere Cristo, ed in Cristo la nostra stessa esistenza. Quando poi l'oscurità rimane impenetrabile, poiché la vita terrena è sigillata, Egli ci da in un divino «ciononostante», come dice Paolo, testimonianza che siamo «figli di Dio» e la certezza che

«tutto ci serve per il meglio, quando amiamo Dio» (Rm 8,

16 e 28).

I due misteri che seguono non derivano da Scrittura, ma dalla tradizione cristiana. Sorgente della nostra fede è la parola di Dio; non dobbiamo però dimenticare che «parola di Dio» non è solo quella scritta, ma anche quella che è stata pronunciata da coloro che hanno avuto incarico di

«ammaestrare tutte le genti [...] sino alla fine del mondo» (Mt 28, 19.20).

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Da questa fonte la Chiesa trae il racconto della vita di Maria fino alla sua morte.

Dopo la dipartita del Figlio questa vita deve aver avuto qualcosa d'ineffabile nel suo silenzio, nella sua presenza insieme e nel suo rapimento. Non sappiamo quanto sia durata; forse molto a lungo, poiché alla morte del Signore Ella aveva appena cinquant'anni. Come potremo esprimere il mistero del tempo ch'Ella ha passato sotto la protezione del

«discepolo che Gesù amava»? (Gv 19, 26 e 27).

Forse diremo ch'Ella non ha più voluto niente;

nulla desiderato, nulla temuto, di nulla sentito la mancanza perché tutto era compiuto. Lo Spirito Santo scendendo sugli apostoli li ha preparati alla loro grande opera; quando, nella stessa ora, scese su Maria, Ella aveva già adempiuto il suo compito. Così in Lei non avrà fatto altro che sollevare tutto ad una chiarezza luminosa: da quel momento Maria deve aver vissuto in una luce ineffabile, e in una ineffabile pace. Avrà sicuramente atteso l'ora in cui il Figlio l'avrebbe chiamata, ma certo in modo che la sua attesa era già conscia del compimento. In tale pace avrebbe potuto attendere cent'anni come un giorno. Da questa serenità le sue parole devono essere penetrate come stille di luce nei cuori di coloro che vennero a Lei per chiederle di Gesù, e nessuno potrà stabilire di quanto si sia arricchito per suo mezzo il sacro messaggio.

L'esempio degli ultimi anni di Maria è per noi pegno e promessa. Ci insegna che non dobbiamo prendere troppo sul serio il tempo, perché, se crediamo,

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l'eternità è già in noi; che non dobbiamo dare troppa importanza alle miserie terrene perché

«le sofferenze del tempo presente non hanno nulla a che fare con la gioia che deve essere manifestata in noi» (Rm

7,18)

e che dobbiamo pregare Dio che ci faccia comprendere come l'eternità sia già nel tempo.

Il quarto mistero: «Gesù che Tè, o Vergine, ha assunta in cielo»1.

Gli anni della serena attesa sono trascorsi: il Signore è venuto ed ha chiamato la Madre sua. Ella è morta, come

«è destino dell'uomo morire» (Eb 9, 27),

ma poi, - dice la Chiesa - Egli ha risuscitato il suo corpo puro ed immacolato. L'efficacia della sua risurrezione si è compiuta in Lei, ed Egli l'ha accolta nell'eternità. È un mistero di gioia infinita: quando la Chiesa ne parla, quando i poeti religiosi lo cantano, quando i pittori ce lo raffigurano, è come se volesse erompere qualcosa che altrimenti nell'esistenza terrena rimane nascosto. Non per nulla la festa dell'Assunzione di Maria si celebra nella pienezza dell'estate.

Questo mistero ci è dato perché possiamo presentire che cosa significhi la gioia del cristiano, l'essere accolto nella gloria del Signore, l'infinito elevarsi del-

1. Si noti che quando scriveva l'Autore il dogma dell'Assunzione di Maria Vergine non era stato ancora proclamato da Pio xil il l-ix-1950, con la CosL Ap. Munifìcentissimus Deus (n.d.t.).

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la creazione; ci è dato perché anche nel nostro trapasso risplenda una luce divina. Il Signore, morendo e risorgendo, ha trasformato la nostra morte. La morte era conseguenza della colpa: ad esprimerlo, non sono bastate le parole, per quanto forti. In virtù della morte del Cristo però essa ha perso

«il suo pungiglione» (1 Cor 15, 55):

è diventata un'altra cosa. Non si compie più ora soltanto in noi e da noi, come una fine nel buio, ma anche dalla parte di Cristo. Adesso morire significa che viene il Cristo e ci chiama. La vita si spezza, ma proprio per questo s'apre una porta, e dall'altra parte c'è Lui.

Il quinto mistero: «... che Tè, o Vergine, ha coronata in ciclo».

Questo mistero è il compimento del precedente. Quello ha parlato del trapasso di Maria nell'eternità, questo celebra il suo premio con tutta la ricchezza celeste. Paolo ha detto che

«quelli che ricevono l'abbondanza della grazia e del dono della giustizia, regneranno nella vita (eterna) per l'unico Gesù Cristo» (Rm 5, 17).

Ora colei che con Cristo è passata attraverso l'oscurità della terra, vien fatta partecipe della sua sovranità. Di ciò è simbolo la corona; ora Ella è la «Regina del cielo». Creatura di Dio come noi tutti e sottomessa a Lui in una umiltà che uguaglia la sua purezza, ma al tempo stesso elevata da Lui ad una santa sovranità che non ha in sé nessuna ambizione o pretensio-

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ne egoistica, ma è la personificazione della beatitudine dispensatrice di grazie.

L'atteggiamento intcriore del cristiano deve essere l'umiltà: egli sa che di proprio non ha nulla, che tutto vien da Dio, che nulla può da sé solo e tutto può per la grazia. L'umiltà è il riconoscimento di questa verità, è anzi la gioia di questa verità: è la felicità che ne deriva; in definitiva non è che amore. In questa stessa umiltà si ritrova però anche una silenziosa consapevolezza di un'altezza arcana: non propria, ma donata, e donata in maniera tale che finisce con l'appartenerci più profondamente di quanto ci viene dalle esigenze del nostro essere. Questo è quello che intende Paolo quando parla della

«gloria che dev'essere manifestata in noi» (Rm 8, 18).

E la gloria di Dio, che risplende nel Cristo risorto e di cui verrà data parte anche a noi.

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CAPITOLO QUINTO UNA PROPOSTA

Abbiamo seguito i Misteri come li presenta il Rosario nella forma generalmente usata. In un bei libro che porta il titolo Maria, Madre della fede, Josef Wei-ger1 parla della grandezza della Madre di Gesù come persona e nella storia della redenzione. Verso la fine di questo libro egli tratta anche del Rosario ed espone un pensiero che vogliamo far nostro.

Quando si considerano le tré parti del Rosario, si sente il desiderio che quella verità che determina la nostra attuale esistenza, cioè l'attesa del ritorno di Cristo, possa più chiaramente risaltare di quanto non le riesca nei misteri, finora considerati, del terzo gruppo. Perciò Josef Weiger propone di sostituire i due misteri: «che Tè, o Vergine, ha assunta in cielo» e «che Tè, o Vergine ha coronato in cielo» coi due seguenti: «che tornerà nella gloria» e «il cui regno non avrà mai fine». I due ultimi Misteri della vita di Maria verrebbero poi come una conclusione finale. Vogliamo dunque fermarci su questi due nuovi Misteri e farli così conoscere al lettore.

Il quarto Mistero del Rosario glorioso: «... che tornerà nella gloria». Dice la Rivelazione:

l.J. Weiger, Maria, die Mutter des Glaubens, Werkbund-Verlag, Wlirz-burg,

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«quando il Figliuolo dell'uomo verrà nella sua gloria [...] allora sederà sul trono della sua gloria e tutte le genti saranno adunate innanzi a Lui» (Mt 25, 31-32).

I primi tempi del cristianesimo furono pieni dell'attesa di questo evento. Più tardi s'è perduta; tuttavia la notizia del ritorno di Cristo fa parte del patrimonio della fede, ed è sentita nel profondo del cuore cristiano. Una volta - nessuno sa quando - Egli verrà; non come prima, quale messaggero «in figura di servo», in attesa che si accogliesse la sua parola, ma come il Signore e nella possanza. Allora Egli porrà fine al tempo.

Porterà al tramonto il mondo, nella cui figura e storia è penetrato il peccato; chiamerà gli uomini alla risurrezione e dinanzi al suo tribunale onnisciente;

esprimerà loro il suo giudizio e li condurrà nell'eternità così come sono nella loro verità dinanzi a Dio.

Noi viviamo nel tempo, e il tempo è pieno dell'inganno della durata. Le cose decadono e si ricostituiscono; così il mondo nel suo complesso sembra imperituro. L'essere vivente passa, ma da ciò che muore altro rinasce; così nel suo insieme pare che la vita debba continuare sempre. L'attività dell'uomo singolo finisce, le sue opere vanno in rovina, ma chi vien dopo ricomincia da capo e così sembra che la lotta e l'azione non cessino mai. Quando venne il Redentore e non fu riconosciuto, tutto rimase oscuro e senza via di uscita; ma un giorno tornerà; svelerà allora l'inganno, porterà la chiarezza e compirà l'opera ... Fino allora dobbiamo essere fedeli e aspettare. Tutto sembra essere in contraddizione: credere che il Signore venga a metter fine a ogni cosa e a pronunciare il suo giudizio pare una favola da bambini. Ma il perseverare in questa credenza è

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«la vittoria che ha trionfato sul mondo» (1 Gv 5, 3). Il giudizio sarà terribile, ma sia esso lodato! Noi

«persistiamo nella beata speranza che è l'apparizione glorios del gran Dio e Salvatore nostro Gesù Cristo» (Tt 2, 13).

Nessuno reggerà dinanzi al suo giudizio, pure ess< è «la beata speranza», perché in esso la verità di Di( diverrà potenza e porterà giustizia in tutto.

Il quinto Mistero: «... il cui regno non avrà mai fi ne».

Allora sarà il regno di Dio. Tutto sarà regno di Dio; non per una costrizione esteriore, ma per una condizione intcriore. Finché dura l'epoca terrena, non c'è regno di Dio, perché il bene può soccombere e il male può imperare, e così avviene infatti tante volte. Solo nell'eternità invece ogni cosa sarà reale in quanto è vera e sarà potente nella misura in cui è buona. E in questo modo Dio, che è santità e giustizia per essenza, sarà il Signore di tutto: chi s'è messo contro di Lui sarà condannato nel Giudizio e cadrà in una perdizione di cui non possiamo farci un'idea;

chi si sarà sostenuto nel Giudizio, respirerà libero e sarà beato nella signoria di Dio, poiché essa è libertà e vita.

«Ecco», dice il Signore, «che facdo nuove tutte le cose». Sarà «un nuovo cielo e una nuova terra», pieni della «luce del suo volto»; «e i suoi servi lo serviranno» (Ap 21, 5 e 22, 4).

E questo che aspettiamo. La fede ci dice però che di questo regno abbiamo già i presagi: esso è già in

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noi, se pur solo come promessa e come principio. Nella misura in cui, nella cupezza dell'esistenza, crediamo al sacro messaggio, nella misura in cui in mezzo alla freddezza e allo scherno del mondo amiamo Dio, e perseveriamo fra la contraddizione di tutte le cose, nella stessa misura il regno di Dio è in atto tra noi. Viviamo in questa condizione, sperando di giungere a quell'altra, ove non vi saranno più errori ne perdite, perché è pura realtà: quando poi il regno di Dio si avvererà, non vi saremo solo sudditi, ma vi regneremo col Signore. Che le cose in Dio divengano libere: ecco che cosa è il regno; e che noi stessi diveniamo liberi in Lui, è «la gloria dei figli di Dio» nella quale siamo fatti partecipi della sua sovranità.

In tutto ciò non si è parlato di Maria, ma Ella vi era sottintesa. Ella aspetta l'ora

«che il Padre ha stabilito nella sua potestà (At 1, 7),

quando tutto ciò dovrà accadere, il giudizio di suo Figlio giustificherà la sua vita dinanzi al mondo e nel regno di Lui risplenderà la sua regalità, com'è annun-ziata dall'Apocalisse, dove appare la donna

«circonfusa dal sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul capo una corona di dodici stelle» (Ap 12, 1).

A queste tré corone del Rosario si aggiungerebbero qui i due Misteri della Assunzione e dell'Incoronazione di Maria, conclusione finale della sua vita e anticipazione del futuro compimento di tutto.

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Opere di Romano Guardini

presso la Morcelliana

Accettare se stessi, 2 ed., pp. 80 Ansia per l'uomo, 2 voli. (in ristampa) Appunti per un 'autobiografìa, pp. 168 La conversione di S. Agostino (in ristampa) La coscienza (in ristampa) Diario. Appunti e testi dal '42 al '64, pp. 256 Elogio del libro, 2 ed., pp. 56 L'esistenza e la fede (in ristampa) L'essenza del cristianesimo, 8 ed., pp. 96 Fede - Religione - Esperienza, pp. 232

La figura di Gesù Cristo nel Nuovo Testamento (in ristampa)

 

INDICE

Premessa ........

Avvertenza ........

Parte prima

Natura e significato del Rosario

CAPITOLO PRIMO Malintesi ........

CAPITOLO SECONDO La corona e le ripetizioni . .

CAPITOLO TERZO La parola ........

CAPITOLO QUARTO Maria .........

CAPITOLO QUINTO Cristo in noi ........

CAPITOLO SESTO Norme pratiche .......

Parte seconda Breve esposizione dei Misteri

Significato del Mistero nel Rosario

CAPITOLO PRIMO Introduzione al Rosario in generale

CAPITOLO SECONDO I Misteri gaudiosi .....

. . . 49 . . . 51 ... 57

0

CAPITOLO TERZO / Misteri dolorosi .....

. . . 63

CAPITOLO QUARTO IMisteri glorìosi .....

... 71

0

CAPITOLO QUINTO Una tirotoosta . . . .

. . . 81

 

 

 

 

 

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